1
B1LYCHNI5
RIVISTA MENSILE 1LLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV :: Fasc. V.
MAGGIO 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 MAGGIO - 1915
DAL SOMMARIO: Red.: " Italia!" — Paolo A. Pa-SCHETTO: Oh fiamma...! (Disegno) — PAOLO ORANO: Dio in Giovanni Prati (con ritratto e lettera autografa inedita) — ANTONINO De STEFANO: Le origini dei Frati Gaudenti — MARIO ROSSI: L'opera di Thomas-Kelly Cheyne — P. CHIGNON!: La guerra e il Cristianesimo — Tra LIBRI E RIVISTE: Schelling — La questione religiosa in Francia e la guerra, ecc. — La GUERRA, Notizie, Voci e Documenti (Germania, Inghilterra, Francia).
3
REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # # ------ Via Crescenzio, 2 - RÓMA —
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l'Estero ------ Via del Babuino, 107 - ROMA -AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l'Italia L. 5. Per l'Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
# Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine.
(231
4
IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ < FIDES ET AMOR» EDITRICE Amministrazione: Via S. Caterina, 14 MCMX1V
È in vendita in tutta Italia la ristampa di questa traduzione del N. T. che nella sua prima edizione del 1911 s’ebbe si lusinghiera accoglienza da tante persone riconoscenti e bene auguranti : Antonio Fogazzaro, Pietro Ragnisco, Paolo Orano, Enrico Caporali, Baldassare Labanca, Luigi Ambrosi, Giacomo Puccini, Alessandro Chiappelli, Guido Mazzoni, Pio Rajna, Paul Sabatier, Nicola Festa.....
Questa nuova edizione, segna un progresso notevole : è stata accuratamente riveduta e qua e là ritoccata e corretta ; stampata presso la Tipografia « L’Arte della Stampa » in nitido elzevir, riesce molto simpatica all’occhio, grazie anche all’artistica copertina.
Sebbene conti oltre 660 pagine, non è voluminosa, essendo tirata su carta finissima.
Il bel volume si vende a L. 1.50; ma gli abbonati a “ Bilychnis „ possono averlo inviando UNA LIRA alla nostra Amministrazione insieme con l’importo dell’abbonamento.
5
9
BIDCHNB
j R.M51A DI S1VDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA .
• DI ROMA- ì<
SOMMARIO:
Red.: “Italia!”. . . . . . . . . ........ . . pag. 356
Paolo A. PaSCHETTO: Oh fiamma...! — Diségno. Tavola tra le pagine 356?* 357.
Paolo Orano: Dìo in Giovanni Prati . ......... . » 357
Ritratto di Giovanni Prati. Tàvola tra le pagine 360 e 361. Lettera autografa inedita di Giovanni Prati. Tavola tra le pagine 368 e 369.
Antonino De Stefano: Le origini dei Frati Gaudenti.................. » 374
Mario Rossi: L’opera di Thomas-Kelly Cheyne ....... » 398
P. Ghignoni: La guerra e il Cristianesimo ......... » 404
TRA LIBRI E RIVISTE:
1 Libri : M. Losacco, Schelling (F. R.) — C. Caterino, L'eloquenza dei santi Padri (P. C.) — G. Vitali, Un esperimento di pedagogia emendativa (F. R.) — Vari, Per la sincerità (P. C.) — Linda Ferrari, La donna italiana nella leggenda, nella storia, nella poesìa (F. R.) ........... » 410
Le Riviste: La questione religiosa e là guerra (F. R.) — Varia (S. B.) . . » 414
LA GUERRA (Notizie, Voci, Documenti):
Germania: Noi abbiamo una coscienza pura — Dio è con noi ! — Il risveglio religioso — Come occorre predicare — Il perdono dei nemici (A. D.) . » 417
Inghilterra: Il Clero e la guerra (G. P.) ................. » 426
Francia: Il pensiero di P. Sabatier (G. P.) ................ » 430
A fascio ..........''............ . • . . . ...... » 431
Cambio colle Riviste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 417
Pabblicazioni pervenute alla Redazione............... » 421
Cose Nostre ............................ » 422
Libreria............................... » 424
6
“ITALIA!”
fi Con lo spirito elevato a Dio e il cuore proteso verso la Giustizia - e, frementi d’ira e fervidi d’amore, anelanti la libertà di tutti gli oppressi - pregustando, mentre batte l’ora del sacrificio, la letizia dell’èra nuova proclamata dai profeti di tutte le nazioni - con l’anima gonfia di ricordi e di speranze - unendoci a quanti 1 amarono e l’ameranno, gridiamo il bel nome della nostra patria : “ Italia !” fi fi
Red.
7
Oh fiamma che tulla La ardi, sii purificatrice!...
(I9I5-V)
9
DIO IN GIOVANNI PRATI
CON UNA LETTERA AUTOGRAFA INEDITA
pirituale e sensuoso, grave senza tristezza, fronte serena di credente con occhi di tenerezza e di speranza qualche volta gemmati da una lagrima bellissima, pensiero tutto lirico che respirò il freddo soffio puro della foresta romantica e poi s'incamminò, sempre nostalgico di cime d’abeti e di tramonti, verso le spiaggie dello Ionio, verso le spiaggie dell’Egeo, verso il sonante promontorio di Leuca, senz’arrivarvi, e in vista del solare miracolo pagano d’Ellene, cantò latinamente semplice e italianamente ingenuo; sensivo che coglie rapido lo svanire d’un’ombra nella luce e trova il ritmo dell’impreciso e fa canzone dell’incognito indistinto: ecco Giovanni Prati sorpreso nella sua maturità fascinosa dal ’60 all’8o.
È curioso a notarsi come la critica meridionale, caduta di mano al grande poeta senza versi Francesco De Sanctis, le poche volte che s’è occupata del Prati, non gli e le abbia menate buone, quantunque ciò che v’à di migliore nella poesia lirica italiana di Napoli, di Calabria e di Sicilia dal ’45 all’8o — Alessandro Poerio, Padula, Rapisardi — arieggi il Prati della prima maniera, quando le più facili e simpatiche delle sue liriche, oggi obliate, erano risapute a memoria e si stampavan prima nell'anima che nei libri. Che ci sia un po’ di regionalismo in quest’avarizia di lodi al poeta nato della generazione romantica italiana, io non sono contrario ad ammettere. In verità tutte quelle qualità di temperamento che si riconoscono come meridionali, impressionabilità, immaginazione improvvisa, l’argomento trovato in sò, l’abbandono, il rapimento in uno Stato d’animo, vivezza e personalità di ricordi, rilievo peregrino nel descrivere, grazia naturale, gusto che non à bisogno d’estetica, brio, equilibrio tra spirito e materia nel concepire la vita e un poetare molteplice, poliritmico in cui la monotonia, sia pure, della strofe è compensata dalla sincerità e spesso dal candore del contenuto, queste virtù liriche del Poeta nato sull’estremo confine nord d'Italia non ànno riscontro in alcuna manifestazione lirica di poeta meridionale. Per trovare altrettanto, dobbiamo entrare nel dominio dialettale: su quésto siamo d'accordo.
10
358
'^'--BILYCHNIS
i r ■ Í.W***!
Giovanni Prati è un poeta religioso. Non sarebbe giusto chiamarlo mistico, per volergli riconoscere una interiorità più profonda di quella che realmente è riscontrabile nell’opera sua. Io voglio notare qui che soventi il termine mistico attribuito ad autori specie forestieri, vuol indicare un contenuto non giunto ad elaborazione, un fumoso cumulo di tendenze, di smanie, di stupori, di divincolamenti, di pretese. È un indistinto protoplasma d’anima, che sta all’anima come il sordo baiulato del ventriloquo sta alla voce, come l’inquietudine ;e i soffi caldi e freddi della pubertà stanno alla maschia melanconia conscia dell’uomo maturo. Così è insieme un non senso e una esagerazione chiamare Novalis mistico. Novalis è la fase d’uno svolgimento, tenerezza fanciullona, timido e vergognoso per eccesso d’ambizione senza ragione, un romantico fermato al romanticismo, periodo che è di tutti, uno che il più delle volte non sa ben quel che si dica e le restanti non dice niente e balbetta paroioni più lunghi del massimo sforzo del suo respiro, un emotivo che non soltanto non à trovato Dio, ma che cerea invano sè stesso. Con trent’anni ancora di vita avrebbe provato forse che la pelurie passa con l'adolescenza. Ed è uno dei cento casi del lagrimoso e goffo destino della letteratura tedesca. Coloro che muoiono giovani, in cambio d’essere cari ai numi, sono noiosi ai lettori di spirito; coloro che muoiono vecchi lasciano opere che vivono solo perchè covate nella terra calda del culturismo sistematico, opere che non ànno varcato il confine doganale del proprio paese;
Misticismo è parola senza senso se non vuol dire « tenerezza del divino » o « ardore di certezza del divino ». Nel primo caso si tratta di Francesco d’Assisi; nel secondo di Caterina da Siena, di Lutero, manifestazioni ambedue di quell’eroico furore dello spirito immerso nella sua visione che acquista spesso anche toni d’eroico rancore, il fiammeggiare torbo d’una frenetica vendetta sacra contro chi non crede, non vede, non cede.
Il principio mistico nello spirito bisogna esca d’inconsapevolezza e s’educhi. Non può essere che autodidatta e cioè libero. Quando emerge dagl'istinti e sopravvive, sale a respirare l’azzurro ed a cercare il ritmo dei voli lungo i viaggi delle stelle. Allora trova la sua forma in quel mondo esteriore che le cieche esistenze non conoscono, quello che à per limiti le soglie dell’infinito e attinge le porte del Tutto e nel Mistero s’immerge con plenitudine di certezza chiara. La forza dunque à da diventare azione; il mistico da articolarsi in religioso; dal caos fumoso, dall’istinto tumultuoso debbono sortire un limpido ordine, una ragione armoniosa che dalla divagazione e dal disperdimento d’una corale sinfonia sappia raccogliersi, concentrarsi, integrarsi, unificarsi nella melodia d’una certezza.
Il poeta è religioso. Cerca una gioia e questa gioia è un’armonia ritrovata, il sorpreso e fermato attimo dell'eterno, dell’assoluto, del perfetto, dell’infinito. Se nei poeti così detti decadenti — Baudelaire, Verlaine, Mallarmé — manca il bisogno d’una tale gioia, come son essi poeti? Solo l’esperimento di questa gioia li esalta e li tiene nell'esaltamento dell’arte. Dunque decadenza non può essere sinonimo di negazione, perchè arte e negazione non coesistono e tanto .meno la prima deriva dalla
,4
jnmnuniiairrtiimpili—naifniil~ u
11
DIO IN GIOVANNI PRATI
359
seconda; In altre parole, il poeta essendo religioso, non sarebbe mai, anche parendo, un pessimista? Certo nel canto c’è rapimento e nella coscienza del raggiungere il termine pensato e cioè dell’aver realizzato le intenzioni, c’è soddisfazione. Il pessimismo estremo è silenzio e immobilità, laddove nell’opera complessa e varia in cui t’accoglie maggior ricchezza di voci, così dette, pessimistiche, la Bibbia, fermentano e gridano e s’avviluppano e si fecondano e si moltiplicano tutti gli elementi della vita con a capo le passioni che non dimenticano e che minacciano segnando l’avvenire.
Sicché il pessimismo sarebbe sempie un po’ l'ipocrisia del poeta. Se canta, crede; se dice, s’afferma; se si lagna, è vivo e vuol farlo sentire; se si manifesta, si stima e stima gran profitto l’essere letto, capito, ammirato, amato. E per il poeta l’ammirazione non si misura a lustri o a secoli. È eterna. Ma bisogna andare più in là. Il poeta pretende tutto l’ingenuo consenso del mondo all’ingenuità de' suoi abbandoni. Vuol essere creduto sincero. Leopardi più degli altri e con più ardita, più arbitraria, più avara, quasi più adunca esigenza. Il poeta che davvero pensa in fondo al suo cuore: io me ne infischio del giudizio di chi mi legge, non merita un tal nome e nessuno glie lo dà.
Qui cogliete il fondo dello spirito poetico: la fede in un altro spirito che intende e consente. Egli situa sé stesso accanto a un iddio, prende l’attitudine di Dio. Dio e la sua creatura: egli e colui che 10 ammirerà come l’unico, che lo giudicherà grande dopo d'esserne stato dominato. Contrariamente all’aforisma di Leonardo —e più sarai solo e più sarai tuo —, quanto sentiamo ed amiamo, e cioè speriamo, siamo due. Ogni atto di fede implica due termini e c’è un atto di fede nel momento d’entusiasmo e persino in quello di confidenza, nella confessione, nella nostalgia intima. C'è il riconoscimento della continuazione infinita anche nella scorata denuncia che il poeta fa di un sè più profondo, in quel trascinar fuori e mostrare come un altro l'io del passato, la personalità superata o la propria segreta sino allora individualità, l'iddio tacito ed accoccolato ch’era in lui:
Îe me dis bien souvent: De quelle race es-tu?
on coeur ne trouve rien qui l’enchaîne ou ravisse, Ta pensée et tes sens rien qui les assouvisse.
Il semble qu'un bonheur infini te soit dû.
Pourtant, quel paradis as-tu jamais perdu? A quelle auguste cause as-tu rendu service? Pour ne voir ici-bas que laideur et que vice. Quelle est ta beauté propre et ta propre vertu?
A mes vagues _ regrets d’un ciel que j’imagine, A mes dégoûts divins, il faut une origine: Vainement je la cherche en mon coeur de limon;
Et, moi-même étonné des douleurs que j’exprime. J’écoute en moi pleurer un étranger sublime Qui m'a toujours caché sa patrie et son nom.
Questo « Etranger » di Sully-Prudhomme ad un lettore psicologico, se non psicologo, o meglio ancora, ideatamente psicologizzato, dice meglio, dice subito la
12
360 BILYCHNIS
dualità che è in fondo all’anima del poeta, l’oscuro silenzioso colui che viene chi sa donde e sempre à vissuto e il palese presente inquieto incerto insaziato individuo che una sola verità percepisce con certezza e cioè il riconfondersi con l’altro a raggiungere il miracolo spirituale della vita, la rivelazione divina realizzata anche per l'essere durante la vita e sulla soglia del di là, fare uno. Il che, per l’artista è manifestarsi compiutamente, rendersi immutabile e presente a tutti sopra il tempo nell’opera propria.
»♦»
Giovanni Prati, appunto perchè lirico autentico e perchè tutto il suo gusto era volto a rendere squillante e nitida la sua canzone, non à permesso mai che le opinioni, gli argomenti, le tesi gl'invadesserb il terreno poetico. Il che, al contrario, è accaduto al Rapisardi, ma dell’opera faticosa ed imprecisa di questo cercatore della propria forma i novanta centesimi non sono poesia, sibbene polemica, cavalloni d’odio materialistico, schiume di gonfiezza laica positivistica. Nessuno à detto che Rapisardi era un teologo? Ahimè, bisogna aggiungere che c’era in lui anche il demagogo e l'ira dispotica dell’inquisitore, l'accanimento dell’ateo nel cui cuore la negazione è una tisi. Poiché badate: Rapisardi sarebbe per l’appunto «il poeta» Che avrebbe dato «una poesia» senza religione, e cioè senza Dio! Ma, lo sforzo, quando mai à fatto forza?
Sarebbe il caso di dire: imparino i poeti! — se in realtà ai poeti fosse possibile d’insegnare alcunché. La fede di Giovanni Prati non è mai un monito, una querela, un partito preso dal cantóre. Anzi, il più delle volte, l’ardore del sentimento à manifestazioni pudiche. Questo credente in Dio è d’una così virginea umiltà che voi non trovereste un verso di rude affermazione del suo credo, quantunque tutti siano frementi d’uno spiritualismo che li diversifica da quello di ogni altro italiano o straniero, Lamartine, per esempio che soventi è confessionale, non religioso. I documenti della schietta purezza religiosa del Prati bisogna cercarli in « Iside », il libro della plenitudine d’un’arte personale che il tempo alza e cresce di splendore.
Vedete come avvicina la sua candida anima di pellegrino cantore ai lettori così mutati d’esigenze e diversi di gusto nel « Praeludium ».
La mia patria; il mio re; l’ara ove pianse E pregò la mia madre; il dolce canto Delle Camene; e la immortai speranza Di narrar nelle quete aure d’Eliso Al concilio de' pii l’alte venture Ch’io non seppi nel mondo .ecco il mio sogno Di ricchezza e di gloria . . . . .
Offesi ho gli occhi
Qui, nel rumor della convulsa vita.
Da una nembosa polvere che sale
E turba il riso alle virginee stelle.
Perciò, se amaro è qualche volta il carme. Perdonato mi sia.
15
DIO IN GIOVANNI PRATI
3ÓI
Coltre di rose
Già, com’altri, io non ebbi, a riposarvi L’olimpio capo: e da guancial di spine Duro è travaglio seminar sorrisi E lodarsi agli dei.
Gli ultimi varchi
Del mio calle però, quasi ad inganno. Fregiai di fiori. E se conceda il Nume Ch’ e’ non sembrino fior d’orto mietuto Dalla tempesta, odorerò d’incensi L’ara alle Grazie: e divinando i prodi Del di venturo e salutando i fati Del Lazio eterno, aspetterò, cogli occhi Fisi nel Sole e in una bianca Croce, L’ora promessa che di qua mi levi.
Il senso religioso di questo poeta à malie spontanee di persuasività. Quel che con parole che a lungo andare stancano perchè ci avvediamo della loro inamidatura, si chiama scienza o dottrina o cultura o sapere, nel poeta à da essere senno. Non è farmaco o bevanda artificiosamente disassetante: è senz’altro polla che sgorga o arancia freschissima. Il momento scettico, il gesto del dubbio, la pausa dell'incertezza e dell’esitazione, quel po’ di smemoramento della fede, quella punta d’ironia a cui par si sospenda l’abbandono, sono variazioni felici che pare qualche volta alterino, tanto s’allontanano, il motivo fondamentale. Insomma il poeta di quando in quando assume l’aspetto d’uno che non sappia bene se credere o non credere, fa il viso burbero all’antica, alla profonda voce che dice l'eterno sì, e in mezzo al brusio delle negazioni, delle pretenziosità del nuovo e della gente novella nella scienza, della sicumera materialistica dei fisiologi, dei chimici e in genere dei naturalisti sino in politica e in letteratura, si ferma, alza quella sua chiara fronte e dice: — To, ma la faccenda è seria! O che il mondo sia mutato davvero? — Così un papà buono e robusto che transige sino a un lontano confine con i suoi monelli chiassosi, si presenta un bel momento a veder che succede ed esclama tra il serio e il « mi fate venire la mosca al naso »: — Ma dunque è davvero la* rivoluzione? 0 io Che credevo ruzzaste!
Il mondo oggi si muta Mirabilmente: e un altro è l’ideale Che a noi balena. Il fisico ha promesso Porre in fuga ogni morbo, e un dì fors’anco La morte detestabile. Il legista Farà codici insigni1, a frenar tutte Le malizie dei sangui: e non dovremo Più satollar l’ergastolo ed il boia. Lo storico del cielo e della terra Troverà modo di saper qual gente Cena in Saturno; e di scoprir ne’ laghi E nelle sabbie della madre antica Lo scheletro dell’uom ch’entro vi dorme Dall’età del diluvio. Anche l’arguto Filologo S’è posto alle radici
16
3Ó2
BILYCHNIS
Dell’Albero a cercar le primitive Lingue parlate dalla scimmia emersa Nei giardini dell’Asia; Idoli e numi E riti ed are son follìe cresciute Nella mente dei birbi o degli sciocchi. L’alta filosofia sta come il gatto Sulle tane de' topi a disertarle. Libero pensator. Foco ed elettro Portan l’uomo e l’idea, l’uom non di rado Muor frantumato, ed è l’idea bugiarda; Ma son piccoli nèi. Trinca lo schiavo Del padron nella tazza: in un convento Ben provvisti di zoccolo e cappuccio S’appilottano i re. Non più s’intima Guerra: che guerra? i popoli son numi. Non macellai: ciascun, giusto dall’ovo. Fa le giustizie: che ci conta il birro O la pandetta? E l’imeneo comune. Come tra belve sul quadrivio nasce. Comun la gleba, come l’acqua e il sole; Comun l’oro cavato in sassi o in lande. Signorìa di nessuno: i bronzi e i marmi Con le tele son date al ferravecchi. Oziose quisquiglie; anche il poeta. Pallido scarabeo della tristezza. Manderemo in Lapponia. Opra si chiede Di martello e di vanga: opra gioconda È da dolor discompagnata. Onesto È quanto piace al senso, arbitrio in tutto. Bando alle antiche larve: oltre la punta Del fumaiol c’è il fumo; e poi di stelle Una gran moltitudine senz’ora Di stolido principio e senza fine.
Oh! Materia immortai, venga il tuo regno! I tuoi figli siam noi; noi siam l’eterna Cittadinanza tua; tutto si purga. Si trasforma, s’emenda, infin che il disco Della luna sia quadro: e quel dì l’inno Si canterà dalla titania prole Alla vasta matrice ond’ella è nata.
L'intonazione è tutt’altra da quella della Palinodia leopardiana. I due poeti partono da due diversi moti del pensiero: il Recanatese gitta il sarcasmo sugli innovatori e le innovazioni che Crescono illusioni al nulla; Giovanni Prati fa dell’ironia sull'orgoglio di quella scienza e di quegli scienziati che dànno per una fola l'Infinito e tessono d’ingannevole caduca realtà l'ideale.
Gli anni nei quali Prati canta sono quelli di Moleschott e di Mantegazza, di Li-gnana e di Trezza, gli anni che circondavano di popolarità rumorosa il nome di quei dottrinari che avevano avuto bisogno di vestire l'abito del prete cattolico per accorgersi d’esser vivi e saggi e che tutta la saggezza della lor vita finivano per mettere nella più recisa, più facile e così poco efficace negazione del divino. Sono gli anni di fermento bassi ed afosi in cui aveva fortuna il materialismo esoterico del Buchner maltrattato dallo Stefanoni e tutta quell’altra mala roba che veniva tirata a tonnellate in migliaia
17
PIO IN GIOVANNI PRATI 3$3
di versi briciolosi sulla cattedra di Rapisardi. Periodo inverosimile! Lirico allora equivaleva ad erotico, mistico disegnava il pazzerello sporcaccione che bercia nel pellegrinaggio polveroso davanti le icone dei Santi e delle Madonne, il genio incominciava ad essere un poco epilettico e molto isterico, e si diceva filosofo per dire uno che perdeva tempo o uno che metteva le sue forbici, la sua colla e la sua onagresca virtù a riuscire nei concorsi universitari!.
Prati sentiva che tutt’insieme quella roba era un commercio e un’istrionata da sè. La sensitiva si raccoglie e l’anima rientra nel cuore sempre caldo d’intimità e di purezza.
Io viaggio frattanto in questa enorme Babilonia di cose; e alcuna volta Dubito che m’assalga il capogiro. Non c’è che dir: Son vecchio e la saggezza Più non imparo da maestri novi. Che la cantano allegri e rubicondi Alle mense ed ai circhi. Il mal còl bene Credei misto finor nelle diverse Menti mortali; e non pensai che questa Nonagésima età mi stupirebbe Co’ suoi giochi di mano. Altro io non posso Che qui seder, sui tristi almanaccando Od ameni miei sogni; e le due palme Lungo l’usato seggiolon cadenti Sentir lambite, o mio canin fedele. Dalla tua rosea lingua, e addormentarmi.
Non sente affatto il bisogno di contraddire, di polemizzare nei versi. Il poeta à per vero quel che sente e quel che sente non si preoccupa pensatamente di dichiarare. I suoi fedeli lo capiranno dal movimento lirico de’ suoi canti. Nel sentire poetico medesimo ci sono le ragioni della verità e queste ànno battaglia anche senza dar battaglia ad avversari che del resto in poesia esistono solo come espedienti di dramatismo efficace. Sentite quanto equilibrio, che sobrietà, che grazia e come sicuro è il poeta nel sigillare il suo conto interiore, in un altro componimento:
Candidi amici, ripetiam sovente: « Malato è l’uomo di parecchio male Nè poi certo è il guarir ». Per consolarmi Io conchiudo così: Tre son le Parche: Una fila, una tesse, una recide;
E quest’ultima, parmi, è la più saggia.
Di là riposerem: l’Ade ha due regni: L’Eliso e l’Orco: il primo apresi ai rari Ch’ebber l’aura di Giove; all’altro in seno Cade la ciurma che del fango è nata. Ma- poi, comunque sia, dolce è il riposo.
Il contatto che Giovanni Prati ebbe nell’ultimo ventennio della sua vita con la classicità rese più salda e crebbe di malie quella misura ch’era già in lui. Io arriverei a dire quasi che Ellene affinò l’anima cristiana del poeta dell’ Incantesimo. Fece un poeta latino e cioè più vasto di quel ch’era solamente un poeta italiano. C’è veramente
18
364
BILYCHNIS
qualchecosa di divino. Negli dei di Grecia, la grazia, la nobiltà, la maestà e se manca l’infinito, c’è però il Perfetto. Essi sono interamente espressi dalla materia che li circondava. Il genio ellenico scalpellatore fece per l’idea quel che fece per il marmo. La forma liberò del troppo e li ritrovò nella misura precisa del necessario che è il vero. Iside è un libro corso tutto dal brivido dell'ellenismo e sono d’una peregrina significazione quei distici, spesso il solo esametro e qualche piede del pentametro di cui il Prati fa corona al componimento, alcuni bellissimi.
Nel mio Cristo e Quirino io ebbi occasione di mettere in 1 ilievo una latinità rimasta nella cultura classica convenzionale nel retroscena senza quasi mai venire innanzi alla ribalta della notizia. In questa latinità trascurata anche dai grandissimi, come Orazio, ò basato in gran parte la tesi interpretativa ch’è in quel libro. Ora, come c'è una latinità trascurata che è il contenuto essenziale medesimo della vita vissuta interiormente dai latini, c’è una Ellene interiore oltre quella dèi magni filosofi ufficiali che va sorpresa nelle battute dei tragici come nel frammento del lirico. Sofocle è un pensatore che balena cristiane radiosità al pari di Senofane dichiaratore ellenico d'un solo dio consapevole e creatore.
E si direbbe che Prati abbia sentito questa Ellene che non è quella delle scuole certamente, ma quella a cui C'è spiraglio una parola come questa di Antigone:
0 tov; vóy-ou; wou; tioStsì.
Tutto quanto è greco costituisce per il nostro poeta un paradiso in cui egli s’india.
Ospite all'onde sacre, e pieno gli occhi Del greco sole, armilucente Atena, Già non vedrò, come bramai gran tempo Nei sogno mio, le tue beate rive Prima di morte. Ma quel dì ch’io ponga Questo duro mio fascio, anima amante Volerò, tu vedrai con che sospiri. Verso il tuo cielo a visitar le belle Fontane d’Ascra e i ricordati al mondo Àttici campi , . . ..........
E baci in fronte la mia madre antica Eliade . . . . ...........
E in quel Brindisi greco, maltrattato dal metro che non gli si confà:
Sento alla chioma L’aura di Roma; Ma i rosei carmi Di Milo ai marmi Sempre io darò;
Vivo giocondo Nel greco mondo, E con un riso Del greco Eliso Vorrei morir.
19
DIO IN GIOVANNI PRATI
365
La commozione classica del poeta romantico — perchè non solamente poeta? — si fa stato d'animo, si dramatizza, lo rende partecipe della vita rievocata e risvegliata del divino greco. Ed ecco I profughi dell’Olimpo, gli dei d'Ellene che tutti i viventi respingono dalla loro porta, ospitati dal profugo della cima romantica.
E intanto, all’ora bruna.
Vanno a torme gli Dei, come i pitocchi
Limosinando dall’umana sede
Un grabato e un asii che li difenda
Dalia piaggia e dal verno.
Arati i volti
Han di rughe profonde e nei pensosi
Occhi il martire ...........
Al mondo in uggia
Son venuti gli Etèrni: e Cristo in croce.
Questo divino Galileo, trafitto
Pende sul colle: e le codarde mani
Mentre il torvo Proconsolo si lava.
L’infame e incastigato oro di Giuda Suona nel sacco ai pallidi uccisori.
Per un momento, nel rapimento della sua commozione, l’anima cristiana religiosissima di Giovanni Prati accomuna la sorte del Divino Galileo con quella della Deom soboles. Il poeta non offende la propria pietà, ma ci rivela di che intenso amore amasse le supreme immagini di Grecia e il canto dell’offerta si fa come la faccia della marina a primavera trepido e luminoso, umile di dedizione, infinito di tenerezza. Ma soprattutto sincero. Il vecchio cantore qui accoglie nell’abbraccio del suo Gesù gl’iddìi che l'esilio à vestiti di bontà e quasi à temperato di purezza.
Ebben; poveri Numi, onde sorrise
La terra d'Asia e fu cantato ai sacri Monti ed ai mari il testamento acheo, Ebben, poveri Numi, il mio stambugio Io Vi schiudo a ricovero. •
Entrate; o mesti
Pellegrinanti. Alle mie mense ancora Qualche stilla d'ambrosia e qualche nappo Di falerno si mesce: a’ miei guanciali Fuma ancor qualche rosa, e nel mio spirto Suona qualcun de’ vostri ilari canti.
E il paradiso a cui si solleverà per la sua pietà cristiana è ancora il cielo della bellezza greca, una mite bellezza calma d’Eliso e i compagni della sua eternità saranno quegli eterni dalle sommerse fortune:
Vivrem lontani dall’età bugiarda Conversando co’ prodi in Maratona Caduti o là sul tessalo macigno
20
BILYCHNIS
Per la gloria del mondo. E il dì che gli occhi Mi chiuda morte alla saturnia luce. Voi, mercè deH’asil che vi profersi, Compagnerete l’ospite che vola, E coll’aura infinita e le infinite Stelle confusi, troverem di novo L’antico Olimpo.
Chè di qua cercarlo. Poveri Numi, è inutile speranza.
♦ ♦
Gli spiriti e le forme del volume Iside sono un documento a favore della mia affermazione essere l’idea di Dio feconda di libertà. Idea di Dio, o senso del divino, o percezione dell'onnipotenza ravvolgente, o avvertimento dell’Essere infinito esemplare, termine senza punto, limite senza linea. Il divino è in Pascoli, in d’Annunzio; nel primo quella percezione perenne dell’onnipotenza ravvolgente e del significato che il martirio onnipresente nel mondo à di fronte ad una sanzione esatta sottile sublime; nel secondo in quello spavento d’un arbitrio che è destino a sè stesso e che rende le anime sinistre nella potenza, o vittime soavi, volti d'angelo pallidi e lagrimosi dinanzi all’implacabile che l'inghiotte: Mila, Ornella, Vana. D’Annunzio à un’anima medianica in cui anche il divino è una magnifica superstizione. Meno religioso, nient'affatto mistico fu Carducci. In quella poesia manca l'abisso, le passioni non sono personali, le immagini sono letterarie, l'anima è fatta di cultura, la ragione è la somma delle generali accettazioni ideali. È proprio vero che non basta fare scuola di sulla cattedra o sul libro per essere ammesso nel segreto delle anime moderne, ove D’Annunzio, Pascoli, Verlaine, qualche altro appena, sono ospiti desiderati, amici, sacerdoti, confessori.
E a chi obbiettasse che in Prati l’idea di Dio è allo stadio primitivo, una ingenua adolescente concezione del divino, io ricordo in quali sorta di manifestazioni si integri: Il canto di Igea, l’Incantesimo. Perchè qui va ascoltato il Dio del Poeta, armonioso lieve Signore della forza e della salute agile dei corpi. Padre di giovinezza coronata di rose, sorgente di letizia, scaturigine d’amore alla vita...
Le poderose spalle e i vàlidi toraci io formo a questi audaci del monte e della valle.
Dal di che il mondo nacque, io, ch’ogni ben discerno, scherzo col riso eterno degli arbori e dell’acque; e dalla bocca mia spargo, volenti i numi, aure di vita e fiumi di forza e d’allegria.
21
DIO IN GIOVANNI PRATI
367
Salvate, oimé, le membra dal tarlo del pensiero!
A voi daccanto è il vero Eiù che talor non sembra.
’uom che lo chiese altrove dannato è sul macigno, e lo sparvier maligno fa le vendette a Giove.
ne’ baci miei t’allegra, o brevemente vivo! Progenie impoverita che cerchi un ben lontano, nella mia rosea mano è il nappo della vita.
È il Giovanni Prati fervente cristiano, fedele rituale, ma il suo dio, che è Dio, non gli lesinava mica fiori, acque, azzurro e sole per l’opera! È quel medesimo artefice dalle cui dita un giorno escirà Y Incantesimo onde Carducci ancora stupisce sui prati d’Eliso anche se più non invidia, canto religiosissimo a chi sappia intendere, inno interiore al nume infinito nel minimo, all’onnipotente annidato all’ombra d’una foglia.
Magnis parva sonant: resonanl et niaxuma parvìs: Mcnsquc animusque favenl cl Di porlenta loqttunlur.
Di questo miracolo del lirismo d’ogni paese e d’ogni epoca, alito di febbre ideale di sopra dal tempo e dallo spazio, momento unico di classicità dello spirito romantico, si potrebbero ancor dire molte cose dopo le molte dette. So bene che i poeti che fanno versi, e i verseggiatori che ardiscono far della poesia, sentono l'anima impallidire davanti a queste strofe che sono come le onde e il color delle ore, cento mille diverse essenze ed esistenze ed un tutto in cui si vive che viviamo in noi e non si sa che sia e come e dove e quando sia. L’anima immigra. Fede e poesia sdoppiatesi per il loro pellegrinaggio nel mondo, si riuniscono. I/una dispare nell'altra. Ritrovando quella unità, il poeta si sente novo, ingenuamente, stranamente, sinceramente novo:
O fili d’erba, io provo
Un'allegria superba
D’essere altrui si novo. Sì strano a me.
La persona à perduto corpo e peso, non vive che come desiderio e il suo moto è vibrazione di mistero che si palesa; è rimasta insomma quel niente che serve alla parola umana per poter con più libertà, con pienezza di potere, dire le meraviglie intcriori proiettate sul nulla che il mondo scomparso à lasciato.
. . . . . quanto il corpo d meno
Più vasto è l’intelletto E il mondo degli spiriti Gli raggia più perfetto c più sereno.
22
368
BILYCHNIS
Questo è linguaggio d’anima immersa in luce di fede, letiziata nella rivelazione che solo all'interno il mistero fa. Spiritualità trepidante, ma la parola resta sagoma e rapporto d’immagine precisa, non s’illanguidisce e dissolve e scompare in musicalità di movimenti senz’espressione. Questa è la poesia che traduce la parola di Gesù: il regno di Dio è in voi. A questo nido interiore vengono o tornano i poeti, tutti, quando siano poeti, Verterne, D’Annunzio. Si dispogliano d'ogni vestimento, si scaldano a un riverbero, ricercano il piccolo cavo del loro antico corpicino di bimbi, e parlano a loro medesimi, a voce bassa, in umiltà e riconoscono tutto il male che ànno fatto e tutto il bene che non ànno fatto, e sorprendono in fondo, proprio in fondo a questo rannicchia-mento senza orgogli mondani, con un piccolo grido d’amore puerile, la felicità della gioia d’avere scoperto che l’anima il suo cielo l’à in sè stessa, fattasi tutta mutila di fantasmi e di fórme e di pretese.
