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B1LYCHNIS
RIVISTA MENSILE 1LLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno III :: Fasc. XII.
DICEMBRE 1914
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 15 DICEMBRE - 1914
DAL SOMMARIO: L. PASCHETTO: Confessioni. — ROMOLO MURRI : La religione nell’ insegnamento pubblico in Italia. — Paolo Orano: Neutralità filosofica. — Mario Rossi : L’opera di Giovanni Weiss. — SALVATORE M1NOCCHI: I miti babilonesi e le origini della gnosi. — GlOSUE SALATiELLO : L’umanesimo di Caterina da Siena. — PAOLO PASCHETTO : Domani (Trittico). — NICOLÒ FaNCELLO: Guardando la morte. — SILVIO PONS : 11 panislamismo e il panturchismo nell’attuale momento politico. — E. RUTILI : Vitalità e vita nel Cattolicesimo. — G. PIOLI : Lo studio delle lingue moderne quale strumento di educazione.— Alfredo TaGLIALATELA: Giuda moralista, ecc. ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # #
------ Via Crescenzio, 2 - ROMA ---D. G. Whittinghil), Th. D.» Redattore peri’Estero ------ Via del Babuino, 107 - ROMA ■
AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO Per l'Italia L. 5. Per l’Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
# Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine. #
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IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ • FIDES ET AMOR* EDITRICE Amministrazione: Via S. Caterina, 14
MCMX1V
Pel prossimo Natale verrà messa in vendita in tutta Italia la ristampa di questa traduzione del N. T. che nella sua prima edizione del 1911 s’ebbe sì lusinghiera accoglienza da tante persone riconoscenti e bene auguranti : Antonio Fogazzaro, Pietro Ragnisco, Paolo Orano, Enrico Caporali, Baldassare Labanca, Luigi Ambrosi, Giacomo Puccini, Alessandro Chiappelli, Guido Mazzoni, Pio Rajna, Paul Sabatier, Nicola Festa.....
Questa nuova edizione, segna un progresso notevole : è stata accuratamente riveduta e qua e là ritoccata e corretta ; stampata presso la Tipografia « L’Arte della Stampa » in nitido elzevir, riesce molto simpatica all’occhio, grazie anche all’artistica copertina.
Sebbene conti oltre 660 pagine, non-è voluminosa, essendo tirata su carta finissima.
Il bel volume si venderà a L. 1.50; ma gli abbonati a “ Bilychnls „ potranno averlo inviando UNA LIRA alla nostra Amministrazione insieme con l’importo dell’abbonamento.
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aOCHNBfl
RIVIRA DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA, w
DI ROMA
SOMMARIO:
L. PaSCHETTO: Confessioni [I] ........ ..... pag. 357
Romolo Murri: La religione nell’insegnamento pubblico in Italia . » 360
Paolo Orano : Neutralità filosofica ............ » 372
Mario Rossi: L’opera di Giovanni Weiss ......... » 381
Salvatore MlNOCCHi: I miti babilonesi e le origini della gnosi. . » 383
GlOSUE SALATISELO: L'umanesimo di Caterina da Siena . . . . » 401
INTERMEZZO:
Paolo Paschetto: Domani (Trittico)—Tavole fuori testo tra le pag. 408 e 409 LA GUERRA:
Nicolò Fancello: Guardando la morte .......... » 409
Silvio PONS: Il panislamismo e il panturchismo nell’attuale momento politico . . . . . ...... . . . . . > 414
CRONACHE:
Ernesto Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo [Vj . . . . . » 419
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Giovanni Pioli : Lo studio delle lingue moderne quale strumento di
educazione ......... ....... > 438
Alfredo Taglialatela : Giuda moralista ......... » 442
NOTE E COMMENTI :
Antonio Vaccari: Bilychnis e la Civiltà Cattolica................ » 448
TRA LIBRI E RIVISTE:
Bernardino Varisco: Schuppe e la filosofia dell’immanenza........ » 452
Ferruccio Rubbiani: II problema della morale . . . ........ » 453
» È possibile una scienza della religione?........... » 454
R. Pfeiffer Fu scritto in ebraico l’Antico Testamento? ........ » 456
M. R. L’idea di Dio nelle religioni primitive ............ » 459
VARIA ........................ » 460
NOTIZIE: Che n’è della Cattedra di Storia del Cristianesimo a Roma? - Per la Storia delle Religioni - Cose nostre ........... » 461
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“ BILYCHNIS ” E LA GUERRA
Bilychnis — che continuerà ad uscire regolarmente nel 1915. qualunque siano gli avvenimenti — intende occuparsi della Guerra.
I, La Religione e la Guerra.
II. Quale è l’atteggiamento dei cristiani dei vàri paesi di fronte all’attuale guerra?
III. Che cosa si dice nel mondo dell’avvenire del Cristianesimo in relazione con questa guerra?
Pubblicheremo nel corpo della Rivista in esteso o largamente riassunti gli studi più importanti che intorno a questi soggetti troveremo in giornali, riviste, opuscoli e libri editi nei paesi belligeranti.
Sugli stessi argomenti i lettori troveranno in Bilychnis pensieri ed articoli originali della Redazione e di nostri Collaboratori italiani.
Completeremo questo speciale servizio, dando in ogni fascicolo parecchie pagine in cui raccoglieremo obbiettivamente tutto il materiale più minuto (notizie, voci e documenti) desunti dalla stampa religiosa francese, inglese e tedesca.
Con questo non intendiamo di abbandonare per ora lo svolgimento del nostro programma in favore della diffusione della coltura religiosa in Italia. Anzi intendiamo fare meglio al riguardo, attuando con fermo proposito e diligente lavoro tutte le nostre promesse vecchie e recenti: pubblicheremo studi originali italiani, accurate relazioni sui più importanti movimenti contemporanei nel campo della religione, fresche ed ampie notizie delle ricerche e dei risultati ottenuti nella Critica Biblica, nella Storia del Cristianesimo e Storia delle Religioni; conserveremo le pagine Per la cultura dell'anima (così gradite a tanti nostri lettori) e continueremo ad alimentare le altre rubriche fisse.
Con speciale attenzione seguiremo quanto avviene nel mondo Cattolico e ne informeremo i lettori con brevi Cronache mensili.
Quanto varrà a render la Rivista sempre più utile, più interessante e più cara ai suoi numerosi amici ed a conservarle il posto che si è guadagnato nella considerazione del pubblico in Italia e all’Estero, sarà da noi con ogni cura studiato ed attuato.
L’abbonamento per tutto il 1915 è di L. 5 (Italia) e L. 8 (Estero).
Tutti pagano il loro abbonamento, anche i nostri collaboratori.
AMICI! riabbonatevi e trovateci nuovi abbonati. (Vedere nelle ultime pagine « Cose nostre »).
Con questo fascicolo si completa il voi. IV che comprende il 2° semestre 1914 (fascicoli V1I-XI1). 1 lettori troveranno nel fascicolo gl’indici.
NB. — Gl’indici del III voi. (i° sem. 1914) vennero spediti uniti al fascicolo Vili (agosto 1914).
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Mas
Caro Falchi,
Sarai forse molto sorpreso di ricevere questa lettera su Bilychnis. Da qualche tempo volevo scriverti privatamente per confessarmi teco e per chiederti se non avessi anche tu per caso da confessarti meco. Ho scelto di scriverti pubblicamente perchè ho avuto l’impressione, leggendo lettere e conversando con amici miei e amici di amici, che nella famiglia della Rivista nostra siamo in parecchi a sentire questo bisogno di mutua confessione ; il bisogno di confessione presso una persona sincera, franca, che ha la preoccupazione costante della coerenza e di cui si ha fiducia e la certezza che, se ha da confessarsi, si confesserà anch’essa spalancando il fóndo della propria coscienza. Molti di questi amici ti conoscono ; gli altri ti conosceranno nella tua risposta. Sono certo che mi risponderai. Non so
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che cosa. Forse in parte sento quel che mi dirai, perchè conosco le tue convinzioni. Ma in quest’ora c’è qualcosa che tien desto l’essere nostro più intimo e non gli permette la calma serena delle certezze nè la quiete malinconica della rassegnazione, qualcosa che scuote la superficie di quelle che sono state le nostre più sicure convinzioni, che getta la nostra coscienza sulle onde agitate di cento contrasti. Sorgono in noi domande esigenti cui abbozziamo risposte che non ci soddisfano o che, se appagano il sentimento, urtano con le nostre più care teorie. E un insieme di voci, di sensi, di certezze luminose, d'oscuramenti improvvisi, di speranze che risorgono e cadono — uno stato di turbamento intimo, di tormentosa insonnia morale e spirituale, un tumulto che non è possibile descrivere, un dialogo intimo fatto di mezze voci, di accenni fuggevoli, che suscitano sentimenti or vaghi e prolungati or vivissimi che durano un attimo.
Tutto questo lo provi anche tu?
Hai conservata in quest’ora la solita sicurezza e chiarezza nella tua coscienza cristiana? Hai potuto prendere un atteggiamento determinato di fronte alla grande guerra ? Io non ti domando che cosa pensi — come cristiano pacifista — della guerra : saprei rispondere per te. Ti (tornando lo stato della tua coscienza cristiana in quest’ora.
Te l’ho detto, la mia è turbata. È a ondate. i° Metterò da parte Cristo. No! È l’unica àncora per l’ideale che siamo ancora in tanti a non voler vedere naufragare: giustizia, pace, fratellanza tra gli uomini. 2° Non mi curerò di quel che succede nel mondo e lascerò andar questo — se vuole — alla malora. No ! Equivarrebbe a metter da parte Cristo. 3° E allora, poiché il difficile — oggi — è : essere cristianamente patriota, rinunzierò alla Patria. No!
E allora?
Nell’ insonnia, ruminare il mio turbamento e tacere ? E poi quando il turbine sarà passato, uscir fuori e aprir la bocca ? Sarà facile — domani — riparlare di giustizia, di pace e di fratellanza. Ma oggi che infuria la guerra, che ? « C’è tempo di parlare e tempo di tacere > è scritto nell’antico < Ecclesiaste >. Allora, il tempo di guerra, per le coscienze fortemente religiose, era tempo di parlare. Tu hai studiato con amore i profeti d’Israele, e lo sai : quando rumoreggiava la minaccia della guerra s’alzavano e non tacevano, e tutto il tumulto e il turbamento dell’animo loro
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era nella loro voce, e anziché scomparire, emergevano di tutto il capo dal livèllo del lord popolo;
Caro Falchi, io ti ho sentito nei comizi elettorali per Giretti. È stata una bella lotta. La forza della tua parola era nella tua fede cristiana semplice, limpida. Limpidamente sentivi e il sentimento diveniva suono che toccava e scuoteva le coscienze. Allora martellasti e demolisti nelle coscienze di mille e mille elettori l’idolo libico d’un improvvisato patriottismo italico. Ma oggi, di fronte a questa guerra e all’incalzare della necessità per la nostra Italia di decidersi, senti tu altrettanto limpidamente, sicuramente?
Io, per ora no. Se oggi fòssi costretto a prendere una decisione, la prenderei, da italiano certamente; ma non so se da cristiano.
Vedi che sono franco. Le sentinelle della Civiltà Cattolica (che non hanno questi turbamenti di coscienza perchè per esse Benedétto XV ha parlato, parla, parlerà, e basta.') avranno un altro motivo di critica per Bilychnis, credendosi autorizzate da questa lettera ad affermare ch’essa ha per direttore uno che non ha idee chiare... Ma qui non si tratta d’idee. Quel che cerco è di dare e conservare alla mia coscienza quella chiarezza di cui continuano a brillare idee, teorie e convinzioni della mia fede cristiana. Quel che cerco è di evitare la divisione fra la coscienza e là teoria.
Del resto questo vuol dire dirigere la Rivista con vivo senso di sincerità e di rispetto per la coscienza ; vuol dire che chi dirige la Rivista è preoccupato di conservare il contatto con la realtà e al tempo stesso con la fede e di svelare ai lettori in quest’ora suprema la stato d’animo di coloro che guardano all’ avvenimento con rocchio della fede cristiana.
Ed i nostri amici gliene saranno grati, certamente ; e anche tu.
In attesa della tua risposta, mi dico tuo
L. Paschetto.
Roma, dicembre 1914.
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LA RELIGIONE
NELL’INSEGNAMENTO PUBBLICO IN ITALIA
el profondo e meraviglioso rivolgimento dello spirito europeo e delle coscienze [nazionali al quale ha dato luogo la guerra, l’Italia, sola forse, ha dato a sè stessa e agli altri spettacolo di un popolo irresoluto, incerto delle sue vie e del suo avvenire, vècchio e governato da vecchi, di una saggezza che si confonde nella viltà, in cui le coscienze, o per indebolimento di vincoli sociali o per eccessiva grettezza di individualismo, incapace di visioni e di ideali collettivi, per supina servilità o brutale
semplicismo di masse, apatia e fiacchezza e corruttela di classi dirigenti, sono incapaci di volontà e di azione comune, di prontezza di decisioni ed energia di atti.
Quando gli altri — noi, pei- nostro conto, da tempo andiamo segnalando questi mali ed indicandone la fonte comune — ricercheranno le cause di questa malattia nazionale, saranno condotti a riprendere in esame l’educazione nazionale, dove è, in sintesi e in origine, l’anima della nazione; e si accorgeranno forse di una lacuna significativa, terribilmente feconda di effetti deleterii pur nel suo carattere negativo: dell’assenza dalla scuola di ogni ideale di vita, di ogni insegnamento o ricerca riguardante il formarsi, nell’uomo, del suo atteggiamento complessivo dinanzi all’universo
ed all’essere, delle opinioni, delle credenze o fedi e convincimenti, delle attitudini morali dalle quali, come da fonti occulte e perenni, discende l'azione.
E la consapevolezza, una volta acquisita, di questa lacuna porterà a considerare di nuovo, da un punto di vista educativo e con intenso interessamento, il posto della religione nella vita e nella coscienza nazionale e, parallelamente, il posto che ad essa è stato lasciato o tolto nell'insegnaménto.
La riluttanza che tutti gli italiani provano dinanzi al problema religioso, sotto qualunque dei molteplici aspetti nei quali esso si presenti, dovrà pure essere prima o poi superata, nella ricerca di rimedi e di cure che non ammettono dilazione; e chi parve lungamente importuno, e fu odiato e vituperato come tale, apparrà, per contrario, opportunissimo.
Agli italiani, quindi, e in particolare al mondo politico e accademico dedichiamo queste pagine importune e la verità amara Che esse contengono; pagine nelle quali, ricordato brevemente il rapporto che corre fra la cultura e la vita, fra la cultura
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LA RELIGIONE NELL'INSEGNAMENTO PUBBLICO IN ITALIA
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religiosa e la vita morale, da una logica concezione della laicità e dello Stato laico deduciamo il dovere che questo ha di costituire una scuola pubblica che si integri ed acquisti un’anima viva con l'insegnamento della religione, e indichiamo quale questo possa e debba essere.
1. Che cosa è la cultura.
Per cultura si intende, in generale, la somma delle conoscenze umane nel suo svolgersi; l’incivilimento come fatto di conoscenza, come progresso nella consapevolezza di sè e del mondo (interno ed esterno) delle attività spirituali. Ma se si vuol precisare sorgono le difficoltà.
Alcuni intendono per cultura il sapere nel suo insieme e nella sua oggettiva costituzione dialettica: la somma e la sintesi delle conoscenze umane quale risulta, a Ciascun momento della storia, dalla attività degli scienziati e dei competenti, consolidandosi ed ampliandosi con il crescere in perfezione dei metodi di indagine, e soggetta ad una revisione critica che mai non cessa. In questo senso la cultura è patrimonio collettivo dello spirito, è, si direbbe con frase hegeliana, l'autocoscienza dello spirito in universale, in ciascun momento del suo realizzarsi come storia; e si partecipa di essa, in questo o quel campo e in grado maggiore o minore, a seconda dello sforzo fatto per conquistarla sistematicamente.
Chi intende la cultura a questo modo, aristocraticamente, disprezza poi quel sapere frammentario e disordinato risultante nelle coscienze dalla dispersione, che si opera attraverso a tanti veicoli — e il numero ne cresce ogni giorno — del sapere vero, al quale ciascuno attinge, di seconda e di terza e di quarta mano, come sa e può.
Altri intende la cultura in altro senso, considerandola nel soggetto che la possiede, e la fa consistere in quella specie di sintesi vivente, per la quale ciascuna coscienza, in cui è vivo e operoso lo sforzo dell’autocoscienza, raccoglie e riassume, secondo le sue proprie esigenze di vita, quello che le conviene, nel campo del sapere corrènte, e lo fonde e lo unifica nella sintesi del vivente atto spirituale che essa è.
In un significato Che è quasi intermedio fra i due, e potrebbe esser caratterizzato come sociale, noi intendiamo per cultura la somma delle conoscenze Circolanti in una società, il sapere diffuso nei libri, nelle scuole, nei giornali, nella propaganda orale e nella conversazione; dal quale poi ciascuno deriva, secondo le sue curiosità interiori e le occasioni che gli si offrono, quel molto o poco che gli serve per la vita e per i molteplici fini pratici di essa.
Gran parte di questa cultura è, per rapporto alle singole scienze alle quali attinge, frammentaria e superficiale, confusione e dilettantismo. Ma essa non ha la pretesa di sostituirsi alla scienza; e diviene attualità presente e feconda quando entra a far parte del mondo interiore e spirituale di colui che, sia pure molto imperfettamente, se ne impossessa e se ne giova ne’ suoi atteggiamenti concreti di fronte al reale e nelle attività pratiche.
Così, ad esempio, ora che il pensiero della grande guerra europea occupa tutti gli animi, i giornali scrivono abbondantemente non solo notizie riguardanti la cronaca dei fatti d’armi, ma curiosità di ogni genere atte ad interessare il lettore che
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pensa alla guerra; e ciascuno si foggia una sua visione del mondo e della storia della quale la guerra è il momento centrale.
Non è questa la competenza dell’uomo politico e dello stratega; è.. la vita di pensiero delle moltitudini.
2. Cultura superiore e media e popolare.
In questo senso si parla, anche, di varii gradi di cultura, di persone colte — cosa notoriamente diversa dall’essere persone dotte e sapienti — di classi colte, di cultura media e, oggi, di cultura popolare.
La cultura superiore dice, nei singoli che la possiedono, una specializzazione; è il sapere scientifico metodicamente conquistato e sempre rinnovato con lo studio e l’informazione sicura e recente. È interesse della società avere, per ciascun ramo del sapere, delle persone dotte e competenti, dalle quali proceda, per via diretta o indiretta, la volgarizzazione. Poiché lo spirito, come organismo di pensiero e di azione, abbisogna di un costante esercizio e di buon nutrimento: e dall'accumulazione di sapere che si fa nelle sfere dell’«//« cultura e dalla redistribuzione di esso dipende poi la cultura generale di un paese.
La cultura media non la si intende se non in rapporto a determinate classi e condizioni di vita, ed è nozione assai incerta ed approssimativa; essa è la formazione mentale (spirito di osservazione, chiarezza di vedute, precisione di linguaggio, attitudine al ragionamento) e la somma di conoscenze, desunte dai singoli rami dello scibile, che si ritiene necessario possedere per gli usi della vita quotidiana e la facilità ed eleganza dei rapporti sociali.
E al concetto di una cultura media, secondo la classe e il grado sociale nel quale l’alunno dovrà vivere pili tardi, si ispirano in parte i programmi scolastici delle varie scuole medie, e più particolarmente delia classica; nelle quali molte cose si insegnano che non rientrano nè nello scopo, pratico e tecnico, di prepararlo, con economia di mezzi e sicurezza di risultato, a fare un determinato mestiere, nè nell’altro scopo, più delicato, di condurlo a una certa conformazione mentale e a un certo grado di intendimento del reale che lo prepari a ulteriori studi speciali; si insegnano, anche a costo di complicare l’insegnamento e di render meno facile la sintesi e l’armonia delle cose imparate, solo perchè si ritiene conveniente che, uscendo da quella scuola, si possieda, di lettere, di storia, di astronomia, di fisica, di chimica, di matematica, quella determinata quantità di nozioni. La licenza liceale sarebbe quasi lo standard, la misura, di questa cultura media per le classi dirigenti e i professionisti.
E di cultura popolare si parla anche e si discute e per essa si agisce, con molteplici iniziative, sempre più diffusamente ed intensamente; ritenendosi a ragione che sia dovere della società mettere a disposizione del giovane e dell’uomo del popolo, per mezzo di university extcnlions, di biblioteche, di scuole, di conferenze e gite e musei e sinanche di spettacoli e di rappresentazioni teatrali, delle opportunità di apprendere e di istruirsi dalle quali egli ricavi, come può, le esigenze più vicine alla sua vita ed alle sue modeste curiosità.
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In queste varie forme e gradi, la cultura è adunque la vita della nazione e dei singoli in essa, nel suo aspetto e momento conoscitivo, così teoretico come pratico; e la trasmissione e la diffusione e l’incremento della cultura è formazione di vita, parte essenziale dell’esistenza di un popolo, nelle continuità delle generazioni.
La concezione moderna della vita e della società, concentrando i compiti e i fini dell’attività umana in questo suo prender possesso di sè e del suo mondo, nelle costruzioni razionali e tecniche di essa, nel dominio, da parte dell’uomo e del cittadino, della natura e della storia; e proponendo come fine delle attività pubbliche il condurre ciascun uomo alla pienezza della propria personalità, nei limiti che a .ciascuna di esse assegna nella realtà concreta la storia, ma una storia che è e sempre più deve esssere essa stessa fattura consapevole dell’uomo, crescente ricchezza di opportunità e di sviluppi, espressione del dominio dello spirito, ha dato una importanza nuova e crescènte alla cultura, in ogni suo momento e grado ed aspetto, come al maggiore e più efficace degli strumenti che l’uomo ha per foggiare se stesso, la natura e il suo mondo storico e sociale; e molti si affaticano giustamente a ricercare con quali ordinamenti e mezzi nuovi la distribuzione e la diffusione della cultura, specie nella scuola, risponda al suo altissimo compito.
3. La religione nella cultura, in generale.
Negli ultimi decenni!, per impulsi molteplici, si è molto pensato alla cultura media e popolare; ma con certe direttive, con pregiudizi ed esclusioni che parvero conquiste definitive ed erano atteggiamenti d’animo e di pensiero occasionali. Non solo le religioni storiche avevano perduto la supremazia spirituale, ma un nuovo mondo spirituale si andava formando contro di esse. Diffidenti del sapere e della critica, diffidenti anche della iniziativa individuale in religione, sospettose della democrazia, che minacciava anche il loro ordinamento interno, esse si chiusero in un rigido conservatorismo; e la scienza e l’azione delle nuove generazioni non videro in esse che vecchie abitudini superstiziose, ingombri al cammino della civiltà. Ciò avvenne più specialmente nei paesi rimasti cattolici. La religione non fu dunque compresa nel novero delle cose sulle quali fosse necessario istruire la gioventù e il popolo; ma, o se ne tacque prudentemente o si cercò di strappare ad essa le coscienze, poco curandosi del vuoto che si creava in queste.
L’inconveniente di questa ostilità e di questa lacuna sarebbe apparso manifesto se gli organizzatori di scuole e i promotori della cultura si fossero proposto uno scopo di educazione morale. A parte qualsiasi giudizio sul valore « assoluto » delle dottrine e dei riti religiosi, la vita morale delle masse si era organizzata su di essi; e privamela di un tratto significava produrre rovine ed un caos spirituale dal quale gli umili non avevano modo di uscire.
Ma il secolo xix fu quasi per intiero dominato dall’ottimismo romantico o razionalistico del secolo precedente. L’uomo era buono e solo una storia sbagliata l'aveva fatto cattivo. Bastava istruirlo, o bastava dargli diritti politici, o bastava mutare la costituzione economica della società (i pareri erano diversi, ma eguale l’errore fonda-
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BJLYCHNIS
mentale) perchè tutta la sua vita morale e sociale si atteggiasse, con moto spontaneo, diversamente, e il bene fiorisse. Istruzione, diritti civili, rivoluzione economica erano quindi tutto; la religione il nemico, nei paesi latini; affare privato nei paesi protestanti.
Lo studio delle religioni parve adunque solo materia di ricerche erudite, come la «storia» della chimica o della matematica. Non appariva vincolo di continuità spirituale fra il passato religioso dei popoli e il loro avvenire. La tenacia con la quale —mentre le cose divenute davvero inutili alla vita cadono facilmente da sé e sono così presto obliterate — tanta parte della società si ostinava nelle sue religioni irritava gli animi, ma non insegnava nulla.
Così, dove la religione continuò ad essere soprattutto un affare di Chiesa, essa fu sottratta al lavorio intenso di revisione critica che rinnovava e fondeva tutti gli elementi del vecchio mondo spirituale europeo; fu lasciata fuori; perchè secondo gli uni era necessario rimanesse come era, secondo gli altri non era già più cosa viva e non valeva la pena di occuparsene. Non era essa stata definita come la norma e la storia dei rapporti fra l’uomo e Dio? Ora, secondo i sacerdoti, Dio aveva parlato e formulato precetti precisi ed esigeva solo coscienze docili alla voce del sacerdote; secondo gli altri, Dio era stato dispensato dal governo della vita umana, e, rotti i rapporti diplomatici con lui, non c'era più niente da sistemare.
Chi si occupava della coscienza e delle leggi della sua vita interiore? La filosofia, forse, ma solo per dipanare la matassa del problema conoscitivo, formidabilmente risollevato da Kant. E là religione non ebbe, nelle lotte del pensiero vivo, interesse che come storia o come momento ed aspetto del problema gnoseologico. E la scuola se ne disinteressò; e lo Stato non ebbe presenti, nell’ordinare materie attinenti alla religione, che gretti criterii di opportunismo politico.
4. La cultura religiosa in Italia.
Questo processo giunse alle sue più tipiche conclusioni in Italia. Solo in Italia, infatti, se non c’inganniamo, la religione è intieramente sparita dal novero delle discipline che si insegnano nelle scuole di Stato, con la soppressione, avvenuta nel 1873, delle università teologiche e con la interpretazione data alle legge Casati per quel che riguarda l’insegnamento del catechismo nelle scuole elementari.
Questo insegnamento, per cominciar da esso, dopo lunghe incertezze e dispute sull’articolo 315 della legge Casati (1) fu disciplinato, con il celebre art. 3 del regolamento Rava, in modo che: i° esso è impartito solo agli alunni dei quali i genitori ne facciano domanda per iscritto; 20 l’insegnante può rifiutarsi ad impartirlo, ed
(1) « L’istruzione elementare è di due gradi, inferiore e superiore. L’istruzione del grado inferiore comprende l’insegnamento religioso, ecc. L’istruzione superiore comprende, oltre lo svolgimento delle materie del grado inferiore..... ».
La legge parlava dunque di insegnamento « religioso » ; la pratica si è solo occupata di insegnamento catechistico. Una rigida applicazione della legge ha fatto si che essa non si intendesse estesa al corso popolare (5* e 6a). aggiunto più tardi.
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essere sostituito da altra persona abilitata, la quale è talora un sacerdote; 30 le ore di insegnamento sono al difuori dell’orario ufficiale e normale; 40 lo Stato si disinteressa intieramente dei metodi, del programma, dei risultati dell’insegnamento; 5° questo, anche dentro tali limiti, non si estende alla 5* e 6* elementare.
Evidentemente, adunque, lo Stato si disinteressa del catechismo e solo consente che il maestro od altri lo insegni, a parte, a chi lo chiede.
Nel corso popolare, e nelle scuole medie di qualsiasi natura e grado, è escluso ogni insegnamento di materie religiose. Nelle università, abolite le facoltà teologiche, fu anche soppresso qualsiasi insegnamento scientifico delle religioni; solo, più tardi, furono costituite le cattedre di storia del cristianesimo nelle università di Roma e di Napoli; e non hanno una molto lieta sorte.
Questo disinteresse dello Stato non fu certamente dovuto a motivi ideali. Solo pochi uomini di destra erano giunti ad intendere che il compito della scuola pubblica è di fare i giovani per la vita, dando ad essi tutti gli elementi di cultura ed ideali necessari a bene vivere questa; e videro nell’abolizione delle facoltà teologiche e nel disinteressamento dello Stato in materia religiosa un passo verso questa educazione d’autonomia, una liberazione che avrebbe aperte le vie alla libertà, lenta e faticosa conquista interióre.
Ma i più, liberali eletti con i voti dei preti, democratici massoni, possitivisti, videro nell’abolizione o un acconto sull’agognata soppressione della Chiesa per decreto statale o, più scaltramente, un modo di evitar beghe con i preti; e fu in questa, come in molte altre cose, una specie di tacita divisione del regno dello spirito, per la quale quello che era « religione » toccava in sorte al clero e quello che era « affari terreni » toccava in sorte allo Stato. Divisione illogica, antifilosofica, intrisa di un sottile veleno di ipocrisia, la quale ha tolto al carattere italiano gli ultimi resti di sincerità, alla religione gli ultimi pudori cristiani, alla scuola ogni possibile efficacia educativa, ed alle quale bisogna risalire per trovare le ragioni della decadenza morale della coscienza italiana negli ultimi 50 anni.
Gli italiani mentono a sé stessi e al loro Dio in quelli che sono i supremi interessi spirituali della vita, e, con abili accomodamenti, trattano le esigenze dello spirito alla tregua dei favori che mercanteggiano nella politica; e questa menzogna iniziale discende per li rami in tutte le loro attività e le corrompe ed avvelena fino alla radice, con i risultati che tutti vediamo.
5. Caratteri e limiti della laicità nell’insegnamento.
È giusto adunque dire che, per quel che riguarda lo Stato, la religione non è materia di insegnamento nelle sue scuole, dagli asili infantili alle università.
Laicismo? La laicità dello Stato, alla quale non osta la formula del i° articolo dello Statuto, effettivamente annullato dalla pratica e dalla legislazione, imponeva a questo di non associare a sé la Chiesa cattolica nell’insegnamento pubblico. Esso non può, nè direttamente nè indirettamente, fare della sua scuola, aperta a insegnanti e a cittadini della cui fede religiosa lo Stato non chiede e non si inquieta
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in alcun modo, strumento di prosetilismo e di educazione di una data chiesa o confessione. Da ciò segue che l’insegnamento religioso nelle scuole di uno Stato laico non deve esser nè insegnamento del credo di una data religione, nè insegnamento per autorità. Il catechismo ecclesiastico o la teologia, le cui fonti sono l’autorità della Bibbia o della Chiesa, ripugnano quindi ai compiti dello Statò laico ed ai caratteri del suo insegnamento.
Ma, per lo stesso motivo, lo Stato non può influire in senso negativo nella scelta di una religione, non, cioè, deviare risolutamente l’alunno da una chiesa o da tutte le chiese. Poiché la laicità è incompetenza, non è un’altra religione; è rispetto della libertà, riconosciuta intiera a ogni cittadino, di aver la fede che egli vuole, non elevazione di una dottrina a fede e religione dello Stato. Se incompatibilità c’è, fra certe credenze e dottrine religiose e ciò che lo Stato, nei suoi programmi, dispone circa le materie da insegnare, essa non è voluta e messa deliberatamente in rilievo; è, se mai l'incompatibilità dello spirito scientifico e delle conclusioni certe del sapere con quello che talune chiese insegnano ancora, per rispetto servile alla tradizione, ma che raramente può esser considerato come parte essenziale della vita religiosa che esse promuovono.
L’alunno che nelle scuole medie e nelle università abbia appreso una concezione scientifica della natura e sia entrato nell'intendimento del divenire storico non potrà essere credulo e superstizioso come l'analfabeta, ma egli avrà ancora libera la scelta tra le religioni adattabili a uno spirito moderno; e quella scelta sarà fatta da lui liberamente, con un processo nel quale la scuola pubblica si sarà guardata dal portare deliberatamente una nota perturbatrice.
Ma da tutto questo all’ignorare la religione ci corre. La religione è nella storia, è nella società, è, come spontanea fioritura dello spirito, in certi stadii dello sviluppo di questo, è nelle coscienze come esperienza storica da ridurre a chiarezza, a consapevolézza, a sintesi. E l’insegnamento non può mutilare nè la storia nè lo spirito. C’è, come vedremo meglio in seguito, un modo di far entrare in esso la religione, vario secondo le età dell’alunno e i gradi della scuola, il quale non solo non esclude in alcun modo la laicità, ma la compie e la rende possibile ed attuale.
Poiché lo Stato che dichiara la sua incompetenza in materia di religione non intende con ciò, abbiamo detto, di dichiarare abolite le religioni e le fedi e di mettersi contro di esse per estirparle dalle coscienze; ma, d’accordo con le più intime persuasioni della stessa coscienza religiosa contemporanea, riconosce esser la religione cosa essenzialmente personale, principio e garanzia di quella autonomia dell’individuo, di quel possesso e dominio di sè che gli istituti democratici tendono a garantire e sviluppare. Lo Stato è quindi religiosamente laico perchè l'individuo sia religiosamente libero, accetti o scelga o crei le sue fedi e il suo Dio e i compagni di fede senza alcuna insidiosa o violenta intromissione dei poteri pubblici.
Perciò la laicità dello Stato, in quanto si esplica nell’insegnamento, cioè nel fare ed educare coscienze di liberi, deve appunto aver l’occhio a questa libertà religiosa dell’alunno ed essa educare; in altre parole, lo Stato è, anche dal punto di vista religioso, un educatore (e non potrebbe non essere, poiché lo spirito non lo si educa a metà, e la religione è il momento centrale della sua vita); ma si differenzia dalle Chiese in ciò che men-
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tre queste educano a una data fede, captando anticipatamente l’assenso dell’alunno, esso educa alla libera scelta e alla conquista personale di una fede. Ed è questo, come si vede, un concetto fondamentale, che pochi hanno fino ad ora avvertito e dall’assenza del quale nascono le più tenaci e rovinose confusioni in questo argomento.
6. Ulteriore chiarimento del concetto di laicità.
Esso, intanto, ci spiega la condotta della Chiesa cattolica. Questa insiste per l’insegnamento catechistico nella scuola popolare perchè considera la massa come di sua spettanza e vuole corroborato il suo catechismo dal prestigio della scuola pubblica, con la quale non può, altro che nelle grandi città e in piccolissime proporzioni, mettersi in concorrenza; quanto alla scuola media, sentendo come il coordinamento delle cose insegnate al punto di vista dell’educazione religiosa è assai più delicato e difficile, preferisce avere insegnanti e scuole proprie; e questa è anche la sua aspirazione, per quello che riguarda le università.
E il laicismo, così come esso è ora praticato, è il più forte argomento a favore della loro tesi, che la scuola debba essere subordinata al principio religioso e investita da esso. Se lo Stato, dicono, non riesce a dare nella sua scuola una completa ed efficace educazione dello spirito, ciò avviene perchè esso non può farlo. La natura stessa delle sue attribuzioni glielo vieta. Ma questa stessa sua impotenza è il riconocsi-mento implicito della necessità che un altro istituto, la Chiesa, o si unisca ad esso per completarne l’opera scolastica o sia lasciato provvedere da sé a questa, in regime di piena libertà. E dalla libertà — come ci mostra la storia del Belgio e dell’Inghilterra— si passa poi facilmente a chiedere la sovvenzione dello Stato.
E il ragionamento varrebbe, se esso non implicasse appunto quella che è la menzogna originaria di tutte le rivendicazioni ecclesiastiche; la concezione della società religiosa come di un intermediario fra il Dio trascendente e una umanità decaduta, e del clero come investito di un carattere sacro e di una missione gerarchica per condurre gli uomini alla salute. Per essa, la Chiesa reclama come suo diritto il condurre le « anime » alla sua verità religiosa, verità religiosa che si appoggia tutta sulla rivelazione della quale essa ha e custodisce il deposito, e sulla sua autorità.
Ma appunto per questo, perchè cioè non accetta la verità e l’autorità «ecclesiastiche », lo Stato laico non può accogliere nella sua scuola l’insegnamento ufficiale della religione. E se esso, d’altra parte, lascia la sua scuola monca, ed ha cura di non invadere la provincia che sarebbe idealmente riservata alla Chiesa e sopprime l’insegnamento religioso senza nulla sostituire, viene con ciò indirettamente a ricono scere di nuovo l’ecclesiasticismo, con una missione propria ed una sfera di azione propria, ed a confessare la sua insufficenza così nel compito scolastico come in tutto l’ordinamento della vita.
E qui è veramente il nodo della quistione. Lo Stato deve bastare a sè stesso, la scuola di Stato deve bastare a sè stessa, essere in sè organica ed intiera, capace di condurre l’uomo alla pienezza della sua vita interiore ed esterna. Se a questo esso non riesce, rinunzi alla laicità; poiché questa parola non ha più nessun significato, se
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non forse quello di una divisione di attribuzioni fra i due poteri; nel qual senso era più logicamente e sinceramente laico lo Stato cattolico medioevale.
La verità è, e giova dichiararlo senza ambagi, che la laicità da noi reclamata della scuola è il coronamento di una riforma religiosa, della laicizzazione della religione, alla quale tutta la vita moderna tende. Lo Stato moderno non fa il teologo, non definisce dommi, non impone riti, perchè queste cose sono rimesse alla libera scelta di cittadini, non già perchè esse sieno oggetto della autorità e dei provvedimenti di un potere distinto dal suo; esso nega la religione come organizzazione esteriore autonoma ed autarchica. In questo senso il suo ‘prescindere è un escludere', e da questa conclusione radicale non ci si salva se non risalendo al concetto antico di una divisione di poteri e di una implicita e necessaria subordinazione dello Stato alla Chiesa.
Ma questo modo di intendere la cosa è difficile a molti, che si indugiano in una concezione dello Stato medesimo con la quale un tal modo di vedere non è conciliabile. Nel medio evo, e sino ai nostri giorni, ci si è appunto dibattuti in questa insanabile antinomia di uno Stato-Chiesa e di una Chiesa-Stato; ed anche oggi, di fronte a talune nostre rivendicazioni di laicità della vita pubblica, si è gridato che noi volevamo tornare allo Stato teologo e sacristano. Sinché, infatti, si pensa a un potere che disciplini materie religiose, in mano di qualcuno questo potere deve essere; e chi lo ha è chiesa, anche se sia lo Stato; ed è Stato, anche se sia la Chiesa, poiché Stato non è che l’organizzazione del diritto e la volontà unitaria dei consociati, per tutti i fini sociali.
Ma, nella concezione democratica, e non impiegheremo qui molte parole per dimostrarlo, l’antinomia si risolve e la difficoltà cade appunto perchè il fatto fondamentale, anche nella Chiesa e nello Stato, non è più l’uno o'i’altro ente in sé stesso, ma la volontà umana, in quanto storicamente si organizza per il raggiungimento dei suoi fini, sempre meglio intendendo le istituzioni civili come creazioni sue proprie, delle quali essa conserva il dominio, e che modifica via via, perennemente rispecchiando visi.
Ora questa volontà umana, in quanto dà luogo all’imperio, alla nazione, alla formazione ed applicazione del diritto, si esaurisce tutta nello Stato, per definizione, e non lascia residui; mentre le materie religiose sono state avocate alla libera personalità dei consociati e possono dar luogo ad associazioni speciali, ma sulla base del diritto che è, anche in materia religiosa, comune alle varie fedi, e quindi laico.
E questo Stato laico, così concepito, provvede all’insegnamento religioso così come a quello della medicina, della matematica o dell'astronomia; cioè fissando le norme formali entro le quali si esercita l’attività educativa, che è da individuo ad individuo. E solo in quanto l’educatore, se è veramente e pienamente tale, è educatore religioso, perchè mira a far l'uomo intiero, con le sue fedi e i suoi valori ideali, solo per questo motivo e per questa via anche l’educazione religiosa rientra nei compiti della scuola laica; che è veramente laica solo se ed in quanto riassorbe in sé la religióne e non lascia alcun residuo per essa, sotto l’aspetto della educazione civica.
La laicità dello Stato non è adunque un’altra religione, che si opponga alle precedenti o sia in contrasto con esse, ma è la definitiva soppressione della chiesa-stato e di qualsiasi rapporto speciale dello Stato con una data religione; è la pienezza delle
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funzioni che ad esso competono esercitata con sicura autonomia in tutti i campi. Nei rapporti con il cittadino è la sottrazione che questi fa ad ogni potere esterno e coattivo delle proprie fedi e di ciò che le riguarda; e quindi l’esigenza che la scuola pubblica educhi l’alunno a questa sovranità spirituale non al servizio di una data fede.
Questa laicizzazione è un uscir di tutela dello spirito umano; il passaggio dall’epoca deH'oggettivismo religioso (religioni collettive, rivelatori divinizzati, cose sacre e sacerdozio sacro, rito e liturgia intangibili, ecc.) a quella del soggettivismo religioso: la coscienza come sede interiore della divinità; la rivelazione come processo di auto coscienza dello spirito religioso ; le religioni, libere consociazioni per il rito in comune o per l’esercizio di speciali forme di esistenza sociale, di educazione specializzata, ecc. Ognuna di queste religioni dovrà essere giudicata per sè stessa, dalle tradizioni storiche, dalle dottrine che insegna e specialmente dai frutti: ma il rapporto fra di esse e lo Stato è sostanzialmente mutato da quando la religione ha cessato di essere un fatto essenzialmente « ecclesiastico ».
7. La religione nelle scuole elementari.
L’insegnamento religioso nella scuola elementare, se esso deve comunque avervi posto, non può essere in nessuna misura accompagnato da critica o da riflessione; esso deve essere ingenuo, spontaneo, vivace, immaginoso, creativo.
L’elaborazione e la scelta dovranno essere state fatte innanzi dall'insegnante e, per lui, dai suoi educatori; ma al fanciullo, nella scuola, quello che gli sarà presentato e suggerito di religioso deve avere la fresca sincerità di una polla montana.
E la giustificazione dell’insegnamento deve essere nella necessità in cui egli è di intendere le cose e la vita e il dovere morale in forme antropomorfiche, per via di immagini, di miti, di precetti. Questa necessità è nota all’educatore così come allo storico delle religioni; risulta dai caratteri dell’età fanciullesca, dai primi contatti di essa col mondo, dalle prime costruzioni spirituali delle quali è capace. La psicogenesi, come spesso si è detto, ripete l’ontogenesi: la storia di un fanciullo quella dell’umanità. L’educatore deve rispettare queste esigenze spontanee ed insopprimibili della fanciullezza, se egli vuole accompagnare, dirigere ed accelerare con l’esperienza sua, vigilando e suggerendo e inibendo, l’interiore processo di formazione. Il vantaggio, per l’alunno, sta in questo: che invece di uno sviluppo spontaneo e grezzo, con le complicazioni e le deviazioni e le stasi e i corsi e ricorsi ai quali esso soggiace, quando ogni superamento deve esser l’effetto di contrasti e di crisi e di negazioni, di rivoluzioni politiche e di sanguinose miscele di popoli, qui invece, per opera dell’educatore, il processo è veduto innanzi nella intierezza sua, ed ogni momento, nell’atto stesso in cui si afferma, affinando e avvalorando le energie dello spirito, prepara il successivo e sbocca spontaneamente in quello. Il contatto vivo ed assiduo fra la spontaneità dell’alunno e la consapevolezza del maestro costituisce ratio dell’educazione. È necessario che il maestro sia legato all’alunno da viva simpatia, fanciullo egli stesso per la freschezza della sua fede nella vita, l’attitudine a gustare lo stupore, l’entusiasmo e la gioia dell’uomo nuovo che contempla il mondo ed esercita le sue crescenti energie
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e si fa il suo mondo; e che il fanciullo abbia piena fiducia nel maestro. E nel maestro nasce la attitudine a farsi « come uno di essi » dalla comprensione piena di amore dell'attività poetica dello spirito infantile; e nel fanciullo il rispetto per il maestro dal rispecchiarsi della propria vita nell'insegnamento di questo come in uña vita più grande e più ricca.
Così adunque la religione fa parte del mondo del fanciullo per lo stesso motivo per il quale faceva parte della vita dell’uomo primitivo. Presa come conoscenza, nel significato prekantiano della parola, essa era una conoscenza falsa, presa come costituzione di uno o più oggetti esterni e trascendenti di adorazione e di tendenze, era un movimento dell’animo falso. Ma questo modo di intendere i rapporti fra soggetto ed oggetto è falso anche esso. Posta la religione, come conoscenza e come speranza, sulla trama dell'io soggetto-oggetto, dello spirito che si svolge, ed acquista lentamente coscienza di sè e del suo mondo e fa la sua storia, la religione, e ogni religione positiva, ridiviene vera, della verità che lo stesso spirito, facendosi e facendola, per intendere sè stesso e le cose, le aveva dato. Vera, si intende, sinché sorse e si svolse e durò come necessità dello spirito storico, a un dato momento del suo sviluppo, e giovò a risolvere contraddizioni nelle quali questo si dibatteva, a ravvivare la fiducia nella vita e lo slancio nell’azione; ma poi falsa, in un secondo momento, quando, compiuto il suo ufficio di vita e mutate oramai le condizioni storiche, essa diveniva uno strumento di interessi particolari, una forza di stasi e di servitù spirituale; è vera e falsa ad un tempo, a seconda dello sviluppo di coloro nei quali la si ritrova.
Allo stesso modo, nel fanciullo, talune concezioni religiose: il Dio personale, Gesù, gli spiriti buoni, il paradiso, taluni miracoli, scelte con cura fra le più pure ed educative, gioveranno a dar corpo ai primi ed elementari concetti della bontà, del dovere e della sua interiore trascendenza, della finalità, della società, del meraviglioso che è nel mondo della natura e in quello dello spirito; religione vera, ma di una verità di fanciulli, personificazioni poetiche come quelle che erano così spontanee nel linguaggio primitivo, quando le idee erano ancora immagini e dèi, avviamenti della volontà verso il mondo reale che si cela dietro le fantasiose leggende, stimolo ad usare del materiale buono nella costruzione del proprio io. Tutto, in genere, il linguaggio per simboli,del cristianesimo originario si presterebbe, preso per se stesso ed indipendentemente dalla subordinazione all’ecclesiasticismo romano, ad esaltare la santità dei momenti solenni della vita, della propria liberazione dal male, della socialità e società umana.
Ma converrebbe, appunto, che quei simboli fossero presentati al fanciullo secondo il significato che possono avere per lui, non secondo quello tutto diverso che hanno per una società di credenti adulti: dove tanti elementi di falsità, di servilità e di superstizione si mescolano a quel primo ingenuo significato e lo detorcono a un ben diverso valore.
E di qui apparisce la differenza fra insegnamento religioso e catechismo; e come le ragioni stesse che consigliano il primo, vietano poi il secondo, per tutto quello che esso ha di contraddicente al cànone fondamentale dell’educazione, secondo il quale questa deve condurre l'alunno alla libertà, al possesso di sè, all’autonomia, alla pienezza di vita dello spirito; e quindi al superamento graduale ed incessante di tutte
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quelle forme di intendimento, di costituzione dell’oggetto e dei fini della vita, di rapporti sociali, le quali, oltre il limite ad esse assegnato dalla psicogenesi, divengono impacci e cappe di piombo dèlie coscienze.
Tutte quindi le ragioni addotte contro l’insegnamento catechistico nelle scuole elementari rimangono, in questa nostra concezione, acquistano anzi in essa il loro pieno valore. Per il modo come il catechismo è scritto, per l’autorità dalla quale procede, per i metodi di insegnamento in uso, per i fini politici ai quali mira, esso è essenzialmente antieducativo e ripugna alla concezione di una scuola pubblica nello stato laico.
Non ci nascondiamo che un insegnamento religioso, come quello da noi auspicato è reso estremamente difficile, in Italia, dall’atteggiamento politico della Chiesa cattolica; intendere e poter quindi- spiegare il cristianesimo nella freschezza originaria dei suoi motivi intimamente religiosi deve parere impossibile, sinché il cattolicismo che ne è la pratica storica, e il passato nel quale esso si imperia, si erigono a rivendicare la direzione di tutto l’uomo, si mescolano a tutta la vita politica e sociale della nazione per riconquistare il governo della società, si oppongono fondamentalmente a quei principi di libertà e di autonomia che sono il frutto più maturo della filosofia moderna e l’anima stessa delle istituzioni sociali. L’ombra del prete è più vasta della luce di Cristo; fra la servitù e la battaglia sembra non esservi via di mezzo; e dei maestri che non sono clericali appena poche diecine sarebbero capaci di parlare ai fanciulli con serenità d’animo dei miti e delle parabole evangeliche, del Dio che è padre di tutti gli uomini e del figlio di Maria. Solo oggi incomincia in pochi spiriti eletti, traverso alla filosofia idealistica, a farsi largo una più alta comprensione, scevra di odio e di servilismo, capace di guardare alla religione dalla altezza di un processo spirituale asceso alla libertà, e di guardarla con la simpatia con la quale si riveggono i valloni e le vette minori lentamente conquistate; e per questi maestri noi scriviamo, augurandoci che il loro numero cresca. E ad essi poco ostacolo opporranno i programmi; per ora, è meglio che lo Stato non se ne immischi.
Romolo Murri.
(La fine al prossimo numero: 8. La religione
nella scuola media. - 9. L’insegnamento
della religione nell’università].
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SOMMARIO: L’intuizionismo si sbilancia — Si ricomincia da capo — li «sentimento» resta — Un’alleanza col positivismo? — Quel che manca è l’Anima — E manca l'entusiasmo — L’intuizionismo episodio di grammatici della filosofia — La revisione del positivismo — L’Inconoscibile del di fuori e V Inconoscibile del di dentro — Positivismo e naturalismo-positivistico italiano — L'intuizionismo non à dato un filosofo italiano — In Italia non c’è filosofia senza filosofo — Kant ed Hegel — Una filosofia pura crede e crede neH’Anima — Il simbolo della róndine e del rondóne.
N questi ultimi venti anni la filosofia italiana à voluto prendere un aspetto di serietà neutrale e anche di neutralità seria tra lo scientifismo positivista e lo spiritualismo, tra il realismo e lo scetticismo.
