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Anno Vili. - Fasc. V.
ROMA - 15 MAGGIO 1919
Volume XIII. 5
MARIO Falchi: Le condizioni religiose della “Società delle Nazioni,,.
GIOVANNI Pioli ; In memoria del P. Pietro Gazzola.
PAOLO Emilio PaVOLINI: Poesia religiosa polacca.
(•**): Mancanze di garanzie nello schema e nel nuovo Codice di Diritto Canonico.
PAOLO lucci: Uno scritto di M. Lutero: “Se la gente j di guerra possa, anche essa, essere in istato beato".
RUBRICHE FISSE:
Per la cultura dell’anima - Giovanni LUZZI: Della conoscenza cristiana - Spigolature.
Note e commenti - Vincenzo Cento: A proposito del "Colloquio con R. Serra,,. Fatto personale - ROMOLO MURRI : Per un fatto... quasi personale.
Tra libri e riviste - Mario Puglisi : Storia e psicologia religiosa (III) - Varia.
Notiziario - Dalla stampa.
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RII YCHNIS RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
DlLi IVrllNlO < FONDATA NEL 1912 >
CRITICA BIBLICA STORIA] DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA PEDAGOGIA FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE - QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL'ESTERO SI PUBBLICALA FINE DI OGNI MESE. REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l’Estero ; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l’Italia, L. 7; Per l’Estero, L. IO; Un fascicolo, L. I. (Per gli Siali Uniti e per il Canadà è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Doménica, B. D. Pastor.
1414 Cesile Ave, Phlladelphla, Pa. (U. S. A.)].
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II. Il paese di Gesù.
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IV. Gli anni silenziosi di Gesù.
V. La predicazione di Gesù.
VI. Le Parabole di Gesù.
VII. I principali insegnamenti di Gesù.
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RJV151À DI S1VDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA 5CVOLA TEOLOGICA BATTISTA • DI ROMAAnno ottavo - Fasc. V.
Maggio 1919 (Vol. XIII. 5)
SOMMARIO:
MARIO Falchi: Le condizioni religiose della 11 Società delle Nazioni„ Pag. 33$
Giovanni PIOLI: In memoria del P. Pietro Gazzola ...... » 350
Paolo Emilio PavOlini: Poesia religiosa polacca . ...... > 363
( *** ) : Mancanze di garanzie nello schema e nel nuovo Codice di
Diritto Canonico. — I. Le garanzie presso i tribunali ordinari di
prima e di seconda istanza.............. » 369
Paolo Tue ci: Uno scritto di M. Lutero: «Se la gente di guerra possa, anche essa, essere in ¡stato beato » ........ > 383
PER LA CULTURA DELL’ANIMA :
Giovanni Luzzi: Della conoscenza cristiana................. 388
Spigolature.................................. • 392
NOTE E COMMENTI:
Vincenzo Cento: A proposito del «Colloquio con R. Serra». Fatto personale > 394 Romolo Murri: Per un lattò;., quasi personale .............. » 396
TRA LIBRI E RIVISTE :
Mario Puglisi : Storia e psicologia religiosa (III) : Federico Schleiermacher -In che consiste il merito di Schleiermacher - La natura della religiosità secondo S. - Le religioni positive e la Chiesa secondo S. - Metafisica e religione - Nuovi studi di psicologia e filosofia - Il metodo negli studi di psicologia - Il concetto di anima nella psicologia contemporanea - Natura e realtà dell' anima - Origine e destino ultimo dell’anima................................................. » 397
Varia: Italiani in America (Pietro Chiminelli) - Corpus Scriptorum Latinorum Paravianum (Giovanni Costa) - Pubblicazioni pervenute alla Redazione.............................................. ■ 404
Notiziario ............................................. » 406
Dalla Stampa ............. ......... ...... ... • 411
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LE CONDIZIONI RELIGIOSE DELLA “SOCIETÀ DELLE NAZIONI” <’>
L grande concetto della « Società delle Nazioni > non sfugge alla legge di flusso e di riflusso delle idee per cui il sàvio antico diceva che nulla di nuovo è sotto il sole. Essa, che può dirsi il formidabile sviluppo di un’utopia che sta maturando in realtà vivente, prima di venire imposta, come lo è ora, quale idèa cardine di una nuova umanità, prima di divenire il sospiro appassionato di popoli stanchi di strage e di rovina, essa fu già nel passato come una rivelazione
concessa ad anime che apparivano solitarie nella società in cui vissero.
E poi in appresso in età più vicina, in età a noi contemporanea, fu già segnacolo di adunata, d* infra tutti i popoli, di quanti, per sentimento infiammato del cuore, e per convinzione di mente, erano giunti alla persuasione che alle guerre si doveva e si poteva por fine; e che ad una società di popoli di-laniantisi l’un l’altro, si doveva e si poteva fare succedere una cooperazione di genti, legate dà vincolo di solidarietà, oltre che economica anche morale.
Non è molto costoro erano ancora detti degli illusi, degli utopisti, inconsci e dannosi snervatori della fibra nazionale ; ma ora è di loro la gioia, l’ineflabile intima gioia, di assistere all’avvento * nella realtà di una visione che essi, nella migliore delle ipotesi, avevano proiettato nel futuro, allietandosi in fede di questo, che i lontani nipoti avrebbero, almeno essi, goduto di un bene, cui per parte loro erano già disposti a rinunciare. Perchè non vi traggano in inganno le rivalità
(i) Da una prossima pubblicazione della Federazione Italiana degli studenti per la cultura Religiosa, col gentile consenso del Segret. Generale, Capii. Cesare Gay (Red.).
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tra popoli, risorgenti intorno al tavolo stesso della Pace, non cedete alla tentazione dello scetticismo ; ormai la grande idea è in cammino ; grande idea al punto di partenza; grande fatto al fatale punto di arrivo, cui la condurranno la passione e la volontà dei popoli.
Questi utopisti avevano rinunziato alla speranza di assistere alla grande aurora; ma poi venne la guerra, la mostruosa guerra piena di ogni strazio ; essa per riflesso, fu la terribile, imperiosa propagandista della pretesa utopia; per essa assistiamo ora noi, ripeto, al formidabile sviluppo di un sogno che matura in realtà vivente.
In riguardo di questo la guerra fu come una condensazione del tempo, e quindi dello svolgimento Storico. Mi spiego. Immaginate che, ferme restando le nostre facoltà percettive ed intellettive, lo spazio di tempo dell'anno si ristringa, ad un dato momento, allo spazio di tempo di un giorno, quale meraviglioso spettacolo ci presenterebbe, ad esempio, un campo seminatoi Si vedrebbe il germogliare e lo svilupparsi del granello di frumento, il cestire ed il crescere del culmo, l’inturgidirsi della spiga; si vedrebbe tutto ciò come fenomeno di moto sensibile, come lo è quello dell’acqua scorrente. Così, sotto la costrizione condensatrice di un dolore e di una sofferenza senza misura, vedemmo, come fenomeno di moto sensibile, germogliare, diffondersi, maturare — maturare, vi dico! — l’idea della Società delle Nazioni^ pel cui sviluppo si solevano domandare, non gli anni, ma generazioni e secoli. Sicché, quando fu lanciato il grande e nobile appello, chi volesse essere per araldo, chi per apostolo di un comandamento nuovo — che è poi l’antico, vedete! — da ogni parte del mondo, dalle università, come dalle officine, dalle trincee tormentose, come - dai sicuri e quieti palazzi, venne la risposta, «eccomi/io sarò araldo, io sarò apostolo!»
In quattro anni l’opera di persuasione e di diffusione di un' idea solò nutrita dà pochi si è svolta con rapidità incredibile; ed i popoli, nel saluto appassionato rivolto a chi si fece banditore autorevole del nuovo istituto politico mondiale, mostrarono quanto avessero assimilato, pur intendendone e valutandone le ingenti conseguenze, un concetto che poco prima era ritenuto follìa.
Perchè — notate bene — chi dice Società delle Nazioni, dice abdicazione parziale della sovranità degli Stati — così, in riguardo nostro, abdicazione parziale della sovranità d’Italia — cioè quello che milioni e milioni di persone colte, che pure comprendevano 1’ analoga abdicazione della sovranità individuale nella sfera della società civile e dello Stato, erano qui ben decise, per educazione, per tradizione storica, per passione esaltata, a non volere, nè ora, nè mai.
Che se nello spirito dei popoli tale trasformazione di sentimento si compì e si compie, è ben chiaro che, affinchè ciò avvenisse, dovevano e debbono essere soddisfatte delle condizioni nuove, che investono tutti i campi di attività umana, tutte le sfere di manifestazione di vita collettiva.
Toccheremo brevemente delle altre categorie di condizioni, per soffermarci poi su quelle che sono oggetto precipuo del nostro studio. Queste altre categorie di condizioni comprendono condizioni già verificatesi, e condizicni che si stanno verificando; mentre le condizioni religiose sono legate allo sviluppo fecondo della Società delle Nazioni.
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LE CONDIZIONI RELIGIOSE DELLA «SOCIETÀ DELLE NAZIONI» 537
I. - CONDIZIONI GIÀ VERIFICATE.
i - CONDIZIONI MILITARI.
Anzi tutto, data la terribile via in cui il mondo era entrato, la guerra, c'erano delle condizioni militari da soddisfare. Prima della guerra si poteva pensare ad una sì vasta fioritura di buon senso, ad una visióne, snebbiata alfine, dei veri interessi di tutti i popoli, ad una efficacia di propaganda sociale, umanitaria, morale, per cui le popolazioni germaniche avessero strappato il potere di mano alla autocrazia feudale e militare, che lo deteneva covando il disegno di rivolgere la formidabile forza dell’impero a minaccia mortale per gli altri pòpoli.
Prima, ripeto, lo si poteva pensare; poi non più.
Quando la soluzione fu affidata alla violenza, per poter giungere ad una società di popoli viventi in accordo, occorreva che il dominio delle caste militari della Germania e dell’Austria, e il conseguente Culto* della forza materiale' fossero spezzati; e spezzati in modo tale che non rimanesse più probabilità di vederli ristabiliti.
Siamo ancora come sotto una impressione di stordimento, pensando alla estensione ed alla profondità del risultato militare raggiunto, sia che consideriamo quello nostro particolare, sia che consideriamo quello collettivo della Intésa.
Eppure la mèta conseguita, per virtù di soldati e di popoli, è il minimo delle condizioni militari necessarie per giungere a costituire la Società delle Nazioni. Lasciamo da parte l’ipotesi di un sopravvento militare degli Imperi dell’Europa Centrale, che avrebbe escluso senz’altro ogni idèa di Società delle Nazioni, perchè la contradizione noi consente ; consideriamo solo l’ipotesi di una fine delia lotta per compromessi, in seguito ad esaurimento reciproco o a riconosciuta incapacità reciproca ad avere un predominio deciso; sarebbe stata possibile, in tale ipotesi, la risoluzione dei nodi storici intrecciatisi in Europa in una eredita di avvenimenti millenaria?
Questa possibilità la nostra mente non la vede. Si sarebbe forse protestato dà una parte e dall’altra, di volere e di desiderare, ma la stessa necessità di dover lasciare senza riparazione’le inaudite offese al diritto perpetrate dagli aggressori, avrebbe tolto ogni valore alle più eloquenti parole.
Occorreva che i due eserciti degli imperi di rapina rimanessero rotti e smembrati. Solo così, il programma del presidente Wilson poteva venire proposto ed imposto in nome del volere dei popoli; solo così le nazioni colpevoli del misfatto più sanguinoso che sia mai stato, avrebbero potuto aprire gli occhi e valutare e giudicare la colpa di ehi li aveva tratti, essi e tutto il mondo, a tale sbaragliò.
E le condizioni militari furono soddisfatte.; e nessuno potrà mai dire quale debito abbiamo contratto verso i milioni di giovani che caddero o furono mutilati, o soffersero quanto moralmente e fisicamente era soffribile ; quale debito abbiano contratto le generazioni che verranno e che godranno i benefici di una Società delie Nazioni,, senza vedere quanto sangue è costata, e trovandola cosa
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talmente buona, logica ed utile da stupirsi che in tempi anteriori le genti abbiano potuto accettare di essere prive di un tal bene.
Certo noi, e quelli che verranno dopo noi, dovremo pensare che ogni nostro bene materiale, ogni nostro morale soddisfacimento è nutrito ormai del sangue dei milioni di caduti, delle sofferenze dei milioni di mutilati, delle lacrime dei milioni di dolenti. Possiamo noi non dimenticarlo mai; e la memoria loro rimanga nelle famiglie, tramandata di padre in figlio, oggetto di commossa ed affettuosa benedizione!
2. - CONDIZIONI POLITICHE.
Occorrevano delle condizioni politiche.
Invero, la Società delle Nazioni, che è società di popoli, non può sperare avvento che in un’atmosfera di democrazia.
Società di Stati eransi già avute in embrióne; erano state leghe, alleanze, era stato il vincolo universale della chiesa medievale; ma allora l’anima del popolo non partecipava, o se partecipava lo faceva sotto lo stimolo d’interessi egoistici, o per là tema di punizioni ultraterrene. Ora è chiaro, assiomaticamente chiaro, che una Società delle Nazioni non si forma col solo consentimento dei capi degli Stati, o facendo appello ad interessi egoistici, i quali ad ogni istante entrano in conflitto collo spirito di mutuo comportamento e di reciproca concessione che è imposta da quella.
E se si richiede il consentimento dei popoli e quello che fu detto lo spirito inter nazionale, cioè la consuetudine di considerare le diverse nazioni del mondo civile come pareggiate nella cooperazione amichevole per il progresso della civiltà, per lo sviluppo del commercio e delle industrie, e per l’estensione del sapere e della coltura in ogni paese, risulta che ciò solo si avrà fra popoli reggentisi a statuto politico democratico. A questo riguardo la polarizzazione pólitica dei popoli nella grande guerra era stata fin dal principio caratteristica ; e se contro il blocco degli imperi feudali autocratici, nel gruppo della Intesa, si poteva noverare uri grande Stato, esso pure autocratico, la Russia, pure rimase fin dal principio evidente che, pur coi difetti, colle lacune, coi relitti dell'antico imperialismo, nel campo della Intesa -era schierato quanto di meglio la evoluzione politica e sociale aveva prodotto nel corso di secoli di lotta durata da popoli decisi a rivendicare la propria capacità a governarsi.
Rammentate quando si parlava del « rullo slavo », che avrebbe travolto gli Imperi centrali ? Già fin d’allora c’era chi sentiva che il trionfo sull'autocrazia teutonica sarebbe stato il punto di partenza di una nuova èra storica, solo se le democrazie occidentali avessero prevalso per virtù propria, e non per forza di un’altra autocrazia antitetica delle prime. A chi in quei mesi dubbiosi ed ansiosi, quando lo sforzo contro gii eserciti teutonici poteva dirsi fortunato se riesciva ad evitare rovesci mortali, a ehi appariva scettico circa il valore politico e sociale della democrazia, e predicava già anche fra noi, trapiantandolo dalla Germania, il «vangelo della forza», a chi faceva questo potevano allora opporre fiduciosi il certo, fatale riprendersi della democrazia solo appunto coloro che
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vedevano uscire dalle brume, ben dense ancora, del futuro una nuova umanità di popoli solidali fra loro; e che, antivedendo questo, sentivano che, condizione necessaria di siffatto avvento, era l’affermazione del reggimento democratico in in tutto il mondo.
Gli eventi della guerra, per vie non previste da alcuno, le quali lasciano pensosi di un disegno futuro che l'umanità sta svolgendo senza rendersene conto preciso, si incaricarono di fare maturare le condizioni politiche per cui fu possibile proporre agli Stati tutti problemi come quelli dell’abolizione della diplomazia segreta, della trasformazione del colonialismo di sfruttamento in colonialismo di educazione e di progresso civile dei popoli ancora arretrati; oppure problemi come quello della partecipazione delle donne al governo della cosa pubblica, dell'abbattimento di tutti i privilegi politici e doganali, dell’abolizione della coscrizione militare, del controllo della produzione del materiale di guerra. Tutto questo, che pochi anni fa pareva sacrilegio o follia discutere, fu solo possibile colla ondata irresistibile di democrazia che corre ora da un capo all'altro d'Europa e d'America fino all’Asia e all’Africa.
Se la saldezza dei cuori e delle armi produsse le condizioni militari per la Società delle Nazioni, si può dire che la scuola della sofferenza, lo stimolo del bisogno imperioso di provvedere alla propria salvezza, spinsero i popoli a maturare rapidamente le condizioni politiche che erano necessarie.
II. CONDIZIONI CHE SI STANNO VERIFICANDO.
i. CONDIZIONI GIURIDICHE.
Ma doveva imporsi anche un nuovo concetto del diritto internazionale. Una nuova comprensione del diritto dei popoli e delle collettività doveva apparire necessaria alia mente turbata degli uomini, scossi dalla grande prova e resi ansiosi per la balenata possibilità della distruzione della civiltà, anzi della vita stessa sulla terra.
Era dessa una comprensione del diritto internazionale che permettesse di allogare la collettività della nazione, dello Stato, del popolo, in seno alla umanità, allo stesso modo che il diritto del cittadino si alloga in seno a quello della città.
Di diritto internazionale si trattava prima in conferenze; se ne scriveva in articoli di giornali e di riviste ; e, più ampiamente, in pubblicazioni di valore e dalle cattedre universitarie ; ma in realtà quando ài era in presenza di uno Stato armato e deciso a passare oltre ogni considerazione per fare prevalere la volontà sua, svanivano i principi formulati, e magari accettati in solenni assise internazionali, dove tra un ricevimento pomposo ed un pranzo d’onore si era sottoscritto l’impegno che ora, in nome della necessità e di superiori interessi si disdiceva con cinica disinvoltura.
Ma ora infine, dopo la quinquenne agonia, i popoli si trovarono a considerare la necessità di nuove relazioni di diritto, come ci si erano trovati i primi nuclei di uomini al costituirsi della tribù o della città. La potenza centuplicata dei mezzi di distruzione, il gravissimo pericolo di una tecnica ormai quasi on-
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□¡possente e posta a servizio di volontà che poteva essere amorale, fecero e fanno comprendere che è di estrema urgenza l’accettazione illuminata, ma decisa, di principi di diritto internazionale che vincolino popoli e Stati.
Sino a ieri nel diritto internazionale si era disposti a vedere solo, l’impaccio alla propria libertà, come Stato, e la limitazione alla propria volontà come orditori di trame politiche ; ora ci si vede la tutela della esistenza di grandi e di piccole collettività, la difesa contro il pericolo di vedere ad un dato momento la distruzióne di tutti i più preziósi beni.
Si comprese e si comprende che una Società delle Nazioni non si può avere là dove queste si sottomettono a certe limitazioni di azione solo per la tema della repressione violenta esercitata dagli altri popoli ; ma che essa può aversi solo fra Stati sottomessi ad una legge comune e disposti ad accettare l’applicazione eventuale di una sanzione nel caso di infrazione di tale legge.
Come la libertà e la convivenza cittadina possono solo aversi quando la generalità delle persone obbedisce alla legge per deliberato proposito, e non per tema dei carabinieri, così la libertà e la Società delle Nazioni possono aversi sólo quando queste si sottomettano alla legge internazionale per proposito deliberato, per cominzione di necessità umana, e non per la tema della punizione inflitta da un tribunale internazionale.
Le condizioni giuridiche della Società delle Nazioni maturarono talmente rapide sotto la sensazione del pericolo che tutti minacciava, che si videro Stati, come l’Inghilterra, fino a ieri gelosa dello «splendido isolamento», o come gli Stati Uniti, fino a ieri decisi a vivere appartati dalla politica europea, applicare ora invece le energie loro a fondere la loro vita con quella delle altre nazioni in una unità organica mondiale.
Qualcuno obbietterà che è in fondo anche loro interesse, perchè non vi è grande Stato che possa .oramai apparire sicuro contro i pericoli ed i danni di una guerra fatta coi mezzi moderni, e accenno solo alla navigazione sottomarina ed alla aerea. Concediamo pure, ma felice quello Stato che può condurre il suo interesse a coincidere con quello della giustizia e del diritto!
La guerra da cui usciamo ha sconfessato, si può dire ad ogni passo, il diritto internazionale.
Trattati fra Stati, accordi di conferenze internazionali, impegni.votati e firmati, tutto fu calpestato. Eppure la conclusione piena di convinzione e di ansia del mondo intero è che è impossibile per le nazioni, e tanto meno per una Società delle Nazioni, di sussistere senza un diritto internazionale;
Fu detto esattamente a questo riguardo (i): «Si sente che è impossibile di fare astrazione da certi principi regolatori, non osservando i quali la Civiltà non ha più avvenire. L’autorità di tali principi è tale che quelli stessi che li eludono un giorno, li invocano il domani. Anche da parte dei pangermanisti, tali principi furono più profanati che smentiti. Ora questo diritto internazionale, che il consentimento universale reclama e proclama, è di origine essenzialmente biblica. I profeti del secolo d’oro del profetismo ebraico l’hanno scorto.; il Cristo
(i) Jacques Dumas in Conditions religieuses de la Société des Nations, articolò pubblicato in settembre 19x8 sul Bulletin du Protestantisme français.
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l’ha consacrato. Vi sono postulati del Vangelo che dominano i rapporti fra gli Stati, non meno di quelli tra gli individui. Su questi postulati si sono appoggiati, attraverso i secoli, tutti quelli che hanno lentamente elaborato la teoria dei rapporti fra Stati. Si tratti di Alberico Gentili, di Puffendorff, di Zouch, d'Emerich de Vattel, del barone di Wolff o di Barbeyrac, presso tutti si trova la convinzione che i doveri internazionali sono una categoria primordiale dei doveri cristiani. Grozio, il cui monumentale trattato del Diritto della guerra e della pace è sovente rappresentato come quello che laicizzò il diritto internazionale, non ha meritato tale leggenda, perchè Grozio era un fermo credente, e la sua argomentazione è-costantemente ispirata e dominata dalla sua fede. Dopo lui, la maggior parte dei teorici del diritto delle genti ha più o meno ricalcato l’opera sua, mentre cercava di presentare le sue deduzioni come d’ordine puramente scientifico ».
E però le condizioni giuridiche per la costituzione della Società delle Nazioni ci conducono direttamente alle condizioni religiose di essa.
2. CONDIZIONI ECONOMICHE E DI LAVORO.
Ma prima diciamo ancora brevemente delle condizioni economiche e di lavoro.
Perchè si illuderebbe grossamente chi credesse che da questa, che è diventata ora la quistione delle quistioni, cioè la costituzione d’una Società delle Nazioni, si possa Separare il problema economico degli Stati e’ la quistione del lavorò e della sua legislazione internazionale. Coll’avviarsi dei delegati dei vari Stati alla Conferenza che chiude la grande guerra, parve che tutti i problemi politici e sociali, sia quelli più sopiti, sia quelli più ardenti, tutti fossero risollevati con impeto, tutti si concentrassero e' formassero come l’atmosfera che sono obbligati a respirare quelli che, nel palazzo del Quai d’Orsay, siedono, non più come i padroni, ma come i mandatari dei popoli e i portavoce delle loro sofferenze.
L’interdipendenza economica degli Stati, già effettiva prima della guerra, tanto che si era detto che avrebbe impedito la guerra — mentre si dimenticava una forza più valida di essa, la passione del cuore umano — quella interdipendenza s’è.ora accresciuta, decuplicata, tanto che si può, forse con più ragione, dire che essa, se non sarà riconosciuta e valutata come forza integratrice dell’accordo mondiale, impedirà la pace.
I debiti pubblici saliti ad altezze che non sembrano più ragionevoli, e pure sono reali; le ricchezze fantastiche, e fittizie in parte, create dalla guerra; lo spostamento rapido di èsse, la svalutazione del danaro col rincaro corrispondente della vita, la spaventosa distruzione di beni e di riserve alimentari in tutto il mondo, e la conseguente ripercussione nella finanza, nell’ industria, nell’agricoltura e sulle condizioni di lavoro e dei lavoratori; tutto questo ha fatto comprendere che è impossibile riunirsi per formulare lo statuto della Società delle Nazioni, e tornare domani a riprendere nei vari Stati la vita economica di prima ; ha fatto comprendere che lo statuto della Società delle Nazioni deve essere al tempo stesso lo statuto della Nazione umana!
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Concetti tradizionali sulla proprietà e sul lavoro cadono, per cedere il campo a nuove vedute sulla funzione sia dell’una che dell’altro. Nessun popolo può ora essere abbandonato a sè stesso, lasciandolo libero di rimarginare le sue ferite come vorrà e come potrà, nemmeno i popoli nemici vinti.
Il concetto della solidarietà dei popoli cresce e s’afferma tra la immensità della rovina e della convulsione; cresce, imposto dallo stesso senso della conservazione dell’umanità; o preoccuparsi gli uni degli altri ed aiutarsi a sanare i mali, o essere guasti e infettati gli uni dagli altri. Davanti a questo concetto, non solo scomparisce l'antica ideologia dell’egoismo nazionale, o statale, ma il concetto stesso di una classe sociale che si leva contro le altre, quasi interrompendo il vincolò sociale, passa in seconda linea.
E’ stato detto che l’umanità è a questo bivio : « Società delle Nazioni, o anarchia!» La forma può parere paradossale, nel dilemma che esclude le soluzioni medie e la non soluzione ; ma in fondo il pensiero è vero e profetico.
La Società delle Nazioni deve essere società di popoli ; e in questi società di classi. E', in una parola, uno spirito di solidarietà così universale, così pienamente umano, che lascia fin da ora scorgere, scritto sulla fronte dell’avvenire dell’umanità, il grande motto direttivo, la regola d’oro del Sermone sul Monte. Che se così : non fosse, sarebbe lo scatenarsi della disperazione delle moltitudini diseredate contro X’aedes economica millenaria, edificio difettoso, errato nelle parti anche, ma pure edificio, cioè casa che ripara, casa che si può modificare e trasformare, ma che, demolita, lascia l’umanità esposta a dolori sì vasti e sì intensi, da fare considerare quelli della guerra solo cominciamento di dolori.
