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Anno Vili. - Fasc. VI.' ROMA - 15 GIUGNO 1919 Volume XIII. 6
GIUSEPPE RENSI: Metafisica e lirica.
Dino PROVENZAL: Ascensione eroica.
Giovanni Pioli ; Una lettera inedita del P.
Tyrrell a un gruppo di modernisti italiani.
(Con pagina autografa)
MARIO Falchi : C’è una spiegazione logica della
RUBRICHE FISSE :
Per la cultura dell’ anima - C. Wagner : Odiare padre e madre ? (Sermone).
Note e commenti - Luisa Giulio Benso : Una cattedra necessaria - lì novello car-z-«. I roccìo - PAOLO TUCC1: Per uno scritto ClW&° ! di M. Lutero.
Cronache - Guglielmo Quadrotta: Politica vaticana e azione cattolica.
Tra libri e riviste - M. : Rassegna di filosofia politica (1) - GIOVANNI PIOLI : Pel IV cen-... I tenario della Riforma (VI, 2) - RAFFAELE PIMI? CORSO: Etnografia e religioni primitive (Vili) - Varia.
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BILYCHNIS Rivista mensile di studi religiosi
. —. ..— < < < < FONDATA NEL 1912 > > > >
CRITICA BIBLICA - S TORI A DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI - PSICOLOGIA PEDAGOGIA FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO - LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL'ESTERO SI PUBBLICA LA FINE DI^OGNI MESE. REDAZIONE: Prof. LODOVICO PASCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l’Italia, L. 7; Per !'Estero, L. 10; Un fascicolo, L. 1.
IPer gli Stali Uniti e per il Canada è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica, B. D. Pajtor, 1414 Culle Ave, Phlladelphia, Pa. (U. S. A.)].
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NOVITÀ
È uscito il 9° volume della Biblioteca di Studi Religiosi edita dal Dr. D. G. WHITTINGHILL
GESÙ DI NAZARETH
STUDIO STORICO CRITICO
di PIETRO CHIMINELLI
autore del voi. Il 11 Padrenostro ■ e il mondo moderno.
Il volume comprende i seguenti capitoli:
1. Il mondo al tempo della nascita di Gesù.
II. Il paese di Gesù.
III. La Madre di Gesù.
IV. Gli anni silenziosi di Gesù.
V. La predicazione di Gesù.
VI. Le Parabole di Gesù.
VII. I principali insegnamenti di Gesù.
Vili. Gli “ agrapha 99 o le parole di Gesù non registrate.
IX. I miracoli di Gesù.
X. Le riforme operate da Gesù.
XI. L’ultima settimana della vita di Gesù.
XII. Oltre la tomba.
11 voi. di oltre 500 pagine si vende al prezzò di L. 4.
Rivolgersi alla Libreria Ed. Bilychnis, Via Crescenzio, 2 - ROMA.
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EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLATEOLOGICA BATTISTA • DI ROMA
Anno ottavo - Fasc. VI.
Giugno 1919 (Vol. XIII. 6)
SOMMARIO:
GIUSEPPE RENSI: Metafisica e lirica...................Pag. 414
DiNO Provenzal : Ascensione eroica . . .......... » 427 Giovanni Pioli : Una lettera inedita del P. Giorgio Tyrrell a un gruppo
di modernisti italiani... ........... , . » 439
(Una pagina autografa del Tyrrell: Vedi a pag. 443]
Mario Falchi: Ce una spiegazione logica della vita?......> 445
PER LA CULTURA DELL’ANIMA :
Carlo Wagner : Odiare padre e madre ? ...... ....... '. . . . » 451
NOTE E COMMENTI:
Luisa Giulio Benso : Una cattedra necessaria - Il novello carroccio . . . » 456
Paolo Tucci : Per uno scritto di M. Lutero ............... • • 460
CRONACHE:
Guglielmo Quadrotta: Politica vaticana ed azione cattolica: Leone XIII e Benedetto XV - La chiesa e le classi lavoratrici - Richiami alla Francia - La disputa per Santa Sofia - Il determinismo storico del Vescovo d'Orléans - «Siamo stati ingiusti col Papa...» - Il Partito Democratico Cristiano - La bandiera cristiana - Il programma del Partito - L’insegnamento della religione - La Lega di azione cristiana • 461
TR A LIBRI E RI VISTE :
m.; Rassegna di filosofia politica (I): Idéologie - I miti - Il diritto come processo - La categoria giuridica - Che cosa è il liberalismo? - La nazione e i cattolici - Idealismo c politica ............... . 473
Giovanni Pioli : Pel IV Centenario della Riforma (VI, 2): Aspetti e conseguenze politiche delia Riforma: portata politica del genio organizzatore di Calvino - Lutero e Calvino riformatori della Chiesa - Chiesa e Stato - Conclusione: le chiese della Riforma e l'unità cristiana....... . 480
Raffaele Corso: Etnografia e religioni primitive (Vili): Il mito di Polifemo
- Monumenti chiodati e feticci - Are rustiche ........... » 48S
Varia : L'uomo che vendè il suo corpo al diavolo (G. Costa; - Il card-' Mercier - Albert de Mun - Guerra e patriottismo - Religione e Stato (>«.) » 490
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ìà Kant aveva confusamente cercato di determinare il bello come ciò che, a differenza del piacevole, è universale al pari delle categorie teoretiche, ma pur senza possedere il carattere razionale o concettuale di queste. Così aveva definito il bello « ciò che piace universalmente senza concetto » (i) Aveva tentato di mettere in luce che l’esigenza all’universalità che ha il giudizio estetico non si fonda nè su di una semplice piacevolezza, perchè questa è soggettiva, nè su concetti determinati, altrimenti si potrebbe deciderne mediante prove (2); ma su quel che egli chiama un concetto indeterminato (3), che è poi qualcosa di sostanzialmente identico a ciò che il Croce denomina conoscenza intuitiva. Aveva infine affermata l’analogia «dell’arte con quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi, quanto è perfettamente possibile, non soltanto i loro concetti, ma anche le sensazioni » (4) ossia col linguaggio come produzione fantastica. E, circa quest’ultimo punto, prima di lui, il Rousseau (da cui, come si sa, il Kant attinse decisive ispirazioni, anche nel campo della filosofia morale e politica) aveva sostenuto che < toutes nos langues sont des ouvrages de Kart », e che la lingua naturale e comune a tutti gli uomini è quella non articolata, ma espressiva, fatta di gesti e di suoni —- espressioni spontanee di impressioni — che si ha già nei bambini e che tutti capiscono (5).
Queste le idee madri sistematizzate dal Croce. Vediamo come (6).
(•) Dal volume di prossima pubblicazione: La Scepsi Estetica.
(1) Critica dei Giudizio, trad. Gargiulo, § 9.
(2) Id., § 56. Questa stessa cosa, pensa anche Leopardi, sebbene egli ne tragga la conclusione opposta a quelle che ne ricava Kant.
(3) M., i 57.
(4) § SI(5) Emile, Lib. 1.
(6) Per la critica dell’estetica crociana, anche in lati diversi dà quelli donde muove l’attacco nostro, sono da tener presenti l’acuto scritto di G. Ferrerò L'estetica di B. Croce (Studi sulla doppia volontà) in Rivista delle Nazioni latine del 1® dicembre 1917, e tre importanti opuscoli dell'Aliotta : La conoscenza intuitiva nell'Estetica di B. Croce (Piacenza 1904), Il Presupposto metafisico nell’estetica di B. Croce (estr. dal IV fascicolo dell’ZZmwi) e La Creazione nell'arte e nella natura (Piacenza, Favari, 1904).
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L’attività teoretica dello spirito opera, secondo si sa, mediante due sintesi a priori, quella estetica e quella logica. Si tratta di stabilirne la distinzione e il rapporto. E la cosa sta così : che la sintesi estetica produce l’intuizione od immagine, la sintesi logica, il concetto. L’arte é dunque intuizione o visione (1), ovvero, come si può anche dire, poiché l’intuizione non può esistere senza esprimersi in qualche modo (2), espressione d’impressioni (3).
Ed è qui che comincia immediatamente l’equivoco. Che cos’è questa intuizione che costituisce l'arte e come si distingue dal concetto? S i si vuol comprender bene il congegno su cui si impernia e nello stesso tempo-con cui si maschera la fallacia del sistema estetico crociano, bisogna non pendere di vista che inizialmente questa intuizione, che è una cosa soia con l’arte, è la visione, la rappresentazione, la figurazione (4) che il nostro spirito mediante le Sue forme produce in sé d’ un’ immagine sensibile e individua, al contrario del concetto che esprime la conoscenza d’un universale. È « l’immagine nel suo valore di mera immagine », senza distinzione se reale o irreale, e per essa si contrappone « la Conoscenza intuitiva o sensibile alla concettuale o intelligibile, l’estetica alla noetica » (5). Essa è, dunque, l’intuizione nel senso kantiano, cioè se non proprio unicamente la sensazione in quanto foggiata nelle forme dello spazio e del tempo, certo « fórma delle sensazioni » (6), sensazione spiritual-mente formata e avente un contenuto o materia emozionalè. Una sensazione in quanto, non già bruta e cieca (e così, del resto, in noi non esiste mai) ma afferrata, investita, più o meno elaborata dallo spirito: tale pel Croce l’intuizione, quell’intuizione che si identifica all’arte.
Ma, anzitutto, se tale fosse' l’intuizione che costituisce l’arte, una buona parte dei prodotti che tutti o moltissimi riconoscono a questa appartenenti (e che ad ogni modo non c’è nessun argomento, se non soggettivo ed arbitrario, che valga ad escluderneli) andrebbero cassati dall’àmbito dell’estetica. Per esempio forse Lucrezio e Leopardi, Sully-Proudhomme e Browning, tutti poeti che hanno voluto dar espressione nei loro- versi non a sensazioni spiritualmente formate, non ad immagini sensibili, non alla conoscenza di individuali, di prodotti fantastici individui, come sarebbero gli episodi d’un racconto o d’un poema epico, o i sentimenti d’amore d’un poeta; ma anzi essenzialmente alla conoscenza di universali e di concetti.
Prendiamo questi versi di Minnermo:
abbiamo brevi istanti a godere dei fiori Dell’età senza che gli Dei ci mostrino Nè il mal nè il bene. Invece neri i fati ne assediano intorno Portando l’un di rea vecchiezza il termine,
L’altro il termin di morte. Giovinezza un sol attimo dura.... (.7)
(1) Breviario, p. 17.
(2) Estetica, p. 11, e Breviario, p. 54 e seg. Questo è assai dubbio, ed è dal Croce dimostrato (Come spesso gli accade) rettoricamente. Quando il pensiero è giunto a maturità « per tutto il nostro organismo corrono le parole sollecitando i muscoli della nostra bocca » ecc. Ma ciò non vuoi dire che le paróle si formulino. Vedi, del rèsto, le obbiezioni mosse a questa tesi dall’Aliotta, La conoscenza intuitiva ecc. cit. pag. 27 nota.
(3) Estetica, p. 16.
(4) Breviario, p. 17.
(5) Breviario, p. 26.
(6Ì Estetica, p, 19 e cfr. p. 324.
(7) Trad. Fraccarolj, I Lirici Greci (Elegia e Giambo, Torino 1910, p. 104).
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BILYCHNIS
Ovvero prendiamo questi altri versi della Ginestra in cui il Leopardi dice che l'uomo deve, non l'altr' uomo, ma la natura chiamare
inimica ; e ih contro a questa
Congiunta esser pensando.
Siccóme è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima e
Gli uomini ecc,
Dov’è qui l'intuizione nel senso dianzi stabilito di immagine sensibile e individuale?
Se non che ecco che tosto per il Croce l’intuizione diventa una cosa essenzialmente diversa da tale immagine sensibile e individua. E ciò nella guisa seguente. Le quattro attività dello spirito formano tra loro questo grazioso mosaico: come l’attività utilitaria può stare senza quella morale, ma non questa ultima senza l’utilitaria, perchè non si può fare un bene che sia disutile, che non serva a nulla, così l’attività estetica può stare senza quella logica, ma tnon quest’ultima senza la prima. E perchè? Perché anche la conoscenza logica deve esprimersi, anche i concetti hanno bisogno di espressione. Questa attività logica o concettuale incorpora dunque in sè (quasi a dire, servendosene ai suoi fini) quell’attività che prima si chiamava intuitiva nel senso anzidetto e che ora continuasi a chiamare intuitiva ma nel senso di espressiva in generale, nel significato di semplice espressione. Perciò avviene che arte e scienza « coincidono per un lato, che è il lato estetico > e che « ogni opera di scienza è insieme opera d’arte > (i) poiché, naturalmente, si esprime. Perciò avviene che anche la Somma teologica e la Scienza Nuova, in quanto l’autore di esse si esprime, sono opere d’arte (2). E perciò avviene, infine, che il più assoluta-mente generico modo dell’espressione, il linguaggio, è identificato all’arte (3).
Ora, non ci deve sfuggire lo scambietto che si è operato in tutto ciò. Che cos’era prima l’intuizione, quell’intuizione che è conoscenza dell’ individuale, e che è una cosa sola con l’arte? Èra sensazione spiritualmente formata, immagine senza distinzione se reale o irreale con contenuto emozionale ; e poiché essa è inscindibile dalla sua espressione, l’arte poteva anche definirsi espressione dell’impressione, ma sempre nel senso di espressione di quell’ impressione che è un’immagine, un sentimento, un’emozione, nel senso di « espressione dell'immagine » (4), nel senso di « formazione intuitiva di una materia sentimentale 0 passionale » (5).
Clie cosa è diventata ora l’intuizione, con la quale si pretende identificare l’arte? Non più una sensazione spiritualmente formata,- un’immagine, un’emozione, un sentimento che si esprimono ; ma semplice espressione anche quando serve ai concetti.
Vediamo quanto ciò sia serio. Prendiamo le semplici ed asciutte pagine di Galileo. La teoria in parola verrebbe a dire che queste pagine « in quanto
(1) Estetica, p. 30.
(2) Breviario, p. 93.
(3) Estetica, p. I., XVI(I; Breviario, p. 65.
(4) Breviario, p. 93,
(5) Breviario, p. 79.
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espressioni » (i), cioè in quanto si svuotassero dai concetti scientifici che esse contengono, sono intuizione — cioè espressione di immagini, sentimenti, emozioni, di sensazioni formate, cioè ancora conoscenza dell’individuale. Ciò è assurdo. Ma così dovrebbe essere sé l’intuizione è la conoscenza dell’individuale distinguen tesi dal concetto conoscenza dell’universale, e, in quanto è ciò, è una cosa sola con l’arte; e se d’altra parte l’espressione in genere, il linguaggio, la ‘ parola, è arte, e quindi alla sua volta intuizione. Tolto' dunque dalle pagine di Galileo il concetto, ossia il contenuto scientifico, dovrebbe, nel linguaggio da sè, nelle pure parole, restare la intuizione, l’espressione di immagini ed emozioni, la conoscenza dell’individuale. Che senso ha tutto ciò ?
Si comincia a dire che l’intuizione è conoscenza dell’individuale, immagine alogica (2) senza pensiero che vi si esprime (3). Ciò sta bene finché per intuizione si intende sensazione o materia emozionale spiritualmente formate. Ma non più quando per intuizione si intende (facendo intuizione = arte e arte = linguaggio) qualunque forma di espressione, anche il linguaggio, anche quello che usa uno scienziato o un filosofo. Si può forse dire che se si prescinde dal contenuto nella prosa d’uno scienziato questa resta ancora alcunché che sia possibile chiamare intuizione in qualsiasi accezione che abbia senso ? E si può prima di tutto operare questo distacco quando forma e concetto escono ad un parto e di un getto, fusi, come una cosa sola? E quando, per di più, esplicitamente si riconosce che forma e contenuto non sono scindibili ? (4) Tolta da un libro di scienza la scienza, il contenuto scientifico, resterebbe ancora qualcosa ? E che cosa? Le parole, il linguaggio, dello scienziato che sono mai di diverso e distinto dai concetti scientifici che esprimono? Quella che voi Chiamate e dovete continuar a chiamare intuizione, nel senso ora di espressione in generale, ma sempre conservando altresì il significato, di arte, quéll'intuizione-espressione, che per voi è arte e che si distingue dal concetto, è qui lo stesso concetto; niente altro è fuori di quésto, nient’altro tolto questo rimane di essa.
L’equivoco sta dunque nel prendere prima l’intuizione-arte come una certa materia (immagine sensibile, sentimento, emozione) sia pure spiritualmente formata ed elaborata, insomma come una certa forma contenuto, o contenuto formato.; poi nel prenderla come pura forma, senza più nulla di quél contenuto immaginativo, emozionale ecc., come pura forma o espressione in genere, di cui si serve anche il concetto; mentre in quest’ultimo caso tale forma non è più nulla senza il concetto che contiene e si risolve senza residui in esso (5).
(iì Breviario, p. 93.
(2) Breviario, p. 30.
(3) L’artista « non ragiona, ma si esprime » {Breviario, p. 91)’; « All’arte manca appunto il pensiero » (Ib. p. 28). Uno dei più impenetrabili misteri del sistema crociano rimarrà sempre questo psicologismo astratto per cui l’intuizione vien separata dal pensiero e concepita esistente senza di questo. L’arte sarebbe, dunque, non pensata. Ma vi può essere qualcosa senza pensiero, specialmente in un sistema in cui lo spirito, ossia il pensiero, è tutto, è l’universale che fa esistere tutto? E il bello non è dallo stesso Croce {Logica, p. 54) designato come concetto?
(4) Estetica, p. 18-19 ; Breviario, p. 53.
(5) Si potrebbe proprio dimostrare questa obbiezione, quasi more geometrico, così. Se intuizione = immagine spiritualmente formata e conoscenza di questa còme individuale, e se intuizione=arte, ed arte— linguaggio, allora avremo anche intuizione — linguaggio, e dunque
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Prima, l’intuizione era una certa materia-forma da cui è esclusa, ogni con-cettualità, poi una mera forma che può aver per materia anche il concetto. Ma, come ora è- chiaro, se stiamo al primo senso l’intuizione corrisponde solo ad un'arte plastica, di pure immagini, di pure emozioni, da cui ogni pensiero sia escluso (e Lucrezio? e Leopardi? e Sully-Proudhomne? e Browning?) Se stiamo al secondo senso non essendo l’intuizione, (qui diventata mera espressione) più affatto intuizione di immagini, di emozioni ecc., e tantomeno conoscenza dell’in-viduale, o di qualsiasi altra cosa tranne del concetto che viene all’espressione, non è più possibile distinzione alcuna tra intuizione (in questo senso) e concetto.
La verità è che tra intuizione — almeno se si intende per questa non soltanto una sensazione spiritualmente formata o un’immagine individuale, ma un afferramento imqiediato e complessivo Che il nostro spirito fa d’un certo profondo e ancor germinale e avviluppato contenuto — se si ritiene che « ciò che caratterizza l'intuizione non è il caratteristico, il particolare, l’individuale, ma il globale, la sua vita totale e più profonda, la sua suscettività di infinite aderenze spirituali » (1) — tra la intuizione così intesa e il concetto, ossia tra-la lirica e la metafisica, non c’è alcuna distinzione di sostanza, alcuna distinzione che non sia dovuta a una casellatura da scolasticismo verbale. Nel dire che la poesia è « espressione dell'immagine » e la prosa « espressione del giudizio 0 concetto », ma che anche le opere di filosofia e di storia sono opere di poeta, perchè in esse «c'è altrettanta passione e altrettanta forza lirica e rappresentativa, che in qualsiasi sonetto o poema » (2), non v’è un fondamento attendibile nè di distinzione, nè di unificazione. Non di’distinzione, perchè la poesia e l'arte in genere non esprime solo immagini (intuizioni, figurazioni, stati di animo individuali), bensì anche concezioni del mondo e della vita che vogliono essere universali, e veramente essa si affaccia al nostro spirito « non come caratteristica e individuale, ma come profondamente e largamente globale, umana, universale »(3) (e basti ricordare Guerra e Pace, la Ginestra, il Canto d'un Pastore}', e ciò precisamente al pari del trattato di filosofia. Non di unificazione, perchè l'essere il filosofo poeta non sta nel fatto che in lui ci sia altrettanta passione e forza lirica e rappresentativa che in ehi compone versi, bensì nel fatto che anche il filosofo non esprime già una < verità », cioè, una conoscenza che sia necessariamente comune a tutte le menti sotto pena di non essere menti, quale sarebbe forse la conoscenza matematica; bensì esprime, come i tedeschi efficacemente dicono, la sua Welt und Lebens-anschauung, la sua visione personale del mondo e della vita, dunque ancora un’intuizione (4). Manifestamente sistemi linguaggio »»immagine spiritualmente formata e conoscenza di questa come individuale. Di conseguenza, nel libro di Euclide, tolti i concetti, gli universali, cioè le dimostrazioni matematiche, e tenuto presente il linguaggio come puro linguaggio, come espressione, come parola, questo linguaggio di Euclide dovrebbe essere e presentarci immagini spiritualmente formate e conoscenza di queste come individuali. L’assurdo non potrebbe essere più patente.
(i) Torrefranca, La Vita musicale dello Spirilo (Torino 1910, p. 206).
(2) Breviario, p. 93.
(3) Torrefranca, Op. cit., p. 145.
(4) « II* filosofo... è un artista di cui l’attività si svolge nel campo delle astrazioni invece che nei campo sperimentale... Sentire una verità significa esserne stati colpiti musicalmente, e non averne ancora una conoscenza astratta. Ora, affinchè tu possa apprezzare degnamente |a importanza della conoscenza intuitiva, è necessario che tu sappia che senza questo stato
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come quelli p. e. di Schopenhauer e di Hegel sono non già « verità > (altrimenti è ovvio che non si contraddirebbero, chè non si possono dare verità contradditorie) ma espressione di due impressioni o visioni opposte del mondo, la pessimistica e l’ottimistica —■ espressione d’impressioni, esattamente come l’arte. Se così non fosse, noi filosofi non avremmo pressoché ciascuno la nostra filosofia, ma ripeteremmo tutti, come forse i matematici, la medesima « verità » salvo ad esporla e disporla in un modo più lucido e penetrante di altri. Ma se invece abbiamo pressoché ciascuno la nostra filosofia, forse Che ciò — non potendoci essere tante « verità » diverse quanti sono i sistemi di filosofia, nè esistendo una legittima autorità superiore che stabilisca quale la contenga, e tutti intanto pretendendo con lo stésso diritto e pur contraddicendosi di valere come « verità > —forse che ciò, dico, non basta a dimostrare che la filosofia non è « verità » nel senso teoretico puro o scientifico della parola, ma, proprio come l’arte, una nostra personale visione o impressione della reruni natura > un nostro stato d’animo, l’incorporazione e l’estrinsecazione del nostro temperamento psichico ? (1).
* * »
Ma qui ci si para di fronte un altro recente tentativo per differenziare l’arte e la filosofia : quello che s’industria d’effettuare il Cesareo (2). L’arte, per lui, è creazione e si differenzia appunto in quanto è tale dalla conoscenza e dalla filosofia, le quali anziché creare non fanno che sistemare il mondo, le quali sono insomma conformità del pensiero con la cosa, ossia con un dato che gii si impone dal di fuori, che esso non crea ma trova e deve accettare com’è. La libertà, perciò, è il carattere dell’arte, come la necessità è quello della conoscenza (3).
musicale precedente, senza questo stato di sentimento preesistente, in altri termini senza la nostra anteriore conoscenza intuitiva, non è possibile la conoscenza astratta... La conoscenza astratta, e però la critica e la scienza in generale, le quali derivano da intuizioni, benché debbano assolutamente mettere le nozioni generali al posto delle intuizioni e procedere da concetti ed essere guidate da principi!, non hanno tuttavia alcun valore se i loro concetti non corrispondono ad altrettante intuizioni ». (Angelo Conti, La Beata Riva, Milano, 1900. pagina 42)(i) Così il Torrefranca — nei citato volume, beilo pur nella sua unilateralità — quantunque mantenga una separazione, secondo noi non giustificata, di intuizione e concetto — giustamente riconosce « che, prima delie schematiche prospettive razionalistiche alle quali deve l’attività filosofica tendere per necessità metodica inerente alla sua natura, occorre avere osservato tutta l’aerea prospettiva genetica di un dato fatto o gruppo di fatti ; averlo accostato da più parti e in più direzioni nei campo dell’intuizione ; averne colto il primum germinale e globale » (p. 74). Esattamente rileva che i concetti centrici d’ogni sistema filosofico vengono a formare « residui filosofici », « singole certezze » che « sono, in fondo, intuizioni germinali dello spirito incarnatesi come concetti, e costituiscono ciò che di solito resta delle varie filosofie come più aderente alla verità, nella distruzione d’ogni altro ricordo di teorie e dialettismi » (p. 75-76). E ravvicina, in forma interessante, filosofia e musica (p. 83 e seg.) per concludere che « lo sfondo e il contenuto ultimo dei concetti filosofici è musicale » (p. 159).
(2) Saggio su ¡'Arte creatrice (Bologna. Zanichelli), libro che, non ostante la voglia che ha l’autore di differenziarsi dal Croce, è pressoché interamente nel binario crociano. Quanta < sintesi », quanto « spirito universale », quanto « assoluto », quanta « universalità del giudizio estetico », quanto « spirito perenne divenite », quanto De Sanctis!
(3) Ib. p. 130.
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Nè Puna nè l’altra cosa è vera. Nè la definizione di arte come creazione si può considerare soddisfacente ed esauriente, nè regge l’esclusione del carattere di creazione dalla sfera della conoscenza e della filosofia.
A parte che non si capisce come si possa lasciarsi andar a dire che, a differenza del filosofo, l’artista crea « una forma ideale che lo consoli delle cose informi e deformi ond’egli è assediato nella sua vita pratica » (i), quando si pensi che l’arte talora produce invece delle cose più brutte di quelle che si incontrano nella vita, come ad esempio L’Assomoir dello Zola, il mondo leopardiano di tetra disperazione, o quello di tragica oscurità di certi romanzi di Thomas Hardy, e quando si pensi che talvolta l’artista invece di respirare a suo agio nell’ « infinita armonia » (2). del mondo che ha creato, crea il mondo di Madame Bovary e dichiara egli stesso di sentir per esso profonda ripugnanza — a parte ciò, si è sicuramente nel vero contestando che l’arte sia quella integrale creazione del proprio mondo che il Cesareo pretende.
Quando, p. es., un poeta lirico narra ed esprime il suo amore in sonetti o canzoni, crea egli forse il proprio móndo, crea vale a dire ciò che esprime nell’atto di esprimerlo e per forza dell’espressione artistica, in maggior misura di quel che crei p. e. lo Schopenhauer quando crea entro il mondo della conoscenza percettiva la sua mirifica e mitica Volontà ? No : quel poeta non crea in quel senso e in quella estensione ; c’è una materia che gli viene dal di fuori della sua fantasia estetica, che questa trova fatta, come, un dato esteriore a sè, precisamente al pari di quel che avviene nella conoscenza : vale a dire, la passione d’amore ; e l’arte qui consiste nel frugare il più profondamente entro sè stesso, nel rendersi quanto è più possibile nitidi a sè i propri medesimi stati passionali per riprodurli ed esprimerli, e non già crearli, con l’arte. Nemmeno a rigore, si può dire che la fantasia estetica del poeta drammatico (3) crei passioni che egli non sente, giacché primachè e affinchè quelle passioni possano essere investite dalla sua fantasia estetica, egli deve in qualche misura produrle in sè come passioni, come elemento del proprio essere sensitivo e non estetico, e solo dopo essersi così formata la materia egli può abbracciarla ed esprimerla esteticamente. Per mettere in un dramma un grande delinquente, il drammaturgo deve prima, nella sfera della sua sensibilità, diciamo così, preartistica, in qualche misura diventare un delinquente, sentire come un delinquente, eccitarsi le passioni di quel delinquente, e solo dopo averle sentite e averle davanti a sè come semplice materia sensibile, potrà riprodurle nell’arte.
Vero è che il Cesareo sostiene che l’arte non è nè passionale nè sincera, e che il poeta lirico non esprime il suo sentimento, ma un sentimento qualsiasi che egli prende a prestito al momento (4). Ma, senza negare che vi siano artisti i quali non vanno al di là di questo che non è se non virtuosismo e manierismo (e confidiamo che su ciò il Cesareo poeta insorga contro il Cesareo filosofo dell’arte) a noi basta addurre il fatto innegabile che ve ne sono altri la cui arte non è che uno sforzo possente per esprimere quel reale sentimento
(1) Ib. p. 16.
(2) Ib. p. 131.
(3) Id. p. 247, 249.
(4) Pag- 250 e Parte IV. cap. VII, Vili.
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'Che, in un darò momento o periodo, costituiva tutta la loro vita sensibile, sentimento che lo sforzo del darvi espressione artistica può aver intensificato, ma non creato, e che ha anzi, esso, sollecitato quello sforzo; artisti, insom ma, che hanno significato perchè e come detta dentro (i). Tutti abbiamo scritto versi d’amore e abbiamo quindi, in minuscola misura, l'esperienza dell'attività artistica. E si può con tutta sicurezza far appello per la conferma all’esperienza generale, allorché si asserisce che.si scrivono versi d’amore quando e perchè si ama, quando cioè esiste, prima dell'elaborazione artistica che vi si dà, là * materia passionale amorosa.
Dunque la definizione dell’arte, come creazione, nel senso del Cesareo, non è soddisfacente e adeguata perchè — a dire il meno possibile, che però è- sufficiente a confutarla — essa non esaurisce e racchiude tutte le manifestazioni artistiche. Ma non meno insoddisfacente è il carattere differenziale dall’arte che il Cesareo pretende trovare nella conoscenza e filosofia, quello cioè che questa non crea, ma trova, il dato di fatto esteriore a sè e solo lo sistema.
L’abbaglio del Cesareo è quello di confondere la mera conoscenza percettiva con la nostra « conoscenza del mondo », con la nostra « interpretazione del mondo », con la nostra « spiegazione filosofica dell’universo ».
Si può bensì ammettere che la conoscenza percettiva risulti da dati di fatto che io non creo ma devo subire dal di fuori : questi mobili, questi muri, queste case, questi monti. Ma che cosa sono mai tali dati di fatto e la conoscenza percettiva di essi, a petto della « conoscenza » o interpretazione dell’universo che noi costruiamo su di essi? Certo qualcosa d’assai più piccolo e trascurabile di quel che sia la materia passionale per l’artista che la elabora. Quei dati percettivi sfumano nel fondo di fronte alle immense e svariatissime costruzioni che su di essi i'filosofi hanno costruite, assai più di quel che non sfumi nel fondo dell’opera artistica la materia passionale. O che quando un filosofo religioso costruisce, pur lontanamente partendo dai dati percettivi, il suo mondo di « conoscenza » circa Dio, la nostra immortalità, la nostra vita nell’ al di là — quando p. e. Tommaso d’Aquino ci parla de substantia angelorum o depoena daemonum — questa per il Cesareo è conoscenza di fatti che si offrono e si impongono allo spirito dall’esterno, è conoscenza che possegga il carattere della necessità-in confronto della libertà dell’arte, che debba quindi essere uguale per tutti, che sia insomma « sempre quella realtà} » (2) O non ammetterà invece anche il Cesareo che questa sia creazione, quand’anche inizialmente movente da qualche, a tale altezza .risultante oramai impercettibile, dato di fatto? Ma se è creazione, la Stimma Theologica non deve essere arte anche pel Cesareo? Nè si dica Che noi ricorriamo qui, per facilitarci la discussione, ad una costruzione religiosa. Tutti percepiamo questi monti, questi alberi, questo mare, Ma che entro questi monti, questi alberi, questo mare, Schopenhauer abbia visto
(1) II Cesareo adduce a sostegno della sua tesi (p. 241) le parole del Flaubert: < ho scrìtto le pagine più tenere senza amore ecc » ; ma non si ricordava forse più che egli stesso aveva citato (p. 104) del medesimo Flaubert questa attestazione del suo produrre in sè i sentimenti dei suoi personaggi : « uomo e donna ad un tempo, amante ed amata insieme, ho-passeggiato a cavallo ecc. ».
(2) Ib. p. 131.
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la Volontà od Hegel l’idea — abbiano visto queste cose che una volta vedute hanno resi tosto insignificanti e nulli monti e alberi e mare — questo è o non è creazione ? L’elemento della creazióne non è qui senza paragone più grande del dato di fatto da cui parte? E questa creazione non è forse, proprio in quanto creazione, di gran lunga più gigantesca di quella d’un poeta, che nomcrèa ma esprime l’amore Che sente (il dato percettivo) in un sonetto?
A far toccare con mano al Cesareo l’insostenibilità della sua tesi avrebbe dovuto bastare la manifesta e immediata fallacia della sua asserzione che l’arte è libera e la conoscenza necessaria. Necessaria? Sì, se la conoscenza si riduca a quell’iniziale e piccolissima parte di essa che è il dato arrecatoci dalla sensazione. Ma necessaria, se. per conoscenza s’intendano tutte le nostre costruzioni e interpretazioni conoscitive, e anche la filosofia, come fa il Cesareo che queste ultime appunto s’affatica a voler distinguere dall'arte? Se fosse necessaria sarebbe uguale per tutti, e noi tutti conosceremmo, interpreteremmo, ci spiegheremmo il mondo alla stessa maniera, avremmo un’unica visuale delle cose, professeremmo un’unica filosofia. Ma non vede il Cesareo che varietà invece, che libertà appunto di costruzioni filosofiche, ossia di conoscenze? Il pensatore religioso che sa il suo Dio e l’ateo che vede il vuoto e il nulla nei cieli, posseggono due conoscenze. Ma queste conoscenze opposte sono veramente create al di sopra della mera esperienza fenomenica o conoscenza percettiva, e tanto sono create con piena libertà (libertà, s’intende, rispetto a quella pressione del dato di fatto esteriore che, secondo il Cesareo, sarebbe il carattere presente nella conoscenza) che sono contraddittorie. Il fatto che dall’uno all’altro di noi tutte le nostre « conoscenze » — religiose, filosofiche, politiche — si contraddicono così, il fatto che, proprio al contrario di quanto opina il Cesareo, nessuna sia necessaria, cioè nessuna riesca ad imporsi a tutti e ad espungere le altre fuor dal campo della ragione, dimostra evidentemente che tutte esse sono nostre creazioni e che di esse abbiamo piena libertà. La stessa materia che egli trattava doveva offrire al Cesàreo la riprova dell’impossibilità della sua tesi. La filosofia dell’arte, infatti, è conoscenza, non arte. In essa, adunque, secondo la tesi del Cesareo,, non dovrebbe trovar luogo la creazione, ma solo là constatazione dèi dato di fatto. Eppure, egli trova che l’arte è creazione, altri (come egli stesso ricorda) che è imitazione, altri che è giuoco. La stessa definizione dell’arte, lo stesso apprendimento del che cosa sia arte — questo fatto conoscitivo — è dunque tanto poco necessario che è diverso in ognuno ; quella stessa definizione dunque è una creazione che ciascuno di noi, sui medesimi iniziali e scheletrici dati sensibili, si costruisce, e con tanta piena libertà rispetto alia pressione di questi che ognuno se la costruisce a modo suo.
Anche questo del Cesareo, quindi, è un tentativo dogmatico per mettere insieme ad ogni costo il sistema, sistema, come sempre, necessariamente unilaterale, i fatti che non quadrano col quale si conoscono già a priori e solo si può cercare artificialmente di mascherarli ; sistema che è quindi da bel principio destinato all’insuccesso. Ma non è più semplice dire le cose come stanno, e comesi sa che Stanno, cioè confessare che la sistemazione non è possibile? Quando per es., come ora mettevamo in rilievo, taluno scorge, sa e dice che mentre
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egli definisce l'arte in un modo, altri pensatori ne danno definizioni diversissime — che, insomma, dopo secoli di discussione non si, è d’accordo circa che cosa sia l’arte — ciò non è per ogni spirito schietto la prova che l’arte è un fatto di cui non si riesce a dare una determinazione soddisfacente? E allora a che — invece che limitarsi alla schietta asserzione e riconoscimento di questa verità — mostrar di pretendere, col fidarne una definizione — la quale per esser tale, dovrebbe realizzare l'ormai accertata impossibilità di aver valore per tutti — che una tale definizione sia possibile, contro quanto i secolari dispareri hanno reso alla nostra segreta coscienza perfettamente chiaro? Allorché degli spettatori esaminano un oggetto e uno dice di esso: « è la tal cosa», un secondo: «no, è la tale altra», un terzo: «no, è piuttosto codesta», si gonfi pur le gote quanto vuole il dogmatico (1), ma questa è la semplicissima e sufficiente prova che quell’oggetto non si sa che cosa sia. Finché la discussione (la filosofia) continua, vuol dire manifestamente che la cosa non è sicura, la conoscenza non è liquida, la verità non è accertata. Ma quando che cosa l’oggetto sia resta accertato, quando è accertata la verità, allora viceversa è la discussione (l’attività filosofica) che cessa. Proprio al contrario di quel che credono Cesareo e i dogmatici, filosofia e conoscenza accertata, universale, necessaria, filosofia e verità, stanno in diametrale antitesi e si escludono a vicenda.
♦ • ♦
Insomma, si badi. Quale è la distinzione che, sulle traccie di Kant, si continua a pretendere di stabilire tra l'arte e la filosofia? Quella fondata sulla proposizione che circa il bello non si può decidere mediante prove. Ora questa proposizione e la distinzione su essa basata son proprio vere? O si tratta di quelle affermazioni che a forza di sentirle autorevolmente ripetere, abbiamo finito per .accettare ad occhi chiusi, c che sono in tal modo diventate un dogma su cui non si torna più col pensiero critico, mentre pur ve ne sarebbe bisogno ?
E’ verissimo che del bello non si può decidere mediante piove, nel senso che non si può fondare, la prova che una cosa sia bella o brutta nell’àmbito della ragione teoretica in modo apodittico e tale che escluda da quest’àmbito l’opinione contraria ; nel senso che non si può dimostrare che una cosa sia bella in modo razionalmente così vincolante ed esclusivo d’un parere contrario da far risultare che chi la pensa diversamente sia fuori della ragione (come chi pensasse che 2 + 2=5). Ma non ci si accorge, o non si vuol vedere, che questo avviene non solo per il bello, ma per tutti i massimi problemi della filosofia; cosicché appunto il fatto dell’impossibilità di decidere mediante prove, anziché costituire un elemento di distinzione, forma invece un elemento di identificazione tra filosofia ed arte.
Per vero,- le nostre convinzioni su tutti i fondamentali problemi speculativi d’ogni specie — Dio, caso, anima, immortalità, libertà, determinismo, monarchia, repubblica, proprietà privata, collettivismo — sono intuizioni ultime, irriducibili, indimostrabili e inconfutabili, o a siffatte intuizioni risalgono e si riconnettono: come prova Y ovvio fatto che tutte quelle convinzioni persistono eternamente l’una accanto all’altra, ossia che nessuna può essere cacciata fuori
(1) Così il Gentile in Critica 20 settembre 1917.
