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BILYCHNB
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno VI :: Fasc. VII.
LUGLIO 1917
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 LUGLIO 1917
DAL SOMMARIO: Giuseppe RENSI: La ragione e la guerra - Ferruccio MuTTINELLI: Giorgio Tyrrell e il programma di ' Nova et Velerà 1 (A proposito d'una leggenda) - GIOVANNI PIOLI: La fede e l’immortalità nel ' Mors et vita ' di Alfredo Loisy - LUISA Giulio BENSO: Lamennais e Mazzini (I) -Dino PROVENZAL: Giuoco fatto - WlLFREDO MONOD: Non la pace, ma la spada - TRA LIBRI E RIVISTE: Cronaca biblica (V) : Isaia - Il problema dell’ Ecclesiaste (r. e p.) - Etnografia religiosa (IV) : Mitologia e germanesimo - Arte primitiva e arte paranoica - Demopsicologia e letteratura siciliana (RAFFAELE Corso).
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi
------- Via Crescenzio, 2 - ROMA ——
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l'Estero
—— Via del Babuino, 107- ROMA---------AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l'Italia L. 5. Per l'Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
fi Si pubblica la fine di ogni mese
in fascicoli di almeno 64 pagine, fi
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Raccomandiamo ai nostri egregi collaboratori la brevità, — essendoci ora imposto un numero limitato di pàgine per ogni fascicolo. — Per gli articoli più brevi sarà più breve l’attesa per la pubblicazione.
S S S Sono in composizione gl’indici del 1 ° semestre del corrente anno. Verranno annessi al prossimo fascicolo di agosto, ffl ffl S Preghiera ai ritardatari d’inviare con cortese sollecitudine l’importo dell’abbonamento.
S S S Vedere l’avviso a pagina 4. Quel volume dev’essere letto da ogni amico di Bilychnis.
NOVITÀ
È uscito il 2° volume della serie Guerra e Religione di Romolo Murri col titolo:
IMPERIALISMO ECCLESIASTICO
E DEMOCRAZIA RELIGIOSA
Ecco l'indice dei capitoli:
Introduzione - La teologia c la gerarchia hanno negato lo spirito — Lo spirito e gli idoli - Il culto del Papato - Storia recente. Tre Papi — Il culto della Bibbia - Il nuovo fariseismo - La Chiesa Romana e il N. T. - Il culto dello Stato - La religione degl’ Italiani - Da che parte è il Vaticano? - Perchè il Vaticano è neutrale - Cerchiamo Dio.
Il volume, di 116 pagine, con artistica copertina di Paolo Paschetto, si vende al prezzo di L. 2
Rivolgersi alla Libreria Editrice BlLYCHNlS, Via Crescenzio, 2 - Roma.
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BIÜCHNIS
RRIVIRA DI SlVD! RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
- DI ROMA • ,
SOMMARIO:
Giuseppe Rensi: La ragione e la guerra.......... Pag. 5
Ferruccio Muttinelli : Giorgio Tyrrell e il programma di “ Nova et
Vetera ”. (A proposito d’una leggenda) ......... > 30
Giovanni Pioli : La fede e l’immortalità nel “ Mors et vita ” di Alfredo Loisy . . , . . . . ... ...... . . . > 34
illustrazione: Ritratto di Alfredo Loisy (Tav. tra le pag. 40 e 41).
LuiSA Giulio Benso : Lamennais e Mazzini - I. Affininità e discordanze » 44
Dino Provenzali Giuoco fatto ............. » 47
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
WlLFREDO MONOD: Non la pace, ma la spada ........ » 57
TRA LIBRI E RIVISTE:
r. e Cronaca biblica (V): Isaia - Il problema dell'Ecclesiaste. 62
Raffaele Corso: Etnografia religiosa (IV): Mitologia e germanesimo - Arte
primitiva e arte paranoica - Demopsicologia e letteratura siciliana. . » 66
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NOVITÀ!
Siamo lieti di annunziare ai nostri lettori che il Dottor D. G. Whittinghill, Editore della Biblioteca di Studi Religiosi, ha pubblicato in questi giorni un bel volume eh’è destinato ad avere senza dubbio un ottimo successo:
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I soggetti trattati, preceduti da una vivace introduzione dell’Editore, sono tutti vivissimi:
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E un libro-programma.
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Il bel volume con significativa copertina artistica di Paolo Pa-SCHETTO, si compone di pagine xxxi-307 e costa Lire 3.50.
Per speciale accordo avuto Coll’Editore Dott. D. G. Whittinghill gli abbonati di Bilychnis possono averlo franco di porto per Lire 3.
Rivolgersi alt Amministrazione della Rivista.
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LA RAGIONE E LA GUERRA
sulla dura cote di questa guerra immane — la quale sempre più si mostra destinata, cóme quelle della Rivoluzione francese, ad operare il crollo d’un vecchio mondo e il faticoso e sanguinoso parto d’un nuovo — che devono ormai piovarsi le nostre dottrine politiche e sociali, religiose e filosofiche. Sono le fiamme immense e vivide di questo incendio gigantesco che devono ormai illuminare ai nostri occhi le nostre teorie e fornirci la luce per discernere chiaramente quelle che sono da quelle che
non sono vitali, quelle dalla carena robustamente costrutta da quelle che sono schifi troppo fragili per reggere alla burrasca. Fallacie non approfondite per mancanza d'incitamento o per pigro acquescimento ad una consuetudine di pensiero; eufemismi ed autoinganni, a cacciar lo viso in fondo ai quali si è tardi o restii, aiutano in tempi normali a dare una lustra di verità a certe teorie e a consacrarle con una convenzionale accettazione. Ma ora no: nell'immane crogiuolo' di questa guerra non si fondono solo corone e tors’anco sistemi sociali, ma altresì si volatilizzano le teorie che sono solo conteste di parole decorosamente equilibrate e di apparenza solenne. La guerra è una ciclopica imposizione di realtà, che non si può — come usano spesso fare con realtà meno impressionanti i filosofi, pur di lisciare e tirar accuratamente a pulitura il loro sistema — non si può, questa, più « escamotare ».
E il primo sistema che sulla acuta silex praecisis undique saxis di questa guerra va in frantumi è il borioso e tronfio sistema della ragione assoluta, universale, e, nella sua pretesa universalità e assolutezza, contenente la realtà totale e pronunciante l’indefettibile vero: è il sistema dello spirito puro ed uno che crea e realizza col suo pronunziato, con la sua intuizione, con la sua « sintesi a priori », la verità, la bellezza, la bontà..
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Già, per cominciare con uno sguardo alle cose più concrete, vicine e facilmente visibili, v'è un fatto che basterebbe a rovesciare l’orgoglioso edificio che si pretende erigere sul fondamento e coi materiali della ragione assoluta: fatto che, sebbene uno sguardo attento alla stessa nostra vita comune e privata basti ad accertarlo; non è in questa frequentemente percepito, e appunto dalla guerra soltanto, come da una lente di ingrandimento, viene apertamente a tutti rivelato. Ed è il fatto che la ragione, sinonimo, secondo i dogmatici « assolutisti », di realtà e verità assoluta, non scorge nè nell’uomo nè nel mondo dove essa riesca, e conduce l’uomo ed il mondo dove essa nè in quello nè in questo aveva mai disegnato o sospettato — ciecamente.
.L’osservazione, ripetiamo, è di cose vieine e terra terra, e per tale la diamo. Nella vita privataci sembra — e tanto più quanto più siamo prudenti calcolatori e uomini di volontà — di avvertire con tutta chiarezza la piena sufficienza delia ragione a condurci dove essa ha disegnato. Studiamo accuratamente i nostri piani e li eseguiamo con cauta energia. E i piani riescono come li avevamo pensati. Ecco dunque — diciamo — la potenza antiveggente della ragione, ecco che anche nella vita pratica la ragione si traduce proprio in realtà, diviene, è la realtà, ecco la vissuta verità del « ciò che è razionale è reale ».
Così diciamo, orgogliosi del nostro piano attuato, superbi della nostra sicura preveggenza, e così ci pare veramente mentre i singoli nostri piani stiamo eseguendoli o subito dopo che essi sono eseguiti. Ma se, procedati avanti nella vita, diamo uno sguardo retrospettivo a questa, che è l’insieme dei nostri singoli piani, l’apparenza e l’impressione mutano radicalmente.
Ogni nostro singolo piano, ogni piano particolare che abbiamo avuto nelle diverse epoche della nostra vita davanti .a noi, è riuscito, può essere riuscito, come l'avevamo predisposto. Ma ecco che ripercorrendo ora nel pensiero lo svolgimento d'insieme di questi piani, la cui totalità costituì la nostra vita, ci accorgiamo come nel loro sviluppo complessivo essi formino un tutto lontano da ogni nostro piano e da ogni nostra idea, un tutto che non avremmo mai immaginato, temuto o sperato, qualche cosa ¿’affatto imprevisto. La nostra ragione fu quella che ideò chiaramente ogni direzione e meta parziale, e-la raggiunse come l’aveva ideata. Pure, se consideriamo la meta complessiva d’un gruppo di queste direzioni parziali, vediamo che essa sfuggì completamente alla previsione e al controllo della nostra ragione; vediamo che questa, quindi, perfèttamente sicura in precedenza com’era d’ogni sua direzione, mise pur capo ad un risultato realizzatosi indipendentemente e al di fuori di essa, ad un disegno che non era un disegno suo, che non le apparteneva nè positivamente nè negativamente, nè come cosa da raggiungere nè come cosa da evitare, ma che le sbucò fuori inanzi come alcunché non già di fatto o preconosciuto da essa, ma di assolutamente eterogeneo ad ogni sua fattura ed estraneo ad cgni sua escogitazione; vediamo, insomma, che la ragione in noi, pur perfettamente cosciente d’ogni suo singolo passo, finì per riuscire a mete per le quali fu, altrettanto perfettamente, cieca (i).
(i) Ogni scrittore forse ha fatto l'esperienza che persino quando incomincia un libro o un articolo non può dire con perfetta sicurezza che cosa terminerà per espri-
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Allora ci pare di accorgerci che .la ragione in noi vede in sostanza in modo non dissimile da quel che vede l’istinto negli animali. Poiché anche l’istinto vede, e non è già cieco; scorge chiaramente una meta e la raggiunge. E l’uccello, per esempio, vede nettamente- il fine di raccogliere le pagliuzze e costrurre il nido, e questo suo fine esattamente realizza. Ma quello che l’uccello non scorge, è ciò a .cui questa sua meta, pure per sé pienamente cosciente, mette alla sua volta, capo. E quando nuove mete parziali si presentano, le uova, la necessità di covarle, l’allevamento della prole, e quando anche queste’ successive mete parziali, ciascuna per sé del tutto cosciente come la prima, sono raggiunte, se l'animale potesse rivolgersi col pensiero a quella sua prima meta e riflettere sul proprio stato di coscienza di allora, troverebbe singolarissimo che una meta prossima alla sua vista, chiarissimamente preconcepita e predisposta dalla sua mente, e raggiunta secondo questa l’aveva preconcepita, quale era stata per lui quella di raccogliere delle pagliuzze e disporle in una certa costruzione, abbia poi a lungo andare, raggruppandosi con altre successive direzioni parziali della sua attività, ciascuna delle quali del pari moventesi ad un fine prossimo alla vista e chiaramente preconcepito, terminato, col mettere capo ad una meta complessiva, in principio assolutamente fuori dalla sua mente e sortagli dinanzi solo da ultimo e quasi per incanto, sebbene ad essa abbiano condotto una serie di direzioni parziali, ciascuna per sé consapevole del proprio fine particolare. — Lo stesso avviene con noi e con la nostra ragione. Questa si prefigge, domina e pervade con la sua luce chiara ogni direzione parziale della nostra vita, segna le singole mete e le giunge; ma la direzione- generale risulta sfuggita al suo controllo, inindovinata; la meta complessiva sfuggita alla sua vista. Veggente, come l’istinto, per i piccoli tratti dinanzi agli occhi, fu, come l’istinto, cieca per l'insieme. Dandoci un lume di consapevolezza, che ci apparve definitiva, per ogni singola pietra miliare del nostro viaggio, ci lasciò per l’insieme di questo in balia dell’incoscienza.
Questa incapacità della ragione di scorgere le sue mete ultime, questo suo riuscire, pur per tratti di via tutti consapevoli, ad un inconsapevole punto di arrivo, se è meno frequentemente avvertito nella vita privata lo è assai di più nella vita pubblica, anche nel suo svolgimento consueto e normale.
Parrebbe che più si allarga la comunità spirituale, più si vada verso l’incoscienza. Senatores boni viri (se è lecito dare questo significato all’antico aforisma), senalus aulem mala bestia. Se può ancora sembrare che l'uomo sappia dirigere la propria vìtàTin modo dà: approdare a mete precedentemente propostesi, quando
mere, come finirà per concludere, quali sviluppi imprevisti del suo argomento il pensiero svolgendosi gli metterà improvvisamente dinanzi, insomma dove la ragione, che è pur ragione, consapevole e sua, lo condurrà. Le mutazioni, talvolta radicali di pensiero, che troviamo in quasi tutti i filosofi, e forse tanto più in quanto sono più grandi, non hanno altra origine e spiegazione. E si ricordi che cosa pensava Gcethe: «Sono d’avviso che un prodotto poetico sia tanto migliore, quanto più sfugge alla valutazione e alla comprensione dell’ intelligenza > {Colloqui con Eckermann, trad. Donadoni, II, p- 230).
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una comunità si mette all'impresa di dare a sè stessa una direzione, questa, sebbene tenuta in precedenza presente, finisce col sottrarsi del tutto al suo timone. Agiscono i cittadini nell'agone pubblico con in mente una certa direttiva da imprimere allo Stato; ed essa viene fuori assolutamente diversa da quello che ciascuno, compresi i detentori del potere, credevano, prevedevano e per cui lavoravano. Ncl-l'unirsi degli spiriti singoli il risultato della loro opera scaturisce impreveduto da tutti, alieno da quello che era nella mente di ciascuno. Un uomo singolo può forse foggiare la sua vita di domani e sapere quindi quale questa sarà, che cosa egli all'indomani farà. Un popolo non lo sa; e il mondo lo sa meno ancora. L'uomo singolo riesce pur forse a conoscere la sua .via. Il mondo non la conosce. Esso non sa dove vada; dove vada la sua storia, tra l’incrocio di opinioni, l’urto dei partiti, il cozzo delle armi e il fluttuare delle idee, nessuno degli esseri, pure ragionevoli, che lo costituiscono e che formano queste opinioni, questi partiti, queste idee, riesce nemmeno lontanamente ad immaginarlo. Sembra che la natura (come scrive Giuseppe Ferrari) abbia « sottratto il corso della civilizzazione alla previdenza .degli individui »; ma non solo (com’egli aggiunge) « il tipo della perfezione ideale immaginato in un periodo è smentito dal vero .progresso del periodo successivo; ogni epoca ignora quella che deve susseguire, ogni sistema ignora quello che deve succedere »; (i) bensì, per di più, ogni generazione, ogni epoca, ogni periodo ignora il proprio immediato futuro. È perciò che se pur si può trattare da individuo a individuo, perchè in questo caso si può ancora ritenere vi siano dei dati per accertarsi come l’individuo si comporterà in avvenire, è impossibile, direttamente e nel vero senso della parola, trattare da popolo a popolo. Se il pensiero d'un popolo è un caos, se non è possibile mai, per esempio, determinare con' misura anche minima di precisione che cosa un popolo pensi attualmente d’un altro, ancor piò vero è che tanto meno si può determinare che cosa ne penserà domani. Il comportamento d’un popolo, anche nel futuro immediato, sfugge tanto più ad un altro in quanto sfugge anche ad esso medesimo. E per questo avviene che quando un popolo perde i suoi rappresentanti ufficiali, cioè il governo costituito, e rimane esso, come insieme di popolo, di fronte agli altri, nessuna penetrazione, nessuna perspicacia riesce ad indovinare — si pensi alla Russia del momento attuale — come quel popolo di fronte agli altri si condurrà. E nemmeno esso, nè alcuno dei suoi membri, lo sa.
È veramente meraviglioso il constatare come nella .vita pubblica (al pari, del resto, che nella privata) parecchie direzioni tutte perfettamente coscienti si combinino per dar origine ad una meta davanti a cui tutti furono ciechi. Di continuo vediamo collettività di ragioni, mature, esperimentate, addottrinate — i governi, le assemblee
(i) Prefaz. al vói. V delle Opere del Vico. Ed è indispensabile che sia così, secondo il Ferrari, poiché se una generazione potesse prevedere esattamente le fasi future della storia, potrebbe anche determinare a suo intero arbitrio e beneplacito l’avvenire d’un popolo, plasmarlo come noi facciamo di quello degli animali, sottoporlo interamente al suo volere presente, e quindi anche soffocarlo. — Del pari si potrebbe dire che la libertà dell’individuo è una cosa sola con l’impossibilità per lui di prevedere il suo futuro, col procedere impensato e capriccioso della sua condotta. Se l’individuo prevede il suo futuro e può predisporlo e predeterminarlo, non è più libero.
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parlamentari — proporsi chiaramente dei fini, mettere in atto con prudenza e sapienza i mezzi per raggiungerli, e raggiungerli in effetto; ma-poco stante questi fini raggiunti, concatenandosi con nuove direzioni, ciascuna delle quali del pari consapevolmente preordinata e tradotta in fatto, mettere capo ad un fine complessivo assolutamente impensato; che nè governi, nè assemblee, nè partiti avevano mai supposto; che sembra veramente essersi formato al di fuori d’ogni portata di forze, di ragioni, di volontà consapevoli umane; che, poiché nessuna ragione umana o gruppo di ragioni umane se lo era consciamente proposto nè lo aveva fatto diretto obbiettivo del proprio volere, sembra non essere umana fattura ed essersi prodotto per opera d’alcunchè di diverso dalla nostra ragione o da tutte le nostre ragioni riunite, e, se ancora per opera d’una ragione, non della nostra. Sforzi mirabilmente congegnati per sostenere una religione, che riescono alla lunga ad una più invincibile incredulità; avvilimento d’un potere Chiesastico che, mentre sembra far pronosticare con certezza la sua prossima definitiva rovina, rampolla più tardi in un risveglio di fede; restaurazioni monarchiche, avvenute tra il più sincero entusiasmo, che costituiscono il germe sepolto e nascosto d’una futura diffusione di repubblicanesimo; reazioni che sono l’origine del trionfo della politica liberale; politica liberale che va a sboccare nella dittatura o nell'imperialismo; — tutti questi sono comuni esempi elementari di siffatta incapacità della ragione collettiva di procedere verso mete consapute e prefisse.
Pensiamoci un momento: migliaia di uomini si propongono con chiarezza meridiana una meta. La proclamano sui tetti, la spiegano nei giornali, la illustrano nelle assemblee di partito. Essa diventa palpabile, evidente, limpida alla enorme maggioranza delle ragioni umane. La meta è raggiunta. E un secolo più tardi si fa chiaro che, quella che sembrava una meta, non era se non un primo passo verso un punto d’arrivo più lontano, che è quanto si può immaginare di più contrario alla mente e ai propositi dei propugnatori di quella meta precedente. La storia d'ogni paese, considerata di due in due secoli, procede in modo che, rispetto alle nostre ragioni, si deve dire miracoloso. Ñon sembra miracolosa a noi perchè la leggiamo post factum. Ma ogni uomo di Stato che levasse la testa dal sepolcro scorgerebbe il miracolo: scorgerebbe cioè come invece che «reale» sia diventato il «razionale» che la sua possente ragione e quella dei suoi contemporanei e collaboratori conteneva e aveva già, sembrava, tradotto in atto, « reale » si è fatto ciò che non era contenuto nè nella sua nè in alcun’altra ragione umana. Toccherebbe così col dito questo muoversi della vita dei popoli e dell’umanità, quasi a dire, da sè, senza che il nostro intervento sia efficace, senza che l’assiduo agitarsi delle nostre ragioni attorno alla direzione da dare al mondo influisca su questa, se questa scaturisce poi quale in nessuna di esse nostre ragioni era contenuta. Toccherebbe col dito, insomma, questo fatto straordinario che il cammino delle cose degli uomini, pensato e voluto dagli uomini, pure sta
Oltre la difension dei senni umani (i).
(i) Inferno VII, 81.
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Ma ciò, si dirà, non è altro se non il fatto elementarissimo che noi non possiamo prevedere il futuro. E basta ciò per fare questo processo alla ragione? Ebbene, se anche non si trattasse che di ciò, per questo processo ciò è sufficiente. Giustamente i primi espliciti assertori dell’« assolutismo » della ragione, della ragione come unica realtà, pretesero ricavare tutto a priori dàlia ragione, compresa la natura. E solo per un opportunismo, prudente, sì, ma non consentaneo alle superbe premesse, gli attuali rinnovatori dello spirito assoluto criticarono e.respinsero questa-pretesa. In verità, se la ragione è tutto, se lo spirito è la realtà totale, se i suoi concetti, o la sua sintesi, sono i creatori di tutto ciò che ha vera esistenza e permanenza, nella ragione o nello spirito tutto si dovrebbe veramente contenere e solo guardando in essi tutto vi si dovrebbe ricavare; e l’empirismo, che con qualche facile argomento verbale si sbandeggia dalla filosofia, dovrebbe più facilmente ancora sbandeggiarsi dalla realtà, dovrebbe, cioè, dimostrarsi non solo che i fatti empirici non sono oggetto di conoscenza filosofica, ma altresì che nemmeno esistono. Pure essi sono là. Non degno oggetto della filosofia, che è solo dello spirito, si dice: e sia. Ma. perchè sono essi là se lo spirito è tutto? Sólo spirito è tutto., essi (poiché ci sono) dovrebbero non già essere empirici, ma deducibili razionalisticamente a priori e quindi entrare degnamente nella conoscenza filosofie^. Se essi sono empirici, e appunto perciò indegni che la filosofia se ne occupi, poiché essi rimangono ugualmente là, vuol dire piecisamente che lo spirito non è tutto. Dire che la filosofia, perchè è unicamente dello spirito, non deve farne oggetto di conoscenza, non è escludere, ma piuttosto accentuare, che essi ci sono e non nascono dal fondo e dalla sostanza dello spirito stesso. *
Tutto, dunque, dovrebbe contenersi a priori nella ragione e poterne a priori essere ricavato. Il futuro dovrebbe contenersi nel nostro consapevole spirito e questo dovrebbe (tanto più quando si tratta del futuro umano e dell’azione su questo di avvenimenti interamente umani, escluse le interferenze di fatti della natura) poter determinarne a priori con infallibile certezza la direzione. Ma nè una singola ragione, nè la collettività di tutte le ragioni umane, possono prevedere l'indomani dello stesso mondo umano pur escludendo l’intervento di accidenti naturali che ne modifichino il corso; non possono, vale a dire, prevedere che cosa domani esse, che pur sono ragioni, penseranno, che faranno, come si comporteranno (chè questo è l’essere del mondo umano). È proprio del domani di sé che non sanno nulla. Questo domani, adunque, non si contiene oggi consapevolmente in esse. Questo domani si fa da sè, e, non ostante il loro turbinoso sforzo per fabbricarlo, non esse lo fanno, perchè l’avvento della realtà futura è sempre tale da dimostrare che esse nulla ne hanno saputo e che questa è sbocciata dai loro sforzi per fabbricarla in modo affatto impre-yeduto, e inconsapevole. Anche nel mondo umano non panlogismo, adunque, ma pan-alogismo.
Ma tutto ciò si rende visibile in una maniera impressionante’nella vita politica anormale, nelle rivoluzioni e nelle guerre. Si pensi alla Rivoluzione francése: a un ’96 scaturito da un ’89, a un 1804 scaturito da un 1796, a un 1814 scaturito
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da un 1804; a questo incessante generarsi dall’attività d’una collettività di ragioni, attività pur diretta con luminosa consapevolezza ad un fine, di un risultato interamente esorbitante e fuoruscente dai piani, dai disegni, dalle previsioni d’ogni ragione. Non mai come allora questo farsi del mondo umano da sè, al di fuori e al di sopra delle nostre ragioni' singole o riunite, dev’essere stato tangibilmente avvertito.
In una situazione analoga ci troviamo oggidì e ne ricaviamo un’analoga sensazione. Che da una guerra forse inizialmente diretta ad estendere il potere austriaco nel territorio balcanico, siano scaturiti già a quest’ora immensi avvenimenti non pensati, non previsti, non predesignati da quelli stessi che li hanno operati, ma formatisi quasi occasionalmente davanti ai loro passi, come la rivoluzione russa e la partecipazione dell’America al conflitto, ci dà'l’impressione invincibile che l'andamento delle cose umane' nel suo complesso sfugga evidentemente al dominio dell’umana ragione, capace sì di muovere con coscienza del fine una pedina sullo scacchiere dove si sviluppa il gioco della sua vita, ma incapace di controllare o solo immaginare l’andamento generale di questo giuoco che pure è un giuoco di cui essa è il giuocatore e il solo giuocatore. Il fatto che dai due avvenimenti accennati noi ci aspettiamo. ogni giorno che esca ancora alcunché di radicalmente nuovo pel mondo umano, ma nessuno di noi può sapere che cosa questo nuovo, che è pur nostro, sarà, ci impone irresistibilmente l’idea che le ragioni umane non contengono nè modellano coscientemente il loro proprio immediato futuro, che il mondo delle ragioni procede non costretto nell’ambito che le ragioni stesse hanno presegnato, che non aspetta quindi nè obbedisce nel suo moto il cenno di queste e forma da sè e fuori della loro portata il suo nuovo, che la ragione insomma non riesce a identificarsi consapevolmente con un complesso ampio della sua stessa vita e realtà e a tradursi interamente in essa.
Veramente, sono i momenti delle grandi vicissitudini politiche e sociali quelli che ci fanno più lucidamente avvertire come l’insieme delle nostre ragioni non sappia prefinire l’andamento della loro stessa opera, o padroneggiare il corso di eventi che hanno esse medesime sferrato; come quindi ciò che si realizza nel mondo nostro non sia il « razionale » della nostra ragione, ma — caso o, disegno divino — qualcosa che non le appartiene; come secondo pensava giustamente il Vico, la vita di «questa gran città del genere umano » proceda « senza verun umano scorgimento o consiglio » (1).
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Ma occorre ora che esaminiamo la questione da un punto di vista un po’ più rigorosamente speculativo.
La gran chiave di volta del dogmatismo « assolutistico » è l’universalità della ragione teoretica e pratica, lo spirito come universale. Che, cosa significa « obbiettivo » per esso? Non ciò Che esiste indipendentemente dalla coscienza, perchè fuori
(1) Scienza Nuova, ed. Nicolini (Bari, 1911, voi. I, p. 184).
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dalla coscienza nulla esiste, ma ciò che costituisce il pronunciato della coscienza stessa. È questo un soggettivismo, ma un soggettivismo assoluto (i). Cioè, secondo quel sistema, ciò che è obbiettivo è il pronunciato della coscienza, o dello spirito, ma non della coscienza di questo o quell’individuo, bensì della coscienza come tale, della coscienza in sè, dello spirito o ragione universale. Codesto pronunciato della ragione universale, codesto atto per cui proprio essa, in quanto ragione in sè considerata, e non ragione dell individuo a, b o c, sussume alcunché entro i suoi propri concetti o forme o categorie di vero, di buono, di bello, e in tal modo lo fa vero, buono, bello, è ciò che i moderni restauratori italiani di quel dogmatismo « assolutista » preferiscono significare coll’altisonante espressione di « sintesi a priori v>, la -quale nei loro scritti (per ripetere quel che il Macaulay dice del metodo di Plutarco) « ci ricorda della cucina di quelle osterie continentali, orrore dei viaggiatori' inglesi, in cui un certo brodo indescrivibile si mantiene sempre bollente, e si versa copiosamente senza distinzione sopra ogni piatto quando viene portato in tavola » (2).