Sono un granel di pepe Non visto: ecco il mistero. L’erba sul crin mi repe Ed è minor che lucciola Nell’ombra d’una siepe il mio pensiero.
Il poeta ora entra nel paradiso della luce. Ma la vita deve attenuarsi via via sempre più e arrivare a quella soglia sottile così da non esservi spazio per l’occhio, sulla quale lo spirito che già respira l’azzuiro della liberazione nell’infinito, si volge ancora a riguardare l’ombra delle dolci cose della vita, dolci perchè ombre.
Oh Azzarelina! in pegno Dell’amor mio, ricevi ?uesto morente ingegno, u che puoi far continovi Nel tuo magico regno i miei di brevi.
L’arcano moto è l’istinto cristiano, quell’intimo bisogno di guardare interiormente con l’esclusiva forza dell'individuo, chiusi gli occhi all’illusorio miraggio della realtà. Miraggi illusorii anche quelli che la mente umana si finse con ardori d’idea, ma tenendosi stretta alle forme episodiche dell'esistenza, illusioni la scienza e la speranza e la gloria e la bellezza:
La scienza è dolore. La speranza è ruina. La glòria è roseo nuvolo. La bellezza è divina ombra d’un fiore.
Cosi là vita è un forte Licor ch’ebbri ci rende. Un sonilo alto è la morte; E il mondo è üñ gran Fantasima Che danza con la Sorte e il fine attende.
La maga l’à tocco e la maga l’à reso padrone del segreto, mercè del quale la pic-cioletta fata coronata la testa dei bianchi fiori selvaggi verrà a lui dalla foresta e gli
23
LETTERA AUTOGRAFA INEDITA DI GIOVANNI PRATI
(I9I5-VJ
24
71C
Jirnfr^ y^.
O-/ÌK
S¿/flCC4p'''
71^ fris ¿¿LfH# y¿ rii/ n^ryf
L t/ t/î^cy y^/ ^¡^ya
Tï^fl ' ht '
25
#7<',
ctÎ( ‘ /»
n a ('¿n
^&Ja>as Ä& ÏTU/W aw úfara*
C^ y<^ CA frzAfat ' M7& t^lAAT/^^ e
..^<et,/Jû nJv c/ffYniA/'^rlV 7ìcZ . ^/cAtia
iZ¿^v /i^ Crcc/ilc i ’
c{^/)M</ C 'e! A^ n¿
27
DIO IN GIOVANNI PRATI
369
giacerà tra le braccia sotto l’erba, mentre attorno accadrà al modo ¡stesso quel ch’è sempre accaduto Che sempre accadrà.
Mentre alla luna i punti Toglie l’attento- astrologo, E danzano i defunti in cima al colle.
La maga gli à fatturato il divino inganno ed egli può sussurrare ad Azzai elina il suo richiamo nell’odoroso e picciolo nido:
Vieni ed amiam.
11 miracolo si compie. Il poeta è vincitore del mondo. Nella sua vecchiaia là sua antica fede senza tramonto luminosa di sogno vibrante di giovinezza lo riaccompagna alla sorgente della gioia ove il sentire è fanciullo e la coscienza è eterna. È là che entro l’àmbito segnato dal dito della poesia la creatura umana fa un presente d’ogni miopia del passato e d’ogni presbiopia d’avvenire. Il prodigio lirico è una rivelazione religiosa. Il dio interiore balza dal sepolcro ove gl'istinti l’avevano serrato. E così il più ardente inno è la più mistica preghiera.
**♦
Giovanni Prati ebbe un’esistenza spoglia di fortune materiali ed una vecchiaia a cui il laticlavio non aggiunse comodità. Morì povero trentun’anni or sono, dopo d’aver offerto all’Italia — sarebbe tempo che anche il mondo letterario degli altri paesi se ne accorgesse — lo spettacolo d’una intensificazione e d’un affinamento della sua arte. Anzi è giusto scrivere che Giovanni Prati artista è precisamente quello dell’ultimo ventennio della vita, nè sarebbe esagerato aggiungere che è un Giovanni Prati romano, ardente nobile anima italica che placò nell’Urbe tornata centro della Nazione l’inquietudine d’esule sempre nostalgico tuttavia.
Oggi, affranto le membra e misto il crine. Me condusser le Parche alla fatale Città d’Ascanio; ed ospite pensoso Odo dalle disfatte are il lamento
Dei numi d’Asia, e porto, a quando a quando. Sul Gianicolo sacro o l’Aventino L’alte malinconìe del dì che fugge.
La nostalgia dell’Esule vagante per le vie di Roma si veste, anche in Iside, di vecchie forme metriche un po’ trasandate ma tanto simpatiche e così felicemente rispondenti:
Sin che al mio verde Tirolo è tolto
Veder l’arrivo delle tue squadre, E con letizia di figlio in volto. Mia dolce Italia baciar la madre; Sin ch’io non odo le mute squille. Suonare a gloria per le mie ville, Nè la tua spada, nè il tuo palvese Protegge i varchi del mio paese;
(24] iWM I [L-V l w Ari
J
28
37°
BILYCHNIS
No, non son pago. Chiedo e richiedo
Da mane a vespro la patria mia
Terra d'onesti, terra di prodi. Cerca giustizie, non cerca lodi. Ti chiede, o Italia, se madre sei. Che il cor ti morda pensando a lei.
Ella il tuo sangue dagli avi assume, Ella negli occhi porta il tuo raggio; Ella s’informa del tuo costume. Pensa e favella col tuo linguaggio. Arde di sdegno, piange d’amore. Parte divina del tuo gran core!
• ••••••••■■••* • • • •
Per quelle nude mie dolci lande Possa la sorte farmi indovino!
A Roma c’è ehi ricorda ancora Giovanni Prati passeggiare per il Corso o seduto-ai Caffè del Parlamento in Piazza Colonna a tavoli ch’erano frequentati da Bonghi, da Bovio, da Cavallotti, da Sommaruga, da Sbarbaro, da Antonio Labriola ancora conservatore, dall’Occioni, da Domenico Gnoli giovane bellissimo. Allora Ferdinando Martini — il quale, se non erro, possiede del Prati, datigli da un illustre venerando mio-amico, documenti riguardanti gli ultimi anni del Poeta religiosissimo — era giornalista della battaglia quotidiana e si preparava quel nucleo nuovo di scrittori — il Dossi,, il D'Annunzio, il Panzacchi, il Fambri, la Serao, la contessa Lara, e altri e altri ancora — la cui età variava dai cinquantanni — anche il Carducci era quasi cinquantenne della compagnia, ai diciassette o diciotto dello scrittore del Canto Uovo.
Qualche anno avanti il Forzani aveva pubblicato Iside in duplice edizione, di lusso grande ed economica più piccola, e l’apparizione del volume, a malgrado della rinomanza e della stima affettuosa che Giovanni Prati godeva, aveva avuto il risultato di presentare quasi un poeta nuovo. Il Prati nel ’78 aveva sessantatre anni?: a sessant’anni dunque egli à scritto alcune di quelle magnifiche liriche che assicurano-non solo l’immortalità ma la presenza continua della sua suggestione sullo spirito delle generazioni.
Che in quell’anno 1878 il giudizio che si dava del contenuto poetico del volume fosse com’è quello che diamo noi critici d’anima — la critica di mente, quale essa è oggi, non è vitale ed è episodio labile dell'epoca — intendo noi che viviamo la poesia, non si potrebbe affermare.
Tuttavia io so da mia Madre e ricordo bene d’aver udito da mio zio Domenico Berti, che l’impressione generale per la lettura di Iside fosse profonda. Mia -Madre Maria potrebbe dar notizia di molti particolari interessanti della vita del Poeta e come di lui, di quella di altri parecchi valentuomini vissuti in Roma in quel torno di tempo,, della letteratura, della politica, della scienza. Il salotto di Domenico Berti, ministro e professore emerito di storia della filosofia all'università di Roma, era frequentato dal fiore dell’intelligenza del tempo. Maria Orano era la fata, il genius loci, l'ospite cortese che temperava la severità e un po’ anche la maestà del circolo bertiano, ove
29
DIO IN GIOVANNI PRATI
371
predominavano i ragionari alti e gravi di storia, di speculazione filosofica, di politica, di scienze sociali. L’austero monografista di Giordano Bruno, del processo del Galilei, del copernicismo in Italia, sapeva però interessarsi e con passione alla poesia ed alla letteratura quantunque l’una e l’altra egli intendesse in realtà come istrumenti esclusivi d’educazione morale soprattutto civile.
Giovanni Prati era dei numero di coloro che avevano seguito la Capitale da Torino a Firenze, da Firenze a Roma e con la Capitale il salotto di Domenico Berti e di Maria Orano che della Capitale aveva seguito i destini. La devozione dello spirito semplice e fervido per le due persone che nutrivano pei lui un’amicizia qual’egli ambiva, s’era conservata attraverso agli anni, poiché sarebbe non giusto dire che s’era accresciuta. Al solito il poeta fedele ai ricordi Che gli facevano tanto bello il passato rivolava da Roma col cuore a Firenze:
L’aure sovente della tosca Atene Ne’ più mesti pensier sento spirarmi. Aure misteriose, aure serene.
E risospiro alla fiorita riva. Alla stirpe cortese: e mi sei fatta, Fiorenza, oh quanto, nel pensier più viva!
Ma poi il fàscino di Roma a forza vincendo quella stanchezza, quel senso di fatica, quello scoramento che Roma dà a tutti — non c’era già in Orazio quest'angoscia del « troppo » di Roma? vedi l’epodo XVI; e vedi lo sgomento di Roma in Goethe Römische Elegien, nel Leopardi Lettere e in d’Annunzio, Laus Vitae ed Elegie Romane — a tutti, s’intenda i sensivi che vi vengano colmi d’amore e d’aspettazione, questo fàscino romano lo prendeva e nell’abbandono a un tal fàscino lo spirito del Poeta sapeva fondere così bene i due elementi della sua poesia giunta alla terza fase, la sovrana. Nei Moniti c’è il momento più felice di questa fusione mistica ed estetica:
Una gioconda riva
Popolata di mirti ove s’aduna
Il consorzio de’ più, Giove ha concesso Ai miglior sempre, e là vivono eterne Le cognate famiglie: e van parlando Di ciò che a ricordar torna soave Anco all’anime ignude: e nessun vento Procelloso e crudel come qui spira. Quelle fronde conturba e quella luce Del santo Eliso. A te, se il cor ti basta, S’apriran quegli alberghi, e a me, di Febo Non vulgar sacerdote.
Inciso è il carme. Come tu vedi, in povera tabella. Ma lo vergai mentre la Sacra Musa Nei boschetti di Cecrope correa Sui nervi d’or col pollice divino.
30
...v.,- -...... ......................
372 BJLYCHNIS
Nel salotto di Domenico Berti e di Maria Orano, giudice d’ogni opera di poesia era il Prati, ed a lui si presentavano i tentativi poetici e quando non poetici di verseg-giamento dei giovani. L'album della principessa Falconieri di Carpegna ebbe il dono prezioso dell’autografo pratiano delle due strofe te\V Incantesimo ancora inedito: Ascolta, Azzarelina... e c’è dei nostri scrittori di fama ancor vivi che mostrano in una lettera autografa di Giovanni Prati il giudizio che fu spinta a seguire la salita aspra ma nell’azzurro dell'arte di scrivere.
Fu per una di queste presentazioni di scritti in versi d’un che cominciava — a nulla varrebbe ricordare il nome poiché da sé caduto — che mia Madre, quarantadue anni or sono, scriveva a Giovanni Prati. Ella era da poco sposa a Giuseppe Orano morto mio Padre, e l’anima della dolce Creatura che fanciulla ancora aveva raccolto tanta ricchezza di pensiero, di volontà, di grazia, d’attività attorno a Domenico Berti, si preparava adesso a quell’opera alla quale à subordinato ogni personale idealità e che à fatto religiosa missione esemplare: la Maternità.
Il Poeta nel rispondere, gentile ma senza debolezza di giudice che transige, a riguardo del non predestinato autore, coglieva il momento del dóno nuziale. Egli porgeva nell’umile silenzio epistolare la gemma del suo cuore di credente e di sapiente a Colei che ne poteva comprendere il valore. Ed ecco l’inedita lettera semplice soave di Giovanni Prati a Maria Orano, in cui è consegnata per i figliuoli che vei ranno — ahimè, o Madre; e ce n’è che son partiti già! — la sovrana parola suprema del poeta à'Iside.
Gentile Signora Maria.
La ringrazio di cuore per l’amabile letterina che mi ha mandato e per la viva parte che prende alle cose che mi riguardano.
Ho letto i due componimenti: il primo dei quali, comunque sparso di parecchie ed utili verità, pecca, panni, di alquanta lunghezza. Parlando a sposi, bisogna contener la parola e fiorirla come un letto nuziale. Preferisco i versi sul Tasso, che mi ricordano certi altri versi del Leopardi sugli amori di Gonsalvo, se non m’inganno. Ho poi notato parecchie menducce trascorse nel ricopiare, le quali bisogna correggere affinchè il metro e la musa non se ne dolgano. Il poeta è giovane, com’FJla mi dice, egli ha per se il benefizio del tempo, rara fortuna che a me comincia a mancare.
Io però non mi lagno se, invecchiando, posso contar nel numero de’ miei benevoli tali persone come Lei e lo zio, che mi diedero sempre segni di amicizia ferma e sincera.
Quando il volgo cresce, e le vie del mondo diventano ambigue ed oscure, bisogna bene che i pochi si riconoscano e si s|ringan la mano.
Ella, signora Maria, ha molti anni davanti a sé, e vedrà cose inaspettate e chi sa quali, quando noi dormiremo nel sepolcro. Insegni a' suoi figli a credere in Dio, fortemente, candidamente, costantemente. Non c’è nè libertà, nè patria, nè grandezza, nè gloria senza di Lui. Questa fede insegna al cuore le misericordie, alla mente le giustizie, alla vita le rassegnazioni c i miracoli: tutto il resto non è che passaggio di larve con grandi nomi e tristezza infinita.
Roma, 13 dicembre ’73.
tutto suo
G. Prati.
Noi non conoscevamo una così italiana confessione di Dio. Come siamo liberi in questo Dio qui, come ci ritroviamo, come siamo noi, come fioriscono gli steli a questo sole nell'anima nostra, come si svolgono le ali alla libellula del nostro pensiero alla
31
DIO IN GIOVANNI PRATI 373
brezza di questa rivelazione! La parola è grande come l’idea in questo documento rimasto ignoto così lunghi anni, e l’idea è a un tempo intensamente religiosa e liberamente poetica. È l’idea Che di Dio nutre mia Madre, è quella che in me è discesa, che discenderà ne’ miei figli, l’idea che rimase soffocata, impigliata, prigiona negli annodamenti della mia coscienza mentalizzata. Mia Madre non me l’à insegnata mai: non à mai detto a suo figlio: devi credere. Ma lenta, docile, aspettante, paziente à lasciato che gli eventi si svolgessero, i furori si placassero, che l’orgoglio del figlio cadesse, che l’onda posata lasciasse vedere il fondo del vero. L’aveva educata Domenico Berti quella Creatura — questa Madre — sugli esemplari di esistenze sacrificali, l'aveva educata a salvare il senso del divino dall’ignoranza dei poveri di spirito e da quella degli uomini di scienza. Ed Ella à tramandato la parola al figliuolo, senza pronunciarla ella stessa, ma indicandola col suo gesto di savia transigenza nelle linee vergate dalla mano del Poeta. Perchè avrebbe cercato una diversa lettera, quando la lettera dice tutto lo Spirito? E qual saggio, quale profeta potrebbe toccare il segno con più giustezza? « Insegni a’ suoi figli a credere in Dio, fortemente, candidamente, costantemente... tutto il resto non è che passaggio di larve con grandi nomi.... »
Roma, primi d* Aprile, 1915.
Paolo Orano.
32
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
omerico Maria Federici, dei Predicatori di Treviso, con la sua opera in due volumi, intitolata: Istoria de’ Cavalieri Gaudenti, e stampata a Venezia nel 1787, ci ha lasciato una storia completa delle origini e delle vicissitudini deU’Ordine dei Frati Gaudenti.
In quest’opera però, come in numerosi altri lavori eruditi del secolo xvm, l’utilizzazione critica dei documenti rimane molto inferiore alla sua parte euristica, così che mentre la copiosa raccolta delle testimonianze storiche giova a facilitare
enormemente le ricerche dello studioso, le conclusioni alle quali il suo autore per
viene sono suscettibili d’una revisione radicale e innovatrice.
E poiché dal secolo xvm sino ai giorni nostri, la storia dei Frati Gaudenti non è stata più oggetto di indagini e di meditazione personali, così mi è parso che accingendomi alla revisione critica della tradizione storiografica rappresentata principalmente dall'opera del Federici, mi sarebbe stato possibile ricondurre i fatti nell’ambito della loro realtà storica. Ho però limitato il mio esame al punto più essenziale dell’argomento, allo studio, cioè, delle origini e della costituzione primitiva deU’Ordine dei Frati Gaudenti.
CAPITOLO I.
Le origini deU’Ordine dei Frati Gaudenti secondo la tradizione.
È comune vezzo degli antichi storiografi di un’istituzione il ricercarne le origini in un’epoca la più remota possibile, facendo gran lavoro di fantasia nel ravvicinare fatti, che hanno tra loro qualche analogia, talvolta appena esteriore, e nell’inter-pretare i documenti in senso favorevole alla loro tesi pregiudiziale. Nel secolo xvm, eruditi del valore di un Tiraboschi (1) non poterono sottrarsi all’influsso di questo preconcetto. Il Federici, che più ancora del suo illustre contemporaneo, sembra ossessionato dalla prospettiva dell’antichità deU’Ordine di cui egli tesse la storia, si lascia trascinare a dei ravvicinamenti, delle assimilazioni, delle confusioni di noli) Cfr. la sua opera Velerà Humiliatorum Monumenta sulle origini deU’Ordine degli Umiliati, su cui vedi un mio studio pubblicato nella Rivista storico-critica di scienze teologiche, 1906, fase. X.
33
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
375
tizie storiche che tradiscono una singolare deficienza di discernimento critico in aperto contrasto con la serietà delle sue ricerche e l’ampiezza della sua erudizione.
Il Federici, ricercando le origini dei Frati Gaudenti, le fa risalire al 1209, all’anno, cioè, in cui, a Tolosa, il vescovo Fulcone e il legato pontificio istituirono una confralria di crociati, di cui fecero parte molti cittadini di Tolosa e parecchi abitanti dei sobborghi.
In una città tradizionalmente e spiccatamente favorevole agli eretici, come Tolosa (1), l’iniziativa del vescovo e del legato doveva principalmente mirare a costituire un’associazione destinata a favorire gli interessi della Chiesa col combattere gli eretici e in particolare gli Albigesi, unendosi alla grande crociata, bandita da Innocenzo III e guidata dal conte Simone di Montfort. Per allettare maggiormente i cittadini, quest’associazione presentava nello stesso tempo ai suoi membri un vantaggio economico apprezzabile col contrastare vigorosamente e efficacemente le male arti usurarie. Si tratta, quindi, di un partito sostanzialmente politico, come, del resto, lo dimostrano chiaramente le sue vicissitudini ulteriori. Noi lo vediamo infatti, per contrasto d’interessi tra i borghesi della città e quelli dei sobborghi, differenziarsi subito, come più tardi avvenne, benché in più largo ambito, coi Guelfi d'Italia, in due fazioni distinte e ostili, detta l’una dei « bianchi », l’altra dei « neri » (confratria candada, alia nigra). Alla prima appartennero i cittadini dei sobborghi di Tolosa, alla seconda gli abitanti della città, gli uni e gli altri divisi da rivalità così violente che degenerarono spesso in risse sanguinose (2).
In fondo il vescovo di Tolosa non intendeva fare altro che raggruppare il maggior numero possibile di cittadini atti alle armi perchè prendessero parte alla crociata
(1) « Haec Tolosa, tota dolosa, a prima sui fundatione (sicut asseritur) raro vel num-quam fuit expers hujus pestis vel pestilentiae detestabili?, hujus haereticae pravitatis, a patribus in filios successive veneno superstitiosae infìdelitatis diffusio ». Petri Vallis-Cernii, Historia Albigensium, ap. Bouquet, to. io, p. 5.
(2) Di quésta confralria tolosana ci parla un cronista contemporaneo, Guglielmo di Puy-Laurent, (Tarn), che fu cappellano di Raimondo VII, conte di Tolosa, e di cui giova riportare qui integralmente la testimonianza per poter più esattamente valutare le conclusioni del Federici:
« Venerabili itaque patre Fulcone episcopo curam gerente vigilem, quod omnes ejus cives Tolosani ista quae extraneis concedebatur indulgentia non carerent, utque per hanc devotionem eos ecclesiae aggregaret, atque facilius per eos expugnaret haereticam pra-vitatem et fervorem extingueret usurarum. cum Dei auxilio, adiuvante legato, obtinuit Tolosae magnani fieri confratriam, confratres omnes consignans Domini signo crucis, in qua fuit tota fere civitas praeter paucos et de burgo aliqui consenserunt, et omnes adstrinxit ecclesiae vinculo juramenti, praepositisque bajulis confratriae Aymerico de Castronovo, qui dicebatur Cofa, et Arnaldo fratre ejus militibus, et Petro de Sancto Romano, et Arnaldo Bernardi dicto Endura, viris quidem strenuis et discretis, atque potentibus, adeo, Deo faciente, ipsa convaluit confratria, quod cogebantur usurarii coram eis con-querentibus respondere, et satisfaccrc malo velie, et cum armis in ruinam domorum et praedam contumacium currebatur. et aliqui turres ut se defenderent muniebant. Facta itaque fuit ex hoc magna inter cives et burgenses divisio, ita quod in burgo adversum istam fecerunt alteram confratriam vallatam vinculo juramenti, tamque processimi erat quod ita diceretur confratria candida, alia nigra, fiebantque cum armis et vexillis, frequenter etiam equis armatis, praelia inter partes: venerat enim Dominus per ipsum episcopum servum suum, non pacem malam, sed gladium bonum mittere inter eos ». Guillelmi de Podio Laurentii, Historia Albigensium, cap. XV; ap. Bouquet, to. 19, p. 203.
34
376 BILYCHNK
contro gli eretici e non rimanessero privi, come dice il cronista, « di quelle indulgenze che erano concesse agli estranei », cioè ai cittadini di altre città.
Il Federici invece da questa stessa testimonianza del cronista deduce resistenza di un ordine religioso-cavalleresco, che sarebbe stato il nucleo primitivo dell’Ordine d'ei Frati Gaudenti.
« Da tutto questo racconto, scrive egli, agevole cosa è dedurre quanto al disegna della Milizia Gaudente ricercasi. Confratelli sono alla Chiesa aggregati: per hanc devotionem eos ecclesiae aggregarci; e perciò in qualche modo religiosi. Avevano impegno militare contro l’eresia albigese, e le usure, in difesa della Fede, della Chiesa della pace, dell'innocenza, e della giustizia, che si attaccavano da quegli eretici; atque facilius expugnaret haerelicorum pravitatem, et fervorem extinguerel usurarum. V’intervenne l’autorità ecclesiastica, e pontifica, juvanle legato. Erano cittadini da prima soltanto fratti da Tolosa, cives Tolosani, con distinto segno di croce insigniti, confratres signans crucis signo: a quest’impegno militare e religioso astretti con giuramento: quos adslrinxil ecclesiae vincalo juramenii. Questi illustri confratelli avevano tosto chi loro presiedeva; propositisque bajulis confralriae: avevano il loro vestito, confralria candida: combattevano, fiebantque praelia » (i).
Così un aggruppamento di cavalieri e di laici, che si crociavano per combattere gli eretici, a Tolosa come in tante altre città, e che, a parte l'esagerazione del cronista, tendeva ad abbracciare quasi tutta la città, praeter paucos, diviene, per il Federici, una congregazione religiosa di membri, non soltanto « aggregati » alla Chiesa per una loro pia finalità ma anche per una speciale professione, vincolati non solo da un giuramento, che tutti coloro che prendevano le armi dovevano prestare, ma anche da una specie di voto, e vestiti, infine, di color bianco, escludendo, non si sa perchè, il color nero, parlandoci il cronista anche di una con fratria nigra.
Dopo aver fatto un Ordine religioso di quest’adunata di combattenti, che egli già battezza col nome di Cavalleria Gaudente, il Federici fa, di Simone di Montfort, il gran maestro del supposto Ordine cavalleresco (2).
Per attribuire questo titolo e questa funzione al condottiere dei crociati contro gli Albigesi, il Federici fa appello alla testimonianza d’Innocenzo III, il quale, in una sua lettera del 1214 a Simone di Monfort, lo chiama verus et slrenuus miles Christi (3).
Così Simone, Miles Christi, farebbe parte di un’ipotetica Militia Jesu Christi, che altro non dovrebbe essere se non la Cavalleria Gaudente.* Ora è evidente che l'appellativo di miles Christi in bocca a Innocenzo III non serve che ad indicare la funzione di colui che combatteva gli eretici in difesa della fede di Cristo e della Chiesa. Quanto all’espressione dello stesso papa: cum te totum devoveris in Christi obsequio, in cui il Federici riscontra addiritura una professione religiosa (4), si spiega naturalmente con l’attitudine di Simone che dedicava la sua esistenza alla difesa armata degli interessi della Chiesa. Infine, la frase del papa: dux conira impugnatores catho?
1) Federici, Istoria de’ Cavalieri Gaudenti, Venezia, 1787, voi. I, p. 4.
2) Federici, I, 5 ss.; II, 96 ss.
3) Federici, II, cod. dipi. p. 3, doc. III.
4) Federici, I, 5.
35
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
377
licae Fidei et pacis disturbatores, che dovrebbe, secondo il Federici, designare la carica di Gran Maestro dell’ordine della Militia Jesu Chrisli (i), indica semplicemente che Simone di Montfort, era il capo della crociata contro gli eretici.
Partendo da questo falso supposto, il Federici vede in tutte le azioni di Simone di Montfort delle manifestazioni religiose dell’Ordine della Cavalleria Gaudente. Quando il conte riveste delle insegne militari suo figlio Almerico (2), questa ceremonia cavalleresca, per cui veniva conferito al figlio il diritto di succedere al padre nel dominio delle terre e nel comando dell’esercito crociato (3), appare al Federici come la sua iniziazione religiosa alla Militia Jesu Chrisli, cioè all’Ordine dei Gaudenti (4).
In sostanza, tutti i documenti allegati dal Federici, che si riferiscono a Simone di Montfort e a suo figlio Almerico, e dove il Federici ricerca le origini di un nuovo ordine religioso, sono documenti che concernono esclusivamente l’impresa della crociata contro gli Albigesi (5). A questo fantastico ordine, presieduto da Simone di Montfort, il Federici riannoda, confondendola naturalmente con la Cavalleria Gaudente, una Militia ordinis Jesu Chrisli di cui si ha notizia verso la stessa epoca. Una lettera del 1220 di Pietro Savarico ci mette in presenza di un Ordine religioso propriamente detto e che, come tanti altri moti religiosi dell’epoca, tradisce uno spiccato carattere penitenziale (6). Pietro Savarico sarebbe stato il magister di quest’Ordine, che ci appare già come costituito nella provincia di Narbona, e i cui membri portano l’abituale nome di fralres. Si tratta evidentemente di frati laici e militari, sull’esempio di altre organizzazioni analoghe dell’epoca. In un diploma del 1221 del papa Onorio III al cardinale legato. Romano, vescovo portuense, è detto che come in Oriente i templari pugnavano per la fede contro i Saraceni, così nel mezzogiorno della Francia alcuni zelanti cristiani avevano istituito un ordine militare per combattere gli eretici c per difendere la fede e la libertà eccclesiastica (7). Savarico, che fu a quanto pare l’iniziatore della nuova organizzazione, si era presentato, con alcuni soci, al Cardinal legato, per domandargli l'approvazione, del suo istituto, modellato secondo Yobser-vanliam Ordinis fralrum Militiae Templi, in omnibus, habitu dumtaxat excepto, e ciò per tutta la durata della sua vita, loto tempore vitae suae. Il cardinale, dopo essersi consigliato con Almerico, con altri baroni e parecchi arcivescovi e vescovi, indirizzò
(1 Federici, I, 5.
(2 Federici, I, 5.
(3 Cfr. la lettera del 1218 di Onorio IV, ap. Federici, II, cod. dipi. p. 3, doc. IV.
(4 Dalla commemorazione seguente che di Simone di Montfort, a causa della protezione da questi accordata a san Domenico e ai suoi seguaci, fa l’eucologio dei Frati Predicatori: « Die 25 jun. obiit Tolosae dignus memoria nobilis vir comes Montisfortis, zelator fidei, et specialis amicus S. Dominici », il Federici ne deduce che sia stato anch’egli un confrater Ordinis Praedicatorum. Federici, II, 98.
(5) Vedi i primi quattro documenti del codice diplomatico raccolto dal Federici, to. III. p. 1-3.
(6) «Frater Petrus Savericus, humilis et pauper Magister Militiae Ordinis Jesu Christi universis hominibus ad quos praesentes litteras pervenerint salutem in Domino » Federici, II, Cod. dipi. p. 4, doc. IV.
(7) « Quidam Christianae fidei zelatores Ordinem Militum instituí deciderunt in Provincia Narbonensi... contra haeretiqam pravitatem pro pacis, ac fidei negotio et ecclesiastica libértate», ap. Federici, II, cod. dipi. p. 5, doc. VI.
36
378 BILYCHNIS
Savarico, con una sua lettera di presentazione, al papa. Così Savarico, come avevano fatto prima di lui Valdo e Francesco d’Assisi, venne a Roma nel 1221. Senonchè Onorio IH, come avevano già fatto Alessandro III con Valdo e Innocenzo III con Francesco d’Assisi, diede a Savarico, che gli chiedeva la conferma della sua istituzione, una risposta involuta ed evasiva, rimandandolo al legato, perchè questi decidesse in merito, con maggiore conoscenza di causa, secondo le circostanze e gli interessi della Chiesa (1). Seguendo la decisione del Concilio Lateranense IV, del 1215, che proibiva di approvare nuovi Ordini religiosi che non adottassero la regola di qualche altro Ordine precedentemente approvato, Onorio III concedeva al suo legato la facoltà di confermare l’istituzione di Savarico qualora la sua regola fosse stata quella di un Ordine riconosciuto, anche se i nuovi frati volessero rimanere indipendenti da questa (2).
Savarico e i suoi soci scelsero naturalmente la regola dei Templari trattandosi di un’istituzione che aveva un carattere prevalentemente militaristico e i cui membri, recanti il signaculum crucis, avevano il compito di combattere con le armi alla mano gli eretici e di difendere le libertà ecclesiastiche.
Tuttavia, benché avesse assunto un carattere penitenziale (3), la nuova istituzione dovette formare sopratutto una specie di guardia di corpo del figlio di Si mone di Montfort, Almerico (4). Dalla lettera dello stesso Pietio Savarico, l’Ordine ci appare infatti come costituito principalmente per la difesa e la salvaguardia della persona e dei possidimenti di Almerico, che i fralres si obbligavano a tutelare contro tutte le fazioni usurpatrici, sive sini christianae vel aliae (5). La durata in quest’ordine della Milizia di G. C. fu delle più precarie. Circa un anno dopo la sua approvazione, esso ci appare già in contrasto con il partito del conte di Montfort e come virtualmente e con ogni probabilità, anche effettivamente, disciolto.
In un documento, datato il 9 febbraio 1222 da Carcassona, il cardinal legato sancisce che tutti i beni, che Almerico e i suoi baroni avevano largito Ordini fidei Jesu Christi in parlibus Narbones. constituía, dovevano ritornare al conte e agli altri donatori, e ciò perchè nomini sui liberalilas debeat esse dannosa (6).
(1) Federici, II, cod. dipi. p. 5, doc. VII.
(2) Federici, II, cod. dipi. p. 5, doc. VI.
(3) « Nomine poenitentiae in remissionem suora m imponcres peccatorum specialiter ad expugnandum haereticos et defendendam ecclesiasticam libertatem in Narbon. et Auxitan. provinciis ». ap. Federici, II, cod. dipi. p. 5, doc. VII.
(4) Ciò riconosce lo stesso Federici quando egli scrive: « Molti cavalieri narbonesi si posero in difesa di Almerico e con una copiosa radunanza ravvivarono la novella istituzione, che allora apertamente incominciò a chiamarsi Milizia di G. C. A questa Milizia donò Almerico terre e beni, ed il cardinale Romano vescovo Portuense legato apostolico, si dimostrò impegnatissimo, perchè ne fosse data l’approvazione dal p. Onorio III. Questi cavalieri erano dichiarati difensori della fede, della Chiesa, della pace e della giustizia contro le usurpazioni degli eretici, radunati unicamente que’ cavalieri per sostenere Almerico e le di lui terre ». Federici, I. 284.
Anche Onorio III ci fa sapere che Almerico « jam quosdam redditus sibi (a Savarico) dedit ed adhuc plures alios se daturum promisit ». ap. Federici, II, cod. dipi., p. 5. doc.VII.
(5) Federici, II, cod. dipi., p. 4, doc. V.
(6) Federici, II, cod. dipi., p. 6, doc. Vili.
37
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
379
Comunque e quali che sieno state la scaturigini e le vicende dell’Ordine della Milizia di G. C. fondato da Savarico, il Federici commette una deplorevole confusione quando egli, a causa di una certa analogia nel titolo e negli scopi, ne parla come se si trattasse di un’antica fase dell’Ordine stesso dei Frati Gaudenti.
Il Federici, infine, riannoda le origini dei Frati Gaudenti a un altro Ordo Mililiae Jesu Christi, istituito in Parma nel 1233, che dovrebbe rappresentare a sua volta la continuazione dell’altro fondato da Savarico alcuni anni prima in Provenza. In realtà nonostante la coincidenza del titolo e l’analogia dello scopo, non si tratta, qui, di un istituito che si propaghi, ma della manifestazione di uno stesso stato d'animo, di un provvedimento analogo destinato a soddisfare analoghi bisogni. Movimenti, come il valdismo e il francescanesimo, ad esempio, possono così avere identità di contenuto spirituale e adoperare mezzi comuni per soddisfare esigenze allora diffuse, pur vantando un’organizzazione autonoma e una personalità storica indipendente (1).
In quest’epoca, del resto, istituzioni a tipo religioso-mlitaresco sorgono un po’ dapertutto. Senza parlare del famoso Ordine dei Templari, basterà ricordare quello dei Crucigeri (2), dei Milites S. lacobi ($), dei Cavalieri del Salvatore in Aragona, dei Cavalieri Costantiniani, dei Cavalieri di Monte Gioia, dei Cavalieri del Silenzio, ecc. (4).
A quest’ordine della Mililia Jesu Cristi di Parma, il Federici non è il solo a riannodare quello dei Frati Gaudenti.
Secondo l’Helyot, questo, confermato poi da Urbano IV nel 1262, avrebbe però avuto le sue origini a Parma nel 1233, per opera del domenicano frate Bartolomeo da Vicenza (5).
