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BILÌCHNIS
Anno Vili. - Fasc. VII-IX. ROMA - LUGLIO-SETTEMBRE 1919 Volume XIV. 1-3
Giovanni Costa : Giove ed Ercole (contributo allo studio della religione romàna nell’impero).
[Quattro tavole contenenti riproduzioni di monumenti e monete imperiali, tra le pagine 8 e 9).
VINCENZO CENTO: L'essenza del Modernismo.
GIOVANNI Pioli: L' « Etica della simpatia» nella «Teoria dei sentimenti morali» di Adamo Smith.
(***): Mancanza di garanzie nello schema e nel nuovo Codice di diritto canonico.
RUBRICHE FISSE :
Per la cultura dell’anima - Giovanni LUZZI: La visione di Dio.
Note e commenti - aristarco Fasulo.-Riforme ecclesiastiche nel paese di Hus.
Cronache - Guglielmo Quadrotta: Politica vaticana e azione cattolica.
Tra libri e riviste - M. : Rassegna di filosofia religiosa (XXVI) - Paria.
Dàlia Stampa.
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BILYCHNIS
RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
4444 FONDATA NEL 1912 > > > *
CRÌTICA BIBLICA - STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA - PEDAGOGIA y FILOSOFIA RELIGIOSA ^MORALE - QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL'ESTERO y Sì PUBBLICA. LA FINE DIOGNI MESE. REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WhiTTINGHILL, Th. D., Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
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R.M5IÀ DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMAAnno ottavo - Fasc. VII-IX. Luglio-Settembre 1919 (Vol. XIV. i-3)
SOMMARIO:
Giovanni Costa: Giove ed Ercole (contributo allo studio della religione romana nell' impero)......................................Pag. 2
[Quattro.tavole contenenti riproduzioni di monumenti e monete imperiali, tra le pagine S e 9]
Vincenzo Cento : L'essenza del Modernismo ....... . . » 14
Giovanni- Pioli : L' « Etica della simpatia » nella « Teoria dei sentimenti morali > di Adamo Smith. — Analisi della < Teoria » . . > 27
(***): Mancanza di garanzie nello schema e nel nuovo codice di diritto canonico. — § 2. Dei procedimenti amministrativi . . . . . » 45
PER LA CULTURA DELL’ANIMA :
Giovanni Lezzi : La visione di Dio .................... » 57
NOTE E COMMENTI :
Aristarco Fasulo: Riforme ecclesiastiche nel paese di Hus ......... » 61
CRONACHE:
Guglielmo Quadrotta : Politica vaticana ed azione cattolica : L’ « aconfessionali smo » bandiera dei cattolici - Religione e politica - Contro la Stato laico -Passato e presente - Una parentesi : la « questione romana » - Un’accusa ai deputati cattolici - Contro la Conferenza della pace - Verso il nuovo « patto
Sturzo » ........ ...... ............. •.............. » 64
TRA LIBRI E RIVISTE :
m.: Rassegna di filosofia religiosa (XXVI): Il crollo del superuomo - La catarsi estetica - Vita, pensiero e scuola - Involuzione e monismo - Libertà e solidarietà - Misticismo idealistico - Pessimismo postbellico ........ » 70
Varia-. Gli Ebrei alla luce della statistica (D. Lattes) - Corpus scriptorum latinorum paravianum (G. Còsta) - Lo spirito dèlia Germania (W.)...... » 75
Pubblicazioni pervenute alla Direzione . . . . •......... > 78
Dalla Stampa ................ ......... » 79
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GIOVE ED ERCOLE
(contributi allo studio della religione romana nell’ impero) (r)
rUDIANDO recentemente sotto altro punto di vista la forma e il carattere fondamentale delia restaurazione religiosa di Diocleziano, da me sempre considerata come un’affermazione di ortodossia romana, almeno fino ad un certo grado, politeistica mi è occorso di dover spingere la ricerca in un campo più vasto e di tempo e di spazio e mi è quindi avvenuto di conseguire dei risultati che non mi pare disprezzabile far conoscere ad una cerchia di studiosi, più larga dei semplici specialisti di cose romane.
Mi propongo perciò di dimostrare quale vigorosa esistenza e quale importanza ebbero durante l’impero i culti di Giove e di Ercole, che si presentano a chi studi senza la preoccupazione ed il pregiudizio, piuttosto correnti, di veder da per
(i) Il presente studio non per colpa mia o dell’amico direttóre di questa rivista appare in luce a qualche distanza da! momento in cui fu condotto a termine e scritto. Sebbene io abbia procurato di non farne sentire le conseguenze al lettore, chiedo venia di quei difetti che fossero dovuti alle cause generali del periodo finora vissuto, che neànno ritardata la pubblicazione.
Lo studio stesso fu motivato dall'esame dell’opinione del Cumont su quell’iscrizione di Como cui accennai nei mio bollettino delle religioni del mondo classico che si pubblica'in questa rivista (VII, 16). 0 creduto bene per alleviare ai lettori la noia di un’ introduzione che li avrebbe forse fuorviati, fare di quell’esame speciale, oggetto di una pubblicazione a parte (v. Religio, rassegna di storia delle religioni 1, 2).
Ò fatto a meno di note a queste pagine (ne metterò in tutto, compresa questa, tre di cui la terza soia veramente noia nel senso che l’erudizione dà a questa parola). Gli specialisti comprenderanno donde ò tratto quello che non è mio delie opinioni che esprimo e che non dichiaro espressamente di chi sono e quello che è documentazione di fonti ; gli altri forse preferiranno correre diffilati nell’esposizione, senza noie.
Non per indulgere a metodi o idee sedicenti avveniristiche ò fatto così; ma perchè ò tenuto fermo a concezioni già altre volte applicate, se cosi mi è parso bene di fare. Chi credesse di veder in ciò ossequi o avvicinamenti ai piccioletti detrattori di ieri o ai grossi vili-pendiatori dell’oggi, sbaglierebbe. Al mugolio dei bottoli o all’urlo dei cani se talvolta si risponde col silenzio ’e col disprezzo, tal altra è bene risponder col menar la frusta sui musi. Or, che la solenne voce del cannone non sovrasta l’abbaiar dei segugi, può venirmi la voglia di menar il frustino e insegnar loro che senza montare sui trampoli io mi sento abbastanza alto per non calpestare mai i morti che vivono e per sputare in faccia ai vivi che putono come carogne. . • , • ■
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tutto l’infiltrazione possente e turbatrice dei culti orientali, come i culti tradizionali e supremi della religione romana. Io non mi occuperò qui dell’importanza che può avere questa ricerca per lo studio della storia politica dell’ impero, riserbando tale esame ad altro luogo e momento; procurerò solo di mettere in luce la persistenza della religione repubblicana di Roma attraverso l’impero e la vigoria con cui reagì all'influsso dei culti stranieri e. la forza che impresse a tutta la tradizione imperiale.
L’indagine ci permetterà di vedere quale possente eleme! tp di coesione religiosa e politica furono le divinità di Giove e di Ercole in Roma e come da esse è non da culti esteriori derivarono forme e caratteri che spesso vennero un po’ troppo affrettatamente considerati come aventi : origini esotiche.
I.
Persistenza conservatrice dei culti fondamentali dell’impero.
Non entra naturalmente ne’ limiti di questo studio l’esporre l’importanza e la preminenza che ebbero nel tempo repubblicano in Roma i culti di Giove e di Ercole: nè d’altra parte ne varrebbe la pena, trattandosi, specialmente per il primo, di cose note ed ormai acquisite al dominio culturale non solo degli studiosi della storia religiosa e politica romana, ma pur della storia religiosa generale. Sarà sufficiente mettere in luce, in breve, la posizione dei due culti verso la fine della repubblica, in modo che il lettore, possa facilmente orientarsi attraverso le tendenze religiose dei vari imperatori e non debba giudicare, ciò che spesso è stato fatto, come unicamente personali le vedute di alcuni sovrani, le quali trovano invece il loro fondamento in condizioni d’ambiente, già preesistenti e bene assodate.
Insieme con la triade capitolina Giove, che ne personificava la potenza e ne oscurava le figure minori di Minerva e di Giunone, fin dai tempi più antichi ci appare come l’incarnazione del supremo impero di Roma, come il fulcro sul quale poggia tutta la vita dello Stato. Dall’inizio dell’anno civile e politico Giove dirige tutti gli avvenimenti : a lui salgono i nuovi magistrati, a lui i trionfatori, a lui i voti ed i doni degli amici e degli alleati del popolo romano. Il colle capitolino accentra tutta la vita di Roma e dei suoi domini, è la suprema meta di tutte le aspirazioni, protegge come una grande ombra i suoi figli e ne perso-. nifica la potenza. Per la repubblica basterà citare Scipione che, fosse calcolo o
misticismo, ne sente la grandezza e l’importanza e la sfrutta in modo da farsi ritenere di stirpe divina. Egli è il primo che in nome di Giove si investe, per cosi dire, del potere divino e si impone a Roma ed al suo incipiente impero. Quello che fu detto, più o meno propriamente, l'imperialismo romano, non avrebbe avuto un valore veramente tangibile se non l’avesse reso tale il culto a Giòve ottimo massimo.
Questi è quindi fin dai tempi più remoti lo s/ator, il zw/br, l’ÌHt/zkZw. Secondo Dione, quando Cesare muore, la sua divinità viene riconosciuta sotto la forma di Giove Giulio e onorata di templi e sacerdoti. E similmente Augusto, che à un culto superstizioso per Giove Capitolino, che edifica dopo uno scampato pericolo in un temporale, un tempio a Giove Tonante, che accetta in Atene che il suo Genio sia venerato insieme con Giove Olimpio, che, vivo, è detto come Giove « custos imperi romani, totiusque orbis terrarum » è, dopo morto,
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accomunato e confuso col dio supremo: lovi deo dicono le monete che pur prima avevano inciso la leggenda lovi Tonfanti), lovi Olymfpio). E con Augusto si afferma per la prima volta quella venerazione per il luppiter conservator che vedremo poi svolgersi ed esemplificarsi durante tutto l’impero ih una costante forma di tradizionalismo religioso e politico, assolutamente immutato.
Sotto Nerone, minacciato dalla congiura pisoniana, .Giove incarna più che mai il principio divino protettore del capo dell’impero (custos) e allontanatore da esso delle furie dei malvagi (liberator).
Con Vitelli© si à pure il ricordò di Giove O. M. capitolino e nelle preghiere degli Arvali appare per la prima volta ’’appellativo di vincitore: lovi vitiferi), forse in omaggio all’effimera vittoria che gli aveva dato il potere.
Vespasiano ricostruisce il tempio capitolino nell'antico sito, poiché gli aruspici avevan dichiarato che gli dei non amavano ' Cambiare l’antica forma, e con grande pompa ne getta un’altra volta le fondamenta, fatte innalzare preghiere alla triade capitolina e agli dei praesides imperii. Nelle monete si afferma più che mai la protezione di Giove sull’imperatore mercè l'appellativo di lovis custos.
La qual forma di culto strettamente imperiale acquista un più personale significato quando Domiziano non si accontenta di elevare a Giove conservatore, vivo ancora il padre, un piccolo sacello, ma, conseguito l’impero, costruisce un superbo tempio a Giove custode e pone l’effigie propria in seno alla divinità. Si può anzi asserire che con il figlio di Vespasiano si consolidi più che mai il culto che collega strettamente il dio supremo al supremo signore dei mondo. La istituzione dell’agone capitolino, offre il modo a Domiziano di confondere la propria con la personalità divina, poiché egli vi appare coronato con una corona aurea su cui vi è l’effigie della triade capitolina, mentre i sacerdoti portano nelle loro corone, oltre le imagini divine, quella imperiale.
E .giungiamo a Traiano. La sua adozione che, a rigor di termini, dovette essere un'o6v/ató>, è una prima prova di quel persistente rinvigorimento che acquista il culto capitolino durante l’impero. Nerva non lo adotta semplicemente come erano stati adottati i precedenti principi o imperatori: o meglio, se lo (a con una lex curiata, come erano stati adottati altri, lo fa convocando i comizi curiati in Campidoglio e, come pontefice massimo,, proclamando, chiamati gli dei e gli uomini a testimoni, Traiano suo figlio dinanzi ai pulvinar di Giove O. M.
« * *
Se non che, prima di proseguire, non sarà male fermarci su quest'importante momento storico per studiare le vicissitudini di un altro culto tradizionale di Roma che viene ora più che mai per l’innanzi ad unirsi al culto capitolino e ad avviare la monarchia su di una strada sempre più nazionale ed unitaria, anzi tanto nazionale ed unitaria quanto incomincia ad essere straniero e disgre- -gante l’assalto che batte contro di essa, religiosamente, da ogni parte. Può sembrare strano, ma realmente è logicò e naturale, che uno stato, come il romano, così violentemente dominato da principi sempre più stranieri, così vigorosamente sconvolto dai culti più esotici e lontani dall’animo latino, reagisca con tanta energia da dare carattere romano ad una monarchia che dovrebbe sembrare ormai assolutamente orientale.
Il culto cui intendo alludere è il culto di Èrcole.
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.èia di origine italica, come a me pare, o sia unicamente di derivazione ellenica, esso à avuto ben presto in Roma un’importanza quale non l’ebbe se non ijr capitolino. Come quello di Marte, non fu nelle origini se non un culto di gente data ai commerci ed agli affari, gente che voleva assicurarsi la protezione della divinità più própizia per le strade malsicure e per un buon guadagno, offrendone il decimo al dio che l’avrebbe difesa e tutelata. Se è vero quel che dice una* tradizione tardiva che l’appellativo di victor fu dato al dio da un credente che, dopo aver vinto con una nave di carico i pirati fu ammonito in sogno da Èrcole che la vittoria era stata ottenuta per opera sua, non si potrebbe avere una conferma più esplicita di questo carattere pacifico e domestico del dio. Il quale mentre conservava di fronte alla gran massa dei credenti una simile ragione fondamentale per il suo culto, mutava insensibilmente, specialmente nella sua accezione di dio dello stato, l’aspetto religioso; in una comunità divenuta per necessità di cose guerriera era naturale che le imprese di Ercole, anche quelle solamente di origine indigena, acquistassero forma bellicosa e che i trionfatori, non dissimili dai semplici cittadini favoriti dalla divinità negli affari e ne’ commerci e protetti nel duro cammino della guerra, come quelli nel pericoloso viaggio per le strade infestate da ladroni dei tipo di Caco, ritornati in patria, sacrificassero a lui la decima delle spoglie. Non diversamente avrebbe fatto, del resto, Ercole verso Giove, onde un pretore di Tivoli restituiva la sua epigrafe dedicatoria: «lovi Praestiti, Hercules Victor dicavit, Blandus pr(aetor) restituii». E mentre così sorgeva la figura di un Hercules lovius* le più antiche iscrizioni ci provano il culto che i generali reduci dai trionfi gli prestavano dedicandogli statue e templi, come Mummio, Achaia capt(a) Corinto deleto, e come prima di lui Minucio, Fulvio Nobiliore, Emilio Paolo, e dopo di lui Siila, Mario, Fabio Allobrogico, Fabio Massimo, Lucullo, Aurelio Cotta e così via.
L’Èrcole Victor o Invictus, che si denomina pure triumphalis e che in occasione dei trionfi è vestito dell’abito trionfale, si identifica così con Marte ed à sacerdoti e culti non dissimili da lui e personifica i vincitori con tanta maggior apparenza con quanta maggior ampiezza di spazio e di tempo la gesta loro può essere paragonata alla gesta divina. Non è quindi da meravigliarsi se Pompeo adotti per suo motto « Ercole invitto» e se Antonio per le sue imprese d’Oriente venga assomigliato ad Ercole.
Ecco perchè Orazio quando Augusto ritorna dalla Spagna, non per pura fantasia poetica 10 saluta victor quasi novello Ercole; egli sèrba fede all'antica leggenda latina che poneva le vittorie del figlio di Giove su Caco durante il suo ritorno dalla Spagna. Ecco perchè non reca meraviglia che Caligola tra gli attributi delle varie divinità di cui vuol prendere le sembianze, chieda pure la pelle leonina e la clava; e Nerone si faccia acclamare, oltre che Nerone Apollo, Nerone Ercole, e nelle monete faccia imprimere la leggenda Herculi Augusto.
Galba lascia coniare delle monete che anno ancor maggiore importanza. Egli viene, com’è noto, dalla Spagna, e come Ercole trionfò di Caco e liberò il territorio di Roma dal mostro, così Galba trionfò di Nerone e ridette a Roma la libertà: egli è perciò un novello Ercole, anzi un Hercules adsertor. È noto che nel diritto romano gli « adsertores > erano coloro che rappresentavano gli schiavi nel giudizio di « vindicatio in libertatem ». È colui quindi che rivendica in libertà
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un altro, il suo difensore, il suo liberatore. Vespasiano più tardi nelle monete è per l’appunto chiamato « adsertor libertatis publicae*. Noi abbiamo quindi una identificazione di Galba con Ercole come « adsertor » della libertà. Già, a quel che pare, Giulio Vindice, che Plinio doveva chiamare più. tardi « adsertorem... a Nerone libertatis», l’aveva esortato a farsi « humano generi assertorem du-cemque... ». Non ci meraviglia quindi questo appellativo, bensì ci dimostra come il culto d'Èrcole entrasse per volontà di uomini e per forza di cose nel dominio pubblico e si materiasse, per dir così, di avvenimenti e di sentimenti.
Onde se Vespasiano fa per la prima volta apparire nelle monete la figura di Ercole, dopo tutto ciò, non ci stupisce: e ci stupisce ancor meno che Domiziano si faccia elevare statue con le forme e gli attributi di Ercole nel cui volto, come /uole Marziale, egli si degni di discendere; egli «permette» di essere chiam ato Ercole maggiore; nel tempo stesso in cui presume, se stiamo a Marziale stesso, di uguagliarsi, notiamo bene, a Giove.
* * ♦
Chi ci à seguito fin qui deve convenire che con Traiano noi siamo per tutto ciò ad uno svolto della storia. I culti di Giove e di Ercole, che ormai possiamo riconoscere fondamentali dell' impero, ànno acquistato un'importanza politica che nessuno può negare. Vedemmo già che cosa Nerva pensasse del culto di Giove Capitolino: vedemmo come sino a lui il culto di Ercole si affermasse vigorosamente. Possiamo con sufficiente preparazione perciò studiare quale fossero i sentimenti e le idee di Traiano su queste concezioni religiose che venivano a corroborare in tal modo la fortuna dell’impero e delle dinastie che lo reggevano.
Effettivamente Traiano, che intende dare alla monarchia una forma di repubblica aristocratica con un presidente elettivo, scelto da un corpo di grandi elettori (senato), vuol dimostrare il suo ossequio al culto supremo dello stato e non solo non si identifica da sè stesso con Giove, ma non chiede neppur culto per sè, come lo chiese Domiziano. Egli si limita a porre la propria statua bronzea nel vestibolo del tempio di Giove O. M. L’opinione pubblica però per bocca del senato dapprima, per bocca del suo porta voce poi, Plinio, lo pone in stretta relazione e dipendenza con la divinità: Roma deve tutto a Giove, perchè è lui che le à elargito Traiano; Traiano c assolutamente degno de’ titoli riconosciutigli di ottimo e di massimo, che à comuni con la divinità suprema. Come altri prima di lui non è stato chiamato ottimo, così chi pur usurperà indebitamente questa denominazione, in avvenire, non farà che mettere in evidenza • la distanza che separerà lui da chi per primo l’ebbe e ne fu degno. Ora tutto ciò trova una rappresentazione tangibile nella raffigurazione dèlie monete, in alcune delle quali si à l’aquila di Giove che dà lo scettro a Traiano, mentre in altre con la leggenda di Giove conservatore del padre della patria appare Traiano alla destra di Giove che lo protegge; in altre ancora si può persino dubitare che Traiano sia rappresentato nella figura di Giove stesso.
Siamo quindi in presenza di una concezione religioso-politica che si impone anche a malgrado degl’individui e che trova conferma più che mai nell’altro culto fondamentale deH’impero, in quello di Ercole. Se già Plinio nel 100 d. Cr.
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trovava modo di rassomigliare Traiano a questo dio, non stupisce affatto il vedere come nel còrso successivo del suo regno e con l’evolversi e l’ampliarsi della fortuna politica e guerresca dell'imperatore, l’avvicinamento, e forse anzi la identificazione, del fortunato sovrano con Ercole si facciano più precisi e più evidenti.
Le spedizioni in Oriente, le imprese contro i Parti, la convinzione di esser succeduti ad Alessandro Magno nelle conquiste al proprio dominio di quelle favolose regioni dell’india, che sembravano non potersi separare dal ricordo dei trionfi di Dioniso, dalle preferenze dinastiche ellenistiche per Ercole, dalle cerimonie e dalle fantastiche avventure degli dei orientali, esercitarono sempre sui Romani un fascino ben spiegabile. Traiano che primo e poi unico degl’imperatori portò le armi di Roma fin dove nessuno le aveva portate rimase a questo titolo, forse anche più che per la sua savia politica, nella coscienza popolare come qualche cosa .di superiore e più ancora che con l’appellativo di optimum ne fu tramandata ai posteri la memoria con quello di Parthicus. Come tale non solo è chiamato véo? Aióvuco;, ma è paragonato ad Alessandro il Grande e ricordato con lui quando si fa menzione di imprese orientali: onde il progenitore della dinastia macedone, Ercole, entra anche da questo punto di vista più che mai nel. culto e nella religione dell’impero. Ercole, come Dioniso, secondo le leggende, era giunto in India; Ercole, come Dioniso, si diceva fosse stato uno dei primi re dell’Oriente. Già Eumene, il generale d'Alessandro, per cattivarsi i soldati ne esaltava la gesta dicendola superiore a quella di Dioniso e dì Ercole.
Del resto tutto l’Oriente era, per così dire, pieno di Ercole; Persi, Assiri, Siri, Lidi, Fenici, avevano delle divinità armate di clava o di bipenne che i Greci avevano identificato con Ercole ed avevan non di rado fatto progenitrici e modello dei re. Le dinastie ellenistiche, sorte dopo la morte di Alessandro, autorizzate in qualche modo dall’omaggio alla memoria del duce che, come teste dicemmo, riconosceva in Ercole il suo capostipite, li avevan seguiti e l'esempio, trovando filosofi e politici che lo appoggiavano dal punto di vista sociale e filosofico, si diffondeva nell’occidente.
Poiché appunto quel Che completa definitivamente la visione della concezione religiosa di questo momento storico riguardo ad Ercole ed jille sue relazioni con l’imperatore ed in maniera speciale con un imperatore conquistatore dell’Oriente, è l’importante documentazione che ci è dato di ricavare dallo studio del pensiero filosofico del tempo.
Già altri à messo in luce la grande importanza che ànno le opinioni monarchiche di Dione Crisostomo per l’affermazione dell’idea monarchica universale nel n sec. d. Cr. Dione, facendo-sue le teorie ellenistiche, diffuse anche dai filosofi, secondo cui il monarca-tipo era Alessandro il Grande, ritiene che il sovrano deve essere non un semplice re di Grecia, ma il signore dell’impero su cui non tramonta mai il sole. Come tale egli è il discendente di Giove, l’ordinatore e il distruttore della tirannide, è un Ercole redivivo, in quanto che Ercole è il salvatore del mondo, non per averlo liberato dai mostri, ma per aver punito i malvagi, distrutto le tirannidi, abbattute le prepotenze. Ercole rivive quindi nell’imperatore che, come tale, compie tuttora le imprese di Ercole ed è il sostegno e la difesa del supremo impero di Giove (zaì vOv sn toQto zaì {ìotjSó; ¿erre zaì «pvXo? coi (se. Io vi) -rifc sto; vy paGtàéucov). Traiano è perciò i
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modello del sovrano secondo le teorie del filosofo greco le cui relazioni con l’imperatore ci permettono di concludere ad un vero e proprio reciproco influsso dà una parte di idee, dall’altra di fatti per la formazione di una concezione politico religiosa che, avendo il suo substrato nelle profonde credenze popolari, nelle antiche tradizioni latine, le quali rendevano onore a Giove e ad Ercole come divinità supreme, non poteva ñon rassodare la monarchia nel senso vagheggiato da. quanti cercavano la formula necessaria a contemperare in un potere superiore il sogno dell'aristocrazia senatoriale che voleva restaurare una repubblica per proprio uso e consumo e quello dell’oclocrazia popolare che voleva trovare in un impero retto da una sua creatura il modo di, far del libito, licito in sua legge. Era insomma, se togliamo alle parole di Tacito il valore subiettivo che esse ànno, il tema che doveva svolgere Traiano: unire «res òlim dis-sociabiles, imperium (oclocrazia) et libertatem (aristocrazia)».
In corrispondenza a queste teorie ed a queste concezioni le monete riproducono fin dal loo d. Cr. il tipo, di Ercole (tav. 1, fig. i) e nel 115 un basso-rilievo dell'arco di Benevento mostra una scena allusiva agli omaggi degli orientali a Traiano, raccontata da Dione Cassio, nella quale si vede uno dei capi o re Parti nelle sembianze e con gli attributi di Ercole (tav. I, fig. 2).
Adriano, che succede a Traiano, già per gli antichi in eam formavi statuii l’impero, quale era nei tempi post-costantiniani. Ma anche senza giungere a questo eccesso, si può indubbiamente con certezza sostenere che il sistema religioso e politico che si era andato formando con- Nerva e Traiano trovava in lui un deciso costruttore che lo completava con elementi orientali, pur lasciandogli le basi prettamente romane. Più che mai con lui «Giove à Cesare in cura»: egli inizia cioè la coniazione di- medaglioni in cui la concezione di Giove protettore e conservatore dell’imperatore è raffigurata tangibilmente. Il dio vi è rappresentato nudo con lo scettro nella sinistra e nella destra il fulmine: per il sollevarsi di questa in atto di protezione il mantello Che gli pende dalle spalle Si stende e forma quasi un ricovero al sovrano, che in dimensioni. più piccole si raccoglie sotto la protezione divina. Secondo il concetto già espresso da Plinio c secondo la leggenda incisa su questi medaglioni, il luppiter con ser va tor appare così il protettore ed il conservatore dell’imperatore e quindi dell’impero (tav. Il, fig. 2) (1).
Si aggiunga poi, per quel che riguarda Ercole, che Adriano, come Traiano, è spagnuolo per parte della madre, nata a Gades (Cadice), onde non meraviglia veder sorgere con lui nelle monete il tipo e la leggenda del celebre Ercole Ga(1) Nelle, tavole li e III abbiamo riprodotto medaglioni del tempo di Antonino Pio e di M. Aurelio e L. Vero, non essendoci riuscito di trovare facilmente medaglioni del tempo di.Adriano. D’altra parte quel che ci interessava di far notare ai lettori in modo chiaro era come la concezione su cui insistiamo fosse riprodotta in modo tangibile. Avvertendo che tale rappresentazione rimontava a tempi anteriori a quelli di cui mostriamo gl’interessanti documenti, non vi è necessità di insistere in ricerche sempre laboriose, oggi non ancora facili.
Nella II tavola per un’esemplificazione del culto imperiale di Giove sotto i Claudii riproduciamo là bella statua di Claudio del Museo Vaticano più che per .documentazione, per memoria.
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Fi». I. - MONETA DI TRAIANO CON RAPPRESENTAZIONE DI ERCOLE (Museo Nazionale Romano)
Fi». 2. - PRINCIPE ORIENTALE, RAFFIGURATO COME ERCOLE. CHE ACCOGLIE TRAIANO (Arco di Benevento)
(Fot. Alinari)
TAV. I
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Fi». I - CLAUDIO RAFFIGURATO COME GIOVE (Museo Valicano)
(Fot Alinari)
Fi». 2-GIOVE PROTETTORE DELL' IMPERATORE (Medaglione di Antonino Pio) (Muro Nazionale Romano)
Fi». 3 - GIOVE PROTETTORE DI M. AURELIO
E L. VERO (Medaglione di L. Vero) (Muro Nazionale Romano)
TAV. 1!
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Fi». I - ERCOLE .'VINCITORE" SEDUTO (MedatKono Jdi Antonino Pio) (Muro Nazionale Romano)
Fìr. 2 - ADRIANO SACRIFICANTE AD ERCOLE VINCITORE (-Medaglione dell'arco di Coatantino)
(Fot. Alinari)
tav. hi
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FiB. I - MONETA DI L. VERO CON RAPPRESENTAZIONE DI ERCOLE PACIFERO (Museo Nazionale Romano)
Fi» 2 - BUSTO DI COMMODO-ERCOLE : il capo è coperto della pelle leonina, con la destra tiene la clava, nella linirtra i pomi delle Esperidi. Il busto è sostenuto da un trofeo alludente al suo titolo di " Amazonio " (Palazzo dei Conservatori)
(Fot. Alinari)
Tav. IV
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GIOVE ED ERCOLE ) 9
ditano: Herc(uli) Gadit(ano)y del quale, secondo me (1), egli introdusse il culto nell’impero e procurò là diffusione.
A lui stesso, forse, devesi l’introduzione nelle monete della raffigurazione di Ercole seduto, con la destra appoggiata sulla clava e con la sinistra reggente la vittoria, o qualche cosa di simile, ed ai piedi la corazza e lo scudo, quale in profilo, appariva già nelle monete ellenistiche e quale, all’incirca, si vede in
(1) Ben a ragione su questo passo di Ulpiano richiamò l’attenzione degli studiosi Nicola Turchi in Alene e Roma, 17 (1914), 333 segg, ; se non che, a mio parere, non lo fece compiutamente. La connessione che egli vede tra Dione Cassio 55, 2 e Ulp. 22, 6 è molto probabile, quello che non è altrettanto sicuro è la conclusione del Turchi che le disposizioni di privilegio a favore degli dei da lui enumerati risalgano tutte ad Augusto. Vi osta, checché egli dica in contrario, il testo di Ulpiano stesso il quale dice esplicitamente così : < Deos haeredes instituere non possumus praeter eos quos senatus consulto conslilulionibusve principum insti-tuere concessum est, sicuti love Tarpeiùm, ecc. ».