Che cosa sia questa ragione o spirito in sè, che non è spirito di questo o que-st’altro individuo, ma spirito spoglio di tutte le determinazioni individuali, e la universalità dei cui pronunciati si vuol riscontrare unicamente nel fatto della loro adeguazione allo spirito stesso — da chi mai competentemente constatata, dal momento che lo spirito in sè non ci può far udire la sua sentenza? — e senza bisogno di riscontrare se gli altri spiriti individuali siano d’accordo in questa constatazione, tutto ciò manet alta mente repostum. Qui ci basti osservare che questa teoria non è altro in sostanza che la dottrina dell’« intuizionismo » e dell’« evidenzismo ». Si riduce cioè a dire che possiede 1 obbiettività, che è reale, vero, bello, buono assoluto, ciò che 1’« intuizione » o 1’« evidenza » presenta come tale. Se non Che non ci si dice che cosa avvenga di questa obbiettività quando le « intuizioni » e le « evidenze » sono in contrasto tra di loro.
Ognuno che non voglia sofisticarsi il giudizio per amor del sistema, scorge tosto che perchè un simile concetto di obbiettività reggesse, occorrerebbe una piccola cosa: e cioè che tutti pensassero e operassero nello stesso modo, che non vi fossero nè dispareri nè discordie. Se ciò che fa d’alcunchè il véro, il bello, il bene obbiettivi (ossia, in sostanza, che crea il vero, il bello, il bene) è la sintesi a priori dello spirito universale, o, in altre parole, l’intuizione della ragione teoretica e pratica, 1’« evidenza », è chiaro che bisogna che 1’« intuizione » e 1’« evidenza » siano conformi in tutti, dicano in tutti la medesima cosa. Se, quando e dove 1’« intuizione » è diversa in questi e in quelli, essa non è più universale per quanto io possa pretendere che la mia avrebbe ragione e diritto di esserlo, che solo la mia, vale a dire, sia adeguata allo spirito in sè. Essa non ci dà più 1’« obbiettivo », perchè 1’« obbiettivo » sarebbe diverso per l’uno e per l’altro, sarebbe dunque ciò che per essenza è il « subbiettivo ». Se ciò che io intuisco come reale non è come tale da ogni altro intuito, la realtà sarebbe diversa per ognuno e, in luogo di obbiettiva, diventerebbe nient’altro che un sogno e una fantasmagoria individuale.
(1) Gentile, La Riforma della Dialettica hegeliana, Messina» loia. nasi, izs e sec.
(2) Nel saggio Storia. (Trad. Rovighi). J
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Ma i dogmatici dell’« assolutismo » obbiettano che essi per universalità intendono ben altro da questa volgare universalità empirica, che si pretenderebbe di constatare contando i voti come nelle elezioni politiche. Per universalità essi intendono invece ciò che è adeguato alla ragione senza più. Una verità logica qualsiasi, per esempio che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, è una verità universale, anche se solo un’infima minoranza sa scorgerla (anzi, altri aggiunge, anche se nessuno ancora la scorge). È universale anche se non è ammessa dalla totalità delle ragioni (e nemmeno dalla maggioranza) perchè, ciò non ostante, la ragione la scorge, con luce di perfetta « evidenza », come adeguata a sè, come un proprio pronunciato.
• Non v’è dubbio che vi sono dei giudizi, delle intuizioni, delle evidenze che rivestono d’un’apparenza di verità la fallacia che questa tesi contiene non tanto in ciò che enuncia, quanto in ciò a cui pretende arrivare.
Scorgo la tavola che mi sta dinanzi come reale, con così irresistibile evidenza che mi sento assolutamente sicuro, senza bisogno di ricercare che cosa pensino gli altri, che la realtà da me veduta in essa non è una mia illusione, ma che proprio in me è la ragione che la scorge; e quindi mi sento infallibilmente certo che ogni altro scorgerà al pari di me questa tavola come reale, e se alcuno non la scorge come tale, lo relego senz’altro fuor dal campo della ragione e in quello della pazzia.
Ma, anche qui, non è forse l’allucinato altrettanto sicuro della realtà della sua allucinazione? E se nell’allucinato sorge un dubbio, se qualche dubbio sorge in noi circa l’esattezza della nostra percezione, se temiamo che una malattia, una febbre, l’itterizia ci faccia travedere, non si domanda forse agli altri come essi vedano gli oggetti, precisamente a quella guisa che quando non si è sicuri d’aver capito il passo d’un libro confrontiamo la nostra interpretazione con quella degli altri e tanto più o tanto meno siamo sicuri della nostra quanto più 0 quanto meno la vediamo condivisa? E non è questo un far appello al come vedono le ragioni negli altri, cioè all'universalità empirica? La certezza che sentiamo della realtà d’un oggetto, in quanto ci sembra reggersi isolatamente sul pronunciato della ragione in noi, è forse nata a poco a poco oscuramente solo dal confronto e dal controllo con gli altri, dal vedere tutti agire considerando come reale l’oggetto che è tale per noi, dal fatto che nel comportarci verso gli altri contando che essi vedano l’oggetto come reale constatiamo che il nostro comportamento si coordina perfettamente al loro. Quel pronunciato che sembra reggersi sulla ragione isolata, forse si regge in realtà sulle ragioni di tutti.
Ancora: lo scienziato — si dice — che conosce una verità della matematica superiore, vede con rocchio della ragione dentro di sè con così irresistibile evidenza questa verità, che egli è certo che essa è tale anche se vien negata dalla maggioranza o dalla totalità delle altre ragioni (eppur si muovc\) e gli basta questo suo vedere, questo vedere della ragione in lui, per essere certo che quella verità è universale, propria della ragione, adeguata a questa. Che se — si aggiunge — ogni altro uomo fosse posto nelle medesime condizioni di potenza intellettuale e di coltura di quello, anche in lui la ragione assoluta vedrebbe la medesima verità. — Ma, anche qui, l’inventore pazzoide, per esempio, non possiede forse la stessa irresistibile evi-
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denza della sua verità? L’uomo che è assolutamente solo nel suo pensiero, deve sempre tremare d’esser pazzo, e trema in realtà di esserlo appunto in quanto non lo è già .totalmente, in quanto cioè la pazzia non gli ha procurato definitivamente una fissazione maniaca. La sicurezza di non esser pazzo nel suo pensiero isolato, la sicurezza che quel pensiero è pensiero della ragione in lui e non una sua allucinazione, gli è data da ciò che la universalità meramente razionale e di diritto che soggettivamente scorge in quel pensiero divenga o accenni a diventare una universalità di fatto. Perchè quel pensiero abbia qualche fondamento ad essere verità, occorre che la universalità razionale soggettiva possa dilatarsi in un'universalità empirica, sia pure quella soltanto di coloro che si interessano competentemente dello stesso'ordine di pensieri, sia pure, se non presente, futura. Occorre che qualcuno ripensi quel pensiero e dica « costui ha ragione ». Solo così la ragione si attesta ragione. Ma se un pensiero che un uomo scorge vero, è respinto sempre e da tutti, esso non possederà mai una verità umana, non sarà mai verità, quand’anche — per usare un’espressione che non avrebbe alcun senso perchè nessun’altra mente umana o sopraumana pronuncerebbe questa sentenza — esso contenesse la verità. È manifestamente insensato che sia possibile dire d’un pensiero « è la verità » se nessuno lo dice, se nessun pensiero, tranne esso medesimo, che è parte in causa e parla di sè, lo afferma. Obbietterete: « può darsi che un pensiero sia la verità, anche se nessuno afferma che lo sia ». Ma ecco che nell’atto che esemplificate: « questo 0 quest’altro pensiero è la verità, anche se nessuno afferma che lo sia », voi stessi cominciate ad affermarlo. Se obbiettate ancora: « ma un pensiero assolutamente solitario potrebbe pur essere la verità », badate: la vostra convinzione che un tale pensiero sia la verità, da che nascerebbe? Evidentemente dal vostro aderirvi. Voi cioè comincereste a far di quel pensiero la verità dicendo: « costui che pensa così ha ragione », iniziando, in tal modo attorno a quel pensiero una universalità di fatto. Ed è solo in proporzione del poter formarsi di questa universalità empirica che quel pensiero sarebbe vero (1).
Nel ristretto limite, adunque, in cui nei nostri giudizi c’è l'universalità razionale, questa corrisponde o finisce per corrispóndere ad una universalità empirica. L’universalità non è mai soltanto di diritto, ma si manifesta e si controlla con Tesserlo anche di fatto. E l’impulso che una mente sana sente a ritenere evidenti e quindi universali i suoi pronunciati è tanto più forte e imperioso quanto più — come nel caso dei giudizi esistenziali — ad essa un'universalità di fatto effettivamente corrisponde.
(1) Questa tendenza a tradurre l’universalità di diritto in quella di fatto, a volere' fin dove si può, che la prima divenga la seconda, si rivela in tutte le attività, anche più elementari, della nostra coscienza. Perchè amiamo tanto chiacchierare? Per conoscere ciò che sanno gli altri 9 far loro conoscere ciò che noi sappiamo, per accogliere la loro opinione sui piccoli o grandi avvenimenti del giorno, o far loro accogliere la nostra; sempre per adeguare, fin dovè si può, la nostra mente alla loro, cioè per formare da un^universalità di diritto una di.fatto. Ma, se la tendenza c’è, la possibilità di riuscire a ciò è grandemente ristretta.
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Ristrétto limite, abbiamo detto. Infatti, checché si voglia pensare di ciò, a noi basta questa verità: che, sia pure si possa giustificatamente sostenere che alcuni nostri giudizi posseggono un’universalità razionale indipendentemente da quella empirica, un’universalità che sia lecito riconoscere consistente in ciò che se tutti non li condividono tutti li dovrebbero condividere, la sfera di questi giudizi è estremamente limitata. Per la maggior parte dei pronunciati della nostra coscienza, e precisamente per quelli che sopratutto interessano la nostra vita, come i pronunciati etici o estetici, è assolutamente illegittimo asserire che uno in luogo di un altro che vi si contrappone possegga un’universalità razionale o di diritto, sia adeguato alla ragione, tranne che pretendendo di far traboccare la bilancia col gettarvi sopra l’arbitraria arroganza del proprio parere personale. Qui non si può più dire, come nel caso d’alcune verità scientifiche, che se l’uomo che non scorge una certa « evidenza » etica od estetica fosse posto nelle condizioni di sviluppo intellettuale o di coltura di colui che la scorge, anch’egli la scorgerebbe. Qui avviene proprio che « evidenze » o « intuizioni » emananti da coscienze di valore pari, o tra le quali almeno nessuno può presumere d’aver l’autorità di determinare una graduatoria, sono diverse e pugnanti e permangono attraverso i secoli irriducibili le une contro le altre.
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È sommamente interessante- rilevare come, di fronte a questa insopprimibile disparità di « intuizioni » e di « evidenze », a questo mancare cioè dell’universalità razionale insieme con l’universalità empirica, il concetto di universale avente valore di obbiettivo abbia subito nel suo inventore un processo di equivoca attenuazione.
Dalla Critica dèlia Ragion Pura alla Critica della Ragion Pratica e da questa alla Dottrina del Diritto e sopratutto alla Critica del Giudizio, l’universale diventa per Kant sempre più fluttuante e fondato su basi sempre più lubriche, malsicure e fallaci.
Si affaccia in tutta la forza e completezza quando si tratta della ragione teoretica o del mondo dell’esperienza. Al mondo d’esperienza che le forme della sensi-' bilità e le categorie dell’intelletto mi presentano, io attribuisco un valore universale e quindi obbiettivo; penso cioè che quel mondo dell’esperienza che esiste per me, poiché le categorie che in me lo foggiano sono proprie della ragione in universale, debba esistere per tutti. E qui trovo infatti che questa attribuzione di universalità e obbiettività, questo dover esistere per tutti, non è una semplice ferma credenza, « evidenza », o idea fissa mia, ma risponde a realtà: quel mondo cioè esiste davvero per tutti, e la sua universalità è di fatto, non semplicemente di diritto (forse di preteso diritto e affermato arbitrariamente da me). Qui universalità di diritto e di fatto sono in piena corrispondenza, si suffragano a vicenda, si fondono insieme.
Ma non è già più così nel campo della ragione pratica: qui l’universale di-
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venta un comando della ragione e consiste semplicemente in ciò che in me lo spirito scorge che quel comando può essere reso legge universale (ossia che a me pare lo possa) quand'anche come tale non sia da tutti ricevuto ed osservato; o, se si vuole, in ciò che esso si fa (o meglio, io opino si faccia) udire in ognuno, sebbene possa essere non seguito da alcuno. Qui comincia a spuntare il divorzio tra un'universalità meramente razionale o che dovrebbe semplicemente essere e l'universalità reale, e con esso il problema quale mente possa, e con qual diritto, dichiarandosi adeguata allo spirito in sè, stabilire che i suoi pronunciati e le sue intuizioni dovrebbero avere un'universalità che intanto forse non hanno.
L’equivoco diventa più palpabile nella dottrina del diritto. Qui si fa palmare che l’universalità cui spetta di produrre lo Stato e formare la legge non ha nulla a che vedere con l’universalità di fatto, o volontà di tutti. E proprio interamente una volontà universale quale si asserisce dovrebbe essere, una volontà ideale « che non può mai, a rigor di termini, trovare il suo organo nelle volontà unite di tutti i cittadini » (I). Quindi la giustizia o l’ingiustizia d’una legge è data non già dal fatto che il popolo in realtà approvi o non approvi quella legge, ma dal fatto che esso potrebbe o non potrebbe assentirvi. In che modo questa volontà universale ideale sia discernibile, in Chi essa parli autenticamente, chi sia il giudice di ciò che la volontà universale dovrebbe essere e quindi della vera possibilità o im-Sossibilità d’assenso del popolo ad una legge, se non lo può essere il parere espresso a ciascun uomo, tutto ciò resta avvolto nel mistero. Strano è arrogante concetto questo per cui, in sostanza, deve essere universale e obbiettivo ciò che io penso che come tale la ragione riveli in me!
Ma se la dottrina del diritto, mettendo in maggior evidenza l’equivoco di questa universalità e obbiettività, fondate sull’arbitrarietà del nostro giudizio, proietta all’indietro la sua luce a scoprire la stessa falsità esistente più coperta-mente nell’universalità etica, quando Kant arriva all’estetica e si trova di fronte alla invincibile e irriducibile diversità dei giudizi di gusto, tutti fuor di contestazione legittimi, nessuno dei quali cioè può giustificatamente essere messo al bando dello spirito, egli, dopo avere in scritti precedenti lungamente tergiversato e oscillato •circa la questione se il bello sia soggettivo o oggettivo (2), taglia il nodo enunciando imperturbabilmente uno dei più disgustosi sofismi che mente umana potesse escogitare. Quello cioè che Veggenza dell’universalità equivale all’universalità, che un giudizio che io sento avere in me la pretesa all'universalità, cioè che mi pare impossibile non debba valere per tutti, per ciò solo va ritenuto universi Cairo, The Crii. Philos. of Imm. Kant (Glascow, 1889, voi. II, pag. 337). È, come è noto, la stessa indecifràbile ambiguità in cui s’aggira Rousseau nel Contralto Sociale, «opera oscura e spesso contraddittoria (scrive giustamente il Faguet), lavoro di gioventù, ritengo, ma! riaccomodato » {Petite histoire de la Littér. frane., Parigi, Crès, pag. 241).
(2) V. in Delbos, La Phil. pralique de Kant (Parigi, 1905, pag. 520 e seg.) l’interessante descrizione di queste oscillazioni, le quali aumentano l'impressione che la soluzione finale sia stata architettata mediante artifici consaputamente falsi, e sia quindi filosoficamente disonestà.
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sale, adeguato allo spirito in sè e per sé, valevole per tutti. Kant qui, finge persino di non accorgersi che se la semplice esigenza dell’universalità vale universalità e obbiettività, obbiettivo e razionalmente universale dovrebbe ritenersi anche il giudizio su ciò che è piacevole al palato. « Quando (egli asserisce) qualcuno dice: il vino delle Canarie è piacevole, sopporta volentieri che gli si corregga l’espressione e gli si ricordi che deve dire: è piacevole per me » (1). E sia pure per il vino delle Canarie. Ma vi sono dei sapori — e basti addurre il pane e l’uva— la cui piacevolezza ci risulta così congruente alla nostra natura che non ci sembra credibile nè ammissibile che non piacciano a qualche, altro, sicché se qualcuno asserisce di non trovarli piacevoli trattiamo questa asserzione di bugia o di capriccio, di pòsa o di eccentricità, e veramente di «sofistica naturale». Sentiamo evidente dentro di noi l’impossibilità che la loro piacevolezza non sia universale, sentiamo irresistibilmente questa piacevolezza come posta e stabilita dalla, per così dire, « sintesi a priori » del palato in noi (e si noti a conferma di quanto fu detto poc’anzi: questo sentimento è tanto più imperioso quanto più esiste davvero per tale piacevolezza un’universalità di fatto). L’esigenza interna, la pretesa all’universalità è dunque proprio la stessa nel caso del giudizio estetico e nel caso del giudizio sul piacevole al palato. Se in quel caso potesse bastare a fondare l’universalità razionale e l’obbiettività, dovrebbe bastare anche in questo. E a rigor di termini: poiché nell’estetica il giudizio che pretendiamo sia universale e obbiettivo, per ciò solo, deve esserlo; poiché « noi non permettiamo a nessuno di essere di altro parere »; poiché non diciamo « che ognuno si accorderà, ma che si dovrà accordare col nostro giudizio » (2); e poiché quindi l’implicita conclusione della teoria'kantiana dovrebbe essere Che si ha diritto di imporre con la forza agli altri il nostro gusto estetico, se, soltanto perchè è in noi, deve ritenersi universale e obbiettive; — così vigendo anche per il piacevole al palato la medesima interiore pretesa ed esigenza d’universalità, avremmo il diritto, non solo di costringere gli altri ad ammirare ciò che ci piace esteticamente, ma anche di far mangiare agli altri, come i soli che devono essere buoni, i cibi che piacciono a noi!
Mostruosa teoria in cui sta il germe dello spirito di sopraffazione tedesco per cui quel popolo trascorre come per una china naturale a ritenere che una certa sua propria forma e visuale di vita sia adeguata alla ragione in sè, debba quindi essere di tutti e sia perciò legittimo e doveroso imporla agli altri con la forza.
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Tale l’ambiguo artificio kantiano. Ma come si comportano gli odierni dogmatici dello spirito assoluto di fronte al fatto che, mentre per la loro teoria tutto l’obbiettivò, il vero, il bello, il buono, è dato dalla sintesi a priori dello spirito, si vegga questa sintesi a priori presentare « obbiettività » diverse, si veggano le intuizioni, i pronunciati, le «evidenze» della ragione essere contrastanti?
(1) Crii. del Giud., § 7.
(2) Crii, del Giud. § 22.
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Duplice è il loro artificio.
In primo luogo, essi, per cui la sintesi a priori dello spirito dà tuttala realtà, con quel medesimo prudente sebbene incoerente opportunismo per cui eliminano dalla loro filosofia la natura, ne eliminano anche la formulazione di tutto ciò che nel campo proprio dello spirito la sintesi a priori scorga, intuisca, pronunci. I più accorti e meno sinceri, coloro che meglio avvertono di procedere per cincrem do-losum e più che della verità si preoccupano di rendere il loro sistema abbastanza viscido perchè possa sfuggir dalle mani di chi esteriormente lo attacca, a che riducono la loro filosofia? A dirci (si veggano i libri del. Croce) che esiste una sintesi a priori logica, estetica, economica, etica; che la ragione ha l’intuizione di qualcosa come vero, bello, utile, buono; che come vero, bello, utile, buono alcunché è giudicato dallo spirito: Ma che cosa, è vero, bello, buono? Che cosa come tale lo spirito giudica, ossia fa tale? A questa ovvia domanda essi si rifiutano di rispondere. E perchè? Perchè una filosofia ridotta a questa peregrina scoperta: «lo spirito dà dei pronunciati sulla verità, bellezza, utilità o bontà degli oggetti»? Sappiamo la loro risposta: perchè la filosofia si occupa solo dell’attività pura della sintesi a priori, non degli oggetti che questa sussume in sé, chè sarebbe trascinare l’empirico nel campo della speculazione. Eppure per essi lo spirito e la sua sintesi sono tutta la realtà, dai pronunciati di quella tutta la realtà e l’obbietti-vità sboccano alla luce. E ciò non ostante non possiamo mai sapere da loro che cosa questa realtà ed obbiettività creata dallo spirito sia, e dobbiamo contentarci di sapere che esso la fa. La verità è che tale loro posizione è spiegata dal fatto che ógni passo che essi compissero in questo, campo, dove pure in forza del loro stesso principio si avrebbe pieno diritto di chiamarli, rovescierebbe la loro teoria, perchè metterebbe sotto gli occhi di tutti che la ragione universale dà in essi pronunciati diversi da quelli che la stessa ragione universale emana in altri, che lo spirito assoluto in essi ha intuizioni ed.« evidenze » del tutto dissimili a quelle che lo stesso spirito assoluto in altre coscienze fa splendere, che lo spirito uno « sintetizza » diversamente in questi e in quelli, che l’obbiettività creata dalla sintesi dello spirito è tanto « obbiettiva » .che è diversa in ognuno. Il loro sforzo per ridurre la filosofia alla sola frase « c’è una sintesi a priori », e la loro ansia per ostracizzare dalla filosofia, sotto l'accusa di empirismo, ogni determinato pronunciato di questa sintesi, non è che il velo che essi cercano di gettare sul fatto che i pronunciati della « sintesi a priori » sono in irriducibile contrasto, fatto micidiale per una teoria che sull’universalità di essa sintesi pretende fondare l'essenza dell’obbiettività.
Taluno, che pur va, sebbene usi altro linguaggio, annoverato in una corrente affine a questa, con maggiore sincerità di comportamento filosofico, non si trattiene dall’enunciare i pronunciati che egli scorge propri dello spirito assoluto. Così il sottile rinnovatore inglese dell’intuizionismo, G. E. Moore (i).
(i) Nel suo primo libro però. Principia Ethica. Nel successivo, Ethics, egli abbandona ogni tentativo di esprimere un’ intuizione obbiettiva del buono e prende una posizione sostanzialmente scettica.
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Buono, egli dice, è un’intuizione indeducibile e indefinibile, come il giallo od il rosso. Se ciò è, e se (come il Moore pensa) l’intuizione del buono è obbiettiva e quindi universale, dovrà avvenire che, a quella guisa che ciò che il Moore intuisce come rosso è pure come .tale intuito da tutti noi se la nostra vista è normale, così ciò che egli intuisce come sommo bene sarà pure intuito come sommo bene da tutti noi se.la nostra ragion pratica è normale. Ma che cosa intuisce egli come sommo bene? Principalmente queste due cose: i godimenti estetici e le affezioni personali. Ora, non è audace dire che la maggior parte ¿égli uomini, la cui coscienza nessuno può presumere di dichiarare anormale, e, quel che è più, la maggior parte dei competenti, se tali si vogliono considerare i filosofi moralisti, si rifiuterebbero di riporre il sommo bene in quelle due cose. Non è audace dire che la maggior parte degli uomini normali sarebbero inclini a riguardare quelle due cose come un bene di lusso, che può apparire sommo bene solo quando la soddisfazione di altri beni più fondamentali sia così sicura e consueta che questi altri beni sfuggono oramai alla nostra attenzione. Non è audace dire che se ad un uomo interamente spoglio d’ogni bene si chiedesse che cosa la sua ragion pratica gli affaccia come bene primo e sommo, probabilmente non penserebbe nemmeno ai godimenti estetici ed alle affezióni personali. E difficile sarebbe asserire che la sua « intuizione » diversa, per esempio che il sommo bene è un pane, una veste, un tetto ed una donna, sia un’intuizione anormale. — È che significa ciò? Semplicemente che quando si accenna ad indicare quale è il pronunciato della sintesi a priori dello spirito assoluto in noi, non si fa che mettere in evidenza l’invincibile diversità del pronunciato che la sintesi dello stesso spirito assoluto dà in altri, e quindi l’impossibilità che dà quella sintesi a priori un’obbiettività qualsiasi si possa ricavare.
Il secondo artificio dei dogmatici dell’« assolutismo » consiste nel rinnovare l’antica dottrina, teologicamente autoritaria, dell'errore volontario, dell’errore cagionato sempre dàlie immaginazioni, dalle passioni, dal vizio, come pensava il Malebranche, dalla sofistica o dialettica «naturale», come sostenevano Kant e Rosmini, dall’inerzia che trattiene la nostra coscienza, per sè stessa non mai erronea, in uno stadio di conoscenza inferiore, cóme opinava Fichte: tolte le quali immaginazioni, passioni o sofismi, la verità risplenderebbe ad un modo in tutti perchè risplenderebbe alla ragione in universale, resa a sè stessa, liberata dalle scorie e dai veli. — Ma una siffatta dottrina, ripugnante e ihquisitoriale (1), la quale si riduce a dire che solo ciò che io penso è il vero, che solo la mia « evidenza » è evidenza di buona lega, che ciò che scorgono evidente gli altri quando contrasti -con 1'«evidenza» mia è frutto di pazzia o di colpa, che quella forza ugualmente irresistibile con cui le evidenze contrastanti folgorano in ciascuno di quelli che le posseggono, non ha valore che nel mio caso, nel mio caso solo è dovuta alla ra(1) Appartiene per logica necessità a questa dottrina la difesa dell’inquisizione (v. Croce, Filos. della Pratica, pag. 47, e Critica, IV, 245).
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gione, in tutti gli altri diversi è aberrante o peccaminosa; una siffatta teoria è immediatamente ripudiata da ogni uomo che senta la profonda e inattaccabile sincerità del proprio più vitale pensiero, che voglia difenderla da ogni diminuzione o invadenza, e che riconosca negli altri il medesimo diritto. Infatti, se l’obbiet-tività è data dalla «sintesi a priori», dall’intuizione, dall’«evidenza », perchè un’« evidenza » dev’essere superiore ad un’altra? Qual uomo può arrogar di innalzarsi come giudice sopra le varie « evidenze » se egli stesso non è che una di queste e se non c’è criterio al di fuori e al di sopra di esse?