Lo Zòkler, che è il più autorevole degli studiosi che si sono recentemente occupati
(1) Non si sa perchè, il Federici riproduce nel suo Codice diplomatico, alcuni documenti che si riferiscono ai Fratrcs de Poenitentia, una delie multiformi esplosioni religiose a tipo evangelico del secolo xni, che hanno qualche analogia coi movimenti valdese e francescano ma che nulla hanno a che fare coi Frati Gaudenti. Federici, II, cod. dipi. p. 6. doc. Vili; p. 8. doc. IX. Sono due lettere di Gregorio IX, una del 1228, l’altra del 1234.
(2) Ordine laico, istituito per la difesa armata degli interessi della Chiesa e che pretendeva risalire all’epoca di S. Elcna, madre di Costantino. Fu restaurato al Concilio La-teranense del 1215.
Nel 1183, si ha notizia di certi « fratres Militiac » i quali « vocali sunt per dominum Hermannum episcopum Curlandiae ». Notae de Episcopale Curonensi, ap. M. G. H. SS. to. XXIX, p. 246. L’editore del documento vorrebbe però leggère 1233, invece di 1183.
(3) Istituito al tempo d’Innocenzo III. Cfr. Specialmente, il Regesto di Alessandro IV e quello di Urbano IV (n. 482, 502, 503, 504, 2839, 2840, ecc.).
(4) Cfr. G. Giucci, Iconografia storica degli Ordini religiosi e cavallereschi. Roma, 1836-1847, voi. 1.
B' ) Helyot, Ordres monaslique. to. IV, p. 456.
uesta confusione fa cadere naturalmente l’Helyot in parecchie gravi contraddizioni Cosi, per esempio, egli mentre afferma che i Milites facessero voto di castità coniugale — ciò che è esatto, come vedremo, dei Frati Gaudenti conventuali, — nello stesso tempo ammette che fosse loro permesso il matrimonio — ciò che è vero di tutti i Cavalieri di Parma.
Il frate Bartolomeo de Bragantiis, poi vescovo di Vicenza (t 1270), cfr. Quètif, Script. Ord. Praed., I, 254.
38
380 ’ BILYCHNE
dalla storia dei Frati Gaudenti, accetta le stesse conclusioni dell’Helyot benché però egli ponga a Bologna, e non a Parma, la fondazione dell’Ordine (1).
Questa confusione era del resto in qualche modo spiegàbile col ravvicinamento dei due ordini che fanno alcuni antichi cronisti. Noi vedremo, però, nel prossimo capitolo, nel determinare le origini storiche dei Frati Gaudenti, come questi fossero del tutto indipendenti dai Milites Parmenses.
CAPITOLO IL
Le origini storiche dell’Ordine dei Frati Gaudenti.
Insieme a quella di Alberto Miglio!©, notar© a Bologna, scrittore sincrono e amico di fra Salimbene da Parma (f 1287), la testimonianza del famoso minorità è la più antica di quelle che concernono i Frati Gaudenti. La più antica e anche la più decisiva per ciò che riguarda il periodo delle origini. Credo, quindi, utile riprodurla qui fedelmente.
v Anno Domini M°CC°LXI°... Item millesimo supraposito composita et ordinata fuit regula militum beate Marie virginis mediante fratre Ruffino Gurgone de Pla-centia, qui multis annis fuerat minister Bononie, et tunc erat penitentiarius in curia domini pape, et erat Bononie prò negotis curie. Ordinata etiam fuit per honorabiles viros domnum Lotheringum de Andolois de Bononia, qui prior extitit et praelatus eiusdem ordinis et inter eos, et per domnum Gruamontem et per domnum Ugolinum Capitium de I.ambertinis de Bononia et per domnum Bernardum de Sesso et per domnum Egidium, eius fratem, et per domnum Phy^aimonem de Barattis de Parma, et per domnum Sclancham de Lia^aris de Regio et per domnum Rainerium de Ad-helardis de Mutina. Isti a rusticis truffatoire et derisive appellante Gaudentes. Quasi dicant: Ideo facti sunt fratres, quia nolunt communicare aliis bona sua, sed volunt tantummodo sibi habere iuxta verbum illius avari, de quo Ecclesiasticus dicit XI: Est qui locuplelalur parce agendo, et hec pars mercedis illius in eo quod dicit: Inveni requiem tnihi, et nunc manducalo de bonis meis solus. Item recorder, quod ordo iste factus fuit in Parma tempore Alleluio, id est tempore alterius devotionis magne, quando cantabatur « Alleluia » et intromittebant se fratres Minores et Pre-dicatores de miraculis faciendis, anno Domini M°CC0XXX0III°, tempore pape Gregorii noni. Et fuit factus mediante fratre Bartholomeo de Vincentia de ordine Fratrum Predicatorum, qui tunc temporis magnum locum habebat in Parma, et fuit bonus homo et postea fuit episcopus terre sue, unde fuerat oriundus. Et habebant predicti fratres eundem habitum cum istis et sellam albam et crucem rubeam. In hoc tantum est differentia. quia illi appellabantur milites Jesu Christi, isti vére milites sancte Marie. Perseveraverunt autem illi et durareverunt usque ad multos annos et postea defecerunt, quia principium eorum et finem vidi; et pauci eorum ordinem sunt in(1) ZÖKI.ER, nella Realencyklopädie für protestantische Theologie u. Kirche, 3* ed. (1903), to. 12, sub voce: Marianer.
39
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
3Sl
gressi. Similiter isti qui dicuntur Gaudentes ita multiplicantur sieut panis in manu famelici. Et reputant se fecisse magnum quoddam, preclarum quiddam, ex eo quod talem habitum. assumpserunt; sed paruri! in Romana curia reputantur. Et hoc propter 1111°. Primo, quia de suis divitiis nec monasteria nec hospitalia nec pontes nec ecclesias unquam construxerunt seu alia opera pietatis fecisse repperiuntur. Secundo, quia multa alièna abstulerunt per rapinam more potentum nec restitue-runt male ablata... Tertio, quia postquam consumpserunt divitias suas faciendo magnas expensas et largas in multis vanitatibus et comessationibus et comedendo cum istrionibus et non cum Christi pauperibus, ipsi petunt ab ecclesia Romana et volunt obtinere a papa et invadere loca meliorum religiosorum, quam ipsi sint, et illos de domibus suis expellere... Quarto, quia avarissimi homines sunt... Quinto, et ultimo, quia non video, ad quid deserviant in ecclesia Dei, id est ad quid utiles sint, nisi forte quia salvos faciunt semetipsos... Obiit papa Alexander quartus M°CCLXI°, et substitutus est Urbanus HIT, qui istorum Gaudcntium regulam dedit (1).
L’Ordine dei Cavalieri fu fondato a Bologna, il 25 marzo 1261.
Su questo punto, se non gli storici i quali si lasciarono spesso sviare da falsi supposti, certo le testimonianze storiche le più autorevoli sono tutte concordi. Con quello di fra Salimbene coincide il racconto che ne fa il notavo Alberto Aliglielo (2), con i quali vanno d’accordo i cronisti bolognesi del secolo seguente come Matteo Griffoni (3) e l’autore della Storia Miscella (4), nonché i principali chiosatori danteschi, tra cui specialmente Jacopo della Lana, il cui padre, Filippo, fu frate gua-dente (5).
(1) Cronica fralris Salimbene de Adam ordinis minorum, ed. O. Holder-Egger, ap. M. G. H. SS. to. XXX, ir, pp. 467-469. I passaggi omessi sono semplicemente delle citazioni scritturistiche e patristiche.
(2) « In millesimo duecentesimo LXI° anno... Et eodem anno composita ed ordinata fuit regola milito m beatae Mariae virginis per honorabilem virum donimim Loterengum de Bononia, qui prior extitit et prelatus inter eos, et domnum Gruamontem et dominum Ugolinum Capretum de Bonomia et per dommum Bernardum de Sesso et domnum Egi-dium eius fratrem et domnum Fy^aimonem de Baratiis et domnum Sclacam de Liazaris de Regio et per domnum Raynerium de Aelardis de Mutina ». Alberti Milioli notarii regis, Liber de Temporibus, ap. M. G. H. SS. to. 31, p. 526-527.
(3) «MCCLXI. Eodem anno in festo S. Mariae mense Martii; Ordo Militine Fratrum Beatus Mariae inchoatum fuit per Fratrem Loderenghum de Andalò, Gruamontem dictum Cazanimicis, et Ugolinum Capretum de Lambertinis, Milites, et alios Milites Lombardos. Cujus Ordinis fuit ordinator Dominus Peregrinus de Castello ». Matthaei de Griffo-nibus. Memoriale Historicum rerum Bononiensium, ap. Muratori, Sor. Rer. Hai. to. XVIII p. 1731.
(4) «Sul finire dell’anno 1261, Urbano IV costituì anche l'Ordine dei Cavalieri e fu nella città di Viterbo ». ap. Muratori, Scr. Rer. Hai., to. XVIII, p. 274.
Urbano IV si trovava a Viterbo quando venne redatta la bolla di approvazione dell’Ordine.
(5) « Qui è da sapere che nel mille docento sessanta o circa quel tempo due gentili uomini di Bologna si mossono insieme, e andonno a messer lo papa. Che in quello tempo era [Alessandro IV] ed a lui ragiononno della condizione, come erano gentili uomini e cavalieri, e come aveano pensato di fare un ordine al servizio di nostra Donna madonna santa Maria: il quale ordine sarebbe ad aiutare in ditto o in fatto, con arme e con cavalli, mettendo la vita per ogni vedova e ogni pupillo, ogni pellegrino, e ogni povero, eie., e questo aitorio fare in casa di Comune e a ogni altra corte deH’una città in altra, assumendo
40
382
BILYCHNIS
Dàlia testimonianza di fra Salimbene risulta chiaro che il nome di frate Gaudente s’applica esclusivamente ai Cavalieri dell’Ordine della Beata Maria Vergine, istituito a Bologna, e non ai Cavalieri di Gesù Cristo di Parma e di altrove. Su questo punto tutta la tradizione storica è unanime. L’appellativo di gaudente divenne presto popolare ed esso, eccetto che negli atti pontifici, è comunemente usato negli statuti, nei diplomi, nelle iscrizioni e nelle cronache dell’epoca (1).
Fra Salimbene riavvicina, nel suo racconto, l’istituzione dell’Ordine della Milizia di G. C. a quella dell’Ordine della Milizia della B. M. V.; ciò basta al Federici per affermare una derivazione genetica dell’uno dall’altro (2). Ma la distinzione, l’opposizione, anzi, che fra Salimbene Stabilisce tra i due Ordini è assolutamente perentoria. Anzitutto egli ci mostra l’uno come fondato a Parma nel 1233, l’altro a Bologna nel 1261 (3); l’uno, il parmense, sarebbe stato costituito di pochi soci {pauci Ordinem eorum sunt ingressi), non avrebbe avuto che un carattere puramente locale (erat tantum in Parma) e un’esistenza così precaria e breve che il Salimbene stesso avrebbe assistitilo alla sua fine (principium eorum et finem vidi), l'altro invece si sarebbe, già al tempo stesso del cronista, largamente diffuso per l’Italia (4).
Mentre la regola dell’Ordine dei Frati Gaudenti fu come vedremo meglio in seguito approvata da Urbano IV nel 1261, quella dell’Ordine della Milizia di G. C. fu confermata da Gregorio IX nel 1235 (5).
li fatti di quelli, siccome fosseno propri procuratori: e questo voleano fare per merito dell’anima sua. Lo predetto papa udendo cotanto bene concedea sua petizione; ed acciò che fosse bene loro intento, mise nella regola sua, ch’alcuno non potesse essere s’elli non fosse cavalieri a speroni dorati; e ch'elli fossero appellati Cavalieri di Madonna Santa Maria. Avuto costoro tal privilegio con molte altre autoritadi, tornonno a Bologna, e accresce-rono lo suo ordine». Jacopo della Lana, Commento dantesco ed. Luciano Scarabelli, (Collezione di Opere inedite 0 rare,) Bologna, 1886, p. 383.
(1) Benvenuto da Imola, nel suo commento a Dante {Inferno, XXIII, 103), scrive « Et hic nota quod iste denominai Ordinem su uni a vocabulo potiori et usatitiori ». Ap. Federici, I, 85.
Ed il Villani: « Et nota, che Frati Godenti erano chiamati cavalieri di Santa Maria e
cavalieri si faceano, quando pigliavano quello habito, che le robe haveano bianche ’1 mantello bigio, e l’arme in campo bianco e la croce vermiglia con due stelle di sopra, e doveano difendere le vedove, e pupilli, e intramettersi di pace; e altri ordini come religiosi aveano. < Giovanni Villani, Htstoria Universale, lib. 7, cap. XIII; Muratori, Scr. Rer. Ital., to XIII, p. 238.
Federici, I, 17. Il Federici pretende che Urbano IV abbia voluto mutare il
(2
nome Milites I. C. in quello di Milites B. M. V., op. cit. I, 32.
(3 r-..... .............. ” ~ "
tuito.
„ (4
In un documento del 1234, Gregorio IX suppone l’Ordine di Parma già costi-Federici, II, cod. dipi. p. 8, doc. XI.
Noi troviamo i Milttes B. M. V. nel 1267 a Imola, nel 1270 a Vicenza, nel 1271 a Faenza, nel 1272 a Bagnacavallo, nel 1983 a Verona, nel 1289 a Treviso a Venezia a Padova a Prato, nel 1292 a Urbino, nel 1298 a Lucca, nel 1305 a Arezzo, ecc. Cfr. Federici, II, cod. dipi., passim.
(5) Con la bolla Quae omnium Conditone honorem, pubblicata a Perugia il 24 maggio 1235, Gregorio IX dichiara di approvare la regola presentatagli dai fondatori dell’Ordine parmense:
« Rine est quod vestris piis supplicationibus inclinati, formam vitae a vobis perpetuis temporibus observandam, quam, virtutum Domino inspirante, deliberationc provida statuistis, acceptam, et placitam reputantes, illam auctoritate apostolica confirmamus, et praesenti scripti patrocinio communimus»; e di riprodurla testualmente «de verbo ad
41
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
383
L’Ordine di Parma» quale esso risulta dalla bolla papale, presenta un carattere esclusivamente laicale. Esso ci appare unicamente composto di fratres e di sorores; nè vi si fa mai menzione di clerici o di presbyleri. I suoi membri nei rescritti papali figurano tutti come uxorati (1).
I precetti che il papa impone ai membri dell’Ordine sono tutti d'indole morale e non di natura ecclesiastica propriamente detta e si riassumono nei due aspètti della giustizia: praticare il bene ed evitare il male (2). Gli scopi poi specifici dell’ordine non trascendono l’ambito della attività laicale: l'ubbidienza alle autorità ecclesiastiche, difesa della fede contro gli eretici e della libertà della Chiesa contro prepotenti, protezione delle instituzioni e delle persone e infine di tutti gli umili e i poveri (3).
Queste finalità erano in verità anche quelle dei Frati Gaudenti, nè ciò può stupire trattandosi di due ordini cavallereschi affini. Però, come vedremo più dettagliatamente nel seguente capitolo, l’Ordine della Milizia della B. M. V. comprendeva anche, oltre quella dei coniugati, anche una categoria di Chierici e un’altra di conventuali propriamente detti benché questi fossero secolari e in tutto l’Ordine predominasse il carattere laicale.
verbum ■ nella sua bolla. La regola incomincia così: « Gum secundum apostolicum fun-damentum, aliud meno ponere possit, praeter illud, quod positum est, quod est Christus Jesus, in quo, tanquam in lapide singulari omnis aedificatio constructa crescit in templum sanctum in Domino, eodem Apostolo attestante, salubri ducti consilio, vos Milites Civi-tatis Parmen, recisa saeculi vanitale, super hoc fundamentum aedificium vestrum erigere proponentes et Militiae vestrae cursum ad honorem Dei et Ecclesiae sanctae conver-tentes, profectum, sub certa disciplina vivere Deo acceptam, unum habentes Magistrum, cui reverenter intendatis, de vestra salute solliciti decrevistis ».
Federici, II, cod. dipi. p. 12 ss. doc. XVII.— Ripoll, Bull. Praed. to VII, p. 11 n. 216; Bull. Roman., ed. Taur. to III. p. 486, n. 44; Potthast, Reg. Pont. n. 9922.
(i) « Item matrimonio sic utatur, quod sanctum est, et a Domino institutum, quod fornicarios, et illegitimos omnes declinet amplexus, sciens quod fornicarios, et adulteros Deus judicabit». Bolla Quae omnium, ap. Federici, II, cod. dipi. p. 13, doc. XVII. Cfr. Potthast, Reg. Pont. nn. 9911, 9921.
(2) Federici, II, cod. dipi. XVII, p. 13, doc. XVII.
(3) «Fidem catholicam Fratres defendant contra omnem sectam haereticae pravi-tatis, hereticos omnes, scilicet Catharos, Pauperes de Lugduno, Arnaldistas, Speronistas, et alios quocumque nomine censeantur, virihter impugnando. Libertatem ecclesiasticam potissime defensabunt, impediendo fideliter in civitatibus suis, ac locis, ne quid in ejus praejudicium statuatur, vel fiat, aut quomodolibet attentetur... Ecclesias quoque, mona-steria, hospitalia, et quaecunque religiosa loca, nec non personas ecclesiasticas cujuscun-que Religionis, vel Ordinis; item viduas, pupillos, et orphanos, ac coeteras miserabiles personas, ut non opprimantur a suis civitatibus, seu locis, et ut liberarentur ab oppres-sionibus, bona fide intendent ». ap. Federici, II, cod. dipi. p. 14, doc. XVII.
Per raggiungere questi scopi, era data facoltà ai Mtliles J. C. di ricorrere alle armi, a richiesta della Curia romana o dopo previa intesa tra il Vescovo diocesano e il Maestro dell’Ordine: « et pro praedictis omnibus, scilicet pro fide, ac libertate ecclesiastica de-fendendis, et justitia praedictorum per locorum Dominos, seu Rectores reddenda, si expe-dierit, se armis accingent Fratres, viriliter, et potenter pugnantes ad mandatum Ecclesiae Romanae, vel si loci Dioecesanus, ac Magister eorum, simul hoc viderint expedire ». ap. Federici, II, cod. dipi. p. 14, doc. XVII.
Il maestro generale dell’Ordine — e ciò conferma il carattere laicale di questo — poteva essere approvato anche solo dal Vescovo diocesano: « habentes unum Magistrum... per loci Dicecesanum, vel per sedem Apostolicam approbatum ». Federici, ibid, p. 14.
42
3§4
BILYCHNIS
Non è dunque possibile, e lo vedremo meglio nel corso della presente trattazione, confondere i due Ordini come se fossero un’unica istituzione o di considerare l'uno come la scaturigine diretta dell’altro.
CAPITOLO HI.
L’organizzazione primitiva dell’Ordine dei Frati Gaudenti.
I fondatori dell’Ordine dei Frati Gaudenti furono, come abbiamo visto dalla testimonianza di fra Salimbene e da quella del papa Urbano IV, alcuni cavalieri bolognesi, modenesi, reggiani e parmigiani (i).
Fu verso la fine del pontificato di Alessandro IV, e probabilmente nel 1260, che questi cavalieri decisero di fondare il nuovo Ordine. Risulta intanto dalla già citata testimonianza di Jacopo della Lana, che nel 1260 0 circa quel tempo, due cavalieri di Bologna si recarono dal papa Alessandro IV, desiderando instituiré un Ordine in servizio di nostra Donna (2).
Tra coloro che si recarono presso il pontefice fu certamente quel Loderingo di Andalò che da tutti i cronisti concordi è ritenuto come l’iniziatore principale e il primo priore del nuovo Ordine. Questi Cavalieri che si recavano presso il papa per far approvare una loro norma di vita dovettero presentare ad Alessandro IV una regola più o meno rudimentale, che probabilmente era stata raffazzonata un po’ a modo loro, così come avevano fatto Valdo, Francesco d’Assisi ed altri corifei di movimenti religiosi laici dell’epoca. Certo è che Alessandro IV si rifiutò di approvare, così com’era, la nuova regola. Che contrariamente alla prescrizione del Concilio Lateranense IV del 1215 non riproduceva nessuna delle regole approvate (3).
Fu probabilmente in seguito a questo insuccesso, che quei cavalieri si rivolsero per consiglio ed aiuto a frate Rufino Gorgone di Piacenza che si trovava a Bologna (4). La regola fu rifatta sul modello di quella di sant’Agostino (5). Comunque,
(1) Il Salimbene ne conta otto. Ed è forse da vedere in questo numero, un’imitazione dell’Ordine cavalleresco che servì probabilmente loro di modello, quello dei Templari. Noi sappiamo infatti che otto appunto furono i pauperes commililones.de Tempio, i quali, con a capo Ugo de Payens, fondarono, verso il 1119, l’Ordine dei Templari, votandosi alla difesa di Terra Santa e dei pellegrini.
Quattro od otto erano, del resto, i consoli del primo governo comunale in Italia, i ministrali delle società delle arti e delle società delle armi. Cfr. A. Gaudenzi, Statuti delle Società del popolo di Bologna. Roma, presso l'istituto Storico Italiano, Fonti per la Storia d'Italia, 1889, p. IX.
(2) V. sopra p. io, nota 5.
(3) Federici, I, 17.
(4) Nel 1255, cappellano e penitenziere di Alessandro IV. Cfr. Sbaracea, Bullar. Francisc, to. Il, p. 12, n. 13, 14, p. 57, n. 78; Potthast, n. 15650, 15658, 15937.
(5) « Fratres Milites, Clerici, et Laici, qui in conventibus seu in conventualibus ecclesiis dicti Ordinis fuerint, prolessionem regulärem faciant secundum regulam B. Au-gustini ». Urbano IV, bolla Sol ille, ap. Federici, II, cod. dipi. p. 18, doc. XVIII.
43
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI 385
«essa dovette essere rimaneggiata da Urbano IV, come risulta dalla stessa bolla di approvazione (i).
Dalle parole stesse di Urbano IV si deve dedurre che la regola da lui approvata e concessa ai Frati Gaudenti è più opera sua che degli iniziatori dell’Ordine.
Ammessa l’esistenza d’una regola primitiva redatta dai fondatori dell'Ordine e sopratutto da quel I.oderingo che ne viene, da più di un cronista, designato autore (2) non è possibile determinare con sicurezza quale ne fosse il contenuto e in che essa •differisse dal sostanziale rimaneggiamento che ne venne fatto per opera di Urbano IV.
Ci sarà tuttavia permesso avanzare qualche ipotesi, suffragandola con argomenti di analogia.
Non c’è dubbio intanto che il nucleo primitivo dell'Ordine non sia costituito da quel gruppo di Cavalieri laici di cui fanno il nome i cronisti e a cui lo stesso Urbano IV accenna nella sua bolla. Sol ili e (3). Ora, come in tutte le altre iniziative analoghe, quella di Sava rico a Tolosa, quella dei Cavalieri di Parma, come in generale in tutti i movimenti religiosi dell’epoca di origine popolare, dal vaklismo al francescanismo, l’intendimento dei primitivi membri dell'Ordine della Milizia della B. M. V. non poteva essere che quello di costituire un’organizzazione semplicemente laicale. Urbano IV, invece, come già aveva fatto Innocenzo III riguardo agli Umiliati ed ai Francescani, volle probabilmente clericalizzare l’Ordine, aggiungendo alla categoria dei laici coniugati quelle dei laici conventuali e professi e quella dei clerici (4). Urbano IV è, infatti, il primo a presentarci l’órdine dei Frati Gaudenti come costituito, sul modello di quello degli Umiliati e dei Francescani, di tre categorie
(ì) Bolla Sol ilio datata da Viterbo il 23 dicembre 1261 (Potthast, n. 18195): «Nobis devote, ac humiliter supplicarunt, ut eis, et omnibus Militum Christi cum ipsis cu-Ìiientibus impendere famulatum, aliquam certam regulam, seu vivendi regulariter formu-am specialem, sub cujus observantia salubri virtutum Domino magia piacere valeant, statuere, ac condere curemus. Nos itaque piis supplicationibus et salubribus desideriis favorabiliter annuentes, infrascriptam regulam studiose compositam praefatis Nobilibus, omnibusque illam profitentibus et sub ipsa divinis omnino se beneplacitis dedicare vo-lentibus concedimus de Fratrum nostroruxn consilio perpetui.»» temporibus observandam. Quam utique regulam appellare volumus Ordinem Militiae Beatae Mariae Virginis Glo-riosae, et qui professi fuerint hanc regulam tanquam speciali, et perpetuo designato Ordine, taliter nuncupentur, videlicet Fratres Ordinis Militiae Mariae Virginis Gloriosae ». Ap. Federici, II, cod. dipi. p. 17, doc. XVIII.
(2) Così l'anonimo autore del Memoriale dei Podestà di Reggio: «In anno 1261... De mense Martii eodem anno composita, et ordinata fuit Regula Militum B. M. Virginis per honorabilem D. Loterengum de Bononia, qui prior exititit et praelatus inter eos ». ap. Federici, I, 23.
(3) « Hac siquidem luce perfusi nobiles viri Lodorengus de Andalò, Gruamons de Cazanemicis ciyes Bononienses, Scianca civis Reginus, Rainerius de Adelandis civis Mu-tinensis, et alii plures de civitatibus eorumdem, qui huius saeculi spretis vanitatibus in otio dulcis contemplationis divinis perseverant vacare laudibus ferventi spiriti! appe-tunt... » ap. Federici, II, cod. dipi. p. 17, doc. XVIII.
(4) Pare che Gregorio IX avesse voluto rispettare l’intenzione secolaresca dei Cavalieri di Parma. Nè la sua attitudine può stupirci, quando si pensi che egli era troppo bene al corrente dei risultati catastrofici ottenuti da Alessandro III con i Valdesi primitivi e quanta fatica e quanta abilità non dovette egli adoperare per trattenere, dentro il girone della Chiesa, san Francesco e i suoi primi discepoli.
125J
44
386
BILYCHNIS
di membri, tutti i cronisti ee lo raffigurano invece come essenzialmente laicale. E tale dovette apparire agli occhi così del pubblico come dei suoi stessi membri. Già come vedremo presto, la categoria predominante nell’Ordine era quella dei conventuali i quali benché emettessero i voti religiosi rimanevano secolari e alla quale appartennero i primi suoi fondatori.
La poco edificante condotta di questi, di cui faremo cenno nell’ultimo capitolo, così contrastante con l’entusiasmo, il rigidismo e il misticismo dei corifei d’un nuovo movimento religioso, si spiega forse col fatto che la loro vocazione fosse stata il risultato dell’imposizione pontificia più che spontanea e che avessero preferito l’emettere i voti piuttosto che perdere, nell’Ordine, la loro posizione di privilegio.
Comunque il carattere laicale dovette avere il predominio su quello ecclesiastico. Il poeta Guittone d’Arezzo, che fu frate gaudente, scriveva:
Messer Ranuccio amico. Saver dovete, che cavalleria Nobilissimo è ordin secolare (i)
Dalla regola approvata da Urbano IV, l’Ordine dei Frati Gaudenti ci appare come costituito da tre categorie di membri: i° cavalieri laici e coniugati; 2° cavalieri secolari ma conventuali; 30 chierici. Fanno inoltre parte dell’Ordine àbuni conversi.
I cavalieri laici, che formano un istituto analogo al 30 ordine di varie comunità religiose dell’epoca, vivono nelle proprie case, hanno o possono avere moglie e conservano i propri beni (2).
I Frati coniugati non potevano essere obbligati a dimorare in convento o comunque fuori delle proprie case; dovevano però recarsi al convento, una o due volte al mese, per assistere a predica, o quando trattavasi di prender parte a capitoli generali (3). I coniugati poi avevano superiori propri e un proprio
(1) Rime di Fra Guittone d’Arezzo, a cura di Lodovico Valeriani, Firenze 1828, vol. I, p. 219. Più tardi Marsilio da Padova considera ancora i Frati Gaudenti come laici, al pari dei Beguardi. « Ñeque adhuc his clausi limitibus laicos quosdam, quos in Italia Fratres Gaudentes, alibi Beguinos appellant». Traci, de causis malrim., part. II, cap. 8, ap. Federici, I, 86.
(2) Tutto ciò era esplicitamente espresso nella professione religiosa che emettevano i suddetti cavalieri. Si veda la seguente fatta da un certo Ugolino Picardi nel 1278:
« Ego hater Ugolinus Picardus promitto Deo, et Beatae Mariae Virgini Gloriosae in manibus fratris Bombologni de Mussolinis nunc Prioris Fratrum de Bonomia... et sicut frater qui volo in domibus mcis commorari, et volo retiñere mea bona, et matrimonium, quod est vel esset, nec volo renuntiare proprio, promitto etiam dare omnia et lacere ea ad quae teneor e forma Regulae et Constitutionum sub obligatione meorum bonorum ». Federici, II, cod. dipi. p. 98, doc. XLI.
In realtà nella formóla prescritta da Urbano per i frati coniugati si fa menzione esplicita solo del matrimonio, «salvo jure matrimonii in quo sum vel in quo ero». Vedi Federici, 11, cod. dipi. p. 23, doc. XVIII.
(3) « Semel, vel bis in mense, secundum beneplacitum sui Praelati conveniant hu-jusmodi Fratres cum Conventualibus in domo conventuali... Veruntamen ad morandum in conventibus, vel alibi extra domos suas compelli non possint, sed ad conveniendum pro audiendo verbo Dei, et pro habendo tractatu de iis, quae ad honestatem status sui pertinent, et etiam ad eundum ad Capitula generaba ». Regola di Urbano IV, ap. Federici II, cod. dipi. p. 24, doc. XVIII*.
45
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
387
priore (1); non essendo però professi propriamente detti, essi, come tutti i laici e i preti secolari, rimanevano sottoposti all'autorità dei vescovi (2).
Infine, come le Militesse di Parma, anche le mogli dei Frati Gaudenti potevano far parte di questa categoria dei coniugati, indossando l’abito dell’Ordine, grazie al quale, anche dopo la morte del marito, potevano sperare particolari aiuti e privilegi (3).
Frati Conventuali erano quei Cavalieri i quali benché non entrassero negli ordini sacri, facevano vita comune in convento, emettendo professione religiosa propriamente detta, coi tre voti, di povertà castità e obbedienza (4). Essi non potranno professare definitivamente che dopo un anno di noviziato (5), nè uscire dal-l'Ordine se non per entrare, secondo la consuetudine ecclesiastica, in un’altra religione più rigida (6).
Rimanevano, come ho detto, secolari e cavalieri, che tenevano cavallo e portavano le armi. Dovevano essere pronti ad impugnare le armi quando erano chiamati dalla Curia romana a difendere la fede cattolica e la libertà della Chiesa. Potevano inoltre portare armi difensive e servirsi di semplici verghe di legno, con licenza del vescovo, quando occorreva di dover sedare tumulti popolari (7).
(j) «Fratres praedicti Ordinis Coniugati, et a lii, qui in domibus propriis voluerint commorari, prqfessionem faciant sub obedientia Praelatorum suorum, salvo jure matrimonio contracts, vel etiam contrahendi... ». Regola di Urbano IV, ap. Federici II, cod. dipi. p. 22, doc. XVIII. Un atto notarile del 1308, redatto in Treviso, nomina un certo « ir. Alberto de Bazzoletto, priore Conjugatorum dicti loci », accanto a un certo frate « Nicolaus de Marciis de Verona, venerab. Prior Conventualis cjusdem loci ». (Federici, II, doc. CXI). In un altro documento del 1311 parlasi di un frate « Nicolaus de Scribanis Ord. Mil. B. Virg. Gl. Prior Fratrum Conjugatorum dicti Ordinis ». (Federici, II, documento CXIV).
(2) « Hujusmodi autem Fratres uxorati, et alii, qui in suis domibus commorantur, in omnibus, et per omnia subsint propriis Episcopis et aliis praelatis ecclesiasticis ». Regola di Urbano IV. Federici, II. cod. dipi. p. 25, doc. XVIII.
(3) Nelle Costituzioni dell’Ordine, compilate a Cremona nel 1274, al capo 5 si legge «Statuerunt Fratres omnes et concorditer ordinaverunt quod quilibet Prior civi-tatis et Fratres omnes teneantur et debeant adjuvare omnes dominas uxorcs Fratrum portantes abitum nostrum. Et ipsas teneantur liberare a gravaminibus Communis etiam post decessum maritorum, si habitum portaverint, tote posse eorum ». Federici, II, cod. dipi. p. 49, doc. XX.
(4) « Vivant... in omnimoda castitate... et proprium a se studeant abdicare ». Regola di Urbano IV, Federici, II, cod. dipi. p. 18, doc. XVIII.
« Conventuales vero qui tria substantial religioni, scilicet castitatem, paupertatem et perpetuane obedicntiam promiserunt ». Costituzioni del 1288, cap. XXVII; ap. Federici, II, cod. dipi. p. 48, doc. XX.
(5) ° Recipiendus vero probationis habeat unum annum, quo finito secundum prae-scriptam formulam professionem faciat et ad obedientiam admittatur ». Regola di Urbano IV, Federici, II, cod. dipi. p. 19, doc. XVIII.
(6) Nulli liceat ab hujusmodi Ordine seu Religione exire, nisi forsitan ad arctiorem Ordinem, seu Religione!», petita tamen a Generali Praelato licentia, voluerit se transferre ». Regola di Urbano IV, Federici, II, cod dipi. p. 21, doc. XVIII. La stessa norma valeva anche per i Frati Coniugati, cfr. ibid. p. 21.
(7) « Liceat autem eis arma portare pro defensione catholicae fidei et Ecclesiae libertatis, cum eis per Romanam Ecclesiam fuerit specialiter demandatum; pro sedandis etiam tumultibus Civitatum arma protegentia tantum, de sui Dioecesani licentia portare valeant et in manti virgam ligneam, sine ferro ». Regola di Urbano IV, Federici, lì, doc. dipi. p. 19-20, doc. XVIII.
46
s -, - - - .. — _ - - ■>
388 BILYCHNIS
Tuttavia, secondo la decisione di un capitolo generale del 1288, i cavalieri, che entravano a far parte dell'ordine conventuale, dovevano rinunziare all’esercizio della propria professione di giudice, di avvocato, di medico, di mercante, di notare, a vantaggio degli estranei all’Ordine. Soltanto il medico poteva, con licenza dei suoi superiori, visitare un infermo e il giudice poteva dare talvolta gratuitamente un consiglio, ma non emettere una sentenza (1).
Un cavaliere coniugato non poteva essere ammesso all’ordine dei conventuali se non separandosi dalla propria moglie, secondo le norme canoniche, qualora questa fosse stata consenziente e disposta a monacarsi a meno che la sua età le permettesse di vivere senza sospetto nel mondo (2).
Ogni convento era infine sotto l’obbedienza di un priore conventuale, eletto dai frati che dimoravano nello stesso convento (3), e che durava in carica, da prima, lo spazio di un anno, poi, da un capitolo all’altro (4).
La terza categoria dei Frati Gaudenti era formata di chierici, i quali attendevano naturalmente agli uffici divini (5).
