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BILYCHNI5
Anno Vili. - Fasc. XI e XII. ROMA - NOV.-DICEMBRE 1919 Volume XIV. 5-6
Agli amici.
U. DELLA Seta : La Disione morale della Dita in L. da Vinci.
R. NAZZAR! : Intelletto e ragione.
S. M.: Fingendo di 'rileggere Pascoli.
M. ROSSI : Gli Ebrei in Italia (con una tavola).
G. PIOLI : L’ « Etica della simpatia » nella « Teoria dei i sentimenti morali » di A. Smith.
V. CENTO: L’essenza del modernismo.
G. E. MEILLE: Psicologia di combattenti cristiani.
P. TUCCI : Uno scritto di M. Lutero.
Intermezzo (con una tavola).
RUBRICHE FISSE:
Per la cultura dell'anima: G. Luzzi -G. E. MEILLE.
Note e commenti: Dell'Isola-Schwarz - WlNAY, ecc.
Note e documenti: E. Rimu, ecc.
Cronache - Quinto Tosato: Politica vaticana e azione cattolica.
Tra libri e riviste - Rassegne: r. ep. - M. -R. CORSO - Recensioni - Letture ed appunti Pubblicazioni pervenute.
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RII YCHNIS RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
D1L* I vnillu < < < « FONDATA NEL 1912 > > > >
CRITICA BIBLICA - STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA PEDAGOGIA
FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE - QUESTIONI VIVE - LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELL GIOSO ^_LA VITA_RELIGIOSA_IN^ ITALIA E ALL' ESTERO ...*_____" ._?!
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Róma.
D. G. WhITTINGHILL, Th. D., Redattore per 1*Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l'Italia, L. 10; Per l’Estero, L. 15; Un fascicolo, L. 1,50 (Per gli Stati Uniti e per il Canadá è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica, B. D. Pastor, 1414 Castlc Ave, Phlladelphìa, Pa. (U. S. A.)].
Abbonamento annuo cumulativo con la Rivista di Milano, rassegna quindicinale di letteratura. poesia, critica, arte e politica, L. 30.
Altri abbonamenti cumulativi in preparazione.
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Corrispondenti e coi laboratori sono pregati & indirizzare quanto riguarda ìa Redazione impersonalmente alla
Direzione della Rivista “BILYCHN1S” - Via Crescenzio 2, ROMA 33
Gli articoli firmati vincolano unicamente l opinione dei loro autori.
I manoscritti non si restituiscono.
I collaboratori sono pregati nel restituire le prime bozze di far conoscere il numero degli estrótti che desiderano e di obbligarsi a pagarne le spese. Per il notevole còsto della carta e della mano d’opera la Rivista non dà gratuitamente alcun estratto. .
Nel 1920 pubblicheremo, tra gli altri, i seguenti articoli:
G. Ferretti, Le fedi, le idee e la condotta.
P. E. PavòLIN’I. La religione degli antichi Finni. !
F. De Sarlo, L'opera filosofica e scientifica di I E. Haeckel.
E. Troilo, La filosofia di Giorgio Polileo (con | ritratto).
G. Lesca, Filosofia e religióne nella poesia di ì G. Pascoli.
M- Rossi, Lutero.
A. De Stefano., La riforma religiosa di Arnaldo ; da Brescia.
Fr. Giulio, La filosofia di Benedetto Croce.
F. Momigliano, / momenti dei pensiero italiano. •
G. Tucci, A proposito dei rapporti fra cristiane- i simo e buddismo.
A. Renda, Incompetenza della psicologia nello j studio dei valori.
A. Renda. Le riduzioni dei valori.
A. Chiappelli, La critica del Nuovo Testamento nel XX secolo.
C. Formichi, Paul Deussen nella vita e nelle opere.
L. Salvatorelli, Lo Stato nel pensiero cristiano del II e III secolo.
R. Corso, La rinascita della superstizione.
G. Piòli* Uomini e cose d’Inghilterra (note).
- L’unità nelle scienze, in filosofia morale e religione.
P. ArcaRI, La pittura religiosa di Eugenio Bur~ nard (con illustrazioni).
P. Orano, / cattolici in Parlamento.
— Il problema della scuola.
G. Costa, Il valore storico della « passio S. Fe-liciani ».
Altri collaboratori ci hanno assicurato il loro contributo: contiamo di dare nel prossimo fascicolo di gennaio I titoli dei lavori promessici.
L'Amministrazione di Bl LYCHNIS ricerca copre del fascicolo della Rivista del febbraio 1919 ; le contraccambierà con pubblicazioni di sua edizione del valore di L. 2.
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BIL1CMNB
RJVISlADI ÜVDi RELIGIOSI
EDITA CULLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA - DI ROMA*
Anno ottavo - Fasc. Xl-XII.
Nov.-Dic. 1919 (Vol. XIV. 5-6)
SOMMARIO:
Agli amici..................................... . . Pag, 214
UGO Della Seta: La visione morale della vita in Leonardo da Vinci > 216
R. NaZZARI: Intelletto e ragione...... ........................* 229
S. M. : Fingendo di rileggere Pascoli ..... » 240
M. ROSSI: Gli ebrei in Italia..................................> 244
[Distribuzione totale degl’israeliti - Tavola tra le pag. 244 e 245J.
G. Piòli : 27 < Etica della simpatia » nella * Teoria dei sentimenti morali » di A. Smith. . . . ........ ...... > 246
V. CENTO: L'Essenza del modernismo.............................> 261 •
G. E. MEILLE: Psicologia di combattenti cristiani . '...... » 280
P. TUCCI: Uno scritto di M. Lutero.............................» 295.
INTERMEZZO:
Il Cristo imprigionato di W. S. Burton........... » 300
[Tavola tra le pag. 300 e 301].
PER LA CULTURA DELL’ANIMA :
G. buzzi: La visione del Cristo ...................... » 301
G. E. Mrille: Perchè devono sfiorire le rose?..... . » 306
NOTE E COMMENTI :
C'è tuia spiegazione logica della vita? (risposte a Dino Provenza! di M. Dell'Isola t Lina Schivarz, Vinay Arturo)............... » 311
S. B. Whittinghil: Un convegno internazionale cristiano.. » 315
B. Brunelli : « I magi senza stélle ............ . ....... > 3x6
NOTE E DOCUMENTI :
E. Rutili: Forme di degenerazione religiosa in tempo di guerra. » 321
G. T. : La costituzione deli’impero tedesco e la legislazione religiosa c scolastica » 338
X. : Dichiarazione di principi.............. ; .......... > 340
CRONACHE:
Quinto Tosatti : Politica vaticana e azione cattolica : La politica vaticana e i nuovi cardinali - Il nuovo vescovo di Trieste - Il cattolicismo in Francia - Le elezioni francesi e i cattolici francesi - Inghilterra. Irlanda e Vaticano
- Riforme disciplinari dei clero in Czecoslovacchia .. » 343
TRA LIBRI E RIVISTE :
Rassegne: R.eP., Studi biblici - M., Filosofia morale - R. Corso, Etnografia e folk-lore............... ..... ...... ..... » 349
Recensioni : Antico testamento - Nuovo testamento - Storie delle religioni Religione e questioni. . ■................ ........ » 362
Letture ed appunti ........................... » 369
Pubblicazioni .pervenute alla Direzione ................. > 375
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Entrando cól 1920 nel nono anno di vita non abbiamo promesse dafare: sé ne dovessimo fare una, ci limiteremmo a prometter di serbar fede al nostro programma iniziale e di continuare sulla medesima via che ci à meritalo la stima e la benevolenza dei migliori. Vogliamo perciò proseguire nel cammino della scienza e della Jede con la più assobuia indipendenza di giudizio, con la più serena concezione degli studi che coltiviamo, col più vivo entusiasmo ne' valori spirituali che procuriamo di affermare, diffondere, concretare.
Chiamiamo perciò intorno a noi a raccolta non solo quanti abbiano, in Italia e fuori, negli studi religiosi c filosofici, nome di studiosi e autorità di maestri, ma tulli i volonterosi che nel vasto campo che ci siam proposti di lavorare intendono dare l’energia delle loro forze. Essi collaborino con noi: la rivista non sarà che l’espressione materiale di una maggiore e migliore opera spirituale.
La rivista negli studi di storia religiosa procurerà di non lasciare lacune nè di tempo, nè di spazio; negli studi filosofici, comunque esercenti un’efficacia sulla jede e sui culti positivi, non lascierà insondalo nessuno dei problemi più importanti; negli studi del movimento religioso contemporaneo tenterà di seguire le manifestazioni più diverse senza preferenze e senza esclusioni.
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AGLI AMICI
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Con le nostre » rassegne », che forniscono già ampia e sicura via di informazioni a quanti vogliono avere notizie ed elementi quanto è più possibile oggettivi sui vari argomenti cui esse si riferiscono, tenteremo di dare nel più breve spazio un corredo sempre più esteso di dati che servano alla conoscenza ed allo studio. La nuova rassegna della « religione nella letteratura » che è destinala a seguire nella letteratura contemporanea tutto il movimento religioso, nel senso lato della parola, quale si va manifestando; quella del nostro « lettore », che con le sue « letture ed appunti tenta di cotonare te lacune delle altre rassegne e di seguire, nella stampa e nella viiquanto spiritualmente di meglio merita di esser conosciuto, sono te prove della nos ir volontà di migliorare e perfezionare questa parte oggettiva della rivista.
La quale se, per essere destinata a rendersi indispensabile a tutti i cultori di studi religiosi, merita te nostre cure non meno degli studi originali della prima parte, non. ci fa dimenticare in ogni modo quell’ * intermezzo » tra di esse, che costituisce un rifugio per lo spirito e per il sentimento nelle ricerche più gravi e fra i dati più- positivi della vita. La « cultura dell’anima », cioè, dovrà sempre più e sempre meglio corrispondere a questo bisogno di rifugio e di meditazione 0 dovrà esser regolata in modo che il contributo che gli amici nostri ci anno promesso o che trarremo da altri amici di tal genere di letture, tenga conto dei momenti della vita individuate e di quella sociale che più fanno sentire il bisogno d’una voce amica.
Ad onta détte aumentate esigenze materiali, ad onta dell-’intendimento nostro di tener la rivista sempre al disopra delle 64 pagine promesse, ad onta del bisogno che sentiamo di renderla con naturale dispendio bella per illustrazioni e disegni, nella forma come nella sostanza, i lettori non temano che le nostre parole di programma si riducano in soldoni e valgano un aumento straordinario ed eccessivo del prezzo ¿‘abbonamento. Noi non chiediamo loro che di passare dalle % lire alte io lire annue.
Abbiamo fiducia c lo dimostriamo, ci pare che a lutti i nostri sacrifici gli abbonati ed i lettori rispondano con eguale fiducia c ci facilitino la via: per aspera ad astraLa Direzione.
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LA VISIONE MORALE DELLA VITA
™ LEONARDO DA VINCI
(Continuazione. Vedi Bitycknis ddT Ottobre 1,19, pag. 82).
CAi non »tima la vita non la mirila.
1. pessimismo di Leonardo, anche quando, come nelle Profezie giunge a colorirsi delle tinte le più nere, non è una concezione, è una constatazione. L’uomo che egli punge, è, ripetiamo, quale lo osserva nella società del suo tempo; il suo realismo, quanto più crudo, più segna l’antitesi, profonda, con una ben altra realtà, con quella che egli vagheggia e sente e vive nel suo essere. I' uomo che vive, idealmente, nella pienezza della vita dello
spirito. Il pessimista, logico, non ha, come Schopenhauer, nessuna fede nella
efficacia della educazione; il male, per lui, è innato nella creatura, che riflette in sè un male maggiore, quello che è nell’Universo. Leonardo, pur giudicando, talvolta, con accento leopardiano, severamente la natura, come quella che, « madre pietosa » per taluni, è per altri « crudele matrigna », non disconosce, quando si tratta dell’uomo, la importanza della educazione. Come tutte le rigide coscienze, egli non ammette possibilità alcuna di conciliazione tra la virtù e il vizio, anche per la natura stessa del vizio, che non po’ slare dov'è la virtù', però, si, ammette nella virtù la tendenza di andare incontro al vizio, per attenuarlo dapprima e poi, se possibile, per eliminarlo, l-o spino sul quale s’innestano boni frutti per lui significa appunto « quello che per sè non era disposto a virtù, ma mediante l’aiuto del precettore da di sè utilissima virtù »; e forse alla necessità di far giungere a tempo debito l’educazione egli allude quando osserva che « un vaso rotto crudo si può riformare, ma il cotto no» e il diverso risultato che i diversi indirizzi educativi possono apportare è espresso, mirabilmente, neH’aforisma allegorico : tal fia il getto qual fia la stampa. Ogni erba si conosce per lo seme, aveva già sentenziato Dante. Le due imagini portano, in sè, una verità pedagogica fondamentale: non tutto nell’uomo opera la natura, ad integrarla l'opera dell’educatore s’impone e questa educazione*
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LA VISIONE MORALE DELLA VITA IN LEONARDO DA VINCI 217
vale non tanto nel suo svolgimento, al suo coronamento, quanto all'inizio, quando al germe, alla cera plasmabile si può dare l’impronta - la stampa — conforme ad una direttiva morale ideale.
Questa morale per lui si riassume, preliminarmente, nell’alto valore conferito alla vita. Chi non stima la vita non la merita. Non domandate di più a Leonardo: il commento a queste sue parole è nella sua opera. Significativa però, prima di Bruno, questa voce nella Rinascenza tra l’acceso misticismo dei neo-platonici, che, impazienti deirai di là, svalutano la esistenza terrena e le correnti scettiche'ed epicuree conformi allo spirito pagano dell'epoca. Il problema dei valori è già adombrato. Anche per Leonardo la vita è un transito, ma, oltreché un transito, un benefizio. Se benefizio, questo transito non è una sosta, una acquiescenza nella divina misericordia (Eckart), ma un cammino pur esso, una lotta, una milizia, nella quale sta la ragione suprema del vivere. Chi non stima la vita non la merita. Se « molti fien quelli ai quali sarà proibito il nascere », questo esser nato nulla significa per chi, più che non comprendere, non senta il pregio della vita. Non sentirlo è un deprezzare sé in altri, altri in sé, è uno svellere le radici, un disseccare la sorgente, un rendere sterile quanto potrebbe è dovrebbe essere fecondo. È un sacrilegio che porta in sé la espiazione: « alli ambiziosi che non si contentano del benefizio della vita, nè della bellezza del mondo è dato per penitenza che lor medesimi strazino essa vita e che non posseggano la utilità e la bellezza del mondo».
X ♦ ♦ ♦
Quali, dunque, i valori della vita?
Leonardo non è un asceta. L’imagine dell’« umana carcere », cui egli talvolta ricorre riferendosi al corpo, è una reminiscenza orfico-pitagorica che. traverso la mistica medioevale, risorge nel neo-platonismo del suo tempo; in lui, appunto, riconferma il fondò neo-platònico del suo naturalismo. In Leonardo non abbiamo, in nome di una male intesa spiritualità, il disprezzo del corpo. L’anima, « composta di armonia », se invisibile c incorruttibile, è pure una potenza che, nel transito terreno, pur permanendo indipendente, è al corpo collegata. Il corpo è, sì, rispetto alla vita dell'anima, un semplice-strumento, ma è già di per sé nobilitato, spiritualizzato quasi, dalla nobiltà del fine. Come la forza che si genera nell’Universo è figliola dèi moto materiale e nepote del moto spirituale, così il corpo nostro è sottoposto al cielo e lo cielo è •sottoposto allo spirito. Nel transito, la umana carcere per l’anima, non è un tormento: lo è quando questa non può vivere la sua vera vita, quella conforme alla sua natura. Quando questa vita è vissuta, allora, anziché avvilirsi, anzi per fuggire la sua imperfezione, l’anima « desidera stare col suo corpo, perchè, sanza li strumenti organici di tal corpo, nulla può oprare, riè sentire ». Quindi, come Pitagora e prima di Cartesio, il monito di Leonardo: ingegnati di conservare la sanità (i). È colla sanità del corpo che, nel transito terreno, è pure in rapporto la sanità dell’ anima ; per quanto l’anima, maestra del corpo, faccia sul corpo sentire la sua influenza, sicché il disordine nel
(i) Oltreché dalla repulsione da Leonardo sempre dimostrata per quella legge* «iella natura onde la vita di un essere è basata sulla morte dell’altro, parrebbe da alcune affermazioni che egli propendesse per un regime vegetariano. « Or non producila natura tanti semplici (vegetali) che tu ti possa saziare? e, se non ti contenti de’ semplici, non puoi tu, con le mistión di quelli, fare infiniti composti, come scrisse il Platina « li altri autori di góla? ».
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corpo è sovente l'indice rivelatore della disarmonia nell’anima. « Chi vole vedere come l’anima abita nel suo corpo, guardi come esso corpo usa la sua cotidiana abitazione: cioè se quella è sanza ordine e confusa, disordinato e confuso fia il corpo tenuto dalla su’ anima ».
In questa distinzione è già racchiusa, in sè, la visione morale, ideale, della vita.
Il principio direttivo è platonico: se la cosa amata è vile, Vantante si fa vile. Ed un invilimento, per Leonardo, è una vita che altro non conosca se non il sòddisfaci mento dei sensi. Li sensi, nel loro mirabile meccanismo, altro non dovrebbero esseri’ se non « li d aziali dell’anima ». Ma quando l'anima, anziché comandare, obbedisce ai sensi, allora, nell’abbrutimento, si offusca il divino che è in noi e l'uomo da umano diviene, come diceva Telesio, pecorino. Leonardo, che dei cinque sensi, considera il vedere, l’udire e l’odorato « di poca proibizione », ma di molta invece il tatto e il gusto come potenze « lascibili e concupiscibili », Leonardo, più di Telesio, userà la parola nuda e cruda: chi non raffrena la voluttà con le bestie s’accompagni.
Daran valore forse alla vita le eleganze esteriori, le grazie del volto? Leonardo, artista della Rinascenza, non rifugge da quell’abbigliamento che, semplice, nella sua .deganza, può anche rivelare l’armonia interiore di un’anima (i); egli che alle sue madonne ha dato, nelle sembianze, una purezza che è tutto un poema di spiritualità, egli non sente lo sdegno savonaroliano per la bellezza, è sensibilissimo anzi all’ar monico concento, alle « proporzionali bellezze di un angelico viso » ; però deplora col poeta: cosa bella e mortai passa e non dura.
Conferiscono un valore, forse, le ricchezze materiali? Quale e quanta psicologia in Leonardo nel raffigurare quelli che, volendo arricchire in un dì, vivono in eterna povertà, quelli che, sempre temendo e fuggendo la miseria, più permangono miseri e le si avvicinano! E nell’attuale ossessionante vertigine dell’arricchimento, quale monito il suo quando osserva che non solo le ricchezze materiali, le esterne dovizie. sono un qualcosa che diminuisce ripartendolo, sono beni che come si acquistano così si possono perdere lasciando « sbeffato » il loro possessore, ma che, quando il denaro è fine a sè stesso, l'uomo, più che assicurarla, perdendo invece, con la indipendenza, la propria dignità e la fierezza, diviene fatalmente miserevolmente sei vile! « Mani nelle quali fioccan ducati e pietre preziose, queste mai si stancano di servire ». Oh miseria, umana esclama altrove — di quante cose per danari ti fai serva! E non conosceva il più moderno evoluto servilismo, quello di mascherare l’amore del denaro ostentando il culto, farisaico, alla giustizia e alla libertà !
E quale quella cosa, allora, che, amata, l’amante non fa vile?
Di fronte all’epicureismo crisiianeggiante degli umanisti — del Valla, dei Filetto, del Fontano, dello stesso Ficino — Leonardo, d’accordo coll'indirizzo morale più severo dell’Alberti e del Bracciolini e in una. mirabile, pur se inconsa pevole. analogia di vedute col suo contemporaneo e mistico neo-platonico, .. /. (x.) ?11 Pittore con grande agio siede dinanzi alia sua opera, ben vestito, e muove ti lievissimo pennello con li vaghi colori. È ornato di vestimenti come a lui piace, e è 1 abitazione sua piena di vaghe pitture e pulita; e accompagnata spesse volte di musiche o lettori di varie e belle opere, le quali, sanza strepito di martelli o altro rumore misto, sono con gran piacere udite ».
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LA VISIONE MORALE DELLA VITA IN LEONARDO DA VINCI 21$
Ixone Ebreo, Leonardo esalta la suprema realtà dello spirito, come quella che, non tocca dalla caducità dei beni terreni, porta, in sé, indelebile. il suggello sacro dell'eterno. Quanl’è piu degna l'anima che 'l corpo, tanto piu degne fien le ricchezze dell’anima che del corpo.
La fiochezza dell’ànima, è significativa sulle labbra di Leonardo, naturalista, una tale affermazione. Non è in lui una semplice romantica espressione, è tutto un mondò che, ih se, non riconosce che uh solo limite, l’infinito.
• • *
Sotto il soffio latente di una religiosità, più profonda quanto meno espressa, centro e vetta al tempo stesso della vita dello spirito, questa vita è celebrata in Leonardo nei tre raggi del vero, del bello, del buono.
Religiosità latente abbiamo detto; e in realtà Leonardo appartiene a quei convinti assertori dell’invisibile che il Divino lo sentono, lo vivono, lo testimoniano nella grandezza delle opere, non lo notomizzano, inaridendolo, colle teologiche disquisizioni. Dio per lui è Verità, è Bellezza, è Bontà. Se non dottrinalmente, psicologicamente, certo, più vale il suo silenzio che non le esplicite erudite osservazioni di mólti filòsofi del suo tempo, che, non cogliendone l’immenso valore interiore, fanno della religiosità, come Pomponazzi, un semplice strumento di virtù o peggio, come Machiavelli o Vanini, uno strumento opportunistico di politica, di regno. Non tace però tanto Leonardo da non poter noi da talune espressioni non trarre un qualche fecondo ammaestramento. Quando, di fronte ai depravati costumi della epoca, chiama taluni sacerdoti farisei, ben ci dice che a nulla vale la ostentazione del sentimento religioso, se, ridotto a freddo meccanicismo, a ritualismo esteriore, esso, nell'intimo, non è assolutamente sincero. Quando, di fronte al traffico delle reliquie c al lusso smodato dell’alto clero, esclama, dolorante, ohimè vedo di nuovo venduto e crocefisso Cristo, egli non solo pone a nudò l'antitesi tra la vera religiosità, il culto interiore e la tariffa che, in nome dello spirito, ancora oggi nelle diverse Chiese si fissa per le varie funzioni religiose, ma ci ricorda anche come sovente i più fanatici zelatori di Gesù siano quelli che meno io intendono e più lo crocifiggono. E quando, come Paracelso, interrompe le investigazioni naturali per volgere a Dio, umile, la preghiera — io t’ubbidisco, o Signore, per l’amore che ragionevolmente portare ti debbo — in questo ragionevolmente c'è tutto lo spirito rinnovatore della Rinascenza. V'è non solo la necessità di superare la sfera del sensibile e di elevarsi purificandosi con l'amore del divino, ma questo amore è concepito non come l'annientamento della creatura e neppur quale un impulso vago ed oscuro, come la religione- naturale di Herbert von Cherbury o la religio abdita di Campanella, ma come la sublimazione dell'essere che, senza intermediari, più si avvicina a Dio quanto più. coscientemente, educa e svòlge in sè quella potenza di pensiero, di sentimento, di volontà onde l'uomo, sulla terra, dovrebbe distinguersi dalle altre creature.
• e *
Dio è Verità.
Non sorprendano certe , espressioni un po’ rudi in Leonardo, Quando parla delle « bugiarde scienze mentali » egli vuol ben ferire i silloggizzatori ancora' irretiti
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tra le maglie dello scolasticismo, insorge contro le «contraddizioni delle sofistiche-scienze colle quali s'impara un eterno gridore ». E così, quando disprezza « le scienze che finiscono in parole ». esaltando invece la scienza strumentale, quando pone come critèrio del valore di una scienza non spio il grado della sua comunicabilità, ma il maggiore o minore utile che se ne può trarre (i), non è in lui volgare utilitarismo, ma, contro le sterili dispute dei suoi tempi, è consapevolezza del valore dinàmico della verità, che allora davvero è integrale quando ha* trovato, nelle applicazioni, tutta quella esplicazione di cui è capace; è, come più tardi ripeterà il Lavoisier, consapevolezza della missione, non malfattrice, ma altamente feconda della scienza, nel senso che le verità scientifiche non basta applicarle, ma applicarle bisogna, .unicamente, pel bene degli uomini.
Leonardo ha molta fede nella potenza del pensiero. Il pensiero, certo, anche per lui, non è tutto. Esso — la ragione, in fondo, quel che egli chiama il giudizio non è che « una delle potenze dell’anima nostra ». Oltre il pensiero v’è il sentimento e non pare che nutra molta simpatia per quelli che rivelano « carestia di sentimento ». Pero, ripetiamo, il pensiero per lui è una potenza. Chi poco pensa inolio erra, sentenzia e par quasi, con Aristotele, accennare alla sua genesi e alla sua natura divina, quando osserva che i sensi sono terrestri e la ragione sta fuori di quelli quando • ontempia.
Per quanto poi riguarda il fatto del puro conoscere, Leonardo non si limita, contro il semplicismo degli empiristi, alla affermata priorità della teoria sulla pratica, ammonendo: studia la scienza e poi seguita la pratica nata da essa scienza, ma, e questo a noi più interessa, rileva il valore spirituale, morale, che in sè ha il conóscere;
Naturalmente li omini boni desiderano sapere. Si noti quella naturalità, si noti questa bontà. Non si esclude, in altri termini, che anche il malvagio possa desiderare di sapere — abbiamo visto come egli si preoccupasse delle diaboliche applicazioni che altri poteva fare delle sue invenzioni — ma laddove il malvagio, pel suo triste fine, si propone di sapere, al sapere l’uomo virtuoso tende quasi istintivamente per appagare quella che in lui è la sete naturale dello spirito. Caratteristica, nel pensiero italiano, da Dante a Mazzini, questa insistente proclamata necessità di un'armonia tra le virtù intellettuali e le morali. Leonardo, pure avendo coscienza dei limiti della mente umana, non si estenua, come tanti mistici o scettici della sua epoca, nell'elogio della ignoranza. Egli insorge contro la ruggine della ignoranza, esalta il sapere come uno dei massimi beni, glorifica la scienza come ricchezza che acquistata non si perde, come quella che « sempre è testimonio e tromba del suo creatore, perchè ella è figliola di chi la genera e non figliastra come la pecunia » e perciò esorta
(i) «Tutte le scienze che finiscono in parole, hanno sì presto morte, come vita* eccetto la sua parte manuale, cioè lo scrivere ch’è parte meccanica ». « Fuggi quello studio del quale la resultante opera muore insieme coll'operante d’essa ». Non manca però d'insorgere contro quanti, per le non immediate applicazioni, giudicavano sterili te sue indagini. « So che molti diranno questa essere opra mutile... uomini i quali hanno solamente desiderio di corporal ricchezze, diletto, e interamente privati di quello della sapienza, cibo e véramente sicura ricchézza dell’anima ».
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i giovani, nella purézza della vita, ad arricchire sempre più in Sapienza onde non venga alla vecchiaia a mancare il suo proprio vital nutrimento.
Ovunque, osserva, v'è sempre un qualcosa da' apprendere. Non v’è cognizione, per umile che sembri, che non possa apportare un qualche utile all'intelletto. E la utilità maggiore che dal sapere deriva è la influenza che esso esercita sulle azioni: distinguendo il vero dal falso, avendo piena consapevolezza del rapporto tra le cause e gli effètti, si acquista quel senso della moderazione, per cui, non desiderando l’impossibile, non ci poniamo nella dolorosa condizione di disperarci e di abbandonarci alla malinconia vedendo non effettuato quanto necessariamente non poteva effettuarsi (i).
Alle applicazioni etiche, è spesso portato Leonardo dalle sue stesse investigazioni scientifiche. Egli non condivide, ad esempio, per l’anatomia, quell'orrore che altri, per scrupoli religiosi, nutriranno ai suoi tempi, come l'Agrippa e il Bóhme. Per lui l’anatomia era rivelazione della mirabile struttura e della plastica belleza «lei corpo umano; però abilmente s’impadronisce della tesi avversaria per dedurmeli quanta nefandezza l'uomo si renda colpevole nell’uccidere il proprio simile. « E tu, o omo, che consideri in questa mia fatica l’opere mirabili della natura se giudicherai essere cosa nefanda il distruggerla, or pensa essere cosa nefandissima il torre la vita all’omo; del quale se questa sua composizione ti pare di maravi-glioso artificio, pensa questa essere nulla rispetto all'anima, che in tale architettura abita e veramente, quale essa si sia» ella è cosa divina; sicché lasciala abitare nella sua opera a. suo beneplacito e non volere che la tua ira o malignità distrugga una tanta vita, che veramente chi non la stima non la merita ».
Ma la religiosità e la eticità del conoscere culminano, in Leonardo, in un motivo neo-platonico di una ben alta significazione. Se da un lato non si giunge alla conoscenza, senza un presupposto psicologico fondamentale, l’amore del conoscere, dall’altro il grande amore nasce dalla gran cognizione della cosa che si ama. ; e se tu non la conoscerai poco o nulla la potrai amare.
Non in Leonardo dunque quel riserbo romantico che crede che le cose pei-<lano del loro poetico incanto quanto più ne indaghiamo l'intima essenza; anzi è solo attraverso una cognizione non parziale, ma integrale di esse che noi, più comprendendole e ammirandole, più le potremo profondamente amare. Perderà, forse, al nostro sguardo, la sua vaghezza un fiore, col conoscerne la mirabile intima struttura, nei suoi pistilli e nelle sue corolle?
« Gli abbreviatori delle opere fanno ingiuria alla cognizione e allo amore, con-ciosiache l'amore di qualunque cosa è figliolo d’essa cognizione. L'amore è tanto più fervente quanto la cognizione è più certa, la qual certezza nasce dalla cognizione integrale di tutte quelle parti, le quali, essendo insieme unite compongono il tutto di quelle cose che debbono essere amate ».
(>) « Queste regole son cagione di farti conoscere il vero dal falso, la qualcosa fa. che li omini si promettano le cose possibili e con più moderanza, e che tu non ti veli d'ignoranza, che farebbe, che, non avendo effetto, tu t'abbia con disperazione a darti malinconia ».
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Vàie per là conoscenza di ógni essere, vale per la conoscenza dell'uomo e di Dio. Più conoscere l’uomo è anche, più comprendendolo, più essere portati a perdonare <• ad amare. E più ameremo Dio quanto più conósceremo Dio, sollevando sempre più un lembo della Verità, decifrando sempre più l’opera della sua creazione. È ì’Amor Dei Intdlectualis che Leonardo, prima di Spinoza, antecipa, con Leone Ebreo, nella Rinascenza.
Quale simbolo mirabile di questo insaziabile desiderio del conoscere, che si tra duce in glorificazione della stessa opera di Dio, quando Leonardo ci ricorda si stesso all’entrata d'una gran caverna, curve le reni ad arco, la stanca mano ferma sul ginocchio, la sinistra sulle abbassate e chiuse ciglia, e osservare, osservare, tra la paura e il desiderio, paura per la minacciosa oscura spelonca, desiderio per védense la entro vi fòsse alcuna miracolosa cosa, per vedere la gran commistione delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura !
Il genuflettersi del sacerdote innanzi all'altare non supera, per elevazione religiosa, questo incurvarsi di Leonardo per indagare i grandi misteri della Natura.
♦ * »
Anche il Bello, per Leonardo, è un riflesso della infinita perfezione divina. Sopra il fondo, naturalistico, in lui, come in altri pensatori della Rinascenza, si fa sentire il motivo religioso plotiniano: egli esalta la divina e naturale bellezza del mondo.
L'artista, non imitando, ma avvicinandosi alla vera fonie, la Natura, se per un Iato, per la mediazione di questa, è « nipote di natura e parente di Dio », per l’altro, per la potenza creativa di generare, nei suoi molteplici aspetti, la bellezza, della bellezza è vero Signore e Dio. Esso, maestrevolmente raffigurandola, può eternare una visione di bellezza, che. come opera della genetrice natura, soggiace all’ala distruggitrice del tempo.
Non è qui il luogo per una valutazione delle vedute estetiche di Leonardo. Alla supremazia da lui assegnata sulle altre arti alla pittura, facile sarebbe il rispondere che, in ogni arte, quando l’artista è creatore, può essere raggiunta la eccellenza dello spirito ; che pur delle altre arti sono quelle infinite sottilissime speculazioni, e quella dignità, nobiltà, universalità e durata che egli esalta come proprie della, pittura. Questa esaltazione, in lui, non solo è un primato conferito all'arte nella quale appunto si sentiva eccellente, ma è un riflesso del suo stesso naturalismo: come nell’universo non vede «corpo di maggiore magnitudine e virtù» del sole, come nell’occhio ammira « la fenestra dell'umano corpo per la quale l’anima specula e fruisce la bellezza del mondo », così, sulle altre arti, esalta la pittura nella quale la virtù dell’ occhio e la luminosità è tutto. Pur con questa limitazione, l’arte ad ogni • modo per Leonardo — questo a noi interessa — non è semplice dilettazione, ma, traverso l’occhio, tramite dello spirito, è elevazione dello spirito stesso, che, veramente creando, più s’avvicina al Creatore.
Di qui quel motivo etico che pervade, sovente, la sua estetica. Sarà un'ombra, forse, per quei critici che vogliono fa bellezza libera da qualsiasi preoccupazione moralistica; per noi è indice di quelle vette supreme che solo è dato toccare agli spi-
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riti creatori. È il primo Leonardo a riconoscere che « non è buono tutto ciò che è bello, come « li belli parlatori sanza alcuna sentenza »,al modo stesso che, senza false repulsioni spiritualistiche, non si offende, e nell'uomo stesso ne vede un esempio, *se al bello talvolta è connesso l’utile. Però, con fine intuito psicologico, riconosce l'intimo invisibile rapporto che sovente corre tra la vita dell’artista e l'opera d’arte, come nell'opera d'arte riconosce, talvolta, una larga influenza moralizzatrice.
L’arte non è solo tecnica, è anima. E quest’anima sta non solo nel conferire all’opera d’arte quella che si chiama la vita — quella figura è piu laudabile, sentenzia Leonardo, e non sentenziò solo, ma lo applicò, che con l'alto meglio esprime la passione del suo animo — ma è anche quell’elemento imponderabile e invisibile che sull’opera d’arte influisce potentemente ed è in rapporto, come carattere morale, con tutta la personalità dell’artista. È mai possibile che un uomo, precipitando nell’abisso dell’ abiezione, possa, toccando le vette più superbe, creare vere opere di bellezza? Ogni parie di b uono e di tristo che hai in te si dimostrerà in parte nelle tue figure. Ogni artista dovrebbe far teserò di questo precetto che Leonardo indirizzava al pittore. Un precetto che non si troverà certo in nessun trattato di tecnica, ma di cui ogni osservatore, che sia anche fine psicologo, può constatare la innegabile e feconda verità. Abbiamo già visto come Leonardo, senza negare l'onesto guadagno, in questa parte di tristo includesse anche quél criterio mercantile per cui l’artista, ridotta l’arte ad artificio, trascurando lo studio paziente, anteponendo la ricchezza alla gloria, diviene un semplice mestierante, un vile guadagnatore.
Nè egli si lascia deviare dalle correnti ascetiche o scettiche del suo tempo. Il criterio etico e psicologico era per molti un’arma bene affilata per concorrere alla svalutazione delle diverse arti. In nome della moralità, v’era, contro la poetica, tutta una tendenza platonica, puritana, che insorgeva contro i pericoli dell’arte della imaginazione, come quella che perturba le anime incitando alle più insane passióni ; v’era, contro le arti figurative, anche una tendenza scettica, che. con l’Agrippa, ad esempio, combatteva la pittura, come quella che non solo offende la verità facendo vedere esistente ciò che non è, ma come quella che, turbando, vuole esprimere e rendere visibili le passioni dell’anima. Questo, per Leonardo, anziché un difetto, era delle arti un pregio Singolarissimo; solo egli va al fóndo della questione, rileva cioè quali i sentimenti che l’arte, la poesia e la pittura, dovrebbe sovratutto suscitare: per Vuna e per l’altra, risponde, si può dimostrare, molti morali costumi, come fece A pelle con la sua Calunnia.
Leonardo, dunque, se non confonde l’etica con l’estetica, se non . riduce, diminuendola, l'opera d’arte alla figurazione di una precettistica moralizzatrice, ben vede e sente che anche il bello può talvolta, nelle sue più alte espressioni, essere suscitatore di nobili sentimenti e di opere virtuose. In tempi nei quali per mólti il sentimento estetico si riduceva, come pel Bembo, al culto delle eleganze esteriori, egli'afferma; con Michelangelo, il contenuto ideale dell’arte e, con Michelangelo, di quell'arte nella quale ci ha lasciato creazioni immortali, egli considera, platonicamente, come vetta suprema l’amore: è gloria del pittore creare degli esseri che. conducono all’amore.
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• « *
Ma la Verità e la Bellezza sono per Leonardo due raggi della vita clello Spirito, che vengono illuminati, alla loro volta, da una luce più alta, il Bene. Egli non partecipa dell’aristocratico orgoglio di molti spiriti privilegiati, che, artisti; non veggono nella vita che raffinatezze estetiche o, scienziati, tutto riducono alle formule dell’intelletto. Il Bene, per lui, come per Michelangelo, riassume, platonicamente, la Verità e la Bellezza suprema.
E con quale fòrza di convinzione tiene a rilevare che, nella caducità dei beni terreni, il vero nostro bene, quello che mai dovremmo perdere, poiché nessuno ci può togliere, e la virtù! E con quale soavità mistica, di un sapore tutto francescano, ci dice che le cose virludiose sono amiche di Dio!
Non si dimanda ricchezza quella che si può perdere, la virtù è vero nostro bene: lei non si può perdere, lei non ci abbandona, se prima la vita non ci lascia: le robe e le esterne dovizie sempre le tieni con timore e ispesso lasciano con ¡scorno e sbeffato il loro possessore, perdendo la possessione ».
Leonardo, si noti, non manca di rilevare il vantaggio che dalla virtù si può trarre — raro cade chi ben cammina chi semina virtù fama raccoglie — però riconosce, austeramente^ che la virtù è vero premio del suo possessore. La parola è detta-Eckart aveva già accennato ad un operare senza un fine interessato (zweckloses Handeln); fra le correnti edonistiche dell'epoca, Leonardo, col Pomponazzi, col Fontano, è tra i pochi della Rinascenza che, antecipando Kant, proclamano la superiorità della morale disinteressata. Il bene per il bene, la virtù per la virtù, ecco la legge suprema. Il disinteresse, se ha un valore nel campo del conoscere, poiché altro è un conoscere per allargare il nostro sapere ed altro, unicamente, per l'utile che dalla cosa conosciuta ci attendiamo, un valore massimo lo ha nel campo dell’operare, nel quale anzi, per la virtù, dobbiamo saper vivere, se occorre, in onorata povertà.
« Quanti furono quelli che vissero in povertà di denari, per arricchire di virtù! e tanto più è riuscito tal desiderio al virtuoso ch'ai ricco, quanto la virtù eccede in ricchezza ».
Le massime dell'antica saggezza, con una forte intonazione stoica, tornano, traverso gli aforismi di Leonardo, a consigliarci e ad ammonirci: tendere al meglio ed esser paghi del proprio stato; fugare il vano timore della povertà; non seguire il falso splendore; prudenti piuttosto che temerari; povero piuttosto che servile; pazienza e serenità di fronte alle ingiurie che l’anima pura non toccano; non troppo esaltare o deprimere ciò di cui non si ha conoscenza; non dispregiare gli umili i quali saranno esaltati ; e quanto all'amicizia: riprendi l’amico in segreto e laudalo in palese.
V’è una virtù però, che, con la veridicità assoluta della parola, Leonardo fra tutte esalta. Non è la sublimitas, non la fierezza di Telesio e di Campanella, è la bontà. Se ricorre alla figurazione del vero Eroe, se, come Eraclito, parla di Iddìi terrestri, questo Iddio per lui non è il Sapiente, l’intellettuale, ma è l’uomo virtuoso e buono che nella bontà trova la radice di quella vera sapienza che è saggezza.
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All Leonardo ben sa qual’è il destino che sulla terra spetta ai migliori ! La via della luce, sovente, è un calvario; ove è più sentimento, sentenzia, ivi è più martirio. E anche in lui, con l’accento non di chi teorizza, ma di chi sperimenta giorno per giorno la triste realtà, anche in lui la fibra umana vibra e con Michelangelo, e Bruno e Galileo riprende l’antico lamento di Giobbe, torna sull’amara constatazione di Platone, che riecheggierà più tardi nel pessimismo di Leopardi e di Schopenhauer e cioè che non vi è vera virtù senza invidia, che « è sovente annegato chi fa il lume al culto divino», che colui che è il più necessario è il più sconosciuto e il più sprezzato, che è più battuto chi meglio ha fatto, sicché esplode con una esortazione che è tutto un grido dell’anima: « ...se alcuno se ne trova virtuoso e bono non lo scacciate da voi, fategli onore acciocché non abbia a fuggirsi da voi e ridursi nelli eremi o spelonche o altri lochi soletan; per fuggirsi dalle vostre insidie; e se alcun di questi tali si trova fateli onore, perchè questi sono ¡ vostri Iddìi terrestri, questi meritano da voi le statue e li simulacri... ».
Ixìonardo constata e deplora, ma ha coscienza anche che le avversità sono la prova nella quale le anime elette si cimentano. Bruno ha raffigurato l’amarezza che alla elevazione spirituale è congiunta alla farfalla che attratta dalla luce consuma le sue ali; egli, nelle allegorie, ricorre alla salamandra che nel foco raffina la sua scorza. « Al cimento si conosce il fine oro ». Quando, alta e pura, si sente, con la forza dell’ineluttabile, la voce del proprio destino, nella severa virtù del carattere le avversità non piegano, non fanno retrocedere di un passo il segnato cammino.. Impedimento non mi piega noti si volta chi a stella è fisso.
Qui, qui è il problema. Ñon si tratta di aggrapparsi, in una chimera di felicità, ai beni terreni; è di volere, è di saper fissare le stelle. A questa altezza, è vero, non va se non a chi dai cieli è dato. V'è, sì, più possente quanto più misteriosa, una legge che dall’alto assegna a ognuno il proprio destino, ma c’è pur nell’uomo la potenza di conquistare la maggior signoria, quella di sè medesimo. Kant, formulando l’imperativo categorico, facendo scaturire della necessità la legge, dirà: devi, dunque tu puoi. Pitagora, avendo presente che non sempre volere è potere, aveva già mitigato la formula sentenziando: puoi, dunque tu devi. Leonardo, in quell’unico famoso sonetto rimastoci dei suoi saggi poetici, pur riconoscendo « che da quel che non si può folle è volere », fa scaturire il potere non dal mondo esterno, non dall'altrui beneplacito, ina, elevando la personalità, dalle radici stesse, creatrici, della volontà, onde al Dovere, dopo l’Amore, è restituita la morale supremazia :
Se a te vuoi esser buono e ad altrui caro Vogli sempre poter quel che tu debbi.
* * ♦
Nella vita quello che sovratutto, per Leonardo, noi dobbiamo volere è il lavoro. 11 lavoro è la legge cui Dio ha sottoposto la creatura. «Tu, o Iddio, ci vendi tutti li beni per prezzo di fatica »: è riflesso della legge universale del cosmo, che il moto
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è causa di ogni vita, che dóve è vita è calore. Dovremo venire a Bruno, nella Céna, delle ceneri, per riascoltare del lavoro, liricamente espressa, una così nobile esaltazione,
Leonardo punge qua e là i dormienti, quelli che sulle coltri consumano gran parte della vita, dissipando «di molto utile tempo »; ma punge ancor più chi, confondendo l’ozio col riposo, si scandalizza, per falsa religiosità, veder lavorare nei giorni festivi.
Non gli sfugge il lato economico del problema: specie nelle manifestazioni dello spirito egli odia il mercantilismo ; ma Leonardo, che ben rispose un giorno io non sono dipintore da quattrini, è pur quello che sentenzia: ogni.fatica merita premio.
Però il lato morale predomina. È nel lavoro che l’uomo afferma la propria personalità. Molteplice è l’attività umana, .perchè infinita la potenza dell’uomo, sicché - se tu avessi il.corpo secondo la virtù tu non caperesti in questo mondo ». Lavoro è quello del pensiero — egli parla degli operatori della cogitazione — lavoro quello della mano, quando, sotto la guida dell'occhio, compie infinite opere modificando ciò che è finito, li semplici materiali che offre la natura.
Lavorare e tacere, ecco, per Leonardo, come per Carlyle, una delle leggi della vita. E meglio lavoreremo quanto più nell’opera ci preoccuperemo della qualità anziché della quantità. L'eccellente operatore è componitore di poche opere. Ma non illu diamoci, qualunque essa sia, di aver raggiunta nell’opera la vera eccellenza ; l'indice dèlia superiorità si ha quando l'opera rimane inferiore al giudizio, cioè al' disegno ideale, irrealizzato, che portiamo nel giudizio stesso.
«Quando l’opera sia pari col giudizio, quello è tristo segno nel giudizio; e quando l'opera supera il giudizio, questo è pessimo come accade a chi si maraviglia d’avere sì bene operato: e quando il giudizio supera l’opera questo è perfetto segno; c se gli è giovane, in tal disposizione, sanza dubbie- questo fia eccellente operatore, ma fia componitore di poche opere. Ma fieno di qualità che fermeranno gli uomini con ammirazione, a contemplar le sue perfezioni ».
Queste parole, semplici, dì una formulazione quasi matematica, non solo esplicano quella che, incompresa, fu chiamata dai biografi la incostanza, la incontentabilità di Leonardo, ma fissa una delie leggi più feconde dello spirito. Bruno, nella Rinascenza, la esalterà, con slancio mistico, negli Eroici furori-, la riconfermeranno m diverso modo Leibniz, Lessing, Kant, Rousseau. Per Leonardo questa legge è la quintessenza degli esseri neH'Univcrso, è lo Spinto che, essendo ovunque, nell' uomo raggiunge il suo più alto fastigio morale.
Non v’è posa nella vita interiore. Lo Spirito è anelito eterno. L'uomo è un finito, che porta, in sè, immanente, un infinito. V’è una irrequietezza che è il vuoto dell’esistenza; v’è un inappagamento che è indice appunto di quella che Leonardo chiama la ricchezza dell'anima. So, ma, nella coscienza della mia ignoranza, più forte mi vince la sete naturai che mai non sazia ; sento, ma non limite può esser posto alla vibrazione dei miei sentimenti; opero, ma nessuno può dire quanto bene potrò ancora compiere colle mie azioni, lì tempo non cuna barriera insormontabile. V’è la nostal-
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già della Vetta. Sine lassitudine, senza stanchezza, questa la divisa di Leonardo : sempre innanzi, sempre in alto. Impedimento non mi piega. Non si volta chi a stella, è fisso. E l’anima tende, nella sua spirale, verso cime sempre più eccelse, verso punti più lontani e inesplorati dell’orizzonte, come l’allodola, celebrata nel verso immortale da Shelley, che innalzandosi canta e cantando s’innalza, perdendosi e inebriandosi nell'azzurro.
• « «
In questo anelito eterno la visione della vita, in Leonardo, si allarga.
La vita è Spirito: su di essa nulla può il Tempo consumatore delle cose (i). L’attimo fugge: ma non è così breve il transito terreno, da non poter ’sembrare lungo quando tradotto in opere di bontà. La vita bene spesa lunga è. Il gran problema è di non dissipare in opere vane le nostre energie, ma di tesoreggiare il tempo, d'imprimere, quanto più possibile, nelle nostre opere il suggello dell' eterno: fai dunque tale opra che, dopo la morte, tu abbi similitudine di perfetto vivo.
Cadono con ciò non solo le sterili, pessimistiche lamentazioni sulla fugacità del tempo, ma le deplorazioni sulla vecchiaia e il terrore della morte. Nel transito terrestre la vecchiaia non è una discesa, è un ascendere, un coronamento. La morte, « sommo danno » quando infetta violentemente, non è poi già in sè, nella vita terrena, un qualcosa cui debba essere anteposta l’inerzia o la degradazione dell’essere : prima morte che stanchezza — prima morte che bruttura — prima morte che perdere libertàCome legge della vita, essa, la morte, risponde alla legge universale degli esseri. Ogni essere tende a conservare sè stesso; v’è un punto nel quale la conservazione è continuazione, è un superamento, un tendere, un anelito anch’esso di ritornare allo stato primitivo, al primo caso, di ricongiungersi al primo Mandatario, a Dio.
La vita, dunque, per Leonardo, è, nell’órdine naturale e morale, un mandato : qualche secolo dopo un altro Grande, in Italia, dirà che la vita è missione !
Tra l'epicureismo del Valla che invoca l'immortalità per continuare nell'oltretomba i piaceri mondani e le paure del Cardano che impallidisce al pensiero della morte, quanta spiritualità in Leonardo che. come Paracelso, fiso lo sguardo in Dio. dallo studio della natura, dalla rettitudine e dalla fecondità delle opere ha trattò la più olimpica serenità nell'attendere ravvicinarsi dell’ora suprema!
Si come una giornata bene spesa dà lieto dormire, cosi una vita bene usata dà lieto morire.
* ♦ *
Questo è Leonardo. Non solo, dunque, è il restauratore del metodo, lo scienziato divinatore, l’artista creatore di bellezze immortali, ma, in adombramenti che sono ammonimenti, il moralista anche, un suscitatore e un purificatore, l’assertore della
(i) Notevole - per una analogia anche colla nota poesia dello Zanella — una meditazione di Leonardo innanzi ad una conchiglia fossile. « O tempo, veloce predatore delle create cose, quanti re, quanti popoli hai tu disfatti e quante mutazioni di stati e vari casi sono seguiti, dopoché la maravigliosa forma di questo pesce qui mori per le cavernose e ritorte interiora... Ora disfatto dal tempo, paziente giaci in questo chiuso loco; colle spolpate e ignude ossa hai fatto armadura e sostegno al soprapposto monte!
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suprema realtà delio Spirito. La sua figura, poliedrica, rimane così, per ogni lato, lumeggiata, nella sua mirabile unità. Altri, più tragicamente, con maggior profondità c vastità di pensiero, sarà, vero filosofo, il dormitaniium anitnorum excubitor: a Leonardo, prima di Bruno, il merito di farci sentire, nonostante le sue lotte, nelle sue ascensioni, la bellezza della vita, che allora davvero è vissuta quando esplicata, senza tregua, nella rettitudine delle opere. Dalle sue massime sgorga una morale non negativa, ma positiva, non passiva, ma attiva. Si riconferma in lui, come in altri pensatori della Rinascenza, quella che è dote precipua della mente itàlica, cioè un saggio contemperamento tra l’ideale e la realtà. Il suo pessimismo, ripetiamo, è una constatazione, non una concezione. Così, se da un lato prevede a quali lotte fratricide saran condotti i popoli dal feticismo dell'oro, non asconde dall’altro il suo ideale, cioè i tempi nei quali « parleransi, toccheransi, c abbraccieransi i popoli stanti dall’uno all'altro emisfero ». Non è però un utopista. Ha coscienza che vera, pace non può esistere se non regna, assoluta, la Giustizia, la quale, alla sua volta, per regnare. « vuol potenza, intelligenza e volontà ». Ha fede, quasi, in una Nemesi, per cui ogni male porta con sè, inevitabile, una espiazione, per cui ogni torto si dirizza, ma condanna anche, senza debolezze, di fronte al male, quella indifferenza che è vera complicità: chi non punisce il male comanda che si faccia.
Chi non punisce il male comanda che si faccia. È parola che suona non vendetta, ma giustizia riparatrice. È parola per cui, varcati i limiti della patria, Leonardo, con altri Grandi, deplorando, ammonendo, vive con noi, in ispirito, questa solenne e tragica ora dell’umanità.
Ugo Della Seta.
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ON la contrapposizione di soggetto-oggetto è posta la condizione fondamentale del conoscere, e quindi un grado di conoscenza implicita in ogni altra, sebbene non attui nessuna cognizione particolare. Il soggetto distingue vagamente sè da qualcosa che gli è estraneo; ma in questo qualcosa, nell’oggetto egli non discerne ancora nulla, non fissa e non separa parti determinate quantitativamente e qualitativamente. Il primo
ed originario oggetto d<?l pensiero rappresentativo è una totalità indefinita, indistinta, in cui il soggetto non apprende nulla aU’infuori del suo essere diverso, neppure l’oggetto come totalità oggettiva. Quest’oggetto rappresenta la totalità dell’esseré, non un essere astratto, una categoria logica, ma dell’essere concreto, anzi del solo oggetto concreto, perchè ogni altro oggetto non può esserlo se non come sua parte o limitazione. Anche il soggetto è incluso in questa totalità, chè nulla può cadere fuori di essa.
Ma, la limitazione quantitativa Si delinea sotto l’impulso della distinzione qualitativa, dovuta alle impressioni differenti dei sensi, per cui l’oggetto si presenta, prima successivamente, poi contemporaneamente, sotto aspetti diversi. Queste presentazioni diverse costituiscono altrettante parti della corrente psichica, in cui gli aspetti ricorrenti, che sono insieme compatibili, formano modi di essere, comuni a sezioni distinte nella continuità del suo fluire. Perciò, alla rappresentazione originaria di una totalità indefinita si sostituiscono, in questi primi gradi del conoscere,
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rappresentazioni di parti determinate qualitativamente e, quindi, anche quantitativamente, non essendo la quantità, in questo suo primo significato, che la relazione del limite c della comparazione fra parte e parte. Questo limite e la conseguente comparazione risultano, infatti, dalla fissazione di certe proprietà empiriche qualitativamente costanti e invariabili, le proprietà spazio-tempora li.
Ma se, ora, la rappresentazione si riferisce a un oggetto determinato, circoscritto dal resto, non si riferisce più esclusivamente a quello, benché il resto rimanga nascosto in quello sfondo marginale che il Baldwin chiamò efficacemente « penombra di alterità indeterminata », con la quale si stabilisce una forma incipiente di opposizione, che non è ancora negazione vera e propria. Quest’opposizione è così blanda e vaga che il pensiero, tutto intento al contenuto determinato della rappresentazione, non solo non la fissa, ma considera l’oggetto parziale quasi fosse concreto come la totalità originaria, e non una astrazione della parte rispetto al tutto. Non è, però, questa un'astrazione arbitraria, chè anzi costituisce un’esigenza fondamentale del pensiero, contenente in sé l'impulso e la condizione del suo sviluppo. È l’esigenza del comprendere successivamente le parti o gli aspetti dell’esperienza, dovuta alla limitazione del contenuto rappresentativo su cui l’attività può esercitarsi volta a volta.
La totalità dell’oggetto, non avendo confini assegnabili, non può essere compresa almeno in senso logico, perchè comprendere significa limitare, determinare; e ogni tentativo di racchiudere l’infinito nella forma di un concetto appare destinato a fallire per intrinseca impossibilità. Come noi non possiamo compiere che una sola azione per volta, così non possiamo comprendere che un numero limitato di rappresentazioni e di rapporti; è per necessità, direbbe il James, che bisogna essere parziali, ingiusti con gli oggetti.
La funzione conoscitiva che obbedisce a quest’esigenza del pensiero, per cui alcuni contenuti rappresentativi sono astratti dal resto dell’esperienza indeterminata e sono distinti qualitativamente da contenuti costanti e uniformi (spazio-tempo), viene ordinariamente designata col nome di intelletto. Laonde, comprendere significherà per l’inteUetto percorrere la serie delle mediazioni fra un oggetto e l'altro, o fra i punti estremi di un medesimo oggetto differenziato. E poiché i limiti non sono tali assolutamente, confinando ciascun limite con altri contenuti di pensiero, l'intelletto è costretto a togliere il limite primitivo ampliandolo. Ma questo ampliamento esprime una possibilità infinita, perchè nell'atto in cui l'intelletto abolisce il limite, ne pone necessariamente un altro, se vuol comprendere il nuovo oggetto. Ora, l'esigenza del pensiero per cui esso è spinto incessantemente a togliere i limiti si può dire costituisca la molla palese (se non unica) dell’attività di ragione; benché questa sia inseparabile dall'intelletto nell’unità vivente dello spirito.
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INTELLETTO E RAGIONE
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II.
Intelletto e ragione hanno avuto, nella storia della filosofia, significato spesso diverso, e talvolta inverso a quello che si può dire ormai fissato nella filosofia. Le antiche scuole filosofiche greche distinguevano il primo (vou$) dalla seconda (Xóyo;) senza, però, determinarne chiaramente la funzione cogitativa. In Piate ne troviamo (specialmente nel VI della Repubblica) una netta separazione della ragione (Xóyo$, dall'intelletto (Wvoiz); che occupano rispettivamente il primo e il secondo posto nell’ordine delle facoltà dell'anima (1). L’intelletto sta fra la conoscenza razionale e la sensibile (3ó?a), e procede valendosi di ipotesi, senza sollevarsi al primo prin-cipio insupposto, come fa la ragione, la quale pure si serve di ipotesi, nella sua dialettica, ma le tratta come ipotesi, e non come principi. Cicerone, poi, le confuse insieme coi termini di mens, consilium, cogitatio, (Nal. deor. Il, 7) riducendo l’uflì-cio della ragione alla comunicazione delle idee, e quindi delle parole (ratio, oratio), mercè le quali gli uomini sono, con vincoli naturali, stretti in società (De off. I, 16). Agostino distinse la ratio, che è bene intrinseco alla mente sana e ne è un aspetto, dalla ratiocinalio, che rappresenta, benché inscindibile, l’elemento formale del processo discorsivo (2).
Scoto lerugena considerò tre specie di conoscenza: quella dei sensi esterni, la razionale (ratio), consistente nel cogliere l'essenziale attraverso il fenomenico, e l’intellettuale (intellectus), che è la suprema forma del conoscere, rivolta coni'è alle cause primordiali immutàbili. Tommaso d’Aquino distinse, invece, la ragione discorsiva, di grado inferiore (ratio inferior), dalla ragione sovrasensibile, di grado superiore, contenute entrambe nell’unità dell’intelletto.
Soltanto col Cusano le due attività Spirituali ricevono una precisa determinazione: egli intende la ragione come facoltà negativa e affermativa insieme, che nega il senso e afferma l’inconciliabilità degli opposti; l'intelletto come facoltà positiva che concilia gli opposti nell’infinito (3). Il senso deve essere sottomesso alla ragione, come questa all’intelletto, altius volans, in quanto esso giudica se i sensi siano in tutto dominati dalla ragione. Questa, poi, ha pel Cusano, un doppio ufficio: quello etico-pratico di fornire i precetti della condotta, e quello teorico conoscitivo di mediazione intellettiva; essendo la natura umana costituita di senso e intelletto, congiunti l’uno all'altro dalla ragione (media ratio).
(r) Sacrate preferì il termine fpóvnat«. Memor. I. 2, 53.
(2) Definisce la raliocinatio come rationis inquisitio. De quantitale animac, c. XXVII.
(3) Veramente, solo l'intelletto divino è capace di tanto, cioè di vera sapienza, mentre l'intelletto umano non può conciliare i contradittorl per mezzo della ragione,, che è per natura discorsiva. Dialogue de Poeseet, io. CLXXXI. Cfr., per ciò che segue, il passo: « Ratio quasi in horizonte est quo ad intellectum, sed in auge quo ad sensum » De docta ignorantia, III, c. VI.
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232 BILYCHNIS
Nel Bruno la superiorità dell'intelletto sulla ragione è anche più implicitamente affermata; l’intelletto è la facoltà intuitiva che accoglie, unificandole, le verità argomentate dalla ragione, che è facoltà discorsiva, cioè capacità d’inferire e concludere l’universale dai particolari appresi dai sensi, ,e di ricavare dei conseguenti da certi antecedenti. L’intelletto è anche paragonato ad un vivo specchio che vede e in pari tempo contiene in sè le immagini visive (i). Alla ragione e all’intelletto sovrasta, però, la mente, che, nel linguaggio del Bruno, ha significato non psicologico, ma gnoseologico-metafisico (corrispondente, in parte, all’intuizione intellettuale dello Schelling), perchè la mente comprende tutti i rapporti, col semplice intuito, in un solo atto, senza essere soggetta alla successione nel tempo. E, ritornando sulla metafora già applicata all’intelletto, egli paragona la mente ad un vivo specchio che contenga entro di sè, parimenti, e le immagini e la luce che le rende visibili (2). Il Leibniz, invece, guardò più all’unità che alle differenze, identificando la ragione coll’intelletto, da lui definito come la facoltà di appercepire il legante delle verità; l’intelletto che guarda all’ordine dei possibili anziché a quello dei reali. (zV. Saggi, 245) Il Berkeley distinse nello spirito due attività: intelletto e volontà, affermando la preminenza della seconda, la quale non si limita, come l’intelletto, ad apprendere le rappresentazioni sensibili (ideas), ma le produce e opera su di esse. È chiaro, però, che nel volontarismo adinamico del filosofo inglese la volontà corrisponde piuttosto alle facoltà razionali, anziché all’arbitrio.
Con Kant le due attività sono definite e contrapposte l’una all'altra, benché non manchi nelle tre Critiche qualche oscillazione di pensiero. WdY Introduzione alla logica trascendentale egli definisce l'intelletto come la facoltà di pensare l'oggetto dell’intuizione sensibile, e poiché, egli riprende ne\ì'Analitica dei concetti, tutti gli atti dell’intelletto si possono ridurre a giudizi, questo è la facoltà di giudicare, cioè di ridurre le conoscenze date all’unità oggettiva delJ’apercezione. Ne\V Introduzione alla dialettica trascendentale determina l’intelletto come la facoltà, delle regole, e la ragione come la facoltà dei principii (o facoltà dell’unità delle regole dell’intelletto sottoposte a principi), nella quale distingue l’uso formale o logico, e l’uso reale. L’ uso formale, il solo giustificato, consiste nel trovare per la conoscenza Condizionata del l’intelletto quell'incondizionato onde sarà compita l’unità dell’intelletto; l’uso reale si palesa nella pretesa di produrre da sè concetti. Il fine dell'uso logico si esplica neW inferire
( c) > Ratio (id est) potentia qua ex his quae sensu sunt apprehensa et retenta, ahquid ultcrius insensibile, seu supra sensus, infertur et, concluditur, ut ex particular! infertur universale, et ex quibusdam antecedentibus quaedam consequentia». Op. lat.. I, IV, 32. Invece « ...intellectus qui ea quae ratio discurrendo et argumentando et, ut proprie dicam, ratiocinando et decurrendo concipit, ipse simplici quodam intuitu, re-cipit et habet...; et dicitur intellectio quasi interna lectio, atque si speculum vivum quoddam sit, turn videos, turn in se ipso habeos visibilia quibus obijcitur, vel quae illi obijciuntur ». ./
(2) « Sequitur mens superior intellecfu et omni cognitione, quae simplici intuitu absque ullo discurso precedente vel concomitante... omnia comprehendit, et proporzio-natur speculo turn vivo turn pieno, quod idem est lux speculum et omnes figurae, quas sine distractione videat et sine temporali successione... uno actu ». Ibidem.
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mediatamente, e si attua nei concetto deila totalità delle condizioni per un dato condizionato, concetto che non è, come quelli intellettuali, unità d’esperienza possibile.
Inoltre, nella Critica del Giudizio, il Kant avverte che l’intelletto-è al servizio della ragione soltanto sotto una condizione che dev’essere data, e che la ragione, non contenendo affatto in se stessa alcun principio costitutivo, in quanto teoretica, è trascendente ogni qualvolta l’intelletto non può susseguire, e così produce le idee, la cui validità deve, perciò, essere limitata al soggetto. Ma, in questa Critica, il Kant istituisce fra intelletto e ragione, anziché vera e propria antitesi, una specie di parallelismo, considerandoli come « due domini interamente separati contro ogni influsso reciproco dal grande abisso tra il sovrasensibile e il fenomeno » (i).
Nella filosofia dèi Fichte, al dualismo fra intelletto e ragione è sostituito quello fra intelletto e immaginazione. È il primo « la facoltà in cui ciò die è mutabile permane; è intelletto in quanto qualcosa è fissato in esso; e tutto ciò che è fissato non è fissato se non nell’intelletto; che è una facoltà spirituale in riposo, inattiva, un puro ricettacolo di ciò che è stato prodotto dall’immaginazione ». (Dotti-. scienza, 184).
Nell'idealismo dello Schelling la ragione sembra identificarsi talvolta col principio capitale del sistema, il principio indifferenza, se essa è l’assoluta indifferenza di soggetto e oggetto; « sapienza iniziale in cui le cose tutte sono insieme, eppur separate, raccolte in uno, eppur libera ciascuna alla sua maniera. Essa è, non attività coinè lo spirito, non assoluta identità dei due principi della conoscenza, ma l’indifferenza; la misura e quasi il luogo universale della verità, la sede tranquilla dov’è accolta la sapienza originaria, secondo cui l’intelletto deve creare, quasi contemplando un modello ». Ma da questo passo, che appartiene alle Ricerche filosofiche su la essenza della libertà umana (pag. 124), nè da altri, meno espliciti, delle opere schellinghiane non è dato ricavare un concetto chiaro del rapporto delle due facoltà, l’intellettiva c la razionale; rapporto che doveva avere una precisa determinazione per opera della filosofia hegeliana.
Coll'idealismo assoluto dello Hegel le due attività spirituali sono non solo distinte, ma costituiscono, si può dire, l’ossatura di tutto il sistema. L'intelletto è l’attività che pone l’opposizione nel giudizio (das verständige Denken, der trennende Verstand) (2), la ragione quella che dà la sintesi del concetto (begreifende Vernunft, sich wissende Vernunft). L’intelletto si svolge entro il pensiero dell’identità formale (relativa); la ragione, invece, come identità della soggettività del concetto con la sua oggettività e universalità, come unità della coscienza e dell’autocosciènza, è verità assoluta; perchè, nella ragione, io spirito apprende se stesso nel contenuto dell’oggetto, e si apprende come determinato in sè e per sè (Fenom. Spir., §§416).
(1) Crii. Giud., pagg. 261 e 34, trad. it. Laterza, Bari. Coin è noto, secondo Kant, la ragione può essere legislativa solo come attività pratica; la conoscenza teoretica, in quanto costitutiva, è opera esclusiva dell’intelletto.
(2) Lo chiama anche intei letto ragionante, al § 468 della Filosofia, dello Spirito. 11 passo dello Schelling, citato nel testo, è dell’ediz. ¡tal. (Carabba. 1910).
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Nella filosofia delle scuole italiane i due principi, intellettivo e razionale, sono generalmente scambiati come termini equivalenti. Pel Rosmini, la ragione è la potenza che ha per oggetto l’ente, (in cui termina), mediante la quale si posseggono le idee degli enti e si scorge « l’intrinseca esigenza degli enti stessi; la ragione che, nella sua forma pratica, « ha l'ufficio di sottomettere la materia all’ente », in conformità di quella unificazione della sfera del pratico col teorètico, di cui il Roveretano ha profondamente inteso la necessità gnoseologica (i).
Solo nel Gioberti si accenna ad una distinzione fra la riflessione (che corrisponde all’intelletto) e la ragione o la mente, cioè «la potenza apprensiva della realtà universale r. ’ due ordini del necessario e del contingente ». Lo spirito afferra questo gran concreto mediante V intuito, cui segue necessariamente la riflessione « per mezzo della quale lo spirito ripensa il concreto universale già appreso dall’intuito ». Perciò si ha la conoscenza del mondo intelligibile, in virtù di una facoltà superiore, rivela-latrice delle idee, la ragione; la quale è dal Gioberti considerata in antitesi all’intelletto. Onde nasce la dialettica «che toglie tutte le antinomie apparenti fra la ragione e l'intelletto». :
Lo Schopenhauer riprende in gran parte la posizione kantiana, delle critiche della ragion pura e del giudizio, intendendo la ragione in senso formale, astratto, la quale deve attingere il proprio contenuto dall'intelletto, come questo lo trova nelle sensazioni per le sue forme a priori. Egli ripete a sazietà che non esiste una ragione assoluta come facoltà delle idee, organo della metafisica, anzi non esiste neppure una ragione in generale.
L’Herbart considerò l’intelletto come « la facoltà ai connettere i nostri pensieri secondo la natura del pensato », e considerò la ragione sotto un triplice aspetto, poiché «dove unisce premesse a conclusioni si manifesta come pensiero logico; « dove raccoglie insieme come totalità i membri di una serie che, secondo una regola « uniforme, può essere continuata all’infinito, cerca l’incondizionato; dove pondera < i motivi della volontà, e tra essi, in ¡specie, preferisce a tutti gli altri i giudizi « estetici sulla volontà, dicesi ragion pratica » (Introd. Metaf., 266)..
Col neo-criticismo del Lotze la ragione, ora è confusa coll'intelligenza in quanto cerca il generale, applica ad esso il caso particolare; ora è intesa in senso kantiano come la facoltà dei principi, sebbene, pel Lotze, essa ripeta la sua origine e la sua validità nel sentimento (wertempfindende Vernunft). L’attività intellettiva si rivela nei processi di connessione del singolo col singolo, quella razionale si attua nell’idea (Bild) del Tutto cosmico, come unità che l'intelletto non riesce a comprendere nelle sue forme, ma che rappresenta una rivelazione altrettanto autorevole, benché torbida e pericolosa {Mikrok., I, 273; II, 289).
Il Romanes, poco dopo, coerentemente al suo evoluzionismo bio-psichico, tentò ridurre la differenza tra intelletto e ragione a quella tra la capacità selettiva
(1) Se il Rosmini no» è riuscito a una piena unificazione, è a causa della separazione dei due ordini, delle essenze ideali e delie reali sussistenze; fra le quali ultime egli collocò la volontà, intesa, però, come capacità d'arbitrio. Pel Gioberti, cfr. Del Buono. pag. 127; Nuova Prol., I, 87 e 114; II, 387, ediz.. Gentile.
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psichica, rivolta a produrre nuove combinazioni rappresentative, o a modificare le antiche; e la facoltà conclusiva, naturalmente superiore, fondata sul riconoscimento di rapporti equivalenti (1).
Il Bergson, recentemente, ha identificato la ragione coll'intelligenza, cioè la facoltà de lier le même au même, che assume perciò un valore pratico estrinseco, perchè non può pretendere di tradurre ne’ suoi rigidi schemi la realtà, la quale non si ripete mai, ma è creazione incessante (Evol. crealr., p. 56).
Ultimamente il Bradley, l’eminente pensatore inglese, ha considerato l’intelletto una sfera mediana (intellectual middle space) dello spiiito, il regno dei concetti separati e delle relazioni esterne (as a mere and), per cui la realtà si risolve in un pluralismo noetico di oggetti singoli, individuati e definiti. Questa sfera della riflessione intellettuale è, conseguentemente, il vivaio nella contradizione; che viene, però, superata dalla ragione nella perfetta esperienza, nell'assoluto.
IH.
Consideriamo l’attività della ragione in quanto è rivolta a togliere ogni limitazione, e quindi a conseguire l’incondizionato. In ogni contenuto limitato d’esperiènza le parti appaiono reciprocamente dipendenti le une dalle altre, in modo che la variazione di una determina variazione nell’altre; mentre il tutto, benché limitato, appare relativamente ad esse incondizionato: ciò che è verificabile, p. e., in un sistema chiuso, meccanico o energetico. Nel quale, comprendere significa passare da un estremo all’altro, attraverso gli anelli intermedi; in modo che non vi sia soluzione di continuità fra un termine e l’altro (principio di ragione).
Qui le parti del sistema sono coordinate e connesse necessariamente fra loro e rispetto al tutto. Ma, se la delimitazione di questo tutto, come sistema chiuso, quindi parziale, è un’astrazione dalla totalità universale, come affermare che esso, in quanto totalità, è necessariamente determinato a sua volta, se non mettendolo in rapporto con altre parti, esterne alla connessione? E queste entreranno, così, a far parte di un nuovo sistema maggiore, nel quale, però, sarà nuovamente ristabilito il limite.
Ma, poiché per l’esigenza della ragione il pensiero è costretto a togliere il limite ampliandolo, questo secondo sistema rientra, come parte, nella nuova totalità, perdendo il suo carattere di relativa incondizionalità.
Ora, se questo ritmo del pensiero dialettico dovesse perpetuarsi incessantemente, ciò contrasterebbe al bisogno dello spirito di trovare un punto finale ove riposi paga - la duplice esigenza antinómica intellettivo-razionale, e lascerebbe il pensiero in uno smarrimento irrimediabile. Anche se lo smarrimento e il contrasto potessero sem(1) L'intelligence des animaux, pag. 12. Paris, Alcan, 1887. Non sarebbe neanche da citare l’opinione dell'Ardigò, che, cioè, la ragione risulterebbe da una somma d’istinti, con l’unica differenza, che, mentre l’istinto è fisso, la ragione è mutabile e artificiale (!).
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brave, ad una filosofia superficiale, sanati da un appello all’irrazionale come sentimento, 0 al valore intrinseco del tendere, per se stesso (cioè a un tendere che si trasmuta surrettiziamente in fine ideale). Come è nella scelta di Nathan il Saggio. È perciò che viene affermata la necessità logico-psicologica dell'incondizionato, o (come si dice impropriamente) la sua esistenza ideale, anche da chi nega la possibilità di conciliazione definitiva di quell’antinomia. Infatti, — si dice — se l’incondizionato può essere l’ideale dello spirito, non appare risolubile in un concetto, perchè, anche quando fosse perseguibile dalla ragione, l’intelletto, per comprenderlo, dovrebbe necessariamente determinarlo, che è limitarlo, togliendogli con ciò il caret-tere dell’incondizionalità. L’incondizionato, direbbe il Kant, non è oggetto d’intuizione in un’esperienza possibile.
Non rimarrebbe, allora, che attribuire all’incondizionato un valore regolativo come unità di ragione, anziché esistenza reale. Esso, così, potrà valere come un focus imaginarias; oggetto dell’intelletto puro, come un noumeno positivo; perchè è un falso appagamento quello della ragione che s'illude di pervenire all’incondizionato togliendo le condizioni nel fenomenico; data la nostra natura cogitativa, secondo la quale comprendere è determinare condizioni, cioè limitare (Kant, Hamilton, Mansel).
Ma non potrebbero il pensiero limitante e l’oggetto limitato essere della stessa natura ideale c reale insieme, in cui il pioducente sia una medesima cosa col prodotto, cornei; nell'autocoscienza, originaria identità tra il venir pensato e il prodursi e l’essere (Schei.ing), insidenza del soggetto nell’oggetto e dell'oggetto nel soggetto (Gioberti) ? Così sarebbe non solo superato ogni dualismo irriducibile tra soggetto e oggetto, pensiero e pensato, tra fenomeno e noumeno, ma sarebbe fondato gnoseologica mente il valore obiettivo della stessa appercezione trascendentale kantiana.- Se la limitazione non fosse dovuta, nè alla natura del pensiero, nè all'urto di esso pensiero con un residuo eteronomico, inassimilabile alla digestione mentale (Baldwin) ; bensì fosse autolimitazione dell’attività, infinita del soggetto, che, per prodursi a se stesso, cioè intuirsi, ha bisogno di opporre a sè una parte di sè; ogni contraddizione intellet-tivo-razionaie sarebbe eliminata, e composto (ipso iure) quel ritmo dialettico del pensiero in una sintesi suprema. La quale sarebbe anche la suprema realtà. Com'è noto è questa la posizione dell’idealismo ipercritico, che, nelle sue diverse espressioni, ha pur comune il compito fondamentale, l’accordo del subiettivo coll’obiettivo; per cui quest'ultimo termine è risolto interamente nell’altro, come suo prodotto; trasformando così filosofia e realtà in una.storia dell'autocoscienza.
Prima di giudicare della possibilità gnoseologica di questa dottrina, bisogna rispondere alle obiezioni che derivano la loro forza da due presupposti, in antitesi con quella:
Io il dualismo fra intelletto e ragione è irriducibile, perchè, se l'infinito è pensabile logicamente, non è comprensibile, in realtà, senza limitarlo, cioè negarlo; avendo la ragione dinanzi a sè un compito inesauribile, per la natura stessa del conoscere;
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2° il limite, obiettivamente considerato, è qualcosa di eterogeneo al pensiero limitante, quindi impervio nella sua essenza ad ogni definitiva intelligibilità, anche se la ragione ne dirima, ampliandolo, l’ambito progressivo.
Onde la contradizione dialettica risulta insuperabile nell’uno e nell’altro supposto.
1. Anzitutto è da rilevare come ogni antitesi, ogni contradizione, anche se non ancora superata dal pensiero in una sintesi ulteriore, implica sempre l’unità ideale-preesistente, lo sfondo comune su cui sorge e spicca l’antitesi; unità tanto più palese nell’esplicazione di attività conscie, le quali suppongono necessariamente l’identità del pensiero infinito. Ora, se ogni determinazione di contenuto di pensiero, ogni giudizio include già in sè quella più ampia sfera d’unità, in quanto trascende necessariamente se stesso, sarebbe assurda pretesa voler ridurre quest'unità, spezzandola, nei limiti della comprensione intellettiva per considerarla come un particolare accanto ad altri particolari, con un processo astrattivo che è una contraddizione implicita. Ñon solo, dunque, la totalità infinita è pensabile, logicamente, ma è essa l'unico pensabile concreto esistente e possibile, in quanto è ragione assoluta, dove cade e si dissolve ogni distinzione di soggetto-oggetto, ogni limitazione di termini (i). Concepire l’infinito soltanto come possibilità logica di atti singoli di pensiero, per cui il limite sia tolto e ristabilito ipso facto, a cagione dell’inesauribile ricchezza del contenuto conoscibile, è correr dietro zoppicando all'ombra dell’infinito, è concepirlo astrattamente sub specie finiti; nel quale (finito) si rende necessaria, per le indicate esigenze conoscitive, la separazione tra soggetto e oggetto, pensiero e realtà. E questo il concetto del falso infinito, come semplice negazione del finito, la maschera deH’iw/fwzfo (Gioberti); mentre il vero infinito costituisce, come ha rilevato il Caird, l’unità organica dell’infinito e del finito (2).