Il fatto è che ad annientare l’edifìcio della ragione assoluta basta la banalissima constatazione che nói discordiamo, che siamo in dissenso e in conflitto, che non pensiamo la stessa cosa, ma cose diverse e ciò con una buona fede che nessuno possiede l’autorità superiore di incriminare. Chiunque non si lasci annebbiar da sofismi scorge immediatamente che affinchè dallo spirito si potesse ricavare l’obbiettivo bisognerebbe che i suoi pronunciati possedessero l’universalità di fatto, che cioè ci fosse, su di essi il consenso universale. Ma questo non c’è che riguardo a una limitatissima sfera di quei pronunciati, e (per usare le parole del Renouvier) « non è dato che implicitamente nelle sintèsi grossolane della conoscenza le quali sono separate dal sapere formale per tutto il tratto della riflessione » (i). Su tutto il resto, ed è di gran lunga il più importante, gli oracoli dello spirito sono in assoluto contrasto. Che rimane a fare? 0 si persiste ad intendere per universalità della ragione l’universalità di diritto, il fatto che solo alcune tra le varie « evidenze » umane sono proprie dèlia ragione e dovrebbero essere universali: e questo è come pretendere che solo in pochi uomini, forse in uno solo, colui che parla, a vera ragione risieda; ma poiché le varie altre « evidenze » non s’arrendono, e ciascuna si pone, con uguale legittimità, come quella che dovrebbe essere universale, manca il criterio ed il giudice per stabilire quale sia 1’« evidenza » adeguata alla ragione, per sentenziare quale sia la ragione che dovrebbe essere universale, quale sia la ragione autentica, o, in una parola sola, che cosa sia la ragione (se ragione è soltanto quella che possiede questa indeterminabile universalità'di diritto). Ovvero, l’universalità della ragione si riconosce puramente e semplicemente in ciò che non si può negare che essa sia anche in coloro che hanno « intuizioni » diverse da quelle che, a nostro avviso, dovrebbero essere universali o' adeguate alla ragione in sè: e allora, appunto perchè riconosciamo che quella die parla
(i) Traile de Psychol. Rationnelle (ed. Colin, voi. Il, pag. 13). Veramente solo se « l’umanità di fallo si costituisse nella reale unità di certezza e vi rimanesse, s’avvicinerebbe al diritto di considerarsi come l’umanità in sé stessa, e gli uomini dovrebbero credersi in possesso della verità, sotto specie del pensiero comune a tulli gli esseri pensanti conosciuti », (ib. pag. 192). Ma, sfortunatamente, che questa unità di certezza manchi quasi dovunque e persino in ciò che sembra verità più indiscutibile e necessaria, lo dimostrano, per esempio, « le dottrine dei filosofi che hanno negato il principio di contraddizione, alle quali è venuta ad aggiungersi, ai nostri tempi, la metageometria, i cui aderenti mettono in dubbio la conformità delle nostre nozioni spaziali con le proprietà dello spazio reale od empirico ». (Philos. Anal. de l'Histoire, IV, 291).
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nelle più disparate « evidenze » è sempre la ragione, dobbiamo convenire che essa, proprio essa, esprime pronunciati contraddittori. Se è sempre la ragione che parla nelle più opposte concezioni del mondo e della vita, nessuna delle quali, per vero, attraverso tutto il corso di secoli potè mai essere costretta dalla logica alla resa e alla soppressione, allora è proprio la ragione che costruisce visioni di verità diverse. E di qui avviene che anche in ogni coscienza singola, la ragione, se sinceramente consultata, faccia balenare la verità delle concezioni più opposte: perchè, cioè, anche nell’individuo essa conserva il carattere antitetico che ha nell'universalità degli individui. Se, seguendo il procedimento di Platone nella Repubblica, dal come risulta la ragione in grande o dilatata nell’universale, ricaviamo come essa sia, e non possa non essere in piccolo o nell’individuo, comprendiamo che, contraddittoria là, deve necessariamente esserlo anche qui, perchè là non v'è che il frutto di cui qui sono i germi.
Siamo così risospinti alla conclusione che, sia nella prima che nella seconda ipotesi dell'alternativa poc’anzi tracciata, ogni obbiettività che si pretenda ricavare dallo spirito irremediabilmente svanisce.
Il Renouvier appunto fu il pensatore che solo sentì profondamente e potente-mente espresse, in tutti i suoi libri, l’immensa gravità della conseguenza che deriva da questo invincibile e perenne contrasto delle «evidenze», il quale (egli scrive) indurrebbe « a considerare la fiducia dogmatica come un indice di pazzia, se fosse un po’ meno diffusa». Egli solo non partecipò all’« accecamento secolare che fa disconoscere l’importanza del fatto della divisione dei giudizi umani relativi ai principi più universali e più elevati della conoscenza ». Egli solo stabilì vigorosamente come sia «una convinzione irrazionale circa il valore della ragion pura e la potenza dimostrativa delle sentenze che essa pronuncia nello spirito di ciascuno quella la quale conserva l’illusione, che sempre spunta, d’essere in grado di forzare la convinzione d’un altro s’egli è in buona fede » (i). Ma la soluzione del Renouvier, — che cioè la verità ci è creata non dalla ragion pura, ma dalla ragione materiata di passione; che sono gli affetti e la volontà i quali entro l’àmbito assai lato del rispetto del principio di contraddizione foggiano le nostre invincibili certezze; che ogni certezza ed ogni verità contengono un prevalente elemento di credenza; che quindi l’istinto più sicuro, la volontà più incoercibile, il ritmo più profondo dei nostri ardenti bisogni vitali ci confermano «che il nostro vero è il Vero, il nostro bene è il Bene » (2) ; — questa soluzione non è che parziale. È vero che la ragióne pura è una mitica creazione dei dogmatici dell’«assoluto», che in nessuno essa parla ed esiste, che in ognuno invece parla una ragione passionale di cui ogni pronunciato è credenza personale, credenza non già fatalmente imposta da un’esangue logica comune di fatto o di preteso diritto ad ogni ragione, ma costrutta col nostro individuale sangue più vivo. È vero altresì che
(i) Doute ou Croyance in Année Philos., VI, 1895, Pa£- 7’9-(2) Psychol. Ration., II, 190.
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come uomini noi viviamo le nostre .credenze, e siamo sicuri che esse sono la verità con una sicurezza a posta della quale siamo pronti a mettere la vita. Ma è anche vero che come filosofi noi non possiamo non sollevarci a'considerare l'insieme d1, 2 tutte le credenze; ad avvertire che esse sono in insanabile contraddizione; a scorgere che, poiché esse reggono tutte nel campo della ragione’ poiché la ragione come tale non può costringerne alcuna al silenzio, poiché, insomma, esse sono tutte verità eppur sono in contrasto, la verità è diversa. E ancora una volta così senza speranza l’obbiettivo.ci sfugge.
* * *
Frimài «li avvicinarci alle considerazioni finali occorre mettere in chiaro come non si trovino in migliore posizione coloro i quali pensano che l’obbiettivo sia, non già una creazione dello spirito, ma qualcosa che esiste in sé al di fuori della coscienza, la quale, anziché crearlo, non farebbe che conoscerlo: i « realisti » o, come si potrebbero chiamare, gli ontologici platonisti del valore. Così il Brentano, il quale, sembra opinare che esistano verità, universalmente valide, che non sono innate, che non c’è bisogno si trovino in una coscienza, che avrebbero, come a dire, una esistenza empirica dagli uomini appresa a poco a poco, quale (egli esemplifica) il teorema di Pitagora «altrimenti il suo primo scopritore non avrebbe offerto un’ecatombe » (r). Così il Russel, il quale, espressamente richiamandosi a Platone, ritiene che le idee, gli universali, le relazioni « sussistano » (per usare il suo linguaggio), « posseggano l'essere », non siano insomma dipendenti dal pensiero, « ma appartengano al mondo indipendente che il pensiero apprende, ma non crea» (2). Così, probabilmente, lo stesso Moore, e tutti quelli i,quali pensano che i valori abbiano un'esistenza trascendente e non soltanto immanente e che quando nessuna coscienza li intuisce essi esistano pur sempre, della loro esistenza trascendente, in istato potenziale, o, come si potrebbe dire con frase- milliana, di «possibilità permanente ».
Tra i dogmatici della ragione assoluta e costoro, non ostante la divergenza, esiste un tratto comune essenziale. Abbiamo visto che, nella teoria dei primi, un’obbiettività, per essi creata dallo spirito, non potrebbe concepirsi se non nel caso che fosse dallo spirito creata in tutti uniformemente. Ma, allo stesso modo, nella teoria dei secondi, perchè ¡'obbiettività esistesse, almeno per noi, sarebbe necessario che fosse uniformemente appresa dalle coscienze di tutti. Occorrerebbe nel primo caso l’uniformità di costruzione, nel secondo l’uniformità di visione. La necessità dell’uniformità: ecco il tratto che accomuna le due teorie, e che in entrambe mancando entrambe le uccide.
I valori supremi, si dice, il bello, il buono, esistono là, nel mondo indipendente dalla coscienza, sono perciò quel che sono, ed hanno in tal senso un'esistenza
(1) Vom Ursprung d. sittlicher Erkenntnis (Lipsia, 1889).
(2) The Problems of Philosophy (Londra, special, cap. IX).
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obbiettiva. Ma se sono così obbiettivi, perchè tutti noi non li apprenderemmo allo stesso modo, a quella guisa che vediamo allo stesso modo un oggetto del mondo materiale? E se così non è, ov’è la base per dire che il valore che attraverso il prisma delle varie coscienze è diversamente appreso, che da talune anzi è appreso come un’apparenza illusoria, abbia un’esistenza una ed obbiettiva e quale questa sia? Il modo con cui è appreso da quale coscienza si dovrà dir che afferri la sua pretesa obbiettività? Se un oggetto del mondo materiale fosse visto diversamente sempre e da tutti, e eternamente si discutesse che cosa esso sia senza speranza d'accordo, e alcuni persistessero a sostenere che si tratta d’una fata Morgana, come fare a stabilire quale sia la sua obbiettività- e se esso ne abbia una?
Per arrivare all’affermazione che i valori hanno un'esistenza in sè, laggiù, nel mondo indipendente dalla coscienza, bisogna pur sempre partire dall’apprendimento che le nostre coscienze ne hanno, chè solo per tal mezzo sappiamo qualche cosa di essi. Ma le nostre coscienze li vedono sotto forme diverse e taluna dichiara di avvertire che quel che sembra di vedere in essi non è nulla di reale. Si scorgono come diversi, si scorgono anche 'come vacui fantasmi, e si pretende, partendo da tali nostre visioni discordi, incerte e negate, di poter stabilire che essi al di là di queste, nel loro misterioso e inaccessibile in sè, hanno però un’esistenza obbiettiva ed una. Ebbene: si compia pure, mediante un atto di fideismo illogico e senza base, questo vero salto in un buio assoluto: resta sempre, e ciò basta pel nostro argomento, che questa obbiettività d’ai di là ci delude, ci sfugge, non esiste per noi, perchè, rivestendosi per noi di spoglie diverse, non si lascia mai apprendere da noi come obbiettività o nell’obbiettivo suo in sè.
* * «
Ora, in tempi comuni, il grande desiderio di sentirci riposare in un porto sicuro ci induce facilmente a fabbricarci o ad accettare dei ragionamenti fluttuanti e capziosi per addormentare in noi l’aculeo di questa inquietante verità. Ma ecco la guerra; e nella guerra una illustrazione così vivida e una così violenta conferma di quanto abbiamo detto sin qui che non è più possibile girarla con frasi ben architettate ed ambigue.
Che cos'è infatti la guerra? È l’inevitabile prodotto e la necessaria espressione sanguinosa dell’urto di due opposti pronunciati della ragione, di due « intuizioni », di due « evidenze », ciascuna delle quali sente con incrollabile certezza di essere il prodotto della « sintesi a priori », sente di essere adeguata alla ragione, sente che non può lasciarsi negare o comprimere perchè ciò sarebbe conculcare la stessa ragione; ma sopra le quali « evidenze » per stabilire quale dicesse sia autenticamente il prodotto della « sintesi a priori » non v'è (come non vi può essere) alcun giudice. Le ragioni che sono infallibilmente certe fino al sangue ed alla morte delle proprie opposte intuizioni, sono più. La ragione non è dunque una. Essa non ci dà l’obbiet-
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tivo. Non esiste uno spirito assoluto; ma una miriade di spiriti diversi ugualmente assoluti. Ecco il significato della guerra.
E da ciò anzitutto deriva che gli sforzi pacifisti che si moltiplicano allo scoppiar d'una guerra sono inevitabilmente destinati a fallire. Perchè essi approdassero bisognerebbe che ad uscire da una situazione inevitabilmente creata dall’erigersi le une contro le altre delle ragioni diverse, soccorresse la possibilità che a tutte queste si sostituisse una anodina e astratta ragione assoluta. Ma ciò non avviene. La più recisa confutazione del pacifismo — Che per solito si contenta di rimanere nelle vaghe prò-posizioni di « pace con giustizia » o « pace ad ogni costo » — sarebbe quella di invitarlo a formulare un programma concreto di pace. Perchè balzerebbe immediatamente agli occhi di tutti che una tal pace non si può ottener senza guerra, che cioè ogni concreto programma di pace conculcando ciò che una delle parti contrastanti, o tutte, scorgono come ragione, significa guerra, giacché uno nnn può ammettere che sia conculcata la ragione, o ciò che scorge come tale, prima che in sua difesa abbia esaurito le sue forze, e solo cede quando, non già la sua visione della ragione, ma le forze per difenderla, gli siano venute meno. È, adunque, questo frammentarsi della ragione in tanti nuclei incompatibili che spinge le cose umane in un impasse da cui la ragione potrebbe trarle solo se fosse una, ma da cui, tale essa non essendo, può toglierle fuori solo alcunché che non è la ragione, cioè la forza bruta e cieca, la guerra (1);
(1) Nei rapporti privati per evitare la guerra si è escogitato il tribunale e si finirà forse per introdurlo anehe nei rapporti internazionali- Esso è però un puro espediente pratico e senza portata razionale. Sarebbe razionale solo se potesse avvenire che in colui che riceve in un litigio una sentenza contraria si sopprimesse la sua ragione e questa venisse sostituita dalla ragione del tribunale: cioè se lo si potesse fare intimamente convinto d'aver torto. Ma se egli potesse vedere con la sua ragione d’aver torto, se gli « evidenti » e « palmari » argomenti che lo hanno mosso al litigio potessero venire in lui sradicati e capovolti, allora egli avrebbe veduto anche prima di avere torto, e (tranne il caso di malafede) non avrebbe mossa la lite, ossia, insomma, non vi sarebbero litigi perchè non vi sarebbero dispareri sul diritto e sul torto. Il fatto che vi sono liti e tribunali (o, come non avrebbe voluto fra Cristoforo, sfide e portatori) ridimostra che le ragioni sono più. Ma esse rimangono più anche dopo la sentenza del tribunale. Questa non riesce a farle una. Colui che promuove un litigio vede con tutta « evidenza » il suo diritto così e così, e lo continua certo a scorgere in tal guisa anche dopo una sentenza contraria. Ognuno che perde una lite resta più convinto di prima che il diritto è da parte sua e che solo per insipienza, errore o ingiustizia il giudice pronunciò contro di lui. Le ragioni sono rimaste più', solo, per fini pratici, una forza, qui regolata, sopprime le estrinsecazioni d’una di esse ragioni. Guerra e decisione dei magistrati sono m fondo la stessa cosa. Si tratta sempre di sopprimere con la forza, là dei cannoni, qua dell’usciere, le asserzioni d'una ragione'. di qualcosa cioè che è ragione perchè continua irriducibilmente a pensarsi tale (precisamente come nel caso dello scienziato isolato). Nella guerra la. « ragione » soccombente sente di soggiacere a una non-ragione, alla mera forza bruta; la « ragione » vittoriosa identifica a sè questa forza e pensa che il «giudizio di Dio» sancì che il diritto è dalla sua parte. Ora, lo stesso avviene di fronte alle sentenze dei giudici. La « ragione » che ha guadagnato identifica a sè la sentenza e pensa che la « giustizia » ha parlato. Ma la « ragione » che ha perduto ravvisa la sentenza come alcunché d’eterogeneo a sè, cioè una non-ra'gione, mera forza, a cui, non-ostante la «ragione» è d’uopo soggiacere.
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Ma .questa pluralità della ragione ci si impone con formidabile potenza se cerchiamo di penetrare con profondità e spassionatezza di intuito ciascuna delle diverse « evidenze » interiori poste in giuoco e in luce dalla guerra, di immedesimarci in esse, di coglierle nel vivo lume che ciascuna dà di intima certezza riguardo a sè, e di irrefrenabile sdegno riguardo all’« errore », al « pregiudizio », all’« aberrazione » che conduce all’« evidenza » .contraria.
Pensiamo in primo luogo solo un momento alla terribile alternativa che si affacciò all’interno del nostro e di altri paesi: «guerra o neutralità? » Consideriamo con imparzalità e senza fanatismo queste due intuizioni. Da un lato, 1’« evidenza » che la guerra è delitto; che compie il più irreparabile dei mali, cioè la distruzione delie vite umane le quali soltanto offrono la base per la possibilità del conseguimento di qualsiasi bene; che è mostruoso strappare dalla sua consueta esistenza l’uomo ignaro o nolente, che forse nemmeno conosce o non condivide i fini per cui dovrà combattere e morire, e, con un atto di violenza e tirannide che ai futuri apparirà forse più abominevole di quel che a noi appaia la schiavitù del mondo antico, rinserrarlo in un immane congegno destinato a dar morte e a riceverla, e farlo diventare, egli libero spirito, in questo congegno micidiale ruota cieca e passiva; che (per usare le parole del Leopardi) « non è cosa tanto opposta alla natura, quanto che un individuo senza nè odio abituale nè ira attuale, con nessuno 0 quasi nessuno vantaggio od interesse suo, per comando di persona che certo non ama gran fatto e probabilmente non conosce, uccida, un suo simile che non l’ha offeso in nessuna manièra e'che, per dir poco, non conosce neppure e non è conosciuto dall ucciso » (1). Dall'altro lato, 1’« evidenza » che la patria è tutto; che essa vive eterna sopra le effimere vite individuali; che è dovere supremo e' suprema giustizia compiere la sua ricostituzione nazionale, quest’opera'grande in cui noi viviamo anche quando più non saremo, quest’esigenza della stirpe e della storia nostra, a cui hanno collaborato le generazioni dei tempi passati e a cui, come al raggiungimento d’ogni grande fine, è necessario far collaborare, occorrendo anche con la forza, la massa repellente od inconscia; 1’«evidenza» che un popolo non può moralmente esimersi dal cooperare al trionfo dèlia giustizia internazionale unendosi ad altri nell’opporsi alle aggressioni tendenti a soffocare sotto un’egemonia autoritaria e militare le libertà di tutte le nazioni; 1’ « evidenza » che, quindi, la neutralità sarebbe un’ignominia davanti a cui un fervido patriota, disperando del suo paese, si sentirebbe spinto, per lo sconforto supremo, quello che deriva dalla rovina morale della patria, a rifiutare la vita. — Penetriamo in queste due opposte « evidenze »; afferriamone sinceramente nella più calda pulsazione delle coscienze che le nutrono la loro innegabile uguale irresistibilità. Oseremmo forse ancora davanti ad esse asserire che questi due spiriti pugnanti potrebbero ridursi all’unità dell'unico spirito assoluto se solo uno dei due (e quale?) volesse spogliarsi
(1) Pensieri, voi. II, p. 252. E si veggano le profonde considerazioni che seguono e precedono.
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dei sofismi e delle deviazioni passionali che Io intorbidano? No: qui si tratta di due intuizioni ugualmente irriducibili, di due ordini di pronunciati eterogenei provenienti da due ragioni incommensurabili; si tratta di due ragioni opposte eppur valide del pari, nessuna delle quali può nè potrà per tutto il corso dei secoli costringere con l’appello alla «ragione» l’altra alla persuasione e al silenzio; si tratta, in una parola, che si rende qui tangibile l’essenziale e perpetua pluralità della ragione.
Ma l’assolutezza irriducibile delle diverse « sintesi a priori » dello spirito, cioè l’inconciliabile molteplicità degli spiriti, si fa manifesta in modo molto più impressionante e irrecusabile quando scoppia il conflitto tri popolo e popolo. Guardiamo all’attuale. La ragione in esso sta certo dalla nostra parte; noi ne siamo sicuri con la più perfetta luminosità, con tutta la più rigorosa evidenza cartesiana. Ma bisogna che ci leviamo dal capo l’erroneo-concetto dell’universalità kantiana, il concetto che l’imperativo categorico; la voce-del dovere, la verità morale si faccia udire, per quanto non seguita, nelle coscienze di tutti, anche (come Kant dice) del peggiore delinquente (i): il che, tradotto in tèrmini applicabili agli attuali avvenimenti, vorrebbe dire che i nostri nemici hanno la coscienza, almeno oscura, di essere nell’ingiustizia, sanno, per quanto vagamente, di volere l’utile, ma non il giusto. No: con quella medesima imperiosa e sfolgorante certezza con cui noi vediamo di essere nel giusto, appunto con quella stessa, milioni di coscienze s’accordano nel vedere che noi siamo nel torto e nel sapere che esse sono nel diritto quando combattono per sopraffare quello che noi sappiamo nostro diritto. Perchè l’idea di giustizia, come tutti gli imperativi morali, è in sè vuota e non acquista il suo significato che dalle determinazioni con cui l’articoliamo. La giustizia è il principio di nazionalità, si dice da un lato. La giustizia è il mantenimento e lo sviluppo d'uno Stato sulle sue basi tradizionali e storiche; è il fatto che uno Stato realizzi quella forma di vita politica superiore che sta (com’era l’opinione di Renouvier) nell’abituare razze diverse a convivere nella medesima orbita; è il diritto d’un popolo a possedere i pegni e le garanzie territoriali che lo assicurino dalle aggressioni, — si dice dall’altro lato. Sono due diverse « intuizióni » della giustizia, entrambe indimostrabili, entrambe indeducibili, ma ugualmente irriducibili e incapaci ciascuna di soverchiar l’altra e di sospingerla fuori del campo della ragione. Ognuna sente quindi che lasciarsi soffocare vorrebbe dire lasciar soffocare la ragione. Ognuna, anzi di lasciar calpestare se stessa, cioè la ragione, sente il dovere di lottare fino all’estremo delle sue forze. E scoppia così irresistibile la guerra, attestazione cruenta di questa lamentevole polverizzazione della ragione in tanti piccoli mondi chiusi e senza ponte di razionalità inconciliabili (2).
(1) Fondazione della Metafisica dei Costumi, traci. Vidari, pag. 95.
(2) Si avverta come la guerra renda più marcato persino l'apparire diverso della realtà materiale. Vi sono in essa battaglie ed altri avvenimenti materiali il cui andamento, il cui risultato, la cui portata appariscono sotto forma di realtà diversa agli esecutori di essi, ai contemporanei che li hanno quasi visti svolgersi o ne hanno avuta immediata notizia, e agli storici che ne parleranno nell’avvenire durante tutti i secoli.
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Questa appunto — cioè la determinazione inevitabilmente diversa dei principi morali uni solo nell’espressione meramente verbale, — è la ragione per cui (e ce lo dice ancora il caso della Russia d’oggi) un popolo che convoca una Costituente è sull'orlo della guerra civile. Finché un popolo rimane negli ordinamenti formati storicamente dal caso o dalla forza, o si limita a migliorarli empiricamente con piccoli ritocchi, le cose possono procedere tranquille. Ma fate che si presenti la questione dell’adozione di principi fondamentali, ed ecco sorgere infrenabile il conflitto delle « evidenze », dei pronunciati delle varie « sintesi a priori ». Ecco affacciarsi problemi come quello: « proprietà collettiva o proprietà individuale? », di cui invano si attende una pacifica e concorde risoluzione per opera d’una ragione pretesa comune, perchè ogni ragione, certa di essere sulla base della razionalità, li risolve diversamente. Tutti sanno d’aver ragione. In tutti parla l’evidenza della « sintesi a priori ». La minoranza, direte, si arrenderà. No, non può farlo, e facendolo opererebbe immoralmente e contro coscienza. Come lo scienziato che è solo nella sua Visione d'un vero, non s’arrende ai più che non lo scorgono, perchè sa che la sua visione, benché isolata, è la sola adeguata alla ragione, la sola che dovrebbe essere universale, la sola che possegga l’universalità di diritto; come egli, arrendendosi, mentirebbe alla ragione; così non si può arrendere la minoranza politica d’una Costituente, che vede con lume indefettibile (come vede, del resto, la maggioranza) d’aver ragione, e sa che solo per una disgraziata aberrazione dei più sono questa volta i meno a difendere la verità. Dall’urto delle « evidenze » la guerra finisce anche qui per scoppiare e per fornir la riprova che tutte sono irrecusabilmente «evidenze », che tutte sono indiscutibilmente ragione.
Ma se vogliamo toccar con mano .come la guerra metta in luce l’abisso che c’è tra le intuizioni morali della nostra ragione e che fa veramente di questa tante ragioni diverse, non abbiamo che da considerare, sforzandoci ad uno stretto senso di imparzialità, questo caso. Ripugna a dirsi. Ma con l’istessa intima certezza con cui no.i consideriamo Cesare Battisti un eroe e per cui saremmo spinti ad agire con vie di fatto contro chi ne ingiuriasse in nostra presenza la memoria, precisamente con questo stesso sincero impeto del cuore profondo migliaia di austriaci lo ritengono un traditore. Con l'istesso senso di sicuro dispregio con cui noi consideriamo Casement un ignobile che ha venduto la patria, centinaia di irlandesi lo venerano come il martire dell’indipendenza del suo paese; Casement e Battisti; materialmente considerato il fatto esteriore è il medesimo: le armi dirette contro lo Stato cui l’uomo legalmente appartiene. I rappresentanti della giustizia dei due paesi hanno equiparati e trattati alla medesima stregua i due casi. Ma quantunque dal fatto materialmente considerato e dalla sentenza della giustizia ufficiale non venga nessuna luce per una diversità di giudizio, pure la coscienza d’un popolo e la coscienza d’un altro contraddicono questa uniformità di sentenza. Senonchè la contraddicono incrociandosi. Per un popolo, il medesimo fatto materiale è, compiuto dall’uno, eroismo, dall’altro, tradimento. Per un altro popolo, sempre quel medesimo fatto, compiuto dal primo, tradimento.
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dal secondo, eroismo. Le due figure; equiparate dai giudici delle due nazioni, sono nel pensiero dei popoli l’incarnazione una del più sublime sacrificio, l’altra del più spregevole dei delitti. Ma la posizione di esse come espressione o del sacrificio o del delitto si intervérte all’occhio delle coscienze umane. Ecco l’assolutezza e l’unità della sintesi a priori, ecco l’obbiettività dei valori!
La guerra dissipa i sofismi. In tempi comuni ci lasciamo volentieri cullare da quello che l’universalità è solo universalità della forma o categoria, non del contenuto, e che basta la prima a fondare una vera e concreta universalità. Ci lasciamo convincere che l’universalità dello spirito etico consiste nel fatto che universale è l’imperativo categorico, il senso che alcunché deve essere fatto e alcunché tralasciato, quand’anche diverse siano le cose che secondo i tempi, i luoghi e gli uomini appariscano tali da dover essere fatte o tralasciate. Ci abbandoniamo volentieri alla comoda persuasione che si possa seriamente parlare d’un’universalità dei valori pel fatto che tutti pregiamo il sacrificio per la patria e aborriamo il tradimento, sebbene scorgiamo quello e questo in fatti diversi. Sarebbe come si dicesse che l'universalità del giudizio matematico consiste in ciò che per tutti gli uomini due numeri moltiplicati insieme dànno un prodotto, quando poi questo prodotto risultasse diverso per gli uni e per gli altri; o in ciò che per tutti 2 + 2 = 4, quando poi due lire più due lire risultassero per costui tre lire per colui cinque lire. Sarebbe come dire che veramente Carlo V e Francesco I avevano un volere comune o universale ai due, perchè volevano entrambi Milano, sebbene l’inventore del concetto di universale formale rilevi, proprio di fronte a questo esempio, che una siffatta armonia è semplicemente satirica, poiché in casi simili « il volere di tutti non ha un solo e medesimo oggetto, ma ognuno ha il suo » (1). Eppure un universale proprio identico a questo, un universale che è tale nel suono delle sillabe, ma in cui l’oggetto è diverso e ognuno ha il suo, è appunto quello che Kant erige in vero universale etico, e che noi allettati dalla dolcezza del dormiveglia filosofico ci induciamo facilmente ad accettare da lui. Ma un universale che non sia un giuoco verbale non si può dire consista nell’aver comune la parola, quando le cose che essa copre sono in irremissibile contrasto. E la guerra ci rompe il dormiveglia, perchè di fi onte ad essa noi sentiamo troppo bene che sostenere un simile concetto di universale sarebbe un’irrisione crudele, e che non è lecito asserire senza una cinica ironia che coloro i quali per una giustizia diversa si uccidono, è proprio per la medesima idea di giustizia che puntano sino alla morte le armi gli uni contro gli altri. Ci rompe il
(1) Crii, della Rag. Pral. (ediz. ital. Laterza, pag. 31). Di qui l'insussistenza della distinzione kantiana tra sentimento di felicità e imperativo morale, distinzione posta appunto in ciò che il primo sarebbe diretto ad un oggetto particolare a ciascuno, il secondo ad un fine universale. Invece si scorge dal come l’imperativo morale determinatamente si articola in ciascuno che anche riguardo ad esso, proprio del pari che per il sentimento di felicità, ognuno ha il suo oggetto particolare.