Per far parte dell'Ordine occorreva essere cavalieri. Chi non lo fosse stato, doveva essere creato tale da un altro frate cavaliere, prima che egli rivestisse le insegne dell’ordine (6).
(1) « Quorum cura nobis esse debet praecipue ne id per nos fiat per quod noster Ordo veniat in contemptum et ipsius fama in aliquo denigretur, volumus ut nullus judex, nullus advocatus, nullus medicas, nullus mercator, nullusque notarius vel aliquis alius fratrer Ordinis nostri postquam nostri Ordinis habitum reciperint, nisi pro nostrorum Fratrum nostrique utilitate atque necessitate suas artes seu oflitia debeant exercere. Poterit tarnen medicus infirmes visitare, et eis consilium salubrem impendere, a Majore Ordinis suis, a quocunque alio praelato, petita licentia et obtenía. Similiter judex poterit consilium dare sed non deflinire, nec sententiam promulgare, nulla tarnen nec per se, nec per alium, di recte vel indirecto, pro suo salario pecunia postulata ». Costituzioni del 1288, cap. V.; ap. Federici, II, cod. dipi. p. 43, doc. X.
(2) ■ Si quis hujusmodi Fratrum, qui in domibus suis vivunt, voluerint conventuales effici, et professionem lacere regulärem juxta formam B. Àugustini superius annotatam, sine còntradictione aliqua recipiantur in conventi! loci suae civitatis, vel loci dioecesis, si conventus inibi fuerit. Alioquin recipiantur in alio convento secundum beneplacitum Generalis Praelati. Hoc autem in uxoratis locum habeat, postquam uxores eorum mortuae fuerint, aut Religionem intraverint, aut fuerint in tali aetate constitutae, quod de ipsis, si in sacculo permanserint, aliqua non possit haberi suspicio, vel postquam eaedem uxores liberan» super hoc concesserint licentiam juribus (il codice trevigiano legge: viris) suis; in quibus uxoratis, seu conjugatis, cum in conventibus recipi voluerint, quoad uxores, forma vitae totaliter observetur ». Regola di Urbano IV, Federici» II, cod. dipi. p. 24-25, doc. XVIII.
(3) « Electio conventualis Praelati spectat ad íratres conventuales tantum, qui, facta professione, in conventibus con» moran tur ». Regola di Urbano IV; Federici, II, cod. dipi. p. 22, doc. XVIII.
(4) « Item ibi ubi dicebat, Prioris offitium tantum annum durabit, die nunc, cujus offitium durabit de Capitulo ad Capitulum generale, prout inferius in secunda constitutione Senarum continetur ». Costituzioni del 12S8, cap. VI; Federici, II, cod. dipi, p. 60, doc. XX.
(5) «-Clerici divina oflitia studeant celebrare ». Regola di Urbano IV; Federici, II, cod. dipi. p. 2J, doc. XVIII.
(6) « Quicunque non Milites nostrum Ordinem de cetcro fuerint intraturi, fiant Milites per Fratrem Militen» nostri Ordinis in habitu laicali ante altare benedicto prius ense
47
......................». ■ >
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDÈNTI 389
Gli aspiranti, che non erano cavalieri; potevano essere aggregati all’Ordine in qualità di « conversi », i quali non avevano il diritto di sedere in capitolo, salvo il caso di una speciale autorizzazione del priore (i). D'altra parte essi non erano obbligati, come i frati conventuali, a esercitare la loro professione esclusivamentec a beneficio dei membri dell'Ordine (2). Essi sembrano essere stati di due specie: cioè, conversi aggregati all’ordine dei conventuali e conversi aggregati all’ordine dei chierici (3). Conunque il loro numero era molto limitato e soggetto a speciali restrizioni. Le Costituzioni del Capitolo Generale del 1288 prescrivono che in ogni città non si ammettano più di tre frati non cavalieri e a condizione che uno di questi fosse però notaro (4). Poco più tardi, questo numero fu portato a sei, qualora i candidati ne fossero Stati degni (5).
L’Ordine era diviso in provincie, a capo delle quali stava un Priore Provinciale, che, nella sua circoscrizione amministrativa, esercitava la stessa autorità che il Major Sull’Ordine intero. Non senza qualche limitazione peraltro, come quella di non potere ammettere un nuovo cavaliere all’ordine dei conventuali senza il consiglio dei frati locali e senza il consentimento del Major (6). Alla morte di un Priore, i frati della provincia ne eleggevano un altro della stessa circoscrizione (7).
et yestibus Ordinis. Post susceptam autem Militiam vestibus Ordinis induatur ». Costituzioni del Capitolo Generale di Bologna nel 1288, cap. XXVI; ap. Federici, II, cod dipi. p. 47, doe. XX.
(1) Gir. le Costituzioni del 1288, ap. Federici, II, eod. dipl.,p. 44, doc. XX; e le Costituzioni del 1314, ibid, p. 64, doc. XXI.
(2) < Item ordinaverunt quod Fratres Milites nec Clerici artes non possint exercere aliquo modo vel ingenio nisi prò suo Ordine, salvo quod Fratres Conversi in propriis domibus commorantes possint suas artes exercere, et qui morantur in Ecclesiis sicut pius ante introitum Ordinis facicbant, et soli incedere ubi volunt; sed vivere teneantur sub obedientia Praelatorum suora m et Regulam et Constitutiones teneantur integraliter observare et onera omnia Ordinis substitucrc, sicut aiii Fratres Milites et Clerici observare tenentur ». Costituzioni del 1314, cap. XXVIII, ap. Federici, II, cod. dipi. p. 75, doe. XXI.
(3) Le Costituzioni del 1314 così riassumono lo varie categorie dei membri dell’Ordine: « Collectus est enim primo Ordo praedictus ex Fratribus Militibus in propriis domibus commorantibus. Secundo ex Fratribus qui non sunt Milites sed Conversi in eorum domibus còmmorantibus. Tertio ex Fratribus Militibus Con ventilali bus, qui se et sua dedicant monasteriis vel ecclesiis Ordinis supradicti. Quarto ex Fratribus Presbvteris scu Clericis, qui in dictis ecclesiis et monasteriis commorantur et se et dedicaverunt. Quinto ex fratribus tanquam Conversi, qui se et sua dedicaverunt monasteriis et ecclesiis supradictis ». Ap. Federici, II, cod. dipi. p. 64, doc. XXI.
(4) < In nulla civitate ultra tres fratres non milites recipi possint, nec tres recipi poterunt nisi ex eis unus notarius fuerit. « Ap. Federici, II, cod. dipi. p. 46, doc. XX.
(5) « Item statuerunt et ordinaverunt quod in qualibet civitate possint recipi usque ad sex Fratres non milites, dum tamen alias sint sufficientes et ydonei et honesti: non costante aliqua constitutione quae loquitur de receptione non militum, quae cassa tur omnino » Costituzioni del Capitolo Generale del 1288; ap. Federici, II, cod. dipi. p. 59, doc. XX.
(6) « Volumus quod quantam habet auctoritatem Major Ordinis in fratribus totius Ordinis, tantam habeant Provinciales in fratribus suae provinciae, ut in licentiis dandis, in dispensationibus faciendis et aliis omnibus quae Regola nostra praemittit (permittit?); aliquos vero in fratres Conventuales recipere non poterunt sine consilio fratrum civitatis de qua est qui nostrum Ordinem vult in trare, nec sine requisitione Majoris Ordinis assenso; non poterunt etiam aliquem recipere qui male ablata tenetur reddere, nisi de restituendis sufficientem praestiterit cautionem prout in Regola continentor ». Costituzioni del 1288 cap- XIV; Federici, II, cod. dipi. p. 45, doc. XX.
(7) • Item si contingerit mori Priorem Provincialem, fratres illius terrae de qua erit
48
390
BILYCHNIS
In ogni provincia aveva luogo ogni anno un capitolo provinciale, a cui prendevano parte i priori dei conventi delle singole città (i).
A capo dell'intero Ordine sta il Major o Pradatus Generalis, cui tutti obbediscono. Col consiglio e l'assenso dei frati riuniti, egli poteva modificare le costituzioni, nel capitolo generale che aveva luogo tutti gli anni (2).
Al capitolo generale prendevano parte due frati di ogni luogo o città dove l'Or-dine esisteva, eletti con i voti dei conventuali e dei coniugati (3). Al capitolo generale, che aveva diritto di esame e di giudizio, il Major doveva render conto dell’amministrazióne di tutte le entrate dell’Ordine (4).
Il Prelato Generale dell’Ordine, veniva eletto da tutti coloro i quali prendevano parte ài capitolo generale, tanto conventuali che coniugati. Esso, però, non poteva essere scelto nè tra i laici, nè tra i chierici, ma esclusicamente dall’ordine dèi conventuali (5). Siccome questi, benché professi, erano però secolari, questa' disposizione canonica viene a confermare luminosamente quello che già mettemmo in rilievo sul principio di questo stesso capitolo, il predominio cioè dell’elemento secolare sull’elemento clericale propriamente detto.
provincialis eligant alium provincialem de eadem terra ». Costituzioni del Capitolo generale di Venezia, cap. X; Federici, II, cod. dipi. p. 58, doc. XX.
(1) «Item quod capitulum provinciale fiat in qualibet provincia in omni anno, ad Ìuod capitulum vadant. Priores singularum civitatum ». Costituzioni del 128.6, cap. XI; ederiçi. II, cod. dipi. p. 58, doc. XX.
(2) « Singulis autem amnis fiat generale capitulum, et in ipso capitulo definiatur de alio capitulo celebrando anno seguenti, nisi ex hoc aliqua justa causa fuerit differendum. Et in ipso capitulo possit Generalis Praelatus, cum consilio, et assensu fratrum ibidem convenientum, vel majoris partis ipsorum, constitutiones condere, et mutare conditas, et addere, minuere, corrigere in ipsis et interpretari easdem, dummodo in iis nihil fiat, quod sit contra Sedem Apostolicam vel regularibus obviet institutis. Et quidquid ab eodem Generali Praelato taliter factum fuerit, ab omnibus fratribus Ordinis inviolabilité! observetur ». Regola di Urbano IV; ap. Federici, II, cod. dipi. p. 22, doc. XVIII.
(3) u Ad hujusmodi generale Capitulum, cum fuerit celebrandum. mittantur duo fratres de quolibet loco dicti Ordinis, aut de qualibet civitate, electi a Conventualibus, et ab aliis fratribus, qui in civitatibus, aut in locis aliis illius dioecesis, in qua situs est locus conventualis, in propriis domibus commorantur ». Regola di Urbano IV; Federici, II, cod. dipi. p. 26, doc. XVIII.
(4) « Major Ordinis teneatur in quolibet Capitulo generali de omnibus proventibus monasterii, qui ad ipsum provenerunt et de expensis omnibus per ipsum factis reddere rationem ei vel a quibus commissum est vel fuerit per Capitulum generale. Qua reddita. proposito et narrato tunc quod voluerit coram fratribus, de Capitulo exeat. Et Capitulum eo absente praedicta examinet, ordinet et faciat super iis quicquid melius videbitur faciendum ». Costituzioni del 1288, cap. XV; Federici, II, cod. dipi. p. 42, doc. XXI. Cfr. anche le Ordinazioni del Capitolo generale del 1314, cap. XL; ibid, p. 80.
(5) •< Generalis Praelatus hujusmodi Ordinis eligatur in Generali Capitulo a fratribus, tam conventualibus, quarn aliis, qui morantur extra convëntum. Et ex Fratribus Militibus, tantum qui facta professione morantur in monasteri©, assumatur, cujus electio praesentetur Romano Pontifici confirmanda ». Regola di Urbano IV; Federici, II, cod. dipi. p. 23, doc. XVIII.
49
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
CAPITOLO IV.
I Frati Gaudenti e l’opinione pubblica contemporanea.
Come fra Salimbene afferma nella sua cronaca, i Cavalieri dell'Ordine della Milizia della B. M. V. venivano chiamati da uomini rustici, ir uff aiorie et derisive, col nomignolo di Frati Gaudenti. In verità, per concorde testimonianza di molti antichi scrittori, più che un severo ordine religioso, sembrava che costituissero una di quelle brigate spenderecce che verso la stessa epoca davano il loro tempo e i loro averi al sollazzo, tanto lussuosa e mondana vita menavano (i).
Le accuse che muove loro fra Salimbene, di orgoglio, di avarizia, di dissipazione e di egoismo, per cui, come egli dice, nonostante tutta la loro boria e sussiego spirituali sono tenuti in ben poca stima presso la Curia romana, sono confermate dà altre testimonianze, sono poi corroborate dai fatti.
La nobiltà e la ricchezza furono considerate come requisiti necessari per essere ammessi a far parte del nuovo Ordine cavalleresco (2).
(i) « Tertio, quia postquam consumpserunt divitias suas faciendo magnas expensas et largas in multis vanitatibus et comessationibus et comedendo cum istrionibus », etc. Fra Salimbene, ap. M. G. H. SS. to. XXXII, p. 468.
« Nominanza andò per la terra: tali e tali sono fatti frati ed hanno assunto abito al servizio di nostra Donna. Alcuni diceano: bene hanno fatto, questa vita sarà meritoria; altri dicea: questi saranno frati goditori; elli hanno fatto questo per non andare in oste, nè non ricevere nè portare li carichi del Comune; questa voce moltiplicò tanto che furono chiamati pur Frati Gaudenti ». Jacopo della Lana, Commento dantesco, ed. L. Scarabelli, Bologna, 1866 (Collezione di Opere inedite o rare), voi. I, p. 383.
« Multis videntes formam habitus nobilis et qualitatem vitae, quia scilicet sine labore vitabant onera, et gravamina publica, et splendide epulabantur in otio, coeperunt dicere: Quales fratres sunt isti. Certo sunt Fratres Gaudentes. Et ex hoc obtentum est, ut sic vocentur usque in hodiernum diem ». Benvenuto da Imola, Commento dantesco, ap. Federici, I, 85-86.
Il Federici però scrive: « con nome di Gaudenti impertanto si riconobbero ne’ secoli posteriori, non perchè, come pensò Niccolò Upton lib. primo de Milit. officio, appellati Gaudentes, quia plus fusto licentius vivebant, ma unicamente, come osservarono il Benvenuto ed il Landino, perchè immuni da ogni imposizione e carico de’ secolari, come religiosi, godevano le esenzioni, erano ricchi, e colle mogli, e figli nobilmente vivevano ». I, 86. Ora siccome questi privilegi erano comuni a tutti gli ordini religiosi non si capisce perchè questo titolo fosse riservato ai soli Cavalieri di Santa Maria. Ed è senza dubbio questa vita gaudiosa contrastante con le obbligazioni religiose, che costituisce la « novità » di cui parla il Landino, quando scrive: « Per la loro splendida e copiosa vita, erano chiamati dal volgo Frati Gaudenti, e massime perchè erano immuni da ogni pubblico tributo e gravezza. La novità della vita mosse il popolo a chiamarli cosi », ap. Federici, I, 86.
(2) « Circa personam sunt septem speciali ter providenda, scilicet eujus prudentiae, eujus nobilitatis, eujus substantiae, eujus virtutis, eujus famae, eujus vitae, et eujus aeta-tis, sit persona quae in hoc Ordine vult intrare». Costituzioni del 1314, ap. Federici, II, cod. dipi. p. 65, doc. XXI.
50
392
BILYCHNIS
Quei priori e quei frati i quali avessero aperto ad un povero la porta del loro-convento, erano condannati a sopportare le spese del suo sostentamento (i). Per contro, qualora un Cavaliere fosse caduto in povertà, per qualunque causa ma dopo il suo ingresso nell’ordine, il Major aveva l’obbligo di provvedere al suo sostentamento (2).
Questa associazione di mutuo soccorso eia, come notava fra Salimbene, tantoavara dei beni propri che avida dei beni altrui.
Mentre la regola di Urbano IV prescriveva che nessuno fosse ammesso nel-l’Ordine che fosse colpevole di usura e di appropriazione indebita se prima non avesse restituito il mal tolto (3), il Capitolo generale del 1288, aboliva le costituzioni del Capitolo di Reggio, riguardanti, secondo la regola, la restituzione del mal tolto-imposta ai novizi ed ai professi (4).
Le frequenti proteste e i ricorsi ai Comuni e ai Papi, di monaci e di preti, contro-i Frati Gaudenti ci mostrano di quale cupidigia dei beni altrui fossero questi animati e con quali male arti sapessero spogliare de’ loro beni religiosi, come dice fra Salimbene, molto migliori di loro (5).
Mentre che San Francesco voleva consacrare con uno speciale paragrafo della sua regola la proibizione per i suoi frati di domandare privilegio alcuno alla Curia romana, i Frati Gaudenti tradiscono una preoccupazione assolutamente opposta.
Noi vediamo che nel 1314 il Capitolo generale decide d’inviare i lóro rappre(1) Cfr. Le Costituzioni del Capitolo generale di Venezia (1280 circa); ap. Federici, II, eoa. dipi. p. 54, doc. XX.
(2) « Si aliquis Fratrum nostri Ordinis quocumque casu emergente ad tantam pau-pertatem devenerit ut non possit de bonis propris commode sustentari, liceat ei in aliquo monasterio vel domorum Ordinis habitare. Et Major sicut et aliis fratribus ejusdem loci teneatur tacere in sibi necessariis provider! ». Costituzioni di Padova del 1288, cap. Ili, ap. Federici, II, cod. dipi. p. 42., doc. XX.
Le Ordinazioni del Capitolo generale di Bologna del 1314 ribadiscono quest’obbligo (cap. XV).
(3) < Nullus recipiatur in Ordine, qui sit, et habeatur quomodolibet de haeretica pravitate suspectus, aut qui sit aere alieno gravatus, voi qui aliqua de bonis alienis habeat acquisita per usurariam pravitatem, aut per alium illicitum, vel injustum modum per se, vel per ilium, cui ex testamento, vel intestato successit, nisi prius restituerit, quod sic illicite, ac injuste accepit, et habet, aut plenam et sufticientem securitatem satisiaciendi de iis Generali Priori, vel Praelato duxerit exhibendam ». Regola di Urbano IV; Federici, II, cod. dipi. 18-9, doc. XVIIL
(4) « Item illae duae Constiti» tiones quae sunt in Capitulo Regimo, quae loquitur male oblalis restituendis a novilio, et alia proxima subsequens quae dicit, item de eodem a professi*, sunt omnino cassatae ». Costituzioni del 1288. Cap. XI; ap. Federici, II, cod. dipi. p. 61, doc. XX.
(5) Ecco a ino’ d’esempio, la protesta che i monaci Camaldolesi del monastero di San Michele dì Castello dei Britti, de Castro Brittonum, presso Bologna, inviano al Comune-delia città, sin dal 1263:
« Intelleximus nuper quod frater Lotaringus cum suis fratribus monasterium nostrum de Castro Brittonum 'tacita ventate per falsi suspicione«», noviter, ut dicitur, impetravit, asserens praefatum monasterium fore collapsum, suppresso quod ad Romanam Ecclesiam, et totus Camaldulensis Ordo immediate pertinet, et gaudet privilegii exemptionis et ple-hissimae libertatis». Ap. Federici, II, cod. dipi. p. 123, doc. LXV; cfr. pure, ibid., il doc. LXVII (a. 1283).
51
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
393
sentanti a Roma, allo scopo di ottenere dalla Curia nuovi privilegi e di confermare gli antichi (i).
Non sembra quindi che i primi membri stessi dell’Ordine fossero animati precisamente da intendimenti ascetici.
. Si potrebbe anche pensare forse a buon diritto che un gran numero delle vocazioni religiose dei Frati Gaudenti fossero determinate piuttosto dai privilegi a cui potevano pretendere, e di cui si mostravano così avidi (2).
Tra questi privilegi, il principale forse e che fu gravido di lotte e di contrasti tra i Comuni e i Frati, fu l’esenzione dai tributi pubblici; collette, imposte, esazioni ordinarie e straordinarie. Nel 1277, i Frati Gaudenti rivolgevano al podestà, al capitano, agli anziani e al comune di Bologna una supplica per essere esentati dal pagamento delle collette (3).
I Comuni d’altra parte, mal sopportano questo loro privilegio che li privava di risorse notevoli. Nonostante ogni disposizione canonica, quando essi potevano non mancavano d’imporre ai Frati l’osservanza della legge.
Nel 1277, il Comune di Bologna, che era allora nelle mani dei Ghibellini, fa obbligo ai Frati di pagare tutte le imposte. I Frati ricorsero al papa, il quale, per mezzo di Guglielmo, vescovo di Ferrara e suo legato, ne sostenne i diritti. I Ghibellini avendo tenuto duro, tutta la città fu scomunicata finché non venne riconosciuto il privilegio dei Frati e fu restituito ciò che era stato loro tolto. Però i Frati vennero banditi dalla città e solo più tardi il legato riuscì a farli rientrare (4).
Similmente, nel 1290, il Comune di Firenze obbliga i Frati Gaudènti a pagare le imposte e a prender parte alle fazioni (5).
I Comuni diffidavano della vocazione religiosa di questi frati troppo mondani.
Il Comune di Padova, nello statuto del 1290, pone l’Ordine dei Gaudenti tra coloro i cui membri assumono l’abito religioso per sottrarsi con frode ai tributi e al servizio militare (6).
(1) « Item providerunt et ordinaverunt quod Ambaxatores transmittantur ad Cu-riam Romanam causa impetranti! privilegia de novo dicto Ordini et confirmandi privilegia concessa, et alia faciendo necessaria dicto Ordini... ». Ordinazioni del 1314, capitolo XXXVII; ap. Federici, II, cod. dipi. p. 79, doc. XXI.
(2) Tra i privilegi ambiti dai Frati Gaudenti noto: quello di preminenza sugli altri nobili laici (Federici, I, 137), quello del sigillo con nome, figura ed arma propria (Federici, I, 138), quello dell’indulgenza plenaria (Federici, I, 141), quello dell’immunità dall’interdetto (Federici, I, 142), quello di essere esentati dal giuramento e dal prendere parte alle guerre (Federici, I, 141).
(3) Cfr. Federici, II, cod. dipi. p. 85-86, doc. XXVII.
(4) Cfr. Federici, II, cod. dipi. p. 216, doc. CLXXII, e doc. CLXXIII.
Già sin dal 1275 vediamo i Frati tener consiglio per provvedere alla loro difesa di fronte alle ostilità del Comune di Bologna, cfr. Federici, II, cod. dipi. p. 215, doc. CLXX.
(5) « Milites qui dicuntur Fratres Gaudentes, teneantur solvere libras, et facere reales factiones communis Florentiae». Stalulum civitatis Flovenlinae.z.. 1290, ap. Federici, II, cod- dipi. p. 96, doc. XXXVIII.
(6) « ... quaelibet persona, quae a quinque annisnu per elapsiscitra sumpserit, vel de coetero assumeret habitum Religioso™ m infrasciptorum. videficet Ordinis Gaudentium, vel Pinzocharorum, vel illorum de Schueto (de Sacheto?), vel illorum a T, vel similium ipsis assumeret in fraudem causa vitandi angarias et factiones civitatis Paduae... ». Sta-tulwn civitatis Palavinae, a. 1290; ap. Federici, II, cod. dipi., p. 95, doc. XXXVII.
52
394
BILYCHNIS
Quando i Comuni non riuscivano a piegare i Frati ricorrevano, per molestarli, a delle rappresaglie più o meno gravi.
Nel 1268, a Bagnacavallo, il podestà, gli anziani e il Comune impedivano ai Frati Gaudenti di servirsi dell’acqua del canale pubblico, di macinare nei molini del Comune e di far lavorare per proprio conto falegnami e muratori. Essi non cedettero che di fronte alla scomunica del vescovo di Faenza (1).
In quello stesso torno di tempo e per lo stesso motivo anche i comuni di Imola, Pistoia, Siena, Treviso, molestarono i Frati Gaudenti (2), nonostante la protezione della Curia romana (3).
Considerando la natura tutta terrena delle preoccupazioni dei Frati Gaudenti, si comprende come fra Salimbene si domandasse quale fosse l’utilità di un Ordine che nulla mai fece a vantaggio del popolo e a servigio della pietà e della fede, contento solo di pensare a sè stesso, se non pure di trascorrere il tempo nei godimenti e nell’ozio.
Quest’assenza di esigenze ascetiche forma l’argomento principale, di cui fra Guittone d’Arezzo si serve per far propaganda in favore del suo Ordine. Così egli, per esempio, apostrofa alcuni cavalieri di Pisa, che egli voleva convertire al suo proprio ideale:
« A voi Cavalieri io parlo, alti, valenti, e degni Pisani, a cui speciali sono essi conducitori dati. Che fate, la grazia non seguitando? Dio vi appella, e vi vuole ad amici suoi, facendovi figli ed eredi del regno suo. Ed essa sovrana Reina d’ogni Reina a cavalieri suoi v’invita. Che fate? chi puole ¡scusarsi? Fugga chi può, non ha coperta alcuna. Non può alcuno dire ¡scusando te, io non posso, io non voglio da femina astenere. che moliere aggio, over aver voglio; che permessa è a lui, siccome prima, e voglia essa o no, ad essa Religione puote venire, salva di matrimonio ogni ragione. Nè dire può: i figliuoli miei lasciar non voglio, governando, crescendo, e insegnando, e non mi voglio partire da casa mia, nè mio poder lassar ma possederlo, e fruirlo ad agio mio. Nè mi voglio a carne astenere, nè essere gravato di grandi digiuni, e non portare cilicio nè drappi villereschi, grossi, e laidi, non mendicare, nè ire a piedi; che a condizione nuova ha Dio trovato la Religione sordetta, ove tutte este ragioni, e gravezze son tolte, e contentesi lui aver quanto dimanda, e ciò che potea, più onestamente. Solo è imposto, e prima era. odiare, fuggire il vizio, desiare, seguire la virtù, ed alcuna soave, soavissima regola, e data in segno di onestà, in remissione di ogni peccato, e in prezzo di vita eterna » (4).
Nonostante il suo carattere facile e convenevole ad uomini di mondo, la Cavalli) Cfr. Federici, II, cod. dipi. p. 85-87, doc. XXVII; Cfr. I, 147-148.
(2) Cfr. Federici, I, 148-150 e II, documenti XXVIII, XXIX, XXX.
. (3) Cfr. Federici, II, cod. dipi. p. 88, doc. XXIX, in cui il Cardinal legato. Latino, ordina al vescovo di Ferrara di agire energicamente contro gli oppressori dei Frati Gaudenti constatando che: « Major et Fratres Ordinis Militine B. M. v. Gloriosae Bononiens. a nonnullis, qui nomen Domini in vacuum recipere non formidant, super bonis suis plures. sicut accepimus, patiantur injurias, et jacturas ».
(4) Federici, I, 50-51.
53
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI
395
lena Gaudente appare agli occhi del poeta, come una scuola di cortesia e di virtù. A messer Ranuccio egli scrive:
Messer Ranuccio amico. Saver dovete, che cavallaria Nobilissimo è ordin secolare. Di qual proprio è nemico Dire e far villania, E quanto unqua si può vizio stimare; Ma valenza, scienza, ed onestate. Nettezza, e ventate
Continuo in ne’ suoi trovar si dia. Ma n’a più che vórrea, di cavalieri Orrato esto mistieri. Pelle ermellina imporci avviso sia. Vói, Messer, converria
Non a villan, ma a bon voi conformare. E se bon nullo appare.
Non meno, ma più molto a bon si pogna; È più seguir reo, com’ più rei sono, E bon sia maggior bono. Quanto maggio di bon grande è difetto. Quanto maggiore è rio, maggior si mostra; E quanto più, più nostra Esser dea cura in partire da esso, Ond’è dei mali eccesso;
Dei boni a bono e conforto, e reietto (i).
Il poeta è grato alla Vergine che, dopo una vita trascorsa nel peccato, lo aveva tratto a conversione ed eletto a suo ’cavaliere;
Ma vergongnar di mia onta mi ’nota, E m’alegra doler del meo dolore; E quanto loco più brutto fue l’ora, Piìi ch’io ne son partito a mio savore: Poi, voi tradolze e beata Maria, Non guardando mia vile e gran bassezza. Vostra altezza altera oltre pensieri E vostro cavalieri
Mi convitaste, e mi dengnaste amare, E del secol ritrare
Che loco è di bruteza e di falsìa.
Ai quanto che sbaldisca e che far gioia! Poi piacer’ è di noia. Bella vita di croia, D’avoltro amor tanto compita amanza, E di tutta in mea oranza, Santa rislegion di mondan loco:
E del’enfernal foco
Spera compiuta ed eterna dolcieza (2).
(1) Rime di Fra Guittone d’Arezzo, ed. L. Valeriani, Firenze, 1828, voi I, pagine 219-220.
(2) A. D’Ancona e D. Comparetti, Le antiche rime volgari, secondo la lezione del codice Vaticano 3793. Bologna, 1881, voi. II, p. 282-283.
54
396
BILYCHNIS
Questo fervore spirituale di un poeta e cavaliere gaudente della prima ora (i), era esso sinceramente sentito? Qualche contemporaneo ne dubitò. Un altro poeta di Arezzo, suo contemporaneo, il giudice Ubertino, indirizzò a fra Guittone il sanguinoso sonetto seguente: (2).
Se il nome deve seguitar lo fatto. Vera vita è la tua da fra Guittone; Se egli è savere far vita d’om matto Ancor è bona tua condizione.
Ma s’el è senno perder senza accatto. Tutto mi piaccia assai religione, io non ti cambierei di vita in fatto, sommi giungessi assai d’orazione.
Ancor ti ponga or pur a savere C’à puara coscienza e neghittosa se dato a povertade e malavere.
Ed io ben ti pregio in qualche cosa, Perchè fai vita quanto al mio parere. Leggiera a Dio ,ed al mondo noiosa.
Dante ha fatto cenno, nella Divina Commedia, di tre Frati Gaudenti (3) e li ha
(1) «Nel 1261 entrò nell’Ordine dei Frati Gaudenti, com’erano allora chiamati i Cavalieri di Santa Maria in Bologna, nella quale città dimorò qualche tempo. Fu di nuovo a Bologna nel 1285, per ragioni d'affari coi medesimi Frati di quella città. Ritornato in Satria, nel ’93 si adoprò con donativi alla fondazione del monastero degli Angeli a Firenze, oco dopo morì ». G. Bertoni, Il Duecento, Vallarti (Storia letteraria d’Italia),' p. 76.
(2) Ap. Federici, I, 335.
(3) Frati Godenti fummo e bolognesi:
Io Catalano, e costui Loderingo Nomati, e da tua terra insieme presi.
(Inferno, XXIII, 103-105).
Loderingo e Catalano furono nel 1266 podestà di Firenze. « I Fiorentini, narra Giovanni Villani, elessero due Cavalieri Frati Gaudenti di Bologna per Podestà di Firenze; l’uno ebbe nome messer Catalano, ed era guelfo della casa Malavelti, l’altro messer Lodovico degli Andalò, che era ghibellino, (ap. Muratori, Rcr. Italie. SS. to. Vili, p. 1006). Bonviglienti, nel suo Commento dantesco scrive: « Costoro nel 1266 furon chiamati da’ Fiorentini per loro Podestà, ma gli scrittori fiorentini, come ricordano Malaspina, Giovanni Villani e Pietro Boninsegni, poco si lodano del governo di questi Podestà, perciò non fia meraviglia, se Dante sfoga contro di loro la rabbia ch'egli avea contro de' Guelfi. Ma so-ÌTastandovi i Guelfi, Loderingo, quel grand’uomo da bene, che in verità dovea essere di azione gibellina, altrimenti non sarebbe stato podestà di Siena dovette seguire la sorte de” vincitori, e accordossi a maltrattare i ghibellini. E a me giova credere, che costoro furono piuttosto ipocriti, che uomini da bene» (ap. Federici, I, 294). Questo Loderingo degli Andalò, che era già stato podestà di Modena nel 1252, di Siena nel 1253, di Pisa nel 1255, di Reggio nel 1258, e che fu ghibellino, dovette passare probabilmente ài partito dei guelfi, dopo la fondazione dell’Ordine dei Frati Gaudenti, di cui egli fu il primo Priore. In verità la regola di Urbano IV proibiva ai Frati di accettare pubblici uffici: « Non re-cipiant officia publica, scilicet Podestarias Civitatum, vel castrorum, aliorumve locorum, aut aliud officium, quod pertineat ad Commune, nec associent aliquos locorum regimina exercentes Non sint de Consilio civitatis, seu aliquorum aliorum locorum, aut partium aliquarum eisdem civitatibus, vel locis sibi invicem adversantibus. Nec eant ad hujusmodi
55
LE ORIGINI DEI FRATI GAUDENTI 397
messi tutti e tre aH'in terno, due, Loderingo e Catalano, nel girone degli ipocriti e Alberigo da Faenza, il terzo, in quello dei traditori (i).
CONCLUSIONE.
Riassumendo, possiamo dire che l’Ordine della Milizia della B. M. V., comunemente inteso col nome di Ordine dei Frati Gaudenti, è stato fondato nel 1260 a Bologna per opera di alcuni cavalieri di questa città e delle città vicine, con a capo Loderingo degli Andalò e approvato nel 1261 da Urbano IV, che diede loro una regola.
L’Ordine fu costituito di tre classi di membri: i<> cavalieri coniugati; 20 cavalieri conventuali; 30 chierici, oltre alcuni conversi, aggregati a ciascuna di queste due classi.
I cavalieri conventuali, benché secolari, erano dei veri religiosi professi e godevano di un predominio effettivo su tutto l’Ordine. Il priore o prelato generale era scelto tra essi. Ciò contribuiva a conservare all’Ordine quel carattere laicale, che esso doveva avere al suo inizio.
Nonostante la professióne religiosa e il voto di povertà, l’Ordine dei Frati Gaudenti si fece notare per l’ingordigia dei beni e l'avidità dei privilegi. I Frati apparvero, generalmente, all’opinione pubblica, ipocriti e mondani, utili più ai loro propri interessi che a quelli della Chiesa e della società.
L’Ordine ebbe larga diffusione in tutta l’Italia settentrionale e durò sino alla fine del secolo xvl L'ultimo suo commendatore fu Camillo Volta che morì nel 1589, all’epoca di Sisto V, a Bologna.
Antonino De Stefano.
Consilia, nisi prò negotio Fidei, vel Ecclesiae libertatis, aut prò bono pacis, seu prò aliis operibus pietatis, vel mandato Sedis Apostolicae speciali ». Ap. Federici, II, cod. dipi, p. 21, doc. XVIII.
Il Loderingo fu, tuttavia, pregato di accettare la carica di podestà di Firenze, per la salute e la pace della città, dallo stesso Clemente IV con lettera del 1266. Ap. Martene, Thesaur. anecd., II, 321 e Federici, II, cod. dipi. p. 82, doc. XXIII; cfr. ibid. doc. XXIV, XXV, XXVI.
(1) ... Io son frate Alberigo,
Io son quel dalle frutta del mal orto Che qui riprendo dattero per figo.
Inferno, XXXIII.