Ora che il plurale impiegato dal giureconsulto per le concessioni imperiali sia un puro mezzo retorico per esprimere 1’« universalità della regola, che riconosce le sue eccezióni solo dal beneplacito imperiale», come dice il Turchi, non è possibile: non vi è alcuna intenzione in Ulpiano, perchè non vi è alcuna espressione che ci autorizza a ritenerlo, di fissare prima la regola generale. Per far ciò egli avrebbe dovuto usare il verbo nel presente e non nel passato; dicendo invece «concessum est» è evidente ch’egli si riferisce ad un fatto storico, onde i mezzi adoperati per 1'« institutio » acquistano uguale valore storico. Il fatto è avvenuto perciò per senato consulto e per costituzioni imperiali.
Difatti l’elenco delle divinità privilegiate è tale che non si può far risalire al solo Augusto la concessione di far eccezione alle disposizioni che non ammettevano ne’ templi diritto alla eredità. Accettato, come à ben visto il Turchi, che 'il siculi del testo ulpianeo sia dichiarativo e non esemplificativo, si à la seguente lista di cui, pur lasciando inalterato l’ordine delle divinità, faccio tre gruppi che contrassegno con un numero, cosa della quale vedremo tra breve la ragione:
i® lovem Tarpeiùm, Apollinem Didymaeum Mileti, Martem in Gallia, Minervam Iliensem;
2® Herculem Gaditanum, Dianam Ephesiam, Matrem deorum Sipylensem quae Smyrnae colitur,
3® et Caelestem Salivensem (?) Carthaginis.
Le quattro divinità che costituiscono il primo gruppo ini sembrano potersi ascrivere alla legislazione religiosa augustea. Le predilezioni della Casa Giulia per Apollo e Minerva Iliense non anno bisogno di essere illustrate qui : per quest’ultima sopratutto si veda CIG., 3595 e 3610: cfr. Dessau, S770, oltre i tèsti citati dal Turchi. Giove non à bisogno di illustrazioni; si noti tutt’al più il nome di Tarpeius non frequente (Ov. Fasti, 6, 34 e Dessau, 3696, e in ¡specie.nei poeti. Marziale, Giovenale, ecc.) e che certo ci fa rimontare ad Augusto. Quanto a Marte Gallico la sua scelta caratterizza la politica augustea e giulia in particolare.
Il secondo gruppo è, per me, di origine adrianea; come dico nel testo, VHerc. Gadit. entra con Adriano nella monetazióne; la costruzione degli Adrianei, sul tipo dei santuari aniconici di Ercole, è un’altra prova. Quanto a Diana Efesina che appare pure con Adriano nella monetazione, vi è. qualche cosa di più di una presunzione nell'iscrizione ove è onorato Adriano òt3ó'»?a ttJ Jmw tQv KtapovopuSv x«l XìXxxótwv (= caducorum ?) "« Slxata (cfr. Weber, Unlers. Gesch. K. Hadrians, 213, n. 751). Non sarei forse altrettanto sicuro per la Mater deorum, ma quel che dirò ora per la dea Celeste mi spinge a metterla in questo gruppo.
Se cioè è esatta la restituzione di C. 13, 6671 [Juliae Augustae] Cadesti deae [mairi imperalojris Caesaris [M. Aureli Antoninipiifelicis, non è improbabile che quseta divinità con Caracalla sia già entrata tra quelle privilegiate.' Essa potrebbe essere stata favorita da qualcuno degl’imperatori da Pertinace a Caracalla : forse da Settimio Severo. Perciò la Sipilense dovrebbe porsi tra Adriano e Commodo.
Naturalmente (v. Girard, Dr. rom., 56 segg.) il i° gruppo dovrebbe esser stato onorato per senatoconsulto ; il 2® ed il 30 per constituzioni imperiali.
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io BILYCHNIS
un medaglione dell’arco di Costantino, alia cui determinazione cronologica, oscillante tra Traiano ed Adriano, noi crediamo di poter portare così .un contributo di qualche peso (tav. Ili, fig. i e 2).
Chi paragoni questa rappresentazione di Ercole con le note raffigurazioni di Giove Vincitore, quali ci risultano dalle monete e dalle notizie che abbiamo sulla statua argentea di Cirta che reggeva pure con la destra una vittoria, non potrà non convenire con noi che con questi tipi si è voluto ricordare \’Hercules Victor o hivictus del culto.
E l’iniziazione di Adriano ai misteri eleusini avviene, probabilmente per sua dichiarazione, sull’esempio di Ercole e su quello di Filippo il Macedone che, come vedemmo, riconosceva questo dio per suo progenitore; e la fondazione della villa, in cui con qualche senso d'invidia — «ut beatis locupletibus est mos > — una fonte tardiva diceva ch’egli si era dato ai piaceri, era fatta presso quella Tivoli in cui il culto d’Èrcole era antichissimo e celebre, mentre là località non era di per sé stessa tale da spiegarne la scelta.
Nè d’altra parte questa concezione politico-religiosa che fa. di Giove ed Ercole gii Atlanti, per dir così, della nuova costituzione monarchica dell'impero, rimane circoscritta ai due imperatori che la vollero attuata. Sotto gli stessi Antonini, sotto cui pur si insinuano con qualche favore e con qualche insistenza elementi nuovi, essa prosegue nella sua affermazione.
È certo che sotto Antonino il Pio, Giove ed Ercole furono più che mai in onore: tra le molte raffigurazioni riferentesi ad antiche leggende o divinità romane trova posto in modo speciale il mito d’Èrcole nelle sue varie forme, specialmente indigene (Caco e i Pinari). Con M. Aurelio nel 177 abbiamo d’altra parte Giove propugnatore che fulmina un barbaro e viceversa con L. Vero Si inizia nelle monete la rappresentazione di Ercole pacifero, tenente nella destra un ramo d’olivo e nella sinistra la clava, con allusione alla pace che l'imperatore intendeva largire al mondo, stanco delle molte guerre (tav. IV, fig. 1). I divi fratres, coniano poi delle significantissime monete in cui Giove conservatore appare accogliere sotto il suo mantello i due principi, da un lato protetti col fulmine, dall’altro con lo scettro, cui il dio si appoggia (tav. Il, fig. 3).
Esaminata dopo queste premesse e sotto questo nuovo punto di vista, la stessa esagerazione di Commodo nelle manifestazioni di ossequio ai culti tradizionali non può apparire, come a troppi apparve, pura follia così come non ci apparve tale neppur quella di Domiziano. Giove è raffigurato nelle sue monete non solo come O. M., ma pur come difensore della salute augusta (dovi deferì-sfori) salutis aug.), come mallevadore dei tempi augusti (d. O. M. sponsor(i) saecfuli) aug) con il dio che posa la destra sulla spalla dell’imperatore che^regge il globo e lo scettro e si rivolge a lui, e, in fine, identificato con l'imperatore, come Giove iuvenis o con l’appellativo fortemente criticato e travisato di Giove Insuperabile (dovi exsuper(antissimo). Nel quale non si deve vedere, come pure si è voluto, la prova di un sincretismo pagano semitico, poiché esso non è altro che un documento dell’identificazione dell'imperatore con il dio supremo. Noi sappiamo difatti da Dione che Commodo voleva esser chiamato taspalpw = <ex-superans o exsuperatorius > per indicare la sua suprema invincibilità, la sua somma insuperabilità, se così è lecito dire; il che trova perfetta testimonianza
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ERCOLE E GIOVE II
in un'iscrizione del 192 con la dedica: omnium virtutum exsuperant\i o issimo\ e nella sua vana pretesa di dar nuovo nome a novembre, chiamandolo exsupera-toriusy pretesa la quale aveva illustri precedenti, com’è noto, non solo cioè Cesare ed Augusto ma pur Domiziano ed Adriano. Del resto quest’ambizione di Commodo di esser ritenuto invincibile non è molto dissimile da quella di Costantino che nelle monete è salutato come ex^uperator omnium gentium. L’identificazione è ad ogni modo indiscutibile perchè la leggenda delle monete unisce al nome divino non solo l’attributo che abbiamo studiato, ma tutte le massime cariche imperiali: lovi Exsuper(anti) p(ontifici) m(aximo) tr(ibunicia) p(otestate) XI imp(eratori) Vili co(n)s(uli) V p(atri) p(atriae).
Abbiamo detto che la pretesa di esser ritenuto invincibile non era una semplice follia. Commodo, favorito dalla fortuna con le- vittorie dei suoi generali, aveva trovato nella tradizionale religione d’Èrcole il suo vero punto d’appoggio. Non solo identificandosi con esso égli si sente invitto, vittorioso, invincibile, come lo voleva per il figlio di Giove l'antica tradizione, ma si sente pure pacificatore còme Ercole stesso. Così scrivendo al senato, come nell’epigrafe surriferita del 192, egli si chiama pacator orbis (= ecpvjvozoiò; r/5; ’oìzou(u£V7ìc), onde perciò in un’iscrizione greca del 186 è detto «lo scudo, il difensore (v. sopra lovi defensor i) del mondo > = [~z;] oìzovy.[év/;;]. Egli è l’Èrcole Commodiano, come dicon le monete, ma è sempre ed unicamente \'invictus Ro-manus Hercules dei titoli ufficiali e privati, come nella lettera già citata al senato e nell'epigrafe del 192, ed appare coperto della pelle leonina nelle effigi delle monete imperiali e nelle statue .¿tav. IV, fig. 2). Le raffigurazioni monetarie poi alludono per lo più a miti tracffzionali o ad adattamenti alle leggende con le acclamazioni Herculi romano conditori o Aug(usto). Quando si pensi, dice non a torto uno scrittore antico, Ateneo, che Alessandro scolaro d’Aristotele, aveva simili manie di assomigliarsi agli dei e persino ad Artemide, ci si meraviglierà di Commodo?
Noi aggiungeremo che per noi la meraviglia è ben minore, giacché sappiamo che le opinioni politiche e filosofiche da Aristotele in poi riconóscevano in Alessandro e nella forma monarchica da lui impersonata, quanto di meglio l’arte politica avesse potuto fin’allora escogitare.
Prima di accennare a Settimio Severo ricorderemo come Pertinace si rivolgesse ai dis custodibus, ossia agli dei protettori dell'impero, secondo la nota frase di Plinio e di Tacito, tra i quali naturalmente primeggiava quel Giove che sotto la leggenda lovi prae(sidi) orbis figura nelle monete di Pescennio Nigro.
E lo stesso Settimio Severo riproduce questi ultimi tipi, mentre ripete per il dio supremo Formai vecchio appellativo di conservatore e non dimentica Ercole, accanto al quale però pone Bacco con la leggenda dis auspicibus già nel 194. Si è detto non a torto che l’omaggio reso a queste due divinità che appaiono anche con l’attributo di dii putrii, è l’omaggio dell’Africano di Leptis Magna, che le riconosceva appunto per patrone della città: ma si è pur riconosciuto che, apparendo in monete del 204 con la leggenda ludos saecul(ares) fec(it), intorno all’imperatore sacrificante dinanzi ad esse, si deve convenire che sono pur venerate come le divinità massime, sotto la cui protezione sono posti per l’appunto i ludi secolari. Occorre però, accanto a ciò, non dimenticare che nel 11 e in secolo
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BH.YCHNIS
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d. Cr. si opera un sincretismo de’ culti di Ercole e Bacco che non può non trovare il suo fondamento nella comune tradizione della loro gesta orientale. Già vedemmo come ai sovrani celebri per imprese nell’Oriente fosse attribuito non solo il nome di Ercole, ma pur quello di Dioniso, sopratutto in Grecia; aggiungiamo che in questo periodo Ercole non di rado appare sotto la forma di ebro (Ercole bibace), dominato dall’altro dio, e con qualcuno dei suoi attributi e non dimentichiamo Che dopo le vittorie partiche Settimio Severo, che si dice anche lui pacator or-bis, eleva ad ambedue le divinità un tempio e che l’imperatore appare, non diversamente da Commodo, con il capo coperto dalla pelle leonina. Come la .divinità suprema con cui si identifica, Settimio Severo, che à ridato la pace all'Oriente, è salutato rector orbis, e come Commodo è detto Ercole romano conditor, così egli è fundator imperli.
Caracalla continua le tradizioni paterne de’ dii patrii e di Ercole; un’importante iscrizione del 215, rinvenuta recentemente in Africa lo pone in questo significantissimo modo sotto la protezione di Giove: lovi optimo maximo conservatori ac protectori imp(eraforis) Caesaris, ecc.
È vero che cominciano ormai a introdursi nella religione dei padri elementi nuovi e per qualche periodo i culti fondamentali si oscurano: ciò non impedisce che Giove appaia con l’antico appellativo di conservatore sotto Ma-crino, con quelli di conservatore, statore, vincitore sotto Severo Alessandro, che Valeriane saluti non solo Giove vincitore, ma pacator orbis\ che Gallieno tra l'ondeggiar delle' diverse forze religiose che agiscono nell’età sua, tra un politeismo vigoroso, cioè, dominato dall’esempio patèrno, ed una restaurazione politeistica arcaizzante, lasci insinuarsi quel, sincretismo solare che permise forse a lui di vedere gli enti religiosi con un senso di superiorità e di filosofia che ci si manifesta nel contegno liberale tenuto verso i Cristiani. Così ci spieghiamo come accanto ad Ercole conservatore ed a Giove conservatore, vincitore, propugnatore, statore, ultore, pacator orbis si trovino tutte le maggiori divinità dell’Olimpo greco-romano e quelle dell’Olimpo puramente romano: lano patri, deo Volcano, Deae Segetiae, quelle straniere come Serapidi corniti Augusti) o Soli invicto, mentre il carattere militare dell’imperatore si afferma con le numerose allusioni alla virtus sua e del padre ed a quella del suo esercito e come i segni erculei, i trofei d'armi, la clava, la pelle del leone e persino l’effigie del sovrano, coperto la testa dalla pelle leonina, abbia larga esemplificazione. Onde non reca meraviglia vederlo salutato nelle iscrizioni « magnus et invictus, sanctissimus e clementissimus princeps ».
Ma quel che è più interessante ancora, perchè ci mostra come l’identificazione di Giove con la persona dell’imperatore sia ormai completa sono le monete di Saio-nino, figlio di Gallieno, la cui puerizia fù troncata prima che gli dei nutritores, come volevan le sue stesse monete Che rappresentavano con questa leggenda Giove che consegna una vittoria all’imperatore, per significarne la loro partecipazione all’imperiale potere, gli dessero il tanto auspicato impero. In esse appare la leggenda lovi exor (lenti) o crescenti'. dall’identificazione di Commodo con Giove giovane a questa di Salonino non si può dire che la concezione non abbia fatto progressi se la divina persona imperiale sorge e si evolve come incarnazione di Giove.
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n poter simpa-giore di quella
L’“ ETICA DELLA SIMPATIA ”'^.APPRO’
nella “TEORIA DEI SENTIMENTI MORALI” di Adarin<iuantoè
are la sim(ContinuazioM. Vedi Bilychnis, fascicoli di sett.-otlobre, 1918, pag. 147). r'*ip III)
dal SOg-la sua
ANALISI DELLA “ TEORIA” U) '°"e
0
fondamentale della Teoria Morale di Smith è che l’oggetto primario delle nostre percezioni morali sono le azioni degli altri uomini, e che i nostri giudizi morali in riguardo alla condotta sonó[soltanto applicazioni a noi stessi delle decisioni che noi abbiamo già dato riguardo alla condotta del nostro prossimo. Le sue ricerche ben distinte, benché fuse nella trattazione, sono quindi due: ia Coine noi riusciamo a giudicare della condotta degli altri: 2* in qual modo, applicando a noi stessi questi
giudizi, noi acquistiamo un senso del dovere, e un senso della sua superiorità sugli altri principi di condótta.
Questi giudizi morali riguardo alla condotta sì nostra che altrui, implicano due percezioni distinte: i* Una percezione della condotta « propria » o « impropria » (cioè: retta o malvagia): 2° Una percezione del merito o demerito dell’agente.
La « Teoria » comincia dalla ricerca dei nostri criteri di giudizi morali delle azioni altrui, e con la analisi appunto dell’idea di proprietà.
“SIMPATIA,, CON LE ALTRUI EMOZIONI
« Per quanto egoista possa invaginarsi che sia un individuo, » — così si apre la « Teoria », — «vi sono evidentemente nella sua naturale costituzione alcuni principi che fan sì che egli s’interessi alla sorte degli altri, e rendono la felicità loro a lui necessaria, benché egli altro vantaggio non ne tragga che il piacére di costatarlo ».
Si tratta di un fattore pimitivo della nostra costituzione umana, come lo mostra il fatto che noi « istintivamente ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio
(i) Dovremo ora procedere ad un’analisi della Teoria dei sentimenti morali di A. Smith, spogliandola della sua smagliante veste e della sua ricchissima esemplificazione e riducendola necessariamente ad un arido scheletro assai meno estetico benché più facilmente anatomizzabile. Dobbiamo quindi chiedere ai nostri lettori un’attenzione sostenuta e paziente e chieder loro.venia delle necessarie ripetizioni di alcuni concetti c di espressioni continuamente ricorrenti e fondamentali (Nota dell’A.).
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BILYCHNIS
d. Cr. si opera uno che un colpo sta per esser vibrato alla gamba o al braccio d’un trovare il suo foigualmente «qualunque siala passione che sorge in una persona, un’ana-Già vedemmo eoe sorge nel petto di ogni attento spettatore al pensiero della sua situa-non solo il nortti di gioia o di dolore, di gratitudine o di risentimento. Anche allorché aggiungiamo ch’eroi tragedie o di romanzi che (¡’interessino, noi ci rallegriamo della di ebro (Ercolfìone non meno di quello che ci rattristiamo per le loro sofferenze». È e non dimenti.mmaginazione che ci fa investire delle sensazioni altrui, delle quali i anche lui /tf&i nulla ci direbbero « noi c’immaginiamo ciò che soffriremmo noi stessi ratore approvassimo nella stessa condizione..., entriamo per così dire nel corpo e dive-leonina. y ¡n un cert0 gra(j0 ja stessa persona del sofferente..., e quindi sentiamo qual-ri .a ° cosa che, per quanto più debolmente, assomiglia al suo dolore e alle sue agonie ». co II nome che esprime più appropriatamente la nostra comunanza di sentimenti con gli altrui dolori è quello di pietà o compassione; ma « per denotare la nostra comunanza di sentimenti ( fellow-feeling) con qualunque passione, possiamo senza molta improprietà usare una parola che in origine aveva forse lo stesso significato, cioè quella di « simpatia ».
Sulla natura di questo sentimento Smith ritornerà nell’ultima parte (VII sez. IV) dell’opera, per difenderlo dall’interpretazione egoistica di Hobbese della sua scuola. «In nessun modo la simpatia può essere considerata come un principio egoistico. Quando io mi associo al vostro dispiacere o alla vostra indignazione, si può, è vero, suppórre che la mia emozione si fondi nell’amor proprio, e che sorga... dal trasferirmi nella vostra situazione, e da questo punto di'vista immaginare quello che io stesso proverei nelle medesime circostanze. Ma questo immaginario scambio di situazione con un altro, avviene in me non in quanto io sono la tale o tal altra persona, ma’come se fossi la persona stessa con cui simpatizzo... Io non considero già — quando mi addoloro con voi della morte dell’unico vostro figlio — che cosa soffrirei io. individuo di tali qualità e professione, se mi morisse un unico figlio, ma quello che io soffrirei se Jossi realmente voi. Lo scambio è non solo di circostanze, ma di persone e di cafat-tere. Il mio dolore perciò riguarda interamente voi e punto me stesso: e perciò in nessun senso può dirsi egoistico ».
Ma la simpatia non sorge sempre in modo così istantaneo come nel caso delle emozioni di dolore o di gioia che vengono suggerite spontaneamente da qualche motivo triste o lieto della persona che soffre o gode: vi sono delle passioni che non suscitano la nostra simpatia fino a che non sia nota laloro causa: tale p. es. quella dello sdegno, che può, piuttosto, provocare naturalmente simpatia verso la persona contro di cui lo sdegno è diretto. La simpatia quindi sorge non tanto dalla vista di una passione quanto da quella della situazione che lo ha provocato.
Ma qualunque sia la causa della simpatia, certo è che la consapevolezza di una concordia di sentimenti produce in noi grande piacere, come invece quella del contrario produce grande dispiacere. Le emozioni dolorose abbisognano maggiormente di « scaricarsi e dividersi con altri » talché, ad es., mentre noi tolleriamo che i nostri amici non si rallegrino dei nostri successi, non possiamo soffrire che essi non partecipino dei nostri risentimenti.
Ma la simpatia non è meno gradita alla persona che ne è il soggetto che a
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quella che ne è il termine: anzi quando noi abbiamo coscienza di non poter simpatizzare, ad es.» coi dolori di un altro, questo ci cagiona una pena maggiore di quella che’ proveremmo se fossimo con essi in pieno accordo.
SIMPATIA CON GLI ALTRUI STATI D’ANIMO, MISURA DELL'APPROVAZIONE O DISAPPROVAZIONE DELLA CONDOTTA ALTRUI
Dopo avere così analizzato questo *primum datum* dell’uomo sociale, in quanto è partecipazione alle emozioni di un’altra persona, Smith passa a esaminare la simpatia con gli altrui stali d'animo e preferenze morali e quindi procede (nel Cap. Ili) a mostrare che è appunto la quantità di piacere 0 di dolore (simpatia) provala dal soggetto alla vista della condotta 0 dei sentimenti di una persona, che è la misura della sua approvazione o disapprovazione morale di questa condotta Come nell’approvazione intellettuale il consenso con le opinioni di un altro non è che-la constatazione che le sue idee coincidono con le nostre, così avviene analogamente in quella morale. Perciò i sentimenti di un individuo formano la sua unità di misura con cui giudica della rettitudine della condotta di un altro individuo.
Analizziamo questo processo di valutazione morale.
Allorché noi ci facciamo ad esaminare la situazione morale di una altra persona, nói scorgiamo nel sentimento da cui procede la sua azione è che ne forma la moralità o immoralità, due diversi aspètti: a) Il rapporto alla causa che lo determina o al motivo che Io occasiona; b) Il rapporto allo scopo che l’agente si prefigge e a cui tende.
Nella proporzione o sproporzione («suitableness or unsuitableness ») del sentimento alla causa od oggetto che lo eccita consiste la proprietà o improprietà convenienza o sconvenienza dell’azione. Nella qualità dell’effetto benefico o dannoso a cui il sentimento mira o tende, consiste il merito 0 demerito dell’azione, cioè la qualità che la rende meritevole di premio o castigo. È il primo aspetto quello che nella vita comune noi non manchiamo mai di considerare.
Ora se noi riguardando alla causa o motivo di un’azione troviamo che i sentimenti in essa espressi dall’agente coincidono e si conformano coi nostri, noi siamo necessariamente portati da approvarli come propri e proporzionati al loro oggetto : e viceversa, noi li disapproviamo come impropri e non corrispondenti alla situazione se i nostri sentimenti e apprezzamenti non coincidono con quelli dell’agente.
In ogni giudizio morale, quindi, la «proporzione» (suitableness) o «sproporzione » di un sentimento con l’oggetto che lo eccita, e la « proprietà » o « improprietà » dell’azione che ne risulta, viene affermata dipendentemente dalla concordia o dissonanza di quel sentimento con l’altro provato simpaticamente da uno spettatore.
Insistiamo qui di nuovo nel ricordare ciò, che abbiamo già fatto osservare, che la parola « simpatia » è usata qui da Smith nel senso di condivisione, non deWemozione altrui, ma dei sentimenti, delle preferenze, degli stati d'animo morali, dalla quale sorge più propriamente il sentimento di approvazione morale della sua condótta.
Ma non ne segue che approvazione e simpatia morale si equivalgano, e che la riduzione esplicativa dell'approvazione alla simpatia non sia un progresso nell'ana-
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lisi genetica. In realtà, la causa del nostro giudizio morale esplicito di approvazione o disapprovazione dell’altrui sentimento e condotta, dipende dalla nostra partecipazione o meno, ai suoi stati d’animo, alle sue preferenze morali ècc. che spesso formano un gruppo complesso di cui la nostra ragione analitica è ben lungi dal rendersi conto, anzi spesso, dal dare uria giustificazione (i).
Approvare è astratto, simpatizzare è concreto: l’approvazione riposa sulla simpatia coi sentimenti, dei quali le ragioni non sono che il rivestimento o la giustificazione logica, la razionalizzazione.
LÀ VIRTÙ
Sulla doppia serie di sforzi della nostra natura morale per simpatizzare coi sentimenti e le passioni degli altri o per abbassare le nostre proprie emozioni sì da render possibile rincontro e la simpatia dello spettatore sono basate due serie di virtù: da una parte le virtù « amabili », gentili, di condiscendenza e d’indulgente umanità; dall’altra le virtù grandi, « rispettabili », le virtù di abnegazione, controllo su sè stesso, dominio delle passioni e loro sottomissione alle leggi della dignità e onore personale, e « proprietà » della condotta. Ma non ogni « proprietà » è « virtù ». (Cap. V).
«Virtù è eccellenza, qualcosa di straordinariamente grande e bello, che sale più in alto assai del comune e ordinario. Le virtù « amabili » consistono in quel grado di sensibilità che sorprende per la sua squisita ed inaspettata delicatezza e tenerezza; le « grandiose e rispettabili, » in quel grado di dominio su sè stessi che stupisce per la sua meravigliosa superiorità sulle passioni più sbrigliate della natura umana ».
Noi usiamo spesso, nel giudicare della virtuosità, cioè della lode o del biasimo dovuto a un’azione, di due criteri: quello dell’assoluta perfezione che in certe situazioni estremamente difficili non è mai raggiunto; e quello di un certo grado di approssimazione a questo ideale, raggiunto dalla media degli uomini. Chiunque supera questo limite, per quanto ancora lontano dall'ideale, ci appare degno di lode, e chi ne sta al disotto, di biasimo.
“PROPRIETÀ„ E “GIUSTO MEZZO,,: LORO RELATIVITÀ
È notevole che la teoria di Smith della « Proprietà » (o rettitudine) coincide press'a poco, com’egli stesso dice, con quella che dà Aristotele della « virtù » come mezzo termine «Mswttk» fra due estremi di eccesso e di difetto; e con quella di Platone che nella « Repubblica », la fa consistere nella disposizione dell'animo in
(r) Mentre scrivevo queste pagine nel « Museo Britannico », una dimostrazione in Londra di protesta contro l’esecuzione del Battisti mi poneva di fronte il caso analogo di due esecuzioni capitali: del cap. Battisti per opera degli Austriaci, e di Sir R. Casement Eer opera degli Inglesi. La ia fu giudicata da molti italiani una vile infamia, una bararie ecc., mentre la 2a fu approvata. I Tedeschi al contrario, approvarono la ia, e disapprovarono con gl'irlandesi la 2a. Evidentemente le diverse approvazioni intellettuali dei due casi trovano spiegazione non nei motivi logici, ma nella comunanza di due gruppi totali di sentimenti morali, o preferenze, (simpatia). Donde il motto moralmente paradossale: « With my country, right or wrong ».
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cui ogni facoltà si limita alla propria sfera senza sconfinare in quella di un altro, e compie il suo ufficio con quel grado esatto di forza che per natura le conviene.
Ma differenza fondamentale si è, che Smith non dà questo mezzo termine per un astratto incommensurabile: egli si riferisce come a giudice e criterio di misura ad una equazione essenzialmente soggettiva: quella dello spettatore. Per lui la proprietà (rettitudine) di ogni passione eccitata da oggetti che hanno particolare rapporto con noi stessi, e che consiste evidentemente in una certa posizione media (medio-crityj, è misurata dal grado (pitch) che lo spettatore può raggiungere.. Se la passione è troppo alta o troppo bassa, egli (lo spettatore) non può livellarsi ad essa » e la passione è intesa come « impropria ».
Ma è ovvio che questo giusto mezzo in cui consiste la proprietà, differisce nelle diverse passioni: secondo che è più o meno facile per lo spettatore.di avere con esse maggiore o minor simpatia; e appunto « la convenienza 0 sconvenienza » (decency or indecency) di esprimere le nostre passioni varia esattamente in proporzione con le disposizioni generali dell’ umanità (degli «spettatori», si tratta di una convenienza o sconvenienza media) a simpatizzare con esse.
Smith fa un’ abbondante illustrazione del principio, applicandolo a tutte le passioni umane che divide in 5 classi. Passioni corporee e sensuali, imaginative, antisociali, sociali, egoistiche.
Per es., Je passioni che hanno la loro origine nell’imaginazione, come disillusioni d’amore o d’ambizione, suscitano più simpatia che i maggiori dolori fisici, perchè appunto la nostra immaginazione riesce più facilmente a « inflettersi e ad assumere per così dire, la forma e la configurazione dell’imaginazione di chi soffre». Così è che, benché « la perdita di una gamba possa generalmente considerarsi come una disgrazia più positiva della perdita di un’amante, pure, ridicola sarebbe quella tragedia in cui la catastrofe si aggirasse intorno a una perdita di quel genere. È appunto sulla scarsità della simpatia provocata dai dolori fisici che si fonda la « proprietà » della costanza e della pazienza nel sopportarli...
Una scena che rappresenti un amore pacifico e sereno innoverebbe a riso anziché a simpatia se non fosse il prodromo di un amore contrastato e tragico.
Un'altra serie di passioni è formata da quelle antisociali, quali l’odio e. il risentimento. (cap. III). Benché noi possiamo simpatizzare con colui che è provocato, possiamo anche simpatizzare con il suo a versarlo se questi è l’oggetto di un immeritato risentimento.
Comunque, poiché queste passioni, benché utili all’individuo per difesa biologica, dànno un’ impressione sgradita agli altri, esse sono le sole passioni in cui la sola espressione non è bastante ad attrarre la nostra simpatia fino a che noi non conosciamo la causa di esse.
