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HlYCHNIS
RIVISTA MENSILE 1LLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno VI : : Fasc. XI-XII.
NOV.-DIC. 1917
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 30 NOVEMBRE-31 DICEMBRE 1917
DAL SOMMARIO: Aristarco Fasulo: Pel IV Centenario della Riforma - LiVIO'TaNFANI ; II fine dell’educazione nella scuola dei Gesuiti - GIOVANNI PIOLI : Morale e religione nelle opere di Shakespeare - ARTURO FARINELLI: Michelangelo, la Chiesa e la Bibbia - LUISA GIULIO BENSO : Lamennais e Mazzini (111) - DANTE LATTES: La conquista della Palestina - Mentre fV Inglesi marciano su Gerusalemme - ENRICO MASINI : Salmo:
.a liberazione di Gerusalemme - AGOSTINO LANZILLO : Il soldato e l’eroe (Saggio di una psicologia della guerra) - RAOUL Al.LIER : La sconfitta della morte - ERNESTO RUTILI : La “ Nota ” di Benedetto XV e l'atteggiaménto dei cattolici di fronte ad essa -D. LATTES: Note di vita e di pensiero ebraico - TRA LIBRI E RIVISTE (Letteratura di guèrra - Rassegna di filosofia religiosa - Etnografia religiosa) - La GUERRA : Notizie, voci, documenti, ecc.
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BILYCHNIS RMsta mensile di studi religiosi
. ' 4444 FONDATA NEL 1912 > > » >
Cff/HCd BIBLICA STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA PEDAGOGIA FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE - QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL'ESTERO SI PUBBLICA LA FINE DI OGNI MESE.
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l'Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Pef l'Italia, L. 7; Per l’Estero, L. 10; Un fascicolo, L. I.
(Per gli Stali Uniti c per il Canada è autorizzalo ad esigere gli abbonamenti il Rcv. A. Di Domenica. B. D. Pai tor.
1414 Castle Ave, Philadelphia, Pa. (U. S. A.)].
Recentissimi "Estratti" di Bilychnis
Mario Puglisi: Le fonti religiose dd problema dei male. Pag. 100....... L. 1.50
Giovanni Pioli: Inghilterra di ieri, di oggi, di domani. Esperienze e previsioni. Pag. 57. con 20 illustrazioni. S'invia in dono agli abbonati di Bilychnis che sono in regola con l'Àmminisl razione.
Fra Bernardo da Quintavalle : L'avvenire
secondo l'insegnamento di Gesù. Pag. 43 . . 0.80 Raffaele Corso: Lo studio dei riti nuziali.
Pag. 9 ............... 0.40 Ferruccio Rubbiani: Un modernista del Risorgimento (Il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga). Pag. 23 ............ 0.60 Paolo Orano: La nuova coscienza religiosa
in Italia. Pag. 19 ........... 0.50 Giuseppe Rensi: La ragione c la guerra.
Pag. 27 .... • .......... 0.75 Dino Provenzali Giuoco fatto. Pag. 12. . 0.40 Carlo Formichi : Cenni sulle più antiche religioni dell'ìndia (con suggerimenti bibliografici), Pag. 15............. 0.50 Giovanni Pioli: La fede e l’immortalila nel
* Mors et vita ' di Alfredo Loisy (con ritratto del Loisy). Pag. 22.......... 0.60
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BILYCHNIS
RIVISTA MENSILE ILLUSTRATA DI STUDI RELIGIOSI • ® e
VOLUME X.
ANNO 1917 - II. SEMESTRE
(Luglio-Dicembre. Fascicoli ViLXIl)
ROMA
VIA CRESCENZIO, 2
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INDICE PER RUBRICHE
INDICE DEGLI ARTICOLI.
De Stefanc Antonino: Delle origini dei « Poveri Lombardi » e di alcuni gruppi Valdesi, p. 122, 196.
Emmanuel: « La Chiesa e i nuovi tempi », p. 212.
Farinelli Arturo: Michelangelo, la Chiesa e la Bibbia, p. 284.
Fasulo Aristarco: Pel IV Centenario della Riforma, p. 247.
Formichi Carlo: Cenni sulle più antiche religioni dell’india (con suggerimenti bibliografici), p. 70.
Giulio Benso Luisa: Lamennais e Mazzini, p. 44, 135, 289.
Ilio Ego: Un altro lato del modernismo: La democrazia cristiana in Italia, p. 98.
Lanzillo Agostino: Il soldato e l’eroe (Saggio di una psicologia della guerra), pagina 309.
Lattes Dante: La conquista della Palestina (Mentre gli Inglesi marciano su Gerusalemme), p. 302.
Id.: Note di vita e pensiero ebraico, pagina 340.
Masini Enrico: Salmo: La liberazione di Gerusalemme, p. 30.7.
Muttinelli Ferruccio: Giorgio Tyrrell e il programma di « Nova et Vetera », p. 30.
Id.: Il profilo intellettuale di S. Agostino, P- >55Pioli Giovanni: La fede e l’immortalità nel «Mors et vita» di Alfredo Loisy, P- 34» 145Id.: Morale e Religione nelle opere di Shakespeare, p. 83, 271.
Id.: Germanesimo spirituale e materiale, p. 190.
Provenzal Dino: Giuoco fatto, p. 47.
Rensi Giuseppe: La ragione e la guerra, pagina 5.
Rossi Mario: Chiesa e Critica, p. 83.
Rutili Ernesto: La « Storia interna » della Compagnia di Gesù, p. 202.
Id.: Vitalità e vita nel Cattolicesimo XIII. La Nota di Benedetto XV e Patteggiamento dei cattolici di fronte ad essa, p. 327.
Tanfani Livio: Il fine dell’educazione nella scuola dei Gesuiti, p. 263.
Trivero Camillo: La ragione e la guerra, p. 218.
NOTE E COMMENTI.
I Cadorna Carla: Il doppio significato della « Rivolta Femminile », p. 166.
De Gennaro P.: « La nuova coscienza religiosa in Italia » di P. Orano, p. 169.
Ohlsen Elga: Pro Israele, p. 171.
| Qui Quondam: Pro ventate. Newman e l’Inquisizione, p. 172.
INTERMEZZO.
Tagliatatela Alfredo: Interregno immortale, p. 94.
PER LA CULTURA DELL’ANIMA.
Allier Raoul: La sconfitta della morte, p. 321.
Cavalleris Vincenzo: Effetti del dolore, p. 161.
Monod Wilfredo: Non la pace, ma la spada, P- 57Id.: Preghiere nazionali, p. 107.
Wigley Raffaele: Ultra violetto, p. 229.
TRA LIBRI E RIVISTE.
A) I libri.
Aliotta Antonio: La guerra eterna e il dramma dell’esistenza, p. 353.
. Antonucci Giovanni: Gli sponsali di fanciulli. p. 361.
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BILYCHNIS
Bersano Regey Maria: Vita e pensiero di Andrea Towianski, p. 362.
Buonaiuti Ernesto: Sant’Agostino, p. 155.
Croce Benedetto: Teoria e storia della storiografia, p. 355.
Del Vecchio Giorgio: Diritto e Libertà, p. 119.
Deussen P.: Sechszig Upanisbads des Veda: Allgemeine Geschichte der Philosophie: Geheimlehre des Veda, p. 74.
Dhum Bernardo: Das Buch Jesaia übersetzt und erklärt, p. 62.
Gabelli Aristide: L’uomo e le. scienze morali, p. 240.
Galletti Alfredo: Mitologia e Germane-simo, p. 66.
Gemelli Agostino: Le superstizioni dei soldati in guerra. Contributo alla psicologia delle superstizioni, p. 359.
Huan Charles: La philosophie de Nietzsche Fr., p. 354.
« Il materialismo attuale », p. 238.
« La Chiesa e i Nuovi Tempi », p. 112, 2x2-Leanti Giuseppe: Scritti vari di demopsicologia e letteratura siciliana, p. 68.
Maeterlinck M.: L’hôte inconnu, p. 114.
Marro Giovanni: Arte primitiva e Arte paranoica, p. 67.
Murri Romolo: Imperialismo ecclesiastico e democrazia religiosa, p. 1x5.
Oldenberg H.: Die Lehre der Upanishaden und die Anfänge des Buddismus, p. 74.
Orano Paolo: La nuova coscienza religiosa in Italia, p. 167.
Prince Morton: L’inconscio. I fondamenti della personalità umana normale ed anormale, p. 174.
Rabindra Nat Tagore: Sädhanä. Reale concezione della vita, p. 237.
Re-Bartlett Lucy: Il regno che viene, p. 166.
Riou Gastone: Diario d’un soldato francese, p. 350.
Santayana G.: Egotist in German Philo-sophy, p. 235.
Schlögl N.: Die Heilige Schriften des, A. Bundes. Jesaia, p. 62.
Soragna (Di) Antonio: Profezie di Isaia figlio di Amoz, tradotte e chiarite, p. 62.
B) Le riviste.
Aekerman H.: Il problema dell'Ecclesiaste, p. 65.
Begbid Harold: L’educazione nazionale come equivalente morale della guerra, p. 184.
Boutroux Emilio: Guerra e filosofia, p. 1x8.
Carabellese P.: L’errore morale, p. 116.
Heshil Jibin J.: Il processo storico nelle visioni dei Profeti, p. 342.
Humbert P.: Qohéleth, p. 64.
Minski: Il mistero dell’anima russa, pagina 236.
Moffatt James: La guerra e la vita religiosa nella Gran Brettagna, p. 180.
Momigliano Felice: Religione, filosofia e storia della filosofia, p. 353.
Morel Léon: Carlyle e la Germania, p. 358.
Morselli E.: Sulla origine subcosciente delle cosidette personalità spiritiche, p. 179.
Rensi Giuseppe: La ragione'e la guerra, p. 2x8.
Robinson Charles: Che avverrà dopo la Guerra?, p. 182.
LA GUERRA.
Notizie - Voci — Documenti.
Pag. 365-372.
ILLUSTRAZIONI.
Ritratte di Alfredo Lòisy. — Tavola tra le pag. 40 e 41.
Il teatro «Globe» ai tempi di Shakespeare; Scenario semplificato pei drammi di Shakespeare. — Tavola tra le pag. 84 e 85.
Ritratto di Lamennais. — Tavola tra le pag. 136 e 137.
La casa di Shakespeare. — Tavola tra le pag. 276 e 277.
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INDICE GENERALE
Ackerman H.. p. 65.
Agostino (S.): Il profilo intellettuale di Sant’A., p. 155.
Allier Raoul, p. 321.
Anima: Per la cultura dell’A., p. 57.
Antonucci Giovanni, p. 361.
Arte: A. primitiva e A. paranoica, p. 67.
Barzellotti Giacomo, p. 241.
Bcgbiè Harold, p. 184.
Benedetto XV: La «nota» di B. XV e l'atteggiamento dei cattolici di fronte ad essa, p. 326.
Bergson H., p. 239.
Bersano Begey Maria, p. 362.
Bibbia: Michelangelo, la Chiesa e la Bibbi-, S. 284; Cronaca biblica, Isaia, p. 62;
I problema dell’Ecclesiaste, p. 64; Una nuova traduzione inglese della Bibbia, p. 342; Il processo storico nelle visioni profetiche, p. 342.
Boutroux Emilio, p. ri8.
Bràhmana (Commenti ai libri Veda), pagina 72.
Buonaiuti Ernesto, p. 155.
Cadorna Carla, p. 166.
Carabellese P., p. 116.
Carlyle: C. e la Germania, p. 358.
Cavalleris Vincenzo, p. 161.
Chiesa: C. e Critica, p. 92; La C. e i nuovi tempi, p. ri2, 212; Michelangelo, laC. e la Bibbia, p. 284.
Compagnia di Gesù: La « Storia interna » della C. di G., p. 202: Il fine dell’educazione nella Scuola dei Gesuiti, p. 263.
Corso Raffaele, p. 66, 359.
Credaro Luigi, p. 240.
Critica: Chiesa e C., p. 92.
Croce Benedetto, p. 355.
Cultura: Per la C. dell’anima, p. 57.
De Gennaro P., p. 167.
Del Vecchio Giorgio, p. 119.
Democrazia: Un altro lato del modernismo: La D. cristiana in Italia, p. 98.
De. Stefano Antonino, p. 122, 196.
Deussen P., p. 74.
Dhum Bernardo, p. 62.
Diritto: D. e Libertà, p. 119.
Dolore: Effetti , del D„ p. 161.
Ebraismo: Note di vita e pensiero ebraico, p. 340.
Ecclesiaste: Il problema dell’E., p. 64.
Educazione: Il fine dell’E. nella Scuola dei Gesuiti, p. 263; Opera di ricostruzione, p. 343; Nuovi ideali nell’E., p. 344.
Egoismo: L’E. nella filosofia tedesca, p. 235.
Errore: L’E. morale, p. 116.
Etnografia: E. religiosa, p. 66, 359.
Farinelli Arturo, p. 284.
Fasulo Aristarco, p. 247.
i Fede: La F. e l’immortalità nel Mors et Vita di Alfredo Loisy, p. 34, 145.
I Femminismo: Il doppio significato della « Rivolta femminile », p. 166.
Filosofia: Rassegna di F. religiosa, p. 114, *74- 235.
Formicbi Carlo, p. 70.
Gabelli Aristide, p. 240.
Galletti Alfredo, p. 66.
Gemelli Agostino, p. 359.
Germanesimo: Mitologia e G., p. 66; G. spirituale e materiale, p. 190; Nietzsche e il G., p. 354Gerusalemme: Salmo: La liberazione di G., p. 307.
j Gesuiti: La «Storia interna» della Compagnia di Gesù, p. 202; Il fine dell’educazione nella Scuola dei Gesuiti, p. 263.
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BILYCHNIS
Giulio Benso Luisa, pagine 44, 112, 135, 289.
Guerra: La ragione e la G., p. 5, 218; G. e filosofia, p. 118; Il soldato e l’eroe (Saggio di una psicologia della guerra), pagina 309; Letteratura di G., p. 180, 242; G. e Religione, p. 357; L» 6. (Notizie, voci, documenti), p. 365.
Hadfield Robert, p. 346.
Heshil Jibin p. 342.
Huan Charles, p. 354Humbert P., p. 64.
Immortalità: La fede e 1’1. nel Mors et Vita di Alfredo Loisy, p. 34, 145.
India: Cenni sulle più antiche religioni dell’india, p. 70: La religione delle Upa-nisad, p. 237.
Industria: Umanizzare 1’1., p. 346.
Inquisizione: Newman e 1’1., p. 172.
Io: La psicologia dell’io, p. 353j
Isaia, p. 62.
Israele: Pro I., p. 171. — V.: Ebraismo.
Lamennais: L. e Mazzini, p. 44, 135, 289.
Lanzillo Agostino, p. 309.
Lattes Dante, p. 302, 340.
Leanti Giuseppe, p. 68.
Leverhulme (Lord), p. 346.
Libertà: Diritto e L., p. 119Loisy Alfredo: La fede e l’immortalità nel Mors et vita di A. L., p. 34.
Lombardi (I Poveri): Delle origini dei P. L. e di alcuni gruppi Valdesi, p. 122.
Maeterlinck Maurizio, p. 114.
Marro Giovanni, p. 67.
Masini Enrico, p. 307.
Materialismo: il M. attuale, p. 238.
Mazzini: Lamennais e M., p. 44, 135, 289.
Michelangelo: M., la Chiesa e la Bibbia, p. 284.
Mitologia: M. e Germanesimo, p. 66.
Modernismo: Un altro lato del M.: La democrazia cristiana in Italia, p. 98.
Motìat James, p. 180.
Momigliano Felice, p. 352.
Monod Wilfredo, p. 57, 107.
Morale: M. e Religione nelle opere di Shakespeare, p. 83, 271; Positivismo e Morale, p. 240.
Morel Leon, p. 358.
Morselli E., p. 179.
; Morte: La sconfitta della M.» p. 321.
Murri Romolo, p. 1x5.
Mutti nel li Ferruccio, p. 30, 155.
Newman (Card.): N. e l'inquisizione, pagina 172.
Nietzsche: N. e il Germanesimo, p. 354.
1 Ohlsen Elga, p. 171.
' Olden berg H., p. 75. ,
Orano Paolo, p. 167.
; Ottolenghi Raffaele, p. 179.
. Oxenbam J-, p. 372.
I Palestina: La conquista della P., p. 302. I Pedagogia: V.: Scuola, Educazione.
! Pioli Giovanni, p. 34, 83, 145, 180, 190, 27L 343» 365Politica: La P. dei Gesuiti, p. 267.
Positivismo: P. e morale, p. 240.
' Prince Merton, p. 174.
; Profeti: Il processo st< rico nelle visioni dei P-, p. 342.
Provenzal Di no, p. 47.
Rabindra Nat Tagore, p. 237.
.Ragione: La R. e la guerra, p. 5, 218.
Re-Bartlett Lucy, p. 166.
| Religione: Morale e R. nelle opere di Shakespeare, p. 83, 271; Cenni sulle più antiche R. dell’india, p. 70: Filosofia della R., p. 1x5; La guerra e la vita religiosa, p. 174; R., filosofia e storia della Filosofia, p. 352; Guerra e R„ p. 3'57.
| Rensi Giuseppe, p. 5, 218.
Riforma (La): Nel IV Centenario della Riforma, p. 247.
• Riou Gastone, p. 350.
Robinson Charles, p. 182.
Rossi Mario, p. 92.
Rowntree Seebohm, p. 346.
! Runcarii (I), p. 197.
Russia: Il mistero dell’anima russa, pagina 236.
Rutili Ernesto, p. 202, 327.
! Santayana G., p. 235.
Schlögl N., p. 62.
! Scuola: Il fine dell’educazione nella Scuola dei Gesuiti, p. 263.
| Shakespeare: Morale c Religione nelle opere di S., p. 70, 271.
j Soragna (Di) Antonio, p. 62.
1 Speronisi (Gli), p. 196.
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INDICE
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Sponsali: Gli S. di fanciulli, p. 361.
Storia del Cristianesimo: Delle origini dei « Poveri Lombardi » e di alcuni gruppi Valdesi, p. 122, 196; Il profilo intellettuale di S. Agostino, p. 155; La « Storia interna» della,Compagnia di Gesù, pagina 202; Pel IV Centenario della Riforma, p. 247.
Storia delle Religioni: Cenni sulle più antiche religioni dell’india (con suggerimenti bibliografici), p. 70. — V.: Storia del Cristianesimo.
Storiografia: Teoria e storia della Storiografia, p. 355.
Subcoscienza: La S. e il subconscio, p. 174. Superstizione: Le superstizioni dei soldati in guerra, p. 359Taglialatela Alfredo, p. 94.
Tan fa ni Livio, p. 263.
Tortelani (I), p. 199.
Towianski Andrea: Un nuovo libro Su
A. T., p. 362.
Trivero Camillo, p. 218.
Tyrrell Giorgio: G. T. e il programma di « Nova et Vetera ». (A proposito di una leggenda), p. 30.
Upanisad: La religione delle U., p. 237.
Valdesi: Delle origini dei « Poveri Lombardi » e di alcuni gruppi V. (Spero-nisti-Runcarii-Tortolani), p. 122, 197.
Veda (i libri), p. 70.
Wigley Raffaele, p. 229, 234.
iaSsrafesösfesjosaa
11
BiircriNB
RIVIRA DI ST/Dì RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA 5CVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMAAnno sesto - Fascio. XI-XII Novembre-Dicembre 1917 (Vol. X. 5-6)
SOMMARIO:
Aristarco FASOLO: Pel IV Centenario delia Riforma . . . . . Pag. 247 Livio Tanfani: Il fine dell’educazione nella Scuola dei Gesuiti . . > 263
Giovanni Pioli: Morale e religione nelle opere di Shakespeare . . >271
Illustrazione: La casa di Shakespeare (Tavola tra le pagine 276 e 277)
Arturo Farinelli: Michelangelo, la Chiesa e la Bibbia . . . . > 284
Luisa Giulio BENSO: Lamennais e Mazzini - III. Mazzini. . . . » 289
Dante Lattes: La conquista della Palestina (Mentre gl’inglesi marciano su Gerusalemme . . . . . . . . . .............................» 302
ENRICO Masini: Salmo - La liberazione di Gerusalemme .... >307
Agostino Lanzillo: Il soldato e l’eroe (Saggio di una psicologia
dèlia guèrra) . . . . . ............. > 309
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Raoul Allier: La sconfitta della morte .......... » 321
CRONACHE:
ERNESTO Rutili : Vitalità e vita nel Cattolicesimo (XIII) - La « Nota » di Benedetto XV e l’atteggiaménto dei cattolici di fronte ad essa . > 327
Dante Lattes : Note di vita e di pensiero ebraico (I) - 1, Il rinascimento del pòpolo e della terra d’Israele - 2. Una nuova traduzione inglese della Bibbia - 3. Il processo storico nelle visioni profetiche » 340
TRA LIBRI E RIVISTE:
Giovanni Pioli : Letteratura di guerra: Opera di ricostruzione - Nuovi ideali nell’educazione - Vita cittadina e vita rurale - Città nuove - Umanizzare l’industria - La ricostruzione dell’avvenire - Diario di un soldato francese. . ............... ...... ...... » 343
m.: Rassegna di filosofia religiosa (XX): Religione, Filosofia e storia della
Filosofia - La psicologia dell’io - Nietzsche e il Germanesimo - Teoria e storia della storiografia - Là storia giustificatrice - Guerra e religione - Carlyle e la Germania ................. •. . . » 352
Raffaele Corso: Etnografia religiosa (V): Le superstizioni dei soldati in
guerra - Gli sponsali di fanciulli - Folk-Lore canadese. ........ ». 359
Varia: Un nuovo libro su Andrea Towiansky ............. » 362
LA GUERRA (Notizie, Voci, Documenti):
Giovanni Pioli: Problemi religiosi di oggi e di domani - La frequenza ai culti - Il Cristianesimo è in progresso o in regresso? - « Riparazione » di un sacrilegio tedesco ? - La chance delle Chiese - Vi è bisogno di un’altra Riforma - La religione dei soldati al fronte- Come «l’unione delle Chiese» si va effettuando al fronte - Religione popolare in tempo di guerra . » 365
J. Oxenham: A voi che avete perduto.......... : .......... » 372
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© & Bilychnis - che continuerà ad uscire regolarmente ogni mese -porge ai suoi Amici sinceri auguri per l'anno nuovo.
© © A causa del continuo crescere delle spese, specialmente per l’aumentato costo della carta e pel rialzo delle tariffe tipografiche, la^nostra Amministrazióne è costretta ad elevare i prezzi d’abbonamento alla Rivista.
© © Col 1° Gennaio 1918 saranno come segue:
{ Per 1’Italia. . . L. 7 — Abbonamento annuo , r-» i. «
( Per PESTERÒ . . »10 —
©“©L’importo dell’abbonamento annuo per 1* Italia può dividersi in due rate di L. 3.50 da pagarsi in gennaio e in luglio.
© © Nel prossimo fascicolo di gennaio verrà annesso l’indice del 2<> Semestre 1917 (Voi. X);
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PEL IV CENTENARIO DELLA RIFORMA
(amo in tempi in eui è di moda deprezzare il Protestantesimo nei paesi a maggioranza cattolici. Si è tentato, da parte di qualche pubblicista poco riflessivo o... molto riflessivo, di diffondere l’idea che le malefatte dei tedeschi durante la presente guerra debbano attribuirsi allo spirito della Riforma protestante. Ciò è semplicemente stolto, quando non è tendenzioso. Già basterebbe ricordare che i cattolicissimi bavaresi ed austriaci non hanno nulla da invidiare ai protestanti tedeschi in fatto
di crudeltà e barbarie; ma ad ogni modo non è inutile riaffermare da parte nostra quanto ogni mente serena deve ammettere: e cioè che lo spirito della Riforma non è dalla parte degl’imperi centrali degnamente accompagnatisi ai turchi, ma dalla parte dell’Intesa, nella quale militano l’Inghilterra e l’America, alla cui testa si trovano , due spiccate personalità appartenenti al mondo protestante: Lloyd George, della Chiesa Battista inglese, e Woodrow Wilson, della Chiesa Presbiteriana di America, Chiese indipendenti, le quali sono le vere depositarie dello spirito della Riforma.
Martino Lutero — ricorre ora il quarto centenario dell’affissione delle sue 95 Tesi contro la vendita delle indulgènze, 31 ottobre 1517, punto di partenza del moto di Riforma — era fortemente contrario all’uso delle armi e della violenza. Se i tedeschi avessero conservato il suo spirito in luogo di inebriarsi con le teorie del superuomo e della supernazione — come han fatto segnatamente in queste ultime decine di anni — la guerra attuale probabilmente non sarebbe scoppiata.
Nel 1520 il distacco tra Lutero e il papato era già completo. Le autorità cattoliche pensavano di liberarsi del Riformatore come si erano liberate un secolo prima di Giovanni Huss. In vista del pericolo gravissimo incombente sul capo del battagliero dottore di Wittemberga alcuni suoi amici gentiluomini — Sii-
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vestro di Shaunbourg, Franz di Sikingen, Harmuth di Cronberg, Ulrico di Hütten — gli offersero ospitalità ed aiuto, ma Lutero rispose: « Non disprezzo queste offerte, ma non voglio appoggiarmi su altri che su Cristo » (1). Ed al focoso cavaliere di Hütten che gli scriveva: « Quel che ci occorre per distruggere il furore del diavolo è: spade, archi, frecce e bombe », Lutero rispondeva: « Io non voglio che, per difendere l’Evangelo, si ricorra alle armi ed alla carneficina. È per la parola che il mondo è stato vinto; è per la parola che la Chiesa è stata salvata; per la parola ancora essa sarà restaurata » (2).
Nei suoi Colloquia così si esprime circa la guerra: « Quando accade che due capre s’incontrano su di uno stretto ponticello sull’acqua, come comportansi esse? Non possono tornarsene indietro, neppur possono passarsi accanto poiché il varco è troppo stretto. Dovranno forse cozzarsi talché ambedue caschino nel fiume e vi s’anneghino ? Che fanno adunque? Natura ha insegnato loro che una si corichi e lasci che l’altra le passi sopra e per tal modo restano ambedue illese. Così pure dovrebbe comportarsi un uomo di fronte all’altro e permettere piuttosto che gli si passi sopra coi piedi, anziché accapigliarsi, menar le mani e farsi guerra » (3).
Il Governo francese ha portato a conoscenza mondiale una calda apostrofe del Riformatore ai principi tedeschi, dalla quale appare l'orrore che Lutero aveva per gl'istinti violenti di quei principi. Sono parole che ben possono dirsi di « palpitante attualità », benché scritte quattro secoli or sono: « Voi combattete per l’ingiustizia! La Germania sarà devastata: una volta cominciata una tal carneficina non cesserà più finché tutto non sia distrutto. La guerra s’inizia facilmente, ma non è in nostro potere farla terminare. Insensati! che vi han fatto di male questi bimbi, queste donne, questi vecchi che voi trascinate nella vostra perdita, riempiendo il paese di sangue, di brigantaggio, di vedove e d'orfani?... La Germania è perduta, lo temo. E ciò perchè i principi non vogliono usare che la spada. Ah! essi credono che si possa impunemente strappare pelo a pelo la barba al buon Dio. Egli la batterà loro sul volto! » (4).
Lutero poteva ben parlare a codesta maniera, perchè dal giorno in cui — sentendo del commercio immondo delle indulgenze al quale, con laute vendite, s’erano dedicati i monaci, ed in modo speciale il domenicano Giovanni Diezel o Tezel — aveva esclamato: « Se Dio lo permette io farò un buco al suo tamburo! », da quel giorno aveva avuto prove continue che, quando il tempo è maturo, realmente Dio « batte la sua barba » sul volto di coloro che credono di potergliela strappare « pelo a pelo ». I primi anni del movimento riformatore prodotto da M. Lutero hanno del prodigioso. Egli stesso confessa che, se avesse potuto soltanto imaginare lontanamente all'inizio della sua lotta, quel che lo attendeva in conseguenza del suo atteggiamento,
(1) Nolo nisi Christo protectore nifi. Lutero. Ep. I, pag. 148; D’Aubigné, Histoire de la Réformation, vol. II, pag. 85.
SD’AUBIGNÉ, Ivi.
Lutero, Colloquia V. traduz. italiana in M. Lutero secondo i suoi scritti, pagina 240. Tip. Claudiana, Firenze.
(4) Estratto dalle Mémoires de Martin Luther tradotte in francese ed ordinate da J. Michelet, tomo I, pagg. 192 e 205. Questa apostrofe è stata riprodotta nel Bulletin des Armées de la République del 19 marzo 1915.
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probabilmente sarebbe corso di nuovo a nascondersi in convento, « poiché non avrei mai avuto tanto ardire da aggredire il papa e quasi tutti gli uomini, e destar la loro stizza. Io credevo ch’essi peccassero soltanto per ignoranza e debolezza umana, e non avrei creduto che avessero la baldanza di calpestar con animo deliberato la parola di Dio; ma Dio mi ha spinto avanti come un cavallo cui si sono abbacinati gli occhi, talch’egli non vede chi gli viene incontro » (1). La Riforma del sec. xvi è avvenimento di tale importanza che nessuno studioso e nessuna coscienza viva se ne può disinteressare. Magari della storia susseguente del protestantesimo sì, specie per ciò che riguarda le Chiese di Stato, ma della Riforma nessuno si può disinteressare, ripetiamolo, poiché essa segna una data miliare nel cammino della storia e non trova altro raffronto storico, per gli effetti benefici che produsse, che nella nascita del Cristianesimo, di cui fu indubbiamente una rinascita. Non sarebbe possibile lasciar trascorrere il quarto centenario dell’inizio del moto di Riforma, senza farne cenno. I concetti fondamentali di diritto che dominano la coscienza moderna sono stati, se non creati, messi in luce e diffusi dalla Riforma protestante del secolo xvi. Si erano avuti certo, anche prima, efficaci assertori dei diritti umani, ed il nostro paese ha anche il vanto di aver dato i natali al precursore dei precursori, in questo campo, Arnaldo da Brescia; ma fu necessaria la Riforma perchè quei concetti di diritto divenissero patrimonio acquisito, non più di alcune coscienze elette, ma della coscienza universale. E non importa se anche nel campo protestante si ebbero disposizioni restrittive della libertà di esame e della libertà di coscienza: è un fatto innegabile che, d’allora in poi, quei concetti di diritto non si perdettero più e furono tenuti in vita dal nuovo spirito, dal nuovo orientamento umano sortito da quel gran movimento di ribellione sacrosanta che va sotto il nome di Riforma protestante. Ricordiamo l’affermazione nobilissima che, della libertà di esame e di coscienza .doveva fare un secolo dopo un pio cristiano riformato, educato su quella Bibbia che Martino Lutero aveva trovata nella Biblioteca di Erfurt ed aveva lanciata nel mondo: accenniamo al fondatore della prima Chiesa Battista di America; Roger Williams. Egli, scacciato.da Boston da quelle intolleranti autorità, peregrinò vario tempo finché si fermò nel luogo ove doveva poi sorgere la città di Pro-videnee, nome che il Williams volle dare al luogo in cui provvidenzialmente era stato condotto.
Quivi, fondata la colonia, fu proclamata, per la prima volta nel mondo, l’assoluta libertà di esame e di coscienza. Nello statuto pubblicato nel 1638 i fondatori della nuova colonia decretarono: « Noi sottoscritti, desiderando stabilirci nella città di Providence, promettiamo di sottometterci con ubbidienza attiva e passiva a tutti gli ordini e disposizioni che saranno legalmente decretati per il bene pubblico e generale, con l’approvazione della maggioranza degli abitanti e dei capi famiglia della città che hanno già il diritto di cittadinanza o che l’avranno in avvenire. Tutto ciò ■però in materia esclusivamente civile ».
Più tardi egli ottenne dal Governo inglese il riconoscimento della nuova colonia (1663) e così sorse lo Stato di Rhode-Island, il quale incorporò nelle sue leggi il prin(1) V. Colloquia in M. Lutero secondo, ecc.» pagg. 214-15.
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cipio della libertà di coscienza e divenne il luogo di ritugio di tutti gli oppressi e perseguitati (i). Gli Stati Uniti di America fecero proprie in seguito le disposizioni dei cittadini di Providence, stabilendo nella propria costituzione il principio: nessun culto privilegiato, nessun culto escluso. Codesto principio è in marcia e conquisterà il mondo. Esso è dovuto al movimento che segnò la fede di nascita dell’Europa moderna, alla Riforma. Perchè fu la Riforma che abbattè gli ostacoli che si frapponevano al cammino delle libertà, ostacoli fondamentali che Lutero chiamava « muri ». Nel suo trattato De Emendalione et correclione status Christiani (2) che fu il segnale d’attacco, noi. più contro singole deviazioni o corruzioni del romanismo, ma contro tutto il sistera 1 cattolico romano — il Riformatore elencava i « muri » dietro i quali si trinceravano le autorità romane per conservare la loro posizione di dominio universale. Il primo « muro » che bisognava abbattere, era il sacerdotalismo casta: «... dobbiamo chiaramente affermare che tutti siano sacerdoti — afferma Lutero nel su ricordato scritto — e che ciascheduno possa liberamente usare l’ufficio sacerdotale, siccome salutifero alla cristiana congregazione... ». Poco prima aveva scritto: « ... e se avvenisse che alquanti cristiani laici fossero menati prigioni in un luogo solitario e deserto, ed ivi fossero tenuti e custoditi, nè fra loro fosse sacerdote alcuno per mano di vescovo consecrato, ma tutti insieme accordati eleggessero uno di loro, il quale fosse senza moglie ovvero maritato, al quale dessero podestà di battezzare, celebrare, assolvere, predicare, costui veramente sarebbe sacerdote, ancorché non fosse dal papa o vescovo consecrato... Il che certamente far non si potrebbe, se noi tutti non tossimo sacerdoti ».
Il secondo « muro » da abbattere era la pretesa dei pontefici i quali « affermano loro soli essere i maestri della Scrittura sacra, ed a loro soli aspettar la interpretazione di quella ». Lutero contrappose invece il diritto al libero esame da parte di ogni credente. « È adunque mattamente e con gran presunzione — continua trattando del secondo « muro » — stata trovata questa loro favola, senza fondamento alcuno della Scrittura Santa che vogliono che solo il Papa interpreti la Scrittura, solo la dichiari, a lui solo sia concesso intenderla, e non ad altri. È cosa chiarissima appresso di ognuno, il quale voglia fra sè, con retto giudizio, il tutto conside(1) C. A. Ramseyer, Hiftoire des Baptistes, pagg. 558-562; Henry C. Veddf.r, A Short History of thè Baptisls, pagg. 191-194: Albert H. Newman, A Manual of Church History, voi II, pag. 692.
Si lèggano anche le belle pagine scritte, su questo eroe delle libertà di coscienza, da Luigi Luzzatti, nel suo volume: La Libertà di Coscienza e di Scienza, ove giustamente afferma: «...la piccola borgata di Providence, negli Stati Uniti, fondata da Roger Williams, tiene un posto luminoso nel mondo morale, quantunque impercettibile nello spazio ». E poco dopo: « Dal piccolo nido di Providence uscì tutta la nuova legislazione sulla libertà di credere e di non credere; e gli apostoli del secolo xvn ebbero intuizioni di diritto pubblico, che divennero poi la dottrina e che appena oggidì la nostra scienza sa elaborare e diffondere ». Cfr. pagg. 232 e 236.
(2) Di questo trattato fortemente polemico pubblicato da Lutero nel 1520, dopo la disputa avuta a Lipsia col dott. Eek — e che andò a ruba poiché in breve tempo se ne vendettero 4000 esemplari, un vero successo librario per quei tempi — esiste una traduzione italiana, fatta nel secolo xvi, nella Biblioteca Guicciardiniana di Firenze.
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rare, il che anche i Romani spirituali non negano, ritrovarsi fra noi cristiani alcun buono e santo cristiano, il quale abbia la vera fede, lo spirito» l’intelletto e la mente di Cristo. Vorremo adunque noi dire che il parlare, la dottrina, i documenti di questo tale siano da esser refutati o sprezzati, e quelli del papa siano da esser seguitati, il quale mancava di fede e di spirito? Questo certamente se si facesse, sarebbe negare la fede di Cristo e la Santa Chiesa cattolica ed universale Congregazione dei fedeli cristiani. Nè può anche nel solo papa consistere ed esser fondata la verità, se è vero, come certamente è verissimo, quell'articolo della fede nostra cristiana, il quale dice: io credo la Santa Chiesa cattolica. Imperocché, se la verità di questa nostra santa fede dipende dalla sola persona del papa, è cosa necessaria orare e dire: io credo al papa di Roma; e così ritirar tutta la universal Chiesa e congregazione dei fedeli cristiani in un sol uomo, il che sarebbe non solo a dire, ma a pensare errore diabolico ».
Il terzo « muro » da demolire era la pretesa dei papi di affermarsi superiori ad ogni potere civile e di avere essi soltanto ¡^diritto di convocare i Concili: « Ma ora non vogliono i nostri satrapi spirituali che alcuno possa convocare ed adunare essa Chiesa e congregazione dei fedeli, eccetto che il papa. Nè però hanno alcun fondamento della Scrittura Santa che appartenga solamente al papa di congregare ed approvare il Concilio ».
Il seguito di questo scritto, che suscitò rumori e dibattiti infiniti, è una carica a fondo contro tutte le pretese politiche, i privilegi accordati e le deviazioni dottrinali e morali del cattolicismo romano. Se Lutero si fosse piegato a ritrattar questo scritto (il di Miltitz, inviato straordinario di Leone X, lavorò a questo scopo inutilmente) la scomunica lanciata contro il monaco ribelle sarebbe stata ritirata. Ma Lutero non si piegò. I « muri » che il Riformatore indicava affinchè fossero abbattuti, furono effettivamente demoliti e lasciarono libero il varco ad un superiore stadio religioso e alle moderne libertà.
La demolizione del sacerdozio casta portò con sè, presso una notevole parte della cristianità, la caduta di quel potere magico attribuito per lo innanzi ai riti compiuti dal clero ed alla sua intercessione. Il che significò un gravissimo colpo inferto alla superstizione che si adagiava e trovava alimento nell’idea del valore dei riti, delle cerimonie, delle formule indipendentemente dal sentimento religioso individuale. Fu, in altri termini, con immenso guadagno della coscienza religiosa, rimessa in luce l’antica, ma sempre fresca verità che « ubbidire vai meglio che sacrificio » (r° Samuele XV, 22) e che « i sacrifici di Dio sono lo spirito rotto » (Salmo 5R *7)Conseguenza intimamente connessa alla precedente fu il raggiungimento automatico del concetto di uguaglianza religiosa di tutti gli uomini indipendentemente dal loro grado o casta. I moderni concetti di democrazia, o uguaglianza politica di tutti gli uomini, sono figli di quelli riguardanti l’uguaglianza religiosa. Tra la Riforma e là Rivoluzione Francese esistono piò legami di quanti comunemente non si indichino. I proclami dei «Contadini», strettamente uniti agli Anabattisti — trattati con severità ingiusta dagli storici, che non hanno sufficientemente sceverato la passione che senza alcun dubbio fuorviò i giudizi dei contemporanei verso di
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essi — fanno pensare alla proclamazione dei diritti degli uomini^avutasi in Francia circa tre secoli dopo. Non importa Che la Riforma sconfessò ufficialmente, diciamo così, i moti allora giudicati eccessivi nel suo seno. Quei moti ebbero il valore di una profezia e legittimamente si appoggiarono ai principi stessi che Lutero aveva invocati nella sua lotta contro Roma (2).
La demolizione del secondo ed il terzo « muro » — che ostacolavano il libero esame e impacciavano la libertà politica degli Stati, per le continue pretese e inframmettenze della Curia romana, — contribuì anch’essa potentemente alla formazione della nuova coscienzaa tendenze ognor più democratiche tanto nel campo religioso, che in quello politico. Si potrebbe dire che la grande maggioranza degli uomini, tenuta fino ad allora sotto tutela, tu finalmente dichiarata maggiorenne, per opera della Riforma.
E non v’è mente serena ed onesta che possa infirmare tali asserzioni. L’aver poi trasportato la religione dall’esterno all’interno dell’individuo, mediante la proclamazione della ne* cssità della tede per essere cristiani è certamente gloria imperitura della Riforma protestante. Martino Lutero trattò ampiamente questo soggetto (del valore, necessità e significato della tede) in un suo scritto che, segnatamente nella seconda parte, raggiunge in alcuni punti il sublime. E il trattato ch’egli mandò al papa Leone X, nel 1520, insieme con una lettera, per l’insistenza del di Miltitz, il quale sperava in un componimento pacifico della vertenza (3). Questo trattato, del tutto alieno da spirito polemico, combatte non le « opere » —- come tendenziosamente han tentato diffondere gli avversari della Riforma — ma la dottrina della giustificazione per le opere: «... perchè non siamo liberi per la fede di Christo da le opere, ma da le opinioni de l’opere, cioè dalla stolta presuntione della giustifi(1) C. A. Ramseyer, Histoire des Baptistes, pagg. 154-173; A. Harnack, Storia del Dogma, tiaduz. italiana, voi. VII, pagg. 279-28«; H. C. Vedder, A Short History of .the Baptists, pag. 92; Albert H. Newman, A Manual of Church History, vol. II, pag. 82. Ivi questo storico, di cui si hanno varie pregevolissime opere intorno alla storia del Cristianesimo e più specialmente infoino ai moti antipedobattisti, asserisce: « Il movimento dei contadini fallì... ma le grandi verità che erano inerenti (embodied) a quel movimento, strettamente alleato al movimento anti-pedobattista, non perirono... Il sentimento pubblico della Cristianità oggi accetterebbe le domande dei contadini come ragionevoli e giuste. (The public sentiment of Christendom today would accept the peasants’ demands as reasonable and just).
(2) Nei dodici articoli formulati dai Contadini anti-pedobattisti, articoli che Tommaso Carlyle giudicò degni di Solone, si hanno affermazioni arditissime, precorritrici della Rivoluzione francese, ma nello stesso tempo logicamente legate ai principi banditi da Lutero nei suoi primi anni di lotta contro Roma. Gli articoli, segnatamente dal 40 al 12°. erano assolutamente rivoluzionari, tuttoché intonati a spirito di pietà, di fronte agli opprimenti diritti feudali. La protesta e il martirio dei Contadini e degli Anabattisti del xvi see. non perì. Fu un grido precorritore al quale il tempo doveva rendere piena giustizia. Cfr. A. H. Newman, A Manual of Church History, vol. II, pagine 78:82. Si veda anche l’ottimo volume dello stesso auto« e: History of Anti-Pedo-baptism, pag; 84.
(3) Di questo trattato esiste, sotto il titolo Della vita Christiana, una traduzione-italiana del xvi see. nella Biblioteca Guicciardiniana di Firenze.
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catione cercata per le opere... ». Tutto lo svolgimento di questo importantissimo scritto del Riformatore si mantiene a grande altezza spirituale e ricorda invincibilmente la predicazione e le lettere dell’Apostolo Paolo.
Addito Harnack stabilisce giustamente un parallelo tra Lutero e Paolo: « Lutero passò attraverso alla stessa esperienza fatta da Paolo, e sebbene in principio questa non fosse così subitanea e tempestosa come per l’Apostolo, pure anch’egli apprese da questa esperienza che chi dà la fede è Dio: quando piacque a Dio rivelarmi il suo Figliuolo » (1).
Quella stessa elevatezza spirituale la troviamo anche nei cristiani riformati degli altri paesi, i cui scritti sono una dimostrazione dell’alto valore religioso del principio rimesso in luce dalla Riforma: il principio della giustificazione per la fede (2).
♦ ♦ *
Aggiungiamo alcune considerazioni di grandi intelletti intorno alla Riforma protestante ed ai suoi effetti. Il noto storico e critico inglese del secolo scorso, ¿grd^^aulay^-venne alla conclusione che lo sviluppo maraviglioso dei popoli protestanti, dopo il sec. xvi, fu dovuto ai valori morali e spirituali suscitati dalla Riforma, come al contrario la stasi o il regresso dei popoli restati cattolici si deve attribuire all’essersi essi sottratti all’azione benefica della Riforma stessa. Tale tesi la troviamo enunciata, con quella chiarezza e sicurezza di giudizio che è una sua peculiarità, anche dal nostro grande Francesco De Sanctis.
Ora che l’Italia, con la sua unità, ha ripreso il suo superbo cammino, possiamo senza umiliazione riconoscere la verità dei seguenti giudizi che si basano sullo studio e l'osservazione spassionata.
Il Macaulay, nel suo saggio Ranke’s History of thè Popes (3) scrisse: « Non può essere posto in dubbio che, dal secolo xvi, le nazioni protestanti hanno raggiunto decisamente un più notevole progresso dei loro vicini. Il progresso raggiunto da quelle nazioni ove il Protestantesimo, pur non ottenendo il pieno successo, riuscì a mantenersi lungamente in lotta, lasciando tracce permanenti, è stato anche generalmente considerevole. Ma quando veniamo ai Paesi cattolici, alle parti di Europa nelle quali la prima scintilla della Riforma fu spenta appena apparve e dalle quali partì l’impulso che rispinse indietro il Protestantesimo, noi troviamo, nel caso migliore, un lentissimo progresso e, nella massa, un regresso, (a very slow progress, and on thè whole a retrogression). Paragonate la Danimarca e il Portogallo. Quando Lutero cominciò a predicare, la superiorità del primo era fuori questione; attualmente la superiorità della seconda è anch’essa indiscutibile. Confrontate Edimburgo e Firenze: Edimburgo rispetto al clima, al suolo ed alle cure dei governanti
(1) A. Harnack, Stòria del Dogma, traduz. italiana, voi. VII, pag. 217.
,(1 2 3) Si leggano,.ad es., gli Opuscoli e Lettere di Riformatori Italiani del Cinquecento editi dal Laterza di Bari, a cura di Giuseppe Paladino.
(3) Macaulay, Criticai and Historical Essays, pag. 559.
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si trovava in istato d'inferiorità in confronto di qualsiasi altra capitale, cattolica o protestante. Sotto tutti gli aspetti Firenze era stata singolarmente dotata. Tuttavia chiunque conosce ciò che erano Firenze ed Edimburgo nella generazione precedente alla Riforma e ciò che sono attualmente (1) si persuaderà che qualche grande causa, durante gli ultimi tre secoli, ha agito per innalzare una parte della famiglia europea e per abbassare l’altra. Paragonate la storia d’Inghilterra e quella dqlla Spagna durante l’ultimo secolo: nelle armi, nelle arti, nelle scienze, nelle let-tCre/nel commercio, nell'agricoltura, il contrasto è il più stridente. E la distinzione non è limitata a questo lato dell’Atlantico. Le colonie fondate dagl’inglesi in America hanno incommensurabilmente superato in potenza quelle fondate dalla Spagna. E noi non abbiamo nessuna ragione per credere che, al principio del secolo xvi, il castigliano fosse sotto alcun rispetto inferiore all’inglese. La nostra forma convinzione è che il Nord deve la sua gran civiltà e prosperità principalmente all’azione morale della Riforma protestante, e che la decadenza delle regioni meridionali di Europa deve attribuirsi specialmente al gran risveglio cattolico » (2).
Tanto più vera apparirà la ragione avanzata dal Macaulay, quando si ripensi al maraviglioso, incomparabile stato di civiltà e prosperità dell’Italia, prima della Riforma ed alla sua decadenza dopo. Élla prima dominava in tutti i campi, i suoi figli continuarono a imporre il genio italiano anche quando, la decadenza sua era visibilmente iniziata.
Caterina de’ Medici, Mazzarino, Eugenio di Savoia, Montecuccoli, Albcroni continuarono a guidare la barca politica e militare di Europa stando alla testa delle varie nazioni ed eserciti. Nel campo della storiografia furono gl’italiani a restituire dignità alla storia: « Questo tipo umanistico dèlia storia, come la nuova erudizione e critica filologica e come tutto il moto del Rinascimento, fu creazione italiana... E dall’Italia si diffuse negli altri paesi; e, come accade sempre che si trasporta un’industria in un paese vergine, che i primi operai o capi tecnici vengono chiamati dal paese d’origine, così i primi storici umanistici delle altre parti di Europa furono italiani; e sono noti il veronese Paolo Emilio che Gallis condidil historias donò ai francesi la storia umanistica di Francia col suo De Rebus geslis francorum, e Polidoro Virgilio, che fece il simile per l’Inghilterra, e Lucio Marineo per la Spagna, e altri e altri ancora in altri paesi, finché non suscitarono cultori indigeni del genere che resero superflui gli operai stranieri » (3).
Era così forte il senso della propria superiorità negli italiani di fronte ai popoli del nord, che un italiano non immaginava neppure che si potesse studiare là
il) L’A. scriveva nel 1840. Non è superfluo ricordare che nei saggi del Macaulay si riscontra la più serena obiettività, per cui si leggono con interesse ed utilità anche oggi, restando essi dei tipi classici di saggi.
(2) «< Our firm belief is. that the North owes its great civilization and prosperity chiefly to the moral effect of the Protestant Reformation, and that the decacy of the southern countries of Europe is to be mainly ascribed to the great Catholic revival».
(3) B. Croce in La Critica del 20, V. 1913, pag. 200.
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lingua tedesca. L’ambasciatore veneto Emilio M. Manolesso, mandando da Ferrara una relazione al suo Governo nel 1575, ad un certo punto esce in questa significativa riflessione: che, essendosi il dùca di Ferrara messo a studiare il tedesco, ciò voleva dire ch’egli aveva qualche scopo politico da raggiungere, perchè non potevano darsi altre ragioni per imparare una lingua « che non s’impara per dilettazione, come quella che è barbarissima » (1).
LO stesso Macaulay, nel suo magnifico saggio Machiavèlli, fa un efficacissimo quadro delle superbe condizioni dell’Italia nella generazione antecedente alla Riforma: gl’istituti bancali italiani compievano grandi operazioni finanziarie, le nostre navi solcavano ogni mare, le nostre scuole erano affollate di scolari (bimbi e giovani), la nostra letteratura, aveva avuto giganti, l’arte, la scienza, l’industria italiana non sopportavano confronti: « Noi dubitiamo — scriveva il Macaulay in questo saggio composto nella prima metà del secolo scorso (2) — che nessun altro paese di Europa, eccettuato il nostro, abbia presentemente raggiunto il punto di ricchezza e civiltà che alcune parti d’Italia raggiunsero quattro secoli fa ». E poco dopo: « Quando noi leggiamo simili esatte e splendide descrizióni — scrive, accennando ad un brano, riferito prima nell'originale italiano, del “ Tucidide toscano „ —difficilmente ci persuadiamo che stiamo leggendo di tempi in cui gli annali d’Inghilterra e di Francia ci presentano soltanto uno spaventevole spettacolo di povertà, barbarie ed ignoranza. Dalle oppressioni di signori illetterati e dalle sofferenze degl’ignoranti contadini (di Francia ed Inghilterra) è delizioso volgere lo sguardo agli opulenti e illuminati Stati d’Italia, alle vaste e magnifiche città, ai porti, agli arsenali, alle ville, ai musei, alle librerie, ai mercati ricchi di ogni articolo di comfort e di lusso, alle fattorie movimentate, agli Appennini coperti di ricca coltivazióne fino sulle loro alte cime, al Po trasportante i raccolti di Lombardia —, ai granai di Venezia e portante indietro la seta di Bengala e le pellicce di Siberia —, nei palazzi di Milano. Conparticolare piacere ogni mente colta deve riposarsi sulla bella, felice, gloriosa Firenze..».
Dopo la Riforma il primato passò ai popoli protestanti. Francesco De Sanctis affermò anch'egli questo. Nella Storia della Letteratura Italiana, o<:cup^àffdosi'del Marino, dice fra l'altro delle condizioni del tempo e dei vani tentativi di riforma cattolica: « La grazia, l'eleganza, la finitezza delle forme la misura e l’armonia nell'insieme e nelle parti, sono l’impronta di quest’aurea età. Ma questa letteratura portava in sè il germe della dissoluzione, ed era la sua tendenza accademica, letteraria e classica, per la poca serietà del suo contenuto e la sua separazione da tutti i grandi interessi morali, politici e sociali che allora commovevano e ringiovanivano molta parte di Europa. Giunta l'arte a quella perfezione, aveva bisogno di un nuovo contenuto per trasformarsi e rinsanguarsi. E se la reazione tridentina ci avesse dato questo nuovo contenuto, sarebbe stata la benvenuta. Avremmo avuto una seria ristaurazione religiosa e letteraria. Ma fu ristaurazione delle forme, non
(1) Relazioni degli A mbasciatori Veneti, a cura di A. Segarizzi, vol. I, pag. 45.
(2) Macaulay, Machiavelli in Critical and Historical Essays, pag. 32.
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della coscienza. Agli stessi riformatori mancava nella loro opera la serietà della coscienza, come vedrà chi studi bene la storia del concilio di Trento, non dico nel Sarpi, ma nello stesso Pallavicino, voce leziosa e affettata di quei padri riformatori. Di che nacque l'ultimo pervertimento del carattere nazionale. L’idea che a salvare l’anima bastasse andare a messa e portare addosso uno scapolare, e che l'assoluzione del confessore tosse sufficiente a lavare tutte le macchie, salvo a tornare da capo, diede alle plebi italiane quell’impronta grottesca di bassezza, immoralità e divozione, che anche oggi in molti luoghi non si è cancellata. Quanto alle classi colte la vita era menzogna, una vita ostentatrice di sentimenti religiosi e morali senza alcuna radice nella coscienza. Tale la vita, tale la letteratura... Tutti si sentivano innanzi a un mondo poetico invecchiato e volevano rinnovarlo, e non vedevano che bisognava innanzi tutto rinnovare la coscienza » (1).
Era precisamente quanto la Riforma protestante aveva fatto: aveva rinnovato la coscienza. Lo stesso De Sanctis, più innanzi, dimostra la verità di tale asserzione mettendo a confronto la bassa attività della reazione cattolica, che ebbe la sua migliore espressione nel gesuitismo, con la nuova vita che, per opera della Riforma, germogliava allora in Europa. Dei gesuiti il De Sanctis scrive: « Il loro successo fu grande perchè, in luogo di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono la scienza agli uomini, lasciando le plebi nell'ignoranza e le altre classi in quella mezza istruzione che è peggiore dell'ignoranza. Parimenti, non potendo alzare gli uomini alla purità del Vangelo, abbassarono il Vangelo alla fiacchezza degli uomini, e costruirono una morale a uso del secolo, piena di scappatoie, di casi, di distinzioni: un compromesso tra la coscienza e il viziò, o, come si disse, una dóppia coscienza. E nacque la dottrina del probabilismo, secondo la quale un « doctor gravis » rende probabile un’opinione, e l’opinione probabile basta alla giustificazione di qualsiasi azione, nè può un confessore ricusarsi di assolvere chi abbia operato secondo un'opinione probabile. Un giudice, dice un dottore, può decidere la causa a favore dell’amico, seguendo un’opinione probabile, ancorché contraria alla sua coscienza. Un medico, dice un altro dottore, può con lo stesso criterio dare una medicina, ancorché egli opini che farà danno. Richiedono sola cautela, che non ci sia scandalo, e non già perchè la cosa sia in sé cattiva, ma per il pregiudizio che ne può venire.
Questa morale rilassata era favorita da un’altra teoria, direclio intentionis formulata a questo modo: che un'azione cattiva sia lecita quando il fine sia lecito. È la massima che il fine giustifica i mezzi, applicata non solo alle azioni politiche, ma alla vita privata. Non è peccato annegare in un fiume un fanciullo eretico per battezzarlo: uccidi il corpo, ma salvi l’anima. Non è peccato uccidere la donna che ti ha venduto l’onore quando puoi temere che, svelando il fatto, noccia alla tua riputazione.
(1) F. De Sanctis, Storia della Letter. Italiana, Ediz. Laterza, vol. II, pagg. 210-211.
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E all'ultimo viene la dottrina: reservatio et restrictio mentalis. Il giuramento non ti lega, se tu usi parole a doppio senso rimanendo a te l’interpretazione, o se aggiungi a bassa voce qualche parola che ne muti il senso. Non è bugia, dice un dottore, usare parole doppie che tu prendi in un senso, ancorché gli altri le prendano in un senso opposto. E non è bugia dire una cosa falsa, quando nel tuo pensiero intendi altro. Hai ammazzato il padre: pure puoi dire francamente: — Non l'ho ammazzato — quando dentro di te pensi a un altro che realmente non hai ammazzato, o ci aggiungi qualche riserva mentale, come: — Prima ch’egli nascesse non l’ammazzai di certo. Questa scaltrezza, aggiunge il dottore, è di grande utilità, porgendoti modo di nascondere senza bugia quello che hai a nascondere.
Vedi quante scappatoie! E ce n'era per tutti i casi!...» (i).
Ripensando a < ödeste micidiali dottrine che imperversarono nel mondo rimasto cattolico risulta ancor più chiaro il giudizio del Macaulay, su riportato, là dove dice che il regresso del mondo cattolico deve attribuirsi principalmente alla reazione cattolica, mentre il progresso del mondo protestante è conseguenza della Riforma.
Poco più innanzi il grande critico napolitano, dopo aver accennato con lucidi tratti di pennello all’immenso ribollimento che stava rinnovando l’Europa nel secolo XVI, aggiunge: « Che faceva l’Italia innanzi a quel colossale movimento di cose e d’idee? L'Italia creava l’Arcadia. Era il vero prodotto della sua esistenza individuale e morale. I suoi poeti rappresentavano l’età dell'oro, e in quella nullità della vita presente fabbricavano temi astratti e insipidi amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati, lasciando correre ih mondo perla sua china, si occupavano del mondo antico e scrutavano in tutti i versi le reliquie di Roma e di Atene; e poiché le idee erano date e non discutibili, si occupavano dei fatti, e, non potendo essere autori, erano interpreti, cementatori ed eruditi. Letteratura e scienza erano Arcadia: centro, Cristina di Svezia, povera donna, che, non comprendendo i grandi avvenimenti dei quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo e Carlo, si era rifuggita a Roma coi suoi tesori, e si sentiva tanto felice tra quegli arcadi, ch’ella proteggeva e che con dolce ricambio chiamavano lei « immortale e divina ». Felice Cristina! e felice Italia!
L’inferiorità intellettuale degl’italiani era già un fatto noto nella dotta Europa, e ne attribuivano la cagione al mal governo papaie-spagnolo...» (2).
Come si vede il De Sanctis arriva alla identica conclusione cui giunse Lord Macaulay: l’essere l'Italia restata, nel suo insieme, fuori del movimento riformatore, fu causa della sua decadenza, da cui si risollevò soltanto tre secoli dopo, quando
F. De Sanctis, Storia della Leiter. Italiana, Ediz. Laterza, voi. II, pagg. 272-273.
Io., Ibidem, pagg. 281-282.