Questa neutralità equidistante dalla concezione materialistica e da quella dell’anima individuale, pare debba equivalere ad una obbiettività. Debbo dire già: pare dovesse, perchè dinanzi al pericolo d’un’avanzata dell’anima tutta in armi per
un riconquisto assoluto, qualche non ultimo neoidealista e intuizionista à testé minacciato nientemeno che un ritorno al positivismo.
Non mi stupisco nient’affatto di questo sbilanciarsi un po’ eccessivo degli intuizionisti o neoidealisti nell’altalena tra quei due estremi o pretesi estremi. L'anima la pensano come pensiero che pensa o pensato da loro e quel loro che cos’è? Sarebbe forse il caso di rallegrarsi del po’ di sbaraglio a cui questo spavento spiritualistico li mette, i filosofi dell’intuizione e del neoidealismo. Essi sarebbero costretti a scendere in fondo a quel positivismo a cui incominciano a chiedere soccorso.
II. Il problema della realtà e cioè della conoscenza li à fatti nascere; il problema della realtà sarà lo scoglio contro cui urteranno.
Le realtà non essendo che un fenomeno per noi, è la realtà che non permette d’essere veduta più addentro, o’è il nostro pensiero che non sa andare più in là? Qualsiasi cosa vogliano dire questi disperati in sincerità e disperati dichiarati, o filosofi tranquilli a freddo, il problema resta lo stesso. Perchè il positivismo à fotografato benissimo la realtà obbiettiva (scienze fisiche) e la realtà subiettiva (scienze psicologiche). Cioè le cose sono dinanzi ài nostro pensiero come le si osservano e studiano
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__positivisticamente —, essendo dato l’io ed essendo dato l’obbietto; senza preoccuparsi di spingere questo subietto a capire se medesimo. Il problema resta quello che era. Per il positivismo non c’è il problema e quindi non c’è per la scienza. Dare ragione al positivismo con preoccupazione filosofica, vuol dire disporsi a ricominciare daccapo sempre.
III. Ora è tempo di dire che tutto questo intuizionismo e « neotatidealismo » e imitazioni, non è più che un dilettantismo, taumaturgia dei raffinati del linguaggio filosofico accademico dei tedeschi dall’80 in poi. quei famosi maneggiatori d’analisi filosofico-pura dai libri dei quali non si può trarre mai una conclusione.
Convengo che parecchi non se ne accorgono, di quei medesimi che ne fanno, ma un tale dilettantismo è un eclettismo, un saper il giuoco e non volerlo insegnare. Che cosa sostituisce insomma alla psicologia, a questa scienza di forme, ma di forme d’acciaio e d’óro e d’avorio e incrollabile?
M’à sempre fatto sorridere, e non ò taciuto la mia impressione, la maniera spiccia con cui il Croce se la sbriga col fatto sentimento o col fenomeno o con quel che si voglia dire il « sentimento ». Il sentimento non lo à inventato il positivismo di scarto e nemmeno quello serio, non il materialismo e non lo spiritualismo. Il sentimento è un errore, un’illusione? Meno o più dell’intuizione? Come va ricostruita la conoscenza del succedersi dei momenti dello spirito perchè si possa capire in che cosà consiste il concetto provvisorio del « sentimento »? Decisamente Croce non era uno psicologo prima d’essere un filosofo; come non era un creatore prima d’essere un critico, nè un sensitivo prima d’essere un intellettualista e un analitico.
A proposito del sentimento, sarebbe tempo per esempio che questi distruggitori di colpo del fatto o fenomeno sentimento sapessero e mostrassero di sapere a qual punto di finezza la psicologia e cioè l’interpretazione sistematica ed esperimentale dello spirito e cioè positivistica, è arrivata. James, Lange, Wundt, Sergi, Ribot ànno mostrato quanto pesi sul destino del problema medesimo della rappresentazione, dell’idea, dell'intelligenza, la spiegazione o almeno l’interpretazione del fatto sentimento. L'argomento à per Th. Ribot assunto un’importanza capitale e una tale proporzione, che la filosofia, quali pretese e tendenze abbia, non può far finta di non avvedersi delle analisi e delle conclusioni ribotiane. E in realtà nessuno à alcun diritto a pensarsi inauguratore d’un modo di pensare diverso e tanto meno nuovo a riguardo del sentimento. Se gli psicologi sono arrivati all’aberrazione dell’interpretazione fisiologica de) sentimento, fino a parlare di sede specifica del sentimento stesso ed a cercarla ed a credere d’avérla trovata nell’encefalo; la psicologia à anche talmente combattuto la concezione del sentimento da arrivare alla tesi della inesistenza e cioè alla dottrina per cui quel che si chiama sentimento non è niente di più del risultato sintetico, dell’azione più interessante e vigorosa che certe idee fanno sulla compagine della psiche. Il sentimento è un'idea alla quale la psiche cede nel contatto un’altra idea-apprezzamento, che è appunto quella che darebbe al sentimento medesimo il carattere sosì differenziale.
IV. La psicologia intellettualistica è un ben più serio ed efficace e maschio e sereno neoidealismo, che non il vuoto e canterino neoidealismo dei filosofi puri.
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La capacità rappresentativa della psiche esclusivamente del pensiero, intelligenza, intelletto, visione, è una maniera di concepire che lascia allo psicologo libertà a spaziare nel suo mondo filosofico.
Uno dei più celebrati di questi neoidealisti italiani (in realtà « much ado about nothing ») s’è preoccupato, non ricordo più bene dove, delle odierne riaffermazioni dell’esistenza precisa dell’anima — naturalmente io non ò alcuna parte in questo evento, £« va sans dire — ed à minacciato nientemeno che un ritorno al positivismo. Dal che si vede non essere straordinariamente solida la certezza neoidealistica di tutta questa filosofìssima gente soprattutto perchè il novello avvaloramento dato al positivismo, gli è dato come filosofia e da gente che la prima cosa che scrisse fu che il positivismo non è una filosofia. Dopo tanto eleusinismo è un po’ poverina la figura! Ma ne vedremo di più poverine, perchè non si tratta dal capo alla coda, o dal capo ai seguaci, che di grammatici. Sotto non c’è niente di filosofico.
Leggendo il Valore Supremo di Luigi Valli è impossibile non essere perseguiti durante tutta la lettura dalla domanda: Su quale garanzia si appoggia questo potere di attribuzione d'un valore, specialmente supremo? Perchè la diffidenza per la mente intesa come anima è patente nel Valli, a malgrado della sobrietà, della misura, della delicatezza, del garbo nell’espressione che si notano nella prosa del Valli. Su d’una visione incerta, su d’una esitazione si fonda un modo tutto personale di concepire questo lavoro spirituale ed etico d’attribuzione, di creazione di valori. Per questo neoidealismo e neoeticismo, lo spiritualismo è un sistema superato al modo istesso del materialismo, come se nello spiritualismo tutto fosse sistema e lo spiritualismo non contenesse quell’elemento, quel principio e quelle visioni i quali costituiscono l’essenza medesima della filosofia, perchè nessuna filosofia a noi potrebbe parere possibile se noi non fossimo convinti della capacità garantita del nostro pensiero di esser estraneo, esteriore a tutto e della sua ragione non fossimo ragionevolmente convinti.
V. Senza l’anima questo neoidealismo è chimerico e mostra già i sintomi del nulla che lo costituisce. Iniziato .per infatuazione, s’è tirato innanzi valendosi sino all’abuso del metodo della svalutazione di ogni sistema e di ogni dottrina. Finalmente viene tardi tardi tardi alle buone intenzioni di tornar sui propri passi, di mettere i puntini sopra i suoi i. Ma lo spiritualismo gli fa più paura del positivismo, perchè in realtà a tutti pareva che fosse implicato nei destini di quello e che non fosse altro fuori d’una passeggiata spiritualistica a grandi distanze. Ora ai nuovi accademici dell’antiaccademia (e quali accademici, gran Dio!) dispiace troppo che non si tenga conto della presunta autogena origine del neopuroidealismo. Non è vero che venga dallo spiritualismo.
Ma che! Il giuoco è. lo stesso di quello dell’antropologia criminale che non à mai riconosciuto la sua discendenza diretta dal materialismo fisiologico e clinico di Moreau de Tours, di Despine, di Morel, di Lucas, ecc. ecc.
VI. Non c’è alcun miglior positivismo per i neoidealisti che ammettere e credere all'anima entità individuale. Niente è più positivo di questo. E tutto dà a prevedere che veramente sia per venir l’èra nella quale le conquiste psicologiche speri-
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mentali positive del secolo decimonono verranno assunte o meglio assorbite dall'anima pura spirituale e spiritualistica. La filosofia avrà fatto tesoro della scienza a tutto beneficio dell’anima. La parola è vecchia, ma il significato, a quanto sembra, non è perituro.
La filosofia non regge a lungo vuotata d’una affermazione. Accade per lei quello che accade per le dottrine sociali: non reggono a lungo vuote dall’affermazione di razza, di storia, di popolo, di patria. Un bel giorno vi tornano come cani frustati che sono stati alla pioggia.
Su quella via il filosofare diventa un esercizio verbalistico che perde ogni senso. In Platone filosofia è regno dell’entusiasmo, d’un entusiasmo naturalmente diverso dagli altri. Lo è ancora in Kant; lo era in Bruno e in Tomaso. Se i pessimisti vanno accettati tra i filosofi, anche dei pessimisti si può dire che siano filosofi dotati d’un entusiasmo. Non c’è entusiasmo senza convincimento, senza partire da uh convincimento.
VII. Un libro di filosofia pura è oggi un libro che ostenta una suprema, una ben soventi sdegnosa neutralità a riguardo delle tendenze storiche tradizionali del pensiero. Dove abbia condotto l’esercizio di questa neutralità, lo si può vedere da quei libri di rigorosa impostazione critica nei quali si evita con cautela pili rigorosa di manifestare mai più la remota e tenue simpatia o affinità con una qualsiasi delle forme mentali generali, con uno qualsiasi dei sistemi d’interpretazione seguiti dalla maggioranza. I nuovi ed i nuovissimi scrittori di argomenti filosofici, per trovarsi al corrente ed all’altezza della filosofia pura e depurata, assumono una veste isidea e parlano un linguaggio da affiliati che abbiano giurato soprattutto di non essere accessibili che ai pochissimi.
Nella logica, la logica di tutti e la più convenzionale, voi trovate l’attitudine della filosofia di cui ci occupiamo. Per la logica non esiste la preoccupazione psicologica o meglio psicogenica. La mente che ragiona è un dato e tutta la sua attività si svolge senza che vi sia luogo a problema. Nella logica non c’è posto per il mistero. L'attività logica è intuizione pura e l’intuizionismo trasferisce dal linguaggio sistematico logico ad una filosofia generale le sue dispreoccupate guise di considerare per increate le attività intellettuali. Come i logici, gl’intuizionisti prendono un atteggiamento extrapsicologistico fin dal principio. Quel che manca in questa filosofia è una tradizione nostra. Ñon si riconnette a nessuna delle correnti naturali, dirò così, nell’insieme dei movimenti italiani. Si sente subito che è estranea, sovrapposta, un sistemismo che vuole spiegare la filosofia, un formalismo che vuole spiegare l’estetica, oltre la morale, un di fuori da tutto che la pretende ad interiorità senza il « compromesso » della metafisica, una cosa reale, quantunque fenomenica, senza il pericolo d’essere positivistica, un trattato degli assoluti che vuol restare assoluta-mente critico.
Vili. Non so se sia un progresso e sia stato considerato come un progresso, intendo il non mettere affatto sè stesso nella propria filosofia. Ora io mi domando se tra una filosofia personale ed una che manca di personalità sia campo a dubitare nella scelta. Sta un fatto, mi pare, ed è che ad un certo momento gl’impersonalisti
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della filosofia si decidano per una filosofia, cercando acquistare mediante questa decisione una personalità che nessuno riconosceva loro. Niente di più logico di ciò. Niente di più logico che ad un certo momento questo o quel neoidealista o intuizionista affermi una benevolenza per esempio per il positivismo. Un simile evento dice non soltanto il non senso di quei signori, ma raddoppia il non senso del positivismo, il quale, se quei signori sono sinceri, è veramente la dottrina capace di servire a tutti gli usi.
Il positivismo, che forse — e questa è una pagina di storia che bisogna ricostruire daccapo — è stato preso più sul serio come dottrina atta a servire ad una filosofia, in Italia che non nella stessa Inghilterra ed altrove, perchè in Francia à dato sopratutto la psicologia, ed uno psicologo, il Ribot, à compreso per il primo lucidissimamente positivismo e Schopenhauer — il positivismo, diciamo, è l’emanciparsi 0 meglio il tentativo d’emanciparsi dalla filosofia che la mente desiderosa di sapere à fatto nella seconda metà del secolo xix.
IX. I primi a sentire questo bisogno — ed è giusto riconoscere che il bisogno ci fu e fu proclamato in forma sufficiente a farlo intendere in tutta la sua importanza — furono dominati dall'idea che la filosofia in quanto metafisica avesse il destino di disccntrare il pensiero, di dissiparlo, di divagarlo senza la possibilità mai d’un punto fermo. Opinione ingenua: errore enorme. La filosofia à un centro che è io spirito medesimo, e se lo spirito è solidamente piantato in sè, le sue espansioni sono non divagazioni, ma conquiste. Lo spirito divaga quando manca della certezza di sè e della certezza in conseguenza delle proprie manifestazioni. Non bisogna che si cerchi fuori, nella forma. Invece deve crearsi fuori il proprio territorio di conquista. Il positivismo è sorto da un indebolirsi generale della metafisica, la quale s’era venuta davvero tramutando in una divagazione, organismo frollo, tra eclettico e razionalistico che chiedeva ad ogni piè sospinto il permesso di pronunciare il nome d’anima, nè si sa come potesse ancora trascinare seco quel resto d’unità pura e ben distinta — si capisce — dal modo col quale la considerava la religione e chiedeva perdono del dover parlare ancora d’un divino, ma d’un divino, intendiamoci bene, che è qui tra noi, tra cosa e cosa, tra uomo ed uomo, e niente affatto sopra o attorno, in un punto, eccetera, eccetera, come dicevano i metafisici affetti dal malore pregiu-dizialistico del divino.
X. Da quella metafisica là, timorosa di affermare un principio vigorosamente e con pienezza, non dico mica facessero male a cercare di purificarsi ed a voler purificare gli altri, i primi positivisti. Ma, per il molto che quei primi ebbero da fare, e per il molte cammino che i subiti discepoli fortunatissimi fecero fare alla dottrina fertile di trionfo, si dimenticò che mettere da parte l’inconoscibile del di fuori (è curioso questo modo d’aver sentito il Mistero, o Dio, o l’inconoscibile come una cosa esteriore dei positivisti con alla testa Spencer, il più onesto, il più chiaro e per me il più simpatico!) e cioè la ragione d’essere della filosofia ed insieme la questione dell’io (muniti del quale i positivisti, al pari di questi nostri ineffabili neoidealisti e intuizionisti, anno cominciato a gittare i principi del positivismo) non voleva af-
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fatto dire autorizzare il positivismo a dichiararsi occupatole di tutto il terreno della realtà. La realtà essenziale è per ciascuno di noi sè stesso e l’altra realtà, l'esteriore l’obbiettiva, le realtà dei positivisti, non può trovare la sua garanzia che dal sentirsi attaccata, dipendente, derivante, immediatamente figliata da quella prima. Per poco che un positivista guardi ai due termini dell’osservazione, o dell'indagine, egli, indagatore perenne, mi darà ragione. Altrimenti chi fa della scienza, sa di fare un giuoco, sa d’ingannarsi perchè la prima cosa alla quale nega esistenza assoluta e indiscutibile è quell’io che pensa e ragiona e analizza e fa del positivismo.
XI. Che il positivismo sia nato in piena buona fede, non è a noi che verranno a cercare di persuaderlo questi nuovi filosofi puri. Veniamo ben di là, e del positivismo abbiamo vissuto e, diciamolo, con entusiasmo, la vita. Che il positivismo sia il quadro organico delle scienze contemporanee, nessun dubbio, e nessun dubbio che ne sia l’articolazione. Ma che vada a riparare in seno al positivismo, per darsi una sua nuova ragione e garanzia, l'intuizionismo puro, in nome di chi sa quale nuova pretesa contro la schietta e coraggiosa affermazione dell’inevitabile « rinascita dell’anima », è semplicemente ridicolo. A meno che non sia l’ammalato che ricorra alle cure urgenti del clinico. In questo caso, siccome il positivista è clinico eccellente, la scelta è eccellente ed il gesto opportuno, anzi necessario. Sinché, vedremo tra breve l’intuizionismo, questo iperdisseccamento puro della logica, preso tra la riaffermata gioiosa religiosa esistenza dell’anima personale e il positivismo. — Non si sa poi quale, perchè come formulazione il positivismo ne à parecchio nè sono troppo facili a sbrogliarsi. Questa operazione è sempre stata angosciosa per l’eccellente vegliardo Ardigò, pontefice massimo di uno dei tanti positivismi europei ed italiani, laddove se un principe del naturalismo-positivistico italiano avesse da proclamarsi non sarebbe l'Ardigò, ma Enrico Caporali. —
XII. Che ci sia un filosofo tra questi discettatori già saliti qua e là in lor purezza agli onori ed ai profitti dell’uni versitarismo — dico un filosofo italiano, nego. Bisogna ignorare completamente i corsi critici e demolitori che Antonio Labriola tenne in vari periodi all’Università di Roma. La vera battaglia contro le pretese filosofiche del positivismo, contro Erberto Spencer « colosso della mediocrità » in filosofia, è stata data una volta per sempre da Antonio Labriola. Se di queste vittorie non resta traccie ne’ suoi libri — non c’è persona che non ne sappia un poco e non me n’abbia cento volte chiesto — altro non resta che chiederne conto ai soldati della Guardia, pochi ma in gambe ancora e per qualche tempo.
Dicevamo dunque che non c’è un filosofo. C’erano finti tonti apparentemente senza orgogli nè intenzioni, che poi si sono rivelati voraci di popolarità e di egemonia editoriale e rivistaia così da dare dei punti ai tanto bestemmiati istrioni del positivismo a quattro al soldo di ieri, gente, del resto, capace, come si vede ormai, di pentirsi del mal fatto e punirsi da se stessa umiliandosi col darsi a qualsiasi mestiere pur di farsi perdonare. E perdonati siano!
C’erano ragazzi d’ingegno prunosi, spinosi, irosi, pelosi, a dottrina ebdomadaria e religione mensile e snobismo — essi antisnobisti! — bimensile, dispia-
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centi dell’avere scritto l’articolo appena in macchina, sorpresi da un turbine di tenerezza per la medesima vittima loro appena tirata la''prima copia del giornale o del libro; ragazzi, d’ingegno capaci di tutto anche d'avere un gesto eroico e un istante di genio, ragazzi uno dei quali se vivrà farà cose grandi per tutto il mondo e sinora non ce ne à dato che un desiderio insostenibile — ragazzi che anno fatto dell’intuizionismo, come altri fanno della ginnastica o del vizio o non so che altro, e l’ànno fatto meglio dei maestri — chi è che non è convinto della superiorità smisurata della mente di Giovanni Papini su quelle di Croce? Croce non à un libro che possa essere paragonato a certi articoli di filosofia del Papini. Papini sta a Croce, come d’Annunzio sta a Carducci. Gli ipocriti solo o gli accademici della nuova accademia possono smentirmi. Ci tengo a far sapere che io non ò mai ricevuto nè lodi nè considerazioni, nè plausi... nè citazioni dall’uno o dall’altro.
XIII. Ma l’Animadi Papini che cos’era? Non certamente l’anima che esiste e vive e sente e sè in sè rigira. Vedete quanto danno ànno fatto agl’Italiani le derivazioni di ogni dottrina e sistema e scuole d’altri paesi! In Italia il materialismo preso a Moleschott, Fechner, Buchner è servito a fare dell’antichiesa cattolica; il positivismo a fare della politica. Ugualmente quello spiritualismo seguito soltanto dai clericali e diventato utensile di lotta politica, non à potuto mai acquistare nobiltà e bellezza di fede individuale. Il positivismo in Italia non è permeativo nè sincero; perchè l’Italia è la patria del naturalismo. Il materialismo è assurdo in una storia in cui la vita è stata alzata dal pensiero ad opere come quelle di Dante, di Michelan-giolo, di Tomaso d'Aquino, di Caterina, di Francesco. Così un saputo spiritualistico a fregi e decorazioni eguali per tutti — quello cattolico-dogmatico — non à dato spiriti magni che laddove c’era margine per la manifestazione creativa personale. Cito il medesimo Aquinate e da Anseimo d’Aosta in giù i nostri maggiori teologi e dogmatici.
Appena diventa sistema, il senso naturalistico e ricorre all’argomentazione dottrinale, cessa d’essere italiano. Buchner era impossibile in Italia, dove del resto è stato impossibile Malebranche e il nostro più vasto e profondo e sincero metafisico dopo l’Aquinate, Bruno, non è materialista e tra monista e panteista, ma più gonfio d’anima che di materia certo.
XIV. In fondo questa gente nuova colta è per essere disillusa. Anche se avesse detto una parola nuova, questa parola non la soddisfa. E allora? Perchè si à un bel dire; ma i filosofi tedeschi: cito Kant ed Hegel e cioè i due più influenti filosofi moderni, e i due veramente geniali, se possono apparire ad alcuni come chiusi nel cielo puro extrastorico dell’ indagine dell’assoluto, dell’ essenziale filosofico, sono invece due uomini e lo sono sempre più — perchè quel che resta di Kant è più di quel che resterà dei neoidealisti che nulla gli ànno aggiunto, e quel che resta di Hegel è più di quello, possiamo sommarlo sinora, che possa far restare il Croce — eversori di idoli e fabbricatori della nuova città. Sotto due diverse forme ànno ambedue il loro elemento divino, nell’etica il primo, nella storia il secondo, Vimperativo e il divenire, fato spirituale che tiene il mondo delle cose subordinato ai suoi fini e nel movimento spiri-
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tualizza la realtà e le fa vivere la partecipazione all’assoluto pur in ogni minimo atto della contingenza. Kant ed Hegel ànno il fremito e il tremito, più di Rosmini cattolico e di qualche suo piccolo sproposito, più di Ausonio Franchi diventato Fra Bona-vino a malgrado del sè di ieri e di quello di domani. Il primo è la rivoluzione della coscienza morale nella conoscenza, il gesto estremo della riforma del campo della sincerità filosofica, nel periodo in cui la demagogia si prepara [al positivismo. Il secondo, quasi prevedendo l’indifferentismo umano del positivismo, prepara le vie ad ogni dottrina sociale, padre d'ogni eccesso, d’ogni ira e conservatore della libertà di pensiero filosofica contro le germinanti pretese dello zoologismo accademico degli evoluzionisti.
L’assoluto spirituale, l’assoluto creduto e universalizzato, la spiritualità immensa che colma tutto l’interno della loro concezione, la purità filosofica, un principio di esistenza infinita e individuale realizzata nella individuale ragione — questo resta di Kant e di Hegel. E i sofismi dei critici in ritardo sono inutili.
XV. Le simpatie che il positivismo si guadagnò sono appunto dovute a quelle che io ò chiamato e chiamo la sua massima conquista ed in fondo la sua vittoria: la psicologia, la psicologia come scienza d’indagini non turbata almeno pregiudizialmente dalla preoccupazione filosofica dell’anima. Qui il positivismo à mantenuto fede al suo programma: positivisti sono psicologi e tutti gli psicologi moderni e contemporanei ànno trovato nell’equilibrio positivistico un sostegno, una guida, una norma che non avrebbero trovato altrove. La psicologia che descrive i fenomeni dello spirito nei loro rapporti con le condizioni funzionali, l’à data.
Ma questo intuizionismo, che esita tra uno spiritualismo evaporato ed uno schedario logico e fa della estetica come i positivisti facevano della gnoseologia, attaccando delle schede, che cosa ci vuol dare? Una filosofia pura senz’anima? Una visione della realtà contingente non positivistica? Non materia, non spirito, non sentimento, non psiche: che cosa? Agli artisti fa paura, alle nature letterate stupore, ai sentimentali orrore, ai metafisici infonde disillusione, agli uomini di scienza naturale fa dire: Che diamine dunque volete con ciò?
È giusto insomma scrivere che s’è fabbricato un altro ordine di genti serie che produce la propria merce e questa non à da essere nè filosofia al modo metafisico nè scienza alla maniera positivistica, nè arte, nè letteratura, ma sopratutto niente affatto religione e quindi in ultima conclusione.non anima. E allora si chiede quale sia l’idea nuova che ànno gittate nella zolla o sono per gittare gli autori molto filosofi di cui abbiamo fatto parola. Una filosofia fuori d’una fede fonda e d’un gusto preciso e d’un convincimento vigoroso, che non susciti simpatie e non soddisfi, che cosa mai vorrà ella essere?
Perchè oggi accade che l’estraneità al gusto ed ¿alla sostanza letteraria, a mò d’esempio, non tolga che il tale o il tale altro si faccia critico o magari esteta. C’è dentro a questi filosofi puri l’incapacità ad affrontare l’Essere, forse la paura di avvicinarlo, il cuore che comincia a tumultuare quando spunti appena un brivido della curiosità dell’esser vivi. Sono intelligenze grafiche. Nessuno quanto il Croce à staccato la vita dalla letteratura e la letteratura dal « discorso » critico o estetico. Ed egli con
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gli altri suoi puri confratelli in intuizionismo, chiamano romantica l'immediatezza della percezione dell’anima di quel che per lei esiste fuori, le stelle, il mare, il piccolo astro che ruota e si porta dolori ed amori, la luce che torna, la convulsione del globo che segue sua via e quel disparire in un sonno, ogni notte, ogni vita. In breve lo scettro della filosofia à da essere sfondato d’ogni lirismo, d’ogni cordialità, d’ogni ira, d’ogni appassionamento, d’ogni inquietudine. E la sola inquietudine intuitiva, la sola intuizione inquieta è forse veramente filosofica!
La conclusione è una umile naturale constatazione. Spiriti vivono che sono come la róndine. Ella può posarsi sul ramo, sul filo telegrafico, sulla cima del tetto. Spiriti vivono che sono come il rondóne. Non è dato loro posarsi e stare diritti su di sé stessi, ma debbono aggrapparsi alia grondaia e cioè presso al nido e per ispiccare il volo bisogna si rotolino sino al limite del tetto. Róndine e rondóne, così prossimi parenti! Ma la parentela non accomuna in alcun modo il volo lieto della rondine con quello disperato del rondóne. È la róndine che fa quel volo, non quel volo che fa quella róndine. La róndine non à bisogno d’averé grosse unghie come il rondóne per la presa. Il rondóne è schiavo della sua incapacità a star dritto e, una volta fermo, voi Io vedete prostrato in atto d’iroso spavento o d’abbattimento oscuro.
Nasce da sè la certezza dell’anima e si sviluppa capace di molto ascendere e di molto spaziare, di fermarsi e di prendere il volo da qualsiasi punto del basso e dell’alto. Le basta il suo snello sorreggersi sopra il filo ehe vibra nell’aria e nel sole. Il suo volo non è una liberazione e di nessuno sforzo à bisogno per essere tutto quello ch’ella può essere.
La filosofia, questa evidenza dell'Anima individua, non è attinta da alcuno sforzo erudito, da alcun tortuoso artificio logico. Il rondóne muore rondóne. E la róndine lieta libera leggera, fatta di grazia, continuerà il suo volo immortale e il suo canto breve e gentile dalla cima dell’Essere.
Paolo Orano.
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L’OPERA DI GIOVANNI WEISS
Gli studi neotestamentari hanno avuto in Germania, in meno d’u'n anno, due rilevanti perdite.
Da prima, la morte tragica del prof. Von Soden dell’università di Berlino che aveva da poco portato a termine il lavoro monumentale: Die Schriften des Neuen Testaments in ihrer ältesten erreichbaren Texlgestalt il quale, pur non andando esente da serie critiche, segna un reale progresso nella classificazione dei nostri manoscritti neotestamentari e nella storia del testo del Nuovo Testamento. Recentemente, poi, il 24 agosto, dopo una lunga malattia, la morte del prof. Giovanni Weiss, del-l’Università di Heidelberg. Con il Wrede e lo Schweitzer, egli è stato in Germania un ardito rinnovatore nel campo della scienza neotestamentaria. Figlio di Bernardo Weiss, professore fino a poco tempo fa nell’università di Berlino, egli s’era allontanato ben presto dalla tendenza « positiva », di cui il padre è stato uno dei rappresentanti più autorevoli in Germania. Continuando nobilmente la tradizione paterna nel campo del problema sinottico, egli ha mostrato, con una riprova di fatto significantissima, la superiorità e la ricchezza della nuova critica sulla critica strettamente letteraria a cui s’era ispirata l'opera del padre. Egli ha mostrato l'efficacia dell’autonomia dei problemi letterari e storici del Nuovo Testamento dai postulati e dalle creazioni della teologia. In un libretto, riproduzione d’una conferenza, (Il compito della scienza neotestamentaria nell’età nostra, 1908) ha tratteggiato il ritratto ideale dello studioso neotestamentario di domani, al quale, con un nobile sforzo e con perenne entusiasmo, egli s’è accostato col suo lungo lavoro di scienziato.
Egli era nato a Kiel nel 1863 ed aveva insegnato, prima che in quella d’Heidel-berg, nell’ Università di Magdburg. Fra le sue principali pubblicazioni, ricorderemo: uno studio critico sull’epistola di Barnaba, del 1888, col quale inaugurò la sua carriera scientifica; i suoi geniali commentari su alcuni libri del Nuovo Testamento: quello del vangelo di Luca (1892); degli Atti degli Apostoli (1897); dell’Apocalisse (1904); della I Epistola ai Corinti (1910) ed il celebre lavoro sul vangelo di Marco (Das allste Evangelium, 1903): in tutti fu sua cura costante ricercare la vera fisonomía letteraria particolare a ciascuno degli scritti della collezione neotestamentaria col confronto delle forme letterarie della letteratura greca contemporanea, specialmente di quella di carattere popolare. Ampliando le ricerche iniziali del Norden sulla prosa d’arte nell’antichità classica (Die antike Kunstprosa) volle ricercare, forse
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un po’ troppo acutamente, le varie forme di ritmo retorico nelle epistole paoline, il cui carattere oratorio è troppo evidente, in un’opera voluminosa Beiträge zur pati-linischen Rectorik (1900).
Ricordiamo altresì come egli fu uno dei più tenaci assertori dell’importanza centrale della predicazione messianica del Regno nel ministero profetico di Gesù. Nell’opera Die Predigt lesa vom Reiche Gottes egli espose sistematicamente i risultati delle sue ricerche su questo punto. In un altro esaminò anche le vicende dell’idea del Regno di Dio e la sua importanza nella teologia; Idee d. Reiches Gottes in der Theologie (1900).
Nel campo poi più costruttivo della teologia neotestamentaria e della storia delle origini cristiane, a cui s’era particolarmente dedicato in questi ultimi anni, egli ha pubblicato: nel 1909, Christus, Die Anfänge des Dogmas e Paulus und lesus; nel 1910, lesus im Glauben des Urchristentums e, finalmente, nel 1913 il primo volume d’una vasta opera sintetica, pur troppo restata incompiuta, sul cristianesimo primitivo, Das Urchristentum, in tre libri, di cui il primo è dedicato allo studio della comunità primitiva, il 20, a quello della missione ai pagani e di Paolo il missionario, il 3°, a Paolo come cristiano e come teologo. L’opera cominciata, doveva, secondo l’intenzione dell'autore, rappresentare come la seconda parte d’un più vasto tema: Gesù e il cristianesimo primitivo, come due entità storiche che non possono critica-mente scindersi. La prima parte doveva contenere prima l’esame delle idee religiose del mondo contemporaneo e del giudaismo, entro la cui atmosfera si sviluppò la predicazione cristiana primitiva, e poi un’esposizione della vita e della predicazione messianica di Gesù.
Sebbene il G. Weiss fosse un convinto assertore della Religionsgeschichtliche Schule. pure tutto il suo sforzo di studioso fu inteso a cogliere il motivo religioso particolare e fondamentale che era insito nella primitiva predicazione cristiana e che preparò, pur attraverso l’evoluzione della Chiesa, il trionfo indiscutibile del cristianesimo nell’impero. Questa sua attitudine, così ricca di senso del reale e di moderazione teoretica, lo portò nel 1910 ad opporsi con altri teologi liberali tedeschi alle seducenti e sofistiche conclusioni sul carattere mitico della vita di Gesù, del Drews e dello Jensen i quali avevano portato i metodi comparativi della storia delle religioni alle loro estreme ed assurde conseguenze.
Collaborò a quel fortunato tentativo di diffondere la conoscenza del Nuovo Testamento e dei suoi problemi letterari e storici fra le persone colte in una traduzione tutta moderna, accompagnata da succose introduzioni, che è l’opera in due volumi: Die Schriften des Neuen Testaments, neu übersetzt, edita dal Vandenhoeck e Ruprecht di Gottinga.
Fu redattore ordinario per molti anni della Theologische Rundschau, dove s’occupò della rivista periodica delle pubblicazioni neotestamentarie. Ivi, da quel vero specialista del problema sinottico qual’era, ebbe occasione di giudicare assai severamente l’invasione rumorosa, dagli studi di antica letteratura cristiana, del campo della critica neotestamentaria da parte dell’Harnack.
Ultimamente, dopo la morte di H. Holtzmann, redigeva le cronache neotestamentarie Archiv für Religionsgeschichte. M ario Rossi
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I MITI BABILONESI
E LE ORIGINI DELLA GNOSI
Studi moderni sulla Gnosi.
li antichi scrittori ecclesiastici han tramandato delle sètte gnostiche, di cui furono contemporanei, descrizioni che presentano la gnosi nella luce più sfavorevole. La teologia degli gnostici non parve ad essi, in genere, che un tentativo assurdo di mescolare e confondere la mitologia e la filosofia dei gentili con la pura dottrina tradizionale. I più celebri ed autorevoli creatori di una gnosi cristiana, quali un Basilide e un Valentino, sdegnosamente furono accusati d’essersi lasciati
abbagliare dal falso splendore, dicevano, della filosofia di Platone, e di avere voluto al pensiero del gentilesimo subordinare la fede redentrice nel Cristo. E indugiavansi a ritrarre le conseguenze pessime di così cattivi principi nella vita corrotta e perfino in certi osceni riti di cui le sètte gnostiche, nelle segrete loro conventicole, si sarebbero rese colpevoli. Gli gnostici che pure presumevano di parlare anch’essi in nome d’una tradizione ecclesiastica ed anzi apostolica, e facevansi forti soprattutto delle Lettere di Paolo e del Quarto vangelo, erano denunziati energicamente per corrompitori diabolici della divina verità cristiana. E malgrado la vasta diffusione, in tutta la chiesa, di scuole, sètte, chiese gnostiche, il moto religioso della gnosi era considerato come un fatto di nessun valore intrinseco per la vita ecclesiastica e quindi per la storia del cristianesimo. La tendenza a vedere nella gnosi soltanto una improvvisa fioritura, fra il primo e il terzo secolo, di fantasie mitologiche e semifilosofiche cristianeggianti, ed a considerare lo gnosticismo un episodio trascurabile nella storia della chiesa antica, attraverso il medio evo è penetrata nelle ulteriori concezioni storiche del cristianesimo, e fin oggi quasi predomina in autorevoli opere divulgative di storia ecclesiastica (1). Ma il rinnovamento compiuto, durante il secolo decimonono, nel
,(*) Ved. peres. L. Duchesne, Histoire ancienne de ? Église (Paris, 1907), vol. I ; H. Ac helis, Das Christentum in den ersten drei Jahrhunderten (Leipzig, 1912), vol. I.
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campo delle scienze religiose, poco a poco riuscì a modificare vie più le opinioni correnti, e ad avviare intorno all’importante problema sempre più accurati gli studi e proficue le discussioni. E un gran merito anche in ciò va tributato a quel grande rinnovatore dell’antica storia cristiana, che fu Ferdinando Baur; il quale, dopo i lavori d’altri studiosi ragguardevoli, come il Neander, mise luminosamente in rilievo l’alto ingegno e il valore dell’opera di quei primi filosofi e teologi del cristianesimo, che furono i grandi gnostici. Eppure, anche il Baur non riuscì a liberarsi del tutto dal pregiudizio antico di voler misurare l'importanza storica e scientifica delle scuole e sètte gnostiche, a norma delle pagine appassionate che sulla teologia e la vita privata degli gnostici avevano trasmesso i più antichi scrittori della Chiesa. Lo gnosticismo intero, nelle molte e svariate espressioni de’ suoi sistemi teologici, fu insomma considerato poco men che follia di gente in vena di speculare sull’assurdo; e tale è pure il giudizio che in sostanza ce ne offre Ernesto Renan nelle sue classiche « Origini del cristianesimo > (i).
L’intrinseca importanza del movimento gnostico risultò tuttavìa sempre meglio dai lavori che intorno alla gnosi quindi furono pubblicati dal Lipsius, dal King, dal Mansel, soprattutto dall’ Hilgenfeld, il quale si adoperò con amorosa pazienza a ricostruire dalle varie citazioni dei padri ecclesiastici i frammenti della migliore letteratura gnostica perduta. Ma chi presentò, si può dire, in una luce nuova, pur dopo gli studi oramai di numerosi predecessori, il valore della gnosi e degli gnostici, qual fattore decisivo di sviluppo teologico e rituale nella Chiesa antica, fu Adolfo Harnack, che nel primo volume della celebre sua Storia dei dogmi (1885) dimostrò lo gnosticismo non essere che il resultato del solenne incontro, verso il principio del secondo secolo, della fede cristiana, fin allora più o meno vissuta nel ristretto ambito del giudaismo, con l’ellenismo e pertanto con la mondiale civiltà pagana. Lo gnosticismo fu l’inevitabile frutto della espansione cristiana in mezzo ai gentili, i quali o non volevano sapere di giudaismo, o del giudaismo accettavano tutt'al più le dottrine confacenti in alcun modo al loro spirito. Fatti cristiani i gentili portavan nella Chiesa la loro mentalità ellenistica, insieme filosofica e religiosa, conscia della propria virtù, e cercavano di rendersi intelligibile la nuova fede, ancora molto indeterminata, elaborandola in forma di sistemi teologici, più o meno alieni affatto dai principi del giudaismo, che loro interessava assai mediocremente, se pure non ne erano decisi avversari. Nonché essere speculatori amanti dell’assurdo, i grandi gnostici anzi per primi posero arditamente la Chiesa sopra la via della scienza e della civiltà contemporanea. Era lo gnosticismo, dice l’Harnack, la « akute Verwel-tlichung » o « Hellenisierung » dei cristianesimo antico, la quale perciò appunto costituiva per esso una urgente minaccia di dissolverlo nel gentilesimo contemporaneo e di farlo perire di poi con la cadente civiltà pagana. Le autorità della
(1) F. C. Baur, Die christliche Gnosis (Tübingen, 1835); E. Renan, Marc-Aurèle (Paris, 18S2), cap. VII segg. — Ved. in genere, per la bibliografia degli studi moderni sulla Gnosi, Bousset in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie, VII, 1532 seg., 1546 seg.; G. Krueger in Herzog-Hauck, Realcncyklopädie, vol. VI (1899), pag. 728; Liechtenhan in Religion in Gesch. und Gegentu., vol. II (1910), col. i486.
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I MITI BABILONESI E LE ORIGINI DELLA GNOSI
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Chiesa ben videro il pericolo e corsero ai ripari. E mentre la costituzione dei canone del Nuovo Testamento e del l’episcopato monarchico in tutta la Chiesa v’ instaurava più rigida la disciplina del dogma, del clero e dei riti ; i più dotti presbiteri ed episcopi presero a denunziare, innanzi ai fedeli, le assurdità delle scuole e i traviamenti delle sètte gnostiche. Essi furono pertanto, di necessità, i primi istitutori autorizzati, ma provvisori, d’una ortodossa teologia cristiana; finché, volto il secondo nel secolo terze, il sommo Origene, che a buon diritto può considerarsi discepolo dei grandi gnostici alessandrini, da Valentino a Clemente, armonizzando il pensiero sublime della gnosi con i diritti della tradizione scritturale ed ecclesiastica, creò per la virtù di una sintesi Superiore la teologia cristiana, e vuotando così lo gnosticismo della sua migliore sostanza a favor della Chiesa reselo inutile e caduco.
» * *
Fu mosso rimprovero all'Harnack di aver troppo sedotto gli studiosi con la sua bella ricostruzione storica della gnosi cristiana, e di avere perciò, se non impedita, ritardata la ricerca dei fondamentali caratteri della gnosi in rapporto con le antiche religioni orientali. Infatti non a torto, sembra a noi, la rappresentazione dell’Harnack è reputata unilaterale; soprattutto perch’ei vede nella gnosi più che altro il portato specifico dello spirito filosofico greco, o meglio ellenistico, formatosi durante i primi secoli, ai confini od entro l’ambito del cristianesimo; mentre invéce la gnosi per essenza non è filosofia, magari platonica, non vuol essere una penosa conquista razionale dell’ intelletto umano, ma bensì rivelazione del vero, per la redenzione dell'anima, apportata dalla divinità, che è quanto dire una teologia la quale nelle idee direttive, còme negli elementi sistematici, mostra la sua ragion d’essere dalle vecchie teologie dell'Oriente. Bisogna dire, in realtà, che l’Harnack ha mostrato un riserbo, quasi una diffidenza eccessiva, circa le attinenze di origine che manifestamente la gnosi ha con le precedenti religioni dell'Asia, più assai che col pensiero greco, a cui si ricongiunge sovente per rapporti solamente esteriori e di mero linguaggio; mentre i motivi di confronto tra la gnosi e le antiche religioni orientali appariscono ogni dì più meritevoli di studio. Già, dopo i primi accenni del Mosheim, lo stesso Baur, che conosceva a fondo il manicheismo, si era dato a rintracciare le origini lontane e i fondamenti della gnosi fra le religioni dell’Asia, specialmente nel parsismo derivato dal profeta Zoroastro e fin nei sistemi filosofici del Samkhia, che nell'india annunziarono un dì la Comparsa del buddismo. E su questa via della scienza delle religioni, comparate lo avevano séguito il Lipsius, che ravvicinava la gnosi alle contemporanee religioni di Fenicia e di Siria, e quindi l’Hilgenfeld Che approfondiva io studio dei rapporti fra la gnosi ed il parsismo.
Ma frattanto che il progredire continuo della scienza delle religioni incitava gli studiosi ad allargare i motivi di ricerca delle origini della gnosi in Oriente, un campo di osservazione affatto nuovo e inesplorato, che pareva promettere i più fecondi risultati, si aprì con la dimostrazione e la incipiente sintesi dei molti materiali di studio che da decenni ormai gli assiriologi andavano accumulando su l’antichissima civiltà religiosa della Babilonia e dell’Assiria. Il primo a richiamò]
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mare l’attenzione dei dotti sui rapporti intercedenti fra la teologia della gnosi e quella babilonese fu il Kessler nel quinto Congresso degli orientalisti a Berlino ; ma fu poi l'Anz che in un lavoro notevole sulle origini dello gnosticismo riconobbe e cercò di dimostrare la derivazione prettamente babilonese della stessa dottrina centrale e dei sistemi teologici della gnosi. Lo Schmidt e il Liechtenhan dal canto loro frattanto opponevano validi argomenti al vecchio pregiudizio, derivato dai padri della Chiesa, che la gnosi altro non fosse che un tardo frutto della speculazione filosofica dei Greci degenerati; e lo studio del-l’Anz invogliava ad entrare in argomento il Bousset, la cui scienza del tardo giudaismo e delle religioni contemporanee dell’Asia è ben nota. Frutto di dieci anni di riflessione, il Bousset pubblicava in proposito un libro, nel quale i principali problemi della gnosi erano sviscerati nei loro elementi costitutivi, e, tracciatone lo svolgimento storico, ne veniva ricercata l’origine orientale alla luce delle vecchie religioni semitiche, dalla Siria alla Babilonia, e indoiraniche, dal parsismo al brahmanesimo, e fino alle tarde propaggini del manicheismo e della religione dei Mandei, de’ Sabei (i).
Dopo tutto, le conclusioni del Bousset risultano diverse non solo, ma opposte a quelle che, per merito dell’ Harnack, prevalevano fra gli studiosi. Il dotto professore dell'Università di Gottinga ha creduto innanzi tutto di poter affermare, come frutto di un rinnovato esame dei frammenti a noi pervenuti della letteratura gnostica, che in tutto il movimento religioso della gnosi, dalle più umili forme della pietà popolare ai sistemi teologici e al pensiero dei più insigni promotori di una gnosi cristiana, manifestasi tale povertà e fiacchezza di idee, cosi grave la cura di ricalcare le orme di un passato già morto, da dover affatto escludere che gli stessi grandi gnostici meritino di venire considerati quei geniali iniziatori della scienza teologica in seno al cristianesimo, quei precursori del futuro, a cui non risparmiarono già il Baur e il Renan, ed ora più che mai l’Harnack, la loro ammirazione. Circa di che, dobbiamo sinceramente subito osservare che non possiamo seguire in questo giudizio il Bousset; il quale del resto esamina la teologia della gnosi senza toccare mai le idee profonde da cui traggon motivo e ragion d’essere i sistemi particolari dello gnosticismo cristiano ; nè riesce a discutere veramente la sua importanza specifica nella storia del cristianesimo. Il Bousset si fa forte, a tale riguardo, dell'opinione espressa circa la gnosi dal Gruppe nel suo ben noto manuale di religione e mitologia greca, in cui mette in rilievo la provenienza orientale e il carattere volgare della gnosi e de’ suoi promotori e fautori. Ma, nel vasto complesso del movimento gnostico, certo ambedue si sono lasciati guidar troppo dalle affermazioni interessate degli scrittori ecclesiastici, e si sono troppo indugiati a pesare il contenuto di libri destinati a soddisfare la devozione volgare, come quell’attraente e pure insopportabile Pistìs Sophia. Chi rilegge invece, sia pure nelle scarse citazioni dei padri della Chiesa, le nobili espressioni di pensiero e di pietà cristiana, se pure gnostica, pervenuteci dagli iniziatori della scienza teologica nel secolo secondo,
(i) W. Anz, Zur Frage nach dem Ursprung des Gnostizismus in Texte und Unters. (Leipzig, 1S97), Vol. V, 4; G. Schmidt, Plotins Stellung zum Gnostidsmus in Texte und. Unters. (1901), Vol. XX, 4; W. Bousset, Hauptprobleme der Gnosis (Göttingen, 1907).
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allorché non esisteva, si noti, alcuna teologia, nè specialmente alcuna filosofia cristiana; chi ripensa la profonda efficacia che l’insegnamento gnostico ebbe su l'educazione e su l’opera di Clemente Alessandrino e di Origene, ha da concludere, diciamo noi, che il cristianesimo deve ai primi dottori alessandrini della gnosi, per esempio a Valentino, il principio informativo della sua concezione scientifica dell’universo.
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Ma questo lato debole dell’opera del Bousset non diminuisce il valore che essa mantiene del resto come dimostrazione, per qualche verso definitiva, delle molte attinenze di origine che la gnosi ha con le più varie religioni orientali, dalla Fenicia all’ India compenetratesi insieme nei secoli prossimamente anteriori e seguenti al cristianesimo. Eppure, con tutto ciò, quanto siamo ancora lontani dall’aver indirizzato gli studi sulla gnosi verso conclusioni accettabili comune mente fra i dotti! Poiché, mentre pareva che il Bousset fosse riuscito almeno a far accogliere, come acquisite alla scienza, le sue teorie concernenti l'origine orientale della gnosi, rinnovandone là sintesi dimostrativa Enciclopedia Pauly-Wissowa per l’antichità classica, è apparso il nuovo libro sugli gnostici e lo gnosticismo di Eugenio De Faye, che riporta nuovamente gli studi circa la gnosi sulle linee direttive già segnate daH’Harnack e dal Renan (1).
Il De Faye è un ben noto cultore di storia dello gnosticismo, a cui ha dedicato gran parte della sua riflessione scientifica. Ma, persuaso che noi non possediamo ancora gli elementi da cui trarre una salda conoscenza dei principi e dello sviluppo della gnosi cristiana, egli intende perciò col suo lavoro di con-. tribuiré a quell’opera preparatoria di critica e di ordinamento dei materiali, necessaria innanzi tutto allo storico futuro della gnosi. Il libro intero è dedicato all’esame delle testimonianze dirette e indirette che l’antichità ci ha tramandato sugli gnostici e sullo gnosticismo; e primi vengon discussi i frammenti dei teologi gnostici del secolo secondo, dispersi eventualmente nelle citazioni dei padri. Le figure dei grandi gnostici — giustamente trascurati gli gnostici, più o meno leggendari, del primo secolo, rammentati dai padri — di un Basilide, d’un Valentino con i discepoli Eracleone e Tolomeo, risorgono dalle pagine del De Faye più che mai belle e valorose, come d’iniziatori geniali del pensiero teologico cristiano. E un’altra larga parte dell’opera, che non è la meno importante, vien dedicata alla critica delle testimonianze dei padri, di cui magari non si mette in dubbio la buona fede in proposito, ma tuttavia si dimostrano le apologie interessate, le affermazioni sospette, le manchevolezze volute, le confusioni e gli errori. Questo studio si può dire non era stato ancora fatto, e non è piccolo merito del dotto francese quello di aver messo bene in chiaro, che non come storici i padri ci parlano delle sètte gnostiche,. ma come apologisti della Chiesa e qualche volta anzi, informi Tertulliano, come avversari fanatici.
Ma in questa degna rivendicazione del pensiero dei grandi gnostici, a noi
(1) Bousset, Gnosis, col. 1502-1533, Gnostiker, col. 1534-1547. del citato vol. VII (Stuttgart, 19x2) della Real-Encyclopädie di Pauly-Wissowa ; E. De Faye, Gnostiques et Gnosli-cisnie (Paris, 1913).