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dal campo della ragione, giacché, evidentemente, se si potesse deciderne mediante prove, se si potesse cioè dar prove d'una loro soluzione che escludessero l’oppósto dal campo della ragione, non se ne discuterebbe ancora dopo venticinque secoli.
Perciò la dimostrazione di qualsiasi principio filosofico, la dimostrazione di alcunché che vada oltre il puro e semplice fatto percettivo (ciò che appare), è impossibile. Bene l’avevano visto e inoppugnabilmente messo in chiaro gli scettici antichi e primo di tutti Agrippa. La dimostrazione (egli diceva) si fonda o su premesse che si dimostrano o su principi indimostrabili. Nel primo caso anche le premesse hanno bisogno di dimostrazione e si cade così in un regressum in infinitum. Nel secondo caso chi ci garantisce che le premesse indimostrabili ’poste a base della dimostrazione, siano certe, senza di che tutta la dimostrazione stessa precipiterebbe? Se si cerca di rispondere che vi sonò principi che posseggono un’immediata certezza, in primo luogo ciò permetterebbe di postulare premesse del tutto impossibili, in secondo luogo quella stessa proposizione, che vi sono principi immediatamente certi, avrebbe anzitutto bisognò di venir dimostrata. Sènza contare che per giudicar sulla validità d’una dimostrazione occorre un criterio, e per avere un criterio col quale giudicare occorre una dimostrazione che lo fondi. E si resta così presi in un circolo senza uscita (i).
Ogni dimostrazione che pretenda andar oltre il puro e semplice fatto d’espe rienza puramente e semplicemente constatato, è dunque impossibile ; e ogni volta che si va, in qualunque direzione, oltre questo - interpretandolo, deducendone qualche concezione, costruendovi sopra dei sistemi e delle filosofie — vi si va non in forza di dimostrazioni^ ma in forza di modi irriducibili e propri di interpretare e concepire, cioè in forza di intuizioni. «Tutte le nostre affermazioni, che in qualche modo si possono dimostrare (riconosceva giustissimamente il Cantoni) ci riconducono, come le logiche c’ insegnano, ad alcunché di primitivo, di indimostrabile, di psicologicamente necessario. Non è vero che questo primitivo sia evidente per sé: prende la forma assiomatica posteriormente, ma tale forma è derivata, e codesti assiomi si fondano pur sempre sopra alcuna cosa accettata per una certa ineluttabile ispirazione psicologica. Ora a tutte queste accettazioni primitive sta a fondamento un sentimento; almeno è il sentimento il quale ci forza ad accettare quei principi, e ci tiene, anche malgrado le nostre dottrine filosofiche, fedeli ad essi » (2). Tutte le nostre interpretazioni, tutte le nostre filosofie, tutte le nostre convinzioni più profonde intorno ai problemi speculativi d’ogni natura, sono dunque intuizioni, come quelle che hanno luogo nel campo del bello e dell’arte. Sono intuizioni come: « ciò è bello », « ciò è brutto », ed anche come : « questo cibo è gustoso », « quest’altro è cattivo ». Quelle intuizioni non si dimostrano più di queste, sebbene il pensatore che le nutre si illuda di poterlo, si illuda cioè (tanta è l’evidenza interna con cui egli le scorge) di poter costringere con una concatenazione logica d’argomenti la ragione universale, cioè le ragioni di tutti, a piegarsi alla sua tesi. Ma non
„ J’l£>.’Ì>GE,NE LaeW& IX> 90 e ^Vila di Pirrone}. V. anche Sesto Emp. Adv. Malh. Vili. 367 e seg., Pyrr. Hyp. Il, 182 e seg.
(2) Cantoni, E. Kant (Milano, 1879, voi. I. p. 442).
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si aimostrano. Se si dimostrassero non vi sarebbe più varietà di idee. E appunto questa impossibilità della dimostrazione (valevole per tutti, atta a coercire tutte le menti) è quella che prova che la ragione è frazionata in tanti centri razionali, diversi e quasi senza ponte e comunicazione fra loro, dal momento che ciò che è probante per me non lo è per altri ; è quella che prova che noi, appena procediamo oltre il mero fatto d’esperienza, oltre la realtà percettiva, oltre il mondo che'si vede e si tocca, viviamo letteralmente in mondi foto coelo diversi — questi nel mondo, per lui evidentissimo della verità religiosa, in un universo permeato dal divino ; quegli in un mondo bruto, cieco e disperante fatto di mero caso; costui in un mondo roseo, sorridente, ottimistico; colui in un mondo nero e pessimisticamente precipitante in peggio; uno in un mondo d’azioni, di fatti, d’amori che è per lui il solo mondò vivo e importante ; l’altro in un pallido ed esangue (per il primo) mondo .di pensieri, di ricerche e di studi, che egli ha alla sua volta costrutto come l’unico mondo sostanziale —-. tutti mondi disparatissimi, esclusivamente nostri, della cui diversità radicale, della cui appartenenza esclusiva di ciascuno di essi a ciascuno di noi e della non partecipazione ad essi degli altri cosiddetti nostri simili, noi ci accorgiamo ógni qualvolta ci accade di poter penetrare oltre la superficie e bene addentro l’animo d’uno di questi nostri simili e scoprirvi, spesso da principio con meraviglia, come il suo mondo di idee, di desideri, di aspirazioni, di importanza attribuita ad un ordine o a un’altr'ordine di cose, tutta la sua realtà spirituale, insomma, sia profondamente dissimile dalla nostra. Mondi che, adunque, ciascuno di noi crea con le proprie irriducibili e fondamentali intuizioni. Ogni volta che si va oltre il puro fatto percettivo, siamo nei campo dell’ intuizione, ossia (se si vuole esprimere la cosa in quest'altro modo) siamo — come Hume, Renouvier e Newman hanno chiarito — nel campo della « credenza > ; si tratta sempre d’un atto di fede attinto e scaturente dalle nostre più intime particolarità. E di queste credenze v’è dunque libertà piena. Tutte sono possibili, cioè nessuna è tale da poter esser eliminata dalla ragione, ossia confutata per le ragioni di tutti. Nessuna è necessaria, cioè tale da dover essere accettata, pena di essere fuori dal campo della ragione, tale quindi che possa imporsi alle ragioni di tutti escludendone con logica necessità ogni altra.
La filosofia, quindi, non si dimostra più dell’arte. Però, circa il bello, e anche qui precisamente come circa questi problemi filosofici, si può ragionare, si possono addurre argomenti concettuali e razionali. Essi non sono, è vero, tali da decidere, da espungere dal campo della ragione Chi la pensa diversamente. Ma lo stesso avviene relativamente a materie, non più estetiche, concettuali come, Vio, Dio, la libertà ecc. Dunque, tanto nella sfera estetica, quanto in quella della conoscenza concettuale, le prove hanno lo stesso valore o lo stesso disvalore.
* * *
Metafisica e arte si muovono quindi sullo stesso terreno. E mentre il Croce (per ritornare al nostro punto di partenza) unificando arte e linguaggio, toglie ogni distinzione di sostanza tra le chiacchiere pittoresche di due comari e un canto del Leopardi, e, insieme, separando intuizione e concetto, scava un abisso incolmabile p. e. tra Leopardi e Schopenhauer, è chiaro che invece tra ciò che esprime quegli coi canti e questi coi trattati c’è assai minore differenza quali-
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tativa che non tra quelle chiacchiere e quel canto raggruppati sotto il medesimo capo in forza del loro genericissimo carattere di essere le une e l’altro espressioni. • *
E questo fatto che tra intuizione e concetto, tra metafisica e lirica non c’è distinzione sostanziale lo esperimentano in sè tutti coloro che pensano con viva e vera passione ai problemi filosofici. Poiché chi si interessa con inesausta e profonda ansia di questi problemi, ed ha la mente sufficientemente agile, quando talvolta un’idea o un globo di idee Comincia a disegnarsi e a balenare nel suo spirito, come diretta e immediata impressione emotiva d’un qualche lato,, aspetto, episodio od evento della vita e del mondo, ed interpretazione di esso, egli avverte* chiaramente che potrebbe svolgere ed esprimere proprio sempre questo stesso nodo di idee così in un poema, come in un trattato metafisico, così in un gruppo di sonetti come in un saggio, così in un dramma o in un romanzo come in un dialogo di tipo platonico o berkeleiano (1), ed ánche, se è musicista, mediante le note d’ima sinfonia o d’un’ opera, come Wagner con l’azione musicale del Parsifal espresse la filosofica negazione schopenhauriana della volontà di vivere (2). E avverte chiaramente che non avrebbe mica in sè qualcosa di diverso se svolgesse quel nucleo di idee nella prima maniera da quel che avrebbe se 10 svolgesse nella seconda ; bensì nell’uno e nell’altro Caso ciò che ha in sè, ciò che il suo spirito ha afferrato, ha investito della sua forma e svolge, è sempre l'identico iniziale germe di idee, indiscernibilmente adunque intuizione-concetto, metafisica e lirica (3).
Genova, R. Università. •
Giuseppe Rensi
(1) « Le filosofie, sia che si esprimano in sonetti o in sistemi »... (James, La volontà dì credere, cit. p. 1S6).
(2) E stato parecchie volte osservato che la musica « programmatica » è un assurdo e un’impossibilità, che in una sonata o sinfonia non v’è mai nè vi può essere nulla di quel che il titolo dice, e che questo titolo è messo sempre a capriccio. Però si potrebbe forse giustamente ritenere con Wagner che la musica non esprime « la passione, l’amore, l’aspirazione di questo o quell’ individuo in queste o quest’altre circostanze, ma la passione, l’amore, i'aspiràzi'one in sè ». (citato da H. E. Krehbiel, How lo lislen Music, Londra 19x3 p. 41); v che, come lo stesso Krehbiel dice, la musica, pur senza essere imitativa, « cannot copy water, but it cando what water does, and so suggest water, (ib. p. 59)». Noi diremmo volentieri che l’espressività della musica è conte quella degli occhi. V’è, in confronto con le parole, la medesima incertezza circa la significazione di fatti specifici ; ma lo stesso chiaro accenno e sicuro indizio dei fondamentali sentimenti dell’animo — orrore, amore, odio — la stessa limpida indicazione della loro differenza.
(3) Nel campo del bergsonismo l’intima affinità tra arte e filosofia è, naturalmente, portata in evidenza. Ecco come la delinca uno dei migliori espositori di quella dottrina: « L’art, c’est en quelque sorte la philosophie avant l’analyse, avant la critique, avant là science: l’intuition esthétique, c’est l’intuition métaphysique naissante, bornée au rêve, n’allant pasjusq’à l’épreuve de vérification positive. Réciproquement, là ¡fhiiosophie, c’est l’art qui succède àia science et qui en tient compte, l’art qui prend pour matière les résultats de l’analyse et qui se soumet aux exigences d’une critique rigoureuse; l’intuition métaphysique, c’est l’intuition esthétique vérifiée, systématisée, lestée de discours rationel ». (Le Roy, Une Philosophie nouvelle, Parigi, 1913, pag. 51).
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o.
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el 1886 accadde un miracolo. Quando da più di anni l'unità si diceva compiuta (l’Italia ufficiale non teva neppure il nome delle terre irredente) e già'le
quindici permet-persone
spiritose parlavano di quarantottate, di sesta giornata di Milano e di reduci dalle patrie bottiglie, ecco un libro caldo, impetuoso, tutto fremiti di patriottismo. Il libro rievocava le virtù del Risorgimento, mettendoci davanti agli occhi un mutilato ed un morto, il cadaverino, avvolto nel tricolore, della piccola vedetta lombarda e il corpo martoriato del tamburino sardo ; ma ci dava anche esempi di più recente eroismo: non c’era, infatti, bisogno della guerra, per dimostrarsi forti come lo scrivano fiorentino, sdegnosi come il patriotta padovano, sublimi come i protagonisti di Naufragio e di Sangue romagnolo.
La commozione suscitata dalla lettura,di Cuore fu così spontanea e la popolarità del libro così improvvisa che i pedanti, gli scettici e sopra tutto le sunnominate persone spiritose non ebbero neppure il tempo di riaversi: i lettori erano già centinaia, migliaia, centinaia di migliaia. Quando essi cominciarono ad essere troppi perchè il bisogno della reazione non sorgesse in coloro che fanno consistere l'aristocrazia nel far tutto a rovescio della vii maggioranza, ecco fuori i giudizi: ■ il De Amicis è un solleticatore di ghiandole lacrimali, uno smanceroso, un mer-ciaiuolo di perle false.,
Che farci? Il plauso della critica è di breve durata. Se lo scrittore fa ridere, appena cessati i battimani, è definito un buffone; se fa piangere, subito dopo rimessi dall’impressione, gli si dà del rammollito.
Ma quasi sempre, per fortuna, il momento della giustizia arriva.
Ricordate quel ragazzo di quattordici anni che si chiama Garrone, die « è buono e si vede quando sorride, ma pare che pensi sempre come un uomo »? Quel ragazzo che difende un infelice e piglia su di sè la colpa di un fallo non commesso, che « rischierebbe la vita per salvare un compagno » e si dimostra sempre alto, sempre generoso doveva esser particolarmente caro al De Amicis che proprio per lui, quando gli passa sul capo una sacra sventura, fa ripetere dal maestro le parole di un veggente.
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Questo eroe della scuola che sta nel banco come in una trincea fu più bersagliato di tutti: un tipo convenzionale, un personaggio « voluto », un manichino, uno schema.
E ora, silenzio: Garrone è risorto, anzi ce ne sono due e sfolgoran di bellezza e di bontà e di generoso coraggio e portano proprio (il destino giustificatore del De Amicis ha voluto così) lo stesso nome del personaggio di Cuore.
* ♦ ♦
Appunto nel 1886, a Vercelli, in quell'anno e in quella regione che videro nascere il più popolare libro italiano venne al mondo Giuseppe Garrone: il fratello Eugenio nacque due anni dopo.
Giovani ricchi di forza e d’intelligenza escono dal liceo, 1’ uno e l’altro, con la licenza d'onore e l’uno e l’altro conseguono la laurea in legge col massimo dei voti e la lode, e l’uno e l’altro ascendono, alpinisti inarrivabili, le più.ardue vette che formano la muraglia d’Italia.
Si avventurano nei pubblici concorsi: Pinotto risulta primo ed Eugenio irai primi.
Nel 1914 Pinotto era giudice al tribunale di Tripoli, Eugenio primo segretario al Ministero dell’istruzione. Separati da così lungo tratto di terra e di mare, erano pur sempre insieme perchè ogni postale recava lettere dell’uno e dell’altro, finché un giorno Eugenio, non potendone più,- corse da Roma a Tripoli per riabbracciare il fratello.
A Tarhuna, nel ’15, dopo avere sdegnósamente rifiutato un salvacondotto. Giuseppe combattè a corpo e corpo con gli arabi ribelli e fu ferito alle braccia.
Allora comincia un lavorio di sottilissima astuzia per vincer le resistenze della burocrazia, per ¡sventare il piano dei superiori che non voglion perdere un magistrato eccellente, per nascondere la gravità delle ferite riportate a Tarhuna: è scoppiata la guerra e ad ogni costo Pinotto vuol partire volontario.
Non meno abile si dimostra Eugenio nel dissimulare un difetto di vista, nel chieder la visita anticipata, nel togliere Ogni ostacolo che potesse impedirgli l’arruolamento: ricorre perfino all’opera del chirurgo per avere il corpo ben preparato: anche lui arde di prender parte alla guerra e adopra al proprio fine tutta la furberia che tanta brava gente in quei giorni usava per ¡sfuggire ai pericoli della guerra.
Eugenio fremeva d'impazienza a Roma. « A Roma, città unica,, si vivono momenti indimenticabili. Mentre scrivo, suonano, a stormo, le campane di Montecitorio: più lontano, grave e solenne nella vetustà delle rovine che protegge, risponde la campana del Campidoglio, e nell’aria piena di voli è un lungo stridìo di rondini» uno sfarfallio di bandiere al vento». Pinotto soffriva molto più a Tarhuna dove le notizie erano confuse, rari i giornali e di sicuro non c’era che il continuo sbarcare di agenti tedeschi i quali aizzavano la popolazione araba contro di noi.
Nella primavera del '16, superata ogni difficoltà amministrativa c finito il periodo d’istruzione/ ambedue i fratelli partivano per il fronte.
Pinotto fu» destinato in Gamia dove organizzò la difesa del Jof di Montasio e ridusse all’obbedienza, con una disciplina severa ma giusta, un gruppo di soldati -
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per la maggior parte vecchie conoscenze della questura. E fu tale l’opera sua che, per quante suppliche facesse per essere inviato dove più ardente ferveva la lotta, i superiori non vollero muoverlo di là. Eugenio invece combattè in Vallarsa e sul Carso e sul Pasubio, più volte ferito, due volte fregiato di medaglia finché, approfittando della disposizione che permetteva a due fratelli di militare nello stesso corpo, chiese ed ottenne di raggiungere Pinotto in Carnia.
Delle successive vicende militari, fino agli ultimi giorni, sono testimoni le lettere raccolte dal cognato Luigi Galante con un titolo scultorio e preciso: Ascensione eroica (1).
Ma l’azione che l’uno e l’altro dei due hanno compiuto sul campo di battaglia non c’interessa tanto quanto la ricerca dei motivi logici e delle cause morali che hanno determinato l’opera dei fratelli da quando presero volontariamente le armi al momento supremo dell’olocausto. Che l’esercito italiano è stato grande tutti sanno, oramai: ma del valore spirituale dei singoli c’è ancor molto da rivelare e da dire.
* * «
I due fratelli si amavano di tenerissimo affetto e adoravano la famiglia di cui sentivano profonda la nostalgia pensando, fra i rumori della capitale e fra i disagi della vita in colonia, alla dolcissima quiete della nativa casetta di Vercelli.
Ma, tolto questo sentimento comune e la passione che l’uno e l'altro ebbero per la montagna i due giovani erano profondamente diversi.
Eugenio era un’anima di poeta.
« Gli uomini erano tutti a letto — scrive alla famiglia: — nessuno mancava. Pochi minuti, e si sono levate nella notte, bella notte tepida e luminosa, le tristi note del silenzio... Ero solo, in mezzo al cortile deserto: guardavo in alto verso un’ala del castello dove sono ricoverati più di duecento mutilati: pensavo ai soldati nostri, alla nostra Italia, alle aspirazioni nostre, ai nostri dolori, a tante cose che nascono nell’anima e non riescono neanche a liberarsi per prendere forma e sostanza fuori di noi: e quelle note, a un tratto, mi sono parse venute da una voce sovrumana, misteriosa, solenne».
E sentite come descrive il giuramento delle reclute :
« La truppa era raccolta in un largo spiazzo erboso, limitato da una fitta cortina di cipressi: lontano, in alto, le montagne nevose, luccicanti al sole; non si può immaginare che cosa sia stato di grande l’urlo giuro emesso da mille voci e riecheggiato lontano nella valle; e di più grande il silenzio solenne di un istante dopo, tutti fermi sull’attenti, irrigiditi nell’impressione violenta, e di più grande ancora le note dell’inno reale intonate dalla fanfara del battaglione. Come ho desiderato tutte le persone care vicine! »
Nelle lettere dal fronte più che narrar le battaglie, s’indugia a dire delle fantasie che gli s’affacciano alla mente durante la notte. Che notti, quando la santità del
S Ascensione eroica. Lettere di guerra dei fratelli Giuseppe ed Eugenio Garrone.
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riposo è profanata dalla furia omicida! « Notti tiepide, rigate, in queste sere, di tante stélle che filano silenziose e veloci nell'aria calma, meno vivide di altre stelle, quelle che scéndendo con fruscio lieve e roteando, scoprono i fianchi rocciosi delle montagne irte di cuspidi nere, e t’inchiodano là dove ti trovi... ».
I giovani soldati, che appena pochi anni prima si addormentavano sotto la carezza materna, dormono nelle trincee pronti a balzare in piedi per seminar la morte fra i nemici. Eugenio sale sull’ultimo cocuzzolo della trincee » e non vede che « un’immensa corona di creste frastagliate, nere contro il cielo chiaro ». Fra i colpi secchi che rompono ogni tanto il silenzio come staffilate, nell’abbagliamento dei razzi che di quando in quando accendono un pezzo d’aria, egli visita le vedette, « figure immobili e nere che escono con tutto il petto dal parapetto della trincea col sacrof ucile impugnato, l’elmetto luccicante sotto la luna, i duri profili barbuti scolpiti nel cielo luminoso ».
E un nodo di pensieri e di sentimenti, aggrovigliatosi nella giornata, dolcemente si scioglie:
« E così strana l’impressione che tutto vegli, in quel silenzio assoluto! e che questa veglia, sotto il cielo che in queste sere piove tante stelle, sia per prevenire degli attacchi, per sventare degli agguati! Uomo contro uomo. In quei momenti vivo con voialtri tutti con un’intensità che non potete neanche immaginare : con Pinotto che lontano vigila come me; con te. Mamma, che vegli nella preghiera per i tuoi figli vicini e lontani; con Papà che sente la grandezza di questa nostra guerra con tutto lo spasimo dell’ansia che lo tormenta sapendoci quassù; con tutti i miei fratelli ».
♦ ♦ ♦
Questo giovane di squisita sensibilità che va alla guerra cogliendo fiori e saziandosi di canti (« Quanti fiori ho colto! viole profumate e scure, giunchiglie e primavere! anche i soldati raccolgono fiori e cantano... Io seguo le loro voci in silenzio coi miei pensieri e mi sento pago... ») questo giovane è, per certi aspetti, l’opposto di suo fratello.
Pinotto sembra fatto per l’azione. Quand’era a Tarhuna dove pure, come abbiano visto, le còse non andavano lisce, sognava di esser trasferito molto più lontano, in una plaga remota della Somalia dove ci fosse il rischio di fare alle fucilate un giorno sì e un giorno no. E allorché si trova in Carnia in primissima linea, in luogo di gran pericolo e di somma responsabilità, tutto il suo tormento è che non lo mandino dove le battaglie si susseguono accanite dì e notte.
Il Ministero non lo voleva levar da Tripoli perchè non trovava un altro magistrato capace d’incutere agl’indigeni il rispetto della nostra giustizia: i superiori militari non vogliono perderlo perchè lo giudicano prezioso al comando di soldati indisciplinati e riottosi.
. E che trattasse i suoi uomini senza tanti complimenti ce lo dice lui stesso. Una sera trova un soldato di guardia che aveva ceduto al sonno: invece di svegliarlo e ammonirlo, gli salta addosso, lo disarma e lo piglia per il collo. Il povero diavolo rimane atterrito perchè, lì per lì, si crede caduto in mano agli Austriaci. Che importa?
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« Ora posso esser sicuro » pensa Pinotto « che non si addormenterà più e che mi serberà sempre gratitudine perchè non l’ho denunziato ».
Certe volte giudica sè anche troppo duro e gli par quasi d’aver perduto la sensibilità, d’esser senza nervi, come quando, essendo stato sepolto dallo scoppio d’una granata, ritorna su tranquillissimo davanti ai suoi soldati che lo credevano fatto a pezzi.
Come tutti i coraggiosi veri, considera ogni atto di valore opera naturalissima e crede ingenuamente che chiunque avrebbe fatto altrettanto. Dalle sue lettere appare chiaro che, giovane com'era, da lungo tempo egli s'era avvezzate a compiere sempre, senza oscillazioni e senza debolezze, il proprio dovere : e quest' abitò morale non l’abbandonò mai durante la tempestosa vita di guerra.
Ma come avvenne che due temperamenti tanto diversi come i fratelli Garrone si trovarono così intimamente concordi e nel modo di giudicare la guerra di redenzione e nel tradurre in atto l’idea, subito concepita, di prendervi parte?
Certo una gran forza determinatrice fu per i due fratelli l’educazione domestica. Quando da un accenno il padre seppe che Pinotto si preparava a partire volontario, fece, sì, un dolorosissimo sforzo su di sè stesso, ma poi disse alla sua compagna: «Io non gli dirò mai che non voglio! ».
Che i genitori, pur soffrendo angosce continue, abbiano sempre benedetto l’entusiasmo dei figli, è provato da più tratti dell’epistolario. Anzi, Pinotto dice espressamente così: « Il desiderio della lotta, l’avvilimento che proverei restandomene quieto e inerte mentre tante altre vite che potrebbero essere ben più utili all’Italia corressero serenamente incontro alla morte non mi sono forse stati trasfusi in germe nel sangue dal mio Papà e dalla mia Mamma? »...
Vero è che dai genitori essi avevano acquistato anche una salda fede religiosa e più d’uno, allo scoppio della guerra, chiese a sè stesso se non fosse un delitto contro Dio il macello spietato che, dopo tante speranze nella fraternità universale, distruggeva il fiore della specie umana. Come risolsero i due fratelli la crisi spirituale che travagliò, in quel tempo, l’anima di ogni uomo civile? Trovarono essi un conforto od un ostacolo alla tesi che li spingeva alla guerra, nel sentimento religioso?
♦ ♦ ♦
Non c’è quasi lettera di Eugenio in cui non ricorra il nome di Dio. Egli prega sempre: per l’Italia, per i. genitori, per i parenti lontani e per Pinotto, per Pinotto ch’è troppo audace, che certo espone la vita senza riguardo per salvare quella dei suoi soldati.
Sembra, a volte, che sia per essere sopraffatto da un’ondata di misticismo ma sa vincere tosto il pericolo. Presto la convinzione che « chi opera prega » lo riconforta: «Speriamo che Dio ci protegga. A ogni modo sia fatta la sua volontà: non è rassegnazione supina la mia, ma cosciente e sicura. Io non prego più come prima, perchè l’opera che compio, sia pure modesta, è preghiera viva per l’Italia nostra e pei suoi figli ».
Dopo qualche tempo Eugenio scoprirà che ogni pensiero di bene è preghiera: « Penso a tutti e prego per tutti quelli che mi vogliono bene, senza mormorare
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orazioni, ma chiamando ciascuno vicino a me, dicendo a ognuno che desidero il mio sacrificio perchè tutti abbiano sempre del bene».
Ma chi crede in Dio può uccidere senza rimorso gli uomini che sono fatti a immagine di Lui? E il non essere stati noi i primi a spargere le parole d’odio ci giustificherà davanti al supremo tribunale se ad esso ci presenteremo con le mani lorde di sangue?
Il dubbio attraversa la mente di Eugenio e qualche volta, mentre veglia di fronte al nemico, un gran senso di pietà umana gli gonfia il cuore.
Il plenilunio allaga di luce la montagna, nella notte estiva. Dalle trincee degli austriaci si leva un canto tenero e malinconico: i soldati italiani ascoltano e c’è chi piange. « Oh che cos’è di misteriosamente grande » esclama Eugenio « queiristintivo ■ senso di bontà che frena ogni moto di odio e trasforma l’anima di tutti questi soldati che si fronteggiano e sarebbero pronti ad ammazzarsi, in altrettanti bambini cui una carezza buona farebbe tanto bene! Basta una voce ben intonata, un canto spiegato in una notte chiara di luna. Perchè si devono odiare a tal punto gli uomini? Perchè? ».
Il motivo è vecchio ed eterno: è quello stesso che ha suggerito i più bei versi del Sant’ Ambrogio del Giusti, ma guai a lasciarsi vincere dal sentimento più alto della natura umana, la pietà, quando la patria è in pericolo! Che risponderebbe ognuno di noi a chi ci ricordasse che la vita è sacra quando, con l'arme in pugno, ci avventassimo contro l’aggressore di nostra madre?
Una sera alcuni soldati napoletani suonano e cantano canzonette piene di tristezza. Eugenio si sente invadere l’anima di nostalgia, di accoramento e chiude gli occhi pregando: « Dio, date pace agli uomini, riportateli gli uni nelle braccia degli altri, e sia la concordia nuova più forte, più bella ».
Ma la preghiera è interrotta bruscamente da un gran rombo: un costellarsi dj shrapnell^ nel cielo illumina la notte: i nostri inseguono un aeroplano nemico. Quel rombo sembra una risposta: la luce sinistra squarcia i dubbi passeggeri e li fuga. Dopo verrà la concordia, ma trionfi prima la giustizia ed abbia la scellerata prepotenza il giusto castigo!
Anche Pinotto ha, ogni tanto, dubbi e perplessità, ma se ne libera presto. Se fosse un mistico, se prendesse alla lettera la dottrina di Cristo, dovrebbe, per cominciare, aver orrore della professione che ha scelto. Non disse, il Signore: « Noli-te judicare »? Invece, appunto la professione gli ha insegnato che bisogna esser cauti, accorti, coscienziosi, prima di pronunziare una sentenza, ma poi sarebbe assurdo pentirsi di aver compiuto opera giusta.
In Libia questo gli capitò: fu condotta davanti a lui una signora tedesca, rea d’aver portato rivoltelle e pugnali agli arabi dell’interno, e durante il processo, essa che da più mesi aveva il marito combattente alla frontiera francese, si dimostrò fermissima, piena di dignità e di coraggio. Pinotto l’ammirò sinceramente, augurò all’Italia molte donne simili, ma la condannò a un anno di carcere.
Egli crede alla logica e sa che c’è anche una logica relativa. Il padre di lui, ligio alla fede cristiana, si turba vedendo che le parole di concordia, timidamente
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accennate da alcuni, sono state respinte con obbrobrio: e Pinotto, calmo, gli scrive: « Fin che dura la guerra è logico che sia così. Se tutti fossero pervasi da un cristiano spirito di amore, la guerra non sarebbe scoppiata, non avrebbe potuto scoppiare, e se qualcuno dei popoli in lotta sentisse ora davvero risorgere in sè tale sentimento, non so se sarebbe il caso di provare dell’ammirazione per esso... La morale dei popoli non è come la morale degl’individui. Se agli uomini singoli noi possiamo predicare la bellezza del perdono, non possiamo fare altrettanto per gli Stati. Il perdono nel conflitto che fa tante stragi ai giorni nostri vorrebbe dire piegare la testa di fronte alla potenza e strapotenza della Germania ».
Qualche volta si attarda anche lui a esaminare il proprio stato d’animo, si analizza freddamente, e sentendo che anche se fosse certo di morire non potrebbe fare a mano di correre alla guerra, teme di peccare, forse, d’orgoglio, gli pare che il desiderio di non esser inferiore a nessuno nell’amor di patria possa derivare da superbia. Ma che importa? « Questo non toglie nulla alla sincerità e all’intensità dell'intimo rivolgimento che sento in me in questi giorni come italiano ».
In altri momenti l’esame psicologico gli sembra un perditempo, come, dopo aver fatto l’elogio della solitudine perchè gli rompe tutto un intrico delicato di sentimenti « che rende più penose e difficili certe situazioni estreme », dopo una serie di osservazioni finissime intorno all'impero che il duro volere può esercitare sulla sensibilità, si libera con una scossa di spalle: « Ma basta ora con questi dubbi che ti potranno parere sciocchi e fuor di luogo’ ».
Ma tutte le costruzioni logiche crollano a una ventata più forte del sentimento. Quanto sangue generoso imporporerà le nevi delle Alpi! A questo pensiero Pinotto soffre perchè non sa darsene una ragione. Proprio i migliori dovranno andarsene! « Perchè la guerra non è invece un mezzo di eliminazione degli elementi più vili, più deboli, più codardi ? Perchè la vita nella sua dura realtà deve sempre presentare di questi contrasti, così ripugnanti all’ordine logico delle cose? E c’è chi osa trascorrerla tutta passando di leggerezza in leggerezza! ».
La vita è una cosa seria, dunque, e bisogna percorrerla con la coscienza vigile, senza piegar le gambe durante il viaggio alla fin del quale ci aspetta Dio.
Pinotto è religioso, ma non prega: per lui il concetto di un fato che si possa deprecare con le orazioni è irragionevole. Alla sorella che gli suggerisce piamente d’abbandonarsi al destino ed a Dio, risponde franco e sicuro: « Io non wedo ad altro destino che a quello plasmato dalle nostre aspirazioni, dalla.nostra volontà e dalla nostra maggiore o minore energia. E quanto a Dio, non posso pensare che ci debba abbandonare solo perchè, invece di lasciare svolgere gli avvenimenti, cerchiamo di modificarli con un’aspirazione di bene».
E ad Eugenio che ha offerto la sua propria vita a Dio per salvar quella del fratello risponde con una ruvidità che sa di lagrime ribevute: «Tu non dire sciocchezze. Iddio non prenda nè me ne te: ecco l’augurio che ci dobbiamo fare. Ma se qualcuno di noi"dovesse lasciare quassù la sua pellaccia, lasciamo alla Provvidenza il compito della scelta e non importuniamola con preghiere più o meno ardenti. Hai capito, Eugenio mio? ».
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Se nei due fratelli il sentimento religioso assume aspetti diversi, è uguale nell’uno e nell’altro l’amore inquieto, ardente, protettore per la famiglia che è presente sempre al loro cuore anche — o anzi sopra tutto — quando la battaglia infuria e si aspetta da un momento all’altro la morte.
È questo amore che li fa tremare ciascuno per la vita dell’altro: Eugenio, che non parla mai di sè, nelle lettere ai genitori si mostra sempre in pena per il fratello: e questi, allorché Eugenio, ammalato, ‘va a passare qualche tempo in un convale* cenziario, non nasconde la soddisfazione nel saperlo lontano « da quell'inferno » Ga’era il Trentino e quasi si meraviglia di questo sentimento: « Strano: mi fanno paura per lui quei pericoli che sento di poter pensare per me con indifferenza! ».
La madre sopra tutto, la madre amata e venerata, è vicina, con una ubiquità ch’è miracolo d'amore, a tutti e due e sulle Alpi e sul Carso passa, ombra benedetta e benedicente. « Sono stati brutti giorni-. Mamma — scrive Eugenio dopo un’azione violentissima. — Quante volte mi sei venuta davanti! quante volte ti ho sorriso fissandoti negli occhi perchè, morendo come credevo di morire, fossi tu negli occhi e nell’anima mia! e quando la morte passava senza toccarmi era una ricerca affannosa di altri visi, di tutti gli altri, un mormorar parole di voto ultimo, un chieder da! Signore per voi tutto il bene e per me una morte bella e degna! E la morte non è venuta! ».
E se le necessità logiche della guerra — così bene adombrate da Pinotto — ci proibiscono di ricordare che anche i nemici hanno lontane madri che pregano, così non è per i nostri. Eugenio guarda affettuosamente i suoi soldati che si scostano sorridendo per lasciarlo passare negli angusti camminamenti: «C’è i giovanetti del ’98 con occhi pieni ancora della mamma lontana e gli anziani del ’79 con gli occhi pieni dei loro figli! Ma sono tutti bambini qui e fissano negli occhi il loro tenente cercando in lui tutto, tutto ». Come potrebbe non amarli, lui, che pur si rifugia nella madre come quand’era piccolo e bisognoso di carezze, lui che si sente riposato e sereno appena cominciata una lettera, soltanto per avere scritto queste due parole «Cara mamma»?
Ecco dunque come uno dei tanti contrasti umani, la lotta fra l’amore per la famiglia e quello della patria possono comporsi in un’armonia superiore. Chi vuol bene ai suoi non può essere nè debole nè cattivo là dove ci si raccoglie insieme per difendere a ogni costo tutte le case e tutte le famiglie contro il comune nemico.
Anche Pinotto, inflessibile maestro di disciplina, si fa amare dai suoi soldati, ma di un affetto burbero, quasi vergognoso di manifestarsi, rispondente alla maniera con cui egli li tratta.
L'ordinanza di lui, un certo Giovanni G. (Giuvanin) di Porto Maurizio, un tipo chiuso e taciturno, un mezzo delinquente capace d’ammazzare un uomo con un pugno, sotto la mano ferma di Pinotto si trasforma. Una volta trasporta un ferito sulle spalle per quattordici chilometri: il ferito muore e lui, con la stessa calma con
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cui l’ha trasportato, gli scava la fossa e lo seppellisce. Un’altra volta l’incaricano di trasportare i cadaveri di quattro soldati uccisi da una valanga, ma occorre far presto per isfuggire al pericolo di altre frane di neve imminenti. Lui che fa? lega i cadaveri con la cinghia dei calzoni e li fa scivolar giù fino al posto dove può essere sostituito dai muli e durante quest’operazione, per toglierne quel che ci può essere d’irriverente, recita compunto dei requiem.
Quest’uomo gira tutta la montagna per trovar legna da riscaldare Pinòtto, sfrucona un'ora nella neve per rintracciar le ultime fragole da regalare a Pinotto» ma quando Pinotto sta per mutar posizione ed egli deve rimanere, non ha mica il coraggio di dire : « Signor tenente mi porti via con sè » ! Si mette ad accarezzare il cane e gli dice fra una carezza e l'altra: « Povera bestia, vedi, il tuo padrone se ne va, e ci lascia soli e non si ricorderà più di noi! Andresti volentieri tu con lui? Io sì! ma lui non mi vuole!... ».
Pinotto, per un po’, finge di non sentire, poi lascia andare uno scapaccione a Giuvanin e l'invita a riflettere: perchè dovrebbe abbandonare il suo battaglione, i vecchi compagni? che se ne farebbe d’andar dietro al suo padrone?
Giuvanin si calca il cappello sugli occhi e risponde: « Verrei con lei anche dove piovessero i 420! ».
Il contratto è fatto: Giuvanin partirà con lui e lo seguirà, povero e fido servitore, fino alla morte.
* * *
Quando venne la disposizione del Comando Supremo che permetteva ai fratelli di far parte dello stesso corpo combattente, Eugenio subito ne approfittò per chiedere di raggiunger Pinotto. Quest'ultimo non sapeva nulla di tali pratiche: doveva essere una sorpresa per lui. Appena gliene scrivono qualcosa, Pinotto non n’è contento: tùtt’altro! Egli pensa che Eugenio, pur così intrepido di fronte al nemico per sè, avrà paura per lui e gl’impedirà di compiere il dovere di soldato fino all’ultimo. Ma l’altro la vince e, ottenuto il permesso, il 26 settembre del ’17 scrive alla sorella che d’allora in poi il suo bacio li troverà uniti: « Mi pare un buon augurio, questa riunione di fratelli alla vigilia dei primi freddi: pare che qualcuno abbia voluto avvicinarci per riscaldare insieme il nostro cuore... Ne sono tanto felice. E la guerra possa ritrovarci insieme, sempre, anche per il ritorno glorioso nelle vostre braccia».
Passano alcuni giorni felici, poi Eugenio va in breve licenza a Torino e a tutti parla, col cuore commosso, non delle due gloriose ferite che ha riportate, non degli encomi e delle medaglie che ha saputo meritarsi in pochi mesi di guerra, ma del fratello, di Pinotto suo che è un miracolo di bravura e di semplicità, di gentilezza e di forza.