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dormiveglia, e ci ridesta all’estremamente semplice ma profonda e perenne verità che già Euripide poneva in bocca ad Eteocle.
Se bella e saggia una medesma cosa
Fosse al senso d’ogni uom, disputa o lite Mai tra' mortali non salda. Ma nulla Di simil nè d’uguale evvi per essi, Fuor che in parole, e tutto è vario in fatto (1).
♦ ♦ ♦
Troppo poco è quindi dire in presenza di questo significato d’una realtà aspra e senza veli quale ce la’denuda la guerra, che lo spirito è in sè scisso. Bisogna andar oltre e riconoscere che esistono più spiriti e non già uno assoluto. Il ciclopico monolite, sotto il cui aspetto ci veniva dai dogmatici dell’assolutismo rappresentato lo spirito, apparisce essere invece un turbine di asteroidi, un pulviscolo di mondi infinitesimali, che, se hanno qualche più semplice tratto comune, sono nei loro elementi più significanti fondamentalmente eterogenei e sicuri nella loro eterogeneità senza giudice di incorporar ciascuno la verità, di adeguare ciascuno la ragione.
E come il James opponeva all'universo dei razionalisti il suo radicalmente empiristico pluriverso, così noi dobbiamo — chè lo spettacolo del mondò attuale ineluttabilmente vi ci costringe — sostituire all’universalità della ragione quella sua pluriversalità di cui i conflitti e le guerre saran sempre l’insopprimibile prodotto e il testimonio ineccepibile, perchè testimonio che attesta con gli averi e con la felicità, con la vita e col sangue.
Giuseppe Rensi.
(1) Le Fenicie, trad. Belletti. Uno dei motivi tragici più potenti (che in questo dramma Euripide fa efficacissimamente valere) consiste appunto nel rappresentare il conflitto di due personaggi che hanno entrambi ragione, cioè le cui ragioni appariscono, non solo ad essi, ma ad ogni spettatore imparziale, provviste di una terribile isostenia. Eteocle e Polinice, i due fratelli che hanno entrambi irriducibilmente ragione, e perciò si uccidono a vicenda, possono probabilmente passare come il simbolo della umanità, specie del momento attuale. E allora Giocasta, che, nella sua bramosia di metter pace e di stabilire l’equilibrio nella bilancia delle ragioni, non riesce ad impedire la.tragedia, e a cui non resta che l’impotente disperazione suprema sulla strage compiuta, non sarebbe forse il simbolo del destino che in ogni tempo attende il pacifismo ?
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GIORGIO TYRRELL
E IL PROGRAMMA DI " NOVA ET VETERA '
(a proposito d’una leggenda)
X storia del modernismo, o piuttosto la storia dei modernisti più rappresentativi — perchè è ancor prematuro parlare d’una storia o visione sintetica del modernismo — affiora qua e là, slegatamente, in note, in episodi, in riesumazioni, in valutazioni, ora incomplete, talora passionate, spesso erronee.
Talvolta, però, anche dalla frammentarietà, erompe qualche sprazzo di luce che orienta, e, orientando, o corregge o modifica ipotesi già passate in tesi e tesi sostenute come assiomi, con
tenacia quasi dogmatica.
Tale importanza e valore ci sembra abbia, oggi, nell’oscuro dramma religioso del compianto padre Giorgio Tyrrell, l’accenno fatto dalla signorina M. D. Tetre sull'atteggiamento spirituale nel quale, nei suoi ultimi giorni, si sciolse e si allargò lo spirito del grande ed infelice modernista inglese.
A proposito della nota polemica Bonagel-Loisy, riflessa, fra noi, nel dibattito Ghignoni-Salvernini, sul valore della fede in rapporto al sacrificio supremo: il sacrificio della vita — la signorina Tetre, nel numero di febbraio della Free Catholic cita, dà uno scritto postumo (i) del Tyrrell, il brano seguente, riportato nel fascicolo di aprile, pag. 314, di Bilychnis:
«Notate che l’appello dell’evangelo di Cristo non era direttamente al* fuoco dell’inferno o ad un’altra vita. Esso era un invito a prepararsi per il regno di Dio, e per entrare nella gioia di questo regno; un appèllo a una grande causa super-individuale e non egoistica; l’appello a morire ad un sè più basso, particolare, psichico, per vivere in un io più pieno, universale e spirituale... Si può dire che l'essenza del cristianesimo è una vita di .sacrificio per l'ideale nella condotta, riconosciuto come ¿volontà di Dio, e quindi atto a dare tutta quella pace, valore
(1) Essays on Faith and Immortality.
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GIORGIO TYRRELL E IL PROGRAMMA DI «NOVA ET VETERA»
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e dignità di vita che viene dal senso di unione con il Padre, il quale opera per l’ideale in tutta la natura, e per la giustizia nell’uomo; quest'é il significato del Cristo crocifisso... Quindi, in luogo del fuoco, dell’inferno, io predicherei La miserabilità della vita individuale dentro e fuori, sopra e sotto, perchè gli uomini sospirassero e gridassero: Chi mi libererà?... Dopo tutto, c’è lo spirito in ciascun uomo e non la sola anima (psiche) e lo spirito deve rispondere alla sua pròpria esca ed allettamento con la stessa sicurezza con cui l’anima all’attrazione dei suoi propri obbietti psichici... Io sempre penso, quindi, che il Cristo crocifisso è il migliore e più sicuro evangelo per ridestare un mondo senza fede, o piuttosto un mondo che è cresciuto oltre gli stretti abiti della sua vecchia fede ».
Codesto postremo atteggiamento spirituale del Tyrrell, mentre viene a sfatare una vecchia leggenda, a chi, fra noi italiani, ha vissuto il fenomeno modernista nella sua ampiezza totale, dà la sensazione piacevole della risonanza.
♦ ♦ ♦
La leggenda largamente accreditata nei circoli modernisti del tempo — anche in quelli che, nel modernismo, occupavano posizioni molto avanzate — e, dispersi i gruppi dal ciclone vaticano, sopravvissuta in molti studiosi dei fenomeno religioso, è la pretesa disapprovazione del Tyrrell al programma di Nova et Vetera, il periodico che, nel modernismo, rappresentò ciò che nell’hegelianismo fu il marxismo, e ciò che nel marxismo è il sindacalismo: vogliamo dire l’ala estrema e più profondamente e radicalmente innovatrice e rivoluzionaria.
Il programma di Nova et Vetera — in quanto revisione e reinterpretazione, dai dati della critica storica e delle più recenti esperienze psicologiche dei valori religiosi in genere e del valore cristiano in ¡specie — è tutto nelle Lettere ài un prete modernista ad un amico e, più succintamente, in un lucido articolo di P. Baldini: La religione secondo il pragmatismo, pubblicato nel Rinnovamento di Milano. Anno II, fascicolo i°, 1908.
Il Baldini — partendo dal principio pragmatistico che tutto è buono e tutto è vero quello, ch’è utile: non già utile nel senso di un edonismo volgare, ma utile in un profondo significato psicologico, in quanto aiuta e moltiplica la capacità dell’individuo, arricchisce la sua vita intima ed esteriore, intensifica la sua operosità — nello studio in parola si pone il problema dell’attitudine religiosa: dell’attitudine profonda, fondamentale, attraverso le varietà delle sue esplicazioni transitorie: Quali elementi la costituiscono? Quali esigenze la creano? Quali finalità l’alimentano? E più profondamente ancora: A quale istinto psichico risponde il sentimento religioso, poiché l’uomo, nel prisma, pragmatistico, si decompone in un fascio di capacità in esercizio, in un insieme di tendenze, bramoso di trovare la propria soddisfazione in una sostanza che muove avidamente ed incessante mente al raggiungimento del pròprio equilibrio?
Assodato, alla luce del pragmatismo, che la fede, concepita come adesione intellettuale a un determinato formulario dogmatico, è, della religiosità, elemento secondàrio, derivato, convenzionale — superata l'incompiutezza degli elementi
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specifici dai quali, secondo il Caird, il Blondel, lo James, scaturisce il sentimento religioso, il Baldini afferma che «l’uomo è religioso quando le energie del suo essere si protendono verso un ideale superiore, migliore, al cui raggiungimento, che ha per lui i caratteri di un fatto improrogabile, non porta interessi egoistici, ma altruistici, o meglio collettivistici ». E, specificando più chiaramente, aggiunge che «la religiosità non consiste in una consapevolezza di rapporti metafisici fra l’ente finito e l’infinito, ma in una esaltazione di coscienza verso finalità sperate. La religione è, innanzi tutto e sopratutto, escatologia: attesa, cioè, impaziente di ultimi eventi ».’
L’orizzonte escatologico è la causa finale di ogni atteggiamento religioso; in questa categoria rientrano anche la religiosità cristiana primitiva e la predicazione di Gesù, della quale quella è il riverbero vivo e fecondo. Criticamente vagliato, il residuo vangelo di Gesù non è che escatologia ed escatologia collettiva.
« Oggi — continua il Baldini, esemplificando il concetto pragmatistico della, religiosità — la nostra psicologia è profondamente affine a quello di Gesù e dei suoi primi seguaci... Le aspettative sociali della democrazia inducono nel nostro spirito una corrente che è esclusivamente escatologica. Ci sfuggono i coefficienti segreti che operano al di là della superficie sociale, ma un’insopprimibile istinto ci induce a ritenere come caduche tante delle nostre forme di vita... Da questa ignoranza delle cause, combinata con la certezza dei loro effetti, si sprigiona una speranza di rinnovamento che è religiosa, perchè rivolta ad un bene che non ci tocca come individui... ed è anche cristiana, perchè ogni speranza religiosa non è che una ripercussione della speranza nobilissima e impareggiabile che alimentò l’anima del Cristo... La democrazia è oggi la vera forma della religiosità, perchè spera nell’elevamento dei più, nel loro successo imminente, e riposa nella certezza che un grande, per quanto anonimo, potere provvidenziale si nasconde nella collettività ».
L’idea centrale — in materia — del Tyrrell dell’ultima ora è sostanzialmente identica al programma di Nova et Velerà, sintetizzato nell'articolo del Baldini, e se un discrimine v’è fra quell’idea e lo studio dal quale abbiamo attinto il termine di confronto è un discrimine di grado soltanto, in quanto che l’ardito programma del periodico italiano accentuava maggiormente il lato collettivo dell’attitudine religiosa e dell’esperienza cristiana.
Or quest’identità intellettuale, o meglio questa equazione psicologica, ci dà il diritto di chiedere a che cosa si riduceva la pretesa avversione del Tyrrell al rivoluzionanismo religioso del periodico romano e del gruppo che vi faceva capo e del quale quello era portavoce.
Può darsi che il Tyrrell, anima di mìstico, emersa a poco a poco dallo stagno asfissiante e soffocante del tradizionalismo medioevalista, da principio abbia avuto, di fronte ai giovani del Nova et Velerà della titubanza e, sull’atteggiamento del periodico, abbia fatto qualche riserva.
Sarebbe spiegabilissimo, ma l’ansia delle stesse preoccupazioni non poteva che sospingere verso runica via di redenzione, e il seme degli stessi principi non poteva che germogliare lungo uno stesso solco per fiorire, poi, in uno stesso stelo.
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Lì^ constatazione di un’equivalenza psicologico-storica dall’identità di preoccupazioni e di principi, per un adoratore del sillogismo, sarebbe la soluzione di una questione che per noi è più vasta, più complessa, più profonda: la genesi dell’ultimo momento evolutivo del Tyrrell. La verità coincide e si converte con la vita, non con la logica, e il modo della verità non è sempre e solo discorsivo.
Noi non intendiamo risolvere ora questo problema, poiché la soluzione esulerebbe dai limiti che ci siamo imposti. Soltanto, ripiegandoci col pensiero ai giorni epici del modernismo, e, nella riflessione degli uomini e delle idee, richiamando in vita il ricordo delle relazioni che legavano il Tyrrell al gruppo di Nova et Voterà, affermiamo che il periodico romano non è stato, estraneo nella maturazione di quel senso religioso più ecumenico, e nell’inalveamento, verso più largo sbocco, di quel flusso spirituale.
Ferruccio Muttinelli.
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LA FEDE E L’IMMORTALITÀ
NEL “MORS ET VITA” DI ALFREDO LOISY’’’
u solo nel novembre 1909, che la mia conoscenza di vecchia data di Alfredo Loisy attraverso le sue opere esegetiche, critiche e polemiche, divenuta già conoscenza personale — ma solo dalla mia parte — nel corso di « Storia delle Religioni » da lui inaugurato quell'anno stesso al « Collège de France » in Parigi e da me fedelmente seguito, divenne conoscenza personale e cordiale bilaterale, in un colloquio che mi concesse nella sua dimora di Parigi nella « Rue des Ecoles ».
Fra i ricordi di carattere personale che conservo. più netti di quella conversazione, uno mi è rimasto impresso nella memoria tenacemente: sono le parole che qui trascrivo, come mi lusingo, testualmente:
« Si dice che tutte le vie conducono a Roma... Ma non è meno vero che tutte
le strade conducono via da Roma; ■ ' ' •
Date uno sguardo alla crisi contemporanea del Cattolicismo. Ìfarcel Hébeit si allontana da Roma per la via della filosofia, Albert Houtin per quella della critica storica, Murri per quella sociale, Tyrrell per quella della psicologia religiosa, ed io per quella della critica biblica. Che altro hanno tutti questi fuoresciti di comune, se non una ricerca sincera della verità che li ha fatti ostracizzare in un sol fascio da Roma? Al « Modernismo » si giunge da più parti: — in questo, la « Pascendi » ha ragione...!! »
Là « Pascendi » — la nota Enciclica in cui Pio X aveva condannato il Modernismo, nel settembre 1907, — èra infatti stata preceduta, per ciò che riguarda il Loisy, dalla condanna di cinque delle sue principali opere {La Religion d* Israel, L’Evangile et- VEgUse, Etudes évangéliques, Autour d’un petit livre, Le Quatriìme Evangile) per decreto dell’« Indice », il 7 marzo 1908, e seguita dalla sua scomunica e dal suo esodo dalla Chiesa.
Ma del Loisy si può dire ciò che di Temistocle scrisse Cornelio Nepote: « Quae contumelia non fregit eum, sed erexit ». Salito sulla cattedra più eccelsa
(*) Mors et Vita di Alfred Loisy, Paris. Emile Nourry, 92, Rue des Ecoles, 1916. Rivolgersi alla Libreria Ed. «Bilychnis», via Crescenzio 2, Roma.
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di « Storia delle Religioni » nei paesi latini, egli continuò là sua opera di critica ed investigazione, di demolizione e ricostruzione in faccia al gran pubblico senza pastoie nè bavaglio. E prodotto di questi anni, di libero lavoro furono fra altro, le opere: Jésus et la Tradition Evangélique; A propos d'Histoire des Religions; L'Evangile selon Marc; il volume autobiografico Choses passées, e dopo lo scoppio della guerra Guerre et Religion e ultimo, quello che qui presentiamo Mors et Vita.
Piccolo di mole, — appena 90 pagine in 120 — esso ha una singolare importanza, non solo per le qualità comuni a tutte le opere del Loisy, di lucidità, erudizione soda, ma risolta e quasi volatilizzata e diffusa nelle pure linee del suo pensiero, semplicità e robustezza dialettica che smonta le batterie avversarie quasi senza farci sentire i colpi: la caratteristica della piccola « brochure » è che in essa Loisy, l’esegeta, il critico, lo storico che ha preso tanta cura in tutti i suoi scritti di ripudiare ogni interpretazione teologica, etica, filosofica, dei suoi lavori scientifici, passa, sia pur cautamente, il Rubicone, e pure arrestandosi fin dai primi passi a domandarsi: « A quoi bon philosopher aujourd’hui sur le sens de la mort et sur le sens de la vie », non è meno di già su di un terreno filosofico, fin dal primo tentativo di evadere la seduzione della Sfinge con lo scongiuro: « N’est il pas trop évident que la vie et la mort des hommes ne comptent guère et qu’elles signifient peu de chose dans l’économie générale de l’univers? » E le ultime pagine del lavoro presentano accenni ed offrono spunti di una concezione etica della vita e della società, che sembrano «sponte sua» organizzarsi verso una concezione religiosa, se pure non voglia piuttosto dirsi che esprimono quella che sarà la concezione religiosa, superstite dal naufragio di tante fedi in un diluvio di sangue.
« Tutte le strade conducono via da Roma »: è vero; ma non è men vero che tutte le vie che salgono, su verso la luce e l’amore, conducono al Cielo (1).
« Fu un sogno dei Modernismo » — dice l'autore stesso verso il termine di questo lavoro, — «che il Cattolicismo divenuto più moderno si ammorbidisse in umanità ». E il Modernismo del Loisy si è esso stesso « assoupli en humanité ». La morte gli ha dischiuso un senso più vasto del significato e del valore della vita, gli ha rivelato Feticismo e F organicismo dell’individuo. La fede che si esprime in ogni sforzo della cellula umana, e diviene un testimone potente, irrefragabile, quando essa parla per bocca di una nazione, è andata, in cerca della sua formulazione intellettualistica — « fides quaerens intellectum » —: e il Loisy può suggellare le ultime linee di Mors et Vita con la proclamazione: « Noi ancora abbiamo una fede che non la cede alla loro (la vecchia fede) per rispettabilità, altezza e sincerità».
Non c’indugeremo a porre in rilievo i pregi letterari di Mors et Vita, che lo han fatto esaltare dal The Nation (13 gennaio) come «il più pregevole lavoro letterario — senza possibilità di confronto, — che la guerra abbia prodotto »,
(1) Recentemente apprendiamo che è imminente la pubblicazione di un libro del Loisy, che tratterà di proposito il problema religioso e sarà appunto intitolato: La. Religion. Di esso'ci occuperemo separatamente.
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E il giudizio continua: « L’importanza dell’argomento, l’elevatezza del pensiero, la finitezza tecnica dello stile, lo pongono nel novero dei libri classici. Bossuet* non ha maggior dignità, Voltaire più ironia. Pascal più profondità... Nessuno scrittore inglese ha discusso i grandi problemi della morte e della vita con un tono così elevato, con tale indipendenza., con un tatto sì fermo e delicato».
Noteremo soltanto, che il titolo del lavoro è preso dalla « Sequenza Pasquale » della liturgia cattolica, i cui versi »suonanti del cozzo da cui si sprigionò l'Universo — « Mors et Vita duello — Conflixere mirando », — ripetuti flebilmente e angosciosamente dai secoli cristiani di fronte al martirio del Golgota, sono ora apposti quale epigrafe alla tragedia mondiale fra il rombar dei cannoni, il cozzo delle nazioni e gli strazi di chi soffre e di chi muore.
Sembrano e sono considerazioni di puro buon senso, anziché speculazioni filosofiche, quelle che vengono proposte nelle prime pagine di Mors et Vita.
« Nè la vita nè la morte dipendono da noi: esse ci dominano, e le nostre speculazioni non possono modificarle nella sostanza... La maggior parte degli uomini vivono e muoiono senza molto fermarsi a meditare sulla vita e sulla morte. Noi siamo certamente al mondo non per sapere l'ultima parola della vita e' della morte, ma per vivere e per morire— Noi non abbiamo altro che il tempo e la euradi vivere, di adempire il nostro compito, di adattarci alle condizioni della nostra esistenza, e non già di riflettere lungamente sulla vita e sulla morte. Il piccolo numero di quelli Che avrebbero l’agio di abbandonarsi a-queste considerazioni non ne sono sempre capaci, ovvero non vi si sentono attratti e non se ne curano. Si direbbe che una tale filosofia non ha un’utilità essenziale per lo sviluppo, dell’umanità, e che le vedute sommarie di coloro che camminano nella vita senza preoccupazioni hanno più efficacia su di esso. Gli uomini vivono e muoiono perchè debbono vivere e morire: mentre attendono la morte essi si dànno a vivere, e battono il loro piccolo cammino senza troppo sapere nè troppo prevedere. Bisogna guardarsi, quindi, dall’esagerare là portata reale delle credenze e delle teorie diverse che si sono prodotte su questo tema della vita e della morte... ».
Un principio che ha, in realtà, governato resistenza degli uomini in tutte le società umane, è che gl’individui, allevati e sostenuti dal gruppo sociale al quale appartengono, debbono prodigarsi più o meno; o anche intieramente, alla collettività di cui sono membri. Questo principio, meno apparente ma più intimamente cosciente delle credenze d’oltre tomba, è ’stato fin dalle origini dell’umanità la legge suprema dei rapporti umani e perciò la vera legge della vita, di maniera che la nozione metafìsica della vita e della morte si presenta per riguardo a questa legge, come un complemento, un ornamento, un simbolo in cui l’intelligenza si riposa per soddisfare la sua propria inquietudine... Al presente, quelli che partecipano più attivamente alla mischia delle nazioni vivono e muoiono frettolosamente,’ senza discutere nè la vita nè la morte, difendendo la loro società, la loro patria, il loro ideale d’umanità, morendo perchè questa società, questa patria, questo ideale vivano, e facendo, per così dire, astrazione dalle loro opinioni e credenze sul significato filosofico, astratto, trascendente, della vita e della morte... ».
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Eppure, queste considerazioni ispirate dal puro buon senso sono di un valore decisivo. Esse giovano ad eliminare fin dal principio quella inversione di vedute, e quindi di valori, che sotto forma di soluzione del problema della morte pretende di pregiudicare il problema della vita, facendo di questo un corollario di quello, e disconoscendo le indicazioni nette, eloquenti, sicure della realtà, immanenti nella condotta umana.
Quando le intuizioni del sentimento, anziché esser considerate come aureola emanata da quelle stesse regioni profonde che costituiscono il mondo morale, vengono sostanziate per se stesse e trattate con gli agenti riduttivi e analitici della ragione, esse vengono a perdere consistenza e fecondità, e anziché servire a illuminare al viandante la via, finiscono per divenire esse stesse fuochi fatui, privi di alimento e di stabilità. Non è il sentimento nè la speculazione che possa rivelare all’uomo il valore della vita, ■ ma è Velica vissuta dell’individuo e della società che deve fornire all'alone luminoso una base, un punto d’inserzione, un’interpretazione, la « mise en valeur ». « Quando dopo la morte » — domanda negli Upa-nishads (Sedute secrete), che rispecchiano il più maturo pensiero Brahmanico, il discepolo Artabhàga all’illustre maèstro Gejnavalkya — « la voce dell’uomo si congiunge al fuoco, il suo alito al vento, il suo occhio al sole, i suoi capelli alle erbe, il suo sangue all’acqua... che avviene allora dell’uomo? » E Gejnavalkya gli risponde: « Dammi la mano, caro Artabhàga: noi lo vedremo insieme; ma questo non è affare per tutti ». « Poi essi sortirono », — continuano gli Upanishads — « e cominciarono a discutere: ma l’oggetto della loro discussione riguardava l’azione, cioè, come con una buona azione si diviene buoni, e con una cattiva, cattivi. Poi, Artabhàga si tacque ».
Anche il Loisy discute, e il suo atteggiamento di fronte alla morte è ispirato dall’etica sociale: ma a differenza di Gejnavalkya, egli si trova di fronte « un celebre romanziere, consumato nella psicologia dell’adulterio..., che dopo avere posto in caricatura e calunniato il Modernismo senza conoscerlo... pretende di spiegarci il senso della morte', come se esistesse in Francia qualcuno che abbisogna di tale spiegazione ». Nella polemica contro l’autore del « Senso della morte » (Paul Bourget) la quale occupa quasi la metà della brochure, sono oppugnate sopratutto, le pretese del romanziere di sfruttare l’eroismo dei figli della Francia, che morirono «sapendo bene per quali motivi andavano alla morte, non meno di quello che noi lo sappiamo », a beneficio di « vecchie credenze celebrate per interessi politici »: le orgogliose asserzioni « che una certa fede è la sola che permetta d’affrontare coraggiosamente la morte, come è la sola- che dia alla vita il suo equilibrio, la- sola che ci adatti alle esigenze morali e alle condizioni inesorabili della vita e della morte... « — fede che, il Loisy lo dimostra rivelandosi ben più profondo del pseudo-mistico romanziere in materia di teologia cattolica, è ben lontana, col suo immanentismo e pram-malismo, da quella fede cattolica di cui vorrebbe essere l’interprete. Opportunamente l’A. oppone al prammatismo del romanziere che ha fatto appello a William James, (Varietà dell’esperienza religiosa) il passo in cui quest’ultimo ‘ si rifiuta di postulare una vita futura individuale in nome della utilità di questa credenza.
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« Se si va al fondo della questione », il James scrive: « bisogna ben riconoscere che il mondo invisibile soprannaturale supposto dalla religione non ci garantirebbe se fosse reale, la permanenza di alcun fatto concreto » cioè di fatti quale la nostra esistenza individuale. « Questo mondo di potenze aventi l’incarico di vegliare sull’ideale ci garantisce solamente che l’elemento valore delle cose sarà eternamente salvaguardato. Ma chi di noi può essere certo che i fini ideali rappresentati dalla sua esistenza (personale) saranno per sèmpre indissolubilmente legati a questa esistenza? Se noi potessimo èssere certi che, durante tutta l’eternità qualcuno veglierà su di essi, noi potremmo forse rassegnarci a vedere la loro sorte affidata ad altre mani che alle nostre ». E notare la deliziosa ironia della finale: « Io comprendo nonpertanto l’ardente desiderio che l’anima prova di assistere essa stessa, alla loro realizzazione; e fra due tendenze così nobili e così vaghe, benché l’una possa sembrare un po’ meno disinteressata dell’altra, mi sembra che la ragione, da sola, non possa scegliere ».
