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RIVISTA MENSILE 1LLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV ::' Fasc. VII.
LUGLIO 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 LUGLIO - 1915
DAL SOMMARIO: Ivan LlABOOKA: Messianismo e religiosità in Russia nelle loro relazioni con la guerra odierna — VINCENZO Cento: 11 Cristianesimo e la guerra — GIOVANNI COSTA : Impero Romano e Cristianesimo — ARTURO PASCAL : Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes — RAFFAELE WlGLEY: L’autorità del Cristo — TRA LIBRI E RIVISTE: La civiltà bizantina (A. De Stefano) — Platone (F. Rubbiani) — La salute del pensiero (A. Fasulo) — BedrosTurian, poeta armeno (T. Grandi)— La monogenesi del linguaggio (F. Rubbiani) — Varia (S. Bridget).
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi
------ Via Crescenzio, 2 - ROMA ------D. G. Whittingbill, Th. D.» Redattore per l’Estero
Via del Babuino, 107 - ROMA --AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l'Italia L. 5. Per l'Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicolici almeno 64 pagine. #
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IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ •FIDES ET AMOR» EDITRICE
Amministrazione: Via S. Caterina, 14
MCMX1V
È in vendita in tutta Italia la ristampa di questa traduzione del N. T. che nella sua prima edizione del 1911 s’ebbe si lusinghiera accoglienza da tante persone riconoscenti e bene auguranti : Antonio Fogazzaro, Pietro Ragnisco, Paolo Orano, Enrico Caporali, Baldassare Labanca, Luigi Ambrosi, Giacomo Puccini, Alessandro Chiappelli, Guidò Mazzoni, Pio Ràjna, Paul Sabatier, Nicola Festa.....
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Il bel volume si vénde a L. 1.50; ma gli abbonati a “ Bilychnis „ possono averlo inviando UNA LIRA alla nostra Amministrazione insieme con l’ importo dell’abbonamento.
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BIQCriNB“
RM5IÀ DI SÌVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA • DI ROMASOMMARIO:
Ivan Liabooka : Messianismo e religiosità in Russia nelle loro relazioni con la guerra odierna.......................................... pag. 5
VINCENZO Cento: Il Cristianesimo e la guerra '........................... » 13
Giovanni Costa: Impero Romano e Cristianesimo ...... » 18
Illustrazioni: Gl'imperatori benemeriti del cristianesimo — Tavola tra le pagine 24 e 25.
I rappresentanti delle più opposte direttive religiose romane nel IV secolo — Tavola tra le pagine 32 e 33.
Arturo Pascal: Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes . . . . »41
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Raffaele Wigley : L’autorità del Cristo - Psicologia religiosa . . > 56
TRA LIBRI E RIVISTE:
¡libri :
N. Turchi: La civiltà bizantina (A. De Stefano) .............
G. Windelband: Platone (F. Rubbiani).......................... » 74
A. Anile: La salute del pensiero (A. Fasulo) ...... ........ » 75
H. Nazariantz: Bedros Turian, poeta armeno (T. Grandi) ........ » 76
Le riviste:
A. Trombetti: La monogenesi del linguaggio (F. Rubbiani)..... . » 78
Varia (S. Bridget) . ........................................... * 80
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Omettiamo, solo per questo fascicolo, le solite pagine rosa della guerra (per le quali abbiamo già pronto dell’altro abbondante e vario materiale) onde poter disporre di spazio sufficiente per esaurire la stampa di alcuni degli articoli in continuazione.
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Col presente fascicolo si inizia il secondo semestre 1915, ossia il VI volume della Rivista. Gl’ Indici acclusi in questo fascicolo vanno tolti e premessi al volume V che comprende i sei primi fascicoli dell’anno.
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MESSIANISMO E RELIGIOSITÀ IN RUSSIA
NELLE LORO RELAZIONI CON LA GUERRA ODIERNA
così detta Letteratura della guerra (Kriegs-Literatur: War-Lite-ralure) fiorisce in Russia in un grado forse più intenso di quello che lo sia in Francia, in Germania, o in Inghilterra, e a differenza di queste nazioni, assume un carattere spiccatamente religioso. La guerra contro il germanismo è divenuta per la Russia una crociata che mira ad uno scopo più religioso che nazionale. Ad essa devesi la fusione armonica di tutti gli svariati elementi della psiche Russa in un solo ideale cristiano, l’orientaaspirazioni della coscienza nazionale russa verso un solo obbiettivo che non esitiamo a dire mistico. Anche gli apologisti del pacifismo si dichiarano convinti della necessità di una guerra, la quale segna il principio di una nuova era storica dell’umanità di un nuovo indirizzo del cristianesimo, di una nuova esperienza religiosa. La divina Provvidenza ha lanciato l’Europa nel vortice di un vulcano per purificarla in un lavacro di sangue, per rigenerarla tra le lagrime del dolore, per ispianare la via ad altre razze, che sinora avvolte nella notte dell’ignoranza, o nelle nebbie di altre età sono chiamate a foggiarsi nuovi destini, a recare un contributo efficace allo svolgimento del progresso religioso, e del trionfo degl’ideali cristiani. Il popolo russo ha raggiunto la sua maturità. Le razze slave,? investite di una missione provvidenziale, devono lanciarsi nell’arena sotto la guida del popolo russo, e ristabilire i diritti conculcati di Gesù nel mondo.
Il carattere religioso della guerra odierna da parte della Russia è messo in rilievo in recenti scritti del Berdiaev, del Trubezkoi e dell’Ern, tre acuti pensatori del liberalismo russo, tre geniali agitatori d’idee religiose. Il Berdiaev, che in parte si
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professa discepolo di Solovev, ed al pari di questi è un fautore convinto della riunione delle chiese, è noto per l’arditezza delle sue idee riformatrici nel dominio del pensiero cristiano. Egli è un mistico, che tutto imbevuto della dottrina di Gesù, vive tuttavia nell’ansiosa attesa di un nuovo verbo, di una nuova rivelazione che completi e perfezioni il retaggio dottrinale del Vangelo, che attui la sintesi tra lo spirito e la materia, tra l’anima ed i sensi, tra la felicità del cielo e quella della terra. Il mo-saismo rappresentava la vittoria della carne sullo spirito: il cristianesimo rappresenta il sacrificio dei sensi a vantaggio della spiritualità. Il primo era la rivelazione del Padre: il secondo è la rivelazione del Figlio. Avremo quindi in un non lontano periodo la rivelazione dello Spirito Santo che fonderà i due ideali delle precedenti rivelazioni in un solo e grandioso ideale, quello dell’uomo perfetto, che si spiritualizza senza bandire una guerra ostinata e spietata alla carne. E questa sintesi armonica del pensiero religioso giudaico, e dello spirito ascetico del cristianesimo avrà la sua attuazione con lo sviluppo dell’influenza religiosa della Russia.
Ma quali sono i caratteri dominanti di ciò che noi chiameremmo il cristianesimo russo?... quali sono le ascose tendenze della misteriosa anima russa, che più sfugge all'acutezza delle nostre pupille quanto più noi ci lusinghiamo di dominarla coi nostri sguardi?... Il Berdiaev si studia di rispondere ai quesiti dianzi proposti, ed il suo recentissimo scritto. L’anima russa (Duscia Rossii), Petrograd, 1915, è un’accurata e suggestiva analisi della religiosità del popolo russo, delle latenti energie spirituali della Santa Russia.
Vi è, scrive il geniale pensatore, vi è una convinzione intima nel cuore russo, la convinzione che la Russia è una contrada sui generis, un impero caratteristico. La Russia è considerata dai suoi figli come una terra eletta da Dio, come l’araldo di Dio. La vetusta concezione di Mosca, come la terza Roma, divenne il leit-motiv dello slavofilismo, e attraverso gli scritti di Vladimiro Solovev penetrò nei fautori russi della coltura occidentale.
La Russia non ha spiegato il suo influsso sulla vita dei popoli al di là delle sue frontiere: essa non ha offerto il suo contributo all’intensità di pensiero e di azione della civiltà europea. La Grande Russia è come una provincia isolata nella vita dell’umanità, e le sue energie religiose sono soffocate ed oppresse: sono una forza inerte nello slancio dell’Europa cristiana. Il genio europeo la contempla come involta di mistiche nebbie in regioni che trascendono i nostri Orizzonti. La potenza politica della Russia si è imposta. Le'nazioni che si dividono l’egemonia politica dell’universo non possono astrarre dalla Russia o non tenere conto delle sue formidabili risorse: ma la coltura e l'anima religiosa del popolo russo, vale a dire, un intenso focolare di vive e latenti energie non hanno ancora efficacia sui destini religiosi dell’umanità. L’anima russa non può dettare ai popoli quelle leggi che sono dettate dalla diplomazia russa.
Le razze slave non occupano nel mondo quel posto che vi è stato conquistato dalle razze latine e teutoniche. Ma le loro condizioni dovranno subire una mutazione radi-
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cale quando saranno decise le sorti di una guerra che amalgama in un supremo sforzo, in una sovrumana tensione l’anima orientale e l’anima occidentale. Il grande conflitto odierno prepara l’unione morale dell’Oriente e dell’occidente. Il provincialismo della Russia tramonterà, e la Russia con la sua mole immensa, con le sue energie spirituali già mature graviterà verso l’Occidente, svolgerà le sue attività in mirabile armonia con quelle dei popoli più inoltrati nelle vie della civiltà. La Russia sarà una potenza europea in quella misura in cui il suo influsso spirituale peserà sulla vita intima dei popoli europei.
È giunto il momento storico dell’ingresso degli Slavi nella storia dell’umanità. Il germanesimo si esaurisce nei suoi sogni d’imperialismo, nello scacco della sua politica militarista. La Russia invece compierà una missione di pace e di risveglio religioso. L’anima russa, secondo il Berdiaev, è un misto di antitesi, di antinomie. Essa non è il riflesso di dottrine sapientemente formulate, di aforistici principi. Il poeta Tiutcev avea ben ragione di dire che l’anima russa non si lascia penetrare dallo spirito che indaga. La Russia si può comprendere solamente se noi abbiamo fede in essa e nella sua innata virtù.
Considerata nella sua anima, la Russia è la contrada più anarchica dell’universo. Tutti i suoi grandi scrittori conservativi e radicali, sono imbevuti di uno spirito di anarchia. Gli slavofili e Doctoievsky, i fanatici delle tradizioni russe propugnano teorie che hanno una stretta affinità con quelle di Michele Bakunin e di Krapotkin. La più alta espressione dell’anarchismo dell’intelligenza russa ci è dato dall’anarchia religiosa di Leone Tolstoi. L’anima russa per sua natura tende al nihilismo di governo. all’abrogazione delle fórme di reggimento politico. Essa ha un orrore istintivo dell’autorità. La stessa autocrazia ortodossa si risolve in una ripugnanza del popolo e della società russa verso qualsiasi forma di governo. L’anima russa aspira ad una sacra o teocratica sociabilità, ad un potere che rifulga nel mondo con un’aureola divina. Il popolo russo è profondamente ascetico, e questo suo ascetismo lo distacca dai beni della terra. Come scrivea il cronista nazionale russo, la Russia era grande ed opulenta, ma l’ordine non fioriva nelle sue vaste provincie, e perciò i Vareghi, i pratici avventurieri della Scandinavia, si assunsero il compito di governarla. Il popolo russo può ben definirsi un elemento passivo e femminile, per quel che concerne la sua vita politica. La maschia virtù organizzatrice gli fa difetto. L'anarchismo russo è essenzialmente femminile ed inerte.
E tuttavia la Russia è la nazione più burocratica dell’universo, la contrada che assoggetta all’ideale politico tutte le energie dei suoi figli. Il popolo russo ha gettato le basi del più vasto impero del mondo. Tutto il suo sangue è stato sparso per cementare questo mostruoso edificio. I ceti sociali" non vi raggiunsero quello sviluppo che toccarono altrove. Le energie umane vi languirono e si paralizzarono sotto una cappa di piombo. E questa burocrazia che asfissia l’anima russa è il prodotto di un'irruzione interna dello spirito del germanesimo, il quale penetrò nell’organismo russo e violentò l’elemento passivo e femminile dell’anima russa. Alieno dallo spirito d’imperialismo, il popolo russo divenne lo schiavo di mire imperialistiche. I filosofi della storia sia slavofili che occidentalisti non furono mai in grado di spiegare perchè un popolo ostile alle forme di reggimento politico soggiacque alla più vasta e complicata delle
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burocrazie, perchè un popolo anarchico e desioso di libertà non insorse contro i ceppi che paralizzarono i suoi movimenti. Per sciogliere questo enimma fa mestieri studiare le mutue relazioni tra l’elemento femminile e l’elemento maschile nel carattere russo, vale a dire l’influsso del pensiero e della violenza tedesca sulla femminilità slava. Un’altra antinomia fra nazionalismo e cosmopolitismo si annida nella coscienza russa. La Russia non è da annoverarsi tra le nazioni infette dallo chauvinismo. Il nazionalismo russo porta l’impronta straniera, l’impronta del germanesimo. Si direbbe che i russi si vergognino della loro nazionalità! Non vi è in essi il sentimento di un orgoglio di patria e di stirpe. Il nazionalismo aggressivo, quel nazionalismo che giustifica la violenza per russificare, è un elemento straniero nella psiche russa. Il pensiero russo disdegnò sempre il nazionalismo come un agente di corruzione e d’impurità. Gli stessi slavofili non sono nazionalisti nel senso stretto della parola. Essi voleano convincersi che nel popolo russo l'influenza dello spirito universale del cristianesimo fosse predominante, ed esaltavano la Russia per questa sua dote. L’uomo russo, scrivea il Dostoievsky, è l'uomo universale: lo spirito russo è uno spirito universale, ed universale è la sua missione. L'odierno nazionalismo russo è il prodotto dell’influsso europeo sulla Russia contemporanea. Il supernazionalismo, l'universalismo sono i caratteri distintivi del nazionalismo russo che fissa sempre i suoi sguardi al di là delle frontiere nazionali. La Russia nell’intimo della sua natura aspira alla missione di liberatrice dei popoli. Essa è priva di tendenze egoistiche. La storia rivela che più volte essa esercitò questa missione pacifica; essa gloriossi di apparire ai popoli non solo come nazione cristiana, ma eziandio come l’unica nazione cristiana: essa si distinse con l’epiteto di santa.
Un fenomeno strano nella storia della Russia è il cambiamento della Chiesa universale di Cristo in una Chiesa nazionale. Il nazionalismo ecclesiastico, è un fenomeno caratteristico dello spirito russo. Questo nazionalismo informa la vita della Chiesa russa, ed è il sostrato dell’ideologia slavofila. La religiosità russa, secondo il Berdiaev, è una religiosità femminile., la religiosità di un tepore biologico collettivo, che assume la forma di un tepore mistico. Il principio individuale non vi è svolto. La religione russa è piti la religione della Madre di Dio, che la religione del Cristo, la religione di una divinità femminile che santifica la vita e l’organismo materiale. Secondo il Rozanov la Russia si è trasformata in Madre di Dio, ed in araldo delle divinità. Questa religiosità richiede la cooperazione di uomini, che portino il fardello dell'attività, che inalberino la croce, che siano le guide spirituali dell’umanità. E nella sua vita religiosa, il popolo russo si appoggia sui santi, sugli asceti, innanzi ai quali si prostra come innanzi alle sacre immagini. Pei Russi la santità è più un obbietto di ammirazione che di imitazione. 11 popolo russo non vuole tanto la santità, quanto il prostrarsi innanzi alla santità. Il naturalismo è il suolo sul quale l'anima russa innalza i suoi templi, glorifica i suoi santi. Ed il grande merito del Solovev consiste per l’appunto nella sua critica spietata del nazionalismo ecclesiastico, nei suoi appelli incessanti allo spirito universale del Cristo, alla liberazione di questo spirito dalle catene nazionali e naturalistiche. Nella sua lotta contro le tendenze nazionalistiche, il Solovev orientossi verso il Cattolicismo: nondimeno egli è giusto riconoscere la grandezza dei suoi ideali e la verità delle sue critiche. Il nazionalismo ecclesiastico
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condusse la Russia all’asservimento della Chiesa. La Chiesa, un organismo spirituale e mistico, si arrese a discrezione all'autorità del Sinodo, un’istituzione che porta un’impronta tedesca.
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La guerra odierna apre l’era del conflitto mondiale tra Slavi e Tedeschi. Il germaniSmo si era annidato nelle fibre più riposte dell’anima russa; avea assoggettato alla sua influenza la vita politica e letteraria della nazione: padroneggiava col suo scettro il cuore e la mente del popolo russo. Attualmente dichiara guerra aperta al mondo slavo. La razza tedesca è una razza virile. I Tedeschi sentivano la femminilità della natura slava, e si lusingavano di dominarla, di signoreggiare le sue terre, d’imporre ad esse la propria coltura. La Russia era già considerata come un suo feudo. Il periodo storico della vita russa, che s’inaugura con la fondazione di Pietroburgo, è un periodo di prevalente influsso tedesco nella politica interiore ed esteriore della nazione russa. Il popolo russo si era già acconciato all’idea che solamente i Tedeschi aveano le doti necessarie per educarlo e civilizzarlo. E ci volle la catastrofe di una guerra mondiale, la follia dell’orgoglio tedesco per ridare alla Russia la coscienza della sua forza e della sua missione. La Russia sente il bisogno per dir così, di virilizzarsi, di strapparsi al suo stato d’inerzia passiva, di fondere gli elementi multipli della sua compagine, di guarire le antinomie del suo spirito, di liberarsi da un nazionalismo gretto e meschino. La guerra odierna potrà essere per la Russia la sorgente di grandi benefici! morali e materiali. Essa darà ai Russi una coscienza più profonda della loro individualità etnica, appianerà le discordie delle fazioni, libererà la Russia dal suo servilismo a riguardo dei Tedeschi, dalla sua freddezza a riguardo dell’occidente, dal suo antisemitismo. La coltura occidentale getterà radici sul suolo russo come una pianta indigena. La civiltà non sarà pili esclusivamente europea, ma universale. E la Russia, mediatrice tra l’Oriente e l’Occidente eserciterà un potente influsso per ristabilire l’unità del genere umano. La guerra mondiale risolleva il problema del Messianismo russo. La coscienza messianica non è una coscienza nazionalista. Essa è contraria essenzialmente al nazionalismo; essa è universale. La coscienza messianica pianta le sue radici nella coscienza religiosa del popolo ebraico. Vi è un solo popolo eletto dalle cui file uscirà il Messia, il Redentore del genere umano. Gli altri popoli non sono eletti, non hanno un mistico retaggio. Essi hanno la loro missione peculiare, le loro caratteristiche, ma il popolo eletto, investito di una missione messianica è un solo. La coscienza messiànica è mondiale e supernazionale. Il messianismo avea la sua ragione di essere nel popolo ebreo, perchè il Messia dovea nascere da stirpe giudaica. Ma dopo là venuta del Cristo, il messianismo nel senso ebraico non è più possibile. Pel cristianesimo non vi è nè Ebreo, nè Gentile: il cristianesimo ripudia la concezione di un sol popolo eletto. Il Cristo è venuto per tutti gli uomini, ed il cristianesimo il quale non ammette l’esclusivismo nazionale e l’odio di razza, condanna la tendenza per un popolo ad elevarsi sovra gli altri popoli come l’unico religioso per volere divino. Il cristianesimo afferma l’unità del genere umano, e lavora per cementarla.
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La coscienza messianica è una coscienza profetica, in virtù della quale un popolo sente una vocazione speciale, la vocazione di annunziare al mondo un nuovo verbo. Ma questo, messianismo cristiano deve rinunziare all’orgoglio nazionale. Non vi è quindi uno spirito cristiano nelle continue invettive degli slavofili contro l’Occidente. L’odio contro l’Occidente e le lacune della sua vita religiosa, un odio fomentato attivamente dallo slavofilismo, giudaizza il cristianesimo, dal Nuovo Testamento ci ricaccia indietro verso il Vecchio.
La coscienza cristiana messianica della Russia consiste in questo, che nell'ora segnata dalla Divina Provvidenza, al pari dei Latini e dei Tedeschi, anche i Russi parleranno all’umanità. La razza slava, guidata dalla Russia, deve manifestare le sue energie spirituali, il suo spirito profetico. Gli Slavi sono il popolo dell’avvenire che prenderanno il posto di altre razze, anche di quelle che hanno avuto un passato glorioso nella storia dell’umano progresso. Tutti i grandi popoli sono passati attraverso stadii messianici. Vi sono momenti storici in cui un popolo è chiamato da Dio al compimento di una grandiosa missione, e questo momento storico è giunto per la Russia. La Germania lo ebbe all’alba del secolo xix. Il suo messianismo volge oramai al tramonto. Nei disegni della divina Provvidenza i vari popoli sono eletti per un dato lasso di tempo affine di attuare nel mondo i piani divini. Già da tempo la Russia sentì nelle latebre della sua coscienza religiosa che nell’ora scelta dalla divina Provvidenza essa sarebbe divenuta il centro della vita spirituale dell’umanità. Il suo messianismo però non è del tipo ebraico. La sua coscienza messianica non elimina la missione grandiosa di altri popoli. Il suo compito è di continuare l’azione, le grandi imprese di altri popoli che dissodarono il terreno della civiltà. La sua coscienza messianica restò a lungo soffocata tra i rovi e le spine di un nazionalismo bastardo, e giudaico. L’ora della liberazione è prossima. Le classi colte e gli umili strati della società devono proclamare il loro completo divorzio dallo slavofilismo sia ufficiale che nazionale.
La Russia non può affacciarsi sulla scena del mondo come precipua parte del-l’Oriente, e bandire la crociata contro l’Occidente. Essa deve personificare la sintesi armonica dell'Oriente e dell’occidente, la fusione di due mondi. Il particolarismo è in antitesi con la larghezza dell’ideale cristiano. L’esclusivo predominio dell’elemento orientale abituò i Russi al servaggio, e produsse il caos e la reazione. La guerra odierna deve chiudere il periodo del carattere orientale della Russia, e del carattere occidentale dell'Europa. Il messianismo russo non può quindi legare le sue sorti a quelle della Russia conservativa, della Russia dei Vecchi Credenti, della Russia ossificata, della Russia storica nelle sue decrepite istituzioni politiche e religiose. Esso aspira verso una Russia rinnovellata, purificata, che appaghi la brama di giustizia sulla terra, come nel cielo. La mistica tedesca non ebbe mai l'ideale della mistica russa, l’aspirazione indefinita verso la Città di Dio. Dal suo stato di passività e di aspettativa, la Russia deve con audace baldanza lanciarsi nel vortice dell’azione, ed edificare.
Nelle fiamme dell'incendio che devasta l’universo, il vecchiume dei tempi andati sarà in gran parte ridotto in cenere. La Russia rinascerà purificata dal fuoco, ma la sua rinascita si effettuerà mediante la rivelazione interiore del Cristo nell'uomo e nell'umanità. La profonda religiosità del popolo russo, che orienta sempre
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la psiche russa verso l’Assoluto, verso l’infinito, farà sì che il principio umanitario non si riveli sotto la forma di umanesimo, vale a dire, con tendenze negative in fatto di religione. Nell'Occidente l’Umanesimo traversa una crisi Che sconvolge gli animi; le più belle menti di Europa studiano i mezzi per risolverla. Nella Russia, la rivelazione dell'uomo sarà necessariamente una rivelazione religiosa, la manifestazione dell’uomo interiore. Nel suo spirito ascetico la Russia sarà grande e gloriosa.
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Abbiamo riassunto le originalissime teorie del Berdiaev sull’anima religiosa della Russia. Checché ne sia del suo stile apocalittico, e della sua fraseologia talora geniale, talvolta rozza ed urtante, vi è molto di vero nella sua analisi. La psiche russa è realmente un misto di contraddizioni: essa è realmente pervasa da una debolezza ingenita di sentimento, che il Berdiaev chiama femminilità. La religiosità è però il suo carattere dominante. Sarà una religiosità pagana, una religiosità superstiziosa, ma l’anima russa più di quella di altri popoli, sente il divino nell’umano, l’anelito verso l’infinito, lo slancio verso l’Assoluto. Ed è sventura che queste latenti ed inesauribili energie religiose non abbiano potuto svolgersi per la violenza esterna di ciò che, parafrasando le teorie del Berdiaev, io chiamerei la germanizzazione della coscienza russa. La burocrazia russa è una copia volgare di quella tedesca con raggiunta di tutti quei difetti che derivano dalla rudimentale civiltà della grande massa del popolo russo.
Il Berdiaev è sotto un certo aspetto il continuatore del pensiero del Solovev per quel che riguarda la religiosità del popolo russo. La rinascita religiosa della Russia esige una metamorfosi completa del suo organismo religioso e politico. Come il Cer-byscev, il Berdiaev propugna il nihilismo delle vecchie istituzioni. Sono queste che seminano di ostacoli la via maestra-tracciata dalla Divina Provvidenza alla Russia. La missione dei Russi è quella di rinsanguare e di ringagliardire la fibra cristiana delle nazioni che muoiono di consunzione religiosa. Onde conseguire questo scopo, i Russi saranno costretti di ripudiare il disastroso nazionalismo slavofilo, che si nutre di odio verso la civiltà occidentale, e che col Khomiakov non vede nell’Occidente che corruzione e barbàrie. La Russia non dovrebbe più essere una nazione asiatica od orientale. La Divina Provvidenza la lancia nel mare tempestoso della vita europea come un nunzio di pace e di rinnovellamento religioso. Il secolare conflitto tra le Chiese del-l’Oriente e quelle dell’occidente dovrebbe cessare grazie all’intervento della Russia che aprendo una breccia nel chiuso Occidente con la sua influenza spirituale, stringerà un nuovo patto di unione tra i popoli che barriere religiose da lunga pezza tengono divisi. Nel concetto dei messianisti russi, la Russia sarà dopo la guerra l’anello di congiunzione tra l’Oriente e l’Occidente, la ristoratrice del sentimento religioso, la banditrice di un ideale umanitario che varca le frontiere nazionali, ed abbraccia l'universo. L’anima slava personificherà una nuova fase del pensiero e della vita del cristianesimo, e la terza Roma slava sarà il faro religioso Che proietterà la sua mistica luce sulla terra fecondata per nuove idee dal sangue di milioni di vittime.
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Così ci raffigurano la Russia gl’idealisti russi del tipo del Berdiaev. Vi è fuor di dubbio dell’ottimismo in questa concezione mistica della Russia, che tuttavia potrebbe un giorno divenire una vivente realtà. L’elemento virile, che tiene imprigionata l’anima russa tra le sue spire di acciaio non lascia la sua preda. La burocrazia russa non sembra disposta a rinunziare a quei metodi di governo che atrofizzano in Russia tante nobili energie. Ma i reggimenti politici non sono eterni, c la Russia ha bisogno di respirare a pieni polmoni. Che cosa sarà l’anima russa quando i suoi ceppi saranno infranti, non siamo in grado di predirlo. Ma non vi è dubbio che le immense forze religiose della Russia introdurranno nuovi elementi di vitalità, di azione, di pensiero nel cristianesimo europeo, e che forse sotto l’aspetto religioso noi vedremo o i nostri posteri vedranno un giorno avverarsi il vaticinio di Voltaire: Cesi du Nord aujourd’hui que nous vieni la lumière.
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IL CRISTIANESIMO E LA GUERRA
La interessante inchiesta promossa da Bilychnis sui rapporti tra il Cristianesimo e la Guerra, illumina il fondo oscuro di molteplici tragedie spirituali, che si svolgono nella intimità di anime cristiane; le quali, vissute sempre nella adorazione di Ideali, tenuti intangibili e santi, han gridato d’orrore sotto i colpi della Realtà Infrangibile; sì da provocare un’affannosa volontà di luce, un inquieto domandare e un ansioso rispondere in un cumulo di problemi, che si possono riassumere così: «repugna al Cristianesimo — eh’è legge di Amore e di Pace — il concetto e la pratica della guerra? Può un cristiano volere la guerra, o soltanto rassegnatamente subirla? ».
E c’è chi si pone intransigentemente a destra e chi risolutamente a sinistra e chi, anche, si affanna a delimitare una via di mezzo che concili la tradizione cristiana e pacifista, con l’impeto di rivolta contro i calpestatori del diritto, con la travolgente ondata di italianità che afferra tutti i cuori e resuscita, fin nei più miti, l’imperioso orgoglio della stirpe.
Orbene, a me pare che, generalmente, la discussione basi su radici malferme; in quanto, anziché cogliere nella loro essenza i principi cristiani e coerentemente svilupparli, i disputanti si limitano a proclamare una loro aprioristica concezione del cristianesimo e a trarne infondate conseguenze; o si attaccano — a seconda delle proprie preferenze— a qualche frase del Vangelo, trascurando e altre frasi che suonino con quella contrasto e lo spirito generale del Vangelo in cui e per cui soltanto ciascun versetto s’illumina del suo vero significato.
Così, ad esempio, avviene all'on. Giretti — (neanche il suo contradditore, il Rosazza, a esser sinceri, corrobora la sua tesi con sicure argomentazioni) — per il quale il non occides « ha valore tanto per la vita individuale, quanto per la vita collettiva, colle sole limitazioni della legittima difesa e dell’affermazione doverosa dei più alti e perentori diritti » (l).
Le quali parole, pur nella loro proclamazione dogmatica, non documentate in nessun modo, hanno il solo pregio di essere vaghe e di prestarsi a tutte le interpretazioni; chè non risolvono nè l’ideale conflitto tra guerra e cristianesimo, nè le ragioni dell’attuale concreto conflitto fra i popoli, visto e considerato che ogni belligerante —- tedeschi e tedeschi cristiani compresissimi — stima di combattere per legittima difesa. E così è sempre stato per ogni popolo e per ogni guerra; e così, sempre, sarà.
Altrettanto inconsistenti sono, quindi, le attenuanti che alcuni cristiani più o meno interventisti, cercano — ferme restando le pregiudiziali contro la guerra —
(i) V. Bilychnis, anno IV, fase. IV: «Perchè sono per la guerra». Caratteristica, in proposito, per la fresca ondata di sincerità, una lettera del P. Ghignoni (Bil., Anno IV, f. V) .
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nelle ragioni umane o nazionali di questa guerra che, assicurano, sarà l'ultima, dopo la quale il Sole della Pace splenderà trionfale, per tutti i secoli.
Messa la discussione sul terreno delle « opinioni » e delle « aspirazioni » personali, o delle fantasticherie avveniristiche, è naturale che essa devii e si scomponga in una molteplicità di forinole campate in aria; le quali, se possono aver valore come documenti di vedute personali, non ne hanno alcuno in quanto giustificazione logica di esse.
A venire a capo di qualche cosa è necessario — io diceva — partire dai principi e svilupparli, considerandoli non astrattamente, ma nella loro piena concreta efficienza.
Chè, appunto, molti cristiani, insieme alla massa dei pacifisti, sono vittime di un singolare errore di prospettiva logica, che consiste nel considerare l’ideale come qual cosa di staccato dalla vita in cui realmente sorge e nella quale ha effettivo valore; nell’attribuirgli, quasi, una esistenza ipostatica, che non può risolversi in altro che in suono vano.
Singolare errore per cui, codesti cristiani, si pongono nello stesso angolo visuale che i rivoluzionari dell’89, i quali si accendevano per gli Immortali Principi, non curanti poi che la storia, anzi la loro storia, quella che essi con sanguigno entusiasmo febbrilmente costruivano, li stritolasse sotto il suo stesso cammino.
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Nella concezione cristiana l’amore, è vero, è il motivò dominante, essenziale. Ma l’amore, quale l'intendeva Gesù, non è mera contemplazione, verbosa aspirazione; bensì dedizione e insieme affermazione vigorosa; volontà di sacrifizio e di conquista: lotta.
Si tratta niente altro che di sviluppare con coerenza i sottintesi necessari del principio cristiano. La legge di amore si risolve praticamente nel fare il bene. Ma è cristianamente buono e opera bene, non chi guarda scorrere la vita, staccandosene, per non contaminarsi col male che vi è mischiato; ma chi, invece, partecipando al corso in pienezza di volontà, il corso si sforza di correggere e dirigere ai propri fini: e questi persegue con incessante volere. Il male non è qualcosa di cui ci si possa liberare colla teoretica buona volontà di tenercene lontani. Il male è così saldamente abbarbicato al bene — (è la condizione necessaria del suo esserci) — che pretendere di perseguire il Bene Puro, significa, in conclusione, negare il bene nella sua reale concretezza. — Non è, quindi, nè cristiano, nè uomo — nel senso vero della parola — chi si cansi a lasciar passare la corrente del male e creda d’aver adempiuto al suo compito, col fatto del causarsi, illudendoci di non averla ingrossata. Buono e, quindi, cristiano, sarà invece chi si oppone alla corrente e ne trionfa: — l’opporvisi è sempre, in qualche modo, un trionfarne.
Bene e Male, ciascuno a sè, sono due vuote astrazioni: la concretezza è la vita, in cui bene e male scorrono perennemente, inscindibilmente avvinghiati; sono due momenti del processo eterno dello spirito —distinguibili, non separabili nello spirito, eh’è unità —di cui uno è la conquista, l’altro la condizione della conquista. Impossibile concepire il bene scisso dal male, come è impossibile concepire la vittoria, senza ciò di cui ci si rende vittoriosi; come, dunque, è impossibile concepire l'Amore, il Progresso, la Pace e tutti gli altri Ideali,, se non cogliendoli nel fiume perenne e tumultuoso della vita.
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IL CRISTIANESIMO E L/\ GUERRA
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* ♦ ♦
Ma che significa vivere? Siamo d’accordo che non può significare un trascorrere inerte. Vivere è partecipare al corso delle vicende, con consapevole attività di soggetto: creare la vita. Ma che cosa d’altro è creare la vita se non accrescere il valore? Lo spirito, appunto perchè tale, si svolge, (solo la materia non- cresce, e quindi, non crea); il suo svolgersi implica un produrre qualcosa che prima non c’era— non c’era in modo esplicito — più precisamente: un accrescimento di valori. In che maniera l’individuo può accrescere, e accresce di fatto necessariamente, il valore, che si risolve poi in aumento di bene?
Il valore è affermazione, tanto più alto, quanto più l’affermazione è vigorosa. Dire affermazione e dire contrasto superato, vetta conquistata, è lo stesso: il valore, cioè, è là conquista di una vetta, superatene le resistenze.
Ciascuno di nAi si eleva ad un piano superiore di pensiero, tormentando il proprio spirito; pensare è chiarirsi la propria coscienza, un continuo risolvere problemi, un perenne drammatico dialogizzare tra un « io » che chiede e un «io» che illumina. Mirabilmente Dante:
Nasce..... a guisa di rampollo A piè del vero il dubbio; ed è natura Che al sommo pinge noi di collo in collo.
Legge suprema dell’individuo è costituirsi in personalità, essere lui. La posizione di sè, implica insieme la posizione degli altri e la opposizione con gli altri, dai quali l’individuo vuole e deve distinguersi. Opposizione che non è dualismo assoluto e irreducibile; ma che trova, anzi, la sua naturale composizione nel soggetto stesso, pel quale Tesserci degli altri è una esigenza insita nella sua stessa natura di soggetto, necessaria per Tesserci e lo sviluppo della sua personalità.
Ogni affermazione si raggiunge a traverso il contrasto: e tanto maggiore sarà il sacrificio compiuto, tanto più salda la conquista. La lotta, quindi, è condizione sine qua non per Tesserci e il crescere dei valori.
Orbene, la legge cristiana è legge di lotta, appunto perchè il suo fondamento è la vita, in cui soltanto l’ideale dell’Amore ha significato. In ciò sta la grande superiorità del Cristianesimo sul Budhismo, per cui la perfezione consiste nella stasi del pensiero, nell’annichilimento della vita. Ma il Cristianesimo porta le Nazioni che ¡’abbracciano alla liberazione spirituale e alla affermazione politica; il Budhismo le invilisce nell’ozio e le degrada nella schiavitù.
« Io non venni a portare la pace - annunziò Gesù - io venni a portare la guerra ».
Nè soltanto la parola del Vangelo suona condanna di una visione arcadica della vita, tutta beati languidi e sospirucci teneri; ma lo spirito che anima tutta la rivoluzione cristiana è pervaso da irrefrenabile impeto di rivolta, che è insieme dedizione sacrificale e volontà di vittoria.
Esempio divino: il Cristo stesso.
La sua vita è fuoco d’amore: e del suo fuoco accende la terra; è amore che non si appaga di contemplare il suo oggetto; ma lo investe e lo penetra di sè, per trasformarlo e farlo se stesso.
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BILYCHNIS
Gesù, scorgendo i profanatori del Tempio, non si tira da lato per téma che il fango imbratti la sua veste immacolata, ma interviene sdegnoso; nè si accontenta di parole roventi, ma — stupenda visione — fustiga, sublimemente impietoso, i deturpatori indegnissimi. Nè mai, o a fronte dei Farisei ipocriti o dei Seniori inveleniti e prepotenti, — i quali, tuttavia, erano investiti, di altissima autorità religiosa — Egli tace l’invettiva o rinuncia all’affermazione della verità, per sfuggire alla lotta. E serenamente, in pienezza di volontà, sale il Golgota obbrobrioso, a sfolgorare di lassù la gran luce nuova; insegnando, dunque, che nessuna vetta si conquista, se non salendo un calvario, se non abbracciando una croce.