La Russia infórmi!
III. CONDIZIONI RELIGIOSE, LEGATE ALLO SVILUPPO DELLA SOCIETÀ DELLE NAZIONI.
Tutto questo che dicemmo rivela che immancabilmente le condizioni per la Società delle Nazioni riguardano anche le manifestazioni più intime delia vita dello spirito, anzi che riguardano specialmente queste ; e che debbano esservi e vi sono condizioni religiose affinchè quello che è oggi ancora soltanto l'ardente voto delle genti sia domani la realtà benedetta di una società che potrà credere di essere uscita dall’ inferno, quando ripenserà al passato della sua storia.
Condizioni religiose..., avvertite che per religiosità non intendo parlare di professione di cerimonie cultuali ; di riti, di manifestazioni chiesastiche; e neanche di organizzazioni chiesastiche; di tutto quello che è insomma la veste esterna della religiosità, e che ha valore solo se, sotto di esso, esiste uno spirito realmente religioso, e una pratica di vita, cioè un’etica religiosa, ossia profondamente divina e profondamente umana al tempo stesso.
Perchè abbiamo assistito nei tempi moderni, ed assistiamo, a quésta radicale trasformazione ; la religione, come valore umano, diviene sempre meno rito e dogma, e sempre più etica e pratica di vita — il che però non è che un ritorno alle origini ; —- e l'etica diviene sempre meno pensiero filosofico, e sempre più senso religioso, se anche di religione non ha l’etichetta.
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Parlando di religiosità intendo quindi parlare di tutto quel complesso di attività dell'anima che agisce sull’intelletto, dirigendo il pensiero; agisce sui sentimento e sulla coscienza, determinando l’azione individuale; e per integrazione di tali azioni, e per reazione delle une sulle altre, agisce determinando l'azione collettiva. Sicché si vede che il confine del campo della vita dello spirito (in quanto questa è religiosità) si apre sul campo della vita etica, sul campo della operosità pratica, e reagisce sulle direttive della coscienza.
Una società ha una vita morale, in quanto ha una vita religiosa; e resistenza reale, e non solo apparente di questa, è rivelata dall’esistenza di quella. Goti mit uns risulta una veste senza contenuto religioso cristiano, alla prova dei fatti e dei fasti della politica kaiseriana; mentre i 14 punti del programma di Wilson, dove il nome di Dio non apparisce, risultano un elenco di articoli impregnato del più puro sentimento religioso del cristianesimo.
Quindi, senza escludere le condizioni militari, le politiche, le giuridiche e le economiche, sulle quali di volo abbiamo gettato qualche sprazzo di luce, dobbiamo rilevare che, se anche da alcuni si vogliano trascurare, ci sono altresì delle condizioni religiose dà assolvere, e che esse, volenti o nolenti, dovranno essere affermate nella costituzione, e nello sviluppo successivo, della Società delle Nazioni. Volenti o nolenti, dico; perchè se alcuno vorrà anche sopprimerne il nome, in forza di un laicismo ridotto allora a mera ideologia antipragmatistica, dovrà però accettarne la sostanza ; perchè non si può separare l’uomo da quello che è il fondo della sua individualità, la sua personalità spirituale; e non si può separare l’umanità da quello che fu il più elevato e luminoso pensiero rivelatore di essa a sé Stessa, il pensiero di Cristo.
Il medio evo già ci aveva dato una specie di Società delle Nazioni nella unità religiosa chiesastica ; ma lì stava la deficienza, il cemento unitario era la Chiesa; mentre il cemento unitario è il Cristo.
In Lui si incontreranno e chi sta entro la Chiesa, e chi sta sulla soglia e chi sta fuori affatto, ma ha l'animo infiammato pel bene dell’umanità.
Ora le condizioni religiose della Società delle Nazioni mi pare che si possano restringere a quattro, che verremo esaminando :
1* CONDIZIONE: LA PERSONALITÀ RELIGIOSA DEI GOVERNANTI.
Non stupisca se parlo di personalità religiosa dei governanti, quasi che si trattasse di dover avere uomini di governo ligi ad una Chiesa, o col cervello inceppato da particolari concezioni dogmatiche. Nulla di tutto ciò, il significato della espressione personalità religiosa dei governanti è altrove e ben diverso. Gli Stati, come gli individui, non trovano in sé stessi il loro fine, non sono enti che vivano solo per sé; la loro vita è vita di relazione con altri individui od altri Stati; verso di essi hanno doveri, impegni; di essi sono debitori.
L’osservanza di questi doveri e la soddisfazione di questi debiti dipende dal sentimento che quelli che li governano hanno della loro responsabilità verso l’umanità o verso Dio (1). Non si tratta di ristabilire un regime teocratico, nè
(1) Vedi Jacques Dumas, articolo citato.
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d’istituire un potere spirituale a Roma od altrove, sovra i popoli,,la cui libertà deve rimanere intera. Si tratta di questo, che ¡.popoli debbono comprendere che le libertà ad essi care, e che costarono tanti dolori e tanto sangue, non avranno mai più solide garanzie degli scrupoli religiosi — si intenda e si pesi l’espressione nel suo alto e sano significato — delle persone da essi investite del potere.
Ho detto scrupoli religiosi per la responsabilità, ed ho distinto, verso Dio o verso l’umanità.
Vi è chi sente la fraternità degli uomini attraverso alla paternità di Dio. Egli è un credente in Dio, sia o non sia collegato ad una Chiesa. Vi è chi sente una fraternità umana senza confessare una paternità d’oltre i confini del móndo sensibile.
Egli è un credente, anche se la sua professione sia agnostica, od atea; e inerita la ¿domanda di un grande pensatore : « ateo ? di qual Dio sei tu ateo ? > Dio e l'umanità sono i due poli verso i quali si può rivolgere il senso dell’anima umana che diciamo religiosità, e che si traduce in convinzione di responsabilità.
Quando il nostro grande pensatore politico, Mazzini, di cui a ragione si disse in questi tempi
l’ombra sua torna ch’era dipartita dava la formola Dio e Popolo, accoglieva nella grande anima, di lui credente in Dio, questo duplice legame, questa duplice religio, che eleva e nobilita l’anima umana, ne soddisfa le più belle aspirazioni e produce nella vita la missione, l’abnegazione, il sacrifizio.
Chiunque dispone della forza, in qualsiasi forma e modo, è istintivamente portato ad abusarne. Ma chi, per quanto forte egli sia, sente di dovere rispondere a Dio o all'umanità del suo operato, e però riconosce sopra di sé un potere superiore, saprà tenere a freno gli impeti smodati della passione.
La sua tede, fede in Dio cóme in colui che sta sopra l'universo sensibile, o fede nell'umanità, nella quale ritrova sè stesso, ed offendendo la quale sente di offendere sé stesso, quella fede farà di lui il guardiano geloso delle regole di reciproca tolleranza e di cooperazione economica dalle quali dipende appunto la Società delle Nazioni.
Perchè in ultima analisi, si diano pure tutte le garanzie di. controllo e di coercizione che si possono immaginare; controllo e coercizione all’interno per parte degli organi politici che hanno affidato il potere a tale uomo di governo; controllo e coercizione dall’esterno, per opera di Consigli internazionali investiti di autorità e di forza sufficiente per reagire sullo Stato che, da un uomo di governo deciso a rompere il patto sociale, fosse spinto alla rivolta contro gli accordi accettati, si dia pure tutto questo, in ultima analisi, il più saldo riparo contro il pericolo accennato sta in questo, che le persone Stesse investite del potere sentano, o verso Dio, se sono credenti professi, o verso l’umanità, se sono credenti senza volerlo essere, sentano, dico, la responsabilità pel vincolo che li collega a questa entità superiore — Dio o l’umanità — davanti alla quale si piega il più audace senso d’orgoglio e di ambizione che fosse loro germogliato in cuore.
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2“ CONDIZIONE RELIGIOSA.
«L’INTANGIBILITÀ DELLA COSCIENZA INDIVIDUALE*.
La seconda delle condizioni religiose per la costituzione della Società delle Nazioni è che in ogni Stato la coscienza individuale sia rispettata allo stesso titolo del diritto.
Il diritto individuale è dappertutto riconosciuto ; la vita è considerata sacra, la proprietà individuale è tutelata, la libertà personale assicurata; e, salvò casi di circostanze speciali, tutto questo patrimonio dei diritti dell’uomo riposa sotto la salvaguardia delle lèggi. Ora questa terribile guerra, se ha temporaneamente soppresso questi diritti, per le esigenze di uña situazione tragica, ha posto in evidenza che, sotto pretesto di uguaglianza, nella coscrizione militare, i diritti della coscienza d'ogni uomo, nello Stato moderno, erano disconosciuti come no» lo sarebbero stati da parte di un Napoleone e neppure di un Giulio Cesare.
Questo sentirono subito, e sentirono profondamente l’Inghilterra e gli Stati Uniti che, cedendo sotto la stretta dell’angustia, ed accettando un tale disconoscimento della coscienza individuale, quale è la coscrizione militare obbligatoria, ben si proposero poi di affermarne la reintegrazione presso di loro, e la proclamazione dappertutto, come una delle condizioni perchè realmente una Società delle Nazioni sia società sincera e quindi duratura.
Si può dire che, mentre lo Stato si democratizzava sotto molteplici aspetti, nell’ultimo secalo, in questa vecchia Europa, sotto quello del rispetto della coscienza individúale si manifestava un arresto di sviluppo che fu fatale, poiché il servizio obbligatorio segnò l’inizio della militarizzazione di, fatto e di spirito dei popoli. Esso fu il terreno di coltura del germe del militarismo • germanico, favorendone la propagazione contagiosa a tutti i popoli. Avere a propria disposizione sempre maggior numero di persone, avere tutte le genti dello Stato per animarle di sentimento guerriero, dare loro le armi, che la tecnica intanto rendeva spaventosamente distruttrici,, e infine provocare parossismi di tensione dell’ardore bellicoso, tutto ciò fu la funesta parabola evolutiva che condusse alla fatale conclusione della guerra mondiale.
La statocrazia — derivato di una risorta statolatria incurante dell’ individuo — soffocò i diritti primordiali della coscienza, mentre d’altra parte aveva l’apparenza di sostenerla e di presidiarla di tanti e tanti aiuti dovuti alla sapienza dell’organizzazione.
Occorre ora che l’individualismo sano e morale riprenda il suo posto e i suoi diritti dappertutto, e non solo presso qualche popolo, come l’inglese o l’americano. Non l’individualismo anarchico, forza centrifuga di dispersióne soltanto, ma l'individualismo morale — insisto — che alla convivenza statale e sociale sacrifica molte e molte preziose libertà, se fa d’uopo, ma non le libertà ed i diritti primordiali della coscienza. La lesione accettata di questi diritti produce ¡'asservimento, anche sotto le più luminose parvenze d’ordine, di forza e di prestigio dello Stato.
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Occorre che, nella Società delle Nazioni, lo Stato senta che v’è una soglia che esso non può superare, la soglia della' coscienza dei suoi amministrati. Non soltanto vi è per essi il diritto di essere religiosi per palese professione, o di non esserlo, di seguire l’una o l’altra o nessuna forma di culto, ma vi è per essi il diritto d’intangibilità della coscienza, sicché essa non sia obbligata a legittimare la violenza, salvo il caso che questa sia a servizio della giustizia.
3- CONDIZIONE: L’UNITÀ E LA SOLIDARIETÀ DEL GENERE UMANO.
V
Ho già ricordato che nel medio evo una forma di unità si aveva, in Europa, nella-unità ecclesiastica ; e non pochi, fino a noi, rimpiangendo quella forma di unità, deplorano che manchi il mezzo di ricostruire una abitazione nella quale, una volta almeno ogni tanto, possano trovarsi riuniti tutti i componenti della famiglia umana.
Il rimpianto è buono nella intenzione, è vano nel fatto; perchè tutta la tendenza del mondo moderno sta contro le unità formali ; è insofferente di questa uniformità di vita religiosa, che contrasta così profondamente contro l’indomabile desiderio umano della libertà del pensiero, del diritto di credere e di non credere.
Però, se il mondo moderno è contro le unità formali, non è contro Yunità', anzi l’unità, e quindi la solidarietà del genere umano, non ostante certe aberrazioni'antropologiche, conducenti direttamente ad aberrazioni filosofiche, sulle razze superiori ed inferiori, sul prevalere del tipo biondo o del bruno, dei dolicocefali o dei brachicefali, l’unità, e quindi là solidarietà del genere umano si affermano e si impongono anche ai pili refrattari ad ammetterle.
L'interdipendenza economica dei popoli era già stata constatata, ma la guerra delle nazioni l’ha illuminata di una luce piena e completa.
Non soltanto nella lotta materiale sul campo di battaglia s’è visto che; per potere reggersi, i popoli dovevano stare spalla contro spalla, cuore contro cuore; sicché se fosse mancato uno dei più robusti, come se fosse mancato uno dei più deboli, poteva essere il crollo di tutti ; ma si è visto che ogni grande risultato nella vita delle nazioni, la vittoria di un esercito, come il vettovagliamento di una popolazione, è ora fatto che ha le sue radici in tutti i continenti, presso popoli diversissimi ed estranei gli uni agli altri.
Mentre si lottava da noi sul Carso e Sul Piave, dei negri dell’Africa aprivano strade in Francia k dei cinesi elevavano terrapieni in Fiandra, delle donne coltivavano i campi negli Stati Uniti, degli indigeni australiani preparavano le carni conservate : e l’Italia è a Trento ed a Trieste perchè ha vinto in campo, sì, ma anche perchè quei negri, quei cinesi, quelle donne americane, quegli indigeni dell’Australia agivano spalla contro spalla, cuore contro cuore con noi.
Se la Francia è salva e risaluta i suoi figli d'Alsazia e di Lorena, se il Belgio ritrova le sue città, se l’Inghilterra vede dileguato il pericolo che la minacciava al cuore, se l’America può mettersi a capo dei popoli per vedere di rifare una umanità migliore, è perchè sotto tutti i cieli, ih tutti i paesi si col-laborò, ripetiamolo, spalla contro spalla, cuore contro cuore. Nessuno fu di troppo,
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nessuno bastò da solo. Ci volle alla fine anche il concorso degli stessi popoli nemici, perché il risultato portasse oltre quello che era ancora l’orizzonte limitato di ciascuno, ed arrivasse fino all’ampio orizzonte della Società delle Nazioni, che si è d’improvviso schiuso allo sguardo di tutti noi.
Ed allora la conseguenza è che la constatazione di questa unità e di questa solidarietà di tutti i popoli di tutte le parti della terra, di ogni lingua, di ogni colore, deve rimanere come risultato acquisito. Deve rimanere per cancellare anzi tutto la macchia vergognosa, contaminante tutte le nazioni europee, del colonialismo di sfruttamento.
Le popolazioni indigene dell’Africa e dell’Asia, oppresse e decimate dalle nazioni dell’Europa, dall’Inghilterra come dalla Germania, dalla Francia come dalla Turchia, dall’Italia come dal Belgio e dalla Russia e dal Portogallo sono ora ben vendicate sui loro oppressori per opera di questi stessi!
E la Società delle Nazioni si costituisce affermando, come uno dei primi postulati, il diritto della solidarietà umana anche in riguardo dei popoli in ritardo di sviluppo sociale e c:vile.
Ora che è ciò? Che è quest’alba irrequieta di luci nuove e carica di folgori, che sembra annunciare una giornata radiosa ?
Un fermento di attività incessante sembra che abbia’ gonfiato, attraverso i secoli, gli strati profóndi della società. Ogni età, ogni popolo, ogni uomo, ha lavorato senza contemplare nel futuro l’opera grande che veniva maturando; e noi ora, noi assistiamo alla maturazione.
Che è questo se non l’antico Vangelo, il Vangelo integrale? Non tale 0 tale altro dogma, tale o tale altra forma di cristianesimo ; ma il pensiero del Cristo che tormenta, fermentandola come pasta, questa umanità, la quale ha opposto al fermento divino tutte le forze di inerzia, tutti gli intoppi che potessero impedire la trasformazione, che si è perciò martoriata, ma che infine cede, in presenza del solenne dilemma, posto dalla guerra, « o con Lui, o perire! >
4® CONDIZIONE: LA REGOLA D’ORO
SUGGELLO DELLA SOCIETÀ DELLE NAZIONI.
Ed infine la quarta condizione della Società dèlie Nazioni è che la Regola d’oro, bandita sui monti di Galilea diciannove secoli fa, diventi il suggello di quella.
Non c'è vita comune senza cuore comune; e Leone Bourgeois, uno degli apostoli della Società delle Nazioni, il domani della seconda Conferenza del-l’Aja, dichiarava che vi si erano sentiti i primi battiti del cuore dell’umanità. Questo primo palpito di vita, — straordinario paradosso ! — non poteva essere soffocato dalla guerra mondiale; anzi la vita nuova dell’umanità si annunciava vigorosa mentre le armi non erano ancora deposte di mano.
E però eccoci ricondotti al «sommario della Legge e dei Profeti»; alla regola: ama il tuo prossimo come te stesso- eccoci!
Il sentimento senza l’ispirazione del sentimento non è che apparenza di sentimento. Per laicizzare l'amore del prossimo lo si chiamò fraternità'. ed è
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questa l’insegna posta in fronte a rivolgimenti politici, dove i fratelli si trucidarono nel modo più feroce; è l’insegna invocata in fronte a rivolgimenti sociali, dove si vorrebbe lanciare una classe della società cóntro l'altra nelle più spaventose distruzioni di cui la Russia bolscevica porge un'idea.
I discorsi, le allocuzioni, i messaggi del presidente Wilson sono stati in grande parte gli sviluppi e le applicazioni di quest’unico principio, di questo centrale pensiero, cioè che la benevolenza reciproca deve diventare il cemento delle relazioni tra i popoli, nella società rinnovata. E' semplice in fondo, sembra perfino banale ; eppure, esclusa questa legge, al domani della più grande guerra, per vinti e vincitori non rimarrebbe che la legge della vendetta, cioè la legge che colpisce di arresto di sviluppo i popoli che la praticano.
♦ ♦ *
Raccogliamo le fila del nostro ragionamento.
Per il formidabile sviluppo di un’utopia, ora sul punto di maturare in realtà vivente, occorrevano delle condizioni militari, politiche, giuridiche ed economiche. Le militari furono soddisfatte da voi, o giovani d’Italia, di Francia, di Inghilterra, d’America, del Belgio, della Serbia ; e furono soddisfatte con un sacrifizio fisico e morale e spirituale che ci gonfia il cuore di commozione e ci richiama le lacrime agli occhi. Le condizioni politiche furono soddisfatte dai popoli degli Stati autocratici, spazzando via quello che si diceva diritto divino d’imperio; ed era, se mai diritto satanico.
Le condizioni giuridiche ed economiche stanno adempiendosi sótto forma di problemi improrogabili da risolvere, ora posti sul tavolo del Salone dell’Oro-logio, dove i popoli fanno sentire ed accogliere la voce loro. Ma ci sono anche delle condizioni religiose che riguardano:
a) la personalità etico-religiosa dei reggitori futuri dei popoli ;
È) l’intangibilità della cosciènza individuale;, l’unità e la solidarietà del genere umano;
<Z) il suggello essenziale che deve consacrare la Società delle Nazioni.
Saranno soddisfatte queste condizioni? Avverrà questa metamorfosi dello spirito dell’umanità che taccia comprendere, essere la legge della benevolenza reciproca la condizione della Società delle Nazioni?
In altre parole l’ideale religioso del Cristo diventerà infine l’ideale etico dell’umanità intera, si voglia essa o non si voglia dire cristiana; cerchi essa a preferenza l’una, o l'altra, o nessuna forma chiesastica?
Che questo ideale sia l’unico rifugio possibile per la società, si direbbe che la ragione umana l’ha compreso. Chi raccoglie gli scritti di centinaia di politici e di pensatori che ora discorrono della nuova umanità, fin da ora salutata in ¡speranza, vede da essi scaturire la convinzione logica, razionale che la giustizia e il diritto debbono valere per tutti i popoli; ma che giustizia e diritto sarebbero ancora inefficaci, se nella applicazione dei principi da essizderivati, cioè nella vita pratica, non intervenisse uno spirito di benevolenza e di mutuo comportamento, quale è richiesto dalla natura umana soggetta al male intellettuale, l’errore, e al male morale, la cólpa.
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Di tutto ciò la mente umana sembra convinta; ma per determinare il nuovo spirito, occorre che il sentimento sia acceso di passione per questo ideale, e che la coscienza lo contempli come il severo e sacro imperativo dell’azione umana, sì pubblica che privata.
Vi è chi crolla il capo scetticamente di fronte alla possibilità che ciò avvenga; ma' c’è in questa vecchia umanità, mai stanca di tormentare sè stessa, una intima forza di ripresa che ne attesta l’origine divina. Questa forza riaccende ora la fiamma della speranza più vivida di prima. La scuola da cui i popoli escono martoriati, la terribile scuola del dolore, è fatta per orientare glj animi, per vincere le opposizioni, e per ridare la fiducia austera che s’era ve nuta perdendo.
L'umanità giace ora come il bulbo avvizzito, seccò apparentemente, in cui la vita sembra spenta o prossima a spegnersi. Si trasformerà esso nel giglio candido e ricco di profumo? Chi intravvede le grandi, divine fòrze che sono all’opera non può dubitare della trasformazione. E chi scorge oltre il sensibile la forza buona che regge l'universo e sospinge l’uomo, non può credere che il seme ora gettato arresti in sè l’evolvere della vita superiore verso la quale l’umanità è portata. Come dal bulbo avvizzito risorge il fiore bello e meraviglioso, da questa Europa, da questa umanità affranta e dolorante sorgerà e si svilupperà, anzi già sorge e si sviluppa, mirabile realtà vivente, la Società delle Nazioni! Per essa infine potrà cessare di essere amara ironia quella che fece qualificare di cristiane, e la nostra èra storica, e la nostra civiltà.
Mario Falchi.
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IN MEMORIA DEL P. PIETRO GAZZOLA
reve fu il mio contatto personale col Padre Pietro Gazzola, Prevosto di S. Alessandro in Milano (i).
La bufera si addensava già rombante sul capo di quanti avevano troppo vagheggiato ed amato .un sogno superbo, — quello di un Cristianesimo ridivenuto « anima del Mondo >, — per affrettarsi a porsi al riparo quando un fosco tramonto annunziò ad essi i segni dei tempi ostili alla loro visione: la persecuzione non aveva atteso l'enciclica Pascendi per abbattersi di già su alcune delle figure più eccelse del clero e del laicato «modernista», Loisy, Tyrrell. Houtin, Fogazzaro, Murri ; e la rivista Rinnovamento^ sorta a Milano in mezzo ad un gruppo* di laici (il Casati, il Gallarati Scotti, l’Alfieri, il lacini ed altri), che dalla bocca del Prevosto di S. Alessandro avevano attinto a larghi sorsi l’amore all’ideale cristiano ed insieme il culto della verità, aveva di già combattuto battaglie di sincerità, di luce, di elevazione spirituale e morale..., quando al principio dell’estate del 1906 ebbi un abboccamento con quest’uomo, che da venti anni aveva fatto del pergamo di S. Alessandro una cattedra di conciliazione delle fedi più alte e delle verità più aride, delle esigenze eterne'dell’anima e dei bisogni prepotenti di una democrazia in cerca della propria espressione.
'Ricordo ancora quel cantuccio della sacrestia, in cui nei pochi minuti che furono concessi al nostro colloquio, egli seppe con quella efficacia sovrana accordata da una sincerità traboccante e da una devozione illimitata alla causa delle
anime, riversare nel mio tutta la fiducia e la trepidazione, la serenità profónda e gl’increspamenti superficiali, il fervore e la desolazione dell’animo suo, in fondo al quale rimaneva, inaccessibile a tempeste e ad oscurità, quell’ottimismo inalterabile per cui non era un’espressione banale e priva di significato la fede che risuonò sulle labbra di Mazzini morente, con le ultime parole: Sì: credo in Dio.
(1) Di lui, e in omaggio alla sua memoria sempre viva nel cuore dei suoi amici, è stata pubblicata in questi giorni in elegante edizione fuori commercio (Casa editrice Bestetti e-Tumminelli, Roma) un ricordo biografico seguito da una scelta spigolatura di suoi pensieri, per opera di un illustre suo amico. (Nota dell'A.).
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Pochi giorni dopo, il fulmine che aveva rombato a lungo nel cielo fosco in cerca di una vittima, si abbatteva sul mio nuovo amico. Si volle strappare di mano al pastore il vincastro, sperando che le pecore da lui guidate per un ventennio a pascoli ubertosi, benché talora per vie non battute, si sarebbero disperse: e gli fu imposto di rinunziare alla parrocchia. Il Gazzola ubbidì, e dopo pochi mesi discendeva ancora dal pulpito, e si raccoglieva in un silenzio che per la sua anima di missionario doveva essere il passo più doloroso nell’ascensione di un crudele Calvario.
Infatti dopo appena due anni, durante i quali la persecuzioie antimodernista aveva mietuto manipoli di vittime in Italia e fuori, conducendo anche alla soppressione del Rinnovamento^ mentre il Gazzola « con la fede semplice e ispirata di un romeo antico, l’anima tesa alle emozioni mistiche che spirano dal suolo sacro di Palestina» attuava la realizzazione di un desiderio lungamente accarezzato, un ordine dei suoi superiori religiosi gl’imponeva di lasciare Milano, appena tornato in patria, per raggiungere quella che doveva essere la prima tappa del' Suo esilio, Cremona.
Giacché Pietro Gazzola oltreché sacerdote era religioso, di quell’ordine dei Barnabiti che tale illustre schiera di intelligenze aperte e di caratteri nobili ha fornito al periodo classico della rinascenza religiosa contemporanea.