Di questo Alberigo, che fu in Faenza capo del partito favorevole alla Chiesa, fra Salimbene scrive: < a. 1275. In Faventia dominati sunt Alberghetti, qui et Manfredi appellati sunt, ex parte Ecclesiae. Inter quos fuit praecipuus domnus Hugolinus Bugola et ejus fratrer Albericus de Ordine Gaudentium ». (M. G. H. SS., to. 32, p. 369). Per comprendere l’allusione dantesca, leggasi il seguente tratto delle Cronache Faentine (verso il 1270):
« Interfecte cum gladiis in Castro Cesatae, dicto la Castellina, Manfredus cum Albergherò de Manfredis ejus filio, fratrer, et nepos Fratris Alberici de Manfredis Ordin. .Gaudentium in domo ipsius in convivio lautissimo per eum preparato propter a D. Alberghetto dicto Frati Aiberico cum cupiditate dominii ab Ugolino, dicentc publice, Vcngan le fruita. Ideo de eius ordine occisi fuerunt cum multis aliis praeter quam uno, qui se repa-ravit subtus tabulam convivii prope vestes Fratris Alberici, quem jussit non interfici, sed voluit eum venire Faventiam ad recitandum Faventinis factum ». Ap. Federici, I, 357.
56
L’OPERA DI THOMAS-KELLY CHEYNE
Thomas-Kelly Cheyne è morto il 15 febbraio ad Oxford.
Dal 1908, quando per l’età e per le gravi condizioni della sua salute aveva dovuto scendere dalla cattedra di « Interpretation of Holy Scripture » ad Oxford, che egli aveva tenuto con tanto onore e con non minore rumore fin dal 1885 — dopo una lunga permanenza, come « Fellow » di lingue orientali e di Introduzione al Vecchio Testamento, al Ballici College (Oxford) — il Cheyne era rientrato nell’ombra, e il silènzio e il vuoto s’erano venuti facendo intorno a questo leader delia moderna scienza biblica in Inghilterra. Però egli lottò e lavorò fino alla morte. Sebbene una grave paralisi lo immobilizzasse negli arti e nella lingua, con un eroico sforzo di volontà attese ai suoi studi prediletti e s’interessò dei movimenti religiosi così forti nella sua patria, dove sembra oggi rinnovarsi in una atmosfera cristiana un lavorio intenso di idee e di propaganda religiosa analogo al movimento sincretista religioso al tempo dell’impero romano.
È dell’anno scorso il suo ultimo libro The Reconciliation of Races and Religion, il trentesimo dal suo primo, pubblicato nel 1868 col titolo: Notes and crilics on thè hebrew texi oj lesahia.
Il Cheyne era nato a Londra nel 1841 da un ecclesiastico anglicano.
Dopo aver compiuto dei brillanti studi ad Oxford, abbracciò la carriera ecclesiastica. Da molti anni era canonico della cattedrale di Rochester.
Oggi in cui il problema biblico ha perduto quella sua acuta attualità che turbava profondamente gli spiriti intorno al 1900 — e il fenomeno è dovuto forse ad un ulteriore sviluppo delle discipline che l’avevano provocato, ad un allargamento del campo d’investigazione della critica, ad una maggiore diffusione della coltura nel campo religioso e ad un senso più profondo della diversa natura della ricerca storica e della speculazione religiosa — è più facile dare un giudizio sereno della opera molteplice come critico e come divulgatore compiuta dal Cheyne.
Egli fu anche un critico militante, uno studioso che voleva che i formidabili problemi che lo studio apparentemente arido della filologia semitica e le ricerche archeologiche ponevano agli spiriti religiosi educati nella millenaria tradizione cri-
57
L’OPERA DI THOMAS-KELLY CHEYNE
399
stiana, fossero sentiti dalla maggioranza delle persone colte e religiose, come il lievito di un rinnovamento religioso moderno, al cui avvento egli credeva con fede battagliera.
Le condizioni culturali e religiose dell’ultimo periodo dell'età Vittoriana spiegano le direzioni della sua attività. Il suo nome è legato, perciò, alle vicende dello sviluppo della critica biblica in Inghilterra fra la tenace resistenza della tradizione teologica ed ecclesiastica. I suoi scritti di divulgazione e di propaganda ci rivelano un aspetto interessante della vita ecclesiastica e del cristianesimo anglicano negli ultimi tempi, in contrasto con le tendenze ecclesiastiche, liturgiche e teologiche di un movimento che continuava il « trattarianismo ».
Il suo largo eccletismo e là profonda conoscenza del contributo notevole che la scienza tedesca, malgrado esagerazioni d’ogni genere, aveva apportato al trattamento scientifico delle discipline religiose, contribuirono efficacemente, nell’ambito dei suoi studi, a far superare alla critica inglese il suo caratteristico insularismo. Il nome del Cheyne sarà ricordato in Inghilterra accanto a quello del Colenso, del Robertson Smith e del Driver.
La sua opera di studioso si svolse efficacemente durante il ventennio 1880-1900. I suoi lavori sui Salmi e sul libro di Isaia restano ancor oggi una preziosa miniera di dati e di osservazioni per lo studioso della letteratura del Vecchio Testamento, sebbene alcune parti di essi, per il rapido progresso della critica, possano sembrare digià invecchiate. Si può dire che egli è stato lo studioso d’Isaia per eccellenza. Proprio in questi ultimi anni della sua vita aveva pubblicato un importante studio sul Deutero-Isaia.
Tutte le sue ricerche letterarie, storiche e geografiche nel campo del Vecchio Testamento erano illuminate vivamente da una profonda conoscenza della filologia della storia e delle religioni semitiche, quali ci sono stale rivelate dalle mirabili scoperte archeologiche e dalle esplorazioni scientifiche moderne.
I suoi contributi alla critica testuale del Vecchio Testamento sono stati nume rosi ed importanti. Pur troppo, nel campo te\\’onomastica ebraica, che aveva richiamato in modo particolare la sua attenzione, s'abbandonò a delle congetture arbitrarie, che finirono con lo scemare il suo prestigio di scienziato.
Alludo specialmente alla sua singolare teoria dei I erahmeeliti, con la quale credeva di poter ricostruire su nuove basi la storia primitiva delle tribù d’Israele e di risolvere un gran numero di enigmi di critica testuale.
Eppure i Ierahmeeliti qual meschina cosa sono nel testo biblico! Si parla occasionalmente di essi, come di una tribù dimorante al mezzogiorno della Giudea, a proposito di David in 1 Samuele e poi nelle Croniche (Paralipomeni). A questa oscura tribù, per alcuni indizi criticamente poco sicuri, il Cheyne assegnava invece una assai maggiore importanza. Egli era giunto perfino a fissare una lista di nomi ebraici che rivelavano chiaramente (secondo lui) di essere la corruzione di lerah-meel. Egli credeva che gli scribi posteriori avessero rimaneggiato profondamente i nomi originari per acconciarli alla concezione piti recente delle origini d’Israele.
Anche i lerahmeeliti erano per il Cheyne originari del Musri, una regione del Nord Arabia, non lungi dal paese di Edom. Sviluppando una teoria enunciata dal
58
400 BILYCHNIS
Winkler, il noto assiriologo tedesco, il Cheyne sostenne (i) che gl' Israeliti non erano stati mai nell’Egitto, il Mizraim biblico che la tradizione posteriore avrebbe confuso con l’originario luogo di concentramento delle tribù ebraiche vaganti nel nord della penisola sinaitica, cioè, nel paese di Musri, che è il nome dato appunto dalle iscrizioni cuneiformi alla penisola del Sinai.
Egli credeva di scorgere ancora nell'attuale racconto biblico dell’emigrazione delle tribù israelite l’eco distinta d’una primitiva tradizione di una emigrazione calebilica mossasi dal paese di Kadesch — il punto di partenza (vedi il libro dei Numeri) delle lunghe peregrinazioni durate un trentennio nel deserto secondo la narrazione biblica — direttamente verso il Nord in direzione della Giudea storica, e non dall’Est, come si narra nel libro dei Numeri.
Queste fragili e vaste ricostruzioni dovute alle facili illusioni degli assiriologi, hanno già avuto dal tempo e dal buon senso dei critici una tomba onorata. L’as-siriologia, o, meglio, quel complesso di discipline filologiche e storiche che vanno sotto questo nome, diventando ogni giorno una scienza più vasta e più sicura, ha oramai deposto, nella sua virilità attuale, le seducenti vesti delle ipotesi più sconcertanti con cui amava abbigliarsi nella sua irrequieta giovinezza.
Sotto la direzione del Cheyne, che ne fu il vero animatore, e del Suther-land Black, che portava a contributo la sua esperienza come antico editore del-V Encyclopaedia Britannica, comparve fra il 1899 e il 1903 Y Encyclopaedia Biblica, in quattro volumi, come la sintesi dei risultati della scienza biblica da un punto di vista strettamente scientifico e con spirito nettamente liberale. Vivaci furono le critiche suscitate in Inghilterra da un’opera di questo genere. Con essa il Cheyne aveva dato forma concreta e definitiva ad un tentativo partito da un rinnovatore degli Studi semitici nel campo religioso in Inghilterra, dal Robertson Smith, l’autore del classico The Religión of thè Semiles. Ma lo Smith malato e occupato in mille cose non potè vedere terminata questa Sumtna della scienza biblica rinnovata dagli studi dell’oriente semitico. Ciò che potrebbe giustamente oggi sorprendere più di un lettore, e che certamente non sarà più possibile per il futuro, è la larga parte presa dai più noti critici tedeschi nella compilazione di questa Enciclopedia destinata a diffondere la scienza biblica proprio nei paesi inglesi. Noi vi leggiamo frequentemente i nomi del Bousset, del Wellhausen, del Deismann, del Nestle, del Nòldeke, dello Jülicher, dello Stade, del Kautzsch, del Winkler, dello Zimmern e di altri noti studiosi tedeschi.
L’Encyclopaedia Biblica dava una grande importanza alla critica testuale, alle versioni, a questioni di geografia ed ascludeva di proposito ogni articolo riferentisi alla così detta « Teologia biblica », caratteristiche che la rendono così diversa, oltre che nello spirito informatore, dalla sua gemmella, il dizionario biblico edito dal-l’Hastings, che uscì contemporaneamente s\Y Encyclopaedia, come un bel tentativo di revisione della scienza biblica dal punto di vista della corrente media e più sanamente moderata del colto clero anglicano. Ber dare un’idea come i direttori delti) È la teoria nota col nome di nord-arabica.
59
L’OPERA DI THOMAS-KELLY CHEYNE
401
V Encydopaedia Biblica intendessero il loro compito, ricordiamo solo un fatto che è di per sè abbastanza eloquente: la voce « Paolo » (l’apostolo dei Gentili) è trattata alternativamente da un punto di vista esclusivamente letterario, e dall’ffa/cA, cioè da un seguace della critica liberale, e dal Van Manen, cioè, secondo il punto di vista radicalissimo della scuola olandese, che non riconosce alcuna autenticità all’epistolario paolino.
L’importante scoperta del codice di Hammurabi avveniva quando la pubblicazione àeW Encydopaedia era già in corso, e quindi non fu potuta utilizzare; ciò che costituisce una lacuna notevole na\Y Encydopaedia Biblica, la quale, non so perchè, non si arricchì di un extra volume come la sua rivale dell’Hastings, che si valse largamente delle critiche mossele per rimediare alle sue deficienze e per accogliere i risultati della critica più recente. Così, ciò che faceva meravigliare lo stesso Cheyne, veniva, p. es., affidato al Kautsch l’incarico di esporre la religione del popolo d'Israele, a quel Kautsch, il cui solo nome come collaboratore deìY Encydopaedia Biblica era stato uno scandalo per i critici della tendenza moderata.
A proposito della sua carriera scientifica, va ricordata la parte che prese come membro della Commissione per la Revisione ufficiale della « versione inglese » della Bibbia, detta di re Giacomo.
Poco nota è invece la sua attività, diremo così,... pastorale. Il Cheyne, infatti fu un predicatore interessante, che osò portare con ardita genialità sul pulpito i risultati della scienza biblica, vivificandoli con un profondo soffio religioso. Egli volle raccogliere una serie di queste sue prediche tenute nella cattedrale di Rochester sotto il titolo molto significativo The Hallowingoj Crilicism (La santificazione della critica).
Aveva scelto per soggetto della sua predicazione quel libro pieno di poesia che è il libro dei Salmi (i). ■ E dove potrebbero essere meglio studiati i Salmi — diceva dal pulpito — che nelle nostre cattedrali, che sono veramente delle fontane di salmodia ? Con tutti gli aiuti moderni e con l’ardire che dà l’amore per la verità, noi dobbiamo passare attraverso i « portali » della interpretazione fedele della lettera alle alte e celesti verità che vi sono nascoste. 0 Dio di Rivelazione ’. Noi crediamo che vi è ancora molta luce e verità da estrarre dalla tua parola. Parlaci attraverso le parole dei tuoi salmisti, te ne preghiamo, o Signore! Riempici del tuo spirito, perchè possiamo venir condotti alla conoscenza e alla pratica di tutta la verità! ».
È stato narrato, dopo la sua morte, che il Decano di Rochester passeggiava fuori della cattedrale quando il Cheyne saliva sul pulpito, in segno di protesta. Ma basta leggere i sermoni del Cheyne così spiritualmente cristiani per comprendere che si tratta di una stupida leggenda, che ha trovato il suo spunto dall’impressione prodotta dal Cheyne degli ultimi anni.
Nel suo periodo migliore egli fu un apostolo della « critica riverente » del Vec(i) Risale principalmente al Cheyne il movimento attuale nella Chiesa Anglicana per la revisione della traduzione dei salmi usati nella liturgia e raccolti nel Prayer-Book.
60
402 BILYCHNIS
chio Testamento fra il clero anglicano, della cui coltura si interessò sempre vivamente.
Con questi intendimenti pubblicò il Founders oj Old Test ameni Criticism, ricco d’informazioni e in cui prospetta chiaramente i termini del problema moderno del Vecchio Testamento. « Noi ci preoccupiamo — egli dice nella prefazione — dei risultati pratici della ricerca scientifica. Noi non possiamo essere semplicemente dei critici storici o letterari ; noi sentiamo che dobbiamo contribuire, ciascuno secondo le proprie forze, alla costruzione di una migliorata apologetica cristiana per la nostra età » (pag. vili).
Nessuna meraviglia, quindi, che egli guardasse con simpatia allo sforzo analogo tentato dal modernismo cattolico.
Tra le sue opere di divulgazione citiamo i brevi commenti ad Osea e a Mi-chea nella collezione The Cambridge Bible jor Schools, la lucida monografia su Geremia, i popolari Aids lo thè Devoul Study oj Criticism (1892) e la conferenza tenuta nella Church House nel 1904 (1) ad ecclesiastici : Bible Problems and thè new material jor their solution (A Plea for thoroughness of investigaron, adressed to churchmen and scholars). in cui ricorda ad essi la vana opposizione fatta dal clero ima generazione fa in nome della teologia all’evoluzionismo — opposizione che non impedì il trionfo delle idee evoluzionistiche che si rivelarono poi non ripugnanti al pensiero cristiano — come un monito a non opporsi ulteriormente con una lotta inutile all’accettazione dei risultati sicuri della critica biblica che, secondo le speranze del Cheync, avrebbero finito d'imporsi in un giorno non lontano.
Però le sue tendenze, sempre più spiccatamente liberali, l'avevano portato molto lungi nel cammino dalle credenze tradizionali della sua Chiesa. Il suo spirito irrequietamente sempre desto e pieno di simpatia per ogni movimento religioso che sorgesse all’orizzonte del mondo con temporaneo, l’aveva portato ad una calda simpatia verso il Babismo (2), le cui dottrine anno trovato a Londra un’accoglienza lusinghiera per quello spirito largamente umanitario, democratico, universalista e sincretista così sensibile a tutte le voci spirituali dell’ Estremo Oriente e tanto diffuso fino alla vigilia della guerra nella Roma del nord.
Il Cheyne ha esposto lungamente le sue nuove speranze accesesi nel suo animo al contatto del Babismo, di cui era diventato anche un fervente adepto- A chi non conosce alcuni aspetti della complessa anima inglese moderna — trasformata dal continentalismo e dalle inevitabili ripercussioni d’un imperialismo che non è vana parola — potrebbe sembrare infinitamente ridicola la figura di questo vecchio canonico della Chiesa ufficiale, che cerca V iniziazione ad una nuova religione, con quel fervore misticamente morboso con cui Apuleio, e mille altri prima e dopo di lui, nell’immenso impero romano, cercavano di arricchire la loro anima e di assicurarne l'immortalità divina associandosi a quanti più misteri potessero, il cristianesimo compreso. (*)
(*) È apparsa in italiano con il titolo: I ‘problemi biblici e la loro nuova soluzione. Credo che sia l’unica opera del Cheyne tradotta in italiano.
61
L’OPERA DI THOMAS-KELLY CHEYNE
403
Il caso del Cheyne non è unico nè raro in Inghilterra, e ci prospetta ad ogni modo un problema quanto mai singolare ed interessante, che lo storico delle religioni non può trascurare. « Desiderando di avvicinarmi sempre più ad una religione « umano-cattolica » (2), io ho cercato il privilegio della simultanea appartenenza a parecchie fratellanze degli amici di Dio. È mio desiderio, mostrare che queste (del Babismo) e altre basi della vita spirituale sono, se studiate dal loro punto di vista interiore, essenzialmente una e che le religioni si risolvono necessariamente in una unità larga quanto il mondo e abbracciante tutte le razze » (pag. x). Così il Cheyne.
Ad ogni modo, qualunque sia il giudizio che voglia portarsi sull’uomo, il Cheyne indubbiamente ci appare come una figura interessante e la cui importanza va misurata meno dai risultati definitivi e duraturi che la sua opera di studioso ha lasciato, che dalla influenza esercitata dalla sua persona nella sua lunga carriera di critico e di apostolo.
Mario Rossi.
(1) Il Babismo rappresenta uno sviluppo recente del Sufismo persiano. Sorse nel 1848 per opera di Seyyd Ali Muhammad, detto il Bab. È un movimento molto interessante, ispirato ad un largo spirito di fratellanza umana e al soffiio unificatore della religione-di domani. Il predicatore della fase più universalista del babismo è Abdul Baha, che è anche il capo attuale del movimento riformato, che da lui ha preso il nome di Ba-haismo. Abdul Baha ha trovato una larga accoglienza nella sua tournée di conferenze tenute non è molto in Europa e in America. Il movimento è ad ogni modo interessante, perchè offre allo studioso dei singolari paralleli con lo sviluppo del primitivo cristianesimo.
(2) Il Cheyne usa qui evidentemente il termine cattolico nella sua più ampia significazione di universale, per esprimere la postulazione ad una religione che abbracci in un’unità superiore tutti gli infiniti aspetti della religiosità umana.
(3) Do qui la lista delle principali pubblicazioni del Cheyne. Tralascio di proposito i suoi numerosi saggi pubblicati in varie riviste ; mi limiterò a ricordare un interessante studio sul Cantico dei Cantici pubblicato sulla Jewish Quarterly Review:
a) The prophecies of Isahia (parecchie edizioni).
Job and Salomon, or the wisdom of the Old Testament (1887).
The Book of Psalms (l’ultima edizione è del 1904).
Introduction to the Book of Isaiah (1895).
Traditions and Beliefs of early Israels (1907).
Il libro di Isaia in inglese (1897) e in ebraico (1899) nella Polycrome Bible. Jewish religions life after the Exile (189S).
b) Jerehmiah, his life and times in « Men of the Bible » (1888).
The Christian use of the Psalms (1889).
The origin and religions content of the Psalter (Bampton Lectures) 1891.
Aids to the devout study of the Criticism (1892).
. Founders of the Old Testament criticism (1894).
Bible Problems and the new material for their solution (1894).
c) The reconciliation of Races and Religions (1914).
In fine, non dobbiamo dimenticare come il Cheyne fu un profondo ed appassionato cultore, come tanti altri dotti inglesi — mi basti ricordare qui il caro amico Rendei Harris — della nostra bella letteratura. I commentari biblici del Cheyne sono continua-mente vivificati da citazioni luminose della Divina Commedia.
62
LA GUERRA E IL CRISTIANESIMO
Il P. Ghignimi ha serillo a un amico una lunga lettera, da cui stralciamo il brano che riguarda la vexata quaestio della guerra in relazione col Cristianesimo.
... Ma c’è un caso peggio di questo peggio: quando si tira in ballo il cristianesimo e il Vangelo. Mai si son lette più bestemmie in tono di così contrita devozione. Preferisco i fiaccherai di Firenze.
... Fra mille ciarpami si tirò fuori anche uno straccio di cristianeria e con quello si pretese riforbire il dimenticato Vangelo per leggervi ciò che piacesse a ciascuno, massime quello che non c’è stato mai; da nessuno poi la realtà vera, e cioè che il Vangelo è tante cose, ma principalmente, anzi sostanzialmente, la dottrina dei valori umani veduti e affermati attraverso i divini, la dottrina di Dio padre, e per conseguenza degli uomini fratelli.
Tieni ben ferma questa nozione fondamentale e sostanziale e vedrai che la guerra non entra, perchè non può entrare, nei quadri evangelici.
Che cosa è la guerra, quando è proprio guerra, quella d’offesa, di espansione, di conquista?
Che cosa è la guerra? Lascia stare il passato; non c’è tempo da perdere adesso con le passeggiate archeologiche. Adesso che cosa è la guerra? Una necessità creata e imposta dai pochi, dai pochissimi detentori e manipolatori del capitale, che esportano e importano al cinquanta, al cento, al due, tre, cinquecento per cento, e tutto a vantaggio proprio e della propria casta e consorteria, per la produzione neirindustria, nel commercio servendosi dell’immensa forza, oltre l’ingegno, dei più, di quasi tutti; i quali quasi tutti lavorano, non per sè, ma per chi li stipendia con le solite valutazioni o svalutazioni del lavoro, riducendo o annientando ogni autonomia e dignità personale. Adesso che cosa è la guerra? Una questione di sovrani e di gabinetti, questione oscura a tutti, di cui tutto s’ignora, eccetto che dipende da cotesti sovrani, da cotesti gabinetti dichiararla, accettarla, dirigerla, continuarla, conchiuderla. All’infuori di questi due moventi, non ne esistono altri, o sono soltanto episodici ed accessori.
Si protesta: è la vita e la necessità della vita di un popolo che spinge alla guerra; essa è l’atto di chi si libera da una oppressione e da un soffocamento, o cerca maggiori ampiezze alla propria esuberanza di vita. Così si dice. Ma quella che viene indicata come vita e necessità ed esuberanza della vita di una nazione e di un popolo si riduce a vita e a necessità di vita e di espansioni dei pochissimi; quelli che si chiamano interessi
63
LA GUERRA E IL CRISTIANESIMO
405
patrii sono o furono interessi d’ambizione politica, interessi d’ambizioni regali e imperiali. La vita d’un popolo, qualunque vita, sia pure la più energica, intensa e feconda, òggi come oggi, non può mai determinare le migrazioni collettive che caratterizzarono le età barbariche. Quindi tutta la sete di dominio e di superdominio in questo o quel mare, in questa o quella regione è ambizione, è sete dei soliti pochissimi padroni del mondo, dei soliti pochissimi stipendiatori e sfruttatori delle braccia e dei cervelli umani e popolari a vantaggio della propria borsa e del proprio orgoglio, con tutti i laidi viziacci che dalla borsa e dall’orgoglio hanno il movente che li scatena. La vita d’un popolo consiste nel tranquillo possesso di sè medesimo: il possesso dell’altrui, delle altrui terre, delle altrui posizioni strategiche, dell’altrui forza, è ambizione di gabinetti e di teste coronate.
Fin le questioni che paiono pili di popolo sono questo e non altro che questo.
A guerra finita poi, i territori s’annettono, si ripartono, si ampliano, si riducono, i popoli restano sotto i vecchi padroni 0 passano sotto i nuovi, come le pecore dopo il mercato. Che colpa ha il popolo dei ladrocini, che utile? Nessun utile, nessuna colpa. La miseria, conseguente sempre a una guerra, la risentono quelli che furono i materiali ma necessari esecutori della guerra; gli altri, i pochissimi, s’occupano comodamente ad apparecchiare e a fomentare un nuovo macello.
E gli orrori non sono enumerati tutti; resta il peggiore di tutti.
Giovani buoni, tranquilli, incapaci di far male a nessuno, son prima dalia lunga aizzati contro i così detti loro nemici, o posti, senza che essi ne sappiano il perchè, in condizione di odiarli e di farsene odiare, da lontano o a contatto; poi, d’improvviso, o dopo un periodo di abili rinfocolamenti di cotesto odio e di cotesta rabbia, si trovano armati come assassini per andare ad ammazzare altri giovani, egualmente buoni, egualmente incapaci di ogni crudeltà, usciti appena com'essi da una famiglia pacifica e mite in cui non si abituarono che a sentimenti e ad atti di onestà e di bontà, egualmente strappati alle loro pacifiche occupazioni, al diritto di vivere e al dovere di rispettare lo stesso diritto negli altri. E vanno. Giunti sul campo, ubriachi di squilli, d’urli, di rombi, di puzza, si scagliano a scannarsi, a sventrarsi, a trucidarsi come selvaggi, come bestie.
Che hanno fatto i poveri soldati inglesi ai tedeschi? e i tedeschi agli inglesi? e i russi agli austriaci? e gli abissini, i beduini, i turchi ai soldati italiani? e questi a quelli? Quale furore gli accanisce gli uni contro gli altri? Nessun odio, nulla. Gli uni contro gli altri sono scagliati come bestie ignare, con tutte le loro più selvagge passioni scatenate e sfrenate da chi ci conta su, per accrescere la strage e strappare quella che si osa chiamare la vittoria. Chi è minacciato si difende, ma la minaccia è obbligatoria; chi vendica fratelli e connazionali caduti e martirizzati suppone l'offesa, ma l'offesa fu obbligatoria. Dall'una parte e dall’altra si è piegato il capo e si è puntata l’arma a un ordine irreparabile. Quest’ordine è l’unico responsabile degli atti bestiali commessi. Dall'una parte e dall’altra si obbedisce a un’ansimante ebrietà di sangue; gli ebri paiono i colpevoli, ma il colpevole unico è chi ubriaca i pacifici figli del popolo tramutandoli in bestie feroci.
64
--- ----------------------- ---------- --------------------------------------------- r
406 BILYCHNÉ
E basta, non è vero?
Ora domandati: della nozione fondamentale del Cristianesimo che ne resta innanzi a tutto questo? Tutto questo che cos’è? Lascia andare gli accessori, i rami e le fronde del problema: che cos’è? Il capovolgi mento di tutti i valori umani veduti dal Cristo attraverso i divini; e in parole correnti, la negazione dell’umanità responsabile, la sopraffazione attuale o radicale dei pochissimi a danno dei... quasi tutti; la negazione brutale della eguaglianza e della fratellanza umana, l’affermazione più superba della signoria e dei suoi egoismi dispotici, la diffusione più schernitrice deH’eunuchismo in massa dei popoli che subiscono la loro mutilazione con la più supina incoscienza o con la più obbrobriosa rassegnazione, con un inconcepibile oblio che essi a cui tocca tutta la parte attiva delle battaglie dalle battaglie non ritraggono nessun bene e soffrono tutti i danni, mentre a chi per compierle li tramuta in belve potrebbero opporre un formidabile: no!
Ecco dove sta la radicale opposizione della guerra col Vangelo.
Il Vangelo è la ricostruzione della società degli uomini mediante la coscienza di sè data a ciascun uomo; la guerra è l’esponente massimo delle ostinate vecchie forme sociali-bestiali, basate sulla soppressione della personale coscienza delle moltitudini. Pigliala, tirala, voltala come ti pare, la questione è tutta qui.
E allora?
Allora ecco. Si deve fare la guerra perchè i pirati di mare e i briganti di terra urgono da tutti i lati? Facciamola. Si deve volere per risarcimento di danni antichi e recenti che invano s’invocherebbe altrimenti? ovvero per non lasciarsi soffocare nella concorrenza spietata che i pochi arbitri del mondo si fanno a vicenda? ovvero per aiutar questo e vendicar quello? ovvero per quel che volete? Avanti pure. Il mondo è ancora pagano e non c'è che opporre. È inutile parlare in mezzo ad uomini primitivi, pure sotto le apparenze delle più raffinate civiltà, dei principi d’umanità e di fratellanza cristiana. Come uomini 0 primitivi, o costretti ad adottare i metodi dei selvaggi che occupano le terre abitate, si sarà avveduti o fortunati, valorosi ó vigliacchi, sagaci 0 stolti, accettando o ingaggiando la guerra; ma fatemi il piacere di non mescolare in mezzo a tutta questa roba nè Cristo nè Vangelo; non ce n’entra, non ce ne può entrare nemmeno un briciolo.
Persino la guerra di pura difesa — l’ho accennato, ma giova insistervi — , supponi quella del Belgio, non ammette altra categoria. Sarà, è in un certo ordine di idee inevitabile, sotto un certo angolo visivo gloriosa, non è in un certo senso anticristiana; ma basta; anche questa guerra si sottrae ad ogni valutazione positiva cristiana in una società tutta stravolta. O non è vero che anche le difese seguono con stragi di povere vite ignare, lanciate a offendere, a violare a distruggere, senza che, in forza dei sistemi moderni, valgano, senza che, per l'ignoranza in cui versano, possano, sappiano e sappiano di potere reagire e negarsi?
Ma allora a che vale il Cristianesimo, il Vangelo e i suoi apostoli?
A che vale il Cristianesimo? A condannare inesorabilmente tutto il nostro assetto sociale, a minarlo lento ma sicuro e irreparabile, tutto dalle basi ai pinnacoli, tutto; a porre antagonismi irreconciliabili fra le vecchie, ho detto, e ostinate forme pagane-sociali e i dati e i giudizi delle menti progredite e degli animi bennati; a costringere i
■
65
LA GUERRA E IL CRISTIANESIMO 4°7
padroni del mondo a difendersi dalla taccia di provocatori e di conquistatori, mentre, qualche centinaio d’anni fa, l’una e l’altra cosa erano un vanto e una gloria. A che vale l’apostolato del Vangelo? Vale quel che è, quello che disse il Cristo: il sale della terra, il sale che brucia e isterilisce, le gramigne soffocatrici, perchè poi il buon seminatore possa spargervi il seme nuovo. «Abbattete questo tempio e in tre giorni ve lo riedifico», ma bisogna abbatterlo il tempio delle antiche idee, dell’antico diritto, dell’antico valore, della vecchia gloria, del vecchio Dio degli eserciti.
— Dovrebbe il cristianesimo regolare anche adesso le battaglie e la guerra e altre faccende sociali.
— Come potrebbe, se gli manca l’ambiente? Non si mette il vino nuovo nell’otre vecchia, nè si rattoppa una veste logora con panno robusto: bisogna rifar l’abito e l’otre. Se qualche effetto del Cristianesimo si avverte nel mondo, è, nelle anime singole cosa mirabile, ma in grande e in comune soltanto di straforo e più per caso che per altro. 0 non siamo ancora alla distinzione fra giustizia pubblica e giustizia privata, e alla giustificazione di tutto ciò che è delitto in privato, unicamente perchè a commetterlo non è uno solo ma sono le centinaia di migliaia? Il Ciistianesimo era venuto fra gli uomini per sconvolgere la società, per lanciarla sopra una via nuova, meglio, sulla propria via, sulla via della umanità umana, dopo tanti secoli di umanità bestiale; e gli uomini amarono meglio impuntarsi a rimanere o a tornar bestie, o si lasciarono, senza opporre resistenza, ricacciare alla greppia e sotto il giogo e il pungolo — avanti béstie!
Che vuoi che c’entri qui il Cristianesimo?
Piuttosto potresti chiedermi: come mai tanto miseri risultati, dopo tanti secoli?
Ti rispondo: in primo luogo, il Vangelo è sì il niodicum fermentimi quod totani massam corrumpit, ma la sua azione è a lunga incubazione, perchè è in sostanzal’ eie mento divino che, mescolato con l’umano, lo penetra e lo trasforma, lento, inavvertito, come lente, inavvertite son tutte le leggi di progresso cosmico, com’è la legge, e forse massimamente, la legge del progresso morale con cui si identifica il cristianesimo, come quella che si viene continuamente a trovare in conflitto con le più dure, con le più tenaci esigenze che esistono in natura, quelle delle passioni umane (siamo ai culmini dell’essere) e della umana libertà asservita da loro.
Ma poi la colpa è nostra. Nostra, cioè di tutti quanti furono e sono in grado di intendere la bellezza e la preziosità del Vangelo e che, quando si trattò di farsene apostoli, diventarono diffidenti, scettici, oziosi, infingardi: nostra in particolare, di noi preti intendo. Il Vangelo è un seme, ma noi dovevamo esserne i seminatori; è una legge di progresso umano — il genio di Paolo ne vide i primordi ai primordi della creazione —, meglio, è il progresso e la civiltà con la loro legge di lenta penetrazione, ma noi dovevamo essere gli affrettatori, i propulsori della sua azione distruggìtrice, ri-duttrice e ricostruttiva in mezzo al mondo; ma noi perdemmo il tempo, i secoli, a giocare di sottigliezze, di facezie, di scolasticherie, di teologicherie, di canonicherie, di chiacchiere, invece di attendere alla nostra rude e gloriosa fatica di portare in noi crocifisso il mondo e noi al mondo, invece di pensare alla rivoluzione morale affidataci; la colpa è nostra che sostituimmo gli interessi nostri agli interessi di Dio, che sacrificammo il Vangelo di Cristo alle nostre ontose vanità, ai nostri miseri orgogli; che
66
408
B1LYCHN1S
mentre dovevamo essere i giudici del paganesimo abbarbicato alle anime, piegammo anche noi ai postulati e ai costumi pagani, distruggendo noi in radice ogni efficacia della parola evangelica sulle nostre labbra con la contradizione stridente di essa con a nostra condotta, delle nostre teorie con la nostra vita; la colpa è nostra che invece di confidare nella divina virtù della parola del Cristo, confidammo nei mezzi umani, negli appoggi umani, fin nelle armi umane, e poi nei sotterfugi, nelle volpinerie, negli accomodamenti morbidi della politica; che, per non condannare noi stessi, diventammo con gli altri di manica larga e tessemmo attorno al monumento granitico del Vangelo una fitta mascheratila di tele di ragno, per dissimularne la struttura, per smussarne gli angoli, per nasconderne le altezze vertiginose e farle credere accessibili e sormontabili alle anime di pasta frolla.
Come vorresti che il Vangelo avesse ridotto, se invece di affrettarne il corso, gli alzammo contro mille argini? se ne ritogliemmo il testo come pericoloso dalle mani dei semplici, capaci, in ragione della loro semplicità, d’intenderlo ?
Ad ogni modo, e per tornare al punto essenziale, pretendere che il Cristianesimo entri a regolare e a santificare la guerra è un sogno: non può nè regolare, nè tanto meno santificare quello che è una delle più tristi appartenenze del mondo che è venuto a distruggere.
Anche il venerando avvocato Begey ha protestato : Vorrei che il cristianesimo non fosse soltanto una visione dell’avvenire, ma che servisse al presente (e intendeva, perchè di questo parlava, a regolare la guerra) e c’insegnasse a batterci cristianamente. Sogni, amico mio, sogni, per quanto generosi sorgendo su da cuori così retti. Il Vangelo c’insegni a batterci cristianamente; è come dire: l’armonia c’insegni a stonare musicalmente. L’armonia è fatta per distruggere le stonature, non per regolarle. Armonia e stonature sono due cose e due concetti chesi escludono a vicenda. Così, il Vangelo è fatto per distruggere, per capovolgere dalle fondamenta la società in cui pullula la guerra; non può quindi regolare la guerra.