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sembra che ecceda il De Faye ; mente’ ei non sa vedere nel mondo greco-orientale altra gnosi che quella provocata, se non anche derivata, fra il secondo e il terzo secolo, dal cristianesimo; e nei sistemi gnostici non vede altri principi caratteristici che quelli del pensiero filosofico greco, e specialmente platonico. Egli ha letto i lavori del Bousset, ma non li cita che per confutarli.
Ora, noi non neghiamo che la gnosi cristiana, frutto maturo dell’ellenismo, rechi, profonda l’impronta filosofica greca, e volentieri anzi riconnettasi agli ideali platonici — come già Platone, del resto, nella sua sistematica concezione dei mondo va debitore assai alla sapienza orientale ; — ma non perciò rimane men dimostrato non essere la gnosi propriamente filosofia, ma sibbene una teologia, fondata sul principio della rivelazione divina: e questa teologia ne’suoi elementi essenziali e caratteristici è d’origine orientale (i).
Anzi, diciamo di più, la gnosi è principalmente d’origine babilonese. Lo studio dei rapporti fra la gnosi e le vecchie religioni del mondo greco-romano ha progredito assai negli ultimi anni, grazie, per esempio, ai lavori del Dieterich, del Cumont, del Reitzenstein, del Toutain, che hanno messo in rilievo le attinenze innegabili fra la gnosi e le forme più recenti, ma anteriori al cristianesimo o contemporanee, di vita religiosa, sviluppatesi nell’Asia anteriore e in Egitto. Ma non ugualmente, mi sembra, si fece la dovuta attenzione ai rapporti intercedenti fra la gnosi e la religione babilonese, fra la letteratura degli gnostici e quella di Babilonia. Eppure, sembra a me, gli stessi padri, anzi direi gli gnostici medesimi, hanno indicato l’origine della teologia della gnosi da quella babilonese, affermando nella solita maniera schematica invalsa al loro tempo, il fondatore degli gnostici essere Eufrate il Peratico (2). Questa ricerca non ha progredito gran che, dopo il primo e fruttuoso tentativo dell’Anz, che troppo, tuttavia, tralasciò di osservare, perchè si possa dire che ha trattato, nonché esaurito;, il soggetto. Nè in gran parte fu colpa sua; perchè mancavano allora opere come quelle di Pietro Jensen o di Morris Jastrow su i miti e la religione dei Babilonesi, atte ad offrire comoda materia di studi e raffronti. Piuttosto fa quasi meraviglia che il Bousset poi non abbia consultato questi ed altri lavori consimili, che lo avrebbero portato ad assegnare alla teologia babilonese, in rapporto alle origini della gnosi, ben altra importanza da quella, molte volte secondaria, Che le suole attribuire (3).
(1) È vero che i padri ecclesiastici riportano in genere alla filosofia greca o platonica l’origine della gnosi ; ma ciò per effetto della loro ristretta cultura. Essi, in fondo, non erano scienziati, ma pastori di anime. Celso, che senza essere uomo di grande scienza possedeva però una profonda cultura, riconosce bene in Origene (C. Cels.. VI) i rapporti fra la gnosi e i misteri di Mitra e la loro comune origine orientale.
(2) I Philosophoumena danno (V, 13; X, io) questo Eufrate per autore della sola sètta dei Perati; ma Origene (C. Cels. VI, 28) lo denomina a capo di tutti gli Ofili, o Ofiani, nome quasi generale per gli gnostici. Peratico e Perati son parole derivate da Peralh, nome ebraico dell’ Eufrate. L’ipotesi pertanto del Bousset (Hauptpr. 26), di ricercare la patria del-Veretico Eufrate nelle vicinanze di Basra, non ha fondamento. I Perati traggono origine dalla località del fiume Eufrate, come dichiara Clem. Slront. VII, 17.
(3) Il libro dello Jensen fu pubblicato nel 1901, e il primo volume dell’opera dell’Jastrow, il più utile al nostro scopo, si cominciò a pubblicare a fascicoli nel 1902 e fu terminato nel 1905.
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Il Bousset peraltro ha coscienza, non meno del De Faye, del carattere tuttora provvisorio e preparativo delle ricerche sulla gnosi. E si augura che, da più parti, studiosi di diversa competenza volgansi a esaminare i vari aspetti di questo importantissimo e oscuro problema ; per guisa che, alla fine, dal lavoro complessivo di tutti risulti possibile una sicura ricostruzione storica di quel grande movimento religioso, che agitò profondamente l’impero romano e si riconcentrò nel cristianesimo. Noi crediamo, a tale proposito, che urga soprattutto la comparazione dei sistemi della gnosi con la teologia babilonese; e intendiamo di portare a tale scopo, in queste brevi pagine, un modesto ma forse non inutile contributo.
II.
L’idea centrale della Gnosi.
Abbiamo accennato che ormai non è possibile mettere in dubbio la reale importanza dello gnosticismo qual fattore positivo della teologia cristiana, r, una conclusione che gli scarsi frammenti del pensiero dei grandi gnostici confermano apertamente, e che sarebbe, certo, vie più dimostrata, se ci fosse pervenuta qualcuna delle opere teologiche dai fautori della gnosi, più o meno cristiana, escogitate quando la ortodossa teologia era ancora in formazione. Ma, disperse le scuole e sètte gnostiche, esse andarono tutte perdute; e dal comune naufragio non riuscirono a salvarsi che i libri composti per il popolo, ma che perciò sovente hanno valore trascurabile o limitatissimo. Se per giudicare gli gnostici e lo gnosticismo occorre a tempo e luogo saper diffidare delle confutazioni ben note degli antichi scrittori ecclesiastici ; non meno molte volte è necessario astrarre da quelle inferiori produzioni letterarie della gnosi, come i Vangeli o gli Atti di apostoli apocrifi, dal frammento secondo Pietro alle astro-angeliche fantasie del Pistis Sophia, nei quali la coscienza religiosa, piuttosto che inalzarsi per la virtù del pensiero al sommo dell’idea, amava esaurire nei simboli della pietà volgare il fervore dei sentimenti. E insomma è da concludere, tutto ben ponderato, che gli gnostici entrando nella Chiesa, a fecondarla di nuova inspirazione sacra, non vi rappresentavano soltanto, come i padri cosiddetti « apostolici, » la tradizione teologica ereditata dal giudaismo, ma bensì vi portavano la forza di una concezione religiosa del mondo e della vita, che di per sè col giudaismo aveva poco o nulla che vedere. Essi innestavano nel cristianesimo qualche cosa di nuovo e di dissolvente ; allato alla coscienza e alla mente cristiana, fissata ormai da circa un secolo di tradizione, persistevano a mantenervi una loro propria mente e coscienza. Furono cristiani, forse, anzi in molti casi di certo; ma furono pure, e in ogni caso, gnostici. E qui sorge il problema: che cosa è questa gnosi, estranea e indipendente dal cristianesimo, la quale ai « veri » gnostici che intesero a un cristianesimo < più vero » impedì d’esser cristiani ? Quali sono i caratteri essenziali e distintivi di questa religione della gnosi?
Gli studiosi che cercarono di far luce sull’oscuro problema si sono preoccupati di isolarli e determinarli ; e il Bousset ha creduto di poterli riconoscere e riassommare in una presupposta concezione dualistica dell’universo, che sarebbe il
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motivo cardinale di tutta la teologia della gnosi. Ora, noi non neghiamo Che i sistemi gnostici magari tendano a gravitare sul concetto dualistico della opposizione ontologica fra lo spirito e la materia; ma dobbiamo riconoscere che il dualismo della gnosi, non che essere ben definito, come nei tardi sistemi della teologia zoroastriana(i), è impuro ed oscillante fra un iniziale trialismo ed un monismo finale. La tendenza, anzi, a respingere l’autonomia della materia rispetto allo spirito è nei più consapevoli Sistemi della gnosi così forte da raggiungere quasi i postulati neoplatonici della graduale unità dell’essere dallo spirito alla materia, e da riuscire mal distinguibile dalle tendenze dualistiche del tardo giudaismo o del cristianesimo primitivo.
Per questo lato mi sembra che, malgrado la contraria osservazione dello Schmidt, il quale già mise in rilievo la disputa di Plotino contro il dualismo degli gnostici, siasi piuttosto avvicinato al vero l’Anz, che idea centrale della gnosi considera la fede in una traslazione dell’anima, liberata dal corpo, attraverso i cieli incombenti, e la speranza di potere in virtù della gnosi oltrepassare i regni cosmici della materia, per raggiungere l’empireo, naturale sua patria. Perchè realmente nei sistemi gnostici tutto è preordinato a quel fatale passaggio dell’anima. Ma questa spiegazione.. forse anche più di quella del Bousset, ha il difetto di voler considerare il lato esterno della gnosi, il cortice dei sistemi e delle dottrine, senza scendere fino all’ idea che ne è ragion d’essere e motivo. Perchè il presupposto, se vogliamo, dualistico dell’universo? Perchè una cosmologia preordinata alla fede nel transito dell’anima dalla terra all’empireo?
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Le grandi religioni politeiste da molti secoli ormai s'erano lasciate indietro le credenze animistiche e demoniche, alle quali, non anco civili, i popoli dell'Asia avevano informato il loro culto, pien di terrore, degli antenati e dei demoni terrestri ed aerei. Le vecchie tribù s’erano compenetrate e fuse in grandi società politiche sul fondamento del potere regio. E di quanto erasi in loro elevato il sentimento della vita morale, e rivolto il pensiero a ideali superiori di giustizia e di bontà ; di tanto s’era andata affermando la fede in un mondo celeste della felicità e della vita, divèrso e superiore a quello terrestre di dolore e di morte, anzi opposto del pari che la luce alle tenebre/Il cielo era la patria della divi nità, abitato da una ordinata gerarchia di divini, immortali e beati, signori del genere umano abitante la terra. Poco importa che le nuove figure di dei fossero, o no, vecchi demoni esaltati da una fede creatrice. Enti celesti, anzi identici agli astri — e i principali ai pianeti — la loro potenza era immensamente superiore a quella dei demoni, nei quali ancora la religione del popolo tenacemente credeva. Essi erano i creatori e i dominatori assoluti dei mortali, a cui sacro incombeva
(i) È fra i dotti persuasione generale, che il cosi detto « dualismo » sia la caratteristica del parsismo, o religione di Zoroastro; ina in Chantepib de la Saussave, Lehrbuch der Religionsgeschichte (Tübingen, 1905), voi. Il, p. 186-188, si è finalmente osservato che Zoroastro fu piuttosto monoteista, e tale fu anche lo zoroastrismo primitivo Io propendo a credere che il dualismo persiano sia una più tarda combinazione del parsismo con la teologia babilonese, entro cui son le radici della concezione dualistica.
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il dovere di un culto perenne e di pingui sacrifìci ne’ magnifici templi, retti da gerarchie sacerdotali, a capo delle quali era il re. Come i principi delle genti, da loro costituiti a reggere i destini dei popoli, essi partecipavano a tutte le umane passioni, volta a volta capricciosi, crudeli ed ingiusti; ma la giustizia figurava essere il loro ideale, la loro cura suprema. La loro giustizia era quella delle leggi sociali e private, che ordinavano la vita civile, e di cui essi erano gli autori; leggi ferree, ineluttabili, come il movimento degli astri, delle quali essi volevano la rigida esecuzione, e cui l’uomo doveva suo malgrado inchinarsi come a destino fatale.
Ma viepiù che il pensiero inalzavasi nelle vie dello spirito a scoprire al disopra della giustizia sociale la eminente virtù della bontà, ch’è giustizia interiore, gli dei del politeismo andavano restando al disotto, perchè la coscienza religiosa ascendente dell'uomo riscontrava che essi, anche se giusti, non erano buoni. Gli dei creatori e signori del cosmo visibile, conosciuti e adorati sino allora, potevano certo salvare in molti casi i fedeli dal male e dal dolore, inerente alla nostra esistenza per le incessanti insidie dei demoni vaganti d’intorno. Ma non potevano all’uomo concedere quello che essenzialmente è il dono della bontà, dell’amore: la libertà perfetta e la vita beata. Inflessibili ed immutabili nelle loro astrali dimore, la loro legge incombeva tirannica sopra gli umani, che dopo aver passata la vita in loro servigio, erano dagli dei — che per sé custodivano gelosamente il segreto di vivere — travolti nel supremo dolore della morte.
E siccome è fatale che l’uomo cerchi nella religione la salvezza dal dolore e dalla morte, e nella divinità riponga quel principio di liberazione che non sente di possedere; così vie più che la coscienza umana esaltavasi a raggiungere più nobili ideali, poco a poco nasceva e affermavasi e trionfava la fede in una superiore e ignota ed ineffabile ed invisibile divinità, la quale essenzialmente fosse bontà ed amore, largitrice di libertà e d’immortalità, in virtù di un principio superiore alla giustizia ed alla religione del timore. E formavasi una nuova coscienza per cui era principio dell’universo l’amore, e mezzo di salvezza dalla morte l’amore, e l’amore ultimo fine di beatitudine. L’Amore finalmente rivelava all’anima umana il suo diritto alla vita, e le faceva nota quella scienza dell’immortalità, che finora gli dei tennero occulta: era la religione della
* » »
Più che una religione, era il fermento vivo di religioni ulteriori, lentamente operoso nella coscienza dei popoli, specialmente durante i secoli prossimi all'era cristiana. Determinare l’epoca del suo comparire nel mondo, è impossibile. Perchè la gnosi in realtà non fu che il resultato del progredire continuo della coscienza umana dal politeismo al monoteismo, da un ideale di giustizia a un ideale di bontà. Perciò, come vedremo, nella gnosi, che sentiamo animata da un afflato spirituale così nuovo, la esterna forma teologica appare vecchia ed abusata nel suo mitologismo. Il valore del movimento gnostico, anche cristianeggiante, non
(1) « Atque adeo prae se ferunt Marcionitae, quod deum suum omnino non timeant. Mains autem, inquiunt, timebitur; bonus autem diligitur». Tert. Adv. Marc. I, 27.
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va quindi misurato sulla norma esteriore de’sistemi teologici, nel loro presupposto dualistico o. nella traslazione dell’anima dal cosmo all’empireo; ma va compreso nello spirito vivificante d’una religione concepita non come timore, ma come amore, non come legge, ma come libertà, non avente per fine la morte, ma la immortalità. Questo è innanzi tutto da vedere, o meglio da intravedere, in Valentino, Tolomeo, Eracleone ed altri, che indubbiamente furono anime grandi, piene certo, non men che di dottrina, di religioso fervore. La conoscenza dei sistemi gnostici deve servire soltanto a farci comprendere il carattere proprio della gnosi in relazione al cristianesimo, ed a farci determinare, col segreto della sua origine storica, quello della precoce sua scomparsa dal mondo.
Rilevar tuttavia con precisione il sistema della gnosi e metterne in luce, a vicenda, i caratteri fondamentali, per adombrare gli altri stimati secondari dagli gnostici, non è punto facile. Vi si oppone la grande varietà, quasi direi la confusione dei sistemi ; perchè nella tradizione dei padri ecclesiastici, dove i sistemi sono rappresentati, abbiamo la più larga diversità di scuole e sètte gnostiche, ciascuna con un proprio sistema : Ofiti o Ofiani, Naasseni, Perati, Sethiani, Bar-beliti, Simoniani, Basilidiani, Valentiniani, Marcosiani, altri ancora, tra cui la distinzione o la opposizione fu più fatta con intento di critica che di precisione. Ma la difficoltà cresce ancora, pensando che nessun'opera d’autorevoli teologi gnostici, quale compose un Valentino, un Marcione, è giunta fino a noi ; mentre di tutta quella ricca letteratura, distrutta dalla Chiesa vincitrice, non ci pervennero insomma che libri popolari, come il Pistis Sophia, dei quali, più che usufruire, occorre saper fare a meno. Siamo perciò ridotti a dover consultare gli scritti o, diciam meglio, le confutazioni dei padri: il primo libro d’Ireneo contro le eresie, il più antico (c. 180) di quelli del genere che non andarono perduti; l’opera dei Pìiilosophtoumena, scoperta e pubblicata nelle sue parti più notevoli nel 1851 dal Miller, e attribuita ad Origene, ma che quasi senza dubbio fu da Ippolito, discepolo di Ireneo, composta sulla fine del secondo secolo; le notizie contenute in Clemente Alessandrino, specialmente i suoi preziosi estratti da Teodoto valen-tiniano, e in Origene nel libro contro Celso (1); informazioni attinte dalle opere di Tertulliano, di Epifanio, di altri, che meno ci interessano. Il De Faye ci ha messi in guardia circa il metodo che abbiamo da seguire adoperando, da storici, testimonianze siffatte; tanto più sospettabili in quanto l’antipatia fra cattolici e gnostici vivissima poteva anche dar adito alla calunnia, ma più ancora perchè sappiamo d'altronde che gli gnostici erano alienissimi dal far conoscere al pubblico e specialmente agli avversari le loro dottrine, tenute segrete. Nondimeno tenteremo, specialmente con la scorta dei Philosophoumena, che sembrano realmente composti — malgrado i dubbi dello Stàhlin — su documenti gnostici occulti e genuini, di dare un quadro sintetico ben definito del sistema teologico della gnosi cristianeggiante nel secondo secolo.
(?) Queste notizie in parte derivano dal testo di Celso medesimo, che scrisse il suo libro verso il 170.
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III.
Teologia gnostica.
La somma Triade. — Per quanto sia giusta l'osservazione che faceva Piotino (Schmidt, p. 43) agli gnostici dell’età sua, di un concetto dualistico inerente alla teologia della gnosi, fondata sull’opposizione del sensibile all’intelligibile, del zógjzo; aicS/jTÓ; al zógjzo; nondimeno il principio caratteristico dei sistemi dello gnosticismo è l’unità combinata in trinità universale. Basilide perciò paragonava l’universo ad un seme o ad un uovo {Phil. VII, 21), o meglio a una filiazione tripartita, vìóttì? ?pi;zsp^; zarà wccv-ra (VII, 22); ugualmente i Perati dicevano il mondo essere uno e tripartito, sva ?p;^ §',7jprllv.svov (V, 12; X, io), e consideravano l’universo, rò wSv, constare di tre enti supremi, zarflp vió; uXtj (V, 17), ciascun dei quali era tripartito a sua volta (V, 12); così come un carme dei Naasseni accennava ai tre principi cosmici, razionale, terreno e psichico (?ò p.èv vospóv, tò Ss òv^izóv, ~ò Ss £o?zóv, X, 9) del gran tutto, quando era ysvtzò; tou wavrò; ó ~pWTl<7T0' VÓOC, TO Ss Ssórspov ?Ò yfuOsv TOCTaTT) Òv/Z ¿pya£op.SV7J vÓfZOV
(V, IO).
Anche se non volessimo tener conto dell’assioma gnostico, che mantiene ai due primi elementi il nome di luce e tenebre, ©ó; zac gzóto;, in mezzo a cui, secondo la triade dei Sethiani, sta lo spirito illibato, sv ¡zecco irvsQjza àzépacov (V, 19; X, n); il nome del secondo elemento della triade ci rivelerebbe l’origine prettamente naturalistica, anzi materialistica, de) concetto gnostico. Sembra, anzi, che gli gnostici non né facessero mistero, poiché vi accenna senza dubbio un frammento di salmo di Valentino, che parla di un abisso, ffoOó;, di una <z/4?pa o matrice generativa, e di una S’àspo; ¿Je/oyxvTjv, dipendente dall’aere (VI, 37); la cui concezione, cioè, del pari che quella del wvsGjza, è derivata dall’aere circostante, principio vitale dell’uomo, e che gli antichi identificavano con l’anima {piephesh in ebraico). Quella ¡z^rpa, a cui i Sethiani (V, 19) volentieri paragonavano la natura fecondata dal puOó;, era il chaos, la tenebra, che non è àcuvsrov, priva di mente (V, 19), ed è un’acqua terribile, uSo>p <po'3scóv, cioè la materia dell’oceano primordiale. Questa, come dice il valentiniano Teodoto (Exc. 32), che la chiama silenzio, ciy/., nome ovvio nella gnosi, fu appunto la generatrice di quanto fu prodotto dal puOó;. 1 Naasseni amavano raffigurare come il serpente, ?óv ¿»©tv, questa óypòv ouciav {Phil. V, 9) da Cui erano derivati tutti i templi, cioè tutte le divinità onorate fra gli uomini (1); ei Sethiani le attribuivano un primogenito, un vento bestiale in forma anch’esso di drago o serpente, generatore di tutte le cose e formante col fiuOó; e con essa una triade (V, 19).
(1) Qui i Phil. approfittano del giuoco di parola tra il nome ■'àa? (ebraico: nahash, serpente) e per dire che da esso derivano tutti i '»aou; o tempii e luoghi sacri. In realtà Naasseni ebraicamente è lo stesso nome greco di Ofiani od Ofiti, con cui dagli avversari erano denominati gli gnostici, veri o pretesi adoratori del serpente. I Phil. V, 6, hanno premura di osservare che i Naasseni si danno il nome di Gnostici, come in Orig. C. Cels., V, 61.
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Il concetto pertanto di una preesistenza della materia eterna grava pesantemente sul sistema teologico della gnosi; lo riconobbe già Plotino (Schmidt, p. 42) e risalta specialmente in una descrizione di Ireneo (I, 30, 1-3); ma occorre nondimeno riconoscere che gli gnostici vollero liberarsene e fecero di tutto per riuscirvi. Ciò rilevasi da quei sistemi che, preoccupati di far derivare il cosmo da una sola divinità, distinguono e separano il mondo tripartito dai sommo ente creatore: così gli gnostici combattuti da Plotino (Schmidt, p. 36 seg.), i Doceti dei Phil. X, 16, il Pistis Sophia (I, 14, ecc.), e Basilide, che perciò diceva Dio essere il non-ente, ó oùz <Sv Osó; (VII, 21), che crea 1'esistente.
Ma, in genere, il sommo principio dell’essere, la Monade increata, incorruttibile, incomprensibile, inintelligibile, generatrice e causa del tutto, come diceva Valentino (VI, 29), la Monade Padre, »zovà; di Valentino, degli Oliti di Celso-Origene {C. Cels VI, 38) dei Perati, dei Barbeliti d’Ireneo (I, 29, 1) e simili, non è fuori dell’essere universale, ma ne è il cominciamento, come primo della somma triade. Talvolta il Padre, —- rilevatane, forse in opposizione alla forma serpentina del caos, la sembianza « umana », — è detto, come presso gli Oliti di Ireneo (I, 30, 1) prinnis homo, o, come tra i Naasseni, avOpwzo; {Phil. V, 1) semplicemente ; in ogni modo, però, la sua prerogativa è di essere àyvwGTo;, àóparo; appsTo;, inconoscibile, invisibile ed ineffabile. Il secondo elemento della triade in alcuni sistemi è femminile; indistinta dal primo, o in coniugio con esso, tra i Naasseni (V, 6) c i Barbeliti di Ireneo (I, 29, 1), o meglio prima emanazione sua. Ha nome Barbelo, e in qualità di Madre accanto al Padre è deità solenne fra gli gnostici; quella stessa che tra i Valentiniani ha nome Sige, accanto al sommo Bythos. In genere, però, il secondo elemento è mascolino, •jìó;, o uiò; àvOpó-ou, e allora il terzo, in coniugio col secondo, suol essere femminile, come nella triade di Giustino lo gnostico {Phil. V, 26; X, 15) e degli Oliti di Ireneo (I, 30, 1), dove ha nome di Spirito (parola nelle lingue semitiche, di genere femminino), in unione al filius hominis o secundus homo. Simile è, come vedremo, la triade di Valentino, il cui moni teismo iniziale, negato da Ireneo (I, 11, 1), è in sostanza messo fuori di dubbio dai Phil. VI, 29 (1).
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Sizigie e Pleroma. — Il mondo della luce, della divinità, non si esaurisce nella triade suprema, bensì procede all’infinito. Il Padre, che ha la pienezza della divinità, la comunica subordinatamente agli altri due principi della triade, perchè egli, dice Valentino {Phil., VI, 29), è Amore, zyà«-/), e l’amore ha bisogno dell’oggetto amato. Così pure il secondo e terzo della triade, uniti in coniugio, effondono subordinatamente, per divina generazione, la loro pienezza dell’essere in altre divine entità, le quali alla lor volta generano angeliche sostanze all’ infinito (X, 16), ázscpázt; àzsepou; aìwva;, come dicono i Doceti. E ognuno di questi Eoni è àppsvófaXu;, comprensivo dell’essere mascolino e femminino, come coniugii,
(1) La Cosmogonia riportata da Epifanio {Hacr. 31) è di origine più o meno valenti-niana, ma non già, come vuole il Liechtenhan, di Valentino in persona. Che idea si facesse Valentino della divinità, è ben dichiarato nei Phil. VI, 29.
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cuccai, perché gli Eoni singoli, dice Teodoto (Exc., 32), non sono che imagini, sìzóvs;, e solo nella sizigia è il wX^ptojia, la pienezza della deità beata. Il complesso degli Eoni principali e poi di tutte le sostanze angeliche, o comunque spirituali, da essi emanate forma nella teologia della gnosi il gran pleroma della divinità, secluso dal cosmo inferiore.
Sul numero dei principali Eoni che formano le sizigie del pleroma, variano i sistemi della gnosi : Basilide li fa salire a 365, quanti i giorni dell’anno solare (P/wZ., VII, 26; Ireneo, I, 24, 3), contenuti nel valore numerico della famosa parola magica invece Giustino lo gnostico li riduce a 24 o a 12, quanti
i segni dello zodiaco (P/«7., V, 26); tanti sembrano anche quelli del Pistis So-pitia. Ma in altri sistemi, per esempio dei Doceti (X, 16), di Valentino (VI, 30) e dei Valentiniani d’Ireneo (I, 1, 2-3), gli Eoni sono 30, distinti in tre sezioni, di 12 la inferiore, di 10 la media, di 8 la superiore. Soprattutto questa suprema ogdoade suol essere a fondamento della teologia della gnosi, e comparisce in quasi tutti i sistemi di Valentino e dei Valentiniani (VI, 29segg.; Iren., I, 1, 1; 5, 2; ir, 1), di Basilide (P/«7., VII, 22-23; Iren., I, 23, 3), di Marco (Iren., I, 12, 3), di Tolomeo e di Epifane (P/«7., VI, 38-39), degli Ofiti di Celso-Ori-gene (C. Cels., VI, 38), dei Simoniani (Phil., VI, 12-13), dei Barbeliti (Iren., I, 29, 1). La ogdoade è a sua volta suddivisa in due tetradi, di due sizigie l’una ; e la gran tetrade, la prima, è motivo solenne, come riconobbe anche Plotino (Schmidt, p. 38), di teologia gnostica, nei sistemi or ora citati, quanto la ogdoade e poco men che la triade. I primi due termini della tetrade naturalmente sono formati dal Padre e dal suo coniuge (la Madre, Barbelo) quando il secondo elemento della triade è femminile; ma se è maschile (il Figlio), questo, come negli Ofiti di Origene, entra secondo nella ogdoade, oppure il Padre maschio-femmina fa con le tre sizigie susseguenti una ogdoade che è propriamente una ebdomade. Ed anche l’ebdomade è sacra nella teologia della gnosi (Phil., VI, 13); ed è celebre la ebdomade monoteistica di Valentino: Padre, Intelletto e Verità, Logos e Vita, Uomo e Chiesa (1).
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La Madre e l'ogdoade inferiore. — Il carattere di correspettività, o diciamo di opposizione al Padre, che ha la tenebra oceanica, la materia primordiale, il caos, elemento femminile generante i viventi, nella teologia degli gnostici è causa di profonda oscillazione fra i vari sistemi. Da un lato la sua somma importanza, come principio cosmico di vita, induce Naasseni (inno citato), Perati, Sethiani, Valentiniani (in Teodoto ed Ireneo), Barbeliti (Iren., I, 29), a conservarle il secondo posto, qual Madre, nella gran triade accanto al Padre ; ed è chiamata Bar-belo (2). D’altro lato, però, la sconvenienza logica di collocare presso il Padre; o
(1) Ved. negli Gracula Sibyllina (ed. Geflcken, 1902) VII, 139-140 un curioso accenno al « terzo ordine... della prima ogdoade ».
(2) Altro nome della Madre era Noria, che il Bousset (Gnostiker, 1535) intende fan-dulia, dall’ebraico na'ardh; ma che più probabilmente e da intendersi luce-divina, dall’ebraico (aramaizzante) nùryah.
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far sua prima emanazione immediata, il principio materiale dell'universo, la fa discendere nei sistemi di Giustino lo gnostico (Phil., V, 26 ; X, 15) e degli Oliti di Ireneo (I, 30) a terzo elemento della triade, 0 a quarto della tetrade, secondo Plotino (Schmidt, p. 38 seg.). Allora scindesi in due ; ch’essa divide l’unità del terzo elemento ('/>// dell’inno naassenico, zvsGy.a dei Sethiani, uió; dei Perati), e ne incorpora la parte terrestre e inferiore, mentre quella superiore rappresenta il ózépz'.ov celeste e immortale. E gli gnostici la chiamano semiticamente Achamóth {phakimùtha in siriaco significa conoscenza intellettuale, ad un tempo, e conoscenza carnale della donna, da parte dell’uomo) o grecamente oooia, 0 anche tjcouv'./.o; (1); tra gii gnostici avversati da Plotino era detta ¿u/fl, e tra gli Oliti di Ireneo (I, 30) spìrito santo (in semitico, spirito è femminile), prima femmina. Tale spostamento includeva più o meno il concetto di una materia eterna preesistente, a cui Plotino accennava, e che è visibile anche presso gli Oliti di Ireneo ; tanto più che la psiche o lo spirito santo era a vicenda qua e là l’origine del cosmo vivente, per effetto di una caduta, aozkuz, dovuta ad una inclinazione, in basso, cioè «nell’acqua dell’abisso» (Iren., I, 30, 3), che è il caos immanente dell’universo. La scissione in due della Madre (la psiche, in tal caso) è riconfermata dal testo medesimo di Ireneo, il quale osserva che la origine del cosmo materiale non proviene da Sophia, ma dalla Figlia avuta da essa, in conseguenza della sua caduta.
Questa seconda distinzione ha lo scopo di eliminare la contradizione logica di far principio delle tenebre, del cosmo materiale la Psiche celeste, un ente che appartiene per essenza al pleroma della luce pura e illibata. E infatti mantenuta, ed anzi accentuata, da Valentino 0 almeno dai Valentiniani (P/«7., VI, 30-34; Iren., I, 2, 2-554, 1; 11, 1, ecc.) e da altre sètte gnostiche, nel senso che Sophia è relegata ultimo degli Eoni e, per effetto della sua caduta — peccato di pensiero — entro il pleroma, senza coniugio genera Achamót, cioè il caos, o tal cosa che lo sostituisca e rappresenti; d’onde per nuova generazione femminile ha origine il cosmo. Cioè, non tanto il cosmo, quanto piuttosto i principii formatori o creatori del cosmo, son generati appunto da Sophia-Achamót. Presso Giustino lo gnostico, la Madre, terzo elemento della triade, e principio cattivo del mondo, genera dodici esseri maligni e creatori, analoghi alle dodici costellazioni dello zodiaco; e tale è forse il sistema del Pislis Sophia, secondo cui Barbelo, madre di Sophia, ha dimora nel tredicesimo Eone. Ma in altri sistemi, quali fra gli Oliti di Celso-Origene (ó*. Cels., VI, 31), di Ireneo (I, 30, 9), egli Arcontici di Epifanio (Haer. 40), gli enti per successiva generazione prodotti da Sophia sono sètte (od anche sei) e formano, col nome di Arconti, una ebdomade, che in unione alla Madre è un'ogdoade, opposta, dieiam meglio, corre-spettiva (Iren., I, 5, 2) alla suprema ogdoade o ebdomade del Padre celeste. (2) Il
(1) Parola che, secondo Epifanio {Haer, 25, 4)» vale lussuriosa. È notevole che Celso in Origene (G Cels., VI, 34), accorda questa parola con l’altra: vergine; dunque: vergine lussuriosa ?
(2) fc pertanto errata l’idea del Bousset, che a fondamento del sistema teologico gnostico stia la concezione della Madre e dei Sette (Haupipr., 9-58; Gnosis, 1510 seg., Gnosti-her, >535 seg.); nè la Madre è concezione caratteristica delle più antiche forme di gnosi, nè
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numero sette è da porre in rapporto a certe costellazioni, come le pleiadi, oppure ai sette pianeti (Iren., I, 30, 9).
Ma anche distolto dal caos il nome e il valore di Madre (assorbito dal Padre maschio-femmina), anche scissa Sophia in due, l’una entità celeste e pura, e l’altra terrestre e corrotta, la teologia gnostica non è pervenuta a liberarsi dal presupposto mitologico, radicato senza dubbio nella fede popolare, di una deità femminile suprema, che insieme è Madre e Figlia, Vergine pura della luce, e abbietta cortigiana delle tenebre, principio in pari tempo generatore del bene e del male, prototipo di verginità, di maternità, di lussuria, oggetto di amore e di orrore, di riverenza a un tempo e di terrore. Tale è invero l’anima umana.
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Demiurgo e Salvatore (ZSe/r^p). — Abbiamo già accennato che il numero degli Arconti preposti alla formazione e al reggimento del cosmo varia da dodici a sei (cfr. Iren., I, 29, 4) o, come nel Pistis Sophia, a cinque (pianeti ¿9’ <ov ■ti 9$apT7) ysvs«7'4 veprai, Phil., V, 14), correspettivi a una pentade celeste, finalmente a sette (stelle delle pleiadi, o pianeti). Il loro capo è il più delle volte denominato Jaldabaoth o Sabaoth, o in altro modo; ed egli, come prima e diretta filiazione di Sophia, raccoglie in sè la potenza anche degli altri, ed è esso propriamente il formatore del cosmo (1). Da questo « pleroma » del mondo inferiore hanno origine, secondo gli gnostici, i demoni maligni all' infinito. Ma Jaldabaoth e gli altri arconti non sempre appariscono come esseri cattivi ; sono bensì inferióri ai celesti. Gli Eoni rappresentano la bontà, la libertà, la vita; gli Arconti la giustizia, la legge, la morte. Ciò non impedisce agli gnostici di Origene (C. Cele., VI, 31) di chiamar «Padre» ciascuno di loro, e a Teodoto (Exc., 47) di considerare il Demiurgo o creatore del mondo, come un primo e iniziale Salvatore. E innegabile, però, che bene spesso, come i dodici di Giustino lo gnostico o del Pistis Sophia, anche i sette sono tratteggiati quali maligni demoni, che insidiano la vita del genere umano.
In ogni modo sta il fatto, che il proprio carattere degli Arconti reggitori o del Demiurgo creatore del cosmo si è di produrre opere essenzialmente imperfette, incapaci di vivere e per le quali, malgrado la legge, anzi per via della legge, che è tirannia, il cosmo si disordina e va in distruzione. D’onde per i celesti la necessità di inviare un Salvatore a ristabilire l'ordine turbato, a ricreare la vita soffocata dagli Arconti e dal Demiurgo nefasto. Per il carattere stesso di opposizione fra l'ogdoade o ebdomade cosmica e quella celeste, l’opera di restauil numero sette è fisso nella teologia della gnosi, nè la ogdoade della Madre può essere considerata indipendentemente da quella superiore del Padre, alla quale il Bousset non fa, si può dire, attenzione. L’opinione del Bousset è derivata dall’Anz, che troppo esclusivamente si fonda sopra i dati di Origene.
(1) Il Bousset (Gnosis, 1511) nota che non è più possibile spiegare il significato del nome Jaldabaoth. Io credor.che debba leggersi Jaldaboth, cioè ebraicamente Jeled 'Abóth, Figlio dei Padri (dei Divini) ; vedremo poi l’allusione politeistica di questo nome. La finale -aoth è dovuta all’influenza del nome (secondario) Sabaoth.
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razione, di recreazione del Salvatore, sia egli il secondo elemento della triade, o un altro degli Eoni superiori, non può essere compiuta che per via di una lotta di lui col Demiurgo e con le altre potenze arcontiche, la quale naturalmente termina con la vittoria (i). Siccome lo scopo dell’impresa del Salvatore non può essere se non quello di restituire al suo primiero stato la virtù vitale dell'universo che è luce e non tenebre, emana dal Padre e non dagli Arconti; la teologia gnostica ha perciò rappresentato l’opera redentrice di lui nella forma di una liberazione di Sophia-Achamót, pentita della sua caduta, dalla materia e dalle tenebre fra cui era rimasta impigliata. Egli discende perciò attraverso i sette cieli, assumendo la figura degli Arconti (Iren., I, 30, 12) fino a tramutarsi in serpente (Phil., V, 19), finché ricondotta Sophia al cielo, d’onde era venuta, celebra con essa le nozze del beato coniugio (Iren., Z. c. ; Phil, VI, 34).
Il vecchio substrato mitologico naturalistico di questa figurazione è ancora messo in rilievo da un frammento letterario dei Perati (Phil., V, 14), dove una « voce », sembra del Salvatore, parla di voler «denudare là potenza del caos», che è il mare, OáXacoa, dalle dodici teste sibilanti, e della sua « figlia tifonica, fedele custode di tutte le acque » detta Poseidon, e delle molte potenze cosmiche, derivate da loro e da Krono. Ma in ogni caso è chiaro il significato morale del nuovo mito gnostico; è la l'anima umana, liberata dalle passioni e ridonata alla sua vera vita. L'inno dei Naasseni, così bello (Phil., V, io) per quanto frammentario, e il magnifico Inno dell’anima o della perla, conservato nel testo siriaco degli Acta Thomae, lo dimostrano luminosamente (2).
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I Sacramenti della redenzione. — L’uomo, secondo gli gnostici, è composto, in genere, dei tre universali elementi: angelico o pneumatico, psichico e materiale, y.Yys).'.zóv, òv/jzóv, 70'izóv (Phil., V, 6; Iren., I, 7, 5). Per i materiali, che valgono quanto i bruti, non v’è luogo a redenzione, avendo natura mortale e destinata a morire. Gli spirituali son quelli che in questa vita o in un’altra — fra gli gnostici correva l'opinione della metensomatosi della psiche (Clem., Strom., IV, 12, 87) — otterranno salvezza. Agli psichici non è impossibile, ma difficile salvarsi. Questa dottrina, però, è secondaria rispetto all’altra più semplice (Phil., V, 26; VI, 34; Iren., I, 5, 2), secondo cui non esistono che due classi di uomini: quelli che sono in possesso dell'anima inferiore, la òv/z, creazione del Demiurgo secondo i Valentiniani, della prima femmina, terza nella triade, secondo Giustino io gnostico ; e quelli che possiedono lo spirito, il Trvsuua, o psiche superiore, provenga esso mediatamente o immediatamente dal Padre (che è Madre), oppure dall’Eone Sophia Achamóth (Valentiniani, ecc.). Solo per questi è possibile la redenzione, perchè sono di natura celeste, predestinati profeti, sacerdoti e re del genere umano (Iren., I, 7, 3). Solo costoro sentono la nostalgia del terrestre
(1) S’intende che non teniamo conto delia elaborazione secondaria a cui fu sottoposta la teologia della gnosi per identificai e il Salvatore gnostico a Gesù Cristo.
(2) Ved. A. A. Bevan, The Hytnn of thè Sodi (Cambridge, 1897), testo siriaco e versione (pp. 40); l’anima vi è rappresentata in figura di una figlia di re.
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esilio, la tirannia del Demiurgo e degli Arconti, l’oppressione intollerabile del fato, deH'sijAaGfASv/j astrale che regge inesorabile le sorti umane, e tendono con tutto il loro essere alla liberazione, e ne són degni. Ad essi soli giovano i riti sacramentali e le formule sacre e le preghiere e gl’inni e tutti gl’insegnamenti che costituiscono la gnosi, la rivelazione cioè, da parte della divinità, di quella segreta celeste sapienza che contiene la virtù liberatrice.
Il battesimo si può considerare come il primo sacramento degli gnostici, sia che consistesse in un salutare lavacro di tutto il corpo, con l’acqua pura discendente dal cielo (ZWZ., V, 27), magari più e più volte e in qualsiasi occasione ripetuto (IX, 15), sia che fosse una solenne abluzione del capo con acqua mista a olio santo (Iren., I, 21, 4). Esso era accompagnato talvolta dall’apposizione del sigillo sacro (cfr. Iren., I, 25, 6) e dall'imposizione del nome all’eletto. Il battesimo rimetteva i peccati, considerati quali macchie più o meno corporee da detergere, guariva le malattie reputate possessioni di demoni, e col suo carattere refrigerante allontanava la natura ignea degli spiriti mali.
\dolio santo era un altro sacramento degli gnostici, distinto dal battesimo o unito insieme ad esso, tra gli Ofiti di Celso-Origene (C Cels.y VI, 27), tra i Naasseni specialmente (P//ZZ., V, 7, 9), tra i Marcosiani (Iren., I, 21, 4); essendo persuasione comune che l’odore * spirituale » del sacro crisma, spremuto dall’albero della vita, cacciasse come una celeste potenza i demoni (cfr. Phil^ V, 19, rappresentato lo Spirito della triade come « odore d’unguento o d’incenso » dai Sethiani). .. . >
Il cibo e la bevanda della vita era pure oggetto di riti sacramentali fra gli gnostici, per quanto non ci siano pervenuti a tal proposito che scarsi accenni; per esempio al pane e al sale fra gli Elchesaiti, al latte e miele tra i Naasseni (Phil., V, 8) e i Marcioniti (Tert. Adv. Marc., I, 14), alla bevanda d’acqua pura dal cielo tra i Sethiani {Piai.. N, 19) e presso Giustino lo gnostico (V, 27).
Il sacramento del talamo celeste era anche fra gli gnostici rito solenne, accennai? dai Phil.y V, 9, in fine, per i Naasseni, descritto da Ireneo (I, 13; 21, 3; cfr. 6, 4; 7, ì) per i Marcosiani ed i Valentiniani ; e rappresentava ad un tempo e le divine nozze del Salvatore con Sophia ricondotta al cielo, e le nozze future che gli eletti nella patria celeste avrebbero godute eternamente con le creature angeliche (1).
Ma il viaggio al paradiso pare costituisse fra gli gnostici, siccome giustamente ha rilevato l’Anz, il rito più importante; o per lo meno era quello intorno a cui gli altri si riconcentravano. Tra i libri copto-gnostici, specialmente il Pistis Sophia descrive a lungo questo viaggio dell’anima, separata dal corpo, prima per i cinque cieli dei cinque grandi Arconti (stelle planetarie) e quindi per i dodici cieli dei dodici grandi Eoni (lo zodiaco) fino alla dimora della Vergine Madre nel tredicesimo, e al quattordicesimo, dimora del sommo Padre; e per ogni cielo dispone misteri e formule e riti, perchè l’anima possa superarli senza incappare di nuovo in potere dei reggitori del cosmo. Ma non meno interessante è a tal proposito la descrizione di Origene (¿7. Cels., VI, 31), il quale riferisce
(1) Dei sacramenti gnostici parla a lungo il Bousset, Hauptpr., cap. VII.
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per via di quali riti e formule sacramentali gli Ofiti del suo tempo oltrepassavano le sette porte dei sette cieli, custodite gelosamente dagli Arconti portinai, Guotópoi, della ogdoade inferiore (i). Un accenno dei Philn Vt 27, ci persuade a credere che il gran rito del viaggio al paradiso tra gli gnostici fosse coordinato agli altri per guisa che venisse preceduto dai sacramenti del battesimo e dell’olio sacro e seguito dà quelli dell’eucaristia — nome gnostico del pari che cristiano — con cui si dava all’eletto a gustare il cibo e la bevanda della vita, per poi introdurlo nel talamo delle nozze celesti. Ma su tutto il rituale degli gnostici siamo informati appena, perchè era tenuto segretissimo dagli iniziati ai misteri, e i Padri della Chiesa non poterono o non ne vollero parlare.
Salvatore Minocchi.
(Al prossimo numero: /K Teologia babilonese - V. Resultati).
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nità che la distinse.
’ESSO leggendo le lettere della grande senese mi sono domandato: perchè l’imagine di Caterina arride così soavemente bella ed esalta tanto gli studiosi che le si avvicinano con cuor sincero, pur non volendo costoro inebriarsi, come lei, del sangue preziosissimo del Divino Agnello'. Credo di non allontanarmi dalla verità, affermando che questa grande potenza d’attrazione debba ricercarsi, pili che nel sentimento mistico, comune a tutti i purificati, nel forte senso d’urna-nella nobile missione di verità e d’amore, che proseguì nella breve, ma intensa sua vita, nella quale tanto operò e tanto soffrì per il trionfo del suo ideale.
Come bene potrebbero scriversi sulla tomba della santa queste sue mirabili parole: « E per me, misera sua figliuola, che Dio mi dia grazia, che io sia sempre amatrice e annunziatrice della verità e per essa verità io muoia» (l)l II suo voto fu appagato, poiché con questa missione e per questa missione di verità compì la sua giornata, morendo in Roma, il 29 aprile 1380, nel suo 330 anno, alla vigilia del grande scisma d'occidente, che ella non aveva potuto scongiurare con tutti i suoi tentativi reiterati. Prevedeva l’anima sua pura e sincera che si sarebbe venuto al sangue per le vie di Roma, e per questo moriva di dolore, tra spasimi atroci, in un assalto isterico. Così passò beneficando e pacificando questa vergine malata, dall’anima di fuoco, su cui i benefici astri avevano versato tanta rugiada e tanta luce.
Ma tutti i suoi biografi, non escluso il Tommaseo, spinti dal preconcetto religioso, si sforzarono a gran fatica di far risultare la santa nella donna, trascurando l'elemento più nobile, V umanismo, che innalza la nostra autrice Sul livello comune di tante anime, che, come Caterina, rinnegarono sé stesse, ma non compresero, praticamente, il precetto divino della carità, caposaldo di tutta la predicazione messianica. In molte lettere della pia donna riscontriamo felicemente accoppiato il doppio carattere di Maria e di Marta, di Rachele e di Lia, di contemplante e di operante, ed in ciò consiste il segreto della sua grandezza. Noi moderni, agitati dal demone dell’operosità febbrile, viviamo, completamente fuori dello spirito, una vita del tutto meccanica, nè sappiamo spiegarci la preferenza di Cristo per Maria, e tra le due sorelle amiamo di più la rimproverata
(1) A Monna Alessa. Lett. 277, voi. IV, pag. 211, edizione Tommaseo.
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Marta. Ma la virtù sta nel mezzo, e tale virtù possedette in sommo grado la figlia del tintore di Siena. Ella fu una natura essenzialmente italiana, come Francesco ¿’Assisi: passava dalla vita contemplativa all’attiva con grande facilità, senza intervallo.
La notte è rapita in estasi e s'annichila nella divinità, il giorno seguente, di buon mattino, lascia i suoi sogni estetici e corre a visitare gli ospedali, a soccorrere i monasteri, a confortare i carcerati, ad assistere i condannati a morte. In una lettera scrive a giovani suore precetti di vita spirituale, in un’altra rimprovera arditamente papi e imperatori, principi e farisei : fa sola e inerme lunghi e pericolosi viaggi, manda il suo confessore, Raimondo da Capua, a predicare la crociata contro i Turchi, strappa la sede apostolica di Avignone, e lo scisma tarda a scoppiare per i suoi sfòrzi energici. Noi ammiriamo Caterina, non solo come sposa di Cristo, titolo attribuito anche alla sua omonima di Alessandria, non per le sue isteriche visioni, concesse a tutti i ferventi mistici, ma per le sue doti essenzialmente pratiche, per quel senso profondo di umanità, di realtà che l’accompagnò per tutta la sua vita politica e civile. La sua vita interiore era soltanto il fondamento del suo carattere morale, le fantastiche visioni erano una sorgente di forza nei tempi di prova e di sconforto, o l’indice d uno stato d’animo eccessivamente esaltato; ma i mezzi coi quali inteneriva i cuori degli uomini erano quelli che hanno sempre usato tutti i benefattori dell'umanità: l’entusiasmo, l’eloquenza, il fascino della sua grazia femminile, la volontà ferma di fare ciò ch'ella aveva nella mente, la fede inconcussa nel suo ideale, tutte quelle virtù che condussero al trionfo l’altra fanciulla eroica, l’umile Giovanna d’Arco.
Caterina non fondò ordini religiosi: la sua opera fu di donna: far pace, soccorrere gli afflitti, purificare e irrobustire la chiesa corrotta e prevaricatrice, smascherare gl’ipocriti, non dominare e organizzare. Lasciò morendo una memoria di amore, più che di potere, la fragranza d'una vita candida ed operosa di bene, l’eco di soavi e ardenti parole. Il suo posto è nel cuore degli umili, che ogni giorno accorrono in calca alla chiesa, dove si conservano le sue ossa, s’inginocchiano davanti l’altare, implorando dalla loro sorella il suo celeste patrocinio. Che importa, se non sanno leggere o se non comprendono la metafora che contiene il distico (i), scritto sulla porta della cappella, dove si mostra alla venerazione dei fedeli la testa della santa ? Al di sopra- dei troni e delle metafore sa collocare il popolo grato i suoi benefattori, nè permette che il tempo e la dimenticanza proclamino il loro dominio sugli eroi da esso innalzati al culto universale.
Dopo cinque secoli, la fama della donna eroica, non che affievolirsi, cresce sempre, e durerà quanto il '»tondo lontana, come suole accadere alle vere grandezze, che brillano perennemente come gli astri nel silenzio tenebroso, immenso.
Ma analizziamo più da presso, dietro la scorta delle sue lettere, quali fossero le virtù altamente umane e civili Che la ispirarono, non dimenticando però
(i) Il distico dice:
Haec tenet ara caput Catharinae; corda reqtiiris?
Haec imo Christus pectore clausa tenet.
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che Caterina dal detto passava all’azione superando le difficoltà più aspre, compiendo i sacrifici più penosi.