Il celebre argomento ontologico di S. Anseimo d’Aosta, taiito discusso e spesso frainteso, (valga o no a dimostrare l’esistenza di Dio), contiene in sè l'affermazione esplicita dell’esigenza razionale dell’infinito, come unità di pensiero ed essere, come necessità assoluta. Il quo niaius cogitar! nequit non può essere pensato esistere sólo logicamente, perchè con ciò stesso sarebbe limitato, quindi annullato come infinito. Perchè, se esistesse sólo in niente, ragiona il Santo, potrei pensarne uno esistente anche in re, il quale sarebbe maggiore di quel primo pensato. Ma, se questo è comparativamente minore significa che non è vero infinito, quo niaius cogitar! nequit. Pretendere poi, aggiungeremo noi, di poter pensare uri infinito maggiore di quello esistente anche nella realtà, perpetuando il limite e il superamento del limite (attività chalet*
(1) Il Bosanquet ha, di recente, insistito efficacemente sul significalo di totalità assoluta, che è proprio della mente, la quale non è un oggetto particolare come gli oggetti a cui si riferisce, e che sono in essa: « Mind is always a world, its objects are always fragments ». E questa totalità-ragione è l’unica vera esistenza (ultimately self-existent through the full-grown nature of mind). The distinction between mind and its objects, pagg. 38, 43. Manchester. 1913.
(2) Cfr. specialmente The Evolution of Religion, al capitolo: - L’idea dell’infinito ». Vedi, anche, Hegel, Filosofia della Religione, nell'appendice alle prove sull'esistenza di Dio.
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fica intellettivo-razionale) è doppiamente assurdo: assurdo perchè ogni possibilità di limitazione contiene già in sè l’illimitato, e perchè il limite include la necessità di un riferimento ad altro, rispetto al quale sia quel limite, e in cui questo e V altro sono oggetti comparabili, c quindi parti finite.
Ma, non potrebbero i due limiti essere di natura assolutamente eterogenea fra loro, e perciò incomparabili rispetto a un’unità di misura, irriducibili a una totalià omogenea? Eccoci ricondotti all’esame del secondo supposto.
2. Assumiamo questo presupposto come se. fosse valido gnoseologicamentc, cioè imprescindibile in ogni pensato: il pensiero soggettivo, neH’elaborazionc del pensabile oggettivo, trova sempre un residuo non assimilabile razionalmente (materia, sensazioni, noumeno negativo) dalla digestione mentale. Nè questa irrazionalità è da confondere con quella, impropria, dei rapporti matematici, affermantesi nell’impossi-bilità di conchiudere la serie dei valori di grandezze, in cui il pensabile è omogeneo al pensato; ma consiste in un elemento eterogeneo, dovuto alla natura dell’oggetto reale, ribelle alla legislazione del pensiero puro, quindi eteronomo. È questo residuo che pone un limite insormontabile al pensiero, sia esso inconoscibile o no.
— Sta bene, ma un limite insormontabile al pensiero non può essere se non un limite assoluto, chè un limite parziale, relativo, è già superato nell’atto in cui è posto. E un vero Assoluto deve essere infinito, altrimenti si dissolverebbe nella relazione. Ma un (aitro?) assoluto è il pensiero infinito, in quanto implicito in ogni pensabile, non dipendente da altro; perciò avremmo qui due assoluti egualmente infiniti. Nè valga dichiarare che si tratta di assoluti in sènso gnoseologico, e non metafisico, considerando assoluto ciò che è solo relativo a se stesso; perchè se non si vuoi giocare sulle parole, rispetto all’assoluto non possono più aver luogo distinzioni di soggetto-oggetto, e quindi relazioni di sorta. Un assoluto relativo a se stesso non è più, nè assoluto, nè relativo, è un'accozzaglia di termini insensati.
D’altronde due assoluti non sono più tali, se son due, perchè la loro dualità suppone la possibilità della comparazione quantitativa, cioè del limite, come fu detto sopra. E — soccorre qui in buon punto l’argomento ontologico, — se fossero due, si potrà sempre pensare un altro assoluto che risulti dalla somma dei due, il quale ultimo, soltanto, sarebbe vero Assoluto, cioè infinito, in cui quelli si degraderebbero come parti finite (i).
Ogni spiegazione che miri a derivare la possibilità dei limite daU’interferire di due attività infinite, quasi linea tra due piani, è (oltre che inutile) puramente illusoria; perchè dette attività, nell’atto in cui sono pensate duplici, distinte, sono già rtjse finite. Il pensiero, questo misuratore degli abissi, non trova in fondo e non misura che se stesso. La colomba kantiana, che sbatte le ali contro pareti insuperabili, scambia col limite la propria stanchezza!
Un residuo irrazionale che risu ti inafferrabile alla morsa del pensiero, e, quindi
(x) Per una più ampia cognizione dell'argomento si può leggere il mio articolo in Rivista Filosofica, marzo-aprile 1904.
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al principio di ragione, è solo un'ombra di esistenza, astrazione vuota, non ens. Il residuo, nell’atto in cui è affermato esistente, è già conosciuto come forma mentis; non essendo l’essere una determinazione aggiuntiva ab extra, ma la condizione stessa della determinazione, inclusa in ogni pensabile. Che significherebbe un pensiero senza il riferimento all’essere? L’essere non può non esser pensato, non può pensarsi non esistente. Se il principio di ragione ha valore assoluto, in quanto è pensiero infinito, e il pensiero include l’essere, anche nella più semplice affermazione, cade di per sè. ogni possibilità di conflitto fra pensiero ed essere; in senso gnoseologico, scompare ogni pretesa antinomia componendosi nell’unità del vero assoluto, che è anche assoluta realtà. Ciò che è razionale è reale: il celebre principio hegeliano diventa ora pienamente intelligibile nel suo profondo significato, identificandosi col principio di ragione: come verità (soggettivo) e come realtà (obiettivo). Taùròv Sé OTTI vó>)(xa zai ouvszév ¿GT'. vóftpa.
Rinaldo Nazzarl
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iascun può fare di sua pasta gnocchi, borbottava Ugo Antonio Amico, buon’anima, quando il budiho letterario di qualcuno di noi prediletti non riusciva di suo gusto.
11 senatore Benedetto Croce si ostina a fare della sua fine e ben lievitata pasta filosofica, gnocchi di critica letteraria. Il cattivo articolo che egli ha scritto contro il Pascoli in un giornale romano (1) potrebbe anche chiamarsi una mala azione se ed in quanto un’infelice esercitazione letteraria possa essere operosa
di effetti morali. È certo uno scritto tale che egli rileggerà un giorno non senza dispiacere. Molti incoscienti leggitori del pezzo-di carta quotidiano i quali, dà buoni italiani in foia di distruzione, saranno andati in sollucchero per la pretesa «stroncatura », non suppongono quanto possa poi costare quell’ora di oscuramento ad un uomo della cultura, dell’intelligenza, della probità di Benedetto Croce.
♦ ♦ ♦
Da una dozzina d’anni, « saziato dallo studio fattone per scrivere un saggio », il Croce non aveva letto più nulla del Pascoli. Ora s’è trovato fra mano la scelta delle poesie pubblicate... un anno e mèzzo fa da Luigi Pietrobono (Zanichelli, marzo 1918): e non più col sentimento ostile d’una volta, anzi con simpatia, con una mite e sentimentale e malinconica disposizione d'animo. Ma ahimè, non appena iniziata la lettura di quella... roba, è stato ripreso di colpo dall’antica ripugnanza e s’è sentito risospingere all'antica riprovazione, fatta più acuta e più violenta dalla stessa serenità con la quale... Fermiamoci qui.
Non è che il proemio: ma ogni onesto scriba di pezzi di carta quotidiani potrebbe darsi una fregatina ’di compiacimento, perchè con una simile imbroccata l'articolo — comunque vada poi a finire — può dirsi ben riuscito.
Orbene, nonostante la espressa preghiera fatta al lettore di credergli, nessuno che giudichi col proprio cervello può credere alla sincerità, alla serenità di spirito del filosofo Croce verso il nominato Giovanni Pascoli.
Anzitutto è veramente strano che ad un così cospicuo scrittore di saggi critici pascoliani siano passate inosservate la traduzione dei Poemetti cristiani (Biblioteca Rara; Napoli, Perrella, 1916), la quarta ristampa dei Poemi conviviali (Zanichelli, agosto 1918) e la nona edizione dei Canti di Caslelvecchio (dicembre 1918), ed abbia atteso una breve antologia scolastica per levare di nuovo gli occhi verso l’oggetto del suo molto studio.
(i) Giornale d’Italia, 30 settembre: « Rileggendo Pascoli ».
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Ma a parte questo evidente artificio formale, tutto l’articolo denuncia il vero stato d’animo del Croce: quello di una preconcetta, tenace e stizzosa avversione contro un poèta e contro una poesia di cui gli sfugge, per propria invincibile incapacità, qualsiasi comprensione.
E valga il vero.
Il Croce comincia a legicchiare per ordine le 47 poesie raccolte dal Pietrobono: la prima II bordone, la seconda Le ciaramelle, la terza La voce, la quarta II cane notturno, la quinta Valentino. Sono componimenti brevi, di poco rilievo, non spregevoli, ma certo presso che insignificanti nella complessa e grandiosa produzione pasqoliana.
Se quantitativamente il libretto del Pietrobono raccòglie un cinquantesimo dell’opera del Pascoli, quelle cinque poesiole occupano nella stessa antologia, materialmente e concettualmente, un posto del tutto trascurabile: devo aggiungere per maggiore evidenza che sono contenute in sole 19 delle 318 pagine?
Ma il Croce —- che riesce appena a contenere il disgusto, tanto per dare ancora un'occhiata di traverso Aquilone— sente salirsi dai precordi l’antica e spietata sentenza, e grida: questa non è poesia!
Evvia! che un così cospicuo critico sia preso talmente dalla nausea estetica, da dimenticare le date e le circostanze in cui questa e quella poesia furono scritte, e i volumi da cui furono tolte, e come e quanto siano in rapporto con l'intera creazione poetica dell’autore, sembra nella storia della critica letteraria alquanto fuori del normale; che la sua serenità e imparzialità siano turbate in maniera così repentina e completa e irrimediabile, da non fargli scorgere che il libretto che gli è capitato fra mano reca anche sette poemi conviviali, non proprio dei più vomitivi, e alcune terzine (Gesù) non del tutto nauseanti, e infine una lunga lirica (Paulo Ucello) non interamente sconcia, è un fatto semplicemente straordinario; che egli infine preghi illettore di credere alla sua perfetta serenità di spirito, è un caso addirittura sollazzevole.
La verità è invece che la sua genuina disposizione di spirito è ancora quella di dodici anni fa: di un filosofo d’indiscutibile valore che si è « saziato » di versi pasco-liani «¿«-scrivere un saggio », e non è riuscito a capire nulla nè del poeta nè della poesia.
* « «
Vogliamo rileggere il Pascoli? Trascrivo dalla raccolta che è stata-per il Croce motivo di tanto e così profondo disgusto (1):
E Gesù rivedeva, oltre il Giordano, campagne sotto il mietitor rimorte: il suo giorno non molto era lontano.
E stettero le donne in sulle porte delle case, dicendo: Ave, Profeta! Egli pensava al giorno di sua morte.
(1) Poesie di G. Pascoli, con note di Luigi Pietrobono, Bologna, Zanichelli, 1918. Questo prezioso volumetto non dovrebbe mancare nella libreria di nessuna persona colta. Per una prima conoscenza ed anche per un ritorno al complesso e multiforme mondo poetico pascolano non poteva desiderarsi una guida più sapiente, più nobile, piu affettuosa.
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Egli si assise all’ombra d’una meta di grano, e disse: Se non è chi celi sotterra il seme, non sarà chi mieta.
Egli parlala di granai ne' Cieli: e voi, fanciulli, intorno lui correste con nelle teste brune aridi steli.
Egli stringeva al seno quelle teste brune; e Cefa parlò: Se costi siedi, temo per l’inconsutile tua veste.
Egli abbracciava i suoi piccoli eredi.
— Il figlio — Giuda bisbigliò veloce — d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi: Barabba ha nome il padre suo, che in croce morirà. — Ma il Profeta, alzando gli occhi: No, mormorò con l’ombra nella voce;
E prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.
Solo per questo carme, osserva quel fine, intelligente e affettuoso interprete che è Luigi Pietrobono,solo per questo carme il Pascoli meriterebbe di esser chiamato il poeta di Gesù.
Ma il profondo sentimento religioso e cristiano del nostro Poeta non si esaurisce, com’è noto, in quelle mirabili terzine. Basti ricordare Là Buona Novella che chiude con una inattesa accorata soavissima parola di pace e di fede la meravigliosa pagana rapsodia dei Poemi conviviali, « il più perfetto libro di poesia (Benedetto ci perdoni) che abbia visto la luce in Italia dopo i Canti di Giacomo Leopardi ». Del Cristianesimo (così come del pensiero ellenico e del mondo pagano) il Pascoli seppe divinare, rivivere in sé e mirabilmente esprimere la sostanza viva, come nessun altro poeta moderno.
Nel perenne dissidio che è il fondamento stesso della sua anima e della sua poesia, nel contrasto angoscioso fra la fede e l’incredulità, quel che appare addirittura inarrivabile è la perfetta lucidità (che è quasi sempre perfetta forma poetica) con cui sono medesimamente espressi stati d’animo opposti e contrastanti: la gioia e il dolore, il bene e il male, la vita eterna e la morte dell'anima. E poiché abbiamo accennato alla sua intuizione della essenza del Cristianesimo, si rileggano, dei poemetti latini, Centuno e Pedagogium, e delle poesie italiane... tutte quelle che disgustano il filosofo Croce: anche Le ciaramelle, anche I due fanciulli.
Uomini, pace! Nella prona terra tioppo è fi mistero; e solo chi procaccia . d’aver fratelli in suo timor, .non erra.
Pace, fratelli! e fate che le braccia ch’ora o poi tenderete ai più vicini, non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini placidi e bianchi, quando non intesa, quando non vista, sopra voi si chini la Morte con la sua lampada accésa.
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FINGENDO DI RILEGGERE PASCOLI 243
Ma dove lo spirito universale, umano e divino, del Cristianesimo, ha trovato forme poetiche perfette, definitive, inimitabili, dove « il lume fantastico e lirico » si va di canto in canto intensificando sì da farci vivere in un solo tutti i capolavori pa-scoliani (poesia sociale, civile, intima; patria; elette e vive ispirazioni della natura, della storia, del desiderio) « è nella gemma dei Poemetti italici, in quella cosa divina che ha per titolo « Paulo Ucello ».
Nel pittore fiorentino il Pascoli ha cercato se stesso e vi ha trovato non poche note della sua anima, l’umiltà francescana, l'amore di ciò che nella natura è più tenue ed innocente (x) e ha composto un poema maraviglioso, immortale, che lascia in chiunque non sia assolutamente privo di senso artistico, una visione, un’estasi, un incantesimo.
* * ♦
E rileggano poi per contrasto, i colti lettori di Bilychnis, Il ritorno (nel voi. «Odi e Inni »), L'ultimo viaggio (2), Solon, La cetra d’Achille, Aititelo (3), Psyche, Alexan-dros: e vedranno se non avevo ragione di dichiarare, in principio, che quella commessa dal Croce è, oltre tutto, una mala azione, resa possibile dalla esagerata notorietà di lui e dalla incommensurabile ignoranza del pubblico italiano. c w
O • «Wl •
Postilla. — Dopo che quest'articolo era stato scritto e mandato in tipografia, furono pubblicati sul medesimo argomento vari e notevoli articoli: citiamo quelli di Nicola Moscardelli (Pascoli crocefisso. Il Tempo, n. 220), di Emilio Cecchi (Pascoli ricrocifisso. La Tribuna, n. 226) e di Ermenegildo Pistelli (Pascoli in Croce, Il Pesto del Carlino, n. 284). I concetti svolti in varia forma, e tutti con ben maggiore' competenza e valentia di noi, sono sostanzialmente quelli accennati nel nostro- articolo. Se ne può desumere, se si vuole, una confortevole conseguenza: che anche ora come una volta è lecito ai generali in capo dell'alta cultura nazionale di commettere qualche bricconata letteraria, ma non è loro più lecito sperare che fra i subalterni e magari fra i semplici fanti non vi sia più d'uno pronto a chiederne loro conto. ; <•' • $. m.
(1) Borgese, La vita e il libro, Ili, X02.
(2) Una meravigliosa piccola Odissea, una delle cose più nobili e alte della nostra poesia (R. Serra), la quale ci riporta — lo si dica con forza — a Omero e a Dante.
(3) Cfr. la seconda lezione, in esametri, pubblicata in Flegrea (5 aprile 1899) infinitamente più bella dell'ultimo rifacimento in endecasillabi sciolti. L
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GLI EBREI IN ITALIA
oche osservazioni sugli israeliti, ad illustrazione della tavola qui annessa. Già nel mio primo studio ho riportato il numero degli israeliti, organizzati in stabili comunità, nelle varie regioni del Regno, che scende da 7013 nel Lazio a 155 nella Umbria. Il loro numero totale salì, nel censimento del io giugno 1911, a 34.524, con una differenza in meno di 1945 individui, rispetto al censimento del 1901 (36.289 individui). Questa diminuzione degli israeliti è veramente significante,
dato il generale aumento della popolazione per nascite nell’ultimo decennio censito e perchè è nota la precocità e la fecondità dei matrimoni! fra israeliti, fra i quali è ancora molto forte la tradizione e il vincolo familiare. Si noti, per i necessari confronti statistici, che negli altri due censimenti generali del Regno, si ebbero: nel 1871, 35.356 individui; nel 1881, 36.289 individui.
Il fenomeno può aver parecchie cause, non ultima i matrimoni mi$ti, la ristrettezza teologica e morale dei rabbini, la tendenza al mimetismo morale per sottrarsi agli effetti dell’isolamento, dovuti ai pregiudizi secolari contro l'israelita. L’on. Luigi Luzzatti, commentando (1) il mio primo articolo, lamentava giustamente con nobili parole questa voluta diminuzione, che si risolve in un vero suicidio e nella perdita d’una forza morale non trascurabile.
« Una parte sarà emigrata nei senza religione; una parte non avrà dichiarato la propria fede, ma gii ebrei in Italia devono essere di più. Perchè alcuni di loro si nascondono? Vi sono di quelli che pur essendo israeliti si vergognano di parerlo'. Per schivar noie? In Italia questa codardia non avrebbe scusa. E spero di non essere il solo che esule da più anni per profonde convinzioni di studi dalla Chiesa avita, torno ebreo quando è dignità raffermarsi tale di fronte ai piccoli pericoli, alle beffe che non mancano mai, o per associarsi alle schiere degli oppressi.
« Questa stirpe immortale si è salvata sinora per le persecuzioni: da esse trasse la virtù della preservazione e del perpetuo ringiovanire ».
La tavola non ci dà cifre reali, ma numeri relativi, la proporzione cioè degli israeliti in ogni regione rispetto, in questo caso, non alla popolazione totale di una
(1) Le religioni in Italia, nel Corriere della. Sera del 21 maggio 1916.
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DISTRIBUZIONE TERRITORIALE DEGLI ISRAELITI
(Censimento al 10 giugno 1911)
Proporzioni degli israeliti per 10.000 abitanti
Nei soli Comuni capoluoghi delle Provincie
DIREZIONE GENERALE DELIA STATISTICA E DEL LAVORO
ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI * NOVARA
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GLI EBREI IN ITALIA
245
provincia, ma rispetto a quelle dei Comuni capoluoghi di provincia, in cui generalmente vivono agglomerati gli israeliti. Perchè, non bisogna dimenticarlo, le comunità israelitiche sono, per la natura stessa delle professioni tradizionali a cui si dànno gli israeliti, comunità urbane.
La proporzione è fatta prendendo per base 10.000 abitanti di ogni Comune-capoluogo. In questa tavola la scala dei valóri risulta al solito, alquanto differente da quella delle cifre assolute. In questa scala hanno il primo posto, per la più alta percentuale rispetto alla totalità della popolazione dei Comuni capoluoghi, la provincia di Livorno, Ancona, Mantova (173,9-228,1 per 10.000 abitanti), a cui seguono immediatamente Roma, Firenze, Ferrara (da 82,0 a 123,0), Milano, Verona, Padova, Rovigo, Venezia, Modena (da. 51,0 a 75,3). È caratteristica, anche qui, come per la categoria « nessuna religione », la bassissima percentuale nell’Italia meridionale.
Può riuscire interessante il confronto fra lo sviluppo dell’ebraismo in Italia e alcuni altri Stati dell’Europa (r). Per . alcuni mancano le cifre comparative dei censimenti anteriori.
Austria Ungheria Olanda Svizzera (a)
1S80 . . . 1.005.394 1869 . . . . 553.641 1869 . . . . 68.003 1870 . . . . 6.996
1890 . . . I.I43-3O5 1890 .... 730.34? 1879 . . . . 81.693 1880 • • - 7.37 3
1900 . . . I.224.899 1900 .... 851.378 1889 • • ■ • 97-324 1888 . . . . S.069
1910 . - - r-313-687 .1910 • . . - 931 2-458 1899 . . . . 103.988 1900 . . . . 12.264
—— — 1909 . . . . 106.409 1910 .... 1S.464
Per la Russia, ad accezione della Finlandia, abbiamo dell’ultimo censimento del 1897, 13.906.972 individui, distribuiti così: 6.996.654 nell'Asia centrale; 3.572.617 nella Russia Europea; 3.206.224 nel Caucaso, ed appena 4903 nella Polonia Russa e 126.574 in Siberia.
Mario Rossi.
(1) Non bisogna dimenticare che diversamente dalle varie Chiese cristiane; l’ebraismo attualmente va considerato in ogni paese come un gruppo etnico omogeneo e fissato, con pochissima forza espansiva e che in parecchi Stati d'Europa è soggetto a gravi limitazioni giuridiche e politiche, di modo che non si può parlare in genere che di uno sviluppo interno. Si noti lo sviluppo in Austria ed Ungheria (100.000 in un decennio), in Olanda e in Svizzera. Per lo scarso sviluppo in Germania si deve tener conto della forte corrente emigratoria fra i giudei della Prussia orientale.
& (2) Sono compresi anche*altri individui non appartenenti a Chiese cristiane.
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L’“ETICA DELLA SIMPATIA,,
nella “ TEORIA DEI SENTIMENTI MORALI ” di Adamo Smith
(Continuazione. Vedi Bitychnis, fase. di LVgHo-SeUembro, 1919, paj. »7).
MORALE NAZIONALE E DI PARTITO
ON meno importante è in questo capitolo della Teoria di A. Smith la seguente semplificazione sociale e politica, notevole anche per la sua attualità, che serve mirabilmente a saggiare la verità della teoria del carattere sociale della valutazione morale.
Della condotta di due nazioni indipendenti fra loro, i soli spettatori imparziali e indifferenti sono le nazioni neutrali. Ma esse si trovano tanto lontano, che son quasi fuori di vista. I cittadini delle nazioni in guerra poco badano ai sentimenti
con cui le altre nazioni giudicheranno la loro condotta; la loro sola ambizione è di ottenere l'approvazione dei loro concittadini, i quali essendo animati dalle stesse passioni ostili non possono esser meglio soddisfatti che da tutto ciò che... offende il nemico... Perciò le regole di giustizia sono raramente osservate nel tempo di guerra, quando lo spettatore parziale è sì vicino, e ¿’imparziale sì lontano. La verità e le convenienze sociali sono quasi interamente messe da parte; i trattati violati... quasi senza alcun disonore per il violatore. L'ambasciatore che inganna il ministro di una nazione straniera è ammirato e applaudito: la condotta che nei rapporti privati sarebbe più lodata e stimata, nei rapporti pubblici è riguardata come cosa da stolto e idiota che non s’intende de' suoi affari....
Ma le. animosità delle fazioni ostili, siano civili che ecclesiastiche, «sono spesso ancora più furiose ed atroci»: e l’autore osserva con un'arguta ironia, che spesso trapela nella sua opera, e che chiameremmo volentieri « manzoniana » se ciò non fosse anacronistico: « Le questióni se sia doveroso mantenere la parola data ai ribelli e agli eretici, sono state agitate spesso furiosamente da famosi dottori civili ed ecclesiastici. Suppongo che non sia necessario osservare, che ribelli ed eretici non sono altro che una classe disgraziata di persone, che al momento in cui la tensione è giunta a un certo grado hanno la disgrazia di appartenere al partito più debole»: (Questa osservazione è preziosa anch’essa, come contributo al concetto del relativismo delle dottrine religiose e leggi civili).
E soggiunge: « Il vero, rispettato e imparziale spettatore, non si trova in alcuna occasione più lontano che in mezzo alla violenza e alla rabbia dei parliti contendenti: per essi si può dire che egli quasi non esista più nel mondo; ed essi imputano perfino al Gran Giudice dell’universo tutti i loro pregiudizi, e lo riguardano spesso come animato da tutte le loro, passioni vendicative e implacabili ».
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l’-etica della simpatia»
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DEFICIENZE DELLO “ SPETTATORE IMPARZIALE „
Ma non è solo quando lo spettatore imparziale reale è assai lontano da noi che la rettitudine dei nostri giudizi riguardo alla proprietà della nostra condotta è deformata: anche alla sua presenza, la violenza e l’ingiustizia delle nostre passioni egoistiche è talvolta sufficiente a indurre « l’ospite del nostro petto » a dare un giudizio assai diverso da quello che le reali circostanze del caso potrebbero autorizzarlo. Noi possiamo essere stimolati a esaminare la nostra condotta e tentare di osservarla alla luce in cui la osserverebbe uno «spettatore imparziale», in due occasioni diverse, cioè nel procinto di agire, e dopo avere agito. Ora, specie nel pro< into di agire, l’avidità delle passioni raramente ci permetterà di riflettere a ciò che stiamo per fare, con l’imparzialità di una persona indifferente. Anche quando l’azione è compiuta e la passione che la suggerì ha dato giù, è raro che noi siamo perfettamente imparziali. « È ben coraggioso colui che non esita di sollevare il velo misterioso della propria illusione, che sottrae alla nostra vista le deformità della nostra condotta. Piuttosto che veder questa sotto aspetto sì sgradevole, noi troppo spesso debolmente e follemente tentiamo di esasperare di nuovo quelle ingiuste passioni che ci avevano dianzi traviato ».
E qui l’autore coglie l’occasione per tirare una puntata mortale contro la teoria del « senso morale ». « Se fosse, egli dice, con una facoltà speciale che noi giudichiamo della condotta morale delle azioni c distinguiamo la bellezza o deformità delle passioni e degli affetti, poiché le passioni nostre proprie sarebbero esposte più direttamente all’osservazione di questa facoltà speciale, l’individuo giudicherebbe con più giustezza delle passioni proprie che di quelle degli altri che può osservare sólo a distanza. Mentre invece avviene appunto il contrario: e se noi potessimo osservarci alla luce in cui gli altri vedono (o vedrebbero se sapessero) noi, una riforma generale seguirebbe inevitabilmente ».
Ma questo fatale auto-inganno, questa debolezza, sorgente dèlia metà dei di- )
soldini della vita umana, non è stata lasciata da Natura senza rimedi; e l’autore s’introduce a parlare nel rimanente del capitolo IV e nel V dei: .
PRINCIPI E REGOLE GENERALI DI MORALITÀ
Essi sono intesi dalla natura per bilanciare « l’influenza e la delusione perver-titrice dell’amor proprio e la fatale debolezza dell’auto-illusione.». Bisogna pur convenire che l'insistenza posta dall'autore sul carattere soggettivo dello spettatore imparziale, non è - tale da predisporre all’insistenza non minore che egli pone qui sulle norme comuni e ir loro valore obbligativo — benché la conciliazione fra esse non sia, nella « Teoria », in alcun modo ostacolata, anzi secondo essa sia appunto la loro conciliabilità che attribuisce stabilità a norme relative e soggettive.
Ed ecco la origine « simpatica » di queste regole generali di moralità: « La nostra osservazione costante della condotta altrui ci conduce indiscutibilmente a formarci certe regole generali relative alla convenienza e proprietà del fare od omettere certe azioni. La coincidenza della nostra disapprovazione di alcune azioni con
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248 BILYCHNIS
quella della maggioranza degli altri uomini rafforza ed esaspera il nostro senso della loro deformità: e ci fa risolvere di non renderci mai colpevoli della stessa azione e meritevoli della Stessa disapprovazione. Così noi c'imponiamo delle regole generali di disapprovazione e di approvazione di certe azióni; e queste divengono le nostre norme di morale. Esse sono fondate sull’esperienza di quello che in casi particolari le nostre facoltà morali approvano 0 disapprovano, e non è già viceversa il nostro giudizio morale delle azioni particolari che si fondi sulle norme morali.
Fu la prima vista di un assassinio disumano che fece sorgere l’aborrimento per questo atto, senza alcun bisogno di preesistenti norme morali, nè della riflessione che esse condannano quell’atto; al contrario, queste regole sono sorte tutte dall’esperienza nostra degli effetti che sui nostri sentimenti producono quelle tali azioni. Esse non sono già intuizioni morali, nè formano la « maggiore » fornitaci dalla natura per trarne la sinderesi morale.
Una volta però queste regole generali formatesi e universalmente fissate e riconosciute per unanime consenso dell’umanità, noi facciamo spesso appello ad esse come a criteri dei giudizi morali: e§se sono citate nelle divergenze come ultimi fondamenti su cui poggia il concetto del giusto e dell’ingiusto, e ciò ha indotto alcuni eminenti moralisti a costruire i loro sistemi sul presupposto che i primitivi giudizi morali dell’umanità si formarono come le decisioni di una corte giudiziaria, cioè considerando prima quale fosse la regola generale e poi ricercando se una particolare azione cadesse sotto il suo ambito».
SÈNSO DEL DOVERE
« Il rispetto alle regole generali di condotta è ciò che propriamente si chiama senso del dovere:... il solo principio sul quale la massa dell’umanità è capace di dirigere le proprie azioni. Molti che si comportano assai correttamente in tutta la vita... non hanno forse mai provato quel sentimento, sulla proprietà del quale noi (spettatori} fondiamo la nostra approvazione della loro condotta, ma solo agiscono per rispetto alle norme stabilite di condotta ».
Un uomo di freddo temperamento potrà sentire assai debolmente la gratitudine verso un suo benefattore: eppure il rispetto per le norme generali, di condotta potrà, senza ipocrisia, fargli compiete tutti gii atti che propriamente si addicono ai suoi rapporti. Lo stesso farà una moglie verso il marito. «Sono soltanto le anime più raffinate che possono riuscire a modellare esattamente in ogni occasione i loro sentimenti e la loro condotta sulle, esigenze e particolarità più minute della situazione: la rozza creta di cui è plasmata la maggior parte della umanità non può essere lavorata a tal grad i d: perfezione: ma quasi tutti possono, con la disciplina, l'educazione e l'esempio, essere sì impressionati dalle norme generali, da agire in quasi ogni occasione con sufficiente correttezza ».
È l’osservanza di queste regole generali che ci garantisce della condotta di un individuo contro la variabilità, i.capricci, le diverse disposizioni d’animo soggettive, le quali ci impedirebbero di fare assegnamento sul suo senso personale della proprietà o improprietà delle sue singole azioni nelle diverse occasioni. Smith coincide
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V« ETICA DELLA SIMPATIA
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qùi con Schopenhauer nel riconoscere, che sebbene le forinole generali non siano affatto la causa o la base reale della morale, esse sono tuttavia indispensabili per il corso normale della vita: sono come cisterne o serbatoi, in Cui s’immagazzina l'abito mentale che sgórga dalla fonte di ogni moralità, e a cui si può attingere quando l’occasione lo richieda.
I COMANDAMENTI DI DIO
Quéste regole generali di condotta, la cui importanza è suprema per la vita sociale, sono, dice’ Smith, « a ragione riguardate come leggi della Divinità ».
« Questo rispetto è ulteriormente intensificato (« enhanced ») dall'opinione insinuata prima dalla natura e poi confermata dalla ragione e dalla filosofia, che quelle importanti norme di morale sono comandamenti e leggi della Divinità, che in ultimo premierà ó punirà chi le osserva o trasgredisce... ». Gli uomini hanno sempre riferito alla divinità i sentimenti e le qualità che sono più di ornamento all’umanità: e anch? quando hanno inteso che le loro azioni li rendevano i « propri» oggetti della detestazione e del risentimento degli uomini, sono stati naturalmente portati a riferire questi stessi sentimenti a quei medesimi esseri... Così la religione, fin nelle sue forme più-rozze, sanzionò le regole della morale assai prima dell'età del ragionamento artificiale e della filosofia».
E notevole, non meno che la grande affinità delle conclusioni, la differenza della dimostrazione di Smith e di Kant, che fece dell'esistenza di Dio e della vita futura dei postulati dell’imperativo categòrico, mentre per Smith essi rientrano come sanzione addizionale delle « norme generali derivate dal fatto empirico della simpatia ».
In quésto medesimo capitolo, infatti, Smith ha cura di spiegare che sono sempre le stesse nostre facoltà morali « che recano con sé il distintivo più evidente di questa autorità divina... Ciò che piace alle nostre facoltà morali è conveniente, giusto e appropriato; e il contrario è sconveniente, ingiunto ed improprio. I sentimenti che esse approvano sono graziosi e dicevoli:, gli opposti, deformi e disdicevoli. Le parole stesse di giusto, ingiusto, proprio, improprio, grazioso, sconveniente, significano soltanto ciò che piace 0 dispiace a queue facoltà. Poiché queste facoltà furono evidentemente destinate ad essere i principi direttivi della natura umana', le regole che essi prescrivono debbono essere considerate come i comandi e le leggi della Divinità, promulgate da quei vicegerenti Che egli ha così incaricati nel nostro internò-- »•
E più esplicitamente sotto: «Quando le regole generali che determinano il merito e il demerito delle azioni vengono ad essere considerate come le leggi di un essere onnipotente che vigila sulla nostra condotta, e il quale in una vita avvenire compenserà 0 punirà la loro osservanza o trasgressione, esse acquistano necessariamente da questa considerazione un nuovo carattere sacro... In questo modo la religione rafforza il senso naturale del dovere... ».
Inoltre questo carattere sacro, suggerito dalla religione, delle norme di condotta, riguarda esclusivamente la loro interpretazione e per nulla determina il loro con tenuto. Infatti:
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BILYCHNIS
« Che ubbidire al volere di Dio sia la prima norma di dovere, tulli ne convengono; ma quanto ai particolari comandi che questa volontà impone, essi discordano grandemente r>.
In conclusione, ciò che in questo capitolo è stato detto del carattere delle norme morali quali leggi di Dio, conferma il carattere autonomo del dovere, ed esclude ogni eteronomia. Smith non conosce alcun codice in cui queste leggi siano contenute; per lui [’origine divina non è che ['esponente assunto da norme che vengono riconosciute indipendentemente come leggi morali, solo in base ai principi insiti alla natura umana stessa.
“UTILITARISMO,, DI HUME E “SIMPATIA,, DI SMITH
Abbiamo già visto come, prima di A. Smith, il suo amico Hume avesse inteso il bisogno d’invocare il sentimento della simpatia per operare il trapasso fra l’utili-tarismo egoistico e l’utilitarismo altruistico: solo, mentre per Hume l’utilità, propria o altrui, è l’elemento unico e il costitutivo immediato della moralità della condotta, per Smith invece il suo principio prossimo immediato è fornito dalla simpatia coi sentimenti e la condotta altrui; e inoltre questa è basata su due fattori, cioè: la causa o i motivi che determinano l'azione, e la tendenza o finalità benefica o dannosa di essa. Per riguardo al primo fattore, l'azione è propria o impropria, riguardo al secondo è meritoria o demeritoria. Per Smith, quindi, la tendenza di un sentimento od azione a produrre effetti benefici o dannosi, cioè la sua utilità, è solo un fattore; et quidem remoto, del fenomeno di approvazione: di qu/ la ragione della critica che in questa Parte IV della Teoria fa senza nominarne l’autore, anzi altamente encomiandolo, della parziale e incompleta teoria di Hume..
«In verità», dice Smith, « sembra che laNatura abbia sì felicemente proporzionato i nostri sentimenti di approvazione o disapprovazione al vantaggio insieme dell’individuo e della società', che... solo quelle qualità dell’animo sono approvate come virtuose, che sono utili e gradevoli alla persona stessa o agli altri, e viceversa ».
Si noti subito, come in questa parziale adesione all’utilitarismo di Hume — in quanto l’utilità forma il contenuto e la causa, pur parziale e remota, della simpatia, è racchiusa la risposta alla maggior parte delle critiche fatte allo Smith da questo punto di vista. Ma l’autore prosegue: « Ma tuttavia affermo, che non è la considerazione di questa utilità 0 perniciosità che è la sorgente prima e principale della nostra approvazione e disapprovazione. Questi sentimenti sono certamente intensificati e ravvivati dalla percezione della bellezza o deformità che risulta da questa utilità 0 perniciosità, ma essi originariamente ed essenzialmente differiscono da queste percezioni ». E spiega:
« Anzitutto, non sembra possibile che l’approvazione della virtù sia un sentimento dello stesso genere di quello con cui approviamo un edifizio comodo e ben costruito: e che noi lodiamo una persona per non altra ragione da quella per cui facciamo elogi di un cassettone ».
« Ma inoltre, il sentimento di approvazione implica sempre un senso della « proprietà » dell’azione, affatto distinto dalla percezione della sua utilità ». E si riferisce
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l’< etica della simpatia »
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all'analisi fatta nell ia parte della Teoria, esemplificandola con le virtù della pru-dezza, dell’umanità, della giustizia, della generosità, nelle quali tutta la nostra ammirazione e approvazione è fondata « non tanto sull’utilità delle azioni, quanto sulla « proprietà », tanto più grande e nobile quanto meno aspettata, di esse... ». Inoltre egli fa notare, che questa bellezza della loro utilità è percepita soprattutto da persone dotate di capacità riflessiva e speculativa, e che essa non è già la qualità più apprezzata dal naturale sentimento della massa del genere umano ». Così il soldato che sagrifica la sua vita per quella del suo ufficiale, è più mosso dalla « proprietà » del suo atto che dalla sua « utilità ». Egli ha assai più in vista l’applauso simpatico e il giudizio favorevole con cui lo giudicherebbe lo spettatore imparziale, che la perdita che verrebbe all'esercito dalla morte dell’ufficiale ».
« Il sagrificio di un piacere presente minore, ad un futuro maggiore, difficilmente sarebbe compiuto — data la seduzione esercitata dalle passioni — per la sola considerazione utilitaria, se non fossimo sostenuti dal senso della proprietà dell’azione, cioè dalla coscienza di meritare con ciò la stima e l’approvazione di tutti ».
«Bruto deve aver inteso assai più il danno della perdita del suo figlio di quel che egli sentisse il danno che sarebbe derivato a Roma dalla mancata condanna sì esemplare. Ma egli ravvisò il suo atto non con gli occhi suoi, bensì con quelli del cittadino romano: s’investì dei sentimenti di questo, e della somma proprietà di sa-grificare i suoi sentimenti a quelli della patria ». L’esempio è eloquente; in quanto mostra che, se si ponga da parte il criterio della «proprietà» dell'azione, .quello soggettivo dellWi/itó dell’atto avrebbe un valore ed un’efficacia assai dubbia.
Ma l’autore aggiunge un’altra importante considerazione: cioè che « in quanto il sentimento di approvazione sorge dalla percezione dell'utilità dell’azione, esso non ha alcun rapporto coi sentimenti provati dagli altri »: resta un giudizio di valutazione soggettiva, senza carattere relativo.
Perciò, « se una persona potesse crescere senza entrare in alcun rapporto colla società, le sue azioni potrebbero purtuttavia essere per lui gradevoli 0 sgradévoli a causa della loro tendenza alla sua propria felicità o sventura », — cioè della loro utilità o perniciosità personale. Egli potrebbe percepire una tale bellezza di « convenienza ad un fine » nella prudenza, nella temperanza ecc., e sentire il disgusto per la deformità delle opposte qualità. Tuttavia, assai probabilmente, queste percezioni del bello utile, 0 al contrario, delle sue azioni, non avrebbero su di lui grande efficacia in quella sua condizione solitaria. Egli non proverebbe alcuna vergogna interna al pensiero della deformità di alcune sue azioni, nè si sentirebbe esaltato dalla coscienza della bellezza di altre; non esulterebbe all’idea di meritare premio nell’un caso o castigo nell’altro ».
«Tutti questi sentimenti suppongono l’idea di un a«tro essere, giudice naturale della persona che li prova, ed è solo per mezzo della simpatia con i giudizi di quest'arbitro della sua condotta che egli può sentire il trionfo della propria soddisfazione o là vergogna della propria condanna ».
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2§2 BILYCHNIS
La Parte V della Teoria è consacrata, come già accennammo, allo studio d> un altro elemento perturbatore del naturale processo di valutazione morale, cioè, allo studio della influenza delle costumanze e della moda sui sentimenti di approvazione o disapprovazione morale: e già abbiamo detto per qual motivo tralasciamo di analizzare questa parte, non integrale, per quanto geniale. ELEMENTI COSTITUTIVI DELLA VIRTÙ’
Abbiamo fin qui esposta la parte più originale della Teoria di A. Smith, nella quale è studiata l’origine dei nostri sentimenti di approvazione morale delle azioni altrui e nostre, cioè delle nostre idee di bene e di male. Ora l’autore procede nella VI parte ad una applicazione sistematica della sua teoria dei sentimenti morali, cioè allo studio degli elementi morali di cui consiste la virtù: o, come dirà più sotto nella parte VII, « alla investigazione di quale sia il tono dell’animo e il tenore di vita che costituisce un carattere eccellente e lodevole; il carattere che si presenta come oggetto naturale di stima, di onore, di approvazione ». Come si vede, si tratta anche qui di una ricerca di fatto, in cui la teoria della simpatia, essa stessa d'origine sperimentale, ha pieno agio di essere controllata alla stregua della sintesi vivente, dell'uomo virtuoso. Essa è divisa dall’autore in tre sezioni, corrispondenti alle tre qualità delle azioni che costituiscono la perfetta virtù: cioè la prudenza che assicura la felicità propria, la giustizia e la benevolenza da cui dipende là felicità altrui, il « self control » o dominio di sè stesso che. sostiene la conoscenza delle dette virtù, e impedisce che l’individuo trascinato dalle sue passioni, viòli le loro norme.
E opportuno ricordare che, come abbiamo già sopra fatto osservare, per Smith la virtù non consiste nel predominio dei sentimenti altruistici sugli egoistici o viceversa: che la « simpatia » se è la chiave della Teoria, suppone essa stessa essenzialmente un soggetto dotato.di un carattere proprio, di preferenze, di gusti morali; e che « la perfezióne delle virtù » che forma il tipo dell'uomo « per cui noi naturalmente abbiamo maggiore amore e riverenza, si trova in colui che unisce alla padronanza più completa dei suoi propri sentimenti originali ed egoistici, la più squisita sensibilità per i sentimenti degli altri sia originali che simpatici ». Ed in concreto, « è solo l'uomo che agisce in conformità con le norme di perfetta prudenza, di rigorosa giustizia, di appropriata benevolenza, che può esser chiamato perfettamente virtuoso ».
Naturalmente A. Smith non può fornire la formola chimica dell'« uomo virtuoso », nè dirci in termini astratti il grado di « squisita sensibilità » necessario per armonizzare i sentimenti egoistici con quelli altruisti: questa formola coincide con le singole individualità morali concrete, è la combinazione avviene nel crogiolo intimo della coscienza: ma egli ci ha descritto la forza in virtù della quale la combinazione si opera, e in funzione della quale essa può essere misurata. L’affinità chimica tra i due fattori, egoista e altruista, è data dalla simpatia.
LA PRUDENZA
La cura della nostra salute, fortuna, grado, riputazione sociale, forma dunque l’oggetto proprio della prudenza. Il desiderio di divenire oggetto di stima e di ere-
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dito sociale « è fórse il più forte di tutti, ed è esso che ci rende ansiosi di possedere berii di fortuna, assai più che il desiderio di provvedere ai bisogni del corpo pei quali poco basta ». Si noti di nuovo in questa osservazione una conferma della tesi di Smith contro Hume, che l’ùtile non è il solo nè il supremo fattore della approvazione morale.
La prudenza c’insegna anzitutto la cautela per non perdere i beni fondamentali della vita; ed i metodi che C'inculca per accrescerli son quelli che ci espongono a minore pericolo di perdita od azzardo: cioè una vera conoscenza e capacità della nostra professione o mestiere/assiduità e operosità nell’esercizio di essa, parsimonia nelle nostre spese.
E qui segue un quadro dell’Uomo Prudente modellato sulle figure aristoteliche dei tipi rappresentativi di differenti virtù, e assai caratteristico dello stile e del pensiero di Smith: eccone alcuni tratti:
L’ UOMO PRUDENTE
« L’uomo prudente sempre si studia di comprendere seriamente e sodamente ciò di cui egli fa professione, e non già solo di daré a credere di intendersene; e benché le sue qualità intellettuali possano non essere sempre molto brillanti, saranno sempre sode. Egli non tenta mai d’ingannare, nè cogli astuti espedienti di abile impostore, nè con le arie arroganti di pretenzioso pedante, nè con la asseveranza di presuntuoso superficiale e sfacciato. Egli non ostenta neppure le abilità che veramente possiede. La sua conversazione è semplice e modesta, ed egli ha in uggia tutti gli artifizi da ciarlatani con cui gli altri sì spesso tentano di porsi in evidenza e acquistar fama. Quanto alla riputazione di professionista, per formarsela egli naturalmente. è proclive ad affidarsi specialmente alla solidità della sua capacità è delle sue attitudini, e raramente pensa a coltivare il favore di quei piccoli cenacoli e camarille che in materia di arti e di scienze si erigono così spesso a giudici supremi del merito, e che fanno professione di levare al cielo i talenti ed i meriti l’un dell’altro, e di screditare chiunque -osi far loro concorrenza».
Nella sua assidua laboriosità e frugalità, nel suo costante sagrifiziq dei godimenti e dei comodi presenti per l’aspettativa di probabili comodi e gioie anche maggiori in un tempo più lontano, ma più duraturo, l’uomo prudente è sempre sostenuto e compensato dalla piena approvazione dello « spettatore imparziale ». e del suo rappresentante, l'ospite del suo petto... Per lo «spettatore imparziale» la situazione presente e la probabile futura dell’individuo hanno quasi la stessa importanza; egli le vede quasi alla stessa distanza e ne riceve'quasi la stessa impressione. Egli sa però che l’individuo in questione è ben lontano dal dare loro la stessa importanza e dal riceverne la stessa impressione: ed egli non può a meno di approvare ed anche di applaudire quello sforzo di « self-command » che abilita l'individuo ad agire come se la sua situazione presente e quella futura gl’interessassero quasi altrettanto quanto ad un imparziale spettatore ».
Facciamo ancora una volta notare che il tanto criticato « spettatore imparziale » di Smith, anziché essere una sua interpretazione complessa del gioco dei nostri
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giudizi morali sulla nostra condotta, è un dato direi ovvio della nostra esperienza morale, che ci mostra nel nostro sdoppiamento psicologico fra un io impersonale — che Smith ha luminosamente mostrato essere l'io socializzato — e l’io individuale il primo movente e fattore essenziale del nostro giudizio di approvazione o disappro yazione, e quindi della nostra condotta morale.
La prudenza che abbiamo qui considerata, diretta solo alla cura della salute, della fortuna e del rango sociale e della stima dell’individuo, benché riguardata come una qualità assolutamente rispettabile ed anche in un certo grado amabile e piacevole, pure non è mai stimata come virtù fra le più attraenti o nobilitanti : essa impone, sì, una fredda stima, ma non' sembra meritare fervida ammirazione ed amore. ’
« Però noi chiamiamo spesso, c assai propriamente, « prudenza » anche una condotta saggia e giudiziosa indirizzata a scopi più grandi e nobili..., e parliamo della prudenza dei grandi generali, statisti, legislatori: nei quali casi si trova unita con virtù assai più grandi e fulgide, quali il valore, una vasta e intensa benevolenza, un sacro rispetto per le norme di giustizia; il tutto sostenuto da un conveniente grado di « self-command »: e quando sia portata al più alto grado di perfezione, suppone necessariamente l’arte, il talento, l’abito e la disposizione di agire con la più perfetta proprietà in ogni circostanza e situazione possibile. Essa suppone necessariamente la sommità della perfezione di tutte le virtù intellettuali e morali... ».
LA BENEVOLENZA
Nei rapporti con la felicità degli altri, il carattere di un individuo può disporlo a fare del bene o solo ad evitare di fare del male al suo prossimo, cioè alla benevolenza o alla giustizia.
Della seconda, la più importante benché negativa, si occupa la scienza della legislazione — della quale lo Smith divisava una particolare trattazione —; quindi la sezione II di questa Parte VI si occupa solamente della benevolenza, studiando in tre capitoli separati « in quale ordine gl’individui sono dalla Natura affidati alla nostra cura e attenzione »; « in quale ordine le società umane sono raccomandate dalla Natura alla nostra beneficenza »>; ed infine « la benevolenza universale ». Quest’ordine, dice l’autore, corrisponde alla maggiore o minore necessità ed utilità della nostra beneficenza.
Notevole la corrispondenza tra la gerarchia degli affetti famigliar! e la teoria di Smith. Verso i figliuoli, «la simpatia è più precisa e determinata che.verso la maggior parte degli altri uomini, e si avvicina di più a quella che egli prova per se stesso » — e in quanto tale, può dirsi come un’estensione dell’egoismo. Essa è anche maggiore che verso i propri genitori, perchè: « allo sguardo della natura un fanciullo è oggetto più importante che un vecchio ». « A proporzione che i rapporti divengono più remoti, diminuisce gradualmente l’affetto... che in realtà altro non è che abituale simpatia. Il nostro interesse nella felicità o infelicità degli oggetti del nostro affetto... non è altro che o il sentimento attuale di quella che è la nostra sim-
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patia abituale, o la conseguenza necessaria di quel sentimento. I parenti si trovano ordinariamente in tale situazione (di fatto) che naturalmente produce questa simpatia abituale, e perciò uno si attende che tra essi interceda un conveniente grado di affetto : constatiamo che ciò generalmente avviene, c siamo colpiti se troviamo che in qualche occasione ciò non avviene ».
Poiché però questa simpatia abituale sorge soltanto come espressione di rapporti e circostanze di fatto, quando queste non si verifichino, non si verifica neppure il « così detto affetto naturale ». « La voce del sangue », quell'affetto meraviglioso che i parenti più prossimi si suppone provino uno per l’altro anche prima di conoscere i loro rapporti/ temo non esista altro che nelle tragedie c nei romanzi ». Ecco allora soccorrere le « norme generali » della società, le quali partendo dalla regola generale di fatto, decretano che « un padre senza tenerezza paterna, un figlio privo di riverenza figliale», formano non solo un’altissima improprietà, ma una empietà, e sono oggetto non solo di odio, ma di orrore.
L’autore discende quindi dai gradi più concentrici a quelli più eccentrici: e considera i rapporti lontani di parentela c i diversi vincoli da essi prodotti a seconda dei diverso bisogno 0 interesse nelle comunità a tipo pastorale e a tipo commerciale; poi la necessiludo che sorge fra colleglli di lavoro od ufficio o fra vicini di dimora, per sforzo di adattamento, e per interesse di buona armonia; poi l'influenza delle compagnie virtuose o disoneste, con la propensità se non ad imitare, almeno a riguardare con occhio diverso di simpatia le loro virtù, o di minore abbonimento i loro vizi.
CONTRASTO DI DOVERI DI PIETÀ
Ma una questione sorge: anzi tutta una serie di questioni che hanno nutrito in ogni tempo le casuistiche filosofiche e religiose. Oual’è la condotta propria e virtuosa da seguire quando i diversi gradi di affetto benevoli o benefici sopra descritti, siano tra loro in concorrenza o in conflitto? La risposta dell’autore, o meglio la sua teoria, taglia corto a tutte le dissertazioni casuistiche: « ...la decisione sulla condotta da seguire in tali casi deve esser lasciata all’«ospite del nostro petto», al supposto « spettatore imparziale », al grande giudice ed arbitro della nostra condotta. Se noi ci poniamo interamente nella sua situazione e ci riguardiamo veramente coi suoi occhi e come egli stesso ci riguarda, e ascoltiamo con attenzione diligente e riverenziale ciò che egli suggerisce, la sua voce non c’ingannerà mai... ».
La fiducia dello Smith è qui espressa negli stessi termini di quella dei Quakers (« Friends ») il cui dorema Religioso fondamentale è la fede nella direzione spirituale interna di ogni singolo individuo. La differenza fondamentale si è, che essi presumono nei loro confratelli ciò che per Smith è solo un’ipotesi, cioè che essi si trovino effettivamente nella situazione del gran giudice ed arbitro imparziale, e che ulteriormente i Quakers, con una «superstizione» trascendente, riferiscono a un'unica volontà e direttiva divina i loro discordi atteggiamenti. Notiamo inoltre che questo dominio della volontà, non a parte dalla finalità degli atti, ma come una forma in cui essa solo si determina, ci fa anche intravedere il possibile punto d’incontro fra la Teoria e la Metafisica dell'Elica di Kant.
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DOVERI NAZIONALI ED INTERNAZIONALI
Lo stesso principio della maggiore importanza che dà agli individui un titolo speciale alla nostra beneficenza, modera anche l'ordine con cui le diverse società sono a noi specialmente raccomandate. La nostra patria è la società che più risente della nostra buona o cattiva condotta; in essa sono compresi generalmente i nostri parenti, benefattori, amici, e la loro prosperità e salvezza dipende dalla sua: essa ci è resa cara da tutti i nostri affetti sia egoistici che altruistici: la sua prosperità e gloria si riflette su di noi. Al paragone con altre società essa ci appare superiore a tutte, e i suoi grandi uomini superiori a quelli delle altre nazioni. Chi per essa espone la sua vita ci sembra agisca Con somma « proprietà », quale ogni imparziale spettatore sommamente encomierebbe. « Ma l'amore per la propria nazione spesso ci rende disposti a riguardare con la gelosia e l’invidia più maligna, la prosperità e l’ingrandimento delle nazioni vicine », e l'autore addita « nella mancanza di un superiore comune che decida le controversie fra nazioni» la causa delle loro mutue diffidenze e gelosie e il disprezzo per quelle norme di giustizia verso i vicini il cui rispetto da parte di essi non è in cambio sperato.
Notevole il passo in cui il futuro fondatore della dottrina del Free Trade o libero scambio, nel bel mezzo della guerra dei sette anni, mentre l'Inghilterra alleata della Prussia contro la coalizione, tentava, dopo aver conquistato le colonie della Francia, di distruggere anche il suo commercio, proclama che « la Francia e l'Inghilterra possono bene aver qualche ragione per temere l’aumento della potenza navale e militare l’una dell’altra; ma che esse invidino l’interna felicità e prosperità, la coltivazione delle terre, il progresso delle industrie, l’aumento del commercio, la sicurezza e il numero dei porti, il progresso nelle arti e nelle scienze una dell’altra, è certamente indegno della dignità di due sì grandi nazioni. Si tratta di veri progrèssi del mondo in cui viviamo: l'umanità ne trae beneficio, la natura umana ne è nobilitata. In tali progressi, ogni nazione dovrebbe non solo tentare di eccellere essa, ma per .’amore dei genere umano, promuovere anziché ostacolare la grandezza dei vicini... In tali cose è «< propria » l'emulazione, ma non il pregiudizio o l’invidia nazionale ».
Se si pensi che nella guerra dei 7 anni le due coalizioni erano nella sostanza • simili a quella che ha testé dominato la storia del Mondo, con la 'sola differenza che non l’Austria bensì l’Inghilterra era alleata della Prussia... e che l'emulazione dell'Inghilterra verso la Francia aveva grandi analogie con quella presente fra Inghilterra e Prussia, le parole di Smith assumono gran valore di attualità e grande efficacia di critica alle retoriche, vane asserzioni degli odii e delle ami-zie politiche eterne.
LA PATRIA
L’Internazionalismo di Smith sarebbe stato però, a così dire, « nazionalista » anziché umanitario. Ne è testimonio la frase: « Sembra che l'amore di patria non derivi dall’amore dell’umanità: il primo sentimento è affatto indipendente dal se • condo, e sembra anzi alcune volte inchinarsi ad agire in modo ad esso contrario..
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Noi non amiamo la nostra patria solo come parte della grande società umana: ma ramiamo per sè stessa... Sembra che la sapienza che architettò il sistema delle azioni umane, non meno che ogni parte della natura, abbia giudicato che l'interesse della umanità sarebbe meglio promosso dirigendo prima l'attenzione di ogni individuo a quella speciale parte di essa che è alla portata dèlia conoscenza e della capacità di ognuno ».
BENEVOLENZA UNIVERSALE
La «benevolenza universale» forma il soggetto ed il titolo del III Capo di questa Sez. Ili che potrebbe meglio intitolarsi della « Paternità 0 Provvidenza divina »: giacché esso è dominato dalla professione dell'autore, che solo una fede in un sapientissimo, grande e benefico essere « deciso di mantenere in ogni tempo nel inondo la più grande quantità possibile di felicità » può fare della benevolenza universale « per quanto nobile e generosa, la sorgente di una soda felicità... facendogli considerare tutte le disgrazie che avvengono... come necessarie alla prosperità dcll’Uni-verso ». Se la dottrina non ha alcun che di originale, notevole è invece l’accenno di giustificazione psicologico-morale che dà l'autore, della beneficenza universale come sentimento autonomo. « Noi non possiamo formarci l'idea di un essere innocente senza che proviamo il desiderio della sua felicità, e sentiamo una certa avversione all'idea che esso possa soffrire...: e la malevolenza che in noi provoca un qualunque essere senziente nocivo, è effetto della nostra universale benevolenza, e riprova dèlia simpatia che noi proviamo per le sofferenze e il risentimento di quegli esseri innocenti... la cui felicità è da essi disturbata ».
Non meno notevole è ancora la conclusione del capitolo e di tutta questa sezióne « ...compito dell’uomo è di aver cura della pròpria e della ’altrui felicità...: può egli bene occuparsi della contemplazione del gran sistema’ dell’universo...: ma ciò non deve mai scusarlo dal compiere la sua parte più modesta... Le più sublimi speculazioni della filosofia contemplativa non possono compensare la trascuratezza dei più piccoli doveri dell’azione ».
Ma la più perfetta conoscenza delle norme di una perfetta prudenza, rigorosa giustizia e appropriata benevolenza, non basta a rendere l'uomo atto, ad agire secondo essa... se non sia sostenuta dalla più completa padronanza di sè stesso (self-com-mand) che freni le passioni che tendono a fuorviarlo, per mezzo della fortezza e della temperanza la cui unione forma il perfetto « self-command ».
IDEALE DI PERFEZIONE
« Nello stimare i nostri meriti e la nostra condotta, noi possiamo confrontarli con due modelli diversi. L’uno è l’idea di una esatta proprietà e perfezione, per quanto ognuno di noi è capace di formarsi questa idea: l’altro è quel grado di approssimazione a questa idea che è comunemente raggiunto nel mondo, e a cui la maggior parte dei nostri amici... o rivali può essere, giunto... Ora il saggio e virtuoso dirige là Sua attenzione principalmente al primo modèllo: all'idea, cioè, della completa proprietà e perfezione».
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È interessante notare l’analisi che segue per la illustrazione che essa dà del soggettivismo morale e dell’idealismo dell’autore nella Teoria. Essa conferma che la Simpatia di Smith non esclude, ma presuppone un ideale morale nel soggetto, benché esso non partecipi della caratteristica sociale dell’azione approvata.
« Nella mente di ogni uomo esiste un’idea della perfezione ricavata dalle sue osservazioni sul carattere c sulla condotta propria ed altrui. Essa è l'opera lenta, graduale, progressiva, del grande semi-dio ospite del nostro petto, del gran giudice ed arbitro della nostra condotta. Questa idea è disegnata più 0 meno accuratamente, con colori e lineamenti più o meno giusti ed esatti..., a seconda della delicatezza e acutezza di quella sensibilità con cui quelle osservazioni furono fatte e la cura e attenzione impiegatavi... Ogni giorno qualche lineamento è migliorato e qualche difetto è corretto.
Il saggio e virtuoso... tenta più che può di assimilare il suo carattere a quello di questo archetipo di perfezione: ma... l'opera di un artista divino non può mai esser eguagliata; ed egli sente l’imperfezione del successo dei suoi migliori tentativi, e vede con tanto rammarico e umiliazione quanto i lineamenti della copia mortale siano inferiori a quelli dell'originale..., che anche quando si fa a raffrontarli sul secondo modello di una ordinaria rettitudine... egli non può guardare con disprezzo le imperfezioni anche maggiori degli altri..., ma piuttosto con somma indulgenza e commiserazione, e con desiderio di promuovere il loro avanzamento... E se essi per caso sono in qualche particolare qualità superiori a lui..., lungi dall’invidia re la loro superiorità, egli che sa le difficoltà dell’ascesa, stima e onora la loro eccellenza e non manca mai di pienamente encomiarla... Tutto il suo pensiero e portamento reca l’impronta della vera modestia, e piena stima degli altri... È solo l'artista mediocre che è sempre pienamente soddisfatto delle sue produzioni perchè egli ha un'idea ristretta di questa perfezione ideale... e solo si degna di paragonare le sue opere a quelle di artisti forse inferiori a lui ».
MEDIOCRITÀ E MODESTIA
Degli altri che confrontano la loro condotta sulla media raggiunta dalla comune, alcuni si sentono a ragione superiori ad essa — e sarebbero riconosciuti tali da ogni spettatore intelligente e imparziale. Ma « poiché la loro attenzione è sempre volta principalmente, non all’ideale, ma alla comune perfezione, essi non hanno un senso acuto della loro debolezza e imperfezione..., sono spesso arroganti e presuntuosi, ammiratori di sé e sprezzatori degli altri », e appunto per questa loro presunzione spesso riescono ad abbagliare le folle: e se uniscono a veri meriti l’altezza del grado e del potere e son coronati da successi, s’impongono spesso anche all’uomo di sobrio giudizio.
Tralasciamo altre sottili analisi in cui l’autore rivela finezza di osservazione e conoscenza profonda del cuore umano, che si chiudono colla seguente:
« L’uomo che si stima nella debita misura, raramente manca di ricevere dagli altri la stima che egli stésso crede gli sia dovuta... L'orgoglioso e vano invece è sempre insoddisfatto... Ma mentre nei casi comuni, a meno che non siamo provocati
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personalmente, di rado reagiamo agli altri, anzi generalmente tendiamo di adattarci per amor di pace alle loro follie... invece con colui che si stima meno del merito... è raro che non gli rendiamo almeno tutta l'ingiustizia che egli stesso si rende, e spesso molto di più...
In quasi ogni caso è quindi meglio essere un po' troppo orgoglioso che troppo umile, « e non solo con proprio vantaggio, ma anche con più gradimento di uno spettatore imparziale; e così in ogni emozione, passione ed abito, il grado che riesce più gradito allo spettatore imparziale è egualmente più gradito alla persona stessa; e a proporzione che l’eccesso o il difetto è meno offensivo per il primo, così è in proporzione meno sgradevole per la seconda ».
CONTRIBUTO A! PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA TEORIA
La sesta parte della Teoria si chiude con alcune efficaci conclusioni che ne mostrano il rapporto e il contributo ai principi fondamentali della stessa. Mentre le virtù della prudenza, della giustizia e della beneficenza ci sono in preferenza raccomandate dall'interesse per la felicità nostra e altrui, — benché la condotta sia pur sempre diretta da un riguardo per i sentimenti del supposto spettatore imparziale, del grande ospite del nostro petto e arbitro e giudice della nostra condotta, — quelle della padronanza di sé sono quasi esclusivamente inculcate dal senso di proprietà, dal riguardo pei sentimenti di queirimparziale spettatore. Senza il freno che esso impone, ogni passione spingerebbe nella maggior parte dei casi a gettarsi a capo fitto verso la propria soddisfazione.. Il rispetto per quel che sono, o dovrebbero essere, o sarebbero in certe condizioni i sentimenti degli altri, è il solo principio che in molte occasioni s’impone a quelle passioni turbolente e ammutinate, e le riduce a quel tono e tempra con cui l’imparziale spettatore può accordarsi e simpatizzare.
Nei casi in cui le passioni sono frenate più da un riguardo alle loro conseguenze che dal senso della loro improprietà... esse, benché frenate, non son sempre soggiogate, e spesso restano latenti con tutta la loro furia originale, e talora anche lungo tempo dopo la provocazione scoppiano all’improvviso nel modo più assurdo e con una violenza dieci volte maggiore.
Invece, «colui che ingiuriato riesce a simpatizzare coi sentimenti di moderazione in cui avrebbe ricevuto l'ingiuria un'altra persona, e a vederla... nella luce più mite ed equa in cui essa la vedrebbe, sente subito la furia delle sue passioni dar giù e calmarsi, e non solo frenarsi, ma soggiogarsi, in un certo grado, il suo sdegno ». Quanto alle virtù della prudenza, giustizia e benevolenza, i loro benefici effetti le raccomandano dapprima all’attore e poi allo spettatore imparziale, che approva nel prudente la sicurezza del suo cammino nella vita, nel giusto la sicurezza dei suoi compagni di viaggio che egli si guarda bene dall’offendere, nel benefico, insieme, l'altezza delle sue qualità e la gratitudine dei beneficati, con la quale entriamo in simpatia: cioè sia per i loro utili effetti che per la loro « proprietà ».
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« Ma nella nostra approvazione delle virtù del « self-command », la compiacenza dei loro effetti non ha parte alcuna o ben poca. I loro effetti potranno essere gradevoli o sgradevoli, ma anche nel secondo caso la nostra approvazione, benché più debole, sussiste tuttavia: come noi ammiriamo un grado eroico di valore anche impiegato a servizio di una causa ingiusta».
Quest’ultimà pagina, come si vede, reca anch’cssa un forte contributo alla Teoria dello Smith, che l’utilità dell’azióne è solò uno dei fattori dèi nostro sentiménto di approvazione, e quindi della moralità dell'azione.
Giunti a questo punto dell’analisi, e prima di passare con Smith al confrónto della sua Teoria con gli altri sistemi riguardo alla interpretazione della natura della virtù, facciamo ancora una volta rilevare che in tutta la costruzione dell’etica di Smith non vi è posto per alcun imperativo categorico, per alcun assoluto ed universale, al di fuori della universalità del principio della «simpatia» — e dei suoi derivati: approvazione o disapprovazione, merito o demerito, — fondata essa stessa su la comunanza di natura umana e sulle sue intime finalità. Il lettore avrà osservato che il problema del ciò che deve o non deve farsi, non si è neppur presentato, sostituito dall’altro della ricerca dei moventi che effettivamente ci fanno approvare o disapprovare, premiare o preferire o punire diverse linee di condotta: e che la « teoria dei sentimenti morali » fa a meno appunto di una « morale », attenendosi allo studio delle preferenze morali e limitandosi a costatare il carattere di obbligatorietà che le accompagna.
(Continua]
Giovanni Pioli.
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L’ESSENZA DEL MODERNISMO
(Continuazione. Vedi BifycMs luglio-settembre X919, pag. 14).
Cap. IL
l Cristianesimo, considerato- nella sua essenza originaria, non può essere altro che l’insegnamento sgorgato dalla parola e dalla vita del Cristo: e quanto di più immediato si riscontra nella tradizione cristiana dei primissimi tempi, quanto di più autentico può ricavarsi dai Sinottici, questo ci dà il vero insegnamento di Gesù o, almeno, quello che più si accosta al vero (i).
Il motivo dominante nei Sinottici è la fede nel Regno e
l’atteggiamento messianico del Cristo (2).
Atteggiamento, codesto, determinato, per un verso, dall’ambiente storico nel quale sorse il Cristo. Tutta la Giudea viveva nell’ansia dell'aspettazione messianica: il Messia era presso a venire; Egli avrebbe abbattuto i nemici del popolo di Dio, ed esaltatolo al di sopra di tutte le genti.
Quando la sventura si abbatteva più tremenda contro il popolo di Dio — colpevole prevaricatore 0 vittima sciagurata — dalle sue file Si levava il profeta, pel quale là voce di Jehovah si faceva sentire: e rampognando o confortando.
(1) Occorre rinunciare alla pretesa, sempre rinascente, di conoscere il pensiero scientificamente cerio, di Gesù.
Là ricostruzione della dottrina di Gesù non può essere, dal punto di vista scientifico, che verisimile. I sinottici non possono essere altro che un’eco — vivissima, certo; ma eco — della sua voce.
Che poi la dottrina di Gesù non possa essere stata interamente raccolta nei Vangeli (Quarto compreso: si rammenti, anzi, l'ultimo versetto di esso) è cosa che ingigantisce, anche agli occhi dello storico, la figura del Maestro.
(2) V. Matteo, IV; 19, X, 7; XI, 12; XVII, 12; XXV, parabola del regno dei cieli. Marco, I, 14-15; XVI, 1-8, 19, 25; XVII, 22-37. Luca, XIV, 16-24; XVI, 1-8. L'esegesi dei Sinottici è stata singolarmente ricca in questi ultimi anni, in cui, dietro l'esempio dei dotti protestanti, è entrata risolutamente nell'arringo una valorosa schiera di cattolici, specie francesi (V. specialmente Les evangiles sinoptiques, di A. Loisy).
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BILYCHNIS
audace ammonitore o sublime poeta, additava al suo popolo la Stella sempre più prossima, che Io avrebbe salvato.
Il profetismo anteriore non era stato che una preparazione, sto per dire, sistematica dell'avvento del Regno. La recente conquista romana aveva acuito nel popolo la brama del Liberatore.
Ma tutto ciò non costituisce che il substrato, la materia, per così dire, del nuovo edificio religioso (x).
Il Cristo, infatti, pur sorgendo sul tronco tradizionale profetico, spostò il confine ideale del Regno, trasportandolo dalla terra al cielo: Regnum meum non est de hoc mundo.
Mentre la « speranza » per gli Israeliti aveva sempre avuto un carattere più nazionale che religioso; aveva mirato a un regno mondano, piuttosto che celeste; all’esaltazione dell’ebraismo, meglio che dello spirito umano; Gesù la trasformò in essenza spirituale e ultramondana, la quale si sarebbe realizzata per tutti quelli che avessero creduto in Lui, e nel Padre che lo aveva mandato.
In ciò sta il nucleo — possibi’e di sviluppi — della grande rivoluzione religiosa compiuta da Gesù. Rivoluzione nel significato più vero e pieno della parola ; che non è distruzione, ma sistemazione, rinnovamento di valori. A buon diritto Gesù affermerà non essere Egli venuto ad abbattere, ma a compire la Legge.
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Come tutti gli altri popoli, anche l'Ebreo concepiva l’Universo come l’estrinsecazione di una legge di forza, di cui Jehovah costituiva la massima espressione, anzi la sintesi suprema. Jehovah, dall’alto del suo soglio imperscrutabile, rivela agli uomini la sua volontà, che ne costituisce la legge eterna. Ma la rivelazione mosaica è estrinseca agli uomini: è un fatto avvenuto al di fuori e al di sopra dello spirito umano: non un atto che lo spirito crea, e adora perchè sua creazione; o del quale in qualche modo compartecipa.
Gli Ebrei, anzi, mentre la rivelazióne divina si compie al Condottiero, si allontanano maggiormente dall’iddio, degradandosi nella idolatria. Sicché la parola divina espressa da Mosè, è nulla più che un atto trascendente la volontà del popolo, una grazia, che Jehovah accorda al popolo prediletto.
(i) Riservandomi di analizzare in altro luogo la letteratura esegetica, mi limito qui a notare (senza discutere le strambante ipotesi di certi acrobati dell’esegesi sulla esistenza di Gesù) che la critica più recente ha fatto giustizia di alcune azzardate opinioni sui Vangeli.
In generale si nota in questi ultimi anni un réviretnent, nel senso non di un ritorno puro e semplice alle posizioni tradizionali, ma di una revisione serena dei resultati estremi della critica.
Ormai si è d'accordo nel ritenere il Vangelo di Marco il più antico dei Sinottici, pur ammettendo che Marco — oltre a ricordi diretti, attinti specialmente da Pietro __
si sia inspirato ad alcune Logie primitive, nelle quali era raccolto il succo della predicazione di Gesù, e che furono il fondamento anche del Vangelo di Matteo.
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l’essenza del modernismo
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La Legge, in questo modo, è destinata a conchiudersi e, quindi, a cristallizzarsi in una serie di norme e di atti, che il popolo adempie, senza comprenderli, sfuggendogliene la più intima valutazione. La Legge, infatti, non consiste in un inferiore riconoscimenti (nell’adesione dello spirito alla volontà del Padre); ma nella esteriore osservanza.
Sopra la fede c’è il culto; la fede, anzi, può dirsi si esaurisca nel culto: serie di atti, di cerimonie, di sacrifizi esterni, i quali non si avvantaggiano gran che sulle forme cultuali di tutti gli altri popoli.
C'è, sì, la preghiera; ma verbosa, strabocchevole, ritualistica. Ci sono i sacrifizi; ma è l’offerta che toglie valore dall’oggetto, non questo dall'intenzione con cui l'offerta è compiuta. Naturalmente non mancano, nel corso della storia ebraica, sintomi del futuro rivolgimento (1). Ma la struttura fondamentale del giudaismo rimarrà invariata.
Jehovah resta sempre, nella coscienza del popolo, l’iddio inaccessibile e ineffabile: Vesserò, che supera gli uomini e il mondo, e solo per un atto della sua volontà crea il mondo e gli uomini; l'iddio tremendo che parla nel fuoco e nella folgore, che punisce inesorabile i trasgressori della Legge, e si vendica senza pietà di chi l’oltraggi o trascuri.
Gli sprazzi di luce che brillano, a intervalli, nelle menti più elette del popolo di Dio, ci addimostrano, precisamente, il tentativo faticoso della coscienza umana di chiarire i suoi fini; di scoprire, di tra la folta selva in che brancicava, la luminosa stella che apparirà col Cristianesimo. Malgrado, infatti, che l’Ebraismo non riesca a liberarsi dal concetto di Dio-Forza, tuttavia rappresenta lo sforzo supremo dell’umanità, per raccogliere in una visione unitaria la frammentarietà deH’accadere naturale; costituendosi col Monoteismo — e in ciò sta. certo la sua « elezione» — al disopra di tutti gli altri popoli.
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Il Cristianesimo si presenta come la conchiusione ideale di quel processo di elevazione spirituale, che l’uomo compie nella storia, per una più alta e più viva rappresentazione della idea del Divino.
Sotto, per dir così, l’involucro parousiaco nella creduta imminenza del Regno era, anzi, il lato necessariamente caduco della dottrina — sta tutta una nuova concezione, religiosa e morale insieme, di cui il centro è la radicale trasformazione del concetto di Dio.
Iddio-Jawore sostituisce Iddio-Forza; non la vendetta, ma il perdono; non la violenza, ma la bontà contrassegnano il nuovo Iddio. lehovah cede il posto a Dio Padre (2).
(1) Si pensi al significato del sacrifizio di Àbramo.'
(2) Già in Origene e prima di lui, ma con men nitida dialettica, in Marcione, si ha chiara coscienza di codesto significante trapasso del giudaismo al Cristianesimo, espresso dal concetto di Dio-Amore (Cfr. il trattato De Orditone).
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Si potrebbe senz’altro formulare il problema: il Dio di Gesù è trascendente o immanente? Non indaghiamo sé Gesù si proponesse questo problema, nella forma in cui può proporselo un pensatore con temporaneo, dopo venti secoli di elaborazione filosofica.
Analizziamo che cosa implicasse la nuova concezione del divino. Il concetto di Dio-Forza esigeva la posizione di due elementi contrastanti e irriducibili, dei quali l'uno sovrastava e comprimeva l’altro; senza possibilità di conciliazione.
Nè la concezione ellenica del Divino risolveva la dualità, anzi ne accentuava la opposizione.
Iddio-Luce (bellezza) è ancor più estraneo all’uomo: manca perfino quel necessario contatto, che, pur nella irriducibilità degli elementi, implica l’idea di Forza.
V'è nella concezione ellenica del divino quasi una mera contemplazione ammirante dell'uomo verso la divinità, senza ch’esso riesca mai a penetrarsene.
Dio si stacca sempre più dall'uomo, fino a perder qualsiasi possibilità di relazione diretta: e sarà il problema che per due millènni affaticherà incessantemente il pensiero umano. Al Dio-Amore, invece, la coessenzialità umana è necessaria. I due termini di relazione necessariamente distinti, si risolvono in una unità egualmente necessaria; l’un termine postula l’altro, l’essenza dell' uno integra quella dell’altro. Dio-Amore che potesse per un solo attimo prescindere àtìVallro da sè — che in conclusione non è, o almeno non è interamente, altro da sè — non sarebbe più amore in atto, quindi negherebbe se stesso, il cui esserci consiste, appunto, nell’estrinsecarsi amando, nel penetrare di sè i soggetti (i).