Perchè quindi uno spettatore possa simpatizzare con le nostre passioni di risentimento e vendetta, la provocazione deve esser tale che noi incorreremmo il suo disprezzo se non ce ne risentissimo: e risentircene piuttosto per un .senso della « proprietà» di questo risentimento, e perchè gli spettatori si attendono'che noi lo proviamo. Non vi è quindi passione a cui dobbiamo condiscendere con maggior cautela, e tenendo presenti i sentimenti di uno spettatore freddo e imparziale.
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. BILYCHNIS
Riguardo alle passioni sociali, la simpatia dello spettatore eon la persona che le prova coincide esattamente con il suo interesse per la persona che ne è l’oggetto. È appunto il raddoppiamento della simpatia che rende queste passioni, quali ad es. la generosità, la compassione, così gradite e convenienti. E il loro grado di proprietà si trova più vicino all’eccesso che al difetto: al contrario di quelle antisociali.
Fra le sociali e le antisociali vengono le passioni egoistiche, quali la tristezza o la gioia per i nostri casi personali. La loro espressione anche se eccessiva non è mai così disgustosa per lo spettatore quanto, ad es., un eccessivo risentimento.
« Ma vi.è questa differenza fra le gioie e i dolori, che noi siamo generalmente più disposti a simpatizzare con i grandi dolori e con le piccole gioie. I grandi successi ispirano invidia piuttosto che gioia: e il fortunato lo sente, e si sforza, se dotato di criterio, di moderare là sua gioia, abbassare il suo livello di esaltamento, raddoppiare di modestia e di gentilezza verso gli amici, in modo da mostrarci che « egli è più in simpatia con la nostra invidia e contrarietà alla sua felicità che noi non lo siamo con questa».
Gli uomini invece simpatizzano più facilmente con le piccole gioie che emanano dagli ordinari eventi delia vita, « da tutti quei frivoli nonnulla che pure riempiono il vuoto della vita umana >»: con l’abituale giovialità, con la gaiezza contagiosa della gioventù e della bellezza, che rievoca anche nei più lontani per età o per salute da quello stato d’animo, le memorie e le emozioni d’ un tempo che fu. Tutto il contrario avviene dei dolori: i lievi ci lasciano indifferenti; i grandi e profondi suscitano viva simpatia. « Noi ci mettiamo a piangere perfino alla vista di una rappresentazione tragica... e se per qualche disgrazia voi cadete nella povertà, nella malattia, in gravi disillusioni ecc., anche se non senza vostra colpa, voi potete generalmente contare sulla simpatia più cordiale dei vostri amici, e nei limiti dei loro interessi, sulla loro assistenza. Ma... se voi siete solo stato un po’ frustrato nelle vostre ambizioni, ingannato dalla vòstra amante, o vi siete bisticciato con vostra moglie, contate pure sui motteggi degli amici ».
Abbiamo visto come per Smith i sentimenti dell' animo su cui si fonda il carattere virtuoso o vizioso di ogni azione, sono considerati — secondo la causa o il motivo che li eccita, — come retti e propri, o viceversa, cioè come proporzionati o meno alla loro causa, e abbiamo accennato l’analisi con cui l’autore mostra, esaminando le 5 classi di .passioni o sentimenti umani, che Za convenienza o sconvenienza di manifestare queste passioni è esattamente proporzionata alle disposizioni dello spettatore a simpatizzare con esse, e quindi ad approvarle o disapprovarle.
MERITÒ E DEMERITO
Passiamo ora a vedere nella Parte II della « Teoria », come, pure in funzione di simpatia dello spettatore lo Smith spieghi la lode o il biasimo che viene attribuito a un sentimento e a un’azione, — e quindi il premio o il castigo ad essa aggiudicato — o in altre parole il sentimento del loro inerito o demerito.
Ma facciamo sin da ora osservare, prima di addentrarci ulteriormente nell’analisi dell’opera, che benché Smith parli spesso provvisoriamente, allorché generalizza i suoi giudizi sulla moralità dei sentimenti ed azioni altrui, di comune
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approvazione o disapprovazione, di simpatia o meno del genere umano con una data passione ecc., ciò s’intende detto di una media o comune di giudizi morali, senza pregiudizio del carattere essenzialmente soggettivo della misura del sentimento di simpatia, o meno, dello saettatore, o dello « saettatore imparziale », — che altro non è che l’individuo stesso in quanto si sforza di inibire la propria parzialità e divenire rappresentativo di una media di spettatori.
Smith adunque si domanda quali siano, in riguardo alla sua finalità, le qua lità di un'azione che la fan degna di biasimo o lode, premio o castigo: e risponde:
« Un’azione è meritoria o no, è degna di premio o castigo, quando è oggetto approvabile e conveniente di gratitudine o di risentimento ». Ma quale gratitudine o risentimento è conveniente e degno di approvazione, e quale no? Smith risponde: (C. II): « Colui appare meritevole di premio, che è per qualcuno l'oggetto naturale di una gratitudine tale, con cui ogni cuore umano si trova all’unisono...; e colui al contrario appare degno di castigo che egualmente è per qualcuno l'oggetto naturale di un risentimento con cui ogni persona ragionevole è disposta a simpatizzare e farlo proprio ». (Notiamo di nuovo, che il giudizio di « ogni cuore umano » e di «ogni persona ragionevole», si riduce poi nel caso concreto e in individuo, allo spettatore che giudica il qualcuno, o il « cuore umano » e la « persona ragionevole», come si vede dal trapasso disinvolto che l'autore fa all’estimativa dell’empirico noi nella illustrazione che ne dà).
« Come noi simpatizziamo con la gioia dei nostri simili così dividiamo la loro naturale compiacenza in riguardo alla causa della loro sorte: noi ci compenetriamo dell’affezione e amore che essa loro ispira, e cominciamo anche noi ad amarla..., e a riguardarla con gli stessi occhi con cui c’immaginiamo che il bonificato debba riguardarla..., e quindi approviamo la corrispondenza che egli è disposto a mostrargli, e che Ci sembra in ogni modo adeguata e appropriata all'oggetto.
Nello stesso modo, allorché simpatizziamo col dolore del nostro prossimo... ci compenetriamo ugualmente del suo abbonimento e avversione per la causa di esso...; il nostro cuore batte all’unisono col suo dolore come altresì con lo spirito che lo sospinge a distruggerne la causa: e nel caso in cui l’offeso soccomba nella contesa, non solo simpatizziamo col reale risentimento degli amici e parenti, ma... sentiamo quel risentimento che nella nostra immaginazione egli dovrebbe sentire... e simpatizziamo con l’imaginario senso di vendetta dell’ucciso».
Ma poiché il nostro sentimento di approvazione morale deriva, non solo dalla simpatia coi risultati di un’azione, ma anche dalla sua proprietà, o adequatezza morale alla causa o motivo dell’agente, così (c. Ili) « ogni qualvolta noi non possiamo simpatizzare con le affezioni dell’agente, ogni qualvolta ci sembra che nei motivi che influirono sulla sua condotta non vi sia « proprietà » noi siamo meno o punto disposti a entrare nella gratitudine della persona che ha ricevuto il benefizio, come avviene- per esempio nelle prodigalità folli; e viceversa, « ogni qualvolta ci sembra che la condotta dell’agente sia stata ispirata da motivi e affetti con cui noi siamo interamente d’accordo, noi non possiamo provare alcuna sorta di simpatia col risentimento di chi ne soffre, per quanto grande sia stato il danno ».
Ed anche: « Quando fra due litiganti noi prendiamo parte per uno di essi e
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facciamo nostro il suo risentimento, non è possibile che entriamo anche in quello dell’altro... Quando un disumano assassino è condotto al patibolo, noi possiamo avere qualche compassione per la sua miserabile sorte, ma non già simpatizzare col suo risentimento contro il giudice».
Risulta da questa analisi del senso di merito o demerito, che esso nella sua fórma completa di perfetta approvazione morale è un sentimento composto, risultante da due distinte, emozioni di simpatia, cioè « una simpatia diretta col sentimento dell'agente, e indiretta con la gratitudine di quelli Che ricevono il benefizio della sua azione».
Nè la simpatia col risentimento di una persona degrada il nostro senso del demerito dell’azione: il risentimento fa il «pendant» (counterpart) alla gratitudine: e se il nostro senso del merito sorge dalla simpatia con questa, è naturale che quello di demerito sorga dalla simpatia con quello. Inoltre il risentimento non è biasime-mevole (« biasimato » — « disapproved »— dice l’Autore, che nella pagina seguente dirà: « la presente investigazione non riguarda una materia di diritto, per così dire ma di fatto») che quando ci appare eccessivo, cioè tale àa superare la nostra capacità di parteciparlo: non già quando noi come spettatori sentiamo in noi stessi una animosità corrispondente a quella del paziente, nè quando nulla in lui denota un’emozione più violenta di quella che noi possiamo condividere, o quando il castigo che esso mira ad infliggere non è più severo di quello che noi stessi godremmo di vedere in conflitto».
Come appendice alla teoria del « merito e demerito », l’Autore fa osservare, che mentre prima di dare « Vapprovazione » al sentimento di una persona come « proprio » e« conveniente » al suo oggetto bisogna che non solo noi abbiamo provato lo stesso sentimento, o simpatizzato con la persona, ma anche percepito questo perfetto accordo tra il suo sentimento e il nostro; al contrario, per approvare la condotta di un benefattore e giudicare il suo atto « meritorio » è sufficiente che noi, investitici del caso, simpatizziamo coi suoi sentimenti, quali si siano poi i sentimenti provati dal beneficato: non occorre quindi nel 2° caso corrispondenza di amorosi sensi. Spesso anzi avviene che noi c'illudiamo sui sentimenti del beneficato, e proviamo noi una riconoscenza che egli non prova- La stessa differenza esiste fra la nostra disapprovazione del demerito e quella della improprietà.
PARAGONE TRA I GIUDIZI DI “PROPRIETÀ,, O «IMPROPRIETÀ,,, E DI “MERITO,, O “DEMERITO,,
Così nella teoria di Smith, per quanto sia grande la sproporzione di un sentimento con la sua causa, cioè la sua « improprietà », esso sarà biasimato solo come fuori di simpatia coi sentimenti dello spettatore; mentre i sentimenti che stimolano l’agente ad ottenere un fine per mezzo di una certa azione, provocano nello spettatore il sentimento non solo di «proprietà» o «improprietà», ma anche quello di « merito o demerito » morale.
In concreto quindi, « solo le azioni che procedono da appropriati molivi, cioè da una tendenza benefica meritano compenso; essendo essi soli l’oggetto di approvazione, e di gratitudine, ed atti ad eccitare la gratitudine simpatica dello spettatore:
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e al contrario, solo azioni di tendenza dannosa-sembrano meritare castigo, perchè esse sole sono l’oggetto approvabile di risentimento, cioè eccitano il risentimento simpatico dello spettatore. Con queste parole nelle quali sottolineamo ancora una volta la mancanza assoluta nella « teoria » di Smith di un criterio oggettivo della moralità, o immoralità, anzi dell’idea stessa di moralità o immoralità, sostituita con quella di approvazione e simpatia degli spettatori, o viceversa, si apre lasez. IIa della « Teoria ».
In essa con l’esempio delle due virtù della beneficenza c della giustizia, Smith illustra la teoria fondamentale, che il giudizio del demerito delle altrui azioni dipende dal nostro sentimento che esse siano non solo riprovevoli ma anche degne di punizione.
CONFRONTO FRA LA GIUSTIZIA E LA BENEFICENZA
Prendiamo l'esempio di una nera ingratitudine: quella del beneficato che ricusa di aiutare il suo benefattore che ha estremo bisogno del suo soccorso. Benché ogni imparziale spettatore rigetti ogni simpatia coi suoi egoistici motivi, ed egli sia l’oggetto della più alta disapprovazione, pure egli, se «è oggetto di odio — passione eccitata naturalmente dalla improprietà dei sentimenti e della condotta — non è oggetto di risentimento, passione evocata solo da atti che tendono è intendono di fare un male reale e positivo ad una persona in particolare. La sua ingratitudine non può quindi esser punita».
La virtù della giustizia invece differisce dalla beneficenza in quanto la sua violazione fa male reale e positivo a qualche particolare persona, e per motivi che noi disapproviamo: e perciò è l'oggetto proprio del risentimento e della punizione che ne consegue. Il risentimento, perciò, è « la salvaguardia della giustizia e la-sicurtà dell’innocenza ».
In proporzione al risentimento naturalmente e propriamente provato da chi soffre un’ingiustizia, e viceversa per la beneficenza, sta non solo l'indignazione simpatica dello spettatore, ma anche il senso del demerito nell’offensore, e viceversa, la coscienza del demerito nel beneficante (C. II).
« Il violatore delle più sacre leggi di giustizia non può mai riflettere ai sentimenti che il genere umano deve provare verso di lui senza sentire tutte le agonie della vergogna, dell’orrore, della costernazione... Simpatizzando anch’egli con l’odio e l’abominazione che altri debbono provare per lui, egli diviene in qualche modo l’oggetto dèi suo proprio odio e abominazione...
Al contrario colui che per motivi... appropriati ha compiuto un’azione generosa... si sente l’oggetto naturale dell’amore e della gratitudine dei beneficati, e, simpatizzando con essi, anche della stima e della approvazione di tutto il genere umano... Egli si trova in amicizia e armonia con tutta l'umanità — certo di poter riguardare al suo prossimo con fiducia e di essersi reso degno della loro più favorevole considerazione ».
FINALITÀ SOCIALE DI QUESTI SENTIMENTI
Nel seguente Capitolo (III) l’Autore s’indugia a mostrare come questo gioco naturale di sentimenti di riconoscenza per i benefattori e risentimento per i violatori della giustizia; di senso di demerito e rimorso, e di merito e compiacenza del
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beneficato sono un’illustrazione della finalità sociale intesa e voluta dalla Natura. « Poiché la società non può sussistere a meno che le leggi della giustizia siano osservate nella sostanza», perciò la natura, per una ragione di biologia sociale, « ha impiantato nel cuore umano la coscienza del castigo che merita ógni violazione della giustizia, come grande salvaguardia della società umana », e d’altra parte un corrispondente naturale istinto di difesa e preservazione della società, dalla cui prosperità dipende l’interesse, la felicità, e forse resistenza stessa dell’individuo.
Ma se queste considerazióni sociali sono giuste, e noi ricorriamo esplicitamente ad esse in alcuni casi, « è raro che sia questa la considerazione che ci animi per la prima. Noi non tanto c’interessiamo all’uccisione di un uomo perchè egli è un membro della società quanto per l’individuo stesso che è stato offeso, e ciò « per quella generale simpatia che noi abbiamo con ogni uomo in quanto prossimo nostro ».
La differenza fra i due motivi è evidente nel diverso sentimento di approvazione che accordiamo, ad es.» all'esecuzione di una sentinella addormentatasi durante la guardia del campo, e a quella di un assassino o parricida.
ELEMENTI PERTURBATÓRI
Per tal modo, nelle due prime parti della sua « Teoria » A. Smith ha mostrato come, in funzione di « simpatia » si spieghi l’origine dei nostri sentimenti di approvazione morale, sia in riguardo alla proprietà od improprietà dei sentimenti dell'agènte, che alla tendenza benefica o dannosa di essi. Ma alla sua penetrante osservazione non è sfuggita la vista di parecchi casi particolari, nei quali i nostri sentimenti non coincidono con questi principi. Elementi perturbatori dei naturale gioco di simpatia sono: per riguardo alla proprietà o improprietà dell’azione, l’influenza della prosperità e deW avversità/ per riguardo al merito o al demerito l’influenza del caso (o della fortuna); e per riguardo ad entrambi l’influenza del costume e della moda.
« Nell’esame di queste anormalità dei nostri sentimenti — osserva Dugald Stewart nella sua introduzione alla « Teoria » (London 1853) — Smith non si fa incontro a obbiezioni particolari e proprie del suo sistema, ma risolve una difficoltà connessa con ogni altra teoria sul soggetto... In ogni età del mondo i moralisti si sono lamentati che i sentimenti del genere umano in realtà sono spesso in contrasto con questo equo e indiscutibile principio (che il caso o la fortuna ecc. non deve alterare i nostri giudizi morali) « Per quanto io sappia, Smith è il primo filosofo che si sia reso ben conto dell’importanza della difficoltà e che l'abbia trattata con grande abilità e successo». (Pag. XXVII).
.L’esame dei tre elementi perturbatori nominati forma nella teoria le due terze sezioni della ia e 2a parte e tutta l'intiera Parte V, in cui tratta dell’influenza dei Costume e della Moda sui nostri sentimenti morali.
Ma poiché questa trattazione non ha rapporto essenziale con la « Teoria » qui la omettiamo, facendo solo notare che essa consiste, nei rispettivi trattati, di tre parti. Nella prima, egli spiega la causa di questa irregolarità di sentimento, nella seconda l’estensione grande di questa influenza; nella terza gli scopi importanti
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a cui essa è diretta e subordinata, mostrando cioè che « quando la natura impiantò nel cuore umano i semi di questa irregolarità; la sua intenzione dominante fu di provvedere alla migliore felicità e protezione della specie umana ».
ORIGINE DEI NOSTRI GIUDIZI MORALI RIGUARDO ALLA NOSTRA PROPRIA CONDOTTA
Così nelle due prime parti della sua « Teoria » A. Smith ha studiato l’origine (psicologica) e il fondamento dei nostri, giudizi (morali) concernenti i sentimenti e la condotta degli altri. Ora viene nella parte terza il compito più arduo, quello di studiare l’origine dei nostri giudizi morali riguardo ai sentimenti e alla condotta nostra. Giacché questo è l’elemento caratteristico della « Teoria », che in essa i giudizi morali sulle azioni altrui non sono un'estensione e applicazione agli altri di giudizi morali a noi portati sulle nostre azioni: ma viceversa le nostre azioni sono giudicato riflettendo su esse i criteri morali già applicati nel giudizio formato dei sentimenti ed azioni altrui.
È necessario ribadire qui, prima di addentrarci nello studio di questa parte, la più controversa della « Teoria », l’osservazione già sopra accennata, che cioè il problema generale di Smith non è di investigare i motivi delle azioni umane « simpliciter », — le quali potranno ben essere, come dirà poi Schopenhauer, ispirate per 19/20 da motivi egoistici e utilitari, — bensì di investigare gli elementi costituitivi di un giudizio morale, il quale comincia al di là dei sentimenti egoistici, utilitari ecc. benché li presupponga: o meglio ancora, (nella concezione costantemente prammati-stica di Smith), di investigare in qual modo noi siamo condotti a dare degli atti altrui e nostri un giudizio di approvazione morale come « propri >»- e « meritori », o viceversa: come dal polo egoistico individuale, attraverso il senso fondamentale della simpatia, essi divengono specificamente umani, rappresentativi dell’uomo sociale.
Egli stabilisce fin dall’esordio (C. I.): « Il principio dietro il quale noi naturalmente approviamo o disapproviamo la nostra propria condotta, sembra sia precisa-mente lo stesso che quello per cui ci formiamo simili giudizi della condotta degli altri..., cioè, secondo che noi sentiamo che, ponendoci nella situazione di un’altra persona e riguardando le nostre azioni, per così.dire, coi suoi occhi e dal suo punto di vista, noi riusciamo 0 non riusciamo a simpatizzare coi sentimenti e motivi che influirono su di essa ».
IL GIUDIZIO MORALE É UNA FUNZIONE ESSENZIALMENTE SOCIALE. - LO “SPETTATORE IMPARZIALE,,
Per Smith, il giudizio della moralità di un’azione, sia altrui che nostra, è sempre un giudizio sociale, che non può essere pronunziato dall’individuo che in quanto si sforza dispogliarsi del suo punto di vista individuale per assumerne uno rappresentativo sociale, cioè in quanto s’investe, per quanto più può e in proporzione alla sua suscettibilità simpatica, dei sentimenti dell’umanità: ciò che egli chiamò a spettatore imparziale ». Ed ecco un passo fondamentale:
« Noi non possiamo mai esaminare i nostri propri sentimenti e motivi, nè for marci relativamente ad essi alcun giudizio, a meno che noi ci allontaniamo, per così
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dire, dalla nostra base naturale, e ci sforziamo di riguardarli ad una certa distanza da noi. Ma ciò non ci sarà possibile altrimenti, che tentando di riguardarli con gli occhi degli altri, cioè con gli occhi con cui gli altri probabilmente li giudicano. Perciò, qualunque giudizio rispetto alle nostre azioni deve sempre avere un secreto riferimento a ciò che sono o sarebbero in una determinata condizione, o a ciò che noi c’immaginiamo dovrebbe essere il giudizio degli altri. Noi ci sforziamo di esaminare la nostra propria condotta, come c’immaginiamo qualunque equo e imparziale spettatore l’esaminerebbe. Se, ponendoci al suo posto, noi riusciamo a investirci di tutte le passioni e i motivi che la provocarono, noi simpatizziamo con l’approvazione di questo supposto equo giudice e quindi là approviamo. Se avviene il contrario, noi condividiamo la sua disapprovazione e la condanniamo ».
«SPECCHIO» SOCIALE
E l'Autore ci presenta la figura di un individuo ipotetico cresciuto in luogo solitario, senza alcuna communicazione con altri uomini. « Egli non potrebbe avere alcun'idea del proprio valore morale, della « proprietà » o demerito dei suoi sentimenti, della sua condotta, della bellezza o deformità della sua anima, più che della sua bellezza o deformità fisica... Portatelo in mezzo alla società, ed egli troverà subito lo specchio di cui prima mancava... cioè il contegno e la condotta di quelli con cui convive, i quali esprimeranno sempre la loro approvazione o disapprovazione dei suoi sentimenti: ed è così ch’egli per la prima volta ravviserà la proprietà o improprietà delle sue passioni, la bellezza o deformità del suo spirito... Le sue passioni diverranno causa di altre passioni, egli osserverà l’approvazione di alcune, il disgusto di altre, e si sentirà quindi elevato odepresso..., e le sue gioie e i suoi dolori, desideri o avversioni, diverranno causa di altri sentimenti analoghi in altri, e aumenteranno il suo interesse, e spesso la sua considerazione».
Appunto come noi diveniamo desiderosi di conoscere quanto l'aspetto del nostro voltò meriti la lode o il biasimo altrui, dall’osservare che gli altri esercitano su di noi la stessa critica che noi esercitiamo su di loro, — ed evidentemente tutto questo non sarebbe concepibile fuori dei rapporti sociali —, così noi diveniamo desiderosi di conoscere se siamo meritevoli del biasimo o dell’approvazione altrui, dal fatto che noi ci siamo avveduti che l’esame e la critica da noi fatta delle loro azioni ci è ricambiata da essi per riguardo alle nostre. È così che « noi cominciamo a esaminare le nostre passioni e la nostra condotta, e a domandarci come esse debbano apparire agli altri, domandandoci prima come apparirebbero a noi se ci trovassimo nella loro situazione. Ci immaginiamo di esser noi gli spettatori della nostra condotta e ci sforziamo d'immaginarci che effetto essa produrrebbe su di noi da questo punto di vista...Se ci piace, ne restiamo abbastanza soddisfatti e diveniamo quasi indifferenti all’applauso ed anche alla censura del mondo: certi che, per quanto mal compresi o calunniati, noi siamo il naturale e proprio oggetto di ammirazione... » (i).
(i) Abbiamo sottolineato queste ultime espressioni, le quali mostrano come per Smith l’abitudine di analisi morale prodotta dal giudizio sociale faccia capo a uno sdoppia-
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«In tutti questi casi, è evidente che io mi sdoppio per così dire in due persone: e che Io in quanto esaminatore e giudice, rappresento un carattere differente da quello dell'altro Io, cioè della persona la cui condizione è esaminata e giudicata. Il primo è lo spettatore nei cui sentimenti riguardo alla mia condotta io mi sforzo di penetrare ponendomi nella sua situazione e riflettendo a come quella mi apparirebbe quando fosse considerata da quel particolare punto di vista. Il secondo è l’agente, la persona che io propriamente chiamo « me stesso » della cui condotta tentavo di formarmi un’opinione in quanto spettatore. Il primo è il giudice, il secondo il giudicato..., ed è impossibile che il primo sia la stessa persona che il secondo ».
EFFICACIA MORALE DEL GIUDIZIO DATO DELLA NOSTRA CONDOTTA DA UNO SPETTATORE IMPARZIALE. PROCESSO AUTONOMO
Ma in qual modo e per quale sentimento, avvenuto lo sdoppiamento, il giudizio e la sentenza, l’io giudicato si piega, — se e in quanto la sua azione è morale cioè meritevole di approvazione, — al verdetto, e lo accetta?
A questo risponde il capitolo secondo:
« La Natura nel formare l’uomo per la società lo dotò di un desiderio originale di piacere ai suoi fratelli, e di una avversione originale a dispiacere ad essi ».
È l’amore della lode e dell’approvazione altrui, e più ancora del sentirci meritevoli di essa, e d’altra parte il timore del biasimo, e più della « biasiinabilità », che ci sospinge ad accettare il giudizio che l'io spettatore dà della proprietà, o meno, delle nostre azioni.
A. Smith insiste su questo punto, mostrando le ragioni psicologiche e sociali per cui noi non desideriamo la lode nè temiamo il biasimo per sè, ma solo quella e quello che ci sono veramente dovuti, cioè che l'umanità ci darebbe se conoscesse giustamente i motivi e le circostanze della nostra condotta.
La compiacenza e gioia delle azioni atte a beneficare l'umanità, e il rimorso per azioni che ci appaiono quale oggetto giusto e proprio del disprezzo e dell’odio del nostro prossimo, non aspettano per apporre la loro sanzione che le azioni stesse siano state conosciute dagli altri: anzi essi sono sì intensi, da farci preferire, ad es., al biasimo e all’odio virtuale degli uomini, anche se accompagnato da lodi e da stima reale, il loro odiò, la loro esecrazione, la vendetta reale, come si scorge nel caso in cui il rimorso spinge il delinquente insospettato e stimato a confessare il delitto e abbracciare volenteroso l’espiazione per sottrarsi alla condanna dello spettatore equo, imparziale.
Ed ecco due pagine di fine psicologia che pongono in una luce sistematica a tinta trascendentale il principio illustrato in questo importante capitolo e ribadiscono la interpretazione esposta sull’origine del nostro senso di approvazione della nostra condotta.
mento psicologico e ad uri autocritica che può dare l’illusione di assoluta spontaneità ed autonomia della valutazione morale. Questo concetto è più chiaramente esposto nel brano che segue.
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GERARCHIA GIUDIZIARIA DEI DUE SPETTATORI
« Il sapientissimo Autore della Natura ha insegnato all’uomo a rispettare i sentimenti e i giudizi dei suoi fratelli, a compiacersi più o meno della loro approvazione della sua condotta e sentire più o meno dolore della loro disapprovazione. Egli ha così fatto l’uomo, come il giudice immediato del genere umano... nominandolo suo vicegerente sulla terra e sopraintendente alla condotta dei suoi fratelli.. Ma benché l'uomo sia così costituito il giudice immediato del genere umano, egli lo è solo in prima istanza, e dalla sua sentenza è ammesso l’appello a un tribunale assai più alto, a quello del supposto imparziale e ben informato spettatore, a quello dell’uomo nell’intimo del petto, il gran giudice ed arbitro della loro condotta. La giurisdizione di questi due tribunali è fondata su principi... in realtà differenti e distinti; Quella dell’uomo esteriore, nel desiderio della lode e nell’avversione del biasimo effettivo: quella dell'uomo interiore nel desiderio di meritare la lode, e di possedere quelle qualità e compiere quelle azioni che noi amiamo e ammiriamo negli altri e nel terrore di possedere quelle che odiamo e disprezziamo negli altri. Se l’uomo esteriore ci applaude, o ci rimprovera per azioni che non abbiamo fatto o per motivi che non influirono su di noi, l’uomo interiore subito corregge il falso giudizio, e ci assicura che noi non siamo affatto i «propri» oggetti di quelle lodi o censure... Eppure, in questi e simili casi, l'uomo interiore sembra come attonito, o confuso e intorpidito dalla veemenza e dal clamore dell’uomo esteriore..., ei suoi giudizi, seppure non del tutto modificati o pervertiti, restano tuttavia tanto scossi dalla loro prima saldezza..., che il loro effetto naturale di assicurare la tranquillità dello spirito è di frequente in gran parte distrutto. Noi quasi non osiamo di assolvere noi stessi quando tutti i nòstri fratelli ci condannano. Il supposto spettatore imparziale sembra dare il suo verdetto favorevole con timore ed esitazione..; In tali casi, questo semi-dio interno appare come i semidei della poesia, di origine parte mortale e parte immortale... In tali estremi, la sola consolazione effettiva dell'uomo umiliato ed afflitto giace in un appello a un tribunale anche pili alto, a quello dell'onniveggente giu dice del Mondo... il cui giudizio è incorruttibile». (Notiamo qui di passaggio. Che questo appello di 2a istanza, in fondò non è altro psicologicamente che una richiesta di «beneficio di nuova udienza » allo stesso spettatore imparziale, al nostro io più profondo, e più e meglio informato).
Alla voce di quest’uomo interno, «grande ospite del cuor nostro», concepito quale spettatore bene informato e imparziale, l'Autore non ha difficoltà, dopo che la minuta analisi e ricca illustrazione ne ha mostrato l'origine, il valore, il carattere... di dare un altro nome popolare, quello di « coscienza »(1).
• LA «COSCIENZA,,
« Non è il soave potere dei sentimenti di umanità, non è quella debole favilla di benevolenza che la Natura ha acceso nel cuore umano, che è così capace di contrapporsi ai più forti impulsi dell’amor proprio... Si tratta di un potere più forte, di un
(1) Facciamo notare che la parola qui usata ■ coscience », si distingue in inglese dalla parola « consciousness », essendo la prima riservata alla coscienza morale, la seconda a indicare la « consapevolezza » psicologica (Nota dell’A.).
