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BIIYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno V :: Fasc: X.
Ottobre 1916
Roma - Via Crescenzio, 2 •
ROMA - 31 OTTOBRE - 1916
DAL SOMMARIO: Mario PUGLISI: Le fonti religiose del problema del male - ANTONIO ANZILOTTI : Volontà di credere e di sperare - A. G. : “ Mazzini „ di Gaetano Salvemini - Enrico DRUMMOND: Diagnosi spirituale - (XXX) : Siate sempre più cristiani ! - GIOVANNI LlJZZI : 1 Salmi - Salmo 8 - m. : Rassegna di filosofia religiosa. (Vili) - A DE WAAL: Figure di soldati dell’antica cristianità - VITTORIA FABRIZI De’ BlANI : Un esempio; ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # fi
Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whitt!nghiII, Th. D.» Redattore peri* Estero
— Via del Babuino, ì 07 - ROMA ---AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
Il nostro Agente REV. A. Di DOMENICA (/9/#S./7/ASz.Philadelphia, Pa. u.s. a.) è autorizzato a riscuotere gli abbonamenti per gii Stati Uniti e pel Canada.
fi Si pubblica il 15 di ogni mese
in fascicoli di almeno 64 pagine.
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Estratti dalla Rivista “Bilychnis”
(In vendita presso la nostra libreria)
Giovanni Costa: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con 2 disegni e 2 tavole^... . . 1,00
Giovanni Costa: Critica e tradizione (Osservazioni sulla politica e sulla religione di Costantino) . 0,50
Giovanni Costa : Impero romano e cristianesimo (con 3 tavole). . • • • 1,00
Salvatore Minocchi : I miti babilonesi e le origini della Gnosi..............0.60
Luigi Salvatorelli : La storia del Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia civile ...... 0,30
Calogero Vitanza : Studi commodianei (I. Gli anticristi e l’anticristo nel Carmen apologelicum di Commodiano; II. Com-modiano doceta?) . . . 0,30
Furio Lenzi: Di alcune medaglie religiose del iv secolo (con 1 tavola e 4 disegni) ....... . 0,30
Furio Lenzi : L’autocefalia della Chiesa di Salona (con 11 illustrazioni) . . 0,50
F. Pomari: Inumazione e cremazione (con 6 illustrazioni)........ 0,30
C. Rostan : Le idee religiose di Pindaro............0,30
C. Rostan: Lo stato delle anime dopo la morte, secondo il libro XI del-1’«Odissea» ...... 0,30
C. Rostan: L’oltretomba nel libro VI dell'«Eneide» .......... 0,50 Antonino De Stefano: I Tedeschi e l’eresia medievale in Italia......1,00 i
Alfredo Tagliatetela: Fu
il Pascoli poeta cristiano ? (con ritratto e 4 disegni) ......... 0,30
F. Biondolillo: La religiosità di Teofilo Folengo (con un disegno).... 0,30
F. Biondolillo: Per te religiosità di F. Petrarca (con 1 tavola) . . . . . 0,30
Giosuè Salatiello: Il misticismo di Caterina da Siena ^con 1 illustraz.). 0,25
Giosuè Salatiello: L’umanesimo di Caterina da Siena (con 1 illustraz.). 0,30
Calogero Vitanza: L’eresia di Dante ....... 0,30
Antonino De Stefano: Le origini dei Frati Gaudenti ......... 1 —
A. W. Müller: Agostino Favoroni e te teologia di Lutero ....... 0,30
Arturo Pascal: Antonio Caracciolo, vescovo di Tro-yes .......... 0,80
Silvio Pons: Saggi Pasca-liani (I. Il pensiero politico e sociale del Pascal;
II. Voltaire giudice dei « Pensieri » del Pascal ;
III. Tre fedi: Montaigne, Pascal Alfred. diVigny) con 2 tavole...... 0,50
T. Neal: Maine de Biran, o 30
F. Rubbiani : Mazzini e
Gioberti ....... 0,50
Paolo Orano: Dio in Giovanni Prati (con una lettera autografa inedita e ritratto) ...... . 0,40
Angelo Crespi : L’evoluzione della religiosità . 0,30
Paolo Orano : La rinascita dell’anima...........0,30
Angelo Gambaro: Crisi contemporanea. . . . . 0,15
Giov. Sacchini: Il Vitalismo ........... 0,301
R. Murri : La religione nel-l’insegnamento pubblico in Italia...... . . 0,40
Ed. Tagliatetela: Morale e
Religione ....... 1 — Mario Puglisi : Il problema morale nelle religioni primitive........ 0,50
A. Tagliatetela: Il sogno di Venerdì Santo e il sogno di Pasqua (con 5 disegni di P. Paschetto) . . 0,20
G. Luzzi : L’opera Spence-riana.......... 0,15 I
M. Rosazza: La religione del Nulla (con 6 disegni). 0,30
R. Wigley: L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) ......... 0,50
James Orr: La Scienza e te Fede cristiana. . . . 0,25
T. Fallot: Sulla soglia. (I nostri morti) con una tavola ........ . . 0,30
Felice Momigliano: Il Giudaismo di ieri e di domani ......... 0,60
A. G. e Giov. Pioli: Intorno ad un’anima e ad un’esperienza religiosa (In memoria di G. Vitali) . 0,60
Mario Rossi: La Chimica
del Cristianesimo . . . 0,50 G. E. Meille: Il cristiano
nella vita pubblica. . . 0,30 F. Scaduto: Indipendenza
dello Stato e libertà della
Chiesa ......... 0,30
Guglielmo Quadrotta: Religione, Chiesa e Stato nel pensiero di Antonio Salandra. (Con ritratto ed una lettera di A. Sa-landrà). •........ 1 —
Mario Rossi: Razze, Religioni e Stato in Italia secondo un libro tedesco e secondo l’ultimo censimento . . . . . ■. . . . 0,60
D. G.: Verso il conclave. 0.15
E. Rutili : Vitalità e vita nel Cattolicismo (Cronache: 1913-1914) 3 fascicoli .......... 0,90
E. Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di essi......... 0,15
Paolo Orano: Gesù e la guerra......... 0,30
Edoardo Giretti : Perchè sono per te guerra. . . 0,20
Romolo Murri : L’individuo e te Storia. (A proposito di cristianesimo e di guerra) ...... 0,40
Paolo Tucci : La guerra nelle grandi parole di Gesù.......... 1,00
Paolo Orano: Il Papa a Congresso ....... 0,50
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BDCHNIS
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RM5IÀ DI SÌVDI RELIGIOSI
EDITA CALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMASOMMARIO:
Mario Puglisi: Le fonti religiose dèi problema del male .. .. pag. 245
Antonio ANZILOTTI: Volontà di credere e di sperare . . . . . » 268
A. G. : “ Mazzini „ di Gaetano Salvemini .......... » 273
ENRICO Drummond: Diagnosi spirituale .......... » 278
PER LA CULTURA DELL'ANIMA:
(xxx) : Siate sempre più cristiani ! ..................... » 289
Giovanni Luzzi: I salmi — Il salmo 8 .................. » 293
Illustrazione: “Il Salterio,, (Disegno di P. Paschetto) . . . . . » 295
TRA LIBRI E RIVISTE:
m. : Rassegna di filosofia religiosa (Vili) : La, guerra e la filosofia - La guerra giusta e s. Tommaso - La guerra, la giustizia e l’idealismo assoluto -Lutero e la Riforma - Kant - Fichte - Hegel ............ » 299
LA GUERRA (Notizie, Voci, Documenti):
A. de Waal: Figure di soldati dell’antica cristianità .......... » 305
Vittoria Fabrizi De’ Biani: Un esempio (con disegni di Enzo Valentini). » 312
Cambiò colle Riviste ... ....................... » 305
Pubblicazioni pervenute alla Redazione ............... » 312
Libreria Editrice « Bilychnis » ........... . ........ » 315
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CRISTIANESIMO E GUERRA
Recentissime pubblicazioni in deposito presso la Libreria Ed." Bilychnis „
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pasteur brancardier. Pag. 127 .......... » 2,30 [Novità]. E. ROBERTY, Nos raisons d’espérer. Deux sermons. » 0,60 [Novità]. Paul Stapfer, Ce qui est vrai toujours. Pag. 38. » 1 — [Novità]. G. BOISSONNAS, La Foi mise à l’épreuve, pendant
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di pag. 210 L. 3.25, il 2° di pag. 360 ...... > 3,75
[Novità]. Il 3° volume di pag. 230 ....... » 3,75 H. Monnier, W. Monod, C. Wagner, J.-E. Roberty, etc.,
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Foyer de l’âme à Paris. 13 volumetti di 100 pagine. Ciascuno....... ....... ■. ...> 1,25 LOUIS Trial, Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre
1914-1915. (Vol. di pag. 100) ....... . . > 1,25 G. QUADROTTA, Il Papa, l’Italia e la Guerra.......» 2 —
R. MURRI, La Croce e la Spada.....................» 0,95
A. TAGLI ALATELA, I Sermoni della Guerra..........» 3,50
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LE FONTI RELIGIOSE
DEL PROBLEMA DEL MALE
¿Xj»t&c «; Sttw wpasiSwv ì/.tt,««« ttXovto'*, SitXi; S’wt o/.iToiaaa Sìwi iript 5ó;a luuxXtv. Empedocle.
I. — Questioni metodologiche e introduttive.
i. La coscienza religiosa di fronte al male — 2. Ordine che deve tenersi nell’indagine intorno all’origine e sviluppo del problema del male — 3. Se il problema del male precede nell’ordine cronologico le religioni — 4. Insieme confuso rielle primitive conoscenze.
ono quasi sedici secoli dal tempo in cui Claudiano scriveva: « Spesso un dolore crudele tormenta l’animo mio, e chiedo a me stesso se gli dei ànno cura della terra, o se essa è senza guida, e se tutto ciò che avviene vaga incerto al capriccio del caso. Senza dubbio, quando contemplo la disposizione e l’ordine del-l’universo.... credo che tutte queste cose siano governate da divina sapienza... ma quando vedo il destino umano avvolto di tenebra così fitta, la lunga prosperità dei cattivi, le sofferenze
dei buoni; allora, mio malgrado, ritorno a quel sistema che insegna, come i germi viventi siano trasportati da un movimento senza mèta, e credo che gli dei siano indifferenti, o imaginari, o ignoranti del nostro destino ». Questa Claudiana incertezza è comune a molti pensatori che, sin dagli albori della civiltà, ànno chiesta la ragione delle cose. Indelebili segni del turbamento, tracce profonde del dolore umano, portano i più antichi e i più moderni monumenti, le antiche e le moderne indagini filosofiche, l’epica, la tragedia antica non meno della lirica e del dramma moderno, le tradizioni e i miti primitivi come la moderna civiltà; nell’arte, nella scienza, nella filosofia, da pertutto sono in vista sconfitte e travagliati trionfi, in ogni luogo è l’eco della dolorante anima umana, in ogni luogo si pongono i termini del problema del male, quando anche non da ogni parte ne venga tentata la soluzione.
Ma sopratutto nel turbamento che travaglia la coscienza religiosa acquista particolare carattere e forma il problema del dolore umano. Le primitive e le più recenti formazioni religiose, le antichissime superstizioni, le teogonie e le cosmogonie pri-
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BILYCHNIS
mitive, non meno che le grandi religioni filosoficamente elaborate palesano un’intima, profonda, indissolubile relazione che unisce nella medesima storia, nei medesimi motivi e nei medesimi scopi il problema del dolore e le religioni.
Di queste relazioni noi tenteremo di renderci conto. Ma ognuno che guardi attentamente la storia delle religioni non può fare a meno di avvertire che tutte queste, dalle più rozze alle più ricche di conoscenze filosofiche e di insegnamenti morali, siano disseminate di idee del male; come in tutte sia vivo il sentimento del male, e come di nessuna può dirsi che non sia più o meno profondamente travagliata dalle domande che compongono il problema del male. Qui sono idee simbolizzate in esseri maligni che guastano e avvelenano il mondo e la vita umana. Là sono potenze magiche a disposizione di stregoni che tormentano per distruggere l’uomo 0 le fonti del suo benessere; sono miti del peccato o descrizioni di luoghi di pena che devono incutere orrore e terrore, sono imagini di tremendi castighi per i colpevoli, sono giudizi sempre inesorabili e spesso crudeli delle potenze che governano il mondo e che possono liberare dal male, ma possono ugualmente infliggerne. Il sentimento del dolore pervade ogni religiosa concezione del mondo. Esso sembra immanente nell’anima religiosa, sia che aspiri, fra le pene che trova nella vita, alle gioie ultramondane, sia che tema di cadere in balia della cecità intellettuale e morale, lungi dai benefici che offre la religione, sia che senta il peccato e l’impurità da riscattare; 0 che tema di precipitare nell’abisso sconfinato di maggiori dolori, al di là della morte.
Molti secoli prima che Claudiano scrivesse, andava ramingo il Budda, fra i suoi discepoli, insegnando agli uomini che la nascita è dolore, che dolori sono la morte, la malattia, la vecchiaia, l’amore per ciò che non si può avere, l’odio che si nutre per cijò di cui non ci si può.liberare. E nell’anima di Giobbe, dove più vivo si agita e freme il dolore umano, dove più tormentoso è il dubbio circa la divina bontà, attinge aspirazione il poeta moderno, impotente a conciliare la bontà di Dio con la realtà del dolore:
Se la bontà tu sei, perchè soffri che il male Tenebroso distenda sopra la terra l’ale? Se l’uomo inconscio pecca, perchè su lui t’avventi Come turbo e l’affoghi in un mar di tormenti? Se all’errore e alla colpa e al delitto è nato, E il suo misfar ti spiace, perchè l’hai tal creato? È impuro e non lo tergi? Ti son cotanto gravi Le sue tristi cadute, e un baratro gli scavi D'intorno, e non gli strappi dai loschi occhi la benda. Prima che inciampi o cada e le tue leggi offenda? Sei generoso, e armato pugni contro l’inerme? Onnipossente, e godi nel tormentare un verme? Giusto, e il perverso innalzi sovra splendida sede, E il diritto schiacci, o entrambi stritoli sotto il piede? Misericorde, e mai non perdoni? Pietoso, E non accordi un’ora di tregua e di riposo? (1).
(1) M. Rapisardi, Giobbe.
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LE FONTI RELIGIOSE DEL PROBLEMA DEL MALE
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Sembra così, a prima vista, sorprendente come mai l’uomo sia venuto a religione in un mondo dove appaiono a caso disseminati piaceri e dolori, felicità e cordoglio, vizio e virtù, sapienza e pazzia, ciò che renderebbe ingiustificabile ogni religiosa attesa. Come mai, dal dolore che lo tormenta, si sia elevato l’uomo alla fede religiosa; dalla ingiustizia che sembra palesemente assai spesso governare gli umani destini, elevato alla concezione di un ordine supremo e alla fede nel trionfo finale del bene? E come mai la religione, che asserisce appunto questa fede, abbia potuto trovar radice in un mondo dove non solo ai poeti, ma anche ai pensatori e agli stessi religiosi, doveva apparire assai spesso dominatore il male? Sono tutte gravi domande che trovano la loro risposta nella indagine dei rapporti che legano le religioni col problema del dolore. .
2.
Questo contrasto deve apparire ancor più sorprendente, se si considera la vita primitiva nella sua religiosa attività, dove il sentimento del dolore, le idee e i simboli di malefiche potenze appaiono talvolta, insieme alla pratica dei culti, quasi esclusivamente rivolti a evitare e combattere il male. Sembra che solo un’idea tragica animi le religioni primitive e che il sentimento del dolore e la paura del male le faccia nascere e durare. Interessa dunque di scoprire le cause che costituiscono la relazione che unisce il problema del dolore con la religione, presumibilmente sin dalle sue origini, per vedere se questa è una relazione casuale, o se à radici nella natura della religione stessa.
Si è chiesto alla storia la risposta. Ma non è possibile, col semplice aiuto della storia e dell’archeologia preistorica, di conoscere l’origine della concezione religiosa del bene e del male, o anche l’origine della religione. De Mortillet à sostenuto che l'uomo dell’epoca quaternaria è vissuto senza alcuna religiosità. Egli dice che allora l’uomo, artista distinto, mancava tuttavia di qualsiasi concezione religiosa e difende la sua tesi con l’argomento del silenzio (1), con la mancanza, cioè, di feticci e del culto dei morti in quell’epoca (2). Se avesse detto invece che questi segni di religiosità non erano stati ancora scoperti, sarebbe stato più esatto. Infatti ulteriori ricerche, eseguite nelle caverne di Francia e del Belgio, ànno permesso di constatare, in maniera inconfutabile, che sin dall’epoca del mammut l’uomo praticava riti funerari, credeva alla vita futura, possedeva feticci e forse anche idoli (3). E non solo per l’epoca del mammut, ma anche per le epoche precedenti non si può sicuramente affermare la mancanza del culto dei morti e di feticci. Una tale conclusione è per lo meno prematura. Ma vi è di più. Quella conclusione à per premessa che le credenze e gli atti religiosi siano indissolubilmente legati ai feticci e al culto dei morti, mentre non abbiamo alcuna ragione per affermarlo; anzi non mancano
(1) Sul valore di quest’argomento, per la prova della testimonianza della storia cfr. il mio lavoro: Gesù e il mito di Cristo. Saggio di critica metodologica:.
SCfr. De Mortillet, Le préhistorique. Antiquité de l'homme.
Cfr. Goblet D’Alviella, L'idée de Dieu d’après l’anthropologie et l’histoire.
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storici ed etnologi che anno giustamente avvertito, come à fatto Jevons (1). quanto sia diverso il feticismo dalla religione della comunità, presso le popolazioni primitive ed anche ad essa opposte; c quanto sia indipendente la concezione degli esseri supremi dal manismo e in generale dall’animismo, come anno, fra gli altri, dimostrato A. Lang e G. Schmidt (2).
Ma se anche vogliamo conoscere l’origine della concezione religiosa del bene e del male, in epoche relativamente vicine a noi. e dove monumenti figurativi e letterature possono meglio rendercene testimonianza, il nostro cammino è sempre impedito da difficoltà quasi insormontabili. Bisogna invece riconoscere che allo stato presente delle nostre conoscenze storiche non possiamo neanche seguire il progressivo sviluppo dell’idea dei male nei sincretismi religiosi e nelle eliminazioni di elementi che subisce il primitivo nucleo religioso per via di cause che sono spesso assai difficili a rintracciare, senza ricorrere ad ardite ipotesi, senza lasciare vaste lacune lungo il cammino.
Un ordine di fatti, per essere considerato come causalmente concatenato, non deve avere nessuna soluzione di continuità. L’azione causale deve potersi seguire e descrivere in ciascuna sua conseguenza, sin dalle origini, o meglio, nei limiti di tempo e di spazio che si vogliano porre. Ma come farlo, se quest’ordine di eventi appare qui e là slegato nelle successioni, e senza che questa o quella causa si possa rendere intelligibile per mezzo delle conseguenze conosciute? Così non è possibile isolare e descrivere le cause, quando le diverse concezioni dei miti, posti in diversi gradi di coltura, dànno luogo a quelle diverse e molteplici manifestazioni che rivela la storia. Come riconoscere ciò che continua se esso si sviluppa sotto varie forme, e se lascia nel suo cammino tanta parte di sè, o se acquista tali abiti da trasformarlo, non solo nell’apparenza, ma nelle sue funzioni, e se prende quindi altro aspetto e altro nome? Come insomma seguire tutte queste trasformazioni, dipendenti da un numero indefinito di cause, se queste stesse non si possono scoprire, e se si perdono nello spazio e nel tempo?
Parlando altra volta della morale nelle religioni primitive, ò avvertito che non è possibile spiegare la moralità di una religione posteriore con la immoralità di precedenti concezioni religiose; come non è possibile che un’assurda e contradditoria affermazione divenga verità evidente per mezzo di ulteriori sviluppi (3). Bisogna invece scoprire gli elementi nuovi che ànno.sostituito i vecchi, o che vi si sono associati trasformandoli; bisogna scoprire quindi quali elementi nella formazione religiosa siano rimasti sul terreno caduti e spenti; o quale sostituzione del vecchio nu(i) Cfr. F. B. Jevons, L’idea di Dio nelle religioni primitive. Trad. it. di U. Pesta-lozza. Cfr. anche G. Schmidt, L’origine de l’idée de Dieu.
(2) I_a storia delle religioni primitive possiede oggi una vasta letteratura che vuole dimostrare appunto le origini preanimistiche della religione, e quindi l’errore di coloro che videro nel manismo, nel culto degli avi, l’origine dell’idea di Dio e del suo culto. Cfr. A. Lang, The making of religion. G. Schmidt, L'origine de l’idée de Dieu. Anche C. Orelli (Allgemeine Religionsgeschichte) dice che « La forma più antica della religione non è nè il feticismo, nè l’animismo».
(3) Cfr. il mio studio su « Il problema morale nelle religioni primitive ».
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LE FONTI RELIGIOSE DEL PROBLEMA DEL MALE
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eleo originario sia accaduta, o quale nuova composizione che ne cambia ii carattere. Orbene, basta gettare uno sguardo su! politeismo greco per convincersi che anche nelle religioni che si credono ben conosciute non è sempre possibile rintracciare e isolare, nel tempo e nel luogo, le cause che determinarono parecchie delle concezioni e rappresentazioni religiose che più interessa di conoscere. Per le origini bisognerebbe possedere maggiori conoscenze sul corrompimento della lingua degli Arii, e della nascita delle altre che la seguirono. Ma non sappiamo nemmeno che ordine tennero i popoli ariani nella loro separazione, e ignoriamo che contenessero le mitiche concezioni dei canti antiemetici. Quando volessimo seguire lo sviluppo della religione dello stato, in Grecia, ci troveremmo subito di fronte alla difficoltà di precisare quando e dove turano introdotti parecchi di quei miti, dei quali solo sappiamo che non sono entrati tutti nel medesimo tempo, e nemmeno nella stessa guisa. Ora sono i coloni che emigrano e trasportano via gli dei di Atene, confondendoli con quelli dei paesi dove vanno, onde nasce la complessa figura di Artemide e di Efeso, e ora sono grandi avvenimenti politici, come quello della invasione dorica che introduce, dovunque arriva, il culto di Apollo. Una volta avviene che l’annessione di un nuovo territorio dà ragione allo stato di adottare le deità dei vinti, un’altra sono dei stranieri che vengono introdotti solo per ordine dell’oracolo; onde avvenne che, in seguito a un sogno di Pindaro, confermato dai sacerdoti di Delfo, Tebe costrussc tempii a Cibele. A tali questioni si può dare una risposta verosimile, ma altre ne rimangono che non si possono sicuramente spiegare; per esempio, come Atene si trova di aver accettato, nel v secolo, tante nuove deità, quando quasi ogni generazione introduceva dei protettori (1).
Bisogna allora convenire che nell’ordine dei fatti storici anche ben conosciuti, come il politeismo greco, l’impresa di seguire l’origine e lo sviluppo delle concezioni di molti dei rimane assai difficile. Ma senza paragone assai maggiore è la difficoltà di determinare storicamente, cioè in ordine cronologico, la nascita e lo sviluppo delle religiose concezioni del male e dei suoi problemi presso le popolazioni primitive. Noi dobbiamo quindi rivolgerci non solo alla storia, ma anche alla psicologia, che ci permette di seguire in ordine logico l'origine e lo sviluppo delle idee, simboli e problemi del m'alo nelle religioni; in un ordine cioè che è basato su dati storici e su l'analogia che presentano tutti i procedimenti intellettuali, quando sappiamo che sono ii prodotto di un certo stadio della cultura. Così ci sarà possibile di scoprire nei motivi e negli elementi psicologici, più che in quelli storici, o esteriori, ciò che unisce le religioni col problema del dolore, prima di intenderlo meglio nello scopo e nelle funzioni delle religioni.
Ma se la storia non giova a stabilire la data della nascita e quella di un processo di sviluppo del problema del male, essa però ci aiuta anche a rintracciare l’ordine che segue lo stesso sviluppo; mentre, dal canto suo, l'ordine logico, ci permette di concludere, senza tema di errori, che se le religioni primitive dànno una risposta circa le origini, la natura, i limiti, lo scopo del male e i mezzi per vincerlo e superarlo, segno
(1) Cfr. P. Monceaux, La Grèce avant Alexandre.
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è che da esse quel problema fu posto. A dire esattamente, nemmeno le religioni più ricche di concezioni filosofiche e morali pongono il problema del male nei suoi termini, perchè le religioni tutte rispondono a diverse domande del problema. Ma è precisamente da queste soluzioni, da queste risposte e talvolta solo dalle usanze religiose, dalle dottrine e dai culti, insomma, che noi possiamo, per analogia, concludere che il problema del male fu posto, e seguirne le progressive formazioni.
È un errore pensare che il primitivo sia rimasto indifferente contro il male, e che lo accolga come un destino ineluttabile e fatale. Il primitivo odia il male e vuole anzitutto liberarsene. Egli lo considera come disturbatore dell’ordine morale sia nella vita umana, che nel 'processo della natura. Ma nella coscienza religiosa, non sorgono tutte a una volta le domande intorno al male, tutte le domande che costituiscono il suo problema.
Quando il primitivo, in quella fase della coscienza religiosa che chiamiamo individuale, adopera amuleti, feticci, talismani per allontanare il male, non vediamo che si chiegga donde esso venga e perchè sia; egli mostra solo di avere notizia della natura del male e dei limiti suoi. Ma quando egli cerca di allontanare e insieme di dominare il male per via d’incantesimi, di esorcismi, di potenze magiche, già appare la domanda che si è fatta non solo intorno alla sua natura e ai suoi limiti, ma anche intorno alle origini sue; mentre la questione della finalità del male appare dapprima nelle cosmogonie, nelle teogonie e insomma nelle mitologie primitive. Non nel magismo e nel feticismo dunque, o in altre forme delle religioni individuali, appare lo scopo del male, ma nelle religioni della comunità; dove sono anche riti, preghiere, sagri fici che le medesime domande postulano, e dove sono inflitte pene, ed altre minacciate per ragioni che il religioso conosce, per ragioni cioè che indicano la finalità del male.
Possiamo dire, così che il primitivo, nella religione della comunità, e non prima che in essa, rivela come le sue credenze religiose vogliono dare la soluzione del problema del male, perchè la sua religione non solo risponde alle domande intorno alla natura e ai limiti del male, come evitarlo o vincerlo, ma pretende anche di sapere donde esso venga e perchè sia.
3Senonchè, bisogna anche conoscere se questo problema oltrepassa le necessità della vita religiosa, se cioè sia necessariamente nato e cresciuto in seno alle credenze religiose, o fuori di esse; e bisogna sapere se sono le condizioni storiche esteriori quelle che permettono alle religioni primitive di abbracciare, ordinare e dominare tutta la vita spirituale e pratica e quindi i suoi problemi, o se altre ragioni più profonde vi sono per cui l’uomo ne à cercato nella religione la soluzione.
La natura di questa associazione potrà esserci svelata se troviamo che identici sono i motivi fondamentali che pongono il problema del male e che a religione conducono e mantengono; identici gli elementi che questo problema e le religioni compongono, gli stessi i fini che le diverse religioni si propongono nella soluzione del problema.
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Noi esamineremo qui la questione, specialmente nelle religioni primitive, anche perchè più semplice deve riuscire di conoscere quei motivi ed elementi, là dove essi sembrano più coloriti e marcati — come è il sentimento del male all’alba della civiltà — più facile dev’essere rintracciare quei motivi ed elementi, che uniscono tutte le religioni col problema del male, in quello stadio della civiltà che à un aspetto più omogeneo, e che è meno turbato dai molteplici interessi delle civiltà più progredite. Vediamo infatti nella cultura primitiva, presso popoli che sono vissuti lontani gli uni dagli altri e cresciuti presumibilmente senza influenze di civiltà più progredite, apparire simili usanze, simili credenze religiose, simili costumi. Col progresso dell'incivilimento, invece, raggiunta una relativa liberazione delle cause interne ed esterne, dominanti nelle primitive civiltà, troviamo ima maggiore varietà e complessità di usi, costumi, lingue, arti e credenze religiose.
Non potendo sempre attingere conoscenze dall’archeologia preistorica, dalla linguistica e da altre simili scienze — che permettono di scoprire sentimenti e pensieri di epoche antichissime — si ricorre all’antropologia e all’etnologia che possono analogamente supplire quella testimonianza dov’essa è deficiente. La questione però non è scevra di difficoltà. Generalmente la discussione intorno alla psicologia dei primitivi non è tutta basata su fatti positivi e su credibili testimonianze, per cui noi udiamo assai spesso pareri che si contraddicono scambievolmente. Il selvaggio non è sempre immune da influenze estranee, ed è spesso assai lontano dallo stato di cultura primitiva; mentre, dal canto loro, le testimonianze di esploratori e viaggiatori antichi e moderni, istruiti o no, credenti in una religione positiva o increduli, nè tutti abituati all’arte di domandare, nè tutti conoscitori della lingua parlata da quelle popolazioni, ottengono, senza avvedersene, la risposta che a loro faceva comodo (1). Inoltre bisogna tener presente che sebbene gli uomini, quando si trovano in un certo grado di civiltà, presentano delle somiglianze innegabili, pure non sono tutti egualmente, nello stesso tempo, disposti da natura, e che quindi non tutti si sviluppano ugualmente, anche se si trovano nelle medesime condizioni. Sicché mentre la somiglianza che presentano diverse popolazioni primitive ci aiuta a conoscere le comuni origini di concezioni e di usanze, di religioni e problemi, d’altro canto, si deve tener conto delle loro diverse disposizioni naturali. Affinchè non si corra il rischio di generalizzare, senza plausibile giustificazione, si deve tener conto della naturale diversità che distingue gli individui, non solo per non estendere a tutte le popolazioni primitive ciò che è vero di alcune, o a tutte le tribù ciò che può essere di poche, ma anche per non addebitare a tutti i primitivi ciò che è vero di un solo o di pochi individui. Non tutti gli uomini, presi individualmente, sono ugualmente disposti da natura e non tutte le popolazioni sviluppano le loro disposizioni nel medesimo senso. Fra i primitivi vi sono tribù pacifiche e tribù guerriere, secondo le necessità della loro vita, ma in queste si sviluppano attitudini e sentimenti ben diversi da quelli delle tribù pacifiche. Vi sono razze che
(i)-Max Muller dice: Anything you please, you may find among your usefull savayes you have but to skim a few books of trawel, pencil in hand, and pick aut what suits your case.
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sembrano più disposte all’arte, alla poesia mentre altre sembrano più disposte alla vita pratica. In alcune si sviluppano facilmente le concezioni religiose, mentre in altre queste sono lente e tardive, come lo è tutto ciò che le allontana dal mondo sensibile. Vi sono individui che si distinguono per intelligenza e per virtù da altri della medesima tribù; eppure costoro presumibilmente sono nei medesimo periodo della loro storia — se considerati come prodotti nel tempo — mentre poi sono in uno stadio di cultura ben diverso, se considerati nei prodotti che segnano il progresso della civiltà (i). Bisogna dunque evitare che, seguendo la via induttiva, dalla conoscenza di un certo numero di fatti, si vengano ad ascrivere fatti speciali, o eccezionali, o individuali, o anormali alla universalità della primitiva cultura.
Le difficoltà etnologiche e antropologiche non sembrano così meno gravi di quelle storiche, dianzi accennate. Tuttavia, chi ammette uno sviluppo delle psichiche attività procedente dalle forme più rudimentali della vita, da ricercarsi forse nei vegetali e nei cristalli, fino all’uomo, per costui, dico, dovrebbe essere possibile di scoprire in qual momento dell’evoluzione appaiono i motivi e gli elementi che determinano e formano in seguito le primitive concezioni del mondo, e che pongono alla mente umana i suoi problemi. Infatti psicologi, fisiologi e naturalisti si sono affaticati a ricercare il filo di unione che lega psichicamente gli esseri tutti, nei segni che possono farli distinguere o accertare, o nei limiti che li separano. Ma se guardiamo la produzione scientifica contemporanea, là dove così spésso alcuni ascrivono alle bestie sentimenti e idee che poi altri negano alle popolazioni primitive, non tardiamo ad accorgerci quale deplorevole confusione regni anche in questo campo (2). Soltanto così, su le traccie di Agassiz e di Darwin, poteva Van Ende serivere un elaborato volume su la religione degli animali; mentre Guyau al contrario negava che il primitivo avesse idee di causalità, Spencer sosteneva che fosse incapace a generalizzare. Marett era dell'opinione che fosse abbandonato alla paura e alla stupida meraviglia, e Maurenbrecher credeva che il primitivo vivesse passivamente, come abbandonato alla potenza capricciosa di demoni maligni e più forti di lui, ai quali ciecamente si sottomette (3).
Questi scrittori, però, non si sono resi conto di un fatto che è capitale per intendere l’evoluzione della coscienza religiosa c dei problemi che a lei si presentano, e questo è. come già ò accennato (4), che se incontriamo oggi una certa psichica attività nell’uomo, se vediamo nelle dottrine religiose riflettersi idee e sentimenti del male.
(1) Cfr. il mio lavoro su • Il problema morale nelle religioni primitive».
(1 2) Box (L’homme et les sociétés; leurs origines et leur histoire) scrive che molte
delle qualità morali sono anche più sviluppate negli animali che presso i selvaggi. Questo autore ritiene persino che Darwin abbia scritto sotto l’impero di pregiudizi ereditari quando partecipava l’opinione di coloro che ritengono tutta la differenza esistente tra 1 uomo e 1 animale consistere nel senso morale o coscienza. L’errore di Le Bon dipende dal concetto ch’egli à del sentimento morale, come dimostrano queste sue parole: • La morale n'esl réellement constituée que quand elle est devenue tout-à-fait instinctive ». « r/3 4LCir' MGuYAU’ U irréligion de l’avenir; H. Spencer, Principes of sociology; R. R. Marett, Preantmtsltc Religion; M. Maurenbrecher. Das Leid, Eine Auseinandersetzung mit der Religion.