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dal suo seno sorsero uomini che, per altre vie, prepararono e compirono quella rivolta morale e politica, che la Riforma protestante aveva compiuta nel secolo xvi, e che ebbe tra i più alti esponenti l’Alfieri, il Pasini, Mazzini, Garibaldi.
« « «
Anche Enrico Heine — ebreo di origine e non troppo tenero pel proprio paese _ ch’égli giudicò con ironia e severità, per cui si guadagnò l'odio postumo di Guglielmo II, ha pagine entusiastiche intorno alla figura del principale Riformatore del secolo xvi ed alle conseguenze benefiche della Riforma- Nel primo capitolo della sua Germania (1) si legge: «... Gloria a Lutero! Onore eterno a questo uomo illustre, cui noi dobbiamo la salvezza dei nostri beni più cari, e i benefici! del quale ci fanno ancora vivere in quest'ora! Ben poco ci riguarda il lamentare degli stretti limiti delle sue vedute. Il nano die è salito sulle spalle di un gigante può, senza dubbio, vedere più lontano di questi, sopratutto quando si ricorda di prendere gli occhiali; ma gli manca, da quest'alfa posizione, il sentimento elevato il cuore del gigante che non possiamo appropriarci. Ancor meno ci spetta di lasciar cadere una sentenza rigorosa sulle sue mancanze; le sue mancanze ci sono state più utili che le virtù di migliaia di altri. La finezza di Erasmo e la mansuetudine di Melantone non ci avrebbero mai fatto fare tanto progresso quanto la brutalità del fratello Martino. Sì, i suoi stessi errori, che ho segnalati, hanno prodotto dei frutti preziosi, dei frutti che l’umanità intera oggi assapora. Dal giorno della Dieta in cui Lutero negò l’autorità del papa e apertamente dichiarò che bisognava confutare le proprie dottrine con motivi presi dalla ragione o dai passi delle Sante Scritture, da quel giorno in Germania cominciò un’èra novella».
Poco più giù, sempre nello stesso interessantissimo capitolo, così Heine si esprime intorno alle conseguenze benefiche della Riforma:
«Il protestantesimo ebbe la più grande influenza sulla purità dei costumi e sul rigoroso adempimento dei doveri che si chiamano la morale; il Protestantesimo ha preso altresì una direzione che lo identifica perfettamente a questa morale. Vediamo dapertutto un felice cambiamento nella vita degli ecclesiastici. Con il celibato spariscono i vizi e i traviamenti dei monaci che fanno posto a degni ministri, per i quali i vecchi stoici avrebbero provato del rispetto. Bisogna aver percorso a piedi il nord della Germania, da povero studente, per sapere quanta virtù e, per aggiungervi un bell’epiteto, quanta virtù evangelica si trovi' in una modesta abitazione di pastore. Quante volte nelle sere d’inverno ho trovato una accoglienza ospitale, io straniero, senza altre raccomandazioni che la fame e la fatica di cui ero stremato! Quando avevo soddisfatto il mio appetito, quando
(1) Enrico Heine, Che cosa è la Germania, Analisi e Profezie, traduz. italiana di Somaré.
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avevo fatto un buon sonno, vedendomi l’indomani disposto a partire, il vecchio pastore, in veste dà camera, veniva a me e m’impartiva la sua benedizione per il mio cammino, benedizione che non mi ha mai portato sfortuna... » (1).
Più oltre ancora così continua: « Posando come tesi che la sua dottrina doveva essere discussa o confutata per mezzo della Bibbia o con nozioni tolte dalla ragione, Lutero accordò all’intelligenza umana il diritto di spiegare la S. Scritture e la ragione fu chiamata come giudice supremo in tutte le discussioni religiose; Di qui risultò in Germania la libertà _dello_spjntQ_e_del pensiero, come si voglia chiamarlo. Il pensiero divenne un diritto e le decisioni della ragione divennero legittime... Dopo Lutero non si è fatta più distinzione tra verità teologica c verità filosofica e si è discusso sulla pubblica piazza e in lingua tedesca, senza tema di nulla. I principi che hanno accettato la ritorma hanno legittimato questa libertà, e la filosofia tedesca è uno dei suoi più importanti risultati ».
Nell’ultimo capitolo, intitolato « Confessioni dell'autore » egli aggiunge che apprezza il Protestantesimo anche « a causa dei suoi meriti per la scoperta e la propagazione della Sàtìta Scrittura », all’influsso della quale egli' dovette il suo ritorno alla fede: «... a questo libro santo io devo la risurrezione dei miei sentimenti religiosi, è divenne da allóra per me una sorgente di salute ed una maraviglia degna della mia più alta ammirazione. Curioso! dopo aver passato tanti anni della mia vita a correre tutti i chiassi della filosofia, dopo essermi abbandonato a tutte le capriole dello spirito e aver danzato e sfarfallato con tutti i sistemi possibili, senza trovarvi soddisfazione... dopo tutte queste orge della ragione mi trovo d’un tratto, come per incantamento, a fianco dello zio Tom, ih negro devoto, e, animato da un eguale fervore religioso, m’inginocchio con il buon uomo nero innanzi alla Bibbia'» (2).
A fianco degli autori immortali delle principali nazioni europee qui su citati può stare degnamente il loro contemporaneo francese, il pio storico Merle D-AubÌgn<$, il quale, illuminato dalla sua fede, interpretò la Riforma come un movimento sufi) L’alta considerazione in cui Enrico Heine mostrava di tenere i pastori è sempre viva nei paesi protestanti, ove il pastore adempie realmente la funzione di educatore spirituale. In un viaggio, ricco di osservazioni ed ammaestramenti per me, che feci, pochissimo tempo prima che scoppiasse la presente guerra, attraverso la Germania fino alla Svezia e alla Norvegia, ebbi campo di conoscere personalmente l’amore ed il rispetto ond’è circondato il pgfttpre in quelle regioni. Così è pure negli altri paesi protestanti. Per contrasto pensavo alla ostilità sorda, unita a timore su-Eerstizioso, che in Italia il sacerdote cattolico desta nella maggioranza del popolo. Si anno frizzi e proverbi diffusissimi in proposito. Mazzini e Garibaldi non nascosero affatto la loro avversione verso il clero. Garibaldi, com’è risaputo, usò spesso frasi di sprezzo e di sdegno per il clero. Alcune delle ragioni-.della poca simpatia di cui gode il clero in Italia sono state assai efficacemente esposte dà Qui Quondam nel volume La Chìiìsd fi. i Nuovi tempi, edito dalla Direzione della Scuola Teologica Battista» Via Crescenzio 2, Róma.
(2) Enrico Heine, Che cosa è la Germania, pag. 223 e 228.
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scitato e diretto dalla Provvidenza: dopo aver tracciato un ampio quadro delle condizioni dell’Europa nel periodo immediatamente precedente alla Riforma ed aver accennato al grande decadimento religioso-morale da un lato ed al notevole risveglio intellettuale dall'altro., che faceva presagire prossimi fecondi avvenimenti, si domanda: « Mais d’où viendra le coup qui fera crouler l’antique édifice, et sortir de ses ruines un édifice nouveau? Personne ne le savait. Qui eut plus de sagesse que Frédéric? (l’Elettore di Sassonia) qui eut plus de science que Reuchlin? qui eut plus de talent qu’Érasme? qui eut plus d’esprit et de verve que Hütten? qui eut plus de valeur que Sickingen? qui fut plus vertueux que Cronberg? Et pourtant ni Frédéric, ni Reuchlin, ni Érasme, ni Sickingen, ni Hütten, ni Cronberg... Les savants, les princes, les guerriers, l’Eglise elle-même, tous avaient miné quelques fondements; mais on en était resté là: et nuUe part on ne voyait paraître la main puissante qui devait être la main de Dieu.
« Cependant tous avaient le sentiment qu’elle devait bientôt se montrer... Le monde attendait. Luther parut » (1).
Apparve e iniziò il movimento rivoluzionario, da cui nacque l’Europa moderna, con l’affissione delle 95 Tesi, contro la vendita delle indulgenze, di cui il 31 ottobre scorso è ricorso il quarto centenario. Egli riuscì ad accentrare in sè il grandioso movimento iniziale, per la sua fede incrollabile nella Sacre Scritture, le quali, riportando in luce lo spirito di Cristo nel mondo, furono le vere riforma-I trici della fede e dei costumi: La Riforma e la Bibbia non possono essere disgiunte: la prima poggiò saldamente sulla seconda, la quale d'allora in poi andò sempre più diffondendosi con movimento costantemente accelerato fino ad essere, com’è attualmente, tradotta in quasi cinquecento lingue e dialetti.
La ^scoperta della.-Bibhia, d’onde i Riformatori trassero ispirazione e forza per l’opera immensa da compiere, riconduce il pensiero ad un’altra scoperta di essa, avvenuta più di duemila anni prima, secondo la testimonianza di uno dei suoi stessi libri: sotto il regno del buon re Giosia —- in un periodo in cui il popolo ebreo era caduto in condizioni religiose e morali disastrose, in certo modo alla stessa maniera dei popoli della Cristianità prima della Riforma — fu ritrovata nel tempio, entro il quale erano anche stati eretti altari idolatrici, una copia del « Libro della Legge » di cui il popolo non aveva ormai più alcuna cognizione. Il re Giosia, presane conoscenza, rimase atterrito nel constatare quanto il suo pòpolo si era allontanato dalla legge di Dio; radunò il popolo nel tempio e « lesse tutte le parole del libro del Patto, il quale era stato trovato nella casa del Signore ». Le conseguenze furono immediate e benefiche: il popolo fece promessa «di camminare dietro al Signore e di osservare i suoi comandamenti », gli altari e idoli di ogni genere furono abbattuti, gli arredi del Dio Baal lurono bruciati, i cavalli «rizzati al sole » tolti di mezzo insieme con ogni altro segno di adorazione dell’« eser(1) Merle D’Aurigné, Histoire de la information, vol. I, pag. 132.
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cito del cielo », gli « alti luoghi » aboliti, le case dei cinedi chiuse, le statue spezzate, i sacerdoti idolatri banditi, tutta la vita fu rinnovata (1).
La medesima cosa, ma in proporzioni infinitamente maggiori, accadde allorché, nelle angosce della sua crisi spirituale che doveva orientarlo poi in maniera così utile pel cammino dei popoli, Martin Lutero trovò la Bibbia, il «Libro della Legge », nella biblioteca di Erfurt:
« Trentanni addietro, lasciava detto più tardi 'nei Colloquia conservatici ; dai suoi assidui amici — la_Bjhhia era sconoyrpta' i profeti non nominati e tenuti come fossero impossibili ad intendere. All'età di venti anni, non ne avevo ancor visto alcuno. Credevo non vi fossero altri JVangeli od epistole, se non quello che si trova nelle postille. Finalmente trovai nella biblioteca di Erfurt una Bibbia e quella mi misi a leggere di sovente, con sommo stupore del D. Staupitz » (2).
Scoperta e diffusa la Bibbia non tardarono a sentirsene gli effetti morali.e religiosi, come al tempo del re Giosia. Ovunque questo libro è penetrato ha abbat-tuto idoli, ha purificato i costumi, ha risvegliato energie, ha fortificato l’amore e l’apprezzamento della libertà, ha minato i privilegi di casta ed ha agevolato il cammino della democrazia. Il Presidente Wilson — che tanto degnamente dirige i destini degli Stati Uniti di America i quali, per testimonianza dei migliori loro figli, sono, grandemente debitori alla Bibbia sulla quale si è formata la coscienza americana migliore — così scrisse delle S. Scritture in un me^aggio diretto ai soldati americani che si apprestano a combattere per la libertà dei popoli sui campi di battaglia europei: « La Bibbia è il libro della Vita. Vi invito a leggerlo ed a farne l’esperienza da voi stessi. Leggetene non solo dei piccoli brani or qui or là, ma lunghi capitoli e così ne comprenderete l'intimo significato. Esso vi metterà dinanzi l’esempio di veri uomini e di vere donne. Più lo leggerete e sempre meglio vi diverrà chiaro quali siano le cose che importano nella vita. Imparerete a conoscere che le cose che resero felici quegli uomini e quelle donne, sono: la lealtà, la buona condotta, il parlare veracemente, la prontezza a tutto - sacrificare nell’adempimento di ciò che credevano loro dovere, e più ancora l’intenso desiderio
• della piena approvazione del Cristo, che tutto si dette per loro; e, per contrasto, troverete che le cose —, che rendono infelici sono: l'egoismo, la viltà, la cupidigia e tutto ciò che è basso e volgare. Quando avrete così letto la Bibbia, esperimente-rete. che essa è là Parola di Dio: essa diverrà la chiave del vostro cuore, vi mostrerà il vostro dovere e vi condurrà alla felicità ».
Questo è il libro che la Riforma rimise in luce e divulgò in tutto il mondo or sono quattro secoli. Il quarto centenario della Riforma coincide con una nuova e più sanguinosa lotta per la libertà dei popoli. Il nostro voto è, che, come dall’insurrezione di quattro secoli addietro nacque il diritto alla libertà di esame e di cori) 20 Libro dei Re, capp. XXII-XXIII.
(2) Martino Lutero secondo i suoi scrìtti, pag. 235.
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scienza contro la tirannia teocratica, così ora, dalla sacrosanta insurrezione mondiale contro gl’imperi tedeschi venga distrutto ogni anacronismo religioso, politico, sociale e internazionale, col trionfo completo dei diritti dei popoli, difesi dalle nazioni dell’Intesa, nelle quali, e non solo da ora, è trasmigrato lo spirito che animò e spinse il moto riformatore del decimosesto secolo.
Sarà questa la maniera più degna onde il mondo moderno e libero possa commemorare l'avvenimento che segnò in modo decisivo il suo atto di nascita (i).
Aristarco Fasulo.
(i) Traduciamo qui il giudizio di T. Carlyle affermante il valore della Riforma come inizio della storia moderna: « La Dieta di Worms, la comparsa di Lutero colà il 17 aprile 1521 può essere considerata come la più grande scena della Storia moderna europea; il punto dal quale realmente ptese oiigine l'intera susseguente storia della civiltà ». « The Diet of Worms, Luther’s appearance there 17th of A pril 1521, may be considered as the greatest scene in modern European History; the point, indeed from which the whole subsequent history of civilization takes its rise» — (Cfr. T. Carlyle, Heroes and^Hero-wofship, cap. «¿The Hero as Priest »).
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IL FINE DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI
SOMMARIO: x. Omnia ad maìorem Dei gloriam - 2. Solidarietà del papato con i gesuiti - 3. Loro aspirazione al predominio nella Chiesa - 4. I gesuiti e le idee politiche di S. Tommaso - 5. Opinione del Laine» sui rapporti fra il papa ed i concilii - 6. Falsificazione dei testi sacri per sostenere la supremazia del papa su ogni altro potere - 7. Come i gesuiti interpretano le idee di S. Tommaso sui rapporti fra potere spirituale e temporale - 8. Intransigenza dei gesuiti fino ai nostri giorni - 9. Lo spirito informatore della pedagogia dei gesuiti - io. Cause della soppressione dell’Ordinc per opera di Clemente XIV - xx. Nuova missione dell’Ordinc nel secolo xix - 12. Sue benemerenze rispetto al papato - X3. La scuola, principale arma dell’Ordinc nella lotta contro gli eretici - 14. I gesuiti in Italia,- 15. Loro progressi in Austria ed in Germania - 16. Opposizione alla dottrina agostiniana e tomista della Grazia - 17- Metodo tenuto nella lotta contro i protestanti. Mezzi adottati per servire ì papi ed acquistare la preminenza in seno alla Chiesa - 18. La mafiologìa - 19. Opportunismo dei gesuiti, verso i papi e verso i principi temporali - 20. Loro contrasto col potere vescovile - 21. I gesuiti contro l’idea di patria - 22. Loro dottrine sui rapporti fi a Chiesa , e Stato: Il temporalismo - 23. I loro sistemi educativi sono in contrasto con l’istituto della famiglia - 24. La morale dei gesuiti in rapporto alla funzione educativa - 25. Ordinanze dei generali per infrenare il lassismo - 26. I gesuiti e la scienza - 27. L’insegnamento scientifico viene subordinato al loro fine politico-religioso - 28. Tentativi dei gesuiti per adattare la scuola allo spirito dei nuovi tempi -29. Paizialità nella scelta de^li allievi - 30. Arti messe in opera per attirare gli allievi all'ordine - 31. Doti richieste per il governo della scuola - 32. Gratuità dell’insegnamento - 33. Propaganda eccitata dai gesuiti per dimostrare l’eccellenza delle loro scuole.
1. L’Ordine proclama altamente ch’esso tutto intraprende « ad majorem Dei gloriam ».
Questa maggior gioì ia di Dio è, nel pensiero dei gesuiti, il regno dell’onnipotente nel mondo. Ora, poiché Dio riempie la Chiesa del suo spirito, la gloria di’ Dio è il regno della Chiesa nel mondo. « Quando parliamo della Chiesa, dice il Gretser, noi intendiamo parlare del papa ». Per conseguenza conviene dire con l’Huber che là gloria di Dio è, in fin dei conti, la gloria del papato, poiché il papa, nella sua qua-' liti di vicario di Dio, regge la Chiesa, l’intermediaria delle grazie divine. < II fine supremo dell’uomo, e di tutto quello che è umano, continua l’Huber, essendo la salute dell'anima, e questa salute non essendo garantita che dalla Chiesa, tutto quello che è umano deve essere a questa subordinato. Ora, dal momento che la Chiesa è identificata col papa o considerata cerne schiava del papa, le redini del go
verno della tena appai tengono al papa; il rappresentante visibile del Signore invisibile del mondo. L’Ordine, dei gesuiti, ricercando una gloria sempre " più grande ”, si vede facilmente che non doveva riconoscere alcun limite alla glorificazione del papa. Servile senza tregua nè riposo la causa della curia romana: è in questo che si riassume la vita intiera del gesuita » (1). Ma l’affermazione dell’Huber potrebbe sembrare a taluno informata a spirito settario e partigiano.
2. Senonchè lo stesso c< ncetto è espresso dal gesuita Suarez con altiettanta chiarezza, e prima di lui dalle costituzioni. Secondo questo scrittore, il papa ha un potere indiretto sulle cose tempo) ali in ordine alle spirituali, potere che gli conferisce il diritto d’ih gerirsi negli affari dello
(1) I. Huber, v. I, pag. 156.
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Stato e di abrogare tutte quelle leggi civili che possano menomare la sua autorità spirituale; il che é quanto dire di voler accentrare ogni potere nella pei sona del pontefice (1).
Le costituzioni poi accennano chiaramente alle finalità che la Compagnia vuol raggiungere. « II Generale, esse dicono, opererà tanto in riguardo a se stesso, quanto agli altri, in guisa che, secondo il suo giudizio, tutto ridondi a maggior gloria di Dio ed al bene generale deH’Ordine: poiché questo è il nostro unico scopo... » (2). Ma cooperare alla gloria di Dio significava, come abbiamo veduto testé, mettersi al servizio della Chiesa cattolica e del papa che la rappresenta.
Ed è per l’appunto a questo ideale che dovette inspirarsi Ignazio, presentando al papa, per l’approvazione, il primo progetto di una regola per il suo Ordine. « Chiunque, egli dice, nella nostra Compagnia, che si appella dal nome di Gesù, vuol combattere sotto la bandiera della Croce per Dio, e servite Cristo ed il suo Vicario in terra, si propone di esser membro diquesta società: che per questo é piinci-palmente fondata, per l’incremento, cioè, delle anime nella vita e nella dottrina del Cristianesimo, per la diffusione della fede per mezzo di pubbliche prediche, del servizio alla parola di Dio, degli esercizi spirituali, delle opere di carità e, segnata-mente, dell’insegnamento dei fanciulli e dei minorenni nel Ciistianesimo ■ (3).
3. Ma poteva essere disinteressato l’ausilio di una società, organizzata come una milizia in arme da un soldato convertitosi in asceta, la quale si offriva al papato proprio nel momento in cui questa istituzione barcollava sotto i colpi formidabili dei riformatori d’oltr’Alpe? Il riconoscimento della validità legale della dominazione assoluta, esercitata dai papi sulla Chiesa, sulla società laica e le sue autorità, non poteva, è chiaro, essere che il risultato di un tacito accordo in virtù del quale, se l’uno dèi contraenti ammetteva la supremazia del papato sur ogni altro potere sociale, l’altro accettava di creare una posizione di eccezione ai gesuiti nella Chiesa e nello stato.
(x) Saitta, La Scolastica nel secolo XVI c la Politica dei gesuiti, F.Ui Bocca, editori, pag. 190.
(2) Const., 4, C., 17» 8.
(3) Corpus institutorum, voi. I, pag. 4.
Difendere, dunque, le pretese del Papato, dichiarare il Sovrano Pontefice pastore supremo ed infallibile delle anime nella cristianità, era, per i gesuiti lo stesso che difèndere l’esistenza legale della lóro istituzione. Se il papato si appoggiava sui ? esiliti, l’esistenza di questi dipendeva ¿laiassoluto primato temporale e spirituale di quello sul mondo cristiano. In tal guisa gli interessi delle due parti erano intimamente legati (1).
Ecco, pertanto, la chiave di volta di tutta la pedagogia deH’Ordine. Nelle sue scuole non s’insegna che « quello che la Chiesa approva e quello che concorre al rafforzamento della fede cattolica ed all’incremento della pietà » (2). Donde, dice il Saitta, • l’intolleranza ed una grande ostilità verso la scienza, che, cominciata nel secolo xvi e proseguita fino ai nostri giorni, si manifesta nella impossibilità di accordare la rivelazione con le scienze positive « (3).
Quanto allo studio della teologia, l’opportunismo dei gesuiti giunge fino a vietare che di S. Tommaso si insegni quello che non concorda con le vedute della Chiesa e con la tradizione generalmente accettata (4).
4. La Ratio studiorum, che raccomanda lo studio delle opere di S. Tommaso, pex-mette di allontanarsi dalla sua dottrina in più punti, e, fra gli altri, in quello che concerne la concezione della Vergine Maria e la dottrina della grazia.
Tommaso, dice l’Huber, era stato il vero autore della dottrina dell'infallibilità e del potere episcopale universale del papa. Egli era stato ingannato da alcuni testi falsi, attribuiti a padri ed a concilii del quinto secolo, fabbricati da un teologo romano, che probabilmente aveva fatto parte deH’Ordine dei domenicani. Urbano II li aveva comunicati a Tommaso e questi aveva introdotto nel suo insegnamento il dogma della monarchia assetata del papa. Nella sua grande Somma, egli E retende' che sia di pertinenza del papa » stabilire la confessione di fede della
Chiesa, il determinare l’ortodossia, il ri(1) I. Huber, op. cit., pag. 57.
(2) Monumenta Germaniae Paedagogica, voi. V, pag. 12. Seconda circolare del Gcn. Aquaviva sulla Ratio Studiorum del 1586.
(3) Cfr. Saitta, op. cit-, pag. 74.
(4) R. Stud. Reg. dei Prof, di Teologia, 5.
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vendicare la • pienezza del potere » nella Chiesa. Queste vedute sono espresse con ancora maggior chiarezza nello scritto « Centra errores Graecorum ». Il nostro scolastico vi sostiene che in ciò che riguarda la dottrina, il sovrano pontefice decide in luogo di Dio medesimo. L’Ordine dei gesuiti s’impadronì di questa dotti ina e ne tirò le ultime conseguenze (1).
5. Ed al Concilio di Trento il Lainez dichiarò che tutta la giurisdizione della Chiesa era confidata nelle mani del papa, poiché la Chiesa non si è formata di per se stessa, ma, fondata dal Cristo, ha ricevuto da lui le sue leggi. Finché il Cristo è restato su questa terra, egli ha governato la Chiesa secondo il piincipio monarchico assoluto. Allorquando però si decise a lasciare questa terra, collocò Pietro ed i suoi successori in suo luogo e pei suoi vicarii, e loro attribuì il potere che aveva esercitato egli stesso. Ne consegue che l'obbedienza perfetta, che tutti i fedeli hanno dovuto prestare al Cristo, resterà obbligato! ia per tutti i secoli venturi; ed, avendo il Cristo conferito a Pietro il privilegiò supremo dell’infallibilità.nelle questioni di fede e di morale, l’autorità del papa, suo vicario, è superiore a quella stessa di un concilio ecumenico. « È al papa che tocca di pronunciarsi nel concilio in ultimo appello: l’assemblea non ha altro compito che di dire semplicemente sì » (2).
A questa aberrazione logica e teologica doveva necessariamente metter capo il sistema scientemente falso d’interpretare le fonti ecclesiastiche col fine di far trionfare il tacito accordo intervenuto tra gesuitismo e papismo. Quello che il generale era per ¡’Ordine dei gesuiti: cioè la suprema intelligenza, la somma volontà e coscienza, doveva esserlo anche il papa per la Chiesa. A questo proposito l’Huber riferisce l’opinione del Moehler: « I gesuiti, dice questi, considerano la Chiesa come uno Stato in cui essi attribuiscono ogni potere al papa. Il sovrano pontefice mette tutto in movimento: la Chiesa per loro non è più che un meccanismo teologico, privo di ogni vita propria» (3).
6. Nè i gesuiti si tennero paghi di affermarlo in pieno concìlio; chè anzi si stu
diarono di provarlo con documenti tratti dalla storia. La loro fervida fantasia arrivò a tal segno da non indietreggiare neppure dinanzi all’idea di commettere dei falsi. « Essi, dice l’Huber, difesero l’autenticità delle false decretali d’Isidoro, e se ne servirono costantemente come di una prova in favore dell’antica credenza nell’infallibilità e nell’onnipotenza ecclesiastica dei papi. Il gesuita Turrianus fabbricò di sana pianta, in sostegno del sistema papale, alcuni passi ch’egli pretendeva aver tratto dai padri della Chiesa. Il Bellarmino invocò spesso l'autorità del pseudo-Isidoro in favore di questo sistema, e difese ed utilizzò degli altri falsi. D’accordo col Baronie, egli ottenne, sotto Clemente Vili, l’introduzione del nuovo breviario delle lezioni tratte dal pseudo-Isidoro, militante in favore della monarchia papale assoluta » (1).
i Altri gesuiti non furono meno ai diti nel difendei e le prerogative papali, anche a costo di falsate la storia della Chiesa!
Alfonso Pisano redasse tutta una storia apocrifa del concilio di Trento per fortificare l’autorità del papa. Un altro, il Santarelli, commise un falso ancor più volgare per ricercare nella Sacra Scrittura il fondamento del potere temporale dei papi. Ecco quél che dice l’Huber a questo proposito' « Nel passo in cui S. Paolo afferma che il Cristo ha dato il potere spirituale ai suoi apostoli per ^edificazione e non per la distruzione, il Santarelli soppresse il non che precede le parole t» destructioncm, sostituendo: ad aedificatio-nem et destructioncm, appunto per' far credere che Dio avesse dato ai papi il potere di fare e disfare i principi ed i regni della terra » (2).
Ma se volevasi conseguire il fine di fare del papa « l’oracolo vivente della verità », occorreva che la Bibbia e la tradizione ne divenissero gli ausiliaiii più autentici e, quasi, gl’interpreti pili autorevoli. L’ipotesi. pertanto, più verosimile è per i gesuiti quella di ammettere che le'scntture siano state pienamente inspirate dallo Spirito-Santo, quanto alla loro sostanza. Per altro, il fatto stesso ch’essi ammettano che la piena ispirazione è soltanto l’ipotesi più verosimile, basta a provare la possibilità di negarla per ragioni altret(r) I. Huder, op. cit., voi. I, pag. 4.
(2) I. Huber, op cit., voi1 2. II, pag. 5 c 6.
(3) I. Huber, op. cit., voi. Il, pag. 7 e 8.
(1) I. Huber, op. cit. 1. cit., pag. 9.
(2) I. Huber, op. cit'., voi. II, pag. 9 e io.
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tanto verosimili. Lo Spirito Santo non è difatti un elemento indispensabile all’interpretazione della Sacra Scrittura, asseriscono i gesuiti di Lovanio (i).
7. Senonchè, quanto ai rapporti tra potere temporale e potere spirituale, di suprema importanza era l’autorità di S. Tommaso. Egli aveva detto chiaramente che nelle cose concernenti la salute dell’anima occorreva obbedire al potere spirituale più che al temporale; ma che nelle cose rifc-rentisi al benessere materiale e sociale, è al contrario il potere temporale che deve frevalere sullo spirituale; Così il Grande ilosofo del Cristianesimo aveva creduto di poter comporre l’eterno dissidio, indicando la sua vera missione al potere sacerdotale che ha sempre « fatto veri miracoli di accorgimento per ottenere un dominio strapotente in ogni cosa » (2). Ebbene: i gesuiti gli attribuirono anche uno scritto intitolato: De regimine principimi nel quale si pretende di difendere scientificamente il sistema della stipi emazia papale sul potere temporale, e si tenta di metter d’accordo i principii della politica Aristotelica con le pretensioni teocratiche dei papi.
Si trattava, del resto, di suffragare con nuovi argomenti una teoria tutt’altro che nuova. Essa si trova nell’Antico Testa-ment«.. Non avevano forse i Magi, offrendo incenso ed 010, riconosciuto in Cristo le due potestà? E questi non aveva dato a Pietio la facoltà di legare e sciogliere sulla terra? Va bene che col libi dabo claves regni caelorum si alludeva piuttosto alle cose inerenti all’ufficio di ostiario nel regno dei cieli, e non s’apparteneva ad esso il legare e sciogliere l’autorità ed i decreti del potere civile. Ma, sforzando un po’ il senso allegorico delle sacre scritture, potevano i gesuiti giustificare le medesime teorie adottate dai padri e dai grandi teologi anteriori a Tommaso, dalle quali trasse oiigine e fondamento il pensiero teocratico di Gregorio VII e d'Innocenzo HI e la bolla Unam Sanctam di Bonifacio Vili.
Ecco perchè esumarono il trattatello precitato; giacché in esso si sosteneva che per conseguire pienamente il fine soprannaturale dell’uomo, occorre che vi sia un governo superiore ai governi temporali.
(«) I. Huber, op. cit., voi. cit., pag. io.
(2) N. ZiNGARELLi, Dante, Vallarti:, Milano, pagina 422.
ed un tal governo non può risiedere che nelle mani del papa la cui missione consiste nel guidare gli uomini alla virtù soprannaturale e, mediante essa, al loro fine ultraterreno. Ne consegue che il papa è il re supremo dell’universo, esercitante, in virtù d’un diritto divino, il potere spirituale e temporale sull’intero pianeta (1).
8. L'indole particolare del nostro lavoro non ci consente di diffonderci più a lungo sul pensiero politico dei gesuiti, pel quale rinviamo volentieri alle due opere) più volte citate dell’Huber (2) e del Saitta (3). Solo sur un punto capitale insisteremo, ed è il seguente: che i gesuiti siano ancor’oggi i più gelosi difensori del sistema scolastico medievale della Chiesa, ed i più grandi nemici di ogni più libero movimento in essa, si rileva da un decreto della ventitreesi ma Congregazione generale del 1883 (4) col quale si conferma pienamente il principio a cui è informata la Bolla Quanta Cura di Pio IX dell’8 dicembre 1864, c s> riprovano tutti gli errori elencati nel sillabo dallo stesso Papa, e si condanna inoltre .esplicitamente la dottrina del liberalismo cattolico.
9. Gli scolari, pertanto, erano istruiti nella fede cattolica, ed educati per la Chiesa cattolica. Questa finalità è espressa non soltanto nell’ordinamento Generale, che è abbastanza noto sotto la denominazione di < Patio Studiorum », ma, segnatamente, nelle regole scolastiche dei diversi istituti e negli atti di fondazione dei singoli collegi; pei* esempio nelle regole scolastiche del 1560-61, negli statuti di Svol-gianum dell’anno 1578 (5), nelle esercitazioni ginnasiali del 1580 (6), ed in altri.
Ecco perchè, se si vuole, al lume di una sana critica, penetrare lo spirito informatore del sistema di pedagogia dei gesuiti, occorre non dimenticare che i papi videro nei gesuiti stessi i più fidi ed utili alleati contro i protestanti e gli eretici.
(1) I. Huber, op. cit., voi. Il, pag. 12.
(2) I. Huber, op. cit., voi- II, pag. 13-47.
(3) Op. cit., pag. X14 c segg.
(4) « Congregalo, hanc primam opportuni tat cm nacta, declarat Societatem nostram piene adhaerere doctrinae expositae in Encyclica « Quanta Cura » Summi Pontifici Pii IX», Mon. Gertn. Paedagogica, voi. Il, pag. 117.
(5) I-oc. cit., pag. 254.
(6) hoc. cit., pag. 345.
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IL FINE DELL’EDUCAZIÓNE NELLA SCUOLA DEI GESUITI 267
Ne è prova la Bolla di canonizzazione di Ignazio di Loyola, nella quale si mettono in rilievo i maggiori meriti di Ignazio: l’aveie cooperato potentemente « alla conversione dei popoli, al riacquisto degli eretici per la verità della fede, ed alla difesa della potenza del romano pontefice » (1). Nè meno lodevolmente della missione dei gesuiti in rapporto alla Chiesa parla la bolla di Papa Alessandro VII (2); ed è perciò che i papi, dal 1559 in poi, conferirono ai gesuiti per la lotta contro il protestantesimo i più ampi diritti ed i pieni poteri e con predilezione si servirono di essi per la conversione degli eretici.
io. Il breve di Clemente XIV Domi-nus ac Redemptor noster pose fine all’esistenza legale deJl’Ordine prima che dovesse venir meno alla sua storica missione, essendo il papa « convinto che la Compagnia di Gesù non riuscisse ormai più utile allo scopo per cui era stata fondata »(3).
Veramente le cause della caduta dei gesuiti furono molte: essa, tuttavia, « procedette dalla corruzione e dalla sua contrarietà assoluta ed universale col genio dei tempi » (4). « Il gesuitismo morì, dice il Gioberti, e pel morbo interno che lo rodeva e per l’ambiente eterogeneo che lo circondava; come una pianta che perisce e per la morbosa vecchiezza che la travaglia, e perchè le qualità del terreno e del clima in cui è trasposta più non si confanno alla sua natura » (5). E fuor di dubbio, tuttavia, che fra le tante, la causa precipua dovette essere l’opposizione costante ai progressi della cultura, nonché
(1) < Quando Lutero e gli abominevoli spiriti maligni,'con le loro bestemmie, tentarono di annientare l’antica religione e sfigurarne le sembianze e .di sminuire la potenza del Seggio Apostolico, suscitò il Signore Io spirito di Ignazio di Loyola •che, in mezzo ad un’amorevole carriera, dalla milizia mondana fu chiamato a dedicarsi alla missione divina d> fondare la Compagnia di Gesù,, la quale, oltre che alle opere di carità e di pietà, si legava interamente alla conversione dei popoli ed al riacquisto degli eretici per la verità della fede ed alla difesa della potenza del romano pontefice ». Corpus inslitutorum, voi. I, pag. 176.
(2) Op. cit., voi. I, pag. 226.
(3) Ranke, Geschichte der roemischen Paepste, voi. Ili, pag. 204.
(4) V. Gioberti, Il gesuita moderno, Firenze, 1851, voi. Ili, pag. 22.
(5) V. Gioberti, op. cit., voi. Ili, pag. 23.
¡’intolleranza civile e la contrarietà dell’istituto verso il genio essenziale ed i bisogni delle nazioni moderne. Nè con minore severità si esprime il Ranke, per quanto questi fosse ritenuto l’amico ed il protettore della Compagnia. « Invece di resistere, egli dice, ai loro assalitori con le armi dell’ingegno, i gesuiti non seppero adoperare che l’inerzia, un cieco affetto verso le proprie opinioni, la clientela dei grandi ed un singoiar capriccio di condannare senza discernimento tutto ciò che gli altri dicevano...Égli è chiaro che, vinti dal lato della dottrina, del sapere e dell’ingegno, non potevano più conservare a lungo la loro potenza » (1).
11. Ma cinquant’anni più tardi i tempi erano sostanzialmente mutati. Il soffio distruggitore della Rivoluzione Francese aveva bensì destato ne’ popoli una novella coscienza e rovesciate in un baleno tiare e corone, nel generale sfacelo di una società male organata e priva d’ogni direttiva di giustizia e di equità; ma aveva, ad un tempo, resi accorti i re della vecchia. Europa dell’esistenza di nemici ben altrimenti temibili che i protestanti e gli acattolici: il principio di nazionalità ed il libero pensiero. Cosicché l’Ordine di Gesù si chiarì un elemento ed un agente indispensabile per la Restaurazione. « Il nemico che la Società era chiamata d’ora innanzi a combattere, era non più il protestantesimo, ma le idee di libertà e di cultura superiore che la Rivoluzione Francese aveva sparse per il mondo » (2).
Ecco perchè il 7 agosto 1814 apparve la bolla « Sollicitudo omnium Ecclesiarum » che restaurava solennemente la Società di Gesù nel mondo intiero. « Dopo aver ricordato le numerose petizioni indirizzate alla Santa Sede dai vescovi e da altre persone influenti, la bolla diceva: « Noi ci renderemmo colpevoli davanti a Dio, trascurando, fra i pericoli che corre la cristianità, il soccorso salutare che ci accorda un decreto speciale della Provvidenza divina, e respingendo lungi dàlia barca di S. Pietro, incessantemente travagliata dalla tempesta, dei rematori vigorosi e provati,, pronti ad infrangere i flutti di questo’mare che ad ogni istante minaccia di inghiottirci » (3).
(1) Ranke, op. cit., pag. 487-488.
(2) I. Huber, op. cit., vol. II, pag. 384.
(3) I. Huber, op. cit., vol. cit., pag. 3S3.
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BILYCHNIS
Ed i gesuiti egregiamente servirono alla bisogna, e pronubi si prestarono al connubio fra tiara e principato nella prima metà del xix secolo (i). Dalla loro tutela parve emanciparsi Pio IX nel 1847, ma poi, sopraffatto dagli eventi e circuito dalle arti occulte della Compagnia, tornò a conceder loro tutto il suo appoggio: e Leone XIII, malgrado i suoi atteggia* menti democratici e cristiano-sociali (2), non potè fare a meno della loro opera. Suest’ultimo difatti nel 1886 riconfermava la Compagnia i suoi privilegi, dichiarando ch’essa poteva « continuare a prestare il suo servizio e con la santa persuasione 1 ¡condurre e richiamare gli infedeli e gli eretici alla luce » (3).
12. L’Ordine dei gesuiti merita, sotto questo riguardo, la speciale benevolenza della Santa Sede, poiché mai venne meno alle speranze dai papi in esso riposte. Ecco come, in un eloquente passo, il Paulsen riassume l’opera dei gesuiti contro il protestantesimo dal trattato di Passai» alla pace di Westfalia. a La grande agitazione offensiva del cattolicesimo, nel secolo che corre dal tiattato di Passai» alla pace di Westfalia, fu in gran parte preparata ed in parte incoraggiata dalla scuola idei gesuiti. Da questa usciranno, infatti, i principi ecclesiastici e temporali che nelle provincie austriache e bavaresi e negli episcopati franchi e renani sradicarono il protestantesimo. La riconquista, cominciata in gran parte con la violenza, con esecuzioni ed espulsioni, fu allora voluta ed inspirata con la silenziosa e costante azione dei gesuiti nelle chiese e nelle scuole > (4).
13. La scuola, dunque, fu l'arma principale dell’Ordine. Disamina dei libri, indagine e Conseguente sviluppo della scienza sono i caratteri fondamentali dell’eresia: sicché l’Ordine, se vuol tener lontano il popolo dal protestantesimo e rafforzarlo nell’antica fede, deve prepararsi ad impugnare le medesime armi per poter con felice esito sostenere la lotta. Or l’arma principale contro gli eretici era la cono(x) Gioberti, op. cit.» voi. Ili, pag. 2x2-213.
(?) Cfr. R. Murri, Della Religione, della Chiesa e dello Stato, Milano, Treves, 19x0, pag. 182 e segg.
(3) Mon. Germ. Paedagogica, voi. XVI, pag. 204.
(4) Paulssn, Geschichle des gelehrten Unterrichts, vói. I, pag. 389.
scenza della teologia (1). In ¡scuole speciali si educano dei giovani di spiccata intelligenza con lo scopo unico di presentarsi quali lottatori contro gli eretici (2).
Cosi sorse per opera di Ignazio nel 1550 il Collegium Romanum. e col medesime intento fu fondato in Roma il Collegi um germanico-hungaricum.
Nell’atto di fondazione del primo (1552) è detto espressamente che possono esservi ammessi soltanto allievi della Germania settentrionale, affinchè nelle loro patrie eretiche « con l’esempio, le prediche, l’insegnamento è la cura delle anime, promuovano l’onore di Dio, distruggano il veleno dell’eresia, difendano la fede e la trapiantino altrove » (3). Sotto la direzione di tali maestri, le scuole erano nelle terre protestanti come le avanguardie di un esercito che si proponga di conquistare sempre nuovo terreno. Tosto che essi vi prendevano piede, questi posti avanzati si trasformavano in un campo agguerrito dal quale bisognava muovere verso sempre nuove conquiste. Il gesuita Canisio. in una sua lettera del 1550, descrive i progressi fatti dai suoi correligionari nella Prussia Renana, sino da quel tempo, esprimendo la speranza che si potesse conquistare alla fede cattolica anche tutta la Baviera e le tèrre adiacenti (4). Infatti in taluni casi, quando si poteva temere che un’azione troppo manifesta avrebbe creato difficoltà sulla via da percorrere, si tenevano presso i collegi gesuiti religiosi di altri ordini che durante alcuni anni vi dimoravano esternamente coinè unici maestri.
I gesuiti, dunque, non lasciavano intentato alcun mezzo per fondare collegi nei paesi piotestanti, quand’anche dovessero incontrare grandi sacrifici. Malgrado che fosse vietato dalle costituzioni di fondare alcun collegio, qualora mancassero i mézzi f»er mantenervi il seminai io per gli sco-astici della compagnia (5), si faceva una eccezione solo per la Germania, dove era per l’Ordine una necessità che sorgessero collegi nel maggior numero possibile. Ivi
(x) Instr. XII pro renovatione spiriltis, 6, 16; Corp. instit., voi. II, pag. 2x9; decr. 15 della VII Congregazione Gei».
(2) Mon. Germ. Paed., voi. IX, p. 51.
(3) Mon. Germ. Paed., voi. Il, .pag. 375.
(4) Mon. Germ. Paed., voi. II, pag. 138.
(5) Disposizione del Generale Aquaviva del 155S, Mon. Germ. Paed., voi. II, pag. 338.
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IL FINE DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI ±69
i gesuiti accettavano nei loro istituti anche dei convittori. Se poi vi fosse difficoltà a riunire un numero sufficiente di collegiali ricchi e distinti, ammettcvansi in Germania anche gli scolari poveri (1).
Ora, quest’insistenza nel fondare collegi nelle provincie protestanti è un argomento per dimostrare che l’Ordine vuole ad ogni costo educare degli avversarsi contro la Chiesa protestante.
L’Ordine difatti riportò in breve spazio di tempo vantaggi sorprendenti sul protestantesimo; anzi il movimentò riformatore fu spento in Italia, e ridotto in Germania soltanto ai paesi del Nord.
Con analisi profonda il Macaulay mette in rilievo l’opera gigantesca compiuta dai gesuiti nei paesi protestanti. '« Allorquando, egli dice, i gesuiti arrivarono in soccorso del Papato, essi lo trovarono compromesso sino all’estremo, ma a partire da questo momento la sorte della lotta cangiò. Il protestantesimo, che aveva tutto trascinato nell’età precedente, fu arrestato nella sua marcia vittoi iosa e respinto con una rapidità vertiginosa dai piedi delle Alpi fin sulle rive del Baltico. L’Ordine non contava ancora un secolo di esistenza che già aveva riempito il mondo intiero dei •monumenti del suo martirio e delle sue grandi lotte pei la fede ».
14. In Italia, i gesuiti, sparsisi nelle città e nelle campagne, secondarono il potere secolare e l’inquisizione nei loro sforzi per dominare l’eresia. Ebbero, anzi, una parte preponderante nella sanguinosa persecuzione dei Valdesi nel nord e nel sud d’Italia.
Inviato dal Lainez, il gesuita Possevin indusse il duca Emanuele Filiberto di Savoia ad adottare la forza e la violenza come mezzo migliore per convertire gli infedeli. Nell’anno 1561, infatti, un forte nerbo di truppe, guidato dal gesuita fanatico, percorse le contrade abitate da eretici e parecchie centinaia di questi infelici caddero sotto il ferro dell’implacabile giustiziere (2). Non meno crudeli furono le persecuzioni contro i Valdesi di Casal San Sisto e di Guardia Fiscalda in Calabria. Parecchie centinaia di persone furono sgozzate ed impiccate, senza riguardo nè ad età, nè a sesso (3). Di questi
(x) Op. cit., voi. cit., pag. 436.
(2) I. Huber, op. cit., vol. I, pag; 162 e segg.
(3) I. Huber, op. cit., voi. I, pag. 164massacri furono testimoni, e forse promotori, i gesuiti. Essi si adoperavano a convertire le vittime, ed è al loro intervento che si deve la rassegnazione con la quale alcuni di quegli infelici andavano alla morte (1).
Più tardi in Venezia, colpiti da un decreto di espulsione per aver preso partito per Paolo V nel conflitto sorto tia il papa e la Repubblica, non lasciarono intentato alcun mezzo per suscitare nemici contro di essa e per dividere gli animi nel suo seno. Essi cercarono perfino di gettare la discordia in seno alle più illustri famiglie veneziane, guadagnando alla lor causa le donne con lo esortarle a cessare da ogni rapporto maritale, e persuadendo le figliuole a rifiutare ogni obbedienza ai padr i. Si vuole, inoltre, che abbiano intrigato anche a Costantinopoli per spingere i Turchi alla guerra contro la Repubblica (2).
Dovunque, poi, in Italia, acquistarono credito e ricchezze nelle corti principesche, ove divennero onnipotenti in qualità di confidenti e confessori dei principi (3).
15. Ma fu in Baviera, e nei paesi ereditari* dell’impero, che posero radici salde e profonde. Nel 1549 s’impadronirono dell’università di Ingolstadt; e fondarono qualche anno più tardi un collegio a Monaco- Nel 1558 introdussero in Baviera l’inquisizione, col fine di estirpare il protestantesimo. I protestanti che rifiutavano di convertirsi vi furono tutti espulsi (4).
L’imperatore Ferdinando I fece loro accoglienze ancor più calorose. Aveva il Srotestantesimo fatto nell’Austria dei gran-i progressi, cosicché al sopraggiungere dei gesuiti, nel 1558, appena un ventesimo o un trentesimo della popolazione eia ancora in grembo al cattolicesimo. In meno ili mezzo secolo, essi s’installarono a Praga, nel Titolo ed in Ungheria; fondarono una univa sità a Dilungai, un ginnasio-liceo ad Augsbouig, a Colonia, a Coblenza, a Spira, a Regensbourg, a Munster, a Pa-derbona, a Costanza, a Bamberga, a Passali, ecc. Dovunque essi si mostravano, spariva ogni tolleranza religiosa (5). « Nel 1586, dice l’Huber, il vescovo Giulio di Wurzbourg ricondusse, con l’aiuto dei
(x) I. Huber, op. cit., vol. I, pag. X65.
(2) I. Huber, op. cit., vol. I, pag. 166 c nota.
(3) I. Huber, op. cit., vol. I, pag. 167.
(4) I. Huber, op. cit., vol. I, pag. 169.
(5) I. Huber, op. cit., vol. II, pag- 171.
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27O
BILYCHNIS
gesuiti, 60.000 eretici in seno alla Chiesa. La forza ha contribuito molto a queste conversioni. Bisogna tuttavia riconoscerlo: una gran parte del successo dipese dalla suggestione morale esercitata dalla Società di Gesù. Polemica teologica, eloquenza penetrante, insigni esempi di pietà, devozione simpatica, pompe religiose: tutti quésti mezzi essa impiegava con uno zelo infaticabile ■ (1).
E la potenza dell’Ordì ne andò crescendo sempre più sotto Ferdinando II, la cui prodigalità meravigliò gli stessi gesuiti. «’Prendete sempre, prendete, soleva spesso ripetere l’imperatore, poiché voi non avrete sempre dei protettori come me > (2).
Così si accinsero a scuotere dalle basi il protestantesimo e propalarono quella guerra dei trent’anni, dalla quale i paesi ereditari dell’impero, e specialmente la Boemia, doveano uscire completamente saccheggiati e rovinati. Alla fine della guerra la ruina materiale della regione era consumata: migliaia di villaggi ridotti in cenere, città intere non più altro che cumuli di macerie, la popolazione decimata. Quello che la spada del nemico aveva risparmiato, aveva portato via la fame e la peste. Di tre milioni di abitanti, ricchi od agiati, non restavano che 800.000 mendicanti. La fiorente cultura, diffusa nelle classi nobili e borghesi defila Boemia, una letteratura nazionale ricchissima, e pei fino la stessa nazionalità, tutto era stato violentemente soppresso. Devesi, in una parola, alla nefasta influenza dell’Ordine gesuitico se questo infelice paese ha subito un ritardo più che secolare nello svegliarsi a novella vita, e se ancor’oggi vi scarseggia una coscienza nazionale. Non meno crudelmente fu estirpato, per istigazione dei gesuiti. il protestantesimo dalla Bassa Austria: quivi essi invasero, alla testa delle truppe imperiali, i paesi protestanti e spinsero la soldatesca brutale alle esecu(x) I. Huber, op. cit., voi. II, pag. X?2.
(2) I. Huber» op. cit., vol. II. pag. 175zioni più crudeli. « Estote ferventes », scriveva il gesuita Fener di Dillingen alle truppe incaricate dell’esecuzione dell’editto di Restituzione. « Se voi incontrate resistenza, accendete un fuoco tale, che gli angeli sentano i loro piedi bruciare c vedano fondersi le stelle» (1).
Le conseguenze, pertanto, delle guerre di religione che travagliarono la Germania e l’Austria, nella prima metà del secolo x vii, furono una profonda miseria, l’impotenza politica, la decadenza intellettuale, la corruzione morale, una diminuzione spaventevole di popolazione: in una parola l’impoverimento dei due- paesi: e ciò fu in gran parte opera dell'ordine dei gesuiti.
Intorno alla lotta sostenuta dai gesuiti negli altri paesi protestanti ed acattolici d’Europa, rimandiamo volentieri alle due importanti opere dell’ Huber (2) c del Boehmer (3). Giova, soltanto, concludere col primo che « la buona novella d’un regno di libertà e d’amore, come Cristo aveva annunciato, si cangiò per bocca dei missionari della Società di Gesù nella predicazione del dominio temporale dei papi, d’un regno cioè fondato sulla schiavitù spirituale e l’odio intollerante e sanguinario». Un tal regno non si fonda e non sussiste jin certo tempo che per la forza materiale ed il deperimento intellettuale e moiale dei popoli. Ma se lo spirito può essere arrestato nel suo sviluppo, non è tuttavia possibile estinguerlo interamente. Così i successi brillanti dei gesuiti non furono di lunga durata. Il piano gesuitico papale non poteva realizzarsi che se la vita fisica e morale delle nazioni si fosse man mano estinta. La Società di Gesù non poteva trionfare che sul cadavere dei popoli.
(Continua) Dott. Livio Tanfanj.
(x) I. Huber, op. rit., vol. II, pag. 182.
(2) Op. cit., vol. 1, pag. 158-240.
(3) Boehmer, tes Jésuites, Armand Colin, Paris» 19x0, pag. 83-144.
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MORALE E RELIGIONE
NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
(Continuazione. Vedi Bilychnit, fase. di agosto 19x7 pag. 83 e ss.)
he Shakespeare non si arrogò mai il «rôle » di maestro di religione, benché egli abbia riconosciuto nell'individuo umano in tutti i tempi e luoghi resistenza del fattore religioso, è generalmente ammesso: « Virgilio, Dante e Milton » — scrive il dott. Augusto Strong — hanno ognuno il suo Cielo e il suo Inferno: ma Shakespeare si occupa sopratutto della vita presente, e solo incidentalmente allude nei suoi scritti a quaiche cosa al di là « di questo cattivo mondo ».
Ma poiché egli non ha potuto descrivere personaggi del Medio-evo cristiano senza riporli nel loro ambiente concreto, non ha potuto sfuggire al supplizio di Mézio inflittogli da Cattolici e da Protestanti, che han torturato e spremuto ogni allusione ed ogni citazione delia Bibbia, ogni parola ed ogni atto religioso dei suoi personaggi, hanno prestato una parola ad ogni tinta, ad ogni incidente, ad ogni figura, per formarsene dei testimoni a favore della propria tesi. « Dai suoi scritti » — scrive il dott. G. Whittinghill — « sì i Protestanti che i Cattolici han preteso di dimostrare che egli appartiene a loro: ma le loro pretese non hanno l’appoggio dei fatti. Ciò che solo sappiamo, si è che egli non fu un Puritano, .poiché parecchie volte, sembra, gettò su di essi i suoi sarcasmi... » (i).
(1) 11 dott. Virici, avendo trovato negli archivi di Strattford che il tesoriere del Comune pagò in uno degli ultimi anni della vita del poeta la somma di venti « pence » per una misura di grano e un litro di vino di Bordeaux ad un predicatore nella « Newe Place » (la casa di Shakespeare) volle dedurne rapporti di simpatia fra il poeta e i dissenzienti « Puritani » del suo tempo: dimenticando che la responsabilità dell'invito va con tutta verosimiglianza data piuttosto alla devota figlia di lui Giuditta, e che contro le simpatie accennate sta la presunzione di tutta la sua opera letteraria.
Altri hanno additato quale indizio esplicito del favore di Shakespeare per il Cristianesimo riformato la predizione che pone in bocca a Cranmer nel suo « Enrico VII » (A. V § 4.) che sotto il regno di Elisabetta « Dio sarà veramente conosciuto ». Ma oltreché nel contesto queste parole perdono il loio valore specifico, non mancano critici che le hanno attribuite a interpolazione del Fletchei che collaborò con lui in questo dramma.
. ?n. °Sni Punt°. Shakespeare elude la questione di chi vuole costringere entro tipi definiti la sua religiosità.
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BILYCHNIS
Solo per titolo di esemplificazione citeremo i metodi dimostrativi del gesuita. Stanislas Boswin (« Thè Religion of Shakespeare ») il quale con un altrettanto facile quanto vano dispiegamento di testi, si argomenta di strappare a Shakespeare, per la bocca dell’uno 0 dell’altro dei suoi mille personaggi, testimonianze in favore della: « Insufficienza della Bibbia come guida per la nostra salvezza; Preghiere a Dio e ai Santi; Fede nel Purgatorio; Supremazia spirituale del Papa, ecc. »; e vuol vedere nella giustizia che egli rende al card. Wolsey, il ministro di Enrico Vili, e nella figura dignitosa e anche simpatica in cui ci presenta Fra Lorenzo e Isabella, ed altri frati, preti e monache — nonostante il rincrudimento delle leggi contro di essi nell’anno 1604, per opera di Giacomo I — nulla meno che una prova del penchant di Shakespeare per il clero cattolico: come al contrario ci addita nelle figure di sir Nathaniel, di sir Oliver Martext, e di sir Hugh Evans, pastori evangelici di diversi suoi drammi, l’incarnazione della disistima di lui per il clero elisabettiano, quasi in anticipo del ritratto storico fattone da Lord Macaulay.
E così nella sua fervida immaginazione gesuitica, Porzia che (nel Mercante di Venezia) si ritira « in un monastero due miglia distante dalla città per attendere nella preghiera e nella contemplazione il ritorno dello sposo e signore » diviene non solo una praticante degli « esercizi spirituali » (di Sant’Ignazio), ma un indice dello « spirito di preghiera » con cui Shakespeare « ha voluto contrassegnare i più incantevoli eroi ed eroine » dei suoi drammi;]'e similmente, della « insufficienza delle Scritture per guidarci nella via della salvezza » — cioè dell’adesione di Shakespeare a tale principio fondamentale del Cattolicismo — ci fa garante il motto umori-ristico di Antonio (pure nel Mercante di Venezia), che « anche il Diavolo può citare la scrittura quando gli fa comodo »; e la riflessione di Bassanio che: «In religione, qual’è l’errore per quanto dannato, che non vi sia un austero volto per benedirlo e comprovarlo con un testo, occultandone la grossolanità con un leggiadro ornamento? » — riflessione la cui portata, se presa sul serio, andrebbe assai più in là, forse, di quello che il rev. Boswin sarebbe disposto ad ammettere sull’autorità di Shakespeare.
Basta poi una lettura spassionata del dramma II Re Giovanni (Senza Terra), specie dell’atto III, per giudicare se la figura del re ribelle all’autorità pontificia rappresentata già da altri drammi elisabettiani ornata dall'aureola di colui Che secoli prima di Lutero e di Enrico Vili aveva «sfidato l’uomo di Roma», possa in Shakespeare essere riconosciuta come un contributo di omaggio alla «supremazia spirituale del Pontefice su tutta la Chiesa cristiana: e se i caratteri del cardinale Pandulfo e del « furfante monaco avvelenatore » non siano stati introdotti che in omaggio alla grandezza e santità del clero cattolico.
La difficoltà che il Boswin stesso si oppone, cioè che « Shakespeare non fece che prendere dal Medio évo i suoi caratteri e i suoi soggetti, sqpza punto fare di essi la personificazione delle sue vedute religiose; o, in altre parole, quel periodo storico fece appello soltanto alla sua fantasia, e non già alla sua mente e al suo cuore », se è fatale alla sua tesi non lo è meno all’altra più comune, che il Cristianesimo professato dai suoi personaggi deponga a favore dei suoi propri sentimenti cristiani. (Alla risposta data dal Boswin, che Shakespeare non avrebbe scelte il
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MORALE E RELIGIONE NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
Medio evo distiano nè trattatolo da un punto di vista favorevole se non avesse per esso provato simpatia, si può contrapporre, oltre a tutto il resto, che di fatto Shakespeare ha trattato altri periodi oltre il Medio evo, e con non minore simpatia, e ritraendone come vedremo figure non meno nobili e belle di quelle del periodo « cristiano »). Volumi sono stati scritti e « concordanze « sono state estese, per dimostrare che nelle opere di Shakespeare, cioè in bocca' ai suoi personaggi, è facile rinvenire i principii tutti della dottrina e della morale cristiana.