< Intanto il cielo della patria si oscura: ecco le tragiche giornate di Capo-retto. Eugenio torna immediatamente in Carnia alla ricerca del fratello e corre ansante di paese in paese, bussando a ogni casolare, interessando contadini e soldati, fiutando ogni. orma. E corre, corre ancora, affamato, lacero, sfinito, ferman-
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dosi soltanto la sera per mandar due righe alla famiglia: due righe disperate in cui sempre suona la stessa domanda: « Pinotto dov’è? ».
Le speranze scemano: Pinotto non si trova più, forse è morto per l'Italia e sia benedetto in eterno; ma Eugenio, vivo o morto, lo deve rivedere.
E cammina e cammina: a ogni svolto di via gli dicono che di là sono arrivate le prime pattuglie austriache e non si passa più.
Finalmente trova un caporale che gli si offre per guida. Camminano insieme a lungo. Giunti, alle quattro di mattina, sulla cresta che limita l’altipiano della Livenza, il caporale gli chiese il permesso di allontanarsi per un momento; e sparì nella nebbia e non tornò più: era andato ad arrendersi.
Allora Eugenio disperò e si buttò bocconi sull’erba, singhiozzando come un bambino.
Ma ecco il cielo si rischiara; l’uomo che ha il cuore rotto per la vergogna della patria e per la perdita del fratello si fa coraggio e riprende la via. Cain-* mina per altri giorni ancora e incontra i fuggiaschi che gli empion la bocca d’amaro c l’anima d’umiliazione. Cammina, cammina finché, sulla traccia di una vaga indicazióne si dirige a una cittaduzza vicina. Inforca una bicicletta e vola via: un’altra bicicletta gli corre incontro. Chi c’è sopra? Pinotto? Sì, ma lì per lì non lo riconosce. Un grido, e i due sono nelle braccia l’uno dell’altro stretti. , frementi.
Pochi minuti dopo Eugenio deve andare a prender congedo dal suo Comando e non sente più nè stanchezza, nè fame, nè dolore : « Volo via nella notte, e correndo, nella sera bellissima, grido forte il mio grazie a Dio, grido forte la mia forte speranza di vincere, grido forte il mio nuovo voto di sacrifizio per la patria, per lui, grido, forte il tuo nome. Mamma, che in quel momento è tutto per me! ».
Che cos’era accaduto a Pinotto in tutto quel tempo? Egli aveva avuto l’ordine di ripiegare e obbedì fremendo : sempre di retroguardia a protezione della ritirata, camminò, muto tra i soldati muti, sentendo che il lavoro di tanti mesi era distrutto, camminò per più giorni e più notti, pronto a morire piuttosto che darsi prigioniero. Parecchi soldati caddero lungo la via, uccisi dalla fatica e dalla fame.
Giuvanin seguì Pinotto finche potè, carico come un facchino della roba sua e di quella di lui. Gli si tagliarono i piedi: le piaghe s’allargarono: ci versò sopra la tintura d’iodio e cominciò ad alleggerirsi del carico: prima buttò la roba sua. poi, all’ultimo, quella del padrone. Questi a ogni fermata lo chiamava: « Giuvanin ; ». E lui rispondeva : « Son chi ! » sempre più fioco: poi non rispose più.
La scomparsa di Giuvanin abbuierà i pochi giorni di vita che rimangono a Pinotto. « L’ultima volta che lo vidi » egli disse al fratello « era sfigurato dalla fatica, ma non una cartuccia gli mancava di quelle che doveva portare».
Durante i giorni terribili della ritirata, un solo pensiero dopo quello della patria, angosciava Pinotto: « Eugenio dov’è? ».- E ripete ogni sera questa domanda
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nelle affannose cartoline alla famiglia, ma la risposta non giunge: in quella gran confusione nè posta nè telegrafo trasmettono più le parole dei profughi, degli sbandati, degli aspettanti: l’Italia paralizzata non ha più voce altro che per imprecare.
♦ * ♦
Ormai i due fratelli sono riuniti e non si lasceranno mai più.
Le lettere che scrissero nel novembre contengono sempre, più o meno palese, una fervida raccomandazione ch’è un monito agl’italiani: Deplorate Caporetto, ma non maledite i soldati!
La perfidia dei politicanti, la leggerezza di chi, riscaldatosi alle prime aure del maggio ’915, s'era poi mostrato indifferente verso la guerra, la propaganda insidiosa dei nemici della patria avevano condotto l’Italia sull’orlo della rovina, ma i soldati no, i soldati no! No, per la verità e la giustizia sacrosante, no, per l’anima di Battisti e di Sauro, no, per il Montenero difeso da un pugno di uomini ridotti all’ultimo delle forze e per il Carso seminato di croci !
« Uno di questi giorni » scrive Eugenio « raccontavo ai soldati uno degl’infiniti episodi di dolore della ritirata: un carro tirato da una mucca lungo una strada tutta solchi di fango, sotto la pioggia dirotta: alla mucca una donna che guida e tira e porta sotto l’acqua tutta la sua miseria, e tutta la sua ricchezza: una nidiata di bimbi dentro una cesta, sul carro. Ha un bimbo di pochi mesi in collo: si ferma, lo mette, avvolto di pochi cenci, sul carro, e prosegue. Quando ritorna, trova i cenci, sì, ma il bimbo non c’era più. È rotolato giù, nel fango, e gli è passata sopra la miseria di chi segue... ». E i soldati che ascoltano diventano smorti come cenci e negli occhi balena loro l’istinto della Vendetta. « Fede, fede, fede, Papà! Voialtri siete orgogliosi dei vostri figliuoli, ma siate orgogliosi anche di tutti i nostri soldati che non sono vigliacchi, no! ».
Un’altra preoccupazione è nelle ultime lettere dei due fratelli: essi sentono che la morte s’avvicina e l’accettano volentieri: perchè, dopo la sciagura che s’è rovesciata sull’Italia, morir combattendo è un conforto: ma i genitori come sopporteranno questo dolore? Scrivendo ai parenti, questa è la raccomandazione che fanno Pinotto ed Eugenio: preparate Papà, quando l’ora sarà giunta, consolate Mamma.
Fin dall’11 maggio, in una chiesetta di campagna piena di soldati,. « aperta all'imbrunire per ricevere l'abbandono di tante anime in pena », Eugenio aveva fatto al Signore la completa dedizione della propria vita: risollevatosi dopo la preghiera, gli erano apparsi in visione tutti i luoghi dove aveva combattuto, l’Isonzo, San Martino, San Michele, Bosco Cappuccio e una voce misteriosa e possente gli aveva detto che l'Italia non dovea disperare.
Il 30 agosto un’altra orazione gli usciva dalle labbra: « Oh se potessi, in mezzo alla battaglia, ritrovarmi vicino a Pinotto, a lui, mio fratello e mio padre, e proteggerlo, e amarlo, e seguirlo, e vivere con lui emozioni indimenticabili di lotta e di gloria! ».
Fu esaudito.
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li 14 dicembre sul colle della Berretta, mentre gli Austriaci imbaldanziti infuriavano contro l’eroica Armata del Grappa e incominciava quella resistenza che i tattici avevan giudicata impossibile e ch’è la più bella gloria di tutta la guerra, i due fratelli combattevano uniti. Invano Eugenio tentò fare scudo del proprio corpo a Pinotto, riportando gravi ferite ai polmoni. Pinotto cadeva tra le sue braccia ed egli era fatto prigioniero.
Il 21 dicembre da Innsbruck Eugenio scrive:
«Cara Mamma, cari tutti. Pinotto è caduto nelle mie braccia: pregate il Signore che ci dia la forza di sopportare il nostro dolore. Tu, Mamma, trova nel dolore di tante altre mamme, conforto e calma. Tornerà uno solo dei due: il tuo Eugenio sarà per te parte di Lui che non è più. Vogliatemi bene anche per il nostro Pinotto ».
E il giorno di Natale, da Salzburg:
«Caro Papà, lentamente.la ferita ai polmoni migliora: spero di guarire unicamente per voi. Avevo offerto a Dio la mia vita pur che fosse salvo Pinotto. Dio non ha voluto il mio sacrificio. Ora gli offro tutte le mie sofferenze perchè allevii il vostro gran dolore. Vogliatemi tanto bene: state tranquilli per me. Vivo con l’anima al mio Pinotto, a tutti voi ».
È la sua ultima lettera. La prima alba del 1918, dell’anno che doveva inondar la patria di luce e di gloria, egli la vide lì, in quell’ospedale di Salzburg ove visse dolorando pochi altri giorni.
Spirò il 6 di gennaio e mani straniere gli chiusero gli occhi: ma Pinotto, Pinotto suo, gli apparve raggiante, trasfigurato, illuminandogli col suo sorriso l’ultima ora del martirio. Il bacio della mamma trovò ancora uniti i due fratelli, e questa volta per sempre.
Dino Proven za l.
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Una lettera inedita del P. Giorgio Tyrrell
a un gruppo di modernisti italiani
L congedo del P.
Tyrrell dalla Compagnia di Gesù nella
quale egli era entrato venticinque anni prima, sospinto da quella logica stessa inesorabile che, avendolo condotto ad una religione positiva, lo aveva attirato al Cattolicismo, era seguito, a distanza di un mese, alla pubblicazione fatta sul Corriere della Sera di Milano del 31 dicembre 1905, della famosa « Lettera confidenziale ad un amico professore di Antropologia » attribuita ad un Gesuita inglese, e della quale il Tyrrell, a richiesta del Generale della Compagnia, aveva riconosciuta, in sostanza, la paternità.
Il congedo dalla « Compagnia » lo poneva nella condizione canonica di chi resta di fatto sospeso dalla celebrazione della Messa e dalle altre funzioni sacerdotali, fino a che non avesse trovato un vescovo che io accettasse nella sua diocesi : ciò che una previa esperienza aveva mostrato al Tyrrell essere nelle attuali condizioni, vana speranza per lui.
Il 14 febbraio 1916, a Eastbourne aveva predicato quello che egli sapeva dover esser l’ultimo suo sermone, e celebrata quella che, con un rammarico che l’accompagnò fino alla tomba, presentiva dover essere la sua ultima Messa. « Mercoledì sarà indubbiamente la. mia ultima Messa » — aveva scritto — sino all’avvento di Papa «Angelo».
Fra tante proposte relative alla sua futura residenza — fra le quali quella di costituire con amici di opinioni affini una colonia ad Assisi, auspice il Sa-
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batier — egli aveva accettato quella di raggiungere in Francia l’ex gesuita e noto scrittore Abate Bremond: e da Parigi si era con lui recato a Friburgo, donde il 9 marzo scriveva: (1) « Sì, è vero, i nostri temperamenti (quello del Bremond e il suo) sono affatto opposti, e appunto in ciò sta spesso il vantaggio. Per es. il suo interesse nella religione ha un carattere artistico, il mio invece puritano e miltoniano; egli mi salva dalla pedanteria ed io lo salvo dalla frivolezza». Ed egli ricorda come il suo congedo dalla Compagnia fosse stato la conseguenza di una parola d’ordine venuta dal Papa, di cui si eran fatti eco i Generali di Ordini religiosi e molti vescovi, quali quello di Milano e Torino.
L’S aprile dello stesso anno scriveva: «Sì, l’inferno si scatena contro di noi: Fogazzaro, Viollet, Laberthonnière colpiti - in una volta sola. Quem Deus indi perdere dementai*.
Frattanto diverse pratiche si erano fatte per ottenere dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari che non si opponesse a che il Tyrrell fosso accettato nell’archidiocesi di Malines, dall’Arcivescovo (ora Cardinale) Mercier: ed il risultato ne era stato la formulazione da parte del Card. Ferrata, Prefetto, della condizione per tale reintegrazione nei diritti sacerdotali, cioè, che il Tyrrell « s’impegnasse formalmente a non pubblicare checchessia in rapporto a questioni religiose e a non tenere corrispondenza epistolare senza previa approvazione di una persona competente, nominata dall’Arcivescovo ». Ciò da documento in data del 18 giugno: al quale il Tyrrell rispondeva con lettera del 4 luglio al Card. Ferrata, in cui respingeva con indignazione questa condizione, e soprattutto l’arbitraria trasformazione di una disposizione disciplinare generale, quale era là sua sospensione di fatto, in una specie di castigo o censura della quale non esisteva alcuna giustificazione canonica. Nel rigettare la condizione egli era spinto da motivi, oltreché di dignità personale umana e cristiana, di ministero pietoso spirituale. «Da dieci anni» scriveva il 21 luglio «mantengo un'estesa corrispondenza con persone turbate nella loro fede o meglio nella loro teologia, che può dirsi altrettanto intima, segreta e privata quanto una confessione: corrispondenza che si svolse principalmente con preti e prelati cattolici, con seminaristi e coi loro professori, con scrittori e insegnanti, con religiosi e coi loro superiori, talvolta imbarazzati e perplessi; così pure con anime fuori della Chiesa ; spesso con ministri della religione, sempre o quasi sempre con persone che venivano a me in tutta confidenza come ad uno nella cui segretezza potevano fidare. Ed è appunto lo scambio di queste lettere, le più strettamente private di tutte, che Sua Eminenza mi propone di sottoporre a censura...».
Poiché il Tyrrell non era persona da promettere di sottoporsi a tale giudizio e poi sottrarsi all’impegno, e poiché rinunziare al contatto individuale con le anime, ora che il ministero pubblico gli sfuggiva, sarebbe stato abiurare all'aspetto più intimo del sacerdozio spirituale sagrificandolo ai propri bisogni mistici e rituali, egli fu irremovibile nel rifiuto. E un anno dopo, per la difesa dello stesso principio di libertà cristiana e in omaggio ai diritti che tutte le anime avevano, su di lui sacerdote di Dio prima che della Chiesa, egli ricusava
(1) Desumo queste notizie dalla nota «Autobiografia e Biografia di. G. Tyrrell», di Miss. M. Petre, tradotta in italiano, e in vendita presso Bilychnis al prezzo di !.. 10,50.
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UNA LETTERA INEDITA DEL P. GIORGIO TYRRELL
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una seconda volta e definitivamente l’offerta riconciliazione: poche settimane dopo seguiva la sua scomunica. Così la corrispondenza privata, intesa quale mezzo di ministero spirituale, costituì per il Tyrrell il bivio supremo, in cui la lealtà e fedeltà sua alla causa delle anime la vinse su ogni più caro e sacro sentimento.
Abbiamo voluto tracciare questa breve cornice intorno ad una appunto di queste lettere, ora, dopo dieci anni dalla morte del Tyrrell, venuta alla luce. Essa fu scritta da lui nel ritiro di Boutre Vinon-Var ove si era recato alla fine di luglio, appunto dopo la sua indignata risposta negativa alla proposta del Card. Ferrata.
In quell’ameno angolo della Provenza, ospite dell'Abbé Bremond, egli rimase fino all’autunno dello stesso anno, quando fece ritorno in Inghilterra per stabilirsi poi a Storrington. In una lettera del 4 agosto così descriveva la sua dimora e il suo stato d’animo.
«Ebbene: eccomi qui. E’ una breve pianura dell’estensione di un centinaio di acri, ove sorge una casa rustica del secolo XIV, ampliata nel XVII ; di questa ultima epoca è il mobilio come pure la decorazione: un insieme simpatico e sonnolento: chiusa da un triangolo di colli dai quali'fanno capolino delle catene di montagne che si allontanano in ogni direzione», ad infinitum, «e neppure un abituro in vista. Una natura aspra e selvaggia, albe e tramonti meravigliosi. Gli alberi sono per la maggior parte quercie e platani ; la vegetazione è formata dalle viti, da cespugli di lavanda, di timo, di menta e d’altre erbe che esalano il loro aroma nell’aria c^lda; lo stridore delle cicale e il ronzio d'innumerevoli insetti favoriscono in noi una specie di letargico torpore. Si prova un senso di riposo, e l'istinto della lucertola è in me abbastanza forte da farmi gustare un bagno di sole e di calore. Se i miei benevoli amici mi lasciassero in pace senza affannarsi a “mettermi in regola", in breve sarei guarito... La pace è più necessaria ancora dei sacramenti, che gli uomini possono dare e togliere a piacer loro... ».
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In questo silenzio equilibrante e ristoratore, mentre attendeva ad un commentario della sua « Lettera strapazzata», che doveva poi inviare il 6 novembre al l’arcivescovo di Westminster, giunse al Tyrrell una lettera, o piuttosto un indirizzo collettivo di simpatia, di devozione,, di conforto, presentatogli, a nome e con la firma di un gruppo numeroso di sacerdoti e laici, fra cui parecchie signorine, modernisti di una diocesi dell'Alta Italia, da un sacerdote italiano tuttora dedito all’educazione della gioventù.
Il gruppo firmatario formava un libero cenacolo di fervidi cultori di un ideale cristiano armonizzante con le idee del Tyrrell, e molti suoi membri aderivano anche al Vangelo di Towiansky : tutti, comprese le signore e le signorine, accoppiavano allo zelo, all’entusiasmo, alla fede, una soda coltura e una viva curiosità intellettuale, alimentata e fecondata di quando in quando dalla parola di qualche apostolo dell’ idea cristiana moderna, quali il Fogazzaro, il Murri, ed altri. V'è chi ricorda ancora, fra essi, l’emozione con cui fu dal circolo con-
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gregato accolto e commentato 11 « Per una fede » di Arturo Graf... Anche su questo cenacolo di anime ardenti e credenti si abbattè il soffio della persecuzione, che dissipò, schiantò, fece forse inaridire qualche spirito, ne fece sanguinare parecchi... Ma il sangue dei cristiani è semenza... : e < meglio è d’assai l'avere amato appassionatamente e perduto, che il non aver mai amato».
Ed ecco ora la risposta del Tyrrell all’indirizzo dèi gruppo:
Boutre Vinoin-Var.
Cari amici,
4 ottobre 1906.
Non mi riesce troppo agevole di trovare i termini appropriati per esprimere il mìo sentimento profondo per la gentilezza che ha ispirato la vostra lettera collettiva, nè per dirvi quanto questa mi ha incoraggiato e confortato. Durante queste penose vicende, la sorgente quasi unica delle mie angustie è la preoccupazione del’ l'effetto che esse possono produrre su di coloro, che attraverso i miei scritti son giunti a porre fiducia in me, e che ora da questa fiducia in me ed insieme dal loro dovere di fedeltà a quel corpo ufficiale che, praticamente, mi ha condannato, sono posti di fronte a un dilemma. Mia sola speranza è che la maggior parte di essi avranno il buon senso di vedere, che le inevitabili limitazioni intellettuali dalli una e dall'altra parte possono facilmente rendere possibile che ambedue le parti contendenti abbiano soggettivamente ragione e siano' in buona fede;, mentre, oggettivamente parlando, la questione in discussione può essere al presente affatto insolubile: Naturalmente la mia personale convinzione è, che alla radice della presente crociata reazionaria vi sia nient altro che ignoranza e mancanza della comune educazione, e che perciò non dovremmo esserne più stupiti nè più scandalizzati che al vedere i danni (per usare una metafora inglese) fatti da un toro in un negozio di chincaglierie. Noi dobbiamo certamente deplorare il danno prodotto: ma riflettiamo che quando i mali hanno raggiunto un certo grado, essi sfuggono a qualunque forza umana; e anziché fare futili sforzi di riforma, dovremmo piuttosto lasciar loro piena liberta di compiere la loro propria distruzione. Dopo tutto, è quésto il metodo di Dio e della natura.
Talvolta mi vien fatto di pensare che noi Cattolici liberali,' con le nostre attività di riforma abbiamo ritardato anziché affrettato la cura dei mali. Ma fino a che questi mali non siano giunti a un grado tale da sfuggire manifestamente a qualunque umano controllo, noi abbiamo il dovere di tendere ogni nervo nella difesa della causa di Dio.
Raccomandandomi alle vostre preghiere, mi professo, miei cari amici, sempre vostro servo divoto in Cristo G. Tyrrell.
Non sarebbe difficile tracciare un vasto commento alla breve lettera, mo- , strando come i sentimenti dal Tyrrell ivi espressi — dal senso di immensa delicatezza spirituale verso le anime che in lui avevano rimirato con fiducia, alla problematica utilità finale degli sforzi riformistici — ritornino ripetutamente in altri suoi scritti; e come essi abbiano ricevuto da avvenimenti anche recentissimi una testimonianza di profondità e verità.
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UNA LETTERA INEDITA DEL P. GIORGIO TYRRELL
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UNA PAGINA AUTOGRAFA DELLA LETTERA
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Mi limiterò solo a riferire qui un brano di una lettera del Tyrrell in data io marzo 1909 ad un amico:
«.Arrivo quasi a credere che convenga alimentare il fuoco, contribuire a rendere più grave questa “ febbre d’autorità ” e spingere ehi ne è invaso a proclamare l'infallibilità d’ogni Congregazione, del Generale dei Gesuiti, d’ogni Monsignore Romano: a dichiarare che la terra è un disco piatto sorretto da pilastri e il cielo un coperchio convesso. Lasciare insomma che vadano a tutta corsa a battere del capo contro il muro, nella speranza che il colpo li faccia rinsavire. La tesi favorita da Dio è sempre la “ reductio ad absurdum ”, cioè concedere ai mali il più àmpio sviluppo, affinchè la loro vera natura si manifesti. Nulla riesce a produrre una convinzione altrettanto profonda e generale ».
Fu rimirando, nuovo Mosè, a una chiesa dell’avvenire risorta dai propri errori e rovine, che egli scrisse poi sul suo Breviario : « Tu vedrai innanzi a te la terra ch’io darò ai figli d’Israele, ma tu non vi entrerai».
G. Pioli.
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C’jÈ UNA SPIEGAZIONE LOGICA DELLA VITA?
a questione sollevata da Dino Provenzal in un notevolissimo scritto di due anni fa su Bilychnis (i), per opera stessa di chi la proponeva, ha preso — ed è bene che conservi — il carattere di un esame introspettivo di sè' stessi, e quindi di una specie di confessione.
Era quasi fatale che così fosse; anzitutto perchè in questioni siffatte la discussione accadèmica è qualche cosa di peggio di una vanità, è una profanazione dell’anima ; poi perchè
si direbbe che c’è nell’aria, da qualche anno, un così diffuso e intenso desiderio di sincerità, e quindi di revisione di tutto quello che accettammo come eredità di idee e di sentimenti, che nessuno si può sottrarre in qualche misura a questo dovere di rinnovata analisi; e poi ancora perchè è passato su tutti noi un turbine tale che sono state scosse, e quindi messe alla prova, quelle che ciascuno credeva le basi incrollabili ormai della sua personalità.
Sia dunque e rimanga confessione.
Non è, no, presuntuosa c vana curiosità questa che ci travaglia tutti, o sotto forma di problema che rimane in modo permanente davanti allo spirito e domina tutti gli altri; o sotto forma di muta imprecisata interrogazione che rivolgiamo a noi stessi, quasi con senso di vertigine, in momenti in cui l’animo è più raccolto e meno distratto. È il problema delia nostra vita: è il problema della mia vita; e, d’altra parte, è il problema di tutta la storia della umanità.
C’è una spiegazione logica della storia? C’è una spiegazione logica della mia vita? In forma più generale, c’è una spiegazione logica della vita?
Ognuno esamini la questione sotto la forma che preferisce; la questione però è, in fondo, unica.
Per domande formolate in modo così chiaro e preciso, non mi paiono convenienti le risposte che si fanno attendere dopo un lungo ragionamento, e poi dopo questo
(i) Vedi Bilychnis 1917 fase, di giugno e 1919 fase.'di febbraio, pag. nò.
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vogliono ancora essere districate fuori dalla folla delle frasi, cól dubbio sovente di non avere bene inteso il pensiero del ragionatore. Credo che si desidera, in genere, udire la risposta, e poi seguire il ragionamento schiaritore; dato però che la risposta si possa dare in forma precisa, e che il ragionamento sia davvero schiaritore, il che spero riuscirà nel caso mio.
Dico dunque subito che per parte mia, per me che accetto e mi sforzo di mettere nella mia vita l’idea di Dio, comprendendola nella nozione rivelatrice dataci dal Cristo, cioè del Padre Celeste, per parte mia non so vedere una spiegazione lògica della vita; scorgo però una spiegazione d’ordine superiore ad essa, cioè una spiegazione morale.
Questa è la risposta; ed ecco ora il ragionamento su di essa, perchè essa è certo il frutto di un ragionamento e di una esperienza personale.
Intendiamoci subito; chi dice spiegazione, dice esposizione di legami da fenomeno a fenomeno; chi aggiunge logica implica che questi legami sono determinati dalla legge di causalità. Ora una esposizione razionale di tali legami, in riguardo della vita considerata in me, o considerata nella umanità, non so vederla.
La filosofia non l’ha data e non la dà; l’arte l’ignora, e l’ignora anche la scienza, quella pure che, perchè scritta ieraticamente con grossa iniziale, credeva, e a momenti credè ancora, di tenere in pugno funi verso. Non l’hanno data le religioni, e non la dà il cristianesimo. Eppure il nostro spirito è assalito sovente dal desiderio di giungere a stabilire, si accetti l’imagine, « la forinola matematica » della umanità; dico, la formola matematica, perchè questa è la corporatura più segaligna che si possa ideare per una spiegazione logica, poiché nulla vi si trova oltre il necessario, ma tutto quello che è razionalmente necessario vi si trova.
No, la formola matematica della vita non so vederla; nè so dove altri possa sperare di trovarla quaggiù.
Questo però non vuol dire che non esista. Da quanti fatti siamo noi circondati, dei quali lo spirito umano scorge ora la spiegazione logica, mentre una volta non la vedeva! Di quanti altri non vede ora la spiegazione, che gli apparirà invece chiara o quasi fra qualche anno! E però non deve stupire se, pur dicendo che non so vedere la spiegazione logica della vita, non escludo resistenza sua.
A mio avviso, mostra appunto mancanza di rigore logico chi — e non è raro trovare chi così agisca — dal fatto della non scorta spiegazione logica della vita deduce la sua insussistenza; è mero paralogismo, ormai screditato, quello che sentenzia, « non è, ciò che non si può nè si potrà mai conoscere ».
Tutto quello che, se mai, si può dedurre allo stato attuale è che la spiegazione non si conosce finora; e quello che, se mai, si può indurre, tenendo conto di molti elementi e di molte ragioni, è che l’umanità quaggiù resterà priva sempre di una tale spiegazione; ma ciò, ripeto, non autorizza, a negare l’esistenza di una spiegazione;
Un grande spirito religioso, e forte pensatore anche, Saulo di Tarso — al quale dovrò richiamarmi anche nel seguito di quanto esporrò — dice a tale riguardo che verrà giorno in cui il « processo della conoscenza sarà inutilizzato completamente », perchè sarà consumato nella pienezza della conoscenza razionale, cui perverremo, usciti oltre l’ambito di questa vita.
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c’è UNA SPIEGAZIONE LOGICA DELLA VITA? 447
Questa salda speranza dello scrittore cristiano è però il riconoscimento da parte sua, di quanto io, modesto e lontano discepolo, ho dichiarato, per parie mia e per mia esperienza, cioè che ora la conoscenza razionale completa — e quale conoscenza più completa ed assoluta di quella che ne desse una spiegazione logica della vita? — manca. Questa speranza di Saulo di Tarso è il riconoscimento, per parte sua, che il problema della spiegazione razionale della vita egli se l’era posto, nei solenni soliloqui dello spirito, e non l’av.eva potuto risolvere.
In riguardo di Paolo, e da parte sua, non è dunque il caso dell? esortazione al fanciullo, « piu tardi saprai! », contro la quale protesta a giusto diritte il Provenzal; non è il dantesco
state contenti umana gente al quìa !
è la confessione di una esperienza personale e di una personale convinzione; fondata questa, se ben veggo, su una induzione di fede razionale, « un giorno ci sarà una spiegazione razionale; attualmente essa non può essere che prerogativa di Dio; perchè essa implica la conoscenza della natura umana in misura assoluta, in tutte le sue componenti, cioè in quella misura che è logicamente ora preclusa all’uomo ».
Perciò torno a dire, io che non mi sento scettico, ed ho della vita e della storia un concetto piuttosto ottimista, non so vedere una spiegazione logica della vita; e come a questo riguardo nulla dice all’anima mia tale risposta puerile del catechismo, la quale ha le sue origini nella scolastica medievale — che credeva di dare la-dimostrazione razionale dei problemi dello spirito — così nulla mi dice tale disquisizione pseudo-sapiente, dove il gergo scientifico grecizzante maschera il Vuoto del contenuto.
Ma, dopo ciò, la questione è essa esaurita? Dovremo concludere, « non posso conoscere, dunque non mi occupo affatto della vita. Forzatamente la subisco, sdegnandola però, se non sprezzandola, dall’alto della torre del mio pensiero, come cosa priva di senso? »
Oppure dovrò concludere all’amaro convincimento che si è'ìn balìa di un cieco fato, impassibile sfinge accovacciata nella incommensurabilità di un infinito di spazio e di tempo che ci opprime, più che spaventarci?
Oppure dovrò concludere col gettarmi a corpo perduto in una attività di bene — a proposito, allora, che. è il bene? — a titolo di disperazione, come acutamente osserva il Provenzal, rispondendo a chi gli additava questa via, che, per quanto encomiabile, elude il problema, senza nemmeno sfiorarlo?
Oppure infine dovrò concludere col cedere ad un semplice stimolo di godimento materiale —- nel quale però, se mai, la logica dominerebbe molto più che non si creda - concludendo con un, « mangiamo e beviamo, poiché domani morremo »?
Ebbene non mi pare che la questione sia esaurita; mi pare invece che essa debba essere spostata, o meglio, trasformata. Come problema puro dello spirito essa rimane qual'è, non potremo sopprimerla, perchè non possiamo sopprimere il nostro pensiero. Oso dire anzi, che il non poterla sopprimere è per me una dimostrazione della realtà di quella scintilla divina che è in noi. Solo chi è del lignaggio dell’assoluto può sentire questa nostalgia della conoscenza assoluta.
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Ma la quistione, ripeto, come quistione che può e deve decidere ed orientare la nostra attività, e sopra tutto darle un valore ai nostri stessi occhi, il quale altrimenti mancherebbe, mi pare che debba essere trasformata; e dico subito in che senso; spiegazione logica, no; spiegazione morale, sì.
Possiamo ritenere desiderabile di conoscere razionalmente la vita, ma intanto, la vita, noi siamo posti a viverla.
Ammalati e messi in presenza di un modico che ci dicesse quel che avviene nel nostro organismo, e ce lo dimostrasse con chiarezza da non potere desiderare maggiore, ma che aggiungesse, « quanto a rimedio, nulla so », saremmo certo mediocremente soddisfatti; e ad ogni modo quella limpida conoscenza rimarrebbe per noi pur sempre la più sconfortante e più desolata cosa.
Ma posti in presenza di un medico che, senza darci una soddisfacente spiegazione, recasse il rimedio che rialza ed esalta le nostre forze, e ci fa sentire, se non intendere, la vita; e ci dà il trionfante convincimento di possederla, troveremmo in questo fatto quanto è sufficiente, non solo a riempire l'attività della nostra vita di relazione, nel senso sociale e filantropico, ma a riempire nel nostro spirito, tutte le categorie di energia di esso; sicché il tormentoso problema che travagliò gli animi più validi, « chi mi darà la spiegazione di
«questo enorme mister dell’ universo? ■
si muti nella serena fiducia dell'attesa attiva, « per adesso conosco parzialmente, ma allora conoscerò completamente, come sono stato conosciuto » (i).
In fondo non è tanto la necessità di saziare la curiosità della ragione avida di sillogismi, che assilla dotti e indotti, ricchi e poveri, uomini dell’antichità e uomini dell’epoca attuale, e che assillerà i figli nostri ed i figli di essi; non è tanto quella, quanto il bisogno di colmare il vuoto della nostra anima, e quindi la nostra vita; di ristabilire un equilibrio, che sentiamo perduto, nè sappiamo come, fra lo slancio verso l’infinito e l’assoluto, che procede da dentro di noi, e la breve ed incerta ascesa consentitaci da questa nostra natura umana, còsi limitata ed impacciata. Noi sentiamo la sproporzione fra l'impulso di volo e l’ala che lo deve reggere; e se riflettiamo davvero, comprendiamo che questo squilibrio non sarebbe tolto, no, se anche la nostra mente avesse la più netta e completa visione razionale della vita; non sarebbe tolto!
Spiegazione logica, no; spiegazione morale, sì. Noi siamo un po’ come il fanciullo di fronte ai genitori suoi. Egli non ha, nè può comprendere una spiegazione logica della sua vita, in relazione con quella del padre e della madre sua, nè dal punto di Vista fisiologico, nè dà quello giuridico, nè da quello sociale, ma comprende la spiegazione morale, sa che è di loro e che essi sono suoi.
Ora la spiegazione morale della mia vita, o meglio la giustificazione morale di essa, non può essere un sillogismo; deve essere un'altra vita, dove io trovi in completo sviluppo quello che nella mia è aspirazione ardente ed insoddisfatta.
(i) Lettera di Paolo ai Corinti, XII. i : — Ytvuax» ix uteove, ww 8s txcYv»ao’¿a< xat eirepvoOip ». ; . ’
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Ed allora, pure riconoscendo che la soluzione logica è ora fuori della mia portata, trovo invece davanti a me, nella persona del Cristo, la sola soluzione morale; la sola, ma la completa e del tutto sufficiente.
Quale ideale di vita sì elevato. Che in lui non si trovi? Quale spirito di sacrificio, quale fuoco d'amore che in lui non culmini?
Un programma di vita che abbia per orizzonte il bene morale, ma in vista di un progresso personale soltanto, può essere, è vero, speculazione nobile, ma sempre speculazione, per ipotecare una vita futura. Un programma di vita, che abbia per orizzonte il bene del prossimo soltanto, può essere un ipnotico per quetare, e quindi ingannare, l’incalmabile affanno dell’animo. In Cristo i due orizzonti si fondono in uno solo, è l’orizzonte dell'ideale umano integro; la santificazione, cioè l’elevazione morale dell’individuo, matura questo in vista dell’azione verso il prossimo; questa d’altra parte rifluisce come onda che solleva l’animo. Sicché a chi vuole innalzare sè stesso fino a Dio, Cristo indica l’azione per la umanità; a chi vuole agire per la umanità, indica l’ascesa verso il Padre.
Chiedo uno scopo per la mia vita? Cristo lo dà, anzi egli stesso lo è.
Chiedo una luce che illumini il mio passato e il mio avvenire, non nel senso di dire, in quale ala di farfalla, in quale petalo di fiore, in quale detrito corrotto e putrido fosse tanti e tanti anni fa la materia di questa mia mano che scrive/ ma nel senso di una risposta atlantiche domande, «d’onde veniamo? », « dove andiamo?* Cristo mi dà tale risposta. Chiedo un accenno almeno di soluzione del problema del dolore umano? Cristo mi presenta questo trasformato in strumento di ascesa tanto per l’uomo che per la umanità.
Chiedo una valida forza di contrasto contro il male e contro la sua terribile logica? Cristo è tale forza, e l’ideale del sacrifìcio diventa in lui e per lui la vittoria contro il male.
Chiedo una rivelazione sintetica del divino? Cristo lo è nel pensiero suo e nella suà vitaChiedo una rivelazione sintetica della umanità quale il nostro spirito la vorrebbe vedere. Cristo lo è nella vita sua e nel suo pensiero. La sua figura è salvezza non solo per la donna caduta, condannata dal fariseismo ipocrita e che egli rimanda perdonata; la sua figura è salvezza per questo iddio decaduto, che è l’uomo, conscio dello squilibrio fra l’aspirazione all’assoluto che, è in lui e il sènso, di incapacità c di impotenza che gli dà l’urto colla realtà della vita.
Fuori delle definizioni teologiche, per tanti spiriti che sentono il profondo scoramento che proviene dal non sapere e dal non potere, c che si arrestano infine commossi davanti al Cristo riconoscendo che ninno mai parlò ed agì come costui, non è per avventura questo la salvezza? e non è egli il Salvatore?
In fondo Dino Provenzal ha ragione, acutamente ragione, quando, dopo aver tentato di profonderla per tutte le cose belle e tutte le cose nobili che la conoscenza umana poteva indicargli, e dopo avere, da questa attività, riportato lo spirito insaziato più di prima, dice della sua vita, « chi se la piglia? ». Ha ragione, quando trova che l’umanitarismo, la filantropia, sante e belle cose, non sono ancora la vita che é presa! Tutt’al più sono la vita che prende, cioè che si applica ad una attività morale nobilissima, ma allo stesso modo come si applicherebbe ad una at-
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tività estetica o ad una scientifica. E per tutte queste ' applicazioni della vita, rimarrebbe sempre la sconsolata domanda, come tarlo continuamente rodente, « e se tutto questo non mettesse capo che al nulla? ».
Ha ragione Dino Provenzal, non è la nostra vita che deve prendere; bisogna che essa sia presa in tutta la sua attività, nelle fonti di questa, altrimenti non solo manca là giustificazione logica di essa, ma anche qualsiasi giustificazione morale.
Paolo di Tarso — avevo detto che mi sarei richiamato ancora a questo grande pensatore — era anch’egli passato per queste stesse lotte morali, anch’egli aveva avuto la stessa esperienza di vuoto, anch’egli aveva tentato di applicare la sua vita alle più elevate attività: infine la ricerca ansiosa era terminata; ed, esaminando sé stesso, trova . a che il problema logico, pur rimanendo anche per lui, aveva perduto di valore.
Perché?
Il perchè egli lo dice a più riprese nei suoi scritti; esso è la sensazione profonda di un’esperienza, che anche tanti altri poterono fare; la sua vita era stata presa dall’ideale di Cristo, come il cuore di un figlio è tutto preso nella fiducia e nell’amore verso la madre sua.
È qui il caso di parlare di fede, come si intende ordinariamente, nel senso di un credere mentale convinto a date proposizioni, a dati fatti?
No, no e poi no! È qualche cosa di più profondo. L’uomo che è preso dal Cristo è l’uomo che ha posto la sua fiducia nel Cristo, e che ogni giorno più, attraverso al dolore, e anche attraverso alla colpa, sperimenta che la fiducia Egli la meritava completa, poiché Egli solo è la giustificazione morale della vita; fino al giorno in cui anche la conoscenza razionale sarà soddisfatta, nella raggiunta sua pienezza.
Mario Falchi.
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
ODIARE PADRE E MADRE? ('5
Se qualcuno viene a me e non odia sud padre, sua madre, sua moglie, suo figlio, i suoi fratelli, le sue sorelle; anzi, s’egli non odia la propria sua vita, ei non può essere mio discepolo.
Luca, 14-26.
Fratelli,
Avete udito : questo si chiama parlar chiaro « ciò è detto con autorità.