(4) Cfr. § 2.
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se vediamo che le religioni ànno lo scopo di risolvere questo o quel problema, questo fatto o si deve poter ricacciare indietro nel tempo, indefinitamente, o deve, se prima non era, potersi cominciare a vedere in un certo momento della storia. La questione dunque si riduce a scoprire se il problema del dolore dev’essere ricacciato nelle oscure, bestiali origini dell’uomo preistorico, o se invece mancano al primitivo non solo le concezioni di un problema del male, ma persino i motivi che possano determinarlo a ciò, gli elementi che dovranno comporlo. In quest’ultimo caso, tali motivi ed elementi dovrebbero essere cercati soltanto nel periodo che immediatamente precede le antiche civiltà dell’Egitto, dell’india, della Persia, della Cina e di Babilonia, nelle cui religioni il problema del male è visibile. Ma se consideriamo le religioni primitive come sistemi di conoscenze ed atti che trovano la loro ragion d’essere in ben definiti motivi, dall'esame di questi non tarderemo a scoprire, anche in queste religioni, e anzi più che altrove, idee e sentimenti del dolore; e che come le religioni delle civiltà più progredite, mostrano la coscienza religiosa tormentata da problemi.
Noi lo vedremo meglio nel seguito delle nostre indagini, quanto siano mal fondate le opinioni di coloro che lo negano; ma sin da ora possiamo affermare che dobbiamo risalire molto indietro nella preistoria per rintracciare le origini del problema del dolore. Noi possiamo scoprire motivi ed elementi che servono a determinare e a comporre le religioni e a porne i problemi, ma manchiamo assoluta-mente di testimonianze storiche che in un periodo precedente all'apparita delle religioni della comunità l’uomo cerchi di conoscere donde il male venga e perchè sia. Quando all’alba delle civiltà appaiono le religioni individuali, come quelle che vogliono essere rimedio contro il male, e via per la liberazione o il dominio, abbiamo la testimonianza storica che l’uomo si chiede che cosa il male sia. E solo quando appaiono contemporaneamente o susseguentemente le religioni delle tribù, vediamo insieme riuniti, nel problema del male, nella complessità delle sue domande, i motivi che lo ànno determinato e gli elementi che lo ànno composto. La mancanza in un’epoca prereligiosa di qualsiasi testimonianza che indichi una precedente impostazione del problema, e, d’altro canto, la testimonianza della storia delle religioni primitive che ci presenta insieme al magismo, al politeismo, al diteismo e al monoteismo, le prime rudimentali soluzioni che esse danno del problema, devono essere ragioni assai forti per convincerci che solo nella primitiva anima religiosa, così com’essa poteva manifestarsi nelle diverse fasi della sua attività, e non al di fuori di essa, nasceva il problema del dolore umano.
Ma perchè questo avviene, e come la religione, non solo nelle sue forme più sviluppate, ma anche in quelle rudimentali e rozze dei primitivi è intimamente legata col problema del male, noi possiamo vederlo soltanto considerando i motivi che a religione conducono e mantengono, gli elementi che la compongono, le funzioni sue che vogliono allontanare, dominare o distruggere il male.
4Volendo ancor meglio precisare il nostro pensiero, diremo che le considerazioni che ci fanno intendere come il problema del male appaia primamente nelle
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religioni e non prima di esse, sono considerazioni su le condizioni esteriori dell'incivilimento, su la natura delle religioni che abbracciano e sottomettono tutte le attività della vita spirituale dell’individuo e della collettività, e su la natura umana, che è condotta da identici motivi e scopi a porre tanto il problema del. male, quanto le basi della religione, e a trovarne in questa la soluzione.
Un ordine di cause, dunque, è dato dalle condizioni esteriori che tanno della religione la guida e la legge suprema cui nessun’altra può starle accanto, dalle condizioni speciali della vita primitiva, che viene presa tutta dall’ingranaggio della religione, con tutti i suoi dubbi, le sue conoscenze e i suoi errori, con tutti i suoi beni e i suoi dolori. Un altro ordine di càuse è tutto interiore ed è posto nella natura umana, nella cui medesima attività trova il problema del dolore la sua ragione d’essere e la sua soluzione; onde tanto la posizione, quanto la soluzione del problema vengono a esplicarsi nel medesimo campo in cui nasce e si sviluppa l’attività religiosa.
Osserviamoli separatamente questi due ordini di cause, a cominciare da quello esteriore, onde la religione s’impossessa di tutta la vita spirituale dei primitivi e ne comprende tutti i problemi e li subordina al suo sistema di conoscenza. E se risaliamo alle origini della civiltà per scoprire i primi simboli e fantasmi del male, siamo condotti a un insieme confuso di conoscenze, di credenze disordinate, sconnesse e spesso contraddittorie. Quando le civiltà primitive non sono ancora pervenute a una certa classificazione e ordinata disposizione delle loro conoscenze, e non anno un ben definito sistema religioso, allora si palesa a noi la mescolanza confusa delle loro credenze, il carattere irrazionale e immorale dei loro culti e delle loro usanze, l'assurdità dei loro simboli e fantasmi. Non perchè manchi ai primitivi la facoltà di astrarre e generalizzare, come pretendono gli autori dianzi citati, non perchè manchino di un ragionamento logico, come vuole Levy-Bruhl (i), ma al contrario perchè tutto dipende dalle loro erronee credenze, come da logiche conseguenze. I problemi sorgono così tumultuariamente e si affrettano a trovare la loro soluzione; sorgono con maggior vigore le domande perchè lo sforzo che richiede la logica sistemazione e coerenza delle conoscenze, è maggiore, e quindi più difficile di quella che si richiede dalla illogica creazione di concezioni e fantasmi, dalle confuse mescolanze, dalle incocrenze, dalle erronee conclusioni. Per cui non solo dobbiamo dire che questo processo non deve succedere, ma precedere la logica sistemazione di credenze ed atti, ma che la primitiva fantasia, mostrando una maggiore attività creatrice rispettivamente al processo logico, maggiori devono essere le costruzioni fantastiche che tentano di dare le risposte, e quindi maggiore quella condizione che è propria ad aumentare anziché ad eliminare le erronee credenze. Solo col tempo le religioni, che tendono sempre più a divenire logicamente ordinate, pervengono a concepire nettamente e precisamente il problema del male.
(i) Cfr.' L. Levy-Bruhl, Les fondions mentales dans les sociétés inférieures.
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II. — Alcuni motivi comuni alle religioni primitive e al problema del male.
1. Carattere religioso della vita primitiva — 2. Il sentimento del dolore, motivo all’azione contro il male, e ai problemi religiosi — 3. L’esigenza conoscitiva, motivo per le religiose concezioni e per la posizione del problema del male — 4, Il mistero, altro motivo per le fonti religiose del problema del male — 5. L’esigenza di conoscere la causa del male considerata come attività conoscitiva e come attività pratica.
vali furono le domande che si pose la coscienza religiosa ancor prima che fosse pervenuta a una ordinata sistemazione di conoscenze e di precetti, potremo vederlo nei motivi e negli elementi che pongono il problema del dolore e che fanno nascere e durare le credenze religiose, e potremo anche vederlo nello scopo e nelle funzioni delle religioni.
Ma una impostazione estrareligiosa del problema del male non ci è dato di riconoscere nella vita primitiva. E non era pos
sibile, sia perchè il carattere che sopratutto questa vita distingue è prettamente religioso — e quindi nessun prodotto che non fosse religioso avrebbe potuto nascere in essa — sia perchè, nella tribù, iniziativa individuale non era più possibile che prosperasse. Istituzioni civili e autonome non ànno quindi ragion d’essere e non esistono; leggi e obbligazioni, che non siano considerate còme un ordinamento religioso, non appaiono in una civiltà dove i supremi interessi dell’individuo e della tribù sono regolati da tradizioni e obbligazioni religiose. In un tempo in cui non è altro mezzo disponibile fuor che il carattere religioso, il quale riveste miti, leggende, e favole per tramandare le acquisite conoscenze, quando sono state trovate utili per la vita sociale e privata, la tradizione doveva avere una grande vitalità, indipendentemente dalla forza di resistenza che ogni tradizione indubbiamente acquista, se viene rivestita di santità. Ma le medesime tradizioni e obbligazioni religiose, nate, al pari delle lingue, perchè rispondono a un interesse umano vivono per esercitare una funzione che non complichi ma semplifichi l’attività umana, ond'esse acquistano una grandissima influenza nella sistemazione della vita.
Tosto che la religione della comunità è formata, l’uomo trova in essa lo strumento più vantaggioso per raggiungere i suoi fini, poiché promette qualcosa di più che il dominio sul male o il suo allontanamento, come fanno le religioni individuali.
Ed ecco perchè tanto la tribù, quanto l’individuo, non possono più ragionevolmente staccarsene. La coscienza religiosa, formatasi in seno alla coltura primitiva, porta
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nella formazione delle religioni i germi di quelle istituzioni, scienze e arti che da questa, in seguito, si staccheranno; mentre la religione tende a comprendere e per sua natura a subordinare tutta la vita sociale e individuale alla sua autorità. Essa trasforma così le concezioni individuali, o completa gli individuali tentativi, crea nuovi simboli e fantasmi, detta leggi, insegna riti e si mette al centro di ogni attività. Bisogni inerenti alla vita di famiglia e di tribù, determinazione di dritti e doveri, riguardanti la vita pubblica e privata, scrupolosità nell’osservanza di questi doveri, determinazione di privati e pubblici beni, i primi clementi del consorzio civile come quelli che riguardano il nutrimento, il matrimonio, la nascita, la riconoscenza del valore della vita umana, sono scopi degli insegnamenti e delle obbligazioni religiose della comunità. La religione, così, subordina alle sue leggi, alla sua sanzione tutta la vita primitiva e persino gli atti più insignificanti.
Ma non solo questo, la Religione primitiva appaga interessi ed alimenta aspirazioni che oltrepassano la vita pratica: essa non vuole essere soltanto regolatrice e amministratrice, ma anche rivelatrice di verità e anzi di verità che pili interessano lo spirito. Essa dunque deve comprendere tutti i problemi sociali e individuali non solo, ma anche quelli della natura, e deve poter risolverli; essa deve insomma poter eliminare qualsiasi male, allontanare ogni dolore, insegnare la via della perfezione.
Ed ecco perchè la religione doveva tendere necessariamente a comprendere e ad assorbire, o a condannare e a eliminare il problema del male, se fosse nato al di fuori di essa, quello cioè che più urge e interessa al perfezionamento umano. Essa à finito con l’assorbire i suoi elementi e col risolverlo; noi vedremo come lo à risoluto, ma ora siamo al caso d’intendere meglio la causa esteriore che spingeva e riduceva nell’ambito della religione della comunità le domande che la coscienza individuale si poneva rispetto al male, e che non ne permetteva più l’esistenza al di fuori di essa; perchè quando la religione si mette al centro della cultura e si eleva a suprema autorità, essa non è più compatibile con forze che possano essere deleterie, che possano diminuirne il valore o minacciarne la durata. Si può dire anzi non solo delle religioni primitive, ma di tutte, che tendono a far convergere le forze umane verso uno scopo che sta in cima a tutti gli altri, che unifica il sapere e la condotta.
2.
Tanto dovrebbe bastare per intendere quali cause esterne abbiano potuto associare le religioni della comunità col problema del male; ma più difficile e più lungo è il cammino che conduce a riconoscere, nei motivi religiosi quelli che determinano alle diverse domande che costituiscono il problema del male. Mi proverò qui di esaminarne alcuni che mi sembrano più notevoli.
Anzitutto però bisogna avvertire che se parliamo di motivi e di elementi diversi comuni alla religione e al problema del male, non si deve pensare che questi siano separati in realtà e di natura intellettuale o emozionale, come alcuni ànno preferito di dire. Credo invece che non si possa parlare di soli motivi intellettuali, o di soli emozionali, se non per astrazione; perchè l’uo’mo è un un’unità psichicamente attiva
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e passiva, capace di rappresentazioni, giudizi e atti volitivi. E quindi se cerchiamo di conoscere i motivi che lo abbiano potuto condurre a porre il problema del male o la religione, dobbiamo riconoscere che questi sono intellettuali ed emozionali, teorici e pratici insieme.
L’uomo Che s’è trovato dapprima bisognevole di cibo, di vestimenta, di abitazione, e che è stato spesso costretto a lottare e a soffrire per ottenerli, sviluppa sopratutto il suo interesse pratico senza del quale non può vivere e prosperare. Non si può quindi affermare con Hartmann, che la religione della comunità nasca dalla meraviglia da cui l’uomo è preso al cospetto del dolore, e dal desiderio che à di spiegare la sua esistenza. La religione è invece un fatto assai più complesso e non da potersi chiudere in questi termini. Le sue origini sono confuse con quelle che pongono il problema del male, e non sono soltanto comprese nei motivi che chiedono la conoscenza dell’origine del dolore, e nemmeno nello stupore che colpisce l’uomo al suo apparire; mentre tanto la religione quanto il problema del dolore attingono alle fonti pratiche e a quelle ideali della vita umana. Questo certamente non potevano riconoscere quei pensatori che volevano da un particolare aspetto della religione intenderne la natura,.e non potevano nemmeno riconoscerlo quegli altri che non anno inteso quali rapporti passano tra idee e sentimento del male da una parte, e religione dall’altra, nè Hartmann perchè si limita a una interpretazione che può servire a farci intendere un solo aspetto della coscienza religiosa di fronte al dolore, ma non tutta la sua ricchezza e complessità.
In opposizione a questo pensatore, Maurenbrecher scriveva che per il primitivo il dolore non è un problema perchè egli prende la vita così come viene, e rimane indifferente allo splendore del sole e alla pioggia, gode della fortuna quando la possiede, e si sottomette alla sventura quando sopravviene (1). Ma anch’egli non à saputo riconoscere le vere relazioni che passano tra la religione e il sentimento del dolore, e non à saputo vedere quale azione esercita il dolore su la coscienza religiosa. Il primitivo non viene a religione solo per curiosità di conoscere la causa del dolore; questa causa, se fosse isolata, lo porterebbe a una concezione pessimistica del mondo, che non vediamo nelle primitive credenze religiose. Egli non vive nemmeno di un’apatica esistenza, rassegnato a tutto, e quasi insensibile al piacere e al dolore. Se è talvolta rassegnato non appare che lo sia sempre e i suoi progressi nelle arti lo dimostrano. Ciò che vi è di vero in questa affermazione è soltanto che il primitivo soffre meno il dolore perchè la sua sensibilità non è così viva come quella dell’uomo incivilito. Ma non si può negare nemmeno che egli abbia interesse di appagare la sua attività noetica, quando possiede una religione, che vuole spiegare l’origine e lo scopo del male. Quest’attività, riconosciuta da Hartmann, doveva essere però associata a quella pratica, perchè il primitivo, nella religione, non solo possiede ciò che desidera conoscere intorno al dolore, ma anche ciò che reputa essere lo strumento più adatto per raggiungere certi fini pratici. E quindi se troviamo nelle religioni primitive una certa sistemazione di credenze e di atti, una sistemazione adatta al fine di spie(1) Cfr. M. Maurenbrecher, Das Leid. Eine Auseinandersetzung mit der Religion.
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gare il dolore e di evitarlo o vincerlo, non possiamo essere dell'avviso di Hartmann che negava le pratiche finalità, come non possiamo accettare l’opinione opposta di Maurenbrecher. Dobbiamo riconoscere invece che il dolore è motivo a religione, e più precisamente tanto per la indagine delle sue cause per se stesse, quanto e più visibilmente, per rimuoverlo, distruggerlo o dominarlo.
Possediamo innumerevoli testimonianze anche estrareligiose ricavate dall’attività pratica, per non ammettere che il primitivo viva in un mondo che per lui non à alcun senso, alcun valore, e dove tutto avviene come per un movimento sconnesso e disordinato. Ma anche le primitive superstizioni e i miti basterebbero a dimostrare il contrario. Già se si considera, da un lato il carattere religióso della vita primitiva, e dall'altro il sentimento del dolore, le idée, i simboli e i fantasmi di malefiche potenze, che sopratutto nelle religioni primitive appaiono, insieme alle pratiche religiose, dedicate a rappresentare, a evitare, a combattere il male, allora si deve ammettere che il sentimento del dolore sia il motivo fondamentale che poneva con la religione i problemi pratici e teorici di essa. Se fosse vero che per il primitivo il mondo non à alcun senso o alcun valore, egli non avrebbe avuto idoli, feticci e talismani, non avrebbe praticato incantesimi, riti e culti, non avrebbe dato spiegazioni nei suoi miti, non avrebbe cercato la liberazione dal male nelle sue superstizioni, nè preteso di raggiungere con esse alcun fine pratico, nè aspirato ad annodare relazioni con potenze superiori, nè curato di cercare mezzi adatti per raggiungere questo scopo e per mantenerle, e infine non sarebbe stato possibile alcun progresso civile, e nemmeno una forma rudimentale di vita sociale.
Noi vediamo, al contrario, che il primitivo impegna una lotta contro il dolore, e che il suo desiderio è precisamente di estirparlo dalle radici. Più anzi s’impone il sentimento del dolore e più vivo diviene l’interesse di superarlo, ammenoché quel sentimento non sia così forte da distruggerne ogni altro. Ma in questo caso la mancanza di attività liberatrice, più che alla mancanza del sentimento del dolore si dovrebbe alla forza sua. Solo ammettendo che il primitivo non sia del tutto insensibile al dolore e al piacere, possiamo intendere perchè egli à cercato la causa dell'uno e dell’altro, e perchè à voluto coltivare questa e distruggere quella, nella sua vita religiosa.
Certo, però, il sentimento del dolore non è il solo che conduce l'uomo a religione, ma uno dei più essenziali che con l’interesse di liberarsene e di evitarlo diviene efficacissimo motivo all’azione, e a porre i problemi religiosi (i). Il piacere non sarebbe stato così efficace, perchè esso attira e assorbe ogni attività nel godimento. Il dolore invece, esercitando una forza repulsiva, permette un’attir, Tutto ciò che vi ha di contrario alla felicità umana — scrive F. De Sarlo (L attività pratica e la coscienza morale) — tutto ciò che vi ha di doloroso, di pauroso, di malefico, tutto ciò che vi ha di contrario alla conservazione e allo sviluppo della vita, di contrario all'esistenza, tutto ciò che vi ha di deprimente nel mondo che ci circonda, non potette non provocare una reazione nell'anima umana, una reazione atta a mostrare che l'esigenza del dominio, della libertà non è una mera illusione e che l’uomo è fornito di mezzi sufficienti per resistere alle forze minacciose e distruttive ».
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vità irradiante che fa allontanare da esso; ma lasciando libero l’uomo di seguire altra via, dà facoltà a nuove direzioni dell’attività umana, che la religione può governare e istradare. Avviene pertanto che il piacere non dà all’uomo quel vario e molteplice impulso che gli dà il dolore; tanto è vero che dal dolore il primitivo viene a interpretazioni religiose e a pratici comportamenti — come si vede special-mente nelle religioni primitive — assai più di quanto non gliene diano motivo le sensazioni piacevoli che può provare. La religione governa e dirige quest’attività finché l’uomo non perda la speranza di raggiungere la liberazione; mentre il piacere soltanto non avrebbe portato alla posizione di problemi e nemmeno a religione. Il problema del male e le religioni si agitano dunque tra questi due poli opposti, ma non nascono da essi soltanto, nè in essi si esauriscono, nè da essi acquistano quel profondo significato che ànno, senza il concorso d’altri motivi di natura diversa.
3Dovrebbe essere chiaro a ognuno che senza il sentimento del piacere e del dolore, senza amore per l’uno e odio per l’altro, non solo sarebbe venuto meno il motivo per l’azione, ma anche, di conseguenza, per quelle pratiche e noetiche attività che ànno attinenza col sentimento del dolore, e che l’uomo esercita tanto nelle religioni che nella posizione e soluzione del problema del male.
Però, come dico, non occorre questo soltanto, vi sono altri motivi che devono essere qui considerati e fra questi la curiosità; perchè se questa fosse mancata non si avrebbe avuto nè religione, nè impostazione di alcun problema. Noi vediamo che il mondo esterno e quello interno sono ugualmente misteriosi per l’uomo. Da un canto sogni, visioni, estasi, allucinazioni, dall’altro sconosciuti fenomeni al di fuori di noi, colpiscono la nostra attenzione. Il mistero avvolge l'uomo nel tempo e nello spazio, ne confonde la intelligenza e la stimola, ne turba il cuore. Più l’uomo conosce e meglio vede ch’egli vive in un punto impercettibile dell’universo e in un solo momento della sterminata eternità. Egli non sa donde viene, nè dove va; il passato sfugge ai suoi ricordi che datano solo da ieri, l'avvenire gli è ugualmente sconosciuto e pieno di mistero. Solo alcuni latti egli conosce, solo un breve aneddoto della storia che non à confini. Nondimeno eccolo all’opera per spiegarla quella storia, e per intendere in essa il senso e il valore di ciò che più lo interessa, di ciò che più stimola il suo desiderio di conoscere. Questo avviene perchè l’uomo non è nato indifferente nel mondo, perchè la sua intelligenza reagisce, come reagisce la sua sensibilità, perchè è pieno di curiosità, perchè vuole esercitare le sue attività psichiche, come la sua forza fisica, ed è solo così che l’uomo crea la civiltà. Egli procedendo, come a piedi nudi, su alpestre cammino, seminato di rovi, lascia spesso brani delle sue carni su la via, talvolta vi perde la vita; ma il suo interesse di conoscere è assai vivo e potente, e lo spinge sempre avanti. L’eroismo è una bellezza che seduce, la conoscenza della verità è un’esigenza troppo forte, la virtù è troppo santa perchè l’uomo rimanga eternamente sotto il dominio dell’istinto della propria conservazióne.
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Senonchè, quando consideriamo la civiltà primitiva, sembra, a prima vista, che un’altra legge la governi, e che un solo interesse ed esclusivamente pratico quivi sia dominante. Persino un acuto antropologo, come Goblet d’Alviella, commette l’errore di ritenere che il primitivo non abbia alcun interesse speculativo, ma che tutto abbia per lui uno scopo pratico, e, più precisamente, nel campo della religione, quello di annodare relazioni utili con esseri sovrumani e misteriosi. Anche due psicologi assai stimati, James e Leuba, occupandosi delle religioni, ànno decisamente negato che esse, in un periodo primitvo, tentino di risolvere il mistero intellettuale del mondo. Leuba, anzi, dice che gli uomini, finché possono servirsi del loro dio, si curano ben poco di sapere chi egli sia e Se esista.
Ma noi contrariamente a ciò che afferma Goblet d’Alviella diciamo che il primitivo, prima di avere speranza di annodare utili relazioni con gli dei, deve rendersi conto non solo della loro esistenza, ma anche del loro carattere. Prima che il dio venga adoperato, secondo l’espressione di Leuba, come provveditore di alimenti, come aiuto morale, come amico o come oggetto amato (r) è necessario di rendersi conto della natura di questi esseri. Non può rimanere indifferente la esistenza della deità, come invece crede James, quando tutto l'atteggiamento religioso dipende dalla credenza nella realtà di quegli esseri superiori; e non si può, senza contraddizione, credere in un dio amico e datore di alimenti, senza sapere che esista, come non si può attendere nulla da lui senza conoscere il suo carattere. Non occorre, è vero, che queste speculazioni su la natura e su la esistenza degli dei siano fatte dal singolo religioso, ma occorre che lui si fondi su tali credenze per regolale i suoi atti e i suoi rapporti con gli dei. Senza quelle speculazioni, non era possibile alcuna spiegazione della natura delle cose, e dei loro rapporti scambievoli. E noi infatti vediamo al contrario, che se il primitivo é posto innanzi a un fenomeno, cerca di rendersene conto; e quando non trova una spiegazione plausibile nella tradizione, ne cerea la spiegazione sotto forma di miti. Pertanto là mitologia primitiva contiene le prime congetture della scienza, essa in luogo di analizzare ed esperimen-tare, descrive, e sotto il simbolo dei miti dà le spiegazioni delle leggi della natura e dell’origine delle cose, e in generale di tutti i fatti e di tutto ciò che è per il primitivo difficile a comprendere. I miti dei popoli primitivi vogliono spiegare l’origine del mondo, degli animali, degli uomini e delle piante, vogliono spiegare le origini della malattia e della morte; vogliono spiegare il movimento delle stelle, della rivoluzione del sole e della luna; perchè un albero produce un fiore rosso, e perchè un uccello à una macchiolina nera su la coda; vogliono insegnare chi à dettate le leggi morali, chi à inventate le arti, chi à portata la civiltà, come è nata la tenebra e la luce, come avviene che il dolore si introduca nel corpo umano, e perchè vi è il male nel mondo.
Queste e altre simili spiegazioni indicano evidentemente che esse sono un prodotto della curiosità. Queste risposte postulano domande che non possono essere ascritte ad altre cause, ad altri motivi fuorché all’esigenza di conoscere. Si dirà
(i) Cfr. The contents of religious consciousness {The Monist, Juni 1901).
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che questa esigenza è ora indipendente dalle applicazioni pratiche, ed ora ne dipende e si avrà ragione, ma non si potrà dire che in ogni caso ne dipenda. Taylor e Lang ànno quindi perfettamente ragione quando rilevano l’elemento intellettuale che costituisce la mitologia (1).
Bisogna dunque convenire che anche presso i popoli primitivi vi è un’esigenza intellettuale, il di cui appagamento richiama e assorbisce tutto il tempo che non viene impiegato alla guerra, alla caccia, al nutrimento e al sonno. In queste indagini, anzi, il primitivo trova un gran diletto perchè in esse può liberamente spaziare con la sua imaginazione, e poiché'non riconosce un limite tra il mondo fisico e quello metafisico, poiché ignora un limite tra ciò che può essere naturalmente prodotto, e ciò che non può esserlo, tra ciò che è possibile, e ciò che è impossibile, tra ciò che è naturale e ciò che non lo è, poiché ignora la natura dei fenomeni, e le leggi della natura, la sua fantasia poetica assume il compito di facilitare le sue spiegazioni, le quali altro non sono e non possono essere che spiegazioni mitiche » favolose (2).
4Se vogliamo procedere ancor di più nella via che conduce a riconoscere i motivi che pongono la religione e i loro problemi., se vogliamo precisare ancor meglio verso qual polo si diriga la curiosità, dobbiamo dire che se l’uomo non avesse avuto idea dèi mistero, non sarebbe venuto a religione e non avrebbe posto alcun problema. Si è negato, con ragione, che il primitivo avesse idea del soprannaturale; infatti, a guardar bene, egli non à idea del soprannaturale, à conoscenza invece di potenze occulte, di qualcosa che è estranaturale e di cui ignora se sia al disotto o al disopra della natura. Ma si è certamente errato a pensare che il primitivo non sia capace di astrazioni e generalizzazioni, nè di ragionamenti logici, perchè n tal caso sarebbe a lui mancato ogni discernimento di somiglianze e di differenze. gli sarebbe stato impossibile di classificare le conoscenze acquisite, c quindi sarebbe mancato anche alle collettività ogni progresso. L’origine della religione, e la impostazione del problema del male, non postulano conoscenza del soprannaturale, ma conoscenza di qualcosa che si distingua da ciò che è reputata normale, naturale.
L’esperienza insegna all’uomo come moltiplicare le sue forze armandosi, gl’in-segna come attraversare fiumi sopra un tronco d’albero, a conservare l’acqua in vasi di creta, cotti al sole, a servirsi di strumenti; ma tutto questo non à per lui nulla di misterioso e di estraordinario, perchè lentamente à imparato, e per via del(1) «La formazione mitica, scrive De Sarlo (L’attività pratica e la coscienza morale) mostra nel modo più chiaro come all’uomo fin dall’origine importi non soltanto assicurare, avere come garantita la vita fisica, ma avere anche garantita ne modi in cui è possibile, la conoscenza, la libertà, il dominio, la potenza, la bellezza e la giustizia ».
(2) Cfr. E. B. Tylor, Primitive culture; A. Lang, Myth, rifusi and religion. Dello stesso. La Mythologie, trad. frane, di L. Parmentier.
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l’esperienza, ad adoperare mezzi adatti a raggiungere alcuni fini. Quando l’uomo però si trova davanti a un fenomeno che non può spiegare perchè supera le sue ordinarie esperienze, o perchè gli era sconosciuto, o perchè è improvvisamente sopravvenuto, o perchè contraddice le sue aspettazioni, allora questi fenomeni vengono ascritti a cause diverse dalle normali, più potenti o più sapienti, e sempre misteriose. Di questo carattere vengono anche rivestiti tutti gli altri fenomeni che egli non può ripetere o che non può abbracciare col pensiero, o dominare con le proprie forze, senza l’aiuto di speciali comportamenti.
Il primitivo non può fare a meno così di avvertire che vi sono fenomeni per lui inesplicabili e tali che le potenze normali non sono capaci di riprodurre. Quando il Pellirosso non comprende qualcosa, dice che essa è uno spirito (i). Garcilaso de la Vega racconta che gli antichi Peruviani adoravano sotto il nome di « Luacas » le cose che sorpassavano in eccellenza e beltà quelle della loro specie, le cose che ispiravano, orrore e spavento e le cose Che non erano nel corso ordinario degli eventi conosciuti. Nelle isole Fidji, gli indigeni si servono della parola « kalu » per indicare qualcosa di sovrumano, di meraviglioso. Nell’India centrale, i Todas danno alle loro divinità il nome generico di «der», ma secondo ciò che ci racconta Marshal (2), essi anno una tendenza a trasformare in «der» tutto ciò che è misterioso e invisibile.
Gli esempi si possono moltiplicare, ma non è necessario che io lo faccia per esser persuasi che il primitivo distingue cose normali dalle anormali, cose ordinarie dalle estraordinarie, e che queste ultime confonde poi col misterioso e col divino.
Di altri errori della logica primitiva bisogna qui tener conto. Ammesso che il primitivo sia capace — e non vi è dubbio — di fare classificazioni, ci riesce facile intendere come queste debbano dar luogo a nuove confusioni. Nella classe di cose che egli crede di comprendere, e nell'altra di cose che reputa per lui incomprensibili, si adunano rispettivamente i fatti che reputa normali e gli altri che stima misteriosi o divini. Ma questa classificazione non è sempre rigorosamente mantenuta, nè correttamente formata, perchè gli oggetti, per essere creduti della medesima specie, vengono scelti in base a somiglianze trovate 0 nella loro provenienza, o nella forma, o nell’ufficio, o nel loro comportamento o anche solo per essere mentalmente associati a qualche evento. Così se vi sono fenomeni, come quello del movimento dei corpi, che ànno somiglianza col movimento del corpo umano, si è fàcilmente condotti ad ascriverli alla medesima classe, e quindi ad ascrivere a qualsiasi corpo, per analogia, caratteri umani. Molti oggetti mobili divengono per il primitivo persone, e pertanto capaci di pensare e di volere. Ciò che deve distinguersi dalla credenza che tutti i corpi mobili fossero persone e anche più dall'altra che tutte le persone fossero animate, come alcuni antropologi ànno erroneamente preteso, ma che deve spiegarci come le classificazioni che il primitivo fa delle sue conoscenze, e gli errori che egli, commette nel farle, lo conducono a confondere facilmente i limiti fra naturale e divino.
(1) Cfr. Jarvis, nell’appendice a Buchanan, History of Nori-American Indian.
(2) Travels among the Todas.
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Anche i fenomeni le di cui cause il primitivo ignora, quando presentano delle somiglianze con ciò che la volontà umana produce, vengono da lui ascritte a una causa simile. Gli effetti simili devono avere cause simili. Molte popolazioni primitive possono credere così che gli animali comprendono il loro linguaggio. Secondo alcuni il cane non risponde per fierezza, la scimmia per pigrizia, ma certo non per ignoranza della lingua. I Pellirossi conversano col cavallo, e gli Arabi credono persino che il cavallo possa leggere il Corano. Nel trattato di agricoltura di Ibn-all-Awàm si consiglia di intimidire gli alberi quando rifiutano di produrre frutta, e in questo caso bisogna batterli leggermente, dicendo loro che verranno tagliati se continueranno a fare così (1). Gli Slavi della Boemia gridavano la sera: « Geimo-gliate, alberi, germogliate 0 vi scorticheremo» (2). Per la medesima ragione, il vento, i fiumi, le cascate, il mare sono stati creduti simili all’uomo. Ma anche le pietre vengono credute persone, quando si può pensare di esse che possono muoversi da sè. Così molte popolazioni primitive ànno potuto credere che i sassi si sposino e procreino, come fanno gli uomini (3), e che i corpi celesti siano simili a persone. E quindi si spiega come i popoli primitivi, ingannati dalle apparenze, venivano al totemismo, che stabilisce una parentela fra cose di natura diversa. Ma come queste confusioni ci parlano della loro ignoranza e dei loro errori, così le loro medesime superstizioni ci svelano la curiosità che li spingeva, la loro facoltà di astrarre e di generalizzare, la loro idea del mistero, i loro interessi noetici e pratici, perchè se l’uomo non avesse avuto tali interessi, non avrebbe perduto il suo tempo a costruirle e a mantenerle nella tradizione.