E che significa, in sostanza, cotesta messianità di Gesù, cotesto suo proclamarsi la voce vivente del Padre, se non la traduzione sensibile del concetto che Dio non è estraneo agli uomini, che Egli si rivela nel loro spirito?
(Nel Cristo non c'è un momento nel tempo in cui Dio si riveli in modo particolare, come nella rivelazione mosaica).
È vero che Gesù stima sè eletto singolarissimo fra gli uomini, a render nota la volontà del Padre; ma in Lui vive tutta ¡'Umanità, di cui, anzi, è simbolo sublime.
E in Lui e per Lui tutta l'umanità Compartecipa della essenza divina; nel senso che della consustanzialità divina solo col Cristo l'umanità piglia cognizione, inizia la sua vera comunione.
Il concetto apparirà più chiaro da un fuggevole riscontro delle due rivelazioni, mosaica e cristiana. .
Jehovah compie la sua rivelazione in un momento determinato del tempo, corrispondente, come abbiamo già osservato, ad un estraniarsi assoluto del popolo dall'iddio.
Si tratta, l'abbiamo già notato di una revelalio ab extra.
Iddio Padre rivela la sua Legge fuori di qualsiasi determinazione temporanea e attraverso una misteriosa comunione degli spiriti.
(’) « H non-io è un limite; ma dell’io non del reale. Ed è un limite costitutivo dell io, non una violenza che opprima (V. Varisco, Con. te stesso, pag. 278).
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L ESSENZA DEL MODERNISMO
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La logge mosaica potrà, dunque,, circonscriversi nella pietra e fissarvisi immutabilmente; la legge cristiana è scritta negli spiriti e implica, per ciò stesso, un perenne rinnovamento (1).
Mosè impone la legge alle ànime.
Cristo la risveglia nelle- anime.
Jehovah, compiuta la rivelazione, si innalza nell'altezza del suo cielo: il Padre, appunto per la rivelazione, vive nelle profondità degli spiriti.
Jehovah fissa una casta sacerdotale, “privilegiata, per diritto di nascita, al suo culto. Il Padre sceglie il suo ministro in ogni uomo, che il sacro privilegio si conquisti con la vita.
Giudice, nella vecchia legge, è' il Sacerdote.
Giudice nella nuova, è l’uomo ¡stesso, in quanto nel suo spirito si fa presente la condanna 0 l’approvazione del Padre.
Cristo, infatti, afferma — e in ciò sta la sua grande originalità — che il peccato si determina nel pensiero.
Il peccato implica, e il colpevole, e un tribunale che sanzioni la colpa.
Come mai il pensiero poteva peccare se il tribunale che poteva convincere di peccato risiedeva fuori del soggetto pensante ; e mancava, quindi, in esso la consapevolezza del peccare?
Il sacerdote può valutare gli atti del culto, non la intensità della fede, nè la purità della coscienza.
Se la fede intensa e la cosciènza pura hanno religiosamente un valore — e per il Cristo costituiscono il massimo valore — èsse non possono essere giudicate che nel foro interno della cosciènza.
Il peccato di pensiero implica, quindi, la relazione immediata fra l'uomo e la Divinità.
L’assoluta trascendenza, infatti, vuole il dovere estraneo alla coscienza dei singolo.
L’uomo non sentendosi intimamente, incessantemente controllato dal vigile onnipresente occhio divino, porrà il bene e il male nelle azioni, ‘piuttosto che nelle intenzioni: nel sacrifizio esterno piuttosto che nell'interno. Sicché la nuova legge cristiana, anche dal punto di vista morale, postula una concezione immanentistica del divino.
Col Cristo, insomma, l'uomo acquista coscienza della sua essenziale umanità : il soggetto si scopre soggetto.
« Nella filosofia cristiana — nota profondamente il Gentile — sorgeva un punto di vista affatto nuovo col concetto dello spirito come soggetto e. come libertà ignoto alla filosofia greca... La realtà cristiana è la realtà morale dell’uomo che si redime dal peccato, e realizza perciò la volontà di Dio, già divisa dall’uomo e concentrata
(1) Si ricordino le magnifiche parole di Paolo: - Poiché voi siete figliuoli, iddio ha mandato lo Spirito del Figlio suo, ne' cuori vostri, che grida: Padre. Talché tu non sei più servo, ma figlio, e come figlio sei anche erede di Dio. per Cristo (V. Lettera ai Calali. IV, 6-7).
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in sé per la coscienza ebraica: essa non è fatta mai, ma si fa da sè sempre. Non c’è più il fatto, ma c’è l’atto. Non ci sono più le cose, ma l’amore che è vita dello spirito e creazione della vera vita » (i).
Non si tratta di vedere se sia facile, come, con discutibile esattezza, pare all’Harnack, « fare delle osservazioni tali su ogni articolo enunciato dalla predicazione di Gesù, che lo spoglino per completo della sua originalità » (2).
E non si tratta nemmeno, principalmente, della sua persona e del fatto della sua vita; bensì della persona umana e della vita umana in generale, che col Cristianesimo conquistano il vero valore.
* • *
Iq questo modo la rivoluzione religiosa e . quella morale, nel Cristianesimo si suppongono e si integrano vicendevolmente (3). Non basta la semplice teorica adesione al nuovo culto, perchè il Padre regni veramente nello spirito; occorre nutrire la fede con gli atti, confortarla con la vita. Non basta ascoltare la parola di Gesù, occorre sforzarsi di penetrarla, e riviverla.
Al nuovo Iddio non potrà più essere accetta la preghiera del Fariseo, ma quella del Pubblicano; non il cuore gonfio di orgoglio, ma contrito di umiltà; non il sacrifizio delle vittime, ma del cuore; non, insomma, ciò che è fuori, ma dentro dello spirito.
« Se tu, dunque, stai per fare l'offerta all’altare, e ivi ti viene alla memoria che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, posa lì la tua offerta davanti all’al-tare e va prima a riconciliarti col tuo fratello » (4).
Parole incomprensibili all’ebreo, assuefatto, da secoli, a giudicare la perfezione dalla compiuta osservanza della Legge, la quale si risolveva nel culto, e questo in atti esterni.
Il Guai a voi terribile di Gesù, risuonerà stranio agli orecchi degli Scribi e dei Farisei, persuasi, anche in buona fede, di essere, invece, i più degni presso Jehovah; essi che scrupolosamente osservavano il Sabato, facevano larghe elemosine, e liberalmente sacrificavano nel Tempio.
La stupenda imagine dei sepolcri imbiancati li irriterà, senza spingerli a meditare.
Nè, meno incomprensibili riusciranno le altre parole, che pongono in un nuovo piano i rapporti tra gli uomini: «chiunque guarda una donna per fine disonesto, in cuor suo ha già commesso adulterio per lei > (5).
(1) V. La riforma della dialettica hegeliana, Messina 19x3. pag. 276.
.(1 2 3 4 5) V. Harnack, op. cit.. cap. II. È opportuno notare che in Adolfo Harnack la coscienza del valore di ciascun’anima individuale, per quanto affermato, non assurge ad una chiara e coerente concezione della vera novità del Cristianesimo.
(3) Quelli che, come W. Gass (Geschichte der Christlichen Ethik, Berlino 1885, voi. I, pag. 40) riducono il Cristianesimo di Gesù a semplice dottrina morale; o viceversa stimano la concezione morale parte accessoria di quella religiosa, cadono in un errore grossolano.
(4) Matteo, V, 23-24 (Cfr. Matteo VI).
(5) Matteo, V, 28.
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La interiorità del sentire, che il Cristo proclama; il ricondurre Ch’Egli fa il valore dal di fuori al di dentro dello spirito, sia nei rapporti con Dio che con gli uomini, costituisce una conquista tale per l’umanità, trasforma talmente la Vecchia Legge, che, a buon diritto, i legittimi rappresentanti di essa grideranno al sacrilegio: e danneranno Gesù alla morte, come seminatore di scandalo.
Troppo in basso erano i Signori del Sinedrio, per potersi sollevare alla vetta del Calvario!
« « *
Inoltre, dal concetto di Dio-Amore derivava un altro punto essenziale della scoperta cristiana della « persona », e delle sue conseguenze sociali.
In un modo o in un altro, in misura maggiore o minore, tutti i popoli dell’antichità avevavo distinto gli uomini dai non uomini. In tutti i popoli era una coscienza profonda — spesso fondamento della vita nazionale — che una certa massa d’uomini era fatalmente tagliata fuori della vita, non soltanto politica e sociale, ma umana, nel senso più sacro della parola. Res e non personae; gente che non conta se non per il lavoro che può compiere, gente che non si possiede, ma è posseduta.
Non indice, cotesto, del prevalere dei malvagi nel governo degli Stati; ma espressione di una necessità storica, fatale, che le menti più alte giustificavano (i), e la volontà divina consacrava.
La Trinità Bramanica, come il Jehovah ebraico, come il Giove Ellenico, come il romano Quirino, non soltanto non stridevano con quella concezione; anzi, la presupponevano e sanzionavano; poiché essi non erano che la esaltazione di quella forza che aveva permesso ai pochi di dominare sui molti; Dio non era che VIo dei forti elevato alla ennesima potenza.
Ma quando Dio diventa amore tutte coteste disparità si disperdono d'un soffio.
Il concettò della Forza implica l’affermazione violenta, non armonizzata, ma contrastante con le altrui volontà, V egoismo sopraffattore. Il concetto dell'Amore implica, invece, l'affermazione come dedizione di sé; la conquista interna, non esterna, degli altri.
Iddio-Forza è l’io che si contrappone agli altri, senza speranza di conciliazione. Iddio-Amore è l’io che vive negli altri, che si dona agli altri per riaffermarsi più altamente.
Così l'umano è ricongiunto al divino; il dualismo religioso delle antiche religioni assolutamente superato.
E nell’immanentismo cristiano è implicito lo sviluppo di quel concetto dell’io, che è la conquista più alta e determinatrice del pensiero moderno, per cui il dualismo è definitivamente superato, e l’immanentismo, dal punto di vista filosofico, diventa una conquista indefettibile del pensiero.
Il porsi dell’io, infatti, è insieme il porsi degli altri; Lesserei dell’io non nega, postula, anzi, Tesserci degli altri; tanto più nettamente l'io si distingue come in-vidualità, altrettanto pone gli altri, e insieme vi si contrappone.
(i) Si ricordi in proposito la opinione di Platone e Aristotile.
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Ma il vivere che l’io fa negli altri e per gli altri — il fatto, cioè, ch'esso co” stituisce insieme cogli altri una unità, un sistema — non distrugge la sua particolare e irriducibile unità, non toglie che certe determinazioni siano sue e assoluta-mente sue, ch'egli insomma abbia una sua vita propria.
Fatto, cotesto, di fondamentale importanza per la possibile risoluzione del massimo problema filosofico odierno: il permanere dei • trascéndente accanto allo immanente. È questo, in fondo, come vedremo, il punto culminante del dibattito modernista (i).
* « «
Accanto, infatti, al problema dell’immanenza divina nella dottrina di Gesù che a noi ci sembra avere avviato verso la risoluzione, ne sorge un altro altrettanto fondamentale: l’immanenza che noi riconosciamo nel Dio di Gesù, ne esclude assolutamente la trascendenza? In altri termini, la divinità oltre che vivere negli uomini, ha una sua vita personale? (2).
Anche su questo punto la parola di Gesù appare chiara e incontrovertibile.
Il Padre è una coscienza personale, ha suoi fini personali che non può raggiungere nell’àmbito dell'universo fenomenico se pur non senza il suo concorso.
Poiché l’Universo gli è essenziale, ma non lo esaurisce. La sua Provvidenza governa il mondo, ma non è vincolata meccanicamente alle sue leggi naturali.
La coscienza della Potenza superiore del Padre, della sua Volontà Buona, ma libera, domina interamente il Vangelo.
Il Padre vive una sua vita divina della quale tutti gli uomini partecipano, e nella quale, anzi, sono inclusi. La natura della partecipazione non è data, nè dalla razza, nè dalla casta: è un fatto umano; cioè necessariamente connesso colla essenza di uomo.
(1) Ho detto '< possibile »• risoluzione: e non intendo dire di più. Nè questo ne sa-lebbe il luogo.
(?) È questo, come dicevo, il problema fondamentale della filosofia contemporanea. Ormai non vi può essere più questione intorno alla immanenza.
Le opere in cui, con più vigorosa coscienza delle difficoltà filosofiche, si riflette questo tragico dibattito, sono: i Massimi problemi e il Conosci le stesso di Bernardino Varisco. 11 suo originale concetto del sistema risolve, a me pare, definitivamente il problema dell'immanenza: il sistema è l'unità degli elementi e non vive che in essi. Viceversa ogni elemento è incluso nel sistema e gli è essenziale. Dio è negli uomini. Si conchiude cosi un periodo di elaborazione filosofica aperto con precisa visione da E. Kant. E se ne apre un altro: che nelle suddette opere non è risolto: nè il Varisco presumeva di risolvere.
Come ho accennato il conflitto filosofico de! modernismo attuale culminerà, appunto, nella, posizione di questo problema : conciliare il trascendente-immanente del Cristianesimo con la filosofia contemporanea ; costruire una dottrina filosoficamente coerente del trascendente-immanente cristiano, li problema è risolutamente affrontato dalla corrente immanentista francese che fa capo al Blondel (L'Action) e ha trovato il suo più brillante divulgatore nel Labertonnière (Saggi di filosofia religiosa Palermo, Sandron).
Vedremo con quale metodo, e con quali risultati.
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La misura della inclusione e della partecipazione divina, non è uguale, tuttavia, per tutti gli uomini; essa dipende dal grado di umanità e di coscienza che si realizza in ciascun uòmo.
È massima in Cristo: il Messia; aumenta in ogni uomo a misura che crede nella parola di Gesù, e accoglie nel suo spiritò e attua nella sua vita l’ideale morale da Lui proclamato (1). ■
La rivelazione che il Divino fa di sè nello spirito umano, ebbe, prima di Gesù, carattere di preparazione lenta e faticosa a quella che, per singolarissima sua virtù, e grazia celeste, il Cristo farà sulla Terra.
E poiché il Padre ha inviato il suo Figliuolo, nessuno, d’ora innanzi avrebbe potuto presumere di fare la sua volontà, se non conformandosi al Verbo del Ri velatore.
Di qual natura sia il rapporto tra il Padre e il Figlio Gesù non dice: è il suo • secreto tragico, per la cui affermazione non dubiterà di dare la propria vita.
È la sua fede; e dovrà essere la fede di coloro che vorranno essere suoi discepoli, per addivenire veri eletti del Signore.
E questa fede del Cristo, e nel Cristo, è il fatto caratteristicamente fondamentale della religione cristiana, come tale. E,, invero, soltanto cotesta fede eroicamente affermata, poteva inspirare al Cristo la certezza di rivelare la Volontà del Padre, e spingere i discepoli ad accoglierne il Verbo, come sicura espressione di quella Volontà.
Come, altrimenti, si sarebbe persuaso un ebreo a rinunciare alla sua predilezione divina, alla sua gelosa primogenitura, in favore di tutta l’Umanità, a lasciare Jehovah per il Padre, se non avesse creduto alla parola di Gesù, che rivelava quella èssere la volontà di Dio?
Il contenuto, insomma, della Rivelazione Divina, non può comprendersi senza il Rivelatore e senza la fede nel Rivelatore.
Concepire il Cristianesimo senza il Cristo, cioè pensare che la persona di Gesù non sia necessaria al Cristianesimo, è un non senso (2).
(1) Cfr. Paolo, Calati (IV, 4-7): < Dio inviò il suo Figliuolo nato di donna, cre-> scinto nella, legge, per imprimervi la adozione divina. E poiché siete figli, Iddio ha inviato ne’ vostri cuori lo spirito del suo figliuolo, che invoca: Abbai Padre. Cosicché tu non se’ più servo, ma figlio, e come figlio, anche erede di Dio per Cristo *.
(2) Di qui la unilateralità della concezione (che informa ad esempio L'Essenza del Cristianesimo, di Harnack), la quale riduce, in sostanza, il nucleo della predicazione di Gesù alla Paternità di Dio e alla adesione completa delle anime alla sua volontà: affermar ciò, significa vietarsi di colpo di capire il Cristianesimo. La divinità di Gesù — sia pure in un senso non perfettamente consono al tradizionalismo teologico — è essenziale al Vangelo e al Cristianesimo, il cui sviluppo è dominato da questa idea centrale.
Ma unilaterali sono, anche, quelli che stimano il concetto di Dio Padre un semplice « tema dell’insegnamento di Gesù » e che la novità del Vangelo stia soltanto in parte « nella rivelazione della paternità di Dio » (V. Batiffoi.. Il valore storico del Vangelo) : non riuscendo, gli unì e gli altri, a scoprire un concetto unitario nella dottrina di Gesù.
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I rapporti tra il Padre e il Figlio, e tra il Padre e tutti i viventi non sono posti, nei sinottici, nella loro esplicita relazione di problema razionale.
'I primi discepoli, meno consapevoli della dottrina cristiana che di essa viventi, ricolmi di entusiasmo religioso e di ardore paròusiaco, dominati dalla figura radiosa del Cristo, sentivano nel loro animo lo spirito del Padre e del Figliuolo, e in Esso e per Esso Udentemente operavano ; vivevano insomma sotto l’impressione meravigliosa della persona di Gesù: la sua vita sublime, il suo pensiero altissimo, la sua morte eroica, la sua resurrezione gloriosa, eran fatti ancor vivi, rivissuti dai discepoli; tutta la loro anima era inondata dal loro ricordo, bruciava del fuoco che il Maestro era venuto a mettere sulla terra. Chi poteva dubitare della parola di Gesù? La vita, la morte, la resurrezione, non erano prove indefettibili della verità della Sua rivelazione?
♦ ♦ ♦
Ma. al primo periodo di entusiasmo parousiaco, di dedizione acritica, viene gradatamente sostituendosi un periodo di rimeditazione; è il momento teologico che segue sempre il momento fideistico; la ragione non nega la fede, mà ne cerca la giustificazione.
Abbiam visto come dottrina di Gesù e persona di Gesù siano due fatti inscindibilmente connessi, ma tuttavia distinti.
Era fatale, però, che nella coscienza delle masse cristiane, la dottrina venisse a mano a mano a identificarsi nella persona di Gesù: il popolo è sempre portato ad adorare il suo eroe, meglio che a penetrarne il pensiero!
Ma le più alte menti intendevano a una spiegazione della essenza di Gesù, della sua fìlialità divina, congiunta alla sua indistruttibile umanità.
Il problema, anzi i problemi si complicheranno e si trasformeranno quando il Cristianesimo, varcati i confini della Giudea, verrà in contatto coi popoli di civiltà greco-romana. Il concetto del Messia e del Regno imminente dei Cieli non poteva più costituire il nucleo fondamentale della fede cristiana: il dire, ad esempio, che Gesù, era il Cristo, il Messia, non poteva avere per i Greci un senso lògico. Quei concetti anzi, così come si presentavano nella lor forma originaria, contrastavano decisamente con le costruzioni del pensiero greco. Si ricordino le parole di Paolo, che confermano come la predicazione del Vangelo riuscisse inaccessibile ai Greci: «nos autem praedicamus Christum crucifixum, Judaeis quidem scandalum, genlibus autem slultiliamn (i).
Finché — infatti *-• la propaganda si svolse nelle masse incolte, che lo sfacelo dei Paganesimo lasciava senza fede e senza speranza, e il dispotismo imperante teneva abbrutite nella ignoranza e nella miseria, fu facile diffondere e far accettare il Cristianesimo, che annunciava la beatitudine agli umili e ai poveri,- e prometteva ai credenti un regno di felicità senza fine.
(i) I Cor.» I, 23.
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Ma, quando si vollero indurre al Cristianesimo gli uomini di cultura, la cosa divenne ben più ardua. Bisognava giustificare alle menti pensanti la fede nel Cristo, forzarle a credere per necessità logica, oltre che per potenza di comunicazione religiosa. Occorreva sistemare le idee, creare una metafisica, in cui oiganizzare coerentemente la dottrina del Cristo (1).
Inoltre, si è giustamente osservato, il Cristianesimo correva pericolo di identificarsi strettamente con i sogni messianici e apocalittici; e sarebbe perito il giorno ih cui codeste speranze si fossero rivelate illusorie (2).
La dottrina del Cristo, cioè, per quanto conteneva in sè di controllabile, di soggiacente allo esperimento materiale dei credenti — la fine imminente del mondo, di cui tutto il substrato spirituale era pervaso — si sarebbe infranta, non appena, trascorsa la prima generazione, e poi altre e altre ancora, quelli che credevano nella aspettazione messianica, che di quella fede vivevano 0 che ad essa riducevano il nucleo essenziale della nuova dottrina, sentissero inaridire nei cuori la speranza c vedessero di giorno in giorno crescere il disinganno (3).
Occorreva, quindi, una base più salda: fare del Cristianesimo e del Cristo qualcosa di estraneo alle vicende del tempo: costruire, insomma, una teologia (4).
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Di questo nuovo orientamento della coscienza cristiana sono espressione caratteristica l’apostolo Paolo e il Quarto Evangelista.
Essi pongo» mano al rinnovamento del Cristianesimo; ma con ispirito, e, sopratutto, con metodo sostanzialmente diversi.
(1) Fino alla metà del secondo secolo, la dottrina cristologica si aggira nel vago. I documenti che ci sono pervenuti relativi alla prima metà del secondo secolo sono rari; e, tra questi, rarissimi gli autentici.
(2) V. BuRkiTT, Il Vangelo e la sua Storia, pag. 284. È noto come la credenza nella fine imminente, per la immigrazione ebraica, si fosse diffusa nell’impero. Tacito negli Annali deplora, appunto, cotesta esecranda superstizione che «repressa — egli diceva — un momento, straripa di nuovo, non solo in Giudea, dove ebbe origine, ma in Roma stessa » (V. LXV, cap. XLIV).
(3) 1/Apocalisse — chiunque ne sia l’autore — rappresenta il documento più caratteristico e più importante della disillusione che colse la massa cristiana, nella vana attesa del ritorno del Messia; e il conseguente sforzo di dare alle parole del Cristo annunciente la fine imminente, un significato diverso dallo strettamente letterale, che suonasse, non un accomodamento a posteriori, ma una interpretazione autentica delle parole del Maestro, divinamente rivelata al Profeta: — e la catastrofe mondana era rinviata di mille anni.
Che poi la imminenza del Regno, a traverso la fine catastrofica della terra, fosse il substrato religioso del primo cristianesimo, è controprovato dalla tenacia con cui, anche nelle successive generazioni, permase l’idea della fine, progressivamente allontanata nel tempo, e che ebbe appunto la sua massima espressione, per l’influenza del-VApocalisse, nella paurosa aspettazione del millennio. (V. in propòsito E. Buonaiuti. Il tramonto del Millenarismo ecc., Roma. 1913.
(4) « La teologia — cosi Harnack — dipende sopratutto dallo spirito del tempo... Il dogma, nel suo concetto e nel suo sviluppo, è eminentemente opera dello spirito greco, il quale lavorò sul terreno del Vangelo » (V. op. cit„ Prolegomena alla storia del dogma).
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La» teologia paolina proruppe spontanea dall'intima fede dell'Apostolo, da una sua profonda, se pur non bene determinata, visione delle necessità dottrinali del Cristianesimo, piuttosto che dalla coscienza di una opposizione tra il nucleo cristiano e la filosofia del tempo. Egli tiene anzi a dichiarare che la forza suasiva dei suoi discorsi non gli viene dalla scienza, che non ha mai curata (wow in per-suasilibus humanae sapier.liae verbis) ; ma dal calore della sua fede, e per grazia dello Spirito.
Paolo, infatti, persuaso che il Signore lo avesse scelto fin dal seno materno per la rivelazione in Lui del Figlio, affermava una sua personale concezione del Cristo. Per questo Egli insiste con ardore nel dichiarare che la sua fede non l’ha dai Dodici, ma da Gesù stesso; e l'episodio della caduta sulla via di Damasco e della subita illuminazione, non è che un rivestimento leggendario del fatto concreto, che è la sua rivelazione (i). Vi fu sempre, anzi, in Paolo una radicata avversione alla scienza e ricorrono insistenti gli avvertimenti ai Cristiani di tenersene lontani.
«Scientia inflat, charitas aedificat ».
Si ricordino le lettere agli Efesini e ai Colossesi, in cui Paolo mette in guardia i fedeli contro le insidie dèi filosofanti (2). Egli è fermamente convinto che sapienza e scienza (Xóyoc yvwGe%) sono due doni dello Spirito (3) ;
quindi la conoscenza di Die non è un atto intellettuale nel senso semplicemente umano della parola: la scienza del mondo, anzi, a nulla vale per la scienza di Dio (4). 'E se anche si voglia intendere che Paolo non parla della scienza in generale, ma della greca scoia assolutamente razionalistica, presuntuosa e arida (5); ciò non toglie che, dunque, per quella scienza (la quale il Quarto Evangelista saprà accogliere e fare cristiana) per essa, che riassumeva poi tutta la filosofia e la scienza contemporanea. Paolo non mostrasse alcuna simpatia, nè si preoccupasse di conci-liarvijl Cristianesimo.
(1) Questo spiega, se non certo giustifica, l’atteggiamento di alcuni critici odierni, che ritengono S. Paolo il corruttore del Cristianesimo genuino; mentre, in realtà, ne fu il vivificatore.
Paolo costruisce il suo edifìcio sulle solide basi del Vangelo e della vita storica di Gesù ma rivificata e ripensata dalla sua prorompente personalità. Nè per riconoscer ciò occorre ricorrere come fa il Batiffol — sulla scorta del Weiss — la tentativo, che non mi pare nemmeno ingegnoso, di dimostrare che Paolo ebbe una conoscenza storica del Cristo (V. Il valore storico del Vangelo, pag. 83) (Cfr. in proposito l’Hoi/rzMANN, Leben Jesu, Tubingen, 1901, prima pagina). Il 13. si basa specialmente sulla apparizione del Cristo Risorto a Pàolo. Ma. il Cristo Risorto non è più una entità umana, e non appartiene quindi alla storia dei fatti umani. La sua vita —- in qualsiasi modo noi vogliamo rappresentarcela — non è storica nel senso che il B. mostra di credere, in quanto non è regolata dalle leggi dell’accadere fenomenico. La apparizione del Cristo^ a Paolo è storica, allo stesso modo in cui Io sono altre apparizioni del Cristo o della Vergine ai tanti, che nel corso dei secoli l’hanno, in perfetta coscienza e buona fede, affermata.
(2) Nota giustamente il Buon aiuti che, autentiche o no, (la critica è in proposito estremamente discorde) esse han valore come documenti rilevanti lo stato del pensiero cnstiano^asiatico^, vivente ancora l’apostolo o da poco esso defunto (V. Lo gnosticismo).
(4) V.’ G. IV, 8-9;' I Cor., Vili, 3.
(5) Cfr. Semema, Le vie della fede. pag. 52.
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E cotesto spregiare che la scienza del secolo lo soccorresse nel predicare la scienza di Dio, dipendeva in fondo, dalla sua ferma convinzione che non vi fossero, per credere, vere e proprie difficoltà teoretiche; ma l’incredulità dipendesse dalla fiacca moralità degli uomini quorum deus venter est.
Nè a Paolo, per quanto educato alla scuola rabbinica, pur tuttavia in continuo contatto coi popoli ellenici, poteva essere estraneo il lóro pensiero filosofico.
Ma la realtà è, che il problema della conciliazione dei due mondi non gli si presentò in una forma esplicita e consapevolmente tragica, perchè mancò in Lui la coscienza della loro opposizione, culminante nel problema ontologico del Cristo (i).
A Paolo il problema della divinità di Gesù e dei suoi rapporti metafisici — quale la teologia ufficiale suole ora proporselo, e quale certamente se lo proposero i cristiani elleneggianti — non si presentò. Non già che per Lui, come per i Sinottici, il Cristo non partecipasse del Divino. Ma nei suoi scritti non predomina la preoccupazione di stabilire la funzione logica del Cristo, il suo rapporto col Padre e con (’Universo.
La morte del Salvatore era il gran fatto che, secondo l’Apostolo, era a fondamento del sistema cristiano: morte espiatrice e redentrice, che aveva distrutto gli effetti negativi del peccato del primo uomo. A me pare, anzi, che il contrapporre che Egli fa, con deciso parallelismo, il Cristo ad Adamo ; e il fatto che, appunto, concetto fondamentale della sua dottrina è, che il sacrificio di Gesù neutralizzò le fatali conseguenze della colpa di Adamo, mostra che Paolo, pur ammettendo la preesistenza del Cristo alla sua incarnazione nel tempo, non ne concepì però la identificazione e nemmeno la sostanzialità cól Padre, nel senso trascendente che i teologi posteriori vollero attribuirvi.
Ed era naturale che così fosse.
Il concetto di Dio, in Paolo, rimane sostanzialmente immanentista. Dio non è estraneo all’uomo: e tutta là teologia paolina è pervasa da cotesta penetrazione divina. La coscienza sicura Ch’Egli ha della voce interiore che gli ha parlato — al
(1) Se ne ha qualche accenno nelle sue ultime lettere (Colossesi ed Efesi). Ma ho già accennato ai forti dubbi di autenticità che si hanno intorno a queste lettere. Ad ogni modo, si deve tener conto della straordinaria influenza che l’alessandrinismo esercitava ormai nella Chiesa. (Nella prima ai Colossesi si nota Fuso della parola wXzpwua, caratteristica della terminologia gnostica (V. specialmente I, 15-20). Il passo forse più decisivo si ha nella lettera ai Romani « ó «v iwi irlvròv tvXopjric «i$ wùc «fòvac ».
(15, 5) Ma neanche qui — a me sembra —- si tratta di vera e propria trascendenza (cosi parrebbe invece al Buonaiuti, op. cit., pag. 25).
Lo stesso Harnack, il quale tende a lumeggiare l’opera intellettualeggiante di Paolo, è costretto a riconoscere, contro l’opinione del Weizsàcker e dell’Heinrici che « il metodo di pensiero del grande apostolo, nel senso stretto della parola, e perciò anche la formazione dottrinaria che fu tutta sua, sono ben poco determinati dallo spirito greco. Che poi per le esigenze della sua attività missionaria abbia rivestito spesso il suo pensiero di forme greche, e parlato un linguaggio comprensibile ai Greci, è un’altra questione». (Cfr. op. cit., cap. II. / presupposti, ecc.).
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di fuori della organizzazione ecclesiastica, pur legittimata dal Cristo —, implica, di necessaria conseguenza, la diretta comunicazione tra l’uomo e la divinità (r).
E, in proposito, vi sono parole che non ammettono dubbi: « l’uomo spirituale giudica tutti, e non è da nessuno giudicato » (2). Nessuno, cioè, può penetrare le profondità dello spirito, su cui vigila solo l’occhio onniveggente di Dio.
E di qui, da cotesta incrollabile fede nella libertà dello spirito, toglie Paolo la forza a resistere con serena fermezza alla autorità degli Apostoli, contrastanti la sua concezione universalistica del Cristianesimo (3).
Dal parallelismo che Egli istituì tra Adamo e il Cristo risultava che, come universale erano state le conseguenze della colpa, così universali dovevano essere le conseguenze della redenzione.
Contro l’intransigente nazionalismo della corrente jacomitica. Paolo proclama la necessità di rompere le barriere del giudaismo, che minacciavano di soffocare il Cristianesimo ne' suoi confini..
Fu questa l’opera geniale del grande Apostolo, la quale salvò la novella religione.
L’universalizzazione del Cristianesimo sgorgò, spontanea dal sistema che il suo spirito aveva costruito e che rispondeva ad un imperioso bisogno della sua coscienza religiosa, in cui parlava la voce del Cristo:
Non ego autem vivo; vivit vero in me Chrislus.
♦ ♦ *
Ma, al Cristianesimo, varcando i confini della Giudea, si apriva un campo di discussione assai più. vasto e complicato, una molteplicità di problemi, che la cristologia paoli na non che risolvere, aveva appena toccati (4).
L'immanentismo, insito nella concezione di Gesù, veniva a contrastare col trascendentismo, che dominava nell'ambiente intellettuale ellenico.
E il dissidio non poteva sfuggire alla mente dei dotti greci che si convertivano al Cristianesimo, i quali dovevano, per necessità filosofica e religiosa insieme, conciliare la loro filosofia e il loro Dio trascendente, colla dottrina cristiana.
Un complesso di circostanze favorisce cotesto orientamento del cristianesimo verso l’ellenismo, che si risolverà in un graduale assorbimento dell’immanentismo cristiano nel trascendentismo greco-alessandrino.
(1) A buon diritto il Va ri sco, a chi gli obbiettava il suo immanentismo esser contrastante col Cristianesimo, e perdersi nel panteismo, rispondeva — con paròle sintomatiche —- «io non sono panteista più di S. Paolo! » (V. Riv. di FU. N. Scol., anno III, n. 2, pag. 256).
(z) I Cor., II, 15. E nello stesso capitolo: «io non mi sono proposto di predicarvi altro che Gesù Cristo e Gesù Cristo Crocifisso».
(3) Anche ammesso che nella teologia farisaica pre-paolina vi fosse qualche veduta anticipatrice della concezione universalistica, l’originalità di Paolo non ne resterebbe scossa.
(4) Come è noto, la Scuola di Tubinga, sotto l’influsso del Bauer e poi dello Holsten e del Pfleiderer, sostiene che il Cristianesimo dei Gentili si riduce ad un puro f>aolinistno. La critica ortodossa (v. per tutti il Prat, La thèologie de S. Paul. Paris, 1908, il secondo volume è del 1912) vi si oppone giustamente, appoggiandosi, tra i critici razionalisti, al Weiss (Paulus und Jesus, Berlin, 1909, v. specialmente pag. io e segg.).
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E tutta una nuova teologia balzerà fuori dal conflitto aspro, e più volte secolare: e sarà la dogmatica cattolica (1).
III.
Per comprendere il significato della trasformazione cristiana sotto l’esigenza imperiosa della cultura ellenica, è necessario dare uno sguardo a cotesto mondo del pensiero, che la geniale intuizione di Paolo apriva al proselitismo cristiano.
IT mondo greco-romano si dibatteva in una crisi interiore, che ne sommo-veva le basi politiche e sociali: non si trattava soltanto della crisi di un impero, ma di tutta uria civiltà.
L’irrefrenabile avanzarsi delTEllenismo — che invano aveva conteso l'austera romanità di Catone — corrodeva dalle fondamenta il vecchio edificio romuleo. Le vittrici armi romane, anziché spezzare ¡’Ellenismo, ne favorivano la diffusione. L'Ellenia, quasi schiava maliarda che coi baci e i sorrisi plachi e affascini il suo truculento padrone, aveva pervaso tutta la vita romana, inondandola delle sue bellezze facili e seduttrici, de' suoi poeti lascivi, de’ suoi pedagoghi snervati, della sua filosofia beffarda, de’ suoi sacerdoti senza fede.
Gl'iddii e le iddie sorridènti dell’ Eliade sostituivano, dovunque ormai, li arcigni Iddìi latini, espressione augusta di quella Forza, che aveva costituito Roma dominatrice del mondo.. E con gli antichi Dei se n’era andata l’antica robusta fede patria, s’era infranto il cuore romano.
L’Umanità, perenne Prometeo avvinghiata alla rupe del suo pensiero — e ci vorran millenni prima che essa canti l’inno della liberazione (2) — era ormai affranta per l’inutilità del suo millenario sforzo di conoscenza, e si annebbiava in uno scetticismo dolorante.
I filosofi si abbandonavano ad un eclettismo or superficiale, or tragico, indice sempre della inappagata e ormai disperante volontà di ricerca. I problemi filosofici, infatti, assumono un carattere di angoscia esasperata: e da problemi logici si trasformano in problemi prevalentemente morali.
Socrate aveva imposto all’umanità il problema morale; più che il problema delle origini del mondo — che aveva teso le menti dei presocratici nello sforzo supremo di strappare all’universo il suo secreto, —- si tenta di scovrire le origini del
(1) Osserva profondamente il Windelband nella sua Storia della FU. (voi. 1) che la vera forza vittrice della religione di Gesù, fu che essa in questo mondo invecchiato e troppo vissuto, si presentò con la forza giovanile di un puro ed elevato sentimento divino e di una convizione sì ferma da sfidare la morte: ma essa potè dominare il mondo della vecchia civiltà solo assorbendo ed elaborando questa civiltà: e, come nella lotta esterna, formò la sua costituzione e quindi si rafforzò tanto da impadronirsi dello Stato romano; così, nel difendersi contro le antiche filosofie, fece suo del pari il mondo dei loro concetti, per costruire il suo sistema dogmàtico.
(2) La liberazione — se pure! — consisterà nell’accorgersi di non essere avvinghiata, cioè di non dover cercare nulla al di là del pensiero, perchè, nulla essendovi, nulla vi si potrebbe trovare.
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BI LYCHNIS
Bene e del Male. E la soluzione, chiesta invano a tutte le filosofie —•■ chè alla mentalità organicamente dualistica degli Elleni pareva, e doveva parere, inestricabile — è invocata, con altrettanta vanità, da tutte le religioni.
Il politeismo, nelle multiformi sue manifestazioni, espressione di una frammentarietà che ormai ii pensiero umano aveva superata, non poteva rispondere alle esigenze intellettuali degli Elioni, che avevano raggiunto una elaborazione altissima del concetto del divino.
Il Cristianesimo, entrando in questo mondo in dissoluzione, lo colpiva di ammirazione, oltre che con lo spettacolo di una fede entusiasta, che sfidava la morte, con una dottrina assai più profondamente umana e coerènte, che non tutte le fantasie politeistiche; e, sopratutto, per la consolante soluzione che dava al problema del dolore.
Il « Discorso sulla Montagna » gittava fasci di luce novissima, e illuminava le fronti percosse dal segno della disperazione.
* ♦ ♦
E già il Giudaismo aveva precorso il. Cristianesimo, come il Battista, Gesù. Le colonie ebraiche numerose e fiorenti nei paesi della Gentilità, si erano incaricate di far conoscere il loro Jehovah e la loro dottrina mosaica (1).
Dalla Samaria e da Alessandria, il mondo giudaico e il mondo ellenico s’erano incontrati. In ciascuno de’ due paesi la cultura assunse l’aspetto di un crogiuolo molteplice e caotico, ma fecondo per l’avvenire.
I Samaritani, infatti — spregiati da tutti gli Ebrei e tenuti in conto di ereticali, per il loro atteggiamento poco ossequente alla Legge — avevano accolto molti elementi della civiltà greca. Essi presentavano il quadro, caratteristico di tutti i popoli che, vissuti lontani da quelli di civiltà più progredita, e venutine poi a contatto, vogliono d’un colpo raggiungerli e, magari, sopravvanzarli, mescolando disordinatamente il vecchio col nuovo, l’indigeno con l’esotico.
Per converso, il mondo alessandrino risentiva il contraccolpo del soffio ebraico che si sprigionava dalla Samaria (2). È difficile districarsi di mezzo al dedalo d’idee che si agitano nell'ambiente culturale di Alessandria. Ma, se vogliamo rintracciare le linee generali o, meglio, lo spirito che presiede — non sempre, certo, consapevolmente — alle svariate costruzioni dottrinarie, si può constatare che, sia in Alessandria che nella Samaria, domina il tentativo di conciliare la teologia giudaica con le correnti filosofiche elleniche, imbevute di platonismo, per quanto non ancora decisamente neo-platoniche.
Il tentativo si compie specialmente per opera di giudei nati 0 educati in ambienti ellenici. Gradatamente il mondo ellenico aveva modificato la forma ‘mentis di codesti ebrei, imponendo i propri problemi.
—1
(1) Cfr. Harnack, op. cit., cap. Il « I presupposti della storia del dogma ».
(2) Nel periodo dell’impero gli Ebrei costituivano circa un terzo della popolazione di Alessandria.
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E il problema che, nell'incontro di due mondi, si presentava col carattere di un’assoluta esigenza, era la conciliazione del Dio degli Ebrei, Principio Unico e Creatore di tutto l’Uñi verso — e quindi anche de’ Male — col Dio di Platone o,..pos-siam dire, con la filosofia greca, la quale era essenzialmente dualistica, per la profonda distinzione o, meglio, scissione, che faceva tra il sensibile e lo spirituale, tra il Reale c l'idea. Dio, l’idea del bene, non era che l’idea delle idee, il sole nel inondo delle idee, come divinamente Platone si esprime.
Trascendente, dunque; opposto, anzi, al Creato, al Reale, che contiene il principio del Male (i).
• * *
. • /.
■ Per la spinta di codesta preoccupazione logico-religiosa, fiorì, nel secolo inune. diatamente precedente il Cristo, una ricchissima letteratura giudaico-alessandrina, di cui il più illustre rappresentante fu Filone l’Ebreo.
Educato alle forme del pensiero ellenico. Filone ne accoglie il dualismo, insinuandovi, però, evidenti elementi di teologia ebraica. È necessario cogliere i punti essenziali della sua dottrina.
L'Universo, secondo Filone, ha due punti opposti e contradditori: Dio e il mondo.
Dio è eterno, assoluto, immenso, immutabile. Il mondo è sensibile; come tale deve mutare; e, poiché muta, deve avere avuto un principio. Ma nessun termine di unione può esistere tra l’uno e l’altro; escludendosi, anzi, vicendevolmente. Come, dunque, poteva spiegarsi la loro esistenza, çotesta duplice essenza dell'Uni-verso? Come mai dali’Essere Infinito, che è al disopra di qualsiasi imperfezione non solo, ma. anche di ogni qualificazione — il Bene Assoluto — si poteva giungere ài Male?
Ed ecco la novità filoniana, il concetto del Mediatore. Fra l’Assoluto Bene e l’Assoluto Male, tra l’increato e il Creato esistono molteplici potenze, di cui la suprema è il Logos.
Non è facile definire la natura di codeste Potenze, apparendo esse ora come immanenti in Dio (cosicché Iddio, pur essendo al di sopra dello spazio e del tempo, per loro mezzo riempirebbe di sé tutto il Creato), ora come vere e proprie ipostasi (si può pensare, per analogia, alle idee platoniche, alle cause efficaci degli Stoici, o ai demoni dei Greci) (2).
(1) Neppure nel Timeo, in cui può dirsi culmini il trascendentismo platonico, si ha un’assoluta trascendenza, nel senso che poi questo concetto assumerà nella metafisica gnostica e neo-platonica.
Platone, raggiunta la sua definitiva sistemazione, in cui le cose non sono più partecipazione, ma imitazione delle idee, mantiene il suo principio che il mondo sta a Dio come la copia («fôwç) al modello (napadcirpa), il che, dunque, implica una relazione tra i due termini. E « se una relazione è necessaria, i suoi termini sono reciprocamente coessenziali e s'implicano a vicenda» (V. Varisco, Conosci te stessè, pag. 149).
(2) Così il Réville: « Une des ambiguités dé cette philosophie religieuse consiste eu ceci qu’elle ne distingue pas avec précision entre la personalità consciente et le pri ¿ cipe abstrait ou l'être de raison » (V. Jésus de Naz., vol. I, pag. '307,).
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BILYCHNIS
Tuttavia, è possibile costruire un concetto conglobale del Logos filoniano. Attributo suo principale è, dunque, la intermediarità : il Logos è quegli che impedisce che i contrari si distruggano. Esso è il creatore e l’organizzatore del mondo; ne è anche il conservatore. Questo potere lo ha avuto da Dio, Essere Primo, il quale, in ultima analisi, apparisce come il depositario assoluto del potere, non essendo il Logos che un suo delegato.
Quali sono le relazioni tra l’Essere Primo e la sua ragione?
Il Logos ha per imagine sulla terra l'anima umana, e la guida nello sfòrzo che essa fa per conoscere l’Essere Supremo o, meglio, il Logos stesso, che dell’Essere Supremo è la manifestazione.
Il Logos è, dunque, in Dio, nella Natura (nel mondo intelligibile) nell- uomo intelligibile (prototipo dell’uomo sensibile).
Il Logos è il primogenito di Dio, è l'angelo più antico — arcangelo;— è il nome di Dio o l’imagine di Dio; è l’uomo fatto ad imagine di Dio.
Dal Logos, tamquam ex fonie, scaturiscono le Potenze, le quali producono il mondo intelligibile cui appartiene l'uomo intelligibile, il quale, da un certo punto di vista, può esso stesso esser qualificato Logos.
In un senso più generale il Logos è l’insieme di tutti cotesti esseri; poiché, se ciascuno ha caratteri particolari, hanno però tutti in comune quello di essere intermediarii fra l’Essere, pura essenza, e il mondo sensibile, semplice apparenza.
Così il concetto di Dio in Filone assurge ad un grado di spiritualità e di trascendenza, che lascia assai indietro il grossolano monoteismo degli ebrei. Dio è colui che è, e non può esser definito con un nome; più perfetto che il bene, più antico e più puro che l’unità stessa. Dio non può esser contemplato che da se stesso. Gli stessi Santi, che furono particolarmente diletti al Signore, non ne conobbero l’essenza, ma solo l’esistenza.
Quale distanza fra il Dio di Filone e il Dio di Mosè !
E tuttavia l’influenza ebraica nella dottrina filoniana è evidentissima, specie nella teoria del’a creazione, in cui, secondo Filone, è la risoluzione dell'intricato problema dei rapporti fra Dio e il Mondo: teoria che Egli toglie quasi per intiero dalla dottrina mosaica. Nel De mundi opificio, infatti,. Filone ci dà il racconto completo della creazione, divisa in giornate come nella Genesi. Solo nel primo giorno, Ch’Egli distingue nettamente dai seguenti, Dio crea il mondo intelligibile — ch'è altra cosa dal mondo sensibile — composto di forme e di specie intelligibili, e che non è in nessun luogo determinato.
Esso risiede nella ragione divina; ossia, il che vale lo stesso, il mondo intelligibile è la ragione di Dio che crea il mondo sensibile, il quale si modella su di esso (1).
* « «
Non si può non riconoscere una certa sconnessione in tutta la dottrina filoniana. Manca in Filone una concezione coerentemente sintetica dell'universo (2).
(1) Naturalmente la stessa distinzione si ripete per l’uomo: anche per l'uomo, Dio ha creato prima il genere e poi la specie; prima il prototipo, poi l’individuo, cioè Adamo.
(2) Cfr. E. Herriot, Fuon le Juif (Paris, 1898). Una delle più lucide e acute monografie su Filone.
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Così a volte il Logos appare come l’idea pensante di Dio, a volte come il risultato del suo pensiero; ora, come già osservavo, ente assolutamente ipostatico, ora confuso nella sostanza divina. In fondo, non è chiaro se debba trattarsi di un solo o di vari Logos, essendovi tra le diverse concezioni del Logos in Dio, nella natura, nell’uomo, differenze notevoli.
Si noti, poi, che la distinzione tra sostanza e personalità divina è fondamentale al sistema filoniano; sicché, ad esempio, la Sapienza, la Potenza, ’a Bontà di Dio, sono altrettante ipostasi, vere persone, aventi ciascuna vita pr> pria: il che aumenta la confusione.
Inoltre, da un lato Egli afferma che Dio non si confonde in alcun modo col mondo; dall’altro che il mondo è l’effetto di un atto della sua volontà: c la sua creazione parrebbe dovesse esser necessaria a Dio, perchè la Bontà, di cui il mondo è figlio, è una delle sue Potenze, e la Provvidenza che lo governa, è una delle sue manifestazioni. Così che Dio, pur essendo al disopra dello spazio e del tempo, riempie di sé, a traverso le Potenze, tutto il Creato (1).
Questo spiega come alcuni ritengano Filone panteista, basandosi special-mente sul suo concetto di immensità quale attributo di Dio (2).
Erroneamente, a me sembra. Malgrado gl’indubbi lati oscuri, il concetto di Personalità Divina, distinta, avente coscienza e volontà propria, è il fondamento . costruttivo della dottrina di Filone.
Gli è che lo sforzo consapevole di porre Iddio al disopra del sensibile e del mutevole, si spezza contro la stessa forma mentis filosofica di Filone, che affondava profondamente le sue radici nel confuso e grossolano immanentismo giudaico.
Filone cerca di liberarsene; attratto dalle superbe speculazioni elleniche, spinto dal suo temperamento mistico a stimare indegno di Dio qualsiasi rapporto col mondano, si sforza di lanciare in abissi inaccessibili la Personalità Divina, ma non riesce a tagliar nettamente i vincoli del divino col mondano-(3).
Il medesimo dissidio riappare nella teoria della conoscenza. La Ragione umana non può giungere alla, conoscenza di Dio: solo, indirettamente, con lo studio delle proprietà delle creature, si possono analogicamente indurre gli attributi dell’Es-sere. Ma l’anima si può liberare dal suo involucro materiale e assurgere alla immediata visione di Dio a traverso l’ascesi, che è il grado più alto della conoscenza.
Filone, come osserva giustamente l’Herriot, non ebbe l’intelligenza atta a costruire la sintesi. Analizzatore meraviglioso, non riuscì poi a sistemare organica-mente la materia accumulata.
Ma bisogna riconoscere che l’impresa era arduissima. E tuttavia il tentativo sincretistico di Filone splenderà come lampada in quell’oscuro periodo dominato dal travaglio spirituale, e rimarrà a fondamento delle costruzioni filosofiche posteriori.
(La fine al prossimo numero).
_ Vincenzo Cento.
(1) Filone afferma energicamente che negare la Provvidenza è uno dei propositi più empii.
(2) Paul Janet, ad esempio.
(3) L’energica affermazione del rivelarsi della Provvidenza nel Mondo implica una finalità immanente nel mondo. Ho già notato come neanche in Platone fosse spezzato qualsiasi vincolo di immanenza. Ma la tendenza al trascendentismo si fa sempre più decisa.
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PSICOLOGIA DI COMBATTENTI CRISTIANI
NOTE E DOCUMENTI
(Continuazione. Vedi Bilvctzit di Ottobre 1919. WS- «»7)
ENTUSIASMO
Proseguendo nello studio relativo ai nostri giovani cristiani — e continuando a considerarli sotto l’aspetto di combattenti— occorre, per illustrare il loro stato d'animo, che noi portiamo a conoscenza dei lettori, non solo quei documenti che illustrano i momenti di crisi, pur superata, i giorni di lotta interiore, pur vittoriosa, le ore grigie, pure illuminate dal sole della pace intima dell’animo; ma occorre altresì che facciamo conoscere quei documenti che dimostrano di quale grande fiamma d’entusiasmo e di ardore essi fossero animati.
• * ♦
La tragica prima settimana dell’agosto 1914 sorprende Andrea Cornet Auquier in Inghilterra, dov’è professore, ed egli si mette subito in viaggio per la Francia onde essere pronto non appena si renderà necessaria la mobilitazione.
Colwinbay, 3 Agosto 1914.
Mici carissimi ; secondo le ultime no tizie siamo alla guerra. L’ho saputo ieri dopo pranzo... Ero e sono calmissimo. Direte àgli zìi d’Inghilterra che son<> fiero di combattere non solo per la Francia, ma anche pel loro paese; e, se si deve morire, si morrà felici, purché sia nello slancio di una vittoria. Si è soldati francesi. Sarò a Parigi domani
Ed egli infatti è tra i primi mobilitati ; ma le cose non vanno abbastanza presto per soddisfare il suo entusiasmo:
Belley, 15 Agosto 1914.
...Siamo qui in parecchi che bruciamo dal desiderio di partire pel fronte. Sono
venuto per combattere, pieno d’ardore e di buona volontà; invece passiamo il tempo a non far niente, ad annoiarci. Perciò, alla prima chiamata di volontari, io parto.
Pochi giorni dopo egli è destinato al fronte. Passano poi 9 mesi di gravi vicende, la posizione degli Alleati è delle più critiche allorquando giunge una buona notizia:
25 Maggio 1915.
Ieri, alle cinque precise, per festeggiare l’ingresso dell'Italia nella coalizione, raffiche di artiglieria sui tedeschi, i quali avranno dovuto Chiedersi se non eravamo ad un tratto ammattiti perchè, nello stesso tempo, tamburi e cornette battevano e suonavano la carica, e la musica del reggimento suonava la Mar-seillaise nelle mie trincee. Uno dei miei ufficiali m'ha detto che, durante l’esecuzione, ero impallidito! Confesso che tutto ciò mi ha fortemente commosso.
• • •
L’entusiasmo e io spirito di devozione ai compagni di caserma che animavano Alfredo-Eugenio Casalis sono dipinti al vivo in alcune sue lettere della seconda metà di febbraio 1915» le quali lettere permettono inoltre di seguire le fasi successive di un episodio interessante della sua vita militare.
Date le sue qualità, la sua cultura e le sue attitudini, Casalis era stato invitato a partecipare ad un corso di allievi ufficiali, ed egli non si nascondeva che ciò avrebbe costituito un notevole vantaggio per il seguito del suo servizio. D’altra parte lo tormentavano gli scrupoli. .
■_ cj*.
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PSICOLOGIA DI COMBATTENTI CRISTIANI í8l
Il 20 febbraio egli scrive:
Frequentare il corso significava un ritardo di almeno quattro mesi prima di partire pel fronte. Ora io mi domando se faccettare quésto ritardo non sarebbe una viltà (dico, per parte mia). I miei compagni partiranno pel fronte fra un mese di cèrto; ed io rimarrei al riparo ? Non partirei che allorquando il lavoro più duro (l’espulsione del nemico fuori dalle trincee) sarà probabilmente compiuto! E poi, non ho io ¡1 dovere di rimanere con « questi » per aiutarli ?
La questione mi turba assai... Pregate per me, affinchè io veda chiaramente il mio dovere ed abbia la forza di compierlo fedélmente.
Senonchè succede un fatto nuovo che tronca in modo imprevisto le sue esitazioni :
25 Febbraio.
Voglio dirvi subito a che punto mi trovo.
Ero molto .preoccupato per là questione del corso allievi ufficiali, passando per delle alternative di « sì » e di « no > e non vedendo affatto la mia via, quando lunedì mattina un evento imprevisto è venuto a togliermi d’impaccio. Dunque, quella mattina, il tenente ha chiesto cinquanta volontari per il fronte. Non c’era più modo d’esitare ; ho visto il mio dovere e mi sono fatto iscrivere immediatamente...
Mammina cara, te ne prego, non preoccuparti per me. Avevo già pensato da tempo a questa eventualità e davvero, non potevo fare diversamente che di offrirmi. Il nostro Padre, che è.buono, saprà di certo proteggere il suo figliolo.
Ma era destinato che Casalis non dovesse passare in quel momento nè tra gli allièvi ufficiali, nè tra i soldati scelti ch’eran richiesti pel frónte; Egli difatti scrive qualche giórno dopo :
3 Marzo.
Figurati che il medico non ha voluto
sapere di me come volontario. Altri 18 miei compagni non sono stati prèsi.
Là visita è stata sevèra pèrche quei volontari sono destinati a un corpo scelto, particolarmente allenato e preparato. Puoi immaginare come sono rimasti male di dover restare indietro; ma insomma, bisogna saper accettare, ed accettare lietamente, tanto più che sono molti quelli che guardano a noi.
Questo è il pensiero che mi ha permesso di rimanere qui tranquillamente, e quasi con gioia: il pensiero che resterò con questi giovani che ora conosco e che mi conoscono e sanno oscuramente donde ricavo quella poca forza che ho.
Casalis tuttavia non rinunzia a ciò. ch’egli crede il suo dovere; dare l’esempio dell’entusiasmo e del patriottismo se se ne presentava l’occasione. Era stato rifiutato dal medico al principio di marzo perchè ancora convalescente di una malattia ; ma di nuovo un mese dopo, si sono richiesti dei volontari e questa volta le cose vanno secondo il suo desidèrio
Montauban, 7 Aprile.
Eccomi di nuovo a Montauban per poche ore e questa volta sono di partenza. Vado con un reparto di 120 uomini per rinforzare il . . al fronte degli HurluS.
Lunedì sera, alle 5, si sono chièsti 16 volontari alla Compagnia. Non ero presente in quel momento, ma mi si disse, nella serata, ch’eran stati scelti 30 volontari... o involontari: 16 per partire, e gli altri per sostituire quelli che sarebbero rifiutati alla visita medica. Martedì mattina, alla 16, esercizi. La visita doveva esser passata alle 7. Quando arriva il tenente, un mio compagno ed io andiamo a dirgli il nostro desidèrio di partire ed egli ci autorizza di passare la visita. Ci andiamo; lunga ispezione. Il medico mi dice finalmente: Tu puoi andare; non c’è pericolo che tu sia rifiutato. Ed eccomi qui. Partiremo probabilmente nel pomeriggio.
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282 BILYCHNIS
Montauban, 12 Febbraio 1915.
Certe persone hanno pensato che, dopo le spiacevoli esperienze da me fatte in caserma, dovevo rimpiangere assai d'essermi presentato volontario! Ho mandato a dir loro che, se dovessi rifarlo, lo rifarei nuovamente, e con maggiore entusiasmo che la prima volta. Avrei desiderato dir loro questo io stesso...
• • *
In Gustavo Escande, come dice egli stesso, «l’entusiasmo giovanile dell’inizio s’era temperato colla riflessione«; ma non era scomparso, assiderato dalla prospettiva del pericolo.
Nel novembre 1914 egli scrive :
Incomincia a far freddo qui, la pioggia cade del continuo, ciò che disturba le nostre marcie ed i nostri esercizi; ma V entrain non manca, quell’iKtow? caratteristico dell’esercito francese, il cui motto è : Il sorriso, sempre. Siamo certi della vittoria finale.
Un mese dopo :
Partiremo fra poco. Se vedeste il nostro entusiasmo ! Finalmente stiamo per essere utili alla patria, anzi all’umanità intera Sursum corda!
E ancora:
... Sebbene commosso al pensiero di lasciare la mamma, parto pieno di entusiasmo.
Sulla linea del fuoco, alcuni giorni più tardi :
Il nostro morale è eccellènte, siamo pieni di slancio e sicuri di vincere. Ma la vittoria sarà comprata a caro prezzo.
Di nuovo, qualche tempo dopo:
Grazie di pensare tanto a me. Io non sono da compiangere; tutt’altro; devo essere invidiato, invece, di difendere una causa come la- nostra. Le nostre truppe sono mirabili per lo slancio e la resistenza. Tutto va bene; ciò andrà
meglio ancora fra qualche tempo. Non preoccuparti troppo. Pensa ch’io sono felice d’esser qui.
Dalle successive sue lettere, Escande appare ■ sempre animato dai medesimi sentimenti :
Sono sempre così entusiasta come lo ero il giorno della mia partenza da Tolone : pronto a difendere il mio suolo, Dio mi ha protetto, mi sento guidato da lui, e perciò guardo all’avvenire con calma e con fiducia.
Questo entusiasmo, questa calma, questa fiducia dominano ormai incontrastati nell’animo suo e gli permettono di scrivere ancora, il giorno prima di morire:
25 Marzo 1915.
... Sono fiero di trovarmi sul punto del fronte dove si giucca e sta per giuo-carsi la grossa partita!
• • •
La medesima nobilissima fiamma di entusiasmo arde nel cuore di Ruggero Allier. La lettera ch’egli scrive ai suoi genitori pochi giorni dopo averli lasciati è tutta vibrante e palpitante :
Aime-en-Savoie, io Agosto 1914.
... Ieri, domenica, ho saputo all’ufficio postale l’ing’resso dei Francesi in Alsazia e l’occupazione di Mulhouse' Ho copiato il lungo telegramma, ho radunato tutti i miei uomini davanti al fienile ed ho loro letto le notizie. Descrivervi il loro entusiasmo è impossibile. Ero io stesso a tal punto commosso che ho avuto a mala pena la forza di leggere il proclama rivolto dal generale /offre agli Alsaziani. Ho creduto che il padrone del fienile, un vecchio contadino a barba bianca, stesse per abbracciarmi ; egli piangeva dalla gioia e gridava : « Bravo, Tenente ! Bravo, Tenente!», mentre i miei uomini gridavano: «Viva l’Alsazia!».
Ho loro annunciato che offrivo a ciascuno un quarto di vino al rancio dèlia sera.
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PSICOLOGIA DI COMBATTENTI CRISTIANI 283
Alle cinque arrivo; trovo il fienile tutto fiorito e pavesato; sulla porta è inchiodato un grande medaglione di legno ; un alpino vi ha grossolanamente scolpito l’effigie del Kaiser con questa iscrizione: «Guglielmo, l’uomo che la pelle è tosto nostra» (j&), Tra due mitragliatrici adorne di bandierine sorge un tavolo, o meglio una vecchia cassa che ne fa le veci. Su questa cassa, un fazzoletto a quadretti azzurri funge da tovaglia ; vi sono due bicchieri : uno per me, l'altro pel sergente; accanto, due secchi di tela pieni di vino.
Con una emozione che potete indovinare, ho evocato i ricordi del 1870, l’anniversario di Reichshoflen, l’invasione dell’Alsazia, il bombardamento di Strasburgo. Ho parlato loro degli Alsaziani, delle aspirazioni loro ostinata-mente francesi. Essi ascoltavano intenti. Poi, quando ho terminato, alzando il mio bicchiere • alla Repubblica, all’Alsazia e alle nostre prossime vittorie, è scoppiata un’ovazione spontanea e frenetica. L’alpino Cottavoz, con una semplicità commovente, mi ha consegnato un gran mazzo di fiori dei campi e non ha trovato altre parole che queste : < Mio tenente, vi seguiremo dovunque». Ho guardato ciascuno di essi negli occhi, e la loro stretta di mano mi ha detto più che molti discorsi: possiamo partire assieme, l’anima loro è temprata, speriamo sia presto!
Che bella cosa vivere ore simili ! M’è impossibile descrivervi le emozioni che prova un ufficiale in momenti come questi.
• • •
Ma ciò che anima i nostri giovani è più «he dell’entusiasmo; l’entusiasmo esalta chi lo possiede; ma esso può anche esser cosa superficiale, sentimento dì poca consistenza e di poca durata ; l’entusiasmo di parole s’esaurisce rapidamente nell’urto costante colla dura realtà dei fatti. Nei combattenti cristiani, in
vece, l’entusiasmo — simile a fèrro rovente— è come temprato e rinvigorito dalla prova. Essi trovano in sé stessi non solo di che nutrire la meravigliosa fiamma del loro patriottismo, ma vi trovano altresì di che alimentare quella degli altri.
Già noi abbiamo visto nel paragrafo precedente (Ore grigie e pace interiori) che sono i combattenti stessi che preparano gli animi dei loro cari alla dolorosa eventualità del distacco: èssi parlano serenamente della loro possibile morte sul campo; coloro che, a viste umane, dovrebbero essere confortati si fanno confortatori. Qui di nuovo, da un punto di vista più generale, vediamo i combattenti esortare i non combattenti alla fermezza, alla resistenza, alla fede nella vittoria. Sono loro gli animatori, sono loro che non solo resistono al fronte ma sono i più validi e più efficaci cooperatori della resistenza interna.
Spigoliamo nelle lettere di Andrea Cornei Auquier:
14 Giugno 1915.
... Vedo con piacere che accettate, col vero stoicismo cristiano e francese, le prospettive che m’aspettano. Ciò mi è di profondo conforto ed io vi ringrazio di avermelo dato prima dell’ora dell’attacco che sta per suonare. Dobbiamo vincere e vinceremo. Tutto è mirabilmente preparato, e siamo questa volta almeno uguale ai Tedeschi... Arrivederci, Dio vi benedica e vi guardi. Siate forti della sua forza...
23 Agosto 1915.
Il morale è buono... Purché i borghesi reggano!
4 Settembre 1915.
All’opera! Viva la Francia! In alto i cuori !
24 Settembre 1915.
I bulgari ci fanno un brutto scherzo ; ma non ne sono affatto commosso; ciò allunga la guerra, ma non influisce sul risultato finale. Purché i borghesi reggano!
io Ottobre 1915.
Non vi preoccupate dei Balcani. Lasciate fare ed .abbiate fiducia. Che il
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Il va tallii limi
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babbo mi ceda il suo pulpito una domenica, a Chalons (l), ed io rimonterò a tutti il morale. « Non temere, credi solamente... ».
E, pochi giorni dopo, egli manda, in sunto, la predica che intenderebbe fare ai parrocchiani di Clialon :
22 Dicembre 1915.
... Se avessi l’occasione di rivolgermi a un uditorio cristiano, o sedicente tale, gli direi press’a poco questo:
Voi credete, o fate professione di credere in Dio, in un Dio che è un Padre; credete nella sua giustizia, alla sua onnipotenza e alla sua assoluta bontà ; credete che nulla succede senza la sua volontà e che tale volontà è essenzialmente santa, buona e saggia. Allora fate credito a Dio e aspettate con pazienza gli evènti. Dite a voi stessi che la Giustizia deve trionfare e che il Diritto vincerà finalmente la forza bruta, perchè Dio l’ha voluto, lo vuole e continuerà a volerlo sempre.
La causa della Giustizia e del Diritto è la sua causa ed è la nostra. Egli l’ha affidata a noi, eserciti alleati; dunque siamo noi che trionferemo. Quando? In che modo? Lo ignoro, e dopo tutto poco importa; il risultato finale conta solo. Non temiate dunque, credete soltanto. Non siate più ansiósi, nervosi; non vi lamentate, non criticate, non dite: « Se fossi Joffre, o se fossi il Presidènte del Consiglio...». Non siete, grazie a Dio, nè Joffre, nè Briandl Se tremate gli è perchè non credete alla vittoria finale della Giustizia e del Diritto, al trionfo della causa di Dio sulla terra. Allóra siate logici e dite che Dio non è Dio e che, da venti secoli, il mondo s’è ingannato credendo nella legge di amore proclamata da Gesù... perchè è
(1) Il padre del cap. Andrea Cornei Au-quier è il pastore evangelico di quella città.
come lui, per amore, che muoiono i mirabili soldati di Frància e d’Inghilterra, dell’Italia, del Belgio, della Serbia, dèlia Russia.
Ancora, alia vigilia d'un nuovo anno:
29 Dicembre 1915.
Miei cari... Buono e felice annoi Quale ironia nel vecchio augurio. Eppure può esser buono quest’anno 1916, se è fecondo in atti eroici e generosi, può esser buono se dal male scaturisce il bene, può esser buono Sè la vittoria ci porterà la Pace.
• •■•••••• •••••
Fate tutti i miei auguri agli amici, dite loro di non temere, d’aver fiducia, e di credere, credere, credere...
E ancora:
i i Febbraio 1916.
... Serrate le file, mettete in comune i vostri affètti, le vostre energie individuali, la vostra fiducia personale; realizzate sempre più e sempre meglio la vita di famiglia intensa e profonda e specialmente ponete al disopra dell’affetto dèi vostri figli l’amore del paese ; siate dominati interamente dall’odio contro l’invasore. Non lasciate mai lo scoraggiamento infiltrarsi nei vostri cuori, siate dei Francesi! È a questa condizione che noi del fronte, potremo lottare con quell’aere energia che trionfa di tutto; la vittoria è a questo prezzo.
• * ♦
E la medesima preoccupazione « conforta-trice » noi ritroviamo nell’entusiasmo di A. A. In data 9 maggio 1915, egli scrive a suo fratello :
In questi ultimi tempi, mi sono prefisso particolarmente il còmpito, nelle mie lèttere e nelle mie conversazioni, di ravvivare il coraggio che dalle nostre parti, è notevolmente venuto meno. La lunga campagna d’inverno era stata illuminata dalla prospettiva dell'irresi-
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PSICOLOGIA DI COMBATTENTI CRISTIANI
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stibile offensiva della primavera, e, questa offensiva non avendo potuto svilupparsi, molti perdon la fede nella liberazione del suolo nazionale. Ora, oggi, i combattenti sono così vicini al popolo e comunicano così facilmente con lui che la demoralizzazione di questo si trae dietro fatalmente l’indebolimento di quelli.
L’ottimismo è nell’ora attuale il grande dovere, dovere ingrato, difficile. Nel compierlo c’è da essere considerati ingenui. Ma è un dovere primordiale, essenziale. Non si tratta di chiudere gli occhi davanti alla realtà, di dissimularsi gli straordinari sacrifici che bisognerà ancora acconsentire; bisogna proclamare la, propria fede nella vittoria finale e completa. E la vittoria finale sarà di chi vuole più fortemente.
Addio; io sono in comunione con te nel servizio della grande causa, di cui siamo gli umili, i minimi ed i volontari schiavi.
• * *
Questo entusiasmo ardente, sa anche essere irruento e violento. Esso anzi diventa alle volte aggressivo, ed aggredisce tutti coloro che, invece di compiere il loro dovere, trovano buòni tutti i pretesti per nascondersi, per rimanere indietro, per salvare la pelle.
Si sente un maschio Orgoglio in queste paròle di Casalis:
Montauban, 7 Gennàio 1915.
Sono soldato di mia volontà, e non per irriflessivo impulso. Quando si sa che tanti « mollano >, che tanti Si fanno «imboscarea, non si pùò resistere: bisogna partire...
• • •
Un profondo disgusto si manifesta invece in quéste poche righe di A. A.:
17 Marzo 1915.
Sono stato iscritto per forza nel plotone degli allievi caporali e, per quésto fatto, la mia partenza pel fronte è no
tevolmente ritardata. Ma dovrò armarmi di pazienza, perchè il prolungamento del mio soggiorno in un accantonaménto così fertile d’ « imboscati > come questo, richiede uno stomaco assai robusto.
• « •
Nella trincea Fontaine Vive medita sui problemi scaturiti dal cataclisma e — mentre bolla a fuoco i patrioti chiacchieroni — egli dà una bella definizione dell’unione sacra:
Qui veramente l'amore nasce dalla morte. Se voi sapeste con quale ribrezzo giudichiamo coloro che, malgrado le loro chiacchiere sentimentali, nulla hanno imparato e nulla hanno dimenticato; quali disgusto proviamo p.er coloro che riempiono i loro giornali còlle loro velenose ipocrisie; quale pietà noi sentiamo per quéi disgraziati i quali non hanno inteso che l'unione sacra non è una tregua politica più o meno rispettata, ma dev’essere una comunione delle anime tese verso il medesimo segno, di anime che vivono in comune ore di angoscia, di dolore, di stanchezza e di speranza.
• • •
Un’altra invettiva contro ì conciliatori, ti ad oltranza — invettiva che deve rafforzare il < fronte interno » — viene lanciata da Andrea Cornet Auquier:
27 Ottobre 1915.
... Graziosissima la stòria dei fiori lanciati, in Svizzera, dai feriti francesi, ai feriti tedeschi; ma ormai basta con tali sentimentalismi. Per ora non dobbiamo sentire altro che odio per gli assassini di miss Cavell. Quando penso che tale avrebbe potuto essere la sòrte di Margherita (1) ciò mi rende furibondo. I bei gesti saranno per più tardi. So bene che; allorquando si vedono uscire dalle
(1) Sua sorella, di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Ella trovavasi a Bruxelles allo scoppio della guerra.
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loro trincee, stravolti e pronti ad arrendersi dopo ‘ un assalto, ci si sente commossi;, ed io sono il primo a commuovermi. Ma bisogna reagire e piantarsi bene in testa che, malgrado la forma umana, non sono uomini...
Però i neutri mi disgustano ancora maggiormente. Che si possa assistere a mostruosità simili a quelle che i Tedeschi commettono in questa guerra e rimanere indifferenti, è cosa inconcepibile a furia di vigliaccheria!
CORAGGIO
Un entusiasmo cosi vivo, così ardente, così fiammeggiante non poteva non produrre, nella trincea, nell’assalto, nel vivo della battaglia un coraggio pieno di nobiltà, di tenacia, di audacia.
Non vogliamo qui dilungarci a narrare per disteso i fatti d’arme nei quali i nostri amici si sono distinti. Già narrando la loro vita abbiamo avuto agio di constatare ch’essi non soltanto « soldati > erano stati, ma « eroi ». Anche nelle pagine che immediatamente precedono abbiamo citato alcune loro parole che dimostrano con quale assoluta dedizione della vita essi servissero là patria.
Nè d’altra parte è il caso di allungare eccessivamente questo nostro lavoro riportando fatti ed episodi i quali — per l’onore dell’esercito francese e di tutti gli eserciti (anche di quelli nemici), dunque per l’onore della razza umana — non si possono considerare come l’appannaggio di qualche categoria di giovani ad esclusione di altre categorie; poiché se una cosa hà dimostrato la guerra è quésta : che l’antica virtù del coraggio, gloria e vanto delle antiche generazioni, è sempre viva e vegeta nella generazione nostra e che, se in molte cose noi moderni abbiamo tralignato, in questo almeno i nostri vècchi possono essere fieri di averci per discendenti : che, oggi come in latri i tempi, basta che una causa s'imponga come buona e giusta e santa, basta che si agiti il vessillo di una Idèa, perchè in suà difesa sorgano innumeri i confessori, i martiri e gli eroi.
Ci limiteremo dunque — col solo scopo che non inanelli questo elemento del coraggio personale nell’insieme del quadro che stiamo tratteggiando — a ricordare qui alcuni episodi, alcune citazioni, alcune decorazioni.
• * •
Il soldato A. A. così racconta ai suoi cari quel che gli successe la prima volta che do
vette andare in trincea:
io Giugno 1915.
... Prima ancora di giungere al nostro posto di combattimento fummo sorpresi da un cannoneggiamento spaventevole. Nella notte soltanto raggiungemmo l’angolo di trincea che la sezione doveva occupare. Per tutta la sera, per tutta la notte, le granate caddero alla distanza di pochi secondi; fu uno scatenamento insensato di forza brutale distruggitrice. All'alba il diluvio di granate ricomincia. Non vi racconto ciò che ho visto, sarebbe troppo atroce. I vecchi piangevano. Uno dei miei compagni esce allucinato; prostrato, dal suo buco che è stato sconvolto. E’ come pazzo. Lo.prendo con me nel mio ricovero, lo conforto come si farebbe con un bimbo... Ancora nella notte successiva il bombardamento è incessante; quando verso le 3 del mattino siamo stati rilevati i nostri nervi erano infranti.
Malgrado tutto avremo adempiuto la nostra missione. Bisogna « tènere ad ogni costo » (ordine del generale) e noi abbiamo tenuto...
• • •
Vero ccappellano militare» in tutta l'estensione del termine, è stato Adolfo Cuche.
A sua madre che un giorno gii diceva : « Figlio mio, non voglio dirti di non fare il tuo dovere ; ma non esporti al pericolo inutilmente», egli rispondeva:
Mia cara mamma, quando si è cappellani, non è possibile fare il proprio dovere e non esporsi al pericolo.
E, per fare il proprio dovere, egli talmente si espose al pericolo che pagò la sua abnegazione còlia vita:
Non appena caduto, il generale comandante -il Corpo d’Armata gli confe-
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I
riva la croce della Legion d’onore: « Cappellano volontario del culto evangelico. Esempio d’abnegazione e di consacrazione, si è sempre distinto nell’adem-mento delle funzioni dei suo ministero pel suo coraggio e pel suo tranquillo disprezzo del pericolo. E' stato ferito a morte nella trincea di prima linea il 23 maggio 1917».
• • •
Ed ecco alcune altre citazioni. ( lettori ricordano l’eroica difesa di Saint Diè alla quale partecipò il giovane Ruggero Allier. Quando ancora non si conosceva la sua triste fine, ma già èra noto il grande coraggio di cui egli aveva dato prova nelle memorabili giornate dal 25 al 29 agosto 1914, egli veniva citato all’órdine dell’Armata con queste parole:
Sebbene gravemente ferito alle due gambe, ha continuato ad incoraggiare i suoi cacciatori con la più mirabile energia.
Anche Giorgio Teyssaire, il 24 marzo 1916. fu citato all’ordine dell’artiglieria pesante:
Per avere, nelle sue funzioni di telefonista, dato prova di coraggio e di devozione andando a riparare le linee durante un bombardamento intenso e continuo della posizione.
• • *
Due citazioni si meritò pure il giovane medico cristiano Giovanni Klingenbiel. La prima dice :
Modello di devozione, ha dato se stesso senza riguardi, portandosi in prima linea per dare le sue cure ai feriti durante il periodo difficile dal 1° all'ii novembre 1916.
La seconda citazione gli fu decretata dopo ch’egli, colpito a morte, era caduto nell’esercizio delle sue pietose funzioni :
Con fredda bravura, egli si è prodigato durante l’attacco del 16 aprile 1917, avanzandosi insieme alle prime ondate d’assalto, curando e confortando i fe
riti, dando a tutti l’esempio delle sue belle virtù militari. E’ stato gravemente ferito sulla posizione conquistata.
• « « •
Alla fine di settembre 1915, Giovanni Massip partecipò all’offensiva di Champagne. Il 6 ottobre ei corse il più grande pericolo. Completamente isolato dai suoi uomini, dovette nascondersi durante tre giorni, a dieci metri dalla trincea tedesca, nella buca fatta da una granata. La terza notte potè strisciare sino alle linee francesi ; ma dovette stare ancora due giorni, in un’altra buca, ai piedi della trincea amica « non senza aver arrischiato — raccontò poi egli stesso — di farmi uccidere cento vòlte e dai Francesi e dai Tedeschi ».
In seguito a tale azione, egli è proposto pel grado di sottotenente, per la medaglia militare e per una citazione all'ordine dell'Armata. Ecco la citazione:
Ha brillantemente trascinato la sua sezione all'assalto il 6 ottobre 1915, sotto un fuoco intenso, con un ardore e uno slancio ammirabili. Sacrificandosi poi con un gruppo d’uomini, ha protetto il ripiegamento della compagnia, controattaccata e vicina ad essere circondata. Ha raggiunto le lineé francesi con due uomini della sua sezione dopo quattro giorni e quattro, notti passati in buche di granate tra le linee.
Un’altra citazione all'ordine della divisione commemorò la sua morte gloriosa.