Ñon si può certo affermare che si tratti, più che altro, d’un modo di dire. La persona stessa di chi parla esclude l’esagerazione oratoria. Nessuno mai si fuse colle proprie convinzioni e colle proprie parole come vi si fuse il Nostro Signor Gesù Cristo. Egli si rendeva conto della loro grandezza a tal punto ch’ei diceva : « Non parlo di mio arbitrio, ma nel nome di Colui che m’ha inviato». Egli è andato sino al punto da dichiarare, con una calma in cui si rivela la certezza interiore: Il cielo e la terra passeranno, le mie parole non passeranno. Perciò allorquando, con una voluta insistenza, facendo una enumerazione in cui ogni termine aggrava il termine precedente, Ei pronunzia delle parole come quelle che ora abbiamo lette, certo egli non sacrifica il pensiero alla frase, egli non formola una iperbole. Il modo in cui si esprime indica una risoluta serietà : // verbo è una spada che penetra sino al midollo delle ossa.
Non bisogna scherzare con le armi, nè toccare- parole simili senza un sacro tremore. Se la sapienza dell’Antico Testamento già raccomanda di girare sette vòlte là lingua in becca prima di parlare, occorrerà pesare sette volte quelle parole prima di trarne úna conclusione ; altrimenti si correrebbe il rischio di prenderle alla leggera e quindi db profanarle.
* * *
Il passo che meditiamo costituisce forse una sconfessione del vincolo familiare? A prima vista, si direbbe di si, ed in questo senso è stato interpretato da molti, i quali o lo hanno seguite o lo hanno riprovato. Si, una
simile religione dove non c’è più nessuno, dove nè padre, nè madre, nè fratelli, nè sorelle devono più contare, questa religione dal cuore arido, dalla testa dura, questa religione di fanatici ci è stata raccomandata, imposta. Essa ha celebrato nel mondo terribili trionfi e sospeso come trofei ai suoi altari cuori straziati di genitori e di figliuoli. Alcuni hanno creduto loro dovere di sopportare simili torture, considerandole come volute da Dio.
Per fortuna, l’eccesso medesimo e il carattere contro natura delle esigenze, ha provocato legittime ribellioni. In ciò ch’essa ha di essenziale, l’umanità è sacra. Noi, diesiamo compenetrati di venerazione per i sentimenti di famiglia, pensiamo eh’essi vengono da Dio, di cui ci parlano più direttamente. Ci sentiamo autorizzati ad insorgere contro dottrine laiche o religiose che apparissero nemiche della famiglia. I sentimenti di famiglia disturbano certi assolutismi e portano loro ombra. Simili tirannie si sono richiamate falsamente agl’insegnamenti di Gesù preso a piè della lettera ed in un significato malvagio die giammai è passato per la niente del nostro Signore.
Ciò è subito evidente dal modo in cui egli adopera la parola Me (Se qualcuno viene a me), che non può assumere un significato esclusivo, ristretto, allorquando si tratta d’un essere cosi impersonale com’è Gesù. V’è un corrompimento della vita, il cui centro è il Me e che rappresenta l’esagerazione, l’esaltazione, direi quasi la deificazione di ciò che v’è di più acuto nell’egoismo individuale. A questo assorbimento di lutti gl’interessi nel culto del Me, risponde una certa forma di religione. Questa religione, fioritura lussureggiante dell’egoismo collettivo, viene a noi e ci dice: « Vuoi essere mio discepolo? Dammi il tuo cuore, il tuo cervello; dammi i tuoi occhi, le tue mani, le tue viscere. Quando non avrai più nulla, quando m’avrai dato ogni cosa, allora m’apparterrai ». V’è una religione che vuota l’uomo di tutto il suo contenuto umano e divino, perch'egli appartenga in modo più completo, più assoluto, a quell’autocra-tismo spirituale, eh’è davvero la peggior forma
(*) Dal vol. Glaives à deux tranchants.
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dell'impostura sulla terra. Pretendere eh'essa sia la fedele interpretazione dello spirito del-l'Evangelo, è una mostruosità!
Il mostro ha fatto dimolte vittime: eccone degli esempi.
Mi ricorderò sempre una visita -che feci, molti anni or sono, al letto d'una moribonda, in una delie nostre famiglie protestanti. La giovane donna era agli estremi, ma colla mente lucida ; l’avevo conosciuta bella, piena di salute, graziosa, ma per nulla superficiale nè mondana, anzi donna di casa, semplice e modesta.
Ella mi disse colia disperazione nella voce : « Pastore, io so che sto per morire, e sono molto infelice, non tanto di morire, ma perchè non me ne vado tranquilla : ho troppo amato mio marito", ho troppo amato i miei figlioli ».
-Certo d’essere, presso quella povera anima angosciata, il messaggero dal Padre celeste, le presi la testa fra le mani e le dissi: «Nel nome dell’Eterno Iddio che ha fatto il cuore dell’uomo, vi giuro che avete fatto bene. Non si può amare troppo il marito nè i figli, a meno che si amino male, che si amino criminosamente; che si dimentichino i propri doveri, la giustizia, la verità, la benevolenza agli altri dovuta, per amore dei propri cari».
Ella soggiunse: « Ho troppo amato mio marito, non ho abbastanza amato Dio».
Le dissi allora : « Non si può amare Iddio nè troppo, nè abbastanza. Ma Dio, non lo vedete, mentre egli ha messo presso a voi un certo numero d'esseri che sono suoi rappresentanti. Ricordate le parole: Nel giorno del g indicio, sarà dello : Ho avuto seie, ho avuto fame, mi avete dato da bere e da mangiare. Dio dice all'uomo: «Il tuo prossimo, sono io; tuo padre, sono io; tua madre, sono io; i tuoi figli, sono io. Amami nel tuo marito, nella tua moglie, nel tuo vecchio nonno, nei tuoi figli e nei tuoi nipotini, nelle teste canute e nelle teste coperte di riccioli biondi. Amami nella povera umanità tremante, perchè è in essa ch’io son povero, che ho fame e che ho sete».
Ho cercato di dire in poche parole quel eh’è il cuore di Dio e di riscaldare contro di esso quella povera donna che slava per chiudere gli occhi alla luce della terra. È mofla tranquilla. La grande pace le ha aperto le sue ali bianche.
Amici miei ! pensare che, in nome della religione che deve sostenerci, incoraggiarci, possono essere inoculate nel nostro spirito cosi sconsolanti nozioni! Allorquando ci occorre d'essere rifocillati nei giorni dei combattiinenti supremi, la provvista d’idee false che ci siamo fatta, invece di confortarci, c’intossica lo spirito! Parole evocatrici d’angoscia si frappongono coinè paraventi fra Dio e noi ! Quale orribile cosa è la religione senza viscere ! Eccone un altro esempio preso dal vivo.
Era due giovani che si amavano s’ergeva la barriera religiosa; la giovane era israelita ed il giovane protestante. Nelle pratiche da loro fatte per ottenere la benedizione del loro matrimonio, erano stati respinti un po' dappertutto e finalmente erano venuti a me dal-l’Olanda.
La madre della piccola ebrea mi raccontava le sue pene ; il suo capo religioso le aveva dichiarato : « Signora, Lei non ha più la sua figlia, perchè essa sposa un Gol ». Ella aveva risposto : « Se Lei sapesse cosa vuol dire esser madre, non potrebbe parlare in tal modo. Quando si è madri, i figli restano figli, checché succeda ».
Quella donna sapeva che v’è una legge non scritta e più grande di tutte le leggi scritte, quand’anche fossero consacrate in un rituale e scolpite su tavole di bronzo nel nome dello stesso Iddio! Sapeva quella donna che qualcuno più grande di tutti i legislatori, di tutti i capi religiosi, ha inciso co! bulino nel fondo del cuore delle madri una legge che nulla può strappar via da esso: quella di amare i loro figliuoli. Una madre è madre come Dio è Dio! Non vi può essere in ciò alcun mutamento.
La religione male ispirata ancora ha fatto questo; ha. detto all’uomo: Dio è geloso. Essendo egli Dio, si è creduto doverne dedurre che la sua gelosia sorpassava in intensità tutto quanto possono immaginare gli uomini. È geloso delle nostre gioie, geloso della nostra tranquillità, geloso dei nostri sorrisi, delle nostre tenerezze, del nostro affetto; è geloso di tutto. Bisogna dargli in pasto ogni cosa per placarlo. Tanto varrebbe avere per Dio una belva furiosa.
Ancora è avvenuto che certi spiriti fanatizzati e obnubilati hanno affermato che Dio non ammetteva che vi fosse amicizia tra persone che non professano le medesime dottrine. Ogni fraternità umana dovrebbe cessare là dove cessa la comunanza delle credenze. Concittadini, vicini, parenti, devono fuggire il contatto di coloro che non condividono le loro idee e separarsi da loro con intransigènza; non vi è peggior colpa di quella di pensar male! ma, poi, «pensar male», per quelle persone, non consiste nell’essere cattivi, malevoli, privi di onestà e di sincerità; ciò consiste -invece nel possedere convinzioni diverse-
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dalle nostre, o diverse da quelle ufficialmente riconosciute in certi ambienti ben pensanti.
Ponete uno di questi zelatori fuorviati, di questi convertitori ad oltranza in un ambiente in cui tutto vada bene, in cui tutti siano d'accordo, tra brava gente ; se questi non stanno in guardia, egli troverà modo di turbarli, egli appiccherà il fuoco ai quattro angoli della casa.
Ieri si stava bene, oggi ci si sospetta, domani sarà la guerra, la guerra santa in cui ci si anatematizza nel nome di Dio.
Se qualche semplice brav’uomo, che non ha tante pretese religiose, ma che è un uomo — o una donna — seguace della dirittura e della giustizia, il quale, o la quale, rispetta in fondo a sé stesso la legge divina che vi è scritta, contro la quale nulla deve prevalere — nessun comandamento d’uomo nè di religione — se qualcuno, trovandosi in condizioni simili, ha il coraggio d’insorgere, di difendersi contro l’energumeno, questi è capace di atteggiarsi a vittima e di considerarsi un martire della causa del Nostro Signor Gesù Cristo! Non è forse evidente, invece, che simili procedimenti disonorano la religione e perpetuano il supplizio del crocefisso ?
La verità è questa: la religione cristiana estende il sentimento familiare sino all’infinito e sino all’Eterno. Le vecchie religioni dell’oriente credevano di aumentare l’onore tributato alle loro divinità sostituendo il dolce nome di Padre — che l’istinto umano, qua e là, loro dava — coi titoli di potentati, di re, di gran signori. Il Cristo non ha conservato che il primo titolo, egli ha colto il nome di Dio sulle labbra dei bimbi. Ed ecco, nella nostra debolezza, la più bella glorificazione dell’ignoto sublime che costituisce la nostra speranza, ed anche il più bell’omaggio ai padri e alle madri di ogni tempo.
Bisógna davvero che la buona nomea della paternità e della maternità siano incisi assai profondamente nella memoria e nella riconoscenza degli uomini perchè, allorquando hanno cercato nel cuore del migliore d’infra essi un nome da dare a Dio, nulla di più bello abbiano trovato all’ infuori di questo nome di Padre. E ancora può scorgersi un raffinamento di tenerezza in questa espressione di cui si serve Gesù nella vecchia lingua del suo popolo— Ab, Abba — e che ricorda i primi suoni balbùziati dai fanciulli. Come se l’uomo si rendesse conto che, per nominare l’ineffabile, il grido più umile oltrepassa, in eloquenza, le espressioni più fortemente pensate ! Così l’Antico e il Nuovo Testamento s’incontrano allorquando si tratta di onorar Dio nelle
forme stesse della tenerezza familiare. Quale lezione vien data in questo modo a quelle devozioni fuorviate, a quella santità fittizia che si vergogna della sua umanità, a tutti coloro i quali non hanno compreso la divina ' bellezza che scaturisce dai rapporti di parentela.
No, la famiglia non è e non sarà mai un ostacolo alla religione. La vera famiglia è l’ambiente eletto dove, nel dolore e nel sacrificio, il regno di Dio si genera e si coltiva. Giammai si potrà misurare il male causato da coloro che ci hanno insegnato a considerare come cosa bassa i vincoli della carne e del sangue, l’amore puro e vero! Con non so quale dottrina —in cui si voleva Zar l’angelo, ma dove si faceva spesse volte la bestia — essi hanno intorbidato, e talvolta anche insudiciato, quella fonte sacra dalla quale Dio stesso ha voluto che uscisse l’umanità e in nome della quale siamo gli uni agli altri debitori della vita. Essi hanno misconosciuto il carattere provvidenziale di quei titoli di padre, di madre e di figliuoli, di cui la nobiltà è tale che nessuna corona, nessuna prosapia illustre, nessuna proclamazione di gloria, potrà mai uguagliarne il decoro e la maestà.
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Ma, allora, perchè Gesù ha parlato in tal modo? Oh, per fortissime ragioni, e con un’intenzione che più che mai mette in rilievo l’alto, scopo e l’ideale della famiglia. Queste ragioni noi le esporremo.
Ma sapete voi che cosa costituisce la disperazione di coloro che devono parlare? È il difetto di attenzione di coloro che ascoltano. Questa mancanza di attenzione sussiste, alle volte, quand’anche essi sono tranquilli come un muro, ciò che, di solito, è considerato come un segno della più perfetta attenzione. La disperazione di tutti coloro che sentono di dover parlare all’umanità, che hanno da insegnarle qualcosa, da aprirle orizzonti nuovi, è d’essere costretti a dirsi : Sarò io capito? Oppure hanno essi orecchi per non intendere? Allora chi parla ricorre a mezzi energici per forzare l’attenzione.
Il Nostro Signore ha adoperato questo mezzo nella circostanza di cui ci occupiamo. Però, egli non ha sempre parlato nello stesso modo allorquando trattava il medesimo argomento. Matteo gli fa dire: Chi ama suo padre o sua madre più di me... In Luca egli dice: Chi non odia suo padre e sua madre... V’è una gradazione, e sopratutto v’è un pericolo maggiore d’intender male queste parole colie quali sembra esser predicato rodio verso la prò-
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BILYCHNIS
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pria famiglia. Ma noi che conosciamo ¡ sentimenti del Nostro Signore, noi che sappiamo che, nella sua religione, il Sacrosanto consiste appunto nel sentimento familiare, nel sentimento paterno, nell’affetto dei genitori verso i figli e dei figli verso i genitori, noi che sappiamo che già nell’Antico Testamento è detto : « Allorquando verrà il Servitore di Dio, ei convertirà il cuore dei padri verso i figliuoli e il cuore dei figliuoli verso i padri » abbiamo tutto quanto occorre per renderci conto di quello ch’egli ha voluto dire.
Ha voluto dire che il sentimento familiare, nella sua nobiltà, nella sua purezza, nella sua legittimità, può essere esposto — come lo possono essere tutti gli altri nobili sentimenti — a certi pericoli: può essere rattrappito, striminzito, imprigionato. Ora, allo stesso modo che l’aria rinchiusa diventa veleno, un sentimento rinchiuso diventa un tossico straordinariamente violento. Un padre che dicesse ai suoi figli, o un marito che dicesse alia moglie: «Tu sei il mio tesoro; nulla per me esiste all’infuori di te; darei ogni cosa per te; farei qualsiasi cosa per te» quel padre, quel marito sarebbe un fuorviato, egli s’ingannerebbe completamente, egli non ha il diritto di amare qualcuno in tal modo, egli commette un’ingiustizia riguardo a tutti gli altri e fa torto a quegli stesso che in simile guisa idolatra.
Per essere davvero utile a qualcuno che si ama, bisogna amarlo con un amore di buona lega. Ora, è un amore di cattiva lega quello che si rinchiude in una creatura, senza più avere il coraggio di resisterle, annichilendo completamente la propria personalità e, per cosi dire, rovesciando l’ordine che deve esistere ovunque in una vita retta e utile, e die consiste nel governare i nostri sentimenti in tal modo che i più grandi lascino il posto per gli altri.
Giammai un padre, ad esempio, ha il diritto d’amare il suo figliuolo a tal punto ch’ei non abbia più il coraggio di rimproverarlo, o di punirlo, o di addolorarlo. Quand’anche arrischiasse di sentirsi dire: «Non m’ami più, sei duro per me», occorre che ami suo figlio o sua figlia abbastanza per praticare a loro riguardo quella fermezza paterna e salutare che si chiama severità e che costituisce una delle forme dell’amore. La severità e la resistenza sono anzi prove tra le più manifeste dell’amore, prove altrettanto preziose quanto sono rare e difficili a praticarsi. Troppo spesso si ama con una certa mollezza, e per questo l’ambiente familiare, sano fra tutti, che dovrebbe forgiare i caratteri, temprarli come
l’acciaio e far loro dare il massimo rendimento, diventa, in certe condizioni di abbandono, un vero ambiente d’infracidamento.
Per conservarsi benefico, l’amore familiare deve obbedire alla legge universale che consiste in questo: ogni cosa ed ognuno deve cedere il posto a ciò che l’oltrepassa. La famiglia è inquadrata in un assieme più grande di essa, e anzitutto nella patria. Non si ha il diritto di amare la propria famiglia in modo cosi esclusivo da scordare i propri doveri verso la patria. Ora la patria può dire ai padri e alle madri : « Dammi tuo figlio ! » E ciò non lo dice il ministro della guerra, non lo dicono dei politicanti, non lo dice il Parlamento; è la necessità stessa dell'ora; è l’urgenza dello sforzo da farsi per difendere la patria. Se volete evitare un simile dovere, credete voi che ciò sia prova che amate nel retto modo la vostra famiglia, che amate come si deve quelli che vorreste trattenere presso di voi? Triste amore quello d’una donna che vorrebbe impedire al marito di compiere il suo dovere verso la patria! Triste affetto quello d’una madre che non potrebbe incoraggiare suo figlio — nonostante tutto il suo amore per lui — a compiere fedelmente l’obbligo suo, anche l’obbligo più pericoloso, verso la patria !
Se il conflitto s’aggrava tra colui che vuol fare il suo dovere e colui che tenta d’impedirglielo, si sentono talvolta argomenti come questi: «Se ci vuoi lasciare è perchè non ci ami più! Tu non ci hai mai amati! Tu ci odi... ». Se l’adempimento del dovere espóne a simili rimproveri, dobbiamo imparare a sopportarli.
Vedete, cari amici, che vi sono momenti in cui la parola di Gesù s’adempie sotto i nostri occhi. Ma ciò che in tal modo si chiama odiare, vuol dire amare maggiormente e più elevatamente: amare meglio. Ciò non è un eseguire la consegna orrenda che mette in conflitto Dio e il sentimento di famiglia : è anzi un armonizzarli, un santificare il sentimento della famiglia. La famiglia non può mantenersi salutare, buona e rispettabile che ¿’ella esorta tutti coloro che ne fanno parte ad essere dei servitori della giustizia, della bontà: dei cittadini devoti alia loro patria. Altrimenti la famiglia insegna il contrario di quel ch’è fatta per insegnare.
La famiglia può diventare un corpo estraneo nella società ancora da un altro punto di vista ; intendo dire per quel certo modo troppo esclusivamente casalingo di comprendere la esistenza e che porta a rinchiudersi in casa propria. La famiglia sarebbe forse quel nido
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imbottito in cui ci s’accomoda per benino in modo da non sentire i rumori, i sospiri del di fuori, da non essere troppo colpiti dalle disgrazie pubbliche, dalle miserie sociali? Cattivo padre, cattiva madre son quelli che fanno del nido familiare qualcosa di talmente chiuso, di talmente « confortabile » che non vi si sentono i dolori altrui e che non ci si interessa più di quelli che soffrono ai di fuori. Avvelenatore dei suoi cari è colui che trasforma il tetto familiare in egoistica solitudine. Ei fa dei suo focolare una tomba nella quale si soffoca. Attenti, dunque! L’amore stesso può degenerare, e questo appunto sapeva il Nostro Signor Gesù Cristo. Ei sapeva che vi sono giorni e che vi sono momenti ih cui l’ordinaria misura nei sentimenti non basta ; in cui è necessario spingerli più lontanò, spingerli più in alto; in cui, per essere un buon padre e un buon figlio, si deve avere il coraggio d’incorrere nel rimprovero d’essere, un cattivo padre o un cattivo figlio. Qui è il punto doloroso: per quella confusione d'idee, per quella eccessiva rapidità nel giudicare che possiamo constatare ogni giorno, succede che un uomo il quale nobilmente si sacrifica al proprio dovere sia considerato uomo senza viscere. Quante persone puntano l’indice accusatore contro colui che, in nome della verità, dell’equità e della giustizia, resiste ai suoi cari e che non vuole coprire colla sua paterna autorità una ingiustizia od una calunnia!
Ah! questa è la tristezza, questo è il segreto tormento di coloro che fanno bene: di essere confusi con colorò che fanno male. Allorquando l’essere chiamato «cattivopadre*, ■♦cattivo figlio», «cattiva madre» sono i più evidenti segni d’infamia che si possano adoperare per stigmatizzare una figura inumana, essere trattati in tal modo perchè si ama abbastanza i propri cari da vplere che siano buoni, integri, coraggiosi, da volere che siano perfetti e pratichino la legge del rinunziamento al loro proprio bene, è davvero la più austera, ina .anche la più bella, di tutte le sofferenze. È la sofferenza propria del Giusto, in virtù della quale il mondo è salvato.
Ecco, fratelli miei, il significato, il nobile significato d’ùna parola che non ha altro scopo se non quello di elevare alla sua maggiore altezza la qualità del sentimento familiare. Ed è questo davvero.il momento di meditarla. Giammai siamo stati posti davanti al l’obbligo di osservarla in modo completo come lo siamo oggi, a motivo dei grandi doveri dell’ora presente. Giammai l’austero sacrificio familiare
ci è apparso cosi vivido, in tutta la sua bellezza e in tutta la sua grandezza. Il sacrificio della propria carne, per l’individuo considerato in sè stesso, è poca cosa di fronte al sacrificio praticato in tal guisa, nella persona di coloro che noi chiamiamo carne della nostra carne e che amiamo più di noi stessi.
Amiamo forse meno la famiglia perchè Siamo capaci di simili rinunziamenti ? Dio ci è testimonio che questo non è il caso.
Il nostro amore, adesso, si ravviva piuttosto e si estende su tutti i dolori che piamente sopporta ; si estende non solo sui nostri contemporanei, su coloro che, come noi, soffrono nelle fibre più sensibili del cuore, ma la nostra tenerezza aumenta e va a ricercare sino la polvere dei nostri antenati, s’interessa persino a! lontano destarsi della nostra discendenza.
Gli è per questo che, ogniqualvolta si ama la famiglia al disopra di sé stessa, le si assicura un fondamento più largo, una base più solida. Certo, i cuori stretti s’immaginano di ridurre la probabilità'di soffrire, restringendo i limiti dei propri sentimenti, rimpicciolendo il proprio orizzonte: ma essi, nello stesso ’tempo, diminuiscono la loro facoltà d’esser felici. Quelli che hanno il coraggio di sonrire di più, di allargare l’anima loro di fronte ai grandi doveri e ai grandi dolori, sono anche i soli capaci di provare le vere, le grandi gioie, profonde e immortali, contro cui le dimostrazioni del nulla, e della decrepitezza non possono prevalere.
Ecco la lezione che ha voluto darci Gesù, uomo di pace e di tenerezza profonda, ma il quale sapeva benissimo che chiunque è per la verità, solo a dirla, è costretto, in certi giorni, a sollevare delle tempeste. Queste tempeste però sono salutari e spazzano l’atmosfera. Per questo, giammai, noi che lo amiamo, che io conosciamo, permetteremo che si dica che egli è il nemico del genere umano. Egli è stato talvolta sfigurato, mal compreso dagli uni e dagli altri, dagli individui come dalle istituzioni. Ma in sè stesso, nel fondo di sè stesso, egli è davvero l’umanità ideale, nei suoi sentimenti essenziali che hanno per culla la famiglia. Ei riassume ciò che v’ha di più bello, di più degno d’essere adorato ed anche ciò che deve rinascere sempre. Ei merita che gli siano dedicati tutti i più nobili affetti ; egli merita d’esser posto al disopra di essi perchè siano, in lui, fortificati, santificati, immortalati.
Carlo Wagner.
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UNA CATTEDRA NECESSARIA
Uno studente d'Un’Università d'Italia, un giorno distribuì a qualche suo condiscepolo ed a varie studentesse il Nuovo Testamento. 1 Salmi, I! Giobbe. Lo spingeva a dare i santi libri agli amici l’amore della verità, e quel bisogno, così vivo nei giovani, di abbeverarsi di luce, di cercare, tutto dove è possibile, un segno, una prova sicura ch$ l’ideale, e tanto più o religioso, è veramente la base vita più fervida, profonda, rinnovatrice dell’umanità,
I libri, accolti con piacere, furono letti dai giovani studiosi, i quali trovarono, con loro stupore,_ tale una sorgente di bellezza spirituale nei Vangeli, d’armonia, di vita interiore e d’attività per l’anima che anela al bene, da desiderare qualche lezione di storia delle religioni ed una disamina sincera e sicura del Nuovo Testamento.
Cosi, . semplicemente, un gruppo di studenti ha riconosciuto che la sua istruzione storica, letteraria e filosofica è monca, e che la cultura universitaria ha una lacuna diffìcile a colmare.
Nei nostri Atenei, che hanno tante cattedre nelle facoltà di filosofia e lettere, e taluna, al dire del prof. Gentile, pressoché inutile, manca l’utilissimo insegnamento della storia delle religioni, parte viva della storia del pensiero nei secoli, insegnamento necessario per chi deve conoscere il valore della tradizione, e questo concatenarsi mai interrotto nel tempo, di ricerca del vero, il quale, nelle religioni si presenta sotto i più diversi aspetti, ma è pur sempre la grande, straordinaria aspirazione all’infinito, il desiderio di svelare il profondo, tormentoso segreto del nostro principio e del nostro fine.
L’ignoranza della nostra generazione — intendo di persone un po’ istruite — in.fatto di religione è fenomenale. Mi ricordo che alcuni anni or sono alla Camera, discutendosi suH'insegnamento religioso nelle scuole, i nostri deputati presero tanti e tali abbagli, dissero tali castronerie a proposito dei dogmi e specialmente di quello dell’immacolata Concezione, da far sorridere, compatendo, tutti i preti d’Italia, anche quelli conosciuti per la loro proverbiale ignoranza. Ed in una riunione di filosofi c di semi-filosofi, parlandosi di religione ho sentito delle definizioni cosi strane di questo bisogno dell’anima umana e tanta mancanza di vera cultura religiosa, che sarei restata stupita, se non avessi pensato che quei professoroni sapienti in teoretica, in storia antica, in .filosofia del diritto non avevano mai avuto il mezzo di avere in gioventù un corso di storia delle religioni: e quando l’anticlericalismo era di moda non si sentiva davvero la volontà in alto ed in basso, di sfogliare i volumi in cui la ricerca di Dio nei secoli v’è descritta con tutta l’erudizione possibile.
La mancanza di una cattedra della storia delle religioni nelle nostre Università, vuol dire il togliere dalla cultura italiana la cognizione del lento elaborarsi nel tempo della coscienza umana, è la base di quella semplice filosofia, che, dalla ricerca primitiva del nostro principio e del nostro fine, acuita dal senso del mistero incombente sugli uomini, si eleva nella metafisica, si affina nell’idealismo, crea delle opere immortali, in cui lo Spirito umano s’innalza sempre più verso la verità.
Non insegnando la storia delle religioni si dà ai giovani studiosi una concezione ristretta della psicologia, e si toglie alla
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NOTE E COMMENTI
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storia dei popoli la pagina più drammatica e filosofica. Nella disamina delie religioni l’osservatore vede attraverso ai tempi e alle razze una grande affinità di pensiero. Popoli, ignoti a vicenda, sacrificavano quasi nello stesso modo alla divinità, cercavano d’immedesimarsi con essa cogli stessi riti, dimostrando chiaramente l’eguaglianza fondamentale delle razze e le identiche tendenze di questa anima umana, che interroga da millenni il mistero e s’inchina a Dio effigiato ed adorato sempre in più pura forma, progredendo nella civiltà. In questo lento trapasso dal feticismo ad una fede più alta; dai riti fenicii, babilonesi, egizi a quelli orfici, di cui tante forme sono rimaste coinè incrostate al cattolicesimo, noi vediamo il formarsi della nostra coscienza. Le lotte più crudeli tra gli uomini sono quelle religiose; le pene ed i giudizi sono stabiliti nei primi tempi dai sacerdoti e per secoli l'idea religiosa ha chiuso come in una cerchia misteriosa l’umanità, invocando dagli dei vendette e castighi sui nemici, felicità per le famiglie e per i popoli.
Ignorare questo lavorio ininterrotto dell'anima, vuol dire ignorare per una gran parte il travaglio ed il progredire del nostro intelletto. E quando nel mondo s’afferma il Cristianesimo, i suoi concetti si permeano con la vita delle turbe; la sua morale è la base delle leggi e della fede; le sue immortali speranze sono la {ioia di milioni d’individui e l’attività enefica da esso propugnata migliora l’umanità, fingere di obliare tutta questa trasformazione a base morale-religiosa, non conoscere la vita di Colui che morì sulla croce per l’ideale e rinnovò un mondo, non saper meditare le Sue parole, da cui presero forza nell’esistenza e nella morte tante generazioni, è un errore gravissimo di cui ne soffre il sapere e Io Spirito, che ha bisogno di vivere piena ed intera la sua vita, di capirla e di farsi della religione l’arma più nobile contro ogni materialismo insidiatore.
Si dice, e non so con quale ragione, che Sl’insegnanti di storia delle religioni, ovendosi scégliere per forza di cose fra i preti, le lezioni ne soffrirebbero in sincerità, e gli studenti finirebbero per avere un concetto di questa materia misero e talvolta falsato. Non so realmente quanto di vero ci sia in tale affermazione, c se proprio la cultura religiosa sia cosi povera
in tutti gli studiosi italiani, da dover scegliere un sacerdote per una cattedra così importante.
Alcuni partiti e tanto più in questi ultimi mesi, hanno chiesto l’istituzione di questa cattedra nell’Università italiana, ma essa non dovrà esser fondata in nome dei cattolici- o dei protestanti, ma in omaggio dei sapere. La religione è vita dello Spirito. Fare che questo Spirito comprenda tutta la sua evoluzione: contemplativa in India; avvolta (li mistero nell’Egitto; gioiosamente rivestita dalle forme che la natura abbella nella Grecia; monoteista in Palestina; panteista a Roma; cristiana: cioè purificata da ogni antica scoria con Gesù e stringente nel cattolícismo i misteri orfici, il logos greco, la legge romana, il misticismo alessandrino, il nirvana buddistico e tutto fondendo in una morale superiore, tutto rigenerando al continuo contatto del Vangelo, dare un'idea di quest’assillante investigazione, che culmina con le nostre Sresenti guerre, in una terribile lotta dello pirito con la materia, mi pare una cosa necessaria oltre ogni dire.
I nostri giovani hanno sete di verità. Conoscere quel che ha scritto Platone ed Aristotele va bene; studiare Dante e Carducci va benissimo; sapere quali sono le correnti del pensiero in Francia, nell’Inghilterra, nell'America, in Germania è utilissimo, ma la mente dopo tanto studio si ripiega stanca e sente in sè uña aridezza mortale.
L’anima vuole dissetarsi alla fonte di vita. Lo Spirito vuole .luce, la maggior luce possibile. La mente desidera una religione che soddisfi le sue aspirazioni. Facciamo dunque conoscere ai nostri giovani per quale aspro cammino passarono le generazioni che ci precedettero, inda- v gando il mistero, guardando al radioso cielo, cercandovi l’impronta più sicura di Dio; ed in questo studio, culminante nel Cristianesimo, si comprenderanno meglio i valori morali, la forza del sentimento che cerca nell’al di là la pace ed il bisogno di dar un profondo senso religioso all’umanità.
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Per gli italiani poi lo studio delle religioni ha un’importanza specialissima. Nella tradizione cattolica, nella storia della Chiesa, troveranno dei punti che collimano continua-
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mente collo svolgersi della loro vita nazionale.
La nostra arte s’è fatta più grande per mezzo della fede; la potenza di Roma s’è universalizzata per il cattolicesimo e non v'è lotta nel Medio-evo e nel Rinascimento, in cui in qualche modo, l’altare non s’unisca alla spada. La nostra filosofia, la politica, i moti di liberazione dallo straniero non possono prescindere dalla tradizione religiosa, di cui per tanti anni ■ vive la letteratura ed il nostro massimo poeta: Dante; il nostro più eccelso politico: Cavour, il nostro più puro agitatore di coscienze e di popoli: Mazzini, erano profondamente religiosi.
S. Tommaso d’Aouino, Giordano Bruno, Vico credettero nelle energie sempre rin-novantesi del Cristianesimo, ed il loro potente pensiero è una parte — c non minima — della nostra vita intellettuale.
La scolastica, la riforma di Lutero, il modernismo sono diversi aspetti della storia delle religione, e non saperne l’intimo svolgersi nella Chiesa c le conseguenze, è un’ignoranza fatale per i nostri studenti.
• • •
Alziamo la fiaccola rutilante di luce, il nostro cammino, troppo pieno di ombre, ha bisogno d'esser rischiarato — e la lucerna che il viandante pensieroso adoperò per il primo a diradare le tenebre dello Spirito, passi sempre più fiammeggiante di mano in mano, per il conforto delle menti assillate dal dubbio, per l’elevazione degli stanchi cuori.
IL NOVELLO CARROCCIO
Alcuni giorni or sono, rileggendo una antica storia, mi capitò sott’occhio questo passo: • Ariberto arcivescovo di Milano, primeggiava fra i grandi di Lombardia, e quando un duca od un marchese togliesse qualche cosa ad alcuno, e questi ricorresse al prelato, egli mandava il suo bastone pastorale, e facevaio piantare ai luogo e sul podere su cui nasceva quistione; c ciò fatto nessuno più ardiva usare violenza, sinché l’affare non fosse deciso secondo giustizia. Rispettato per tutta Italia, pretese assoggettare i vicini feudatarii, che la devozione all’impero rendeva da lui indipendenti, e massime Snelli che avevano ricevuto terre anche alla sua mensa.
- Noi soffersero essi, e col legati si tra loro e cogli uomini liberi di Milano che, in grazia dell’immunità, erano stati ridotti sotto la giurisdizione vescovile, vennero a fiera battaglia. Vinti, fuoruscirono e forti pel numero, s'accordarono coi militi del contado, massime Comaschi e Lodigiani, formando una inolia o lega contro l’arcivescovo ed i càpitanei, come qui erano chiamati i vassalli maggiori; e in battaglia fra Milano e Lodi sconfissero l’arcivescovo. Questi, per dare disciplina ai villani ed artieri che combattevano a' suoi cenni contro la nobiltà agguerrita, inventò il Carroccio, un carro ben adorno e tratto, da buoi, sul quale inaibe-ravansi la croce e il gonfalone; altare al sagrifizio prima della pugna; pretorio e spedale durante la mischia. E poiché somma infamia reputavasi il perdere quest’arca dell’alleanza, i soldati gli si stringevano attorno, invece di affrontarsi in zuffe disordinate; avevano sempre un punto a cui rannodarsi, ne restava moderata la marcia o la ritirata; e si otteneva un accordo, di sforzi e di difesa fra le disunite volontà • (anno X035).
Così nel Medio evo i nostri padri combattevano, sotto l’egida della croce, contro i soprusi dei nemici interni e stranieri.
Oggi che la vittoria sui tedeschi arrise all’Italia, comprendiamo come la conquista non basta ed altri nemici, altri odii latenti ostacolano la nostra pace, il progresso, la vita vera della nazione. Non- soltanto i bolscevichi insidiano la nostra civiltà; non solo gli amici di Lenin, ignari la maggior parte delle conseguenze dei loro atti se si realizzassero, sgretolano lentamente questa nostra compàgine sociale, ma altri individui in diverse classi cooperano a questa fatale dissoluzione e corrompono la vita dello Stato nella sua migliore linfa : nel pensiero, nella fede, nelle calde speranze, per cui tanto si sacrificò negli anni trascorsi. Se l’ingordigia di molta parte del popolo non conosce più limiti, e guarda a quest'evoluzione mondiale, che si compie per forza d'eventi, senza capirla, e cercando di mutarla in una rivoluzione per trarne il maggior beneficio materiale, vi sono altresì degli individui, dei gruppi di persone che o col guadagno smodato fatto in tempo di guerra, si possono permettere un lusso scandaloso e corruttore o coll’opportunismo, coll’indifferenza ad ogni problema spirituale, tolgono quell’energia innovatrice e rigeneratrice di cui si ha tanto
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bisogno, e perciò indeboliscono la patria, menomano gli slanci all'entusiasmo, gli ardori alla fede. Un positivismo larvato di belle parole, un idealismo fatto di forme estetiche, un desiderio morboso di conquista (sia essa realizzata o per mezzo del nazionalismo o dei partito popolare italiano o dei socialisti; dia essa un seggio al Parlamento, una cattedra nelle scuole superiori, una lucrosa impresa) serpeggiano in Italia, si presentano sotto i più diversi aspetti, e corrodono, peggio di qualsiasi veleno, gli ideali che cominciavano ad affermarsi e davano speranza di farsi consolanthrealtà.
Contro l’inganno del popolo, che crede di esser giusto oltrepassando ogni antica concezione di libertà ed ordine; di fronte allo smodato desiderio del lusso, del benessere, senza una luce ideale che affini ed attutisca i folli appetiti; contro questa lotta per innalzarsi con ogni mezzo ed in qualunque maniera devono unirsi i nuovi cavalieri dell’ideale, attorno ad un novello Carroccio, dove un araldo suoni senza tregua a distesa per raccogliere quante forze buone ha la patria e gettarle nella mischia, e darle come lievito rinnovatore a questa società troppo scettica e positiva.
• • *
Avanti il Carroccio! Nel medio evo vescovo, sacerdoti, soldati, popolo, cavalieri seguivano e lottavano attorno al carro, santificato dalla croce, reso sacro per il sacrifizio che su di esso si compiva. Oggi, attraverso alla marea montante od illusa o menzognera od ignorante od opportunista, uomini onesti di tutte le caste tornino ad unirsi in falange e compatti scendano in campo a combàttere contro i soprusi d’ogni specie: le viltà che si gabellano peri urberie, la corruzione che si ammanta coi paludamenti della libertà; la licenza che si vuol confondere con la giustizia.
Avanti il Carroccio! Nel nuovo segno d’un ideale, che ha nel Cristianesimo là sua radice, si pugni per ridare alla coscienza i suoi valori, alla purezza dei costumi la sua altissima importanza rigeneratrice; alla religione il posto che le compete.
Avanti il Carroccio! Spintoni l’inno di guerra contro tutta questa politica truffal-dina che ci avvolge nelle sue spire e soffoca la vita dell’Italia; contro i lenocinì dell’arte, i guadagni favolósi, le vacuità che si rivestono di sonagli per attirare l’attenzione del volgo credulone.