Ora vorrei anche richiamare l’attenzione sul senso di stupore e di meraviglia che, destato dal misterioso, si trasforma, a sua volta, quando alcune condizioni siano date, in ammirazione e venerazione. Lo abbiamo veduto or ora negli esempi rammentati, ma già gli animali, le stelle, i metalli, i minerali, la luna, il sole, i fenomeni atmosferici — come lampi e tuoni — le acque correnti, le inondazioni, le eruzioni, se vengono ritenute come anormali e misteriose, si confondono col divino e sono capaci di destare quei sentimenti. Anche l’uomo spesso acquista un carattere misterioso e quindi degno di venerazione se è re, capo tribù, eroe, scopritore o inventore, quando cioè abbia carattere o agisca in modo estraordinario (4). Si comprende così come le tribù selvagge tanto gialle che nere, appena videro per la prima volta i bianchi, li presero per esseri superiori, capaci di cose estraordi-narie e perciò degni di venerazione.
Ma ancor più misteriosi sono coloro che non solo ànno apparenza estraordi-naria, ma agiscono e si comportano in maniera non comune. Costoro vengono anzi creduti di essere in rapporti con quelle altre potenze occulte, misteriose.
1) Cfr. Chevreul, 1870 .
Sur le livre d'agricolture d'Ibn-all-Awâm {Journal des savants.
2) Cfr. De Rîalle, Mythologie comparée.
3} Cfr. Goblet D’Alvi ella, nel suo libro su L'Idée de Dieu d’aprèe l'anthropologie et l’histoire.
(4) Cfr. J. G. Frazer, The Golden Bough; A. Lang, The making of religion.
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estraumane che si rivelano coi caratteri sopradescritti. Essi possono anzi servir di veicolo, secondo la logica primitiva, per annodare relazioni con quelle altre potenze che ànno influenza sui destini umani; essi devono essere gli intermediari fra l’uomo e quelle potenze, devono essere o maghi, o stregoni, o sacerdoti, od oracoli. Gli indigeni del Chili scelgono fra gli epilettici e i malati di malattie nervose i loro sacerdoti; e perciò gli sciamani della Mongolia, i jongleurs dell’india, i gangas dell’Africa e tutti gl’interpreti degli dei primitivi altro non sono che nevrotici. I fenomeni di catalessia, di estasi, di visioni e audizioni a distanza, di chiaroveggenza e di telepatia, sono ritenuti manifestazioni del mondo estranaturale (i). E Sono parecchi nelle tribù primitive gli uomini che vogliono dimostrare di vedere a grande distanza e di udire dentro di loro voci misteriose che li determinano ad agire in modo diverso del loro carattere. Vi sono altri che divengono come proicti e dicono di avere acquistato conoscenze che nessuno nello stato normale possiede. Vi sono insomma, fra i primitivi, uomini che pervengono a farsi credere in possesso di conoscenze e potenze che non si possono ottenere per via dei mezzi di cui l’uomo ordinariamente dispone. E come ognun vede, questi fatti così generalmente sparsi nelle primitive civiltà, queste credenze nell’anormalità di alcuni fenomeni dovevano contribuire ad alimentare l’interesse che l’uomo à di svelare il mistero ch’è in lui e intorno a lui; tanto più poi se si crede che questo mistero eserciti una grande influenza sul destino umano, e tanto più se questo mistero si manifesta in lui sotto la specie del dolore (2).
5Ora quando parliamo di venerazione verso esseri ritenuti capaci di atti estraordinari e misteriosi, quando parliamo della primitiva credenza che il misterioso à un’influenza sul destino umano, abbiamo già ammesso che nel primitivo è presente l’idea di causa e di effetto. Ed è vano negarlo, perchè la interpretazione dei fenomeni, il desiderio di conoscere l’ignoto e di spiegare il procedimento misterioso di tutto ciò che, pur essendo creduto di ordine estranaturale, si ritiene capace di secondare o di contrariare le umane aspettazioni, deve necessariamente condurre alla ricerca della causa. Quando parlavamo del dolore, quando parlavamo della curiosità, dell’esigenza di conoscere, quando parlavamo dell’idea del mistero e delle sue interpretazioni, sempre e dappertutto potevamo vedere che l’interesse umano, sin dall’origine della civiltà, converge alla ricerca della causa.
Se mancassero altri argomenti contro coloro che ànno negato idee di causalità ai primitivi, dovrebbe bastare la testimonianza dei molteplici strumenti, che troviamo sin dall'epoca degli scheletri preistorici. Semplici, rozzi strumenti, ma che
(1) Recentemente alcuni studiosi, come Brinton e Lang, colpiti da questi fatti, li anno voluti riconoscere, e più decisamente quest’ultimo, fra le cause che condussero a religione le civiltà primitive.
(2) Cfr. J. G. Frazer, The golden Bough; A. Lang, The miking of religion.
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pur servono bene, per chi à bisogno di prove visibili, a dimostrare nei primitivi idee di causalità ben definite; e precisamente nello scopo pel quale sono stati fatti, e che l'uomo per loro mezzo può raggiungere. Essi attestano chiaramente che il primitivo era un rude lavoratore, che non si teneva di fronte alla natura iimens ac tremens, o indifferente, ma cercava invece di conoscerla e di dominarla.
E così doveva essere la vita primitiva, se vogliamo intendere l’origine dei suoi successivi sviluppi; perchè dall’odio e dalla paura del dolore, dalla insensibilità e dalla rassegnazione non è più possibile di ricavare l’uomo moderno. Seguire col pensiero lo sviluppo e il perfezionamento della vita psichica non significa assistere all’improvviso apparire, in un certo punto dello spazio e in un certo momento del tempo, di alcune attività che prima non erano, ma significa invece osservare un graduale sviluppo e perfezionamento di queste attività, una graduale eliminazione di errori, una maggiore visione e un più retto sentimento di amore e di odio, non deviato da motivi inferiori.
Se l’uomo non avesse condotto il suo pensiero a classificare le conoscenze, non avrebbe potuto ordinare più mezzi al medesimo scopo; se non avesse potuto tenere nella memoria i mezzi da lui scoperti, astraendo, procedendo per analogia e generalizzando, egli avrebbe dovuto soccombere alle intemperie, avrebbe dovuto cadére vittima della sua incapacità; poiché è inconfutabile che chi non cerca di conoscere almeno le cause dei mali che lo minacciano, non può prevederle ed evitarle, e chi non sa procurarsi strumenti opportuni e mezzi adatti, non può dominarle.
Ma non solo la confezione degli strumenti e la maniera di utilizzarli mostrano chiaramente che gli uomini preistorici conoscevano le relazioni che passano tra mezzo e scopo, tra causa ed effetto; non solo l’applicazione degli stessi strumenti mostra ragionamenti analogici e generalizzazioni, ma anche le stesse superstizioni di cui si conservano testimonianze preistoriche e quelle altre che sopravvivono presso le popolazioni primitive, possono dimostrare la presenza di astrazione, di ragionamenti analogici, di generalizzazioni e di idee di causalità.
Nel mistero che lo circonda, spinto dalla sua curiosità, nelle strette del dolore, spinto dal desiderio di liberazione, tenta il primitivo di esercitare la sua potenza in aiuto e in opposizione di quelle potenze estranaturali delle quali l’esperienza gli à insegnato che possono favorirlo o minacciarlo. E come egli inventa strumenti manuali per strappare al mondo materiale ciò che le sue sole mani non possono fornirgli, così costruisce un sistema di conoscenza e di regole, che crede capace di svelare il mistero e di insegnargli quindi il mezzo di opporsi alle forze occulte e malefiche con altre forze della medesima natura o di secondarle.
Pertanto occorre conoscere la causa che impedisce la realizzazione delle aspettazioni, l’appagamento dei desideri; la causa che conturba il processo ordinario degli eventi, che tormenta con paure e dolori, che. distrugge i beni e la vita; sicché la più grande attenzione è rivolta al male, per dominarlo e vincerlo, al male che appare come un’eccezione. Gli uomini, preoccupati sopratutto di appagare i loro desideri, non attendono contrarietà su la via che li conduce allo scopo prefisso, anzi ne eliminano spesso col pensiero ogni possibilità. Nessuno generalmente ama di prevedere contrarietà, ma quando queste sorgono, per il loro imprevisto apparire,
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acquistano il carattere di eccezione. Il contrasto che nasce fra le attese piacevoli e il male sopraggiunto, è evidente quando si pensa che il bene non è affatto in contrasto con i desideri, ma anzi con essi in armonia; e quindi, mentre questo passa spesso inosservato, nel corso della vita, il male invece colpisce l’attenzione, si ferma nella memoria, stimola la curiosità, l’interesse di liberarsene o di dominarlo, e quindi di conoscerne la causa, la natura e i limiti suoi. E così questa attività spirituale, che sembra, a prima vista, mossa da un semplice interesse pratico, è invece anche Spesso associata a un interesse noetico, quando questo non agisca da solo.
Noi abbiamo or ora accennato alle credenze che provengono da antichissime tradizioni^ abbiamo accennato ai miti circa l'origine del mondo e dell'uomo, ma ora dobbiamo aggiungere che la credenza negli esseri supremi, contenuta dalle religioni primitive mostra, ancor più chiaramente, l’esigenza delle primitive civiltà circa la conoscenza della causa (i). Quest’essere, che rimane poi, a volte, indifferente, o addormentato, o troppo lontano, o troppo felice, per occuparsi degli uomini e delle cose che à fatto, è tuttavia innegabilmente un prodotto della ricerca della causa per semplice interesse noetico; tanto più questo si vede, quanto meno sono dedicati a lui culti, quanto meno gli sono ascritte qualità o difetti che possano tradire altri motivi, che ne abbiano determinata la credenza (2). Non è possibile dimostrare che uno scopo pratico sia presente nella concezione dei miti, come ò detto avanti, e non appare in quegli altri tentativi di teogonie e cosmogonie che le primitive culture ci presentano, e nemmeno nella concezione degli esseri supremi, perchè evidentemente questi prodotti intellettuali non si propongono uno scopo pratico. Essi sono invece soltanto semplici, ingenue spiegazioni dell’origine delle cose. Essi non tradiscono un turbamento dell’attività pratica, anche quando si tratta di dare la spiegazione dell’origine della malattia, della morte e in generale di tutti i mali. Questi prodotti intellettuali della cultura primitiva tradiscono invece soltanto la curiosità che tenta di spiegare il mistero e di rendersi conto dell’origine di tutte quelle cose che attirano di più l’attenzione.
Lo psicologo non può confondere la domanda che si fa intorno all’origine del male per sapere donde venga, con l’altra che si fa per scoprirne i rimedi. Sono due questioni ben distinte, ma che pure si trovano spesso insieme nei pratici risultati. Nondimeno ognuno è al caso di vedere che se il primitivo fosse stato veramente incapace di idee di causalità, come voleva J. M. Guyau, se fosse stato incapace di generalizzare, come credeva H. Spencer, o se fosse stato abbandonato alla paura, o alla stupida meraviglia, come pretendeva R. R. Marett, se fosse vissute insomma stupidamente inattivo, egli non solo non avrebbe prodotto i primi strumenti della civiltà, ma non avrebbe avuto alcun interesse di rendersi conto del mondo in cui viveva, di conoscerne le cause e di assumere particolari atteggiamenti rispetto al male. Noi vediamo invece che la ricerca della causa del
(1) Cfr. specialmente gl'interessati capitoli IX, X, XI, XII e XIII dell’opera: The mah ing of reltgion dì A. Lang.
(2) Cfr. G. Schmidt, L'origine de Videe de Dieu.
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male diviene il polo verso cui più decisamente si rivolge l’interesse del primitivo; interesse che è noetico e pratico insieme, perchè il possesso dell’ignoto, come tale, è scopo a se stesso, ma è anche mezzo a un fine. E tutte le volte che l'indagine oltrepassa i limiti della semplice curiosità, tutte le volte che dal possesso dell’ignoto, dal mistero svelato, se ne attende un pratico vantaggio, essa diviene pràtica.
Certamente la sola ricerca della causa non è bastevole a porre il problema del male, come non è bastevole a far nascere religione. Il sentimento del dolore, la curiosità, l’idea del mistero devono essere con questa associate; mentre l’interesse pratico, da solo, non spiega, e nemmeno da solo l’interesse noetico, i prodotti molteplici del progresso umano, l’origine delle religioni e dei loro problemi. Noi invece vediamo una intima collaborazione delle diverse psichiche attività nella religione primitiva e quindi nelle fonti del problema del male, laddove il sentimento del dolore, la curiosità, l'idea del mistero, la ricerca della causa, insieme, tradiscono un interesse noetico e un interesse pratico. L’indagine fatta per sola esigenza conoscitiva non trova in sè motivo all'azione, e si esaurisce in se stessa, e senza raggiungere quei fini che del resto non si propone. L'indagine fatta per uno scopo pratico non raggiunge, dal canto suo, quelle altre finalità cui essa non aspira. E quindi se queste esigenze avessero agito isolatamente, non avrebbero dato nè le religioni della comunità, nè i problemi che in esse appaiono risoluti. Affinchè questi sorgano insieme e si mantengano indissolubilmente uniti, diversi motivi devono collaborare, come abbiamo brevemente esaminato; e affinchè essi si costituiscano insieme, e insieme ulteriormente si sviluppino, come ora vedremo, diversi elementi devono concorrere.
Mario Puclisi.
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Dalia recente lettera dì un nostro lettore:
«... Fin"ora il problema religioso mi aveva interessalo più che altro intellettualmente; ai al bisogno intellettuale si è aggiunto quello morale. Ne è provenuto uno stato d’animo iroso ed incerto, attraverso al quale io credo stiano passando molli giovani, che fi-n'ora non ebbero fede determinala, ma che pure ne sentirono l’intima esigenza e che oggi sono posti dinanzi a questo problema con maggiore insistenza dal grande fatto della guerra. Aggiunga che molti sentono la stanchezza dell'immanentismo idealista e stanno adagio adagio rivolgendosi verso la trascendenza con animo desideroso di pace... ».
Questo stalo di coscienza — con le sue incertezze e le sue oscurità — è ritratto nell’articolo seguente, che trova pronta e lieta ospitalità Bilychnis, che ha finora liberamente pubblicato documenti di coscienze religiose in formazione. [Red.]
ccorre soffrire per credere. « Non vi sono che le persone malsane — scriveva il nevropatico Maine de Biran — che sentono d’esistere; coloro che stanno bene in salute pensano piuttosto a godersi la vita che a ricercare che cosa essa sia ».
Pure abbiamo provato qualche volta il bisogno prepotente della sanità gagliarda, della vita muscolare, della gioia di sentirsi materia calda di sangue, organismo perfetto e pulsante. Ritornare a vivere collo stomaco e coi polmoni, ces
sare d’essere anima,' che si contempla e si rimprovera! Siamo andati in cerca di salute, incontro all’aria e alla terra, nelle giornate invernali di sole ghiaccio e paonazzo, che sanno di cipresseta e di abetine gocciolanti, che fanno arricciare la mota dura e ghiacciata delle vie provinciali ed investono col vento salubre, venuto giù dal Pratomagno e da Monte Senario, colli rabbrividiti ed uomini ringiovaniti al contatto robusto. Oppure inerti, assopiti nell’arsura di una pineta marina, nell’ansia di un meriggio immobile, fra il ronzìo dei gorgoglioni e dei tafani attorno alle ginesre, fra il clamore di cicale, abbiamo sentito il ritmo della nostra vita organica accordarsi e confondersi con quello degli insetti e delle piante avvampate dal sole.
Falso equilibrio, cercato fuori di noi; effimera illusione dei malati di libri, che credono alla bontà della vita naturale e contadina; pregiudizi di medici, che pretendono coltivare gli uomini come le piante.
Ci accorgiamo ben presto che la quiete vegetativa, raggiunta per poco, affratellandoci colla natura, ha solo l’efficacia passeggierà di un diversivo, offerto alla notra inquietudine. In quella quiete cova la poesia e questa zampilla su dal nostro nemico interiore, che riflette le sue eterne esigenze in ciò che credevamo istintivo, bruto, immediato. Non ci possiamo far materia, quando siamo stati spirito. Rincorriamo sempre noi stessi in tutto. L’interesse più profondo, l’amore più appassionato, la curiosità più complicata, il problema più ansioso, è sempre quello imposto dalla stessa nostra coscienza d’esistere. Essa, ponendoci di fronte al mondo, esige una spiegazione, una risposta, una soluzione, che non possiamo evitare, che è necessario affrontare.
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L’amore stesso per la natura è una ricerca del valore della nostra personalità, corrisponde al bisogno di colorire in qualche modo la nostra vita. Negli entusiasmi per la campagna, per il bosco, per il mare tempestoso, di cui è pieno il Journal di Maurice de Guérin, sentiamo meglio l’inquietudine religiosa di quest’amico di Lamennais che se ci avesse narrato in pagine dottrinali le sue speculazioni. Le autobiografie non hanno valore, se non sono la storia, sia pure non completamente consapevole, di questa ricerca del senso della vita. Esse sono tanto più umane, quanto più sono pervase dall’ansia di rispondere in qualche modo all’eterna ed enorme domanda. I diari e gli epistolari, che ci rivelano gli ondeggiamenti delle anime desiderose di comprendere e di assorbire il mondo in sè stesse, hanno pesso maggiore eloquenza di un complicato lavorìo concettuale.
Anche quando ci diminuiamo fino a considerarci organismi abbandonati al caso, che sentono più largamente la vita a seconda della più perfetta e normale loro funzionalità, anche allora, di fronte alla stessa limitatezza fisica, il senso dell'infinito non scompare. Siamo uomini per questo. Il pessimismo, 0 che sfoci nella religiosità per un prepotente bisogno d'illuminare una vita miserabile o che si risolva in una rassegnazione diffidente, scaturisce da un profondo desiderio di trascenderci. I pessimisti alle volte sono tali, perchè hanno un’oscura coscienza di una vita più alta di quella che è comunemente vissuta.
È inutile fingerci uomini fisici, amare la fatica brutale, desiderare di sentirci più saldamente piantati sulla terra, vivere gioiosamente le nostre primavere. La serenità greca, il tripudio panico, dopo avere alimentato le fonti della poesia decadente, suonano ora come luoghi comuni. Siamo troppo moderni. Anche coloro, che tentano la scalata del mistero attraverso alla speculazione, sembrano darci la prova che è impossibile rispondere con sicurezza alla più modesta domanda della nostra coscienza. Siamo fatti di critica e di dubbio; ma non possiamo rinunciare a capirci e ad afferrare il valore di noi e di tutto ciò che vive e muore con noi. Questa è l'eterna contradizione. La vita attiva, la pienezza fisica è temporanea e fittizia rinunzia alla soluzione di un problema, che ci urge e ci stringe dappresso. Il fare è il modo migliore per toglierci dall’irrequietezza del pensare.
Se usciamo dalla pineta, dove, nella solitudine, abbiamo partecipato alla gioia inconscia di migliaia di vite effimere, dischiusesi ad un tratto nel caldo del meriggio. l’ombra del crepuscolo dà al bosco un'apparenza di tempio. Dietro di noi si chiude la massa oscura delle piante; dinanzi il grigiore del mare annega le ultime traccie sanguigne del sole scomparso. Colla malinconia il nostro io riprende i suoi diritti. Sentiamo di essere più dentro al mondo, di soffrire con maggior profondità della scontentezza di ogni esistenza limitata messa al contatto coll’eterno. Per questo noi moderni ci sentiamo vicini a certe espressioni dell’arte del Medio Evo cristiano. Esse ci dicono la perplessità umana di fronte al dolore. Le Chiese di questa Toscana, precocemente moderna, sembrano a chi soffre, essere sorte su dal dolore per tentare di confortare e di spiegarlo in qualche modo alle folle desiderose di pace.
Quell’atteggiamento di fronte al mistero si è poco modificato. La sofferenza senza uno scopo ci sembra mostruosa ed assurda. La stessa forza, che anima e guida gli esseri viventi e che la scienza inutilmente cerca spiegare con leggi meccaniche e con i poteri di combinazioni chimiche, segue un’ignota logica. Il pensiero
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crìtico, che spiritualizza la..materia e riduce il determinismo, ci conduce verso il mistero. Così la nostra attività conoscitiva sembra affaticarsi sui margini di un’immensa e complessa realtà e la nostra tragedia consiste nello sforzo continuo di abbracciare la logica e la morale del mondo, mentre ne siamo infinitesimi strumenti.
Nei tentativi di superare l’immediato, di « ficcar lo viso » a fondo nelle cose, di saziare la sete di universale (si compino questi tentativi o con l'arte o con la scienza 0 con la filosofia) ritroviamo il travagliato spirito moderno nel suo atteggiamento più sincero. Ed è inutile che l'affaccendata vita moderna dissimuli sè stessa col lavoro e con la guerra, con la lotta sociale e con la Concorrenza economica, il problema immane e la crisi che ha dentro di sè. Essa serve a «divertirci » nel senso di Pascal. Per legittimare questa dedizione di noi stessi all’attività esteriore ed all'utile, abbiamo creato una specie di religione della civiltà. L’uomo ha contemplato con compiacenza l’opera sua e nella contemplazione e nell’esaltamento del suo potere si è acquetato. È bene che sia così. Se non avessimo l’illusione che noi facciamo il mondo e che lo possiamo ridurre a noi stessi, se non avessimo fede che lo spirito nostro estrae continuamente dal suo seno il vero, il senso della nostra miseria — che sta al fondo di ogni religiosità — sarebbe ancor più sconsolato e la nostra speculazione ci apparirebbe un tragico e puerile duello con l’ignoto.
Per ciò abbiamo bisogno di colorire, di riempire e valorizzare in qualche modo la vita. Ma vivono veramente solo coloro, che della tragicità di quel duello hanno piena coscienza. Comprendono veramente la montagna quelli che al suo contatto alimentano la loro più intima vita spirituale e che si sono rivelati a sè stessi in mezzo al tinnire dei campanacci delle mandrie su un’alpe. Non coloro che vi vegetano.
Bisogna pure calmare la malinconia di quell’io, che resta insoddisfatto di tutto ciò che si accende e si spegne, si presenta e si dilegua. Quest’io, che resta estraneo alle nostre faccende, ha desideri smisurati, per i quali occorrerebbero molte vite. Noi 10 illudiamo moltiplicandoci ed espandendoci.
Se resistenza è infatti una breve e limitata esperienza, se il pensiero c'illumina attorno un ristretto spazio e ci muoviamc per spostarci gradatamente verso la morte, vale la pena d'intensificare almeno il nostro ritmo di vita. Tutti cerchiamo questa salvezza. La cerchiamo nei contatti più svariati di anime, nei rapporti più larghi d'intelligenza, nelle dedizioni all'amore, nell'impaziente bisogno di fissare e incarnare noi stessi nelle opere di ogni giorno. C’è, in tutto questo, l'ansia e la fretta di chi sta per scomparire e teme il rincrescimento supremo di non aver tradotto in realtà il suo valore. C’è l'esigenza moderna di trovare nell'immensa fatica umana quel barlume di assoluto, che la religione rivelata non può più dare a molti. C’è ancora il bisogno di approfondire le apparenze della vita esteriore, le forme della vita pratica, per metterci in contatto coll’ignota energia, che anima tutto l’universo. Queste generazioni stanche ed inquiete si riflettono, per ciò, fedelmente nella filosofia di Bergson.
Quando invece lo sforzo di arricchimento continuo di noi stessi, di nutrizione intellettuale e di raffinatezza affettiva abortisce o non sazia, tutte le cose, a cui ci eravamo avvicinati con desiderio religioso, s’immiseriscono, perdono la loro
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individualità, si confondono e si schierano sul medesimo piano. Sorge allora il saltimbanco del proprio spirito, che sta tra la fede e l’ironia, fra il sublime e la volgarità. Giovanni Papini ce ne ha rappresentata magistralmente l'intima tragedia. Il filosofo allora sembra un innocuo ed ozioso alchimista.
Chi invece non è capace di irridere al mondo e di restar digiuno di fedi, riprende' la via che mena a Dio colla malinconia del pittore cristano, che nelle cattedrali gotiche esprimeva nei volti di madonne il senso del mistero del dolore.
La coscienza religiosa dèlia vita non può risorgere oggi che dopo avere svalutato la nostra civiltà materialista. La guerra sembra costringerci a questo esame e a questa critica.
Finora nella stòria non abbiamo ravvisato che una cieca dialettica d’interessi ed abbiamo concepito questi come superiori necessità. Le esperienze spirituali sono apparse la retorica della storia; il superfluo del suo realistico sviluppo. Il mondo della coscienza è stato così considerato come un derivato, non come un generatore. La politica è parsa l’attività principe: nazionalismo e socialismo sono sorti dall’affezione sempre più profonda degli uomini per gl’interessi materiali del proprio aggregato.
Di vita interiore hanno parlato solo i filosofi di professione. Mai come oggi abbiamo sentito che i santi e i pensatori sono solitari punti luminosi, ai quali ha fatto capo, e dove è affiorata la sotterranea vita spirituale, mentre tutto intorno gli uomini erano chinati sull’opera loro e a mala pena li riguardavano. Eppure i grandi geni sono stati tali, perchè sommi scavatori di anime e penetranti investigatori dell’enigma della vita, e i grandi fatti umani sono stati quelli, che hanno spostato l’atteggiamento delle coscienze. Solo per una raffinata curiosità torniamo oggi a S. Paolo e a S. Ignazio, a Pascal e a Mickiewicz; ma la nostra moralità attiva è rimasta sempre la stessa.
Se invece c’immergiamo in queste profondità, e ci valutiamo con animo.disinteressato, sorge chiara la coscienza della nostra infanzia spirituale. Di vita interiore parliamo continuamente; oggi più di prima, di fronte alla guerra, che costringe forti e deboli a guardare entro di sè. Ma, nonostante questo, in tutti resta ferma la convinzione che la natura è come il tipo della realtà più certa; che lo spirito è un resultato, non un’energia; che tutto dipende da un determinismo, di cui ogni giorno noi veniamo meglio scuoprendo il complicato ingranaggio. L’uomo avrebbe vinto il mistero: le Chiese presterebbero una concezione di vita ed una norma etica a coloro che sono incapaci di formarsele nella piena indipendenza e sovranità del proprio spirito.
Siamo ancora perciò nell’infanzia. Siamo bambini, che si figurano di essere padroni del mondo. La nostra sicurezza è una grande ingenuità. Come crediamo di poter cogliere le cause delle guerre, studiando l’economia e la psicologia dei popoli, che hanno rotto la tregua di Dio, così stimiamo di conoscere la natura e gli uomini, pur restando ignari della legge direttrice che è immanente alla vita.
Non sapendo insignorirci del determinismo, dal quale veniamo continua-mente fatti, lo idealizziamo tanto da fingerci che il viverci dentro sia il modo migliore per affermare noi stessi.
Agire, quindi, realizzare, sentirsi nell’azione come pianta in terreno ricco
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di sali, che le sue radici ricercano. Così giungiamo a dar valore al nostro fare, subordinandolo al concetto di una proficua collaborazione al mondo in ragione della quale ciascuno vive e vale. Le necessità a cui ci pieghiamo sono quelle della natura e della storia: tanto basta per accettarle non come forze menomanti la nostra autonomia, ma come dirigenti la nostra volontà. Così abbiamo perso il concetto di libertà spirituale. Per comprendere quanto ce ne siamo allontanati occorre che il mondo stesso, di cui ci siamo appagati, ci ponga brutalmente la domanda: «Il tanto faticar che giova?» e che ci si sorprenda con ribrezzo, al pari dei nostri simili, intenti a rotolare ogni giorno piccoli interessi e sentimenti meschini, come fanno i calabroni colle pallottole di sterco.
Allora si comprende che cosa sia la libertà.
Noi popoli d’occidente siamo troppo vecchi per rifarci la vita. Non siamo pili capaci di una simile fede. Le esperienze lunghe, difficili e svariate ci hanno fatto secco il cuore. L’intellettualismo, invece di mutare sostanzialmente il nostro modo di vivere, ci ha trasportato in un freddo e mutevole mondo artificiale, dove cessa ogni certezza e dove tutto ha un senso relativo e di convenzione. Per ciò gli uomini, che in Toscana sperarono un risorgimento non soltanto politico, ma anche morale delle nostre popolazioni, consapevoli di questo potere corrosivo della ragione, osservavano che chi tenta di convincersi speculativamente « non è ancora in quello stato d'animo, che lo spinge a cercare una quiete, che è a! di fuori delle cose umane» (1).
Ritorniamo alla campagna come ammalati di libri, coll’illusione della vita contadinesca. Siamo più curiosi che disposti a credere. Per ciò ci sembra soltanto strano il libro di Vincenzo Lutoslawski (2), che, pieno del vergine e schietto messianismo polacco, ci dice come attraverso all'educazione della volontà lo spirito riprenda la direzione della vita e si senta padrone e creatore. Questo ci viene dall’oriente slavo. Ma da noi oggi la guerra ci pone nella condizione di spirito, che ricorda quella di uno dei personaggi del romanzo di Leone Tolstoi: La guerre et la j>aix.
La battaglia di Austerlitz è già perduta, perduta per ragioni futili, per banali contingenze. Il principe Andrea Bolkonsky, caduto ferito sul campo, ha il tempo, prima di essere raccolto, di guardare l’infinità del cielo, e mentre la fucileria tace, lo spettacolo della battaglia lo costringe a meditare «l’insignifiance de la grandeur, l’insignifiance de la vie, dont personne ne comprenait le but, l’insignifiance encore plus grand de la mort, dont le sens restait caché et impénétrable aux vivants ». E gli affiorano alla mente domande ed idee, che fino allora gli erano appena balenate: «Ou cette force incommensurable, incompréhensible, à la quelle je ne puis ni m’adresser, ni esprimer ce que je sens, est le grand Tout, ou bien c’est le néant, ou bien c’est ce Dieu qui est renfermé ici dans cette image de Marie! Rien, rien n’est certain, si non le peu de valeur de ce qui est à la portée de mon intelligence et la majesté de cet inconnu insondable, le seul réel peut-être et le seul grand ». Antonio Anzilotti.
(1) Cfr. La Critica di B. Croce, a. XIV, fase. III. La cultura toscana di G. Gentile, p. zio.
(2) V. Lutoslawski, Volonté et liberté. Genève, 1912.
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di Gaetano Salvemini u’
Questo libro è del 1915, quindi non più una novità; eppure desta ancora l'interesse d’una novità. L’ho sentito ammirare, discutere animatamente, appassionatamente, fin poche ore fa, poche ore prima che io stendessi queste prime parole della mia ritardataria recensione. La ragione non è soltanto che il libro è fatto bene, pieno di cose e d’idee; non è soltanto che porta l’impronta d’ogni lavoro del Salvemini, competenza, vigore, limpidezza; la ragione, almeno principale, è qui, che il Salvemini, il quale è egli stesso una personalità, nel libro si trova a contrasto con quella atletica del Mazzini. Il contrasto, oltre il soggetto, desta un suo interesse speciale e appassionante. Se il Salvemini sapesse meno dominarsi e fosse meno galantuomo, ne seguirebbe un disastro; il soggetto ne verrebbe fuori sacrificato. Data invece l’indole dello scrittore, il Mazzini balza dalle animate, commosse pagine del piccolo libro, più vivo, più palpitante di vita che mai. Il Salvemini ha voluto tuttavia compiere per riuscire oggettivo dei veri e grandi sforzi, specialmente nella prima parte del libro, la quale è tutta contessuta di frasi, periodi, brani, tratti testualmente dalle Opere del Mazzini, appena qua e là saldati insieme con poche parole dal Salvemini.
La fatica dovuta affrontare e sostenere per raccogliere questa specie di antologia organica delle espressioni originali del Mazzini da cui risultasse compiutamente il suo pensiero, non la può intendere se non chi è pratico di lavori consimili. E tuttavia, se ho da aprire tutto il mio pensiero, dirò che il metodo non mi pare il migliore.
(x) Editore Battiate, Catania. - Prezzo L. 2,50.
Io ho presenti altre fatiche analoghe a a questa del Salvemini; per es. quella del Bindi, che al suo commento di Orazio premise la Vita di Orazio composta precisa-mente di testuali cenni oraziani.
Ma la vita d’Orazio è facile— relativamente facile — lavorarla a musaico di cenni oraziani: è cosa leggera e di carattere esteriore, molto esteriore. Questa prima parte del lavoro di G. Salvemini riassume invece il pensiero di G. Mazzini; e il pensiero di G. Mazzini è poderoso (anche ponderoso) e interiore; è possibile riassumerlo intero con quel metodo? Il riassunto è tracciato da maestro in quindici paragrafi che abbracciano tutto il sistema mazziniano: le « basi di credenza»; l'educazione progressiva del genere umano; la rivelazione continua, le varie fasi religiose; la nuova politica, quindi le successive e progredienti forme di umana associazione; le missioni delle varie nazioni, le quali, disgregate e circoscritte da principio, a mano a mano dimostrano l’unico disegno provvidenziale per cui si riesce alla universalità e alla internazionalità di tutto il genere umano, riunito in una sola immensa famiglia. Non c’è che dire, le linee fondamentali e direttive del sistema del Mazzini ci son tutte. Che ci voleva? Lumeggiarle, colorirle, farne sentire il nesso e il valore. Ma per questo era forse meglio lasciar stare le frasi del Mazzini, e tener conto soltanto dell'essenziale. Le frasi, in una congerie così enorme di scritti mazziniani, i più stesi sotto la pressione del momento, fra l’irrompere delle più diverse e opposte passioni, fra circostanze e in condizioni sociali cozzanti fra loro, più nell’impeto rovente dell’intuizione che nel freddo riposo della4 riflessione, dovendo, sentendo di dovere, ora riaffermare l’inviolabilità
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e la compattezza dei principi, ora, e più spesso, fronteggiare la dura in flessi bile realtà, secondare correnti, girare ostacoli, piegarsi, adattarsi, transigere, accettare i fatti — che sono così spesso come i fata che trahunt anche i piu rigidi, quando dal campo della speculazione scendono in quello dell’azione — per non riuscire utopista, per non compromettere per sempre l’efficacia stessa dei principi, le frasi, dico, del Mazzini, per quanto scelte con larga avvedutezza da tutti i suoi scritti, mal si prestano alla sintesi voluta comporre dal Salvemini, più ci distraggono nei particolari che non ci servano a darci un’idea vigorosa e lampeggiante del tutto. Certo, il metodo adottato qui dal Salvemini reca all’esattezza, ma è simile all’esattezza del fotografo rimpetto a quella del paesista o del ritrattista eccellente, che coglie a volo la sagoma, il carattere, l’anima di ciò che ritrae, magari trascurando i particolari, che sono per l’appunto le frasi del paesaggio e della persona.