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«Il I>. .' 1
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motivo più urgente— È là ragione, il principio, la coscienza, l’ospite del nostro petto, l'uomo interiore, il gran giudice ed arbitro della nostra condotta, il quale c’intima che noi siamo soltanto una unità in una moltitudine, e per nulla migliori degli altri..., e che nel preferirci ad essi così vergognosamente e ciecamente diveniamo il proprio oggetto di risentimento, abborrimento ed esecrazione... È solo l’occhio dell’imparziale spettatore che può correggere le naturali deformazioni operate dall’amor proprio, e mostrarci la « proprietà » del sacrificare i piti grandi interessi nostri, a un interesse altrui anche maggiore, e la deformità del recare anche il più piccolo danno agli altri per ottenere noi anche i più grandi benefizi. Non si tratta qui di amore del prossimo o dell'umanità... è un amore più forte, un affetto più potente..., l’amore di tutto ciò che è nobile e onorevole, della grandezza, della dignità, della superiorità del nostro carattere».
Abbiamo qui accennato a questo passaggio, per mostrare come per A. Smith la « simpatia » non sia un vano sentimento sospeso in aria; ma che esso è profondamente radicato nel senso di dignità, nobiltà di carattere, ecc. dell'individuo, da cui trae il suo succo: cioè in quell’affinità di gusti e di preferenze, da cui deriva e di cui si nutre la simpatia coi sentimenti altrui. Solo, non è di queste disposizioni per sè stesse di cui si possa predicare la moralità, come la bellezza o deformità fisica non diviene una qualità econcomiabile o riprovevole che in rispetto e per rapporto al senso estetico di uno spettatore.
È solo il fattore sociale, che intervenendo a saggiarlo alla stregua dei rapporti con altri, suscita sentimenti che lo rendono adeguato oggetto di approvazione o disapprovazione, di merito o demerito.
GENESI INDIVIDUALE DEL SENSO DI “PROPRIETÀ,,
Nella lunga analisi che segue, ricca di illustrazioni e di osservazioni acute, notiamo uno spunto di psicologia infantile, che illumina insieme la genesi dei senso di proprietà. « Un fanciullo in tenera età non conosce il dominio di sè stesso, e quali si siano le sue emozioni di terrore, di dolore o di rabbia, esso si sforza sempre di attirare l’attenzione della sua nutrice o genitrice con la violenza dei suoi strilli. E finché resta sotto la custodia di sì benevoli protettori, la prima e forse la sola passione che gli s’insegna o moderare, è la rabbia. Le sgridate e le minacce con cui si cerca di calmarlo frenano la sua passione, opponendole l’altra della propria conservazione. Quando sarà abbastanza di età da esser marinato alla scuola o da accomunarsi coi-suoi coetanei, egli non tarderà ad accorgersi che questi non hanno per lui una. sì indulgente benevolenza. Il desiderio di conquistarsi la lóro amorevolezza e di evi-tare.il loro disprezzo e odio, nonché un riguardo per la propria salvezza, gl'insegnerà presto a moderare non solo la sua rabbia, ma tutte le altre passioni, entro i limiti che i suoi amici e compagni di gioco probabilmente desiderano. È così che egli entrerà nella grande scuola del dominio di sè stesso, si studierà di esser sempre più padrone delle sue passioni, e comincierà a esercitare sui suoi sentimenti una disciplina che assai raramente raggiungerà la piena perfezione anche con la pratica della più lunga vita ».
Questo incidentale saggio della genesi individuale della condotta morale, è
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importante come conferma che per A. Smith j sentimenti egoistici sono anteriori e coesistenti a quelli sociali di simpatia, benché (come sopra accennammo) solo con questi si entri nel campo dell’approvazione morale.
L’UOMO ONESTÒ
Interessante è la descrizione che Smith fa dell’homo onesto in funzione della sua «Teoria». Esso è l’uomo di vera costanza e fermezza, saggio e giusto, che è stato perfettamente educato nella grande scuola del dominio di sè, il quale mantiene il possesso dei suoi sentimenti e passioni in ogni occasione; e sia nella solitudine che nella società mantiene sempre lo stesso contegno. Egli ha spesso intesa la necessità di sostenere questo suo atteggiamento virile negli eventi prosperi come negli avversi, dinanzi ad amici come a nemici... Egli non mai ha osato'di dimenticare, neppure per un solo istante, il giudizio che lo « spettatore imparziale » darebbe dei suoi sentimenti e della sua condotta. Egli non ha osato mai di permettere che « l’ospite del suo petto » fosse per un solo momento lontano dalla sua attenzione. Egli è stato sempre abituato a riguardare tutto ciò che si riferisce a sè stesso con gli occhi di questo grande ospite: e questa abitudine è divenuta per lui una seconda natura. Egli ha costantemente praticato lo sforzo e sentito la necessità di modellare non solo la sua condotta esterna e il suo portamento, ma anche, per quanto è possibile, i sensi e i sentimenti interni su quelli di questo maestoso giudice sì degno di rispetto. Nè solo si limita a imitare i sentimenti dell'imparziale spettatore: egli li fa veramente suoi; s’identifica quasi con lui, e diviene esso stesso quello «spettatore imparziale», e raro si è che egli senta altro da quello che quel grande arbitrio della sua condotta gli fa sentire. Il grado di approvazione della propria condotta con cui ogni uomo si riguarda in tali occasioni, è più o meno aito nell’esatta proporzione del grado di dominio di sè stesso'che gli è necessario per raggiungere quella auto-approvazione. Se l’auto-dominio richiesto è tenue, anche l’auto-approvazione dovuta è scarsa... Quindi il premio che la Natura accorda alla buona condotta nella sventura e nel dolore, è esattamente proporzionato al grado di quella’buona condotta. La disgrazia e l’infelicità non possono mai entrare in quel petto in cui alberga una piena autosoddisfazione..., la quale se non estingue del tutto, deve certo alleviare assai il senso delle proprie pene».
« Nei parossismi del dolore, l’uomo il più saggio e forte deve, per conservare la sua equanimità, fare uno sforzo considerevole e penoso, e assai difficile gli riesce di fissar la sua attenzione su quella dello spettatore imparziale, e in tal caso egli non s'identifica esattamente con l’uomo ideale che è entro il suo petto, nè diviene egli stesso lo spettatore imparziale della propria condotta... ma i due caratteri si mantengono distinti, e lo spingono verso un contegno l'uno differente dall’altro ». Ecco i due principii e le due leggi che si contendono il dominio della nostra coscienza : quelli il cui conflitto drammatico è stato descritto da Orazio e da San Paolo.
« Quando egli segue la via che l’onore e la dignità gli additano, e nell’agonia del parossismo mantiene non solo un contegno virile ma un giudizio calmo e sobrio, la Natura non lo lascia invero senza la ricompensa della piena auto-approvazione e dell’applauso di ogni sincero e imparziale spettatore..., benché il compenso non
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l’« etica della simpatia» 43
possa essere completo..., per non sottrargli ogni motivo egoistico di evitare quelle tali disgrazie che diminuiscono la sua utilità a sè stesso e alia società ».
« Ma... col tempo, l’agonia si calmerà, egli riacquisterà la sua tranquillità; e tornerà a identificare le sue vedute, i suoi giudizi e sentimenti, con quelli dello spettatore imparziale ».
Notevole l'analogia di quésta analisi con la desolazione spirituale dei mistici sotto gli occhi di un Dio velato e presente, « ospite del nostro petto ».
E si succedono in questo capitolo interessanti osservazioni, illustrazioni e digressioni; tutte aggirantesi intorno all’analisi del concetto fondamentale del dualismo morale ire l’io agente e lo spettatore imparziale con cui il primo simpatizza o si unifica più o meno.
Una di esse può dare un'adeguata idea dello spirito che aleggiava nei circoli filosofici della religiosa Inghilterra, in un periodo in cui l’A. della «Teoria» non era ancora venuto in contatto, egli il « pio » Smith con gli « empii » enciclopedisti francesi. Parlando della debolezza di principi che ad attivi e fedeli servitori preferiscono assidui cortigiani egli osserva che « ciò che è considerato come il più grande dei rimproveri anche per la debolezza di sovrani terreni, è stato ascritto come un atto di giustizia alla divina perfezione; e gli esercizi di devozione, il culto privato e pubblico della divinità è stato rappresentato anche da persone d’ingegno e di virtù, come le sole virtù che meritino premio o allontanino il castigo nella vita avvenire ». Ed egli cita il discorso della benedizione delle bandiere dell’eloquente Massillon, la cui finale è questa (volta ai soldati ): « Ahimè! un solo giorno delle vostre sofferenze, se consacrato al Signore vi avrebbe forse guadagnato una felicità etèrna. Una sola azione penosa per la natura e offerta a Lui, vi avrebbe forse assicurato l'eredità dei santi. Mentre voi avete fatto tutto questo per il mondo, invano per la vostra vita avvenire.. ».
Smith critica questo deprezzamento dei doveri morali e civici di fronte a quelli del culto, a torto considerati come religiosi per antonomasia, e soggiunge: « Eppure è proprio questo spirito il quale, mentre ha riserbato le regioni celestiali per monaci e frati, e per quelli la cui condotta rassomiglia alla loro, ha condannato all’inferno tutti gli eroi, gli statisti, i legislatori, i poeti e i filosofi delle passate età..., tutti i grandi protettori, istruttori e benefattori dell’ umanità ; tutti coloro a cui il naturai senso di merito ci costringe ad attribuire le virtù più elette e i meriti più elevati.
Vi è da maravigliarsi se una sì strana applicazione di questa sispettabile dottrina la abbia qualche volta esposta al disprezzo e allo scherno ? ».
Notevolissima è anche la seguente formula e quasi definizione dell'uomo morale (ma la parola « morale » è nostra, non dell* Autore), tipica della Teoria di Smith: « L'uomo dalle più perfette virtù, l'uomo che noi naturalmente amiamo e rispettiamo di più, è colui che sa unire al più completo dominio dei suoi sentimenti originali ed egoistici la più squisita sensibilità ai sentimenti originali e simpatici degli altri ». Essa suppóne bensì i sentimenti originali ed egoistici (anche dignità, pudore, ecc. interesse, utilitarismo, ecc.) del soggetto, ma consiste nel dominio di essi, (proprietà) e nella più squisita sensibilità ai sentimenti altrui (simpatia) — si noti, —- non solo
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pei « sentimenti simpatici degli altri » (la simpatia col giudizio che lo spettatore imparziale e bene informato dà della nostra condizione), ma prima ancora, coi sentimenti originali degli altri. Quindi è virtuosa, approvabile e meritoria, anche la diretta simpatia coi sentimenti altrui, sempre sotto Io sguardo vigile dello spettatore imparziale, cioè di ciò che per l'individuo è l’elemento migliore dell’umanità.
E questo tratto ancora: « Nella solitudine noi siamo proclivi a sopra-valutare i favori da noi fatti e i danni sofferti: a lasciarci troppo esaltare dai nostri privati successi e abbattere dalle nostre disgrazie... L’ospite del nostro petto, lo spettatore astratto e ideale dei nostri sentimenti e della nostra condotta, spesso ha bisogno di essere svegliato e fatto memore dei suoi doveri, per mezzo del contatto dello spettatore reale, ed è sempre da quello spettatore da cui possiamo attenderci menò simpatia e indulgenza, .che noi impariamo probabilmente la lezione più completa del self-command ».
Anche questo passo è importante per la retta comprensione della « Teoria »: esso ci mostra di nuovo, che lo «spettatore imparziale» non è che l’empirica coscienza morale — acquistata dall'individuo — della media umana, dei sentimenti di approvazione o disapprovazione delle sua condotta morale o dei suoi sentimenti.
Giovanni Pioli.
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA E NEL NUOVO CODICE DI DIRITTO CANONICO
(Continuazione. Vedi Bilychnit del 31 marzo e del 15 maggio 1919).
2. Dei procedimenti amministrativi.
ei procedimenti amministrativi si parla nell'ultima parte dei libro V. In che cosa consistano lo dice, sebbene in modo negativo, il can. 670: « Sunt ordinis iudiciarii negotia in quibus in controversial!) revocatur ius certae personae phy-sicae vel moralis, turn etiam causae in quibus agitur de poena infligenda: cetera negotia pertinent ad ordinem admi-nislrativum ». Da questa regola si eccettuano però, tra l’altro, la rimozione e il trasferimento dei parroci, la privazione di
un beneficio o di un officio amovibile, e la sospensione ex informata conscientia, che vanno trattate anch’esse in via amministrativa.
L’Ordinario nelle controversie di ordine amministrativo, salvo in alcuni casi, non è tenuto a seguire una procedura determinata, « non tenetur sequi certum procedendi modum ». L’intervento degli avvocati è escluso: « in iis controversiis administrativis... excluditur advocatorum ministerium » (can. 675); ed esclusa è pure la riprovazione dei testimoni: « Quum testes sive ex officio arcessiti sive a parte inducti examini subiiciuntur ; ea dumtaxat solemnia serventur quae necessaria sint ad veritatem detegendam, quolibct iudiciali apparata ac reproba-tionibus testium exclusis»(i) (can. 681). Non è certo il miglior modo questo di scoprire la verità respingendo a priori tutte le eccezioni contro i testimoni.
Gli esaminatori e i consultori debbono giurare di conservare il segreto specialmente per ciò che riguarda i documenti occulti, le discussioni avvenute in consiglio, il numero e la motivazione dei voti (2).
(1, Ecco come lo Schema-definisce la reprobati* testi un.: postulante adversario, testes excludendi erunt, si insta exclusionis causa deirostrabitur ■> (can. 254, L.). Non si è ammessi dunque neppure a dimostrare, contro un testimonio, un giusto motivo di esclusione.
I?) Lo Schema ha tredici lunghi canoni sui procedimenti amministrativi in generale; il Codice non ne ha che cinque (Can. 2142-2146) c tutti quasi interamente ri-
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Le controversie di ordine giudiziario, purché in materia in cui sia ammesso transigere, le parti siano concordi e il Superiore consenta, possono essere sempre trattate in linea amministrativa. La procedura è rapidissima. L' Ordinario deve delegare un sacerdote idoneo a decidere la questione. Se costui venga ricusato come sospetto è lo stesso Ordinario che la dirime. La controversia è decisa con un decreto amministrativo, ma prima che esso venga emanato, graziosamente < permittitur Ordinario facultas exquirendi votum alicuius consultoris, vel periti viri » (can. 689X Da questo decreto si dà ricorso, ma allo-stesso Ordinario, che ne affida l’esame a un altro sacerdote idoneo non sospetto. Se il secondo decreto è conforme al primo, la controversia è decisa definitivamente; se no, è lo stesso Ordinario, o il Vicario generale che con un suo decreto la tronca per sempre. Nell’ipotesi però che il sacerdote scelto dal vescovo venga ricusato come sospetto, è il vescovo stesso che decide le controversie ed evidentemente contro il suo ricorso non si dà appello (1).
Premesso ciò, veniamo a parlare singolarmente dei principali procedimenti amministrativi.
fatti. Aia esso prescrive ugualmente agli esaminatori e ai consultori il segreto, massime intorno ai documenti occulti (can. 2144, § 1), e quanto ai testimoni, con criterio anche più restrittivo dello Schema, sancisce: » duo vel tres testes sive ex officio arccssiti sive a parte inducti auairi noti prohibentur, nisi Ordinarius, auditis parochis consultoribus seu examinatoribus, cxistiniaveril partes eos inducere ad moras ncctendas » (can. 2145, § 1).
Gli esaminatori e i parroci consultori hanno una parte discreta nei procedimenti amministrativi, e perciò molto opportunamente lo Schema non permette agli Ordinarti di assumerseli secondo il loro prudente arbitrio: • Non quilibet exaininatores vel pa-rochi ad consultoris munus ab Ordinario in administrativo processa' assumendi erunt, sed duo qui ratione electionis sint seniores et in pari electionis causa ratione sacerdotii, vel, hac deficiente, aetate sint provectiorcs ». E si provvedeva anche a rimoverli in caso di sospetto: < Si quis eorum ob causam in iure' recognitam suspectus sit, potest ab Ordinario, antequam rem traciandam suscipiat, excludi; ob eandémque causam potest clericus contra ipsum excipere, cum primum in ius vocetur, facta Ordinario potestate hniusmodi exceptionem admittendi si insta videbitur. Alterutro vel utroque ex duobus ’ prioribus examinatoribus ve! consultoribus impedito vel excluso, tertius vel quartus eodem ordine asciscatur » (can. 677).
Nel Codice, questa disposizione è stata omessa, sicché l’Ordinario sarà perfettamente libero di scegliersi tra gli esaminatori e i consultori quelli che più gli piacciono, mentre all’interessato sarà negato proporre contro di loro anche l’eccezione di sospetto.
C’è, infine, un'altra differenza tra lo Schema e il Codice. Secondo lo Schema, dal decreto amministrativo si ricorre alla Sede Apostolica, ma « si quis ex eodem decreto peculiare ius suum violatum putet, poterit ad eum Superiorem rem deferre iudiciario ordine definiendam: qui de eadem re ut index appcllationis cognosceret si iudiciaria ratione tractari coepta esset ». E si prescrive che: « pendente recursu, Ordinarius paroe-ciam vel bcheficium aut officium quo clericus administrativo decreto privatus sit, alteri ne conferai » (can. 082, §§ 1 e 3). Quanto al primo punto, il Codice ammette solo il ricorso alla Sede Apostolica e non fa parola del caso in cui, violandosi un ius peculiare, la questione può esser risolta giudizialmente dal giudice d’appello; quanto al secondo punto, stabilisce che * pendente recursu, Ordinarius paroeciam vel bene-ficium quo clericus privatus sit, ahi stabiliter eonferre valide nequit ». Dunque, a differenza dello Schema, l’Ordinario, sia pure ad lempas, una pariocchia la può conferire ad un altro.
(1) Al processo amministrativo nelle cause di ordine giudiziario, lo Schema consacra un Capitolo di 7 canoni. Però, nel Codice, l'intero Capitolo è stato soppresso.
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A). La remozione dèi parroci
Al decreto Maxima Cura, apparso otto anni or sono, furono mosse, critiche vivacissime. Molti cattolici si lagnarono affermando che non era stato compreso che non ne era stato compreso lo spirito e che quelle critiche erano ingiuste. Ve-' diamo di metterci sul terreno loro.
Il proemio ai canoni del decreto Maxima Cura portava, tra l’altro, queste parole che tuttavia lo Schema non riproduce: « ...si quis scelestus creditum sibi gregem destinai magis quam'aedificet, is debet... beneficio privari... Quod si, vi canonici iuris,- criminali iudicio ac poenali destitutioni non sit focus, parochus autem hac illave de causa, etiam culpa remota, utile ministerium in paroecia non gerat, vel gerere nequeat, aut forte sua ibi praesentia noxius evadat, alia suppetunt remedia ad animarum saluti consulendum. In his polissi mum est parochi amotio, quae... administrativo modo decernitur, nec parochi poenam propositam habet, sed utilitalem fidelium. Salus enim populi suprema lex est ».
In altri termini, questa rimozione non implica necessariamente una colpa e non è perciò necessariamente una punizione: vi si considera soltanto il bene delle anime: suprema lex. Se una punizione c’è, essa passa in via secondaria, in quanto i fatti delittuosi del parroco hanno reso difficile, infruttuoso e talora impossibile il suo ministero. Tale, in poche parole, si asserisce sia lo spirito del decreto, che lo Schema riproduce quasi per intero.
Intorno ab quale spirito noi non abbiamo nulla a ridire. Ma il torto vero del legislatore sta nell’avere applicato, nei casi dà lui enumerati, la procedura amministrativa, la quale, come abbiamo già veduto e come vedremo meglio in seguito; è la negazione d’ogni seria garanzia.
Per moltissime cause, un parroco può esser rimosso dal beneficio, ma per la rimozione amministrativa esse sono tassativamente nove. Il bene delle anime dunque in tanto sarebbe messo in pericolo in quanto si sarebbe verificata alcuna delle dette cause. Di qui la necessità di provarne la sussistenza. Il condizionato sussiste (pericolo della'salvezza delle anime) se sussiste la condizione (una o più delle nove cause). Viceversa, esclusa la condizione, è escluso il condizionato. È inevitabile perciò dare una prova piena e rigorosa dell’esistenza o meno delle condizioni. Ora. se ciò sarebbe già difficile ad ottenersi con il processo giudiziale, figuriamoci con quello amministrativo!
Per persuadersene, basta dare una sola occhiata alle varie norme di procedura particolari alla rimozione dei parroci.
Per la rimozione di un parroco, il tribunale si compone del vescovo e di due esaminatori sinodali e, in caso di revisione degli atti, dello stesso vescovo e di due parroci consultori, dei quali l’Ordinario dovrà chiedere ora il consenso, ora il parere (i). È vero che' la nomina degli esaminatori e dei consultori che si fa anch’essa nel sinodo, offre qualche garanzia maggiore che quella dei giudici, richiedendosi per coloro che vengono a sostituire quelli morti o decaduti dall’ufficio, nell'inter(i) Solo il parere si richiède secondo il Codice; il consenso, mai.
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vallo tra un sinodo e l’altro, non già il parere ma il consenso del capitolo cattedrale (i), ma resta sempre che essi sono stati proposti dall’ordinario e che perciò non possono non essere a lui compiacenti. Laddove poi invece del capitolo cattedrale ci sono i consultori diocesani, essi verranno a dipendere in tutto.e per tutto dall’ordinario. Specialmente i parroci consultori, subiranno enormemente la sua influenza. Si aggiunga che essi intervengono quand^già ¡’Ordinario ha tutto predisposto e deciso. Può egli, anche per il suo prestigio personale di superiore, ritirare il decreto, c possono i due parroci opporvisi? Ciò. posto, quali garanzie di libertà e di indipendenza può offrire il loro voto? E si osservi che basta il voto d’un solo consultore per poter dare esecuzione al decreto del vescovo (2). •
Sarebbe lungo enumerare tutte le facoltà concesse, in questo campo, all’Ordi-nario. Decidere se sia il caso di promuovere la procedura per la rimozione; giudicare su la durata dell'odio della plebe; ammettere o no i testimoni proposti dal parroco; concedere al parroco una ulteriore proroga per la difesa; esprimere o no, nel decreto, la vera e propria motivazione della rimozione, ecc., tutto è rimesso al prudente arbitrio di lui.
Riguardo al sistema e al procedimento probatorio ricorrono qui, ma alquanto ingranditi, gli stessi difetti che rilevammo nei processi giudiziali, cioè una stridènte sproporzione tra le facoltà dell’accusa e i diritti della difesa. L’accusa non ha limiti, e non solo possono essere tenuti nascosti all'imputato i nomi degli accusatori e dei testimoni, ina perfino i documenti che eventualmente contro di lui si producano (3). L'accusato al contrario, può chiedere di proporre due 0 tre testimoni, che l’Ordinario è anche in diritto di rifiutare.
Ciò che più sorprende è che accanto a questo procedimento seguiti a vigere, ma per reati di ben altra natura, anche il procedimento giudiziale. Lo abbiamo già veduto, e più esplicitamente ancora lo Schema dice: « Non impedii quominus ab ea {paroecia) queat sive criminali iudicio sive administrativo modo ». Ma lo strano si è che la prima forma di procedura sarà adottata nel caso di un» delitto e vero e proprio; la seconda, per una delle nove cause indicate nello Schema. D'onde l’assurda conseguenza, che un parroco, reo di una lieve colpa, non ha che i vani mezzi di difesa del processo amministrativo, talché non potrà sfuggire alla pena; e un altro, reo di un grave delitto, è protetto dalle maggiori garanzie del processo giudiziale, e potrà far valere tutti i mezzi che esso gli offre a sua discolpa (4).
Ora tutto ciò ci induce a ritenere che non può essere stata la salus animarum a suggerire al legislatore questa stridente e inconcepibile disparità di trattamento.
(1) Ora al consenso è stato, anche qui, sostituito il parere.
(2) fi Codice come si è veduto, abolendo l’obbligo di chiedere il consenso, ha abolito anche la votazione.
(3) Dei documenti occulti si parla anche nel Codice, can. 2144, § i.
(4) La Reta in una causa sul titolo di nomina a una parrocchia ben più giustamente ebbe a dichiarare che il vescovo, * qui libere instituere potest, libere tamen destituere nequit, sed tar.tummodo propter graves culpas iuridice probatas • {Acia Apostolicae Sedie, i° agosto 1909).
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La salvezza delle anime non esige ciò; e d’altra parte nello Schema stesso è suggerita talora al vescovo come una scusa per dare un’apparenza di giustificazione alla sua decisione. Dice, per esempio, il can. 706: « Si conclusio sit prò amotione, Ordi-narius decretum edat quo generatim edicat, ratione boni animarum. Propria autem et peculiaris amotionis causa exprimi potest, ecc. ». La salus animarum, dunque, più che la ragione fondamentale di questo procedimento, è un pretesto; e la ragione unica è vera non è forse che il rafforzamento dell’autorità del vescovo sul parroco. Ciò posto, non soltanto la procedura nella rimozione dei parroci è da condannarsi ma anche alcune delle stesse nove cause che, se si possono ammettere e giustificare con la salute delle anime, non lo si possono per motivi d'altra natura (1).
La più stridente di tali cause è quella dell’ingiusto odio della plebe. Con essa si vuole evidentemente proteggere l'ingiùstizia a scapito dell' innocenza, venendosi così a sancire come norma di diritto quel che è contro lo stesso diritto : 1’ iniustum\
(1) Dietro le molte critiche mosse al decreto Maxima Cura, non pochi speravano di vedere radicali innovazioni, su questo punto, nel nuovo Codice; ma si illusero. Quel Decreto, che come è noto, era un saggio del lavoro di codificazione, nello Schema fu accolto tale e quale, e nel Codice ha subito, sì, innovazioni, ma in senso peggiorativo. Nello Schema le cause di rimozione in linea amministrativa erano nove : il Codice le elenca in cinque numeri, ma sono ben più di cinque. Esso ne sopprime una sola, quella dell’ignoranza. Per la « neglectio omeiorum paroechialium », il Codice ha fatto un procedimento amministrativo a sé (Tit. XXXI1) ; la ■< inoboedientìa praeceptis ordinarli » è incompresa parte in questo stesso Titolo, e parte nel Tit. XXXI sul modo di procedere contro i chierici concubinari. Quindi, solo la causa deH'ignoianza, fra quelle enumerate dal Decreto, resta fuori dal Codice. Ma mentre nel decreto esse erano enumerate lassativamente, nel Codice sono elencate solo in via esemplificativa; lo dice esplicitamente il canone 2147, § 2: < Hae causae sunt praes&rlim quae sequuntur, ecc. ». Quindi, vi rientra anche l’ignoranza, e non l’ignoranza soltanto.
Ecco, ora, le principali differenze di procedura fra lo Schema e il Codice. In questi procedimenti, come vedemmo, il tribunale collegiale, se così si può chiamare, è formato dall’ordinario, dagli esaminatori, e dai parroci consultori. I.’Ordinario si associa ora gli uni, ora gli altri. È opportuno quindi vedere, prima di tutto, il grado di indipendenza che essi hanno di fronte a lui nello Schema e nel Codice. Essi vengono, come i giudici, nominati nel sinodo. Dice lo Schema, che agli esaminatori e ai parroci consultori che per mòrte o per altre cause vengono a cessare dal loro ufficio tra l’uno e l’altro sinodo, il vescovo ne sostituisce altri col consenso del Capitolo cattedrale. Il Codice, invece, al consenso sostituisce il parere, che non si chiede nemmen più per secreta suffragio, come prescriveva lo Schema. Lo Schema prescrive che l’Ordinario « durante numero ■> non li può rimuovere se non con lo stesso condenso del Capitolo; il Codice anche qui richiede solo il parere. L’Ordinario, secondo lo Schema, non li può scegliere a piaciménto e stabiliscono delle norme; di più essi possono essere ricusati come sospetti. Di queste limitazioni il Codice non fa parola.
Quanto alle differenze procedurali, lo Schema sancisce che l’invito al parroco di lasciare la parrocchia deve esser deciso a maggioranza di voti; il Codice dice: « ipsemel Ordinarius, auditis duobus examinatoribus..., parochum... ad paroeciae renuntiationem.. invitet» (can. 2x48, § 1). Il decreto di remozione, secondo lo Schema, deve essere anch’esso emesso a maggioranza di voti: la ragione vera, poi, della!rimozione può essere detta o taciuta ; secondo il Codice, la votazione è abolita, e il decreto lo emette il Vescovo, auditis examinatoribus, Nessun cenno alla motivazione della decisione. Dice lo Schema: l’ammissione o il rigetto del ricorso contro il decreto dell'ordinario * maiore suffragiorum numero est decernenda » dice il Codice: basta il solo parere dei parroci consultori.
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La causa dell’ignoranza doveva escludersi nello Schema, che ai giovani preti impone esami annuali per un quinquennio (i) dopo compiuto il corso regolare degli studi, e prescrive che nel conferimento dei beneficii debbono essere preferiti quelli che « ceteris paribus », in tali esami e in certe conferenze da tenersi in determinati giorni intorno a soggetti morali e di liturgia, si siano distinti di più (canone 38, L. II). Il legislatore poi suggerisce tutti i mezzi possibili per accertare l’idoneità del candidato al beneficio curato, sicché sarà moralmente impossibile che un bel giorno il vescovo lo debba rimuovere perchè ignorante (2).
Sancendo che la perdita della buona stima è causa giusta per la rimozione anche quando abbia avuto origine per fatto e per colpa dei famigliar! e consanguinei coi quali convive, si è violato un canone di diritto fondamentale, che cioè ciascuno deve rispondere delle colpe proprie.
Un'altra causa è la perdita della buona reputazione presso gli uomini probi e gravi. Ma chi sono gli uomini probi e gravi? Niente di più elastico di questo criterio. Eppoi, anche i così detti probi e gravi non di rado errano nei loro giudizi, e su la loro stessa probità e gravità accade sovente di doverci ricredere (3).