Di fronte a W.‘ James che, «anziché sospendere alla fede nell’immortalità l’equilibrio della vita morale, insinua che l’interesse superiore dell’universo potrebbe non esigere affatto la nostra presenza eterna per aiutare il regno della giustizia », i moderni apologisti «ci dicono che la fede dell’immortalità nel senso cattolico — nel senso cioè in cui a loro piace d’intenderla — è la sola che possa mettere gli uomini in condizione da compiere i grandi doveri dell’ora presente, quando essi espongono la loro vita sui campi di battaglia. Questa fede che adatta gli uomini alla necessità attuale resterebbe così, dimostrata per se stessa ». E il romanziere teologo, spaventato all’idea di un sacrifizio ignorato, postula, « in assenza di testi-1 monii umani, qualcuno per riceverlo, uno spirito capace di registrare l’atto che l’uomo fa per l’uomo... senza di che... queste immolazioni sono come se non fossero mai esistite ». « Ragionamenti da membro dell-Accademia » — risponde Loisy — «il quale applica all’ordine morale universale il sistema dei premi per la letteratura e per la virtù... con la maestà serena che si addice a un giudice imparziale del bello e del bene... Ma in realtà, il vero testimonio reclamato per l’equilibrio della nostra vita è la nostra coscienza, ed è essa che in questo mondo mormora l’ideale del bene... Il sagrifizio di sé fatto per dovere e per devozione, per assoluto e disinteressato che possa sembrare porta in se stesso la sua ricompensa — una ricompensa che non può essere tolta — perchè esso realizza in'qualche modo l’ideale che esso persegue... Il soldato tipico di Paul Bourget offre la sua vita che gli sfugge... a Dio per la conversione e la salvezza eterna della donna Che ama. Quadro commovente, ma quanto povero d’ideale' In realtà, la morte... è la cessazione della vita e per se stessa non ha valore alcuno; il vero sagrifizio, la vera azione sacra è non nella morte, ma nella devozione con cui si espone la propria vita: questa sola è efficace e feconda. Ed è per la patria che il soldato si espone, si immola, consacra la sua vita. I credenti, che non sofisticano sulla loro fede, accettano la morte come espressióne della volontà di Dio che li richiama a sé, con un atto di rassegnazione, senza pretendere di fare l’oggetto di un sagrifizio solenne, di ciò che è inevitabile... In una guerra nazionale non si muore cèrto per un interesse personale...
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bensì per salvare la libertà della patria, delle sue tradizioni, l’avvenire del focolare e della patria stessa... Qui si adempiono a tutto rigóre le parole: « Chi perde la sua vita la acquista, e chi la acquista la perde», precisamente perchè qui si tratta di ben altro che del proprio interesse. L’ideale è perduto quando la vita è salvata per interesse alla propria conservazione personale: la vita perduta per l’ideale è salva quando l’ideale è salvò... ».
Come vedremo, il Loisy, pur rivendicando i titoli della morale autonoma contro le pretese eteronome del romanziere, non esclude la interpretazione religiosa, che servendosi come di un materiale di fatto della vita vissuta e sacrificata per ideali superiori e anteriori all’individuo, scorge nell’individuo stesso, nella società, nel-l’Universo, l'esecuzione di un piano trascendente, le coscienze e le volontà che passano, benché immanente al centro e focolare della vita umana e universale. Solo, egli rigetta le pretese dei credenti " al monopolio di saper ven vivere e ben morire pretesa-che implica in essi, o una ignoranza incredibile della storia del passato, o un disconoscimento ingiurioso della realtà del presente, o un atteggiamento da polemisti che si aggiudicano la posizione più vantaggiosa per le loro pretese ».
« Si ha anzitutto il diritto — osserva l’Autore, a cui siamo obbligati per la facoltà accordataci di riprodurre le pagine che ora citiamo, ed altre che ci sembrarono più tipiche ed interessanti — di domandarsi se la devozione al pubblico interesse è nata col Cristianesimo, e se l’antichità non ne abbia conosciuti nobilissimi esempi... Dapertutto e sempre gl’individui si sono esposti per la salvezza comune, e lo slancio con cui si sono sagrifieati non è, in generale, dipeso dall’importanza che per essi potevano avere le credenze d’oltre tomba... credenze, che neppure fra cristiani sono riusciti a rendere la morte praticamente desiderabile... Non bisogna dimenticare che, se si voglia credere al Vangelo, Gesù stesso nel Gethse-mani superò il timore della morte, non già con la riflessione della sua gloria futura, bensì con quello della volontà di Dio. L’immortalità è dunque un’aggiunta, e come un .incoraggiamento, punto indispensabile. Si può morire, e assai nobilmente, professando un’altra filosofia della morte ed anche senza alcuna filosofia dell’itf di là. Che la fede nell’immortalità sia stata e sia ancora un punto di appoggio per il credente, ciò è incontestabile..., ma un’altra fede può anche fornire- un altro punto d'appoggio... Le idee degli uomini sull’«?/ di là della morte sono state tanto variate e inconsistenti, quanto le loro idee sulla natura delle cose e del Mondo... L’uomo ha ricevuto la prima idea d’una sopravvivenza dell’individuo dopo morte, non per mezzo d’una vera esperienza o d’una rivelazione superiore, bensì dalla costituzione stessa e dalla debolezza della sua intelligenza, che non gli permetteva di concepire come non più esistenti i compagni della sua vita, nè di figurar se stesso al suo pensiero come destinato a cessare di esistere... Ciò che i morti divenissero lo si congetturava con timore, poiché si supponeva che fossero partiti loro malgrado, in virtù di qualche maleficio, e che perciò fossero irritati e pericolosi. I riti funebri altro non sono, originariamente, che precauzioni prese contro i morti acciò essi non facciano torto ai vivi, anziché cure rese a dei congiunti tutt’ora amati... Ma quanto agl’individui che durante la loro esistenza erano stati più forti degli
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altri, che erano stati capi o maghi investiti di poteri speciali, si suppóneva Che anche nell’al di là restassero più attivi. Trattandosi di ombre capaci più delle altre di fare del male o anche del, bene, esse dovevano essere trattate con riguardo. Fu una credenza assai diffusa, quella che i morti partecipassero all'opera della natura, al regime delle piogge, al rinnovamento della vegetazione, alla moltiplicazione degli animali e degli uomini stessi: e. così, essi furono associati agli spiriti della natura a un tal punto, che non è sempre facile per lo storico di distinguerli da quelli.... Essi non erano già uomini, di carne e d'ossa, poiché si sapeva che il loro corpo si era decomposto; dovevano dunque essere ombre leggiere, soffi fuggitivi, un non so che, che però era ben dessi.
La speculazione ellenica giudicò che si trattasse di spiriti, di anime, abitatrici temporanee d’un corpo materiale in cui esse erano come rinchiuse in attesa che la morte, ne le liberasse: la morte non toccava che il corpo, e queste figlie del cielo potevano sopravvivere nel mondo degli Dei. Quelle anime sopratutto avevano la certezza di entrare in questo mondo beato, le quali avevano conosciuto le iniziazioni redentrici istituite dalle divinità dei misteri, le antiche divinità della vegetazione e della primavera, che avendo conosciuta esse stesse la morte e avendola superata, volevano bene far partecipi i loro fedeli della loro felicità. Così, Dionisio e le Dee Eleusine garantivano la felicità eterna dei loro clienti: ed egualmente, Cibele, la grande Madre di Frigia, e l'egiziana Iside, ed il persiano Mitra. Di tale fede non si esigeva alcuna dimostrazione, ma si credeva soltanto per la consolazione che vi si provava.
Un tratto curioso e che milita in qualche modo contro l'impossibilità di adattarsi ai doveri della vita umana senza la credenza dell’immortalità, è questo, che gli antichi profeti d’Israele, e la Legge, stimando ingiurioso a Dio il culto dei morti, non dànno nel loro insegnamento il più piccolo posto- alla speranza eterna. Del resto, essi proclamano che Dio è giusto, rigorosamente giusto, e che egli non manca giammai di ricompensare in questo mondo i buoni e di punire i cattivi. Questa posizione religiosa non poteva essere mantenuta per poco che il popolo fosse infelice...: gl’israeliti corressero da sè la fede che i loro riformatori avevano voluto imporre.... e ispirandosi probabilmente alle credenze della Persia, proclamarono per bocca del pseudo-Daniele... che il regno di Dio doveva venire, e che’i giusti defunti risusciterebbero, e tornerebbero a dimorare sulla terra coi giusti viventi, indefinitamente.
Benché però il Regno di Dio non venga, non più che la risurrezione, non per questo si cessa di credervi, e nel periodo di crescente effervescenza che va dalla morte di Erode nell’anno quarto dell’Èva Volgare, alla grande rivolta e alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70, la speranza giudaica trova nuovi profeti, tra i quali emerge Gestì di Nazareth. Anch’egli annunzia Che il regno di Dio sta per arrivare, e che tutti gli uomini saranno giudicati e i giusti risusciteranno. Futuro sovrano nel regno degli eletti, egli è condannato da Pilato come pretendente al reame della Giudea; muore, e i suoi discepoli lo proclamano il primo dei risuscitati, in attesa che egli venga a presiedere la risurrezione generale e il regno di giustizia da lui pre-
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detto. I suoi seguaci fanno dei proseliti; nuovi missionari, fra cui Paolo di Tarso, comunicano le loro .speranze ai pagani non meno che agli Ebrei, presentando il Cristo morto e risuscitato come il mediatore della salvezza universale, come il Salvatore, per mezzo della fede nel quale e della comunione col quale, si entra nella beatitudine eterna. Così, la speranza giudaica s’incontra con la speranza dei misteri pagani, e a poco a poco le due speranze di compenetrano, in maniera che la speranza ellenica riempie l'intervallo lasciato vuoto dalla prospettiva — che. si allontana sempre , più — della speranza giudaica, con il suo giudizio universale e la sua risurrezione dei morti.. Il Cristianesimo era fondato. Esso ha vissuto su questa amalgama, della credenza profetica al regno di giustizia, della credenza giudaica alla risurrezione dei morti, della credenza ellenica all’immortalità dell’anima; e l’immaginazione dei secoli cristiani ha lavorato su questa sintesi. Si vede bene come questa fede si è formata, costruita, perpetuata, e a che cosa essa è servita. Ma basta ancora di riguardare la sua storia, per vedere che essa riposa su di un altro fondamento che quello dell'esperienza e dèlia ragione... Essa è come sospesa in aria, e sussiste solo per la presa che essa ha sui credenti, senza che, dal principio alla fine, dall’idea d’una. sopravvivenza che inquieta più che rassicurare gli antichi amici del defunto, come nei popoli non civilizzati, fino a quella d’una felicità divina in cui il Cristiano trova una speranza pei giorni di prova e una consolazione per la perdita di esseri cari, sia possibile allo storico, assistito dal psicologo e dal filosofo, di verificarvi altro che un sogno e un ideale elaborati tradizionalmente ».
Si può naturalmente osservare, che la inadeguatezza, od anche l’assenza di motivi di esperienza e di ragione della fede in una sopravvivenza, anziché x togliere forza probativa al motivo e al fondamento di questa fede, cioè al sentimento e all’intuizione, lo avvalora anzi: nello stesso modo con cui le intuizioni morali non perdono, anzi acquistano di nobiltà, per essere esse anteriori e indipendenti dalle giustificazioni utilitarie o edonistiche che si vogliono assegnare dei loro precètti. È anche ovvio notare che il fatto che la « fides quaerens intellectum » non sia ancora in questo caso riuscita —- e forse non sia destinata mai a riuscire — a trovare la sua formula intellettualistica, e che tutte le formule provvisorie fin qui assunte si rivelano inette e antropomorfiche, non depone contro la « naturalézza » della « fides » stessa: nello stesso modo con cui contro 1’« unità di piano e di costituzione » della famiglia umana non si potrebbe opporre la caducità e relatività di tutte le concezioni, che han tentato d’interpretare questo « datum primum » del sentimento umano che ci fa trattare i dolori e i piaceri altrui come se — entro celti limiti — fossero i nostri; e che poneva in bocca a Victor Hugo il «Connais tu pas. que tu es moi? » E specialmente di quel senso di vita che trascende la vita individuale nella direzione, a così dire, longitudinale, si può concedere con più ragione che per il senso trascendente la vita 'stessa nella direzione della latitudine, cioè per il senso della vita umana e universale, che esso’non potrà mai essere espresso adeguatamente in termini razionali di vita fenomenica individuale della quale è superazione, non più che la trascendenza della vita nel senso universale, altruistico, possa essere
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espressa in termini di egoismo. Le due trascendenze, la longitudinale al di là del tempo e la latitudinale al di là dello spazio, non sono in realtà che due forme della vita, fuse quasi nell’amore, in cui 1’« eterno » e 1’« indistinto » subentra al « tempo » e all’« io »: ed è forse la seconda trascendenza, come quella che è più facile ad essere sorpresa all’opera e a rivelarci le sue sorgenti, che può aiutarci ad illuminare la prima, che si chiude e si vive nell’estasi e nell’amore, ma non si coglie nell’analisi del pensiero.
Ma il Loisy, ancora una volta, non prende a parte questa fede nella sopravvivenza, che per contestare che sia la forn?a cattolica di questa credenza « ad adattare alla vita e al dovere, in modo che la sua verità pratica ne pregiudichi la verità assoluta »'. Egli protesta contro « l’ingiuria che si fa alla nostra stessa fede ed ai suoi martiri, quando si professa che i sudditi della Chiesa Cattolica Romana siano i soli che possano e sappiano affrontare la morte senza alcuna debolezza ». Se «la comune dei buoni cristiani hanno offerto e sagiificano la loro esistenza per la patria... pensando come gli altri di compiere, e compiendo di fatto, un dovere, c credendo inoltre di meritare con ciò il cielo promesso a colui che compie il suo dovere fino alla morte... non è punto però con un apparato di stoica disperazione che muoiono quei coraggiosi che non hanno ritenuto i simboli della vecchia fede. Essi hanno offerto e sagrificano come gli altri la loro esistenza per la-patria... e ciò facendo han pensato come gli altri di compiere un dovere, e l’hanno certamente compiuto; e credono inoltre che il loro sagpficio non sia punto inutile, ma che anzi contribuisca alla preservazione di ciò che essi hanno di più caro al mondo. E così la loro fine non è nè senza speranza nè senza consolazione. Talmente grandi da non dare tanta importanza alla loro personalità, essi si sono fatti un avvenire della causa che hanno servito fino alla morte. E quei che muoiono così con questa fiducia, e si addormentano nella fede del loro ideale umano, sono numerosi. Pace e onore alla loro tomba».
E Loisy non ha bisogno di andare a cercare lontano da sè dei campioni per illustrare questo tipo di uomini, « di cui taluni vorrebbero dire... che non avevano tfede ». Egli ci presenta tre nobili; eroiche figure di suoi giovani amici che « affrettarono la morte senza neppure pensarci e senza alcuna preoccupazione dell’al di là, adattati serenamente ad essa, senza ignorare ciò che la vita poteva prometter loro... ma sapendo bene ancora che soccombendo in questa guerra essi non perirebbero invano. Essi avevano una fède certamente, e profonda, potente e nòbile: una fede che era comune ai credenti, e che li rendeva tutti fratelli » (i).
(i) Citiamo al proposito le parole del Le Bon:
« Le culte de la patrie, la foi socialiste sont des religions au même titre que le buddhismo ou l’islamisme.
« Toutes ces croyances ont un élément commun: l’espérance, et un soutien nécessaire, la foi. Elles sont concrétisées dans un idéal divin, politique ou social.
« La plupart des hommes étant guidés par un idéal quelconque, on peut dire qu’ils sont tous plus ou moins religieux. Un peuple sans idéal et par conséquent sans croyances disparaîtrait vite de l’histoire».
p.r Gustave Le Bon, Premières conséquences de la Guerre (1916), p. 127.
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Innanzi all'ecatombe dei figli della Francia, l’A. respinge sdegnosamente le due categorie: quella dei pretesi credenti — più grande, piu bella e più santa — e quella dei pretesi increduli. « La Francia non ammetterà giammai questa distinzione umiliante. I nostri morti sono leggittimi come i vostri, come i vostri hanno diritto al rispetto. Onta e disprezzo a chi insinua che questi malpensanti non fossero capaci di ben morire. Buona è stata la loro morte e buono era il loro modo di pensare, pieno di fedeltà e di sagrifizio. L’antica credenza che per voi è un aiuto, per essi era un impaccio; e se l’han lasciata cadere, non l’han fatto certo per limitare così la loro devozione. Guardatevi dunque dall’insultare alla loro nobile immolazióne, ovvero.., l'insulto ricadrà su di voi insieme alla maledizione del paese».
Parole umane, oltreché patriottiche, che dovrebbero giungere agli orecchi di tutti coloro, « credenti » o « increduli », che anche in presenza « dell’atto supremo di amore dei propri amici », anziché chinare la fronte venerabonda, e sentirsi stringere il cuore in un sentimento assorbente di rispetto, di tenerezza e di gratitudine, non sanno far di meglio che sedere a scranna, ed erigersi giudici della ortodossia religiosa, morale, politica, di chi per l’ideale, quale esso gli apparve, diede nel miglior modo che a lui fu possibile, tutto se stesso.
Giovanni Pioli.
(Il seguilo c la fine al prossimo numero).
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LAMENNAIS E MAZZINI
« Votre tâche la voici, elle est grande : vous avez à former la famille universelle, à construire la Cité de Dieu, à réaliser progressivement, par un travail ininterrompu, son œuvre dans l'humanité ».
Lamennais, Là livre du peuple, Cap. III.
« La questione morale predomina oggimai- su tutte lé questioni, e la questione religiósa è indissolubilmente legata con essa. Bisogna scioglierla, o rinunziare a ogni missione Italiana nel mondo ».
G. Mazzini, La questione morale.
I.
Affinità e Discordanze.
« Le travail est partout, et la souffrance partout : seulement il y a des travaux stériles et des travaux féconds, des souffrances infâmes et des souffrances glorieuses».
Lamennais, Paroles d'un Croyant, Cap. XL.
« Il pensiero religioso «J la respirazione dell'Umanità: anima, vita, coscienza e manifestazione ad un tempo».
G. Mazzini, Fede e Avvenire.
Lamennais e Mazzini - Ambiente in cui sono nati-Sua influenza sul loro carattere-Tendenze - Affetti - Melanconie - Ardori - Sete di rinnovamento - Affinità e discordanze.
élicité Robert de La Mennais o Lamennais, com'egli volle chiamarsi dopo la sua ribellione alla Santa Sede, nacque a Saint-Malò nella Bretagna, il 19 giugno 1782; Giuseppe Mazzini il 22 giugno del 1805 a Genova.
Il primo aprì gli occhi alla luce mentre le opere di Rousseau e di Voltaire accendevano ed entusiasmavano gli spiriti della Francia e dell’Europa intera, quando un mondo stava per scomparire onde lasciare il posto ad un altro, che po
neva come imperativo categorico il diritto delle genti, ed innalzava l’individuo al disopra d ogni casta e d’ogni gerarchia. Crebbe fra il crollo d’un regno e gli urti formidabili della monarchia con la repubblica, in un’orgia di libertà del popolo francese, frattanto che atti d’eroismo sublime, di viltà, di grandezza, di miseria e di ferocia s'avvicendavano come si susseguono le nubi in un cielo tempestoso (1).
(1) Spuller, Lamennais, études d’histoire politique et religieuse. Paris, 1892; Abbé Charle Boulard, Lamennais, sa vie et ses doctrines. Due Volumi. Vol. I (La renaissance et l’ultramontanisme. 1782-1828). Paris, 1905.
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.Mazzini nacque in Italia quando Napoleone I correva per il mondo e lo empieva del suo nome e delle sue gesta. Un desiderio di unione fra le diverse regioni italiane s’affermava giorno per giorno, ed i migliori uomini della nostra patria, al seguito del grande Corso, imparavano quanto è debole un trono e quanto può una forte volontà sui popoli, quando è ben diretta. L’esilio di Napoleone I, il mercato che si fece della libertà genovese, le tendenze repubblicane e democratiche che s’accentuavano sempre più nella città ligure ed i primi aneliti di riscossa, di risorgiménto di tutto un popolo furono i fatti, i concetti, le aspirazioni, i sogni che si svolsero e presero forma nella fanciullezza di Mazzini ed influirono straordinariamente sui suo carattere e sulle sue tendenze (i).
Lamennais era nato in una patria unita e forte da secoli, libera, pronta alla ‘ lotta e conservante ancora, a dispetto di tutte le evoluzioni buone e cattive sopportate attraverso i tempi, le energie primitive ed un lievito di vita possentissimo, Mazzini era italiano. E se anche nelle epoche di rivoluzioni intestine e di servaggio la nostra patria aveva saputo dare dei geni unici al mondo, ed era stata fonte di luce e di bellezza a tutte le nazioni, non è men vero Che in quei primi anni del xix secolo sentiva gravare su di sé la tirannia straniera, ed aspettava da un esiguo numero di nobili ed ardimentosi uomini un risveglio a nuova vita e la libertà.
Tutti due, il francese e l’italiano, erano cresciuti in riva al mare. Le sonore onde dell’Oceano, destavano nella sensibile anima di Lamennais, come già un tempo in quella sognatrice di Chateaubriand, un’eco profonda. L’immensità gli parlava di Dio, e pare che abbia sentito la potenza della misteriosa forza che ci dirige, fin dai primi anni giovanili, osservando una tempesta terribile, che sconvolgeva terra e cielo, e faceva sbattere con tremendo fragore le onde contro il porto della sua città (2).
Mazzini a Genova vedeva una natura ridente. Il suo mare era azzurro, dolce l’ària e profumata di fiori. Ma anche a lui quell’immensità in eterno moto, il mistero che pare sprigionarsi da quell’elemento continuamente variabile, quella solitu-dinqgrandiosa, parlavano con ritmo impressionante del Creatore. Al Salmista i cieli narravano le glorie di Dio, a Lamennais e Mazzini il mare cantava con. poderoso anelito l’immensità e la bellezza divina. E mentre il genovese poteva confidare la sua sete di libertà, le sue speranze, i suoi desideri alla madre carissima, alle sorelle, ed avere dal padre consigli ed aiuto, infiorando la vita battagliera, grande ed infelice di soavi gioie, il francese orfano di madre, fin dai suoi primi anni, solitario e melanconico per natura, abbandonato a sé, senza dolci affetti che mol(1) Bolton King, Mazzini. Firenze, ed. Barbèra, 1903; J. W. Mario, Della vita di Giuseppe Mazzini. Milano, 1886; Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni, romanzo Trad, di G. Rigatini. Milano, Trevisini, 1884; Aurelio Saffi, Proemi a -Scritti edili ed inediti di G. Mazzini in 18 volumi. Milano e Roma, 1881-1891; F. Momigliano, Giuseppe Mazzini e le idealità moderne. Libreria Edit. Lombarda, Milano, 1905; Do-naver. Vita di G. Mazzini. Firenze, 1903.
(2) A. Roussel, Lamennais d'après des documents inèdite. Due volumi. Rennes, 1892.
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cessero quel suo animo pronto alle ribellioni ed agli sconforti, ora ardente di fede ed ora torturato dal dubbio, in continua lotta interiore, in costante aspirazione all’infinito, sentì la miseria dell’umanità come tutti i riformatori e gli apostoli e fu l’esponente più perfetto del suo secolo, che tendeva con affanno, con angoscia al rinnovamento di un mondo, ascendente con lentezza la difficile scala del progresso (i).
Luisa Giulio Benso.
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(i) Pierre Lasserre, Le Romantisme français, essai sur la révolution dans les sentiments et les idées au XIX siècle. Paris. 1907.
Nei prossimi fascicoli pubblicheremo: Cap. II. Lamennais. - Cap. III. Mazzini. -Cap. IV. Epistolario (Lamennais-Mazzini). - Cap. V. I due profeti.
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Alla Sig.* Elena Bellicni.
tasera, mia buona amica, dicevate ch’io sono uno scettico.
Non mi sono difeso perchè, lì per lì, non ho capito bene se avevate ragione. E vi rispondo adesso, con la penna in mano, un’ora dopo mezzanotte. Accenno all’ora ed al modo per esattézza storica, non per dare un colore romantico a quanto scriverò. Tutt’altro: non c’è nè la lucernetta singhiozzante, nè la soffitta dell’artista, nè la pipa, unica compagna del povero ‘ solitario. Vi scrivo sopra una comoda poltrona, davanti a una
bella scrivania, con la penna stilografica, sotto la lampadina elettrica.
Scettico —- nel linguaggio comune.— è ehi respinge ogni fede: io invece credo (o almeno ho creduto) tìn po’ in ciascuna fede. Coloro che parlano sempre di politica chiamano scettici i senza-partito. Io ho guardato con simpatia ad ogni partito politico, ma, per il fastidio di sentirmi dar sempre ragione, leggevo avidamente soltanto i giornali di parte opposta alla mia: quando accarezzavo gl’ideali socialisti, leggevo i giornali clericali e allorché m’accostavo ai così detti partiti dell’ordine andavo a caccia di giornali sovversivi.
Mi fu detto, quand’ero molto giovine, ch’ero uno scettico: la parola che oggi suona biasimo, a quei tempi pareva nascondere un segno di superiorità intellettuale: la lasciai dire e me ne compiacqui.
Ma se mi fosse attribuita a ragione, non seppi e non so.
Risalendo ai più- lontani anni di cui abbia memoria, trovo una sola passióne che veramente si sia impadronita di me: quella dell’arte o, per esser più preciso, della poesia.
Un vecchio saggio ch’io conobbi, quando sentiva parlare di due che s’eràno sposati giovanissimi, soleva osservare: « Male! C’è troppo tempo, così, per pentirsene! » • Altrettanto può dirsi di ogni altra cosa. Io fui un fanciullo precoce: e i miei genitori si compiacquero vedendo che da bambino cercavo libri superiori alla mia età, che a scuola ero il più giovane dei miei compagni, che, per quanto leggevo, sapevo e dicevo, mi si potevano dare tre o quattro anni di più. Strane allucinazioni dell’amore! Godevano, quelle due care e sante persone, vedendomi più vicino alla morte (alia morte dell’anima, almeno) che non sarebbe stato da attendersi.
Così il fuoco dell’arte si accese — e si spense — in me, più presto che di solito non avvenga.
Leggevo e scrivevo: e avevo l’ingenua fede che quanto più si legge tanto meglio si scriva. In età più matura ho deplorato di non aver letto tanto da diventare un dotto, nè tanto poco da serbar pura e fresca l’originalità del mio pensiero.
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Non mi pareva che mettesse conto di vivere, se dalla vita non si ritraeva qualcòsa in noi per lasciarne memoria dopo di noi. Anzi, quando sentivo parlar di una «missione» sulla terra, io non sapevo vederne o capirne altra. Consideravo l’universo come un divino spettacolo messo dinanzi alla nostra mente ed ai nostri cinque sensi stupiti: e sentivo le parole che furon dette da Dio ai profeti e che Ma-telda mormorò a Dante: « Fa’ che tu scriva! ».
Ma poiché non mi avevano insegnato, da piccolo, neppur le prime linee del disegno nè conoscevo una nota di musica, istintivamente il mio senso dell’arte si diresse e si esaurì nella poesia. Con questa parola intendo, voi avete capito, anche gli scritti che, per ragioni esteriori, i retori chiamano prosastici: certe distinzioni pedantésche, per fortuna, mi furono insegnate a scuola quando già da me ne avevo capito l’assurdità.
Dicono che la lima è lo strumento dell’età matura. Non so: a me pare che ogni giovane, com’è più rigido e puritano prima che la conoscenza diretta del male l’abbia viziato, così metta maggior serietà e severità nell’opera d’arte prima d’aver saputo i trucchi e le furberie dei mestieranti. Quanto a me, ricordo di aver passato più di una notte insonne, da giovinetto, tormentato da un’immagine che non sapevo chiuder nel verso, dal giro di un periodo che mi sembrava difettoso, da una rima che non voleva venirmi alla mente o che era troppo cercata o troppo comune.