Per me, dunque, ammiro la diligenza, la solerzia sottile del Salvemini nella prima parte della sua opera, ma preferisco la seconda, dove parla dell’JHomi del Mazzini, tralasciando un poco la faticosa documentazione ma entrando più risolutamente a ritrar l’uomo in sè, in quel che volle, in quel che ottenne, in quel che non ottenne e in cui falli, con giudizio autonomo, con parola autonoma. E aggiungerò un’altra cosa: amo di più questa seconda parte, e come me la troveranno di preferenza interessante i molti che leggeranno — se già non l’hanno letto — il libro del Salvemini, perchè l’espressione delle due personalità, quella dell’autore e quella del Mazzini, è in essa più rilevata che mai, senza tuttavia, che, come osservavo in principio, l’una tradisca l’altra, anzi facendola meglio risaltare per contrasto. Contrasto profondissimo e perciò drammatico per eccellenza. Credo che difficilmente il Mazzini si sia trovato ad esser ritratto da uno scrittore d’indole più opposta alla sua. Il Salvemini cauto e quadrato, il Mazzini sognatore e poeta; il Salvemini storico esatto di ciò che è e di ciò che fu, il Mazzini impenitente riveur, direbbero i Francesi, di ciò che sarà e di ciò che dovrebb’essere e forse non sarà, perchè non potrà esser mai; il Salvemini avveduto per indole, reso più avveduto dalle dure esperienze della sua vita, il Mazzini
£er indole fiducioso, reso più fiducioso, no all’ingenuità più adorabile, dai contatti disperanti con gli uomini e con le cose; il Salvemini un chiarore diffuso, il Mazzini una fiamma corrusca struggen-tesi nella solitudine oscura; il Salvemini un positivo, il Mazzini un mistico; il Salvemini un fattivo, il Mazzini un asceta.
Volete un saggio della straordinaria facoltà storica del Salvemini? Leggete i capitoli IV e V di questa seconda parte: Unità e Repubblica nell’azione mazziniana e Mazzini c gli altri repubblicani; ma volete un saggio della divergenza irreconciliabile fra il Salvemini e il Mazzini? Leggete il capitolo II, che pure, riguardato in sè, è un capolavoro: Insuccesso della predicazione religiosa mazziniana. Sfugge al Salvemini il fondo di tale predicazione, e il successo è misurato dagli effetti immediati. Al Salvemini non si affaccia che per essere esclusa questa idea: le predicazioni efficaci sono quelle di alcuni avventurieri d’avanguardia, che vengono generalmente seguiti dal grave e vasto esercito degli uomini normali a distanza quasi sempre di secoli. La loro efficacia consiste nello scoprire ciò che si agita e fermenta nel fondo della coscienza umana c nell’eccitare intanto la simpatia di pochi e l’antipatia di moltissimi, oggetto d’alta invidia, direbbe il Manzoni, e d’indomato amor. I! capitolo finisce con questa osservazione che ai più parrà certamente la realtà divenuta ironia; a pochi un’ironia che tien luogo di realtà: « Dopo tutto, la Santa Alleanza dei popoli del Mazzini non era costituita — per quanto l’affermazione possa apparire a prima vista paradossale — con metodo mollo diverso dalla Santa Alleanza dei Re del Principe di Melternich. Anche i Sovrani della Santa Alleanza credevano in Dio, nel progresso qual era ad essi definito dalla loro coscienza e dalla tradizione storica compilata per loro uso e consumo — e nella Umanità collettiva. Il proemio della Santa A llean-za non affermava forse la solidarietà dei popoli, l'unità della famiglia umana, l*obbligo che tutti hanno di attuare il regno di Dio sulla terra? Anche i Principi avevano una religione del dovere, del loro dovere, e penavano e si sacrificavano a governare i sudditi riottosi e ignari della legge morale universale, così come i Principi la concepivano sotto l’ispirazione della propria coscienza e alla luce della solita tradizione. A nche i Principi sentivano la necessità di uniformare l’opera loro nella sfera temporale ai dettami dell’au-
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torità spirituale sedente a Roma. Anche il Papa si reputava ispirato da Dio. E i Principi non firmavano forse i loro atti, comprese le condanne a morte, invocato l’aiuto divino? E l’oppressione del pensiero non era una deduzione logica della missione che i Principi si attribuivano di educare l’umanità c di condurla senza ostacoli sulle vie del bene? Bastava sostituire nel sistema della Santa Alleanza al Papato il Concilio dell’umanità, e ai re i popoli, e si otteneva bell’e formato il sistema del Mazzini: di mutato non vi era che il suffragio universale sostituito alla eredità nel campo politico e alla elezione ristretta nel campo religioso ». È facile osservare che da sostituire ci era parecchio altro secondo il disegno mazziniano: ad ogni modo, quando mai si è fatta la prova di queste piccole sostituzioni? In che misura? dove? Nella Repubblica monarchica e dittatoriale francese forse, che soffocò, o in cui aborti, la Comune? Ma delle sostituzioni avvenute qua o là si può vedere e tracciar la storia, e va bene; di quelle che nel pensiero del Mazzini dovranno costituire l’avvenire almeno d’Europa, no, e allora lo storico sorride.
Volete un altro saggio della sagacia di-scriminatrice mirabile del Salvemini ? Leggete i capitoli VII e Vili: « Mazzinianismo e Socialismo — le analogie — le opposizioni »; ma volete un altro saggio della inconciliabilità dello spirito dell’A. con quello del suo soggetto? Leggete tutto il cap. XV della prima parte. Fra le altre cose, vi si parla abbastanza diffusamente del momento forse più tragico della vita del Mazzini, quando nella solitudine in cui si sentì piombare improvviso (s’era verso la fine del 1836), gli si confuse ogni idea, le enormi responsabilità della sua propaganda rivoluzionaria gli si cambiarono in rimorsi, e fu per insanire sotto un peso incomportabile di sangue e di pianto fatto versare da lui al fascino della sua parola. Il Mazzini narra il modo con cui si liberò da quell’incubo .Un giorno si trovò con lo spirito così sereno, da poter riprendere da capo e riesaminare tutto il suo sistema, dalla nozione di Dio a quella del dovere; « giunto a quel punto giurò che nessuna cosa al mondo avrebbe potuto ornai farlo dubitare o sviare ». Ricordate come il Pascoli rico-, struisce questo momento nei suoi Poemi italici? Ma il Pascoli era un poeta e poteva perciò capire e rendere un altro poeta; il Salvemini crolla il capo, e non solo gli pare molto strano quello sbigottimento dell agi
tatore genovese, ma non gli sa concedere nemmeno la possibilità d’uscirne. Infatti gli rimprovera d’aver ravvisati di nuovo saldi e coerenti i punti del suo sistema « quando potè ormai riesaminare pacatamente sè stesso e le cose». È talmente incredibile pel Salvemini che un uomo, e massime del valore di G. Mazzini, sia agitato e confuso da un sinistro uragano di dubbi, talmente inverosimile e fuori del naturale che se ne lasci oscurare ogni lucida facoltà di raziocinio, che, secondo lui, il Mazzini avrebbe dovuto istituir l’esame tranquillizzante del suo sistema prima di sentire dentro di sè e del suo animo sedata la tempesta, e dissipato il tumulto e il buio. Ma se tempesta, tumulto e buio conseguente ci furono, era ben necessario che prima dessero giù, lasciando il luogo alla calma, per poter ragionare, come fece il Mazzini, rassicurandosi — credeva lui — per allora e Ìier sempre!... Il Salvemini crolla il capo e orse sorride.
E s’intende benissimo: il dubbio che sta nel fondo dell’animo, d’altronde così alto, retto e nobile, del Salvemini, è un dubbio freddo, calmissimo, raziocinante. Quell'altro dubbio, nato da fulminee intuizioni e da urti passionali, il S. non l’intende e forse non lo può intendere.
J1 sorriso, no, il mezzo sorriso, a cui hcr.accennato due volte, è diffuso in tutte le pagine del libro. Ora pensate: il libro ritrae il pensiero e l’azione di un uomo che non sorrise mai, che da vivo ebbe figura di cadavere in cui solo fiammeggino fondi gli occhi; e in figura è ancora spettrale; di un uomo che, non già prese tutto sul serio —- questo è di molti, e quasi volgare — ma fu preso egli tutto da pensieri, disegni, sistemi, passioni così ossessionanti e veementi da arderne e distruggersene, come per una sola immensa passione; di un uomo i figli della cui anima lo divorarono (zelus domus tuae comedit me, dice il vecchio salmo ed è la storia di tutti i grandi iniziatori)! Il contrasto è altamente drammatico, e non costituisce l’ultima attrattiva del libro.
Nel quale due cose mi hanno lasciato dissidente: la qualifica di uomo d’azione attribuita al Mazzini e l’atteggiamento di quasi totale indifferenza del Salvemini per i giudizi recati dal Mazzini circa il cristianesimo.
Tutti ripetono: il Mazzini fu uomo d’azione, e il Salvemini determina il concetto, scrivendo: « a lui il pensiero tanto valse in quanto gli si traduceva in azione ». Credo s’abbiano da invertire i termini: il Mazzini
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tanto fu trascinalo all’azione, quanta fu l’esigenza del suo pensiero.
L’uomo d’azione? Non l'andate a cercare lontano e in altri tempi, prendete Garibaldi. Le due parole, divenute scultorie a ritrarre i due uomini, Garibaldi e Mazzini: ora, sempre, valgono un’intera fsicología. Ora è il fatto, sempre è l’idea.
I Mazzini fu il cervello della rivoluzione, mai il braccio o la mano. E del cervello ebbe le audacie sproporzionate alla realtà e le assidue visioni, ad onta di ogni realtà, la forza incitativa e suggestiva, e la nessuna forza esecutiva. Così, e non soltanto dalle condizioni creategli dal lungo esilio, o da altro, si spiega la sua assenza quasi costante dal terreno su cui divampavano le battaglie e si suscitavano le insurrezioni prima covate nel suo animo in travaglio. Molto malcontento contro di lui, molte defezioni nel partito attivo che egli scagliava nella lotta, rimanendo nell’ombra ad aspettare che altri gli riferisse dell’esito, molti lamenti repressi mossigli, molte acri rampogne avventategli contro, di cui quella che gli venne da Milano dopo il vanissimo conato del 6 febbraio ’53 è soltanto la più conosciuta, hanno qui la loro cagione, trovano qui la loro spiegazione. Nessuno, o ben pochi, di quelli che egli mandava al martirio della carne furono capaci di escludere da lui una specie di viltà, da lui che di viltà fu così puro, perchè nessuno, o pochi, furono in grado di valutare il martirio ininterrotto dell’anima sua durante tutta la vita. Così doveva seguire. Quanti sono al mondo capaci di computare il martirio dell’idea? L’antichità, sempre plastica, ebbe bisogno à’incarnarlo in Prometeo a cui l’avvoltoio divino rodeva il fegato sanguinante. Mazzini fu un pensiero in martirio, e l’azione io crocifisse. L’uomo d’azione è la violenza rettilinea, l’uomo di pensiero è l’energia circolare. L’uomo d’azione non si ripensa; è Napoleone che allo spettacolo d'un campo di battaglia colmo di cadaveri, osserva quasi scherzando: una notte di Parigi ripara lietamente a tutta questa strage, l’uomo di pensiero si rivolge in sè, ed è preso dagli sgomenti di Mazzini nel ’36. Di questi ne sappiamo qualche cosa, ma chi li può supporre unici in tanti anni e fra tante vicende? Anche quando il Mazzini pare avveduto e pratico, quando, per esempio, ravvolge per il momento, la
sua bandiera repubblicana pur di vedere libera e unificata l’Italia, e si fa esortatore ardente e instancabile della guerra all’Austria, sotto le bandiere della Monarchia, egli rimane quel che fu, quello che solo potè essere: un’idea che si sacrifica perchè mira lontano, che si sacrifica, perchè è idea, che si immola con indicibile tortura, perchè è idea. Io non so chi possa leggere senza un brivido queste parole, scritte nell’ottobre del ’34: «■ Una provincia italiana insorga per un Napoleone italiano; ma dichiari guerra all’austriaco, dichiari la insurrezione italiana, dichiari che l’Italia ha da essere una sotto una sola corona, e io maledirò tutti nel cuore, e piangerò sulla iniziativa italiana perduta, sulla missione italiana svanita, ma morrò contro l’austriaco sotto il vessillo di quel Napoleone italiano ».
Maledirò tutti nel cuore... ma... È più tragico e terribile dell’Eppwr si muove, con cui un altro pensiero vivente si vendicava delle positive e brutali imposizioni della storia.
L’altra cosa che mal so perdonare al Salvemini (ma egli che sa quanto lo stimi perdonerà benissimo a me, e così capirà meglio di quel che dica a pag. 99, il dimitte nobis debita nostra), quantunque me lo spieghi in lui, è di non aver fatto rilevare quanto si doveva la quasi assoluta ignoranza del Mazzini circa il cristianesimo. Ignoranza teorica, perchè poi, còme in tanti e tanti altri, la condotta, salvo le manchevolezze, gli errori, le colpe inevitabili, e più della condotta i criteri di essa e i propositi, furono un cristianesimo pratico il quale si rivendicava da sè nel Mazzini vivente del Mazzini teorizzante c dottrinario. Era la ennesima riprova della magnifica definizione del Cristianesimo data da Paolo: « Tutto ciò che è vero, tutto ciò che è dritto, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è puro, tutto ciò che è amabile, tutto ciò che è lodevole, ogni virtù, ogni pregio ».
È vero che il Salvemini, in una noti-Cina a pag. 26, dice: « Nel pensiero del Mazzini non^appare nessuna distinzione nqtla fra cristianesimo e callolicismo », ma ¿'troppo poco;’bisognava almeno aggiungere: e nessuna idea netta nè del cattolicismo, nè del cristianesimo.
Del cristianesimo — per non parlar che di questo — che il Mazzini inquadrò nel suo sistema del progresso della umanità.
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dice e ripete: è dottrina individualistica, ultramondana, dei diritti non del dovere; perciò dottrina del passato, a cui si contrappone e si contrapporrà sempre più risolutamente la dottrina della religione e dell’umanità nuova e dell’avvenire, che è e sarà... tutt’il contrario.
Ma come, il cristianesimo individualista ! E il Pater noster e la umana fraternità che ne discende? e il Discorso dopo la Cena che si riassume in questo grido: Padre fa che siano consumati nell’unità? e l’assidua visione del Cristo deH'unico gregge sotto un solo pastore? Il Mazzini scriveva: » quando la parola — tutti gli « uomini d’una nazione sono fratelli — « avrà fatto dell’anima un santuario di « virtù e d’amore, avrete soltanto allora « una nazione » e sta bene; ma il Vangelo andò un momentino più in là, e la parola di cui fece santuario l'anima fu questa, semplice e piccolina: tutti gli uomini, di tutte le nazioni, sono fratelli fra loro. Certo il cristianesimo è individualista, avendo egli creato l’individuo, la coscienza, la personalità autonoma, responsabile, inviolabile, l’uomo; ma è sociale come nessun’altra dottrina, avendo stretti questi individui, queste coscienze, queste persone autonome, responsabili, inviolabili, chiuse, questi uomini, col vincolo più soave in pari tempo e tenace, la fraternità universale, avendone formato una sola famiglia, in diritto, s’intende, in dovere, in esigenza di natura, cose eterne a cui la storia, quisquilia di secoli, può dare le sue pili grosse smentite — puerile fatica — senza intaccarne neppure la buccia.
TI Cristianesimo ultramondano? Certo, è la dottrina dello spirito che si svincola dalla materia, e la doma e la vince; ma così è la dottrina àeWuomo — ultramon
dano è una parola — ma, e la parabola de’ talenti ?
Il Cristianesimo è la dottrina dei diritti e non del dovere: certo, dei diritti; non è sua, del Cristo, del mite Nazareno, del « biondo profeta » questa fiera parola: « I re delle genti le dominano; non così fra voi » (e non commento, perchè...)? ma è pure nel Vangelo questa sentenza: « Quando avrete eseguito tutto quello che vi è comandato, dite: Siamo servì dappoco; abbiamo fatto quello solo che era nostro dovere », e quest’altra: « c’è una sola carità, di cui non si dà la più grande: offrir la vita pei propri fratelli • e questa l’ha commentata Gesù.
Il Cristianesimo è dottrina del passalo'. Al Mazzini, intanto, sfuggi di certo il non veni solvere sed adimplere, che mostra nel Cristo la chiara coscienza della continuità del progresso fra le varie fasi storiche, coscienza del Cristo che illumina la dottrina di Paolo il quale metteva gl’inizi del cristianesimo all’alba stessa del mondo umano; e poi non capì, o non conobbe affatto, l’alta promessa: « Verrà lo spirito, e vi suggerirà ogni cosa » con cui il Cristianesimo, si protendeva fin da principio, divino insieme ed umano, fecondo senza limite, nella semplicità sua senza limite, a tutto l’avvenire.
Ma capisco. Il Salvemini, se avesse fatto così, avrebbe polemizzato, ed egli volle semplicemente dare il suo soggetto.
Ha avuto forse ragione: e io, accennando il polemizzare che avrei voluto, ho mostrato che sarei riuscito incapace a com? porre un libro come quello del Salvemini; al quale perciò rimando i lettori (e che siano moltissimi, se già sono stati molti); se ne troveranno contenti.
A. G.
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ARGOMENTAZIONE IN FAVORE DELLO STUDIO SCIENTIFICO DELL’ANIMA
Sommario: Il valore e la funzione dell'individuo - A torto s’è trascurato l’individuo -Non si è fin’ora studiato scientificamente tutto l’uomo - Un argomento che non ha valore - Una difficoltà apparente e una reale - Cosa valgono i • Manuali di Cura d’anime * - Utilità dei medesimi « Manuali » - L’estrema penuria di vere guide spirituali - La complessità dell’anima e il «triplice uomo» - La difficoltà maggiore della Scienza spirituale - La parte di Dio e la parte dell'uomo - Il grande pericolo - I limiti all’esercizio dell'azione umana - Che cosa bisogna fare - Critica della psicologia pietistica - Occorre rispettare l’anima umana - Conclusione.
Il valore e la funzione dell’individuo.
’anima umana, sana o malata, dev’essere argomento di studio e di ricerca scientifica quanto lo sono la salute e le malattie del corpo.
Da lungo tempo l’apologetica sostiene che la miglior prova a favore del Cristianesimo è costituita da una vita veramente cristiana. E, se l’argomento è vecchio, è sempre buono perchè non c’è nulla davvero che valga la potenza viva di vite vere. Un libero pensatore può leggere molto senza incontrare un
argomento che lo faccia rientrare nel più intimo della sua anima; ma nessuno può vivere a lungo, in qualsiasi classe della società, senza venire in contatto coll’influenza di un cristiano. Il potere dì una individualità, il valore del carattere, il rispetto suscitato da un’anima umana — sono queste le grandi realtà sia per le chiese, sia per gli eserciti, sia per le nazioni. I sociologi della nuova scuola possono negare queste realtà, ma rimane pur sempre vero, com’ebbe a dire lo Spencer, che « at traverso il passato della razza umana, le sole cose degne di ricordo sono state le azioni delle grandi personalità ».
Il passato, infatti, non ha conservato il ricordo di azioni di massa. Uomini, non masse, hanno fatto tutto ciò che è grande nella storia, nella scienza e nella religione. Il Nuovo Testamento stesso non è altro che una breve biografia, e parecchie pagine dell’Antico sono ripiene della vita ai singoli individui. Precisa-mente questa verità noi abbiamo bisogno d’imparare di nuovo oggi: che occorre lavorare prendendo di mira i singoli. Ogni atomo dell’universo può agire sopra qualsiasi altro atomo, ma soltanto per mezzo dell’atomo a iui vicino. E se un uomo desidera agire sopra qualsiasi altro uomo, il mezzo migliore è per lui di agire
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sopra coloro che gli sono vicini, presi uno ad uno. Il vero campo d'azione del lavoratore è un’unità. Dev’essere riconosciuta la gloria e la dignità personale dell’unità considerata come forza operante; occorre lavorare con delle unità, ma sopra tutto lavorare mirando alle unità.
A torto s’è trascurato l’individuo.
Il saper agire sopra gl’individui è ora un’arte quasi dimenticata. È difficile d’impararla di nuovo. Noi ci siamo impoveriti pensando di attrarre la gente a migliaia per mezzo del lavoro pubblico, per mezzo di ciò che il popolo chiama « eloquenza del pulpito » e per mezzo di libri giunti a parecchie edizioni. Eppure noi dobbiamo ricominciar di nuovo, e cominciare dal profondo. Il Cristianesimo cominciò con uno. Noi abbiamo dimenticato il sistema semplice seguito dall’iniziatore della più grande influenza che abbia mai visto il mondo. Non abbiamo notato abbastanza come Egli fuggiva le città, come Egli evitava le folle, come Egli rimase indietro a riposare vicino a Samaria per avere una conversazione tranquilla con una donna vicino a un pozzo, come Egli si ritirava lontano dalla turba ed entrava nella casa di una umile donna Siro-Fenice « e desiderava che nessuno lo sapesse ». In piccoli gruppi di due o tre persone Egli raccolse la Chiesa primitiva intorno a sè. Ad uno ad uno i discepoli furon chiamati, ed erano soltanto dodici in tutto.
Noi sappiamo abbastanza bène come commuovere le masse; noi sappiamo come attirare una folla intorno a noi; ma l'attirare le unità: quella è la faccenda difficile. Insegnateci il modo di affascinare l’unità per mezzo del nostro sguardo, per mezzo della nostra eloquenza familiare, per mezzo dei misteri della nostra simpatia! Noi sappiamo come raccogliere la turba intorno a noi, come infiammarla e commuovei la, come rivolgere un appello al momento opportuno, come adoperare successivamente tutte le figure rcttoriche, e come ritornare alla calma quando, pur sentendone il bisogno, nessuno se l’aspetta. Ognuno conosce questo, o può conoscerlo facilmente; ma l’attrarre le anime ad una ad una, l’andare in fondo ad esse e rubar loro il secreto della loro vita, il parlar loro in modo da metterle a nudo, il leggerle come si legge una pagina stampata, il penetrarle della nostra essenza spirituale e renderle trasparenti, questa è la « scienza spirituale » così difficile ad acquistarsi e così ardua a mettere in pratica.
Non si è fìn’ora studiato scientificamente tutto l’uomo.
« Dopo uno spirito di discernimento — dice un vecchio savio francese (La Bruyère) — le cose più rare al mondo sono i diamanti e le perle ». Dei tre elementi, corpo, mente ed anima, che costituiscono un essere umano responsabile, due soltanto sono stati sin’ora considerati come soggetti suscettibili di una indagine scientifica. Da sei mila anni di contemplazione dei fenomeni della vita e
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del pensiero umano, solo due scienze sono sorte. La fisiologia ci ha detto tutto ciò ch’è possibile dire del corpo umano; la psicologia ha fatto lo stesso riguardo alla mente. Ma a noi occorre inoltre una psicologia spirituale che ci parli delle realtà invisibili dell’anima. Questo è il punto in cui la nostra preparazione universitaria dev’essere completata: essa tratta dell’uomo in quanto è corpo e in quanto è mente; essa dimentica che l'uomo è una trinità. È cosa veramente straordinaria questa: che, da tempo remoto sino ad oggi, il più importante fattore nella vita umana è stato completamente ignorato dal mondo che pensa. Naturalmente ogni scrittore religioso possiede qualche nozione sull’argomento; ma le nozioni non bastano. Se la mente è larga abbastanza e varia abbastanza da render possibile una filosofia della mente, è forse l’anima una parte così trascurabile dell’uomo da non meritare uno sforzo per formarne una scienza? Una scienza che gli uomini possano imparare e che costituisca una guida ed un aiuto pratico per tutti coloro che s'interessano ai fenomeni più profondi della vita umana?
Un argomento che non ha Valore.
È inutile dire che non esiste un’anima ben definita, ma piuttosto una strana, indefinita essenza, di cui alcuni clemènti sono l'emozione, l’affetto, la ragione; mentre altri elementi non sono di natura terrena, cosicché il tentativo di analisi ci lascierebbe come gli angioli filosofici del Milton « erranti, sperduti nei labirinti ».
Questa è una scappatoia per trovare nel mistero una scusa all’ignoranza. C’è un’anima e c'è una vita spirituale. Platone la conobbe e, speculando su di essa, la chiamò « la mente spirituale ». Salomone la conobbe quando parlò dell’« orecchio che ode ». Addison la conobbe e la definì: « la divinità che s’agita dentro a noi ». E in « Coltura e Religione », il Preside dell’università di S. Andrea dichiara ai suoi studenti: « C’è una facoltà d’intendimento molto diversa da quelle coltivate nelle scuole e negli atenei, la quale dev’essere educata e nutrita non con minore ma con maggior cura delle nostre facoltà affettive, altrimenti essa muore di consunzione ».
Lo stesso pensatore ha enunciato in termini chiari ed efficaci il problema che stiamo trattando: « Perchè le verità elementari della religione si rifiutano ad essere chiuse fra le strettoie della logica, perchè sono trascendentali e comprensibili misticamente soltanto, come mai i pensatori oppure considerano questi argomenti come tali da non essere possibile il pensarci sopra, oppure si accontentano di una vaga religiosità, di un irreale sentimentalismo? » La domanda del Preside è precisa ed energica. Dobbiamo noi essere paghi di lasciare che questa grande vita spirituale lavori silenziosamente intorno a noi, senza cercar di conoscere a suo riguardo qualcosa di più, senza sforzarci di analizzarla, di rendere più accessibile lei a noi e noi ad essa? Dobbiamo noi considerarla, questa vita spirituale, come un elemento straordinario, inabbordabile, misterioso, instabile, incomprensibile nella sua essenza? Bene è vero che c’è in essa un elemento il quale ci mantiene a distanza; ma poiché il suo campo d'azione è la vita, non possiamo noi esaminare quei punti in cui essa è a contatto con l’umano, i cambiamenti ch’essa produce.
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gli ostacoli che si oppongono ai cambiamenti e la meravigliosa complessità di azioni e reazioni ch’essa origina? Ci sono qui dei materiali per una filosofia; è legittimo valersene per costituire una scienza? Ci può, insomma, essere una scienza della spiritualità?
Una difficoltà apparente e una reale.
A prima vista questa idea conturba al sommo grado. La scienza è una classificazione ai fatti; non c’è forse qualcòsa d’irriverente e di presuntuoso nc 1 tentare di classificare i fatti della vita spirituale? Questi fatti del resto sono troppo numerosi, più numerosi che la sabbia del mare. Rispondo: non sono forse altrettanto numerose le combinazioni degli elementi coi quali tratta il chimico e le modificazioni del tipo morfologico col quale tratta il biologo? Eppure noi abbiamo una chimica ed una biologia. Questa dunque è la minima tra le difficoltà. Invece v’è una grande, una apparentemente insormontabile difficoltà preliminare: i fatti della scienza fisica sono dell’ordine naturale e sono finiti; i fatti della scienza spirituale, se noi possiamo così chiamarla, sono dell’ordine soprannaturale e sono indefiniti. Sono compenetrati da un elemento che nessuno può scrutare: «lo spirito soffia dove vuole ». Noi cerchiamo in un’anima umana ciò che vi vedemmo ieri, ma un’invisibile influenza è passata sul cuore e la situazione spirituale è mutata. L’uomo in sè è il medesimo, le sue passioni sono inalterate nella loro forza, i suoi lati deboli sono invariati nella loro debolezza; ma il mobilio dell’anima è stato cambiato di posto ed il meccanismo spirituale funziona secondo un principio nuovo inaspettatamente sviluppatosi. A questo riguardo, dunque, le nostre investigazioni sono fermate fin dal principio.
Cosa valgono i “ Manuali di Cura d'anime„.
Ma non oseremo noi accostarci maggiormente? Spesso lo vorremmo. Spesso siamo posti in tali circostanze che assolutamente lo dobbiamo fare: un amico è angosciato, noi siamo in angoscia. Come procedere? Quale guida abbiamo per sovvenire ad un'anima ammalata? Non c’è un manuale sull’argomento? Non c'è un sistema o un diagramma della logica storia della vita spirituale? Non c’è una cattedra di Diagnosi spirituale?
Il Doddridge ha costruito una tavola intitolata « Nascita e sviluppo della Religione nell’anima ». Ma Io sbaglio fatale di questo genere di lavori è di dare alle anime che cercano, l'idea ch’esse debbano passare per un certo processo meccanico prima di raggiungere la conversione. La conversione invece non si sviluppa sempre come una proposizione in Euclide 0 come una lastra sensibile in fotografia. Dio, il Creatore, non vuole avere uomini fatti a macchina nè sulla terra nè nel cielo. E non è la Sua volontà che ci siano soltanto alcune forme stereotipate di anti : il tipo S. Francesco, o il tipo S. Domenico, o il tipo S. Agostino. È quindi cosa pericolosa di porre nelle mani di colui che cerca delle forme e dei processi che esistono soltanto nell’immaginazione logica.
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Utilità dei medesimi “ Manuali
D’altra parte, l’utilità di queste opere è indiscutibile quando sono messe nelle mani dell’insegnante o del predicatore cristiano. Nella sua qualità di consigliere spirituale, egli dovrebb’essere al corrente del razionale nella conversione.
Dovrebbe conoscere ciò come un dottore la sua farmacia. Dovrebbe conoscere ogni fase dell’anima umana, in buona salute e in preda alla malattia, nello splendore della gioia e nell’oscurità della disperazione. Lo schema della Salvezza, come viene tracciato di solito, dovrebb’essere del continuo presente al suo spirito. Gli stadi più bassi; poi il periodo di transizione colla sua solennità, i suoi regressi, la sua luce vacillante, la sua fede crescente; poi gl’inizi della vita cristiana: il faticoso lavorio in timore e tremore, la scrupolosità -servile, la paura di cadere, il rimorso, maggior fede, maggiore speranza; finalmente la vita spirituale superiore, cioè la realizzazione della libertà, la scomparsa della scrupolosità servile, la pene-trazione nella vita intera dell’azione di Dio.
L’estrema penuria di vere guide spirituali.
Un tale schema è facilmente elaborato e facilmente ricordato, ed è tutto ciò che molti posseggono per compiere la loro opera; ma ciò è adeguato al grande compito di cui stiamo parlando quanto può essere adeguato il fischietto d’uno scolaro per eseguire le modulazioni del « Messia » di Händel. Il tracciare un. tale diagramma, con tutta la delicatezza dei pensieri, delle emozioni e dei dubbi che si sviluppano nell’intimità d’un’anima indagatrice, è un grande e raro talento; e l’applicare una tale conoscenza nella pratica della vita giornaliera è una capacità che pochissimi posseggono. Nessuno pensi che una tal conoscenza sia facilmente raggiungibile; nè che molti l'abbiano effettivamente raggiunta. Chi sono gli uomini ai quali voi ed io ci rivolgeremmo se l’oscurità spirituale si stendesse sull’anima nostra? Quanti pochi hanno penetrazione sufficiente per far la diagnosi del nostro caso, per osservare i nostri sintomi meno apparenti, per trar fuori da noi ciò che abbiamo risoluto di non dir loro, per vedere dentro a noi il male e il bene!
Ce ne sono a iosa per predicare, ma chi c’intervisterà, ci anatomizzerà, e ci lascerà nudi davanti agli occhi di Dio e davanti agli occhi nostri? V. non ricaverà alcun bene da una predica sentita insieme a X. a Y. e a Z., perchè egli pensa che tutto quanto sente fa proprio al caso... di X., di Y o di Z. Ma il prendere V. da sè, il sentire il suo polso soltanto e dirgli una particolare energica parola — la sola parola che potrebbe agire — tutta — unicamente su di lui: questo è il semplice fatto a compiere il quale noi invano cerchiamo degli uomini.
C’è una tendenza a lasciare devotamente tali faccende a Dio, affermando che le anime sono completamente sicure nelle mani di Lui, il quale solo scruta i cuori. Ma Iddio ci ha destinati ad essere i guardiani dei nostri fratelli, nè vuole Egli fare
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pel mio fratello ciò che potrebbe esser fatto da me. Noi non possiamo aspettare l’aiuto dello Spirito per insegnarci ciò che soltanto la pigrizia e l’indifferenza personale c’impediscono d’imparare; e il disprezzare una forza cb’Egli stima opportuno di concederci, non è certo il miglior modo per mostrare la nostra fiducia in Colui che la dà: « Placcai homini quidquid Deo placet ».
La complessità dell'anima e il “ triplice uomo
Questo studio dell'anima, riguardo al quale io mi sto sforzando di destare il vostro interesse, è uno studio difficile; poiché l’anima di tanto trascende la mente in complessità e in varietà quanto la mente trascende il corpo. L’anima è un tema infinitamente vasto, infinitamente profondo e misterioso. Il chimico, nelle sue complicate analisi, non tratta con elementi più delicati ed evanescenti.
« Davvero gli uomini hanno di che maravigliarsi quando studiano un uomo che vive, che pensa, che sente ».