Riassumendo: se lo spirito del decreto. Maxima Cura fosse stato realmente la salvezza delle anime, tutte e nove le cause, non escluso l’ingiusto odio delle plebe, si sarebbero potute accogliere e anche giustificare. Soltanto la procedura si sarebbe dovuta escludere e riprovare come insufficiente. Ma poiché lo spirito di quel decreto è tale solo in apparenza, debbonsi condannare e cause e procedura.
Non possiamo dire con certezza quale scopo il legislatore si sia proposto con esso di perseguire; ma se si ammette quel che sopra in forma dubitativa dicevamo, cioè che egli ha mirato a rinvigorire l’autorità dei vescovi di fronte ai parroci, allora tutto quel procedimento ci appare d’un’evidenza e d’una coerenza insospettata. Ecco spiegate tutte e nove le cause di rimozione, anche quelle che ci apparivano assurde; ecco perchè al vescovo è stato concesso un siffatto potere discrezionale; ecco perchè, oltre al segreto dei nomi dei testimoni, si celano gli stessi documenti; ecco perchè si è adottata la procedura amministrativa in luogo di quella giudiziale, negando così a un parroco quel pieno diritto di difesa che si accorda anche a un delinquente comune; ecco, in una parola, svelata la ragion d' essere di tutto il procedimento, ove non si fa che tradurre in norme giuridiche l’arbitrio del superiore (4).
(j) Cfr. Cod. Con. 130, dove il quinquennio è stato ridotto a un triennio.
(2) La causa dell’ignoranza il Codice, infatti, non l’ha menzionata. Ciò però, come osservammo, non significa che l'abbia abolita. Comunque il Codice ammette le cause dell'imperizia, che è figlia naturale dell’ignoranza.
(3) Per una critica acuta e vivace delle varie cause di remozione, si veda il bel saggiò dell’avv. Teofilo Santachiara: La nuova legislazione canonica, 1911, Roma.
(4) Tutto ciò appare anche più evidente dal Codice, ove il legislatore non si è più occupato che di garantire i diritti del vescovo. Il Codice, è vero, a differenza del decreto Maxima Cura come dal decreto di rimozione dell’ordinario concede il ricorso alla Santa Sede: ma questo ricorso non varrà nulla, anche perchè il vescovo, nel frattempo, è in diritto di conferire, sia pure non stabilmente, il beneficio curato ad un altro. Molto meglio, come già si disse, provvedeva lo'Schema, prescrivendo che, pendendo il ricorso, il beneficio non si potesse cdhferirc a nessuno. (Can. 682, § 3, !.. V).
La rimozione, di cui s’è finora parlato, riguarda solo i parroci inamovibili; sui
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B) Il procedimento amministrativo nel trasferimento dei parroci.
In questo procedimento si prescrive anzitutto che ('Ordinario non può trasferire un parroco inamovibile senza il consenso di lui, a condizione naturalmente che la parrocchia, che ha, la regga bene (i). Non può nemmeno trasferire un parroco amovibile,. « si pàroecia ad quam* sia di ordine notevolmente inferiore; ma se sia di ordine superiore, o uguale o quasi uguale, « Ordinarius parochum amovi-bilem etiam invitum transferre potest » (can. 217) (2). Se il parroco non crede di obbedire ai consigli e alle persuasioni dell’ordinario, deve esporre le sue ragioni. A questo punto ricorrono, come sopra, i consultori e gli esaminatori (3). Ma se nella rimozione, il vescovo era tenuto a chiedere talvolta il loro consenso, qui non è obbligato se non a udire il loro parere (4). E anche qui intervengono quando già il vescovo ha già deciso.
Il parroco, dunque, espone le sue ragioni. Se il vescovo non crede di accoglierle, « debet, ut valide agat, super eisdem causis audire duos parochos consultores, et cum eisdem perpendere adiuncta in quibus versatur tum paroecia a qua tum pa-ròecia ad quam, et rationes quae translationis utilitatem aut necessitatem suadent » (can. 719) (5). Se, udito il voto consultivo dei parroci, l’Ordinario ritenga necessario il trasferimento, rinnova al parroco le esortazioni paterne perchè ubbidisca. Se il parroco addotte nuove ragioni si ricusi ancora, l’Ordinario, ut valide agat, deve ponderare queste ragioni con due esaminatori (6); e se, ciò nonostante, reputi ancora parroci amovibili non c’era alcuna disposizione; però di essi il Codice si occupa in un titolo a parte, il XXVII: « De modo procedendi in remotione parochorum mamovi-bilium ». Le cause per le quali può esser rimosso sono quelle stesse stabilite pei parroci inamovibili. L’Ordinario, se ritenga che alcuna di esse si sia verificata, avverte il parroco e lo esorta a rinunciare. Se il parroco ricusa, esponga in iscritto le sue ragioni che l’Ordinario apprezzerà con due esaminatori. Se. uditi gli esaminatori, non le ritenga plausibili, iterct palernas exhortationes, intimandogli che, se entro un certo tempo non se ne va, egli sarà rimosso. Scaduto il termine, è emanato il decreto.
Da questa procedura sommaria non si ricava che la seguente conclusione pratica: un parroco ascolti senz'altro le esortazioni paterne dell’ordinario, lasci la parrocchia, e smetta ogni idea di far valere le sue ragioni: non ne ricaverebbe nulla. Per i parroci religiosi c’è poi una disposizione più severa, quella dèi can. 454, § 5: « Parochi autem, ad religiosam familiam pertinentes, sunt semper, ratione personae, amovibiles ad nutum tam loci Ordinarli, monito superiore, quam Superioris, monito Ordinario, aequo iure, non requisito alterius consensi», nec alter alteri causavi iudicii sui aperire multoque minus probare tenelur, salvo recursu in devolutivo ad Apostolicam Sedem ». che, però, praticamente non ha nessun valore (Cfr. Schema, can. 334, § 2).
(1) Mentre però lo Schema dice: «Parochum inamovibilem Ordinarius invitum transferre nequit », il Codice aggiunge: « nisi speciales facultates a Sede Apostolica obtinuerit » (can. 2163). Per tal modo il vescovo se creda ad ogni costo trasferirlo, chiederà il permesso alla Sede Apostolica, che assai difficilmente gli sarà negato.
(2) Cfr. il Codice, can., 2163, § 2.
(3) Gli esaminatori, in questo procedimento, il Codice li abolisce, contentandosi dei soli parroci consultori.
(4) Come stabilisce ora il Codice anche per la rimozione dei parroci inamovibili.
(5) Codex, can. 2165.
(6) Il Codice, come si è detto, esclude gli esaminatori e tronca il procedimento a questo punto; esamina le nuove ragioni da sè, come da sè prende il provvedimento definitivo.
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necessario il trasferimento, stabilisce al parroco un termine, entro cui deve tra-, sferirsi alla nuova parrocchia, significandogli che, in caso diverso, la parrocchia che attualmente occupa diverrà, scaduto il termine, ipso Jaclo vacante.
Da ciò balza chiaro che il parroco amovibile, in alcuni casi, non ha nessuna garanzia anche se compie il suo dovere e sappia reggere bene la parrocchia affidatagli.
Un’osservazione, che può gettar qualche luce su la natura dell’autorità che l’Ordinario, anche quando non comanda, esercita sui suoi dipendenti, pur se giudici, esaminatori, consultori. In questi procedimenti, ad esempio, egli non comanda, ma solo consiglia, esorta, esprime un desiderio. Ma di qual natura sia questo desiderio, lo dice chiaro il suo provvedimento definitivo! Eppure è la legge stessa che dà il diritto al parroco di opporsi ai consigli e alle esortazioni del vescovo. Guai però se osa valersene: incorrerà in un reato di insubordinazione e il legislatore lo animo nisce che, se avrà torto, gli verranno fatte condizioni peggiori di quello che si fosse sottomesso da bel principio. Per tal modo il vescovo o lo trasferirà a una parrocchia di molto inferiore, o non glie ne affiderà più nessuna, « prout aequitas et prudentia postulare vidcantur » (can. 719) (1).
C) La sospensione « ex informala conscienti a ». —
In una serie di interessanti articoli su le riforme del diritto canonico da introdursi nel nuovo Codice, così scriveva mons. A. Villien nella rivista cattolica Le Canoniste Conlemporain del gennaio 1908:
«Si desiderano in genere delle modificazioni profonde nella disciplina delle cosidette sospensioni ex informata conscienlia. Non si può negare che questo modo di colpire senza una procedura obbligatoria e senza che l’accusato sia stato messo in grado di difendersi... non sia malvisto dai nostri contemporanei. Esso è in contraddizione con la tendenza progressiva di tutte le nostre legislazioni. Perfino in materia amministrativa lo spirito pùbblico reclama sempre più vivamente delle garanzie esterne che mattano l’individuo al riparo dalle misure prese ab irato dai Superiori.
« C’è un punto sopratutto che ferisce gli spiriti: è la disposizione contenuta nel paragrafo IX dell'istruzione di Propaganda (20 ottobre 1884): « Prudenti arbitrio Praelatorum relinquitur suspensionis causam, seu ipsam culpam delinquenti aut pa-tejacere aul reticere ». Diciamolo francamente: questo potere estremo fa paura.
« Se non si crede opportuno di obbligare il prelato a manifestare sempre all'im • putato la cólpa di cui lo si accusa, non si potrebbe almeno permettergli una difesa che sembra, dopo tutto, di diritto naturale? Sarebbe impossibile ricorrere a comunicazioni orali, davanti a testimoni, pei quali il segreto sarebbe facile a custodirsi e che costituirebbe una seria garanzia? ».
Come ha risposto il legislatore'a queste considerazioni, che pure rispecchiano il pensiero di tanti altri cattolici? Lo si vegga dai relativi canoni che crediamo opportuno riferire per intero.
(1) Cfr. Codice, can. 2154, dove, a differenza dello Schema, è prescritto che il provvedimento pel parroco da rimuoversi, inamovibile e amovibile, ('Ordinario deve prenderlo col parere di quegli esaminatori o consultori che hanno concorso alla sua rimozione.
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Cari; 738.
Ordinariis ìocorum et Superioribus maioribus in religione clericali exempta licet ex informata conscientia clericos suos subditos suspendere ab officio sive'in parte sive etiam in totum (1).
Can. 739.
Ad ferendam hanc. suspensionem nee formae iudiciales ncque canonicae moni-tiones requiruntur; sed satis est si Ordinarius vel Superior, servato praescripto canonutn qui sequuntur, simplici decreto declaret se suspcnsionem indicere.
Can; 740.
Huiusmodi decretimi detur in scriptis, nisi adiuncta aliud exigant, designato die, mense et anno; in eoque:
1®. expresse dicatur suspensionem ferri ex informata conscientia, seu ex causis ipsi Ordinario vel Superiori notis;
2® indicetur tempus durationis poenae: abstineant autem Ordinarius vel Su-Sorior ab. ipsa infligenda in perpetuum. Potest autem infligi etiam tamquam censura, ammodo clerico patefìat causa propter quam suspensio irrogatur;
30 dare indicentur actus qui prohibentur, si suspensio non in totum sed ex parte infligatur.
Can. 74j.
§ i. Si clericus suspensus sit ab officio in quo alter in eius locum substituendus est, ut puta oeconomus in cura animarum, qui substituitur mercedem ex fructibus bene-ficii percipiet iuxta prudens Ordinari! indicium determinandam.
§ 2. Clericus suspensus, si se gravatum senserit, potest imminutioncm pensionis petere ab immediato superiore qui in via iudiciaria esset iudcx appellationis.
<> Can. 742.
Ordinarius vel Superior, qui fert suspensionem ex informata conscientia, debet ex peractis investigationibus talcs collegissc probatiqnes, quae eum certum reddant cle-ricum delictum revera perpetrasse et quidem adeo grave ut tali coercendus sit poena.
Can. 743.
§ i. Sospensioni ex informata conscientia iustam ac legitimam causam praebet delictum occultimi ad normam can. 3, De deliclis et boenis.
§ 2. Ob notorium delictum suspensio ex informata conscientia numquam ferri potest.
§ 3. Ut delictum publicum sospensione ex informata conscientia plecti possit, occurrat necesse est ahquod ex adiunctis quae sequuntur:
1® T estes probi et graves delictum quidem Ordinario vel Superiori patefaciant, sed nulla ratione induci possint ut de co testimonium in iudicio, ne reticito quidem nomine (2), ferant ncque aliis probationibus delictum iudiciali processi! evinci possit.
2® S i ipsemet clericus minis aut aliis adhibitis mediis impediat ne processus iu-diciarius instituatur aut institutus perficiatur.
3® S i processili iudiciali connciendo ferendaeque sententiae impedimenta exo-riantur ex adversis civilibus'legibus aut gravis scandali periculo.
(0 Questi canoni sono riprodotti tali e quali nel Codice (can. 2186-2194). L'unica modificazióne è l’aggiunta seguente: « Extraordinarium hoc remedium adhibere non hcet, si Ordinarius potest sine gravi incommodo ad iuris normam in subditum procedere > (can. 2186, § 2).
(2) Questa clausola, « ne reticito, ecc. » è soppressa nel Codice
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Can. 744.
Suspensi© ex informata conscientia valet si ex pluribus delictis unum tantum fuerit occultimi; aut si delictum quod ante suspensionem occultum erat. fuerit deinceps di-vulgatuin (1). ' .
Can. 745.
Prudenti Ordinarti vel Superioris arbitrio relinquitur suspensión is'causavi seu delictum clerico patefacere aut reti cere: partes tamen pastoralis sollecitudinis et chari-tatis corundem erunt, ut. si delictum clerico manifestare censuerint, poena ex paternis quae interponent monitis, ned uni ad expiationem culpae veruni etiam ad emendatio-nem delinquentis et ad occasionem peccati eliminandam inscrviat.
Can. 746.
§ 1. A suspensione ex informata conscientia sibi inflicta clericus recursum habet ad Sedem Apostolicani.
§ 2. Interposito recursu, Ordinarios vel Superior ad Sedem Apostoiicam mittere debèt probationes quibus constet clericum delictum revera perpetrasse, quod extraordinaria hac poena puniri queat.
Non si può certo dire che i voti di mons. Villien siano stati esauditi. Si veggano le prime righe del canone 745, ove è riprodotta testualmente quella disposizione dell’istruzione di Propaganda, che al Villien Ja paura. (2). E non solo questo procedimento non ha subito modificazioni nel senso propugnato dallo scrittore, ma come vedremo, sotto certi aspetti, nel nuovo Codice trova un’applicazione più ampia e più odiosa.
L'istituzione della sospensione ex informata conscientia, che risale a Lucio III, fu introdótta per autorizzare i prelati regolari a negare ai loro dipendenti, rei di un delitto occulto, il permesso di ascendere ad ordini superiori, senza nessun obbligo di giustificare la loro decisióne con un processo canonico. Questa facoltà venne estesa dal Concilio di Trento ai vescovi riguardo ai chierici secolari loro sudditi.
In questo procedimento, tutto'è lasciato all'arbitrio dell’ordinario. Non citazione, non canoniche ammonizioni, non consultori, non esaminatori, non testimoni, non diritto d’appello. Si nega perfino un difensore; si ammette perfino che il vescovo possa tacere al condannato il motivo della pena inflittagli.
È una flagrante violazione di quello stesso diritto naturale, cui il Codice fa pur così spesso appello. La Chiesa ammette che il diritto di difesa emana dallo stesso diritto naturale, tanto che non lo nega nemmeno al reo confesso. E ciò non solo per mera soddisfazione dell’accusato, ma perchè il giudice possa formarsi un criterio sicuro della sua reità o meno. A questo concetto è inspirato il can. 379, il quale dichiara che « Ad pronunciationem cuiuslibet sententiae praerequiritur in iudicis animo moralis certitudo circa rem sententia definiendam; qua certitudine deficiente index declarabit non constare de actoris iure, et reum dimittet » (3).
(1) Il Codice, di questo canone, riporta solo la prima parte.
(2) Essa corrisponde, nel Codice, al Can. 2193.
(3) Cfr. Codice, can. 1869, § II nuovo Codice ha molte disposizioni giuste come questa: ma spesso, come nel caso in esame, non trovano applicazione.
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA, ECC. 55
Può forse il giudice formarsi aliunde quella certezza morale di cui parla il canone? Le misure suggerite dal can. 742 non bastano. Le fonti da cui l’Ordinario attinge le sue informazioni possono essere sospette; occorre perciò controllarle, tanto più che trattandosi, come spessissimo accade, di un delitto occulto, questo, anche quando esiste realmente e non sia il risultato di qualche macchinazione di malevoli, difficilmente si potrà pienamente provare.
Si ammetta pure che per un caso tale prova si raggiunga e che il reato meriti persè stesso*la sospensione. Ma potrà l’Ordinario infliggerla con serena coscienza senza sentir prima il reo? Il can. 5, dice espressamente che « Imputabilitas delieti pendei ex dolo delinquentis vel ex eiusdem culpa in ignorantia legis violatae aut in omissione debitae diligentiae: quare omnes causae quae augent, minuunt, tollunt dolum aut culpam, eo ipso augent, minuunt, tollunt delieti imputabilitatem » (1), e il can. 24 più dettagliatamente sancisce: «In poenis decemendis servetur aequa proporti© cum delieto, habita ratione imputabilitaiis, scandali et damni; hinc attendi debent non modo obiectum et gravitas legis, sed etiam aetas, scientia, insti-tutio, sexus, conditi©, status mentis delinquentis, finis intentus, locus et tempus quo delictum commissum est, num ex passionis impetu vel ob gravem metum delinquens egerit, an delieti poenituerit eiusdemque malos effectus evitare studuerit, aìiaque similia » (2). Nessuno può mettere in dubbio la bontà di queste norme; perchè dunque disconoscerle e dimenticarle quando più occorrerebbe tenerle presenti?
* ♦ *
Il delitto deve essere dunque, secondo lo Schema del nuovo Codice, generalmente occulto. Ma quale è il delitto occulto? C'è una divergenza non trascurabile su questo punto tra il Codice e il Diritto fino a ieri vigente. Occulto, in questa materia è, secondo i canonisti, quel delitto, la cui prova nel foro giudiziale esterno sia fisica-mente o moralmente impossibile. « La prova è fisicamente impossibile, se il processo formale giudiziale, per ostacoli frapposti dalla società civile o dai parrocchiani o dal rifiuto dei testimoni a deporre, non si possa istituire; moralmente impossibile è ogni qualvolta si tema che dal processo derivino scandali pubblici, diffamazione di terzi, ecc. Per la qual cosa, in questa materia, occulto non è il delitto per natura sua occulto o affatto ignorato; ma runica differenza tra il delitto pubblico e il delitto occulto consiste in ciò, che la prova giudiziale del delitto occulto sia fisicamente o moralmente impossibile; mentre il delitto pubblico, nel processo formale, si può provare. Perciò la procedura della sentenza ex informata conscientia non solo viene esclusa pei delitti notori e pubblici, ma anche per quei delitti occulti, che nell’istruttoria fisicamente 0 moralmente si posson provare, poiché in questi casi si deve adottare la procedura giudiziale» {3).
Insomma, anche il delitto occulto è noto: solo che per impossibilità fisica o morale non se ne può dare la prova giudiziale.
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(1) Codex, can. 2199.
(2) Codex, can. 2218. § 1.
(3) F. HEINER. De Processa criminali ecclesiastico, pag. 94: Santi-I.eitner, Prati, iur. can., t. V, p n.
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Lo Schema del Codice invece intende per delitto occulto, in questa materia, anche quello di cui parla il can. 3, L. IV (1), così concepito: « Delictum est: Pu~ blicum, quod iam divulgatum est aut talibus contigit seu versatur adiunctis ut prudenter iudicari póssit et debeat facile divulgatum iri; s^cus est occultum; et si in foro externo probari nequeat, est omnino occuUum » (2).
Dunque, occulto è quel delitto che ancora non è divulgato e che per le sue circostanze si può prudentemente prevedere che non si divulgherà. Per tal modo, questa figura di delitto occulto appare ben diversa da quella sopra descritta. La conseguenza è che ieri nel caso di un delitto occulto di cui parla lo Schema, si doveva, procedere giudizialmente: oggi che il Codice è ih vigore, il vescovo può procedere ex informata conscientia, nonostante che per la prova giudiziale del delitto in parola non vi sia nessuna impossibilità nè fisica nè morale.
La figura però del delitto occulto, nel senso che le danno l’Heiner e altri, non è già esclusa nello Schema. Essa si riscontra quasi tale e quale, seppur non addirittura identica, benché sotto la denominazione di delitto pubblico, nei numeri 1, 2 e 3 del can. 743 (3).- I numeri 1 e 2 contemplano l’impossibilità fisica; il 30 la impossibilità morale.
Quindi il Codice, anziché abolire questo procedimento, come molti desideravano, lo estende ad altri casi fino a ieri non contemplati, allargando così la sfera dell’arbitrio degli Ordinari a danno degli imputati e della giustizia.
Dalla sospensione ex informala conscientia è ammesso il ricorso alla Santa Sede; che questo non abbia nessuna efficacia, tanto più che è solo in devolutivo, è evidente, e perciò sorvoliamo.
(1) E proprio a questo canone rimanda il can. 743 già sopra riferito: ■ Suspen-sioni ex informata conscientia iustam ac legitimam causam praebet delictum occultum ad nortnam can. a. De Delictis et Poenis ».
(2) Cir. Codice, can. 2197.
(3) Code*, can. 2191.
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PERI5GO/RA DELL’ANIMA
LA VISIONE DI DIO
eh, fammi vedere la tua gloria! ’ esclama Mosè. E 1’ Eterno : Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà, e proclamerò il nome dell’Eterno davanti a te, e farò grazia a chi vorrò far grazia, e avrò pietà di chi vorrò aver pietà. — ’ Disse ancora: — ‘ Tu non puoi veder la mia faccia, perchè l’uomo non mi può vedere e vivere E poi: ‘ Ecco qui un luogo presso di me; tu starai su quel masso; e, mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la
mia mano, finché io sia passato; poi ritirerò la mano, e mi vedrai per di dietro; ma la mia faccia non si può vedere ’ (i).
L'idea di questa scena così vivida, scultoria, è l’idea di tutto quanto l'Antico Patto: l'uomo ha bisogno della visione del suo Dio, ma non la può avere. E con questa scorante idea si chiude l'Antico Testamento. Gesù inaugura il Patto nuovo; e. in questo Patto, l’idea che l’uomo ha bisogno di vedere Iddio, rimane; ma la desolante affermazione della impossibilità in cui e' si trova di vederlo, v'è sostituita da tre scene grandiose, che ne promettono tre visioni, e accennano alle condizioni a cui esse sono subordinate.
La prima scena ci conduce a una delle numerose colline che sorgono all'estremità settentrionale del lago di Genesaret. Sulla collina sta il Maestro, circondato da un primo cerchio di fidi è costanti uditori, poi dalla folla che brulica sul pendio del monte. Gesù viene da un giro evangelistico per la Galilea. Le sinagoghe hanno già udito la nuova Parola ch’è ‘ spirito e vita’ ; per tutta la Siria va benedétto il
(i) Esodo 33, 18-23.
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nome del grande Rabbino, e gl’infelici Ch’egli ha guariti, consolati, non si contano già più. Dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea, dalle contrade oltre il Giordano vengono ansiose le moltitudini. Un fremito passa per tutto quanto ' il paese: il fremito prodotto dal presentimento che tutte le cose che i re e i profeti antichi bramaron di vedere ma non poteron che salutar di lontano, stanno per compiersi.
Gesù ha ricevuto il battesimo; con questo rito d’iniziazione ha cominciato il suo pubblico ministeri©; e con le vittorie riportate sul tentatore nel deserto, s’è mostrato pronto per la grande opera che Dio gli ha affidata. Non manca più che il programma del Regno, ch’egli è venuto a fondare. Ed eccoci al momento ritratto nella scena. La collina galilea corrisponde al monte Sinai; ma, fra il Sinai e cotesta collina, sta la distanza ch’è fra il punto di partenza e il punto d’arrivo. Sul Sinai, la legge; sulla collina galilea, l’amore. Sul Sinai, i fulmini, e Dio che parla in mezzo ai tuoni; sulla collina galilea, le beatitudini, e Dio che parla per mezzo di Gesù.
* Beati i puri di cuore, perchè vedranno Iddio! ' dice il Maestro. Le folle che lo circondano hanno bisogno di vedere Iddio, e sanno che nessun mortale può vederlo e vivere.
— ' Entrate nel mio Regno ’, esclama Gesù, ' e voi lo vedrete ’. Nel Regno di Cristo, Iddio non è il monarca orientale che si nasconde in un assoluto mistero, ma è il Padre che brama la comunione de' suoi figli. Il suo Regnò, più che un regno, è una famiglia. Beati i puri di cuore! Beate le coscienze oneste! Beati voi, o Simone, o Andrea, o figliuoli di Zebedeo! E beati anche voi, Natanaele e Toma, che, quantunque tormentati dal pregiudizio e dal dubbio, avete questo a comune con gli altri: la rettitudine della coscienza, la purità del cuore! Beati voi tutti, perchè vedrete Iddio!
Questa spirituale visione di Dio che Gesù ha resa possibile col suo insegnamento, è la visione del nostro Padre celeste. Questa visione ci è necessaria sempre; ma, in modo tutto speciale, al principio della nostra vita cristiana; e non la si può avere che ad una condizione: la purità del cuore.
Quando stanchi di una vita senza ideale, senza speranza, senza conforto, sentiamo che non potremo aver pace finché non torneremo a Dio, bisogna che siam sicuri d’aver lassù, non un Giudice inesorabile, ma un Padre che ama d'un amore ineffabile ed eterno: di trovar lassù non un trono a cui non si possa accostare che un tremante sacerdote che rechi sangue di vittime, ma una fonte inesauribile di grazia, a cui tutti possiamo accorrere per quel Gesù che ha dato se stesso per noi e che per noi di continuo intercede. E cotesta certezza ci è data dalla visione che Cristo fa passare dinanzi agli occhi, non di tutti, ma soltanto dei * puri di cuore ’. L’immagine del Padre non si riflette negli stagni putridi, melmosi; si riflette ùnicamente nella superficie limpida degli animi onesti, delle coscienze buone, dei cuori puri.
La seconda scena ci trasporta a Befania, in casa di Marta, di Maria e di Lazzaro. È giorno di lutto: Lazzaro è morto. Quand’egli era infermo gravemente, le sorelle mandarono in Perèa ad avvisarne Gesù; ma Gesù non venne. Quand'ecco, egli
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giunge... ma Lazzaro è già da quattro giorni nel sepolcro. Quand’ode i rimpianti di Marta e di Maria, quando vede le lacrime de' Giudei, Gesù ' freme nello spirito e l’Uomo del dolore, presso la tomba dell'amico, ‘ piange con quelli che piangono ’. A un tratto:
— ‘ Levate via la pietra! ’ esclama: E Marta, fra la sorpresa e il sentiménto di rispetto che ha per il Maestro: — ‘ Signore, e’ puzza già, perch’è di quattro giorni! ’ E Gesù: — ‘ Non t’ho detto che, se credi, tu vedrai la gloria di Dio? ’ (i).
Ecco la possibilità di una seconda visione: della visione di Dio negli avvenimenti quotidiani della vita: visione, condizionata dalla fede.
Vedere Iddio come Padre nel momento della nostra conversione, nel momento in cui, come il figliuol prodigo, sinceri, onesti, consci della nostra miseria, gli confessiamo le nostre trasgressioni, è già molto: ma non è tutto; rimane la vita quotidiana con tutti i suoi problemi, con tutte le sue pene, con tutte le sue delusioni, con tutti i suoi scoramenti. Di quanti sepolcri è cosparsa la vita del credente! Sepolcri di speranze, che pur ci parvero grandi; sepolcri d’affetti, che pur ci parvero puri; sepolcri d’imprese, che pur ci parvero sante per lo scopo a cui miravano... E se Dio non ci conforta con le sue visioni, anche la nostra vita di cristiani non è che . un lutto continuo. Queste visioni Iddio le concede, ma soltanto a chi crede: ‘ Non t’ho detto che, se credi, tu vedrai la gloria di Dio ?
Povera madre che, circondata dai tuoi orfani, piangi la perdita del compagno amato e tremi al pensiero dell’incerto avvenire... ' Non t’ho detto che, se credi, tu vedrai la gloria di Dio? '
Povera fanciulla, per cui forse un caro ideale s’è repentinamente dileguato per non lasciarti che tenebre nell’anima esulcerata, tu rimpiangi, nell’ora delle tenebre tue, la gloria d’una speranza tròppo presto svanita... ma ‘ non t’ho detto che, se credi, tu vedrai la gloria di Dio? '
E noi tutti, in quest’ora grave, di sconforto, di crisi angosciosa, di tremendi > sconvolgimenti sociali, non ci perdiamo d’animo! Sappiamo entrare nel santuario della fede, ed aspettare in silenzio! L'Eterno non sonnecchia e non dorme; l’ora sua non tarderà a sonare; e sarà ora di luce, di pace, di gloria: ora di grandi, nuove, divine armonie sociali... ' Non v’ho detto che, se credete, voi vedrete la gloria di Dio ? '
' Se credi ’... dice Gesù. E, per noi cristiani, credere non è fidarsi cecamente in un ignoto qualsivoglia, ma è abbandonarsi nelle, braccia d'un Dio che Cristo ci ha rivelato come Padre, e che tale s’è realmente dimostrato in mille e mille occasioni della nostra vita. Credere non è la fredda adesione della mente a una morta formula teologica, ma è la comunione intima di un cuore che ama, con la cara persona che sa riamare. Credere è un affetto che, come l’acqua misteriosa sgorgava dalla roccia di Horeb, sgorga dalla roccia della nostra individuale esperienza.
$
♦ ♦ *
La terza scena è quella del gran rinnovamento di tutte le cose.
La nuova Gerusalemme scende di presso a Dio, adorna come una sposa.
(i) Giov. ix. 40.