Il dilemma dell’««/ pati, ani mori attribuito a santa Teresa, era stato prima posto dalla forte vergine senese, che al morire aveva preferito il soffrire « Bisogna, ella dice, tra le spine sentire l’odore della rosa prossima ad aprirsi > ; fu questo il pensiero costante che la guidò e la sorresse in tutte le vicende liete e tristi della sua nobile esistenza. Conosce, con l’intuito profondo della sua mente avvezza all’introspezione, che la tristezza « proviene dalla fede che noi mettiamo nelle cose caduche », e con sintesi meravigliosa sentenzia : « tanto si perde con dolore, quanto si possiede con amore » e analizzando meglio il suo concetto in un’altra lettera così conclude: « spesse volte addiviene che quando l’uomo s’affadiga in una cosa e poi non viene compiuta in quello modo ed effetto che esso desidera, la mente ne viene a tedio ed a tristezza ». Sa che i dolori più tormentosi sono quelli dello spirito ed ha la certezza che nessuna pena sarà tanto remunerata quanto la fadiga del cuore e la pena mentale.
Considerando che il dolore è lo stato abituale di tutto il genere umano, riconosce che è cosa irragionevole impazientirsi nelle avversità : < bene usando la ragione si acquista la pazienza ». Non perde mai di vista il senso pratico della vita : non bastano le buone intenzioni, se queste non si mettono in pratica: le buone intenzioni sono i fiori ; « non bastano però a me, perchè del fiore non si vive, ma dei frutti ! » Non conosce il timore, « che taglia le braccia al desiderio ». Ella, povera donna debole, sente di possedere le virtù della fermezza e della costanza e le inculca ai suoi amici spirituali « non siate foglia che vi voltiate al vento, ma fermi, stabili e costanti ». E ritornando sullo stesso concetto scrive in un’altra lettera: « Fate che io senta e veda che mi siate cosi come una colonna ferma, che per veruno vento moviate mai ».
Ella accoglie nell’anima sua la preghiera d’ogni reietto, la pura vergine comprende tutta la santità della vita, basta esser nato per meritare ogni carità, ogni perdono. Come per Cristo, così per lei non c’è il privilegio della ricchezza, della nobiltà o del sacramento. E’ certa che il suo Dio « non spregia l’anima di colui che è concepito in peccato mortale, più di quello che è concepito nell’atto del sacramento del matrimonio » (i). Cosi scriveva a frate Giusto, priore in Monte Oliveto, pregandolo di accogliere caritativamente in religione un figlio illegittimo, che a lei si raccomandava.
Nella lettera a Onorato Gaetani, conte di Fondi, consigliere e cooperatore dello scisma, scrive ; « umana cosa è il peccare ; la perseveranza nel peccato è cosa diabolica». Conosceva l’uomo e la sua fragilità, il cuore di lui e le passioni fatali; poteva così penetrare nell’intimo recesso d’ogni affetto e correggerlo dolcemente. Con eguale facilità procedeva nella sua missione sublime di paciera e di confortatrice ; così nelle sue lettere spesso accenna al gran segreto, che da lei veniva usato, nel magistero di moderatrice delle anime, e che racchiude tutta una sapienza umana, sottile e profonda. Infatti, in una di queste lettere dice così : « Bisogna col lume della discrezione sapere dare ad ognuno secondofi) Leti. Vili, voi. I, pag. 34, ediz. cit.
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che è atto a ricevere ; caritativamente correggere, facendosi infermo con loro, insieme lusingando e correggendo, secondo che vuole la giustizia e misericordia > (i).
Come San Francesco, amava la natura è le sue bellezze, lo spettacolo dei campi e dei colli toscani la sublimava: dopo il suo ritorno da Pisa all’umile casa senese, in contrada dell’Oca, si dilettò sommamente della solitudine dei campi, della bellezza dei fiori, tra cui prediligeva il giglio e la viola.
Narra Stefano Maconi, uno dei discepoli più affezionati della pia donna, che un giorno, vedendo ella dei fiori, esclamò, piena di gioia: «non vedete voi che tutte le cose onorano Dio e di Dio parlano? Questi fiori vermigli non ci mostrano apertamente le piaghe di Cristo? » (2). Ed ancora, abbracciando tutte le creature in un medesimo affetto, come già fece il poverello d’Assisi, scrive, in tono imperativo, all'abbadessa del monastero di S. Muta da Siena : « io voglio che tu sia amatrice di tutte quante le cose, perocché sono tutte quante buone e perfette e sono degne d’essere amate » (3).
In lei poi non manca il sentimento della vita civile e naturale, che però vuole dominata dal timore di Dio, retta dalla virtù della giustizia e dalla benignità, e finanche lo stato coniugale avvolge con un velo etereo d’idealità, e vuole che l’anima senta, anche in quella condizione, X odore della purità1 2 3. Caterina conosceva bene le debolezze della natura umana, sapeva a tutta prova che una delle cause, per cui il mondo si corrompe e si fa reo, è la mancanza di coraggio e di sincerità nel dire ài potenti duramente la verità senza .ambagi, senza reticenze. E quest’ardire straordinario di palesare ai grandi della terra tutta la verità semplice e chiara, non poteva mancare all’umile suora, che aveva sortita dalla natura una ricca vena d’energia virile, accresciuta dalla suggestione degli esercizi spirituali. Altrimenti no, no, io voglio, io comando, ve lo dico da parte di Gesù Cristo: sono le sue espressioni abituali. Giova notare l’accenno all’incarico avuto da Cristo, che giustifica ed attenua le precedenti frasi troppo categoriche, che possono sembrare un attestato di presunzione e di soverchio ardire. Elia dunque è coraggiosa, ma attinge questo coraggio, questo cor saldo ai sentimenti di gratitudine e di tenerezza, che sente per la Bontà infinita ; non è il suo ardire ispirato all’orgoglio umano. Ella discerne nei pericoli, non la potente sua energia naturale, che non le mancava, e della quale ella viveva inconscia, ma gli aiuti della grazia, e prova la gioia di superare quei pericoli, in forza appunto di questa grazia. Ella è forte per un intimo sentimento di abnegazione, di umiltà, di conoscimento di sé, non per piacere, per vanità, o per qualsiasi motivo puramente umano. Sono ispirati a questo coraggio sovrumano i saggi consigli che suggerisce ad un consigliere del papa, esortando a dire a questi sempre la verità, che arditamente risplende « Io vi prego che siate all’orecchio di Cristo in terra a suonargli continuamente questa verità, sicché in essa verità riformi la sposa sua. Santi e buoni pastori, ecco la verità: perocché se egli vorrà trarre la marcia di questo malore, gli conviene sostenere delle
(i) All'abate maggiore di Monte Oliveto. Lett. 33*, voi. I, pag. 146, ediz. cit.
(2) Opere. Tomo I, pag. 470.
(3) Lett. 3ÒB, voi. I, pag. 129, ediz. cit.
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FRANCESCO VANNI: RITRATTO AUTENTICO
DI SANTA CATERINA (Siena, Chiesa di S. Domenico)
(I914-XI1)
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l’umanesimo di Caterina da siena
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persecuzioni > (1). Come bene suonano a proposito queste parole, anche ai nostri giorni, per gli alti papaveri del Vaticano, che accettano, solo per gli altri, la riforma in Cristo, iniziata da Pio X.
In una lettera a papa Gregorio XI si mostra fine indagatrice dell'anima umana, e fa un’acuta osservazione sull'indole degl'italiani < Avanzi in benignità, padre, chè sapete che ogni creatura che ha in sè ragione, è più presa con amore e benignità, che con altro ; e specialmente questi nostri italiani di qua » (2). Ma non vuole la donna forte che questa benignità avanzi tanto da trasformarsi in colpevole condiscendenza, indizio di debolezza d’animo, però in una famosa lettera a Urbano VI raccomanda che alla misericordia vada accoppiata la giustizia, che è come una margarita die debba rilucere in ogni creatura ragionevole: usare la misericordia, dove è necessaria la giustizia è come trattare col balsamo la ferita, Che vuole essere incisa; imputridisce piuttosto che non sana (3).
La popolana di Siena era fornita di profondo acume, aveva il senso squisito delle cose, della vita vana di questi miseri esseri umani, che corrono affannosamente dietro l’ombra fuggevole della felicità < Che ha fatto lo stolto uomo, poich’egli ha distese le braccia e ha abbracciato tutte le delizie del mondo per desiderio? Nulla se ne trova. Egli è fatto come il frenetico, o come colui che sogna, che gli pare avere grandi diletti, e poi, svegliandosi, non si trova alcuna cosa. E così l’uomo che si desta dal sonno della misera vita, non si trova altro che pena e rimproveri© > (4). Pensa che l'amore del prossimo debba fondarsi sull’aiuto reciproco, e non nell’utilità, o in proprio diletto, perchè altrimenti non durerebbe, e l’anima nostra si troverebbe vota.
Finora abbiamo esaminato il sentimento umano che è sempre in relazione colla sapienza mistica di Caterina, tranne che in qualche caso isolato, che dimostra come la nostra autrice sapesse trarre profitto dall'esperienza, quale, ad esempio, la riflessione che fa sugli italiani, che vogliono essere presi più. con amore e benignità, Che Con altro. Ma v'è di più: Caterina in molte lettere ci dà argomento per dedurne, i fini sentimenti naturali e umani che l’adornarono. Mi limilerò a due citazioni soltanto, non consentendomi lo spazio di spigolare più a lungo nella larga messe, che mi si offre davanti. Nel primo esempio che Sto per ricordare, il Sentimento umano domato, soggiogato, ma non vinto interamente, rompe impetuoso gli argini e reclama la sua libertà. Come a tanti altri santi e serve di Dio, anche a Caterina toccò la sorte di fare la consigliera in affari matrimoniali, con quanto piacere della santa lo giudichi il lettore dalla risposta che ella scrisse a Ser Cristofano di Gano Guidini, che s’era rivolto all’esperienza della buona suora, per sapere quale di tre donne, tra cui una vedovella, dovesse scegliere per moglie.
Premesso che mal volentieri si occupa della faccenda, perchè appartiene più ai secolari che a lei, dice : « nondimeno non posso contradire al vostro desiderio. Considerate la condizione di tutt’e tre... ognuna è buona. Se non vi sentite di
(1) Leu. 285a, voi.
(2) Leu. 291a, voi.
(3) Leu. 291a, voi.
(4) Leu. 295a, voi.
IV, pag. 46, ediz. cit.
IV , pag. 62, ediz. cit.
IV, pag. 62. ediz. cit.
IV, pag. 95, ediz. cit.
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406 , BILYCHNIS
curarvi perchè abbia avuto altro sposo, potetel fare, poiché volete impacciarvi del malvagio e perverso secolo. Se lasciate però prendete quella di Francesco Ventura Camporeggi > (i). Dunque, Caterina non si pronunzia in modo assoluto, pure riconoscendo che la vedova non è cattiva, ma vi mette una condizione, che riflette un sentimento profondamente umano: se non vi sentite di curarvi perchè abbia avuto altro sposo. Non sappiamo quale delle tre avesse scelto ser Cristo-fano; ma se egli ebbe senno sufficiente e dignità d'animo sensibile, come la Benincasa, non dovette durar fatica per accorgersi, che quella di Francesco Ventura Camporeggi, doveva essere, per consiglio di Caterina, la sua legittima consorte.
Ma v’è ben altro: scrivendo con la nota sua sincerità ad una prostituta di Perugia, adopera più i motivi umani, per incorarla a mutar vita, che quelli, diciamo cosi, divini o soprannaturali. Lungi dai. minacciarle tutti i fulmini del cielo, o dal profetizzarle miserie e dolori, come avrebbe fatto ogni buon predicatore, la pura vergine, con parole commoventi mette davanti agli occhi della disgraziata il quadro vivo e pariante delle miserie d’una vita abbietta, suggerendole i mezzi opportuni per liberarsi dalla vile e obbrobriosa schiavitù. < Ohimè ’. » esclama, con una osservazione profondamente psicologica, « ohimè, se tu non '1 facessi per amore di Dio, almeno per la vergogna e confusione del mondo il dovresti fare. Or non vedi tu, tu che sei colei che ti dai nelle mani degli uomini a fare strazio, scherno e scempio delie carni tue ? Or non vedi che tu sei amata e ami d’uno amore mercenario che ti dà morte? Che tanto ami o sé" amata, quanto ne traggono o che tu ne trai diletto o utilità. E se tu mi dicessi : il non avere di che vivere mi ritrae e io ti dico che Dio ti provvederà. Ed anco ho sentito dal tuo fratello carnale che ti vuole aiutare in ciò che bisogna » (2).
V’è un’altra lettera celebre, diretta a Raimondo da Capua, biografo e confessore della senese, nella quale vien narrato un prodigio di carità e d’amore operato dalla santa: è questa la lettera così detta del condannato; il Tommaseo, facile ad esaltarsi, sentenzia subito « che questa narrazione in tempi ineffabili congiunge la terribilità di Michelangelo con la soavità dell’Angelico » (3). Non voglio dilungarmi in minute discussioni, ma esprimerò il mio modesto parere. Dirò in breve il contenuto della famosa epistola. Un nobile giovane di Perugia, Nicola Tuldo, è condannato a morte dai Riformatori di Siena, quale traditore della loro terra. Furente di dolore, l’innocente giovane maledice Dio e il genere umano e rifiuta i conforti religiosi : preti e frati ritornano dal carcere scandalizzati ; il cuore dello sventuratissimo giovane era chiuso e suggellato dalla disperazione di dovere abbandonare il mondo nel più allegro rigoglio della sua gioventù. Si chiama Caterina « da cui egli ebbe tale conforto che si confessò e mi fece promettere per l’amore di Dio di stargli a fianco sul patibolo nel giorno dell’esecuzione » (4). Con le sue ineffabili maniere, con la grazia singolare del suo viso, con le parole misteriosamente efficaci, che solo le donne sanno proci) Leti. 43», voi. I, pag. 202. ediz. cit.
(2) Leti. 276. voi. ¡V, pag. 16. ediz. cit.
(3) Nicolò Tommaseo, Leti. di S. Caterina da Siena, Cenni biografici, voi. 1, pag. 137.
(4) Lett. 278*, voi. Ili, ediz. cit.
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L’UMANESIMO DI CATERINA DA SIENA
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nunziare, ella, la consolatrice degli afflitti, raddolcì quel cuore esasperato. Donde la meraviglia? È la prima volta forse che gli uomini piegano riverenti la fronte e s’inginocchiano commossi e rapiti per le vie dei sogni, davanti all’incantò della dolcezza femminile suggestionati dal fascino di due occhi puramente ammaliatoti? Oh! quanti sventurati sorriderebbero airannunziodellaloromorte.se potessero avere la sorte che la loro Caterina fosse presente, e susurrasse alle loro orecchie le soavissime parole : « avanti, mio fedele, non temere ». Dóve è dunque il miracolo? Forse sta in ciò che la vergine inalata, cessa in quel momento d’essere donna, e più impassibile dello stesso carnefice (perchè fissa co! pensiero nel sangue di Cristo, che ritorna infinite volte sotto la sua penna con un acre sapore realistico), riceve tra le sue mani il mozzo capo del povero giovine, rimira insanguinate di rosso le sue candide vesti, e ne prova tanto piacere «che non poteva sostenere di levarsi il sangue » (1). Per me la lettera citata è uno dei numerosi documenti, in cui all’evidenza del linguaggio s’aggiunge uno spirito interiore suggestivo, che mostrano nuda l’anima allucinata di Caterina, della grande donna malata di isterismo, in preda alla più violenta autosuggestione. Tutto il racconto è come un inno di gioia, per la certezza d’aver salvato un’anima dalia morte eterna, dove tace ogni sentimento umano, e ogni senso di pietà sensibile per quel misero, condannato innocentemente, è assorbita dall’ idea fissa del sangue del divino Agnello, che aveva redento il giovane col suo amore. Sparisce finanche quell’aura soave di grazia e di feminilità che aveva prodotto il prodigio della conversione dell’impenitente, se conversione si può chiamare.
Poeti e pittori hanno sete di sanguinose visioni, di incubi, di terrori, di lacrime.: Goya, Pouget, Verlaine, Baudelaire e tutta la schiera dei simbolisti e dei decadenti di ogni età; è il sadismo dell’amore divino, la volontà isterica di disfarsi di quell’eccessivo senso interiore che li divora. Essi si agitano, cullati dalle voci, che cantano in coro le diatribe popolaresche, tra la folla insidiosa e rivoluzionaria, soffocando, nel delirio dell’anima esasperata, gridi e rantoli misteriosi. Nelle dolci penembre delle gotiche chiese, tra i primi lampi della rifulgente rinascita, risuonavano gli stabat, i dies irae, i miserere malinconici; dai vetri colorati, che riproducevano le vecchie e rigide figure degli Apostoli, del buon Pastore e della Vergine, scendeva un raggio di sole smorto, nei vesperi dorati, che riempiva l’anima della luce unica. Oh quanto fuoco di passione ardeva nell’animo della verginella, assetata d’amore di Dio quale giubilo le inondava il cuore al pensiero d’aver salvato l'anima d’un giovine dalla morte eterna, se non aveva potuto salvarlo da quella corporale! « Rimasi nella terra con grandissima invidia », con questa espressione esatta sullo stato dell’anima sua, Caterina chiude la lettera del condannato, e questa conclusione inattesa ci dà la chiave di tutte le mistiche sodisfazioni, di tutte le morali allucinazioni della vergine malata. Caterina aveva sempre con desidera affocati bramato il martirio per affogarsi nel sangue del suo dolce sposo Gesù. E martire era per lei l’innocente giovane, vittima dell'ingiustizia umana; era martire per lei, perchè, essendosi convertito,
(1) Lett. cit. a frate Raimondo da Capua.
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moriva redento dal sangue del divino agnello', ecco perchè élla l’invidiava, rimanendo sulla terra, non degna ancora d'essere battezzata Col sangue, di morire per l’amore del suo Gesù. Perciò ella diede a Tuldo tutta la soavità del suo profumo virginale, facendolo degno di poggiare il capo sul petto suo : « E teneva il capo suo sul petto mio: io allora sentivo uno giubilo e uno odore del sangue suo ; e non era senza l'odore del mio, il quale io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù» (1).
Che voluttà giovanile, sanguigna, si nasconde talvolta dietro le parvenze velate d’un Crocifisso, nel silenzio immenso della solitudine ! Sentiva l'odóre del sangue! Questa frase così cruda e ferina potrebbe sembrare indizio d’un traviamento simbolico; pure non è tale, essendo sinceramente e infinitamente correttiva. È la tinta della sensualità umana, che non s'è potuta cancellare dalla vita d'estasi e d’annegamento dei mistici più esaltati, di quella sensualità, che può farsi bigia, ma non si può torre mai interamente, e che sempre farà la sua apparizione timida, inaspettata, sotto le forme isteriche del parossismo religioso: è quel chiaroscuro non classificàbile nel gran quadro monotono del misticismo; è la tinta dunque della vita fisiologica, subcosciente, interna. La volontà la nega, avendo paura di riconoscerla, ma la dimenticata ritorna, e noi la ritroviamo quando meno s’aspetterebbe, nell’arte e nella vita del mistico. L’umanità della carne non si distrugge ; parole di amor sensuale, che la bocca non può obliare, rinascono in contatto di amori divini, troppo intensi; nelle ascensioni degli spiriti, l'anima, confusa nell’abbandono fra le braccia teurgiche dell'estasi, non trova, per quell'amore che tutto trascende, altra espressione che quella delle più potenti passioni umane.
Giosuè Salatiello.
(1) Lett. cit. a frate Raimondo da Capua.
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[1914-XII]
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DOMANI
(TRITTICO)
Passa l'aratro : a fatica apre i solchi per la sementa nuova; i cuori sono induriti e sepolti sotto le macerie di una civiltà, come le distese su cui è passato lo sterminio orrendo.
In alto, dove la bufera non sa sospingere le nubi; dove il sereno è eterno, il Genio Divino veglia e conserva immacolata la sementa.
Il mietitore che falcia mal riconosce le sue distese, coperte ieri di rovine, oggi di ricche messi, e pensa :
« Quella sementa è buona ».
Paolo Paschetto.
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GUARDANDO LA MORTE (*>
Unde anima, atque animi consta natura, videndum Et quae res nobis vigilantibus obvia, menteis Terrifica, morbo adfectis, sonnoque sepultis Cernere uti videamur eos audireque coram Morte obila quorum tellus ampleailur ossa. Lucrezio.
a morte è — per i vivi — qualcosa più che una maestra: è una seconda vista. Come i raggi catodici, colora e profila in un modo particolare alcuni aspetti della realtà che normalmente ci sfuggono.
La immobile figura d'un cadavere tocca sempre, anche negli scettici, le più intime sensibilità dello spirito, destando vibrazioni normalmente ignorate. La fiammella votiva che palpita in una cappella funebre lambisce insieme il marmo che racchiude la morte e la maschera di carne che nel visitatore racchiude la viva essenza dell’uomo, creando un mistico vibrante legame tra i misteri della morte e i misteri della vita.
Quanti legami oggi!
Oggi più che centomila cadaveri giacciono su la terra concimata dal cannone ; giace insieme il cadavere d’un’epoca e della sua civiltà. Oggi innumeri fiammelle — quanto pieni di suggestione e di significato i fuochi fatui'. — vagano sui campi d’Europa a segnare le vite che si spengono — forse perchè la vita non si spenga sotto il soffio d’una tragedia di cui l’intelletto non riesce ad afferrare che l’esteriorità materiale, segnata da le scie di cadaveri, da le ondate d’invalidi, dai gorghi di odio che la guerra lancia dietro di sè, sui focolari non ancor spenti della vecchia civiltà, non più contemporanea.
L’uomo si sente piccolo di fronte alla grande tragedia e cerca un quid o un quidam di molto grande, al di sopra dell’uomo e dell’immenso cimitero in cui egli si sente sperduto. . ..
Iddio o il Destino? Certo qualcuno o qualcosa molto superiore al nostro livello e alle nostre capacità. Se di fronte alla morte singola ogni uomo sente in qualche misura vibrare un’anima attraverso i tessuti delle sue carni e pulsare nelle pulsazioni
* Sulla guerra diremo il nostro parere con tutta franchezza. Ma desideriamo che i nostri lettori sentano anche il parere degli altri. Ringraziamo il Fancello d aver voluto approfittare della libertà che ad ogni anima sincera e libera saremo sempre lietiidi offrire in Bilychnis. lRED J
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BILYCHNIS
delle sue vene, di fronte alla morte collettiva egli scopre un ordine nel disordine, intravede una logica nell’assurdo, l’unità nella contraddizione. La vita è più ampia e complèssa dei nostri schemi intellettuali. E solo in momenti eccezionali come il presente noi ci accorgiamo che essa procede a traverso la morte e si confonde con questa da cui solo la limitazione del nostro angolo visuale s’illude di distinguerla. Noi siamo commossi dalla tragedia che lancia centinaia di migliaia di esseri gli uni contro gli altri, ma se la nostra sensibilità morale fosse completamente eccitabile o completamente sorda noi non saremmo ogni giorno nè più nè meno commossi di quanto oggi siamo. Uno spirito universale apprezzerebbe con identica valutazione la guerra europea e la guerra spaventosa e feroce che innumeri individui combattono nel breve cerchio d’una goccia di sangue di tifoso. Il logorio di vite che si compie accanto alle trincee della guerra umana, non apparirebbe al mondo — se questo avesse la virtù dell’autoispezione — diverso dal logorio di vite attraverso il quale si manifesta e si perpetua la vita in un essere, in un tessuto 0 in una semplice cellula animale o vegetale.‘Lo spermatozoo e l’ovulo, che s’annientano e scompaiono perchè sorga l’uomo, sintetizzano insieme la vita e la morte. Il più verde dei prati, il più fiorito giardino, la più deliziosa foresta sono insieme un trionfo della vita e una tragedia quale Eschilo non seppe scrivere. Sono un camposanto e un campo di battaglia. Individui innumeri che si distruggono e che creano. Il filo d’erba che dalle pendici di un burrone si erge faticosamente verso il cielo vincendo l’ostacolo del macigno, alla ricerca faticosa di un raggio di sole, rappresenta lo sforzo concorde di un esercito di elementi la cui tensione verso la conquista non è meno drammatica dello sforzo d’un esercito umano in marcia alla conquista d'uno sbocco sul mare. E il filo d’erba vive e quanto più vive, cioè quanto più si tende nello sforzo d’una conquista, tanto più numerosi drammi individuali riassume nel breve spazio del suo corpo. Questi drammi implicano delle trasformazioni materiali: a queste, soltanto a queste, hanno volto lo sguardo i filosofi del materialismo, dei quali nessuno ha saputo superare il grande Lucrezio. Ma la trasformazione della materia non ci dà nè il senso della vita nè il senso della morte. La realtà è creazione, è divenire dello Spirito. La vita e la morte non sono che parvenze frammentarie e fallaci. La realtà le riassume come il bianco riassume i colori dell'iride. Ma la nostra coscienza è incapace di abbracciare la sintesi. La morte e la vita sono dunque i documenti della sua impotenza.
Se mai lo spirito umano, confondendosi con lo spirito universale, riuscirà a superare l'abisso che la frammentarietà degli individui scava tra la vita e la morte; se gli uomini riusciranno mai ad essere Umanità, lo spirito umano sarà Iddio.
Les philosophes critiques ont fait de l'univers ce que les phisiologues ont fait de l’homme vivant :
un cadavre.
Saint-Simon.
La mèta è lontana, ma la drammatica marcia dello spirito procede. Noi lo vediamo. Vediamo l’individuo riassorbito dalla collettività, vediamo gli aggruppamenti umani sopravalutare attraverso valori relativi e contrastanti un unico valore assoluto: l’azione.
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GUARDANDO LA MORTE
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Gli uomini combattono. Volevano combattere? In grande maggioranza no. Ma l’uomo singolo non è oggi che un piccolo frammento della sua collettività e questa collettività è mossa realmente da una fatalità storica. Noi vediamo gli uomini abbandonare le abitudini più inveterate, rinnegare i principi più fanaticamente seguiti, per accorrere dove chiama l’azione. Una necessità sovrasta e domina la volontà dei singoli: come l’ebreo errante, l’uomo è sospinto da una forza ignota versoi l'ignoto. Una rivoluzione si compie tumultuosamente come un’eruzione vulcanica. Molteplici elementi contrastanti trovano la loro unità nello scoppio. La vita è tutta rivoluzionaria. È drammatica sempre, sebbene solo in una minima parte dei casi il dramma trovi eco nel nostro cuore.
La creazione è un succedersi drammatico di grandi e di piccole rivoluzioni. Sul balcone dove una pura fanciulla alleva fiori candidi o purpurei, ella non sospetta neanche che sotto i suoi occhi si compiano delle rivoluzioni. Ma là vita delle piante come quella degli animali è un succedersi di rivoluzioni. Lo è sopra tutto il loro progresso. La teoria dell’evoluzione tranquilla, senza creste e risucchi, come mare di olio, è caduta. Interrogate De Vries: l’evoluzione è un succedersi di scoppi. Con licenza delle massime tradizionali, natura fácil saltus. Il salto è anzi il segreto della creazione. La dimostrazione del Bergson riguardante l’evoluzione dell’occhio, implica una confutazione definitiva delle vecchie dottrine evoluzioniste. La spaventosa catastrofe della guerra non può essere forse una crisi di creazione? Il nostro amore per la pace non può essere semplicemente la legittima forza di conservazione di un periodo storico che prima o poi le forze di rivoluzione devono sommergere?
Può sembrare paradossale, ma è perfettamente legittimo che l’amore per la pace si trasformi in amore per la guerra, non appena una guerra catastrofica scoppia.
Diete tieni du plus haut des Cieux le riñes de lous le Royaumes... Veul-il faire des conque-rants? Il fait marchcr l’épouvant devant eux, et il inspire à eux et à leur soldáis une hardiesse invincible. Bossuet.
La guerra è una cosa terribile. I popoli non la desiderano: la temono. Tuttavia quando essa scoppia, lanciandoli in un profondo disordine, il pensiero fondamentale di tutti i popoli è il pensiero di un ordine supremo. La mentalità del Bossuet oggi può far sorridere, se considerata a mente fredda, vorrei dire intellettualisticamente'. Un Dio che tiene le redini dei governi e si occupa e si preoccupa di marcie e di conquiste non è un Dio, ma un uomo. E pur sarebbe ben sciocco sorridere d’un fatto psicologico di enorme importanza. È precisamente un fatto il ravvivarsi della fede e delle speranze religiose in conseguenza della guerra. Solo alle menti volgari può sembrar grottesca la contemporanea invocazione di Dio da parte di tutti i belligeranti. Appunto perchè Dio non è un uomo, esso può comprendere in unica esaltazione gli sforzi vitali più contrastanti, così come noi riassumiamo nella nostra vita individuale il processo di elementi in contrasto. L’interessante è la vivezza di tali sforzi vitali, la intensità dell’azione. E se alla vigilia dei grandi cimenti l’animo chiede il soccorso della religione, in tutte le sue forme dalle più ingenue alle più alte, questo vuol dire
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che tra fede ed azione v'ha nesso innegabile. « Dio è la vita, nella sia universalità assoluta, nella sua unità e nella sua molteplicità. La specie umana nella sua vita collettiva, attraverso alternative di ordine e disordine, di pace e di guerra, allargando senza posa la sfera della propria attività s’è elevata progressivamente all’amore, alla conoscenza, alla pratica della vita universale, di Dio. E la storia del suo sviluppo non è altro che la storia della sua religione». Parole saint-simoniane che non difettano di suggestione.
La storia della guerra (ch’è poi la storia dell'umanità) s’intreccia assai spesso con quella della religione: non per nulla P. I. Proudhon ha potuto scrivere un interessante capitolo su la guerra come fonte dell’ideale!
Gli uomini che si combattono col ferro e col fuoco possono da ambo le parti di una trincea servire un’unica missione storica. La formazione spirituale dell’uomo s’intesse sul canovaccio della sua organizzazione politica e della sua distribuzione territoriale. Piccole cose in fondo, ma che hanno la loro importanza. Spesso un’importanza diversa da quella preveduta. La calata dei barbari su Roma non ha ucciso il romanismo, lo ha trovato boccheggiante e lo ha rinvigorito di nuovo sangue incorrotto. La vittoria del cristianesimo antipatriota e pacifista ha aperto un periodo di epopea. Oggi nello stesso modo, i negatori della patria, gli assertori dell’internazionale sono in tutti i paesi i combattenti più entusiasti e disinteressati. La disciplina internazionale del socialismo era forse necessaria perchè meglio trionfasse il principio di nazionalità ?
Gli ideali sono forme e contingenze, ma l’ideale è la realtà feconda e immanente. V’ha qualcosa di profondo nel detto di Augusto Comte che la religione è come la salute: non vi possono essere varie saluti e non vi può essere che una sola religione. In realtà la salute non è che l’espressione complessiva d'una vita fisiologica progressiva, ma essa non è unica, è molteplice quanto molteplici sono gli individui in cui tale vita s’incarna.
. ... Maeslosa, come un'armata a bandiere spiegale.
Cantico dei càntici;
Perchè la guerra ha un fascino? Si può, come nel Cantico dei cantici dipingere la bellezza di una donna coll’evocazione d'un esercito in guerra? Una guerra non è bella. Gli uomini che si scannano hanno tutti un atteggiamento che contrasta col nostro gusto estetico. Gli uomini che si sono scannati conservano nella loro tomba inulta delle smorfie orribili. Ogni giorno che passa la guerra diventa meno bella: perde anche quella suggestione mostruosa che i vecchi « corpo a corpo » potevano avere. Oggi l'uomo che cade in battaglia molto spesso non differisce, se non per l’espressione dell’odio, da l'uomo che stramazza colpito da una tegola. Persino negli attacchi alla baionetta, la baionetta funziona assai poco: la grande maggioranza dei caduti durante tale attacchi cade per mitraglia, non già in una lotta veramente individuale. I prodigi di valore, quali gli uomini non combattenti immaginano, sono più o meno fantastici : la guerra diviene ogni giorno più resistenza alla falce della morte anziché formidabile uso di tale falce.
Perchè dunque la guerra ha tanto fascino?
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La bellezza della guerra sta solo nell’esaltazione ideale che di solito l’accompagna. È eroe l’uomo che abbandona gli agi della pace per arruolarsi volontario; è assai meno eroe l’uomo che muore in battaglia colpito da un proiettile anonimo ch’egli non ha la possibilità nè di affrontare nè di evitare. La guerra è bella solo perchè noi la rendiamo bella, col nostro entusiasmo. Il suo fascino sta nella nostra valutazione soggettiva dell’azione.
La guerra non è bella nella sua distesa di cadaveri scomposti, nella sua teoria di mutilati.
La guerra è bella perchè l’individuo si confonde nella collettività, perchè le collettività sentono che la crisi accelera il ritmo della storia, mutandone forse il corso, costruendo sempre la piattaforma per il periodo di pace successiva.
Il fascino della guerra sta semplicemente nel suo carattere catastrofico. E la catastrofe non è che azione, azione ultrapotente ed esplosiva. Ma non sorge improvvisamente dal nulla. È l’esplosione di forze accumulatesi durante il periodo pacifico. La vita è fatta così. Tenta un’infinità di nuove vie: in alcune di queste si perde senza risultati come l’acqua in rigagnoli morti che non trovano sfogo; in altre raccoglie le sue energie destinate a divenire travolgenti come l’acqua che accresciuta lentamente in volume travolge l'ostacolo che ne ha favorito l’accumulazione e precipita con violenza.
La guerra è bella perchè è azione. Ma forse giungerà il giorno in cui l’azione dell’uomo non si risolverà nella soppressione del proprio simile. Se gli uomini riusciranno mai a divenire Umanità, la guerra cesserà di essere bella, poiché cesserà di essere paurosa la morte.
Lo spirito umano, superando le vicende della materia, conoscerà la propria immortalità divina.
Lo spirito umano sarà pienamente Iddio.
Nicolò Fancello.
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IL PANISLAMISMO E IL PANTURCHISMO NELL’ATTUALE MOMENTO POLITICO.
olto si parla e molto si discute in questi anni e per molti anni ancora e si discuterà dei pericoli che corrono il mondo e la civiltà europea,t'se pure di civiltà europea ancora è lecito parlare fra tanto scatenarsi di barbariche lotte.
Fra i pericoli che si sono segnalati all’orizzonte politico, oltre al panslavismo e al pangermanesimo, oltre al pericolo giallo e al pericolo nero, ci sarebbe un pericolo proveniente dalla mi
naccia di coalizióne del mondo musulmano contro il mondo cristiano.
Siccome di questo come di altri argomenti si può essere indotti a parlare portati spesso più dalla fantasia e dal sentimentalismo che dalla conoscenza della realtà, dirò brevemente a quali conclusioni sono giunto dopo aver studiato la quistione fra uomini e libri vissuti e venuti alla luce nei tre più grandi centri dell’Islamismo, nella Turchia, nella Persia, nell’Egitto, conclusioni che forse saranno smentite dai fatti storici perchè la storia è piena di menzogne, come è una menzogna e un controsenso la guerra attuale in tanto progredire di istituzione e di idee civili, in tante mendaci assicurazioni di ricchezze e di pace.
Fin dal suo primo apparire l’islamismo entra in lotta, dalla Siria fino alla Spagna, col Cristianesimo e dopo alterne vicende di splendori e di tenebre l’uno, l’islamismo, si vede dominatore dell’oriente, mentre, l’altro, il Cristianesimo, è padrone dell’Oc
cidente.
Sul finire del secolo xvn, comincia per l’IsIam un periodo di decadenza che diventerà, fino ai giorni nostri, sempre più acuto. E di questa decadenza se pur non s’accorge la massa del popolo orientale che nelle sue fatalistiche induzioni si culla, poco pensando alle passate glorie, se ne preoccupa invece la classe dei pensatori che vede giorno dopo giorno tanti e tanti popoli musulmani passare sotto il dominio straniero. E cominciano allora i lavori d’indagine. Si studiano i motivi della grande disgregazione e se ne cercano i possibili rimedi. Gli uni l’attribuiscono alla forma attuale della religione islamitica e cercano di riformarla fondando sette potenti quali sarebbero il Wahabitismo in Arabia, il Babismo in Persia, il Senussismo, che noi abbiamo conosciuto per non facile e ancor non completa esperienza, nel nord dell’Africa. Altri l’attribuiscono a quella mancanza di movimento intellettuale che si verificò specialmente in Egitto e in Turchia. Altri credettero di trovarne la ragione
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nelle forme di convivenza sociale e nella triste condizione della donna musulmana alla cui emancipazione lavorò specialmente il riformatore egiziano Kàsim Bey Amìn.
Altri, più numerosi assai, sfidando la prigione, l’esilio e la morte, videro e giustamente proclamarono che essa era dovuta alle imperfezioni dell’organismo politico e amministrativo. E qui moltissimi furono i progetti di riforma. In essi dominano tre tendenze speciali: l’una è quella professata dai panislamisti, l’altra è quella dei panturchisti e l’altra, di molto meno potente, è quella degli ottomanisti.
Sebbene l’idea del panislamismo sia quella che pervade tutto il Corano, pure, per farsi strada, dovette trovare i suoi propugnatori. Primo fra tutti fu il persiano Djemàl-ed-Dìn, che, sebbene perseguitato e cacciato dagli inglesi, riuscì ad avere una grande efficacia nelle Indie, nell’Egitto e nella Persia.
Secondo i panislamisti il mondo cristiano, ad onta di tutte le sue divisioni in razze e in nazioni diverse, agogna alla distruzione degli stati musulmani. Le nazioni musulmane non sono considerate come le nazioni cristiane davanti al diritto internazionale, e come pretesto agli attacchi e alle umiliazioni che i musulmani devono subire si dice che essi sono barbari e crudeli. D’altra parte si reprimono con mille sforzi i tentativi di evoluzione e di riforma che si fanno in molti paesi musulmani. E perciò il novanta per cento dei popoli musulmani, dall’isola di Giava al Marocco, in meno di tre secoli è caduto sotto il giogo europeo e si aspetta il momento di prendere quel poco che è ancora l’oggetto della cupidigia di molti. Per questi motivi il panislamismo ha per programma la formazione di un’alleanza difensiva tra i musulmani del mondo intiero per salvaguardare la propria indipendenza, per ridarla a quelli di loro che non l’hanno più e per acquistare gli elementi del progresso e della forza degli stati europei.
Protetti da Abdul-Hamid i panislamisti riuscirono a estendere la loro influenza nell’Afganistan, nell’india, nell’Africa centrale, nel Sudan, nella Cina e nel Turr kestan orientale. Una missione fu mandata anche nel Giappone.
La Turchia e specialmente Costantinopoli diventarono allora il centro ove affluivano tutte le notabilità del mondo musulmano. Profughi musulmani di Russia e dei paesi balcanici ivi accorrevano e si davano ad un’attiva propaganda panislamitica esercitando una forte influenza sui loro correligionari di tutto il mondo musulmano. E quest’influenza fu rafforzata specialmente dalle consuetudini e dai riti religiosi di cui i fautori del panislamismo si servirono come mezzo di divulgazione delle loro idee. A mo’ d’esempio il famoso pellegrinaggio che milioni di musulmani fanno ogni anno alla Ka'ba, non è più soltanto la tradizionale visita imposta da Maometto a quel santuario ov’è conservata la nera pietra, oscurata dai peccati degli uomini, ed ivi portata dall’arcangelo Gabriele, ma è un vero e proprio congresso politico ove, in separata sede s’intende, si riuniscono le grandi personalità e i pensatori del mondo musulmano per discutere fratermamente sul destino futuro dell’Islamismo.
Tutti i giornali musulmani, salvo quelli protetti e fondati dai dominatori cristiani di alcune provincie islamitiche, propagano le idee del panislamismo e alcuni ne sono persino gli organi ufficiali.
Ma il punto debole del panislanismo è di non avere un'organizzazione, nè una direttiva ben netta nel suo lavoro. D’altra parte quelle opere panislamitiche non sono
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state fatte che da immigrati, cioè da musulmani originari di paesi che hanno perso la loro indipendenza. Gli ottomani d’origine parlano, è vero, assai di islamismo ma ne parlano sotto l’aspetto panturchista, trattando in un modo i propri connazionali e in un altro i musulmani delle altre regioni.
Ma se è vero che il panislamismo non ha una solida organizzazione è anche vero che l’idea di solidarietà contenuta nella fatalistica religione dell’IsIam è tanto potente che nella recente guerra italo-turca abbiamo visto i Senussiti unirsi con gli Arabi e coi Turchi per combattere l’esercito invasore. E vien fatto di domandarci se, domani, di fronte a un più grande pericolo, od anche per puro fanatismo religioso, si sapranno unire tutti i musulmani e se ciò sarà loro conveniente.
Per dubitare della possibilità della loro unione universale, anche senza escluderla aprioristicamente, non v’ha che da analizzare da vicino una forma del panislamismo: il panturchismo.
Gran parte degli ottomani turchi agognano alla fondazione di un grande impero turco, analogo a quello degli Ommiadi e degli Abassidi. In esso la Turchia avrebbe il predominio assoluto. La Persia, dunque, che ha già un’organizzazione costituzionale, dovrebbe scomparire. E la Cina e il Giappone, specialmente, che si sono lanciati sulla via della civilizzazione occidentale dovrebbero, forse, fare molti passi indietro.
Lungi dal lavorare, dunque, a un’intesa tra tutti i musulmani, essi professano una profonda ostilità per gli Sciti, abitanti a nord del mar Nero e del mar Caspio, e per-tutti quelli che non riconoscono la supremazia del Sultano.
Secondo il loro punto di vista la Persia sarebbe il maggiore impedimento alla costituzione di quell’impero essendo essa una barriera di divisione tra la Turchia da una parte, l’india, l'Afganistan e il Turkestan dall’altra.
La politica ostile alla Persia, instaurata da Seltm I. ha raggiunto, anche per il ricordo delle lunghe lotte religiose, una delle sue fasi più acute, da quanto mi risulta da conversazioni avute con ufficiali persiani che, come quasi tutti gli ufficiali di quell’esercito, compiono i loro studi nella scuola di Saint-Cyr a Parigi.
Un altro impedimento al raggiungimento dell'ideale panturchista è la conquista pacifica che la civilizzazione europea ha compiuto in alcuni stati musulmani. In Persia, nel Giappone e nella Cina stessa si è cominciato a studiare la civiltà europea e ad imitarla forse col fine di diventar forti e civilizzati per difendere la propria religione; si sono adottati i metodi scientifici e amministrativi europei e le relazioni con gli stati d’Europa anziché inasprirsi sono diventate tanto intime e frequenti da poter stringere fra di loro contratti di commercio e vere e proprie alleanze politiche.
L’idea del nazionalismo turco appare dunque sotto forma di quistione storica e scientifica piuttosto che sotto veste di dottrina politica. E ancor questo è un impedimento al raggiungimento del suo scopo. Si vuole rinnovare l’antica potenza, si agogna alla creazione di un impero simile ai grandi imperi dei califfi Ommiadi che, fino in Còrdova, nella lontana Argentina, avevano fondato un califfato. Si vorrebbe ritornare alla potenza acquistata dagli Abassidi coi loro trentasette potenti califfati. Ma non pensano i panturchisti ottomani, che altri popoli dell’IsIam potrebbero
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avere gli stessi più o meno fantastici sogni e potrebbero voler rinnovare la loro primitiva grandezza. Infatti non v’è paragone possibile fra la gloria della Grecia antica, della Persia, dell’Arabia, dell’Assiria e dell’Egitto e quella della Turchia antica. Il nome turco non ha, per molto tempo, evocato altro che i terribili ricordi barbarici di Attila, di Djenguiz Kan, di Hulagu e di Timur Lenk e solo in questi ultimi anni gli studiosi finlandesi, ungheresi e russi hanno tratto a onor di scienza la turcologia. Ma quel tanto che hanno fatto è bastato per suscitare lo « chauvi-nisme» turco che non s’accorse che la propria scienza e la propria scarsa letteratura altro non fu che un’ imitazione di quella persiana, prima, una copia servile di quella francese, poi. Cotesto però non è che un tributo di riconoscenza verso quegli storici (1) e quei letterati francesi, alla Pierre Loti, che contribuirono molto ai risveglio dell’orgoglio nazionalista turco con i loro eterni canti su « l’incantesimo dell’oriente » (2), su la seduzione dei suoi « harems » (3), su gli uomini dai « tarbusc » e dai « cafetans », su le « donne velate » e su tutto quello che il Loti chiama « la grande luce dell'oriente ».
Il governo di Budapest, più pratico dei letterati francesi, cercò di favorire e di attrarre a sè i panturchisti. Fondò, accordandole un’annua sovvenzione di 4000 corone, la « Società Turaniaria » e mandò in Turchia molti scienziati e scrittori che furono, in questi ultimi anni, i più intimi amici dei Giovani Turchi.
L’argomento dei panturchisti per giustificare la loro dottrina, ispirata senza dubbio dal pangermanesimo e dal panslavismo, è la necessità .di fondare una grande nazione turca che possa resistere all’influenza delle razze latine, slave, anglosassoni e germaniche, e la base della loro dottrina vorrebbe essere la filosofia contemporanea stessa. Essi, unendo la teorìa della grandézza e della decadenza delle nazioni, posta dal Montesquieu, a quella dell’evoluzione sociale dello Spencer, fanno questo facile ragionamento. Vi sono fra le nazioni delle razze e dei paesi che s’avviano alla decadenza, altri che sono giunti all’apogeo della loro forza e della loro ricchezza ed altri che cominciano soltanto ora ad evolversi. A questi appartiene l’avvenire.
Fra le nazioni in decadenza ei sarebbe la Grecia, la Persia e l’Egitto. Le nazioni europee sarebbero giunte all’apogeo e comincierebbe la loro decadenza.
La Turchia invece, entrando ora nella via del progresso e della civiltà, avrebbe dinanzi a sè il più brillante avvenire. Le forze fisiche dei Turchi essendo come allo stato primitivo della vita umana e i loro nervi non essendo stanchi nè per studi, nè per applicazione profonda, essi potranno essere i sovrani dell’avvenire.
I caratteri guerrieri della loro razza, noti alla storia per le gesta degli Unni, dei Mongoli, dei Massageti e dei Tartari, risvegliano in essi molti ricordi e alimentano le loro speranze di futura forza e grandezza.
I loro scrittori amano mettere in rilievo l’opposizione perpetua tra gli Ariani e gli abitanti turchi del Turan. Respingono qualsiasi teoria che volesse dimostrare l’influenza Che la razza ariana esercitò sulla civiltà e su la lingua turca sebbene si
(1) Primo e tipico è il Léon Cahun: Introduction à l'histoire de l’Asie.
(2) Vedi: Loti, Fantôme d* Orient, pag. 4.
(3) Vedi: Loti, Les trois dames de Kasbah.
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sappia che, se l’antagonismo religioso non vi si fosse opposto, la lingua persiana sarebbe. ora lingua ufficiale anche in Turchia. Secondo questi scrittori, nemici della Persia e della Grecia, bisogna escludere dalla lingua turca tutti gli elementi arabi e persiani e conservare solo gli elementi turanici o turchi.
Alcuni di essi sostengono che è la razza turco-turaniana che ha dato all'Oriente, se non all’intiera umanità, la sua primitiva energia e dividendo la storia dell’islamismo nei tre periodi arabo, persiano e turco, sostengono che a quest'ultimo spetta ora la direzione del mondo islamitico. «
Ma essi hanno dei nemici da combattere e questi non sono soltanto fra i Persiani e i Greci, ma eziandio fra i Turchi ottomani. I primi loro nemici sono i partigiani del panislamismo che considerano il panturchismo come un elemento di discordia e di future inevitabili rivalità e lotte fra i vari popoli musulmani, come il principio distruttore della fratellanza religiosa essenziale nell’islamismo. I secondi sono i fautori dell’ottomanismo che cercano di mantenere lo stato attuale delle cose, cercano di avvicinarsi all'Europa e riprovano la politica imperialistica dei panturchisti.
I risultati pratici del panturchismo sono ora già assai evidenti e forse lo saranno più che mai in avvenire se l’accortezza degli altri popoli musulmani, trasportati da falsi preconcetti religiosi, non impedirà questo trionfo dell’egemonia turca.
Già i dirigenti turchi volgono tutta la loro attenzione verso la parte turca del loro paese, cioè verso l’Asia Minore, e lavorano al suo sviluppo intellettuale, econòmico ed anche lettarario, mentre dallo Yemen, dal Hedjaz, dalla Tripolitania e dal-l’Irak s’innalzavano e ancora s'innalzano i lamenti delle persone colte per le deplorevoli condizioni in cui il governo turco li lasciava e tuttora li lascia; lamento tanto più sentito quanto più il governo inglese, in Egitto, e quello francese in Tunisia, facevano sentire i benefici effetti della civiltà europea che, rispettando, nel più lato senso della parola, le libertà religiose dell’IsIam, cercava di portare in quelle contrade la cultura e la ricchezza assieme con l’emancipazione da uno stato che, sebbene islamitico, dimostrò di non saper governare i musulmani meglio di quanto ora li governino gli stati della vecchia Europa, i quali, ossequenti alla formula cavou-riana, lasciano che l'islamismo sia liberamente praticato anche all’ombra della croce cristiana.
Firenze.
Silvio Pons.
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(fatalità e vita nel Gattolicismo.
I GESUITI ALL’AVANGUARDIA: INTEGRALISMO E MINIMISMO IN AUSTRIA - IL P. KOLB -LA NUOVA POLITICA DEI GESUITI - GLI ARTICOLI DEGLI « ETUDES » E LE DIFESE DEGLI INTEGRALI - LOTTA A COLTELLO. IL TRAMONTO D'UN REGNO: SINDACALISMO CRISTIANO - LA SOCIOLOGIA LEGITTIMISTA - IL DISCORSO DI PIO X AI NUOVI CARDINALI - L’ULTIMA CONDANNA - LA MORTE DI PIO X. PIO X: UN ESPERIMÉNTO DI PAPATO RELIGIOSO. # BENEDETTO XV: GLI ALBORI D’UN NUOVO REGNO.