Ma noi non abbiamo bisogno di andare dalla poetessa Browning o da Amleto, per sentir dire: « Quale capolavoro è l'uomo! >» Fatta astrazione dall’elemento religioso ch’è in lui, egli è sempre il più grande mistero della scienza. Ogni uomo è un problema per ogni altro uomo — tanto più lo è ogni uomo spirituale. È difficile conoscere il cervello d’un uomo, più difficile ancora conoscere i suoi sentimenti; ma più difficile di tutto conoscere le sue convinzioni religiose. È difficile conoscere la cosa più intima che un uomo possegga. Un ben noto studioso e poeta americano ci ha -detto che la difficoltà di analizzare il carattere del nostro vicino risiede nel fatto che ogni uomo è in realtà un triplice uomo. Quando due persone stanno discorrendo, ci sono in realtà sei persone che discorrono. Per illustrare il paradosso con un esempio, suppongasi che Giovanni e Tommaso stiano discos-rendo; i tre Giovanni e i tre Tommasi sono:
I tre Giovanni:
1. Il Giovanni reale, conosciuto soltanto dal suo Creatore.
2. Il Giovanni nel concetto di Giovanni; cioè Giovanni come egli stima sè stesso; non mai il vero Giovanni e spesso molto diverso da lui.
3. ZZ Giovanni nel concetto di Tommaso; cioè Giovanni come lo conosce Tommaso; non mai il vero Giovanni, nè il Giovanni di Giovanni, ma spesso molto diverso da ambedue.
I tre Tommasi:
1. Il Tommaso reale.
2. Il Tommaso nel concetto di Tommaso.
3. Il Tommaso nel concetto di Giovanni.
In questo modo, quando discorro con un altro, non è me ch’egli ode parlare, ma il concetto ch’egli si fa di me, .nè parlo a lui come egli stesso si stima, ma al concetto che io ho di lui. Ora questo concetto, malgrado il mio acume, potrà anch’essere completamente diverso dalla sua vera individualità, quale Dio soltanto la conosce; così che, invece di parlare alla sua anima reale, io parlerò forse al suo concetto della propria anima, o più probabilmente al mio concetto di essa.
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La difficoltà maggiore dèlia Scienza spirituale.
Dal sin qui detto risulta evidente che la facoltà d’analizzare l’anima è per se stessa cosa difficile da possedersi. Essa richiede un intuito ed una conoscenza profonda della natura umana, un maggiore e più profondo studio della vita e del carattere umano. L’uomo col quale parlate essendo formato di due concetti — il suo proprio e il vostro — e di una realtà — quella nota a Dio — l’astrarre dal vostro concetto di lui e il cercare di conoscere la realtà nota a Dio è uno dei più difficili compiti che si possa immaginare. E, dopo aver conosciuta questa realtà per quanto è possibile di conoscerla ad un uomo, rimane la difficoltà maggiore’ di tutte: quella di rivelarla a lui stesso. Voi avete creato per lui un uomo nuovo, ed egli non vuole dapprima riconoscerlo. Egli non riesce a scorgere alcuna rassomiglianza tra questo nuovo uomo e il concetto ch’egli ha di se stesso; anzi la nuova creatura non è una figura così piacevole ch’egli desideri possederla; le linee ne sono rudemente tracciate e c’è in essa poca grazia e nessuna poesia. Bisogna dirgli allora che nessuno di noi è ciò che crede di essere e che, s’egli vuole avere a che fare sinceramente con se stesso, deve sforzarsi di vedersi diversamente da ciò che a lui pare. Quindi egli deve essere condotto con molta delicatezza ' a fare una piccola ispezione interna di se stesso, e con lo specchio rivolto verso la sua anima, voi leggerete insieme alcune delle indicazioni che andranno delincandosi sulla sua superficie. Anche nella cerchia dei rapporti sociali e familiari è così grande la difficoltà di eseguire sopra la natura umana questa operazione in apparenza tanto semplice, che difficilmente si troverà un amico la cui amicizia sia bastevole per fargliela compiere su di un altro. E non occorre insistere molto per far ammettere che, nella sfera religiosa, il carattere complesso delle difficoltà moltiplica cento volte il problema.
La parte di Dio e la parte dell’uomo.
C’è il pericolo però — parlando ora degli aspetti più propriamente religiosi della questione — c’è il pericolo di esagerare queste difficoltà; e certamente si sarà presentata alla mente di parecchi questo pensiero: che, dando una simile importanza al fattore umano, si svaluta quello che è veramente il fattore principale nella Salvezza: cioè il libero esercizio della grazia di Dio.
Non è forse la religione per il povero e per l’illetterato? Non è forse la via facile a trovarsi? Grazie a Dio è così! Ben poco può fare l’uomo per chiarire queste cose. Ma qualcosa può fare, e deve far di più. In questo, più che in qualsiasi altra sfera della vita, egli è il guardiano di suo fratello. « L’uomo non vive per se stesso». Ogni azione di ogni uomo ha in altre vite i suoi prodromi e le sue ripercussioni. «Ognuno legge il proprio destino negli occhi degli altri», dice Emerson.
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« Sono una parte di tutto ciò con cui sono stato in relazione », dice Tennyson. E se l’uomo ha da rimanere passivo, come spiegare quel fenomeno straordinario — il quale sconvolge certe menti allo stesso modo che le sconvolge il pensiero dell’eternità — il silenzio di Dio? Dio che rimane silenzioso! E l’uomo che dubita e pecca e si pente tutto solo e cerca a tastoni la verità e smarrisce la via e lavora alla sua salvezza con dolorosa angoscia e con ¡spavento! È un mistero impenetrabile; ma ciò non avviene forse, almeno in parte, appunto per questo: che Dio offre all’uomo la gloria e l’onore di partecipare alla Sua opera, e ch’egli desidera altresì che le anime umane, in tutta la loro libera ed infinita varietà, portino l’impronta di altre anime umane? A Dio non piace l'uniformità. Non sono identiche due foglie, non lo sono due granelli di sabbia, non lo sono due anime. E come l’universo sarebbe una povera cosa se tutte le foglie fossero la copia esatta della foglia della quercia o di quella dell’abete, così il mondo spirituale presenterebbe un triste spettacolo se noi fossimo tutti quanti dei duplicati di Giovanni Calvino. Per questo Dio ha fatto posto all’azione individuale nell’edificare il suo Regno sulla terra; e per questo non è una presunzione, ma un dovere per ogni uomo di influenzare e plasmare le anime che lo circondano, di perfezionare e guidare le proprie facoltà in vista di questa meravigliosa opera.
Il grande pericolo.
Il grande pericolo a cui si è esposti nel compiere quest’opera, oltre al compierla senza esservi preparati, sta nell’abusarne. Trattando un caso che ci è stato affidato abbiamo l’inclinazione a considerarlo troppo come una faccenda professionale o personale. La nostra influenza diventa troppo conscia di se stessa. Abbiamo scoperto quale potente cosa essa possa diventare e cerchiamo — anche inconsciamente — di farci una « riputazione d’influenza ». Il nostro orgoglio è ferito se il successo non corona subito il nostro sforzo e quindi ci viene la tentazione di raggiungerlo con mezzi illeciti. Prendiamo un tono didattico quando dovremmo semplicemente attirare o suggerire; somministriamo allopatici quando la prudenza suggerirebbe dosi omeopatiche. E finalmente facciamo troppo assegnamento sopra noi stessi, dimenticando che non siamo che collaboratori di Dio, tenendo in troppo poco conto un interesse — l’interesse individuale — e non preoccupandoci di esso se per causa sua rischiamo di vedere attribuita a noi la responsabilità dell’insuccesso. Così facendo rinunziamo non solo a tutta la nostra influenza sugli altri, ma rinunziamo altresì all’opportunità di farla migliorare, in avvenire, dagli altri.
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I limiti all’esercizio dell’azione umana.
Ci sono altresì all’esercizio di questo potere dei limiti non ancora ben definiti e che poggiano non sopra basi religiose-filosofiche, ma sul mero empirismo. A dire il vero, tutto l’argomento che ci occupa riposa per adesso meramente sul più
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individuale degli empirismi ed è profondamente rincrescevole che un tema così sacro ed importante debba mantenersi in una condizione così disordinata, quando il metodo scientifico, che viene applicato a tante questioni secondarie, sarebbe facilmente applicabile anche ad esso. Capisco che certe menti siano profondamente turbate udendo parlare di osservazioni scientifiche fatte sopra un’anima umana, e di analisi di essa, e di risultati calcolati, come se si trattasse d’una mera questione di analisi fisica o chimica. Ma l’irriverenza è soltanto nelle parale. Noi desideriamo una trattazione scientifica dall’argomento; e se c’è qualcosa che attristi ed umilii quando si considera l’opera religiosa d’oggigiorno, ciò è appunto il pensiero dell’infelice e trascurata trattazione di uno dei temi più sacri nella vita religiosa.
Noi, se non ne parliamo, non teniamo in non cale il potere di Dio nella conversione. Voi dite ch’egli può scolpire cogli strumenti più rozzi anche nel marmo più fino. Non lo nego; ma Dio non faccetterebbe di certo dei diamanti su delle pietre da arrotino s’Egli potesse procurarsi delle arenarie più fini per far meglio quel lavoro. Io non voglio parlare religiosamente, o apaticamente 0 in modo blasfematorio del « confidare in Lui » quando siamo troppo pigri per renderci degni d'essere da Lui adoperati al Suo servizio. Non temete che abbiamo da diventare così abili nel far la diagnosi e nell’ordinare prescrizioni riguardo all’anima, da strappare la cura dalle mani di Dio!
Che cosa bisogna fare.
Ed ora, sul grande tema della preparazione e dell’esercizio del potere di discernimento spirituale, che cosa possiamo noi dire concludendo?
Veramente, riguardo a questo tema, non possiamo far altro che tentar d’indovinare. Coloro che hanno riflettuto su queste cose hanno confessato che tutto è ancora da farsi. Così una delle più acute menti della Nuova Inghilterra ha detto: « La scuola dell’avvenire potrà chiamarsi Scuola della Vita, poiché essa mira a studiare minutamente la debolezza della natura umana... a comprendere gli uomini e a trattare con essi faccia a faccia e cuore a cuore... Riguardo a una scuola come questa, benché occasionalmente sia stato fatto già molto, la revisione del sistema d’educazione ancora aspetta sviluppo e compimento ». Enrico Ward-Beecher, nel suo corso sulla predicazione tenuto nell’università di Yale, ha recato a questo argomento il contributo popolare forse il più prezioso dell'epoca nostra. E’ particolarmente caratteristico il capitolo sullo studio della natura umana, del quale non occorre fare delle citazioni, poiché sono ben pochi coloro che non l'abbiano letto. Beecher, se fosse stato meno predicatore e maggiormente pastore, avrebbe potuto essere uno dei più grandi studiosi dell’anima. Ma, tale qual’è, egli è superato da pochi, forse da nessuno in questo paese. Spurgeon non ha tanto del pratico analizzatore quanto del-1 esaminatore interno del proprio io. Così anche furono Tommaso a Kempis e Biagio Pascal, ed il pio Giovanni Hervey e l’originale Roberto Bruce, e così anche in un certo senso furono il Dott. Duncan ed altri, che fecero per la spiritualità ciò che Burton
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fece per la malinconia. Gli scrittori puritani, e particolarmente tra loro Baxter e Owen, furono abili analizzatori della natura umana, ma essi sembrano essersi applicati nello studio più della persona che stava in pulpito che di quelle che formavano l’uditorio. A questo riguardo Bunyan rimane insuperato ed i più belli esempi di questo genere di lavoro si possono trovare in alcuni dei suoi sermoni.
Critica dèlia psicologia religiosa pietistica.
Ma nell’opera di questi uomini ci fu sempre dal punto di vista pratico qualcosa di errato. Essi conobbero così bene l’umanità che, cercandola negli altri, perdettero ciò ch’essi stessi ne possedevano. Benché si dica di solito ch’essi hanno avuto la mano abile, ciò è vero solo fino a un certo punto. La maggior parte di questi uomini difettò di quella delicatezza di mano che rende efficace un’analisi la quale altrimenti apparirebbe insultante, e parecchi dei puritani furono completamente sprovvisti della qualità caratteristica essenziale dell’abile diagnostico: il rispetto, anzi la venerazione per l’anima di un altro.
Un uomo può essere nei modi grossolano e volgare quanto volete; ma, quando si ha da fare con ciò che v’ha in lui di più profondo, è facile accorgersi ch’egli possiede una grandissima sensibilità. La ruvidezza ed una sgarbata familiarità possono avere una certa efficacia quando si ha a che fare col suo cervello; ma, se non fate uso di tenerezza e di cortesia, il solo risultato che otterrete avvicinando il suo cuore sarà quello di urtarlo. Tutto quanto il galateo è basato sul rispetto; ed il galateo di molto il più alto e il più delicato è il galateo di anima ad anima.
Occorre rispettare Panima umana.
Il dovere di conoscere la sovrana dignità dell’anima umana — per se stessa, per i suoi elementi « a somiglianza di Dio », per la sua immortalità, per Colui sopra tutto che la fece e diede Se stesso per lei — questo è il primo assioma che deve essere ricordato. Molti uomini studiano gli uomini, ma non per simpatizzare con loro: il legale per il guadagno, l’artista per la fama, l’attore per l’applauso, il novelliere per professione. Quanto è competente l'attore in materia di complotti, di passioni, d’intrighi! Quanto abilmente sa il novelliere anatomizzare l’amore e la gelosia, la vendetta e l’odio! E poiché si trovano uomini disposti a studiare la natura umana per amor di se stessa, o per desiderio di lucro, non ci sarà dunque nessuno che la studi per amore dell'uomo, per amore di Dio? V’è un grande motivo pel quale il ministerio di tanti grandi e santi uomini ha prodotto ben poche conversioni. Leggiamo le loro biografie, ci consideriamo delle nullità contemplando tale una purezza e santità di vita alle quali non avremmo inai sognato che l’uomo potesse giungere, ci maravigliamo che si sia potuto trovare ancora nelle loro vicinanze un solo uomo irreligioso o inconvertito. Considerando però le cose da vicino, constatiamo che la
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loro parrocchia non era migliore di quelle contigue. E la spiegazione è facile. Questi uomini hanno lavorato in preda ad una terribile malattia: la Teofobia—il nome spiega la cosa. Un pastore prenda questa malattia e il suo potere è finito. Ci sono degli uomini dominati da essa, che la venerano come essi venerano poche altre cose. E’ un grande, ma inutile spettacolo. Coloro che sono affetti da questa malattia si trovano ridotti ad un solo argomento; il quale, benché il più alto di tutti, è pur tuttavia una mostruosità, quando esclude tutti gli altri. Le simpatie di questi uomini sono tutte e sempre dalla parte di Dio. Essi del continuo stanno vendicando Dio. Tutta la loro atmosfera è piena di Dio. Hanno abbandonato la terra prima che giungesse il loro turno. Hanno lasciato la natura umana in abbandono; hanno dimenticato l'umanità e l’umanità non può più oltre trarre profitto da essi, può soltanto stupirsi a loro riguardo. I loro pensieri vanno sempre diritti verso Dio, e non sono mai terreni abbastanza. Ora il tendere a Dio è una cosa alta, ma essi tendono soltanto ad un aspetto di esso. Essi non guardano all’altro aspetto che è rivolto verso l'uomo. Il tendere all’uomo per mezzo di Dio ed a Dio per mezzo dell'uomo è il solo mezzo per procacciare la integrale salute dell’anima.
Ancora molto ci sarebbe da dire riguardo a questo studio, ma dobbiamo terminare quasi prima di avere incominciato. Affermiamolo ancora una volta: la sola grande cosa è di studiare la vita ardentemente, praticamente, realisticamente.
Conclusione.
Dobbiamo mirare a conseguire la nobile e gagliarda personalità del diagnostico religioso; dobbiamo sforzarci di essere, come fortemente dice Oliviero Wendell Holmes: « un uomo che conosca gli uomini nella strada, al lavoro, la natura umana in maniche di camicia; un uomo che abbia scoperto che ci sono in quantità nel mondo dei furfanti che pregano e dei santi che bestemmiano »«
Una cosa posso assicurarvi. Se ognuno sviluppa questa facoltà di leggere gli altri, di leggerli con lo scopo di trarne profitto, egli non si troverà mai inoperoso. Gli uomini non parlano molto di queste cose, ma la somma di aspirazioni spirituali attualmente nel mondo è assolutamente incredibile. Nessuno potrà mài, anche debolmente, apprezzare la intensa agitazione spirituale che arde ovunque a noi d intorno; ma chi ha cercato di discernere, chi ha cominciato con esperimenti personali, col guardare in se stesso, col fare osservazioni sulla gente a lui nota, ha contemplato uno spettacolo bastevole per sentirsi chiamato alla più grande e alla più nobile delle azioni.
Ho appena sfiorato questo argomento, ma oso considerarlo come un tema d’interesse vitale che trasforma l’esistenza in una missione, che dà un nuovo ed ardente interesse alle più comuni delle cose a noi vicine e che apre il campo ad uno studio e ad uno sforzo di tutta la vita.
(Trad, dall’inglese, G. A.).
Enrico Drummond.
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PERI*G/LT/RÀ DELL'ANIMA
SIATE SEMPRE PIÙ CRISTIANI!
Annunziamo e raccomandiamo ai nostri lettori un nuovo ottimo libro: La Bibbia e la* Critica, di ***, edito dalla Federazione Italiana degli studenti per la cultura religiosa (i), e siamo lieti di poterne pubblicare qui, come primizia, ¡’ultimo capitoletto (lei-leraXII), in cui l'autore, uomo di dottrina e di fede, espone la sua conclusione. [Red.J
ueste mie lettere (2), se hai avuto la pazienza di leggerle sino alla fine, debbono esserti parse d’intonazione diversa da altri libri apologetici letti sin qui. Di questa impressione non mi vanto e non mi vergogno. Qualcosa se non proprio di nuovo, di diverso dalla comune dei soliti Manuali, spererei d’aver potuto trasfondere in queste pagine. Di fronte alle difficoltà scientifiche, agli scientifici assalti che si muovono alla fede, molti apologisti rivolgono ai credenti, come
segreto di loro salvezza spirituale ed eterna, questo grido: Siate più dotti. Di fronte
alla scienza, paiono dire: ci vuole più scienza (dimenticando che si tratta non di superare la scienza colla scienza, ma di mantenere di fronte alla scienza una fede). Più scienza, siate più dotti. E i libri ispirati a questo ardore scientifico oscillano tra le rodomontate e le transazioni. Qualche volta, il più spesso, questi apologisti hanno l’aria di provocare, di sfidare la scienza degli scienziati in tono sprezzante: « Vengano i signori scienziati! ». Li citano alla sbarra della fede, cioè della loro interpretazione religiosa, e li giudicano e li condannano con una disinvoltura scientifica mirabile.
(1) Bel voi. di 150 pagine. Prezzo L. 2. In vendita presso la Libreria Editrice « Bilychnis », via Crescenzio, 2. Roma.
(2) Le precedenti XI lettere hanno i seguenti titoli: Idee chiare - Scaramucce biblico-scientifiche - Prime lotte storico-bibliche - Storia sacra - Le profezie - La Legge -I Vangeli - I racconti dell’infanzia - Chi è Gesù - Il Regno di Dio - La risurrezione di Gesù.
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Ebbene, ecco un fatto: la scienza ch’essi trattano così, che essi liquidano con tanta facilità, non è quasi mai la scienza degli scienziati; è un fantoccio che gli apologisti hanno costruito essi stessi, consci o inconsci, e sul quale è facile e giusto gettare a piene mani il discredito, il quale però non sulla scienza degli scienziati ricade, ricade sui contraffattori di essa. Rodomontate dunque, ma che finiscono sovente in ritirate, in concessioni e transazioni. Perchè la vera scienza degli scienziati, dei competenti, alla fine si impone, e allora bisogna abbandonare quelle scientifiche posizioni che in nome della fede si erano occupate. Allora il riconoscimento doveroso e fatale di ciò che la scienza ha di sicuro, di inconfutabile, assume l’aspetto di una concessione vergognosa, come quando, a lite perduta, si consegna una somma fino a quel giorno trattenuta indebitamente. Noi, caro amico, di fronte alla scienza che compie serena e severa il suo lavoro coi suoi metodi, non sentiamo nessun bisogno di essere nè aggressivi, nè cedevoli: non usciamo a combatterla nelle sue stesse trincee, stiamo e ci consolidiamo bene nelle nostre. Il mio grido a voi giovani (o adulti) che volete conservare nel turbinio delle lotte del pensiero la vostra fede è questo: Siate sempre più cristiani. Fermi in questa rocca, tu l'hai visto nel corso di queste letture, noi non abbiamo la possibilità di molestare la scienza nei suoi progressi, ma la scienza non ha la possibilità neppur essa di molestare noi nel nostro possesso. Siate sempre più cristiani; e l’astronomia, la geologia, la storia antica, la critica letteraria vi interesseranno certo ancora come uomini, ma vi accorgerete che non vi interessano affatto come credenti. Lo slancio alle cose eterne è ugualmente vivace, qualunque sia la natura del terreno da cui si spicca il volo.
La moderna, la modernissima indagine storica ci ha anzi aiutati a penetrare bene il senso di questo grido: Siate più cristiani. L’indagine storica ha messo a nudo la vera essenza del Cristianesimo. Cammin facendo, le istituzioni tutte si alterano se non si rifacciano alle loro origini più schiette e non vi si rituffino generosamente. Una segreta provvidenza dispone che il Cristianesimo storico, pur vivendo e svolgendosi, sia obbligato a questi utili ritorni. Che cosa era il Cristianesimo di Gesù? Una pratica o, se ti piace meglio, una vita. Ricordi quel giovane come te (non frequentava l’Università, ma poteva bene aver visitata Atene o Alessandria) che chiese a Gesù il segreto della vita eterna? si ebbe questa risposta da Gesù: « Ter avere la vita eterna osserva i comandamenti ». Non si potrebbe essere più pratici di così. Fa, ecco il verbo sintetico del Cristianesimo di Gesù; fa la legge, fa il bene, «/« la verità », come poi dirà il IV Vangelo. Il quale IV Vangelo, perciò, dirà che la dottrina di Gesù è vita e spirito. Vita: che magnifica parola! e che parola comprensiva! Essa abbraccia il pensiero, perchè non si fa umanamente qualche cosa senza un pensiero, una idea proporzionata; abbraccia la parola perchè si parla a seconda del pensiero. Non viceversa però: perchè si può dire una cosa materialmente senza pensarla, si può pensarla senza agire in conformità.
Ora che cosa è accaduto, lungo i secoli della storia cristiana?
Il Cristianesimo che era vita si trasformò ben presto in gnosi, in scienza.
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Per entrare alla vita eterna bisogna credere, bisogna conoscere. È vero, gli Evangelisti che parlano così, parlano di un credere vero, vivo, profondo, di un sapere dello stesso genere; e tutti sanno Che quando si crede per davvero, si fa secondo la propria fede; e lo stesso dicasi della scienza. Ma il linguaggio nuovo, richiesto dalla psicologia speciale di quel mondo greco in cui il Cristianesimo aveva trovato il suo definitivo florido sviluppo, non era scevro di pericoli. La gnosi o scienza tende a diventare qualcosa di puramente, di freddamente intellettuale ed astratto; La salute non è più, a poco a poco, nella pratica {«per entrare nella vita osserva i precetti »), è nella ortodossia intellettuale (per entrare nella vita, pensa rettamente, pensa quello che è prescritto). E dalla ortodossia intellettuale è brevissimo, quasi insensibile, il passo alla ortodossia verbale (per avere la vita eterna, parla retta-mente, ripeti le forinole). Noi siamo oggi arrivati a questo in molti ambienti cristiani, in molte Chiese. Presso moltissimi il vero cattolico, o il vero metodista, o il vero battista, o il vero anglicano, si riconosce al suo Credo, verbalmente recitato. È la prima cosa, è la più importante. Ove manchi questa lettera moria, anche se è cristiana, cristianissima, santa la tua vita, non conta; tu non sei cattolico, non metodista, non anglicano. Queste Chiese cristiane (nota, cristiane) ti respingono. Or vedi se importa restaurare la nozione primitiva, genuina del Cristianesimo, vedi se ci ha reso e ci rende piccolo servigio la critica storica riportandoci a questa nozione schietta inesorabilmente. Chi ha acquistato familiarità vera colla storia cristiana; chi ha visto, attraverso i secoli, di questa cangiare tante volte le strutture intellettuali, ferma rimanendo la pratica, essa ed essa sola, è disposto, è costretto a sentire che la pratica cristiana della vita è la vera tessera, è il punto principale. Essa trae seco logicamente anche il resto, cioè il retto pensare e il retto parlare: ma anche se questa conseguenza logica in un individuo non spuntasse, perchè gli uomini non sono sempre logici, noi, caro amico, guarderemo sempre più alla vita che alla parola; alla vita anche se eventualmente manchi la confessione della parola. Alla vita riconosceremo i cristiani, i fratelli.
Alcuni moderni teologi ci obbligano a guardare alla testa di Gesù, a contarne i pensieri per essere buoni, ortodossi credenti, e in questo esercizio accade che essi imprestino a Gesù moltissime idee che sono nate tanti secoli dopo e sotto l’influsso di tutt’altri uomini. Noi, caro amico, pensiamo che il discepolo per antonomasia fu invitato non a guardare la testa, ma a sentire i palpiti del cuore di Cristo, e cerchiamo di far come lui.
Così facendo, siamo sicuri di giovare alla causa di un Cristianesimo moralmente forte e socialmente benefico.
La trasposizione di attenzione dal cuore alla testa, questo cangiamento di valutazione, i pensieri sopra le opere, è funesto. Ripetere pappagallescamente una formola. o anche chiudere gli occhi interiori della mente per non veder nulla che a quella formola paia contrario, non è poi molto diffìcile, specialmente pei caratteri moralmente inferiori. Ricorda la caustica parola di Cherbuliez: Bien de gens font à leur Dieu le sacrifice de leur raison, à laquelle ils tiennent peu, et n’ont
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garde de lui sacrifier la moindre des leurs passions, auxquelles ils tiennent beaucoup. Canonizzando questo come il vero Cristianesimo, si dà la preferenza a ciò che è più facile in confronto di ciò che è veramente difficile. Perchè quello che è veramente difficile è la legge di Gesù, la sua osservanza. Gesù non ha portato al mondo pensieri impensabili, misteri reconditi, una serie algebrica di teoremi intellettuali; ha portato al mondo una legge nuova e questa, sì questa, la legge, terribilmente sovrannaturale. Legge d’amore, la legge di Gesù, è in contrasto con l'egoismo, nel quale si riassume tanta parte della nostra natura; legge di purezza, è in contrasto con la materia, la quale è tanta parte del nostro essere; legge di mansuetudine, è in contrasto con la violenza ferina del nostro carattere animale. Questo è difficile, su questo bisogna insistere quando si tratta di noi, insistervi ugualmente quando si tratta di giudicare gli altri..
Tra due giovani, uno dei quali abbia l’ortodossia della parola e del pensiero, non quella della vita, e un altro che abbia l’ortodossia della vita, non del pensiero nè della parola, i teologi ufficiali delle varie Chiese preferiscono il primo al secondo. Per fortuna, noi abbiamo ancora il Vangelo di Gesù e in una piccola parabola profonda, tu lo sai, Gesù preferiva il secondo al primo (rileggi Mt. XXI, 28 ss.). Noi stiamo con Gesù. Noi sappiamo che la vita è una forza e che chi fa la verità (chi la fa, chi la vive) tosto o tardi verrà alla luce; ce lo garantisce il Vangelo (Giov. Ili, 21): ma il Vangelo non ci dice che un pensiero, sia pure ortodosso, separato dalla pratica, dalla vita, debba a lungo durare, debba alla fine prevalere, contro la malvagia volontà incorporata nella malvagia condotta.
Il giorno in cui prevarrà quest’ordine di idee, così certamente evangelico e così buono, avremo fatto un gran passo anche verso la unità del Cristianesimo nel mondo. Le divisioni sono avvenute il più spesso intorno a formolo verbali, o intorno a idee sistematiche. Non che non avessero la loro importanza, soprattutto al loro tempo, ma tale importanza fu esagerata allora, ed ora ne hanno perduto una parte anche di quella che ebbero in realtà. Oggi, oh, via! cattolici o protestanti, pur ripetendo gli uni che «Z’moww è giustificato dalla fede senza le opere della legge», e gli altri il detto di Giacomo «Za fede senza le opere è morta, l’uomo è giustificato dalla carità », cerchiamo tutti di fare quanto più possiamo di bene ed evitare quanto più possiamo di male. Le idee ci dividono forse, la pratica cristiana certo ci riunisce; perciò il giorno in cui sentiremo che il Cristianesimo è lì, nella pratica, invece di inasprire i dissidi concettuali, il lato che ci separa, intensificheremo la pratica, ci appelleremo praticamente a quello che ci unisce. Ci sentiremo tanto uniti nello sforzo di imitare Gesù da quasi dimenticare le differenze che ci dividono ne\\'intendere e nell'analizzare questo 0 quel passo evangelico, o altro.
Così la soluzione delle difficoltà teoriche diviene soluzione di difficoltà morali e pratiche, e la soluzione perpetua rimane Gesù medesimo. A cui, diciamo con Paolo, sia gloria e onore nei secoli.
(**•).
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I SALMI
Siamo lieti di annunziare che la Società Fides et Amor sta per dare al pùbblico un Prezioso volumetto: I Salmi, tradotti dall'ebraico e corredali d'introduzioni e di note (r). Traduzione e commento sono opera del nostro amico e collaboratore prof. Giovanni Luzzi, per la cui squisita cortesia, ci è dato di riprodurre qui dalle bozze alcune pagine, insieme coi disegni che adornano la copertina. [Red.].
d ora, non senza rammarico, debbo scrivere la parola fine su quest’opera mia. Per anni ed anni ho lavorato intorno a questi Salmi maravigliosi. Durante tutta la vita, il Salterio m’ha- tenuto viva nell’anima la fede nell’Eterno, il mio unico « rifugio », il mio « alto ricetto ». Ho atteso alla maggior parte del mio lavoro mentre, crudele, devastatrice, la tormenta infuriava sull’Europa; e lo studio e la meditazione de’ Salmi
m'han dato al cuore molto del conforto di cui aveva bisogno. In questi Salmi che esprimono intime, profonde esperienze di grandi uomini di Dio e che, portati sulle ali di dolcissime melodie, echeggiarono per secoli nel Tempio, confortarono gli esuli sulle lontane rive dell’Eufrate, allargarono il cuore del popolo che tornava in patria e tennero alto lo spirito degli eroi della indipendenza nazionale, ho sentito, come mai m’era avvenuto prima, che c'è un qualcosa di veramente divino, ispirato, e perciò appunto vasto e universale. Hanno chiamato il Salterio « il breviario d’Israel »; ma esso è molto di più: è il breviario della umanità.
Gesù amava profondamente i Salmi; fino sulla croce s’esprimeva servendosi del loro linguaggio. Dopo il libro d’Isaia, il Salterio è il libro dell'Antico Testamento che troviamo citato il più spesso nel Nuovo. Durante l’infanzia della Chiesa, i Salmi sostennero i martiri che suggellarono col sangue la testimonianza della loro fede; e quando il Cristianesimo si sparse per il mondo e diventò una nuova e potente energia morale, i Salmi ebbero un posto cospicuo ne’ servizi religiosi
(i) Il bel volumetto, stampato da « L’Arte de la Stampa • di Firenze, con copertina di Paolo Paschetto, oltre là traduzione dei cinque libri di Salmi coi commenti, comprende uri indice alfabetico dei Salmi secondo il testo ebraico, un indice alfabetico secondo la Vulgata, una tavola cronologica e un’introduzione in cui l’A. tratta dei seguenti soggetti: I. Il Salterio ó Innario d’Israel — II. Formazione del Salterio — III. I titoli — IV. Gli autori — V. Le date — VI. La poesia dei Salmi — VII. Conclusione. — Il volume, che si compone di circa 250 pagine, è messo in vendita al prezzo di L. 1.
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delle varie Chiese, e il popolo se ne servì, in tutte le circostanze della vita, per esprimere i suoi sentimenti di pietà verso Dio. Clemente d’Alessandria, ne’ suoi Straniata {Tappeti), dice: « Noi lodiamo Iddio mentre ariamo i nostri campi, e salmeggiamo mentre stiamo navigando». Sant’Ambrogio li chiamava «il farmaco dell’anima», e Sant’Agostino ci ha di sè narrato come il canto de’ Salmi nella Chiesa di Milano avesse contribuito alla sua conversione, e quanto, mentre si preparava al battesimo, la lettura di essi accendesse e ravvivasse in lui l'amore verso Dio. Possidio, vescovo di Calama, che scrisse la vita di Sant’Agostino non appena il Dottor gratiae fu entrato nel suo riposo, dice: « La camera ov’e’ giaceva era modesta e scarsamente mobiliata. I sette Salmi ^penitenziali, per ordine suo, erano stati scritti e posti in luogo dov'e’ potesse vederli dal suo letto. A questi Salmi volgeva lo sguardo e li leggeva durante i giorni della sua malattia, dando spesso in pianto dirotto». E San Girolamo racconta come tutt’i cristiani si dilettassero de’ Salmi e li cantassero giorno e notte: « aratori, mietitori, vignaiuoli, pastori non aveano sulle labbra altre canzoni».
Più volte ho sentito esprimere da pie persone il rimpianto che nella Chiesa, nelle famiglie e tra il popolo, il Salterio non sia oggi conosciuto ed amato come era anticamente. E so che non pochi sacerdoti e laici i quali mi onorano di un’amicizia che m’è cara e m’hanno seguito durante il mio lavoro con vivo interesse e con simpatia veramente fraterna, s’augurano ch’esso contribuisca a ridare al Salterio, in Italia, la popolarità d’un tempo.