Appunto uno di essi a cui chiedevo, anni or sono, spiegazione di questo privilegio di un Ordine, pure sì esiguo, (esso conta poche centinaia di membri, quasi solo in Italia, di fronte alle armate internazionali dei Gesuiti, Francescani, Domenicani, ecc.), mi faceva, acutamente notare, fra altro, la mancanza nella loro Congregazione di quelle tradizioni scolastiche dominanti e tiranniche, le quali aduggiano ed inceppano cól loro ascendente il tirocinio culturale dei novizi e studenti di altri Ordini religiosi, e pregiudicano la loro libera formazione intellettuale e l’indipendenza delle loro opinioni.
« * *
11 Padre Pietro Gazzola era nato il 9 gennaio 1856 a Ferino, nella vallata della Trebbia (spigolerò abbondantemente notizie e ricorrerò a citazioni, dalle note biografiche sopra indicate, approfittando del largo e gentile consenso dell’autore). La speciale tendenza ascetica manifestatasi in lui fin dai primi anni e che doveva guidarlo alla vocazione monastica doveva temprarsi ben presto nel senso mistico che fu il fondo della sua azione nel ministero.
Alunno di parecchi seminari successivamente, all’età di venti anni egli entrò nell’Ordine dei Barnabiti. « La fibra era robusta, la persona aitante, ma lo sforzo a cui si sottopose in quegli anni avrebbe avuto conseguenze dolorose nel resto della vita... Ma il maggior cimento fu il morale. Egli era pervenuto ai voti ed all’altare condotto dalle aspirazioni del bene migliore, quel vago desiderio di sacrificio e di perfezione che tanto attira la giovinezza », del quale egli poi doveva scrivere: «Certo gli ideali che mi condussero alla vita religiosa trovarotìo ben poca corrispondenza nella realtà; ma intanto ho potuto accumulare delle energie morali... >
È il solo conforto che a tante anime generose, tradite da un sistema che sfrutta gli ardori e gli entusiasmi di anime in fiore, resta quando crudamente,
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spietatamente, viene loro gettata in volto la «povera e meschina realtà», spoglia dei paludamenti seducenti sotto i quali l'avevano contemplata.
Dopo alcuni anni di studio e di ministero sacerdotale umile e modesto nel convento di S. Barnaba in Milano, egli era tolto dall’oscurità e collocato, a soli 29 anni, a dirigere la importantissima parrocchia del centro di Milano, ed insieme la famiglia dei Barnabiti ai quali è affidata la cura della parrocchia stessa. E vi rimase dai 1885 al 1906: i venti anni nei quali è racchiusa, non dirò la parte più preziosa della sua vita, ma la sua attività più efficace in quella forma di pastorato delle anime avide di maggiore luce e calore, che doveva condurlo all’esilio e all’olocausto.
Dello spirito della sua predicazione e della delicatezza infinita con cui esercitò il ministero della confessione, non saprei dire con altre parole dà quelle del suo biografo: « Nella delicata funzione di confessore il suo programma era il rispetto delle anime. Il sacerdozio ecclesiastico — diceva — si esercita con domande; quello spirituale ascoltando; perciò io parlo poco nel confessionale, con stupore di molti». ... Come capo della famiglia religiosa, egli sapeva e diceva «essere l'autorità un servizio di carità».
La predicazione fu il campo della sua maggiore e più ispirata attività. Sebbene non fosse un oratore nel senso letterario, a sentirlo parlare dal pulpito rendeva l’aspetto di un profeta, tanto la sua parola era nudrita di pensieri profondi e tanta l’austera soavità del tocco con cui destava le coscienze. Non saliva il pulpito se non dopo avere lungamente meditato, ...persuaso che una predica tanto frutta quanto ha costato. Quel suo convincimento pieno di ardore, l’eloquenza un po’ primordiale, rotta qua e là da espressioni drammatiche, quella audace sincerità onde faceva vibrare le corde più profonde della coscienza morale o moveva incontro ai più ardui ed oscuri problemi della vita, davano impressioni inaspettate. Traspariva dalla predica di Padre Gazzola il lungo tormento del suo pensiero e la sicurezza buona di chi ha trovato la soluzione. La conoscenza che egli mostrava della coltura moderna di fronte alla fede religiosa lo metteva a contatto con le negazioni, lo scetticismo, le mezze fedi.
L’uditorio di S. Alessandro accoglieva, insieme ai fedeli persuasi, molti studiosi, insegnanti del mondo laico, ed anche persone della classe dirigente. Forse il predicatore mirava specialmente a questi intellettuali, parendogli opportuno che in una grande città suonasse fra le altre anche una parola adatta alle loro esigenze.
Talvolta la predicazione di Padre Gazzola aveva del paradosso. Le difficoltà non lo arrestavano; pareva anzi cercarle, perchè su quella via sapeva di incontrare anime dubitanti o smarrite; e le accompagnava, riducendole amorevolmente verso il Vangelo...
In mezzo al pubblico degli uditori non mancavano i pusilli, la Cui prepara? zione religiosa non era fatta per quella apologia; e non mancavano i malevoli dalle molte sottigliezze teologiche. Padre Gazzola che era di una ingenuità prodigiosa, non'credette di dissimulare quella che per lui era verità; avrebbe creduto di tradire la sua coscienza parlando altrimenti da quello che sentiva. Ad una persona amica che lo consigliava alla prudenza, scriveva: «Io sto con San Francesco di Sales: di prudenza ne voglio appena l’indispensabile; di semplicità, senza misura... Se volessi potrei essere il più furbo degli uomini; e questa ca-
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pacità mi fa terrore. Capisci? Ho abbastanza ingegno... da menare tutti pel naso, e non lo voglio, non lo voglio l ».
L’autore della biografia commenta : « È questa la frase più energica, forse, della sua vita ».
E si potrebbe aggiungere: La più bella: quella che il movimento modernista aveva più bisógno fosse incarnata in una personalità.
E il Padre Gazzola incarnò in sè appunto «la semplicità della colómba e la prudenza del serpente » : quella prudenza dello spirito, che gli faceva credere che Dio .non avesse bisogno di un prevosto o di un oratore di più, bensì di caratteri e di martiri, cioè di testimoni. « Idee larghe — egli scriveva al proposito — non vogliono dire morale larga... Il bene è sempre bene; ne verrà bene... ». E il bene venne e viene tuttora a molti dal suo sagrifizio, dal suo Calvario, dal suo olocausto. La pagina piò luminosa della sua vita fu quella che vergò col suo sangue: l’eloquenza più potente fu quella del silenzio e dei gemiti della sua via dolorosa. Accompagnamovelo alquanto con venerazione e simpatia, dietro la scorta del suo biografo.
«L’abbandono di Milano» —abbiamo già accennato all’ordine dei suoi superiori che gli assegnavano a residenza Cremona dopo averlo privato dell’esercizio delle sue funzioni di prevosto e predicatore — « voleva dire aver sacrificato tutto quanto aveva di più caro e di più sacro. Un albero sradicato conserva per qualche tempo le apparenze vitali ; poi si scolora e appassisce a vista d'occhio. Per quanto il buon padre fosse rassegnato non era insensibile al tormento morale; nell’isolamento della nuova dimora, aggravato dal pensiero che quell'ordinanza dei superiori era, in fóndo, un atto di repressione, il suo cuore gemeva e mandava di quando in quando voci di spasimo, che fanno pena.
« Crédevo che gli uomini non potessero togliere nulla; ...mi hanno tolto le anime! non credevo fosse così doloroso! Ora non posso più che pregare e soffrire; ma confido'nel l’efficacia segreta di chi può parlare con l'esempio; e tale vorrei essere io per le anime che si sono affidate al mio spirito... Chi opera il bene viene alla luce. L'amore sarà la tua luce nelle tenebre... Gli antichi dicevano : I savi hanno per patria il Mondo ; e nói abbiamo per patria Dio ! »
« Avrai molto da soffrire nella vita, ma non quanto ho sofferto io, perchè ho amato sopratutto la verità e perchè ho creduto che solo la verità e tutta la verità potesse salvare la Chiesa in questa crisi che attraversa: forse unica nella storia ».
Intanto la tempesta della persecuzione antimodernista continuava a infuriare : tutti i papaveri che estollevano il capo nel movimento delle idee riformatrici erano stati, ad uno ad uno, sagrifìcati al furore teologico, che nell’ossessione dell’uniformità religiosa uccideva la carità e formava il vuoto e il deserto. Anche contro il Padre Gazzola si meditarono misure estreme: l’espulsione dall’Ordine dei Barnabiti, dal quale intanto alcuni confratelli sospettati uscivano, mentre altri restavano imbavagliati.
L'estrema misura venne scongiurata. Si ebbe una commutazione di pena; all’espulsione dall’Ordine fu sostituita la relegazione a Cancelli, in una piccola e povera casa di Barnabiti, ritenuta una sede di punizione, che con la lontananza da Milano avrebbe rotti i pochi raccordi che il padre conservava con l'antica sua parrocchia di S. Alessandro.
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< La destinazione a. Cancelli sarebbe un omicidio melale; mi toglierebbe ogni energia di bene... E un distacco da tutto; sono ore che valgono secoli. Se ho sofferto! Ormai ho 55 anni... 506 ancora, poi ho finito. Sì, ho sofferto tanto in questi giorni ! »
La deportazione a Cancelli fu commutata in quella di Livorno: una casa modestissima e povera, in cui gli fu assegnata una squàllida stanza.
« Ho sofferto troppo — scriveva nei primi giorni di questo nuovo esilio — e il sistema nervoso si è logorato... Materialmente manco di molte cose... Oh la povertà! Qui ho capito che cosa significa! La mortificazione più sensibile è per me la re ancanza di pulizia... La solitudine spirituale è grande, e col tempo pare si facci:, sentire maggiormente. Purché il Signore mi tenga lontano dall’insonnia che. m’impedisce di pensare... »
Questo motivo dell’insonnia, effetto del clima incostante e dell’aria vibrante marina controindicata pei sudi nervi, come i Suoi medici gli dichiararono, ritorna spesso, come il gemito di un sofferente, sulla sua penna.
La sua vita di cenobita, interrotta solo da una predicuccia la domenica a poche donne del popolo, era riempita da studi biblici, traducendo dal Siriaco, dal Copto, dall'Armeno. « Ora son vecchio — scriveva al proposito — e mi chiudo nei testi orientali colla certezza che, il mio studiare non gioverà a nessuno. Che incoraggiante prospettiva!» I ricordi lo assalivano producendo solchi sempre più profondi nel cuore desolato.
«Tu mi ricordi i bei giorni della mia vita, quando S. Alessandro era un piccolo focolare di vita religiosa: allora era la mia vita! Ora tutto è silenzio... Ormai mi sento vecchio e tutto mi pare un dippiù. Forse la mia missione è finita. Qui contatti spirituali punto. Vivo solitario come in un deserto... Le cose vanno sempre peggio, ma io sono in porto. Gli uomini non possono più togliermi nulla, dopo che mi hanno tolto le anime!» L’agonia del Getzemani era incominciata, pur confortata di quando in quando dall’apparizione di qualche persona amica e dalla benevolenza dei tre o quattro confratelli, e sopratutto dal motivo religioso.
« Iddio muta le sentinelle avanzate come gli pare. Io mi ritiro sotto le tende... Ci sono profondità dove le tempeste anche più violente non arrivano... Passi da me questo calice! Ma io ti esorto a tracannarlo. Se sapessi che dolcezza c’è nel fondo! Credi ad uno che sa il dolore e l’amarezza della vita; eppure spera ed ama e benedice».
Ma in altri momenti la reazione prendeva il sopravvento: specie dopo l'estate del 1913 in cui «l’insonnia esasperata dal caldo soffocante gli crollava furiosamente la vita, come se avesse tutti i nervi scoperti all’ingiuria dei venti». Ed egli scriveva con passione: «Un sacerdote di vocazione senza anime! senza ministero ! Io non sono andato frate per fare, l'orientalista !... Io bastò a me; ma in che tentazione mettono un uomo... È immorale ridurre un uomo così ! ».
E nel settembre di quello stesso anno la parola più straziante gli saliva dal cuore gonfio e prorompeva in questi accenti, in un colloquio filiale : « Mi istupidisco di narcotici e non ne posso fare a meno. Quando sarò stupido mi dirai ancora Padre, mi compatirai? Voglio che tu sappia che ho previsto tutto,
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anche questo, e che l’ho accettato per un grande atto di fede, per una grande speranza di bene ». *
« Parole — scrive il biografo — che valgono un’intera vita di pianto ». E soggiunge : < Eppure un lamento che ferisse le persone mai ! Forse non sapevano che quel povero uomo soffriva fino a morirne ».
Questo esempio mirabile di mansuetudine, di dolcezza e bontà nel dolore infinito, di conciliazione e di perdono: questo ravvisare nell’opera degli uomini la mano di Dio e questo credere ostinatamente nel trionfo del maggior bene attraverso il maggior male, è lo spettacolo che gli amici e devoti del Gazzola mi assicurano unanimemente di avere più ammirato nel sant’uomo agonizzante, e su cui il suo biografo ha richiamato la mia attenzione, come sul motivo che a lui più interessava fosse lumeggiato in questo cenno. Il miglior modo di incontrarsi con questi sentimenti del Gazzola e del suo, biografo è di lasciare che essi stessi si esprimano nelle parole di lui.
« E triste — egli scriveva — restare in ozio negli anni della maggiore esperienza spirituale! Mi hanno tolto gli anni migliori per lavorare, dai 50 ai 60!... Se non avessi avuto una religione vitale non avrei potuto vivere... Tutto passa, e rimane solo il conforto di aver compiuto una missione di bene e di aver lavorato all’incremento della vita spirituale nel mondo.;. Le prove mie sono gravi; ma io penso che la causa del bene è in buone mani; e noi non vogliamo che il bene ».
E più tardi, dopo aver visto svanire speranze e illusioni, mentre il clima marino esasperando i suoi nervi e togliendogli il benefizio del sonno io esponeva indifeso agli assalti dei ricordi e delle nostalgie, alle angoscio del vuoto gelido, scriveva ancora : « Spero poco dagli uomini, molto da coloro che piangono e pregano nel silenzio. “ Non in commotione dominus ” : “ non nel tumulto è il Signore,” non nella voce del tuono e dell’uragano, ma nel fruscio impercettibile dell'aria lene... Io non darei il mio isolamento per tutto l’Universo; mi pare che mi assomigli di più a Gesù in croce... Quando si ha tanta luce di verità nell'animo, perchè adirarsi? Chi si adira discende nel buio... »
Così entrava nell’ultimo anno del suo esilio, presentendo il ritorno non già alla sua Milano, ma alla eterna patria di quelle anime, che esuli e anelanti, non chiedono alla vita che il ramoscello donde spiccare il volo. Vi entrava con le parole: < La parte migliore di noi è già nel di là... La mia anima sia coi Santi!... Son contento di trovarmi vicino alla fine, che è principio senza fine. Nulla più mi rattiene qui : Cupio dissolvi ! >
Nell’agosto, mentre la giornata precipitava verso il tramonto, una mite luce scendeva a rendere testimonianza allo splendore indefettibile del sole ascoso e velato : « Io vivo molto tranquillo, dèdito ai miei studi ; le giornate mi passano rapidamente come passa la vita. Desidererei di fare qualche cosa per le anime; ma se non vogliono penso che Dio non ha bisogno di me. Uniamo le nostre pene e i nostri desideri in una suprema aspirazione di amore e di pace».
La sera del 27 ottobre i presentimenti incalzanti divenivano realtà. Costretto a porsi in letto, non doveva più rialzarsene: la grande liberatrice era giunta.
Quella mano che si era già da Roma alzata pili volte per percuotere incon-
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sultamente, ora si sollevava per benedire : e là grande anima del Gazzola, memore del vangelico «crederanno, perseguitandovi, di rendere omaggio a Dio », anziché l’amarezza del contrasto, sentì il conforto scendere sull’anima esulcerata e bisognosa di riconciliazione e di pace.
Visitato dal vescovo di Livorno, mons. Giani, sentendo la liberazione approssimarsi, potè dire ad un confratello, ponendo così il suggello ad una vita di bontà, di sincerità, di martirio : « Mi sento tanto tranquillo ; non ho alcun rimorso ».
Le sue ultime parole furono,' per gli uomini : « ...io mi avvicino all’eternità ». Ma i colloqui dell'anima che-da Dio uscita a Lui tornava, continuarono nel delirio, nella preghiera e nell’agonia, che terminò in uno sguardo sereno e sorridente, epilogo di una gran vita cristiana, preludio di una vita in Dio. Era il dì 3 novembre 1915.
La salma venerata deposta nel cimitero della Misericordia di Livorno, nella Cappella dei Barnabiti, fu di lì trasferita, un mese dopo, al Ferino, paese natale del Padre Gazzola, sotto la guardia solenne di quei monti che avevano ispirato la sua gioventù e offerto pietoso ristoro alla sua anima affaticata negli anni del -suo esilio.
Sulla tomba fu posta l’epigrafe :
guì
4 RIPOSANO LE SPOGLIE MORTALI
DEL PADRE PIETRO GAZZOLA BARNABITA
GRAN CUORE GRAN MENTE E GRANDE SPIRITO
ASSETATO DI LUCE E DI ANIME
A QUESTO DOPPIO IDEALE SPERATO
SI CONSACRÒ
MEDITANDO AMANDO SOFFRENDO.
LO STUDIO LA PREGHIERA IL MINISTERO
IL DOLORE CHE AMA - L’AMORE CHE SOFFRE
TUTTO OFFERSE E SEMPRE
ALLA ATTUAZIONE DEL SACERDÒZIO SPIRITUALE IN CRISTO E PER CRISTO
LA SUA CONVERSAZIONE È COI SANTE
6 Gennaio 1S56 3 Novembre 1915
Non una paróla di commento ad una vita sì grande chiusa da un martirio sì straziante. Solo ci si permetta di ricordare sulla sua tomba ora riaperta da questa memoria, e nello stesso spirito con cui furono pronunziate diciannove secoli prima da un altro martire, e dal Gazzola stesso ricordate allo scrivente, riferite ad altre vittime della medesima persecuzione:
« Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono a te mandati ! Quante volte volli raccogliere sotto la mia ala i tuoi piccini e tu non volesti... Ecco che la vostra casa resterà deserta...»
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* « *
Dalla raccolta di pensieri del P. Gazzola che seguono al cenno biografico sopra citato, spigoliamone alcuni pochi che ci sembrano poter raccogliere più vasto consenso ed essere specialmente contradistinti da doti di profondità e intimità.
'Eccone alcuni sui problemi della vita morale e spirituale.
« Noi ignoriamo il mistero della nostra esistenza, ma sappiamo che ai buoni tutto coopera in bene.
Gli avvenimenti esteriori si svolgono con leggi fatali, ma sta a noi il renderli leggi provvidenziali.
Quello che importa è vivere di verità; ed il possesso di maggior verità bisogna pagarlo col sacrificio.
La libertà frutto della verità è dono così grande, che si può ben pagare colla perdita di molti vantaggi umani.
Io accetto la vita come dono di una volontà buona; la prova della bontà di questo volere io là ho in me stesso, nell’ impulso che sento a diventar buono ; nel sentir questo è il balsamo della vita.
Che ci sta nel mondo un potere buono è certo dalla necessità che noi tutti proviamo di esser buoni.- Il male morale contrasta a ciò che è più intimo e naturale in noi. Come questo potere buono operi, come con questo potere buono stia il dolore è un mistero. Certo, più noi ci uniamo per amore al bene, e più il dolore ci appare tolleràbile è superabile.
Il valore della vita è nell’attitudine che noi possediamo di congiungere le• cose all’infinito e di aggiungere l’infinito alle cose. Aggiungendo alle cose l’idea noi le rendiamo intelligibili ; aggiungendo la realtà trascendente, le rendiamo buone. L’uomo rifà continuamente, ricopia l’atto creativo di Dio : questa è la suà grandezza.
La vita morale è degna di esser vissuta pei' se stessa, anche quando stentiamo a realizzare che essa abbia un fine Superiore, la Fede ci dice che lo ha : ma quando la Fede pare ci venga meno, pensiamo che nella vita morale c’ è una dignità infinita, che essa è già un fine per sé stessa. Beato colui che nella vita morale sente qualche cosa che la trascende, cioè la pienezza dell’Essere, che non è solo morale ma reale.
Fare un po’ di bene è l’unica gioia della vita.
Non è necessario che la nostra vita abbia il carattere esteriore di un dramma ; può anche essere un idillio; ma un idillio « qui se déroule dans des regions supérieures ».
Il mistero della vita non può essere illuminato che dell’amore. Appena il cuore si indurisce per l’orgoglio, le tenebre ci avvolgono; appena il cuore si liquefò, e tutto è luce. Non siamo piò dotti, ma certo più sapienti.
La soluzione di tutti i problemi è l’amore.
Tutto amare per tutto comprèndete.
La nostra vita è lo sforzo continuo di raggiungere un ideale infinito che si allontana, quanto più lo avviciniamo.
A chi ascende un monte pare alle volte che là cima si allontani a misura che esso vi si accosta.
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Chi vive del bene vive già nell’ eternità ; ma chi vive dei mistero, vive della vita infinita.
Lavorare alla conservazione della vita spirituale nel mondo è la più nobile, la più feconda delle vite.
Beato chi può infuturarsi nelle anime !
Formare un santo e poi morire!
..... Dicono i geometri che le parallele s’incontrano all7«/f»:4>. Spingiamo la carità (la pietà, la fede) e la scienza all’ infinito, ed ogni conflitto cesserà come nella natura divina, dove l’amore e la cognizione sono proprio all’infinito.
La vita non è mai così’ degna e così preziosa come quando il dolore la nobilita e la incorona di speranze immortali ».
* **
Dopo il problema della vita, un tocco a quello della morte, dell’eternità, dell' assoluto, dell' infinito.
« Siamo noi ben sicuri che ciò che in noi è individuale sia la miglior parte di noi? Che la coscienza, la consapevolezza, sia meglio della conoscienza diretta? La morte spogliandoci della coscienza, non ci ricondurrebbe alle fonti della vita ? Ecco delle grandi questioni e dei grandi problemi. Ma prima di averli risolti vorremmo rinunciare a vivere?
Noi non possiamo esser dei vinti, ma solo dei combattenti. Certo il' mistero incombe sulla nostra esistenza; gli antichi dicevano il destino. Il destino è il trascendente fuori di noi che inesorabilmente ci schiaccerebbe, se dentro di noi non fosse pure immanente il divino. La lotta fra il divino trascendente e il divino immanente è il mistero della vita: mistero tragico e solenne. Ma questa lotta dovrà comporsi; lo stesso divino che opera fuori e dentro di noi deve pure accordarsi con sè medesimo. Avere una Fede vuol dire appunto questo: essere persuasi che l’accordo sarà.
Dare tutto per nulla è un assurdo; i nostri bravi soldati si danno per la patria; il loro darsi Jy una religione implicita. Noi diamo tutto il bene relativo per avere V assoluto} questo non è interesse, od almeno è interesse che raggiungiamo in quanto dimentichiamo noi stessi per il bene universale. La moralità è questo, o è nulla.
" La storia delle religioni è la storia della scalata al Cielo che l’umanità ha tentato continuamente per conquistare l’infinito.
Per molti la religione è sopratutto morale, mentre per altri la morale è religione. Quando il costume è puro e gl’ideali alti non bisogna temere.
« I puri di cuore vedranno Dio ».
La vita religiosa, la fede, specie nel Cristianesimo, era jn lui non possesso pacifico, quieto, tradizionale, ma conquista e ricerca continua nella comunione con tutte le anime tormentate e anelanti.
La vita religiosa è un intreccio di luce e di oscurità; la religione si vive nel mistero.
La morale si vive nella luce, ma la religione si vive nel mistero e nel sacramento.
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Chi non ha mai sentito l’infinito terrore e la infinita speranza non può dire di essersi trovato mai in intimo contatto col divino. In questi due sentimenti, anzi nella fusione di questi due sentimenti, è la religiosità. Ma alle volte prevale l'uno, alle volte prevale l'altro.
I grandi ideali da una parte e l’incapacità di attuarli dall’altra, possono condurre allo scetticismo o alla religiosità.
La religione non nasce da raziocinio, ma da intuizione; quindi non è filosofia incipiente che possa esser superata.'
Cercare la logica nélle credenze è opera vana. Nelle credenze bisogna cercare l’uomo, che non è solo pensiero riflesso, ma innanzi tutto sentimento intellettivo.
I riti non sono ridicoli in nessuna religione ; c’ è il pericolo che divengano forme senza vita, quando la concezione che li ha prodotti è superata.
.........Sostituire pietra a pietra, non distruggere per edificare. Innovare conservando e conservare innovando fu sempre l’ideale della mia vita.
La giustizia pel filosofo è una luce, una norma della vita, un imperativo assoluto. Per l’uomo religioso è una forza, la suprema realtà, una volontà buona ed amorosa.
L’ascetismo cristiano ci obbliga ad un’attenzione continua sopra di noi stessi, ad uno studio minuto e sottile degli affetti che ci sorgono in cuore, ad un esame rigoroso dei motivi che influiscono sul nostro operare; donde proviene l'abitudine alla riflessione calma e serena, la chiarezza delle idee, la finezza delle osservazioni, e quelle intuizioni meravigliose che sembrerebbero riserbate al genio, se il cristianesimo non le avesse rese famigliar! alle anime più semplici ed illetterate.
I Protestanti osservano che ai Cattolici manca l'esercizio vigoroso delle energie spirituali, perchè si appoggiano all’azione dei Sacramenti. L’osservazione è, in parte, giusta. Adunque pensare poco alle nostre condizioni interne, ma agire molto e con fiducia grande; e poi non voltarsi indietro per esaminare il passato.