Avanti il Carroccio, trionfante, strito
lante sotto le sue ruote le viltà della nostra vita sociale, le leggerezze, le aride filantropie, le ambizioni fatali. Avanti!... ma e dove-troviamo un vescovo Ariberto, forte contro i nemici interni ed esterni; pronto alla lotta contro proletari indiscreti e ricchi avari, capace ad innalzar il suo bastone ed a far marciare il suo carro cosi verso il Parlamento quando non compie il suo dovere, quanto verso il socialismo allorché non è altro che il sopravanzare ingiusto d’una classe sull’altra, che l’inversione d’ogni valore ed il trionfo della bruta materialità?
Avanti!... ma dove si troveranno le donne pronte a comprendere e ad aiutare la nuova santa battaglia, in cui gli allori saranno quasi impossibili, e dove nessun giornale intcsserà le lòdi, dei novelli cavalieri?
Se medaglie, croci e commende piovvero in tempo di guerra, e gli onori non mancarono anche alle donne, nella lotta da intraprendere attorno al novello Carroccio ogni ambizione, anche la più lieve, deve tacere. I nemici saranno innumerevoli; e più aspra sarà la battaglia e maggióri si conteranno le defezioni: ma nella passata guerra si vide tanta fermezza e cosi sicuro spirito di sacrificio da non esser permesso il dubitare che l’unione- dei buoni stenti a farsi, e che la nobile lotta per l’ideale trovi invincibili ostacoli.
Avanti dunque il Carroccio! Fra i giovani combattenti non vi fu un’anima come Snella d’Ariberto? Non v’è fra i nostri gli uno spirito cosi pronto al sacrificio, da mettersi per segno ai colpi nemici sul carro che deve condurre alla vittoria? Non si troverà un cuore tanto caldo d'entusiasmo da saper stringere a sè uomini di tutti i partiti, e condurli nella mischia del bene contro il male, della fede contro l'indifferenza, dell’idealismo contro i materialisti coscienti ed incoscienti?
In questa primavera in cui tante speranze si formano e fioriscono, come le rose in maggio, lasciate che anch’io speri nel mio sogno redentore, e mi figuri di veder dall'estremo orizzonte, fra una vivida luce, avanzarsi il gran carro vittorioso, su cui campeggia la croce ed attorno al quale si stringeranno — invincibili — tutti quelli che hanno creduto e sperano nella supremazia dell’ideale sulla bassa materialità della vita; nella riposta energia rinnovatrice di questa nostra razza, alla quale <Ja troppo tempo manca un apostolo redentore.
Maggio, l9x9. LulSA G1ULJO Bensq_
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PER UNO SCRITTO DI LUTERO
Caro prof. Pacchetto,
Poiché sono io, in misura maggiore di quanto non sia Lei, il responsabile della grave colpa di avere esumato quello scritto del Lutero che non è andato a verso al nostro « qui quondam » mi sia consentito di. aggiungere a quanto Ella ha già rilevato, in risposta al severo critico, qualche breve considerazione.
Lasciamo andare il rancido che messo li, nella letterina del « qui quondam » non ha senso e significa meno che nulla. Ma di cavilloso e di fratesco, così come l’opuscolo del Lutero io conosco molt’altrà letteratura del genere, fiorita un po’ nella seconda metà del xv e nella prima del xvi secolo, quella scaturita da intelletti che non erano ancora riusciti a liberarsi del tutto dal metodo della casistica scolastica, e che avevano meditato nella pace dei chiostri. Ai quali documenti non è, certo, possibile negare un valore storico soltanto perchè il pensiero che da essi ci viene risente di una forma mentis di quattro secoli dietro.
Ma lo scritto del Riformatore ha un valore sostanziale. non trascurabile.
Se da una parte Lutero proclama il principio tradizionale, ortodosso, della sottomissióne all’Autorità, dall’altra Egli pone la coscienza individuale unica arbitra nel giudicare la legittimità dell’operato dell’Autorità stessa, e le conferisce il diritto di negare la sua obbedienza al servizio militare e alla guerra. Egli spoglia l’ufficio delle armi è l’avventura bellica di tutte le attrattive ideali e dei mo
vènti pratici che nell’antichità sono stati, ed oggi ancora sono, nel massimo fiore: amore di ricchezze, amore di onori e di gloria sono per lui riprovevoli e condannabili. Egli disumanizza il combattente di tutto quello che è, pure oggi, la sua più vivente ed operante umanità. Egli toglie alla guerra il suo prevalente contenuto plutocratico e le sfronda i suoi aurei allori!
Sarà questa una concezione mistica della guerra, non verificabile nelle realtà storica, ma essa è, indubbiamente, assai più vicina al puro spirito cristiano di quanto non sieno le tante allegre panzane che abbiamo sentito, per quattro anni, e Sentiamo ancora, sballare su «il Cristianesimo e la guerra», sulla possibilità di aggiogare insieme alla cieca contingenza storica la sublime universalità del Vangelo e il piccolo protervo particolarismo na-zionalistico-imperialistico' la divina povertà e umiltà del Cristo e il feroce culto di Mammona, la inerme e perdonante forza dei martiri e la scienza raffinata di assassini collettivi, alimentata di odio e redimita delle rosse corone della gloria militare, onde la nostra superba civiltà fu ricacciata indietro, non di quattro secoli, ma di millenni, negli orrori di sangue e nelle tristezze mortali degli evi precristiani.
Le stringo la mano Suo
Paolo Tucci.
Napoli,’ 29 maggio 1919.
Al prossimo fascicolo la fine dello scritto di Lutero.
(Red.).
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POLITICA VATICANA E AZIONE CATTOLICA
LEONE XIII E BENEDETTO XV
Formatosi alla scuola diplomatica di Leone XIII e di Mariano Rampolla, Giacomo Della Chiesa, dalla diocesi di Bologna ove lo avevano confinato i col laboratori di Pio X, attendeva che la risurrezione di colui al cui fianco era stato per un quarto di secolo, lo riconducesse sulla via maestra della politica internazionale, la passione delia quale il ministero episcopale nascondeva, ma non aveva distrutto.
Scomparso Mariano Rampolla nel gravido silenzio della palazzina di S. Marta, l’antico sostituto deve aver provato il senso di una rovina irreparabile; la politica leonina ed i suoi artefici erano ormai tanto lontani dal Vaticano, da non consentire alcuna illusione sulla possibilità di una ripresa. Pio X, intanto, cercava gli elettori del suo successore fra gli esperimentati sostenitori delle sue idee, ed il cappello rosso fu deposto sul capo di Giacomo Della Chiesa soltanto quando apparve che egli anzi che da Bologna giungesse da un mondo così lontano, da esser divenuto quasi estraneo in quelle sale vaticane nelle quali aveva svolto la sua attività per un lungo periodo di tempo.
Lasciando Roma insignito della porpora, dopo aver pregato sulle tombe di Leone XIII e di Rampolla, l’erede di una politica già tramontata, non avrebbe davvero potuto supporre, nelle più,rosee previsioni, che quattro mesi dopo sarebbe salito sulla cattedra di S. Pietro... La guerra, capovolgendo equilibri politici e concezioni ideali, capovolse an
che la politica vaticana, ed ai cardinali adunati in conclave per dare un successore a Pio X, si presentò la necessità di ricorrere ad un polìtico per fronteggiare la grave situazione in cui era trascinata la Chiesa Romana : perciò il taciturno discepolo di Rampolla fu chiamato a raccogliere nelle sue mani le somme chiavi.
Benedetto XV rivelò subito i suoi pro-Ì»ositi. Lontano, per temperamento e per eletto delle esperienze storiche svoltesi sotto i suoi occhi, dall’illusionismo leonino, egli si propose di trarre dalla conflagrazione la maggior somma di risultati politici inserendo la così detta « questione romana » nella crisi generale senza eccessive proteste formali, onde apparisse meno visibile l’attitudine della sede apostolica; e riuscì nel suo proposito ottenendo anche elogi da scrittori liberali esultanti per la sua moderazione che escludeva qualsiasi attentato all’integrità territoriale dell’Italia.
Ma l’intervista Latapie, la protesta per il Palazzo Venezia, la nota per la Pace, e altri atti di non minore importanza, rivelarono più tardi i fini e la portata della politica vaticana; la quale, abbandonando le direttive francofile dell’ultimo periodo leonino, si orientava decisamente verso gl’Imperi Centrali, ai quali si attribuiva soltanto la capacità di raggiungere la vittoria finale.
Benedetto XV, dopo aver rimesso in onore, nei primi giorni del suo pontificato, gli uomini che il suo predecessore aveva allontanati dalla direzione delle masse cattoliche come sospetti, e aver restituito il brevetto dei-
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l’ortodossia ai giornali condannati da Pio X sui quali appoggierà in seguito la sua politica, si allontanava anche .dalla politica leonina, e vedeva così divenire intesogli i suoi più forti avversari nel conclave, i cardinali Merry del Vai e Billot, sostenitori indefessi del bloccò antitedesco.
Ma la vittoria dell’Intesa, costringendo il Vaticano ad un rapido revirement nella politica internazionale, lo richiamava altresì allo esame di problemi politici e sociali, dei quali i cattolici italiani, la cui azione era troppo connessa a quella della sede pontifìcia, sentivano più urgente il bisogno. Nacque perciò il Partito Popolare Italiano. Ma essendo esso distinto formalmente dalle direttive vaticane, il Pontefice non poteva dichiararsi estraneo al fervore sociale che la pace rendeva più evidente e grave.
Benedetto XV non aveva però la mente preparata all’esame dei problemi sociali : assorbito intieramente dalla politica, egli pensò di richiamare in vita un documento di Leone XIII, che Pio X aveva fatto di tutto per seppellire insieme alla Democrazia Cristiana. L’enciclica Rerum Novarum, che era stata zonsiderata come uno dei monumenti più insigni del pontificato romano, non aveva seguita la sorte di tanti altri documenti pontifici passando alla storia, se non alla archeologia?
Ebbene, Benedetto XV trovava un documento relativamente recente che poteva avere la virtù di galvanizzare la massa cattolica, e ad esso ha fatto appello.
« Il pensiero di Leone XIII rivive nello spirito di Benedetto XV », annunciò un giornale cattolico: un’ironia più atroce non a-vrebbe potuto concepire un avversario del papato, dopo quattro anni 'di pontificato di Benedetto XV.
Basta avvicinare uno qualsiasi dei documenti del papa carpinetano ad uno qualsiasi del papa ligure, per vedere quale profonda diversità di pensiero, nel contenuto intrinseco, nella forma e nello spirito, vi sia fra i due. L’enciclica Rerum Novarum se oggi appare, coni’è, una sopravvivenza storica, superata dai tempi nella fondamentale concezione sociale, rimane tuttavia un documento degno di un’istituzione millenaria e delle, accoglienze di rispetto se non di consenso che ebbe in tutto il mondo il 15 maggio 1891 quando fu emessa.
Se il pontificato di Leone XIII poggiò su una architettura artificiosa ed ebbe mire illusorie, gli atti del Pontefice furono sempre frutto di un’elaborazione intellettuale e spirituale, dalla
quale l’umanità riceveva raggi di luce. Si può dire altrettanto degli atti di Benedetto XV?
Il richiamarsi che il pontefice attuale ha fatto all’enciclica Rerum Novarum non è stato soltanto, adunque, un errore di sostanza, in quanto quel documento leonino non può essere trasferito e applicato alle condizioni sociali create da una guerra che nel ÍS91 neppure si riteneva possibile nelle astratte previsioni; ma è, soprattutto, il risultato di una errata concezione spirituale, proprio perchè dello «spirito» di Leone XIII appena una lontana parvenza rivive in Benedetto XV. Il quale nella enciclica leonina ha ricercato la possibilità di superare una spinosa situazione, senza intenderne il valore, nè accorgendosi come essa non corrisponda più alla realtà storica. Il Partito Popolare Italiano è ben oltre la Rerum Novarum-, esso batte rumorosamente alle porte di Montecitorio, lasciando ad altri — a chi? — la cura di formare la coscienza cristiana dei cattolici.
LA CHIESA E LE CLASSI LAVORATRICI
Ma il discorso tenuto da Benedetto XV ai rappresentanti delle Giunte diocesane e del-l'Azione Cattolica riuniti a congresso in Roma (1), merita di essere conosciuto, anche perchè esso chiarisce come l’azione delle organizzazioni cattoliche soggette all’autorità ecclesiastica abbia un fine identico a quella del P. P. I. che opera sul terreno politico con dichiarata autonomia dai Vaticano. Il Pontefice, infatti, si studiò di mettere in luce, perchè «particolarmente importanti, i problemi relativi alla scuola e quelli che riguardano le classi lavoratrici ».
Il Pontefice disse testualmente {Osservatore Romano, 5 marzo 1919):
« L’agricoltore di nulla tanto si rallegra quanto di veder caduto ‘in buon terreno il
(1) Nella sua relazione ai Convegno il conte Dalla Torre diede notizia dell’opera svolta dalle Giunte e dall’« Unione Popolare >: le Giunte diocesane, le quali erano duecento nel 1917 salirono a duecento-undici nel 1918. Si .iniziarono i lavori di organizzazione nel Trentino e neilTstria. Malgrado l’invasione delle terre venete, che tolse parecchie migliaia di vecchi soci, gli iscritti da 93.000 salirono a 96 mila.
Il conte Carlo Zuccbini presidente dell’« Unione Economico-Sociale » informò del crescente sviluppo di questa organizzazione che allarga continuamente le sue branche e la sua attività in campi svariati; egli non riferì cifre.
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seme che' la sua mano ha sparso nel campo affidato alle sue cure. Ma non si creda che alla letizia dell’agricoltore debba andare innanzi la raccolta dei frutti sulla pianta germogliata da quel seme. Una soave esperienza è venuta oggi a dimostrarci che il seme apparisce caduto in buon terreno, anche prima di dare il suo frutto, quando solo ci è dato di vederlo germogliare in maniera promettente.
«Infatti non era ancora spenta l’eco di un invito, che da quest’aula medesima noi avevamo rivolto ai promotori dell’azione cattolica per averli cooperatori nella restaurazione sociale a cui prevedevamo di dover mettere mano, e già l’egregio Presidente dell’Unione Popolare si era fatto interprete degli aderenti al sodalizio da lui presieduto, mettendo al servigio della Santa Sede “ quella unità delle forze cattoliche, che il campo religioso e morale sinceramente raccoglie in una fede e in un apostolato comune, oltre e sopra ad ogni altra particolare azione in ordine a problemi puramente materiali e politici. ” Ci piacque la sollecitudine di questa risposta al nostro invito, perchè da essa abbiamo potuto subito arguire la bontà del terreno, tanto pronto a mostrare il germoglio del seme.
« Ma il ricordo della parabola del seminatore avrebbe potuto metterci sull’avviso, che anche il seme presto germogliato talora è calpestato dai viandanti, talora inaridisce e talora è soffocato dalle spine. E’ stato perciò opportuno il convegno delle Giunte diocesane che si è celebrato in Roma, nei passati giorni: noi abbiamo ravvisato in esso il sincero proposito, di mandare ad effetto la promessa di indirizzare le energie dei cattolici al conseguimento del loro programma religioso e sociale. Le frequenti adunanze dei soci, i molteplici discorsi, i voti emessi e i successivi deliberati dicono infatti abbastanza che non si è voluto lasciare all'aperto il seme della nostra parola, che lo si è voluto custodire, perchè il Divino Maestro aveva detto che il seme caduto lungo la via, quando cioè hon fosse munito di ripari, potrebbe essere calpestato dagli uomini, o rapito dagli uccelli dell’aria. Nel convegno delle Giunte diocesane noi abbiamo anche ravvisato il proposito di non lasciare inaridire il seme appena germogliato, perchè questo, secondo la parola evangelica, inaridisce quando non ha umore, aruit quia non habebal humorem. Invece lo scambio delle idee, le reciproche esortazioni, il mutuo conforto che si è certamente avuto dal convegno dei passati giorni, devono aver quasi perfuso di soave dolcezza gli animi degli ihtervenuti, e il seme rappresentato dalla proméssa di nuovo lavoro non ha potuto rimanere arido nel cuore di chi prima l’ebbe accolto con lodevole sollecitudine. Finalmente il convegno delie Giunte diocesane ha certamente giovato a far conoscere le difficoltà cha l’Unione Popolare dovrà vincere per rendere efficace il suo proposito di nuovo lavoro. E premunendosi, come certamente si è premunita, contro tali difficoltà, non. ha compiuto un’opera meritevole di essere paragonata a quella di chi libera un tenera pianticella dalle spine che minacciano di soffocarla? Ora il seme che non è lasciato incustodito lungo la via, il seme che non è lasciato inaridire e che non è soffocato dalle spine, deve dirsi caduto in buon terreno. A gran ragione perciò noi possiamo paragonarci all’agricoltore che si rallegra di veder caduto in buon terreno il seme sparso dalla sua mano; echi determina questa nostra letizia, anche prima di raccogliere gli sperati frutti, è il convegno delle Giunte diocesane celebrato nei passati giorni. E pertanto esprimiamo la nostra piena soddisfazione a chi del convegno ebbe la prima idea, a chi lo adunò, a chi vi concorse e a chi con la savia parola e col prudente consiglio ne assicurò il buon esito.
« L’egregio Presidente dell’Unione Popolare ha indicato alcuni fra i principali beni al cui conseguimento dovranno i cattolici indirizzare le loro energie, specialmente dopo il convegno dei passati giorni. Noi facciamo plauso a tutti i nobilissimi scopi ai quali mirerà il lavoro dei cattolici ; ma non sappiamo celarvi, o dilettissimi, che a noi sembrano rivestire particolare importanza i problemi relativi alla scuola, e quelli che riguardano la-elevazione delle classi lavoratrici.
« Il fanciullo ci rappresenta l’avvenire della società; la società futura, come quella che sarà formata dai fanciulli dell’oggi, avrà solo quel tanto di bontà che sarà rappresentata dall’educazione che avranno avuto i fanciulli ■dell’oggi. Importa perciò sommamente informare a sentimenti religiosi e a principi di vera onestà il cuore dei fanciulli e dei giovani dell’epoca nostra. Laonde è necessaria la generosità dei ricchi, la pazienza dei maestri, la sollecitudine di tutti nel procurare che alla gioventù non manchi una educazione religiosamente completa, epperò promettitrice di un miglior avvenire per la società.
« E le classi lavoratrici, che formano una parte, così importante della società, non meritano esse la particolare attenzione di chi mira a promuovere il bene ? La meritano per se stesse, e la meritano per le insidie che
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sono tese ad esse da falsi amici. L’operaio non può ignorare che la Chiesa l’ha sempre guardato con occhio di particolare predilezione. Ai di nostri, un Pontefice di gloriosa memoria prese in mano la causa degli operai e ne propugnò le giuste rivendicazioni. Ma andrebbe errato chi credesse che con la morte di Leone XIII sia venuta meno la protezione della Chiesa per le classi lavoratrici: l’immediato nostro Predecessore ne affermò la continuazione in documenti solenni, e noi cogliamo volentieri l’occasione di questa numerosa assemblea di cattolici per dichiarare che l’Enciclica Rerum Novarum mantiene oggi tutto il suo pristino vigore, perchè anche oggi esprime la materna benevolenza e la provvida sollecitudine della Chiesa per la classe operaia. Ci rivolgiamo dunque ai cultori dell’azione cattolica, che hanno accolto il nostro invito di essere nostri cooperatori, e con interesse vivissimo li esortiamo a volgere speciale attenzione e cura speciale alle classi lavoratrici. Non è questa l’ora di scendere a maggiori dettagli, nè di toccare sia delle unioni professionali, sia dei sindacati cristiani: vi basti, o dilettissimi, il sapere che al Papa stanno a cuore gli organizzatori e gli organizzati ».
E’ quasi inutile avvertire che il discorso ha un valore puramente... teorico.
RICHIAMI ALLA FRANCIA
Intanto, la politica vaticana si andava orientando decisamente verso la Francia. Fallitele previsioni dei diplomatici ecclesiastici sui risultati della guerra, disfatto l'impero austriaco « baluardo della Chiesa cattolica » — la Commissione della costituente austriaca ha approvato la separazione della Chiesa dallo Stato —; caduto l’imperialismo prussiano alleato sul terreno politico della Chiesa romana; presso a finire con la conclusione della pace la missione inglese accreditata in Vaticano; riuscito vano il tentativo di stabilire rapporti diplomatici con il governo massimalista russo (1); non giunte a conclusione le «conversazioni»
(1) UOsserMore Romano del x° aprile 1919 ha pubblicato il testo di alcuni telegrammi scambiati ira il Segretario di Stato di Benedetto XV cardinale Gasparri e Lenin.
In seguito a comunicazione del visitatore apostolico della Polonia mons. Ratti il quale partecipava l’avvenuto arresto come ostaggio dell’arcivescovo di Mohilew mons. Ropp, dopo avere preso consiglio col ministro di Russia presso il Vaticano signor Lyssakowky, il cardinale Gasparri d’ordine del Papa, in data 3 febbraio, faceva pervenire a
diplomatiche vaticane con i delegati del governo italiano, il Vaticano raccoglie tutte le sue speranze sulla Francia l’antica «primogenita della Chiesa».
Già la vittoria dell’Intesa aveva modificato profondamente la politica vaticana che faceva molto assegnamento sul facile oblìo dei vincitori ; ma altre disillusioni doveva provare Benedetto XV sul nuovo terreno. L’attitudine deferente ma ferma del presidente Wilson, teraezzo di radiotelegramma al Governo russo il seguente dispaccio:
« Lenin, Mosca.
« Il Papa Benedetto XV ha appreso con immenso dolore che monsignor Ropp arcivescovo di Mohilew è stato preso come ostaggio a Pietrogrado dai bol-scevichi. Egli prega vivamente il signor Lenin di volere compiacersi di dare ordini perchè egli sia messo subito in libertà. Firmato: card. Gasparri ».
A questo telegramma Lenin rispondeva:
« Cardinale Gasparri, Roma.
«Appena ricevuto vostro telegramma ho domandato spiegazioni a Pietrogrado di dove mi si risponde che l’arcivescovo Ropp non è stato mai arrestato. È suo nipote, Aigon Resillevisco Ropp, giovane di 22 anni, che è stato arrestato per peculato. Lenin •>:
Avendo più tardi il presidente della Chiesa ortodossa russa mons. Silvestre, arcivescovo di Omsk,-dirctto al Papa un appello perchè intervenisse a favore della chiesa perseguitata — si affermava — dal governo massimalista (processioni disperse a colpi di fucile, chiese c biblioteche saccheggiate, vescovi c preti assassinati) il Papa inviava all’arcivescovo Silvestre il seguente telegramma: « Ringraziamo V. S. per il dispaccio che ella ci ha inviato e partecipiamo di cuore alle vostre angoscio e preoccupazioni. Vicario in terra di Colui che è principe di Pace, eleviamo al cielo le nostre ferventi preghiere affinchè la tranquillità e la pace tornino al più presto in Russia e siano concesse tutte le consolazioni e gli implorati soccorsi celesti ». Subito dopo il Papa, a mezzo del cardinale Gasparri faceva pervenire a Lenin un dispaccio cosi concepito: « Da seria fonte ci si informa che i vostri partigiani perseguitano 1 ministri di Dio e sopratutto coloro che appartengono alla religione russa detta ortodossa. Il Santo Padre Benedetto XV vi scongiura di dare severi ordini affinchè i ministri di qualsiasi religione vengano rispettati. L'umanità e la religione ve ne saranno riconoscenti ».
A questo telegramma veniva risposto dal ministro degli esteri, Cicerin, con un lungo dispaccio nel quale, dopo avere smentito che il Governo massimalista abbia mai perseguitato il clero ortodosso, afferma che nessun sacerdote ha sofferto per le prò-
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tragono alle pressioni per l’ammissione della voce del Pontefice nelle Conferenze preparatorie della Società delle Nazioni, colpi subito il Vaticano ; il contrasto con l’Inghilterra per la questione di Oriente aumentò la freddezza già esistente e l’appoggio dell'episcopato inglese al Governo acuì il dissidio tuttora aperto. La Francia, invece, per l’azione instancabile dell’arcivescovo di Parigi cardinale Amene e di tutto l’episcopato, attutiva gli effetti della rottura ; la questione dell’Alsazia-Lorena offriva senza sforzi l’opportunità di un incontro e l’Amette si adoperava ad avvicinare i due poteri con la certezza di vedere coronati di successo i suoi sforzi.
La Francia, che nonostante la separazione gode ancora in Oriente l’effettivo protettorato delle missioni cattoliche, ha interessi concomitanti con quelli del Vaticano ; ma sono essi tali da consigliarla a fare un cammino a ritroso superando la legge della separazione per riprendere il concordato napoleonico sia pure con radicali modificazioni? E l’assenza di rapporti diplomatici col Vaticano reca veramente danno ai suoi interessi in Oriente? E questi sono davvero in contrasto con quelli inglesi o russi o italiani come si vorrebbe far credere dai diplomatici vaticani ? Si comprende come le tesi vaticane mirino a creare contrasti o a mostrare interessi lesi, dove non soccorra l’intervento pontificio; ma il governo francese, abituato a scoprire il sofisma che si annida sempre nell’atteggiamento della diplomazia ecclesiastica, non accetterà troppo facilmente il punto di vista di Benedetto XV
prie convinzioni religiose e soltanto quelli che hanno partecipato a cospirazioni contro il Governo so-viettista e contro il potere degli operai e dei contadini sono stati sottoposti alla legge comune non godendo di alcuna situazione privilegiata.
Cicerin ha soggiunto che ricchezze immense nascoste dai dignitari della Chiesa ortodossa furono scoperte e che mentre il paese languiva a causa delle misure prese dagli Alleati, contro i quali il Papa non ha protestato, i ministri della religione avevano ammassato e nascosto stock enormi di commestibili dei quali privavano le masse.
Egli termina, affermando che in Polonia gli agenti dei vescovi cattolici fanno subire pene atroci ai campioni della causa popolare e hanno assassinato i membri della Croce rossa russa.
L’organo pontificio fece le sue riserve su questi fatti smentendo che gli ortodossi siano stati perseguitati dai cattolici: ma non diede notizia della risposta del Papa a questo dispaccio. Probabilmente essa non ebbe luogo. w
anche se presentato da un fervente patriota quale il cardinale Amette. E Clemenceau non può dimenticare che quella politica definì ispirata e diretta da un «papa boche» e saprà scorgere quanto di artificioso ed « abile » si celi tra le pieghe delle nuove manifestazioni di amore per la Francia.
La missione di cui l’arcivescovo di Parigi fu investito, e che riguarda sopratutto la questione del possesso della cattedrale di Santa Sofia a Costantinopoli che i greci ortodossi reclamano per loro avendo la storia a sostegno e che il Papa vorrebbe affidata al culto cattolico poiché la magnifica cattedrale diverrebbe centro di una politica orientale, della quale la confessione a cui verrebbe affidata ritrarrebbe un’enorme influenza in tutto l’oriente, è il cardine delle aspirazioni religiose; il cardinale Amette si è assunto un compito assai grave se si pensi che l’Inghilterra e la America sono contro le aspirazioni vaticane. Il Vaticano sta compiendo il suo tentativo più poderoso sulla Francia circondandola di manifestazioni quotidiane che appaiono eccessive se si leggono i testi dei discorsi di Benedetto XV dopo il suo lungo silenzio.
“ FRANCESE DI CUORE „
11 6 aprile, in occasione della lettura del decreto per la santificazione di Giovanna d’Arco il Papa ha pronunziato un discorso che è un inno alla Francia. Il Pontefice, rispondendo ad un indirizzo letto da monsignore Touchet vescovo di Orléans, tenne un’allocuzione dalla quale si riprometteva in Francia una sensibile ripercussione nell’ora in cui i rapporti fra la Santa Sede e la terza repubblica sono oggetto di appassionati dibattiti. L’argomento della canonizzazione della Pulceila diede modo a Benedetto XV di rievocare la gloriosa storia di Francia la quale merita — egli ha detto — un avvenire sempre più luminoso. Il Pontefice ha dichiarato di sentirsi francese di elezione e di dividere la gioia dell’ora presente con i francesi di nascita e ha rivendicato a sé il nome di «Pontefice di Giovanna d’Arco».
« Noi troviamo talmente giusto — ha detto Benedetto XV —■ che il ricordo di Giovanna d’Arco infiammi l’amore dei francesi per la loro patria che ci duole di non essere francesi che col cuore. Ma la sincerità con la quale siamo francesi di cuore è tale che in questi giorni facciamo nostra la gioia che provano i francesi di nascita. I francesi di nascita si rallegrano a buon diritto che la maggiore diffusione del culto di Giovanna d’Arco
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quale risulterà dalla canonizzazione otterrà grazie e benefizi più grandi alla loro patria. Ora in questo desiderio e in questo voto il francese di cuore trovasi in armonia coi francesi di nascita per augurare alla Francia un incremento di gloria e di felicità. Ci sia lecito dire che l’ultimo fiore che attesta l’amore dei figli di Francia per la loro madre diletta spande un profumo speciale. Noi domandiamo soltanto che sia dato parteciparne a colui che senza essere nato in Francia vuole essere chiamato l’amico della Francia».
Il Papa ha terminato difendendo la sua politica.
« Noi — egli ha detto — non possiamo non raccogliere i fiori che l’illustre oratore parlando delle affinità morali tra la Beata ed il Papa ha sparso a piene mani nel suo discorso. Non potrebbe però dispiacerci che lo esempio della condotta di Giovanna prima e durante la guerra possa contribuire a mettere in luce che l’atteggiamento della Santa Sede nel corso del recente conflitto è quello che è stato costantemente mantenuto dagli stessi santi che hanno amato la patria loro come Giovanna d’Arco. Questa naturale evocazione pel patriottismo della Pulcella d’Or-léans ci invita a raccogliere un ultimo fiore dell’eminente patrono della causa di Giovanna d’Arco ed è il fiore dell’amor di patria che come infiammò già il cuore della Beata, ha vibrato oggi nelle parole dell’illustre oratore».
PER L’AUSTRIA E PER SANTA SOFIA
Questo discorso del Papa è apparso a tutti eccessivo nel tono estremamente patetico: e non ha prodotto in Francia quell’impressione che il Vaticano se ne attendeva.
Già in una intervista di alcuni giorni innanzi col Petit Parisien il cardinale Gasparri aveva discusso i problemi internazionali che interessano la Chiesa romana, e più particolarmente quelli orientali, rivendicando al culto cattolico l’uso della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli.
All’inizio della guerra il Vaticano si allarmò per il timore che l'ortodossia russa, riuscendo vittoriosa nella guerra, si installasse a Costantinopoli, facendo di Santa Sofia il Vaticano ortodosso orientale : e a questa preoccupazione, uno scrittore cattolico ufficioso della Segreteria di Stato, il padre Henri Le Floch, rettore del Seminario francese a Roma, in un articolo apparso su Le Correspondant del io marzo 1919: La polilique de Benoit XV, fa risalire l’attitudine del Vaticano rispetto
ai due blocchi belligeranti (1). Ora il Vaticano teme che anzi che quella moscovita si stabilisca a Santa Sofia l’ortodossia greca.
I suoi sforzi, che si appuntano sulla Francia, sono intesi ad evitare la realizzazione di questo’ fatto, preferendo il Vaticano che piuttosto di cadere in mano agli scismatici, il glorioso tempio resti ai turchi. Il cardinale Gasparri non fa mistero dei suoi propositi.
Dal rappresentante del PetitParisien, giunto a Roma reduce da un viaggio in Oriente, il cardinale Gasparri, volle dapprima essere informato sulla vera situazione di Costantinopoli, della Russia, del Mar Nero e della Romania, e siccome il giornalista non potè mostrarsi ottimista, il cardinale, che sembrava perfettamente al corrente delle cose, gli disse:
« Una parte d’Europa si trova nel più spaventoso disordine. Il pericolo del massimalismo ci preoccupa grandemente. L’epidemia sembra estendersi... ».
Dopo una pausa, il cardinale proseguì :
« Lo smembramento dell’Austria è, secondo il mio avviso, un errore. Liberata dalle sue vecchie alleanze l’Austria poteva formare un elemento contro il disordine».
Richiesta se la Santa Sede fosse entrata in relazione con i nuovi Stati che si stanno costituendo, il cardinale rispose:
« Il Governo czeco-slovaceo ha già iniziato passi presso di noi. In Polonia siamo stati particolarmente commossi del pensiero che i membri della nuova Costituente hanno avuto facendo celebrare un ufficio nella cattedrale di Varsavia prima di fare benedire il palazzo ove la costituente siede. Due cerimonie ebbero luogo in presenza di tutti i membri dèlia Costituente. E notate, il Presidente dell’assemblea è un cattolico, ma il vice Presidente è un israelita ».
La questione jugoslava sembra al cardinale tutt’altro che semplice e il porporato opina che una certa autonomia di forma repubblicana dovrebbe essere accordata nel nuovo Stato jugoslavo, ai croati ed agli sloveni.
Sulla questione eventuale della ripresa delle
(x) Il Le Floch, com’egli stesso dichiara, ha preso visione dei documenti dell’archivio della Segreteria di Stato; il suo articolo è una risposta ad un ampio studio di un anonimo che si dichiara cattolico! apparso Con lo stesso titolo nella Renne de Paris, 15 ottobre e i® novembre 19x8. All’articolo del Le Floch, ripubblicato in Roma dalla Tipografia Artigianelli, è stata data un’ampia diffusione dal Vaticano, in sostituzione del Libro Bianco più volte annunciato, e che ancora attende di veder la luce.
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relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la ¡•'rancia il cardinale disse:
« Spetta al Governo francese ricercare quali siano nelle attuali circostanze gli interessi della Francia. Quanto a noi non abbiamo bisogno di dire quali siano i nostri desideri. Qualsiasi parola sarebbe inutile. Potrei in ogni caso formulare un voto e sarebbe quello che se la Francia desidera un riavvicinamento con noi, lo faccia direttamente senza ricorrere ad intermediari. Una potenza gloriosa, come la Francia, deve andare diritta dove vuole giungere».
E a tale proposito ricordò la frase espressiva del cardinale Merry del Val : « La Francia è troppo grande per entrare in Vaticano dalla scala dei domestici».
Circa la sostituzione eventuale dei vescovi di Metz e di Strasburgo nel caso che essi si dimettessero, il cardinale. Gasparri ha detto che l'Alsazia-Lorena resta provvisoriamente sotto il regime del Concordato.
Sul problema di Gerusalemme il cardinale espresse con discrezione, non scevra di emozione, le sue preoccupazioni sulla sorte della città santa. « Non sappiamo nulla, disse il cardinale, di quello che è stato deciso. Tentiamo in questo momento di far giungere a Parigi la nostra protesta». E come mezzo risolutivo, il cardinale Gasparri soggiunse: « La città potrebbe almeno essere internazionalizzata ».
Interrogato poi se la Santa Sede si interessa delle rivendicazioni degli Assiri e dei Caldei che chiedono che un piccolo Stato cristiano sia costituito nella Mesopotamia superiore tra Diarbekir e Mussulusi, rispose Sua Eminenza : « Ho ieri ricevuto il Presidente della Delegazione assirio-caldea. Gli Assiri ed i Caldei non vogliono saperne nè dell'islamismo arabo, nè di quello turco. Non possiamo che seguire favorevolmente i passi che hanno intrapresi ».
La questione di Costantinopoli si riduce per il Vaticano alla sorte futura di Santa Sofia. «Se le cose non debbono rimanere a Costantinopoli nello stato attuale, rivendichiamo Santa Sofia, la nostra basilica, al culto orientale cattolico. Per evitare ogni difficoltà ed ogni complicazione non chiediamo nulla, qualora per una ragione o per un’altra la situazione a Costantinopoli non sia modificata. Ma se certi cambiamenti debbono.intervenire, rivendichiamo altamente Santa Sofia ».
Ed il cardinale concluse: «Si dice che la diplomazia proponga di ristabilire, per quanto possibile, uomini e cose in uno stato che ci si possa avvicinare alle primitive formule sto
riche. Santa Sofia, se ci riferiamo alla sua storia, è più vicina al cattolicismo che non allo scisma. Ecco perchè, se certe modificazioni debbono essere apportate al regime di Costantinopoli, dobbiamo avere diritto a rivendicare Santa Sofia pel culto orientale, ortodosso, beninteso, non per quello latino» (1)’.
IL DETERMINISMO STORICO DEL VESCOVO DI ORLÉANS
Un’intervista concessa dal vescovo di Orléans monsignor Touchet al Corriere d’Italia (13 aprile 1919), ha recato nuovi contributi alla comprensione dell'atteggiamento del Vaticano rispetto alla Francia.
Prevale ormai nei governi e nei popoli il convincimento che il Pontefice debba svolgere la sua opera spirituale al di sopra ed. al
(x) In risposta a questa parte dell’intervista, i corrispondenti da Roina dei giornali di Atene comunicarono alla stampa la seguente dichiarazione che vide la luce soltanto su alcuni giornali:
«Santa Sofia —'cioè il Tempio della Sapienza Divina — è stata sempre una chiesa greco-ortodossa dall’epoca di Giustiniano fino alla caduta di Costantinopoli.
« È vero che Giovanni Paleologq e Bessarione — che poi divenne cardinale — firmarono l’atto di Firenze. Ma è pur vero che l’atto ed i suoi firmatari — i quali avevano agito senza autorizzazione — sono stati sconfessati dalla Chiesa greco-ortodossa la quale, secondo era suo' sacrosanto diritto, ha dichiarato tale atto come nullo.
« Quando i turchi entrarono a Costantinopoli, Santa Sofia era come lo fu sempre chiesa greco-ortodossa. Per non citare la moltitudine delle altre fonti, consigliamo il lettore italiano di rivolgersi su questo argomento a Costantinopoli di Edmondo DcAmicis e a Bisanzio di Zuretti.
* Nel momento in cui la stampa greca (vedi giornali ateniesi) esprime la propria gioia per il ritorno in Italia dei suoi capolavori d'arte trattenuti finora in Austria, è molto doloroso per ogni greco leggere quanto fu scritto su Santa Sofia la quale per. ogni uomo di buona fede e conoscitore della storia più elementare è stata sempre greco ortodossa e quindi deve oggi essere restituita a quella chiesa che ne fu sempre l’unico legittimo possessore.
< Tali i fatti positivi che ci offre la storia.
« KostaS Kerofillas, corrispondente dell’Ostia ; Giorgio Siriotis, corrispondente del Pa/ris e del Valkanikos-, Tachidromos; Basilio Vekiarclli, corrispondente (\cWElefleros Tipos •.