Già narrandone in poche parole la vita e la morte abbiamo parlato del coraggio dell'infermiere Giovanni Monod. Pur potendo far valere dieci buone ragioni per rimanersene zin un convalescenziario molto lontano dalla zona pericolosa, egli aveva voluto ad ogni costo essere mandato al fronte e la sua ambulanza era stata oggetto di ripetuti bombardamenti aerei. Dopo il primo bombardamento, egli era stato proposto per una citazione. Dopo il secondo, di cui rimase vittima, egli cosi venne citato all’ordine dell’armata:
Uomo d’una grande elevatezza di carattere, d’una devozione illimitata pei feriti. Non essendo di servizio ed ascoi-
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landò solò il suo coraggio, si è portato in soccorso delle vìttime del bombardamento ed è rimasto colpito mortalmente• * •
Molto ci sarebbe da dire riguardo a Giovanni Fontaine Vive. Rileveremo un Solo episodio della sua vita militare.
L’inverno è venuto: è l’època propizia per le pattuglie silenziose ed egli vuole conoscente i gloriosi pericoli. Nel dicembre 1915 egli partecipa ad una di queste e, prima di partire, egli scrive:
Fidanzata mia, è giunto l'ordine di fare una pattuglia. Moralmente è il mio turno, perchè tutti gli altri ufficiali hanno già affrontato la morte durante gli attacchi dei Vosgi; d'altronde ho sollecitato 1 onore di questa pattuglia per questa ragione appunto, e tu la capirai.
• « «
Ancora uno dei nostri coraggiosi combàttenti : Andrea Cornet Auquier.
Già a Saulcy sur Meurthe, nel settembre >914* egli aveva protetta la ritirata del suo battaglione mediante l’eroica resistenza da lui opposta colia sua sezione nel parco del castello, a un nemico assai superiore di numero. 1 vittoriosi combattimenti di Metzeral gli valsero una citazione all’ordine deli’Armata, e quelli della Fontanelle gli procurarono la nomina a cavaliere della Legione d’Onore.
Venne poi un’altra onorificenza, riguardo alla quale il glorioso capitano scriveva ai suoi genitori :
21 Giugno 1915.
Slamane il comandante Barberot mi ha consegnato, in presenza della mia compagnia, la croce di guerra con palma. Ha rivolto alcune parole ài miei uomini ed ha letto il testo della mia citazione all'ordine dell’esercito. Poi ha terminato dicendo: « Perciò sono felice di attaccare la Croce di guerra sul petto del mio amico capitano Cornet Auquier ». Quella parola « amico » m’ha fatto un piacere immenso. Poi m'ha baciato stille due guancie. Il colonnello ha fatto lo stesso...
Ma le decorazioni non diminuivano il suo coraggio. Per compiere il proprio dovere ei non temeva di partecipare alle più ardite imprese :
24 Settèmbre 191'5.
... Con due ufficiali e dodici « poilus » volontàri ho fatto una- ricognizione di notte in prossimità delle linee tedesche, in un angolo che già da un pezzo mi dava noia parecchio. Coperto dàlia mia pattuglia, ho strisciato carponi fra i cespugli, poi nell’erba. Nel silenzio della notte si udivano i colpi di zappa dei Tedéschi e il picchiare dei loro magli sui pali dei reticolati. Era impressionante. La mia esplorazione mi ha condótto a vedere il terreno sotto un aspetto ch’io non supponevo affatto. Abbiamo scoperto che il nemico aveva stabilito in quel bosco un posto avanzato, con collegamento telefonico. Abbiamo tagliato e asportato il filo per una lunghezza di 200 metri.
Io adoro quelle esplorazioni: il pericolo è minimo ed è cosa appassionante.
11 coraggio che, per tranquillizzare i propri cari cerca di nascondersi, è davvero il più bello dei coraggi ; ed appare pienamente meritato l’elogio col quale il suo colonnello terminava il discórso pronunziato alle sue esequie :
Addio, mio caro compagno! Portate con voi il nòstro rimpianto, ma il vostro ricordo e il vostro esempio sussisteranno nel Reggimento :• e, nel nostro libro d’oro, dove il vostro nome ricompare così di frequente, i futuri soldati del 1330 impareranno che foste buon patriota, uomo d’onore, di dovere e d’azione, soldato senza paura e senza macchia.
NELLA MISCHIA
Già parlando te\\'Enlusiamo e del ób-raggio di nostri giovani cristiani abbiamo visto le loro figure muoversi nel fumo della battaglia, tra il fragor delle armi. Ma è ne-
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cessano che di proposito ci avviciniamo ad essi nelle ore tragiche della passione, nelle ore in cui si è combattuto, in cui si è data e ricevuta la morte, in cui si è scatenata, in tutto il suo orrore selvaggio e mostruoso, la violenza brutale della guerra.
Quali sono le impressioni e le espressioni dei nostri giovani in pièna mischia, quando vicino a loro scorre il sangue ed echeggiano le urla dei feriti, e scoppiano le granate, e tutt'intorno non è che un vasto campo di distruzione, un’immane, pazzo macello di uomini? Che cosa sentono e Che cosa pensano, e che cosa dicono essi quando si trovano proprio dentro alla guerra: non alla guerra di parata delle commemorazioni ufficiali, o alla guerra cavalieresca dei bei tempi antichi, ma alla guerra bruta dei nostri tempi, alla guerra che, non solo per volontà di offesa, ma per necessità di difesa, distrugge più che può, e rovina più che può, e uccide più che può?
I primi sentimenti, e i primi pensieri, e le prime parole degli amici nostri nella mischia sono sentimenti e pensieri e parole di Orrore : orrore, però, attenuato dalla Fede.
« * •
Ecco come si esprime il giovane A. A. dopo una serie di combattimenti dai quali si sente che esce spossata non solo la sua fibra nervosa ma anche un poco la sua energia morale :
7 Giugno 1915.
Esco molto stanco, ma incolume dai durissimi combattimenti di sabato (il 5) e di domenica (il 6). Siamo rimasti 36 ore rannicchiati in fondo alle nostre trincee sotto un bombardamento intenso e ininterrotto. 1 vecchi piangevano. « Non abbiamo mai visto nulla di sìmile! > Siamo tornati in 1,3 della sezione di cui facevano parte 8 giorni or sono 40 uomini. Uno dei miei compagni che aveva fatto meco il viaggio in ferrovia ha avuto il cranio sfracellato^ Ore spaventevoli !
♦ • •
Anche il giovane Escande si esprime iti termini press’a poco sìmili :
Virginy, Gennaio 1915.
Abbiamo passato tre giorni e tre notti d’incubo orrendo : cariche alla baionetta, »
grida di feriti, rantoli di moribondi... insomma ora è passata e siamo a riposo. In quei giorni tremendi, ho sentito quanta forza dà Iddio a coloro che confidano ih Lui. Mi sento calmo e pronto ad affrontare pericoli nuovi...
Siamo rimasti quéi tre giorni e quelle tre notti sotto una grandine di granate e di pallottole ; inoltre pioveva e tirava vento; eravamo fradici e non abbiamo potuto ricevere i rifornimenti; non avevamo che sei gallette per uno e niente acqua. Ciò malgrado il morale resta eccellente; io sono pronto a fare il mio dovere, qualunque esso sia.
Un mese più tardi :
Il 40 Reggimento coloniale è stato citato all’ordine dell'Esercito, specialmente per i tre assalti alla baionetta nella notte del 4 febbraio. E’ vero che ci siamo battuti come dei leoni...
Vi descriverò un contro-attacco «bo che », di quelli che si verificano tutti i giorni, cioè tutte le notti. Ognuno vigila al suo posto. Ad un tratto qualche fruscio si fa sentire dinnanzi a noi; nessuno vede nulla, ma la sentinella dell’avamposto ha scaricato il suo fucile gridando « AU’armi ! >. Immediatamente il telefono funziona. I nostri 75, 105, 120 e 155 sputano i loro proiettili a duecento metri dinnanzi alle nostre trincee con un fracasso spaventoso; la terra trema. Le nostre compagnie lanciano razzi che illuminano il terreno ; davanti a noi una compatta massa nera si avanza, i lampi delle granate fanno vedere le file serrate che si allargano dopo ciascuna esplosione ; una quantità d’uomini cadono, altri vi passan sopra e cadono alla loro volta. Ormai sono vicini, a cento metri. Le mitragliatrici aprono un fuoco tremendo, falciano file intiere ; ma i nostri cannoni continuano a vomitare la morte ; il rumore è assordante. Finalmente, dopo venti minuti.
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non riuscendo ad avanzare a motivo dei reticolati, ripiegano in disordine. Pensate ch’essi fanno fino a sette contro-attacchi simili in una sola notte ! E' un incubo orrendo...
Font aine Vive conserva anche lui, dei combattimenti a cui partecipa, un’impressione di orrore. Dopo le giornate tremende dell ’assalto a Verdun (marzo 1916) egli scrive:
Ricorderò tutta la vita l'inferno di Malancourt. Avrò sempre dinnanzi agli occhi i grandi nembi di fumo, di fuoco, di fango e di sangue sollevati dai 210, i cadaveri ammucchiati, i feriti dilaniati, ma sopratutto ciò che i miei occhi non dimenticheranno mai è il « rictus » feroce dei nostri, le ciglia corruscate dei vecchi « poilus », le mani rattrappite sull’arma, gli occhi di bracia, i corpi di ferro, tutto un atteggiamento infrangibile che diceva : « Malgrado l’inferno, vincere o morire». Nella bufera ho gridato la mia angoscia all’invisibile e l’invisibile m’ha soccorso; Egli mi ha dato il conforto e la speranza, ha calmato la mia sete e fasciato le mie piaghe. La mia vita canterà la gloria dell'invisibile, del Dio degli eserciti, del Principe della Pace.
• • • •
Già abbiamo detto come — dietro ripetute, insistenti sue richieste — l’infermiere Giovanni Monod era stato destinato ad un’ambulanza al fronte, e precisamente a quella di Vadelaincourt. Nell’agosto 1916 il nemico inizia contro l'ambulanza una serie di «raids» di bombardamenti aerei. Nella notte 'del 21 agosto gli aeroplani ritornano:
Quando più ferve il lavoro delle operazioni chirurgiche, allorquando sono quattro sui tavoli e sei nella sala di aspetto, succedono formidabili esplosioni. Mitragliatrici, razzi, fari, tutto si mette in moto. La nostra elettricità si spegne; le bombe sono cadute sul vicino campo di aviazione; l’emozione
passa, ma la luce non torna ; i tiri antiaerei ricominciano. Esco... Come farvi capire quel che succede? Si ha l’impressione che dei velivoli scendano, sfiorino la vostra testa; poi formidabili, inconcepibili detonazioni Tutto trema, tutto vola ! I velivoli sembrano allontanarsi, ma le bombe continuano a scoppiare; le fiamme sprizzano; si urla. Tutto questo in minor tempo di quanto occorre per dirlo. Mi precipito verso le grida. Spettacolo orrendo! Dai capannoni in fiamme escono, saltano, strisciano i feriti: sono feriti del giorno stesso, nudi, in camicia ; grondanti sangue essi camminano, membra dilaniate avanzano, cloroformizzati di un’ora prima si strascicano. E tutti li aiutano, io me ne carico uno sulla schiena. In tre minuti, quattro capannoni sono distrutti. I feriti sembrano tutti salvi, ma il fuoco guadagna terreno; l’automobile chirurgica comincia a bruciare. Ed ecco di nuovo gli aeroplani ; di nuovo uno spaventevole bombardamento ; e intanto sì lotta contro il fuoco e si riesce a domarlo. A poco a poco torna la calma; si raccolgono i feriti in altri capannoni. Dei feriti, se ne sono ritrovati dappertutto,d sulle Strade, nei campi, persino nei boschi vicini.. Così si bombarda e si brucia un ospedale che ha raccolto dei feriti non trasportabili. Se i primi colpi erano involontari, i secondi, tirati dieci minuti dopo, alla luce dell’incendio, non lo erano più.
• * •
Vediamo ora quali sono le esperienze di Andrea Cornet Auquier:
io Settembre 1914.
È coll’artiglieria pesante che ho ricevuto il battesimo del fuoco ; per tre ore siamo rimasti accovacciati contro terra mentre i proiettili cadevano intorno a noi. Una granata è scoppiata a cinque
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metri di distanza da me, facendo un buco enorme nel suolo ; sono stato coperto di terra e di detriti... Ciò che v’è di più abbominevole è l'odore dei cadaveri. L’altro giorno la mia sezione aveva l’incarico di seppellirne una trentina a metà putrefatti; Era una cosa inconcepibile. Quanti ne ho visti di orrori, e di atroci ferite e di villaggi in rovinai...
All’orrore è misto un senso di fierezza e di legittima gioia in questa descrizione d’un attacco vittorioso:
17 Giugno 1915.
Vi sono state due ' fasi in quell’attacco: una magistrale preparazione di artiglieria pòi, durante le ultime raffiche dei nostri cannoni, un assalto epico, in tre ondate successive, di un intero battaglione. Immaginatevi un vulcano, nembi di fumo, un fracasso assordante, in mezzo al quale si percepisce l’assalto suonato dalle cornette del battaglione; ma, più forte di tutto, il grido ripetuto da mille uomini: «Avanti! Avanti!». E poi la corsa addòsso al nemicò, il collo teso, la bocca contratta in un riso selvaggio e le grida di giòia feroce quando si vede la belva fuggire...
Ma sono spesso dolorosi anche i giorni di vittoria ! Spesso, anche nelle file francesi, succedono scene d’orrore sotto il bombardamento nemico :
13 e 15 Luglio 1915.
Ho vissuto giorni così orrendi che esito a ritornarci sopra ed a rimestarne il ricordo perchè, ogni volta che ne parlo, le sensazioni dolorose si destano, le immagini delio spettacolo di sangue ricompaiono più precise, l’incubo rinasce nel suo orrore ed è come se mi ritrovassi ad un tratto trasportato di nuovo in mezzo a quelle scene di desolazione e di morte...
Ci siamo buttati avanti sotto una pioggia di granate ! che mitraglia ! quale
inferno! Allorquando lanciavo le mie sezioni all'assalto e che mi preparavo a balzare avanti colla squadra di collegamento, una granata di grosso calibro è caduta sul posto di comando, accecandomi col terriccio e seppellendo un uomo accanto a me. Poi avvenne la corsa sotto i proiettili, attraverso il fumo, la corsa folle tra le pallottole, e poi la vittoria, la vittoria totale, i < bo-ches » che Si arrendono a gruppi di 20, 30, 50, 100, abbattuti, imploranti, colle mani giunte, colle braccia al cielo: <Gut Kameradl Gut Kameradl».
... Due giorni dopo, la danza ricomincia. Già la mattina alle 4 un velivolo tedesco ci scopre ed il tiro s’inizia. Le granate cadono intorno a noi, poi si avvicinano, il cerchio di ferro e di morte si restringe. Alle 8 è fatto, il proiettile fatale giunge come una tromba: una granata da 130I Scoppia a 1 metro e mezzo da noi, uccide, ferisce, massacra ogni cosa! Rantoli di moribondi, urla dei feriti, in mezzo a nembi di polvere e di fumo, è orribile: 5 uccisi, fra cui il mio capo di battaglione, 5 feriti, 4 illesi di cui io son uno. Ho avuto un telefonista ucciso per così dire sotto di me ; il mio berretto è pieno del sangue di quel disgraziato; due miei uomini di collegamento sono uccisi; il mio attendente è illeso.
Siccome le granate continuavano a piovere, approfittiamo della nube che ci avvolge e strisciamo gli uni dietro gli altri fuori da questo inferno. Il viso e i capelli sono pieni di terra, neri, le tempie madide di sudore ; non abbiamo più l’aspetto umano. Che giornata!
• • •
La conseguenza inevitabile di tanti orrori è l’indurimento del cuore : una specie d’insensibilità fatta di apatia e di durezza, quasi che il sistema nervoso, istintivamente, si difenda con questo mezzo per non venir meno per non lasciarsi sopraffare dall’orrore.
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Tale stato d’animo è nettamente formulato da Andrea Cornet Auquler:
27 Settembre 1914.
È spaventevole là mentalità che si acquista sopra un campo di battaglia. Giammai avrei creduto di potere rimanere così indifferente in presenza di cadaveri; La vita umana sembra. aver perso per noi, tutto il suo valore. E pensare che si arriva al punto di ridere in mezzo a tutto ciò, come matti. Ma, non appena si riflette, ci si sente invasi da un sentimento straordinario, da una serietà e una malinconia infinite.
Ed ancora :
25 Ottobre 1914.
Curioso l’effetto morale e nervoso prodotto su di me dalla guerra. Ho visto dei cadaveri in decomposizione, altri cogli occhi aperti e che sembravano guardarmi, ho visto le più orribili ferite, gambe tagliate da scheggio di granate, immerse in pozze di sangue; ho scavalcato dei cadaveri ; ciò non mi fa più nulla; ma dei racconti commoventi, delle parole patriottiche, un gesto eroico, uno slancio di pietà mi fanno rizzare i capelli e piangere come un fanciullo.
• • •
Nell’atto stesso in cui proclama l'indurimento del suo cuore, il nostro amico confessa la sensibilità sua che, lungi dall’essere smussata sembra riacutizzata dalla guerra. E la sua esperienza è identica a quella di altri suoi compagni : le anime delicate restano delicate, i cuòri sensibili restano sensibili nonostante tutte le abbominazioni e tutti gli errori.
Scrive ad esempio Gustavo Escande :
Ho visitato il cimitero militare. Quale emozione ho provato al cospetto di quelle umili tombe, con delle iscrizioni scrìtte a làpis: Mr. H. al suo amico /. F. Addio. Riposa in pace. Più lungi, una tomba « boche » con sette Tedeschi: Qui giacciono... morti da coraggiosi. In
distanza, il cannone romba furiosamente in Argonne. Ah ! la guerra è ben triste.
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Giovanni Klingebiel racconta a sua madre la vita della trincea :
Luglio 1916.
Stamane, due piccole mine senza gravi danni ; ma potete immaginare quale vita debbon fare i nostri poveri « poilus >, che devono riattare i ricoveri, sgombrare i camminamenti, rifare i piccoli posti e ciò sotto le granate « boches ». Dopo aver curato i feriti, si scopre, in un camminamento, un povero ragazzo, già freddo, che sarà pianto dalla sua famiglia; cinque minuti fa, egli scherzava coi compagni; ora è un misero ammasso inerte, contro il quale ognuno urta col piede nel passare. V’è davvero qualcosa di grande in questa morte oscura, in quella gloria nascosta ; ma quale tristézza!...
E la medesima ammirazione commossa, Klingebiel prova al passaggio d’un reggimento di rincalzo:
Oggi, il bombardamento s’ode colla medesima violenza di ieri. E’ mai possibile che degli uomini possan resistere lì sotto ? Sulla via di Dombasle, abbiamo incrociato un reggimento che andava a prender posizione sulla quota 304. Eppure quegli uomini sanno dove vanno e che cosi li aspetta. Camminavano, a piccoli gruppi, in buon ordine, silenziosi e seri, rassegnati.
Ma che bel coraggio occorre a quei rassegnati !
• • •
La medesima squisita delicatezza di sentimenti, la medesima acuta sensibilità troviamo in Andrea Cornet Auquler.
Un giorno, lo commuove un funerale militare :
3 Febbraio 1915.
Torno adesso dalla sepoltura del colonnello. Di rado ho partecipato ad una
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PSICOLOGIA DI COMBATTENTI CRISTIANI 293
cerimonia più impressionante: quella piccola chiesa di villàggio piena d’ufficiali e di soldati in tenuta di campagna, quei canti meravigliosi eseguiti da un coro di fanti, quegli < assolo » eseguiti da un tenore dell’Opera e, al cimitero, la nostra bandiera abbrunata e accanto la crocei... Giammai sono stato così commosso. Non più differenze, non più diversità d’opinioni intorno a quei due emblemi simboleggianti le due idee per le quali combattiamo : Dio e la Patria...
Il tenore, in divisa, ha cantato il «Requiem» e il <Dies irae». Un Cristo spirante sulla croce apriva le sue braccia al disopra di quei soldati che portavano la rivoltella al fianco, e in lontananza si udivano dei colpi di fucile! Quanti contrasti e quale grandezza ! Ho pianto come un fanciullo, e ciò mi ha fatto del bene.
Un altro giorno l'animo rude del guerriero si commuove in presenza di due disgraziate bestioline :
30 Maggio 1915.
Ho trovato, in una casa abbandonata sulla linea del fuoco, due teneri gattini, la cui madre era stata uccisa. Erano magri e potevano a mala pena camminare. Ho raccolto quegli orfani, li nutro con latte; sono deliziosi. Li ho portati qui in un tascapane; uno di essi ha fatto il suo ingresso alla testa della compagnia sulle spalle d’un mio caporale.
Un altro giorno ancora egli si esalta nell’emozióne della vittoria:
16 Giugno 1915 {all'indomani del combattimento di Metterai}.
Diletti miei, gran successo pel battaglione ! Assalto impressionante ; quasi 300 prigionieri e abbondante materiale. Ero compagnia di testa; in meno d'un quarto d’ora abbiamo preso tre linee
di trincee nemiche. Al momento in cui ho avuto la sensazione della vittoria, ho pianto : sfogo nervoso. Gridavo forte: « Mamma ! Mamma ! Viva la Francia ! la Vittoria ! » e non trovando nessuno da abbracciare, sono saltato al collo di un bravo piccolo aspirante e l’ho baciato e ribaciato. Eravamo schifosi, coperti di fango, di sudore, di polvere; ma sudiciume glorioso...
E dopo l’emozione per la vittoria, ecco l’emozione provata da un gentile atto di omaggio femminile :
29 Agosto 191$.
Ieri mattina, il battaglione ha fatto una marcia, bandiera in testa. Abbiamo percorso, musica in testa, le vie principali di Saint-Dié, in mezzo ad una folla straordinaria. La popolazione era commossa, perchè quello era il giorno anniversario dell’ingresso dei Tedeschi nella città ed eravamo stati noi a liberarla. Si sono buttati fiori ai soldati e una signora, avvicinatasi ài mio cavallo mi ha consegnato un enorme mazzo, legato con un largo nastro tricolore. Colla sciàbola nella destra, il mazzo nella sinistra ero talmente commosso che a mala pena ho potuto gridarle : « Grazie, Signora ! ».
• • •
Una fórma di sensibilità ad un tempo molto profonda e molto delicata, e che va tutta ad onore di chi ne dà prova, è lo squisito senso di pietà, di compassione che anima i giovani combattenti cristiani.
Pietà per tutti coloro, senza distinzione che, nella guerra guerreggiata soffrono moralmente o materialmente.
E quindi pietà pei feriti. In piena notte di battaglia, dal 22 al 23 marzo 1915, nelle trincee (ironia del nome) di Beauséjour, Gustavo Escande scrive:
Mezzanotte.
Contro-attacco < boche » ; la strada è presa d’infilata, le pallottole fischiano sulle nostre teste. I nostri 72 sputano
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BILYCHN'IS
nella trincea «boche». Fracasso infernale. Quante sofferenze in quella notte nera! Poco dopo i soldati della sanità portano i feriti; essi gemono sulle loro barelle ; mi avvicino a uno di essi : ha il ventre aperto dà una scheggia di granata grossa come il braccio, è svenuto, col volto contratto, i pugni chiusi : l’infelice non rivedrà più la sua famiglia... Pare che i dintórni della trincea siano pieni di cadaveri e di feriti. Incubo orrendo. Tenebre e pioggia. Lunga fila di carri sanitari, dai quali escono lunghi gemiti ad ógni sobbalzo...
E due giorni dopo:
Dalla mia cucina vedo sfilare lunghi cortei di feriti. È passato poco fa uno della classe 1894, condotto da altri due feriti: ha gli occhi distrutti dallo scoppiò di una bomba a mano. Quelle bombe a mano sono tremende! Le trincee, negli attacchi e nei contrattacchi rigurgitano di soldati arsi vivi, coperti di sangue. E’ questa davvero una guerra di logorio. Di quei giovani o di quegli uomini adulti distesi sulle barelle, portati a passo cadenzato da quattro uomini, lo spettacolo è doloroso a contemplarsi, specialmente la sera. Mi sono quasi abituato alle loro grida; ma ciò è stato duro, molto duro per me...
E la pietà che prova Escande pei suoi connazionali feriti, egli la estende, per un moto spontaneo del suo cuore di cristiano, ai prigionieri nemici :
Qui succedono molte cose, favorevoli per noi : una brigata di « boche » annientata, ottocento prigionieri. E’ spaventevole ciò che soffrono ; i prigionieri potevano a mala pena reggersi in piedi ; il loro morale è abbattutissimo ed essi non sono più sicuri della vittoria. Abbiamo pietà di loro e, ciò che fa onore ai nostri soldati si è che, dopo la battaglia, essi curano i feriti tedeschi. Vi sono naturalmente delle eccezioni; ma i nostri ufficiali puniscono severamente
coloro che insultano i prigionieri o che si comportano in modo inumano verso i feriti nemici. L'altra notte ho visto scendere dalla trincea due feriti francesi sostenuti da due infermieri « boches ».
E, qualche giorno più tardi :
Progrediamo e facciamo molti prigionieri. Essi fanno orribilmente pietà; quante miserie non sopportano essi.
• • •
Le medesime parole di compassione si ritrovano sotto la penna di Andrea Cornei Auquier.
23 Giugno 1915.
La battaglia è terminata, per ora almeno; ed abbiamo realizzato notevoli progressi. I prigionieri tedeschi confessano perdite enormi; sembrano esser felicissimi d’essersi arresi, ma hanno avuto dapprima un terribile spavento d’esser fucilati. I loro ufficiali, a quanto pare, raccontano loro che uccidiamo i gionieri e che perciò convien loro combattere sino all’ultimo. Dimostriamo loro il contrario coll’esser buoni con loro per quanto ci è possibile. Abbiamo loro dato tabacco e sigarette. Si può odiare la nazione e i suoi capi, ma quei soldati, presi individualmente, non hanno fatto altro che obbedire.
Difficilmente si potrebbero esprimere meglio i sentimenti di un uomo il quale desidera ed è convinto di combattere per una causa nobile e giusta. Pronti sempre a compiere il loro dovere per la difesa della patria e del diritto, i giovani combattenti cristiani, pur sotto il peso degli orróri della guerra, conservano un cuore puro ed un’anima monda; essi non si lasciano sopraffare dall’odio; buoni soldati, rimangono uomini, e permettono che, sui campi devastati dalla lotta fratricida, fiorisca il delicato fiore della pietà: arra tenue ma certa delle future ricostruzioni nelle quali hanno sempre creduto coloro che, anche contro speranza, giammai hanno disperato dell’avvenire del genere umano.
(Continua). Giovanni E. Meille.
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UNO SCRITTO DI M. LUTERO
SE LA
GENTE DI GUERRA POSSA, ANCHE ESSA, ESSERE, IN ISTATO BEATO „
(Continuazione e fine. Vedi Bilychnif, del 15 maggio 19x9. pag. 383).
LA GUERRA E L’AGRICOLTURA
Pertanto il saggio ha sommato e divise tutte le opere degli uomini in due campi : agricoltura e guerra. E questa è, in verità, una naturale divisione. L’agricoltura è per provvedere, la guerra è per proteggere; e coloro i quali sono posti da parte per dare protezione riceveranno la loro paga e il loro nutrimento da quelli i quali sono dedicati a provvedere, affinchè gli altri possano essere capaci a proteggere. D’altra parte quelli i quali provvedono saranno protetti da colóro i quali sono dedicati a questo ufficio, aflìnchè essi possano essere capaci a provvedere. E l’imperatore o principe dei paese deve avere un occhio ad entrambi gli uffici e prendere cura che i protettori sieno armati ed equipaggiati, e che i provveditori facciano tutto quello che è in loro potere per migliorare il nutrimento. I popoli inutili, i quali non. giovano, nè come protettori, nè come provveditori, ma vogliono soltanto consumare e starsene in ozio, dovrebbero non essere tollerati, ma venir cacciati fuori del paese o essere obbligati a lavorare; così come fanno le api, le quali cacciano via il pecchione che non lavora, ina ruba il miele delle altre api. Pertanto Salomone, ne\V testaste, chiama i re agricoltori che arano il campo, poiché questo
è, realmente, il loro ufficio. Ma Dio protegge noi tedeschi da un tale improvviso impeto di saggezza, cosicché noi possiamo rimanere per lungo tempo buoni consumatori e lasciareda parte il provvedere e il proteggere!
Che i nobili soldati, cosi considerati, possano, secondo giustizia, ricevere la loro paga e i loro feudi e operare rettamente, aiutando il loro sovrano a far guerra e servirlo in essa, secondò il loro dovere, è confermato da Giovanni Battista. Quando i soldati lo richiesero di che cosa dovessero fare egli gli rispose : « siate contenti dei vostri salari ».
Ora se i loro salari fossero stati una cosa illecita, e il loro ufficio spiacente a Dio egli nòli l’avrebbe permesso e non lo avrebbe approvato, ma come un divino e cristiano maestro, lo avrebbe condannato, e avrebbe proibito loro di seguirlo. Questa è la risposta a coloro i quali dichiarano, per timidità di coscienza (benché questa sia ora rara nella gente di questa classe), che è pericoloso accettare l’ufficio delle armi per amore di temporale ricompensa, spargendo, pertanto, il sangue e commettendo assassini! e arrecando al proprio vicino tutto il male possibile, cosi come vuole la guerra. Costoro possono rendere tranquilla la loro coscienza a questo riguardo,- perchè essi non adempiono questo ufficio per importunità, per piacere o per ma.
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BILYCHNIS
lizia, ma esso è ufficio di Dio, ed essi hanno i'obbligo verso il loro principe e il loro Dio di seguirlo. Pertanto poiché è un giusto ufficio ed è istituito da Dio esso inerita le sue ricompense e salari come Cristo dice: « il lavoratore è degno della sua mercede ».
NESSUNA AVIDITÀ DI GUADAGNO NEL CUORE DEL COMBATTENTE
È vero, per certo, che se taluno va alla guerra con tale cuore ed animo che egli nien-t’altro desidera e niente altro pensa che procurarsi ricchezze e beni, e il guadagno temporale è il suo solo movente, così che egli non ama la pace, ed è triste quando non vi è guerra, un tale uomo ha abbandonato la giusta via e si è dato al diavolo, benché egli combatta sotto gli ordini e i comandi della autorità. Giacché egli solo rende cattiva una opera buona, dimenticando che egli deve servire per obbedienza e per dovere, e cercando soltanto il suo profitto. Onde egli non è, per nulla, in buona coscienza, cosi che possa dire: « benissimo; per quanto mi riguarda, ¡0 sarei contento di starmene a casa, ma, poiché la autorità mi comanda ed ha bisogno di me, io vengo, nel nome di Dio, conoscendo che servo Dio e che guadagnerò la mia mercede, e prendo ciò che mi è dato pel mio servizio». Poiché un soldato dovrebbe, ad ogni costo, avere la coscienza e la fiducia interiore che adempie al suo dovere adempiendo ai suo ufficio, in guisa che egli sia sicuro che serve Dio e possa dire : « non sono io che percuoto, abbatto e uccido qui, ma Dio e il mio principe, dei quali sono serve le mie mani e le mie forze».
Questo è ciò che s’intende per segnale e grido di battaglia in guerra : « combatto -per l’imperatore! per la Francia! per Lüneburg! per Brunswich ! ». Cosi i giudei gridavano : « per il Signore e per la spada di Gedeone ! ».
Un uomo il quale combatte per avidità annienta tutti gli altri suoi meriti, così come colui il quale predica per ricchezze mondane va incontro alla perdizione. E pure Cristo disse che un predicatore del Vangelo merita il suo nutrimento. Fare qualcosa per ricchezze ' mondane non è male, poiché i tributi, le ricompense e i salari sono anche ricchezze mondane, e se fosse male nessuno vorrebbe sottoporsi al lavoro e fare qualche cosa per sostenere sé stesso, poiché tutto è fatto per i beni di questo mondo. Ma l’essere avido di ricchezze mondane, e fare Mammona di esse, è male sempre in tutte le classi, in tutti gli uffici ed impieghi. Metti da parte l’avidità e le altre ingiuste mire e la guerra non e pec
cato e tu puoi prendere il tuo salario e. qualunque cosa ti è data. Così è, perchè io dissi sopra che l’opera, in sé stessa, è buona e pia, ma essa è ingiusta quando la persona che la compie è dalla parte del torto o abusa di essa.
IL SUPREMO GIUDIZIO DELLA COSCIENZA INDIVIDUALE
La seconda questione è: come debbo condurmi se l’autorità ha torto nel far la guerra? La risposta è: se tu conosci, con sicurezza, che essa ha torto, allora devi temere Dio più dell’uomo, e non devi andare alla guerra nè a servire, perchè se tu vi andassi non potresti operare con buona coscienza innanzi a Dio.
Sì certo, tu dici, l'autorità mi userà violenza, prenderà la mia vita, e non mi darà il mio danaro, la mia mercede, il mio salario, ed, in seguito, sarò spregevole e sgradito agli occhi del mondo come un codardo e un disertore, il quale lascia il suo sovrano in necessità. Io replico : tu devi correre quésto rischio e perdere, per la causa di Dio, tutto ciò che può essere perduto. Egli può restituirlo a te centuplicato, come Egli ha promesso nel Vangelo : « colui il quale ha lasciato casa e famiglia, moglie e beni per la mia causa, riceverà tutto questo centuplicato ». Ed occorre essere preparati a tali pericoli in ogni altra circostanza nella quale le autorità ci vogliano obbligare ad operare l’ingiusto. Ma poiché Dio vuole che lasciamo padre e madre per la sua causa dobbiamo, sicuramente, lasciare un sovrano per la causa di Dio.
Ma se tu non sai, e non riesci a sapere, se il tuo sovrano abbia torto, allora non prestare la tua obbedienza con animo incerto, come si presterebbe in una incerta materia di diritto, ma giudica il tuo sovrano tenendo conto delle migliori sue qualità, come l’amore comanda. Giacché mercè l’amore si può credere a tutto e non si pensa al male. Così sarai sicuro ed agirai bene dinanzi a Dio. Se, per tanto, sarai sgradito o sarai chiamato mancante di fede, pensa che è meglio che Dio ti chiami ripieno di fede e di verità più di quanto possa fare il mondo. Quale bene sarà per te che il mondo ti consideri come un Salomone o un Mosé se Dio ti conobbe perverso come Saul o Ahab?
ANCORA DEL SERVIZIO PRESTATO PER MERCEDE
La terza questione è : può un soldato concedere l’opera sua a mercede a più di un signore e accettare ricompense o salari da
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chiunque? La mia risposta è: ho già detto che l’avidità è biasimevole, sia essa spiegata in un buono o in un cattivo ufficio. Difatto, benché l’agricoltura sia uno dei migliori uffici, tuttavia, un avido agricoltore merita di essere condannato innanzi a Dio. Cosi ancora qui : è retto e giusto accettare mercede e prestare servizio, poiché ciò è giusto, ma l’avidità non è retta, anche se la mercede dell’anno fosse a pena più di un fiorino.
D’altra parte, è retto, in sé stesso, di prendere e guadagnare la paga, venga essa da uno, due, tre o quanti siano padroni, purché nessun dovere versò il proprio principe e sovrano sia trascurato, e il servizio agli altri venga dato con la sua cognizione e col suo consentimento. Poiché come un buon commerciante può vendere la sua abilità a chi ne abbia bisogno e servirlo, purché egli non faccia male al suo sovrano e alla sua comunità, cosi un soldato che abbia avuto da Dio il talento di combattere può commerciare di esso e servire chi ne abbia bisogno e prendere la sua paga. Anche questa norma sorge dalla legge di amore, cioè a dire, che quando qualcuno mi vuole ed ha bisogno di me io sono pronto e volenteroso ad accettare i miei doveri e ciò che mi è dato in ricompensa. Cosi S. Pàolo disse : « quale soldato guerreggia al suo proprio soldo ? » approvando tutto ciò come giusto. Pertanto quando un principe ha bisogno di un suddito di altro principe, per far guerra, quegli può certamente servirlo con la cognizione e il consenso del suo principe e prendere la paga per i suoi servigi.
Ma che cosa deve dirsi se un principe o signore faccia guerra contro un altro, ed io fossi obbligato at servire entrambi» e preferissi di servire l’uno il' quale abbia torto perchè egli mi ha reso maggior bene e favore dell’altro il quale abbia ragione, e perchè io mi gioverei meno servendo quest’ultimo ? Qui la diritta, breve risposta è : ciò che è giusto, piacendo a Dio, deve stare al disopra dei beni,' della vita, dell’onore, degli amici, del favore e del profitto, é nessun nonio deve avere valore per tali circostanze, ma soltanto Dio deve valere. E qui, di nuovo, è bene tener presente che bisogna sopportare, per la causa di Dio, di essere disprezzato e di essere riguardato come ingrato. Giacché vi è una giustificazione sufficiente, cioè, Dio e il Diritto, i quali non ci permetteranno di servire il nostro favorito e abbandonare colui il quale ci è meno gradito, ma essi, al contrario, assolutamente, ci proibiscono di far questo in conformità della rettitudine e della giustizia. Benché al vecchio’Adamo possa non piacere
ascoltare un tal discorso, tuttavia, cosi deve essere se, in verità, dev’essere secondo giustizia. Poiché noi non combatteremmo contro Dio: e colui il quale combatte contro il Diritto combatte contro Dio, il quale fissa, decreta e dispone ogni diritto.
IL DISPRÈGIO DELLA GLORIA. LA MISTICA CONCEZIONE DELLA GUERRA
La quarta questione è: ma che diremo dì uno il quale combatte, non semplicemente per ricchezze, ma per onore mondano, affinchè possa essere stimato uomo valoroso ?
La mia risposta è: avidità di onore e avidità di oro sono entrambe avidità, e l’ima tanto biasimevole quanto l’altra, chiunque combatte in tale riprovevole condizione d’animo guadagnerà l’inferno. Giacché noi siamo comandati a dare e a rendere ogni onore a Dio, ed essere soddisfatti della nostra paga e del nostro nutrimento. Onde è una - maniera affatto pagana e non cristiana l’indirizzarsi così ai soldati prima dell’azione: «camerati, soldati! siate valorosi e confidenti, piaccia a Dio che oggi acquistiamo onori e maggiori ricchezze ».
Non così, ma in questa maniera bisógna parlar loro : « camerati, noi stiamo qui al servizio e alla ubbidienza del nostro principe, essendo obbligati dalla volontà di Dio e dalla legge a sostenere il nostro sovrano con la vita e con i beni. Benché noi siamo, agli occhi di Dio, miseri peccatori, al pari dei nostri nemici, tuttavia, poiché conosciamo (o per lo meno non ci consta altrimenti) che il nostro principe ha ragione in questa causa e siamo certi di servire Dio con la nostra obbedienza, sia ciascun uomo valoroso e scevro di paura e pensi soltanto che la sua mano è la mano di Dio, la sua picca la picca di Dio, e gridi col cuore e con la voce : “ per Dio e per lo Imperatore! ” Se Dio ci concede la vittoria, l’onore e il premio spetteranno, non a noi, ma a Lui che compì l’impresa. Ma le spoglie e la paga le accetteremo come date e concesse dalia sua divina bontà e dal suo favore a noi indegni uomini e ringrazieremo lui dal profondo del cuore. Ora, come Dio vuole, sopra i nostri nemici con gioia! ».
Perocché, senza dubbio, se noi domandiamo l’onore di Dio e lo lasciamo a Lui, come è retto e giusto e come è doveroso per noi, più onore ci verrà di quanto chiunque possa attendersi, giacché Dio ha detto: chiunque mi onora sarà da me onorato e chiunque mi disonora sarà disonorato. Così Egli’è obbli-
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gaio da questa sua promessa, e deve onorare coloro che lo onorano. Ed è uno dei più grandi |>eccati cercare di prendere l'onore che spetta ad altri, poiché questo è: «crinien le-sae majestatis divinae ». Pertanto vantino e cerchino onore gli altri, ma tu rimani tran- , quillo ed obbediente, il tuo onore avrà cura di sé stésso. Molte battaglie sono state perdute le quali sarebbero state vinte se non fossero andate a male per un vano onore.
Poiché lo affannarsi a cercare la gloria guerriera fa si che i soldati non tengano in cuore come Dio s:a presente nella battaglia-, e solo esso conced • la vittoria, e pertanto i soldati noti temono Dio e non combattono con serena gioia, ma diventano temerari e folli ed alla fine sono battuti.
DEI SOLDATI MISCREDENTI
Ma per me i peggiori soldati sono quelli * quali, innanzi la battaglia, s’incoraggiano, l’un l’altro, col piacevole ricordo delle loro amanti, e si dicono, l’un l’altro: « Hurrah-Ora ciascuno pensi alla sua amante». Se io non avessi appreso da due uomini degni di fede, familiari con tali pratiche, che questo oggi accade non avrei mai creduto che il cuore di un uomo possa essere cosi depravato e leggero in cosa cosi seria, quando il timore della morte dev’essere dinanzi al suo animo. Certamente nessuno il quale combatte da solo con la morte si comporta in tal modo, ma nelle fila uno incita l’altro, nessuno considerando ciò che lo minaccia, perché tutto intorno é una sola incombente minaccia. Ma è spaventoso per un cuore cristiano il pensare che qualcuno possa compiacersi al pensiero di amori carnali nell’ora in cui il giudizio di Dio e il timore della morte devono essere dinanzi al suo animo. Giacché coloro i quali sono uccisi e muoiono in questa disposizione di spirito mandano sicuramente le loro anime difilato, senza ritardo, all’inferno.
Ma costoro dicono: se io dovessi curarmi dell’inferno dovrei tenermi lontano dalla guerra. Questo è ancora più spaventoso che degli uomini possano, deliberatamente, tenere in dispregio Dio e i suoi giudizi e vivere come se non conoscessero nulla della legge divina. Cosi accade che una gran parte dei soldati va alla perdizione e alcuni di essi sono cosi invasati di spirito maligno che non conoscono migliore mezzo per mostrare la loro gioia che il parlare con disprezzo di Dio e del suo giudizio e maledire terribilmente, bestemmiare, torturare e sfidare Dio in Cielo, come se ciò valesse a provare che essi siano dei formidabili divoratori di ferro. Ma essi sono, certa
mente, un abbandonato fiocco di loglio, poiché vi è molto loglio e poco grano in tutte le classi.
LE SUPERSTIZIONI PAGANE. LA PREGHIERA INNANZI LA BATTAGLIA
Finalmente i soldati hanno ogni sorta di superstizióne in battaglia : uno si raccomanda a S. Giorgio, un altro a S. Cristoforo, uno a questo, un altro a quel santo. Alcuni credono di potere incantare l’acciaio e la pietra focaia: alcuni di poter far saltare un fosso al cavallo e al cavaliere ; alcuni portano addosso il vangelo di S. Giovanni o qualche altro oggetto nel quale confidano. Poiché essi non credono in Dio, ma, per contrario, commettono tutti un peccato contro Dio con la loro miscredenza e la loro superstizione, e se morissero in tale stato sarebbero tutti perduti.
Ora assai ben diversamente essi devono condursi. Quando la battaglia sia vicina, ed é stata fatta l’ammonizione che sopra ho riportata, allora essi si raccomandano', semplice-mente alla misericordia di Dio e si comportino nella impresa da cristiani. Giacché in quell’ ammonizione é presentata, semplice-mente, la forma nella quale è possibile compiere la esteriore opera di guerra con buona coscienza, ma-siccome nessuna buona òpera é sufficiente per la salvazione, ciascun uomo deve còsi pregare dopo quell’ammonizione : « Padre celeste, io sono qui per la tua divina volontà in questa esteriore opera e in questo servìzio del mio sovrano, come è mio dovere, prima di tutto verso di Te e poi verso di lui per amore di Te. Io sono riconoscente alla tua Grazia e alia tua Misericordia che tu mi abbia posto in quest’opera dove sono sicuro che non è peccato, ma giustizia e gradevole obbedienza alla tua volontà. Ma poiché conosco, ed ho imparato dalla tua graziosa parola, che nessuna delle nostre opere può aiutarci e che nessuno può salvarsi come soldato, ma soltanto come cristiano, io non faccio affidamento sopra questa mia obbedienza e questa mia opera, ma adempirò a tutto ciò liberamente in servizio delia tua volontà, mentre ho fermo n.el cuore che niente altro che l’innocente sangue del tuo caro Figliuolo, mio Signore Gesù Cristo, può redimermi e salvarmi, il quale egli versò per me in obbedienza alla tua divina volontà. Io sto qui per questo, io vivo e muoio per questo, io combatto e compio ogni cosa per questo. Caro Signore Dio e Padre, mantieni e fortifica questa fede in me col tuo Spirito. Amen ! ». Se dopo tu dici il < credo» e la preghiera dome-
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UNO SCRITTO Di M. LUTERO
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nicale sarà sufficiente. Poi raccomanda corpo e spiritò nelle mani di Lui e tira e ferisci nel nome di Dio.
L’INVINCIBILE ARMATA
Se vi fossero molti soldati in ogni armata che così si comportassero chi pensi tu, amico, che vorrebbe loro nuocere ! Essi divorerebbero il mondo senza colpo ferire. Si certo se vi fossero nove o dieci di tali in una compagnia, o anche tre o quattro i quali potessero agire cosi con un buon cuore, io li preferirei a tutti ì vostri fucili, picche, cavalli ed arma
ture; Ma, amico, dóve sono quelli i quali credono così e possono parlare cosi? Ma benché la maggioranza non sia di tali, tuttavia, dobbiamo conoscere la verità ed insegnarla egualmente, per amore di colorò i quali, siéno pure pochi, vorranno accoglierla. Gli altri, i quali disprezzano l'insegnamento che è inteso alla loro salvazione, hanno il giudice al quale devono rispondere; Noi possiamo restare tranquilli avendo adempiuto al cómpito nostro.
(/w).
Traduzione di Paolo Tucci.
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INTERMEZZO
IL CRISTO IMPRIGIONATO
Ques/o quadrò che cedemmo all’Esposizione Internazionale di Belle Arti di Roma nel 1911, era stalo eseguito più che cinquantanni prima da W. S. Burton, già amico e cooperatore dei “ Preraffaelliti ”, Dante G. Rossetti, Holman, Hunt, Milais, ecc. L’autore è morto durante la guerra nell’età di 92 anni. Il simbolismo espressivo del Dolio di quel Cristo, che il Mondo riconosce, ma tiene imprigionato perchè il suo sguardo non rimproveri da vicino le sue aberrazioni non è meno evidente del valore tecnico dell’opera d’arie.
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LA VISIONE DEL CRISTO
« Noi vorremmo veder Gesù ».
(Giov. is. 21)
Greci dei quali parla San Giovanni nel capitolo dodicesimo del suo Vangelo, erano de’ pagani convertiti al giudaismo, e venivano a Gerusalemme a celebrare le feste israelitiche. Essi bramavano fare la conoscenza personale di Gesù. Molto probabilmente l'aveano già veduto più o meno da vicino; adesso, desideravano scambiar con lui quattro parole, entrare un po' in intimità con lui. E si capisce. Il solo posto che fosse loro concesso nel tempio, era il «cortile de’ Gentili»; quel cortile,
ridotto oramai in un vero e proprio mercato, in una « spelonca di ladroni ». Essi eran già da qualche giqrno in Gerusalemme ; avean veduto l’ingresso trionfale di Gesù nella città santa; avean vedùt'ò Gesù cacciare i mercanti dal « cortile dei Gentili »; qual maraviglia dunque se anelavano a parlare con quest'uomo straordinario che avea purificato il luogo ch’era loro, e che i mercenari del tempio^ avean ridotto a quel modo?
E s’accostano a Filippo, che porta un nome di forma greca. Fra i dodici discepoli, Filippo e Andrea soltanto avean de’ nomi familiari a quei Greci; e Filippo ed Andrea servono d’intermediari fra quelli e Gesù. Filippo, timido, circospetto, non osa prendere su di sè tutta la responsabilità della presentazione, e si consiglia con Andrea. I due discutono la cosa, la decidono fattibile, e la presentazione ufficiale, se posso dir così. Questo modo di veder Gesù discepoli, alle folle tra cui egli è più possibile a noi: è cosa del tiene.
è fatta.
fu possibile a quei Greci; fu possibile ai primi visse durante il suo ministerio terrestre, ma non passato; di un passato, che a noi più non appar-
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BILYCHNIS
Tolta la possibilità di veder Gesù con gli occhi della carnei l’arte, che tanto bene e tanto male può fare alla vita dello spirito, s’è presentata a dare al mondo cd alla Chiesa un’altra visione del Cristo; e questa visione, se ha giovato a nutrire il sentimento religioso di un popolo artista come il nostro, non è, purtroppo, stata sempre fedele alla realtà storica delle cose.
Per non esser frainteso, ch’io lo dica subito. Io amo l’arte, la grande arte, e specialmente l’arte che prende dàlia religione le proprie ispirazioni. E chi non ha il suo quadro prediletto, la scultura che gli è specialmente cara? Chi non ha sentito e chi non sente il mistico linguaggio che l’arte parla alle anime che hanno vivo il sentimento del bello e del divino? Ma riflettete un istante; Qual’è, in generale, la visione del Cristo che l’arte ha resa possibile fra noi? Per le Gallerie, per le case, né' quadri, nelle statue, l’arte ci pone dinanzi agli occhi, troppo spesso, un Gesù bambino in braccio alla madre. E agli aggravati, ai travagliati dalle sventure della vita, il bambino non basta; e lo sguardo della fede, a cui non basta il bambino, va oltre-, e si posa con abbandono sulla madre la quale, perchè ha tanto sofferto e tanto amato, sembra poter simpatizzare con chi soffre, e poter rispondere con amore a chi d’amore ha bisogno. Ovvero, la visione del Cristo che l’arte ci dà, è quella del Crocifisso. E volesse Iddio che tutta quanta la patria nostra potesse esclamare con anima di credente: « Ave, Crux, spes unica! » Ma, mentre l’arte ci ha così aiutati e ci aiuta a tenere il Crocifisso nel posto che gli spetta, non ci ha ugualmente aiutati a dare al fatto della risurrezione l’importanza che ha; ond’è che, nella Chiesa, la rimembranza del Gesù morto è più chiara della coscienza del Cristo che vive per comunicare la vita, per intercedere di continuo per noi e per condurre il Regno di Dio ai suoi gloriosi destini.
♦ ♦ »
Un'altra possibile visione del Cristo è la visione storica che di lui ci danno i Vangeli. E la figura del Cristo che i Vangeli ci ritraggono, è sublime nella sua ineffabile semplicità. I Vangeli innamorano il bimbo che li legge con l’animo ingenuo, e innamorano il dótto che li medita con la mente abituata a investigare i più ardui problemi. Per molte anime, stanche dal lungo, faticoso peregrinare per i campi sterminati della speculazione, i Vangeli sono stati e sono quel che Elim fu per Israele nel deserto: un luogo di requie, confortato dalle dolci acque e dalle molli ombre. I Vangeli sono il tempio di Dio; le anime che v’entrano col desiderio di trovarvi il Cristo, quivi imparano a conoscerlo come fu realmente: umile, e pur grande; umano, e pur divino; santo, e pur conoscitore profondo dell'uomo corrotto; pieno di grazia, di verità, di simpatia, d’amore.
Chi mai potrà dire il numero delle anime che nel Cristo de' Vangeli hanno trovato la pace della coscienza, la gioia della salvezza? Tutte cotestc anime non Io videro, no, il Cristo, come lo videro i Greci a Gerusalemme; non udirono il
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suono di quella voce che dovette essere una melodia celeste; non mirarono quella espressione del volto che cento e cento volte dovette dire molto più delle parole; e nondimeno lo videro il loro Gesù, la mirarono l’espressione di quel volto, l’udirono quella voce nelle pagine immortali del Vangelo, e capirono che cosa volesse dire il Maestro quando esclamava: ■ Beati coloro che non han visto, eppur hanno creduto!».
* * «
Quando i Vangeli ci hanno fatto fare la conoscenza personale di Gesù, quando, cioè, dai Vangeli abbiamo imparato chi sia Gesù, che cosa egli abbia detto e che cosa abbia fatto per l’umanità, noi ci troviamo sul limitare di un nuovo santuario, dov’è possibile un’altra visione del Cristo: la visione della esperienza.
I Vangeli ci lasciano dinanzi ad una croce, dinanzi ad un sepolcro vuoto, dinanzi alla nuvola, al celeste carro trionfale che riportò Gesù alla destra del Padre. Chi può ridire la forza misteriosa ma reale che procede da cotesta croce, da co-testo sepolcro, da cotest'ascensione? Prim’ancora d’aver trovato una soddisfacente spiegazione teologica di- cotesti fatti", noi ci troviamo sospinti appiè della croce, coi nostri peccati; dinanzi al sepolcro, con la nostra ardente brama di vita; sul monte dell'Ascensione, con la nostra sete di trionfo e di gloria; e dalla croce ci giunge la parola del perdono, dal Risorto la parola della vita, dall’Asceso al Padre il « dove io sono anche tu sarai meco ». Da quel momento, incomincia la visione che l'esperienza ci dà del Salvatore.
E qual visione! la visione cara, dolce, che il cuore di chi ama ha della persona amata; la visione d’un'anima per cui la gran parola del Salvatore « io in voi, voi in me » non è più. un'astrazione vaga ed incerta, ma una realtà sentita, sperimentata. Chi può definire le sante, intime esperienze di una vita vissuta in comunione intima, personale con 'Gesù? le esperienze di una comunione di gioia con lui, per le quali il cuore che ad ogni istante scopre nella vita le tracce della mano paterna di Dio, s’apre ad inni di benedizione c di lode: le esperienze di una comunione di dolori con lui, per le quali l’angoscia non uccide più, ma si trasfigura ne' più intimi penetrali della esistenza nostra: le esperienze di una comunione di fede con lui, per le quali nulla ci è più impossibile, e l’invisibile ci diventa più sicuro delle cose accessibili ai sensi: le esperienze di una comunione d’amore con lui, per le quali la vita altrui ci diventa più cara della nostra: le esperienze di una comunione di speranza con lui, per le quali il vituperio degli uomini perde il suo veleno e la crocè il suo peso, dinanzi agli orizzonti su cui si muove la promessa del trionfo del Bene e della redenzione finale del mondo. Il cristianesimo che redime non è un dogma, non è un sistema, non è un ordinamento ecclesiastico, ma è una esperienza: è il Cristo sentito, amato, vissuto; è il contatto, intimo, personale, fremente di fede e d’amore col Cristo che vive, e che in noi s’abbandona nella misura che noi in lui ci abbandoniamo.
» ♦ ♦
Un’altra visione del Cristo è possibile: la visione sociale del Cristo; la visione che sarà data dalla società redenta a vita nuova, alla vita del cristianesimo di Cristo.
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Che la nostra società moderna, sia malata non è ehi non vegga o non sappia. Il contrasto fra le classi che nelle parti più belle e più salubri delle nostre città ridono e godono, e le masse popolari che nelle parti meno salubri e più luride di queste medesime città piangono, si disperano e muoiono, è troppo aspro perchè possa darsi ancora chi l’ignori. E Furio di rivolta che vien minaccioso da coteste masse può avere ed ha dell’esagerato, ma, fondamentalmente, è ragionevole e giusto.
In Italia, dove non si ha più che poca o punta fiducia nella Chiesa ufficiale, la risoluzione de’ gravi problemi sociali che ci travagliano è cercata in modi diversi, ma tutti indipendenti dalla religione. 0 per via di rivoluzione, sovvertendo cioè tutti gli ordini stabiliti e creandone de' nuovi e meglio adatti alle necessità presenti, o per via di evoluzione, permeando cioè a poco a poco la società di nuove idee, finché il potere cada naturalmente nelle mani di uomini nuovi, che lo. esercitino in armonia con le nuove aspirazioni. La riflessione, lo studio degli uomini e delle cose dimostrano, però, che dare alla società un nuovo assetto economico non è risolvere del tutto i problemi che l’angosciano: è curare con rimedi esterni una malattia mortale che rode la società internamente; e molti cominciano a persuadersi che alla radice del problema sociale sta un problema morale, e che il problema economico non sarà definitivamente risolto che quando sia risolto il problema morale. Di qui, questo nuovo senso di malessere, nell’anima nostra, questa nuova aspirazione a un qualcosa di puro, di grande, di santificante che rinnovi gli uomini e li renda buoni, atti a preparare una società rinnovata e buona. Di qui, il bisogno di tornare ad invocare gli obliati nomi di Dio e di Cristo; di qui l’affannoso bisogno, espresso timidamente da pochi ma sentito profondamente da molti, simile a quello che spingeva i Greci antichi a chiedere a Filippo: • Signore, noi vorremmo veder Gesù! »
E qui, fratelli, comincia la missione nostra. Spetta a noi, qualunque sia il ramo della Chiesa a cui apparteniamo, lo scuoterci, lo svegliarci dal nostro torpore spirituale, il diventar cristiani nel senso grande, alto, profondo della parola. Tocca a noi a stringerci in un fascio, non sul terreno del cristianesimo dogmatico, non sul terreno delle forme ecclesiastiche, ma sul terreno del cristianesimo sperimentale, sul terreno di una rinascita pentecostale dello spirito antico. Tocca a noi a dimostrare col fatto che al di sopra delle chiesuole particolari sta la Chiesa, una nello spirito, santa nella vita, cattolica per destinazione, apostolica nel suo fondamento. Tocca a noi a far della Chiesa, non un fine a se stessa, ma un mezza in vista del Regno di Dio ch’è il Régno del Bene nel mondò, e a rivelare all’Italia di quali miracoli di trasformazioni morali sia capace il Vangelo sinceramente accettato e coscienziósamente vissuto. Là Chiesa è Chiamata, non a risolvere i problemi sociali, ma a mostrare nella propria vita quel che potrà essere la vita sociale dell’avvenire se vorrà lasciarsi permeare dallo spirito del Vangelo, e a creare i sentimenti, le aspirazioni, le energie morali che, messe in azione, potranno trasfigurare in un paradiso questa povera terra, che l'egoismo dell’uomo ha ridotta ia
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un inferno. Mai, forse, ebbe la Chiesa, di fronte al mondo, una responsabilità più grave di quella che oggi le incombe. Voglia Dio che, per colpa della Chiesa, Cristo non abbia ad esser morto invano per la patria nostra!
* * •
Un’ultima visione del Cristo ci è promessa, e sarà visione d'oltre la tomba. Un giorno, quando alla fine delle molteplici, successive fasi ascendenti della grande evoluzione della vita saremo giunti alla Città di Dio, « lo vedremo com’egli è: » non come lo videro gli occhi della carne de' primi discepoli, non come l’arte ce lo rappresentò, non come lo fantasticammo nelle nostre formule dogmatiche, non come lo mirammo nelle intuizioni sicure ma intermittenti della nostra esperienza cristiana, ma lo vedremo cornagli è veramente. « E sarem sempre con lui. » Le nebbie della vita non ce l’offuscheranno più dinanzi agli occhi; le tentazioni non ci trascineranno più lungi da lui; il peccato non interromperà più là nostra comunione con lui; i rumori del mondo non c’impediranno più d’udir la sua voce; non avverrà più ch'egli ci cerchi e non ci trovi, che noi lo cerchiamo e non lo troviamo, perchè lo cerchiamo dove non è; allora sarem sempre con lui.
Sempre'. Il padre, la madre, il marito, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle, gli amici non avrem sempre con noi. Verrà il momento solenne in cui una voce alla quale tutto deve ubbidire dirà: « Basta! » e nói sarem separati dai nostri o i nostri saran separati da noi; ma, se siamo de' figliuoli di Dio, il giorno verrà quando quel « basta » sarà annullato, per dar luogo alla eternità del « sempre. »
Fratelli, mentre il tempo incalza e il sole volge rapido a tramontare sulla nostra giornata, stringiamoci intorno a Gesù, crocifisso per i nostri peccati, risorto a garanzia del nostro perdono, vivente per intercedere di continuo per noi; e se santa ed ineffabile fu la nostra allegrezza quando, nel tempo, « l’amammo senza vederlo,» divino e perfetto sarà il giubilo nostro quando, svegliandoci alla nuòva alba, gli andremo incontro nella gloria.
Giovanni Luzzi.
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PERCHÈ DEVONO SFIORIRE LE ROSE?
Considerate i gigli della campagna. Matteo 6/28.
Gli uomini son come Verba: la mattina essa fiorisce c la sera è segata e si secca.
Salmo 90/5 e 6.
lo sono il vivo pane disceso dal cielo : se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.
Giovanni 6/51.
Non è possibile prender contatto diretto colla natura — facendo una gita in campagna, N un’ascensione aioina. una passeggiata lungo le rive di un lago o sul mare — senza provare un immenso beneficio: i nostri corpi stanchi si sentono rinascere, le .nostre anime travagliate vibrano di vitalità nuova di fronte alla grande pace dei campi, alla maestosa serenità dei monti, all’intensa gioia delle acque palpitanti.
Alcuni filosofi misantropi sostengono che all’umanità, nel suo insieme, abbia dato di volta il cervello. Per me, non vi ha prova più luminosa della pazzia umana che le nostre immense metropoli moderne. Ditemi: non è una pazzia rinchiudersi in una città, accatastare le une sulle altre migliaia di case, lasciando tra loro appena tinxpo' di spazio per le vie e per le piazze, spazio così ristretto che l’aria vi circola a mala pena, viziata da mille miasmi ?
E. mentre noi ci agitiamo come dei forsennati nelle bolgie della vita cittadina, mentre noi consumiamo freneticamente la nostra esistenza per le strade puzzolenti e per gli uffici artificialmente rischiarati anche di pieno giorno, tutto intorno a noi — nella distesa sconfinata dei prati e dei campi — germogliano gli alberi, crescono Torbe novelle e le pendici si coprono di fiori, e le viti restituiscono al suolo l’umore fecondo che il suolo ha loro dato.
e le spighe' biondeggiano, egli uccelli cantano cercando il cantuccio nascosto ove fabbricare il nido, e ia terra tutta quanta - -turbata dal soffio irresistibile della vita —-mentre matura nel grembo immenso i frutti nuovi della sua fecondità inesauribile — la terra palpita e adora.
Pensate mai al tesoro colossale di bellezza, di poesia, di salute, di letizia di cui noi abbiamo inconsideratamente fatto getto? E credete voi che i comodi cittadini: i circoli e i caffè per i signori, i IM e le sarte per le signore, i teatri, i trams e i giornali per tutti — credete voi che questi ed altri, che sono indiscutibili vantaggi della vita cittadina, ma dei quali non è detto che non si potrebbe godere, almeno in parte, anche se la vita sociale fosse organizzata in diverso modo. — credete voi che tutto ciò equivalga alla decima parte di quello che noi abbiamo perduto? Non equivale — io ve lo dico — neppure alla parte millesima. Iddìo ha fatto i campi, i monti e il mare e gli uomini hanno fatto la città. Non è senza motivo che le pifr antiche tradizioni umane raccontano che il Creatore pose Adamo nelTEden, cioè in un giardino, mentre invece il primo costruttore di città fu Caino, il fratricida... La natura è razionale, è normale, è savia, è sana, nel senso più alto e completo della parola. I.a città è un’abbcrrazione.
È perchè viveva in intimo e continuo contatto colla natura che — nella piena serenità dell'anima sua, sussultante all’unisono coll’anima del creato —- il Salmista poteva cantare: « / cieli raccontano la gloria di Dio e la distesa annunzia l’opera delle Sue mani. Un giorno dietro all'altro quelli sgorgano parole; una notte dietro all’altra dichiarano scienza. Non hanno favella- nè parole, la loro voce non si ode; cp-
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pure la loro voce esce fuori per tutta la terra e le loro parole vanno sino all’estremità del mondo •• (Salmo 19/1 a 4).
E l’uomo perfetto, Gesù, esclamava un Sìorno — mirando, con l’occhio illuminato alla più intima ed intensa gioia spirituale, le campagne di Galilea: u Considerale come crescono 1 gigli della campagna: essi non faticano e non filano: eppure io vi dico che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito al pari di loro » (Matteo, 6/28,29).
La campagna, il mondo meraviglioso dèlia vegetazione, il rigoglio primaverile delle piante e dei fiori, questa rinascita, questo risveglio generale della natura, rappresenterebbe egli dunque quello stato ideale di gioia e di pace perfetta che l’umanità non si stanca di sognare?
No, purtroppo!
Un giorno della scorsa primavera io sorpresi la mia bambina assorta nella contemplazione e nella meditazione davanti ad un vaso di fiori. In quel vaso c’ erano delle rose. Una delle rose, troppo aperta, stava perdendo le foglie, e queste foglie formavano sul tavolo un mucchictto pietoso che mandava un profumo acuto: l’ultimo profumo prima di morire.
E la mia bimba, fissando nei miei occhi i suoi grandi occhi di viola, mi chiese: « Babbo, perchè devono cascare quelle belle foglie? »
Quale grande « perchè »! E c’è qualche cosa di tragico in quella domanda di un essere che appena si è affacciato all’esistenza e che pure ha già intuito che, nel seno della vita, si sviluppa il germe della morte. C’è qualcosa di tragico in quelle >arole che non chiedono: « Perchè cascano e foglie? », ma che chiedono: a Perchè le ielle foglie devono cascare7 •
Oh, le foglie delle rose potrebbero cascare per tanti motivi: perchè un insetto le ha morse, perchè un uomo crudele le ha strappate, perchè il vento le ha svelte; ma anche senza l’insetto, anche senza l’uomo crudele, anche sènza il vento, le belle foglie delle rose cadrebbero, perchè esse devono cadere.
Ma perchè devono cadere?
LI per 11 non trovai una risposta per la mia piccina. Le dissi le sòlite cose: di non pensarci per ora, che erano questioni troppo difficili, che tornasse ai suoi ba
locchi..’. Ma la bambina rimaneva 11 ferma a fissare il mucchictto delle foglie morenti e ripeteva tratto tratto la sua domanda: <1 Perchè le belle foglie devono cascare? »
E allora mi decisi a spiegare. Presi la mia bimba in collo, la portai alia finestra, le feci vedere tanti ciliegi e tanti peschi-, parte nella gloria della loro fioritura, parte coi fiori già mezzi vizzi e mezzi caduti. E dissi: «Vedi? È la legge/ In ogni fiore, quando è nel massimo della sua bellezza, si sviluppa un germe di morte, una cosa cattiva che fa morire il fiore, e allora il povero fiore appassisce e le sue foglie cadono in terra. Eppure, vedi, quella cosa così brutta e così triste è necessaria, perchè, nel cuore della cosa brutta e triste, c’è di nuovo una cosa bella e buona, nel cuore della morte c’è di nuovo la vita. Nel fiore morto sta nascosto il frutto, e quel frutto, quando è maturo, non solo è piacevole, ma è utile per l'uomo.
Mentre io parlavo, la fronte della mia piccina si rasserenava. Essa trovava una consolazione al fatto doloroso della caduta dei fiori nei pensiero che i fiori avevano prodotto i frutti e che i frutti sarebbero piacevoli e utili per l’uomo.
Ma di nuovo la piccola fronte si coperse di nuvole. I fiori, morendo, davano la vita ai frutti, ma i frutti anche loro, poi. sarebbero morti.
E allora io finii di spiegarle. I frutti morivano anche loro, è vero, ma in ogni frutto c’erano tanti semi, due, tre, quattro, dieci, cento, anche più di cento semi in certi frutti. E ognuno di questi semi, se piantato e coltivato, avrebbe potuto produrre una intera piànta, la quale si sarebbe poi coperta di nuovi fiori, i quali avrebbero dato nuovi frutti. Là catena non era dunque interrotta. L’ultima parola non l’aveva dunque la morte. No, l’ultima parola la aveva là vita, la vita intensificata, la vita centuplicata.
La mia bambina continuava a contemplare il mucchietto delle foglie morenti che mandavano l’acuto e sottile-profumo; ma essa non ripeteva più la domanda. Il pensiero dei frutti.da cui sarebbero caduti tanti semi che avrebbero prodotto tante nuove piante, l’aveva calmata e consolata.
n.
Perchè ho raccontato tutto questo?
Già uno dei passi citati più sopra — il Salmo 90 — lo ha fatto comprendere:
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i Gli uomini son conte'l’erba, La manina essa fiorisce c la sera è segata e si secca. L'uomo fiorisce come il fiore del campo; se uh vento gli passa sopra non è più e il suo luogo non lo riconosce più ».
Sì, veramente, l'uomo può con ragione paragonarsi ad un fiore. Eccolo, rigoglioso sul suo stelo, sbocciare come una rosa in un bel mattino di maggio, e poi eccolo, pieno di acciacchi, curvo sotto il peso degli anni, amareggiato dalle delusioni e dai dispiaceri, trascinarsi a stento verso la tomba e cadervi come cadono le foglie di un fiore avvizzito.
Soltanto!...
Soltanto! Guardate, amici! Davanti a! mucchietto delle foglie morenti che mandavano l'acuto e sottile profumo, noi abbiamo trovato, in una legge della Natura, una risposta soddisfacente, ed il nostro cuore si è dato pace. Mentre, davanti a una fossa aperta, davanti ad un buco nero scavato nella terra nera, dove lentamente sta calando una bara nera, voi avete un bel interrogare le leggi della Natura, non trovate nulla di logico, nulla di naturale che possa soddisfare la vostia mente, e, a più forte ragione, non trovate nulla che possa t ranquillizzare il vostro cuoi e.
Questo è così evidente ch’io mi sono spesso domandato come mai il semplice spettacolo del mondo — che è razionale nei suoi elementi inferiori e irrazionale nel suo elemento supremo, l’uomo — non spinga gl'increduli a ricercare e ad ammettere, per l’uomo, altre leggi che non siano • quelle che governano il Cosmo insensibile e amorale che ci circonda.
Nella Natura extra-umana la morte non è ripugnante, la morte è logica invece, ò salutare e benefica. Il fiore muore per produrre 41 frutto, il frutto muore per produrre il seme, il seme muore per produrre il fiore.
Proviamo di applicare la legge all’uomo, proviamolo per tutti i versi. È impossibile! La legge non quadra in alcun modo.
L’uomo è il fiore. Egli muore per portare i frutti. Quali frutti? Le sue opere? Sì è vero. Succede talvolta, anzi, succede spesso, che i meriti di un uomo gli siano riconosciuti dopo che quell’uomo ha cessato di vivere. Ma io non vedo come la morte sia proprio necessaria per rendere fruttuose le opere di un uomo. Io non vedo come la morte diventi, in questo caso, legge.
L’uomo è il frutto. Frutto della sua coltura personale, dell'ambiente, dei tesori
di conoscenze e di ricchézze accumulate dagli avi. Egli muore per produrre i semi.
Quali semi? Le sue idee? I suoi danari? Sì è vero, succede talvolta che le idee di un uomo cominciano a germogliare nel inondo dopo la sua morte. Succede talvolta che i danari di un uomo cominciano ad esser seme di progresso e di amoie dopo che quell'uomo si è spento.
Ma io non vedo come la morte sia proprio” necessaria per produrre quelle idee o quei danari. Io non vedo come la morte diventi in questo caso legge.
L’uomo e la donna sono il seme. Essi muoiono per produrre i fiori.
Quali fiori? I loro figli? La generazione nuova che prenderà dalle loro mani e trasmetterà alla generazione successiva la fiaccola della vita?
Si è vero, succede talvolta — pur troppo ■— che nel dare la vita ad una creatura umana un’altra creatura umana si spenga. Ma io non vedo come la morte sia proprio necessaria per produrre quella nuova vita, io non vedo come la morte diventi in questo caso legge. Io faccio invece assurgere al carattere assoluto e generale di una legge il fatto contrario: la vita che ha prodotto una nuova esistenza non dev’essere spenta, altrimenti è tolta la possibilità ch’essa ne produca delle altre.
La soluzione dunque del problema della morte che, applicata al móndo dei fiori, ci dà soddisfazione piena e completa, non ci soddisfa in alcun modo se applicata al inondo degli uomini. Non vediamo affatto, nel mondo umano, l’utilità. là necessità, l'inevitabilità della morte. La morte in se stessa, applicata al mondo umano, non è condizione di nulla, non produce nulla. La morte nell’economia umana, esaminata alla luce delle leggi della Natura, è una anormalità, è un controsenso, è una cosa assurda, è una mostruosità.
Considerando la campagna, abbiamo concluso: la morte ci dev’essere, la morte è un bene.
Considerando l’Uomo, dobbiamo concludere: la morte non ci dev’ essere, la morte è un male.
E allora, oh amici, come uscire dalla difficoltà ? dove trovare la chiave dell’enigma ?
ITI.
N eli/ Evangelo.
Ancora una volta, la risposta definitiva che soddisfa perfettamente l’intelligenza.
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il cuore, la coscienza, ci viene data <lal Vangelo.
Il Vangelo compie due prodigi:
Égli trasfigura la legge della morte.
Egli trasfigura il fatto della morte.
...Guardate. Un momento fa noi dicevamo che, nell'economia umana, la morte non produce nulla di specificatamente suo, la morte non produce nulla che, senza di essa, non possa essere prodotto. Ma basta che apriamo l'Evangelo per vedere che prodigiosa funzione abbia da compiere la morte, anche nell’economia umana. Basta che apriamo l’Evangelo per constatare che, anche nel mondo umano, c’è tutta una categoria di fatti che possono essere prodotti dalla morte soltanto.
Ciò è così evidente che io non ho bisogno, per farvi comprendere il mio pensiero, di alcuna dimostrazione. Basta che io citi alcune parole di Gesù:
« In verità, in verità io vi dico che, se il granello del frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perderà, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà in vita eterna. Se alcuno mi serve, mi segua, e . dove sarò io, , quivi sarà anche il mio servitore, e se uno mi serve, il Padre Vonorerà (Giov. 12/24 a 26).
« Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, e prenda la sua croce c mi segua • (Marco, SZ34).
« Io vi dico in verità che non v'è alcuno che abbia lasciato casa, 0 fratelli, o sorelle, o padre, 0 madre, 0 moglie, o figliuoli, o possessioni per amor di me e dell'Evangelo, che ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, fi-Ìliuoli, possessioni... e, nel secolo avvenire, a vita eterna > (Marco, 10/29 e 30).
Voi avete inteso ora, non è egli vero, la funzione della morte nella vita umana? Ciò che non aveva un senso prende un senso. L'amore è frutto del rinunziamento e dèi sacrificio, e il sacrificio è una morte lenta, continua, progressiva. Se questa morte non avviene, non v’è alcun altro mezzo, per quanto si cerchi c per quanto si faccia, di produrre i frutti dell’amore. L’uomo nuovo nasce nella misura in cui muore l’uomo vecchio. Più questa morte è completa, più i frutti sono numerosi e pieni di nuovi semi di amore.
No ! Anche nell'economia umana la morte non è inutile e non è sterile: la morte invece è necessaria.Quale morte produsse mai frutti più
abbondanti e più preziosi della morte di un uomo, coronamento della sua vita di sacrificio, di Gesù Cristo? « Egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, in sul legno, acciocché, morti al peccalo, noi viviamo per la giustiziai (I Pietro, 2/24).
Sì, veramente, l’Evangelo trasfigura la legge della morte.
...E non soltanto la legge.
L’Evangelo trasfigura la morte stessa.
Gli uomini, illuminando il mistero della morte colla semplice luce dei loro lumi naturali, concludono che, nell’ economia umana, la morte è una mostruosità e che essa non ha alcuna ragion d’essere nell’al-ternarsi dei fenomeni della vita.
L’Evangelo invece — illuminando il mistero della morte colla luce della Fede e della Speranza — conclude che, nell’economia umana, la morte non esiste più, perchè il cristiano non muore.
Il trapasso orrendo che fa di un organismo vivente, vibrante, palpitante, un freddo, impassibile, insensibile cadavere, non è per il cristiano che una illusione prodotta dai suoi sensi materiali; pel cristiano questo trapasso non esiste.
Il cristiano continua a chiamare >< morte -- per potersi far comprendere dai non cristiani — ciò che, nella luce dell’Evangelo, non è più morte.
Morte significa cessazione, annientamento di qualcosa di reale. Ma. pel cristiano, esiste una sola realtà: lo Spirito; tutto ciò, per conseguenza, che non riguarda questa realtà unica, riguarda delle apparenze, e le apparenze non si annientano, le apparenze non esistono.
Per un’anima che già era e che continua ad essere in contatto con Cristo, che importanza può avere il fatto che l’involucro corporeo di cui era rivestita cessi ad un dato momento di esistere? Nessuna importanza! L’anima cristiana vive in Cristo E rima della morte del corpo, e vive in risto dopo questa mòrte; essa passa attraverso la morte del corpo senza accorgersene; per lei non vi è nulla di mutato.
Date il volo ad un uccello che prima era rinchiuso in una gabbia. Che cosa cambierà nella costituzione dell’uccèllo? Nulla! Egli soltanto volerà libero nell'aria. E la gabbia? A che Serve la gabbia quando il suo ospite è fuggito?..
Sguainate una sciabola che era prima rinchiusa nel fodero. Che cosa sarà mutato nella costituzione della spada? Nulla! Essa soltanto scintillerà più lucida al sole. E il
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fodero? A che serve il fodero, quando la spada è sguainata?
Date la libertà al vero essere del cristiano, cioè all’anima sua prima rinchiusa nel suo corpo. Che cosa sarà modificato nel vero essere del cristiano? Nulla! Egli soltanto vivrà d’una vita più alta, più bella, più completa. E il corpo? Il corpo è una gabbia! Il corpo è un fodero!.. Lo Spirito è quel che vivifica, la carne non giova a nulla.
Amici, ascoltate queste parole di Gesù e conservatele nei vostri cuori:
« Se alcuno osserva la mia parola, non
vedrà giammai, in eterno, la morte ■ (Giovanni, 8/51).
< Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà giammai sete ■ (Giov., 6/35).
« Io sono la risurrezióne e lavila: Chiunque crede in me, benché Sia morto vivrà, e chiunque vive e crede in me, non morrà giammai in eterno > (Giov., 11/25 e 2$)- 1
Amici, credete voi questo? Se lo credete, voi non conoscete soltanto la legge che fa sfiorire le rose. Voi conoscete altresì la legge che fa rifiorire le anime!
Giovanni Meille.
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C’È UNA SPIEGAZIONE LOGICA DELLA VITA?
(Risposte a Dino Provenzal)
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Egregio Signor Direttore.
Dirigo a Lei la mia replica sull’argomento scottante al quale volle dare come titolo la domanda qui sopra stampata. E la dirigo a Lei parendomi che la questione abbia tendenza ad allargarsi, a suscitare una discussione: Lei è chiamata quindi dall’ufficio suo ad essere intermediario e giudice fra i concorrenti al nuovo certame. Quando, nel marzo 1919, ricevetti il fascicolo di Bilychnis contenente la mia povera lettera e la risposta che il signor Dino Provenzal aveva creduto bene di darle, ne provai — ad un tèmpo — umiliazione ed orgoglio. Riprendere oggi l’argomento è forse prova di fatuità da parte mia. Veggo d’altra parte che tacere significa lasciar credere di me quanto, in egregie frasi, dice il Provenzal e riconferma Mai io Falchi nel fascicolo di giugno ultimo scorso; vale a dire che io — incapace di risolvere il problema — lo eludo senza neppure sfiorarlo. Queste parole contengono a mio riguardo un biasimo ed un elogio: l’elogio di aver affrontato un problema più che sublime; il biasimo di non averlo saputo risolvere. Precisiamo.
Due anni or sono, attraverso le belle pagine di Gioco fatto, io sentii un’anima dolente, un’anima ferita che pareva cercasse un aiuto per riattaccarsi ancora alla vita. Per sanare quella ferita scrissi la
lettera incriminata, non per altro. Essa non aveva la pretesa di gabellarsi per un trattateli© di filosofia trascendentale; non si proponeva la soluzione d’un problema insolubile; non era che un atto di pietà umana, e forse — diretta personalmente al Provenzal in quella sconsolata ora della sua vita — gli avrebbe fatto piacere e gli sarebbe parsa la voce di un'anima amica. Hoc eral in votis.
Ma pubblicata così tardi, quando l’autore non sentiva più in sè l’amarezza che improntava quelle pagine, per rispondere alle mie»parole gli convenne «rileggere » il suo articolo. (Non Le pare una confessione, signor Direttore, questo bisogno di rileggere le proprie frasi per verificare se si debba mutare o non mutare in esse qualcosa?) La sua lettura gli rimise sott’occhio il formidabile quesito; la mia lettera lo assicurò che io non l’avevO risolto neppure.
Ma è sul serio o scherzando che mi si incolpa di ciò? Ritorco a mio discarico la constatazione «lei Provenzal: « Ella non risponde e come potrebbe ? ». Questa sua breve domanda è la mia assoluzione. Nò io nò altri possiamo, allo stato attuale delle cose, rispondere quale sia il legislatore di cui seguiamo la legge, l’Essere nel quale cerchiamo la Causa prima, la Ragione, il Perchè della vita. Lo scopriremo un giorno, fra migliaia di secoli? Io lo spero, ma
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contrappongo alla miti speranza una certezza: cne in quel giorno, giunta al termine della sua lenta evoluzione, l’umanità avrà finito di esistere.
Dino Provenzal e Mario Falchi mi chiederanno senza dubbio da quale ragionamento deduca queste conclusioni? Rispondo. A chi non accetta la rivelazione appunto perchè non la sente logica, nessun ragionamento potrà svelare resistenza di Dio. L’istinto guida qui alla conclusione. Come il neonato cerca istintivamente il seno che deve nutrirlo e mostra di conoscere la grande legge di conservazione della vita, così i popoli istintivamente cercarono col loro primo pensiero il Dio che li aveva creati. Io credo che questo istinto non inganni. Le varie religioni, le forme evolutive delle religioni non sono che scaglioni sovrapposti l'uno sull’altro per giungere fino a Dio.
Certo, la vetta è lontana, la luce talvolta sembra oscurarsi, lo sgomento ci accascia. A momenti, il Provenzal dubita del progresso, constatando le atrocità della guerra attuale. Io vorrei chiedergli: a Che è mai, nel tempo, la guerra che ci à martoriati? •. Fra qualche centinaia d’anni la nostra spaventosa passione sarà studiata con interesse ma senza emozione: è remozione che per noi peggiora la storia e ci fa parere la nostra epopea assai più atroce di quante la precedettero. Tutto è relativo nel mondo: i giudizi mutano per forza di tempo o di circostanze; nel caso speciale anche nelle belle pagine de) Provenzal si riscontra un giudizio che gli avvenimenti dimostrarono errato: quello concernente la magnanimità di Wilson, a cui non il Provenzal soltanto aveva inneggiato, ahimè! sul nostro periodico.
Risponderò ancora al mio illustre confutatore ch’egli non mi à giudicata quale sono, se mi considera come una mamma seccata che risponde al bambino avido di conoscere: « Sta zitto! I.a spiegazione l’avrai più tardi! ». Non appartengo al novero delle persone che sfuggono alle responsabilità del presente, differendo a •< più tardi « quanto dovrebbe esser fatto senza indugio. Nè tanto meno ò cercato di fargli una beffa, ponendo davanti a lui una somma di lavoro da compiere, di piaceri da godere e un mucchio di parole vane promettendogli un premio o uno schiarimento dopo la morte. Come ogni altro mortale io non so quanto accadrà dopo.
C’è chi trae dall’inscienzia il diritto o il piacére di credere in una vita futura; C’è Chi si abbandona al materialismo: io mi limito ad attendere. Ma l'attesa non è per me contemplativa; ma il dubbio per me non.è atroce. E non posso dividere l'opinione del-Provenzal sulla felicità umana: « tutto ciò che è fugace merita pietà, « non ammirazione; la felicità è immortale « o non vale nulla ». Se non sentissi il dolore sotto questa frase, la giudicherei un nonsenso od un'affermazione d’orgoglio smisurato; ma vi sento palpitare una sofferenza, ed oggi come due anni or sono tendo una mano amica a colui che la scrisse, ripetendogli come allora che attraverso rivolte, dubbi, torture, io trovai nel lavoro la pace e la ragione di vivere, e vorrei ch'egli pure ve le sapesse trovare.
Quanto a Mario'Falchi, ben poco mi rimane a dirgli. La spiegazione morale (non logica!) della vita egli la vede nella persona del Cristo; la sola spiegazione possibile, secondo lui, ma completa e del tutto sufficiente. Cristo è uno scopo di vita, una luce che illumina, una forza di contrasto contro il male, una rivelazione sintetica del divino, una rivelazione sintetica dell’umanità: Cristo riunisce tutto in se stesso.
Le ragioni suesposte, addotte a spiegazione di quanto egli afferma, sono ragioni, si; ma per lui. non per rfie. E neppure per una legione di spiriti diversi dal mio, che cercano non meno sinceramente lo scopo dell’uomo nella vita e si chiesero in questi anni trascorsi, con amara parola: « Son questi, dunque, i risultati cui ci condussero venti secoli ormai di cristianesimo? »
D’innanzi alle convinzioni personali di Mario Falchi, che non presentano alcun valore assoluto, io posso ripetere con tristezza press’a poco quanto egli dice di me, vale a dire che trasforma il problema senza risolverlo.
No no, la questione non è esaurita.
Anzi, signor Direttore, mi permetta di opinare che non mi sembra neppure esauribile.
Diverse fedi o diverse interpretazioni di ciascuna fede, ricerche affannose, differenti impostazioni del quesito, barlumi di luce; per alcuni sicurezza beata negli insegnamenti del dogma e della chiesa, e in fondo all’anima umana, quanto più conscia e supcriore, sempre l’insistente domanda: « Perchè? » ecco, per ora, quanto sappiamo intorno all’ignoto. Ma in-
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tanto dobbiamo vivere, e per vivere abbiamo bisogno di credere in qualche cosa: il Falchi crede nella divinità di Gesù; io credo nella sua umanità e cerco di conformare la mia piccola opera all’opera meravigliosa del Nazareno.
Con ringraziamenti ed ossequi voglia credermi. Signor Direttore',’'
sua obbl.ma
M. Dell’Isola.
Pavia, 14 luglio. 1919.
» **
A DINO PROVENZAL
« Conosco il vostro portentoso male! ».
Fame e sete di verità, insaziate e insaziàbili dall’esistenza quotidiana. Bisogno irresistibile di trovare una correlazione logica tra i mille fenomeni isolati che la vita ci manifesta. Nostalgia anelante di conoscere il centro intorno al quale a nostra insaputa si compiono le nostre rivoluzioni umane. A nostra insaputa! mentre ci sentiamo esseri dotati di facoltà di conoscenza con l’irresistibile vocazione di conoscere!.. Oh, sì! « Conosco il vostro portentoso male! ».
Ebbene: vi è oggidì nel mondo il' mezzo per guarirne.
« Conosci te stesso » fu scritto già su! tempio di Apollo in Delfo, e da allora, attraverso ai tempi, questa ingiunzione eh'è al tempo stésso l'anelito più ardente di ogni essere umano veramente vivente, non ha perduto alcunché della sua forza. Perchè • conoscere sè stesso » significa contemporaneamente conoscere l’Ùniverso dal quale siamo scaturiti e del quale facciamo parte. Come la Fata buona nelle fiabe consegna al suo protetto un talismano, per mezzo del quale egli possa salvarsi in mezzo agli incantesimi delle forze avvèrse, così Madre natura, prima di congedarci dal suo grembo, ci ha dato — ultimo dei suoi molti doni — il pensiero. E il pensiero — come il talismano della fiaba — dovrà un giorno'ricondurre alla Madre il figlio liberato e purificato dopo le molte prove.
Non c’è che dire: da! giorno in cui divenne umano retaggio, il pensiero non fu mai lasciato inoperoso; l’uomo se rie fece uno strumento mirabile per l’investigazione del mondo esterno. Nessuno potrebbe lagnarsi dei risultati ottenuti, e il più pessimista tra i pessimisti non giunge
rebbe a disconoscere la sovranità acquistata dall’uomo, nel mondo della materia, per mezzo del pensiero. Ma esso è strumento veramente meraviglioso e magico, cioè nasconde in sè ben altre possibilità oltre a quelle ormai così largamente sfruttate nella vita esteriore. Prendete dei chicchi di grano: voi potete macinarli e nutrirvene; ma potete altrimenti seminarli nella terra e lasciarli germogliare in nuove spighe. Cosi è del pensiero: potete bensì adoperarlo come strumento di conoscenza esteriore, ma potete anche... come dire? farlo concentrare in sè stesso, lasciarne germogliare le energie latenti, le quali non sono ancora, nonché sfruttate, nemmeno conosciute dalla maggioranza degli uomini.
Vi sono metodi moderni, adatti alla, nostra mentalità occidentale, secondo i quali il pensiero lavora sopra se stesso, germoglia, per così dire, come il grano seminato nella terra, e arriva a nuovi modi e nuove forme di conoscenza, altrettanto rigorosamente positive, reali e controllabili della conoscenza ordinaria, basata sulle percezioni dei sensi e stille elaborazioni dell’intelletto. Vi sono metodi per i quali, checché il móndo possa dire o disdire, credere o non credere, è possibile oggidì a qualsiasi essere umano normalmente intelligente, di arrivare a conoscere da sè. per cognizione diretta e positiva, le origini e i destini dell’uomo e la sua connessione con l’Ùniverso, in modo da saziare ogni più ardente anelito dell’anima umana, e da orientarla e rinfrancarla per sempre.
Così espressa, questa può sembrare una gratuita asserzione per la quale si richiederanno prove irrefutabili. Certamente, le prove esistono in grande abbondanza: prove spirituali pei- fatti spirituali, come per fatti materiali, prove materiali. Ma la miglior prova di tutte è... provare: sperimentare da sè. ■ Cercate e troverete. Chiedete e vi sarà dato. Picchiate e vi sarà aperto ». Mai promessa più solenne fu più fedelmente mantenuta! Ma perchè l’adempimento possa avvenire, la richiesta deve sorgere dall’anima talmente indomabile, il bisogno di sapere deve prorompere con energia talmente irresistibile, da abbattere qualsiasi ostacolo, non soltanto esterno, ma interno — anche il proprio orgoglio — anche la propria paura. E di questo non tutte le anime sono capaci. * Chi perde la sua vita per Me la troverà ». (Ciò va preso in senso universalmente umano, non già confessionale). Ma quanti sono capaci di
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perdere veramente la loro vita per Me, perAfi come Vìa (nell'azione) per Me come verità (nel pensiero) per Me come Vita* (nel sentimento).
Se quest’ordine di idee I.e sembra contenere qualche possibilità di appagamento, legga» o meglio studi, per cominciare, il libro Teosofia (i) di R. Steiner (edito dal Reber di Palermo, L. 3), e per qualsiasi indicazione si rivolga pure a
Lina Schwarz
13, Viale Bianca Maria. Milano.
***
Al ¿Ig. Dino Provensal.
Quando circa un anno e mezzo fa lessi il Suo sincero ed angoscioso articolo, provai una gioia immensa perchè finalmente, tra l’infinita turba dei liberi pensatori che non pensano affatto o dei dotti che si appagano della loro religione, compariva un uomo che dimostrava di voler pensare colla sua testa. Non dubitai affatto, allora, che qual cuno avrebbe presto risposto al grido della sua anima ed in questa ceitezza dimenticai tutto, anche perchè la guerra allora sollevava altri più urgenti problemi. Veggo adesso che una risposta al* Sug grido non è ancora venuta: quella della prefissa M, Dell’Isola non è infatti una risposta logica, almeno quale Ella la desidera. Non Le nascondo £he a mio modesto parere, è appunto nella pratica di quella religione del Bene che la spirituale professoressa Le addita che Ella potrà trovare la pace dell’anima: non la fittizia pace dell’eb brezza o della stanchezza, come Ella teme, ma la vera pace, quella che Le darà la soluzione dell’enigma della vita. Ma. ciò «letto, riconosco che non è una risposta logica: anzi, aggiungo subito che nessuno al mondo l'ha data o la potrà mai dare. Ciò non significa che l’umanità pensante non abbia tentato di darne una e, come Ella avrà visto leggendo tante opere filosofiche, da Budda a Kant, è una ridda di spiegazioni tale, che la difficoltà della scelta è resa enormemente più difficile. Ma è appunto questa ridda di spiegazioni
(x) NB. Non si lasci sgomentare dal titolo. Un libro può intitolarsi « Teosofia » ed essere di natura molto diversa dai libri di Blavatsky e Besant, come un uomo può chiamarsi « Dino » e differire grandemente nell'anima dal Prof. Pro-venzal.
quella che rende più invincibile il dubbio: il constatare che tante contradditorie spiegazioni sono state accettate o propugnate da tanti ingegni poderosi e poi confutate da altri ingegni non meno brillanti non solo fa dubitare che quella prescelta non sia la vera, ma ingenera anche il dubbio che la logica non sia proprio quel ferreo e preciso meccanismo che vogliono i filosofi, bensì una opinione non più rispettabile di un’altra. Ed allora più che una spiegazione logica dell'universa vita, non è forse la spiegazione logica della vita quello che Ella ricerca? La spiegazione cioè certa, incontrovertibile, infallibile? Questa spiegazione uno solo poteva darla: Colui che la Chiesa cristiana adora come la Parola fatta carne e che anche gl’increduli venerano come la più luminosa e perfetta incarnazione di quel tanto di divino che si agita negli abissi dell’ anima umana. Ma Egli non l’ha data e non l’ha data molto probabilmente, perchè il nostro intelletto non la può ricevere, perchè si tratta di una di quelle verità che l’occhio umano non può vedere tanto è abbagliante, e che non possono penetrare in un cuore umano senza spezzarlo. Per convincersene, basta pensare all’immensa mole di fatti e di ipotesi che la scienza ha accumulato, tanto che un uomo, per approfondirsi in alcunché, ha bisogno di limitarsi ad una ristrettissima visuale del vasto campo scientifico. Per sperare di giungere a cogliere l'intimo significato dell’universa vita, bisognerebbe abbracciare con uno sguardo solo tutta l'immensa mole dei fatti acquisiti alla scienza, sceverare d’un colpo le apparenze dalle realtà, i fenomeni transitori dai permanenti, ed ancora indovinare le intime ragioni che col legano l’un fatto all’altro: e poi... ciò non basterebbe ancora. Le ultime conclusioni della scienza ci hanno portato infatti a questo resultato assai disastroso per l’orgoglio umano, cioè che noi possiamo giungere a cogliere i diversi fenomeni che la forza-materia — anche la materia si è volatilizzata in un equilibrio di forze — produce sui nostri sensi, ma che non abbiamo nè mai forse avremo a nostra disposizione i mezzi adatti a scoprire l’intima essenza di quella forza-materia che agisce su di noi. « Igno-ramus et ignorabimus », diceva il Du Bois-Reymqnd. Per questo duplice fatto adunque. sia perchè quello che sembra logico a me non sembra a Lei, e forse perchè a Lei stesso non sembrerebbe logico oggi
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quello che Le appariva logico non più di dicci anni fa: sia perchè Fumana intelligenza è troppo debole per scrutare il vasto e tenebroso mistero dell’universo, la spiegazione non solo logica ma certa ed incontrovertibile non Le potrà venire nè dalla filosofia nè dalla scienza, nè dalla prof? Dell’Isola, nè da alcun'altra persona più dotta o più spirituale.
Ma da ciò aH’aÌYermare che F idea d’ un Dio Padre non ha « nessunissima apparenza di verità > ci corre un abisso che Ella — mi permette? — non può colmare con tutta la Sua vastissima cultura o la Sua innegabile buona volontà. È forse più logico, più armonizzante colle più alte aspirazioni della Sua nobile natura che l’iddio o la Causa prima di questo universo cosi-ammirando tanto nelle leggi •che governano F infinitamente grande quanto in quelle che reggono l’infinita -inente piccolo, che questo Iddio che ha creato degli esseri come Budda, Giobbe o Gesù di Nazaret e che Le ha infuso tanto indomabile ardore per la verità, sia Dagon, l'arcano Spirito del Pegro o il Saturno che si rimangia i figli suoi? Evidentemente Ella non può ammetterlo: e quindi l’idea d’una giustizia divina non è più così poco provvista di qualche apparenza di verità come, sembra che Ella voglia affermare. Ma, se non erro, quel che a Lei più importa non è tanto la spiegazione logica dell’universo, quanto la certezza delFim-mortalità. Convengo pienamente con Lei che la religione del Bene additata dalla prof* Dell’Isola non giova a nulla se il perfezionamento morale che Ella opera m Lei ed attorno a Lei è destinato a finire in una lurida fossa. Ma può Ella ammettere che tutto quel miracoloso fervore di
vita nuova, che tutto quell'eterno rifiorire di ideali sempre più vasti ed alti che trae la sua origine dal vuoto sepolcro di Giuseppe d’Arimatea, possa essere il prodotto d’un falso, d’una leggenda, d’un attacco isterico? «That is thè question ». Se Ella mi ammette il fatto, comunque spiegabile, della risurrezione del Cristo, l’idea della paternità di Dio e la certezza dell’immortalità, mi sembrano due conseguenze logiche ed inoppugnabili: se Ella me lo nega, rimane da spiegare tutto il bimillenario miracolo della vita cristiana. Fra i due misteri io accetto il primo: e Lei? Ella probabilmente vuole la certezza assoluta: ed ecco perchè non ha ancora trovata la fede, giacché la certezza esclude la fede. Tutto l’edificio della vita cristiana riposa sul fondamento della fede: fede nella rivelazione d’un Dio d’amore fattaci dal Cristo, fede nella personalità umano-divina del Cristo, fede nella divinità della nostra origine e della nostra mèta. Questa fede Ella non l’ha trovata, perchè Ella non l’ha cercata. Ella ha cercato la certezza; ma non è detto che cercandola non l’abbia a trovare perchè, come molti hanno esperi menta to, quando sembra più lontana è allora che è più vicina.
Non mi sono proposto di rispondere al Suo quesito e non mi lusingo quindi di aver La soddisfatta: ho cercato di fissare i termini del problema e di indicarLe la via che mi ha condotto alla risoluzione di alcune incognite di esso. Se il mio disturbo è stato vano valgami presso di Lei, come scusa per questa mia, la buona intenzione suscitata dalla profonda simpatia pel Suo caso di coscienza.
Rispettosamente Suo
Vinay Arturo
UN CONVEGNO INTERNAZIONALE CRISTIANO
Mi sentirei veramente egoista se non tacessi parte almeno un poco coi lettori di Bilychnìs, della gioia spirituale che provai nel convegno tenuto i primi d’ottobre all’Aja per favorire il ristabilimento della fratellanza tra le chiese evangeliche delle varie nazioni. E’ stato come un Comitato preparatore, per un Congresso internazionale che si dovrà tenere prossimamente
Vi erano rappresentate 14 nazioni. Le sedute si tennero in un bel salone d’un castello cambiato in albergo dove eravamo ospitati.
La sera avevano luogo delle adunanze di preghiera edificanti e spesso si ripeteva insieme il «padre nostro», ciascuno nella propria lingua . L’albergo era circondato da una immensa villa con prati verdi e file di colossali alberi specchiantisi in acque placide.
Abbiamo goduto nel trovarci in un paese non turbato dalla guerra, dopo questi anni
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in cui i nostri cuori hanno simpatizzato c sofferto con l’Italia. L’Olanda piena d’abbondanza, con le sue fertili praterie, i lenti canali ed i suoi mulini a vento come farfalloni è un quadro di perpetua serenità.
Ciò che mi ha colpito di più è stato il trovarmi con personalità veramente grandi per la loro fede. La bella figura del Vescovo di Upsala, dalla chioma bionda e dallo sguardo di fanciullo gioioso, semplice e senza pretese, ma pieno di zelo e affabile con tutti, mi rimarrà sempre impressa. Quando c’era qualche discussione scabrosa il Vescovo cominciava a pregare o a cantare un inno pieno di sentimento religioso con il fascino e il vigore del suo paese nordico, e tutte le discordie finivano in concordia.
Partecipava alle riunioni una contessa della Finlandia, figlia d’un giudice che ha speso la sua vita per migliorare le condizioni delle carceri, e che ha lavorato per trentotto anni fra i prigionieri. Vestiva semplicemente ed al collo portava una collana d’argento con incise queste parole: « Iddio è amore e misericordia ». Quando le chiesi nna spiegazione, mi disse che i prigionieri sono obbligati a guardare in faccia alle persone con le quali parlano, e che essendo spiacevole per loro questa regola la contessa pensò di offrire a quei disgraziati un oggetto su cui posare l’occhio per elevare i loro spiriti.
Essa ha lavorato nelle più basse carceri, dove ha sempre cercato di fare capire a quei miserabili l’amore di Dio per loro. Mi raccontava quanto le è stato concesso di fare per grazia divina, ed io, ascoltando, mi sentivo commossa e piccola, piccola !
L’Inghilterra era rappresentata da sette ile-legati, tra cui Sir Willonghby Dickinson, vero tipo di gentiluomo cristiano, paziente, cortese e ricco di profonda pietà. Il Prof. Deiss-man, molto conosciuto peri suoi dotti scritti, insieme col Dr. Spiecher rappresentava il Protestantesimo germanico.
Entrambi tennero un contegno cosi umile e buono che sparì ogni rancore che potesse ancora esistere negli animi dei Belgi e dei Francesi.
Disgraziatamente Wilfred Monod non potè trovarsi fra noi per ragioni di salute; ma erano intervenuti altri pastori da Parigi che si resero utili anche come interpreti essendo l’inglese la lingua officiale.
S’è pensato di non pubblicare per il momento le deliberazioni prese, dato il turbamento tuttora esistente per le conseguenze della guerra.
Eravamo di nazionalità diverse e di credi
differenti, ma tutti uniti nello spirito cristiano. Noi che apparteniamo ad una delle denominazione più democratiche ci trovavamo all’unisono di cuore col pio vescovo di Winchester che per il brio e la santità mi ricordava il mio caro babbo, semplice pastore battista.
Questo convegno venne riconosciuto ufficialmente dall’Olanda e il Ministro degli E-steri volle offrire un thè ai delegati. Anche Sua Maestà la Regina che si trovava in campagna, volle ricevere una rappresentanza del Comitato.
Mio marito mi ha parlato con entusiasmo della grande cordialità dimostrata dalla regina in quella circostanza. Più che dal pranzo squisito e dalla massiccia argenteria olandese e dalle belle porcellane, gli ospiti furono colpiti dal mòdo semplice e naturale con cui venne detta la preghiera di ringraziamento prima e dopo il pasto.
Nell’Olanda protestante questo atto è una consuetudine così nella reggia come nell’umile mulino.
Noto di passaggio che trovandomi a parlare con uno studente di Amsterdam gli rivolsi una domanda, che sarebbe naturale in Italia, se, cioè, la regina fosse bella. Mi guardò con u’naria di rimprovero : « No, rispose, non bella, buona di cuore ».
Per me il vero frutto di tali Congressi non è tanto nel programma concretato, quanto nell’affiatamento tra le diverse persone convenute e nella scoperta delle belle qualità cristiane che si sviluppano tanto all’ombra della palma quanto a quella, del pino.
Susy B. Whittinghilb.
I MAGI SENZA STELLE»
Al teatro dell’Odéon a Parigi affrontava il giudizio del pubblico, la sera del 20 maggio 1911, un dramma di Edoardo Schneider intitolato / magi senza stelle. Gli apatici spettatori degli anni di poco precedenti la grande guerra, indifferenti a tutto ciò che rappresentava lotte d’idee, studio di casi d’anime e di coscienze, non si interessarono troppo a quel lavoro, che oggi forse solleverebbe discussioni ed estese polemiche. Ma senza dubbio contribuirono al freddo esito il tono plumbeo di alcuni dialoghi e il difetto di movimento nell’azione. L’autore, quasi ignoto, aveva pubblicato sol tanto qualche anno prima un volume di Note intorno ad una esperienza religiosa.
Oggi, rileggendo il dramma, lo troviamo quasi mancato come opera di teatro; men-
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NOTE E COMMENTI
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tre ci interessa il dibattito d’idee che vi si svolge, vivo ora più che mai in alcune anime, attraverso a cui è passata la guerra, lasciando traccie roventi di dubbi, di crisi,' di nuove certezze. Tanto che il lavoro dello Schneider si può dire sia più di attualità oggi di quello che lo fosse allora, più rispondente oggi ai sentimenti che agitano i pastori, le pecorelle, e coloro che vivono fra la propria coscienza e Dio. Poiché si tratta di un problema religioso.
L’autore pone a fronte due figure di sacerdoti: monsignor Ducange, custode autoritario della tradizione, del dogma, dell’ordine stabilito, e l’abate Gosselin, innovatore guidato da un ideale, forse utopistico, di purezza evangelica, da un sogno di riforma che esprime un ritorno all’antico apostolato cristiano. Ma se il conflitto poteva riuscire interessante, perchè contrapponeva due concetti che la storia delle religioni ci insegna aver lottato fin dai più lontani tempi’ e che lottano ancor oggi, sono mancate all'autore le qualità necessarie all’uomo di teatro, che in uno scrittore sono innate, e non si acquistano. Perciò lo Schneider non ha collocato i suoi personaggi, le varie scene, in una prospettiva teatrale che desse vita ad ognuno dei quattro atti del lavoro. Il dibattito d’idee si palesa meglio alla lettura che alla rappresentazione del dramma, nel mentre tutto ciò che poteva essere estraneo alla principale ragione del lavoro, ha dovuto essere soppresso o modificato alla rappresentazione, perchè l’occhio acutissimo di Antoine vide che rie soffriva l’unità di linee del dramma. Tutto ciò deriva dal fatto che l’azione non si era fusa col conflitto- ideale, tanto da formare tutt’uno. e l’intreccio secondàrio appariva cosa troppo staccata, tanto da essere più opportuno il toglierlo.
Dato lo schematismo dell’azione, questa si può riassumere in breve. I.’abate Gos-sehn è stato posto da monsignore Ducange come precettore presso una famiglia di ricchi industriali. L’abate ha esercitato un tale effetto sul giovane suo allievo. Giacomo de Villers, che questi, dominato dalle idee del maestro, sogna di applicarle alla vita pratica. Scoppia un conflitto fra j proprietari e gli operai della fabbrica, e Giacomo e l’abate andranno in mezzo ai dimostranti a parlare, ambedue illusi di attuare il loro apostolato morale. In seguito a ciò si trovano di fronte il monsignore e l’abate, i due modi di considerare la vita.
la morale sociale, la religione; l'abate, dal superiore chiamato responsabile della con -formazione morale dell’anima dell’allievo, si deve piegare. Lo si incolpa pure di aver fatto di Giacomo un illuso, che sacrifica all’apostolato il suo avvenire, e tronca un fidanzamento desiderato dalla famiglia. L’abate viene rimandato nella sua casa natale, presso la madre e la zia, sulla landa bretone. E là viene a trovarlo il suo allievo, e toccherà all'abate parlare a Giacomo, come a lui stesso ha parlato in passato monsignor Ducange. Scoraggiato, Giacomo partirà, forse per non più tornare.
Nel conflitto fra i due sacerdoti, al primo atto, interviene pure un professore: è' la voce dell’autore che proclama ugualmente falsi e destinati al fallimento i due concetti in lotta. Appunto questo personaggio, il prof. Schmidt, definisce magi senza stelle coloro che vogliono rinnovare la fede riportandola su una via più pura. È una piccola verità, limitata al caso particolare esposto nel dramma, non quella verità universale, al di sopra delle persone e della psicologia dei singoli, che soltanto un autore di genio avrebbe potuto toccare. E ancora qui si nota il difetto di prospettiva, o semplicemente di capacità di» creatore teatrale, dello Schneider: non sono due principi contrapposti, sono due persone che rimangono presso a terra anche quando parlano di cose superiori, senza quello slancio lirico che sarebbe necessario alla vastità dell’argomento, alla grandiosità di quello che è veramente il gran problema delia vita umana, perchè ne tocca l’fessenza.
Ma seguiamo pure, se non sempre il conflitto di correnti, quello dei due caratteri.
Monsignore Ducange, partendo da con siderazioni di storico, come sulla storia si basano le idee del prof. Schmidt, non crede alla possibilità di edificare una forma definita di società su un concetto tutto sentimentale, non sa astrarre dal valore del tempo, e perciò vede le cose sotto un E unto di vista strettamente temporale.
’abate, invece, dalla considerazione della durata limitata di certi organismi sociali, trae il maggior valore dei principi; un organismo sociale è la traduzione momentanea di determinate necessità economiche in una forma materiale determinata: organismi sociali e regimi passeranno, ma non passerà la sete irresistibile che spinge l'anima umana ad arricchirsi coll’esperienza e ad accrescere il proprio valore. 11
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3l8. BILYCHNIS
prof. Schmid t cita l'esempio della democrazia: partita dà un’idèa, si dimostrò, all’attuazione pratica, soltanto una magnifica utopia, perchè le. mancava la possibilità di esistere: al contatto della vita sociale, perdè i suoi caratteri, divenne una forma di governo strettamente borghese, una immensa combinazione di egoismi, di tornaconti, di istinti appagati, una caricatura, quasi, dell’idea da cui era partita. Cx>sì, sempre secondo il professore, a nulla varrà un'idea rinnovatrice, che vuole il cristianesimo primitivo applicato alla società odierna, poiché egli ritiene che il nuovo concetto di una democrazia cristiana sia come una vecchia canzone che agonizza su labbra anemiche, un simulacro, non una realtà. Riassumendo insemina le ideò del filosofo, il cristianesimo non esiste più come realtà vera: sopravvive a sè stesso in due forme, la forma della tradizione storica e quella apostolica, ugualmente lontane dalla società e dalla mentalità odierne.
Vi è da obiettare al prof. Schmidt, e quindi all’autore, che la tradizione storica che egli ritiene ormai incapace di agire sul popolo, è quella che domina pur sempre sulle grandi masse valendosi di quanto di superfluo la tradizione e il dogmatismo hanno accumulato sui concetti, sui riti e sui vangeli originari. E che d’altra parte il concetto apostolico, pur contrastando colla vita, è quello che guidando alcune correnti intellettuali, e gli spiriti più elevati che credono fermamente, con una fede quasi primitiva, lontana da formalismi e da dogmi, forma il miraggio verso cui si vorrebbero guidare tutte Te anime più semplici. Utopia forse, perchè ammette una maturazione intellettuale delle masse che non sarà mai possibile. Utopia destinata al fallimento al contatto della vita sociale, ma destinata invece ad elevare sempre più gli intelletti che, volere o no. segnano le grandi direttive del progresso umano. La difficoltà massima è di armonizzare le necessità della vita moderna con quelle grandi idealità. E a questo compito nè l’abate nè il suo allievo, nè l’uno nè l’altro tempre di lottatori, sarebbero destinati. Al cospetto di idealità così alte Giacomo ha perso il contatto colla vita, fino al punto di abbandonare un affetto che lo poteva condurre alla felicità; è dunque un'anima esaltata, anormale, e non può fornire materia di esperimento. La rinuncia a Germana per con
sacrarsi alle idee è una cosa troppo inverosimile perchè possa essere accettata e non debba invece rivelare tutta l’eccezionaiità morbosa di quel carattere.
Perciò soltanto nei dialoghi fra monsignore e l'abate, e nell’ultimo fra l’abate e Giacomo, il dibattito di idee incatena la nostra attenzione.
Monsignore Ducange persegae implacabile nell’intento di staccare Giacomo dalla sua illusione, attaccando coll’autorità che gli conferisce la gerarchia la sorgente stessa delle idee del giovane, e cioè l’abate. Questi reagisce dapprima con energia. Posto a compiere un’opera d’istruzione, l’abate Gosselin ha ottenuto di più. e cioè una opera di educazione morale, ha tentato di realizzare il suo ideale attraverso ad un anima ancora duttile. E a monsignore che gli rimprovera di aver varcato i confini assegnati alla sua missione, l’abate risponde che l'educazione intellettuale implica un minimum di idee morali, in faccia a cui è necessario prender partito.
0 Monsignore. Per voi stesso, si; ma • non per gli altri.
«L’Abate. Ho rispettato la libertà di « Giacomo... D’altronde non si tratta anche ■ della mia responsabilità di fronte alia < mia fede, di fronte al mio dovere cri-« stiano, di fronte alla verità che ho giu-• rato di servire? ».
Ma quale è questa verità? La verità dettata dàlia coscienza, che non può mai mentire, perchè è la voce della divinità. Ma ecco il superiore aggrapparsi all'autorità della Chiesa e dei suoi principi. E l’abate si ribella perchè non ammette nella Chiesa una legge di servitù cieca: essa dev’essere un’autorità materna, presso cui troviamo conforto ,e amore nelle ore di dubbio, di scoraggiamento, nelle ore in cui ci sentiamo miseri e deboli. (E qui io sostituirei il concetto di fede a quello di Chiesa). Ñon è più una Chiesa una istituzione che si esplica colla dominazione, coll'autoritarietà derivata dall’orgoglio umano, e che dimentica la prima e più bella legge del cristianesimo,, la carità.
Il distacco si accentua. Il superiore fa valere la sua autorità per troncare il dibattito. Più che mai si allontanano i due concetti: l’uno che il vero cristiano debba essere un’anima d’apostolo, l’altro che esso debba essere colui che innanzi tutto rispetta stréttamente la legge. Si giunge all’assurda affermazione che il vero cristiano sia il fariseo: « ... Una società che non
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contasse in sé’se non degli apostolici disgregherebbe in una moltitudine di piccoli gruppi, nemici gli uni degli altri. Invece una società organizzata è una società (ondata sulle leggi e protetta dai farisei... La figura di costoro è oggi ben mutata da Quando il Signore li biasimava. E ciò perché l’antica legge si è trasformata. L’autorità che comanda non è più unicamente l’autorità di un libro, ma quella di un’istituzione, satura di unità, che ha veduto rinnovarsi la sua forma attraverso il corso delle età. Questa legge è la tradizione... Perduta nelle onde infinite che, dalle età più lontane, hanno trascinato fino a noi milioni e milioni di coscienze, pensate come la nostra coscienza individuale ci appare una cosa povera e meschina ». Di fronte alla forza dell'autorità e della tradizione l’abate si piega.
Certamente, signor abate, non siete davvero della stoffa con cui si (anno i ribelli e i grandi costi uttori d’avvenire! Perchè, dopo aver detto che la legge isterilisce e uccide, piegate voi stesso a questa legge riconoscendone la forza? Affermate che la vostra coscienza si rifiuta a credere che, per quanto esistano vari cristianesimi, una sola sia la religione dell’ordine, ma poi chinate il capo, e quando uscite dal colloquio con monsignore Ducange si vede in voi già un’anima vinta, una idea sconfitta.
La disillusione è tanto maggiore per lo spettatore in quanto questi non si trova innanzi ad un fatto tale da giustificare il crollo delle teorie. Rivede l’abate nella sua terra natale, scoraggiato, disilluso, vinto. Ma perchè quella sconfitta convincesse, l’autore avrebbe dovuto porre il Gosselin colle sue teorie di fronte ai fatti, nei mezzo alla vita sociale, di fronte alle masse a cui egli destinava il suo apostolato. Con ben altra arte Enrico Ibsen scolpiva i suoi idealisti in eterna lotta contro i convenzionalismi e le menzogne della società! .Poiché se gli argomenti determinanti là disfatta sono stati i concetti esposti da monsignore Ducange, essi tanto poco ci convincono, che meno ancora avrebbero dovuto persuadere chi asseriva essere l’apostolato all’infuori delle tradizioni storiche l'àncora di salvézza della religione.
Più convincente, all’ultima scena del dramma, appare un carattere che negli atti precedenti non era sempre sembrato tale, quello di Giacomo. Andato in Bretagna per ritrovare l’antica sua guida
morale e spirituale, egli constata la rovina di ogni idealità nell’animo dell’abate. Questi nel ribattere le asserzioni del suo allievo si vale delle stesse ragioni che erano servite a monsignore. L’abate parla del suo errore passato, di un ideale di bellezza troppo arduo, che non morrà, ma che non può convertirsi in realtà, e che è forse cosa sacrilega voler portare dal silenzio dei cuori, dove si custodiscono le grandi nostalgie, alla luce della realtà. Qui finalmente quelle due anime, toccando sentimenti più umani, diventano sincere e più vicine alla vita. Non è più fra di esse la fredda logica delle teorie, ma gli strazi e il pianto, i palpiti e gli scoraggiamenti di due anime d’uomo. In questa scena veramente il commediografo ha saputo elevarsi all’altezza dei concetti in giuoco e a far vibrare qualche anima oltre i lumi della ribalta, oltre le pagine del libro.
Lavoro dunque ineguale questo dello Schneider, dove accanto a qualche felice scorcio di carattere, a brani di dialogo ispirati da sincera emozione, sono scene troppo grigie, battute troppo astratte, si da sembrare perdano il contatto colla vita. Lavoro nobile, comunque; perchè degno di discussone e superiore a tutto quel teatro di anime piccine, a quegli intrecci vieti o illogici che il mestiere ha congegnato in gran parte del teatro moderno, sia francese che italiano.
Ma quale conclusione ricaviamo dal fatto specifico esposto dai Magi senza stelle? Quale è il concetto dimostrato dall’autore? Che nel cristianesimo vi sono due tendenze, ugualmente destinate a scomparire, perchè legato ad un passato che non può ritornare. Neppure l’aspirazione alla sincerità apostolica della religione può imporsi, perchè la nostra misera personalità, misteriosa e barcollante, conosce troppo poco per poter trascinare sulle sue orme incerte le anime che incontriamo sul nostro cammino. Sarebbe questo il fallimento di ogni Idealità.
Noi ci ribelliamo a questo concetto, perchè la demolizione senza la ricostruzione è opera negativa che non può appa-Sare il nostro spirito: lascia il vuoto stesso elle teorie dell’ateo, il quale demolisce e non sa riedificare, e sarà sempre impotente a spiegare il mistero di quell'eterna aspirazione verso una fede che ha agitato l’umanità di tutti i tempi. È la demolizione cieca che assomiglia a ciò che compie un fanciullo nel rompere un giocattolo per il solo gusto di distruggere. Questa distru-
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zione senza accenno di ricostruzione è forse la prima ragione per cui non ci sentiamo presi di simpatia per alcuno dei personaggi dei Magi sema stelle. Ed è grave difetto per un’opera di teatro.
L’autore dichiara di non aver voluto scrivere un dramma a tèsi, ma la tesi pure si rivela in un’azione che lascia troppo spesso scorgere i fili di chi la guida. Nel fare dei due personaggi principali due sconfitti, lo Schncider ha rivelato una tesi, che non collima affatto con quanto l'autore ha accennato nella prefazione. In questa, egli asserisce che dal conflitto fra l’anima apostolica e lo spirito formalista della tradizione, dal crollo di ognuno di questi due aspetti della religione, che in fondo risalgono all’eterna lotta fra lo spirito e la legge che ha dilaniato ogni fede, rimane la luce interna della fede libera da ogni vincolo, intima e profonda, forza invincibile che costituisce il più sicuro baluardo dell’anima : «... Se coloro che sentono palpitare la loro anima nel più intimo del loro essere, é ne traggono una forza invincibile, non scorgono più nella società religiosa e umana in cui abitano la stella che vi cei cavano i loro occhi, essi la ritrovano senza fatica in fondo alla loro coscienza, più bella per essere stata abbandonata, più pura per essere di nuovo tutta interna... ».
Ma il discepolo, che nel conflitto cede, e abbandona il campo, incerto dell’ avve
nire, non ci dimostra nulla di tutto ciò. Edoardo Schneider ha perduto una bella occasione per scrivere un capolavoro. Il suo Giacomo lascia troppo intravvedere i fili che lo guidano, come un fantoccio. Ed invece la vera bellezza del dramma poteva essere nel seguito, nell'avvenire del giovane che, dalia demolizione della autoritarieta cieca, di inutili formalismi, di interessi egoistici, di tutto ciò che forma la tradizione, e dalla disillusione di un ideale utopistico, poteva ricavare la certezza in una forza invincibile, nell’altissimo privilegio dato all’uomo di credere e di volere al di sopra di vani formalismi, nella fede più alta e più pura che parla alle anime e ai cuori, e non soltanto alla vista o all’udito.
Il teatro potrà essere un grande strumento per la rinnovazione delle coscienze di domani; teatro piccolo per i pochi spettatori ttélite, o teatro vastissimo per il popolo, fra qualche anno, quando sarà svanita la cieca sete attuale per tutti quegli spettacoli che distolgano il pubblico dal triste ricordo di ieri, esso ritornerà ad agitare le idee, che saranno le vie direttive di ricostruzione per le generazioni future. E lo Schneider potrà recare ben più solida pietra all’edificio di domani.
Maggio 1919.
Bruno Brunelle
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NOTE E DOCUMENTI
FORME DI DEGENERAZIONE RELIGIOSA IN TEMPO DI GUERRA
(Continuazione. Vedi Eilycìtnit. fascicolo di febbraio 19x9, pag. Hi).
A forma 'di ricatto adottata in Lodi è diffusissima anche altrove. Varia solamente il nome del santo e qualche modalità circa l’offerta. Così, ad esempio, possiamo accennare alla iniziativa del parroco di Valletti, frazione del Comune di Varese Ligule (prov. di Genova). Questo parroco redasse una specie di contratto spirituale con S. Anna, patrona della parrocchia, col quale contratto i sottoscrittori si impegnavano a versare L. 200 a beneficio della chiesa se la santa li avrebbe
fatti ritornare incolumi dalla guerra.
E veniamo, sempre in via di esemplificazione, ad un altro caso tipico, quello di Pantigliate, comunelle di 755 abitanti, quasi alle porte di Milano. Il parroco locale si è messo in capo di costruire una nuova chiesa. È logico che una chiesolina per una borgata come Pantigliate si può fabbricare con poche migliaia di lire, ma il parroco vuole una basilica con marmi e colonne: onde il preventivo per la nuova costruzione ammonta alla bella somma di 90.000 lire, che naturalmente i nativi del luogo, poveri contadini ed artigiani, non sono in grado di spendere. II parroco non si spaventa per questo: trova nella guerra un’alleata tanto più che la Madonna di Pantigliate si chiama «La Madonna della Provvidenza», nome che si presta singolarmente allo scopo. Così, con animo lieto, quel sacerdote si appresta a sfruttare i vivi ed i morti ed iniziala pubblicazione mensile di un foglietto, diffondendolo per ogni dove. Riassumere quello che nei foglietti, che non fanno che ripetersi, veniva scritto, sarebbe sciupare il pregio di capolavori di untuosità ecclesiastica, di furberia, e della ignoranza la più supina non solo di ciò che è religione, poiché vi si riscontra il feticismo il più selvaggio, ma delle leggi elementari di grammatica. Onde crediamo necessario riprodurre in gran parte uno dei detti foglietti, avvertendo che esso reca V imprimatur della Curia Arcivescovile di Milano.
(1) Continuiamo a dare questo contributo analitico allo studio della psicologia religiosa durante la recente guerra, ritenendo di far opera sicura e serena di documentazione. Altri farà l’opera di sintesi: noi stessi pubblicheremo un altro contributo, e questo sintetico, a tale studio del nostro esimio collaboratore prof. Raffaele Corso, le cui lezioni di etnografia di quest'anno tratteranno tra l'altro, f! tema della «rinascita della superstizione nell’ultima guerra». (jV. d. D.)
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N. 10 - Pubblicazione Mensile - Aprile 1917 - C. C. con la posta
La Madonna della Provvidenza
PICCOLO MENDICANTE PER MARIA
Periodico mensile promotore dell’erigendo Tempio di Pantigliate.
Lettere, vaglia, valóri, raccomandazione di preghiere, scritti pel giornaletto e regali, il tutto indirizzare alla Veneranda Optra della Madonna della Provvidenza, o per essa M. Rev. Piero Longa, Limito per Pantigliate (Prov. di Milano).
Approviamo e benediciamo raccomandando quest’opera santa alla carità dei buoni.
t ANDREA C., Card. Arcivescovo
Affrettando il sospiro dei popoli. Onoriamo la Vergine Provvidenziale erigendole il suo Tempio Votivo Parrocchiale.
A vói mamme, spose, sorelle, congiunti tutti dei nostri soldati giunga questa lettera aperta.
Oh se fossi presente potrei dire a tutti quanto è buona, quale madre affettuosa potentissima è la Madonna della Provvidenza di Pantigliate. A Lei hanno ricorso nei passati giorni le mamme le spose, le sorelle dei nostri soldati. E al ricorso il conforto, le grazie di protezione, aiuti grandi, lagrime rasciugate, insomma una pioggia benefica di favori, di consolazioni tutte di paradiso, sparsi- dalla potente Mamma del Paradiso che è la Madonna. Oh sì, la Madonna è tanto buona, è la nostra Avvocata, ma in questo angolo di terra sembra die la Vergine Provvidenziale voglia aprire un’èra di trionfi e di grazie grandissime sulle file dei nostri soldati, e si dice: « Non abbiamo ricorso invano ». Sia benedetta adunque la cara Madonna, la Madre Divina di Gesù, Dio e Salvatore benedetto, la nostra Madre, Colei che a Pantigliate si chiama Vergine Provvidenziale. E il fine di tante intime consolazioni è che la Benedettissima Regina vuole una nuova sua Chiesa, un tempio Parrocchiale Votivo, un dono di tutte le mamme, le spose, le sorelle d’Italia. Il progetto chiamato Santo dall’Eminentissimo Superiore nostro il card. Arcivescovo di Milano sembra gradito alla Madonna. Tanti risposero al dolce invito: Onoriamo la Madonna. Ma il cammino da fare pei raggiungere la sospirata meta è ancora lungo.
Lire 90.000 il preventivo. Cominceremo quando si avranno L. 40.000, Anche per non tentare la Divina Provvidenza e sentirsi dire l’Evangelico detto: che prese a cominciare e non potette ultimare. Ma per raggiungere questa cifra sospirata ci vogliono ancora ben 22.500. Mamme, spose, sorelle, congiunti tutti dei nostri cari soldati, li volete benedetti da Maria? Onorate la Madonna, affrettate il suo Tempio foriero di vittoria alle armi italiane di Pace, aiutate
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l'opera della sua Chiesa. Deciso e sicuro do l'assalto al vostro cuore gentile. La mia arma non è un 305 no di certo, è un'arma innocua, soave perchè il cuore delle mamme, delle spose, delle sorelle italiane non è una fortezza inespugnabile. Le mie armi sono una preghiera una calda preghiera che lancio ai vostri cuori che amano la Mamma del Cielo e che nella Madonna ripongono, massime in questi giorni, voti e speranze. E qui Pantigliate si pregherà tanto la Madonna e per voi gentili Benefattori e pei vostri cari soldati. Mattina e sera porteremo i nomi dei nostri benefattori ai piedi della Vergine Provvidenziale e la gentil tutela di 'Maria darà tutte quelle benedizioni che il vostro cuore desidera nell'ora presente triste, angosciosa c trepidazione. Concorrete dunque in quella maniera che vi è possibile a realizzare quest'opera santa, e assumetevi l’incarico di essere propagatori, zelatori. Mamme, spose, sorelle, insegnanti, insomma voi tutte anime religiose, ricchi c poveri, non negate un'offerta che vi si cerca per quel tempio .di vero bisogno per un popolo e che si alzerà nell’azzurro cielo della vasta e verde radura a domandare la vittoria della nostra bandiera, la Pace alla nazione, la protezione pei nostri combattenti, e il fulgido drappo di gloria per coloro che il Signore nel suo sapiente consiglio ha voluto fra i caduti.
L’ Opera delle pietre parlanti - Facile Mezzo offerto a tutti per aiutare l’erezione della Basilica Parrocchiale della Madonna della Provvidenza.
La guerra, come si dice, volge nella ultima, sua fase. Al vostro cuore che ama il figlio, il fratello, lo sposo nelle trincee per compiere il loro sacro dovere avete detto: Pregherò tanto per te. Non è cosi? Ebbene, alla preghiera unite un sacrificio. Quello che vi si domanda non è gravoso, è alla portata di ogni borsellino del ricco e del povero. Ascoltate il progetto, ascoltando pure la voce del cuore che ama Maria.
Da un calcolo fatto per la costruzione della Basilica Parrocchiale implorante la pace occorrono 400.000 mattoni e la spesa di ogni pietra in posizione di fabbrica è di L. 0,25. Ora le pietre parleranno ? Mamme angosciate, spose, sorelle, volete grazie pei vostri combattenti ? Fate scrivere il nome del vostro diletto sopra le pietre della Basilica di Maria, scrivete anche il vostro, così sarà legato ad uno dei più cari ricordi che sarà il monumento della vostra pietà verso Maria. Ed ecco il modo. Questo foglio porta alcuni bigliettini, sono 12. Su questi bigliettini scriviamo il nostro nome, e inviato a Pantigliate, ai piedi della Vergine Provvidenziale sarà messo sopra i mattoni, e questi parleranno per noi. Vi piace il pensiero? Vi sembra bello, lettori carissimi? Dividetelo tutti e affretteremo la Reggia Mariana. È la Madonna che ci invita a tributarle questo fiore e ci darà in cambio conforti, le sue grazie, la Pace.
A semplice richiesta si manderanno altri moduli. I nomi dei donatori saranno accuratamente registrati in un apposito volume dove figureranno ordinali e distinti per provincia, volume che verrà conservato presso l’altare della Madonna della Provvidenza.
GENTILE PROPOSTA. — Sull’Altare della nostra Vergine Provvidenziale c’è un'urna. Raccoglie le Fotografie dei nostri eroici soldati. Chi vuole affidare alla protezione di Maria i suoi cari spedisca in busta aperta il Ritratto col nome e Paese (bollo di Cent. 5). La Madonna li proteggerà. Un buon numero sono già consacrati alla Santa Regina. Mamme, spose, affrettate la consacrazione. Si prega unire una offerta per la costruzione della Chiesa.
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Pei nostri Benefattori distinti
Oh lo fossero e in gran numero, a questo stuolo benedetto eterneremo la nostra riconoscenza e cioè:
Chi offre L. 1000 il loro nome scriveremo sulla colonna dell'altare della Vergine Provvidenziale, in una lapide di bianco marmò. —- Chi offre L. 500 collocheremo il loro nome nelle due colonne di entrata del-l'Altare della Madonna della Provvidenza. — Chi offre L. 250 la loro offerta sarà registrata nella colonna a destra dopo il Battistero e le offerte di L. 100 alla sinistra dopo la cappella di S. Anna.
Nelle lesene della porta di entrata saranno registrati gli offerenti di L. 50. Ispiri tanti cuori ad aiutare l'opera tutta sua la nostra amata e cara Signora la Madonna della Provvidenza. Ricordiamoci tutti che nell’ora presente, fosca di tristi eventi, ogni nostro sacrificio sarà compensato con grazie e favori.
Requiem ai Martiri cari — L’opera pietosa del Ricordo e Pace
Pei caduti la patria ne registra il nome sul libro di onore, Dio sul libro d’oro degli eletti, nella chiesa della Madonna della Provvidenza lo si scolpirà sul marmo. Ma perchè il ricordo non sia sterile il suffragio, le preghiere, le sante Messe affretteranno alle anime il Cielo. Mamme, spose, sorelle che come tante Rachele piangete sui cari martiri, iscrivete nella Lega del Ricordo e Pace l’amato perduto, ne avrete conforto al dolore, e il vostro diletto vestito del fulgido drappo di gloria sorriderà dal cielo pregando per voi.
La Lega è anche per tutti gli estinti. Ricordiamone tanti sotto il Irono di Maria. '
NORME. — Due sezioni' Il semplice nome e cognome scritto sopra un comune lastrone si colloca dietro offerta di L. 5.
La lapidina che porta inciso il nome, cognome, la patria si colloca dietro offerta di 12,50.
Ricordo ài donatori delle piètre parlanti
Abbiamo in pronto una nuova preghiera alla Madonna, come pure una nuova Immagine. La spediremo a chi offrirà una pietra, cioè lire 0,25. S'indichi se si vogliono le preghiere, oppure la miniatura.
Offerta delle Pietre Parlanti pel Tempio della Vergine Provvidenziale in Pantigliate, Provincia di Milano — Ogni pietra cent. 25.
Nome ................
Cognome ........
Paese ..............
Prov
ì Nome .................................
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Prov. .....:...........................
Nome ...................
Cognome ...........
Paese .................
Prov
Nome
Cognome ..........
Paese ................
Prov.
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Dei tempi votivi, di cui quello di Pantigliate è un piccolo campione, parleremo appresso. Continuiamo per ora ad occuparci dell’esibizionismo di santi.
Pertusio Canavese (1040 abitanti, provincia di Torino) ha per suo protettore celeste S. Firmino e, per farlo valere, il parroco di quel borgo pubblica regolarmente un giornaletto: La voce di S. Firmino e dell'immacolata di Lourdes, che è la gazzetta ufficiale delle benemerenze del detto santo, e stampa, col debito visto della censura e con l’approvazione ecclesiastica, cose come queste che seguono, che desumiamo dal fascicolo marzo-aprile 1917 del prelodato periodico. Sotto il titolo S. Firmino e i soldati, vi troviamo
Abbiamo parlato della corrispondenza; dobbiamo aggiungere che essa è tutto un inno in onore e gloria di S. Firmino. Narrazioni commoventi di pericoli scampati per prodigio... proiettili che spandono intorno con micidiale scoppio la morte e lasciano incolume il pio soldato cui è scudo la medaglia del nostro Santo, bombe cadute a due passi e rimaste miracolosamente inesplose... ferite che erano mortali e che in pochi, giorni guariscono... sedute vertiginose nel baratro dei precipizi arrestate d’un tratto dalla sporgenza di un sasso, da un virgulto che sembrano messe li dal Santo medesimo a portata di mano di colui che la sua protezione vuole da certa morte scampare...
Di tali « narrazioni commoventi di pericoli scampati » per la protezione di S. Firmino desumiamo un campione dallo stesso giornaletto (pag. 14):
Ripa ticinese. — Voglia annunciare una grazia ottenuta in quest’ultimo combat timento presso Gorizia. 11 soldato V. G. trovandosi in pericolo prese l’immagine di San Firmino invocandolo. Bastò questa invocazione per essere liberato dal nemico. E. R.
Nè S. Firmino si occupava solo a salvare i soldati al fronte, ma pare si dedicasse anche a fare opera d’imboscamento. Leggiamo:
Lu Monferrato. - Grazie infinite debbo a san Firmino e a N. S. di Lourdes per la riforma, di mio marito che mai avrei pensato. — G. M.
Un'altra signora da Torre San Giorgio «implora grazia dal Santo per tener lontano dal fronte suo marito».
Questa multiforme e in parte illegale attività di S. Firmino si tramuta naturalmente in una larga serie di oblazioni, tangibile prova di riconoscenza per giazia ricevuta o acconti per favori da ricevere.
Ed ecco altri saggi della potenza di S. Firmino, riferiti nello stesso periodico (maggio-giugno 1918):
Gambata. — La famiglia P. G. riconoscente a san Firmino che ha protetto i suoi cinque figli offre... Io pure per riconoscenza le invio la presente cartolina-vaglia rinnovando la preghiera di ricordare al santo i miei tre nipoti soldati. C. C.
Torino. — La presente per una Messa a san Firmino in ringraziamento di grazie ricevute. B. M.
Cervignasco. — Offro in ringraziamento a s. Firmino, invocando benedizioni sulla mia famiglia e sui miei figli soldati. C. G. D.
Bosconero. — Offro al potente san Firmino, in ringraziamento di favori ricevuti, -e onde continui a proteggere i nostri cari soldati. B. D.
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Celi arengo. — Mio figlio mi scrive di aver esperimentata la potenza di s. Firmino che lo protesse in mezzo ai pericoli in cui si è trovato. Invìo.l'obolo della riconoscenza.
C. T.
Zona di guerra.—- Mi affidai al potente Salito e finora sempre fui protetto. Mi mandi più copie del libretto: L'Almanacco del soldato. Tanti dei miei compagni lo desiderano, fiduciosi anche loro nella protezione di san Firmino. Soldato M. B.
Livigno. — Da lungo tempo ero priva di notizie di un mio nipote al fronte. Promisi una offerta a s. Firmino e la pubblicazione della grazia appena avessi avuto notizie. Il santo ben prestò mi esaudì ed ora esprimo la mia riconoscenza. C. C.
Zona di guerra. — Col medesimo corriere sono lieto di inviarle... e rinnovare così con cotesta modesta offerta la mia riconoscenza al gran Santo protettore dei soldati, s. Firmino, che sempre invoco nelle mie povere preghiere, implorando la sua continua protezione e le sue elette benedizioni sui miei cari fratelli e cugini, compagni d'armi, nonché su me stesso. Voglia il buon Santo accogliere ancora le mie suppliche e nel contempo gradire i miei sentiti ringraziamenti di tutte le grazie ricevute.
Cap. Magg. R. L.
Villafranca Piemonte. — Le invio questa modesta offerta in ringraziamento a s. Firmino che ha protetto i soldati posti sotto la sua protezione. G. M.
Carré. — In ringraziamento a san Firmino che protesse mio marito c mio fratello. Di lóro eravamo privi di notizie da lungo tempo ed ora finalmente sappiamo che sono vivi. Il Santo continui a proteggerli e protegga altri soldati a lui affidati. G. L. G.
Issiglio. — Si canti una Messa ad onore del Santo che protesse mio marito.
F, D.
Zona di guerra. — Nel momento del pericolo con fiducia invocai il nostro caro Protettore e fui esaudito. Invio per un triduo di ringraziamento e perchè mi continui sempre la sua protezione. Gap. S. B.
Zona di guerra. — Devo la vita al nostro Santo protettore. Sòldato B. L.
Zona di guerra. — Per una Messa dinanzi la Reliquia onde il Santo mi continui la sua protezione come pel passato. Sol. S. R.
La medesima Voce di San Firmino ci dice che un cuore d’argento, posto ai piedi dell'immagine del santo, è destinato a contenere i nomi dei soldati che richieggono 0 per cui venga richiesto tale favore (1). Questa del cuore d’argento è una trovata che è stata sfruttata anche altrove, come vedremo.
(1) Delle sottilissime arti di cui si serve il rev. d. Beneitone, rettore del Santuario .di S. Firmino e direttore responsabile del citato giornaletto, diamo qui alcuni indici, tratti dal n. maggio-giugno 1918 del bollettino stesso:
« La cappella del S. Cuore di Gesù. — Per propiziare le grazie di Maria SS. non ci è modo migliore di glorificare il Divin Figliuolo, e questo hanno compreso le anime sinceramente devote della Madonna di Lourdes, accogliendo l'invito che abbiamo ad esse rivolto per l'erezione di una Cappella in questo Santuario, dedicata al Sacro Cuore di Gesù.
«Il disegno che verrà riprodotto nelle colonne del Bollettino appena avrà l’approvazione dei nostri venerati Superiori, sarà in bella armonia di stile con tutto l’artistico tempio, e non potrà a meno di riuscire nell’esecuzione magnifico. A questa esecuzione concorreranno volonterosi gli oblatori per dare novella prova di pietà e .di zelo. Giova ammassare ricchezze o rinchiudere l’oro negli scrigni, 0 peggio ancora, sperperarlo in vane e peccaminose prodigalità? Quanto meglio il destinarle ad opere buone, nella casa di Dio, là dove nè rapinatore può trafugarle nè roderle la tignola, come dice il Vangelo. I nomi di tulli i piccoli offerenti verranno racchiusi in un gran cuore d’argento che sarà collocato ai piedi della statua del S. Cuore, di quel Cuore che tanto ci ha amati e che ha promesso grazie speciali ai suoi devoti. Nella làpide marmorea che collocheremo nella nuova Cappella verrà scolpito il nome di tutti coloro' che invieranno
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San Cristoforo non è da meno di altri beati nella protezione dei militari. Lo assicura il Corriere d’Italia di Roma, nel quale (n. dei 2 luglio 1917) si leggeva sotto la rubrica «Cronaca religiosa»:
. ?• fé*“?*0! 25 9orr- si celebra la festa di S. Cristoforo martire; il gran patrono
nei pencoli più subitanei della vita. Quante famiglie, che hanno a lui ricorso per la salvezza dei loro cari combattenti al fronte, attestano continuamente i meravigliosi favori che ne hanno ottenuto. Leone XIII concesse Indulgenze e Pio X istituì ed eresse canonicamente 1 Associazione dei suoi devoti con sede in questa Chiesa. Ultimamente fu dipinto da valente mano il grande arazzo del Santo, che in questa iccasione solenne viene innalzato sopra all'altare maggiore.
Città di Castello vanta una certa sua B. Margherita, soprannominata «La Cieca della Metola ». Così anzi è denominato il bollettino che ne celebra le lodi, periodico religioso mensile, del quale il direttore responsabile è un canonico. Dal n. io dell’anno V (i° febbraio 1917), togliamo:
Santa Lega di Supplicanti
PER LA INCOLUMITÀ DEI NOSTRI SOLDATI.
La questua raccolta in questo mese nelle cassette poste ai piedi dell’Urna che racchiude le spoglie mortali della cara nostra B. Margherita, ci è stata di conforto non per la somma in se stessa, ma come segno che la nostra proposta di una Lega di Supplicanti per la incolumità dei nostri soldati ha incontrato il favore della Beata e l'approvazione del popolo. Di fatto, sono innumerevoli i soldati che o direttamente da sé stessi o indirettamente a mezzo della madre, della sposa e delle sorelle sono stati raccomandati alle preghiere nostre e di tutti i devoti della Beata; e per quanto è a nostra conoscenza, coloro che sono stati posti sotto la protezione di Lei e che a Lei sono raccomandati con la recita quotidiana di sette Pater, Ave e Gloria, sono ancora tutti incolumi nonostante I pericoli a cui sonosi trovati a fronte. Ed è perciò che con piena fiducia noi torniamo a raccomandare la Santa Lega di supplicanti per la incolumità .dei nostri soldati quale fu da noi proposta; e preghiamo quanti ricevono questo periodico a farsene propagatori presso le madri, le spose e le sorelle «lei valorosi nostri Soldati che compiono il loro dovere verso la Patria e ne rimarranno consolate.
In questo mese abbiamo trovato in una cassetta a’ piedi dell’Urna della Beata una busta con L. 7 c la seguente scritta: « B. Margherita, con la più grande fiducia pongo sotto la vostra protezione il mio caro che da parecchi mesi si trova alla fronte e lo
almeno lire 50. Il nome poi di coloro che ci invieranno o raccoglieranno almeno
L. ìoo verrà scolpito in oro sopra dell'altare medesimo. Si può fare scolpire il nome di chi si trova davanti al pericolo sul campo di battaglia e che si affida al Cuore Sacratissimo di Gesù.
« A tutti gli offerenti invieremo col librettino L’Amico del soldato una bellissima immagine del Sacro Cuore e ai cari collettóri e gentili collettrici daremo in dono un bellissimo libro di devozione stampato in questi giorni. In questo libro il divoto di san Firmino e della Madonna di Lourdes troverà bellissime preghiere appropriate.
«La Medaglia. — Continuano le richieste di medaglie del nostro caro Santo. Venti
e C\P’* 1‘ ne abbiamo spedite nei soli due scorsi mesi. È la speranza di tanti cuori ”? ?• .F,rm,no che difenda, guardi, protegga lo sposo, il fratello, il fidanzato, l'amico. Noi intanto nella dolce soddisfazione che proviamo al vedere l’opera nostra largamente benedetta e l'àccrescersi sempre più i devoti del nostro caro Santo, proseguiremo nel nostro lavoro inviando la cara effigie di san Firmino a coloro che ce ne faranno richiesta. Giunga la " "
cimenti, a consolarli nelle loro che in Cielo havvi chi
cara medaglia tra 1 nostri amici ad avvalorarli negli aspri ore meste, a difenderli dì e notte in ogni pericolo, ricordando li protegge presso la divina maestà di Dio ».
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raccomando alle preghiere dei vostri devoti. I. ». Lo scritto si raccomanda da sè; ma noi unendovi tutti gli altri, che comunque ci siano stati raccomandati, preghiamo vivamente i devoti della Beata a non dimenticare nelle loro orazioni quanti dei nostri soldati sono posti sotto la protezione della Cieca della Metola.verchb sani e salvi al più presto siano restituiti ai loro cari a godere del trionfo della Patria nella pace sociale.
Il frutto delle pie industrie del canonico direttore è riassunto nelle ultime pagine dello stesso numero di quel periodico nelle seguenti cifre:
« Offerte raccolte dal i° maggio 1916 al 21 gennaio 1917. . - L. 3615,42
« Sottoscrizione speciale per l'organo ........... » 2785,60 ».
Per invogliare maggiormente ad inviare offerte, il direttore del periodico ha pensato di far concorrere gli oblatori, i quali vengono ripartiti in serie di novanta, e sono contraddistinti con un numero ciascuno, a lotterie, la cui posta sono alcune cartoline illustrate. Leggiamo infatti nel ricordato periodico (pag. 74):
Nella estrazione del io febbraio al numero corrispondente al primo estratto per la ruota di Roma nella sottoscrizione generale sarà assegnato il premio delle 40 cartoline illustrate ed al numero corrispondente al primo estratto per la ruota di Firenze nella sottoscrizione speciale per l'organo sarà assegnato il premio delle 100 cartoline illustrate. Gli stessi premi saranno assegnati alle nuove serie di novanta consimili offerte, che si inizieranno immediatamente nella fiducia che siano presto generosamente compiute.
La « Madonna di S. Teonesto » sta a Masserano (4300 ab., in provincia di Novaia). Essa ha il proprio bollettino, che ha per titolo Salus Infirmorum, e che è « pubblicato mensilmente a cura del Rev.mo Capitolo della Collegiata di Masserano ». Questa Madonna fa relativamente a buon mercato le sue grazie. Giudicatene da queste brevi note che traggo dal Salus Infirmorum (numeri di maggio e giugno 1918):
Masserano. — Sossi Pierina per una novena di luce a favore del marito al fronte lire 4,50.
Molta Baluffi (Cremona). — Per la protezione della cara Madonna sul cap. maggiore Pietro Magni, prigioniero in Ungheria L. 2 — N. N. per 5 giorni luce L. 3.
Torino. — Per l’accensione di tutte le lampadine della Madonna nel giorno 3, giorno auspicatissimo delle nozze del dott. prof, suo fratello, Isabella Gallia L. 5 — Pierina e Cesarina De Nicola alla miracolosa « Salus infirmorum » per la sua protezione sopra di noi tutti e^sul caro fratello al fronte L. 1.
Masserano. — Pia persona per raccomandare alla Madonna il figlio sotto le armi L. 1 —N. N. per un giorno luce L. 0,50 — Siberino Teresa per 2 giorni luce L. 1,20 —- Una madre di famiglia per la protezione dei suoi figli 2 giorni luce L. 1,50 —- Sca-labrino Teresa per un giorno luce L. 1 — Pia persona ringraziando la Madonna per grazia ricevuta L. 1 Un padre di famiglia in ringraziamento per grazia ricevuta L. 2 — T. V. per grazia ricevuta e per avere la protezione, oltre una S. Messa di ringraziamento L. 3 — E. F. per impetrare una benedizione dalla Madonna L. 2 — N. N. per un giorno di luce L. 1 — Pia persona per grazia ricevuta I.. 1 — Costa Giu-* seppina L. 1 — Monti Pierina L. 0,60.
La Madonna del Buon Consiglio di Castiglion Tinella (2056 ab., piov. di Cuneo) vuole una nuova cappella ed un trono di marmo. E avrà certamente e la cappella ed il trono marmoreo poiché c’è stata la guerra e il procuratore della detta Madonna, sac. Ahitto Andrea, lavora sagacemente all’uopo. Spigoliamo, dagli ultimi nu-
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meri del Bollettino della Madre del Buon Consiglio venerala nel Santuario di Casti-%lion Tintila. del quale bollettino don Alutto è direttore responsabile:
I SOLDATI COMBATTENTI SUL FRONTE Al PIEDI DELLA MADONNA DEL BUON CONSIGLIO. — Sull’altare della prodigiosa Immagine venerata nel nostro Santuario sta deposto permanentemente un registro dei soldati italiani, che da ogni parte domandano di esservi iscritti, onde i loro nomi stieno sotto gli occhi stessi della Madre del Buon Consiglio come vive voci supplicanti la potente protezióne di Lei che li difenda tra gli aspri pericoli della guerra.
Invitiamo perciò tutti a mandarci il nome de' loro cari soldati coll'indirizzo preciso del Corpo, Reggimento, Compagnia, ecc. a cui appartengono, per essere iscritti nel registro e faranno cosa buona per impegnare maggiormente la bontà della Madonna del Buon Consiglio, se vorranno far tenere qualche offerta pel suo Santuario.
E le offerte piovono. Se ne giudichi da questo campionario che togliamo dal numero di aprile 1917:
Castiglion Tintila, Morando Pasquale soldato L. 20 - Castclgofjredo, Prignacca Maria Cessi L. 3 - Castiglion Tintila, N. N. L. 5; Negro .Giovanna per ringraziamento di guarigione di figlio L. 3 - Vesime, Bonino Pietro L. io - Bubbio, Roveta Teresa per ottenere la protezione della Madonna sul suo figlio soldato L. 2,05 - Montaldo Roero, Bertello Lucia domandando di ascrivere suo figlio sul libro dei soldati che sta sull’altare della Madonna L. 0,50; Vaschctto Bartolomeo perchó venga ascritto suo fratello soldato sul detto registro L. 0,50 - Guareno, Rinaldi Tersilla per grazia ricevuta e implorando continuo aiuto dalla Vergine SS. L. 1; Palla vicino Olimpia per grazia ricevuta implorando sempre più l’aiuto della celeste Consigliera L. 2; Ceppa Maria raccomandando alla Madre del B. C. il figlio soldato L. 0,50 - Nizza Monferrato, Obernitto Cat-terina per ottenere le celesti benedizioni della Madonna L. 0,45 - Torino. Montabone Emilia pei- ottenere dalla Madonna del B. C. una tanto desiderata grazia L. 2,80 -Castagnole Lame, cap. magg Colombaro Battista per grazia ricevuta ed ottenerne altre L. 5.
Offerte di olio. — Castagnole L., Giordano Margherita L. 1,50 - Castiglion Tinello, Falcheri Cristina, un litro di olio per ottenere la continua protezione della Madonna del B. C.; Dogliotti Domitilla. una bottiglietta d'olio per ottenere la guarigione di una. nipotina.
Offerte di oggetti. — Isola d’Asti, Massasso Catterina, una camicia per soldato; Massasso Amalia per gr. ricev. e per ottenerne un’altra, paio d'orecchini d’oro - Cartelli, Róbino Catterina una camicia per figlio soldato - Castiglion Tinello, Docliotti Domitilla un bel quadro ricamato in seta, coi ritratti de’ due suoi figli soldati - N. N. un quadro ricamato in seta per grazia ricevuta - N. N. una camicia per ottenere grazia specialissima.
Che ne faccia la Madonna di Castiglion Tinella delle camicie, non sappiamo. Sappiamo però che accetta anche cambiali. Leggiamo infatti in altro numero dello stesso bollettino, dopo una non breve filza di altre offerte:
Un soldato ottenne dalla SS. Vergine un favore contro tutte le speranze umane per cui non saprà mai esserle sufficientemente riconoscente; offre per voto precedente-mente fatto alla SS. Vergine del B. C. una cambiale di L. 100 che pagherà appena gli sarà possibile, per essere impiegate nel trono erigendo alla prodigiosa Immagine o in altro servizio del Santuario. La potente Madonna continui a proteggere il giovane soldato che tanto amore e gratitudine conserva per la sua celeste protettrice.
La Madre del Buon Consiglio — sta scritto in ogni numero del Bollettino — concede le grazie le più preziose e desiderate ai generosi benefattori del suo Santuario. Un esempio specifico, che merita di essere citato ad edificazione, lo troviamo nel
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numero di gennaio del Bollettino, nel quale sj legge quanto segue sotto il titolo: « Grazie ricevute dalla Madre del Buon Consiglio *>:
Non vogliamo lasciar correre sotto silenzio un tatto che torna ad onore c gloria della Madre del Buon Consiglio e ricorda la religiosità di un nostro carissimo amico della borgata del nostro santuario, il soldato richiamato Morando Giovanni fu Battista, il quale per la sua schietta bontà e per le sue virtù civili e cristiane era qui da tutti amato, e la cui morte avvenuta il 14 settembre scorso sul fronte, lasciò nel cuore di tutti i Castiglionesi universale e doloroso compianto.
Egli nella sua lettera che scrive dalle trincee alla madre ed alla suà moglie Valentina e che qui riportiamo, racconta di aver ricevuta una grazia singolarissima dalla Madonna del Buon Consiglio :
14 luglio 1915.
C-ra Madre e cara Valentina,
Ora vi dico una cosa che non vi ho ancora detto. Oggi stesso compie un mese che ho ricevuto una grazia da Maria SS. del Buon Consiglio, mentre La invocavo di aiutarmi in un terribile momento.
Il giorno 24 giugno avanti mezzogiorno il nemico si è messo a sparare delle cannonate sopra di noi. Era una tempesta di granate; non si sapeva più dove ripararsi. Io mi sono messo in mezzo a due grosse pietre con la mantellina ben doppiata Sulle spalle, e nel mentre arrivò una granata che scoppiò a pochi passi da me e scoppiando gettò in tutte le direzioni tante pallottole, e una è venuta a battere sulla mia mantellina forandola direttamente e facendo nove buchi, perchè io l'aveva ben doppiata in nove pieghe, e si è fermata all’ultima piega che era sulle spalle, e non mi ha toccato niente la giubba, ed io mi sono nemmeno accorto in quel momento: e ne sono poi accorto dopo che avevo vista la mantellina che era tutta forata, e tro ndo la pallottola nella mantellina.
Tra me ho subito pensato che era un miracolo che mi aveva fatto la Madonna, mentre la invocavo: M ater Boni Consilii, salvatemi da questo pericolo di morte.
Cara mamma e Valentina, di giorni brutti ne ho passati, ma come questo del 24 giugno non ne ho più passati.
Sono il vostro
Morando Giovanni.
Come si vede, anche la Madonna del Buon Consiglio di Castiglion Tinella fa lo cose a metà, poiché il povero Morando, scampato da morte il 24 giugno 1915, moriva in battaglia il 14 settembre 1916. Egli, forse, non aveva impegnata sufficientemente la bontà della Madonna del Buon Consiglio.
II porre un cuore d'argento ai piedi di una qualche immagine, per racchiudervi il jiome di militari che a quel tal santo o a quella tale madonna si raccomandano in mòdo speciale, ha trovato un imitatore ih un parroco di Lecce che compila un altro giornaletto mensile intitolato: Suffragio perpetuo provvidenziale, nel quale (numero di maggio 1918) troviamo questo appello:
Ai miei cari soldati. — Se sempre v’ho tutti tenuti nel cuore e presenti nelle mie preghiere, quanto più in questo mese verrò a ricordarvi innanzi all'altare di Maria!.. Ogni sera farò pregare in modo speciale dal popolo e dai cari orfanelli la cara nostra Madonna, perchè dovunque vi assista e vi protegga.
Ho anzi pensato, dietro il suggerimento di altri, di offrire a chiusura del mese di maggio, un bel cuore d’argento che un angelo sosterrà ai piedi di Maria. Nel cuore v;
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saranno rinchiusi tutti i nomi dei soldati che ci hanno espresso il loro desiderio, e su di esso verrà inciso il motto - Cuor di Maria, salvaci-.