Se guardo fuori di me, le prove di una potenza buona che governi il mondo mi si oscurano davanti alla mente; resistenza del male è una grande obbiezione contro il concetto di un Essere infinito e perfettisimo. Ma se guardo dentro di me, sento che il Buono esiste veramente. E come esisterebbe la bontà che combatte il male in tanti cuori umani, se il Buono non fosse?
Anche la natura che ti circonda è una specie di Sacramento: attraverso di essa cerca di sentire Iddio; la rivelazione' naturale di Lui è il vestibolo del soprannaturale. Tu non sei uno spirito da fermarti al vestibolo..: leggi,, prega, contempla, ed un pochino anche soffri amorosamente: sia la tua vita un continuo sforzo di liberazione morale; prendi l’ispirazione dalle vette che ti circondano.
Nulla si perde nell’ordine morale come nell’ordine fisico. Il sacrificio occulto, il dovere compiuto nel segreto, è una forma di apostolato di un valore ignoto agli uomini, noto a Dio solo. Il moto di una goccia d’acqua nel mare immenso ha ripercussioni in tutto l’universo sensibile, anche negli spazi stellari; il moto segreto di un’anima si ripercuote per vie inesplorate in tutto il mondo degli spiriti.
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Bisogna essere d'accordo coi santi, le anime rette e grandi (ce ne sono molte) sparse nel mondo : essere davvero cattolici, universali, appartenere a questa chiesa ideale !
La fede non è una debolezza, ma richiede un vigore straordinario di volontà. L’incredulità è molto facile, perchè in fondo è inerzia e paura. Il credente mette una posta sull’eternità, azzarda il tutto per il tutto ; perde la vita per trovarla, secondo la parola del Vangelo.
« Se ama molto la verità si prepari a soffrir molto, diceva il Rosmini ad un giovane che fu poi un uomo insigne... Preparati a soffrir molto. Perchè ho amato la verità io vivo in esilio. Eppure non darei una sola idea per tutto l’oro e la dignità e la felicità del mondo. Beato colui al quale nulla possono togliere gli uomini ! >
* $ «
L’ascetica del P. Gazzola era, come la sua personalità, vigorosa, luminosa, immersa nel calore e nella luce di Dio.
« L’avvilimento è la parodia dell’umiltà.
Per l’orgoglio umano non vi ha che un rimedio solo efficace, l'esperienza dell’ infinito, innanzi al quale la creatura si sente annientata e pel quale si sente capace di ogni cosa.
Il mondo si può guardare dal lato della gioia e dal lato del dolore: donde le due scuole ascetiche distinte, le quali, se esclusive, sono false e funeste ambedue. Io quasi inclino a credere che il fondo della vita sia la gioia, ed il dolore ne sia come il ricamo.
Purtroppo il dolore non migliora, se l’ànima non possiede un tesoro di energie soprannaturali.
Che cosa possiamo noi uomini nei grandi dolori ? Possiamo solo amare molto: il che è niente ed è tutto.
Fate di evitare la troppa concentrazione nel dolore.
Vi è una voluttà nei dolore che è pericolosa perchè sommerge tutte le facoltà dell’anima.
I grandi dolori o schiacciano oppure elevano.
Non sempre il dolore migliora, anzi per sè non migliora mai; e la virtù di trasformarlo in benedizione è una rara grazia.
(Sotto la testa di Gesù di Leonardo da Vinci):
« La pace infinita — l’infinita mestìzia •
dell’amore che soffre — del dolore che ama! »
La volgarità morale e la religione dei giorni di festa, ecco la piaga della nostra borghesia industriale e ricca.
Io soglio dire che gli asceti amano le creature in Dio, ed i mistici Iddio nelle creature. L’ascetismo è fuga dal creato come pericoloso; il misticismo è ritorno al creato come rivelazione di Dio.
Vedere gli uomini in Dio è degli asceti. Vedere Dio negli uomini è dei Santi.
« Signore, fatemi andare d’accordo con coloro coi quali sono d’accordo ».
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In questa giaculatoria che il Rosmini ripeteva nelle sue prove, io trovo sempre un gran conforto, perchè racchiude una gran verità.
Io penso che la ricchezza è buòna sólo per chi non la ama. Sarò un sognatore: tu perdona il mio misticismo economico.
Anche l’ospitalità è un modo di esercitare la carità. Una virtù non può impedirne un’altra.
Chi è largo coi poveri sarà munifico cogli ospiti, e chi è largo nell’ospitare sarà anche generoso coi poveri... Questo si conferma coll’esempio dei Santi.
L’ autorità è un servizio, non un dominio.
I superiori non si diminuiscono chiedendo perdono ai loro inferiori quando hanno sbagliato. Lo devono fare ; è l’unico modo di rendere innocuo, di riparare il male che hanno fatto.
Sulla « evoluzione » ho molto pensato ed ho molto letto. Io ammetto anche la generazione spontanea ; ma non sono ancora arrivato a capire come il meno possa dare il più, se in qualche modo non lo comprenda già in sè stesso.
I Santi. — Il mondo onora l’ingegno, la forza, l’abilità, ecc., non la virtù : noi colla festa di tutti i Santi onoriamo la virtù, la onoriamo tutta! Perchè c’è molta virtù nascosta ed ignorata anche da chi è disposto ad onorarla. Oggi noi onoriamo i Santi occulti ed onoriamo la sóla virtù.
Che possa presto cessare il peso dei ricordi e questi diventare solo un’ala per volare aito! >
* * *
La vita di famiglia, l’educazione della gioventù ricorrevano sovente nella predicazione del P. Gazzola e nella sua corrispondenza.
« La moglie deve essere per il marito una specie di sacramento vivente, un veicolo di Dio.
L’amore tra i coniugi si trasforma troppo spesso in un sentimento esclusivo, cieco e geloso, tre imperfezioni che impediscono all’amore di rivestire la forma soprannaturale e divina.
Ricordatevi che la bellezza è apparizione luminosa della vita, che la vita è il dono prezioso di Dio, che la speranza cristiana è la sicurezza eterna e il possesso della vita, di tutta la vita; che il possesso della vita è gioia e felicità ; e perciò stimate la bellezza come sorgente di gioia nel mondo, come incentivo della speranza, come attrattiva della virtù. Riguardatela come un dovere, come un’immensa responsabilità innanzi a .Dio e innanzi agli uomini.
La madre o è più che donna, o è meno che donna ; nel mezzo non può stare.
Si diventa madri dello spirito ai piedi della Croce! Come ai piedi della Croce si diventa figli spirituali.
Oh se le madri riflettessero che tutte le loro affezioni si ripercuotono nell’anima dei figli e vi lasciano una traccia, un solco spesse volte incancellabile, oh ! come custodirebbero il proprio cuore, come ne sorveglierebbero tutti i moti anche i più tenui ed occulti!
Beata la moglie che sa predicare senza parlare. Beata la moglie la Cui vita è un tacito rimprovero al marito, un continuo richiamo a quella fede che égli ha abbandonata!
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La mancanza volontaria di coltura è sempre un difetto morale che diminuisce la virtù, poiché tale mancanza rivéla, poco amore alla verità che è bene supremo dell’uomo.
Nel periodo pieno di seduzione durante il quale i figli sottopongono ad esame scientifico la morale e la religione apprese sulle ginocchia della madre, questa ha un solo mezzo per influire efficacemente sull’animo loro: non la coltura, ma la santità della vita, l’eroismo della virtù.
L’alpinismo è per la gioventù quasi un sacramento di natura ».
♦ ♦ *
L’entrata dell' Italia a fianco dell' Intesa a combattere per ideali cari al cuore del P. Gazzola, coincideva col periodo estremo della sua vita, con la fase più penosa della sua ascensione del Golgota. Ed egli seguì le sorti della nostra guerra con fede religiosa benché con religioso sgomento. « A costo di quali strazi e convulsioni progredisce l’umanità ! Quanto siamo lontani dal Vangelo! Come è triste l’impotenza della Chiesa, di tutte le Chiese a dirigere l’umanità, ad elevarla, a migliorarla..! Questo lavacro di sangue ci purificherà un poco tutti, in modo speciale noi, uomini di Chièsa.
L'umanità è una; la coscienza della unità óra oscurata dall’odio, proromperà più forte. Questa sarà l'ultima guerra. « Questa speranza è riposta nel mio seno ».
« Io prego che da questo lavacro di sangue esca un’umanità migliore..... Credo che la nostra causa sia giusta e che la nòstra vittoria sarà una tappa nel progresso civile e morale. Della vittoria non dubito, ma... rendere cristiana la guerra è difficile: e se non siamo cristiani siamo nulla».
G. Pioli.
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POESIA RELIGIOSA POLACCA
e non il primo, uno dei primi documenti letterari della lingua polacca esce da un chiostro. La dolce e pura principessa Arpade, Kinga, conservatasi casta accanto al casto marito, entrò dopo la morte di lui nel nuovo convento delle Clarisse a Stary Sqcz, dove sorsero la prima traduzione dei Salmi e i primi inni sacri in lingua polacca. Dal 1408 in poi, la preghiera alla Madre di Dio (Bogurodzica):
Bogurodzica, Dziewica, Bogiem slawena Maryia! U tvego syna Hospodyna ziéci nam, spuéci nam ! (1)
ha risuonato non solo nelle chiese, ma sui campi di battaglia, ogni volta che i «Cavalieri di Maria» dovevano difendere la patria o conquistarle nuova gloria di sangue e di martirio.
Se dagli inizi del Cristianesimo in Polonia (966), dove l’antica liturgia slava fu subito soppiantata dal rituale romano (venendosi così a creare fra Polonia e Russia una barriera religiosa, più efficace della geografica e inazionale), fin nel secolo xni il sentimento religioso non era puranco penetrato profondamente nell’anima del popolo, che ne sentiva solo i. precetti, i divieti, le decime; l’opera del clero, che fu sempre essenzialmente nazionale, si mostrò valido baluardo alla penetrazione tedesca, sempre più invadente; finché potè abbattere, alleato coi Lituani, il mortale comune nemicò, l’Ordine dei Cavalieri Teutonici. Perciò la letteratura polacca, che sorge colla dinastia dei Piasti, secondata da quella russolituana degli Jagelloni, e si afferma con la fondazione dell’università di Cracovia, / sul principio del xv secolo, non è solo spiccatamente nazionale, ma anche in gran parte confessionale. Ma procede lenta, dapprima, e malsicura, e a stento si libera dai ceppi dell’imitazione straniera e dall’esagerato culto per il latino, adoprato non solo, per tutto il Cinquecento, per la prosa della storia e della politica, ma anche per la poesia lirica, fino a quella del gesuita Sarbiewski, detto l'Orazio cristiano.
Scuotere quei ceppi, far servire la lingua materna all’espressione sincera e poetica dei più intimi sentimenti e delle più alte aspirazioni, era riserbato al primo — dopo Mikolaj Rey (1507-1569) — e de’ più grandi insieme, dei poeti polacchi: Jan Kochanowski (1530-1584), primo anche della lunga serie di poeti nei
(1) «O genitrice di Dio, o Vergine, Maria glorificata da Dio! presso il Signore, figlio tuo, esaudiscici, perdonaci! ».
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quali più intensa e profonda vibra la corda religiosa: dall’inno di commossa e ammirante riconoscenza al Creatore per tutte le bellezze del cielo e della terra e per tutte le gioie della vita (1), alla insuperata parafrasi dei Salmi (2), in tutto degna della sublimità del testo ebraico. E modello biblico», non solo nel titolo, ebbe un altro de’ suoi capolavori, i Treny, nei quali lamentò l’immatura morte della adorata figliuoletta Urszulka, sorriso e speranza della casa or fatta triste e deserta; finché l'acerbo dolore si placa con la visione del inondo divino in cui la madre e la figlia attendono il loro caro.
Solo con Adam Mickiewicz e coi due suoi grandi contemporanei e rivali, Slowacki e Krasifiski, la letteratura polacca entra a far parte della letteratura universale; nè io potrò, di quanti poeti religiosi — e non son pochi nè di scarso valore — si succedettero nei due secoli intermedi, ricordare poco più che i nomi in questi brevi cenni.
Mikolaj S$p Szarzyiiski, morto in giovane età nel 1581, imitatore (al pari di altri del suo tempo) del Petrarca e autore di liriche religiose piene di schietto sentimento; Kasper Miaskowski (1549-1622), che nella ininterrotta quiete della sua campagna compose, con spirito di devota contrizione ma con strano miscuglio di immagini pagane e cristiane, oltre a vari inni per' festività e per santi, le elegie Kwiaty na '/Aób Zbawiciela (Fiori sul presepio del Redentore) e, pure in versi, la Historja nteki Jezusa Christusa (Storia della Passione di G. G.); il canònico S t a n i s 1 a w G r o c h o w s k i (1554-1612) che nei rifacimenti metrici Imitazione di Tommaso da Kempis, delle prose e inni del Breviario, degli Ascetica del Pontano, mostrò doti di chiarezza, facilità e garbo, ma non senza arida prolissità, monotonia e banalità; la più pregevole, perchè più semplice e sincera, fra le sue poesie è forse quella, diretta al celebre predicatore Skarga, in cui descrive la sua modesta e aspra vita nella povera parrocchia; Samuel Twardowski (i6oo?-r66o?), spiccatamente allegorico nel La fiaccola dell’amor divino, elegante e manierato pittore di solennità cristiane, uno dei sempre più numerosi rappresentanti della lirica celebrante singoli santi e soprattutto la Vergine, per la quale ultima va ricordato Wespasian Kochowski (i630?-i699), 1’« historiographus privilegiatus » del Sobieski, autore di un Ogród Panieùski (Giardino della Vergine) — i cui distici altro non sono che una trascrizione rimata degli epiteti e tropi indicanti la Madonna presso i Padri della Chiesa e altri testi ecclesiastici — e di un molto lungo e molto fiacco poema, Christus cierpi^oy (3); prodotti di quella mediocrità della poesia religiosa del Seicento, sulla
(1) « Czego chcesz od nas, Panie, za twe hójne dary? » (Che cosa vuoi Tu da noi, o Signore, per i tuoi munifici doni ?)
(2) Psalterz (Salterio), libro tanto popolare da essersene fatte, in sessant’anni, più di venti edizioni.
(3) « Passione di Cristo », letteralmente Xpscrà; ttept, in 5000 versi. Benché in prosa, va qui ricordata la sua Psalmodja polska (Salmodia polacca, 1693), nei cui 35 salmi, imitanti i davidici, il poeta ringrazia Dio per i suoi doni e riflette sulle sorti della Polonia, che crede predestinata alla redenzione degli altri popoli; primo inizio dei pensiero messianico, che doveva avere si grande e nobile svolgimento nei primi decenni del xix secolo.
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POESIA RELIGIOSA POLACCA
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quale di non poco si innalza Heraklius Stanislaw Lubomirski (1640-1702) con la elegante parafrasi dei Proverbi di Salomone e la commossa descrizione della Nascita e Passione di Gesù.
A maggiore altezza, in armonia con la rinascenza letteraria nell'età di Ponia-towski, si eleva la lirica religiosa di Franciszek Karpiùski (1791-1825), scrittore assai versatile, più celebre come poeta d'amore, ma che seppe infondere in alcuni de' suoi inni religiosi tanta semplicità e intimo calore, da rènderli popolarissimi, sì che tuttora si cantano dal popolo durante le sacre funzioni (1). Fra il periodo cosidetto pseudoclassico e il romantico sta Jan Pawel Woronicz (1757-1829), prima parroco a Liw, poi vescovo di Cracovia, infine primate di Polonia; altro esempio del compenetrarsi, così frequente e caratteristico negli scrittori polacchi, del sentimento religioso col patriottico, e primo rappresentante, in Polonia, del panslavismo letterario. Ora è libro un po’ invecchiato, anche per il tramontare di quelle idee, la sua epopea Sybilla, retorica e pesante; ma per YHymn do Boga (Inno a Dio) va posto fra i più nobili e ispirati poeti della fede cristiana. Più alto ancora di questi suoi predecessori e già appartenente alla seconda generazione romantica (e di Byron e di Slowacki subì dapprima l’influsso) sta Kornel U j e j sk i (1823-1897), l'autore dell'inno Z dymem po'/.arów («Cól fumo degli incendi »), scritto per l'insurrezione del 1863 e rimasto, al pari dell’antica Bogurodzica, inno nazionale e di battaglia. Ma già appena ventitreenne, durante le lotte sociali che nel 1846 insanguinarono la Galizia, dal suo cuore esacerbato e pur non disperante erano sgorgati, quasi rinnovando il pianto del profeta sulle sventure di Israele, i Lamenti di Geremia (Skargi Jeremiego, 1847), c^e un valoroso critico polacco, il Brückner (2) chiama « il suo capolavoro e un capolavoro della lirica religiosa di tutti i tempi » (3). Agli accenti di sgomento e di dolore si alternavano visioni di fede vittoriosa e di speranza; nè mai si erano udite voci di tale divino conforto: « Noi abbiamo fede; Signore, che Tu semini stelle sopra la nostra via; che Tu sia il nostro testimonio; che Tu guardi noi tutti dal precipizio, sebbene talvolta Tu scuota i deboli; che Tu abbia messo i tuoi angeli intorno all’abisso; noi abbiam fede, o Signore! ». All’altezza dei Lamenti non giunse più il poeta, nemmeno nelle Melodie bibliche (Melodie biblijne, 1852), per quanto profonde di pensiero e splendide di forma.
Ma con l’Ujejski siamo già nel periodo glorioso della letteratura polacca e i tre astri che ne diffusero ovunque la luce erano già da tempo spuntati sull’orizzonte.
Nella ricca e mirabile produzione poetica di Adam Mickiewicz (1798-1855) non vi sono poesie propriamente religiose; ma lo spirito religioso, nella caratteristica fusione col patriottico, irraggia tutta l’opera sua; e non occorre ricordare la forma schiettamente biblica del Libro della nazione polacca e dei pellegrini polacchi (Ksiqgi narodu Polskiego i Pielgrzymstwa Polskiego, 1832), ammirato,
(1) Per es. i due inni « Kiedy ranne wstaja zorze» («Quando sorge l’aurora »Je « Wszystkie nasze dzienne sprawy » (« Tutte le nòstre opere quotidiane »).
(2) Dalla sua Geschichte der polnischen Lilteratur (Leipzig, Amelang, 1901) attingo in massima parte le notizie concernenti il periodo preromantico.
(3) Op. cit.» p. 458.
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366 BILYCHNIS
fra gli altri, dal Montalembert (i), imitato dal Lamennais (Paroles d'un croyant), tradotto nelle principali lingue d’Europa (2) e che oggi non si può rileggere senza profonda commozione, oggi che la giustizia divina e umana ha colpito « la trinità satanica » dei discendenti di Federico di Prussia, di Caterina di Russia e di Maria Teresa d’Austria e sta per cancellare l’iniquo atto dello smembramento della patria polacca.
Sono note le relazioni del Mickiewicz con Andrzey (Andrea) Towiafiski (1799-1878), il profeta del « messianesimo » (3), nell’ultimo periodo della sua vita, durante il quale la vena poetica parve inaridirglisi. Non è senza interesse ritrovare, nei manoscritti pubblicati dopo la morte di lui nell’edizione completa delle sue opere (4), due frammenti religiosi, nello stile dei Kstyi, datato il primo (5) « nella notte di Ognissanti, 1842», cioè nel tempo in cui l’influenza del Towiaùski più si faceva sentire e più agitava ed esaltava l’anima del poeta: due frammenti finora non mai tradotti e che pure, per il calore e l’irruenza delle immagini e le chiare tracce delle idee messianiche, meritano di esser conosciuti (6) :
Parole della Santissima Vergine:
1. 11 ricordo del mio popolo mi stringeva il cuore con dodici nastri fiammanti (7) e sentivo sempre ficcati nel mio cuore i dodici nodi annodati per il ricordo del mio popolo.
2. Vivevo di Israele e tutta quanta in Israele, come del fidanzato e nel fidanzato.
3. I suoi sospiri mi passavano da parte a parte, tutte le sue lacrime mi gocciavano nel cuore. Ero piena de’ suoi dolori, ma delle sue speranze mi ammantavo, come di piume; mi libravo sopra ad Israele e le sue brame mi erano come ali, con le quali toccavo il cielo.
4. Da allora, attraverso il mio petto, come attraverso ad una serena notte d’estate, passavano i lampi, illuminavano il mio petto; lampi larghissimi e silenziosi (8).
5. Finché il mio amore si trasformò in una favilla visibile e tutto il mio spirito la ebbe circondata e soltanto in lei guardava.
(1) Maurice de Guérin (Reliquiae, Paris, 1861) ne scriveva il 21 giugno 1833 alla sorella Eugenia: «Tu ne connais pas encore poésie pareille à celle-là, si j’en excepte la Bible. Je te promets des larmes... ».
(2) In ital. da C. Bragaglia nella « Biblioteca Universale Sonzogno ■ (1885), n. 137.
(3) Superfluo ricordare ai lettori di Bilychnis lo studio di T. Canonico, Andrea Towianski, Roma, 1895, del quale si giovano Toh. Dover per l’articolo in Bilychnis, I (1912), p. 554-59, e più ampiamente, attingendo in ¡specie dal cap. Vili, S. Bridget Q4. t. e l'anima della Polònia, ivi, VI, 1917, p. 342-48). Il manifesto editoriale del recente ed eccellente libro di Maria Bersano Begey, Vita e pensiero di A. T.» Libr. Editrice Mil., 1918 fu pur ristampato in Bilychnis. VI, 1917, p. 362-64. La ricca e accurata bibliografia nel libro della Begey (pag. 439-466} ci dispensa da altre citazioni.
(4) Dziela Adama Mickicwicza (Opere di A. M.), in 4 voli., Paryz, 1868.
(5) Dal v. 6 del secondo frammento, che allude manifestamente al Towiatìski, come al nuovo maestro e salvatore dell’umanità, e da altri accenni nel frammento stesso, non è difficile rilevare che esso fu scritto dopo l’esilio del T. da Parigi e quasi come rimpianto e protesta ai torti fatti all'apostolo misconosciuto.
(6) Traduco, il più fedelmente possibile, dal testo nell’ediz. cit., voi. IV, p. 203-206.
(7) Allude alle dodici tribù d'Israele.
(8) Era, dapprima, una luce lontana e tacita, come quella dei grandi lampi estivi che illuminano a momenti tutto il cielo, senza che si oda brontolio di tuono.
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POESIA RELIGIOSA POLACCA &?
i>. E sentii nel grembo il bambino palpitante, come un altro cuòre; e il mio antico cuore si assopì e si quetò.
7. E dichiarai al mondo tutto il mio amore con una parola del Signore, la quale diventò corpo; e da quel momento ho vissuto nel Figlio mio e del Figlio mio.
8. Ma attraverso il mio petto, come attraverso una giornata torrida, cominciarono a passare i fulmini e il mio cuore diventò pieno di potenza, come di tuoni. Il mio irradiamento squarcia le cattive tenebre; trasportata dall’amore, calpesto il Male e lo schiaccio nel fondo dell’inferno.
9. Circondo la terra con le mie palme, come cielo azzurro; e in ogni momento e in ogni luogo per ogni buon spirito mi accendo e risplendo con la stella mattutina.
Parole del Cristo.
1. Credi che col mio spirito io abbracciavo tutto il mondo solare (come il rettile porta in sè stesso il suo uovo), io riempivo il mondo come il padrone riempie col suo spirito (1) tutta la casa e la regge e con un cenno vi domina.
2. Ma se il Signore comincia ad insegnare al suo bambino, non per mezzo di maestri prezzolati, ma egli stesso, occupandosi di lui giorno e notte, come dimenticando la propria sapienza e condannandosi alla conversazione infantile, ah! che amore è questo?
3. Così avevo parlato col popolo bambino, per mezzo dei miei profeti del Vecchio Testamento; quanto più grande tale amore, se il Signore vuol frenare i vizi e le passioni di un ragazzo adulto, mostrando le loro cattive conseguenze non sull’animale domestico oppure sullo schiavo, ma egli stesso sulla sua persona, permettendo che lo si affami e lo si martirizzi, dicendo: « Fanciullo, vedi come ciò mi duole. Ricòrdati di queste lacrime e di questo sangue, quando tu metterai giudizio ».
4. Io così insegnavo al mio fratello. Perchè l’uomo collettivo, l’umanità, è il tìglio di Dio; io la allevavo come voi i vostri bambini, soltanto con più grande amore.
5. Ora l’uomo collettivo è un adolescente, e andrà in guerra col male.
6. E lo spirito del Signore, spirito mio. diventa uomo e non lo riconoscete, perchè v’insegna come ai bambini liberi.
7. Padre amoroso, si metterà con te, o uomo, in aspetto di condiscepolo, di com-R d’armi, magari di galoppino fedele; ti cingerà la spada, ti menerà il cavallo, te i cavalcare; ed egli stesso, come vecchio guerriero, inerme, andrà dinanzi a te dicendo: « Figlio, vieni qui dietro di me, diritto. 11 Male è furbo e vedi che io sono più semplice e più sapiente di lui; io l’ho ingannato; lo abbiamo incontrato, è consegnato nelle tue mani. Il Male è armato, ma io, inerme, non ho paura di lui. Guarda! impallidisce e fugge.
8. Vinci e rallegrati. fanciullo mio; ma quando tu invecchierai, non dimenticare e di’ agli altri dove cercare la sapienza e cos’è l’eroismo. Vedi, figlio, per quale ragione io ora debbo essere un soldato; e la vita del giovinetto è ancora lunga, il lavoro di tuo padre è lungo, e tu amalo e portalo nell’animo.
9. E quando di nuovo egli verrà da te, di nuovo con un altro volto, tu riconoscerai la sua voce e il suo volto si schiarirà a quelli che lo amano e lo portano nel cuore.