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di fuori di ogni sfera di azione politica, nell’interesse stesso del suo ministero. Ma questo programma, che potrebbe chiamarsi «religioso » in un largo significato, non è accetto al Vaticano, il quale, pur di veder trionfare le sue aspirazioni politiche, non rifugge di ricorrere a criteri tutl’altro che religiosi, ma deterministici per i quali il vescovo di Orléans, pastore di anime, bandisce teorie utilitaristiche capaci di turbare gli spiriti sinceramente religiosi, forse, ma bene accette a quel «cattolicesimo senza Dio» che in Francia propugna la ripresa dei rapporti col Vaticano.
Ha detto infatti mons. Touchet al giornalista cattolico: «In questi cinque anni le opinioni si sono venute modificando. Molte cose che prima si volevano ignorare, la guerra le ha ricordate con la sua brusca energia. Al presente io credo che i soli socialisti puri mantengano alla Camera francese l’opposizione alla ripresa dei rapporti con la Santa Sede. I radico-socialisti, invece, sono convertiti alla ripresaci). Conoscete il libro di De Monzie, Rome sans Canossa, che fece tanto chiasso alla sua pubblicazione. Più recente é la lettera di Lazzaro Weiler. Sono sintomatiche manifestazioni che vengono da quella parte e che non esprimono opinioni personali ed isolate, ma tutta una larga corrente di idee. Non credete che questo nasca da preoccupazioni ideali o religiose. Esso parte invece dal punto di vista pratico e in faccia alla realtà constatata che la Francia ha tutto il suo interesse a non essere assente presso il Papa e che oggi il prolungarsi di questa assenza potrebbe mettere in pericolo il frutto della nostra vittoria. In base a questo criterio utilitario esso chiede il ritorno a Roma e sans Canossa, appunto per indicare che il ritorno non è provocato da scrupoli religiosi. Ai cattolici del resto questo poco importa. Il punto di arrivo è lo stesso».
Il vescovo di Orléans ha caratterizzato la politica religiosa del Vaticano in Francia, come altrove, con una sincerità brutale, ma precisa. Il Vaticano non ha preoccupazioni di ordine morale e non lo interessa 1’«anima» di coloro che sostengono i suoi postulati ; il mezzo non importa, è il fine (il punto di arrivo) che giustifica i mezzi. Non è certo la chiarezza che manca a mons. Touchet il quale
(x) Per la verità, si tratta di una assai limitata corrente e non di tutto il gruppo radico-socialista, in seno al quale il De Monzie ha trovato vivaci opposizioni.
continuando ad illustrare il punto di vista suo e del Papa ha soggiunto:
« La Francia e la Santa Sede hanno molti interessi comuni. La Francia ha bisogno del Papa ed aggiungo che anche il Papa ha bisogno della Francia. Mi ricordo a tale proposito della immagine con la quale Leone XIII mi esprimeva un giorno questo pensiero. Un giorno mi disse: La Francia è il bastone sul quale mi appoggio per camminare attraverso l’Europa, ma anche la Francia ha bisogno dime. Queste parole del grande Pontefice corrispondono a quelle che ho inteso in questi giorni ripetere dal cardinale Gasparri : Noi abbiamo bisogno di una Francia forte».
STATI INGIUSTI
COL PAPA...,,
Ma il vescovo di Orléans non si è arrestato qui ed ha fatto un’altra preziosa confessione: « Noi siamo stati ingiusti col Papa » ha detto. Ed alla osservazione del giornalista cattolico, che attestava : < L’opinione pubblica è restata lungamente perplessa... » mons. Touchet Jia risposto : • Più che perplessa ostile, ma ingiustamente. Dobbiamo riconoscerlo. Ma ora le opinioni si vanno calmando, molti tornano a consigli più sereni e di molte campagne si comprende l’inopportunità e l’ingiustizia».
« Il Papa — ha osservato il giornalista — d’altra parte non si è lasciato sfuggire alcuna occasione per offrire alla Francia manifestazioni di simpatia.
« Oh sì ha risposto mons. Touchet —-e specialmente il suo grido di affetto lanciato verso la mia patria domenica scorsa nel proclamare la gloria di Giovanna d’Arco non può non aver trovato le vie del cuore di ogni buon francese. Ad ogni buon francese il Papa, mentre si diceva amico della Francia, francese di cuore, desideroso della maggior gloria e prosperità della Francia, mandava la sua benedizione. Ed ogni buon francese l’avrà accolta nel cuore, promessa e pegno di giorni migliori ».
Ma non tutti i «buoni» francesi saranno del parere di mons. Touchet : la politica vaticana di guerra è ancora troppo vicina perchè si possa fare già affidamento sul facile oblio dei popoli ; e se occorressero documenti recenti non sospetti sull’indirizzo che quella Ìiolitica seguì, possono servire le confessioni atte dai cattolici tedeschi all’assemblea di Weimar, riassunte autorevolmente dal professore Martino Spahn, il quale disse, nella seduta del 2 aprile, testualmente:
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« Per convinzione e con gli sforzi compiuti durante la guerra il Papa fu dalla nostra parte. E l’impero tedesco conta oramai così pochi amici che è insieme un dovere e un vantaggio per l’impero farsi rappresentare in Vaticano ».
L’attitudine presente del Vaticano verso la Francia non appare, quindi, del tutto disinte; ressata...
IL PARTITO DEMOCRATICO CRISTIANO ITALIANO
Preceduto da un vivace ed elevato dibattito svoltosi sull’/lzàM* Cristiana, ha avuto luogo a Bologna nei giorni 4, 6 e 7 aprile il 6° congresso della Democrazia Cristiana Italiana, dal quale sono sorti il Partito Democratico Cristiano Italiano e la Lega di Azione Cristiana.
Non rifaremo la storia di questo movimento in Italia, che ebbe periodi di reale importanza per gli effetti profondi raggiunti così nel seno della Chiesa come fuori di. essa, e le cui vicende sono legate al nome di uomini rappresentativi così distanti oggi : Romolo Murri e Luigi Sturzo. All’opera del Murri, infatti, occorre risalire per ritrovare le origini cosi del P. D. C. I. come del P. P. L, e ad essa attinsero, e per essa si formarono coloro che oggi sono a capo dei due partiti. Il Murri, benché lontano, può guardare con legittimo orgoglio a questi suoi compagni e discepoli di ieri, che se pure mostrano, oggi, di ignorarlo, o tentano di nascondere il loro punto di partenza colpendolo delle loro invettive, sentono tuttavia nel loro intimo quanto debbono a lui che primo illuminò il loro spirito, alimentò la loro fede, formò il loro carattere, indirizzò la loro mente, aprì loro le vie all'azióne.
Se, dunque, i clericali « popolari» si sforzano di vedere in Romolo Murri soltanto il supposto filo-massone, trascurando a bella posta la sua opera di religiosità e di elevazione spirituale nelle masse e nei partiti e programmi democratici ; i democristiani, raccoltisi in partito, per differenziarsi nettamente dai demagoghi clericali, hanno commesso una grave omissione non ricordando colui che pur militando in un campo diverso dal loro, rimane tuttavia l’apostolo di quella democrazia cristiana alla quale sacrificò la sua vita, e che gli orientamenti successivi, dettati sempre dàlia coscienza, anche se possono apparire effetto di errori, nulla tolgono alla nobiltà della sua opera e della sua figura. Chi ha seguito da vicino il Murri, dopo la sua uscita dalla Chiesa, sa che se egli avesse voluto sacrificare le sue idealità e le sue sensibilità morali e la dignità di una per
sonalità ricca di esperienze spirituali, avrebbe trovato molti e facili allori anzi che amarezze, sicuri e incontrastati successi anzi che avversioni. L’aver scelta una vita aspra di lavoro, non è la sua minore nobiltà. I suoi antichi compagni di fede adunati a Bologna non avrebbero dovuto dimenticare ciò ; e tanto più il loro ricordo sarebbe stato significativo, in quanto essi seguono una via inconfondibile per gli uomini di buona fede con quella del loro antico maestro. Ma il timore di critiche e deplorazioni da parte dei loro avversarii ha soffocato, forse, un impulso che molti d. c. non possono non aver sentito.
LA BANDIERA DEL CRISTIANESIMO
Il Congresso della Democrazia Cristiana ha costituito una delle più belle manifestazioni religiose dell’Italia nuova ; questi giovani che. si adunano in Partito per esprimere nella vita pubblica del Paese con sincerità profonda la loro fede nel rinnovamento morale e sociale della Nazione, affermando nettamente le loro ideé cristiane contro gli allettamenti del clericalismo politicante, sono un esempio e una speranza, anche per chi non condivide i loro punti di vista, che può tuttavia augurare all’Italia molti cittadini di questa tempra morale. Un congressista espresse nettamente il valore del congresso, dicendo:
« La bandiera della democrazia cristiana è l’unica bandiera religiosa nella quale in Italia, quanti operano nel campo della vita pubblica, abbiano fiducia. Teniamo alta quest’unica bandiera ».
I clericali, infatti, seguendo l’esempio che viene loro dall’alto, hanno abbandonata ogni preoccupazione religiosa.
Al Congresso parteciparono rappresentanti dì ogni regione, antichi e noti d. c., quali il venerando avv. Attilio Begey, il deputato avvocato Marco Ci riani, l’avv. Giuseppe Fu-schini, Antonietta Giacomelli, il dott. Guido Zadei, il dott. Giuseppe Donati, il rag. Gaetano Nuvoloni, il rag. Ettore Poggipollini, l’avv. Natale Rovina, Giorgio Vacchi-Suzzi, il prof. Vincenzo Cecconi, e altri. Avevano aderito molti, fra i quali il prof. Mario Tor-tonese, la signorina Carla Cadorna, e numerosi sacerdoti.
L'ampia discussione si svolse intorno alla mozione pregiudiziale per la formazione di un partito politico. Giuseppe Donati, favorevole alla costituzione del Partito e della Lega, ne espose le ragioni.
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« La democrazia cristiana — egli disse — non può avere alcuna incertezza. Essa resta organizzata su! proprio terreno di piena libertà e sceglie la propria posizione specifica, di fronte a qualsiasi altro gruppo, nel terreno politico e sociale.
Quando qualche amico viene a chiederci quali sono le nostre forze e le nostre probabilità di successo nel costituire il gruppo politico fa una domanda completamente oziosa, giacché le nostre forze sono scarse sia che si entri sia che si resti fuori del Partito popolare.
Siamo dieci, cento o mille, per il momento è tutt’una cosa.
Il Partito popolare si preoccupa di costituire una maggioranza, in gran parte con i soliti buoi e le solite pecore.
Il dover nostro invece è di esaminare quali sono le condizioni politiche del nostro paese: di vedere che esso voglia e di decidere sul nostro orientamento in base alle necessità di esso.
La democrazia cristiana non ha lottato soltanto per la conquista dell’autonomia politica, ma essa fu anche un movimento per la libertà e per la responsabilità della coscienza nel cristianesimo.
Noi non potremmo entrare ne! partito popolare se non ripiegando la nostra bandiera e accettando quel tristo compromesso che oggi comprime ogni sviluppo dello spirito cristiano nel cattolicismo, che si oppone all’ Unione delle Chiese cristiane, che impedisce ogni collaborazioni cristiana fra laici e sacerdoti : dovremmo ignorare i due grandi problemi della politica ecclesiastica e. della libertà dell’insegnamento ».
Contro questa tendenza parlarono il Poggi-pollini, il Cecconi, il Fuschini, il quale disse di ritenere un grave errore non entrare nel Partito popolare dove i democratici cristiani potrebbero trasformare l’ambiente e prendere contatto con le masse. Chiese che perciò fosse lasciata libertà di compiere l’esperimento a quanti hanno fiducia che riesca efficace.
L’on. Ciriani si dichiarò favorevole al partito d. c. perchè sa per esperienza personale che dichiarare apertamente e sinceramente la propria qualifica di democratico cristiano, senza rinuncio del proprio programma, infonde rispetto e maggiore autorità morale presso gli avversari i quali sono tratti a riconoscere nel democratico cristiano un credente e un cittadino libero, non un mandatario.
La democrazia cristiana come ha preso il suo posto nella guerra, così deve prendere il suo posto nella vita politica de! paese. Non ci preoccupiamo di essere molti, preoccu
piamoci di più della purezza delle nostre idee.
L’on. Ciriani espose quindi l’opera enorme da compiere in favore di quanti hanno sofferto per la guerra, per i disoccupati, per gli emigranti. Non lasciamoci ingannare dai nuovi patti Gentiioni : ricordiamoci che non a noi spetta la parte dei neutrali, privi di idee precise e nette.
IL PROGRAMMA DEL PARTITO
L’ordine del giorno Donati per la costituzione del Partito venne approvato con 77 voti favorevoli, 7 contrari e 2 astenuti. Esso diceva:
«Il VI Congresso della Lega Democratica Cristiana Italiana;
Considerando il dovere che le condizioni politiche e sociali della Nazione impongono ad ogni gruppo politico di assumere nettamente la propria responsabilità per il passato e per i propri impegni per il presente; e la opportunità di imprimere alle manifestazioni politiche e sociali della Democrazia Cristiana un carattere proprio ben definito, specialmente in confronto coi travestimenti e con gli equivoci dei clericalismo;
delibera la trasformazione immediata in :
I. un “ Partito democratico cristiano italiano ”, il quale raccolga quanti essendo schiettamente democratici, e come tali alieni da compromessi, sia con conservatori, sia con demagoghi, ispirano la loro condotta privata e pubblica ai principi morali e sociali del Cristianesimo, senza eccezione per l’appartenenza a determinate confessioni religiose o a nessuna confessione, e vogliono agire di iniziativa propria ed eventualmente con l’adesione ad iniziative di altri gruppi politici, affinchè le idealità del Vangelo sieno attuate nella vita privata e pubblica contro ogni tendenza scettica, individualistica, statica e materialistica ;
II. una "Lega d’azione cristiana”, indipendente dal Partito, la quale raccolga quanti dei sacerdoti e dei laici cattolici italiani intendono di operare coll’esempio, la preghiera, l’assistenza dirètta, la parola e lo studio, per l’educazione religiosa e civile del popolo, per lo spirito di carità, libertà e progresso cristiano nella Chiesa cattolica, e per l’Unione delle Chiese».
/ La seconda parte, riguardante la Lega, venne approvata all’unanimità.
Esaminato, quindi, il programma del nuovo partito, dopo una nutrita discussione i! Con-
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gresso approvò il seguente ordine del giorno, in cui sono raccolti i capisaldi di esso:
« Il Partito democratico cristiano italiano^
Convitilo profondamente che un intenso spirito religioso è necessario alla vita di un grande, popolo e che il Cristianesimo, ricondotto ai suoi principi essenziali, è pienamente adatto a soddisfare alle necessità religiose di un popolo moderno;
Considerando che mentre da una parte la predominante concezione dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato si ispira non ad un vivido concetto di operosa religiosità, ma ad una vieta idea di tutela e di imposizione autoritaria; non agli interessi veri dello spirito religioso e della coscienza nazionale, ma a quelli di pochi individui e gruppi limitati che hanno una loro posizione da difendere ; e lo spirito religioso, lungi dall’avvantaggiarsene, ne soffre grandemente, così che un numero crescente di italiani va via via sottraendosi ad ogni influenza religiosa ed accelerando lo scristia-nizzamento; e dall’altra parte i capi dei partiti popolari e delle tendenze democratiche dirigono la loro lotta, non contro quest’abuso che della religione fanno certi interessi politici, ma contro la religione medesima ; e come i primi si sforzano di mantenere alla Chiesa un certo prestigio e potere politico perchè essi possano abilmente sfruttarlo, i secondi si' argomentano di affermare l’autorità e il predominio dello Stato sulla stessa coscienza religiosa, limitandone e sacrificandone i diritti;
Ritenendo essenziale alla libertà e ai progressi dello spirito umano, alla stessa libertà religiosa e alla civile educazione la separazione tra la Chiesa e lo Stato, e la lotta aperta sia contro la deformazioni clericali dello spirito religioso, sia contro gli eccessi settarii del l’ant ¡clerica! ¡sino i rreligioso ;
Delibera di promuovere la realizzazione dei ' seguenti postulati :
i° Separazione economico-amministrativa dalla Chiesa dallo Stato. 2° Consegna dei beni della Chiesa, convertiti in titoli mobiliari, alle associazioni di culto cattoliche, aventi insieme esistenza legale economica e libera amministrazione di essi da parte di queste. 3 Abolizione del fondo culto, dei regi Patronati e del regio Assenso alla collazione dei benefici. 4« Facoltà di testare, dentro certi limiti e con certe garanzie, a favore degli enti ecclesiastici. 5® Libertà di associazione a scopo e per la convivenza religiosa. 6° Facoltà di possedere da parte delle associazioni
religiose limitatamente agli immobili di uso diretto e immediato (case, chiese, ospizi, scuole, biblioteche, palestre, ecc.) per quelle che chiederanno il riconoscimento legale e depositeranno perciò i propri statuti. 7® Revisione, in conseguenza della legge delle guarentigie ».
L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE
Il Congresso si occupò anche dell'insegnamento religioso e raccolse il suo pensiero in un ordine' del giorno cosi concepito:
Ritenendo che il massimo, più urgente e vitale problema della vita nazionale sia quello della educazione etica e dell’istruzione religiosa della gioventù; che l’ufìicio di educazione spetti innanzi tutto alla famiglia; che lo Stato abbia il dovere di aiutare e unificare l’opera della famiglia; e che lo Stato mentre è incompetente in fatto di educazione religiosa, ha però il dovere di riconoscere essere la religiosità il principio del dovere etico, e quindi di far rispettare le tradizioni eticoreligiose trasmettendo lo sforzo fatto dalla umanità per vincere e moderare i suoi jstinti inferiori, elemento essenziale di ogni* vera educazione;
Delibera di assecondare con tutti i propri mezzi ogni iniziativa tendente a realizzare i seguenti postulati :
r° Difesa economic.o-morale della famiglia, dell’infanzia e della donna. 2® Sviluppo della scuola e libertà della medesima in tutti i suoi gradi. 30 Controllo dello Stato sugli' istituti di educazione per l’osservanza delle leggi di igiene. 4® Abolizione dell’insegnamento catechistico nelle scuole elementari e istituzione di scuole paterne o confessionali di religione e di morale. 50 Esami di abilitazione sotto il controllo dello Stato. 6° Insegnamento della storia comparata delle religioni, della filosofia della religione e della stona del Cristianesimo nelle maggiori università delio Stato ».
La direzione del P. D. C. I. risultò cosi composta :
Buraggi avv. Dionisio — Ciriani on. avv. Marco — Donati doti. Giuseppe — Manzotti doti. Augusto — Nuvoloni rag. Gaetano — Rambaldi dott. Igino — Rovina avv. Natale.
Per le varie regioni sono incaricati della propaganda con funzione di Segretariati regionali :
Donati dott. Giuseppe per Venezia — To-nutti dott. Elio per Udine — Fior Pasquale per la Venezia Giulia — Zadei dott. Guido
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per Brescia — Mattei Ugo per Milano — Stirati avv. Luigi peri’Umbria — Paviranidott. Giuseppe e Rombaldi dott. Igino per la Romagna — Palumbo avv. Beniamino per la Sicilia — Boy per la Sardegna — Signorina Biancalana di Viareggio per la Toscana — Signorina Giacomelli per il Trentino.
LA LEGA DI AZIONE CRISTIANA
Come abbiamo detto, dal Congressó usci anche la Lega per l’azione cristiana. Ci sembra opportuno riferire il suo statuto:
« i. E’ costituita fra sacerdoti e laici cattolici italiani la Lega per ¿’azione cristiana.
2. Gli aderenti si obbligano di favorire con l’esempio, la preghiera, l’assistenza diretta, la'parola e lo studio:
a) l'educazione religiosa e civile del popolo italiano;
b) lo spirito di carità, libertà e progresso cristiano nella Chiesa Cattolica;
c) l’unione delle Chiese Cristiane.
3. La propaganda della Lega viene fatta con libri, opuscoli, fogli volanti, pubblicazioni periodiche, conferenze, convegni, ecc.
4. La Lega ha un proprio Segretariato che è incaricato di raccogliere le adesioni e pubblicare un bollettino periodico intitolato -.Lezione Cristiana.
Il bollettino svolge il programma della Lega e porta perciò in ogni numero le seguenti rubriche: Articoli originali — Pagine scelte specialmente dei grandi autori cristiani — Traccio per meditazioni e conferenze — Pro-poste e discussioni — Documenti — Rivista della stampa e giudizi bibliografici — Cronaca dei fatti più importanti per il movimento.
5. Si diventa socio della Lega mandando la propria adesione al Segretariato, accompagnandola con un’offerta di L. io annue.
L’offerta dei soci serve per sostenere le
spese di propaganda della Lega e l’abbonamento ai bollettino.
6. La Lega è dirètta da un Comitato centrale, eletto dai soci con votazione individuale, da rinnovarsi ogni anno.
Dal proprio seno il Comitato centrale elegge il Segretario della Lega, che è anche amministratore dei fondi sociali.
7. Quando in una località vi sono almeno cinque soci, questi possono costituirsi in Sezione, dandone avviso preventivo al Segretariato.
Le Sezioni si propongono di attuare localmente gli scopi della Lega. L’opera delle Sezioni è coordinata a quella del Comitato centrale ».
Il Comitato centrale risultò così composto: Begey avv. Attilio — Leverato don Giuseppe — don Rughi — Donati dott. Giuseppe.
Ci siamo dilungati nel riferire i risultati del Congresso, perchè esso ci è apparso uno dei sintomi più confortanti per chi ancora ha fiducia nella rinnovazione morale e religiosa del Paese. Ci sia concesso rilevare fuggevolmente come la Lega avrebbe potuto accogliere nel suo seno — e quindi svolgere con maggiore efficacia il suo programma in un più vasto campo — anche quei cristiani che pur aspirando alla unione delle Chiese e ad un cattolicismo che non sia una setta politica, non credono di poter essere qualificati «cattolici» nel senso corrente: per es., gli aderenti a quella società «Fides et amor», che si propone i medesimi fini della Lega, e li va proseguendo con la diffusione di mirabili edizioni dell’Antico e del Nuovo Testamento. Come escludere dalla Lega anime come quelle di Giovanni Luzzi, di Ugo Janni, di Mario Falchi, di Lodovico Paschetto, e di altri numerosi «cristiani» della loro altezza e purezza morale? La necessità dell’unione non è cosi grande da far superare effimeri vincoli disciplinari e barriere non infrangibili?
Roma, giugno 1919.
Guglielmo Quadrotta.
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RASSEGNA DI FILOSOFIA POLITICA
I.
IDEOLOGIE
L’esperienza spirituale della guerra ha dato un impulso fortissimo alla critica politica; tutti gli istituti giuridici e sociali, anche quelli che parevano più indiscussi, sono rimessi in questione. E dagli istituti la critica passa spontaneamente al sustrato concettuale e volitivo, nelle coscienze, del quale essi sono come l’espressione.
È ovvio che questa critica, frutto essa stessa di commozione sentimentale più che di svolgimento dialettico di idee, riveli spesso nozioni vaghe e poco precise: e che, nella sua tendenza negatrice, rischi spesso idi travolgere, promiscuamente, il buono e il cattivo e di corrodere, con istinto bolscevico, le basi stesse della vita civile. Una analisi delle nozioni correnti, in tale argomento, sarebbe quindi grandemente utile. Queste note non vogliono essere che un breve saggio.
Una delle parole di uso più frequente è quella di ideologia. Essa serve in genere a chi vuol mostrare come il corso della realtà e la limpida espressione delle condizioni reali dello sviluppo storico possano essere perturbati dall’influenza di idee false o Sarziàli; a mettere in rilievo, insomma, il issidio frequente fra il realismo e una qualche forma di idealismo non aderente alla realtà. Un siffatto valore delle ideologie ha cercato testé di teorizzare uno scrittore francese, René lohannet, in Le riile de ¡’ideologie en hisloire. Per il lohannet le ideologie sono sistemi di idee i quali agiscono, per conto proprio, come schemi astratti e visioni intellettualistiche, sulla
attività umana, dando un colore inesatto alle cose, e perturbando la chiara visiono del reale.
Credo che una simile nozione, molto diffusa, della ideologia sia falsa e, in quanto implica un pregiudizio contro le idee, pericolosa, come quella che al governo della riflessione e della considerazione filosofica tende a sostituire — col pretesto del realismo — quello di un vago ed alogico intuizionismo mistico. Le « ideologie » hanno spesso una influenza ingannatrice e perturbatrice; ma ciò avviene non già perché esse sono od in quanto esse sieno idee, ma bensì in quanto un elemento estraneo, passionale o volitivo, interviene a fissar quelle idee in un certo nesso pratico, le trasforma in sentimenti e in volontà, in norme regolatrici di azione.
I caratteri, infatti, delle ideologie, la Persistenza, l’unilateralità, l’intolleranza, attitudine a colorire di sé un lungo periodo di cultura, come fedi o anticipazioni ideali, non convengono già alle idee, di per se stesse, ma ai fatti, o ai fenomeni, del sentimento e della volontà. Di loro natura, le idee, l'attività raziocinante dello spirito, sono rappresentative (né possono, quindi, deformare la realtà, se non c’è per noi realtà se non in quanto essa ci è rappresentata nel pensiero) e dialettiche; affaticate cioè da un sempre ulteriore sforzo di distinzione e di sintesi alterne ed eterne, di comprensione e di creazione.
Quello che avviene è un’altra cosa. Di alcune idee, o modi nuovi e diversi di considerare il reale, o sistemi di idee, che per loro natura, e da puri studiosi, sarebbero sempre considerate come punti di vista e strumenti di indagine e sistemazioni
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eminentemente provvisorie, si impossessa una tendenza pratica, una passione diffusa e dominante, una classe, un partito e ne fa l’espressione del suo stato d’animo e dei suoi propositi; ed allora quella che era idea si irrigidisce, come concezione, e si anima invece di qualche cosa di estraneo e diventa strumento di rinnovazione pratica e di lotta. Così è statò, ad esempio, del razionalismo rivoluzionario del secolo xvi n; così del romanticismo patriottico o del marxismo. Vorreste dire che nell’operaio evoluto e cosciente e tesserato ha qualche influenza il materialismo storico, come strumento e metodo di indagine? Egli è, commosso e mosso da un insieme di luoghi comuni, di affermazioni Suasi dogmatiche, di rapporti arbitrari i valore i quali costituiscono l'ideologia marxistica; una larva di marxismo fatta coscienza passionale e tumultuante di una classe che sale.
Giusto quindi il tentativo di formare le ideologie e costringerle a rendere conto di se stesse; purché sia tentativo di sceverare in esse una idea cioè una visione del reale, cioè una realtà viva e fluente che vi era stata imprigionata, dalle passioni, dalle illusioni, generose o malvagie, utili o nocive, che l’avevano fatta propria e se ne servivano come di bandiera.
I MITI
E qui entrano in iscena i miti; dei quali parlano cosi spesso Vilfredo Pareto, nei suoi acuti studi di sociologia, Maffeo Pan-taleoni, nei vivacissimi articoli polemici che va pubblicando nella Vita italiana, Giorgio Sorel, nei frequenti suggestivi articoli che ora accoglie anche un giornale romano, e il piccolo manipolo di discepoli di questi tre maestri.
Che cosa è il mito? Esso ha origine dalla poesia primitiva, con la quale si identifica: celebrazione poetica della vita cóme teo-! ionia: la realtà prima e piena dell’uomo, o spirito, espressa e vissuta poeticamente come sopranatura. Più tardi, a uno stadio già sufficientemente maturo della scienza e della riflessione filosofica, il mito, in quanto si distacca dal folklore e diviene attività autonoma dello spirito, è « sostanza di cose sperate »; realtà, spirituale e morale, la quale non esiste che nelle anticipazioni della fede e della speranza. Esso ha quindi questo carattere di rappresentare come reale, come plasticamente vissuto e veduto, in un fatto o in un atto che si può immaginare passato o
futuro ma che è sempre presente, come posizione attuale della volontà, una esistenza, una società, un mondo morale e sociale nuovo cui l'uomo del mito vuol partecipare. E in questo senso il mito è fondamentalmente ed attuosamente vero; non per quello che sembra dire, ad una analisi razionale la quale lo uccida, ma per quello che veramente dice a chi ci crede, cioè fa, credendo, la realtà che esso rappresenta.
Di due miti si parla più specialmente oggi: quello della dittatura del proletariato, che ha preso il posto dell’altro, così diffusamente esaminato da Sorel, dello scio-Ssro generale; e quello della Società delle 'azioni; e l’uno è messo in rapporto con l’ideologia socialcomunistica, l'altro con la ideologia democratica umanitaria.
Che cosa significa: dittatura del. proletariato? Molte cose, confusamente; abolizione dello Stato borghese, del regime capitalistico, del sistema rappresentativo; presa di possesso del potere da parte del quarto stato; soppressione della proprietà privata; regime in cui chi lavora abbia tutto e chi non lavora nulla; e via dicendo. Ma questi non sono che enunciati teorici astratti; essi solleticano il lavoratore, il quale intravede una specie di cuccagna promessa, con la spartizione delle ricchezze accumulate, la voluttà di comandare e il lavoro ridotto al minimo. La dittatura del proletariato è quindi un mito, nel quale si consolida una complessa ideologia socialistica o comunistica o anarchica, la coesione, l’illusione di verità, la forza di impulso è data all’ideologia e al mito dalle passioni varie che spingono in questo momento una parte della classe lavoratrice verso un tentativo insurrezionale.
Togliete queste passioni, dissolvete la ideologia nell’analisi, spogliate il mito del Suo contenuto volitivo ed avrete quel Sco o molto che la « dittatura del pro-ariato » può contenere di vero e di praticamente prevedibile e possibile: dissoluzione violenta di un regime, come fatto transitorio, con gli episodi violenti di ogni rivoluzione, su scala’ più o meno vasta; poi dittatura di pochi uomini, abolizione di una classe di proprietari, cui subentra un’altra più numerosa, impoverimento generale, arresto delle industrie o disordine nelle officine, sommersione dei confini nazionali, guerra civile, ccc.; finché dal caos uscirà un ordine nuovo che nessuno aveva previsto.
Anche la « Società delle nazioni » è un mito, nel pensiero di molti. È la visione
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TRA LIBRI E RIVISTE
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di un regime internazionale idillico, in cui la saggezza di -un superstato universale distribuisca a tutti i popoli le materie prime, regoli la produzione e gli scambi, definisca i conflitti, eliminando cosi gli armamenti e là possibilità di guerre,. Mito, anche questo, di una grande efficacia pratica. Nel corso della guerra europea, innumerevoli sono quelli che nel pericolo della battaglia e della trincea, o nei duri sacrifìci della vita civile, hanno veduto nella guerra uno sforzo generoso, di indicibile grandezza inorale, per eliminare’ dalla storia la guerra e conquistare all’umanità, non solo la pace e le sue garanzie giuridiche, ma i benefici inestimabili di una vera fraternità. Cinque mesi di armistizio, di trattative laboriosissime, di insurrezioni violente hanno mostrato come fosse difficile il compimento del sogno e quante ambizioni insoddisfatte, antiche e nuove, sorgessero ad accaparrarsi, a spese dei vinti, i benefici della vittoria.
E tuttavia abbiamo fiducia che la società delle nazioni sarà: poco, almeno per ora, se si pensi alla immensità del sogno, molto, se si pensi alle condizioni storiche e sociali che hanno condotto alla guerra. La forza del mito è nel sentimento, nella volontà che lo crea, aggruppando intorno ad esso una ideologia. Crollano le ideologie, si trasformano i miti, ma la potenza creatrice dello spirito resta e compie lentamente la sua opera.
I miti, adunque, vanno giudicati, non dagli elementi concettuali o rappresentativi che sono in essi, ma dalla volontà che li anima e che esprimono, dalle passioni che essi inquadrano o suscitano; questa è la realtà simboleggiata ed espressa ed operosa in essi.
IL DIRITTO COME PROCESSÒ
Così intendere il mito significa risolverlo nella vivente realtà dello spirito. La necessità di esso sorge da due motivi. Innanzi tutto dal bisogno di rappresentarsi idealmente quella realtà che non è ancora, storicamente, ma alla quale si tende; l’oggetto della speranza e della volontà; quel mondo ideale, del dover essere, ' della spiritualità vittoriosa, del quale esiste in noi l'anelito, il principio di attuazione nella volontà che lo cerca e quindi lo crea. Questa realtà, inesistente altro che come volere, non può essere concettualmente determinata ed espressa, poiché si conosce veramente solo ciò che è fatto, definito, già pienamente in sè,
e quindi scisso dalla attualità yiva dello spirito; può essere invece ed è rappresentata simbolicamente, anticipata figurativamente, nel mito.
L’altro motivo è che quel dover essere» quella realtà la quale, qui ed ora, è solo anelito del nostro spirito, speranza, volontà, noi sentiamo il bisogno di rappresentarla, alla stregua degli oggetti della nostra conoscenza chiara, come cosa in sè, come realtà oggettiva, come complesso definito di determinazioni storiche, che avrà essere, se oggi non l'ha; come un altro diritto, un’altra società, un altro insieme di condizioni esteriori e date, il cui avvento sarebbe lo scopo del nostro agire e il termine della nostra speranza; ad esempio, il comunismo o una società delle nazioni integralmente definita in un diritto che ci si presenti munito di tutte le sue sanzioni, e specialmente, della forza coattiva, per attuare nel mondo la pace perpetua.
Di qui poi il dileguare dei miti al contatto della realtà. La rivoluzione comunista di Lenin mette capo alla creazione di una classe assai più vasta di proprietari della terra, i quali sono la sua negazione ed insieme la sua vera forza; la società delle nazioni è un equilibrio faticoso e in certo senso disperato di egoismi nazionali, dinanzi ai quali il tentativo di creare un tribunale superiore che sia pronto a reprimere ogni aggressione di un popolo a un altro ha la vita di un giorno^
Ma l’illusione non c’è per chi intende il diritto come processo; come un rapporto vivente, non di persone oggettivamente chiuse in sè fra di loro o di persone con cose, sibbene di momenti dello spirito che si svolge; che nella conoscenza delle cose o delle persone-cose acquista l’autocoscienza, la coscienza di una identità od unità in cui, ad ogni momento, si risolve le molteplicità e da cui questa, ad ogni momento, rinasce. I miti, in genere, e più specialmente quelli dei quali abbiamo parlato, sono simboli di unità umana vagheggiata o voluta; ma questa unità non si può introdurla nella storia se non c'è già; e chi si attarda nella concezione del mondo umano e sociale come di realtà individue (persone o popoli) in sè concrete e definite così che runa escluda naturalmente e necessariamente l’altra di tutto il suo essere, quegli non Sotrà mai piegare la storia alle esigenze i una unità che egli ne ha già anticipata-mente o radicalmente rimossa (V. in P'o-lontà, 5 febbraio, l’art. di R. Murri su la Società delle nazioni).
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Questa concezione dei diritto come processo, che discende dall’idealismo, è assai lucidamente ed acutamente esposta da un giurista siciliano, Giuseppe Maggiore, nel volume: Il diritto e il suo processo ideale (Palermo, 1916). «Alle anime che. sentonp vivamente il problema dell’essere e seguono trepide il palpito dell’universo, non vale sapere quel che il diritto sia (in una sua astratta oggettività la quale è a volte dottrina e mito) ma come piuttosto viva c si perpetui nel mondo. È vano fantasticare la legge che sovrasta alla storia quando la storia rimane in sé, nel suo divenire, opaca e incomprensibile. E la storia, offesa nella sua dignità, fraintesa nel suo valore, si prende la rivincita sconfessando, una dopo l'altra, tutte le definizioni universali almanaccate da giuristi e filosofi (e da preti). Seguita cioè a fluire, con le sue apparenti incocrenze, con le sue contraddizioni e le sue ingiustizie, sotto la immobilità delle leggi e dei principi, come un torrente dalla superfìcie congelata.
« Perchè questa antinomia tra idea e vita sia tolta, non resta che cambiar rotta. Il diritto non deve essere fissato in morte definizioni, ma vissuto, nella sua attualità... Il diritto definito, la giustizia disseccata in formule, non sono nè diritto nè giustizia, ma imagini vacue, ombre. Se vogliamo penetrare lo jus nella sua essenza, immedesimarci col suo principio eterno, dobbiamo infrangere il suo involucro formale e immergerci nel suo processo » (pp. 62-63).
LA CATEGORIA GIURIDICA
Nel diritto, inteso come processo, affondano le nozioni di persone c di cose, entità chiuse e rigide che il diritto riceveva dalla vecchia filosofia. Resta il rapporto, la categoria aristotelica ad alterum. E neanche essa resta come vero rapporto ad alterum, se l’altro in questa dottrina è pur sempre una posizione dell’io: resta come « un nesso posto originaria mente dal pensiero, un giudizio sintetico: atto puro del soggetto pensante ».
Il diritto, dunque, o il rapporto giuridico non presuppone nulla avanti a sè ma pone tutto, compresi i suoi termini: la persona e la legge. Siamo qui in piena dialettica dell'idealismo, secondo l’acuta interpretazione che ne dà G. Gentile. E un dubbio sorge: ridotto il diritto a quel medesimo processo di autoposizione ed autolimitazione che è l’atto puro, è più possibile fondare il diritto come qualche cosa di
distinto dall’etica e dall’economia, far luogo ad una categoria giuridica, strettamente detta?
Il dubbio se lo è proposto lo stesso G. Gentile, e ad esso risponde in un suo interessante e poco noto lavoro: I fondamenti della filosofia del diritto (Pisa, Spocrri, 1916). La teoria del Gentile richiama tutta la sua filosofia, che egli infatti riassume nei primi capitoli del lavoro e che ci è impossibile riassumere nei limiti di una nota.
Il G. ha perfettamente ragione contro gli empirici del diritto i quali muovono alla ricerca del diritto come di un concetto em-Ìurico, cui sia dato di pervenire con l’ana-isi dei fenomeni giuridici, l’astrazione, la generalizzazione e la formulazione di classi e leggi generiche, a quel modo che specialmente la teoria generale del diritto si propone di fare. La ricerca del diritto nella fenomenologia presuppone la nozione, la categoria del diritto nello spirito, e solo la presenza di questa rende possibile quella. Si tratta dunque di una categoria assoluta.
Ma quale è questa categoria del diritto? Cercarla nella dialettica dell'atto puro significa collocarla in un rapporto che sorge fra due momenti di questo: il volere e il voluto.
« Volere è volere qualche cosa, un oggetto. Quest’oggetto... è lo stesso volere, sempre, poiché, qualunque oggetto si voglia, non si vuole se non un modo di essere del volere, che, ogni volta, è l’unico modo in cui il volere possa essere, se è. Il volere dunque è nell’atto suo unità di questi due termini: volere come volere e volere come voluto; diciamo pure brevemente: volere e voluto, badando però al significato del voluto.