Chiunque di voi vorrà parteciparvi, ci scriva subito e, se crede, unisca anche il suo obolo.
Di tutto verrà nel numero venturo fatta speciale menzione.
O cari miei, vi bacio e vi benedico con tutta l’anima, augurandovi di cuore ógni bene.
Il vostro Parroco.
Non v'ha dubbio che la madonna leccese abbia avuto il suo « bel cuore di argento, sorretto da un angelo, poiché gli appelli di quel parroco non restano inascoltati. Égli infatti si era messo in testa di fare una porticina d'argento massicciò e d'oro e di pietre preziose al tabernacolo dell’altare di un suo santuario. All’invito fatto ai lettori del Suffragio perpetuo provvidenziale, questi hanno risposto largamente, così che nel numero di gennaio-febbraio 1918 si leggeva nel periodico stesso:
Per la porticina del tabernacolo. —- Piccolo Fiore: Orecchini e spilla d’oro -sig.na Passagnoh Bianca, oggetti in argento - sig.ra Bassaby Maria, L. 5 - Nob. Savena Personè, m?neta d’argento e vari oggettini - Sig.ra Elvira Taurino, catena e gingilli d argento - Sig.ra Del Prete-Romano, posata d’argento - Massa Elisa, L. 2 - Antonietta Licastro L. 2 - Sottoscrizione di un gingillo lire 60 - Figlia di Maria, varie posate d’argento - N. N. Catenina é vari oggettini in argento.
N. B. Siamo in grado di annunziare che l’artistica porticina è già in lavorazione presso la Ditta Torchio di Roma. Ci si scrive però che occorrono altri 400 grammi di argento ed altri 12 d'oro per il compimento artistico della stessa. Aggiungiamo che oltre dell’oro e dell’argento l’artista ha voluto anche incastrare in vari rilievi le pietre preziose che ci sono state offerte insieme a qualche oggettino, mancherebbero poche altre a compire il disegno e non vorremmo, a dir vero, mescolare con le buone le lalse. Innanzi a Gesù tutto dev'essere puro! tutto ricco! tutto degno della sua reale presenza. Aspettiamo e presto!
A tale ingiunzione perentoria si sono affrettati a rispondere i fedeli tanto che, nel numero successivo del Suffragio, la «porticina» diventava «le porticine» del tabernacolo. Difatti, dopo un elenco assai più lungo del precedente di offerte di orecchini, di spille, di catene, di braccialetti, di cucchiai in metallo prezioso e di denaro contante, v’è questa annotazione:
La nostra cara porticina del tabernacolo è già completata, ehi 1’ ha vista ne è rimasto entusiasta. Noi non finiamo di ringraziare quanti ci hanno aiutati a compiere quest'ardente nostro desiderio. Siamo anzi doppiamente riconoscenti vèrso di loro, perchè ci hanno anche aperta la via ad ideare l'altra porticina del tabernacolo che è all’altare della nostra Titolare, per cui ci auguriamo non sia seconda alla prima.
Se all'interno della prima porticina si è inciso: Domine, setnper tecum, che è il migliore augurio che sentiamo di offrire a tutti gli oblatori; nella seconda si inciderà l’altro augurio: Domine, trahe me post te.
Ma nil sub sole novi. Anche la luminosa idea del parroco leccese non è che una copia. Già fin dal 1913 i rettori della chiesa del Gesù Nazzareno in Torino avevano adoperato la stessa arte per lo stesso scopone, ispirandosi a tale esempio, una abbonata del periòdico II Purgatorio visitato dalla carità dei fedeli {Rivista mensile dell’Associazione del Sacro Cuore di Gesù in suffragio delle anime benedeUe)\$TO'ponevz di raccogliere, mediante appello alle anime pie, oggetti d'oro, di argento, gemme, pietre preziose, per eseguire la completa rivestitura in lamirtà d'oro deEt aber n acolo
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della nuova chiesa del S. Cuore al Lungotevere Prati in Roma. Le gemme dovevano servire per la decorazione dell’ artistica porticina (r). È logico che il direttore del. Purgatòrio non abbia lasciato cadere tale proposta: ad illustrarla dedicava anzi, nel n. 271-272 (febbraio-marzo 1917) del suo periodico, ben nove pagine, di cui riferiamo solo la parte conclusiva:
Oh! sì, cari lettori, raccogliete la santa proposta dell'Associata torinese, venite col vostro oro e le vostre gemme a prepararé il nuovo tabernacolo a Gesù nella sua chiesa in suffragio delle anime sante. Unitevi nella pietà generosa i cari vostri defunti. Non piangete per essi: fate che operino il bene anche ora per mezzo vostro.
Certo, voi rimarrete talora pensosi e mesti dinanzi a qualche oggetto appartenuto ai vostri cari! forse un anello, ricordo di fede inviolata, forse un ciondolo che circonda sembianze amate, un orologio, forse, fermatosi per sempre all'ora funesta in cui si disse: « è spirato », e altri monili e gioielli che insieme col ricordo ravvivano il dolore, forse gioie ed ori ohe serbavate -per sposi, fratelli e figliuoli che partili per difendere la patria, non tornarono più, fulgidi eroi del dovere nobilmente compiuto...
Ebbene, chiedete tacitamente ai vostri cari, che pur vivono intorno a voi, realmente ancora, e vivranno eterni, dite: Eccoli i vostri gioielli; che volete farne? Volete offrirne alcuno per far d'oro il tabernacolo del nostro Gesù ?
E state a sentire la risposta; perchè in fóndo al cuore essi vi risponderanno... Poi fate come essi vi diranno.
Avrete contribuito non solo a rendere più bello il tabernacolo di Dio sulla terra, ma ancora a ravvicinare per le anime che piangete, i tabernacoli eterni della gloria.
Non è forse r elemosina 'espiazione che copre la moltitudine dei peccati ? E non giova forse ai membri della Chiesa d’oltretomba il merito dei loro fratelli della Chiesa militante?
D’altra parte sappiamo dal Vangelo che Gesù non lascerà senza premio le azioni pietose fatte a lui ed ai suoi poveri. Egli dirà un giorno ai giusti: « Venite, benedetti dal Padre mio: ero pellegrino e mi alloggiaste ». Oh ! avventurati quelli che non solo riconobbero lui nei poveri pellegrini fratelli, ma in lui Eucaristia, il grande Pellegrino, e a lui offrirono la più decorosa, fraterna ospitalità nei Tabernacoli dei nostri altari! Questa magnifica speranza sorregga i cuori afflitti, e li induca alle più generose offerte.
Scriveremo i nomi dei donatori e dei loro cari intorno alla lamina d’oro che rivestirà il tabernacolo della nuova chiesa, onde Gesù si sentirà circondato perenne-mente dagli amici, dai fratelli, dai figli. Oh, dolce dimora! I nostri cuori, i cuori dei nostri cari scomparsi, staranno con lui nella pace del Tabernacolo. Avremo in qualche modo avverato il bel sogno di S. Pietro sul monte, quando diceva al Signore, trasfigurato nella nube: - Signore, quanto è dolce star qui! ».
Ma l’Apostolo non osava chiedere un solo tabernacolo per tutti... Noi sì, per chè Gesù ci ha detto che dove sta lui vuole che siano i suoi amici. Egli solo è il nostro tesoro, e noi pure avremo il cuore là dove è il nostro tesoro... E se mai il nostro misero oro ci avesse presa qualche fibra del cuore noi lo gittiamo nel tabernacolo il nostro oro, e con lui anche le ultime fibre del cuore, perchè, come l’oro nel fuoco si purifichi e si affini questo cuore nelle fiamme della carità eucaristica.
•Abbiamo rimarcato in questa prosa apologetica l’accenno ai poveri soldati morti. Un luogo così comune ed un motivo così commovente non poteva mancare.
(1) Notiamo qui che nessuna eco di consensi, ma ruvide ripulse e biasimi gravi, ebbe un sacerdote italiano, don Pietro Bertelli di Milano, che osò proporre che tutti i metalli preziosi, esistenti nelle chiese, nei santuari, nelle cappelle, fossero, previa sconsacrazione, donati allo Stato, non per alimentare la guerra, ma per soccorrerne le vittime: vedove, orfani, genitori di soldati morti. «Gli ori e gli argenti nelle chiese ■—- scriveva don Bertelli — sono un insulto a Gesù finché un fratello nostro manca del necessario ».
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Ma esso non manca neppure in altre pagine del Purgatorio. Troviamo, ad esempio nello stesso numero una lunga serie di «lagrime e suffragi ai nostri prodi morti in guerra » delle quali lagrime e dei quali suffragi ecco qualche piccolo esempio:
12. In punto di morte uno stuolo di bianche anime circonderà il vostro letto. Direte: Chi siete voi, donde venite? E quelle: Noi siamo le anime dei soldati da voi suffragate. Gesù stèsso ci manda a confortarvi e presentarvi al suo cospetto.
O Gesù, Giudice e Padre delle anime, donate, vi preghiamo, alle anime dei nostri soldati, l'eterno riposo.
Pie lesu Domine, ecc.
. 18. Gesù, abbandonato dai suoi discepoli nell’Orto, esprime.al vivo lo stato compassionevole delle anime di tanti nostri soldati, abbandonate nel Purgatorio. Povere anime, esse ardono nel fuoco dimenticate dai parenti e dagli amici, e forse da quelli che essi beneficarono in vita. Accorriamo noi a suffragarle.
O Gesù, pel vostro abbandono, donate, vi preghiamo, alle anime dei nostri soldati, l’eterno riposo.
Pie lesu Domine, ecc.
19. L’abbandono dei parenti! quale strazio al cuore dei nòstri soldati, in quale profonda malinconia non li avvolge nel Purgatorio! Possibile, essi esclamano piangendo, che al mondo non vi sia più nessuno che ci appartenga? Ma no, i nostri cari ci ricordano, baciano quel che ci appartenne, piangono sulla nostra tragica fine; ed i suffragi? Dobbiamo qui penare, qui ardere, senza un sollievo, senza un refrigèrio; e sino a quando?
O Gesù, abbandonato sulla croce dallo stesso vostro Padre, donate, vi preghiamo, alle anime dei nostri soldati, l'eterno riposo.
Pie lesu Domine, ecc.
21. Se nel Purgatorio vi sono tenebre. Maria è là luce che le rischiara. Oggi, piccolina, la Vergine si presenta al Tempio, dal quale esce soltanto per rendere gli estremi uffizi e versare lagrime sulla morte dei suoi genitori. Quelle lagrime consacrano le nostre, che versiamo su quelli che ci appartennero, e più non sono. Maria ama. i soldati. Ella è là, in mezzo ad essi, li sottrae dai pericoli, li assiste in punto di morte, li sovviene in Purgatòrio. Che buona Madre!
O Gesù, Figlio di Maria Vergine, donate, vi preghiamo, alle anime dei nostri soldati, l’eterno riposo.
Pie Jcsti Domine, ecc.
Naturalmente ritroviamo i soldati anche nella sottoscrizione. Leggiamo, ad esempio, nella stessa dispensa (pag. 69):
Nei grandi pericoli. — Arezzo. — Mandò un’offerta per il periodico e per una messa al S. Cuore in suffragio delle sante anime, per ringraziarlo di avermi sempre guardato il nipote nei grandi pericoli; egli scrive di star bene, sano e salvo, gratissimo al S. Cuore ed alle sante anime (1).
(1) Nella stessa pagina sono, fra le altre, queste curiosissime ■■ relazioni di grazie -: Per l’anno passalo. — Spedisco limosina per due messe di ringraziamento per i favori ottenuti l’anno passato. Che nel nuovo anno possano le sante anime essere le mie ■protettrici negli affari e quelle dei miei figli che abbiano a conservarsi buoni.
P. C.
Buon raccolto. — Casale M. — Voglia far celebrare un triduo di messe in suffragio d.elle anime del Purgatorio in ringraziamento, come già in vari anni scorsi, per aver avuto un buon raccolto di uva nelle proprie terre.
A. V. F.
Buon esito. — Un'altra messa si celebri da parte di una pia persona che intende ringraziare il S. Cuore e le sante anime per il buon esito di parecchi affari. Ora chiedo una grazia importantissima e manderò una nuova offerta subito che l’avrò Ottenuta.
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Le grazie che accorda san Giuseppe non sono neppur esse da prendersi a gabbo. Ammirate, infatti, questa viva descrizione che trovasi nel numero di marzo-aprile 1918 della Voce di S. Giuseppe, periodico bimestrale « inteso a provvedere alla costruzione del Santuario dedicato al Glorioso Patriarca in S. Giuseppe Vesuviano diocesi di Nola»:
La signora Amalia Testa ci scrive da Avellino, agli otto di marzo, una lettera, nella quale esprime i suoi ringraziamenti a S. Giuseppe, perchè il silenzio di un suo amatissimo figliuolo la metteva in angustia grandissima. Tale silenzio durava ormai da cinquanta giorni. La buona madre si rivolse a S. Giuseppe facendo voto di diventare zelatrice del culto di Lui, ed ottenne il desiderato favore. In un giorno di mercoledì, in cui va ricordato dai devoti il Santo Patriarca, le giunse la lettera desiderata. Suo figlio, che chiamasi Giuseppe, le scrisse che trovavasi in ottimo' stato di salute, e che non stesse in pensiero per lui. La signora Amalia esultò, asciugò le lagrime che le bagnavano la faccia, e ci scrisse promettendo di diventare una delle più zelanti nostre cooperatrici, per l’opera cui intendiamo.
Quando un santo fa il sordo od è impotente, si ricorre ad un altro. E anche quando tutta una cooperativa di santi non riescono nell’intento, v’è sempre come rimediare. Tale ammaestramento ci dà VEco Mensile del Santuario della Madonna degl’infermi in Vercelli, nel cui numero del maggio 1918 trovasi questa 1 dazione di « grazia ricevuta »:
Vercelli, aprile 1918.
. E un’intiera famiglia che prostrata ai tuoi piedi, o Vergine Santa, Salute degli Infermi riconoscente ti ringrazia. Per ben sei mesi tenemmo un caro nostro congiunto soldato come perduto. Uniti però in santa congiura e fidenti tutti in Dio, non ci stancammo in questo lungo tempo di agonia di ricorrere per mezzo della preghiera, chi alle Sante anime del Purgatorio, chi a S. Giuseppe, chi a S. Antonio... se nonché io come capo di famiglia al vederci sempre al buio, soggiunsi: proviamo dopo il ricorso ai Santi, ricorrere alla Regina di tutti i Santi!
Ed il ricorrere a Te o Taumaturga nostra vera Salute, e ricevere subito dopo pochi giorni per mezzo dell’uffizio del Vaticano la consolante notizia, che il nostro caro era vivo e sano sebbene prigioniero, fu un punto solo. Grazie, o cara Madre; noi grideremo sempre che la preghiera perseverante penetra i cidi, e che la Tua protezione è infallibile.
Anche se la grazia tarda a venire, non bisogna stancarsi mai di fai pieghiere ed offerte. La perseveranza è una delle doti della preghici a fatta bene. Apprendetelo da quanto segue (Eco mensile, ecc., giugno 1918):
Città 18 maggio 1918.
Egregio e Reo.do Sig. Rettore.
A nome anche dei miei cari, tutti meco giubilanti, dopo aver sofferto per sette lunghissimi mesi» le torture più crudeli, per ignorare aflatto la sorte toccate al mio manto, Gaetano Lamponello, soldato automobilista, addetto al Comando Supremo, finalmente abbiamo ricevuta una cartolina scritta proprio di sua mano, colla quale ci annunzia trovarsi prigioniero in Germania.
Dio mio, che sollievo ebbimo!
Nella nostra gioia senza confine, sentiamo però che questa fu una grazia della Madonna alla quale perciò rivolgiamo tutti l’espressione della nostra imperitura ed infinita riconoscenza.
Se la S. V. dà posto alla presente Sull'Eco mi farà il più grande piacere. Con rispetto
r Umilissima
• Gina Lamporicllo Bellora,
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1 molteplici affari a cui la Madonna della Salute deve attendere non le impediscono di raddrizzare anche un poco le gambe al claudicante servizio delle regie poste, nonché di quelle repubblicane. Nel detto numero del giugno sta, infatti, stampato:
Parigi 1918.
Erano già in numero di 25 i pacchi postali che mi erano stati spediti dai miei parenti ed io non ne avevo ricevuto alcuno. Fui suggerito di ricorrere a S. Antonio, ed io vi aggiunsi anche la Madonna della Salute mia antica fiducia, ed eccomi esaudito, poiché poco per volta mi arrivano i mìei pacchi quantunque qualcheduno alquanto avariato come può immaginarsi.
Riconoscente ringrazio ed offro L. 5. • C. E.
Con tutto ciò, e non è che un piccolissimo saggio, e con quello che leggeiemo più innanzi quando parleremo del S. Cuor di Gesù’ chi scrive il giornaletto, di cui ci stiamo occupando, non manca di far la voce grossa del censore e di invocare che vengano applicate le tasse dei sopraprofitti di guena a qualche ciarlatano o sonnambula.
Nel solo numero di maggio 1918 dell’Zjco di Bonaria, (bollettino mensile del santuario), di Cagliari troviamo- tante offerte, per grazie ricevute, per L. 2542 e v'è la debita annotazione: «Continuano le offerte nel mese venturo». Di più vi sono registrate L. 963,50 sotto la rubrica: « Sottoscrizione pel pavimento in marmo della Basilica«, L. 40 per Rate di obbligazioni versate in questo mese e infine L. 51,50 come. Offerte per le lampade ad olio e per le lampadine elettriche. In complesso, cioè, circa 3600 lire, in un mese, nette da tasse di profitti e di extra-profitti.
Anche a Postua, paesetto di 1086 abitanti in provincia di Novara, v'è un parroco volonteroso che cerca di valorizzare un santuario locale, ed in conseguenza pubblica il suo bravo periodico mensile, che s’intitola appunto: Santuario di Postua. Del valore degl'insegnamenti morali contenutivi valga questo breve saggio in merito ai disegni di Dio sulla guerra:
Colla guerra che fa Iddio?
Confonde l'orgoglio umano. Gli Stati, i.governi gli uomini grandi, inebriati del loro progresso, della loro sciènza, delle loro invenzioni, avevano creduto di poter fare senza Dio.
Ma intanto vengono uccisi i più buoni, e i più ribaldi restano.
Ciò è effetto della infinita misericordia di Dio.
Lascia la vita ai ribaldi, perchè abbiano tempo a convertirsi: prende i buoni, perchè hanno già il paradiso assicurato, e col loro sangue si placa la divina giustizia (numero del i° febbraio 1918).
E altrove (numero di novembre 1916), dopo accennato che Dio permette la guerra, fra l'altro per reintegrare in Francia i frati e le monache, il prelodato parroco prosegue:
E da noi? Da noi, si dice, e la portiamo, a solo titolo di cronaca, e come ci viene raccontata; non sappiamo, se vera o no, che certe Dame... furono dal Comando Supremo allontanate dagli Ospedali da campo, ecc. e sostituite da monache, fc vero? La' Voce dell'operaio parla, e in altro numero porteremo il suo articolo.
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Volete ancora che mettiamo fuori un altro Disegno di Dio, che chiameremo «'«o-roso per la nostra bella Italia, nostra cara patria? Eccolo:
Tulio ci veniva dalla Germania, tutto dalla Germania, macchine, bilance, medicinali fini, ecc. perfino i lumini per le lampade, ma tutto, tutto... Scoppiata la guerra, l’industria italiana fa miracoli di progressi che creano nuove posizioni finanziarie per l'Italia.
Prima della guerra ornai non v' era più uno stabilimento industriale, che non avesse il suo Direttore tecnico tedesco, ma ora la mente italiana è alla Direzione di grandi nostre Case costruttrici, commerciali, ecc. Aggiungiamo ancora, però a nostro disonore: pareva che non ci fosse più istruzione o educazione di bimbi, ecc.,, in famiglia, se non v’era una Miss, non inglese, ma miss, miss... tre volle mila- miss signorina tedesca.... fosse anche stata la prima protestantaccia del mondo e spia pagata...
Concludiamo: quanti disegni di bontà di Dio per la patria nostra nel permettere la guerra!
Non più offendere Dio, non più bestemmiarlo per la guerra, da Dio permessa per il maggior nostro bene.
Viditque cuncta quae jeceral, et crani valdc bona, Dio vide tulle le cose che aveva fallo ed erano assai buone, scrisse Mosè nel primo libro del mondo.
Tutto questo, nientemeno, come commentario al versetto di Geremia «Il Signore dice: io ho disegni di pace e non di afflizione »...
Naturalmente, così cristiani insegnamenti hanno un coi rispettivo di elemosine •abbondanti che non si dimentica mai di chiedere. Come dovunque, in tempo di guerra, lo sfruttamento si opera col pretesto della protezione ai soldati.
Continue preghiere — si legge nel periodico — si fanno al Santuario pei soldati. Ormai possiamo chiamarlo il Santuario dei soldati, perchè è una continua raccomandazione di preghiere pei soldati. Sono padri, sono madri, sono sorelle, cugini, amici, ecc., che con lettere, a viva voce, chiedono preghiere per loro, fanno offerte per loro, promettono per loro mezzi per la costruzione dell’ospizio e assicuriamo tutti che, ogni giorno, mattino e sera, si fanno al santuario, pubbliche preghiere pei soldati tutti, ma specialmente per quelli il cui nome è registrato ai piedi della Vergine Prodigiosa.
E, per la incolumità dei figli e degli sposi al fronte, le offerte per ingraziai si la Madonna di Postua piovono abbondanti. V’è chi dà poco. Sperando di invogliare la detta Madonna ct>n la promessa di somme maggiori se farà la grazia. La prudenza non è mai troppa e anche coi santi è bene praticarla. Eccone tre esempi:
Postua. — N. N. Dono !.. 5 alla nostra cara Madonna di Postua. Raccomando mio marito soldato... spero che l’aiuterà. Se la cara Madonna Addolorata vorrà farmi la grazia di conservarmelo e ridonarmelo dopo la guerra sano e salvo, prometto. L. 20 al suo ritorno e faccio voto di dare L. 20 all'anno per dieci anni di seguito. Spero che la SS. Vergine, gradirà i miei voti. N. N„ faccio l’offerta di L. 5 alla nostra cara Madonna di Postua raccomandando mio marito al fronte che combatte per la patria. Sperando che la nostra cara Madonna vorrà conservarmelo e ridonarmelo al fine della guerra sano e salvo, prometto L. io al suo ritorno, facendo voto di dare L. 5 all’anno pei- venti anni. Spero che la SS. Vergine esaudirà i miei voti (N. di agosto 1916).
Vergine SS. Addolorata, vi prego di ottenermi la grazia di avere notizie del mio nipote Rubinetti Giuseppe, comunque esse siano.
Ottenuta la grazia, faccio l'elemosina di L. io pel vostro santuario di Postua.
D. Antonio Tricerro, Pievano di Villa del Bosco.
Ad Oropa, chi presiede a quel santuario chiede elemosine «per la Casa della Madre ». E pare che non chieda invano se nei soli mesi di marzo e aprile 1918 tro-
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sdamo registrate ben L. 12.480,55 di offerte, molte delle quali sono motivate come segue:
(N. di dicembre 1917).
Rev.mo Sig. Direttore — Invio la sòlita quota mensile di L. 2 perchè la Vergine ■d’Oropa abbia a proteggere i miei figli e perchè abbia a mandare presto la pace sospi-rata. La riverisco e mi dico suo dev.mo Gallanti Francisco.
Rev. Can. Teologo — La presente di lire 9,50 per un triduo di Messe in Cappella B. V. d’Oropa, affinchè si degni continuare sua potente e benigna protezione sul caro fratello militare. Con fiducia nella di lei cura e premura, gradisca i più distinti ossequi e ringraziamenti. A Tracchi - Ai,oli. .
Offerta di lire 25 per la chiesa nuova in ringraziamento di grazia ricevuta e per continua protezione di Maria SS. al loro figlio militare. Coniugi S
Il sig. Tenente Ochmen Ermanno, offre un quadro con cuore d’argento, riconoscente alla Madonna che lo guarì miracolosamente. Era gravissimamente ferito da palla nemica.
Speli. Direzione — Mando L. 15 come voto fatto, pregando di far dire le Litanie nella Cappella della SS. Vergine. Soldato Bracco.
Speli. Direzione — Ringraziando la Vergine Bruna per la grazia ricevuta nel set tembre scorso nello scamparmi da orribile pericolo, invio la somma di L. 50. pregando la Vergine Santissima desistermi anche per l’avvenire, e che possa tornare presto quel giorno desiderato di poter recarmi ai suoi piedi. Dev.mo Granaglia Lorenzo.
M. R. Sig. Rettore — Offro L. 5 alla cara Madonna Bruna affinchè protegga il mio caro figlio Renato al fronte, promettendone altre se la cara Vergine Bruna continuerà a proteggerlo ed a tenerlo lontano dai pericoli; mi raccomando vivamente alle preghiere delle buone Figlie d’ Oropa per ottenere quanto invoco. A lei. Rev.mo Rettore i miei rispettosi saluti. D. Ginnetti.
Rev. Rettore — Il soldato Zoccola Domenico invia di cuore L. 5 per aver concessa alla famiglia la grazia di farle sapere sue nuove, trovandosi prigioniero in Austria. Se la Madonna mi concederà la grazia di far ritorno sano e salvo alla famiglia raddop-pierò la somma. Distìnti saluti. Twtore TeKsa, Torino_
Potremmo dilungarci ancora per molte pagine a citare uno ad uno centinaia di giornaluccoli e di periodici come quelli sopra elencati. Ma non crediamo ne valga la pena poiché non faremmo che ripetere gli stessi episodi di dabbenaggine degli stolti, di cui il numero pare tuttora infinito, e di ruberie in nome dei santi.
Non possiamo però passar sotto silenzio che, a volte, inebriati dal successo, gli inscenatori di miracoli commettono delle balordaggini eccezionali. Un caso tipico ce lo hanno offerto i frati Assunzionisti francesi. Essi, a mezzo dell'Associazione di N. D. dii Salut, che promuove i vari pellegrinaggi nazionali in Francia, lanciarono l’idea di un voto dei cattolici alla Madonna di Pontmain. Tale voto, approvato, e caldeggiato dal cardinale Dubois, dai vescovi di Amiens e di Lilla e da molti altri, consisteva in una specie di contratto bilaterale tra la detta Madonna .ed i cattolici francesi. Questi si impegnavano ad erigerle un monumento
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sulla cima del monte di Ste Odile, di fronte alla pianura dell’Alsazia riconquistata, qualora il territorio francese fosse stato completamente sbarazzato dei tedeschi prima della fine del giorno 17 gennaio 1917.
La Madonna di Pontmain non accolse il voto o, trovando i tedeschi troppo duri, non seppe provvedere a quanto le era richiesto in contracambio. Il fiasco del ridicolo voto degli Assunzionisti fu dunque completo. Ma con molta buona volontà, e con la sottigliezza di chi cerca trarsi da un brutto imbarazzo gli interessati non vollero riconoscere la commessa bestialità e il fallimento della stupida impresa, e la Croix si rese interprete delle spiegazioni dei detti signori, scrivendo in proposito: « Permetteteci di farvi notare che in questo voto, come gli stessi suoi autori lo ave-« vano chiaramente fatto comprendere, bisogna distinguere la lettera e lo spirito. « La lettera diceva: 17 gennaio. Lo spirito consisteva nel provocare un movimento «salvatore di preghiere per ottenere la vittoria... Un vescovo ci scrive: “Ho la con-«vinzione che siamo stati esauditi,,. Certo, stando strettamente alla lettera, no; «ma, quanto allo spirito, anche noi ne siamo convinti quanto lui, poiché Dio ha « mille modi di determinare i principi decisivi della vittoria » (1).
Vi sono dei cattolici che si contentano di simili facezie.
(Continua). • Ernesto Rutili.
LA COSTITUZIONE DELL’IMPERO TEDESCO E LA LEGISLAZIONE RELIGIOSA E SCOLASTICA
Credo interessante riferire le principali norme della Costituzione tedesca circa i rapporti tra Stato e Chiesa e circa l’ordinamento scolastico e lo insegnamento religioso nello Impero tedesco.. Data la differenza delle confessioni religione dell’impero, è naturale che esso abbia lasciata alia legislazione dei singoli stati una grande libertà per regolare queste materie così delicate, e nelle quali è sempre cosi difficile evitare i due scogli del giacobinismo statale e della invadenza ecclesiastica.
La legislazione dell’impero'tedesco si limita a fissare le norme e i criteri generali,
che sono indubbiamente quanto di meglio si sia finora stabilito, per garantire una positiva ed efficace libertà religiosa. Naturalmente non tutto ciò che è buono per un paese dove c’è molteplicità di confessioni religiose, e dove quindi la libertà è conseguita senz’altro quando lo Stato assicuri che le confessioni coesistano pacificamente tra loro, può senz’altro essere opportuno in paesi, come il nostro, nei quali la libertà religiosa è sopratutto diretta a impedire la tendenza invadente della Chiesa. Inoltre per giudicare la bontà di una costituzione importano assai più che i principii generali, la loro attuazione nelle leggi speciali, e la loro rispondenza, nel funzionamento pratico, all’educazione politica di un popolo.
Mancandoci ancora, per quanto riguarda l’impero tedesco, l’una e l’altra di queste
(1) Ci piace dare qui in nota il testo francese della prosa della Croix, perchè qualcuno non sia tentato di ritenere inesatta la nostra traduzione dello sbalorditivo ragionamento del foglio degli Assunzionisti di Francia:
« Laissez-nous vous faire observer que dans ce vœu, ses auteurs eux-mêmes l’avaient assez clairement fait entendre, il y a la lettre et l'esprit. La lettre, c’était le 17 janvier. L’esprit, c’était de provoquer un mouvement sauveur de prière pour obtenir la victoire... Un évêque nous écrit: “J’ai la conviction que nous avons été exaucés ,,. Quant à la lettre stricte, non. Quant à l’esprit, oui, nous en sommes convaincus comme lui. Dieu ayant mille manières de poser les principes décisifs de la victoire ».
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condizioni, non ci resta che limitarci per ora a conoscere i principi! generali a cui s’ispira il nuovo Impero tedesco in questa materia, ciò che è tanto più opportuno in quanto si tratta di un esperimento legislativo nuovo e molto ardito, e perchè anche da noi in Italia i problemi dei rapporti tra Chiesa e Stato e dell’ordinamento scolastico sono ancora lungi dall’essere definiti e risolti. Anzi per l’entrata dei cattolici nella vita pubblica, con un loro programma di battaglia, e per la prova non certamente brillante fatta dal nostro insegna* mento ufficiale, questi problemi accenderanno presto discussioni vivacissime e si imporranno anche alle coscienze più distratte.
Sotto i titoli III e IV della seconda parte, Religione e società religiose, la Costituzione tedesca dice :
Articolo 135. — Tutti gli abitanti dell’impero godono della piena libertà di credenza e coscienza...
Articolo 136. — I diritti e i doveri civili e civici non sono nè condizionati nè limitati dall’esercizio della libertà religiosa...
L’accessione alle funzioni pubbliche è indipendente dalla confessione religiosa...
Nessuno può essere obbligato a un atto o cerimonia religiosa o a partecipare ad esercizi religiosi o a servirsi di una formula religiosa di giuramento.
Articolo 137. — Non vi sono Chiese di Stato.
La libertà di formazione delle società religiose è garantita...
Ogni società religiosa ordina fe amministra i suoi'affari con piena indipendenza nei limiti della legge che si applica a tutti e conferisce i suoi impieghi senza collaborazione dello Stato o dei comuni.
Le società religiose acquistano la capacità giuridica secondo le prescrizioni generali del diritto civile.
Le società religiose restano corporazioni di diritto pubblico quando lo erano per il passato. Altre società otterranno gli stessi diritti su loro domanda se per la loro costituzione e il numero dei loro membri offrono garanzie di durata...
Le società religiose che sono corporazioni di diritto pubblico hanno il diritto di levare imposte basandosi sui ruoli d’imposte civili, secondo le disposizioni legali dei singoli stati.
Alle società religiose sono assimilati i gruppi aventi per fine la cultura in comune di una filosofia
I.a regolamentazione necessaria per l’esecuzione di queste disposizioni è cómpito della legislazione provinciale...
Il diritto di proprietà e gli altri diritti delle società religiose sui loro stabilimenti, fondazioni e altri beni destinati al cultp, all’insegnamento o ad opere di beneficenza sono garantiti.
Articolo 139. — La domenica e i giorni di festa riconosciuti dallo Stato restano protetti come giorni di riposo e di perfezionamento spirituale.
Articolo X42. — L’arte, la scienza e il loro insegnamento sono liberi. Lo Stato li protegge e favorisce.
Articolo 143. — L’istruzione della gioventù incombe a stabilimenti pubblici alla cui organizzazione collaborano l’impero, gli stati e i comuni.
L’istruzione dei maestri è oggetti di regolamento unico per tutto l’impero secondo i principi! che applicansi in modo generale all’insegnamento superiore...
Articolo 144. — Tutta l’organizzazione scolastica è sotto la sorveglianza dello Stato; questo può farvi partecipare i comuni...
Articolo 145- — La frequenza della scuola è obbligatoria.
L’insegnamento è dato come principio generale dalla scuola primaria durante almeno otto anni e dalle scuole complementari annesse fino al diciottesimo anno compiuto. Lo insegnamento e gli oggetti scolastici nelle scuole primarie e complementari sono gratuiti.
Articolo 146. —- L’insegnamento pubblicò deve essere organicamente sviluppato. Sopra una scuola fondamentale comune a tutti si edifica l’insegnamento medio e superiore. In ciò si deve tener conto della molteplicità delle professioni. L’ammissione di un fanciullo in una data scuola deve dipendere dalle sue disposizioni e dai suoi gusti e non dalla situazione economica o sociale o dalla confessione religiosa dei genitori.
Tuttavia nei comuni è data facoltà su domanda di persone qualificate in materia di educazione di creare scuole primarie della loro confessione od opinione filosofica fino al limite in cui non ne soffra la buona organizzazione scolastica. Si deve tener conto più che è possibile della volontà delle* persone qualificate.
Le disposizioni particolari sono fissate dalla legislazione dei singoli stati secondo i principii di una legge dell’ImperoArticolo 147. — Le scuole private perchè tengano luogo di scuole pubbliche devono essere autorizzate dallo Stato e sono sottomesse alle leggi locali. L’autorizzazione deve essere accordata quando le scuole private non
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sono inferiori alle scuole pubbliche nei loro programmi ed organizzazione come pure per la cultura scientifica del personale insegnante e non favoriscano una distinzione degli' scolari secondo i beni di fortuna dei genitori...
Non devono essere autorizzate scuole primarie se non quando una minoranza di persone qualificate in materia di educazione la cui volontà deve essere presa in considerazione a termini dell’articolo 146, non hanno a loro disposizione una scuola primaria pubblica delia loro confessióne od opinione filosofica nel comune, o quando l’amministrazione della pubblica istruzione vi riconosca un interesse pedagogico particolare.
Le scuole infantili private devono essere soppresse.
Per le scuole private che non devono tener luogo di scuole pubbliche restano in vigore le disposizioni esistenti.
Articolo 148. — Tutte le scuole debbono cercare di sviluppare la cultura morale, il sentimento dei doveri del cittadino, la capacità personale e professionale in uno spirito di coscienza nazionale tedesca e di riconciliazione dei popoli.
L’insegnamento delle scuole pubbliche deve vegliare a non ferire i sentimenti di persone di opinione differente.'
L’insegnamento civico e il lavoro manuale sono materie di insegnamento...
Articolo 149. — L’insegnamento religioso è materia regolare di insegnamento fatta eccezione per le scuole non confessionali (laiche). Esso è dato nel quadro della legislazione scolastica. I?insegnamento religioso è dato in conformità coi principii della società religiosa interessata sotto riserva del diritto di sorveglianza dello Stato.
L’insegnamento religioso e la esecuzione delie pratiche religiose sono subordinati al volere del maestro in tanto in quanto egli ne. è incaricato ; la partecipazione alle materie d'insegnamento religioso e alle cerimonie e pratiche religiose è subordinato ai volere di quelli che devono decidere dell’educazione religiosa del fanciullo.
Le facoltà di teologia delle università sono mantenute...
La Costituzione tedesca sancisce inoltre il principio che per l’accessione 'dei fanciulli poco agiati, alle scuole medie e superiori l’impero, gli stati e i comuni debbono tenere a disposizione dei fondi pubblici, e in particolare dei soccorsi per i genitori di fanciulli che sembrino specialmente ben dotati per lo insegnamento delle scuole medie e superiori fino alla fine dell’insegnamento.
DICHIARAZIONE DI PRINCIPII
Gli scrittori deH’UwiZd, intorno ai quali si è recentemente raccolta una Lega demo erotica per il rinnovaménto della politica nazionale, sono andati per alcuni numeri, prima del congresso che fu tenuto a Firenze nel maggio scorso, in cerca di una dichiarazione di principii. nel lodévole intento di far risalire le norme politiche, per necessità contingenti, a dei principi ideali etici, ad una concezione organica della vita, della società e dello Stato.
Ma essi non vollero risalire alla filosofia e la loro dichiarazione di principi, sancita nei congresso, rimane, salvo pochi accenni incidentali di carattere morale, un insieme di norme politiche contingenti. Sicché il gruppo delrUnitó si affatica ancora nella ricerca di una unità che non trova.
Il tentativo fiorentino ha suggerito a K. Murri di fare quello che il Salvemini ed i suoi amici non vollero fare ; raccogliere in brevi dichiarazioni le basi ideali di un rinnovamento politico che voglia essere, come deve essere, rinnovamento di uomini, cioè di coscienze e di volontà.
Lo pubblichiamo qui volentitri perchè ci pare che esso ineriti il più attento esame da parte di quanti desiderano una rinnovazione morale della nostra vita pubblica e dello Stato italiano. E vorremmo anche che esso fosse largamente discusso é diffuso. Ecco i principi formulati dal M.:
1. Il rapporto che lega gli uomini nella società, fra di sè e verso lo Stato, si estende alla totalità della vita e dei suoi fini nello spazio e nel tempo ed è quindi rapporto di ordine essenzialmente elico.
2. La legge morale è la norma della celebrazione della vita secondo i suoi valori umani, spirituali e assoluti; essa importa quindi, così nell’individuo come nella nazione, la riduzione della molteplicità passionale, discorde ed effìmera,aH’wwiià, la conversione degli istinti ed impulsi ed interessi in volontà consapevoli ed in contenuto universale di queste volontà (ideali), l’incessante e progrediente rivelazione, nella storia, della legge e della immanente •vocazione dello spinto, sempre più manifesta alle coscienze. Questa necessità della legge si compie come accettazione libera di essa, come disciplina di volontà, come attuazione del dovere.
3. Il diritto, in ogni sua forma e grado, ha la sua propria ragióne nell’esigenza, in ogni creatura umana, di tendere e giun-
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gere alla pienezza delia personalità, nella quale si ha insieme il massimo di concretezza e il massimo di spiritualità e quindi di unità ideale; esso appartiene, nella società. al cittadino il quale realizza in se quella norma superiore di azione che è espressa nello Stato, come posizione consapevole della norma universalmente valida. Il diritto non. è dunque che la garanzia chiesta e data al compimento di un dovere che si attua validamente. Garanzia, e quindi diritto, cessano là dove la facoltà di agire, la proprietà, ecc., non rispondono più al compimento di un dovere, di una funzione socialmente buona ed utile.
4. La Nazione è l'unità di un popolo preparata dalla storia, cementata dai comuni interessi, fatta idealmente valida ed obbligante dalla comunione dei fini di civiltà c di cultura, che l'attività consociata mira a raggiungere.
5. Stato e individuo non sono due realtà distinte, che possano anche essere opposte e delle quali debba faticosamente cercarsi l’armonia, fra transazioni e compromessi. Come la Nazione è la pienezza della realtà storica di un individuo, così lo Stato è la pienezza della personalità umana, realiz-zantcsi storicamente, secondo la disciplina interiore della volontà giusta.
6. Lo Stato, quindi, non ha interiorità • che nelle coscienze e vive della vita di queste. Nelle sue forme è istituti concreti esso è la volontà umana nell'insieme delle condizioni di vite e di attività storicamente •poste e sancite, per la collaborazione sociale: la creazione dei prcsidii giuridici dell'attività socialmente buona.
7. Poiché lo spirito si attua come libertà, come processo di autocoscienza, la libertà è la forma e la funzione generale dello Stato; libertà non astratta, ma esercitantesi nelle condizioni e secondo le norme che sono la sua disciplina volutamente posta; e che in questa disciplina trova i propri limiti.
8. Legge dello Stato è la stessa norma etica delle coscienze in cui esso si attua; la politica non può quindi essere amorale. Ma la morale dello Stato è la morale storicamente realizzata, espressa nelle norme poste dalla volontà comune, fatta diritto » e potenza. E, in quanto potenza, essa tende a negare la libertà ed è a sua volta negata da questa, in nome di ulteriori liberazioni umane, di una più alta giustizia che lotta per farsi potenza.
9. Perciò lo Stato, come la persona umana, non è mai fatto ma farsi, non
cosa ma processo. Forma c atto di esso è quindi lo sviluppo. Cosi il diritto perenne-mente muore, nella sua formulazione scritta, astratta, e perennemente rinasce, nella volontà che lo pone; e tutti gli istituti sociali sono affaticati da una intima vita, decadono e si rinnovano.
io. Contro le vecchie concezioni ctcrono-miche, fondate sull’ingenuo oggettivismo dogmatico del pensiero, le quali ponevano l’autorità e la legge come una volontà esterna e superiore alia volontà umana realizzantesi nella storia, e come una investitura di poteri risaliente alla divinità, la democrazia afferma il dominio dello spirito umano sulla sua storia e sui suoi istituti. Nel suo processo storico, quindi, essa fa tutt’uno con la conquista, da parte degli uomini, della autocoscienza, dalla quale poi segue l’autogoverno.
ii. L’autonomia, come graduale con-Juista, coincide quindi col processo della emocrazia; autonomia non dei singoli astrattamente, o dei gruppi sociali in quanto distinti ed opposti sul terreno degli interessi; ma della stessa coscienza umana e dei suoi valori universali; e quindi affermazione di unità originaria, anteriore alle distinzioni e divisioni molteplici, e per ciò stesso, autolimitazione, disciplina di unità nella libertà.
12. La pienezza di autonomia coincide con la pienezza di umanità; cioè di ¿una volontà umana celebrantesi come unità e di un diritto umano in cui tutti partecipino. Nella coscienza di questa universa umanità gli Stati trovano la loro limitazione e si afferma e si compie la società delle Nazioni.
13. Storicamente, l'autonomia si realizza nell’interno dei singoli Stati come una gerarchia di autonomie, corrispondenti ai momenti e ai gradi dell’individuo che vive la sua storia. Una società in cui di fronte alla massa innumerevole dei cittadini dissociati si pone lo Stato accentra^ tore, cumulante in sè le funzioni di tutti gli organismi che dovrebbero mediare fra esso e l’individuo, o interveniente a disturbarle e piegarle agli scopi di dominio dei suoi ministri, là dove e in quanto gli organismi intermedi ancora sussistono, è per ciò ancora uno Stato eteronomo, e quindi antidemocratico; perchè l’individuo non trova posto in esso secondo la realtà delle sue condizioni storiche e funzioni sociali e la consapevolezza di essce la gestione autonoma dei suo proprio mondo di vita e di lavoro.
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14. L’organizzazione della democrazia, cioè la disciplina delle funzioni sociali nella sfera propria di ciascuna di esse, implica quindi c postula il riconoscimento pratico di queste funzioni e della norma etica che esse hanno in sé, in quanto attività dello spirito. Ogni autonomia (individuo, famiglia, comune, classe o sindacato, regione, Stato) è quindi posta nel suo mondo proprio ed insieme risolta in una superiore unità, sino a che si giunge alla Società delle nazioni, sempre postulata nella storia della cultura, e mai veramente attuata se non in simboli e frammenti.
'15. La religione è fuori dello Stato come potenza, fuori del diritto scritto e codificato. in quanto essa è rifusione del già fatto nella interiorità, senso irrequieto dell’assoluto, intimità pregnante di una società più buona, di un diritto nuovo, di una storia migliore, profezia. Le Chiese, in quanto consociazioni stabilite sulla codificazione dottrinale e ritualistica e disciplinare del precetto divino, partecipano alla vita del diritto nello Stato, e non possono pretendere di porsi contro e sopra lo Stato, senza negare la natura propria della religione, che è interiorità, anelito di assoluto. Nel vivere di questa interiorità liberatrice c rinnovatrice» e non nell'autarchia giuridica o nel privilegio politico, sta la garanzia della loro libertà di fronte allo Stato.
16. Le classi lavoratrici e popolari portano con sè, storicamente, il diritto nuòvo, e la loro ascensione verso la potenza è la molla del progresso sociale, perchè e in quanto la pressione della loro umanità
coartata diviene impulso ad una revisione intiera delle funzioni c dei valori sociali e ad una affermazione d'ulteriore eticità e giustizia nei rapporti sociali; cosi che non una classe sola, ma tutta la società e tutto lo Stato realizzino una più piena consapevolezza dei fini della vita e quindi forme-più giuste e fraterne di collaborazione nel diritto.
17. Esigenza prima e fondamentale della vita italiana di oggi è ristabilire la coscienza della vita pubblica come vita morale, il carattere dell’uomo politico, il dovere dello Stato di rispettare ed attuare in tutti i suoi rapporti con i cittadini una legge di onestà e di giustizia, il senso della responsabilità di ciascuna funzione e classe, la disciplina interiore della libertà, la gerarchia delle autonomie, l’unità spirituale della nazione, nella consapevolezza at-tuosa ed educatrice di un dovere o ideale o programma nazionale di umanità.
18. In uno Stato e in una società la quale voglia essere davvero democratica, nella ascensione dei cittadini alla coscienza di sè, al possesso consapevole del proprio mondo e dei propri istituti storici mediante l'autogoverno, la scuola, nella più ampia accezione del termine, deve essere l'istituto primo e fondamentale, in quanto in essa innanzi tutto, si alimenta ed accresce e trasmette la cultura, vivente unità spirituale dei consociati, e le coscienze si edu-, cano alla consapevolezza e al dominio di sè. del proprio mondo e della storia!
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POLITICA VATICANA E AZIONE CATTOLICA
LA POLITICA VATICANA E I NUOVI CARDINALI
Nel prossimo Concistoro che sarà tenuto il io dicembre saranno nominati sette nuovi cardinali dei quali tre italiani, due polacchi ed uno tedesco. Così il Collegio'*cardinalizio resterà costituito di trentatrè cardinali italiani e trentadue non italiani.
La singolarità caratteristica di questo Concistoro è data dalla elevazione contemporanea alla porpora di due prelati polacchi. Se fosse stato ancora in piedi l’impero austriaco sarebbe stato Carlo I a porre la berretta cardinalizia sul capo del nuovo cardinale monsignor Valfrè di Bonzo nunzio pontifìcio a Vienna e dei due prelati polacchi.
Ma .dato l’attuale caos austriaco e la non definita situazione dei nuovi Stati europei, la Santa Sede ha preferito che i nuovi cardinali esteri, meno quello di Spagna, venissero essi stessi a Roma a ricevere l’investitura cardi-malizia.
Mons. Kakowski, arcivescovo di Varsavia, aveva avuto preconizzata pubblicamente la porpora in una lettera di Benedetto XV, soddisfatto dell’opera intelligente e premurosa del prelato polacco in favore di mons. Ratti, allora delegato apostolico ed ora nunzio pontificio in. Polonia. E veramente egli ha saputo benemeritare a un tempo della sua patria e della Santa Sede, sia come presidente della Accademia ecclesiastica di Pietrogrado, sia come arcivescovo di Varsavia negli anni difficili della guerra, quando si trovò di fronte all’occupazione tedesca da un lato e al rin
novato fremito di indipendenza della nazione dall’altro. Con la nomina del nunzio apostolico e con la elevazione alla porpora della capitale polacca. Benedetto XV ha voluto rendere omaggio alla nazione polacca ed esprimerle la soddisfazione della Santa Sede per la sua riconquistata unità.
Con la nomina dell’altro polacco mons. Dal-bor, vescovo di Gnesen e Posen, Benedetto XV ha voluto consacrare la rivendicazione polacca della celebre diocesi il cui vescovo porta il titolo di « primate di tutta la Polonia», mentre quello di Varsavia ha il titolo di « primate del regno».
Quella della diocesi di Gnesen Posen è una triste storia, durante l’epoca di sottomissione stila Prussia. E’ noto come intendimento degli uomini politici di Berlino fosse di germanizzare il territorio della Polonia tedesca, sia espropriando le terre, sia proibendo la lingua e l’insegnamento polacco, sia, imponendo pastori tedeschi al gregge polacco. A onore di Roma conviene dire che per ben dieci anni quella sede fu vacante per non aver Pio X voluto cedere alle pressioni di Berlino, che voleva nominarvi un vescovo tedesco. Scoppiata la guerra e resasi necessaria una politica di railienicnt, il Governo tedesco chiese subito la nomina di un prelato polacco che morì dopo pochi mesi.
A lui successe il neo-cardinale mons. Dalbor, vicario generale della diocesi, prelato che sembra abbia saputo assai bène amministrare la sua diocesi nella delicatissima situazione in cui essa veniva a trovarsi per il fatto della guerra.
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Data la nomina dei due cardinali polacchi molto lavorio era stato fatto per far nominare cardinale il vescovo di Leopoli, Szeptizki, che tanto fece parlare di sé quando i russi lo arrestarono e deportarono con vessazioni inaudite. Il Vaticano fece sapere che le violenze usate dai russi contro Io Szeptizki erano ben più gravi che quelle tedesche contro Mercier. ciò che spiacque assai nei paesi dell’Intesa. Szeptizki è di famiglia nobile polacca, ma nominato vescovo di Leopoli ha nettamente sposato la causa rutena, con immenso entusiasmo dei ruteni che lo considerano come simbolo della loro nazionalità, specialmente dopo l’invasione russa della Galizia austriaca e la costituzione dello Stato ucraino. Dal canto loro i polacchi lo considerano come un rinnegato e perciò, sebbene si fosse parlato molto della sua probabile nomina a cardinale, data l’incerta situazione politica ucraina e l’opposizione polacca, non se ne farà nulla almeno per ora.
La Germania dopo la morte del cardinale I lartmann è rimasta senza rappresentanza nel S. Collegio. Ora sarà nominato cardinale mons. Bertram, arcivescovo di Breslavia'. La Germania anche cosi rimarrà egualmente la cenerentola nel S. Collegio, ma è noto che la Curia suòle tenere molto conto della potenza politica, e oggi le azioni tedesche sono in ribasso.
Le altre nomine non assumono speciale significato politico o religioso trattandosi di prelati che hanno percorso le ordinarie carriere di Curia, come il nunzio a Vienna Valfrè di Bonzo e il vicecamerlengo mons. Sili, o di un titolare di una sede cardinalizia per consuetudine, come mons. Soldevilla vescovo di Saragozza.
Merita però di essere segnalata la noniina di mons. Camassei già patriarca latino di Gerusalemme. In Palestina egli seppe destreggiarsi assai bene tra le contrastanti pressioni delle varie potenze europee, anelanti attraverso là propaganda religiosa all’accaparramento delle regioni siriache.
All’avanzata delle truppe inglesi nella Palestina, i turco-tedeschi tolsero mons. Camassei alla sua sede e dopo un viaggio penosissimo lo internarono quasi come ostaggio prima a Nazaret poi a Caifia. Liberata Gerusalemme, egli potè rientrarvi solennemente nel novembre 1918 e di là stanco, ma pieno di giusta soddisfazione, è tornato in Roma a vestirvi la porpora.
IL NUOVO VESCOVO DI TRIESTE Una nomina recente che ha indubbiamente .un chiaro significato politico è quella di mon
signor Bartolomasi, nuovo vescovo di Trieste.
Da vari mesi si parlava di questa nomina, che era molto caldeggiata dal Governo italiano, essendo l’ex vescovo castrense persona molto gradita negli alti ambienti dell’esercito e della marina. Però le difficoltà nell’ambiente vaticano non furono poche, e tempo fa la candidatura del Bartolomasi pareva ormai tramontata, tanto che molti ora sono rimasti sorpresi all’annunzio della sua nomina.
Questo fatto, giunto quasi all’improvviso, è da porre in relazione col riconoscimento ufficiale, da parte della Santa Sede, del nuovo Stato jugoslavo, avvenuto qualche giorno prima della nomina del Bartolomasi. Presto si stabiliranno rapporti diplomatici regolari tra Vaticano e Jugoslavia, e intanto proseguono i lavori per il concordato che deve regolare i rapporti del nuovo Stato con la Chiesa, lavori che sembrano ormai a buon punto. Così mentre veniva a eliminarsi qualsiasi significato di ostilità da parte del Vaticano verso la Jugoslavia, alla rimozione del vescovo sloveno Karlin dalla sede di Trieste, la Santa Sede, conforme alle consuetudini della sua diplomazia, nel contempo rendeva un servizio anche al Governo italiano, che ha fatto di tutto per vincere le resistenze che si opponevano alla nomina del Bartolomasi. Del resto già nella precedente rassegna vaticana del mese scorso ebbi occasione di segnalare come in Adriatico la politica della Santa Sede si incontri spesso con quella del Governo italiano, e la nomina del nuovo, vescovo di Trieste è un sintomo chiarissimo di questa tendenza.
IL CATTOLICISMO IN FRANGIA
Nella sontuosa basilica edificata sulla collina di Montmartre, tutta drappeggiata di grandi stendardi, dalla cui cupola pendevano immense bandiere tricolori portanti il Cuore di Gesù, ricamato in oro e con la fiamma, sono convenuti nei giorni 15 ottobre e seguenti tutti i cardinali e vescovi francesi, con altri prelati venuti dalle nazioni alleate, alla presenza del cardinale Vico Legato pontificio. La consacrazione dell’edificio cominciato ad erigere per voto nazionale espiatorio dopo la disfatta dei 1870, e inaugurato ora dopo la vitto-, ria, ha dato luogo a manifestazioni patriottico religiose di un genere proprio soltanto dello spirito francese, così come il culto di Giovanna d-'Arco, del re San Luigi e simili manifestazioni, nelle quali più che l’universalismo cristia'no, il cattolicismo francese sembra riflèttere i concetti ebraici della missione del popolo eletto. Gesta Dei per Prancos..
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Sebbene mancasse una rappresentanza ufficiale del governo, pure nel presbiterio, tra i vescovi e i prelati, avevano preso luogo una infinita di alti dignitari della repubblica, specialmente militari, e ad essi, con particolare compiacenza, si rivolgevano gli oratori, che in tramezzavano le cerimonie del culto con discorsi infiammati, nei quali si celebrava ad un tempo e con pari calore il Cuore di Gesù, la missione della Chiesa cattolica e la vittoria della Francia, che apparivano come cose indissolubilmente congiunte.
Il domenicano P. lanvier nel discorso pronunciato il giorno della consacrazione della Basilica ha affermato che non solo gli uomini singoli, ma anche le nazioni hanno le loro colpe. « La Francia ha avuto anche èssa i suoi torti. Non già, come pretenderebbero l’odio e l’invidia, che essa sia la più colpevole delle nazioni. Vi sono delle apostasie con le quali la Francia non è scesa a patti, delle slealtà che indignano la sua dirittura, una barbarie che la sua civiltà e la sua sensibilità riproveranno sempre. Lutero non è del nostro sangue; Calvino ha avuto da noi la vita ma la nostra fede lo ha costretto a predicare altrove la sua implacabile religione: non noi abbiamo spezzato in due parti l’occidente cristiano.
« Mai là Francia è stata traviata a lungo : il veleno di Giansenio entrò nelle nostre vene: poco dopo lo vomitiamo con disgusto: nel 1693 Luigi XIV annulla da sè stesso il suo editto del 16S2; più tardi Luigi XVI toglie il consenso che aveva dato a misure condannate dalla S. Sede; nel 1801 il Concordato apre le Chiese che il Terrore aveva chiuse; ieri la nostra diplomazia ha lasciato Roma: non dubitate; essa vi ritornerà. Inoltre mai nobilissima Gallorum gens nec dìu nec Iota desifiuit.
« Il Cuore di Gesù è la fonte cui si abbeverano gli animi assetati di grazia e di misericordia; il santuario in cui Clodoveo, Giovanna d’Arco, Beisunce, Luigi XVI cercano il soccorso necessario per vincere ¡I flagello della guerra, della peste, della discordia; il simbolo ardente che cantavano i nostri padri quando in mezzo ai pericoli e alle tribolazioni gridavano « Viva il Cristo che ama i Francia ».
Ma occorre cancellare-il male fatto: Luigi XVI comprendeva questa necessità quando nella sua prigione giurava di revocare appena potesse le leggi contrarie alla purezza e integrità della fede,alla disciplina e alla giurisdizione della Chiesa e sopratutto la costituzione civile del clero. « Dopo il 1S70 la
moltitudine dei fedeli ha compreso questo dovere e si è condannata a tutti i sacrifici per commuovere in favore della patria il Cuore di Gesù... Montmartre è divenuto il calvario dove gli olocausti volontari preparavano la nostra salvezza... ».
Ma ancora più energicamente si è espresso nel suo discorso il vescovo Touchet: « La nostra Francia non è più uno Stato cristiano. Ahimè! Ma noi samo restati, noi francesi, una attività .cristiana, sènza contestazione, la più considerevole d’Europa ; noi siamo le Figlie della Carità, i fornitori dei fondi del Pontefice romano, i cooperatori di San Vincenzo di Paola, i profeti dell'Evangelo, i seminatori di idee che salveranno il mondo. Molti di noi sono la fede che agisce eia carità che è dono. Tutti, per essere interamente degni, raddoppiamo di gravità e di preghiere, di amore e riparazione. Gridiamo «'Viva i Franchi che amano il Cristo ».
« « «
L’ingresso a Metz e a Strasburgo dei nuovi vescovi francesi nominaci secondo le norme del vecchio Concordato napoleonico tra la Francia e la S. Sede, ha assunto una solennità immensa con pompe straordinarie.
A Metz la consacrazione del nuovo vescovo Mgr. Pelt ha dato luogo a cortei e cerimonie cui parteciparono tutte le autorità civili e militari.
Nel suo discorso il cardinale Amette ha reso omaggio e grazie a tutti gli artefici della pace e della vittoria, ma sopratutto «grazie a quei vecchio lottatore che nei suoi disegni imperscrutabili Dio ha scelto per fare la pace come già aveva fatto la guerra e che, proclamiamolo altamente, ha avuto il coraggio e la fermezza di scegliere il capo geniale e cristiano che doveva condurre le nòstre anni alla vittoria (grida dì viva l’esercito, viva Clcmenceau). Che Iddio dia a questo grande patriotta i doni più grandi ancora, e che pelle nostre preghiere noi otteniamo che Dio gli accordi tutti ¡ beni che gli auguriamo.... lo sono tra quelli che credono che l'unione sacra non ha fatto il suo tempo, ma deve durare e accrescersi... ».
LE ELEZIÓNI E I CATTOLICI FRANCESI
In questo motivo della Union sacréesX sono incontrati Clcmenceau ed il suo blocco re-pubblicano con i cattolici, spinti a questa alleanza e dàlia speranza di porre su nuove basi i rapporti tra Stato e Chiesa in Francia
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e dalie esortazioni della Santa Sede. ^Soltanto V Union sacrée che durante la guerra aveva stretto tutti i francesi, ad eccezione dei socialisti di sinistra, si è ora mutata in un blocco conservatore nel quale per la lotta antisocialista — i bloccardi dicono antibolscevica — e per la difesa delle posizioni ottenute dalla Francia col trattato di Versailles si sono stretti attorno a Clemenceau cattolici, repubblicani di destra e del centro e anche alcuni monarchici.
Non è possibile prevedere quale forza e durata potrà avere un simile amalgama,. e l’esperienza insegna a diffidare delle coalizioni ibride tenute insieme soltanto da uno scopo negativo e per circostanze momentanee, come è oggi la situazione creatasi in Francia all’uscire appena d^lla guerra.
Noi in Italia abbiamo ripreso ciascuno la nostra intiera libertà politica, per ricostruire dopo la guerra e ciò è una prova di maturità e dì sano istinto politico.
L'unione di tutti per uno scopo e con disciplina unica si impone egli eserciti e alle città o nazioni assediate (e la guerra è sempre in certo modo un assedio).
Nella lettera collettiva indirizzata dai vescovi francesi agli elettori cattolici dopo aver ricordato che il cittadino come il cristiano dipendono dalla legge divina e che Dio domanderà conto del voto come di ogni altra azione, i vescovi affermano che tutto ciò che è stato fatto contro la religione negli ultimi quaranta anni in Francia si è volto in detrimento della Francia; l’antipatriottismo in Francia andava di conserva con le rovine accumulate intorno alla Chiesa. E’ tempo che i cattolici francesi si sveglino e pongano ogni cura nell’eliminare dal potere uomini che se ne sono impadroniti per distruggere la chiesa e la società.
Lasciati da parte gli interessi di • partito occorre innalzare uomini che abbiano a cuore queste due grandi cause: la Chiesa e la Francia.
I cattolici francesi dovranno combattere da cattolici francesi non sopra una qualsiasi piattaforma politica ma sul terreno della difesa religiosa e sotto lo stendardo di Cristo come pure sul terreno dell’amore della patria e sotto la bandiera nazionale. « Raggruppatevi nel gran partito di Dio che deve dominare tutti i partiti senza assorbirne alcuno. Instaurare attinia in CAristo... ».
I vescovi francesi hanno fatto di tutto per impedire l’astensionismo, e hanno consigliato i cattolici a votare, dove non ci fosse una lista di loro gradimento, quella che fosse
meno lontana dal programma e dai sentimenti dei cattolici, senza troppo guardare al loro passato.
Il Comitato direttivo àelV Action liberale ha dichiarato: « Entrando nel blocco nazionale repubblicano \'Action liberale non ha rinunciato nè alle sue tradizioni nè al suo programma; essa non ha abbandonato nessuna delle cause per la cui difesa si è costituita. Noi siamo entrati nella coalizione con la testa alta, con tutto il nostro passato e tutte le nostre credenze. Ma nelle circostanze gravi che traversa la vita nazionale, nel momento in cui ci occorre riedificare le nostre rovine, vegliare-all’esecuzione del trattato di Versailles ed a! mantenimento di una pace ancora fragile, mentre la rivoluzione sociale minaccia e la Germania rialza la testa, ci è sembrato nostro dovere di francesi di dare il nostro concorso alle associazioni repubblicane raggruppate per costituire una forza capace di assicurare nell’ordine il lavoro la libertà e la ricostituzione.
Nessuno dei partiti coalizzati del paese ha d’altronde pensato a domandare agli altri di rinnegare i pròpri principi.
Clemenceau che pure ha accollo a braccia aperte i cattolici nel suo blòcco, non ha però troppo abbondato in concessioni. Anzi nel suo discorso programma di Strasburgo ha fatto dichiarazioni benevoli ma non molto esplicite a loro riguardo.
«Tuttavia la disparizione degli antichi partiti avrà per primo effetto di liberare da pesanti alleanze quelli fra i nostri concittadini che tengono a giusto titolo a conservare intatto il libero esercizio delle loro credenze — una delle prime manifestazioni della libertà di pensiero.
« Le leggi di laicizzazione devono essere integralmente mantenute... La libertà di coscienza è il principio medesimo del regime repubblicano... Il male è che la politica e la religione sono troppo spesso confuse nei violenti sforzi di ritorno in regimi de) passato. Le dichiarazioni che ci vengono oggi dai difensori responsabili della Chiesa ci permettono di sperare che la pace religiosa potrà essere assicurata non appena le legittime rivendicazioni delle libertà confessionali non siano più ingombrate dal peso morto degli antichi partiti.
« Io vedrei in ciò una delle più beile vittorie della Repubblica e il giorno in cui i fatti provassero che non vi sono sottintesi nessuno potrebbe commettere la colpa di rompere la magnifica unione del tempo della guerra per risvegliare antiche querele che nell’ordine
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nuovo della nostra pace non devono più avere alcuna ragione di essere.
«Al di sopra ancora dei diritti stretti, della libertà legale, vi sono i larghi orizzonti dell’universale tolleranza in cui gli spiriti possono spaziare senza cessare di comprendersi ed amarsi ».
Millerand è stato più esplicito. La separazione delle Chiese dallo Stato sembrò quando fu dichiarata una dichiarazione di guerra mentre ne è il contrario. Ma poi la calma è sopravvenuta e la verità è apparsa.
Viviani ha potuto dichiarare recentemente che egli vedrebbe senza scandalo intraprendersi trattative col Vaticano se gli interessi francesi lo esigessero...
Scuola neutra significa scuola che non è uno strumento di guerra contro una opinione o una credenza...
Circa le Congregazioni religiose Millerand dichiara che il fine della legge nel proscriverle era quello di impedire che non si formasse uno Stato nello Stato e una manomorta.
« Ma circa gli individui è impossibile impedire che abbiano diritto di associarsi come credono per difendere e propagare le loro opinioni, soltanto come tutti gli altri cittadini sono tenuti sopratutto se insegnano, a non dimenticare che la scuola è sacra e lo Stato ha il diritto di sorveglianza sopra tutte le scuole libere o pubbliche perchè non vi si trami contro il diritto e la morale pubblica delle imprese che dovrebbe poi reprimere..»
Per quanto i cattolici francesi siano rimasti un po’ male nell’udire le loro proteste così calorose ricambiate dai repubblicani con queste vaghe promesse, tuttavia sperano di ottenere molto, e hanno compreso che il vento soffia a loro assai favorevole nelle sfere governative.
Il risultato è stato e non poteva non esserlo favorevolissimo al blocco.
Con esso i cattolici dell'Action Libérale sono entrati alla Camera in buon numero (oltre la sessantina, e tra essi Marco Langhier).
A differenza però del nostro P. P. I. che si prefigge sopratutto scopi di ricostruzione e organizzazione sociale, le organizzazioni cattoliche francesi hanno scarsa base sindacale, e sono preoccupate piuttosto di un programma pulitico a tendenze nettamente conservatrici. Come pure esse dichiarano di muoversi a differenza del nostro P. P. !.. sopra un terreno nettamente confessionale, mentre l’influenza diretta del clero e del Vaticano sembra si esplichino più forte da noi che in Francia.
INGHILTERRA» IRLANDA E VATICANO
In principio della guerra europea l’Inghilterra, come è noto, inviò presso la S. Sede una missione straordinaria. Il fatto era completamente nuovo negli annali inglesi, ma la necessità della missione straordinaria durante la guerra era evidente. Infatti la Francia e l’Italia non avendo relazioni ufficiali con la Santa Sede, l’Intesa veniva a trovarsi in condizione di inferiorità rispetto agli Imperi Centrali.
Questa ragione addotta dal governo inglese per non urtare le suscettibilità tradizionaliste dell’opinione pubblica britannica non era forse-l’unica vera ragione. L’Impero inglese conta ora un numero troppo grande di cattolici perchè il problema delle relazioni con la Santa Sede non debba assumere una certa importanza. Anzi la missione inglese fu inviata originariamente per portare a Benedetto XV le congratulazioni del governo inglese per la sua assunzione al pontificato, e poi rimase, si disse, per informare il Vaticano di problemi religiosi attinenti all’impero britannico durante la guerra. Invece la guerra è finita, e la missione è rimasta.
Alcuni organi inglesi più intransigentemente protestanti e tradizionalisti come la Mbrtiing Posi e gli unionisti reclamano la soppressione della missione. Invece i giornali più preoccupati di realismo politico e che non hanno pregiudiziali in materia, fanno propaganda perchè la missione sia mantenuta. Se la questione fosse limitata a questi termini, non sarebbe difficile che venisse presto risolta in senso favorevole. Ma la questione irlandese viene a complicare enormemente la questione. Infatti gli irlandesi sentono l’istituzione di rapporti permanenti tra la S. Sede e l’Inghilterra come un attentato alla libertà religiosa dei loro movimenti politici ; essi temono che un rappresentante inglese a Roma non debba servire ad altro che a strappare al papato provvedimenti che inceppino il loro movimento per l’indipendenza, che ora possono svolgere con la solidarietà anche di gran parte del clero.
Gli irlandesi hanno già prevenuta la possibile istituzione di una ambasciata inglese presso il Vaticano con una loro mossa di indubbia efficacia. Il governo rivoluzionario di Dublino — quello, eletto dal parlamento secessionista irlandese che raccoglie più di 70 deputati dell’isola — ha fatto sapere al Vaticano che il giorno in cui la S. Sede accogliesse un ambasciatore inglese a Roma, im-
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mediatamente esso chiederà di essere rappresentato da un suo inviato. La situazione della Segreteria di Stato è perciò molto imbarazzata, non potendo essa inimicarsi i cattolici irlandesi che sono la parte maggiore e migliore dei cattolici dell’impero britannico, nè volendo esporsi alle intimazioni eventuali del governo inglese.
Il governo irlandese anzi ha già prescelto l’eventuale rappresentante presso il Vaticano nella persona di Mr. Mulloney irlandese-americano, e ha stanziato un apposito appannaggio su quel fondo di quei 125 milioni raccolti negli Stati Uniti dal prestito recentemente emesso dal governo irlandese.
RIFORME DISCIPLINARI DEL CLERO IN CZECOSLOVACCHIA
Le questioni religiose nella Czecoslovacchia sembravano avere assunto pochi mesi fa una gravità preoccupante per il Vaticano. Special-mente le informazioni di alcuni giornali poterono far credere per un momento che il fermento, esistente indubbiamente assai vivo nel clero czeco, e le rivendicazioni di notevoli concessioni liturgiche e disciplinari che spesso avevano assunto l’aspetto di brusche intimazioni, potessero dar luogo a uno scisma della chiesa di Roma.
In realtà il fermento è sopratutto originato dalie lotte politiche e nazionali vivissime, ed era grave sopratutto nella Boemia czeca. Lo scontento era sopratutto forte nel basso clero ridotto in condizioni assai misere e posto sotto ib governo di prelati stranieri che impiegavano contro la causa nazionale la loro autorità gerarchica servendosi della religione per sostenere il regime e la politica degli Asburgo.
La Santa Sede durante la guerra, o perchè male informata o per debolezza verso gli Asburgo, diede il suo consentimento ad una serie di spostamenti e nomine di vescovi in Boemia e Moravia che fu veramente disastrosa. Durante il 1916, nonostante la violenta opposizione del popolo e del clero, nonostante le proteste dei capitoli di Praga e Olmutz contro la violazione dei loro diritti, era trasferito d’autorità da Praga a Olmutz il cardinale Skerbensky ‘di origine czeca il quale, sebbene in fondo devoto àgli Asburgo, non era a Praga il personaggio più adatto per secondare le mire del Governo centrale. Fu so
stituito dal conte Huyn tedesco e germaniz-zatore ad oltranza in luogo del quale a Brünn era inviato un altro tedesco, il Klein. Furono provvedimenti molto odiosi contro i quali del resto l’azione della Santa Sede era legata dal vecchio concordato.
Con lo sfacelo austriaco il vescovo di Praga ha prèso subito il volo e come lui i vescovi magiari della Slovacchia fuggirono dalle loro diocesi.
Nell’estate scorsa una deputazione boema con l’appoggio del Governo giungeva a Roma per esporre alla Santa Sede i desiderata de) clero della nuova repubblica. La formavano il Krojher, presidènte deli’Associazione del clero, il deputato Kolisek ed il professor Sanda. Accolta freddamente sulle prime, potè poi presentare e difendere dinanzi al Papa il sue memoriale. In esso si affermava in primo luogo-la necessità di provvedére alla sostituzione dei vescovi ostili alla causa nazionale in Boemia e dei vescovi magiari della Slovacchia che ignorano perfino la lingua del loro popolo e la formazione di una nuova diocesi slovacca a Presburgo coi territori tolti all’Ungheria. Inoltre si chiedeva il riconoscimento di una autorità primaziale per l’arcivescovo di Praga sui paesi czecoslovacchi ; concessioni speciali per l’uso liturgico della lingua slava ; garanzie per una organizzazione più democratica della chiesa con partecipazione del popolo-alle elezioni vescovili e parrocchiali; infine si prospettava come possibile una modifica del-l’obbligo del celibato nell’interesse dell’unione con le chiese orientali.
Tranne su questo ultimo punto dei celibato, a quanto si può arguire da una recente intervista concessa dal nuovo arcivescovo di Praga monsignor Kordac al giornale Czech, il Vaticano ha formalmente promesso che è disposto ad abbondare in concessioni.
L’invio a Praga di mons. Micara, già addetto alla Nunziatura di Vienna, prelude alla instaurazione di rapporti diplomatici diretti c costanti tra la Santa Sede e il Governo czeco-slovacco. Quest’ultimo intende procedere alla separazione della Chiesa dallo Stato, ma, come ha scritto Masarik in un suo recente messàggio al Parlamento, con spirito amichevole verso la Chiesa e regolando d’accordo i rispettivi rapporti.
Così, almeno per il momento, la tempesta sembra quietata.
Quinto Tosatti.
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STUDI BIBLICI
L’IDIOMA DEGLI ETÉI
Si sa che gli Etéi» di cui si fa menzione nella Bibbia, ebbero un'età di grandezza politica, dominando un vasto territorio dell’Asia occidentale al tempo della XIX dinastia egiziana. Uno sprazzo di luce sulla civiltà di quel popolo si avrà presto, se acquisterà certezza la supposta scoperta recente di un dotto orientalista.
In Asia Minore, nella località di Boghaz-keui, fu trovato da esploratori germanici, pochi anni or sono, un cumulo di millenari pezzi di argilla recanti scrittura in caratteri cuneiformi e nella lingua degli Etéi. ancora sconosciuta. Ugo Winkler, insigne assiriologo tedesco, si proponeva di giungere a decifrare quelle vetuste iscrizioni, custodite nel Museo Imperiale di Costantinopoli; ma lo rapi la morte (19x3) prima che avesse trovata la via per riuscirvi. Ora l’avrebbe scoperta il professore Hrozny dell’università di Vienna; a quanto si legge nel fascicolo (con la data del 1915) pubblicato test*', dagli Atti della Società Orientale tedesca (Berlino). Non possiamo accennare neppure sommariamente agli elementi sui quali egli crede di potere fondare la sua teoria rivelatrice della chiave dell’ idioma etéo (e d’altra parte ne dette un abbastanza ampio ragguaglio il Costa nella sua rassegna (IV) del numero del gennaio 19x8. N. d. Dir.]: basterà dire che questo dotto glottologo stima di avervi rintracciata la declina
zione del nome con sei casi; e di essere riuscito a intuirne alcuni caratteri che lo latino apparire come affine alla lingua latina. Se questo resultato avrà conferma da ulteriori ricerche e discussioni, che ora si fanno in seno di quella Società, un raggio di luce ci rivelerà qualche cosa della storia misteriosa di quel popolo orientale.
ARAM E ISRAEL
Il dr. Guglielmo Kraeling, studioso americano, in una monografia intitolata Aram e Israele (Aram and Israel, Nuova York, 1919) descrive le condizioni e le oscure vicende della gente aramea in Siria c Mcsopotamia, allorché gli Ebrei si erano stanziati da qualche secolo nel paese di Canaan. L’A. avverte di avere indagate le cose pertinenti alla geografia con cura particolare, essendo ciò la base di cognizioni esatte nel terreno delle ricerche storiche. Ma nell’indagine ch’egli si projx>se di fare bisogna anche possedere bene le lingue semitiche, poiché si hanno a studiare testi semitici molto difficili a cagione della loro vetustà nonché per essere spesso a noi pervenuti in maniera di frammenti. E non sembra ch’egli sia un semitista tanto provetto se, basti questo solo esempio, osa seriamente di far credere che il vocabolo Aram va inteso come anagramma di Amari Le pagine in cui traccia la storia degli Aramci nell’età dei Re d’Israele non sono sfornite di pregio narrativo; ma nell'insieme questa monografia, quantunque sia
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un numero della serie degli Studi orientali pubblicata dall’università Colombiana di Nuova York, non ci pare tanto scientifica quanto è lecito pretendere.
EFOD E ARCA
La tradizione teologica, si giudaica che cristiana, reputa di avere nella Bibbia una notizia sicura c precisa circa l’origine, la natura e il destino di quella sacra anticaglia ebraica chiamata « l’arca dell’alleanza K Ma la critica biblica trova di che dubitare sulla storia biblica di tale oggetto famoso; come ha pure qualche difficoltà nel chiarire la nozione biblica di queiraltra-anticaglia religiosa chiamata Efod; che in alcuni passi dell'antico Testamento si designa come 'cosa solida c adoprata per trarre oracoli, jnentre in altri passi si descrive come un articolo pomposo dei paramenti sacri del sommo sacerdote. Intorno all’arca e all’e/od le monografie critiche sono già numerose; nondimeno il prof. W. Arnold, un semitista nord-americano. ha stimato cosa non superflua comporne una nuova; che è appunto intitolata Efod e Arca (Ephod and Ark. Cambridge IMassachusetts!, Harvard University Press. 1917.' PP- »70. in-8®). e fa parte della pregiata sene periodica di Studi teologici pubblicati dall'università* Harvardiana.