Che Dio sia « onniveggente » lo proclama il Duca di Buckingham in Rie-cardo HI (V, i); che egli sieda giudice imparziale, e legga nel fóndo dei cuori; èil grido di Caterina in Enrico Vili (II, i); che « vi è una divinità che foggia i nostri destini », e che « una provvidenza speciale si rivela nella caduta di un passero » lo afferma Amleto stesso (Hamlet V, 2); mentre Giovanni di Gaunt vede in lui « il campione e il difensore delle vedove, il protettore dei vecchi » (Riccardo li. I, 2), ed. Enrico VI (P. Il, 1) loda Dio «che alle anime dei credenti dà luce nelle tenebre e conforto nella disperazione ». Che la misericordia sia il suo attributo, ed essa ci obblighi ad essere ancor noi misericordiosi coi nostri fratelli, lo proclama Porzia nel suo famoso elogio della misericordia (Mercante di Venezia, IV, 1. Parecchi dei suoi personaggi, in Riccardo IH, in Amleto, in Enrico Vili, e in molti altri drammi, pregano c conoscono le condizioni e l’efficacia della preghiera «cristiana »; e il dramma specifico del Cristianesimo storico, quello della « redenzione » è espresso in Riccardo 111, Riccardo li ed Enrico IV, in bocca al quale ultimo pone.(Atto I, Se. ia) parole relative a «quei prati santi... su cui camminarono quei piedi benedetti che quattordici secoli fa furono inchiodati per nostro vantaggio sull’amaro legno della croce... ».
Dei precetti della morale « cristiana » e tradizionale, poi. egli infiora i discorsi, e ci presenta anche l’incarnazione delle azioni di molti suoi personaggi. Aforismi come quello: « La compassione è migliore dèlia vendetta »; « La violazione delle norme (di condotta) è violazione di ogni cosa »; — o che «l’impurità è alleata all’assassinio » — e simili, sono profusi con un'abbondanza eguagliata solo dalla loro inefficacia, nel più dei casi. È poi superfluo osservare che, satura come era la fraseologia del suo tempo di reminiscenze bibliche, le allusioni a personaggi, episodi, idee della Bibbia tornano spesso nei suoi drammi senza che sia punto necessario dedurne che egli fosse un profondo lettore e conoscitore di essa come con manifesta esagerazione è stato .detto.
Ma certamente, se la questione del « Cristianesimo » e del moralismo, o meno, di Shakespeare, cioè dei suoi drammi, potesse venir decisa a colpi di citazioni, non sarebbe difficile contrapporre a tutti i passi che danno testimonianza di religione, di cristianesimo dottrinale e morale, altri passi che gettano su di essi la negazione, l’incredulità, lo scetticismo, l’amoralità e l’immoralità: e potremmo rievocare il grido di Gloster in Re Lear, che gli Dèi uccidono per sollazzo, come un fanciullo sfrenato farebbe delle mosche; e la concezione che esprime Hamlet del-l’Universo (Atto II, Se. 2») : « Una sordida e pestilenziale raccolta di vapori » e l’uomo « una quintessenza di polvere »), e della donna (Atto III, Se. 2»: « le donne rendono gli uomini sciocchi e mostri »); o quello di Jago in Otello (Atto I, Se. 3®): « La virtù!
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un fico! è per natura che noi siamo in un modo 0 in un altro »: e si potrebbe ricordare che è solo uno sciocco — Slender, nelle Allegre comari di Windsor — ed imo spirito satirico, Benedick nel Mollo chiasso per un nonnulla che professano che il loro amore è governato dalla ragione; superati da Lisandro, Che crede alla supremazia della ragione sulla volontà dell’uomo proprio nell’atto in cui egli è un balocco in mano alle fate nel Sogno di una notte di estate.
Ma in realtà se vogliamo sfuggire ad una vana schermaglia di testi e di citazioni, e liberarci dall’equivoco fondamentale di assumere come idee e sentimenti dei drammi di Shakespeare quelli che sono da lui attribuiti storicamente a' suoi personaggi, dobbiamo ormai applicare il principio già sopra enunziato, che ci guiderà nel seguito della nostra analisi, che cioè non la religione e morale professato dai suoi personaggi, ma {‘influenza o meno di essa sulla condotta loro, e più sulla condotta e la soluzione del dramma, è l’unico criterio plausibile delle preferenze di Shakespeare. Sarà un criterio prammatistico e sintetico in cui larga parte sarà affidata al senso religioso e intuizione morale.
Se « le parole senza le idee non salgono al Cielo », le idee che non si traducono in condotta non sono che « parole e parole ».
* « *
Un lettore spassionato di Shakespeare, che sappia interrogare non il suono delle parole, ma l’impressione die i personaggi e i drammi di sua creazione lasciano nel suo spirito, non ha bisogno di analizzare l’influenza da essi esercitata per sentire che 1 rapporto del poeta con l'umanità che lo circonda e della quale popola le sue scene, durante il periodo suo più creativo, è assolutamente e puramente umano. Può bene l’uno o l’altro carattere parlare il linguaggio teologico e tradizionale: i canoni morali che sono costantemente implicati nell'azione totale sono assoluta-mente scevri di qualunque influenza che non sia l’interna tirannia del loro carattere.
Egli nulla sa di un peccato « offesa di Dio », benché a Dio più di un peccatore chieda il perdono: in realtà, il bene e il male sonojper lui materia di rapporti fra gli uomini, e il tribunale che egli sempre tacitamente riconosce è quello della coscienza la cui fallibilità può essere, si, corretta, ma solo dalla luce di una visione più vasta; mai dall’appello ad una voce sovrumana. La sua è una morale «autonoma». Religione e morale non sono negate; bensì sopraffatte e gettate da parte: se lezione alcuna su esse è insegnata, lo è solo in modo accidentale: chè le tragedie «si occupano di forze più potenti dell’uomo; di potenze, passioni, forze elementari, abissi tenebrosi di sofferenze; di quel fuoco centrale che irrompe attraverso la sottile crosta della civiltà... « Shakespeare sa bene quanto è precario il dominio dell’uomo su questa terra, e quanto ingannevoli sono le sue pacifiche ordinate abitudini e i suoi prosaici discorsi. In qualunque istante, per opera del fato o del caso, queste cose possono essere spezzate, ed il mondo può di nuovo essere restituito in balia delle forze che già cozzarono nel caos ». (W. Raleigh).
Ed egli infatti, osa, di quando in quando, di rovesciare le fondamenta stesse di ogni ordine, di proclamare con una terribile impassibilità, che il male può
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trionfare su! bene, e il bene soccombere senza nè Dio nè legge per salvarlo: di pronunziare, con Timone, la maledizione: « Pietà e timore, religione degli dei, pace, giustizia, verità, timore reverenziale, notturno riposo... costumi, industrie, leggi,... declinate verso i vostri sovvertitori contrari, e lasciate che il disordine regni ». Amleto può ben/citare dal Vangelo la « speciale Provvidenza nella caduta di un passero »: non è una « Provvidenza » quella che si manifesta nell'ultimo atto delia sua tragedia.
Vi sono tre vie, dice M. Robertson, per le quali ci è possibile sperare di ricavare dall’opera di un autore drammatico un’idea del carattere delle sue principali opinioni religiose: tre maniere per le quali uno scrittore di drammi può metterci a parte delle sue confidenze. Anzitutto egli può contrapporre due serie di caratteri, rappresentativi di due differenti tipi di religiosità, e conquistare la nostra simpatia a vantaggio dell’uno o dell’altro. (Ma di questo criterio non è il caso di avvalerci, poiché già abbiamo visto come Shakespeare eluda la questione sulle sue preferenze confessionali).
Oppure, egli può semplicemente associare una certa mentalità religiosa con i migliori caratteri dei suoi drammi, e così contradistinguerli dai meno buoni.
0 finalmente, può introdurre alcuni personaggi che discutano la religiosità o irreligiosità degli altri, avendo cura di far scendere la bilancia dalla parte che a lui sembra nel giusto.
Ma con nessuno di questi criteri si riesce a discoprire sull’orizzonte sconfinato dell'opera shakespeariana alcuna bandiera che arruoli dietro di sé le simpatie religiose del poeta.
Notiamo anzitutto, che invano si cercherebbe nei suoi drammi un omaggio « globale » al Cristianesimo come sorgente di elevazione e trasformazione della vita spirituale e morale. Nei suoi ritratti dell’antichità, nel tono dei loro sentimenti, nella simpatia che essi c'ispirano, nulla tradisce una diversa valutazione: e anziché i drammi del Medio evo « Cristiano » essere moralmente superiori alle tragedie romane, queste spirano piuttosto un'atmosfera più pura, e c’invitano a gettare con più fiducia uno sguardo sulla vita. Le sorgenti della condotta umana sono in sostanza le stesse nell’antichità greca e romana come in quella medioevale: e gli uomini e le donne in Giulio Cesare, Conciano, Antonio e Cleopatra e King Lear, non la cedono a quelli e a quelle dei drammi storici del Medio evo cristiano: i loro cuori palpitano e le loro anime vibrano all’unisono attraverso i secoli.
E quanto a caratteri essenzialmente e tipicamente religiosi, il dramma di Shakespeare, come già dicevamo dal principio, non ne conosce.
Dekker e Massinger, suoi contemporanei, avevan posto sulle scene la Vergine Martire; Marlowe nel suo Dottor Fausto aveva, per quanto imperfettamente, trattato un soggetto che nelle mani di Shakespeare avrebbe potuto divenire una tragedia più sublime di Re Lear: ma Marlowe ebbe il vantaggio (dal punto di vista artistico) di essere un ateo professo, di aver quindi rivolto per qualche tempo la sua fantasia e il suo pensiero verso problemi religiosi: laddove Shakespeare voltò ad essi risolutamente le spalle, senza neppure degnare più che di qualche sarcasmo il
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movimento religioso e morale del Puritanismo, nel quale, se dotato dell’occhio religioso, avrebbe pur potuto scòrgere le possibilità di un Cromwell o di un Bu-nyan. Nè vale dire che il genio luminoso e libero di Shakespeare non potè essere ispirato dal Puritanismo; poiché egli potè essere ispirato da tenebre e da angustie ben più cupe e fosche: da Jago e dai Riccardi, da Gonerilde, da Lady Macbeth e dalle streghe di mezzanotte.
Naturalmente, egli ci presenta parecchi personaggi « religiosi » di professione, ad esempio, i frati in Romeo e Giulietta e Molto chiassò per un nonnulla, i prelati dei drammi storici, Isabella, novizia.Clarissa, la Regina Caterina e il Duca di Venezia: ma. ciò che importa è che, di nuovo, la loro condotta, nell’insieme, non è regolata da motivi superiori nè diretta verso finalità più elevate dei motivi e delle finalità « mondane e terrene » di quelli che non professano i loro principi. La stessa Isabella di Misura per Misura, che aH’aprirsi delia scena è candidata a! velo monacale, e sì zelante per la sua vocazione da desiderare un maggiore rigore nelle regole monastiche, e sì rigida nella sua onestà morale da erompere in invettive contro il fratello Claudio, che « innamorato della vita » l’ha pregata di cedere ad Angelo, nel corso del dramma, lascia che «il rimorso della sorella prevalga sul suo onore », e si presta ad atti biasimati dalla morale; e. ciò per maggiore ironia, sotto gli auspici, e indotta dalla venerazione per l'abito francescano del suo consigliere, il duca' travestito da frate.
Eccetto alcune frasi incidentali. Isabella stessa non si esprime con quel colore religioso che noi ci attenderemmo se ella fòsse un « tipo » religioso: ed anche quando ella fa allusione al « rimedio » trovato (da Dio) per sottrarre tutte le anime colpevoli al meritato castigo, (« Redenzione ») si sente che sul suo labbro non risuona che la schermaglia dialettica non meno che quando pochi istanti dopo argomenta che «se i grandi uomini potessero fulminare come Giove, Giove non avrebbe un momento di quiete» e il.suo cielo non risuonerebbe che di fulmini.
Mitologia sacra o profana, Shakespeare non abbisogna di emettere un atto di fede ogni volta che se ne serve: egli è un artista e prende i suoi colori dovunque ne trova. Di penetrare una psicologia posseduta interamente dalla idea religiosa; questo sorpassa là sua capacità: ciò che torna a dire,, che egli non Ju un’anima religiosa.
Manzoni potè darci i caratteri di Fra Cristoforo, di Federico Borromeo, di Lucia; Dante, Milton, Radine, Schyller, Victor Hugo, ebbero nel casellario dei loro spirito, sulla tastiera dei loro suoni, la categoria e la nota religiosa e seppero elaborarla c darle vita in un « tipo » religioso. Shakespeare non conosce che degli uomini profondamente umani o sub-umani: ma esseri sovrumani, no.
Attraverso tutti i suoi drammi, noi troviamo uomini e donne che fanno il bene o il male per inclinazione naturale, senza nè mirare ad un compenso soprannaturale nè ripudiarlo. Jago non è più irreligioso di Otello: egli usa non meno di lui le comuni (rasi riguardo a Dio, il diavolo, il paradiso e l’inferno: e come lui, non resta punto guidato nelle sue azioni dalle idee che professa; bensì solò dalla sua malvagità senza passioni, come l’altro lo è dàlia sua passionale vendetta. Non è privo di significato anche il fatto, che Shakespeare ci presenta due volte per-
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A STRATFORD-ON-AVON’
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sonaggi in atto di preghiera, punto trattenuti dall’atto più specificamente religioso, dal commettere azioni delittuose: Claudio in 4W*foed Angelo in Misura per Misura, hanno sentimenti decisamente « religiosi » e abitudini di devozione: ma la loro religiosità non ha alcun influsso sulla loro condotta. È vero che le paróle con cui Claudio ed Angelo confessano la inutilità dei loro tentativi di pensare a cose celesti finche il loro cuore resta immerso in desideri carnali e colpevoli potrebbero essere interpretate come indicazione che una preghiera sincera fatta con pura coscienza avrebbe efficacia morale: ma anzitutto, il fatto stesso che il circolo vizioso che incatena l’anima non può essere rotto da un sussidio dall’alto, che il determinismo immorale prevale su ogni barlume di buona volontà, e che la « grazia » non riesce a prendere l’iniziativa e ad avere il sopravvento, riduce il valore della preghiera solo ad una forma di espressione e di espansione del buono che resta o che domina nell’anima, anziché essere una forma efficace d’invocare soccorso dal Cielo.
Inoltre, quella stessa efficàcia che appare venir concessa alla preghiera,.sembra sacramentale più che religiosa: essa può dischiudere — così crede Amleto — le porte del cielo ai fratricida e incestuoso Claudio, ma non riesce di fatti a fargli spezzare le sue catene, nè a suggerire ad Amleto stesso l'idea che una « conversione» del Re sìa forse imminente, nè a suscitare in lui sentimenti di «cristiano » perdóno. E se si rifletta che. Claudio si accinge a chiedere.a Dio perdono del fratricidio, immemore che egli sta meditando un altro delitto, si avrà un’altra prova di come la compenetrazione tra religione professata e vita, vissuta è daper-tutto mancante.
Anche Macbeth, preso da un avido bisogno di benedizione, vorrebbe poter dire, (Atto II, Se. 2a) dopò il delitto, un Amen al « Dio ci benedica », ma sente l’Amen appiccicarglisi alla gola. È religione questa? Sì, ma di convenzione e di memoria anziché di convinzioni vitali: un tiro giocatogli dall’abitudine: infatti il suo rimorso religioso si risolve immediatamente nell’orribile terrore di avere assassinato il sonno stesso in questa vita, anziché in alcun pensiero di amore o di terrore religioso.
Amleto (Atto I, Se. 5a) propone anch’egli, dopo l’apparizione dello spirito del padre, di andare a pregare, ma niun vantaggio egli trae dalla sua preghiera: il suo spirito non ne è sostenuto nè la sua ferita è curata, n è il suo cuore alleggerito.
Non meno convenzionale e priva di efficacia vitale è la credenza puramente dottrinale in una vita futura. Quando il Duca in Misura per Misura vuol compiere con Claudio condannato a morte l’ufficio religioso che si addice al suo abito di francescano, non una parola nelle sue considerazioni si riferisce ad una vita futura: un pagano avrebbe potuto con eguale efficacia parlare della morte come di un sonno, della vita come un continuo tragitto verso la morte, piena come essa è di affanni e di vane lotte, e della vecchiaia, come immeritevole del nome di vita. Neppure Isabella sa trovare nella sua fede formale una sola parola di conforto per il fratello: e quando egli prorompe in accenti di desolazione e di terrore, e trova che « la più stanca e abominevole vita di questo mondo imposta dalla vecchiaia, dai dolori, dalla miseria e dalla prigione è un paradiso di fronte al timore’
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della morte», e alla prospettiva di andare «noi non sappiamo dove... a imputridire... e divenire una zolla impastata, mentre lo spirito... si bagnerà in torrenti di fuoco, o risiederà nella regione dei brividi glaciali... o sarà imprigionato dai ciechi venti per essere violentemente spirato per il mondo... o, peggio ancora, entrare in istato di pazzia...», che cosa contrapporrà essa, la «celestiale e santa Isabella », a tali terrori fondati su una concezione « ossiànica » e naturistica del-1’« al di là » e quali saranno le sue parole per additargli « i floridi sentier della speranza »?
Essa non ha che un gemito: « Ahi! Ahi! » Troppo poco, decisamente, per potere essere compensato dalle vaghe espressioni del Duca-frate a Claudio: « Inginocchiatevi e preparatevi », e dal giudizio che eSso stesso dà di Barnadine: « È una creatura impreparata e immatura per la morte » — senza altra voce di conforto o di speranza.
Macbeth dice, è vero, una volta che egli volentieri «darebbe la sua gioia eterna al nemico comune del genere umano » per avere in sua mano il figlio di Banquo: ma a parte che questo è uno strano atto di fede, l'idea non ritorna più, e quando egli si fa a calcolare le possibili conseguenze dell’assassinio del re Dun-can, usa invece la frase: « Noi azzarderemmo la vita avvenire ». L'idea della vita futura ritorna di nuovo sulle sue labbra nell’apostrofe al dormente re che si accinge a trucidare: « È questo il rintocco funebre che t’intima il Cielo o l'inferno »: ma che questa « frase » non poggi su alcuna convinzione vitale, ce lo mostra l'assenza dell’orizzonte della coscienza sua e di Lady Macbeth di ogni idea di Dio e di un minaccioso « al di là », quando all’incalzare di delittuoso delitto, essi spingono lo sguardo spettrale sulle conseguenze dei.loro misfatti, e virtualmente negano quello stesso residuo di fede che a parole professano, con le espressioni: « ...Meglio essere con quei morti, che noi, per guadagnare la nostra pace, abbiamo spediti alla pace, che giacere nella tortura dello spirito in una follia senza tregua. Duncano è ora nel suo sepolcro: dopo gli accessi febbrili della ¿vita, egli dorme bene ». Le ultime, sue parole sul problema della vita e della morte, strappategli dalla notizia della morte di Lady Macbeth e dai pianti delle donne, negano non solo !’«al di là », ma la vita stessa. « La vita non è che un’ombra ambulante, un povero attore, che incede e si agita durante la sua ora sopra le scene, e poi nulla più se ne sente: essa è un racconto narrato da un idiota, in modo reboante e concitato, ma che non ha alcun senso ». Se, dopo questo, mostra ancora di credere al diavolo, egli non sa.«indurre» ora dal diavolo a Dio, più che lo sapesse quando per la prima volta fu acclamato dalle tre streghe.
Il dramma di Macbeth è essenzialmente un dramma di una coscienza capace di decretare e di leggere il suo proprio fato, e di prepararselo con le proprie mani di giorno in giorno nel terrore e nella memoria, e di notte in notte in sogni strazianti: e non è l’idea o il sentimento religioso che dia lo sfondo alla tetra tragedia, bensì una coscienza avvelenata da ambizione smisurata, che perverte i sensi, le azioni, il respiro stesso della sanguinaria coppia e li fa sognare e versare e respirare sangue, e brucia nelle loro vene la febbre che li divora.
Che Banquo c’invii la frase: « Nelle grandi mani di Dio io dimoro... » ed un
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altro personaggio secondario parli dell’aiuto «di Colui che è in alto, per sancire l’opera »; che altri passi ci dicano dei meriti prodigiosi di Eduardo il Confessore e della vita devota della madre di Malcom, queste ed altre allusioni o frammenti sporadici di materiale religioso, non bastano a pervadere il dramma con un filo sia pur sottile di religiosità vissuta e operosa.
Non è certo al Re Lear, alla più radicale negazione della teoria semi-religiosa di un intervento della « Provvidenza » negli affari del mondo come elemento perturbatore e rettificatore, che si possa chiedere un contributo alla concezione comunemente accettata come religiosa e cristiana, della proporzione fra la sorte terrenadi ciascuno ei proprii meriti o demeriti. È in esso anzi, che l’esperienza tragica dell’assenza di una giustizia, immanente 0 trascendente nella vita individuale, strappa a Gloster accecato, il grido contro gli « Dei che ci uccidono per trastullo ».
È vero che il suo figlio Edgar, sul fratello suo naturale, ferito mortalmente dal suo ferro, proclama: « Gli Dei sono giusti, e dei vizi a noi cari foggiano uno strumento per tormentarci: il luogo tenebroso e vizioso dove esso ti ebbe gli ha costato i suoi occhi »; è vero che il duca di Albany chiama la morte violenta delle due figlie snaturate di Lear « Giudizio del Cielo », e che fino all’ultimo istante egli spera che la protezione del Cielo possa sventare la trama contro Cordelia: non è men vero che Cordelia muove strozzata — essa la innocente» la pura, la pia — e il Re Lear cade su di lei col cuore spezzato. I buoni e i cattivi ubbidiscono ugualmente a leggi di distruzione, espressione del determinismo delle passioni e dei sentimenti umani, che non perdona l’innocenza e la virtù, e si ride delle parole conclusive del duca di Albany: « Tutti gli amici godranno il premio della loro virtù, e tutti i nemici berranno la coppa che si son meritati», facendo un istante dopo la sua ultima vittima in Lear.
Sui cadaveri delle due figlie diaboliche e della figlia angelica del vecchio re sui cui ultimi giorni sì fiera tragedia si è scatenata, non è possibile evocare le tradizionali idee cristiane e chiedere ad esse un interpretazione del dramma: e quanto alla concezione più profondamente religiosa, che fa della vita dell’individuo una mediazione a finalità che trascendono il dramma breve dell’esistenza personale, Shakespeare anziché appuntare il suo dito profetico su barlumi di giustificazione delle « vie di Dio » è pago di gettare su ognuno dei cadaveri un fiore che redima la tetraggine fosca delle loro vite, e di pronunziare a bassa voce su quello di Lear un « Requiem » molto umano: « Non turbate il suo spirito: Oh, lasciatelo passare! Chi sulla ruota di questo duro mondo vorrebbe stirarlo più a lungo, colui per fermo lo odia... ».
Di « Hamlet », dopo quel che abbiam detto, possiamo solo aggiungere, che nessuna teoria interpretativa della tragedia potrà riuscire a persuaderci con più successo degli altri grandi drammi, che Shakespeare riguardò la vita da un punto di vista « cristiano ». Lo spirito del padre di Amleto può bene con le sue parole sulle pene dell’« al di là » accennare ad una concezione che storicamente appare come cristiana (benché l’accenno sia neutralizzato dal famoso monologo del figlio): il fatto resta Che, — in povere parole — dinanzi al dilemma senza uscita, se Amleto
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debba uccidere il suo zio regicida e incestuoso, o debba perdonargli, (egli che ha già sospeso la sua vendetta al vederlo inginocchiato a pregare, ma solo per il timore di... mandarlo diritto in Paradiso), e sforzarsi di persuadergli la conversione e la espiazione, come tenta invece — ma solo con motivi umani — con la propria madre, egli persegue in tutto il dramma una linea di condotta che certamente sarà umana ma non è sovrumana nè cristiana. Che Amleto sia uno scettico in religione — come vuole Schlegel — o che sia scèttico riguardo al valore della vita, come vuole Victor Hugo, certo è che Shakespeare non concepì il dramma alla luce del semplice Cristianesimo che risuona sì tardivo e incosciente, come è privo di sanzione visibile, sulle labbra del morituro nelle parole: « Vi è una Provvidenza speciale nella caduta di un passero ».
È vero che sul tramonto delia vita di Shakespeare una nota di riconciliazione scende ed investe i suoi ultimi drammi: e possiamo ammettere che la filosofia finale dei drammi « Cymbeline », « Un racconto d’inverno », e sopratutto « La Tempesta », forse l’ultimo da lui composto dieci anni circa dopo quello di « Hamlet », sia una filosofia di fortezza, basata sopra una valutazione più vasta delle cose e un senso maturo della loro relatività. Prospero, il carattere dominante in « La Tempesta », se spogliato dei suoi attributi magici e del suo potere sovrumano, resta il carattere in cui forse Shakespeare dell’età matura si riflette in modo più trasparente, con la sua serenità e trionfo sulla vita, conquistato a prezzo di una profonda esperienza e di una immensa riflessione; Ma anche in esso, la riconciliazione e la pace con gli elementi tragici della vita non è frutto di una sopravalntazione e di una proiezione di essa sullo sfondo dell’eterno e dell’infinito, bensì di una visione più vasta e più intima del presente e del finito, della limitazione e della impotenza delle singole individualità, di un analisi completa delle sue miserie e delle sue grandezze.
SheÙev, dal suo opuscolo di studente ventenne sulla « Necessità dell’Ateismo » giunge in dieci anni di vita, di dolori e di sogni, all’indomani della morte immatura di Keats e alla vigilia della sua prematura giovanile fine, alla concezione della vita etèrna sola vita vera: ed egli scrive:
« L’Uno rimane: cambiano i molti e passano: La luce celeste eterna splende: le nubi della Terra volano; La vita, come guglia di cristallo a vari colori, Non fa che macchiare il candido raggio dell’Eternità ».
Shakespeare, a quarant’anni, pone in bocca ad Amleto, in risposta al problema dell’« essere o non essere » null’altro che un dubbio, se la morte sia un sonno, ovvero un sogno «il timore di qualche cosa dopo la morte» nella «regione non mai coperta, dai cui confini nessun viaggiatore ritorna ». E dieci anni dopo, approssimandosi anch’egli alla terra ignota e senza ritorno, la conclusione finale del suo. pensiero, e la concezione ultima del problema della vita e della morte si avvolge ancora nell’agnosticismo, per quanto rivestito di magnifici paludamenti di figure e di stile, che risuona sulla bocca di Prospero: « ... Le torri ammantate di nuvole, gli smaglianti palazzi — I templi solenni, questo stesso gran globo — Con tutti quelli che ne sono eredi, dovran dissiparsi —-E dileguarsi come questo etereo spettacolo—Senza lasciar dietro di sè traccia...
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Noi siamo quella stoffa — Di cui sono formati i sogni, e la nostra piccola vita — È circondata da un sonno... ».
Il contrasto fra Shelley e Shakespeare è tipico di due concezioni diverse della vita.
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D’altra parte la Filosofia che aveva già dichiarato fallimento nel « Molto chiasso per un nonnulla», per bocca di Leonato: « ... Io sarò carne e sangue; — Perchè nessun Filosofo ha ancora esistito — Che potesse soffrire con pazienza un dolore di denti — Per quanto abbiano essi scritto nello stile degli Dei... » si confessa, specie nelle grandi tragedie, incapace affatto di interpretare, e molto più di trasvalutare la realtà.
« La filosofia di Shakespeare — dice W. Raleìgh — è quella del pastore Corin, che sa soltanto che quanto meno uno sta bene tanto più si sente male, che la proprietà dell’acqua è di bagnare e quella del fuoco di bruciare. Anche il Re Lear, quando ebbe acquistato questa sapienza, ebbe visione lucida della realtà attraverso le adulazioni e gl’inganni di cui era stato nutrito. « Mi avevan detto che io ero ogni cosa; ma era una bugia, perchè non sono immune da attacchi di febbre ». Tutte le dottrine c le teorie concernenti il posto dell’uomo nell’universo e l’origine del male, sono ben povera e incompleta cosa dinanzi alla abbagliante visione della condizione pietosa dell’umanità quale ci è rivelata dalla tragedia ».
Ne consegue che anche i tentativi ripetutamente fatti di sistemare in categorie filosofiche le idee dei personaggi delle tragedie, e di sottoporci così la curva dello sviluppo filosofico di Shakespeare, siano pietosamente falliti. I sistemi ideali, lungi dal prestarsi all’interpretazione delia vita, la quale è sintesi di contrari, eccletismo e sincretismo, il più spesso antitesi e contradizione e superamento d’idee e sentimenti, non si prestano neppure all'interpretazione della vita vissuta dai filosofi stessi che li hanno formulati. Romeo può baciare Giulietta « by thè hook », seguendo le norme dell’etichetta, ma nessuno dei personaggi di alcuna tragedia o dramma vivrà « by thè book ». E i sistemi filosofici si ritroveranno tutti — almeno i loro spunti — nelle tragedie shakespeariane, non perchè Shakespeare ve li abbia messi, ma 'semplicemente perchè egli non ha potuto sopprimerli
'Anziché dire che tutti i sistemi filosofici trovano nelle tragedie la loro convalida. e che questa è prova suprema della grandezza trascendentale di Shakespeare, diremo piuttosto che, misurati alla stregua della vita, gli irriducibili antagonismi delle idee si smussano, i veli e le formolo si squarciano o cadono, e mettono a nudo gl’individui con le loro passioni, virtù, infermità, aspirazioni, dolori che si sforzano attraverso « dubbi sogni di sogni », sempre mutevoli e sempre gli stessi, di rivere prima, di filosofare poi.
E a Shakespeare resterà l’onore, non di aver filosofato, ma di aver vissuto e di aver creato personaggi viventi.
Non può perciò non produrre l’impressione di un tentativo artificiale, fatto sotto un'ossessione di sistemazione filosofica, quello che troviamo espresso in lavori
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svariati dal titolo « La filosofia di Shakespeare »;.<• Shakespeare come filosofo », ecc., in volumi e in articoli di riviste, specie — ed il fatto è sintomatico della mentalità'— di autori tedeschi. Da uno di questi, Dr. Franz Lütgenau « Shakespeare àls philo-soph », Leipzig, 1909, trarrò, come saggio tipico, l’epilogo:
« Noi abbiamo in questo volume trattato dei rapporti di Shakespeare coi problemi filosofici, per quanto i suoi drammi lo rendono possibile, e abbiamo così riconosciuto tre grandi periodi nello sviluppo del suo pensiero filosofico, cioè, quello dell’ingenuo teismo e del dualismo; dello scetticismo; del panteismo: così infatti si potrebbero indicare i tre stadi dell’evoluzione filosofica di Shakespeare. Certamente, o.eve restare inteso che queste denominazioni debbono applicarsi solo in un senso ristretto e sotto certe modalità. Lo scetticismo di Shakespeare non esclude il Teismo, e lo stesso suo Panteismo non si distingue nettamente da un Teismo mitigato c gaio.
« Poiché Shakespeare ignora le trasformazioni rapide, e improvvise; Quando l’esperienza e la riflessione lo costringono a rinunziare a qualche punto di vista, egli non si volge affatto per questo, di volo, all’estremo opposto. Egli non diviene tutto un altro, ma solo diviene più ricco: e il suo nuovo punto di vista non è in direzione opposta all'antica, ma solo in una sfera più alta ».
(Non riescono queste riserve e dichiarazioni a un’implicita confessione che Shakespeare non si lascia prendere nelle reti di alcun sistema?). .
« Shakespeare fu un uomo universale, come Michelangelo e Goethe: e altro tratto essenziale in lui è il suo mettere all’opera tutta l'esperienza e tutto il materiale della coltura... non come scopo in se stesso, ma come mezzo al servizio della vita ».
Di qui deriva che Shakespeare viene quasi sempre deprezzato quale pensatore teoretico e filosofico. Poiché i suoi personaggi sono pieni di passionalità e provano la gioia dell’azione, si giudica impossibile che il poeta avesse un ingegno speculativo. E così, Max. J. Wolff chiama Shakespeare: « Nemico dichiarato di ogni Flosofia ».
Eppure quanta artistica comprensione, quanta ordinata ed elaborata scienza in quasi tutti i campi, quanto penetrante pensiero astratto, ed infine quale intensiva elaborazione dei più diversi problemi filosofici, si rivelano nei drammi di Shakespeare! Il giudizio di Wolff... non contesta a Shakespeare il merito di pensatore profondo e universale, ma solo gli nega la famigliarità col tecnicismo della filosofia e della tecnica letteraria filosofica. Ma si sa che chi, come Shakespeare, domina tanti aspetti del sapere, non è mai uno specialista ».
Le prudenti e sensate riserve dell’autore non gl’impediscono però, nel corso del suo volume, di raggruppare sotto le etichette e sospingere nelle caselle del Relativismo morale, Scetticismo, Dualismo, Periodo Pitagoreo, Epicureo e Stoico, Panteismo, Astrologia, Fede nell'al di là, ecc. ecc., idee espresse in diversi drammi, e quel che è più togliendo dallo stesso dramma il contributo a sistemi diversi d’idee: mostrando anche con ciò l’artificiosità del tentativo di sistemazione.
Anzi egli arricchisce le ultime pagine del suo lavoro di uno pecchiétto cronologico delle fasi evolutive del pensiero filosofico di Shakespeare, dopo aver dichiarato che noi non conosciamo solo il filosofo e le sue concezioni, ma anche i lineamenti essenziali del loro sviluppo. E rintraccia il primo sguardo di Shakespeare sulla
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MORALE E RELIGIONE NELLE OPERERÀ SHAKESPEARE 283
« condizionatczza della volontà e l’essenza della debolezza o della forza della volontà stessa », nelle « Fatiche d* Amore sprecate » (1591) sguardo sulla « relatività del diritto » e l’osservazione filosofica della storia nel « Mercante di Venezia ». Néll’Amleto e nel Giulio Cesare (1601-1602), (1596), Shakespeare «appare come un vero scettico », si'occupa delle scuole filosofiche greche, e fa la critica del Pessimismo.
Nella tragedia del Re Lear (1606) — sempre per lo scrittore tedesco — il progresso evolutivo di Shakespeare fa anche gran passi e dalla « limitazione della morale per mezzo del fattore biologico » passa addirittura alla « vittoria dell’ingenuo Dualismo e del Teismo » e « all’abbandono della vecchia concezione astrologica »; con « Coriolano » (1609) e « Misura per Misura » torna a volgere il suo sguardo sulla relatività della morale, professa il Panteismo, e... corona la Sua laboriosa evoluzione con « nuove vedute astrologiche » nella « Tempesta » (1611).
Basti questo saggio sulla « filosofia di Shakespeare » per farci diffidare della pretesa di ridurre a sistema l'opera di chi scrisse: « Vi sono più cose in Cielo e in Tèrra di quelle sognate dalla vostra filosofia » (Amleto, A. I, Se. 5») e Che fa rispondere al frate che offre a. Romeo « la filosofia, miele soave dell'avversità ».
« Impiccala la filosofia! a meno che la filosofia riesca a formare una Giulietta, a sradicare una città, a capovolgere il fato d'un principe, essa non serve a nulla e non vince nulla: non parlarne, più ». (Romeo e Giulietta, A. III. Se. 3).
Forse Shakespeare avrebbe sottoscritto alle parole di George Eliot: « La nostra complessa vita non può venire costretta da alcun sistema di massime, e vincolarci in tali formulari soffoca le suggestioni e le ispirazioni divine che sgorgano da una crescente penetrazione, e simpatia ».
(Continua). ‘ ' Giovanni Pioli.
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MICHELANGELO, LA CHIESA E LA BIBBIA *1 li
lla rigida gravità biblica di Dante contrapponete l’austerità fiera e cupa dell'artista infelice. Scorreva a flutti, bollente e rigoglioso il sangue a questo possente suscitatore e plasmatore di vite, capace di dare un’anima ad ogni disanimata cosa, e fiamme e fremiti di vita ai morenti; oppure il pensiero di morte sempre lo sprona e trafigge — « Mors ultima linea rerum» —; sempre lo preoccupa il vano affaticarsi dell'uomo entro un mondo di larve e chimere; rimpiange « le favole del mondo »
che gli tolsero « il tempo dato a contemplare Iddio »; tutto gli appai’ vano, caduco.
corrente all’eterna distruzione; guarda arcigno il tempo che ha innanzi, persona fatta, messo funesto del cielo, intento a tutto offendere, a divorarsi ogni cosa, « il tempo ingiurioso, aspro e villano », che « del tutto dismembra la beltà ». È necessità questo nostro correre e precipitare veloce, bene lo riconosce; eppure egli non si dà pace, e contrappone instancabile, con acerbità e violenza, il disfiorire continuo al poco nostro fiorire; si aggira entro i tempi di morte, pungendosi» ferendosi l’anima, che reca l’anelito indistruttibile alla vita; e crea con tanta esuberanza i suoi eroi, con tanta gagliardia torce i muscoli e le carni, strappa dal masso il suo vivo fantasma, quasi lo premesse il bisogno di offrire il suo contrasto a questa forza annientatrice del tempo e della natura. Crea, e poi piange e geme della vanità d’ogni creazione.
Quel suo affezionarsi ai mausolei e alle tombe riflette la tristezza immensa dell’anima sua. Dove più batte l’ala della morte il solitario accorre, e annaspa la sua vita, popola de’ suoi fantasmi i silenzi più profondi. Le tombe! Quante ne ideò; a quanti altri artisti diede suggerimento per le vagheggiate immagini e sculture dell’umana fugacità e i trionfi eretti alla morte! Si sottrae al sole che sfolgora, alla luce del pieno meriggio, per vagare o immergersi tra le ombre; misteriosamente lo attrae quanto pili s'occulta nella vita dell’uomo e nel pensiero; ogni arcano, ogni oscura potenza ha un fascino per lui e riattiva i demoni e le furie che ha all’interiore; contrappone la notte al giorno, e celebra il « tempo bruno », il « dolce tempo benché nero ». Dio» evidentemente, ad altro regno non destiné le creature sue che a quello delle tenebre e del dolore.
(•) Frammento di un volume: Michelangelo e Dante, d’imminente pubblicazione.
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MICHELANGELO, LA CHIESA È LA BIBBIA
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Come può sfuggire a ehi vede in Michelangelo un riprodursi e un rinnovarsi perpetuo della creazione di Dante, l’inutilità d’ogni storia di fatti compiuti, nel concetto dell'artista? Il móndo di Michelangelo è remotissimo dal nostro. Pretendere ch’egli tornasse a dar vita ài contemporanei di Dante, e illustrasse, scol-pendo; dipingendo, figure care al poeta o da lui abbonite, frustate nelle feroci invettive, è follia. Nemmeno lo' preoccupano gli uomini, le cose del suo tempo; appare dimentico della sua terra; per le azioni che avvengono e alle quali andava tutta l'anima del poeta, egli non ha che indifferenza; l’unica realtà è il suo interiore; i corpi umani ch’egli studia c anatomizza gli importano come fascia di un’anima che ha il respiro dell’eterno, persuaso sempre che « più l’alma acquista ove più '1 mondo perde ». Diceva lo Justi che il suo regno comincia là dove il monda non ebbe ancora principio e dove il mondo ha termine. L'avesse Iddio lanciato alla vita» quando tuonavano ai popoli i profeti d’Israele! Chiama «beata l’alma ove non corre tempo »; trasfonde entro l’universo la sua rigida terra; non riconosce argini nè misura agli spazi; e lo vedete sempre sollevato nella sfera sua, sì poco devoto agli antichi, sprezzante per i moderni. Per chi concepiva la bellezza unicamente in rapporto con l’eternità, e vedeva il pulsare dell’infinito in ogni cosa finita, doveva escludere dall’arte sua l’esattezza e la minuta perfezione, la somiglianza così detta del ritratto. Riprodurre i tipi comuni, le fisionomie degli uomini, che s’affaccendavano e si davano piacere o tormento nel loro minuscolo angolo di vita, è recare offesa alla divina natura, alla immediatezza creativa dell’arte. E non significano nulla le poche còpie fatte per bizzarria, nei rari momenti di distrazione, che Michelangelo si Concedeva. Tutto ha rapporto con lo spirito che s’affissa in Dio. L’arte più concreta e più plastica si fa per necessità simbolica. E Michelangelo poteva dire, come Goethe, d’aver sempre considerato tutto il suo agire ed aspirare unicamente sotto l'aspetto del simbolo.
Anima profondamente religiosa, turbata, scossa, ferita e lacera dalla fede, ma non atta a celebrare i misteri e i trionfi della sua Chiesa. Sempre lontanissimo dà ogni astrazione dogmatica, Michelangelo sdegna ogni unzione sacra; non cri-stianeggia; raccoglie a preferenza le ire e le collere di Dio, e le comunica, turbando e sgomentando i devoti, che vedono oscurarsi, minaccioso, gravido di procelle, il cielo. Quei suoi eroi, i messi, gli'araldi di Dio non accendono mai la fiaccola dell’amore, della carità, della speranza; traggono non so che di fatalistico nel loro aspetto. Dalle sue Vergini, che solo conoscono il pianto dell’anima, vi aspetterete la grazia, il provvido intercedere del femminino eterno, che redime e trasfigura? In tutta la sua opera dove trovare un segno del riso, del confortò e della preghiera di Beatrice? Dissero non a torto meno cristiano il suo Cristo di quanto appaia il Laocoonte greco; ed io non conosco stoltizia maggiore di quella manifestata da un critico di così vasta dottrina come il Thode, capace di intendere il grande martirio, la tragedia svoltasi nel cuore di Michelangelo, ma pure determinato a snaturare quella sua anima di eroe e di titano facendo dell’artista del Rinascimento un Parsifal wagneriano, mosso dallo spirito della rinunzia, perduto nell’estasi e nella contemplazione, redentore degli afflitti, immersi nel peccato e nell’onta, per virtù dell’amore suo e del suo dolore.
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BILYCHNIS
Non si delira invece, supponendo in Michelangelo attivo lo spirito fortissimo che animava il Savonarola, scosso dalle visioni profonde che accendevano il frate, rigido, inflessibile nei suoi concetti morali. Non è chi non ricorra alle prediche savonaroliane. spiegando la genesi dei maggiori affreschi ed anche delle sculture maggiori di Michelangelo; ma certo, come si esagerò ammettendo l’eterna presenza di Dante alla mente dell’artista, si ingrandì fuor di misura il culto per il Savonarola; e si disse derivare da lui le inspirazioni più possenti; dai sermoni del frate parvero discendere persino i simboli dei monumenti medicei; il Mosè dovrebbe riflettere l’attività combattiva savonaroliana; alla durezza del frate si ricondussero gli sdegni, le rivolte fiere, la terribilità di Michelangelo. Di nuovo l’artista, tutto calato nel gran mondo del suo io interiore, ricco ad esuberanza, torna ad apparire mendico; ammettiamo l’affinità grandissima dei due spiriti, raccordarsi di entrambi col pensiero grave e il misticismo di Dante, ma non umiliamo Michelangelo, ponendolo prono all'altare de’ precursori, acceso sempre alle faville altrui che piovevano nell’alta sua fantasia.
Decisamente i quadresimali e le prediche del Savonarola gli additavano la Bibbia come il Sacro libro, da.cui unicamente poteva venir luce all’umanità traviata e contristata, e gli accrebbero quell’amore per l’Antico Testamento, il Vangelo suo prediletto, già radicato in lui nella prima gioventù. L’« ebraica, verità »/che Leonardo soleva chiamare la « somma verità », era la sola a cui s'inchinasse; poteva ripetere con Dante: « Avete il Vecchio e il Nuovo Testamento | ... Questo vi basta a vostro salvamento» (« Par, », V, 76); dalla Bibbia scendevano a lui le immagini più gagliarde; e le scosse, gli smarrimenti, i terrori per la pochezza del nostro vivere, le accensioni improvvise avute alla lettura dei Salmi de’ suoi gravi profeti avevano maggior potere sull’anima sua e della sua arte d'ogni ispirazione venutagli dall’opera di Dante e dagli scritti e dai discorsi de’ neoplatonici. Quanti de’ suoi schizzi hanno origine dallo studio e dalla meditazione delle Sacre Scritture! Vedeva nei canti della «Commedia» specchiato il suo ^proprio culto per la Bib.bia, riprodotta quella verità «che quinci piove | Per Moisè, pei profeti e pei salmi, | Per !’Evangelio » («Par.», XXIV, 135), accesa quella fiamma che ardeva a lui tante volte in cuore e si turbava col suo poeta, vedendo così sciupato e alterato a’ suoi tempi ancora il linguaggio austero e sentenzioso dei salmi, travolta la verità evangelica, semplice, divina; bollava pur lui la poca umiltà di chi ad essa s'accostava, la gonfiezza e i deliri de’ predicanti; e fremeva ai fremiti di Dante, pensando agli sciagurati che, quando non posponevano la divina Scrittura, miseramente la torcevano,’ dimentichi delle vite spese, del sangue sparso per « seminarla nel mondo » (« Par. », XXIX, 91):
Non vi si pensa quanto sangue costa.
* » »
Invasa la mente delle immagini e figure bibliche, di maggior vita e maggior rilievo, assediato da un turbine di visioni, Michelangelo procede al gran dipinto della gran volta; e crea, ordina, dispone, vivifica per anni, con la foga inesausta del genio la sua commedia umana e divina. Trasceglie i suoi eroi prediletti per le
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scene che illustra, una stirpe eletta di combattenti e sofferenti, posta agli inizi dell’umanità, all’albeggiare della storia dei popoli, vicina ancora a Dio, forte del suo possente respiro. Idee e abbozzi per le statue gigantesche, destinate alla tomba infausta di papa- Giulio, dominano e tiranneggiano l’artista ancora quando plasma, col disegno ed il colore tagliente, le nuove figure. E torneranno a dominarlo quando creerà le tombe in San Lorenzo. Ritroviamo i prigioni nei nuovi atleti; rivive lo spirito di Mosè in Geremia e Isaia. E pare sia uscita: dalla maggiore procella dei cieli, con l’angoscia di Dio più profónda questa vigorosa e tormentata creazione. Un alito di tempesta passa e trascorre per la volta, e si comunica a chi l’osserva. Gli spazi erano ridotti; e Michelangelo, con l’impeto e l'ardire di Prometeo, comanda gli spazi, li allarga, spartendoli, moltiplicandoli, con un miracolo di architettura, ed apre dal fondo delle lunette un libero sguardo al cielo, una breccia impensata verso l’infinito.
Veramente, era un giudizio di Dio che già s’iniziava al primo manifestarsi della creazione divina; un dolorare, un fremere, un minacciare, un gravare della colpa e della sciagura sullo spirito sveglio solo alla irrequietudine e. all'affanno. E pare debba consumarsi in un baleno il tempo frapposto dal sorgere alla caduta delle stirpi. Questo aprirsi alla vita genera già tanta stanchezza e martirio della vita; immagini che non dall'amore, ma dall’ira violenta sia stato mosso l’Altissimo a foggiarsi l'uomo, ad animare un mondo, retto da fatali editti, corrente allo siacela e alla morte. Con uno spasimojdelle carni gagliarde e fiere Adamo accoglie il*soffio che Io desta alla vita; apre come sgomento gli occhi alla luce; reclina il '^capo e già ha coscienza dei crucci e dei guai che l’attendono sulla sua terra diissima. Tanto sconforto, sì dolorosa tensione dell’anima si accompagna a tanto’ vigore del corpo e robustezza delle membra, quasi intendesse l’artista e interprete della volontà divina offrire riparo alla forza del dolore interiore.
Mosse ed agitata le prime onde sul gran mare dell’esistenza si attende trepidi che, a un maggior cruccio e rannuvolarsi dei cieli, si scateni la bufera. Nemmeno hanno cuore di invocare pace questi tragici eroi, lanciati alla lotta e ai patimenti eterni; e soffocano l’anelito alla liberazione e alla redenzione. Un. Messia che manderebbe Iddio per togliere di pena le sue creature e sgravarle dalle colpe, rasserenerebbe appena, e si convincerebbe tosto della vanità del suo operare. Gli angeli stessi, calati dal cielo, dividono le ansie e i dubbi, lo sgomento, le estasi dei profeti, a cui si associano; perdono il riso, e sentono l’angoscia di questa nuova natura umana, che Dio non benedisse. Chi non dispera, geme tacito nella sua cupa rassegnazione. Non può raggiare la speranza; non v’è libero sfogo al dolore; non v’è pianto; non v’è preghiera, non v’è supplica; nessuna libera espansione o appassionata invocazione all'alto. La Chiesa, di cui si attendeva un rifulgere delle sue glorie, è tradita. Manca chi interceda tra l’uomo e Dio, la terra e il cielo. La Grazia è un dono superfluo, impossibile ad accordare a chi già dalla nascita porta scritta in fronte la<condanna. L’artista comanda lui la sua commedia o tragedia dell’umanità; offre lui lo spirito che traluce dalle Sacre Scritture; immagina lui i suoi simboli, le visioni, le leggi, i decreti per il nuovo culto. E impone ai papi la sua scelta, gli ordini che prescrive, la genesi della creazione che svolge.
Nuovo affatto e originalissimo è il commento michelangiolesco all’« ebraica
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verità » concretato lassù nelle figure tragiche ed eroiche della volta. Ogni virtù della tradizione risultò vana; la lettera degl’interpreti comuni si è smarrita. I veggenti di Michelangelo patiscono la forza, la gravità e la durezza della visione che accorda loro un Dio irato e possente e di cui sentono la vicinanza temibile; si conturbano, si agitano, corruscano la fronte, raccolgono tutte le energie dell'anima; la rivelazione fatale passa a loro come un turbine; e deve torreggiare sola, assorbire, condensare tutto il pensiero. Ma la parola di Dio non vibrerà nei cuori, coniata com’è fuori dell’amore e fuori della pietà; e sarà più atta ad impaurire che a confortare e a sollevare. A squagliare le tenebre sopravverranno guizzi fulminei di luce, in cui fremerà ancora il raggio della giustizia divina, preannunzio di castighi agli errori e alle colpe che scenderanno-ai popoli.
Una grande scena tragica dell'umanità derelitta e sconvolta spezzata in mille scene, svariatissime, tutte pulsanti di una vita particolare; tutto converge ad un sol centro d’ispirazione; e il grande organismo vivente delle figure gettate sulla volta, ha pure una unità deliberata e risoluta, impossibile a frangersi. Rompe quell’unità il critico, spietato, che s’arroga di aprire dovunque, entro il dramma michelangiolesco della Sistina, ampi spiragli, per introdurvi, dietro una visione sua capricciosissima, i riflessi del dramma di Dante; mescolando ad arbitrio scene della Commedia lontanissima da ogni furore biblico, atte solo a sconvolgere il pensiero fondamentale, che anima la creazione dell’uomo e la sua caduta. Nè poteva avere Michelangelo, dipingendo la volta, un occhio fisso sulla Bibbia e l’altro aperto sul volume di Dante, perchè interrompesse con un seguito di visióni dantesche la visione apocalittica dei libri sacri che illustrava. La mente era avvezza a fondere entro l'immagine od il fantasma proprio tutte le ispirazioni giunte.© in tumulto o in pace da altri artisti e poeti; scindere quel lavoro subitaneo di sintesi; ridare ad ognuno la parte di spirazione che gli'spetta, è cosa disperata, che nemmeno a Dio può riuscire.
Arturo Farinelli
dell'università di Torino.
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LAMENNAIS E MAZZINI
(Continuazione. Vedi Bilychnis, fascicolo di settembre, pag. 135)
III.
Mazzini.
Mazzini - Influenza di Lamennais sul suo animo - Giudizi di Mazzini su Lamennais - Romanticismo del grande genovese - Crisi spirituale della prima metà del xix secolo - Amor patrio - Sete di rinnovamento - Ideali patiii - Riscossa italica -Unità predicata da Mazzini - Esilio - Fede - Ideale e reale - Dio e la libertà - Dio e popolo - Religione mazziniana - Suo influsso - Perchè non ha progredito - Concetto di Dio di Lamennais - Mazzini non vuol essere cristiano, ma apostolo di una nuova fede, che sorpassa ed integra l’antica - Lamennais invece vuole un Cristianesimo rinnovato - Inghilterra - Povertà - Legge del dovere -Sua importanza nell’umanità - Com’era concepita da Lamennais e Mazzini - Educazione del popolo - « Le livre du peuple » - Influenza di quei concetti su Mazzini . - I < Doveri dell’uomo » - Teorie ed utopie - Ideali politici - Repubblica - Delusioni - Amicizie - George Sand - Giudizi di Mazzini e Lamennais - Solitudine - Pessimismo larvante un grande amore all’umanità - Culto per Dante - Ultimo scritto di Lamennais •• Supremi sogni.
no studioso di Mazzini, il prof. Felice Momigliano, Scrisse nel suo libro: Giuseppe Mazzini e le idealità modèrne, che non si può studiar bene l’opera religiosa e sociale del nostro grande apostolo, se non si guarda all’influenza che Lamennais coi suoi scritti esercitò continuamente sul suo animo (i).
Non v’è articolo un po’ importante di Mazzini in cui Lamennais non sia citato; egli lo definisce il Lutero del secolo xix, e dal giorno in cui le Paroles d’un croyant, apparvero e misero
in subbuglio l'Europa, fu soggiogato da quello scrittore, il quale, con eloquenza di profeta, con accento di ispirato che non conosce neppure la possibilità del dubbio, e non sa che condannare ed esaltare, assicurava al mondo che le nazioni d’Europa movevano verso la repubblica ed il trionfo della libertà era voluto da Dio.
In uno studio sul Lamennais, raccolto negli Scritti letterari di un italiano vivente (indicazione sotto cui si nascondeva Mazzini), nella pag. 124 del tomo I, si legge:
(i) F. Momigliano, Giuseppe Mazzini e le idealità moderne, Milano, 1905; Alfredo Oriani, La lotta politica in Italia, edit. Roux, Torino, 1892, cap. Ill, cap. IV, cap. V, libro IV,
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BILYCHNIS
« Egli è uno dei nostri Santi, e il nome suo deve suonare sulle nostre bocche come una parola d’incoraggiamento e di riverenza.
« I governi lo consegnano alla prigione; il Papa alla scomunica; gli scrittori venduti alla calunnia. Gli amici della sua gioventù lo hanno abbandonato. Il fratello si è separato pubblicamente da lui. Ma ognuno di noi gli è amico;, ognuno vorrebbe essergli fratello. Verrà un giorno al di là della vita terrena, nel quale gli uomini ch’egli amava, e che, non essendo forti a seguirlo, lo hanno rinnegato codardamente, l’incontreranno amorosi e gli chiederanno l’abbraccio dei ravveduti. Intanto, ei prosiegua. La vita è dolore e battaglia. Ma la pace della coscienza, l’amore al popolo e il sorriso di Dio sono conforti che bastano alle anime come la sua, per sorpassare intrepidamente il dolore e vincere la battaglia ».
In un altro scritto, passa in rassegna alcune opere di Lamennais, ed ha parole di vivissimo entusiasmo per il libretto che suscitò tante lodi e tanto biasimo:
«...Il sacerdote della Chiesa Romana divenne il sacerdote della Chiesa Universale. La prima espressione — meglio diciamo, effusione — della sua novella vita, fu quel magnifico inno intitolato Paroles d'un Croyanl, in cui le tre sorelle immortali, la Religione, la Poesia e la Carità, procedono congiunte in così commovente armonia, che Gregorio XVI nella sua Enciclica del 7 luglio 1834 lo designò come un libellum... mole quidem exiguum, pravilalem tamen ingenlem: ma del quale ogni lingua possiede una traduzione, che ogni popolo ha imparato col cuore, che tutti gli oppressi salutarono come un conforto ed una promessa » (1).
Mazzini era un romantico; la sua eloquente e sintetica definizione del romanticismo racchiude i suoi aneliti, le sue simpatie e le sue speranze. Ondeggiamenti fra cielo e terra, fra il reale e l’ideale; emancipazione dalle vecchie scuole; desiderio mai abbastanza soddisfatto di libertà; ritorno ad una fede gentile che commoveva i cuori ed esaltava le menti; sogno di redenzione umana; predominio della sensibilità e della immaginazione sulla ragione — tutto questo si trovava nei romantici e negli scritti degli apostoli della prima metà dell’altro secolo. In ogni grande scrittore di quell’epoca v’era un po’ del sacerdote, ed il nuovo amore per la Bibbia, la lettura frequente dei profeti, dava alle opere letterarie di quegli anni un tono speciale, che si delincò in una scuola, detta messianica.
Lo spirito non rintracciava la realtà di cui abbisognava che nel suo inondo proprio nel mondo dell’anima, nella sua natura interna. Quindi bisogno di raccoglimento, e tormentoso studio di se stessi, onde sorprendere il ritmo misterioso e persistente del pensiero; originale e continuo irrompere impetuoso di lirismo che pervade anche la prosa descrittiva, riscalda la critica e dà alle pagine, agli articoli; alle
(1) Mazzini, Scritti letterari di un italiano vivente. Lugano, 1847, Tomo I, pag. 124; Tomo III, pag. 27.
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lettere degli agitatori rivoluzionari, come Mazzini e Lamennais, accenti di poeta, nel senso antico dato ai vati ed ai profeti (1).
Con queste aspirazioni vive nell’anima, fin dai primi anni della gioventù, con una tendenza sempre più spiccata per la repubblica, una sete di rinnovamento patrio senza confine, è naturale che Mazzini si lasciasse attrarre dalla prosa magnifica del Lamennais, dalle sue immagini vive, dai suoi sogni, dalla sua poesia.
Non possiamo definire esattamente quanto il grande patriota italiano abbia preso dalle opere dell’abate francese, e sino a qual punto egli abbia influito sul suo pensiero. In quei tempi il bisogno di dedizione ad un ideale pareva naturalissimo, il grido di dolore della Polonia, la lotta per l'unità della Germania, lo svegliarsi dell’Italia dal suo letargico sonno, commuovevano tutti gli animi. Società segrete s’andavano formando; canti ed inni di libertà correvano per l'Europa, e nuove religioni si delineavano in diversi cenacoli, religioni che avevano la vita d’un’ora.
« Mon but, scriveva Lamennais al barone de VitroUes, est de porter les esprits et les doctrines en avant ». E questo concetto pare la base fondamentale dell’azione dei più grandi uomini politici e religiosi di quei tempi. Donoso Cortes combatteva strenuamente nel parlamento spagnuolo per la fede cattolica, ed il rinnovamento dei costumi e della politica. Andrea Towianski,. polacco, predicava l’opera di Dio nei tempi nuovi.
In Francia il Cristianesimo, che sul finire del xvm secolo era quasi stimato una superstizione gotica e puerile, prese collo Chateaubriand una nuova forma. Egli non ne dimostrò, come Pascal, le profonde verità, ma le bellezze sentimentali e estetiche. Invece di penetrare, come l’autore dei Pensieri, nell’anima stessa dell’uomo, si compiacque nelle forme esteriori, ed esaltò tutto quello che affascina i sensi.