« Il voluto è la legge del volere: ma questa legge ha due significati diversi secondo che si assume anche essa dall’interno o dall’esterno. Giacché la legge, nell'atto in cui si realizza col suo valore, è interna al volere, come-un suo momento: ma noi possiamo pure staccarla dal volere e considerarla in se stessa, come ciò che si vuole astrattamente, ma non si realizza attualmente. Se lo spirito non facesse nella sua stessa reale dialettica quest'analisi di volere e voluto, la distinzione, come pura distinzione logica, non sorgerebbe mai. Ma l’analisi ha luogo nello stesso svolgimento della vita dello spirito, il quale non può volere restando chiuso in un voluto giacché cesserebbe allora di volere e il dinamismo della sua dialettica si arre, sterebbe subito... Questo voluto, come
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volere già voluto, è il diritto in senso stretto, che si può dire una volontà già realizzata, diversa datisi usuale in ciò. che questa è volontà che si realizza ».
Sottigliezze, dirà tàluno. Analisi penetrante e sottile della dialettica dell’atto puro; tentativo, dal G. perseguito in tanti altri campi, anche, di ridurre il molteplice all’unità, le distinzioni all’atto puro. E da esso potrà trarre vantaggio per un più chiaro discernimento della categoria giuridica anche chi persista a ritenere che di diritto, in senso proprio, non può parlarsi che nella sfera della molteplicità, come di rapporto tra due; e intendo dire, tra due volontà attuali, l’una delle quali sia, per rispetto all’altra, la norma, la volontà superiore o prevalente, estranea ed opposta all’altra pur se. assoggettandola alla norma, la riconduce all’unità; cioè a se stessa, più pienamente intesa.
CHE COSA È IL LIBERALISMO?
Fra il Resto del Carlino e il Tempo, fra Giovanni Gentile e Mario Missiroli si è svolta una interessante polemica, metà politica e metà filosofica. Il Missiroli aveva vivacemente criticato un tentativo di galvanizzazione del vecchio partito liberale italiano, iniziato dall'on: Chimienti, con l’appiccicatura di un programmino riformatore. Ed aveva conchiuso dicendo che il liberalismo esiste come categoria politica e come metodo di risoluzione di conflitti, ma non esiste come partito; e che il partito sedicente liberale è in realtà un partito conservatore, una pregiudiziale posta da interessi che possiedono contro la libertà.
A lui osservava G. Gentile che il liberalismo, in sostanza, è il partito della funzione e della difesa dello Stato, contro quelli che lo negano. « Il liberalismo, come io lo intendo, è anteriore alla formazione di quello che i socialisti dicono stato borghese, e contiene in sè, tutta quanta, la storia dello sviluppo della borghesia che rappresenta solo un momento o un fase. Il liberalismo, almeno da cento anni a questa parie, è concezione dello Stato come libertà e delia libertà come Stato: doppia equazione nella cui unità trova, adeguata espressióne il principio liberale. Nè lo Stato esterno all’individuo, nè l'individuo concepibile come astratta particolarità, fuori dell’immanente comunità ètica dèlio Stato in cui égli realizza là sua effettiva libertà... Lo Stato contiene le classi, come “contiene gli individui, e non
può essere il prodotto nè della loro somma nè della loro lotta. Lo Stato, come spirito e idea, non esclude da sè nessuna possibilità, anzi le realizza tutte, ma nel logico processo graduale della storia: che è conservazione, ma è anche innovazione; è innovazione, ma è anche conservazione... Tutti i postulati, dunque, tranne uno: cioè appunto questo, che lo Stato soccomba. Il liberalismo è la coscienza di questo limite assoluto, ossia di questo primo principio di ogni mutamento politico, o meglio di ogni assetto giuridico ».
Programma, questo del G., di audace radicalismo, che ai partiti e ai moti politici impone solo la pregiudiziale dello Stato, della legalità. E la difesa dell’uno e del l'altra chiama liberalismo.
Ma può esser questo un programma di partito? M. Missiroli lo nega. Ed osserva « Il liberalismo non può essere un programma, perchè è un metodo, è la stessa coscienza critica (consapevole) della realtà che si svolge, della storia vivente; è il modo di essere della società contemporanea, epperò una risultante media di forze opposte e contrastanti, che si compongono in un perenne divenire. Se volessi usare termini a lei cari, potrei dire che il liberalismo è la coscienza, la visione consapevole delia dialettica sociale, della storia " in atto...
Queste le due posizioni. G. Gentile pone un limite — la difesa dello Stato, l’ascensione delle forze nuove nel diritto — oltre il quale è la negazione di liberalismo e quindi il nemico. M. Missiroli non vuoi limiti, perchè trova che la negazione del diritto è ancora posizione del diritto, la lotta contro lo Stato è iniziale posizione dello Stato nuovo. Due atteggiamenti, l’uno provvisoriamente anarcoide, bolscevico. c l’altro provvisoriamente conservatore — ma del diritto come funzione, e dello Stato come idea — i quali hanno, nell'ora che corre, un profondo significato.
Forse dialetticamente Missiroli ha ragione contro Gentile, o, meglio, il G. Gentile interpretato da M. Missiroli è l'autentico. Perchè, secondo il più vero Gentile, dallo spirito e dalla sua dialettica non si esce; e. bolscevismo o radicalismo, Chimienti o Serrati, questa dialettica si compie cosi che al filosofo non rimanga se non spiegarla postumamente. Ma praticamente, per noi, ha ragione il Gentile giornalista e politico. Checché sia della dialettica della storia, noi abbiamo le nostra legge morale, la nostra idea dello Stato, la nostra eticità: e. contro i negatori dello Stato e del di-
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ritto,* contro quelli che cacciano la società verso un esperimento anarchico, perchè la soluzione di continuità meglio assicuri la novità dello Stato di domani, noi abbiamo e sentiamo il dovere di richiamare lo Stato alla sua funzione, che è non di Sondarme ma di creatore del diritto e di ifendere, contro gli anarchici, la legalità, come immanenza della legge etica nella condotta sociale. Non tutto quel che è reale è razionale.
LA NAZIONE E I CATTOLICI
Impossibile ricavare un costrutto organico, un punto di partenza certo, una conclusione dal libretto di A. Gemelli: Principio di nazionalità e amor di patria nella dottrina cattolica.
Innanzi tutto, esso non mantiene quel che promette nel titolo; ma anzi comincia affermando che l’idea di nazionalità è recentissima e « prima d’allora (degli ultimissimi secoli) prevaleva l'idea cristiana dell’unità organica dei popoli ». E ancora « perchè si potessero formare le nazioni, occorreva rompere l'unità organica dei popoli, affermata e difesa dal cristianesimo, e sostituire ad essa l'idea individualista degli interessi separati ». E. saltando alla fine, vediamo l’A., concludere che • la pace e la sua conservazione in Europa non debbono essere il frutto dell'applicazione del principio di nazionalità, ma piuttosto il frutto della giustizia e della morale, le quali solo, essendo assolute, solo esse possono essere fonte di pace duratura ». Nelle quali parole il « filosofo » Gemelli mostra bensì di ritenere che la giustizia assoluta può incarnarsi in questo anno di grazia 1919, ma par che ritenga anche che il principio di nazionalità vai più a confondere che a chiarire: e forse per questo egli lo aveva definito principio concreto, di fronte alla giustizia, che sarebbe un principio astratto, e forse per questo, assoluto: cioè assoluta astrattezza.
In tutto il corso dello studio, poi, annaspando faticosamente per trovare un costrutto all’idea di nazione, il G. ricorre a giuristi, critici, sociologhi, letterati (Goblot, Renan, Brunetière, Gobineau, Sergi, De Sarlo, ecc.; Bossuet è citato una volta, ma, evidentemente, di seconda mano, attraverso Brunetière) ma niente teologi e filosofi cattolici. Solo nella parte pratica del suo studio cita la Civiltà cattolica. vedremo a che proposito; ed infine il Taparclli d'Azeglio, per farci dire da lui che • il procacciare... indipendenza
nazionale è dovere di chi regge i popoli ■ (non dunque dei popoli medesimi): « ma il modo di procacciarla vien determinato ■> — sentite — « dai diritti dei popoli confinanti, e farebbe storica opera di civiltà » — così dice il testo, ma deve leggersi: inciviltà — « chi que’ diritti conculcasse quando si oppongono ■ — come era il caso dei diritti dell'impero austriaco in Italia, quando il gesuita scriveva — « alla geografica circoscrizione od alle morali affezioni, giacché, seguendo gli istinti dell’affetto e dell’interesse, sovvertirebbe la base dell'ordine», che era, nel caso nostro, l’imperial-regio ordine austriaco.
Lo studio del G. esamina i diversi elementi dai quali si ritiene sia costituita la nazione, geografici, etnici, religiosi, linguistici, ecc., senza sapere a quali fermarsi. Della religione dice che « essa ha cessato purtroppo di avere qualsiasi valore per quei popoli che hanno abdicato al loro carattere religioso ». Cita il Brunetière, il quale scriveva (L'Idic de patrie, in Discours de combat, T. 1, pag. 145): « Ce qui achève de vivifier l’idée de patrie, c’est le groupement de quelques millions d’hommes autour de deux ou trois idées maîtresses, conçues et obéies comme la règle intérieure de leurs resolutions ». Ma poi lascia là questa idea feconda, dalla quale lo stesso Brunetière, che l’intravide, seguendo il Renan, non seppe o non potè trarre partito, e non cerca affatto nè come due o tre idee possano esser centro spirituale dell’unità storica di un popolo, nè come quel principio possa essere applicato all'Italia.
Dopo ciò, essendo rimasto al buio, nella ricerca dei principi costitutivi della nazione, il P. Gemelli è assai incerto nel dirci in che questa consiste. Così nella stessa pagina (o. 52) troviamo scritto che » le nazioni, volute da Dio-Provvidenza... stabilite su fondamenti fisici, storici e morali, sono adunque aggruppamenti naturali, fors'anche necessari » e, più sotto: « Le nazioni dunque non sono nè un prodotto arbitrario dell'individuo nè un dato della natura ».
A questa incertezza teorica corrisponde necessariamente, la parte pratica. Il G. si limita a difendere i cattolici italiani dall’accusa di antipatriottismo; e sostiene la teoria che si ama la patria perchè si hanno delle idee e dei programmi religiosimorali, e naturalmente anche politici, da far trionfare in essa.
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la patria ma il partito. E il G. trova che i socialisti, quando negano la patria, lo fanno... per amor di patria. • Il socialismo non deve esser combattuto con l'accusa di antipatriottismo; i suoi seguaci, in conformità alla loro concezione dell’uni* verso, credono che la rivoluzione sociale prepari una forma più progredita del vivere sociale: essi quindi operano in conformità al loro ideale per amor di patria ».
E l'avvicinamento fra cattolici e socialisti è ovvio; poiché il G. sostiene che i cattolici hanno eretto l’amor di patria sulla « concezione cristiana dell’universo »; eufemismo, per dire che i cattolici possono benissimo lavorare politicamente per il trionfo delle rivendicazioni politiche, in Italia, della Chiesa, società internazionale, e rimanere buoni patrioti; ed è su questo punto che egli si fa forte dell’autorità della Civiltà cattolica.
E dopo avere con molta sincerità detto che i cattolici non sono antipatrioti « perchè combattono per la liberta religiosa del Papa, per il riconoscimento della natura divina della Chiesa, per il riconoscimento della missione divina della Chiesa c del Pontefice e quindi della superiorità di questa società, la Chiesa, sulle società imperfette, gli Stati », parla molto a lungo, nel capitolo seguente, delia autonomia che compete alle nazioni; ma, per buona sorte, senza punto cercare il significato filosofico della parola; poiché si sarebbe forse accorto, cercando, che egli nega l’autonomia alla nazione italiana per attribuirla solo alia Chiesa.
IDEALISMO E POLITICA
I n Resto del Carlino, poi il l'emflo hanno mobilitato per un lavoro giornalistico pressoché tutti gli « idealisti » italiani. Scrivono infatti nell’uno o nell'altro giornale, o in tutti e due, Giovanni Gentile, Guido De Ruggiero, Adriano Tilghcr, A. Anile, ecc. Giovanni Gentile e B. Croce collaborano anche a Politica, rivista«di nazionalisti italiani, diretta da F. Coppola.
Dobbiamo rallegrarci di questa immissione di pensiero nella polemica politica italiana, già cosi povera. Tanto più che l'influenza dell’idealismo di G. Gentile e
B. Croce è sensibilissima anche in altri giornalisti di professione c di occasione; c ne .abbiamo potuto vedere l’impronta manifesta persino in proclami e messaggi di uno dei nostri migliori generali.
Taluni democratici, mazziniani e wil-soniani si sono stupiti che l’idealismo, con B. Croce e, peggio ancora, con G. Gentile, si schierasse, con tendenze apertamente conservatrici, dalla parte d< : nazionalisti. La filosofia dell'universale sonerete, dell'unità dell’atto dello spirito, pareva dovesse aver il suo equivalente pratico nél-l’idealismo politico dell’Intesa (di quando s'era in guerra).
Errore. L’idealismo trascendentale solleva certamente la discussione politica in una sfera più alta; ha sul positivismo regnante sino a ieri — quello, per intenderci meglio con un esempio, di Enrico Ferri, l’idolo della borghesia italiana di prima della guerra — l'inestimabile vantaggio di presentare i fatti sociali e storici come fatti umani, come momenti di coscienza, come attualità e dialettica di pensiero: ma non <là un nuovo criterio di valutazione etica, che sia distinto da questa valutazione intellettualistica. Filosofia deU'autoctisi, della realtà come posizione di pensiero, della storia come creazione assidua, dell’assoluta immanenza, essa è tuttavia riflessione, non fede, ragione ragionante, non volontà. È filosofìa della morale, non è ancora o non apparisce ancora come una nuova morale, dà. chiarezza, non calore.
Crediamo tuttavia che quando questa filosofia avrà compiuto il suo ufficio critico, quando avrà sgombrato le menti dagli innumerevoli pregiudizi del vecchio realismo dommatico, quando avrà abituato gli uomini a considerarsi sopratutto come coscienza e come volontà ed a considerare l'unità del pensiero come espressione di una più profonda unità di essere, l’esigenza morale, che è implicita in essa, si affermerà vittoriosamente, e la dottrina morale, l’essenza viva e perenne del cristianesimo, oggi troppo spesso ripetuta in termini di una filosofia perenta, acquisterà, con la nuova espressione, nuova efficacia.
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PER IL IV CENTENARIO DELLA NASCITA DELLA 44RIFORMA,, (31 OTTOBRE 1517 - 31 OTTOBRE 1917)
Vii 2ASPETTI E CONSEGUENZE POLITICHE DELLA RIFORMA: PORTATA POLITICA DEL GENIO ORGANIZZATORE DI CALVINO
Noi viviamo in un'epoca sociale nella quale le cellule dell’organismo sociale, dopo la dissoluzione di un lungo periodo di individualismo egoistico, vanno alla ricerca di un nuovo equilibrio e armonia fra i diritti e i doveri dell’individuo e i diritti e i doveri dell’organismo di cui esso è parte integrante.
Mostrare a quésta società come il movimento che sembrò curarsi esclusivamente di riordinare i rapporti fra la coscienza individuale e il Dio della mente e del cuore riordinò al tempo stesso i rapporti tra i figli di questo Padre: come, in breve, la Riforma, non solo in Francia — come abbiamo visto nell’articolo del Viénot — ma in tutte le nazioni nelle quali prese piede, riuscì ad un movimento di riforme sociali e politiche, sarà sfatare il pregiudizio diffuso che Protestantesimo sia sinonimo d’individualismo e atomismo feroce e antisociale, e che il Cattolici-smo solo sia l’erede del genio romano del regere populas imperio.
Questo aspetto sociale e politico della Riforma, l’ultimo tocco che ci resta a dare all’argomento che ci ha fin qui occupato, non potrà essere meglio posto nella sua luce vera e veduto nelle personalità del cui spirito esso fu l’irradiazione, che con uno • studio parallelo del genio di Lutero e di quello di Calvino: di quei Calvino che, benché continuatóre — come egli si protesta — dell’opera di Lutero, ebbe un còmpito non meno di lui essenziale nella costituzione della società nata dalla Riforma; talché alle figure inseparabili dei due patriarchi della Riforma non può a. meno di associarsi per analogia il ricordo dei due patriarchi del primitivo Cristianesimo, all’uno dei quali, Paolo, la tradizione ha attribuito l’encomio di predicatore della verità, ed all’altro, Pietro, quello di pietra fondamentale su cui la società cristiana doveva essere edificata.
LUTERO E CALVINO, RIFORMATORI DELLA CHIESA
Questo parallelismo è istituito da David. S. Schaff, in un articolo della Princeton Theo-logicai Review, dal titolo: Martin Lutero e Giovanni Calvino riformatori della Chiesa (ottobre 1917). Un largo riassunto del lavoro magistrale sarà certo un degnissimo coronaménto del centone di omaggio in occasione dei centenario della Riforma, che abbiamo tentato qui di comporre. « Sono Lutero e Calvino che aprono la porta della storia moderna : non furono Carlo V nè Enrico VIII, non Erasmo nè Reuclino, non Shakespeare nè Bacone, ma Lutero e Calvino ad enun-ziare quei principi direttivi lungo i quali il pensiero religioso e le libertà sociali hanno progredito in tutte le nazioni protestanti. Benché dolati di qualità intellettuali e di disposizioni differentissime, essi cooperarono perfettamente nell’opera della Riforma.
Nella storia della Chiesa, dopo il periodo apostolico, non ci si presentano che due figure di contemporanei ai quali i due grandi riformatori del sec. xvi possano paragonarsi : cioè quelle di Francesco d’Assisi e di Domenico di Guzman, i cui precetti ed esempi — benché i metodi del gentile Francesco e quelli dell’orgoglioso organizzatore differissero di tanto quanto i loro temperamenti — posero nuova vita nelle attività missionarie e sociali della Chiesa... Nelle circostanze della loro nascita e nella preparazione alla loro opera, Lutero e Calvino differirono grandemente. Lutero era figlio di umili genitori, Calvino veniva da una classe colta ed educata, e il suo padre copriva una posizione ecclesiastica che spianava al figlio il cammino all’università.
Ambedue scelsero la carriera legale. Secondo Melanton, i talenti di Lutero erano l’ammirazione di tutta l’Università: e quanto alle qualità intellettuali di Calvino, esse conquistarono gli omaggi dei suoi illustri professori ».
Segue un riepilogo delle vicende di Lutero prima e dopo l’ingresso nell’ordine Agostiniano che qui ométtiamo.
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« Quanto a Calvino, l’elemento religioso non è il più perspicuo durante il percorso dei suoi studi universitari. Egli fu un brillante studente di diritto e un promettente fautore della cultura umanistica. La sua prima pubblicazione fu un’edizione di un’opera di Seneca, con citazioni tolte dagli autori classici. Prima che egli adottasse le nuove idee, egli non aveva avuto occasione di preparare studenti di teologia nè di dar conferenze su materie bibliche: egli non aveva avuto esperienza di vita claustrale. D’altra parte, la sua preparazione legale e i suoi studi umanistici avevano sviluppato in lui una precisione rimarchevole di pensiero e gii avevano fatto acquistare quello stile latino che è riconósciuto come notevole per la sua purezza.
Su due punti di primaria importanza per la loro preparazione come leaders religiosi Lutero e Calvino si accordano. Essi nei loro studi furono all'altezza dei loro tempi. Essi conoscevano il greco e l’ebraico, studi che nella pubblica opinione erano considerati come pericolosi, se non eretici. Se questa espressione fosse stata ammessa quattro secoli fa, essi-si sarebbero potuti chiamare fautori del metodo critico. Come Lutero studiò l’ebraico e il greco allo scopo di ritrovare il senso della Bibbia cosi Calvino imprese lo studio dell’ebraico a Basilea, dopo la sua conversione, allo stesso scopo.
Da mille anni, nessuno del clero della Chiesa occidentale aveva curato di apprendere il greco e l’ebraico.
Gregorio Magno non conosceva il greco: né Anseimo nè Tommaso d’Aquino nè Wy-clif lo conoscevano : Calvino e Lutero, invece, si. E quando Eck e Prierias ed altri polemisti adducevano a sostegno del vecchio sistema citazioni dal diritto canonico e dalle tradizioni ecclesiastiche, Lutero riempiva letteralmente le sue pagine di citazioni della Scrittura riferendosi spesso ai testi originali.
L’altro punto nel quale si accordavano, di primaria importanza, fu che entrambi avevano in sè sperimentato una esperienza religiosa emozionante e decisiva... ed una rivelazione. La Riforma fu un’esperienza delle loro ànime prima di divenire un movimento storico. La nuova èra era già sorta nel loro interno prima che fosse proclamata dai pulpiti e nei loro scritti. L’esperienza religiosa di Lutero è stata paragonata alla visione di San Paolo : nessuna influenza esterna lo sospinse alla sua carriera: nè Wiclif nè Huss nè Marsiglio da Padova furono a stimolare il suo cuore : nessun gruppo di umanisti nè alcun partito progressista monacale
lo sollevò... Egli fu un figlio della Chiesa medioevale finché ne! silenzio della sua celia meditando sulle pagine aperte della Scrittura un subito cambiamento irruppe in lui...
Il mutamento religioso di Calvino fu il risultato di una <repentina conversione», com’egli la chiamò.
Da questa repentina conversione^ egli dice, egli fu come trasportato da un terreno fangoso sulla solida roccia. « Dopo di aver tentato di raggiunger la pace con tutti i mezzi della fede cattolica, senza successo, finalmente atterrito ed in lacrime mi posi per la via di Dio ».
Nelle loro carriere successive, i due riformatori differirono largamente. Nessun personaggio di fama storica ha avuto nella sua vita tante scene drammatiche quante se ne incontrano nella carriera di Lutero.
Anche Calvino ebbe nella sua carriera episodi agitati, ma essi hanno piuttosto il carattere di avvenimenti personali che quello di eventi d’importanza mondiale... Fedele sempre alle sue convinzioni, egli resistette al concilio e soffri l’esilio di Ginevra...: sostenne dal pulpito i diritti della Chiesa all’autonomia professandosi disposto a morire per essi anziché cedere, e contro un’opposizione accanita e tenace egli cercò di fare Jehovah signore e re.
Quanto alle istituzioni religiose a cui si opposero, e alle nuove dottrine che professarono, troviamo che Lutero e Calvino si accordarono mirabilmente nel resistere al sistema medioevale incarnato nella monarchia papale, nel sacramentalismo e nel sacerdote* lismo..., e ambedue insistettero grandemente nella necessità di educare il popolo. Fu Calvino che, attraverso ai Puritani, divenne il padre del sistema dell’insegnamento pubblico quale vige in America, e attraverso a Knox fu autore del sistema scozzese delle scuole parrocchiali In Ginevra tutti i fanciulli — i figli .dei ricchi come dei poveri — dovevano andare alla scuola. Parecchi anni prima che Calvino avesse messo in pratica questo programma di educazione popolare, Lutero aveva emanato un appello speciale invitando i funzionari civili di tutte le città della Germania a provvedere perchè i fanciulli e le fanciulle andassero a scuola per divenire anzitutto cristiani intelligenti, ma anchex perchè la famiglia avesse membri onesti, e lo Stato cittadini bene educati.
« Anzi — egli dice — seppure non vi fosse un’anima nè un Cielo nè un inferno, ma solo un governo civile, le scuole sarebbero egualmente necessarie».
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Egli rivelò anche i suoi gusti artistici quando prescrisse come parte dei programmi scolastici la musica, sia vocale che ¡strumentale. Anche Knox prescrisse le scuole di cauto. Quanto all'influenza di Calvino, essa si mostrò in modo caratteristico nell’azione della Camera dei Comuni, quando, rinviando alla assemblea di Westminster una parte della sua opera per esser riveduta, esso insistè che ad ognuno s’insegnasse a leggere perchè ognuno potesse cosi legger da sè la Scrittura. L’influenza di Lutero nella sua terra nativa appare dalla bassissima percentuale di analfabetismo che caratterizza la sua patria».
Seguono confronti fra le dottrine di Calvino e Luterò riguardo ai due principi fondamentali della Riforma: l’autorità suprema della Scrittura e la giustificazione per mezzo della fede nei quali in sostanza si accordarono; riguardo alla dottrina sull’Eucari-stia, in cui differirono ; riguardo ai metodi di giungere alia verità e di trattarla : Lutero per una percezione istintiva e intuizione mistica, Calvino con il processo intellettuale e riflessivo. Nel parallelo fra le benemerenze acquistate da Lutero .e da Calvino nel movimento della Riforma insisteremo solo su i meriti speciali di Calvino come organizzatore.
Il servizio reso da Calvino al Protestantesimo fu quello distintissimo di conferirgli un assetto permanente fra le nazioni dell’Europa occidentale: ciò di cui Lutero non era stato capace. I primi riformatori inglesi furouo anzitutto dei Luterani: ma essi si volsero a Calvino. Il prof. Harnack, alcuni anni sono, in una lettera a un professore ungherese, riconobbe molto cordialmente il debito che l’Europa occidentale ha verso Calvino. E questo punto c’introduce all’elemento importantissimo in cui Calvino oltrepassò il riformatore tedesco.
La sua originalità si manifestò nei ramo amministrativo : egli fu il fondatore di una forma di governo ecclesiastico e divenne il padre delle istituzioni rappresentative del 'mondo moderno. In questo egli ebbe un genio che mancò a Lutero: ebbe la maturità costruttiva là dove Lutero non fu che un fanciullo. Calvino fu un legislatore e una persona d’ordine. Il suo spirito era portato verso la regola: esigeva un sistema. Lutero non aveva alcun gusto per l’amministrazione. Nessuna città di Dio era in fondo al suo spirito come un ideale da essere realizzato in una organizzazione esterna: egli non si curava di regolamenti, non correva sulla linea delle prescrizioni legislative. Quando egli aveva dato la sua testimonianza ai principi reli
giosi, quando aveva- esaltato il cristiano contro il Papa e contro tutte le gerarchie c la norma della coscienza in faccia alle autorità sovrane del mondo ; quando aveva additata al popolo la Scrittura come regola di vita e dato il suo testimonio alla prossimità di Cristo ad ogni fedele penitente, la sua opera era compiuta : egli non aveva doni di organizzatore, e l’amministrazione era un libro chiuso per lui.
Possiamo dire al riguardo, che la piccola Wittemberg era troppo lontana dal centro della vita pubblica per stimolare il cervello di un amministratore: ma è anche vero che mille Ginevre non sarebbero bastate a render tale un Lutero.
In Ginevra Calvino trovò i problemi civici altrettanto pressanti quanto in qualunque altra parte d’Europa a quel tempo. La città pullulava da secoli di aspirazioni politiche. Il vescovo aveva dovuto dividere il suo potere con i signori di Savoia, e ambedue erano stati costretti nel 1387 ad accordare con una costituzione di 79 articoli, allo Stato di Ginevra assemblee popolari e consigli rappresentativi.
I cantoni di Friburgo e di Berna, con le loro libere costituzioni, erano stati invocati come protettori degli elementi democratici, e patrioti conte Berthelier e Bonivard avevano fornito con le loro lotte e mòrti violente un capitolo alia storia del progresso democratico. Quando Calvino nel 1536, ad istanza di Forel, pose in Ginevra il suo domicilio fisso, le istituzioni 'rappresentative già vi funzionavano. Egli al principiò preferì la forma aristocratica di governo, come meno suscettibile di abusi: ma finì per accogliere la forma di governo rappresentativa, e la elaborò in.quella forma di governo ecclesiastico che noi chiamiamo Presbiterianismo, o più generalmente. Puritanismo — sia congregazionale che presbiteriale — e in copiosi suggerimenti normativi che accolti dai suoi discepoli immediati divennero la norma delle istituzioni rappresentative e della democrazia negli Stati moderni. Calvino sarebbe stato un legislatore e un uomo di disciplina dovechessia: in Wittemberg o in San Marino, non meno probabilmente che nella metropoli del lago Le-manno.
Nel campo della Chiesa, la legislazione di Calvino volle che la repubblica cristiana fosse amministrata dal corpo degli elettori per mezzo dei rappresentanti da loro scelti.
Questo ideale era affatto l'opposto di quello della monarchia papale o della gerarchia che si perpetuava con pretese di sanzione divina.
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dall’altra parte, del sistema del controllo di Stato e della nomina di Stato, benché questo sistema fosse ritenuto ancora in Ginevra nelle materie ecclesiastiche, fino a che non avvenne la separazione della Chiesa dallo Stato per voto popolare nel 1909. Questo sistema dava grande importanza ai diritti del laicato, giacché il concistoro di Ginevra consisteva di ministri e di dodici laici anziani. D’altra parte, il sistema dava rilievo alla libertà e alla dignità del pulpito.
Non nell’amministrazione dei sacramenti, ma nella conoscenza delle Scritture e nelle finalità morali dovevano ricercarsi le doti indispensabili al clero.
Il pulpito puritano non abbisogna di panegiristi. Senza dubbio, in alcuni periodi della storia esso si spinse troppo in là nella trattazione di affari spettanti al dominio politico: in altri tempi esso ha ceduto, moralmente, alle blandizie dell’episcopato e alle minaccio del potere civile: ma, nell’insieme, esso, dovunque si è stabilito, è stato un tossico corroborante... e ha preso le parti dei diritti divini contro gli espedienti umani, della giustizia contro la pratica degli accomodamenti, e della realtà contro le apparenze.
La concezione che Calvino ebbe dal governo della Chiesa esercitò necessariamente un’influenza sulla teoria del governo civile: giacché pei calvinisti le Scritture s’imponevano su tutte le forme di legge.
Il principio rappresentativo non potè essere confinato al governo della Chiesa, perchè la libertà del cristiano non può esser confinata al dominio ecclesiastico.
Nelle sue Istituzioni e qua e là nei suoi Commentarli sui Profeti, Calvino espone due idee feconde riguardo al governo civile. Là prima è che i governanti, d’accordo con la lettera ai Romani, C. XIII, debbono essere ubbiditi in tutte le cose, anche se comandino con provocazione, eccetto quando i loro atti •contravvengono ai dettami della coscienza illuminata della parola di Dio.
La seconda idea è che conviene che il popolo per mezzo dei suoi rappresentanti sorvegli l’amministrazione dei governanti civili, come già gli Efori a Sparta e i Tribuni a Roma, e dove occorra li ammoniscano e li frenino. I Puritani della nostra nazione non si stancavano mai dal citare i paragrafi IV, 21, 31 delle Istituzioni di Calvino, ed essi divennero un potente incentivo alle libertà ed alla propria apologia delle colonie della Nuova Inghilterra.
Calvino pervenne a quest’ordine di idee sul governo nel corso degli anni in Ginevra, giungendo allo stabilimento di un governo •per consenso comune come « di gran lunga
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là migliòre condizione», e l’ultima edizione delle sue Istituzioni scritte di suo pugno nel <559 raccomandava il governo « nelle mant della moltitudine».
I discepoli di Calvino e la scuola dei giureconsulti di Ginevra elaborarono questa concezione del governo civile con audacia crescente. Nel 1556, Ponet, poscia vescovo di Winchester, nel suo Potere politico, che John Adams disse contenere «tutti i principi essenziali della libertà più tardi ampliati da Sidney e da Locke ».giunse a dire che i principi potevano esser deposti dal corpo della congregazione o repubblica.
Due anni dopo, nel 1558, tre, pastori e un anziano della congregazione di Ginevra pubblicarono otto opuscoli politici diretti all’Inghilterra e alla Scozia, per mostrare fino a che punto le autorità superiori debbano essere ubbidite : dissertazioni di cui Calvino giudicò che fosse giusta benché « alquanto aspra ». La Bibbia di Ginevra del 1557, nota come la Bibbia puritana offese gravemente Giacomo I e i rigidi difensori del diritto divino dei re con le sue note incisive sui diritti della comunità e il diritto dei popoli a resistere ai tiranni.
Beza, successore di Calvino, ed Hotman, anch’egli dell’Università di Ginevra, in trattati speciali andarono oltre, asserendo le due proposizioni, che i governanti sono responsabili dinanzi alla parola di Dio, e che un contratto virtuale esiste tra i reggitori ed il popolo, talché quando quelli cessano di aiutare il popolo, o sfidano la Parola di Dio, essi possono esser messi da parte.
L’ugonotto Mornay, autore delle Vindiciae contra lyrannos, del 1579, applicò il principio quando diede a Guglielmo il Taciturno il consiglio che, avendo Filippo li violato i suoi impegni, il suo dominio regio sopra l’Olanda, non teneva più.
In Inghilterra, Cartwright espose le medesime vedute di sovranità popolare. Giovanni Knox le applicò nel suo atteggiamento verso la regina Maria di Scozia. « Pensate voi — gli domandò la giovane regina — che i sudditi avendo la forza possano resistere ai loro principi facendo ricorso alla violenza?». .«.Certamente che possono se i principi eccedono i loro limiti » fu la risposta. « Io occupo una posizione in cui la -mia coscienza m’impone di dire là verità, e perciò parlo, e chi lo desidera mi contraddica ». Peccato che la Chiesa Romana abbia voluto ai nostri tempi beatificare la regina Maria, e nulla abbia visto degno di onore in questo Scozzese. Il principio che « tra padroni e sudditi » vi è obbligazione mutua ricevette espressione nella legge scozzese.
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Il «Lungo Parlamento» e Cromwell presero lo stesso atteggiamento, e votarono la esecuzioone di Carlo I perchè le sue promesse non erano mantenute. Questi principi furono anche codificati nella dichiarazione d’indipendenza olandese del 1581, nella Lega solenne e Convenzione, nello strumento di governo del 1653, e negli Ordini fondamentali di Connecticut ed altri documenti della Nuova Inghilterra, nella Dichiarazione di Mecklenburg e nella dichiarazione d’indipendenza.
Il Calvinismo divenne .il prepugnntore e il difensore delle libere istituzioni in Francia, Olanda, Inghilterra, Scozia ed America. E' liensì vero che il Calvinismo divenne intollerante ed anche tirannico, in Ginevra, in Inghilterra, in Scozia e nella Nuova Inghilterra, ma entro di esso come sua essenza risiedevano i principi della sovranità divina e della dignità individuale, ed essi lo costrinsero a dispetto di notevoli espositori, a dichiarare ed infine concedere la libertà di pensiero, come avvenne nell’atto di tolleranza agli Anabattisti di Olanda, e nella dichiarazione della Confessione di Westminster, che «Dio solo è il Signore della coscienza». E Roger William, vero figlio, spirituale di Calvino, fu il primo ad incorporare in una costituzione di Stato la « piena libertà dello spiritò ».
CHIESA E STATO
Per quanto riguarda i rapporti della Chiesa allo Stato... questa materia pose alla prova l’intelligenza costruttiva di Calvino, mentre per Lutero sembrò ovvio che i diie domini, il civile e il religioso, avrebbero cooperato pacificamente e armonicamente, entrambi sottomessi alla norma della Parola di Dio. Calvino fu l’autore delle Ordinanze ecclesiastiche di Ginevra, mentre un Comitato nominato dall’autorità civile doveva cooperare con lui. Per voto popolare fu poi approvato nel 1543 un codice riveduto nel 1559 per moderare le costumanze e la disciplina della Chiesa di Ginevra.
Calvino fu parimenti attivo nella compilazione del codice civile del 1542. Suo scopo fu di rendere le due sfere della Chiesa e dello Stato coordinate e complementari. Egli scrisse ad un amico, che sua intenzione era di mantenerle separate: ma di fatto, in Ginevra e poi nella Nuova Inghilterra, esse invasero le sfere reciproche, sicché lo Stato esercitò funzioni che noi oggi gli interdiciamo, e la Chiesa oltrepassò il suo dominio occupandosi di affari civili e della nomina di funzionari. Le infrazioni alla « prima tavola della Legge » furono punite con la stessa severità che le infrazioni alla seconda tavola: furono cioè pu
nite ugualmente, anche con la pena di morte, l’ateismo, la bestemmia, il rifiuto di ammettere la Trinità come l’omicidio'... Serveto fu messo a morte per il delitto di bestemmia contro la Trinità e di non ammissione del battesimo ai fanciulli. Bolsec, Pignius ed altri furono esiliati per aver negato il decreto della predestinazione. Anche la tortura fu applicata col consenso di Calvino, benché egli spesso si sia lamentato della severità della sua applicazióne. La libertà di stampa fu soppressa, e i lamenti contro le sentenze civili furono puniti. Ai genitori si proibì disimporre ai loro figli alcuni nomi. La chiave di ogni abitazione doveva essere a disposizione del concistorio. Gli scrittori cattolici han veduto nell’amministrazione ginevrina una inquisizione senza il nome. Al posto delle persuasioni subentrò la violenza o almeno quésta si accompagnò a quella. Non si ammise alcun dissenso dottrinale.
Non è una lettura piacevole quella offerta dagli annali che documentano le sanzioni’con cui s’impose il rispetto delle leggi ginevrine. Sopra una popolazionne di 12.000 abitanti, quanti ne contava Ginevra nel 1545, in tre mesi 34 abitanti furono giustiziati per stregoneria. Dal 1542 ai 1546 più che 800 furono arrestati, 76 esiliati e 38 messi a morte.
Nel 1546 le prigioni erano rigurgitanti. La stessa severità fu dimostrata per le offese direttamente di dominio ecclesiastico. Dal febbraio 1557 al febbraio 1562, ben 1286 furono scomunicate dalla comunione della Chiesa. Ed é vano il tentativo di scusare Calvino per il fatto che egli non occupava una posizione ufficiale nel governo della città, giacché egli era consultato in ogni affare : le liste dei colpevoli passavano per le sue mani acciò le esaminasse e giudicasse, e fu egli l’attore nel processo di Serveto. Dopo l’esecuzione di costui, Calvino scrisse anzi uno speciale pamphlet in sua giustificazione, come anche in speciali trattati sostenne la giustizia dell’esilio di Bolsec e di altri per dissensi dottrinali. E non mancarono le voci di protesta non solo nella città di Ginevra, ma anche fuori, specie in Berna. Si è tentato di difendere i sistemi ginevrini sulla base della licenza che aveva seguito l’avanzata della Riforma, e che appariva manifesta in Germania. Sembrava ad alcuni che il Protestantesimo avrebbe trovato la sua pietra d’inciampo in questa anarchia: e si è arguito che il .severo regime ginevrino era necessario per conservare i principi spirituali della Riforma e perpetuare il movimentò nonostante questa licenza interna e le mene insidiose del gesuitismo all’esterno. Quésto argomento non è senza fondamento.
Ma a parte tutto questo, bisogna ricordare
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che Ginevra divenne il baluardo delle libertà protestanti, il posto avanzato dell’educazione liberale dell’Europa occidentale, e il modello di una comunità bene ordinata. Gli ugonotti rivolgevano il loro sguardo ed i loro piedi verso Ginevra come verso una nuova Gerusalemme. L’elogio di John Knox in cui la paragonò alla società meglio organizzata dai giorni degli Apostoli in poi, è un brano di letteratura che sopravviverà. Ginevra divenne Io Stato modello dell’ Europa per la sua disciplina morale.