Dal towianismo tu preso, nel 1842, e moralmente trasformato, anche il grande rivale di Mickiewicz, Julius SI ow ack i (1809-1849); e da allora la sua poesia si colorisce sempre più di misticismo, si fa sempre più tormentata, confusa e oscura. Ma quanto profondamente religiosa fosse l’anima sua, benché — o anzi perchè— avversa al clericalismo, mostrano, fra le opere anteriori a questo periodò, le pagine di Anhelli (2), derivate, per la forma biblica, dai Ksi^gi del Mickiewicz, e perseguenti anch’esse, benché per via affatto diversa, un ideale patriottico.
Spirito eminentemente riflessivo, contrastante con l’epico Mickiewicz e col
(1) Cioè con la sua attiva presenza.
(2) Si possono leggere nella traduzione da me poco fa pubblicata, nella collezione « Cultura dell'Anima », Lanciano, R. Carabba, 19'19.
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368 BILYCHNIS ____________
lirico-fantastico Slowacki, Zygmunt Krasiúski (1812-1859) scrisse in prosa le due opere maggiori; ma ciò non c’impedirà certo di ricordarlo in questa rapida rassegna di poesia religiosa, chè della grande poesia esse hanno i pregi e svolgono altissime questioni etico-religiose. Irydion si propone il problema della legittimità dèlia vendetta, già trattato dal Mickiewicz in Konrad Wallenrod e qui risolto in senso pagano; mentre per Krasiúski l’eroe che tutto sacrifica, anche l'anima propria, per vendicare la patria oppressa e vendicarla con un’opera di sangue e di rovina, non ne raccoglie il frutto sperato e deve invece subirne la dura espiazione: il patriottismo non deve esser guidato dallo spirito di negazione e di odio, ma dall’amore cristiano. Anche La non-divina Commedia (Nieboska Komedja, 1834), insieme all’ammonimento alla concordia per evitare la rovina della patria, contiene un alto ammaestramento morale e religioso ; non gli aristocratici nè i democratici vinceranno e sapranno riorganizzare il mondo sulle rovine delle loro lotte, ma solo la Croce di Cristo, il simbolo del sacrifizio e dell’amore universale. Se Krasiúski non fu tra gli aderenti al towianesimo, il suo misticismo non ne è lontano; anch’egli pensò che alla Polonia fosse stata data una « missione provvidenziale » nel mondo ed è significante, in Przedbwit (L’alba) il parallelo tra la morte e risurrezione di Cristo e la Polonia stessa, paragone familiare negli scritti dei messianisti (1).
Ammiriamo l’alto volo, come di aquile, di questi tre grandi poeti; ma non sde-gnamo il canto dell’usignolo, cui, per la dolcezza e musicalità del suo verso (e solo in versi egli scrisse) si può paragonare l’ucraino Bohdan Z a 1 e s k i (1802-1886), autore, fra l’altro, di un idillio religioso assai noto e popolare: La sacra famiglia-(Swieta Rodzina). Leggiadre descrizioni, strofe armoniose, finezza di dettagli; ma il Gesù di Zaleski ricorda più spesso il Divin Bambinello degli Arcadi che non il martire di Rubens; c il pranzo in casa di Elisabetta non appare poi molto diverso da un pranzo in casa della Luise del Voss. E durante la lieta mensa frugale, il fanciullo Gesù «misurava l’abisso dei tempi col sublime sguardo profetico», mentre poco prima, disputando nel Tempio coi dottori, aveva recitato le prime frasi... del Vangelo di S. Giovanni. Queste incongruenze, questo accentuare la divinità nel fanciullo e dargli tutto il senno .dell’uomo (si ripensa, per contrasto,’ alla squisita ingenuità delle Chrisluslegender di Selma Lagerlòf), turbano la impressione poètica di altri tratti efficaci, quali l'accenno alla crudeltà di Tiberio e del suo legato in Palestina, il bacio di Gesù al bambino Stefano (che pagherà quel bacio col suo sangue di protomartire), il brivido di angoscioso .presentimento che prende il fanciullo alla vista di Getsemani e del Golgota.
Con questo idillio sacro, in cui si profila, come in un quadro raffaellesco, la dolce figura della Vergine e Madre, si chiude il ciclo poetico iniziato coll'inno alla Bogurodzica, alla « Genitrice di Dio »; quasi a simboleggiare la inesauribile persistenza, attraverso i secoli e le più tempestose vicende, di una delle due fiamme che illuminano e riscaldano, quasi sempre in congiunto ardore, tutta la poesia polacca: la fede in Dio e l'amor di patria.
P. E. Pavolini.
(1) Cfr, C. CouRRifcRE, Hist, de la litter. contemp. chez les Slaves, Paris, Charpentier 1879, pag. 405.
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA E NEL NUOVO CODICE DI DIRITTO CANONICO
I. Le garanzie presso i tribunali ordinari di prima e di seconda istanza.
i. L’ Ordinario e il tribunale ordinario di. prima istanza.
n ogni diocesi e per tutte le cause non eccettuate espressamente dalla legge, il giudice di prima istanza, come Ordinar M loci, è il Vescovo. Esaminiamo quindi anzitutto l’ambito e la natura della sua giurisdizione.
Il can. 234, L. Il, dichiara che il Vescovo non ha soltanto la potestà giudiziaria, ma anche quella di far leggi, di amministrare, di costringere, avendo il diritto e il dovere « gubernandi dioecesim tum in spiritualibus tum temporalibus cum potestate legislativa. Miciaria, coactiva » (1). Di questi tre poteri, racchiusi nella potestà* iurisdictio-nis, egli è rivestito per diritto divino, così che essi non si possono scindete nè separare. Naturalmente egli li deve esercitare secondo le prescrizioni canoniche; vedremo però ben presto se esse valgono a costituire un freno e una limitazione efficace al suo arbitrio. Notiamo subito che quanto al potere legislativo l'Ordinario ha facoltà assai estese : « Unicus est in Synodo legislator Episcopus, ceteris tantum votum consultivum habentibus; unus ipse subscrit synodalibus constitutionibus» (can. 261, L. II) (2). È quasi come il Papa in un^Concilio ecumenico.
Il libro De Delictis et Poenis è diviso in tre parti: la prima tratta dei delitti, la seconda delle pene, la terza dei singoli delitti e delle relative pene. Data questa disposizione della materia, si sarebbe aspettato di vedere rigorosamente applicato il principio accolto da tutti i codici moderni: nuUum crimen sine lege, nulla sine lege poena. Ma se ne fa un’applicazione imperfetta e parziale. Anzitutto, occorre notare che non tutte le pene, che può infliggere il giudice ecclesiastico, sono enunciate nello schema. Parlando, per esempio, delle pene vendicative comuni, dice: « Poenae vindicativae... in Ecclesia praeserlini sunt, ecc. » (can. 95) e ne segue l'enu(1) Codex, can. 235.
(2) Codex, can. 362.
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370 BILYCHNIS
merazione. Come appare però da quel pr deserti tn ce ne sono altre che. al caso, ben potrà escogitare e adottare V Ordì nano (1).
In secondo luogo, non per tutti i delitti si sanciscono pene tassativamente dalla legge stabilite. Infatti, tra le varie divisioni della pena troviamo che essa può essere anche indeterminata-. « Poena dicitur... indeterminata seu extraordinaria, si prudenti arbitrio iudicis ecclesiastici relicta sit sive praeceptivis sive faculta-tivis verbis » (pan. 23, § 1, i°, L. IV) (2). E lo stesso delitto è definito canonica-mente: « externa et moraliter imputabilis legis violati© cui addita sit sanctio canonica saltem indeterminata » (can. 1, § 1, L. IV) (3). Benché il legislatore dicache la sanzione indeterminata è straordinaria, essa ricorre spessissimo. Sono varii i canoni ove si dichiara che la punizione è rimessa prudenti arbitrio dell’ordinario o del giudice. E sono frequentissime le espressioni equivalenti, con le quali si sancisce che il reo venga punito: « pro gravitate culpae »; « pro diversa reatus gravitate »; « congruis poenis »; « pro modo culpae », ecc.
Altre volte la pena è determinata, ma si lascia all’Ordinario, secondo il suo prudente giudizio, la facoltà di aggiungerne altre e di sua libera scelta. Così, ricorrono spesso le espressioni: « salvis aliis poenis »; « praeter alias poenas, quas Ordinarios infligendas iudicaverit »; « aliisque congruis poenis », ecc. Per le più gravi pene soltanto, come la degradazione, la deposizione, ecc. si prescrive che non possono applicarsi « nisi in casibus iure statutis ».
Il giudice ecclesiastico può punire, in alcune circostanze, anche se la legge non contenga una sanzione apposita (Can. 28, L, IV) (4).
La pena determinata, come quella che è dalla legge tassativamente stabilita, l’Ordinario non dovrebbe poterla aggravare in nessun caso. Invece, sia pure ab pecuniaria rerum adiuncta, egli può, entro i limiti della sua giurisdizione, « non solum legem a se vel a decessoribus latam, sed etiam, ob peculiari^ rerum adiuncta, legern (ani divinavi quam ecclesiasticam a superiore potestate latam, in territorio vi-gentem, congrua poena munire aut poenam lego statulam extra iudicialem sententiam Aggravare » (can. 27, § 2) (5). E il peggio si è che anche nei casi concreti, allo stesso momento cioè dell’applicazione della pena, l’Ordinario può, se vi concorrano circostanze aggravanti, aggravare la pena esplicitamente della legge determinata (Can. 29, L. IV) (6).
(1) Infatti il Codex, pur riferendo a parola nel can. 2291 il can. 95 dello Schema, omette una pena, lTxa. consistente nella: privato inris prosequendi apud tribunalia ecclesiastica causan). aut appellationem interponendi. aut revisione m iudicii expetendi ». Ma ciò non vuol dire che, occorrendo, non si possa ugualmente applicare. Tale indeterminatezza contrasta poi stranamente con questa disposizione preliminare del Codice: «Quod ad poenas attinet, quarum in Codice nulla fit mentio, spiritualés sint vel temporales, medicinales vel, ut vocant, vindicativae, latae vel ferendae sententiae. eae tamquam abrogatae habeantur » (can. 6, 50).
(2) Codex, can. 2217, § 1, 1. — Notiamo una volta per sempre che nello schema il Liber de Judiciis è il quinto e il Liber de Delictis è il quarto, mentre nel Codice quest’ultimo diventa quinto, e quarto quello de Judiciis.
(3) Codex can. 2195, § 1.
(4) Codex, can. 2222. § 1.
(5) Codex, can. 2221. Vi son soppresse soltanto le parole «citra iudicialem sententiam ».
(6) Codex, can. 2223, §1.. 2.
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA, ECO. 37I
Abbiamo già veduto che s’intende per delitto in senso canonico. Ma oltre le violazioni di legge, onde nascono le varie figure giuridiche dei delitti, ve ne sono altre ; giudica anche di esse la Chiesa? Sì, ratione peccati (Can. 2, 20. L. V) (1). Ma siccome il concetto di peccato ha un’estensione latissima, coincidendo quasi sempre con ogni trasgressione di legge: divina, naturale, ecclesiastica, scritta o no non importa, ne deriva che tali trasgressioni, anche se non assumano la figura giuridica di reati, cadranno sempre sotto la sanzione ecclesiastica ratione peccati, e non solo nel foro interno, di cui non ci occupiamo, ma spesso anche nell’esterno (can. 4, § 2) (2). Quale procedura si debba seguire in questi casi il legislatore non dice; sarà perciò rimessa, volta per volta, all’arbitrio prudente dell'ordinario, o più generalmente del giudice.
Del resto, l’Ordinario può emanar leggi penali da sè, contemplando quei casi che, secondo il suo prudente arbitrio, reputerà meritevoli di sanzione: « Qui legislativa potestate pollent, possunt quoque legi... poenas adnectere» (can. 27, § j. L. IV) (3).
Infine, se l’Ordinario intenda colpire un caso particolare, e il Codice e altre leggi non abbiano una disposizione apposita, ed egli d’altra parte non creda opportuno emanare una legge, può imporre la sua volontà con precetti munendoli di pene, che il legislatore rimette al suo prudente giudizio. Il can. 1, § 2, L. IV, dichiara che « nisi ex adiunctis aliud appareat, quae dicuntur de delictis, appiicantur etiam violatiónibus praecepti cui poenalis sanctio adnexa sit» (4). Queste pène sono naturalmente tutte ab homine, ma possono essere, al pari di quelle pei delitti, oltre che ferendae, anche lalae senteniiae, tali cioè da contrarsi ipso Jacto, senza bisogno di una sentenza condannatòria.
La pena annessa a un precetto, anche quando sia ferendae senteniiae, non vien pronunciata in base alle norme procedurali stabilite per le sentenze giudiziali vere e pròprie, ma si prescrive soltanto che d’ordinario debba essere irrogata in iscritto o alla presenza di almeno due testimoni, col solo obbligo di indicarne il motivo (can. 31, L. IV) (5), il quale tuttavia nel processo ex informata conscientia, che esamineremo più oltre, può essere anche taciuto. Di pili alcune pene, pur trattandosi di delitti contemplati dalla legge, possono essere inflitte anche extra iudicium, a modo di precettò: « Poenitentia, remedium poenale et excommunicatio, suspensi©, in-terdictum ferendae sententiae infligi possunt etiam per modum praecepti extra iudicium » (can. 670, L. V) (6).
Questi, in breve, i limiti che il Liber de delictis et poenis assegna alla giurisdizione dell’ordinario; troppi ampi invero perchè gli possa accadere facilmente di oltrepassarli e di commettere abusi di potere o di ufficiò. Tuttavia lo stesso libro De Delictis considera proprio nell’ultimo titolo questa possibilità, e stabilisce varie norme in proposito. Gli abusi di potere, salvo alcuni casi espressamente contem1) Codex, can. 1553. §. j., 2.
2) Codex, can. 2198.
3) Codex, can. 2220, § 1.
4) Codex, can. 2195. §2.
5) Codex, can. 2225.
6) Cfr. il can. 1933. §4. del Codice, alquanto modificato.
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BILYCHNIS
piati, sono sempre puniti, prò gravitale culpae, dal legittimo superiore (can. 215, L. IV) (1). Ma è degno di nota il canone seguente, in cui si considera esplicitamente anche il caso di abuso di potere 0 di ufficio da parte del Vescovo: « Judices qui se temere et sine ullo titulo se competentes declaraverini, vel cum certe et evidenter competentes esserti, ius reddere recusaverint, vel qui ex dolo aut culpabili negli-gentia actum irritum cum alterius detrimento vel iniustum posuerint, vel aliud litigantibus damnum intulerint, possunt, firma obligatione reficiendi damna, ab ordinario loci vel, si de episcopo agatur, a Sede Apostolica, ad instantiam partis aut etiam ex officio, congruis poenis prò gravitat e culpae punì ri, non exclusa officii pri-vatione» (can. 218, § 1, L. IV). Disposizione, questa, di cui non si può disconoscere la bontà, sebbene praticamente poco efficace (2).
Questi pochi canoni d’indole generale su la giurisdizione degli Ordinarii bastano a far subito comprendere che garanzie serie il nuovo Codice non ne ha violandone esso i pressupposti fondamentali, fra cui:
la divisione dei poteri;
l’indipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo e specialmente esecutivo;
la tutela della giustizia contro gli stessi abusi dell'autorità giudiziaria;
l’esclusione da parte della legge, quanto è più possibile, dell'arbitrio del giudice.
♦ * ♦
Ma accanto a queste garanzie ve ne sono naturalmente altre: sono anch’esse violate? Vediamolo, esaminando anzitutto, su la scorta dello Schema, la costituzione e il funzionamento dei tribunali ordinari di prima istanza.
In questi tribunali, come abbiamo veduto, il giudice ordinario è il vescovo. Egli però può giudicare anche per mezzo d’altri e, a questo fine, il Codice impone che egli si elegga un officiale e che si creino i giudici sinodali. «In qualibet dioe-cesi presbyteri probatae vitae et in iure canonico periti, non ultra duodecim, ab episcopo propositi, eligantur a Synodo ut in litibus iudicandis partem habeant » (can. 40, § 1, L. V) (3). Il vescovo, dunque, li propone, e il Sinodo li elegge. Praticamente, però, il vescovo non potrà non influire enormemente, se non talora decisamente, anche su la loro elezione. Nel Sinodo, egli non è un semplice presidente che modera e dirige una discussione; è il pastore ordinario, è la prima dignità e il capo della diocesi, a cui tutti sono tenuti a prestare canonica obbedienza e riverenza (4). Ora, è appunto lui che propone i giudici da eleggersi; i convocati,
(1) Codex, can. 2404.
(2) Ma questo canone Miei Codice è stato soppresso. Cosi il caso di abuso di potere a o di officio da parte del vescovo lo si'fa comprendere nel canone 2404, assai più vago, e riferentesi solo all’abuso di potere. Con le parole « legittimo superiore » si deve intendere il metropolita o la santa sede? Di più in esso non si contempla che una punizione prò gravitale culpae, mentre nel canone soppresso si parla espressamente anche della privazione dall'officio.
(3) Codex, cab.. 1574, § 1. Vi si trova qualche modificazione: così si dice chetali giudici possono essere anche estradiocesani, e si dichiara esplicitamente che il loro potere è delegato.
(4) Cfr. H. M. Pezzami, Codex Sanctae Catholicae Romana? Ecclesiae, P. Il, voi. Ili, Pag- 750.
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA, ECC.
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suoi sudditi, possono certo opporglisi, ma è ovvio che iJ rispetto e la soggezione indurranno i più a confermar senz’altro le sue proposte, talché sarà raro il caso che la magistratura non riesca di pieno gradimento dell’ordinario. Del resto, qualora qualche candidato da lui proposto non venga approvato, il vescovo ha sempre la facoltà di proporne altri, o di non proporne più nessuno, giacché la legge non parla di un minimo, bensì di un massimo: dodici.
Nel caso poi che alcuno dei giudici sinodali venga a morire, o che per un’altra ragione decada dall’ufficio nell’intervallo fra un sinodo e l’altro, l’Ordinario ha facoltà assai maggiori: «In locum demortuorum medio tempore inter unam et aliam synodum vel alia ratione a munere cessantium. alios prosynodales infra bimestre Ordinarius substituat de consilio Capitali » (i) (can. 40, § 2, L. V). L'unica limitazione al potere dell’ordinario è dunque il consilium capituli. In che cosa esso consista è detto nel can. 17, 20, L. V. Alla validità di un atto: « si consilium tantum exigatur, satis est ut superior illas personas audiat, et nulla obligalione tenetur ad earum votum, et si concors, accedendo » (2).
Lealmente, però, bisogna riconoscere che il vescovo, per quanto libero di non accedere al parere del Capitolo, un certo freno al suo arbitrio lo trova in una savia disposizione, in cui è detto che quando si richiede il consenso o il parere di più persone insieme, come p. es. del Capitolo, « aetus viribus caret, nisi éae personae legitime fuerint convocatae et mentem suam manifestaverint per secreta sufiragia » (can. 17, 30, L. Il) (3). Ma, nonostante questa disposizione, non si può negare che la nomina dei giudici prosinodali dipende unicamente dall’ordinario.
Quanto all’inamovibilità dei giudici, lo Schema dice soltanto che « Removeri... ab Episcopo durante sexennio nequeunt, nisi ex gravi causa et de consilio Capituli » (can. 40, § 4, L. IV) (4). L’apprezzamento della «grave càusa» è lasciato, sì, anche al Capitolo, ma esso non è chiamato a dare che un semplice parere che, se anche unanime, l’Ordinario non è obbligato a seguire.
Ora, se i vescovi fossero, nelle loro diocesi, soltanto capi del potere esecutivo e se come tali avessero così larga ingerenza nell’elezione, rimozione e sostituzione dei giudici, ciò costituirebbe già di per sé un gravissimo pregiudizio al retto funzionamento della giustizia; ma l’inconveniente più grande è che, tra l’altro, essi sono anche giudici, anzi, nelle loro diocesi, giudici supremi e capi del potere giudiziario—
(1) Codex. can. 1574, § 2 e 386, § 1. Secondo lo schema, tra un sinodo e l'altro non può intercorrere uno spazio superiore ai sei anni; il Codice questo termine lo ha portato a dieci anni. Potendo così darsi benissimo il caso che con queste sostituzioni, i giudici vengano ad essere tutti o quasi tutti prosinodali, il Codice avverte che: « nomine iudicum synodalium in iure veniunt quoque iudices prosynodales » (can. 1574, § 3). Suonerebbe infatti troppo male chiamare col loro vero proprio nome, come pur prescriveva il Concilio di Trento, i troppi giudici eletti, fuori del Sinodo, dal Vescovo.
(2) Codex, can. 105, i°. Vi è stata fatta qualche restrizione, ma più verbale che reale.
(3) Codex, can. 105, 20. Questa discreta garanzia di libertà e di indipendenza il Codice l’ha soppressa, poiché abolisce la votazione segreta, e dice bastare soltanto che i convocati « mentem suam manifestent ».
(4) Codex, can. 388. Soppressa nel Codice la votazione segreta, anche qui l’obbligo di sentire il consilium capituli non ha che un valore di formalità.
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♦ ♦ ♦
Il giudice può essere unico e collegiale. Se è unico, in genere sarà l’Ordinario che giudica e più spesso il suo officiale (i). Il diritto ancora ieri in vigore prescriveva al giudice unico di assumersi almeno due assistenti (assessori, consiglieri diocesani), ma lo Schema (can. 41. L. V) (2) dice solo che il giudice unico può in qualunque giudizio assumersi due assessori consultori, che tuttavia dovrà scegliere tra i giudici sinodali o prosinodali. Come si vede, l’obbligo è trasformato in una mera facoltà. La modificazione, per sè, sarebbe insignificante, tanto più che tali assistenti avevano solo voto consultivo, ma costituisce un grave difetto se si pensa che le udienze dei tribunali ecclesiastici sono segrete, e vengono così ad esser private anche di questo controllo (3).
All’Ordinario, come si è detto, è fatto obbligo di eleggersi un officiale, ma ciò non costituisce un aumento di garanzie. L'officiale dipende interamente dal vescovo e forma con lui un solo tribunale. Non-è nemmeno scelto fra i giudici sinodali, ed è removibile ad nuluni Praelali (4).
Se l’Ordinario può esercitare pressioni sui giudici sinodali, tanto più lo potrà sul suo officiale. Una causa, il cui esito gli stia molto a cuore, la riserverà al suo giudizio; ma se crederà più opportuno affidarla all’officiale, la sentenza sarà sempre quale egli vorrà. Può accadere che l’uno o l’altro venga ricusato come sospetto. Il can. 33, L. V., contempla appunto questo caso: « quando iudex, etsi compe-tens, a parte recusatur ut suspectus, haec exceptio, si proponatur contra iudicem in causa unicum... definienda est a tribus iudicibus synodalibus seu prosynodalibus eiusdem dioecesis, antiquioribus ratione nominationis, deinde sacerdotii, denique, aetatis». Se V exceptio suspicionis si solleva contro l'officiale ed essa venga accolta, allora, volendo, giudicherà l’Ordinario; ma se vien sollevata contro l’Ordinario? È garanzia sufficiente che essa sia risolta da tre giudici sinodali, e talora prosinodali, cioè di nomina puramente vescovile? Del resto, anche nell'ipotesi poco verosimile che l’eccezione venga accolta, il giudice della causa sarà l’ufficiale, cioè Valter ego dell'ordinario (5).
(1) Lo Schema dice che il potere giudiziario il vescovo può esercitali© egli stesso «si gravis causa id exigat», altrimenti può incaricare altri (can. 38, L. V). Il Codice (Can. 1572) sopprime la clausola della gravis causa stabilendo che può giudicare « per se vel per alios » a suo piacimento.
(2) Codex, can. 1575.
(3) Di più nel Codice, anche nel caso che il giudice unico si sia assunto degli assessori, non è nemmeno obbligato a chiedere il loro parere; e nello Schema si dice più esplicitamente: « Judex singularis adsessores quos sibi forte adiunxerit, poterli quidem considero. sed causa solus deliberabit » (can. 381, L. V).
(4) Codex, can. 1573, § 5.
. (5) Secondo il Codice, è l’Ordinario che decide su V exceptio suspicionis contro l'officiale. Se poi « ipsemét Ordinarius sit iudex et contra ipsum exceptio suspicionis op-P°"aÌu.r- vel abstmeat a indicando vel quaestionem suspicionis definiendam committat indio immediate superiori » (Can. 1614, §§ 1-2). L’Ordinario dunque può indifferentemente o astenersi o far risolvere la questione di sospetto al giudice immediatamente superiore. Ma nell’ipotesi che si astenga, chi -lo surrogherà? certo l’officiale, benché il Codice non lo dica. Anzi, se l’Ordinario prevede d’essere ricusato, affiderà senz’altro
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Io poi ritengo (e questo sarebbe anche peggio) che il caso deW exceptio suspicionis contro l’Ordinario Io Schema non lo contempla affatto, come si vedrà più oltre.
Il tribunale collegiale offre maggiori garanzie, ma solo perchè è formato da più persone. Lo Schema enumera varii casi in cui si deve procedere collegialmente, richiedendo per alcuni tre giudici, per altri cinque; per gli altri casi analoghi « dif-tìciliores et maioris momenti » è l’Ordinario che decide se si debba procedere con tre oppure con cinque giudici. È una facoltà troppo lata, ma non c la sola.
I giudici sinodali o prosinodali che debbono formare il collegio sono chiamati dall’ordinario per turno. La presidenza spetta all’officiale o al vice-officiale, a meno che non voglia assùmersela l’Ordinario.