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Intanto, una voce dal cielo esclama: — ' Ecco il tabernacolo di Dio in mezzo agli nomini! Egli abiterà con loro, ed essi saranno pòpoli suoi, e Dio Stesso starà con loro come loro Dio: e asciugherà ogni lacrima dagli occhi loro: e non ci sarà più morte, nè ci saranno più lutto nè lamento nè dolore, perchè le cose di prima sono passate! ’ (i).
La nuova Gerusalemme è circonfusa della gloria dell’Eterno'. Quivi è il fiume d’acqua viva che scaturisce dal trono di Dio; quivi è l’albero della vita che dà i frutti secondo le stagioni, e con le sue foglie guarisce le genti. Il sole quivi non sorge nè tramonta, perchè alla nuova Gerusalemme basta la luce ch’emana dalla gloria di Dio e dell’Agnello. La nuova Gerusalemme non ha tempio: il suo tempio è l’Onni-potente. I codardi, i miscredenti, gli abominevoli' gli omicidi, i fornicatori, gl’idolatri, i bugiardi non avranno accèsso alla nuova Gerusalemme; quivi non entrano che i santi, i servi di Dio i cui nomi sono scritti nel libro della vita, e quivi hanno la visione immediata dell’Eterno.
Questa terza visione di Dio è definitiva, perfetta; e la condizione a cui è subordinata. non consiste nel grado di conoscenza intellettuale a cui uno è giunto, non nella sua condizione sociale, non nella formula dogmatica a cui ha aderito, non nella Confessione di fede ch’è stata il suo vessillo dottrinale, non nella forma di ordinamento ecclesiastico a cui ha dato la propria adesione, ma consiste' nella santità: nella separazione dal male e nella consacrazione intera a quél Dio ch’è il Bene assoluto.
* ♦ ♦
Gesù, nella sua vita, ci dà, di quel che son venuto finora dicendo, il commentario più eloquente che possiam desiderare. Chi più di lui ebbe chiara la coscienza che Dio gli era Padre? Chi più nitidamente di lui scòrse sempre, in mezzo all’im-peryersar della bufera, quel Dio che lo sosteneva, gl’ispirava la parola, gli mostrava l’opra da compiere e gli accennava l’ora dell'oprare? Chi più gloriosamente di lui passò dal tempo nella immediata presenza dell’Eterno? Or se meditiamo con santo raccoglimento la divina sua vita, noi scopriamo che il segreto della sua limpida visione del Padre stava nella purità del suo cuore; che il segreto della sua continua, maravigliosa visione di Dio in mezzo alle più furiose tempeste della vita stava nella sua fede, e che il segreto della visione immediata di Dio che gli fu concessa nella radiosa alba dell’Ascensione, stette nella sua santità. Più d’una volta, forse, nel corso della nostra vita, avverrà anche a noi d’esser presi dallo scoramento^ e di gridar come Filippo: — ' 0 Signore, mostraci il Padre, e ciò ci basta!... ’ (2) In quei moment; solenni, ci ripete il Maestro: — ' Beati i puri di cuore, perchè vedranno Iddio! ’ — ' Non t’ho io detto che, se credi, tu vedrai la gloria di Dio? ’ —4 Sii santo com’Egli è santo ’, e 4 vedrai la sua faccia ' e 4 lo servirai giorno e notte nel suo tempio
Giovanni Luzzi.
(1) Apoc. 21, 3-4 (2) Giov. 14, 8.
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RIFORME ECCLESIASTICHE NEL PAESE DI HUSS
L’Epoca del 7 maggio portava il resoconto di un’intervista accordata al suo corrispondente dal ministro per le ferrovie del nuovo Stato czeco-slovacco Zahrad nik il quale .è anche prete cattolico. Appena di sfuggita, innanzi tutto, da quella intervista appare che la politica austro-fila e quindi anti-italiana. della segreteria di Stato vaticana prosegue imperterrita nonostante il tremendo crollo dell’impero austro-ungarico, avvenuto in seguito all'urto irresistibile del nostro esercito vittorioso. Il corrispondente de L'Epoca scrive:
« Poi Zahradnik mi ha mostrato un giornale che riproduceva alcune dichiarazioni del cardinale Gasparri a un corrispondente francese. Secondo il giornale, Gasparri deve avere affermato che lo smembramento dell’Austria è stato un danno... ».
fc sempre la pertinace politica della curia romana la quale non vuole ancora adattarsi alla scomparsa del suo « sgherro fedele »,’ per usare la definizione dell’on. Bissolati, pronunziata in un momento di sacro sdegno. Non è possibile dimenticare’ che durante la nostra guerra la segreteria di Stato pontificia ha manovrato ininterrottamente nell’intento di favorire l’Austria. La grave rivelazione della giornalista belga Irma Reisac, pubblicata sulla Tribuna e sul Popolo d'Italia nel settembre 1916, messa a fianco alla recente dichiarazione del cardinale Gasparri ci mostrano la curia papale costantemente orientata all’identica maniera: in favore della ex-Au-stria e quindi contro l’Italia.
Per tale atteggiamento il Governo czeco-slovacco ha già manifestato la sua irrita
zione. Il ministro Zahradnik ha avuta, nell’intervista, questa frase tagliente: « Se il Vaticano vuole avere l’antica Austria con la sua corruzione e la sua corte, si accomodi pure. Il mondo assisterà di nuovo a spettacoli d’ipocrisia, a commedie come quella di Francesco Giuseppe, che si faceva fotografare pregando, mentre migliaia e migliaia di uomini sacrificavano ingiustamente per lui la propria vita.
Ma questa Austria desiderata dal cardinale Gasparri non è luogo nel quale la nostra gente possa vivere».
Ma l’intervista del ministro di Stato boemo è notevole e significativa come « segno dei tempi », specialmente per quel ch’egli dice circa il movimento di riforma religiosa che si sta preparando ed attuando nel proprio paese. 11 che fa pensare che la semenza spirituale può germogliare anche a secoli di distanza, ma non va mai perduta. La Boemia fu la patria di Giovanni Huss e Girolamo da Praga, i quali furono arsi vivi nel xv secolo in seguito a condanna del concilio di Costanza. Sembra che il lievito lasciato dall'insegnamento e dal martirio di quei due pii pre-riformatori - lievito che non ha potuto espandersi sotto il dominio soffocante dell’impero austro-ungarico - stia operando ora nello Stato czeco. È certo che il movimento è assai serio e promettente.
Il corrispondente de L’Epoca, Italo Zin-garelli. scrive: « ...gli chiedo d’informarmi sul programma di riforme approvato poco tempo addietro da un’assemblea di quattro-cento ecclesiastici.
Quattrocento! esclama Zahradnik con un sorriso. Quattrocento erano allora
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Adesso sono duemila e più. Io sono persuaso che i preti del mondo intero esigono riforme..... ».
Indi il Ministro traccia in succinto il programma minimo delle riforme richieste dal clero e dall'opinione pubblica del suo paese:
1) « noi domandiamo - egli dice - che per le funzioni ecclesiastiche possa essere adoperata la lingua nazionale. Ed è una domanda naturalissima. Cristo non predicava affatto in latino bensì nella lingua propria. Perchè un prete non deve dunque poter officiare nella lingua materna? »
Codesto interrogativo, cosi semplice c legittimo, è perfettamente identico a quello lanciato in ogni tempo dai cristiani che si separano da Roma per riavvicinarsi al Cristianesimo del Vangelo.
Perchè usare una lingua morta, per quanto veneranda sia, tanto più poi che non è neppure quella parlata da Gesù? Dov'è il beneficio? Tutta la dottrina cristiana batte su questa fondamentale necessità: formare coscienze rinnovate, le • nuove creature » rigenerate in Cristo. E come è possibile conseguire tale scopo se si rinunzia alla parola comprensibile e persuasiva?
Si replica a codesti interrogativi in nome della tradizione secolare, della maestà della lingua latina che è la più atta alle solenni funzioni liturgiche. Ma si tratta di argomenti suggeriti dall’estetismo e dal sentimentalismo, ai quali troppo a lungo si è sacrificato il cibo sodo dell’utilità spirituale.
Certo le lingue classiche hanno un’importanza essenziale per la robusta formazione intellettuale; ma si hanno le scuole per questo.
Nella religione è doveroso seguire l’esempio di Gesù, il quale si preoccupava di essere compreso dalle masse semplici; per esse egli compose le sue maravigliose parabole. Non si tratta di abbassare la qualità, la sostanza dell'insegnamento, ma di renderla accessibile a tutte le menti.
Per questa ragione ogni moto di riforma cristiana s’inizia con la volgarizzazione e susseguente diffusione della parola di Cristo. Anche se il movente principale di tale richiesta innovazione è dato da un intensificato spirito nazionalista — come sembra che sia presentemente nel paese di Huss — è certo che il risultato ultimo Consisterà in un nuovo orientamento spirituale, consecutivo all'azione che la dottrina di Cristo, insegnata e diffusa in lingua volgare, produce immancabilmente.
2) « chiediamo inoltre — continua il ministro delle ferrovie czeco-slovacche — che la nomina dei vescovi dipenda in parte dal popolo. A noi furono impósti sempre dei vescovi tedeschi. Non degli uomini zelanti, non degli uomini buoni e pii, ma dei conti e dei baroni ».
Non è una pretesa irragionevole, nè una innovazione assoluta quella avanzata dal clero boemo. È noto che per un periodo di non pochi secoli il popolo dei fedeli elesse direttamente i propri vescovi o partecipò alla loro nomina in unione col clero. Il popolo’ aveva anche il diritto di espellere dalla diocesi il vescovo che reputasse indegno. Contro tale diritto troviamo, tra le falsificazioni dello Pseudo Isidoro, una exceptio per la quale era stabilito che il vescovo scacciato dovesse innanzi tutto poter ritornare alla propria sede: « spolia-tus ante omnia restitucndus »; poi avrebbe risposto ai suoi accusatori. Tale exceptio, che doveva tanto giovare alla autorità dei vescovi a scapito dei diritti dei fedeli, poggiava sopra un cumulo di falsità.
Ad ogni modo il diritto dei fedeli di eleggersi il vescovo continuò ancora per secoli. Il secondo concilio lateranense (1129) stabili che, dopo la morte di un vescovo, venendosi alla nomina del successore, non si escludessero dal voto le persone religiose. Il popolo vi partecipava ancora. Fu solo dopo la grave lotta per le Investiture tra Impero e Papato che si addivenne al concordato calistino (1122) pel quale la nomina del vescovo era lasciata al clero. Federico II, un secolo dopo, largheggiò ancora verso la Chiesa e stabilì che l’elezione fosse fatta dai capitoli, con esclusione del popolo.
Anche la nomina del papa sin dopo il 1000 era fatta dal popolo e richiedeva l’approvazione dell’imperatore, di cui però dopo Nicolò II, si fece a meno. Fu il concilio lateranense terzo (1179) che, per ovviare al danno delle fazioni, decretò che il papa dovesse essere eletto dai cardinali.
Quel che chiedono dunque il clero e l’opinione pubblica del nuovo stato czeco-slo-vacco non è che un ripristino delle antiche usanze, seguite per secoli dalla cristianità.
3) Si richiede inoltre in Boemia anche l’abolizione del celibato forzoso.
« Il Vaticano afferma di non potere acconsentire — continua il ministro Zahrad-nik. — Ma il celibato non è dommatico: esso è un’istituzione umana. Gli Apostoli erano tutti ammogliati. San Pietro non conviveva con la suocera? Io sono fermamente convinto che il celibato non può sus-
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NOTE E COMMENTI
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sistere. Il matrimonio è forse una cosa disonorevole? ». Ed il ministro boemo continua assicurando che, nonostante l'avversione del Vaticano a questa riforma, il movimento a suo favore si estende sempre più : « Noi riceviamo quotidianamente adesióni di preti tedeschi, magiari, polacchi ».
Anche in Italia, sappiamo, una buona parte del clero sarebbe favorevole all’abo-lizione del celibato e non sono mancate dichiarazioni singole e collettive in proposito.
E del resto anche questa riforma non sarebbe una novità, ma un ritorno all'antico. È noto che il celibato, benché abbia avuto sostenitori fin dai primi secoli, non fu attuato universalmente che molto tardi. Neppure le riforme di Gregorio VII ci sinodi tenuti dal suo predecessore Leone IX da lui ispirato ottennero gran che. Il secondo concilio lateranense senti il bisogno, un secolo dopo, di proibire ai fedeli di ascoltare la messa detta da un prete usuraio, concubinario ed ammogliato. E decretò che
il matrimonio contratto da preti, monaci, diaconi e suddiaconi fosse considerato una esecranda fornicazione. Ma le opposizioni non mancarono neppure allora, finché la Riforma del xvi secolo mise completamente da parte il celibato forzoso che non ha alcuna base biblica.
Dal succinto programma tracciato dal ministro Zahradnik comprendiamo che l’antica Boemia si avvia ad una vera e >ropria riforma ecclesiastica e religiosa, a quale probabilmente si completerà via acendo e si ripercuoterà anche in altre regioni cattoliche.
— « Il nostro è un movimento serio — continua l’intervistato, avviandosi alla conclusione —; abbiamo riflettuto e ponderato a lungo. Il Papa non potrà dire che si tratti dell’azione di pochi uomini.
— Ho sentito sussurrare che si minaccia un distacco da Roma.
Zahradnik gira la posizione:
— La nostra azione non mira al distacco da Cristo... ».
Aristarco Fasulo.
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¡CRONACHE]
POLITICA VATICANA E AZIONE CATTOLICA
L’“ ACONFESSIONAUSMO „ BANDIERA DEI CATTOLICI
I cattolici italiani si sono raccolti a Congresso in Bologna nei giorni 14, 15 e 16 giugno dopo quindici anni da quando Pio X disciolse V Òpera dei Congressi e fondò le Unioni Popolari.
Nella medesima città, durante l'ultimo Congresso del 1903, poco dopo la morte di Leone XIII, nel seno dei cattolicismo italiano si determinava quella crisi, che oggi il Partito Popolare Italiano avrebbe voluto superare, ma che si è ripresentata allorquando esso intendeva, nel suo primo Congresso, darsi la costituzione definitiva e stabilire nettamente il suo carattere aconfessionale, la suà piena indipendenza dalle autorità ecclesiastiche e dal Vaticano.
Se nel 1903 il dissenso era fra la concezione conservatrice dei veneto conte Paganizzi e quella democratica di Romolo Murri, e, vittoriosa questa al Congresso, il Papa la sconfessò licenziando bruscamente il conte Croscili, ultimo presidente dell 'Opera dei Congressi ; oggi il dissenso si è manifestato non più sull’indirizzo politico-sociale, ma ha investito i principii stessi religiosi e morali sul terreno dei quali il Partito Popolare dovrebbe muoversi ed agire.
In sostanza, il P. P. I. che si presenta con carattere di indipendenza dalla gerarchia cattolica è composto esclusivamente di cattolici: a capo di esso è un sacerdote e gli uomini più rappresentativi appartengono al clero. Le discussioni che hanno preceduto il Congresso si sono svolte tra ecclesiastici.
Dichiarare un tale partito « aconfessionale », è tale sofisma che salta agli occhi, con evi
denza indistruttibile ; dichiararlo indipendente dal Vaticano è artificio che non regge dinanzi al fatto che i cattolici italiani sono fra i cattolici di tutto il mondo i più sicuri seguaci delle direttive vaticane con le quali non si sono trovati mai in contrasto. Lo stesso sacerdote Sturzo ha dichiarato di aver reso edotto il Vaticano dei suoi lavori preparatorii del partito ; e nessuno di coloro che si sono recati a. Bologna ha avuto la capacità di sottoporre ad esame l’azione politica del Vaticano o di manifestare un dissenso qualsiasi da essa. Inoltre, tutti gli ascritti al Partito popolare professano la dottrina cattolica quale è loro manifestata dalla Chiesa ; e le condizioni dell’Italia non consentono certo a questo partito di accogliere nel suo seno, come ha fatto il Centro tedesco, membri di altre Chiese.
E allora a che cosa si riduce la aconfessionalità proclamata da Don Sturzo, rispondendo a coloro che qualificavano il suo come un partito cattolico? Se si volessero adoperare parole grosse si potrebbe dire trattarsi di qualche cosa che si avvicina ad un trucco; ma vogliamo credere invece che i dirigenti il nuovo partito si dibattano in una falsa situazione, nella quale si sono cacciati da loro stessi, per ottenere dal Vaticano quella libertà di movimento che fino ad oggi era loro mancata per la soggezione alle, autorità ecclesiastiche.
Ma allora, seguendo l’esempio dei cattolici degli altri paesi, e particolarmente di quelli tedeschi, ai quali spesso si richiamano nella loro organizzazione, avrebbero potuto formare un partito cattolico, dichiarato tale, indipendente sul terreno politico dal Vaticano, come appunto hanno fatto i tedeschi, i quali da Roma ricevono la religione, non la politica. E anziché fare appello agli « uomini liberi e
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forti » avrebbero potuto farlo ai cattolici che avessero accettato i loro postulati politico-sociali.
La preoccupazione di apparire diversi da quel che sono li ha posti in una singolare situazione, non soltanto rispetto agli altri partiti, ma fra i cattolici stessi, molti dei quali, destri e sinistri, sentono il disagio di una investitura che non corrisponde alla realtà.
Ciò noi avemmo occasione di osservare all'indomani della costituzione del Partito popolare, quando chiedemmo ai suoi dirigenti come essi potessero scindere la loro coscienza di cattolici dichiarandosi aconfessionali ; e come la loro aconfessionalità poteva conciliarsi col programma esposto da Don Sturzo, nel quale era compreso lo scopo di accrescere la < grandezza e potenza del Papato ». Perchè in Italia esiste tuttavia una « questione pontificia » tenuta aperta appunto dai cattolici (1).
Il richiamo, dunque, aduna maggiore chiarezza di idée partito dalle stesse file dei cattolici, non è sembrato a noi del tutto arbitrario, e si intende come esso sia giunto sgradito ai dirigenti il P.P.I. Se il sacerdote Olgiati si chiedeva su Vita e Pensiero (fascicolo di maggio): « Gesù Cristo è in soffitta? », il suo collaboratore Padre Gemelli aveva qualche ragione di domandare se anche il Papa fosse stato relegato in soffitta dai nuovi « popolari > (2).
Basta porre simili domande per comprendere in quale confusione di idee e di programmi si dibattono ancora, dopo lunga preparazione ed esperienze storiche, i cattolici italiani ; e come profondi e insuperabili siano i dissensi ideali che si sono manifestati al Congresso. Il quale, per la sincerità della vita pubblica italiana, avrebbe dovuto innanzi tutto deliberare la costituzione di un partito cattòlico italiano, del quale fosse bandiera non un falso « aconfessionalismo », ma l’integrale programma cattolico, di fronte al quale l’opinione pubblica potesse orientarsi con sicurezza senza tema di incappare in imboscate ideali e... politiche.
RELIGIONE E POLITICA
Fin dalla prima seduta del Congresso si rivelarono i contrasti ideali con la vivace discussione sull’ammissione dell’on. Miglioii e della sua corrente nel Partito Popolare, e con un
(1) V. Cronache, fase, marzo e aprile.
(2) Il Gemelli e l'Olgiati. alla vigilia del Congresso. pubblicarono un opuscolo in cui sottoponevano il programma del P. P. I. ad una vivace critica, suscitando polemiche non meno vivaci nella stampa cattolica e liberale.
discorso di critica di Padre Gemelli alla relazione del segretario politico Don Sturzo.
E’ da rilevare il fatto singolare che dei cattolici che professano senza riserve la dottrina della Chiesa romana, adunati a congresso, non abbiano inviato direttamente il loro omaggio al capo della loro religione, come fino ad oggi era avvenuto in Italia e fuori ; inoltre, dinanzi ad uomini politici e laici che operano nel campo politico, si è svolta una disputa fra due sacerdoti, don Sturzoe padre Gemelli, sul caràttere religioso del Partito: ¡I secondo accusava il primo di aver dimenticato — nientemeno! — il Cristianesimo; e la conclusione è stata un accordo fra i due sulla necessità di sorvolare sulla grave questione!
Tuttociò era il risultato di una condizione di cose anormale, voluta dagli stessi cattolici; la loro distinzione fra politica e religione, riaffermata da Don Sturzo, è condannata dalla dottrina cattolica e... dal buon senso. Non è possibile che il cattolico dimentichi dì essere tale quando entra a Montecitorio o alla Camera del lavoro : anzi, proprio allora, le sue convinzioni entrano in prima linea. La relazione di Don Sturzo è un documento significativo e assai interessante per lo sforzo che l’acuto prete siciliano ha compiuto in favore della sua tesi ; ma essa cozza contro la realtà oggettiva.
CONTRO LO STATO LAICO
Quando il sacerdote Sturzo afferma che il cattolicismo è religione, universalità, e il partito, politica, divisione : egli si mette fuori della Chiesa la quale non riconosce la politica se non come attività sottoposta alia sua dottrina, tanto che respinge e condanna lo stato moderno e la sua laicità.
E lo Sturzo si contraddice subito quando aggiunge che il Partito Popolare intende « far rivalutare nella coscienza di tutti il dovere morale di partecipare alla vita pubblica della Nazióne, senza restrizioni, per portarvi quello spirito cristiano di riforme sociali economiche e politiche che possano contrastare al materialismo e al laicismo di che è imbevuta la società presente ».
E’dunque la concezione cattolica che egli vuol introdurre nello stato laico; e lo dica senza sottintesi o atteggiamenti liberaloidi nel campo della dottrina. E tanto più cattolico è il programma dei Partito Popolare, in quanto io stesso Sturzo ci avverte che esso si propone di trasferire la istituzione famigliare « oggetto di fede dogmatica » nell’attività legislativa, considerandola come « problema politico»; è il bagaglio dogmatico che recano con sè i « popolari » a Montecitorio sotto nuove
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forine; è il cattolicismo, nella sua concezione medioevalista, che nelle inani dei politicanti cerca vie nuove per attentare allo stato laico. Non ha sostenuto I’. Gemelli un ritorno alla dottrina medioevale ?
Ma quale necessità hanno i cattolici italiani di rivestire le loro idee di abbigliamenti che le rendano irriconoscibili? Perchè non entrano nella vita pubblica con il loro programma nitido e preciso affrontando l’aperta lotta come in tutti gli altri paesi? Perchè in Italia c’è il Papa, non soltanto, ma esiste un dissidio fra il Pontificato e lo Stato. Ebbene, essi dicano anche su questo argomento il loro pensiero. Don Sturzo. in un punto della sua relazione, ha fatto en passoni un’esatta, per quanto poco ortodossa, distinzione fra la « Chiesa e il Papato »; i cattolici italiani affrontino anche questo argomento. Un gruppo di essi notevole se non per numero per qualità e per la schietta fede cristiana professata, lo ha risolto chiedendo la separazione amministrativa della Chiesa dallo Stato : sono quei demo-cristiani che, distaccatisi cosi dal Murri come dai clericali, hanno fondato un partito, per affermare idealità che fino a poco tempo indietro erano divise anche dallo Sturzo e dai suoi amici.
Il Partito Popolare ha evitato, invece, di dire il suo pensiero : se, cioè, è col Papato nella rivendicazione dei suoi attributi politici o con la Nazione che quegli attributi gli tolse |M*r sempre nel 1870.
Ma appunto per non giungere alle logiche e fatali conseguenze delle premesse, è stato fondato il P. P. I.; transazione fra gl’ideali e le urgenze politiche e una disciplina alla «piale si cerca di sfuggire non potendo spezzarla. Ma se quindici anni indietro Piò X sconfessò e allontanò coloro che oggi, richiamati da Benedetto XV, il papa politico, si sono illusi di creare un organismo politico minato alle basi da un equivoco fondamentale; questo Congresso non è riuscito come il precedente di Bologna del 1903, a • lare ai cattolici italiani un programma politico «liversò dà quello del Vaticano ; gli sforzi di Don Sturzo e dei suoi amici si sono infranti ancora un volta, contro quella intransigenza alla quale vorrebbero sottrarsi nascondendola sotto un ben costrutto castello di sofistiche distinzioni.
Egli ha detto:
« É superfluo dire perchè non ci siamo chiamati Partito Cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicismo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo
voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della Nazione.
Sarebbe illogico dedurre da ciò che noi cadiamo nell’errore del liberalismo, che reputa la religione un semplice aliare di coscienza; e cerca quindi nello stato laico un principio etico informatore della morale pubblica ; anzi è questo che noi combattiamo, quando cerchiamo nella religione lo spirito vivificatore di tutta la vita individuale e collettiva; ma non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamento di chiesa, nè abbiamo diritto di parlare in nome della Chiesa, nè possiamo essere emanazione e dipendenza di organismi ecclesiastici, nè possiamo avvalorare della forza della Chiesa la nostra azione politica, sia in parlamento che fuori del parlamento, nella organizzazione e nella tattica del partito, nelle diverse attività e nelle forti battaglie, che solo in nome nostro dobbiamo e possiamo combattere sul medesimo terreno degli altri partiti con noi in contrasto».
PASSATO E PRESENTE
« Con questo noi non vogliamo disconoscere il passato di quella azione elettorale che dal 1874 in poi le organizzazioni cattoliche italiane sotto diversi nomi, con adattamenti locali e con limiti imposti nel campo elettorale politico, poterono tentare e svolgere — non solo sotto il concetto di difesa dei principi religiosi contrastati da una politica anticlericale, che imperversava come politica nazionale che temeva l’influenza della Chiesa e del Papato nella vita italiana — ma anche con una formazione iniziale e pratica di un contenuto sociale e amministrativo che è servito a maturare un vero e vasto programma di riforme politiche, quale è stato formulato oggi dal Partito Popolare Italiano. E si deve anche riconoscere che l’aspro e difficile cammino compiuto in 40 anni di tentativi e di sforzi nella vita pubblica italiana dalle organizzazioni cattoliche, senza la vera figura di un partito politico, in condizioni impari e con tutte le diffidenze e i pregiudizi antipatriottici creati da una scuola anticlericale, sono valsi a far rivalutare nella coscienza di tutti il dovere morale di partecipare alla vita pubblica della Nazione, seiyza restrizioni, per portarvi quello spirito cristiano di riforme sociali economiche e politiche che possano contrastare al materialismo e al laicismo di che è imbevuta la società presente, che ne ha fatto cosi triste esperimento in-cinque anni di cataclisma, e che ne vede gli effetti in quella conferenza di Parigi, che si sperò invano dovesse segnare il trionfo di principi morali e spirituali nel mondo ».
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UNA PARENTESI: LA “QUESTIONE ROMANA”
Infatti, il Papa cacciato dalla porta (o, meglio, pregato di rimanere dietro la porta), è entrato improvvisamente dalla finestra per ricevere un applauso, ed essere pregato nuovamente da un amico devoto, il marchese Filippo Crispolti, di ritornare nell’ombra. L’episodio svoltosi al Congresso a tale riguardo, è quanto mai significativo.
Durante la discussione, un oratore accennando all’opera da Benedetto XV svolta durante la guerra, al suo « consiglio e alla sua parola che non si volle ascoltare » provocò un applauso fragoroso all’indirizzo del Pqpa. Tutto sembrava finito, quando uno degli ultimi borbonici di Napoli, il conte d’Aci, sollevò la « questione romana », fra lo stupore e l’imbarazzo dei dirigenti, e gli applausi di una parte del Congresso. Il Cot riere a’Italia, cosi narra il fatto:
« Il conte d’Aci, di Napoli, solleva la questione romana ; gli risponde con un efficacissimo discorso il marchese Crispolti, che ottiene un calorosissimo successo. Il conte d’Aci ritira il suo ordine del giorno presentato insieme a Filippo De’ Bianchi ».
E il direttore del giornale, nelle sue impressioni. rileva :
« Concorde fu il Congresso dopo il felicissimo discorso del marchese Crispolti nel chiudere, prima ancora che fosse veramente aperta, un’altra parentesi: quella sulla questione romana ».
L’organo del P. P. I., evidentemente era preoccupato di chiudere assai presto la pa-. rentesi, che non fu così breve come qui appare. L’organo pontificio, Osservatore romano, ci offre, infatti, una versione più e-satta dell’episodio. Esso scriveva:
« L’avv. conte Vincenzo d’Aci, anche a nome del conte Filippo Sassoli dei Bianchi, accenna al grave dissidio esistente tra Stato e Chiesa in Italia. Se il partito popolare vuole lo Stato cristiano, deve volere che questo dissidio cessi. Non sta a lui dire come: vi è per questo la Suprema Autorità, ma bisogna portare fra le masse la coscienza della necessità di sciogliere questo conflitto. Vorrebbe che nell’ordine del giorno fosse inserita l’esistenza della questione romana e il desiderio che sia risolta.
* Le parole dell’avv. d’Aci sono accolte da rumori e da interruzioni.
« Il marchese Crispolti prega i due proponenti di ritirare la loro proposta. Dice che nel pregarli di ciò non può esser sospettato
di tiepidezza per una questione che egli sempre ha sostenuta e agitata. Distingue tra ciò che può esser compito dei cattolici singoli da ciò che può spettare a un partito politico. Se si votasse questa proposta tutti i partiti ci considererebbero sotto questo solo problema. Si domanda in quali condizioni sarebbe messa la Suprema Autorità di fronte a' partito, mentre ora è gloria e pregio del । mito di non implicare nessuna responsabilità della gerarchia della Chiesa, che non deve esser mescolata a contrasti, a convulsioni e ad eventuali errori di un partito. Noi comprometteremmo l’autorità somma e perderemmo la nostra autonomia, e uccideremmo il partito. Ricorda un suo discorso a Modena nel 1910 in difesa della Santa Sede. Insiste perché si ritiri la proposta. II paese sappia dall’applauso che è stato testé rivolto a Benedetto XV quale è la ragione che ci muove a ritirare quella proposta e quale è il nostro sentimento verso il Pontefice.