E unicamente a cotesto scopo io ho mirato di continuo. Perciò, mentre ho cercato che la mia versione fosse fedele, dignitosa, ritmica, ho pur fatto del mio meglio perchè riuscisse chiara, semplice, popolare; nelle note ho evitato le intricate questioni filologiche e critiche ch’io sapevo non avrebbero interessato il popolo, e nelle introduzioni mi son limitato ad accennare, e spesso fugacemente, a quanto concerne gli ardui problemi delle date e degli autori de’ singoli Salmi.
Ch’io sia ben lungi dall’aver raggiunto l’ideale che m’ero proposto, nessuno sa meglio di me; nondimeno, per l’amore con cui l’ho condotto, per lo studio che m’è costato e per la fatica che v’ho speso attorno, ardisco raccomandare il mio lavoro, così com’è, a' miei benevoli lettori, e sperare che vorranno fare al Salterio la stessa buona accoglienza che fecero già al mio Nuovo Testamento.
Giovanni Luzzi.
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IL SALTERIO
(Disegno di Paolo Palchetto)
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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SALMO 8
(Domine, Dominus noster)
Magnificenza di Dio. Piccolezza e grandezza dell’uomo.
1 Al direttore dei cori. Su « Ghittith ». Salmo di David.
2 0 Eterno, Signor nostro!
Com’è grande il nome tuo su tutta la terra!
La tua maestà si elèva al disopra dei cieli.
3 Dalla voce dei fanciulli e dei lattanti
tu trai una forza con la quale confondi i tuoi avversari, e imponi silenzio ai nemici ed ai vendicativi.
8. Questo Salmo è stato ben definito « un’eco lirica del primo capitolo della Genesi ». Non c’è motivo per porre in dubbio l’opinione tradizionale che na sempre considerato il Salmo come davidico. In questa lirica maravigliosa palpita il ricordo dei giorni nei quali il «semplice pastore», nel cuor d'una notte orientale rischiarata dalla «silenziosa luna», contemplando il cielo scintillante di stelle, meditava sull’immenso mistero dell’universo, sul destino de’ mortali, sulle relazioni dell’uomo col Creatore e col resto del creato. Anche il «Pastore errante dell’Asia», nel suo «Canto notturno», dice alla luna:
Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
• che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?
Ma qual differenza tra la conclusione del salmista e quella del grande, infelice poeta recanatese, che degli uomini, delle cose, del cielo e della terra
uso alcuno, alcuno frutto indovinar non sa!
v. 1. Per il direttore dei cori, vedi n. Sai. 4. 1. — Su Ghittith. Questa parola Ghittith non si sa esattamente quel che significhi; convien quindi riprodurla tale e quale. I Settanta (vedi n. Sai. 2. 9) e la Vulgata la traducono: Per gli strettoi; e, secondo questa interpretazione, il Salmo si sarebbe cantato per le feste della vendemmia, dopo la pigiatura delle uve. Altri credono significasse una specie di flauto. Molto probabilmente si tratta: o di uno strumento musicale proveniente da Gath (un liuto filisteo, nello stesso modo che c’erano de’ flauti egiziani, delle lire doriche, delle arpe eoliche, ecc.), ovvero di un'aria, di una melodia, venuta da cotesta città.
v. 2. Il nome di Dio riassume per lo spirito nostro tutto quello che Dio ci ha rivelato della sua gloria. Il salmista lo vede come scritto negli splendori dell'universo. Confr. Rom. I, 20.
v. 3. Dalla voce... Ebraico: Sulla bocca... fondi, ecc. Quale affermazione della potenza divina si può dar più sublime del grido di stupore che dinanzi alla magnificenza
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4 Quand’io contemplo i tuoi cieli, opra delle tue mani,
la luna e le stelle che tu vi hai disposte,
5 io mi chiedo: Che cos’è l’uomo che tu ti ricordi di lui?
che cos’è il mortale che tu ne prenda cura?
6 Eppure ne hai fatto poco men che un dio!
l’hai coronato di gloria e d’onore,
7 gli hai dato il dominio sull’opra delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi, piedi:
8 pecore e buoi tutti quanti,
e gli animali della campagna,
9 gli uccelli del cielo, i pesci del mare,
tutto che corre le vie dell’oceano.
io O Eterno, Signor nostro!
Com’è grande il nome tuo su tutta la terra
delle opere di Dio parte dal cuore innocente di un bimbo? L’omaggio, anche inarticolato, che un bimbo rende spontaneamente alla grandezza di Dio, ha per il salmista tal valore che basta a confondere e coprir di vergogna la gente che, accecata dall'orgoglio, giunge fino a rinnegare il proprio Creatore. I fanciulli gridano nel tempio: Osanna al Figliuol di David! I capi sacerdoti e gli scribi se ne indignano ed esclamano: Odi tu quel che dicon que’ fanciulli? E Gesù risponde loro con le parole del nostro Salmo (Matt. XXI, 15, 16, dove il passo è citato secondo la traduzione dei Settanta [vedi n. Sai. 2. 9]. Gonfr. anche Matt. XI, 25). Il grido ingenuo, naturale, che sgorgava dal cuore innocente di cotesti fanciulli, oh come condannava la incredulità, la caparbietà e la malizia dei conduttori spirituali d’Israele! — Del resto, è sempre così: nel mondo dello spirito, Iddio si serve degli strumenti più deboli per compiere le cose sue più maravigliose (1 Cor. 1. 27-29).
v. 4. Opra delle tue inani. Ebr.: opra delle lue dila.
n. 5. L’io mi chiedo non è nell’originale. — Il mortale. L’ebraico dice: il figliuolo d‘Adam; c il nome Adam ricorda che l’uomo è stato tratto dalla terra (adamah).
v. 6. I Settanta (vedi n. Sai. 2. 9) tradussero così: «Tu l’hai fatto di poco inferiore agli angeli»; e lo scrittore della Epistola agli Ebrei cita il passo secondo la traduzione loro. Ebr. Il, 7.
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TRA LIBRI E RIVISTE
RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
Vili.
LA GUERRA E LA FILOSOFIA
Continuano vivacissime le discussioni cui ha dato luogo la reazione etica e religiosa alla guerra. Del dubbio se vi sia guerra legittima dinanzi al precetto cristiano non è il caso di parlare in questa rassegna: poiché esso ha avuto così larga documentazione di disparate risposte nelle pagine di Bilychnis. Noterò solo che, dopo tanto parlarne che si è fatto, non si attenuarono i dissensi, neanche sul punto storico principale: quale fosse il precetto di Gesù, consegnato nell’evangelo, intorno alla guerra. Egli non l'ha condannata, dicono alcuni, nè ha condannato la professione della milizia, quando pure glie se ne offriva il destro; e anche la sua è, a suo modo, una dottrina di violenza. Gli altri ribattono, e forse con ragione, che gli ammaestramenti e i precetti di Gesù a quelli che volessero partecipare al regno escludono direttamente l’attitudine bellica e l’uso della forza e sin la resistenza al male. Ma rimane da chiedersi se in ciò si debba vedere una applicazione immediata e necessaria dello spirito evangelico o un effetto di quella svalutazione della storia e della società civile e del diritto che conseguiva all’annunzio dell’avvento imminente del Regno; e qui è la questione capitale. Questione che poi, se si sceglie il primo corno del dilemma, ne implica un’altra concernente nulla meno che l’adattamento del cristianesimo alla storia e la legittimità o meno della distinzione fra l’ideale religioso e il precetto.
Meglio definita e più pratica è la ricerca sui rapporti fra la Chiesa e la guerra; e la compie Silvio d’Amico, in tre articoli pubblicati dall’Zrfea nazionale ne’ primi giorni di rìovembre. E la conclusione del d’Amico è che la condotta della Chiesa dinanzi alla Suerra è implicita nella condotta di essa inanzi allo Stato: accettazione di questo, coordinandone l’opera a un fine spirituale ed ecclesiastico. E il riavvicinamento è giusto e più fecondo che il d’Amico stesso non mostri di intendere; perchè, nella misura in cui la Chiesa fu Stato essa guerreggiò e parteggiò, entrando spesso il cristianesimo nella sua condotta per poco, per nulla o a rovescio. E in questa condotta, dalle parole di S. Paolo sul dovere dei cri
stiani verso chi ha la spada, alle stragi di Perugia ed alla neutralità di Benedetto XV, c’è una infinita varietà di valori, che è assurdo voler disporre su di una unica trama ideale.
Dal punto di vista puramente etico, nel quale ci collochiamo qui, è notevole che nessuno abbia sostenuto la illegittimità di qualsiasi guerra, anche di difesa, se non qualche socialista mistico come Bernard Schaw, letterato più che filosofo; la ricerca è versata in genere sulla distinzione fra guerra giusta ed ingiusta e sui caratteri della prima ; o, più e meglio, sulle responsabilità morali che la guerra ha messo in luce ed alle quali essa può esser fatta risalire, e sul valore delle dottrine filosofiche le quali hanno avuto maggiore efficacia nella formazione della coscienza europea del l’avanguerra. E quest’ultima ricerca si è diretta spontaneamente, come era naturale, verso la Germania, che fu il focolare della guerra, e dove letteratura e storia e filosofia avevano anticipato questa, creato di essa previamente la giustificazione ideale e le norme pratiche e preparato ad essa gii animi.
LA GUERRA GIUSTA E S. TOMMASO
I cattolici, innanzi a ogni altro, erano portati dalla loro cultura mentale a studiare la guerra come un casus conscienliae, trasferendo dall’individuo alla nazione il loro concetto di libertà morale e di responsabilità, e cercando più specialmente nelle opere di S. Tommaso d’Aquino e dei più noti moralisti il codice del « diritto cristiano ». A questa ricerca, sia per le origini, sia per i metodi della guerra, è dedicata molta parte dei due notissimi volumi editi dal Comitato cattolico di propaganda francese all’estero, di Parigi : La guerre allemande el le catholicisme (Les lois chrétien-nes de la guerre, par le chan. B. Gaudeau) e: L’Allemagne el les alliés devant la cons-cience chrélienne, che è come una risposta alle recriminazioni tedesche contro il primo volume (Mr. Chapon, La France et r Alle-magne devant la doctrine chrétienne; R. P. Jainvier, Droits et devoirs des belli-gérants, ecc.).
Le condizioni poste da S. Tommaso e dagli altri moralisti cattolici perchè una
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guerra sia giusta (legittima difesa, punizione, ecc.) e i limiti sanciti dal « diritto naturale » ai metodi di guerra sono accuratamente illustrati in questi scritti, ed applicati poi al caso presente. Al pensiero di S. Tommaso più specialmente è dedicato uno studio del P. E. Pègues, Saint Thomas d’Aquin et la guerre, Paris, Tequi, 1916, del quale si legge anche una recensione nella Rivista di filosofia neo-scolastica, fase. 40, 1916.
Questa discussione, se ha un’applicazione pratica evidente, ed è inutile dire in qual senso, nel giudizio delle responsabilità remote della guerra e del nazionalismo germanico, male si applica alle responsabilità immediate. I teologi cattolici legittimano concordemente la guerra offensiva quando si tratti di punire una colpa contro il diritto, commessa dallo Stato che si attacca. A rigor di termini, l’Austria può benissimo addurre questa giustificazione « teologica » della sua dichiarazione di guerra alla Serbia: l’assassinio dell’arciduca Ferdinando par fatto apposta per tranquillare i teologi su questo punto. Ed è noto che la guerra europea non sarebbe avvenuta se la Russia si fosse decisa a lasciare la Serbia sola alle prese con l’Austria. Se quindi è vero quel che riferiva testò un giornale tedesco, avere il papa dichiarato essere la guerra dell’Austria giusta, se altra mai ce ne fu, non è difficile addurre una buona giustificazione di questo giudizio dal « diritto cristiano ».
E c’è altro. TI P. Pègues, in un suo Coni-mentaire de la Somme de Saint Thomas, scrive: * Forse vi è oggi una tendenza esagerata a voler fare della nazionalità un diritto assoluto che bastasse da solo per tutto giustificare nell’ordine della guerra. Ciò sarebbe un grave errore. Quando uno Stato ha già dei diritti esistenti, non può essere giammai lecito di menomarli per il solo motivo di costituire o di ricostituire politicamente i tali e tali altri aggruppamenti etnici, che sembrerebbero piu in armonia con ciò che si è chiamato il principio della nazionalità. Questi aggruppamenti non potranno realizzarsi in modo legittimo che per una ragione di giusta compensazione e di prudente salvaguardia in conseguenza di una guerra giusta ». Nel qual principio c’è, come si vede, la condanna formale, ad esempio, delle nostre guerre d’indipendenza contro l’Austria: e può parer comica la pretesa che si aspetti una guerra « giusta » per far valere, contro il diritto costituito, rivendicazioni giuste.
E il Pègues aggiunge poi subito, quasi
temendo di aver troppo concesso: « E' anche bene osservare che se la costituzione politica di tali aggruppamenti fosse un pericolo per le altre nazioni queste avrebbero il diritto di lavorare a impedirli o distruggerli ».
Precetti formalistici, nei quali non apparisce alcun superiore concetto di giustizia, che sono oggi stillati in Francia, ma che potrebbero benissimo parere di un professore aulico dell’Austria; e dei quali il miglior giudizio che si può dare è che essi non sono in alcun modo applicabili al giudizio della concreta condotta degli Stati in guerra, tanto è facile a ciascuno tirarli a suo favore.
LA GUERRA, LA GIUSTIZIA E L’IDEALISMO ASSOLUTO
Da una tale casistica, della quale si potè dire che essa non ha mai avuto una reale applicazione pratica nella storia del catto-licismo, cui fu in realtà ignoto pratica-mente il criterio di distinzione fra guerre giuste ed ingiuste, avendo illimitato valore di diritto la volontà del principe, parrebbe si dovesse saltare al criterio opposto, di quelli i quali sottraggono la decisione sovrana degli Stati riguardante la pace e la guerra ad ogni criterio di valutazione secondo i canoni della dottrina morale che valgono, più o meno, per gl’individui. Il giudizio di uno Stato, nella pienezza della sua sovrana autonomia, su ciò che sia imperiosamente richiesto dalla sua stessa esigenza di vita e sulla condotta degli altri Stati verso di esso è talmente complèsso e delicato, negli elementi molteplici dai quali risulta, e nelle valutazioni pratiche, sulle quali influisce la tempra della coscienza nazionale, che la morale, diremo così privata, dei cittadini, non può che prendere la decisione dello Stato per quello che è ed accettare disciplinatamente il concreto dovere che le è posto di sacrificare sè individuo empirico a quella più vasta incarnazione e creazione dello spirito che è la sua nazione. Un tale punto di vista è stato sostenuto in Italia da B. Croce, nelle sue notissime e da molti vituperatissime Postille della Critica, da G. Gentile, nella conferenza su: la Guerra e la filosofia, pubblicata a Palermo (Officina tip. Ergon) nel 1915; da G. Maggiore, in : Il valore elico della guerra (estratto dalla Rivista d'Italia, 1915) e da altri idealisti; il che ha dato luogo a vivacissime accuse contro l’idealismo assoluto, che è stato assunto come direttamente colpevole di questo amoralismo politico.
Per vedere ciò che di tale dottrina è di-
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scutibilc, conviene prima stabilire ciò che di essa è legittimo. Legittima è la critica alla vecchia casistica, alla morale dell’atto individuo e concreto, del fatto, di un particolare momento dello spirito, avulso dalla unità viva di questo; e quindi anche l’applicazione di essa al concetto e al giudizio scolastico di guerra giusta ed ingiusta. E legittima è anche, in tesi generale, la differenza istituita fra l’attività etica dello Stato e quella degli individui, non in quanto si sia o si possa essere dinanzi a due etiche diverse o a due sistemi dei quali all’uno sia possibile applicare la norma etica ed all’altro no: ma per la evidente e radicale differenza del soggetto e della autonomia che gli compete e della maniera in cui questa si esplica.
Da un altro punto di vista anche questa etica idealista della guerra ò poi legittima; nel dedurre cioè che essa fa la norma pratica della condotta individuale del cittadino dinanzi alla guerra non già da una valutazione personale dei motivi e dei valori etici in conflitto, ma dalla coscienza della Dropria obbligazione dinanzi al proprio Stato, dei cui vantaggi ciascuno è partecipe, della cui vita di cultura e di diritto ciascuno vive, ed al quale si è quindi legati da una solidarietà di fatto giuridica ed etica, che esige che esso sia difeso nel pericolo con sforzo comune. Il giudizio morale dell’individuo sui motivi della guerra ha valore e deve essere pronunziato quando dalla somma e dalla convergenza del giudizio dei singoli deve appunto risultare la volontà collettiva e l’azione; le quali, quando si siano pronunziate ed avviate, non rimane che il concreto dovere della solidarietà nazionale.
Questa giustificazione etica della guerra dinanzi alla coscienza individuale è assai perspicuamente svolta in una conferenza del prof. Gino Ferretti : « La guerra ne la vita de lo spirito e la guerra nostra » (Edizione del «Dovere democratico», 1916).
Oltre tali limiti, rimane il campo aperto alla discussione; e non è meraviglia che l’occasione sia parsa buona, in Italia ed altrove, per una levata di scudi contro l’idealismo assoluto, il quale è dottrina filosofica di origine e di marca tedesca. In linea di fatto, è innegabile che l’idealismo di un secolo addietro è stato una delle leve più possenti dello spirito germanico, e che ad esso bisogna pur sempre rifarsi Ser giudicare dell’indirizzo e del valore ella coltura tedesca contemporanea.
Ma l’idealismo tedesco ci si presenta con una successione di momenti dialettici.
nei precedenti suoi e negli sviluppi, che è necessario tener distinti. A quale di essi faremo risalire le responsabilità prime della guerra ?
LUTERO E LA RIFORMA
I polemisti cattolici, e non essi soli, risalgono fino al protestantesimo ed a Lutero; in esso, nel principio del libero esame, sta l'origine ideate della critica kantiana e del soggettivismo fichtiano; in esso la grande scissione spirituale dell’ Europa, la insurrezione del germanesimo contro il pensiero latino, la sostituzione del principe civile al papa, dello Stato onnipotente alla Chiesa detronizzata e, quindi, del prussia-nesimo (1). Un tale punto di vista è esposto con ampiezza enfatica in un opuscolo di J. Paquier : « Le protestantisme allemand. Luther, Kant, Nietzsche ». (Paris, Bloud et Gay, 1916). « Più si medita », scrive il Paquier, «questa teoria (della giustificazione per la fede, non per le opere) più si è costretti di vedervi, un dualismo, cioè a dire una separazione, od anzi una opposizione, fra la nostra attività e la religione. L’attività umana non ha più valore morale o religioso : ecco il fondo del pensiero di Lutero... Con tutto il peso del suo essere, Lutero pendeva verso questa soluzione: la nostra attività non ha nulla a vedere con la nostra religione ; nè essa ha valore morale; ha un valore civile, amministrativo, sociale; noi dobbiamo renderne conto al principe, al potere temporale ; e questo è tutto...
- « Nella Germania, almeno nella Germania protestante, il pessimismo di Lutero, il suo deprezzamento dell’attività umana hanno messo profonde radici... Di qui, per esempio, presso Kant, il divieto di trovare un qualsiasi piacere nello sviluppo della nostra attività morale... Di qui, anche,
(1) Affermazioni come queste: Lutero uguale Kaiser, Riforma uguale germanesimo, protestantesimo uguale pnissiancsimo. sono divenute luoghi comuni nel linguaggio dei cattolici clericali e purtroppo anche d’una certa stampa che ama chiamarsi moderna e seria. Solo l’ignoranza fenomenale che regna tra noi in fatto di religione e di storia religiosa può rilasciare con tanta facilità il salvacondotto a simili affermazioni, e c’è da maravigliarsi che il tanto decantato buon senso italiano non riesca lui almeno a mettere in quarantena i tanti strafalcioni che in quest’ora, oltre che dall’ignoranza la più supina della storia e della letteratura della Riforma, sono certamente suggeriti dà secondi fini e adoperati come armi di disonesta lotta. [Red.].
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questa dissociazione, queste antinomie che saranno messe talora fra i diversi rami dell’attività umana, talora fra la nostra attività esterna e la vita interiore... E, nel mondo moderno, è la Germania che ha mostrato la- più recisa tendenza ad esonerare la nostra attività dalle regole della morale e, quindi, a legittimare il male. Volentieri essa ripeterà con I.utero: La necessità non conosce legge. Rapidamente, facilmente, i suoi pensatori, filosofi od altri, giungeranno a queste conclusioni : ' L’essere e la vita sono autonomi. Non ci sono leggi esterne, limitatrici, della vita e dell'attività. Tutto quel che esiste porta in se stesso il diritto all’esistenza., Tali sono, in particolare, gli assiomi favoriti della filosofia di Hegel. Così non c’è più nè bene, nè male, ci sono solo delle forze che si sviluppano. Onore e gloria alla forza che si svilupperà maggiormente; del modo del suo sviluppo questa forza, purché essa riesca ad imporsi, non dovrà assolutamente render conto ad alcuno ».
Aggiungete a questa tendenza l’individualismo religioso, sviluppatosi più rapidamente alle estreme conseguenze, ed avrete, attraverso alla filosofia idealistica, l’anima viva del germanesimo di oggi.
Al protestantesimo anche è risalito, da Hegel e da Kant, con qualche riserva per questo secondo, un filosofo italiano, il De Sarto, nella conclusione di un suo diffuso articolo su : La conoscenza morale, in Cultura filosofica, 1916, fase. 2. « Tutti sanno • egli scrive « che la riforma tende a sostituire all’autorità esterna della tradizione e della gerarchia ecclesiastica l’autorità della ragione e della coscienza individuale ; ora non vi è bisogno di straordinaria penetrazione critica per credere che se l’autorità esterna in quanto tale non può generare persuasioni salde, ferme, sicure, lacoscienza e la ragione individuale, che è poi la ragione subiettiva, quando è posta arbitra assoluta del riconoscimento del vero e del falso, del bene e del male, non può alla sua volta generare persuasioni salde e non... aprire l’adito allo scetticismo, si presenti pure questo in forma larvata... Se noi consideriamo la Riforma non tanto in sè, come tentativo di rinnovamento della coscienza religiosa, quanto nell'efficacia che essa esercitò sulla vita spirituale, nella direzione del pensiero germanico, e se soprattutto ci riferiamo a quelle manifestazioni dell’attività speculativa che si succedettero in Germania, specialmente dopo chela cultura determinata dalla Riforma ebbe ricevuto un assetto definitivo, siamo costretti ad am
mettere che il subbiettivismo inerente alla Riforma ebbe per effetto di far apparire legittimo il principio che la vera e l'unica realtà è il soggetto e che questi solo è il vero autore o creatore, in un certo senso, di se stesso, del mondo e di Dio... Lo spirito della Riforma, dunque, quale si è andato manifestando e concretando nel pensiero germanico... deve essere considerato come il vero spirito vivificatore di ogni forma di intuizionismo più o meno mistico, di ogni subbiettivismo più o meno scettico, di ogni naturalismo più o meno naturalistico ».
KANT
Sulla linea di questo sviluppo è E. Kant. Egli ne costituisce anzi un momento essenziale. Ciò è evidente per il P. Paquier che, dal punto di vista nettamente scolastico, ha ragione di scrivere : • con lui, non solo l’intelligenza non domanda più di aderire ad una verità posta al di fuori di essa, ma ne è persino incapace. Essa è divenuta Erotestante! Da allora, protestantesimo e mtismo agiranno meravigliosamente in concerto per la distruzione di ogni verità oggettiva o, per parlare più esattamente e semplicemente, di ogni verità ». Paul Gaultier scrive nella Revue bleue, 26 febb.-4 marzo 1916: « Venuta meno l’efficacia del cristianesimo nel secolo xvm per il predominio del razionalismo in Germania come in Francia, le tendenze mistiche, proprie dello spirito tedesco; trovarono alimento in una metafisica che, dopo aver messo l’assoluto nell’umanità, finì per rinchiuderlo nella razza germanica. La filosofia di Kant servì bene a determinare una tale evoluzione. Per Kant l’assoluto, che trova la sua più genuina espressione nella legge del dovere, risiede in noi. Con ciò il filosofo di Koenigsberg divinizza la coscienza morale, che è un fattoumano. Fichte, Schelling e Hegel completano l’opera nel modo che tutti sanno ». E molti altri, facendo l’analisi del germanesimo, hanno espresso un giudizio simile.
Ma non mancano scrittori più riservati. Poiché, prescindendo ora dalla teologia e dal misticismogermanicoe dalla discussione intorno all’ influenza che la filosofia di Kant può avere avuto indirettamente nell’ulteriore sviluppo del germanesimo, una conoscenza anche superficiale della storia della filosofia ci avverte che il kantismo è intimamente connesso a tutto lo sviluppo precedente della filosofia europea e cerca di risolvere problemi che fuori della Germania erano stati posti, seguendo un indirizzo di
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pensiero che Bruno e Cartesio e Vico avevano già segnato. Victor Delbos, il sottile filosofo francese, cattolico, morto testé nel fiore della virilità, in una sua conferenza su « L’Esprit philosophique de l’Allemagne et la pensée française » (Foi et Vie, Cahier B, n. 5) giudica più serenamente. Egli scrive, anzi : « Cercando nell’atto del pensiero la condizione fondamentale d’ogni conoscenza, egli (Kant) discende direttamente da Descartes. Invero non sono mancate in Germania dissertazioni per stabilire che il cartesianismo è già quasi il kantismo ». Il Delbos appunta poi la sua critica contro Fichte ed Hegel, ed insiste su certi caratteri del pensiero germanico in generale, torbido ed oscuro.
Anche E. Boutroux, in uno studio su la filosofia e la guerra (V. Pages choisies, Flammarion, Paris) scrive: «Benché l’imperativo categorico di Kant sia oggi impiegato a dimostrare che la crudeltà cessa di esser tale quando praticata a rinforzo della disciplina tedesca, evidentemente una tale falsa interpretazione delle idee di Kant non può essere imputata a lui... Come possiamo noi conciliare la dottrina di una nazione sovrana (Herrenvolk), destinata dalla Provvidenza a dominare le altre, con la conclusione ultima della filosofia politica di Kant : « 11 diritto internazionale deve essere basato su di un federalismo di Stati liberi ? » Anche egli invece pone in rilievo talune dottrine fondamentali di Fichte e di Hegel nelle quali il germanesimo imperialista ha trovato il suo nocciuolo.
Più esplicito nell’escludere E. Kant da ogni responsabilità lontana della guerra attuale è E. P. Lamanna, il quale, iniziando nella Cultura filosofica (n. citato) uno studio assai accurato su: «11 fondamento morale della politica secondo Kant», avverte : « E’ prossima la pubblicazione... d’una mia traduzione di scritti politici di Kant. La voce di condanna che da quegli scritti si leva, ferma e severa, contro la politica senza scrupoli concepita e praticata dagli odierni connazionali del filosofo di Koenigsberg io ho creduto che bene meritasse di essere propagata ed illustrata in questo momento tra noi italiani ; è per noi voce di incoraggiamento tanto più significativa in quanto ci viene dallo stesso campo nemico — a Sperseverare nella lotta per quegli ideali di ibertà e di giustizia che Kant affermò e che pél popolo di Guglielmo e di Bettmann Holweg, ripiombato nello « stato di natura» suonano ormai come nomi vani senza soggetto ».
FICHTE
Contro Fichte si sono anche appuntate le critiche di taluni scrittori italiani: A. Faggi: « Il Primato di Gioberti e i Discorsi alla nazione tedesca del Fichte », in Rivista di filosofia, V, 1915; Erminio Troilo: « La filosofia e la guerra » (F.lli Treves, Milano, 1916); Balbino Giuliano : « Il primato di un popolo. Fichte e Gioberti ». (Catania, F. Battiate, 1916). Di questi il più mite nella critica è il Giuliano, che istituisce un sottile confronto fra il vangelo del nazionalismo guelfo italiano e il vangelo del nazionalismo tedesco. Per il G., idealista, l'errore di Fichte non é nella sostanza della sua dottrina, ma in una erronea applicazione, in una esagerazione patriottica e sentimentale. Egli scrive (p. 113) : « Il Fichte ha affermato una luminosa verità, quando ha considerato l'unità di un popolo non come il prodotto di una formazione meccanica, ma come il determinarsi spontaneo dell’ Io universale, come la rivelazione di una faccia dell’eterno spirito, quando ha detto ai tedeschi, oppressi dal giogo straniero, che un popolo per sopravvivere e per rivendicare il suo diritto deve rifarsi al divino principio, riconcentrarsi nel sentimento religioso della vita, ed in questo sentimento formarsi un’ assioma e una fede, attingere quella forza di coesione che rinsalda gli organismi corporei e spirituali. Ma questa verità gli si deforma in un assurdo dommatismo, inquanto chela coscienza tedesca non gli appare solo come una determinazione della divina universalità, ma addirittura come la sua perfetta espressione, compiuta e definitiva... Il filosofo apostolo non s’accorge nemmeno della contraddizione che c’é nell'anima sua, fra la preoccupazione che lo accora di una possibile disfatta dell’unità spirituale del suo popolo, se la sua voce non s'affretti a richiamarlo a Dio ed additargli una nuova educazione religiosa, e la sua fede nella missione fatale che spetta al suo popolo in nome di una eneluttabile necessità storica, rispondente al filosofico ordine dell’universo ».
Anche il Faggi istituisce un parallelo fra il Gioberti e Fichte ; e al secondo rim-firovera non la sua dottrina filosofica, ma e esagerazioni pratiche ed occasionali. «Volendo essere equanimi, bisogna molto concedere al carattere ed allo scopo, prettamente nazionale e patriottico, dei suoi Discorsi, e al momento storico in cui furono pronunciati ». « Come il Gioberti, il Fichte
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raggiunse il suo scopo. Egli destò i dormienti, scosse i pusillanimi, sostituì alla coscienza dell’avvilimento e dell' umiliazione una coscienza nuova, fatta d’energia, di speranza e di fede, risuscitò il sentimento nazionale, infiammò gli animi dei suoi compatriotti, guidò la Germania alla vittoria ». Probabilmente troppo si attribuisce qui a quei discorsi : altri artefici ed altre energie ebbe la Germania, che prepararono la vittoriosa battaglia di Lipsia : ma quel che c’è di occasionale e di politico nei discorsi di Fichte è bene indicato.
Assai più radicale è la critica del Troilo; il quale mira direttamente al tondo stesso della dottrina fichtiana, anzi a tutto l’idealismo con temporaneo, che egli insegue fin nelle più remote propaggini, ad es., nel modernismo. Il Troilo, neo-kantiano positivista, mette anche egli fuori discussione Kant. «Erra chi, a tal proposito, creda di dover risalire, come hanno fatto nelle attuali contingenze parecchi, oltre Hegel e Fichte, ad E. Kant, perchè proprio Kant segna il grande limite dello spirito filosofico, tedesco ed universale, che è in lui di equilibrio e di serenità, di comprensione e d’armonia e, dopo lui, di squilibrio ed esclusione ; metafisica agitata, che non vuol conoscere nè freni nè limiti ».
Colpa del Fichte è, per Troilo, la identificazione fondamentale dell’io empirico con l’io assoluto. In questa «sublime visione », la quale risolve l’etica nella mistica, egli trova qualche cosa che insidia l’essenza medesima della eticità; ed è la « mancanza (perchè al fine il superamento prospettato (dell’empirico nell’assoluto) si riduce ad abbandono e quindi a mancanza) della legge ordinatrice o visione morale obiettiva, quando 1’ uomo nella estrema forma di questo esasperato amor deiintellectualis, è divenuto esso stesso Dio; mentre l’ipotesi o la realtà pratica (che è poi quella con la quale bisogna fare i conti) del non superamento, infiggerebbe l’uomo nel martirio della propria inferiorità, per quell’assunta inferiorità insita nella visione morale obiettiva, a cui di solito l’uomo si arresta...
« La morale che sia propriamente umana morale non conosce tali orgogli : ha invece il senso severo e sublime della sottomissione alla legge, non importa, in ultima analisi, se data soggettivamente od oggettivamente. Il dotto, il morale, il santo non è quegli che si è congiunto con Dio; è più tosto chi misura nella profondità, nella
Sprezza, nella modestia della coscienza, la istanza, perseguibile ma insuperabile, che è fra sè e Dio, cioè fra la Realtà e l’Ideale, fra l’Atto e il Limite. Togliete questa coscienza, togliete questo affanno operoso, e non resta che, teoricamente, una vana formula, praticamente, uno sconfinato orgoglio: e le grandi fiamme e le luci divampanti della eticità di simili costruzioni sono ridotte a un fuoco di fumo e a un mucchio di cenere ».
HEGEL
E c’è qualche cosa di giusto in questo giudizio. Ma è dubbio che esso tocchi il principio stesso dell’idealismo assoluto. In Hegel, infatti, noi vediamo esser tratta da questo una morale molto diversa; e l’in-< i vid uo subordinato interamente all’eticità dello Stato, Dio reale, incarnazione prima dello Spirito che fa il mondo, accettando il quale ed obbedendogli gli individui trovano la loro vera libertà.