E allora le guerre sante d’indipendenza nostre ed altrui?
Te l’ho detto: eroismi, ma erompenti, per le false posizioni create ai popoli, da un assetto non cristiano, da uno stato di usurpazione, a consumare e perpetuare il quala furono resi schiavi di poche volontà imperanti le forze, ignare o fatturate e aizzate ad arte, del popolo invasore e detentore degli altrui confini: lotte perciò magnifiche eroismi magnifici, ma umani, puramente umani, resi necessari da un sentimento di giustizia umana, in mezzo a un mondo pagano.
Praticamente che c’è da fare?
È chiaro: cambiar rotta. Ora come ora, dove si può, con chi si può, quanto si può, costringere gli animi a penetrare il fondo della questione — cristianesimo e guerra, costringerli ad avvertire gli errori che si commettono, gli spropositi infiniti che si dicono, si scrivono, si stampano da chi rimane alla superficie, invece di penetrare fin giù alle basi fondamentali, alla pietra angolare del Vangelo. E poi mettersi ciascuno all'opera di spargerlo il Vangelo, senza smorzature e senza confetterie, prima nella propria vita, poi in una propaganda che deve variare col variare delle condizioni e delle posizioni di ciascuno, affinchè, penetrando esso negli animi e nei costumi, renda tale la società che per la natura stessa della sua intrinseca forma escluda la guerra.
67
LA GUERRA E IL CRISTIANESIMO
409
Ogni altro espediente — voti parlamentari, leggi, convenzioni giuridiche, decreti regi e imperiali, diete di popoli, trattati, alleanze, intese, unioni di Stati — sarà sempre, come sempre fu, espediente vano: al primo riaffacciarsi dei soliti moventi delle lotte fratricide, riavremo la guerra. Divulghiamo dunque con ogni mezzo il Vangelo.
È un programma che pare un riepilogo d’una tornata d’Arcadia. Ma bada, è'd'una certa Arcadia che è cominciata da Colui che disse agli Apostoli: andate e predicate il Vangelo: ed è valsa, non ostante tutto, a rivoluzionare le coscienze, l'unica rivoluzione che non torna indietro. O saremmo noi a discutere di diritto o non diritto di guerra senza cotesta Arcadia da pescatori ? E per il momento, ti parrebbe poco se, per esempio, si cominciasse a non scrivere più da nessuno nemmeno una riga sotto titoli come questo: Il Vangelo e la guerra • La guerra e il cristianesimo? Io mi contenterei per ora anche solo di questo.
Se poi tutti i miei colleghi di veste nera volessero capirla che in missione evangelica o s’è radicali o non s’è nulla, salvo galvanizzatori del paganesimo, se tralasciassero di provarsi a risarcire l’albero sociale dalle fronde, dai rami, dal tronco e mettessero¿la scure alla radice (non è mia l’immagine), chi sa che fra qualche secolo non avrebbero ottenuto d’abolire definitivamente la guerra. Ma dovrebbero possedere due pregi: la genialità d’attendere e di trasmettersi il rude lavoro, senza goderne i frutti, e la rassegnazione di vedersi abolire e sparire di fra le mani parecchie cose che non sono la guerra e li riguardano e li toccano assai più da vicino.
La mia voce, amico mio, è come d’uomo che per lungo silenzio paia fioco. Ne conosci tu altra d’altri capaci di farsi sentire un po’ meglio? Impegnala a gridar alto, a farsi sentire. Abbiamo bisogno di qualche gran vox clamans e quanto è possibile dal deserto, dal di fuori di questa baraonda sociale che ci disorienta e ci assorda, e sopra tutto da questo carnevale del nostro cristianesimo per modo di dire.
-............. ................... - ------------------------
68
I LIBRI
SCHELLING
MICHELE LOSACCO, Schelling. I grandi pensatori. Remo Sandron, Palermo.
Se tutto il movimento romantico che si sviluppò nel secolo xvin in Germania offre allo studioso della religione un campo interessante di ricerche — che non è ancora del tutto esplorato perchè pochi hanno studiato di proposito il significato religioso di quel grande moto ideale — Schelling è dei pensatori che lo dominano per questa parte il più rappresentativo. Il suo pensiero di fatti coincide col momento religioso del movimento romantico; momento iniziato da Schleiermacher, quando agli « eruditi dispregiatori della religione» tentò dimostrare che il sistema della ragione si può compiere soltanto nella religione. Ci fu del resto un periodo della sua vita di studioso nel quale la sua attività si volse di preferenza al problema religioso, prima ancora che il suo pensiero fosse completo e il suo sistema maturato. Nei 1792 al termine del secondo anno di studi all’università di Tubinga, per la promozione al magislerium di filosofìa, egli presentò una tesi latina: Antiquissimi de prima malorum humanorum origine philo-sophemalis. Gen: III explicando tentarne» criticum et philosophicum, dove sostenne che la narrazione del peccato originale è un mito filosofico sorto nell’età di Mosè, e raffrontò insieme le leggende di vari po-Ì»oli antichi sull'età dell’oro, utilizzando a veduta Kantiana intorno alla malvagità radicale dell’uomo. Poco dopo in un saggio pubblicato nei Memorabilien del Paulus « Sui miti, le leggende storiche e i filosofemi del mondo antichissimo ■ dimo
strò la differenza tra il mito storico e il filosofico. È lo scritto che dimenticato dall’autore fu rimesso più tardi in onore facendo apparire lo Schelling come un pioniere della interpretazione razionalistica in teologia. Seguirono alcuni studi critici sul Nuovo Testamento ed un abbozzo di commentario sulla infanzia di Gesù che anticipa le vedute di Strauss pur con notevoli differenze, giacche Strauss relega nel campo critico tutto ciò che nelle narrazioni evangeliche oltrepassa la misura comune del-l’accadere e non lascia alcun dato di fatto al quale siasi potuta attaccare la formazione leggendaria, mentre Schelling conservava sempre un nucleo soprannaturale. L’ultimo suo lavoro d’indole strettamente religiosa fu la dissertazione che egli presentò come compimento degli studi teologici: « De Marcione Paullinarum epistola-rum emendatore». Dopo passò definitivamente agli studi filosofici, ma l’ansia religiosa non 1* abbandonò mai, tanto che quando, morto Hegel, egli criticò aspramente il sistema Hegeliano, Arrigo Heine non credette di fargli maggiore insulto de nunciandolo sul Salón come colui che una volta in Germania aveva espresso nel mòdo più audace la religione del panteismo, abiurava la sua propria dottrina e diventava un buon cattolico predicando un Dio personale, che avrebbe commesso la pazzia di creare il mondo.
Quanto ci fosse di vero nel giudizio del-l’Hpine e se il sistema filosofico di Schelling possa racchiudersi pel suo svolgimento nei termini segnati da lui lo studioso potrà da solo giudicare dopo che avrà ietto il voluminoso saggio del Losacco. II quale senza
69
TRA LIBRI E RIVISTE
4II
spaventarsi del compito difficile che s'imponeva proponendosi lo studio di questa complessa figura di pensatore, con una serenità mirabile e una dottrina non comune ha composto la prima opera d’insieme che sia apparsa in Italia sullo Schelling, un lavoro che se non ha la vivacità francese di quello del Brchier ne ha tutta la serietà scientifica, degno quindi di figurare nella collezione ideata dal valoroso editore di Palermo, accanto al Wundt di Koenig, al-V Aristotile dell’Hermann. a.\V Hegel del Cairel, al Kant del Paulsen e al Platone del Windel-band. Merito quindi dell’autore per l’organicità del lavoro e dell’editore per averci liberati dal dubbio che egli ideando la sua collezione non credesse se non alla capacità tedesca di comprendere e spiegare i grandi pensatori.
Un’opportuna introduzione colloca la personalità di Eederico Schelling nella luce del romanticismo germanico, che è colto nei suoi momenti essenziali e nelle sue origini ideali. Schelling senza il romanticismo non è forse comprensibile perchè la posizione di certi problemi come è fatta nella sua filosofìa appare contraditoria se non .si pon mente allo spirito che animò quel movimento donde egli deriva. I grandi filosofi tedeschi trascendono i limiti della loro nazione come raggruppamento di caratteri etnici o di necessita politiche, diversa-mente dai grandi riformatori e poeti di Germania, la loro filosofìa ha per questo davvero un valore universale, ma di rado la loro forma mentis si stacca recisamente da quella del movimento intellettuale entro il quale incominciarono a pensare. E la spiegazione questa di quei loro sforzi di ricostruire, magari con elementi estranei, quanto hanno infranto con la critica inesorabile del pensiero, ciò che è un magnifico travagliò d’umanità dolorante. Schelling dunque esce dal romanticismo ben compreso della posizione romantica: una soggettività: un’individualità esuberante, la quale non avendo più fede in una realtà ed in una verità oggettiva, che per essa ha perduto ogni significato è volendo pur trovare qualche cosa di stabile, si attacca a vaghe aspirazioni o ad impressioni estetiche o anche alle formule di una religione positiva, ma non riesce mai a sanare la dolorosa scissura tra l’ideale e il reale. L’A. ha fatto bene a precisarlo perchè in tal modo il periodo fichtiano di Schelling è perfettamente comprensibile. Un problema — nota ^cutamente il Cosacco — si offre subito alla
attenzione dello studioso del romanticismo come mai un individualismo cosifatto potè conciliarsi col panteismo apertamente professato dalla scuola romantica nel suo Ì»rimo stadio. Ora Fichte aveva ben stabi-ito, e il romanticismo aveva accettato il suo principio, che le coscienze individuali ed empiriche non sono altro che manifestazioni di un soggetto universale. La soluzione non soltanto di questo problema, ma di molte altre apparenti contradizioni della dottrina romantica è qui. Lo vide Schelling fin da principio quando si attaccò a Fichte? o fu solamente per quel bisogno istintivo che è d’ognuno di attaccarsi al Eiù forte nel muovere i primi passi? Non è en chiaro quale sia a questo proposito il
Sensiero del Losacco. Perchè se anche nella losofìa della natura Schelling si pose il problema se non si potesse tracciare la storia dell’io inconscio nel modo stesso che Fichte aveva delineato la storia della coscienza, quindi partendo da una preoccupazione fìchtiana non per superarla, ma per completarla — giacché Fichte non aveva espressamente negata la possibilità di tale storia dell’io inconscio — il precisare nell’attività del filosofo un periodo fichtiano non è per lo meno esatto. Invece il Losacco non pare disposto, da una parte a negare valore all’infiuenza fiethiana dall’altra egli si sforza di liberare il più che sia possibile Schelling da Fichte.
Egli dice: « il vero è che Schelling tendeva ad oltrepassare Fichte, conciliandolo coll’autore àeìVElhica e ricomprendendo Suesto è l'essenziale) il realismo nello ealismo » e poi « noi possiamo dunque continuare senza scrupolo ad usare la denominazione classificatoria di " periodo fichtiano ”, purché beninteso, l’accettiamo con discrezione. « Perchè? se la dottrina fìchtiana è stata sempre nello Schelling allo stato critico, mi pare inutile volere insistere nel trovare nella sua attività un periodo nel quale Fichte fosse signore sia pure per comodità classificatoria. La verità è forse che giammai lo spirito della filosofìa fìchtiana fu assente da quella delio Schelling; nemmeno quando i due filosofi erano direttamente in polemica dopo la pubblicazione delle Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana con le quali il pensiero dello Schelling andava orientandosi verso una concezione irrazionalistica che stac-cendolo dal panteismo poteva avvicinarlo al contenuto della fede cristiana. Alle critiche del Fichte Schelling rispose con VEspo- -
70
412
BILYCHNIS
sizione del vero rapporto della filosofia naturale con la dottrina migliorata di Fichte.
Non è dunque da parlare di periodo ma di momento fichtiano nella filosofia di Schelling. Il Losacco non lo dice ma mi per da molti segni di capire che anche pare lui questa è la vera interpretazione; Gli è che egli s’è preoccupato d’altro e dopo aver posto il problema fondamentale del romanticismo germanico che è quello a cui ho più sopra accennato l’ha perduto di vista. Ma la filosofia di coloro che discesero dal grande ceppo romantico ha lo stesso problema. Ferruccio Rubbiani.
ELOQUENZA
L’ELOQUENZA DEI SANTI PADRI. — Disegno storico pel Dott. Cirillo Caterino. Edizione della Rivista di Sacra Elo-Senza. Napoli. Tip. A. (ammanita. — ezzo L. 2,25.
Ottima la pensata dell’A. di dare un quadro generale della storia dell’Eloquenza sacra nelle tre epoche principali : nella patristica. nell’eloquenza latina del Medievo e nella letteratura italiana. Se si eccettua qualche sommaria opera francese del genere, ora già sorpassata e inadatta alle approfondite necessità della critica odierna, a ri-Slardo di cotali studi, come il Freppel, il
'illemain e il De Broglie, per noi italiani codesto è tutto un vergine campo d’indagini.
Il primo volume di questa trilogia oratoria, finora uscito in luce: L’eloquenza dei Santi Padri, studia le tre epoche dell’oratoria patristica che digrada dagl’impeti apologetici, dalle disquisizioni, aridamente oratorie, dei catechisti alessandrini, via via fino alla riproduzione della smagliante oratoria classica, innestata nel Cristianesimo in quell’au-rea età che fu quella del Boccadoro, del Basilio, dei Nazianzeni, di Ambrogio e, principe fra tutti, di Agostino. Disegno storico bellissimo !
A mio avviso però il difetto principale che toglie valore a questa opera si è la scarsa trattazione del tema prefissosi dall’autore, cioè V oratoria. Il i° volume, invece d’intitolarsi: L’eloquenza dei Santi Padri si sarebbe più veridicamente potuto intitolare una sintesi del pensiero cristiano, con uno speciale riguardo all’eloquenza dei principali oratori... Dico questo perchè molte, troppe delle pagine dell’opera non fanno rivivere tipi di
oratori, o generi diversi di eloquenza sacra, ma passano in rassegna mentalità di teologi, lotte ereticali, sfumature di misticismo, schemi quasi completi di attività letterarie, estranee del tutto o press’a poco al genere oratorio. Ed accanto a questa congestione pletorica dell’argomento quante lacune! Per esempio l’autore trattando di S. Agostino non fa nemmeno menzione di quel vero e proprio trattato di eloquenza sacra, il più completo dopo le varie opere classiche della paganità, che è il volume quarto di < Intorno la dottrina cristiana. » (De doclrina Christiana, libro quarto).
Ciò non toglie però il valore dell'opera, la quale, specie nei due susseguenti volumi promessi che la devono completare, dischiude tutto un nuovo solco d’indagini nel campo di codesti studi tanto dimenticati o trascurati fino ad oggi nel nostro paese. E di ciò noi ci congratuliamo col benemerito autore. Piero Chiminelli.
4#
PEDAGOGIA
GIULIO VITALI, Un esperimento di pedi-gia emendativa. Milano, Lib. Ed. Milanese.
L’opera del giudice Maietti, è nota ormai a tutti come opera di misericordia e di altissima previdenza sociale: il Vitali — in questo volumetto che si vende a beneficio del rifugio Maietti — mette in evidenza il valore pedagogico e — poiché la pedagogia è scienza — scientifico. È perciò il primo studio del genere, scritto da uno che per aver studito con amore ed intelligenza l'idea pedagogica del Tolstoi di educare nella e per la libertà, era ben adatto a farlo.
Il' Vitali scrive: « noi non pensiamo che l’attività pedagogica possa fare dei reali E »assi puramente a priori, cioè deducendo e sue norme soltanto da alcuni principi di evidenza intorno alia natura umana e alle sue ultime finalità; noi non solo siamo persuasi che la pedagogia debba giovarsi dei risultati delle scienze positive, specie antropologiche; ma pensiamo che debba essa stessa generare di sè, per suo uso, una vera e propria scienza sperimentale. Però noi sentiamo tuttavia la necessità che venga rimessa in piena luce la profonda, irreducibile differenza che passa tra l'esperienza nell'ordine delle scienze esteriori o naturali, e l’esperienza nell’ordine delle scienze morali,
71
TRA LIBRI E RIVISTE
413
dove la scienza non può mai venire scissa dalla vita, l’osservazione dall’azione, la riflessione dall’amore, il pensare dal volere, bensì debbono questi momenti dello spirito seguirsi e stringersi serratamente ». Chi scrive in questo modo, fissando il suo crèdo pedagogico, arriva certo con molta facilità a comprendere il semplice ma ad un tempo profondo meccanismo del Rifugio Maietti per minorenni. Meccanismo che è inutile descrivere giacché la porta del Rifugio è aperta sempre a chiunque voglia visitarlo, ma che andava senza dubbio illuminato oltre che da una luce di pietà e di umana misericordia, dalla luce del pensiero e della cultura. È perciò che. letto il volumetto del Vitali, noi sentiamo d’amare un po’ quei luogo di redenzione sociale e d’aver smesso qualche vieto pregiudizio pedago-{ico, resto della comune educazione scortica.
Questo, per esempio, che la pedagogia sia tutta ne’ manuali gravi di regole e di vecchiaia... F. Rubbiani.
PACIFISMO
PER LA SINCERITÀ. « Paschale Prae-C0N1UM ». — (P. L'Eremita, Cavaglià, Fa-vero, Alessio). Torino. Associazione Studenti per la Cultura Religiosa, Via Ospedale, 16. 1915.
È un opuscoletto che rappresenta un aito valore morale: il valore della coerenza, di quella coerenza sincera alla propria tenace convinzione, la quale è sempre degna di alta ammirazione anche da parte di chi non milita nella stessa idea.
Sono quattro schietti ed integri giovani cristiani che, in mezzo all’attuale turbine di ferro e di fuoco, si radunano, in un giorno , che nelle loro speranze religiose è simbolo di pace — domenica delle palme — per riconfermare il loro pacifismo cristiano.
Leggendo questo dolce scritto pare di leggere una delle tante pagine di quel caro e nitido filosofo toscano. Augusto Conti... Come questi, i giovani amici torinesi, radunati su un fiorito colle, prendono lo spunto da tutto: dalla natura circostante, dal ricordo cristiano del giorno, dal brano del Vangelo che hanno testé letto, e, sopra tutto dalia loro anima verginale ed entusiastica; e, ripensando alla imminente pasqua cristiana decidono di commemorarla in fraternità d’amore con tutti.
Ed é così che ripensando ai loro dolci amici d’un tempo, ne vedono molti assenti o dissenzienti dal loro ideale. Perchè? si domandano.
Perchè mancano dei cristiani all'appello pacifico? Perchè mentre la guerra tutto distrugge, almeno i cuori non s’intendono nella concordia edificatrice? Perchè? Questo è il loro grido passionale...
Cari giovani, sognatori ed idealistici, in un mondo che costringe tante volte a piegare ed a spezzare il proprio ideale in impreveduti adattamenti, di fronte ad una realtà qualche volta tirannicamente più forte di ogni ideale, noi vi ammiriamo per la vostra intima coerenza, per l’integrità delle vostre anime, ebbre di luce cristiana, lottanti contro la corrente trascinatrice...
Non possiamo non additare il vostro diritto animo... pur non reggendoci le ali per slanciarci con voi nel vostro largo volo.
Piero Chiminelli.
0
LA DONNA ITALIANA
LINDA FERRARI, La donna italiana nella leggenda, nella storia, nella poesia Roma, Albrighi e Segati.
Io resto alquanto scettico su l’efficacia morale di questo libro. Non perchè non abbia in sé un nobilissimo valore morale, ma perchè al pubblico manca la disposizione per capire certe finezze sentimentali. È una constatazione dolorosa, ma è una verità. Scrive l’autrice nella prefazione: « Havvi molto molto da conoscere intorno alla donna. Chi ne sa nulla? Non le bimbe come te, (il volume è dedicato alla figlia) le quali pure, sono le più interessate a saper valutare, si come devesi le loro ave più o meno remote, non la generalità delle donne la quale soltanto sa di vivere nè capisce, nè si dà pensiero di sapere come e perchè — uguale del resto anche in ciò alla generalità degli uomini — non le professioniste che pur dovrebbero in certo qual modo essere più colte e più conscie. Tutte prese dalle più necessarie cure della casa o della professione, non si occupano punto de’ problemi un poco più elevati, i quali pure sono attinenti alla casa loro e alla loro laboriosità e a lor figliolanza. Nè sanno alcun che della donna gli uomini, denigratori e adoratori perpetui dell’altro sesso, e tanto più denigratori forse quanto più ne sono adoratori... a loro maniera! » Ben detto’...
72
4M
BILYCHNIS
ma è appunto questo stato d’animo nel pubblico maschile e femminile che farà trovare alla fatica della autrice una fredda accoglienza. Comunque essa è tanto più meritoria. Il far passare dinanzi agli occhi delle donne e degli uomini le figure delle donne quali furono glorificate dalla storia e dalla poesia può essere utile cosa, ma perchè il lavoro si liberi da una certa accusa d’accademia che può essergli — senza
intenzione d’offesa — mosso, ci deve essere un certo nesso ideale che traspaia evidente tra tutte queste immagini muliebri. Se no il citare ad esempio delle figure leggendarie è diseducazione. Ma l’autrice si libera dal pericolo e dall’accusa con la sua modestia. F, ne è uscito un volume dove scorre dall’un capo all’altro un soffio d’idealità, che lo fa consigliabile ai giovani per conoscersi un po' meglio. F. R.
LE RIVISTE
LA QUESTIONE RELIGIOSA IN FRANCA E LA GUERRA
Hebrard de Villeneuve chiedendosi su la Revue des deux mondes quale quadro s’offrirà agli occhi nostri quando la guerra sarà finita, più precisamente quale sarà la Francia di domani, svolge alcune considerazioni interessanti su le questioni che erano aperte al momento dello scoppio della guerra e che se questa ha assopite non può pretendere d’aver risolte. Come sarà la questione sociale, quale sarà la situazione economica e finanziaria, come si presenterà la riforma amministrativa, e in che modo potrà essere risolta la questione religiosa? Questa ultima parte è quella che ci interessa di più.
È stato detto che oramai non v’è più questione religiosa in Francia, perchè tutti i problemi che vi si riferivano sono stati definitivamente regolati dalla legge del 9 dicembre 1905 su la separazione della Chiesa dallo Stato. Ora è questa una concezione un po’ semplicistica e l’ottimismo che la pervade non resiste alla realtà. La legge del 1905 è così poco intangibile che si è già ritoccata e non sui semplici dettagli. Dunque la separazione può non essere definitiva. Del resto non è da applicarsi alla Chiesa e allo Stato la concezione del divorzio che si stabilisce tra gli sposi. Pronunciato il divorzio, ciascuno se ne va per la propria via e non ci si incontra fintanto che non si voglia. Per la Chiesa e per lo Stato non è la stessa cosa. Non è forse vero che continuano a vivere a fianco in ogni località, dove la parrocchia esiste accanto al comune? E il potere religioso e il potere civile non restano di faccia l’uno all’altro
non fosse altro nella coscienza di ogni cittadino sottomesso ad un tempo alle leggi dello Stato e a quelle della sua Chiesa? Bisognerà dunque trovare un accordo fra questi due poteri rivali ugualmente indistruttibili, perchè nessuno penserà seriamente ad una soluzione radicale che metta fine ad ogni conflitto: soppressione della religione o instaurazione d’un regime teocratico.
Nella questione delle Chiese è manifesto l’inconveniente dell’assenza d’un regime legale, accettato da una parte e dall’altra. Forse la proibizione venuta da Roma di accettare le associazioni culturali fu effetto d’un malinteso, perchè si potevano benissimo costituire quelle associazioni proposte al servizio temporale del culto senza intaccare la gerarchia cattolica, sola depositaria dell’autorità religiosa, gerarchia riconosciuta formalmente dall’articolo 4 della legge del 1905, gerarchia salvaguardata da dieci anni da una giurisprudenza ben ferma del Consiglio di Stato.
Comunque più che indietro è meglio guardare avanti e cercare il modo di risolvere la situazione. Il problema non si pone, in verità, nè per le Chiese che sono pioprietà dello Stato, nè per quelle che sono classificate come monumenti nazionali, nè per quelle che appartengono a società o a privati. Esso riguarda le chiese che appartengono ai comuni. Il mantenimento di dette chiese dovrà spettare ai comuni come conseguenza normale della proprietà e perciò dovranno esservi magari costretti con l’inscrizione d’ufficio? La soluzione non sarebbe nè giusta nè abile: non giusta perchè la proprietà che i comuni possono vantare sulle chiese non è che no-
73
TRA LIBRI E RIVISTE
415
minale e non ne hanno nessun godimento, non abile perchè si arriverebbe così ad esasperare contro la religione delle popolazioni la maggioranza delle quali non è molto favorevole, come quella che nega alcun sussidio. Ma ciò che i comuni non possono fare lo può fare lo Stato per conservare questi modesti luoghi di cul'o ai quali si riattaccano tanti ricordi e che fanno parte integrante del nostro suolo e della nostra storia. Per esempio lo Stato dovrebbe creare una cassa speciale pei monumenti religiosi non classificati e fornire una prima dotazione, che dovrebbe essere aumentata dalla generosità dei fedeli. Oppure sotto l’impero della legge comune (legge del primo luglio 1905) si potrebbero creare delle associazioni poste sotto il patronato dei vescovi e ad esse il governo dovrebbe dare facoltà di ricevere doni e legati per provvedere agli obblighi che loro incombono.
Un’altra questione molto interessante è stata risolta senza alcuna modificazione della legge organica, quella cioè delle manifestazioni esteriori del culto. Nella mancanza d’ogni legislazione concordataria queste manifestazioni sono evidentemente sottomesse ai poteri di polizia dell’autorità municipale; ma bisogna conciliare questi poteri con la libertà di coscienza e la libertà dei culti proclamata dall'articolo i° della legge del 1905.
La questione delle congregazioni solleva dei problemi troppo spinosi perchè si possa esaminare qui in qual modo si debba rimaneggiare il titolo Ili della legge del 1901. Mantenendo ferme le leggi in vigore si potrebbe cercare di renderne meno rigorosa l’applicazione non foss’altro in riguardo delrammirabile devozione e dell’ardente patriottismo del quale tante congregazioni danno al loro paese delle prove quotidiane. Ognuno sa che dal 1901 sono state fatte migliaia di domande dalle congregazioni riconosciute per regolarizzare la situazione dei loro stabilimenti non ancora autorizzati. Queste domande aggiornate in blocco negli anni che hanno seguito la separazione sono prese oggi in benevole considerazioni e molte autorizzazioni sono concesse. Tuttavia sembra difficile accordare la personalità civile agli otto o dieci mila stabili-menti che attualmente la domandano. La vera soluzione consisterebbe nel distinguere tra gli stabilimenti propriamente detti, i Suali comportano un numeroso personale, elle risorse proprie, un’Amministrazione autonoma e i piccoli aggruppamenti comSosti spesso di due o tre membri, non aventi otazione e impiegati come semplici ausi; liari, dagli stabilimenti pubblici, i comuni e i particolari. Questi piccoli aggruppamenti non sono veramente degli stabilimenti nel senso delle leggi del 1825 e del 1901 e si dovrebbe ritornare ad un’antica giurisprudenza che permettesse alle congregazioni regolarmente costituite di riunirsi senza costituire degli stabilimenti propriamente detti e di prestare, in forza di contratti temporanei, il- loro personale alle opere, ai medici, ai malati, senza mettere in movimento la solenne procedura d’un Decreto del Consiglio di Stato. È la interpretazione che del resto, dal principio della guerra, ha prevalso per la forza delle cose e senza suscitare alcuna obbiezione per gli ospedali, le ambulanze, gli asili di convalescenza dove i congregazionisti prodigano le loro cure ai soldati feriti. La tolleranza e la larghezza di vedute che le necessità della guerra hanno suggerito è da augurarsi rimangano al ristabilirsi della pace. In ima parola: si sortirà da questa pròva più miti e migliori e le questioni che ieri dividevano profondamente saranno risolte con uno spirito di mitezza, di saggezza e di libertà ».
Evidentemente sono queste le idee d’uno di quei gruppo che fin da principio mal soffri la testarda intransigenza della curia romana; perciò non è una voce ufficiale. Tuttavia questa serenità o preoccu-Gzione partigiana che mentre infuria la ttaglia s’attarda a considerare con una certa minutezza la situazione di domani non è priva di significato. È certo che la prova di patriottismo dato al fuoco della guerra dalla Francia non può essere vana e che la concordia degli animi di oggi sarà domani buona volontà di cooperazione massime quando se sarà finito il pericolo imminente per la patria sorgerà la necessità di ricominciare la vita. Del resto ci si {uò chiedere chi fu mai in Francia irreduci-ilmente antipatriottico: la generazione che era nata sotto l’incubo di Sedan non poteva ritrarsi dall’ideale di patria. Fra tutti, i cattolici — per la logica del loro dottrinarismo che h pone irremediabilmente al di fuori d’una concezione particolaristica quale è quella di nazione — potevano perderlo di vista per l’altro. Ma noi sappiamo che ad onta di tutti ci furono dei cattolici che sacrificarono la logica della loro dottrina al proprio sentimento. Oggi pare che senza distinzione combattano valorosamente per
74
416
BILYCHNIS
la loro patria. È giusto che questa correzione violenta non vada perduta. D’altra Sarte se fu possibile credere che la politica i Leone XIII non avrebbe portato la Chiesa contro la Francia, è possibile pensare che Benedetto XV non voglia seguire Pio X. Comunque mi pare prematuro stabilire adesso se e come possa venire raccordo politico. Io ritengo che il risveglio religioso che si va notando in Francia da quando è scoppiata la guerra e che — se la origine sua è quale la penso, l’amore sacro e la tradizione della propria terra — si manterrà domani, non debba portare necessariamente ad alcun accordo politico che suoni sconfessione dell’opera civile di ieri. Perchè bisogna ben tenere distinta la questione giuridica dalla questione di sentimento. A risolvere la questione giuridica dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato domani non soltanto la Francia ma anche noi potremmo trovarci ed è certissimo che giuridicamente non si risolve nulla con delle dedizioni.
Lo Stato non può transigere perchè esso ha la pienezza e la completezza giuridica, mentre la Chiesa — nella concezione moderna che esclude ogni intromissione di diritto divino, ogni minimo accenno di teocrazia— è giuridicamente nulla. Del resto lo scrittore stesso dell’articolo della Revue riconosce che in diritto la questione è pacificamente risolta. Lo Stato francese poteva fare quello che ha fatto.
Ciò che non fu fatto bene sarà corretto : è naturale. Ma non tocca allo Stato adattarsi, nemmeno di fronte all’eroismo di ventimilioni di congregazionisti. Questi che la legge fatale della terra e del sangue ha fatti rientrare nella grande massa del Sopolo francese, rientrino nell’ambito ella legge comune. Parve l’unica soluzione di ieri, non potrà non essere la sola possibile domani. Rubbiani Ferruccio.
VARIA
Coenobium ha nel suo Fascicolo di marzo un Testamento Spirituale interessantissimo: quello in cui il prof. Vitanza già sacerdote cattolico descrive i motivi che lo condussero ad abbandonare la sua Chiesa per trovare Iddio. Notevole la parte in cui è esaminata la educazione c la cultura dei giovani nel Seminario cui lo Stato si mantiene da noi completamente estraneo mentre avrebbe il dovere (e ne ha anche legalmente il diritto) di sapere e di vedere che razza di cultura vi regni e quali dimezzate anime di futuri parroci (cioè di ufficiali pubblici) si vadano fucinando in quel buio.
Nel medesimo fascicolo in una entusiastica recensione del Nuovo Testamento pu-blicato dalla Fides et Amor si esprime il voto che la medesima Società voglia darci Sresto una traduzione completa anche del-Anlico Testamento, cioè la Bibbia intera. Crediamo che questo voto sia quello di molti e molti Italiani e che la Fides et Amor assecondandolo farebbe opera preziosa di religione e di italianità
Il fase, di maggio del Bollettino di Letter. Critico-Religiosa ha questo interessante sommario: « Poti, Fede e Speranza nel N. T. (E. Buonaiuti). Ritmo e paronomasia in Padano di Barcellona (F. di Capua). L’Oc-tavius di Minuccio Felice e la critica (U. Moricca). Rauschen contro Schrors (E. Buonaiuti). 11 culto degli eroi (N. Turchi) ».
Speriamo che, pur mantenendo scrupolosamente il suo hne puramente storico e critico, il Bollettino presto offra ai suoi lettori anche degli studi proprii che la valentia dei collaboratori del Bollettino prometterebbe veramente preziosi.
S. B.
75
Cambio colle Riviste
GERMANIA
Noi abbiamo una coscienza pura.
Il prof. Ermanno Schuster ha pubblicato nella Zeitschrift für den evangel. Religionsunterricht an höheren Lehranstalten (an. 26, quad. I, Berlin, Reuther e Reichard, 1914) un articolo sopra < I compiti dell’insegnamento religioso di fronte alla guerra », da cui riproduciamo il seguente tratto:
« Schiarimenti puramente teoretici sopra la giustificazione morale della guerra in generale sono oramai quasi fuori di posto, possono quindi omettersi senza grave danno. Non dobbiamo tuttavia lasciare i nostri scolari al buio su questo fatto, che la frivola macchinazione di una guerra è un delitto, di cui nessuna anima cristiana può assumere la responsabilità. Poiché noi sappiamo esattamente quale miseria senza nome apporti con sé la guerra, quali passioni bestiali essa svegli e quale somma di valori culturali e morali essa annienti: invece noi sappiamo con ben minore certezza quali valori morali essa crei. Che se poi essa crea dei valori morali, quali noi li sperimentiamo oggi nella nostra Satria così profondamente scossa, questo è un dono di •io, sul quale nessun uomo politico deve contare con certezza, e per il quale nessun uomo di stato può provocare una guerra. Via, quindi ogni falso romanticismo: ma solo un decoroso senso della verità!
Tuttavia in primo luogo niente leggerezza e niente codardia, ma dobbiamo suscitare invece fermezza e coraggio! E per raggiungere questo scopo noi abbiamo nelle mani il mezzo migliore. Poiché Dio ci ha fatto il gran dono di poter avere in quest’ora una coscienza pura.
Non che la Germania non avesse tutti i motivi di fare penitenza nell’umiltà davanti l’Onnipotente — di ciò parleremo in seguito — ma davanti agli uomini noi siamo nel buon diritto poiché noi siamo innocenti di questa guerra. Senza indugiarci in dettagli, che appartengono all’insegnamento della storia, dobbiamo mettere in rilievo che, fra tutte le grandi poArchivio Storico per la Sicilia Orientale. Anno XI, fase. III. Catania 1914. Notiamo un articolo di P. Lajolo «Sul passaggio delle chiese siculo sotto il dominio del Patriarca bizantino ».