I ultimi mesi del pontificato di Pio X non hanno avuto dimostrazioni esterne molto rumorose da richiamare lo speciale interesse della pubblica attenzione. La sola eccezione può esser costituita da qualche elezione politica suppletoria e dalle elezioni amministrative. Ma non sono mancate, per contrario, le continue e sempre più vivaci lotte interne del clericalismo, le gravi polemiche — in cui tutto trovava posto fuorché la carità —- le ire, le
denunzie, le vendette, lejinfinite miseriole di un mondo in isfacelo. Nè ciò in Italia soltanto: che anzi mentre da noi non si trattava che di un seguito di aspri dissidii, altrove — come in Austria — le audacie di una parte dei clericali, i papali integrali, elevatisi a giudici ed a maestri dello stesso episcopato, provocavano una forte reazione che mostrava come anche nella terra del quietismo non bisognava lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze.
Ivi, infatti, come in Italia, in Francia, in Germania, il fuoco ardeva seppur latente, e perchè si levasse la fiamma bastò che il dispetto di un prete giornalista, il direttore del Sonntagsball che già aveva preso posizione, sostenuto dagli « integralisti » d'Italia, contro l'altra stampa clericale austriaca, rimuovesse le ceneri. E ciò avvenne in seguito al Congresso cattolico di Linz, tenuto nel luglio 1913. Quel prete vi aveva presentato un memoriale da porsi in votazione, nel quale si domandava la restituzione al papa non solo di Roma, ma di tutti gli ex-stati pontifici. Il presidente del
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Congresso respinse il memoriale che non venne neppur menzionato negli Atti. Ciò accese di sdegno lo zelante giornalista il quale cominciò una furibonda campagna contro alti personaggi clericali non risparmiando neppur l’arcivescovo di&Vienna.
Ciò produsse, naturalmente, un vivo fermento contro l’intrigante il quale però insisteva nella sua campagna, appoggiato e confortato da alte protezioni particolarmente nell’aristocrazia femminile.
Le quali protezioni non erano soltanto platoniche. Infatti una delle sostenitrici più attive del prete Maus e della Lega della Gioventù Cattolica che a lui faceva capo, la contessa Chotek, cugina della consorte dell'allora granduca ereditario, recatasi a Roma ed ottenuta udienza dal pontefice, gli espose, a modo suo, le lotte ed i dolori dei suoi amici austriaci. Ritornata a Vienna, essa, a mezzo della Lega, fece distribuire a migliaia di copie un foglietto contenente le dichiarazioni precise fattele dal papa, le quali erano di questo tenore:
Vi ringrazio per tutto ciò che avete fatto, per ciò che fate e per ciò che farete e benedico l’opera vostra. Io sono perfettamente informato di tutto e so tutto. Dite alla vostra gioventù che la benedico e la esorto a continuare il suo lavoro come ha fatto finora, sènza perdersi di animo. Se anche alcuni sono contro di voi e vi creano delle difficoltà, non abbiate timore. Il Signore vi aiuterà. Dite pure a tutti che là S. Sede è co» voi. Vi ringrazio, cara contessa, per la vostra visita. Sono lieto di avervi veduto e benedico nuovamente la vostra gioventù, la vostra lega, i vostri parenti e tutti i vostri collaboratori.
L’arcivescovo di Vienna, che aveva già disapprovato l’atteggiamento del Maus e dei suoi proseliti, non tollerò che la sua autorità venisse diminuita ed inviò per suo conto persone di fiducia a Roma per avvertire il papa che la sua buona fede era stata sorpresa. Pio X fece allora delle dichiarazioni che tranquillizzarono l’arcivescovo ed i suoi partigiani. Ma gli avversari non si dettero per vinti e continuarono, nonostante la condanna dell’arcivescovo, a sostenere di essere gli interpreti fedeli della volontà del papa e di goderne l’intera fiducia. E facevano correr voce che la loro protettrice possedesse una lettera pontificia in cui si diceva che stesse pur di lieto animo e continuasse nella lotta intrapresa. Così il Vaticano fu costretto ad intervenire ufficialmente in questo comico duello, deplorando in una lettera all’arcivescovo, in data del 26 gennaio, che fossero state travisate « la natura e la sostanza di parole dette dal papa in un'udienza puramente privata, concessa ad una ben nota persona di Vienna ».
Ma sembra che gli integrali non si acquietassero alle parole del papa, poiché verso la fine del marzo, uno dei più noti gesuiti austriaci, il p. Kolb, in una adunanza del Pius-Verein, una delle più importanti associazioni cattoliche dell'Austria, alla presenza dello stesso arcivescovo di Vienna, faceva una carica a fondo contro gli integralisti, denunziando la campagna di sospetti e di denigrazione a cui essi si dedicano. E ricordava le parole pronunziate poco tempo prima dal Primate di Ungheria: « I cattolici integrali non agiscono da Cristiani ».
Il Corriere della Sera di Milano (28 marzo), commentando questo discorso del gesuita austriaco, scriveva:
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E un fenomeno notevole, che tanto in Austria come in Germania, i gesuiti i quali passavano finora come i paladini della intransigenza, si associno oggi al movimento di protesta e di reazione sollevato dall’eccesso dell'anti-modernismo.
Certo questo movimento andrà sempre accentuandosi e, come si è già avvertito, preparerà l’indirizzo politico del prossimo pontificato.
U Unità Cattolica, dal canto suo, rispondendo il 9 aprile al p.'Kolb ed al Corriere dopo aver constatato anch’essa che « i gesuiti di Vienna, dopo avere avuto soddisfazione nel caso Sonntagsblatt. assumono posizioni di attacco — la seconda dopo l’articolo degli Eludes — non solo, ma di direzione del movimento contro gli integrali », proseguiva:
Noi cattolici papali, intransigenti, confessionalisti, integrali, siamo soggetti ad errare come tutti gli altri figlioli di Adamo. Nel'combatter l’errore del modernismo e del liberalismo possiamo offendere la verità per eccesso come altri la offendono per difetto.
Noi sappiamo che nel combattere una eresia, nella storia del cristianesimo, non pochi andarono nell’eccesso contrario. Contro i nestoriani si ebbero i monofisiti. Avviene questo anche oggidì? Noi cattolici integrali professiamo uno o più errori per eccesso di difesa contro l’immanenza, o contro l’aconfessionalità? Orbene, ci si dica quale è il nostro errore, e il nostro eccesso, sia per potercene correggere, sia perchè non si abbia, ora, una nuova inutile e nociva parata di PP. Gesuiti dietro i quali si schierino come l’altra volta tutte le schiere aconfessionali, interconfessionali, e liberali dell’Europa,
Il giornale fiorentino peccava di ingenuità nel domandare quale fosse la colpa sua e dei suoi amici, ma il suo accenno alla parata dei PP. Gesuiti era storicamente giusto.
Questi, infatti, sembravano aver preso posizione all’avanguardia nella lotta contro i « cattolici papali, intransigenti, confessionalisti, integrali ». In altre parole, dato il fatto che il vecchio papa Pio X proteggeva indubbiamente — salvo casi particolari in cui sulla volontà pontificia altre considerazioni dovevano prendere il sopravvento, come nel caso citato di Vienna — incoraggiava e sollecitava gli integralisti, ed odiava, disprezzava e condannava la tendenza liberaleggiante, i Gesuiti si venivano deliberatamente a porre contro le direzioni pontificie.
Ciò sarebbe potuto sembrare ad alcuni in constrasto contro l’ordinaria abilità della Compagnia di Gesù e contro il suo ben noto utilitarismo e la sua sagacia, ma, ben considerando la realtà delle cose, questo nuovo atteggiamento era precisamente una riprova di queste proverbiali virtù diplomatiche. Il pontificato di Pio X era sul declinare. I gesuiti, dopo avergli dato tutto il loro appoggio nei primi anni, si erano a poco a poco tratti in disparte, ed ora era giunto il momento di ricordare che l’avvenire imminente avrebbe cambiato totalmente le sorti di una battaglia Che veniva combattendosi da vario tempo. Poiché nessuno poteva illudersi, e i gesuiti meno di ogni altro, nel constatare che tutti erano stanchi di un sistema di governo in cui la persecuzione era il mezzo più in uso, ed in cui i cacciatori di eresie, i « puritani », si erano impossessati dell’autorità rendendola odiosa e trasformando la Chiesa Cattolica in un’orribile pressa in cui le coscienze, le intelligenze, le vite, le libertà più sacre erano compresse e schiacciate.
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I gesuiti dunque si preparavano l’avvenire. — Non v’è più nulla da far con questo papa, riserviamoci pel successore —: questa sembra fosse la loro parola d’ordine, che doveva promanar dall’alto, poiché — ad eccezione di una minoranza che si ostinava a far dell’empirismo papale di Pio X — era seguita e tradotta in atti dai religiosi della Compagnia delle diverse nazioni.
La prima applicazione della nuova tattica non fu certo il discorso suaccennato del p. Kolb e neppure gli articoli degli Etudes a cui si riferiva il giornale fiorentino. Fu ad iniziarla la Civiltà Cattolica — la rivista romana redatta dai gesuiti — con un articolo con cui non si prendevano di fronte gli integralisti, ma in cui si approvavano alcune mosse dei loro avversari. L’articolo si occupava di politica ecclesiastica in Germania, a proposito del Congresso di Munster, e vi si parlava a favore dei sindacati operai misti e di una concezione più larga e più libera nell’azione sociale.
L’audacia fu pagata cara. PoichèJjPio X, al quale fu opportunamente ricordato che la nomina del presidente del comitato di redazione della Civiltà Cattolica, era prerogativa pontificia, operò un piccolo colpo di Stato, imponendo al p. Brandi che occupava quella carica, di dimettersi, e nominando al suo posto il p. Chiaudano, uno dei più rigidi conservatori e dei più tenaci assertori della tendenza intransigente nella Compagnia. La cosa fece un po’ di chiasso: l'integralismo celebrò la sua vittoria e la disfatta del liberalismo. Chiaudano e Brandi divenivano degli esponenti... Ma era facile prevedere che il trionfo era molto precario, ed un giornale romano, la Tribuna (25 settembre 1913), poteva senza tema d’ingannarsi scrivere: « Probabilmente la gioia degli integrali sarà un fumo passeggero. Se veramente la Compagnia di Gesù ha deliberato di fare del liberalismo... gesuitico, non v’è integralismo Che tenga: Pio X passa, la Compagnia resta ».
La Compagnia, difatti, prese gusto al giuoco. Battuta a Roma, riprese altrove la battaglia. E vennero gli articoli degli Etudes, la rivista che essi redigono in Francia. Particolarmente il primo di questi articoli pubblicato nel primo numero di gennaio, col titolo Criliques négatives et tàches néccssaires, fu di una gravità insolita e di tale importanza che non possiamo esimerci dal riferirne i punti più significativi.
Noi difendiamo — scrivevano i gesuiti degli Etudes — interessi superiori, rispondendo alfine a certi attacchi che vengono da parte di un pugno di pubblicisti che non hanno alcun mandato: che confessano di non averne, ma, nel tempo stesso cercano con insistenza e con minacce di dare ad intendere di averne uno, si sforzano di minare opere che fino ad ora godevano le simpatie dei cattolici, gridano, nel momento delle disfatte, che noi siamo traditi, per ingenerare il pànico e per mettersi a capo dell’armento terrorizzato e condurlo... ma lo san forse essi stessi dove? Quali strumenti di lavoro e di azione essi offrono per sostituir quelli che si sforzano di squalificare o di spezzare?
Ciò che v’ha di straordinario, è l’ampiezza della denuncia. Di quanto è stato tentato, nel nostro paese — la rivista si riferisce alla Francia, ma le sue osservazioni, cambiati nomi c circostanze, hanno valore per ogni altro luogo — da venti anni a questa parte per la difesa della religione, contro i suoi nemici, sul terreno religioso, sociale, politico, di quanti han cercato, sotto due differenti pontificati, di seguir con filiale adesione le direzioni di Roma, nulla nè alcuno è stato risparmiato... È il discredito e la distruzione di tutto che pare si abbia di mira. Fate posto ad altri! Sembra sia questa la parola d’ordine. Posto a chi?
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Ci resta, è vero, l’Episcopato. Ma è stato già stampato e più ancora si va sussurrando in sordina i! nome d’una nuova eresia: 1’ Episcopalismo.. Guai ai fedeli che cercheranno di ripararsi all’ombra del proprio vescovo! Saranno ben presto notati. Cosi tutte le porte dell’ortodossia sono attentamente difese o, almeno, sorvegliate. Non v’è altro mezzo ormai, per vivere in communione con Roma, che mettersi al séguito e darsi in balia di coloro che conducono questa campagna.
E dopo aver tacciato questi scovatori di eresie di usar il metodo di tutti gli ere-siarchi, « che, mentre dicevano di volersi inchinare a Roma, non ristavano di eccitar l’opinione pubblica per mezzo di libelli e di opprimere in tal modo, per quanto era in loro, l'indipendenza del supremo magistero », e dopo aver loro rinfacciato che essi non fanno altro, in fondo, con le loro stupide accuse a vapore, che gettare il discredito sulle intenzioni del Papa e sulla campagna da lui raccomandata, facendo in tal modo il giuoco dei modernisti, gli Etudes concludono la loro filippica, che il difetto di spazio non mi consente di riportar per intero, con queste parole:
Fanno proprio gli interessi di Roma questi scrittori che cercano di cavillar sugli elogi, di acutizzar le questioni, di versare aceto sulle piaghe, che trasformano la grande Chiesa cattolica in una stretta chiesuola, e proclamandosi i soli in stato di grazia teologica, soli romani, soli cattolici, giungono così a distaccar da Roma (désafféctionner de Rome) coloro che non li credono ed a proclamare i migliori servitori di Roma quelli che loro danno ascolto?
È facile comprendere quante ire suscitasse questo atto di accusa nel campo opposto. Ma è pur facile l’arguire Che moltissimi deve aver trovato consenzienti. Difatti nel successivo numero della rivista si conteneva una nota in cui si leggeva il seguente periodo:
Cedendo alla domanda di parecchi fra i nostri’ lettori, facciamo tirare a parte Critiques négatives et lâches nécessaires. Cogliamo con gioia questa occasione di ringraziare i numerosi amici degli Etudes: cardinali, vescovi, superiori e professori di seminari maggiori, religiosi di vari ordini, direttori di riviste, giornali cattolici, laici eminenti, i quali ci hanno recata la forza della loro adesione in un'ora in cui v'era forse qualche merito a farlo. Si degnino in modo speciale le Loro EE. RR. i vescovi trovare qui l’espressione della nostra rispettosa riconoscenza. La cosa di cui sopra ogni altra sappiamo loro grado, si è di averci essi capiti. Hanno sentito che se noi ci siamo appigliati al partito di parlare non lo facemmo con letizia: hanno sentito che un articolo di tal genere non può guari avere altra scusa che un’imprescindibile necessità, e che dovevasi ad ogni costo schivare ciò che avrebbe potuto rendere passionato, o abbassare, o falsare l’oggetto concreto del dibattito.
Agli articoli degli Eludes rispose, per conto degli integrali italiani, il prete Giovanni Boccardo, direttore della Liguria del popolo di Genova, con un articolo stampato anche sull’L'w?« Cattolica del 29 gennaio, col titolo: Di fronte alle aggressioni degli Etudes e del Trust una parola calma e serena. La « calma » e la « serenità » di tale parola può rilevarsi dai furibondi periodi seguenti:
Che se le accuse vostre non si potessero dimostrare, come non le dimostrate nel vostro articolo, e a troppo chiare note si rilevassero effetto di passione ferita, passione di monopolio perduto, passione di prestigio abbassato, passione di impazienza di ogni critica,
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allora noi, con ogni umiltà vi vorremmo pregare a cedere il vostro posto a scrittori più teneri delle grandi tradizioni dei gesuiti; e i nostri amici integrali saranno lieti di porsi alla sequela degli Eludes-. Eludes più giusti nel giudicare i meriti, più spassionati nel constatare i demeriti, più zelanti, nel combattere l’errore senza riguardi personali. Qui finiamo: poiché vediamo che se dovessimo esaminare punto per punto il vostro articolo, potremmo quasi tutto, mutate poche cose, rivolgerlo a vostra condanna: poiché di tutte le febbri di « generalizzazione », nessuna ha mai raggiunto il « diapason > della vostra attuale, senza una parvenza di dimostrazione.
Dobbiamo levare alta la nostra voce di protesta per l’agressione ingiusta che il moder-nizzantismo internazionale per mezzo vostro opera a nostro danno e a danno della doverosa nostra missione giornalistica. In tutti i tempi l’apostolato che si preoccupava dei rapporti della verità e della disciplina con la salute delle anime ha avuto contro di sé le pretensioni di una scienza altera non preoccupata che di sé stessa. Oggi, in un momento di amnesia morale, quattro provincie francesi dei PP. Gesuiti acconsentono ad un atto grave che è, quanto fuori delle loro tradizioni, altrettanto contrario alle direttive pontificie in fatto di giornalismo. Agli Eludes e ai quattro provinciali della C. d. G. in Francia noi rispondiamo con fermezza uguale alla riverenza: Foi non siete tutta la Compagnia di Gesù: e sopratutto: Voi non siete la Chiesa.
Che i Gesuiti che avevano impugnato le armi contro gli integrali non fossero la Chiesa, era indubitato, che non fossero lulla la Compagnia di Gesù è forse anche vero, ma è ben certo che essi erano la voce del Direttorio della Compagnia, stessa. Questo, infatti, sosteneva strenuamente gli scrittori degli Eludes, il p. Kolb e gli altri combattenti, tanto che in seguito alle esuberanze polemiche, il provinciale dei gesuiti per l’Italia del Nord, p. Calcagno, interdiceva l’accesso ai conventi del suo ordine al prete Boccardo con questo biglietto:
Molto Reverendo Signore. Torino- '7 aPrile >9’4Per varie ragioni sarò molto riconoscente a V. S. Rev.ma se avrà la bontà di astenersi dal frequentare le Case della Compagnia, specialmente la Residenza di via Fontane.
Dopo tale provvedimento, che fu ben presto noto a tutta la stampa, la quale vi fece su i più allegri commenti, la questione si riacutizzò. Ed il p. Tacchi-Venturi, in una intervista accordata al Corriere d’Italia dichiarò senz’altro che il prète Boccardo era stato diffidato « perchè ebbe 'a scrivere e stampare cose ingiuriose per una parte della Compagnia di Gesù ». Ed il p. Tacchi-Venturi doveva bene avere l’approvazione completa dei suoi superiori nel far tale dichiarazione e per quanto altro si conteneva nell’intervista, dal momento che quasi contemporaneamente a questa veniva elevato alla carica di Segretario Generale della Compagnia.
Il Boccardo si dolse del severo giudizio e domandò delle prove e ne ebbe dal p. Tacchi-Venturi con lettera dell’8 maggio, in cui il gesuita gli ricordò quasi punto per punto l’articolo di cui abbiamo riprodotto sopra qualche saggio.
Anche altrove proseguiva la lotta. Il p. Kolb continuava la sua campagna e rispondeva vigorosamente con discorsi ed opuscoli agli avversari d’Italia e di Austria. Il p. Biederlack pubblicava sul Lavoro Italiano di Milano, organo dei Sindacalisti cristiani, un articolo in difesa del Sindacalismo stesso contro gli umori degli integrali e del Vaticano.
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In Germania le Stimmen aus Maria Laach, rivista anch’essa edita dai gesuiti, muovevano pure all'attacco contro gli integrali intransigenti nel primo numero di giugno con un vivace articolo firmato da tutta la redazione, per dare maggiore importanza alle cose in esso contenute.
Così dunque la Compagnia si portava in prima linea in questo combattimento. I tempi dovevano essere pienamente maturi per consentire l’attacco.
Naturalmente essa non era la sola a sostener l’urto ed a pugnare contro gli integrali, chè le antiche discordie tra i due gruppi di giornali, i papali ed i modernizzanti, erano lungi dall’essere composte. Non ci intratterremo su questa continua schermaglia che ha stancato tutti ad eccezione dei combattenti. Solo riferiremo uno degli ultimi documenti da cui può rilevarsi l’asprezza e la ferocia con cui i contendenti si azzannano. È una lettera al direttore della Riscossa, mons. Scotton, pubblicata nel Momento di Torino, uno dei giornali del trust, nel numero del 28 luglio, e sollecitamente riportata dagli altri giornali della stessa tendenza. Ecco il. singolare documento :
Nel suo numero del 25 luglio questo periodico settimanale scrive: Z giornalisti della Editrice Romana non fanno questione di principii ma di danaro.
Ora per la redazione del Momento come quella nel cui nome ho diritto e dovere di parlare, protesto vivissimamente contro la infame ingiuria, degna soltanto di chi non adopera nella polemica se non mezzi da canaglia.
Il periodico aggiunge: Mi fu detto che uno dei capi della Editrice Romana col dirigere uno dei suoi giornali, colle corrispondenze ad altri, colle conferenze profumatamente pagate, riesce in fine di anno a raggranellare una trentina di mila lire per sbarcare il lunario. Ebbene prova ad offrircene qualche migliaio di più e ne avrai un integrale dieci volte più papale del Papa medesimo, e sarà cosa leggera dare a costoro l’arma per combattere la Santa Chiesa ed uccidere gli animi?
L’allusione della mia persona è evidente perchè io sono tra coloro più in vista della Società Editrice Romana: assisto, se non dirigo, uno dei suoi giornali: spedisco corrispondenze e tengo conferenze. Che il mio vario lavoro frutti la cifra suindicata è notizia dello stesso genere di quelle che il detto periodico è solito a propalare, cioè bugiarda e balorda. Tutti sanno che delle fatiche di tanti anni non ho tratto che il modestissimo compenso necessario e sufficiente alla mia modestissima vita.
E che io, dopo aver dato alla Santa Sede quelle prove di devozione e di attaccamento anche a costo di sacrifici che la Riscossa non ha dato, dopo il diritto così acquistato di non dovere nulla imparare da quest’ultima, venga accusato di essere pronto a prendere gli atteggiamenti che le garbano, purché mi Si paghi di più, è accusa che non mi sporco a raccogliere. Tutta la mia vita privata e pubblica insorge contro la ributtante malvagità di simili accusatori. Noto soltanto come essi speculino sulla fiducia che per ora almeno, in grazia del loro carattere, non mi sia possibile far loro scontare questa ed altra roba in tribunale, poiché se temessero ciò si inginocchierebbero davanti a me come fecero davanti al tribunale militare di Milano nel 1898, quando per vile paura ripiegarono vilmente la loro bandiera papale. Filippo Crispolti
Consigliere delegato della S. E. R. presso il Afownto.
E basta di queste miserie. Esse, è doloroso, hanno caratterizzato tutto un pontificato. Se fecero sorridere e ridere per un po’ di tempo, ora anche chi dall’esterno
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vede e giudica non può non augurarsi, che, in nome della carità e..delle buone creanze, abbiano fine. Ma, forse, il desiderio è vano. Qui non si combatte per un ideale: si combatte per un primato.
Ci siamo troppo attardati nel ricordo di queste strane e curiose lotte, in cui non v'è solo dell’accademia, ma v’è un vero e proprio e feroce antagonismo. E lo abbiamo fatto di proposito, perchè, a parer nostro, esse sono l’avvenimento più interessante ed insieme un sintomo rivelatore nel cattolicismo d’oggi.
Dobbiamo però con vivo dispiacere sorvolare su molti altri fatti che pure meriterebbero di essere convenientemente illustrati o almeno ricordati, come le lotte politiche di Perugia, in cui il Vaticano si schierò apertamente contro il prof. Antonio Boggiano, già presidente generale dell’Unione Popolare Cattolica, e di Marostica in cui invece scese ufficialmente in campo anche mons. Scotton a favore del nazionalista Corradini, e le elezioni generali amministrative a cui i cattolici hanno partecipato coi soliti metodi e con varia vicenda. Così pure occorrerebbe ricordare le polemiche che seguirono la morte del cardinal Rampolla in seguito alla pubblicazione di alcune sue lettere in cui si contenevano giudizi sul pontificato di Pio X, le vicende della Germania in cui, come in Italia, la lotta è continuata vivacissima tra le due tendenze clericali, le condanne degli scritti del Bergson, del Maeterlinck, del Wacker, e la nuova raccomandazione pontificia a favore delle dottrine di San Tommaso.
Queste vàrie manifestazioni esaminate una ad una tutte conducono ad una conclusione unica, alla constatazione, cioè, che Pio X si era dato ormai mani e piedi legati in braccio ai reazionari. Dna prova che più delle altre può convincere in proposito — se pur di prove vi fosse ancor necessità — è la condanna inflitta dal papa nell'ultimo scorcio del suo pontificato, al cosidetto sindacalismo cristiano e l’aspro discorso tenuto ai nuovi cardinali.
Il sindacalismo cristiano è una impolveratura di cristianesimo sui metodi sindacali di mestiere. Esso per virtù di un nucleo d’ uomini operanti principalmente nella Lombardia, cominciava ad avere un certo seguito tra gli operai e più particolarmente tra i contadini del Cremasco e di altre plaghe, ed aveva già un gruppetto di deputati cattolici, come il Miglioli, il Ceriani, lo Schiavon e qualche altro, i quali avevano per il loro atteggiamento semi-autonomo richiamato l’attenzione e provocato qualche monito pontificio. Ce n’era sin troppo perchè i soliti giannizzeri dell’ortodossia cominciassero l’attacco contro questa nuova eresia...sociale. E una nuova polemica si accese — Dio sa se ve n’erano ad esuberanza — persino sull'etimologia della parola « Sindacalismo » e se essa potesse essere convenientemente usata dai cattolici. Già il 14 maggio l’Unione Economico-Sociale, uno dei rami dell’Unione Popolare Cattolica, aveva messo in guardia i cattolici dal dirsi sindacalisti, diffidandoli « che anche nella denominazione delle nostre istituzioni, e nelle pubbliche manifestazioni, negli scritti e nelle parole si evitino nomi, titoli e locuzioni che sono divenute quasi esclusiva proprietà dei nostri avversari, preferendo invece quelle consacrate nei documenti della S. Sede e sempre usate dalla Unione Economico Sociale ». Anche i
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nomi fanno paura ai clericali, pur quando rispondono alle cose. Lo stesso era avvenuto pel vocabolo « democrazia cristiana ». Allora, per far tacere le continue proteste e le deprecazioni degli ortodossi, era stato necessario che Leone XIII avesse usato egli stesso quella denominazione.
Ma il fatto era che si aveva paura del sindacalismo cristiano perchè in esso si intravedeva il risorgere di un’azione giovanile dei clericali, azione che erano occorsi vari anni per essere altra volta imbrigliata e imbavagliata. E se ne aveva paura anche perchè si delineava in Italia l’azione sindacale cattolica modellata su quella di Germania, il terribile «Bachemismo» dell’Urtitó Cattolica, e fors’anche coi relativi sindacati misti che han formato l’incubo dei clericali nostrani. Questi timori erano rivelati chiaramente in ogni scritto di questi. Ne citerò un solo brano ad esempio. Esso è contenuto nella Riscossa del 24 maggio e suona così:
La discussione sul sindacalismo ebbe una eco anche in un congresso giovanile tenutosi a Venezia il 9 e io maggio corrente. Colà, oltre alle grida di viva il Re Galantuomo! viva Trieste! viva Tripoli!; oltre gli abbassamenti di bandiere davanti al... cavallo di Re Vittorio: oltre all’inno di Mameli ed alla Marcia Reale; oltre alla politica penetrata per le finestre nella stereotipata protesta contro le aggressioni slave di Trieste (problemi che c’entravano assai col congresso cattolico!) s’è avuta anche una diatriba sul sindacalismo, a cui parteciparono alcuni congressisti, che non vogliamo nominare perchè non meritano davvero troppa « rédame ».
Siamo giunti al tempo in cui giovani ino' ino’ sgusciati di ginnasio s’arrogano il diritto di sciogliere la questione sociale, che forma l’assillo di menti mature e poderose. E non si vuol capire che questi episodi sporadici rendono sempre più antipatico il sistema sindacalista, i cui parteggiatori sono gente piena di sè, sprezzante del lavoro di ieri, arrivisti... alla medaglietta di domani!
Spazzate fuori certi elementi dalle file delle nostre società, fate un movimento di epurazione, date lo sfratto-a chi vuole giudicare ed organizzare in Italia con criterio teutonico; e le diffidenze a poco a poco cesseranno. Se tutti i sindacati dessero l’affidamento di ortodossia che dà il sindacato dei ferrovieri cattolici, le polemiche odierne non sarebbero sorte; e la nostra azione potrebbe filare su d’un binario sicuro quanto veloce.
Finché però ci lascerete dinanzi un interconfessionale come certi uomini di nostra conoscenza; finché l’epilogo del movimento sindacalista sarà quello della... Castellana; finché a giudicare, si leveranno dei giovani ancora studenti; il sindacalismo sarà una meteora... alla quale si alzano con diffidenza gli occhi di noi, poveri operai che lavoriamo nella vigna di Dio, senza dinanzi all’occhio la visione d’un... ciondolo d’oro!
La Civiltà Cattolica, acquisita agli integralisti collo strattagemma papale sopra ricordato, aveva già pubblicato due articoli (n. del 21 febbraio e del 14 marzo) sul sindacalismo cristiano, la cui conclusione era una condanna recisa di tutto il cristianesimo sociale. E tanto categorica era stata la sentenza da indurre autorevoli cattolici francesi, tra cui Henry Lorin e Leon Harmel, a recarsi nell’aprile a Roma per domandare serie spiegazioni in proposito. Un gesuita notissimo nel campo degli studi sociali, il p. Biederlak, scriveva intanto al Lavoro Italiano, organo dei sindacalisti italiani, l’articolo a cui abbiamo già accennato e che conteneva una riprovazione ed una confutazione della sociologia dei gesuiti addomesticati. Tra gli italiani più
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sorpresi e disgustati fu il Toniolo, e molti altri studiosi che volevano presentare un memoriale all’autorità suprema contro le deduzioni cervellotiche dello scrittore della Civiltà. Ma poi si pensò che più opportuna sarebbe stata una pubblicazione in contraddittorio. E questa fu redatta e pubblicata verso la metà di maggio dal conte Caisotti di Chiusano di Torino, membro del Consiglio direttivo dell’Unione Eco-nomico-Sociale dei cattolici.
L’argomentazione di questo scrittore concludeva coll’imputare la Civiltà Cattolica di malafede o di ignoranza, poiché dimostrava nel suo opuscolo (Il Sindacalismo 'cristiano in un articolo della « Civiltà Cattolica ») che i testi addotti dalla rivista romana per attribuire ai cattolici sociali idee condannabili erano mutilati artificiosamente tanto da poterne inferire l'assoluta malafede di chi ne travolse il senso, e che le teorie sostenute ora dalla Civiltà Cattolica contrastavano con gli insegnamenti di Leone XIII, dello Stesso Pio X, e di una coorte dei migliori filosofi e sociologi della Compagnia di Gesù.
Ormai però qualsiasi voce, per quanto autorevole, contro il gruppo degli integrali e contro i loro metodi, non trovava più ascolto a Roma. Che anzi Pio X non tralasciava occasione alcuna per proclamare la sua fiera intransigenza e per incoraggiare gli uomini ed i giornali ad esser sempre più reazionari. Da qualche tempo, è vero, non vi èra stata da parte sua alcuna pubblica manifestazione in proposito, ma si sarebbe ingannato chi avesse supposto in lui un ravvedimento. Infatti, presentatasi proprizia l’occasione, il 27 maggio teneva ai nuovi cardinali — tra cui Giacomo della Chiesa, che doveva succedergli nel pontificato, e l’Hartmann di Colonia e von Bettinger di Monaco di Baviera, che in Germania sembravano della tendenza liberaleggiante — un discorso, che era insieme un monito vivace, a favore della più assoluta intransigenza. Tale discorso è senza dubbio uno dei più importanti documenti del suo pontificato e, come tale, siamo in obbligo di riportarlo nei suoi punti essenziali. Eccolo:
Siamo pur troppo in un tempo, in cui con molta facilità si fa buon viso e si adottano certe idee di conciliazione della Fede collo spirito moderno, idee, che conducono molto più »ontano che non si pensi, non solamente aH’afiìevolimento, ma alla perdita totale della Fede. Non fa più meraviglia il sentire chi si diletta delle parole assai vaghe di aspirazioni moderne, di forza del progresso e della civiltà affermando l’esistenza di una coscienza laica, d’uria coscienza politica opposta alla coscienza della Chiesa, contro la quale si pretende al diritto e al dovere di reagire per correggerla e raddrizzarla. Non è nuovo l’incontrarsi in persone, che mettono fuori dubbi e incertezze sulle verità e anche affermazioni ostinate sopra errori manifesti, cento volte condannati e ciò non ostante si persuadono di non essersi mai allontanate dalla Chiesa, perchè qualche volta hanno eseguite le pratiche cristiane. Oh! quanti naviganti, quanti piloti, e, Dio noi voglia, quanti capitani facendo a fidanza con le novità profane e con la scienza bugiarda del tempo, anziché arrivare al porto, hanno fatto naufragio!
Fra tanti pericoli, in ogni contingenza, non ho mancato di far sentire la mia voce per richiamare gli erranti, per segnalare i danni e per tracciare ai cattolici la via da seguire. Ma non sempre, nè da tutti fu bene intesa e interpretata la mia parola, quantunque chiara e precisa. Anzi non. pochi, seguendo l’esempio funesto degli avversari, che spargono zizzania nel campo del Signore per portarvi la confusione e il disordine, non si pe-
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ritano di darle arbitrarie interpretazioni, attribuendole un significato affatto contrario a quello voluto dal Papa e ritenendo come sanzione il prudente silenzio.
Ed in queste dure condizioni ho proprio bisogno del valido ed efficace concorso dell’opera vostra, o miei figli diletti, tanto nelle varie Diocesi alle quali colla dispensa papale farete ritorno, come nella Curia e nelle Congregazioni Romane, perchè per la dignità alla quale siete innalzati, uniti di mente e di cuore al Papa, siate tra i primi difensori della sana dottrina, fra i primi maestri della verità i banditori dei precisi voleri del Papa. Predicate a tutti, ma specialmente agli Ecclesiastici ed agli altri religiosi che niente tanto dispiace a Nostro Signore Gesù Cristo e quindi al suo Vicario, quanto la discordia in fatto di dottrina, perchè nelle disunioni e nelle contese Satana mena sempre trionfo e domina sui redenti. Per conservare l’unione della integrità della dottrina, premunite specialmente i sacerdoti dalla frequenza di persone di fede sospetta e dalla lettura di libri e giornali, non dirò pessimi, dai quali rifugge ogni onesto, ma anche di quelli che non sicno in tutto approvati dalla Chiesa, perchè è micidiale l’aria che si respira ed è impossibile maneggiare la pece e non restare inquinati. Se mai vi incontraste in coloro che si vantano credenti, devoti al Papa, e vogliono essere cattolici ma avrebbero per massimo insulto l’essere detti clericali, dite solennemente che figli devoti del Papa sono quelli che obbediscono alla sua parola ed in tutto lo seguono, e non coloro, che studiano i mezzi per eluderne gli ordini, o per obbligarlo con insistenze degne di miglior causa ad esenzioni o dispense tanto più dolorose quanto più sono di danno e di scandalo. Non cessate mai di ripetere che, se il Papa ama ed approva le Associazioni cattoliche, che hanno di mira anche il bene materiale, ha sempre inculcato che deve avere in esse la prevalenza il bene morale e religioso e che al giusto e lodevole intento di migliorare le sorti dell’operaio e del contadino dev’essere sempre unito l’anore della giustizia e l’uso dei mezzi legittimi per mantenere tra le varie classi sociali l'armonia e la pace. Dite chiaramente che le associazioni miste, le alleanze coi non cattolici pel benessere materiale a certe determinate condizioni sono permesse, ma che il papa predilige quelle unioni di fedeli, che, deposto ogni umano rispetto e chiuse le orecchie ad ogni contraria lusinga o minaccia si stringono intorno a quella bandiera più splendida e gloriosa, perchè è la bandiera della Chiesa.
Non ci intratterremo sui vivacissimi commenti fatti al discorso pontifìcio. Particolarmente in Germania fu aspramente giudicato e si credette ad un intervento diplomatico del Governo tedesco che nei sindacati misti vede la sua maggior difesa contro il socialismo. Ma tale intervento doveva avvenire qualche tempo dopo, come accenneremo.
L’atto essenzialmente impolitico di Pio X sorprese anche chi era preposto alla politica della Santa Sede. Sembra infatti che la Segreteria di Stato ne fosse tenuta completamente allo scuro. Il documento, come riferirono vari giornali, in seguito ad inchieste operate negli ambienti vaticani, fu compilato con la partecipazione della sola « Segreteriola » — cioè dei segretari particolari del papa, che avevano formato uno Stato nello Stato in Vaticano — e di quel p. Chiaudano già ripetutamente ricordato.
Nonostante però la parola del pontefice così recisa e tagliente, tanto da rinnegare chi non si fosse convinto che cattolico equivale a clericale, le questioni non ebbero fine. E fu per questo che un vescovo lombardo, quel di Como, giudicando insufficiente la parola di Pio X, volle farne una amplificazione.
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Datata « nella solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo», cioè il 29giugno, ma stampata e diffusa effettivamente parecchi giorni prima, egli pubblicava una sua pastorale, in cui, parlando di episcopalismo, di gallicanismo, di modernismo, di integralismo, ecc. ecc., trovava modo di occuparsi di azione sociale, e tuonava contro i sindacati, particolarmente contro i sindacati interconfessionali. Pio X trovò di suo gusto anche questa lunga tiritera, ed inviava con lettera autografa del 24 giugno le sue vive congratulazioni per la bella pastorale. Ma i gusti di Pio X non coincidevano purtroppo, come abbiamo detto, con quelli dei cattolici e dei governi della Germania troppo interessati alla questione dei sindacati interconfessionali. Così avvenne che la lettera del vescovo di Como giunse persino a provocare il passo diplomatico che si era già annunziato dopo il discorso di Pio X. Le rimostranze non furono inutili; infatti {'Osservatore Romano il 9 luglio pubblicava quanto segue:
La Staalzeitung — cioè il giornale ufficiale del Governo — di Baviera osserva che la lettera pastorale del Vescovo di Como costituisce un fatto sorprendente, perchè fa oggetto delle sue osservazioni alcune questioni di politica ecclesiastica tedesca. Sarebbe desiderabile, aggiùnge la Staatzeiiung, che il metodo adottato dal Vescovo di Como non facesse scuola, giacché si giungerebbe a incresciose conseguenze se diventasse abituale che i vescovi di un paese estendessero le loro critiche alle questioni di un altro paese non rifcrentisi alle loro Diocesi. Se i rallegramenti della Santa Sede furono diretti alla buona intenzione annunciata dal Vescovo di Como di istruire i suoi diocesani sarebbe un errore trarne conseguenze per la Germania.
A questa informazione il giornale pontificio faceva seguire questa nota:
Crediamo di potere con sicurezza affermare che l’apprezzamento contenuto nella conclusione del foglio bavarese risponde esattamente alla verità come, del resto, potevasi ben rilevare dai termini stessi della accennata approvazione.
La ritirata era disastrosa poiché equivaleva a ridurre l’atto del vescovo di Como, che era stato magnificato così ampiamente, ai termini ristretti di un’istruzione assolutamente locale diretta a pochi preti.
Ma sconfitto dalla Germania, Pio X si vendicava sui cattolici italiani, l’eterno pecorume. E il giorno stesso in cui veniva pubblicata questa nota deW Osservatore Romano, compariva un documento della Congregazione Concistoriale, il quale porta la data del 20 giugno (perchè notificato solo il 9 luglio?) in cui si riprova il sindacalismo « siccome quello che, oltre il resto, di fatto si tramuta in realtà in una lotta sociale » e si fa formale divieto ai sacerdoti di tutta Italia di aderire in alcun modo alle associazioni sindacali «affinchè non sembrino esser partecipi dei mali che'da quelle istituzioni spesso derivano ».
Ancora, dunque, un atto di repressione. L’ultimo.
Un mese più tardi, il 20 agosto. Pio X moriva.
Pio X, quegli a cui avevano dato il titolo di « papa religioso », moriva, avendo la visione e la prova del fallimento della sua autorità e della sua politica. Egli, in fondo non era che un sopravvissuto: in altri tempi avrebbe fatto fortuna, tra una
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bolla ed una decretale, tra una condanna ed un supplizio. Egli, uomo di secoli fa, si spegneva dopo avere oprato senza intendere il mondo e senza che il mondo lo avesse inteso mai. Tutto il suo sforzo era stato nel voler condurre contro corrente la leggendaria navicella e nell’otturame, con più di buona volontà che di successo, le falle continue.
Ogni conclave, particolarmente dopo un pontificato di qualche anno, si risolve naturalmente in una reazione al pontificato stesso Morto Leone XIII. il conclave, dopo il velo austriaco contro il Rampolla, si propose di rimpiazzare il papa che aveva considerato il pontificato più come una missione politica che come una missione religiosa, con un altro che subordinasse affatto la politica alla religione. I cardinali non si chiesero certo se dopo tanti secoli di politicantismo sarebbe stato possibile mutar rotta, ciò che avrebbe quasi costituito una ribellione alla tradizione ormai acquisita ed una rivoluzione alla forma che, nel cattolicismo d’oggi, ha sostituito affatto la sostanza. Ed elessero Pio X.
Era un esperimento necessario. Occorreva rendersi alfine conto dello stato spirituale della Chiesa, se cioè lo spirito cristiano fosse tuttora vivo in essa e se conservasse il dominio o fosse capace di riconquistarlo sull’esteriorità, sullo spirito di dominazione e sugli altri mali spiriti che l’avevano pervasa. Pio X sembrava l’uomo più adatto per questo tentativo. Buono, umile, rimasto sempre lontano dagli im-trighi di curia, preoccupato solo della salute delle anime, aveva buone probabilità di riuscita. Ma, per disgrazia gli mancava un elemento necessario: lo spirito largo, libero, illuminato da una cultura superiore per giudicar nettamente sul fine che si proponeva e sui mezzi adatti per raggiungerlo. Così l'esperimento con Pio X, di un papa esclusivamente o preponderantemente religioso, si risolse in un fallimento.
Che ne era dell’autorità pontificia? Ci ridevano tutti su, ormai: da coloro che gli eran dappresso a quelli che. fuori dalla sua orbita, miravano il succedersi dei suo esperimento pontificale con occhio sereno di osservatori e di studiosi. Nell'interno della Chiesa, nel suo potere spirituale tutto era caduto; non restavano, non restano che ruderi. E Pio X pianse infinite lagrime, imprecò violentemente contro i guastatori, pregò a lungo perchè la virtù divina risollevasse i rottami e ricostruisse il tempio, si abbattè vinto, a volte, dalla disperazione ripetendo le parole profetiche « nessuno più è con me », poi levatosi con forza nuova chiamò i buoni a raccolta e maledisse con gesto ieratico i cattivi.
Buoni e cattivi! Pio X, nel suo tentativo di restauro, credette e disse buoni gli adoratori della autorità e ad essi si confidò ciecamente. Uomo di corta vista non si accorse che per un giudizio così formidabile non bastava la semplicità agreste a cui egli tenne fede, nè la ingenua ruse, la furberia primitiva del campagnolo. Così di quel manipolo che potè raccogliere andarono a far parte uomini che sulla ingenuità del papa speculavano ai loro fini; così scettici e corrotti si offrirono a difesa della fede ed a tutela del costume; così irosi e malfattori scesero in campo a lato di Pio X per trionfare di vecchi nemici e per agire più impunemente. E questi erano i buoni.
I cattivi, per Pio X, eran quelli che alla tradizione sostituivano la ragione, alla credenza cieca la coscienza illuminata, alle vecchie leggende favolose la storia, al-
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l’autorità opprimente la libertà ordinata, coloro che non si acquietavano nelle vecchie trincee di una religione senza vita, ma che concepivano la fede come lotta perenne di anime pel raggiungimento d’un ideale sempre più alto, coloro che non accettavano passivamente la loro credenza e non avevano abdicato il loro spirito in mano di procuratori, ma che volevano creare in sé. trarre dalle scaturigini profonde del proprio essere spirituale la linfa per la propria vita religiosa, sentirsi responsabili pienamente di tutti sé stessi, pensieri ed azioni.
L’antico patriarca di Venezia, asceso il soglio pontificio, credette di trovarsi di fronte ad una sommossa irragionevofe, ad una specie di inconsulto sciopero di credenti. E lo disse frutto di superbia e di vanagloria d’insubordinazione e d’indisciplina. Ignaro e non preparato non giunse, non dico a giustificare in qualche modo, ma neppure a concepire questo esodo di anime in cerca di acqua più pura per dissetarsi; non seppe immaginare che queste anime avevano bisogno di allontanarsi per credere, per vivere ancora. Il loro moto era sempre più formidabile, ed era una rivoluzione incoercibile perchè non vi son carabinieri per ammanettar lo spirito, nè v’è sant’Uffizio che valga a sopprimerlo. Era una rivoluzione; ma che colpa ne avevano i ribelli? Essi in fondo, non domandavano che così poco! Illusi,, chiesero dapprima alla Chiesa, la Gran Madre, di ricordarsi che essa era fatta di uomini e per gli uomini e non gli uomini di essa e per essa: che le sue origini avevano segnato il più profondo sconvolgimento, la rivoluzione più ardita; che era colpa, dopo ciò. Tessersi arrestata ad un tratto nel suo cammino e parlare ora ai soggetti col linguaggio incomprensibile di diecine di secoli addietro come se le generazioni si fossero anch’esse attardate e fossilizzate, ed imporre ad essi un giogo di pensiero e di disciplina ingiungendo il « portalo e servi »!
Illusi, ripeto, poiché non si erano accorti ancora Che la Madre non viveva più ed era soppiantata da una madrigna, poiché tra il cristianesimo primitivo, la dottrina della libertà morale, e la Chiesa d’oggi, letto di Procuste irto di aculei dogmatici e dotato d’infinite catene disciplinari, non era possibile stabilire neppure un confronto. Richiamar la Chiesa alle origini fu un sogno, mirabile e radioso, ma fu un sogno di sovversivi e di nichilisti. E Pio X —che pure, singolare ironia! voleva restaurar tutto in Cristo — prese le sue brave misure: sconfessò, condannò, fece scrivere encicliche, pubblicare Sillabi ed ordinanze, comandò inquisizioni, fu carnefice senza pietà. Volle curare un preteso male, diventato epidemico, col ferro e col fuoco. Di quelli che egli presé di mira, molti rivendicarono i diritti della loro coscienza ed uscirono a fronte alta e con cuore ilare dalla Chiesa: l’ira e la ferocia di un papa li aveva guariti e salvati da un semplicismo buono ma pericoloso. Molti altri invece che sentivano l'angustia del carcere spirituale e che eran già sulla porta, pensarono che non è cosa facile trovarsi una casa nuova e rientrarono a gomitate nel vecchio recinto e si appiattarono alla meglio.
Gli apologeti dissero Pio X trionfatore: egli pure lo credette per un istante, e, ad perpeluam rei memoriam, fece coniare una medaglia commemorativa della sua vittoria sull’idra; ma ben presto comprese, e lo disse, di essere invece un vinto.
I rimasti si azzannarono a vicenda. Mai, come in questi ultimi anni, il catolicismo ha offerto lo spettacolo di una così feroce lotta interna come ora. Prima era
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l'antimodernismo contro il modernismo, poi l’antimodernismo contro il modernizzan-tismo, gli integrali — quelli del papa re — contro i... minimisti. Ed è stata ed è guerra a coltello come siam venuti documentando. Pio X impose silenzio, non fu obbedito. Frustò a destra ed a manca ad occhi chiusi; il rimedio fu peggiore del male poiché gli odi si acuirono sempre più. Si schierò alfine decisamente con la reazione e sconfessò i liberaleggianti e ne proibì i giornali; i liberaleggianti sorrisero sapendosi in enorme maggioranza e presero in giro il vecchio pontefice, e i giornali proibiti accrebbero la tiratura. È storia di ieri questa ed è cronaca di oggi. Pio X fu ancora un vinto. Ripeteva ad ogni vescovo che saliva sino a lui che le sue intenzioni erano sempre le stesse, che le condanne restavano, che il programma di certuni era assolutamente in contrasto col suo programma, ripeteva queste cose in allocuzioni solenni, nei concistori, negli atti pubblici, in ogni occasione. I colpiti si affrettavano a registrare le parole del papa, ne dicevano mirabilia, ne esaltavano l’alto senso, ne illustravano l’oppurtunità e... continuavano ad oprar come prima. Gli altri, i tre organetti papali integrali soffiavano nel fuoco: si affannavano a cogliere in fallo i confratelli dell’ala sinistra, rinfacciavano loro la turpe commedia, imploravano il fuoco dal cielo su di essi. E tutto Ciò con frasi violente e con parole da trivio, con odio del pensiero che traspariva in ogni riga della forma, col gesto del sicario che quando può pugnala alla schiena.
Onde il vecchio papa, prima di chiuder gli occhi per sempre, deve certo avere ripetuto infinite volte a se stesso che la sua autorità era ridotta ad un cencio, dal momento che non l’udivano neppur più i suoi fidi e che anche la carità e, meglio che la carità, il galateo avevano esulato dalla sua Chiesa.
Quel che avveniva fra noi, si ripeteva sotto diverse forme e per diversi pretesti dovunque. E piccole questioni ingrossavano, odii di due persone diventavano odio di partiti, misere querele si risolvevano in affari di Stato. E Pio X doveva destreggiarsi, dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, dire e non dire. Era una schermaglia senza fine e senza costrutto. Chè se levava la voce e credeva giunto il momento di una decisione, trovava a lato dei contendenti, patroni inattesi, gli Stati, e Pio X in fretta e furia doveva rimangiarsi il qiios ego e mendicar le scuse più puerili. Esempi di tal fatta si sono moltiplicati nel pontificato che ora si è chiuso; Pio X era in continua ritirata.
Finì così che, nei rapporti con l’estero, il vecchio papa non registrò che disastri. In ogni angolo della terra egli non ha prodotto che rovine per la Chiesa. L’una dopo l’altra le nazioni sono sfuggite alla sua influenza, molte gli han dato addirittura il ben servito.