Dopo di lui, tutti i romantici si sentirono attratti dal problema religioso. Alcuni stimarono, come la Staèl, che, per mezzo d’una forza irresistibile di perfezionamento, la nostra società può condursi ad un progresso e ad una perfezione sempre maggiore. Altri, come il Bonald, tentarono di provare le, verità del 'Cristia-nesimo per mezzo dei fatti e non colle immagini, con dei ragionamenti e non con dei prestigi letterari o degli artifizi. Sainte-Beuve, Victor Hugo, Fourier, Saint-Simon, la Sand, Lamartine, Montalembert, Guizot, Leroux avidi d’un rinnovamento intellettuale ed estetico, desiderosi di dare delle idee alla filosofia, una filosofia alla storia, stanchi dell’anarchia morale a cui le anime si sentivano in preda, si rivolsero per diverse vie, con invincibile slancio, verso quella religione cristiana, che diciotto secoli prima aveva rigenerato una società non meno vecchia e non meno caduca.
Ed anche in Italia, pur così divisa e straziata, una nuova scuola si formava, in cui Mazzini doveva primeggiare con speranze, concetti, utopie, fede tutte par(1) Bolton King, Giuseppe Mazzini, ed. Barbera, Firenze, 1903; . Schlegel, Storia della letteratura antica e moderna; trad, di Fr. Ambrosoli, Milano, 1828; Mazzini, Scritti editi ed inediti (eitati); Mazzini, Lettres de Joseph Mazzini à Daniel Sterne.
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ticolari, che non avevano apparentemente dei punti di contatto con .quelli espressi da Rosmini, Gioberti o Spaventa.
* A lui si deve se l’idea dell’unità della patria, se il desiderio di raggiungerla a qualunque costo non andarono sommersi negli anni delle repressioni e delle disfatte. Esiliato, scacciato dalla Svizzera, allontanato dalla Francia, ingannato dà molte persone che ravvicinavano ed in cui poneva fiducia, abbandonato dagli amici, Mazzini continuò a credere nella sua fede, e fece che il suo sogno di redenzione sociale diventasse in parte realtà (1).
• • *
Tutta la vita di Mazzini fu la tensione verso l’unità: l’unità della patria, l’unità degli uomini in una religione che doveva perfezionarli ed elevarli nella scala del progresso (2). Egli però riconobbe lo squilibrio e la dissonanza che esistevano tra i suoi concetti e là sua potenza d’esecuzione, inceppato com’era dà mille cose, sviato da mille parti; dovendo passare da un linguaggio àll'altrc, da un’operazione materiale ad una morale, essendogli necessario congiurare, rap-piccare, rannodare, confortare... « Io vedo (prorompe nelle sue confidenze alla madre ed al Giannone) io vedo ciò che dovrebbe farsi e non posso farlo. Voi non sapete di me che il cospiratore, che l’uomo politico, ma gli affetti, i sogni, la poesia segreta intraducibile, la foga, l'anelito dell’anima mia, e il freddo, il deserto, là condanna, la fatalità, la tenebra che mi sta sopra non potete saperla;.. Morrò sconosciuto quanto all’anima mia, perchè il resto è vano rumore » {Epistolario, II, 1840, pagina 321).
Nè queste, afferma il Luzio, erano pose romantiche, teatrali, ma sì espressione straziante di uno stato di perenne infelicità per le disarmonie dell’esser suo, che doveva dominare e comporre a unità (3).
(1) Carlo Cagnacci, Giuseppe Mazzini e i fratelli Ruffmi. Porto Maurizio, Tipografia Berio, 1893; M.me E. Ashurst Venturi, Biographie de Mazzini. Paris, Charpentier, 1881; Mazzini, Epistolario: Scritti editi ed inediti, Firenze, 1904: Louis Blanc, Revolution française. Histoire de dix ans 1830-1840. Bruxelles, 1844, 2 voi.; Gaetano Salvemini, Mazzini. Catania, 1915.
Anche Lamennais, come Mazzini, dovette fuggire a Londra, nel 1815, per affari politici.
Mazzini» in Scritti letterari d’un italiano vivente (già cit.): « V’hanno epoche d’un’at-tività calma e normale, quando il pensatore è pari alla pura e serena stella che illumina e santifica co’ suoi raggi di luce quello che è. V’hanno altri tempi quando al genio è mestieri procedere innanzi devotamente, come la colonna di fuoco nel deserto e tentale per noi le vie di quello che sarà >•; T. Galla-rati Scotti, Giuseppe Mazzini e il suo idealismo politico e religioso. Milano, 1904.
(2) Mazzini, Scritti, due volumi, casa ed. Sonzogno, Milano.
(3) Alessandro Luzio, Giuseppe Mazzini, conferenza con note e documenti, Milano, 1905; Giuseppe Cesare Abba, Cose garibaldine, pag. 307, edit. S. T. E. N. Torino, 1912; A. Oriani, Fino a Dogali', cap. D. Giovanni Verità, «Mazzini aveva so-
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Mentre Lamennais poneva come motto al suo Avenir, il binomio:. Diò e la libertà, combattendo una strenua battaglia in favore d’un cattolicesimo più puro, d’un clero degno del suo alto mandato e della democrazia, Mazzini che forse leggeva la geniale gazzetta francese, pose le basi della sua « Giovane Italia»» su due parole che compendiano un mondo, e fanno degno riscontro a quelle dell'abate brettone: Dio e popolo. In questo motto v’è tutta la sua religione. La sua mente non poteva piegarsi alle forme del cattolicesimo, ed appena cominciò a dare pensiero ed azione per l'unità italiana intraprese contemporaneamente un’opera religiosa, perchè non gli pareva possibile redimere i popoli, se non si dava loro una fede. La sua religione è astratta; già il Taine giudicava che: « Le rêve et l’abstraction furent les deux passions de notre renaissance » (1). E sia per le false interpretazioni a cui il binomio Dio e popolo poteva dar luogo, sia per la sua indeterminatezza o perchè Mazzini non poteva consacrare il suo tempo ad uno studio profondo delle verità che enunciava, quel credo non ebbe che pochi e deboli discepoli.
Eppure in quelle sue affermazioni v’è tutta una nobile e nuova concezione del problema spirituale e sociale. Già sentiva Mazzini, come i filosofi presenti, che la terra non è luogo d’espiazione, ma luogo del nostro lavoro per un fine di miglioramento. Dio, a suo giudizio, ha dato la vita, quindi una legge di vita. La legge di Dio è una, ma noi la scopriamo articolo per articolo. Nessun uomo, nessun popolo, nessun secolo può presumere di scoprire tutta la legge morale; questa potrà essere a grado a grado compresa dall’umanità raccolta in Associazione, via via che tutte le forze, tutte le facoltà che costituiscono l’umana natura saranno sviluppate e in azione. Dunque Dio è principio, i Popoli sono strumento, l’Associazione è mezzo, il Dovere norma, l’Umanità fine, nè altro profeta, nè altro rivelatore l’Umanità può ammettere come intermediario fra Dio e popolo, che se stessa (2).
Lamennais, volendo dare un concetto di Dio, scrisse nell’Esçwisse d'une philosophie, quest'alta definizione più profonda e più filosofica di quella del Mazzini: « Il a mis dans chaque être quelque chose de tout ce qu’il est, et les plus parfaits portent en eux la visible empreinte de cette parenté divine: Ipsius et genus sumus; sortie de lui, la création aspire à retourner vers lui... Elle se dilate au sein de son immensité par un progrès sans fin... Il l’attire à lui en s’épandant sur elle; il la pénètre, il la féconde, il se prodigue à elle pour accomplir une union toujours
Enato contemporaneamente la resurrezione e la rigenerazione dell’Italia. Era troppo, a lirica delicata e veemente del suo sentimento religioso, invece di sollevare gli animi contro le brutture del cattolicismo. riscalducciava la bigotteria latente in tutte le coscienze rendendo più ascoltati i preti, che effermavano essere nella religione l’unica verità della vita. Ti oppa era ancora l’ignoranza e la bassezza di cuore perchè il nuovo cristianesimo umanitario di Mazzini fosse compreso», pag. 112, èdit. Galli, Milano, 1889.
(1) Taine, Les philosoplies classiques dti XIX siècle en Franco. Paris, 1868, pag. 268 e seguenti.
(2) Mazzini, Scrini editi ed inediti, ediz. eit.; Cantimori, Mazzini e la rinascenza religiosa del suo secolo. Genova, edit. Chiesa, 1906.
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plus intime et qui ne sera jamais consommée. Autant qu’il est donné à notre intelligence d’embrasser l’œuvre du Très-Haut, voilà l’univers; et la grandeur de la pensée est d’entrevoir ces merveilles qui fatiguent et désespèrent la parole, impuissant à les exprimer ». .
Mazzini pur avendo una grande venerazione per il Cristo quale apostolo, quale profeta di Dio, stimava che la religione fondata da Lui, stesse per esser sorpassata dalla religione dell’umanità, di cui egli intravvedeva il principio e lo svolgimento nei secoli. La sua sete di redenzione sociale, la sua ribellione alla Chiesa cattolica, come allora si presentava ai suoi sguardi d’apostolo .patriota, non gli lasciavano intuire tutto il vigore di rinnovamento, tutta la forza morale, veramente redentrice, che si trova nel Vangelo.
La fede di Cristo, come Egli la predicò sul monte ed alla Samaritana, non riuscì ancora ad essere la fede dell'umanità, e non tutti pensano che da quelle pagine deve scaturire luce, amore a generazioni e generazioni d’uomini a venire.
È vero che Mazzini diceva: « Quando le braccia di Cristo, distese anche oggi sulla croce del suo martirio, si scioglieranno a stringere in un solo abbraccio tutta quanta la razza umana, quando la terra non avrà più bramini e paria, padroni e servi, ma uomini solamente, noi adoreremo con ben altra fede, con ben altro amore, il gran nome di Dio », ma la sua non è religione cristiana.
Nello scritto in cui compendia, meglio che in ogni altro, la sua fede, quello diretto: « Ai membri del Concilio residenti in Roma », spiegò: « Il dogma Cristiano perisce... Il vostro dogma si compendia nei due termini Caduta e Redenzione. il nostro nei due: Dio Progresso... Noi veneriamo in Gesù il Fondatore d’un’epoca emancipatrice àfN individuo, l'Apostolo dell’unità della Legge, più vastamente intesa che non nei tempi a lui anteriori, il Profeta dell’uguaglianza delle anime... ma non cancelliamo, il nato di donna nel Dio, non lo solleviamo fin dove non potremmo sperar di raggiungerlo; vogliamo amarlo fratello migliore di tutti noi, non adorarlo e temerlo giudice inesorabile e dominatore intollerante dell’avvenire » (i).
Lamennais, invece, pur fra le sue novelle aspirazioni religiose, conservò un culto al cristianesimo ; la sua fede non era un deismo, come fu definita da qualche suo biografo, nè un panteismo larvato, ma una progressiva concezione della verità. Che poteva basarsi sull’e vangelo.
« Je suis plus que jamais frappé — osserva, scrivendo al sig. Marion il 18 novembre 1836 — de l’estrème besoin que notre société malade a de se régénérer de nouveau à la divine source du christianisme, et de l’impuissance absolue où elle est de se plonger dans ses eaux vivifiantes, tant que la route qui y conduit sera embarassée de mille et mille obstacles dont elle s’est peu à peu couverte, des pierres, du gravier, de la boue que le temps a charriés et qui l’encombrent presque à chaque pas. Il est clair, et personne aujourd’ hui n’en douté, qu'il se
(1) Mazzini, Scritti, op. cit., vol. II, pag. 61.
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.prepare irne grande transformation de l’humanité; nos arrière-neveux jouiront des biens dont nous n’avons que l’espérance lointaine » (1).
Egli stimava il Cristianesimo una religione che, purificata, poteva ancora rinnovare i popoli, ma per una, strana contraddizione di carattere, nelle sue collere, nelle sue ribellioni, nelle sue lotte aveva in sè più di Lutero che di S. Paolo.
In lui v’era la rivolta senza tregua al potere che menoma sempre e fa tralignare la Chiesa dal suo grande mandato spirituale fra la società. Ferveva il desiderio d’una riforma nel clero, che lo faceva agire, combattere, pred are, soffrire, come diversi secoli prima aveva lottato con altre parole e spinto da u .là visione diversa del futuro, il frate tedesco; e quell'austerità rigida, quel tono biblico, quella forma catastrofica degli scritti che si riscontra anche in Lutero, erano le caratteristiche di Lamennais che, come il celebre protestante, s’ergeva quale gigante sul suo secolo, condannava e benediva in nome d’una fede che il papa stimava degna d’anatema, ed intimoriva le pavide anime di molti credenti. Invece Mazzini sia per la soavità dei suoi affetti, per gli slanci d’apostolato, per l’entusiasmo e l’amore sovente cieco per il popolo, era veramente e quasi francescanamente cristiano: « Io non posso vivere, affermava, che di affetti e di credenze ».
* « «
In Inghilterra, negli anni che passano fra il 1837 ed il 1843, Mazzini sofferse la ■ povertà. In quei giorni pieni di tristezza, in cui per vivere dovette impegnare raneìio di sua madre, l’orologio, i libri, le carte geografiche e rinunciò persino al । mantello per compengej sigari, d’unica cosa di cui non credeva di poter far senza », | l’idea del suicidio gli balenò sovente al pensiero. Ma il ricordo della madre, del-1’a.mic.a.Jcarissima — Eleonora Ruffini —, di qualche altra persona legata a lui dà affetto intenso, ed il dovere che lo comandava e lo confortava nelle ambascio, lo salvarono dalla più completa desolazione. Scrisse che « il sacrificio era l’unica vera virtù » e che il dovere « verso Dio, verso l’umanità, verso la patria e verso tutti gli uomini » era la sola legge di vita per gli individui. Allora si pose ad educare i poveri operai italiani che si trovavano* a Londra, e fondò una scuola serale per essi, in una povera camera d'un modestissimo quartiere della grande città, trovando sollievo e sprone ad operare da quel contatto con gli umili (2).
(1) Arthur du Bois de la Villerabel, Confidences de Lamennais, op. cit.; E. D. Forgues, Correspondance, Lettres de Lamennais au P. Ventura, voi. II, p. 254-260, ediz. Paris, librairie académique Didier et O« 1863.
(2) Mazzini, Epistolario in « Scritti edili e non editi ». Ed. N. Lettera alla madre, a Genova, da Londra, 1840. « Io mi sento tanto stanco di letterati e d’uomini intelligenti che hanno pochissimo di spontaneo in sè, che starei delle ore a ciarlare con gente del popolo, quando v’è bontà naturale. Naturalmente, trovando qualche cosa che indichi slancio, o spiritualismo, o coscienza d’aver dentro un’anima immortale, in gente che non l’ha presa da libri, o da educazione, è una prova più forte che v’è del vero e che Dio ha messo quegl’istinti nel nostro cuore ».
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Lamennais, in lotta col Vaticano, abbandonato dal fratello col quale aveva diviso gioie e dolori, in continuo dissidio spirituale coi vecchi amici, solo, si trovava anch’esso fra le strette della povertà. Tolto dal suo mondo del pensiero e dalle sue aspirazioni, sceso dal ciclo in terra,’ non riusciva a comprendere l’esistenza coi suoi bisogni reali, i suoi inganni, il suo opportunismo. Genio nel campo delle lettere, nella vita di tutte le ore era un fanciullo in balia al primo venuto.
Un giorno il signor Houet, andò a visitare l’antico Maestro, che trovò alloggiato in una modestissima camera al quarto o quinto piano. Era d’inverno, e nel corso della conversazione Lamennais osservò che gli sguardi rattristati del suo vecchio discepolo si portavano sovente sul focolare spento. « Ebbene, disse con un sorriso, non c'è fuoco; questa è un’economia imposta dalla mia situazione finanziaria. Ma il freddo non m'impedisce di alzarmi di buon mattino; m’avviluppo allora in questo mantello e mi difendo dal gelo il meglio possibile. Il raggio di sole che viene a visitarmi è sempre il benvenuto. L'importante, caro Houet, è di fare il nostro dovere » (i).
Dovere, ecco la parola che sta come cardine d’ogni azione dei due grandi uomini. Mazzini è l’apostolo del dovére. Per esso va in esilio, soffre, rinunzia ai dolci legami famigliari, chiude in sè e soffoca i più soavi e forti affetti come l’amore ardente a Giuditta Sidoli, predica la religione dell'umanità, si assoggetta a£continui sacrifici, dà pensiero, agi, sogni di gloria letteraria, per la redenzione della patria, perdura a scrivere, ad agitare i popoli onde far trionfare la repubblica in Italia, difende ogni sopruso ed accusa le viltà che conosce. Le sue lettere a Carlo Alberto ed a Pio IX gli sono dettate dall'amor di patria e dall’imperativo inflessibile del dovere,, e quel suo libro che vivrà nei secoli ed a cui attingeranno i posteri molte norme d’educazione popolare, le pagine clic sono una purissima religione ed una profezia, s’intitolano: I doveri dell'uomo (2).
Nel 1837 Lammenais, votatosi apertamente per la repubblica, e desideroso di educare il popolo, di cui compiangeva le miserie, ma conosceva altresì i difetti, diede alle stampe un volumetto che i socialisti d'oggi dovrebbero rileggere e far conoscere, come l’opera in cui sono esposti tutti i diritti ed i doveri sociali, la giustizia ed il rinnovamento che si cercarono per.il proletariato. Ma mentre i moderni sociologi guardano essenzialmente al bene materiale, lasciando i valori spirituali e morali quasi in disparte, Lamennais e Mazzini ponevano il dovere e la fede in Dio come cardine d’ogni esistenza, d’ogni associazione, di ' qualsiasi rivendicazione umana.
Nel capitolo IX del Livre du peuple l’abate francese scrisse:
« Il ne suffit pas de connaître vos droits, il faut aussi connaître vos devoirs;
(1) A. Roussbl, Lamennais d’après des documento inèdito, op. cit., pag. 366-67.
(2) Mazzini, I doveri dell’uomo. I-quattro primi capitoli di quest’opera furono pubblicati nell’ A postolato popolare, giornale che Mazzini fondò per gli operai i taliani in nghilterra (1844). Il seguito fu stampato in Pensiero e Azione nel 1858.
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car la pratique du devoir n’est pas moins nécessaire que la joussance du droit au maintien de l’ordre voulu de Dieu et hors duquel vous n’avez rien à espérer sur la terre. (Vedi: Mazzini: Doveri, cap.: « Doveri verso l’Umanità).
« ... Le droit est sacré, puisqu’il est le principe conservateur de l’individu, l’élément primitif de la société et sa racine nécessaire.
« Le devoir est sacré, puisqu’il est le principe conservateur de la société, hors de laquelle nul individu ne se développerait, ni ne subsisterait ».
I capitoli sulla carità, sulla patria, su Dio, sulle associazioni, sulla legge sono densi di profondi pensieri, e Mazzini li ricorda nei suoi Doveri con alte parole di venerazione per l’autore. Poetiche e veramente educatrici sono le pagine sulla famiglia:
« L’homme seul est un roseau dont les souffles divers qui l’agitent ne tirent que des sons plaintifs.
« La nature pour vous est pleine d’enseignements: ouvrez les yeux, et les plus frêles créatures vous instruiront, Quand les flots, tourmentés par les vents d’hiver, écument et grondent, le pauvre oiseau de mer et sa compagne, réfugiés au creux d’un rocher, se pressent l’un contre l'autre, et s’abritent, et se rechauffent mutuellement. Il y a bien de tempêtes dans la vie: prenez exemple par l’oiseau de mer et vous ne craindrez ni les vents glacés ni les vagues qu’ils soulèvent (i). (Vedi: Mazzini, Doveri, cap.: «Doveri verso la famiglia»).
Mazzini conservò, sotto un certo aspetto, nei suoi Doveri, la foima usata da Lamennais nel rivolgersi ai lavoratori francesi. Ma mentre questo s’elevava a sacerdote e, sapendo dalle sue tristi esperienze, che in ogni classe sociale sovrabbondano le debolezze morali, le invidie, le miserie dell’anima ascendente con sforzo la via del progresso, che il popolo, anche ai suoi apostoli, non dà se non delusioni gridandogli più facilmente il crucifiée che Y osanna, restio alle innovazioni spirituali, legato alle sue abitudini, e che vinti e vincitori sono in preda all’errore ed al male, parla ad essi come un giudice e come un maestro, Mazzini invece nella dolcezza naturale del suo animo, nel suo ottimismo che trionfava d’ogni inganno, stringe a sè fraternamente il popolo, lo sublima e lo consiglia all'azione benefica. Chi legge il volumetto francese e poi i Doveri del Mazzini, non può far a meno di osservare che’ l'opera de nostro grande educatore si trova in germe in quelle pagine. Però un’onda nuova d poesia, di fede, d’ardore s’agita nel libro del Genovese; una visione più piena della vita ne balza fuori, una concezione più larga dei bisogni sociali s’afferma in quei capitoli, un’irradiazione di bontà ne emana come un fluido benefico. Esule per il mondo egli raccolse il grido delle plebi di varie nazioni; visse a contatto col popolo, lottò per esso in patria e fra gli stranieri, e fedele alla sua religione dell’umanità, dà all’uomo un posto eccelso sulla scala sociale, e lo eleva, sia pur esso misero, infelice, reietto, fino a Dio.
(i) Lamennais, Oeuvres complètes, ed. eit.
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La fede cristiana nella sua miglior essenza (quella fede che Mazzini diceva sorpassata dalla nuova religione) vibra invece con nuovo ritmo ed in novella forma, in ogni pagina dei Doveri.
La nostra storia nella Sua sintesi, lo spirito legislatore dell’Italia, le migliori aspirazioni dell'epoca, la famiglia, l’umanità, il sogno, l’utopia mazziniana si trovano condensati in brevi capitoli nell’aureo libretto. Ed al disopra delle speranze che mai si realizzarono, degli aneliti che mai trovarono una stabile corrispondenza s’erge il dovere, questo grande regolatore d’ogni azione umana, questa legge dinamica d’ogni v ta, questa luce delle coscienze e guida dell’intelletto. Mazzini fu l’apostolo del dovi re; e mentre il materialismo cominciava ad imperare in Europa, egli mostrò all’umanità i valori eterni dello spirito e trovò nel suo entusiasmo, nel suo ardor pàtrio e nel suo amore al prossimo delle leggi di vita, dei consigli per far progredire il popolo, quali i nostri migliori studiosi non hanno ancora saputo formulare nè più nobili nei postulati nè pili profondamente educativi. •
Certamente le teorie del Mazzini non sono tutte effettuabili, ma molte di esse feconderanno altri intelletti, commuoveranno dei giovani cuori, dimostrando come nel grande esule s’agitasse veramente il sacro spirito d'nn profeta.
* ♦ » .
Eguali- nelle aspirazioni morali, Lamennais e Mazzini avevano pure grande affinità,nelle tendenze politiche.
Quando il nostro esule entrava pieno di speranze e di gioia in Roma, latta repubblica, Lamennais saliva il seggio da deputato a Parigi, dove s’era proclamata la repubblica del 1848. Un pontefice fuggiva da Roma, invasa dai repubblicani, un re lasciava Parigi, per andare in esilio. Il sogno dei due scrittori pareva realizzato, ed i dolori, le miserie degli anni trascorsi si obliavano nella gioia del presente. Ma essa durò poco; Roma presa dai francesi ritornò al papa, la Francia dopo poche infelicissime lotte nominava Napoleone III imperatore.
Quante delusioni in quei tempi! Amici che avevano diviso dolori ed affanni defezionavano; correligionari, che parevano fedeli fino alla morte, passavano al campo avverso, per timore, per debolezza od attratti da nuovi miraggi (1).
Una donna divideva la fede di Lamennais e di Mazzini: George Sand.
Nelle lettere che scriveva dall’estero agli amici ed alla madre, Mazzini ha parole di gran lode per questa geniale autrice: « Per ingegno e modo di scrivere, io non esito a porla eguale a M.me de Staèl; per idee avanzate sociali, è da preferirsi; ma questo è anche effetto del secolo, e dell’esser nata più tardi... Forse la sua condotta non è
(1) Dora Mf.legari, Lettres intimes de Joseph Mazzini. Paris, 1895; J. W. Mario.. Della vita di G. Mazzini, Milano, 1891; Aurelio Saffi, Proemi a « Scritti editi ed inediti» di Mazzini.
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stata nei suoi primi tempi esemplare. Ma da un tempo in qua specialmente, ciò che ella scrive indica che > germi del bene si sono a un tratto sviluppati in lei... »,
Nel suo ottimismo egli eleva al disopra della moltitudine quella scrittrice singolare, ha fede nelle sue osservazioni, crede nelle idee che enuncia, spera che continuerà nella buona causa intrapresa. Da Londra si rivolge a lei invitandola a lavorare per gli italiani, dopo essersi così vivamente interessata per la sua azione fra gii operai, in quella città.
«...Donnez parole d’approbation au drapeau de notre jeunesse, et une parole d'encouragement à le suivre à ceux qui, sortis il y a peu d’années de l’enfance, regardent autour dans l’incertitude et cherchent la route à suivre. Soyez notre patronne. Nous ne le méritons pas par ce que nous avons fait, mais nous lé méritons pour ce que nous voulons faire. Vous êtes la seconde personne à qui j’adresse de telles paroles: la première est M.r Lamennais auquel, il y a six ans, je demandai une parole de sympathie et d’encouragement pour, notre cause italienne. Je vous avoue que j'ai trop d’orgueil Italien dans l’âme pour croire qu’il me serait possible d’en adresser de semblables à une troisième. Il y a ça et là dés intelligences que je révère; mais elles sont toutes Françaises, Polonaises ou Allemandes par leurs tendances et par leurs idées; vous vous n’êtes pas Française: vous êtes notre sœur à tous par le coeur » (1).
Lamennais, il quale conservava in sè la severità del giudice che assolve e che condanna, propria del confessore, con l'austerità del sacerdote, pur apprezzando le doti della Sand, discorrendo volentieri con lei, la giudicava severamente. Nei suoi scritti accenna sovente ai rapporti un po’ forzati con la celebre romanziera che i suoi vecchi amici criticavano, perchè davano luogo alle maligne calunnie, e nelle bellissime lettere dirette al barone de Vitrolles, la chiama: la prêtresse. « Je n’entend plus parler de Carlotta (Marliani) ni de George Sand, ni de M.me d'Agoult (Daniel Sterne) — scrive il 30 maggio 1841 dalle carceri di S. Pelagia. — Elles s’aiment comme ces deux diables de’Le Sage, l’un desquels disait: — On nous réconcilia, nous nous embrassâmes; depuis ce temps-là, nous sommes ennemis mortels —» (2).
Quando Napoleone III salì al trono, la Sand dimenticò le sue professioni di fede democratica e repubblicana, e s'unì a colorojche avevano voluto l’impero. Mazzini ne provò un vivo dispiacere, e cercò la causa della defezione nella debolezza femminile; Lamennais non stupì; egli conosceva la donna nei suoi errori e nelle sue virtù, e questo cambiamento non gli procurò una grande delusione.
(1) Mazzini. Scritti edili ed inediti, voi. XXIII (Epistolario, voi. XI dell’edizione nazionale, pag. 366).
(2) George Sand, Lamenriais (Ocuvres complètes): « Egli sta organizzando a favor nostro una crociata più gloriosa per la nostra età e più memorabile agli occh delle future generazioni, di quelle convocate dallo zelo di Pietro, ¡’Eremita di San Bernardo; impeiocchè non è la tomba, ma il retaggio di Cristo che il prete Bretone ci guida a conquistare; non è più l’islamismo che abbiamo a combattere, ma-le empietà della vita sociale: non son pochi cristiani captivi ch’egli si adopera a ricomperale, ma la totalità dell'umana famiglia ch’egli vuol redimere dalla schiavitù ». .
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* ♦ ♦
Mazzini e Lamennais morirono senza .vedere i loro ideali realizzati. In tutta l’opera mazziniana, negli scritti, nelle parole, nelle lettere la repubblica v’era esaltata. Mazzini aveva sempre creduto che il popolo avesse compreso i suoi ideali, c che ad un segno dato, si sarebbe levato in massa per la suprema affermazióne della democrazia, per l’estrema liberazione della patria da ogni oppressione. Anche quando Cavour col suo genio, seppe vincere molte forze avverse; quando le regioni italiane si mostrarono pronte ad unirsi sotto la monarchia sabauda, e Garibaldi ed un gran stuolo di valenti repubblicani, accettarono di buon grado i fatti compiuti, egli, solitario, continuò a scrivere, a combattere per la sua idea. Come il grande francese egli era un idealista per eccellenza, nè come tale poteva essere un esperto e furbo politico. Nella vecchiaia si diede alla propaganda religiosa, ma gli animi erano ormai dominati dalla reazione positivista, contro l’idealismo della prima metà del secolo xix, e là sua parola, i suoi ardenti opuscoli non suscitarono quell'entusiasmo che aveva sperato. In una delle sue ultime pagine, espande il suo dolore, e dice di essergli impossibile la felicità, quando la redenzione d’Italia, invece che il ridestarsi d’un grande e virtuoso popolo, pareva « il sorgere d’un numero di raggiratori materialisti e prosaici adoratori di sè stessi, anziché dell’avvenire nazionale. L’Italia, la grande, la bella, là morale Italia dell’anima mia non è in questo misto d’opportunisti, di piccoli Macchiavelli... ho creduto evocar l’anima dell’Italia, e non mi vedo innanzi che il cadavere ».
Questo pessimismo del genio che non vede effettuarsi i suoi sogni, pesò anche sugli ultimi mesi di vita di Lamennais. Anch’egli, cóme Mazzini, aveva un culto per Dante (1), ed il suo ultimo lavoro fu la traduzione, che non riuscì a finire, della Divina Commedia, seguita da suoi appunti critici. Il capolavoro uscito dalla mente del maggior poeta italiano occupò i suoi estremi giorni, ed il De Sanctis nei suoi Saggi definisce questa traduzione « un miracolo di lavoro ».
(1) Mazzini, Dante, Scritti letterari di un italiano vivente, op. cit.: Lamennais /»osiAwwes pub. par E.D. Forgues, Paris, 1855; A. Farinelli, Dante e la Francia. Dal! età media al secolo di Voltaire. Milano, 1908. In questa sua macisti ale opera l’autore cita diverse volte il Lamennais, come uno dei pochi che in quei tempi abbia vera->»ente amato Dante: «Chi non ricorda, scrive, il miracolo compiuto dal Lamennais, che volto 1 Interno nella prosa sua, senza miseramente illanguidire il verso creatore del sommo... »pag. 241, vol. I; ed a pagina 482 dei vol. I, giudica che: « Il miglior traduttore moderno Geli interno dantesco, il Lamennais, lamenta ancora l’oscuro senso della trilogia divina, le tenebre “ aujourd’hui, le plus souvent, impénétrables}”; Mazzini. Lettres à Daniel Sterne <\ Agonit), Paris, 1872, opera già citata; Benedetto Croce nella sua Fste/tca così definisce ri modo di concepire la letteratura da Mazzini e da Lamennais: «1 erhno Giuseppe Mazzini non concepì mai altrimenti la letteratura se non come mediatrice dell idea universale, del concetto intellettuale », pag. 379. « Appena si può citare ri Lamennais, che come il Cousin considerava l’arte quale manifestazione dell'infinito per mezzo del finito, dell’assoluto per mezzo del relativo », pag. 373. {Estetica, ed. Remo Sandron, Napoli, 1902).
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« La poesia è l'oblio dell’anima, scrive il critico italiano, nell’oggetto della sua contemplazione; la critica è l’oblio dell'anima nella poesia. Il Lamennais n'esce* fuori e s’abbandona a’ suoi sentimenti, e sfoga il suo animo troppo pieno d’amarezza.
« Dante dice: “Libertà vo' cercando ch’osi cara ”, Il critico (Lamennais) rimane profondamente commosso a una parola che a lui, già presso alla tomba, riassume tutta la sua vita: sogni di libertà, speranze, brevi gioie, crudeli disinganni, fede nell’avvenire indomata. „ Helas — prorompe non piu il critico, ma l’uomo —- en tous les sens, qui sommes nous, que des pauvres misérables qui vont cherchant la liberté, la liberté de l'esprit asservi aux préjugés et à l’ignorance, la liberté du cœur esclave des passions, la liberté du corps livré aux caprices des maîtres insolents, la liberté dans tous les ordres, dans l’ordre intellectuel, l’ordre morale, l’ordre politique? Qu’est-ce que nos sociétés, qu'est-ce que le monde, sinon un noir sépulcre, où la tyrannie sous mille formes* hideuses nous enchaîne avec des ossements? "... Vi sono altri tratti di questo genere che stringono il cuore. Papa Adriano, par-» landò di Alagia, conchiude: „ Questa sola m'è di là rimasa ”. Il Lamennais soggiunge: „ Quelle tristesse dans ce mot simple, bref, qui termine le récit du Pape, comme la vie se termine par la solitude et le vide! ". E qual tristo commento dirò io a mia vòlta; e quanta semplicità in tanta tristezza! » (i).
Così paragonando gli ideali che ancor splendevano nella vecchiaia alle menti dei due grandi scrittori e patrioti: Lamennais e Mazzini; il loro desiderio di farli cosa viva, conforto, elevazione, fonte di progresso per l’umanità; le delusioni, che non valsero a diminuire il loro ardore d'apostolato, si può dire di ciascuno di essi quel che fu scritto per il Lamennais:
« Vecchio, ma di una verde vecchiezza, la morte lo ha colto nell’atto del combattere, militando l'ultimo giorno con la fede e il vigore de’ primi anni ».
(Continu^ Luisa Giulio Benso.
(i) Francesco de Sanctis, Saggi critici, nuova edizione riordinata, acciesciuta e corretta a cura di Michele Scherillo, ed. Morano, Napoli, 1914.
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LA CONQUISTA DELLA PALESTINA
(MENTRE GL’INGLESI MARCIANO SU GERUSALEMME)
’Europa torna alla città da cui venne il fermento della sua non ancora conchiusa rivoluzione- morale: a Gerusalemme. Ci torna in anni, per difendere da quelle terre la libertà dei popoli occidentali, la pace e il dominio del Mediterraneo. La Palestina riprende nella storia della politica il valore ch’ebbe nei secoli delle grandi lotte imperialistiche. L’Assiria, la Babilonia, la Persia, l’Egitto, Alessandro.^ Roma, i più grandi popoli e le civiltà più conquistatrici vi conclusero la loro parabola.
I secoli e le storie ritessono la loro tela sotto gli stessi soli, sopra la medesima striscia di terra che si estende dal Torrente d'Egitto al Libano, dal Giordano al Mediterraneo. Il Mediterraneo è sempre lo stesso gran lago a cui la civiltà ha anelato nei secoli per i suoi commerci, per la sua grandezza, per le sue conquiste. L'Egitto ha sempre inteso la necessità di assicurarsi le spalle dal confine asiatico, e il corridoio della Terra degli Ebrei è stato spesso il teatro delle sue resistenze contro gli Imperi che si affacciavano verso il Nilo.
Anc’oggi è rOricnte vicino, più che non siano il-Belgio, l’Alsazia-Lorena, la Serbia o i Balcani, è l’Oriente vicino, chiave dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, la causa profonda dell’immane conflitto. Lo sapevamo tutti- prima della guerra: l’abbiamo dimenticato seguendo gli eserciti nei loro campi di battaglia di Fiandra e di Galizia. La chiave dell’immane conflagrazione sta ancora nel Mediterraneo e la sua interpretazione va cercata in questo mare e la sua conclusione non può trovarsi che nell’ombelico dei tre continenti che s’affacciano su questo mare.
La conquista di Palestina segna il tramonto dei sogni di < inorientamento », del Drang nach Oslen della Germania e dell’Austria, più che l’occupazione di Bagdad o di Salonicco; annulla l’incubo che pesava sull’Egitto e sui domini inglesi; dà sicurezza alle colonie latine del Mediterraneo e assicura la libertà delle nazioni navigatrici; rigetta l’inerzia turca nell’Asia, dopo averla cacciata dai Balcani e dall’Africa.
È la conclusione d’una fiera lotta di popoli, come Cartagine prima e la Giudea poi, ai tempi di Roma; è il suggello ad un dissidio che turbava indefinitamente la pace del mondo. Noi oggi non.ne possiamo misurare le conseguenze per la politica e la civiltà del mondo: ma possiamo intuirle ed accennarle. La Germania
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è respinta verso i suoi mari nordici, da cui le genti teutoniche pare non debbano allontanarsi. Il centro di gravità del mondo storico non è spostato. Il Mediterraneo non cambia signore e le grandi vie di comunicazione non cadono sotto il nuovo imperialismo.
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Ma le. battaglie di Palestina, oltre per questo che è il loro significato realistico e politico, risuonano con una loro eco più eterna nei nostri spiriti. Quando si leggono le notizie della guerra che infierisce sui campi d’Europa, nessuna associazione remota che valichi le età delle storie particolari, nessuna associazione universale, quasi connaturale alle anime delle genti civili, accompagna le tappe degli eserciti che avanzano. C’è, di fronte ai diversi teatri di guerra, un’anima diversa, una pulsazione diversa secondo i popoli, delimitate quasi dalle frontiere politiche od etniche o dagl’interessi temporali. Ma quando gli uomini leggono gli antichi nomi di Gaza, di Beer-Sceba, di Ascalon, di Hcbron, di Sichem, di Mizpah, di Gerusalemme, un alcunché universale, eterno, divino si sprigiona dai bollettini delle battaglie. Tutti gli uomini vi colgono echi di dolcissime sensazioni, di pensieri celesti, di sogni non perduti o lontani 0 appassiti, ma quasi eterni ed immanenti nei destini degli uomini; d’ideali che paiono nati non negli spiriti d’un popolo o nel genio d’una razza, ma nella stessa matrice dell’umanità. La patria materiale degli uomini può esser dappertutto sulla terra: la patria morale è laggiù nel paese della Bibbia di Mosè che generò i Profeti degli Ebrei, quelli dei Cristiani, quello dei Mussulmani e colla leggenda suscitatrice dei mondi ideali — collMggoufaA ebrea —- conquistò senza sangue e senza pianto gli uomini e ciò che essi producono. Tutti gli uomini che oggi stanno sospesi sulle sorti dell’incomparabile conflitto possono dichiararsi figli, per il loro più profondo spirito e per la loro genealogia morale, di quel paese e della civiltà biblica che vi nacque e vi prese il volo per il mondo.
Gerusalemme non ha oggi un suo speciale significato strategico, industriale, economico, politico, artistico: non è nè Lovanio, nè Trieste, nè Parigi, nè Vienna e non è neppure Belgrado o Bagdad; è qualche cosa di diverso che non si misura colle norme consuete o colle categorie belliche o politiche nè colla stòria d’ogni giorno. Gerusalemme è il nome dell’io«, deH’universalmente sacro; è un altare a cui gli uomini dovrebbero avvicinarsi per deporre le armi, coll'anima e le mani immacolate o riattingervi le acque purificatrici dei loro peccati: è un terreno di pace: — jerusciath-scialoni, — da cui venne l’oracolo dell'amore del prossimo e dèlia divina paternità, secondo la parola del suo profeta ebreo: « Non abbiamo forse un padre comune?».
Nessuna città, nella sua nudità o nelle sue rovine, sarà mai nella storia dello, spirito quello che fu ed è Gerusalemme. Verso quale città gli uomini di tutte le religioni, di tutte le razze, di tutte le culture, di tutte le classi, di tutti i climi, di tutte le lingue, andrebbero col cuore con cui salgono a Gerusalemme?
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Ora però la conquista di Gerusalemme non ha il significato d’un pellegrinaggio spirituale nè d’un ritorno delle genti europee alle fonti della loro vita ideale, nè d’una rivendicazione al Cristianesimo della culla del suo fondatore. Questa che si fa oggi non è una guerra di religione. Ma è certo che colla caduta di Gerusalemme la Palestina viene ammessa nel campo delle genti cristiane ed europee. E ormai anche nella storia attiva della gente ebraica dopo 19 secoli. L’Islamismo non ha creato nulla in Palestina e il dominio turco può sloggiarne senza danno degli uomini e della civiltà; senza la perdita di alcuna posizione ch’esso meritasse di conservare. La Palestina riprende da questo momento la sua storia interrotta dopo la conquista romana. Pare una leggenda, ma è così. Si chiude la parentesi di 19 secoli di riposo e di silenzio. Il sabato della Terra è compiuto.
Ora i destini della Palestina dipenderanno da quelli delle genti che saranno chiamate a colonizzarla e della potenza europea che l’occuperà stabilmente.
Nessuna potenza vi può avere maggiori interessi politici dell’Inghilterra che stanzia già in Egitto e nessuna potenza è capace di neutralizzarvi i divergenti interessi religiosi più dell’Inghilterra. Certo questa guerra avrà fra le sue inattese conseguenze anche questa: di risuscitare una terra abbandonata e di aprirle un destino più fecondo e più nobile di quello che mai abbia avuto in 18 secoli, e di sopirvi, con qualche equo e accorto espediente, le rivalità delle sètte e delle grandi correnti teologiche che vi hanno le loro memorie o i loro istituti. Forse Gerusalemme potrebbe diventare l’ara delle paci internazionali e il luogo di confluenza ideale di tutti i seguaci del monoteismo. La tolleranza e l’esperienza inglese sono capaci di queste inattese soluzioni di conflitti secolari.
I luoghi santi delle grandi religioni storiche non possono essere oggetto di dominio assoluto d’una potenza politica. Esse debbono stare più in alto delle oscillazioni diplomatiche o dei materiali interessi: appartengono alla storia dell’idea e al dominio dello spirito. L’Inghilterra può essere la custode di questi templi del-rUmanità dove, ognuno seguendo le proprie vie, Ebrei, Cristiani e Mussulmani torneranno come al centro della loro sfera.
Ma che cos’altro porterà l’Europa in Terra Santa? E quali più pratiche conseguenze avrà la conquista dell’Intesa? Vi porterà soltanto i suoi commerci, le sue industrie, la sua igiene, i suoi istituti di cultura, i suoi pellegrinaggi, le sue escursioni, le sue iniziative di lavoro, i suoi gabinetti di ricerca scientifica, i suoi grandi alberghi cosmopoliti, i suoi luoghi di piacere? Ne farà soltanto una succursale e una copia di Manchester e di Londra, o un'immagine minuscola e apatica di Parigi e di Milano? Noi speriamo qualche cosa di più originale, cioè di più rispon- -dente alla storia e al paesaggio biblico.
La Palestina è paese di grandi possibilità, per tutti gli esperimenti. Pareva ed era una terra ormai morta; ma il suo popolo errante — il popolo ebreo che il destino e la paura turca tenne lontano dalla patria sognata — ha dimostrato in questi ultimi 30 anni quali successi agricoli e spirituali può dare V humus sacro. Bisogna conoscere i resultati meravigliosi della nuova colonizzazione ebraica per
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farsi un’idea delle ricchezze che possono ancora trarsi dal suolo della Palestina, dalle sue valli, dalle sue foreste, dai suoi laghi, dalle sue riviere, dai suoi pascoli, dalle sue viscere (1). Le sue ferrovie possono, quando saranno completate, farne la via maestra fra l’Europa, l’Asia e l’Africa, il ponte che unisca iV Mediterraneo al Golfo Persico. La ferrovia di Haifa congiungerà il Mar interno alla valle del Tigri e dell’Eufrate e di là ai domini inglesi e russi dell'Asia; la ferrovia di Gaza per E1 Arish e l’Egitto si allaccerà al Cairo, alla gran linea del Capo. Quando si potrà viaggiare per ferrovia da Calcutta a Calais, dalla Siberia all’Africa meridionale, la Palestina sarà anche da questo lato il centro del mondo.
Ma la Palestina ha bisogno d’una sua popolazione che non può essere nè la gente dell'Asia nè la gente d’Europa. La Palestina morta per tutte le genti dell’Europa e d’Asia da 18 secoli pare attenda con braccia materne i figli che non la dimenticarono mai e che soli mostrarono di amarla e di desiderarla più bella e meno triste. Se le Potenze occidentali, dopo avere sfruttato il valore politico e strategico della Palestina, vorranno intendere non solo "il suo valore storico, spirituale, economico, ma anche quello specifico significato che ogni terra ha nelle profondità del suo destino, e vorranno ricavarne tutti i frutti migliori per la civiltà e il lavoro degli uomini e mettere anche il suggello alle rivalità della grande politica imperialistica, non potranno che ridare la Terra-senza-popolo al Popolo-senza-terra, il Paese della Bibbia al Popolo della Bibbia; la culla del monoteismo e dell’idea di giustizia alla gente che vi generò quelle due grandi idee. Non sarà male che il móndo costruisca colle sue mani insanguinate un edilìzio di riparazione e di poesia e ricongiunga i figli alla lor madre che fu sterile nei millenni perchè li aspettava.
Che cosa furono i 18 secoli di storia della Palestina dopo l’esilio degli Ebrei? Nulla. C’è in questo nulla una meravigliosa e spaventosa filosofia della storia. Se le deduzioni che si possono trarre da questo fatto reale ed innegabile debbono insegnar qualche cosa agli uomini ed esser fonte e monito per i nuovi indirizzi e i nuovi assestamenti del dopo guerra, non v’ha dubbio che gli Ebrei devono essere considerati come l’unica gente che può ridare valore e frutto a quelle campagne, a quelle memorie, a quel cielo, che può riportare alla confluenza dei tre continenti antichi un’anima’ricca, una volontà di fecondazione materiale e spirituale, uno spirito universale, intonato agl’ideali nqovi ed a quel cielo, a quella terra, a quelle memorie, a quelle necessità; una forza di sacrificio e di sogno quale è richiesta da una ricreazione sostanziale, lo spirito d’una gente che visse tutte le vite, che fu a contatto con tutte le civiltà, pur serbando la sua civiltà palestinese e facendo tesoro di tutte le esperienze. Questa sarà la conseguenza pili nuova e più feconda
(1) Vedi un articolo: Palestine, The Real Country dovuto alla pcnna’dclla più grande autorità vivente, su questo argomento, e stampato dall’organo del Comitato palestinese britannico: Palestine (Palatine Bank Buildings, Norfolk Street, Manchester). Ed ancora: Agricultural and Botanical Explorations in Palestine di A. Aaronsohn, Director of the Jewish Agricultural Experiment Station at Haifa, Palestine, stampato in «United States •epartment of Agriculture Bureau of. Plant Industry», Bulletin n. 180, Washington, 1910.
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che potrà sorgere dalla conquista della Palestina e di cui non possiamo valutare le ripercussioni, nella politica, nell’economia e nella cultura.
Il ritorno del popolo ebreo alle campagne d? Palestina, alla sovranità non dei Luoghi sacri che appartengono a tutta l’Umanità e ai loro seguaci, ma delle terre da fecondare, dei porti da aprire al commercio del mondo, alla sovranità del suo destino e della sua anima, il ritorno del popolo internazionale nell’ombélico del mondo civile, nella terra sacra a tutte le genti che credono alla sua Bibbia, sarà il segno che la giustizia e la pace son tornate in terra.
« E allorché saliranno i liberatori sulla montagna di Sion... sarà allora l’avvento del Regno di Dio ».
È poesia? Certo, ma è anche giustizia. E perchè mai la politica non può redimersi dai suoi errori con un alito d’ideale, con unjgesto che sopisca le tragedie di questi , anni e dei millenni che furono e faccia ancora sperare e sognare in qualche tempo migliore e in una Umanità più buona Molte speranze e molti sogni possono nascere oggi dalla conquista di Palestina, mentre i soldati dell’Intesa salgono verso Gerusalemme. Bisogna che gli uomini, e gl'italiani a cui ci rivolgiamo, sappiano fecondarli.
Dante Lattes.
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SALMO
LA LIBERAZIONE DI GERUSALEMME
i. /Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i Profeti e lapidi i tuoi Santi, VJT e volesti salvo Barabba e morto di croce il tuo Salvatore,
2. Tu perciò fosti ih prèda all’angoscia e all’affanno e passasti per calamità e per stragi e rovine
3. I legami della schiavitù e della morte ti cinsero nel doppio millenario della tua desolazióne
4. Ma per dominare sui popoli fino agli estremi confini i Principi della iniquità cospirarono trame di sangue
5. per frantumare le Nazioni come vasi d’argilla scatenarono la violenza dell’ingiustizia rapace
6. per edificare Babilonia e Sodoma sul tuo monte santo coprirono ogni terra di morti innocenti e di sangue
7. Ecco i misfatti di loro superarono la grandezza dei tuoi e Tu alzasti la voce della supplicazione all’Altissimo •
8. Fino a quando, o Eterno, mi nasconderai il tuo volto?
Sorgi contro il furore dei miei oppressori
9. Salvami dall’uomo di sangue e di frode
Tu hai in odio tutti gli artefici d’iniquità
10. Desolata gridasti alla fine il profetico grido « Benedetto Colui che viene nel nome del Signore »
11. Esulta e cospargi di gigli e di rose i tuoi colli L’Anziano dei giorni ha esaudita la tua preghiera
12. Mài più i cavalli dei tuoi feroci oppressori insozzeranno le rovine del tuo Tempio
13. Innalza l’Hallel delia gloria all’Eterno
canta il Cantico nuovo k al suo Santo
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14. Ampliatevi o porte eternali
Spalancatevi o battenti vetusti U Re dèlia gloria ritorna!
15. È venuto. Il su© emblema è sii tutti i vessilli
da Roma, dalla Gallia, da Albione ha tratti i liberatori.
16. Trai fuori la lampada che nascondevi sotto il moggio
dalla torre Antonia sulla vetta di Sion sia lume a tutte le genti.
17. È caduta è caduta la mezzaluna dei barbari sulla cupola d’Omar stende i suoi bracci la croce
18. Guai a Voi, Principi di violenza e di frode
Imperatori d’ogni delitto e d’ogni azione nefanda.
19. La coppa del vino del dolore è doppiamente ricolma per Voi Niuno più crederà all’ipocrisia della vostra parola .
20. Gridaste : « Dio è con noi » per l’inganno dei popoli il vostro piede è preso nella rete che avete tessuta
21. La giustizia dell’Eterno vi scaccia dalla sua città Santa come Cristo cacciò i ladroni fuori dal Tempio.
22. Sulla rupe di Melchisedec Re di Salom e di Abramo sta aperto il Libro dell’Evangelio eterno
23. Gerusalemme, Gerusalemme innalza l’Hallel della’ gloria canta il cantico nuovo della tua liberazióne
24. Benedetto sia il Signore Dio d’Israele
che visitò e riscattò il suo popolo.
25. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore.
Enrico Masini.
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IL SOLDATO E L’EROE
(SAGGIO DI UNA PSICOLOGIA DELLA GUERRA)
Alla memoria del mio fratello d’armi EUGENIO CERVINI, tenente del 59° Fanteria, cadalo sul Colbricon il 22 maggio 1917
...mura da prendere, fiumane da valicare e gioghi e vétte e gole, ghiacciai deserti, valli senza sole, fosche pietraie, squallide biancane.
I.
E difficile coordinare, assommare ed esprimere le sensazioni che la guerra lascia in noi. Sono sensazioni, per numero, infinite; per qualità, diversissime, per aspetti, molteplici, per rapidità, inapprezzabili, per intensità incancellabili: fervide, tremende, celeri, fulminee, grottesche, orride; agonie lente, di disperazione o di attesa ed agonie veloci di morte; silenzi fondi e lugubri, e frastuoni immensi, ombre titaniche e luminosità di ghiacci, di sole; corse affannose, cardiopatiche, angoscianti, e avvicinamenti di lumaca; insidie e sorprese, urli di ferocia e di vittoria, bestemmie, imprecazioni, abnegazioni, preghiere, sacrifici ignoti ed inapprezzati, gesti di rivolta, momenti di suicidio, ore di stanchezza infinita, invocazioni di morte, riprese trionfali della vita, abbandoni, sconforti, esaltazioni, martirio della carne e gioia dello spirito: ovunque, in ogni attimo, la volontà che domina e vince e trascina e anima e sconvolge e soggioga la materia, e questa
D’Annunzio.
si piega al suo imperio fino a negar se stessa, ad annientare il proprio istinto profondo. Sensazioni che appariscono sullo schermo delle coscienza simultanee nelle loro diversità e nella loro stessa antagonia, che s'incidono gagliardamente nel nostro spirito, logoranti, estenuanti... La coscienza non ha tempo di contemplarle, di dominarle, che altre infinite ne sopraggiungono: sofferenza che si aggiunge a sofferenza come tenebre si aggiungono a tenebre nelle notti senza stelle.
La personalità reagisce: le forze dell’essere, le energie oscure e sopite dell'organismo si riaccendono nello sforzo supremo della resistenza, l’azione e i doveri supremi del soldato sono la base di questa resistenza. Se le sensazioni della guerra, così vaste e terribili da raggiungere l’estremo limite di ciò che i nervi umani possano sopportare, dovessero esplicarsi e dare all’organismo la sofferenza che esse in sè e per sè conterrebbero, è fuor di dubbio che nessun uomo potrebbe resistere lungamente al loro urto.
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Le leggi di natura non permettono che l’anima subisca in tutta la loro estensione l’urto formidabile di tante impressioni: l’istessa vertiginosa fuga .di esse, il succedersi continuo degli eventi attenua la impressionabilità della coscienza, diminuisce la capacità di Recezione del nostro spirito, sminuisce le facoltà di sentire il dolore. Come l’occhio non percepisce oltre un certo numero di vibrazioni e i sensi si ottundono e ricadono esausti quando abbiano raggiunto il massimo limite della loro tensione nel piacere o nel dolore, così il nostro orizzonte psicologico è limitato nella sua capacità di appercezione. Questa limitazione è la causa prima della possibilità -di resistenza dei combattenti al pathos della guerra.
La successione fulminea e il mutare vertiginoso degli aspetti della guerra, il loro prospettarsi ed il loro avvicendarsi, mentre tengono l'animo dei combattenti in uno stato perenne di febbre di tormento, sono per la loro stessa rapidità di successione la ragione della resistenza dell’organismo umano alla vita di guerra.
Il combattente non ha tempo di rendersi conto dell’aspetto' terribile di una situazione, del pericolo di un momento, dell’orrido di uno spettacolo, dell’esaltazione di un gesto proprio od altrui, che rincalzare imperioso, direi quasi pietoso di altre preoccupazioni, di nuove vicende ne lo distraggono e trascinano in un vortice nuovo.
Ma è pur vero che in questo perenne-conflitto tra le impressioni che la guèrra suscita e la resistenza dell'organismo, si esplicano e sviluppano ed operano tutte le forze sane della personalità. I deboli sono eliminati ben presto dalle schiere dei combattenti perchè pazzi o nevrastenici, o malati.
La personalità dei combattenti italiani, sópra tutto dei più umili, risponde magnificamente alla prova. Queste pa
gine si propongono di dimostrare senza rettorica e senza esagerazioni questa verità, sicché il Paese possa conoscere appieno la grandezza e la profondità dei sacrifici che la guerra richiede ed essere orgoglioso dei suoi figli.
II.
Si resiste allo spasimo, si continua a combattere... ma s’invecchia.
La guerra logora, sfalda, corrode, distrugge le energie psichiche quanto le energie fisiche. L’uomo sopporta, nelle eccezionali circostanze della guerra, le eccezionali fatiche imposte dalle operazioni belliche: ma quel complesso di sforzi quasi sovrumani che la guerra richiede, congiunte a sovrumane impressioni psicologiche ed alle imperiose esigenze imposte all’uomo di dominare i proprii istinti più profondi di sacrificare se* stesso nella vita, nella libertà, nella volontà: tutto ciò attinge ogni giorno più le radici dell’essere le fonti della vita, la giovinezza stessa: il combattente invecchia in misura cornate oZZo scorrere del tempo: piti di quanro il tempo che passa sembrerebbe aver fissato.
Sappiamo, per esperienza, che lo scorrere del tempo è più o meno rapido a seconda dello stato del nostro spirito.
TI Dostojesky neW’Idiota parla di un reo politico che è stato condotto in piazza d’arme per esser fucilato perchè condannato a morte. Giunge la grazia, quando l’infelice ha trascorso venti minuti nella persuasione che morirebbe fra pochi istanti... Dostojewsky ci descrive i cinque minuti di esistenza che il condannato credeva fossero gli ultimi. Pareva a costui che quei cinque minuti fossero una eternità, una ricchezza immensa, che contenessero tante vite da reputare inutile di pensare all’ultimo momento. L’incertezza, l’orrore dell'ignoto, che gli appariva còsi
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prossimo e pur lontano, erano spaventevoli, ma nulla gli riusciva più doloroso di quésto pensiero insistente: Se non morissi? Se la vita mi fosse resa? Quale eternità! E tutto ciò sarebbe mio... Oh, allora sì che saprei utilizzare ogni mio istante, per non sperderne nessuno inutilmente. Il condannato aveva ventisei anni.
Questo episodio mi tornò al pensiero in qualche momento dei più gravi del combattimento. Il sentimento del pericolo dà allo spirito delle sensibilità straordinarie, delle tensioni che in nessuna altra circostanza ordinaria della vita possono aversi.
In guerra, la sensazione della morte, imminente sempre, dà al tempo un valore nuovo: siamo portati a valutarlo in modo singolare. L’intensità della vita si accresce prodigiosamente: ogni attimo vale per un’ora, ed un’ora in altri casi fugge come se fosse un attimo. I valori della vita ordinaria sono sconvolti e prima di tutti quindi il valore del tempo. Un anno di guerra non è un anno di vita, ma cinque, dieci anni di vita. La carne e lo spirito escono macerati, trasformati. Ho visto giovinetti di vénti anni apparire dopo pochi mesi di vita in prima linea, col viso bronzato, col sembiante serio, con rughe profonde sulla fronte, come se li rivedessi dopo anni.
La vita di guerra è di una vertiginosa intensità: riassume e ricapitola in un’ora le esperienze intime ed esteriori di anni interi di esistenza. Gli è che le traversie comuni della vita pacifica diventano delle bazzecole prive di importanza in confronto alle potenti vicende della guerra. Di fronte a queste tutto il resto appare meschino, insignificante, puerile. Ciò Che ne sembrava, in tempi di pace, drammatico, possente, tragico, oggi non riesce a scalfire il nostro animo di combattenti. La guerra ci fa vedere come cosa normale e quotidiana, ciò che prima
di questo conflitto era eccezionale: il sublime, e l’abisso, l’orrido ed il terribile, l’eroico e il repugnante. Tutti i sentimenti del cuore umano, le passioni, le tempeste, le esaltazioni dell’anima, si manifestano con violenza e con sincerità inconcepibili nei tempi della pace di Europa.
In questa vicenda turbinosa l’anima nostra fa rapidamente tutti le esperienze, è costretta a toccare il fondo e la vetta di tutte le passioni, a temprarsi nel dolore, nel pericolo, nella volontà di vita e di vittoria, a disprezzare la vita, a ragionare serenamente, stoicamente della morte.
Non è questa una vita elevata alla sua ennesima potenza? Non è forse questa la vecchiezza, nel. suo aspetto più degno e nobile? In breve tempo.la guerra accumula in noi l’esperienza di una lunga esistenza, con far soffrire tutti i dolori di cui nel mondo si può soffrire, con esaurire le sorgenti stesse della sensibilità. Questa sintesi di esperienze e di prove la cadere molte illusioni, svaluta molte speranze, sminuisce il valore sempre relativo di molti beni; il combattente, reduce da una campagna dura e terribile come quelle attuali, è trasformato, invecchiato: forse tutto l’avvenire non riuscirà più a commuoverlo od a farlo vibrare.