Questa la legge cristiana.
Questa la legge degli individui.
Questa anche la legge delle Nazioni;
Gli individui non costituiscono un corpo di atomi scissi. Ogni uomo, oltre che tendere, come singolo, a raggiungere suoi fini ideali — personali e universali insieme — collabora a raggiungere con altri uomini certi fini collettivi, terreni. Cotesta collabo-razione, intendiamoci, non è qualcòsa di accessorio alla sua essenza di uomo: gli è necessaria, anzi; egli non può realizzare pienamente il suo valore di uomo, se non realizzandolo come socio. Il cittadino, cioè, non è un complemento, eliminabile, di uomo. I singoli individui si uniscono a formare un organismo — un sistema — in cui ogni elemento è correlativamente necessario all’altro, e tutti insieme costituiscono una unità, che non è una semplice addizione, ma una totalità di valorosi: la Nazione.
Ogni organismo, come tale, vive; la nazione, dunque, ha una sua vita, in cui le attività dei singoli organi che la costituiscono, debbono coordinarsi e subordinarsi.
Ogni organismo, se non vuole inaridire, deve rafforzarsi. Una nazione, come un individuo, che rinunci a rafforzare il suo organismo — cioè ad affermarsi — pronuncia, per ciò stesso, la propria condanna di morte: (si ricordi la paràbola dèi talènti).
Ogni nazione deve affermarsi. Affermarsi, lo abbiam visto, implica contrastare, vincere delle resistenze. Contrastare con chi? Evidentemente con organismi analoghi. con altre nazioni. La vita dell’umanità — cioè la civiltà umana — è legata alla vita dei popoli — cioè alla civiltà di ciascun popolo.
La civiltà è suono vano, se non s’incarna nelle espressioni concrete di vita di un dato popolo: — e c’è stata la civiltà assira e greca e romana, ecc.; espressione, ciascuna per un dato periodo storico, del massimo rigoglio della umanità— così come la perfezione è nulla al di fuori degli individui. Chi, dunque, vuole il Progresso, la Civiltà, non può volerli che nella particolare forma di progresso e di civiltà che un popolo ha assunto o tende ad assumere: e cotesta forma deve rinvigorire con ogni sua forza.
L’affermarsi, cioè, della Nazione, implica la rinuncia di ogni egoismo individuale: solo colla disciplinata subordinazione, col volenteroso sacrificio dei singoli, la Nazione può rafforzarsi e accrescere il valóre umano.
E la legge cristiana è, in tal modo, luminosamente riaffermata.
— Il contrasto, la guerra è male? Non più che il dubbio dantesco, necessario
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IL CRISTIANESIMO E LA GUERRA I?
perchè l’uomo si spinga ad un collo più elevato; non più che il Calvario atroce, che Gesù deve salire, perchè la nascente religione si corrobori e trionfi.
E quindi non male; e neanche bene astrattamente considerato; ma momento del processo del divenire eterno in che si concreta la vita degli individui e delle nazioni, in un perenne succedersi di luce e di ombre: e ciò che ieri era ombra si fa oggi luce e si rifarà ombra dimani, per brillare ancora, rivivificata, più fulgidamente.
Pensare che la lotta cessi o, il che è lo stesso, augurarsi che le nazioni finiscano di gareggiare e competersi, è augurare all’umanità il suo peggior male: il suicidio.
Il giorno in cui i popoli finissero di contrastarsi, addormentandosi nella placida letizia di una pace perpetua, vorrebbe dire che gli individui —- i quali nelle nazioni necessariamente organizzano le loro attività — avrebbero cessato di esser vivi, vorrebbe dire che la sfera della civiltà e del progresso umano, avrebbe segnato l’ultima ora!
Chi questo augura, tradisce la legge di Gesù, ch'è di vita e non di morte, di faticato trionfo e non di vile rassegnazione!
— Ah! se i devoti alla lettera del Vangelo, si penetrassero del suo spirilo vero, con ■quanto più commosso entusiasmo adorerebbero il Volere di Colui, che tutto muove e in tutto rivela il suo spirito di Amore!
Forse pochi, in questa tragica ora. ricordano o approfondiscono le parole che il Maestro, in plendore di luce profetica, rivolgeva ai discepoli di tutti i secoli e di tutte le nazioni, in quel meraviglioso capitolo ventesimo quarto del Vangelo di Matteo, che raccoglie in sintesi il dinamismo fatale della vita mondana e universa: « Dovrete sentire guerre e rumori di guerre; badate di non turbarvi, chè bisogna ciò accada ».
Meravigliose parole, il cui senso così limpidamente e serenamente cristiano, sorprende non sia colto da quelli, precisamente, che lo spirito cristiano intendono più da vicino custodire e rivivere.
Badale di non turbarvi:
Come grande l’ammonimento del Maestro Divino, come degno del « Re dei Secoli » che domina le tempeste e le governa a’ suoi fini.
Bisogna ciò accada: ecco la legge, necessaria e provvidenziale. Come la vera perfezione cristiana consiste non nella presunzione di una virtù acquisita; ma nello sforzo interminato che lo spirito fa per conquistarla; come il dovere individuale si riassume non nell’annichilirsi, ma nel raffermarsi quanto più energicamente possibile; così il progresso umano, il dovere delle Nazioni, non stanno nella cristallizzazione di una forma di civiltà, nell’adorazione di una vita incasellata in ¡schemi e irrigidita in una quiete stagnante, ma nel perenne fluttuare e rinnovarsi delle idee, nell'incessante contrastarsi dei popoli, per conquistare all'umanità vette più alte.
***
*
Noi, ora, questo vogliamo, questo dobbiamo volere: che la civiltà latina e sovratutto italiana, non sia sopraffatta; ma resista e trionfi.
E il suo trionfo, è questa la nostra fede di italiani, sarà anche il trionfo della civiltà umana, che nella nostra si riassume e risplende.
Vincenzo Cento.
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IMPERO ROMANO E CRISTIANESIMO
(Continuazione e fine. Vedi Bilychnit, giugno, 19« J, p. «MIV. - La comunità primitiva.
Effettivamente, poiché prima di procedere innanzi a considerare la storia esteriore del cristianesimo, non è male esaminarne anche la struttura interiore, avevano fatto qualche cosa i nuovi credenti per differenziare la nuova organizzazione dall’antica o avevano procurato d’imitarla in tutto per non suscitare opposizioni dalle autorità civili?
Per quanto vaghe e saltuarie ed imperfette siano le notizie che possiamo mettere insieme per la comunità cristiana del tempo anteriore a Settimo Severo (i), e sebbene non possiamo in questa breve nostra memoria trattare il tema come dovrebbesi, non è difficile ricavare dalle nostre fonti gli elementi che ci offrono il seguente quadro che noi confronteremo con quello che abbiamo dato per i Giudei nei vari paragrafi del cap. II di questo studio.
Naturalmente fin tanto che il cristianesimo vive sub timbracelo insignissima^ rdigionis, certe licitae non possiamo parlare di una potestà centrale, di un’organizzazione universale: la vedremo sorgere più tardi quando esso acquisterà nella lotta la sua individualità; traccie però se ne possono trovare già, nascoste, come si capisce, nelle maglie della rete giudaica. I primitivi missionari che sotto il nome di apostoli, profeti, dottori formavano per dir così il personale viaggiante che univa le varie comunità locali in un grande corpo universale (2) e la cui origine e derivazione dal giudaismo è concordemente ammessa [v. sopra II, 2], non sono altro che il nucleo su cui più tardi si erigerà il potere centrale di Roma. Sotto un eguale aspetto si può forse considerare l’inizio dell’istituzione dei sinodi.
Maggiori sono le notizie che abbiamo sulla comunità (xoivóv, corpus, oi X^gtwcvgì, ot Xs'fóf;.svoi Xsi<rrcavoi, Christianiy. essa ci si presenta relativamente presto come
(1) Per questo breve schizzo della società cristiana dei due primi secoli mi sono servito quasi unicamente delle poche fonti che ci rimangono, esclusi però i Vangeli e gli scritti apostolici perchè l’uso critico di essi mi avrebbe obbligato a troppe digressióni o a troppi commenti. Qualche rara volta ò dedotto dalle notizie seriori dati per i periodi E rimirivi ed ò rimandato, per comodità, i lettori agli scrittori moderni. Dalla semplice ¿tura dei dati raccolti si rileverà che non sono affatto dell’opinione espressa da O. Scheel in Kirche in Urchristentum ecc., per cui v. Rev. hist. et liti, rei., 1913, p. 576.
(2) V. Harnack, Miss e prop. del Crisi., pag. 238 segg.: cfr. ibid., pag. 561 segg.
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un ente in eui la parte preponderante è assegnata ai (seniores), « il
senato di Dio e il collegio degli apostoli», secondo Ignazio, ed in cui ben presto tutta l’organizzazione si impernia su di un triplice ordine gerarchico costituito da essi, dai diaconi e dal vescovo, senza dei quali non esiste l’szzX7iGià, ossia non esìste l’assemblea religiosa dei credenti (i).
Il vescovo (szìgzozo? = praepositus) (2) è il capo della comunità e corrisponde all’archisinagogo dello organizzazioni giudaiche e cristiane primitive,. le quali per qualche tempo adottarono l’appellativo cwaycoyai per le loro assemblee, sostituito ben presto con I'szzXt)««'. più corrispondente al linguaggio sacro ebraico e più differenziale dai vecchi credenti (3). Non vi è differenza, neppur di nome, tra i due ordini secondari, sapendosi che quelli che i cristiani chiamarono diaconi avevano per il giudaismo e per il cristianesimo l’appellativo più generico e più largo di servitori della comunità, szzXtìgwìs SeoG ifcr/jpsTc« come dice Ignazio (4).
La comunità à una cassa {arca), il contributo (stips) alla quale, pienamente facoltativo all’inizio, va facendosi sempre più obbligatorio per tutti gli aderenti, senza però che ne sia fissata la misura (5). Ciò costituisce l’elemento forse maggiore di distinzione, tra la comunità cristiana ed il collegio funerario col quale si è voluto identificarla: il senatoconsulto che autorizzava i collegi funerari imponeva l’obbligo di una contribuzione mensile (stips menstrua) per pagar la quale era permessa un’unica assemblea. Ora non consta affatto che da principio questa contribuzione fosse mensile, poiché anzi Giustino sembra escluderlo dicendo che quelli che potevano, e lo volevano, davano qualche cosa secondo il loro intendimento; dunque nulla di determinato nè per il tempo, nè per la misura; e Tertulliano che parla di un contributo mensile aggiunge « vel cum velit, et si modo velit et si modo possi!, apponit; nam nemo compellitur, sed sponte confort ».
Si aggiunga che l’assemblea permessa era, come dicemmo, mensile, mentre i cristiani non facevano mistero di adunarsi come e quando volevano, in ogni modo per lo meno sempre una volta la settimana, dapprima il sabato e, più tardi, la domenica (6) (cfr. sopra II, 3].
(1) Xwpc« tsvtwv (diaconi, vescovo, anziani) izzXr.«:a où zakeìrat. Ignat., Trall., 3, 1. Cfr. ibid., 7, 2; Filadelf., 4, 7, 1; Smirn., 8 e 12; — La comunità è chiaramente detta xowói» come collettività in Ignat., Filadelf. 1, e a Polic. 4, 3. La denominazione di cristiani non à bisogno di illustrazione, quella di 'oc X«-p,«cvoc X.si trova in Atenagora, ap., 1, (Cfr. Ignat., 2?o»ì., 3, 2, ecc.). Il termine latino corpus, seniores, lo trovi in Tertull., apoi., 39, che, come vuole lo Juster, I, 419, n. 1, mette in luce appunto la differenza tra la comunità cristiana e i collegi pagani, che molto differiscono nella forma giuridica dalla prima.
(2) La corrispondenza è forse più nel significato del vocabolo che nella denominazione. V. in ogni modo anche quel che dice Juster, I, 451, n. 2.
(3 V. sulla questione Harnack, o. c., p. 302 segg.
(4 Trall., 2, 3: cfr. con gli Hazon ebraici o sacrestani. V. il luogo di Epifane citato dallo Juster, I, 454, n. 4, e tutto il testo sotto c).
(5 V. Tert., ap., 39, e Giustino, ap., 1, 67: oc «tafcpoCvrt; òì zaì (tovkójMvoc xarà “poacptot1 2 * * * 6» ìz«gt&c ri’» iauTGÙ i ^oóX(?occ gìòwgc.
(6) Dig., 47, 22: « Sed permittitur tenuioribus stipem menstruam conferre, dum tamen semel in mense coeant, ne sub praetextu huiusmodi i Ilici tu m collegium coeant ». Sulla questione vedi Waltzing, Et. hist. sur les corpor. profess. chez lesRom., 1,141 segg.
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Essi anzi insistevano sulla necessità di adunarsi insieme (coelus, congregado il più frequentemente possibile, anche mediante inviti nominativi (i). di tenere banchetti sacri, di dedicarsi a letture sacre, canti e preghiere, non diversamente da quel che facevano i Giudei; Per dimostrare di aver diritto a non esser disturbati nelle loro cerimonie insistono non solo sul loro carattere puro, ma sulla loro regolarità poiché pregano per l’imperatore e per le autorità dello stato non diversamente dai Giudei e non diversamente da essi festeggiano gli anni versari imperiali con cer imonie del proprio culto, rivolgendosi per-la salute dei principi e dello stato a Dio (2).
Per quel che riguarda il culto imperialo i cristiani si sentono disposti ad accettare, come i Giudei, una formula di ossequio che concili la loro fede con le esigenze dello stato: sono disposti cioè a giurare per la salute dei principi, ma non vogliono giurare per il loro genio; non sono alieni dal chiamarli anche domini purché a questo appellativo non si dia il valore di dio (3). Insomma non fanno nulla di diverso da quel che fanno i Giudei [cfr. sopra II, 6] e si stupiscono di sentir dichiarare le loro adunanze illecite. È vero, esse non ànno avuto l’approvazione dello
Sulle adunanze dei fedeli, v. Giustino, ap., I, 65 segg., oltre il luogo citato di Tertulliano. Si ricordi poi Ignat., Magn. 9: uy.ztw àXkà zarà auptaxAv .Cfr. la Didaché,
14, 1, e sul sabbato e la domenica, Juster I, 280, n. 1; 308.
Secondo l’inchiesta fatta da Plinio le adunanze de’ fedeli ànno luogo « stato die ante lucem > e consistono in canti (< carmenquc Ch risto quasi deo dicere ») ed in impegni solenni di pratiche morali. Dopo di che l’assemblea si scioglie e si riunisce un'altra volta (.< rursus») per le agapi. Quel che Plinio stesso aggiunge subito dopo - quod ipsum tacere desisse post edictum menni, quo secundum mandata tua heterias esse vetueram » va inteso naturalmente dei pochi cristiani apostati, impressionati dall’ordine imperiale, non della generalità.
(r) Per la denominazione y. i luoghi citati dagli apologisti e ricorda l’esortazione di Ignazio a Policarpo (4, 2): i; ¿vjvtara- sàvia; Cr.ru. Cfr. nota 1
a pag. precedente e Juster, I, 416 n.
(2) Sul carattere, per dir così, ortodosso delle adunanze, insiste Tertulliano, ap., 39, che vuol dimostrare e sostenere come i cristiani non tramino alcuna insidia all’ordine di cose costituito, per la cui esistenza pacifica anzi credono loro dovere di contribuire e di far voti, (32): « Oramus etiam prò imperatori bus, prò ministris eorum et potestatibus, prò statu saeculi, prò rerum quiete, prò mora finis». Cfr. 30 e 35. Sul dovere, del resto, dei cristiani di pregare per le potestà secolari v. Pone., Philip., 12, 3, e Clem., ad Cor., 60, 4 e 61. Cfr. Juster, I, 346.
(3) « Sed et iuramus, sicut non per genios Caesarum, ila per salutem eorum, quae est augustior omnibus geniis ». Tert. ap., 32: « Dicam piane imperalorem dominum, sed more comuni, sed quando non cogor, ut dominum dei vice dicam ». Ibid., 34. Si vedano anche gli atti del martirio di Policarpo (ed. Lelong, p. 1380 142) c. 8: Ti yap zazàv i«n turò«-Kófw; Ka-cai. ecc. e io: ‘'Oy.ooov t/,v KaUaf»; 7óyv.v. Comesi vede Policarpo è più intransigente di Tertulliano: non vuol sapere nè di giurare per la fortuna dell’imperatore, nè di chiamarlo, se occorra, signore. L’apologista latino trova una formula conciliante nel giuramento per la salute degl’imperatori anziché per il loro genio: però neppur egli vuol chiamarli « signori », se lo si costringa a farlo, facendo di signore il sinonimo di dio. Gli Ebrei accettavano invece zuata; in luogo di òtasitr,-, sebbene vi fossero di quelli che ammettevano l’equivalente latino di questo (dominus) ed altri che rifiutavano qualunque titolo all’imperatore che potesse confondersi con gli attributi di Dio: cfr. Juster, I, 343. Pare poi che non intendessero neppur essi di giurare sulla fortuna del sovrano: v. lo stesso, tWd.» p. 344, n. 9.
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stato, ma vivono all’ombra d'una religione lecita e non vi è ragione perchè siano dichiarate illegali (i).
I fedeli, che si chiamano tra loro fratelli, sono veramente tali perchè ànno tutto in comune. Il danaro raccolto nella cassa sociale viene dispensato a scopi di beneficenza e di solidarietà: a nome e con il danaro della comunità si affrancano gii schiavi, che ànno fatto professione di fede cristiana, sebbene si consigli loro di non attendersi tutti dalla comunità un tale Sacrificio (2).
Per quel che riguarda la vita esteriore, essi respingono l’accusa di viverne appartati, là dove la loro partecipazione sia conciliabile con le leggi dell’onesto; nella milizia, nel foro, negl'impieghi, nel commercio ànno esteso le loro propaggini. Se non prendono parte agli spettacoli lo fanno appunto per una questione di principio, in ciò del resto non diversi dagli Ebrei che vi furono costretti poi, ma che in massima vi erano alieni (3) [cfr. sopra II. 5].
La comunità cristiana possiede del proprio i luoghi in cui essa si raccoglie (conventícula, conciliabula, szzXtjgÍ'xi), i cimiteri (zoqr/jr^pwt, coemeleria} in cui seppellisce i suoi morti e sui quali non respinge in nessun modo quel controllo delle autorità pagane cui le leggi la obbligano di farli sottostare (4) [cfr. sopra II, 3).
Così costituita, la « secta » cristiana (5) trova nel seno della religione madre, del giudaismo, le lotte aspre suscitatele dai privilegiati del culto nazionale che ne vogliono a tutti costi l’esclusione dal proprio seno. Da qui la questione aperta perennemente: quale dei due culti sia il vero Israello e se all’uno quindi od allí) Si cfr. Tertull., apoi., 21 con 38 e 39. Tertulliano à l’aria di dire: è vero viviamo all’ombra d’una religione lecita, ma perchè voi dichiarate illecita una comunità che a tutti i caratteri della liceità. Eppure da quella noi differiamo per tante cose! È vero che poi, forse temendo d’aver detto troppo (nello stesso cap. 21), afferma« nec alia magis inter nos et illos compulsati© est quam quod iam venisse non credunt (se. Jesum) ».
(2) I luoghi più volte citati di Giustino e Tertulliano sulla società cristiana e sui suoi doveri verso i fratelli, ci dispensano da altre testimonianze sul modo d’impiego dei fondi sociali e sui comunismo in essa vigente. L’accenno all’affrancamento degli schiavi è in IGNAT., Poi., 4, 3 : Mr, ìpàrwaav àri «5 zsusv cX«v3tp»ùo3at, S&S>.s: lùptSwotv izcSujuac. La cosa meriterebbe un attento studio; I’Allard invece (Les esclaves chréliens) l’à appena appena notata: è vero che mancano probabilmente i dati necessari per le deduzioni opportune, che sarebbero importantissime. Noto poi di passaggio che la V edizione (1914) del citato interessantissimo lavoro dell’Allard, per quanto dichiarata rinnovata, à la bibliografìa ancor in gran parte vecchia e, quel che è peggio, tutto il materiale delle iscrizioni è citato ancora con le vecchie raccolte Ordii ed Henzen: avrebbe costato tanto poco raggiornarlo con i riferimenti al CIL.I
(3) Sulla partecipazione alla vita sociale, v. Tertulliano., ap., yj e 42-43. Su ciò cfr. anche Ignat., Poi., 5. Per gli spettacoli oltre gli accenni noWapol. 38 è più che sufficiente l’opuscolo di Tertulliano stesso : De spectaculis.
(4) Per i cimiteri che secondo il diritto romano erano sacri ed inviolabili (Dig, I, 8, 6) il primo accenno, ch’io sappia, di carattere, per così dire, amministrativo è in Filosofu-tneni, 9, 12: per il controllo dei sacerdoti pagani si veda Juster, I, 484, n. 6.
Sulla denominazione degli edifici atti al culto (conventícula, conciliabula} si veda Juster, I, 4^8, n.
(5) Sull’impiego di » religio christiana» fatto per la prima volta da Tertulliano v. Harnack, o. c., p. 188. Pur senza darvi un valore di prova storica documentata per la mia tesi, chè occorrerebbe approfondire la ricerca, io o usato le due denominazioni per distinguere nettamente i due periodi.
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l’altro convengano i privilegi largiti dall’autorità romana. Il popolo eletto si è reso immeritevole dei benefici cui Dio l'aveva riservato, è schiavo ormai, è punito con la dispersione e con la distruzione di Gerusalemme e i cristiani ne sono i successori unici, per dir così autorizzati. Ma gli Ebrei non si lasciano vincere da tali argomenti, tentano di mettere in luce quel che li distingue dai nuovi credenti, tentano smascherarli, esporli alla persecuzione dell’autorità civile, acuendo ancor più l’odio vicendevole, che à, come si vede, profonde radici religiose, ma non meno profonde radici pratiche. In questo senso dunque ànno ragione e gli apologeti e gli autori degli atti dei martiri, più veritieri, di chiamare le comunità ebraiche fontes perseculionum’. ammettendo le naturali esagerazioni, ciò è giusto. Ma non è meno giusto il dire che la lotta si acuisce sopratutto nel momento in cui le due cellule stanno per staccarsi e per iniziare la vita l’una separata dall’altra (i).
(i) Sulla questione v. Juster. I, 227, 272, 294, n. 4 e 5, e cfr. ibid, 384, n. 1. Anche lo Juster. 1,422, n. 8 à veduto come noi la singolarità della questione che rampolla da questa, sulla tolleranza de’ Giudei e sull’intolleranza dei cristiani da parte dei Romani, ma non l’à esaminata a fondo, chè non doveva farlo, e l’à risolta con l’opinione del Mommsen sul ius coercitionis.
Sui Giudei provocatori nella letteratura agiografica, v. Juster, II, 199, n. 5.
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V. - L’individuazione religiosa del cristianesimo: la “religio”.
Un tale stato di cose adunque, così aspramente combattuto da nemici interni ed esterni, non poteva durare: negato il diritto di considerarsi come la vera comunità giudaica; impedita resistenza all’ombra di questa non solo dalle autorità romane, ma dall’orgoglio stesso che la coscienza dell’altezza delle proprie idee e della grandezza del proprio culto provocavano; oscillante nel trattamento giuridico, se non generale almeno particolare, dei vari governatori provinciali, cioè, il giudizio su queste collettività cui la folla attribuiva tutte le colpe e tutti i delitti, sebbene preponderasse il principio che il nomen solo costituiva un delitto in quanto esso svelava i colpevoli di proselitismo giudaico — i cristiani, consci di essere giunti ad un momento critico della loro storia, avevano iniziato con gli scritti una violenta azione per ottenere che le leggi comuni fossero loro applicate in senso favorevole, che fosse cioè riconosciuta la loro individualità religiosa. L’apologetica, chi ben consideri, troverà non esser altro che l’espressione di questo stato di malessere che caratterizza specialmente la società cristiana dalla metà del 11 alla metà del ni secolo: essa tende ad individuare il cristianesimo come culto, come dottrina, come corporazione; a staccarlo da qualunque organismo, a mostrarne, per un eccesso spiegabilissimo non solo per le ragioni intrinseche dei suoi principi religiosi, che erano imperialistici, ma benanche per le ragioni estrinseche dell’argomentazione polemica, la superiorità (1).
L’affermazione che il cristianesimo è al disopra di tutte le razze e di tutte le civiltà (Aristide); il tentativo di dimostrazione che la religione cristiana non è antifilosofica e antiellenica nei suoi principi (Giustino); la difesa delle assurde colpe attribuite ai cristiani e la vantata loro superiorità morale di fronte al politeismo (Atenagora); il ridicolo versato a piene mani sulla civiltà e sulla religione greco-romane per opporvi la grandezza e la serietà del cristianesimo (Taziano);
(1) Dicendo ciò noi prescindiamo naturalmente dal lato filosofico e teologico dell’apologetica che è sempre il lato che merita esame e studio, accanto al quale riteniamo però debba esser fatto risaltare quello realistico (elementi di fatto su cui si insiste) e quello giuridico (valore sociale che deve o può darsi a tali fatti). Naturalmente gli storici dell’apologetica (Harnack, Zòckler, Puech, Geffcken) trascurano questo lato che non è che ne’ particolari e non nel generale esaminato dagli studiosi del cristianesimo primitivo.
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l’analisi violenta e minuta dell’insussistenza delle colpe volute vedere nei cristiani, della vanità delle leggende mitologiche, dell’inanità dei titoli giuridici sotto cui si potrebbe procedere alla condanna dei nuovi credenti, della santità, delle qualità che la collettività o : semplici fedeli si riconoscono (Tertulliano); la larga e quasi ellenica dichiarazione della bontà dei principi di dottrina e di culto dei cristiani (Minucio) — a malgrado delle innegabili e indiscutibili confessioni che sfuggivano agli apologeti stessi sul carattere fondamentalmente antisociale del cristianesimo puro — non erano se non altrettanti argomenti per convincere la società romana che il cristianesimo aveva diritto, per lo meno come gli altri culti, ad un’esistenza indipendente e riconosciuta di comunità religiosa (i).
Fu dato ascolto alle sue insistenze e quando?
È ormai accettato da tutti i critici e gli storici del cristianesimo che l’editto di Costantino non à fatto che ripristinare la situazione in cui si trovavano i cristiani prima di esso, situazione che per alcuni, come già sappiamo, è giuridicamente netta e precisa, benché non ci consti in quali termini, mentre per altri è situazione di libertà in fatto e non in diritto (2). Ed è pure ammesso che questa situazione rimonta per lo meno ad un secolo prima, sebbene non si conosca a chi ne vada attribuito il merito di averla concessa e si sia d’accordo nel ritenere che durante questo periodo di tempo tale posizione della comunità cristiana ebbe vita ogniqualvolta non ne fu sospesa la validità con gli editti di persecuzione che colpivano appunto uno stato di cose determinato in fatto se non in diritto (3).
Per poter vedere se ci riesca di stabilire con qualche probabilità a chi si debba attribuire il riconoscimento della società cristiana e la forma in cui tale riconoscimento si ebbe« è necessario riprendere la storia delle relazioni tra l’impero dal punto in cui la lasciammo.
La politica di tolleranza, inaugurata formalmente dà Traiano, che non voleva ammettere in nessun modo le delazioni e che quindi faceva colpire i cristiani sol quando si confessassero tali ed ammettessero implicitamente di essere proseliti dei Giudei contro le disposizioni legislative vigenti — continuò pure sotto Adriano e sotto gli Antonini.
Senza entrare in particolari sulle questioni che fanno sorgere gli avvenimenti che ci mettono sotto di essi in condizione di valutare le loro idee e la loro posizione di fronte ai cristiani, si può asserire che la politica di Traiano non subì
(1) Si noti che gli apologeti si dirigono per lo più agl’imperatori, poi ai governatori ed alla folla dei credenti e che il fondamento di ogni apologia è questo: noi siamo perse-Saitati ed ingiustamente. Ne segue che l’elemento religioso, teologico, filosofico è suborinato a questo di carattere pratico.
(2) Si veda quel che dicemmo a pag. 5, e quel che si dice più giù a pag. 43.
(3) A me non sembra di dover spendere parole per dimostrare l’inanità di quel che alcuni sostengono, esser stata cioè la chiesa cristiana libera e riconosciuta in linea di fatto, non in quella di diritto. La nuova forma che assume la persecuzione nel III sec. per mezzo degli editti, forma perfettamente legale; il riconoscimento esplicito che vien fatto ne' tempi di pace delle comunità cristiane e dei diritti fondamentali per l’esistenza d’una persona giuridica; le attestazioni delle fonti attentamente esaminate escludono assolutamente che una tesi siffatta possa cogliere nel vero.
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(.Museo Capitolino, Roma) (Fot. Anderson)
SETTIMIO SEVERO 'IL PROTETTO DA DIO' (Tori., de pali., 2)
(Museo delle Tenne, Roma) (Fot. Alìnari)
GALLIENO "L'AMATO DA DIO' (Dion. Ale«. presso Eus., h. e., 7, 23. 4)
GL'IMPERATORI BENEMERITI DEL CRISTIANESIMO
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modificazioni di vera importanza; tutt’al più si può ammettere che con Adriano ed Antonino Pio si sia manifestata una tendenza anche più benigna per il fatto che questi imperatori avendo avuto rapporti più diretti con il giudaismo compresero come fosse effettivamente diversa la religione cristiana dalla giudaica, onde, pur non potendo concepire se non sotto la forma del proselitismo la posizione della prima nel mondo romano, cominciarono a sentirne l'individualità ed a richiedere quindi che colui il quale volesse accusare un cristiano trovasse il capo di accusa in un delitto specifico, non nella semplice dichiarazione di essere un proselito (1).
Si andava, quindi, già delineando uno stato di cose favorevole all’individuazione sociale e religiosa del cristianesimo mercè la condanna fatta con scrupolo e con precisione giuridica del vero e proprio proselitismo giudaico e grazie ai lievi indizi di un sincretismo religioso che avrebbe permesso ai cristiani di trionfare del politeismo e di rafforzare la propria comunità.
Ma se Adriano può sino ad »ih certo punto dirsi il primo rappresentante imperiale di questo movimento, e in qualche modo anche lo stesso Antonino Pio (2), altrettanto non può dirsi di Marco Aurelio che, ad onta della sua professione di stoicismo, fu nella forma così attaccato al culto officiale da non seguire più la via tracciata dai suoi predecessori nella politica verso i cristiani. Egli difatti ritornò per quel che ci consta, al principio fissato da Traiano pei i processi contro di loro, e quando non li colpì in questo modo, si servì per eliminarne l’influsso negativo che secondo lui esercitavano nella società, della nuova legge da lui emanata sui fondatori di nuove religioni (3).
(1) Per i rapporti tra Adriano ed Antonino Pio ed il giudaismo si veda lo Juster, I, 264 segg. Il primo vieta la circoncisione eguagliandolaallacastrazione e punendola come tale secondo la lex Cornelia de sicariis et veneficis; il secondo la permette solo ai Giudei ed ai loro figli. Ciò, secondo noi, spiega il rescritto di Adriano a Minucio Fundano, sul quale giudica rettamente il Manaresi (p. 145 segg.), mentre il Fracassisi (p. 15 segg.), parmi, non riesca a dimostrare quel che vuol sostenere, che cioè Adriano non modifica per nulla il punto di vista di Traiano; egli che fu un vero persecutore dei Giudei e della loro religione, li continua a considerar tali anche se passati al cristianesimo, poiché vieta anche a questi come a quelli l’accesso a Gerusalemme: Juster, II, 172.
(2) Adriano non può dirsi un sincretista in materia religiosa: l’indiscutibile fatto, però, che esistevano dei templi senza statue da lui denominati < Hadriani > (?) (v. Alex. Sev., 43».ù) fa pensare ad un principio filosofico-religioso prossimo al sincretismo, almeno ne’suoi ultimi fini. Delle disposizioni di Antonino Pio è più importante forse l’accenno di Melitone di Sardi (Eus., h. e., IV, 26, io) di quello che la nota lettera al «comune d’Asia », sulla quale parmi eccessivo lo scetticismo dei moderni (Manaresi, p. 155, e Fracassici, p. 161), almeno per la sostanza del rescritto che si accorda con le parole di Melitone.
Quanto alle condanne di Policarpo e di Lucio, fatte per il solo crimine di essere cristiani, non vi è da stupire, ad onta che cadano tanto la prima quanto molto probabilmente anche la seconda, dopo il rescritto benevolo attribuito ad Antonino Pio: in determinati momenti ed in date località ogni governatore poteva applicare le pene dovute ai proseliti del giudaismo che. per esser tali, venivano ad urtare contro le istituzioni religiose dello stato, dando prova di ateismo (si veda quel che si disse sopra a pag. 13).
(3) Il ritorno di Marco Aurelio al criterio fondamentale di Traiano risulta dalla lettera sui martiri di Lione; che però la condanna di alcuni cristiani (per es. di Giustino) fosse fatta in esecuzione del rescritto che condannava • qui novas sectas vel ratione in-
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Gli avvenimenti però di vario genere che segnalarono alla società romana i cristiani sotto Commodo ricondussero la concezione della religione cristiana nelle menti più lucide dell’impero verso la nuova corrente manifestatasi con Adriano ed Antonino Pio ed essa si affermò in modo solenne sotto Settimio Severo (i).
Le tardive testimonianze che pongono sotto di quest’imperatore una persecuzione di qualche importanza, si possono facilmente dimostrare come molto poco storiche: la tradizione delle «dieci piaghe» potè collocare sotto di lui la quinta grazie ad un duplice ordine di fatti che vedremo tra breve rampollare dalla storia religiosa del suo impero: conservatorismo politeistico e antiproselitismo giudaico e cristiano. Africano, di Leptis Magna, dove il paganesimo non dimenticava le origini semitiche della prima civiltà che era apparsa su quelle coste; marito di una sira colta e religiosa; soldato e funzionario imperiale che aveva girato il mondo ed avuto da per tutto contatto con genti e culti di vario genere — Settimio Severo si sentiva attirato verso un sincretismo religioso forse piti empirico che filosofico e quindi non poteva non vedere di buon occhio il cristianesimo. E difatti egli sempre e costantemente lo protesse e gli fu benevolo: non vi è nessuna attecognitas religiones inducunt, ex quibus animi hominum moveantur » (Paolo, Seni., 5, 21, 2) lo si rileva dai fatto che Giustino è proprio condannato per effetto di tale disposizione: si ur. Sica: to'- za: £:<a-. tw toO aytsziàtosi; «pata^aatt uaGTtyussvtic
àitay/sr.twGav, z£SaX-.zzv àwstwwvtt; 3:zv,v zatà rv.v tov vóuwv àzoXov!3'.av. È vero che il Neu-mann pone il rescritto testé citato (per cui cfr. DiG., 48, 19, 30) tra il 169 ed il 177, ma con ragione il Manaresi (p. 190,11. 1) crede die quello ricordato negli atti del martirio di Giustino debba porsi in un momento in cui Lucio Vero era assente. Ora questi, del periodo durante il quale fu prefetto di Roma Giunio Rustico (163-167), rimase assente dalla città nel 163-166, quindi si può stabilire che la data proposta dal Neumann sia modificata in quest’ ultima che concilia tutto e che è perfettamente d’accordo con l’interrogatorio che subisce Giustino, il quale conferma di aver insegnato la vera dottrina, quindi delle « religiones... ex quibus animi hominum moveantur ».
Non giudica perciò bene il Fracassimi (p. 166 segg.) su questo problema, togliendo ogni importanza alle notizie conservateci da Paolo e dal Digesto in relazione ai cristiani. À solo ragione quando ritiene che esse non possono spiegarci il martirio dei fedeli di Lione, che invece deve porsi nel numero dei delitti delie folle, più o meno largamente coperti dall’autorità dei governatori col sistema che conosciamo.
Il Giobbio (p. 121 segg.), anziché sondare cautamente gli avvenimenti del tempo di Marco Aurelio e la sua politica, polemizza col Negri a proposito della giustifìcabihtà della sua persecuzione: ma è inutile divagare con l’uno e con l’altro.
(1) Su questi avvenimenti che non possiamo neppur accennare, per non allungar troppo quest’articolo, v. Manaresi, p. 205 segg. Ci limitiamo qui a dichiarare che il martirio degli Scilitani (ibid., p. 209), come quello di Apollonio, sfrondato dalla leggenda tardiva (ibid., p. 213), non possono non attribuirsi alla persistenza della legislazione emanata da Marco Aurelio: basta leggere gl’interrogatori dei rei e la motivazione delle sentenze: «quoniain oblata sibi facilitate ad romanorum morem redeundi obstinanter persevera veruni ». I martiri scilitani dunque sono colpevoli di esser seguaci di novae sectae, di un’offesa al mos tnaiorum. Così pure Apollonio è colpevole di disobbedire ai senatoconsulto contro i cristiani (tó 6oyy.a tr- GvvzXr.r&v ioti? XotGTcav4ù- «r. éw«, c. 13 e 23) che potrebbe essere una cosa sola col rescritto imperiale. Negli atti è evidente la confusione tra un provvedimento generale e quello speciale del senato che si vorrebbe preso per Apollonio.