Contro il collegio e contro i singoli giudici del collegio è ammessa suspicionis, ed è.ammessa anche contro il presidente del tribunale; ma se è l’Ordi-nario che funge da presidente, no. Non lo si dice espressamente, ma si arguisce dal can. 33, § 2: « Exceptio suspicionis contra ipsum tribunalis collegialis Prae-sidem coram ipso proponenda est, sed definienda per tribunal collegiale; cui praesidet in hoc casu vice-officialis vel, si hic desit, designabitur ab Ordinario loci, qui prae-sidio vices gerat ». Che l’Ordinario possa fungere da presidente è fuori dubbio, ma il canone in esame si riferisce unicamente all’officiale; ma poiché dell’eccezione di sospetto contro l’Ordinario non si parla in nessun altro canone, è evidente che egli è presunto superiore ad ogni sospetto. Analogamente, il can. 33, § 1, sopra riportato, con le parole « iudicem in causa unicum » si riferisce a un giudice diverso dall’ordinario (1).
il giudizio al suo fedele coadiutore, od eventualmente a un altro giudice di sua piena fiducia. Se poi, per caso, fosse mossa contro costui l’eccezione di sospetto interverrebbe sempre l’Ordinario a risolverla inappellabilmente. Perciò avverrà assai di rado che questi affidi la risoluzione dell’eccezione al giudice immediatamente superiore. Si tenga presente tuttavia che questo giudice superiore può essere, per altri rapporti, un inferiore, come vedremo in seguito.
(i)- li Codice ha eliminato il can. 33, sopra riportato, dello Schema e ha adottato con poche modificazioni, nel can. 1614, § 1, il can. 35 dello stesso Schema, il quale contempla esclusivamente il caso di ricusazione per sospetto riguardo al giudice o ai giudici delegati della Sede Apostolica: «Si Sedes Apostolica plures in solidum vel collegia-liter ad ludicandum in aliqua causa delegaverit, et exceptio suspicionis fiat contra unum vel alterum ex delegatis. res definienda est a ceteris indicibus delegatis et non exceptis. Si exceptio fiat contro maiorem iudicum partem aut contra iudicem unicum a Sancta Sede delegatum, res ab ipsa Sancta Sede est definienda ».
L’aver esteso queste disposizioni anche ai giudici delegati degli Ordinari! è stata una buona idea; però resta sempre il difetto ineliminabile che il delegante, il quale deve risolvere la questione d'eccezione, è anch’egli giudice e a un tempo capo dei poteri giudiziario ed esecutivo. Si ricordi poi che contro siffatte sentenze non si dà appello.
Crediamo utile riassumere su questo punto, le principali differenze tra lo Schema e il Codice. Secondo lo Schema. V exceptio suspicionis contro il giudice unico o contro tutto il tribunale collegiale diocesano è da definirsi da tre giudici sinodali. Se il ricusato è lo stesso presidente del collegio, la questione è da definirsi dal tribunale collegiale, a cui'presiederà il vice-officiale o altre persone designate dall'ordinario. L’Ordinario è ritenuto superiore ad ogni sospetto.
Secondo il Codice invece se V exceptio è proposta contro il giudice delegato unico o contro il collegio o la maggior parte dei giudici delegati, essa è da definirsi dal dele-
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Se sono in questione i beni materiali dello stesso Ordinario è della sua mensa, si deve procedere collegialmente col concorso di almeno tre giudici. Così dice il can. 42, § 1, !.. V, al quale rimanda il can. 12, § 1, 40: « ...in causis de rebus aiit iuribus temporalibus ipsius Ordinarii aut eius mensae vel curiae, aut cathedralis ecclesiae, quilibet Ordinarius, etiam dignitate cardinalitia praefulgens, convcniri in prima ìnstantia potest coram tribunali collegiali eiusdem diòecesis, ad normam can. 42, § 1 » (1). Il legislatore però vieta che in questi casi l’Ordinario funga da Presidente. E un divieto giusto, ma poco efficace, perchè presidente sarà l’officiale e in alcune diocesi minori lo stesso vicario generale (can. 39, § 1, L. V) (2). L’officiale, dunque, non potrà non sostenere con tutta le forze l’Ordinario; a loro volta, i giudici sinodali 0 prosinodali, formanti il collegio, faranno altrettanto. Ogni questione d’eccezione di sospetto sarà 0 respinta o definita in modo da non soddisfare troppo la parte che l’ha proposta. Ma il più importante si è che l’Ordinario, se vuole, può formarsi un collegio — il collegio che lo deve giudicare — di suo pieno piacimento: « Alios iudices qui una cum praeside tribunal collegiale consti-tuunt, inter iudices synodales vel prosynodales eligat Ordinarius per turnum. nisi prò sua pruderti a aliter opportunum existimaverit » (can. 43, L. V) (3).
Nominare gli uditori o giudici istruttori è di competenza ugualmente dell’Or-dinario che li può anche eleggere a volta a volta per ogni singola causa. Il loro compito è di citare ed escutere i testimoni e compiere altri atti processuali. L’Ordinario li può rimuovere naturalmente in qualunque momento della lite.
Parimenti «Ordinarii est promotorem iustitiae eligere» (can. 53, L. V) (4). Egli corrisponde al nostro Pubblico Ministero, ed ha notevole importanza, special-mente in materia penale. Può essere nominato « tum ad universitatem causarum tum prò singulis causis » (can. 55, § 2, L. V) (5); ma anche quando è eletto ad universitatem causarum, «insta... intercedente causa. Ordinarius cum removere potest » (can. 54, § 2, L. V) (6). Se contro di lui si propone suspicionis,
di essa decide o il Presidente del tribunale o lo stesso giudice, se è unico, cioè quasi sempre l’Ordinario o l’officiale. La stèssa norma vale anche per gli altri ministri della curia diocesana, quali il cursore, gli apparitori, il cancelliere, i notai, ecc. I giudici delegati debbono servirsi dell’opera di questi ministri, a meno che l’Organte; se contro l’uno o l’altro fra più giudici delegati, anche se si tratti del presidente del collegio, dai giudici delegati non sospetti; se contro l’ufficiale, dall’ordinario; se contro l’Ordinario, questi o si astiene dal giudicare, o commette la decisione della questione al giudice immediatamente superiore. Per quest’ultimo caso, valgono le osservazioni fatte prima.
(1) Cfr. il can. 1557 del Codice dove, tra le altre modificazioni, questo passo è stato tolto.
(2) Codex, can. 1573, § 1.
. (3) Codex, can. 1576, § 3. Pel caso in esame, il Codice propone norme diverse e più serie: « Si agatur de iiiribus aut bonis temporalibus Episcopi aut mensae vel curiae dioe-cesanae, controversia dirimenda deferatur vel. Episcopo consentiente, ad dioecesanum tribunal collegiale quod constai officiali et duobus iudicibus synodalibus antiqnioribus, vel ad iudicem immediate superiorem ■ (can. 1572, § 2).
(4) Codex, can. 1589, § 1.
(5) Codex, can. 1588, § 2.
(6) Codex, can. 1590, § 2.
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dinario, « in aliquo peculiari casu ob gravem causam proprios et extraordinarios ■ministros constìtuendos decreverit» (can. So, § 2, L. V) (1).
Che dei cursori, apparitori, cancellieri, ecc., il legislatori non richieda nessun titolo speciale, lo si comprende; ma è inspiegabile come non lo debba esigere dai giudici sinodali, prosinodali, dagli uditori. Non basta che ci sia un Codice per la retta amministrazione della giustizia; occorre anche che le sue norme vengano rettamente applicate, ciò che non è possibile senza una conoscenza solida della legge stessa ; specialmente i giudici sinodali e prosinodali dovrebbero possedere, se non la laurea dottorale, almeno, come titolo minimo, la licenza in diritto canonico. Ma su tali titoli lo Schema sorvola (2).
11 capitolo cattedrale; come abbiamo veduto, indubbiamente limita in qualche modo, per taluni atti, il potere del vescovo, dovendo questi-chiedergli, su di essi, ora il parere, ora il consenso. Ma là dove invece del Capitolo Cattedrale ci sono i consultori diocesani, tale limitazione è di mera apparenza (can. 302-308). (3).
I consultori sono nominati dal vescovo, durano in carica tre anni, e il loro numero può essere limitato a 6, e talora anche a 4. Scaduto il termine, il vescovo può riconfermarli, o nominare, in loro vece, altri. Per una giusta causa e col solo parere degli altri consultori, l’Ordinario li può rimuovere anche durante il triennio.
Posta una così assoluta dipendenza dal vescovo, il parere o il consenso dei consultori diocesani nella nomina dei giudici sinodali, nella loro rimozione, sostituzione, come pure nella nomina, rimozione, sostituzione degli esaminatori e dei parroci consultori, insomma tutta la costituzione della magistratura diocesana, tutta l’amministrazione della giustizia penale, civile, amministrativa, non potranno non essere perfettamente conformi alla volontà e ai desiderii dell’ordinario.
♦ * ♦
Premesse queste osservazioni d’indole piuttosto generale, diamo ora un rapido sguardo allo svolgimento del giudizio.
Si riconosce il diritto di farsi difendere da avvocati; senonchò sarà difficile trovarne uno che sia a un tempo valoroso e goda dei varii requisiti richiesti dalla legge. Oltre le doti del procuratore che deve essere: « vir catholicus, aetate maior, bonae famae et ad causam ab ipso pertractandam idoneus», l’avvocato deve inoltre essere « doctor aut prolyta in iure, vel alias vere peritus, saltem in iure canonico» (can. 115, L. V) (4). Oltre ciò si richiede l’approvazione dell’ordinario, e trattandosi di un giudice delegato dalla Santa Sede, « ipsius delegati est probare, et admitiere patronum, quo pars uti se velie ostenderit » (can. 116, §§ 2-3, L. V) (5)
(1) Codex, can. 1607, § 2.
(2) Lo Schema, tra le condizioni di idoneità per la promozione a Vescovo richiedeva la laurea in teologia e in diritto canonico: «Ut quis ìdoneus habeatur, debet esse...: laurea doctoris in sacra theologia et iure canonico insignitus » (can. 320, L. II). Il Codice si contenta della sola licenza 0 in teologia 0 in diritto canonico, e anche di nessun titolo, purché in queste discipline .sia vere peritus. Certo è un po’ poco per un giudice quale è il vescovo...
(3) Codex, can. 423-428.
(4) Codex, can. 1657, §§ 1-2.
(5) Codex, can. 1658, §§ 2, 3.
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Peggio ancora vengono a trovarsi i religiosi pei quali il procuratore e l’avvocato «eligendi sunt ex eodem instituto et probandi aute patrocina susceptionem a superiore, qui partes iudicis in causa agii» (can. 116, § 4, L. V) (1). Del resto, il giudice, di un avvocato o di un procuratore, può disfarsi in qualunque momento. Si richiede, è vero, una giusta causa, ma è lui che la valuta e contro il suo decreto non si dà appello (can. 121, L. V) (2).
La chiesa, insegnano i canonisti, ha un duplice dovere nell’amministrazione della giustizia penale: l’uno di punire chi di un delitto è reo convinto, l’altro di proteggere chi ne è sòltanto accusato. Invece tutto lo Schema del nuovo Codice è inspirato alla proiezione dell’accusatore a scapito dell’accusato. Sancisce il can. 279, L. V: « Iudicis erit ob graves causas testem admitiere ad testimonium dicendum, obligata ipsi fide eius nomen reticitum iri eiusque testimonio vel aliqua ipsius parte iudicem ita tantum usurum ut a quo prolatum sit numquam appareat. Admissa a iudice testificatione sub hac conditione, secretum semper et ubique etiam penes superiora tribunalia religiose servandum est, reticendo testium nomina praeca-vendoque ne indicia erumpant, ex quibus manifesta fieri possit testis persona, -firmo praescripto can. 368 »» di cui parleremo appresso. « Imo in criminalibus causis vel quae societatis bonum respiciunt si probabile adsit periculum vexationis, vindictae alteriusve mali contra testes, iudex debet ex se testium nomina secreto tegere». E nelle, cause spirituali e in quelle che riguardano l’utilità pubblica, il can. 264 dello stesso Libro prescrive che i testimoni anche col giuramento « adigi possunt ad secreto servandas propositas interrogationes dataque interrogationibus responsa, usque dum acta et allegata publici inris fiant; imo etiam perpetuo si natura causae id requi rat, quoties scilicet periculum sit ne scandala, diffamationes, dissidia aliaque eiusmodi incomoda ex evulgatione oriantur » (3).
E il gravato da tali testimonianze come potrà difendersi se il legislatore si preoccupa unicamente di proteggere il testimonio? 11 can. 253, L. V, dopo aver detto che le parti debbono farsi conoscere scambievolmente i nomi dei testimoni limitatamente a quelle cause in cui sono ammesse ad assistere al loro esame, dichiara che: « quoties nomina testium secreto servantur, poterunt partes quos testes suspectos habeant, denuntiare, additis suspicionis rationibus; qui si inter testes excussos reverá reperiantur, iudicis est suspicionis rationes attente perpendere ». Ma come può l’accusato sollevare l’eccezione di sospetto se i nomi dei testimoni li ignora? Potrà forse rilevarlo dalla natura delle loro deposizioni? Sarà difficile. ’ perchè il testimonio, che si fa proteggere dal segreto, ha ponderato bene ogni cosa e disporrà tutto in modo che nulla possa indiziarlo. D’altra parte, mentre il legislatore giustifica questo segreto col timore di «scandali, diffamazioni ed altri inconvenienti del genere », sorprende come non si accorga che con questo sistema apre appunto la via. mediante congetture e sospetti, ad inconvenienti più gravi.
Però, se la parte gravata «contendat contra testes sibi ignotos se tueri non
(1) Codex, can. 1658, § 4.
(2) Codex, can. 166$. Lo Schema esclude esplicitamente l'appello; il Codice non ne fa parola, ma è da sottintendersi.
(3) Codex, can. 1769 e 1629.5 3.
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posse, index potesl duos voi tres prudentes viros eligere, a studio partium alienos et omni exceptione maiores, quibus, sub arctissimi secreti iurati vinculo, testium nomina patefiant, ut ipsi statuant super testium idoneitate. Virorum. prudentum nomina parti sunt communicanda, ut ipsa excipere contra eos possit, si quos su-spectos habeat. Sententiae ipsorum standum est quasi arbitrorum laudo» (can. 368, L. V). È un procedimento curioso questo, che vedremo ricorrere anche nel processo contro il confessore sollecitante. Ma poiché non si tratta che di una garanzia irrisoria, non starò a rilevare che lo Schema ha fatto male a lasciare all’arbitrio del giudice l’applicazione 0 meno di questa norma. I due 0 Ire uomini prudenti, alieni dalla contesa delle parti e superiori ad ogni eccezione, sono eletti unicamente dal giudice. È vero che i loro nomi si debbono comunicare all’interessato perchè egli, se li ritenga sospetti, possa ricusarli, ma ignorando egli il nome dei testimoni, che può sapere dei rapporti che corrono tra loro e i testimoni stessi? A loro volta, questi due 0 tre uomini prudenti che cosa debbono conoscere dei motivi segreti e personali che possono avere indotto un testimonio a deporre il falso?... La necessità quindi che la parte interessata e i testimoni si trovino di fronte è ineluttabile.
TI legislatore considera solo il caso che la parte accetti questa soluzióne, e soggiunge che essa ne resta vincolata come se si trattasse quasi di un lodo arbitrale. Ma il caso più frequente sarà che la parte non accetta, specie quando sappia che la deposizione sia di sana pianta falsa, poiché un fatto è o non è, e la sua esistenza o meno non può essere oggetto di compromesso. Però, in questa ipotesi, il giudice si atterrà senz'altro alle deposizioni dei testimoni segreti, malgrado ogni protesta dell'interessato, cui la legge non lascia altra difesa (1).
(1) Il segreto delle deposizioni dei testimoni è prescritto anche dal Codice. Si vedano i canoni 1769 e 1623, § 3, che corrispondono al can. 264 dello Schema sopra riportato.
Ma quanto al segreto del nome dei testimoni nel Codice non si incontra nessuna disposizione. Cionondimeno è da ritenersi, secondo il mio modesto parere, che le norme dello Schema, benché non riprodotte, il Codice le sottintende e che quindi implicitamente le accoglie. Si potrebbe osservare che il can. 6 sulle disposizioni preliminari, dopo aver detto che u Codice conserva quasi intatta la disciplina finora in vigore, soggiunge: « Leges quaelibet, sive universales sive particolares, praescriptis huius Codicis ^sitaé, abrogantur ». Ma chi vorrà affermare, in base a questo canone, che il segreto ome dei testimoni è abolito perchè contrario alle disposizioni del nuovo Codice?
Del resto il can. 22 dice esplicitamente: « Lex posterior, a competenti aùctoritate lata, abrogai priori, si id expresse edicat, aut sit illi directe contraria, aut totani de integro ordinet legis prioris materiam ». Ora, nè il Codice dice espressamente che le norme onde è protetto col segreto il nome dei testimoni sono abrogate: nè tutta la materia in proposito è stata de integro riordinata, nè il Codice ha disposizioni contrarie a tali norme. Anzi esse sono perfettamente consone allo spirito del Codice, facendo parte della disciplina fin qui seguita. Per ciò è chiaro che non sono state soppresse e che rimangono in vigore almeno come consuetudine.
A ciò sembrerebbe ostare il can. 1763, secondo il quale le parti debbono farsi conoscere a vicenda il nome dei testimoni prima che vengano esaminati o. quando sembri al giudice che ciò non possa farsi senza queste difficoltà, « saltem ante testificationum publicationcm •>; ma evidentemente questo canone si riferisce solo al caso in cui non occorra celare i nomi dei testimoni, tanto è vero che si ritrova tale e quale anche' nello , Schema (can. 253, § 1). Trattandosi poi di cose tanto delicate, il legislatore se avesse voluto realmente abolire questo odioso sistema lo avrebbe detto e ci avrebbe tenuto a dirlo. Quindi nessun dubbio che il segreto, del' nome dei testimoni vien custodito anche dal Codice, come del resto lo è indubitatamente nella procedura del S. Officio.
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A tutte queste garanzie onde si circonda il testimonio, fa vivo contrasto il can. 473, L. V, in cui si prendono misure eccezionali contro l’accusato che possa intimorire o subornare i testimoni, o altrimenti impedire il corso della giustizia; in tal caso il giudice può, « audito promotore iustitiae, decreto suo mandare ut ilio ad tempus deserat oppidum vel paroeciam quandam, vel etiam ut recedal in praefinitum locum ibiquc sub peculiari vigilantia mancai » (i). Senza eufemismi: in carcere o al domicilio coatto. Perchè qui tanta premura a che non venga impedito il corso della giustizia? Esso può venire turbato non meno profondamente da deposizioni e da denunce false,. E poi queste disposizioni così severe contro l’accusato non si comprendono dato il sistema sancito dal legislatore di proteggere col segreto i nomi degli accusatori anche perpetuamente.
Troppe limitazioni vengono fatte circa l’ammissione dei testimoni e dei periti. Di testimoni se ne respingono tre categorie: gli inidonei, i sospetti, gli incapaci. Gli inidonei e i sospetti possono essere uditi, ma occorre un decreto del giudice, ' e anche in tal caso la loro deposizione vale solo « ut indicium et probationis admi-niculum » (can. 247) (2).
I testimoni sono da esaminarsi a uno a uno,. « ceteris remotis »; però il giudice, secondo il suo prudente arbitrio, può, dopo che abbiano deposto, metterli a confronto tra loro. Ma a ciò si richiède il concorso di tre condizioni essenziali:.« i<> Si testes inter se aut cum parte in re gravi et causae substantiam attingente dis-sentiant; 20 Si nulla alia facilior ad veritatem detegendam suppetat via; 30 Si scandali vel dissidiorum periculum non sit ex confrontatione pertimescendum » (can. 268, § 3, L. V) (3).
Sarà ben raro il caso in cui, con simili condizioni, un confronto di testimoni abbia luogo.
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Sorvolando su altri facili rilievi a proposito dei periti, dell'accesso e della ricognizione giudiziale, ecc., veniamo a dare uno sguardo alle particolarità del processo penale. Benché più d’un canonista avesse messo in luce l’utilità di trattar separatamente la procedura penale da quella civile, nella codificazione si è seguito il criterio antico, si è trattato cioè promiscuamente dell’una e dell’altra, e solo in fondo al Libro De ludiciis si sono aggiunte alcune norme particolari alla procedura penale (4).
L’azione penale, o accusa, « uni Promotori iustitiae reservatur » (can. 442, § 2) (5); naturalmente ogni fedele non solo può, ma in alcuni casi deve, denunciare il delitto di cui è a conoscenza.
(1) Codex, can. 19^7. Però mentre lo Schema contro il decreto del giudice ammette il ricorso « ad tribunal, cui iudicium de causae merito est reservatum, vel si Ordinarius ipse decretimi dederit, ad tribunal trium iudicum », il Codice stabilisce senz’altro che contro di esso « non dalur iuris remedium ». (can. 1958).
(2) Codex, can. 1758. Veramente costoro sono esclusi perchè in molti casi dovrebbero tenere il segreto anche perpetuamente, ciò che il legislatore da essi non spera.
(3) Codex, can. 1772.
(4) Il Codice è in ciò identico allo Schema.
(5) Codex, can. 1934.
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Dovendosi istituire un'inquisizione speciale, prima di procedere al giudizio, questa può essere fatta o dal vescovo stesso o affidata a un giudice sinodale. L’inquisito, poiché tutto si compie nel massimo segreto, non solo non potrà difendersi durante l'inquisizione, ma nemmeno dopo, se le deposizioni e i nomi dei testimoni gli saranno tenuti celati. Chi decide se sia o no il caso di procedere è l'Ordinario o, se però ha un mandato speciale, il vicario generale (i). La causa, così, prenderà il corso che il vescovo vorrà. Si ricordi che il procuratore della giustizia è sempre rinnovabile ad nutum Episcopi.
Queste regole valgono per i delitti pubblici. Trattandosi di delitti occulti, questi « si Ordinario sint certo nota, congrua animadversione plecti ab ipso possunt pro sua prudentia secundum casuum diversitatem » (can. 440, § 2) (2).
Regole specialissime ha il processo criminale ex notorio. In esso tutto si compie con la massima celerità. Non occorrono nè l’accusa, nè la denuncia, nè l'inquisizione, nè il libello; sono escluse perfino le prove, e tranne due casi, non si dà appello e non si ammette la ricusazione del giudice (3).
Abbiamo già veduto come il giudice unico pronunzia la sentenza. Al tribunale collegiale lo Schema applica, con lievi modificazioni, il Cap. 31 della « Lex Propria » per la Rota: « Assignatá conventui die, singuli iudices scriptas afferent conclusiones suas in merito causae, et rationes tam in facto quam in iure, quibus ad conclusionem suam venerunt: quae conclusiones actis causae adiungentur et secreto servabuntur. Prolatis ex ordine, iuxta praecedentiam, incipiendo tamen . semper a causae Ponente seu relatore, singulorum conclusionibus, locus fiet mode-ratae discussioni sub tribunalis Praesidis moderammo, praesertim ut constabi-liatur quid statuendum sit in parte dispositiva sententiae. In discussione autem fas unicuique erit a pristina sua conclusione recedere » (4).
È indubbiamente lodevole la disposizione che ogni giudice porti le sue conclusioni in iscritto, ma per salvare la loro indipendenza, assai meglio sarebbe stato prescrivere, sia pure dopo una discussione generale e dopo la lettura delle singole conclusioni, la votazione segreta. Si tenga presente che il relatore è nominato dal presidente, dal quale può essere anche rimosso, e che quindi la sua conclusione collimerà nove volte sii dieci, qualora l’esito d’una causa prema, in un senso o in un altro, al presidente, con la conclusione di questo. Al relatore segue il presidente. Ora, le loro decisioni non possono non influire su quelle degli altri giudici, specie se il presidente è lo stesso Ordinario. Se poi il collegio è formato da tre giudici soli, già la causa è decisa. Comunque, il Codice dà loro facoltà di recedere dalle primitive conclusioni, le quali «secreto servabuntur».
(1) Il Codice al vicario generale ha sostituito l’officiale.
(2) Questo canone manca nel Codice. Vi si trova però oltre la sospensione ex informata consctenlia come nello Schema, questa disposizione: « Poenitentia, remedium poenale, excommunicatio, suspensio, interdictum, dummodo delictum certum sit, in-fligi possunt etiam per modum praecepti extra iudicium ■ (can. 1933, § 4).
(3) Del processo criminale ex notorio nel Codice non si fa parola, però, al pari del segreto del nome dei . testimoni e per le stesse ragioni, vige ugualmente.
(4) Codex, can. 1871, §§ 2-4.
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In talune diocesi, per diritto consuetudinario, la sentenza definitiva, anche quando è emanata dal tribunale collegiale, si deve sottoporre all’approvazione dell’ordinario qualora egli non abbia presieduto il processo. È in facoltà dell’Ordi-narió, poi, differire o vietare addirittura la pubblicazione della sentenza. Vietandola, la sentenza, pure se venga pubblicata, non ha alcun effetto giuridico. L’Ordinario deve però comunicare al tribunale le ragioni del suo divieto e procurare che la causa venga per altre vie risolta al più presto, a meno che non vòglia egli stesso dirimerla da sé (1).
Ognuno comprende subito la portata di questa consuetudine. Ora, con la pubblicazione del nuovo Codice vigerà più? Il can. 30, L. I, dice: «Consuetud© contra legem vel praeter legem per contrariara consuetudinem aut legem revocatur; sed absque expressa earundem mentione, lex non revocai consuetudines centenarias aut immemorabiles, nec lex generalis pontificia consuetudines particulares » (2). Quella che stiamo esaminando è certo una consuetudine contra legem o forse meglio praeter legem, ma poiché è una consuetudine centenaria o almeno immemoriale e di essa non si fa nello Schema espressa menzione, è da conchiudersi che non è revocata. E non lo è anche per un’altra ragione: perchè è una consuetudine particolare, che la legge generale lascia immutata.