Come si sa, la Bibbia racconta (nel-V Esodo) che Mosè. trovandosi con il suo popolo peregrinante dall’Egitto al paese «li Canaan, sali sul Sinai a parlare con Dio avvolto in folta nube: lassù ricevè il Decalogo inciso dalla stessa mpno di Jahvé su due pietre; poi il precetto di far fare, secondo il disegno rivelatogli, una cassetta di legno, ornata dentro e fuori di lamine d’oro nonché recante sull'aureo coperchio due cherubini in rilievo; dentro la quale Israele doveva custodire le pietre del Decalogo. Ma questo racconto viene relegato dalla critica tra le pie leggende germogliate in seno del Giudaismo dopo (’Esilio, e attribuite a! tempo e alla rivelazione di Mosè. Se non che l’esistenza dell'arca presso l'antico Israele si ammette anche dai critici radicali; perchè di essa ci fa menzione in passi biblici che hanno, almeno sostanzialmente, carattere storico innegabile. La questione incomincia intorno alla sua natura e funzione religiosa.
Il prof. A. stima che tale questione si debba risolvere supponendo che gli scribi giudaici, mossi da scrupolo religioso, abbiano alterato il testo ebraico in tutti quei
passi dove si parla dell’c/brf come cosa solida e strumento di divinazione: essi, per far dimenticare che l’arca servi a trarre oracoli, avrebbero sostituito la voce ephod alla voce aròn » arca »: la quale sostituzione sarebbe stata agevolata dalla somiglianza grafica delle due voci nella scrittura ebraica. Di questa alterazione si ha chiaro indizio, a suo avviso, confrontando la lezione greca dei Settanta con la lezione masoretica ebraica del passo 1 Sani., 14. 18. Ivi. secondo il greco, si legge: « Saul disse ad Achia: reca qui Vefod'. giacché egli portava in quel giorno Vefod dinanzi a Israele». Invece l’ebraico ha: «Saul disse ad Aphia: reca qui l’arca di Dio! essendo in quel giorno l'arca di Dio con i figli d'Israele ». Quasi tutti gli esegeti antichi e moderni qui correggono con il greco la lezione ebraica; cioè, pongono « efod • in luogo di « arca ■; notando che 3 «està non era strumento di divinazione;
che Saul richiedeva al sacerdote Achia in quel momento. Il prof. A. crede per lo contrario che si debba far tesoro di questa lezione ebraica, sfuggita non si sa come all'attenzione degli scribi alteratori del testo tradizionale. Per tanto, non Vefod ma l’arca portava a Saul il sacerdote Achia. Non possiamo indugiarci a esporre le con-siderazioni di lui su questo e gli altri passi biblici esaminati minutamente;' basterà indicare le conclusioni principali della sua indagine critica.
Quanto all’efod. egli opina che fosse, nell’antico Israele, un grembiule indossato da chiunque, sacerdote o laico, dovesse partecipare a riti religiosi in presenza della divinità. In età posteriore, cioè quella del secondo Tempio, fu trasformato in un pomposo articolo dei paramenti riservati al sommo sacerdote celebrante: esso solo indossava Vefod forse perchè esso solo si recava alla presenza immediata di Jahvé. entrando nel luogo santissimo del Tempio. Ma Vefod non fu mal* un oggetto che servisse a trarre oracoli; tutto al più sarà stato indossato da chi. nell’antico Israele, si accingeva a consultare Jahvé.
Per ciò che riguarda l'arca, il prof. .A. stima che fosse < un oggetto plurimo ado-prato dai sacerdoti d'Israele come loro strumento professionale di divinazione > (p. 132). Contro l'opinione del Dibelius. egli concede che l’arca fosse una cassetta dentro la quale erano riposti i dadi con cui faceyasi la divinazione della volontà di Jahvé. Non solo presso i celebri san. .. ___________________________________________________
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tuari, ma anche nelle dimore di privati che potessero darsi il lusso di mantenere un sacerdote doveva trovarsi un'arca, nel periodo più antico della storia israelitica. Però quella del santuario di Silo era la più popolare, e dedicata a Jahvé delle schiere, ossià a « Jahvé militante ». Molto prima che Israele, nel 586 a. C.» fosse definitivamente privato della sua indipendenza politica; alla divinazione sacerdotale per via dell’arca sacra sottentrò, almeno nella sfera officiale della nazione, un altro mezzo di consultazione divina, cioè la parola di uomini divinamente inspirati: la profezia. Però la vecchia usanza rimase nel popolo fino al tempo di Geremia. Le notizie circa l’arca unica e famosa collocata, dopo varie peripezie, nel tempio di Salomone, sarebbero, al dire del prof. A., niente altro che un frutto dell’immaginazione pia di chi compose il Codice sacerdotale; quando il tempio salomonico non era più che un grandioso ricordo nazionale. Per via di sagaci interpolazioni gli scribi sacerdotali ne) testo biblico seppero connettere l'arca, istituzione popolare e cananea, con la leggenda delle pietre recanti scolpito il Decalogo; come pure con il’ rituale del tempio salomonico.
In appendice l'A. pone due dissertazioni. L’una ha per oggetto « Jahvé Sabaoth », nome che è passato nel nostro linguaggio con la comunissima ma oscurissima frase « Dio degli eserciti »: il prof. A. crede che ebraicamente significhi * Jahvé militante ». L’altra dissertazione è intesa a dilucidare una lezione dubbia dei papiri aramaici scoperti a Elefantina, in Egitto.
IL SANTUARIO MOSAICO
Mosè sul Sinai, secondo la narrazione del Pentateuco, ricevette pure il divino comando, insieme con la visione del disegno ben particolareggiato, di erigere un santuario portatile, cioè, una tenda larga e pomposa. E gli Ebrei, smontandola e rizzandola nelle varie soste a traverso il deserto, avrebbero portata quella sacra tenda, destinata alla celebrazione del culto, nel paese di Canaan, presso la città di Silo, collocando nel suo recesso più nascosto l’arca santa. Mentre di questa i critici moderni ammettono in qualche modo la esistenza presso l’antico Israele, invece quasi tutti pongono il santuario o tabernacolo di origine mosaica nel numero delle cose puramente fantastiche. Osservano che la descrizione fattane nel Pentateuco è una
copia in miniatura del tempio salomonico; e da ciò arguiscono che il santuario portatile sia stato immaginato da scrittori del tardo Giudaismo solleciti di ricondurre tutte le istituzioni religiose israelitiche alla parola di Mosè ammaestrato da Dio sul Sinai. Se non che si può addurre qualche serio argomento archeologico in difesa della tradizione, ristringendo-la descrizione pomposa dcH'Esato alla sostanza, ossia a ciò che poteva essere una tenda nel deserto. Il che fa eruditamente l’A. di un articolo intitolato II santuario d'Israele in Silo, Eubblicato in The Princeton Theological
eview (an. 1918, pp. 204-229). Anzi tutto egli nota, recando vari esempi, che un santuario portatile non sarebbe stato una novità in Oriente al tempo di Mosè: indi cerca di persuadere che gl’israeliti potevano avere le materie c la capacità tecnica per costrurre quella tenda sacra, almeno quanto alle parti principali. In fine vorrebbe dimostrare che il santuario rizzato Kresso Silo, era quello mosaico, nonché unico riconosciuto per tale da tutte le tribù d’Israele al tempo dei Giudici; la qual cosa, però, abbisogna di argomenti migliori.
L* ECCLESIASTE
L’assiriologo M. lastrow, professore del-l’Università di Filadelfia, nel libro del-V Ecclesiaste vuole vedere il dettato di un filosofo cinico gentile; come lascia intendere il titolo del volumetto in cui ne dà la traduzione ’ dall’ebraico in inglese (A Genite Cynic. Being a translation oj thè hook of Koheleth, connnonly Known as Ecclesiastes. Londra, Macmillan. 1919: pp. 255 in-8°). Nelle pagine d’introduzione il I. fa osservare che nel testo canonico, cioè, tradizionale, dc\V Ecclesiaste s’incon frano non poche sentenze tra sè repugnanti: alcune, ossia, le più esalano un senso di scetticismo religioso e morale veramente cinico; altre, disperse oua e là, insinuano piamente sentimenti di rassegnazione e di fiducia in Dio, non inconscio reggitore delle umane vicende nè immemore della umana sorte. Queste sarebbero state aggiunte da uomini timorati al testo genuino, uscito dalla penna d’uno grecamente colto, in Palestina tra il 240 e il 181 a. €., nella cui mente angustiata dal dubbio razionale si potrebbe ravvisare la crisi allora travagliarne la religiosità giudaica venuta a contatto con la filosofia ellenistica. La teoria esegetica del M. non è nuova nè
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incontestabile del tutto: pregevole la traduzione deH’originale. e notevoli vari tratti che bene interpretano questo « documento umano • di eterna angoscia.
I SADDUCEI
La critica trova qualche difficoltà a chiarire la fisionomia di quei due famosi partiti. Sadducei e Farisei, che al tempo di Gesù agitavano la nazione giudaica. Già si fece menzione in questa rubrica di una discussione su tale argomento nelle pagine del periodico londinese The Expositor. (an. 1917). Ora notiamo che il reverendo G. Box, professore nel - King’s College ■ di Londra, vi è tornato sopra, con un articolo (an. 1918, pp. 19-3$) in difesa de' Sadducei troppo mal trattati, a suo avviso, da certi critici.
Il prof. B. non vuole associarsi a coloro i quali ravvisano nei Sadducei non un partito religioso, ma una schiera d'uomini in buona posizione sociale grossolanamente ignoranti e incuranti della religione mosaica, dediti soltanto a questioni della vita politica e materiale e proclivi, se non ligi, all'ateismo pratico e anche teorico. Questo ritratto de’ Sadducei è calunnioso, e de-vesi attribuirne l’origine all’ostilità che verso di loro nutre la tradizione farisaica: che è la fonte da cui la critica trovasi costretta ad attingere precipuamente le notizie che li riguardano. In fatti, lo storico ebreo Giuseppe Flavio, fonte principale d'informazione, fu seguace del partito avverso ai Sadducei; e non occorre dire che l'altra fonte, cioè la letteratura rabbinica, sgorga dalla scuola de’ Farisei. Una certa imparzialità si deve supporre negli scrittori del Nuovo Testamento; ma le loro notizie sono frammentarie. Nondimeno, investigandole accuratamente, e interpretando con sana critica i dati fornitici da Giuseppe Flavi#*nonché quelli talmudici, si arriva a capire che i Sadducei, pur meritandosi la disapprovazione di Gesù — che fustigò molto piu i Farisei — non erano però un branco di miscredenti e di materialisti.
Nell’articolo il prof. B. esamina primieramente i passi in cui Giuseppe Flavio menziona i Sadducei. Lo storico ebreo parla dei Sadducei e de’ Farisei in guisa da /ar intendere che il contrasto esistente tra di loro proveniva da idee religiose più che da questioni politiche; e rappresenta i Sadducei come un partito vero e proprio in seno della chiesa giudaica. Quanto alla
loro dottrina, Giuseppe Flavio l’addita préss’a poco così. Essi negavano la resurrezione: questo pare il significato della sua asserzione: « è dottrina de’ Sadducei che le anime muoiono con i corpi ». Non accettavano come testo giuridico della religione se non la lettera della Legge (Pentateuco), e forse accoglievano con rispetto le altre parti della Scrittura a titolo di testimonianza storica per la dottrin'a mosaica. Decisamente rifiutavano in teoria la tradizione orale tanto cara ai Farisei: però in pratica la seguivano compiendo funzioni pubbliche, per non urtare contro il sentimento farisaico popolare: ma appunto per non doversi piegare alle pretese farisaiche cercavano di sottrarsi alla magistratura. Ciò al tempo di Cristo, perché l’opinione popolare in materia religiosa ubbidiva quasi ciecamente agli scribi farisei; allora i Sadducei, quantunque componessero l’aristocrazia sociale, godevano poco prestigio; molto, invece, ne avevano avuto fino al tempo dei Maccabei. No» è ben chiaro che cosa significhi il « fato » (cimarmene, la voce greca usata da Giuseppe F.) che i Sadducei negavano, mentre i Farisei lo amméttevano. Taluni opinano che i Sadducei negassero la divina Provvidenza, e avessero della vita umana una concezione atea. Ma se accoglievano la rivelazione mosaica, ossia il Pentateuco, cosa bene accertata storicamente, ammettevano dunque l’intervento di Dio nelle vicende umane. Forse, come nota il professore B., essi negavano una dottrina farisaica intorno alla Provvidenza, stimandola come eccessiva e conducente al fatalismo inerte. Probabilmente il loro pensiero era semplicemente questo, che l’uomo è padrone del suo destino quantunque Dio no» vi sia estraneo. \
Dopo i luoghi dello storico ebreo, sono toccati dal prof. B. alcuni passi del N. Testamento e della letteratura rabbinica dai quali tutti risulterebbe che i Sadducei non erano cinicamente indifferenti alle questioni di coscienza religiosa. Egli ammette che in seno de’ Sadducei possano esservi stati circoli od uomini con tendenza irreligiosa; ma il loro partito non gli sembra meritare il nome nè di empio nè di grossolano in materia religiosa. Era, invece, un partito conservatore; alle volte troppo intransigente nelle questioni giudiziarie penali, ma sostanzialmente liberale in quanto che, rigettando i carichi nuovi precettati dall'insegnamento degli
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scribi farisei, tutelava l’onesta libertà antica della vita religiosa, nonché i diritti tradizionali del sacerdozio, di cui era Posponente sociale, in contrasto con il partito farisaico e laico che li ledeva. Siamo giusti anche con i Sadducei!
LA CONVERSIONE DI S. PAOLO
A. Loisy dedica nella sua' Revue d'hìs-ioirc et de littérature religieùses (n. 4, an. v„ pp. 289-331) un articolo all’esame di quei gran fatto della storia cristiana che è la conversione di san Paolo. Si propone di determinare come e perchè Paolo potè accettare con ardore la nuova fede, e ’costruire sul Vangelo il dogma del Cristo Redentore, precipuo fondamento teologico della religione cristiana. Giova notare che il L., in compagnia di altri critici moderni, suppone come cosa certa che Gesù, pur credendosi e dicendosi divinamente destinato a Messia dell'imminente regno dei cieli in terra, non disse nè si pensò di essere la divina vittima redentrice del genere umano schiavo del peccato; e che tal cosa neppure passò mai nella mente di coloro che ascoltarono la sua parola e la divulgarono in Palestina nei primi anni dopo la sua morte. Che se nei Sinottici s'incontra qualche allusione a questo gran mistero cristiano, devesi attribuire, secondo il L.» alla penna di scrittori posteriori a san Paolo; non alla genuina tradizione del Vangelo.
La difficoltà più grave, dice il f... che ostacola la spiegazione storica e psicologica della conversione di Paolo quasi scompare se si supponga ch’egli non conobbe personalmente Gesù, e non ebbe la prima notizia di Lui e della sua parola da coloro che lo avevano veduto e ascoltato: ma che invece ne udì parlare la prima volta fuori della Palestina, nel mondo dei culti orientali ellenizzati, da Giudei e da proseliti del Giudaismo settatori della nuova fede a modo loro, cioè, un po’ ellenisticamente: essi dovevano con sentimento spontaneo ravvisare nel Cristo creduto risorto non tanto il <1 Messia » giudaico quanto il «Signore»; dando a questo titolo la significazione divinizzatrice che aveva allora nella religione ellenistica. Delia personalità storica di Gesù, quantunque cronologicamente si vicina alla sua. Paolo seppe ben poco. « Dà quel Giudeo ch’egli era non si converti al messianesimo di Gesù ma d’un tratto uscì dal giudaismo per entrare nella religione del Cristo; senza essersi curato
di conoscere ciò che Gesù avesse insegnato e fatto, contentandosi di sapere, ossia, di credere eh'Egli era morto per i peccati degli uomini e resuscitato per la loro salvezza. La conversione fu compiuta in un istante » (p. 306). Ciò posto per l’aspetto psicologico del fatto, la questione si riduce a spiegare storicamente come Paolo si sia convertito al mistero cristiano, al dogma della redenzione operata dal Cristo crocefisso.
Non pochi critici amano raffigurarsi la conversione di san Paolo come la crisi di un teologo che abbandona l’atteggiamento fervorosamente ortodosso per adagiarsi in un sistema liberale, avendo capito, per intima esperienza del suo Spirito, che la fede nella bontà di Dio rivelata dal Cristo è ciò che solo -importa per la salvezza eterna. Di tal guisa Paolo sarebbe stato condotto al Vangelo; e in pari tempo, suggestionato da credenze non estranee al giudaismo, egli avrebbe ideato la sua dottrina circa la giustificazione conseguibile per mezzo della fede al Cristo croce-fisso e resuscitato per la salvezza degli uomini. Il L. stima tale congettura priva di. fondamento nelle pagine epistolari in cui Paolo palesa l’intimo del suo animo e del suo pensiero religioso'. Inoltre, la predetta congettura gli sembra immaginata fuori della sana critica, che richiede si ponderi l’efficacia esercitata su Paolo dall'ambiente spirituale in cui si trovò e operò, religiosamente, avanti la sua conversione. Paolo non ci fa sapere ch’egli si trovasse a disagio nella religione mosaica: che la sua coscienza fosse angustiata prima della conversione: che gli paresse manchevole la garanzia di salvezza datagli dalla fede ch’egli professava come fariseo: una tal fede era par quella di Gesù; una fede che sperava dalla bontà di Dio la venuta dei suo regno, l'adempimento della sua promessa al popolo eletto, nonché la beata immortalità dei giusti; una fede che certo non ignorava in Dio l’attributo di misericordia. Vero è che dopo la conversione Paolo proclama essere oramai inutile la Legge pei la salvezza umana; ma ciò perchè della salvezza egli aveva allora un’idea diversa da quella di prima: non poneva più la salvezza nella venuta del Messia regnante con Israele immortale nel mondo: invece la metteva nell’unione spirituale con un Salvatore divino il quale solleva chi crede in lui dalla tèrra al ciclo, facendolo partecipe dèlia sua gloria eterna.
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Il Cristo dal quale Paolo si sentì chiamato non in il predicatore dei regno di Dio, resuscitato tre giorni dopo la sua morte, non fu neppure il giusto che patì per espiare i peccati degli uomini, ma fu ressero celeste che volle assumere nella sua carne il peccato dell'umanità e cancellarlo con la sua morte. Il baleno di cui si parla come circostanza della di lui conversione nel racconto degli Atti, sarà stato lo sprazzo di luce che si sprigionava subitaneo nel suo spirito turbato; e gli avrà lasciato scorgere nell'uomo crocensso sul Calvario il Salvatore divino, dall’eternità esistente e predestinato da Dio a strumento della redenzione universale; manifestato per la resurrezione qual signore della morte. Tale la nuova fede religiosa di -Paolo nel momento solenne della sua crisi spirituale; e tale rimase essenzialmente in lui apostolo del cristianesimo e persuaso di serbarsi, cosi, fedele al monoteismo ebraico, nonché di avere trovato la vera interpretazione della speranza d'Israele e delle divine promesse annunciate dai profeti. Paolo mantiene alla rivelazione cristiana quella trascendenza che il giudaismo attribuiva alla rivelazione mosaica. 11 contrasto con il farisaismo giudaico dovette necessariamente sorgere tosto; e si accentuò quando l’apostolo si trovò costretto a difendere la sua opera missionaria: allora Paolo elaborò la teoria della giustificazione per mezzo della fede senza le opere della Legge.
Quanto all’influsso dell'ambiente religioso pagano su Paolo, il L. non sembrerebbe disposto a grosse concessioni. Egli dice che il sincretismo gnostico in appresso superò la dottrina paolina, ma che la religione di Paolo veramente non è sincre-tista; c che non fu deliberatamente costrutta con elementi di origine diversa, nè al fine di armonizzare sostanzialmente con altre religioni di quei luoghi e di quei tempi. Con ciò il L. non vuole escludere però che l’ambiente religioso pagano non abbia esercitato alcun influsso su di lui. Che anzi, non è poco ma forse troppo, come ci sembra, l'ammettere che da un tale ambiente Paolo ricevette l’idea di un «Salvatore divino »! Il L. aggiunge delle belle considerazioni circa il dogma cristiano della Redenzione che diè al Vangelo la possibilità di conquistare il mondo antico e trionfare come religione suprema; ma tutte quelle belle parole non compensano l’offesa ch’egli fa alla coscienza cristiana, e anche
alla sana filosofia — crediamo — definendo quel dogma per «.un mito paolino ».
AI TESSALONICESI
Il coment© latino delle due lettere ai Tessalonicesi (Commcntarius in Epistolas ad Thessalonicenses, Roma/ Ferrari, 1917; K. vin-305 in-8®) autore il p. Vorsté, un menicano belga, non è sfornito di ogni pregio. Vi si legge a fianco della versione latina (Vulgata) il testo greco secondo la buona recensione del prof. Nestle; le più importanti tra le lezioni varianti sono indicate nelle note; dove si trovano anche, insieme a cose mediocri d’indole teologica, non poche osservazioni erudite e utili di natura filologica. Nella introduzione l'A. raccoglie le notizie più necessarie per l'interpretazione storica di queste due lettere. Quanto alla loro autenticità, dice che oramai ninno ne dubita (« nullus omnino dubitai », p. 34). Tale affermazione ci pare troppo categorica, poiché l’autenticità della seconda fu negata dal Wrede con osservazioni che non hanno ancora avuto una risposta del tutto soddisfacente. Appunto fer rispondervi fu proposta da A. Harnack ipotesi, neppure menzionata dal p. Vorsté, che Paolo abbia indirizzato la seconda lettera alla minoranza della chiesa tessa-lonicese, cioè, ai convertiti dal giudaismo; mentre la prima sarebbe stata destinata alla maggioranza di quei fedeli, ossia, ai convertiti dal paganesimo. La monografia del prof. Harnack (Dos Problem des zweiten Thessalonicherbriejs, 1910) non trovò molti lodatori, nondimeno merita qualche attenzione; e il p. V. doveva menzionai la accennando alle obiezioni in proposito. Vero è che si propende oggi dai critici verso l’opinione favorevole all’autenticità, ma il problema di conciliare perfettamente il contenuto e il tono della seconda con la prima lettera non é ancora pienamente risolto, agli occhi di chi ha perspicacia e senso critico. Molto ci sarebbe poi a dire sulla questione parusiaca, trattata dal p. V. in appendice, dove egli rende omaggio al decreto della pontificia Commissione Biblica (18 giugno 1915), che vieta di attribuire a San Paolo l’idea di un prossimo ritorno del Cristo glorioso in terra. Ma poiché il p. V. non era libero di esprimere al riguardo la sua opinione sincera di studioso. non occorre che ci fermiamo su ciò ch’egli, in proposito, dovette insegnare agli alunni di teologia ortodossa.
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Notevole il contento inglese alle predette lettere composto da! rev. dr. A. Plummer (J Commentary on St. Paul's first and second Epistle to the Thessalonians. Londra, Scott, 1919). In due bei volumi il Plummer, noto cultore di studi biblici, offre la parafrasi delle due epistole felicemente distribuita in sezioni; e ragguaglia copiosamente' il lettore circa Te interpretazioni date ai passi più rilevanti o più controversi dagli esegeti moderni più autorevoli. Si potrebbe desiderare ch’egli
avesse manifestato anche la sua opinione in tutte le questioni discusse. Però sembra lecito supporre che il dotto cementatore se ne astenne non per mancanza di onesto coraggio, ma per quel senso delicato di modestia che è dote degli studiosi probi e profondi. Egli deve credere, e con molta ragione, che il dare un esempio di modestia nel trattare i documenti sacri dell’etica cristiana non sia una lezione troppo comune.
r. e p.
FILOSOFIA MORALE
L’IDEALISMO ETICO DI FICHTE
Possedevamo tradotta, di Fichte, la Dottrina della scienza (da Adriano Tilgher, nella Collezione Laterza dei classici deila filosofia moderna). Luigi Ambrosi ci dà ora una traduzione accurata e fedele dell’altra opera fondamentale del Fichte stesso: Dottrina morale secondo i principi della Dottrina della scienza (S. E. Dante Alighieri, di Albrighi. Segati e C., Roma, 1918).
Precede l’opera di Fichte una lunga introduzione del traduttore, nella quale ci è dato prima un riassunto in ¡scorcio del sistema fichtiano e delle sue sorti nella filosofia posteriore, quindi un diffuso disegno della Dottrina morale. In essa FA. si mostra perfetto conoscitore della filosia di F. e della letteratura su di essa e diligentissimo espositore ed interprete del pensiero del maestro.
Auguriamo al volume molti studiosi lettori; perchè, se pure non è il caso di gridare: torniamo a Fichte, zurück zu Fichte (come si disse in Germania, ma mirando special-mente all’ autore dei Discorsi alla nazione tedesca) ci sembra tuttavia che lo studio del pensiero di lui possa essere un utile correttivo a una certa interpretazione, non sappiamo se legittima, ma certo diffusa, dell’idealismo hegeliano ripreso e corretto e rimesso in circolazione negli ultimi decenni in Italia da B. Croce e Giovanni Gentile; indirizzo che, con la giustificazione teoretica del reale e di ogni momento di esso, nel divenire,
porta a rallentare lo sforzo morale, riponendo la conquista dell’universale piuttosto nel processo di illuminazione intellettuale del reale nel soggetto, nell’autocoscienza, che non nell’atto volontario in cui la persona morale, assetata di infinito e di assoluto, nega e supera e trascende, con incessante tensione e-roica, i limiti e le imperfezioni dell’agire pratico e del mondo che ne risulta.
La filosofia di Fichte, è il più geniale e grandioso sforzo che sia stato fatto insino ad ogg* per fondare su di una metafisica trascendentale la concezione etica dell’io e delia vita come sforzo assiduo verso la vittoria e la perfezione morale, come parto laborioso, ad ogni momento, di un dover essere che è negazione dell’essere, della attualità (limitazione e contingenza e quindi difetto e miseria morale); sforzo che mai raggiunge il suo scopo, ma che sempre si avvicina ad esso, traendo sempre nuove forze dalla metafisica consapevolezza e dalla libera affermazione e fede del destino della vita, che è di tornare nell’io empirico, dai limite all’assoluto. Sicché, per Fichte, la cultura, la dottrina, in quanto è o deve essere appunto dottrina di questa essenzialità dello sforzo morale, diviene una missione, e il dotto è per lui il sacerdote e l’apostolo della nuova civiltà del mondo uscito, con la critica kantiana, dalla illusione dommatica.
Nel sistema di Fichte fu veduta la più pura espressione del romanticismo tedesco (l'esaltazione eroica dello sforzo, la tensione
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delia volontà oltre tutti i limiti del reale); e ad esso fu data specialmente la colpa dello spirito pangermanista. Ma poco interessano a noi le contingenti esplicazioni di una dottrina che fu forse male compresa e certo male applicata, contro ¡ .più chiari moniti dello stesso autore di essa ; quello che interessa è il frutto che da quella dottrina si può trarre, l’impulso che se ne può derivare, ripensandola con mente critica, ma con identica preoccupazione morale : preoccupazione in tutto simile a quella che animò e condusse il nostro Mazzini, il cui insegnamento può essere definito inconsapevole esplicazione del pensiero del grande tedesco.
Ma sta la dottrina morale di Fichte se non si accettano le sue basi teoretiche ? Se non si risale con lui a quel dramma trascendente, a quell’urto, nel quale l’io assoluto si fa nori-Io e dalla coscienza, che è posizione del limite, erompe l’io empirico, notazione fugace di quel dramma metafisico che esso porta con sé dalla nascita e che si ripete in tutti i momenti della sua vita, ciascuno dei quali è, e deve volutamente essere, una nuova nascita?
Non importa. L’idealismo non ha detto la sua ultima parola. Notavo già l’insoddisfazione che ci dà quell’altro ramo delia filosofia critica che ha preso nome da Hegel; la insufficienza del precetto morale che se ne può trarre; l’assenza, forse, del precetto morale, in luogo del quale si ha solo una dottrina della morale, cioè una visione teoretica del mondo come volontà e azione.
. Se la morale, come concezione attuosa di vita, come ricerca del dover essere, come coscienza pungente della irrazionalità del reale, non riesce ancora ad avere una chiara consapevolezza razionale di sè, (e forse la stessa posizione di questo problema ha qualche cosa di assurdo, dato che la vita trascende il pensiero pensato) essa vive e vale come fede; e, come fede, ha avuto in molte pagine del Fichte la più potente espressione. E se questa fede, con tentativo sempre rinascente, vuol farsi consapevolezza teorica, e trovare nell’intellettualismo hegeliano il pùnto debole, da nessuno la rinnovata indagine può prendere le mosse meglio che da Fichte. E dunque, se vi piace, zurück zu Fichte..
LA DOTTRINA DELLA MORALE
Due brani, dalla introduzione dell’Ambrosi. Quale è l’idea ispiratrice del sistema fichtia-no? «È l’idea più alta e, per la coscienza comune, la più paradossale che sia sorta nella storia della filosofia: la sintesi, cioè, di due
termini in apparenza cosi inconciliabili come l’io e il non-io, il conoscere e l’essere, la libertà e la necessità, lo spirito e la natura, nel monismo superiore... della libertà. Il sistema del F. consiste infatti in una « filosofia della libertà »; e poiché il suo principio metafisico si identifica con l’ideale morale, giustamente fu chiamato un idealismo etico. La vecchia metafisica s’intitolava scienza dell’essere, ontologia, e nell’essere riponeva lo assoluto, il reale, e dall’essere derivava ciò che deve essere l’ideale.
Secondo il F., invece, l’assoluto, il principio ultimo e supremo da cui veniamo ed a cui tendiamo non è V essere, ma il dovere, è un ideale che non è, ma deve essere. L’essere in quanto essere, in quanto quid stabile e compiuto, in quanto cosa o materia inerte, a rigore non esiste; la. finità, l’immobilità di ciò che chiamiamo sostanza, sustrato, materia, non è che apparenza. Agire, tendere, volere, ecco in che consiste là realtà vera. L’universo è il fenomeno della Volontà pura, il simbolo dell’idea morale, che è la vera cosa in sè, il vero Assoluto. Filosofare significa convincersi che l’essere non è nulla, che il dovere è' tutto; Significa riflettere sul proprio io empirico, individuale, unica attività libera che tende incessantemente ad attuare ciò che dev’essere, ossia il Dovere, il Bene, l’io assoluto, universale ; significa acquistare la coscienza di portare con sè la libertà che crea e soggioga il mondo, appunto per attuare il Dovere, il Bene, e l’ideale morale, l’io o la libertà assoluta » (pp. XXXII-XXXIII).
« Mentre da un lato la Dottrina della scienza ci apprende che il fondo, l’essenza dello spirito umano non è l’intelligenza ma l’attività, non il pensare ma il volere — nella forma, almeno, in cui attività e volere sono accessibili all’uomo—, e che l’intelligenza— pur essendo inseparabile dall’attività, da cui è condizionata e di cui è condizione — resta subordinala all’attività come la forma al proprio contenuto, come la riflessione al proprio oggetto, d’altra parte la Dottrina inorale ci mostra il procedimento con cui lo spirito u-mano si sforza — il che è preciso suo dovere — di prendere coscienza, mediante l’intelligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di quella libertà infinita, che è appunto il fondo suo, la sua essenza assoluta. Dal che risulta evidente lo stretto nesso che avvince la Dottrina inorale alla Dottrina della scienza-, quella si deduce direttamente dai principi! di questa, in quanto la moralità, secondo il F., non è che uno dei momenti più importanti, anzi il più essenziale, della
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attuazione di quell'io puro, di quelia libertà -assoluta che la Dottrina della scienza pone al di là dei limiti di ogni coscienza, e da cui l’io empirico deriva ed a cui l’io empirico aspira.
«Il passaggio dall’io puro, assoluto e infinito, per via di limiti e determinazioni, all’io empirico, relativo e finito, ossia dalla libertà all’intelligenza, è il problema a cui più specialmente si applica la Dottrina della scienza; il passaggio dall’io empirico, relativo e finito, per via di superamenti e liberazioni, all’io puro, assoluto e infinito (la metessi, direbbe Gioberti) è il problema a cui più specialmente si applica la Dottrina inorale. L’un problema è il reciproco dell’altro, e la soluzione di entiambi dipende dalla soluzione •dell’antinomia tra la finitezza dell’ io-intelii-genza, attività oggettivante (= che pone oggetti, limitazioni, resistenze) e l’infinitezza dell’ Io-libertà, attività pura (= che ha per essenza l’assolutezza, l’illimitatezza, l’autonomia). E come il F. risolve tale autonomia con quella attività a un tempo finita ed infinita che è lo sforzo (Streben) — attività finita, •perchè lo sforzo implica una limitazione, una determinazione, che impedisce l’immediato compimento dell’atto nella sua infinità; attività infinità, perchè questa determinazione non ha nulla di assoluto, di fisso, è un limite che l’attività fa indietreggiare incessantemente, per conseguire l’infinità — ne segue che l’idea dello sforzo è, nella sua filosofia, il cardine fondamentale dell’attività teoretica non meno che della Volontà, della Dottrina della scienza non meno che della Dottrina morale. Nella Dottrina morale... lo sforzo esprime la tendenza dell’ io a identificare la sua attività oggettivante con la sua attività pura, e lo svolgimento dell’io è tutto nel rapporto fra queste due attività. L’infinita Libertà non può attuarsi se non attraverso la limitazione e l’intelligenza, ma non c’è limitazione nè intelligenza sé non rispetto alla infinita Attività pura, che di continuo le sorpassa. Lo sforzo, quindi, può definirsi una attività in cui l’infinito è posto non come stato attuale, ma come mèta da raggiungere, in cui l’adeguazione del finito e dell’infinito non è, ma deve essere; un’attività, insomma, che ha per contenuto il Dovere e che del Dovere è, a sua volta, il contenuto ».
LA FILOSOFIA DI V. GIOBERTI
Collocare il pensiero di Vincenzo Gioberti nella storia della filosofia non è facile; non perchè egli tenne fermo a taluni presupposti dominatici che gli impedirono di liberamente
filosofare, come si è detto da parecchi ; ma perchè non seppe mai trarsi fuori dalle posizioni e dai problemi della vecchia filosofia e adottare con piena coerenza « la dialettica moderna, che è sintesi ». E il suo filosofare è una lunga storia di dubbii interni, di variazioni, di correzioni, che lo avvicina gradualmente alla concezione del pensiero come immanente realtà, all’unità viva e operosa dell’ente e dell’esistente nell’atto creativo ; nella quale il suo spirito non potè mai adagiarsi, senza interne contraddizioni e perplessità.
Gli è che egli non fu solo filosofo, puro filosofo, come si direbbe, ma portò con sè. dal principio, il problema pratico e contingente dello spirito nazionale italiano, che cercava di ricostituirsi a unità e di liberarsi quindi dal lungo dissidio fra cattolicismo e umanesimo, fra la teologia tridentina e la filosofia sperimentale, fra il papato politico supernazionale, e perciò, nelle cose italiane, antinazionale e l’Italia nuova, libera e laica, che si andava facendo nelle coscienze.
E il suo merito grande, che anche i più aspri detrattori suoi sono costretti a riconoscere, dichiarando che il Primato d’Italia è uno dei tre o quattro libri che hanno rifatto la nazione — come scriveva testé G. Ansaldo nel suo studio su « il pensiero politico di Cesare Balbo » — sta nel l’aver dato ai suoi connazionali la coscienza viva di questo dissidio, con la sua critica severa ed eloquente del cattolicismo gesuitico, e nell’aver proposto una soluzione spirituale e politica, la neoguelfa, che molti accettarono, che dileguò tragicamente al primo urto con la realtà, nel 1848, ma che intanto aveva avuto l’incalcolabile effetto di guadagnare innumerevoli cattolici alla causa dell’indipendenza e dell’unità italiana, spianando la via all’illogico, ma praticamente efficacissimo, liberalismo di Cavour.
Questa contaminazione pratica e politica di una indagine dialettica mostra, col fatto stesso dell’essere stata possibile, come al pensiero di Gioberti, che conobbe solo indirettamente la filosofia classica tedesca, il nuovo punto di vista, oramai definitivamente conquistato, dell’immanenza del pensiero in se stesso, non apparisse con perfetta chiarezza.
Eppure egli Io aveva conquistato; e ad esso risale tutta la parte viva ed originale del suo pensiero; e la storia del farsi di questa luce 'nell’animo suo» è anche oggi storia di una e-sperienza filosofica in cui si rispecchia moltissima parte del pensiero contemporaneo.
Sicché opera davvero utile ha fatto il Saitta con questo suo accuratissimo studio sullo
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svolgimento della filosofia giobertiana che l’editore Principato, di Messina pubblicava testé in un bellissimo volume, nella collezione di studi filosofici diretta da Giovanni Gentile (VI. Il pensiero di Vincenzo Gioberti). Nella macchinosa costruzione del filosofo piemontese, attraverso l’astniso vocabolario, e negli svolgimenti della sua dottrina, il Saitta indaga e trova raggiunta ed espressa la posizione fondamentale dell’idealismo. La formula celebre: l’ente crea l’esistente, non dice più, come nella dommatica cattolica, il processo di un mondo finito ed esterno dalla assolutezza divina in sé totale e perfetta, ma dice l’immanente autocsisi nella quale il pensiero si fa realtà, e l’intuito fondamentale non dice nulla se non dice i’insidenza del pensiero dell’io empirico in quel processo trascendentale di creazione, di fioritura dell’essere dall’ente, dell’esistenza attuale dalla generatrice virtù dello spirito, che è creando.
Cogliere questo pensiero in Gioberti è essere in possesso di quella filosofia verso la quale egli faticosamente mosse e che ora noi possediamo chiara ed esplicita ; sicché si spiega che i contemporanei di G. e lo stesso Rosmini non vi vedessero chiaro e sovente e-quivocassero.
Mostrare che questo è il vero Gioberti, non ostante le incertezze e i ritorni a posizioni del problema filosofico che, conquistata tale verità, non avevano più ragione di essere. e le non rare contraddizioni, è lavoro faticoso di interpretazione e talora anche di vera ricostruzione.
Ma lavoro non arbitrario ; e utilissimo a comprendere non solo l’animo dell’abate piemontese e, con esso, la storia alla quale quegli partecipò, ma la generazione e lo sviluppo di una filosofia, anzi della filosofia in Italia, in quel periodo veramente creativo e rinnovatore che precede e prepara lo sforzo per l’unità politica.
Speciale importanza, poi, ha il lavoro del Saitta per chi si interessi alle vicende interne delle crisi del pensiero cattolico; poiché il Gioberti, che non era.già più un cattolico della lettera e non fu mai un anticattolico, vide chiaramente, specie nei suoi ultimi scritti, nel cattolicismo non una verità religiosa superrazionale ed extrastorica, ma la verità religiosa d’un’epoca e di un gruppo di popoli e specialmente del popolo italiano ; e non contraddicendo quello ma comprendendolo e inverandolo cercò di soddisfare alla intima inquietudine ed alle necessità religiose e civili della nuova coscienza italiana che si andava formando ; e fu modernista avanti il modernismo.
ANGORA MAZZINI
A G. Mazzini il prof. Gentile ha dedicato, in Politica, due lunghi articoli, che sono poi stati pubblicati in opuscolo, nella Collana di op. critici, da E. Marino, editore, Caserta.
Se volessimo riassumere Io studio del G. dovremmo ripetere quanto già avevamo scritto noi stessi, in queste rassegne.
Anche egli, esaminate le conclusioni alle quali venivano negli scritti da noi criticati G. Salvemini, A. Levi ed altri, mostra che nel M. non conviene cercare un sistema filosofico, ma una fede vivente, una filosofia morale vissuta, eminentemente perspicua nei valori morali che essa stabilisce ed inculca, anche se non preceduta da una critica della conoscenza e non fondata in chiari postulati ideologici.
E, sotto questo aspetto, una critica sarebbe forse da muovere allo stesso Gentile ; poiché anche egli, mentre assai più felicemente degli altri storici nominati di Mazzini, vede negli scritti e nel pensiero di questo il nucleo di affermazioni ideali fondamentali da cui tutto discende, pare tenda piuttosto a derivare il pensiero di lui — quel pensiero che volle essere azione — da una dottrina filosofica che non a studiarlo come l’incandescenza di una fede vissuta, come una volontà prima che una dottrina.
Interessante è la confutazione che il G. fa dell’appunto così sovente mosso da coetanei e posteri al M., aver egli, con la sua formula « Dio e popolo » e con la sua concezione religiosa della politica e dello Stato, voluto fondare una specie di nuova teocrazia; ed essere stato, come così aspramente gli rimproverava il Proudhom, un pontefice più che un cittadino libero.
Per rispondere, il G. esamina il concetto che del popolo ebbe M. « Che cosa è il popolo di M.? Ecco come egli stesso si esprime in uno dei suoi primi scritti, tentando di definirlo (nel terzo fascicolo della Giovine Italia)’. • Il popolo, ecco il nostro principio: il popolo: grande unità che abbraccia ogni cosa; complesso di tutti i diritti, di tutte le potenze, di tutte le volontà; arbitro, centro, legge viva del mondo ». Questo popolo è ma idèa, o una realtà empirica e di fatto ? Certo il popolo di M. non è quello abbrutito del presente, m'a quell’altro sublime dell’avvenire; il popolo che sarà una realtà ma non è; quella legge viva del mondo, che altrove lo stesso M. ha detto pensiero assoluto, in quanto esso si viene manifestando. E’ insomma lo spirito, che dimostra la sua realtà realizzandosi, e non presupponendosi. Perciò
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è il complesso di tutti i diritti, come Dio, che è a M. il.solo vero soggetto del diritto e la fonte quindi di ogni dovere.
li popolo (od umanità; se si considera il complesso dei popoli) è insomma lo stesso spirito umano nella sua concretezza storica, che non è nè astratta individualità, nè solidarietà statica e già realizzata : una formazione di sè, o, come dice il M., progresso, inconcepibile se la realtà, per alta che sia, non debba sempre, necessariamente, commisurarsi a un’idea più alta, alla quale la realtà stessa abbia ulteriormente ad elevarsi. Donde., la negazione di una rivelazione immediata, che pòssa d’un tratto esaurire quel processo religioso, in cui pure consiste essenzialmente il processo di sviluppo di un |X)polo. Donde pure la negazione del valore privilegiato degli intermediarii fra Dio e popolo, c, in genere, di lutti gli individui, ancorché sia da riconoscere una speciale potenza di impulso spirituale e di attività creatrice al genio, che per altro non fa che raccogliere le voci sgorganti dall’anima del |>opolo del suo tempo. Donde principalmente, un concetto, che poco finóra è stalo notato e che fa di M. un rappresentante cospicuo dello spirito del suo secolo : il concetto relativo al valore della storia, cioè il rispetto della storia, il quale « derivava al M. dal concetto religioso che ne aveva, negando che l’intelletto dell'individuo sia sufficiente a conoscere la legge di Dio senza appoggiarsi all'intelletto dell’umanità, di quest’uomo, secondo il detto del filosofo dallo stesso M. ricordato, che impara sempre ».
1-e altre parole, anche il popolo di M. non è, come per il socialismo materialista di oggi, essere, ma dover essere', dover essere non astratto, ma vivente ed attuoso, per la presenza e l'unità dell'altro termine del binomio: Dio. Questo popolo che si fa, non comunque, o per la forza di leggi deterministiche che lo conducono, ma tendendo consapevolmente, con l’accettare la vita come una missione, e col sacrificio, ad attuare un piano o una legge o uno spirito o una realtà divina è la storia ed èia democrazia di M. Nè si può far molto torto al M. di non aver sistematicamente ripensato questa sua vivente dottrina e fede, se prima di lui c’era stato lo sforzo metafisico di Fichte, certamente grandioso e pure rivelatosi in pratica assai poco utile, e se, dopo lui, la filosofia, anche nelle sue correnti più idealistiche, non è ancora riuscita a fondare teoricamente questo Dover essere che è legge e sforzo morale, volontà eroica _e sacrificio, e un semplice momento dialettico del razionale-rcale.
L’UNITA’ DELLA MATERIA
In un volume di 2S0 pagg. — con questo caro di carta! — irto di formule, di nomi di scienziati, di teorie scientifiche e persino di versi (ZZ problema dell’ unità della materia e la sua soluzione. Licinio Cappelli editore, Bologna, 1919), Emilio Ungania si propone di risolvere siffatto problema. Ma il suo scritto mostra che se egli è molto versato in cose di fisica e di chimica è invece estraneo alla critica della scienza, che pure ha una cosi larga letteratura, specialmente in Francia. Se non fosse, egli avrebbe avvertito che questo problema dell’unità della materia, per il filosofo, non esiste; poiché non esiste quella materia a proposito della quale esso può essere posto: che non è la materia del senso comune, l'oggetto spaziale, colorato, resistente. al tatto, che noi percepiamo, ma la materia dello scienziato, quella che esso sperimenta e analizza e sulla quale fonda i suoi calcoli e le sue ipotesi ; ed essa è appunto una costruzione della scienza, un calcolo, anzi una serie infinita di calcoli, una ipotesi, anzi una serie non ancora chiusa di ipotesi ; delle quali le più recenti sono, dal punto di vista della critica della scienza, le più significative.
E non le ignora FU. che. ad es., a p. 15 e 17 scrive: < Questo centro (gli elettroni) di natura del tutto diversa non è niente affatto un elettrone neutro come erroneamente si crede, che in tal caso anche egli sarebbe di origine elettrica, bensì una sostanza neutra ; in una parola la più piccola particella di Aba-rina o un Micromonomesone, che in ultima analisi non è niente altro che il vuoto, il nulla». \
E di un buco o di un vortice hanno parlato altri, come ultimo elemento della materia, dopo gli studii e le ipotesi provocate dalla radio-attività.
Il problema, se mai, è quello dell'unità del reale. Lo spirito costruisce la realtà secóndo i suoi schemi. Come la conoscenza empirica è una percezione non del reale in sè, ma di medie, uno spezzamento della materia in corpi distinti per le necessità e gli usi della vita pratica, la conoscenza scientifica è una costruzione in cui le formule logiche, le teorie, hanno almeno tanta parte quanta il frammento di esperienza che si è visto alla luce di esse e inquadrato in esse. La realtà prima e fondamentale in esse è lo spirito stesso dell’osservatore; e questo stesso non è una cosa, un fatto, natura, ma vita, durata, processo, invenzione assidua ecostru-
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zione filosofica o estetica o scientifica o pratica del mondo.
Problema adunque, per il pensiero con-temporaneo, è. non l'unità della materia, ma la sua divisióne e molteplicità; e un problema che si risolve muovendo dal solo punto di partenza certo, il pensiero, e ricostruendo il processo del conoscere, della investigazione, delle ipotesi e della sintesi scientifica. Lo ha visto anche un romanziere oggi in voga il quale nel suo romanzo: Il fuoco, dopo essersi fatto venir le vertigini con la considerazione dell’infìnitamente grande e dell'infinitamente piccolo (alle quali indulge lo stesso U.: il quale ci avverte che per fare il peso di un millesimo di grammo ci vogliono duecento trilioni di molecole; e la molecola è già un mondo a sè di atomi; e gli atomi di ioni) insinua questa riflessione: « No. Non è cosi, lo non so se al di fuori di me l'universo possiede una realtà qualsiasi. Quello
clie so si è che la sua realtà non appare che per l'intermediario del mio pensiero e che fin dal principio esso non esiste che per l'idea che io ne ho. Io son quegli che ha fatto sorgere le stelle e i secoli e che ha inarcato il firmamento su) proprio capo. Io non posso uscire dal mio pensiero ».
Ma forse l’Ungania si proponeva semplice-mente un problema di chimica: risolvere in una originaria indifferenza gli elementi onde risultano i fenomeni fisici, porre a base di tutti essi... che cosa? una formula o un « ultimo » della realtà materiale intesa come per sè stante? La questione è di quelle nelle quali scienza e filosofia fanno anche esse uno ; c, del resto, lo stesso U., con i frequenti filosofemi dei quali ha sparso il suo dotto lavoro ci autorizza a chiedergli una posizione filosofici! o, se si vuole, critica, del suo problema.
w.
ETNOGRAFIA
E FOLK-LORE
RITI DI NATALE
P. Saintyvks, Rondes Enjanlines et Quètes Saisonmires. Les Liturgia Populaires (Paris, Edit. du < Livre Mensuel », 1919).. Il libro, dovuto a uu forte studioso della religiosità popolare, può dirsi un importante capitolo di mitologia cristiana. Secondo lo scrittore, i vari e differenti riti che hanno luogo nelle ricorrenze del Natale e del Capodanno, e che comunemente si designano col titolo di « Natalitia ». traggono origine antichissima e sono di natura magico-religiosa. Da per tutto, il Natale e il Capodanno sono celebrati con inni, danze e strenne, che altro non sono che persistenze di < carmina », di « circa mambulationes », di « strenae », in vigore nel mondo pagano, ma che per le origini risalgono ad epoche molto anteriori, perdonasi nelle caligini della preistoria umana. I - carmina natalitia », di cui sono ricordo i « canti delle calende » (« calennuli », in Sicilia, » colindes », in Romania), le «mat
tinate » (Molise), le « cantate », trapelano tuttavia la loro natura di formole magiche; le « circumambulationes », che permangono nelle processioni, nelle ridde, nei balli in tóndo e nei ballonchi ai lume delle torcie o all'alba nascente, manifestano il loro carattere primitivo, cioè di atti destinati a proteggere il lare, il campo, il villaggio dai possibili mali e malefìzt; le « strenae », tuttora vive nei regali di frutta e commestibili, fanno intravvedere il valore che avevano, pel popolo, tali oggetti, ritenuti efficaci ad apportare buona e fe.-conda produzione. Questo particolare carattere delle « strenae » aveva già avver • tito nell'epoca sua agitata, Sant'Agostino, notando l'uso: « Vi sono — egli dice — delle genti che nelle calende di gennaio ricevono e contraccambiano strenne diaboliche..., la maggior parte, sopra tutto, gli abitanti della campagna, collocano sulla porta, durante la notte che precede il primo gennaio, delle tavole, piene di ogni sorta di vivande a benefìcio dei passanti, c eie-
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dono che una tale generosità 'assicuri al l’autore un'abbondanza uguale sulla tavola durante tutto il corso dell'anno!*. La parola e la testimonianza del filosofo cri stiano se non sono del tutto decisive, servono nondimeno a far scartare l'artificiosa etimologia del termine proposta da FèSto. che si era fermato alla voce * trena (terna), preceduta dalla lettera $.
La primitività dei a Natalitia » si rileva poi dalle tradizioni e dalle leggende, che rappresentano immolazioni rituali e sacri-lizn. Quella che va sotto il titolo di - Ponte del Nord » narra di una fanciulla — An netta — (il nome potrebbe ricordare la Anna perenna dei Romani), che è accompagnata dal fratello, dal fidanzato, dal corteo al ponte, per eseguire la danza. Ma il ponte è fragile e la creatura precipita nell'acqua, consacrando con la sua morte il rito tradizionale che esigeva il sangue d'una donzella.
L’esempio non è unico. I documenti potrebbero moltiplicarsi, cercandoli nei vari paesi del continente europeo, e' specialmente in Italia, che meriterebbe uno sguardo particolare in tale materia, che potrebbe rivelare costumi e riti importanti per Io studio della mitologia italica. Basti ixmsare alla «nota della Befana* (con questo nome si indica la vecchia che raffigura l’anno morente), eseguita da fanciulli che girano attorno a un fuoco fiammeggiante. .
La ragione delle differenti pratiche e cerimonie che si svolgono nella festa del solstizio, e che hanno continui riscontri nel mondo latino e greco, in quelli biblico c vedico, deve cercarsi nella credenza primitiva di poter influire sul tempo e sui suoi mutamenti, sul ciclo delle stagioni, mediante operazioni speciali di magia. È «lifatti, i riti natalizi!, come le danze, i canti, i fuochi, le processioni, hanno di solito luogo nei dodici giorni che intercedono tra il Natale e l’Epifania (talvolta m quelli che precedono la sacra notte, come nella Sicilia: e tal’altrajn quelli che iniziano il mese di gennaio, come avviene nella Vallesia, nella Sardegna, nella Franca Contea), giacché essi corrisponderebbero, come dicesi, ai dodici mesi dell'anno in vista, prognosticandone i caratteri mete-rologici.
Cosi la mistica poesia che circonda il ceppo ci richiama a un’epoca remotissima del pensiero umano, all’età della magia, che sarebbe nel campo dell’evoluzione men
tale, quello che c l'età «Iella pioti a nel dominio dello svolgimento tecnico-industriale. Ne sono documenti le persistenti usanze popolari, che rivelano l'idea prima informatrice del tempo in cui esse primamente sorsero nelle scomparse società rudimentali, e cioè che l’arte umana valga a influenzare il decorso del tempo e lo svolgersi, propizio o malefico, delle stagioni, dei fenomeni naturali, dei- i »»dotti vegetali c animali.
UN ANTICHISSIMO RITO FUNERARIO G. Parsa, Nuovo «; singolare esempio dell'antichissimo rito dell’* Ossilegium • praticato sopra una statuetta di bron-o. (Estr. da Ausonia, voi. TX).
L’ipotesi affacciata dallo studioso di Sulmona, nell’osservare la presenza d’un ossicino nella cavità toracica di una statuetta di bronzo scoperta nell’Abruzzo chietino, merita di esser presa in considerazione, in vista di eventuali nuovi documenti archeologici che la comprovino e la suffraghino.
Scartata l’idea di un caso di ossilegium. secondo il rituale classico latino, il Pansa. opina che il fatto possa rientrare nel campo delle usanze funerarie del popolo etrusco, che aveva per costume di offrire in onore dei Mani figure dell’essere estinto plasmate o scolpite. A giudicare da una statuetta etrusca o preetrusca, conservata nel Musco Civico di Perugia, portante nel dorso una cavità rettangolare, il rito di includere un osso del cadavere nel suo simulacro parrebbe non estraneo a quel prodigioso popolo. Occorre, però, attendere altri e più larghi risultati dalle scoperte archeologiche per poter determinare l’esistenza di tale rituale funerario nella preistoria italica è per poter ricostruire le modalità del suo svolgimento. Intanto, a spiegarlo ed intenderlo, ci illumina la psicologia comparata, le quale ci apprende che le genti non evolute riconoscono alle reliquie umane un carattere animistico; e credono che la presenza di un solo frammento umano in -sieme con l’effigie possa assicurare la continuità spirituale dell’estinto. In tal caso la immagine non è soltanto una semplice figura del morto, senza espressione e senza energia, ma la figura che ha in sè, in virtù della reliquia che contiene, l'essenza vitale del trapassato. In forza di tale credenza, l'inculto yucatenese plasma delle effigie
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a somiglianza degli avi, includendovi nel cavo interiore le ceneri umane; il negro bantù allega alle statuette funerarie qualche particella del corpo dei cari perduti: come l'egiziano del tempo antico yjponc nelle mummie i resti mortali.
COLLANE E RITI ALGONCHINI
Frank G. Spkk, The functions of Wampum among thè eastern Algonkian (« Memoires of thè American Anthropological Associa* tion>, voi. VI, n. I. 1919).
11 « Wampum », che in lingua nostra vale «collana bianca », perchè un tempo era composto di candide conchigliette infilzate in una stringa di cuoio, è un manufatto caratteristico della etnografìa americana, nella quale ha una notevole importanza, non tanto come ornamento, quanto come oggetto cerimoniale.
Con l’offerta d’ un wampum si sanciscono i trattati di pace e di alleanza ; si stringono le confederazioni fra tribù ' e tribù ; si celebrano le nozze.
In tali casi, e in altri analoghi, esso assume un valore documentale, perchè nella varia disposizione delie perline di vetro e dei dischetti di porcellana si concreta un pensiero, una situazione, un rapporto di fatti, di cose, di persone. Per esempio, più perline dello stesso colore quando son disposte in forma di rettangolo, stanno a rappresentare una tribù; e quando sono allineate in triangolo, simboleggiano l’unione di più tribù; mentre due perline soltanto, quando sono unite ed appaiate, stanno a raffigurare una coppia di sposi ; e quando sono disgiunte e distanti stanno a dimostrare che gli sposi sono sdegnati e separati. •
Come si vede, la funzione del manufatto indiano è analoga a quella dei «quipu» peruviani, dalle cordicelle multiple, multicolori ed annodate; a quella dei bastoni-messaggi dei Sudanesi, osservati anche dai folkloristi e in casi speciali fra i contadini del Tirolo; a quella dei pacchetti, pieni di oggetti vari, degli ambasciatori melanesiani; e vorrei anche dire a quella della «festuca nodata », che secondo l’Heusler parrebbe « notata ». in uso nel mondo antico e in quello medioevale del-l’Europa.
Questa evidente analogia o concordanza non ha rilevato l’etnologo americano Frank G. Spek nello studio sulle funzioni del wampum tra gli Algonchini orientali o, come popolarmente si chiamano, Pellirosse.
Il wampum non è soltanto, come lo scrii-rore afferma, ■ un « documento di onore, di
sincerità, di fede » ; ma un documento equipollente alle tavole segnate o scritte, per fissare idee e avvenimenti, per richiamare a! pensiero fatti ed episodi, per suscitare ricordi; e, come tale, può dirsi che esso rappresenti la fase tecnico-mnemonica, che precede quella pittografica, nella storia «Iella scrittura. Tanto è che, talvolta, anche il wampum mostra, in luogo dei segni mnemonici, figure di esseri e di cose, risultanti da un preordinato aggruppamento dei grani di vetro e dei cilindretti di porcellana di differente colore, che lo compongono.
Ciò che dimostra il carattere suo di oggetto rudimentale, per non dire primitivo, e la sua evoluzione verso il processo pittografico.
Se questo rilievo non avesse tralasciato di fare il collaboratore dell’ « Anthropological Association », avrebbe reso più interessante e completo il suo studio, che del resto è un modello di ricerca e di descrizioni accurate, non solo perchè offre il quadro generale delle usanze e delle cerimonie; ma anche perchè illustra ¡ principali esemplari dell’oggetto, conservati nei musei etnologici americani, da quello di Storia Naturale a quello della Fondazione Heve.
Raffaele Corso.
NTQ
L’IMPERO DEGLI AMORREI
Alberi T. Giaci,The Empire oj thè Amo-rites, pp. 192. New Hav.en: Yale University Press., 1919.
L'origine dei popoli dell’antichità è tuttora avvolta nella nebbia. Solo recen temente un barlume di luce è stato gettato sulle condizioni di Canaan, prima della conquista di Giosuè, dalle scoperte archeologiche. Il materiale epigrafico è peraltro tuttora insufficiente per una ricostruzione della storia di quei tempi remoti (cfr. Lue kenbill in Amor. Journ. oj Thcol. XXII, 1). Per scrivere una storia bisogna ricorrere alle ipotesi, come fa il Clav nel suo ultim-libro.
Già nel 1909 l'A. sosteneva che gli Amor rei, il popolo pre-ebraico spesso menzionato nell'A. T., avevano fondato un colos-
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sale impero durato dal quinto al terzo millennio a. C., ed avevano creato quella civiltà che siamo soliti chiamare assiro-babilonese. Partendo da questa tesi,« il Clay nella sua ultima pubblicazione si propone di scrivere la storia di quell’impero primitivo. Il guaio è che essendo alquanto dubbia l’esistenza di tale impero FA. deve, più che scriverne la storia, dimostrare che esso non è solo un parto della sua feconda fantasia.
L’argomentazione, generalmente linguistica, non è tutta di buona lega. Quando leggiamo che Ur e Amurri son derivati dalla stessa radice o che Orion deriva dallo stesso Amurri, ammiriamo assai l'agilità acrobatica del Clay, ma ci stupiamo nel vedere che vuol esser preso sul serio.
Confrontiamo con questo romanzo storico (chiamiamolo cosi) quel che realmente si sa degli Amorrei verso il 3000 a. C.
A che razza appartengono? Ancora non si sa con sicurezza. Secondo la tavola etnografica della Genesi (c. io) l’Amorreo era nato da Canaan figlio di Cam: sarebbe dunque di razza Camita come* gli Egizii. 1 caratteri antropologici, invece, sembrano indicare che gli Amorrei fossero Ariani (come probabilmente i Filistei): secondo le rappresentazioni grafiche egiziane hanno il cranio dolicocefalo: Amos (2,9) li dice ■ alti come cedri e forti come querce « c sembra che i capelli biondi predominassero. D’altra parte, la loro lingua li pone fra i Semili cogli Ebrei (Deut. 3,9 indica che parlano un dialetto cananaico ed i loro nomi sono semitici).
Quando appaiono nella storia? Altra crux. Il Cheyne, il Paton ed altri ammettono un’ invasione amorrea in Canaan contemporanea a quella degli Hyksos in Egitto e dei Fenici sulla costa della Siria (verso il 2600 a. C.), mentretil Johns (ba sandosi su argomenti filologici) suppone che l’invasione avvenisse un millennio prima.
Contro la tesi del Clay risulta dunque che assolutamente nulla si sa degli Amorrei prima del 3000 a. C., e che la loro presenza in Canaan a quell’epoca non può esser dimostrata. Un'iscrizione di Lugalzaggisi re di Uruk (2850 a., C. ?), parla, di. conquiste fino al •< Mare superiore » (Mediterraneo) e Sargon (2825 a. C.?) dovette venire in contatto cogli Amorrei, se questi già abitavano la regione del Libano. La prima menzione del loro nome di cui lo scrivente abbia notizia è in un’iscrizione di Gudea
(2600 a. C. ?) che portò cedri da « Amanus monti di Amurru • (Libano); L’ipotesi di un impero amorreo fra il 5000 e il 3000 è dunque un’invenzione priva di fondamento Ciò non toglie, peraltro, che questo impero degli Amorrei a se non è vero, ò ben trovato ».
Roberto Pfeiffek.
Sanborn (New York).
Soter. La Religione del Cristo. Saggio di gì Cristianesimo esoterico. Torino. Fili Borì ca.\,i9ig.
liceo un libro che, guardato da un punto o dall’altro, potrà parere pieno di difetti: ma che preso nel suo insieme deve giudicarsi, non ostante i difetti, più che bello, magnifico.
• Questo libro è un libro di fede. Esso è scritto per coloro che credono. Non vuole essere una dimostrazione, ma una testimonianza. La divinità non sì dimostra, non si commenta, non si spiega; si sente e si vive >, Così si legge nel principio de\V Introduzione, e così viene adeguatamente definita l’opera.
La quale si svolge in dodici capitoli: i° L’essenza del Cristianesimo; 2® La dottrina segreta; 30 L'iniziazione essenica; 4* La tradizione messianica; 5° Gesù Cristo; 6° Maria di Magdala; 70 II Miracolo; 8° San Paolo; 90 La fondazione del Regnò; io® 1 Vangeli degli umili; ri® Il Vangelo dello Spirito; t2° La Religione universale.
E il libro è dedicato: A coloro che soj-frono da un loro Jrateilo, c bisogna leggerlo per sentire di questa dedica tutta la commossa semplicità e profondità.
Del Cristo leggemmo tutti noi che nel leggere abbiamo impiegato e spesso logorato e buttato un tempo incalcolabile, libri di apologia c di demolizione, di critica minuta, e sottile e di sentimento più o meno ascetico, atteggiati a positivismo storico e documentario e a poesia volante, ligi a una tradizione orecchiabile e lanciati ad acrobatismi ginnastici e avventurieri di novità, laboriosi di flemmatica analisi e frettolosi di sintesi spiccia e dilel-
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tantistica; e da tutto questo polverio uscimmo disorientati e in pena. Allora, secondo le disposizioni varie del nostro spirito, o disperammo di richiamarci più alla menté, al cuore, alla vita ¡’immagine c la realtà del Cristo, o tornammo dirèttamente alla fonte originaria del Vangelo, lasciandolo filtrare in noi, nel più semplice v complesso e profondo di noi. Triste pai -tito il primo: ma nel secondo non desiderammo, a momenti, più che una guida, un compagno, 130 che fosse passato per le stesse vie no ¿re, avesse provato gli stessi nostri sman menti, fosse stato avvolto dalle stesse nostre nostalgie? Ebbene, ecco che cosa è Soter: la dedica del libro ce ne avverte, ma anche senza nessuna dedica, noi lo intenderemmo, noi lo sentiremmo in modo evidente. Del suo libro l’autore attribuisce al tremendo periodo della guerra il carattere. • Questo libro. «lice, è stato scritto in un periodo agitato e tempestoso. Un’ansia irrefrenabile lo avvolge. Esso ¿nato in un'alsmosjera di strage c didevastazione ».E nessuno potrào vorrà mettere in dubbio ¡’affermazione: ma l’ansia che avvolge il libro è ben altra che quella nascente da un momento storico; essa è intrinseca e nasce dalla passione, intensissima per quanto calma, con cui l’autore si getta sulle tracce di Gesù; meglio: con cui cerca di esprimere la immensa gioia di possederlo. Anche senza nessuna guerra, il libro sarebbe stato lo stesso. Per questo è eminentemente consolatore.
Il critico puro ogni momento crollerà il capo, strizzerà l’occhio arguto, e con le labbra sottili mormorerà : a Sogni/ E tuffa questa kabbaiah che significa? » 11 cabalista puro esclamerà spesso anche lui :
Troppa -critica e troppi dati positivi! ». 11 puro mistico lamenterà la troppa storia, e il puro storico la troppi contemplazione. Ma è nel contemperamento di questi elementi combinati fra loro l’incanto del libro di Soter, c per gustarlo ci vuole un ¡x>' della passione di cui il libro palpita dalla prima all'ultima pagina.
L’autore cerca nei Vangeli, nelle loro narrazioni, nelle figure che ci vivono dentro, nelle parole di Gesù, negli atti di Gesù, nel modo di raccontarli e di ordinarli tenuto «tagli Evangelisti, la parte nascosta. Per lui, parlar di Gesù come di un eroe di Plutarco, della sua dottrina come di un sistema; prendere ad analizzare i Vangeli come una storia inframmezzata d'insegnamenti e di programmi morali, è super“
lìcialità e spigolistrismo. Per lui il Van gelo suppone un’iniziazione. Tutti i libri religiosi nel gran senso della parola sono così; tutti quindi — compreso, anzi prime» il Vangelo — vanno interpretati secondo un senso criptografico, misterioso, allegorico, arcano; il loro senso — e prima di tutto il senso del Vangelo, di tutto il Van Selo — supera il valore storico e il senso i codice morale. Appunto perchè di senso e di valore religioso, ogni libro sacro — e primo fra tutti il Vangelo — ha uh valore superstorico e supermorale; quello che più è prezioso in esso è ciò che vi è di trascen dente, sotto e oltre la lettera. Perciò la opera di Soter ha per sottotitolo: Saggi/> dì cristianesimo esoterico (ia®T«ptz«c =■• interno, occulto).
Soter cerca e indica ciò che nel cristianesimo* e nel Vangelo da cui deriva e nel l'opera di Paolo è la parte più occulta, il senso trascendente e simbolico.
Naturalmente siamo davanti a un tenta tivo non nuovo; fin molti Santi Padri vi provarono il loro ingegno che, o lavori' di suo, o raccolse l’eco di vecchie tradi zioni. Ma se il tentativo non è nuovo, è invece comodo e pericoloso.
Comodo, perchè ogni difficoltà positiva sfuma e si dissipa davanti ad esso. Peri coloso perchè è facilissimo abusarne.
Leggendo l’opera di Soter non è possi bile non soffermarci di quando in quando per domandarci: c ora? Siamo davanti a realtà, o ad ombre? davanti a intuizioni acute, o a brillanti fantasie? a richiami sodi, o ad ingegnose costruzioni? Lascian doci trasportare dalla convinta parola dell’autore, sentiamo di respirare a pieni polmoni su di alture superbe, e il cuore n-riesce inondato di gioia; ma, senza volere, spunta anche in noi il demonietto del cri tico, c quasi sentiamo assottigliarsi anch< a noi le labbra, su cui freme il piccolo moti« arguto c dissolvitore.
E una delle bellezze di questo libro l'al ternativa fra la realtà chiara e il mister«' nascosto, quasi dirci l'oscillazione dell., barca su cui l’autore naviga e fa navigar anche noi. Voi leggete, e tutto vi prcnd-un aspetto nuovo c quasi evanescente, la vista reale delle cose, il senso chiaro delle azioni e delle parole vaporano nell:1 lontananza, senza più consistenza e defi aito contorno. Ma ecco, voltate pagina e tutto vi ritorna nella limpida luce, tutto ridiviene tangibile c concreto.
è vero: anche nei Vangeli, massime
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nel quarto, si rinnovano ad ogni passo le due scene della trasfigurazione: prima Gesù che nella faccia diviene più luminoso del sole, lieve nelle membra che si librano fra cielo e terra, etereo nelle vesti diafane e candide come la neve; gli apostoli che non sanno se son di sè solo lo spirito o quelli di prima, con molto amore per il Maestro, si, ma con in sè membra di materia molto grossa c parecchio rude; poi Gesù, che nell'ombra grigia dell’ ora si accosta agli apostoli nel suo solito aspetto benigno e umano, e parla loro il solito benigno e umano linguaggio, soave e piano.
E gli stessi sinottici accennano al my-sterium regni Dei svelato solo agl’intimi discepoli.
Ma dove i limiti di tutto ciò?
Nello stesso Soter c’è il sentore di questa interrogazione,' e mentre cerca in Gesù l'esoterico. addita poi in Lui stesso quella che per il Sinedrio fu la sua colpa: avere svelato l'esoterico antico.
Ad ogni modo, Soter dedica tutto se stesso alla conciliazione delle due cose, l’esoterismo c la realtà del Vangelo c de) Cristianesimo, e questo nobile lavoro forma la suà massima lode.
La massima, perchè molte e grandi ne merita.. >
Non ultima quella del suo stile, conciso e chiaro, colorito e a sentenze.
Questo libro laborioso avvince come un romanzo; è frase usata, ma scolpisce. Provate.
L’autore ha molto pensato e meditato, ed ha uno spirito ricco, profondo, luminoso. Ogni momento vi sorprende.
Dal piccolo presente, dall’episodio minimo, dall’idea albeggiante, vi lancia nel l’infinito, d’improvviso, ogni momento.
Tanto che a volte vi domandate : ma ho capito bene e tutto, o mi sfugge il meglio.
Così quando parla dell'Eucaristia; cosi quando analizza l’anima della Maddalena. Quantunque, in questo punto specialmente, è inevitabile avvertire jI prevalere e Finsi stero d’ùn paradosso, si direbbe caro all’autore.
Ecco il paradosso: lo spirito può rimanere sempre puro e limpido, mentre la carne si contamina avvolgendosi nel luri-dume.
Parliamoci chiaro. Una delle due: o questo Spirito è altro dall'anima, Dio che abita in noi, e allora certo esso non è tocco da nessuna libidine (è bene attribuito a Dio dal Profeta, il lamento: servire me fecisti iniquilatibus luis), mentre pure ci sostiere nell’esistenza abusata, ma siamo fuori dalla piccola personalità che pecca, e sa e vuol peccare, per quanto il putridume e la contaminazione le ripugnino; o è l'anima della carne, e allora la inconta minabilità è un assurdo, perchè il valore umano di ogni nostro atto non dipende dalla carne, ma dall’anima che Fanatica nel piacere c la lascia calpestare dalla voluttà, o, diciamo pure, avvoltolare, senza dominio e senza iribizione, nell’oscenità sua congenita e originaria.
Soter in questo punto va tant’oltre che diventando consequenziario (c guai a lasciarsi prendere alla deriva delle conseguenze logiche!) arriva a conchiudere, che la nostra anima non si troverà colpevole di nulla davanti a Dio e agli uomini, quan -d’anche fosse quella dyuna cortigiana, perchè « ella non può aver vergogna del male che non commette, ed è così che anche un grande misfatto, di cui essa sia testimone, può lasciarla incontaminata ». Noi temiamo di non capire. Ma come testimone? Se sono io che voglio il male, come potrà dirsi la mia anima testimone? E pensiamo: chi sa che cosa vorrà intendere lo scrittore* Ma procedete di qualche linea e leggete: •'Maria Maddalena fu donna c fu pecca trice. La sua carne aveva conosciuto tutte le vergogne; il suo corpo si era piegato a tutte le sozzure. Essa aveva tradito, aveva ingannato. aveva mentito: aveva fatto soffrire e fatto piangere: forse aveva abbandonato i fratello suo ai nemici; ma la sua anima era rimasta lontana dalla colpa. Siamo nel dominio del paradosso e dell’assurdo. E badate: pai adesso e assurdo possono essere, e qui sono, perfettamente logici. Soter parte dal fondamento dell’anima testimone. poi argomenta e conclude; e di conclusione in conclusione, di conseguenza in conseguenza. egli giunge a questo epifonema finale.anzi a questi due epifonemi. Il primo: « L’anima che è scesa negli abissi della colpa e del dolore, c ne è risalita purificata, conosce le vie della redenzione meglio di quella che è ri -inasta sempre immobile nella sua virtù: quasi che rimanete sempre immobili nella nostra virtù, ad onta di tutte le allettative del male annidato nella nostra carne, non fosse un immane sforzo continuo di redenzione, e quasi che questo sforzo costasse meno di quello che segue alla cessione, sia pure temporanea, del dominio dell’anima sulla carne, alla carne. E poi quali vie di redenzione per cotcsta
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anima, se è solo testimone delle contaminazioni della carne .MI secondo epifonema, che, certo senza volere, è blasfemo, è questo : - L’indulgenza di Gesù non fu dunque carità, ma giustizia verso la Maddalena. Certo, his fretus, cioè su quei tali bei fondamenti àt\V anima testimone e non attrice del male, ccc., quella di Gesù sarebbe stata giustizia. Ma sono quei bei fondamenti che traballano, seppure è vero che il bene e il male sono — lasciamo stare con qual grado di responsabilità — ma sempre cosa rinfon-dibile nell'anima che, o regge la carne, o le si abbandona, e le abbandona la sua signoria; e se è vera la parola stessa di Gesù: • Dal cuore partono i mali pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, i /alti testimoni, le maldicenze; e queste sono le cose che imbrattano l'uomo». Benedetto Gesù, che parla dell'uomo e non dell’anima testimone di ciò che imbratta semplicemente la carne!
Ho voluto notare questo luogo, non perchè sia l’unico nell’opera di Soter, dove <> si rasenta l’assurdo o ci si casca, ma perchè qui l’assurdo è più palese, e quello tuttavia a cui s’indugia di più 1*Autore, e a cui ritorna come a un luogo prediletto.
In compenso sta il complesso dcU’opcra, che spesso invece rasenta il sublime e diventa un capolavoro.
Il giudizio alla discrezione di chi leggerà il yolume di Soler.
Infine, appartiene aH’altissimo diletto che genera un’opera di pensiero e d’arte -v quella di Soter è l'una cosa c l’altra obbligare noi a un lavoro di selezione, che tenendo vive e deste le migliori nostre energie, ci fa quasi partecipi della gioia provata dall’autore creandola.
Qui quondam.
IL CALIFFATO E LA POLITICA COLONIALE
C. A. Nali.’.no, Appunti sulla natura del Califfato in genere e sul presunto Califfato ottomano. (Ministero delie Colonie. 2* edizione, Roma, 1919).
Il professore Nallino/ordinariO di Storia ed Istituzioni musulmane nella R. Uni
versità di Roma, rileva un errore elementare, in cui da più che un secolo s’incorre dalla diplomazia europea nei rapporti col mondo islamico. Con la profonda competenza che gli è propria, il Nallino apre gli occhi degli uomini politici sulle gravi conseguenze che potrebbe arrecare il riconoscimento dell'istituto del Califfato nei paesi coloniali che, come la Libia, professano la religione maomettana.
Ispirandosi ai criterii comunemente correnti nella dottrina politica, il trattato di Losanna del 18 ottobre del 1912 «sanzionò tale principio, che sarebbe stato dannoso all’Italia, ove non fosse sopraggiunta, nell’agosto del 19^5, la nuova dichiarazione di guerra alla Turchia, che apportò l’an nullamento degli atti conchiusi e ratificati precedentemente. L’errore risale al D’Ohsson, un armeno di Costantinopoli, il quale nel suo Tableau Général de VEmpire Othoman, pubblicato a Parigi negli anni 1788 e seguenti, parla di un pontefice dei Musulmani e di un’autorità sacerdotale del sovrano in contraddizione con i testi giuridici arabi. Se non che, il Califfo non è, come il papa dei cattolici, il «Capo supremo della Chiesa islamica •; ma. quale successore di Maometto (il titolo Khalifa in arabo vale tanto successore in una ca -rica pubblica, quanto rappresentante » vicario di una autorità superiore in uu ufficio più ristretto e speciale) è il « sommo monarca, al quale sono affidati la cura degli interessi di tutti i musulmani ed il mantenimento dell’unità politica degli stessi; il capo secolare di tutto il territorio isla mico, il giudice supremo, il capo dell’esercito. il difensore della fede mediante la spada o altri mezzi coercitivi ». Come tale, egli, nominato per elezione, senza potere legislativo e dogmatico, è < il principe dei credenti» (Amfr almuminln ; miramoliiu» dei nostri cronisti medioevali); ma non è il capo o il pontefice della religione maomet tana, che conferisce l'autorità di conservare c interpretare la dottrina tradizionale ai dottori (ùlama), considerati come gli < eredi del Profeta ».
Ammettendo la potestà pontificale del Califfato, la diplomazìa europèa fa rivivere un istituto che ormai appartiene alla storia. e che è in completa antitesi con la dominazione straniera sui territorii abitati dà musulmani; giacché il Califfato, stòricamente considerato, non è che la monarchia universale dell’IsIam, il panislamismo politico. 1 Riconoscere un Ca-
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liffo— ammonisce il prof. Nallino — non significa per uno Stato europeo con sudditi musulmani, provvedere ai bisogni religiosi o spirituali di questi ultimi, ma soltanto introdurre nei propri domimi islamici una larvata e nondimeno pericolosa sovranità straniala;... significa, infine, contribuire a mantenere accesa nei cuori islamici la fede nella risurrezione forse non lontana di quel glorioso passato ideale, in cui gli Stati degli infedeli tremavano al cospetto della potenza e delle conquiste dell'IsIam ».