« Un applauso unanime accoglie il nome, del Papa e l’assemblea si alza in piedi gridando ‘ Viva il Papa! ’
« Il conte d’Aci consente a ritirare la sua proposta, vorrebbe aggiungere qualche parola, ma l’assemblea rumoreggiando non glielo permette » (1).
UN’ACCUSA AI DEPUTATI CATTOLICI
Non meno interessante è la versione che recava il Resto del Carlino, aggiungendo nuovi particolari. Scriveva quel giornale:
(1) Lo svolgimento di questa parte del Congresso spiega le riserve che l'organò potificio faceva sul Congresso stesso e sulla sincerità dei resoconti dei giornali cattolici, con la seguente nota del Suo direttore apparsa il 19 giugno 1919:
« Con queste ultime notizie chiudiamo la cronaca del Congresso, che abbiamo cercato di mantenere rigorosamente obbiettiva e rispondente esattamente alla verità ; non possiamo dire che altrettanto abbiano fatto non solo i giornali avversi, ma anche qualche foglio di parte nostra così a Bologna come a Roma, che alla verità non si è dimostrato nei suoi resoconti ugualmente fedele, ponendo in evidenza ed inasprendo, piuttosto che dissimularle ed attenuarle, le divergenze e i contrasti in esso manifestatisi.
«In quanto poi a giudizi e apprezzamenti sull’opera del Congresso crediamo di astenerci dal formularli, sia perchè ad essa ci siamo tenuti, e intendiamo di rimanere completamente estranei, sia per le varie ragioni, e i lettori che ne hanno seguito lo svolgimento non stenteranno a comprenderle, che ci consigliano tale riserbo ».
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< L'accenno al Pontefice mentre provoca una calda dimostrazione dell’assemblea, dà lo spunto all’avv. D’Aci di risollevare la questione romana propugnando la soluzione del dissidio politico religioso esistente in Italia. Ma l’assemblèa non ne condivide il parere e rumoreggia. Gli risponde il marchese Filippo Crispolti il quale afferma che, mentre come cattolico e come scrittore ha auspicato ed auspica il componimento del dissidio, come uomo politico non può ammettere per questione di competenza che un’assise politica interloquisca in una questione che non è di sua competenza. E l’errore del diverso avviso è palese ove si pensi che cosi si perderebbe quell’autonomia di condotta che il Partito propugna in quanto che la S. Sede avrebbe il diritto ed il dovere di mescolarsi nell'opera del Partito stesso.
« La serenità dell’assemblea è turbata da un nuovo tumulto suscitato dal congressista Galletto che aflerma che i militari reduci dal fronte sono in generale rivoluzionari.
«Un coro unanime di protesta copre la sua voce; insorge a seguito dell’affermazione del congressista Guerrieri che fa un appunto ai cappellani militari di avere troppo servito la causa della guerra, ed ai giornali e deputati cattolici di non aver difeso a sufficienza la tesi del Vaticano quando per primo lanciò al mondo la proposta di una pace giusta e duratura.
« I deputati presenti scattano e l'on. Came-roni, indignato, minaccia di abbandonare il Congresso.
« Egli recede però, a seguito di una calorosa dimostrazione di quasi tutta l’assemblea, dal proposito, e spiega diffusamente e difende l’opera del gruppo parlamentare specialmente nei riguardi del Pontefice» (i).
(r) Avendo.il Partito Popolare insistito sul suo carattere nazionale, molti si sono chiesti perchè — partecipando ad esso anche deputati che hanno affermato la loro devozione alla Patria — non e stato inviato un telegramma di omaggio al Re: questa mancanza, secondo alcuni infirma il suo carattere; se i cattolici non sono nè monarchici nè repubblicani, il Partito Popolare, aconfessionale, non può non tener conto della costituzione attuale. Ma, forse, una parte del Congresso si sarebbe opposta ; e in difetto del telegramma al Papa, non si voleva dare un altro dispiacere al Vaticano. Per altro fu presentato anche un ordine del giorno col quale si reclamava la Costituente.
CONTRO LA CONFERENZA DELLA PACE
Le altre relazioni e discussioni del Congresso non hanno un particolare interesse per i lettori di questa Rivista. Interessante un breve discorso dell’on. Sederini, che ha dato luogo ad un dibattito con Pio Molajoni sul Giornale d’Italia, a proposito della partecipazione della Sede apostolica al Congresso di Vienna. Disse l’on. Sederini :
« Io credo che noi dobbiamo ringraziare Iddio che il Papa non sia intervenuto alla conferenza per la pace : un identico fatto avvenne al Congresso per quella pace di Vienna del 1S13, che segnava il sacrificio della Polonia : il Papa si era rifiutato, per bocca del Cardinale Consalvi d’intervenire a quella Conferenza ; voi sapete che i mali derivati da essa sono quelli che hanno portato alla guerra attuale; oggi alla Conferenza di Parigi si sacrificano non più, almeno non interamente, i diritti della Polonia, ma si sacrificano in parte i diritti dell’ Irlanda dell’Armenia e del-1* Italia {vivi applausi}. La vittoria è dovuta assolutamente al valore dei soldati italiani, e la ricompensa voi la sapete : i nostri alleati — chiamiamoli associati —- {voci: nemmeno associali!') vogliono a tutti i costi che l’Italia non sia un grande Paese. Io credo che malgrado tutto quello che si fa contro di noi il paese nostro sorgerà a grandezza ed a gloria e precisamente perchè la Provvidenza non può permettere che nazioni le quali debbono tutto a noi riescano a calpestarlo. Io vorrei che di qui partisse una parola — del resto già indicata dai collega Berlini — una parola di assoluta protesta contro il trattato di Versailles. Noi siamo un popolo eminentemente civile : la più grande impressione che abbiano avuto durante la guerra le varie potenze neutrali è stata quando noi pur potendo bombardare Vienna non Pabbiamo fatto; il giorno in cui appresero questo nostro atto dichiararono che fra tutti i popoli combattenti uno solo si era mostrato veramente ed altamente civile: il popolo italiano. Non dobbiamo spaventarci di continuare su questa strada, purché abbiano a trionfare interamente i nostri principi, principi che saranno sempre attuati dal P. P. I.! ».
La discussione della tattica elettorale fu vivacissima e provocò manifestazioni cosi con-tradittorie da dividere il Congresso ed il Partito in due correnti diametralmente opposte; quella dell’on. Miglioli, social istoide-bolcevica, e quella conciiiatorista di Don Sturzo, in so-
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stegno delia quale parlò il Crispolti. La divisione fu netta e recisa, ed è tuttosa esistente nel Partito, continuando nei giornali cattolici le polemiche sulla legittimità o meno della tendenza Miglioli in seno al P. P. L (1).
VERSO IL NUOVO «PATTO STURZO”
Ma l’equivoco più grossolano del Congresso fu quello di abbandonare la tattica intransigente, sul terreno elettorale, per accettare transazioni eventuali.
<- « Bisogna tenere conto delle condizioni lo-‘cali — disse D. Sturzo — per le quali non in tutti i luoghi il partito può presentare candidati propri, o non esiste affatto, o lo è in condizioni di inferiorità: su questa base e su questi concetti incomincieremo a formarci quella coscienza di partito che è necessaria alla vittoria ».
La possibilità di un nuovo << Patto Genti-Ioni », sia pure migliorato nella sua redazione, è stata la conclusione del Congresso;
(1) L’ordine del gionno presentato dal Miglioli, •diceva :
- 11 Partito Popolare Italiano, traendo la sua linea programmatica dalla dottrina del Cristianesimo, sia nel campo morale, sia in quello sociale e pratico ;
affermando che la sua immediata ragione di vita c di azione è nella stessa realtà creata dal r¡volgimento di tutti i popoli dopo l'immane disastro della guerra, per cui le classi lavoratrici rivendicano il diritto del loro avvento al potere e ad esso s’affrettano guidate o dal socialismo là' dove ne ha acquistato la influenza dominatrice o dalle forze cristiane che poi rappresentano l’idealità suprema delle non lontane battaglie anche sul terreno morale ;
dichiara che in questa ragione dottrinale c in questa sua funzione storica sta la necessità della
poiché le prossime elezioni avranno a base la rappresentanza proporzionale e lo scrutinio di lista, i candidati che entreranno nelle liste del P. P. I. senza essere inscritti ad esso, dovranno accettare il nuovo < Patto Sturzo»; assisteremo ancora una volta all’accordo fra clericali e fìlomassoni, liberali o sedicenti democratici ; e gl’ideali cristiani di D. Sturzo rimarranno nel campo delle aspirazioni e dei programmi massimi irraggiungibili. Del resto, il Congresso del P. P. L, se ha piaudito al Papa, a Miglioli. a D. Sturzo, a Crispolti, ha dimenticato qualcosa di più grande e alto, ha dimenticato di raccogliersi in un pensiero in cui lo spirito cristiano fosse presente e ardente più della passione politica e dei calcoli elettorali o bolcevichi, ha dimenticato di invocare il Patir Nosler, forse per evitare la taccia di... clericale!
Ed il Congresso fu aperto e conchiuso da un sacerdote cristiano.
Guglielmo Quadrotta
sua intransigenza di fronte ad ogni partito, sia per le competizioni elettorali, amministrative e politiche, sia per la sua attività di opposizione ad ogni Governo, tanto se emani dai passato del liberalismo borghese, quando se venga dal socialismo per una ragione di classe che disconosca il grande fattore cristiano di progresso c di pace ;
e impegna la Direzione a che in ogni batta-taglia elettorale, come in seno agli organi dello Stato e in qualunque manifestazione del Partito, si abbia di mira precipuamente l'affermazione rigida e costante del suo programma per creare intorno ad esso nel Paese una coscienza chiara e sicura c attrarre tutte le forze rigeneratrici del proletariato cristiano ».
Esso raccolse 11.57$ voti contro 28.145 dat‘ * quello Sturzo.
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RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
XXVI.
IL CROLLO DEL SUPERUOMO
C’è tutta una letteratura di guerra, special-mente rivolta a suscitare la ripugnanza e la condanna morale del nemico che si doveva combattere con le armi, la quale invecchierà rapidamente, ora che la guerra è finita. Ed è bene che sia cosi; tanto perchè si è, naturalmente, forzato un poco le tinte quanto perchè altri sentimenti debbono succedere, per facilitare la pace e l’armonia, a quelli i quali giovarono per la guerra.
Ma si esagererà, certo, nella fretta di dimenticare, come si eccedette nel fervore del combattere. La critica dello spirito germanico che condusse alla guerra merita di essere non solo ricordata, ma continuata ed approfon-. dita ; perchè essa ha un valore universalmente umano, come strumento per giudicare dottrine e atteggiamenti di vita che non furono solo germanici e che si rischia ora di vedere irrobustirsi ne’ vincitori.
Questa critica, ad es., del germanesimo che ci dà W. Roscos Thayer, l’americano storico di Cavour, studioso amico dell’Italia (/Z crollo del superuomo, Bologna, Zanichelli), non indulge molto alla passione di guerra, benché scritta nel corso di questa; è sobria, garbata, sostanzialmente giusta. Essa gioverà, ora, per giudicare, nel germanesimo di guerra, pieghe oscure e pericolose dello spirito con-temporaneo. Che cosa era la loro Deulschlum? Insofferenza di limite applicata ai loro rapporti con i popoli. Romanticismo fatto norma e spirito della Weltpolitik. Soggettivismo religioso, liberato da ogni freno di tradizione e di misura consapevole ; panteismo torbido, sacerdotalismo imperiale; amore folle del!’av
ventura, pur sapientemente meditata, come portava l’eccesso della Kultur e il costume prussiano; slreben uni des slrebens willen.
Tutto questo era molto tedesco; e fu il rapido incremento delle fortune tedesche nel periodo bismarckiano e dopo, che creò quello squilibrio profondo fra la Kultur, con tutti i suoi formidabili sussidi e risorse, e l’intima anima germanica ancora greve di barbarie, dura, rozza, ubriacata di ’ lirismo patriottico.
Ma c’è, in fondo a quel male, una radice umana che ha dato e va dando e può tornare a dar frutti velenosi anche altrove. La sconfitta è stata la catarsi dèi vinti ; ma i popoli vincitori, inglesi e americani e francesi e italiani egualmente, farebbero bene oggi a sorvegliare se stessi e ad isolare certe manifestazioni che col germanesimo del 1914 hanno affinità non difficili a scuoprire. Farebbero bene a rileggere e meditare critiche del germanesimo come quella del Santayana o come questa di W. Roscoe Thayer, nella traduzione di Arturo Calza.
LA CATARSI ESTETICA
Una vasta letteratura di commenti e di discussioni si è accumulata dal ’500 ad oggi sulla Poetica, di Aristotele ; ed è ben noto che uno dei punti più controversi è quello della calarsi tragica, di cui egli discorre nel cap. VI. Egli definisce la tragedia una mimèsi, la quale, non già narrando ma rappresentando, per mezzo della compassione e del timore, riesce alla purgazione di siffatte passioni.
Luigi Russo, in uno studio pubblicato nella «Collana di opuscoli critici » dell’editore E. Marino, di Caserta, fa un nuovo esame di quel che Aristotele intendesse per catarsi ; ed esamina prima sommariamente le. spiegazioni
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già date. Prima e più importante è la veduta pedagogica.' E retori e filologi moralisti intendono la catarsi come distruzione o come correzione delle passioni o ancora come trasformazione di esse in disposizioni virtuose. Ma la teoria pedagogica dell'arte è piuttosto medioevale e umanistica che aristotelica. Aristotele, per combattere il rigorismo platonico invocava non il semplice fine educativo estrinseco dell’arte, ma l’essenza stessa di questa, come funzione teoretica, come attività dello spirito.
Altri, come N. Terzaghi, hanno voluto, su deboli basi filologiche, identificare la parola catarsi con l’altra edonè, ed interpretare il passo aristotelico nel senso che « la tragedia, per mezzo della pietà e del timore da cui sono pervasi i suoi personaggi, produce l’allontanamento di ogni altra passione dall’animo degli spettatori, lasciandoli solo in preda a quel sentimento il quale è proprio delle passioni accennate» (la paura e la pietà), sentimento di piacere, perchè effetto della pura rappresentazione. Ma un concetto cosi strettamente edonistico dell’arte è escluso dalla posizione aristotelica di fronte a Platone, il quale appunto condannava la finzione artistica per il suo valore strettamente edonistico.
C’è poi l’interpretazione fisiologica. Essa riconduce la catarsi al suo significato medico, di purgazione; col partecipare spettatori alla azione tragica noi ci libereremmo dalle passioni che essa esprime e provoca, come per un deflusso, artificialmente provocato, di energia fisiologica. Interpretazione che sa troppo di psicologia sperimentale.
Si deve invece ritenere, dichiara I.. R., che con la catarsi /Vistotele abbia voluto intendere l’efficacia dell’arte a placare, con l’espressione, i nostri tumulti passionali; l’arte è una attività liberatrice, catartica, in quanto, elaborando le nostre impressioni, oggettivandole, ci estrania da esse,, ci rende ad esse superiori. Cantando il duol si disacerba, dice il'poeta; canta, che li passa, dice il soldatino della trincea, che non ha mai studiato rettorica : l’effusione ci libera o ci alleggerisce dagli affanni dell’animo. L’artista, sappiamo, martire di una grande passionalità o sensibilità un momento prima, compone tosto il suo tumulto passionale e si riposa in una olimpica serenità.
Perchè Aristotele ha limitato questo effetto catartico alla tragedia e alla musica? E non è questa interpretazione una concezione estetica che ha potuto svolgersi solo dall’idealismo e divenire pienamente consapevole nella Estetica di B.. Croce?
li R. con un sottile esame filologico che persuade, ma nel quale non possiamo seguirlo, mostra che se Aristotele non formulò la teoria dell’arte come pura rappresentazione e liricità, egli la intuì è la adombrò.
Egli avrebbe anche potuto, estendendo l’indagine, dimostrare come sopratutto l’arte greca, la vera e grande arte greca, con la sua compostezza serena e semplicità ed armonia, ci offra il migliore esempio della pura letizia estetica che domina il tumulto della vita, esprimendola in forme immortali.
VITA, PENSIERO E SCUOLA
Coscienza iiuova chiama Guido Santini queste sue considerazioni sull’ufficio del maestro (Libreria ed. milanese, Milano). Non originali, certo,, come pensiero, perchè esse discendono evidentemente dall’idealismo neohegeliano e in particolare da G. Gentile ; ma davvero notevoli per la sincerità e la freschezza con le quali sono state pensate e scritte, con tutta l’anima.
Il S., uno del piccolo gruppo de la nostra scuola di Milano, fa, dunque, quello che dice: non ripete, ma inventa, anche se la dottrina che si può astrarre dalle sue pagine non è sua; in queste pagine, essa è davvero la sua vita, la sua fede, il suo insegnamento.
E non si* tratta solo dei maestri. Questi sono « problemi di ogni giorno e di ogni uomo». Sono una pedagogia, che vale per tutta la condotta intellettuale e morale. Sono una religione, se la parola è usata a significare non l’insieme di cose credute, di riti e di simboli che caratterizza una religione storica, ma la temperatura incandescente dello spirito, l’agire ponendo nell’azione tutta la propria anima e tutti i propri valori, convertire spiritualmente l’attualità con la totalità.
Il grande difetto della scuola elementare — e di tutta la’ scuola — è che essa viene intesa dai più, o da quasi tutti, come ripetizione, trasmissione di conoscenze già belle e fatte, passaggio dal maestro all’alunno di un sapere scisso dall’atto dello spirito, ripetibile, come una fotografia, in infinite copie.
Questa nozione psittacistica, meccanica, morta dell’insegnamento aliena il maestro da quel suo povero sapere che è come un qualche cosa di esternò appiccicato ai suo spirito ed alla sua vita, perchè egli se ne scarichi via via sugli alunni ; scinde il maestro dallo scolaro, perchè questo si trova dinanzi a quello nell’atto di recettore docile e passivo ; scinde lo scolaro da se stesso perchè non ne stimola lo spirito a cercare, a fare, a scoprire in sè e da sè le verità che egli impara, cioè a
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farle sue, a sentirle come un accrescimento della sua stessa vita e potenza, a trasfonderla nella viva dialettica della coscienza che si fa mondo.
« La scuola dimentica troppo spesso che l'uso tecnico d’una cognizione è tutt’altra cosa dalla sua forza produttiva, e cerca a torto nel primo quel che si può trovare solamente nell’altro. L’educazione, la consapevo-volezza, il dominio di sé, la solerzia, l’eroismo difficile dell'esistenza quotidiana, l’interesse sveglio dello studioso appartengono ad essa,, perchè sono solo momenti essenziali del suo scopo». «Bisogna che gli uomini ritrovino nel tessuto indistinto e grigio delia loro esperienza e delle loro consuetudini quel punto fecondo in cui si riassumono le loro preoccupazioni e in cui, per conseguenza, viene come a condensarsi nella loro coscienza il problema della vita. Perchè la coltura è pensiero, il pensiero è coscienza, la coscienza è vita; la coltura non ha senso che nella vita». «'11 maestro non è l’uomo più o meno fornito di coltura, incaricato di bandirla... è l’uomo in quanto produce e sa di produrre. È la stessa consapevolezza e autonomia dei sostrato attivo di una civiltà. Ecco la sua figura ideale, la sua personalità tipica. Ecco il punto in cui maestro, coltura, uomo sono una cosa soia... Per svegliare nella libertà il sentimento della responsabilità, per conseguire l’unico fine della coltura, che è la fede, ciascuno di coloro che vi partecipano deve avere la responsabilità d’un aspetto totale della coltura civile ».
Concetto della scuola, e della vita, per molti nuovo. E che solleva la scuola, sin la più umile, alle altezze di una celebrazione religiosa, di un rito di unità e di creazione spirituale. Ma chi ha fatto il maestro con amore vero può sperimentarne in se stesso la verità.
INVOLUZIONE E MONISMO
Enrico Margoni si è fatto audacemente l’eretico della scienza ufficiale e di moda riassunta in una parola mitica : evoluzione ; e presume di aver dimostrato che la storia naturale dei viventi è invece un lento processo degenerativo, di riduzione e di involuzione. Sulla sua tesi, largamente esposta in un grosso volume di Storia della involuzione, che apparve alla vigilia delia guerra, egli torna ora in un volumetto (ZZ monismo dal punto di vista della involuzione) il quale è in parte di polemica scientifica con gli evoluzionisti; ma vuol anche trarre dalla teoria della involuzione delle conclusioni di carattere filosofico.
Il monismo dello Haeckel, espressione di
BILYCHNIS
un indirizzo scientifico e pseudo-filosofico (materialismo medico) che caratterizza tutto un lungo periodo di cultura, non riesce, osserva il M., «ad unificare i due concetti di Forza e Materia; e nel tentativo di disfarsi della materia per rimanere con un’unica energia, cade nell’assurdo e nel dualismo. Non sa dimostrare lo sviluppo evolutivo dalla Materia alla Vita e tanto meno allo spirito, senza di che, ogni dottrina monistica è un’utopia».
Più facile a intendere sembra al M. il processo degenerativo : dallo spirito alla Materia. Lo spirito assoluto crea il mondo, si manifesta nel mondo : ed è qui la prima degradazione; il processo della degradazione, o natura, è un processo degenerativo, in cui la vita non apparisce con cosi ricco getto se non perchè tutti i germi di vita sono coetanei ; ma non può svolgersi e articolarsi e associare le forme e i viventi nella solidarietà della successione senza un costante digradare di essi.
Noi non abbiamo competenza per giudicare della validità delle esperienze ed argomentazioni scientifiche alle quali fa appello il M. Certo, a giudicare e dalla ricchezza delle sue risorse sperimentali e dalla autorità di testimonianze che adduce, dobbiamo dire che egli è un fortissimo biologo; che la dottrina dell’evoluzione esce dai suoi libri molto malconcia.
Nè, naturalmente, questo ci dispiace. L'Evoluzione è stata uno dei più fantastici trucchi filosofici; tutto quello che c’era da spiegare e da comprendere nel mondo e nella vita si cacciava nel grembo oscuro e-misterioso della monade primitiva, per poi mostrarlo miracolosamente svolgersi di grado in grado e di momento in momento ; e si sperava che questa successione visiva dispensasse dalla indagine cosi sull’essere vero di quelle varie realtà fra le quali si poneva un nesso di successione nel tempo, come su) nesso ideale per cui l’una divenisse l’altra o una sola realtà divenisse via via tutte le varie realtà. E il M. ha ragione di ricordare sorridendo che si è così giunti a far pendere tutta la catena degli esseri da un buco nell’etere, poiché non altro sembra oggi a studiosi insigni il principio univoco della materia.
Di questo infinito cosmorama che vediamo svolgersi dinanzi ai nostri occhi, o, meglio, del quale, ad ogni momento, vediamo una faccia in cui frammenti si muovono, forse, ma l’insieme sta, o sembra stare, perchè il nostro mutar dentro è più rapido, il M. sposta la freccia. Non è evoluzione, ma involuzione ; non si svolge dalla monera all’uomo, ma dall’uomo alla monera. Ed egli crede di poter
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conciliare questa mutazione della freccia con un monismo più coerente, quasi spinoziano, salvo una più naturalistica nozione del tempo, la quale permette persino di lanciar dei ponti verso la teologia cattolica.
Noi ci rallegriamo con il M. della sua molta dottrina e. dell’audacia geniale con la quale ha rovesciato, con le armi stesse con le quali era riuscito a prevalere, uno dei maggiori idoli della cultura contemporanea. L’involuzione, come teoria dell’essere, è assai meno pretenziosa della Evoluzione. Che se anche il M., indulgendo colla smania di trarre da una ipotesi scientifica una filosofia, ci traccia un nuovo monismo, il male non è grande.
Il mutamento che è nelle cose non può darci nessuna sicura indicazione sinché non avremo compreso, o cercato di comprendere, il mutamento che è in noi. La scienza non ci offre che un segmento del processo della realtà nel tempo. M. ricostruisce l’involuzione del cavallo, che cominciò con l’avere cinque dita, ma non ci dà, ed è costretto a chiederci di supporre, il superuomo del quale noi saremmo l’attuale momento di involuzione. È quindi sempre il nostro spirito che deve includere il segmento temporale del processo del mondo nel suo stesso processo, convertire il rapporto di successione in una interiore dialettica genetica. Lo sgorgare della realtà nella evoluzione (o involuzione, creatrice non è che coscienza di quel processo intimo che noi siamo.
E questo autorizza assai meno facili conclusioni di qualsiasi genere.
LIBERTÀ E SOLIDARIETÀ
La Revue de Théologie ci de Rhilosophie di Losanna, intendeva dedicare a Charles Secrétan (19 gennaio 1S15-21 gennaio 1S95) una raccolta di scritti commemorativi, nel centenario della sua nascita. Il fascicolo speciale esce solo ora a guerra finita,"ed ha alcune pagine di introduzione dettate da E. Bou-troux, quattro studi su Secrétan economista (C. Gide), su la morale, la metafisica, la teologia di S.
Questi, che fu detto il filosofo della libertà, era un cristiano fervente, un’anima assetata di bene; la sua filosofia ci si presenta non come un rigido sistema, ma come una ricerca dominata da alcune grandi esigenze etiche; e può esser divisa in due periodi ; nel primo dei quali il S. cerca di fondare la dialettica della libertà morale, nel secondo il principio etico della solidarietà.
Il S., fedele al principio protestante, fonda la vita morale e religiosa sulla esperienza interiore di Dio; esperienza serena e profonda che chiarisce, non l’analisi dialettica, ma, secondo l’insegnamento di Pascal, l’assenso del cuore: la verità si rivela a chi la fa. La ragione ragionante, la filosofia, non può che mostrare la validità di questo principio di conoscenza pratica, di azione, posto dalla volontà Stessa. La libertà è l’atto della volontà che segue consciamente quel primo istinto ed esperienza del divino, e, con ciò stesso, facendo la verità, attuando l'essere umano finito secondo la sua fondamentale dipendenza dalla volontà creatrice, dà la ricchezza di vita, l’armonia fra la volontà stessa e l'intelletto e il sentimento.
C’é dunque in S. la postulazione mistica di una unità che non è filoloficamente affermata, e che rimane nell’ombra del misticismo. Anche nei rapporti fra uomo e uomo questa unità è solo postulata come esigenza morale di solidarietà. E la solidarietà offri a lui il criterio di discernimento fra il diritto e la religione, o, conte egli diceva, fra il diritto esigibile e la morale obbligatoria.
Nel diritto è la volontà di un altro che mi obbliga ed esige.da me soddisfazione; nella morale, quello che io debbo all’altro non è un suo diritto; prima che all'altro, io debbo a Dio ed a me stesso. Perchè io debba a te quello che il precetto morale o religioso mi comanda di fare, bisogna che io ti abbia fatto me, con l’amore; che in te e in me ugualmente riconosca il padre.
Ma è veramente filosofica questa distinzione della morale dal diritto? Anche il diritto non sorge se non in quanto in quelli ai quali sono legato da una società giuridica io riconosco la stessa umanità e nel diritto la disciplina interiore della volontà retta. L’opposizione che il diritto crea non è fra me e l’altro se non in quanto, negando la mia volontà e personalità, egli neghi la mia stessa umanità, e quindi l’umanità in universale.
Libertà e solidarietà sono, nella filosofia del S., due momenti dello spirito anelanti all’unità che tuttavia non riescono a conseguire. Perchè ciascuno dei due concetti non limiti l’altro ma ne sia la comprensione e l’approfondimento è necessario che la libertà si realizzi come unità, l’unità come libertà.
Il S. ha anticipato parecchi dei più alti motivi della speculazione filosofica modernistica. Manifesta, specialmente, è la sua affinità con la filosofia dell’azione, svoltasi più tardi in Frància-
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MISTICISMO IDEALISTICO
Pensavo, leggendo questi scritti brevi, meditazioni di un soldato sulla vita e sulla morte e sull'amore che Piero Zama ha intitolato: /x* ore del mio pensiero (Libreriaeditrice milanese, Milano) che B. Croce è molto severo contro ogni intrusione di misticismo nel suo idealismo, nel l'idealismo. Egli, riducendo la filosofìa a storia, assegnandole il compito di porre e risolvere i problemi, anzi il problema della vita nella concretezza con cui questo.ci si presenta ad ogni determinato istante, vuole espungere dalla filosofia i «massimi problemi», l'angoscia dei perchè non definiti, nella quale si sente che l’animo eccede ad ogni momento il suo presente, che la vita va oltre il pensiero chiaro, che la luce breve e mutevole è fasciatagli ombra altissima: il passato che cade dalla nostra memoria e si perde o si salva — dove? —, l’avvenire che la previsione insegue senza posa.
L’emozione cosmica, il senso dell’ignoto, le risposte a domande non fatte, il raccoglimento che non vuol sapere, o sa di non poter sapere, ma sogna e nuota quasi in una realtà di sogno sono, sembra, trasmessi e lasciati in proprio all’arte, alla liricità. Ma anche l’arte, la liricità, il misticismo spontaneo ed incoercibile delle ore solenni dello spirito è storia ; ed anche questa storia deve avere la sua filosofia.
Il misticismo che trabocca in questa prosa poesia di P. Zama è di ispirazione idealistica ; è uno stato d'animo religioso, che non fa appello alle forme e ai simboli consueti della religione; non invoca Dio espressamente, benché divino sia quésto alitare del mistero in un mondo dove le-cose non hanno più contorni definiti, o essi si sciolgono al tocco della mano del poeta, questo passo dell’uomo che risuona nell’assoluto.
Leggiamo insieme una pagina, la penultima:
Andiamo, o fratelli : rappresentiamo così piccola cosa, oggi, perchè sappiamo di essere una cosa così grande.
Andiamo con gli occhi asciutti, col passo che non vacilla, col dolore che meglio ci distacca da tutto il cammino percorso, coll’amore che ci avvince l’un l'altro perchè la vita sia fatta ì>iù buona e il vincolo non si spezzi mai più.
In noi e presso di noi è segnata la nostra legge. Intorno, sulla terra, ogni giorno, anzi in ogni istante, tutte le cose muoiono e nàscono per morire. Tutto ripete intorno questo tragico ritorno che ha per battito incessante la morte.