Che i migliori cominciassero a veder chiaro ormai nel così detto giudaismo cristiano lo dice Eusebio (h. e., V, 21, 1): ... ¿>; V.r, vm'-zw stri ì’óav,; xy y.iXa sXoytw za: -ji/it Stasa/wv “Xiioy; tiri tv// ooSv óaóat /_ <>;£?< otaviizx: tx za' zavyi«: «vtv)j:a^.
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stazione cristiana, prossima ai suoi tempi, che ne metta in luce anche lievemente l’opera contraria, anzi Tertulliano che visse sotto di lui e che non era certo tale da risparmiare nessuno, ne parla sempre bene, anche nelle stesse opere posteriori di data al periodo della cosiddetta persecuzione (i). In famiglia ed a corte ebbe dei cristiani che tenne cari, protesse alcuni di essi di dignità senatoria, a fronte aperta resistette agli odi furiosi della folla contro di essi (2). Non si deve dimenticare però che Settimio Severo è un soldato, che à, nella sua politica, la mira di conservare e di riorganizzare le istituzioni imperiali, onde non intende assolutamente indebolire in nessun modo la religione dello stato e comprometterne le sorti mercè la diffusione consentita del giudaismo e del cristianesimo che gli era affine. Ecco perchè, senza essere nè anticristiano, nè antisemita, anzi, avendo per queste due religioni delle disposizioni benevole, egli ne impedì il proselitismo. « ludaeos fieri sub gravi poena vetuit : idem etiam de christianis sanxit È vero che se delle leggi antigiudaiche noi siamo informati anche da altre fonti con qualche ricchezza di particolari, di quelle anticristiane non sappiamo nulla. Però qualche indizio ci mette nella condizione di restituirne lo spirito e di stabilirne l'importanza (3).
L’attestazione dello storico latino, difatti, ci permette di fissare un principio di notevole interesse : non solo, in conformità dei privilegi antichi, non fu proibito ai Giudei di conservare la loro religione, ma per la prima volta fu altrettanto stabilito per i cristiani. Ora se si riflette che questo consentimento ufficiale dàto al cristianesimo doveva condurre necessariamente al riconoscimento della società cristiana come ente autonomo, poiché veniva meno la prima ragione d'essere della sua esistenza, per dir così, parassitaria sul giudaismo: se si riflette ai dati di fatto che abbiamo già ricordato, secondo i quali i cristiani non solo furono tollerati da Severo, ma protetti e difesi dagli stessi odi della folla, onde per farlo dovè trincerarsi in disposizioni legislative di carattere liberale per non essere travolto contro la sua stessa volontà ; se si riflette chele disposizioni da lui prese in favore dei Giudei e contro il loro proselitismo e contro quello cristiano debbono essere state prese dopo il 202 in un corpo di disposizioni, motivate dall’esposizione fattagli in Palestina dagl’interessati e forse dai magistrati romani, che tendevano a disciplinare la libertà di culto di quei popoli, là specialmente in contrasto tra loro; se si riflette che tanto ciò è vero che vi eran pure compresi i Samaritani, cui non
(i) Lo stesso c. 2 del De pallio si può col Conrat, o. c., p. 11, citare a conferma di questa disposizione d’animo di Tertulliano che è talmente favorevole a Settimio Severo ed ai suoi figli da veder nell’impero loro la benedizione divina: «Quantum refor-mavit orbis saecuhim istud ! quantum urbium aut produxit, aut auxit, aut reddidit praesentis imperii triplex virtus [Settimio Severo, Caracalla, Geta, dalla fine del 209 all’ inizio del 211], Deo tot angustie in unum /avente ! quot census transcripti ! quot populi repugnati! quot ordines illustrati! quot barbari exclusi!»
(2) Tertull., ad Scap., 4. Non vedo il perchè si dovrebbe con il Manaresi (p. 233, n. 3) dubitare che queste testimonianze di benevolenza fossero date da Severo prima dell’impero: in primo luogo l’argomentazione di Tertulliano ne verrebbe diminuita nella sua forza probatoria, in secondo luogo l’apologeta non usa quasi mai denominare gl’ imperatori con i loro titoli e naturalmente si capisce perchè.
(3) V. su ciò Juster, I, 267 segg.
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era neppure negata la libera professione della propria fede, sibbene il solo rito della circoncisione, permesso unicamente ai Giudei; se si riflette che non più di un ventennio dopo il cristianesimo appare in maniera indiscutibile come ente che à facoltà di acquistare e possedere e che da questo momento si inizia una nuova politica imperiale verso di esso —- non si sarà di certo alieni dal vedere con noi in Settimio Severo, il constanlissiwus firincefis di Tertulliano, il fondatore della libertà cristiana (i).
La politica liberale verso le associazioni inaugurata da Settimio Severo, ci autorizza ancor più a giungere ad una tale conclusione. È vero che per noi la comunità cristiana non costituiva una società cultuale, e quindi un collegio vero e proprio, poiché doveva essere riconosciuta nella forma consentita alla comunità madre, dalla quale proveniva, alla chiesa giudaica ; pur tuttavia non si può negare che una politica benevola e larga verso i collegi costituisse un ottimo ambiente favorevole a quell'autorizzazione a vivere liberamente e in forma legalmente ammessa che noi crediamo sia stata- concessa da Severo ai cristiani. Ora sotto Severo non solo furono permessi i collegi dei tenuiorcs a condizione che si adunassero una volta al mese per la raccolta della contribuzione, ma per sua iniziativa si permise ai collegi autorizzati di raccogliersi in assemblea quando volessero « religionis causa » (2).
(1) v. Sever., 17, 1: « In Syria consuiatum inierunt (202)... In itinere Palaestinis plurima iuta fundavit. ludaeos fieri sub gravi poena vetuit: idem etiam de Christianis sanxit ». A quali Palestini si riferisce lo scrittore si può ricavare da Epifane e Gerolamo (v. Juster, I, 271, n. 3) e cioè oltre i Saraceni, gli Ismaeliti, i Samaritani, gli Idumei, gli Annamiti, i Morabiti. gli Omeriti (si cfr. anche il testo siriaco citato in Juster. I, 268, n.). Ora a noi consta che ai Samaritani era vietata la circoncisione (Juster, I, 267, n. 2) secondo la lex Cornelia de sicariis: ne Segue che probabilmente la circoncisione era vietata a tutti costoro e con essi ai Giudei, poiché fieri loro non era permesso. Sulla pena che sarebbe stata grave possiamo dire che ci consta come secondo Origene i Samaritani erano puniti con la condanna a morte, che sappiamo da una testimonianza posteriore a Caracalla (Juster, 1. c.) essere stata applicata per modificazione successiva, poiché la legge originale comminava la deportazione e la confisca dei beni. Ciò non di meno, dobbiamo ritenere che anche qui si facesse la solita distinzione tra gli alliores egli humiliores. vigente sopratutto dopo Marco Aurelio (Mommsen, Dr. pénal., Ili, 396): da ciò la frase vaga dello storico (gravi poena) per pene che erano differenti secondo la classe sociale cui appartenevano i colpevoli. Questo adunque per i Giudei, e quindi anche per i cristiani (idem): per gli Egizi c’era una sanzione speciale che metteva in vigore per essi il criterio del caso per caso (si veda Juster, I, 268 n.).
Naturalmente non posso trovare di mia soddisfazione le opinioni espresse dagli studiosi di cui parlo, a proposito di Severo, io vedendola ben diversamente: però mentre trovo insufficienti le pagine che dedica a lui il Fracassici (p. 232 segg.), panni buono il capitolo destinatogli dal Manaresi (p. 229 segg.) ed assolutamente meschino quel che ne dice il Giobbio (p. 124 segg.) che mostra solamente il suo antisemitismo in pure affermazioni gratuite.
(2) V. su ciò Juster I, 412, e Waltzing. II, 131 segg. Che il riconoscimento poi della comunità cristiana avvenisse insieme con il divieto di proselitismo cristiano si rileva da Tert., ad Scafi. 3: •... sicut et sub Hilariano praeside [a. 202-203, vedi Pauly-Wissowa Vili, 1599J cum de areis sepulturarum nostrarum acclamassent: Areae non sinl ». Questa manifestazione popolare contro il diritto che veniva riconosciuto ai cristiani di possedere il terreno in cui venivano postele loro necropoli — effetto dell’erezione in ente giuridico della società cristiana — doveva essere una delle forme di pressione popolare alle quali sappiamo da Tertulliano che Settimio Severo aveva saputo resistere (v. sopra).
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Del resto i tempi erano maturi per ciò: il sincretismo religioso che si andava affermando ogni giorno più portava necessariamente con sè il riconoscimento del cristianesimo come ente religioso a sè, ne faceva balzare la sua individualità religiosa e sociale. La quale però apportava un’altra conseguenza — e questa triste—: si iniziava cioè un nuovo periodo di lotta per il cristianesimo e questa volta non una lotta più o meno sporadica, più o meno parziale, contro gl’individui, contro il proselitismo giudaico di cui si rendevano colpevoli, non una lotta interiore della comunità ancor Binucleata nel giudaismo; ma una lotta generale, una lotta di religione contro religione, una persecuzione del politeismo agonizzante contro il monoteismo ognor più trionfante. Col sincretismo monoteistico che si rafforzava nel culto e nella filosofia il cristianesimo aveva la pace, trovava nella sua mirabile adattabilità il mezzo per esplicare la' sua rigogliosa vitalità e per rinvigorirsi alla conquista del mondo; invece ogni qualvolta il sincretismo declinava per opera dell’imperatore regnante, imbevuto ancora delle idee politeistiche tradizionali, l’unica religione che andava a dar di cozzo contro di una tale concezione era proprio il cristianesimo (1). Le altre dottrine sincretistiche non rifiutavano, anche se monoteistiche, il loro incenso agli dei di Roma, il loro culto all’imperatore; il giudaismo continuava a godere degli antichi privilegi; non rimaneva quindi che il cristianesimo, il quale pretendeva per sè la stessa tolleranza, laddove il politeismo era deciso a negargliela, a costo di qualsiasi violenza'. E poiché.ormai la comunità cristiana aveva avuto in tutte le forme legali il suo riconoscimento, occorreva con altrettanta formalità legale combatterla: ed ecco l'editto di persecuzione, la condanna dei capi delle chiese cristiánenla distruzione delle sacre scritture e, quando fosse possibile, dei luoghi sacri.
Così la storia primitiva del cristianesimo viene divisa dagli avvenimenti stessi che ne sono l’oggetto e dal diverso modo in cui essi si prospettano dinanzi allo storico moderno in tre periodi ben distinti che denomineremo:
Io il periodo (49-202 d. Cr.) del giudaismo o della formazione della comunità ; 2° il periodo (202-313 d. Cr.) della persecuzione o dell’individualità religiosa ; 3° il periodo (313-395 d. Cr.) della lotta per il primato o della libertà religiosa.
Nel primo la lotta contro il politeismo è individuale ed i mezzi che i due avversari adoperano sono quelli che usa il giudaismo e si usano contro di esso; nel secondo la lotta è collettiva, materiale e spirituale; nel terzo è spirituale e sol spo(1) I capitoli che dedica il Fracassine (p. 172-231) al sincretismo ed alla società cristiana dei primi secoli sono buoni generalmente, benché ci siano qua e là delle affermazioni che chiameremo per lo meno strane. Cito a caso: p. 203: « L’inevitabile conseguenza del militarismo dominante » (?),' p. 204: «Sotto Vespasiano, quando il servizio militare fu inibito agli Italiani • (?): p. 225: il monoteismo solare sincretistico è attribuito anche ai Severi, e ciò mi pare eccessivo. Non basta Aureliano?
Sulle relazioni tra sincretismo religioso e pace cristiana da una parte e rinvigorimento del politeismo e persecuzione cristiana dall’altra, v. anche Salvatorelli, Saggi di storia e ■politica religiosa, p. 108 segg., il quale sostiene appunto che assolutismo politico e orientalismo e sincretismo religioso procedono di pari passo.
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radicamento materiale, e grazie ad essa il cristianesimo facendosi scudo del sincretismo monoteistico ufficiale procede rapidamente verso la realizzazione dei suoi ideali sociali imperialistici e si impone con Teodosio all’impero (r).
Ma per dimostrare la bontà della nostra tesi per il periodo della persecuzione e per mettere in evidenza le forme sotto cui asserimmo essersi questa manifestata e le idee dei sovrani che la vollero, occorre seguirci brevemente nella storia di quel secolo calamitoso.
Dopo Settimio Severo sotto il quale non c'è persecuzione perchè quella che va sotto il suo nome è la semplice lotta contro il proselitismo cristiano che, come quello giudaico, non poteva essere permesso, noi giungiamo a Massimi no senza trovare una vera e propria persecuzione imperiale (2). Ed anche questa à più il carattere di un'opposizione politica al governo di Severo Alessandro di quello che un carattere religioso (3) : in ogni modo però colpisce i capi delle chiese probabilmente con regolare editto di carattere permanente e fondato sul principio stabilito da Settimio Severo contro il proselitismo cristiano (235-238 d. Cr.) (4).
E dopo di Massimino dobbiamo scendere sino a Decio per trovare un vero e proprio persecutore (250): l’editto da lui emanato doveva chiedere ai sudditi l’assoluta
(1) La divisione della storia del cristianesimo è fatta dal Buonaiuti (pag. 27) in tre periodi: dalle origini al 202, dal 202 al 250 e dal 250 a Diocleziano. La giustificazione della necessità del 20 periodo è nella persecuzione contro i neofiti che avrebbe inaugurato Settimio Severo: ciò è importante perchè dimostra come anch'egli abbia sentito dal 202 in poi qualcosa di nuovo. Il fondamento però delle divisioni è sempre quello dei due periodi, fino a Decio e da Decio in poi che seguono gli altri (Manaresi, p. 339; Fracassimi, p. 203, che pone la fine del primo periodo con la fine degli Antonini). La stessa divisione è stata anche adottata già dal Con rat nel già citato lavoro (p. 77 segg.), ma neppure in questa parte l’A. mi pare felice.
(2) Che non vi fosse acrimonia nel provvedimento antigiudaico ed in quello anticristiano lo dimostrano, per questo, le simpatie di Settimio Severo per il cristianesimo e dei cristiani per lui (Tertulliano informi) ; per quello, le disposizioni favorevoli per la partecipazione dei Giudei alla vita pubblica (Juster, II, 240 e 243) e la dedica fatta dai Giudei di sinagoghe nel nome suo e de’ suoi (lo stesso, I, 412).
(3) Sotto Severo Alessandro (e non .Alessandro Severo, come dicono ancora il Fra-cassini, p. 237, ed il Giobbio, p 129) non solo si à una politica benevola verso i cristiani ( «Christianos esse passus est », del biografo) mercè le sue idee sincretistiche in materia di religione, ma ancora il noto fatto del rescritto (rescrtysil) in favore di essi che pretendevano il possesso di un tratto di suolo pubblico per edificarvi un tempio, contro il collegio dei trattori che voleva costruirvi un albergo (v. Alex. Sev., 49, 6). Si noti poi che tutto ciò è in relazione con ia politica di Severo Alessandro a favore delle corpo-razioni d’ogni specie. Si veda sulla questione Waltzing, I, 154 e Manaresi, p. 299.
Si osservi ancora come la notizia del biografo di Severo Alessandro sia indirettamente confermata da Orig. in Matth., comm. ser. 39, da cui si rileva già sotto Massimino resistenza all’aperto di edifici per il culto. Del resto sull’esistenza dei cimiteri, delle basiliche e degl’immobili della chiesa africana allo scoperto, verso la metà del in sec., v. Mon-ceaux, Hist. liti. de l’Afv. chrétienne, III, p. io segg.
(4) Eus._. h. e. VI, 28: twv ìxxXiotwv áp/swa? ¿>c acTÍovc xatà
6i5a<Fza>.i«< àvacpiUsat «psa-Tàrrit. Non vedo quindi come possa sostenere il Fracassimi, p. 242, che la persecuzione fu parziale e dovuta ai governatori e non al principe. Val meglio quel che dice Manaresi, p. 308 segg.
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adesione al culto dello stato e ere tipu thctfossero in grado di soddisfare alle disposizioni imperiali stabiliva la nomina di commissioni locali composte di cinque membri sotto la presidenza d’un magistrato con l’incarico di raccogliere dinanzi a testimoni la professione di fede del cittadino e la prova materiale della sua adesione al culto dello stato. Particolari maggiori ci mancano, ma pare che anche in questo editto fossero in modo speciale segnalati alle autorità i capi delle chiese (x).
Valeriano (275) che ne segue l’esempio a breve distanza, rinnova l’imposizione del sacrifizio, vieta le assemblee cristiane, confisca i cimiteri (x° editto); successivamente (258) condanna a morte il clero, colpisce con la pena di morte e con la confisca dei beni i più illustri aderenti del culto cristiano (20 editto). Come si vede si tratta di una revoca completa della libertà data alla chiesa cristiana da Settimio Severo, pur ne’ limiti della sua esistenza attuale. Con Decio, da quel che ci consta, si tenta di richiamare tutti i cittadini dello stato al culto nazionale in una forma giuridica che, prescindendo dall'effettiva convinzione personale, copra come di una vernice la molteplice varietà delle religioni dell’impero. È ancora il vecchio spirito di Roma formalistico che parla per bocca di questo restauratore delle vecchie istituzioni. Con Valeriano le cose mutano: si tenta la distruzione delle comunità cristiane, dopo averne revocato tutti i diritti riconosciutile fino allora: diritto di riunione, diritto di possedere, diritto di professare la propria fede (2).
La reazione a questa politica, affermata così validamente da Gallieno, ci dimostra in modo tangibile come la posizione della chiesa cristiana fosse netta e perfettamente giuridica: altrimenti non sarebbero concepibili delle disposizioni di benevolenza così altamente proclamate in un momento in cui la semplice tolleranza, anche senza dar carattere ufficiale ai provvedimenti che la concedevano, sarebbe stata più che sufócente. Gallieno difatti riconosce ne’ vescovi i capi delle chiese e dà ordine che i luoghi del culto, in genere, ed i cimiteri siano restituiti alle comunità cristiane dallo stesso fìsco (3).
Un’altra conferma di questa situazione della chiesa, di comunità religiosa, cioè, regolarmente costituita e riconosciuta, la si à in un fatto importantissimo di cui vi è ricordo un decennio all’ incirca dopo la restituzione del cristianesimo al pristino stato voluta da Gallieno. Accenno al noto episodio della deposizione del vescovo di Antiochia, Paolo di Samosata, invece del quale era stato eletto Domno, cui
(1) Vedi il mio articolo Decius (cstr. dal Di*. epigr. di ani. rom., diretto da E. De Ruggiero, II, p. 1479 segg.), p. 8 e 9; e Fracassisi, p. 245 segg.; Manaresi, p. 335 segg.; Giobbio, p. 134 segg.
(2) Manaresi, p. 381 segg.; Fracassine p. 249 segg.; Giobbio, p. 149 segg. Gli atti dei martiri di Cipriano e Fruttuoso confermano la ricostruzione delle disposizioni legali che conosciamo per cenni dalle altre fonti.
(3) Su Gallieno, vedi Manaresi, p. 403 segg., ed anche, molto bene, Giobbio, p. 152 segg., che giudica con precisione dell'editto imperiale dal punto di vista giuridico, religioso e politico pur contro la critica dell’Harnack e del Górres, che sono completamente fuoristrada. Un'inezia: perchè il Manaresi, p.407, traduce il nome di AùprAco; Kvpmo« in Aurelio Girino? Il Giobbi©, che riporta i testi in latino per ragioni tipografiche, ma che dice di averli riscontrati con l’originale, dà Aurelius Cirenius! Il guaio è che troppi sono gli errori che gli sono sfuggiti in questo riscontro, anche nei testi più importanti!
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egli non voleva permettere l’ingresso nella casa della comunità. Per poter riuscirvi si ricorse al potére secolare, deferendo ad Aureliano, allora imperante, la risoluzione della controversia. Ora la decisione imperiale è importante quant'altra mai sotto tutti i punti di vista. Anzitutto lo stesso fatto dell'essersi da parte della chiesa fatto ricorso al potere temporale per una questione Che aveva caratteri religiosi prova che la chiesa godeva di tutte le libertà e di tutta la pienezza dei diritti che le spettavano come ente riconosciuto. Se, come si è voluto, essa fosse stata solamente tollerata ed avesse abusivamente usufruito di tanti diritti o questi le fossero stati consentiti come collettività e non come corpo che avesse determinata personalità giuridica, l’imperatore non avrebbe potuto prendere una decisione in merito alla questione sottopostagli (i).
La decisione poi di Aureliano è notevolissima: essa attribuisce il diritto di decidere della questione ai vescovi d’Italia e di Roma ; riconosce all’autorità secolare il dovere di dare esecuzione al giudizio. E difatti Paolo di Samosata viene allontanato dalla sede della comunità con l’intervento dèi braccio temporale. Donde Aureliano à tratto il principio per l’applicabilità d’un simile criterio giuridico che. Eusebio dichiara felicissimo? Secondo me non v’è dubbio, dalla legislazione speciale e privilegiata esistente a favore dei Giudei, il che ci conferma la posizione analoga che à in diritto la comunità cristiana. Quella assicurava al patriarca, come sappiamo [v. sopra II, 2] un diritto incontestabile in materia religiosa, un giudizio inappellabile e riconosceva l'obbligo alle autorità romane di dare esecuzione, là dove fosse necessario, alle decisioni sue o a quelle del sinedrio quando questo era in vita. Aureliano, sia perchè gli venne fatta conoscere l’importanza che avevano allora i sinodi vescovili, sia perchè vuole che il vescovo di Roma (= patriarca ebraico) e quelli d’Italia (= sanhedrin) abbiano preponderanza sulla chiesa cristiana per ragioni di opportunità politica evidenti, costituisce, agli effetti politici, se pur egli è il primo a farlo (2), l'autorità religiosa superiore del cristianesimo, della chiesa cioè cattolica, com’è cattolico l'impero, e le demanda la risoluzione della questione di cui non si sente competente, assicurandone poi l’esecuzione da parte dell'autorità civile (3).
(1) Manaresi, p. 417 segg., e Fracassimi, p. 258, non mettono abbastanza in rilievo questo fatto, sopratutto trascurandone il lato giuridico: il primo anzi giudica l’opera di Aureliano come «benevola» e come «atto di gentilezza»; il che veramente à poco sapor storico ! Giobbi©, pp. 155 e 167, forse va troppo in là, ma è sempre più nel vero degli altri.
(2) Oltre al riconoscimento dell’autorità dei vescovi come capi delle chiese, che si deduce dai provvedimenti di Gallieno e dalla sua lettera a vari di essi, riconoscimento che è, del resto, un effetto della erezione in ente della comunità cristiana, vi è molto probabilmente già con Severo Alessandro un riconoscimento dell’autorità centrale su-Srema del cristianesimo, poiché l’attribuzione del suolo pubblico alla comunità cristiana ovè avvenire appunto nella persona del suo capo.
Già i Giudei avevano, a quel che pare, in Roma un capo supremo (Justbr, I, 420, n. 4), onde era resa più facile ancora ad Aureliano l’applicazione della legislazione filogiudaica al cristianesimo.
. (3) Vedi sulla questione dell’esecuzione dei giudizi civili giudaici da parte delle autorità romane, Juster II, p. 99 segg.. p. 114 segg. Il caso di Paolo di Samosata poi, dal punto di vista giuridico, meriterebbe un più attento esame, che sarebbe forse fecondo
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(Da una moneta ingr. di un */j>
Il rappresentante del politeismo arcaicizzante (anl/crislianesimo)
DIOCLEZIANO ’■ IL TIRANNO ■
(Palazzo Senat. Roma)
(ns. fotogr.)
il rappresentante del sincretismo monoteistico
( filocristianesìmo)
COSTANTINO ' IL GRANDE "
I RAPPRESENTANTI DELLE PIÙ OPPOSTE DIRETTIVE RELIGIOSE ROMANE NEL IV SECOLO
(I9I5-VIIJ
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Dopo ciò parmi inutile spendere altre parole per dimostrare la bontà della tesi sostenuta: emerge ehiaramente da quanto abbiamo siri qui detto, che la chiesa cristiana era libera e riconosciuta come comunità religiosa e che ad essa si applicava il diritto vigente per gli Ebrei. Nè merita maggior fede la notizia che Aureliano intendeva perseguitare il cristianesimo : il sincretismo religioso di cui era stato l’inauguratore in una forma ufficiale e rigorosa ci fa propendere a vedere in lui uri uomo tollerante anche verso il cristianesimo che, alla fin fine, si sarebbe adattato a conciliare la sua fede con quella dell’imperatore, come aveva fatto sempre sin’allora e come poi avrebbe fatto sotto Costantino, quando questo gliene porse il destro. Cionondimeno non è improbabile che la forma un po’ troppo paganeggiante e politeistica del culto del Sole inaugurato da Aureliano e il suo assolutismo intransigente gli avessero alienato alla fine dell’impero gli ariimi dei cristiani, i quali non ancora provati da una nuova e lunga persecuzione, favoriti dalla libeità di cui godevano, non potevano sentire come fossero inconciliabili le proprie idee con quelle imperiali. Forse essi andarono buccinando che la lotta sarebbe stata immancabile, che Aureliano l’avrebbe certamente voluta, quando l’imperatore morì e così sfumò questa che venne pur catalogata tra le persecuzioni e, strano a dirsi, ad un tempo stesso dichiarata sventata per volontà divina (i).
E così si giunge a quella che fu veramente la vera e propria persecuzione più sanguinosa e più duratura che incontrò il cristianesimo nella sua strada, alla cosiddetta persecuzione di Diocleziano che accumulò su lui odi e maledizioni non meritate e contribuì a malfamarlo ingiustamente.
Ma prescindendo da ciò, quello che importa a noi far emergere qui, è il carattere degli editti di cui ci rimane memoria per confermarci quanto già rilevammo a proposito dell’esistenza giuridica del cristianesimo. Essi stabilivano difatti una serie di pene, in ordine ascendente, in seguito alle quali :
i° si procedeva alla distruzione del culto (templi, libri e arredi sacri o oggetti d’uso della comunità) e si notava d’infamia quanti vi appartenevano;
2° si colpivano i capi delle chiese per distruggere queste anche spiritual-mente, come erasi già fatto materialmente (obbligo per essi del sacrificio);
3° si escludevano i cristiani che non sacrificavano del beneficio dell’amnistia ; 4° si imponeva a tutti il sacrificio agli dei nazionali.
di altre deduzioni. L’autorità civile esegue la sentenza emessa dal potere centrale cristiano •e caccia con la forza Paolo dalla donnts ecclesiae; ma il giudizio dell’autorità religiosa è duplice: i° scomunica (Eus., h. e., VII, 30, 17); 20 sentenza sulla pertinenza della casa del vescovo alla comunità. Ora, sebbene le autorità civili, molto probabilmente, se :si trattava di scomunica giudaica fossero costrette a darvi esecuzione (vedi Juster, II, S. x59) — e quindi la medesima cosa si sarebbe avuta anche pei cristiani — l’esecuzione ella sentenza dell’autorità cristiana nella fattispecie à carattere di pura procedura •civile.
(1) Eus., h. e., VII, 30, 21, dopo aver accennato, come al solito, agl’istigatori della persecuzione, aggiunge -oXúc re w» ó wapà «tp: rwrou xóy*;.. Segue poi la narrazione della morte per castigo divino (stia &zr.).
Specialmente in tutta questa seconda parte della storia delle relazióni tra impero e cristianesimo io mi distacco dal Bouché-Leclercq, p. 310 segg., nel giudizio e nel-.l’esposizione dei fatti.
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Come si vede due sono i mezzi con cui si tenta di abbattere il cristianesimo : i° distruzione materiale e spirituale della chiesa come corpo; 2° divieto di professare la religione anche ai singoli individui punendoli nella vita civile prima, ed in quella fisica poi. È quindi questa la massima persecuzione per i suoi caratteri legali, per la sua intensità e per la sua durata (i).
Essa à la sua controprova nell’editto di tolleranza di Galerio del 311, il quale concede un’altra volta ai cristiani la libera professione della propria fede ed il riconoscimento della loro comunità con i diritti inerenti (2), e finalmente dall’editto di Nicomedia del 313 che con maggiore ampiezza determina le medesime cose, comprendendo nelle disposizioni di libertà tutti i culti dell’impero nel nome di un sincretismo monoteistico che rende alla divinità suprema l’omaggio che i fedeli delle varie religioni le rendono con riti speciali nel nome di speciali tradizioni (3).
(1) Mi sono occupato abbastanza della religione di Diocleziano in questa rivista a proposito del suo presunto mitriacismo (HI, p. 293. segg.) ed altrove (L’imperatore dalmata, p. 149 segg.) perchè qui voglia ritornarvi. Vedi sulla grande persecuzione Manaresi, S. 423 segg. (col quale dissento in alcune vedute: per esempio, sul dubbio emesso su 1-autenticità dell’editto contro i Manichei (p. 435, n. 2); sull’asserzione che Galerio volesse rimanere unico sovrano (p. 437); sull’asserzione che Galerio inaugurò una nuova politica provocando la persecuzione per servirsi di un partito contro l’altro, come poi doveva fare in senso inverso Costantino (p. 430), poiché prima di lui aveva fatto un simile conto forse Aureliano (cfr. Salvatorelli, op. cit., p. 113) e certo Massimino (vedi sopra pag. 39)]; Fracassimi, p. 259 segg. (che non à ben chiaro il concetto della religiosità dioclezianea (p.261) se sia cioè neoterico o tradizionale, sul che vedi il mio lavoro, citato in principio di questa nota; e che attribuisce a Diocleziano un’intenzione di servirsi del cristianesimo a intento politico ciò che non credo nessuno possa vedere in lui (p. 262)]; Giobbio, p. 197 segg. (à accanto a buone pagine, ove riporta opinioni o delle fonti o di altri, cose inutili (come la polemica con quegli studiosi non recenti che per spiegarsi la persecuzione ricorrevano senza alcuna ragione ad ipotesi di congiure politiche o di tendenze rivoluzionarie; p. 206 segg.), o, quel che è peggio, errate (come i dati storici e cronologici sulla politica di Diocleziano e sulla elezione dei Cesari (p. 198 segg.); le intenzioni oscillanti della politica religiosa imperiale (p. 203 segg.); la confusione tra l’editto contro i Manichei e quelli anticristiani (pp. 204 e 207); un’affermazione che Diocleziano aveva assunto il nome di Jovis Diocletianus (p. 205), ecc.)].
(2) « Ut denuo sint Christiani et conventícula sua componant » (Lact., de m. per., 34, 4). Diciamo di passaggio che forse nella prima parte dell’editto (§ 2) si potrebbe, secondo noi, vedere l’accenno al periodo «giudaico» del cristianesimo, anteriore cioè all’individuazione sua ed al suo riconoscimento : «... ut non illa veterum instituta seque-rentur, quae tòrsi tan primum parentes eorundem constituerant, sed pro arbitrio suo atque ut isdem erat libitum, ita sibimet leges facerent quas observarent, et per diversa varios populos congregarent ». Certo è che non si deve vedere in questo periodo, come vogliono alcuni, un intendimento di Galerio di ricondurre il cristianesimo alla sua purezza primitiva! Così giudica Giobbio, p. 223 segg., che chiama l’editto un editto di tolleranza, mentre, come dicemmo, non è che un editto di libertà come tutti gli altri che lo precedettero e che lo seguirono. Il riferire le suddette parole con il Fracassimi, p. 269 segg. — che considera l’editto stesso con ben altro giudizio e naturalmente con maggior senso di storicità — alla religione dei padri non mi pare affatto possibile. Come al solito piuttosto indeciso è Manaresi, p. 482 segg.
(3) Neppure su Costantino e sulla sua riforma religiosa io insisterò qui, essendo ai lettori ben note le mie idee in proposito, contrarie in genere già da tempo a quelle della maggior parte degli altri studiosi e ora più che inai rinvigorite dalle ricerche, i cui risultati sono esposti in questo lavoro. Al solito il Manaresi, p. 493 segg., si mostra piuttosto
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Tutta la legislazione in favore della chiesa cattolica che si inizia con Costantino e sulla quale intrattenni altra volta i lettori di questa rivista, trova i suoi < precedenti », di cui già da tempi antichissimi si mostrava scrupolosa ricercatrice l’amministrazione romana (i), solo nella concezione dei rapporti tra il cristianesimo e l’impero, quali li abbiamo fin qui delineati (2). Essa è in modo speciale calcata sulla legislazione privilegiata vigente per i Giudei, ai quali gradatamente la religione a mano a mano trionfante fa una posizione sì di eccezione, in conformità delle leggi dell’impero, ma sempre consentanea alle proprie teorie teologiche ed alle proprie affermazioni di imperialismo (3). Basterà accennare a questo proposito qualcuno dei punti più importanti di tale legislazione per convincere facilmente chi non conservi pregiudizi nè storici, nè religiosi.
La giurisdizione civile dei vescovi che è concessa ai cristiani nel 318 non è che un’applicazione della legislazione vigente già per i Giudei che avevano la piena libertà della giurisdizione stessa, tanto è vero che quando essa verrà loro tolta, verrà pure tolta ai cristiani (4).
La manomissione degli schiavi in chiesa, concessa nel 321, non è che l’applicazione di quanto era concesso ai Giudei di fare nelle loro sinagoghe ad imitazione di quel che gli altri facevano ne’ templi (5).
Non meraviglia affatto di veder nel 320 messe a disposizioni dei vescovi che si recavano ai concili il cursus publicus, quando si pensi a tutta l’opera di aiuti e di protezione che i Romani prestavano ai Giudei per il trasporto del loro danaro sacro, per render liberi i pellegrinaggi a Gerusalemme, per garantire la libertà delle loro riunioni e così via (6).
incerto sul giudizio dell’opera di Costantino, sebbene indubbiamente non ammetta nessuna delle mie idee in proposito. Molto meglio, per quanto le sue pagine non siano prive di errori.scrive di lui il Fracassimi, p. 280 segg. Quel che dice su di esso Giobbio, p. 225 segg., è naturalmente così enorme anche nelle deduzioni che ne trae che non merita l’onore di una qualsiasi discussione, tanto più che è mescolato ai più grossolani errori storici ed alle maggiori petizioni di principio. Sono invece perfettamente d’accordo con lui là dove egli non è d’accordo con se stesso, dove cioè (p. 296) non giudica il cosidetto editto di Milano un’innovazione, poiché riconosce che lo stato della chiesa era anche con Costantino quello che era stato sin dal principio del 111 secolo- In genere, del resto, il Giobbio à per lo più ottime osservazioni quando commenta fatti o documenti dal punto di vista giuridico.
(1) Per un’opposizione ai «precedenti» così validi sempre nell’amministrazione romana, si veda Liv., IV, 4, 1, in un discorso naturalmente imaginato, ma, cionondimeno, anzi forse appunto perciò più conforme al carattere romano più recente: « quid postea? nullane res nova institui debet, et, quod nondum est factum... ea, ne si utilia quidem sunt, fieri oportet? ».
(2) Per queste ragioni, come dissi altra volta (La politica rei. di Costoni., p. 11 segg.) io non sono dell’avviso di Bouché-Leclercq (p. 330), dell’ERHARD, Dos Christentum in roni. Rcichc, ecc., p. 6 e 42, e di altri, che la politica di Costantino costituisca un brusco voltafaccia.
(3) Vedi sulla posizione giuridica del giudaismo sotto gl’imperatori cristiani l’opera dello Juster e, riassuntivamente, quel che egli ne dice in I, 226 segg.
(4) Si veda quel chedissi in questa rivista III, p. 101 (p. 19 dell'estratto) e sì cfr. Juster, II, p. 93 segg.
(5) Vedi questa rivista III, p. 100 (p. 18 dell’estratto) e cfr. Juster, II, p. 81 segg.
(6) Vedi questa rivista III, p. 101 (p. 19 dell’estratto) e si veda sopra II, 6.
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L’esenzione dai carichi pubblici, benché la legislazione soffra delle oscillazioni, è comune al clero cristiano come a quello ebraico per le medesime ragioni, salvo ne' momenti di maggiore crisi del decurionato [cfr. sopra II. 2 e 3I.
Persino la situazione privilegiata che si crea al eattolicismo di fronte alle sette dissidenti non è se non l'applicazione della medesima disposizione che riconosce una comunità ortodossa ufficiale ebraica ed alle sette solo alcune libertà [cfr. sopra II, 3]: è una forma di riscontro, insomma, al principio di riconoscere un potere supremo centrale per i cristiani come per i Giudei e ciò per le già dette ragioni di libertà e di ordine pubblico (1).
Insomma nulla ci costringe a vedere nella legislazione costantiniana per i cristiani, come già dissi altra volta, delle novità o dei tralignameli dai principi di quel sincretismo religioso monoteistico che fu il suo scopo supremo in questa parte del suo programma di governo (2).
(1) Vedi questa rivista III, p. 102 (p. 20 dell’estratto) e cfr. Juster, I, p. 450 segg. II, p. 25S seg.