III.
La guerra determina in noi sensazioni diverse che talora sono fra di loro in netta antagonia. Questa contraddizione provvidenziale ci rende capaci di resistere al travaglio cui siamo sottoposti col corpo e con l'anima. La notizia della caduta di Gorizia produce un effetto di sana reazione, che non conviene tuttavia esagerare, sul povero alpino che rapprende attraverso i fonogrammi dei comandi, mentre è di vedetta sui valichi del Trentino. Le sensazioni si avvicen-
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daño nella loro diversa natura e diversamente impressionano l’anima del soldato. A stadi di depressione ne seguono altri di fede, a momenti di abbattimento succedono momenti di esaltazione e di speranza.
In questo ondeggiare è la lorza della resistenza... Fenomeno tremendo e complesso, la guerra in sè rinserra tutti gli aspetti della vita con inesorabile realismo e con tinte sempre forti ed aspre.
Il tragico, l’orrido, il sublime, il poetico, l’eroico, il repugnante si avvicendano, la guerra costringe l’uomo a vivere in queste diverse atmosfere di tragedia, di eroismo, di poesia, di orrore, ad agire in esse ed a reagire ad esse, a partecipare ad azioni che da quelle forme superiori od interiori, elette o miserrime dello spirito e della lotta, sono alimentate... cori soffio perenne.
Su tutte le impressioni, su tutte le sensazioni una domina il combattente, protonda, continua, presente in ogni ora ed in ogni circostanza, di fronte al pericolo ed alla morte, nell’attimo della gloria, nel silenzio dell’attesa, nelle veglie, nel sonno, nel riposo, in tutti i gradi, al di sopra di ogni gerarchia, indipendentemente da qualsiasi ordine, da qualsiasi tendenza personale, estranea a qualunque simpatia ed a qualunque volontà dei singoli: la sensazione della necessità.
Può dirsi della guerra quel che Goethe ha scritto della religione'; l’una come l’altra hanno la forza « di Jar accettare all’uomo l’inevitabile ».
Ogni combattente ha la persuasione estrema, la certezza che ciò che deve farsi, deve farsi', che ogni possibilità di analisi, ogni motivo di critica, ogni tentativo di modifica o di correzione non valgono di fronte all’imperativo assoluto incrollabile ed indiscutibile di affrontare, tollerare quei rischi, quelle fatiche, quei disagi: che vi è una forza immane ed invincibile, risultante di infiniti elementi
per la quale è d’uopo accettare la partita tragica, che solo la morte dà diritto di troncare questa partita; che le ferite non fanno che sospenderla. Dal generale che emana gli ordini di operazioni con la tranquillità che deriva dalla consuetudine, senza commuoversi perennemente perchè ogni sua disposizione può significare la morte di migliaia di suoi soldati, all’umile contadino, inconscio delle ragioni della guerra, che accetta con rassegnazione indefinita i compiti più perigliosi con la quasi certezza di morire, i combattenti vivono in questa atmosfera che chiamerei àeXY inevitabile. Scoppiata la guerra, iniziate le operazioni belliche, l'uomo diventa un elemento imponderabile del meccanismo guerresco, è trascinato da una formidabile corrente lungo una traiettoria fatale di sovrumana violenza. Il soldato sente nella inconscia intuizione del suo istinto di essere quasi preda di tali ferree leggi ultrapossenti, e le accetta silenzioso e buono.
Ho provato spesso a chiedere ai soldati: — Ebbene, sei contento di stare in trincea?
La risposta quasi immancabile del povero contadino italiano è questa: — Si deve Jare, si*. tenente, e si Ja.
In quel «si deve» non c’è la.../retto-rica di molti giornalisti italiani, nè la ostentazione ipocrita di esaltazione a freddo ed a sproposito, nè il rigido e bestiale dovere germanico: c’è esclusiva-mente il riconoscimento, l’accettazione di quell’atmosjera dell’inevitabile di cui vo’ discorrendo.
Inevitabile che nessuno osa discutere, ed è un aspetto assai più sano e consapevole che la concezione tutta bestiale del dovere germanico. Il nostro dovere risulta da mille elementi imponderabili, subiettivi ed obiettivi, presenti e remoti. Il dovere del soldato tedesco è fatto di disciplina feroce, si fonda sulla medio-
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IL SOLDATO E L’EROE
SI?
crità intellettuale del soldato, sulla sua credulità, sulla sua incapacità ad agire per impulsi individuali, perchè in Prussia l’individuo è del tutto assorbito nell’organismo.
La forza irresistibile che tiene al posto di combattimento, nelle condizioni anche più critiche e disperate il soldato italiano è qualcosa di superiore, di più consapevole e complesso, ha in sè alcunché di nobile, di estetico, di signorile, di classico. La « disciplina » tedesca è una manifestazione eli brutalità, un giuoco primitivo di forza armata che schiaccia e sopprime le resistenze che il singolo osasse tentare. La « disciplina .» nostra ha come estrema ratio quella manifestazione di forza, prima del terrore delle pene operano sul soldato altri motivi interiori più possenti.
Primo di questi motivi è la capacità nostra ad accettare le conseguenze estreme di una situazione data, ad affrontarle con maggiore o minore serenità ed abnegazione. Il senso di realismo dello spirito italiano, tramandatosi lungo i secoli, e penetrato con la tradizione classica anche negli stati inferiori ed incolti della nostra stirpe, è forse la causa remota e recondita di questo atteggiamento. Nei soldati italiani non è una musulmana concezione della vita che li rende molto spesso sereni. sempre docili dì fronte alle peripezie della guerra: è un sentimento più fine, più complesso, più elaborato, assai più alto e degno.
IV.
In un certo periodo della guerra ero ' col mio reggimento in un settore importante del fronte trentino. Si viveva una vita aspra, selvaggia, di solitudine, di lavoro, di preparazione intensa per una grande avanzata che la Divisione doveva fare in collaborazione con altre
truppe di un Corpo d’Armata schierato alla nostra sinistra. I giorni passavano in intensa attività: il giorno si costruivano strade, la notte si trainavano cannoni; si era accampati in un bosco, al riparo dalla vista dei velivoli nemici. Si era estenuati, si desiderava l’inizio delle azioni di guerra che segnassero la fine di quella faticosa vita senza requie.
In quei giorni ho esperimentato nella forma più netta l’efficacia placar rice dcll'azzui ro, della natura, dello spettacolo solenne delle montagne sull’animo umano.
Il fascinogdeH'orizzonte lontano si esercita con una possanza assai grande sull'animo nostro, quando si è stanchi, vinti dalla fatica, soverchiati dal peso delle responsabilità, dall’incubo del domani, dall’incalzare della necessità.
Il senso cosmico si sviluppa al suo massimo, ci domina, ci esalta ed insieme ci calma: la natura assume degli aspetti che direi quasi materni, e la contempliamo non con l’occhio in fondo indifferente dell’esteta e del turista, ma con la passione del figlio. Nell’azzurro del cielo allor che la necessità della guerra urge più fieramente, l’anima si adagia e trova alto conforto e quiete.
Ricordo le alte Cime del Cadore, le Dolomiti giganti delle Alpi di Fassa nelle loro meravigliose tinte, le montagne lontane dolcemente velate di bruma violetta, gli effetti di sole, di riflessi di ghiacciai, di armonie di colori e di toni... (1). È con esaltazione quasi mistica che lo
(1) Mentre correggo le bozze, le alte cime del Cadore, le Dolomiti di Fassa, levette dell'Ampezzano, dell’Agordino, non son più nostre!... I poveri cimiteri nella neve, fra le vallate silenziose sono in mano del nemico immondo! Chi ha cuore di soldato non avrà requie finché il candore insanguinato delle cime e le zolle ghiacciate che coprono i poveri morti non .siano riconquistate...
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spirito si tende verso quelle altitudini, osserva quelle variazioni misteriose, quel fondersi prodigioso del cielo e della terra, delle roccie e delle nuvole, dei colori e delle forme, della vita e del silenzio, della bellezza e della grandezza.
Giù, presso a noi, si sente il rombo rabbioso, implacabile, delle artiglierie; i shrapnell si vedono aprirsi in mille sibili, le granate percuotere con ferocia le roccie, e mille detriti saltare in alto e l’odore acre degli esplosivi dominare l’aria; mentre si attende con la relativa serenità dell’abitudine che la furia cieca del bombardamento cessi o diminuisca, spesso lontano, oltre la vallata, o dietro il Costone, o al di là delle aspre giogaie solenni, maestose con le loro guglie dentate, simili a cattedrali titaniche, si adergono le vette dolomitiche velate di misterioso opale, o rosseggianti nel tramonto, o bluastre pel conflitto fra il riflesso dei ghiacci e un lieve nembo, di nuvole che tenta adombrarle...
Sono un inno, una preghiera, una poesia? Non so. È certo che l’aspetto sublime della guerra, per me, è, in questi contrasti. Io l’ho vissuto così e in simili circostanze. Qui, l'immaginazione si unisce alla coscienza, ed una preghiera sale inconsapevole rivestita di alta poesia. Il contrasto fra la morte e la solennità imperturbabile della natura — vita perenne — è pieno e drammatico; vi è anzi, di più — è il conflitto ira la natura e la storia — la impassibilità della prima e la febbre divoratrice, distruttrice ed insieme creatrice della seconda.
La guerra sulle Alpi ha questo aspetto serenatore. Non tutti forse possono sentirlo, ma esso esercita il suo fascino su grande numero dei combattenti.
L’Alpino — questo meraviglioso esempio di resistenza, di tenacia, di sobrietà, di volontà, di sacrificio — vive, senza dubbio, sotto questo inconsapevole fa
scino delle montagne solenni. Non è dato al povero, montanaro rude e senr-plice di saperlo esprimere a sè stesso, o tanto meno di manifestarlo agli altri, ma egli vive soggiogato dallo spettacolo grandioso delle Alpi.
La montagna è come l’oceano: per molti aspetti il montanaro rassomiglia al marinaio: la stessa grandiosità e la stessa magnificenza, il senso dell’infinito sempre presente nell’uno e nell’altra: le tempeste dell’Oceano si disfrenano con violenza eguale nelle montagne: la tormenta, la valanga, l’urlo del vento nelle gole spalancate degli abissi, sono gli equivalenti delle collere ruggenti del mare. Di fronte alla immane forza delle- montagne, l’uomo si sente piccolo, povero fuscello di paglia in balia di forze senza limiti. Un fervore religioso, superstizioso allora domina l’uomo della montagna, e lo avvince come il mare avvince il marinaio, e l’uno e l’altro amano con tenace fedeltà la possente natura della quale vivono.
Questo dominio spirituale della natura sull'uomo ha in guerra il più ampio respiro. La solennità della natura è la espressione plastica, la forma dell’infinito. 1
In una lunga guerra aspra, ove la mòrte va necessariamente famigliariz-zandosi con noi, il sentimento dell’infinito è imminente al cuore del soldato, anche il più rozzo ed incólto. Sicché esso è disposto a sentire l’efflato della natura trionfale e grandiosa.
Mi dicevano molti combattenti, che erano stati anche sul Carso, come fosse penoso, in quel settore, l'aspetto tetro del paesaggio, la mancanza di quel grande scenario che le Alpi costituiscono^ Sul Carso mancava quindi l’aspetto sublime e poetico della guerra: aspetto che ha grande importanza sullo spirito dei combattenti.
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V.
Vi è l’orrido della guerra!
La energia nervosa e morale dei combattenti in talune ore è posta a prova durissima dagli aspetti necessariamente repugnanti della guerra. Questi aspetti sono frequenti ed inevitabili, sono il rovescio insopprimibile di ogni azione bellica. Hanno effetti di depressione, di spavento, di esacerbazione: alterano l’equilibrio mentale, scuotono e sconvolgono il cuore più indurito, hanno un linguaggio di orrore così eloquente che è impossibile resistere al loro giogo sinistro. L’abitudine della guerra ci rènde famigliare il senso della morte, ci adattiamo al suo evento con una tranquillità che non pareva in altri tempi possibile. Gli è che lo spirito si tempra a tutte le sensazioni, la volontà irrobustisce e diviene dominatrice dì ogni istinto e conduce il corpo, contro tutte le tendenze della natura conservatrice, là dove maggiore appare il pericolo della sua distruzione. Ma dove l’abitudine non mi ha mai raggiunto perchè più profondamente l’animo ne rifuggiva, si è di fronte agli aspetti di repugnanza e di orrore che la guerra porta sempre con sè.
La guerra costringe i soldati e gli ufficiali dei gradi inferiori ad avere le sensazioni più sgradevoli che si possano concepire...
Io voglio che queste note siano di una sincerità estrema, e dir tutto senza ambagi e reticenze. Per la conclusione che voglio trarre da questo libercolo, cioè che la stirpe italiana è stirpe d’avvenire, è necessario che siano mostrati apertamente tutti i lati più orridi della guerra, perchè si sappia la latitudine del sacrificio che i soldati hanno affrontato e dovranno affrontare. È perciò che insisto su questi aspetti dell’orrido, del repugnante, del sozzo che la vita del
campo ci costringe inevitabilmente a sopportare. *
La notte! Questo ritmo della natura è in guerra il periodo di maggior travaglio... Le avanzate si fanno spesso di notte, le pattuglie escono di notte: le insidie e le sorprese si tentano e si sventano di notte. La notte moltiplica le difficoltà, aumenta la stanchezza, sfibra i temperamenti più torti, esagera le impressioni del pericolo, riveste tutto di una apparenza d'ignoto, che quintuplica lo sforzo e il logorio dei combattenti... Difficoltà improvvise sorgono nel buio, un senso di- timore inesplicabile spesso pervade il soldato, per il fascino dell'oscurità sulla sua fantasia primitiva e semplice. L’opera dell’uffi-ciale deve intervenire, incitatrice, rapida, continua. Nella notte, quando occorre il silenzio profondo per non destare l’inimico, scene di orrido avvengono... Ricordo di un mio collega che nell'ese-. guire una ricognizione notturna vide fra i cespugli una forma umana... rapido' fulmineo, vibrò un colpo della sua baionetta... Si accorse con profondo ribrezzo al contatto viscido ed alla resistenza flaccida del corpo infilato dal suo acciaio, che quella forma era un cadavere:.. Durante l’inverno in montagna la neve ricopre del suo vélo i poveri morti. Quando torna la primavera quei morti tornano allo sguardo...; dove meno si pensava che fossero ricompaiono quelle figure con gli atteggiamenti dell’ultimo momento della loro vita, col viso contratto in quella smorfia che la morte violenta lascia impressa sui cadaveri, intatti dopo lunghi mesi di permanenza sotto la neve, con a canto l’arme arruginita, la pelle annerita, con la pipa immancabile dei nostri contadini vicino alla povera bocca...
La morte non fa alcuna impressione nelle ore del combattimento, poiché la frenesia della lotta, l’incalzare delle
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impressioni non dànno modo di avvedersi del soldato o del compagno che cade: allora il pensiero dell'obbiettivo da raggiungere, dell’avanzare possibile del nemico su tutto prevale: il nostro spirito è dominato, sconvolto da una onda di sensazioni che è impossibile analizzare...; il senso dell'orrido manca... A mente calma, quando l’ansia del combattimento è cessata e si torna indietro, o si sistemano a difesa le posizioni conquistate, le impressioni che i cadaveri ci dànno sono diverse, profonde, terribili. È quel senso inesplicabile che ci co-strince a torcer lo sguardo, a dimenticare a distogliere con ogni mezzo la mente dallo spettacolo repugnante. Dopo una giornata di combattimento le energie nervose son finite: l’organismo è esaurito, anche il coraggio talora è finito, si ha l’impressione che non noi, ma altri in noi e per noi, abbia affrontato quei pericoli. ci sembra impossibile, che nessuna pallottola ci abbia colpito, che noi abbiamo osato per tante ore resistere al fischiare della morte ed uscire immuni dalla pugna. In questo stato di esaurimento che è il prodotto in fondo spiegabile del logorio delle proprie forze fisiche e morali e del rilassamento dei nervi dopo la lunga tensione cui sono stati sottoposti, la morte la su noi un effetto grandissimo: è la sensazione dell’orrido. Dopo una giornata di combattimento quasi sempre avviene che le truppe che hanno fatto l’azione debbano pernottare sul campo di battaglia. E si dorme tra i cadaveri, sono i caduti nostri e i nemici entrati ormai insieme nel silenzio eterno, al di fuori delle nostre passioni e delle nostre lotte. Le prime ore sono di assopimento profondo, di oblio assoluto dell'ora, del luogo, di tutto... Allo svegliarsi l'impressione del-l'orrido ritorna: le’ immagini dei morti che si scorgono accanto a sè s'imprimono indelebili nella memòria.
La loro espressione che è ora di ferocia, ora di strazio, ora di angoscia, ora di maledizione, ora di pietà e di preghiera, s’incide nell'animo e credo vi resterà finché si avrà vita.
La guerra ha molti altri aspetti repugnanti. Tutti i nostri sensi son messi a prova e debbono sopportare in trincee di fango un acre martirio... Occorre vivere per mesi in gallerie melmose scavate nelle roccie, ove la necessaria comunanza di tanti esseri vizia l’aria che si respira, dà una sensazione d’immondo... La sporcizia invade tutto... non è possibile rimuoverla, il dovere ci inchioda lì, ci obbliga ad affrontarla, a vivere, mangiare, dormire in essa... Odori di sudore, di carne, di ciò che la natura ha di più odioso ci vince, ci circonda continua ed inesorabile... Si ha allora l’impulso di fare qualunque cosa pur di togliersi da quella situazione, Si crede di odiare la vita, non si sogna, non si pensa che a visioni lontane e che sembrano perdute per sempre di limpide acque sgorganti, di lini bianchi e olezzanti di bucato, di vasche da bagno terse, di vesti leggiere e morbide,, e sopra tutto più di ogni altro, di letti soffici, con le lenzuola rimboccate e pronte ad offrire il loro giaciglio!...
L'orrido, il repugnante della guerra sono gli aspetti che a me ed a molti sembrano i più duri ad affrontare e vincere. Sono i lati che più cozzano con le nostre consuetudini, con la nostra educazione, con il sentimento del buon gusto e dell’estetica della vita.
Gli altri momenti della guèrra hanno degli aspetti di bellezza che prevalgono su tutto... L'orrido è un lato esclusivamente negativo e doloroso senza alcun compenso. È il sacrificio più duro che dopo averlo vissuto ha un suo splendore morale quando si sappia di averlo saputo affrontare, con rassegnazione silenziosa.
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VI.
Il senso possente del tragico tutto pervade ed imbeve nella vita di guerra: le concezioni classiche del fato sono le sovrane delle azioni belliche. Ogni combattente sente la immanenza di questo Dio ignoto dal quale dipende la sua vita, il successo, la gloria, tutto.
Gli scrittori di arte militare pongono sempre come elemento imponderabile, ma quasi sempre decisivo, nel giuoco delle manovre strategiche 17vip re visto. I piani meglio elaborati possono volgere in disastri per l’intervento di un fatto nuovo e non calcolato, mentre delle azioni belliche, mal condotte e concepite, possono riuscire vittoriose per improvviso capriccio del fato. Il destino, il mistero, che nella storia ha un valore immenso, nella guerra assurge a divinità. Giove che scendeva sui combattenti a decidere la tenzone appare anche oggi l’oscuro reggitore delle nostre lotte...
Nella guerra tutto dipende dal caso... Le azioni più perfette nella loro preparazione hanno dei lati aperti all’intervento del caso, il destino delle unità di esercito come dei più piccoli reparti che le costituiscono, dipende dal caso...; è caso che un reggimento sia logorato da lunghe operazioni ed un altro resti inattivo per mesi e mesi, caso che nell’istesso combattimento una compagnia, un battaglione, un qualunque reparto debbano affrontare posizioni, superare ostacoli, vincere resistenze, diversi da quelli che ad altri reparti non spetti affrontare... Tutto è giuoco di un così vasto numero di combinazioni, di coincidenze, di interferenze di eventi, ohe sfugge a qualsiasi previsione o calcolo... Nella guerra vi è creazione infinita di dati di fatto nuovi, spostamenti più o meno essenziali della loro rispettiva prevalenza, svalutazione di cose e di persone, di forze che parevano decisive; capovolgimento fulmineo
di situazioni date per certe e sicure... riprese improvvise, resistenze tenaci ed insuperabili dove si credevano tenui, e viceversa annientate ove si pensava che sarebbero state più dure ed aspre. Talora la volontà di un uomo, il valore individuale compie gesta meravigliose e basta a dominare situazioni asperrime; altrove il sacrifìcio del singolo è infecondo per quanto glorioso, perchè il buon esito dell'operazione dipende dalla minuziosa preparazione tecnica dei fattori meccanici e umani. Perciò in taluni casi la personalità umana giganteggia e domina colla sua impronta il giuoco del combattimento, altre volte l'uomo è una cosa, e le masse di assalto, le co-lonne di attacco non sono che mezzj quasi meccanici che entrano in una data posizione con gli altri elementi di tecnica bellica e concorrono al successo con più 0 meno matematica prevedibilità.
VII.
Il destino dei singoli combattenti è come inquadrato, limitato nelle fataii linee del giuoco generale del conflitto. Ciascuno di essi è un atomo imponderabile per quanto necessario di quel tutto immenso' cui appartiene, vi è il contrasto ira il minimo ed il massimo, l’oscillare continuo fra i grandi fini di massa da raggiungere e i diritti delle personalità, il dissidio perenne fra la necessità e la libertà, fra l’arbitrio e la gerarchia, l’istinto e la disciplina, la volontà e l’obbedienza.
Questo conflitto esiste e si esplica in tutti i momenti della vita di guerra: esso è in fondo il conflitto eterno fra la ragione e l’istinto, fra la legge e la libertà, che domina la vita storica, che in guerra assume per necessità, delle tinte estremamente forti. Il tener conto di questa preponderanza della ragione, della legge dell'imperio, in una parola, è
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importantissimo quando si voglia saggiare o conoscere la psicologia della guerra.
A me pare che in questa specie di necessaria soppressione che. la guerra compie Ae\Vindividuale, sia l’aspetto più classicamente tragico della guerra stessa. In molti momenti della guerra il combattente non deve, nè può avere alcuna personalità: esso è una cosa, una quantità e dev’essere considerato soltanto come tale. Le miserabili circostanze della lotta rendono talora necessari i sacrifici più gravi, e questi si compiono come un episodio del tutto normale ed ordinario, senza che nel deciderli possa entrarci per nulla la valu-fhzione della distruzione, del dolore, del travaglio che essi implicano... Queste ferree e tremende leggi con l’escludere nettamente qualsiasi infiltrazione effettiva o comunque sentimentale nella condotta c nell’esecuzione delle operazioni belliche dànn'o alla guerra una perfetta linea tragica.
Son milioni e milioni di uomini sottoposti ad una macerazione senza confronti; milioni di esseri ora marcianti su strade, ora ascendenti verso cime lontane e dolorose, ora in piedi ed in attesa sotto l’arme, ora colpiti gravemente, ora esasperati nel parossismo della distruzione e dell’attacco; uomini che sotto la minaccia della morte dimenticano ogni pensiero vano, meditano, marciano, obbediscono, uccidono, muoiono.
Travaglio immane di moltitudini che non potrebbero resistere senza una indefinibile, ma certa e rigorosa virtù del sangue... Documento splendido della saldezza della stirpe...
È questo-soffio tragico della guerra che dà ai combattenti quell’impronta di serietà e di maturità di cui ho parlato; l’uomo nella tragedia diventa grave, perocché questa è la missione eterna e
benefica del dolore sulla vita dell’uomo: di accelerarne la corsa verso la conoscenza e nello spogliarne resistenza di tutte le vane illusioni... I combattenti sentono questo soffio di tragedia: quando l’ora del combattimento o della perigliosa azione si approssima, sui visi dei soldati, anche dei più intrepidi, si nota una espressione grave, decisa, quasi solenne.
Nella psicologia semplice (di una semplicità che rasenta il primitivo) dei soldati, questa fredda sensazione del passar sulle schiere dell’alito tragico, si manifesta limpidamente. I soldati italiani sono brontoloni. Per natura, per temperamento tutti gl’italiani hanno la mania della critica, i soldati non possono andarne esenti e nelle linee è un continuo fiorir di rimbrotti, di bestemmie, di maledizioni, un imprecare, un lagnarsi, un ciarlare più o meno vacuo, più o meno giustificato. I primi giorni di vita in campo, nelle prime linee, questo brontolare dà l’aspetto di un vero e proprio malcontento; io ne ero impressionato e molti ufficiali confessano di aver avuto l’istessa impressione (i). Poi si fa l’abitudine, perchè si capisce che quel ciarlare e quell’imprecare è superficiale: dovuto alla natura loquace ed allo spirito pettegolo delle nostre masse popolari (solo popolari?). I più malcontenti e noiosi sono talora soldati veramente intrepidi. Con l’esperienza si apprende che quegli stessi soldati che sembravano tanto indisciplinati perchè il caffè era amaro
(i) Si comprende da queste e da altre osservazioni quanto conti per un esercito come l’italiano l’essere inquadrato da ufficiali che abbiano la serietà, la fermezza e l’esperienza necessarie a portare uomini Suali i nostri. Ogni opera del Comando u premo dovrebbe essere rivolta a questa selezione morale dei quadri, ed alla formazione più psicologicamente adatta degli ufficiali.
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(il soldato trova il caffè amaro sempre!), hanno poi uno spirito di devozione al loro ufficiale, ed un senso di vero sacrificio, nel resistere a quotidiani disagi, che nessun esercito certamente avrà... Nessun soldato d’Europa è certamente così tacile a dimenticare i pericoli e i disagi affrontati come l’italiano. Ricordo compagnie stremate da acorvées » faticosissime, rientrare all’accampamento quasi sfinite: dopo poche ore di riposo tutti i soldati erano allegri e spensierati, cantavano giocondamente, giuocavano e ninno mostrava di ricordare le fatiche trascorse. Ho provato a ricordare talora a qualche soldato, e di quelli che più si erano lagnati durante il servizio, il disagio affrontato: si è meravigliato che ci pensassi ancora: « Ormai è passato, signor tenente »!
Questa psicologia elementare, ora mite e quasi gioconda, ora brontolona e malcontenta, scompare adunque quando l’ora tragica è imminente, vi succede quella espressione decisa, rassegnata e serena, che è la prova che il soldato ha la sensazione del tragico cui si va incontro. Non più lamenti, non più risa frequenti, non più bisticci e ciarle, la serietà composta e misurata si designa su tutti i volti. Donde deriva quella pacatezza silenziosa e melanconica, quella espressione di calma, così serena, così nobile? Mi sono spesso fatto questa domanda: suggerita dalla profonda trasformazione che si legge in viso ai soldati man mano che l’ora del combattimento si approssima. I sentimenti più profondi del cuore, le speranze, le sofferenze e le gioie, in quegli istanti sembrano dimenticati. Ho visto uomini, padri di cinque o sei figli, intrepide figure di sardi o di calabresi, partire per le più rischiose imprese con nel viso quella stessa espressione di calma serena che poteva parere indifferenza. Non un muscolo del loro viso vibrava di emozione.
Quando il momento è scoccato anche il soldato più pauroso, dominato dal terrore della propria salute minacciata, ha una certa diversa espressione che riflette l’attitudine rassegnata del proprio spirito al destino imminente. E si badi che io parlo di « momento » nel senso psicologico, perchè come durala questi momenti possono essere delle ore, delle notti, dei giorni. Son lunghe attese sotto il sole ardente, o in mezzo alla neve, o sotto la pioggia eterna, fredda e greve come nell’Inferno dantesco, ai piedi delle alte e secolari piante dei boschi del Trentino, o sotto i reticolati nemici miracolosamente raggiunti senza esser veduti dalle scolte austriache. Non si mangia, non si beve, non si dorme, si attende per ore ed ore ed ore, col respiro represso, con l’animo sospeso, con lo sguardo sperduto dietro mille immagini lontane e forse per sempre perdute... In queste tasi dell'azione il soldato diventa passivo completamente, la sua volontà è tutta nelle mani del proprio ufficialo, del comandante di plotone. Il . soldato in questo « momento » non sa nulla, non pensa a nulla di ciò che va facendo, egli obbedisce... Giunge una staffetta, consegna un bigliettino sgualcito che ricorda ancora il WoAs-wotes dal quale è stato strappato con mano nervosa, l’ufficiale legge, dice un breve: andiamo, ed il plotone parte. I soldati si snodano lungo la mulattiera, uno dopo l’altro, la barba incolta, la pipa in bocca, il fucile a spalla, carichi di cartuccie. di bombe a mano.
Oh! quelle loro sagome strane e fantastiche, quella curiosa e balorda miscela dell’elmetto romano, dalla linea puramente classica e dell'antiestetico pastrano kaki. quelle espressioni indimenticabili di attesa, di rassegnazione, di speranza, di paura, di disagio. Le notti passate senza dormire, nel fango che è saltato sulle loro, vesti, quei segni del freddo
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patito, talora della fame, tutto è scritto con eloquenza tragica su quelle povere carni macerate, cui si chiedono altri sacrifici.
Io non voglio affatto mettere in luce nel descrivere l’aspetto doloroso della guerra, il lato sentimentale di questo immane lavorio. Nel parlare del tragico, come degli altri aspetti il sentimento o il sentimentalismo non ha alcun significato. Può essere ed è un argomento che potrebbero addurre i neutralisti contro coloro che vollero fermamente la guerra e ancor oggi domandano che sia continuata fino alla vittoria.
Dar rilievo, pieno e sincero alle sofferenze della guerra Ò dovere virile...; il trágico è la grande forza dei popoli c solo nel dolore e per mezzo d’intense esperienze tragiche può tempi arsi, elevarsi, affinarsi la loro anima. Questi patimenti sopportati <on cuore fermo trasformano gli uomini, conferiscono loro una luce di creazione e di conoscenza, dalla quale le generazioni prossime saranno senza dubbio illuminate.
Senza questi patimenti ed altri forse anche più lunghi« ed aspri che dovremo sopportare ed affrontare in seguito, la vittoria non è possibile.
La potenza tragica del giuoco guerresco è proprio qui. Vi sono delle ore tre mende perchè decisive nelle quali è necessario che battaglioni dietro battaglioni sieno gettati nella voragine di fuoco dell’assalto: ore difficili che esigono sforzi sovrumani, e quando proprio tutte le energie sono esaurite, bisogna ricominciare ancora, e continuare nell’opera intrapresa, ed insistere, e ricominciare. Un imperativo di vita o di morte, di vittoria o di sconfitta domina tutti, dal ducè al soldato, ed impone che quei dati atti si compiano ad ogni costo... L’uomo è quindi travolto come da una corrente di forze naturali superiore ad ogni suo arbitrio, ed egli non ha che un dovere assoluto senza deroghe, senza condizioni: subirle, assecondarle, utilizzarle ai fini supremi della vittoria.
(Continua)
Agostino Lanzillo.
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PERES/LT/RA DELL'ANIMA
LA SCONFITTA DELLA MORTE’’
Da molti mesi assistiamo ad una vera vittoria delia morte. Con ciò non allud-j soltanto all’opera compiuta dalla grande, falciatrice sui campi di battaglia. Certo si muore più che mai: ma la questione che mi preoccupa non è affare di aritmetica, è affare d’ordine spirituale. V’d una vittoria della morte sulle anime, e ciò è grave. Con questo intendo alludere alla ripercussione nella vita spirituale del vasto e incessante macello. Guardate e vedete se; intorno a voi, e forse in voi stessi, non si produce una specie di adattamento alla molte. Esaminate se la reazione contro ciò che, non è guari, costituiva uno scandalo pel nostro cuore e per la nostra coscienza, è altiet-tanto vivace oggi quanto lo era al principio della guerra. Vedete se non sta compiendosi sopra di noi una straordinaria presa di possesso del nulla, e se molti non ripetono, all’annunzio di nuovi lutti: « Che ci volete fare? è la guerra », oppure: « Così va la vita; verso la distruzione ».
In che misura questo pensiero che la morte è un fatto della natura, contro il quale non è il caso di reagire o di ribellarsi, in che misura questo pensiero si estende e fa pioseliti ? Non lo so, e nessuno lo sa. Qui, di nuovo, non è affare di aritmetica. Più importante del numero delle persone che provano un dato sentimento è il valore dei ragionamenti o delle esperienze che stanno all'origine del sentimento stesso. In questo campo siamo in grado di proseguire le nostre indagini. Quali sono le cause die fa (*)
voriscono questa presa di possesso del nulla su tante anime? Sono questi motivi così potenti che si debba rinunziare ad insorgere contro di essi?
• • •
Occorre anzitutto rilevare un fenomeno di abitudinismo, e ciò non ha, in se stesso, un grande valore filosofico. L’abituarsi non implica, in coloro nei quali si produce, uno sforzo di riflessione. Esso suppone, anzi, molto spesso, che non pensano affatto. L’abitudinismo è certamente lina legge utile. Ma, come per tutte le leggi della natura, tutto dipende dall’uso che se ne fa. Non ve n’è una sola che non sia buona e che non possa, nello stesso tempo, essere causa di catastrofi. La legge della gravità è responsabile di molte disgrazie, eppure senza di essa l’uomo non potrebbe volare cogli a reo plani. L’abituarsi anch’esso ha il suo lato buono e il suo lato cattivo. Se le mie mani restano delicate e sanguinano al primo rude contatto, sarò incapace di far nulla di buono il giorno in cui dovrò fabbricare qualcosa colle mie mani. Ma dovrò io per questo immaginarmi che le callosità delle mani sono in se stesse qualcosa di buono? Se mi servono per compiere un piogresso. sì; se servono solo ad attutire la mia sensibilità, no. Se l’abituarmi si riduce per me ad adattarmi alle circostanze esterne, passivamente, allora tale processo assomiglia ad un fenomeno di degenerazione. L’abitudinismo! Ma voi ed io ne
(*) Conferenza pronunziata a Parigi l’n aprile 1916.
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soffriamo tutti. Credete voi che, senza di esso, potrebbero sussistere accanto a nei, e in contatto con noi, tutte le miserie materiali e morali cheincontriamoogni giorno? Si prende l’abitudine di passare accanto all’uomo che soffre nello squalloic assoluto; non lo si vede neanche più. Non scio non lo si compiange, non si vibra di simpatia umana, ma neppure si prova la benché minima sensazione: non si scorge il disgraziato.
L’abitudinismo perpetua fra gli uomini tutte le iniquità e tutti i dolori. Quindi, diffidiamo: se in tempo di guerra si produce un abituai si alla sofferenza e alla morte, ciò è un male, è un trionfo'deH’egoi-smo, è la reazione d’un organismo che si copre di callosità per non sentite quel che lo circonda. Non figuriamoci d’essere diventati filosofi perchè, a furia di sentir parlare di lutti intorno a noi. ne prendiamo l’abitudine e perchè qualcosa di abbastanza mediocre mormora in noi: «Cosa si può farci ? »
Ciò mi conduce a mettere in rilievo ciò che molto spesso v’è di colpevole, cioè di volontario e di premeditato, in questo abituarsi. Quanti sono turbati dallo spettacolo della morte, anzi importunati dal suo solo pensiero? Le considerazioni di Pascal sui E affiativi consolatori del divertimento non anno perso il loro valore. Questi palliativi del divertimento non sono, in tempi normali. senza efficacia. Si riesce a scartare il pensicio dal quale non si vuole essere visitati. Si ha cura'di avere un appartamento le cui finestre non si aprono dalla parte di un cimitero e si evitano le arterie cittadine per le quali passano di solito i funciali. Ma in tempo di guerra, la visione sinistra ci perseguita ovunque. Non si può entrare in un tram senza incontrale delle donne o dei bambini in lutto. Non si può guardare la gente negli occhi senza constatare che quegli occhi sono spesso arrossati dalle lacrime. E troppe persone dicono che preferirebbero non uscir di casa piuttosto che vedere ciò che vedono. Sono persone che hanno paura di provare un moto di simpatia: perchè la simpatia, quando è reale e profonda, è una sofferenza. La simpatia'. Come abbiamo deturpato il senso di quella parola! Si parla d’uno «scrittore simpatico », d’una « persona simpatica ». E così il termine è vuotato del suo contenuto. Prendiamo coscienza della realtà profonda ch'esso esprime. Chi prova della simpatia è colui che è felice coi felici e che, davanti a coloro che piangono, si sente il cuore stretto
e non vuole nè può trattenere le sue lacrime. Simpatia, etimologicamente, significa partecipazione al dolore. Chi non soffre cogli altri uomini non prova della simpatia. Molte persone che si difendono contro la simpatia sanno benissimo perchè lo fanno. Si rendono conto che, se si abbandonassero ad essa, non sarebbero più capaci di andarsene, nella leggerezza della anima loro, verso i loro piaceri abituali e verso il vuoto della loro esistenza.
Quella gente, colla preoccupazione di liberarsi da un incubo, ricorre al sistema che ha per motto le parole: « Siamo duri ». Tutti gli egoisti adottano tale formula come parola d’ordine della loro esistenza. Siamo duri per allontanare il nemico interiore, cioè quel pensiero importuno della morte. Siamo duri per schivare il dolore. E vi sono persone dalle mani delicate che si producono delle callosità all’anima per tema di soffrire con gli altri.
Tali persone, le considereremo noi come dei pensatori? Esaminatele da vicino. Ve ne sono altre davanti alle quali ci s’inchinerebbe con lispetto se si scorgesse in essi quello sforzo per sfuggire al dolore. Si comprenderebbe come uomini e donne che hanno sofferto tutto quanto si può soffrire, che hanno toccato nel loro lutto il fondo del dolore, che non possono trovare fuori o al disopra di essi "un soccorso, si comprenderebbe, dico, che cercassero d’indurirsi contro la propria tortura. Orbene: sta il fatto che quelli appunto non lo faranno mai. Guardateli, quei genitori che sono fra voi: guardatele quelle vedove che incontrate. Non sono quelle creature maciullate dal dolore che s’induriscono contro la sofferenza. Se si consigliasse loro di abbandonarsi a quella vittoria della morte sulla loro anima, esse risponderebbero: «Abbiamo perso ogni cosa; ci .imanc il nostro dolore, rispettatelo e lasciatecelo. Colorò che non acconsentono a soffrire sono coloro che neppure hanno incornili- ' ciato a soffrire. Li troverete in quegli ambienti in cui non si smette dal lamentarsi sulla lunghezza della guerra e sulle sue noie. Osservate chi è quella gente depressa e deprimente che incontrate ogni giorno per la strada. Nove volte su dièci non ha perso nessuno alla guerra. Nove volte su dièci non ha nessuno da perdere, non hanno nessuno in trincea. E sono quelli che hanno l’audacia di trovare che la guerra è penosa, che è troppo lunga. Non c'è da stupirsene. Non avendo dato nulla di loro
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stessi sono rimasti poveri: perchè, nell'ordine spirituale, quello soltanto s’arricchisce che dà la propria sostanza. Sono qucgl’in-teiessanti personaggi che se ne intendono meglio per dire: « Inebriamoci per non soffrire di tutti quei lutti; ce ne sono troppi intorno a noi». Singolari stoiici, la cui formola potrebbe essere: « Dolore de°li altri, non sci che una parola! ». Noi rifiutiamo di ammirare quello stoicismo di nuovo conio che è soltanto sfacciato egoismo.
* • •
Vi sono altri uomini in cui io rispetto maggiormente questa vittoria della morte sulla loro anima. Quelli sono lontani da noi. Sono al fronte. Ah sì! Laggiù gli uomini hanno bisogno di difendersi contro gli spettacoli ai quali assistono. Non stigmatizzerò, a loro riguardo, come l’ho fatto per altri, il fenomeno dell'abitudi-nisrno. Non dico di approvarlo, ma mi rifiuto a mettere sulla medesima linea colore che offrono la loro vita e coloro che li guardano fare.
Si comprende molto bene che, negli orrori tragici della linea del fuoco, un uomo — un uomo abituato al 1 ¡spetto della vita, un uomo che di questo rispetto aveva forse fatto la massima della sua condotta — davanti agli spettacoli che gli stanno dinnanzi, sia preso da una specie di vertigine. Pensate a ciò che devono essere quelle ondate di assalto evocate nei comunicati ufficiali... Come volete che non si produca una specie di vertigine e che ci si domandi se veramente, tutti quei cadaveri ammontati siano cadaveri di figliuoli d’uomo?
Eppoi, tutt’intorno, la si vede piovere la morte. Ma ciò che infrange non colpisce soltanto gli uomini. La granata giunge, e poco importa che si tratti d’un uomo, d’un cavallo o d’un cassone. La granata distrugge ogni cosa: cavallo, cassone, uomo, tutto non apparisce che come un po’ di materia annientata e buttata al vento. Quale differenza essenziale vi è tra i frantumi d’un cassone, la carcassa d’un cavallo morto e il cadavere d’un uomo? Si comprende, sì, si comprende che, laggiù, pensieri simili s’impongano a degli uomini che combattono.
Eppure, a costoro io dirò: badate. Se il fenomeno dell’abituarsi è cattivo per gli altri, esso non può essere buono-per v<i. Soffrite forse più di altri, nel difendervi contro l’abitudinismo: è possibile. Ma ciò costituirà la vostra supenorità sugli altri.
Dovete stare in guardia contro l’abitudinismo. perchè v’impedirebbe di vedere la realtà qual’è. Perchè la realtà — io lo so per le confidenze di molti d’infra voi — la realtà va contro ciò che pensate e ciò che credete. Vi sembra in certi momenti che questa nuova forma di materialismo vi proteggerà contro dolori insopportabili. Non è vero. Non ammettete che, sul campo di battaglia, vi sia sopratutto della materia. Credete allo spirito, miei giovani amici, tanto più se non ci avete creduto fino alla guerra. Perchè,«di che cosa vi preoccupate voi? Se chieggo a tutti i parenti che ricevono lettere dal fronte, di che cosa si parla in quelle lettere vedo che si tratta quasi.sempre de! morale. Sì, la grossa questione è di sapere ciò che è il morale laggiù. Non èia quantità delle munizioni che im-Eorta più di tutto, nè il numero delle aionette; è il morale che occorre anzi tutto, il morale, cioè lo spirito.
Un giovane ufficiale, caduto di recente, e che non era cristiani», scriveva poche settimane prima della sua morte: « Mài come dall’inizio della guerra io ho creduto al predominio dello spirito ». E quando vi raccogliete nell’interezza del vostro essere, quando non cedete davanti ad una suggestione che vien su dal fondo del vòstro dolore, quando apprezzate sino in fondo l’eroismo di tutti quegli uomini che vi circondano, voi pensate e parlate come quell’ufficiale. Voi apprezzate sopra ogni altra cosa il morale. Non lasciatevi vincere da sentimenti che tendono a espropriarvi da pensieri e da convincimenti che sono vostri. Certe, se lottate contro quei sentimenti, soffrirete, ma si tratta di sapere se non dobbiamo volontariamente soffrire.
Difatti, come impedite alla morte d’impadronirsi delle anime nostre? In che modo cambiare la sua vittoria apparente in una reale sconfitta? Rispondo: insediandoci deliberatamente nel dolore causato da tanti lutti. La morte trionfa su noi inducendoci nella tentazione di scartare il'dolore da essa generato. Noi trionferemo su di essa accettando quel dolore sino in fendo, in tutta la sua amaritudine e in tutta la sua intensità. In questo mondo ci si libera solo per mezzo della lotta. Ci si affranca insorgendo c non s’insorge quando non si soffre.
Osservate, di passata, una strana conseguenza di ciò che ho chiamato la vittoria della morte nelle anime. La guerra finirà.
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un giorno. Non sappiamo quando, ma finirà; e allora grandi problemi s’imporranno alla coscienza dell'umanità. Se la Suona ci è apparsa come il flagello male-etto, occorrerà prender misure contro di essa. Bisognerà, dopo averne sofferto, sterminarla. Orbene! Dove saranno coloro che dichiareranno la guerra alla guerra e che vorranno farla finita con essa? Non saranno coloro che ad essa si sono adattati. Quelli, avranno fatto di tutto per conservare la calma egoisti^ della loro vita. Vi sono riusciti durante la tempesta; potete star sicuri ch’essi coltiveranno con cura quella calma egoistica quando la pace sarà venuta. Siate certi che non li vedrete in nessun posto, quando si tratterà di pagare di persona pei sopprimere dall’umanità un male qualunque. Anche allora tutti assenti, tutti imboscati... come durante la guerra.
Torniamo alla morte. E il pensiero della morte che c’invade e ci ossessiona. 11 dolore provocato dalla morte può aiutarci a scuotere quella specie d’incaver-namento. Quel dolore è molto più di ciò che spesso ci figuriamo. Bisogna vedere sino in fondo ciò ch’è la sofferenza del lutto. So bene che, per molte anime, è semplicemente la rottura dei vincoli cari nei quali si viveva. Ci si trova bruscamente in un’esistenza mutata. Nessuno dei pensieri .che si avevano in comune col marito che non tornerà, col figlio che non si rivcdià più, avrà più il confidente diletto capace di comprenderli. Dei sentimenti dei quali ci si pasceva, la sera, intorno al tavolo di famiglia, alla luce della lampada, non si vibrerà più. È finito. I.a rottura di quei vincoli produce una sofferenza analoga a quella della nostalgia. Un uomo è tolto al suo paese e trasportato fra altri uomini che non conosce. Non ha alcuna relazione. La sua esistenza è sconvolta. Non gli rimane che da languire e da spegnersi. Si muore di nostalgia. II lutto è fatto di nostalgia e si può esserne uccisi. Ma altri dolori si manifestano nel lutto. Fra essi ve ne sono che ri velano l’anima all’anima stessa. Vi sono istinti che non si conoscevano e che, nell’ora delle atioci lacerazioni, appaiono con tutta la loro imperiosa energia.
Anzitutto si prova un’intelligenza nuova di ciò che sia l’amóre. Oh! l’amore! I.a nostra letteratura contemporanea lo deflora troppo spesso e lo misconosce! L’amore di cui pai la è qualcosa a fior di pelle.
non so quale libellula che non ha nulla a che fare col vero amore. Un amore vero, un amore santo è un amore che ha un’esigenza di eternità. Non ce ne rendiamo forse conto nelle ore di felicità. Quelle ore trascorrono nella gioia, nella serenità; qualcosa mormora « Per sempre ■; ma in fondo non lo si sente. E quando la grande falciatrice è passata ed ha infranto il cuore, la si maledice, perchè ha ucciso ciò che voleva essere eterno.
E poi, al momento della morte, special-mente quando trattasi di giovani — dei Siovani che ci promettevano tante cose, ei giovani nei quali potevamo riporre tante ambizioni, dei giovani che si vedevano destarsi ad una vita sempre più ardente, dei giovani che sognavano di conquistare il mondo, non per dominarlo, ma per sottoporlo al pensiero e alla coscienza — allora quando si vedono scomparire quei giovani, si ha la rivelazione profonda di ciò che s’cra forse imparato in un corso di filosofia, ma che non s’era inteso sino allora. Cioè il valore della persona umana. Sull’orlo di una fossa si sente tutta l’iniquità che si compie nella morte di un giovane, nella morte d'una persona mor ale. Ah! noi non rivendichiamo l’Al di là, perchè l’uomo possa ricevervi una ricompensa qualsiasi; lo rivendichiamo perchè l’uomo sia in grado di realizzare il suo destino, poiché non gli è possibile di realizzarlo quaggiù.
Finalmente, sull’orlo di una tomba ci si interroga tremando sul valore dell’ordine morale. Prima, ci si poteva credere, e molto sinceramente. Ci si sentiva tenuti a rispettare la persona' umana. Ma ora, davanti a certe catastrofi, si è costretti a chiedersi qual’è la portata della legge morale e sin dove si estende il suo dominio. Se l’universo è dispensato dall’obtcdirlc, che diventa il suo valore? E se il suo valore è assoluto, perchè l’universo non le ubbidirebbe? Io devo rispettare la persona umana e perchè la legge profonda delle cose non rispetterebbe là persona umana assicurandole i mezzi di realizzare il suo destino?
Sì, nella sofferenza che si prova sull’orlo di una fossa e per mèzzo di questa sofferenza si ha l’intuizione di cose che si erano intese vagamente coll’intelligenza e davanti alle quali ci si trova Come dinanzi a realtà viventi. Si direbbe che queste rivelazioni siano tenute in serbo, non dico per chi soffre, ma per chi accetta di soffrire.
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Alcuni senza dubbio mi obbietteranno: < Crederemo dunque ciò che vorremo? Perchè soffriamo, peichè dal seno del nostro dolore sale questa protesta, crederemo noi che tale protesta sia intesa c che le venga favorevolmente risposto? Dobbiamo noi regolare ciò che crediamo su ciò che ci auguriamo?
Non ho affermato nulla di simile, assolutamente nulla. No, non misure la verità sull’accoido d’una dottrina coi nostri desideri intimi; e neppure mi sento il diritto, come fanno cèrti filosofi contemporanei, di credere che una data idea è veia perchè è utile. Sono osservazioni troppo sempli-ciste. Ma farò osservare che tale obbiezione non deve rivolgersi a me. Essa si erge invece di fronte allo stato d'animo che ho analizzato e discusso. Perchè, in ultima analisi, perchè la gente che ho preso di mira si rassegna in tal modo ad abdicare «lavanti al nulla? È puramente e semplicemente per non soffrire. È perchè trova .che quell’attitudine è utile. Quella gente si fa un’iniezione di morfina. L’affermazione del nulla non le pare più vera di un’altra; se ne rende perfettamente contò; ma le pare che la preservi dal soffrir troppo. Se ne serve per indurirsi contro lo spettacolo di ciò che la circonda.
Se vi sono persone che misurano la verità sui loro desideri, sono quer materia-» listi d’una nuova specie, ed ecco ciò che occorre vedere chiaramente. Se dovessi scegliere tra i bassi istinti che ci conducono all’abdicazione davanti alla realtà, che ci conducono ad adattarci ad essa per non lottare contro di essa, ed altri istinti che ci armerebbero per le lotte spirituali e per grandi conquiste sulla terra, io stimo che avrei il diritto di pronunziarmi per gli istinti superiori senza avere per ciò rinunciato ad ogni libei tà scientifica.
Ma non si tratta di ciò. Comprenderei che certe anime mi facessero quell’obbie-zione. Sono anime infinitamente nobili, quelle appunto che rifiutano di allenarsi all’indurimento e all’adattamento, quelle che sono pronte a dichiarare: « Accetto per mio conto il dolore. Non solo l’accetto, ma lo rivendico. Mi pare che se, nella mia esistenza di padre o di madre o di vedova, sopprimessi qualcosa di quel dolore, io diminuirei me stessa. Dunque, non voglio difendermi contro di. esso, ma non voglio andare più in là».
Che dirò a quelle anime? Dirò loro: Vi
comprendo e vi rispetto. Ma vi chiedo di non nutrire illusioni sul vostro proprio stato. Esaminate ciò che costituisce la molla di quella sofferenza alla quale non acconsentite a rinunziare. Rifiutate di dire: v’è nell’amore un’esigenza di eternità. Non pronunciate quelle parole. Ma il sentimento ch’esse esprimono vi avvince, ed è perchè lo provate che soffi ite a q uel modo. Il vostro dolore stesso è una professione di fede. Rifiutate di dire che il valore stesso è una professione di fede. Rifiutate di dire che il valore dèlia persona umana vi appare con tutte le sue esigenze. Non lo dite ed avete ragione, perchè non S'Otete formularlo in modo assoluto. Ma soffreste meno se non aveste quella convinzione in fondo a voi stessi, nelle regioni più seciete e più sacre del vostro essere intimo. E.in quanto a quell’esigenza di moralità che proclamate in faccia all’universo, essa scaturisce dalla vostra coscienza ed è perciò che in certi momenti voi fremete d’indignazione. Ciò è che mette sulle vostre labbra quegli accenti di maledizione riguardo all’universo che sembra tenere in non cale ciò che vi sentite costretti a rispettare infinitamente. Non maledireste l’universo se non foste convinti che la legge morale deve dominare ogni cosa, l’universo compreso, anche quando esso sembra violarla.
E perciò io soggiungo: Sembrate molto lontani dall'Evangelo; voi stessi credete di esserne molto lontani; ne siete invece vicinissimi. Ah, certo! se trattasi di guardare alle forinole che degli uomini possono ripetere, in apparenza potete esserne molto lontani, ed anche credere di esserne agli antipodi. Ma lasciate che ve lo dica: vi sono molte probabilità che voi siate tra i benedetti del Padre.
Conoscete forse questa parola del Cristo: « A chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, anche ciò che ha gli sarà tolto ». Chi non ha è colui che, avendo ricevuto doni e grazie dal Padre, non vuol saperne; è colui che, avendo un cuore per amare, ha paura, amando di soffrir troppo; colui che, avendo ricevuto dal Padre la fede nella giustizia, ha paura di ricevere la giustizia in questo mondo e rifiuta di soffrire per essa; è colui che, sentendosi chiamato ad essere fraterno verso gli uomini, non può esserlo, per tema di soffrire a causa dei suoi fratelli ingrati. A costui sarà tolto anche ciò ch’egli ha; gli sarà tolta sino all’intelligenza della giustizia, sino all’idea
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della fraternità, sino alla possibilità di amare. Non è degno d'avere ciò che ha. Ma a chi ha, cioè a chi, avendo ricevuto un cuore amante, vuol amare a dispetto di tutte le separazioni e vuol amare oltre la tomba, a chi ha l’istinto della giustizia e non vuole ripudiare quell’istinto, a chi vuole, a dispetto di tutto, essere fraterno tra gl.i uomini, a costui, sarà dato. È il Cristo che lo dichiara.
Vi ricordate forse di quest’altra parola del Cristo: « Se qualcuno vuol fare la volontà di Dio, egli conoscerà se la mia dottrina viene da Dio o se viene da me stesso ». Osservate che il Cristo non dice: Se qualcuno fa la volontà di Dio... Qual’uomo può vantarsi di fare la volontà di Dio? Si tratta di chi vuol farla, che vuol farne ciò che ne conosce. Non ne conosce forse molto; ma ciò che ne conosce vuol farlo sino all'ultimo. Per costui stanno in serbo delle benedizioni e la più glande delle benedizioni sarà per lui d’entrare nell'intimità di ' colui che serve senza sapere di servirlo.
Ricorderò ancora un’altra parola del Cristo: «Tu sei stato fedele in poca cosa, entra nella gioia del tuo Maestro ». Ah! il di cui si tratta è forse terribilmente Cile. Per molti ,d’infra noi ciò consiste ad accettare il dolore della morte. Ciò consiste a nulla ripudiare di quella tenerezza, il cui oggetto, in apparenza, è scomparso. Essere fedele alla tenerezza, esser fedele alla giustizia che si continua a reclamare, esser fedele a tutti i compiti quotidiani che si accetterà di condurre a termine col cuore infranto, e forse di com-Etere un po’ meglio, affinchè la morte del glio o la morte del marito non sia stata vana — essere fedeli vuol dire rifiutare di adattarsi al male, vuol dire non acconsentire alla vittoria della morte. A quelli si rivolge la promessa: « Entra nella giòia del tuo Maestro». Sì, nella gioia, — la gioia di sapere un giorno che la morte non è la verità, e che la verità è la vita.
Raoul Aliier.
SALUTO ALLA MORTE
Uno dei più notevoli documenti del periodo Faraonico è quello che tramanda il dialogo fra un individuo che si accinge a suicidarsi e l’anima sua, composto circa 2000 anni av. Cr., e contenuto in un papiro egiziano ora nel Museo di Berlino. Ecco (dalla traduzione dei Professori Erman e Breasted) il saluto alla morte, che merita di prender posto fra le più grandi liriche dell’umanità:
« La Morte è oggi dinanzi a me
Come la guarigione di un malato;
Come l’uscire nel giardino dopo una malattia.
La Morte è oggi dinanzi a me Come la fragranza della mirra, Còme ¡’assidersi sotto una véla mossa dal vento. La Molte è oggi dinanzi a me
Come il profumo dei fiori di loto,
Come il riposo lungo il margine della via per dissetarsi.
La Morte è oggi dinanzi a me
Come il corso dell’acqua riboccante in un canale;
Come il ritorno del marinaio da una nave di guerra alla sua casa. La Morte è oggi dinanzi a me
Come il dileguarsi della nebbia nel cielo;
Come la brama di un uomo di rivedere la sua casa
Quando egli ha speso anni in ¡schiavitù ».
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Vitalità e Vita nel Cattolicismo
XIII.
La « Nota » di Benedetto XV sulla Pace e l’atteggiamento dei cattolici di fronte ad essa, (i)
una edizione speciale dAvOsservatore Romano veniva resa pubblica, in data 16 agosto, la Nota, diretta da Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti, con la quale si proponevano alcune basì su cui le trattative per la pace avrebbero potuto, secondo il Pontefice, essere avviate.
. La nota era redatta nei seguenti termini:
Fino dagli inizi del Nostro Pontificato, fra gli orrori della terribile bufera che si era abbattuta sull’Europa, tre cose sopra le
altre Noi ci proponemmo: una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune e tutti ama con pari affetto i suoi figli; uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da Noi si potesse, e ciò senza accettazione di persone, senza distinzione di nazionalità o di religione, come ci detta e la legge universale della carità e il supremo ufficio spirituale a Noi affidato da Cristo; infine
(i) Avevo in animo di dedicare questa puntata delle cronache alle pie industrie di guerra, cioè alle speculazioni religiose che son salite tanto in onore durante questo triste periodo. Pubblicata però, quando stavo raccogliendo gli elementi necessari, la Nota pontificia stilla pace, ho ritenuto opportuno darle la precedenza in questi Commentari, tanto più che del soggetto che m’ero dapprima proposto nulla verrà a perdersi se scritto più tardi. Esso anzi potrà riuscire assai più interessante e completo se gli amici ed i lettori di Bilychnis volessero fornirmi dalle varie parti d’Italia e dall’Estero un abbondante materiale, dandomi notizie sui fatti miracolosi che qua e là si dissero avvenuti, inviandomi copia di opuscoli, di immagini sacre, di medaglie, di scapolari destinati ai soldati, dei proclami e degli appelli alle popolazioni per sottoscrizioni per cappelle espiatorie, per templi votivi, ecc., segnalandomi, insomma, quanto di Caratteristico si è prodotto in rapporto alla guerra. Ringrazio vivamente fin da ora chi vorrà cortesemente accogliere la mia preghiera. Le informazioni ^potranno essermi dirette o presso la Redazione di Bilychnis ovvero al mio indirizzo personale in Roma, via Vespasiano, 12, E. Rutili.
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la eura assidua, richiesta del pari dalla Nostra missione pacificatrice di nulla omettere, per quanto era in poter Nostro, che giovasse ad affrettare la fine di questa calamità, inducendo i popoli ei loro Capi a più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una ■ pace giusta e duratura ».