In forza, dunque, del can. 30, se il legislatore non le riprovi espressamente, seguitano a vigere, nonostante siano « contra vel praeter legem »: le consuetudini centenarie; le consuetudini immemoriali; le consuetudini particolari (3). Ora, è certo che in tanti anni che la Chiesa non ha avuto una legislazione ordinata, chiara, sicura, le consuetudini hanno avuto tutto l’agio di radicarsi, moltiplicarsi e prendere il posto delle leggi. Quante sono ? Quali' sono ? Sarebbe molto interessànte farne uno studio e mostrare quante, fra generali e particolari, il Codice ne lascia vivere accanto a sé. Certo non debbono essere poche, sicché accadrà sovente di dover rinunciare anche a quelle scarse garanzie che il Codice offre, senza poi dire che ogni giudizio potrà essere sempre intralciato da questioni preliminari e incidentali circa F esistenza e la natura di questa o quella consuetudine.
{Continua). * (***)
(1) F. Heiner, De processu criminali ecclesiastico, pagg. 15-16. Roma, Pustet.
(2) Cfr. Codice, can. 30, dove quel « pontificio » è stato tolto.
. (3) Il Codice ammette che quelle consuetudini le quali siano centenarie e immemoriali, si possono tollerare, anche se siano espressamente riprovate, ogniqualvolta gli Ordinari, secondo le circostanze dei luoghi e delle persone, giudichino prudente di non poterle sopprimere. Questo canone, che è il quinto delle Disposizioni preliminari, nello Schema manca.
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UNO SCRITTO DI M. LUTERO
“ SE LA GENTE DI GUERRA POSSA, ANCHE ESSA, ESSERE IN ¡STATO BEATO „ (Continuazione. Vedi BUycJinis del 15 Aprile 19x9, pag. 283).
DELLA NECESSITÀ DI OBBEDIRE AI SOVRANI ANCHE SE NON OSSERVINO I PATTI GIURATI.
Sì ceito, tu dici, è così. Ma se un re o altro governante, si obbliga con giuramento, verso i suoi sudditi a governarli secondo certi patti convenuti e non li osserva è, conseguentemente, obbligato ad abbandonare il governo? Così, per esempio, si dice che il re di Francia deve governare di accordo con il parlamento del sue reame, e il re di Danimarca deve attenersi a speciali patti. Io qui rispondo: « è bello ed è giusto che l’autorità domini secondo le leggi e le osservi e non segua il suo capriccio. Ma tu devi considerare ancora che non soltanto un re promette di osservare le leggi e le costituzioni locali, ma che Dio stesso ordina a lui di osservare la pietà, ed egli promette di farlo. Ora, dunque, se un tale re non mantiene nessuna di queste promesse, e non osserva nè la legge di Dio, nè quella del suo paese, vorrai tu, per questo, attaccarlo, giudicarlo e vendicarti egualmente? Chi dette a te la permissione a ciò? Qualche altra autorità deve, di neces
sità, venire fra voi, per sentire entrambi e condannare il colpevole, altrimenti tu non sfuggirai al giudizio di Dio, poiché Egli dice: « il giudizio e la vendetta sono miei » e dice pure: « non giudicare ».
Imperocché l’avere torto e il punire il torto sono due cose differenti: diritto ed esecuzione del diritto, giustizia ed amministrazione della giustizia. L’avere ragione o torto è comune a tutti, ma il dispensare torto e ragione appartiene a Colui il quale è Signore di ragione e di torto, e questi è solo Dio, il quale, in vece sua, dà il comando all’autorità. Pertanto nessuno si arroghi diritto in questo ufficio, eccetto che sia sicuro che egli abbia il comando da Dio e dalla sua serva, l'autorità. Se potesse essere permesso che ciascuno il quale abbia ragione punisca egli stesso colui il quale ha torto che cosa avverrebbe nel mondo? il risultato sarebbe che il servo ucciderebbe il padrone, la serva la sua signora, i figliuoli i loro genitori, i discepoli i loro maestri; la qual cosa sarebbe in verità, una lietissima condizione di vita’ Suale bisogno vi sarebbe di giudici e di vili autorità istituite da Dio?
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IDDIO È GIUDICE DEI PRINCIPI E DEI GOVERNANTI.
Ma, a questo punto, io debbo attendermi a sentire i miei giudici gridare: «ah! ci sembra che ciò sia un adulare deliberatamente i principi c i governanti; tu vuoi troppo insinuarti di sbiego e domandare mercè». Lo temi tu? ebbene: io lascerò volar via questi calabi oni e queste mosche! Io non predico questa volta ai principi e ai governanti. Ho detto altrove sufficientemente — ed è. purtroppo, vcjo—che la maggioranza, dei principi e dei governanti sono empi tiranni e nemici di Dio, che essi perseguitano il Vangelo, c sono fra i miei inclementi signori e baroni, del cui favore, del resto, io faccio ben poco conto. Ma io insegno còme'ciascuno possa imparare a comportarsi in questo campo del suo ufficio e delie relazioni col suo sovrano, c fare ciò che Dio comanda, lasciando al sovrano di badare a sè stesso ed agire per proprio conto. Dio non dimentica i tiranni e i sovrani. Egli è il loro martello. Così è stato dal principio del mondo.
Inoltre, io non desidero che questo mio messaggio sia preso nel senso che esso debba riferirsi solamente ai contadini come se essi soltanto fossero sudditi, e non pure alla nobiltà. Niente affatto. Ciò che io dico dei sudditi o inferiori deve riferirsi a tutti: contadini, cittadini, nobili, signori, conti e principi: giacché tutti questi hanno pure al di sopra di loro dei sovrani e sono essi stessi sudditi di qualche altro. E così come un contadino ribelle dovrebbe essere condannato giustamente nel capo, del pari, senza indugio, dovrebbe un nobile ribelle, conte o principe che sia, venir condannato nel capo in maniera affatto eguale, e così a nessuno verrebbe fatto torto.
LA GUERRA TRA EGUALI -CHI PRIMO TRAE LA SPADA È IL COLPEVOLE.
n 'anto sia detto per la prima parte della I questione, poiché nessuno può sostenere che la guerra contro le autorità possa cs-seie giusta. Ma ora consideriamo il secondo punto; se eguali possano combattere contro eguali, sul quale io desidero di essere bene inteso. Io dico che non è giusto di iniziare la guerra per istigazione di qualche insano governante. Giacché, prima di tutto, ritengo che colui il quale inizia una
guerra si mette dalla, parte del torto, c colui il quale per il primo trae la spada merita di essere battuto o, almeno, punito. Ed in verità è accaduto, come regola, in tutta la storia, che quelli hanno perduto i quali dettero principio ad una guerra e. quelli furono raramente battuti i quali si mantennero sulla difensiva. Giacché la cix'ile "autorità non fu istituita da Dio per rompere la pace ed iniziare la guerra, ma per amministrare la pace e prevenire la guerra; così S. Paolo dice che l’ufficio della spada è di difendere e di punire, difendere gli uomini pii nella pace e punire i malvagi con la guerra. E Dio, il quale non permette l’ingiustizia, ordina che la guerra dev’essere mossa contro coloro che fanno la guerra, nel linguaggio del proverbio: « vi fu sempre qualcuno cattivo ma egli trovò un peggiore ». Così lasciò anche Dio di Lui cantare a! salmista: « il Signore disperde i popoli che prendono diletto alla guerra ».
LA NECESSARIA GUERRA DI DIFESA: ABBATTETE SENZA PIETÀ!
■osi abbi cura e fa bene attenzione di mettere da parte desiderio e necessità, volontà e bisogno, desiderio di far guerra è volontà di combattere. Non lasciarti stimolare, anche se tu fossi l’imperatore di Turchia; aspetta sino a che il bisogno e la necessità vengano. — indipendentemente dalla tua volontà e dal tuo desiderio — tu avrai abbastanza da fare, frattanto, e guadagnare la guerra a sufficienza. Aspetta che tu possa dire e il tuo cuore possa esclamare: « mio Dio, come lietamente io manterrei la pace, se soltanto i miei nemici lo volessero! • allora puoi difenderti in buona coscienza. Giacché hai per te la parola di Dio: « egli disperse i popoli che si dilettavano della guerra ». Considera i soldati veterani, i quali ne hanno vedute battaglie! Essi non sono corrivi a trarre la spada, non fanno i bravacci e non sono ansiosi di combattere. Ma quando sono obbligati a combattere allora guardati da loro; essi non sono turbolenti, ma la loro arma è salda nella guaina, .e se hanno da trarla, non la riporranno senza sangue. D’altra parte i non-curanti e gli insani, i quali combattono, prima del tempo, nel loro pensiero e sognano un bello inizio della impresa, e divorano il mondo a parole, e sono i primi a mettere fuori la spada, sono pure i primi a fuggire e a rinfoderare la spada.
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Questo dunque sia il primo punto su tale riguardo: che la guerra non è giusta, quando anche si tratti di combatterla tra eguali, eccetto che tu possa dire: « i! mio vicino mi obbliga e mi spinge alla guerra; io lietamente la eviterei » così che la guerra possa chiamarsi non semplicemente guerra, ma una doverosa protezione e una necessaria difesa. Poiché vi è una distinzione da fare nella guerra, alcune essendo iniziate dalla volontà e dal desiderio senza alcuno attacco da parte altrui, altre essendo imposte al difensore ((alla necessità e da un attacco che già ha avuto luogo. La prima specie può essere chiamata guerra di capriccio, l’altra guerra necessaria di difesa. La prima è del diavolo, Dio non può concedere ad essa nessun successo. L’altra è un’umana disgrazia, e Dio può aiutare coloro che devono muòverla.
Pertanto, miei signori, date ascolto alla mia voce ed evitate le guerre, eccetto che voi siate costretti a respingere un’aggressione e a difendervi, e il vostro dovere ufficiale vi obblighi a fai; guerra.
- Ma se la fate sia essa condotta vigorosamente, ed abbattete senza alcuna pietà, siate uomini e date prova del vostro coraggio, giacché non è il caso, quando si combatte, di perdersi dietro le fantasie. La causa imporrà molta serietà, e l’iracondo, l’orgoglioso, il provocatore, i divoratori di ferro troveranno i loro denti spuntati al segno che essi potranno a pena mangiare il fresco burro. La ragione di ciò è questa; ogni governante e principe è obbligato a proteggere i suoi sudditi e a ga-rentire ad essi la pace. Questo è il suo ufficio, e per questo egli ha la spada. E questo è il punto sul quale la sua coscienza dev’essere pienamente sicura', così che egli conosca che questa funzione è giusta nella veduta di Dio ed è ordinata da Lui. Ma io non insegno ora ciò che un cristiano dovrebbe fare, poiché noi cristiani non abbiamo niente da fare con il vostro governo, ma vi serviamo e vogliamo dire ciò che voi dovreste fare nel vostro governo innanzi a Dio. Un cristiano è una persona per sé stesso; egli credè per sé stesso e per nessun altro. Ma un governante e un principe non sono delle persone per loro stessi, ma per gli altri, per servirli, cioè, per proteggerli e per difenderli, quantunque sarebbe bene che essi fossero anche cristiani e credenti in Dio. giacché allora essi sarebbero beati. Ma non è costume da principe essere cristiano, e infatti pochi principi rie
scono ad essere tali, ovvero, come suona il detto: « un principe è un raro animale in cielo i>. Ma benché essi non siano cristiani, tuttavia debbono operare il giusto e il bene secondo i manifestati ordini di Dio, perchè questo è ciò che Egli vuole da essi.
IL SOLDATO DEVE TEMERE DIO E CONFIDARE SOLO IN LUI.
Quanto abbiamo detto valga per il primo punto di questa trattazione. 11 prossimo deve pure essere attentamente meditato. Benché tu sii sicuro che non sei stato tu a cominciare la guerra, ma sei stato obbli-{ato a combattere, tuttavia devi temere >io ed averlo innanzi agli occhi, e non venir fuori con: «¡ sì io sono obbligato a combattere, dunque, ho anche buona ragione per farlo » e confidare su questo nulla stoltamente. È vero che tu hai buona e Siusta causa per combatteic c per difen-erti, ma tu non hai ancora il suggello e l’assicurazione da Dio che vincerai. Sì. quésta grande presunzione può bene essere per te cagione di perdere, benché tu abbia una giusta causa per far guerra, perchè Dio non può sopportare orgoglio o presunzione, ma ama soltanto coloro i quali si umiliano dinanzi a Lui e lo temono. Egli si compiace che l’uomo non tema nè l’uomo nè il diavolo, ma sia ardito, ostinato c coraggioso contro di essi, purché siano essi a cominciare ed abbiano torto. Ed allora la vittoria verrà come se fossimo noi stessi a determinarla e come se noi avessimo il potere di procurarcela — la qual cosa non è, poiché essa è accordata soltanto da Dio — ma il Signore deve sempre essere temuto ed Egli vuole ascoltare una preghiera che venga dal cuore come questa: « caro Signore, mio Dio, tu vedi che io debbo combattere, benché me ne asterrei lietamente, ma io non faccio assegnamento sulla giustizia della mia causa, ma sulla tua grazia c sulla tua misericordia. Giacché conosco che se facessi assegnamento sulla giustizia della causa e fossi io a provocare, tu potresti giustamente lasciarmi cadere come uno che meritasse cadere, perchè io confidava nel mio diritto e non nella tua misericordia e nella tua bontà ». E ascoltate S|ui ciò che i pagani, i greci e i romani, ecero in questo caso, non conoscendo nulla di Dio e del timore di Lui. Essi credevano che essi stessi guerreggiassero e vincesse« o; ma, a traverso varie esperienze, nelle quali spesso un grande e poderoso esercito fu battuto da un altro piccolo e male armato.
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essi impararono e chiaramente confessarono che in guerra niente è più pericoloso clic lo essere presuntuosi e provocanti c riconobbero che non si deve mai disprcz-zare il proprio avversario, sia egli pure di molto inferiore a noi. Della gente pazza e provocante c trascurata non serve a niente in guerra, anzi produce danno. La frase • non putassem • «non avevo pensato a ciò» i romani la considerarono la più indegna espressione che un soldato potesse usare. Giacché essa rivelava un uomo fidente in sé stesso, proxocatorc c negligente, il quale poteva distruggere più cose in un momento con un passo- o con una parola, di quante dicci uomini potessero compierne bene, e alla fine uscirsene con la frase * non aveva pensato a ciò ». Così accadde che il principe Annibaie potè infliggere terribili sconfitte ai romani ' fino a quando questi furono provocanti verso di lui c troppo facilmcne fidenti in sè stessi. E vi sono innumerevoli prove del passato, e anche di oggi, innanzi ai nostri occhi.
Ora ¡ pagani osservarono questo fatto c ne acquistarono conoscenza, ma non potettero darne alcuna spiegazione, ed attribuirono la cosa alla Fortuna, la quale, tuttavia, essi temevano. Ma la causa e la ragione del fatto sono, come ho detto, che Dio desidera di mostrarci, attraverso tali eventi, che Egli deve èssere temuto, e che anche in tali cose non tollererà un contegno provocante, sprezzante e temerario o la confidenza in noi stessi, sino a che noi non impariamo ad accettare dalle sue mani, come pura grazia e misericordia sua, tutto ciò che noi desideriamo e siamo sul punto di conseguire. Onde deriva da ciò una strana cosa: un soldato,, il quale ha una giusta causa da difendere, sarebbe, ad un tempo, coraggioso e pauroso. Ora come può egli combattere se è pauroso? Ed ancora, sè egli combatte timorosamente egli incorre in grave pericolo. Ora la verità è questa: innanzi a Dio il soldato deve essere timido e umile c raccomandare l’impresa a Lui perchè Egli disponga, non secondo la nostra giustizia, ma secondo la sua grazia e la sua bontà, cosicché, con Dio innanzi agli occhi, il combattente possa vincere con un cuore umile e contrito. Ma di fronte agli uomini il soldato deve essere invece ardito, libero e altero, e affermare che i suoi nemici hanno torto, e " assalirli con animo provocante e fiducioso. Perocché per qual ragione non dovremmo noi comportarci col nostro Dio come i romani; i più grandi
Suerrieri della terra, si comportavano con loro falso dio Fortuna, cioè a dire, temerlo ? E se essi non si conducevano così essi combattevano in gran pericolo o erano in malo modo sconfitti.
Sia questa dunque la nostra conclusione su questo punto: che là guerra contro un eguale deve essere mossa soltanto dietro costrizione c nel timore di Dio. Ma per costrizióne deve intendersi il caso in cui il nemico o il vicino attacca e inizia esso la guerra, e allora non giova offrire giustizia o esame o compromesso, e Sopportare e perdonare ogni sorte di abusi ed inganni, poiché il nemico diventa così più temerario. E qui ripeto che io non predico a coloro ai quali piacerebbe di fare il bene nel cospetto di Dio, ma a coloro i quali non offriranno e non accetteranno giustizia.
DEI SOVRANI GUERREGGIANTI CONTRO I SUDDITI.
La terza quistione è: se dei superiori possano, con diritto, combattere contro degli inferiori. Noi abbiamo già osservato come i sudditi debbano essere obbedienti, ed anche soffrire il torto dai loro reggitori, così che, se le cose procedano in tal modo, le autorità non avranno nulla da fare contro i sudditi, ma soltanto amministrare il diritto e la giustizia. Ma se i sudditi si ribellano è giusto e conveniente combattere contro di essi. Un saggio principe deve procedere contro i suoi nobili, l’imperatore contro i suoi principi, se essi sono ribelli e danno inizio alla guerra. Ma in tal caso tutto dev’essere compiuto nel timore di Dio, e nessuno può fidarsi, con soverchia arroganza, nella giustizia della sua causa, poiché può accadere che Dio stabilisca che i reggitori siano puniti a mezzo dei loro sudditi, sia pure a torto, come spesso è accaduto. Essere dalla parte della ragione ed ottenere giustizia son cose che non sempre vanno insieme, anzi mai vanno insieme, salvo che Dio così disponga. Pertanto, benché, sia giusto che i sudditi stieno tranquilli e sopportino ogni cosa e non si ribellino, tuttavia,’non è nel potere umano stabilire che essi agiscano sempre così.
Dio ha collocato la persona infoi iore nel suo posto, le ha presa la spada e le ha lasciato soltanto la prigione; epperò se essa, in dispregio di ciò, fórma bande e cospira, usurpa la spada e infrange la libertà, merita il giudizio e la morte innanzi a Dio.
Lo stesso deve dirsi di tutte le potestà, le quali quando si volgono contro quelle
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che loro sovrastano non hanno più alcuna autorità, anzi ne sono private completamente. Quando invece esse guardano verso il basso sono arricchite di ogni autorità. 'Putta l’autorità finisce, finalmente, in Dio, dal quale soltanto procede. Egli è l’imperatore, il principe, il conte, il nobile, il giudice e distribuisce il potere come vuole fra i suoi $ udditi, ed esso rivive in lui. Pertanto nessun ndividuo può .'opporsi alla comunità, nè vincere questa con l’aiuto di Lui. Giacché se così facesse darebbe colpi in aria e le scheggio cadrebbero sicuramente sui suoi occhi. E da questo tu vedi come si oppongano all’ordine di Dio coloro che resistono alle autorità. Etnei tempo stesso S. Paolo dice che Dio abolirà ogni dominio ed ogni autorità e potere quando Egli stesso dominerà.
SE SIA LECITO COMBATTERE PER MERCEDE.
Inoltre, siccome nessun re 0 principe può fare guerra da solo, egli deve avere per essa uomini e forze, le quali lo servano, del Ìlari come egli non può amministrare corti o oggi senza avere conciliatori, giudici, procuratori, carcerieri ed esecutori e tutto ciò che va. annesso ad una corte. Se poi si pone la questione, se sia giusto prendere una paga, o, come è chiamata, salarioo mercede, e. pertanto, convenga obbligarsi a servire il principe quando ne venga il tempo, come è costume òggi, noi dobbiamo, in tal caso, fare una distinzione fra i soldati.
Il primo caso è quello dei sudditi i quali sono in dovei oso obbligo, in qualche guisa, di servire il loro sovrano, di sostenerlo con la vita ed i beni, e rispondere alla sua chiamata. Ciò si verifica specialmente per i nobili e per gli antichi vassalli del sovrano. Giacché gli Stati, i quali sono tenuti dai conti, baroni e nòbili, furono, in antico, dati dagli imperatori romani e tedeschi a
condizione che coloro i quali li tenevano sarebbero stati costantemente armati e pronti, l'uno con tanti e tanti cavalli ed uomini, l’altro con tanti altri, secondo che gli Stati potevano fornire. E questi Stati furono la mercede con la quale i nobili furono compensati, e per questa ragione furono chiamati feudi, e quelle obbligazioni sono, ancora oggi, inerenti ad essi. Questi Stati l'imperatore ha acquistati per eredità, • e questo è giusto e buono nel Santo Romano Impero.
Ora. pertanto, bisogna che la nobiltà non pensi che essa abbia i suoi Stati per niente, così come li abbia trovati 0 vinti al giuoco. Le obbligazioni che gravano su di essi e i feudali doveri mostrano donde e perchè la nobiltà li ebbe, vale a dire, essi le furono prestati dallo imperatore o principe, non per darle agio di gozzovigliare e far di essi mostra per vanteria, ma affinchè si tenesse armata e pronta a proteggere il paese e ad assicurare la pace.
Se i nobili si lamentano di dover prendere cavalli e servire principi e signori, mentre altri si godono il riposo e la pace, io dico: miei cari signori, guadagnate le vostre benemerenze indipendentemente dal fatto che abbiate la vostra paga e il vostro feudo e siate giustamente comandati ad adempiere al vostro ufficio; la paga è sufficiente. E non hanno gli altri lavoro bastévole per la loro proprietà? Ovvero siete voi i soli i quali debbano lavorare ? E mentre il vostro ufficio è raramente necessrio. altri debbono lavorare ogni giorno. Ma se tu sei scontento e il tuo destino ti sembra troppo duro ed ineguale, lascia il tuo stato: non mancheranno quelli i quali saranno lieti di prenderlo e fare, in vece tua, ciò che da te si voleva.
Traduzione di Paolo Tucci.
(Continua).
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
DELLA CONOSCENZA CRISTIANA
UANTO a noi, abbiamo prima imparato a conoscere l’amore che Dio ha per noi. e quindi abbiam posto in esso la nostra fiducia», dice l’apostolo Giovanni (i). E l’apostolo Pietro: « Noi abbiam creduto, e quindi conosciuto che sei il Santo di Dio » (2). E l’apostolo Paolo: « Per adesso, conosco parzialmente;^ ma allora conoscerò completamente, come anch’io sono stato completamente conosciuto » (3).
Ci sono dunque tre specie di conoscenza: la prima, che pre
cede la fède e conduce alla fede; la seconda, che segue e conferma la fede; la terza.
che sopravviverà alla fede e sarà della fede la gloriosa corona.
* ♦ ♦
« Quanto a noi, cioè quanto a me, Giovanni, e ai miei compagni nell'apostolato, noi abbiam prima imparato a conoscere l’amore che Dio ha per noi, l’amore che si riassume nel dono ineffabile di Gesù per la redenzione del mondo, e quindi abbiam posto in esso la nostra fiducia ». Giovanni e Andrea lo impararono a conóscere il giorno che udirono il loro primo maestro esclamare: « Eccolo là l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! » (4). E dopo aver passato parte di .una giornata in intimo colloquio con Gesù, lo seguirono. Nel primo entusiasmo della sua fede, Andrea corre a cercare il fratello Simone; e: « Simone, abbiam trovato il Messia! » esclama; « e lo mena a Gesù » (5). E Simone va, vede, conosce Gesù, e crede in lui. il giorno dopo, Gesù, deciso ad andare in Galilea, trova Filippo e gli dice: « Seguimi » (6). Filippo lo segue, lo impara a conoscere; e, con lo slancio di chi ha trovato quel che da anni ansiósamente cercava, imbattutosi in un amico, Nata-naele, gli dice: «Natanaele, abbiam trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella legge, e i profeti: Gesù di Nazaret! ». E Natanaele dovrà lottare col pregiudizio; ma, quando avrà fatto la conoscenza personale di Gesù,, dovrà esclamare, col cuore commosso di chi è passato dall’angoscia del dubbio al gaudio della fede: « Maestro! tu sei il figliuol di Dio; tu sei il Re d’Israele! » (7).
L’esperienza di questi primi discepoli ci mostra dunque che c’è una conoscenza che precede la fede e conduce alla fede; una conoscenza ancora elementare, se si vuole, ma limpida, sicura, perchè nasce dal contatto personale con Gesù, Per giungere alla vera fede in Cristo, alla fede, cioè, che risponde al bisogno profi) ia Giov. 4. 16. (5) Giov. 1. 40, 41.
(2) Giov. 6. 69. (6) Giov. 1. 43.
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■■' ■ ii vawt .u - »—-.
PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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fondo del nostro cuore e della nostra coscienza, non basta saper vagamente, per sentito dire, un qualcosa intorno al Cristo; bisogna stringere la mano al Cristo, fissare il nostro sguardo nello sguardo di Cristo, bisogna « toccare » il Cristo perchè, come nel caso della donna dal flusso di sangue, soltanto per questo « tocco », la virtù salutare esce dal Cristo pér diffóndersi in noi.
A conferma di questa verità, il Vangelo ci presenta tre tipi: Nicodemo, la Samaritana, Marta. Nicodemo ha una conoscenza meramente' intellettuale del Cristo (1); la Samaritana sa confusamente «che il Messia ha da venire»' (2); Marta sa soltanto quel che ha imparato nel catechismo della sua sinagoga (3) ; ma quando Nicodemo, la Samaritana e Marta son venuti in contatto personale con Gesù c hanno udito da lui la Parola della vita, Nicodemo se ne torna a casa pensoso e col cuore pieno d’un sentimento nuovo: d’un sentimento d’amore per colui che gli ha aperto dinanzi agli occhi degli orizzonti celesti; la Samaritana diventa la prima missionaria cristiana nella sua terra natale, e Marta, vinta da Colui che le ha detto: « Io son la risurrezione e la vita », esclama: « Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figliuol di Dio, che dovea venire al mondo! » (4).