Quanti scrittori abbiano veramente amato l’arte loro durante una lunga vita non so: per molti, certo, ai primi anni di desiderio febbrile, di tremori, di sgomento e d’amore, succedette un periodo assai più lungo di soddisfazione tranquilla, di conquista sicura, in cui adopravano con mano disinvolta i ferri del mestiere, con la certezza che all’ammirazione del volgo avrebbe fatto eco la loro' propria intima soddisfazione.
Ma questo lavoro somiglia all'opera dell’artista come l’amore del Petrarca ha qualche affinità con la carezza che un sessantenne, in papalina e pantofole, striscia sul viso della rubiconda servotta.
La vera passione è breve: e per me che avevo cominciato troppo 'presto, troppo presto finì. Ero troppo intelligente per amare la lode degli sciocchi, ma non abbastanza per meritare la mia: e quando mi accorsi che, nonostante la buona volontà e lo sforzo sincero, io sarei riuscito solamente un esperto imitatore dei grandi, oppure « un poeta elegante », non ne volli più sapere e rinunziai per sempre.
È provvidenziale che quando muore una fiamma, già in noi sia accesa la favilla che ne produrrà un'altra: se no, di che si alimenterebbe l’anima nostra? Tante letture, anche disordinate ed a sbalzi, anzi appunto perchè disordinate ed a sbalzi, fecero nascere in me il desiderio di classificar le cognizioni acquistate, di veder meglio la vita di ciascun autore, di confrontare scrittori ed opere, di studiare e comporre la storia della letteratura. Perciò lessi, durante alcuni mesi, le dieci o dodici opere fondamentali intorno alla nostra storia letteraria: e non trascurai parecchie monografie minori, scelte tra le più significative. Poi cercai (chiunque avrebbe fatto il cammino inverso) un grosso manuale storico-bibliografico: l’unico che esista.
Studiando e postillando quel manuale, provai una strana impressione. I due professori che l’avevano compilato avevano tenuto conto, con meticolosa diligenza, di ogni scritto anche minimo, intorno agli autori studiati. Tanta ricchezza bibliografica
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mi sbalordì, ma produsse anche in me un grande scoraggiamento. Se, per esempio, leggevo la biografia dell’Alfieri, mi saltava in mente che potevo studiarne a parte le commedie: ed ecco indicato in parentesi un lavoro sulle commedie. Avrei potuto vedere quali elementi l'autore traesse dalla tragedia greca: altra parentesi e l’indicazione di uno scritto su questo argomento. Mio Dio! Un aneddoto, allora, circa la contessa D’Albany, circa l’amico-nemico Fabre o magari il povero.servo Elia: èccoti articoli, note e appunti sul Fabre, sulla contessa, su Elia e sulla reticella verde che l’Alfieri portava da bimbo e intorno al candeliere che scaraventò al servitore e della parrucca e del vestito e dei cavalli e dei cani. Un subisso!
Certo gli autori del manuale, oltre ad aver fatto opera coscienziosa, credettero di avere, con quella ricca esposizione di titoli, incitato i giovani allo studio e all’amore della ricerca.
A me invece accadde proprio il contrario. Ebbi l'impressione che ormai tutto fosse stato fatto: e la tentazione di aggiungere un filolino ad una trama già tessuta da altri non mi lusingò. 0 almeno non mi lusingò abbastanza, perchè feci, sì, qualche articolo di storia letteraria, ma le grandissime lodi che n’ebbi dai maestri, mentre io per primo sentivo la vacuità e la poca utilità di quelle chiacchiere erudite, mi disgustò quasi subito.
Amica mia, pensate che io mi sia disperato vedendo svanire anche quest'altra illusione?
No: in quella meravigliosa età che va dai venti ai trent’anni non c'è posto per la disperazione.
Scrissi un libro amaro in cui deridevo i miei sforzi, il mio continuo bisogno di lavorare. Avevo cercato l’arte, ma tutto era stato già fatto dai grandi, m’ero rivolto all'erudizione, ma tutti i posti erano già stati occupati dai medioeri.
Il libro amaro, in cui mi sfogavo, piacque: fece ridere e sorridere. Gazzettieri ed amici mi dissero umorista. Di questa parola, che denota gli artisti falliti, finsi di compiacermi. E poiché ciascuno di noi non è tanto quello che è quanto quel che gli altri dicono che sia, poiché ero stato battezzato umorista presi quell'atteggiamento che si suol definire umoristico: a furia di far tacere in me la commozione, di schernire la pietà, di non ridere per far ridere, ci riuscii: e scrissi altre cosette che confermarono il mio nome di umorista.
Voi sapete che l’umorismo fu definito in cento modi. Naturale. Almeno cento sono le gradazioni che’ corrono tra il riso e il pianto e pochi, pochi, pochi son coloro che sanno scorgere, con pietà ironica, il brillìo di un sorriso .tra le lagrime. I più non intendono che il riso o magari la risata, il lazzo, la smorfia. Perciò ebbi la soddisfazione, dopo di aver acquistato quella tal fama, che non ci fu barzelletta, facezia, motto di spirito, sguaiataggine e stupidaggine circolante per le bocche degli scioperati, in cui non si vedesse la mia marca di fabbrica. Ed erano amici, erano ammiratori quelli che, addirittura, udendo raccontare una cretineria la chiamavano genericamente col cognome mio a cui agg ungevano, all’italiana, il suffisso aia. Tanto ammiratori ed amici, che talora si vantavano d’averla còlta loro, per la prima volta, sulle mie labbra innocenti.
Gente che non mi conosceva, appena le ero presentato mi squadrava in modo curioso, guardandomi la bocca come se ne dovesse esplodere subito un frizzò.
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guardanaomi gli occhi per iscorgervi un lampo di malizia, guardandomi la fronte ove con vergogna mi pareva di portare il rosso berretto a sonagli del giullare. Mi dimostravo serio, triste, accigliato: e qualcuno più fino osservava che quella era la vera fisonomia dell'umorista.: Gandolin non rideva mai, Richel aveva lo aspetto buio, Mark Twain era'feroce.
I nemici (cioè gl'invidiosi) si sfogavano a darmi del plagiario. Gridavano che non l'avevo inventata io, quando qualche zelante ammiratore spippolava una burletta, res nuUius tolta dall’enciclopedia sconfinata dell’imbecillità umana.
Io non soffrivo molto di tali lodi e di tali accuse. Invece mi tormentavo per la paura di diventar plagiario veramente; Se cercate intorno a voi, in una stanza, gli oggetti coi quali potrete fare il solletico ad una persona, dopo aver tolto un foglio, un pezzetto di stoffa, una piuma, presto non troverete più altro. Pochi sono gli strumenti che suscitano il riso negli uomini: pochi e in gran parte già logori; per ehi non si contenti di rinfagottare, in vestiti nuovi, personaggi creati da altri, o di girare gli altrui vetri colorati in un nuovo caleidoscopio, la prova è ardua: e insuperabile, forse.
Almeno per me, insuperabile; e l'abbandonai. Facendo il bilancio, allora, mi accorsi d’aver perduto qualcosa. Avevo perduto, irreparabilmente, la stima delle « persone serie »: e questo fu l’unico vero, soddisfacente guadagno della mia vita.
Inoltre, a furia di studiare il meccanismo del riso, il balocco smagliante, ma leggero e fragile mi s'era rotto fra le dita: e non agiva più. Poco prima, lo sforzo di ricacciar dentro le lagrime dinanzi ad uno spettacolo, reale o d'arte, che suscitasse la mia commozione, mi aveva disseccato, a poco a poco, la fonte del pianto. Così non sapevo più nè piangere nè ridere.
Ebbi l'illusione, un momento, che fosse questo il segno sicuro della mia saggezza. Anche i venerandi- personaggi che abitavano il nobile castello dantesco « sembianza avevan nè trista nè lieta »! Presto m’accorsi, però, che tra me e quei savi c’era, sì, una somiglianza (quando un paragone balza davanti alla mente, una somiglianza c'è sempre perchè i paragoni li suggerisce Dio), ma di tutt’altra specie: lóro ed io eravamo nel limbo.
In quel breve periodo in cui ebbi la presunzione di Credermi saggio, volli rifugiare, me e la mia saggezza, nella filosofia.
Perchè qui potete credermi, amica mia: è una delle poche esperienze sicure che ho acquistato: non pensate mai che i filosofi (come indicherebbe il caro e mite lor titolo di amatori della sapienza) siano uomini assetati di luce che vadano, per la selva degli errori, guidati da un barlume fioco e lontano. No, no, no. Essi sono, a priori, certissimi di saperla più lunga di tutti; e lavorano, lavorano, lavorano per aguzzar le punte dei loro sofismi, per affilar le lame della dialettica, per tessere reti di paralogismi sorretti da parole difficili e frasi bistorte in modo che l’avversario c'incàppi dentro senz’avvedersene, col becco ancora aperto ad un cavillo birbesco. Che volete? Anche nel campo della filosofia la concorrenza è formidabile e bisogna uccider l’avversario od èssere ammazzato da lui.
Mi fu difficile orientarmi, dapprima, perchè mentre un artista, un giureconsulto, un medico sinanche, può qualche volta riconoscere i meriti di un collega
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(tutt’al più si affretterà a deplorare che quei meriti siano offuscati da questo o quel mancamento) non c’è filosofo che non giudichi francamente « cretini » i propri compagni di mestiere a meno che non sieno morti e sepolti. Non esagero. Parlate a quattr’occhi coi due maggiori filosofi che abbia l’Italia e sentite come giudicano i dieci o dodici cattedranti universitari: e poi chiedete ai dieci o dodici il giudizio intorno a quei due.
La sentenza del volgo, dopo ciò, sarebbe sbrigativa e tranquilla: gli uni (i due), cretini a maggioranza di voti: gli altri, cretini con due soli voti, ma voti di maestri. Badate che la definizione di savi ai sette antichi dell’Ellade fu attribuita con un procedimento simile, quando venne su dall'onda il tripode d’oro.
Io però non potei credere — nè credo — alla stupidità di tutti quei signori. Pensate. In un tempo in cui è quanto mai sfrenata la cupidigia di possedere e godere ed aver fama e autorità c quattrini, ho conosciuto un uomo pigro che non ha mai fremuto al suono di un verso, che non ha mai analizzato un fiore, che non sa dirvi per qual forza si spinga avanti la locomotiva che lo porta a Roma a giudicar nei concorsi universitari. Ebbene, quest’uomo che non ha mai guardato, amato, capito un altro uomo od una cosa, ha avuto l’arte, empiendo sette od ottocento pagine di sole parole (povere parole grecizzanti o teutonizzate, torbide, opache) di acchiappare una cattedra, di imporre quel paralume ai cervelli dei giovani, di intascare un lauto stipendio e di chiamarsi collega — universitas alma ma ter — dei maggiori scienziati di tutto il mondo. Sentite: se cretini són questi, io domando dove stanno di casa i furbi.
Uomini d’ingegno, dunque, e opere d’ingegno le loro. Ma per me che chiedevo un po’ di pace, un terreno solido su cui posare il piede, una parola che mi fosse di guida, di conforto, di luce non c'era nulla. Gli scritti dei filosofi contemporanei, prevalentemente polemici, rivolti più a combattere le persone che a far trionfare le idee, mi stancarono presto. E lessi i filosofi maggiori nei quali trovai però, troppo spesso, il linguaggio specioso di chi offre, col proprio sistema, un farmaco infallibile e superiore ad ogni altro. C'erano, sì, i timidi, gli onesti, g i umili, i quali rappresentavano la filosofia come un'ardente, assidua, perenne ricerca di verità. Ardènte, assidua, perenne, ma non progressiva. Essi dal proprio intimo lavorìo avevano avuto la gioia di dimenticare la vita: e questa gioia proponevano a me che leggevo, come il fumatore d’oppio offre, con mànp tremante, al vicino, la pipa dove ha già sorbito una dose di veleno sufficiente per una prima follia. Grato dell’offerta, non accettai. Tutta la loro vita mi era testimone che quei galantuomini, mondi d’ogni ciurmeria, assolutamente incapaci di abbindolare il prossimo, ingannavano di continuo sè stessi con la teoria che la verità è in divenire perpetua, e che bisogna ripensare e riconquistare gli altrui pensamenti e conquiste.
Lasciamo stare la psicologia (i filosofi la ripudiano) e la logica, inte aiatura e sostegno di qualsiasi cognizione, non della sola dottrina filosofica. Con quale ansietà io ricercai le due grandi scienze del Bello e del Buono! Ebbene, amica a cui svelo l’animo senza vergogna, sarà stata colpa de'la mia intelligenza troppo debole, ma mi è sembrato che i maggiori studiosi di estetica ammettessero, come conclusioni delle loro ricerche che «il giudizio della folla ripetuto attraverso i secoli ha un grandissimo valore», che, m fondo, «il giudizio estetico non può
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prescindere da elementi soggettivi », che « l'artista ha raggiunto la compiutezza dell’arte quando l'opera risponde all'immagine ch’egli ne aveva prima intraveduta con la fantasia commossa».
Tutto qui? Sì, o almeno io non ho visto altro.
E i solenni legislatori della verità morale mi hanno insegnato: «buona è ogni azione che dà un senso di gioia a ehi la compie e a chi n’ode il racconto »: «noi dobbiamo, all'infuori di ogni speranza di premio in terra od altrove, impadronirci ed appagarci di queTintima soddisfazione ch’è la prova del bene compiuto »: «questo concetto del bene, pur attraverso erróri, inganni, false apparenze, si ritrova presso tutti i popoli, in tutti i tempi ».•
Notate il doveroso omaggio che gli* esteti e i moralisti tributano alla saggezza popolare. Non potrebbero far diversamente: in quattro o cinque proverbi, dei più vecchi, dei più triti, di quelli che ormai si pronunziano smozzicati perchè ciascuno ne sa la seconda parte, trovate il sugo delle proposizioni audacissime enunciate sopra.
Questo ho imparato dagli esteti e dai moralisti più seri. Gli altri, per smania d’originalità, mi hanno messo dinanzi tali arzigogoli strambi che io, chiuso il • ibro, ne ho poi fissato la copertina, credendo di vedere spuntare un ghignetto in quello spazio (ah spazio vuoto dove la verità attende di essere scritta!) che intercede fra il nome dell’autore e quello dell’editore, tra chi vende fumo e chi piglia denari;
Coloro che giunsero alle semplici tesi da me esposte potevano chiudere una vita di lavoro, soddisfatti di esser arrivati, con le proprie forze e per vie nuove od inusitate, a scoprir verità già scoperte. Ma io non potevo seguirli: da parte mia l'inganno sarebbe stato cosciente, poiché già sapevo dove i miei sforzi mi avrebbero condotto. Chi fa un « solitario » alle carte non è meno disonesto di un altro giocatore se, barando, ruba a sè stesso.
Abbandonai la filosofia e provai allora, per la prima volta, la dolorosa sensazione del vuoto: non perchè le cognizioni che via via avevo appreso dai filosofi 'mi avessero riempito lo spirito, ma perchè quest’ultimo si era talmente, dapprima, dilatato ed enfiato di speranza, che aveva bisogno di un contenuto immenso perchè non ricadesse giù striminzito, floscio, con le ali rotte.
Così fu che, poco prima di giungere all’età matura, io cercai Dio. Ai tremuli vecchi, ai bimbi che balbettano le preghiere, alle donne che non pensano; Egli viene dolcemente, dopo la prima parola d’invocazione. Ma l’uomo forte che non ricorda più le nebbie azzurre dell’infanzia ove rilucono scaglie d’oro e d’argento staccate dalle ali degli angeli e che si sente ancora troppo' lontano per averne terrore, dal freddo, buio, umidore della «fossa, l’uomo forte se vuole Dio deve cercarlo con fervore e vigore.
Dove? Nelle ombre di una chiesa gotica, nell’orrore mostruoso di un Cristo bizantino, nella dolcezza di un angelo di Melozzo o di una madonna giottesca non potevo più: la storia dell’arte, senza insegnarmi proprio il sapiente equilibrio di quelle ombre con la luce, nè l’intreccio di linee che producevan quell’orrore e quella dolcezza, mi aveva detto troppo chiaro che un segreto c’era e che era un segreto, appunto, di luci e di linee: opera umana, bravura tecnica, inganno, inganno, inganno.
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Volli arrivare a Dio-Verità, per mezzo della scienza, percorrendo la via delle verità.
Il principio fondamentale dei teosofi, i quali dicono che in ogni antica dottrina c'è un granello d’oro da ricercare, che delle fedi tramontate noi conosciamo quasi sempre le proposizioni essoteriche mentre l’intimo vero era fatto noto ai soli iniziati, che, insomma, non esiste una rivelazione di Dio, ma gli uomini devono faticosamente trovar Dio, con alchimistica fede, sceverando il vero dal falso nelle leggende, nelle tradizioni, tra geroglifici egizi ed iscrizioni runiche, nei libri dei dotti e nelle superstizioni del volgo, quel principio mi sedusse: vi seirtii palpitare dentro, finalmente, con le ali chiuse e trepide, spasimanti d’aria, una divina pro-messa.
Sgombrai la mia biblioteca vendendo, a peso di carta, i miei filosofi: nella stessa cesta, come i due fratelli assassini del Cocito, cozzaron le fronti insieme Kant .e Comte, Schelling e Spencer. Negli scaffali entrarono, ancora intonsi, depositari di misteriose verità suggellate, Eliphas Levy ed Annie Bésant, Ely Star e Jules Garinet. Ma, al solito, più che dei moderni mi compiacqui degli antichi. Furono giorni e notti pieni di fascino, quelli in cui figgei lo sguardo nell’opera di Paracelso, interrogai Weiger sui misteri dell’oltretomba, udii Jacob Boehme, il calzolàio filosofo, parlarmi di scienze occulte e d’alchimia e vidi, vidi quasi con gli occhi miei Emanuele Swedenborg, il possessore d’ogni dottrina umana e divina, parlar di mineralogia dall’alto dei cieli e numerar di quaggiù la moltitudine degli spiriti angelici.
Il contatto coi divulgatori della teosofia mi raffreddò. Nè Schuré, nè Annie Bésant nè la signora Blavatzky mi dissero una parola che mi levasse più in alto. Anzi. Quando trovai tutti quegli schemi, quei paradigmi, quelle scale di Giacobbe dell'altra vita, la successione dei piani mentale, fluidico, astrale, ecc. ecc., mi soffregai gli occhi, mi scossi dal lungo sonno e rinsavii. Una mitologia peggiore delle altre perchè scheletrica, numerica, astratta, senza nè colore nè carne. Mitologia che non fu mai religione, dottrina che non fu mai fede: non una lingua morta, ma un gergo artificiale inventato a tavolino come la nuda lingua Che un freddo sapiente polacco donò a tutti i viventi e che non fu parlata da alcuno.
Prima di abbandonar questa nuova esperienza, non sapendomi distaccare dai cari volumi ove avevo visto rilucere tante gemme, pensai di scriver qualche lavoro di erudizione teosofica od occultistica. Anche per la filosofia mi era accaduto lo stesso: alla fiamma della fede era succeduta la fredda luce della dottrina. Ma trovai che il numero degli studiosi di occultismo è quasi grande quanto quello dei sedicenti filosofi.
Io ero stato — in potenza, intendo — un artista: e avevo abbandonato l'arte quando m’ero accorto che in ogni mia opera c’erano linee; accenti, colori che mi derivavan da altri. Superbo, nemico di tutto. ciò che si chiama lavoro collettivo e irreggimentazione, come potevo entrare in quella folla di scribacchini i quali della propria mediocrità facevano una virtù (la dicevan modestia e mai conobbi più vanitosa genìa) incastrando, con legàccioli bibliografici, una monografia ad un saggio, un saggio a un articolo e chiamando tutto questo rigirio « collaborazione dèlia massa alla ricerca di un unico ideale scientifico »?
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Solevano dire, quei meschinelli, con ipocrità umiltà: « Ciascuno di noi porta il proprio sassolino al grande edificio della scienza ». Balordi anche nella scelta delle immagini! Chi ha mai visto edifici fabbricati coi sassolini?
Rimasi solo. Voi, ora,., voi che credete ed avete sempre creduto nella fede che vi fu istillata nell’infanzia, volete sapere se io abbia trovato Dio?
Difficile, la risposta. Sopra la tomba di uno scettico (quello sì, scettico, veramente) in un cimitero inglese, io lessi un giorno: « Per tutta la vita ho cercato di ràggiungere il cielo: sperai finalmente di attingerlo con la morte: ora invece, sono sepolto nella terra profonda e le stelle son più lontane che mai ».
Capite? Forse per trovare Dio non bisogna cercarlo. Immaginate l'uomo che « cerca i documenti dell’onestà della propria madre », l’uomo che fa pedinare la propria moglie per « aver le prove » della fedeltà di lei e ditemi se costui acquisterà mai una fede che si può sentire soltanto ad occhi chiusi e in ginocchio.
Assistetti ai più solenni riti della Chiesa: in un tempio luterano dalle fredde e nude pareti, udii una folla di credenti cantar cantici sacri: vidi, tra le colonne marmoree della sinagoga, i superstiti di una razza millenaria assorti a legger le parole dei monarchi e dei profeti d’Israele. Processioni fastose, feste bizzarre, cerimonie nelle quali si mescolano usanze e tradizioni d'ogni tempo: tutto contemplai con l'occhio attento, con l’animo rispettoso, ma col cuore freddo. Quando i ricordi vaghi dell’infanzia mi davano un brivido di nostalgia, il curioso, il ricercatore di documenti folk-lorici, il collezionista balzava fuori e l'incantesimo si rompeva.
Ho trovato Dio, alla fine, sì: aspettavate questa confessione? Dio sì, ma non la fede. Credo che la vita universa abbia una causa estranea a sé e non so neppur io come questa credenza si sia radicata in me perchè molte, troppe volte mi son sentito trascinato a negarla. Ma non vedo un legame necessario tra questa causa prima e l’idea di bontà infinita che voiàltri credenti vi annettete.
Quand’ero giovinetto, un mio compagno, figliuolo di una turpissima donna, mi parlò un giorno, con venerazione, della propria madre. Stupii dapprima: e poi mi accorsi che egli ignorava. « Nostra madre » significa « la purezza, la virtù, la santità », per tutti; anche per coloro che deridono, per vezzo continuo, la virtù femminile. Ma se è naturale che ognuno difenda il proprio stemma dinanzi agli altri uomini, è assurda questa difesa ostinata quando lo stemma è di tutti, quando la famiglia è una sola. Intorno al progenitore Adamo e alla sua compagna, peccatrice appena nata, c’è una fioritura di leggende satiriche, di scherzi irriverenti, di parodie del racconto biblico: e vi accennano anche persone devote: e nessuno ne arrossisce.
Una causa, sì: un Padre perchè? E perchè proprio un Padre buono, giusto, sempre vigile al nostro bene, misericordioso della nostra debolezza, soccorritore quando cadiamo, pronto a perdonare chi l’offende, a rimettere in istrada chi erra, a guarire chi soffre?
Sia: non voglio distruggere la vostra fede che rispetto e che amo perchè — fatta di devozione filiale — è bella ed alta. Ma sinceramente vi dico che l’idea della giustizia divina mi sembra un’ipotesi consolante per chi l’accetta, ma senza nessunissima apparenza di verità.
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Un antico che — a quanto è scritto — ascoltò, tra lampi e tuoni, la voce di Dio, l’udì sulle vette dèi Sinai gridare: « Io sono Iddio geloso ».
Geloso: e perchè non vendicativo, astioso, ingiusto, cattivo, capriccioso sopra tutto?
I miscredenti, quando parlano dei loro avversari hanno sempre in bocca la parola « antropomorfismo ». Ma Dio dev’essere antropomorfo o l'uomo teomorfo, che è, infine, lo stesso, sia che la nostra mente abbia disegnato la radiosa figura, sia che Egli abbia creato a propria immagine l’anima umana.
Ebbene, il vero antropomorfismo è quello degli antichi, dei primitivi, dei semplici i quali attribuirono a Dio anche le colpe dell’uomo.
Noi non vogliamo sentir parlare di capricci della Divinità. Ma perchè? E com’è che tutti i convertiti, subito, fin dal primo giorno hanno trovato lo stesso Dio, quel Dio geometrizzante, secondo l’espressione platonica, intento a misurar con le seste l'ordine, la giustizia e l’armonia dell'universo?
Questo non è naturale: questo vuol dire che i convertiti sapevan già, prima dell’atto di grazia, che cosa cercavano, e che andavan verso la luce con la carta topografica sotto gli occhi.
Io invéce non ho ingannato me stesso: io veramente ho voluto spiccar il volo dal noto verso l’ignoto e quando ho sentito aleggiar sopra di me la Divinità non ne ho intraveduto la faccia e non ne ho penetrato la sostanza.
In cèrti momenti, Dio m’apparve sotto la specie di Dagon, l’arcano Spirito adorato nel Pegù, il quale, creato un mondo a capriccio, poi lo distruggerà e coi frammenti del vecchio ne costruirà uno nuovo.
Sorridete di questa dottrina? Io che sento, in ogni cellula ed in ogni molecola del mio corpo, tracce d’infinite vite anteriori, io che vedo, nelle persone che amo, mosaici di altre vite, io che mi pre-sento avvolto nella terra, alimento ed infusor di vita ad erbe, ad insetti, a fiori, io non riesco a sorridere quando alcuno mi parla di. trasformazione perpetua.
Ma, capisco, non ci può esser nulla di comune fra chi sinceramente cerca una fede e chi fa il comodo e un po’ burlesco lavoro di prepararsi un paradisino, tanto per viver meno male e per togliersi da dosso l’uggioso pensiero della morte.
Brava gente che ha ammesso l’immortalità dell’ anima quando ha dovuto persuadersi (triste spettacolo un’esumazione!) che non esiste l’immortalità del corpo e che giura sulla giustizia oltremondana da quel giorno terribile in cui ha disperato di 'veder mai la giustizia quaggiù.
Può darsi che io abbia errato nella mia affannosa ricerca e che invece di Dio abbia trovato’ il Diavolo?
Credete pur questo, se vi torna. Ho letto tante opere di gente che finì sul rogo: svolgendo le pagine condannate, veniva a me l’afrore delle anime che le pensarono e che ora si rosolano nell’abisso come i corpi furono arrostiti santamente qui: non è meraviglia che mi sia rimasto addosso un po’ di odore di bruciaticcio.
Ma se così fosse, non mi respingete, non mi sfuggite, non mi gridate la croce addosso.
Fra le mille contradizioni umane, una mi è sembrata sempre inesplicabile.
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Le persone buone e timorate a dii manca di pane o di salute o di forza concedono tutto il tesoro del loro amore e l’offrono con gii occhi lucenti di pietà, sicché il dono è infinitamente più caro: ma per chi manca di fede hanno solamente scongiuri paurosi e maledizioni. Perchè? Non pensano che come- l'imposizione delle mani caritatevoli guarisce dal morbo, forse lo sguardo illuminato di divinità potrebbe salvare dalla miscredenza? O forse l’empietà è una lebbra più ributtante della lebbra corporale che fu carezzata dalle mani dei santi?
Se quando avrete Ietto queste pagine mi chiamerete scettico un’altra volta, non direte però che io abbia colpa della mia caduta.