Chi ha seguito l'opera Nostra per tutto il doloroso triennio 'che ora si chiude, ha potuto riconoscere che, come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall’esortare e popoli e Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento.
Sul tramontare del primo anno di guerra Noi, rivolgendo ad Essi le più vive esortazioni, indicammo anche la via da seguire per giungere ad una pace stabile e dignitosa per tutti. Purtroppo l’appello Nostro non fu ascoltato: la guerra proseguì accanita per altri due anni con tutti i suoi onori: si inasprì e si estese anzi per terra, per mare e perfino nell’aria, donde sulle città inermi, sui quieti villaggi, sui loro abitatori inno; centi scesero la desolazione e la morte. Ed ora nessuno può immaginare quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali, se altri mesi ancora, o Seggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso. Il mondo civile dovrà unque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, cosi gloriosa e fiorente, correrà, quasi trave Ita da una follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio?
In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per miie politiche particolari, nè per suggerimento od interesse di alcuna delle parti belligeranti,* ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano.l’opera Nòstra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell’umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci più sulle generali, come le circostanze Ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche, ed invitare i Govèrni dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i seguenti punti, che. sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e completarli. t’’
E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentii alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti, secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi l’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo le noi me da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all’arbitro o di accettarne la decisione.
Stabilito così l’impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari; il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso.
Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella noi ma generale di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai benefici immensi del disarmo: tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico.
Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità. ,
Ma questi accordi pacifici, con gli immensi vantaggi che ne derivano, non sono possibili senza la reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. Quindi da parte della Germania evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi Potenza, sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione de le colonie tedesche.
Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come que le ad esempio che si agitano fra l’Italia e l’Austria, ha la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del gran consorzio umano.
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Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l'esame di tutte le altre Iuestioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all’assetto dell’Armenia, egli Stati Balcanici e dei paesi formanti parte dell’antico Regno di Polonia, al quale in particolare le sue nobili tradizioni storiche e le sofferenze sopportate specialmente durante l’attuale guerra debbono giustamente conciliare le simpatie delle nazioni.
Sono queste le precipue basi, sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti, e preparano la soluzione della questione economica, così importante per l’avvenire e pel benessere materiale di tutti gli Stati belligeranti.
Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla caia e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d'altra parte, che è salvo nell’uno e nell’altro campo l’onore delle armi: ascoltate dunque la Nostra preghiera: accogliete l’invito paterno, che vi rivolgiamo in nome del Redentore divino. Principe della pace. Riflettete alla vostra gramissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l’assoluto devere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che Voi, meritandovi il plauso dell’età presente, vi assiemiate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori:
Noi intanto, fervidamente unendoci nella preghiera e nella penitenza con tutte le anime fedeli che sospirano la pace, vi imploriamo dal Divino Spirito lume e consiglio.
Dal Vaticano, i° agosto roí?.
Benedictos PP. XV.
* * *
Ciò che vogliamo tentare in queste pagine non è un esame del contenuto politico della Nota papale, nè dimostrare se essa poteva costituire effettivamente la base di trattative. Dei fini di ambe le parti in guerra sappiamo troppo poco, solo quel barlume che attraverso esercitazioni retoriche di qualche ministro si è fatto intravedere. E siccome la retorica è nemica della realtà che dovrebbe andare senza veli, e siccome siamo nella condizione che se poco si sa, anche di quel poco non si può liberamente dire, l’esame politico d< Ila Nota sarebbe impossibile.
Ci sia lecito però constatare che l’atto di Benedetto XV, sebbene tardivo, fu un atto pieno di umanità e dì buon senso. E precisamente per questa ultima qualità esso veniva definitivamente a spezzare tutta la tradizione che teneva ferma l’autorità della Chiesa cattolica al più alto medio evo circa la concezione dello Stato e del Potere, che la teneva avvinta alla concezione del jus divinum da parte dei governanti nel disporre dei popoli, che la induceva con sillabi e decretali a negare ai popoli il diritto di disporre di se medesimi. Con la sua Nota il Pontefice riconosceva alfine, dopo lotte di secoli, che arbitro dei propri destini, al]’infuori e al disopra di ogni volontà di dominatori, resta il popolo, e che non è lecito contrattare e barattare, come si fa di mercanzie, o affermare il jus proprietatis come si fa d’un oggetto, nei rapporti di territori e di popolazioni.
Tale radicale mutamento nelle vecchie direttive della Chiesa veniva naturalmente subito rilevato. E La Tribuna del 17 agosto scriveva in proposito:
All’iniuori della discussione dei problemi concreti e piccisi, il carattere del documento si afferma nelle dichiarazioni di principi ideali e generali. Il diritto opposto alla forza; il disarmo e l’arbitiato con la sanzione obbligatoria ed efficace; il rieono-
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scimento, sia pure attenuato da ragioni che possiamo comprendere, del diritto dei popoli a decidere delle proprie sorti, sono altrettante annessioni che la nuova pc litica o diplomazia vaticana fa dai programmi del liberismo; diremmo anzi della democrazia più radicale, sino alle soglie del Soviet. È un profondo mutamento, una radicale trasformazione di quella diplomazia che una volta si stringeva così gelosamente attorno aH’autoritarismo, alla gerarchia ed al diritto divino. Perchè — vien voglia di domandare— non applicare questi principi anche alla questione romana?...
Non attendiamo, per ora, risposta a questa domanda.
La domanda era logica, e dovette riconoscerlo lo stesso organo della Santa Sede, l’Ossm/ ilare Romano, il quale esclamava con una malcelata preoccupazione (numero del 5.8 agosto):
E chi dice a La Tribuna che quelle cose tutte progettate dal domumento pontificio non siano applicabili anche per la legittima, equa, necessaria soluzione di una delle questioni più gravi? . • .
La preoccupazione del giornale vaticano appariva subito dal fatto che ammetteva la probabilità che in avvenire si potesse-giungere ad una soluzione della questione famosa applicando i principi affermati nel documento papale. Come se, appunto in base ai detti principi» la questione non fosse stata già risolta nel 1870. Chè se le cose affermate da Benedetto XV son buone e giuste oggi, dovevano esserlo pur ieri, perchè non si tratta di affermazioni contingenti e valide pel singolo caso, ma di postulati dell'etica sociale. Onde ben a ragione La Tribuna replicava (19 agosto)':
Rispondiamo subito all’organo ufficioso de! Vaticano, che qui non si tratta più di applicabilità, cosa da farsi e del futuro, ma di applicazione, cosa del passato e già fatta. O che l’organo vaticano vorrebbe altri plebisciti? Non ce n’è bisogno, e sarebbero superflui. Noi diciamo semplicemente che i nuovi criteri politici, di carattere teoricamente liberale, adottati nel documento pontificio, sono già stati applicati pel caso della questione romana, e che a’1 Vaticano incomberebbe, dopo questa sua. solenne proclamazione, di riconoscerli senz’altro, perchè cosa fatta capo ha...
Noi potevamo comprendere l’intransigenza vaticana nella questione romana sino a quando il fondamento della politica vaticana era il diritto divino e la eredità tradizionale, cioè i principi del feudalismo ancora permanenti negli Imperi Centrali. Riattaccata a quei principi, la questione romana dal punto di vista vaticano si poteva comprendere; ma essa cade necessariamente dal momento che il Vaticano adotta per la politica sua i principi della libertà delle nazioni e del diritto dei popoli. Con questa trasformazione- la questione romana non ha più ragione di essere e cade di per se stessa.
Che se l’organo vaticano volesse a questo riguardo avanzare sottili distinzioni di diritto e di equità, mescolando il vecchio col nuovo per mantenere ancora quella tal questione nella sua vita di fantasma; noi dovremmo allora rispondergli che in tal caso ci sarebbe ragione di dubitare della genuità e sincerità delia adozione dei principi che figurano così solennemente nel documento pontificio; con che la dignità, la sincerità ed il valore del documento resterebbero gravemente infirmati.
Certo Benedetto XV non pensava, redigendo la sua Nota, che essa avrebbe portato a queste conclusioni. Ma non sono esse le più interessanti nei riguardi degli atteggiamenti passati dell'autorità pontificia e delle future manifestazioni di essa, come rileveremo fra poco.
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« * «
Di sommo interesse, date le finalità di questi nostri commentari, è il ricordare e documentare qui l’atteggiamento dei cattolici dei vari paesi di fronte alla Nota pontificia. Ed occorre dir subito che molti serbarono dinanzi ad essa un contegno che mal si addiceva alla loro professione di cattolici militanti. In essi prevalse, non so sé irriflessivamente, il proprio nazionalismo sul carattere religioso delle loro persone e della loro azione, si ricordarono di essere francesi, belgi,, tedeschi, inglesi, italiani, ecc., e continuarono, come avevano fatto sino allora, ad infischiarsene solennemente dell’internazionalismo cattolico.
E ciò era naturale. I partiti cattolici nei vari paesi, come ripetutamente documentammo, specularono sulla guerra, parte per opportunismo e per timore d’esser tacciati di nemici della patria, parte perchè non rappresentavano e non rappresentano che un a laten dei partiti borghesi, legati in ciascun paese alle classi domi-natrici. Non erano e non sono che dei conservatori o liberaloidi, che trovano conveniente; darsi il qualificativo di cattolici, senza però che i principi fondamentali del cristianesimo entrino affatto nella loro condotta sociale e politica. Anzi, è bene ricordarlo, si è insistito vivacemente sino a ieri nel negare che, almeno in' Italia, un partito cattolico esistesse. Il fatto si è che i cattolici — parliamo naturalmente dei capi e dei maneggioni, non del servutn peciis — che assai più efficacemente dei socialisti avrebbero potuto imporsi in nome dei propri principi religiosi perchè la guerra non scoppiasse, nulla fecero per evitare il macello, furono anzi fra i primi ad imbrancarsi dovunque fra i guerra ioli più accesi. E giustificarono 0 tentarono giustificare i rispettivi Governi, anché se erano assalitori, e benedissero le armi che avrebbero trucidato altri uomini, ignari tutti delle finalità dell’eccidio, sicuri tutti di combattere per cause giuste, poiché venne messa in circolazione la strana teoria che ogni cattolico deve ritener giusta la guerra quando venga proclamata dai propri governanti. Onde, a rigor di logica, i cattolici delle varie parti contendenti, particolarmente se soldati, possono, anzi debbono ritenere a priori di pugnare per la giustizia e di esser giustificati dell’uccidersi reciprocamente.
In una parola i partiti clericali, con a capo le varie autorità ecclesiastiche, assunsero una diretta responsabilità nel fatto della guerra. Ed il gesto pontificio o non fu da essi compreso o non seppero svincolarsi dalle catene che essi stessi si erano foggiate. Bene a ragione il deputato francese Alexandre Blanc r iassumeva l'atteggiamento dei cattolici in Francia ed altrove, di fronte all’appello di Benedetto XV con le seguenti parole {Avanti!, 29 agosto):
11 papa — che noi non abbiamo incontrato nè a Zimmerwald nè a Kienthal —-, dopo avere lungamente esitato, fa udire la sua voce in favore della pace. La fa udire in nome delia sua religione, in nome dell’umanità.
Quale stupore, anzitutto, fra i suoi più notevoli fedeli! Un papa limano! Un papa sentimentale! Inconcepibile. Come hanno potuto elevarlo alla tiara, all'infallibilità?
Non lo s’ingiuria; se ne condanna rispettosamente l’atteggiamento; se ne deplora l’accecamento; da una parte e dall’altra lo si considera come lo zimbello dei nemici.
La stampa cattolica degli Imperi centrali pretende ch’egli faccia, incoscientemente, il giuoco degli alleati. La stampa cattolica degli alleati pretende che faccia, non meno incoscientemente, il giuoco degli Imperi centrali.
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Da noi, ed altrove i vescovi — buoni pastori d’anime! — si mischiano nella disputa con un vero aidore guerresco. Davanti a quelle nutrie minacciose il papa osa appena balbettare.
Eppure, voleva realizzare un bel sogno. Il sogno di rendere alla Chiesa, nell'immenso conflitto d’oggi, l’ufficio, che seppe compiere la Chiesa nei ristretti conflitti del Medio Evo.
La Chiesa di quell'epoca non deve vedersi soltanto alla luce delle sue colpe c dei suoi vizi: sarebbe ingiusto assimilare ai frati vagabondi e saccheggiatori, i monaci studiosi e di severi costumi, che nella calma di certi monasteri preparavano meraviglie di letteratura e di erudizione.
In quelle guerre continue da provincia a provincia, da baronia a baronia, da castello a castello, in quelle guerre di devastazione, la Chiesa seppe agire. Grazie alla sua influenza, grazie al timore che ispirava ed ai mezzi di cui disponeva, riuscì a ridurre quelle guerre, se non riuscì a sopprimerle.
Che non fosse guidata esclusivamente dall’amore dell’umanità, è possibile. Ma il risultato fu conforme al sentimento d’umanità.
Dopo parecchi secoli, il successore di S. Pietro vorrebbe anch’esso arrestare l'effusione del sangue. Nel suo candore, ha contato sui suoi collaboratori piti diretti.
Può darsi che la massa dei fedeli segua il papa. Ma i collaboratori più diretti, più collocati in alto, abbandonano il loro capo. La guerra non li riguarda: la morte, le miserie, le sofferenze, non li riguardano. Di tutto ciò si lavano le mani.
Nell’anno 33 Ponzio Pilato era un funzionario pagano. Nel 1917 Ponzio Pilato è il tipo stesso del cattolicismo.
Cosicché quando Benedetto XV emanò il suo appello per la pace, primi fra tutti i vescovi ed i preti delle diverse nazioni contestarono con più o meno rispetto al Capo della loro Chiesa la infallibilità nelle cose di politica, e insinuarono quindi che la sua parola, per quanto da ascoltarsi con ossequio, non implicava nessun dovere da parte dei fedeli.
Rileveremo qui le manifestazioni del pensiero dei cattolici dei vari paesi, limitandoci alle più importanti.
In Germania la Kölnische Volkszeitung, il principale organo dei cattolici tedeschi, scriveva a diverse riprese e ricantava su tutti i toni che la proposta del Papa non era atto religioso del sommo pastore e maestro, ma una proposta politica di un sovrano neutrale.
La posizione di Benedetto XV, diceva quel, giornale, è paragonabile a quella di un vescovo, il quale, in una lotta economica tra operai .e padroni, interpone i suoi buoni uffici e indica alle parti contendenti la via che debbono tenere. Adunque, per quanto riguarda gli obbiettivi di pace, l’atto.del papa non impegna per nulla i cattolici tedeschi: il nostro Governo può accettare 0 respingere la proposta del Sommo Pontefice senza che con ciò si ponga in contraddizione coi sentimenti e con le convinzioni dei cattolici anche più fedeli alla Chiesa.
Non differente linguaggio tenevano gli altri organi cattolici quali il Bayerischer Courier, la Germania, ecc.
In Francia, più che la stampa clericale, furono membri autorevoli dell’episcopato che si sollevarono contro l’iniziativa pontificia e ne promossero il sabotaggio. È restata famosa la audace interpretazione della Nota pontificia fatta dal decrepito cardinale Roverie de Cabrières, vescovo di Montpellier, in una lettera pastorale ai suoi fedeli, in cui, fra l'altro, si diceva:
Continuare la guerra per conquistare la pace. Ecco una formula che corrisponde certamente ai voti di Benedetto XV; e se non l’ha adottata egli stesso non è perchè
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ciò gli ripugnasse come un avviamento possibile verso upa diminuzione progressiva del male della guerra; ma perchè le labbra del mandatario e dell’ambasciatore del principe di pace esitano a pronunciare una paiola che per colpa dei nostri nemici è sinonimo di tutte le violenze e di tutte le barbarie. Questa guerra fa orrore e bisogna che i suoi orrori stessi la facciano cessare colla nostra vittoria.
La contraffazione del pensiero pontificio valse al bollente prelato — notissimo per essere stato sempre fra i più reazionari vescovi di Francia in opposizione alle direttive papali di Leone XIII in particolare ed alle direttive di tutti i Governi succedutisi in regime repubblicano nella sua patria — gli valsero una chiamata a Roma dinanzi a Benedetto XV che, pur rendendosi conto dello stato d’animo del cardinale nello scrivere la pastorale ricordata, fermamente e severamente gli ricordò che nessuno, e tanto meno un vecchio vescovo, poteva prendersi giuoco in atti pubblici dei documenti papali. La refinmande dovette far sull’animo del De Ca-brières un effetto assai relativo, poiché sapeva di aver consenziente nella linea di condotta da lui seguita, la grande maggioranza del clero e dell’episcopato francese, i quali furono, fin dall’inizio, per una guerra a fondo e non solo per una guerra di difesa nazionale, ma anche per una guerra di razza e di popolo. E Benedetto XV, a cui ciò non poteva essere ignoto, volle provvedere ad opporre in Francia alle interpretazioni non autorizzate una dilucidazione delle condizioni favorevoli alla Francia stessa, incluse nella Nota ai capi dei popoli belligeranti, onde cessasse in quella nazione di aver credito la leggenda che egli avesse favorito la causa tedesca. Curò pertanto che il Cardinal segretario di Stato dirigesse una lettera al vescovo di Valenza, nella quale si affermava recisamente che «se nella lettera pontificia vi sono nazioni favorite in modo speciale, queste sono appunto il Belgio’e la Francia », e si dimostrava così tale asserto:
Quanto alla riparazione dei danni ed alle spese di guerra, il Santo Padre nel terzo punto propone, come principio generale, il reciproco condono, aggiungendo tuttavia che, se in qualche caso, speciali ragioni vi si oppongono (ciò che si verifica per il Belgio) esse verranno prese in considerazione con spirito di giustizia e di equità. Vostra Signe ria si ricorderà certamente che il signor Ribot, d’accordo col Governo provvisorio di Russia, ammise che nelle eventuali trattative di pace non si dovessero reclamare indennità di guerra, ma riservò per la Fi ancia il diritto di esigere la riparazione dei danni causati dalla malevolenza dei comandanti militari senza necessità di guerra.
La lettera pontificia, concepita in termini generali, non impedisce che la riparazione di questi danni possa essere compresa nella suddetta eccezione. Ma, fatta anche astrazione dell’enorme difficoltà di precisare in tutti i settori della guerra i danni causati senza necessità militare, appartiene alla Francia di giudicare, se le conviene, anche nell'ipotesi della vittoria, prolungare la guerra fosse anche solamente per un giorno, per pretendere dal nemico la riparazione di questi danni, tenendo conto delle perdite di denaio che esige la guerra, delle perdite ancora più gravi in uomini e dei mucchi di rovine nei quali la guerra lascerebbe il Belgio ed il territorio francese attualmente occupato.
Nel quarto, punto il Santo Padre vuole che il territorio francése, attualmente occupato dagli eserciti tedeschi, sia immediatamente e completamente sgombrato: ciò che certamente non può dispiacere alla Francia, che da più di tre anni versa il migliore sangue dei suoi figli senza essere riuscita a liberare questo territorio. Infine, nel quinto punto, il Santo Padre non propone, nè poteva proporre alcuna soluzione della questione dell'Alsazia e Lorena, ma fa voti perchè la Francia e la Germania esaminino con disposizioni concilianti questa questione, tenendo conto nella misura del giusto
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e del possibile delle aspirazioni dei popoli. In verità non si comprende come questi voti potrebbero urtare il patriottismo francese; al contrario, se questa questione, che è il pomo della discòrdia tra le due grandi nazioni, potesse risolversi in una maniera pacifica e soddisfacente per le due parti — e nessuno non dirà che questa soluzione sia impossibile — non sarebbe forse meglio non solamente per la Germania e per la Francia, ma per la intera umanità? È dunque chiaro che se l’appello del Pontefice favorisce la Francia in diversi punti, in nessuno l’offende, ciò, che fa sperare che, passata la prima impressione poco riflettuta, la Francia darà all’atto del Pontefice un più giusto e favorevole apprezzamento.
Sembra però che, neppure dopo questa lettera, gli umori sieno cambiati notevolmente nel clero e nel laicato francese.
Nè più felici volgevano le cose per la Nota papale presso i cattolici inglesi. Basta riferire che il più noto degli ecclesiastici dell’Inghilterra, il gesuita p. Bernardo Vau-ghan, in un pubblico discorso dichiarava che « il Papa ha mostrato di non aver compreso i sentimenti che animano gli Alleati. Non ha compreso che gli Alleati non possono discutere le condizioni di pace prima che essi possano dettare la pace stessa al nemico... Non possiamo riporre la spada nel fodero se non abbiamo annientato il militarismo, se non abbiamo abbattuta la bandiera della Kultur ». Lo stesso confermava l’organo cattolico The Tablet.
I cattolici belgi, malgrado le dichiarazioni di « profonda gratitudine » del loro Governo al Pontefice nell’accusare ricevimento della Nota, si mostrarono divisi. Un loro giornale Le XX Siècle giungeva ad .accusare Benedetto XV di ingiustizia scrivendo nel n. del 15 agosto:
Si può prevedere che i cattolici dell’Intesa, accogliendo con deferenza il passo pontificio, daranno la stessa risposta data al presidente Wilson, risposta giusta che condusse la grande repubblica accanto agli alleati. Essi con fondamento faranno osservare che la pace del diritto non può esistere senza assolute garanzie contro nuove aggressioni e che non sembra conforme a giustizia sottrarre i colpevoli alla punizione reclamata dalla vendetta pubblica, le esigenze della quale sono state così eloquentemente proclamate dal cardinale Mercier.
E nel numero del 21 agosto dello stesso giornale ripeteva:
Noi ci facciamo del papato un’idea così alta che sentiamo pena ad ammettere che il papa abdichi, nel cataclisma mondiale, la magistratura morale che l’universo intero gli riconosce e nnunzi a giudicare fra l'innocenza martiiizzata e l’ingiustizia trionfante. 0
L’episcopato belga invece., rimasto come era suo dovere nel territorio invaso, rivolgeva a Benedetto XV la seguente lettera:
Noi preghiamo rispettosamente Vostra Santità di gradir l’omaggio della nostra gratitudine per la magnifica e così commovente Enciclica « Hu mani generis» su la predicazione della parola di Dio: noi vi ci conformeremo in ogni punto e con una sollecitudine tanto più spontanea in quanto le istruzioni e le esortazioni di Vostra Santità rispondono pienamente ai nostri sentimenti più intimi sulla grandezza e sul caràttere sacro della predicazione apostolica.
v Temeremmo di uscire dal nostro compito se ci arrogassimo il diritto di giudicare 1 oggetto del conflitto che lacera e insanguina il mondo da più di tre anni, ma pioviamo il bisogno di dire a Vostra Santità la dolce emozione che abbiamo provato per la nuova
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testimonianza di predilezione paterna per il Belgio, contenuta nel Messaggio di pace ai popoli belligeranti.
Già fin dal principio della guerra Vostra Santità proclamò in faccia al mondo di riprovare l’ingiustizia e si degnò di assicurare, in seguito, al nostro Governo che, formulando tale riprovazione, aveva principalmente in vista la nostra diletta patria. Questa volta ancora, obbedendo a un sentimento di eguale compassione per tutte le nazioni Che la guerra fa soffrire e a uno stesso paterno desiderio di fare a tutti, senza accettazione di persone nè distinzione di personalità o di religione, il maggior bene possibile. Vostra Santità ha, nondimeno, nel compimento della sua alta missione pacificatrice, uno sguardo speciale per il nostro sventurato paese. E non solo domanda a coloro che dirigono, in quest'óra tragica, i destini delle nazioni belligeranti, di provvedere alla « totale evacuazione del Belgio con garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi Potenza », ma un commento autorizzato ci ha fatto sapere che il capoverso del Messaggio nel quale Vostra Santità in-travvede l’eventualità di un’indennità, per ragioni di giustizia e di equità, riguarda ancora in modo specialissimo il Belgio.
Mancheremmo a un dovere e saremmo sordi alla voce della nostra pietà filiale se, per contraccambiare tante delicate attenzioni, non offrissimo a Vostra Santità, nel nome dei fedeli e del clero delle nostre rispettive diocesi e in nome nostro personale, l’omaggio della nostra viva e religiosa gratitudine.
Degnatevi, Beatissimo Padre, di benedire gli umili’ firmatari di questo indirizzo e le popolazioni cristiane che essi rappresentano, e credere ai loro sentimenti di profonda venerazione, di sottomissione filiale e di intera devozione.
A nome dei vescovi di Namur, di Liegi e di Malines.
t D.Card. Mercier
Malines, io ottobre 1917. Arcivescovo di Malines.
E veniamo finalmente all’Italia. L’atteggiamento dei clericali nostrani, i quali han tenuto in permanenza accesa una lampada all’ara della pace e due a quella della guerra, non si smentì in questa circostanza.
(CENSURA)
giornali di altri partiti votatisi alla guerra, i quali cominciavano a paventare la defezione dei cattolici dalle file della « sacra unione », accusarono
le organizzazioni clericali di deprimere lo spirito pubblico e di attentare alla concordia nazionale fiaccando la resistenza morale del popolo col fargli credere che se la guerra avesse continuato malgrado l’intervento pontificio, la colpa doveva riversarsi tutta sugli uomini che presiedevano alle nazioni e che rifiutavano una pace equa e giusta.
(CENSURA)
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Contro tali critiche ed accuse il conte Dalla Torre, presidente generale della « Unione popolare fra i cattolici d’Italia », protestava con la seguente lettera diretta atì’Italia di Milano:
Roma, 24 agosto 1917.
Egregio Signor Direttore,
Alcuni giornali di Milano hanno rivolto vive critiche alle organizzazioni cattoliche che promossero la diffusione ira i propri soci c tra il popolo, dell’appello del Santo Padre per la pace.
Siccome ci si accusa di voler deprimere lo spirito pubblico e la resistenza nazionale, credo doveroso dichiarare che è in animo dell’« Unione Popolare» questo soltanto: procurare che il pensiero e la parola del Papa intesi ad assicurare al mondo una pace giusta e duratura, secondo le legittime aspirazioni dei popoli, siano integralmente conosciuti e rettamente giudicati dalla coscienza popolare malgrado ogni più manifesto tentativo di traviarli e sconvolgerli con commenti ed aieuse partigiano.
È pertanto — dopo l’ammonitrice esperienza del passato — un diritto di legittima difesa che noi esercitiamo, non già un’opera demolitrice di virtù civili raccomandate sempre da noi, durante due anni di guerra, allá forza più viva e più potente che sia nel cuore del nostro popolo, il sentimento religioso.
Nè la paterna voce del Santo Padre è tale da scuoterle o affievolirle, quando, non la pace • a qualunque costo », ina quella della giustizia e del diritto cristiano Egli invoca a ristoro delle nazioni e a nuova gaianzia di progresso nel mondo.
Mi creda cordialmente
Suo
G. Dalla Torre.
Evidentemente però il Dalla Torre, con tale lettera, non faceva che porre esca al fuoco delle ire cui or ora accennavamo, tanto che il Corriere della Sera giungeva a chiedere il bavaglio contro i elei ¡cali, scrivendo (n. del 25-[agosto):
In Francia la concordia piofonda di tutta la nazione davanti al nemico e il sentimento nazionale schietto e diritto dei più fervidi cattolici sono una barriera insuperabile contro ogni insidiosa minaccia. In Inghilterra e negli Stati Uniti l’elemento cattolico, oltre a essere non meno schiettamente e direttamente nazionale che in Francia, è di autorità secondaria. In 'Italia, nell’Italia cui dieci mesi di neutialità apriiono una piaga che non s’è mai rinchiusa, una stampa che si professa italiana, ma obbedisce incondizionatamente agli ordini del Vaticano, sta celebrando la Nota pontificia come il mezzo sicuro di ottenere una rapida c profittevole pace e combattendo tutte le obbiezioni come scellerati sforzi di gente senza cervello e senza cuore per impedire la cessazione delle stragi e per prolungare indefinitamente il flagello. I socialisti antinazionali tengono bordone. Approvano il Papa, appiovano chi approva il Papa. Le masse semplici e inquiete sono in mano di costoro. E il Governo è assente.
Espressioni forse più feroci usavano altri, giornali. Era tempo pertanto di virar di bordo e di ricorrere ancora una volta al vecchio metodo del dire e non dire. E per ciò fare la stampa clericale italiana non trovò di meglio che ricopiar la stampa tedesca ed austriaca nelle distinzioni tra autorità e consiglio nelle parole pontificie. Così il Corriere d'Italia^(26 agosto) rispondeva alle parole su riportate del Corriere della Sera'.
I cattolici italiani sanno, che il Pontefice, pur additando ai Governi le basi di una >ossibile intesa, non pensò mai di disconoscere il diritto dei Governi stessi di prendere e loro decisioni e di portare nel campo delle trattative, come già nel campo della guena, a difesa dei loro interessi morali e materiali; i cattolici sanno che il loro dovere è.
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ancora e scmpie quello <li lavorare alla grandezza e alla fortuna della Patria: c guardano oggi come ieri, con commosso amore, ai soldati che pei quella grandezza si battono al di là dell Isonzo, lieti che essi contribuiscano con la loro vittoria ad affrettare quella pace giusta e durevole che è nei voti del Pontefice, che è il loro più vivo desiderio di cattolici e di italiani.
E V Italia di Milano, polemizzando con lo stesso Corriere della Sera, che chiedeva ohe si rispondesse apertamente se i clericali avrebbero seguito il Governo nella sua politica di guerra ad oltranza, replicava:
X" non C’^ esitare * rj?I>ondere:-Certamente: e in questo i cattolici sono perfettamente consenzienti... I cattolici sentono il dovere della disciplina nazionale, ed a questa disciplina non verranno mai meno.
E più esplicitamente ancora rispondeva alla questione’medesima l’organo clericale bolognese V Avvenire d’Italia, con queste parole:
, ,.u Pa.Pa» co.n un appello che è supplica, esortazione, ammonimento, ma ha serbato la discrezione di non esser comando, si è rivolto ai capi dei popoli belligeranti, non ai popoli stessi. Non ha voluto metter questi in tentazione di riteneisi indipendenti, o peggi ancora, opposti ai capi. Egli ha serbato intatto ir ogni paese l’cbbligo di disciplina dei cittadini verso lo Stato. 6
Il ralliement fra i clericali ed i partiti di guerra veniva così riconsacrato. La polemica venne attutendosi particolarmente per effetto delle pratiche condotte abilmente negli ultimi giorni dell’agosto dal conte Dalla Torre con uomini rappresentativi di parte non sua.
(CENSURA.)
(CENSURA)
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(CENSURA)
* * *
la libertà lasciata ad altri giornali clericali italiani e forestieri di discutere la iniziativa pontificia aderendovi o dissentendone anche aspramente, dovrebbero far logicamente, ritenere che tutto il sistema che si era venuto creando e che tenacemente era sostenuto dai papi circa la propria autorità, sia stato all’improvviso abbandonato da Benedetto XV e sia ruinato miseramente.
Senza risalire molto addietro, rammentiamo gli eventi di questo ultimo ventènnio che ebbero ed hanno forse tuttora larghissima ripercussione in tutta la cristianità. Non è ignoto ad alcuno come la parte la più vivace del cosidetto modernismo e semimodernismo, fu quella che cercò di affrancare i cattolici dalla diretta dipendenza del papa in materia politica. La democrazia cristiana in Italia dal 1892 al 1904 lottò fra sconfessioni, persecuzioni, condanne, per affermare che i cattolici non dovevano politicamente esser tenuti sempre sotto tutela, e che essi erano, salvo che in materia di fede e di costumi, arbitri delle proprie azioni quali cittadini, anche in contrasto, se lo avessero ritenuto Opportuno sia individualmente che collettivamente, con le direttive politiche pontificie. Parimenti le cose volgevano in Frància — e ricordiamo qui le condanne del Dcmain, del'Sillón e di altri periodici, — pari-menti era avvenuto qualche anno prima in Spagna quando Leone XIII intervenne nelle beghe politiche locali, ecc. E sotto il pontificato di Pio X la maggior cura di questo papa fu di irreggimentare sempre più i cattolici a scopo di politica, ed assistemmo alle fatiche gentiloniane e vedemmo le sacre infule vescovili sparnazzare per tutta Italia per accaparrare voti ai candidati che avevano accettato il compromesso papale, e per deprecare e maledire quelli che avessero votato contro. E potremmo continuare a lungo in proposito, riferendoci anche alle vicende politiche nei paesi avversari.
In poche parole era ormai acquisito che-l’autorità pontificia si estendesse anche agli affari politici e che fosse colpevole da parte dei cattolici discutere e, peggio
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ancora, ribellarsi alle direttive papali. Perchè, si diceva, se è vero che la politica è teoricamente cosà divèrsa dalla religione, i contatti fra l’una e l’altra sono multipli, e, nell’interesse della Chiesa, il papa, che avendo tutti gli elementi per un esatto giudizio delle circostanze, determina sia direttamente che indirettamente ciò che è opportuno facciano i cattolici, o pronuncia un giudizio morale di approvazione anche su questioni politiche, dev’essere seguito fedelmente sotto pena di colpa grave.
Ora, nel fatto specifico. Benedetto XV, nella sua Nota ai capi dei popoli belligeranti, pronunzia giudizi basati su elementi morali, anzi, secondo il pontefice, determinati da questi elementi e, indubbiamente, dalla preoccupazione dell’interesse della Chiesa. Era lecito pertanto ai cattolici di ogni paese di dissentire dal papa edi prender posizione contro di lui? Benedetto XV giudicava la guerra, allo stadio in cui essa era giunta, una «inutile strage»; egli non solo opinava, ma giudicava che le basi di discussione da lui formulate ed i loro presupposti essenziali, quali il disarmo ecc., fossero le uniche capaci di portare ad una pace equa e giusta, instauratrice del diritto, ostacolo indubbio a future competizioni ed al riaccendersi di ostilità. La sua Nota è un trattato di morale, che gli acattolici potevano ben discutere, ma che i cattolici avrebbero dovuto accettare senza discussione alcuna. Come dunque essi, in nome dei rispettivi nazionalismi, con criteri quindi assolutamente unilaterali, si son burlati di Benedetto XV e gli hanno ripetuto su tutti i toni, dallo sdegnato al flebile, che la pace più giusta non è quella da lui auspicata, ma è invece quella che potrà essere imposta colla spada vincitrice, dagli alleati ai tedeschi o viceversa?
Il fatto sta che Benedetto XV ha tollerato questa specie di ribellione da parte dei cattolici,
(CENSURA)
Roma, ottobre 1917. Ernesto Rutili.
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NOTE DI VITA E DI PENSIERO EBRAICO
i.
1. IL RINASCIMENTO DEL POPOLO E DELLA TERRA D’ISRAELE
Gli Ebrei tornano, dopo due mil’anni, a partecipare come unità nazionale alla storia degli uomini. Già questa loro volontà l’avevano espressa or son vcnt’anni quando sorgeva quel « Sionismo » o nazionalismo palestinese che oggi pare si avvii alla sua attuazione.
Molte speranze infatti dà al desiderio millenario del popolo d’Israele l’avanzata dell’esercito, inglese in Palestina e le simpatie che le Potenze dell’Intesa hanno dimostrato al movimento della restaurazione ebraica. L’Inghilterra, che piti volte dimostrò simpatia per il ritorno degli Ebrei alla cultura dell’antica patria, (ricordiamo fra gli altri il progetto di Sir Moses Monte-fiore al tempo di Mehemet Alì e di I.ord Palmcrston, quello di Laurence Oliphant al tempo di Lord Beaconsficld e di Lord Salisbury e il disegno di E1 Arish, alla frontiera egiziana, a) tempo di Chamberlain), l’Inghilterra pare abbia dato oggi seri affidamenti ai leaders del sionismo. Fra costoro c’è quel Dr Charles Weizman, chimico ebreo-russo di gran valore, che mise la sua scienza a profitto della sua terra adottiva al primo scoppiar della guerra e le fornì un elemento indispensabile alle munizioni navali, la cui mancanza metteva in gran pericolo la libertà e resistenza dell’impero britannico.
Accanto all’Inghilterra stanno le sue alleate, Francia c Italia, che hanno dato assicurazioni di appoggio ad uno dei capi del movimento, lo scrittore ebreo Nahùm Sokolow, che poco fa ha visitato Parigi e Roma e ha avuto da S. E. Boselli parole d’interessamento degne delle buone tradizioni italiane. Il mondo anglo-sassone e latino è dunque concorde nella restaurazione del popolo ebraico nella sua terra storica e ciò non ha piccolo significato ideale per quelle rivendicazioni di libertà e di giustizia che le nazioni dell’Intesa hanno proclamato nell’immane guerra.
Certo, uno dei massimi fattori di questa risorta volontà ebraica e della comprensione che ne ha il mondo democrativo va ricercato nel generale progresso delle idee che è- così propizio alle rivendicazioni nazionali unitarie. Qualche studioso della vita d’Israele ha voluto spiegare la millenaria sofferenza della dispersione e l’assenza di tentativi •politici attivi per una restaurazione palestinese con una specie di « apatia nazionale » da cui sarebbe stato preso il popolo della Bibbia. Tutta la vita di 20 secoli sarebbe una vita senza mèta, una.specie di errore di stampa della storia. Certo gli Ebrei che avevano interpretato e difeso così intensamente la loro vita nazionale in Palestina, si adagiarono nella Diaspora ad un mistico sogno di restaurazione per intervento divino, alla fine dei giorni. Ma anche Xuesta era un’interpietazione della storia, ggi si direbbe, con linguaggio piò scientifico. che se gli Ebrei non tentarono mai politicamente di ristabilire la loro sede o il loro centro nazionale in Palestina, fu poiché le condizioni storiche erano così avverse ch’ossi si sentirono impotenti a trasformarle '(1).
L’« emancipazione » che nel secolo xix liberò gli Ebrei dal Ghetto e fece creder loro d’essere pervenuti per altre vie miracolose all’età messianica cantata dai Profeti, all’età della fratellanza delle genti e della conoscenza di Dio, addormentò anche il loro mistico sogno palestinese. Fu una breve parentesi in cui parve che il vivo senso nazionale d’Israele*naufragasse in un vago confessionalismo, e non rimanesse più al mondo se non una religione mosaica non militante e combattente fra le altre Chiese, ma timida e chiusa nelle Sinagoghe dei giorni di festa solenne. Fu tutto un periodo della recente vita ebraica che, nonostante qualche fermento idealistico e qualche rinnovamento scientifico, parve non aver altro resultato che l’annullamento della coscienza storica e la corrosione del(x) Vedi Giuda e Roma del Dr. S. M. Melamed in Ha-lóren. Nuova York, io agosto 19x7.
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l’unità della stirpe. Per i migliori spiriti che portavano àncora in sè qualche orgoglio, qualche energia etnica e qualche conoscenza dell’idea, tutta la ragion d’essere del popolo. anzi della Chiesa ebraica, era l’unità di Dio, il « dogma » monoteistico puro c astratto depositato nei loro libri antichi.
Ciò non impediva la decadenza, la quale si avvertiva collettivamente e individualmente nelle più libere terre dell’Europa occidentale, mentre le masse orientali erano in balia delle inferiorità medioevali, dei massacri, dell’emigrazione che creava le nuove diaspore americane, e dei tentativi rivoluzionari che finivano nel sangue.
In sostanza, era tutto un ricorso della storia ebraica. Questo fenomeno di autoannullamento nazionale che oggi viene chiamato «assimilazione», si chiamava ■ ellenismo « nel n secolo a C.. e fu superato dalle lotte dei Maccabei. E i tre gruppi in cui può oggi dividersi il popolo ebraico: tradizionalisti oppure ortodossi, assimila-tori, e nazionalisti o sionisti, corrispondono ai partiti ebrei dei due secoli anteriori al Cristianesimo: i hassidim, gli ellenisti e i seguaci dei Maccabei.
Come negli antichi tempi fu Giuda Maccabeo il suscitatore del riscatto nazionale e dell’iwnor di Sion, nei tempi nostri fu Teodoro Herzl che risuscitò praticamente, con visioni moderne e con realismo politico, il sopito informe desiderio della ricostituzione nazionale e ri fecondò la coscienza collettiva d’Israele, dopo i tentativi del socialista Mosè Hess Roma e Gerusalemme: l’ultima questione nazionale», 1852), di Perez Smolensky (« Il popolo eterno ». 1873) di Leo Pinsker (« Autoemancipazione » 1881) che dettero origine al movimento di lenta colonizzazione della Palestina dei « Chovevè-Zion » (gli amici di Sion). I Chovevè-Zion sono i predecessori del moderno Sionismo che nasce nel 1895 collo « Stato degli Ebrei » di Herzl e cu Congresso di Basilea (1897).
È questo movimento che raccoglie oggi in America, in Russia, in Inghilteira e dovunque vivono ebrei, la volontà delle Lile e degl’intellettuali d’Israele e la simpatia degli'uomini politici dell’Intesa, i quali vedono nella restaurazione ebraica un interesse delle nazioni mediterranee per la sicurezza della loro vita. La Palestina è la chiave dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’ìndia e il nodo delle grandi strade che dall’occidente europeo conducono in Asia e sbarrano la via ai sogni d’imperialismo
delle potenze centrali. Israele, colle sue colonie palestinesi, coi suoi villaggi-giardini, colle sue imprese agricole, colle sue scuole, i suoi istituti di cultura e d’arte, colla sua S>otenza di ricreazione dell’ebraico come ingua della vita, delle lettere, degli studi, ha dimostrato ormai in 30 anni di lavoro meraviglioso d’esser capace di rinnovare il suo mondo interiore e là sua terra.
Il popolo ebraico, più che qualunque altro popolo, è ad una svolta della sua storia, dopo una sofferenza ed un’aspettativa di due mil’anni. Come le altre nazioni, esso avrà la sorte che saprà conquistarsi colla sua ferrea volontà e colla precisa e incrollabile visione delle sue necessità e dei suoi destini.
Chi voglia farsi un’idea abbastanza sufficiente della natura e dei fini e delle opere di questo movimento, può leggere un recentissimo volume di Albert M. Hyamson: < Palestine. The Rebirth of an ancient Peonie» (Sidgwick and Jackson. Ltd. 3, Adam Str., Adelphi, London W. C., 10/6 net, pagg. 292 con 21 illusi?. ed una carta delle colonie ebraiche) in cui, dopo un sommario della storia di Palestina, dal 70 d. C. ad oggi, l’autore tratta delle visioni e del progresso del moderno Sionismo e descrive il rinnovamento materiale e spirituale che si compie da 25 anni nell’antica terra della Bibbia. Notevoli son pure dieci opuscoli sionisti pubblicati a Londra fra il 1916 e il (1917 S. Land man, 69, Leadenhall Str., London E. C.3) in cui si tratta delle idee, dei fini e dell’organizzazione del movimento e si ricercano i rapporti col pensiero ebraico e colla moderna politica.
In conclusione, il Sionismo è un moto di risorgimento delle genti ebraiche e dei loro valori ideali e spirituali. Per chi ami i valori ideali, questo ritorno sul teatro delle genti, della tenace e sognante fibra ebraica, purificata da tutti i detriti e le contaminazioni con cui si corruppe nei secoli del Ghetto e negli anni dell’arrivismo assimi-latore, dev’essere salutato con belle speranze e sincere simpatie (x).
(x) Mentre scriviamo ci giunge notizia d’un documento ufficiale, del Governo inglese, che assume la massima importanza storica.
«‘Foreign Office « 2 novembie 19x7.
• Caro Lord Rothschild,
* Ho il gran piacere di trasmctteiLe, per parte del Governo di S. M., la seguente dichiarazione di sim-
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2. UNA NUOVA TRADUZIONE INGLESE DELLA BIBBIA
La dispersione ha allontanato dalle folle ebraiche la conoscenza della lingua originale in cui è scritta la Bibbia e ne ha reso necessaria la traduzione nei vari idiomi della Diaspora. Così nacquero la versione aramea, quando l’arameo era la lingua della Palestina, i Settanta prodotto del contatto in cui Israele venne colla civiltà ellenica; la traduzione araba di Saadya all’epoca maomettana, la traduzione tedesca di Mendelssohn e quella italiana di-5. D. LuzzaUQ. nel periodo dell'emancipazione.
L’accresciuta popolazione ebraica delle terre anglo-sassoni, ha reso ora necessaria una nuova traduzione della Bibbia che tenesse meglio conto dei resultati della moderna critica e delle scoperte archeologiche e filologiche c fosse condotta da Ebrei secondo lo spirito dell’interpretazione tradizionale-ebraica. C’erano già le versioni di I. Leeser, del Dott. A. Benish e del Dottore M. Friedländer, ma, per quanto pregiate, ex-ano opera individuale e non recentissima. ft quindi bene accolta dall’Ebrai-smo inglese la nuova traduzione della Bibbia, votata fin dal 1892 dalla Jewish Pu-blication Society of America (Filadelfia: Broad Str. and Grand Avenue) e affidata* ad una Commissione di dotti ebrei, com-Sosta del Dott. S. Schechter, Dott. Cyrus dler, Dr. Joseph Jacobs, Dr. Kauf man Kohler, Dr. David Philipson. Dr. S. Schulman e Prof. Max L. Margolis'(1).
patia verso le aspirazioni sionìstiche, che è stata sottomessa al Gabinetto e da lui approvata:
Il Governo di S. M. vede con favore la costituzione in Palestina d’una sede nazionale (national home) per il popolo ebraico e userà i suoi migliori sforzi per facilitare il raggiungimento di tale obietto, chiaramente sottintendendo che nulla sarà latto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle Comunità non ebraiche esistenti in Palestina o i diritti e lb statuto politico di cui godono gli Ebrei in ogni altro paese.”
« Le salò grato se vorrà portare tale dichiarazione a conoscenza della Federazione sionistica.
« Sinceramente suo
« f.® Arthur James Balfour ».
(x) The Holy Scriptures according to the Maso-retic Text. A New Translation with the aid of previous versions and with constant consultation of Jewish autorities; 19x7, pp. 1136.
È un lavoro di sette anni (1908-1915) per cui non furono risparmiato fatiche e spese. Alcune brevi note marginali rendono la traduzione più chiara nei luoghi controversi od oscuri.
Vi è annessa una « Storia delle traduzioni della Bibbia » del prof. Margolis.
3. IL PROCESSO STORICO NELLE VISIONI PROFETICHE
J. Heshil Jibin scrivo sulla risorta Rivista ebraica di Odessa Ha-scVóah un profondo articolo sul « Processo storico nelle visioni dei Profeti ». Per lui la concezione profetica della storia è una concezione ca-tastrofica-rivoluzionaria: non già nel senso volgare di opposizione violenta all’autorità costituita, ma nel senso di procedimento contrario a quello dell’evoluzione. Nella visione della vita e della stoiia che hanno i Profeti, non c’è idea più falsa, di quella del progresso lento, di un’ascesa per la via maestra. La storia non segue una linea retta, ma procede per una strada insidiosa, tortuosa, e con enorme fracasso. Il processo storico è la rivoluzione che strappa dalle radici tutte le vecchie cose. 1 vecchi cieli si logorano come un vestito e ne sorgono nuovi; la luna impallidisce, il sole s’annebbia, c la vita nuova germoglia improvvisamente su dalle rovine. Mondi che spariscono e mondi che sorgono.
I Profeti non -hanno il senso della cosa permanente. Ciò che è, cesserà di essere; ciò che non è, sarà. Non bisogna temere l'oppressione, non bisogna inchinarsi a ciò che oggi esiste ed è forte, perchè domani non ci sarà più. I Profeti stavano fra le rovine nell’ora del tramonto del Vecchio monde: il mondo dei piccoli popoli pacifici. Era l’ora in cui tutto ciò ch’era sembrato stabile cominciava d’un tratto a tremare e a cadere: e fra le rovine essi cantavano l’inno dell’aurora, dei nuovi cieli e della nuova terra, del cuore di carne che. verrà al posto di quello di pietra. La loro fantasia s’alzava libera, affrancata dalle catene del presente spaventoso e condannato alla distruzione. Essi, i figli del popolo vinto, sognavano i giorni futuri, della fratellanza e della pace. E queste visioni si librano ancora sui capo dell’Umanità e rimangono le visioni del futuro.
Dante Lattes.
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TRA LIBRI
LETTERATURA DI GUERRA
OPERA Di RICOSTRUZIONE
■ Il ritorno alle condizioni di pace ». scriveva'VObserver del 16 agosto, «non significherà affatto un litorno a condizioni normali: alla guerra armata seguirà una lotta non meno formidabile di assestamento, ed una crisi tremenda, a meno che fin da ora siano prese le più accurate disposizioni per fronteggiare i gravi problemi dei dopo guerra».
Fra i problemi che più preoccupano idealisti, umanitari e sociologi in Inghilterra,, sono quelli dei nuovi ideali educativi, del nuovo assestamento dell'industria, delio sviluppo dell’agricoltura, del risanamento delle città, della ricostruzione della società sulla base della cooperazione anziché della concorrenza. Spigoliamo da alcune riviste e pubblicazioni.
Dal periodo della « rivoluzione industriale » — scrive l’editóre di una serie di pubblicazioni dal titolo: Costruzione dell'avvenire — « si è proceduto nel sa-grifizio in massa degli uomini alle cose, e nella subordinazione della vita umana al meccanismo. È possibile ora di organizzare una transizione dall'economia della macchina e del danaro a quella della vita, c dalla lotta per resistenza tra diverse nazioni e nell’intimo di ogni nazione, ad un ordinato culto della vita nel suo ciclo completo dall’infanzia all'età matura, attraverso i suoi espandimenti dalla famiglia ai circoli più esterni c alle altre nazioni? ».
E il « Brotherhood », dinanzi ai prodigi di organizzazione delle risorse nazionali al servizio delle industrie di guerra, si pone la domanda: « Perchè per tanti
anni prima che la guerra scoppiasse... la scienza, le invenzioni, le abilita di organizzazione, e gli altri fattori di produzióne della ricchezza non furono utilizzati per raggiungere il benessere di tutto il popolo, per fare, della nostra nazione la patria della razza più progredita e più felice del mondo, la terra degli ideali sociali organizzati?... Non bisognerà dimenticare, dopo la guerra, le lezioni che essa ci ha insegnato: i risultati che è possibile di ottenere con la cooperazione e con una organizzazione centrale, e che l’iniziativa privata meglio intenzionata non può raggiungere e volgerli a scopi di pace, per la sicurezza e il benessere,di tutti.
■ Al presente, il Regno Unito fermenta di proposte di piani di ricostruzione sociale e internazionale per il dopo-guerra. L’attuale guerra ha aperto gli occhi a una gran quantità di persone, che prima erano cieche dinanzi ad un cumulo di atroci iniquità che venivano commesse in casa nostra. Così, l’assassinio di quindici bambini in una scuola dell’East End di Londra per opera di una bomba tedesca, fa presenti ai nostri occhi i quattrocento decessi giornalieri, circa, di fanciulli sotto i cinque anni, nel Regno Unito, dei quali la maggior parte potrebbero essere salvati con un po' più d’istruzione delle madri e un po’più di cura da parte della comunità » (t).
(x) E in un altro numero della stessa rivista leggiamo: « La mortalità dei fanciulli è, nella guerra presente, maggiore di quella dei soldati. Le statistiche mostrano che per ogni tre soldati uccisi combattendo per la patria nel 1915, quattro bambini morirono sotto un anno di età. Forse altrettanti morirono prima ancora di nascere».
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NUÒVI IDEALI NELL’EDUCAZIONE
Di Nuovi ideali nell’educazione si parla molto e con insistenza, specie dopo che il Ministro dell’istruzione, dott. Fisher, ha presentato alia Camera dei Comuni il suo programma di riforme,. comprendenti l'elevazione del periodo d’istruzione obbligatoria e il miglioramento delle condizioni degl’insegnanti, chiedendo un aumento di quasi cento milioni annui al bilancio dell’istruzione, che già supera la cifra di un miliardo all’anno. Nel congresso del Bedford College, consacrato appunto ài ■ nuovi ideali nell'educazione », lo stesso Ministro Fisher e il Presidente Lord Lytton invocarono per l’insegnamento un’atmosfera di libertà, nella quale l’individuo possa dare piena espressione alla sua personalità; e proclamarono che il meccanismo dell’èducazione è assai meno importante della personalità dell’insegnante (i). Ecco, quale esempio, alcuni brani di risposte di membri della Alpha Union a un’inchiesta sulle più urgenti riforme dei sistemi di educazione:
« Bisogna abolire l'idea che la repressione e la disciplina abbiano efficacia educativa. Bisognerebbe insegnare ai fanciulli ad essere se stessi e a rivelare se stessi. Bisognerebbe finirla con la nostra fiducia nei libri e il nostro feticismo dei metodi, e ristabilire un contatto più vitale fra la scuola e il gran libro della natura, con ogni sorta di lavoro e di gite all’aperto: adottare orari più elastici; dare più importanza allo studio individuale del fanciullo, e porre questo in condizione di potere sviluppare la propria personalità con una libera scelta dei suoi lavori e delle sue occupazioni; dare un posto prominente al lavoro manuale, incoraggiando i fanciulli a prepararsi così ai loro doveri di cittadini... ».
Un altro insiste sulla necessità di sviluppare il carattere, e riassume i suoi criteri educativi nel trinomio: < rispetto, conoscenza, controllo di se stesso ».
Per sviluppare la vita morale e spirici) « Io propongo — terminò cosi il suo discorso Lord Fischer —- che il monumento commemorativo di questa guerra sia una grande Università nazionale in cui tutta la popolazione abbia l'opportunità di raggiungere un livello di coltura più alto che finora non le sia stato concesso; un Collegio Nazionale per tutte le anime ».
tuale dei fanciulli, un altro corrispondente insiste sull’importanza di « un’atmosfera umana » fornita dal maestro: sconsiglia un insegnamento direttamente spirituale ed i precetti negativi. «Il meg io è di fornir loro, di quando in quando, i miglior cibo che possano assimilare, con lo studio delle azioni nobili di personalità superiori, e con la lode di ogni azione virtuosa ».
Il compito del maestro, nell'educazione, è di offrire agli alunni l’opportunità divenire a contano con grandi anime, viventi o passate alla storia, e di leggere nei gran libro della vita sociale e della natura le lezioni della realtà ». Ed un altro fa sua la sentenza di Ibsen: « Quella nazione sarà la prima del mondo che educherà ogni fanciullo come se fosse nobile di nascita ».
Fra una fioritura di articoli, di riviste, di conferenze, di relazioni, di esperimenti e di fiorenti successi riguardanti i nuovi metodi di educazione, mi limito a cogliere la nota dominante? che la generazione la quale ha sperperato sì gran parte della ricchezza nazionale per salvare l’avveni redelle generazioni venture deve sentire il dovere con una tremenda responsabilità di offrire alla nuova generazione i mezzi per crescere sana, robusta, preparata intellettualmente e moralmente all’arduo compito che noi abbiamo loro imposto; e accenno qui soltanto, nell’ordine pratico, alle riforme già in via d’esecuzione, per provvedere ogni giovanetto prima dei sedici anni d’una conveniente istruzione tecnica che assicuri a lui un lavoro adeguato e proficuo, e alla nazione la massima utilizzazione delle sue energie umane; ed accenno anche alla tendenza che si manifesta —- nella vita « au grand air », nelle scuole all’aperto, nell’insegnamento agricolo e pratico specie nelle scuole di campagna. nei collegi e nelle colonie agricole — di risanare fisicamente e moralmente la vita, specie delle classi borghesi, riconducendola al contatto vivificante della natura, e al lavoro della terra fonte di ogni benessere.
VITA CITTADINA È VITA RURALE
Il risanamento della vita cittadina e l’incivilimento della vita rurale, come due aspetti complementari della soluzione al problema di una vita che valga.la pena di esser vissuta, occupa ora scrittori e riformatori in un grado anche maggiore che nel periodo anteriore alla guerra.
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Ecco, per esempio, ciò che scrive uno scrittore irlandese, G. W. Russell, nel suo Esistenza nazionale:
• È una illusione del irioderno materialismo quella di credere che in un villaggio non è possibile di ccnduire una vita alta e nobile come in una città: ed uno degli scopi della maggior parte dei riformatori dovrebbe essere quello di combattere questo pregiudizio, e di mostrare che è possibile — non già di concentrare nelle comunità di campagna le ricchezze delle città — ma di avere quel grado di comodità che è bastante per ogni persona ragionevole: e di formarsi una società di vita intellettuale e ricca d’interessi umani... Dov’è il profeta, lo statista, il duce, capace di eccitare la fantasia del popolo, e di ricondurlo alla Natura, alla luce solare, alle fragranze dei campi, all’aria pura, alla bellezza, alla gaiezza, alla salute .. ? Un innamorato della bellezza può camminare delle ore per le vie di una grande città e mirare in volto diecine di migliaia di persone senza trovare una fisionomia amabile. Non parrà l’ideale del ritorno dell’uomo ad una vita naturale, abbastanza alto da ispirare l’umanità ? Non è seducente l’idea di una civiltà che si svolga tra i verdi alberi e i campi, sotto un cielo non inquinato dal fumo delle città industriali ? ».
. A questi inviti nostalgici hanno risposto cOn tentativi ed esperimenti nuovi uomini e donne, sia abbandonando le loro occupazioni professionali (tra essi insegnanti di scuole secondarie, scrittori, impiegati), e recandosi a vivere nei dintorni delle città, dedicando gran parte del loro tempo all’agricoltura, o ancora formando cooperative e colonie agricole, alcune a tendenza collettivistica.
Come esempio di quest’ultima ferma cito il movimento « Ritorno alla campagna» promosso da E. B. Kccves nel Norwich, togliendo dal loro programma alcune notizie. Il gruppo di « separatisti ».che si è associato a lui, ha formato una comunità sufficiente a se stessa ed autonoma... Essi producono da sè tutto ciò di cui abbisognano, sia per il cibo che, per quanto è possibile, per manufatti. Essi sono vegetariani, pacifisti, antialcoolici e non fumatori. È intenzione dei coloni di sviluppare la costruzione della loro colonia in maniera aitistica e gaia, sì da armonizzare con le bellezze naturali del cantuccio da loro scelto, chiuso da una pineta e dal mare. Non contenti di essere, così, rientrati nel
l’ordine, conducono, specie nei periodi relativamente liberi da lavori agricoli, una campagna per il libero accesso alla terra di tutti quelli che vogliono stabilirvisi, e si recano di quando in quando, nuovi « Frati predicatori» e «Cavalieri templari » a far propaganda delle loro idee nei parchi c nei sobborghi di Londra, e altrove.