Rivista Storica Italiana (Direttore: prof. C. Rinaudo). Gennaio-marzo 1915. Torino. Tra l’altro contiene recensioni delle opere: R. Cirilli: « Les prêtres danseurs de Rome »; — A. Casamassa, Grossi-Gondi Hisch, Ubaldi, Toniolo, Ma-rucchi : « Letture costantiniane • - P. Fr. Kehr: « Regesta pontificum romanorum ». Italia pontificia. Vol. VI - Mollat G.: • Les papes d’Avignon » -C. M. Ady: « Pius II the huma-nist pope » - G. B. Picotti: « La pubblicazione c i primi effetti della Execrabilis di Pio II ».
Atti dell'Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, in Bergamo. Volume XXIII (1913-14). Bergamo 1915. - A. Pinetti: « Gli arredi sacri d’una chiesa bergamasca secondo un inventario del Quattrocento ».
Alene e Roma, Ballettino della Società italiana per la diffusione e l’incoraggiamento degli studi classici. Firenze. Nel fase, di gennaio-febbraio 1915 - V. Ussani: «Motivi religiosi e morali nelle tragedie di Fedra».
Athenaeum, studi periodici di letteratura e storia. Direttore: prof. Carlo Pascal. Pavia Nel fase, di gennaio 1915: C. Pascal: « I frammenti inediti del Renan E. Solmi: « L’estetica di V. Gioberti » secondo gli autografi inediti - C. Pascal: « Sabazius-Sabazis ».
Nel fascicolo di aprile 1915 E. Solmi: « Concetto e fine della filosofia secondo gli autografi inediti di V. Gioberti « -
76
418
BILYCHNIS
A. Amante: «Contiibuto allo studio della poesia cristiana dei sepolcri » - C. Pascal: « Una iscrizione cristiana » - Ernesto Buonaiuti: « Rassegne di storia del Cristianesimo » III -U. Monti: « Bibliografia di Com-modiano ».
Studi Romani. Rivista di Archeologia e Storia. Nel fascicolo di luglio-ottobre 1914: P. Styger: • La decorazione a fresco del xn sec. della chiesa di S. Giovanni ‘ante portam latinam ’ ■ (La Chiesa - L’affresco frontale della tribuna -Gli affreschi laterali - Stile, tecnica e data - La decorazione pittorica della navata centrale- Il ciclo del Vecchio Testamento-Il ciclo del Nuovo Testamento - Il giudizio universale sulla parete dell’ingresso - Esame e datazione degli affreschi della nave centrale - I cicli biblici pitturali) -A. Munoz: « Indagini sulla chiesa di S. Sabina sull’Aventino » -E. Josi: • Giuseppe Gatti ».
Rivista I nternazionale di Scienze sociali e discipline ausiliario. Roma. Fase, del 31 marzo 1915: L. Valenti: • La delinquenza in Sicilia ■ -G. Carrara: < L’istituto della patria potestà nella legge di riforma del codice civile austriaco ».
Il Conciliatore. Direttore G. A. Borgese, Torino. Anno II. fase. i° - G. A. Borgese: « La letteratura italiana alla vigilia della guerra »-Luigi Salvatorelli fa l’esame delle opere seguenti: Guignebert, Le pro-bleme de Jésus - Harnack, Storia del dogma - P. Aliarci, Storia critica delle persecuzioni -Manaresi, L’impero romano e il cristianesimo - Schwarz, Kaiser Costantin und die christli-che Kirche - Koch, Konstantin der Grosse und das Christen-tum.
Psiche. Rivista di studi psicologici. Direttore prof. E. Morselli. Nel fascicolo di gentenze belligeranti, noi siamo i soli che non abbiamo nulla di tangibile da guadagnare per mezzo di questa guerra, mentre sappiamo bene cosa vogliono i nostri avversari: gli uni, i Balcani e la Scandinavia e vogliono venire a! mare, gli altri vogliono le perdute Alsazia-Lorena, i terzi le nostre colonie e — benché si abbia onta a dirlo — l’annientamento dal nostro commercio e del nostro benessere, non potendo il loro spirito mercantile sopportare più oltre la concorrenza. E d’altra parte nessuna altra nazione ha tanto da perdere quanto noi. Noi abbiamo in gioco un’incomparaoile ascensione economica, una cultura scientifica e morale di meravigliosa elevatezza, il sangue del nostro popolo, la stessa nostra esistenza. Soltanto la follia può provocare una simile guerra. La nostra guerra è una guerra di difesa, anche se, cosa che noi profani non possiamo giudicare, la nota austriaca alla Serbia, dietro cui si è £>sta la Germania, sia forse apparsa abbastanza dura.
ache se sia stata abbastanza dura — ciò che io personalmente non posso ammettere — anche se si fosse voluto realmente e appunto adesso piegare o spezzare la Serbia, ciò è senza dubbio avvenuto, perche i i nostri avversari, che da anni la aizzavano e l’armavano contro di noi, dovevano essere costretti ad una soluzione in un momento in cui noi potevamo affrontarla. Ciò vuol dire, che se i nostri nemici volevano contro di noi una guerra di distruzione, noi non dovevamo lasciar loro scegliere l’ora che meglio loro convenisse, non dovevamo aspettare sino al punto in cui la difesa sarebbe divenuta impossibile. Questa guerra perciò rimane una guerra di difesa, sebbene in un senso ben diverso di quella dei sette anni di Federico il Grande.
Noi abbiamo una coscienza pura. Nè ci deve indurre in errore la violazione della neutralità belga. Ogni studioso di storia sa come spesso non sia stato possibile un progresso culturale e morale che a prezzo del diritto formale. E chiunque sia capace di giudizio politico sa che simili trattati di Stato non possono essere mantenuti qualora sia in gioco l'esistenza stessa dello Stato. Si può rendere responsabili i nostri uomini di governo di non aver voluto sacrificare la Germania alla neutralità belga? Che essi non avrebbero dovuto, lo sapevano bene gli stessi Belgi quando fortificavano i confini tedeschi e lasciavano aperti quelli francesi! Anche senza la violazione della neutralità già progettata e visibilmente realizzata prima ancora dai nostri nemici, noi dobbiamo avere su questo punto una coscienza tranquilla. Poiché noi siamo stati onesti Così era onesta la confessione dell’ingiustizia formale, cosi era onesta la promessa di riparare il male fatto. Con orgoglio profondo ho letto quelle parole del Cancelliere al Parlamento; e Traub aveva pienamente ragione quando scriveva: (Christl. Freiheit, del 16.8): «In questo istante il Diritto con la testa alta traversò la sala, e la giustizia salutò il nostro popolo ». Ciò che abbiano fatto gli altri, mentendo in tutto o a metà, ciò lo sa Dio ed egli giudicherà; noi dobbiamo ringraziare l’Altissimo di averci data la forza dell’onore.
77
LA GUERRA
[Cambio] 419
Non abbiamo però indicato ancora il motivo più profondo della nostra coscienza tranquilla. Ci si potrebbe obbiettare: posto che non potevamo più svilupparci in pace, noi dovevamo rinunziare alla nostra possanza, alla nostra unità e indipendenza, noi dovevamo sopportare, pur soffrendo di essere oppressi e messi da parte. Ma noi domandiamo anzitutto : può uno stato in generale, come un individuo, esercitare una simile rinunzia, può un governo assumere la responsabilità di abbandonare milioni di sudditi alla miseria economica e spirituale a causa dell’arroganza straniera? Il nostro Stato tedesco, affermiamo noi con assoluta certezza, non poteva mai fare questa autorinunzia, altrimenti egli avrebbe tradito l’umanità. Un popolo che ha creato e dato all’umanità un Lutero, un Goethe, un Kant, un Beethoven non può volontariamente perire, non deve affogare nella Barbarie moscovita, non deve sacrificare la ricca eredità del suo spirito idealistico alla cupidigia inglese, nè la sua attitudine, spesso dimostrata, a onorare i valori stranieri allo chauvinisme francese. Io faccio appello a uno dei più grandi inglesi del secolo xix, al puritano Tommaso Carlyle, e domando se egli ci avrebbe permesso una così vile rinunzia. Non vogliamo affermare, benché non sia forse in ciò nessuna esagerazione e nessuna presunzione, che il nostro contributo tedesco alla cultura e alla moralità umana sia il più considerevole; ma dobbiamo però dire che esso è indispensabile. Non abbiamo bisogno di passare in rassegna tutti i doni, con cui Dio ci ha sovrabbondantemente benedetto. Che ognuno pensi a ciò che per lui è più caro e più grande, a quei che sono le leggende e le tradizioni tedesche, gli inni c i drammi tedeschi, la filosofia e la storiografia tedesca, le scuole tedesche e la medicina tedesca, la scienza esatta tedesca .e la tecnica tedesca, il lavoro tedesco nei campi e nelle fabbriche, la navigazione tedesca sul mare e nell’aria, la puntualità tedesca e il senso tedesco dell’ordine, lo spirito d’iniziativa tedesco e la sollecitudine tedesca e — noi dobbiamo affermarlo in questo momento — la giustizia tedesca (anche contro i nemici) e la fedeltà tedesca.
Dobbiamo noi assumere la responsabilità di abbandonare a prezzo di viltà questi tesori? L’Onnipotente che ce li ha dati, non ci ha imposto il dovere di custodirli e di salvaguardarli?
Ancora una volta:' noi abbiamo la coscienza pura in questa guerra. Cosa ci lega così profondamente e così completamente a questa certezza? Il fatto che il nostro coraggio e la nostra forza riposano sopra questa coscienza tranquilla. Noi abbiamo bisogno di coraggio e di forza, di ogni goccia di coraggio e di ogni nervo di forza, se noi vogliamo avere la vittoria. Per ciò il primo dovere di colui che insegna la religione è di fortificare e di approfondire la coscienza pura dei nostri scolari, di fondarla sopra basi incrollabili, per edificarvi sopra il coraggio e la forza, affinchè sia fatta vera l’umile e fiera parola di Bismark: « Noi tedeschi temiamo Dio e nien-t altro al mondo ».
naio-marzo 1915: Fr. De Sarlo: « I metodi della psicologia: II L’esperimento » - E. Bonaventura: «< Ricerche sperimentali sulle illusioni dell’ introspezione ».
Rivista di Filosofia. Segretario di Redazione: prof. G. Vi-dari, Torino. Editore: A. F. Formfggini, Genova - Nel fascicolo di gennaio-marzo 1915: V. Varisco: « La filosofia del cardinale Mercicr » - R. Mon-dolfo: « La filosofia in Belgio » - L. Ambrosi: L’Università di I.ovanio e Maurizio de Wulf » -A. Pastore: « Filosofia e Poesia nell’opera di Maurizio Maeter-linck », ecc.
La Cultura Filosofica. Direttore F. De Sarlo. Firenze. Nel fase, di gennaio-febbraio 1915: F. De Sarlo: « L’origine della Vita » - Nel fase, di marzo-aprile 1915: A. Alliotta: « Il nuovo realismo in Inghilterra e in America » - F. Belloni-Fi-lippi: <r La morale dell’età ve-dica ».
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica. Direttore: dott. Agostino Gemelli. Milano - Nel fascicolo di febbraio 1915: Gemelli: « Leggende e pregiudizi in tema di Scolastica » - G. Mattiussi: « Il problema della conoscenza » - B. Varisco: « Problemi e soluzioni ». - Nel fascicolo di aprile 1915: R. Bizzarri: « D’una nuova concezione d’estetica » - A. Gemelli: « Henri Bergson e la Neoscolastica italiana» - M. Billia: « Le ceneri di Lovanio e la filosofia di Tamerlano » -A. Fraticelli: « La filosofia della guerra in G. De Maistre ».
Cultura moderna. Direttore: Dom. Battaini. Mendrisio. Nel fascicolo di marzo-aprile 1915: L. Caetani: « Origine della Moschea » - H. C. I.ea: « Il culto delle Immagini » - H. C Lea: « Chiesa e Stato nel Medio-Evo ».
78
420
BILYCHNIS
La Nuova Riforma. Rivista di pensiero religioso e di etica sociale. Direttore: G. Avolio. Napoli. Nel fascicolo di marzo 1915: G. Avolio: « Contro la Ìuerra » - A. Crespi: « F. Von luegel, Naumann e la guerra ■ - Fr. Orestano: « L’esperienza morale ».
Nel fascicolo di aprile 1915: G. Avolio: « Verso la coscienza nuova » - A. Crespi: « Le ragioni ideali dell’antiprotezio-nismo ».
Vita e -pensiero. Rassegna italiana di coltura. Milano. Nel fase, del io marzo 1915: Mario Brusadelli: « La guerra di fronte al Vangelo »- Umberto Gil-berti: « L’Inghilterra nell' ora presente - - Nel fase, del 30 marzo: G. Toniolo: « Il dovere dei giovani » - F. Meda: « La guerra europea e gl’interessi italiani - F. Olgiati: « La morale socialista » - Nel fase, del 20 aprile: M. Vaussard: • L’ora presente in Francia » - C. Pettinato: « Il momento della Russia » - A. Gemelli: « Delenda Prussia! •- F. Meda: « La Violata neutralità del Belgio » -F. Olgiati: « Benedetto Croce e il Card. Mercier » - Nel fase, del io maggio: L. Caisotti di Chiusane: «Interessi italiani e problemi di civiltà nella guerra delle nazioni » - C. Meda: « Nel centenario di Fénelon » - A. Gemelli: « Contrasti e paradossi della guerra ».
Revue Chrétienne. Paris. Nel fase, di gennaio-aprile 1915 - J. Pannier: « Le ministèro pastora! pendant la guerre •-J.-E. Néel: « Kant contro l’Alfema-gne d’aujourd’hui ».
Revue de Teologie et de Phi-losophie. Lausanne. Nel fase, di gennaio-marzo ’15: C. Pòrret: « L’essence de l’E vangile » -P. B.: « Les Quakers et la guerre » - Esame dell’opera di H. Gunkel: « Was haben wir am Alton Testament? ».
Dio è con noi.
Il pastore dott. Ernesto Dryander pubblica in fascicoli i suoi « Discorsi evangelici nei tempi difficili » (1).
Il primo quaderno contiene quattro discorsi da cui riportiamo, fedelmente tradotti, quei brani che meglio valgono ad illuminare la psicologia religiosa dei tedeschi d’oggi. . .
Discorso I. Dio è con noi, chi -può essere contro di noi? (in occasione dell’apertura del Parlamento, il 4 agosto 19’4)« Con instancabile cura, il nostro Kaiser e Signore, ha tutto tentato per conservare la pace al suo popolo, e risparmiare al mondo un’indicibile miseria. Invano! » (p. 5).
0 Secondo l’espressione di Treitschke, noi abbiamo imparato che « l’uomo, il quale non guarda al suo Stato con entusiasmo manca di uno dei più elevati sentimenti della vita umana. Nella visione dello Stato, che ci ha allevati, e della patria, in cui giaciono le radici della nostra forza, noi apprendiamo quale sia la più prossima causa di questa guerra. Noi entriamo in campo per la nostra cultura contro l’incultura, per la moralità tedesca contro la barbarie, per la personalità, libera, tedesca e unita a Dio, contro gli istinti delle masse disordinate... Noi combattiamo per la nostra esistenza. Ma noi sappiamo che non lottiamo solo per la nostra esistenza, ma anche per l’esistenza dei beni più sacri, che noi dobbiamo salvaguardare: e Dio sarà con le nostre armi di giustizia! » (p. 7).
« Dio è con noi, chi può essere contro di noi? Se esiste una causa giusta, questa è la nostra. Ciò non ci garantisce però la vittoria. Per quanto grande sia l'ammirazione e la fiducia con la quale miriamo al nostro esercito ciò non ci assicura ancora una rapida sconfitta del nemico. Per quanto decisi noi siamo, di mantenere sino alla morte la fedeltà nazionale, si esigeranno incredibili sacrifizi da ognuno di noi. Chi conta, chi misura la miseria che ci sovrasta? Grazie a Dio, noi sappiamo qualche cosa d’altro. Noi sappiamo, che se Dio non ci dà quello che vogliamo, egli ci darà qualche cosa di meglio.... Egli ci darà, che nell’aspro e ardente fuoco di questi giorni vengano liquefatte tutte le scorie che si trovano nel nostro popolo e che venga fuori un nuovo, limpido po-Solo, ricco di fede, fermo nell’amore, fedele nella conotta, e con uno scopo nell’animo: difendere i nostri beni più sacri, la nostra patria ».
Discorso III. Lavila per i fratelli (il 6 settembre 1914).
« Ma una questione si pone subito: non si dà oggi sopra la cristianità e il suo Cristianesimo il più terribile giudizio? Questa guerra, di cui noi sanguiniamo, non è un’ingiustizia che grida sino al cielo, non è il contrario di tutto ciò che chiamasi Cristiano?
Non è messo sottosopra tutto ciò che nói riteniamo
(?) Evangelische Renden in Schwerer Zeit. Erstessteft. Berlin, bei Mittler; Kochstrasse, 68-71, 1914.
79
.LA GUERRA
[Pubblicazioni] 421
per giusto, per buono e per santo. Non c’è in essa una ironia non solo di tutta ¡'umanità, ma dello stesso Cristianesimo. che non ha potuto impedire questa orribile lotta? Certamente. Solo con profonda vergogna possiamo noi pensarci. Noi copriamo con onta il nostro viso di fronte al Signore in croce, che voleva che i popoli fossero una cosa sola nel suo amore. In virtù di questi pensieri, i Cristiani del nostro popolo hanno in questi giorni, indirizzato ai Cristiani esteri, e specialmente di America, una parola di spiegazione per indicare il delitto, che in questa guerra si commette contro l’opera dell'amore cristiano nelle missioni, col fatto che popoli cristiani facciano appello, come ad alleati e contro i fratelli nella fede, a Giapponesi pagani e a Negri incivili. Le conse-Suenze di quest’atto sono già sentite dalla coscienza dei ristiani di quei popoli, nel cui libro dei debiti è scritta la follia di questa guerra. Tuttavia se con ciò rimane una macchia incancellabile su) nome cristiano della nazione colpevole, che anche gli innocenti dovranno sopportare, essa non ricade affatto sopra il Vangelo nè sopra il Cristianesimo nè sopra il Signore » (p. 27).
Il risveglio religioso.
Lo stato di guerra ha provocato, intorno alle comunità Erotestanti della Germania, un risveglio religioso ana->go a quello verificatosi presso i cattolici francesi.
Riproduciamo su questo punto alcune testimonianze che si trovano nel fascicolo dell’ottobre 1914 della Monatschrift für Pastoraltheologie zur Vertiafung des gesamten pfarramtlichen Wirkens (Berlin, Reuther e Reichard) (1).
II dott. Hoffmann pastore della Corte del Würtem-berg, scrive:
« Quando noi arrivammo a Stuttgart, tutto era in pieno fervore... Il servizio divino era frequentato in tutte le chiese da un enorme numero di fedeli e una comunità numerosa partecipava alla Sacra Cena. I servizi divini di commiato propriamente detti erano celebrati per l’esercito solo dai cappellani militari. Il nostro Re prendeva parte con profondo sentimento ed era spesso accompagnato dalla Regina. L’affluenza al servizio divino della domenica è ancora oggi (alla fine di agosto) molto grande. La piccola chiesa del castello alle otto del mattino è già tutta piena e alle dieci schiere intere debbono ritornare, benché i posti riservati sieno stati messi a disposizione del pubblico e la sacristia sia quasi piena.
Presto furono organizzate le riunioni di preghiere per la guerra. Queste vengono distribuite secondo la possibilità nelle chiese della città in modo che in una chiesa — e in alcune anche contemporaneamente — ce ne sia una ogni sera. La comunità della Corte tiene la sua alle sei del mattino, le altre chiese più tardi. Però anche le riunioni mattutine sono, in queste circostanze, accolte
(1) Rivista di caràttere conservatore.
The Princeton. Theological Review. Nel fascicolo di gennaio 1915: F. W. Loetscher: « Church History as a Science and as a Theological Discipline » - E. S. Buchanan: « Sermo Sancti Augustini Episcopi de Dilectione Dei et proximi ».
The Constructive Quarterly. A journal of the faith, work and thought of Christendom. Nel fase, di marzo 1915: E. Schàder: « Theocentric Theo« logy: In Peace and in war • -Principal Selbie: « The Churches, the War and the Future »-M. G. R. Batiffol: «TheCatholic Church and war ■>.
A A ft
Pubblicazioni pervenute alla Redazione
Opuscoli e libri:
— .Alberto Colosimo: Giovinezza e .amore. Conferenza tenuta presso l’Associazione degli Studenti universitari per la cultura religiosa. Napoli, 1915. L. 0,40.
— Un vecchio democratico cristiano: Per la sincerità (discussione intorno alla guerra). Torino, Associazione Stud. per la Cult. Rei., 1915.
— Emilio Pinchia: Le malinconie della forza-B. von Bulów: La Germania imperiale. Presso C. Gay. via Roma, 373, Napoli, 1915. L. 0,20.
— Emilio Pinchia: L’Azione cristiana nei « Promessi Sposi ». Torino, Associazione Stud. per la Cult. Rei., 1915- L. 0,40.
— Pendant la guerre. Quinta serie di discorsi religiosi sulla guerra pronunziati a Parigi dai noti predicatori E. Gonnelle, W. Monod, H. Monnier, J. Viénot, ccc. - Paris, Fischba-cher, 1915. L. 1,25.
80
422
BILYCHNIS
— H. Bois: Patrie et huma-niU. Conference, Paris, Fischbacher, 1915. Pag. 74. Cent. 75.
— Jean Lafon: Evangile et Patrie. Discours religieux. Paris, Fischbacher. 1915. Pag. 210. L. 3,25.
— Emilio Pinchia, La missione dell'Italia neU’ammaestra-mento di Vincenzo Gioberti. Roma, Voghera, 1915. Pagine 181. L, 2.
— Luigi Pietrobono: II poema sacro. Saggio d’una interpretazione generale della « Divina Commedia ». Bologna, Zanichelli, 1915. 2 voll, di circa 350 pagine ciascuno. Prezzo di ogni volume L. 3.
— Gaetano Salvemini Mazzini. Ed. Battiate, Catania, 1915. Pag. 200. L. 2.
— Ludovico Keller: Le basi spirituali della massoneria e la vita pubblica. Todi, Casa ed. « Atanor », 1915. Pag. 170. L. 3.
L'abbonamento alla Rivista deve pagarsi in anticipo.
Molti nostri lettori hanno fatto il loro dovere senza attendere sollecitazioni e ne li ringraziamo.
Ai molli altri, che, col non avere sin qui respinto la Rivista, hanno manifestala l’intenzione di continuare il loro abbonamento, rivolgiamo calda preghiera di non tardare più oltre ad inviarci il modesto imporlo, evitando di costringere a valerci
con riconoscenza e l'affluenza è grande. I concerti spirituali nelle chiese hanno un grande successo » (p. 7).
Il pastore dott. Paolo Griinberg di Strasburgo scrive:
« Senza dubbio anche in Strasburgo si è dimostrata la verità della sentenza: « Necessità insegna a pregare ». Molti parlano e scrivono nuovamente del buon Dio, della preghiera e dell’intercessione, cose a cui non erano pili abituati. La frase « Dio sia ringraziato » dopo le prime notizie consolatrici della vittoria non risuona più come una semplice frase sulle labbra di molti. L’affluenza alle chiese, ai principali servizi divini, era in questa settimana molto più accentuata che una volta. Le speciali cercmonie della S. Cena che sono state organizzate in via straordinaria non hanno trovato quel numero di partecipanti che parecchi parroci si aspettavano. La consuetudine di ricercare perdono, consolazione e forza in tempi speciali e difficili nel godimento della Sacra Cena è andata largamente perduta; si ritrova più facilmente la via della preghiera e delia predica che quella della Santa Cena. Le cercmonie serali e le ore di preghiera, organizzate ogni giorno in quasi tutte le chiese, trovano dopo due o tre settimane ancora molti partecipanti, si può dire di parecchie centinaia di più nelle diverse chiese. La semplice apertura della Chiesa non sarebbe di fatto bastata; i cristani evangelici esigono quando essi visitano la casa di Dio, la « Parola » e a buon diritto. Tuttavia, secondo il mio giudizio e le mie osservazioni, i visitatori delle ore di preghiera formano solo una piccola frazione della popolazione e quasi tutti appartengono ai circoli ecclesiastici. Io non credo che le persone, le quali si erano allontanate del tutto dal servizio divino sieno state sospinte verso la chiesa dalla necessità del momento, in quantità degna di essere rilevata. Però molti fedeli indolenti e negligenti diventano più ardenti e più zelanti. Non deve tuttavia essere taciuto che l’impulso alla frequenza dei servizi speciali di preghiera si è allentato dopo che, grazie alla piega favorevole presa dagli avvenimenti guerreschi, la nostra città e i loro dintorni furono sottratti al pericolo e la preoccupazione e l'affanno divennero trascurabili » (p. 11).
Come occorre predicare.
Lo stesso fascicolo della Rivista contiene un articolo di Paolo Wurster su « La predica e la guerra • (p. 36 ss.) in cui l’autore esamina i compiti della predicazione di fronte alla guerra attuale. Dopo di aver affermato che la predicazione non può prescindere dai tragici avvenimenti del giorno, egli dice che il suo primo compito deve essere quello di mettere in piena luce i rapporti che le-Sano l’individuo alla massa e i sacrifizi che il popolo, per suo progresso morale e per il raggiungimento dei suoi scopi, esige da quello.
« Se noi ci domandiamo — prosegue lo scrittore — cosa ci sia di particolare negli avvenimenti attuali e quale sia il compito della predicazione di fronte ad esso, non può essere dubbio che noi abbiamo una funzione simile a quella dei profeti dell’antico testa-
81
LA GUERRA
[Cose nostre] 423
mento. Noi dobbiamo interpretare gli avvenimenti del tempo alla luce della verità divina. Qui è il centro di gravità del nostro compito. Si tratta di render chiare al nostro popolo le intenzioni della provvidenza divina, e ciò importa umiltà fondamentale.
Noi dobbiamo riconoscere tranquillamente (come è avvenuto nel 1870) questo fatto: il nostro popolo non ha voluto questa guerra. Dio ha lasciato liberamente agire menzogna e inganno, spirito di vendetta e di cupidigia. Che ciò sia potuto avvenire tra popoli civilizzati, è già per noi una grande umiliazione, una prova come la « Cultura » del nostro tempo sia superficiale, malgrado l’esaltazione di tutte le cose che noi abbiamo vissuto. Come subito irrompa la brutalità, la crudeltà, la volgarità, quando 1’« umanità • rimane senza la divinità si può facilmente vedere da segni concreti. E però l’esposizione delle nere macchie dei nostri avversari diventa subito per noi una predica di penitènza » (p. 40).
« Noi dovremmo avere un profeta tedesco od essere noi stessi un profeta, che mostrasse con parole infiammate al nostro popolo come il libertinaggio francese (maltusianismo artificiale), la frivolezza sotto la maschera dell’eleganza e del piccante, la violenza brutale sulle deboli forze economiche, l’avidità e l’avarizia inglese, la falsità e il mendacio russo hanno sciaguratamente preso piede tra noi, come i belgi non sarebbero stati così disfatti se essi non fossero annegati nell'alcool più di noi, ma che però è anche questo un vecchio ereditario vizio tedesco, contro il quale ben pochi tra noi osano battere in breccia, chè la maggior parte dei tedeschi sono troppo indolenti e troppo egoisti per combatterli con un movimento popolare decisivo. Bisogna predicare al popolo in questa maniera concreta e a lui accessibile non con parole vaghe di peccati e di penitenza che lasciano il tempo che trovano ■» (p. 40-41).
« Tuttavia non è da ammettersi che la guerra venga designata come una punizione divina per la Germania. Ciò che c’è di vero in questa concezione, deve venire necessariamente compreso male e provocare un dispetto inutile. Il nostro popolo capisce la « punizione » secondo la concezione dell’antico testamento: poiché un popolo ha commesso di fronte ad altri alcuni determinati peccati, perciò Dio gli applica determinate pene come la guerra attuale. Si può facilmente obbiettare infatti che i neutrali non sono migliori di noi e che la Germania sarebbe ingiustamente punita di ciò che essa voleva onestamente evitare e per aver voluto rimanere fedele. Parliamo piuttosto di giudizio e di afflizione, mostrando più chiaramente come i popoli sieno legati l’uno all’altro così che se un membro soffre anche l’avversario deve soffrirne. Cosi più chiaro diviene anche il pensiero, che il professore dott. Schoell ha esposto limpidamente e con forza nella sua predica sopra Giov. 12, 31: nella tempesta della guerra, che Dio permette, anche il male è da noi serenamente giudicato. Così la guerra ci appare come un messaggio divino, a cui un cristiano ha l’obbligo di sottomettersi. Questo messaggio non può chiamarsi santo; basta però che esso sia giusto. Poiché esso
di tratte •postali, come stiamo facendo per l'esazione dei nostri credili presso un certo numero di associati morosi del 1914.
Uno dei primi doveri del patriota in tempo di guerra è di fare tutto il possibile per mantenere i propri impegni.
C’è chi approfitta della guerra per non fare il proprio dovere. Se tutti facessero così, l’Italia diverrebbe muta ed inerte come un masso di creta.
C’è chi si rifiuta di pagare i suoi debiti col pretesto della guerra, sebbene non gli manchino i denari. I nostri fratelli alla frontiera, nella guerra, pagano! E tra coloro che rimangono a casa, c’è chi non vuol pagare perchè... c’è la guerra, e non si sa che cosa riserbi il domani!
Questa non è previdenza!
E’ egoismo vile. Questo è materialismo cupo, di gente senza fede e senza speranza.
Caro Professore,
Bilychnis ha ragione di insistere sui pregi della simpatica rubrica «Vitalità e vita nel Cattolicismo • affidata al dottor Rutili. Avrebbe potuto anzi dispensarsi affatto dal pubblicare i goffi rilievi del malinconico anonimo... Curiosi questi filosofi, credenti o semplicemente studiosi, del cristianesimo! Ma o che per aver diritto alla critica di questa o di quella Chiesa ci vuole un blasone filosofico? E le sante scudisciate di Gesù nel Tempio, ai mercanti non sarebbero dunque legittime perchè il Rabbi non esibì il suo bravo sistema?
Quella prudenza poi! La somma delle virtù cristiano per quel signore! Si sa, poi, dal prudente riserbo verso la Chiesa di Roma, dal rispetto ai suoi secolari
82
424
BII.YCHNIS
Istituti che cosa egli speri pel futuro?
Forse che Roma si faccia cristiana?
Ma lo incoraggi il Rutili (se ne ha bisogno) caro Paschetto, lo incoraggi a proseguire, senza riguardi che non sarebbero prudenza ma paura e viltà! Esponga e documenti e non abbia che uno scrupolo, la Verità!
Pubblichi pure, se crede, e m’abbia per
Suo affino
Per mancanza di spazio siamo costretti a rimandare ancora una volta le Cronache del R utili.
è qualche cosa che non dovrebbe essere; cioè in definitiva l’influsso del male e di tutto ciò che può stimarsi tale, e infine punizione dei peccati. Però come Palmer lo aveva Predicato nel 1870, esso rimane la grande realtà, con cui »io scuote gli uomini: « La realtà, il fatto è una forza, che noi non possiamo spezzare, e nessun uomo intelligente va con ostinazione a dar di cozzo contro un muro; nella via della storia, Dio realizza la sua volontà e noi dobbiamo adattarci ad essa, lo vogliamo o no» (ib agosto 1870).
« Accanto all’umiltà c’è l’elevazione. Noi infonderemo al nostro popolo un coraggio nuovo, in quanto noi rafforzeremo la sua fede. Qualche cosa è mutato di ciò che la gente cercava prima quasi sempre e anzitutto, poiché in questi giorni essa accorre numerosa in chiesa. Senza dubbio, Schleiermacher si sarebbe poco rallegrato di vedere, come dopo la battaglia di Jena, venire tutti in chiesa; egli avrebbe veduto in ciò il predominio di una disposizione effimera derivata da un egoistico bisogno di consolazione. Perciò egli tentò con prediche di acciaio di estirpare simile sentimento » (p. 42).
& & A
• Egregio Professore,
« Come avevo promesso il mese scorso Le mando il mio abbonamento per il 1915 alla cara rivista Bilychnis »... Ed ora mi permetto di fare una proposta: non sarebbe bene lasciare un piccolo spazio nella rivista per coloro i quali vorrebbero avere degli schiarimenti sopra l’insegnamento biblico?... Credo che ciò farebbe del bene a molti. Che ne pensa?... ».
— Va bene. In questo cantuccio c’è posto anche per chi vuol venire a chiedere schiarimenti. E noi, coi nostri amici, faremo del nostro meglio, per rispondere utilmente. [Rcrf].
LIBRERIA EDITRICE "BILYCHNIS”
Via Crescenzio 2, ROMA
Giorgio Tyrrell (Novità). È uscita — per le cure delia Libreria Editrice Milanese e trovasi in deposito presso la nostra libreria — là tanto attesa traduzioII perdono dèi nemici.
Su «i La quinta domanda del Padre Nostro e l’Inghilterra », il pastore Federico Lahufen tenne una predica, il 7 marzo 1915, nella Chiesa della Trinità a Berlino (1).
«Chi è colpevole di fronte a Dio di questa guerra? si chiede il pastore. Un gran coro di popoli rivolti ai tedeschi grida: Voi siete i colpevoli ! E le persone pie pregano infatti nelle loro chiese che Dio ci perdoni, dopo però di averci puniti. Tuttavia anche se tutto il mondo fosse contro di noi, anche se esso dovesse alla fine sopraffarci con la sua prepotenza, noi grideremmo col nòstro ultimo respiro: No, mille volte no, noi non siamo i colpevoli. Noi non rinnegheremo inai la giustizia della nostra causa. Noi non ci piegheremo mai dicendo: Padre perdonaci la colpa di questa guerra mondiale ».
Di questa guerra, dice il pastore, i tedeschi non sono colpevoli che in quanto essi erano colpevoli dello spirito d’indifferenza verso Dio, dello spirito di egoismo e di avidità, di turbolenza e di odio, di quello spirito peccaminoso che fu la causa remota della guerra.
Da buoni cristiani però, i tedeschi debbono perdonare.
« Noi dobbiamo perdonare — ma come ciò è difficile! Come ciò è difficile in un’epoca, che è piena di ardente collera e di odio inesorabile, che mette gli uni contro gli altri non solo degli individui ma dei popoli, esasperati sino alla morte. Il nome di un popolo è in tutte le nostre anime e a cui l’anima popolare attribuisce tutta la miseria infinita, tutta la sofferenza sanguinante di questa Euerra. All'Inghilterra, noi non possiamo perdonare.
•i fronte siringhi!terra non parla in noi nessuna voce
(1) Die. fünfte Bitte des Vaterunsers und England, Berlin, Verlag von Martin Warneck, 1915.
83
LA GUERRA
[Libreria]
425
di amore, ma solo di collera, di odio e di disprezzo, di punizione, di maledizione »
Tutto ciò non distrugge però il precetto perentorio di Gesù che impone di perdonare ai propri nemici. L’odio è una debolezza e non una forza. « Nell’odio noi perdiamo Dio. Dio non si ritrova nell'odio, Dio può essere solo con coloro i quali sono con lui, il Dio dell’amore eternò. Noi dobbiamo metterci dalla parte di Dio, noi dobbiamo poter menare la spada tedesca nel nome di Gesù. Noi lo possiamo solo nell’amore di Dio, e l’amore di Dio è perdono. Noi dobbiamo vincere tutto ciò che nel nostro intimo è nemico di Dio, perchè Dio ci faccia dono della vittòria sopra i nemici ».