Sentite: quando correvo di chiesa in chiesa, in cerca di rivelazioni, anelando a una grazia, visitai, una notte anche un’elegante casa di giuoco. Non è forse un luogo sacro il tempio del Caso, ove alcuno prega sommessamente, altri fanno gesti e pratiche superstiziose per trarre a sé-l’ignota forza che distribuisce i beni vani del mondo? Contro i puritani dei nostri tempi. Dante mi aveva ammonito di ciò, dipingendo, fra le creature angeliche, la Fortuna.
Un giovine gentiluomo, a capo di una lunga tavola verde, dirigeva il giuoco. Sento ancora la voce dolcissima; vedo ancora il volto incorniciato dalla barba nazarena:
— Avanti, signori: avanti: così: puntare... Giuoco fatto. Accusare.
Silenziosamente, una ventina di mani accumulavano oro e biglietti ai due lati della tavola. Poi il giovine direttore prendeva tutto il denaro: o pagava i vincitori, secondo la vicenda del giuoco.
Io trassi fuori un biglietto da cento lire e stavo per tentare la sorte affascinato da quel silenzio, dallo scintillio dell’oro sotto la luce elettrica, dalla voce dolce del giovine. Ma mentre stavo per puntare (come si vedono ben le cose stando fuori del giuoco!) mi accorsi che colui che accusava i punti da sinistra aveva una carta nascosta nel polsino: un baro, dunque.
Passai a destra. Di nuovo stavo per tentare la sorte, quando la voce del direttore risonò:
— ... Giuoco fatto.
Non era possibile aggiungere altro. Quando stavo per puntare, la terza volta, il direttore si levò, calmo, tranquillo, ma pallidissimo: era stato sbancato.
Me ne andai anch’io e non ho mai giocato, nè allora nè mai. Seppi la mattina dopo, che il gentiluomo il quale, con un gesto elegante, aveva distribuito denaro a destra e a sinistra per tante ore, si era ucciso poi con un colpo di rivoltella in frónte;
Tutta la mia vita di pensiero somiglia a quella serata. Ho offerto quanto avevo, ma ho dovuto subito ritrarmi o perchè mi son chiaramente visto l’inganno dinanzi agli occhi o perchè il giuoco era fatto, tutti i posti presi e nessuno mi voleva, oppure perchè colui al quale mi rivolgevo era più povero e disperato di ine.
Partita dolorosa: ho messo in giuoco l’anima mia e nessuno l’ha voluta: è qui ancora, palpitante e incredula e speranzosa a momenti: ma chi se la piglia?
Dino Provenzal.
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PERl^G/LÌVRÀ DELL'ANIMA
NON LA PACE MA LA SPADA«
I.
Vi è stato un tempo in cui il Libero Pensiero sfruttava questa parola contro la morale evangelica. «Vedete, si diceva: il fondatore stesso del Cristianesimo ha sanzionato il ricorrere alla sciabola. Ei non vale meglio di Maometto, predicatore della guerra santa ».
Rispetto troppo questa assemblea per supporre che uno solo d’infra voi possa essere turbato da un’ obbiezione così grossolana; perchè riposa sopra una scandalosa mala fede, sopra una eccessiva ignoranza. Questa seconda ipotesi (la più ^aritatevole), lascia scorgere, in certe anime sincere, degl’insospettati abissi d’inintelligenza per quanto concerne l’interpretazione del linguaggio biblico in generale e, in particolare, del vocabolario di Gesù. Ognuno dovrebbe sapere che il Ciisto, fedele alle tradizioni della pedagogia orientale, colava i suoi insegnamenti più preziosi nello stampo del paradosso, allo scopo di precisarne .i contorni e di esagerarne gli spigoli: vero mèzzo per imporli alla memoria. Quando dice: « Non chiamate nessuno, quaggiù, vostro padre » — oppure ancora: « Se (*)
Non sono venuto a recare ■ sulla terra la pace, ma la spada.
(Matteo, X, 34).
il tuo occhio ti trascina al male, cavalo! • — oppure ancora: « Ogni vero discepolo deve odiare la propria famiglia! » solo uri bambino poco sviluppato potrebbe figurarsi che basti un dizionario per capire quelle parole. In realtà il prenderle alla lettera è un grave errore.
Orbene, si commette lo stesso sbaglio quando si considera il nostro testo con gli occhi d’un armatolo. Ogni malinteso è inconcepibile, inescusabile, per chiunque avrà letto il commento al nostro passo fatto dallo stesso Salvatore: « Abbiate il .coraggio, afferma egli, di dichiararvi per me, non arrossite della mia bandiera; certo voi provocherete in questo modo l’opposizione del mondo, susciterete persino delle inimicizie in seno alla vostra famiglia... Che importa? È impossibile di servire, nello stesso tempo, la propria quiete e la verità; chiunque mi segue? può dire addio a una vita pigra o anche solo tranquilla; ed ecco in qual senso sono venuto a gettare la spada fra gli uomini ». Girate e rigirate quella celebre parola, spremetela nei laboratori teologici del mondo intero, non ne estrarrete mai altro che questo semplice e rude pensiero: in seno ad un mondo peccatore, l’Evangelo
(*) Discorso pronunziato a Parigi il 6 giugno 1915-
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è, per essenza, un « segno di contraddizione », un bastone in un nido di vespe, un perpetuo ed inevitabile scandalo.
Rileggete, da questo punto di vista, la vita di Gesù. Quale destino drammatico! È appena uscito, con volto sereno, dal laboratorio paterno che già fischiano i serpenti e brontolano le belve della giungla: le bestie sentono la tempesta nell’aria. Tutte le passioni, tutti gli orgogli fanno lega alla sola vibrazione delle Beatitudini che solcano ad un tratto le tenebre del peccato come altrettante frecce luminose. Minacciati nei loro privilegi gl’interessi si coalizzano: e tosto il prete, il giudice, il soldato, il governatore, armati ciascuno di una scure, si ritrovano nel bosco per tagliare l’albero della croce. Occorre che il guastamestieri sia inchiodato al legno; eì sarà crocifisso, non pel suo domma (è il pretesto!), ma per la sua morale.
Egli muore dunque; ma la pietra della tomba serve di trampolino al suo slancio vittorioso. Non appena Gesù è scomparso, subito dei nuovi Cristi', suoi figli spirituali, guardano il mondo cogli occhi- del Salvatore e lanciano una sfida al peccato. Uomini della « pace che oltrepassa ogni intendimento », essi non respiiano che la pugna; messaggeri dell’Amore eterno, fanno volteggiare « la spada dello Spirito che è la parola di Dio ».
La scia tracciata-da S. Paolo attraverso l’impero dei Cesari è caratterizzata dalle sommosse che solleva il suo messaggio. Il vescovo Giovanni Crisostomo scuote Costantinopoli coi suoi appelli al pentimento. Francesco di Assisi, Giovanni Huss, Savonarola, accendono, nell’anima popolare, le ardenti aspirazioni del cristianesimo sociale. La dottrina di. Calvino scoppia, come un esplosivo, nel palazzo del Louvre. In Inghilterra, Wesléy predica l’Evangelo sulle pubbliche piazze e sconvolge la Chiesa di Stato. Un antico operàio di filanda, il missionario Livingstone, porta il colpo di morte alla tratta dei negri in piena Africa centrale. Dovunque e sempre l'autentica presenza del Cristo, quaggiù, si manifesta con una levata < i scudi contro l’errore, la sofferenza e i peccato, contro gli uomini che incarnano i male e contro le istituzioni che lo perpetuano. La vera pietà evangelica è «la pietà che protesta ». E, se si è potuto dire con ragióne che «l’uomo onesto è colui che sa procurarsi delle seccature »,
quanto più quella magnifica definizione si applica ad ogni discepolo intelligente, sincero e cosciente del Messia di Nazaret.
IL
Voi capite, adesso, in quale senso ’Gesù ha dichiarato, solennemente, che recava quaggiù una spada. Ma capite, nello stesso tempo, perchè questa parola deve risuonare alle nostre orecchie come una condanna. La Chiesa, non è egli vero? è così ingenuamente fiera di brandire un ramo d’ulivo...
Nei tre primi secoli della nostra èra, il Cristianesimo, rimasto libero riguardo allo Stato pagano, costituiva una potenza d’opposizione morale e religiosa in seno àll’Impero. Ma — a partire dal giorno in cui l’abile Costantino proclamò ufficialmente, che il crocifisso del Golgota s’insediava, ormai, sul tròno dei Cesari — la spada cadde dalle mani della Chiesa; la sua energia protestatrice fu infranta. ’Riguardo al pauperismo, per esempio, o al militarismo, essa scivolò a poco a poco al livellò dei pregiudizi tradizionali. Alleata dei successivi Governi, finì per considerarsi come il sostegno dell’ordine stabilito. Si vide riapparire la razza dei «cani muti», denunciata dai nostri sacri libri; si udì nuovamente il coro dei falsi profeti che cantano: « Pace! Pace!... là dove non v’è alcuna pace ».
Certo ad un- simile atteggiamento non mancavano le circostanze attenuanti. Una certa situazione politica, una certa mentalità dottrinale nell'antica Europa, spiegano, anzi scusano talvolta, le manchevolezze d’un cristianesimo dal sale insipido. Riman pur sempre vero che, rigettando la spada del Cristo, esso abbandonava il vomero divino che solo poteva scavare, nella gleba indurita d’una civiltà spietata, i solchi dell’avvenire.
E quali furono le conseguenze di questa abdicazione? Rinunciando, .praticamente, a inserire l'ideale evangelico nella realtà, la Chiesa fu costretta a ripiegarsi su sè stessa, nelle sue trincee delle retrovie: essa stabilì i suoi accantonamenti sul terreno della vita interiore.
Qui. fratelli miei, intendiamoci bene. Lungi da me il pensiero, assurdo o colpevole, di gettare il più lieve discredito sulla cultura intensiva delle nostre' facoltà spirituali. Fintantoché l'anima resterà
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il tesoro sovrano di ogni persona umana, 3uesta mediterà sempre Tammonimento el Maestro alla sua ospite affaccendata di Betania: «Una sola cosa è necessaria! Maria ha scelta la buona parte ». Questa parola si è imposta, di recente, con una singolare energia alla mia coscienza, sotto le volte scure di Moire Dame. Era un giorno feriale: nella cattedrale deserta,* alla luce smorzata delle vetrate, un prete solitario celebrava un qualche ufficio in fondo ad una cappella vuota. Non era quello forse una recitazione di sonnambulo, senza rapporti col rumore della città immensa, e, sopratutto senza rapporto cól tuono delle battaglie? Eppure, quel chierico anonimo salvaguardava quaggiù i diritti dell’adorazione, le prerogative più pure dell’anima umana; e la sottile nube spri-gionantesi dal suo turibolo saliva, nell’empireo, più lungi che gli orgogliosi fumi degli alti-forni e dell’artiglieria pesante.
Tuttavia, voi lo sapete, la caratteristica della pietà del Cristo è l’indissolubile unione della preghiera e dell’azione, dell’amore per Dio e dell’amore per l’uomo. Curvarsi davanti agli altari non è altro che un rinnovato gesto della preistoria, una genuflessione pagana, se l’adoratore non si china, nello stesso tempo, verso la miseria umana; ed invano egli alza le mani verso il cielo s’esse non brandiscono la spada spirituale di Gesù.
Ora la Chiesa tradizionale ha, precisamente, sopracaricato uno dei piatti della bilancia, a detrimento dell’altro. Essa ha insistito spesso, in modo, quasi esclusivo, sopra la salvezza individuale, sulla preparazione alla « buona morte »; essa ha sviluppato nelle1 anime un tipo di pietà sentimentale, mistica, passiva, di cui l’espressione plastica nauseabonda è il Cristo dalle gote rosee e dalla barba d’oro che disonora i negozi di articoli religiosi.
C’è forse da stupirsi che un così languido e miserò idolo disgusti, ad un tempo, gli uomini di pensiero e gli uomini d’azione? È forse sorprendente che quel fantoccio allontani del pari i dotti e i proletari? Oh! certo, noi sussultiamo, ci sentiamo urtati nella pupilla degli occhi allorquando il filosofo Nietzsche urla contro l’Evan-gelo le sue truculenti bestemmie. Ma siete voi certi che queste bestemmie non prendano innanzi tutto di mira uña caricatura del cristianesimo, un cristianesimo fiacco, molle, snervato, senza
spada? Fu la degenerazione dei cristiani d’Oriente che suscitò Maometto; del pari è la decadenza della Chiesa d’Occidente che ha suscitato Nietzsche; e sarebbe forse il caso ch’essa ripetesse, a suo proposito, la tragica e sublime parola del re Davide, quando l’insultatore Scindi gli scagliava dei sassi e degli anatemi: « Lasciatelo! Se mi maledice, è per ordine dell'Eterno ».
III.
I.o vedete, la crisi mondiale che ci opprime non è, soltanto, una crisi politica; è altresì, è anzitutto una crisi religiosa. Il cristianesimo tradizionale, che s’è mostrato impotente a scongiurare la catastrofe, è egli realmente il cristianesimo integrale? Tale è la questione che s’impone alla generazione nostra.
Oppure la Bibbia è per noi senza autorità morale e spirituale, oppure dobbiamo tornare al Gesù delle Scritture, al Figliuol dell’uomo che è il superuomo, al Messia. A furia di spiritualizzare il cristianesimo, lo si volatilizza. La supplicazione famosa degli Israeliti al sommo sacerdote: « Facci degli dei che camminino davanti a noi! » corrisponde ad una aspirazione legittima. L’umanità ha sempre sospirato dietro ad un Dio che s’incarna, vale a dire ch’essa ha sempre chiamato coi suoi voti più intensi l’apparizione, quaggiù, d’un volto che fosse lo specchio dello Spirito santo. I preti ed i savi hanno esaltato, in anticipo, lo splendore dell’Eroe soprannaturale che riassumerebbe nella sua persona le glorie combinate del filosofo, del monarca e del salvatore. Ma fu serbato ai veggenti ebrei di dipingerne il misterioso ritratto con successivi strati, di cui ognuno corrisponde ad una fisionomia particolare: è il Principe che trion-feià, campione degli oppressi; è l’Uomo di dolore, il Servitore misconosciuto del-l’Eterno, che soffre per gl’ingiusti; e tutti quei lineamenti si fondono per formare l’incomparabile immagine del Messia* Re* dentore, pioniere dei tempi nuovi, cavaliere del regno di Dio, immortale Allenatore della nostra razza verso i suoi provvidenziali (testini (x ).
Óra è da lui che la Chiesa ha l’onore insigne e la felicità ineffabile di appellarsi.
(x) W. E. Orchard, The reai War.
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Ma allora, non sembra (lessa colpita d’una vera incoscienza, allorquando ardisce interpretare la dottrina e l’esempio di Gesù nascondendo la spada del suo Maestro, voglio dire presentando al mondo un vangelo spuntato, arrotondilo, ridicolo fioretto di parata? Sì, in faccia a Gesù crocifisso ci s’è studiati di dimostrare, senza ironia, che il cristianesimo, era legato al conservammo sociale o dogmatico; in faccia a Gesù crocifisso si sono chiamati utopisti i profeti che annunziavano un regime di pace internazionale per mezzo del Diritto; in faccia a Gesù crocifisso si è persino trovato il modo di predicare seriamente una salvezza per mezzo della croce... che dispenserebbe i cristiani dalla croce.
Ah! fratelli miei, quale derisione! Ma come? È ai piedi del Calvario che le Chiese preconizzerebbero una morale quietistica, una religione sempre pronta a benedire le istituzioni, gli usi, ropinione pubblica, la politica nazionale, una pietà senza generosità, senza entusiasmo, pronta a vituperare il pubblicano o a mettere in ridicolo l’apostolo, una pietà farisaica? Come? È ai piedi del Golgota che i dottori ecclesiastici formulerebbero, per dei cristiani da parodia, questa massima rigorosamente vigliacca: « Sopratutto niente chiasso! »...Io comprendo meglio allora, e benedico la protesta del triste Nietzsche, pensatore pazzo e ateo, che forgiava pei suoi discepoli questo virile programma: « Vivete pericolosamente >!
Davvero, la guerra attuale è un appello di Dio alla coscienza della cristianità. Gli Austro-Tedeschi soltanto hanno bombardato Ypres, Lovanio e Reims, ma è l’artiglieria delle nove nazioni cristiane belligeranti d’Europa che concentra i suoi fuochi sopra un certo cristianesimo tradizionale. Le Chiese di Stato, le Chiese il cui Dio porta l’uniforme nazionale, le Chiese il cui Cristo è incatenato all’interno delle frontiere politiche, quelle Chiese hanno fatto il loro tempo; esse agonizzano; esse muoiono sotto i nostri occhi; la guerra delle nazioni le avrà uccise.
I testimoni del Cristo hanno, ora-, il dovere di elaborare una organizzazione capace di accogliere tutti i cristiani che hanno deciso di cingere la spada del Messia-Sal vatore.
Questa Chiesa dell'avvenire — e d’un avvenire forse prossimo — sarà anzitutto una Chiesa riconoscibile. Al principio della nostra èra, l’immersione degli adulti era il segnale di adunata dei discepoli;
oggi, il battesimo ha perso, quasi dovunque. questo significato glorioso; l’ingresso’ nella comunità cristiana è segnato piuttosto dalla partecipazione alla S. Cena. Ma la pratica della «prima comunione» perde, per la sua stessa universalità, una gran parte del suo valore simbolico di arruolamento cosciente c definitivo.
Nella Chiesa di domani, quale le lezioni della guerra l’avranno resa necessaria, profondi cambiamenti s’imporranno nelle tradizioni ecclesiastiche. Se si vuole che la Chiesa di Cristo sia riconoscibile quaggiù bisognerà che il suo credo sia completato da un programma; bisognerà sopratutto che sia accompagnato da una disciplina'. in altri termini, in avvenire i cristiani si distingueranno dal mondo per certe precise regole di condotta, non solo nel campo dei costumi, ma sul terreno degli affari, della moda e della politica. Si sapeva già, nel passato, che i cristiani rifiutano di comportarsi da porcelli; s’imparerà d’or’in-nanzi che rinunziano a trasformarsi in volpi e in lupi. Il loro principale contrassegno non sarà cultuale o dommatico, ma morale e sociale — conformemente all’indelebile parola d’ordine del grande capo: — «Questo sarà il segno al quale tutti riconosceranno che siete miei discepoli: ' l’amore che avrete gli uni per gli altri».
Dunque, la Chiesa futura sarà una Chiesa riconoscibile. Soggiungo che sarà una Chiesa aperta, perchè sarà una « Lega per la redenzione dell’umanità ». Si potrebbero concepire dei gruppi, allo stesso tempo laici e religiosi, in cui s’incontrerebbero gli uomini di franca volontà, delle associazioni fraterne reclutate per arruolamento volontario, e dove la prima questione presentata ai postulanti non sarà: « Che pensate voi del Cristo? ». Ma bensì: «Che volete fare per lui? » o ancora: «Che cosa vi aspettate da lui? »
« Venite a me, voi tutti, gli aggravati e gli stanchi! » — è l'invito dell’immortale buon Samaritano. Dev’esser permesso di rispondere a quest’appello senza subire un esame di metafisica. E d’ora innanzi avranno il diritto di reclamarsi da Gesù tutti coloro che amano il Cristo e l’ideale da lui incarnato, tutti coloro che comprendono il dramma interiore della croce, la necessità del sacrificio personale per la salvezza del mondo, il dovere della protesta e della missione, l'obbligo, insomma, di gettare sulla terra la spada dell’Evangelo. Tale sarà la Chiesa dell'avvenire e, per conseguenza, nella misura stessa in
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cui sarà riconoscibile e aperta (santa e misericordiosa), essa rivestirà un terzo carattere distintivo, sarà una Chiesa universalista, una Chiesa cattolica, ne! senso originale del termine, una Chiesa internazionale o ecumenica — poco im-Sortano le parole, l’essenziale è la realtà.
davvero, si freme d’un'emozione sacra, si trema d’una allegrezza divina, al cospetto della visione di questa Chiesa futura, una ed indivisibile, corpo mistico di cui il Ciisto sarebbe la testa, in cui circolerebbe lo stesso sangue attraverso un organismo mondiale e pel quale qualsiasi guerra sarebbe l'equivalente d’un suicidio. s
O Dio, Dio mio! fino a quando i tuoi figli dispersi, ma che recitano il medesimo « Padre Nostro! » saranno dessi, di età in età, perdutamente lanciati petto contro petto dal turbine d’un uragano infernale? Eppure Gesù aveva affermato: « Io non sono venuto a recale la pace, ma la spada »; — in altri termini: Io sono venuto a combattere ciò che è in nome di ciò che dev’essere. In questo assioma, in apparenza bellicoso, il Cristo ha dichiarato la guerra alla guerra. E, se la Chiesa avesse risolutamente brandito la spada spirituale del Salvatore, non si vedrebbero oggi scintillare a milioni le spade di acciàio. Non si udirebbe un pastore tedesco, professore di teologia, predicare che, se
Gesù ha condannato la guerra, è perchè « non pensava alla situazione attuale », e soggiungere: « Il sermone sul monte non ha rapporti col Diritto, lo Stato, l’onore e la società » (i).
<-x) Il prof- Baumgarten di Kiel.
Oh Spirito santo. Spirito della Pentecoste, suscita finalmente, nella nostra vecchia Europa, la Chiesa secondo l’Evan-gelo!
Fratelli miei, fra tutte le fotografie di guerra che sono passate sotto i nostri occhi, ve n’è una il cui carattere patetico s’impone alla nostra fervida meditazione, lì un Calvario di Lorena, sconvolto da una granata, ma in modo cosi imprevisto che la croce soltanto è scomparsa, mentre il Cristo crocifisso, subitamente liberato dal suo ignominioso sostegno, si rizza diritto e colie braccia alzate sullo sfondo d’un cielo immenso carico di nubi. Apparizione ad un tempo fantastica e maestosa! Quell’uomo nudo e ferito, che si rizza, pallido, tra le nazioni belligeranti nell’atteggiamento straziante di chi supplica come se volesse esorcizzare i demoni, è il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo; egli gitta ai quattro venti, sdito la tempesta, questo grido di agonia e di comandamento, questo grido dominatore: < Fermate! »
La Chiesa dell’avvenire si avanzerà anch’essa tra gli eserciti, senz’altra spada che quella di Gesù, e tenderà le guerre impossibili. D’altronde, se dovesse soffrire pel legno di Dio, il suo martirio — o Cristo — resterebbe vano? Non più di quello del monaco Telemaco, sceso ad un tratto nel campo chiuso d’un anfiteatro romano per separare i gladiatori. Certo egli perì, vittima della sua fede, del suo coraggio, della sua carità; ma il sangue di quell’umile eroe pose fine per sempre, nelle arene imperiali, all’intollerabile e secolare scandalo di uccisioni fratricide.
WlLFRFDO MONOD.
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TRA LIBRI E RIVISTE
CRONACA BIBLICA
V.
ISAIA
Secondo la critica moderna, il libro di 66 capitoli tradizionalmente attribuito a Isaia, profeta di Gerusalemme nel secolo Vili av. Cr., non è, invece, che una raccolta di scritti vari, lentamente formatasi nel decorso di cinque secoli; dal tempo isaiano all’età degli Asmonei. Solamente nella prima parte di tale raccolta si trovano carmi, interi o in frammenti, dei quali il celebre profeta è autore certo o probabile; avendoli lui stesso composti e recitati, e indi su tavolette d’argilla o pezzi di cuoio scritti i discepoli suoi. Invece, nella secon-conda parte del libro canonico (capitoli 36-66) non c’è nulla che provenga da Isaia: i carmi che vi si leggono sono frutto della poesia ebraica nell’epoca che va dal-l’Esiho al tempo degli Asmonei. Questa teoria si fonda su argomenti d’indole letteraria e di carattere storico.
Tra i critici che più illustrarono in tal Ì;uisa le profezie d'Isaia, devesi noverare 3 studioso tedesco Bernardo Dhum. Il suo Commento vide la luce nel 1892, e segnò un momento stoiico nello studio critico del libro che va sotto il nome d’Isaia. Nel 1902 ne fu pubblicata la seconda edizione ritoccata, c recentemente la terza (Das Buch Jesaia übersetzt und erklärt. Gottinga, Vandenhoeck, 1914; pp. XXIV-459, M. io). Nella prefazione è detto che là nuova edizione non ha pagina che non rechi cangiamento. Se non che le vedute generali è particolari di qualche importanza sono rimaste immutate; e solamente la traduzione e il commento hanno avuto ritocchi in molti passi. Dal 1903 al 1913 videro la luce in Germania alcune pubblicazioni notevoli, del Gressmann e di altri seguaci della così detta scuola storico-religiosa; delle quali il Dhum avrebbe potuto far cenno nell’introduzione, e iors*anche profitto nel commentare i vaticinii « messianici •: però non ne parla. Un cambiamento visibile, ma per nulla giovevole al progresso scientifico, è quello dei caratteri di stampa; i quali, da latini che erano nelle precedenti edizioni, son diventati gotici.
Alla moderna teoria critica non fa buon viso lo studioso austriaco N. Schlögl, nella sua traduzione d’Isaia; pubblicata nel i° fascicolo del 40 volume dell’intera versione dell'Antico Testamento, condotta sul testo originale (Die Heiligen Schriften des A. Bundes. Jesaia. Vienna, Orion, 1915; Sp. >xxi-i444 in fol.). Nell'introduzione lo chlogl, buon conoscitore dell'ebraico, ma non dei costumi e delle idee dell’antico Oriente semitico, dichiara doversi attribuire al profeta Isaia tutto, il libro canonico, eccettuati pochi passi, che gli viene ascritto dalla tradizione rabbinica e cristiana. In ciò egli « si palesa ben superficiale conoscitore delle ragioni sulle quali è, fondata la moderna teoria critica, e non reca in contrario se non-parole prive di valore ». Così giudica il celebre critico tedesco Guglielmo Nowach, in Theologische Literaturzeitung (an. 1916, n. ri, col. 243). Giova soggiungere che un monaco cistercense, qual’è N. Schlögl, non può trascurare il responso dato, il 28 giugno 1908, dalla pontificia Commissione biblica, vietante di accogliere i moderni resultati della critica intorno alla composizione e interpretazione del libro d’Isaia. Prima di quel responso, all’ombra della Chiesa romana. Salvatore Minocchi potè dare alla luce, con la dedica al signor card. Svampa, la versione italiana, veramente dotta ed elegante, del libro d’Isaia (Le Profezie d’Isaia. Bologna, 1907) rispondente alle precipue conclusioni e ipotesi dei più autorevoli critici moderni.
Nello studio di Antonio di Soragna su Isaia {Profezie di Isaia figlio di Anioz, tradotte e chiarite. Bari, Laterza, 1916; pagine xvni-186 in-8% L. 5) se alcunché è lecito di desiderare, non* è certo la indipendenza dai responsi dei moderni teologi romani, anzi, dalla tradizione teologica più venerabile.