Ma di altro genere sono le accuse che Boutroux, Delbos, Troilo e molti altri muovono alla filosofia hegeliana ed alla filosofia politica e del diritto in particolare; e non le indicheremo qui, perchè altri ne ha parlato testé in questa stessa Rivista. Ma anche nel caso di Hegel non è diffìcile distinguere, come il Giuliano ha fatto per Fichte. Quando Hegel vuole che la sostanza della morale siano le determinazioni che si è date lo spirito obbiettivandosi nelle istituzioni e nei costumi, egli ha in parte ragione ed in parte torto; ragione, perchè se morale è la volontà dello spirito in universale, la sola garanzia per l’individuo che voglia esser morale è il seguire una norma storicamente espressa e oggettiva, come atto appunto dello spirito universale nella sfera più ampia cui la vita dell’ individuo partecipa; torto perchè, secondo la dottrina stessa di Hegel, questa morale obbiettivistica non può obbligare in quanto è un fatto, un dato, un « divenuto », distaccata dalla viva attualità dello spirito; ma in quanto è un farsi e un divenire, e quindi morale posta perennemente in questione e perennemente ricreata nello spirito individuale che si erge a giudicare filosoficamente e religiosamente fatti evalori.
Suesta critica di Hegel è perfettamente o spirito hegeliano. Ci pare dunque che discussioni storiche e di responsabilità morali a proposito della guerra diffìcilmente possano aspirare alla serenità di una vera critica filosofica. m.
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Cambio colle Riviste
FIGURE DI SOLDATI
DELL'ANTICA CRISTIANITÀ
Con questo titolo è stalo pubblicato a Friburgo (Svizzera) un librtccino, dedicalo ai soldati, il quale nella pletorica produzione letteraria a cui ha dato occasione la guerra, ci sembra di particolare interesse ed importanza, principalmente pel fatto che esso non ha avuto di mira il solito sterile e spesso disgustoso proselitismo particolaristico dì parlili o chiese, ma è invece pervaso da un alto spirilo cristiano, ed ha il nobile scopo di offrire ai soldati un quadro scientifico popolare degli assertori della fede, che nei primi secoli della cristianità appartennero alla milizia. Crediamo che l'autore, un dotto cultore dell'archeologia sacra, mons. A. de IVaal, abbia raggiunto il fine propostosi col suo libro che non ha soltanto un valore occasionale ficr le attuali condizioni. Col dovuto consenso, ne riportiamo alcune pagine.
Rivista storica italiana. Torino. Anno XXXIII, 4» s.; voi. Vili, fase. 3; luglio-settembre 1916-« Recensioni e note bibliografiche » di Storia generale - Età preromana e romana - Alto Medioevo -Basso Medioevo - Tempi moderni - Rivoluzione francese -Risorgimento italiano - « Spoglio di 40 periodici », con riassunto di 219 articoli di storia italiana - Elenco di 124 libri recenti di storia italiana-Notizie e comunicazioni.
Atene e Roma. Firenze, Anno XIX, n. 211-213; luglio-settembre. 1916. - G. Patroni: 0 L’origine del ‘Nuraghe’ sardo e le relazioni della Sardegna con l’Oriente >-Pericle Ducati: «Aspetti dell'arte in Etru-ria » - N. Terzaghi: « Note di letteratura omerica » - Adolfo Gandiglio: « Il pentametro, ghirlanda albana » - Carlo Lan-di: « Una nuova edizione delle epistole di Seneca » - Recensioni.
SOLDATI CRISTIANI DELL’ETÀ APOSTOUCA
La “legio fulminatrix,,
«In numerosissimi luoghi sia dell’occidente che del-1 Oriente si incontrano memorie e ricordi e monumenti speciali dedicati a Santi soldati, costituiti principalmente da. chiese erette sui loro sepolcri o sui luoghi dove subirono il martirio, e anche in santuari dove vennero collocate le loro reliquie. Molte di tali costruzioni datano fin dal iv secolo, non poche di esse furono poi ampliate ed, in seguito alia crescente venerazione, meravigliosamente decorate con marmi e pitture. Si può senza esagerazione affermare che la storia dell’arte cristiana abbia tratto i suoi migliori esempi dai luoghi dove furono sepolti soldati, venerati come martiri. Ce ne fanno sicura testimonianza gli scavi eseguiti in queste ultime diecine di anni in Asia Minore, in Egitto, in Libia ed in tutta l'Africa del nord. Sarebbe necessario un grosso volume qualora si volesse anche brevemente descrivere le chiese le più celebrate nella loro mirabile architettura, nelle loro ricchezze, nei loro mosaici. Pur limitandoci alla sola Roma, il materiale è di già sovrabbondante.
Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliare. Roma. Anno XXIV, fase. 285; 30 settembre 1916. -Annibaie Giraldoni: « Un nuovo istituto giuridico sociale ih formazione: Partecipazioni sociali di lavoro costituite mediante ultrasalari » - P. Giambattista Familiari: « La questione polacca davanti al Consiglio di Stato dell’impero russo » - Mario Sturzo: • La sopravvivenza dell’anima e gli studi dei fenomeni medianici » - Sunto delle riviste -Esame di opere- - Note biblio-giafiche - Cronaca sociale.
Bessarionc. Roma Anno XX, fase. 1-2; gennaio-giugno 1916. - Nicok’) Marini: « Costante sollecitudine dei Romani Pontefici per l’unione delle chiese orientali dissi120]
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denti » - Aurelio Palmieri: « I tentativi di un accordo dottrinale tra la chiesa russa e la chiesa episcopale americana » - Domenico Facchini: « S. Ignazio martire. Vita, •lettere e atti del martirio » -Aurelio Palmieri: « La recente letteratura anglo-americana sull’unione delle Chiese » -Pietro Giaud Sfair: « I.a promessa del primato nei commentari sirìaci » - Pietro Co-iounian: «Gli armeni in Italia - ecc
Rivista di filosofia. Torino. Anno Vili, fase. IV; luglio-settembre 1916. - M. Billia: • L’uno e i molti. L’illimitato e il limitato » - A. Baratone: • Giorgio Berkeley e l’idealismo gnoseologico » - L. Botti: « Nel mondo della trascendenza » - A. Gurrieri: « Il sentimento della giustizia nei tragici greci » - L. Fossati: « Cesare Beccaria e Geremia Bentham » - Sommari di riviste -Pubblicazioni ricevute.
Rivista di filosofia neo-scolastica. Milano. Anno Vili, fase. 4; 31 agosto 1916-Luigi Borriello: « Il problema pedagogico e l'idealismo » -Mario Brusadelli: «Una pagina interessante di pensiero filosofico religioso al sec. xvm : - G. B. Biaraschi: « Intorno alle origini del potere civile» Dall’assolutismo regio di Hob-bes alla sovranità popolare di Rousseau » - M. Sturzo: « L’eroismo: sua natura e sua funzione » - A. Masnovo: « Un recente documento della S. Congregazione dei Seminari » -M. Cordovani: «L’arte e l’amore del vero in Dante > -C. Alasia: « Fra filosofia e geometria » - Analisi d’opere -Notiziario.
Rassegna Nazionale. Firenze. Anno XXXVIII, II s., voi. V; i<>settembre 1916 - Lino Fer-riani : « La scuola dell'egoismo » - Michele Ziino: « Il diritto
Fra i primi che nella Capitale dell’impero si convertirono al cristianesimo per la predicazione apostolica figurano i soldati. La chiesa cattolica celebra da secoli il giorno x° agosto la consacrazione della chiesa di « S. Pietro in Vincoli »; i più antichi martirologi, affermano, a proposito di detta chiesa, che essa nella sua forma primitiva è stata costruita e consacrata dallo stesso San Pietro. Dietro il luogo dove tale chiesa è situata, si trovava, nei primi secoli cristiani, una caserma di soldati stranieri, di soldati originari dell’O-riente, il così detto castrimi peregrinoruin; la tradizione dice che gli Apostoli vi propagassero l’Evangelo e vi celebrassero con i soldati cerimonie cristiane.
Questa è solo una leggenda, per quanto antichissima ed accettata. Abbiamo però anche una testimonianza monumentale nel ricordo di due soldati che sarebbero stati convertiti da Pietro e che poscia morirono martiri: Nereo ed Achilleo.
Una dama, imparentata con la famiglia imperiale dei Flavii, Aurelia Petronilla, seppellì i corpi di questi, martirizzati nella persecuzione sotto Domiziano, in un suo terreno sulla Via Ardeatina. Papa Damaso nel 380 eresse sulla loro tomba una basilica, e collocò sul sepolcro, posto sotto l’altare, una tavola marmorea con una iscrizione in versi, la quale diceva come essi, Nereo ed Achilleo, essendo soldati del tiranno (Domiziano), per ragione del proprio servizio ne avessero eseguito 1 sanguinari decreti (contro i cristiani). La loro conversione produsse in essi un mutamento completo; lascia-arono il servizio militare, si dichiararono Cristiani e trionfarono morendo martiri.
Antichi Atti li pongono invece al servizio di Flavia Domitilla, nipote dell'imperatore Domiziano, che possedeva una villa confinante con quella di Aurelia Petronilla. Sotto le due ville si scavò in seguito una estesa rete di catacombe.
Poiché il sepolcro dei due martiri era posto nel piano inferiore delle catacombe, e il costume della Chiesa romana vietava che costruendosi cappelle o basiliche sopra sepolcri di martiri, la Confessio, ovverosia la tomba venisse spostata, così la chiesa eretta da Papa Damaso risultò per quasi due terzi interrata. Era essa una magnifica costruzione a tre navate con sei colonne che le ripartivano, e decorata di un atrio. Abbiamo una testimonianza dell’affluenza dei fedeli in tale chiesa, partico; larmente nell’anniversario della morte dei due martiri (12 maggio), nella predica conservataci, che Gregorio Magno tenne sulla loro tomba. Essendo, come abbiamo detto, la chiesa più che per metà interrata, l’umidità ne corrose presto le pareti compromettendone la solidità: un terremoto nel ix secolo la fece crollare ed i resti lentamente scomparvero ricoperti dal terreno. Solo nell’anno 1874 il De Rossi li scoperse e ne promosse lo scavo, cosicché ritornò alla luce la doppia fila di colonne che furono rielevate. Su di una delle quattro colonnine che sostenevano il baldacchino dell’altare si vede la scena della decapitazione di uno dei due martiri con sopra scolpito il nome ACILLEUS.
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LA GUERRA
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Più leggendario è il fatto narrato negli sparii Atti di Pietro, circa i due soldati Processo e Martiniano, i quali erano, con altri, addetti alla custodia degli Apostoli nel carcere Mamertino. Durante la lunga prigionia essi vennero convertiti da Pietro: l’Apostolo anzi avrebbe fatto miracolosamente scaturire dalla parete rocciosa del carcere una polla d’acqua, con cui battezzò i due soldati, con altri loro compagni di guardia. Dopo mesi e mesi da che Pietro era detenuto, senza che fosse chiamato dinanzi al giudice, si suppose che Nerone se ne fosse dimenticato, e venne in mente ai due soldati di farlo scappar dalla prigione e di farlo fuggir da Roma. Con alcuni altri fedeli gli fecero pertanto scorta sino a che, senza essere riconosciuto, oltrepassò la porta della città sulla via Appia. Ivi però Pietro avrebbe avuto la famosa apparizione del Signore, il quale alla domanda dell’Apostolo stupefatto: Domine, quo vadis? (Dove vai, Signore?) gli rispose severo: Eo Romani iterum crucifici (Vado a Roma per esservi nuovamente crocifisso). Pietro comprese quel che il Signore avesse voluto intendere con quelle parole. Rivolse pertanto i suoi passi verso la città e fu ben presto arrestato di nuovo. Il giudice Paolino aveva saputo che i due soldati si erano convertiti al cristianesimo e perciò, fattili condurre alla sua presenza, ordinò loro di bruciar incenso innanzi ad una statuetta aurea di Giove, ma rimanendo essi fermi nella propria fede, e non essendo valsi a rimuoverli i più terribili tormenti, furono condannati a morte c vennero decapitati lungo la via Au-relia presso la fonte ivi esistente. Una dama cristiana fece portarne i corpi in suo podere vicino ed ivi dette loro sepoltura.
Più tardi, allorché la Chiesa ebbe conseguita la pace sotto Costantino, fu sul sepolcro dei due martiri costruita una chiesa, in cui San Gregorio Magno, nell’anniversario dalla loro morte, tenne in loro onore una Ì>redica, ancora conservataci. Papa Pasquale I nell’anno !i8 trasferì le loro reliquie nella basilica vaticana. Ivi esse riposano in un’urna ricchissima di porfido sotto l’altare ai due martiri dedicato, nella navata laterale destra.
Un’altra leggenda affine è quella che narra dei soldati che condussero Paolo al supplizio. Tre di essi furono convertiti dalla santa morte dell’apostolo, ed anch’essi, più tardi, conseguirono la corona del martirio.
San Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, li rammenta in un suo discorso, in cui egli accenna nel contempo ad una leggenda, allora assai diffusa in Oriente, sulla morte dell’Apostolo delle genti. « Qual luogo —- esclamava il grande oratore — ha ricévuto, o Paolo, il tuo sangue, che spruzzò candido qual latte sulla tunica del soldato che ti decapitò, per cui il cuore di quel barbaro s’intenerl a tal guisa che egli, insieme ai suoi commilitoni, si convertì a Cristo?».
Dopo la sanguinosa persecuzione sotto Nerone, i cristiani potettero godere parecchi anni di pace sotto Vespasiano e Tito ed il Vangelo potette diffondersi
Erivato nei 'Promessi sposi’ » -. Paladino: « Missionari italiani nel Kordofan durante la rivolta dei Mahdisti » -L. Nofri: « Leggendo i ‘Marmi’ di Anton Francesco Doni » -Wera Pasini: « Fra le quinte » -P. Martinelli: « Divagazioni Colitiche e sociali » - Rodolfo azzaniga: « Boro Jacow >• -Mario Pratesi: « Il mondo di Dolcetta » - Libri e riviste estere - Rassegna politica.
16 settembre 1916-Alessandro Chiapponi: « Occhio al-l’Oriente! » - Michele Ziino: • Il diritto privato nei ‘Promessi Sposi’ » - Antonio Pizzuti: • Papà Bonghi e le sue sentenze » - Umberto Monti: « Un poeta ligure del sec. xix, Vincenzo Podestà » - Laura Lattes: « Accanto alla guerra ■ - Giuseppe Loschi: « Un dotto illustratore della vita degli insetti » - A. Pasquinangeli: « Semplificazioni al nuovo catasto » - Mario Pratesi: • Il mondo di Dolcetta • - Rassegna Politica - Libri e riviste estere - Note e notizie.
La nuova rassegna. Roma. Anno I, n. 8-9: agosto-settembre 1916-Nota del mese-Gaetano Mosca: « Le condizioni alimentari della Germania » - Orazio Raimondo: « Tragedie vecchie con attori nuovi » - Meuccio Ruini: «Il patto anglo-russo-persiano » -Carlo Manes: « Venizelos » -Giulio Colaianni: «L’orientazione polacca' » - Cesare Cagli: « Come si ricostruisce Messina » - « Il clero e la guerra » -« Il Bandav-log ■ - « Il ministero nazionale alla prova » -Vita Estera - Rivista delle Riviste - Prospetti economici.
Conferenze e Prolusioni. Roma. Anno IX, n. 17; i° settembre 1916 - Andrea Fer-rannini: « Le guerre e l’azione della scienza » - Achille Pel-lizzari: « Il pensiero e l’arte di Luigi Capuana » - Luigi
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Luiggi: ■ L’industrializzazione di Roma » -1 discorsi della guerra - ¡.’attualità.
Ñ. iS, 16 settembre 1916 - Giuliano Bonacci: « La immanenza delle leggi della guerra > - Rudyard Kipling: « Ai giovani * - Corrado Ricci: « Davide Calandra scultore » -Dalle riviste e dai giornali -L’attualità.
La nostra scuola. Milano. Anno III, n. 12; 15 settembre 1916. Anno quarto - V. Cento: « L’individuo e lo Stato » — G. Prezzolini: « Scuola nazionale e scuola vera » - G. Tyrrell: «Pensieri »—M. Salvoni: « La punta alla matita » -M. Rossi: « La scuola e l’anima del fanciullo » - Recensioni.
Vita e pensiero. Milano. Anno II, voi. IV, fascicolo 3; 30 settembre 1916. - Agostino Gemelli: « Eugenica e guerra » - Benedetto Galbiati: « Nel VII centenario del perdono della Porziuncola » - Dina Puliti: ■ A proposito dell’ultimo romanzo di Alfredo Panzini » - Giuseppe Grondona: « L’arte di Orazio Grossoni » -Giuseppe Nogara: « La strategia degli Ebrei » - Ernesto Verusi: « Rumania e Italia »-Vico Necchi: « Discorsi fra l’armi » - Clementina De Cour-ten: « La moda » - Guido Terrazza: « Nel XX anniversario dell’inaugurazione del monumento a Dante in Trento » -Miles: « Le fonti di informazioni della ’Reichspost, e l'intesa fra i cattolici italiani e francesi » - Francesco Olgiati e Mario Brnsadelli: « I cattolici Italiani e la guerra » -eccetera.
Coenobium. Lugano. Anno X, fase. V-VIII; maggio-agosto 1916. - A. Ghignoni: « Cristo, il Papa e la Pace » - Ed. Platzhoff-Lejcunc: «A propos de Nietzsche et de la guerre ■ -Cesare Romanazzi: « Riassumo
indisturbato. E sono gli stessi scrittori pagani, e sono i monumenti a farci testimonianza del rapido crescere della santa semente anche nelle famiglie patrizie, sino negli ambienti i più elevati. I Flavii, gli Aurelii, gli Acilii, i Cornelii, 1 Pomponii, hanno già sin dai tempi apostolici persone di famiglia c loro stretti parenti, donne ed uomini, tra i confessori del Cristianesimo. Un Flavio Clemente, un Acilio Glabrione, sono fra i martiri della più alta nobiltà romana (1). Quando si rifletta che per la nobile gioventù romana la carriera militare era quella che, in pace o in guerra, portava alle più alte dignità, non può certo porsi in dubbio che nell’esercito vi fossero dei giovani nobili di fede cristiana, quand’anche pel difetto delle fonti ci manchino i nomi e notizie su di essi.
Anche più che nelle alte classi sociali il cristianesimo si diffuse nel popolo, tra il medio ceto, i liberti, gli schiavi. Sarebbe perciò stato singolarissimo se la nuova fede non avesse fatto proseliti tra i semplici soldati che formavano la guarnigione della capitale. Sappiamo invece, e ce ne porge esempio la « legione fulminante» (seconda meta del II secolo), che la dottrina cristiana aveva rapidissimamente propagate le sue radici nell’esercito.
Dione Cassio narra nella sua ■ Storia romana • come l’imperatore Marco Aurelio nell’anno, 176 durante la guerra contro i Quadi (gli odierni Moravi) fosse tratto da un grave pericolo « per un prodigio operato dalla divinità ». I numerosi nemici avevano ridotto l’esercito romano in un luogo affatto arido, ed avevano evitato una battaglia in campo aperto, nell’attesa che i Romani fossero del tutto spossati dalle malattie, dalle ferite, dal calore e dalla sete. « Allora per grazia della Divinità all’improvviso il cielo si rannuvolò ed una pioggia torrenziale si riversò sulla terra. A quell’acqua i Romani si dissetarono e si ravvivarono insieme ai loro cavalli. Mentre i Romani eranno’occupati in questo, ed i nemici facendo impeto su di essi infliggevano loro gravi perdite, uno spaventoso uragano con lampi e fulmini colse i Quadi, lasciando i Romani immuni. Ne seguì per questi ultimi una splendida vittoria per cui Marco Aurelio fu per la settima volta acclamato imperatore. Lo stesso Marco Aurelio volle informare il Senato circa l’avvenimento ».
Quel che gli storici narrano, l’imperatore lo eternò in un monumento. La colonna eretta in onore di Marco Aurelio, che ora campeggia nella Piazza Colonna in Roma, mostra con una serie di rilievi, episodi della guerra contro i Quadi. L’avvenimento descritto da Dione Cassio vi è raffigurato così: il dio della pioggia Giove Pluvio, manda a destra, sui Romani combattenti, la pioggia ristoratrice, ed a sinistra, sui nemici, i fulmini mortali.
(z) V. De Rossi, Bui latino di archeologia cristiana (1888), p. 37 e sog.
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Alcuni scrittori pagani ascrivono il prodigio all'imperatore, che sull’atto di entrare in campagna, aveva richiesto preghiere ai sacerdoti di tutti i templi onde ottenere un esito favorevole. Per contrario però tutti gli storici cristiani attribuiscono la salvezza dell’esercito e dell’imperatore, operatasi col prodigio della pioggia, alla preghiera dei soldati cristiani. La più antica testimonianza è quella di Tertulliano quasi coevo al fatto, il quale in un suo scritto al pagano proconsole Scapula, si riferisce ad una lettera dell’imperatore, esistente in Roma, in cui affermavasi che la pioggia era stata ottenuta per le preghiere dei soldati cristiani. Il grande storico della Chiesa, Eusebio, fa la relazione del fatto attribuendolo alla legione di stanza a Melitene in Cappadocia, la quale da quel tempo ebbe sempre una forte fede; i soldati, tra lo stupore dei Quadi, si erano gettati in ginocchio, com’è uso tra i cristiani, implorando la pioggia dal cielo. Apollinare di Gerapoli narra che lo stesso imperatore aveva, in seguito al miracolo, dato alla legione il nome con cui è passata alla storia. Tale legione, la dodicesima, fin da tempi remoti, era chiamata la ■ fulminata », ma tale appellativo, dopo il fatto, l’imperatore volle che fosse mutato nel contrapposto, dicendola « fulminante ».
Aggiungiamo al già detto brevi parole di chiarimento.
La guerra contro i Marcomanni, i Quadi ed altre razze germaniche contro cui Marco Aurelio condusse di persona le sue legioni sino ai confini dell’impero, in una regione desolata, 'richiese straordinari sacrifici, quali Timperatorc 'non aveva previsto. I Romani correvano il pericolo di subire lo stesso fato delle legioni di Varo nella foresta di Teutoburg, o quello delle legioni, che tratte dai Persiani in località prive affatto di acqua, esauste e disarmate, furono come pecore vittime della spada nemica.
Quand’ecco improvvisamente ed affatto inatteso un temporale portò fiumi di acqua. Ciò fu da tutti riguardato come un effetto della provvidenza divina, che salvava così l’esercito da un sicuro disastro; i soldati cristiani vi videro, a ragione, l’esaudimento delle loro perseveranti ed ardenti preghiere.
Che la dodicesima legione venisse chiamata prima di Marco Aurelio « la legione fulminata », è provato da iscrizioni. Essa era tra quelle che l’imperatore condusse contro i Germani. Sia stata la voce popolare a porre in rapporto la grande quantità di fulmini, che non mancano mai in ogni forte uragano, col nome della legione, ovvero fosse stato lo stesso imperatore che abbia mutato il nome della legione in quello di • fulminante », ciò non muta nulla al fatto che un temporale inatteso con pioggia torrenziale mista a grandine e con formidabili scariche elettriche abbia tratto i Romani da una posizione criticissima. L’imperatore e tutto l’esercito attribuirono tale aiuto ad un miracoloso intervento divino. Si comprende che Marco Aurelio nella colonna monumentale, e gli scrittori pagani nelle loro descrizioni si guardino daluna dottrina e pongo un quesito » - L. de Wiskovatoff:
« Don Miguel de Unamuno et le sentiment tragique de la vie » - A. C.: « Parole umane » - Kiril Zlintcheuko: « Tolstoi et le mouchard » - Maturino Desanctis: « Il libero arbitrio » - Giovanni Sequi: « Due Canti dell’amore » - Elga Ohl-sen: « Associazione non israelitica per la difesa dei diritti ebraici » - L. Amoretti: « Marcel Hébert » - Nel vasto mondo - Documenti c ricordi personali - Pagine da meditare -Rassegna bibliografica - Rivista delle Riviste - Tribuna del ’Coenobium’ - Notea fascio.
La Riforma italiana. Firenze. Anno V, n. 9; 15 settembre 1916-A. Chiappelli: « La guerra e l’immortalità » -R. Murri: • Neutralità vaticana » - A. Crespi: « La guerra e la vita dello spirito » -G. Bianchi: « Una colonia universitaria in un sobborgo di Londra « Giulio Benso: « Corriere Femminile » - « Fra Dolcino c Margherita » - Fatti e commenti - Letteratura religiosa.
Bollettino della Società Teosofica italiana. Pavia. Anno X, fase. 8-9; agosto-sett. 1916-B. P. Wadia: « Lettere dal quartiere generale » - C. W. Leadbeater: « Australia e Nuova Zelanda » - G. Gaseo: « Fratellanza e Nazionalismo » -E. G.: • L’ora presente » -Haydée G. Messina: « Fratellanza?» - E. Pavia: «Antelucane • - E. Pavia: « Meditazione sulla libertà » - G. T. « Pensieri » - Notizie.
Luce e ombra. Roma. Anno XVI, fase., 9; 30 settembre 1916.- P. Raveggi: «Guglielmo Shakespeare » - E. Carreras: « Personalità spiritiche e subcoscenti » - M. Ballarelli: • Determinismo e indeterminismo: storia e critica della questione » - !.. Capuana:
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« Diario spiritico, ossia comunicazioni ricevute dagli spiriti per medianità intuitiva » -G. Morelli: « In morte di Raffaele Wigley » - Dott. G. Forni: «Del mondo degli spiriti e della sua efficacia nell'universo sensibile » - I libri -Libri in dono.
Revue chrétienne. Paris. Anno LXIII, agosto-settembre 1916. - E. Monod: « Lettres de jeunesse d’F.d. de Pressensé à Jean Monod»-John Vié-not: «Un honnête homme sous le Directoire »- H. Draus-sin: «Un prélat libéral italien (Mgr. Bonomelli) » - H. Dar-tigue: « De l'état d’esprit de la jeunesse intellectuelle avant la guerre»-L. Randon: «Un demi siècle de civilisation française » - Gédéon Jaulmes: « Le message des aumôniers militaires et l’Eglise luthérienne » - E. Vurpillot: « A pro F es de l’appel des aumôniers à Union des églises»-). E. Cerisier: « L’Angleterre pendant la guerre: clergé et service militaire » - « Histoire authentique d’un ancien ivrogne » - Les livres - Le mois.
Foi et vie. Paris. Anno XIX, n. 16; i°sett. 1916-Cahier A. - Paul Doumergue: « Pour mettre nos amis au courant » -E. P.: « En Orient: le ravin d'Oreovibza » - Ch. Garin: « Au milieu du peuple serbe: Les épidémies dans la Schou-madia » - Roger Merlin: 0 Impressions d’un évaqué en Suisse » - ecc.
Cahier B. - Marck Baldwin: « Le ‘Sur-Etat’ et les 4 Valeurs éternelles’ » - « Esquisse de la théorie du pangermanisme ».
Theexpositor. London. Anno XLII, n. 69; settembre 1916-Rendel Harris: « The origin of the prologue to St. John's Gospel » - H. T. Andrews: • The faith of the primitive church » - R. A. C. MacMili’attribuire agli odiati cristiani il prodigio e con esso la salvezza dell’esercito e la vittoria sui nemici. Perciò dovette lasciarsi correre per l'impero la notizia che gli stregoni avessero fatto scongiuri all’aria onde causare il temporale. È notorio che i Cristiani venivano generalmente considerati come maghi.
Ma se Tertulliano pochi anni appresso in una memoria ufficiale al proconsole imperiale dell’Africa ascrive la salvezza dell’esercito ai cristiani e fa appello ad una lettera dell’imperatore al Senato che ognuno avrebbe potuto vedere, doveva essere ben certo ciò a cui l’apologeta accenna allorché dice: «Marco Aurelio, nella sua campagna di Germania, ottenne fiumi di pioggia per placare l’ardente sete, quando i soldati cristiani elevarono suppliche al loro Dio» (1). Tertulliano ripete il suo accenno nell’apologià diretta alle autorità della provincia (2). Egli vi insiste anche pel fatto che, in seguito a questo mirabile avvenimento. Marco Aurelio prese a proteggere i cristiani, comminando severe pene contro chi avesse osato accusare un cristiano per la sua fede.
Certamente il numero dei soldati cristiani doveva già in quel tempo essere abbastanza considerevole in tutte le legioni, ma doveva particolarmente essere rilevante nella dodicesima. Tale numero dipendeva senza dubbio dai luoghi in cui le legioni venivano reclutate. Così erano in maggioranza cristiani i soldati provenienti dall’Egitto, dove il Cristianesimo si era larghissimamente diffuso in tutta la regione del Nilo. Egualmente deve dirsi della legione reclutata in Cappadocia, dove fin dalla metà del secondo secolo l’E vangelo ebbe numerosi confessori.
È naturale che nello stesso corpo militare i soldati cristiani fossero strettamente uniti tra di loro, e si comprende facilmente come in quelle terribili angustie per l’esercito uno dei soldati abbia potuto invitare 1 suoi compagni correligionari a levare insieme la preghiera a quel Dio da cui solo si poteva ormai sperare salvezza.
Più tardi sentiamo parlare ancora una volta della « legione fulminante »: un soldato di essa, Poliuto, conseguì il martirio sotto Decio a Melitine in Armenia. Negli Atti di questo martire v’è una descrizione di Suell’evento mirabile. Potrebbe attendersi che nel ecorso di un secolo la fantasia dei cristiani avesse aggiunto nuovo colorito e creato circostanze nuove per far sembrare ancora più meraviglioso quel fatto;
(x) Marcus quoque Aurelius in Germania expedi t ione Cristia-noruin militimi orationibus ad Deum factis imbres in siti sua impetra vit.
(2) “ Si litterae Marci Aurelii requirantur, quibus illam ger-manican sitim, Christianoruin forte militum precationibus imprecato irnbre discussasi contestatur „. La lettera dell’imperatore si trova in Appendice alle opere di San Giustino, ma la sua autenticità è ben dubbia.
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Invece la narrazione è assolutamente identica all'antica. « Come avrebbe Poliuto — così si dice negli Aiti — potuto comportarsi altrimenti (di restare intrepido nella fede cristiana), egli che apparteneva ad una legione, che numerò tra i suoi quei soldati divenuti famosi per la loro fede in Cristo, che seguirono l’imperatore Marco nella guerra contro i barbari? L’esercito romano si trovò allora in terribili condizioni per la siccità e l’arsura; l’imperatore era ormai scoraggiato poiché i nemici, sempre più potenti, stringevano dappresso, e la sete ed altri malanni tormentavano i disgraziati militi. V’erano però alcuni valorosi soldati di Cristo, che appartenevano alla stessa legione del nostro glorioso martire, che, appartatisi dagli altri, levarono al cielo le loro braccia, con ferma fede impetrarono pietà da Dio affinchè Egli volgesse il suo sguardo benigno e provvedesse alle necessità che opprimevano l’esercito. Non avevano ancor finito la loro preghiera, che il cielo si coprì di fitte nubi; rimbombò il tuono, sfolgorarono i lampi ed una pioggia cadde abbondante. Mentre i romani ne ebbero ristoro, i barbari ne furono invece in grandissimo numero distrutti. In seguito a questo, la legione si ebbe il nome di fultninalrix, la fulminante ».
Così quei soldati, oltre a combattere valorosamente, sapevano pure ferventemente pregare, e così nell’ora del pericolo venne l’aiuto dall’alto per mezzo di un fenomeno naturale, che recò la salvezza all'esercito romano e distrusse il nemico ».
{Trad. di E. Rutili}.
Ian: ■ The religion without a creed » - John Macaskill: « A transformation in socratic criticism, with an analogy» -J. E. Me Fadyen: «The mosaic origin of the decalogue » -A. C. Deane: «As having au-tority »- E. C. Selwyn: « A personal reference to St. Paul in the fourth Gospel « - W. N. Griffith: « A study of I Peter III, 19».
Record of Christian work. Nortfield, Mass. Vol. XXXV, n. 9; settembre 1916. - Robert E. Speer: « Dormant power » - G. Sherwood Eddy: « I will make you ■ - G. Sherwood Eddy: «The challenge of the present world situation » - ecc.
The biblical world. Chicago. Vol. XLVIII, n. 3; settembre 1916. - Frank Otis Erb: « The development of the young people’s movement » (the period of church appropriation -The period of differentiation -Problems and principles)
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Pubblicazioni pervenute alla Redazione
UN ESEMPIO
J.-E. Roberty: - Le mira-eie’ de la Marne >-Paris, Fi-schbacher, 1916. Pag. 18.
& A. .A
• La versione riveduta del Nuovo Testamento in lingua italiana »-Il Comitato e la opera sua - Roma, Deposito di S. Scritture, Palazzo Assicura. Generali, 25-1916.
N. B. La Versione riveduta co) 1® ottobre è in vendita presso detto deposito.
« I Makkabim • (Squadra ebraica di Firenze) - Edito a cura della Sez. fiorent. della Federa. Giovanile ebraica di Italia- Pag. 15.
A A A
Euclide Milano: Costumanze e leggende popolari delle regioni cuneesi (Estratto dalla ■ Rivista d’Italia ■). Roma, 1916.
A A A
Luigi Piccioni: Il giornalismo" il aliano. Rassegna storica (Estratto dalla » Rivista d’Italia ■). Roma, 1916.
A A A
M. Tamisier: Christianismc et Modernismo en face du problème religieux. Paris, Le-thiellcux, 1916. Pag. 404; Lire 3,75 (In Italia: L. 4.50).
A A A
Pietro Ellero: Aforismi morali. Torino, Unione Tip. Editrice Torinese, 1915. Pag. 343, L. 4 (Rilegato in tela).
Giulio Natali: Idee, costumi, uomini del Settecento. Studii e saggi letterari. Torino, S.T.E. N., 1916. Pag. 358, L. 6.
La guerra è da se stessa V esempio; e di miseria umana, cogli orrendi sfoghi di tale miseria, la quale costringe — anche coloro che più vivevano o più desideravano di pace — a reagire in nome del diritto: così che la guerra, pur considerata ieri come nemica da tener lungi e a cui sfuggire quando — in ¡specie — sappia stringere di reti auree; diviene — in opposto al delinquente sfogo di superbia e d’invidia —' sacrosanto dovere.