(2) Alcune testimonianze dello Juster, I, 280, n. j. e 353, n. 5, mi mettono in grado di completare qui quanto già altra volta sostenni a questo proposito : l'adorazione della statua imperiale persistette a lungo, tanto che nel 403 ancora si protestava contro tal forma di ossequio indegna d’un cristiano; l’istituzione della festa del sabato, oltre di Snella della domenica, è anche per altri (Zahn) una prova del sincretismo religioso di ostantino. Ora è strano osservare — e non depone a favore della loro opera di storici — come gli studiosi del cristianesimo, anche recenti, omettano tali fatti e preferiscano foggiarsi un Costantino ad usum Delphini, sul quale, non si sa perchè, si debba giurare. L’opera invece del grande imperatore ora più che mai non appare diversa da quella che esplicarono tutti i sovrani che permisero al cristianesimo di vivere, a cominciare da Settimio Severo : perchè la sua fama salisse in maggior onore occorsero due fatti che non ebbero la ventura di avere gli altri: ch’egli venisse cioè dopo una grande lunga sanguinosa persecuzione ; che questa fosse l’ultima e la più tenacemente impressa nelle menti cristiane.
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VI. - Conclusione.
Non è nei limiti del mio lavoro di seguire la storia del cristianesimo primitivo nella sua lotta per il primato, tanto più che degli studiosi le cui opere mi ànno offerto l'occasione di manifestare in contrapposizione alle loro le mie idee sull’argomento trattato, il solo Giobbio à continuato la sua ricerca sino al 476 e ciò senza alcuna ragione, perchè nè il 476 è un termine di storia civile che abbia valore, all’infuori delle convenzionalità (1), nè, tanto meno, è una data che abbia importanza nella storia del cristianesimo (2). Preferisco quindi aggiungere poche parole al mio studio a mo’ di conclusione.
Le opere recenti venute alla luce in Italia sulle relazioni tra il cristianesimo e l'impero romano offrono il vantaggio, in generale, di una diligente esposizione della questione, se non in tutti i termini in cui essa si presenta, per lo meno ne' maggiori. Raccomandabile specialmente sotto questo aspetto è il lavoro del Ma-naresi in cui la media cultura troverà più di quanto generalmente si richiede per conoscere questa magnifica pagina di storia che a moltissimi anche dei migliori è sol nota per sentito dire. E raccomandabile riuscirà ancor più il suo lavoro a quanti vogliono non urtare ne’ gravi ostacoli che per i credenti ortodossi solleva la storia del cristianesimo primitivo, tanto è sapiente la sua esposizione e prudente il suo modo di contenersi dinanzi ai problemi insidiosi. Forse ciò costituirà da parte degli specialisti un accusa e da parte degli ultraortodossi un torto: sia pure, gli rimarrà sempre il merito di aver senza gravi difetti reso accessibile a molti cose, come dissi, ignorate dai più ; se gli si rimprovererà che la forma è troppo prolissa.
(1) Ò posto la fine del 30 periodo della storia primitiva del cristianesimo con Teodosio, perchè in quel torno di tempo credo debba porsi anche la fine del mondo antico, come già sostenni nel mio saggio sulla fine dell’era romana (in Xenia Romana, Roma, 1907, p. 69 segg).
(2) Tutto ciò che il Giobbio scrive degli avvenimenti dopo Teodosio il Grande, sopratutto (p. 445 segg.), è cosa che à rapporto col suo tema « chiesa e stato », non con quello degli altri studiosi del cristianesimo primitivo e col nostro. Quanto alle sue idee sulle persecuzioni dei cristianesimo trionfante, sui rapporti tra la Chiesa e lo Stato e vja dicendo, non è qui il luogo di entrare in discussione: naturalmente non mi sento in nessun modo di condividerle!
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che una gran quantità di pagine sulla letteratura cristiana primitiva è superflua e che è troppo larga la messe di atti di martiri riportata, egli potrà bene rispondere ehe à contribuito di certo alla conoscenza (ed in altri al desiderio dello studio diretto) di pagine belle non di rado per stile, spesso per sostanza, sempre per virtù: ed avrà ragione.
Più conciso, più scientifico — e quindi non atto ad essere letto se non dai già iniziati — il lavoro del Fracassini, che si mostra ben informato e buon critico delle opere dei moderni (ciò che fa di rado il Manaresi il quale, adottando il sistema di porre in fine la bibliografia, dimentica spesso che è un torto il non dimostrare ai lettori l’erroneità d’un’opinione corrente, specialmente se molto nota) — à il difetto capitale per un’opera scientifica, di mancargli l'idea motrice, il fatto nuovo da esporre e da far notare : le poche novità ch’egli tenta non sempre sono resistenti anche ad una critica benevola. Si tratta insomma d’un ottimo corso di lezioni universitarie e non altro.
Il che invece non può dirsi, neppure nel senso ortodosso il più rigoroso, del lavoro del Giobbio che è sì un manuale di carattere apologetico della tradizione ecclesiastica cattolica, ma disgraziatamente neppure sotto questo aspetto raccomandabile: è mia opinione, che a sostenere la tradizione si debba impiegare più critica e più dottrina di quello che non sia necessario per... criticarla. Io, per esempio, credo di aver dimostrato che talvolta sono d’accordo con lui e con la tradizione, ma per vie ben diverse e, non esito a dirlo senza modestia, per vie a me più faticose che a lui. È vero che egli à la fede e gli basta, ma ciò è troppo poco per uno storico ed anche per un apologeta, se anche gli procura l’omaggio di quanti sentono l’efficacia d’una fede che loro manca e ne ammirano la gagliardia (i).
Della ricerca del Buonaiuti, si può dire invece il noto ex lingue leonem perchè i due elementi che ne fa emergere (l’odio delle folle come causa provocatrice delle persecuzioni ed il millenarismo come tendenza di una parte dei cristiani avversa alla società) sono elementi che sono costruiti su basi solide e larghe, ma che nello studio delle relazioni tra l’impero ed il cristianesimo acquistano solo un carattere subordinato, essendo fatti che, concorrenti con altri, spiegano numerosi momenti del grande periodo, senza però essere tali da mettere in piena luce tutto il quadro.
A far la qual cosa, a mio modo di vedere, i critici di cui ò parlato ànno avuto, come dissi, il torto di dimenticare il nuovo punto di partenza stabilito dal Bouché-Leclercq per la ricerca e di considerare, come ò procurato di fare io, il problema da quel nuovo punto di vista. Se, anche con l’aiuto della magistrale opera dello Juster, si tenga conto di esso, lo si coordini con le dovute forme giu(i) Farò a meno di osservazioni sull’esposizione e sulla forma, non ritenendo dovere del critico storico il richiedere agli studiosi di scrivere o narrare su di una falsariga più o meno retoricamente convenuta. Mi permetto però di ricordare che trattandosi d’un libro che à forma se non intenzioni scolastiche, non solo lo stile dovrebbe essere scevro di confusioni e di errori, ma anche la stessa veste tipografica, che nel Giobbio è scorrettissima, tanto che a questa scorrettezza io amo credere debbano attribuirsi pur le une e gli altri (così, per prova solamente, cito: pp. 87, 95, 122, 130, 169, 194 seg., 230, 247, ecc.).
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ridiche e non si rigettino gli elementi parziali che vennero in luce dalle altrui ricerche si avrà ben chiaro, se non m’inganno, l’importante problema dei rapporti che corsero tra cristianesimo ed impero.
I cristiani sorsero come setta giudaica e come tale si mantennero e nella vita interna ed in quella esterna fino a quando la lotta che nell’una duravano già da lungo tempo con i Giudei, nell’altra con il mondo che li attorniava, non portò alla loro individuazione religiosa e sociale, ottenuta con Settimio Severo in forma giu-ridica.
Naturalmente però questo riconoscimento non potè estendersi al proselitismo e la società cristiana si trovò colpita nella sua forma più vitale. Al «fiunt, non nascuntur Christiani » di Tertulliano veniva a rispondere il « fieri vetuit » dello stato. Ne era necessaria conseguenza la persistenza della persecuzione che fin’allora si era accanita sugli individui, non sulle comunità cristiane. Queste erano sette ebraiche che non avevan ragione di incontrar ostacoli nella loro vita regolare, ma quelli erano proseliti del giudaismo, che li respingeva: bastava quindi che si dichiarassero cristiani (nomcn) per essere colpevoli dinanzi alle autorità, dello stato che non volevano proselitismi. La larga messe di odio che i Giudei raccoglievano intorno a sè, che aveva suscitato persecuzioni vaste e numerose, che si manifestava in tutti i momenti ed in tutti i luoghi, circondava ancor più questi nuovi Giudei, più intransigenti degli stessi Giudei, e provocava scoppi d'ira pubblica violenti e spesso contrastanti a tutte le disposizioni vigenti. Per questa ragione, per speciali tendenze dei governatori misoneisti, per odi di parte, per invidie religiose di pagani e di Ebrei si avevano persecuzioni anche quando i criteri vigenti non lo avrebbero dovuto permettere: il diritto d'imperium, il ius coercitionis dei vari funzionari dello stato coonestavano cose inammissibili con i principi fissati nei rescritti che gli imperatori emanavano per disciplinare la difficile materia.
Ed una tale forma di persecuzione continuò anche quando affermatasi la chiesa come comunità avente personalità giuridica regolare, la lotta fu intrapresa contro di essa e non più contro i fedeli individualmente: alle cause preesistenti, come testé dicemmo, di persecuzione, sempre agenti, si unì quando il sincretismo del sovrano regnante non concedeva una larga tolleranza anche del cristianesimo, la necessità che aveva il politeismo di abbattere il rivale temuto. Era già troppo che stesse contro di lui il giudaismo: l’antichità dei privilegi concessigli, la sua potenza numerica, il principio di nazionalità parlante a suo favore, facevano sì che non si potesse annientarlo. Si poteva però annichilire e distruggere il suo proselitismo e quella sua nuova forma che qualcuno aveva voluto e voleva libera e indipendente come il giudaismo, con mente, sia pur filosofica, ma non pratica, ed allora si intraprendeva la lotta, non concedendo quartiere.
Si aggiunga che la corrente « millenaristica » viva nel cristianesimo sin dalle origini, contro cui il buon senso opportunistico o meglio di adattabilità si era sempre sollevato, agiva nel senso di acuire la lotta, inasprendo i caratteri antisociali della dottrina del fondatore. Avevano un bel da fare i capi a vietare, a impedire, a sopprimere per dir così, il martirio spontaneo, l’offerta pazza di se stessi
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come vittime al potere politico imperante — esempi se ne avevano da per ogni dove e rendevano ancor più difficile la conciliazione tra l’impero ed il cristianesimo (1). Se non che l’affermarsi e l'espandersi del sincretismo monoteistico offrivano alla chiesa il destro di adattarsi ognora più alla vita sociale che la fasciava e la modificava e non fu quindi se non dopo che in un’ultima lotta sanguinosissima si combatterono i principi di intransigenza con quelli di transigenza, che vinsero questi e il cristianesimo ebbe la via libera.
Raccolta nella riconosciutagli libertà, messa alla pari degli altri culti dello stato, ossequiosa del vago sincretismo monoteistico che era tutto ciò che lo stato ormai chiedeva ai vari credenti sotto la forma del culto imperiale, la nuova religione ebbe finalmente la pace e preparò il suo trionfo. Ricca di elementi imperialistici li esplicò gradatamente tutti ed in breve volger di anni, neppure un secolo, ebbe la supremazia su tutte le religioni e si impose.
Ecco la storia primitiva del cristianesimo, secondo il mio modo di vedere; storia di mirabile adattabilità, ma pur storia di grandi eroismi, storia di innegabile finezza politica, ma pur storia di notevole gagliardia di principi. Essa, veduta in questo modo, ci rende pur lucida e mirabile la politica imperiale, in quanto che fu politica degna dei fondatori del diritto, dei formatori della compagine statale, degli uomini che avevano, se non una fede potente, una linea chiara di condotta nella loro vita.
Giovanni Costa.
(1) Si veda, p. es., come l’autore della relazione sul martirio di Policarpo disapprovi quelli che si offrono al martirio (4): ò-.à «>•>, àiiXos-, cffcuvoSptv tgù;
cauTovs, isctii, iùy ¿téósztt tò (Cfr. Matth., io, 23; Joh., 7, 1; 8, 59; io, 39).
Ciò spiega del resto insieme con la differente posizione che à il cristianesimo nel periodo 202-313 da quello precedente come Origene potesse asserire che, sino alla metà del III sec., i martiri erano pochi e facilmente numerabili: c. Cete. 3, 8: òkiyoi zar« zàcppy'c zai ao$3pa fùap'.Sy.yjr&t ysip txc Xpwvtavfiv sedeteti«; reSvizact. Cfr. CONRAT, O. C., p. 12 e Fracassine, p. 202.
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(Continuazione c fine. Vedi Bilyeinis, Febbraio 191$. p. ni).
7. LE POESIE PROFANE DEL CANZONIERE.
Col nome di poesie profane indichiamo, — sebbene imperfettamente, perchè nulla in esse ripugna al sentimento religioso — i tre componimenti che chiudono il Canzoniere e che furono solo alla morte del poeta inserite nelle sue Rime Sacre.
» ♦ •
a) Nella canzone »Per la morte di Paolo III a, in mezzo ai troppi luoghi comuni della fredda e lambiccata poesia petrarcheg-giante, risplendono alcune immagini aggraziate ed efficaci, alcuni versi gentili e soprattutto alcuni accenti di caldo amor patrio, là, dove il poeta, ricordando le guerre disegnate dal papa contro la Spa-S;na, impreca alla Morte che troncò a mezzo e speranze d’Italia, e scaglia contro gli oppressori il funereo augurio che presto o tardi ricadano sul loro capo quelle calamità con cui ora opprimono l’Italia.
Nella morte di Papa Paolo III.
S’avvicinava il verno freddo c bianco
Con la barba agghiacciata e co’ crii» molli. Parente della morte oscura e brutta;
E cominciava il giorno a venir manco E, scemando, a spogliar le rive e i colli E torre il verde alla campagna tutta. Nè si vedeva asciutta
La faccia della terra in luogo alcuno:
Anzi d'un color bruno
L’aer vestito e lagrimar il cielo. Presago forse che l’antico velo Lasciar dovea c l’onorata spoglia 11 Pastor, ch’ebbe voglia Di fare alla sua Italia mutar sorte, Se non vi s’opponea fortuna e morte.
Procacciava dal becco c dagli artigli Torla del fiero e predatore augello Che come il miser Tizio la divora. Tal che nido di volpi e di conigli È diventato il paese almo e bello. Che i più begli occhi sazia ed innamora Sperava ad ora ad ora '.1 difensor della cristiana chiesa -Dover pigliar l’impresa
Degli avi suoi magnanimi ed invitti, E consolar i cittadini afflitti Dell’infelice Italia, che, tant'anni Sepolta negli affanni, Sperava pur di respirar alquanto Dopo si lungo ed angoscioso pianto.
E il veder che, nella prima uscita, Il magnanimo Enrico avea già doma L’indomita superbia di Brettagna, Le tea sperar di tosto aver finita Ogni querela e scarca aver la soma Che portar le iacea Cesare e Spagna. Or con ragion si lagna Che morte invidiosa abbia troncate 'laute glorie sperate. Tronca la speme d'ogni suo ristoro, Tronche le fila nel più bel lavoro. Da quale inferno uscisti, orsa rapace, A turbar nostra pace?
E lacerar, quando potesti e come, D'un tal Pastor le venerande chiome?
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Deh! non potevi differire il colpo, Crudele Arciera, e l’arco tuo fatale Celare a un tempo e la fatai saetta? Te sol fiera crudcl, te sola incolpo D'ogni nostra disgrazia c d'ogni male, ■.asso! ch’Italia mia di nuovo aspetta! Oh che bella vendetta S’apparecchiava! oh che lodate imprese Per punir qucH’offcse, Che senza causa ricevute abbiamo! Onde, Padre, piangendo, oggi ti chiamo, E tu pietoso ancor dal ciel m’ascolta, Chè non t’è però tolta La carità nè la forza, crcd’io. Essendo, come sci, vicino a Dio.
E mentre coi più beati e santi ’ Premi le stelle c vai di gloria pieno Per lo rotondo ciclo intorno errando. Volgi gli occhi pietosi a' nostri pianti, il tosco di quaggiù dal tuo sereno Per tenerezza c carità mirando.
Va verso noi drizzando Di Giove i raggi c della Figlia bella, D’ogni benigna stella, Che pace e gaudio accenna a noi mortali. Marte e Saturno crudi e micidiali Volghin la luce lor verso l’Ibero, Che vedere ancor spero Correr di pianto allor ch’Italia mia Avuta avrà la libertà di pria.
Canzon fra le celesti icrarchic, In mezzo al cerchio deH'Etemo Amore, Troverai quel Pastore Ch'ha spente in parte le speranze mie.
b) La canzone intitolata < Nella morte di Margherita di Valois » è — se non erriamo — una delle più belle canzoni italiane che in quel secolo siano state scritte a gloriti cazione di questa donna eletta. Un’onda di affettuosa riconoscenza e di calda ammirazione per l’estinta la pervade da cima a fondo, vibrando di strofe in strofe, sempre armoniose e fluide e, talvolta artisticamente pregevoli, sia che esaltino la sua bontà, la sua fede, la sua purezza e la sua opera letteraria, o narrino il dolore vivissimo che tutta la Francia senti per la sua morte immatura.
Nella morte di Margherita di Valois Regina di Navarra.
Alma reai, ch'un scettro assai più bello Lassù nel ciel possiedi
Che il già lasciato qui di gemine e d'oro, E seguendo di Dio l’amato Agnello,
Calchi co’ santi piedi
Dell’Albergo Celeste il bel lavoro. Che pena e che martoro Oihmè! lasciato ci ha la tua partita! Tu sci nel ciel salita
A goder di quel regno eterno c vero, Dove prima abitavi col pensiero;
E noi piangiamo in terra
Non la tua pace, ma la nostra guerra.
Perchè rimasi in tenebre e 'n lamenti
Sicurtà non troviamo
In questa vita debile e fallace,
E il ciclo empiendo di sospiri ardenti Fermamente speriamo
Di godere ancor noi della tua pace.
Ma l’aspettar ne spiace
Senza te, nostro specchio e nostro esempio. Di pudicizia tempio. Che mostravi con opre e con parole Come luceva in te l’Etemo Sole, Come il divino amore Fa il spirto della carne vincitore.
Or somigliamo proprio al pellegrino
Rimaso senza guida
Fra monti alpestri o fra le selve oscure.
Che di trovar il suo dritto cammino
A pena si confida
Assalilo di mille aspre paure
Dcll'umanc sventure.
Ma tu, che sci del ciel già cittadina
E non più pellegrina,
E, riposando nel celeste amore.
Sci dove non si piange e non si more. Non ne sii già si vaga
Che non ti doglia della nostra piaga.
Vedi la Francia tua ch'un largo fiume
Versa per gli occhi, e nera
Invece della porpora ha la vesta. Per ciò ch'ito all’occaso è il suo bel lume; E la sua primavera
Mutata ha in verno, in pioggia cd in tempesta.
Nè doglia pari a questa
Ha sentita, crcd’io, molt’anni sono.
Chè di bello e di buono
Troppa gran parte gli hai tolta, partendo;
Hai quasi spenta la patria morendo. Ben che le resti in pegno
Il dolce frutto del tuo sacro ingegno.
Restano a noi le tue degne fatiche,
Le ricchezze, il tesoro,
Che tempo o morte aver non ponno in preda. Che coronate han le tue tempie antiche D'un immortal alloro,
Qual con ragion non so se ad altri ceda
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O più bell’opra veda
Pamasso o Pindo o '1 monte di Sione;
Che in gran parte è cagione
Che pur si disacerbe il nostro pianto, Rimanendo di te frutto si santo
Che al cor di chi lo mira.
L’odor di Cristo e la dolcezza spira.
Or canti con Davidde ed Esaia
Gl'inni sacrati e santi
Con più bel plettro e più soave voce, Del Figliuol glorioso di Maria
Narrando i dolci pianti E il dolce sacrifizio della Croce.
Or più ti scalda e cuoce
Il fuoco dcll’ainor, chè sei vicina All’ardente fucina,
Ove l’alma bruciando ognor s’alluma. Nè mai perciò si strugge e si consuma. Ma della fiamma amica
Dolcemente si pasce e si nodrica.
Se si felice sei,
Canzon, che volar possi insino al ciclo, Vedrai senza quel velo
Che copria la bellezza sua divina, Risplcndcr come un sol la mia regina.
Il contrasto che, alla vista del corpo esangue di Cristo, nasce nell’animo della Vergine per lo strazio della morte del figlio e per l’esultanza della compiuta redenzione umana — contrasto che forma come il pernio di tutto il poemetto ed è assai drammatico — è stato così infelicemente ritratto dal poeta, che esso ci lascia quasi insensibili e freddi, se addirittura non ci nausea per la lungaggine opprimente di una vuota retorica e di una fredda dommatica. Aggiungi a ciò la rima spesso puerile e stentata, l’imperizia tecnica delrottava e l’enfatica parlata della morte, che, inserita nel lungo soliloquio della V'ergine, ne spezza il filo e vi produce confusione. Tutto ciò è causa che, nonostante alcuni spunti lirici discreti, alcuni contrasti efficaci e un certo calore di fantasia e di sentimento, l’impressione finale che riceve chi legge, sia di noia e di stanchezza.
Di esso non riproduciamo dunque che il proemio c la chiusa:
Sopra la Passione di Cristo.
***
c) I) capitolo od epistola poetica «Alla duchessa di V alentinois » fu già per il suo contenuto minutamente analizzata nella Vita dell’autore. Qui aggiungeremo soltanto ch’essa è in terzine c che, sebbene il suo valore sia quasi unicamente storicobiografico, tuttavia non manca di alcune poche terzine leggiadre e ben congegnate, e di un certo spirito umoristico, di ottima lega, tra il serio ed il faceto.
8. LE POESIE MISTICO-DOMMATICHE DEL CANZONIERE.
Le poesie mistico-dommatiche comprendono: a) tre poemetti intitolati: «Soprala Passione di Cristo » - « Albero della Vita » -« Amor di Dio •; b) tre inni intitolati: « Alla Croce dì Gesù Cristo »-«Alla- lancia feritrice di Cr isto » - « Della bellezza della Morie »; c) diciannove sonetti detti « Cristiani ».
a) Il poemetto « Sopra la Passione di Cristo», che è il primo componimento della Raccolta e contiene come un’introduzione a tutto il Canzoniere, pecca e stanca per la sua eccessiva prolissità.
Mi messe Apollo già sete e desio Di por’ la bocca di Castalia al fonte. Perchè amando e scrivendo spera v’io D’un verde alloro aver cinta la fronte. Or nuove Muse mi dimostra Dio Ch’hanno bellezza e santità congionte: Onde a seguirle il mio voler s'inchina Sopra Sion e Itabirio e Sina.
2.
Io non vo’ più cantar, com'io solea, Nè d’amor nè di cose altre profane, Chè le lagrime ch’io per ciò spargea Eran dal Cielo, ohimè, troppo lontane. Or fissa ho nella mente un'altra idea Che mai d'onesto pianto m’allontane. Cioè il Signor del Ciclo c dell’Abisso, Sol per mio amore occiso e crocifisso.
3L’Apollo mio sarà il.spirto di Cristo, Di cui l’aura gentil talmente spira Che fa del ciclo e delle stelle acquisto Chi sospinto da lei piange e sospira. Onde, s'io mi lamento o s’io m’attristo, È perchè l'alma a maggior bene aspira Ed alza gli occhi al regno eterno e santo. Dove morte non è, dolore o pianto.
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4Anime elette, che per Cristo siete Fatte del Cielo eredi e cittadine. Mentre del mondo nel deserto avete Ad esser forestiere e pellegrine, Della manna cibatevi e pascete Delie Scritture celesti c divine. Ivi vedrete che la vostra luce Del sole.eterno nell’eclisse luce.
. 90.
Io so ch'ogni alma eletta c casta e bella. Che per il morto Agncl arde d'amore, Vorrà con questa santa Verginella Sempre participar del suo dolore, E, come a Cristo obbediente ancella. Pianger la sua Passione a tutte l’ore. Il fin qui dunque del mio pianto sia, Che con Gesù vi lascia e con Maria.
5A voi, de) morto Agnello innamorate, Queste lagrime mie consagro e dono, A ciò che qui voi stesse e lui veggiate, Voi peccatrici, e lui sol giusto e buono; Pregandovi per Esso ch'accettiate Con lieto volto un cosi piccol dono, Che parrà grande a chi nella sua mente Riporrà quel che in esse o gusta o sente.
87.
Ma quando il mio bel Sol dall’occidente, U’ tramontato è per la colpa loro, Sarà tornato e nel vago oriente Avrà spiegata la sua chioma d’oro. Natura umana pigra c negligente Darà lieto principio al suo lavoro E, dal spirto di Cristo essendo spinta. Avrà vittoria invece d’esser vinta.
88.
Ben venga, allor direm, l'Autor di pace E il Padre del secolo avvenire!
Or la giovenca col lion si giace E col lupo l'agnel vassi a dormire; Discacciata è Bellona e Marte audace, E spenti tutti gli odii, i sdegni e l’ire; Le spade tronche son, le lame rotte Ed in marre ed in vomeri ridotte.
89.
Or suderanno il mel le querce antiche E nasceranno i pomi in su le fratte; In mezzo a i prati c per le valli apriche Correranno i ruscei di puro latte: E le selvagge fiere, all’uom nemiche, Scherzeran seco lui già mansuefatte, E del Vero Saturno i regni santi Porran perpetua fine a’ nostri pianti.
Degli stessi difetti, solo in parte attenuati, risentono anche i due altri poemetti più brevi in terzine. Nel primo de’ quali l’autore ponendo a riscontro • 1‘ Albero del Bene e del Male » con la Croce redentrice di Cristo, racconta la tentazione di Èva, la debolezza d’Adamo e le tristi conseguenze del peccato; poi l’infinita misericordia di Dio verso la sua creatura, ed il sacrifizio di Cristo che le apre nuovi cieli e nuova terra.
Nel secondo il poeta continua a celebrare la magnanimità dell’amor di Dio per la.sua creatura ingrata c ribelle; e mostra come, per i benefici effetti di essa, l’anima aspiri a riunirsi al Suo Fattore, sprezzando i beni terreni.
Ma, tranne i brevi spunti lirici, in cui il poeta accenna ai casi particolari della sua vita, queste poesie sono piuttosto fredde e meschine. Si sente troppo che la fede del poeta non è che pensiero e convinzione della mente, non ancora quel caldo sentimento e quell’anelito profondo del cuore che solo possono dare le dolorose esperienze della vita. Sono poesie a stampo e nulla più.
b) Migliori sono gl’« Inni » ed i « Sonetti Cristiani » dove la minor ampiezza, la diversità di metri, il vario congegno delle strofe, la maggior abbondanza di elementi lirici temperano il peso o l’astrusa sottigliezza del contenuto mistico-dommatico.
Pertanto, quantunque ancora freddi e lambiccati in alcune parti, tuttavia già dilettano per la loro naturalezza e semplicità, non disgiunta da una certa grazia poetica, i due inni « Alla lancia feritrice di Cristo » e « Della bellezza della morie », e più ancora alcuni dei diciannove sonetti che compongono la collana dei « Sonetti Cristiani ». Belli, a malgrado di inevitabili difetti propri di tutta la poesia del Caracciolo: abbondanza di aggettivi e di sinonimi, splendore e peregrinità d'immagini, amor di contrasti, troppo spiccata intonazione
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petrarcheggiante, ecc., sono il sonetto III «Della vera filosofia»', il VI «Della fede e delle opere »; il VII « Della vera e falsa jede »; il X « Del libero arbitrio >»; l’XI «Della vera ricchezza»; il XII «Dell’amore di Dio ■; il XIV .« Della Circoncisione ■; il XV a Delle promesse di Dio »; il XVI « Dell’osservazione della legge ».
In essi, come in tutti gli altri che lor fanno corona nè mancano di ogni pregio, il poeta sfiora i principali temi di domma-tica religiosa, in pochi versi, con mano leggera, con vivacità e naturalezza, senza troppa ricerca dell’effetto, ravvivando il Sensiero con immagini e confronti tratti al mondo della natura. Perciò la collana dei « Sonetti Cristiani » si può leggere tutta d’un fiato, senza provar noia o stanchezza, )erchè o la semplicità del ragionamento o a vivacità armoniosa del verso ti fanno jenevolmente indulgere ai difetti che qua e là vi sono, ed il ricordo delle poesie dom-matiche di quel secolo, in generale così fredde e pesanti, ti rende mite,, forse più de! dovere, nel giudicarli. Senti che il poeta ha cercato di armonizzare in questi brevi componimenti il sottile ragionamento dom-matico col caldo accento lirico e, carezzando le orecchie, commuovere la mente ed il cuòre. E ti pare ch'egli, a dispetto dei lunghi poemi freddi ed allegorici, sia degno di essere ricordato tra i poeti dominatici del secolo xvi (x).
IV.
Inno della bellezza della morte.
L’alma, che vive dentro al corpo immondo D’Adamo empio e carnale.
Teme la morte, perchè uscir dal mondo Le par che sia gran male.
E parie cosi orrenda e fiera e brutta, Che, pensando al morire.
Si disfa di paura e strugge tutta Come avesse a finire.
Ma, se per grazia poi conosce Dio Esser sol la sua vita,
Vorrebbe, accesa di miglior disio. Esser dal corpo uscita.
(r) Nella scelta delle poesie di saggio abbiamo se* .güito talora, anziché il criterio estetico-letterario, quello biografico, cioè a dire il valore che esse hanno per determinare le idee religiose o morali dell’autore, e per servire di documento a quanto di lui siamo ■venuti dicendo nella « Vita ».
Per somma grazia chiede a Dio che muoia E lo star qui le spiace. Perciò che Cristo solo è la sua gioia. La ricchezza e la pace.
Così la morte, che si orribil pare
All’anima rubella,
A chi in Gesù la vuol considerare Parrà leggiadra e bella.
SONETTI CRISTIANI.
III.
Della vera Filosofia.
Benché molti cercata abbin la via
Che al ciel conduce e che fa l’uoin beato, Non ha il dritto cainmin però trovato La terrena e mortai filosofia.
Perchè il Signor del cielo, acciò che sia Schernito il mondo ed ei solo esaltato, La vera sapienza avea celato Col velo d’ignoranza e di pazzia.
Onde osservar le stelle erranti e fisse. La cagion del sereno o della pioggia. Delle lunghe comete e dell’Eclisse,
Non giova altrui; ma chi tant’alto poggia. Che in Cristo la bontà di Dio discema. Scorge la dritta via di vita etèrna.
VI.
Della Fede e delle Opere.
Come il fuoco non è senza calore O senza luce, così l’uom che crede E a cui data ha Dio la viva fede. Non è senz’opre buone o senza amore.
E come il sol traspar dal vetro fuore. Quando co’ ragià suoi-lo scalda e Sede, Cosi di fuor per sante opre si vede L’ainor di Dio che scalda e brucia in cuore.
Ma Dio sol l’inspira e solo dona La fede; c di lassù piove la grazia. Che ne fa giusti e i nostri error perdona.
Però di ben oprar mai non si sazia Chi Dio conosce; ma d’ogni opra buona La superna bontà loda e ringrazia.
VII.
Della vera e falsa fede.
Come dal vetro orientai diamante Differisce, così la vera e viva Fede da quella ¡storica ch’arriva Alla lettera sol nè passa innante.
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Perchè la fede del perfetto amante
L’alma d’errore c di superbia priva E dell’opinlon tanto nociva
Che Palme senza grazia si fan sante.
Non è fede il pensar che vera sia
L’istoria sacra; ma *1 creder che Cristo Coi sangue suo la vita e '1 ciel ne dia,
E che nessun può far sè degno acquisto, Se Cristo sua giustizia esser non crede E di Quel l’opre non fa sue per fede.
X.
Del libero arbitrio.
Come fanciul, che la nutrice guida E quel pel braccio co’ la man sostiene, Facilmente trabocca se gli avviene' Che l'abbandoni la sua scorta fida:
Cosi l'alma, che in Dio spera e confida E nell'aiuto suo fonda sua spene. Mentre il favor celeste la mantiene, Cader non può perch'ha il Signor per guida.
Ma s’avvicn ch'un sol punto il Ciel la lasce, Vedrà come il suo arbitrio avrà men forza Ch'un tenero fanciul dentr'alle fasce.
Però di gire al ciclo invan si sforza, Invan con l’ali dell’arbitrio poggia, Chi in sè medesmo e non in Dio s’appoggia.
XIV.
Della Circoncisione.
La circoncision vecchia, carnale. Che fu data agli Ebrei solo in figura, Non togliendo gli affetti di natura Corrotta e guasta, poco o nulla vale.
Circonciso non è quel ch’opra male.
Che spoglia, che bestemmia, occide e fura, Perciò che '1 taglio della pietra dura Occiso non ha in lui l’uomo animale.
Ma chi col spirto, che dal ciel n’è dato, Taglia il soverchio d’ogni suo disio E resiste alla carne ed al peccato.
Senza dubbio nessuno, al parer mio, Internamente mostra esser segnato E contato fra il popolo di Dio.
XV.
Delle Promesse di Dio.
Le promesse che Dio giusto e verace Fece al popol Ebreo molt’anni sono, Fatte non fur perciò ch’ei fusse buono Nè tolte perchè duro c pertinace.
Perchè Dio benedetto a chi gli piace Fa della grazia sua libero dono, Ed al suo eletto fa trovar perdono Per Cristo, il qual per lui gii soddisface.
Dunque non misuriam co’ inerti nostri
Quei doni, quelle grazie che si spesso Piovono in terra da’ superni chiostri;
Nè dubitiam .che ciò ch'ha Dio promesso. Non l'osservi in effetto e non dimostri Che per noi non lo fa, ma per sè stesso.
XVI.
Dell’osservazione della legge.
Nessun si vanti d’osservar la legge. Se le concupiscenze ed i peccati, Che sono in quella a noi da Ciò vietati, Internamente non affrena c regge.
Chiunque i santi profeti ascolta o legge. Che dal spirto di Dio fumo spirati. Vedrà come la legge ha condannati Quei ch’ella sbigottisce e non corregge.
Per uscir dunque tosto e svilupparsi
Di si tenace pania, è necessario In Cristo di sperare e confidarsi.
Per questa via si vince l'Avversario Ed otticnsi la grazia, co’ la quale Il precetto s’osserva e fugge il male.
9. LE POESIE LIRICO-RELIGIOSE DEL CANZONIERE.
Il Caracciolo più che poeta dommatico è lirico.
Alle sue poesie liriche appartengono infatti una raccolta di LX sonetti senza titolo, un poemetto in terzine intitolato: • Pianto dell*anima peccatrice » e due canzoni francesi, che non hanno titolo.
a) Nei sonetti, il poeta, lasciata quasi interamente ogni preoccupazione allegorica o dommatica, dà libero sfogò ai-sentimenti che a volta a volta nascono nell’intimo dell'animo suo. Egli ci parla pertanto delle sue angoscie e delle sue speranze, delle sue cadute e della grazia redentrice di Cristo, degli stimoli ardenti della carne e dell’ineffabile dolcezza delia fede, della vanità delle cose terréne e della plenitudine della vita futura; od ancora, volgendo lo sguardo al Creato, esalta la presenza, la grandezza e la bontà di Dio nel coro di tutte le crea-
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ture divine. Sentiamo alternavisi la gioia della vittoria e l’umiliazione della sconfitta, il dubbio, la fede, il rimorso, la speranza, lo strazio e la pace; e la loro immagine fluttuante risalta più viva e più netta dall’ordine con cui i sonetti si succedono, sia esso voluto o casuale.
Talvolta lo strazio del rimorso è così esasperante in lui, ch’egli impreca con cruda violenza alla carne causa del suo peccato:
O nemica dell’aline, empia, infelice, Camaccia sporca, fetida ed infame, Carne non, ma corrotto e vii letame, D’ogni peccato rio fonte e radice,
Quando saran, sfacciata meretrice. Sfogate c sazie le tue ingorde brame E del peccar la scellerata fame, Per cui poggiar al cielo a noi non lice?
o dispera della sua salvezza e maledice a se stesso:
Quante fiate di peccar m’avviene,
Che per la mia disgrazia è troppo spesso, Vorrei far mille pezzi di me stesso. Tal dispetto e tal rabbia al cuor mi viene.
o dubita perfino della bontà di Dio e del valore della fede.
Se le piovute in te grazie divine
Non denno altro produr ch’ortiche e spine, Non conoscere Iddio fora assai meglio.
Ma poi, tornandogli alla mente la sublime Srandezza del Creato, il sacrifizio espiatorio ella Croce e le solenni promesse di Dio, raffrena il tumulto del cuore, si rinfranca dinanzi al peccato ed alla morte e, sprezzando le cose terrene, non aspira più che a Dio ed alla pace eterna:
Ei farà di Satan vano il disegno Porrà fine al peccato ed al dolore E condurrainmi nel celeste regno.