Questa liquidazione è apparsa tragicamente in questi ultimi giorni. Pio X non €ra ormai altro che un assente. Che poteva far egli? Nulla. I suoi predecessori di •secoli fa, avevano tutto osato: egli non aveva più ardire; i suoi predecessori avevan dominato, egli non era stato che inconscio servo di altrui velleità e di ambizioni altrui e quando dalle piccole schermaglie dottrinali, dalle quisquilie teologiche rumor d’armi e d’armati ed impeto di guerra lo distolsero alfine, egli non era più che un impotente di fronte alla vita. Si rivolse ai potentati, nessuno l’ascoltò: si dice anzi che l’imperatore apostolico, in risposta, gli presentasse il brando perchè lo benedicesse e lo rendesse più atto al macello.
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Era la fine. Non eran più dunque cristiani quei potentati? Non eran cristiani quei popoli? E non avevano essi appreso o si eran dimenticati ora del precetto di amore? È, se eran cristiani, non dovevano inchinarsi alla parola del padre comune? Egli, Pio X, conobbe solo allora quale avrebbe dovuto essere la sua missione: troppo tardi! Il cristianesimo sulla terra non v’era più che in qualche anima solitaria; ad esso, e la colpa più grave spettava forse alla Chiesa, si era sostituita la dominazione, l’odio di razza, il capriccio di un desposta, l’affarismo frustatolo, quanto di più meschino può produrre la bassa umanità. Nel suo campo non era Stato forse un desposta lo stesso Pio X? Che aveva egli operato di più e di meglio degli altri? Con quale autorità dunque interveniva adesso?
Con quale autorità? Nessuna più. 0 i fedeli non eran più suoi figli o egli non era più il padre loro. Egli li chiamò, implorò, pianse, disse pace in nome di Dio: si fecero beffa di lui, gli replicarono: Chi sei, che cosa vuoi? Non lo conoscevano più.
Il cuore del vecchio non resistette oltre e si spezzò di schianto.
Così passò Pio X, e con lui, l’ultimo tentativo di un papato religioso.
Quattordici giorni dopo, il 3 settembre, dal Conclave, che stavolta, più che mai, aveva voluto affermare la Sua opposizione ai sistemi del pontificato passato, usciva eletto papa Giacono Della Chiesa, l’amico e il collaboratore di Rampolla.
Non era stata possibile l’elezione del Maffi, che rappresentava l’estrema sinistra nel collegio dei cardinali, per l’accanimento con cui l’avevano combattuto gli uomini di destra, che sotto Pio X avevano imperato, ed i timorosi di novità precipitate.
Il Della Chiesa, divenuto Benedetto XV, ha posto mano alla sua opera con l’allontanare immediatamente dal Vaticano i consiglieri più intimi del vecchio papa ed i suoi collaboratori politici, di cui è umano che il papa nuovo ricordasse l’ostilità verso di lui nel cambiamento operatosi dopo la morte di Leone XIII.
Ed i metodi appaiono cambiati non solo in Vaticano. Ne è indice il grave timore dà cui sembrano dominati i giornali della tendenza che aveva goduto i favori di Pio X. Essi hanno troncato all'istante le furibonde polemiche, le insinuazioni continue, le delazioni sistematiche. Quasi spauriti dal loro passato, han messo giù la bòria, e facendo buon viso a cattiva fortuna, si sono affrettati a significare al nuovo padrone le loro proteste di servitù. Benedetto XV, avrà certo riso di questo gesto di schiavi. Certo si è che, con severità mista ad ironia, faceva loro rispondere — vedi ad esempio V Unità Cattolica — che prendeva nota « delle opportune promesse » (1).
(1) Il telegramma all’ Unità Cattolica diceva: « Santo Padre ringrazia per devoti sentimenti da lei espressi ed apprezzando opportune promesse la benedice di cuore coll'augurio che il suo giornale continui e renda ognor più efficace difesa alla causa buona ». Tale telegramma, spedito il 6 settembre da Roma e ricevuto il giorno stesso, non deve aver troppo soddisfatto il direttore del foglio fiorentino, dal momento che non si decise a pubblicarlo che tre giorni dopo e cioè il 9, con una esegesi in cui, sorvolando sull’indigesto aggettivo « opportune » con cui il papa qualificava le promesse deW Unità, anzi sottacendolo addirittura, si poneva in grande evidenza l’ultimo periodo del dispaccio.
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Così sembra si operi un cambiamento completo. Nella stessa Unione Popolare avviene un rapido mutamento. Il Consiglio direttivo ha creduto doversi aggregare nuovi consiglieri e questi sono tutti dell’ala sinistra, già tra i più noti del movimmto murriano. Essi sono don Luigi Sturzo, sindaco di Caltagirone, il Cingolani, il conte Grosoli, spodestato da Pio X dopo il famoso congresso di Bologna, Filippo Crispolti, di cui abbiamo riportato più sopra la... edificante lettera alla Riscossa, ed il sacerdote De Cardona, uno studioso ed attivo sacerdote di Cosenza. Notevolissimo il fatto che il Grosoli ed il Crispolti sono influentissimi e notissimi membri del trust dei giornali riprovati dal vecchio papa.
Un’altra lezione, affatto discorde da quelle impartite dal suo predecessore, Benedetto XV la dava il giorno 8 di ottobre con una lettera indirizzata al Card. Cassetta, presidente della Pia Società di San Girolamo per la diffusione dei libri del Vangelo. È noto come Pio X non sia stato troppo tenero di queta Società e come, dopo averne posto all’« Indice » alcune pubblicazioni, non potendo nominalmente proibire il Vangelo, abbia impedito la diffusione della edizione popolare degli Evangeli, ritenendo forse non conveniente che la lettura dei sacri testi fosse consentita al popolo. Cosicché la Società sopradetta per parecchi anni si era ridotta a vita modestissima senza potere efficacemente esplicare le proprie attività.
Asceso al soglio pontificio, Benedetto XV volle ridonare tutto il suo vigore alla iniziativa — a cui egli aveva cooperato nel suo inizio — della diffusione dei Vangeli, ed, in risposta ad un indirizzo inviatogli, rispondeva con la lettera ricordata, in cui, tra l'altro diceva:
« Ci è cara la Società di S. Girolamo principalmente per il suo fine utile senza dubbio in ogni età, ma, com’è ben evidente, adatto, più che altri mai, ai nostri tempi. E, di vero, l’esperienza insegna, più che non occorra farne menzione, che i deviamenti dell’odierna società hanno origine dal fatto che la vita, la dottrina e le opere di Gesù Cristo sono caduti nel più profondo oblìo, nè più curano gli uomini di ispirare ad essi le loro quotidiane azioni. Non può dunque esservi dubbio alcuno che fanno opera sommamente vantaggiosa per informare gli animi alla cristiana perfezione coloro i quali, come voi fate, attendono alacremente alla diffusione dei divini Evangeli, ed abbiamo, quindi, motivo di rallegrarci con tutti i membri della sudetta Società, e con Voi principalmente, o Venerabile Nostro Fratello, non solo della impresa ottima in sè, ed a Noi graditissima, ma anche dello zelo con cui questi anni, come vediamo coi nostri occhi medesimi, vi siete studiati di diffondere i libri santi non solo in copia maggiore ma eziandio in forma più accurata. Desideriamo ardentemente — e ne facciamo anche viva esortazione — che della Vostra ammirabile solerzia non questo frutto soltanto ricaviate, ossia una larghissima diffusione dei libri dei Vangeli, ma possiate altresì ottenere un altro vantaggio, che formerebbe uno dei Nostri ideali, vale a dire che i sacri libri entrino nel seno delle famiglie cristiane, ed ivi siano come la dramma evangelica che tutti ricerchino attentamente e gelosamente custodiscano di modo che possano i fedeli abituarsi a leggere i santi Evangeli e commentarli ogni giorno, imparando, così, a vivere santamente conformi in tutto alla divina volontà ».
Certo non su questi primi atti, che hanno ad ogni modo valore come indizi, si può formulare un indizio sul nuovo pontificato. Nè credo che tale giudizio sia possibile trarlo dalla prima enciclica. Di questa si era parlato più volte poiché si riteneva che Benedetto XV avrebbe subito elevato la sua voce a proposito della guerra. Ma nes-
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suno poteva illudersi, e il papa nuovo meno d'ogni altro, sull’efficacia di una pastorale su tale soggetto. Onde Benedetto XV temporeggiava nella speranza forse che la soluzione dell'immane conflitto non si protraesse molto; e riservandosi di parlare quando i sintomi di questo scioglimento si fossero già pronunziati, cosicché l’atto pontificio potesse cadere su buon terreno o, quanto meno, dagli apologeti che non mancano mai, potesse attribuirsi a tale atto una efficacia qualsiasi.
Ma il tempo passava senza che il sereno accennasse a tornare e Benedetto XV si è visto costretto a non rimandare più oltre la pubblicazione della sua prima enciclica, che avrebbe rischiato, se protratta ancora, di perdere tutto il valore religioso oltre che non significar nulla politicamente.
Così il 16 novembre veniva pubblicata la prima lettera del nuovo papa ai cattolici del mondo, lettera che si iniziava con le parole « Ad beatissimi Apostolorum prin-cipis » con le quali verrà ricordata. Da essa si rileva che Benedetto XV parla più per dovere d'ufficio che nella fiducia d’essere ascoltato da qualcuno dei belligeranti. Ad ogni modo i suoi voti per la pacificazione sono nobili e non possono non trovar concordi tutti gli spiriti sinceramente cristiani.
L’accenno alla guerra non costituisce che la prima parte del documento pontificio. Dalla lotta esterna. Benedetto XV passa a considerare la lotta interna, la guerra di animi, i cui principali fattori sono, secondo il papa, la mancanza di mutuo sincero amore tra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, la ingiustizia nei rapporti fra le varie classi sociali ed il bene materiale, la sete di ricchezza fatta unico obbiettivo dell'attività dell'uomo.
Naturalmente il papa parla dell’autorità secondo il concetto tradizionale cattolico, rigidamente conservatore, come pure dal punto di vista della necessità delle diverse classi sociali e della conseguente sperequazione della ricchezza egli si pone, facendo appello alla cristiana carità come rimedio agli urti inevitabili, parlando della questione sociale.
Fin qui, insomma nulla di nuovo: tutto tracciato, con diversa forma, su vecchie falsarighe. Ma v’è una parte nell’enciclica che merita maggiore attenzione poiché da essa possono trarsi elementi per arguire quale sarà l'atteggiamento del papa nelle lotte interne della chiesa, che hanno caratterizzato il pontificato di Pio X. Ed è qui che Benedetto XV accentua la sua direttiva per vie diverse da quelle seguite dal suo predecessore, poiché la sua parola è, senza attenuanti, la sconfessione di quel rigidismo reazionario caro al morto pontefice, la sconfessione di quei cattolici che amavano specificarsi con tutta una serie di appellativi « papali, intransigenti, confessio-nalisti, integrali» — come diceva V Unità Cattolica— e che avevano dominato in questi ultimi tempi. È contro di essi che Benedetto XV dice che occorre farla finita con magisteri non autorizzati sia per mezzo di libri, di giornali o di pubblici discorsi, che basta alfine con la introduzione arbitraria di nuovi titoli, denominazioni od epiteti nella professione del cattolicismo, perchè mancando essi di verità e di giustizia servono solo a metter divisione fra le schiere cattoliche.
Un’altra sconfessione, sebbene più velata, delle direttive di Pio X, si ha là dove il nuovo papa parla dell’autorità dei vescovi, a cui si era attentato ultimamente con l’invenzione della nuova eresia, l’episcopalismo. Benedetto XV ricorda severamente
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ai cattolici che l'autorità dei vescovi è divina e che il clero deve mantenersi unito e pienamente sottomesso ai propri ordinari.
Questa, ripetiamo, è la parte interessante dell’enciclica. I giornali han fatto molto rumore per una delle stereotipate proteste, a cui siamo da lungo tempo abituati, sullo stato anormale in cui si trova il papa, rivangando la pianticella intristita della questione romana, con cui si chiude il documento nuovo. Alcuni anzi hanno voluto porre in relazione questa tardiva protesta con le voci, già poste in giro, che Benedetto XV intenda di portare la questione romana al consesso delle potenze Che farà seguito alla guerra. Queste sono piccolezze che meritano appena di essere rilevate a titolo di cronaca.
Ciò è quel che Benedetto XV ha fatto finora. Troppo poco per giudicar definitivamente di lui, ma già abbastanza per indicare che se non sarà un pontefice ardito, innovatore, sarà uomo di maggiore equilibrio che non l’angoloso Pio X, almeno nel governo spirituale della Chiesa cattolica.
Ernesto Rutili.
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LO STUDIO DELLE LINGUE MODERNE
QUALE STRUMENTO DI EDUCAZIONE <"
Miei cari amici'.
Non una prolusione, ma due cordiali parole d’introduzione.
Quando visitai Napoli alcuni anni or sono; quando lasciai l’Inghilterra, mia seconda patria, un mese fa, non immaginavo davvero che qui in questo illustre Istituto avrei dovuto essere vostra guida nello studio della lingua e letteratura anglo-sassone. « That is thè life ». Cosi è intessuta la vita, miei cari amici: all’infuori della famiglia, che tuttavia nel fervore agitato della vita moderna ha perso molto della sua stabilità, la nostra esistenza scorre e si sviluppa fra incontri fugaci, fra amicizie di un giorno, fra contatti di un istante, che fecondano© dissipano l'essere nostro. Sarebbe fatale errore e illusione quella di riserbare all’avvenire lontano lo svolgimento di un piano di fecondo lavoro, e intanto lasciarci sfuggire le occasioni passeggere di volerci, e di farci del bene: faremmo come il viandante di Schiller, che deciso di raggiùngere la regione rosea dove il sole tramonta, là dove il cielo si congiunge alla terra, cammina, cammina... noncurante di ciò che incontra sulla sua via, fissi gli occhi a un orizzonte che non raggiungerà giammai: tutta la vita e il suo valore ci sfuggirebbe allora. Non sono i nostri piani definiti ed ampi che riescono, generalmente. Sono le piccole occasioni non
<i) Prolusione ad un corso di lingua inglese in un Liceo Modernocercate di aiutare e di perfezionarci, gl’in" contri, gli sfioramenti inaspettati, il materiale di cui si costruisce l’edilìzio della vita nostra: come le grandi fabbriche, formate non di massi ciclopici ma di sassi e di mattoni, apportati da più persone ignare del piano dell’edilizio che devono costruire. Voi non sapete in quale ora, in quale istante, potrà rivelarsi ai vostri occhi la visione del valore, del significato della vostra vita, di una missione da compiere. Questo per dirvi, che le ore, le settimane e i mesi, che dovremo trascorrere insieme — breve durata in sè, — potranno avere un valore decisivo nella nostra, e più nella vostra vita.
Nella vostra vita. Perchè la durata della vita non è già omogenea, sì che ad ogni anno di esistenza corrisponda un valore vitale uguale ad una frazione della vita, costante per ogni anno. No: nella gioventù, nel periodo spasmodico della vita, nel periodo in cui si maturano le vite intense, grandi, feconde, un’ora, un istante, può esser l’equivalente di cento anni di vita: non un istante quindi deve sfiorare indarno sul vostro capo; non una sillaba deve giungere al vostro orecchio che non costruisca qualche cosa; non uno sfòrzo o un sagrifìzio deve esservi chiesto che non serva ad avvicinarvi di un grado alle somme cime.
Voi vivrete - ricordatelo — delle riserve di visioni, di aspirazioni, di fervore, di gioie, di propositi, che avrete accumulato in questi anni: l’età adulta può far fruttare, ovvero dissipare, il capitale accumulato nell’età più bella, ma deve più o meno, viver di ren-
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dita. E* oggi, nell’ora fuggente ed ansiosa, fra i palpiti ed i tormenti che v’interrogano lo spirito, che dovete saturarvi l’anima di bellezze, di speranze, di fedi, vivere in un sogno incantato in cui, pur risvegliandovi, possiate poi in tutta la vita rifugiarvi come nella realtà suprema.
Questo sentiero che noi percorreremo insieme in quest’anno dovrà, dunque, per quanto non scevro di ciottoli e di triboli, salire su in alto verso il « delizioso monte », e scoprirvi nuovi orizzonti, e farvi respirare un’aria più ossigenata, e riempirvi la mente e il cuore di visioni che restino, quando le nozioni apprese saranno, forse, in gran parte passate nel serbatoio del subcosciente.
E’ possìbile far questo nello studio della lingua e letteratura inglese?
E’ questa la questione che, prima di voi, mi son posta io. E vi confesso che — prescindendo dalla personalità dell’insegnante, — lo studio della filosofia, della storia, della letteratura italiana e forse anche delle scienze naturali, sembrerebbe prestarsi meglio alla funzione di aiutare lo sviluppo di coscienze, alla formazione del carattere. E non vi dissimulo neppure, che le mie attitudini e le mie preferenze vi si troverebbero forse meglio a lóro agio.
Ma, a riflettervi su, l’insegnamento che mi è affidato non è poi uno strumento sì ribelle all’idealizzazione, come le sue difficoltà e opacità potrebbero farlo sembrare.
Anzitutto, il suo spirito. Il regolamento dei Licei Moderni esprime l’intenzione che l’insegnamento dell’inglese serva, non a scopi immediatamente utilitari, ma a fini umanistici: ad arricchire cioè il vostro spirito, ed introdurvi alla visione di un fattore integrale della civiltà europea, e di un aspetto essenziale della natura umana.
Come con la letteratura italiana e con la letteratura classica, così con quella inglese, il Liceo Moderno si propóne di introdurvi alla scienza delle scienze, alla scoperta più maravigliosa, alla scienza e alla scoperta dell’uomo quale fu ed è, e lanciarvi alla ricerca e alla formazione dell’uomo dell’avvenire. Sono le due mete, anzi l’unica meta, che si propongono le discipline più alte dello spirito, la filosofia, l’etica, la ricerca religiosa. E’ il « conosci te stesso » di Socrate, 1’ « hominem quaero » di Diogene, l’&vtyomuios» di Aristotile, e, sotto altra espressione, identica nella sostanza, il « Siate perfetti come il Padre vostro celeste » di'Gesù.
Infatti, per realizzare il tipo ideale dell’uomo, seminato, e come involuto, nel fondo
del nostro essere, all’attuazione del quale operano faticosamente con un’armonia prestabilita, tutte le razze umane di tutti i secoli, sospinte da una legge di vita che le agisce e affatica, è necessario porsi da prima nel presente, adergersi sulla piattaforma dell’uomo di oggi, c di lì protendersi e gridare il grande « forward! » il profetico « avanti ! », « excelsius ! », più in alto ancora.
Ora, nessuna nazione o razza, come nessun individuo, può pretendere di esaurire il programma immenso di vita: ognuna ed ognuno ha il suo segreto ineffabile, e il suo contributo specifico, che nessun altro può dare in sua vece, come ogni suolo ha le proprie ricchezze naturali e ogni popolò le proprie attitudini industriali ed artistiche. E’ questa la base materiale della gran legge di solidarietà, che trova la sua ragione spirituale nella simpatia umana, e la sua finalità immanente nella formazione dell’wowo ideale.
In quanto alla razza anglo-sassone essa ha recato e reca un ricco contributo caratteristico alla formazione dell’uomo civile e alla preparazione del super-uomo dell’avvenire. Essa ha creato la forma costituzionale di governo: essa è, sola, riuscita a emulare i Romani nel governo di un vasto impero coloniale, ed ha da mezzo secolo il vanto di stare all’avanguardia del grandioso movimento di riforme sociali.
È ciò che caratterizza queste creazioni e questo progresso è una grande parola: « evoluzione ». La formazione di una Costituzione politica le è costata un lavoro ininterrotto di 8 secoli: i metodi di amministrazione coloniale che hanno fatto recentemente sì bella prova (alludo alla lealtà delle colonie inglesi nel conflitto attuale) sono stati foggiati con un lavoro paziente, « provando e riprovando »: delle riforme sociali che affaticano i muscoli e tendono i nervi dì tutta la nazione si potrebbe dire che sono dominate dal principio: « nulla dies sine linea »,.
Ogni individuo, se anche non sia un apostolo del « social service », un assiduo operaio nelle fucine operose del bene sociale, si domanda seriamente più voltenei momenti più importanti della sua giornata terrena: « ho io compiuto il mio dovere verso i miei connazionali e verso l’umanità? Che cosa dovrei io fare per rendere più nobile, più bella, più gioconda, resistenza dei miei fratelli? ».
E così, una lenta febbre divora milioni di uomini e donne pervase dall’ambizione di far fruttare la loro vita, di compiere una mis-
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sione morale e sociale: e sorgono le^migliaia di istituti, di r settlements, » di associazioni, fitta rete entro cui la crisalide di oggi va preparando la farfalla del domani. Lo stesso socialismo inglese è talmente impregnato di valori morali e religiosi, si costruttivo e positivo, ed anima talmente la gran maggioranza anche di coloro che non aderiscono tutto il suo programma ricostruttivo, che non rappresenta quasi tantojun partito politico quanto una formulazione teorica dello spirito di servizio sociale e dei suoi metodi e scopi. Ed è sintomatico, che l’associazione socialista più numerosa in Inghilterra sia quella che, avendo scelto a suo motto il * cunctando restituii rem » del dittatore Fabio Massimo, da lui si denominò « Fabian Society ». Non senza profonde ragioni di spirito nazionale, l’atmosfera in cui è sorta e si è sviluppata la teoria dell’Evoluzione, con Darwin,Wallace e Spencer, e in cui il cristianesimo medioevale è giunto, attraverso riforme successive, fino alla « Società dei Friends » o Amici, ed alle Chiese Etiche alle quali sono ammessi coloro pur anco che non riconoscono l’esistenza di un Dio personale ma che danno alla vita un senso religioso, è l’atmosfera ignara di torridi calori e di algori glaciali che avvolge Albione.
Mentre nei popoli latini, il calore di vita inturgidisce la periferia dell’essere e gli fa dare reazioni pronte, passionali e spesso immature; lampi di genio, ma anche fiammate di paglia, nel carattere inglese le sensazioni, le emozioni, le aspirazioni vengono maturate, e come stratificate, nel fondo dell’essere, e si traducono, non solo in sentimentalismo romantico e misticismo, ma nelle forme più alte della lirica, del dramma, dello « humour » in letteratura; e, quel che è più, vengono riservate a base di un’azione solida, ricca, costante, nella vita.
Ecco perchè, ad es., fra i sentimenti morali eccelle nello spirito inglese e l’amicizia inglese è uno dei capolavori dello spirito umano; perchè la natura esterna e l’uomo psicologico e morale dischiude ad essi recessi reconditi, bellezze squisite, sfumature delicate, mondi luminosi; perchè nelle grandi opere letterarie inglesi, come nelle più rap-Eresentative espressioni del suo spirito publico, non è solo l’anima inglese che si rivela, ma un’umanità superiore, l'uomo tipico, che s’intravede. Shakespeare e Dickens, Shelley e Browning, Wordsworth e Rusckin e cento altri, per contenermi nel campo letterario, non appartengono al loro popolo e alla loro epoca: bensì all’umanità e all’eter
nità. Attraverso ad essi, come attraverso agli eroi del pensiero, della bontà e dell’azione, del mondo classico e moderno di tutte le nazioni, è la figura del super-uomo — che diviene eternamente perchè è dal principio e si costituisce nel fondo del nostro essere — che ci si rivela, e c’invita ad estrarlo e a crearlo in noi e negli altri. Come vedete, amici miei, è qualche cosa di più ampio e ricco che una grammatica e una letteratura che noi vogliamo studiare insieme: è un aspetto della vita, una visione dell’uomo qual’è e quale deve essere.
Qualunque documento che, dotato di e-letta forma letteraria, ci aiuti a raggiungere questo scopo, —- dal giornale alla rivista, al pamphlet, al discorso politico, — che ci inizi alla vita della nazione anglo-sassone, si nella madre patria che nelle sue colonie transoceaniche, e nella figlia distaccatasi da lei ma pur sempre congiunta per tanti titoli — gli Stati Uniti d’America, — sarà bene accolto nel nostro « symposium ».
E’ superfluo che io vi presenti le credenziali che raccomandano lo studio della lingua inglese anche ad altri titoli utilitari, sentimentali, nazionali.
Voi sapete che l’inglese è la lingua più diffusa del mondo: parlata su tutti i lidi dove sventoli la bandiera della Union Jack sulla cima di migliaia di navi mercantili: la sola lingua che permetta a 300 milioni d’indiani di intendersi, e acquistare una coscienza nazionale: la lingua che permette di addentrarsi nel Giappone e nella Cina, di visitare le più floride regioni dell'Africa, di studiare gli arditi esperimenti sociali nell’Australia e, naturalmente, di percorrere in tutti i sensi l’America del Nord, certi di non esser condannati al silenzio neppure in quella del Sud. E non vi parlo dello sviluppo industriale e commerciale delle nazioni anglo-sassoni, che dalla presente crisi, si può prevedere, resterà favorito anziché indebolito. Vi ricorderò invece, che l’Inghilterra dopo aver conosciuto l’Italia nei periodo della « Rinascenza » e fattale la corte nel periodo di Elisabetta, l’amò di un amore folle ma tenero e costante nel periodo del Risorgimento italiano, quando accolse e ospitò con venerazione gli esuli italiani che a lei chiesero, sulle orme di G. Bruno e di Foscolo, di proteggere e accogliere la sacra scintilla della libertà vibrante nei loro petti: e Rossetti, e Poerio, e Panizzi, e Saffi e i Ruffini e gigante su tutti Mazzini, in lei trovarono una seconda patria.
E a questa teoria di grandi anime di esuli fa degno riscontro il pellegrinaggio intermi-
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nabile dei più eletti figli d’Albione che, da Chaucer, dal Milton, dal Gray, da Gold-smith, a Shelley, Byron, Keats, Browning, Meredith, Swinourne, Landor e cento altri, hanno chiesto ispirazione, senso di vita, luce d’amore alla bella, alla nobile, all’amabile Italia, e le hanno dato in ricambio tutti se stessi: « Italia, Italia mia, — se dopo morte nel mio cuore aperto — lo sguardo getterete, in esso inciso — d’Italia il nome leggerete » è la voce di uno degli inglesi più innamorati d’Italia.
L’amore dell’Inghilterra per l’Italia è l’amore del più virile dei popoli per la più donna delle nazioni. « Voi non potrete mai immaginare quanto noi abbiamo amato l’Italia » - mi dicevano recentemente a Londra annose matrone e venerabili vegliardi, a cui chiedevo di permettermi di raccogliere le loro preziose reminiscenze mazziniane. E mi descrivevano le trepidazioni, gli entusiasmi, le follie anche della loro gioventù per la loro amata lontana, e mi dicevano di quanto per i figli di lei, ospiti loro, avevano osato, sofferto, compiuto.
L’Italia e l’Inghilterra sono fatte per completarsi a vicenda: e il soggiorno — attivo, investigatore, intelligente — di qualche mese in mezzo alla società e alla vita inglese è per un italiano un complemento, dirò ‘-necessario, della sua educazione e forse il mezzo più efficace per risvegliarlo a una coscienza dei suoi doveri sociali.
Se lo studio dell’inglese altro vantaggio non vi presentasse che di permettervi un giorno, forse non lontano, di fare un bagno corroborante nel mezzo della società inglese, sareste pur compensati ad usura dello sforzo che vi richiederà l’impossessarvi della lingua.
Ed ora, permettetemi, cari amici, che vi inviti ad assumere fin da ora due atteggiamenti del carattere inglese nei rapporti della nostra scuola. Il primo, un serio concetto del vostro dovere. Voi siete, o almeno dipende da voi di esserlo, degli individui privilegiati: a voi cioè, senza alcun vostro merito, sono state fornite le armi per improntare di voi stessi la società che sarà vostra, per influire più efficacemente che altri, a parità di doti personali, sulla direzione della vita pubblica contemporanea.
Lungi da me odiosi confronti, e meno ancora, il deprezzamento di quel lavoro manuale da cui anzi la scuola e le professioni intellettuali dovrebbero essere integrate, secondo i principi propugnati già dal Ruskin e più recentemente da Tolstoi, e attuati in
alcune scuole superiori e medie di America.
Ma certo è che, a parte il lavoro agricolo, il lavoro manuale quale oggidì lo vediamo nelle officine e negli stabilimenti, ha molto di macchinale, poco o nulla di umano, e non è certo tale da favorire lo sviluppo dello spirito. In attesa, e se volete, per preparare una riconciliazione fra le due forme di attività umana, la funzione direttiva nella società spetterà a voi, non come un diritto di nascita ma come un dovere di restituzione sociale. Milioni di automi si sono sagrificati per permettere a voi le gioie della coltura, il gusto di un lavoro emancipato dalla brutalità della materia — paucis humanum vivit genus — e nulla sarebbe più ignobile, più disumano che tradire le aspettative di costoro che vi chiedono ora un riverbero della vostra luce e del vostro calore, e sfruttare egoisticamente il sudore ed il sangue di chi soffre e muore, senza aver mirato quegli orizzonti che si distendono sotto il vostro sguardo sconfinati.
Non è per preparavi a una carriera, e neppure per solo dilettantismo spirituale, bensì per abilitarvi a compiere una missione e adempire un vero dovere, che voi dovete prendere sul serio quest’anno di studio.
E ad un altro atteggiamento « Inglese » v’invito ancora. I rapporti fra maestri esco; lari in Inghilterra — come del resto tutti i rapporti, privati e pubblici — sono quelli di persone che si rispettano cordialmente nell’esercizio delle rispettive funzioni. Noi in Italia, specie noi meridionali — mi ci metto anch’io un po’ come romano — sappiamo, o piuttosto ci crediamo di .sapere, ubbidire e comandare, ma poco sappiamo rispettare e rispettarci. Il servilismo strisciante verso i superiori non è ubbidienza, nè l’autoritarismo imperioso è comando, perchè nè l’uno nè l’altro sono l’emanazione di un forte senso di rispetto dei reciproci diritti e doveri imposti dalla reciproca situazione in diverse funzioni. Rispetto reciproco e cordiale fra individui umani chiamati a cooperare ad uno stesso scopo, stima reciproca, sincerità, lealtà, ecco, cari amici, ciò che permetterà a voi il massimo possibile di elasticità nei limiti di una disciplina, dello spirito più che della forma: ecco ciò che ci permetterà una cooperazione attiva e feconda, e assicurerà a voi ed a me delle ore di gioia, nella soddisfazione di servire ad un alto ideale — un ideale che resta mentre noi passiamo. « Laboremus igilur... iuvenes dum sumus».
Giovanni Pioli.
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GIUDA MORALISTA
Laonde uno dei discepoli d'esso, cioè Giuda Iscariot, figliuol di Si-mone, il quale era per tradirlo, disse: Perché non si è venduto quest'olio trecento denari, e non si è il prezzo dato ai poveri?
Giov., XII, 4, $.
Tutti conoscono Giuda traditore, ma quanti Giuda moralista? Tutti lo conoscono nell’atto che va ai farisei a vendere Gesù; ma quanti nell’atto in cui c’è presentato dal nostro testo, di impancarsi egli, il traditore, a moralista, e di pronunziare, egli che stava per dire ai farisei « Ve lo darò per trenta denari », una sentenza di morale?
Ricorreva il sabato prima delle Palme, e il Maestro si trovava a banchetto in casa di un certo Simone, cospicuo cittadino. A differenza del trattamento che gli era stato fatto al banchetto tenuto in casa dell’altro Simone, dove nessuno gli aveva usati i riguardi di prammatica per gli ospiti stimati, nè l’acqua ai piedi, nè l’olio sul capo, nè il bacio sulla guancia (i), qui il Maestro sembrava oggetto dell’attenzione generale. Non era stato lo stesso padron di casa un lebbroso che Egli aveva sanato ? (2) Non sedeva tra i commensali Lazzaro che Egli aveva risuscitato, soltanto pochi giorni prima? Ed ecco che quasi ad esprimere il senso d’ammirazione e di riconoscenza onde tutti erano com-Cresi, ad un certo momento del banchetto, [aria, la sorella di Lazzaro, si avanzò tenendo nelle mani un vaso d’alabastro d’olio di nardo purissimo, e, rottone il collo (eran vasi a forma di piccoli fiaschi, ermeticamente chiusi, che si aprivano spezzandoli nella Sarte più stretta) versò il nardo sul capo del laestro. La fragranza si sparse per ogni dove nella casa, e il pensiero ed il cuore di ciascuno ne fu scosso, elevato, esaltato; e ancora duravano le armoniose vibrazioni degli spiriti, quando, in mezzo al generale consentimento, si udì, sibilante, la voce di un discepolo, di Giuda: « Perchè non si è venduto quest’olio trecento denari, e non si son dati ai poveri ? »; o, come riferisce Marco : «Perchè s’è fatta questa perdita dell’olio?
quest’olio si sarebbe potuto vendere più di trecento denari da dare ai poveri » (1).
Ebbene, ecco Giuda moralista: ecco il personaggio al quale noi faremo una piccola perquisizione nell’anima, per vedere che specie di moralista egli fosse, quali articoli di contrabbando codesto suo improvviso moralismo nascondesse.
•**
Ma prima sarà bene constatare la fortuna che gli arrise, il consenso che la sua critica di moralista incontrò - chi l’avrebbe detto? -negli altri discepoli. Perchè mai in Matteo e in Marco (2) queste parole di Giuda sono riferite come dette da tutti i discepoli? Evidentemente perchè, profferite prima da Giuda, gli altri, quantunque poc’anzi plaudenti all’atto di Maria, le trovarono così assennate da essere indotti a cambiare di botto attitudine e farle proprie: sì che Matteo dice « furono indignati >» e Marco aggiunge che dopo essersi espressi ad alta voce « tremavano », come una corda di strumento che ancora vibri dopo il suono, come una campana che dopo il tocco ancora frema.
E quali le ragioni di questa così piena ed improvvisa adesione dei discepoli alla critica di Giuda? Giuda non era mica loquace come Pietro, da avere acquistato un ascendente sui compagni: anzi, di una taciturnità estrema, aveva quasi alzata una parete divisoria tra i colleghi e sè stesso. Ebbene, credo che l’adesione dei discepoli fosse motivata da due ragioni:
1. Una ragione che stava in loro stessi: la loro semplicità d’animo. Tutti sentiamo il fascino delle qualità che non possediamo: Sii uomini di pensiero il fascino degli uomini ’azione; gli uomini d’azione il fascino degli uomini di pensiero. Ma, sopra tutti, la gente semplice sente il fascino dei critici. Semplici, sprovvisti di facoltà critica, reputano magnifico chi, con una mossa da loro inosabile, si leva contro l’autorità, a giudicare l’autorità. Altri più critici di Giuda avrebbero criticata la critica di Giuda; ma questi semplici
(x) Lue. VII.
(2) Cosi una leggenda molto accreditata.
(x) Mar. XIV, 4. 5.
(2) Matt. XXVI, 8; Mar. XIV, 4«
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restano a bocca aperta, conquistati ed ammaliati; ed il fatto dell’abituale taciturnità di Giuda, non che un ostacolo, costituisce un incentivo alla loro ammirazione: perchè nell’animo di tale gente produce maggiore impressione la parola del taciturno che quella di chi, parlando spesso, sia diventato come una persona di confidenza.
Credetelo: la semplicità, questa specie di semplicità d’animo, è, in fondo, la maggiore ragione per la quale tanta gente, attraverso i secoli, ha fatto e fa coro alle critiche anche le più superficiali mosse al Cristianesimo. I più critici dei critici hanno criticata la critica: e contro Celso, Marcione, Porfirio, Maimonide, Hume, Voltaire, Rénan, Strauss si sono visti Origene, Eusebio, l'Aquinate, Paley, Pascal, Nicolas, De Pressensé, Crie-stilieb, Drummond... ma la gran turba dei semplici è rimasta conquistata ed ammaliata dalla critica udita... quasi per il solo fatto che era critica e la prima che udisse... pel solo fatto, cioè, della propria semplicità.
2. Ma per un’altra ragione i discepoli fecero coro alla critica di Giuda: per una ragione interna della critica stessa, cioè per il suo carattere « popolare ». « Perchè s’è fatta questa perdita dell’olio? quest’olio si sarebbe potuto vendere più di trecento denari da dare ai poveri ». Giuda non avrebbe potuto essere più popolare di cosi. Un acceimo ai poveri non poteva lasciare insensibili uomini che, vivendo tra i poveri e provenendo dai poveri, conoscevano le miserie dei poveri: le miserie palesi e le occulte, le miserie dell’alloggio, della mensa, del guardaroba; le miserie caratteristiche della stagione fredda e della calda, della città e della campagna... E poi, il calcolo del costo di quell’olio, « trecento denari», come dire due-centosessanta lire... come dire trecento famiglie che (un denaro era la paga giornaliera degli operai) avrebbero potuto essere sollevate, almeno un giorno, dalla loro miseria. C’era dunque nella esclamazione critica di Giuda tanta rispondenza alla mentalità popolare, tanta • popolarità », che i discepoli ne restarono non solo persuasi, ma conquistati d’un colpo; ed eccoli che non ricordano più che, ben prima di Giuda, l’amor dei poveri lo ha insegnato loro, e non con la sola parola, Gesù, e non pensano che se Gesù nel quale l’amor dei poveri è passione, lascia fare la donna, è segno dell’esistenza di qualche ragione dalla quale l’atto della donna è E eoamente giustificato. No, conquistati dalcritica di Giuda, infatuati dell' idea che a loro sembra una scoperta fatta quel giorno.
che non ci siano che i poveri, che tutto debba essere subordinato alla causa dei poveri e sacrificato al sollievo dei poveri, non ricordano, non intendono, non percepiscono, non sentono altro e si sdegnano per l’atto della donna... E sono quegli stessi che Gesù ha tenuti alla sua scuola! quegli stessi sulla cui anima Gesù ha tanto soffiato per farne divampare e irraggiare un po’ di fuoco, un po’ di luce di discernimento! quegli' stessi ai quali Gesù ha tante volte rimproverato di lasciarsi influenzare dalle apparenze, ai quali ha apprestato ogni sorta di ammaestramento, di guida, d’aiuto per indurli a fare finalmente «giusto giudici© » (i).
Ma non è questo il fatto che sempre e sempre si ripete? Gettate in mezzo alle folle una critica acuta, fondata, serena, completa e, probabilmente, essa tornerà a voi senza che anima viva l’abbia afferrata. Fate che un’altro vi getti una critica - che dico? - una frase pretenziosa come questa di Giuda, che intimamente erronea, come vedremo, rivesta però, di fuori, le forme sentimentali e semplicistiche della mentalità popolare, ed egli avrà imbroccato nel gusto del pubblico e scroccato l’applauso, e voi, gli apostoli della critica serena, vedrete trascinati con tutti gli altri quegli stessi che avevate educati all’altra specie di critica e che vi eravate forse illusi di avere effettivamente educati...
Ma veniamo alla sostanza della critica di Giuda, o, meglio, a Giuda moralista. Egli ci è già apparso quale un moralista inaspettato grazie alla sua abituale taciturnità, e acclamato, grazie al plauso resogli dai discepoli. Ci resta a lumeggiarlo in due altri suoi caratteri.
« I poveri » egli ha detto; ma è proprio la sollecitudine pei poveri che lo ha spinto alla critica? Il quarto Vangelo dice no: «Ora egli diceva questo, non perchè si curasse dei pòveri, ma perciocché era ladro e aveva la borsa e portava ciò che vi si metteva dentro» Portava e amministrava la borsa delle economie che poi si distribuivano ai poveri; e da quella borsa rubava; e gli rincresceva che i trecento denari non fossero venuti a ingrossare la fonte del peculio... Dunque, la perquisizione della moralità di Giuda mette subito in evidenza la sua insincerità. Qui notate due fatti:
i° Il fatto della frequenza dell'insincerità, di questo dire una cosa e mirare ad
(i) Giov. VII, 24 c passim.
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un'altra, di questo ostentare carità ed essere mariuolo. Oh sì, quanto è frequente questo tristo fenomeno della insincerità! Il capitolo avanti a questo racconta che i membri del Sinedrio si raccolsero per decidere la soppressione di Gesù; e quale il motivo che addussero, onde si dissero ispirati ? - Liberare la patria dal pericolo dei romani i quali, continuando Gesù a fare il sedizioso, avrebbero potuto venire e distruggere la nazione.- Nientemeno! Ma voi sapete che il motivo vero era l’invidia che li rodeva di fronte alla potenza e al fascino di Gesù! Non è terribile?... La Rochefoucauld ha detto che • l’ipocri-crisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù, » che cioè questo stesso bisogno sentito dal vizio, quando vuole raggiungere le sue mire, di orpellarsi di virtù, di nascondersi sotto le insegne della virtù, costituisce, in fondo, un forzato riconoscimento della superiorità della virtù. Ma è forse, per questo, meno colpevole e orrida l’insincerità? e non è terribile che si possa essere insinceri fino a questo punto e che essendo cotanto insinceri si ottenga il plauso negato ai sinceri? Ecco là la sorella di Lazzaro che ha versato il nardo sulle chiome di Gesù. Se mai ci fu atto disinteressato, spontaneo, sincero, vibrante di purezza, di gentilezza e di bontà fu questo suo... ed ella è biasimata e contro lei si solleva da tutte le parti della sala un mormorio di ostilità. Ma ecco dall’altra Sete Giuda con la sua critica insincera, a
se di menzogna e di furto... ed egli trascina con sè tutti, anche il più spirituale, dei discepoli presenti, Giovanni: il quale qui, nel testo, molti anni dopo il fatto, scriverà questo commento « perciocché era ladro», ma allora fu trascinato anche lui dal sentimento di tutti, vide anche lui, fosse E tire per un istante, in un fuggevole episodio, iuda più giusto e umano e provvido e filantropico della donna... e di Gesù.
Meno male che c’è un castigo per questi insinceri, meno male che la loro simulazione non dura che sino al giorno in cui scoppia il dissidio tra il parere e l’essere e succede la catastrofe che li rivela quali sono! Domandate qualche giorno dopo quell’ episodio — sei giorni dopo per esempio, quando Gesù fu arrestato — domandate ai discepoli che pensino di Giuda... Oh, essi hanno visto e compreso! il manto del filantropo è caduto dalle spalle del tristo compagno, ed è ap-Srsa la creatura venale, che, quasi per risi dei trecento denari sfuggiti al suo artiglio, ha venduto il Maestro per trenta sicli, poco più della terza parte di trecento denari!
2° Ma assieme al fatto della frequenza dell’ insincerità notate questo « ladro » e « traditore ■ che a Giuda affibbia l’evangelista: notate cioè la sincerità onde gli Evangeli hanno raccontata la colpa di Giuda e ritratta la figura del traditore. Nella grande mania di riabilitazioni letterarie che si sviluppò il secolo scorso - ricordate? Byron con i magici versi riabilitò Sardanapalo, e altri riabilitarono S. Domenico di Guzman ed Ezelino da Padova e Caterina de’ Medici - ci furono anche di quelli che impresero a riabilitare Giuda: una lunga schiera di scrittori che va da Petruccelli della Gattina a Maria Gorelli. Chi procurò di farlo passare per un patriota adirato contro Gesù a causa della sua riluttanza a intraprendere un’azione contro i Romani; chi per uno sperimentatore che,, ben lontano dal proposito di dar morte al Maestro, voleva semplicemente sperimentare come si sarebbe cavato dalle mani delle Autorità. Ma quanto è preferibile a tutte queste fantasie la sincerità del racconto evangelico! Anzi tutto è la verità; chè le fantasie di quei romanzieri non reggono alla più elementare critica. Poi, ditemi, ache scopo tentare riabilitazioni, rifiutarsi di riconoscere il male che può essere in un’anima d’uomo... a che scopo?forse il male diminuisce così? o piuttosto, non osservato, non vigilato, cresce? Oh, se si tratta di riabilitazioni non letterarie, ma di fatto; se si tratta di lanciarsi tra i ladri e i traditori e redimerli, oh si, l’Evangelo ci sta, anzi è questa la sua missione; ma riabilitazioni postume, verbose, letterarie, declamatorie e false, queste no; perchè oltre ad esser false tendono a falsare, cancellando la linea di demarcazione che esiste e dev’esistere tra bene e male e indebolendo il senso d’aborrimento pel male e, Eer conseguenza, d’ammirazione al bene. E adate. Costava qualcosa agli Evangelisti confessare che l’insegnamento di Gesù era fallito nell’anima di uno che l'aveva ascoltato e visto tre lunghi anni, che era costantemente vissuto sotto la sua influenza; confessare che il più grande delinquente della storia non era stato un pagano nè un miscredente, non un fariseo, non un ateo, ma un cristiano, un fedele della chiesa primitiva, un discepolo immediato di Gesù. Eppure, gli Evangelisti, senza veruna attenuazione, senza reticenze, ciò confessano. Dunque: educazione al culto del Vero, quell’educazione di cui non avrà mai abbastanza questa anima umana sempre un poco camminante su la via di Giuda, sempre un poco insincera.
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Ma, dopo l'insincerità, la nostra perquisizione di Giuda moralista scopre la superficialità « Perchè s’è fatta questa perdita? » A lui sembra una perdita il nardo versato dalla donna sul capo del Maestro; ma è, il suo, uh giudizio quanto mai superficiale.
i. Anzitutto, non fu perdita in quanto fu un atto che consolò il Maestro. Ce lo dice la lode che Egli rende alla donna, il tono di contento onde suonano dolci le sue parole. Ricordate invece il suo scontento all’altro banchetto, in casa dell’altro Simone, dove non gli fu usata dai convitati alcuna attenzione? Ricordate la punta d’amarezza ond’Egli notò la cosa: « Simone tu non mi hai dato acqua ai piedi nè baciato nè unto il capo »? Gesù teneva a questi segni di stima e di affetto; e, se ci teneva, se erano atti che lo consolavano, quale dovere di usargliene alla vigilia del Calvario, sei giorni prima dell’arresto, una settimana prima del martirio... Ah, discepoli, io intendo che parli di « perdita » Giuda, nella cui anima bieca la cupidigia del danaro uccide ogni altro senso. Ma quale aberrazione è mai la vostra di acconsentire alla sua critica?... Potete, si, chiamar perdite le essenze ed i profumi e gli olii e i nardi consumati dai satrapi, dalle etère, dalle creature dell’ozio e della lussuria; ma questo nardo versato sul capo di Lui è l’unguento meglio impiegato di tutti i tempi e di tutti i luoghi; e se tutte le piante e tutti i fiori non fossero stati che per produrre questa sola libbra di nardo, oh essi avrebbero meritato d’essere stati! Quando il Per-golese dette alla vecchia Argentina la sua « Olimpiade » e fu sonoramente, brutalmente fischiato, mentre il teatro si vuotava ed egli, ferito a morte, sedeva, anzi giaceva, sul suo stallo di orchestra, con la faccia nascosta disperatamente tra le mani, una si-Snora gli lanciò da un palco un mazzo di ori e disparve. Il maestro alzò il capo, si terse una lacrima, raccolse i fiori, si fece coraggio... e impegnò una nuova battaglia con il pubblico e la vinse. Andate e dite che quei fiori furono una perdita! Andate - se è lecito dalle cose piccolissime passare alle Grandissime - e dite perdita questa libbra ’olio che è il mazzo di fiori che un’altra donna getta a Gesù, sette giorni prima della morte, quando sul suo viso già discendono le ombre del Calvario!....,
2. Ma « i poveri »... Non si potevano dare i trecento denari ai poveri? Non furono in quella maniera trecento denari sot
tratti alla beneficenza? - No, perchè ci sono due modi di beneficare i poveri, il diretto e l’indiretto. Se l’atto di Maria non li beneficò direttamente, che è spesse volte il metodo meno efficace, li beneficò indirettamente, in quanto Che accentuò e intensificò il culto di Gesù, innalzò Gesù e innalzando Gesù innalzò la dottrina di Gesù che è il più alto grido mai levato nel mondo a favore dei poveri. Mentre, distribuiti a trecento famiglie, i trenta denari avrebbero beneficato per un giorno solò, consacrati a quell’atto di culto, crearono una perenne sorgente di beneficcn za - Signore - mi disse una ricca cristiana d’America che profonde migliaia a beneficio di istituzioni filantropiche - il mio motto è la parola di Gesù a riguardo della donna che gli aveva versato l’olio sul capo: ■ Ella ha fatto tuttociò che per lei si poteva». Io pure voglio fare tuttociò che per mezzo di me si può fare». Così mi disse quella signora" ed essa era una sola della legione di ricchi di tutti i tempi e di tutti i paesi che sono stati e che sono mossi a dare da queste parole provocate dall’atto della sorella di Lazzaro, dallo sciupo, dalla «perdita», come disse Giuda, di quell’olio pari a trecento denari.
Fermiamoci un po’ qui. Siamo giunti al cuore dell’episodio che stiamo studiando, al cospetto di una lezione importantissima.
Rileviamo due grandi verità:
I. Che nella vita ci sono molte perdite che non sono perdite.
Il riposo della domenica per esempio. Che perdita! Otto ore di lavoro perdute! Ci furono però stabilimenti che non volevano adottarlo; e che forzati a farlo, forzati dalla legge, constatarono che l’operaio che riposa la domenica lavora di più negli altri giorni; che sei giorni di lavoro fanno più che sette; che un giorno di meno è, in definitiva, un giorno di più.
Altro esempio: le dimostrazioni patriottiche. Che perdita, eh? perdita di tempo, di danaro, di fiato anche... Ma non lo dite ad uno statista; egli sorriderà della vostra ingenuità; vi dirà che non è perdita ciò che conserva l’entusiasmo, che avvicina i cittadini gli uni agli altri e tutti alla Patria. Quattro anni fa, dopo l’iniquo attentato d’un forsennato alla vita del Re, tutti i negozi di Roma furono chiusi in segno di riprovazione dell’atto selvaggio. Perdita eh? perdita di mezza giornata d’introiti che moltiplicata per tutte le botteghe di Roma veniva ad essere una somma colossale. Eppure, faceva
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bene al nostro cuore vedere quei negozi chiusi; e Hall Caine ne scrisse commosso a un Sande giornale inglese, e il suo articolo :e bene al prestigio italiano, anche bene materiale, perchè insieme al prestigio è sempre rialzato il credito.