Ma, per fortuna, il Califfato è morto da secoli, e’ i plenipotenziari ottomani si guarderebbero dal menzionarlo negli atti unilaterali e in quelli bilaterali, per non consacrare un’eresia, in forte contrasto con la storia e la dotti ina isla mica.
Raffaele Corso.
LA RELIGIONE E L’INSEGNAMENTO RELIGIOSO
Retigìon and religione tcaching by E. T. Cam-pagnac. University of Liverpool. Cambridge. University Press, 1918.
« Molto sentiamo parlare » — scrive l’autore di queste cinque conferenze sull’insegnamento religioso, date nella sua qualità di professore dì educazione nell’università di Liverpool — di «Ricostruzione» e di «Ricostruzione educativa». Ma... intendiamo noi di ricostruire secondo i vecchi schemi, come un architetto che restaura un vecchio edificio usando dei vecchi materiali e rifacendosi ài piano preesistente, ovvero vogliamo rivolgere tutto sos-sopra e al rovescio: sostituire le «cose» ai libri, i fatti alle idee, la «scienza» a quella che alcuni a mala pena si rassegnano a chiamare discipline uniflnistiche? Queste innovazioni saranno invero buone solo se divengano parte di un sistema coerente, e siano collocate in esso da un principio dominante e dirigente, da un’idèa che tutto pervada ed unifichi. Ci potremo sbarazzare anche da qualche. particolare dovere senza danno, anzi con positivo, vantaggio : ma se insieme il senso stesso di obbligazioni fosse reso ottuso e distrutto, i cambiamenti pei quali stiamo passando avrebbero prodotto non beneficio, ma vero disastro.
E che cosa dobbiam fare per conservare ed anzi rafforzare in noi il senso di obbligazione, il sentimento sociale, la coscienza della nostra parentela, senza di cui una vita nazionale non può sussistere e un’educazione nazionale non può aversi?
L’idea di obbligazione, nel senso di sottomissione dell’individuo allo Stato, ci riesce, e non a torto, specie al presente, sgradita...: ma essa può prendere la forma già tracciata in una allegoria divina...: quella di « Regno dei Cieli» o di «Città di Dio»: di una città che non riconosce frontiere di spazio o di tempo, ma nella quale vi sia posto per tutti coloro che trovano una dimora per il suo impero mite e universale entro il loro cuore, giacché è stato detto: « il Regno dei Cieli è dentro di voi ».
« Il flusso e il riflusso, lo scambio di rapporti fra l’infinito in cui tutti gli esseri han vita e l’infinito che forma la vita individuale — anche questa è obbligazione. Ma è anche libertà, e il nome comune in cui queste due idee sono congiunte in un’eguaglianza reciprocamente integrativa, è appunto quello di Religione*.
E l’aspetto morale ed educativo del sentimento religioso che viene studiato in questo volume con la elevatezza e l’intimità che caratterizza l'insegnamento religioso inglese.
G. Pioli.
GUERRA E SUOI PROBLEMI
E. Griselle, Zc boti combat. Bioud et Gay, Paris, 1918.
M. Legbndre, La guerre et la vie de resprit, Bioud et Gay, Paris, 1918.
Il primo è una raccolta di articoli di propaganda pubblicati dalla fine del 19x6 al 30 a-prile 1917 a cura del Comitato di propaganda francese all’estero. Propugna come al solito la lotta non solo nel campo militare, ma pur in quello commerciale e culturale ed è dedicato alla memoria di Un ufficiale che durante la sua breve esistenza aveva dato tutto sé stesso ad una tale opera.
Il secondo non à un semplice valore temporaneo come quasi tutti i libri sulla guerra, ma à degli eleménti che possono essere affermati con un carattere di diuturnità e discussi come principi ideali*. Il Legendre per esempio afferma che la vita militare rinfresca la vita dello spirito in modo che tutte le sensazioni, i sentimenti, gli affetti del soldato vengono ad esser transumanati. E questa è cosa che può essere ed in ogni modo può destar l'invidia di quanti non Panno provata...: ammet-
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c¡aiuola dunque. Quello che meno convince è che questa spiritualizzazione sia solo un dono o una virtù di cui godono i soldati tlell’In-tesa, e sopratutto i francesi. Come se i soldati tedeschi che, illusi o no, ànno combattuto per la patria loro e per la civiltà, quale essi l’intendevano o si faceva loro intendere, non potessero trarre da tale, attitudine di spirito i benefici che ne trassero gli altri! E poi, non basta: perchè tra gli stessi soldati dell’Intesa vi sono differenze, cattolici e non cattolici, praticanti e non praticanti?
Il problema si sposta, come al solito, e mentre noi non vediamo nell’eroe solo colui che va alla morte con l’idea che essa non è se non un passaggio, ma anche e forse più colui che con stoicismo l’accetta pur vedendovi dietro il nulla, altri vuol fame un esemplare di fede... E rientriamo nel circolo vizioso ... eroi perchè credenti o credenti perchè eroi ? Per carità non mettiamo etichette al valore o al dovere...
Comunque, il libro merita di esser letto e talvolta giudicato.
X. Y.
IL PARTITO POPOLARE ITALIANO ED UNA SUA RECENTE CONDANNA
M. Orza, // »uovo partilo. Santo, 1919.
Non è la prima voce dissenziente che si leva: ma poiché appunto tien conto di critiche precedenti, e le scevera, le ribadisce c completa, è voce autorevole e grave.
in succinto, l’accusa principale è nella mancanza di sincerità' si tratta di un partito circonfuso dall’equivoco sui suoi scopi essenziali, e che quell’equivoco sfrutta nel cercare proseliti, fingendo di credere alla conciliabilità dell'inconciliabile ; che vuol attrarre a sè il popolo e «piegarlo alle esigenze politiche «Iella Sede Apostolica, quasi a ripagarla della
esclusione dal giuoco diplomatico di Ver sailles... ».
Ma l’equivoco continua anche ne! metodo . ed il partito popolare dichiara di aprire le porte a tutti gli uomini forti e liberi indipendentemente dàlia personale professione religiosa (sic!).
Con che fa le viste di aver dimenticato ch<-la Chiesa non fu mai liberale, che il carattere democratico confidatole dalla pura dottrina di Cristo alterò nella persecuzione di scopi temporalistici e che infine — così giustamente il Missiroli, nel Tempo del 21 gen naio c. a. — essa condivise, in odio alla Ri forma protestante, tutte le responsabilità reazionarie delle monarchie.
Non per questo, direbbe il |>oeta dei Giambi ed Epodi, da Quarto
il naviglio dei mille salpò!
Non per questo, aggiungiamo noi, l'aquila bicipite ruinò ne) cielo raggiante di Vittori«» Veneto !
Purtroppo, la disfatta liberale nella recent«-battagha produrrà ibridi contatti ed abtxx -camenti. Noi mettiamo in guardia, ad ogni buon fine, ripetendo agl’ingenui il virgiliano limeo Danaos.
Ed al nuovo partito diciamo che la coscienza religiosa se è qualcosa di diverso dal partito politico (come, a certo fine, ammettono i suoi corifei), è sopratutto qualcosa di più alto: e, pertanto, a! di fuori di ogni patteggiamento opportunistico, di ogni simonia.
... Ma la bibliografia esorbita da' suoi confini modesti: sia questo, per il giovane e valoroso Autore, la riprova del nostro pieno e cordiale consenso.
Noi, caro Orza, siamo proprio d’accordo : la politica, come voi dite, non ha vie che conducono al Cielo?
V. Morelli.
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LETTURE ED APPUNTI
Nella Rassegna internazionale ( i, 3) Roberto H. Gardiner, segretario della World Confe-rcnce, per il rinnovamento dell'unità cristiana, fa brevemente la storia dell’idea de) congresso mondiale, che dovrà tenersi a tale scopo, e delle adesioni ricevute. Sorta fin dal 1895 in America, essa fu sempre caldeggiata da varie chiese, sebbene con intenti diversi, dalla romana, dall’anglicana e dall’episcopale americana. La novità però dell’idea di prender la iniziativa di una World Conference, dovuta per l’appunto a quest’ultima, sta nel seguire una strada contraria alla tradizionale, ossia quella di giungere ad un accordo, componendo le controversie teologiche, contro le quali già tuonava il Gladstone. Così per opera della chiesa episcopale americana il 19 ottobre 1910, nella sua Convenzione generale, fu dibattuta la proposta del Congresso, cui prendessero parte « i rappresentanti di tutte le Chiese che riconoscono G. C. Signor nostro come Dio e Salvatore » e coll’intento di « considerare o esaminare le questioni relative alla fede ed alla costituzione della Chiesa di G. C.».
Il Comitato* che ne sorse cominciò l’opera sua col tentare il riavvicinamento delle confessioni dei protestanti degli Stati Uniti, quindi di influire sulla Chiesa anglicana. Questa, insieme con le chiese libere d’Inghilterra, approvò e accettò l’iniziativa affermando che. * * l’unità potrebbe unicamente attuarsi mediante la comunità di culto, fede e disciplina e la partecipazione di tutti alla cena eucaristica. Ciò sarebbe compatibile con una ricca varietà di vita e di culto». .
Altrettanto si è fatto in America eri in Australia, nell’Australasia, nel Canadà, riunendo le chiese episcopali alle non conformiste le quali, come è noto, sono, per così dire, an-tiepiscopali. Ora ciò è di già un grande passo.
Altrettanto successo si è avuto con la Chiesa russa e greca che avevano promesso di inviare
i loro rappresentanti alla Conferenza. La Chiesa romana, pur acconsentendo individualmente o. platonicamente all'opera, à rifiutato d’intervenire. Cionondimeno il congresso si riunirà e sarà sempre un gran passo sulla via della concordia.
L’articolo è seguito da un commento di una «veramente illustre ed autorevole penna cattolica» (come dice la redazione), il quale procura di giustificare la posizione intransigente della Chiesa romana anche in relazione al decreto 4 luglio del S. Ufficio: il commento si può riassumere in poche parole, la Chiesa romana vuol essere riconosciuta unica e accogliere le altre come penitenti, non vuol riconoscere però nè queste, nè l’opera loro.
• * •
A questo proposito ricordiamo che con decreto del S. Uffizo 4 luglio 1919 la S. Sede non solo confermava ciò che già si sapeva che essa non avrebbe inviati rappresentanti alla World Conference, ma vietava ai cattolici di parteciparvi, anche come privati.
Nell’ultimo fascicolo delia Civilà Cattolica (15 novembre) su tale decreto sono date delle dilucidazioni e delle informazioni, le quali confermano vieppiù il carattere intransigente ed imperialistico del provvedimento. Vi è sostenuta con ragioni dottrinarie e storiche tradizionalistiche l’unicità dell’unità chiesastica romana e quindi la necessità assoluta e suprema che le Chiese dissidenti riconoscano 1 loro errori e ritornino all’ovile, il cui pastore è benevolmente disposto ad accoglierle. 11 Congresso mondiale è perciò bencviso, ma sotto quest’unica forma, di adunata cioè di credenti che maturino tra sè le proprie colpe, le confessino e trovino il modo di portarle ai piedi del Papa insieme con il pentimento più esplicito ’Noi non facciamo commenti, anzi dal punto di vista logico siamo perfettamente di
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accordo con ia Chiesa di Roma su questa linea di condotta che è l’unica che regionalmente le conviene. Ci limitiamo però ad osservare che in tutto ciò quello che manca è l’amore e, se noi non erriamo, cristianesimo dovrebbe essere amore!...
««a
Il vincitore del premio Nòbel quest’anno è lo scrittore norvegese Knut Hamsun, sul quale togliamo dalla Lectura di Madrid (settembre) le seguenti notizie che interesseranno । lettori, poiché nel nuovo premiato è stata tenuta in gran conto quella grande forza di idealismo che noi amiamo seguire in tutto il movimento attuale dello spirito.
Nello scrittore norvegese si nota, da quel che dicono i suoi ammiratori, «l'incurabile inquietudine degli uomini del N. ». Egli non « conosciuto abbastanza, perchè fu tradotto massimamente in tedesco e sotto questa veste guadagnò l’Inghilterra. In Francia sono state tradotte solamente due sue novelle, e i critici francesi sembrano averlo trascurato in modo speciale, ciò che spiega come in Italia sia assolutamente ignoto finora. [Mentre scriviamo appare tradotta da F. Verdinois il suo romanzo Pan presso l’editore Giannini di Napoli : ne riparleremo].
Kunt Hamsun è uno strano impasto di idealismo e realismo, di pessimismo angoscioso e di ottimismo ingenuo. Grande pittore di caratteri, è pure un magnificò scultore di anime. E’ sopratutto un meraviglioso rivelatore del mondo interiore psichico. Individualista, bada all’uomo anziché alla tolla e descrive, nella maggior parte dei casi, conflitti psicologici, angustie di anime afflitte e pensieri di menti atrocemente tormentate. Più che seguire il cozzo che le passioni trovano nel mondo esteriore, egli segue le tragedie interne, profonde c silenziose, e vede il mondo esteriore, che figura sol come sfondo decorativo delle sue novelle, attraverso il mondo interiore dei suoi protagonisti. Perciò egli è universale è profondamente umano. Poco schiavo delle tinte dell’ambiente locale, Knut Hamsun non perde neppur nelle traduzioni tutta la bellezza della sua opera complessa, idealista, profondamente psicologica.
• • •
Ci si annuncia la prossima pubblicazione di un importante lavoro di critica storica, Il Mito di Cristo, dell’avv. Alfredo Graditone, presso la Società dei giovani autori di Milano (Viale Monza, : io), del quale ci vien detto un gran bene. 11 volume, di oltre óoo pagine e del
costo di !.. 6, metterebbe in luce nuova il problema delle origini del Cristianesimo e della figura centrale del Cristo evangelico.
Attendiamo di ricevere l’opera per poterne giudicare e dirne tutto il bene o il male che merita.
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Segnaliamo nella Rivista d’Italia del settembre un interessante studio di C. Sgroi sul De profundis di Oscar Wilde e sulla sua importanza morale e religiosa. Chi à letto questo vero testamento del poeta inglese, non può non dividere le conclusioni cui giunge lo Sgroi e che è bene siano rese note al pubblico che meno conosce il Wilde: «... noi non possiamo disprezzare un uomo che ha tanto sofferto nei mondo ed ha detto parole così belle e così pure, da rendere più serena Fanima nostra. Noi leggiamo le sue pagine, come un libro religioso, come un breviario spirituale ; ci avviciniamo al De profundis come ad una fonte-purissima, per soddisfare la nostra tormentosa sete di purezza. Dobbiamo essere grati a quest’uomo che ha saputo trovare espressioni cosi semplici ed incoraggianti e guardarlo come una guida d’anime*.
Cionondimeno Io Sgroi, e con ragione, non gli riconosce un carattere veramente e profondamente cristiano. Invece gli riconosce uno stato di religiosità intensa che ha determinato il carattere religioso della sua morale, la quale ci appare poi complètamente priva di pessimismo.
V. Blasco Ibanez, nel fascicolo del 1.5 ottobre della Rcvue Mondiale, pubblicami breve ritratto letterario di uno dei più recentemente divenuti illustri scrittori spaglinoli, di Antonio de Hoyos y Vinent, di un romanzo del quale, forse per la prima volta in Italia, parlò in queste pagine il nostro Costa (v. 2>7-lychnis del 15 giugno u. s.).
Noi segnaliamo l’opera di questo scrittore non solo perchè essa è interessante dal punto di vista letterario, ma pur anche perchè essa à un notevole substrato filosofico e mistico, d’un misticismo scettico e, per dir cosi, ateo, che non è male seguire e studiare. Quello chi-poi colpisce nella vita* del romanziere spagnuoìo è il fatto del suo coraggio e della sua forza morale: appartenente alla classe aristocratica à saputo ribellarsi alle sue forme vuote e dipingerle al vivo in tutti i suoi difetti ; sordo fin dalla nascita, à saputo prodigiosamente, quasi inesplicabilmente, descrivere i suoi eroi non solo nella vita esteriore, ma pur nel dia-
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1ogo, con una vivezza straordinaria. In fondo "buono, a malgrado del suo male che dovrebbe renderlo malcontento ed irritabile come furono Beethoven e Goya, è l’esempio d’uno spirito veramente superiore che, come conclude Plbanez, «sebbene ingiustamente imprigionato nella falsa torre del suo silenzio, ne sale spesso in cima, lascia cadere sull’umanità un libro magnifico, poi sprofonda nella notte silenziosa della sua infelicità, notte che durerà sempre, che non può avere aurora, ma che egli popola delle ricche visioni della sua ammirabile produzione artistica ■.
* * *
Ci perviene il primo numero di una nuova rivista valdostana illustrata, Augusta Prae-toria, redatta in francese, ma con sentimenti e propositi nettamente italiani, la quale vuol essere l’eco del pensiero e dell’azione di quella regione magnifica per natura e genti e storia. Noi che siamo nell’unità nazionale decisi fautori del regionalismo meglio inteso e meglio espresso, diamo con piacere il lienvenuto alla consorella, augurandole lutto il successo che merita.
Il nostro illustre collaboratore, il senatore Alessandro Chiappelli nella Nuova Antologia del 16 ottobre esamina il problema delle teorie vitali dell'ante guerra e quelle ante vitali che contro di esse sono state iniziate nel dopo guerra, notando giustamente come non siano le prime, ma la loro deformazione (e forse neppur ciò, se si vuol * esser giusti) che à prodotto la guerra, mentre le seconde sono altrettanto deformatrici quando domandano o, per dir meglio, impongono la totale estirpazione della volontà della vita. « Se la moralità non è negazione della vita, ma perfezione della vita, e se questa è capace di creare nei suoi più alti fastigi dei valori eterni di bellezza e di bene, è assurdo il credere che la ragione umana debba esser chiamata ad estinguere questa pura fiamma vitale. Essa è già per sè inestinguibile». E l’A. conclude: «Per ciò lo spirito non è antivitale, ma ultravitale, nel senso che è la più alta forma della vita universa, cioè quella in cui la forza istintiva si ordina e si disciplina, non già- si estingue. Tale è il significato, la vera luce, la finalità della coscienza. Nella quale si avvera soltanto la continuità della vita, non già perchè la neghi o comprima, ma perchè la persegue in sè c la eleva ad una altezza ove la luce splende perenne ed inestinguibile».
P. Aurelio Palmieri à iniziato dal fascicolo di settembre della Vita /¿aliano una serie di articoli sui problemi religiosi creati dalla guerra, il primo dei quali si occupa della Ju goslavia.
Il P. con molta vivacità mette in evidenza in poche pagine il pericolo che presenta per la civiltà occidentale e per il cattolicismo l’appetito nazionalista, anzi imperialista, dei Jugoslavi i quali facendosi uno strumento solidissimo e perfettissimo dell’ortodossia, alla quale sono attaccatissimi, tanto che nel loro codice è comminata la pena di morte a chi si converte al cattolicesimo, si preparano a combattere la liturgia latina per confondere le menti dei fedeli più ignoranti e prepararle all’avvento della Serbia nel campo politico e religioso. L’A. nota lo strano — o per meglio dire il mal ideato — appoggio che gli organi cattolici francesi danno alle pretese serbe, rappresentandole. |>er odio a noi, come giuste e liberali, mentre i Croati stessi, pur nemici nostri, anno dimostrato apertamente quale pericolo minacci alla civiltà occidentale se essa non troverà modo di opporsi ai Serbi. I quali insieme ai Greci rappresentano una vera unione antilatina perchè anche «sotto l’aspetto religioso Bisanzio è il marasmo e Roma è la vita».
Pieno invece di rosee speranze sulla sorte del cattolicismo in Jugoslavia è l’articolo che Elisabetta Christich dedica nel fascicolo del 27 settembre America di New York alle «Chiesa nella Jugoslavia ». Il Concordato del 1912 pare desti gli entusiasmi della scrittrice e se ne riprometta un mondo di bene. La fraternità e lo zelo che animano poi i dirigenti delle due Chiese sembrano secondo lei preludere ad un avvenire di rose.
Sintomo di tale stato di cose i cordiali messaggi scambiatisi tra la gerarchia cattolica riunita in Zagabria e il reggente Alessandro. Tutto dipenderà, dice la scrittrice, dai capi ecclesiastici cattolici e dalla libertà di agire che avranno.
« Certamente, conclude, ciò è meglio che una protezione reale come al tempo degli A-sburgo, quando i favori erano distribuiti come elementi di una politica antagonistica alle vedute del popolo jugoslavo».
L'intonazione rosea dell’articolo si capisce se la cattolica scrittrice è slava e scrive su parola d’ordine: altrimenti bisogna dire che essa non conosce affatto l'intolleranza serba!
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L’Unione italiana dell’educazione popolare di Milano (S. Barnaba, 38), bandisce un concorso per un Manuale che serva di guida agli amici volonterosi e fattivi della cultura popolare.
Il Manuale dovrà essere inspirato a criterii di massima praticità, lasciando da parte ogni trattazione o discussione teorica, e fornendo, invece, istruzioni, indicazioni e suggerimenti opportuni a chi voglia conoscere il funzionamento e promuovere l’istituzione di:
Asili infantili o Case dei bambini. Ricreatori!, Società sportive, Patronati scolastici. Mutualità scolastiche, Dopo-scuola, Colonie di vacanza, Società di ex-allievi, Università popolari e Circoli di cultura per gli operai, -Scuole serali e festive per adulti, Scuole per adulti analfabeti, Corsi d'igiene e di economia domestica. Corsi di propaganda antialcoolica, Corsi di educazione estetica, Teatro popolare, Società di canto corale. Spettacoli cinematografici, Biblioteche popolari, ecc.
E’ desiderata una breve serie, con annessa bibliografia, di schemi di conferenze su questioni generiche, relative però alla scuola v alla educazione, ad utilità di coloro che desiderino farsi agitatori e propagandisti della coltura popolare.
Al vincitore del concorso verrà accordato un premio di lire mille.
I lavori assolutamente inediti, possibilmente dattilografati, dovranno essere inviati, contraddistinti da un motto, non oltre il 31 dicembre 1919, in plico raccomandato.
Il lavoro premiato resterà proprietà del-I Unione che ne curerà la pubblicazione e la diffusione.
Prima che scada il termine del concorso, si renderanno pubblicamente noti i nomi dei componenti la Commissione giudicatrice.
• é •
Ne La retrista quincenal di Barcellona del 10 ottobre u. s. leggiamo un articolo informativo sul partito popolare italiano di J. Ca-sais y Santalò, nel quale si fa notare la sua irniente organizzazione e il movimentò di stupore che sollevò al suo nascere, non dimenticando però il giusto rilievo che ad esso si mescolino elementi che non abbiano comune con esso le idealità, ma semplicemente il suo carattere ricostruttivo, messo in evidenza dal suo solo affermarsi.
• • •
Nella simpatica e benemerita rivista del i'ormiggini \* Italia che scrive dell’agosto-ottobre 1919, leggiamo un interessante articolo
dell’editore stesso .sulla badia di Montecas sino considerata come istituto di cultura, seguito da una succosa bibliografia.
Ricordiamo ai lettori che V Italia che scrive’ è l’organo dell’istituto per la propaganda delia cultura italiana, il cui scopo appare senza bisogno d’illustrazioni dal suo stesso titolo ed al quale è dovere di ogni persona colta dì associarsi, tanto più che l’abbonamento annuo non costa che io lire con diritto al periodico ed alle pubblicazioni edite dall’istituto!
Ci piace far notare ai nostri lettori un giudizioso richiamo dell'avv. Carmelo Grassi su la sua rivista Diritto e Politica (ottobre 1919) al ritorno della società scossa e traviata dalla guerra non solo alle leggi economiche che anno un carattere di necessità non meno delle leggi fisiche, ma pur al contemporaneo ritorno alle leggi morali (il grassetto è dei-l’A.). Occorre cioè ritornare a diventar galantuomini, ad essere onesti. Citando autori classici e. non classici, da Adamo Smith a Minghetti, Baudrillart, Schàffle, Errerà, Cic-cone, Pellegrino Rossi, il Grassi afferma che l’economia politica è una scienza essenzialmente morale, in quanto dimostra che ciò che è veramente utile si accorda con ciò che è giusto. * La guerra è finita, comincia il lavoro della pace, il lavoro onesto! Intendiamolo una buona volta ».
Ad un’identica conclusione giunge H. Clou-ard nel Mercure de Franco del i° novembre, in un articolo in cui, constatata la crisi dell’intelligenza in questo momento, propugna una federazione di quanti anno il monopolio dell’intelligenza, della classe, coita, cioè, per accordarla alla vita economica del paese e per moralizzare la nostra età di produzione. In luogo cioè di protestare contro l’industrialismo contemporaneo, il che non risolve il problema, moralizziamolo. « Moralizzare l’industria equivarrebbe a darle una maniera d’essere nella società, ad accordarla con i prin-cipii della vita morale, a renderla cosciente del suo destino umano ».
Segnaliamo volentieri queste voci contemporanee e pur- separate di elevazione spiritualistica perchè in tanto imperversare di... spiritualismo teorico, esse affermano una risoluzione pratica che va assecondata calorosamentc e di cui bisogna tener conto con molto scrupolo !
B. Morales San Martin nella Retrista quin-cenai, di Barcellona del 25 ottobre scorso, nel
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fare un ritratto ed uno schizzo biografico di Santa Teresa di Gesù è del suo carattere volitivo ed entusiastico per la fede e ricco di misticismo, comunica un breve autografo inedito della santa, da lui rinvenuto in Valencia e che apparterrebbe al periodo in cui, combattuta nella sua tendenza di fondare móna-steri carmelitani in tutti i luoghi in cui passava come propagandista della fede, era stata diffidata dal padre provinciale del suo. ordine di non fondarne altri e di ritirarsi in un convento con l’ordine di non uscirne. Ed era stata pur denunciata all'inquisizione come * donna inquieta e vagabonda » ; dalla quale accusa venne però assolta da quel tribunale. L'autografo dice:
c Riflettendo un giorno se avessero ragione coloro che ritenevano essere malfatto le mie fondazioni e che avrei fatto meglio se mi fossi data continuamente alla preghiera, intesi : “ mentre si vive non sta il merito nel procurar di godermi, ma piuttosto nel fare la mia volontà. ” f Teresa di Gesù ».
Programma quindi di azione e non di contemplazione !
Pur sapendo che doveva indubbiamente esistere una traduzione latina degli atti greci di Andrea e Matteo, antica, non se ne era mai finora rinvenuto il testo con grande delusione dei dotti, Harnack per il primo, che si erano adoperati a ricercarla.
U. Morìcca, nei Rend. delTAcc. dei Lincei ^26, 106), pubblica con ben spiegabile gioia il rinvenimento da lui fatto della traduzione stessa nella Casanatense in un ms. del secolo xi-xm. Il testo risale indubbiamente ad un originale antico che San Gregorio di Tours deve aver tenuto sotto gli occhi nel comporre il I capitolo del suo De virtulibus Andreas. Non è una fedele traduzione del modello greco, poiché il traduttore corregge l’originale e lo modifica. Esso oltre che come documento storico è importantissimo come documento linguistico per le notevoli peculiarità che presenta all’indagine filologica neolatina sulla de-, cadenza del latino e su II’affermarsi delle lin. gue romanze.
Segnaliamo nel fascicolo di settembre de La Riforma italiana due buoni articoli, uno di Romolo. Murri su G. Sorel (¿7» maestro della violenza) ed uno di Angelo Crespi su U Chiesa e la nazione in Inghilterra.
Molto fine il primo e molto interessante il secondo, salvo che per le conclusioni sul
cattolicismo, sulle quali — « esso contiene più tesori permanenti di religiosità die tutte le Chiese che se ne differenziarono» — dovremmo fare delle riserve amplissime, perché crediamo per appunto il contrario, dato l’eccessivo formalismo di cui si ammanta il cattolicismo.
A proposito dell'opuscolo di Arthur Conati Doyle, La nuova rivelazione, col quale vorrebbe?! .far dare allo spiritismo veste e forma di religione, nella Revue des Jeunes del 25 ottobre u. s., leggiamo un lucido e stringente articolo di Th. Mainage che conclude : < Lo spiritismo come religione, è un errore. Sotto altro punto di vista esso à potuto essere per qualche anima un avviamento sul cammino della verità, della qual cosa noi non penseremo mai a lagnarci ».
* • ♦
Un’altra risposta a questo lavoro è stata data in Inghilterra dal tenente colonnello I). Forster, anch’essa in senso ortodosso ed in ogni modo contrario alla presunta religione dello spiritismo : The Vital Choice. endor or Calvary?
Ma il Conan Doyle non si dà per vinto c insiste con un nuovo suo lavoro, The Vital Message, tentando di sostituire la « nuova religione » al « decadente cristianesimo attuale ». Nel volume sono contenute in appendice esperiènze è documenti spiritici.
• •»
Annunciamo con piacer«; che la Casa editrice « Cultura Moderna », diretta dal professore Battami (Poggio Mirteto, Perugia), sta per riprendere la sua attività con la pubblicazione di un’opera interessante dei Weissìì-«•ker, Le origini del cristianesimo (in-S° gr. di p. 700). Beneauguriamo.
* • •
Neir^MfWff^ww/dell’ottobre scorso F. Ageno pubblica un nuovo incunabolo milanese, un decreto di Ludovico Sforza del 23 gennaio <498 che costituisce un'importantissima concessione alla Chiesa, della quale si torna a riconoscere l’indipendenza e la sovranità amministrativa e giurisdizionale, entro i confini dello Stato, con frasi di somma venerazione e filiale osservanza al « santissimo » pontefice Alessandro VI, Borgia.
Esso si spiega con i rapporti che correvano allora tra Firenze ed il papa, dei quali profittava il Moro per scongiurare un qualche in-
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tervento francese, di cui non aveva che a temere, professandosi amico di Roma.
*
Nella Riforma italiana dell’ottobre leggiamo degl’interessanti ragguagli sul babismo e sul beaismo musulmani a proposito dell’opera di E. G. Browne, Materials fot thè study of thè Bùhli Religion, nonché su di una nuova esegesi cinese della teologia confuciana, di cui fa cenno sull’zfcM/fr review il dott. Lini Buon Keng.
• • •
Una buona nota di John T. Me Neill sul modernismo cattolico ed il dogma cattolico nel Biblica! World del settembre scorso : vi è trattata brevemente la genesi del modernismo, il suo sviluppo e la sua soppressione, la sua filosofìa, quindi l’evoluzione del dogma e la sua funzione. Lo spirito democratico e moderno del movimento modernista vi è messo in luce in una molto lucida e chiara esposizione.
• • •
Uno studio di Carlo A. Mitchell sull’etica di Shakespeare è pubblicato nel fascicolo di ottobre della Princeton Theological Review.
• • •
Il dr. Werry di Ludhiana nell'india riporta tradotta nel Moslcm World una memoria di un mullah convertito al cristianesimo. Diffusa in migliaia di copie, essa è stata accolta con favore tra cristiani e musulmani. La sua originalità consìste nel rivendicare al Corano stesso la testimonianza più importante del Cristo. La prova è data in 13 punti che l’A. illustra conchiudendo che gli argomenti da lui esposti dimostrano che Cristo vi è in ogni modo possibile esaltato mille volte più di Maometto {Record of Christian Work, novembre 1919).
Le condizioni del clero in Russia, a detta dell’arcivescovo Platone di Odessa, sono veramente lacrimevoli : uccisioni, esecuzioni in massa, sofferenze, persecuzioni d’ogni genere non sono mancate. Le cerimonie^ pubbliche sono state vietate ; le ¡coni, i libri sacri, le croci ripudiate dalle scuole e dai luoghi pubblici, proibiti i sacramenti {Record of Christian Work, ottobre 1919).
• • •
Nella Nuova Antologia del 16 novembre E. Buonaiuti, affermata l'importanza degli
studi religiosi sopratutto con l’indirizzo storico dovuto al secolo xix, fa la storia dell’ordinamento degli studi stessi in Italia dal 1859 in poi nelle vecchie università teologiche, e successivamente e ne mostra le lacune e<T i difetti.
Propugna quindi una riforma che permetta anche all’Italia di essere all’altezza degli altri paesi in relazione ai recenti progressi fatti negli studi religiosi per effetto sia dell’opera dei dotti, sia delle scoperte che anno accresciuto il nostro patrimonio di cognizioni. Egli ritiene che ci siamo «troppo preoccupati di rintracciare la fisonomía dei nostri avi pagani » e che dobbiamo svelare 1’imagine dei padri, perché in Italia più che altrove il cristianesimo « fissò le sue più alte espressioni, artistiche, intellettuali e disciplinari ». Ed io sono d’accordo con lui, ma sono altrettanto convinto che sotto il velo che copre i padri non troveremo che le caricature degli avi: ricordiamoci che cattolicesimo non è sempre cristianesimo, ma per lo più paganesimo.
• • •
Siamo lieti di annunciare la rinnovata attività della Federazione italiana degli studenti per la cultura religiosa che costituisce una libera Associazione di giovani delle università e degli istituti superiori, studenti e studentesse, professori e laureati, i quali sentono tutto il valore religioso della vita e credono nel Cristianesimo come regola pratica della loro condotta e come norma fondamentale della loro vita. Essa ha pubblicato un interessante manifesto che crediamo utile far conoscere ai lettori:
« Il fine precipuo della Federazione è quello di suscitare l’interesse per i problemi dello spirito nella gioventù universitaria, ricca di capacità e di possibilità di elevazioni morali e spirituali. La Federazione non è emanazione-esclusiva di alcuna chiesa e non dipende da alcuna autorità ecclesiastica. La sua attività culturale e spirituale si esercita in piena e legittima autonomia e nel completo rispetto di ogni confessione e d’ogni fede.
« L’opera si svolge a mezzo di pubbliche conferenze, di corsi di lezioni, di speciali pubblicazioni, di biblioteche circolanti ed anche con semplici riunioni di studio, le quali danno sempre luogo a conversazioni, a discussioni che, mettendo a contatto le coscienze, le idee e le volontà, possono creare in ciascuno elementi di una più ricca vita interiore. Essa si propone dunque di promuovere la conquista di valori religiosi in ogni ramo di attività umana, cercando di risolvere ogni forma in-
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LETTURE ED APPUNTI
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feriore della quotidiana esistenza in una più cosciente ed illuminata attività che s’inspiri ai supremi principi etici proclamati dal Cristianesimo. Oltre che un fine culturale e spirituale, essa si propone un fine sociale, ne) senso più veracemente cristiano della parola, inquantochè lo studio meditato dall’etica cristiana ispira la fede più illuminata e più cosciente nella possibilità del Progresso, nella realizzazione della Giustizia, nel triónfo del Bene sulla terra.
« D’altra parte, convinti come sono i suoi componenti che i principi cristiani non sono compiuti se non sono attuati, che la morale di Cristo è ancora nulla se da essa non irradia il calore vitale dell’azione, essi sì sforzano di praticare e di applicare la libertà, la fraternità e la solidarietà proclamate dal Vangelo e danno lietamente il contributo di attività.e d’entusiasmo a tutte le iniziative per l’elevamento sociale».
Per schiarimenti e adesioni i lettori possono rivolgersi al segretario avv. Cesare Gay in Napoli: Via Roma, 373. La Federazione terrà in Roma un convegno nei giorni 4-6 del prossimo gennaio 1920: ne terremo informati i lettori.
La Federazione si compone attualmente di diversi gruppi già costituiti nelle più importanti città d’Italia, mentre altri si vanno costituendo.
Il gruppo di Roma à iniziato cól 4 dicembre le sue conversazioni, facendole precedere da una sincera esposizione di programma da cui stralciamo queste nobili e vivaci affermazioni :
« Dopo che lo Stato italiano si stabilì in Roma, affermandovi il principio della libertà religiosa, l’università romana doveva, prima fra tutti gli istituti di cultura superiore, elaborare una concezione di vita in cui principi etici ed ideali del nuovo Stato trovassero la loro espressione e la forza di diffóndersi nella vita nazionale. Questo ufficio, purtroppo, essa non ha adempiuto, e lo mostrano la crisi profonda di carattere spirituale, che travaglia lo Stato, la decadenza dei vecchi partiti storici disertati dai giovani, l’oscurarsi dell’idea dello Stato nel prevalere di partiti ostili ad esso.
« La libertà religiosa è la prima e fondamentale delle libertà, quella che educa veramente lo spirito umano al possesso della propria vita e quindi all’autonomia ed alla democrazia. E quella libertà non comporta dogmatismi nè intolleranze settarie, di alcun genere; rispetta tutte le fedi sincere, stimolandole a
divenire coscienti di sè e del proprio contenuto ideala, che tende ad unirle, mentre il simbolismo, adattamento a necessità storiche contingenti, le divide; essa chiede, innanzi tutto, dignità di vita, carattere, generosità».
Ecco il tema delle prime conversazioni: 4 dicembre :R. Murri : La crisi inorale dillo Stato e la scuola. — 11 dicembre: Prof. Gino Ferretti : Religioni, filosofie e scuola — 18 dicembre : Prof. Felice Momigliano : Lo spìrito religioso del profetismo ebraico.
La riunione à luogo nella sede della Y. M. C. A., in Via Francesco Crispi, 4.
• • •
La Casa editrice «Eclettica» di Roma (via Laurina. 40) ci annuncia la prossima pubblicazione di una traduzione italiana dei Corsi di Joghi Ramaciaraka, sullo Joga, l’occultismo, la religione. Queste lezioni di uno spiritualismo profondamente eclettico son fatte per coloro che cercano e faranno bene a molte anime. Si ricevono prenotazioni per la prima serie di 14 lezioni (che saranno pubblicate mensilmente) a L. 5 (Estero L. 7).
PUBBLICAZIONI PERVENUTE ALLA REDAZIONE^)
A. Lavagnini, L’opera della vita dal è unto di vista occulto Roma, Casa editrice clettica, 1919, p. 19, L. 1.
Conferenza teosofica tenuta dail'A. il 19 giugno 1919: tentativo di spiegazione del mistero della vita dal punto di vista della scienza e della sapienza occulta, come dice l’A. Discuterne equivarrebbe svelare l'occulto e noi non ci arrischiamo di farlo, perchè quel che è occulto resterà sempre tale !
I. G. Frazer, Folk-lore in thè old Testa-mcnt, studies in comparative religion. legend and law.London.Macmillan and Co., 1919, volumi 3.
E. Quaroni, L'arte c la vita morale, il sentimento estetico e la sua educazione. Milano, A. Vallardi, p. 47.
Il titolo promette molto, ma l’opera mantiene poco: la prima parte, che vorrebbe essere una dimostrazione- storica dell’efficacia morale dell’arte, è un imparaticcio che contiene se non più errori che parole, certo più insulsaggini che periodi. La seconda parte non à nulla di nuovo, ma dimostra almeno della buona volontà ed una certa conoscenza della scuola e dei bambini: e in nome di ciò perdoniamo il resto all’A.
(1) Delle opere meno importanti o non attinenti ai nostri studi faremo cenno in questa rubrica; delle altre sarà dato ragguaglio nelle rassegne relative o in recensioni speciali.
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Kunt Hamsun, Pan. romanzo, versione di F. Verdinois, Napoli. G. Giannini, 1910. pag. 177, L. 5.
J. Orsier, Le Phédon de Platon et le Socrate de Lamartine, Paris, E. de Boccard, 1919. p. 150, frs. 12.
H. Ball, Zur Krilik der deutschen Intel-ligenz. Bern, der Freie Verlag, 1919, p. 327. . I. Segond, La guerre mondiale et la vie spirituelle. Paris, F. Alcan, 1919, p. 167, frs. 3,25Saint Paul. trad. sur le grec et commentò pur Alta docteur en Sorbonne. Paris. Imprimerle de la Cour d’Appel, 1919, p. 462, frs. 8.
A. D. Sertillanges, L’action sociale et la vie surnalurelle. Paris, «Revue des jeunes», ’9*9, pag. 64, frs. 2.
G. Manacorda. Poesia medioevale che risorge - (Estr.). Roma, « Rassegna nazionale», 1919, p. 12.
11 M. pubblica alcune poesie di tipo medievale d'un anonimo poeta moderno che vorrebbe far risuscitare con anima nuova forme c ritmi latini vecchi: c bisogna confessare che il tentativo è riuscito e merita plauso.
C. Pascal. La critica dei poeti romani in Orano. Catania, F. Battiate, 1920, p. 140, lire 3,50.
Buon lavoro questo del P. fatto con la consueta sagacia e dottiina. Fórse la figura di Orazio vi esce rimpicciolita da un punto di vista superiore dj concezione dell’arte, ma ciò non dispiacerà neppure ai suoi fedeli — chi scrive è tra questi — perchè Orazio più che critico è poeta e come tale va considerato e sentito. Ma per la conoscenza d’Ora-zio il volume è interessante.
Stuart Cumberland, Spiritual) svi, The Inside Truth. London, Odbams Limited. »919. P- 157E. Troilo, l morti immortali (Estr.). Roma. Armani, 1919, p. 32.
Conferenza. L'A. con forma eletta e con genialità di pensiero afferma essere stata la guerra recente una linea discriminatrice della storia umana; al di là della quale vi è un’epoca che è come il preludio dell’epoca nuova, la quale si inizia solo al di qua della linea stessa ed è. dal punto di vista ideale, la vera storia umana.
L. Peserico, Cronologia egiziana. Vicenza, G. Raschi, 1919, p. 71, L. x.
Volumetto che renderà indubbiamente dei servizi agli studiosi, se i punti fondamentali della sua
trama — la cronologia astronomica — sono stati, come dice l’A., curati dal Millosevich in persona.. La cronologia egizia viene poi utilmente confrontata con la babilonese, l’assira, là biblica. Naturalmente entrare in merito del lavoro non è il caso, ma ci pare raccomandabile a tutti.
Discours de réccption de Monseigneur Baudrillart: éloge du corate Albert de Mun. Paris, Bloud et Gay, p. 64, frs. 1,30.
Réponse de M. Marcel Prevost au discours de M. Alfred Baudrillart. Paris, Bloud et Gay, p. 62, frs. 1,30.
Si tratta d’ùna cerimonia ufficiale è vero, ma le cui forme nell’esplicazione di uomini autorevoli come il Baudrillart ed il Prevost acquistano un interesse che va al di là del momento: l’opera e la figura del de Mun, da un lato e quella del Baudrillart dall’altro, sono lumeggiate in maniera molto interessante.
La question religieuse en Franco pendant la guerre de 1914-1918, documenta, IV sèrie (avril-décembre 1915)- Paris, P. Le-thielleux, libraire-éditeur, p. 605, frs. 5.
Questo volume fa parte di una serie di pubblicazioni che hanno l’unico scopo di difendere, ed anche esaltare, la politica di Benedetto XV e la azione della Chiesa, in Francia come altrove.
L’autore fa uno spoglio degli articoli della stampa francese ed estera che più si prestano alla sua tesi, facendoli precedere da sue brevi note introduttive. Una buona parte del volume è dedicata alla famosa intervista Lafapie, secondo la quale Benedetto XV, persuaso che la vittoria sarebbe stata guadagnata dai tedeschi, fece le dichiarazioni neu-tralistiche e tedescofile che tutti sanno. Vi sono raccolti numerosi documenti in proposito — tra cui uno scritto di Clemcnceau, che dà l’impressione di un frustino che sibila contro i mercanti del tempio.
Ci riserviamo di scrivere più distesamente su questi documenti quando l’opera sarà completa.
[A. F.j.
Card. Mercier, J usti ce et Charitt, Lettres pastorales, discours. allocutions, etc. T. II. Bloud et Gay, 19x9, p. 275, frs. 4,55.
Secondo volume della raccolta di lettere pastorali, discorsi e, allocuzióni del benemerito cardinale belga.
M. Orza, Il nuovo partito- Samo, Tipografia Bischetti, 1919. P- 40. [v. sopra p. 368].
V. Breccia, Piero Pegno, 1898-19x8. Alessandria, Tip. Ventura, 1910, p. 41.
Commemorazione d'una delle tante eroiche figure della nostra guerra.
Il Lettore.
ROCCO POLESE, gerente responsabile.
Roma, Tipografia dell'Unione Editrice, via Federico Cesi 45
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BILYCHNIS
RIVISTA MENSILE ILLUSTRATA
DI STUDI RELIGIOSI e e *
VOLUME xni.
ANNO 1919 - I. SEMESTRE
(Gennaio-Giugno. Fascicoli l-VI)
ROMA
VIA CRESCENZIO, 2
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INDICE PER RUBRICHE
ARTICOLI.
Cadorna Carla: I ritrovi spirituali di Vi- j terbo nel 1541, p. 196.
C’è una spiegazione logica della vita? I (Redazione : « Giuoco fatto ». - M. del- j l’Isola: Giuoco da farsi. Lettera aperta > al sig. Dino Provenzal. - Dino Pro- | ‘ venzal: Alla signora M. dell’isola), | p. 116 e seg.
Da Pratoverde fra Masseo: Intermezzo sacramentale (A proposito deli'Unione | delle Chiese cristiane), p. 35. 98.
Di Rubba Domenico: La fede religiosa di Wodrow Wilson, p. 15.
Emmanuel: L’etere e il suo possibile va- , lore psichico, p. 209.
Id.: La religione di un letterato, p. 288.
Palchi Mario: Una visita all’ingegnere Kha. - Un'ora nella vita e nella storia dell’Antico Egitto, p. 201.
Id.: Le condizioni religiose della «Società dèlie Nazioni •, p. 335.
Id.: C'è una spiegazione logica della vita?, P- 445Fattori Agostino: Pensieri dell’ora (Leggendo il « Colloquio con Renato Serra » di Vincenzo Cento), p. 4.
Giulio Benso Luisa: Il voto alla donna, p. 211.
M. A. G.: A Woodrow Wilson (Ode), p. 2.
* • *: Mancanze di garanzie nello « schema » e nel nuovo Codice di Diritto canonico, p. 181, 369.
Marchi Giovanni: Il «confiteor» dei giovani, p. 254.
Mei He Giovanni E.: Psicologia di combattenti cristiani. Note e documenti, p. 24, 106, 272.
Murri Romolo: II nuovo partito dei cattolici italiani (La tesi e l’ipotesi. - La politica del papato. - I precedenti storici. -La reazione di Pio X. - La guerra e la vittoria dell’Intesa. - Il programma del partito), p. 82.
Pavolini Paolo Emilio : Poesia religiosa polacca, p. 363.
Pioli Giovanni: La « ricostruzione industriale » e i cristiani, p. 91.
Id.: In memoria del p. Pietro Gazzola, P- 350.
Id.: Una lettera inedita del p. Giorgio Tyrrell a un gruppo di modernisti italiani, p. 439Provenzal Dino: Ascensione eroica, p. 427.
- Qui quondam •: Dopo-guerra nel Clero, p. 260.
Rensi Giuseppe: Metafisica e lirica, p. 414.
Rossi Mario: Religione e religioni in Italia secondo l’ultimo censimento, p. 170.
Tucci Paolo: Uno scritto di Martin Lutero: « Se la gente di guerra possa, an-ch’essa, essere in istato beato », p. 283,383.
NOTE E COMMENTI.
Conte Vincenzo: A proposito del «Colloquio con R. Serra -. Fatto personale, P- 394-
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IV
BI LYCHNIS
Fabrizi de’ Biani Vittoria: Osservazioni sulle » Previsioni » di Qui quondam, p. 56.
Fasulo Aristarco: Wilson e Benedetto XV (A proposito di due articoli di Mario Missiroli), p. 53.
Giulio Benso Luisa: La scuola femminile e le riforme, p. 300.
Id.: Una cattedra necessaria. - Il novello Carroccio, p. 456.
Munì Romolo: Per un fatto... quasi perso-, naie, p. 396.
« Qui quondam •: Ancora a proposito di « Previsioni », p. 238.
Tucci Paolo: Per uno scritto di M. Lutero, p. 460.
PER LA CULTURA DELL’ANIMA.
Billia Michelangelo: Il vero uomo, p. 126.
Fasulo Aristarco: La forza che ha vinto, p. 220.
Luzzi Giovanni: Della conoscenza cristiana, p. 388.
Masini Enrico: Epistola ai fratelli di buona volontà, p. 290.
Spigolature: p. 46, 131, 223, 299, 392.
Wagner Carlo: Vaso e vasellaio (Sermone), p. 42.
Id.: Nulla di nuovo sotto il sole? (Sermone), p. 215.
Id.: Odiare padre e madre?, p. 451.
CRONACHE E COMMENTARI.
Quadrotta Guglielmo: Note di politica vaticana e di azione cattolica, p. 49, »33. 225. 303/ 461.
Rutili Ernesto: Forme di degenerazione religiosa in tempo di guerra (Note e documenti), p. 141.
TRA LIBRI E RIVISTE.
I libri.
Arvidson J. M.: The language of Titus and Vespasian or thè destruction of Jérusalem. p. 157.
Beliucci Giuseppe; I chiodi nell’etnografia antica e contemporanea, p. 488.
Bersano Begey Maria: Vita e pensiero di Andrea Towianski, p. 240.
Bousset Wilhelm: Kyrios-Christos, p. 59.
Id.: Jesus der Herr (Gesù il Signore), p. 61.
Chiminelli Pietro: Gesù di Nazaret, p. 160, 2.42;.
Codice di Diritto canonico, p. 63, 181, 369.
Corpus scriptorum latinorum paravianum, p. 405.
De Hóyos y Vinent A.: El honche que vendió su cuerpo al diablo, p. 490.
Dentice di Accadia Cecilia: Schleier-macher, p. 397.
De Sarlo Francesco: Psicologia e filosofia, P- 399Diels H.: Il I libro di Filodemo sugli dei, p. 66.
Dussand R.: Il sacrificio israelitico e fenicio, p. 155.
Gambaro Angelo: Primi scritti religiosi di Raffaele Lambruschini, p. 243.
Gemelli Agostino: Principio di nazionalità e amor di patria nella dottrina cattolica, p. 478.
Gentile Giovanni: I fondamenti della filosofia del diritto, p. 476.
! Girard Victor: Un grand français: Albert De Mun, p. 491.
Goyau Georges: Les Catholiques Allemands et ¡’Empire évangélique, p. 245.
Id.: Le cardinal Mercier, p. 491.
Handcock P.: The Archaeology of the
I Holy Land (L’archeologia della Terra Santa), p. 58.
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INDICE PER RUBRICHE
V
Husband Riccardo: The Prosecution of Jesus (Il Processo di Gesù), p. 59.
Janni Ugo e Comba Ernesto: La Guerra ed il Protestantesimo, p. 246, 319.
Knight A. S.: Amentet, p. 63.
Lanzillo Agostino: La disfatta del socialismo, p. 146.
Lazzi Giovanni: 1 Salmi tradotti dallo ebraico e corredati d'introduzione e di note, p. 157.
Id.: Giobbe, tradotto dall'ebraico ed annotato, p. 159.
Maggiore Giuseppe: Il diritto e il suo processo ideale, p. 475.
Mangano Antonio: Sons of Italy (I figli d’Italia), p. 404.
Mey ni er Enrico: La Riforma Protestante, ossia il Cristianesimo evangelico, p. 246.
, Pagot du Vanroux (mgr.): Guerre et patriotisme, p. 492.
Pansa Giovanni: S. Maria d'Arabona e le Are sacrificali alla « Bona Dea », p. 490.
Kidgeway W.: Il drama e le danze dra-matiche dei popoli non europei, p. 68.
Sabatier Paul: Vie dé S. François d’Assise. Edition de guerre, p. 63.
Sartorio Enrico C.: Social and religious life of Italians in .America, p. 404.
Schaeffer Enrico: The Social Legislation of the Primitive Semites (La legislazione sociale dei Semiti primitivi), p. 58.
Strong (signóra): Apotheosis and after life (L’Apoteosi e la vita dell’al di là), p. 64.
Tavenner E.: Studies in Magic from latin literature, p. 152.
Ursino Giuseppe: L’idea religiosa e lo Stato, p. 492.
Warde Fowler W.: Roman l<|;.as of deity in the last century before the Christian Era, p. 66.
Le riviste.
Althaus (prof.): Nostro Signore Gesù, p. 60. Barton G. A.: I miti sulla creazione, p. 323. Buonaiuti Ernesto: Plutarco e la letteratura cristiana antica, p. 324.
Calza G.: La scoperta di un amuleto magico, p. 320.
Castiglioni A.: La donna nel pensiero dèi padri della Chiesa greca del iv secolo, p. 322.
De Fabrizio A.: Il fondo antico ed alcune propaggini moderne del Mito di Poli-temo, p. 488.
De Giorgi C.: I « menhir >• della provincia di Lecce, p. 323,
Diels H.: Un frammento di Epicuro sul rispetto agli dei. p. 66.
Faloci Pulignani Michele: I.a « passio sancii Feliciani », p. 324.
Frothingam A. L.: Un nuovo bassorilievo di Mitra autoctono, p. 323.
Garrone Giuseppe ed Eugenio: Ascensione eroica. lettere dei fratelli G. ed E. Garrone, p. 427.
Gentile Giovanni: Che cosa è il liberalismo, P- 477Guilloux Pierre: S. Agostino e la guerra, p. 247.
Haraack A.: L’opera di Porfiro contro 1 cristiani, p. 154.
Heitmuller (prof.): Gesù e Paolo, p. 61.
Immisch O.: L’anima considerata come farfalla, p. 64.
Kern O.: Le sette orfiche nell’isola di Creta, p. 154.
Kiesow F.: Il demone socratico, p. 321.
Kòhler (Pastor): Kyrios Gesù nei vangeli, p. 61.
Kretschmer P.: L'origine del nome Adone, p. 63.
176
VI
BILYCHNIS
Laing Gordon: I culti orientali nei padri della Chiesa, p. 321.
Lake Kirsopp: La teologia degli Atti degli Apostoli, p. 61.
Langdon $.: Il culto dei re divinizzati, p. 321.
Lodge sir Oliver: Etere e materia, p. 209.
Lugli G.: Il bassorilievo mitico scoperto in via Po a Roma, p. 320.
Me Cartney E. S.: Le offerte votive belliche contemporanee, p. 324.
Mercer S. A. B.: Il culto dell’imperatore, p. 321.
Missiroli Mario: Che cosa è il liberalismo, P- 477Olgiati Francesco: Marxismo e idealismo, P- N5Otto U. F.: Il lustrimi sotto l’aspetto religioso, politico, linguistico, p. 152.
Pascal Carlo: Bidone, p. 322.
Patroni G.: L’iscrizione diocleziana al Sole, p. 325.
Peters 1. P.: Il significato primitivo del culto di Tammuz in Babilonia, p. 326.
Philippson R.: Della conoscenza che gli Epicurei avevano degli dei, p. 66.
Pizzi Italo: Giuliano l’Apostata, p. 322.
Pohlenz M.: Zeus, Cronos e i Titani, p. 157.
Pratt I. B.: Ancora, che cosa d il cristianesimo?, p. 150.
Reitzenstein: Il nome di « martire », p. 153.
Robert: Il ramo d'oro sui sarcofagi romani, p. 155.
Robertson A. T.: Il primato di Giuda?, p. 62.
Schaft David S.: Martin Lutero e Giovanni Calvino riformatori della Chiesa, p. 480.
Schwering W.: Il significato di divus -e deus, p. 68.
Sciava R.: Gli croi delia mitologia greca, p. 322.
Sihler E. G.: Stoicismo e cristianesimo.
P- 325.
Scott Burton: li processo di Gesù. p. 59.
Terzaghi N.: L’inno orfico ad Iside, p. 154.
Id.: Il-mito di Prometeo prima di Esiodo, P- »55Id.: La continuità delle concezioni religiose dell’Egittò, p. 156.
Thompson I. M.: Christian faith, p. 149.
Tolkiehn I.: Didone Elissa, p. 66.
Viénot John: Primi repubblicani francesi, p. 316.
VosG.: La controversia su Kyrios-Christos, p. 61.
Wernle prof.: Gesù c Paolo, p. 61.
Wigand R.: Il monumento di Ercole Sa-xanus, p. 154.
Wright A.: 11 primato di Giuda?, p. 61.
177
INDICE GENERALE
Adami G., p. 247.
Adone: L’origine del nome A., p. 63.
Agostino (Santo): Sant'A. e l’imperialismo, p. 247Allier Ruggero, p. 27, 32, 275. 278.
Althaus (prof.), pag. 60.
Amuleti: Studio degli dei, degli A., c degli scarabei degli antichi Egiziani, p. 63; Amuleto magico, p. 320.
Anima: L’A. considerata come farfalla, p. 64; Il concetto di A. nella psicologia contemporanea, p. 401; Natura e realtà dell*A., p. 402: Origine e destino ultimo dell’A., p. 402.
Antichità: A. ebraiche, p. 58.
Apoteosi: L’A. e la vita dell’al di là, p. 64.
Ara: Are rustiche, p. 490.
Arvidson J. M., p. 157.
Aureli Guido, p. 313.
Balsamo Crivelli Gustavo, p. 406.
Barton G. A., p. 323.
Bellucci Giuseppe, p. 488.
Benedetto XV: B. contro i Sionisti e i Protestanti, p. 314; Leone XIII e B., P- 473Bersano Begey Maria, p. 241.
Bibbia: Cronaca biblica, p. 58, 157!
Billia Michelangelo, p. 126.
Buonaiuti Ernesto, p. 77, 324.
Bousset Guglielmo, p. 59.
Cadorna Caria, p. 196.
Calza G., p. 320.
Calvino Giovanni, p. 480.
Castiglioni A., p. 322.
I Cattolicismo : Germanesimo, C. c Protestantesimo, p. 245.
Cento Vincenzo, p. 4, 394.
Cervesato Arnaldo, p. 72.
! Chiesa: C. e Stato in conflitto sul terreno etico, p. 147; La C. e la Nazione, p. 305: C. e Democrazia, p. 306.
I Chiminelli Pietro, p. 160, 242, 404.
I Clero: Dopo-guerra nel C., p. 260.
! Codice: Mancanza di garanzie nel nuovo C. di diritto canonico, p. 181. 369.
Comba Ernesto, p. 246.
Cornei Auquier Andrea, p. 25, 29, 3«, 247. 279.
• Corso Raffaele, p. 488.
Costa Giovanni, p. 63, 152, 320, 405.
| Cristianesimo: La fede cristiana, p. 149; Che cosa è il C., p. 150; Stoicismo e C., P- 325.
Croce Beneeletto, p. 406.
Cronos: Zeus, C. c i Titani, p. 157.
Crookes William, p. 406.
Culto: Il C. di Mitra, p. 154; H C- dei re divinizzati, p. 321; Il C. dell’imperatore, p. 321; I C. orientali nei padri della chièsa, p. 321: Il significato primitivo del C. di Tammuz, p. 326.
Curatolo Giacomo Emilio, p. 329.
! Da Pratoverde Masseo (fra), p. 35, 98.
178
Vili
BILYCHNIS
De Cesare Raffaele, p. 75.
De Fabrizio A., p. 488.
De Giorgi G., p. 323.
De Hoyos y Vinent A., p. 490.
Dell’Isola M., p. 117.
Democrazia: Chiesa e D., p. 306.
Demone: Il D. socratico, p. 321.
De Mun Albert, p. 491.
Dentice di Accadia Cecilia, p. 397.
De Sarto Francesco, p. 399.
Di beli us M., p. 154.
Didone: D. Elissa, p. 66; D. nella letteratura latina d’Africa, p. 322.
Diels H„ p. 66.
Diritto Canonico: La Bibbia e il nuovo codice di D. C., p. 61; Mancanze di garanzie nel nuovo Codice di D. C., p. 181, 369.
Di Rubba Domenico, p. 15.
Divinità: Le D. secondo gli Epicurei, p. 66;
Le idee romane sulla D., p. 66.
Donna: Il voto alla D., p. 211; La D. nel pensiero dei padri greci del iv secolo, p. 322.
Dopo-guerra: Osservazioni sulle « Previsioni » di qui quondam, p. 56; Ancora a proposito di « Previsioni », p. 238; Dopoguerra nel clero, p. 260.
Drama: Il D. e le danze dramatiche, p. 68. *
Dussaud R., p. 155.
Egitto: Studio degli dei, degli amuleti e degli scarabei degli antichi Egiziani, p. 63; Una visita all’ingegnere Kha: un’ora nella vita e nella storia dell'Antico Egitto, p. 201.
Epicurei: Le divinità secondo gli E., p. 66.
Èrcole Saxanus, p. 154.
Eroi: Gli E. della mitologia greca, p. 322.
Escande Gustavo, p. 26, 27, 274, 277. .
Etere: L’E. e il suo possibile valore psichico, p. 209.
Etnografia: E. e religioni primitive (Vili), p. 488.
Fabrizi De Biani Vittoria, p. 56.
Falchi Mario, p. 201, 335, 445.
Faloci Pulì guani Michele, p. 324.
Farfalla: L’anima considerata come F., p. 64.
Fasulo Aristarco, p. 53.
Fattori Agostino, p. 4.
Fede: La F. cristiana, p. 149.
Filosofia: Rassegna di F. religiosa (Marxismo e idealismo - La religione del Sindacalismo - Chiesa e Stato in conflitto sul terreno etico - La fede cristiana -Che cosa è il cristianesimo?), p. 145; Rassegna di F. politica (Ideologie - I miti - II diritto come processo - La categoria giuridica - Che cosa è il liberalismo? - La nazione e i cattolici - Idealismo e politica), p. 47,3; L’etere e il suo possibile valore psichico, p. 209 ; Storia e psicologia religiosa (Federico Schleier-inacher - In che consiste il metodo di S. - La natura della religiosità secondo S. - Le religioni positive e la Chiesa secondo S. - Metafisica e religione - Nuovi studi di psicologia e filosofia - Il metodo negli studi di psicologia; Il concetto di anima nella psicologia contemporanea - Natura e realtà dell’anima -Origine e destino ultimo dell’anima), p. 397; Metafisica e lirica, p. 414.
Francesco ¿’Assisi: San F. e la Bibbia, p. 63.
Frothingam A. L„ p. 323.
Galletti Alfredo, p. 69.
Gambaro Angelo, p. 243.
Garrone Giuseppe ed Eugenio, p. 428.
Gazzola Pietro, p. 350.
Gemelli Agostino, p. 47S.
Gentile Giovanni, p. 477.
Germanesimo: G., Cattolicismo e Protestantesimo. p. 245.
Gesù: Il processo di G., p. 59; La vita di G., p. 160, 242.
179
INDICE GENERALE
IX
Giobbe: Il libro di G., p. 157.
Gioberti Vincenzo: Wilson e G., p. 331.
Girard Victor, p. 491.
Giuda Iscariota: Il primato di G.?, p. 61.
Giuliano l’Apostata, p. 322.
Giulio Benso Luisa, p. 211, 300, 456.
Gorki Massimo, p. 223.
Goyau Georges, p. 245, 491.
Guilloux Pietro, p. 247.
Handcock P., p. 58.
Harnack Adolph, p. 154.
Heitmùller (prof.), p. 61.
Husband Riccardo, p. 59.
Idealismo: Marxismo e I., p. 145.
Immisch O., p. 64.
Immortalità, p. 299.
Imperialismo: S. Agostino e 1’1., p. 247.
Iside: L’inno orfico ad I., p. 154.
Janni Ugo, p. 246, 392.
Kem O., p. 154.
Kiesow F., p. 321.
Klingebiel Giovanni, p. 26, 31, 274.
Knight A. S., p. 63.
Köhler (Pastor), p. 61.
Kretschmer P.» p. 63.
Laing Gordon, p. 321.
Lake Kirsopp, p. 61.
Lam bruschi ni Raffaello, p. 224, 243.
Langdon S., p. 321.
Lanzillo Agostino, p. 146.
Larnande M., p. 316.
Laurana Francesco, p. 76.
Leone XIII: I,. XIII e Benedetto XV, p. 461.
Lodge Oliver, p. 209.
Longo Teodoro, p. 47.
Lubin Davide, p. 75.
Lugli G., p. 320.
Lustrimi: Il L. sotto l’aspetto religioso, politico e linguistico, p. 152.
Lutero Martino, p. 283, 383, 396, 460, 480.
Luzzi Giovanni, p. 157, 159, 241, 388.
Maggiore Giuseppe, p. 476.
Magia: La M. nella letteratura latina, p. 152.
Mangano Antonio, p. 404.
Marchi Giovanni, p. 254.
Mariani Mario, p. 393.
Martire: Il nome di M., p. 153.
Martire Egilberto, p. 73.
Marxismo: M. e idealismo, p. 145.
Masini Enrico, p. 290.
Massip Giovanni, p. 277.
Mazzini Giuseppe, p. 299; Da M. a Wilson, p. 329.
Me Cartney E. S„ p. 324.
Meille Giovanni E., p. 24, 106, 272.
Menhir: I. M. nella provincia di Lecce, P- 323.
Mercer S. A. B., p. 321.
Mercier Desiderato, p. 491Meynier Enrico, p. 246.
Miroglio A., p. 392.
Missiroli Mario, p. 52, 305, 477.
Misteri: I M. ellenistici, p. 153.
Mito: Il M. di Prometeo prima di Esiodo, p. 155; Bassorilievo mitico, p. 320; Gli eroi della mitologia greca, p. 322; I miti sulla creazione, p. 323; Il M. di Poli-femo, p. 488.
Mitra (Culto di), p. 154; Un nuovo basso-rilievo di M„ p. 323.
Modernismo: Una lettera inedita del p. Giorgio Tyrrell a un gruppo di modernisti italiani, p. 439*
Morgan (prof.), p. 61.
Murray Gilbert, p. 288.
Murri Romolo, p. 82, 396.
Nazione: La Chiesa e la N., p. 305.
180
X
BILYCHNIS
Olgiati Francesco, p. 144.
Otto W. F., p. 152.
Offerte votive: O. votive belliche contemporanee, p. 324.
Pagot du Vanroux (mgr.), p. 492.
Pansa Giovanni, p. 490.
Parrot A., p. 407.
Pascal Carlo, p. 322.
Patroni G., p. 325.
Pavolini Paolo Emilio, p. 363.
Pedagogia: I^a scuola femminile e le riforme, p. 300.
Peters I. P., p. 326.
Petrone Igino, p. 131.
Philippson R., p. 66’
Pioli Giovanni, p. 91, 245. 316, 350, 439, 480.
Pizzi Italo, p. 322.
Plutarco: P. e la letteratura cristiana antica, p. 324.
Poesia: P. religiosa polacca, p. 350.
Pohlenz M.» p. 157.
Polifemo: Il mito di P„ p. 488.
Politica: P. Vaticana e Azione cattolica, p. 48. »33. 225, 303, 461; Il nuovo partito dei cattolici italiani, p. 82; Il voto alla donna, p. 211; (Vedi anche: Filosofia {Rassegna di Filosofia politica).
Pontoppidan Morten, p. 392.
Porfiro: L'opera di P. contro i cristiani.
P- 154.
Prati I. B., p. 150.
Prometeo: Il mito di P. prima di Esiodo, P- X55.
Protestantesimo: Germanesimo, Cattoli-cismo e P., p. 245; Benedetto XV contro i Sionisti c i Protestanti, p. 314.
Provenzal Dino, p. 117, 427.
Psicologia: P. di combattenti cristiani, p. 24, 106, 272; L’etere e il suo possibile valore psichico, p. 209; Nuovi studi di P. e filosofia, p. 399; Il metodo negli studi di P.. p. 401; Il concetto di anima nella P. moderna, p. 401.
1 Puglisi Mario, p. 397.
Quadrotta Guglielmo, p. 49, 133, 225, 303. 461.
I Ramo: Il R. d’oro sui sarcofagi romani, P- ,x55*
| Rayaud Ernest, p. 406.
I Reitzenstein, p. 153.
Religione: Fórme di degenerazione religiosa in tempo di guerra, p. 141; Rassegna di filosofia religiosa, p. 145; La R. del sindacalismo, p. 146; R. e religioni in Italia secondo l’ultimo censimento, p. 170; Le condizioni religióse della « Società delle Nazioni », p. 335; R. e Stato, p. 492.
Rensi Giuseppe, p. 414.
Ridgeway W„ p.-68.
Robert (prof.), p. 155.
Robertson A. T„ p. 62.
Rossi Mario, p. 170.
Rostand Edmond, p. 75.
Rutili Ernesto, p. 141.
Sabatier Paul, p. 63.
Sacrificio: II S. israelitico e fenicio, p. 155.
Salmi: Il libro dei S., p. 157.
Sartorio Enrico C., p. 404.
Scarabei: Studio degli dei, degli amuleti e degli S. degli antichi Egiziani, p. 63.
Schaeffer Enrico, p. 58.
Schaff David S.. p. 480.
Schiavetti Fernando, p. 411.
Schleiermacher Federico, p. 397.
Schwering W., p. 68.
Sciava R„ p. 322.
Scott Burton, p. 59.
Scuola: La S. femminile e le riforme, p. 300.
Serra Renato, p. 4.
Sette: Le S. orfiche nell’isola di Greta, P- »54Signore: Circa il nome S.. p. 59.
Sihler E. G., p. 325.
I
181
INDICE GENERALE
Sindacalismo: La religione del S., p. 146.
Sole: L’iscrizione diocleziana al Si, p. 325.
Sommi Picenardi Gabriella, p. 393.
Sorani Aldo, p. 71. 132.
Stato: Chiesa e S. in conflitto sul terreno etico, p. 147.
Stoicismo: S. e cristianesimo, p. 325.
Storia del Cristianesimo: I ritrovi spirituali di Viterbo nel 1541, p. 196.
Storia delle Religioni: Religioni del mondo classico, p. 63, 152, 320.
Strong A., p. 64.
Sturzo Luigi, p. 303 e seg. (v. Politica italiana e Azione cattolica e II nuovo partito dei cattolici italiani, sotto la voce Politica).
Tammuz: Il significato primitivo del culto di T„ p. 326.
Tavenner E., p. 152.
Terzaghi N., p. 154, 155, 156.
Thompson I. M., p. 149;
Titani: Zeus, Cronos e i T„ p. 157.
XI
Tolkiehn I., p. 66.
Towianski Andrea, p. 241.
Tucci Paolo, p. 283, 383, 460. Tyrrell Giorgio: Una lettera inedita del p. G. T. a un gruppo di modernisti italiani, p. 439.
Ursino Giuseppe, p. 492.
Viénot John, p. 3x7.
Vos G.» p. 61.
Wagner Carlo, p. 42, 215, 451.
Warde Fowler W., p. 66.
Wernle (prof.), pag. 60.
Wigand R., p. 154.
Wilson Wodrow: A. W. W. (ode), p. 2; La fede religiosa di W. W., p. 15; W. e Benedetto XV, p. 53; W. in Italia, p. 69 Politica e azione vaticana, p. 133; Da Mazzini a W., p. 329; W. e Gioberti, p. 331.
Wright A., p. 6x.
Zeus: Z„ Cronos e i Titani, p. 157.
183
Libreria Editrice BILYCHNIS - Via Crescenzio 2 - ROMA, 33
PUBBLICAZIONI IN DEPOSITO
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Questo catalogo delle pubblicazioni in deposito presso la nostra Libreria verrà tenuto al corrente delle novità, a mano a mano che gli editori ce le trasmetteranno.
Delle nuove, appartenenti al ciclo degli studi di cui si occupa la rivista, faremo un brevissimo cenno nel dame l’annuncio, qualora gli editori alle copie da tenere in' deposito aggiungano una in omaggio. Solo pubbicando questo cenno bibliografico assumiamo la responsabilità dell'indicazione dell’opera.
I prezzi segnati non subiscono aumenti e le spedizioni sono franche di porto. Per gl’invìi sotto fascia, raccomandati, aggiungere cent. 30.
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Delle opere segnate con asterisco esistono ancora pochissimi esemplari.
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CULTURA DELL’ANIMA
GR ATR Y A. : Le sorgenti, con prefazione di G. Semeria 4,50 Monod W. : Silence et prière
4.5°
— Il vit ...... . 5 — —. Il régnera ..... 5 — — Délivrances .... 5 — — L’Evangile du rojau me 5 — Vienot J. : Paroles françaises
Ïrononcées a 1’ oratoire du ouvre ..............2,50
Wagner G.: L’ami .... 6 — — Le vie simple . . . 5 — — A travers le prisme du temps.................4,50
— Justice ...... 4,50 — Discours religieux . 4 —
FILOSOFIA
♦Angeli N.: La grande illusione, versione di A. Cerve* sato . ....... . 2,50 Della Seta U.: G. Mazzini pensatori . . . . . . io —
♦Flammarion C.: Lumen. 2,50
Von Hügel F.: Religione ed illusione ...... 1 —
Losacco M.: Razionalismo e Intuizionismo . . . 1 —
♦Myers F. H.: La personalità umana e la sua sopravvi- » venza. Voi. 2-. .. . . 5 —
Papini G.: Il tragico quotidiano ...................5,50
— Crepuscolo dei filosofi 3,50 — Un uomo finito... 5 — Rensi G.: Sic et non (metafisica e poesia) . . . 3,50
GUERRA E ATTUALITÀ
Andreief L.: Sotto il giogo della guerra .... 3,50
E un libro di guerra che ha sopratutto il carattere della sincerità. È un documento dell’epoca terribile che abbiamo attraversato, in cui ogni eroismo, ogni ferocia, ogni dolore ha trovato il suo esempio „
(A. Faggi nel Martocce), Bois H.: La guerre et la bonne conscience..............0,70
Ciarlantini: Problemi dell’Alto
Adige................ . 3,50
Ghelli S.: La maschera dell’Austria ..............6 —Maranelli e Salvemini: La questione dèli’Adriatico. 6 —
Murri R. : L’anticlericalismo (origini, natura, metodo e scopi pratici) . . . . 1,25
MURRI R. : Guerra e religione, Voi. I. Il sangue e l’altare
MURRI R. : Guerra e religione.
Voi. II. L’imperialismo ecclesiastico e la democrazia religiosa ........ 2 —
Puccini M.: Come ho visto il
Friuli ....... 5 —
Senizza G.: Storia e diritti di
Fiume italiana . . . 1 —
Soffici A.: Kobilek (giornale di
battaglia)............3,50
Stapfer: Les leçons de la guerre
4 —
Wilson: La nuova libertà. 4 —
— Pace e guerra ... 2 —
184
Libreria Editrice BILYCHN1S - Via Crescenzio, 2 - ROMA 33
Wilson : Un soldat sanspeur et sans reproche (en mémoire de André Cornet-Auquier).
1,30
La Chiesa e 1 nuovi tempi 3,50
Raccolta di scritti originali di Giovanni Pioli - Romolo Murri -Giovanni E. Melile - Ugo Ianni - Mario Falchi - Mario Rossi -'• Qui Quondam „ - Antonino De Stefano - Alfredo Tagliatatela.
LETTERATURA
Andreief L.: Lazzaro e altre novelle....... 3,50
Della Seta U.: Morale, Diritto e Politica internazionale nella mente di G. Mazzini.
1,50
Dell’Isola M.: Etudes sur Montaigne .................2,50
I.anzillo A.: Giorgio Sorel. 1 — Papini G.: Parole e sangue.
3.50
Sheldon C.: Crocifisso! romanzo religioso sociale tradotto da E.Taglialatela. 2 — ;
Soffici A.: Scoperte e massacri .................5 —
Vitanza C.: Spiriti e forme del divino nella poesia di M. Ra-pisardi (conferenze). 1,50
•Hugel e Briggs: La Commissione biblica e il Pentateuco (estratto da « Il Rinnovamento ») ... 0,50
Janni U.: Il dogma dell’Eucari-stia e la ragione cristiana 1,25
Lea H. Ch.: Storia della con-fessione auricolare e delle indulgenze nella chiesa latina (versione di Pia Cre-monini), 2 volumi . 36 —
— Le origini del potere temporale dei papi . . . 5 —
Loisy A. : La Religion. 5 — — Mors et vita .... 2,25 — Epitre aux Galates. 3,60 — La paix des nations . 1,50 ♦Mussolini B.: Giovanni Huss
il veridico . . . . . 0,80
Ottolenghi R.: I farisei antichi e moderni . . . . 4 —
Paladino G.: Opuscoli e lettere di Riformatori italiani del Cinquecento . . . 5,50
Salvatorelli L.: Introduzione bibliografica alla scienza delle Religioni. . J . . 5 — — Il significato di « Nazareno » ....... 1,50
TYRREL G.J Autobiografia e Biografia (per cura di M.
D. Petre) ...... 15 —
A i nostri abbonati non morosi L. 10,50 franco ài -porlo.
— Lettera confidenziale ad un professore d’antropologia 0.50
Vitanza C.: La leggenda del « Descensus Christi ad in-feros » ....... 1,50
Wenck F.: Spirito e spiriti nel Nuovo Testamento. 0,75
X. La Bibbia e la Critica. 2 —
X. Lettere di un prete modernista ...... 3,50
VARIA
Martinelli: Per la vittoria morale ........ 3,50
Papini G.: Chiudiamo le scuole
1 —
Scarpa A.: La scuola delle mummie ................1 —
A. M. D. G.: Poemi Francescani '....... 4,25
RELIGIONE E STORIA
CHIMINELLI P. : Gesù di Nazareth . . . . {in ristampa}
— Il Padrenostro e il mondo mo -derno . . . . . . . 3 —S. Caterina da Siena: Libro della Divina Dottrina, volgarmente detto « Dialogo I della Divina Provvidenza » a ! cura di Matilde Fiorini 5,50
Comba E.: La religione cri-. stiana ....... 0,75 ■
Cumont F.: Le religioni orien- ' tali nel paganesimo romano . ....... 4 —
Di Soragna A.: Profezie di |
Isaia, figlio di Amos. 5 —
Gautier L.: Introduction ai 1*Ancien Testament. 2 vo- ' lumi ....... 26 —
— La Loi dans l’ancienne al- j liance ....... 2,25 •
Prezzo del fascicolo Lire 2,50