• Perchè più varia, più calda, più dolorosa ed umana, è questa appunto, nel suo complesso, la parte sostanzialmente più pregevole di tutto il Canzoniere. Ed anche dal lato puramente letterario o formale non le mancano alcune qualità e caratteristiche notevoli.
Il semplice fatto di aver saputo per un ciclo di ben sessanta sonetti riprodurre l’alternarsi frequente dei medesimi senti
menti, ma quasi sempre sotto aspetti diversi, con nuove immagini, con nuovi confronti, variando continuamente le tinte e la cornice in cui il pensiero s’inquadra, non è piccolo merito di poeta. Ogni sonetto racchiude un confronto tra un sentimento e fenomeno del mondo psichico ed un fatto o fenomeno del mondo naturale o della vita umana. Il mondo è paragonato ad un mar in tempesta o ad un deserto sconsolato, il cristiano ad un navigante. Cristo alla bussola od alla stella polare, la vita ad un fiore che appassisce, l’uomo, che fida solo in sè, ad un bambino che vuol camminare ma intoppa. Sono in genere paragoni vieti, già consacrati dalla poesia e dalla prosa di tutti i tempi; ma che ciò non ostante riescono nuovi e freschi per la grazia del poeta, per la naturalezza e la vivacità che li adorna. Se talora goffe ampollosità, sproporzione di parti o stridule reminiscenze profane turbano la profondità del sentimento o l’efficacia del paragone, per converso, altre volte pochi tratti più sobri, poche pennellate vivaci ti danno la cornice entro cui, inquadrandosi, il pensiero risalta più netto, spontaneo ed il sentimento più caldo ed efficace. Singolare sopra tutti il sonetto LIV dove quattro immagini s’inseguono contrapponendosi due a due, prese le uno dal mondo marinaresco, le altre dal mondo spirituale.
(Dal Libro Secondo).
I.
Lo Spirto del Signor che fa ch'io spiri,
Ch’io sia, mi muova, abbia intelletto e viva, Mi scalda il petto e vuol che in rime io scriva Con le sue lotti i mici casti desiti.
Ei fa che l'alma peccatrice aspiri Alla gloria celeste, ancor che priva Della giustizia che da Lui deriva; E vuol ch'a Lui consacri i miei sospiri.
Ei diede al biondo pastorei lo scettro
Per reggere il suo gregge, e senno ed arte Per lodarlo con dolce e grave plettro.
Ed a me farà grazia in questa parte Che lo lodi ancor io sì dolcemente Ch’ognun, che m’ode, al eie! alzi la mente.
Non si trova quaggiù riposo o pace Ch’ai spirto interamente soddisfaccia. Mentre Satan nelle sue reti allaccia Le nostre menti e che T peccar ci piace.
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Anzi ogni cosa all’anima dispiace E non ardisce al cielo alzar la faccia, Poiché, lasciato Iddio, cerca c procaccia Il suo desio saziar vano e fallace.
Ma, quando veramente ella si pente E, dal spirto di Dio punta e trafitta. Geme, piange, sospira e spera e crede.
Ancor che lacrimevole ed afflitta, Pur la vera dolcezza gusta e sente Che partorisce in lei speranza e fede.
X.
Come fanciul, che de la madre irata Vede crespa la fronte, oscuro il ciglio. Presago già del suo vicin periglio Sta co’ pallida guancia e piange e guata;
Poi vedendo la sferza apparecchiata E la temuta man darle di piglio, Di confessar l'error prende consiglio E col pianto smorzar l’ira infiammata:
Cosi l’alma, per segni esteriori L’ira di' Dio terribile vedendo Contra di sè per le sue colpe accesa.
Altro schermo non trova, altra difesa Ch’umiliarsi e, innanzi a Lui piangendo, Chieder perdon de’ suoi commessi errori.
XI.
Fatti son gli occhi miei due fonti vivi Che per mezzo una nebbia oscura e folta. Ch’io porto intomo alla mia fronte avvolta. Versano mesti c lagninosi rivi.
I miei pensier d'ogni allegrezza privi Mai si rallegraranno una sol volta, Sinché dal career suo l’anima sciolta Al ciel sen voli e innanzi Cristo arrivi,
Se delia carne il duro e grave peso. Che fa che l’uom cosi spesso trabocchi E che il Signor sia si sovente offeso.
Mi preme si, che, perso ogni conforto, In ogni loco, in ogni tempo io porto Sospiri in bocca e lagrime negli occhi.
XIII.
O nemica dcH’alme, empia, infelice, Camaccia sporca, fetida ed infame, Carne non, ma corrotto e vii letame, D'ogni peccato rio fonte e radice,
Quando saran, sfacciata meretrice, Sfogate e sazie le tue ingorde brame E del peccar la scellerata fame, Per cui poggiar al cielo a noi non lice?
Quante volte per te lagrime verso, Quante volte per te furia infernale Son nel dolor miseramente immerso!
O Dio, che sei per noi fatto mortale E cruci fisso per la tua fattura, Spegni l'ardor di questa fiamma impura.
XIX.
Quel che l’uom falsa o leggermente crede, Se bene il vano suo giudizio applaude, Innanzi a Dio non può meritar laude, Nè veramente dee chiamarsi fede.
Perchè il Signor ubbidienza chiede Pura e sincera senz’inganno e fraudo. Nè vuol ch’alcun della sua gloria il fraudo, Com'ci non frauda alcun di sua mercede.
La fede dunque certa e vera è quella Ch’alia parola sua solo s’appoggia Senza cercare religion novella.
Per questo, quando il nostro uman discorso Ha questi santi termini trascorso. Raro o non mai nel cielo ascende o poggia.
XXIV.
Quel che col cenno il ciel governa c gira E col palmo la terra e '1 mar misura, SI caldamente ama sua fattura
Che leggermente mai seco s’adira.
Ma perchè di lassù contempla e mira. Come buon padre che dei figli ha cura, I nostri errori e nostra vita impura. Con noi si sdegna, tende l'arco e tira.
Or quanto acute sian le sue saette, Quanto le sue minacce aspre e tremende, E dure a rimembrar le sue vendette,
Quanto siam fiacchi noi per tollerarle, Ognun di noi lo sa; ma per schivarle. Raro è colui che la sua vita emende.
XXIX.
Come la luna degli altri pianeti. Ch’errando vanno per lo ciel sereno, È più vicina e conosciuta meno Da chi va investigando i lor segreti.
Per ch’ella ha gli occhi or lagrimosi, or lieti, E cerchio or voto, or mezzo, or tutto pieno, Or chiaro e terso, or pien di macchie il seno, Or sale in alto, or scende in braccio a Teti,
Or è pigra a levarsi, or diligente. Or vicina a Calisto ed a Boote, Or dove brucia il ciel la zona ardente:
Cosi l’uom, che le cose a sè remote
Conosce e vede, ha si cieca la mente Che sè, ch’ha seco, conoscer non puote.
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ANTONIO CARACCIOLO VESCOVO DI TROYES
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XXX.
Qual più tranquilla vita e più gioiosa Trovar si può che d’un cuor puro e netto. Che sol di servir Dio prende diletto. Altro non cura, altro cercar non osa?
In Dio s’appoggia, in Dio sol si riposa, Dio d’ogni suo desir sol’è l’obbictto. Nè sbigottir l’intrepido suo petto Può cosa acerba, orrenda o spaventosa.
E per contrario qual più fiera doglia Di quella che trafigge un cuore immondo, Che di peccar non mai si pente o sazia?
Perchè, se ben possiede e regge il mondo. Poiché dell’alto Dio persa ha la grazia, Paventa e trema al muover d’una foglia.
XL.
'Quante fiate di peccar m’avviene. Che per la mia disgrazia è troppo spesso. Vorrei far mille pezzi di me stesso, Tal dispetto c tal rabbia al cuor mi viene.
Ma Colui che in speranza mi mantiene, Acciò non caggia in cosi grave eccesso. Col ricordarmi quent’ei m’ha promesso Tempra le mie dogliose acerbe pene.
■Così la coscienza sbigottita
Con drizzar gli occhi della fede a Cristo Si sente ritornar da morte a vita.
E così sua mercede ha Dio provvisto In sì grave periglio all’uom d’aita, Acciò faccia del ciel, .credendo, acquisto.
XXXVIII.
■Quando fia, Signor mio, che vera pace Misero me, dentro al mio petto io senta E che sia nel mio core in tutto spenta Questa, ch’arde sì forte, immonda face?
Io vorrei sol voler quel ch’a te piace;
E quel che più m’affligge e mi spaventa, È ch’ai peccato l’anima consenta, Chè ben conosco, ohimè, quanto ti spiace.
-Mira, mi dice il mio fidato speglio. Come ogni dì la vita tua decline: Pur ieri eri fanciullo ed or sei veglio!
Se le piovute in te grazie divine Non denno altro produr ch'ortiche e spine. Non conoscere Iddio fora assai meglio.
XXXIX.
Dunque fia ver che sì sovente io pecchi, E che ’1 peccare ahi lasso! mi conduca Al vero abisso è che sempre produca Questo infelice cuor lappole e stecchi?
Dunque fia ver ch’io nel peccato invecchi E dell’inferno in la profonda buca Caschi, dove giammai giorno non luca E dove eterno duol mi s’apparecchi?
Ver non fia già, perchè con tutto il cuore Io mi rivolgo a Quel che sopra il legno Morendo, estinse il nostro grave errore.
Ei farà di Satan vano il disegno, Porrà fine al peccato ed al dolore E condurrammi nel celeste regnoXLIII.
L’alma, in cui vera fede il Cielo infuse. Benché inclinata al vizio ed al peccato. Poiché per grazia in lei non han regnato. Temer non de’ ch'alcuno a Dio l’accuse.
Perchè '1 Signor dalla sua gloria escluse Sol quelle che con animo ostinato.
L’Evangelo e la grazia han disprezzato. Talché rimangon con ragion confuse.
Ma il peccator, che sotto il fascio geme E notte e giorno al ciel sospira e grida Per lo peccato che l’affligge e preme,
Mai dell’inferno sentirà le strida. Mai sarà privo di conforto e speme Chè, se morte il spaventa. Iddio l’affida.
XLIV.
Per trovar Dio e saper quel ch’ei chiede, Non bisogna coll’ali al Ciel volare 0 di là da quei termini passare Che il fiero Alcide ai naviganti diede.
Chè, senza mutar passo o muover piede E senza il mondo, come il sol, girare, Iddio si lascia da ciascun trovare Che la sua maestà cerca con fede.
I profeti, ch’ai tempo antico furo, Han primi illuminato i nostri cuori Come vivace lampa in luogo oscuro.
Ma poi che l’Evangelo uscito è fuori, Dio si conosce nelle sue parole. Come di state a mezzogiorno il sole.
LUI.
Come spesse fiate in mar s’annega, Benché stimato sia nocchier perfetto. Chi, l’usitato bussolo negletto. Temerario le vele ai venti spiega,
Così chi ’1 Padre eterno o cerca o prega Senza ch’ai suo Figliuol caro e diletto Drizzi la voce, il cuore e l’intelletto, Porto c salute a se medesmo nega.
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BILYCHNIS
Chi* contemplar la maestà di Dio, Eccetto a noi manifestata in carne, È angelico studio c non umano.
Per questo ognun che ’1 fa, che può sperarne, Eccetto, un golfo tal solcando invano, Affogarsi nel mar del suo desio?
LIV.
Qual nocchier, che Tirata onda marina Fugge, vedendo il suo legno sdrucito, E a pena crede esser a tempo al lito Tanto il naufragio ficr se gli avvicina:
Cosi il fedel, ch’a morte ed a rovina Ha condotto un carnai sciocco appetito, Trema, temendo d’essere ingiottito Dal grande abisso deH’ira divina.
Ma come in notte si tremenda c scura Intenti stanno i mesti naviganti Se veggon di Castor l’amata luce,
In un mar di cordoglio e di paura, A Cristo, lor Castore c lor Polluce, Le lagrimose ciglia alzano i Santi.
LV.
Qualora io penso al variar degli anni, Che fuggon più leggeri assai che '1 vento. Dico non è la vita altro che stento, Altro il mondo non è ch’un mar d’affanni.
Il peggio è che ti beffi c che t'inganni: Pur ieri avevi i peli d’oro al mento, Ed or la maggior parte son d’argento! Che rimedio, che schermo a tanti inganni?
Cosi la rosa c l’odorato giglio
Perdon la lor bellezza in breve tempo E il nativo color bianco c vermiglio.
Ma bisogna che in questo io mi conforte, Ch’a la gloria del cicl, che s’ha per morte, Più m’avvicino quanto più m’attempo.
LVIII.
Invano io spero, ohimè! quel ch’io veggio, Dopo tanti travagli affanni e rischi Ch’un po’ di dolce al mio amaro si mischi; Ma senza frutto c tardi ine n’avveggio!
Il mal mi preme e mi spaventa il peggio. Perchè sentir de’ draghi e basilischi Mi par gli orrendi e spaventosi fischi. E salto Iddio se in ciò temer vaneggio!
La mente afflitta e del suo mal presaga Già s’apparecchia alla futura doglia E le spalle a soffrir l’usata verga.
Ma con questo pensier l'alma s’appaga Ch’ancor ch’irato, Iddio partir non voglia Che l’amato suo gregge si disperga.
EX;
O alma, dimmi, che frutto si coglie Dai piacer che la carne ama si forte. Eccetto pentimento, infamia e morte. Pianti, sospir, lamenti, affanni c doglie?
Quel che semina l’uom sempre raccoglie! Perciò non ti pensar ch’io più comporte Che ci abbiamo a dannar di questa sorte Per non voler cambiar desiri e voglie!
Vo’ che ti spogli tutti i panni vecchi Ch’Adam ti diede e che ti vesti Cristo, Che di lui t’innamori e in lui li specchi.
Fatto abbiam veramente un degno acquisto In lasciar Dio! Ma tolga il mondo tristo. Nè speri più che per suo conto io pecchi..
b) Di contenuto profondamente lirico è anche il poemetto intitolato « Pianto dell’anima peccatrice » in cui il poeta, confessando le sue colpe ostinate e le sue frequenti cadute, invoca Dio onnipotente che lo tragga fuori della tempesta al sicuro porto della felicità eterna. L’imitazione petrar-cheggiante e l’enfasi che le è propria, vi attenuano l’efficacia e la profondità del sentimento religioso, ma non fino a tal segno che questo poemetto non possa essere giudicato in più parti come un piccolo gioiello per contenuto e per forma, per calore di sentimento e fluidità armoniosa di versi.
Pianto dell’anima peccatrice.
Con lagrime assai più che con parole, Smarrito in un’orribil notte oscura, La tua luce dimando, o mio Bel Sole,
Che tollerar non posso la paura,
Che mi mette il vedermi ignudo e solo, Dove nessun m’affida e m’assecura.
Ma, fra tante disgrazie, io mi consolo
Che mai sempre si mostra il tuo soccorso Nella miseria c nell’estremo duolo.
Signor, mentr’io fuor della strada ho corso, Fuor della stampa delle tue pedate.
Il serpe velenoso il piè m’ha morso.
Talmente, Signor mio, che, se curate
Da te non son le mie profonde piaghe
E le mie vie non son da te drizzate,
L'ombre notturne mostreransi vaghe
Di spaventarmi c non sarà conforto
Che i sempiterni miei sospiri appaghe.
0 del naufragio mio sicuro porto, Vincitor della morte e del nimico, Ch’Adamo e noi con esso ha vinto e morto.
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Padre benigno e singolare amico,
Del nostro ben principio, mezzo e fine, Ascolta ciò che lagrimando io dico.
Certe speranze misere e ineschine
Traviar mi fan si ch’io caggio spesso Or nel fango, or ne’ fossi, or nelle spine.
E tornare al cammin non è concesso Ch’alia beatitudine conduce, O con l'aiuto d’altri o di me stesso.
Se dell’aurora tua la bella luce
In cosi oscura notte e spaventosa Innanzi a' torti passi miei non luce.
Se ben l’anima mia, ch’era tua sposa, È stata disonesta c meretrice, Più di te desiando ogni vii cosa,
Abbandonarla a te perciò non lice, Ch'accettasti le lagrime e i sospiri Di Maria si mondana c peccatrice.
Ed or, che nel mio cuor risguardi c miri E i divini occhi tuoi beati c santi
Verso di me pietosamente giri.
Signor, pon fin a cosi lunghi pianti, Acciò che l'alma mia libera e sciolta, Lieta le lodi tue celebri e canti.
Vero è che mille e no* una sol volta Promesso ho d’ubbidirti e poi mancato. Palesando la mia nequizia occolta.
Ma tu, dal sangue di Gesù placato, Credo ch’invcce d’adirarti, avrai Ogni via di salvarmi ancor cercato,
Chè da me stesso, lasso! io mai pensai Se non sol di dannarmi e di privarmi Della corona che promessa m'hai.
E tu, Signor, con ogni di destarmi Dal mortifero sonno, ov’io dormiva, Mille fiate m’hai fatto a volo alzarmi, Rotta la rete ch’io meclesmo ordiva
Per allacciarmi, c postomi alla via, Onde alla vera libertà s’arriva.
Il Figliuol glorioso di Maria
È la via. Signor mio, ch’a te ci mena Esscnd’ogni altra perigliosa e ria.
Quest'è il sol che il mio fosco rasserena E dal cuor mio le tenebre discaccia Ed è solo rimedio alla mia pena.
Quest’è colui, ch’a’ mici pensicr procaccia Libertà fuor della dannosa rete, Ove la mente mia sé stessa allaccia.
Alme, che stanche ed affannate sete Del gran peso del mondo, ecco il bel rio Che di cose mortai spegno la sete.
In quest’onda lavarmi c ber vogl’io. Acciò resti il mio cuor candido e netto E scarco ancor d’ogni terren disio.
E l’alma piena poi di quel diletto
Che con noia e dolor mai non si mesce
E sol si può goder senza sospetto,
D’un perpetuo piacer che mai rincresce, D’una speranza non falsa o fallace Ma che con doppio ben sempre riesce,
D’una tranquilla e sempiterna pace. Che fa che il cuor di carità s’allumi Ed arda d’una casta e dolce face.
Dal fuoco della quale escono i fumi
Che son grati al Signore e quegl’incensi D'opre pietose c di santi costumi.
Beati i spirti di tal fiamma accensi, Chè volcran di lor l’aureo scintille Sin di stellato cielo ai chiostri immensi.
E il fumo e la fiamma e le faville
Saran più grate a Dio ch’oro e argento, Che mille doni o sacrifizi mille.
Deh! dolce Signor mio, quanto mi pento
Che più tosto quest’onda io non gustai;
Ch’or sarebbe finito il mio tormento.
Finiti i miei sospir, finiti i guai.
Finito il pianto, e col lungo martire, L’errore, ov’io peregrinando andai.
0 rara fonte del Celeste Epiro, Che le fiamme carnali estingui e spegni E sospirar fai l’uom d’altro sospiro,
I più leggiadri c pellegrini ingegni
Scriver devrien di te la notte e '1 giorno. Dello spirto di Dio fecondi e pregni.
Ma tempo è Signor mio da far ritorno
Alle lagrime mie, che sempre al volto
Ed a questi occhi afflitti avrò d’intorno.
Sin ch’io mi vegga un di libero c sciolto.
c) Piccoli gioielli lirco-religiosi sono anche i due inni francesi, massimamente il primo, a cui può bene adattarsi il titolo di « /iddio al mondo » o di « Consacrazione a Dio ». Giacché in esso il poeta, con accenti che ricordano spesso quelli più tenui ed armoniosi della Plèiade, dà l’addio agli amori mondani per non amar più che Dio; ai beni terreni e caduchi, per non cercar più che quelli celesti ed eterni; ed esprime la gioia che inonda il suo cuore per aver trovato finalmente, dopo lungo errare, Dio, al quale giura fedeltà per tutta la vita. C’è tale accento di candore, di ingenuità, di fede, di serena pacatezza dopo le lotte tormentose della carne e della cupidigia mondana, che, malgrado l’imperizia del verso francese, accarezza le orecchie, diletta e commuove.
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BILYCHNIS
LXI.
Je ne veux plus au monde m’amuser Qui scail si bien les hommes abuser.
Je ne veux plus pour les plaisirs des yeux Mettre en oubli le bien qui est es cieux.
Je ne veux plus chercher contentement
Où il n’y a que deuil, peine et tourment;
Ni veux chercher ma consolation
Où il n’y a que désolation.
Je veux en Dieu prendre tout mon plaisir Et vivre en lui par foi et par désir.
Je veux en Christ seulement me fier Et en sa croix me veux glorifier.
Je ne veux plus prendre autre passetemps Que le bénir et louer en tout temps Et nuit et iour méditer en sa loy, En produisant quelques fruits de ma foi.
Je ne veux plus que mondaine beauté Puisse souiller ma blanche loyauté. Ni que l’objet d’un plaisir, qui n’est rien, M'ôte à moi mémo et me fasse être sien.
Et ne veux plus mes larmes employer
Pour en attendre un si petit loyer: J'aime trop mieux à la vie aspirer Et jour et nuit pour elle soupirer.
Que veux-je plus que posséder mon Dieu? Amour, adieu; plaisir mondain, adieu;
Adieu, vous dis, car amour plus parfect Changer mon cœur soudainement a faict.
Je ne veux plus seulement regarder Beauté qui scait se peindre et se farder, Car la beauté, qui me rend amoureux. Me rend aussi parfaictement heureux.
J’aime et désire et suis sans passion, Et puis d’aimer j’ay juste occasion. Car j’aime Dieu, du quel je suis aimé, Et L'cxtimant suis de Lui extimé!
Est-il au monde un amour qui soit tel Que comparer se puisse à l’immortel? Nenni, nenni, qu’on ne m’en parle point. Ton aiguillon, Amour, plus ne me point.
Je suis à Vous, sainct amour de la haut; Amour mondain, de vous plus ne me chaut. Allez tromper quelque mal advisé. Amour, par trop malin, caut et rusé.
Mais moi, qui suis au sein de Dieu, Je ne pourray par vous être déçeu, Car le Seigneur, qui en ses mains me tient, Par son esprit me garde et entretient.
EtTquand de lui je me suis aproché,
Jamais ne m’a mes fautes reproché. Mais me lavant en son sang précieux M'a dépoullé de tous mes habits vciux.
Il m’a couvert de son propre manteau. Du quel iamais o.n ne vit un plus beau. Si que je puis me montrer en tout lieu Riche et paré de l’abit de mon Dieu, Sans me cacher, comme Adam fit jadis, N’ayant su vivre en son beau paradis. Car son péché le fit ainsi cacher Et le morceau trop amer à mâcher.
Amour, la mort c’est votre propre metz: Je n’en veux plus, ni n’en voudrai jamais! Empoisonnez vos gentils amoureux Toujours marris et toujours langoureux.
Mais mon amour me rend si trescontent Qu’être ne puis Ou triste au mal content: Tristes ils sont en leur prospérité, Et moi joyeux en mon adversité.
Vaut-il pas mieux. Amour, aimer ainsi Qu’être toujours en peine et en souci? Je ne veux plus de vous être flatté, De votre absinthe helas! j’ay trop tasté.
Il m’en demeure encore lé goust amer, Parquoy ie veux aimer sans plus aimer;. Aimer ie veux non point umbre qui fuit. Mais l’Etemel Soleil qui toujours luit.
Pour Celui-là je veux tout endurer, À Celui je me veux consacrer;
Je ne veux plus que Dieu en moi sentir Et veux en moi du tout m’anéantir.
Vivre je veux selon ce qu’il m’a dit Et me laisser conduire à son esprit; Et, pour monter en son éternité. Prendre je veux pour guide humilité.
À lui me veux dédier et vouer;
En salmes saintz je veux toujours louer. Et veux chanter de la bouche et du cœur Tant que mes yeux se fondent en liqueur. Pour tesmoigner de la douceur que sent L'âme et l’esprit, qui à son Dieu consent. Je ne veux plus les chansons de la chair, Je ne veux plus du monde m’empescher.
Je ne veux plus de ses plaisirs jouir» Qui ne font rien que passer et fuir. Je veux jouir d’un plaisir qui soit tel Que lui et moi en demeure immortelJe veux montrer par vive charité Que temple suis de vraie deité. Et que ce Dieu, le quel habite en moi. Par bien œuvrer manifeste ma foi.
Croire je veux et ne veux plus douter. Et ne veux rien que mon Dieu redouter. Vif en l’esprit et en la chair tout mort, En attendant le sommeil de la mort.
Je sens en moi un si grand changement Que je ne puis extimer autrement. Ni croire aussi, si non que la bonté De l’Eternel et sa gran charité
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A eu de moi telle compassion
Que [parvenir?] à ma conversion
M’a faict plus tost: car de moy je pouvois Si peu savoir ce que faire devois.
Qu’un forcené, un idiot parfait, . Ou un enfant se nourrissant de laict.
'Mais le Trèshaut inc voyant abbaissé Par mon orgueil, ne m’a pas délaissé.
Ains, me tendant la main, m’a relevé Et a tant faict que j’ai les yeux levés, Si qu’il me semble avoir quasi songé, Voiant l’abisme ou je m’estois plongé.
Dont hcumblement, Seigneur, grâces te rends, Comme Celui qui oblige mes sens À ta clémence, à ton heureux secours Où le fidèle avoir doit son recours,
Et non ailleurs. J’avois le dos courbé, Contre la terre et l’esprit partourbé Et ne pouvois ni au ciel regarder Ni l’aide aussi de mon Dieu demander.
Car j’estimois seulement être heureux De ce qu’au vrai me faisoit malheureux. Le plus souvent je prenois mon plaisir À l’offenser, n’aiant autre désir
Que mettre à fin quelque vouloir mondain, Le quel passé, cominençoit tout soudain L’autre à venir pour petit a petit Me rendre serf d’un vilain appétit.
Et se train là j’avois continué
Si longuement, que j’étois dénué De toute grâce et, ayant persisté En mon malheur, si tresfort contristé Le Saint Esprit, que, si sa charité
Ne surmontait nôtre perversité, Il m’eut laissé sans plus me visiter. Car, quant à moi, penser de présenter Au Seigneur Dieu pière ou oraison
Ne pouvais pas: car l’infecte poison. De quby Satan mon âme nourrisoit, Tout mon entier tellement pourrissoit
Qu’il n’y avoit de vie aucun espoir.
Mais au milieu du plus grand désespoir (Qui l’a jamais ou entendu ou lu?) Espérer fait le Seigneur son élu
Et quant Satan le pense dévorer. Le voit pleurant hcumblement adorer Son Créateur et demander merci Par Jésus-Christ et l’obtenir aussi.
Dieu Eternel! Dieu de toute pitié!
Où est le sens qui ta grande amitié Puisse comprendre? où se trouve l’esprit Qui la connaisse ou mette par écrit?
Tu m’as cherché, quand j’étois plus perdu. Et racheté, quand j’étois plus vendu;
Mis au chemin, quand j’étois fourvoié, Par les dangers conduit et convoié,
En ma plus grave et grande affliction Tu as été ma consolation.
C’est bien raison que je chante ton los. C’est bien raison que je tourne le dos
A l’ennemi et que tout mon déduit Dors en avant soit de t’offrir le fruit Des lèvres. Puisqu’il t’a phi m’amander, Je ne veux rien aussi plus demander
À ta grandeur et libéralité, Que de t’aimer à perpétuité. En vérité et esprit t’adorer. En ce propos toujours persévérer.
Que dans mon cœur nouvellement as mis: Croire de vrai ce que nous as promis. Joyeusement obéir à ta loi. Et profiter tous les jours en la foi:
En tous mes faicts ton nom glorifier. En ta bonté seulement me fier. Et étudier en toute saincteté. Me délecter de toute honnêteté:
Avoir Jésus à la bouche et au cœur. Et espérer d’être par lui vainqueur De l’ennemi de mort et de péché: Ne me sentir troublé ou empêché
Pour rien qui soit qu’on remue cy bas. Et, approchant l’heure de mon trépas. Ne craindre point, tenant les yeux fichés A Jésus-Christ, non point en mes péchés.
LXII.
Qui pourra la peine exprimer Que sent le fidèle pécheur, Voyant qu’il n’a su. réprimer Les affections de son cœur? Tantôt se prend au tentateur, Tantôt à son infirmité. En accusant ou son malheur-Ou la nuit de sa cécité.
Il se trouve tout étonné. Et ne peut comprendre comment Il ait son Dieu abbandonné Pour un bien de peu de moment. 11 en soupire incéssament Et ne cesse de larmoyer Et devant Dieu très heumblemcnt Son cœur et ses genous ploier.
Sa langue bien souvent ne peut Exprimer son affliction; Mais touiesfois le cœur se deut Et l’âme aussi sans fiction. Mais le Dieu de compassion. Qui a pour nous souffert la croix. Entend bien son intention Et l’efficace de a voix.
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Car le bon Dieu ne peut souffrir
De voir longucmcnt tourmcnté Un co?ur, le quel se vieni offrir Humblement à sa Deità.
Et si notrc perversità
Parfois Le provoquc à courroux, Toutesfois sa benignità
Ne veux pas qu'il cn soit inoins doux.
IO. LA FONTE LIRICA DEL CARACCIOLO.
Qual’è la fonte lirica del Caracciolo? Davide e la Bibbia, Dante, Petrarca, l’Ariosto, gl'infiniti petrarcheggianti d’Italia e di Francia, Marot e Margherita di Navarra gli hanno certamente servito d’ispirazione o di modello, spesso anzi di stampo. Infatti se ne trovano qua e là tracce evidenti: immagini e rime predilette, versi o parti di versi, costrutti ed artifizi usati. Ma ciò non toglie, che la fonte vera della Musa cristiana del Caracciolo sia pur sempre qualche cosa di originale e personale, cioè la stessa anima sua. Agli altri egli non deve Eer lo più che l’elemento formale della sua rica, a sè stesso invece tutto ciò che vi è di sostanziale, di intimo e per ciò di più commovente e di più bello. In vero, la scettica e sdolcinata poesia pctrarcheg-giante del suo secolo era ben lontana dal dargli quel calore di sentimento religioso che noi abbiamo ammirato nel Canzoniere. Ella gli ha certamente più nociuto che giovato, perchè rivestendo spesso pensieri e sentimenti di un abito troppo smagliante, di un’armoniosa ma vuota risonanza, di un’eccessiva ampollosità, ne ha attenuato il calore e l’effetto ed ha creato in più luoghi una stridula dissonanza tra forma e pensiero.
Tuttavia, tra la poesia fredda e pesante di parecchi poetucoli religiosi del secolo xvi e questa — dirò cosi — petrarcheggiante-mente religiosa del Caracciolo, non mi pare ci sia da esitare. Quella o non si legge o si legge a stento, questa può invece leggersi da cima a fondo, senza sentirsi stanchi e depressi, anzi provando spesso un vero diletto ed una viva commozione, perchè ci sono ogni tanto oasi poetiche e spirituali che ci ricreano dalla noia di alcuni componimenti troppo mediocri o troppo infelici.
11. L’OPERA POETICA DEL CARACCIOLO E LA CRISI RELIGIOSA DELLA SUA EPOCA.
L’opera poetica del Caracciolo non ha soltanto — come abbiamo dimostrato — valore biografico, per conoscere intima
mente la vita e l’animo dell’autore, nè modesto valore letterario, per alcuni pregi che lo adornano; ma assurge dalla semplice manifestazione e rivelazione di un’anima particolare a documento della vita collettiva di un determinato ambiente e di un dato secolo, rispecchia la crisi che travagliò più anime contemporanee del Caracciolo e che, mutate condizioni e forme, sussiste oggi ancora nell’intimo di molte anime moderne o «moderniste".
Come il Caracciolo, molti altri grandi prelati del secolo xvi furono sedotti dallo spirito nuovo della Riforma e, come lui, ondeggiarono tra l’antica e la nuova fede, allettati dai beni e dalle dignità che la chiesa cattolica largiva loro, e spaventati dall’incertezza dei sacrifizi che derivavano dall’osservanza della nuova fede. Per queste anime può dunque servire di documento indiretto il Canzoniere del Caracciolo, dove la lotta tra le due fedi, tra la coscienza spirituale e la vanità mondana, è intensamente ritratta. Esso ci spiega perchè così difficilmente la Riforma potè mettere radici profonde nel cuore di questi principi della chiesa, i quali, se colla mente aderivano ad essa, coll’animo invece erano riluttanti a seguirla per non separarsi dagli agi goduti.
Nè solo degli ecclesiastici del Cinquecento è documento biografico il Canzoniere del Caracciolo. Esso è troppo umano, Eer essere circoscritto ad un dato amiente o ad un secolo particolare. È una testimonianza — sia pure insignificante rispetto ad altre — della lotta che ogni cristiano sostiene quotidianamente nel fondo del cuor suo tra il bene ed il male, tra il dubbio e la fede, Dio ed il mondo; e della lentezza con cui, tra mille tentazioni e cadute, egli avanza verso l’ideale della perfezione cristiana e la beatitudine celeste.
Esso è tanto più notevole, quanto più si osservano l’età infelice e le condizioni sfavorevoli del secolo in cui l’opera fu scritta.
Nel Cinquecento il sentimento religioso, veramente profondo e sentito, è di rado espresso, anche in Francia, in opere poetiche. Margherita di Navarra, Marot, Du Bartas, D’Aubigné sono quasi gli unici veri rappresentanti del sentimento religioso in quel secolo, e quasi i soli ricordati nella storia letteraria della Riforma francese. Negli altri il sentimento religioso è per lo più freddo e dommatico, vuoto o superficiale, più lustra ed affettazione che realtà psicologica ed intellettuale.
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ANTONIO CARACCIOLO VESCOVO DI TROYES
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Ora se così esigua è la schiera dei poeti religiosi francesi nel secolo xvi — ed anche i migliori non sono privi di mende — perchè il Caracciolo dovrebbe continuare ad esserne affatto escluso? Il suo Canzoniere — a tacere delle altre opere meno note — non ha esso per i pensieri ed i sentimenti che esprime, per la grazia che talora l’adorna, tali pregi da poter figurare, senza troppa vergogna, nella schiera dei minori poeti della Riforma Francese del secolo xvi?
Noi lo crediamo e ce lo auguriamo, tanto più ch’egli è quasi il solo italiano che possa avervi diritto.
12. CONCLUSIONE.
Dall’anàlisi della Vita e delle òpere del Caracciolo appare chiaro il giudizio che si deve fare della sua personalità.
L’autore dell’« Encyclopédie Religieuse » afferma che se in Francia fossero vissuti
parecchi prelati cattolici animati dagli stessi sentimenti liberali del vescovo di Troyes, una riforma gallicana, mitigata su quella d’Inghilterra, avrebbe potuto sta-bilirvisi con ben maggior profitto che il radicalismo calvinista di Ginevra.
Noi non vogliamo venire a questa conclusione che ci pare esagerata ed infondata, ma saremo paghi se avremo potuto richiamar sul Caracciolo, come uomo e come scrittore, l’attenzione benevola degli studiosi italiani, e, corrette molte inesattezze, colmate molte lacune, analizzate special-mente le intime manifestazioni del suo pensiero, fargli assegnare un posto adeguato nella storia civile e letteraria della Riforma francese.
Fu spirito contradditorio ed incerto, ma ardente e liberale; religioso e morale, nonostante l’orgoglio e la mondana ambizione; coraggioso, ad onta delle sue viltà, predicatore dotto e facondo, verseggiatore spesso aggraziato, sincero e commovente.
Arturo Pascal.
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PER^G/LTVRÁ DELL'ANIMA
l'autorità del cristo
PSICOLOGIA RELIGIOSA
(Continuazione e fine. Vedi Bilycknit, Giugno «915« P- 477)*
XIX.
I grandi progressi compiuti dalla scienza, la quale dovette già aprirsi un varco nel mondo a grande fatica e rischio per tutti gli ostacoli messile dinanzi dalla teologia, quando questa aveva armi ed armati a sua posta, hanno effettivamente ingrandita la nostra idea della natura e perciò di Dio. Questo fatto mi fa ripensare a ciò che lessi una volta d’un predicatore francese della fine del secolo xvn, quando durava ancora il secento dei secentisti anche sul pulpito, e i predicatori descrivevano il cielo stellato con le più fiorite imagini della vecchia mitologia. Egli fu consigliato da un amico astronomo a raccontare piuttosto ciò che la scienza sapeva delle meraviglie del cielo. Possiamo supporre che lo stesso amico gli fornisse anche la materia. Il fatto è che il predicatore seguì il consiglio con grande edificazione del suo uditorio, che divenne sempre più numeroso, a scapito di tutti quei pulpiti che non avevano ancora insegnato che la natura qual è o quale la si viene discoprendo è più grande più bella, più divina di tutte le più fiorite imaginazioni degli uomini: « Iddio è pur maggiore del cuor nostro... ». (i).
Ma, dopo tanti gloriosi trionfi delle scienze positive e appunto per quest’ingrandimento del concetto della natura, si è potuto dare uno sguardo molto superficiale e perciò sprezzatore alla religione; ed è sorta la formidabile parola antropomorfismo. La religione non sarebbe, dunque, che una umanizzazione della natura.