Si è tanto gridato contro lo studio del latino e del greco; si è detto: perdita! perdita! matematiche ci vogliono, matemàtiche!.. Ma leggeste la memoria mandata al Parlamento francese da alcuni capi di industrie meccaniche, i quali dicevano che gli ingegneri che vengono dai licei e che hanno studiato latino e greco risultano superiori agli altri, non passati per questi studi, perchè scrivono le loro relazioni e i loro progetti in uno stile chiaro, preciso, ordinato, conciso; mentre gli altri riescono oscuri e caotici, e spesso non si fanno affatto comprendere ? Perdita dunque?! No, non è perdita!
Che perdita una bandiera!... Un drappo o una seta, o un mussole che potrebbe servire a vestire un poverello che non avesse di che coprirsi. Ma senza la bandiera che in mezzo alle mischie riaccende gli entusiasmi e lancia all’assalto anche i timidi, senza la bandiera non si sarebbero vinte le grandi guerre della civiltà, e, forse, i poveri sarebbero anche schiavi.
Che perdita gli auguri che usiamo scambiarci a Natale, a Capodanno e a Pasqua, c i piccoli regali e le piccole attenzioni!... Eppure, sono gli aromi che conservano le amicizie. Ed io vi chiedo: Ammesso pure che ciò che si spende in questi scopi potesse, dato ai poveri, levar dai mondo la povertà, credete voi che una società senza poveri sarebbe preferibile ad una senza amici?
Ricordate l’ordine dato dal comandante del Tilanic, ordine fedelmente eseguito, di sacrificare gli uomini e salvare le donne e i bambini? Praticamente però, secondo la morale di Giuda, anche quell'ordine aveva carattere di perdita. I passeggeri adulti e maschi erano quasi tutti grandi finanzieri, illustri personalità del mondo politico e industriale, e la loro sparizione in blocco doveva rappresentare, come fu infatti, una perdita ingente, immensamente superiore alla perdita dei bambini e delle donne. Eppure, quando si pensa alla grande lezione di cavalleria, di gentilezza, di umanità data a tutto il mondo da queirimmane sacrificio degli uomini a pro’ delle donne, e degli adulti a pro’ dei bambini; quando si pensa alle emozioni che ne abbiamo provate, alla corrente d’aria calda che è passata attraverso i cuori
più freddi, quella perdita non è stata, no, una perdita.
Non vi mettete, per carità, a misurare tutto alla stregua dell’utile materiale ed immediato; a perder di vista l’utile più profondo, più ampio, più vero! Voi, così, finireste còl dire perdita la poesia, la letteratura, la musica, le arti belle; perdita i giardini e i fiori, i saluti, gli auguri, le parole di amicizia e di conforto; voi ridurreste tutto a pura aritmetica, a pura mimica, a pura ortaglia: e vi mettereste in dissidio non solo con lo spirito umano che non vive soltanto di pane, ma anche di bellezza e di bontà, ma in dissidio con la stessa natura che colorisce con tanta profusione e abbellisce con tanta civetteria; che non sospinge in alto una co-* lonna di fumo senza imprimerle volute eleganti e gradazioni di tinte cosi delicate che non ne immaginò di più delicate Fra Angelico.
II. Dunque nella vita vi son perdite che non son perdite. Aggiungete che niente che esalta Cristo è perdita.
Che perdita - han detto alcuni - che tanti nobili e forti ingegni da Agostino a Schleier-macker si sian dati allo studio della teologia! Perdita? Ma voi non lo direste se sapeste l’influenza che la Teologia ha esercitata sugli altri campi del sapere; se sapeste per quante vie misteriose le idee di una grande Teologia vanno ad infondere grandezza nelle altre scienze.
Che perdita - han detto altri - che tanti apologisti, da Origene a Balfour, si siano affaticati a conciliare Scienza e Fede! - Perdita? Ma voi non lo direste se sapeste che spesse volte, per opera di codesti apologisti, si creò l’ambiente che fece tornare fa scienza sui propri passi e - come oggi nella questione dell’evoluzione - l'obbligò a rientrare dal dominio delle ipotesi avventate in quello di una più serena constatazione della realtà.
Che perdita tante cattedrali! tante funzioni! tanta musica sacra! Perdità? Sì certo, l’eccesso no, noi siamo pel culto semplice e primitivo; ma gli è questo culto cristiano, questa esaltazione di Cristo, che ha fatto zampillare dalla roccia dei cuori il fiume di beneficenza che parve maestoso anche a Luciano, il formidabile schernitore...
Che perdita tanti predicatori; tanti nobili ingegni sciupati nel sermoneggiare!... — Perdita? Ma non lo direste se sapeste che le statistiche ci mostrano essere meno delinquenti là dove è più predicazione, buona predicazione evangelica; se sapeste quante
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riabilitazioni, non letterarie ma di fatto, la predicazione evangelica ha create dove era, umanamente, follia sperarle.
Che perdita che tanti missionari siano mandati tra i selvaggi!... perdita d'ingegni d’uomini, di capitali! — Perdita? Ma voi non lo direste se sapeste che l’Australia, oggi civile, è una creazione dei missionari; se sapeste che, con Livingstoneecento altri, i missionari hanno arricchito le scienze naturali d'infinite scoperte, mentre con Carey e mille altri hanno non solo scoperti nuovi linguaggi, ma create le grammatiche e i dizionari e innalzati a dignità di lingua linguaggi sconnessi e bestiali: non lo direste se sapeste che quando Darwin sentenziò non appartenere alla specie umana i selvaggi della Terra del Fuoco, furono i missionari che lo costrinsero a ricredersi....
Oh sì, niente che esalta Cristo è perdita: dall’olio di nardo versato dalla donna sul suo capo a quanto oggi fanno, a esaltazione dello stesso Cristo, tutte le anime ardenti di fede. E gli è per questo, che tra Giuda e la donna, Gesù stette per la donna e invitò a seguir l’esempio della donna. « Lasciala! », Egli intimò a Giuda; e chissà con che sguardo lo fulminò, sguardo che, penetrando fino in fondo all’anima del traditore, la fece convinta che di fronte al Maestro non era facile dissimulare. Certo, non è senza intenzione che i Vangeli sinottici pongono subito dopo
questo fatto l’andata di Giuda ai farisei per gittuire il tradimento... Ma delia donna gli disse: « Ella ha fatto una buona opera »: come dire: — Fate altrettanto... Non siate anime chiuse come Giuda, ma aperte come la donna, non involute e insincere, ma spiegate e diritte, non calcolatrici ma generose, non utilitariste, ma benefacenti, o, meglio, non asservite all’utilismo materiale e immediato, ma devote a una più ampia e profonda utilità: non fanatiche delle Ìnccole cure locali, ma capaci d’intendere a grande cura ricostituente di tutto intero l’organismo. Perchè, il Cristianesimo è ap-Funto ciò: la grande cura ricostituente dei-umanità. Forse per questo molti non lo comprendono: come i contadini i quali fanno la fàccia scura e scontenta quando, andati al medico per curare una qualche parte del corpo, l’uomo di scienza non fa nè una stro-finatura nè una pennellatura nè un qualche segno magico sulla parte malata, ma ordina qualche cosa per bocca e soprattutto pulizia, aria, luce.... Il Cristianesimo omette talvolta la piccola cura locale e lascia che trenta danari non sien dati a trenta poveri: ma applica la grande cura ricostituente... pulizia... aria... luce delle anime : e, per la critica di un Giuda, non cambia, nò, non cambierà il suo metodo divino.
Alfredo Taglialatela.
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OTEMWNTI
■ BILYCHNIS" E "LA CIVILTÀ CATTOLICA"
DUE MENTALITÀ - DUE SPIRITI - DUE METODI.
In un meriggio di questi ultimi giorni di novembre, insolitamente sereno e soleggiato, lungi, ben lungi ■ dalle remote valli dei barbetti in Piemonte » (i), leggevo un singolare articolo polemico - naturalmente anonimo! - comparso nell'ultimo numero della Civiltà Cattolica, che un mio amico, trovandovi il mio nome, m’aveva inviato. Prima di tutto la lettura dell’articolo mi riempi di stupore per la novità inattesa d’uno stile più cortese, direi, più « complimentoso », insolito nelle pagine che periodicamente, da un dieci anni in qua, la rivista italiana dei Reverendi Padri d. C. d. G. dedica al modernismo italiano e alle sue molte risurrezioni: e pòi... come non ridere di cuore nel vedere trasfigurati in una maniera comicissima, attraverso le lenti molto « stigmatiche » dell’articolista fatti, persone ed intenzioni a me notissime? Dunque... polemizzare con il Padre « Anonimo? » No, Dio ce ne liberi; piuttosto, un po’ di amabile conversazione, alla buona, dalle pagine ospitali della rivista ! Delle papere e delle ingenuità di persona sempre ben informata (■), io son sicuro che il buon Dio non chiederà alcun conto nel giorno del giudizio al Padre Anonimo: e volete che ne parli proprio io? Del resto, errare humanum est, non e vero, caro Padre?
Ed ora, revenons à nos moutons, come dicono i francesi!
Il buon Padre non è soltanto il « buon Padre »; egli e la sua prosa vanno piuttosto considerati come un caso interessante di
(x) Civiltà Cattolica, 19x4, fascìcolo del 14 novembre, pag- 477patologia... clericale! Ed è perciò soltanto da un punto di vista generale che credo valga la pena di esaminare l’articolo della
Dovetti già accennare in un articolo precedente (i) a qualcuno di quegli strani atteggiamenti psichici ed intellettuali caratteristici di quella mentalità deformatrice della realtà che è la mentalità clericale, che è a sua volta al servizio di una strana philoso-phia vitac, la pretesa cioè di possedere tutta la verità e ¿’imporla a tutti.
Ricorderò: r° l’intolleranza verso la di -formila dalla pretesa verità e chiamar questa errore, dimenticando che l’infinita varietà delle opinioni e dei sentimenti degli uomini non è un caos, ma diversa espressi Abbiamo letto le dieci pagine che la C. C. dedica a Bilychnis. Non vale proprio la pena di rispondere punto per punto a si meschine chiacchiere. Se il Vaccari si fosse lasciato trascinare in questo pettegolezzo, non gli avremmo data ospitalità. Ma egli coglie l’occasione di questo nuovo documento rivelatore d'una mentalità, d’uno spirito e di metodi clericali per far risaltare la differenza tra quelli e la mentalità, lo spirito, il metodo di Bilychnis. Noi non abbiamo scritto molte pagine per informare i nostri lettori intorno alla nostra mentalità, spirito e metodo. 11 fatto che essi li hanno sentiti ed hanno sentita quella differenza, e sorgano a difenderli ed a farne l’elogio è la più bella soddisfazione che potevamo desiderare. Grazie a Vaccari ed agli amici, di cui è interprete. [Re».]
(x) Bilychnis, fascicelo de! 3: maggio 19x4: « La Civiltà Cattolica denuncia! ».
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sione d’una fondamentale verità, secondo la diversa natura degli uomini; 2° il non credere alla sincerità fondamentale di chi pensa diversamente ed ha il coraggio di esprimere le proprie convinzioni; 30 il credere che quella piccola parie di verità, di cui ogni clericalismo « e rosso e nero » sta a guardia più irosamente di un Cerbero, sia tutta la verità e una verità così brillante ed affascinante che — a proposito specialmente di clericalismo nero — solo V errore (concepito come una forza tenebrosa che sale dai più profondi recessi dei regno del male) possa ostinarsi a non vedere; 40 la fondamentale mentalità dualistica (la lotta fatale fra l’errore e la verità), che può condurre, sia, 50 alla tattica della « pia menzogna >• e della « mala fede », come due mezzi diversamente leciti per difendere la verità o per combattere l'errore, sia, 6° ad uno spirito di violenza, di dominio, per cui alle volte il clericalismo può sembrare una specie di brigantaggio spirituale, e, ad ogni modo, sempre una pesante e sospettosa tutela.
Da una tale ristrettezza di concezioni, da una simile intolleranza nell’azione, da questa ingenerosità verso chi dissente, com’è possibile che nasca quella larga sim-Satia umana che, guidata da un fine senso i amicizia e da un bisogno di cordialità, sola riesce a penetrare tutti gli insospettati mondi d’anime diversi da quelli ristretti dell’individuo e del gruppo a cui questo appartiene?
Solo se il mondo spirituale e religioso, come il mondo politico ed economico, è fatale antagonismo di gruppi sociali organizzati in vista di una egemonia che va tradotta in rapporti definiti di dominante a dominato; solo se l’individuo non conta più nulla nel mondo della religione se non in funzione del •suo gruppo, allora il clericalismo religioso, e quello dei gesuiti in specie, ha pienamente ragione. Ma allora noi dovremmo immediatamente rinnegare la parte migliore della religione dei profeti e di Gesù, quello che è il lievito della nostra vita spirituale, individuale e sociale: - clericali, ma non cristiani -come i nazionalisti francesi! Ma, come mi scriveva pochi giorni fa un amico, nobile anima religiosa, « tutte le anime veramente religiose hanno esperimentato in ogni tempo che la vita religiosa e la spiritualità, lungi dall’essere un monopolio di una casta debbano trovarsi piuttosto fuori del suo ambito... Non è soltanto « compassionevole », ma addirittura blasfemo parlare di Paternità di Dio e del suo Spirito, di cui è
detto Spiritus ubi vult spirai, e pretendere che nella grande famiglia di Dio di circa due miliardi di uomini, solo una piccola aristocrazia, forte della sua organizzazione gerarchica, abbia il diritto di gridare « Abba, Padre » quando Tertulliano dice: Sed etiam pe cudes vibrantcs spirìlum suo more dicunt aliquid quod oralio vidcalur ». Non vi è monopolio di Dio; il suo sole e il suo spirito riscaldano ed illuminano ogni più remota parte della creazione.
Clericalismo è dunque coltura di parzialità, è « insulismo » sterile di esperienze, è esagerazione fino all’esasperazione dell’assurdo delle differenze nelle dottrine e nello spirito da altre formazioni concrete sociali. La straordinaria varietà delle creazioni dello spirito umano: questa è la realtà, che Sreclama un’um'tò assai più intima e vera
i quella artificiale per la cui assurda egemonia combatte il clericalismo.
Io avevo cercato, nella prima risposta alla C. C , alla luce appunto dell’analisi del fenomeno clericale, di comprendere e di rendere chiaro a me stesso quel’ senso di stupore da cui fui colpito dinanzi all’acerbità, all’evidente esagerazione nelle critiche e nelle accuse dell’articolista anonimo della C. C.: esse mi parvero sopràtutto un caso interessante di una psicologia sopravvissuta ad un tempo « che fu ».
La C. C. s’era in fatto proposto, fin dal maggio scorso (1), di svelare ai suoi lettori una vasta congiura tenebrosa modernistico-democratico-protestantica; richiamata ora al senso della misura e della realtà, sposta questa volta con grande abilità la questione fi riduce la congiura alle più modeste proporzioni di « gherminelle (2), di trucchi ecc. » Come siamo lontani, mio buon Padre Anonimo, da un’equa considerazione della realtà! Come avete fatto a perdervi in un mondo di così piccine fantasticherie?
La vostra posizione di difesa delle posizioni acquistate senza grandi contrasti in un lontano passato, o Reverendi Padri, è inquinata per necessità di cose dalla politica: ed ecco perchè siete dannati all’este-riorismo, all’estrinsecismo, a non vedere
(1) Civiltà Cattolica del x6 maggio 1914.
(3) Confesso candidamente di non aver compreso in che cosa consìsta la pretesa seconda gherminella (pag. 480). Ma se c'è un’esplicita dichiarazione della Rivista, dove sta la « gherminella » ?
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nei movimenti convergenti dello spirito che frutto di accordi, d’intese, di congiure. Voi v’immaginate, chiusi come siete in voi stessi, che il mondo si muova contro di voi; ebbene, v’ingannate: è un errore di prospettiva, una deplorevole illusione la vostra; non contro la vecchia società religiosa che avete monopolizzato, ma verso una Chiesa più cattolica, più intimamente religiosa e mistica, più sinteticamente umana e divina, la Chiesa dell’avvenire, si muovono oggi le anime più squisitamente religiose, (quelle che voi con la vostra mentalità « esterio-rista » avete chiamati i modernisti), in un numero sempre maggiore, da Oriente e da Occidente, dal Cattolicismo come dalle Chiese più lontane.
Non vi accorgete che là (come p. es. sulla Bilychnis), dove voi credete di fare la peregrina scoperta di una «cordiale intesa», di una lega, o che so io, non si tratta che di un incontro naturale, preparato neccesaria-mente, da una parte e dall’altra, dalla somi-Ìflianza spirituale ( i) in un atmosfera in cui a libertà spirituale non è più soltanto un desiderio, ma una conquista?
C’è chi leggendo le vostre accuse si sdegna e vi chiama « uomini di malafede ». Io no: io comprendo molte delle ragioni che vi spingono ad invilire, con equivoci e con abili manovre, tutti i nuovi tentativi di un risveglio di coltura religiosa, scientifica e pratica, in Italia. Così, l’anonimo Padre con la più grande leggerezza ha denunciato il nostro lavoro come una propaganda contro la religione e la fede; ha giudicato « lo spirito e i metodi della Bilychnis come antiscientifici non meno che antireligiosi». Tutto ciò è serio? Non è la migliore condanna della leggerezza dei vostri giudizi, la meraviglia stessa che avete provato non trovando nulla nella Bilychnis « che avesse qualche mostra di nuova oppugnazione della verità cattolica? » Dove avete letto che questo era il fine, il proposito della Rivista? Nella sua parte scientifica o critica, forse? Nella sua parte dedicata ad una più intima e più moderna interpretazione spirituale della vita cristiana? Nella parte dedicata all’informazione dei movimenti più salienti della nostra vita religiosa moderna (moder- ' Disino, socialismo cristiano, unione delle Chiese, ecc...)? Perchè fingete di ignorare
(x) Ed ecco la ragione attrazione mutua dei modernisti cattolici... c degli altri! È così intuitivo ! Eppure, l’anonimo Padre non riusciva a comprendere !
che sulla Bilychnis ciascun collaboratore conserva piena la propria personalità ed assume per intiero la responsabilità dei suoi giudizi e delle sue conclusioni? Ignorate che nella Redazione non vi sono censori ecclesiastici, nè forbici, nè mannequins Eer ridurre su misura gli articoli dei collaoratori? Quello che, ad ogni modo, mi preme qui di notare è l’universalità del carattere della Rivista, il suo spirito di libertà, il rispetto profondo verso le opinioni dei collaboratori, in opposizione all’indole e alla finalità ristretta ed omogenea delle pubblicazioni clericali. Diviene clericale p. es. VHibberl Journal, quando accoglie articoli di vescovi, di prelati e perfino di Padri della Compagnia di Gesù? Era divenuta senz’altro modernista, quando contemporaneamente accoglieva e articoli del Tyrrel, del Von Hiigel e di altri modernisti, e articoli ultra ortodossi ed ultra conservatori di altri cattolici; o diveniva tout court una rivista liberale, quando pubblicava, accanto ad un articolo di un ecclesiastico conservatore del-VHigh Church, uno studio di uno dei critici tedeschi più liberali? Diviene clericale o bisogna supporre una criminosa intesa fra ■ i nemici della fede » e i cattolici, divenuti per Ìuesto stesso « apostati, traditori della hiesa » (i), quando una rivista angloamericana — il cui spirito e le cui tendenze sono così affini a quelle della Bilychnis — la The Constructive Quarterly, accanto ad un articolo di un protestante, pubblica un altro del p. Grandmaison S. I. degli Eludes, o del defunto Boncinelli o addirittura del Card. Mercier? o che la rivista anglo-americana si sia per caso infeudata ad una denominazione qualunque p. es. alla Battista, (malgrado i suoi 20 milioni di aderenti), perchè un professore del Seminario Teologico Battista di Louisville, l’Eager vi ha scritto un articolo sull’insegnamento di Gesù intorno al matrimonio? Tutto ciò farebbe ridere di cuore un cattolico, anzi, un padre gesuita qualunque al di là delle Alpi e del-l'Oceano. Vi sarebbero forse, almeno per i cattolici italiani — a cui solo può rivolgersi la C. C., — due verità, due misure, una per l’Italia ed una per l’estero? Ma se gli irosi giudizi clericali non hanno alcun valore obbiettivo, l’opera della Bilychnis, simpatica collaborazione di elementi diversi ispirata ad una comprensione e ad una stima reciproca, va giudicata come un’opera di
(1) Civiltà Cattolica, fase. 14 novembre 19x4, pagi 481.
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coraggio, di onestà e di fiducia nell’avvenire in Italia.
Ha compreso finalmente che ,co$a è e che cosa vuole la Bilychnis il Rev. Padre anonimo della C. C., che giuoca a mosca cieca dietro pochi nomi e pochi fatti mal noti? E qui potrei chiudere per sempre la non lunga parentesi di spazio che ho dovuto imporre di nuovo ai miei cari amici della redazione della Rivista.
« Senonchè » m’accorgo, a questo punto, ¿’essermi dimenticato di risponder a quello che il Rev. Padre anonimo chiama « il punto più (?) capitale della questione ». Poiché anche per me questo è semplicemente il punto capitale, il punctum salìens di tutta la polemica, quello per la cui diversa interpretazione differiamo profondamente ed insanabilmente perchè vi sono implicite due concezioni opposte della vita cristiana, sono costretto ad aggiungere una breve dichiarazione. E il lettore... perdoni! In fine della mia prima risposta alla C. C., a proposito dei troppo facili giudizi che questa s’era permessa d’esprimere senza alcuna diligente ricerca, io ricordavo una « massima d’oro » di S. Ignazio di Loyola, in cui si dice che un cristiano debba esser più disposto a salvare » una proposizione » del prossimo che a condannarla, e che, nel caso in cui gli riesca difficile salvarla, s’informi dallo stesso autore in che modo l’intenda. Questa è onestà e serietà morale. È la traduzione parziale, in un periodo storico in cui il sospetto d’eresia era cosi diffuso e poteva riuscire di grave danno al prossimo, del precetto d’amore del Divino Maestro. Ma la C. C., ha creduto di commentare autorevolmente il pensiero di Gesù con una sottile distinzione, per giustificare così la propria « campagna ». « Senonchè — ella dice (pag. 479) — la conclusione ottima era pessimamente applicata: la 0 massima d’oro » del santo non comporta che si salvino le eresie manifeste ( 1 )
(«) Chi vi ha costituii giudici su d'Israele?..
e meno ancora le diatribe blasfeme degli apostati (?); e il precetto dell’amore (di Gesù] verso 1 nemici non vieta, ma suppone (sic) che si smascheri l’ipocrisia e si svelino le gherminelle (1) degli erranti, e ciò non meno a loro conversione che a salute e a preservazione (sic) delle anime da loro tradite o esposte al tradimento ». Tutto ciò ha il merito della chiarezza e della sincerità: è la candida espressione della riduzione che la mentalità clericale ha fatto della morale eroica di Gesù! È una morale da clan, ottima per la preservazione di un’unità sociale rigidamente uniforme, non una morale universalistica ed interiore, quale è quella di Gesù. E una morale che giustifica pienamente la tortura, il rogo, l’inquisizione e che può condurre fatalmente le anime migliori ai peggiori eccessi.
Io e i miei amici della Bilychnis ci ribelliamo ad una simile intepretazione del pensiero di Gesù: il precetto d'amore è tutto ' amore e non soffre limitazioni.
L’atteggiamento spirituale che s’ispira al precetto d’amore - in cui sta la piena e vera rivelazione della vita cristiana - è fatto di sincera simpatia, di spirito di fratellanza e di amicizia, d’uno sforzo di comprensione specialmente verso quelli che differiscono da noi e non ci comprendono per il momento. La distinzione fra uomini e dottrine, fra l’individuo e il gruppo a cui appartiene è sottile e di qualche vantaggio secondo • la sapienza della carne » ma di nessun valore, anzi è un vero non-senso, nel mondo dello spirito, che è il mondo della religione. A chi è giunto a penetrare, nell'illuminazione interiore dello Spirito, l'intima essenza della morale cristiana e la sua ardita generosità, come suonano tristi le parole del buon Padre d. C. d. C. !
A. Vaccari.
(1) La leggerezza del giudizio — in opposizione aUV>y«f* * rert diligente consigliato da s. Ignazio — è appunto il grande pericolo che può facilmente condurci a credere
• gherminelle » quelle che non sono tali c a spingerci ad un eccesso di difesa, naturalmente poco in armonia con il precetto d'amore.
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SCHUPPE E LA FILOSOFIA DELL’IMMANENZA (i).
Esistono dei soggetti. Ciascun soggetto è consapevole di certi fatti, che son fenomeni suoi. E svanirebbe se i suoi fenomeni svanissero per intiero: dunque il suo esserci si risolve nel suo esser l’unità dei detti fenomeni. Ciascun soggetto è in essenziale relazione con qualche altro: ad affermare se stesso, e ad affermare qualche altro soggetto (quindi anche ad affermare certi fenomeni dell’altro soggetto), ciascuno arriva «insieme», cioè con un medesimo processo. Il «cogito», senza il «co-gitamus», non ha significato: un uomo, che si credesse unico, dovrebbe ritenere illusoria la sua coscienza di sè. Ciascun soggetto è inoltre in essenziale relazione con tutti gli altri. Non soltanto indirettamente (ciascuno essendo in relazione con alcuni altri, di cui ciascuno è in relazione con degli altri, ecc.); ma direttamente : la necessità del pensiero, a cui non c’è fenomeno che sfugga, è numericamente una sola. Quindi : oltre ai fenomeni, e a quelle unità parziali distinte che sono i soggetti singoli, c’è una suprema Unità, includente ogni soggetto singolo e ogni fenomeno.
In ciò che s’è detto è abbozzata una teoria della realtà fenomenica, ossia della realtà conoscibile. Nella sua indeterminazione, l’abbozzo ha un valore incondizionato: una proposizione, con cui Io si volesse negare, sarebbe contraddittoria. Sostituire all’abbozzo un disegno concreto e determinato è il problema della filosofìa. In quanto assume necessariamente, che la realtà fenomenica è inclusa nella suprema Unità, la filosofìa non può essere che filosofìa dell’immanenza: un disparere non è possibile che in ordine alle ulteriori determinazioni di questa.
(i) A. Prlazza. G. Schuppe e la filosofia dfll'ìmma-Htaza; im voi. in-8’ di pp. viti-ao6; Milano, Libr. ed. mi!., 1914.
L’ Unità suprema è unità di fenomeni, ossia unità di coscienza ; possiamo, per distinguerla da quelle «cosciènze particolari», che sono i soggetti singoli, chiamarla «Coscienza generale ». Secondo lo Schuppe, un soggetto singolo è un «semplice punto di coincidenza» di alcuni tra i fenomeni costitutivi della Coscienza generale. Questa dottrina è inaccettabile. In primo luogo: tra i fenomeni unificati nel singolo alcuni, p. es. i sentimenti, sono possibili soltanto a condizione, che il singolo preesista come unità particolare : un mio dolore non esisterebbe, se io non esistessi. D’altronde: la Coscienza generale, .come pura Unità e assoluta permanenza, non rende ragione della moltiplicità e della transitorietà che sono essenziali ai fenomeni.
Se vogliamo formarci della realtà fenomenica un concetto d’insieme non contraddittorio, dobbiamo alle unità singole, od ai singoli soggetti, riconoscere una funzione di importanza essenziale. I soggetti singoli non sono accozzi di fenomeni che si realizzerebbero anche senza il loro concorso; ma sono tanto essenziali ai fenomeni, quanto i fenomeni a loro. 1 fenomeni risultano dall’interferire di attività, che sono costitutive dei singoli soggetti. Benché, viceversa, nessuna di queste attività esista che in quanto c’è il loro interferire, o in quanto accadono dei fenomeni. Le attività Singole, implicandosi a vicenda, presuppongono daccapo, e come già s’è detto, l’Unità suprema. Tra le molte prove in conferma di questa nostra concezione : adduciamone ancora una. Ciascun soggetto ha l’intuizione spaziale, caratteristica dei fenomeni esterni. E’ ben chiaro, che i fenomeni di cui m’accorgo sono tutti miei ; se alcuni di questi hanno la caratteristica spaziale, per cui si contrappongono agli interni più strettamente miei, ciò vuol dire, che il mio contrappormi ad altro è condizione del mio esserci. L’ «altro» è un’attività, che interferendo
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Con la mia dà luogo ai miei fenomeni ; non può essere che l’attività d’un altro soggetto ; altrimenti la mia persuasione, che il mio fenomeno sia indizio del fenomeno d’un altro soggetto (persuasione che abbiamo visto essere un mio costitutivo) non sarebbe giustificata, e non ci sarebbe.
Opporre, che l’altro soggetto sia illusorio, non significa niente. Notavamo, che se l’altro soggetto fosse un’illusione, anch’io sarei, come soggetto distinto, un’illusione. Ma col dire illusione ciò che volgarmente si dice realtà, non si fa che sostituire un nome a un altro : non si costruisce una teoria della realtà fenomenica.
Riconoscendo, che la realtà fenomenica implica la distinzione tra molti soggetti, non si nega punto l’esigenza dell’Unità suprema. Si rende più difficile il formarsi, di quest’ unità suprema, un concetto chiaro. Ma presentare un problema sotto una forma, che ce ne faccia perdere di vista la reale difficoltà, non è risolverlo.
Benché non accettabile nella sua particolare determinazione, la dottrina dello Schuppe ha un valore indiscutibile; chi l’abbia capita, capisce, che il cercare una filosofìa diversa da quella dell’immanenza è un perditempo. 1 libri dello Schuppe non sono molto accessibili. Tanto più dobbiamo esser grati al bravo Pelazza, che si è sdebitato benissimo del suo non facile ma utilissimo assunto.
B. Varisco.
IL PROBLEMA DELLA MORALE.
E. Juvalta, Il vecchio e il nuovo problema della morale. - Bologna, Zanichelli, 1914.
Tra gli studiosi di filosofia il Juvalta è uno di quelli che con maggiore amore e tenacia ha dedicata la sua attività all’investigazione sui problemi della morale. Questo volume è un po’ la sintesi delle sue meditazioni.
Evidentemente non è possibile parlare oggi della base della morale senza rifarsi a Kant. Il Juvalta ha quindi facilmente sgombro il terreno da quei sistemi che tentano dare del bene e della morale una giustificazione oggettiva astraendo completamente o in parte dal soggetto.
Secondo lui, essi si propongono una questione insolubile. Perchè la realtà oggettiva che forma il presupposto della morale può
essere assoluta o metafisica, relativa o scientifica. In tutti i casi si confonde il problema dell’essere con quello del dovere e il bene - secondo quei sistemi - è la verità empirica o metempirica tradotta in norme ed azioni.
Neppure è da dirsi che siano stati più felici quelli che fanno della morale la scienza dei fini. Il fine sia esso naturale, relativo, empirico o soprannaturale e trascendente è sempre qualche cosa fuori della moralità; questa dovrebbe essere giustificata da ciò che non è moralità. La morale invece deve trovare in sè la sua giustificazione per affermare la sua autonomia.
Si capisce perciò come debba ritenersi falso il cercare un fondamento della morale nell’esperienza storica e psicologica o nell’autorità sociale o politica. I valori morali - dice l’A. - per essere veramente tali, devono valere per se stessi, devono porsi come dati di una esperienza non riducibile ad altre forme di esperienza, devono in una parola considerarsi come dati immediati e diretti della coscienza morale.
Eccoci dunque alla posizione di Kant affermante l’esigenza di una morale autonoma. Ma da Kant - dice l’A. - conviene muovere pei- superarlo ed integrarlo. Nello sforzo di superamento e di integrazione è l’originalità del Juvalta. Kant per arrivare a considerare i valori morali come autonomi e ad apprezzarli e volerli per sè, li considerò come enti di ragione, derivandoli dalla ragione pura fatta ragion pratica. Ma la ragione dà valori? No. Essa, se esige o impone l’universale coerenza della volontà con se stessa, non dice che cosa sono i valori, nè quali sono i valori sui quali si fonda, c ai quali deve far capo l’esigenza unificatrice della coerenza.
E’ necessario perciò che il criterio puramente formale di valutazione affermato dal Kant, sia integrato da un concetto di autonomia anche materiale. Per questo bisogna considerare l’uomo non soltanto in astratto, come ragione, ma anche in concreto nella pienezza della sua natura. Allora troveremo che accanto a valori morali la cui attuazione è riconosciuta come una esigenza universale e costante, vi sono altri valori la cui attuazione è una esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sè come morali e saremo costretti ad ammettere la pluralità e la discordanza di criteri di valutazione morale. La libertà e la giustizia sono i valori etici supremi
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e normativi che subordinano a sè ogni altro valore e sono riconosciuti dalla volontà come doveri, ma per ciò stesso sono le condizioni della personalità, il cui valore intrinseco, assoluto è il presupposto implicito di ogni valutazione morale, che assume la sua giustificazione dall’attestazione della coscienza.
Questa la conclusione del Juvalta.
Leggendo il suo volume denso di idee e serrato nell’argomentazione, pervaso da una probità intellettuale che solo chi ha avuto la fortuna di avere il Juvalta insegnante di filosofia - come l’ho avuta io -può affermare essere un suo abito mentale, io pensavo ad un altro che al problema morale dedicò la sua meditazione appassionata, non contento delle soluzioni fino a lui proposte, ad Aristide Gabelli. Anche egli nel volume L'uomo e le scienze morali volendo stabilire i criteri della moralità partiva da una critica generale della coscienza, per ritornare - come il Juvalta-alla coscienza quale giustificante della moralità. E il Trezza gli chiedeva : « Ma chi giustifica il tuo appello alla coscienza e la verità del suo giudizio ». A me pare che un appunto del genere si possa muovere al Juvalta. Gabelli credeva a certi residui psichici irreducibili, ma può crederci il Juvalta dopo le conclusioni della recente scienza psicologica?
La conciliazione necessaria in una dottrina morale tra l’oggettivismo e il soggettivismo etico non è forse allontanata nella sua dottrina che sembra portare piuttosto all’atomismo e all’innatismo in morale?
Studiare la filosofia dei fatti morali si-Snifica determinare il concetto di bene.
■ant ripose l’essenza del bene nella forma della vita morale e questa nella volontà buona, cioè nella volontà che godeva della proprietà di essere legge a se stessa. C’era dunque in lui la intuizione e la enunciazione della volontà autonoma come fondamento della morale. Ma fra l’altro, la divisione di tutta la realtà in due sfere ; la fenomenale e la noumenale infirmava alquanto l’autonomia del volere. Fichte fece coincidere il noumeno e il fenomeno e la volontà pura come principio della morale s’accostò ad una più rigorosa concezione. Il germe di verità che era in Kant, come fu sviluppato da Fichte, fu ripreso qualche anno fa da un giovane studioso - che è da augurarsi le fatiche giornalistiche non ci tolgano a questo genere di meditazioni -da Giovanni Amendola. Questi disse: il
bene è la volontà. E’ ancora il suo - a mio avviso - il miglior tentativo di superare Kant e di integrarlo.
Ferruccio Rubbiani.
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È POSSIBILE UNA SCIENZA DELLA RELIGIONE?
Jonas Cohn, Religion und Kullurwerte. -Reuther und Reichard.
Il problema posto dal professore tedesco si può - in apparenza molto semplicisticamente - proporlo cosi: « E’ possibile pel fatto religioso costituire uno speciale campo di cultura? » in altre parole: è possibile' una scienza della religione ? Dà principio sembrerebbe che l’autore lo negasse. Giacché egli ha una sua concezione della cultura, che è come qualcosa di statico, per cui sia possibile costituirla solo quando il fondamento di essa si trovi nelle proprietà immanenti dell’oggetto stesso della cultura. Nella religione invece nessun oggetto è in sè pieno di valore religioso, e un’azione e un pensiero umano sono religiosi solo in quanto si riferiscono alla divinità, a qualche cosa quindi che trascenda il finito; e ciò che li fa religiosi è proprio tutto ciò che non è in essi e per èssi. Non hanno Juindi una loro giustificazione immanente, noltre, ogni religione non ha valori di confronto, nè metodi ausiliari, ma ha in sè un tale valore assoluto da escludere quello di qualsiasi altra. Tentando di comparare fra loro storicamente e filosoficamente le diverse religioni, per stabilire come nocciolo di religiosità quello che hanno di comune, si ottengono delle vuote generalità, ricorrendo alle cosidette religioni superiori manca il criterio per misurare a loro volta queste, rifacendoci al soggetto, come vivente esperienza di religiosità, ci troviamo su una base molto labile e inconsistente. Dunque, poste cosi irte e insormontabili tali difficoltà, la conclusione dovrebbe essere questa: che della religione non è possibile costituire un campo di cultura perchè non è possibile cogliere l’essenziale del fatto religioso, quel fondamento immanente sul quale si può costruire una scienza. Invece il Cohn trova che per una via regressiva o intuitiva si scopre tale essenzialità, la quale consiste poi in fondo nel rapporto dell’uomo con uno o più esseri o nature giacenti fuori dell’ambito
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della sua azione e influenza diretta della sua attività, delle sue creazioni, della sua conoscenza discorsive: cioè la religione è la relazione vivente di un uomo con un che d’ultramondano. Come appare, la conclusione alla quale egli arriva per cogliere l’essenza del fatto religioso non è molto diversa da quella già conquistata coi metodi da lui criticati della comparazione storica o filosofica, o della introspezione psicologica: quindi non è così manifesta la ragione di contestarne la legittimità. Poi conquistata questa posizione, che là religione è relazione tra l’uomo e qualcuno che è fuori del suo mondo, perciò al di fuori d’ogni sua attività che non ne subisce la influenza, ecc., niente vieta, anzi tutto acconsente di prendere questo carattere essenziale della religione come criterio per scoprire il nocciolo di verità contenuto nelle singole religioni. Evidentemente io non dico che questo debba essere il metodo - perché qui non è tanto questione di esistenza quanto di possibilità - ma dico che gli elementi ammessi dal Cohn bastano per sè, a rendere possibile un campo di cultura o una scienza della religione.
Se non che l’Autore non sembra tanto preoccupato di costruire una scienza della religione quanto una filosofia della religione. Ed allora ci si può chiedere: accanto ai concetti di valore del vero, del buono, del bello, vi è anche quello del santo? ed è questo realmente un valore assoluto? e ammesso il diritto a un particolar campo culturale religioso, la filosofia della religione può trattarsi come filosofia culturale? Il completamento teologico che nella filosofia della religione postula indispensabilmente l’elemento religioso, a differenza dell’elemento logico o morale o estetico, esclude la Sossibilita d’assegnare un campo di valori ell’elemento < santo > accanto agli altri campi limitati di valori. Perchè'' questo elemento sopprime invece la differenza tra valore ed essere, si solleva al disopra del valore e tuttavia non crea alcun valore speciale. Denota solamente l’insufficienza delle azioni terrene, come qualcosa di limitato.
Ma la possibilità della conciliazione è nella vita. Questa non è separazione di campi di valori, ma è il tutto, da cui scaturiscono gli elementi astrattamente staccati e la sua realtà effettiva. La filosofia dovrà quindi disgiungere le diverse parti della vita, ma poi indicarle nuovamente nel loro nesso, insistendo sul valore essen
ziale dell’unità. La religione non è anche essa vita? Dunque non da un campo separato, ma dall’unione di tutti quanti i campi separati essa può ricavarsi.
E' in questo senso che anche i campi del bello, del buono e del vero acquistano un certo valore religioso, in quanto formano la vita delia cultura, e di ogni conato culturale la religione è insieme conclusione.
Lo sforzo logico del pensatore tedesco è senza dubbio di importanza capitale e te stimone d’una seria preoccupazione intellettuale. Perchè non si ammette un elemento nuovo nella vita, qual’è l’elemento religioso, senza vagliarne le giustificazioni ideali sotto ogni riguardo. E la sua soluzione si riconnette a quella filosofia dei valori che ha seguito un così sottile filo di speculazione ed ha dato in Germania dei considerevoli risultati nel campo della logica e del puro pensiero. Se non che c’è una debolezza in quel faticoso lavoro intellettualistico che non appaga la nostra sete di verità. Se la spiegazione della vita in funzione di valori intellettuali lascia aperti se non tutti molti dei problemi attuali che la tormentano, neppure questa spiegazione intellettualistica del fatto religioso può accontentarci. La filosofia è conoscenza. Noi sappiamo bene che essa esaurisce in sè tutto il suo oggetto. L’inconoscibile non può essere oggetto della filosofia perchè non può essere oggetto di conoscenza e l’assurdità di farne una filosofia oggi non è chi non veda. Forse l’errore fondamentale della filosofia scolastica non si ripete in questi sforzi intellettualistici potenziati d’idealismo? L’infinito della religione non è un elemento che si giusti-fichi razionalmente e non entra nella filosofia se non lasciandosi assorbire e superare nel modo prospettato dal Gentile. Cioè se non lasciandosi annullare come valore religioso per diventare valore filosofico.
E’ in questo senso che ancora noi ci atteniamo ad una posizione spirituale già illuminata, in un suo saggio, dal Papini, per cui la Religione fa da sè.
Ferruccio Rubbiani.
È uscito il 5° dei Sermoni della Guerra di Alfredo Taglialatela: «Di là dall’Adriatico ». — Sono in preparazione : « La conflagrazione Europea » e « L’enigma del gigante ». — Abbonamento alla serie di 12 Sermoni, L. 2.50.
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FU SCRITTO IN EBRAICO
L’ANTICO TESTAMENTO?
Chi formula il problema e lo risolve in senso negativo, è il professore di egittologia all’università di Ginevra.
II libro del professore Naville (i) è un sintomo della reazione contro le tendenze ipercritiche dominanti dalla metà del secolo scorso. Come lo mostrai! titolo, l’archeologia dà agli studi storico-critici una nuova direzione e talvolta conferma quelle tradizioni che i critici avevano considerate campate in aria. Gli scavi di Micene mostrano che i poemi omerici meritano generalmente la fiducia dello storico. Così le scoperte di Tell-el-Amarna e di Elephantine (di cui ci occuperemo fra poco) hanno fornito conoscenze preziose allo studio dell’Antico Testamento. Ma ci sembra che, come accade in ogni reazione, il Naville sia caduto nell’estremo opposto, altrettanto erroneo quanto l’esagerazione che vuoi combattere.
Riassumeremo brevemente quest’ interessante libro e mostreremo poi i risultati a cui giunge l’A. che la scienza, secondo noi, non può accettare.
Nella prima parte del volume il N. osa riprendere la tesi (che sembrava definitivamente abbandonata) secondo la quale il Pentateuco sarebbe opera di Mosè.
Nel 1887 furono scoperti a Tell-el-Amarna (300 km. al Sud di Cairo) i documenti diplomatici dell’archivio di Amenophis IV (1377-B61 circa; XVIII“ dinastia). Di massima importanza sono i rapporti (2) indirizzati al re dai governatori egiziani della Fenicia e della Palestina; tutti questi documenti sono in lingua babilonese e in caratteri cuneiformi: ciò che prova che la lingua scritta nella Palestina era allora la babilonese (pag. io).
Il N. conclude dunque che se Mosè scrisse egli usò i caratteri cuneiformi (3).
li) Ed. Naville, Archeofogy 0/ thè Old Testament, li'ar tke O. T mritten in kebretuf London, Scott, 1913. L'A. ne ha pubblicata nel 1914 un'edizione francese (con lo stesso titolo).
(2) Pubblicati da J. A. Knudtzon, Lipsia, 1907. Una scelta per lo studio dell'A. T. si trova in : H. Gressman, Altorìenfalische Texte xnd Bilder... Tübingen, 1909, voi. I, pag. 129 e seg.
(3) Pag. 17: La «scrittura di Dio» (Esodo >* 2 3 4/,z) non potendo essere il geroglifico egiziano (che colle immagini avrebbe violato il secondo comandamento) è la scrittura cuneiforme.
D’altra parte coll’analisi minuziosa e sapiente di alciini passi del Pentateuco (i) (i « giorni » della creazione, la Storia di Giuseppe, il racconto dell’Esodo dall’Egitto, il tabernacolo) l’A. mostra che chi li scrisse aveva dell’Egitto una conoscenza quale solo Mosè potè avere. Le parti della Genesi anteriori a Giuseppe (cap. I-XXXVI) mostrano (in particolare la storia della creazione) colle ripetizioni ed i passaggi bruschi che furono all’origine scritte su tavolette separate, formanti ciascuna un tutto a sè (pag. 31).
Su tali premesse l’autore conclude: il Pentateuco fu scritto da Mosè in lingua babilonese su tavolette d'argilla, con caratteri cuneiformi.
Nella seconda parte del libro assistiamo alle trasformazioni successive dal testo babilonese al testo ebraico che noi possediamo.
Nel 1906 furono trovati ad Elephantine (isola del Nilo di fronte ad Assuan) 3 papiri aramaici (pubblicati e tradotti dal professore Sachau di Berlino nel 1907).
Il documento principale è una lettera (v. pag. 145 seg.) della colonia militare e-braica di quell’isola a Bagoas, il governatore persiano della Giudea, per ottenere il Sermesso di riedificare il tempio del dio aho (2) distrutto da alcuni soldati egiziani. La lettera porta la data del 407 av. Cr. Questo documento ha un’importanza incalcolabile sia per la storia del culto (i riti a cui si fa allusione assomigliano a quelli di Lev. 2) (pag. 156) sia per la storia della lingua (il N., a pag, 165, è convinto che esso dimostra che l’aramaico era parlato alla fine del vii secolo dagli Ebrei venuti ad Elephantine).
Nessun dubbio è dunque possibile, conclude l’A.: Esdra, che parlava e scriveva aramaico, raccolse le tavolette d’argilla del Pentateuco, le ordinò e le tradusse in aramaico (pag. 183) (3). E’ per questo che Tolomeo Filadelfo fece tradurre l’Ant. Test, ih greco da un testo aramaico (4).
Gesù conosceva l’Antico Testamento non
(x) Questi dettagli formano la parte più originale de libro. Le osservazioni fini e penetranti che l'A. fa non possono essere trascurate dagli esegeti dei passi studiati.
(2) L'ebraico Jahwc (erroneamente vocalizzato Jehova).
(3) Infatti quando espone al popolo la legge di Dio non ha in mano delle tavolette di argilla ma un libro (Neemia 8/<). È noto che il cuneiforme non può essere scritto su papiro o pergamena ma solo compresso con un cuneo su argilla tenera.
(4) Pag. x$5- Vedi Flav. Iosephus, Antif. iud., 15,11,1.
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in ebraico ma in aramaico: Egli legge Is. 61 in una forma che s’avvicina più alla traduzione greca dei LXX che al testo ebraico (Luca 4/16). pronuncia in aramaico le tragiche parole del Salmo 22 (Matt. 27/46) e cita l’alfabeto aramaico (Matt. 5,18).
L’A. sente che è pili difficile sostenere la sua tesi riguardo ai Profeti. Però pur ammettendo che Isaia parlò «giudaico» egli è convinto che scrivendo egli usò la lingua letteraria d’allora, l’aramaico, onde Gesù citò Isaia e il Salmo 22 « nella forma originale in cui furono scritti >• (pag. 195).
Poco tempo dopo la morte di Gesù quando i rabbini « vollero dare alla loro religione, alle loro leggi, alla loro vita nazionale riposante interamente sui loro libri un carattere schiettamente ebraico, limitandosi ad una modificazione dialettale voltarono i loro libri nel dialetto di Gerusalemme e adottarono la scrittura aramaica leggermente modificata (1) » (pag. 207):.
•**
I problemi di cui si occupa il Naville in questo libro sono assai importanti; le sue soluzioni non mancano certo di interesse e sono vivamente suggestive. Egli si serve della sua vasta conoscenza dell’archeologia e sopra tutto della sua scienza di egittologo per rimettere in onore le tradizioni bibliche. Egli riesce ad illuminare un certo numero di testi oscuri fino ad oggi.
Pur non potendo accettare la sua tesi principale dobbiamo essergli riconoscenti d’aver attirato maggiormente l’attenzione dei critici su quella ricca miniera d’informazioni che è l’archeologia per obbligare così la scienza biblica a modificare il suo metodo ed a fare un esame di coscienza..
Ma non possiamo finire questa recensione senza fare all’A. alcune obbiezioni, che raggrupperemo sotto 3 titoli: la lingua, la scrittura e la critica letteraria.
i° La lingua. Se per Abramo tutte le ipotesi sono possibili (Nav. pensa che egli parlasse il babilonese; il Gautier è incerto fra l’aramaico e l’ebraico) (2) è certo che Mosè parlò ebraico: che egli scrivesse cuneiforme sembra probabile a causa delle tavolette di Tell-el-Amarna. Il cantico di Debora (Giud. V) — che i critici considerano generalmente come « la fonte più antica e
(1) È l’ebraico quadrato dei nostri testi attuali.
(2) L. Gautier, Introdnclìon à ¿’Ancien Teilament, 2* ed. Lausanne, 19x4. Voi. 1, pag. 1$.
più importante della storia d’Israele » (1) — • mostra, dice il Nav. (pag. 9), se non fu modificato posteriormente, soltanto la lingua parlata di allora» (non la lingua scritta]. L’ipotesi della redazione babilonese del Pentateuco riposa dunque sulla distinzione assoluta fra lingua parlata e lingua scritta, opposizione sulla quale il Naville insiste moltissimo. Ma ci par lecita una domanda.
Nella Genesi troviamo noi dei testi letterari oppure delle antiche tradizioni popolari fissate per iscritto? Se, come ci sembra più probabile, si tratta di vecchi racconti trasmessi dapprima oralmente di padre in figlio perchè dovremmo noi credere che furono scritti nella lingua letteraria che il popolo in generale ignorava? E quando mai vediamo un legislatore promulgare un codice in una lingua sconosciuta a coloro che dovranno metterla in pratica?