Si deve odiare e detestare l’orgoglio, l’egoismo, il tradimento, la crudeltà, la menzogna e l’ipocrisia dei nostri nemici, ma non le persone. « Dio abita anche nell’odio, ma nell’odio contro il male ». Ai nemici si deve perdonare « perchè non sanno quel che si fanno ».
A. D.
Pastorale dei vescovi tedeschi.
Dalla pastorale indirizzata nello scorso decembre dai vescovi cattolici tedeschi, e firmata dagli arcivescovi di Colonia, di Friburgo, Bamberga, Breslau e molti altri vescovi, togliamo alcuni brani salienti.
« La guerra è un giudizio per tutte le nazioni da essa afflitte, ed un solenne invito alla penitenza e all’espiazione. Guai alla nazione che non può essere indotta a penitenza neppure da questo terribile flagello: essa è matura per la distruzione; anche la vittoria sarebbe per essa, in realtà, una disfatta... Noi non ci curiamo di rivedere il libro del rendiconto delle altre nazioni, nè di esaminare la coscienza dei nostri nemici: il nostro rendiconto e la nostra coscienza ci bastano. Noi siamo innocenti dello scoppio della presente guerra: essa ci è stata imposta, e di ciò possiamo testimoniare dinanzi a Dio e agli uòmini. Tuttavia non abbiamo ragione di menar vanto della nostra innocenza. I.a guerra ha messo a nudo anche le nostre colpe... Quante volte noi Vescovi abbiamo dovuto, nell’angoscia del nostro spirito, lamentare ad alta voce la decadenza della religione e della vita morale! Anche nella nostra nazione, era, prima della guerra, penetrato estesamente lo spirito di una civiltà « moderna » anticristiana, irreligiosa, ed anti-tedesca, corrotta nel suo stesso fondo, con la sua vernice esterna e la sua putredine interna, con la sua ricerca volgare della ricchezza e del piacere, con i suoi superuomini altrettanto ridicoli quanto arroganti, con la sua spregevole imitazione di un’arte e di una letteratura straniera tutta infetta, e perfino delle più vergognose stravaganze della moda femminile. Questa è la colpa più grave del nostro popolo e nostra: ed essa richiede penitenza ed espiazione... ».
ne italiana dall’Autobiografia e Biografia di Giorgio Tyr-rei.. È un grosso volume di 6S0 pagine, con illustrazioni. Prezzo L. 15.
Sommario. — A utobiografia (1861-1884). 1. Dublino; Nascita; Primi ricordi - 2. Po-tarlington e Bray - 3. L’età della ragione -4. Vita scolastica e collegio di Rathmines -5. Infingardaggine e incredulità - 6. Recite drammatiche; Collegio di Middleton - 7. La « Analogia ■ di Butler e Gran-gegorman - 8. La « Chiesa alta » e influenze cattoliche ; Morte del fratello - 9. Lo sforzo di credere; Amicizia con Roberto Dolling - io. Londra; Conversione e vocazione - 11. Vita in Cipro - 12, Malta; Prime impressioni della Compagnia di Gesù - 13. Casa di Manresa; Noviziato dei Gesuiti - 14. Stonyhurst; L’enciclica Aeterni Patris » e l’accoglienza fattale dalla Compagnia -15. Gli amici di Stonyhurst - 16. Tomismo e Suare-zianismo.
Biografia (1884-1909): 1. Carattere e temperamento - 2. Il periodo centrale della sua vita nella società e gli scritti dal 1885 al 1900 (Sacerdozio - Tomismo - Primi scritti) ; « Nova et Voterà »; ■ Hard Sayins»; « External Religion »; Incertezze;« Gli esercizi spirituali »-3. Una lunga amicizia-4. Liberalismo conciliante -5. «A perverted Devotion » - 6. Richmond (Il presbiterio e le sue adiacenze; Attività repressa) - 7. La lettera pastorale collettiva - 8. Lavori compiuti nei suoi ultimi anni di Gesuita -9. Il distacco da Newman - io. Rottura con la Compagnia di Gesù-11. La storia intima della separazione - 12. I suoi rapporti coi Gesuiti - 13. Azione militante - 14. La sospensione « a Divinis » — 15. Pio X e là « Pascendi » — 16. La scomunica -17. Modernismo - 18.
84
42Ó
BILYCHNIS
_i______
« La chiesa de! suo battesimo » - 19. Il problema cristologico -20. La Chiesa dell’Avvenire -21. La fine del viaggio -22. • In pace crat focus ejus » -23. Conclusione.
a a a
(Novità]. Gaetano Salvemini; Mazzini. Catania, 1915. Volume di pag. 200. L. 2,50. -Estero L. 2,75.
Parte prima. Il pensiero: Il criterio della verità - Le « basi di credenza » - La educazione del genere umano - Le religioni del passato - La discordia è per ogni dove - La nuova rivelazione - La nuova dogmatica-La nuova morale: il dovere - I.a nuova politica - Le repubbliche unitarie e democratiche - La teocrazia popolare - I.a teoria delle liberta -Le rivoluzioni nazionali e democratiche - La missione dell'Italia - La terza Roma - Carattere religioso del mazzinia-nismo.
Parte seconda. L’azione: Influenze immediate e influenze mediate - Insuccesso della predicazione religiosa mazziniana -Unità e repubblica nel pensiero mazziniano - Unità e repubblica nell’azione mazzinia-na-Mazzini egli altri repubblicani - Mazzini e l’Unità d'Italia — Mazzinianismo e Socialismo: le analogie - Mazzinianismo e Socialismo: le opposizioni-]! mazzinianismo sociale nel risorgimento italiano.
A & A
(Novità]. Guglielmo Quadrotta. li Papa, l'Italia e la Guerra. Con prefazione di Francesco Scaduto. Milano, 1915. Voi. di pag. 175- L. 2.-Estero L. 2,25.
Sommario: La chiesa romana alla morte di Pio X-II conclave di Benedetto XV -La figura del Papa e la sua preparazione politica - La caINGHILTERRA
Il clèro e la guerra.
Più recentemente, nell’adunanza annuale dell’episcopato della « Chiesa Inglese » dell'arcidiocesi di Canterbury, l’Arcivescovo e Primate d’Inghilterra ha volto fra altri, questo monito al suo clero e laicato: « È nostro compito di sostenere... i principi di un onore incontaminato, di un forte controllo sulle passioni, di una impavida difesa della verità, di una risoluta clemenza verso i deboli e i vinti, dell’astensione da ogni atto che sia ispirato soltanto da vendetta o che possa degenerare in crudeltà e odio. La voce della Chiesa di Cristo deve levarsi costantemente in difesa di questi principi: e forse il giorno non è lontano, in cui dovrà levarsi alta e potente. Noi vogliamo ottenere, che la levata in armi degli uomini e delle donne di questa nazione sia tale, che non fornisca alcun motivo di vergogna:... solo cosi, la nostra posizione e la nostra responsabilità di condottieri nella Chiesa di Cristo sarà giustificata ».
E il vescovo di Londra soggiunse che « Dovere della Chiesa è di alimentare la fortezza della nazione; recar conforto agli afflitti; inculcare una visione più lieta e sorridente della morte; provvedere perchè quelli che sopravvivono siano soccorsi a sufficienza; alimentare lo spirito dell’amore pei nemici; dirigere la nazione nel suo scongiuro a Dio... ».
Il Cardinal Bouree, arcivescovo di Westminster ha diretto ai fedeli della sua arch ¡diocesi una lettera pastorale nell’occasione della quaresima. Anch’egli, come l’episcopato cattolico tedesco, tocca argomenti morali, connessi con la presente guerra solo lateralmente. « Migliaia di giovani — egli dice — che sembravano frivoli, leggeri, dediti ai divertimenti, e forse al peccato, si sono elevati ora ad una nuova coscienza del vero significato e dello scopo della loro vita. I.a guerra ha dissipato molte delle nubi che facevano pronosticare vicina la decadenza e la dissoluzione dell’impero inglese. Uno spirito latente di eroismo, un profondo senso del dovere: un intenso amore dell’impero e della nazione: una prontezza a sagri-ficare le comodità e gli agi e a rinunziare alla vita stessa, per mantenere intatta l’eredità trasmessaci dai nostri padri — tutte queste qualità hanno emerso in un grado tale, che nessuno avrebbe potuto sospettare. Sembrerebbe esser disegno della Provvidenza, che la nostra patria compia ancora una vasta missione, e che tutte le nazioni che costituiscono l'impero siano strette in una unione di fini e di scopi, più intima che mai... ».
Una lettera apparve sul Times del 18 febbraio, firmata: « Clergyman » (Ecclesiastico). Essa terminava con le parole: « ... Mentre tuttodì leggiamo di ministri delle Chiese Cristiane >< dissidenti » che si arruolano nell’armata, è cosa da provocare per lo meno un senso di critica, l’osservare che i nostri parroci e vice parroci (della « Chiesa Inglese » di Stato) rimangono comodamente nelle loro case, laddove l'intiero elemento virile della nazione si sforza di sconfiggere la Germania... ».
85
LA GUERRA
[Libreria]
427
Questa lettera ha suscitato un diluvio di repliche, per la maggior parte di protesta, comparse per più giorni sul Times. Ne riferisco qui parzialmente una, indice abbastanza esatto dei sentimenti della maggioranza del clero:
« Tra il clero giovane a cui io appartengo, vi è stato e vi è un gran desiderio di prender parte in questa gran lotta, da cui dipenderà il futuro indirizzo della civiltà: e il mezzo che si presenta più ovvio è, certo, di offrirsi per l’armata. Tuttavia un momento di riflessione è sufficiente a cambiare l’oggetto delle nostre ambizioni. Se ogni parrocchia ha fornito in proporzioni diverse il suo elemento virile per la difesa della nazione, questo esodo di uomini, ed i problemi morali e sociali che esso fa sorgere e che sono destinati a divenire particolarmente seri, impone un onere.assai grave sui pastori di questo popolo. La grande opportunità che ad essi si presenta, e quella della necessità impellente, per quanto certo meno feconda di glorie, di mantenere nelle famiglie un’atmosfera di sana religiosità. E quando questa guerra — questo cozzo devastatore di ideali, — verrà a termine, vi sarà da provvedere e da organizzare l’assestamento della società. Il nostro ufficio pastorale è di insegnare costanza e calma: di arrestare i mali che inevitabilmente accompagnano questa gigantesca sospensione della vita normale: di predicare l’abnegazione e lo spirito di mortificazione: di preparale l’ambiente, al ritorno vittorioso delle nostre truppe — quando il trionfo tenderà a degenerare in eccessi: di convincere la popolazione che la nostra causa non è quella della forza sregolata, ma poggia sulla ferma convinzione che noi rappresentiamo quei principi che rendono la vita bella e fiduciosa. Non c’è dubbio, che v’è abbastanza lavoro, patriótico, benefico e cristiano, per quelli che sentono, pur con riluttanza, che il loro primo dovere è di servire, attendendo con pazienza e senza attrattive romantiche, alia grande opera della vita interna della nazione: opera, il cui valore permanente e necessario corre il rischio di venir dimenticata nell’entusiasmo contagioso di una guerra grandiosa e orribile, ma passeggierà ».
D’altra parte, in alcune provincic e città, specie in Scozia, molti ministri hanno rinunziato al loro ufficio Eistorale, o ottenuto licenza di assentarsi, per arruo-rsi nell’armata come soldati: e a Glascow si è formato uno speciale reggimento di ministri per la difesa nazionale. E inoltre da notare, che oltre ai ministri della Chiesa inglese arruolatisi, più di 2000 di essi prestano servizio di cappellani volontari nell’armata; molti si trovano nell’ambulanza; e molti studenti di seminari teologici o di università aspiranti al pastorato, si sono, pure, arruolati.
• • •
Esiste in Inghilterra la federazione nazionale delle Chiese Nonconformiste. Il consiglio direttivo di essa ha voluto offrire al clero di quelle Chiese l’opportunità di discutere i vari problemi sollevati dalla guerra, e a tale scopo organizzò un’adunanza nella vasta sala di
duta del potere temporale e la politica ecclesiastica del nuovo regno - La legge delle Guarentigie e il suo valore - Il Vaticano e la partecipazione dell’italia alla guerra delle nazioni - Benedetto XV e l’Italia-Il papato in Europa -Documenti.
[Novità]. N. Turchi, La civiltà Bizantina. Torino, 1915. Volume di p. 330. L. 5. - Estero L. 5.50.
Sommario: Introduzione -1 caratteri della civiltà bizantina - L’economia commerciale ed agricola dell’impero bizantino - I.e fasi della storia politica di Bisanzio - La letteratura bizantina-La religiosità bizantina - Un patriarca bizantino nel sec. IV: S. Giovanni Crisostomo - L’arte bizantina.
A A A
Introduction à l’Ancient Tes-tament par Lucien Gautier de l’Université de Genève. Seconde édition revue. Lausanne, 1914. Due grossi volumi in-8° di oltre- 500 pa-5ine ciascuno. Prezzo dei
ue voli, a’ Roma L. 22,75; in Italia L. 23,25.
Religione e guerra
Alle pubblicazioni riguardanti questo soggetto da noi annunziate nel fascicolo di febbraio p. 170-171, e che abbiamo in deposito, si aggiungano le seguenti:
A A A
[Novità]. H. Bois, Patrie et humanité. Conférence. Volumetto di pag. 73- L. 0,75 (A beneficio delle vittime della guerra).
86
428
BILYCHNIS
¡Novità]. Jean Laion, Evangile et Patrie. Discours religieux (2 aout-25 décembre 1914). Pagine 210, L. 3,25.
Sommario. — 1. Notre forteresse - 2. Patriotisme chrétien - 3. Aux femmes-4. Royaume et Justice de Dieu-5. L’attitude de Jésus devant la doleur - 6. Le but de la vie -7. Temple en ruines et Temple Etemel - S. La jeunesse de demain - 9. Foi et délivrance -io. Nos morts-u. Comment prier?-12. Pourquoi célébrer la fête de Noël?
A A A
[Novità] . Pendant la guerre, 50 volumetto, contenente queste prediche: La Prière qui rend vainqueur, di E. Gonnelle; Comment durer, di W. Monod; Devan l’avenir, di H. Monnier; Les « bons français », di J. Viénot; Garde-moi! di A. W. d’Aygalliers; L’invisible, di L. Maury. Anche questo, come i precedenti quattro volumetti, costa L. 1,25.
Kingsway in Londra. Sì gli oratori che gli arguenti nella discussione che seguì, sostennero il punto di vista della legittimità della difesa dello Stato dai nemici sì esterni che interni, e la non incompatibilità di tale politica con la dottrina del Cristo.
Il Rev. Thomas Phillips, zelante pastore Battista della Missione Centrale di Londra, espresse il concetto che l’ora presente è spettatrice di una esplosione improvvisa di un grande cumulo di idee false ed erronee: e che, come dopo la Crocifissione, alla vasta esplosione seguirà una conversione del mondo, volto alla penitenza. Egli citò un brano di una lettera del Dr. Rendei Harris (un « Friend » noto ai nostri lettori): < II tempo è cattivo, ma pure vi sono ancora dei pesci nel mare: gettate pure la vostra rete dal lato buono della barca, e troverete ancora quantità di pesca. Anche noi abbiamo avuto i nostri Bernhard! inglesi. Ma il popolo, gli operai, sentono la contradizione che vi è nella predicazione della guerra fatta da un ministro Cristiano ».
[Novità]. Abbé Thellier de Poncheville, Pour ceux qui luttent, pour celles qui souffrent. Viatique de guerre. Paris 1915. Pag. 150. L. 1,25.
Sommario: I.e Pater du soldat - Notre mère du ciel -Les mystères douloureux de la guerre - I.es mystères glorieux - Pour ceux qui meurent - Tristesses et espérances -Pour celles qui souffrent au foyer - La mission de la Croix-Rouge.
A A A
[Novità]. Mgr. L. Lacroix; Le Clergé et la guerre de 1914. Paris, 1915. - Pubblicazione periodica. Abbonamento a 20 fascicoli L. o - Sono finora usciti i seguenti volu♦ • •
Sulla « Christian Commonwealth » in un numero di febbraio il Reverendo Leyton Richards espone così, nettamente, i Suoi principi di « non-resistenza • da un punto di vista che egli chiama cristiano: e Benché non un tolstoiano, pure credo che la guerra fra nazioni civili nelle condizioni moderne è sempre un delitto contro l’umanità e una violazione dello spirito cri stiano. Nel mio modo d’intcrpretarlo, il Nuovo Testamento dice questo: « L'amore, esso può bensì usare la forza: ma l’odio no. E anche l’amore non può fare un uso della forza che riesca alla negazione dello stesso amore Il fine non può giustificare i mezzi ». Ora, applicando questi principi alla guerra, la loro portata è ovvia. « Chi predica la guerra — dice un vecchio proverbio — è il cappellano del demonio ». La guerra è un inferno... Essere complice dellTnferno, non è possibile per un Cristiano, per quanto nobile sia il motivo che lo sospinge. Io per me non ammetto che il • casus belli » nella presente guerra sia stato fornito dalla neutralità del Belgio: ma molti lo ammettono, ed io non posso disconoscere e non apprezzare la nobiltà del motivo che ha spinto i figli della nazione a combattere. Però, il fine non giustifica i mezzi: benché l’amore possa usare la forza, neppure l’amore può usare un genere di forza che sia la negazione dello stesso amore. L’amore non può ado-prare strumenti infernali.
I.o spirito cristiano non significa solo il disarmo negativo, ma implica il corollario di una politica estera cristianizzata: la convinzione, tradotta nei rapporti internazionali, che la buona volontà, la rettitùdine morale, lo spirito cristiano adottato nella pratica, sono forze che rendono inespugnabile sì una nazione come un individuo; e che, « se Dio è' con noi ■ nessuno può prevalere contro di noi. Perchè una nazione intiera si conduca, facendo solo assegnamento sulla sua professione cristiana, si richiede che essa possegga una eie-
87
LA GUERRA
[Libreria]
429
vata audacia morale: ma io credo, che se una nazione avesse questo coraggio di correre il sublime rischio, essa imprimerebbe un tale impulso di progresso al Regno di Dio sulla terra, che innanzi ad esso le politiche machiavelliche di un’Europa armeggiante si Sgominerebbero e languirebbero.
Ma supponiamo anche che questa fiducia fosse mal posta: supponiamo che il mondo non rispettasse la testimonianza cristiana resa dalla nazione che deliberatamente disarmasse: e che allora?— Una nazione cristiana, egualmente che un individuo cristiano, deve esser pronta ad affrontare anche il sagrifizio dell’innocente, come Gesù raffrontò sul Calvario, anziché venire a compromessi con l’immoralità. Di una sola cosa sono convinto: che il fardello del militarismo e la minaccia della guerra sarà solo allontanata a misura che il popolo diverrà disposto a ubbidire al messaggio del Vangelo, e seguire sul Calvario il passo sanguinante di Cristo— ».
Nello stesso numero della stessa rivista, un altro « clergyman » il Rev. Pringle, sostiene invece le ragioni ¿Iella guerra. « Se gl’insegnamenti di Gesù —- egli scrive — si ponessero in pratica, nel loro senso letterale, adottando rigorosamente il principio della nonresistenza, qualunque società, in qualunque forma, diverrebbe impossibile: la crudeltà e la forza bruta sarebbero invitate ad un’orgia sfrenata, e i seguaci di Cristo se ne starebbero da parte con le mani incrociate lasciando il regno del male stabilirsi e prosperare. Ora questo suona anarchia, e pervertimento di quel buon senso, che deve pur trovar posto in ogni vera relazione... Possiamo noi credere seriamente, che sia volontà di Cristo che noi rimaniamo solo spettatori, mentre oltraggi senza nome si commettono a danno d’inermi donne e fanciulli? Che per non affrontare la guerra — perdite, rovina, privazioni, ferite, morte — noi lasciamo che la forza salga sul trono e si appelli « diritto »? Non è più vero che coloro che « brandiscono la spada » per una folle aggressione, debbono « morire di spada »?
Ed il Rev. Waldron: •< Se il Nuovo Testamento insegna di amare i nemici, esso non insegna che la forza è il diritto, bensì che deve ottenersi giustizia. Cristo non fu un sentimentalista: egli non avrebbe potuto usare parole più forti contro gl’ipocriti e gli oppressori... Naturalmente, se l’insegnaménto di Cristo fosse seguito, le guerre non dovrebbero esservi e non vi sarebbero: ma noi siamo ben lontani dall’utopia, e le Chiese più che ogni altro. Non si tratta solo della diabolica filosofia materialistica di Bernhard!, Treitschke ed altri, ma del delittuoso rinnegamento del «1 Sermone sul Monte », di cui sono rei i duci del Cristianesimo storico in Germania e in altre terre. E se la Chiesa crede che la nostra causa è giusta, allora niente compromessi: essa deve fare tutto il possibile per ottenere la vittoria, e i suoi pulpiti debbono divenire i mezzi più efficaci di reclutamento per la guerra. Che i nostri eroi sappiano.
metti: 1. L’histoire de la guerre - Comment la préparer. 2. Le Pape - 3. Le clergé et l'Union nationale-4. Les Ìtrières publiques - 5. Les vêques et la guerre - 6 e 7.
Les évêques et l’invasioa -8. La grande pitié de Reims.
a a a
[Novità]. Mgr. Mignot, Confiance, Prière, , Espoir. Lettres sur la guerre. Paris, 1915. Pag. 60. L. 0,75.
a a a
[Novità]. P. A. Oldrà, Perchè tanti flagelli? Pag. 35. L. 0,30. Del medesimo: La preghiera per la pace. Pag. 43. L. 0,40.
a a \
[Novità] A. D. Sertillanges, La Vie Héroïque, Paris, 1914. Sono 20 « conférences données en l’Eglise de Sainte-Madeleine, à Paris ». L. 6,50. Ecco i soggetti di alcune delle 20 conferenze: Ce que c’est que l’héroisme; Le reveil de notre foi: Notre espérance; La charité et la guerre: La justice vengeresse: La justice pénitente; La force d’âme; La magnanimité; La gloire des morts; La vertu »urificatrice de la guerre; .’amitié dans les luttes; La raternité d’armes; Le noël rançais; ecc.
& A A
[Novità] W. Monod, Le manifeste des Quatre-vingt treize. (Un cas psychologique). Paris, 1915. L. 0,50.
A A A
[Novità] L’Eglise et la guerre par Mgr. Batiffol, MM. P. Monceau, E. Chenon, A. Vanderpol, !.. Rolland, ecc. L. 4. Ecco i soggetti di alcuni capitoli: Les premiers chrétiens et la guerre. Saint
88
430
BILYCHNIS
Augustin et la guerre. Saint Thomas d’Aquin et la guerre. Les applications pratiques de la doctrine de l’Eglise sur la guerre. Synthèse de la doctrine théologique sur le droit de la guerre, ecc.
a a a
— Lettera Pastorale dei Vescovi Tedeschi sulla guerra. Trad. Ital. L. 0,30.
A A A
— P. A. Oldrà, La guerra nella morale cristiana. Torino 1915 L. 0,90.
[Novità] H. Hòffding, Compendio di Storia della Filosofia Moderna, L. 5.
Teologia - Apologetica
(Novità) Georges Fulliquet, La doctrine du second Adam; Etude anthropologique et christologique. 1 vol. in-8<> di pag. 360. Genève. Paris, 1915. L- 5.30.
Sommario: Introduction. (Les textes pauliniens-D’où vient le parallélisme paulinien - Comparaison avec la christologie primitive). Première partie: Le ' premier Adam. U affirmation religieuse sur l'homme et l’humanité - Examen scientifique de ces affirmations - Objections -Les données bibliques: les récits de la Genèse, La terminologie de F Ancien Testament, la terminologie grecque, la conception biblique, questions non résolues - Le problème du mal: Monde pénitencier. Evolutionnisme, Education par la souffrance, Lutte pour l’existance. Péché, Evolution, Inégalités -Le péché: Chute et péché, l’hom me pécheur. Seconde partie: Jésus le Second Adam. La Naissance: L’hypothèse, contrôle de l'hypothèse - Vérification de l’hypothèse - Ce que
che essi stanno dando le loro vite non solo per la bandiera, ma per inaugurare un’età migliore, una repubblica cristiana, consacrata nelle trincee, cementata dal sangue dei martiri ».
In altro numero della stessa rivista, una madre scrive: * Io sono vedova... e ho dato il mio unico figlio per la difesa della patria. Quando leggo che una fanciulla inglese sedicenne, di ritorno da un convento nel Belgio, è stata violata da un ufficiale tedesco, ed ora sta per divenir madre; e che si trovano ora in Inghilterra migliaia di donne belghe nella stessa condizione, io ringrazio Dio perchè mio figlio fa il suo dovere, difendendo sua sorella ed altre soavi fanciulle inglesi da tale sorte crudele. Ma ora leggo sul vostro giornale, che un Cristiano non dovrebbe mai combattere, e che mio figlio sta facendo cosa che il « Salvatore » ha proibito di fare. Non so bene, ma mi pare che nel vostro ragionamento vi debba essere qualche cosa che non va: Srchè, se non fossero gli uomini a difendere la loro miglia, noi donne sentiremmo chiaramente che spetta a noi il farlo. È un sentimento che si trova nel nostro cuore: e non è stato forse Dio a por velo? ».
• • •
Diciassette eminenti Presbiteriani pubblicarono nel mese di gennaio un manifesto, sul « Presbyterian Messenger », esponendo le ragioni per cui ritengono che la Chiesa debba astenersi da dichiarazioni ufficiali che possano suonare come approvazione della guerra. Tra i firmatari appaiono i nomi del Rev. Aytoun e Richard Roberts. Eccone un tratto: « La universalità della Chiesa ideale ci proibisce di identificare la causa del Cristianesimo o gl'interessi del regno di Dio con la causa di una nazione speciale, anzi con la causa di Sualunque contendente che affidi alla spada la soluzione elle sue vertenze. Nel caso in cui ambedue le parti contendenti credono che la guerra da essi combattuta sia giusta e in difesa dei supremi interessi dell’umanità, l’una delle parti, al cospetto di Dio, non può avere interamente ragione, e l’altra non può avere interamente torto. E se anche potesse essere così, non è affare che riguardi la Chiesa di Cristo di patrocinare la riparazione dei torti per mezzo della violenza, o lo stabilimento del regno della giustizia sulla terra con altri mezzi che non siano morali e spirituali.
Il principio che « il male si deve solo superare col bene; non con la violenza », è fondamentale nel Vangelo... ». G p
FRANCIA
Il pensiero di Paul Sabatier.
Chi non conosce la « Vita di S. Francesco di Assisi » di Paul Sabatier, il pastore modernista franco-italiano? Egli esercitò il suo ministero per parecchi anni a Strassburg dopo l’occupazione tedesca, e ne fu espulso
89
LA GUERRA
[Libreria] 431
a causa della sua grande influenza. Il suo unico figlio combatte ora nell’esercito francese.
In una lettera al Prof. Falcinelli, presidente della Società internazionale per gli studi Francescani, egli dice, fra altro:
« La Francia di oggi combatte religiosamente cattolici, protestanti, liberi pensatori, tutti noi sentiamo che i nostri dolori rinnovano, continuano e integrano quelli della Vittima Innocente del Calvario. Ma essi sono doglie del parto: può essere che essi ci diano la morte, ma noi non possiamo astenerci dal benedire l’ora presente e adempiere il nostro compito con gioia...
La pace che S. Francesco predicò non fu una pace a qualunque costo, una pace fine a se stessa. Egli ri-fetè, dopo tanti altri, le parole: « La Giustizia e la ace si diedero l'amplesso ». La giustizia prima, e la pace poi. Al popolo di Perugia che mosse guerra a quello di Assisi, egli annunziò che i torti da loro commessi sarebbero stati vendicati... La sconfitta dei nostri soldati significherebbe il trionfo in Europa della forza bruta, sostenuta dalle due forze spirituali da essa mobilizzate: la scienza e la religione. Perchè questo non avvenga, noi dobbiamo combattere senza neppure domandarci quale sarà l'esito finale... Quando si combatte per motivi d’interesse economico o per una striscia di territorio, è lecito fare la pace senza detrimento morale. Ma conchiudere la pace quando si tratta di un ideale, sarebbe un’abdicazione. Anche il dare ascolto a una tale voce, sarebbe un’offesa a quella voce che ci dice, che l’uomo è nato a ben altroché a godere l’eredità materiale e morale dei suoi padri. La Francia, per combattere, non abbisogna di credere alla vittoria, perchè abbandonare la lotta significherebbe rinnegare il proprio passato, il proprio ideale, la propria vocazione. Che importa che essa muoia nell’atto di adempire la propria missione, se essa avrà fatto la parte sua? Nell’opera ideale che stiamo compiendo, noi abbiamo ritrovato il segreto della vita delle nazioni: lavorare insieme ad un’ardua missione, ed essere fedeli allo Spirito di Vita che si è incarnato nella Creazione... ». G. P.
A FASCIO
In risposta a un manifesto di simpatia e di amicizia indirizzato alle « donne socialiste e lavoratrici di Germania » dalla sezione inglese del movimento socialista femminile, Frau Clara Zetkin, condottiera dell’ala femminile del movimento democratico in Germania risponde sulla rivista mensile inglese « Lega delle donne lavoratrici », con la seguente dichiarazione:
« Voi potete essere certe che noi siamo all’unisono con voi nell’osservare la presente guerra mondiale, come il più orribile delitto commesso dall’imperialismo capitalistico. Noi dividiamo la vostra profonda simpatia per le sofferenze di quelle regioni che sono state devastate da questa guerra sanguinosa. Non possiamo senza profondo cordoglio pensare agli orrori della devastal’hypothèse nous fait perdre -La préparation: l’enfance, l’adolescence, la conscience messianique, ecc., la tentation - Le ministère: la guérison des malades, la prédication, les disciples, la foule et les malentendus provoqués, ecc., la pers-Ïiective de la mort-La passion'. a mort et le péché, la mort et la vie éternelle, la mort et la puissance spirituelle, la mort et la sainteté, la mort et l’amour, la mort et la solidarité, la mort et les sacrifices cultuels, le conflit entre la Justice et l’Amour en Dieu, Expiation et substitution-La Résurretion: L’histoire et la psycologie, l’hypothèse de la résurrection et ses appuis, le sort de Jésus.
Prediche
[Novità]. Venticinque Sermoni e allocuzioni di W. Burt: La luce del Mondo - Coraggio! -La testimonianza cristiana -La santa Cena - La Conversione di Paolo - Che cosa invece dell’anima? - Salario di peccato - L’acqua che disseta - Doveri di figliolanza -Come vi vere - Tre parabole - Tutte le cose con Lui - Sul Srimo Salmo-II battesimo elio spirito - Natale - Per la vita cristiana - Come si può vedere Gesù?-Le ultime parole di Cristo - Pasqua - Il vero fondamento, ecc. Prezzo L. 2.
In deposito:
R. J. Campbell, Le Christianisme de l’A venir ou La Théologie nouvelle. Sommario: I. La situation présente du Christianisme et la Théologie Nouvelle. -II. Dieu et l’Univers. - III. L’homme' considéré dans ses rapports avec Dieu -IV. La Nature du mal - V. Jésus, l’Homme-Dieu - VI. Le Christ Eternel-VIL L’incarnation du
90
432
BILYCHNIS
Fils de Dieu - Vili, IX e X. Le Dogme de l’Expiation -XI. L’autorité de l’Ecriture-XII. Le salut, le Jugement et la vie à- venir - XIII. L’Eglise et le Royaume de Dieu - XIV. Conclusion. Prezzo L. 3,75.
A AA
Edmond Stapfer, JésusChrist. Sa personne, son autorité, son œuvre. 3 voli.: 1. Jésus Christ avant son ministère-2. Pendant son ministère - 3. La mort et la résurrection. Prezzo dei tre volumi, L. 11.
A. Causse, Les Prophètes d’Israël et les Religions de l’O-rient. Essai sur les origines du monothéisme universaliste. Volume in-8°, L. 8,50.
A A 6
W. D. Morrison, Gli ebrei sotto la dominazione romana. Voi. di pag. 360. L. 6.
A 6 A
G. Prezzolini, Che cos'è il Modernismo? L. 2.
A A A
L Asioli, L’eloquenza civile e sacra. L. 3.
A A A
Romanzi cristiano-sociali di Carlo M. Sheldon: Che farebbe Gesù? (L. 2) - Crocifisso! (L. 2).
(Occasione] Del prof. Ernesto Buonaiuti: Saggi di Filologia e Storia del Nuovo Testamento. L. 2,50 per L. 1,80 - Lo Gnosticismo, Storia di antiche lotte religiose. (L. 3,50 per L. 1,85).
zione nella Prussia orientale e nella Galizia, e non con minore dolore al disastro che imperversa per le vie della Francia, e che è stato imposto all’infelice Belgio da una perversa violazione del diritto delle genti •>.
In un altro messaggio allo stesso giornale, Frau Zetkin dichiara che le donne socialiste debbono fare appello alle donne di tutte le nazioni, perchè si oppon-Sano alla continuazione della follia del presente con-itto mondiale. « Il nostro grido » — essa dice — « deve risuonare irresistibile da migliaia di petti. Abbastanza di stragi, abbastanza di devastazioni. La vita dei popoli non deve inaridirsi: essi non debbono morire dissanguati! Pace, una pace durevole, senza la violazione dell’indipendenza e della dignità di alcuna nazione. ....................
« Niente annessioni, niente condizioni umilianti di pace! Esse non possono assicurare il benessere ai popoli vicini, ma sono piuttosto una tentazione a farsi una gravosa concorrenza di armamenti e a preparare al mondo nuovi orrori. Facciamo posto per un lavoro pacifico. Lasciamo la via aperta per la fratellanza dei popoli, e per la loro cooperazione nel far presto sbocciare il fiore della Coltura e della civiltà internazionale ».
Si è recentemente formato in Olanda il comitato della « Federazione europea » per diffondere e maturare l’idea della formazione degli « Stati Uniti » d’Europa « basati sull’uguaglianza e l’indipendenza interna ».
Il programma del nuovo comitato corrisponde in molti rispetti all’inglese »Unione di controllo democratico ». Esso ha pubblicato anche una serie di opuscoli, da uno dei quali tolgo il passo seguente: « Come dovranno i Governi dimostrare, alla conclusione della Ìacè, di avere anch’essi compresa la crudele lezione? n qual modo pagheranno essi il loro enorme debito verso il genere umano? Una sola risposta è possibile: trasformando il militarismo, da una perpetua minaccia reciproca, in uno strumento comune di ordine e di difesa: riformando la diplomazia, trasformandola da un sistema di secreti intrighi, in un’organo d’informazione e di rapporti scambievoli, soggetto all’ordinaria ed universale morale umana. In altre parole, con la fondazione di una unione legale politico-economica, federazione di Stati, © Stato federale, con un’armata internazionale per garanzia comune... ». G. P.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell* Unione Editrice, via Federico Ce», 45
92
Prezzo del fascicolo Lire 1 —