Ma che cosa nota il credente che non ha rancori contro la scienza propriamente detta (il positivismo contemporaneo non è scienza, ma una metafisica come tutte le altre), anzi le è grato, perchè lo ha aiutato a farsi un’idea più chiara e più giusta di
(i) I GÍ0V. 3. 20;
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questa meravigliosa veste di Dio, che è la natura ? Prima di tutto egli nota che anche l’uomo è natura, ancora più natura di tutto il resto che si conosce; perchè, per dirla in termini perfettamente oggettivi, è il più complesso e ricco aggruppamento di fenomeni contenuto in uno spazio favolosamente limitato.
Nulla di simile fuori dell’uomo; e l’uomo è il solo interpetre, sto per dire il solo turcimanno, riconosciuto della natura stessa. La natura parla e non può essere intesa che per mezzo dell’uomo; e, quando compare il vero genio, la natura può parlare, come si capisce^ più liberamente, dicendo cose più grandi, più belle e più consolanti. Con ciò, cade, se non erro, una prima maschera della formidabile voce di greca composizione (assai spesso il greco serve a spaventare la gente) che farebbe credere anche a chi ne abusa, che l’uomo, che la scienza ci ha rivelato, sia qualitativamente più piccolo della natura, e che questa natura sia avvilita dalla piccolezza che le si vuole imporre.
Inoltre sa il credente che per dare una forma adeguata alla ineffabile bellezza che gli abbaglia lo spirito non esiste un paragone visibile in nessun luogo. Oh, egli sa tutta la verità della parola d’un antichissimo cultore d’antropomorfismo: « E a cui assomigliereste Iddio e qual sembianza gli adattereste? » (i).
Ma per una legge psicologica chiaramente formulata dal Cristo stesso, egli deve esprimere in qualche modo la sua speranza, per poterne parlare a se stesso ed ai suoi simili: « ...dall’abbondanza del cuore la bocca parla » (2). Urge dunque un qualche simbolo. Dove prenderlo? Da quella parte della natura che apparisce meno lontana da Dio: l’uOMO, che ha pensato a Dio, lo ha cercato e anche trovato, prima dentro di sè e poi in ogni luogo; Il credente non può dubitare che la Divinità sia infinitamente maggiore dell’umanità; ma egli deve calcolare quanto esiste di più meraviglioso in se stesso, il conoscere, l’amare, il creare, e deve servirsi di questi termini di paragone per ragionare così: — In Dio ci sono valori infinitamente più grandi di questi, nessun valore più basso. Ma anche questi valori sono inclusi nella immensità di Dio. Sono le maggiori bellezze umane, che son belle, specialmente perchè mi hanno indicato il Divino. Quale altro più prossimo paragone potrei io mai adoperare per esprimere la mia speranza? — Questo è l’antropomorfismo del credente. Quando egli vorrà pensare al suo Dio, dovrà naturalmente aiutarsi pensando ai maggiori valori che son dell’uomo, ma con la riserva che questi non sono che dei riflessi infinitamente lontani di ciò che Egli è. Soltanto così noi possiamo parlare di Dio con noi stessi e con l’altro uomo, suscitare la speranza religiosa nell’altr’uomo, coltivarla ed accrescerla in noi stessi e poi nell’altr’uomo.
Il credente sa o può sapere che questo è un antropomorfismo necessario, legittimo e sano, un linguaggio approssimativo fatto per il presente, che sarà lasciato tra poco in quell’altra Maggior Vita, che ci sta così vicina e così lontana, dove ci serviremo d’un altro linguaggio immensamente più conforme alla gloriosa verità.
Intanto si guardi quale uso sapiente fa il Cristo di questo nostro insufficiente linguaggio terrestre. Ecco la cara parabola del Figliuol prodigo (3). Questo piccolo
(1) Isaia, 40.18.
(2) Matt., 12. 34.
(3) Lue., 15. 11-32.
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racconto, che è anche una perfetta opera d'arte, composta con i mezzi più semplici, così profondamente e universalmente umana, mette efficacemente in chiaro una sublime verità: L’Eterno Amore che ci si rivela come luce di sole il giorno in cui scopriamo tutta la inesprimibile bruttezza della nostra vita e di tante cose che ci sembravano pure bellissime, e compresi di vergogna, umiliati, abbiamo cercato l’infinita Bellezza che ci aspettava. Naturalmente, quella Bellezza era stata già da noi conosciuta in qualche misura, perchè non avremmo mai potuto divenire consapevoli della bruttezza nostra, se non avessimo intravveduto il suo contrario. Così quel pazzo della parabola ricorda l’ottimo padre nel suo pentimento.
Potremmo noi mai sapere di qua quante anime sono state confortate ed hanno pianto di riconoscenza rileggendo quella parabola? Il nostro cuore ci dice che sono state innumerabili dalla prima volta, quando fu raccontata, fino a noi. E dall'Altra Parte sarà incessante la gratitudine per questo ■ antropomorfismo », che fu così genialmente usato su questa terra.
Non possiamo dubitare che la potenza, donde deriva il nostro essere sia più e meglio che padre. Ma di qua noi non abbiamo nessun altro nome meno inadeguato per invocarla. Lo stesso nome di « Dio » non sarebbe che il cielo personificato, dal sanscrito diva, cielo. « Padre », che era il titolo preferito dal Cristo, significa l’amore parentale, che è la più generosa forma d'amore che noi conosciamo di qua, ingrandito infinitamente. In verità significa molto più della volta celeste e di tutte le sue meraviglie! « Dio è carità » (i). È questa la migliore espressione che il credente ha potuto dare al suo « istinto del divino » c che ha preso dalla maggiore bellezza trovata là dove la natura è più densa ed intensa: l’uomo.
Quando è avvenuto il rinascimento spirituale sorgono l’uno dopo l’altro, come per una successione logica (ed è una nuova logica che'è anche nata) diversi bisogni che non sono deH’si^wXov che noi lasciamo troppo spesso pensare e operare, invece della nostra vera persona, ma che appartengono a quest’ultima. Non sono come i bisogni dell’uomo più superficiale che dissimula l’uomo interiore; perchè questi trovano o non trovano il loro oggetto; ma i nuovi bisogni trovano sempre il loro oggetto e sono totalmente soddisfatti. Sono varietà d’un unico grande bisogno, che è il bisogno della verità che ci affranchi e ci faccia felici. Tale verità, prima forma d’ogni altra, anche della più piccola, è la sola verità che veramente importi all’uomo e si rivela soltanto nella vita religiosa. Verità! Il credente non può darle altro nome, anche se volesse tentarlo. È il suo dolcissimo fato. La sua psicologia è quella stessa che noi possiamo attribuire ai nostri trapassati. Egli vede con quegli occhi della sua anima più vera, che sono come occhi che si celano nell’ombra; e ciò che vede non è un’ipotesi più o meno probabile, ma una cosa certa che lo fa certo, e che non è in opposizione, ma è in perfetta armonia con ogni altra grande certezza della vita, e la dichiara e la fa più bella. Un primo bisogno che nasce con la speranza religiosa è la preghiera. « Signore, insegnaci ad orare... »(2) è la fedele espressione del nuovo bisogno. Il credente, avendo l’intuizione
(1) 1 Giov. 4. 8.
(2) Lue., ix. 1.
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di una Potenza Infinita, che sa e che ama infinitamente, vuole comunicare con Essa e domandare il suo aiuto. È il fanciullo che si rifugia nelle braccia paterne. Ascolterà Iddio? Come dubitarne, se Egli è soprattutto amore? Naturalmente, questa è la logica della fede religiosa. E « quale uomo evvi tra voi, il quale, se il suo figliuolo gli « chiede un pane, gli dia una pietra? o, se gli chiede un pesce, gli porga un serpente? « Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dar buoni doni ai vostri figliuoli, quanto « maggiormente il Padre vostro che è ne’ cicli darà egli cose buone a coloro che lo « richiederanno? »(i). È forse concepibile un Dio inferiore alla sua fattura? Il disamore, come l’insensibilità, è povertà di vita, una vera inferiorità, a giudizio d’una coscienza sana. Dall’altra parte il credente non potrà mai accogliere l’idea che la nostra vita, così meravigliosa per ciò che è in se stessa come per il delicatissimo organismo che è al suo servizio c la connette col mondo esterno, proceda da una causa inferiore a se stesso.
Qual è il suo criterio? La pace e rallegrezza che lo possiede, un’esperienza felice lontanamente analoga all’altra della perfetta sanità del corpo. È il sentimento della perfetta sanità dell’anima o del suo equilibrio compiuto con. la certezza non spiegabile, ma indistruttibile, di camminare nella verità. Donde il credente non può più deviare, senza andare incontro a un disperato dolore e alla morte. Ma non se ne dilunga mai che per ritornarvi sempre; perchè non conosce il meglio che faccia più felice l'uomo interiore, ch’egli ha potuto scoprire sotto il fluttuante fantasma che viveva alla superficie della vita e che egli scambiava col suo vero « io ». Il medesimo credente non può dimostrare con argomentazioni la verità ch’egli sa; può soltanto far fede della sua esperienza. Ma l’altr’uomo lo comprenderà facilmente e sarà « edificato » (2) se pure la sua umanità non sarà dimezzata ed egli sarà tutto l’uomo. E qui osservo che il credente non può non credere che la speranza religiosa sia in ogni uomo allo stato latente o palese; perchè l’altr’uomo è simile a lui in troppe cose per non somigliargli. in qualche modo anche in ciò; e dovrà credere che l’uomo irreligioso non conosce tutto se stesso, ma soltanto la parte che meno rileva, essendo essa incapace di quel più puro e più forte godimento che ha il carattere della eternità e di cui è capace l’altra parte più specialmente umana, che conosce la speranza religiosa.
Devo poi dire che il credente non può vedere nessuna contradizione fra l’evoluzione che crea nuove forme di vita e l’onnipotenza di Dio. Per contrario egli riconoscerà nell’evoluzione il metodo di Dio; e l’idea gli sarà cara come fu cara al Maestro, che l’ha illustrata, come non aveva fatto nessun pensatore dell’antichità prima di Lui, con imagini efficacissime quale è quella del grane! di senape che, essendo il più piccolo di tutti i semi diviene a poco a poco un albero, talché gli uccelli del cielo vengon e prendono alloggio nei suoi rami, e quale è l’altra imagine del lievito che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina, finché tutta sia lievitata (3). E si può dire che
!i) Matteo, 7. 9-4.
2) Nel Vang. è il verbo etaéepfo, fabbrico una casa. Felicissima imagine adottata dall'ap. Paolo prima d’ogni altro, se non eiro, per significare la costruzione del nostro vero home, la speranza religiosa.
(3) Matteo, 13. 31-33, ecc.
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l’idea d’applicare alla vita interiore questa evidente caratteristica della vita in generale, che è l'evoluzione, sia propriamente cristiana.
Un’altra volta il Cristo paragona la speranza religiosa alla semenza gettata da un uomo nella terra. L’uomo dorme e si leva di notte e di giorno, e la semenza germoglia e cresce nella maniera ch’egli non sa. La terra produce frutto da se stessa, prima erba, poi spiga, poi grano compiuto nella spiga (i).
E « in quella maniera ch'egli non sa » e nella stessa possibilità dell'evoluzione creatrice che il credente intravvede la Mente che pensa ed opera dietro il meraviglioso-spettacolo della natura; perchè tutto è conforme alla creazione d'una Mente analoga alla nostra, la cui attività abbia riguardo a fini che sono anche analoghi ai nostri, ma naturalmente in quel modo che l’infinito può somigliare al finito. È un’analogia che soltanto il credente può intuire; perchè « in quella maniera ch’egli non sa » fu portato in luogo eminente, dove non son più nebbie, e questa intuizione è il fondamento vero della religione. Tuttavia si badi: il credente fa ogni sforzo per somigliare a Dio, non tenta mai d’assomigliare Dio all’uomo, che non è più religióne, ma propriamente antropomorfismo. « Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, « affinchè possiate esser figliuoli del vostro Padre che è ne’ cieli; perchè egli fa levare « il suo sole sopra i malvagi e i buoni e manda pioggia sopra i giusti e sopra gl’in-« giusti... Voi sarete perciò perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto » (2).
Ma ritornando al grande bisogno che nasce con la religione, la preghiera, si veda ancora come il Cristo si vale del confronto umano e faccia del buon antropomorfismo per farci comprendere come la nostra preghiera non ritornerà a noi a vuoto. Sono due parabole. La prima ci parla di qualcuno che va da un suo amico alla mezzanotte per chiedergli tre pani, perchè gli è giunto di viaggio in casa un amico e non ha che mettergli dinanzi. Ma l’altro non vuole essere annoiato, perchè la porta è serrata e non vuole destare i suoi fanciulli che sono in letto con lui.
« Io vi dico, che quantunque non si levi e non glieli dia, perchè è suo amico, pure « per l’importunità di esso egli si leverà e gliene darà quanti ne avrà di bisogno. Ed «io dico a voi: Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto » (3).
L’altra parabola ci fa conoscere un giudice, « il quale non temeva Iddio e non « aveva rispetto ad alcun uomo ». Or v’era una vedova in quella città, che veniva e riveniva instancabilmente da lui, per chiedergli ragione contro un suo avversario. Ma egli per un tempo non volle far nulla; nondimeno poiché la vedova gli dava molestia, la contentò alla fine, «che talora non mi maceri col suo continuo venire. E il Signore « disse: Ascoltate ciò che dice il giudice iniquo... » (4).
Dunque, un padre in generale dà buoni doni ai suoi figliuoli; un amico, anche se disturbato nel cuor della notte, può fare un favore al suo amico; un giudice irreligioso e inumano può render ragione ad una vedova. Quanto meglio ci ascolterà quella Carità che il credente è attratto e insieme costretto ad adorare come l'infinita Potenza che ha fatto padri, amici, giùdici?...
(1) Mar. 4. 26-29.
(2) Matteo, 5. 43-48(3) Lue., 11. 5-10.
(4) Lue., 18. 1-8.
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XX.
Come sa il credente che Dio è amore?
Ricordiamoci che la vita e la conoscenza religiosa sono perfettamente distinte ■da ogni altra forma di conoscenza e di vita e includono ciò che per il nostro intelletto è contraditorio. Ma facciamoci un obbligo della perfetta sincerità con noi medesimi, e riconosceremo che gli sforzi che si sono fatti (S. Agostino, Calvino...) e che tuttavia si fanno per accordare fra loro i dogmi indicati dalla coscienza religiosa tendono ad intellettualizzare la religione e perciò a sospingerla fuori della sua orbita naturale.
Il male esiste; esistono i più grandi orrori che non sorto l’effetto della cattiva volontà dell’uomo; e sappiam noi proprio dire quante volte questa cattiva volontà non è, nè può essere l’effetto di cause che son più forti dell'uomo? « Padre, perdona loro, « perchè non sanno quel che fanno » (i) è anche un prezioso avvertimento legatoci dal Cristo agonizzante. Il fatto è che il nostro arbitrio è solo relativamente libero: è una cosa che diviene; e si fa più grande nella misura stessa in cui s’ingrandisce la nostra esperienza della vita e perciò si allarga il campo del nostro arbitrio. Noi parliamo di libertà, nel suo significato soggettivo psicologico, e cioè in quanto concerne la nostra volontà,, allora che noi operiamo per attrazione e non per costrizione. Ma, quando lo spirito è così limitato che non è attratto che dai più piccoli beni, perchè non ha fatto mai l’esperienza dei più grandi e più puri godimenti c non li conosce, che libertà è mai questa? «... non sanno quel che fanno ». Quanto male, anche male fatto dall’uomo, che eccede la volontà umana!
Ma ecco il mistero rivelatoci dalla speranza: « Dio è carità » (2), e il credente fa l’esperienza di questo amore nella nuova vita ch.egli vive. In prima, la speranza è nata nella « buona terra » fatta dall'amore e dalla pietà verso il fratello (è perciò che il metodo di Cristo è l’educazione del cuore e ravvicina gli uomini, anche se sono sconosciuti l’uno all'altro) e non può nascere per nessun altro modo. Non può dunque meravigliare che l’idea nata, il dogma nato in questo particolare ambiente sia ad esso conforme. Poi, la speranza religiosa, se non ha abolito tutto il male esistente, lo ha però grandemente attenuato. Non ha attenuata la nostra sensibilità, come qualcuno potrebbe pensare, perchè, al contrario, essa richiede tutta la nostra più delicata sensibilità per sussistere. Ma è sottentrata l'idea che Dio regna e Dio è amore, e l'altra idea che questa vita terrena è soltanto una vicenda della nostra vita totale che è incorruttibile; una vicenda assai spesso tragica e dolorosa, ma non più disperata; perchè non è qui il principio e la fine della vita stessa, ma un momento nel corso interminabile della eternità; e quanto più sarà cresciuta la nostra speranza tanto più sarà diminuita la gravità dei nostri mali presenti. Per altro, l'esistenza del male, come anche la sua distribuzione nel mondo, sono un mistero incomprensibile anche alla mente del credente; ma egli ha la certezza che Dio è amore, e deve pensare che anche il più grande dolore ha un fine, che è il maggior bene e non può essere ancora il dolore o l’annientamento; e deve pure sembrargli il dolore un forte indizio che questa vita non è una cosa
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definitiva, non il tutto; ma aspetta la sua completa rivelazione in un altro luogo. Può in ultimo avere il credente il presentimento che, passando da questa vita e guardando indietro, non vorrebbe non aver conosciuto il dolore, che sarà certo il contrapposto necessario per assegnare alla nuova vita, in cui sarà penetrato, tutto il suo valore, e per poterla vivere con perfetta conoscenza. Ñon si deve dimenticare Che là conoscenza è un componente inseparabile dalla felicità più grande insieme con l’amore e l’attività creatrice. E quale ineffabile conforto nella preghiera! È qui particolarmente che il credente fa l’esperienza dell’Eterno Amore, quantunque non riceva sempre la risposta nei termini della sua domanda. Ma che vogliamo noi in sostanza in ogni nostro desiderio? Pace e allegrezza; e queste cose buone, in una forma o nell’altra, sono sempre date all’uomo che, come un piccolo fanciullo, domanda a Dio. Del resto, il credente crede che Dio sa, come l’uomo non può sapere, ciò che meglio giova alla nostra felicità. Perciò: « 0 Padre mio, se questo non può trapassare da me che io noi beva, la tua « volontà sia fatta » (i).
Il Cristo bevve in silenzio il suo calice. Ma se Egli è l'Uomo dal quale ripetiamo il più grande benefizio che si conosca, essendo Egli e non altri « l’autore e perfezionatore della fede » (2) religiosa, chi non vede che è propriamente perchè recò l’Evangelo all’atto e bevve il suo calice in silenzio? Quale incitamento in quella passione a soffrire con pazienza e coraggio aspettando il giorno, non mai lontano, della liberazione! E quale vasto e profondo realismo in quella morte, che invece di farci credere, come sembrerebbe naturale, nella vanità del bene e della vita (« Egli si confida in Dio; liberilo ora, se ha il desiderio di lui... » (3)), rende impotente la morte e porta alla luce l’immortalità!
XXL
L’esperienza spirituale è d’una natura estremamente delicata e non è facile a coltivare nella nostra povera fibra del tempo presente.anche per l'uomo che ne ha conosciuto tutto il prezzo. Non ha una forma sua propria di qua, nè la parola adeguata che la significhi. Dall’altra parte, il nostro ambiente abituale è il mondo visibile, che chiama a sè tutta la nostra attenzione e si accaparra ordinariamente le nostre migliori forze. È perciò che l’intuizione spirituale è difficilmente intrattenuta dalla nostra coscienza; e la religione ha dovuto sempre aiutarsi con simboli, riti, cerimonie, misteri..., ha, cioè, tratto utile dalle forme e dagli elementi del mondo visibile, dalle sensazioni che sono la nota caratteristica di questa vita, la nostra esperienza più familiare, per fissare ed esprimere l’intuizione spirituale. Quindi si può esser certi che quanto meno è spirituale la religione tanto più abbonderà in queste composizioni del visibile e dell’invisibile; le quali in certi stadi intermedi dell’evoluzione religiosa saranno anche molto complicate e d’oscuro significato, quasi per compensare con l’eccessività del mistero il difetto di verità.
[1 ) Mat. 26. 42.
2) Ebr. 12. 2.
¡3) Mat. 27. 43.
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Ma semplicità e bellezza sono inseparabili dalla verità; che anzi ne costituiscono propriamente l'essenza. E noi, siamo fatti capaci della verità, quando la nostra sensibilità ha compiuta la sua naturale evoluzione e noi siamo in ¡stato di sentire la più grande gioia che l’uomo abbia mai esperimentata e il maggior dolore che potrebbe mai esperimentare in questa vita terrena.
È allora che, da una parte, noi siamo presi e tenuti da una ineffabile bellezza che ci fa felici, dall’altra parte noi siamo respinti da una infinita bruttezza possibile che diverrebbe attuale, se noi l’accettassimo come l’ultima parola che esaurisca tutta la verità. Così noi siamo attratti e costretti a un tempo a riconoscere la verità. Impossibile sottrarci, impossibile volere uscire da questa benefica legge, qualora noi abbiam potuto discernere quella bellezza dinanzi a noi e la bruttezza che si accenna dietro a noi; e questo sforzo incontrastabile, questo carattere di necessità ne fa una legge immutabile della nostra natura più specificamente umana.
Abbiamo sempre il gran bisogno di qualche mistero religioso, data la nostra duplice natura del tempo presente, la quale ha bisogno d’aiuto. Ma un mistero perfetto rifletterà fedelmente le grandi linee della verità ed in forma così semplice da non distrarre la nostra attenzione dal suo contenuto: il segno non dovrebbe adombrare la cosa significata.
Ora il Cristo ha istituito questo mistero perfetto nella tristissima notte, in cui fu tradito: « Prese del pane e, fatta la benedizione, lo ruppe e lo diede ai discepoli.. » (1)
La simbolica comunione col pane rotto e col calice raffigura tutta la verità («... ó àyaTr/ì efrriv » (2)) e insieme il metodo per arrivarci (3); e si ripercuote nella nuova vita, unitiva, che è vissuta dal credente, mentre tocca i nostri sensi e questi si fondono, in certo modo, con lo spirito nostro per confessare la verità che ci fa felici e affranca la nostra più vera umanità; che la libertà è fatta dalla felicità, e l’uomo felice soltanto è libero, naturalmente libero. Non c’è altra libertà che conti.
È un semplicissimo mistero tratto dalla vita quotidiana, ed è una sintesi luminosa che ci fa intravvedere come in un baleno tutta una vita infinitamente più bella della vita che conosciamo e perfettamente felice; e riempie gli occhi e il cuore del pianto della riconoscenza; e rianima il morente come un’acclamazione di conforto che viene da quel mondo invisibile, dove egli sta per penetrare...
Il mistero raffigura nella maniera più geniale e perfetta la stessa verità che noi possiamo riconoscere attenendoci al criterio della pace e dell’allegrezza della nostra migliore natura; e non possiamo riconoscerla altrimenti. Del resto non sappiamo neanche dire come conosciamo il mondo visibile. Possiamo soltanto dire che come abbiamo degli occhi, così abbiamo un’anima, che vede e intravvede; e quando noi siamo pervenuti alla vita spirituale e abbiamo fatta l’esperienza della felicità che l’accompagna e conosciamo la particolare composizione di questa felicità più alta, non possiamo più
(1) Matt. 26. 26-29.
Si Giov. 4.8. .
Amore è il sentimento della nostra unità con l’altro, distinto da noi. Si veda còme la « Cena del Signore » raffigura l’amore nel commento, semplice e sublime, dell’ap. Paolo in 1. Coi. io. 16, 17.
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dubitare della verità, che ne è l’oggetto, nè della bontà del criterio che ci ha servito per trovarla. Questo criterio è nato con la religione e le appartiene necessariamente e l’anima religiosa non può più rigettarlo nella stessa maniera che non può più rinunziare alla nuova vita che ha sperimentata; e questo è il medesimo criterio indicato COSTANTEMENTE DAL CRISTO IN TUTTO L’EvANGELO.
Nel mistero legatoci è contenuta tutta la storia della nostra vita spirituale, e ci rammemora che fu pei- un amore grande fino alla rinunzia della vita presente, che la Vita e l’Incorruttibilità ci sono state nettamente rivelate e noi abbiamo potuto sapere che cosa è propriamente religione. E con l’invito fatto a mangiare di quel pane rotto e bere quel calice ci è ricordato che è per il più puro e generoso amore che noi possiamo trovare la vita spirituale, poiché è un invito a far nostro lo stesso spirito del Cristo. « Seguitami»; più ancora: «Prendete, mangiate; questo è il mio corpo». Identificatevi con me così ch’io divenga la stessa anima migliore, l’uomo più vero che si nasconde in ciascuno di voi! Il carattere del Cristo corrisponde perfettamente alla nostra migliore natura, come possiamo esser fatti certi, se per la lettura degli Evangeli abbiamo conosciuto il Cristo storico e, rotto ogni vincolo di pregiudizio, abbiamo cercato onestamente in noi stessi quale sia J'uomo migliore.
Faccio, infine, osservare come la« Cena del Signore» risponda alla nostra più intima psicologia. Che cosa è infatti, uno stato di vera pace e di vera allegrezza? Uno stato determinato dalla permanenza dinanzi al nostro spirito di cose grandi, belle e vere e buone, che vediamo più o meno distintamente o intravvediamo come una sintesi indistinta o come un confuso ricchissimo florilegio delle cose migliori che l’uomo può sapere. Domandando a Dio la felicità, alla quale naturalmente tendiamo, noi formuliamo il desiderio Ch’Egli mantenga dinanzi ai nostri occhi interiori questa visione. Ma, se voi considerate attentamente questo mistero della « Cena », non tarderete a discoprire un mezzo efficacissimo per ridurci a memoria tutto ciò che può farci felici, anche quando tutte le nostre facoltà sono indebolite e affrante, come nell’ultima ora. È come una dolce armonia, piena di significazione, profondamente commovente delle due forme di vita, anche della nostra vita di sensazioni, per strapparci a queste e inalzarci a cose maggiori.
Questo meraviglioso mistero, meravigliosamente ricco nella sua semplicità, è veramente degno «dell’autore e perfezionatore della nostra fede»! Egli ha voluto epilogare sacramentalmente il suo Vangelo; l’epilogo è perfetto. Così ogni anima religiosa, che ha pensato, sa e comprende che non potrebbe mai invaginarsi un più perfetto sacramento.
XXII.
« Maestro, noi vorremmo vedere da te qualche segno », (i) « uh segno dal « cielo» (2), « Ma egli rispose e disse loro: Quando è sera, voi dite: Bel tempo; perchè il « cielo è rosso; e la mattina: Brutto tempo oggi; perchè il cielo, è rosso ed uggioso. Voi « sapete discernere l’aspetto del cielo; ma non potete discernere i segni dei tempi » (3).
(1) Matt., 12.38.
(2) Matt., 16. 1.
(3) Matt., 16.2, 3.
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È a questi « segni dei tempi », che camminano, che il Cristo rimanda tutti quelli che vorrebbero qualche segno palpabile o qualche prova « positiva » per poter credere in Dio e nell’Altra Vita.
« Il regno di Dio », ossia la vita spirituale, la speranza religiosa, « non viene in « maniera che si possa osservare; nè si dirà: Ecco, qui! o: Là! perchè, ecco, il regno « di Dio è dentro di voi » (1).
Il Cristo ci ha indicata l’unica vera via, onde la speranza viene a noi, chiamando tutta la nostra attenzione sulla parte più nascosta della nostra vita. E tutta una psicologia particolare ch’Egli ha spiegata dinanzi agli occhi nostri, tutta una nuova scienza, alla quale Egli ha dato principio. Tutto il mondo civile, il suo pensiero, il suo linguaggio ne sono così compenetrati, tanto è verace quella psicologia, tanto umana quella scienza, che anche coloro che s’imaginano d'averla superata, spesso vivendo e ragionando si fondano inconsapevolmente su quei principi. Sarà difficile che il mondo civile possa mai uscire dal cerchio incantato che il Cristo gli ha tracciato intorno da ogni parte! Se ne esce ad un patto solo: ricadendo in una povertà psicologica primitiva e nella vita più volgare ed abietta.
XXIII.
Come e perchè la dottrina del Cristo ha accresciuto negli uomini la capacità d’amare e, là dove è più sinceramente ricevuta e sinceramente applicata alla vita, sono cresciuti e moltiplicati i sentimenti generosi e una grande bontà? E come avviene che la carità sia inseparabile dalla speranza Cristiana, così nei documenti evangelici come nella vita?
La risposta a queste domande, la troviamo quando abbiamo trovata la risposta a quest’altra domanda: Che cosa è amore o carità?
È, e non può essere altro che il sentiménto della nostra unità col « non-io »; ed è una esperienza felice analoga all’esperienza d’una grande e bella verità: Che cosa ha fatto il Cristo? Ha comunicato agli uomini una certezza in quanto alla Vita Eterna come non avevano mai avuta prima di Lui; ed ora accade che l’uno può amare l’altro, come se avesse scoperta in lui la più profonda somiglianza concepibile con se stesso, un fondamento unico per ambedue: l’immortalità. L’Immortalità ci unisce molto più che i vincoli di famiglia; e non vi è luce più vivace della fede nella Immortalità per farci vedere la nostra unità con l’altr’uomo, anche coll’uomo più distante da noi per l’educazione e per il carattere: fatti sostanzialmente simili dalla Immortalità, nonostante ogni altra differenza che diviene solo apparente.
Quando vedete uno sconosciuto ripensate che anch’egli è un’anima immortale come voi. Abbiatene il sentimento schietto e profondo, e voi avrete verso lui uno spontaneo impulso d’amore fraterno.
È qui, se non erro, il segreto della Carità Cristiana.
Come potrebbe mai sorgere questa dolcissima carità fra due uomini che fossero assolutamente convinti di dovere fra poco dirsi: Addio, per dissiparsi poi nel nulla?
(1) Lue., 17. 20, 21.
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L’aspettazione della Immortalità gì unisce, ripeto; ma l’aspettazione dell’annientamento tende ad escludere il vero amore; perchè è già il sentimento del distacco irreparabile, sempiterno: quasi implicitamente disamore.
Noi non possiamo sentirci una stessa cosa col nulla prossimo futuro; e, se incominciammo ad amare, noi vogliamo istintivamente tirarci indietro e rinchiuderci in. noi stessi per premunirci contro un dolore inconsolabile che non tarderebbe a venire.
XXIV.
Il Cristo ha offerta la speranza religiosa ai suoi contemporanei e agli avvenire largamente, generosamente, pazientemente, coraggiosamente, eroicamente con grande semplicità, sapienza e bellezza d’arte. Non è stata e non è ricevuta là dove non poteva e non può essere presentita come il maggior bene o il massimo valore concepibile; e questo accade dove non è un barlume di schietta bontà e di puro amore e domina un gretto spirito utilitario, dov’è perciò una grande confusióne d’idee intorno ai valori della vita. Ma quando noi abbiamo ricevuta questa speranza, noi vogliamo naturalmente coltivarla ed accrescerla, come si fa ogni volta che è stata destata in noi una grande gioia. L’esperienza del bene ci fa provare il desiderio del meglio, d’un godimento-sempre più perfetto.
Per ciò che concerne l’arte, la speranza religiosa diventa la sostanza d’ogni vera bellezza; per l'indagine scientifica è certamente un potentissimo stimolo e un conforto-grande; poiché la natura è ben altrimenti interessante, quando abbiamo per fede la certezza che Mens agitai rnolcm, che, quando è concepita come un tutto inconscio che acquista un infinitesimo di coscienza negli esseri animati e che è conosciuto solo in quanto è visibile a queste piccole vite. Per la vita in generale la speranza religiosa è il segreto della carità e l’unica soluzione possibile del problema della felicità, e ci dà una carità ed una felicità che sono più forti della morte.
E un valore che non racchiude nessun pericolo di delusione, ma al contrario si fa sempre più grande, quanto più lo viviamo, e cioè, quanto più e quanto meglio noi l’applichiamo alla vita sotto i suoi molteplici aspetti; quando abbiamo potuto comunicarlo ad altre anime intorno a noi, e quando viviamo in comunione con quel.e anime che lo comprendono e ne fruiscono il possesso. Di più, quella parola così ricca di conforto: « ... chiunque domanda riceve; e chi cerca trova; e sarà aperto a chi picchia » (i), si verifica appieno nella nostra esperienza religiosa, come nelle altre forme più elevate della vita: carità di patria e indistintamente verso l’umanità, invenzione artistica, indagine scientifica...; e noi vorremo internarci nello studio della nostra speranza, conoscerne sempre meglio il contenuto; e non ci stancheremo di domandare, di cercare e di picchiare, perchè prevediamo per induzione, e cioè argomentandolo dalla esperienza già fatta, che il nostro premio sarà grande nella nostra vita più vera, e saranno sempre nuove verità e nuove inopinate bellézze che nói verremo discoprendo.
(i) Matt., 7. 8; Lue. xi. io.
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l’autorità del cristo
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Il Cristo ha delineate tutte le necessità della psicologia religiosa; e, come quel signore della parabola dei talenti (1), Egli ha distribuiti i suoi beni: gli occhi dell’anima, le fondamenta della vita più grande, la pace e rallegrezza dell’anima, e la carità che ne è l’estrinsecazione nel consorzio umano... Abbiamo noi potuto accertarci della schietta bontà del capitale ricevuto, per la felicità singolare, che provammo in quel giorno, la quale deriva solamente dalla conoscenza della verità e ci forza (a quella forza non si vuol resistere) a riconoscere nella sua causa determinante la verità suprema? E allora questo capitale sarà di giorno in giorno moltiplicato; perchè noi vorremo trafficarlo incessantemente fino alla morte ed oltre, sapendo che in questo traffico è la nostra felicità che cresce. La religione non è fatta per la immobilità; è cosa vivente e deve camminare, e noi dobbiamo guardare nell’avvenire assai più che nel passato. Una religione vivente non può lasciar crescere intorno a sè ogni altra forma di vita per esserne poi soverchiata e vilipesa; ma correrà all’avanguardia del progresso umano. Essa è necessaria alla vita; perchè, ricusando la religione, la vita si cambia presto o tardi, ma ineluttabilmente, in un disperato dolore; ed è per la speranza religiosa soltanto che la vita ottiene tutto il suo valore.
Si prendano le Scritture e si veda l'immenso cammino, che il Cristo ha fatto compiere alla religione del Vecchio Testamento; e si guardi la direzione: verso la semplicità e la bellezza, cioè verso la verità più grande.
Il Cristo dunque, come il servitore della sua parabola, il quale ricevette la più grossa somma, i cinque talenti, ci ha dato l’esempio del traffico più attivo e proficuo dei talenti ricevuti. È il genio religioso che l’ingegno comune deve ascoltare, se non vuole essere respinto nella «tenebra di fuori. Ivi sarà il pianto e lo stridor dei denti »(2). Infatti, è aperto del tutto l’adito al più grande dolore ed ogni speranza è perduta; perchè non si può neppure lontanamente concepire la costruzione d’un’altra speranza che agguagli e compensi la speranza religiosa.
XXV.
Questa non vuol essere una esposizione o un’analisi di tutto il pensiero del Cristo. Ma si badi che tutto ciò che è più vitale e importante nella sua dottrina. Egli lo ha illustrato con le sue indimenticabili parabole, altrettante piccole pitture tratte dalla vita umana, che possono esser comprese anche dallo spirito più semplice. Sono le grandi verità che Gli stavano più a cuore e che voleva inculcare egualmente in tutti gli uomini, qualunque fosse il loro grado di coltura o d'incoltezza. E perciò che mi sono attenuto alle parabole, per tentare l’indicazione d’un nuovo criterio che concorra a stabilire l’autorità del Cristo, il quale, criterio ha forse il vantaggio d’esser più conforme ai metodi e alle abitudini intellettuali del nostro tempo.
Il Cristo ha risvegliata la nostra anima più profonda che dormiva sotto il fogliame dell’apparènza e del pregiudizio, come la Bella Dormiente nel bosco e l'ha rifi ) Matt. 25. 14-30.
(2) Matt 25. 30.
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svegliata, come il sole che, aprendosi una via nella più folta oscurità, tocca gli occhi chiusi e li costringe ad aprirsi. Egli ha allargato all'infinito l’orizzonte della nostra vita; I£gli ci ha fatto conoscere la verità più vera e ci ha muniti del criterio per riconoscerla, mentre ne ha indicata la potenza, alla quale non si vuole nè si può repugnare; Egli ha dispiegata e illuminata la bellezza sovrana della carità e ne ha dischiuso il segreto, che sta nella speranza; Egli ci ha fatto conoscere i massimi valori della vita e ci ha insegnata la via della felicità. È tutta una meravigliosa psicologia, di cui Egli è stato il fondatore e l'autore.
Come dubitare della perfetta autorità del Cristo, in questa materia, nelle cose che si sperano e appartengono alla nostra vita più distintamente umana? Egli, meglio d’ogni altro fondatore delle più grandi religioni esistenti, ha aperto gli occhi della nostra anima migliore, che vede l’invisibile ed ha la certezza, superiore ad ogni altra certezza, che non contempla una chimera, ma una realtà infinitamente bella, e infinitamente più reale di quella che colpisce i nostri sensi, e che è piuttosto la « Grande Illusione », di cui parla il Buddha e che il Cristo è venuto a dissipare; dove pure molti, troppi cercano la felicità. Invano; perchè han nascosto in terra l’aureo talento della religione (i).