Nelle pagine d’introduzione il S. avverte, primieramente, ch’egli traduce e commenta, soltanto le. profezie autentiche d’Isaia: è Chiaro, egli nota, che la pubblicazione e l'esame dei soli brani autentici deve rappresentare lo scopo ultimo di un lavoro critico ormai secolare; solo così si possono ottenere risultati che superino la fase dell'elaborazione erudita, veri materiali storici. Ciò è stato tentato, pur colle incertezze inevitabili in tali imprese, nel pre-
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sente volume. Dicendo che « lo scopo ultimo» della critica biblica in questo caso è la determinazione dei carmi proferiti da Isaia, non si vuole disconoscere l’importanza religiosa e letteraria di altri carmi della compilazione canonica; e segnatamente di alcuni serbati nella raccolta rappresentata dai capitoli 40-66, nei quali l'idea religiosa conquista un oiizzonte vasto come l'umano pensiero. Per questi come per altri brani, lunghi o brevi, ch’egli ha escluso dalla traduzione non stimandoli, insieme con tutti i critici autorevoli, provenienti da Isaia, si rimanda il lettore alle opere del Dhum, del Marti e del Grey. Il S. avrebbe Sotuto citare anche la predetta traduzione
el Minocchi; nell’introduzione della quale sono esposti in guisa opportuna per lettori italiani e con efficacia, non ostante l’atteg-5¡amento riguardoso verso la teologia tra-izionale, gli argomenti essenziali della critica per dimostrare che gli oracoli contro la Babilonia dei Caldei, o gli accenni al Giudaismo egizio del tempo dei Tolomei non provengono da Isaia; e per ¡scagionare da maldestri plagi e goffe ripetizioni il grande profeta. Il S. si limita a dire, brevemente, perchè non abbia dato posto nella traduzione a nove brani che non da tutti i critici indipendenti sono rifiutati per carmi d’Isaia.
Tra i brani esclusi dal S. sono pure questi Ìuattro. famosi passi messianici II, 2-4;
X, 1-8;&XXII, 1-5, 15 ¿>-20. Egli trova che il loro Maltenuto palesa una tendenza universalisti«^, in fatto di-religione e di politica, contrastante con il mondo spirituale dell’epoca isaianica; nota, inoltre, che il loro 'pensiero non ha infinito sullo svolgimento spirituale dell’epoca seguente, la Ìuale faticosamente, per opera di Geremia,
i Ezechiele e degli autori del Deuteronomio, si eleva alle idee medesime di quei quattro vaticinii, apparentemente ignorandoli; osserva, ancora, che il loro tenore non solo è disforme dalle vedute politiche e religiose d’Isaia, ma vi contradice. «Essi sono, dunque, conchinde il S. nell'epoca isaianica, un’apparizione enigmatica, un corpo sospeso, autonomo dal passato, dal presente e dal futuro. Il loro stile è troppo diverso da quello dei brani di indubbia autenticità: è dolce, idillico, sebbene qua e là grave e non privo di maestà; ma i muscoli, sopratutto i nervi, mancano... Sono scritti dà tavolino compilati per la lettura, ad edificazione e consolazione dei fedeli: arieggiano al Deutero-Isaia, ma più si acco
stano, nel calmo andamento dei periodi, alla pericope del Servo di Jahvé. L’autore ha' letto i principali scritti di Isaia, e ne volge gl'infausti detti in consolazione pel futuro » (p. xxiv). Non si può negare, un certo valore a queste ragioni dei critici con i quali si è schierato il Soragna; ma • poiché tali brani sono stimati autentici anche da studiosi autorevoli e spregiudicati come il Dhum, che li attribuisce a Isaia dicendoli essere « il suo canto del cigno », ci sembra che il S. non avrebbe peccato di soverchia indulgenza verso la tradizione accogliendoli almeno in appendice alla ver- ' sione e additando, come fa, le ragioni prò e contro la loro autenticità isaianica.
Soltanto nella raccolta rappresentata dai capitoli 1-30 del libro canonico il S. trova profezie autentiche d’Isaia, tutte brevi, Siarecchie superstiti in qualche tenuissimo rammento, e abbondantemente glossate da raccoglitori e copiatori. In tutto sono quarantacinque brani ch'egli offre tradotti e commentati; e non già nell’ordine in che si trovano nel testo tradizionale, ma bensì in serie cronologica di composizione, determinata per via di congetture concernenti, in gran parte, le vicende sociali è politiche dell’età (tra il 750 e il 690 av. Cr.) in cui Isaia visse e profetò a Gerusalemme. Ad -esempio, il bellissimo carme che si legge a principio del testo canonico (I, 2-17), vien posto dal S., d'accordo in ciò con tutti gli studiosi competenti, alla fine delle profezie autentiche d’Isaia, come «il testamento spirituale» del grande profeta. Esaminando minutamente questo ipotetico ordinamento cronologico dei carmi isaiani, è facile trovare argomenti di obiezione; però bisogna sapersi appagare di approssimazioni alla stòrica verità, a cui il S. avvicinasi nieglio che si. possa.
I.a traduzione è condotta con somma diligenza-sul testo ebraico, ricostituito e studiato alla luce della critica filologica più esigente e paziente. I brani sono commentati, non con note ai singoli versi, ma con, pàgine in appendice a ogni singolo testo, dove si trovano le notizie storiche, religiose e d’ogni. altro ordine per la piena inter-Srotazione del pensiero d’Isaia. La parola el quale, in tal modo, meglio concorre ad aiutare il lettore nel farsi un’idea possibilmente compiuta e viva della di lui figura spirituale e sociale.
Per saggio della traduzione e del commentò prendiamo il brano contenuto nel capitolo XXII, 15-18 del testo canonico:
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è un invettiva d’Isaia contro un personaggio della corte di re Ezechia in Gerusalemme, che quasi certamente era il cortigiano Shebna vivente nel 701 av. Cr. Ecco come il S. traduce quei tre versi: ■ Contro Shebna maestro di palazzo (del re di Giuda). — così parla Jahvé Zeba’oth:
- orsù, rivolgiti a quel ministro (e digli]: - Che hai tu qua? Chi hai tu qui? —- che qui ti scavi l’ipogeo — e ti fori ben in alto la tomba — e t'apri nel sasso il luogo del riposo? — (Ecco); Jahvé t'afferrerà forte, — ti ravvolgerà su te stesso, — e ti-rovescierà, carcassa, — in più spazioso terreno. — Lì avrai la tomba della tua gloria,
- o vergogna della casa del tuo sire! » Il Soragna fa seguire la spiegazione dove, tra l’altro, dice: • Una sontuosa tomba, secondo il pensiero- di Isaia, d’accordo in ciò colla mentalità antica, non ha senso che per chi ha una famiglia per cui, morendo, possa « riunirsi ai padri ■; e una tomba «in alto», cioè a una certa altezza sulle pareti del monte non si adatta che a sovrani e nobili personaggi. L’uso degli ipogei scavati nella roccia è antico e generale nell’Asia anteriore e presso gli Ebrei; meno comune, almeno presso i Fenici, l’uso di scavarseli durante la vita e anche questo procedere del favorito plebeo può aver urtato Isaia. Ma Jahvé vendicherà la pubblica opinione oltraggiata... Quando sarà morto e deposto nel suo ipogeo, Jahvé afferrerà il corpo di Shebna e lo farà balzar giù come una palla, lungo i fianchi del monte, fino al terreno dove la gcntuccia senza danaro e senza genealogia ottiene, a poco prezzo, una tomba scavata a fior di terra. Chi si scandalizzasse dell’agire di Jahvé mostrerebbe d’aver poca dimestichezza col carattere di questa divinità ». Questa interpretazione si allontana dalla comune, secondo la quale Isaia predice a Shebna la caduta dal potere e la morte in esilio. Ma §e le parole « là morrai » (v. 19) sono una glossa, la congettura del Soragna è plausibile; e può dirsi che « così intesa, la seconda parte del componimento, corrisponde perfettamente alla prima, e l'invettiva riesce piena di forza e di efficacia ». Non possiamo dilungarci a citare altri E »assi per mostrare l’originalità di questo avoro su Isaia: dove il S. ha inteso di dar vita alla figura storica del grande profeta.
Non diremo che ad esso non si possano attribuire con qualche probabilità certi brani negatigli dal S.; nè che questi abbia in ogni punto del commento reso in màniera definitiva il pensiero religioso di Isaia; anzi a certe opinioni ardite del S. non sottoscriviamo. Ma crediamo di poter dire che il marchese di Soragna merita congratulazione ed ammirazione per questa pubblicazione dotta e geniale: egli vi palesa un forte e lucido ingegno, ricco di una sómma di cognizioni filologiche e storiche orientali che ben pochi e provetti studiosi italiani possono vantare, in fatto di letteratura ed erudizione semitica.
IL PROBLEMA DELL’ECCLESIASTE
Il carattere delle sentenze attribuite all’«Ecclesiaste» vienedelineatoda P. Humbert, professore di teologia a Losanna, in un opuscolo (Estratto dalla Revue de Tbiologie et de Philosophie, di Losanna, 1915; S. 27) intitolato Qohileth. Un tal nome raicosi può tradurre con quello di «concionatore»; ma poiché deriva un sostantivo che significa « chiesa », cioè- adunanza, si può rendere anche con quello di « chie-siastico », ovvero, « ccclesiaste » (secondo i LXX). Probabilmente con la voce aohé-leih si designava una carica nelle pubbliche assemblee in seno del Giudaismo antico,, della quale ignoriamo la natura precisa. Il titolo: <1 Le sentenze di Qohéleth, figliuolo di David, re in Gerusalemme » (che si legge in testa (I, 1) del libro canonico) non è autentico; però le sentenze raccolte sotto di esso (12 capitoli) provengono, la più parte, dal misterioso Qohéleri’à'
Egli era un saggio giudCO; che viveva nel terzo secolo avanti l’èra'nòstra, e probabilmente insegnava a Gerusalemme. Apparteneva quindi alla schiera eletta dei chakamim,cultori dellachokmà, «sapienza » giudaica che ha certi punti di contatto con quella egiziana antica, e chiaramente palesa l'influsso del pensiero greco, penetrato eziandio in Palestina al tempo di Alessandro Magno; L’esegeta francese Podechard insieme con altri studiosi combatte, e non senza vigore, nel suo recente Commento (pp. 82-110), la supposizione che Qohéleth abbia desunto parte del suo pensiero dai filosofi greci. E con ogni probabilità è nel vero chi nega a Qohéleth la conoscenza diretta degli scritti di Aristotele, di Epicuro e di altri filosofi greci. Ma certe loro idee, segnatamente quelle della scuola stoica, aleggiavano allora anche nell’ambiente colto palestinese, e vi costituivano, come dice il prof. Bertholet (Die Jüdische
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Religión von der Zeit Esras bis zum Chrisli, pagina 156) una certa filosofìa eccletica popolare. E l'ammettere che Qohéleth abbia popolarmente subito gl’influssi del pensiero filosofico’ greco orientalizzato, non solo è conforme alla verisimiglianza storica, ma è l’unica ipotesi che spieghi razionalmente la fisionomia estragiudaica della sua dottrina. Anche il prof. Humbert accoglie questa ipotesi.
La mentalità di Qohéleth è universalista. Il suo modo di vedere — come nota il prof. H. — non è più angusto come quello di un pensatore giudeo, ma appare, invece, vasto come quello di un’intelletto educato nel mondo greco e romano. Non s’indugia nè sul Tempio nè sulla- Legge: non distingue neppure tra l’ebraismo e il paganesimo. Qohéleth volge il suo sguardo pensoso sull'uomo di ogni luogo, « sotto il sole »; e dell’uomo indaga la ragione di vivere. La sua indàgine è personale, acuta e sincera. La sua conclusione è pessimistica: la vita non è che, vanità e atfanno, sempre e dovunque e comunque. Tutta la letteratura ebraica, eccetto il sublime poema di Giobbe, parla della gioia di vivere lungamente sulla terra. Qohéleth, invece, nega che la vita meriti di essere vissuta. Egli è fatalista, in quanto nega il dogma ebraico della retribuzione divina sulla terra. Forse ammette la sopravvivenza, secondo l’opinione giudaica popolare, di qualche cosa dell'uomo nello Sheol; ma il destino dell’uomo non gli sembra migliore di quello del bruto, giacché amendue veramente ridiventano polvere, esalato l'ultimo soffio: se l’ombra dell'uomo scende a dimorare nello Sheol, ivi avrà una pallida esistenza non degna del nome di vita: nè vale la pena di pensarvi. Tale il pensiero negativo che nelle sentenze di Qohéleth viene additato dal prof. Humbert: il quale le riconosce, insieme con esegeti pur cauti quali il Podechard e il Gautier, interpolate qua e là dóve piamente si volle attenuare ciò che più contrasta con la fede religiosa del Giudaismo.
Se non che, assumendo come parola di Qohéleth alcune sentenze di cui non gli pare si possa contestare l’autenticità, trova che quel misterioso savio « pur essendo in contrasto con la fede giudaica in cose essenziali, si mantiene tuttavia in contatto con il Giudaismo ». Perchè , Qohéleth crede in Dio come autore e
sovrano signore del mondo; e non osa di proferire parole ingiuriose contro Elo-him (chiamato sempre così, e non mai con il nome nazionale di « Jahvé »); benché vegga e dica che le umane cose non vanno secondo giustizia: si chiude nei limiti di un reverente ma freddo, agnosticismo religioso; e consiglia altrui di accettarlo con serenità d’animo vivendo e lasciando vivere. Qohéleth non era una Ìiersonalità creatrice, nè uno spirito pro-ondamente religioso anelante a idealità morali. E si trovava ben lungi dall’esperienza del cristiano che sente la santità della vita nel viverla nobilmente e disinteressatamente a vantaggio del suo prossimo! In un articolo del periodico americano The Biblica! World in. di agosto 1916, pp. 82-88), il prof. H. Ackerman intende di far nuova luce sul « problema dell’Ec-clesiaste » indagando il significato delle due voci ebraiche rispondenti, nelle versioni antiche c moderne, a quelle di « vanità» e di «fatica». Come ognun sa, Qohéleth pone questo angoscioso quesito: « Che profitto 'ha l’uomo di tutta la sua fatica? » (I, 3). E risponde che ogni cosa è « vanità di vanità ». Il prof. A. nota che «vanità» non significa «futilità», ma bensì « instabilità ».- Inoltre, la « fatica » di cui parla Qohéleth si dovrebbe intendere come sforzo « morale », conato del sa-iente. Ed accettando come proveniente a Qohéleth il contenuto intero del testo
tradizionale, il prof. A. può giungere alla conclusione che quel savio giudeo la pensava press’a poco così. La coscienza morale ha necessità di fondarsi sulla ragione, poiché nel mondo fenomenico perpetuamente cangiante la sola ragione può fornire un punto di appoggio per il dovere morale individuale; ed essa inse-!;na all’uomo di accettare lietamente a vita, ossia, lo sforzo morale in quanto è premio a sé stesso: la gioia di vivere è quella stessa congiunta con l’azione morale, consapevole ed energica.
r. e p. •
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ETNOGRAFIA RELIGIOSA
IV.
Alfredo Galletti, Mitologia e Germa-ncsirno. Milano, Treves, 1917.
■ Se v’è passione profonda, acre, diffusa, sempre attiva e mordente nell’anima teutonica; una passione nata colle prime conquiste romane, conservatasi e accresciutasi nei secoli; una passione che impronta così la storia politica e religiosa dei Germani come lo svolgimento del loro pensiero filosofico e letterario è certo il rancore conti© la latinità, la paura che Roma: la lingua, la civiltà, la religione di Roma possano riprendere sullo spirito germanico l’antico predominio, torcerlo dalla sua via, snaturarlo. A quest’odio — più operoso e combattivo di ogni amore — nessun uomo politicò, nessun riformatore o poeta ha mai fatto appello invano ». Questa l’idea che l’elegante letterato dello studio bolognese svolge in questo lavoro, che collega l’ideale politico-dispotico del ger-manesimo a quello ctnico-mitologico dell’antica barbarie nordica; l’orgoglio sanguinoso della Germania odierna al fanatismo delle vecchie e feroci divinità, di cui nei racconti di Cesare, Tacito, Ammiano Marcellino; che fa scorgere nel luteranesimo non solo il principio di spezzare l’unità della fede, ma bensì quello di rendere nazionale la religione germanica; la quale poi, nel corso di cento anni (1770-1870), senza mai negare il suo fine, produce il criticismo, passando da questo all’umanesimo e quindi al nazionalismo; e quindi ancora, al nazionalismo più folle e fanatico, che vede nell’Impera toro lo spirito del mondo, in quanto nella persona del capo si concentra, si sublima, si rivela la divinità di cui il popolo tedesco è depositario.
Pel Galletti non bastano, a darci ragione dell’impeto concorde e violento e fanatico con che un popolo di sessantotto milioni di abitanti si è avventato alla folle impresa di sottoporre l’Europa e la civiltà alla sua legge, nè i motivi politici ed economici, nè il desiderio di ampliare i confini, di conquistare nuovi mercati, di accrescere i profitti del traffico, nè la gelosia ereditaria che sospinge periodicamente in guerra popoli e razze. La ragione del conflitto è nello spinto tedesco; è ladicata nel germanesimo mitologico, nella concezione religiosa, nel bisogno e nel sentimento della libertà tedesca e del dio tedesco. Lessing ed Herder
cacciarono di seggio Voltaire e Diderot; i romantici screditarono il largo umanesimo di Goethe e Schiller, acercando avidamente la storia delie origini nazionali; la filosofia scoperse le reliquie della poesia, del diritto, della religione primitiva tedesca; critici ed eruditi esplorarono il terreno storico, illustrando i miti, le leggende, i riti, le superstizioni, i costumi dei Germani primitivi, nomadi e indomiti e non ancora corrotti dalla civiltà latina.
Veramente, non mi pare debba attri-buiisi tale carattere all’origine dell’indagine mitologica nel senso più largo della parola, comprendente, cioè, le superstizioni e le tiadizioni volgari. Essa, come ricerca, preesiste al movimento romantico ed è una emanazione della tendenza filosofico-uma-nitaria francese del secolo xvH'x. Mentre i viaggiatori e i missionari offrivano ai filosofi della storia i materiali per costruire la figura del « bon sauvage» e dell’« enfant de la nature ■; altri viaggiatori e studiosi offrivano i documenti della vita popolai©, intramezzando la descrizione dei paesaggi con quella dei costumi regionali. Il gusto dell’esotismo porta, a poco a poco, alla storia dell’uomo e degli uomini; e da per tutto vediamo le manifestazioni d’una stessa idea. AI Saggio sui pregiudizi volgari del Voltaire in Francia, fanno eco in Inghilterra il Saggio sugli Errori popolareschi del Brawn, in Italia il Saggio siigli Errori popolari degli Antichi del Leopardi. E già nove anni prima che il nostro Placucci componesse lo studio sui contadini della Romagna, il Governatore della Pubblica Istruzione, dei primo Regno d’Italia Lombardo-Veneto (1811) diramava una circolare per conoscere l’indole, i costumi, le lingue dei popoli. E non ancora i Grimm avevano dato alla luce l’opera Kinder und Haus-maercken (1812-1822).
Più tardi, dall’esame degli errori volgari, che portano alla ricerca dei costumi e degli usi al lume della logica e della scienza, si passa, col sopravvenire del movimento etno-grafico-filologico, alla raccolta dei canti, che ferve e progredisce in ogni paese, dalla Slavia meridionale, ove Vuk Stefanovic Karadzic (1814-1833) pubblica quattro volumi di canti di eroi e di amore; alla Finlandia, ove Elia Roennrot riunisce i frammenti della grande epopea finlandese, sparsi nella memoria del popolo. Questo movimento è generale; e attribuire' al romanticismo e ai filologi del Reno la paternità di tale indirizzo, che doveva rifare la mito-
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TRA LIBRlgEjRIVISTE
logia, mettendo a profitto il folklore, è, se non un errore, un’esagerazione di cui si compiacciono ancora molti storici che, ammaliati dall'opera dei Grimm, trascurano i precursoii e gli assertori primi della ricerca c dello studio delle tradizioni popolari.
Giovanni Marro, Arte Primitiva c Arte Paranoica. Memoria preliminare con sei tavole. Torino, 1916.
A rischiarare l’oscuro problema dell’ori-gine dell’arte, specialmente nelle forme grafiche e plastiche, filosofi e sociologi sono ricorsi al confronto tra il selvaggio e il fanciullo, tra il primitivo e l’anormale, per formulare il principio che, se le produzioni di questi tre artefici rudimentali presentano analogia nell’insieme e nei dettagli, il fatto deve necessariamente attribuirsi a un identico processo mentale.
Quante volte, dal Tylor in poi, l'assioma dell’identità dell’idea non è stato messo avanti dagli etnografi a spiegare manifestazioni simili e somiglianti di usi, cerimonie, manufatti!
Il prof. Marro in questa memoria, che illustra la svariata produzione artistica di un paranoico ricoverato nel Manicomio di Collegno, ritorna su tale concetto; e contro i filosofi che attribuirono, per lungo tempo, le origini dell’arte al sentimento religioso, quando i fedeli, per povertà di mezzi, sosti-tuironp nei tempi le immagini dei giovenchi, dei montoni, dei maiali alle vittime destinate a placare la divinità; e contro il Grosse, che risollevò ai nostri giorni la teoria del bisogno estetico; vuol vedere gli esordii del fenomeno artistico nell’impulso e nell'istinto che fanno scorgere al cacciatore primitivo in tutto quanto è'strano e bizzarro nella natura, un’espressione di vita e di forza: in una radice d’albero il Srugno di un animale; in un'altra la groppe i una fiera; in un ramo contorto un ser >e o un rettile; nei contorni delle roccie e de le montagne, nel profilo degli alberi e ne la forma delle nubi figure umane o di mostri.
Il paranoico di Collegno, che utilizza i frammenti di ossa della cucina, ne fa, mediante il rilievo dei tratti caratteristici, modelli di uomini o d'animali; e l’antico cinese che, con «abile colpo di scalpello», trasforma in figure pezzi di radici o di rami contorti, fanno pensare alla « spontaneità » originaria del lavoro artistico, che è suggerito dal gioco della natura, e che non è frutto
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dell'invenzione o della creazione della mente umana.
L’osservazione del Marro, che spinge oltre il segno l’ipotesi dell’origine realistica dell’arte, potrebbe, forse, valere in parte per quanto riguarda la scultura, se non fosse ormai dimostrato che questa procede dalla decorazione e dal bassorilievo, allorquando la figura incisa, a incavo o a rilievo, si stacca dalla tavola, dal masso vegetale o minerale per presentarsi rilevata e isolata dalla materia d’intaglio, libera nelle membra; e per passare, poi, dalla posa ieratica a quella atletica o umana. D’altra parte, l'osservazione tende ad enunciare una nuova ipotesi, la quale mi pare che, nascendo da un fatto speciale, non possa presumere di spiegare gli esordii generali dell’arte; nascendo da un confronto puramente moifo-logico tra due produzioni scultoree, quella di un paranoico e quella di alcuni artisti cinesi, non possa pretendere di scrutare l’origine psicologica generale dei fenomeni artistici. Se l’artista cinese, o meglio l’antico artista cinese, da un ramo contorto o da un groviglio di radici trae qualche figura umana o semi-umana danzante, questo non è dovuto all’impulso animistico, che fa vedere al selvaggio forme reali dove non sono che forme apparenti, ma è un prodotto dell’acuta e fine osservazione, i segni della quale si notano impressi nel ramo e nella radice mediante « abili > colpi di scalpello (uso l’aggettivo del Marro), che ne rilevano i contorni e ne fanno risaltare le caratteristiche.
E non solo: l’artista del vecchio Impero Celeste può dirsi « primitivo »? Certamente no, se consideriamo che Vhomo primigenius è una pura concezione scientifica e che l’essere umano più arretrato che si conosca, si trova sotto il punto di vista industriale, nel periodo neolitico, e sotto il punto di vista intellettuale, nell’età magica.
Il Marro aggiunge a conforto, che i valligiani e tutti quelli che «conducono una vita primitiva, a contatto più diretto colla natura, hanno la facoltà di scorgere nei ceppi d’albe*o e nelle roccie... figure umane o di animali, leali o fantastici, sovente in movimento ». Questo fatto però, più che procedere da idee animiste, deriva da quel fenomeno per cui una leggenda o un mito si localizzano in un ambiente, in un luogo, in un paesaggio, facendo osservare al popolo gli effetti o i risultati dei prodigi o dei miracoli dell’essere mitico in alcune speciali manifestazioni naturali, che sono do-
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vute al ■ lusus naturae » e che hanno attinenza cogli attributi o con la vita dell’essere leggendario. Le mitologie popolari offrono molti importanti documenti al riguardo.
Ricordo la leggenda di S. Patrizio nel-l’Jrlanda, dove, come narra il dottore Andrea Boorde, al tempo di Enrico Vili, si vedevano pietre aventi forma e figura di serpenti, di vipere, di lucertole, nell’assenza totale di tali bestie. Il volgo irlandese, a spiegare il fatto e a mostrare la traccia visibile del miracolo del santo, diceva che altre volte, tali pietre erano rettili, cangiati poi in sassi per volere divino e per intercessione di san Patrizio. Il carattere esplicativo del racconto è chiaro quando si pensi che i rettili pietrificati altro non erano che ammoniti fossili, e che una variante della leggenda in Francia, attribuisce un tale miracolo, operato in una delle isole di fronte a Cannes, a santo Onorato; e che le due tradizioni, quella irlandese e quella francese, ricordano il passo di Eliano (De Nat. Anirn., V, 2), il quale dice che la terra dell'isola di Creta era fatale ai serpenti velenosi.
Giuseppe Leanti, Scritti vari di demopsicologia eletteratur a siciliana. Voi. I. Messina, Stab. Cromo Tip. Ees di Messina, 1917.
Veramente, il dott. Leanti, più che un volume, com'egli dice, ci presenta un opuscolo di 53 pagine oltre, l'indice; e gli scritti in esso raccolti, per quanto < vari. », si 'riducono a cinque articoletti. La materia ò povera, come povera è la forma, se non scorretta, e indegna del grande Pitré, di cui lo scrittore, chiamiamolo pure cosi, vorrebbe illustrare l’opera senza avere la necessaria preparazione etnografica e antropologica, forse nem
meno nel campo del folklore siciliano. Siamo in presenza di un demopsicologo che ignora i fini e i termini della novella disciplina; di un etnografo che non sa che cosa sia la scienza dell’« etnos ». Se così non fosse, non attribuirebbe alla ‘ prima il compito ù'intrattenersi sulla storia civile, artistica, letteraria; di occuparsi della letteratura siciliana, e di esaminare le manifestazioni vernacole e quelle in volgare di letterati cresciuti in Sicilia (pp. 6-7); e non assegnerebbe alla etnografia il compito di trattare di aggregazioni di uomini secondo la loro origine, la loro indole ‘e la loro lingua e classificando le varie nazioni (!) in famiglie (!) e gruppi (!). Povero dott. I.eanti! Torni ai primi elementi; torni al « Handbook of Folklore Society »; torni al « Folklore » del Puymaigre; torni al Nutt, al Lang, al Sébillot, almeno per formarsi l’idea esatta del significato e dell’uso della fortunata parola del Thoms, « folklore », che ha ormai una storia, un metodo, un sistema scientifici; torni al Bastian, al Tylor, al Ratzcl per farsi il concetto della etnografia o etnologia, la scienza della coltura morale e materiale, prima di tentar «la ricostruzione spirituale (!) del popolo» e di accingersi al faticosissimo lavoro di • percorrere tutto il cammino del Pitré con intendimenti seri e metodo rigoroso, non scevro di genialità (sic)', di approfondire certe (!) quistioni di folklore e di etnografia, che ancora attendono una soluzione ». E lasci così, nella pace della sua gloria il sommo maestro, che attende àncora l’illustratore della molteplice e monumentale opera sua, invidiata alla Sicilia dalle altre regioni d’Italia, e a questa dalle altre nazioni del mondo.
Raffaele Corso.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Róma - Tipografia dell’Unione Editrice, Via Federico Cesi, 45
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