Abbiamo visto il tipo della pietà religiosa di Lutero, semplice, tenera, e la sua simpatia umana. Invece, le preghiere di Calvino nella liturgia ginevrina spirano tutte riverenza e tremolano sotto il senso della colpa e dell’indegnità personale. In un solo inno, quello « Io ti saluto, o mio sicuro Redentore » anch’egli toccò le corde più tenere dell’emozione religiosa. Calvino fu sotto l’oppressione del senso dell’immanenza divina: per Lutero Dio fu piuttosto un amico in cui confidarsi: ma ad ambedue Dio fu assai vicino. Calvino pose sopra tutti il motivo del dovere: quel senso del dovere che corroborò Knox si da far dire sulla sua tomba: «Qui giace un uomo che mai temette la facciad’un altr’uomo»: quello che formò i personaggi del Lungo Parlamento, e Cromwell, e che si espresse nelle paróle di Beza : « Signore, la parte della Chiesa nel cui nome io parlo è di sopportare i colpi, non di infliggerli. Ma vi piaccia di ricordarvi ch’essa è un’incudine che ha logorato molti martelli ”».
Questo spirito investì Calvino stesso d’una singolare grandezza, come una personalità morale volta con inflessibile determinazione agli scopi della rigenerazione della repubblica cristiana.
Non vi è-nella storia episodio parallelo allo spettacolo offerto dal Riformatore morente, il suo frale consumato dagli studi e dalle infermità fisiche, che riceve nella sua stanza il Consiglio ginevrino e i ministri della città, ascolta il tributo del loro rispetto e chiede loro perdono per le sue escandescènze. Ed è caratteristica del Puritanésimo, di non aver mai provato vergogna dì fare ritrattazione ogni qualvolta sentiva di avere offeso Dio.
Tutta una biografìa è racchiusa nelle parole che il Consiglio ginevrino pose a suo ricordo: « Un homme de si grande majesté». Renan lo dichiarò il personaggio più cristiano del suo tempo.Lo spirito umano di Lutero ha attirato l’attenzione di Carlyle, di Fronde, Tulloch ed altri scrittori inglesi. La sua famiglia fu una famiglia modello : i suoi inni natalizi sono cantati in ogni casa protestante tedesca nelle feste natalizie. Egli diede al suo popolo la
sua Bibbia, il suo catechismo, il suo innario, e dopo quattro secoli essi restano ancora in possesso del suo popolo.
Egli è la più grande personalità tedesca, e la sua anima è penetrata nel popolo germanico.
Calvino invece è considerato come austero e non socievole, privo di simpatia per i comuni istinti del genere umano benché strenuamente padrone di sé e della situazione. Egli è tuttora un esule: la sua carriera e la sua opera rimangono quelle di un forestiero nella stessa terra che gli diede k natali. La sua città stessa di Ginevra ha ripudiato la sua teologia in ciò che è riguardato come il suo pensiero centrale. Questo è l’aspetto patetico della sua carriera. Sono le persone che parlano una lingua diversa dalla sua che più Io ammirano come una figura imponente e un benefattore dell’umanità.
L’uno dorme, con a fianco Melantone, di fronte all’altare della Chiesa sulle cui porte egli affisse le sue proposizioni contro la vendita delle indulgenze, il primo articolo della Riforma protestante universale, nel giorno che il Fronde ha proclamato « il più memorabile delia storia moderna».
Ma Lutero, dòpo tutto, è tedesco. Calvino invece riposa in una tomba che nessuno può trovare, poiché per suo ordine essa non venne contrassegnata: ma il suo spirito trascendente ogni nazionalità mantiene in un misteripso incanto gli animi di coloro che nel mondo protestante ricercano i profondi motivi della vita, della vita nella sua realtà,- e la forma migliore dell’organismo sociale.
Come Francesco e Domenico, cosi i due grandi riformatori — nei quali è da sperare un giorno anche i cattolici troveranno qualche cosa da ammirare — mai s*incontrarono : ma Calvino citò spesso Lutero «suscitato da Dio per precedere con la sua face nella via della salvezza » ; e Lutero tenne il suo giovane collaboratore in «grande stima», rallegrandosi che Dio avesse suscitato uomini pronti a dare fin l’ultima goccia di sangue, per-terminare la guerra da lui incominciata».
Ad ambedue, a Lutero èd a Calvino il mondo protestante deve la sua esistenza, e la società umana ha verso entrambi un grande debito ».
Cosi, nel mondo della coscienza individuale come in quello della coscienza sociale, nel mondo ecclesiastico come in quello civile in materie dottrinali e teologiche come in quelle legali e politiche, l’influsso della Riforma si fece sentire come un principio vitale e spirituale tendente a quella « instauralo magna » che è il programma immanente ed eterno di un mondo e di una umanità in continua formazione, e che nella concezione cristiana deve
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essere, quale la proclamò e bandi Paolo di Tarso, una « restaurazione * — o piuttosto « ricapitolazione », riconducente tutto a Lui come a Capo della Chiesa — « di tutte le cose in Cristo » : « ¿»«/.(pataiÓGaeSac rà travr« iv T'ò XptGT» ».
CONCLUSIONE - LE CHIESE DELLA RIFORMA E L’UNITÀ CRISTIANA
Fu nell’ottobre 1907 che — mi si permetta il ricordo — nella prefazione ad una traduzione delle « Religioni del mondo » di Nathan Soderblom attuale arcivescovo di Upsala, il traduttore del volume facendosi l’espressione di un effimero gruppo di - modernisti > romani, scriveva queste parole:
«... noi teniamo a dichiarare che non siamo troppo grati a Lutero — o se più piace, allo ambiente che lo ha formato — di aver trasformato in una lotta sanguinosa di confessioni nemiche quel fervido lavoro di rinnovamento che fermentava già nel secolo decimosesto, e che, nella comunione con tutta l’anima della Chiesa, sarebbe stato più vasto e fecondo : di aver rotto il nocciolo inestimabile della carità, nello sforzo di rinnovarne l’involucro. E cii> diciamo dei Luteri di tutti i secoli, non sognando una critica impossibile del passato che dovè essere ciò che è stato, ma ad esprimere l’attuale nostro convincimento. Noi riteniamo che l’associazione degli spiriti, dal punto di vista formale religioso, e per superiori finalità da conseguire, debba per riuscire, essere un governo, sia pure sui generis, ecc. ».
Oggi, dopo undici anni ricchi di esperienza diretta nelle principali nazioni cattoliche e riformate, troviamo che il giudizio allora espresso, benché sostanzialmente immutato in via di principio e d’ipotesi, deve essere rettificato notevolmente in via di fatto : e ne cogliamo qui l'occasione.
Le chiese nate dalla Riforma non sono in realtà fra loro nemiche irreconciliabili. I congressi di Berlino, di Edimburgh, di Manchester, di Bradford, del Panama, e i più recenti sono stati in questo ultimo decennio tante pietre miliari verso quell’unità nella varietà delle Chiese Riformate, che è il « pendant » dello spirito di autonomia di tutte le nazionalità grandi e piccole, intorno a cui il mondo sta combattendo al presente.
E lo scrittore di quelle parole, che ha avuto il privilegio di raccogliere, in questo centenario della Riforma, sulle pagine di questa rivista si religiosa e si liberale, le voci religiose più discordi sul grandioso avvenimento, è lieto di poter qui recare testimonianza alle sue nuove esperienze, ripetendo ciò che scriveva sul volume : « La Chiesa e i Nuovi
tempi (1), in uno studio su « Chiesa e Chiese » nello scorso anno, riferendo anzitutto un brano del discorso presidenziale del rev. I. H. Schakspeare al Congresso di Bradford: «... Noi siamo fieri dei nostri 300 anni di storia: dell’eroico coraggio, della fedeltà, del sacrificio costante, dell’indifferenza agli onori e al disprezzo del mondo, dei nostri confessori, profeti, eroi e modesti santi..., e renderemo loro omaggio combattendo anche noi la buona battaglia dei nostri giorni come essi combatterono la loro. Ma abbiamo noi mai pensato che il nostro compito può consistere, per così dire, nel volgere apparentemente le spalle al nostro stesso passato? Che lo spirito di Dio ci invita oggi a una più intima unione con i fratelli con cui per l’innanzi abbiamo avuto poco di comune? Noi... abbiamo, raggiunto un tale stadio nella vita religiosa della nostra nazione, che se non usciremo dalla condizione di Chiese dissidenti per divenire una Chiesa nuova, noi saremo condannati a perire. Il principio della divisione ha esaurito la sua vitalità: è ora che s-’inauguri l’epoca dell’“ unione ” ».
Dòpo averla eloquentemente perorata a nome di principi ideali e pratici, egli fece appello alla lezione del momento presente : « Noi siamo alla vigilia di una nuova èra : in questo terribile cataclisma, le realtà passibili di subire un crollo daranno luogo a quelle incrollabili. Tutto cambierà : le istituzioni dovranno essere ricostruite: gl’ideali, i culti, tutto mi-naccerà rovina. Il giorno in cui milioni e milioni di uomini vissuti per lunghi anni a contatto con le supreme realtà della vita e della morte, del tempo e dell’eternità, ritor-torneranno forniti di un nuovo senso dei valori veri..., solo una Chiesa che sappia conoscere quali sono le cose che restano e che valgono, che abbia un messaggio unico e grande potrà convincere e ritenere “ uomini e donne...” “Negli ultimi giorni, dice Dio, i nostri giovani vedranno visioni e i vostri vecchi sogneranno sogni ”. Io faccio appello a tutti, vecchi e giovani, perchè non riposino finché non sia inalberata la bandiera sulle cime di una Chiesa libera, ed essa sorretta e mossa dal soffio delio Spirito lanci la sua sfida ai tempi nuovi ».
Questo anelito all’unità pur nella varietà, questo spirito « Cristo-centrico », questa modernità delle Chiese protestanti, non è tutto un magnifico omaggio e una protesta a favore di quello che, se fu un germe di differenziazione e di disintegrazione in seno alla
(1) < La Chiesa e i tempi nuovi ». Biblioteca di Studi religiosi, Casa editrice « Bilychinis». L. 3,50. Vìa Crescenzio, 2, Roma.
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soeietà cristiana medioevale, lo fu quale fermento di evoluzione e di vita superiore: un omaggio a quella Riforma che uniformità ha saputo sostituire V unità nella libertà e nella varietà?
Mi si permetta ancora di citare dallo stesso lavoro le parole di un profeta battista, il rev. Rudi, rivolte in quello stesso anno agli alunni di una Scuola teologica di Melbourne in Australia :
< Che lo studio che voi fate delle origini, dei principi, dei pregiudizi delle diverse Chiese cristiane, non offuschi la vostra visione della cattolicità della Chiesa. Non permettete che uomini i quali sognano i sogni di un glorioso passato vi defraudino della capacità dì vedere visioni di un futuro assai più glorioso..., di una Chiesa che altro non sia che la grande agenzia di Cristo nel mondo;.. Voi, che compiete qui il vostro tirocinio per un ministero di conciliazione godrete l’enorme vantaggio di avere per condiscepoli studenti appartenenti alle diverse chiese: Battista, Presbiteriana, Metodista, Congregazionalita... Ve ne scongiuro, coltivate lo spirito di comunione nei comuni ideali : discutete, all'occasione francamente, i vostri diversi principi e punti di vista, e quasi sempre troverete che anche nelle vostre divergenze, voi intendete le medesime cose essenziali».
Basterebbe riflettere che una simile Scuola teologica, cattolica, nella quale Domenicani, Francescani, Gesuiti fossero assieme accomunati, non sarebbe possibile non ostante tutti gli « ideali comuni » per cogliere in un colpo d’occhio, alla luce più vera della realtà, a che cosa ammonti la tanto decantata unità del cat-tolicismo, di fronte alla altrettanto denigrata varietà delle Chiese create dalla Riforma.
Ma non è con un’apoteosi della Riforma e del Protestantesimo che vogliamo terminare questo studio per quanto di carattere positivo e informativo.
Cattolicismo e Riforma, imperialismo e democrazia, sagramentalismo ed evangelicismo, ecclesiasticismo e laicismo, non sono che i due poli fra cui il cristianesimo ha oscillato nel battere il tempo che conduce all’eternità. Ma .il suo spirito non è nell’uno nè nell’altro polo, come la durata del tempo non si confonde con Io spazio che la misura.
’ « Il modernismo», mi si permetta un'altra citazione tolta da un discorso del rev. Lilley al Congresso di Berlino, «scorge nell’intelaiatura delle diverse società religióse l’attività di uno spirito religioso comune, e sente attraverso la varietà infinita delle speculazioni teologiche la comunanza della vita religiosa clie va in cerca della propria formulazione... Esso non vuole creare faticosamente la
unità religiosa, bensì riconosce che la religione è di già una\ una come una è la vita umana della quale essa è la più alta espressione e la suprema esigenza... e che è una illusione credere che la verità e la realtà esistano in una forma completa e definitiva, e che esse siano il dominio esclusivo di una particolare società religiosa».
Le ortodossie non diverranno la ortodossia che attraverso la ricognizione del relativismo e dèi simbolismo delle dottrine, delle forme, dei riti, dei canoni, e le Chiese non diverranno la Chiesa che < perdendo se stesse per ritrovarsi » : cioè perseguendo nelle loro attività religiose, morali, sociali, più che le finalità particolari e gl'interessi della loro Chiesa, la grande finalità comune a tutte le Chiese, a tutte le religioni, a tutta-^umanità • l'avvento del « Regno di Dio ».
« Chi vuol salvare la propria vita la perderà: chi la perderà per Dio, la troverà,». È l’esperienza che le Chiese figlie della' Riforma, o ad essa anteriori o parallele hanno - di già fatto in Italia, ove la fecondità dei loro sforzi è stata proporzionata alla loro capacità di «perdersi per ritrovarsi», di subordinare i fini immediati di proselitismo ecclesiastico ai fini supremi del cristianesimo e delia religione.
Pietro e Paolo, Francesco e Domenico, Lutero e Calvino, riformatori ed eretici, precursori e profeti, apostoli e martiri sono state voci dell’eterno verbo, sua espressione, annunzio all’umanità di una nuova fase della incarnazione dell'eterna idea: essi, le voci, sono scomparsi : la fase ascensionale dell’eterno vivente resta, e da essa germogliano nuovi viventi e nuove voci, e ad essa ritornano, fra le braccia del Padre Eterno. E quando delle gesta di queste incarnazioni effimere dell’anima universale noi celebriamo il ricordo, commemoriamo il centenario, la nostra bocca pronunzia l’epigrafe del tempio cristiano :
« Deo Ottimo Maximo in honorem sancto-rum suorum ».
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«The One remains, thè many change and pass;
Heaven’s light for ever shines, Earth’s shadows fly ;
Life, like a dome of many-coloured glass, Stains thè white radiance of Eternity... ».
(«Adonais», Shelley).
< L’Uno rimane, cangiano i molti e passano ;
La luce del Cielo eterna splende, fuggono della terra le ombre;
La vita, quale una cupola di cristallo di varii’colori,
Macchia il candido splendore dell'Eternità >.
Giovanni Pioli.
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ETNOGRAFIA E RELIGIONI PRIMITIVE
Vili.
IL MITO DI POLIFEMO
A. De Fabrizio, Il Fondo Antico ed alcune propaggini moderne del Milo di Polifemo (Estr. dalla Riv. Indo-Greco-Italica). Alcuni mitologi, analizzando le molte varianti che corrono da un capo all’altro d’Europa, hanno tentato di stabilire la sede, se non la scaturigine prima, del mito di Poliremo, che il genio del popólo o quello d’un poeta portò nell'epopea nazionale. Il De Fabrizio, arrecando alla questione il dotto contributo della sua ricerca e del suo esame, propende ad ammettere « l’esistenza di un poema indipendènte del Ciclope fuori dell’O-dissea », affacciando l’ipotesi d’una « localizzazione italica », < fonte prossima o remota del racconto omerico ». A dare consistenza e base a tale ipotesi, occorre proseguire le raccolte «Ielle tradizioni mitologiche concernenti i due temi, che sono, tra gii altri, i fondamentali, e cioè, quello del « falso nome » e quello dell’ <accecamento » del mostro monocolo. Al primo si può riportare il racconto del Folletto (o Scaramuzziello, o Piripicchio), raccolto nel territorio salentino in due varianti che, secondo l'A., sarebbero un’eccezione nei ciclo meridionale europeo, essendo il gruppo delie tradizioni del falso nome proprio dei paesi centrali e nordici del nostro continente.
A dire il vero gli esempi salentini citati dal De Fabrizio non sono i soli in questo campo, giacché la somiglianza tra il racconto del Mcnacheddu e l’episodio d’ Ulisse nella Odissea è stata notata e rilevata, vari anni fa, da Giuseppe Pitrè (Fiabe, Novelice Racconti, Voi. IV, p. 41).
Al secondo tema si può accostare una leggenda. anche salentina, che reca in scena il diavolo monocolo, il quale è accecato da un inanescalco con un chiodo arroventato, che fa riscontro al palo aguzzo (uoy.Xàc è"’ ’»p«), usato da Ulisse.
II paese delle leggende riflettenti il « Ci-cropu » da un solo occhio in fronte, secondo gli assaggi fatti dai Prof. Ribezzo, pare sia la* Calabria. la Grande Grecia, dove suIl’A-spromonte e nella piana sottostante, e precisamente nel territorio di Palmi, corrono nel
popolino superstiziosi racconti, parlanti di un gigante antropofago e monocolo, accecato con astuzie. Ed è appunto in quella regione che si dovrebbero approfondire le indagini sistematiche e mettere insieme il maggior numero di racconti, raccogliendoli nella genuina favella plebea, per poter ricostruire il gruppo italico delle tradizioni ciclopiche, fonte probabile della narrazione omerica. Tale lavoro dovrebbe esser condotto con cautela, per non attribuire l’importanza che non hanno, a quei racconti che sono semplici riduzioni vernacole dell’episodio dell’odissea, come quello udito in Manduria (Lecce) dal sig. M. Greco (« Lu Cumannanti e l’Uecchirussu ») e pubblicato nella rivista Apatia (1911. fase. Ili e IV, p. 241), e che più che essere patrimonio-dei « vulgus », corre in qualche ceto, probabilmente non illetterato, di narratori.
Il mito di Polifemo è diffuso da un capo all’altro dell’Europa. Le sue varianti sono molte e, spesso, ciascuno degli elementi tematici delia leggenda vive d’una vita propria, mostrando qua e là, nei vari paesaggi ove si 'presenta stabilito, i segni della localizzazione della Scena. Ma le varianti copiose della narrazione mitologica popolare, finora raccolte, non hanno permesso di scorgere il fondo véro della quistione dibattuta. Lo faranno vedere lé novelle indagini ? E’ sperabile. Fino a questo momento la combinazione omerica non s’è trovata che nel Caucaso ai nostri giorni; ma questo non autorizza ad ammettere che vi siano stati due centri di origine.
Qualcuno giustamente opina che le varianti caucasiche siano soltanto dei rifacimenti e adattamenti locali del vecchio tema, e quando già era passato nella letteratura.
MONUMENTI CHIODATI E FETICCI Giuseppe Bellucci, I chiodi nell'Etnografia antica e contemporanea. (Con 64 illustrazioni). Perugia, Unione Tipogr. Cooperativa, 1919.
Mettendosi dal punto di vista dell’etnografia comparata ed osservando quegli strani prodotti dell’arte guerresca, quali sono i monumenti chiodati austro-germanici, il Bellucci ha creduto di poter dare una interpretazione che, rettificando ed integrando quelle date in precedenza da altri studiosi del fatto, fosse
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« la migliore » e rispondesse alle odierne e* sigenze scientifiche. Per intendere il significato di quelle colossali statue di legno che in parecchie città dei due imperi centrali vennero inaugurate, durante la immane guerra, in onore del maresciallo von Hindemburg e dell'ammiraglio von Tirpitz e di altri uòmini d’arme, occorre tener presente la funzione dei chiodi, che hanno parte importantissima nelle cerimonie magiche e stregoniche.
Partendo da questo criterio, il professore di Perugia rileva che « il concetto che guida i tedeschi a configgere chiòdi nei monumenti di legno... è quello stesso che spinge i Negri di Loango a conficcare chiodi e punte nei feticci di legno »; e che tanto l’uno, quanto l’altro non sono che « l’espressióne di un desiderio, di un pensiero intenso, di una dimanda di colui che configge il chiodo, formulando contemporaneamente in cuor suo il voto ardente che il desiderio, il pensiero, la dimanda sia infallantemente raggiunta ».
Questa spiegazione- pare esauriente, ed è invece, unilaterale, ih quanto si ferma a considerare soltanto un lato del rito magico, che ha, come il bifronte Giano, duplice aspetto. Le indagini di psicologia comparata hanno rilevato che l’energia magica, nel concetto delie popolazioni primitive o inferiori, è un fluido indifferente per natura, che può essere indirizzato tanto a un fine benefico, quanto a un fine malefico, a seconda dell’intenzione del mago e dei mezzi che egli adopera. Ciò porta in pratica, a una duplice forma esplicativa o rituale, giacché il rito magico può essere negativo o positivo a seconda che il fluido sia incanalato verso un polo o verso l’altro, che possono rappresentare rispettivamente l’odio o l’amore, la vendetta o la passione, la morte o la vita.
Guardando le cose sotto un tal pùnto di vista non è-soltanto importante sapere che il rito o l’artifizio magico si svolga mediante l’impiego di uno o più chiòdi, ma anche, e sopra tutto, a qual fine esso sia diretto, altrimenti la fisonomía e la figura della cerimonia rimarranno sempre oscure all’interprete.
Qual’è io scopo dei mago congolese die trafigge con punte un idolo o un simulacro? Quale il fine che lo stregone delle nostre campagne si propone conficcando spilli nell’effigie di un individuo? Quale l’idea dei popolo tedesco nell’apporre dei chiodi nelle •statue legnose dei suoi grandi guerrieri? Ecco dei quesiti, cui si potrà rispondere caso per caso, e solo quando sarà nota l’intenzione dei rispettivi operatori, che possono es
sere spinti dal pensiero di ridestare un amore sopito o di spegnerne uno fortemente acceso; di avvivare un odio o di soffocarlo; di concentrare il fluido fatale della morte o della forza risuscitatrice in un simbolo, in un simulacro, in un oggetto, che stanno a rappresentare (pars pro tolo, imago pro /¡omine) l’essere reale.
Il Bellucci non solo non tiene conto di tale duplicità rituale, ma esaurisce il suo studio nella ricerca del mezzo (il chiodo), più che in quella del fine; non pensando che il valore dell'arte magica o stregonica non consiste soltanto nell’uso del chiodo, ma nella idea e nell’atto dell’inchiodare (o fissare, o fermare) un processo, un fatto.
La presenza dei chiodi nei monumenti grafici antichi da sola non basta a rivelarci il’ carattere delle cerimonie 0 delle pratiche che rimarranno inesplicate fino al giorno in cui non scopriremo negli atteggiamenti delle figure dei personaggi, nelle disposizioni delle cose, nel quadro dell’ambiente l’idea informatrice dell’operazione magica. E perciò inesatta la conclusione cui il Beliucci perviene, dicendo che i monumenti chiodati altro non sono che « una forma particolare dell’applicazione generale dei ch'iodi, che con finalità differenti, ma con il concetto unico determinante di affermare un voto, un proposito, l’uomo ebbe sempre ad esplicare, durante il lungo percorso di tempo, che dall’epoca preistorica è disceso attraverso i secoli, fino ai nostri giorni, mentre in condizioni e località differenti persiste tuttora ». Formula vaga e. còme si vedé, anche involuta, questa che, giocando sui termini generici « voto » e « proposito », non riesce a cogliere il vero significato del rito magico, di cui i monumenti chiodati sono una chiara manifestazione, e dei quali il Bellucci, anziché rischiarare, offusca la visione e la storia, che prima di lui, l’Ham-merstad rintracciò nelle tradizioni dei Celti e dei Germani; il Vernau illustrò nelle analogie coi feticci e col feticismo dei Congolesi ; e il Boule confrontò colle pratiche d’involti-gliamento.
Gome è chiaro, la materia del libro riguarda principalmente ed essenzialmente la vita di guerra alemanna; e perciò non «interessando direttamente » l'Italia (il contrario opina l’Autore), non dovrebbe trovar posto nella sua « Biblioteca di Tradizioni Popolari Italiane », che è prossima ad arricchirsi di un sesto volume, sugli « Amuleti di Guerra ».
E’ sperabile che nel nuovo libro, il professore Beliucci, cui è dovuto un lavoro sul « Feticismo primitivo in Italia », che è alla se-
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concia ristampa, eviti di incorrere nel consueto « lapsus calami », che gli ha fatto scrivere nei «Chiodi»: «culto.feticistico»« reli-giohe feticistica » (p. 24, 244, 256, 264) e simili, derivando erroneamente l’aggettivo dal termine « feticista », che indica l’adoratore dei * grigri », per l’impossibilità di trarlo dalla parola « feticcio », che per quanto importata nella scienza dai Portoghesi (« fetido)», rimonta al nostro latino, « facticius ».
ARE RUSTICHE
Giovanni Pansa, Maria d’Arabona e le Are sacrificali alla « Bona Dea ». Teramo, Tpogr. A. De Carolis. 1918. •
A chi sostiene che l’appellativo di Arabona dato al tempio di S. Maria nel territorio di Manoppello, sia una variante del nome Ar-bona, derivato da Orbona, dea del gruppo curotroforo, il Pansa osserva che quel titolo è il ricordo della dea Bona, sull’ara della quale sorge l’attuale chiesa di S. Maria.
In mancanza di documenti storici, l’ipotesi è suffragata dalla toponomastica della regione abruzzese, dove non sono scarse le località che, per la loro denominazione col suffisso in ara. rammemorano le are pagane ivi sorgenti.
1 titoli di « luvara », « S. luvelare » o più correttamente, « luvare », di« Bugnara» o, come negli antichi diplomi, « Boniaria » : di « Arapetrianni » o « Ara Patrignano »; di « Ara Saturno », « Ara Mamerca », « Ara Bigiove », non sono che corruzioni delle antiche denominazioni di « lovis ara », di « Bo-nae (deàe) ara », di « Ara Patris, lani », di « Ara (Martis) Marnerei », di « Ara Vejovis », e come tali eloquenti sopravvivenze di sacri luoghi dedicati a speciali divinità.
Alcuni di questi nomi o appellativi sono stati cristianizzati dalla tradizione popolare; che ha fatto da « lovis ara » S. Invelare o S. Giovenale, da « Ara Patris lani » S. Patrignano, e così via. E ciò che è avvenuto per i nomi, più agevolmente è accaduto per i riti di culto campestre, che sotto forma di offerte di spighe e di primizie alle Vergini e alle Madonne, perpetuano le oblazioni che i padri pagani solevano fare alle divinità sacre del luogo, del campo, del lare.
Quello che in Abruzzo avviene per là Madonna della Neve, per quella di Bugnara, per quella di Basenti, che ricevono in tributo le prime spighe mature del campo, è stato osservato in forma più caratteristica in altri paesi.
Qualche anno fa, viaggiando nella Terra di Lavoro, io potei notare che, alcuni giorni prima di mettere in opera la falce, i villani
portavano delle spighe intrecciate avanti le icone o cone, erette ad onore di santi e Madonne, lungo le vie di campagna, persistenze, probabilmente, di quelle are che, coi nomi di « grami nae » e « temporales », sorgevano nei centri rurali alla Bona Dea.
Raffaele Corso.
L’UOMO CHE VENDÈ IL SUO CORPO AL DIAVOLO
A. De Hovos y Vinent, Elhonche que vendiò su cuerpo al diablo. Madrid, 1918.
Abitualmente io non recensisco libri che appartengono — formalmente — alla letteratura novellistica. Se faccio un’eccezione per questo del De Hoyos y Vinent e se lo faccio proprio in questa rivista, che parrebbe dover tenersi lontana da romanzi e novelle, è perchè non solo la parabola, per dir cosi, del romanziere spagnuolo è “ palpitante di attualità ”, ma perchè essa, in perfetto accordo con le mie idee, à un così alto e buon sapor religioso, mi si passi la parola, che è proprio qui il luogo di dirne almeno due parole.
Un uomo che vende il suo corpo, notate, non la sua anima al diavolo, non è una cosa normale, anche nel campo dell’imaginazione: e vi è di che, già, per esser attratti dal titolo. Leggere poi la novella, che non si e-stende per più di So pagine d’un in-16 è cosa veramente facile. Sene resta soddisfatti? Senza dubbio e lo si sarebbe ancor più se l’Una-muno che vi à dettato alcune belle pagine di prefazione, invece di prefare, avesse posi fallo o se il lettore avesse l’accortezza di leggere le sue parole dopo e non prima della novella del suo conterraneo. (Sia detto di passaggio, a tutto rigore anche questa del primo posto delle prefazioni è una delle solite ipocrisie sociali, perchè la prefazione è sempre qualcosa che viene dopo e che sol per ragioni estrinseche e non intrinseche noi preponiamo ad un’opera).
La parabola è una satira. Il gioviti signore che vende il suo corpo al diavolo per goder (Fogni bene, salvando da qualunque compromesso l’anima sua, ci passa dinanzi sballottato tra tutti i più strani piaceri ed in tutte le più equivoche società contemporanee, senza
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far nulla di nulla con F anima sua. quindi tutto “ sopportando ” col corpo e stancandosi e mostrandosi freddo da per ogni dove. (Apriamo un’altra parentesi per dire che le tinte degne di Goya del cap. IV sono dal punto di vista della realtà, sia pur se si rimonta a 20 anni indietro, per quel che riguarda i dintorni del Colosseo, esagerate. Ma il De Hoyos mi risponderà che la realtà non è la verità ; se non che, pur essendo disposto a seguirlo in massima, non so nel caso presente sin dove lo accompagnerei...).
E questo viaggio dantesco del giovin signore finisce nella sua partecipazione alla guerra europea, anche qui con il corpo, non con l’anima. Ed ei muore e l’anima io abbandona con queste sapienti parole, che segnano la di lei affermazione d’un’eterna separazione: “ Se tu fossi stato un grande peccatore, un miserabile, un delinquente, un eretico, noi saremmo stati condannati insieme quando pur nell’ora suprema un raggio di pentimento e la misericordia divina non ci avesse .salvato insieme. Invece tu sei stato peggiore di tutto ciò, sei stato curioso e freddo: albergavi nel tuo seno uno spirito speculativo. Hai approvato tutti i vizi, però non sei stato vizioso, perchè non ài goduto veramente, ma piuttosto li ài analizzati e sei stato cosciente di essi ; ài rasentalo tulle le eresie e non sei stato eretico, perchè non ài saputo esser martire di nessuna e le eresie impediscono la vita quando si comincia a morir per esse. Vivere è ardere in una fiamma, fiamma di fede, di amore, di volontà o di sofferenza. Se tu in un istante, in un istante solo, mi avessi trascinalo sino alle cime delle cime o fino al fondo degli abissi, noi saremmo stati salvi. Invece sei stato freddo. Nel cielo vi è troppa pace per te; nell’inferno troppa passióne. Tu devi andare in un luogo tepido, oscuro, silenzioso, un luogo ove non esiste il tormente, perchè si ignori il piacere, nè viva il dubbio perchè la fede ne sia fuggita per sempre ”.
Ricordate Dante e gli angeli che per sè foro? Comprendete ora? Questa del De Hoyos è là parabola-satira di questa nostra società che à fatto, neppur la guerra, con animo, con sentimento, con entusiasmo, che à vegetato, non vissuto, che, insomma, direbbe l’Unamuno, non à avuto il sènso tragico deliavita! •* Porque solo la tragedia depura y eleva al alma sobre las monstruosidades del pecado ” com’egli dice nella prefazione.
Leggano, leggano tutti i sani (non dovrei dire meglio i malati?) questo piccolo quadro dantesco, e lo meditino. E’ tempo, al fine,
di non vender il corpo al diavolo ma piuttosto di viver con l’anima e col corpo in una fiamma purchessia di vita che bruci e strugga!
Giovanni Costa.
IL CARDINALE MERCIER
Georges Goyau, Le cardinal Mercier. 2“ediz.
Paris, Perrin, 1918.
Profilo del card. Mercier, scritto con la abilità e la accuratezza del noto scrittore francese, ma a cui nuoce un poco il costante calore apologetico. Il Mercier è una assai interessante e nobile figura, come studioso e come prete; ma l’ammirazione traboccante da ogni periodo non è forse il modo migliore per persuadere il lettore. E, dei resto, molti ammirano anche essi, come chi scrive, la fermezza d’animo veramente insigne con la quale l’arcivescovo di Matines si è levato contro gli oppressori della sua patria, ha indotto i suoi fedeli a durare confidando l’orribile sventura e li ha insieme esortati a non umiliarsi dinanzi all’oppressore e ad attendere, per i quali l’opera del neo-tourista può avere una importanza molto mediocre e passeggera.
Il Mercier, anima senza dùbbi e senza tempeste interiori, credente sincero, senza riserve e senza fanatismi, carattere fermo e mite, ha reso un grande servigio al Belgio ed alla causa di giustizia e di libertà che è stata specialmente la sua; e si potrebbe aggiungere che egli ha reso anche un grande servigio alla Chiesa se la sua condotta non avesse facilmente stimolato a confronti con quella di altri e più ahi rappresentanti della Chiesa medesima.
ni.
ALBERT DE MUN
Victor Girard, Un grand français. Albert de Mun Paris Bloud et Gay, 1918.
E’ veramente una nobile ed aita figura questa che il Girard ci presenta nelle sue belle pagine; e chi volesse nella Francia de! periodo die va dall’année terrible alla vittoria della Marna scegliere un francese nel quale Fanima di quel popolo- fosse espressa, col suo dolore profondo, nel suo raccoglimento profondo pensoso, nell’insonne attesa del ritorno delia vittoria, potrebbe bene fermarsi su Alberto De Mun ; metter lui dall’una parte e Clemenceau dall’altra; due uomini., sotto tanti aspetti diversi, opposti, nemici e pure ardenti dello stesso amore e della stessa febbre.
Figlio della rivoluzione l’uno, l’altro della vecchia Francia crociata, monarchica, catto-
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lica. De Mun era stato de’ vinti di Sedan, collega ed amico di La Tour du Pin, con il quale passò a Metz qualche mese di prigionia. La Comune lo trova, con questo stesso a-mico. immischiato nella repressione, agli ordini di un generale. Poi è per qualche anno ufficiale coloniale in Àfrica. Tornato a Parigi, inizia la sua vita pubblica, nella organizzazione di circoli cattolici di operai, legando così sin da allora l’opera sua al movimento sociale cristiano, e si esercita nel parlare in pubblico, arte nella quale diverrà maestro così da essere ritenuto per molto tempo il migliore oratore della Camera francese, alla quale appartenne quasi ininterrottamente, dal 18S6 alla morte. Cattolico fervente, egli vide nell’azione sociale, più che una opportunità politica, una occasione religiosa : < J'entends au fond de mon âme comme un appel incessant, comme une voix pressante, qui m’oblige à tourner vers les déshérités de la vie toutes les leçons, tous les principes, toutes les espérances de ma foi ».
Quando Leone XIII prescrive ai cattolici il ralliement alla repubblica, egli obbedisce senza troppo dolore; più dura, ma egualmente pronta, è l’obbedienza quando la stessa autorità gli impone di rinunziare all’impresa della costituzione di un partito cattolico. A tutte le iniziative sociali egli partecipa attivamente, come deputato e organizzatore e giornalista.
Intensamente francese egli é anche sempre in prima linea quando si tratta di anteporre gli interessi francesi ad ógni divisione interna, di tener viva, senza vanterie ed imprudenze, la fiamma della riscossa, di lavorare per il grande impero coloniale francese. E sempre egli ammonisce. Specialmente dopo Agàdir egli sente e dice ad ogni momento che la guerra è inevitabile e si avvicina. Egli vedeva sorgere una generazione nuova, avida di serietà e di sacrificio ; vedeva tutta la nazione travagliata dal sentimento della patria, e sperava.
Il ritorno alla ferma di tre anni non ebbe sostenitore più efficace. Nel 1913 scriveva :
« L’Europa intera, incerta e torbida, si prepara per una guerra inevitabile, della quale l’ora le è nascosta, della quale non sappiamo ancora quale sarà la causa immediata, ma che avanza verso di essa, con l’implacabile sicurezza del destino ».
Ed egli vide la guerra venire. Di giorno in giórno i Suoi articoli suscitavano in in.numerevoli lettori una commozione intensa di amore e di speranze. Fu ministro senza portafogli nel ministero di difesa nazionale. Quando Parigi parve minacciata, riparò col governo a Bordeaux e a Bordeaux visse e disse la gioia grande della prima grande vittoria. Un giorno d’ottobre, dopo aver scritto il suo articolo per l’indomani, si spense dolcemente. E tutta la Francia lo pianse e io esaltò. Egli era stato veramente, nobilmente, tipicamente un francese. m.
GUERRA E PATRIOTTISMO
Mgr Pagot du Vanroux, évéque d’Agcn : Guerre et pairiotisme. Doctrines et conseils pratiques. Paris, Bloud et Gay, 1918.
Volume bonariamente e pastoralmente scritto, nel quale si cercherebbe invano l’esposizione dialettica e l’illustrazione di una dottrina. Esso può giovare come documento a chi indaghi io stato d’animo e i propositi dei cattolici francesi e del loro clero, quali sono venuti maturando nel corso della guerra. Ed è testimonianza di uno spirito mite e conciliante che, per la saldezza dell’unità nazionale, si contenta di libertà, intesa senza secondi fini, e di rispetto reciproco; rinunziando alle formule ed ai presidii del privilegio e del dominio politico per essere in grado di esercitare una più larga influenza, puraineute religiosa e morale, sull'anima francese contemporanea. m.
RELIGIONE E STATO
Dott. Giuseppe Ursino, L’idea, religiosa e lo Sialo. Roma, P. Maglione eC. Strini, successore Loescher, 1918.
« Lo Stato in fondo altro non è che l’ob-biettivazione nel mondo esterno della nostra idea politica; ora io dico ancora che la religione altro non è che l’obbiettivazione nel mondo esterno della nostra idea religiosa ».
Sta bene; e allora l’A, di queste brevi e dotte pagine avrebbe dovuto cercare, per mantenere la promessa fatta nel titolo, quale è il rapporto, entro il nostro spirito, tra l’idea religiosa e la politica ; a chiarir J’una e l’altra come momenti e forme della nòstra vita. Ma invece egli divaga in riavvicinamenti storici ed esteriori, eruditi e ingegnosi, dimenticando il suo assunto. II letterato prende la mano al filosofo. Ci dispiace, perchè gli accenni iniziali di metodo promettevano bene.
m.
ROCCO POLESE, gerente responsabile.
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