Raffaele Wigley.
(i) Cfr. Parabola dei talenti.
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I LIBRI
LA CIVILTÀ BIZANTINA
In questo momento in cui su le rive del Bosforo maturano i nuovi destini della Storia, maggiore importanza acquista ai nostri occhi un recente e suggestivo volume del Turchi su la Civiltà bizantina (i).
Il quadro della vecchia civiltà milieu -naria presenta senza dubbio un singolare fascino agli studiosi ma esso appare già alla maggior parte delle persone anche colte alterato dalla leggenda e dai preconcetti. Così che civiltà bizantina e bizantinismo divengono volentieri sinonimi di sterile logomachia, di pedante formalismo e di lunga e fatiscente decadenza.
Eppure quest’impero che presenta una maschera di oro e di gemme, vanta altresì un’esistenza dieci volte secolare e posto a cavaliere tra la barbarie dell’Asia e quella dell’Europa, rappresentante della tradizione e della civiltà romano-cristiana sta sempre vigile e in armi, pronto a rintuzzare l’urto dei Goti (sec. iv), degli Unni e dei Vandali (sec. v), degli Slavi (sec. vi), dei Persiani e degli Arabi (sec. vii), dei Bulgari, dei Russi e degli Ungari (secoli vm, ix, x), dei Cumani, Petceneghi, Selgiucidi e Normanni (sec. xi, xn), dei Crociati (sec. xm) e degli Ottomani (secoli xiv e xv), finché non ebbe mozzo il capo sotto la scimitarra di Maometto II. Così per secoli fu missione storica di Bisanzio quella di arrestare l'impeto degli
(x) Nicola Turchi, La civiltà bizantina, Torino, Bocca, 1915- x voi., in-xa, di pagg. vm-328. Prezzo L. 5.
Asiatici in un tempo in cui l’Europa disgregata non avrebbe potuto opporre valida resistenza ad una loro fatale invasione. E fu sua gloria quella d’iniziare ai rudimenti della letteratura tutti i popoli slavi scrivendone poi la storia e d'irradiare la sua cultura e la sua arte per tutto l’Occidente, preparando le vie alla fioritura artistica e letteraria dell’Europa e alla rinascenza italica. L’Italia tutta, da Venezia a Palermo, attraverso Ravenna e la Magna Grecia, è un museo in cui si racchiudono le più mirabili produzioni dell’arte bizantina. Ancora oggi, in Puglia e in Calabria, interi paesi conservano la lingua e la liturgia di Bisanzio.
Conoscere le vicende della civiltà bizantina è quindi per noi, che viviamo ancora del suo patrimonio prezioso, un dovere di cultura. A soddisfarlo, ci sarà utile e competente guida questo volume del Turchi, che mira a « rappresentare allo studio, il quadro complesso della civiltà bizantina ».
Studiando i caratteri di questa civiltà, l'autore comincia col far giustizia d’un preconcetto comune anche ai migliori stu-. diosi. L’opinione corrente può essere riassunta in questa espressione dell’insigne storico belga, Goffredo Kurth: « L’his-toire de l’Empire Byzantin peut se résumé! en deux mots: e’est la troisième et dernière phase de la décadence romaine ».
A buon diritto il Turchi rileva l’insussistenza di quest’aforisma. « Bisanzio, egli osserva, non poteva perpetuare una decadenza assurda durante nientemeno mille anni, mentre Roma non aveva potuto reggere cinque secoli alle cause che minavano la sua esistenza ».
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Un altro preconcetto degli studiosi fa di Bisanzio, per adoperare ancora una volta le parole del Kurth, « un Empire romain de nation grecque et de mœurs orientales ». II Turchi sostiene invece che la civiltà bizantina sia stata una civiltà originale e come essa non sia • il risultato della mescolanza tutta esteriore dei tre elementi greco, romano ed orientale, bensì la compenetrazione e la fusione intima di questi ed altri elementi, i quali dettero origine a qualche cosa di assolutamente nuovo ed autonomo, che pur conservando le tracce dei princìpi formatori, non si identificava più con nessuno di essi ».
Secondo il Turchi, tre furono i principali elementi formatori della civiltà bizantina: il cristianesimo, l’ellenismo e l’orientalismo, elementi tumultuosi, spesso in lotta fra loro e i cui influssi storici avremmo desiderato sottoposti a una più profonda e più minuta disamina.
La civiltà bizantina s’irradia da un solo e grande focolare: Costantinopoli, la nuova Roma, e, come ha osservato un illustre bizantinista, il Rambaud, si assomma tutta in tre luoghi particolari della città: il palazzo imperiale, che racchiude la maestà tre volte santa del del ¡'íaotleú;, del
monarca per diritto divino; Santa Sofia sotto la cui cupola scintillante si svolge il fastuoso simbolico rito, sintetizzante tutte le credenze e tutte le aspirazioni della coscienza bizantina; infine, l’ippodromo, l’arena delle lotte politiche popolari e insieme il teatro dei suoi circenses.
A proposito delle famose fazioni del circo, sorte come corporazioni distinte tra loro dalla diversità dei colori e destinate ad allestire tutto il necessario per le rappresentazioni, il Turchi dissente giustamente dal Rambaud, che inclina a considerarle come semplici organizzazioni sportive, e riconosce col Diehl, che questo loro carattere non basterebbe « a spiegar pienamente la gravità dei conflitti che tante volte misero alle prese il governo e le fazioni ». Pur non volendo darci una spiegazione storica esauriente, il Turchi mette con buoni argomenti in rilievo il carattere politico di queste fazioni, che si ridussero poi principalmente a due, quella dei verdi e quella degli azzurri, e le cui sommosse avevano rapido contraccolpo nelle più lontane città dell’impero.
Allo studio dell’economia commerciale ed agricola dell’impero bizantino consacra tutto un capitolo che è uno dei più nuovi
e dei più importanti dell’opera. Il commercio e l’agricoltura costituiscono infatti il pernio di tutta la storia di Bisanzio e questa infatti non vien meno che quando si furono poco a poco esaurite queste due fonti di prosperità, per opera specialmente delle potenze marittime dell’occidente da una parte e dell’invasione araba, slava e turca dall’altra. Già la sua stessa situazione geografica destinava Bisanzio a diventare naturalmente l'emporio centrale dei popoli durante il medio evo. Grazie ad un diligente esame della legislazione nautica e agricola (■ nomos nauticos » e « no-mos georgicos >•), il Turchi è in grado di tracciarci un quadro interessante di tutto il commercio bizantino, analizzando le cause del suo sviluppo e del suo decadere e di farci penetrare nell’ingranaggio stesso dell’economia agricola. Noi assistiamo alle vicende sociali e politiche della lotta tra la piccola proprietà e la grande, alle provvidenze in difesa della prima, che, da Giustiniano in poi, escogitano gli imperatori che vi reclutano i loro più validi sostenitori e al progressivo estendersi della pene-trazione economica della Chiesa e dei monasteri. La rivalità e la lotta commerciale delle repubbliche italiane contro Bisanzio che condussero poi alla fondazione dei due imperi latini di Gerusalemme e di Costantinopoli, costituiscono uno degli aspetti più suggestivi dello studio dell’economia bizantina.
Mirabili furono le nostre repubbliche nello sforzo ardente e costante per impadronirsi del commercio del Levante, l’unico che esistesse prima della scoperta dell’America, mirando a fare dell’impero bizantino una provincia dell’economia italiana. Già sin dai secoli ix e x Genova e Venezia godettero, a Costantinopoli, una posizione sempre più privilegiata, il cui predominio culminò all’epoca delle crociate. Le crociate, infatti, fornirono alle repubbliche marinare italiane un eccellente pretesto per allargare l’àmbito del proprio commercio, impadronendosi dei porti della Siria e stipulando lucrosi contratti con i dominatori latini di Terra Santa.
Trasportavano su le proprie galere i crociati, ma ne ottenevano in cambio ogni sorta di privilegi economici.
Quando, il 12 aprile 1204 i Latini ebbero espugnata Costantinopoli installandovi una propria dinastia, Venezia si fece la parte del leone: l’Epiro, le isole Ionie, il Peloponneso, le isole al sud e ad est dell’Arci-
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pelago, Creta e una serie di città scaglionate lungo lo stretto dei Dardanelli e il mar di Marinara formarono il suo appannaggio. Arrivata la potenza veneta al suo fastigio, il doge s’intitolò: « dominator quar-tae partis et dimidiae totius imperii Romani ». Veneziani, Genovesi, Pisani, Amalfitani, Anconitani, avevano accaparrato tutte le migliori città di provincia e, sui Corno d’Oro, tutti i luoghi più favorevoli allo scalo, ricacciando dapertutto i Greci che ne erano stati sin allora i possessori. Del resto, gli Italiani mettevano al servizio degli interessi politici, militari e commerciali di Bisanzio una flotta, ben altrimenti numerosa e agguerrita che quella greca. E la diplomazia bizantina, fomentando abilmente le rivalità tra le varie repubbliche italiane, massime tra Veneziani e Genovesi, potò impedire di venire assorbita da esse.
L’impero bizantino ci presenta la duplice classe dei grandi e dei piccoli proprietari, degli honesliores e degli humiliores, dei Wwt e dei wiwiTtc. Ad esse si aggiungevano i coloni, divisi in parecchie categorie i quali erano addetti ai domini dei latifondisti. Alla categoria dei ¿vvaroi appartenevano i dignitari dell’impero, le chiese e i monasteri, in quanto possedevano vaste ricchezze territoriali. La classe rurale inferiore era costituita : i° dai contadini <Y£wpY&i) che vivevano nei possessi signorili lavorando una terra non propria, suddivisi in coloni liberi o fittaiuoli, che pagavano una rata annuale fissa in cambio di un tratto di terreno che lavoravano per proprio conto con utensili e bestiame proprio, e in coloni adsciptilii, specie di servi della gleba, privi di tutto, ma legati al 'suolo, in perpetuo; 20 dai piccoli proprietari (-/wpira'.) raggruppati in villaggi, che lavoravano terreno proprio pagandone al fisco l’imposta e sottostando ad un praefectus o praeposilus, incaricato della riscossione dell’imposta di fronte alla quale tutti gli abitanti del villaggio venivano considerati come solidari. I 3w»a«i avevano tutto l'interesse di distruggere la classe dei piccoli proprietari riducendoli alla condizione di yiw?T6‘ e assorbendone le terre nei loro latifondi, mentre gl’imperatori avevano tutto l’interesse a conservarli e a rinvigorirli. Il Turchi consacra interessantissime pagine a narrarci le vicende di queste lotte reciproche. In fondo si.compiva in Oriente la stessa evoluzione che si era compiuta in Occidente, in cui
la monarchia si sgretolò per l’insidia dell’invadente feudalismo.
Il Turchi consacra un capitolo a studiare le fasi della storia politica di Bisanzio, in cui egli distingue nettamente tre periodi. Un primo periodo, detto di forinazione, che va dall’assunzione di Bisanzio a capitale della parte orientale dell’impero romano fino alla morte di Giustiniano (326-565). Un secondo periodo, detto di espansione, in cui l’impero bizantino consolida i suoi caratteri, sviluppa le sue energie multiformi, espande e rassoda i suoi confini (565-1025). Un terzo periodo, infine, detto di dissoluzione, in cui la vita politica e civile dell’impero, a causa degli intrighi interni, dell’espansione occidentale e della minaccia turca lentamente si sfascia (1025-1453). Lo studio di ognuno di questi periodi costituisce un eccellente riassunto di divulgazione ed è completato dalla tavola cronologica dei papi, imperatori di Occidente e di Bisanzio e dei patriarchi, annessa in fondo al volume. Percorrendo le pagine consacrate alla storia del cosi detto « basso impero », il lettore comprenderà come, nonostante tutte le sue manchevolezze, quest’impero sia generalmente stato tutt’al-tro che basso e come esso invece abbia.saputo per tanto lungo tempo mantenersi come un baluardo della civiltà occidentale di fronte al pericolo asiatico e focolare di vita civile e di cultura umanistica tra i popoli barbari che lo circondavano.
Una storia della letteratura bizantina che sotto una forma sintetica ne esponga lo svolgimento organico in base allo sviluppo interdipendente dei vari generi e alla parallela vicenda della storia e della cultura, non esiste ancora nonostante la voluminosa Geschichte der Byzantinyschen Lite-ratur del Krumbacher. Il Turchi che non intende in questo volume, in cui egli volendo presentarci un quadro completo della civiltà bizantina non può trascurare il suo aspetto letterario, indugiarsi a laboriose ricerche personali in tutti i campi del soggetto, si limita a scegliere ed a illustrare convenientemente e talvolta non senza originalità, alcune delle figure più caratteristiche della letteratura bizantina.
Tratteggiando l’attività letteraria degli storici Procopio e Tofane, dell’agiografo Mosco, del teologo Damasceno, dell’innografo Romano il melode, del platonico Psello, dell’enciclopedico Fozio e d’altre figure minori, egli ci permette di penetrare lo spirito e di conoscere le forme che carat-
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terizzano tutta la produzione bizantina. Notevole è il cenno che egli fa dell’epopea popolare che va sotto il nome di « Imprese di Digenis Akritis ».
Di questo poema il Rambaud ebbe a scrivere: « Esso completa e spiega i cronografi, aiuta a far conoscere la civiltà e i costumi dell’epoca dei Porfirogeniti. Ci apprende qual’era la vita delle frontiere romane c come vi si erano sviluppate le idee cavalleresche e le istituzioni feudali. Ci ha conservato magnifiche leggende che la tradizione orale avrebbe potuto trascurare, e ci mostra come si mantenevano in mezzo alle popolazioni dell’Anatolia la fiamma poetica e l’energia creatrice; come nella loro viva immaginazione si riflettevano non solo le antiche tradizioni dell’El-lade, ma anche i miti della Persia, dell’india e dell’Arabia ».
Secondo il Turchi, la caratteristica che distingue la letteratura bizantina da quella anteriore sarebbe la religione cristiana, sicché essa sarebbe tanto più bizantina quanto più cristiana nel contenuto e nella forma. Questa caratteristica deriverebbe dalla speciale evoluzione storica di Bisanzio, realizzatasi nel senso di dare un potere sempre più assoluto e più « divino » al basileus, una maggiore efficacia etnica al cristianesimo, una coscienza sempre più forte della sua unità organica di fronte alla supremazia romana alla Chiesa « ortodossa ». Accanto all’elemento cristiano, l’elemento ellenico pervade anch’esso il mondo bizantino, manifestandosi special-mente nell’ispirazioni dei poeti, nell’arte degli alluminatori, degli scultori, degli orafi, nella rinascenza platonica del secolo duodecimo.
« Il cristianesimo bizantino è stato sopra tutto intellettualistico nel contenuto ed eminentemente letterario nella forma ». Ad illustrare quest’affermazione ò rivolto il capitolo quinto che studia gli elementi costitutivi della religiosità bizantina. Dei due fattori fondamentali dell’impero di Bisanzio: la cultura greca e la sua situazione orientale, derivano la prevalenza dell’intellettualismo e il fasto singolare delle ceremonie religiose. Dei padri coloro che più di tutti hanno contribuito all’illustrazione speculativa, dogmatica e dialettica, della tradizione cristiana, sono stati i greci. La liturgia stessa dei greci è estremamente intellettualistica, tutta pervasa di intenzioni teologiche, pur senza diminuire la partecipazione dell’elemento fantastico. L’ufficio dell’inno Acàtisto, che è
un vero poema liturgico sul tema dell'Annunciazione e dell’incarnazione, cl’Epi-taphios del Venerdì Santo, sulla morte di Gesù, che il Turchi analizza dettagliata-mente, costituiscono dei mirabili esempi di intellettualismo teologico, d'ispirazione poetica e di pompa liturgica.
La gerarchia che amministra questa liturgia intellettuale e plastica, solenne e fastuosa, si concentra a Bisanzio, donde irradia la sua autorità spirituale su tutti i territori dell’impero. Noi la vediamo strettamente legata alla corte imperiale, da cui derivano la ricchezza, i privilegi e la prctesa. alla supremazia sugli altri patriarcati orientali, e su quello stesso di Roma. Viceversa da questa chiesa, l’impero riceve la sanzione religiosa ai suoi ordini, il vincolo unitario delle varie razze della monarchia, « la coscienza di rappresentar una sola immensa famiglia con l’imperatore per capo e la mensa eucaristica per tavola comune! ».
Del basso clero, cui era permesso il matrimonio, si può dire generalmente, che viveva in mezzo al popolo senza infamia e senza lode, assorbito dalle mansioni del culto e dalle cure di famiglia.
Un compito più notevole e una più grande efficacia sulla vita popolare sembra abbiano avuto ¡ numerosi monaci che popolavano Costantinopoli e ai quali era devoluta l’amministrazione della beneficienza pubblica.
Sullo sviluppo del monachiSmo a Bisanzio e sull’organizzazione interna dei conventi il Turchi ci riferisce numerosi e interessanti dettagli.
Un capitolo intero consacra egli allo studio di una delle figure più rappresentative della chiesa bizantina: San Giovanni Crisostomo (t 407). Dopo avere rievocato a grandi pennellate le condizioni politiche, sociali, commerciali, intellettuali e religiose del mondo orientale del secolo iv, e in particolare della Siria e della sua capitale Antiochia, dove si svolgeva allora il più vasto e ricco mercato- orientale e fiorivano più che altrove l’agricoltura e le industrie e avevano insegnato Porfirio e Giamblico, Libanio e Andragazio, il Turchi fa un’accurata narrazione delle vicende storiche e letterarie e insieme una diligente e in gran parte nuova indagine psicologica del patriarca antiocheno.
All’arte bizantina è infine, consacrato l’ultimo capitolo del volume. Quest'arte, che ha tanta suggestiva bellezza, è lo specchio fedele della fisionomia essenziale e delle
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vicissitudini storiche dell'impero. In esso si riflette tutto quel cristianesimo e quello orientalesimo di cui era materiato il mondo bizantino e tutte quelle influenze che esso ebbe a subire dalle civiltà e dai popoli con i quali esso venne a contatto. Gli studi dello Strzygowski hanno mostrato quale contributo abbia dato l’Oricnte a quest’arte. Dalla Siria derivò esso l'architettura delle sue basiliche e la scultura decorativa; dall’Egitto, le incrostazioni policrome di marmi e metalli, di stucchi e mosaici su le pareti e per terra, le figurazioni con soggetti di genere e quelle iconografiche, che tendevano a costituire il tipo « storico » accanto a quello simbolico. Particolarmente notevole fu l’influsso archi tettonico e decorativo dell’Asia Minore.
Dalla confluenza di tutte queste correnti architettoniche e artistiche è nato il monumento più rappresentativo dell’arte bizantina: Santa Sofia.
Ma se molto deve Bisanzio all'assimilazione di elementi artistici stranieri, non meno notevole è stata la sua irradiazione artistica attraverso tutto l’impero e specialmente in Italia.
Quest’arte, se adibita alla decorazione di chiese e di palazzi, assume un carattere « monumentale » nelle proporzioni e « storico» nel soggetto. Riproducendo sulle £ areti della chiesa i fatti del Vecchio e uovo Testamento e della tradizione ecclesiastica e imperiale, essa serve inoltre all’ammaestramento del popolo. Una parte decorativa di prim’ordine era assegnata al mosaico, specialmente adatto alle figurazioni monumentali, e di cui ci rimangono ancora magnifiche opere d’arte- Minore sviluppo ebbe invece la pittura bizantina. La miniatura tuttavia, di origine egiziana è stata abbondantemente e pregevolmente coltivata. A dignità di opere d’arte assurse anche la fabbricazione dei tessuti, tanto a scopo religioso che profano. La scultura decorativa su legno, su pietra, penetrata di gusto alessandrino, e su avorio, particolarmente notevole dal punto di vista artistico, ebbe il sopravvento su la grande scultura e forma uno dei domini più interessanti dell’arte bizantina. L’arte dell’orificeria, infine, e dello smalto, cui le abitudini lussuose dei bizantini tanto ecclesiastiche che profane, fornirono larga materia di soggetti, va segnalata per le sue pregevoli qualità artistiche.
Possiamo riassumere questi rapidi cenni sull’arte bizantina, con le parole stesse del Turchi:
« Risultamelo originale delle varie influenze che si esercitarono su Costantino-Ìioli durante lo sviluppo della sua grande ortuna, essa esprime le correnti .etniche esistenti nell’impero, magnifica la potenza dei basileis, decade nelle epoche di depressione politica e risuscita ad ogni nuova rinascita del sentimento nazionale. Riman fedele all’impero al cui servizio è special-mente adibita, ed alla Chiesa il cui inse-Snamento volgarizza, il cui simbolismo lustra, la cui liturgia serve con magnificenza. E quando per l'impulso della tradizione antica, per il sorger di correnti laiche dirette a bilanciar l’elemento ecclesiastico, essa ritorna ai motivi alessandrini, non dimentica tuttavia che la sua funzione è sopratutto religiosa e ripete con una austerità e una limitazione sempre maggiore i motivi che le impone la grande tradizione religiosa dell’impero. Per questo l’arte bizantina manca, in fondo, di libertà nell’espressione delle idee e dei sentimenti e c’interessa più come rappresentazione di' una complessa civiltà che non come la spontanea manifestazione di un sentimento che abbia prepotentemente occupato l’animo dell’artista ».
« Ma, conchiude il Turchi, chi vuol penetrar l’anima della civiltà bizantina, dopo aver seguito le vicende della sua storia, lo sviluppo della sua letteratura, l’esplicazione della sua psicologia religiosa, dovrà studiare a lungo i prodotti della sua arte. Scoprirà in essi, malgrado tutto, il frutto migliore che poteva dare un albero le cui radici profondavano nel suolo di Grecia e di Roma ramificandosi ancor per l’Oricnte, e la cui vita si alimentava della vita copiosa, invadente, prepotente che il cristianesimo faceva circolare fin nelle fibre più intime dell’annoso suo tronco ».
Non staremo, per finire, a rimproverare all’autore di questo sostanziale volume la forma schematica che egli ha dato all’esposizione di alcuni aspetti della civiltà bizantina, nè il difetto del tutto secondario, di una certa sproporzione tra alcune parti del libro. Avremmo però voluto trovarvi una più ampia analisi della psicologia popolare. Il popolo, nella sua vita vissuta, vi è quasi sempre assente anche là, dove, come nel capitolo sulla religiosità bizantina, egli avrebbe avuto diritto a un posto notevole. Questa lacuna non diminuisce però il valore del prezioso contributo apportato dal Turchi agli studi bizantini in Italia.
Antonino De Stefano.
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PLATONE
GUGLIELMO WINDELBAND, Platone.
I grandi pensatori. Sandron, Palermo.
Ecco uno di quei volumi che solo un male inteso spirito di nazionalismo può far rimpiangere che sia stato scritto non da un italiano. È uno di quei volumi completi che entrano nella biblioteca dello studioso a compiervi un utile ufficio, perchè ad essi si ricorre non una volta sola nel proprio travaglio intellettuale.
Il Windelband è anche l’autore di quella Storia della Filosofia, che il medesimo editore ha avuto il merito di introdurre in Italia presso quelli che non possono servirsi della lingua tedesca e che resta — ad onta del particolare punto di vista dal quale è scritta, il quale può trovare qualcuno dissenziente — uno dei meglio riusciti lavori d’insieme che siano stati fatti su la storia della filosofia. Il Windelband è anche uno dei più valorosi rappresentanti dell’idealismo moderno tedesco, idealismo che egli ha ripensato per suo conto alla luce dello svolgimento complessivo della filosofia critica post-kantiana dandone un’espressione personale che culmina nella filosofia dei valori. Era quindi ben indicato per dare in un quadro completo e preciso la figura del divino Platone al quale si riattacca nei secoli e si riattaccherà, finché le divinazioni del pensiero avranno valore duraturo, ogni sorta d’idealismo. Mirabile figura questa di Platone che quanto più si allontana nel tempo tanto più si vede presente nell’efficacia e nella potenza del suo pensiero. Non c’è un dialogo di lui dove non urga un problema che noi pure travaglia! Egli fu uomo, maestro, scrittore, filosofo, teologo, sociologo, profeta magnifico. E il Windelband da questi diversi punti di vista considera il suo autore. non tralasciando in una succosa introduzione di collocarlo nella luce del suo tempo. Poiché Platone fu uomo e filosofo del suo tempo. Dice egregiamente il Windelband: « L.a posizione storica di Platone è caratterizzata dal fatto che le convinzioni circa la natura, il fine.e il valore della scienza dominanti la sua vita e la sua dottrina egli le svolse e le formulò partendo dai bisogni più vivi del mondo greco. Come in questo tutti i grandi problemi dello spirito umano trovarono con tipica semplicità e grandiosa unilateralità la loro espressione netta e precisa, cosi anche Platone, quando il suo popolo giunse al culmine del lavoro scientifico, ne comprese con sguardo assai previdente
le finalità ultime le fece oggetto delle sue intime aspirazioni personali, dandone una rappresentazione compiuta per mezzo dell’opera che egli svolse insegnando e scrivendo ». Per chi concepisce la vita pubblica stretta in un cerchio fatale di necessità pratiche e materiali e chiuse in un giro di determinismo economico, parrà lieve opera l’unificazione compiuta da Platone nel suo spirito dei bisogni ideali del suo popolo. Ma chi ha mai assicurato che la verità sta dalla parte di questi servi della materia e che la storia dei popoli è un libro mastro dove sono notati con precisione di calcolo l’attivo e il passivo, e la vita una società di commercio, una camera sindacale o una cooperativa? Neppure Carlo Marx questo pretese stabilire.
Pensate che Platone fiori in quell’epoca culminante della storia greca, nella quale Atene era fervida di una vita ricca, multiforme, dove la massima libertà era lasciata a tutte le forze della volontà e dello intelletto, sorgevano le splendide forme dell’arte e della scienza, cioè, la poesia drammatica con la tragedia e la commedia raggiungeva le più superbe altezze e la città rifulgeva per le sublimi creazioni della scultura. E ripensate a tutta l’opera del filosofo, a quei dialoghi che fanno la gloria dell’umanità e ppi dite se egli fu un estraneo a quel periodo trionfale di vita greca o non piuttosto desti meraviglia la tenacia con la quale lavorò nella scuola e attorno alle sue opere instancabilmente, come colui ■ che vuol compenetrare la realtà del suo ideale, che pretende da sé e dall’umanità il massimo, che lotta contro consuetudini e sentimenti diversi con passionale eccitazione •. Queste parole il Windelband scrive nelle prime pagine del volume; non sono generiche esaltazioni, ma semplicemente un’anticipazione del giudizio che lo stesso lettore trarrà dalla lettura del suo lavoro. Dopo aver studiato l’uomo, mettendo a profitto quanto la critica biografica è riuscita a stabilire di storicamente esatto — si capisce che una figura qual’è quella di Platone, doveva subire deformazioni per parte degli ammiratori e degli oppositori — esaminando la validità e la qualità dei rapporti che egli ebbe con Socrate— questo eccezionale disoccupato, come lo chiamava l’Acri — l’autore dedica un capitolo allo scrittore, per metterne in luce il valore di stilista— opera estetica della cui giustezza solo chi può gustare il greco di Platone potrà giudicare — e per stabilire gli scritti che debbono attribuirsi ai filosofo. Esamina
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prima le opere giovanili, poi gli scritti contro la sofistica (Protagora, Gorgia, Teeteto dubitando dell’autenticità dell’Ippia maggiore); le opere della maturità (Fedro. Simposio, forse il Menesseno e l'ione, la Poli-tera, tra la seconda e la terza fase della quale debbono essere inseriti tre grandi dialoghi, il Sofista, il Politico e il Parmenide); gli scritti metafisici (Fedone. Filebo, Timeo e Crizia) e finalmente le leggi. Su questo materiale ricostruisce il Windelband il pensiero del filosofo. Trattando della dottrina delle idee (dialettica), del mondo come Essenza e come Divenire (Metafisica) delle idee come cause finali (etica e fisica). Se non che alla esposizione delle sue dottrine filosofiche quasi sempre si intrecciano altri pensieri che sono estranei al puro svolgimento concettuale, per cui si è costretti ad ammettere che oltre al motivo etico e a quello intellettuale un altro motivo sia stato determinante per lo svolgimento della concezione platonica del mondo. Di qui la necessità dei due altri capitoli su Platone teologo e Platone sociologo. L’importanza profetica di Platone poi è ancora più profonda. Scrive il Windelband: « La ua idea di un’esistenza sovrasensibile nata dal mondo greco e da questo ripudiato, doveva diventare il principio fondamentale della vita nell’avvenire. E se il centro di gravità dell’umano volere, veniva trasportato dal mondo terreno nell’al di là. come Platone esigeva risolutamente, si iniziava così la più grande « trasposizione di valori » Che il genere umano abbia subito nel suo sviluppo. Cioè il valore conferito alla vita intima, la salvezza dell’anima immortale elevata a centro della vita volitiva... Quando poi al principio dell’era cristiana le religioni orientali penetrarono nella cultura dei popoli mediterranei, allora la filosofia platonica diventò il punto di cristaliz-zazione della più grande fusione di idee che la storia abbia conosciuto. Il dualismo de! mondo sensibile e sovrasensibile, come era definito concettualmente dalla dottrina delle idee, diventò la base di tutte le concezioni religiose, e la teologia platonica diede origine a numerosi sistemi teologici. Dopo l'esempio dato dai neopitagorici, il platonismo religioso fu per secoli l’unità fondamentale del pensiero occidentale e come principio scientifico dominò i due più grandi sistemi religiosi: la teologia del neoplatonismo e la dottrina del cristianesimo.
Ci sono in questa pagina del Windelband i germi d’una ricerca che a me basta accen
nare: il platonismo nelle religioni occidentali e specialmente nel cristianesimo. Non è ultimo merito del libro l’averla accennata. La traduzione fedele del Graziassi rende pregio al volume.
Ferruccio Rubbiani.
LA SALUTE DEL PENSIERO
ANTONINO ANI LE. La- Salute del Pensiero. (Laterza edit., 1914. Collezione: « I libri d’oro »).
L’autore è ormai tanto noto nel mondo scientifico e pedagogico che ogni recensione di una sua opera potrebbe ritenersi superflua. Scopo nostro nel fermarci a parlare di questo libro veramente aureo è quello di contribuire a richiamare su di esso l’attenzione degli uomini che pensano; perchè, dopo averlo letto con amore e profitto, pensiamo ch’esso costituisca un potente antidoto per i mali che travagliano l’anima contemporanea. Nella prefazione l’Anile scrive: « mi è parso che un libro di popolarizzazione di idee potesse ben proporsi lo scopo di contribuire a risollevare i valori della vita umana », ed infatti tutto il libro è un continuo ed efficace sforzo per rinvigorire, per mettere in valore la vera vita umana, la vita dello spirito.
L’opera si divide in tre parti: nella prima l’A. ha fatto opera di divulgazione scientifica soffermandosi a trattare argomenti preliminari alla sua tesi; ma il lavoro di volgarizzazione non è. come ci si potrebbe aspettare, arido o pesante: i capitoli ove si parla dell’evoluzione e del sistema nervoso si leggono, oltre che con utilità, anche con diletto, segnatamente per le considerazioni che accompagnano’ l’esame delle questioni, d’onde scaturisce la persuasione che nella vita del creato e dell’uomo non tutto può ridursi a meccanismo, anzi è necessario ammettere l’intervento dell’energia spirituale con funzione direttiva. E tale persuasione diviene ognor più viva a mano a mano che ci s’inoltra nella lettura delle altre due parti dell’opera. A pag. 70, nel capitolo Pensiero e Cervello, il prof. Anile scrive: « 11 nostro corpo è la traduzione statica di un potere dinamico che pulsa incessantemente in noi». In tali parole potrebbe dirsi che è la tesi del libro di cui ci occupiamo, tesi che — per ognuno che non sia ancor legato al miope positivismo ma-
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terialista che fino a poco tempo fa regnò indiscusso quasi, nel mondo del pensiero — risulta tutt’altro che cervellotica e infonde un maggior senso di rispetto per la vita, per l’uomo e per i suoi destini. Non ultimo certo tra i buoni effetti prodotti da una concezione spiritualista della vita è precisamente codesto nuovo senso di rispetto per noi stessi che tale concezione suscita in noi. Ci vengono a mente, a tal proposito, le parole profonde dell’apostolo Paolo (2* Corinti V. 17): «Se alcuno è in Cristo egli è nuova creatura; le cose vecchie son passate e tutte le cose son fatte nuove »; il nostro orientamento intcriore è d'importanza massima e, quanto più alti sono i motivi che lo dirigono, tanto più benefici ne risultano gli effetti. Ora il libro di cui ci occupiamo è un vigoroso colpo di timone per indirizzare il nostro spirito verso quella mèta d’onde si può guardare alla vita da un punto di vista più alto e completo, il che ci mette nella possibilità di esperimen-tare per conto nostro la verità dell’asserzione apostolica dianzi citata: per chi guarda la vita da una più larga visuale, senza lasciarsi dominare dal feticcio della pura esperienza del sensibile, « tutte le cose son fatte nuove ».
Non crediamo necessario soffermarci in modo speciale su questo o quel capitolo del volume dell’Añile, data la notorietà di cui tanto giustamente il professore calabrese gode per l’opera pedagogica — non nel senso ristretto del puro specialista, ma con le larghe vedute del vero educatore — che da anni ya compiendo in Italia. La Salute del Pensiero è un continuo ed efficace appello alle forze che dormono in noi, a quelle riserve mirabili che in certe date contingenze della vita mettiamo in valore spinti da circostanze interiori o esteriori a noi, e delle quali nei periodi normali della nostra esistenza generalmente non mostriamo di avere consapevolezza. Mettere in vista codeste riserve, dare suggerimenti atti a porci in grado di utilizzarle è scopo precipuo di questa opera che merita intera la gratitudine di tutti coloro — e sono meno di quanto comunemente si pensi — che vedono nella coltura non un fine a se medesima, ma un mezzo per rendere sempre più esteso l’orizzonte della vita e quindi per sviluppare in essa tutti quegli elementi, spesso nascosti, che possono renderla più felice, nel senso più nobile di questa parola.
« Noi uomini — scrive 1’Añile nel capitolo
La volontà libera — siamo dunque, anche materialmente, fatti per uscire dalla nostra prigione; e chi vi resta muore, come avviene dei semi vegetali che non riescono a rompere la teca dell'involucro ». Ed il volume di cui ci siamo occupati può essere un aiuto prezioso per spingerci ad uscire da quella stretta prigione, intellettuale e spirituale, che troppo spesso ci siamo da noi stessi costrutta.
Aristarco Fasulo.
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BEDROS TURIAN, POETA ARMENO
HRAND NAZARIANTZ: Bedros Turian, poeta armeno. Bari, Laterza e figli, 1915. — L. 1,50.
Ecco un volumetto che suscita una folla di pensieri, trasportati da un’ondata di commozione. Basterebbe, a rendercelo interessante, il fatto che riguarda un armeno, il quale ha sospirato con accenti poetici, nel dire il dolore suo e della sua patria; ma c’è di più : è scritto da un armeno, che è, egli stesso, un elegante poeta ed un valoroso patriota; non solo, ma questo volumetto,— che a riguardarlo subito svela come sia stato concepito da una mente eletta di artista — ne inizia una serie « per la conoscenza ideale dell’Armenia ».
Alla profonda simpatia che può svegliare ogni cosa parlante del popolo d’Armenia, — noto alla nostra generazione quasi soltanto per il lungo e sanguinolento martirio suo, che lo esalta nei secoli, e segna la inesorabile condanna dell’autocrazia musulmana religiosa e politica, — aggiunge dunque in noi questo libro, ed in parte soddisfa, la curiosità di sapere dei valori morali di quel popolo sfortunato, che idealmente continua una nazione già ricca e potente in forza ed in virtù, nazione che — per i principi di libertà i quali dovranno essere trionfalmente affermati con la chiusura della terribile guerra europea, — riavrà, noi vivamente auguriamo e speriamo, una sua propria vita, indipendente, forte e serena.
L’attuale turbamento internazionale, anziché condannare, conferma l’opportunità della nobile fatica dell’illustre Hrand Na-zariantz, poiché con l’invocata sconfitta — assieme agli altri consimili — di quello istituto medioevale ed oligarchico denomi-
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nato impero turco anche la « questione armena» potrà avere una soluzione, relativamente alle umane possibilità, definitiva. E’ questione di liberta, sia politica che religiosa. Non possono le nazioni normalmente evolversi nell’ interesse proprio e delle consorelle, quando invece di cittadini che seguano liberamente i moti della propria coscienza troviamo dei sudditi costretti a chinare il capo ad un cenno, volenti o nolenti; non ci possono essere coscienze rette, se le più intime credenze, che plasmano il carattere e la vita d’ogni individuo, non si lasciano fiorire al soffio della libertà, della reciproca tolleranza, verso l’azzurro dei nuovi cieli. Guerra al turco dunque, non tanto perchè egli giuri sul Corano invece di credere nella Bibbia, quanto perchè l’assolutismo suo vuol far gravare sui dissenzienti, sull'eresia santificata dalla schiettezza della convinzione. Onore al popolo armeno, che ha saputo e ancora saprà legare così genialmente la civiltà asiatica a quella occidentale!