Non tutti, pure in tal caso, sono capaci d’intendere la responsabilità delle fiacchezze, dei timori per le imaginazioni e le critiche, che possono seguire ai primi entusiasmi ed offendere il fuoco ardente pel sacrificio. Ed è naturale, perchè siamo della terra noi, ed imperfetti: di ombra, cioè: e di nebbia o di buio; così che troppo spesso c’impediamo di conoscer la verità, che è nel profondo e d’intorno; e teniamo a offuscarla, mentre la luce è misericorde ed eterna, così che —" per la sua meravigliosa armonia — ove sembra ella manchi soltanto è dispersa, velata, evanescente, perchè altre creature fatte a irradiare, purificando gl’incontri, e ricercando i dispersi e i lontani, possano sentirsi cuori dei cuori e umilmente: riflettendo come tali non sarebbero senza la comunione fraterna degli altri — di tutti — conscia od inconscia — e senza la comprensione dell’urgente collaborare a nome loro o per essi.
Di tali anime ne abbiamo conosciuta più d’una durante ¡'incalzare della guerra e ne conosceremo; di molte sarà il silenzio, perchè non tutto l’eroismo si compie nel sole. Ed anche questo è bello; perchè più ci affiniamo di riflessione e sentiamo il dovere di addensare nei rari nomi lo spirito delle innumeri creature gloriose.
Tutti i giornali nostri parlarono di Renato Serra,
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di Scipio Slataper, di Giosuò Borsi.di Eugenio Vaina (1): gióvani già conosciuti prima del sacrificio per l’ingegno e la vita: e a questi nomi altri si aggiungono, di cui il breve passato fu ignoto e di cui il presente quello dimostra in nobiltà per l'avvenire.
Enzo Valentini, fra questi ultimi — diciottenne volontario: dell'aristocrazia perugina pel nome e della democrazia giobertiana e mazziniana per l’anima, che oggi ammiriamo traverso le lettere alla dolce mamma, la quale rispondeva degnamente - Suora della Croce rossa - alle giornate di Lui nel Trentino, presso il Monte Civetta aspro e violento, a cui il sole - nel sorgere - toglie durezza, così da somigliare • oro roseo nella caligine azzurra ad una grande ostia sopra un grande altare. La sera, poi, sembra perdersi, sfaldarsi, sfogliarsi nel cielo violaceo come una grande rosa immateriale e nelle notti di luna ha qualche cosa di rigido e di placido, come un blocco di lapislazzuli immerso nel glauco verdore del cielo, dove le stelle languono
nella dolcezza autunnale. Ogni ora che passa, ogni nuvola, ogni caligine riveste la montagna di una nuova bellezza, tanto che anche i più rozzi dei nostri buoni soldati contadini certe volte si fermano a guardare: non è che un momento, ma basta per dimostrare che l’anima non si dimentica della sua celeste nobiltà, neppure s’è imprigionata nella scorza più rozza ».
E nulla sfugge a questo idealista, per cui ogni attimo, ogni cosa della realtà — sia essa privata o sociale, religiosa, scientifica, artistica— ha la significazione di ricerca umana pel superamento; così che la guerra, se conduce alla morte, è per la redenzione della vita.
SEttFER-ViKENSS
(x) Mi è caro riportare le ultime parole giuntemi da Eugenio Vaina, che ne clcvan tutto il valore: ■ Col pensiero della mia piccola famiglia che mi attende ad Aosta, il ricordo degli amici di antica data è ciò che quassù sento più necessario del pane. Sapesse la gioia de’ mici alpini quando si vedono spuntare i muletti colla posta, ed un caporal maggiore sale a distribuirla, ed ognuno riceve qualche cosa! Si dimentica allora la notte sotto la pioggia, la giornata nel fango, il rancio scarso, la prossima notte in marcia od in trincea... Questa ¿la nostra vita: una quotidiana fatica nella quale dobbiamo immettere c mantener vivo il nostro entusiasmo contro ogni apparenza.
Il giorno sacro alla mia povera mamma è passato per me, questa volta, proprio due dita lontano dalla morte. Fu il 4 corr. (luglio) giorno d’operazione: una mitragliatrice falciava instancabile entro
Mattia Moresco: II Patrimonio di S. Pietro. Studio storico-giuridico sulle istituzioni finanziarie della Santa sede. Torino, Fratelli Bocca editori, 1916. Pag. XV-364. Lire 12.
a & &
Giuseppe Senizza: Storia di Trieste. Dall'epoca romana alla guerra di rivendicazione Con 15 illustrazioni. Firenze, Bemporad, 1916. Pag. 115. Lire 1.
a a a
Enrico Melchiori: L’evoluzione del sentimento nazionale e l’epopea del risorgimento italiano. Roma. Soc. Ed. Dante Alighieri di Albrighi e Segati. Pagine 78. L. 1,50.
Pericle Ducati: Sui riti funebri dei sepolcreti etruschi felsinei. Bologna, Stabilim. Pòli-graf. Emiliano, 1915. Pagine 86 (Estratto dagli « Atti e femorie » della K. Deputazione di Storia Patria per le Romagne. IV serie, voi. V).
A A A
Pompeo Molmenti: Venezia alla metà del scc. XVII. Relazione inedita di mons. Francesco Pannocchieschi (Estratto dai Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Voi. XXV ser. 5“, fase. 40). Roma, 1916. Pag-i5SA A A
Giuseppe Landini C. R. S. Appunti di critica storica per l'Origine e la Vita delle Fra-ternite Laicali in Italia. Il Lamento della Vergine secondo il Codice 180. Perugia, Unione Tipogr. cooperativa, 19x5. Pagine 86.
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& & &
Niccolò Tommaseo: Della Educazione. Desideri e saggi pratici. Nuova edizione curata dal prof. Guido Della Valle. Tonno, Paravia, 1916. Voi. I: pag. 446: voi. II: pag. 432. Prezzo dei 2 voli.: Lire 6.
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Raffaello Lambruschini: Della Educazione. Nuova edizione con introduzione e note del prof. G. B. Cerini. Torino, Paravia, 1916. Voi. unico di pag. 307; L. 3.
• Guida di un viaggiatore da morte a vita ». Libretto di E»ensieri, appelli, raccontini re-igiosi. Editore A. E. Pullen, Spezia. Per posta cent. 40. Tre copie L. 1.
a a a
Raoul Allier: Le commandement difficile - La conscience muette - La victoire de la vie -La défaite de la mort - Morts prématurées - Solidarité tragique - La victoire des humbles - Les triomphes de l’esprit -Justice et calcul - Dans l'a mêlée de l’histoire en marche — Les souffrances libératrices -Après la tourmente - L’implacable ennemi - Vocation de France - Supplications nationales - Ouvriers des causes saintes - Le prix\de^la justice-L’héroïque attente - Le message des tranchées - Le legs del’année qui meurt - Le drame de Noël - Les floraisons de guerre - La mystique de la guerre-La neutralité de Dieu - Le procès de Dieu - Sur la voie douloureuse - Devant la souffrance - Devant nos morts -Conferenze - In Italia cent. 40 ciascuna. Edit. Librarie de Foi et Vie, Paris.
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L'uomo interroghi sé; scruti il profondo; ne riconosca i baleni e le nuvole — e così nel di fuori, durante il cammino, in ogni ora delle giornate (c per giornate s'intendano sovratutto quei periodi del tempo nostro in cui giungiamo a distinguerci tali quali siamo in difetti e in virtù, rispetto a come e chi dovremmo essere): solo nel silenzio, dinanzi e nel cuor della natura noi riconosciamo la bontà e la ragione della vita, poiché nella natura è diversità innumerevole di creature; di moto, quindi, di comunione, di trasformazione; e tutto e sempre — nonostante le tempeste telluriche o aeree tragiche e distruggitrici — tutto e sempre per l’armonia universale, di cui l'uomo è destinato ad esser fratello maggiore e maestro: in ogni scienza, l’artista.
Questo sente il Valentini, che nell’attimo dinanzi alla morte, fra il grandinar delle palle nemiche e il cannone rombante, sorride all'edelweiss, che scorge d’improvviso. E dice ad un amico, cogliendolo: — E’ vero ch’è una cosa carina? Mi porterà fortuna — Egli che non ignaro di scienza geologica della flora e della zoologia (una collezione d'insetti gli valse tante ore di gioia pura), quasi per viverne più intensamente e comunicarvi fraternità buona nei giorni di fratricidio costretti da giustizia — umile e grande — preferiva rimaner semplice soldato.
Stralcio alcune pagine dalla raccolta di lettere (1); capaci a penetrare di commozione più che lo scalpello e 1 colori:
*21 luglio.
« Verso le 6 è venuto il colonnello e un capitano a cavallo. Noi eravamo in rango; io con la bandiera, in testa. Il capitano, ritto sul cavallo, ha cominciato a gridare con voce metallica nel silenzio della montagna i nostri nomi, a uno a uno, e ad assegnare a ciascuno la sua compagnia. E’ stata una cerimonia un poco triste, perchè ciascuno incarnava in quel capitano il destino ferreo e irremovibile, e ciascuno temeva la legge non scritta ».
< 26 luglio.
« Mezzanotte. — Sveglia. Mi son levato subito dal mio giaciglio; ho messo le giberne e la mantellina, ho impugnato il fucile e inastata la baionetta. In un angolo della baracca, al lume rossastro e vacillante di una candela, altri soldati sono intenti al mio stesso lavoro; son quelli che, come me, sono stati scelti per andare
le nostre file. Il caso 0 la Provvidenza ha scelto me per la vita mentre i compagni e i soldati mi cadevano accanto. Poi una lunga giornata di meditazione in mezzo ai feriti, sotto il riparo d’una roccia. Ho visto della guerra, ormai, anche tutto il rovescio; ma con ciò non rinnego la mia prima e ferina fiducia che da questa guerra possa uscire, se noi sapremo volerlo, una grande giustizia ».
(x) « Lettere e disegni » di Enzo Valentini, volontario di guerra* XV luglio-MCM XV- XXII ottobre. Stab. Tipogr. G. Zon-nini, Perugia, 1916, Ila edizione.
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in ricognizione stanotte, col tenente Zorclli, il quale non tarda a comparire. La pattuglia si forma; otto soldati, il sergente maggiore e il tenente, tutti armati di fucile e di baionetta, ravvolti e taciti. C'incamminiamo su per la montagna, verso il posto di guardia che ho occupato ieri notte, in fila indiana. Una nebbia fittissima ingombra le cime, invade i costoni, stagna nella bassura; ma la luna invisibile nel cielo lontano rischiara il nebbione e l’imbeve della sua luce, per modo che la notte non è nera. Col fucile alla mano c’inoltriamo silenziosamente nel passo, sempre però alti nella valle, tagliando di traverso l'immenso costone erboso che sopra e sotto di noi svanisce, ingoiato dalla nebbia. Tutti i sensi in allarme sono tesi verso la notte senza suono; gli alberi e i sassi assumono forme umane che subito perdono; si sente vivere e vigilare nella notte ingombra una potenza ostile ».
<28...
«E' una giornata splendida piena di sole, calda come le nostre giornate d’aprile. Un fremito di vita più intenso corre sul vento a sfiorare i prati su cui vola, contro il solito, una folla di farfalle alpine, tutte piccole e svelte, con un non so che di nervoso e di affrettato nel volare e nel bere ai fiori, che fa quasi pensare che esse temano di non poter sbrigare i loro affari prima che le vallate comincino a vomitare la nebbia su per i pendìi. Fra i prati e i cespugli il ruscello corre cantando e la montagna serena vigila enorme su questo brulichio di piccole vite, ciascuna delle quali splende sullo stesso fondo oscuro di mistero, su cui ella campeggia. Con questi pensieri nella testa, lavando la mia camicia, io mi sento vicino a Dio ».
29...
• Oro. Verso sera la nuvolaglia grigia si rompe ad occidente sul grigio antimonio della roccia. A poco a poco la montagna si copre d’oro e di rame rosse, fiammeggia come un braciere, fuori dell’ombra che stagna nella valle, sola contro il pallido cielo color giacinto. Il ghiacciaio splende sul dorso di rame solcato da lievi ombre d’un azzurro dolcissimo; intorno alla vetta erra pigramente una nube color zafferano. Finalmente tutto il cerchio delle vette lontane s’incendia, s’arroventa, s’indora, si placca di rame, di bragie, di por-5ora, sull’immensa distesa di colli coperti di boschi, oi, come il sole dispare, sulla bragia si distende qualche falda di cenere che diviene più spessa, si estende fino ad occupare tutte le coste e tutte le vette, la roccia fiammeggia ancora come una rosa di fuoco sul cielo spento, poi si estingue coperta di cenere.
« Azzurro. Allora il color della notte incomincia a fluire nel cielo di giacinto, che perde il suo roseo e s’inazzurra sempre più, fino alla nascita delle stelle, fino all’alba della luna; e su dalla valle sale l’azzurro pei prati di malachite, su per le roccie di cenere; finché l’immensa cerchia dei monti non levi contro le stelle
LIBRERIA EDITRICE “BILYCHillS"
Via Crescenzio 2, ROMA
la deposito:
NOVITÀ
★ ★★
LA BIBBIA E LA CRITICA
Voi. di pag. 150. Prezzo L. 2. (Sono 12 lettere ad un giovati studente turbato nella sua fede cristiana di fronte ai risultati della critica biblica).
Riproduciamo qui la prefazione dell’avv. S. Mastrogio-vanni.
... ma lo spirito vivifica.
Nel dicembre del 1912 il bollettino di cultura religiosa « Fede e Vita » (1) proponeva ai suoi lettori italiani, come tema di studio, la moderna indagine critico-storica sulle Sacre Scritture nei suoi rapporti col contenuto della fede cristiana.
Da cinque o sei anni le questioni religiose erano tornate ad appassionare il grosso pubblico, sopratutto per merito (o per colpa) del cosidetto movimento modernista, e i delicati e complessi problemi di storia, di scienza, di filosofia delle religioni in genere — e del cristianesimo in particolare — erano dibattuti per fino sui grandi quotidiani con quelle deformazioni a volte innocenti, più spesso consapevoli e interessate, che ognuno può facilmente ricordare.
Dopo tanto fervore di parole e di gesti, « Fede e Vita • voleva indurre qualche studioso italiano a raccogliere in serena e chiara sintesi i risultati più certi — non diciamo definitivi — della cri(1) Redatto da chi scrive queste parole d* introduzione.
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tica biblica: un lavoro che dovesse particolarmente servire a studenti universitari per prevenirli contro certe tendenze astrattistc e semplicistc che in niun altro campo si esercitano con maggior vigore e con effetti più perniciosi come nel campo religioso, il più complicato — per chi sa — e il più vitale.
Il mirabile saggio che qui pubblichiamo, a quasi quattro anni di distanza, è appunto il lavoro riuscito vincitore, su quattro, nel concorso di « Fede e Vita ». Di'esso, dopo averlo letto con vero godimento dell'intelletto e dello spirito, non possiamo che ripetere quanto ne scrisse uno degli esaminatori: «è opera pregevolissima di persona perfettamente al corrente di tutti gli studi moderni e che, pur tenendosi strettamente al tema, non fa alcuna pompa di erudizione: l’argomentazione vi è sempre persuasiva: ogni parola è pensata, ogni frase costruita con la massima precisione. Non conosciamo in alcun’altra lingua un’opera di eguale pregio sull’importante tema proposto ».
Basterebbe questo per renderci soddisfatti e lieti della nostra iniziativa. Ma un altro elemento ci preme porre in rilievo: ed è lo spirito schiettamente cristiano che illumina, che vivifica queste pagine. Da ogni più diritta e rigorosa discussione critica, da ogni più grave e temibile dimostrazione scientifica, scaturiscono nette e precise, scevre da contaminazioni ideologiche e da compromessi verbali, affermazioni puramente religiose che tendono anch’esse con eguale rigore scientifico a persuadere, non mai a commuovere; o commuovono solo in quanto persuadono, appunto perchè al giovane lettore, che vuol rimanere o divenire uomo di scienza e
accese nel cielo d’oltremare i suoi torrioni di lapislazzuli, i suoi ghiacciai di madreperla, le sue nebbie di opale e la valle smeraldina non posi calma e fredda, azzurra sotto lo sguardo della luna pièna ».
« 19 agosto.
< La stagione è cambiata e a quando a quando pioviggina o fa qualche chicco di nevischio rado e stanco: quando il cielo è sgombro, nella conca ancor verde della valle si aduna non so qual dolcezza settembrina fatta d'aria chiara e di silenzio luminoso, che la voce degli uccelli dispersi scandisce senza interrom-Ìjerlo, come quando nelle nostre campagne, invase dal anguore dell’estate morente, parla l’allegria degli uccelli migranti. Su queste rocce si pavoneggia al sole il culbianco, facendo scintillare a tratti la neve della sua coda, e il codirosso montano volteggia pazzescamente allegro, alzando e abbassando il suo ventaglio di rubini e gonfiando orgoglioso la gola nera e lucente come la scaglia del carbone. Di tanto in tanto scendono a larghe ruote, sugli ossi sparsi sotto le cucine sul costone del monte, branchi immensi di gracchi dall’agile volo, color d’ebano, lucenti come il nostro corvo, ma distinti dal becco di avorio candido: c talvolta, come un agile fuso lanciato da una mano invisibile, traversa rapido l’aria della sera un rondone alpino. Raramente, e timida dell'altezza inusitata, persino la rondine ci porta la grazia famigliare dei suoi voli e dei suoi trilli e poi torna a valle. 11 merlo ricorda i lieti vigneti delle colline lontane e il fringuello alpino dalle ali di neve sontuosamente rappresenta la sua modesta famiglia, quassù.
« 30 agosto.
• In questi ùltimi giorni ho fatto un’osservazione interessante, ed è che gli animali alpini sono sublime-mente indifferenti al frastuono della guerra. Io ho veduto, durante un cannoneggiamento assordante, una donnola (o un ermellino? non so. perchè in estate l’ermellino è color cannella come la donnola) scherzare fra le rocce su cui imperturbabilmente camminavano aggrappati alla scarpata verticale i rampichini alpestri, aprendo ogni tanto il largo ventaglio di color di sangue delle loro ali, vivo contrasto al grigio delicato della testa irrequieta. Il rombo delle granate non fa tacere i piccoli saltalippi, che tacciono solo al muover più lieve dell'erba. !£' un fenomeno strano, che si potrebbe spiegare, ammettendo che tali rumori esorbitano talmente dalla cerchia della loro piccola vita da esser nulla per essi; e forse, passando dal mondo dei sensi a quello dello spirito, e dagli animali all’uomo, una simile teoria si potrebbe pure applicare come spiegazione dell’incredulità e dell’ateismo ».
« P. S. Un solo animale ha avuto paura della guerra e si è ritratto sulle verdi montagne che abbiamo lasciato dietro di noi, ed è il camoscio ».
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• i ottobre.
« Oggi sono di guardia distaccato al solito posto sul costone del monte che guarda il laghetto. Nevica ogni tanto e ormai non c’è un centimetro di terreno scoperto. La solitudine ha perso ogni materialità, è un biancore diffuso che sale dalla terra e svanisce nella nebbia che nasconde il cielo: un velario di nebbia si lacera e compare, come un’allucinazione, un lembo di spettrale paesaggio, che fa pensare al gelido immouomo di fede, l’autore non fa che disvelare semplici e antiche verità che erano state soltanto offuscate da presunzioni di cattivi scienziati e da transazioni di cattivi apologisti.
te dolomiti
L’autore, che nel concorso aveva assunto il più comune dei cognomi italiani (Rossi) è uno studioso italiano. Non possiamo dire di più. Egli ha voluto e deve rimanere ignoto al pubblico. Le ragioni possono facilmente intuirsi. Ricorderemo ancora una volta, in questa occasione, che la libertà religiosa, fondamento e sintesi di tutte le altre libertà, è la più difficile a conseguire; ma diremo ancora col nostro autore che se certi dissidi concettuali tendono a separarci gli uni dagli altri e ad allontanarci tutti dalla vera libertà di credere c di pensare, noi dobbiamo anche per ciò intensificare la pratica religiosa, la sola che nell’unione fraterna possa farci spiritual-mente liberi.
S. Mastrogiovanni.
bile Ade; un raggio obliquo di sole rivela qualche linea, qualche forma dolcemente molle e bianca e dà alla montagna l’aspetto di un alto rilievo scolpito in un argento opaco: di notte è la terra che illumina il cielo del suo candore diffuso«.
« 3 ottobre.
< Da due giorni il cannone tàce. La montagna dorme nel suo silenzio o nel suo candore, terribilmente beila. Fino a poco fa, ci pareva di conquistarla contro un nemico che ce la contrastava: oggi, sentiamo che noi non la conquistiamo, nè gli austriaci difendono la montagna, ma la montagna tollera noi e loro. La neve è discesa dal cielo su noi e sui nostri nemici, ha coperto la montagna del suo manto regale d’ermellino, sì che apparendoci nella sua maestà imponente ella ci ammonisce c ci fa vedere la piccolezza nostra e l’impotenza dei nostri uragani d’ira dinanzi alia sua forza sacra, che viene dall’alto. Il grande silenzio ha vinto il frastuono; il grande candore ha arrestato l’impeto ostile compresso in noi. La montagna vince l’uomo; noi non osiamo odiare; e per questo la vittoria della montagna è un aumento di luce negli animi che aspirano alla luce».
IL “ PADRENOSTRO „ E IL MONDO MODERNO
Leggiamo su La Riforma Italiana del ^settembre 1916: « Poche volte nella storia i cristiani consapevoli e serii avranno recitato la grande preghiera cristiana, il Pater nosler, con l’intima commozione che deve ai credenti sinceri nel Cristo ispirare oggi questa preghiera di perdono e di amore. Essi si chiederanno per quale intima ed antica tristezza umana, per quali colpe non espiate, l’avvento dei regno sembri dover
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esser chiesto, dopo venti secoli, alla spada più che all'amore, alla grande vendetta più che al grande perdono. E desidereranno di penetrar più addentro, se è possibile, nel significato della preghiera che tante madri insegnano - invano! - ai loro bambini. Ecco un libro che giunge per essi, a proposito: Pietro Chi-minelli: Il Padrenoslro e il mondo moderno - edito dalla Direzione della Scuola teologica Battista, Roma, via Crescenzio 2, L. 3.
< Il libro è una diffusa analisi storica, filosofica, mistica, della preghiera e delle sue singole parti; ed ha lo scopo di condurre il lettore alla - riscoperta » di essa, la quale • avrà per la vita l’effetto di una continuata benedizione ». Scritto con accurata preparazione e con fervore mistico, esso farà certamente del bene. L’elegante volume ha bellissime illustrazioni di Paolo Paschetto ».
IL SANGUE E L’ALTARE.
E queste ultime parole: • La vittoria della montagna è un aumento di luce negli animi che aspirano alla luce » è il complemento della giovine vita di cui Bilychnis conosce le ultime volontà lasciate alla Mamma dai capelli bianchi, custodia ed aureola del dolce viso, a cui il dolore dette le impronte della sapiente Bontà. Ed è bene meditarle per aver dinanzi — scolpita — la nova personificazione delle giovinezze future; e noi sappiamo di poter elevare tale personificazione — simbolo e realtà — a somiglianza del puro Eroe biblico: David fanciullo contro il gigante filisteo « che aveva in testa un elmo di rame ed era armato d’una corazza di rame a scaglie, il cui peso era di cinquemila sicli. Aveva eziandio delle gambiere di rame in su le gambe e uno scudo di rame in mezzo alle spalle. E l'asta della sua lancia era come un subbio di tessitore e il ferro di essa era di seicento sicli e colui che portava il suo scudo gli andava davanti, mentre David non può «camminar con queste armi», «e prende il suo bastone in mano e sceglie dal torrente cinque pietre pulite e le pone nel suo arnese di pastore e nella tasca, avendo la sua frombola in mano ». « E quando il filisteo ebbe riguardato ed ebbe veduto David, lo sprezzò; perciocché egli era- giovinetto, biondo e di bello sguardo ». ■ Ma David disse al filisteo: — Tu vieni contro me con ¡spada e con lancia e con scudo; ma io vengo contro a te nel nome del Signore degli eserciti ». (1)
Ogni figura come la tua, Enzio Valenti™, rappresenta più di se stessa e della propria sua razza; ogni popolo in diritto di libertà è, come te, il David che atterra Golia e lo vince, oltre la morte; e così Tu sei, Belgio; Tu, Serbia, Polonia ed Armenia...
Romolo Murri: Il sangue c rollare. Roma, Libreria Ed. Bilychnis, Via Crescenzio, 2 Lire 2.
Questo libro del Murri si legge con vivo interesse. Perchè c’è in esso l’audacia di un formidabile problema: il significato della vita e della storia, visto nella possente commozione di questa terribile guerra; il valore della religione, come tentativo sempre rinascente e sempre ri-discusso, di cercar di scuo-prire quel significato.
Ciascun uomo si fà con infinito lavoro il suo piccolo mondo, spesso senza sapere donde gli vengono i mateUn giorno d’ottobre del ’914 (dopo un anno egli è morto) parlavamo della rinascenza morale e religiosa in Italia e delle riviste a ciò dedicate. Nominai Bilychnis, intrattenendomi a parlare della genialità spirituale ed artistica delle figure e dei segni simbolici a a cui i primi secoli cristiani tanto affidarono; e presentai qualche numero della Rivista. Egli disse con letizia: — Mi abbonerò, — assetato com’era di comunicare con ogni cosa e ogni mezzo che mirasse alla luce, e, quindi, assetato di fede e di scienza, di penetrazione dell’una nell’altra per aiuto reciproco in verità.
Il volume delle lettere sue reca varii interessanti disegni. « Ho stilizzato per te una delle più gigantesche e delle più belle muraglie dolomitiche, il Monte Civetta» scrive a sua madre; e un altro eccelso punto di quelle Alpi noi ammiriamo (pag. 81), dalle cime agili verso il cielo, come le guglie d’una cattedrale. E di alta manifestazione dell’anima sono gli ex-libris dai nomi ideali: « Per aspera ad astra »; « Non dolet sed olet »
(1) 1 Samuele, XVII, 4-45-
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di cui egli stesso scrive: — « Ho cercato con questo disegno, e forse ci son riuscito, di esprimere una delle più belle e profonde idee del libro di Maeterlinck (La sagesse et la destinée). Il motto vuol dire " non si duole ma odora. „ Come la resina del pino colpito dall’ascia si muta al contatto della fiamma in una nube di profumo, così il dolore dell’anima colpita dal destino diviene dolcezza, purificandosi al contatto d’un’idea pura e forte come la fiamma, ed è in questo modo che ufi destino infelice diviene sopportabile ». Altri ne seguono: « E quivi è perfetta letizia »; « Fluctuat nec mergitur »; « In altum tendo »; « Semper virens » (gravi e oscuri cipressi, fra candore di neve): « Semper resurgens » (torcia accesa verso la terra, e di cui la fiaccola tende dal basso - dal fango - all'alto, alle stelle); ed anche un lembo dell’Umbria troviamo: «Dintorni del Trasimeno» il luogo della serena pensosità ; e un'autunnale famiglia di cipressi, ben conosciuta da lui, nella luminosa campagna della loro villa in
Laviano — fra i confini dell’Umbria e la Toscana — la quale si dora al sole, sulle colline che il « mio ricordo — egli scrive — e il mio desiderio non perdono mai di vista ».
Tale figurazione di motti, che sanno d’intima e nobile vita, e la nostalgia dei punti, in natura, più solenni e soavi basterebbero a dimostrare il valore di questa giovinezza. Noi aggiungiamo: certi esempi siati alla Storia — com’Egli scrisse alla madre — stelle per la sua corona.
Vittoria Fabrizi de Biani.
A FASCIO.
Compito della donna nell’ora presente.
Si parlò a suo tempo del congresso. internazionale femminile tenuto all’Aja nell’aprile-maggio del 1915, i cui voti furono presentati da una cam missione alle diverse corti d’Europa, incontrando ovunque liete accoglienze e cortesi assicurazioni.
Un gruppo di signore francesi impedite dall’inter-venire aderivano con una lettera collettiva da cui togliamo alcune frasi: « La pace verrà; tutti la desideriali per la costruzione; e questi innumerevoli piccoli mondi sono dominati, avvolti e talora sconvolti,' come da un grande uragano, da energie, da passioni, da potenze misteriose, per le quali si è anche costretti a operare sacrificandosi.
La forza occulta che travolge gli uomini nella guerra è quella stessa che creai le religioni e le patrie e le concezioni varie e cozzanti del mondo e della storia; è l’anima umana affaticata da un destino che la trascende e che si insinua in essa attraverso alle lente formazioni secolari concretantesi negli istituti sociali.
R. Murri sente e vive e comunica spesso al lettore l’ansia di così inquietanti ed essenziali domande. Nella coscienza dell’Europa in guerra, egli scruta questo travaglio secolare che forma le fedi e gli ideali e le patrie e le istituzioni; un passato in gran parte ignoto, che si precipita verso un avvenire solo vagamente intraveduto. Che importa se a pena qualche rag-Eio di luce rischiara le tenere così fitte? Le tenebre danno un brivido religioso e la luce improvvisa rischiara profondità insospettate.
Gli spiriti vuoti, superficiali,. quelli che hanno l’abitudine di impiccolire il mondo sino alla loro piccolezza, per illudersi di capirlo, sono pregati di non leggere queste pagine; non ci si troverebbero.
Novità.
la deposito:
È uscito il IV volume di Jean Lafon: Evangile et Patrie. Discours religieux. Voi. di 257 pagine. L. 3,75.
Sommario: Ne jugez pasta minorità protestante et
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l’union sacrée - La loi du Christ - Semailles et moisson - Le réveil - Le vertige de l'orgueil - La gloire - Le Vivant - L’héroisme chrétien -Pour eux! - Les sources - Les déguisements de Satan - Ce 3ui manque aux souffrances u Christ.
o o o
Cumont Franz. Le religioni orientali nel paganesimo romano. Traduzione di Luigi Salvatorelli, pag. 309. L. 4.
000
Profezie di Isaia figlio di Amox. Tradotte e chiarite da Antonio Di Soragna, pag. 186. Lire 5.
000
Opuscoli e lettere di Riformatori italiani del Cinquecento a cura di Giuseppe Paladino. Volume primo, pagine 291. L. 5,50.
000
Santa Caterina da Siena. Libro della divina Previdenza volgarmente detto Dialogo della Divina Provvidenza. Nuova edizione secondo un inedito codice senese, a cura di Ma-tilde Fiorilli, pag. 474. L. 5,50.
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[Novità] J. E. Roberty: Pour l'Evangile et pour la France. Pag. 132, !.. 2,65.
Sommario: Les tourments de la guerre - Les prières non exaucées - Heureux les morts! - La marche en avant - Le désir de mourir - Le patriotisme de Jeanne d’Arc - La recherche de Dieu - Le doute -L’amour vient de Dieu.
rano. Ma quanti non vi scorgono altro che il prolungamento di odi che essi vorrebbero fossero eterni! L’odio genera l’odio: e noi vogliamo, invece, una pace sincera, una pace di anima. E, questo esempio di perdono generale debbono darlo le donne, non ostante il loro dolore personale, anzi, a causa di questo dolore appunto. Noi vogliamo una pace permanente, una pace fondata sul diritto. Che le donne si oppongano al sogno brutale di schiacciare una nazione sogno di cui economisti eminenti quale Norman Angeli e Charles Gide han mostrato l’impossibilità e il pericolo... Le donne hanno una gran missione da compiere: che non indugino a mettersi all’opera ». A queste parole avvicino quelle con cui una dama francese, che dedica tutte le sue cure a’ feriti tedeschi, in ricambio dell’assistenza premurosa e cortese prestata al suo consorte morto e sepolto in terra nemica, accompagna le notizie che trasmette ai lontani parenti dei suoi feriti o defunti con le parole: «Possa esser grande in tutti i paesi il numero di quelle donne, i cui cuori scevri d’odio non palpitano che di carità: di carità che tutto può, c tutto sopporta ».
Istituto “Carnegie,, per la pace.
Il consiglio direttivo dell’istituto «Carnegie» per la pace internazionale ha inviato a tutti i sodalizi pacifisti del mondo una circolare, nella quale si trovano questi passi: « Noi vogliamo dire agli amici della pace, che la terribile guerra che oggi infierisce non c una giusta ragione per scoraggiare e discreditare gli sforzi [•recedenti, nè un argomento per credere che gli sforzi uturi saranno vani ed inutili.
Questa immane guerra può essere un vangelo di 5ace mediante la stessa terribile lezione che sta iri-iggendo ai popoli. Non solo la distruzione delle vite, la devastazione e le sofferenze d’ogni maniera nei paesi guerreggianti soverchia ogni esperienza; ma la produzione e i mercati mortalmente colpiti, l’interruzione delle vie commerciali, hanno compromesso " le industrie e prodotto rovine e miserie anche nei Paesi non belligeranti. Potrà la terribile lezione venir mai dimenticata? Gli enormi sacrifìci saranno stati fatti invano? Potranno mai popoli si duramente colpiti continuare a seguire la via di una politica di sospetti e di avversioni, la quale condurrebbe nuovamente a simili risultati?... Noi proclamiamo fin d’ora la necessità di costituire una corte di giustizia per qualsiasi questione internazionale; e di stabilire serie sanzioni per imporre il rispetto e l’esecuzione dei suoi verdetti... salvaguardando i diritti umani e perfezionando l’uso della libertà.. » G Pioli.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerènte responsabileRoma - Tipografia dell’Unione Editrice, Via Federico Cesi. 45
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