Le nostre esistenze palpitano sul limite del tempo : sono come goccioline di rugiada sulla punta di una foglia.
Noi (oh dolce parola che ci unisce!).dovevamo incontrarci sulla terra, in un giorno segnato nei tempi, per chiamarci per nome, per guardarci negli occhi, e per dirci l’addio.
Non di più, non di più è là vita ; non più vasto di questo è il suo compito.
Io sono il vostro eguale e mi sono trovato con voi in questo breve incontro. Altri abbiamo incontrato, molti altri, ricordate?
E son già partiti : così presto !
Alcuni vanno ora, —»vedete ? — Si perdono in un attimo: non rispondono più alla voce che li chiama, nè alla carezza che trema, nè al bacio che è bagnato di pianto.
Io sento il fulmine che li schianta, il silenzio che li spegne, il ferro che li uccìde. Tanti!
Ed ecco altri ancora, e così per ogni minuto, per tutti i minuti dei giorni.
Quale appello li incalza, nell’oscurità?
Bello, non è vero? Benché non tutto di eguale bellezza.
Ma andate ora a tradurre quello che la poesia dice, l’ignoranza che è la sua angoscia, la fede che è la sua gioia, la domanda che erompe da questo momento lirico in fredda filosofìa! E tuttavia lo sforzo artistico.vi si presenta qui fuso con uno sforzo di conoscenza. Conoscere, cercar di conoscere è anche cercar di uscire dal nostro isolamento, sentirci in comunione di vita e di lavoro con tutti gli uomini e con l’eternità dell’universo. Conoscere è unirci col tutto e introdurre più totalità, più infinità, più .armonia nella nostra vita. Unirci col tutto è amarlo, conoscere è voler amare e imparare ad amare. Conoscenza in amore.
Intuizione? Fede? Arte? Filosofia che è atto religioso.
PESSIMISMO POSTBELLICO
Ci dice, nella lettera al direttore di Coeno-bium che apre queste pagine, Silvio Pagani, che da una dozzina d’anni egli andava elaborando una sua filosofia dell’antivila, della quale in questo opuscolo, edito da Coenobium, ci dà l’introduzione.
Ciò non ci vieta di considerare queste pagine e l’accoglienza che possa ad esse venir fatta da qualche spirito morbido, come un frutto triste della guerra ; la quale deve pure aver ribadito in chi già l’aveva, almeno iniziale, il senso della irreducibile ripugnanza degli egoismi umani individuali o consociati
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alla nórma de! berte, e quindi del dolore e della delusione profonda che sempre provoca la vittoria del male e, in ultima istanza, dell’infinita vanità del tutto.
Il pessimismo di S. ’ P. non reca nessun nuovo elemento filosofico a quello, che c’è ben noto, di qualche più severa scuola buddistica e di A. Schopenhauer. Il mondo è figura e rappresentazione e la volontà avida che vi si distende sopra dando di sè corpo alle ombre nutre la sua sete di questo veleno del nulla. La saggezza è l’uccisione del desiderio, la compassione per i viventi in luogo della celebrazione della vita.
Qualche cosa di suo il P. aggiunge ; e non sapremmo lodamelo. Egli non si contenta della non volontà di vivere, la quale in Schopenhauer poteva anche essere un concetto limite, la lenta esinanizione del suo opposto positivo, la volontà di vivere, nella coscienza della vanità ed illusione dell’essere. Il P. vuol proprio la volontà dell’antivita; e poiché la vita, secondo il pessimismo, è appunto volontà intuitivamente feconda di parvenze volute, la volontà dell’antivita non può essere che l’antivolontà, la negazione-di volontà elevata a potenza!
Argomento sul quale è facile tessere brillanti paradossi e fantasie cosmiche, senza che con esso si riesca ad altro che a vestire il nulla del pensiero di immagini, con un esempio classico di quel procedimento stesso che la filosofia del pessimismo vorrebbe rimuovere.
Il metodo che il P. suggerisce, anzi « il grande sentiero per giungere alla completa emancipazione della schiavitù vitale» sarà: a) V astrazione metodica graditale (concetti, idee generali sempre più vaste fino al genere assoluto, fino al vuoto ideologico); ó) il riso sistematico come permanente attitudine beffarda dello spirito (antivita) davanti allo spettacolo della vita universale (Mondo). Lasciamo stare il primo processo, nel quale, senza alcun tentativo di giustificazione gnoseocritica, si viene a fare della categoria a priori il pensato, l’aposteriori, l’attualità concreta del pensiero; e fermiamoci al riso beffardo. Certo nell’atteggiamento pratico suggerito dal pessimismo buddistico, la pietà, l’amore di compassione, la « confederazione » leopardiana degli uomini contro la natura madrignà, c’è ancora un’etica, una norma di vita, un atteggiamento positivo di simpatia, di bene, di creazione di vita, benché destinata anche essa a risolversi in nulla, a confortare lo spasimo breve del nulla. Il riso beffardo è un pessimismo radicale più logico.
Ma si provi un poco il P. a viverlo seriamente. Egli dovrà innanzi tutto rivolgerlo
contro se stesso; e contro l’improba fatica alla quale §i accinge di stendere in un'opera di cinque libri la sua nuova filosofia; che non sarà fatica meno vana di ogni altra fatica di uomini.
Non scriva, rida, il P. E magari faccia fare, del suo riso beffardo, delle films cinematografiche; che sarebbe forse la propaganda più efficace. m.
GLI EBREI ALLA LUCE DELLA STATISTICA
Livio Livi, Gli Ebrei alla luce della statistica. Caratteristiche antropologiche e patologiche ed individualità etnica. Libreria della Voce. Firenze.
Spiegare colla statistica il fenomeno ebraico e alzare coi numeri il mistero di questa gente che è penetrata da per tutto e da per tutto ha lasciato lembi di carne e germi d'idee, può sembrare una .fatica inadeguata. -Ma forse non è. almeno in parte. In ogni modo risponde alle positive correnti moderne e a quella certa curiosità, scientifica negli studiosi dei fatti sociali, d'altra natura nell'ingenuità dell'uomo della strada.
La spinta a questa ricerca venne al Livi dal desiderio di spiegare la fortissima proporzione di ebrei saliti, nei paesi dell’Europa occidentale, ai gradi più elevati della società in confronto della esiguità numerica della popolazione ebraica stessa. Il problema, che ne richiamava altri non meno complicati, è passato poi in seconda linea nello svolgimento dello studio, sicché, in conclusione, l’autore è stato condotto a ristudiare direttamente ed ex-professo quegli aspetti antropologici e demografici che in origine erano soltanto la pregiudiziale e il basamento del suo edilizio.
La statistica ebraica negli ultimi anni del secolo xix e nei primi del xx ha avuto cultori appassionati e ha dato opere numerose in molte lingue. II primo a riconoscerne la necessità e a formularne l’idea fu lo Zunz, il celebre critico e scienziato ebreo dei tempi dell’emancipazione. Le sue Grundlinien zu einer zukünftigen Statistik der Juden (1823) costituiscono, in certo
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modo, la guida teorica per ogni ricerca in questo campo. Vennero più tardi i lavori del dott. H. Engelbert (Francoforte, 1875) sugli ebrei della Germania e della Svizzera e di G. A. Schimmer sulle terre austro-ungariche. Chi voleva dare, e in parte dette, un grande decisivo contributo a questa ricerca, fu il Verein für jüdische Statistik di Berlino e il suo presidente dott. Alfredo Nossig uomo di molte azioni. La sua Jüdische Statistik pubblicata come primo volume nel 1903 dal Jüdischer Verlag di Berlino, contiene una bibliografia, in 109 grandi pagine, d’opere, di monografie, di studi in tutte le lingue e per tutti i paesi: una meravigliosa guida per chi voglia penetrare i numeri di questo piccolo popolo.
In italiano poco o nulla c’era finora. È quindi benvenuta quest’opera che mette a contatto il lettore con una gente poco conosciuta per quanto viva da secoli in seno a tutti i popoli del mondo. E non c’è dubbio che da tutta l’opera spira una simpatia piena di amore e un profondo senso di misura e di scienza. L’autore sente tutta la strana importanza di questo problema ebraico e delle forze vitali che hanno conservata immune e fluida la battuta compagine dei popolo d’Israele.
Dopo uno sguardo molto sommario alle origini della gente ebrea e alle probabili vie della sua dispersione, in cui l’A. non ha portato nuove luci, e alla statistica della popolazione ebraica nei tempi passati, egli tratta d’un problema che se non interessa più i teorici e gli apologeti del sionismo, che forse lo accarezzarono venti anni fa, è però importante e attraente per un antropologo. Gli ebrei sono una razza? L’ambiente in cui vissero nei secoli può essere il fattore di quell’aspetto caratteristico che qua e là presentano? In qual misura il proselitismo e il matrimonio misto contribuirono a ridurre la purezza originaria della razza? L’A. ammette una unità etnica o almeno alcune caratteristiche antropologiche fisse e comuni agli ebrei nei secoli. E il suo materiale statistico, tratto direttamente dai consigli di leva italiani (Modena. Firenze. Roma), c la vasta critica dei dati e dei risultati d’altri autori sono elementi molto persuasivi. Altre documentazioni. oltre quelle dirette ed originali o attinte a valorosi cultori di antropologia, avrebbe potuto trarre il solerte studioso dalle opere del dott. J. M. Judt: Gli Ebrei come razza fisica, stampata a Varsavia nel 1902 con una ricchissima bibliografia sul
l’antropologia degli ebrei; di Ignatz Suesscr: Il carattere degli Ebrei alla luce delle più recenti ricerche (Leopoli 1891), e del dottor A. Ruppin: Die sozialen Verhältnisse der Juden in der Gegenwarlh. Ma l’A. mostra di posseder bene il suo argomento e la dialettica di questa cosa paradossale che è la statistica.
Nuovi e ricchi dati reca alla ricerca sulla statura degli ebrei, nella quale constata un j incremento che non vuole attribuire soltanto .alle migliorate condizioni sociali ed economiche, ma a cause d’ordine biologico, per cui il popolo ebrèo tenderebbe, colla scomparsa delle interdizioni, a ricuperare quel tipo primitivo che la natura gli aveva assegnato. Dove invece nota un peggioramento è nella misura del perimetro toracico, c quindi nella generale resistenza organica. Una degenerazione* toracica simile a quella degli ebrei d'Italia è stata constatata anche in paesi, dove vivono larghe masse ebree, per esempio, in Polonia, dal dott. Judt, dallo Zakrzewski, dal dottor Sniegirew, dal dott. ’Tolwinski (Vedi Die Juden in Königreich Polen di Leo Wengie-row in Jüdische Statistik, Berlino, 1903) e a Nuova York dal Fishberg. La vita del sole e deli’aria, il ritorno alla terra e allo esercizio fisico, sono l’unico mezzo di salute per l’ebreo rovinato dal Ghetto, dal pensiero e dalla vita degli affari.
Con tutto ciò l’ebreo presenta una maggiore resistenza, secondo il Livi, all’azione degli agenti tossici e una minore letalità nelle malattie infettive dell’infanzia, nel tifo, nella tubercolosi. Tale privilegio è da attribuirsi non a speciali caratteristiche etniche, ma ad una maggior sobrietà e purità di costumi e all’opera della selezione integrata dalla eredità, le quali dànno a tutta la patologia dell’ebreo un’impronta singolare.
Dimostrato cosi con dati aprioristici e positivi che gli Ebrei non si sono fusi colle altre popolazioni dalle quali si distinguono per vari caratteri, esiste tra loro una vera unità etnica anteriore alla dispersione? Per il Livi ci fu nelle remote età una fusione dcH'originario ceppo ebraico colle popolazioni hittite del paese di Canaan, dalle quali essi avrebbero tratto l'elemento biondo. Ciò però non toglie che tra gli Ebrei d’oggi come tra quelli degli antichi tempi corra un legame etnico qual è quello che unisce fra loro tutti i latini o tutti i tedeschi. E tutto ciò non è da disprezzarsi in questo momento in cui si tratta
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TRA LIBRI E RIVISTE '/']
di rifare l'unità territoriale d’Israele. « I! mondo civile troverebbe — conclude il Livi — per nuovo collaboratore un popolo spiccatamente omogeneo, dal colorito in prevalenza scuro, dai capelli generalmente ondulati e ricci e una statura certamente superiore a quella comune. A queste caratteristiche di razza se ne aggiungerebbe un’altra acquisita durante le loro vicende di dolore c cioè la eccezionale vitalità o, in altre parole, la maggiore resistenza ai germi patogeni. È questo il frutto di una secolare selezione ed auto-epurazione in-cosciamcnte favorite dalle ingiustizie di secoli e secoli. Ecco un superbo esempio di ciò che valga la oppressione degli uomini contro la irresistibile forza della natura. La prima ha l’illusióne di distruggere la sua vittima ed invece la migliora ed inconsciamente le prepara la via ad un rigoglioso sviluppo.»
Questa unità non solo di coscienza, di ideale, di sogno, di tradizioni, ma anche di caratteri etnici che il Livi documenta con metodo scientifico, per quanto sia possibile, non è da disprezzare, come abbiam detto. Comunque sia, il contributo profondo e originale recato allo studio dell’individualità etnica d’Israele eia simpatia dimostrata per questa paradossale nazione, ci fanno desiderare gli altri volumi che l’autore annunzia. Dante Lattes.
“ CORPUS SCRIPTORUM
LATINORUM PARAVIANUM „
Corpus scriplorum latinorum paravianum, Paravia e C., 1918.
Gi pervengono altri 7 numeri di questa or? mai conosciutissima e bene accetta collezione. Il primo di essi (n. 8) contiene le orazioni prò Milane e prò Archia di Cicerone, a cura di S. Colombo; il secondo (n. 9) le Bucoliche di Virgilio, curate da C. Pascal ; il terzo (numero io) il dialogo de oratoribus di Tacito, a cura di F. C. Wick; il quarto (11. 11) le Tristia di Ovidio., per C. Landi; il quinto (n. 13) le ¡‘avole di Fedro, per opera di D. Bassi ; il sesto (n. 14) i Captivi di Plauto, riveduti dal Pascal stesso; il settimo infine (n. 18) i due primi libri della Storia di Tacito, curati dal Lenchantin De Gubernatis.
La collezione, come lo dimostra questo notevole numero di fascicoli di cui si arricchisce continua a rendere sempre più completa la serie delle opere che intende offrire al pubblico italiano e continua <?on i criteri fondamentali di semplicità, di chiarezza e pur di
nitidezza tipografica. L’appendice critica non manca mai ; le prefazioni sono chiare e precise; non di ratio non sonò trascurati i testimonia dell'A. o dell’opera sua e quasi sempre indici dei nomi, e persino, come per Cicerone, delle locuzioni, rendono i fascicoli veramente preziosi. I ragguagli bibliografici sulle edizioni precedenti, sulle questioni paleografiche o letterarie che hanno sollevato gli scritti dei vari autori sono veramente pregevoli per la misura con cui sono redatti.
Accanto alie opere «maggiori» sono non di rado pubblicate operette minori pure importanti come il Morelum e la Copa nel fascicolo delle Bucoliche e per Cicerone gli argomenti degl’importanti scoli di Asconio e Bo-biense che meriterebbero forse anche maggior divulgazione nelle scuole di quella che non è loro data abitualmente.
In un altro gruppo di opere della stessa collezione notiamo con vero piacere un certo numero di autori che non sono riservati alla scuola, ma formano il corredo di lettura di quanti amano ricorrere di tanto in tanto alle bellezze delle fonti classiche più vive. Se non possiamo far entrare fra questi il Ihyestes c e le Phaedra di Seneca che, curati da U. Mo-ricca, appaiono sotto.il n. 12 della collezione e possono interessare quanti per recenti lavori moderni hanno dovuto vedere o rivedere queste tragedie letterarie, vi dobbiamo certo porre il n. 15 che R. Sabbadini ha curato sotto il titolo di Calaleplon e Maecenas, i quali formano una raccolta di poesie non perfettamente adatte per ragazzi, ma indubbiamente vive e interessanti. Non meno, senza dubbio, piacevole nella lettura e importante per la ricostruzione della vita romana sociale e «vissuta» l’opuscolo di Ovidio Ars Amatoria che C. Marchesi ha pubblicato nel n. 16. Interessante poi, anche se non notevolissimo, il n. 21 che contiene il de ira ad Novatum di Seneca curato da A. Barriera.
Più... scolastici sono indubbiamente i numeri 19, 20 e 24 che contengono il Miles gloriosas di Plauto, curato dallo Zuretti, le due orazioni ciceroniane pro Poscia e de imperio Pompei che S. Colombo ha riveduto e pubblicato ed il seguito Eneide curata dal Sabbatini (libri VII-1X).
Oltre le appendici critiche e le prefazioni accurate i volumetti sono muniti dell’indice linguistico là dove è necessario (Cicerone e Priapea'} e di quello dei nomi propri, che poteva non mancare a Plauto, per quanto povero e apparentemente insignificante dovesse riuscire.
In conclusione, volumi ottimi che fanno sentire il bisogno di vederne cresciuto il numero e continuata la qualità. G. C.
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7*
BILYCHNIS
LO SPIRITO DELLA GERMANIA
Maurice Muret, Pas d'illusions sur l’Alle-magne. Payot et C”, Paris. 1918.
Volume scritto prima della fine vttoriosa della guerra, per dimostrare, con un attento esame delle manifestazioni dello spirito pubblico in Germania, sinché questa potè sperare nella vittoria, che non c’era da attendersi dal popolo tedesco un ritorno a idee più misurate, se non attraverso la disfatta militare e la rivoluzione interna che la avrebbe seguita.
Osservatore attento e raccoglitore minuzioso, il Muret documenta largamente la sua tesi, alla quale i fatti hanno dato ragione. Ma la vittoria, realizzando le previsioni, ha tolto a questo libro gran parte di attualità. Esso rimane tuttavia utile raccolta di materiali per chi voglia tener d’ occhio lo spirito germanico nelle sue nuovissime evoluzioni, e, per non lasciarsi ingannare, tener conto di quello che esso era, ieri, prima dell’improvviso rovesciamento della situazione militare il 15-18 luglio, per giudicare di quello che sarà domani. m.
PUBBLICAZIONI PERVENUTE ALLA REDAZIONE
Henry Joly: L’avenir français. Tâches nouvelles. — Paris, Blond et Gay, 1919. Vol. di pag. 239. L. 3.50.
Lega Democratica Cristiana (Sezione Torinese): Istantanee dell’ore passale. 1916-191$. Volumetto di pag. xxx. L. 0,50.
Raphaël Ottolenghi: Appel, aux Amis de la Justice internationale. Edition du Bureau de l’Organisation sioniste à Copenhague.
Abbé Beaupin: Les Catholiques Français et l'Après-Guerre. Blond et Gay. Paris, 1918. Pag. 159.
Nyanatiloka : La parola del lìuddo. Todi, Casa Editrice Atanor, 1919. Voi. di pag. 113. L. 4Domenico di Rubba: Il cattolicismo e il cristianesimo di fronte alla democrazia nuova. S. Maria C. V., 1918. Pag. 32. L. 0.50.
Domenico Di Rubba: L'internazionalizzazione della legge delle guarentigie. Napoli, 1916. Pag. 15. L. 0,30. (Esaurito).
Domenico Di Rubba: Bismark e la questione romana nella formazione della Triplice. S. Maria C. V., 19x7. Pag. 34. L. 0,75.
Giovanni Amedeo Fichte: Dottrina morale secondo i principi della Dottrina della Scienza. Prima traduzione italiana e introduzione di Luigi Ambrosi. Albrighi e Segati e C.,1918. Pag. 352. L. 12.
Giuseppe Saitta: Il pensiero di Vincenzo Gioberti. Messina, Principato Edit. 1917. Pagine 452- L. 8.
M. Puglisi: Di alcune recenti pubblicazioni sitila Storia del Cristianesimo. Firenze, 191S. (Estratto dell’Archivio Storico Italiano).
Carlo Pascal: Ix scritture filologiche latine di G. leopardi. Catania. Battiato, 1919. Pagine 72. L. 1.80.
[Il volumetto non vuol, essere, dice PA. se non «un eccitamento» alla pubblicazione di tutta la poderosa opera filologica leopardiana. a torto disconosciuta da noi. Il P. ripubblica alcune scritture latine del L.» esamina il valore della parte nota della sua opera filologica, i giudizi dei grandi filologi e via dicendo : olire insomma una larga traccia del materiale da pubblicarsi. E sta bene. Ma non sarebbe meglio studiare compieta-mente il L. filologo e pubblicare sol quanto di questa parte della sua opera — per sua natura caduca — è ancor vivo? Si parla tanto contro la filologia e poi si filologiza così ancora?]
Paul Dudon: L'action de Bendil XV pendant la guerre. Paris, 1918. Pag. 64. Fr. 1.
Doti. N. Casacca: // Papa e TItalia. Bologna, L. Cappelli Editore, 1919. Pag. 60. L. 3.75A. Farinelli: Franche parole alla mia nazione. F.lli Bocca Ed., 1919. Pag. 246. L. 6.
Enrico Rivoire: Perchè siamo cristiani? Firenze, « La Luce» Ed., 1919. Pag. 39. L. 0,30.
Benvenuto Celli: Scienza e fede. Firenze, «La Luce» Ed. Pag. 70. L. 0,30.
Daniel Jackson: Notions ilèmentaires sur les Religione anciennes et actuelles autres que le Christianisme. Paris, Fishbacher, 19x9. Pag- 34- Fr. 1.
G. Lombardo-Radice: Come si uccidono le anime. Catania, Battiato, 1915. Pag. 90. L. 1.
A. Calabi: Uomini in guerra. Roma, Casa Ed. «Ausonia», 1919. Pag. 63. L. 1,50.
Giov. Pioli: « Educhiamo i nostri padroni ». Istruzione superiore degli operai in Inghilterra. Istit. Italo-Britannico. Milano, 1919. Pag. 1x7. L. 2,50.
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TRA LIBRI E RIVISTE
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Paul Sabatier: Conclusion au tonte // qui peut servir de préface au tome III. Paris. Fishbacher, 1914-1919. Pag. 64. Fr. 3,50.
Il risorgimento nazionale d'Israele in Palestina. Discorsi di Fr. Arca, Dante Lattes, Fr. Raffini, Emanuele Sella. Roma, Federazione Sionistica Ital. Edit., 1919- Pag. 72. 1 2.50Regis Michaud: Mystiques et réalistes anglo-saxons. I)'Emerson à Bernard Shaw. Paris, Colin, 1918. Pag. 295. Fr. 4.55-,
A propos du quatrième centenaire de la Réforme. Numéro exceptionnel de la « Revue de Métaphysique et de Morale». Libr. Colin, Paris, 1918. Fascicolo di pag. 428. Fr. 15.
Vittorino Facchinetti: Siate allegri! Il serafico Poverello e la gioia della vita. (2* edizione). Milano, Ghirlanda, 1918. Pag. 272. L. 4.
DALLA STAMPA
Agostino Gemelli e Fr. Olgiati, Il programma del Parlilo Popolare Italiano. Come non è e come dovrebbe essere. Milano, Società Editrice «Vita e Pensioro», 1919. Pagine 68. L. i.«5F. Del Greco, Il coraggio in guerra. Nota psicologica (Estratto).
F. Del Grecò, Superstizioni e follia. Note di psicologia medico-sociale e di critica. (Estratto).
Matteo Alidi, Il Sacerdote e il dopo-guerra. Messina, 19x7. Pag. 103. L. 3.50.
Porphyre, l’antre des Nymphes, traduit du grec en française par Joseph Trabucco; suivi d'un essai sur Les grottes dans les cultes magico-religieux et dans la symbolique primitive par P. Saintyves. Paris, Nourry Ed., 1918, Pages 262. Prix 7 frs 50.
Alfredo Tennyson, Beckel - la coppa - II falcone. Poemi drammatici tradotti per la prima volta in Italia da Emilio Girardini (Collez. « Autori celebri stranieri »). Roma, Voghera Ed,, 1918. Pag. 375. L. 5.
Jackson D., Petite astronomie mythologique. Paris, Fischbacher, 1919.
[È un breve opuscolo che senza pretese intende dare un ragguaglio sulle denominazioni mitologiche degli astri. Vi si aggiungono alcune notizie astronomiche ed* una carta del cielo veduto da Parigi. Il lavoro è dedicato dall'A. ai camerati che nella notte videro il cielo senza poterlo leggere].
Dal recente volume di Scritti filosofici e letterari di Giorgio Politeo, edito dallo Zanichelli, stralciamo la seguente pagina — scritta il i° maggio 1902 — che ha un notevole valore per la quasi profetica preoccupazione del filosofo dalmata sull’avvenire dei « valori ideali » della vita :
« 11 nostro tempo mi dà Paria d’una casa i cui architetti, ingegneri, meccanici, tappezzieri, elettricisti, artisti e artigiani d’ogni fatta, abbiano messo tutto l’ingegno a fornirla di quanto può contribuire ,ai comodi e ai piaceri della vita; — e ben si può dire che una casa come questa, o, per uscir di metafora, un’ora come questa non l’ha ancora veduta l’umanità; ma mai come in questo momento si è sentito un sordo rumore, un boato come di terremoto vicino che minacci di scrollare le fondamenta. — E’ una festa degli occhi e degli orecchi e anche, se vuoi, dell’intelligenza .che si- compiace delle sue scoperte, delle sue indagini, dei suoi regolamenti sociali, ecc., ma la base su cui si fabbrica è lubrica, non ha più quel siffatto macigno granitico su cui le fondamenta si potevano dir solide e che si chiama la coscienza, il carattere, il dovere, il sentimento. religioso, il costume, l’amore del vero pel vero, là buona fede, la lealtà, ecc. Tutte cose che mancarono assai spesso anche in passato ma che si mantenevano salde in certi strati sociali che oggi sono più sconvolti degli strati superiori, in cui certe convenienze, certi costùmi potevano tener luogo di quanto mancava e ottenevano un certo ipocrita rispetto anche da quelli che non vi credevano. Si crede ora che un intreccio ben inteso degli
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BILYCHN1S
interessi potrà bastare a tener in piedi il grande edificio sociale e che assicurato agli uomini il vitto, il vestito, l’abitazione si sarà fatto abbastanza per mettere in pace gli uomini, e che quelle soddisfazioni terranno luogo di tante belle cose che si credevano in passato. - Niente più di ragionevole, se fosse possibile, ma se il grande edilìzio non sarà che una caserma ben provveduta di vitto e di alloggio per gli abitanti, cosa avverrà di quella siffatta forza occulta, di quel siffatto calorico latente che si sprigiona in forma di fantasia, d’arte, di sentimento, di vita intellettuale e morale, di sogni, di costruzioni ideali, ecc., tutto quel mondo aereo, impalpabile eh’è cosi distante in grandissima parte dalla realtà, ma che solo rende desiderabile e tollerabile la realtà della vita?».
« « *
Un’altra notevole pagina, di uno scrittore ancor vivente, è questa di Camillo Flamma-rion, che stralciamo dalla lettera da lui diretta a) prof. G. V. Callegari, che ha raccolto in un volume, edito dalla Casa Ed. Voghera di Roma, Sotto il titolo Scienza e Vita, una antologia degli studi e dei pensieri del grande astronomo francese:
« Noi non ci dissimuliamo che possiamo ben poco sulla generazione attuale, poiché noi seminiamo per l’avvenire e anche per un avvenire assai lontano. L’umanità non ha ancora raggiunta l’età della ragione. Essa ha quattro o cinque anni : centinaia e migliaia d’anni passeranno forse, prima che essa siasi liberata dagli errori e dalle superstizioni dell'ignoranza primitiva, prima che essa sia uscita dalle fasce dell’animalità, della barbarie, prima che essa sia capace di governarsi da se stessa.
«Quanti esseri si potranno contare al mondo, che pensino liberamente? Provate! Osservate l’insieme della specie umana; uno su cento
forse! Il resto, cioè quasi tutti, è composto di cervelli informi, dormienti in piena oscurità.
« E quali barbarie ! ne abbiamo sotto gli occhi da due anni l’orribile spettacolo!
«Dunque noi lavoriamo per l’avvenire!
« li progresso è la legge suprema. Esso è lento, ma reale. Vi sono dei progressi e dei regressi, ma i primi predominano. L’astronomia, da sè sola, può rendere attoniti i più indifferenti con le sue magnifiche conquiste. Non si va proprio oggidì scoprendo che tutto intero l’universo siderale, nel quale il nostro Sole vivificante non è che una pallida stella e la Terra un impercettibile atomo, si muove in seno allo sconfinato infinito, con la velocità di 600 chilometri al minuto secondo? •"
• « Questa constatazione aggiunge un quattordicesimo movimento a quelli di cui già conoscevamo animato il nostro pianeta. Vicisfi, Galileo!
« E nello stesso modo che il nostro pianeta non è che un punto nello spazio, la nostra vita non è che un momento nella durata del tempo. Ma tutte queste stelle a miriadi, a milioni, sono Soli, sistemi in movimento, focolari di luce e di radiazioni vitali. La vita è universale nello spazio ed eterna nel tempo. Le nostre monadi presenti fanno parte integrante dell’assieme; l’infinitamente piccolo costituisce l’infinitamente grande; i microbi hanno una parte, nella vita terrestre, preponderante, invisibile, che era ancora insospettata pochi anni or sono. Forze ignote reggono l’universo. La realtà è inaccessibile ai nostri sensi imperfetti. Il mondo apparente è sostenuto da un mondo invisibile.
« Mene agliai molem, la forza regge la materia. L'anima è imperitura. Noi viviamo nel cielo, nell’eternità; la Terra è un astro del cielo.
« Vincere le tenebre, spandere la luce, richiamare le coscienze; ecco il nostro dovere, la nostra missione. Che tutti i buoni spiriti s’uniscano a noi per concorrere al progresso, al perfezionamento dell’umanità! »
ROCCO POLESE, gerente responsabile.
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