Il libro che esaminiamo, Hrand Naza-riantz, che da qualche anno ha fissato in Italia la sua residenza, ha scritto in collaborazione di Franco Nitti-Valentini. Contiene, dopo una sobria esposizione d’insieme dello sviluppo dell’arte armena, la biografia del poeta Bedros Turian (che può esser considerato l’iniziatore della nuova poesia armena) morto di consuzione, giovanissimo, nel 1872; si apre con una presentazione di Enrico Cardile, ed è chiuso dalla traduzione di alcune liriche del Turian, fatta da Gian Pietro I.ucini.
Di Bedros Turian, che, giovane e povero, aveva tentato il teatro drammatico, ed aveva fatto conoscere ai suoi connazionali molti capolavori dell’arte europea, abbiamo qui la traduzione o la citazione di poche poesie. Certo egli non lasciò gran copia di scritti, ma quanto ci si fa conoscere basta a caratterizzare l’anima sua, espressa in versi ora delicati, languenti di appassionato dolore, ora forti e veementi, ma pieni di intima, tragica sincerità, sì che siamo indotti a considerare le sue bestemmie stesse con un senso di religioso stupore.
E bene egli ebbe a traduttore della lirica che noi qui leggiamo più importante e compiuta, Lamenti, Gian Pietro I.ucini — il poeta spavaldo e pagano, il cittadino incorrotto e mite, il pensatore che voleva alle religioni sostituita la Religione — poiché, sfortunatissimi entrambi, entrambi ebbero un culto vivissimo per la vita universa, che
riguardavano attraverso l’empito lirico della loro anima.
Ahimè! or tremo! son pallido, pallido come la morte! il mio petto schiumcggia, sbava come un inferno!
Sono il sospiro, che geme fra i neri cipressi, la secca foglia d’autunno, che sta per cascare. Donatemi una favilla, una sola favilla di vita ! Che?... dopo i sogni d’oro, baciar la negra tomba? Oh, Dio, che cupo destino ! venne segnato forse col fango agglutinato dai sarcofaghi?...
Oh... si! per quest'anima mia un’altra goccia di fuoco ; amare, io voglio,... ancora,... c vivere, vivere sempre ! Astri del cielo, piombate nell'anima mia!
In Lamenti c’è la celebrazione di tutta quanta la natura, lo sforzo di voler partecipare con essa intimamente, così acuto che al contatto della miseria fisica, del dissolvimento del corpo suo, genera scoppi di violenza contro la creazione stessa, seguiti da un doloroso ritrarsi in se stesso, nella piccolezza dell’atomo che ciascuno esprime, quasi spossato dall’audacia avuta, pentito nel fatale trapasso dall'infinito orgoglio alla triste umiltà, leopardiana.
Leggiamo in Pentimento'.
Mia madre aveva un dolore immenso.
Questo dolore nero ero io...
Ah! la testa mi si sconvolse come una tempesta
E feci sgorgare questo cupo torrente;
Ahimè, perdonami, o mio Dio.
Vidi le lacrime di mia madre... ,
Ed in Che si dice?: «Io mi dico: la tua ora è suonata! Abbandonati al seno della ultima e pietosa madre: la tomba! forse solo laggiù troverai rose, slancio e stelle... ».
Questo fanciullo che visse incompreso, che cantò l’amore come si sogna, ardentemente anelava vivere di più nel ricordo dei posteri, per consolazione sua, pel bene della sua patria. Il suo dolore maggiore non era il sentirsi innanzi tempo sposato alla morte; ma, diceva,
...aver la Patria piagata c tradita,
ramora secco dell'umanità, morire ignoto, senza darle ajta ; è questo, ahimè, che mi strazia di più.
Ora Bedros Turian rinasce anche per noi italiani, e per virtù dell’inesauribile amor Ì »atrio che sgorga dal cuore fraterno di •Irand Nazariantz. Continui la sua vita egli nei fratelli tutti che anelano alla libertà, alla giustizia, al divino.
In una poesia con versi disposti a forma di croce (oh, valore dei simboli, solo fortemente inteso dai religiosi e dai poeti !) Bedros Turian fa così parlare il Fanciullo alla Croce: «Oh Croce a quattr’ale su cui han Cristo inchiodato, bel sole d’amore, rag-
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giando la luce all'anima cieca pel mondo; oh, sotto a quest’ale ricovera pur questa mia, e di tuoi raggi fiammanti la gloria, insegnami la fede, e, coll’amor, la speranza immortale, per cui mi palpito in seno: disgrega le tenebre del mio cuore sconfitto! oh, sì, ch’io mi trasformi, se il mio piede
s’imbatte alla scogliera di Satana, che strega l’anima, colla angoscia e la notte; oh, ch’io sia la bocca della preghiera ardente, sempre davanti a Te ! ».
E sia, la voce del Fanciullo, la voce di tutta l’Umanità!
Terenzio Grandi.
LE RIVISTE
LA MONOGENESI DEL LINGUAGGIO
È noto come qualche anno fa Alfredo Trombetti acquistasse fama improvvisa Ì>ei suoi studi di glottologia. Accostando e lingue di molti popoli — la sua ricerca s’estendeva ad un limite fino ad allora non raggiunto — pareva volesse concludere — contro l’opinione fino a quel tempo corrente fra gli studiosi di glottologia comparata — ad una fonte unica del linguaggio pe’ diversi popoli. Dal monogenismo linguistico al monogenismo antropologico il passo poteva essere tentatore ed egli sembrò volesse tentarlo. Di qui la quistione che poteva essere d’esclusiva competenza dei glottologi, entrò nel dominio di altri studiosi, della psicologia dei popoli e della filosofia con un interesse anche per gli studiosi di religione di indiscusso valore. In un discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico 1914-1015 nella R. Università di Bologna e che Conferenze e prolusioni pubblica, il Trombetti ritorna sul motivo fondamentale de’ suoi studi, gettando uno sguardo d'insieme su lo stato presente della glottologia genealogica e non tralasciando gli spunti che sembrerebbero esorbitare dal campo della sua scienza.
Egli afferma fin da principio che il problema massimo della glottologia è quello dell’unità o pluralità d’origine del linguaggio e lo formula così: le lingue del globo sono tutte derivate da una sola lingua originaria o dobbiamo ammettere più origini indipendenti?
Secondo gli elementi del Finck il numero delle lingue arriva a più di duemila. Di qui la necessità di classificarle. Dei tre sistemi di classificazione: psicologico, morfologico e genealogico, solo l’ultimo ha pel Trombetti carattere scientifico. Secondo il principio genealogico o di affinità
le lingue vengono distribuite in gruppi di vario ordine o grado. Così l’italiano, il francese, lo spagnuolo, ecc., formano un gruppo di lingue affini, cioè aventi comune origine: dal latino. Alla sua volta il latino forma un gruppo di ordine più elevato con l'osco e l’umbro: il gruppo italico. Il gruppo italico insieme con l’ario o indo-iranico, con l’armeno, greco, albanese e coi gruppi celtico, germanico e balto-slavo rientra nel più ampio gruppo che i tedeschi denominano indogermanico e noi, con miglior diritto, indoeuropeo, poiché esso dall’india si estende alla maggior parte dell’Europa. Tutte le lingue indoeuropee sono la continuazione di un linguaggio proto-indoeuropeo, che naturalmente appartiene alla preistoria e che —se è vero il principio ammesso — potrà essere la continuazione di un altro linguaggio ancora più antico. Comunque è certo che questo gruppo proto indoeuropeo è d’ordine primario. Ma quanti di siffatti gruppi ha stabilito finora la glottologia? Federico Mailer —cui spetta il merito d’aver data la prima classificazione genealogica delle lingue del globo e le responsabilità di aver introdotto nella scienza il poligenismo linguistico — stabilì nel 1876, l’esistenza di 78 gruppi linguistici indipendenti. Nel 1905 il Trombetti li ridusse ad undici, connessi tra di loro in senso risolutamente monogeni-stico. Una classificazione posteriore dello stesso Trombetti li ridusse ancora a meno; a nove così distribuiti: in Africa 2 gruppi: bantu-sudanese al sud e camito-semitico al nord; in Europa e Asia 4 gruppi: caucasico, indoeuropeo, uraloaltaico, indocinese; in Asia e Oceania 2 gruppi: dravidico-australiano a ovest, mundapolinesiaco a est; in America 1 gruppo: lingue dell’America. E tutti questi gruppi non sono campi singoli così chiusi che non sia lecito sup-
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porvi sotto un nesso e una coordinazione vicendevoli, che anzi allo stato attuale della scienza dobbiamo ammettere una enorme concatenazione linguistica, i cui anelli sono rappresentati dai gruppi bantusudanese, camitosemitico, caucasico, indoeuropeo e uraloaltaico, in un’area che è immensa perchè comprende l’Africa, l’Europa e la maggior parte dell’Asia, in un complesso cioè dove sono rappresentate tutte le razze fondamentali. Nè là concatenazione termina qui. Dunque il dogma poligenistico è perfettamente crollato? La questione della pluralità o unità d’origine del linguaggio è passata per tre diversi periodi. Dapprincipio l'unità fu generalmente ammessa o per tradizione religiosa o per vaga intuizione o su prove insufficienti se non false. È questo il primo periodo prescienti fi co, in cui ammettevasi pure l’origine unica dell’uomo. Poi nella Seconda metà del secolo scorso, sull'autorità di Poti, Schleicher e F. Mailer fu affermata come certa la pluralità d'origine, impossibile l’unità. Il terzo periodo è quello — secondo il Trombetti — rappresentato dalla moderna scienza glottologica, la quale affermando col Fink che «è estremamente probabile che le lingue madri dei gruppi primari derivino tutte da un’unica lingua madre in senso assoluto » o col Schuchard che « le lingue di tutto il mondo sono parenti tra di loro » conferma la intuizione o la tradizione reli-Siosa del primo periodo suffragandole elle prove scientifiche. E come allora si ammetteva con l’origine unica del linguaggio, l’origine unica dell’uomo, così adesso al monogenismo linguistico fa riscontro il monogenismo antropologico.
Già fin dal 1905, quando il Trombetti pubblicò il primo volume della sua opera « L’unità d’origine del linguaggio ■ (Bologna, Treves) un competente, il Formichi, impugnava la affrettata conclusione di lui affermando che « nei Trombetti il poliglotta ammazza spesso il glottologo e in genere lo scienziato » e scriveva: « L’unità di origine del linguaggio resta sempre un’ipotesi la quale si dirà dimostrata (a questo futuro però io non credo) quando i raffronti tra le lingue più diverse del mondo potranno farsi con quel grado di certezza e con quei metodi che sono propri della comparazione delle lingue affini. Quello che impedisce di prestar fede alle asserzioni del prof. Trombetti e di restar persuasi dai suoi ragionamenti e dalle sue comparazioni
è per l’appunto resistenza d’una scienza del linguaggio la quale avvezza com’è ad un grado di certezza matematica, non Cuò appagarsi di coincidenze stranissime ansi ma che sfuggono ad una rigorosa dimostrazione scientifica ». Dopo otto anni di lavoro, quindi dopo otto anni di risultati scientifici la critica de! Formichi ha perduto del suo valore? Mi pare che scientificamente la posizione del Trombetti e del suo critico sia la stessa, almeno, nel valore informativo dell’una e dell’altra. Il Trombetti non ha preteso nel suo discorso di giustificare coi risultati, diciamo così, tecnici le sue affermazioni, ma li ha presupposti per rafforzarle. Secondo lui quei gruppi primitivi si sono andati riducendo, e da ciò trae la convinzione che si andranno annullando in uno solo. Ma a parte che se la riduzione fu fatta coi metodi già criticati dal Formichi essa è basata su troppi labili fondamenti, chi non vede che è per lo meno poco scientifica la sua convinzione finché la scienza del linguaggio resta, come è del resto nel metodo da lui prescelto, una scienza sperimentale, che raffronta il dato linguistico e non consente dei salti di analogia?
Per quanto riguarda il passaggio che il Trombetti pare ritenga per certo dalla monogenesi del linguaggio al monogenismo antropologico il Croce aveva ben stabilito {Critica III, 406-9 e V 69) i limiti dell’indole della ricerca del Trombetti. Non l’origine (natura) del linguaggio, non origine dell’umanità, quindi il fondamento su cui riposa la coscienza dell’umana fratellanza e simili dovevano entrare nel campo delia sua ricerca. Ricondusse perciò il Croce e circoscrisse la tesi dei Trombetti « all’affermazione di una lingua comune antichissima (non già originaria) a cui si colleghino le lingue ora esistenti: ricerca di valore veramente storico, anzi preistorico, priva di quel significato filosofico ch’egli tendeva a darle. Il Trombetti parve persuaso delle critiche del Croce, tanto che in un suo opuscolo: Come sì fa la critica di un libro (Bologna, Beltrami, 1907) rinunciò alle conclusioni criticate e il critico se ne compiacque. Nel discorso inaugurale di Bologna, egli ritorna alle sue affermazioni iniziali. È forse intervenuto qualche fatto nuovo a rafforzarle? Non pare. Come è identica la posizione del Trombetti glottologo di fronte ai suoi critici, è del pari identica quella del Trombetti —come chiamarlo? —... filosofo. Potrà raggruppare
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risultati scientifici fin che vuole o ridurre sempre più i gruppi linguistici primitivi, potrà forse arrivare alla riduzione ai minimi termini. Purché si ricordi che anche se ridotti a due soltanto egli avrà l’obbligo di spiegarci perché sono due e non uno o per quali intime ragioni, non di analogia, il secondo dipenda dal primo, noi possiamo prendere atto delle sue riduzioni. Gli resterà sempre inspiegabile col suo metodo, l’origine monogenetica del linguaggio e con essa l’origine monogenetica dell’uomo. La narrazione biblica della creazione dell’uomo non esce così, per adesso, dalla interpretazione cui l'ha assoggettata la critica.
F. RUBBIAN!.
VARIA
Il Bollettino di Letteratura Critico-Beligiosa reca nel • fascicolo di giugno un importante sommario. E. Buonaiufi del quale ricordiamo la recente elevazione alla cattedra di Storia de! Cristianesimo presso l’Università di Roma ha parecchie ottime pagine sopra spunti di antichità cristiane che, col modesto titolo di spigolature, sono uno studio pregevole e compatto.
Il Bollettino sospende le pubblicazioni per aver dato volentieri un bel nucleo di collaboratori alla milizia in quest’ora solenne; promette di riprenderle, e noi contiamo sulla promessa, « non appena felicemente compiuti i destini della Patria sia lecito tornare con rinnovato ardore alle opere della cultura ».
Rileviamo dalla Revue Bleue (5 juin 1915) un articolo del noto scrittore cattolico Imbart de la Tour nel quale il clericalismo francese riespone la sua concezione imperialistica del Papato romano...: la cattedra pontificia é un prodotto del medioevo, d’una civiltà cui codesto supremo potere spirituale era necessario;... il medesimo concetto dal Bourget ripreso nel suo recente romanzo. È bene notare e sviluppare
questa idea oggi in cui la civiltà non ha davvero più bisogno d’una forza direttrice, oggi in cui questa pretesa forza direttrice mostra invece di essere con quella nel più diametrale antagonismo;... se la pietra d’angolo della Chiesa di Roma è, invece del Cristo (e chi saprebbe oggi onestamente, sinceramente ritentare l’esegesi pontificale del tu es Petrus?) é, invece del Cristo, la civiltà medioevale e scolastica, allora la pietra è smossa e l’umanità può oramai avviarsi da sola sul suo cammino.
Siamo lieti di rilevare dalla classica Revue Philosophique del maggio scorso quanto scrive l’illustre Ribot, nel suo magistrale studio: La pensée symbolique, intorno ad un valoroso nostro concittadino del quale analizza acutamente un’opera recente: « ce livre de G. Ferrerò, Le leggi psicologiche del simbolismo, est l’ouvrage la plus etendue et documentée ».
Notevole una lunga recensione della recente pubblicazione di Georges Rouma: Les influences des milieux en éducation, Paris, Fischbacher, 1915.
Il fascicolo del 15 maggio della Civiltà Cattolica è questa vòlta un numero unico di balordaggini di cui per solito non manca di offrire qualche campione. Lo scritto « Le guarentigie e la guerra », l’altro « Dichiarazione delle tesi approvate dalle Congregazione degli studi ■ e poi... • Equivoci di nazionalismo: martiri in guerra .e preti in zaino » e ancora « Profanazioni dannunziane » e « La dottrina cattolica sulla questione femminile » ammassano in piccolo spazio una così ingente colluvie di sciocchezze medievalistiche, di vieto rancidume, di puerili pretese, di boriose caparbietà da far rimanere pensoso il lettore che riescisse a trattenere il disgusto e fargli domandare in quale beatissimo anno del Signore quella roba fu scritta, se i tipi sacrosanti del Befani non segnassero sulla giallastra copertina il 1915. S. Bridget.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell'Unione Editrice, via Federico Cesi. 45
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RIVISTA MENSILE ILLUSTRATA DI STUDI RELIGIOSI • « »
VOLUME V.
ANNO 1915 - I. SEMESTRE
(Gennaio-Giugno. Fascicoli l-Vi)
ROMA
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INDICE PER RUBRICHE
INDICE DEGLI ARTICOLI.
Catholicus: Che pensare del celibato ecclesiastico? p. 193, 467.
Costa Giovanni : Impero Romano e Cristianesimo, p. 437.
Delio Dr. : L’autonomia della religione, p. 461.
De Stefano Antonino: Saggio sull’eresia medievale nei secoli xn e xm, p. 24.
ld.: Le origini dei Frati Gaudenti, p. 374.
Falchi Mario: Confessioni, p. 5.
Janni Ugo: Le varie dottrine circa l’essenza della religiosità, p. 96.
Meille G. E.: Un vescovo socialista. F.
S. Spalding, p. 19.
Mi nocchi Salvatore: I miti babilonesi e le origini della gnosi, p. 285.
Murri Romolo: La religione nell’insegnamento pubblico in Italia, p. 102.
Orano Paolo: Dio in Giovanni Prati, p. 357.
Pascal Arturo: Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes, p. 48, in.
Pioli Giovanni: Riccardo Cobden, l’Italia e Pio IX, p. n.
Id. : Sulla via dell' Unióne delle Chiese, L’esperienza di Kikuyu. p. 473.
Rossi Mario: La cattedra di storia del Cristianesimo all’università di Roma, p. 307.
Id.: L’opera di Thomas-Kelly Cheyne, p. 398.
Rubbiani Ferruccio: Mazzini e Gioberti, p. 261.
Rutili Ernesto: Vitalità e Vita nel Cattoli-cismo, p. 58, 137, 224, 483.
Saitta Giuseppe: Il miticismo di Vincenzo Gioberti, p. 181.
Vitanza Calogero: L'eresia di Dante, p. 85.
Id;: Studi Commódianei, p. 274.
INTERMEZZO.
| Rossi Mario: Visioni d’arte cristiana nella Marsica abbattuta (con sei illustrazioni su tavole fuori testo), p. 115.
PER LA CULTURA DELL’ANIMA.
Conferenze — Prediche - Sermoni.
Wagner Carlo: Sii uomo, p. 52.
Wigley Raffaele: L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa), p. 202, 310, 477.
INTORNO ALLA GUERRA.
Allegret Paul: La guerra e i cristiani, P- >33Falchi Mario: Confessioni, p. 5.
Ghignoni Alessandro: La guerra e il Cristianesimo, p. 404.
Giretti Edoardo: Perchè sono per la guerra, P- 3>9G. P. : Come ci vedono gli altri, p. 504.
Momigliano Felice: La guerra e gli Ebrei russi, p. 330.
Orano Paolo: Gesù e la guerra, p. 123.
Paschetto Paolo A.: Belgio (disegno a tre colori), tavola tra le pagine 496 e 497.
Pioli Giovanni: Proposta di convocazione di un concilio generale del Cristianesimo, p. '219.
i Id.: Preghiere in tempo di guerra, p. 326. Id.: Notre prochain l’ennemi, p. 497;.
| Ragaz L.: Al disopra dell’odio, p. 134. Rosazza Mario: La guerra, la religione e l’Italia, p. 211.
NOTE E COMMENTI.
Whittinghill D. G.: Siamo sani di mente?, P- 333-
90
IV
BILYCHNIS
LIBRI E RIVISTE.
Bassi D.: Dai discorsi di Epitteto. p. 79.
Caterino Cirillo: L’eloquenza dei Santi Padri (Pietro Chiminelli), p. 412.
Chiappelli Alessandro: La crisi del pensiero nella cultura contemporanea (F. R.), P 72.
Ciceri P. E.: Credenze e culti pagani nella polemica commodianea (Calogero Vitanda). p. 65.
Della Seta Ugo: L’etica del Soloview, (F. R.) p. 73- ! '
De Mun Gabriel: Il conclave da cui usci Benedetto XIV, (F. R.), p. 155.
De Villeneuve Hebrard: La questione religiosa in Francia e la guerra (Ferruccio Rubbiani), p. 414.
Durkheim E.: Les formes élémentaires de la vie religieuse (F. R.), p. 158.
Fabbri Ennio: I Giansenisti nella conversione della famiglia Manzoni (P. Chiminelli), p. 75.
Fabbri P.: Il pensiero religioso di D. M. Ausonio (C. Vitanza). p. 233.
Ferrari Linda: La donna italiana nella leggenda, nella storia, nella poesia (F. R-), P- 4 >3Foucart M. P.: Les Mystères d’Eleusis (C. Vitanza), p. 236.
Gautier E.: Introduction à 1* Ancien Testament (G. E. M.), p. 67.
Gentili Fernanda: I preliminari della lega doganale tra gli Stati italiani (F. Rub-, biani), p. 238.
Hope Moulton James e Milligan George: The Vocabulary of the Greek Testament (Ignazio Rivera), p. 153.
Losacco Michele: Schelling (Ferruccio Rubbiani), p. 410.
Meille Giovanni E.: La rinascita religiosa della democrazia? (Piero Chiminelli), P- 334Olmo Francesco: La rivoluzione francese nelle relazioni diplomatiche di un ministro piemontese a Roma (Ferruccio Rubbiani), p. 77.
Per la sincerità * Paschale Praeconium • (Piero Chiminelli), p. 413.
Pio IX e l’Italia (F. Rubbiani), p. 238.
Premoli Orazio: Andrea Towianski (S. Bridget), p. 155.
Robertson A. T.: A. Grammar of the Greek New Testament in the Light of Historical Research (D. G. Whittinghill), p. 150.
Saintyves P-: La guerison des verrues, de la magie medicale à la psychothérapie (Ernesto Rutili), p. 68.
Id.: La force magique, du Mana des pri-mitifs au dinamisme scientifique (Ernesto Rutili), p. 71.
Salvadori Giulio: Le idee sociali di Niccolò
Tomasseo e le moderne (P. C.), p. 74.
Schweiger A.: I riti dei Cafri (F. R.), p. '59'
Spinoza: Tractatus theologico politicus (F. R.), p. 157.
Varia: p. 160, 240, 33^, 416.
Vitali Giulio: Un esperimento di pedagogia emendativa (F. Rubbiani), p. 412.
Weininger Otto: Intorno alle cose supreme (Felice Momigliano), p. 154.
LA GUÈRRA.
Notizie - Foci - Documenti.
Inghilterra, p. 161, 337, 426.
Germania, p. 241, 351, 417. 500.
Francia, p. 255, 350. 430.
NOTIZIE.
p. 242, 501.
ILLUSTRAZIONI.
Ritratto di Riccardo Cobden. Tavola tra le pagine io e 11.
Ritratto del vescovo F. S. Spalding. Tavola tra le pagine 18 e 19.
Visione d’arte Cristiana nella Marsica abbattuta. 6 tavole tra le pagine 120 e 121.
Ritratto del Rev. J. Campbell. Tavola tra le pagine 216 e 217.
La religione e la morale della guerra. Tavola tra le pagine 248 e 249.
Sfinge italica (Disegno di Paolo Paschetto). Tavola tra le pagine 320 e 321.
! La Guerra e Cristo. Tavola tra le pagine
344 « 345Oh fiamma!... (Disegno di Paolo Paschetto). Tavola tra le pagine 356 e 357.
' Ritratto di Giovanni Prati. Tavola tra le pagine 360 e 361.
Lettera autografa inedita di Giovanni Prati. Tra le pagine 368 e 369.
Ritratti degli imperatori Nerone e Costantino. Tavola tra le pagine 456 c 457.
Belgio (disegno a tre colori di Paolo Paschetto). Tavola tra le pagine 496 e 497-
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INDICE GENERALE
Allegret Paul, p. 133.
Antico Testamento: Introduzione all’A. T., p. 67.
Anticristo: Gli Anticristi e l’A. nel Carmen apoloeelicum di Commodiano, p. 274.
Arte: Visione d’A. cristiana nella Marsica abbattuta, p. 115Ausonio D. M.: Il pensiero religioso di D. M. A., p. 233
Autonomia: L’A. della Religione, p. 461.
Autorità: L’A. del Cristo, p. 202, 310. 477.
Bassi D.» p. 79.
Benedetto XIV: Il conclave da cui usci B. XIV, p. 155.
Benedetto XV: La politica di B. XV verso gli Stati belligeranti, p. 143; Una missione di B. XV, p. 224.
Bibbia: Introduzione all’Antico Testamento, p. 67; Una monumentale grammatica del Greco neotestamentario, p. 150; Un vocabolario del Nuovo Testamento, pagina 153.
Bridget S., p. 155, 240. 335.
Browne Bevil, p. 174.
Caffi E., p. 157.
Cafri: I riti dei C., p. 159.
Campbell John, p. 219; Ritratto di J. C. Tavola tra le pag. 216 e 217.
Caracciolo Antonio: A. C. vescovo di Troyes. pagina 48, in.
Caron Andrea: II caso C., p. 137.
Carpenter Edward, p. 340.
Caterino Cirillo, p. 412.
Cattolicismo: Vitalità e vita nel C., p. 58, 137. 224, 483.
Celibato: Che pensare del C. ecclesiastico?, p. 193, 467.
Cheyne Thomas-Kelly: L'opera di T. K. C., p. 398.
Chiappelli Alessandro, p. 72.
Chiesa: Chiesa e Stato in Italia, p. 137, 483;
Sulla via dell’Unione delle Chiese, p. 473.
Chiminclli Pietro, p. 75, 334, 412.
Ciceri P. L., p. 64.
Circoncisione: la C. presso i Cairi, p. 159.
Clericalismo: I clericali e la guerra, p. 58, 229. La liquidazione dei clericali di destra, p. 63.
Clifford Alien, p. 339.
Clifford John, p. 161.
Cobden Riccardo: R. C. l’Italia e Pio IX, p. 11; Ritratto di R. C., Tavola tra le pagine io c 11; C. e Pio IX, p. 326.
Commodiano: Saggi critici commodiani. p. 65; Gli Anticristi e l’anticristo nel Carmen apologeticum di C., p. 274: C. doccta?, p. 281.
Conclave: Il C. da cui uscì Benedetto XIV,
z- p;,5-5’ Confessioni, p. 5.
Cosmopolitismo: Nazionalismo e C. nell’etica del Soloview, p. 73.
I Costa Giovanni, p. 437.
' Costantino: Ritratto dell’imperatore C.» p. 456.
Cristianesimo: Il C. e la Guerra, p. 5; La guerra e i cristiani, p. 133, 211; Proposta di convocazione d’un Concilio generale del Cristianesimo, p. 219; La guerra c il C.» p. 404: Impero Romano e C., p. 437. j Cultura: Per la C. dell’anima, p. 52, 202;
La crisi del pensiero nella C. contemporanea, p. 72.
Dante Alighieri: L’eresia di D.. p. 85.
Delio Dr., p. 461.
Democrazia: La rinascita religiosa della D?,
P- 334; De Mun Gabriel, p. 155.
De Stefano Antonino, p. 24, 374.
Docetismo: Commodiano doccta?, p. 281. Dominio temporale dei Papi: Una pagina della storia temporale dei papi, p. 77. ' Dryander Ernesto, p. 420.
| Durkheim E., p. 158.
92
VI
BILYCHNIS
Ebrei: La guerra e gli E. russi, p. 330.
Eieusi: I misteri di E., p. 235.
Eloquenza: L’E. de Santi Padri, p. 412. Epitteto: Dai discorsi di E.» p. 79.
Eresia: Saggio sull’E. medievale nei secoli xii e xw: Il contenuto delle E. popolari, p. 24; L’E. di Dante, p. 85.
Etica: Nazionalismo e cosmopolitismo nel-l’E. del Soloview, p. 73.
Fabbri Ennio, p. 75Fabbri. P., p. 233.
Falchi Mario, p. 5.
Ferrari Linda, p. 413.
Filosofia: Nazionalismo e cosmopolitismo nell’etica del Soloview, p. 73; Il misticismo di Vincenzo Gioberti, p. 181; Mazzini e Gioberti, p. 261: Schelling, p. 410.
Gautier L.» p. 67.
Gaudenti (Frati): Le origine dei Frati Gaudenti, p. 374.
Gesù: G. e la guerra, p. 123; L’Autorità del Cristo, p. 202. 310.
Ghignoni "Alessandro, p. 404.
Giansenisti: I G. nella conversione della famiglia Manzoni, p. 75.
Gioberti Vincenzo: Il Misticismo di V. G., p. 181. Mazzini e G., p. 261,
Giretti Edoardo, p. 319.
Giudei: Roma e i G.» p. 442.
Gnosi: I miti babilonesi e l'origine della G” p' 285‘
Gruenberg Paolo, p. 422.
Guarentigie (Legge delle): Le trattative e le voci sulla sistemazione dei rapporti tra l’Italia ed il Papato, p. 139, 484.
Guarini G. Battista, p. 490.
Guerra: Il cristianesimo e la G., p. 5; I clericali e la G., p. 58: Gesù e la G., p. 123; La G. e i cristiani, p. 133, 211; Al disopra dell’odio, p. 134: La G.: notizie, voci, documenti, p. 161, 241, 337- 4*7- 497; i-a G., la religione e l’Italia, p. 211; la religione della G.. p. 225; La G. e gli amici (Iella pace, p. 245; La G. mondiale e la religione universale, p. 248: Perchè sono per la G., p. 319; Preghiere in tempo di G., p. 326; La G. e gli ebrei russi, p. 330: Siamo sani di mente?, p. 333; la G. e il Cristianesimo, p. 404.
Heath Carlo, p. 165.
Hoffmann Dr, p. 421.
Holmberg Teodoro, p. 248.
Hope James, p. 153.
Impero: I. Romano e Cristianesimo, p. 437. Italia: Riccardo Cobden. 1’1; e Pio IX, p. 11; La religione nell’insegnamento
pubblico in I., p. 102; Chiesa e Stato in L, P- 157; La Guerra, la Religione e 1’1., p. 2x1; Pio IX el’Italia, p. 238; « Italia », p. 356.
Janni Ugo, p. 96.
Lahufen Federico, p. 424.
Lloyd George, p. 173.
Cosacco Michele, p. 410.
Luzzatti Luigi, p. 492.
Magia: La Scienza e la M., p. 66.
Manzoni (famiglia): I Giansenisti nella conversione della famiglia M., p. 75.
Marsica: Visione d’arte cristiana nella M. abbattuta, p. 115.
Mazzini Giuseppe: M. e Gioberti, p. 261.
Meille G. E., p. 19.
Milligan George, p. 153.
Minocchi Salvatore, p. 285.
Mistero. I. M. di Eieusi, p. 235.
Misticismo: Il M. di Vincenzo Gioberti, p. 181.
Mito: I. M. babilonesi e l’origine della Gnosi, p. 285.
Momigliano Felice, p. 154, 330.
Murri Romolo, p. 102
Nazionalismo: N. e cosmopolitismo nell’etica del Soloview, p. 73.
Nerone: Ritratto dell'imperatore N., p. 456.
Norman Angeli, p. 338.
Nuovo Testamento; Una monumentale grammatica del greco neotestamentario, p. 150; Un vocabolario del N. T., p. 153.
Ogdoade: La Madre e 1’0. inferiore nella teologia babilonese, p. 290.
Olmo Francesco, p. 77.
Orano Paolo, p. 123, 357.
Ottolenghi Raffaele, p. 160.
Papato: Riccardo Cobden, l’Italia e Pio 1X. p. 11; Una pagina della storia temporale dei papi, p. 77; Chiesa e Stato in Italia, p. 137 ; La politica di Benedetto XV verso gli Stati belligeranti, p. 133 ; Il conclave da cui uscì Benedetto XIV, p. 155.
Pascal Arturo, p. 48, in.
Pedagogia: La religione nell’insegna mento pubblico in Italia, p. 103; Un esperimento di P. emendativa, p. 412.
Pensiero: La crisi del P. nella cultura contemporanea, p. 72.
Pleroma: Sizigie e P. nella teologia babilonese, p. 289.
Pio IX: Riccardo Cobden, l’Italia e Pio IX. p. 11, 236; Pio IX e l’Italia, p. 238.
Pioli Giovanni, p. 11. 219, 326, 473, 497-
93
INDICE
VII
Prati Giovanni: Dio in G. P.» p. 357; Ritratto di G. P., tavola tra le pag. 360 e 361: Lettera inedita di G. P., tavola tra le pag. 368 e 3<>9Premoli Orazio, p. 155.
Pringle Rev., p. 429.
Quaccheri: L’atteggiamento dei Q. di fronte alla guerra, p. 167; La ■ non resistenza - e l’attività dei Q., p. 342.
Questione romana: La Q. R. e la guerra, p. 58.
Rade Martin, p. 500.
Ragaz L., p. 134- „ .
Religione: La R. nell insegnamelo pubblico in Italia, p. 102; Le origini della R., pagina 158; La guerra, la R. e l’Italia, p. 211; La Guerra mondiale e la R. Universale, p. 248; R. e guerra, p. 319; R. e democrazia, p. 334; L’autonomia della R-, $. 461.
igiosità: Le varie dottrine circa l’essenza della R., p. 9$Richards Leyton, p. 428.
Rito: I R. dei Cafri, p. 159.
Rivera Ignazio, p. 153.
Rivoluzione Francese: La R. F. nelle relazioni diplomatiche di un ministro piemontese a Roma, p. 77Robertson A. T., p. 150.
Rolland Romain, p. 505.
Rosazza Mario, p. 211.
Rossi Mario, p. 115, 307. 398Rubbiani Ferruccio, p. 77, 236, 238, 261, 410, 412.
Ruffìni Francesco, p. 491.
Rutili Ernesto, p. 58, 68, 137, 224, 483.
Sabatier Paul, p. 430.
Sacramento: I S. della redenzione nella teologia babilonese, p. 298.
Saintyves P., p. 68.
Saitta Giuseppe, p. 181.
Salvadori Giulio, p. 74.
Scaduto Francesco, p. 490.
Schelling Federico, p. 410..
Schuster Ermanno, p. 417.
Schweiger A., p. 159.
Scienza: La S. e là Magia, p. 66.
Scott Holland Enrico, p. 172.
Sfinge italica, tavola tra le pagine 320 e 321.
Shaw Bernard, p. 163.
Sizigie: S. e Pleroma nella teologia babi-lonense, p. 289.
Socialismo: Un vescovo socialista, F. S. Spalding, p. 19.
Sociologia: Le idee sociali del Tommaseo, p. 74.
Spalding F. S.: Un vescovo socialista; F. S. Spalding, p. 19; Ritratto del vescovo S., tavola tra le pagine 18 e 19.
Soderini Eduardo, p. 238.
Soloview Vladimiro: Nazionalismo e cosmopolitismo nell’etica del Soloview, p. 73.
Spinoza: S. e la teologia, p. 157.
Stato: Chiesa e S. in Italia, p. 137.
Storia del Cristianesimo: Il contenuto sociale delle eresie popolari medievali, p. 24; Studi commodianei, p. 65, 274, 281; La cattedra di S. d. C. all’università di Roma, p. 207; L’origine dei frati Gaudenti, p. 374; Impero Romano e Cristianesimo, p. 437.
Teologia: Spinoza e la T. p. 157; T. babilonese, p. 285.
Terremoto: Visione d'arte cristiana nella Marsica abbattuta, p. 115; Il T.: il Dio dei clericali, p. 148: Il T. intellettuale: Cristo o Moloch? p. 232.
Tommaseo Niccolò: Le idee Sociali di N. T., p. 74.
Towianski Andrea, p. 155.
Triade: La somma T. nella teologia babilonese, p. 285.
Uomo: Sii un uomo!, p. 52.
Vitali Giulio, p. 412.
Vitanza Calogero, p. 64, 85, 233, 235, 274, 281.
Wagner Carlo, p. 52.
Wallace Bruce, p. 160, 505.
Weininger Otto, p. 154.
Whittinghill D. G-, p. 150, 333.
Wigley Raffaele, p. 202, 310, 477.
Wurster Paolo, p. 422.
Zetkin Clara, p. 431.
96
Prezzo del fascicolo Lire 1 —
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