La corrente reciproca del risanamento delle città, coji la reintegrazione ed innesto in esse dei vantaggi della campagna, è anche più forte e diffusa, preceduta, come è stata, da circa quindici anni di esistenza delle città-giardino e dei sobborghi-giardino, che uniscono e armonizzano i vantaggi e le esigenze della vita cittadina coi benefizi, almeno in pai te, della vita di campagna. Ma essa ha ricevuto una forte spinta anche dalla determinazione manifestata nel modo più chiaro da quei milioni di operai, d’impiegati, di negezianti. di professionisti, che da tre anni vivono al fronte la vita al più pieno « grand air », di non voler più tornare, finita la guerra, a seppellirsi nei negozi, negli uffici, negli stabilimenti, negli «studi », per passarvi il resto della lor vita, in modo non proporzionato agli sforzi e ai sacrifizi fatti per conquistarsi • una patria decente in cui valga la pena di vivere ». Si va maturando la convinzione. che se si vorrà impedire che il fiere dell’elemento virile della nazione abbandoni del tutto le città e la patria per recarsi nelle colonie, che offrono a braccia aperte terra, abitazioni e capitali ai desiderosi di fecondare le loro inesauribili risorse naturali, bisognerà venire ad un compromesso, sul tipo di quello che va compiendosi, sotto la pressione delle esigenze naturali, nelle nuove città sorte in America e in Inghilterra per l’addestramento militare delle reclute e per le immense, nuove industrie belliche.
CITTÀ NUOVE
Ecco come termina la descrizione di una di queste ■> maravigliosc città nuove » un corrispondente dalla Scozia della «Christian Commonwealth »:
«... Le case sono la maggior parte di legno, ad un sol piano: vi sono anche dei •• bungalows e delle capanne. Tutte hanno giardini annessi, alcuni di aspetto assai ridente. Alberi rigogliosi, vasti prati, ricca vegetazione, fiumi ò torrenti, tutto si combina a formare uno sfondo naturale ridente, su cui si distende la mano della modernità,
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con le comodità della luce elettiica, delle ferrovie, dei tram»... e con numerosi corsi d’istruzione scientifica, religiosa, sociale, con trattenimenti, circoli ricreativi, ecc.
< Così lavorano e così vivono (questi operai, e più operaie), e sembra che godano, nelle loro ore libere, tutto lo splendore della bella natura, e gioiscano delle vedute e dell’aria pura di questa nuova città. l'un vero esperimento moderno di un nuovo sistema di abitazioni e di piano regolatore cittadino, su è si bisogna richiamare l’attenzione di tut : gl’interessati. Le più povere capanne à qui, paragonate con ¡'tuguri di certi quartieri popolari, ed anche con molte abitazioni della borghesia nelle città, sono un vero paradiso. È una vita che si svolge in gran parte all’aria aperta: e molti fanciulli benediranno nella loro vita Sii anni passati in questa città nei giorni ella “ Gran guerra anni in cui posero le fondamenta di una vita sana e felice. Che vadano in malora queste maledette città di fetidi quartieri e di tuguri!... e guai anche a noi se le sopporteremo un sol giorno più del necessario. Andiamo ad abitare sotto tende e in capanne di legno nei dintorni delle nostre città, o in barche e casette gal-legganti sui nostri fiumi e sul mare, e lasciamo che le vie delle.nostre città che ei nascondono le bellezze c grandezze del cielo vadano alla malora e in abbandono. Nessun altro desiderio qui si prova, che non sia un desiderio organizzalo di fare qualche cosa, e senza indugio. Prepariamoci alla guerra dopo la guerra, per la conquista del sole, dell’aria, della libertà, della salute del corpo e dello spirito. Quanti siamo prigionièri nella stessa nostra nazione...! ».
In tema connesso, Sybella Branford, in uno studio su « Una politica agraria duratura », traccia un piano completo in risposta alla domanda che lo scrivente ricorda essersi distaccata gravida di problemi pratici, dal Congresso della Società « Le Play»» a Pargi nel 1909, sull’argomento (MV avvenire dell’ agricoltura'. In qual modo creare un tipo moderno di villaggio, tale che offra i vantaggi di coltura, educazione, e le risorse sostanziali della vita di città, sì da arrestare l’esodo dalle campagne e promuovere invece un movimento di ritorno ad esse?
Il piano dell'A., di cui non è qui possibile che fare un cenno, comprende per ogni capoluogo di circondario un gruppo centrale di edifici, per l’insegnamento giorna
liero e serale di arti e mestieri, specie dell’agricoltura, per l’insegnamento delle arti belle, specie musica, danza, recita; per spettacoli drammatici, musicali, concerti, conferenze, gaie ginnastiche, adunanze e discussioni su argomenti di pubblico interesse; per sala di lettura, biblioteca circolante, gabinetto sperimentale ed esposizione pei manente e segretariato per vantaggio dell’agricoltura e delle altre industrie specie locali: società cooperative, banca agraria, collegio per tirocinio, specie agricolo, ecc. ecc. Il quadro tei mina con le parole:
< Un'Inghilterra in cui si fosse così provveduto ai bisogni della campagna non avrebbe da temere lo spopolamento delle sue terre: sarebbe forte in salute, in tempra morale e in felicità, e sarebbe sufficiente, o quasi, ad alimentai eia propria popolazione. Se la guerra riuscirà a fare inaugurare una tale politica noi non avremo combattuto invano... ».
UMANIZZARE L’INDUSTRIA
Umanizzare l’industria nei rapporti degli operai, e poi la concorrenza in rapporto al sistema universale di distribuzione della ricchezza, è la parola che dalle formule astratte e dalle aspirazioni religiose e umanitarie sta discendendo fino ai bureaux dei grandi dominatori dell’industria e ai gabinetti dei dirigenti la vita pubblici: essa risuona con notevole armonia d’intonazione in tre recenti interviste tipiche, di Lord Leverhuìme. fondatore dell’officina modello di Sunlight Soap, di Sir Robert Hadfield, uno dei più grandi industriali europei e mondiali e di Seebohm Rowntree, membro della Società religiosa degli « Amici i» (« Friends ») noto sociologo e direttore dell’ufficio d’igiene nel Ministero delle munizioni. Quest'ultimo, pur limitandosi al punto di vista dell’utile industriale, faceva costatare a un gruppo di tecnici l’aumento di produzione ottenuto con la riduzione dell’orario settimanale di lavoro (il 22 e 23 %, di aumento, per dieci e undici ore di meno): e inculcava la necessità che gli operai, per dare il massimo rendimento. siano ben pagati, abbiano comodità di procurarsi nel pasto meridiano un cibo sostanzioso a buon prezzò, siano trattati umanamente e assistiti.
Sir Hadfield esprimeva così le sue vedute al riguardo, già tradotte in pratica nella sua officina ih cui lavorano 15.000 operai... 0 Noi abbiamo ridotto le ore di la-
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.voto, col vantaggio per l’industria che era da prevedersi. Un oiario più breve della vecchia media migliora l’operaio buono e solleva l’operaio mediocre. Per anni ed anni i nostri capitalisti hanno combattuto contro la domanda di 48 ore di lavoro la settimana: ci voleva la guerra con la sua domanda impellente di massimo di produzione a costringerci a rivolgerci all’orario di 48 ore, proprio allò scopo di aumentare la produzione: scopo efficacemente raggiuntò ».
« Un operaio intelligente e che si rispetti deve aver ripugnanza a (are un lavoro che possa essere egualmente compiuto da una macchina. Ora noi apprendiamo che un buon operaio rende pili servendosi di un buono strumento che sostituendolo... Ancora: noi accordiamo ai nostri impiegati d’ufficio due settimane all’anno di vacanze, a piena paga: e siamo persuasi non solo che se lo meritano, ma che questo giova a farli lavorare meglio. E perchè allora i nostri operai non godono lo stesso benefizio? Eppure il loro lavoro è ancora più arduo del nostro, e la sua importanza è anche più fondamentale al successo .di ogni intrapresa. Non so di alcuna Impresa industriale che Accordi ai suoi operai un periodo di vacanze a piena paga» (1).
Il momento in cui il nostro operaio posa i suoi strumenti, egli cessa di guadagnare. E questa è una follia: un riposo annuale è indispensabile al benessere di ogni individuò; tanto più se questi, anziché un proprietario o un impiegato, è un operaio. E farà maraviglia se tra i nostri operai si fanno strada idee rivoluzionarie?
Guardate! L’Inghilterra attualmente paga agli operai un salario più elevato, in proporzione, che l’aumento del costo della vita, e per un orario di lavoro minore: e benché i migliori operai abbiano disertato le officine per il fronte; pure, appunto perchè tratta meglio i suoi operai-, ottiene da essi il lavoro più grande ed ingente della sua storia. Che cosa non potremo noi ottenere se tratteremo con eguale umanità gli operai più abili quando essi toneranno dal fronte?
È stata la guerra a insegnarci la gran lezione, che per produrre quella somma di
(x) A nostra certa conoscenza, lo fa il filantropo religioso Cadbury, un « Friend » nella sua fabbrica di cioccolata a Bournville presso Birmingham.
(Nota dell’A.).
lavoro che la salvezza della nazione domandava è stato necessario, aumentare i salari, diminuire le ore, porre in mano all’operaio buoni strumenti,, alloggiarlo e nutrirlo bene. Specialmente l’apertura di cucine operaie per procurare ai lavoratori un cibo sostanzioso e a buon prezzo, ha elevato prodigiosamente la loro produttività, e ridotto l’abito dell'alcoolismo assai più di .tutte le restrizioni legali. « Date agli operai il modo di vivere un tenore di vita, più elevato: fornite loro i mezzi che voi ed io abbiamo di passare qualche ora libera in un ambiente più attraente che una bettola: ed essi esseri umani come voi ed io, lasco-ranno la bettola... » (1).
«Je sens mon cœur plus large et l’homme plus humain », potrebbe ripetere il pellegrino di Aicard volgendo Io sguardo dagli orrori della guerra agli albori di vita più umana che si va preparando per l’indomani; e qualunque spettatore di questo nuovo « scherzo » della storia del progresso umano potrebbe rendere omaggio alla « sapienza delle vie di Dio » che va realizzando i suoi piani e costruendo la futura città di Dio con i frammenti e le rovine della città dell’uomo, con le esperienze delle sue lacrime e il seme del suo sangue.
Un gruppo di cristiani sociali della « Alpha Union» si propose nello scorso giugno il problema ulteriore di umanizzare, anzi cristianizzare, se fosse possibile, il moderno sistema di concorrenza industriale. «Credete voi » — così suonava il quesito — « che il sistema di concorrenza industriale e commerciale possa venir cristianizzato con delle modificazioni c garanzie, pur mantenendo il suo carattere di concoirenza? »
Problema simile era stato proposto l’anno precedente da una sezione del Congresso della Società dei « Fricnds », per lo studio e la eliminazione delle cause remote dei con Ditti fra nazioni. « Quasi ogni industria, grande o piccola, si trova immersa in uno stato di guerra, più o meno intensa, contro le altre industrie, in una lotta per l’esistenza.
(x) E Lord Leverhulme propone che si salvi la classe operaia, dalla monotonia di' una vita di lavoro manuale, adottando la giornata di lavoro di sei ore • in cui la macchina umana potrebbe compiere, e compirebbe, tanto lavoro quanto ora in otto ore », acciocché sia possibile all’operaio di «dedicare le ore di riposo al proprio sviluppo fisico e intellettuale, abilitandosi cosi ad attività di ordine superiore ».
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La parola d'ordine è: “ ognuno per sè cioè appunto l’opposto del cristiano “ mettete gl’interessi degli altri prima dei vostri „ cioè, il servizio della comunità avanti a tutto. Ora un cristiano dovrebbe esigere che il sistema economico servisse di base per la costruzione del regno di Dio sulla terra. Siamo noi persuasi che fattuale sistema soddisfa a questa esigenza? ■
No: fu la risposta unanime della sezione del Congresso dei «Friends»: e le ricerche a cui questa ed altre sezioni furono condotte riguardo alla coopcrazione, alla partecipazione dei profitti, a tentativi parziali ed esperimenti nuovi di comunismo, sono le stesse a cui, incalzato dalla logica ineluttabile della realtà osservata con occhio umano e cristiano, è stato condotto il gruppo della« Alpha Union ».
Dalle relazioni dei diversi soci estraggo alcuni passi che illustrano il proposito di fondare una colonia collettivista d’ispirazione cristiana.
Uno di essi insiste sullo spirito che i pionieri di questo nuovo esperimento dovranno avere, ■ non solo di sottrarsi individualmente al penoso e colpevole sistema di concorrenza industriale, ma di vero entusiasmo per l’umanità, e fede che l’amore, se sorretto da intelligenza ed energia, tutto può vincere, e tutto compiere che sia vero ed amabile »: e sulla base economica del tentativo, che dovrà essere: « produzione dei generi necessari alla vita per soddisfare il più completamente possibile ai bisogni dei membri della comunità: distribuzione di essi secondo i bisogni di ogni famiglia o individuo; escluso qualunque « dividendo » fra i membri della società, in qualunque circostanza: uso di ogni superfluo per allargare ed estendere l’opera, sì da permettere ad altri di associarsi alla colonia e, così, in progresso, riuscire a indebolire con le successive diserzioni il sistema capitalistico ».
La relaziono termina con un disegno organico dello sviluppo del sistema di colonie collettivistiche, con la « federazione dei vari gruppi di già esistenti, ispirati dalla medesima idea di redenzione sociale » e con la indicazione delle finalità educative, artistiche. umanitarie, da perseguire.
Un altro di questi « avventurieii dello spirito • — come egli si denomina, — ritorna sull’idea che in questo esperimento collettivistico « non si ricerchi principalmente il proprio vantaggio, ma si tenti di aprire una via a condizioni umane e fraterne dell’industria e della vita del popolo, ora
alla mercede di egoisti sfruttatori del lavoro ». Ecco, fra altro, ciò che. egli dice dello spirito che dovrebbe legnare tia i coloni: « Dovrà regnare una perfetta fiducia reciproca, una fiducia semplice come quella di un fanciullo, e assoluta, senza sospetto, senza timore, nell’amore. Quanti, a motivo della diffidenza da cui vengono coperti, non riescono nelle imprese: mentre una fiducia e un amore perfetto li avrebbero stimolati ed ispirati a grandi cose. L’amore non conosco il mie “, ma solo il “ nostro “. Se la comunità si troverà nella stato d'animo del “ discorso del Morite ", tutto sarà comune, ma non capricciosamente, perchè l’amore sarà guida e direzione,.. ».
LA RICOSTRUZIONE DELL’AVVENIRE
« La ricostruzione dell’avvenire » (« The making of thè Future >■) è il titolo di una serie di pubblicazioni edite dal prof. Geddes e da Victor Branford, delle quali ci occuperemo prossimamente. Dalla prefazione stralciamo qui alcuni tratti, indicatori dello spirito generale della serie:
« La presente guerra..., se da una parte rappresenta il frutto velenoso di un’età di concorrenza spietata e di machiavellismo diplomatico, dall’altra esprime una protesta spirituale e reagisce contro il “ mammone ” del materialismo. Dalla rivoluzione industriale in poi si è avuto un continuo sacrifizio in massa degli uomini alle cose, una subordinazione della vita umana alle macchine’: da un tempo anche più lungo i criteri di valore delle idee e della condotta vengono falsificati da valori monetari. È ora possibile, e fino a qual punto, di sperare e di realizzare il rovescio di queste tendenze meccaniche e venali, e di organizzare la transizione da un’economia di mac- -chine e di danaro ad una di vita?... Non potrà l’idea di un benessere sociale espresso in un arricchimento della vita umana penetrare e far fermentare tutta la ricerca, individuale della ricchezza? E non potrà la lotta per l’esistenza, in ogni nazione e fra nazioni, venire progressivamente sostituita da un culto ordinato della vita, nel suo ciclo completo, dall’infanzia all’età matura, dalla famiglia e dal villaggio alle lontane nazioni?
L'idealismo astratto della filosofia tedesca alla moda, prodotto bastardo di concezioni arcaiche staccate dal mondo vivente, dovrà venir rimpiazzato da ideali
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definiti, concreti c<l umani, purché tutti gli uomini di buona volontà possano esser ricondotti a cooperare per fa costi uzione di una umanità migliore.
Prima della guerra ferveva il lavoro di adattamento della vita cittadina ail’assi-stenzae aH’educazionedei fanciulli, secondo l’ideale ebraico; non meno che di ricerca del Buono, del Vero, del Bello per mezzo di un civismo, sia attivo che contemplativo, secondo l’ideale ellenico. Con la caduta dello Zarismo e con la diminuzione del Kaise-rismo in progresso, continuerà la rinascenza civica, non meno splendida nelle antiche città della Germania borghese, riscosse dall’incantesimo de’. Prussianismo.
Dietro la cortina del sorgere e decadere di Stati, Nazioni ed Imperi, può intravedersi la lotta delle città per conquistare la libertà di sviluppare la loro vita regionale: e così, il regionalismo c l'umanitarismo, i due poli fra cui oscilla la civiltà umana per guadagnare la sua stabilità, faranno da correttivi all’imperialismo.
Dietro la guerra delle armi si asconde la gueira d’idee, di cui. nel passato, seno state fortezze le Università, cittadelle del pensiero tedesco... Ma è anche vero che le idee opposte di civismo, regionalismo e umanitarismo, hanno anche fermentato nelle Università... È necessario che le Università si destino alla loro responsabilità spirituale, per preparare una pienezza di vita in tutte le sue fasi, individuale e sociale, cooperando con le città in ogni sezione della spirale ascensionale che sale dalla famiglia all’umanità: non solo aiutando il sorgere di una nuova dottrina, ma suggerendo anche arditamente e tracciando i piani delle sue applicazioni pratiche... Una sana psicologia c’insegna, che lo spirito che caratterizza il militarismo può bensì essere trasformato, ma non già eliminato: è necessario trovare sbocchi costruttivi allo spirito giovanile di avventili a, alle energie della maturità, alle ambizioni della vecchiaia. per mezzo di quelli che William James chiamò « gli equivalenti morali della guerra • affidandone all'umanità la scopèrta... Nella politica che seguirà la guerra dovrà entrare un risveglio fra tutte le classi di un senso personale di responsabilità definite, che abbraccino e trascendano la vita e l'attività individuale. Dovrà presiedere una qualche visione, chiara e stimolante, di un avvenire migliore, e là buona volontà per realizzarlo... >.
Dove cercare questa visione?
Dei pellegrini ii requieti, perennemente erranti, l'hanno recentemente additata con un gesto brusco, ma indeciso, più anticipando l’avvenire che analizzando il presente: Wells e Shaw.
Il primo compie nel « Dio, l’invisibile Re > una evoluzione cominciata nelle * Prime e ultime cose: Una confessione di fede », e continuata nel romanzo: « Mr. Bri-tling va a fondo » (• Mr. Britling sees it trough »); evoluzione che è un avviamento, più, un’incursione, anziché una decisiva « conversione ». « Fosca e atroce qual’è, pure la guerra è una gran cosa » — egli scrive — « che ha avuto per effetto di far intuire a molte menti, per la prima volta, il carattere epico della storia e la propria relazione coi destini della razza. 11 tetto effimero, sotto il quale avevamo vissuto la nostra vita di commedia, crolli» e aprì sotto ai nostri piedi delle voragini: vedemmo le stelle in alto, e gli abissi in basso. Ci rendemmo così conto che ia vita è malsicura e avventurosa: che essa fa parte di una vasta avventura nelle spazio e nel tempo ». Egli presagisce che l’umanità saia sospinta dalle sofferenze e dagli orrori della presente gueira attraverso un pellegrinaggio spirituale, alla ricerca del suo capitano divino, guida dell’umanità stessa nella lotta eterna per l’affrancamento dal servaggio dei male e la conquista di un indefinito « meglio ». Pei lui — come per Wil fredo Monod, per Marcel Hebcrt e per una schiera di anime religiose contemporanee, preoccupate della conciliazione fra l’ideale di bontà e perfezione e la- realtà del dolore e del male, Dio non è un essere infinito in atto, ma è limitato, (come « l’energia vitale » di Bergson) imperfetto, e lotta con l’uomo e neìl’uòmo, nella sua coscienza e nel suo cuore, per liberarsi e liberarlo, perfezionarsi, e perfezionarlo. Ma-esso guadagna in individualità quello che perde di natura: e anziché principio. forza, movente supremo c remoto, esso é vicino, intimo a ogni uomo, suo amico, consolatore, guida: Dio non d’ira, ma di amore: un Dio cristiano che aborre dall’ipocrisia, che scinta i cuori, che ci ordina di amare il prossimo come noi stessi, e ci protende le braccia al termine della nostra missione terrena, immergendoci nel pelago del suo essere.
Non discutiamo questa concezione, i evi pregi e le cui debolezze sono forse racchiuse nel suo essere « d’attualità », e nel rispondere in modo popolare agli scandali della creazione a cui tanti forse per la prima
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volta vengono posti di fronte dalla tra-Fedia universale ini perversante. Così, nul-altro che un volgarizzamento a uso delle masse, della conoscenza della Crisi delle Chiese cristiane, è contenuto nel » L’anima di un Vescovo »: romanzo che descrive il dramma della coscienza di un vescovo an-Ìlicano che dai suoi dubbi in materia di
ede è sospinto fuori della sua Chiesa, e di ogni Chiesa, verso una fede semplice, libera da donimi e da simbolismi, in comunione diretta con una divinità: quella di Wells — che « più grande della terra e degli astri, non è tuttavia più grande dell’uomo.. . è speranza, coraggio, eternamente giovane, in perenne rinnovamento e trionfo,- una avventura eterna ». « Ha Dio forse bisogno di una organizzazione ecclesiastica? Non è forse questa superfetazione che ostacola la religione da tremila anni? •: sono le ultime parole del Vescovo, alle quali sembra fare eco il grido di « fallimento delle Chiese » che sale da tanti animi, che pure si apprestano non a distruggere, ma a riformare gli Stati, le istituzioni, la civiltà, benché tutti e tutte siano sì terribilmente lalliti.
La concezione di Bernard Shaw non dii- ■ ferisce sostanzialmente da quella di Wells, pur tenendo conto della sua ricostruzione moderna del Gesù cristiano.
- Il passo dalla concezione e personificazione di un creatore onnisciente e onnipotente»— così trovo nello schema d’una sua conferenza alla King’s Hall — « aquella di un essere non più sapiente e forte della più grande personalità che egli può creare; soggetto alle limitazioni dei sensi e alle facoltà mentali che esso crea, non meno che all'ignoranza e alla stupidità: condannato a procedere nella via del progresso attraverso i tentativi e gli errori, ha avuto un’efficacia emancipatrice enorme.
« Uomini che concepiscono se stessi non solo come strumenti, ma come gli organi effettivi di Dio, potranno evidentemente compiere imprese impossibili ad uomini che si riguardino quali strumenti impotenti nelle mani di un padrone che ha anticipatamente tutto predisposto, e che si trastulla semplicemente con essi ad uno stupido gioco... Fu solo quando l’uomo comprese che, anziché aver egli diritto all’aiuto divino, era Dio che aveva bisogno del suo aiuto, e che nulla poteva fare senza di esso, che furono possibili fra esso e Dio rapporti veramente cordiali...
« L’uomo religioso non é più colui che ha nascosto il suo capo nel seno di una Chiesa,
ma colui per il quale Dio (seppure egli fa uso di questo neme) appare come una intenzione prepossente nel mondo, alla quale esso si sente misteriosamente cointeressato, e spinto ad attuarla anche se contraria ai suoi interessi ed intenti personali. Esso non è più agnostico, perché esso riconosce una volontà creativa nel mondo, la quale può produrre e produce la vita, e un movimento che sempre tende verso una organizzazione superiore, con lo scopo apparente di divenir capace di più grande conoscenza e potere: in breve, verso l'Onni-scienza e r Onnipotenza... ».
« Watchman whàt of thè night? ». • Che cosa sai dirci della notte? » — domanda alla scolta notturna perlustratrice l'insonne ed inquieto scrutatore dell’avvenire, di Swinburne. E un attento osservatole dèi segni dei tempi potrà, attraverso l’infuriare della procella, ravvisare i sintomi di un più sereno domani e proclamare la sua speranza:
« La notte è buia, la tempesta infierisce, il presente è desolazione, ma sull’orizzonte già appaiono barlumi di luce forieri di un sole luminoso, di sereno, di gioia ».
DIARIO D* UN SOL-DÀTOTRÀNCEgE
Chi prima della guerra* aveva'conosciuto Gastone Rìqu, quale scrittóre vivamente interessato^ col suo temperamento di propagandista, al movimento modernista in Francia e alla riconciliazione del Cristianesimo con la società moderna, non può non provare un sentimento di più che pura curiosità dinanzi al suo Diario d'un soldato francese, in cui versa le sue esperienze e i suoi sentimenti negli undici mesi di prigionia in Baviera, dopo pochi mesi di valoroso combattimento in Lorena. Ma ehi si attendesse che l’esperienza del prigioniero debba riuscire qui filtrata attraverso le abitudini analitiche e gene-ralizzatrici del pensatore, e che le figure dei compagni di prigionia e dei carcerieri, degli amici e dei nemici, debbano apparire, prive della loro vivente individualità e sbiadite nel riflesso freddo del pensiero e dei sentimenti soggettivi, resterebbe, dalle prime pagine, pienamente disingannato, e sopraffatto da un realismo e da una vivacità di tinte tristi e rossastre, poi dolci, patetiche, rosee, il tutto digradante in tonalità e sfumature di conciliazione nel dolore e nella speranza.
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« È un capolavoro » han sentenziato Bour-get e Faguet: e certo, si è volentieri inclinati ad accordargli un posto speciale nella rassegna della ricca letteratura francese di guerra.
Il quadro della nostalgia, _e, ,deUa_dc-pressione dei prigionieri "francasi, che richiama troppo vivamente quello verosimilmente uguale degli altri prigionieri, è desolante. Assetati di notizie dei loro cari e delle sorti della Francia, tormentati da una dieta insufficiente, che li trasforma in animali onnivori tuttodì in cerca di qualche sostituto al cibo difettoso in quantità e qualità e fa loro sognare e rimpiangere pasti succolenti; resi odiósi l’un l’altro dal raccomuna mento forzoso nell’inazione, da quell'« effluvio di grasso di armenti umani, che penetra in, tutti gl’interstizi dell’anima », essi si sentono avvizzire e inaridire goccia a goccia, il sangue e l’anima. « Povere madri, se voi poteste dare uno sguardo a quello che i figli vostri,* la bella gioventù di Francia, sono diventati... Voi li vedreste tristi e cadenti sui prati e nel fossato asciutto del castello, coi lineamenti contratti, con una pelle divenuta giallastra e sudicia, quasi sempre striscianti a terra, come ombre del « Purgatorio ». L’unica visione che loro sorride è quella dell’unico evento che porrà fine al loro lento martirio: della pace. Ed essi la sognano dì e notte, e sospirano la loro patria come gli esuli sul fiume di Babilonia. Da principio il loro cuore è saturo di passione e di odio verso i Tedeschi, invasori non provocati delle loro terre: odio che si riflette su ogni individuo di quella razza. Ma poi la grandezza stessa del loro dolore li spinge verso la ricerca di spiegazioni, di distinzioni, di motivi di perdono, mentre un processo analogo si compie intorno a loro. Quegli stessi villici che al loro arrivo li avevano insultati e sputacchiati, poi dalla grandezza dei loro propri disastri, dalla perdita di tutte loro risorse materiali c dei loro più cari, vengono ammorbiditi a pietà. Entro e fuori della fortezza, tutti si sentono accomunati nel.disastro che esorbita la portata delle forze e dèlia volontà umana: e la gentilezza e la compassione prevalgono. Prima verso una folla di prigionieri russi stracciati, sudici, coperti di parassiti, di cui le autorità tedesche avevano allagato la fortezza per eccitare l'animosità e il disgusto fra gli “ alleati ”, e che invece sono accolti con un’effusione di cavalleria
e di fraternità commovente. I Francesi prodigano ai loro ospiti le lóro scarse Erovviste di cibo, cedono loro i propri :tti, organizzano feste e balli, li lavano e disinfettano e con magnanimità sopportano tutto ciò che dovrebbe eccitare la mutua animosità: cd i Russi commossi, si sforzano di baciar le mani dei loro inaspettati fratelli, sempre all’erta per render loro ogni piccolo servizio per mostrare la loro gratitudine. È il trionfo dell’altruismo sull’egoismo, e la prova che le forze spirituali possono dominare le circostanze più ostili e trasformarle.
Ma anche i contadini tedeschi soffrono. « Essi hanno parecchi figli: i loro risparmi sono esauriti...; e quando noi marciamo per recarci al lavoro, essi ci raccontano con confidenza e deferenza, come farebbero con un fratello maggiore, le loro pene. Di natura essi sono buoni, semplici, docili, oppressi da innumerevoli secoli di silenziosa sottomissione ». Anche i fanciulli si avvicinano ai drappelli prigionieri che lavorano, e timidamente formano con essi amicizia. Qualche vecchia offre loro un uovo, una mela...
«I vecchi ci salutano umilmente. Uno di noi si sentì chiamare: — Illustrissimo signore; un altro: — Signore di alto lignaggio Anche gli esonerati dal servizio militare a causa delle loro gravi ferite, quelli privati di braccia o con orribili cicatrici sulla faccia, non ci guardano più con quello sguardo truce di odio che ci mostra; vano al principio...- Essi applaudono ai nostri discorsi repubblicani, e in cambio ci confidano le loro sofferenze e la loio disperazione. Quei poveracci sono assolutamente unanimi nel detestare l’orribile macello....
.« Ah! — essi ci dicono — quanto poco c’importa di essere Francesi o Prussiani! Pace dateci: dateci pace! » • Tutti ci odiano »x sentii diic a un giovane operaio della Franconia superiore: « tutti eccetto il Papa e i Turchi ». « Oh che venga presto la pace! Prendetevi pure l’Alsazia-Lo-rena, se vi piace. Che volete c’importi a noi! Che differenza fa per noi di esser governati da Parigi o dà Berlino? Noi siamo condotti al macello mentre le nostre mogli e i nostri figli restano a soffrire. Ah pace! Finiamola! Pace ad ogni prezzo! »
Il prigionieri© rivede frenetico il suolo della sua patria «la Francia amata del nostro sangue e del nostro cuore, la Francia eterna risuscitata dall'aggressione
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tedesca, ancora una volta campione della libertà ».
I lunghi mesi di prigionia non hanno affievolito in lui la fede e la speranza nella vittoria della Francia: ma le esperienze da esso riportate hanno radicato nel suo animo una grande volontà che il perdono e la rappacificazione segua a tante sofferenze.
«Mentre ¡borghesi* — scriveva il The Nalion del 13 gennaio — «si abbandonano nelle loro case a giornaliere esala
zioni di odio, il soldato sulla Somme è a mala pena rattenuto dall’offrire tutto il suo cibo e i suoi comodi al « buon vecchio Boche ». Mentre gli ostinati e induriti divoratori di fuoco, sulla stampa invocano eterno odio e vendetta, Edith Cavell, alcune ore prima del suo assassinio legale, annunzia al mondo la sua scoperta « alla presenza di Dio e dell’eternità », che « il patriottismo non basta », e che non deve-aversi amarezza e odio verso nessuno.
G. Pioti.
RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
XX.
RELIGIONE, FILOSOFIA E STORIA DELLA FILOSOFIA
Il prof. Felice Momigliano ha dedicato la prolusione al suo corso libei o di filosofia morale, tenuta il 12 marzo del corrente anno nell'università di Roma, ed ora pubblicata dalla Rivista (li filosofia, ai rapporti fra religione, filosofia c storia della filosofia.
Perchè questi rapporti interni fra le due forme di attività delio spirito si abbiano, è necessario rivendicare alla religione il suo contenuto ideale. Se la si cerca, come taluno ha fatto, nelle sue primitive manifestazioni e la si riduce a un insieme di scrupoli, o tabu, rispondenti ad una concezione prcscientifìca, od antiscientifica, della natura e della vita, non abbiamo più la religione, ma solo le larve di uno stadio del suo sviluppo. Solo nell’intierezza di questo può essere colta la viva natura del germe, che si spiega nell’autosviluppo.
Nella religione noi dobbiamo invece vedere il presentimento o l’intuizione di una realtà e di un mondo dello spirito nel quale la coscienza umana sa di essere collocata, che essa porta dentro di sè, e che le si rivela da principio nel linguaggio interiore della imaginazione, in forme fantastiche e mitiche; dalle quali poi, col dispiegarsi dell'intendimento, si passa alla consapevolezza, iniziandosi il momento filosofico, che è di riflessione; riflessione sulla conoscenza ingenua ed empirica per quello che riguarda
la realtà naturale, e sulle figurazioni fanta; stiche di un sopramondo divino, sui miti e sui misteri, per ciò che riguarda la realtà dello spirito e del suo mondo della volontà e dei fini.
Due filosofie ebbe l’antichità: l’indiana e la greca. Gli ebrei non ebbero filosofia; ad essi l’assoluto lampeggia nelle esigenze della ragione pratica, che impone un ordine razionale dell'universo. I greci raggiunsero il più alto e puro atteggiamento di disinteresse e di serena contemplazione dinanzi al reale; la Grecia classica non conobbe il faustismo — sentimento dell’insufìicienza della teoria — nè il koheletismo, il vanitas vanitalum dell'Ecclesiaste, il senso della insufficienza della vita piatica.
Ma la filosofia è legata alla vita, e quindi alla storia, dal carattere che essa ha comune con la religione, di tentativo di comprendere e di interpretare il reale come mondo della ragione e dei fini; di qui ¡ contrasti interni e la lotta fra i sistemi, oscillante fra i due poli dello scetticismo e del misticismo. Se del pensiero si fa lo specchio di una realtà esterna, naturale o supernaturale, a cui quello debba adeguarsi con un atteggiamento passivo, noi abbiamo la teologia del domina, verità immobile rivelata, e la philospphia perennis, rivelata anche essa dal mondo alla ragione ben disposta, che permane e si accresce, ma non soffre ri voi-S;imenti e contraddizioni. Invece la filosofia la, come la religione, una storia dialettica; vita e creazione dello spirito, essa esprime l’intimo travaglio di questo; e alla succes-
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sione dei problemi che si pongono alla vita nello sviluppo concreto della cultura risponde la successione delle teorie e dei sistemi, pur con un crescente approfondimento del reale, che è poi crescente autocoscienza: e le crisi decisive della filosofia sono provocate dagli sbalzi in avanti di questa e si ripercuotono largamente in tutta la vita storica dei popoli; sicché si può dire che ogni nuovo momento della coscienza filosofica è il principio di una rivoluzione. Basti ricordare, per i tempi moderni, Cartesio e Kant; c il nostro Gioberti, la cui filosofia fu azione, tentativo di esprimere in un sistema e in una formula ideale il risveglio della coscienza nazionale italiana.
Cosi, mentre apparisce l’intimo nesso fra religione e filosofia, come fra momenti ed aspetti dello sviluppo dell’autocoscienza, apparisce anche il nesso fra filosofia e storia della filosofia; la quale è storia vivente, processo' dialettico, catena in cui la risoluzione di un problema è posizione di un altro e quindi, essa stessa, filosofia.
Da questo ordine di idee il Momigliano trae una conclusione importante. La religione esce dalla chiusa cerchia del professionismo ecclesiastico e devoto, e diviene il lievito di tutta la vita dello spirito. < La cultura è eticità, è religiosità, è valore spirituale. Niente altro, perchè è tutto. È, si intende, quando è veramente cultura, quando cioè realizza la pienezza del suo significato e ci appare veramente come il tutto dello spirito, volontà che si fa coscienza per realizzarsi come assoluto. Ed allora tutte le varie forme e strumenti di cultura confluiscono verso la religiosità; e « tutte le scienze mirano allo svolgimento e all’arricchimento di quella attività spirituale che domanda di esercitarsi per la finalità nobilissima di preparare e promuovere una forma più alta di vita spirituale ».
LA PSICOLOGIA DELL’/O
Positivismo e idealismo assoluto hanno una profonda affinità in questo che l’uno e l’altro, pur partendo da un concetto diverso della realtà, risolvono il soggetto di esperienza, l’individuo, in una causalità che, essendo il suo più vero io, lo trascende e lo domina e non gli permette di attribuirsi una esistenza a sè, una vera personalità. Determinismo delle leggi naturali dall’una Sarte, dialettica dell’assoluto divenire, all’altra. Se alla parola materia o alla parola spìrito si sostituisce la parola essere,
nel significato di cosa o attualità, il meccanismo interno del sistema è sostanzialmente identico.
E si potrebbero chiamare l’uno e l’altro sistema «razionalismo», perchè tendono a soddisfare l’esigenza razionale di universalità e di necessità, nella quale annega l’individuo, il contingente ed il libero. Onde, specialmente negli ultimi decennii, una vigorosa reazione, manifesta soprattutto nell’intuizionismo bergsoniano, soita dall’esigenza di cogliere, oltre gli schemi mentali e i nessi di causalità, l’immediatezza e la concretezza individua dell’essere, dell’atto, di ciò che ora è e prima non era; e in particolar modo di quell’atto dell’essere che è la coscienza individuale, l’io, come soggetto autonomo di vita.
A questa esigenza cerca di rispondere il volume che abbiamo dinanzi di Antonio Aliotta: La guerra eterna e il dramma dell'esistenza (Napoli, Perrella, 1917), volume il quale tuttavia non è di fredda riflessione filosofica, non ha cura di bene stabilire i suoi presupposti dialettici e il metodo, ma prorompe in medias res con un certo impeto lirico il quale segue, a sbalzi, per tutto lo scritto; e toglie a questo molto dell’efficacia di persuasione, senza per questo renderne più proficua la lettura ai profani, che si arresteranno spesso dinanzi alla stridente terminologia filosofica.
Al positivismo l’A. muove il rimprovero, appunto, di non spiegare la personalità.. Per esso non è un fatto la coscienza soggettiva: « per quanto si elevi, per quanto cerchi di nobilitarsi, purificando l’idea di causalità, non riesce a render conto di quella esperienza di personale iniziativa che è l’alfa e l’omega della, vita morale ». Stesso rimprovero all’idealismo assoluto; nel quale se ogni essere individuo od atto di coscienza è un momento e un frammento di un processo assoluto, extratemporale ed extraspaziale, non si intende la libertà e non si intende l’io, non il bene nè il male. « L’idealismo assoluto fallisce nella soluzione del problema del male perchè nega la pluralità dei soggetti, che sola può spiegare la nostra reciproca limitazione ».
L’una e l’altra critica sono comprese, in questa pregiudiziale osservazione di metodo dell’A.: « Là pura potenzialità del soggettivo e dell’oggettivo (idealismo e naturalismo) non è un fatto di esperienza; il primo è la sintesi dei distinti, l’individuo con la sua esperienza di sè
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e del mondo, inscindibili nell’unità del sentire e del pensale ». Si può opporre che nè il soggettivo, per gli uni nè l’ogget-tivo— materia— per gli alili è « pura » potenzialità, sì anzi pura attività: ma trascendentale, in quanto in nessun momento la nostra esperienza è puro soggetto o. puro oggetto, ma sintesi dell’uno c dell’altro, di attività e- di passività, come il Gentile spiegava che la filosofia è sintesi della religione e dell’arte e chiudeva con essa il ciclo dei tre momenti assoluti dello spirito.
Denunziando e negando la scepsi metafisica, l’A. prende adunque per punto di partenza della sua filosofia il soggetto d’esperienza nell’atto di sperimentare; e questo solleva, con un audace empirismo; a soggetto metafisico, r Ogni soggetto è un principio originario di vita ». « Non c’è nessun concreto fatto di esperienza privo della sua forma soggettiva: dunque il nostro esistere è eterno ». La materia è da lui presentata come conflitto di attività spirituali. L’assoluto è in questo divenire, ma diesi fraziona nell’indefinito pluralismo degli autonomi soggetti' di vita.
L’unità dell’atto assoluto che sia in sè e per sè, come vuole la teologia, e l’unità di processo dell’assoluto divenire ripugnano egualmente al suo pluralismo. « Non ha senso parlare di spontaneità in un mondo dove tutto è preformato, dove nulla possiamo aggiungere che non esista ab eterno. Solo a patto che ci sia qualcosa da conquistare col nostro lavoro fecondo può avere un senso la vita ». • Solo a patto che questa idea (della assoluta perfezione) non sia realtà ha un significato la nostra esistenza... Dio non è realtà compiuta fuori dell’opera nostra, ma è il limite a cui tende il progressivo armonizzarsi delle attività spirituali ».
Psicologismo: ma avvivato dal senso di una esigenza filosofica della quale non sa rendersi bene conto e al soddisfacimento della quale si preclude esso stesso la via, vietandoci di risolvere il soggetto empirico nei suoi elementi ideali costitutivi.
NIETZSCHE E IL GERMANESIMO
Nella polemica contro il germanesimo, per documentare lo stato d’animo tedesco, si è ricorso largamente agli scritti di Nietzsche, anche da scrittori italiani (i).
(x) V., -ad esempio, Murri, La croce c la spada.
Senonchè .è difficile dire, come osserva uno scrittore inglese • if One should be more deceived in taking these saillies se-riously or in noi taking them so ». Anche in Francia si è largamente ricorso a Nietzsche e si è molto discusso così la vera portata della sua dottrina come il suo vero valore rappresentativo. Louis Bertrand ha cercato in lui la più efficace espressione dell’immoralismo imperialista tedesco: Henry Albert ha tentato di prenderne le difese ricordando le dure verità' che il N. disse ai tedeschi e le lodi ai francesi. Charles Huan, in un libro di recentissima pubblicazione: La philosophie de Fr. Nietzsche (Paris, E. de Boccard, 1917) sostiene la derivazione logica della dottrina di guerra tedesca e dello spirito di aggressione che la attua dalla teoria nietzschiana del superuomo. Un largo esame che egli fa della vasta opera letteraria del N. ricostruendo anche, sulla traccia di molti dati biografici, lo sviluppo del pensiero dello strano- poeta-filosofo, non manca di efficacia persuasiva. I tedeschi non avevano bisogno di imparare dal N. una dottrina che era già intimamente impressa nell’anima loro e alla quale conduceva. come ho ricordato nella rassegna precedente, tutto un secolo di romanticismo: ma il N. ha dato ad essa dottrina una espressione paradossale, ricca di uno straordinario pathos lirico e meravigliosamente adatta a battere in breccia la diffusa ipocrisia clericale della Germania luterana od ultramontana. Un certo superstite grossolano pensare ha tuttavia impedito a molti pangermanisti di riconoscersi nel loro poeta-profeta; a quelli che, con a capo il Kaiser e il teologo Bethmann Hollweg, hanno più volontieri cercato nella Bibbia, e magari nella vecchia mitologia odinica, le espressioni adatte del loro furore.
E tuttavia, ripeto, è facile far torto a Nietzsche, in qualunque senso lo si interpreti. La sua dottrina è l’inversione di quella di Schopenhauer; la volontà, che là era il male sommo, qui diventa il bene sommo. Ma il pensiero germanico aveva già compiuto questa inversione. La volontà di potenza di N. è, in sostanza, la volontà, senza aggiunti; anzi qualche cosa di più generico e naturale; la vita viva, piena, gioiósa, dionisiaca. E il N. è implacabile contro tutte quelle che egli crede formé di non volontà: l’umiltà, la rassegnazióne, la rinunzia a molte forme
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di vita, l'istinto di mediocrità e di gelosia per ogni potere aristocratico che è un momento delle democrazie, la servitù predicala o accettata. Tutta questa esaltazione della forza, dell’eccellenza, dei-fisti nto di vita, che non patisce menomazioni e rinunzie, ha una strana maniera paradossale in Nietzsche: poiché, egli, notava un suo critico, è un animo mite, ma una fantasia impaziente. Il cristianesimo del sermone della montagna non è debolezza ma concentrazione di volontà, che fissa i suoi beni in un mondo soprasensibile, e va dritta a quelli; ma N. vede il cristianesimo nella storia e vi trova una infinita serie di debolezze: una rinunzia che è solo tale a metà, c diviene servilismo (rinunzia, non ai beni terreni, ma allo sforzo della conquista), una pietà che, in luogo di rimuovere la sofferenza, la alimenta e la àcciesce.
E non bisogna dimenticare che egli vide il cristianesimo'attraverso il moralismo puritano di Kant e dei suoi continuatori. Questo moralismo concepiva il dovere come qualcosa di formale e di assoluto, non come un mezzo per ottenere determinati beni, raggiungibili con l’azione. Quest’ultima dottrina il N. poteva trovai la in una fòlla di filosofi, a cominciare da Aristotele; preferì, da buon romantico, riinventarla c ne fece la scienza che è di là dal bene e dal male; in parole Ìiù modeste, di là dalla morale corrente.
I suo super uomo fa tabula rasa del passato, e ricomincia da sè: così gli capita di ri-cominciare dagli inizii: dall’istinto, dalle passioni di conquista, dalla sete di vivere. D’Annunzio, fra noi, ha divulgato questa morale del superuomo. In essa ha larga parte il sacrificio degli altri, dello schiavo e della donna, al proprio piacere: e anche il delitto, come modo di raggiungere, attraverso l’ostacolo, la piena espressione di sè. Dottrina folle, che sacrifica l’esperienza dell’umanità, perchè ciascuno possa fare tutta la sua esperienza: e tuttavia raffinata, perchè pretende cercare la piena espressione dell’io, la bellezza, e non si pone conti o l’umanità, con la pretesa stessa di voler giungere e creare una super-umanità.
Quale questa possa essere, ci ha ora insegnato la Germania; e, poiché la storia è la riprova delle dottrine, non sarà più eossibile non vedere nel superuomo di ietzsche la proiezione ideale del tedesco che, ubriacato dalle vittorie del 1866 e
del 1S70, e condotto dalla sua impunità e dal successo a disprezzare l’Europa, preparava quest’altra sua guerra, nella quale egli si è pienamente rivelato e noi lo abbiamo bene conosciuto.
TEORIA E- STORIA DELLA STORIOGRAFIA
È uscito il volume, che annunziammo, di B. Croce su questo aigcmento; nel quale è raccclta una seiie di studii pubblicati già in atti accademici e in rivinte fra il 1912 e il 1913. Il volume si presenta come '«quatto» della Filosofia delio spirilo di B. Croce; ma di essa, nota il C., nella prefazione, non forma una nuova parte sistematica, ed è da considerare piuttosto come un approfond:mento e-ampliamento alla teoria della st. riógrafia già delineata in alcuni capitoli della seconda parte, ossia della Logica.. Ma il pioblema della comprensione: stòrica é ' quello verso cui tendevano tutte le inda- • gini condotte dal C. intorno ai medi dello spirito, alla loro distinzione e unità, alla loro vita veramente concreta, che è svolgimento e storia, e al pensiero storico, che è l’autocoscienza di questa vita: sicché questo quarto volume si presenta, come la conclusione dell’opera intiera.
Il C. fa prima la teoria della storiografia; e non della storia, poiché la storia è solo il pensare storico in atto, e quindi attualità, o contemporaneità. E perciò non c’è se non storia con temporanea: cioè o una curiosità o un interesse o un problema che si fa- ripensamento del passato, attraverso i documenti di esso, e lo ravviva, per motivi affatto interiori, e trova il soddisfacimento di sè stésso e la soluzione. E in ciò si distingue dalla cronaca che, riguardi essa il presente e il passato, muove da un diverso atteggiamento spirituale. • La storia è la storia viva, la cronaca, la storia morta; la storia, la storia contemporanea e la cronaca, la storia passata: la storia è precipuamente un atto di pensiero, la cronaca un atto di volontà. Ogni storia diventa cronaca quando non è più pensata, ma solamente ricordata nelle astratte paiole, che erano un tempo concrete e la esprimevano ».
La storia filologica, pura riceica ed esame di documenti, la storia poetica — che pretende non fare poesie, ma asserire storie che sieno poesie — la storia a tendenza moralistica o altro, che, per
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incompleta assimilazione, vuol trasferire nei fatti l’intenzione dell’autore, sicché si ha poi non il fatto, ma l’intenzione falsamente espressa, sono pseudo-storie, erronei indirizzi e tendenze teorizzate. Nè c’è, d’altra parte, una nuova storia da inventare ed introdurre, che sia la vera storia, come la storia sociologica, o la storia ridotta a scienza naturale, o la storia come storia di qualche cosa in particolare, che sia considerato come sottostruttura o filo conduttore; tentativi, tutti, di mutare la storia in qualche cosa d’altio e di adulterarla.
Non esiste storia che non sia storia dell’universale, cioè atto dello spirito, che fa il particolare universale; ma non esiste storia « universale », per la impossibilità manifesta di porre dinanzi a sè tutta la storia come un fatto da contemplare e da registrare, astraendo dal concreto processo del pensiero, per il quale noi non possiamo mai conoscere altro che questo finito e questo particolare. Allo stesso modo il C. ha esclusa l’idea di una filosofia universale, ossia del sistema chiuso. « Questa tendenza era implicita nell’ultima grande filosofia, la hegeliana, ma contrastata nel seno suo stesso dai vecchiumi e affatto tradita nell'esecuzione, per modo che quella filosofia si converti anche essa in un romanzo cosmologico; onde si può dire che ciò che, ai principii del secolo xix, fu un semplice presentimento, solo ai principii del xx si viene mutando in ferma coscienza: la quale sfida le paure dei timidi che per tal modo si comprometta la conoscenza dell’universale. sostenendo che, anzi, solo per tal modo questa conoscenza si ottiene davvero e in perpetuo, perchè in modo dinamico. E la storia, facendosi storia attuale, come la filosofia facendosi filosofia storica, si sono liberate l’una dall’ansia di non poter conoscere ciò che non si conosce solo perchè fu o sarà conosciuto, e l’altra dalla disperazione di non raggiungere mai la verità definitiva: cioè entrambe si sono liberate dal fantasma della e cosa in sè ».
LA STORIA GIUSTIFICATRICE
Onde cade la filosofia della storia, cioè il tentativo di cercare ai fatti un significato o un piano o un concetto che non sia nei fatti medesimi e nel loro concreto svolgimento. Onde anche la positività
della storia, la massima che la storia non deve applicare ai fatti e personaggi, che sono sua materia, le qualifiche del bene e del male, quasi si dessero realmente al mondo fatti buoni e fatti cattivi, personaggi buoni e personaggi cattivi. «Chi voglia osservare nel suo intrinseco quella massima, e, così facendo, mettersi d’accordo col concetto dialettico del progresso, deve, in verità, considerare come segno di imperfezione ogni traccia o residuo Che si incontri, nelle trattazioni degli storici, di proposizioni affermanti il male, il regresso o la decadenza come fatti reali; e, in una parola, ogni residuo o ti accia di giudizi negativi. Se il corso storico non è trapasso dal male al bene nè vicenda di beni e di mali, ma trapasso dal bene al meglio; se la storia deve spiegare e non condannare; essa pronunzierà soltanto giudizi positivi, e comporrà catene di beni, salde e strette così da riuscire impossibile introdurvi un piccolo anello di male o intei porvi spazi vuoti, che, in quanto vuoti, non rappresenterebbero beni, ma mali. Un fatto che sembri meia-mente cattivo, un’epoca che sembri di mèra decadenza, non può essere altro che un fatto non isterico, vale a dire non ancora storicamente elaborato, non penetrato dal pensiero e rimasto preda del sentimento e dell’immaginazione ».
Per non ¡scandalizzarsi troppo, come molti hanno fatto, di questo giudizio di B. Croce, conviene ricordare il suo principio che distinzioni sostanziali sono le distinzioni formali: cioè quelle che cadono sulle attività dello spirito; fra esse è la distinzione che egli fa fra morale, o teoria della volontà pratica, e storia, teoria dei fatti; ma quella teoria che i fatti stessi verificano nel loro svolgimento dialettico. Il giudizio morale sui fatti storici non è storia, ma morale: esso nasce nella coscienza dell’operante nell’atto che si travaglia a produrre una nuova forma di vita. E, in quest'atto, noi prendiamo posizione contro personaggi e avvenimenti ed epoche storiche, raffiguranti il male dal quale vogliamo uscire, a favore di altri personaggi e avvenimenti ed epoche in cui vediamo raffigurato simbolicamente il bene cui vogliamo tendere.
E questo atteggiamento è legittimo, non come di storico ma come di volontà pratica: poiché ■ la coscienza storica, ih quanto tale, è coscienza logica e non già pratica, e anzi fa suo proprio oggetto l’al-
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tra: la storia, che fu già vissuta, è ora in lei pensata, e nel pensiero non hanno più luogo le antitesi che si fronteggiavano nella volontà o nel sentimento. Pei essa non ci sono fatti buoni o fatti cattivi, ma fatti’ sempre buoni quando sieno intesi nel loro intimo e nella loro concretezza: non ci sono partiti avversi, ma quel partito più ampio che abbraccia gli avversi, e che, per avventura, è appunto la considerazione storica. La quale perciò riconosce come di pari diritto la chiesa delle catacombe e quella di Gregorio VII, i tribuni del popolo romano e i baroni feudali, la lega lombarda e l’imperatore Barbarossa. La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice: e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita, e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento
Parole che, intese nel sistema del C. — il quale, in vero, ha un poco il gusto di scandalizzare il lettore, quando parla di fatti sempre buoni e di giustificazione; parole che si fa fatica a trasferire dalla coscienza pratica dell’onest’uomo.alla coscienza «logica • dello storico — filano. E Se alcuno se ne commuove, egli deve risalire più in alto, nel sistema del C., al posto che in esso occupa la volontà: la quale sopraggiunge quando la realtà è già bella e costituita nel pensiero e non le resta che una parte umile e subordinata. Tanto vero che alla coscienza « giustificatrice » dello storico il C. contrappone « le attrazioni e le repulsioni del sentimento » tirando fuori per l’occasione, e non si sa perchè, una forma dell’attività spiiituale che egli ha altrove mostrato spuria.
Nell’esame che fa il C., nella seconda parte del suo volume, delle varie storie speciali, sarebbe ' interessante esaminare la parte che le teologie successive hanno avuto nelle successive storiografie, da Tricicli te ai neo-guelfi: ma sarebbe troppo lungo argomento per queste rassegne: e non c’è, chi voglia informarsene, che da leggere il G.; cosa che è sempre di molto profitto..
GUERRA E RELIGIONE
Le democrazie occidentali non sono riuscite che assai lentamente a capire quel che avveniva in Russia: il dissolvimento di un grande impero, l’anarchia spontanea, il frazionamento in razze,
in classi, in tronconi d’esercito, in fazioni intese alla guerra civile, di ‘uno Stato che contava 170 milioni di abitanti ed era il più vasto del mondo. Gli è che sino a ieri noi vedemmo della Russia solo il proscenio: un autocrate, una burocrazia, un esercito tenuto insieme dalla disciplina ferrea.
Ma, dietro, c’era anche un popolo; e quel popolo aveva una sua coscienza, un suo modo di vivere e di vedere la vita, una sua religione. Le condizioni vere della Russia reale potranno anche essere esaminate sotto altri aspetti: economia rurale primitiva, condizioni di cultura, o di incultura, territorio, istituzioni sociali arretratissime; ma ce ne è uno che li riassume tutti e dovrebbe essere considerato per primo da chi ha attitudine a capire che il mondo storico è sempre espressione di un mondo interno di coscienze, atto di volontà; ed è la religione.
Il gran difetto della Russia in questa guerra, la tara originaria della quale si può a pena farle torto, è una singolare.contraddizione interiore- una organizzazione statale quasi moderna sopra una massa sociale primitiva e passiva; una infima minoranza di nobili, di professori, di operai che avevano avidamente assimilato la cultura occidentale, sopra un immenso numero di plebei che vivevano ancora in pieno Medio Evo rurale. Il contrasto crescente creava e nascondeva una situazione rivoluzionaria; e la rivoluzione, contenuta a lungo dalla docilità cieca dei contadini per il piccolo padre, loro capo religioso, è scoppiata il giorno in cui. per il fatto della Suerra. gli interessi e le passioni elementari i questi contadini coincidettero con quella deli’»nielligenti a; e lo czar fu spazzato via come un fuscello.
La massa dei russi, ingenua, credula, mistica, superstiziosa, assetata spesso di mortificazione e di rinunzia, ebbra di dissolvimento. aperta a un pullulare di eresie apocalittiche, ricorda il nostro Medio Evo rustico. Tolstoi ne espresse profondamente l’anima. Quel misticismo plebeo è grandemente affine e vicino al socialismo: e l’unione delle due cose ha prodotto immediatamente la dissoluzione della disci-Eilina — tutta esteriore — nell’esercito, e 1 politica del Soviet.
Cosi l’Europa ha conosciuto il pacifismo russo: una ideologia ingenua, evangelica insieme e socialista, scolpita su di un fondo di ignoranza e di inerzia; e mascheratasi poi nella formula: nè indennità nè.annes-
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sioni, la quale nascondeva solo il proposito di non più combattere. E dall’inettitudine di queste folle superstiziose p ignare ad esprimere da sè una volontà di ordine, a darsi uno Stato, è sorta la più vasta anarchia spontanea che la storia ricordi.
Ora. queste cose non avvengono soltanto in Russia. In forme e proporzioni diverse, tutti i popoli i quali non sono entrati nell’età moderna con una rivoluzione religiosa g:à fatta e compiuta, e non hanno temprato in essa una nuova coscienza civile si sono mostiati inadatti alla guerra, meno capaci e degni di vincere: mentre quelli che, come la Germania e l’Inghilterra, compierono nel secolo xvi la loro rivoluzione religiosa ed inaugurarono da quella la nuova vita civile, sono apparsi i più forti.
CARLYLE E LA GERMANIA /
A questo proposito sarebbe estrema-mente istruttivo un parallelo fra l’Inghilterra e la Germania e l'indirizzo generale, filosofico e religioso, della loro cultura e vita molale in questi ultimi tre secoli e specialmente nel decimonono. Esso mostrerebbe come la guerra è *!'espressióne storica del contrasto fra le due grandi concezioni religiose di vita maturatesi nella civiltà contemporanea; più cristiana, essenzialmente cristiana l’una, paganeggiante e antilatina l’altra: ed è quindi veramente una guerra religiosa, nella quale i popoli che non la intendono come tale e non hanno preso posizione su questo terreno si trovano spiritualmente sballottati fra due opposte tedenze, e vogliono e non vogliono, e fanno e non fanno la guerra e annaspano nel vuoto, talora con una tale dimostrazione di buone e nobili qualità da mostrare chiaramente che il difetto fondamentale è proprio nella coscienza religiosa che si ha o non si ha, e si ha chiara o confusa, unanime o contra-dittoria, della guerra.
Ma, per tornare ai due popoli protagonisti, il parallelo che dicevamo può esser fatto in raccorcio, paragonando, ad esempio, il più profondo ed efficace pensatore inglese del secolo scorso, — e il giudizio è, fra gli altri, di J. Stuart Mili e di Ru-skin. — il Carlyle, con Hegel; molto più che il Carlyle fu grande ammiratore dei tedeschi, e delia nuova metafìsica trascendentale di Kant e di Hegel divulgatore
fortunato in Inghilterra: sicché tanto più in lui sarà significativa una differenza radicale che apparisca Ira i suoi ammirati maestri tedeschi e io spirito inglese che di questi temperava e correggeva in lui la dottrina.