Se Esdra parlava aramaico, ciò che non può esser contestato, perchè avrebbe egli tradotto l’Antico Testamento, che esisteva allora in parte, in aramaico? Non esiste il minimo indizio favorevole a tale opinione. Il Nav. basandosi sulla <1 Revised versión », appoggia la sua teoria su un’interpretazione di Ncemia 8/s combattuta dagli studiosi (2)
20 La scrittura. La prova irrefutabile che Mosè scrivesse la legge in caratteri cuneiformi, malgrado la sua buona volontà, l’A. non è riuscito a darcela. Non crediamo che sia possibile esser categorici in questo punto e prefeririamo lasciare la lis, sub judice. A partire da Salomone ci troviamo su di un terreno più solido. I rapporti frequenti che da allora unirono Israele alla Fenicia (Nav. pag. 26-29) resero corrente e ordinario l’uso della scrittura di quel paese, essendo essa più facile che la cuneiforme. Infatti i documenti cuneiformi si fanno sempre più rari: con gran pena il Naville ne raggranella 304 per lo più hittiti (pag. 11). Invece i documenti in caratteri ebraici primitivi o fenici (3) si fanno sempre 'più frequenti e la loro portata nella quistione che ci occupa ci sembra trascurata nel libro che esaminiamo. Di particolare importanza per
( x ) G. H. Cornili., Einlcitung in die Kanonitcken Ritrite’' dee A. T. VII Aufl. TUbingcn 1913, pag. 92.
(2) Gautier (op. cit., pag, 20) mostra che »tc/orask non dcv’csser reso con • traducendo > come fa il Nav. ma con ■ distintamente » (come fa giustamente la versione del Diodati).
(3) La differenza fra l'ebraico primitivo e l'ebraico quadrato delle bibbio attuali è notevole: v. la tavola dei più antichi alfabeti semitici inGE$ENiusKAVTzscn,//<f£rà7rc^ Grantmntik, 27. Aulì. Lcipsig 1902, pag. 593).
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lo studio della scrittura degli ebrei sono (1) la famosa colonna di Mesa re di Moab (II Re 3/4) (2) che risale all’anno 850 av. Cr. circa ( è il più antico documento in caratteri ebraici primitivi); la lapide di Siloe (3) del 700 circa, trovata nel 1880 nel tunnel che unisce la sorgente alla piscina di Siloe; gli ostraca di Samaria trovati da Reisner, del tempo di Omri; il frammento di calendario trovato a Gezer nel 1908 da Moca-lister (fra l’vm e il vi secolo) (4). Questi documenti archeologici dimostrano che la scrittura fenicia è divenuta corrente in Palestina dopo Salomone e ci permettono di affermare che i profeti (che non avevano certo il cuneiforme: Is. 8/1; Ger. 36/18-23) si servirono non della scrittura aramaica, come vorrebbe farci credere il Naville, ma dell’ebraico primitivo: infatti il più antico documento in aramaico (i papiri di Ele-phantine) è posteriore ad Esdra.
Dunque mentre da Salomone ad Esdra gli autori biblici compongono i loro autografi nella scrittura ebraica primitiva (Cornili, pag, 286), l’aramaica comincia a sostituire i vecchi caratteri a partire da Esdra. La sostituzione è però graduale e solo al tempo di Gesù (Matt. 5/18) l’antica scrittura è caduta in disuso. Questa modificazione alfabetica non provocò nessun cambiamento linguistico: l'opinione che Esdra traducesse la legge in aramaico ci sembra contradetta dai latti.
30 La critica letteraria. Non è difficile a chi legge il libro di cui parliamo di accorgersi che la tesi che più sta a cuore all’A. è quella che fa di Mosè l’autore del Pentateuco. E ne dà due prove: la prima è il fatto che Mosè scrisse cuneiforme ciò che ci proibisce di usare criteri filologici nella critica del Pentateuco e in pari tempo ci spiega tutte le incongruenze, ripetizioni, ecc. (dovute all’esser ogni tavoletta un tutto a sè senza stretto rapporto colle altre); la seconda è costituita da quei numerosi passi che rivelano una conoscenza così profonda dell’Egitto c degli Israeliti del tempo di Mosè da escludere un autore che scrivesse 506 secoli dopo.
Sono irrefutabili queste prove? La prima vedemmo già che non è dimostrabile in
(1) Cfr. Cornili., op. cjt., pag. 285-286.
(2) Riproduzione fotografica in GR8SSMAN,op.cit.,vol. II, pag. 133; traduzione iMd., voi. I, pag. 172. Fu trovata a Dibon (N’um. 1 2, 3 4/}o) dal missionario Klein nel 1868.
(3) Riprodotta in Gxsenius, op. cit., pag. 592 ; testo v. Gressman, op. cit., voi. I, pag. 174.
(4) V. Gautier, op. cit., voi. I. pag. 33.
modo assoluto; che la legge trovata da Giosia nel 621 fosse scritta su tavolette cuineiformi murate da Salomone nelle fondamenta del Tempio (pag. 127-130) (1) è ipotesi forse poetica e pittoresca ma puramente fantastica. Quanto alla seconda prova noteremo che tutt’al più permetterebbe di affermare che qualche dettaglio sparso, rari nantes in gurgite vasto, qualche tradizione, rimonti al tempo di Mosè (cosa che i critici contestano in generale) ma non di affermare che i 5 libri di Mosè così come li abbiamo siano stati scritti nel 1300 av. Cr. Possiamo opporre alle citazioni del Naville numerosi testi che provano tutto il contrario. Pullulano i testi che non possono esser stati scritti da Mosè o perchè suppongono già il possesso della terra di Canaan da parte degli Israeliti (Gen. 22/14, Lev. 18/24-27; Deut. 2/12 o perchè fanno allusione ai re (!) (Gen. 36/31) o perchè parlano di Mosè alla terza persona (passim) o perchè mostrano che chi scrive, vive molto tempo dopo gli avvenimenti che racconta (Deut. 3/14 ; Num. 21/14 cita il « libro delle guerre del Signore » a proposito di fatti contemporanei)! La legislazione ed il culto sup-Songono un popolo che è da tempo uscito alla vita nomade.
E gli argomenti che dopo il Wellhausen i critici hanno accumulato per dimostrare che il Pentateuco è la fusione di 4 fonti principali (E dell’850; J; D; P del 444 av. Cr.) ci sembrano perfettamente validi checché ne dica il Naville. Le contraddizioni, le recensioni diverse, i racconti paralleli, i dati cronologici discordanti sono così frequenti e spesso il contrasto è così stridente che non basta dire che si tratta di tavolette staccate; è assolutamente impossibile parlare di un unico autore (2).
Concludendo possiamo ammettere nel Pentateuco alcuni dati anteriori a Saio-mone (benché in complesso i critici non lo ammettano); il Pentateuco peraltro come lo abbiamo fu composto fondendo dei documenti ebraici non anteriori all’850. In ebraico scrissero i profeti e in tale lingua Esdra lesse la légge. Il tentativo del Na(x) Il Naville ha già sostenuto quest'idea nel 19x0 nel libro: La dlcouverte de la lai sous le roi Jotiae (Mcmoires de l'Académic des inscriptions et Bolle» Ictlres, Genève).
(2) Bisognerebbe, per esser completi, citare quasi ogni capitolo. Gli esempi più caratteristici sono Gen. I c 2 c Gen. 37 (per quest'ultimo si veda Gavtier, voi. I, pag. 55, dove si hanno le recensioni di E e J perfettamente distinte stampate su due colonne).
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ville di rimettere in onore l’opinione della vecchia ortodossia tradizionalistica non resiste ad un esame scientifico. Tuttavia il suo libro, scritto con un gusto ed un’eleganza poco comune in opere di critita merita un esame attento da chi si interessa di studi biblici, sia per le numerose osservazioni geniali nel campo dell’egittologia, sia perchè è uno dei primi tentativi notevoli di lasciare il metodo filologico per non servirsi che di argomenti tratti dall’archeologia.
Ginevra. R. PFEIFFER.
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L’IDEA DI DIO
NELLE RELIGIONI PRIMITIVE
IEVONS-PESTALOZZA: L'idea di Dio nelle religioni primitive. (U. Hoepli-Mila-no, 1914, in manuali H. L. 2.)
È con vero piacere che vediamo tradotto questo notissimo manualetto del levons, dell’università di Durhara, per opera del prof. Pestalozza di Milano. Può essere considerato come un’ottima lettura introduttiva allo studio analitico della Storia delle Religioni. L’autore è un teista convinto e il suo libro vuol essere appunto un tentativo di interpretare con una profonda unità tutto Io svariato panorama delle religioni del mondo nello spazio e nel tempo. Le idee del levons sono state discusse largamente nel campo degli studiosi di Storia e Scienza delle religioni, nè è qui il luogo di esaminarle di nuovo. Si leggano le sue opere principali: Inlroduction lo thè history of Religión, 1902; Religión in Evoluitoli, 1906 e Study of Comparative Religión, 1908. « Il libro che sta ora davanti al lettore tratta del fenomeno religioso, studiato come fatto interno, negli stadi Írimirivi della religione. Con « la Idea di 'io » noi possiamo significare la coscienza che gli individui hanno di poteri superiori, con cui si sentono in relazione, o le parole con cui essi od altri si studiano di manifestare questa coscienza» (F. Prefazione). Dopo un'ampia prefazione, su cui l’A. e-spone le sue vedute, in tre capitoli si parla dell’idea di Dio nella mitologia, nel culto e nella preghiera; in un quarto ed ultimo capitolo, di natura più filosofica, dell’idea e dell’essere di Dio.
Quanto alle idee fondamentali che stanno a base della trattazione, notiamo che se
da una parte egli accetta i risultati della scuola sociologica (il carattere sociale delle religioni primitive, in cui la coscienza individuale è ancora in soluzione nella coscienza collettiva), d’altra parte si distacca dall'interpretazione della natura della religione come campo delle cose sacre in opposizione a quello delle cose non sacre o profane. Egli concepisce il processo evoluzionistico della coscienza religiosa e delle sue creazioni corrispondenti non in senso lineare (concezione positivistica), ma come un processo differenziantesi lungo linee diverse, per un movimento irradiante e dispersivo », felice applicazione di una analoga concessione del Bergson (V. L’evoluitoti créatrice). Le forme inferiori vengono eliminate come inadeguate ad esprimere Io sviluppo ulteriore dell’idea religiosa nella coscienza umana.
La forza che spinge in avanti la coscienza religiosa è la ricerca insoddisfatta di una migliore rappresentazione del divino, inteso come un potere superiore all’uomo normale e. come un potere personale, alla luce del bene, del vantaggio della comunità sentito dalla coscienza collettiva, (criterio pratico, prammatistico).
In cima dell’evoluzione religiosa, come coronamento di questo sforzo più che millenario, tentato successivamente in varie parti e da varie razze sta il cristianesimo, in cui si ha la massima rivelazione di quell’elemento personale ed intimóla cui ricerca ha dato vita successivamente alle varie forme o stadi religiosi che non lo traducevano pienamente.
« È un potere personale ed un essere personale che l’uomo cerca in tutta la sua storia religiosa. Egli ha spinto la sua ricerca in molte, spesso simultaneamente, in diverse direzioni ed ha abbandonato l’una dopo l’altra le varie linee di ricerca perchè ha trovato che non lo conducevano dove egli voleva» (pag. 18). «Il divino è personale, tanto quanto l’umano (pag. 21).
« L’evoluzione della religione consiste nel lento processo, nel riconoscimento graduale della idea fondamentale della religione - l’idea di Dio - che tende a salire alla, superficie della coscienza religiosa». Però non va intesa intellettualisticamente l’espressione « Idea di Dio » ma in termini d’esperienza.
« Oggetto dell'esperienza è, sin dal principio è sempre stato, tanto nelle religioni inferiori quanto in quelle appartenenti
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agli stadi più elevati di civiltà, ad un tempo l’essere e l’idea di Dio» (pag. 172).
La tesi dell’A. è sviluppata con grande ricchezza di fatti e di esempi, attraverso l’esame metodico delle varie forme delle religioni inferiori ciò che rende il libro un interessante iniziazione agli studi religiosi.
Il traduttore ha corredato largamente il libretto dello levons con note illustrative ed indicazioni bibliografiche di opere posteriori alla pubblicazione del testo inglese. M. R.
Gabriele Rossetti
come patriota e credente è illustrato in forma popolare da Enrico Robutti in un lavoro premiato al concorso bandito dal Comitato della Chiesa Valdese. Sono quattro capitoli in cui si parla della Vita del Rossetti, della sua attività patriottica, del suo spirito antipapale e della sua fede religiosa. L’autore non fa lunghe dissertazioni ma preferisce far parlare il Poeta, la cui forte personalità s’impone al lettore per il calore della fede e l’ardente amor di patria. Il volumetto costa L. 1.; mai nostri abbo
nati e lettori possono averlo per cent. 50 franco di porto, rivolgendosi all'Autore a La Maddalena (Sassari).
Antialcoolismo
A quanti hanno a cuore la lotta contro questo flagello che tanti danni ha prodotto in mezzo a vari popoli e s’adoprano con lo studio e con l’azione per allontanarne dal 1 l’Italia il pericolo, raccomandiamo vivamente il volumetto del Sac. Prof. Doti. M. Guidetti: « Un moderno suicidio», nel quale è trattato il problema nei suoi aspetti fisiologico, sociale e morale, con ricchezza di dati scientifici e statistici. Pagine 123; ? rezzo L. 1,50. — Rivolgersi all’autore a rovaglio d’Iseo (Brescia).
Coenobium
Sommario del 70© fascicolo (Ottobre) : H. Hoffding: Le problème religieux — F. Rizzi: Formazioni. — Carry : La guerre— A. Gaz-zolo: Critica estetica e misticismo religioso nell’opera di Roma in Rolland — G. Tucci: Il Tao ed il Wu-Eoi di Lao-Tzù — Documenti e ricordi personali: Testamento spirituale di Ad. Ferriere; Lino Feniani; Hans Ryner; Luisa Giulio Benso; Fr. Majer; R. Gradassi-Luzi — Pagine da meditare: G. Bertacchi: Davanti alla guerra—Guerra alla Guerra' Per la Lega dei paesi neutrali; Voci amiche del Coenobium; A traverso giornali e riviste; — Rassegna Bibliografica — Rivista delle Riviste — Note a fàscio.
jfanicH
0 0 0 0 Alcuni amici ci debbono ancora l'abbonamento pel 1914 (Italia L. 5 -Estero L. 8). Non abbiamo voluto seccarli con cartoline o tratte. Ricambino questo nostro riguardo, sollecitando rinvio di quanto ci debbono.....
Queste parole sono per tutti quei nostri lettori che trovarono il mese scorso sulla busta, accanto all’ indirizzo, l’indicazione : « 1914 » con segno azzurro.
A tutti gli altri che sono in regola pel 1914 — e che certo vorranno continuare a seguire con simpatia e sostenere praticamente l’opera della rivista — diciamo: riabbonatevi pel 1915!
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Che n*è della Cattedra
di Storia del Cristianesimo a Roma ?
Malgrado difficoltà d'ogni genere e pregiudizi inveterati, i rigidi quadri delle nostre Facoltà di Lettere vanno allargandosi ed accolgono, pur troppo con un ritardo dannoso alla nostra coltura superiore, nuove discipline che direttamente ed indirettamente interessano le scienze religiose- È questo un tardo ed un esplicito riconoscimento dell’importanza che ha assunto fra noi, da poco più di decennio, il nuovo indirizzo scientifico negli studi religiosi sia nel campo filologico, storico ed archeologico che in quello filosofico.
Così siamo lieti di vedere quest’anno indetto dalla Università di Torino un concorso per una cattedra di filologia semitica comparata: sebbene l’istituzione ne sia dovuta ad altri motivi, pure noi facciamo l’augurio che la futura cattedra rappresenti anche un’ottima occasione per la diffusione dello studio scientifico della letteratura biblica e delle religioni semitiche.
A Bologna, la Storia delle Religioni è entrata con l’incarico affidato al prof. R. Pettazzoni, già libero docente della stessa disciplina all’Università di Roma.
La morte del Labanca e dei Mariano avevano lasciate vuote le due uniche cattedre di storia del cristianesimo create dal governo italiano, due cattedre che per il loro significato e per diffidenze politiche e culturali, hanno avuto una serie di vicende oltremodo interessente (r). La cattedra di Napoli, tenuta dal Mariano, è scomparsa con il titolare nè sembra che il Ministro o
(x) Vedi il volume Jordan-Labanca The study a/reli-gion in tke italian universities, Oxford, 1909 c un articolo di S. Minocchi nella Cultura Content fioranea, Maggio-Giugno 1912.
il Parlamento, in quest’ora di crisi economica e di... compromessi politici, abbia l’intenzione di restaurarla.
Per succedere a quella del Labanca nel-l’Università di Roma, fu indetto invece un concorso fin dalla passata primavera. La prima questione che si affacciò... agli esecutori testamentari... in una riunione della Facoltà di Lettere fu se la futura cattedra dovesse portare il nome di « storia del cristianesimo » o di « storia delle religioni ». Era, sotto forma diversa, il vecchio dibattito che era sorto nel Parlamento italiano fin da quando si convenne di introdurre nelle Facoltà di Lettere qualche cattedra di scienze religiose. Il Labanca stesso aveva assunto l’insegnamento con il titolo di docente di storia delle religioni, ina poi se l’era fatto mutare in quello di docente di storia del cristianesimo, per poi finire, negli ultimi anni del suo insegnamento, col parlare di storia delle religioni, o meglio di scienza delle religioni. Quello che è certo, è che la nuova disciplina, la storia delle religioni, deve avere una cattedra a sè, accanto a quella di storia del cristianesimo. È il programma mininum di tutti i cultori in Italia delle scienze religiose ed è anche il nostro.
Fu deciso che la cattedra ereditasse il vecchio titolo di « storia del cristianesimo ».
Va notato che negli ultimi due anni era stato incaricato, con il titolo di libero docente, di tenere un corso di lezioni in sostituzione del prof. Labanca, gravemente infermo, Monsignor U. Fracassini, di Perugia, noto per essersi specializzato negli studi biblici e specialmente nel Vecchio Testamento.
Al Fracassini, che si dice sia il candidato tollerato dal Vaticano per timore di peggio, malgrado le sue non antiche vicende modernistiche al Seminario di Perugia sotto il
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pontificato di Pio X, sembrava a molti che dovesse venir affidata la successione al Labanca; invece fu deciso di indire il concorso.
A questo si presentarono otto candidati, con titoli e preparazione assai diversi. La stessa natura un po’ indeterminata della cattedra, unica a rappresentare tutto il vasto dominio della scienza religiosa, non integrata neppure da un corso parallelo di letteratura cristiana antica, la diversità dei criteri e delle preferenze scientifiche negli stessi membri della Commissione giudicatrice del concorso, hanno spinto molti a presentarsi con titoli di studio assoluta-mente estranei alla natura e all’oggetto della cattedra, che deve essere data solo a chi mostri di avere dedicato per lunghi anni la sua attività scientifica ai problemi storici e letterari del cristianesimo antico'. la cattedra per ora rientra praticamente nell’ambito del gruppo classico.
Lo stesso carattere indeterminato, vago, equivoco (si tratta forse di una cattedra di filosofia della religione?) e la sospettosa vigilanza dei clericali, ha svegliato gli allarmi ingiustificati di qualche gruppo clericale, che non vuole che la cattedra vada in mano di un preteso « nemico » della religione e della teologia ufficiale. E ciò riesce incomprensibile, perchè fra i candidati vi sono nientedimeno che tre ecclesiastici, che vivono in perfetta comunione con la loro chiesa ufficiale. L’accusa di modernismo che è stata lanciata ora all’uno ora all’altro, deve essere certamente qualche cosa d’imponderabile e sopratutto non vediamo che cosa c’entri il modernismo con la serena ricerca nel campo storico! Ad ogni modo, questo allarme clericale suona una offesa alla maturità di spirito della giovane scienza italiana ed indica il proposito di considerare ¡’Università italiana come un feudo della Chiesa. Questa volta il veto ecclesiastico a qualche candidatura verrebbe esercitato, non con una campagna pubblica allarmistica, ma con abile e diuturna influenza di clientele. È impossibile verificare quanto di vero o di falso ci sia in queste chiacchiere, favorite pur troppo, dal ritardo incomprensibile della decisione della Commissione. Sta il fatto, però, che la scelta del candidato si presentava per tante ragioni difficile e delicata, sopratutto per la coscienza religiosa dei commissari. Una prima riunione della Commissione al principio dell’estate, andò a vuoto per l’assenza di uno dei Commissari. Ora è venuto l’in
verno e la decisione si fa ancora attendere. C’è chi dice che il pesare con coscienza e con giustizia i titoli d'ortodossia sia cosa assai più lunga e difficile che pesare la carta degli infiniti titoli di studio presentati dai candidati; c’è chi dice che riesce duro il « vincere se stesso » a proposito di tendenze filosofiche; c’è chi dice perfino, che per non creare imbarazzi a... nessuno, si voglia rimandare la decisione, per poi, inspirandosi a nuovi avvenimenti, o far morire lentamente la cattedra o affidarla brevi manti a qualche candidato sicuro.
Ma tutte queste sono evidentemente delle vane chiacchiere, diffuse ad arte, e che hanno il torto di non riconoscere con quale profonda equanimità si assegnino le cattedre universitarie in Italia.
Certo, questa cenerentola fra le cattedre italiane, sembra che voglia aggiungere alla sua movimentata storia, fin dal tempo del Mamiani e del Coppino, una nuova pagina... ancor più interessante.
Quello che è veramente sconfortante è che in Italia si possa nutrire anche solo il sospetto d’un intervento più o meno impalpabile, più o meno diretto, ma sempre reale ed efficace, del clericalismo che ha invaso tutta la nostra vita pubblica. Nel caso della cattedra di storia del cristianesimo esso, se confermato, rappresenterebbe una vera iattura per la nostra influenza scientifica. Le scienze religiose, per opera inizialmente del modernismo, avevano trovato fra noi un largo consenso fra i giovani studiosi: i buoni risultati debbono venir aumentati dalla consacrazione di tali studi nella Università, che è ancora, malgrado tante pecche, un’ottima fucina di studi ed un'ottimo strumento di propaganda scientifica.
Noi ci auguriamo non lontano il giorno, col rinnovamento dello spirito pubblico e dell’orientamento della coltura superiore, in cui in ogni Faccoltà di Lettere, che avranno cessato di essere macchine di professori... a misura, si creino delle scuole ben organizzate, di scienze religiose, ad. instar di quelle già in formazione di Storia dell’arte, di archeologia, di lingue orientali. Dopo la grande guerra, sarà dovere dello Stato di affrancare la gioventù studiosa dalla nefasta influenza della pedanteria straniera e di creare un’organizzazione scientifica che possa superare per la geniale intuizione del nostro genio nazionale quella magnifica delle nostre scienze al di là delle Alpi.
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NOTIZIE
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Per la storia delle religioni
Se non fosse scoppiata la guerra, nell’autunno scorso si sarebbe radunato a Bari l’VIII Congresso della Società Italiana per il progresso delle scienze, che ci avrebbe Sarticolarmente interessati per l’attività ella Sezione di Storia delle Religioni, inau-Suratasi con successo nel Congresso prece-ente tenutosi a Siena nel settembre dell’anno scorso. Di quella prima riunione della nuova sezione la nostra rivista diede subito un breve ma fedele resoconto redatto da uno degl’intervenuti (Bilychnis, settembre-ottobre 1913, p. 431). Oggi abbiamo sottocchio il volume degli Atti generali del Congresso di Siena, pubblicati per cura del segretario prof. V. Reina col concorso di E. Bompiani, F. Cortesi e R. Pettazzoni. Del migliaio di pagine che compongono il grosso volume, una diecina sono dedicate alla Sezione di Storia delle religioni (Vili*) per brevissimi sunti delle relazioni presentate dai professori U. Fracassini, R. Pettazzoni, G. Vacca, E. Buonaiuti, L. Salvatorelli, N. Turchi e M. Rossi, e pochi cenni sulle discussioni seguite. —- Crediamo utile e interessante Ki nostri lettori riprodurre dagli Alti la itera che fu rivolta al Presidente della Società per il Progresso delle Scienze, per chiedere che fosse istituita la nuova sezione di storia delle religioni.
« Roma, maggio 1913.
« HI. Sig. Presidente della Società Italiana per il Progresso delle Sienze, « La cultura italiana, dopo avere troppo a lungo trascurato gli studi religiosi, accenna oggi ad interessarsene sempre più. Finora questo interesse si è affermato in particolar modo nel campo della cultura generale, o nello studio più o meno esclusivo di questa o di quella speciale forma religiosa. Ora conviene che esso si estenda e si comunichi agli ambienti più propriamente scientifici.
« Dal punto di vista degli studi religiosi occorre dimostrare col fatto che essi sono suscettibili dell’applicazione di quei me
todi d’indagine positiva e critica che sono universalmente applicati agli altri prodotti dello spirito umano.
« Dal punto di vista del pensiero scientifico importa far vedere che esso non è per sua natura alieno dal fare oggetto di sue ricerche il fenomeno religioso, che anzi esso non può nè vuole rinunziare allo studio di un ordine di fatti che ebbero ed hanno un’importanza altissima nella vita dell’umanità.
« Tale avvicinamento degli studi religiosi al pensiero scientifico sembra ai sottoscritti che in nessun altro modo potrebbe meglio essere promosso e conseguito che sotto gli auspici della Società Italiana per il Progresso delle Scienze. Perciò propongono alla S. V. di istituire nel seno della Società una nuova Sezione di « Storia delle Religioni », e di inserirla nel programma generale dei lavori nel prossimo Congresso della Società.
« All’estero la Storia o Scienza delle religioni è universalmente riconosciuta come disciplina a sè, professata in cattedre speciali, provviste di organi periodici propri: essa ha tenuto nel 1912 il suo IV Congresso Internazionale. E le Società scientifiche straniere l’hanno accolta da tempo nel loro campo di azione (1).
« Da noi, trattandosi di dare per la prima volta alla « Storia delle religioni » riconoscimento ufficiale di cittadinanza scientifica tanto più conviene che essa affermi la sua fisonomía caratteristica svolgendo i suoi lavori in una sezione speciale, a quel modo che sezioni speciali sono state istituite nella Società per il Progresso delle Scienze per la storia dell’arte e la storia delle scienze.
« I sottoscritti confidano che la S. V. vorrà dare il suo consenso alla proposta che hanno l’onore di presentarle.
« Ignazio Guidi.
« Leone Caetani.
« Raffaele Pettazzoni ».
(1) Alla Brilish Assoeiation for thè advancement oj science un insigne antropologo c cultore di etnologia religiosa, E. Sidney^HatUand teneva nel Congresso di York nel 1906 un Presidential Address illustrando il concetto di mona.
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BILYCHNIS
Cose nostre
Nel 1915 serberemo in ogni fascicolo un posticino per le « cose nostre ». Faremo un po’ di conversazione coi lettori, ai quali offriremo l’opportunità d’esprimere giudizi, desideri e se occorrerà discuteremo insieme, sempre — s’intende — da amici.
Ai nostri vecchi abbonati, che certo ci rimarranno fedeli, domandiamo di aiutarci a trovare nuovi amici. Ci mandino indirizzi di persone alle quali spediremo numeri di saggio.
Il nostro collega di Redazione, Dr. Whit-tinghill — reduce da un lungo viaggio all’estero— sta ora preparando un nuovo volume della « Biblioteca di Studi Religiosi » ch’egli dirige. Speriamo di darne presto notizie particolareggiate. Il volume sarà man dato in dono a lutti gli abbonali di Bilychnis.
Stiamo organizzando un servizio di prestito di libri pei nostri abbonati. Chi desidera approfittarne ci scriva e noi manderemo il regolamento con una prima lista di volumi.
Libreria Editrice “ Bilychnis „
Abbiamo ottenuto per la nostra Libreria Editrice " Bilychnis „ il deposito delle pubblicazioni della Casa Editrice Fischbacher di Parigi e siamo ora in grado di rispondere prontamente a coloro che ci avevano richiesto opere di C. Wagner, W. Monod, Val-lotton, Rauschenbusch, ecc. — Li preghiamo di ripeterci l’ordinazione.
Chi desidera ricevere ogni mese durante tutto il 1915 un discorso del noto predicatore ginevrino Frank Thomas mandi subito L. 2.20 alla nostra Libreria, oppure, prima del io gennaio 1915, ci esprima il desiderio di associarsi.
A chi ci spedirà L. 1.70, manderemo subito e franco di porto un pacco contenente 14 discorsi religiosi Pendant la guerre dei gedicatori francesi W. Monod, C. Wagner, oberty, Vicnot, ecc., nonché 9 fogliettini religiosi compilati da C. Wagner per i soldati francesi.
Abbiamo in deposito e possiamo spedire prontamente dietro ordinazione accompagnata da relativo importo :
W. RAUSCHENBUSCH, Prières du réveil social. L. 2.75.
Espéricnccs sociales (Conférences). L. 3.S0.
H. MON N 1ER, La mission historique de Jésus. 1914- Grosso vol. di pag. 3S0, L. S.
C. G. MONTEFIORE, Gesù di Nazareth nel pensiero ebraico contemporaneo. 1913. Pag. 152. Prezzo L. 2.50.
IEVONS-PESTALOZZA, L’idea di Dio nelle religioni primitive. Milano, Hoepìi, 1914. Voi. di pag. 17$. Prezzo L. 2 (rilegato).
Sommario: Prefazione dell’autore. - Avvertenza del traduttore. - Bibliografia. - I. Introduzione. -II. L’Idea di Dio nella Mitologia. - III. L’Idea di Dio nel Culto. -IV. L’Idea di Dio nella Preghiera. - V. L’Idea e l’Essere di Dio.
E. P. LAMANNA, La religione nella vita dello spirito, Firenze, Zxz Cultura Filosofica Ed., 1914. Voi, di pag. 500. L. 7.
KANSO OUTCHIMOURA
La crise d’âme d’un Japonais
COMMENT JE SUIS DEVENU CHRÉTIEN?
Pagine 220
L. 3 (Aggiungere per il porto 0.25).
Vedi recensione di questo interessantissimo libro in Bilychnis di febbraio 1914, pag. 153
PAUL VALLOTTON
LA GRANDE AURORE
Volume in-8® di pag. 459
L. 3.50 (Aggiungere per il porto 0.40).
Vedine recensione in Bilychnis di gennaio 1914 pag. 67
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell’Unione Editrice, via Federico Cesi, 45
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BILYCHNIS
RIVISTA MENSILE ILLUSTRATA DI STUDI RELIGIOSI © ® ®
VOLUME IV.
ANNO 1914 - II. SEMESTRE
(Luglio-Dicembre. Fascicoli V1LXI1)
ROMA
VIA CRESCENZIO, 2
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INDICE PER RUBRICHE
INDICE DEGLI ARTICOLI.
Costa Giovanni: Mitra e Diocleziano, p. 292.
De Stefano Antonino: Saggio sull’eresia medievale nei secoli xn e xm, p. 163.
Gonnelle Edmondo: La figura morale e spirituale di Giovanni Jaurès, p. 155.
Fancello Nicolò : Guardando la morte, p. 409.
Janni Ugo: Il metodo di ricerca dell’Es-senza della Religiosità, p. 17, 299.
Lesca Giuseppe: Sensi e pensieri religiosi nella poesia di Arturo Graf, p. 238.
Melile Giovanni E.: Giovanni Jaurès, pagina 151.
Minocchi Salvatore: Cresto e i Crestiani, pagina 205.
Id.: I miti babilonesi e le origini della gnosi, p. 383.
Murri Romolo: Un programma di pontificato (Pio X), p. 141.
Id.: La Religione nell’insegnamento pubblico in Italia, p. 360.
Neal T: Maine de Biran, p. 285.
Orano Paolo: Neutralità filosofica, p. 372.
Pascal Arturo: Antonio Caracciolo Vescovo di Troyes, p. 222.
Paschetto L. : Confessioni, p. 357.
Pioli Giovanni: Le tendenze religiose nella filosofia di Bergson e la condanna del-1’« Indice », p. 77.
Pons Silvio: Tre fedi (Montaigne, Pascal, Alfred de Vigny), p. 214.
Id. : Il Panislamismo e il Panturchismo nell’attuale momento politico, p. 414.
Puccini Mario: Un paladino dell’idea Cristiana: Raffaele Mariano, p. 5.
Rutili Ernesto: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti d’uno di essi, p. 176.
Id. : Vitalità e vita nel Cattolicismo (V), p. 419.
Sacchini Giovanni: Il Vitalismo, p. 91.
Salai iello Giosuè : L’Umanesimo di Caterina da Siena, p. 401.
Sawyer Roland D.: La sociologia di Gesù, p. 101, 305.
Villari Luigi Antonio : Lettere inedite di mons. Bonomelli, p. 86.
। Vitanza Calogero: I precedenti classici dèi dogma della grazia, p. 28.
PER LA CULTURA DELL’ANIMA. Conferenze — Prediche - Sermoni.
Barton William E.: La cappella dell’Ascensione, p. 51.
j Coquerei Athanase: I poveri in ¡spirito, pagina 109.
' Dejarnac J.: Per la lettura dei Salmi, p. 324.
• Frommel Gaston: La preghiera, p. 185.
. Monod Wilfred: Il Cristo spirituale, p. 45.
| Pioli Giovanni:Lo studio delle lingue moderne quale strumento di educazione, p. 438.
Ragaz L.: Non la pace ma la spada, p. 256.
; Id.: Cristianesimo e patria, p. 312.
Roberty J. E.: La porta aperta davanti ai cristiani d’oggi, p. 180.
Roth Jean: Una conversione al tempo degli apostoli, p. 114.
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IV BILYCHNIS
Tagliatatela Alfredo: Giuda moralista, p. 442.
Wagner Carlo: Tre cose fondamentali, p. 38. Wautier d’Aygalliers A.: Spiriti amari e volti amabili, p. 248.
Pagine scelte.
Un Geografo incredulo: Una veduta della realtà, p. 261.
NOTE E COMMENTI.
A.: Il nuovo pontificato: p. 268.
B. C.: Per l’unione delle'Chiese cristiane, p. 320.
Delio A.: Ciò che bisognerebbe avere il coraggio e la onestà di non insegnar più ai bambini, p. 55.
Ghignoni Alessandro: A proposito dì unione delle Chiese cristiane, p. 190, 331.
La Provvidenza e la Guerra (Documenti), p. 120.
Pioli Giovanni: Come il Cristianesimo inglese si va preparando alla pace allo scoppiar della guerra, p. 264.
Vaccari Antonio : Bilychnis e la Civiltà Cattolica: due mentalità, due spiriti, due metodi, p. 448.
UOMINI E FATTI.
Formichi Carlo: Michele Kerbaker, p. 347
G. E. M.: Jaurès, p. 120.
Charles Gide: Péguy Charles, p. 346.
Quadrotta Guglielmo: Geremia Bonomelli, l’ultimo vescovo liberale, p. 124.
Rossi Mario: L’opera di Giovanni Weiss, p. 381.
Soderblom Nathan, p. 57.
Zingarelli Nicola: Alessandro D’Ancona, P- 349LIBRI E RIVISTE.
Avaneini Damiano: Modernismo (Ernesto Rutili), p. 279.
Bach H.: L’attività dei laici nella Chiesa, p. 276.
Bordeaux Henry: La nouvelle croisade des enfants (Pons Silvio P.), p. 195.
Cohn Joñas: Religión und Kulturwerte (Ferruccio Rubbiani), p. 454.
Del Vecchio Giorgio: Sui caratteri fondamentali della filosofia politica di Rousseau (F. R.), p. 339.
Deussen P.: Die philosophie der Bibel (Pfeif-fer R.). p. 65.
Dumas Jacques: Le origini cristiane del pacifismo con temporaneo, p. 131.
Dupuis C. F.: Dell’origine di tutti i culti (Ernesto Rutili), p. 342.
Faguet Emile: Mgr. Dupanloup (Ferruccio Rubbiani), p. 278.
Fallot Tommy: Lettere di un cristiano sociale, p. 134.
Galli G.: Kant e Rosmini (Bernardino Va-risco), p. 59.
Harnack Adolfo: Storia del Dogma (Gal-loppi Antonio), p. 198.
Jemolo A.: Stato e Chiesa negli scrittori italiani del 600 e del 700 (Romolo Murri), P- 334Jevons-Pestalozza: L’idea di Dio nelle religioni primitive (M. R.), p. 459.
Juvalta E.: Il vecchio e il nuovo problema della morale (Ferruccio Rubbiani), p. 453.
Lamanna E. P.: La religione nella vita dello spirito (Janni Ugo), p. 17.
Marchesini Giovanni: L’educazione naturale nella dotti-ina di G. G. Rousseau e nell’età nostra (Rubbiani Ferruccio), p. 65.
Monod Wilfred: Come si diventa cristianisociali o magari socialisti-cristiani (Giovanni E. Meille), p. 270.
Naville Ed : Archeology of thè Old Testa-ment. Was thè Old Testament Written in hebrew ? (R. Pfeiffer), p. 456.
Norman Angeli: La grande illusione, p. 129.
Passamonti Eugenio: Il giornalismo giober-tiano in Torino nel 1847-48 (Ferruccio Rubbiani), p. 337.
Pelazza A.: G. Schuppe e la filosofia del-l'immanenza (Varisco Bernardino), p. 452.
Peteisis fils d’Essemteu : Un román vécu il y a vingt-cinq siècles (Ernesto Rutili), P- 339Pomponazzi Pietro: Sull’immortalità dell’anima e il Libro degli incantesimi (Ernesto Rutili), p. 341.
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INDICE
V
Saggi su Gian Giacomo Rousseau (Rubbiani Ferruccio), p. 63.
Stoppoloni Aurelio: Gian Giacomo Rousseau (Rubbiani Ferruccio), p. 62.
Vitali Giulio: Leone Tolstoi pedagogista (Tagliatatela Eduardo), p. 67.
NOTIZIE.
Pag- 70. 348. 4^rILLUSTRAZIONI.
Federico Shields, pittore inglese (ritratto), P- 51La Fede (pittura di F. Shields), p. 52.
Pietro affonda (id), p. 53.
L’Annunciazione (id); Tavola tra le pagine 52 e 53.
Il buon Pastore (id.). Tavola tra le pagine 52 e 53).
Nathan Soderblom (ritratto), p. 57.
Enrico Bergson (ritratto). Tavola tra le pagine So e 81.
Mons. Geremia Boncinelli (ritratto). Tavola tra le pag. 88 e 89.
Giovanni Jaurès (ritratto). Tavola tra le pagine 152 e 153.
Il Seminatore (disegno di Paolo A. Pa-schetto). Tavola tra le pag. 162 e 163.
Alfred de Vigny (ritratto). Tavola tra le pagine 216 e 217.
Maine de Biran (ritratto). Tavola tra le pagine 288 e 289.
Caterina da Siena (ritratto). Tavola tra le pagine 404 e 405.
«Domani» (trittico di Paolo Paschetto).
Tavole tra le pagine 408 e 409.
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INDICE GENERALE
Aked Ch. F., p. 309.
Anima: Per la cultura dell’A., (conferenze, prediche, sermoni), p. 38, 108, 180, 248, 312.
Apostoli: Una conversione al tempo degli A., p. 114.
Avancini Damiano, p. 279.
Bach H., p. 276.
Barton William E., p. 51.
Benedetto XV, p. 268; B. XV e i primi atti del suo pontificato, p. 434.
Benzoni Roberto, p. 64.
Bergson Enrico (ritratto). Tavola tra le pagine 80 e 81 ; Le tendenze religiose nella filosofìa di B., p. 77.
Bibbia: filosofìa della B., p. 65; Per la lettura dei Salmi, p. 324; Fu scritto in ebraico ¡'Antico Testamento ? p. 455.
Boncinelli Geremia (ritratto). Tavola tra le p. 88 e 89; Lettere inedite di mons. G. B., p. 86; G. B., l’ultimo vescovo liberale, p. 124.
Bordeaux Henry, p. 195.
Capart Jean, p. 339.
Caracciolo Antonio, vescovo di Troyes, p. 222.
Caterina da Siena (L’Umanesimo di), p. 401.
Cattolicismo : Vitalità e vita nel C., p. 419.
Chiesa: L'attività dei laici nella C., p. 276; A proposito di Unione delle C. cristiane, P- >9°. 330» 33«; C. e Stato negli scrittori italiani del 600 e del 700, p. 334.
Cohn Jonas, p. 454.
Confessioni, p. 357.
Conversione (Una) al tempo degli Apostoli, p. 114.
Coquerei Athanase, p. 109.
Cordara p. Giulio Cesare, p. 176.
Costa Giovanni, p. 293.
Creazionismo: II problema della vita dal C. biblico al Monismo haeckeliano, p. 91.
Cresto e i Crestiani, p. 205.
Cristianesimo: A proposito di unione delle Chiese cristiane, p. 190, 330, 331; Come il C. inglese si va preparando alla pace allo scoppiare della guerra, p. 264; C. e Patria, p. 312. (V. Storia del C.).
Cristo: Il C. spirituale, p. 45; La sociologia di Gesù, p. 101, 305; Gesù e la famiglia, p. 101; Gesù e la proprietà, p. 103; Cresto c i Crestiani, p. 205; Insegnamenti occa sionali di Gesù che hanno una portata sociale, p. 305: Gesù e la filosofìa socialista della vita, p. 306.
Cultura: Per la C. dell’anima (Conferenze, prediche e sermoni), p. 38, 108, 180, 248, 312, 438; Che cosa è la C.» p. 361; C. supcriore, media e popolare, p. 362; La Religione nella C. in generale, p. 363; La C. religiosa in Italia, p. 364.
Dejarnac J., p. 324.
Delio A., p. 55.
Del Vecchio Giorgio, p. 339.
De Stefano Antonino, p. 163.
Deussen P., p. 65.
De Vigny Alfred (ritratto). Tavola tra le pagine 216 e 217; La fede di A. d. V., p. 219.
Diocleziano: Mitra e D., p. 293.
Dogma: I precedenti classici del D. della grazia, p. 28; Il D. fondamentale, p. 40; La storia del D., p. 198.
Domani (Trittico), tra le p 408 e 409.
Dumas J., p. 131.
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INDICE
VII
Dupanloup Mgr., p. 278. Dupuis C. F., p. 342.
Educazione : Lo studio delle lingue moderne quale strumento di E., p. 438 (V. Pedagogia).
Egitto: Piccolo mondo egizio, p. 339.
Eresia: Saggi sull’E. medievale nei secoli xn e xin, p. 163.
Evangelismo: L’E. nell’eresie medievali, p. 164.
Faguet Emile, p. 278.
FallotT., p. 134.
Famiglia: Gesù e la F., p. 101.
Fanccllo Nicolò, p. 409.
Fede: Vitalismo e F., p. 99; Tre fedi (Montaigne, Pascal, Alfred de Vigny), p. 214.
Filosofia: Il materialismo, p. 5; Perchè la filosofìa di Raffaele Mariano fu religiosa, p. 7; . Ciò che R. Mariano vide in Hegel, p. 9; Il metodo di ricerca dell’essenza della religiosità (il metodo del teologismo, il razionalista aprioristico, lo storico), pagina 17; Scienza della religione e F. della religione, p. 25; Kant e Rosmini, p. 58; Di alcuni libri su Rousseau, p. 62; F. della Bibbia, p. 65; Le tendenze religiose nella filosofìa di Bergson e la condanna dell’indice, p. 77; Il Vitalismo, p. 91; Maine de Biran, p. 285; Gesù e la F. socialista della vita, p. 306; Sui caratteri fondamentali della F. politica di Rousseau, p. 339; I classici del Libero Pensiero, p. 341; Neutralità filosofica, p. 372; G. Schuppe e la F. dell’immanenza, p. 452;'Il problema della morale, p. 453; V. anche Pedagogia.
Formiggini Santamaria E., p. 64.
Forza: La F. fondamentale, p. 43. Frommel Gastone, p. 180.
Galli G., p. 58.
Galoppi Antonio, p. 198.
Gesù: V. Cristo.
Gesuiti: La soppressione dèi G. nel 1773 nei versi inediti d’uno di essi, p. 176; I G. all’avanguardia, p. 419; La nuova politica dei G., p. 421: Bilychnis e la Civi/td Cattolica, due mentalità, due spiriti, due metodi, p. 448.
Ghignoni Alessandro, p. 190, 331.
Gioberti Vincenzo: Il giornalismo giober-tiano in Torino nel 1847-48, p. 337.
Giornalismo: Il G. giobertiano in Torino nel 1847-48. P- 337Giuda: G. Moralista, p. 442. .
Gnosi : I miti babilonesi e le origini della G., P- 383; Studi moderni della G., p. 389; Teologia gnostica, 393.
Gounelle Edmondo, p. 155.
Graf Arturo: Sensi e pensieri religiosi nella poesia di A. G., p. 238.
Gratry p., p. 301.
Grazia (I precedenti classici del dogma della), p. 28.
Guerra: La Provvidenza e la G. (documenti), p. in. Guardando la morte, p. 409.
Harnack Adolfo, p. 198.
Hegel, Hegelianismo: Ciò che R. Mariano vide in H., p. 9; H. e il metodo raziona-sta aprioristico, p. 20; Il dialetticismo hegeliano, p. 299.
Immanentismo: G. Schuppe e la filosofia dell’immanenza, p. 452.
Inconoscibile: L’L del di fuori e 1’1. del di dentro, p. 376.
Insegnamento: La Religione e 1’1. pubblico in Italia, p 360.
Intuizionismo: L’L episodio dei grammatici della filosofia, p. 375; L’I. non ha dato un filoso italiano, p. 377.
Janni Ugo, p. 17, 299.
Jaurès Jean, p. 120; (Ritratto), Tavola tra le pag. 152 e 153; La figura morale e spirituale di J.. p. 155.
I Jevons, p. 459.
Juvalta E., p. 453.
Kant E., p. 18; K. e Rosmini, p. 58.
Kolb (P.), p. 420 ss.
Laicismo: I. L. nell’eresie medievali, p. 169.
Laicità: Caratteri e limiti della L. nell’insegnamento, p. 365.
Lamanna E. P., p. 17.
Lesea Giovanni, p. 23S.
Maine de Biran, p. 285.
Mariano Raffaele, p. 5; M. paladino dell'idea cristiana, p. 5; dai materialisti al M., p. 6; perchè la filosofia del M. fu religiosa, p. 7; quello che M. vide in Hegel, p. 9.
Materialismo, p. 5.
Marchesini Giovanni, p. 63, 65.
Meille G. M., p. 120,151, 270.
Men’s Society, p. 277.
134
Vili
BILYCHNIS
Metodo: Il m. di ricerca dell’essenza della religiosità, p. 17 (Il ni. del teologismo, ib.; Il m. razionalista aprioristico, p. 18; II m storico, p. 21; Il m. psicologico, p. 23).
Minocchi Salvatore, p. 205, 383.
Mito: I M. babilonesi e le origini della Gnosi, p. 383.
Mitra: M. e Diocleziano, p. 293. Modernismo: p. 279.
Monismo: Il problema della vita dal Creazionismo biblico al Monismo haecke-liano, p. 91.
Monod Wilfred, p. 45, 270.
Montaigne Michele: La fede di Montaigne, p. 214.
Morale: Il problema della M.( p. 453.
Morte (Guardando la), 401.
Murri Romolo, p. 141, 334, 360.
Müller Max, M. e la Scuola filologica, pagine 21, 302.
Naville E., p. 456.
Neal T., p. 285.
Norman Angeli, p. 129.
Orano Paolo, p. 372.
Pacifismo: Le origini cristiane del P. contemporaneo, p. 131.
Panislamismo: Il P. e il Panturchismo nell’attuale momento politico, p. 414.
Pascal Arturo, p. 222.
Pascal Biagio, La fede di P., p. 217.
Paschetto L., p. 357.
Paschetto Paolo A., p. 162; tralepp. 408-409.
Passamonti Eugenio, p. 337.
Patria: Cristianesimo e P., p. 312.
Pedagogia: Ciò che bisognerebbe avere il coraggio e la onestà di non insegnare più ai bambini, p. 55; Rousseau e V autoeducazione, p. 62; Leone Tolstoi, pedagogista, i p. 67; La Religione nell’insegnamento pubblico in Italia, p. 360; Lo studio delle lingue moderne quale strumento di educazione, p. 438.
Pelazza A., p. 452.
Petéisis figlio d’Essemteu, p. 339.
Pfeiffer R., p. 65, 455.
Pio X: Un programma di pontificato; Pio 1 X, p. 141 ; Vitalità e vita nel catolicismo: le ultime vicende del pontificato di Pio X, I p. 419; Pio X: un esperimento di papato religioso, p. 430.
Pioli Giovanni, 77, 264, 438.
Politica: Chiesa e Stato negli scrittori italiani del 6oo e del 700, p. 334; Il giornalismo giobertiano in Torino nel 1847-48, p. 337i Sui caratteri fondamentali della filosofia politica di Rousseau, p. 339; Il Panislamismo e il Panturchismo nell’attuale momento politico, p. 414.
Pomponazzi Pietro, p. 341.
Pons Silvio, p. 195. 214, 414.
Pontificato: Un programma di P. Pio X, p. 141; Il nuovo P., p. 268; Pio X: un esperimento di papato religioso, p. 430.
Popolarismo: Il P. nell’eresie medievali, p. 174.
Porta (La) aperta davanti ai cristiani d’oggi, p. 180.
Positivismo: Il P. antropologico, p. 304. Poveri (I) in ¡spirito, p. 109.
Predicazione: V. Cultura dell’Anima. Preghiera (La), p. 184.
Proprietà: Gesù e la P., p. 103.
Provvidenza: La P. e la Guerra {documenti), p. XII.
Puccini Mario, p. 5.
Quadrotta Guglielmo, p. 124.
Ragaz L., p. 256, 312.
Razionalismo: Il metodo razionalista aprioristico nella ricerca dell’essenza della religiosità, p. iS.
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Prezzo del fascìcolo Lire 1 —