Questo parallelo è stato tentato da uno scrittore francese, Leon Morti, nel numero di agosto della Revue des Sciences poli-liques; ma appena quanto basta per invogliare altri ad istituirlo su più larga scala e con un accurato esame dei testi e delle fonti di Carlyle. È nota la dottrina fondamentale, degli eroi, di Carlyle. Egli non è un democratico o un liberale. Della libertà dà questa curiosa definizione: « consiste nello scuoprire, o nell’essere for- « zati a scuoprire, il buon cammino, e marciare in esso ». Da questa Idea al culto dello Stato il passo è breve. Carlyle ammira e. preconizza despoti ispirati e sinceri. Governi forti che assicurino alla società la pace, la giustizia e il lavoro. Egli farla di eroi, là dove Fichte, Hegel o reitschke parlano di Stato. Ma questi eroi sono bene una oligarchia aristocia-tica secondo il cuore dei filosofi tedeschi e, un poco, i precursori del superuomo di Nietzsche. Ed è noto anche che uno dei più fulgidi tipi dei suoi eroi è il fondatore della Pi ossia jnodcrna, Federico il grande.
E il diritto, dei migliori o dei più forti, vale, secondo il Cailyle, fra le nazioni come fra gli individui. In'molti passaggi di Past and Presemi egli investe le razze superiori e più civili della missione direttrice, del diritto di comando e di costrizione che, nella società, egli riserva ai suoi eroi. Un suo biografo, il Cazamian, scrive di lui: « Il profeta del dovere è della volontà santificava lo sforzo della conquista... il suo insegnamento tendeva a stimolare,' nella razza anglosassone, il disprezzo aggressivo delle civiltà moderne ». Il Morel tuttavia sostiene che questa parte del pensiero di Carlyle si applica solo ai rapporti con le colònie e con popoli inferiori.
A ogni modo, il Carlyle'ha fatto sua l’abominabile formula che riassume l’etica dei tedeschi: la forza è diritto. Nei suoi eroi, Cromwell o Federico II, egli ha legittimato e purificato ogni menda morale o delitto, nella luce del successo.
E tuttavia, nessuno che conosca lo scrittore inglese può dubitare un momento della ripùgnanza profonda ehe gli avrebbe ispirato l’aggressione germanica. Nel con-
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Hitto ideale fra il suo popolo e il tedesco, egli è, certamente, con l’Inghilterra. Poiché la dottrina tedesca acquista nella coscienza del puritano scozzese, nel pensiero dell’amico di Mazzini, un significato e un valore sostanzialmente diversi. Car-lyle crede in una forza divina che muove la storia e conduce gli uomini e suscita i potenti e gli eroi come più forte e geniale espressione della sua immanente volontà storica. Egli chiede uomini e popoli che si esaltino nella visione e nella persuasione profonda di una funzione da compiere, quasi in nome e per conto dello Spirito, ma con onesta e retta coscienza. Egli non adora- il successo come tale, ma fa del successo la rivelazione del diritto, in una società, il cui corso storico è retto da una intima provvidenza; insegna che il diritto, questa volontà divina, non può non riuscir vincitore, non può non suscitar sulla sua via la potenza. Carlylc vuole uomini che sappiano divenire strumenti
di questa potenza occulta del divinò; egli odia sopra ogni cosa la menzogna ed esalta l’azione, la lotta contro la Fame umana, contro il Caos, la Necessità, la Stupidità, chiama gli uomini ad abbattere coraggiosamente la Menzogna, l’ignoranza, rillusione, il Disordine, il Diavolo e i suoi angeli. La volontà che egli vuole dominatrice non è l’arbitrio, ma il compimento, con animo e forze eroiche; con coscienza integra, di una ’figge un ¡versale di bene.
Lo spirito della sua do'¡trina è quindi, in sostanza, non ostante le somiglianze dialettiche, opposto a quello della pura identificazione del reale col razionale, della divinizzazione hegeliana dello Stato e de! bestiale superumanesimo dei seguaci di Nietzsche. Ed è la differenza stessa che corre fra la coscienza morale puritana inglese e lo spirito degli allievi di Bismarck.
m.
ETNOGRAFIA RELIGIOSA
V,
Agostino Gemelli, Le superstizioni dei soldati in guerra. Contributo alla psicologia delle superstizioni. Milano, Ediz. di « Vita e Pensiero », 1917.
Allorquando le superstizioni guerresche saranno studiate dal punto di vista etnografico si potrà vedere e osservare il modo in cui esse insorgono, rivivono e rifioriscono nell’anima umana, e segnatamente in quella del soldato in guerra, in epoche illuminate dal progresso e molto avanti nella civiltà. Per quanto gli assertori dell’identità dello spirito umano vogliano vederne l’origine in credenze magiche e animistiche, determinanti anche la persistenza materiale e formale in tempi evoluti, senza dubbio cause nuove, speciali e attuali debbono presiedere alla persistenza e reviviscenza di tali antiche credenze e pratiche nell’ambiente e nel pensiero etnico.
Il prof. Gemelli, dell’università di Torino, studia dal punto di vista psicologico
le superstizioni belliche raccolte sulla frontiera italiana a mezzo di un questionario inserito nel periodico Vita e Pensiero, (i° gennaio 1917). Il suo questionario, che è conciso e ben ragionato, veramente non può dirsi il primo in Italia, giacché era stato preceduto, fin dall’inizio della nostra guerra, da un altro, calcato su quello della « Società svizzera per le Tradizioni Popolari » e comparso in una modesta e quasi oscura rivista: Folklore Calabrese. Nè, per altro, il suo studio ammirevole, può dirsi non abbia avuto dei tentativi precedenti, Ìerchè, nel corso del 1915, prima che l’Uf-cio storiografico del Ministero delle armi e munizioni avesse pensato a raccogliere il folklore di guerra, io facevo alla Società Romana d’Antropologia una comunicazione sulle superstizioni dei soldati, per dimostrare che, insieme a queste, occorre studiare quelle del popolo e del paese da cui il soldato proviene. L’uomo — dicevo —- che con l’arme in pugno combatte sulla frontiera della patria non dimentica, nè lascia dietro di sè le tradizioni della sua
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terra; e i suoi pregiudizi, quantunque accentuati, son sempre quelli degli avi suoi, quelli appresi dal labbro dei genitori al focolare domestico. Rimasti oscuri o latenti per lunghi anni, ed anche per generazioni, essi aspettano lo stato di guerra per insorgere dalle profondità misteriose dell’anima, insieme con gli istinti perversi, addormentati durante il periodo di tranquillità degli uomini e delle cose. Perciò, la raccolta delle superstizioni guerresche è utile in quanto serve a fare, insieme coi documenti diplomatici, la storia della gueria e la storia dei popoli in guerra, o meglio la storia della civiltà o della barbarie dei popoli in lotta.
Contro coloro che attribuiscono le su-Serstizioni alla paura e all'ignoranza, il emelli spiega il fatto come una manifestazione oiologica, e non già patologica, della psiche umana, riferendosi a quell’operazione mentale, complessa e difficile, che designasi coll’espressione di « funzione del reale », e per la quale apprendiamo la realtà sotto le sue forme presenti. Vi sono dei momenti, delie circostanze, dei casi in cui la superstizione sottrae l’individuo alla necessità di prendere una decisione, che sarebbe incapace di fare per insufficienza o inadeguatezza di tecnica psichica. Tale è il caso dell’uomo combattente, il Ì[uale, di fronte al pericolo, nell’ansia, nella bga, nella trepidazione del momento, è costretto alla sua azione volontaria, una azione meccanica, che si manifesta nelle credenze e pratiche, le quali sono per lui « niente altro che mezzi, espedienti involontariamente usati per rendere meccanica la sua azione, allorché, per il fatto del pericolo, essa è resa difficile ».
Questa teoria spiega il meccanismo della superstizione nel pensiero del soldato, ma non il formarsi di esse, non l’origine e la provenienza, per cui soltanto l’etnografia comparata può dare lume, rilevando le analogie e le somiglianze con altre di altri popoli, come pure il persistere di forme e credenze, idee e opinioni attraverso epoche. genti, mentalità e luoghi.
Una parola sulla classificazione. Secondo il Gemelli alcune superstizioni hanno carattere conoscitivo (convinzioni, leggende, ecc.) e altre carattere pratico (usanze, riti, forinole, amuleti); e talvolta sono di origine collettiva e tal’altra di oiigine individuale. Per interpretare quelle collettive occorre volgere l’attenzione alle molteplici e secolari pratiche e credenze del po
polo, dellaregione cui il soldato appartiene; per intendere quelle individuali, che hanno un significato speciale, deve osservarsi la malformazione psichica dell’uomo di arme. A me pare che le superstizioni individuali possano, in fondo, ridursi a quelle popolari, comuni o collettive, »in quanto ogni superstizione preesiste all’individuo, il quale può imprimerle un carattere speciale improntato alla propria compagine Ssichica; come pure sembra che una vera istinzione tra credenze e pratiche superstiziose non si possa fate. Le une e le altre sono originariamente, intimamente legate in modo da costituire un tutto, quasi l’anima col corpo. I rimedi medicinali per le ferite, le forinole magiche per rendere innocui i colpi del nemico, gli amuleti per propiziarsi la sorte, pur appartenendo alle conoscenze pratiche, hanno fondamento nella fede, nel convincimento, nella credenza. Senza fede a che i talismani bellici. gli espedienti, le formole medicinali?
Tra' le formole ve ne sono di quelle che si pronunziano nel momento del pericolo, per scongiurarlo: di quelle che si iccitano perchè'il colpo tirato non vada a vuoto: di quelle che si profferiscono per rendei lo mortale. I agidati piemontesi, nell’imper-versa^e della "bàftaglfa,-dicono prima di sparare: « Sanici, Arant, Samel, Su »; sputano, quindi, tre volte a terra in segno di croce c puntando il fucile, soggiungono: « Metor, Sutor, Palor’ ». Alcuni tra loro portano scritte addosso le parole: « Gaspard, Melchior, Batthazan »: mentre tra i soldati siciliani e napoletani si trovano di quelliche portano il cornetto fascinifugo, ‘ che invocano così:
Comn, gran cornu, ri t or tu cornu, • ti razza scomu,
Vaju enormi, Cornu, cornu, cornu.
Nel campo e nella trincea, oltre al cornetto e alle mani falliche, si usano come amuleti il ferro di cavallo, il coltello, il chiodo, ranocchi in argento, scheggie del ciocco natalizio, il terriccio del paese natio, i baccelli dei piselli a nove grani, il trifoglio con quattro foglie, ossa tagliate, tridenti, spade. Non credo si presti a valutarli 1^ classificazione del Bellucci, che distìngue gli amuleti destinati a proteggere l’uomo e gli animali dai fenomeni naturali, da quelli che hanno un’azione preventiva e curativa nelle diverse malattie, nonché da
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quelli contro il malocchio e atti a propiziare la sorte. Essa è basata su caratteri imprecisi e indefinibili (respingere il malocchio non equivale a propiziarsi lasorte?), su caratteri esterni e non su criteri interni, che emergono dalla natura, dall'origine, dalla forma e dalla funzione degli amuleti. Vi sono, tra questi, quelli di natura magica e mistica, con caratteri incitativi, simpatici. contagionisti; ve ne sono di quelli totamici: c la vecchia, elementarissima classificazione bellucciana li ignora o li trascura. 11 Gemelli, in questo punto del suo profondo e dotto lavoro, si è affidato a un cattivo etnografo: il Bellucci.
Giovanni Antonucci, Gli Sponsali di fanciulli. Lecce. Stab. Tipdgr. Guido. 1917.
Gli studi di etnologia giuridica hanno avuto buon impulso in questi ultimi anni, in Italia, per quanto condotti con criteri filosofici e mptodi storici. 1 lavori pregevoli del Mazzarella, le versioni di opere straniere fatte dal Bonfante c dal Longo, sono più che germi, buoni segni di progresso e anche buoni frutti. Credo d’essere stato il primo ad occuparmi, tra noi, degli sponsali dei fanciulli, in un piccolo saggio comparso nel Rulletlino della Società di etnografia Italiana « Lares ». In esso notavo una consuetudine calabrese, riconducendola alle tradizioni giuridiche del passato e confrontandole con le usanze dei popoli tuttora incolti. Ora. l’avv. Antonucci, che un vivo amore spinge allo studio del folklore giuridico, riprende l’argomento per mettere in rilievo la ragione dell’uso o del rito di fidanzare i fanciulli: e partendo dal principio che esso sia « una misura preventiva per conservare intatta quella compagine di razza e di casta originata e vivificata da interessi comuni », crede di riportarlo « a ragioni esogamiche o a ragioni endogamiche ».
Non sono d’accordo coll’autore. Non ancora è detto l’ultimo motto sulla questione. Morto Andrea I.ang è tuttavia viva la disputa tra gli studiosi sulla precedenza o sulla posteriorità dell’esogamia al totemismo: e non è da tutti condivisa la luminosa ipotesi concezionale del Fra’zer sulla origine del totem. Pertanto, quando entriamo nel campo generale dell’etnografia ad osservare le cerimonie nuziali, non è facile scorgere se il fidanzamento o il connubio tra fanciulli, ovvero tra fanciulli e
adulti, poggi su interessi politici o economici, o piuttosto su altre ragioni e opinioni d’indole mistica. Tra i Kol del Bengala i fanciulli c le fanciulle sono sposati al totem, prima di contrarre le giuste nozze. La ragione di questo rito nuziale fanciullesco secondo alcuni deve vedersi nella credenza che il fanciullo è reputato non avere una anima fino al giorno del suo matrimonio coll’albero totem. Questo soltanto opera la sua iniziazione sociale, facendolo aggregare al clan e facendolo sottoporre ai tabù alimentari e sessuali.
Vi sono, com’è evidente, nell’etnografia riti e costumi, cerimonie c usanze che fanno ritenere essere gli sponsali e le nozze degli impuberi ispirati ad altre ragioni che non siano quelle politiche ed economiche, nelle quali 1*Antonucci vuol trovare il motivo generale.
Bisogna uscire dall’angusto campo della storia ed osservare largamente la vita dei così detti popoli naturali o primitivi per rendersi conto delle cause prime e pure di certi fatti sociali, di certi episodi rituali, di certe cerimonie.
The J.ournal of American Folk-Loreedited by F. Boas, Contents: 1) Contes Popu-laires Canadiens (C. Marius Barbeau); 2) Un Conte de la Reaule (Evelyn Bolduc): 3) Fables, Contes et Formule* (Gustave Lauctót). Lancastcr a. New York.
Un fascicolo annuale del bollettino della « American Folk-Lore Society » è dedicato alla pubblicazione dei racconti popolari canadesi, che da alcuni saggi venuti alla luce per opera di qualche studioso, dimostrano essersi conservati nell’antico dominio del Nordamerica i racconti importati dai coloni francesi. Il fascicolo che abbiamo sott’occhio inizia la serie e contiene più di quaranta di tali tradizioni, che sono trascritte con cura. Difatti la raccolta è importante non solo perchè la stenografia è impiegata a riprodurre fedelmente i documenti folklorici seguendo il narratore nelle parole, nelle locuzioni, nelle parentesi, nell’intreccio delle scene e degli episodi; ma anche perchè nulla è omesso di quanto possa interessare lo studioso, sia egli filosofo o demopsicologo; e cioè nè l’indicazione del luogo, nè quella della fonte nè la data, nè l’originè supposta del racconto o della leggenda. Tali tradizioni, che passano da generazione a generazion
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non hanno altro scopo che quello di dilettare le comitive, i gruppi gentilizi e territoriali delle società canadesi. Esse, rispetto alla forma e al contenuto, possono classificarsi in favole; racconti meravigliosi e mitologici; racconti pseudo-meravigliosi in cui si'finge o si fa la parodia del meraviglioso; leggende e conti cristiani; conti e racconti romanzeschi del medioevo; facezie e aneddoti moderni.
Quasi la met’i dei racconti canadesi sono pagani per or gine e natura: l’elemento principale che vi domina è quello meraviglioso; i personaggi che vi campeggiano sono quelli delle vecchie mitologie dei popoli d’Europa sopravviventi alle rivoluzioni religiose. Gli altri, che per distinguere da quelli mitologici chiamiamo racconti
cristiani, sono pieni di formole, carmi e incantesimi d’ogni specie (il sacco magico, l’anello meraviglioso, le impronte indelebili, ecc.), che ogni studioso di folklore riconosce per vestigia di costumanze di popoli e di tempi che praticavano la magia.
Se in queste tradizioni, come è stato rilevato, rivivono i racconti della Francia dei tempo del Richelieu, sarebbe interessante studiare le versioni parallele raccolte già prima in Europa o tra gli Indiani d’America, che le hanno improntate alla vita delle selve. Questo lavoro di confronto, condotto con cura e conoscenza, sarebbe davvero importante; ed è da sperare che non tardi a venire sotto gli auspici dell’« American Folk-Loie Society ».
Raffaele Corso.
VARIA
UN NUOVO LIBRO SU ANDREA TOWIANSKI <*>
Firenze, 5 dicembre 1917.
Preg. Sig. Direttore,
¡’appello che gli editori del prossimo libro di Maria Bcrsano Begey hanno lancialo al pubblico, è degno d’avere la più larga diffusione. Ecco perchè raccomando caldamente a Bilychnis di riprodurlo nelle sue pagine. Andrea To-wianshi, che in Italia raccolse già attorno a sè anime grandi e cuori bramosi di vita spirituale, sarà una gran luce all'Italia nostra quando, uscita dalla tremenda prova del fuoco, sentirà, come non sentì mai così fortemente, il bisogno d’esser guidala alle fonti dell’ « acqua viva ».
Con ossequio fraterno mi confermo
devotissimo suo Giovanni Luzzi.
In una delle memorande lezioni al « Collège de Franco », il vate della Polonia, Adamo Mickiewicz, dopo avere esposto con l’ardore e la forza della grande anima sua i problemi terribili e angoscianti.
che incombevano alla umanità, esigendone la soluzione, concludeva: « En face de ces questions, aussi immenses, questions qui, embrassant la science, la religion, touchent à l’existence des États et des individus, nous n’hésitons pas à affirmer ‘que personne ne pourra rien dire sur ces questions, s’il n’a pas dépassé déjà la limite de l’époque actuelle ». Più fortemente e affannosamente, forse, sentiamo noi oggi questo groviglio di problemi privati e pubblici che ci sono imposti dalla realtà grave, senza che una luce sicura ci appaia per indicarci la via della soluzione, senza che una forza adeguata ci dia la mano nell’immensa opera: solo un uomo che si sia sollevato al di sopra del momento tragico, e abbia penetrato più addentro la complessità della vita per coglierne le.leggi profonde e vitali, può aiutarci a una soluzione che non sia solamente un tentativo cicco ed incerto, l ’uomo dell’epoca, capace di dare, non solo parole belle e alte, che non possono bastare, ma luce- all’animo smarrito ed ansioso e forza alla volontà infiacchita,
(*•) Di prossima pubblicazione: Maria Bersano Begey, Vita e pensiero di Andrea Towianski (1799-1878). Libieria Editrice Milanese, Via S. Damiano, 46, Milano.
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TRA LIBRI E RIVISTE
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Adamo Mickiewicz lo incontrò c lo riconobbe in Andrea Towianski. E Andrea Towianski è da noi oggi presentato con questo libro ai nostri compatriotti, perchè anche noi, come Mickiewicz, sentiamo che Egli è l’uomo dell’epoca nuova che si è aperta per la umanità. La esperienza nostra e, meglio, la esperienza di uomini assai maggiori di noi, uomini di pensiero e di azione, laici ed ecclesiastici che trovarono in Lui e nella sua parola la forza per risolvere i problemi di vita, invano prima affrontati, ci dà la sicurezza e la energia di una affermazione così grave.
Andrea Towianski. nella profondità e nella sensibilità squisita del suo spirito, sentì e vide tutti questi problemi che la nuova epoca poneva allo spirito dell'uomo, sia nel campo della vita privata.come in quello della vita pubblica; le soluzioni date fin allora ed accolte erano insufficienti ad appagare la sete più ardente di verità, e non sui libri, ma nel fervore di una meditazione libera e profonda penetrò la realtà dell’uomo, delle nazioni, della umanità; illuminato dalla luce di Dio, colse il centro di quei problemi, individuali e collettivi; e la soluzione così vista nella interiorità dello spirito saggiò con la esperienza della vita pratica, reale, in sè prima, e poi dappertutto là dove gli fu permesso estendere la sua azione; c frutti inaspettati, meravigliosi, attestarono e confermarono la oontà della intuizione dello spirito. I suoi contadini di Antoszwincie elevò dall’abbrutimento della schiavitù alla dignità di uomini liberi; nel materialismo disgregatore e snei vanto degli emigrati polacchi suscitò la luce della fede e la forza della speranza e dell’amore; lo scetticismo dissolvitore di studiosi laici, lo sconforto corrodente di ecclesiastici trasformò .in calore di sacrifizio per la verità e per il bene; la fatica penosa dell’operaio animò in gioia di redenzione. E non solo tutti quésti problemi illuminò e risolse, ma i problemi delle nazioni, delle chiese e della Chiesa penetrò acutamente con la sua luce e ne indicò la soluzione; non sperimentò perchè non volle, chi doveva ascoltarlo: ma le conseguenze dolorose del rifiuto, previste, avverandosi, testimoniano della realtà e bontà della soluzione proposta.
Quest’uomo è presentato oggi, quando il sangue versato e le tenebre più fitte e minacciose del domani, da Lui preannunciati, rendono più urgente la sicurezza
e decisione di direzione da prendere e da imprimere a tutta la nostra vita. Perchè egli non è una figura, grande e nobile quanto si voglia, ma del passato. Egli è l’uomo dell’avvenire. Egli è morto, ma è presente: l’opera sua vive e porta frutti notevoli in molte anime che fedelmente lo seguono, più grande e profonda efficacia può e deve avere tra noi. Quante idealità e forme accolte sino a ieri e che hanno nutrito l’animo nostro, si rivelano oggi inadeguate a nutrire là nostra vita, svaniscono dinanzi alla realtà o perchè improntate a un materialismo soffocante, o perchè troppo incompiute e inferiori alle aspirazioni di uno spirito pili maturo! E noi, i nostri giovani, sopra tutto, hanno bisogno invece che una corrente viva, fresca, ricca, li accolga, quando, dopo avere offerto il sangue e la vita pei- la Patria più grande, ritorneranno per realizzare in sè e intorno a sè questa sua maggiore grandezza. Bisogna che la energia cui il momento duro ed aspro eccita e sprigiona dall’uomo nella tensione della guerra, non cada, non si dissolva, ma si irrobustisca e perpetui in' un movimento intimo dello spirito, in un fuoco di amore; che la idealità cristiana nella forma moderna di Giustizia, di Libertà, di Fraternità universale, i giovani la sentano come una realtà vivente, pulsante, la vedano incarnata, la riconoscano come base salda e sicura su cui poggiarsi nel lavoro per realizzarla, e abbiano tracciata innanzi chiara la via per raggiungerla. Gli Italiani hanno bisogno di trovare il punto più alto a cui elevarsi, per potere spingere lo sguardo più lontano su questa via del progresso non pure individuale ma nazionale, a! quale sono chiamati e il cui raggiungimento, intimamente connesso coi due grandi amori della Patria e della Chiesa, li salverà dalla schiavitù delle coscienze, dalla scettica indifferenza e dalla ribellione sterile ed irritante. Ebbene, tutto questo darà Andrea Towianski.
Ed è per questo che più specialmente invitiamo ad accostarsi a Lui, con animo vivo, libero e forte, i giovani nostri, in cui la sete di una civiltà veramente cristiana arde in tutta la sua nobiltà. Non un visionario esaltato, nè uno dei soliti riformatori ritroveranno in Lui, ma chi potrà rinnovare spiritualmente dal Crotondo tutta la nostra vita. La sua luce,
1 sua forza non sono cose sue. Egli s’in-
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nesta con tutto l’essere suo sul tronco evangelico; dalla comunione con Gesù Cristo Egli prende la vita e Gesù Cristo solo Egli cerca e vuole, e fa rivivere in tutta la sua energia di amore e di libertà. La Chiesa, di cui, benché certo non semplice supino ripetitore di formule c di riti, ma avv'ivatore di essi con una realizzazione più piena ed alta, fu figlio sinceramente devoto fino all’ultimo respiro, checché ne possa apparire a una osservazione superficiale, non potrà non averne vigore nuovo pei uscire dalla cristallizzazione in cui è tentata di fissarsi, dalla schiavitù agli ideali terrestri c pagani in cui soffoca, e riprendere la sua missione di guida e di sostegno agli uomini nella ascensione difficile e aspra su la via del progresso per cui Dio la chiama.
Così da Andrea Towianski impareremo e avremo la forza di adempiere il nostro dovere di italiani e di cristiani.
Non é del resto Andrea Towianski, benché assai più noto, come è naturale, in Polonia, dove ognora più si impone agli spiriti vivi e vigili, uno straniero alla nostra vita, uno sconosciuto agli italiani. Parecchie volte la parola di Lui fu trasmessa alle autorità ecclesiastiche e civili, a uomini lappresentativi e fattori della patria, in momenti gravi e importanti; diverse conferenze e pubblicazioni l’hanno Sosta anche alla portata degli uomini di uona volontà. Troppo poco tuttavia é conosciuto e insensibili sono stati i frutti. Questo non disanima, ché il germe va nascosto nel profondo e deve nascondersi nella umiltà e nella oscurità, perchè pòssa
sorgere a fiorire e fruttificare. Ma forse non fu fatto tutto ciò che -doveva farsi, perchè quanto fu presentato venisse conosciuto convenientemente e apprezzato e accolto. La biografia che di Andrea Towianski compose il senatore Tancredi Canonico, che è la pubblicazione più voluminosa e importante, non fu posta in commercio, lascia molte lacune e non si presenta in forma facilmente accessibile al lettore. Il pensiero di Andrea Towianski ha bisogno di essere tradotto, per così dire, perchè il lettore, che non abbia già famigliarità con i suoi scritti, possa afferrarlo e seguirlo; bisogna che gli si tolgano dinanzi molti e molti ostacoli, che concezioni vecchie o astratte, abitudini viete e pregiudizi razionalisti e clericali non si frappongano.
Il lavoro, che presentiamo, frutto di amore pi ofendo, ma condotto con obbiettività serena e calma e con scrupolosa ricerca, fa questo discretamente, sem-Ìdicemcnte e quanto occorre, per facilitare a comprensione e aiutare alla realizzazione della nuova vita superiore che, sviluppando l’idea cristiana in proporzione coi bisogni del tempo, Andrea Towianski ha portato agli uomini di buona volontà. Speriamo che la schiera di questi uomini sia grande tra noi, ed auguriamo che la Chiesa é la Patria nostra, accogliendo questa parola, si rinnovino, compiano la loro ascensione e raggiungano l’altezza a cui più vivamente le richiamano gli eventi dolorosi e glo.iosi della lotta che oggi si combatte.
Gli Editori.
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PROBLEMI RELIGIOSI DI OGGI E DI DOMANI
« Farà la guerra prosperare la religione? » è il titolo di un articolo della rivista .Va-Zttra, dal quale togliamo il seguente brano: «... E egli probabile che la terribile esperienza di questa guerra abbia per effetto quella maggiore profondità di sentimenti spirituali, che costituisce l’essenza di ogni risveglio religioso? La catastrofe improvvisa dell’edificio della civiltà, la rivoluzione negli affari «¡ella vita pratica, c sopratutto il disseminarsi lungamente della morte e delle disgrazie su tutta la nazione, sono fattori tali, certamente, da scuotere gli uomini dal torpore e dall’indifferenza, e da forzarli a guardare in faccia i problemi finali riguardanti il significato e la direzione della vita. Ma sarà questa mentalità favorevole ad un risvegliò religioso: è se sì, a quale setta?
Nella vita da campo non sembra che la religione, a dispetto dello zelo dei cappellani militari, occupi una parte importante. I nostri valorosi soldati vanno alla battaglia non con lo spiritodei Puritani di Croon-wel, ma con la facezia dei « Cavalieri ■ realisti.
E dopo la guerra... resteranno troppi ricordi concreti nelle mutilazioni, nei dolori e sofferenze, perchè tutto possa passare nel dimenticatoio come uno spaventoso fantasma di una fantasia malata: e lo spirito della nazione si troverà in condizioni di grande instabilità ed irritabilità.
Riflettiamo; che l’educazione della guerra si trova nella direzione inversa di tutti i processi di civilizzazione... Non solo avvenimenti di terribile importanza e.inaspetta-ti avvengono ora senza che noi sappiamo come e perchè: non solo i canoni ordinari
della ragione sono divenuti fuori d’uso, ma le regole stesse della comune moralità si trovano rovesciate, e quasi tutti i ■ Dieci Comandamenti » hanno perso il loro « Non » e sono sospesi « per tutta la durata della guerra ». La regola aurea (« Non fate agli altri, ecc. »), poi. è divenuta un oggetto di scherno...
E vogliamo supporre che lo stato d’animo creato da queste esperienze faciliterà lo sviluppo dei semi della vita spirituale? Quali semi, per esempio? Si può pretendere sul serio che questo caleidoscopio di orrori rafforzerà il senso dell’ordinamento divino e della divina provvidenza di questo mondo? Se non ci sbagliamo, un grave pericolo è in vista: quello di un generale scetticismo per tutto ciò che riguarda la vita spirituale. Non si concepisce come una Divinità onnipotente — macché! neppure una divinità di appena una mediocre capacità — avrebbe potuto lasciar l’Universo andare così a soqquadro. In molti ambienti sarà questo urlo dell’umanità sofferente che metterà le Chiese, coi loro Credi fondamentali, sulla difensiva. Un altro pericolo che sorgerà dalla situazione degli spiriti sarà l’efflorescenza probabile di nuove superstizioni, seminate in un suolo smosso, da cui fuiono estirpate piante spirituali di radici più profonde. L’esperienza della Storia c’insegna, che ogni grande catastrofe nazionale od umana è accompagnata da una recrudescenza dei vecchi istinti magici e riti barbarici che si trovano nel primitivo sottosuolo del carattere umano, e che furono soffocati, ma non estinti, dalle forze inibitrici di una civiltà superiore. Là dove le fedi convenzionali sono rimaste scosse, è probabile che gli antichi misteri del totemismo, dello spiritualismo, della chiaroveggenza, e simili pratiche si ripresentino tra-
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BILYCHNIS
vestite in abiti moderni, per occupare le caselle spirituali lasciate vacanti. E come potrebbe essere diversamente? Non viviamo noi forse in un’atmosfera in cui tutto sembra affidato al caso? Non è senza una profonda ragione che le espressioni di commiato di un tempo, quali ■ adicu », « good-by », e simili, sono state sostituite da quella: « The best of luckl » (« La migliore fortuna! »).
La vita di combattimento ha sempre a-vuto per distintivi qualche sorta di talismano, d’incantesimi, di « porta-fortuna », ecc., e non è improbabile che questo genere di spiritualità si acclimatizzi nelle armate e nelle nazioni, e penetri la loro vita quotidiana come un fattore in parte sportivo e in parte serro. Forse anche alcuni individui si sentiranno attirati, per uno spirito affine, verso le Chiese dai riti arcaici e dal cerimoniale più attraente.
Comunque, questo è certo, che l’idea che da questa catastrofe materiale e morale della guerra abbia a sorgere come l’Araba Fenice dalle sue ceneii, un tipo di religione spirituale superiore, è la più sfrenata delle fantasie. Tutti quelli che credono nelle virtù fondamentali dell’umanità e nei-processo continuo evolutivo della civiltà che ne è l'espressione, presumono con sicurezza che il genere umano possegga profonde riserve di energia per una guarigione morale e spirituale. E così sia! Col tempo le nostre ferite si rimargineranno, e può essere che in ultima analisi ci troveremo migliorati dalla prova. Ma presumere che dai macelli umani spunterà spontaneamente una ricca fioritura di spiritualità, è gettare una sfida a tutte le leggi fondamentali del progresso morale ».
LA FREQUENZA AI CULTI
Fra le diverse voci che hanno in questi Fiorni studiato c discusso il problema dei-avvenire del Cristianesimo; pongo anzitutto quella del Rev. Fort Newton, il successore di R. I. Campbell nel pulpito di «City Tempie» di Londra. In un articolo sulla rivista americana: « The Builder », egli scrive: « Sono costretto a riconoscere che le condizioni religiose dell’Inghilterra sono oltremodo affliggenti e tali da preoccupare. Le Chiese sono per la maggiore parte vuote, ed esercitano poca influenza. È vero che alcuni dei miei amici più illuminati mi assicurano che fuori della Chiesa vi è più religione che dentro. Anche Carlyle, a suo tempo, diceva lo stesso. È anche vero però.
che nei tre Congressi religiosi, rappresentanti tre diversi rami della Chiesa, ai quali ho pres’o parte dopo il mio arrivo in Inghilterra, ho trovato lo stesso senso di disorientamento e di scoraggiamento. I Ministri non san proprio più che fare, e si preoccu-Eano assai di trovare il modo di spiegarsi
i guerra, sì da «giustificare le vie di Dio riguardo all’uomo »: impresa in cui non sembra riescano troppo. Le loro spiegazioni mi mettono un po’ nella condizione di quello studente di teologia dell’Università di Michigan, che dopo avere assistito a tre discussioni sull’esistenza di Dio, mi confessò di aver cominciato ad avere dei dubbi sull’argomento. Tra la Chiesa, pòi, e le classi operaie, esiste un abisso che va sempre più allargandosi senza che sembri possibile riunire con un ponte le due opposte sponde. Come le cose andranno a finire, è difficile prevedeilo... Può essere che la scossa data dalla guerra riuscirà a destare le Chiese prima che sia troppo tardi. Giacché non c’è dubbio che la popolazione non è meno religiosa che per il passato: solo, le Chiese non sono più le interpreti della religione del popolo. Naturalmente queste mie costatazioni soffrono — grazie al Cielo — delle eccezioni: ma io parlo in generale.
Ed una delle eccezioni luminose è certamente il « City Tempie » di Londra, ecc.
Con le parole ed esperienze de! Rev. Fort Newton armonizzano i risultati delle investigazioni fatte sulla «religione di Londra », e riferite sul « Christian World », da A. Black. Di già nel 1886 e nel 1902 erano stati fatti per iniziativa privata due censimenti del numero di fedeli che attendono i servizi religiosi nelle chiese e « cappelle » di Londra; e da essi era risultato che, benché la popolazione nell'intervallo irai due censimenti fosse aumentata di mezzo milione di abitanti, il numero dei frequentatori di templi era diminuito di più che 160 mila.
Ora, i risultati del nuovo censimento fatto durante 18 mesi e prendendo in esame il movimento di frequenza in 200 chiese, « cappelle », « missioni » di ogni «denominazione» religiosa situate nei.di-stretti più poveri, sono tali che, prendendo come termine di paragone il censimento del 1902 fatto per iniziativa del «Daily News», il numero delle frequenze ai templi è diminuito di nulla meno che del 50 %. In una ventina di chiese, nell’ufficiatura del mattinò della domenica.
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solo dal 3 al io % dei posti erano occupati: nell’ufficiatura della sera, nella maggioranza delle chiese i posti occupati erano non più del 25 %. E le condizioni della Chiesa inglese (di Stato) non sono per questo riguardo migliori di quelle delle « Chiese Libere », non ostante le maggiori risorse di mezzi e personale: mentre poi le « High Churches », o Chiese rituali-stiche, più affini alla Cattolica, non annoverano che donne e fanciulli, e quasi punto uomini.
IL CRISTIANESIMO È IN PROGRESSO O IN REGRESSO?
Il commento che il « Brotherhood » fa al detto censimento coincide con la riflessione suggerita al Fort Newton dalle sue osservazioni, e. da noi sottolineata: Le Chiese non sono più le interpreti della religione del popolo.
Questa sembra essere una dèlie conclusioni generali a cui giungono anche le risposte date al referendum bandito un anno fa dalla « Christian Commonwealth », con la domanda « Il Cristianesimo nel Mondo è una forza in fase di progrèsso o di regresso? »
Le ragioni che di ciò sono addotte dalla maggior parte degli scrittori, riguardano però evidentemente solo quell’elemento tutt’ora prevalente nella sua maggior parte delle Chiese, che identifica ancora il Cristianesimo con le loro particolari dottrine anziché con una concezione etica e spirituale della vita, e ne fa una religione di salvazione egoistica dell’anima individuale, trascurando di porre in evidenza che l’anima individuale non può salvarsi se non nell’anima sociale.
Riservandoci di raccogliere in una sintesi più completa le conclusioni che si distaccano dall’autorevole referendum, diamo qui intanto un breve saggio di alcune delle risposte più significative, cominciando da quelle negative. Israel Zangwill, il notissimo commediografo israelita, ritiene che' ** Cristianesimo, dal giorno in cui divenne religione di Stato, non è stato più una vera forza nel Mondo, e i Cristiani debbono soffrire le conseguenze di essere tutt’ora una piccola minoranza, benché forse al presente siano più numerosi che nelle « età della fede ».
L’illustre romanziere H. G. Wells va più oltre, affermando che il Cristianesimo é in fase di tramonto: che il Mondo sta
ritrovando la sua via verso il Cielo a dispetto delle Chiese, e che gli uomini stan divenendo più onesti, più leali, più misericordiosi, più puri nella loro condotta individuale, più socialmente coscienti dei diritti altrui, e più bramosi di trovare una via per vivere in termini di uguaglianza, fraternità e comunione di spirito con tutto il genere umano, indipendentemente dall’opera delle Chiese cristiane.
F. IV. Pethich Lawrence, uno dei più forti campioni con la sua consorte, del movimento suffragista, risponde anch’egli con franchezza: « No. Le Chiese non hanno’ mai attirato con minor forza il popolo, nè esercitato una parte meno importante nella vita della nazione che al presente. Esse mancano di grandi condottieri e di grandi visioni... Tuttavia il malcontento per una concezione puramente materialistica della vita va divenendo sempre più intenso e profondo. Il popolo va brancolando in cerca di una concezione spirituale più v^sta: e già s’intravede nella penombra la solidarietà di tutta l’umana famiglia, e l’unità di tutti gli esseri viventi nella comune sorgente divina. Quando queste idee spirituali avran preso forma definita, nei pensieri, nelle parole e nelle azioni, si troverà che esse incarnano le eterne verità annunziate da Cristo ».
Originale e alquanto paradossale come sempre è il pensiero del notissimo scrittore Bernard Shaw. « Se noi chiamiamo Cristianesimo », egli scrive, « quel sistema di sentimenti... che -sono veramente originali in Cristo, e che conducono in pratica al ComuniSmo, all’uguaglianza, e all’abolizione della vendetta, delle punizioni, della tirannia, cioè di quello che forma la spina dorsale di tutti i nostri sistemi di politica, allora io direi che il Cristianesimo, in proporzione, va perdendo terreno: e ciò a cagione della persecuzione automatica che esso incontra da parte dèi nostro sistema commerciale. Quali sono i genitori desiderosi del benessere temporale dei loro figli, che osino di allevarli ed educarli da Cristiani in questo senso? E poiché nessun genitore si crede autorizzato a consacrare i pròpri figliuoli ad una vita di povertà e di persecuzioni solo per assecondare le proprie simpatie religiose, ne viene che, poiché gli avversari del Cristianesimo propagano ed inculcano accuratamente le loro opinioni ai propri figliuoli, mentre i Cristiani non osano d’insistere sulle loro, sarebbe un vero miracolo se
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il genuino Cristianesimo riuscisse a mantenere le sue posizioni, come infatti ha del miracolo che esso non sia ancora estinto del tutto... ».
La nota scrittrice svedese Ilelcn Key conviene anch’essa che « il fallimento del Cristianesimo è una tragica realtà. Esso non è riuscito a.trovare il modo di vivere in rapporti di uguaglianza, fraternità e cordialità. L’odio, la crudeltà, l’avidità, la gelosia, son più forti che mai. E la prova ne è, che gli stessi ministri delle Chiese cristiane predicano il 1 Vangelo dell’odio: anzi alcuni di esse riconoscono apertamente che gl’insegnamenti di Cristo non sono applicabili alla direzione degli Stati; Gesù di Nazareth è stato di nuovo crocifìsso dalla Chiesa ».
• Tra i corrispondenti che inclinano per la risposta affermativa segnaliamo alcune voci.
Quella della Barnett, consorte del defunto fondatore dei « Settlements », che scrive: « Forse l’indice migliore del prevalere del Cristianesimo è dato, dagli sforzi che continuamente si fanno per scusarci della nostra insufficienza a tradurlo in atto. Quando uomini e donne vivono in un inferno, è già un progresso l’accorgersi che esso non è ancora il ciclo. E il rinnovo per le ingiustizie sociali è un’aurora che sorge sulle nazioni ».
11 grande scienziato spiritualista Sir Oliver Lodge, rettore dell’università di Birmingham, è di parere che se il Cristianesimo nelle anime degli individui ha già dato fiori e frutti, invece come farmaco universale per i mali di cui è afflitta la società non è stato ancora quasi applicato. « Sarebbe strano », egli scrive, • che fosse questa orribile guerra ad alimentare, semplificare e migliorare la conoscenza di Cristo, e a promuovere la percezione della bellezza ineffabile della sua vita e dei suoi insegnamenti... Comunque, c checché pos-san fare le Chiese, io credo che l’appello personale di Cristo sarà ascoltato e seguito in un prossimo avvenire, da una parte più vasta dell'umanità, di quello che lo sia mai stato in passato ».
Alle sue parole fa eco, aggiungendo una nota di fiducia nelle intime energie della anima umana, la voce dell’arcivescovo di Armagli: « Se l'idea centrale del Cristianesimo è la fratellanza umana basata su quello che Cristo ci ha insegnato intorno alla Paternità divina, non possiamo noi
sperare che da questo cataclisma possa nascere una nuoya rivelazione dei voleii di Dio riguardo all’Umanità?... Ogni Statuto della libertà umana nell’avvenire dovrà poggiare sull’idea che negli altri uomini vi è più bontà che noi non possiamo immaginare, e che noi siamo nel senso più vero, ‘'membri l’uno dell’altro.” Il Mondo non è ancora fatto: bensì si sta facendo, e coloro che dicono che il Cristianesimo ha fatto fallimento, dànno un giudizio di un’opera non ancora compiuta che a metà ».
La fede religiosa suggerisce a Coulson Kernahan la speranza che «anche ad una crocifissione dell’umanità quale è la guerra presente, seguirà il mattino della risurrezione ad una vita nuova e ad un mondo più nobile, giacché la Croce è il dito puntato verso il Cielo, ed è l’amore, non l’odio il sovrano dominatore del Mondo di Dio ».
Riserbandomi di raccogliere qualche altio- acceno più espressivo da questo importante referendum, mi*permetto soltanto di accennare il mio punto di vista relativamente al problema della responsabilità delle Chiese e nell’« insuccesso del Cristianesimo », cioè che, poiché le Chiese non sono che la forma organizzata degli sforzi di individui, che si son proposti lungo i secoli di realizzare la concezione cristiana,' è assurdo contrapporre un Cristianesimo astratto e possibile a delle forme concrete e reali di Cristianesimo storico, e sopratutto di rendere quesle responsabili della mancata piena realizzazione di (¡nello.
Tanto varrebbe attribuire alla società civile esistente la responsabilità della non avvenuta realizzazione di una forma superiore di civiltà. Le forme superiori e piene di realizzazione di un’idea possono pensi non esistere ancora non ostante le oro parziali attuazioni; ma non già per colpa di queste. Non sono forse individui cristiani quelli che han formato e formano le Chiese cristiane? E che altro potrebbero darci i critici di queste, .se non altre forme organizzate di Cristianesimo, liberissimi di darci forme migliori delle attuali? E sopratutto, è vano credere che il Mondo sarebbe maturo per il Cristianesimo integrale, solo che... le Chiese cristiane non esistessero: e che conquistare queste al Cristianesimo sia più arduo che conquistaren il Mondo...
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LA GUERRA 369
«RIPARAZIONE» DI UN SACRILEGIO TEDESCO?
Riferiamo senza commento un episodio riferito al «Central News» da un'ufficiale del reggimento« di Guardie Irlandesi, a cui apparteneva il manipolo che si distinse nell'episodio, rappresentato come « riparazione di un sacrilegio tedesco ».
«Qualche tempo fa i soldati nemici, non contenti di avere con un intenso bombardamento demolito una piccola chiesa (cattolica), vollero profanarla in modo volgare: essi scassinarono il Tabernacolo, e. con evidente intenzione di dileggio, spezzarono l’ostia sacra in molti frammenti. Inoltre violarono ugualmente coi mètodi sacrileghi consueti propri degli Unni, il crocifìsso, le statue, e parecchie immagini sacre.
« Una domenica mattina,- un manipolo di Guardie Irlandesi penetrò in questa chiesa. Il primo ad entrare fu il loro valoroso cappellano, che rimase atterrito allo spettacolo del Santo Sacramento così oltraggiato. — Venite a vedere, ragazzi! — egli disse ai soldati. L’impressione che quello spettacolo fece su di essi fu profonda: il loro sangue irlandese fu in tumulto, ed uno di loro, un giovane sottoufficiale delle Guardie, facendosi inter-frete del desiderio comune di vendicare indegna condotta dei Tedeschi: — Padre— disse commosso«, — noi cancelleremo questa onta col nostro sangue. —
• A questa parole, i soldati s’inginocchiarono dinanzi al loro cappellano e recitarono la preghiera seguente: “ Noi sotto-ufficiali e soldati delle Guardie Irlandesi facciamo offerta fin da questo momento a Dio delle nostre vite — se tale atto di riparazione gli riesce gradito — per espiare l’orribile sacrilegio commesso in questa chiesa. ”
« La preghiera fu .quindi scritta, firmata nominalmente da ciascuno dei soldati e dal loro cappellano, c affissa ad una delle colonne della chiesa.
«Alcuni giorni dopo l’occasione di adempiere il voto si presentò terribile. L’artiglieria inglese aveva vomitato un fuoco micidiale sulle trincee nemiche in preparazione di un attacco di fanteria. Le Guardie Irlandesi dovevano aprire l’attacco ed è facile immaginare la furia e il coraggio con cui esse si slanciarono contro un nemico sì indegno. Alla parola d’ordine dello
ufficiale, le Guardie, infiammate dalla 1>resenza del loro cappellano che ricordava oro il voto emesso, si lanciarono fuori della trincea, e in un lampo penetrarono nelle trincee tedesche. Era uno spettacolo magnifico assistere a quella carica. A destra, a sinistra, al centro, essi tagliarono a pèzzi i Tedeschi, per un tratto tale, da esporsi alla annichilazione completa per opera delle riserve nemiche. Ma le Guardie non vollero arrestarsi nell’impresa fino ad aver fatto pagare ai Tedeschi tutto il fio del loro folle sacrilegio; e benché nuovamente sopraffatti dal numero, lottarono fino all’ultimo. Le mitragliatrici tedesche vomitavano morte, ed uno appresso all’altro i valorosi irlandesi caddero mentre il loro cappellano gridava ai pochi superstiti tiarole di incoraggiamento. Finalmente e granate e le palle tedesche spazzarono via dalla scena tutto il valoroso manipolo.
«Dopò la battaglia molti furono i cadaveri contati, ma per ognuna delle eroiche Guardie cadute, due Tedeschi erano stati trafitti dalle loro baionette. L’eroico cappellano fu trovato nell’atto di stringere ancora il suo Crocifisso, in atteggiamento tale da mostrare che il frammento di bomba che siggillò il suo fato lo aveva colpito mentre amministrava l’assoluzione a un soldato morente ».
LA «CHANCE» DELLE CHIESE
Un cappellano militare inglese scrive dal fronte ad Herbert Stead, il direttore del « Settlement »' di « Browning Hall » di Londra: «... Io credo che se le Chiese faranno qualche cosa di ben definito, anzi di audace, per rendere impossibile per l’avvenire che un pugno di ambiziosi possano mobilizzare milioni di uomini, gente la maggior parte di buona volontà, per ammazzarsi a vicenda, allora gli uomini si stringeranno ad èsse. Ma se ciò non fosse, sarebbe meglio che alcuni di noi che ne siamo membri, e che sentiamo che, dopo Dio, noi dobbiamo tutto alla nostra Chiesa, ne uscissimo fuori in segno di protesta. Io sono lieto di trovarmi qui come cappellano — qui, in questo inferno, — perchè mi trovo con eroi che resistono a 3uesto fuoco più come dèi che come uomini i carne ed ossa: ed anche perchè il programma di pace di Cristo viene da questo stesso fuoco infernale impresso indelebilmente nel mio cuore e nel mio cervello ».
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BILYCHNIS
VI È BISOGNO DI UN’ALTRA RIFORMA
In una recente lettera aperta al Vescovo anglicano <li Londra pubblicata dal « Daily Chroniclc », « un uomo della pubblica via » gli volge questa apostrofe: « ...Voi credete che un intenso entusiasmo del clero popolerebbe le chiese, riempirebbe le cassette delle elemosine, e farebbe scorrere tutte le ruote dell’enorme macchina della Chiesa... Avete raeione. Ma vi siete domandato mai per quale ragione il Clero non ha questo entusiasmo che consumò già Wesley, e Newman e Booth? Gli è che la massa degli uomini ha marciato, ed è loro impossibile ora di credere ai vostri sistemi religiosi... Il Clero aderisce ancora alle sue tradizioni..., ma nessuno può entusiasmarsi per una tradizione. La verità, ed essa sola, inonda il freddo cervello dell’uomo con un divino entusiasmo. E nessuno del vostro clero sente in cuor suo che questa tradizione è la verità della esistenza. La vostra religione non è abbastanza grande per il mondo nè per la vita. Essa non si adatta abbastanza alle realtà del destino umano... ».
LA RELIGIONE DEI SOLDATI AL FRONTE
La religione dei soldati (inglesi) al fronte è sintetizzata dal capitano Owen-Jones. con le parole da lui raccolte più volte, con leggère varianti, dalla bocca di soldati reduci da servizi religiosi: «Io credo nella concezione di vita incarnata in Gesù > (« I believe in thè Jesus-sort-of-life »).
« Questa professione di fede — egli commenta — potrà sembrare ai Cristiani più formalisti una formola assai incompleta di Credo: eppure, a me essa apparve come sublime e bella, tanto più in quanto che questi soldati si sforzano giorno per giorno di realizzarla nella loro vita... Coloro che hanno avuto il privilegio di stare a fianco di questi soldati, sanno con quale coraggio essi hanno fatto fronte alle condizioni di vita più deprimenti, con quale eroismo hanno sostenuto prove terribili, e con quale serenità di uomini che han piena conoscenza della grande realtà sono passati nell’ignoto.
«Si desiderava di vedere un tipo superiore di religiosità umana: e la guerra lo ha certo Srodotto. O meglio, lo ha rivelato, perchè oveva certo trovarsi già in essi. L'eroismo
di cui sono stato spettatore doveva essere stato maturato un anno prima durante la pace. E quando la guerra sarà terminata, e questi soldati al fucile sostituiranno la zappa, la pala o il martello,, non cesseranno di essere quei valorosi che si sono addimostrati. Questi due anni di guerra sono stati un solenne rimprovero per tutti coloro che erano giunti a perdere ogni fede nella natura umana, ed un incoraggiamento per quelli che han visto ciò che vi è di buono in ogni uomo, ed han trovato in ogni individuo qualche cosa di divino.
« Io mi domando spesso che cosa accadrà quando questi uomini torneranno alle loro case, e se le nostre Chiese cercano di rendersi conto di quello che è avvenuto nelle vite dei nostri uomini durante la guerra... Le nostre Chiese potranno rendere permanenti per essi quella che è stata la grande scoperta della loro vita, cioè il senso della communione degli spiriti.
« E i nostri Ministri-potranno impadronirsi di questo cullo degli eroi che si è volto verso la persona di Gesù e la “ Gesù sorte-di-vita, ” e suscitare nei loro cuori una fiamma celeste ».
Un altro soldato, interrogato quale sia la religione di un soldato al fronte, rispose: « Null’altro che aiutarci a vicenda ».
COME “ L’UNIONE DELLE CHIESE ” SI VA EFFETTUANDO AL FRONTE
Mentre l’attività instancabile del Rev. J. H. Shakespeare, Battista, Presidente della «Federazione delle Chiese Libere Inglesi » si volge a tradurre in atto quella • Federazione delle Chiese Libere » da lui proclamata come una necessità vitale nel Congresso di Bradford, e che ora ha fatto un passo decisivo nel Congresso di Oxford delle Chiese evangeliche, l’unione delle Chiese si va inaspettatamente, e .per vie, se non ufficiali, non meno efficaci, cementando sul fronte fra i cappellani di diverse Chiese. La discussione delle loro divergenze confessionali, fatta alla luce .del potente reagente spirituale, dei valori reali cimentati sulle grandi prove della loro efficacia nella vita e nella morte: la lettura scambievole degli organi delle diverse Chiese: la comunanza e quasi identità dei servigi resi a coloro che soffrono e che muoiono, ha giovato assai a sviluppare vieppiù in essi il senso della loro com-munanza sostanziale in tutto ciò che ha un valore reale, morale e religioso.
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LA GUERRA
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RELIGIÓNE POPOLARE IN TEMPO DI GUERRA
Da un giornale di Napoli stralciamo la seguente descrizione, con commenti, della ultima processione « religiosa » avvenuta in Napoli: _
« Alle quattordici precise dal Duomo viene fuori la processione delle statue di argento. ...........
< La folla che si pigia in via Duomo, a San Biagio dei Librai, a Santa Chiara, sino a Piazza del Gesù è enorme: il corteo si avanza lentamente fra due fittissime ali di popolo, di popolo commosso, che innalza supploci le preghiere ai suoi santi.
<E’ uno spettacolo stupendo degno della tavolozza di un fantasioso artista: è l'anima religiosa e pacifica dei napoletani che vibra in un’ora di nostalgico abbandono nel pensiero di quelli che sono lontani, e pur tanto vicini, di quelli che San Gennaro deve proteggere — oh, se li deve proteggere! — contro il nemico, oggi e sempre.
■ La folla stringe da presso il corteo delle statue: ogni santo suscita un coro di esclamazioni, di commenti, di apostrofi:
— Sant'Antuono beneditto! Figliemo tene o’ nomme tuio: guardammillo c scanzammillo tu!
, — Sant’Anna, vecchia e putente!
— Santu Juario bello! Overo ca sì bello!.
« Ora è una vecchia che piange sommessa:
ora è un vecchio che fissa a capo scoperto e con lo sguardo velato la statua di San Giuseppe e pare gli chieda una grazia; ora è una giovane donna che mormora, piano, una prece, mentre stringe in una mano il ritratto del suo bersagliere, che tornerà se San Gennaro lo vuole.
« Ecco che il corteo si è allungato, come un nastro, e si svolge attraverso le storiche piccole strade della vecchia Napoli, che dal Duomo conducono a Santa Chiara.
< Le . statue non hanno, questa volta, scorta di pompieri e di guardie municipali: il Municipio bloccardo non ha creduto di rendere omaggio al sentimento popolale suscitando il giusto sdegno della popolazione offesa nella sua più pura religione. Alle diciannove, la testa del corteo giunge a Santa Chiara: le statue sono ricevute da S. E. il Cardinale Arcivescovo di Napoli Giuseppe Prisco e da S. E. il Cardinale Filippo Giustini.
« Come tutta l’immensa folla è entrata con il cprteo nel tempio, le ampolline sono esposte sull’altare maggiore, ove era già situato il busto del Santo Patrono... ».
Segue la descrizione del « Miracolo di San Gennaro» — accompagnato da invettive della popolazione allarmata per il ritardo della liquefazione del sangue —; c l’articolo si chiude con altri caldi tributi alla a pura religione » del « buon » popolo napoletano.
Giovanni Pioli.
ANDRÉ SPIRE
Egregio Sig. Direllor
André Spire cui ho partecipato la notizia della di lui morte, divulgata erroneamente dal Coenobium e riprodotta poi nel Bi-lychnis, mi scrive da Neully sur Scine che han ben ragione i giornali e le riviste. « E veramente una morte spirituale quella verso cui vado. Abbia però la cortesia di smentire la mia morte corporea. Dica ch’essendo nato nel 1868 e avendo fatto il mio servizio militare a 18 anni nel X887, appartengo ad una classe che non è stata mobilitata».
E questa resurrezione io ho il piacere di annunziare ufficialmente a Lei, egregio Direttore, e ai lettori dèi Bilychnis. Fra tanti morti di cui è seminata la terra, ce ne sia uno di meno!
Gradisca i miei saluti e mi creda dev.
Dante Lattes.
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A voi che avete perduto...
— Le so! Le so!
Le incessanti pene, il senso di vuoto, la desolazione,
Le angoscio della perdila,
L’energia che vien meno sotto croce si crudele.
— « Indifferente e noncurante il mondo continua per la sua via, E mi lascia infranto..'. O figlio mio! figlio mio! »
— Eppure, rifletti a questo!
Si, rifletti piuttosto a questo!
figli mori come pochi han la sorte di morire, Combattendo per salvare la moralità di un mondo. Egli mori della più nobile morte di cui un uomo possa morire, Combattendo per Dio, la Giustizia, la Libertà;
Una tal morte è Immortalità.
— « Egli morì inosservato nella melmosa trincea ».
— No, Dio èra con lui e noti lo abbandonò;
Lo riempì di un fuoco sacro cui nulla potè spegnere.
E quando Egli vide che il suo compito quaggiù era terminato, Egli dolcemente lo chiamò: « Figlio mio! Figlio mio!
Ho bisogno di te per un’opera più grande di questa.
La tua fede, il tuo zelo, le tue belle azioni
Son degne delle mie più vaste libertà! »
Quindi lo trasse per mano con amorevole benevolenza, E insieme ascésero le celesti vie.
John Oxenham
(Traduzione dall'inglese)
LA RELIGION par
Avant-Propos. " _ _ ___ _
I. Religion et morale. ALFRED LOISY
II. L’E vol ution religieuse et morale.
III. Les caractères et les facteurs de l’évolution religieuse.
IV. La discipline humaine. «r . .. , -,
V. Les Symboles de la toi. Vot dl P?8- 3’6. Presso >n Itala. L. 4.70
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile. Roma - Tipografia dell’Unione Editrice, Via Federico Cesi, 45
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Guardando il Sole
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Fides
Erano più belli del mare Ciò che salva un popolo La forza del bene
La maledizione
Spes
La via
Le risurrezioni
La generazione dell'uomo
La benedizione
La sera
Charitas
.V? fiumi nè mare H 11 ma n ita s !
Oremus
La corlina
Le mani alzale
Svegliamo l’aurora
La torlorella
Occhi di frale Francesco
Nequitia
Il tradimento
L’orobanche
Dolor
Ma!...
¡1 rotolo continua
Ora cade il mondo
La via del dolore
Solemnitates
l cipressi del cimitero d’A-auilcia
Nel dì delle ceneri
Natale in trincea Discesa d’angioli.
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