O anime che anelate a porre la vostra fiducia in Cristo, non aspettate che il Cristo vi sia miracolosamente rivelato dal cielo, dai sermoni, dai ragionamenti, dai catechismi; ma parlategli, interrogatelo, « toccatelo » leggendo il Vangelo, dov’egli vive e palpita sotto il velame della lettera morta; e invocatelo, in ginocchio, nel segreto della vostra Stanza, dov’egli apparirà agli occhi del vostro spirito e rispon derà al grido della sincera anima vostra!
♦ * ♦
L’apostolo Pietro ci dice che C'è una conoscenza che segue la fede: « Noi ab-biam prima creduto... e poi conosciuto». Questa seconda conoscenza non è più elementare come la prima: è conoscenza intima, profonda, sperimentale; e più è viva, profonda, sperimentale, e più conferma, rende incrollabile la fede. I discepoli, fatta la conoscenza personale di Gesù, posero in lui la loro fiducia, respirarono a pieni polmoni l’aura santa che io circondava, s’abbandonarono, come direbbe Ezechiele, a quell’onda d’amore, che scaturiva realmente dalla casa dell’Eterno.
Tre periodi ebbe questa conoscenza sperimentale degli apostoli. Il primo comincia col giorno in cui, lasciata ogni cosa, seguitaron Gesù, e va fino alla Pentecoste. Bel periodo cotesto! Sempre con lui, da mane a sera si edificavano nella contemplazione della sua vita pubblica e privata; acclamati col diletto Maestro, imparavano' che l’applauso del mondo non è che Un vano, ingannevole rumore; minacciati e ingiurati con lui, imparavano che non v’ha gloria maggiore del soffrire per una causa nobile e santa; pregando con lui, imparavano che Dio ci basta quando il mondo tutto ci nega; soffrendo con lui, imparavano che Dio dà al giusto che soffre, gioia maggiore di quella goduta dai tristi nella loro abbondanza. Gesù,
(1) Giov. 3. 2. (3) Giov. 11. 24.
(2) Giov. 4. 26.
(4) Giov. 11. 25-27.
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BILYCHNIS
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per loro, era tutto; il loro concetto del Cristo non era ben preciso, è vero; l’opera del Cristo non si delineava ancora chiaramente ilei loro intelletto; ma la persona che contemplavano, era veramente quella del Cristo di Dio; ogni giorno la cono-scevan meglio; e meglio la conoscevano, e più l’amavano. Il secondo periodo- è quello della Pentecoste, della primavera dello Spirito. Le brezze che recavan sempre più chiara e più sicura la notizia della risurrezione di Gesù, avean già dileguato dalla niente dei discepoli gran parte de’ vecchi pregiudizi; ma la primavera dello Spirito cominciava a far spuntare nel santuario del loro io interiore le prime gemme della vita nuova; cominciava a crearvi quelle nuove energie, che Paolo chiama, con una frase scultoriamente sintetica, « la virtù della risurrezione di Cristo » (i). Da quel tempo essi cominciano a dire: « Se abbiam conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così » (2). Il terzo periodo abbraccia il resto della loro vita. L’eco vivida, potente, delle quotidiane e sempre più ricche e sempre più profonde esperienze cristiane degli apostoli è nei loro scritti. Studiateli in ordine di data cotesti scritti, e vi scoprirete un continuo progresso: una marcia trionfale di mentalità più o meno giudaiche, verso concezioni paradisiache dello Spirito eterno.
Io domando a me stesso ed a voi, lettori:
«Noi abbiamo creduto, e perciò ci chiamiamo credenti, cristiani. Ora qual'è V esperienza che abbiam fatto e facciamo delle cose nelle quali diciamo di credere? Fino a che punto possiamo anche nói dire, dinanzi alla visione spirituale del nostro Salvatore: “ Noi abbiam creduto ed abbiam realmente conosciuto che sei il Cristo, il Figliuolo di Dio? ” ».
« * *
L’apostolo Paolo ci dice finalmente che c’è una terza conoscenza, che sopravviverà alla fede e sarà della fede la gloriosa corona: « Per adesso, conosco parzialmente; ma allora conoscerò completamente; così completamente, come io, nel tempo, sono stato conosciuto da Dio». Allora... dice l’apostolo; a qual tempo allude egli? Allude al tempo che incomincia con quella crisi che il mondo chiama « morte » e che pei' il credente, invece, è vita: alla grand'ora, in cui gli occhi del credente si chiudono alla fioca luce del mondo per riaprirsi a una luce più vivida, più pura: al momento in cui, sull’orlo della tomba, la fede e la conoscenza si separano: la fede, per rimanere a consolar quelli che non han peranco ultimato il loro pellegrinaggio nel deserto della vita; la conoscenza, per accompagnare i credenti di luce in luce, di visione in visione, di gloria in gloria, mentre vanno ascendendo alla Città di Dio.
Che sarà mai questa conoscenza della quale parla l’apostolo? Io non lo so, nè la Scrittura lo dice. Sarà la conoscenza di « cose che occhio non ha mai vedute, che orecchio non ha mai udite e che non sono mai entrate in cuor d’uomo »; sarà
(1) Fil. 3. io.
(2) 2 Cor. 5. 16.
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA 391
la conoscenza delle « cose che Dio tiene in serbo per quelli che l’amano » (i). E che sappiam noi dell’amore di Dio? del fin dove giungeranno gli effetti della redenzione? .E questa infinità di mondi che contempliamo nella sconfinata serenità dei cieli Che cos’è? Son dei deserti? Sono abitati? E se sono abitati, in che relazione son essi con la croce di Cristo? E queste immense legioni di pagani, di bambini, d’infelici per congenita infermità di. mente che passano dal tempo, all’altra sponda senza che abbian potuto conoscere il Salvatore/dove vanno? che faranno? avranno in altri mondi l’opportunità di conoscerlo che non ebbero in questo? E la nostra stessa vita che cos’è? Cominciò essa proprio quando mandammo il primo vagito? O non venimmo già qui con una storia? E quésta che chiamiamo « vita >> è dessa tutta la vita, o non è che una fase fuggevole, della grande, immensa, eterna evoluzione della vita? E qui, in questo stesso mondo in cui viviamo, che son queste lacrime, queste separazioni inesplicabili, angosciose, questi problemi che da mane a sera torturan l’anima di chi pensa, di chi sente, di chi ama? Che è questo cozzar d’armi, che sono quest’immensi macelli? Se Dio lo volesse, li potrebbe impedire: Se non l’impedisce, e pur soffrendone li permette, Egli, che è santo e giusto, non li può permettere che per un fine d’amore. E qual è questo fine? E i tragici cataclismi della natura che seppelliscono migliaia e migliaia di vittime?... Certo, coleste vittime non eran più colpevoli di altri mortali che furon risparmiati. E allora, perchè proprio loro anziché altri? Il sacrificio di coteste vittime non fu, forse, un martirio? un atto di testimonianza al quale furon da Dio chiamate? E Dio. nella sua misericordia, con qualche speciale visione gloriosa non le consola Egli dell’ineffabile sacrifizio che servì di mònito al mondo?...
Tutti questi e tanti e tanti altri interrogativi che a volte mi affollano la ménte ed il cuore, mi danno la sensazione del cieco, che va brancolando in mezzo alle tenebre. Ma il sole spunterà, e inonderà della sua luce divina l’altra sponda: «ora conosciamo parzialmente; allora conosceremo in modo completo». E se il poco che conosciamo solo parzialmente, ci dà tanta pace, tanto conforto e c’infonde tanta energia da poter combattere eroicamente il buon combattimento della fede e della vita, che sarà mai, che mai ci darà, che farà mai di noi quella conoscenza sempre più vasta, sempre più profonda, sempre più fulgida, che acquisteremo man mano che ci andremo avvicinando alla Città di Dio?
O miei lettori, chiunque voi siate, qualunque sia il nome ecclesiastico che portate, mentre il tempo incalza, mentre la vita nostra va rapidamente volgendo a sera e l’ora s'avvicina delle grandi rivelazioni, raccogliamoci in ispirilo attorno al Cristo; cerchiamo d’amarlo sempre di più. di conoscerlo sempre meglio; e, non lungi dà lui, ma in comunione con lui ed ai suoi piedi, ci trovi l’alba di quel giorno che non avrà tramonto!
Giovanni Luzzi.
(i) i Cor. 2. 9.
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BILYCHNIS
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Èiun fatto d’esperienza, e non soltanto una teoria, che la maggior parte dei problemi che ci pone dinanzi la vita, ci si presentano sotto forma di scelte da fare. Una vita di azione è creatrice di verità in quanto essa prova ciò che sceglie: è vero ciò che, creduto probabile prima dal buon senso, è stato poi provato nell’applicazione. dal risultato morale. Gesù ha afìermato questo in termini molto semplici e soavemente figurati: « L’albero che produce frutti cattivi non è buono e l’albero che produce frutti buoni, non è cattivo. Non si colgono fichi dalle spine, nè si coglie uva dai pruni» (Luca, VI, 43-44)* I-» convinzione è la realtà di colui che ha provato il frutto buono.
(A. Miroglio in Zx Serneur di Parigi].
SPIGOLATURE
La regina Mary d’Inghilterra visitò qualche tempo fa la città-giardino di Hamp-Stead a Golders Green, fondata da una cooperativa dì operai.
In quell’occasione ella espresse il desiderio che sulle pietre della cappella fondata colà pei cristiani metodisti fossero incise le parole : « Dio è più largo (larger) di tutti i dogmi ».
Il conte Giuseppe Greppi — che il 25 marzo scorso compì cento anni di età — a un amico che gli domandava un giorno come si conservasse così gagliardamente sereno, rispose:
« Veda; ci sono delle giornate in cui tutto il cielo pare coperto di nùvole; allora io mi metto a guardare in alto, a guardare insistentemente fin che trovo un tratto, un piccolo tratto sereno che non manca mai: quando l’ho trovato mi sento soddisfatto ».
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.. . — come ha scritto con frase scultoria W. Monod — la inorale laica si limita a creare la giustizia senza preoccuparsi se esiste la giustizia: la morale religiosa; invece, lavora ad attuare la giustizia sapendo che la Giustìzia esiste. Come l’ape ha l’istinto di fabbricare il miele, l'uomo ha l’istinto di razionalizzare, di beatificare il pianeta. Ora, la morale religiosa dice che questo istinto risponde ad un fine reale. Essa nega che la vita sia come una stella filante tra due abissi tenebrosi. Essa afferma che la vita è vera... »
[U. Janni, in ZWc? e l'ifa, febbr. ’919].
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Abbiamo attraversato penosamente i tetri mesi d’inverno: eccoci alla festa della Purificazione. Ed ora ci è permesso, secondo una usanza antica, di uscir di casa per andare a vede se l’allodola è arrivata.
Prevedo che tenderemo inutilmente l’orecchio, se questo ventò persiste...... Soffia un ventò del nord glaciale sui campi copèrti di neve; torno a casa colle orecchie gelate. Con un vento simile l’allodola non verrà.
Eppure, chi sa?
L’allodola è un uccello coraggioso. Spesso alla festa della Purificazione l’abbiamo vista librarsi nell’aria gelida al di sopra dei campi nudi e freddi cantando a squarciagola; forse sapeva che in circostanze simili c’è del merito ad essere allegri...
... Il sermone predicato ogni anno dall’allodola alla festa della Purificazione contiene una filosofìa della vita. Confesso che non capisco perchè l'allodola arrivi cosi presto: la terra è ancora gelata, il vento è aspro, le notti sono lunghe : io mi domando perchè, in una stagione simile, essa lasci i dolci paesi del sud per dirigere il suo volo verso il noni, a meno che non si sia messa in testa di trovare un luogo dove ci sia del merito ad essere allegra.
Se questo è il suo scopo, avrà di che essere soddisfatta arrivando nei campi danesi nel mese di febbraio: non si può imaginare nulla di più triste, di più disperante, di più tetro, ed è al di sopra di questi campi gelati che l’allodola spiega le sue ali e svolge i suoi trilli gioiosi, i suoi trilli pieni di speranza, forieri della primavera.
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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Diversi sono i messaggeri di Dio. Ogni anno giunge il piccolo apostolo grigio, che ci reca il suo messaggio, piccolo messaggio veramente. Non ci parla nè in greco, nè in ebraico ; non ha cose importanti nè profonde da annunciarci, ma alla buona ci canta: Sii allegro! Sii allegro!
Si, amico mio, sii allegro, anche se fa freddo e se soffia il vento. Dio vuol vedere un volto gioioso, il tuo specialmente, e te ne stai in un angolo immerso nella tristezza! Rifletti un po’, amico mio; non comprendi che è specialmente in questo momento che non bisogna pèrdere il coraggio ? Non vedi eh'è oggi else v’è del merito ad essere gioioso?
Sei intirizzito dal freddo, la tua povera anima brama sole e calore.
Ma provati a Spiegai' le tye ali in pieno inverno, a risalire i torrenti gelati ! Che il vento del nord sospinga te ed il tuo canto, e che il tuo canto sia un cantico di lode a continua ripresa ; una sfida gioiosa alio scoraggiamento ed alla disperazione.
Sì, amico mio, guarda in alto, volgi a Dio un viso gioioso, il tuo vero volto. Figlio di Dio, tu che non sei mai stato abbandonato, guarda : ecco la primavera che viene.
[Trad. dal danese di Mortesi Pontoppidan Da Le Temoignage di Parigi).
g
Quel montanaro delia Val Cismon, inquadrato in quelle quattro pareti di tavole di una infermeria di linea, era un simbolo.
Era egli uno di quégli zingari del lavoro italiano che, hanno bonificato^ incivilito, messo in valore tre continenti. Che per pochi soldi hanno aperto miniere nel Canadá, piantato grano nell’Ohio, caffè nel Brasile, caucciù in Malesia e nel Congo, cotone ih Egitto, che han costruito ferrovie in Cina, pozzi in Alsazia, palazzi in California. Gente che vive sempre in un paese ignoto, lavorando sempre il lavoro più duro per la più misera mercede, che si riposa soltanto nella stiva di un transatlantico, che ha il suo risparmio nella cinghia di corame dei pantaloni di fustagno e il suo bagaglio sulle spalle: un paio di scarpe di ricambio.
Qualche volta questa gente, sfruttata e vilipesa. beve un bicchiere di più e di fronte a una prepotenza, a un sopruso, al millesimo sopruso, alla millesima prepotenza, ha finalmente uno scatto muscolare di molla, apre con i denti il coltello a tre scrocchi e picchia giù.
E allora la società li manda a riposarsi.
Ed essi si riposano in carcere, felici.
È gente che tace sempre, che si è intor- . pidita l’anima nella schiavitù, che non ha sorrisi.
Eppure sono titani. Sono i grandi eroi taciturni delia società industriale borghese.
Costoro dalla patria non hanno mai avuto nulla, mai. Sono nati in una soffitta e la madre s’è tirata giù dal letto lo stesso giorno perchè c'era da fare il bucato. Ha dato loro un latte acido per il cattivo nutrimento e la fatica, e al latte ad un anno ha cominciato ad aggiungere i torsi di mela cascati nei rigagnoli delle strade. Eppure sono venuti su bene. Per un miracolo del sole. E a sette od otto anni hanno cominciato a lavorare. E poi appena grandetti sono andati via per il mondo. E per decenni hanno sentito che il nome di italiano era un insulto o una beila.
La patria non ha mai fatto nulla per loro, mai.
Forse non poteva. Un giorno, però, li ha chiamati a morire. Ed essi per lei sono venuti a morire.
Restando sempre gli stessi grandi eroi taciturni, dallo sguardo un po’ torvo, dalla bocca senza sorrisi.
Non so perchè son capitati quasi tutti negli alpini.
Cioè, anzi, il perchè lo so.
Perchè prima di essere i muli dell’esercito erano ¡ muli del mondo, perchè prima d’essere gli alpini d’Italia erano gli alpini delia civiltà.
[Pai volume di Mario Mariani : “ Soli’ la Naja. Vita e guerra d’Alpini ”]•
à
— Non bramare altra forza che quella che ti rende sereno.
— Non ti stancar di tollerare ; ma guai se tolleri in silenzio: devi saperti sforzare a dar consigli con tanta cortesia da farti perdonare qualunque vanità espressa.
— Considera che .il tuo più gran tesoro è la tua serenità : nella serenità sta la forza, nella forza consiste la pace che ti circonda d’armonia.
— Abbi pazienza, ma quanto basta e ci vuole per essere giusto verso gli altri e verso te stesso.
— La tua forza sarà facilmente fittizia, se tu non la cerchi tentando di fortificare gli altri.
[Da Vita Fraterna di Milano. Pensieri di Gabriella Sommi Picenardi].
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A PROPOSITO DEL
" COLLOQUIO CON SERRA ” *
FATTO PERSONALE
Proprio così, inio Fattori: Io ti obietto, appunto, che « hai scambiato per teoria politica o filosofica un lavoro, che vuol solo rendere un travaglio spirituale, essere — o presumere d’essere, io correggo — un’opera d’arte, comunicare una vibrazione estetica nell'animo del lettore ».
Parole tue, codeste, per le quali, con abile mossa polemica, stimi fornirti d’un solido paracadute. E alla quale obbiezione, tu ti rispondi: « puoi ¿ ammettere che ci sia opera d’arte, senza consistenza di pensiero logico? »
Qui. perdona, il paracadute non serve più.
Perchè, io ti sottoscrivo a piene mani anche la risposta. Nè io, nè altri che non sia futuristicamente vuoto, può stimare che la forma debba essere spoglia di contenuto; — questo certo non intende il Croce, ad es., quando afferma che l’arte è sopratutto espressione —; nè che l’opera d’arte non debba esser tramata di pensiero logico.
Ma, logico» della logicità dell’artista; -questo è il punto.
Tu non tieni conto del pensiero che pensa nell'artista, e di quello che pensa nel filosofo. Sono due momenti, non contradditori, ma diversi dello spirito. E l'analisi di essi troverai stupendamente còlta e resa - a parte certe discutibili pregiudiziali gentiliane — nelle pagine del Gentile; alle quali, poiché io non potrei che ripetere, o malamente riassumere, ti rinvio.
Questo, a mio avviso, il fondamentale errore, che chiamerò di visuale prospettica, della tua critica, severa, e pure amichevole; e che rende impossibile a me di • rispon• Vedi in Bilychnis di gennàio 19x9, pag. 2, l’articolo di A. Fattori: Pensieri dell'ora. - Zzg-zendo il ‘‘ Colloquio con Renato Serra ” di Vincenzo Cento.
dere ». Poiché — non volendo, Dio me’ne guardi, abbozzare in mia difesa una teoria estetica — dovrei trascurare affatto il colloquio', a discutere per sé certe tue idee moraleggianti c catechetiche; che in gran parte accetto, e in parte, pur no.
L’errore tuo si appalesa, a mio giudizio, dalle prime parole: dove tu mi attribuisci l’intenzione di voler nel colloquio « sostenere » (cioè, nel tuo concetto, dialettica-mente dimostrare) questa o quella cosa. Orbene, codesta velleità dialettica era assolutamente estranea alla mia intenzione; —- se pur può dirsi intenzione quella che ha dettato il mio canto, o elegia, o salmo, o chiamalo come vuoi.
Perciò, io dicevo, m’è impossibile accogliere il tuo amichevole invito a discutere e rilevare qualche f errata interpretazione di passi del mio scritto. Che varrebbe, ad es., annotarti che tu mi presti l’opinione di un dualismo di animo e corpo, di spirito e materia, ch’io non mi sogno di avere, nè ho mai espressa? o che individualizzi, e restringi alla mia modesta' persona, il lamento: ah! troppo fonda anima ci facesti per sì piccole cose, o signore ecc., in cui l’anima « troppo fonda » non ha da intendersi la mia « semplicetta », in quanto mia; ma l’anima umana, come tale?
Non si tratta, insisto, di errata interpretazione di qualche passo, ma di un radicale errore di prospettiva.
Quando ho voluto veramente « sostenere •». e dialetticamente sostenere, qualche idea, o principio, la discussione l’ho accettata; anzi, promossa. N’è documento « La Scuola Nazionale » ch’è libro, appunto, di discussioni; e che tu altrove hai caldamente elogiato.
**»
II Cento dunque del « Colloquio con Serra» non è il Cento de «La scuola nazionale» o de «Il Cristianesimo e la guerra»? (apparso anch’esso in questa rivista), che sono
65
NOTE E COMMENTI
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evidentemente < gli flZ/r« scritti solidi, ferrei e, sopralutto, logici » ai quali tu, troppo indulgentemente definendoli, ti riferisci, in opposto al... viceversa — forma e contenuto — del « Colloquio ».
Verissimo.
« Contraddizione » ? — allora — < illogicità »?.
Io non mi comento.
A te pare di sì;.e non c'è che replicare.
Però, tu che hai fine intuito e non sei in-sueto a certe situazioni di spirito, come non accorgerti, sapendo, appunto che molte delle considerazioni che mi suggerisci, molti dei principi, specie di dottrina nazionale, che tu esponi, erano stati da me precedentemente difesi; come non accorgerti che, dunque, sopra di essi, e sopra la loro stessa riconosciuta validità, scaturiva, — quasi polla balzante da una roccia, che tu non sai, nè come, nè di dove — il dramma, se cosi vuoi concedermi di chiamarlo del « Colloquio »?.
Appunto: per me il dramma comincia là, dove per te finisce.
A me la vita dello spirito non si presenta cosi composta e simmetrica, quali a te e a tanti altri del tuo temperamento.
Quand'io stimo d’aver conchiusa una soluzione, riecco il mio dèmone che m’afferra, mi fa scontento, e mi spinge a cercare ancora. L’unica moralità cui io son solamente devoto, è quella di non stancarmi d’indagare, di cercare.
Se questo varrà in ¡sconto de’ miei non pochi, nè lievi, peccati, e... di qualche « bestemmia », non so. Io spero.
Posso magari invidiare — non interamente, per esser sincero — quelli che, come te, come qualcuno a me caro, han « trovato Iddio », cioè la legge, cioè il dovere, la pace, ecc.; ma non poàso carcerare il mio spirito in ¡schermi che non sopporta; nè chiudere gli occhi, per non vedere.
Bene? male?
E chi lo sa!
Tròppo lungi mi trarrebbe una discussione su questo punto; nè l’indole di questa mia noterclla me lo consente.
Tu, del resto, hai... preventivata la con-tr'obbiezione: funesta
è l’ombra per chi tenta la via del cielo.
Se così fosse, nessuno sentirebbe la vita del cielo.
? Chi — permettimi di citarmi — chi chiama la luce in un meriggio assolato?
Chi, essendo in casa, invoca che gli sia aperto?
E ai versi citati consentimi di ancor meglio rispondere con la parola dantesca, che pare incisa sulla pietra:
Nasce.........,.. a guisa di rampollo
A piè del vero il dubbio; ed è natura Che al sommo ponge noi di collo in collo.
A meno che, tu non voglia ripetere a me le parole di Cristo a Pascal: « tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato >•: e suonerebbero, certo, a mio conforto, e speranza.
Tollerateci, voi, dunque, quos Deutn pos-sidetis; aiutateci a trovar la luce che non abbiamo, che sempre ci brilla e mai afferriamo; ma non presumete di regalarci la vostra. quella che voi, io non dico comodamente, ma certo placidamente accogliete come luce. Tu non sei filosofo come me, — dici.
E neppur io, mio Fattori, son filosofo, nell’accezione comune di questa parola,... anche se ne risulti, ahimè, nei « ruoli organici »!
Sono semplicemente uno studioso, un esploratore impenitente.
Proprio così: tu abiti campi soleggiati; io brancolo per le foreste.
Che vuoi farci? Ciascuno ha i suoi gusti...
Conclusione ?
Nessuna.
Torno alla premessa; anche per ciò che riguarda il pathos inspiratore dello scritto: non se ne può discutere-.
Anche quando ti dicessi che il • Colloquio » è frutto del mio più squisito travaglio di due anni, di lotte svoltesi nell’interno del mio spirito, io non ti direi nulla, se già non te l’ha detto il « Colloquio • stesso; se, cioè, col mio canto, non sono riuscito a comunicare in te questa comprensione.
Anche quando ti dicessi: non hai capito, tu avresti diritto di ribattermi : sei tu che non sei stato capace di farti capire.
E avresti santamente ragione.
Il « Colloquio » è lì, per i pochi che lo han letto, e leggeranno; per i pochissimi che lo han sentito, — ce ne sono e mi fa piacere —- e sentiranno; senza alcuna pretesa di • dimostrare.», senza alcuna velleità di far proseliti; senz’altro scopo che quello di cantare, anche se il canto non sia nè un peana, nè trillò di cinciallegra;, — documento, se mai, di una coscienza artistica immatura, o inadeguata: la mia.
Abbimi con l'antica amicizia tuo
V. Cento.
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3<P
BILYCHNIS
PER UN FATTO....
QUASI PERSONALE.
Caro sig. Paschello,
Leggo nell’articolo : “ Dopo-guerra nel clero ” pubblicato nel numero di aprile di Rilychnis. un punto che mi riguarda: “ Il popolo, almeno il popolo italiano, ai preti spretati non ci crede nulla, proprio nulla ; e nulla, proprio nulla, del loro apostolato lo arriva o lo muove. Guardate Murri, amici cari ”.
Io non so che cosa Qui quondam intenda qui per “ popolo ,, e da quali notizie o impressioni sul mio conto desuma un giudizio cosi pessimistico. Io ho una esperienza squisita delle difficoltà che incontra per la sua via un prete spretato e per giunta — il che diminuisce un poco il valore dell’esempio — scomunicato nominatimi difficoltà procurate dal mondo clericale, e ciò va da sè, ma anche dalla tacita alleanza con i clericali di moltissimi che si dicono e han l’aria di essere più o meno spregiudicati.
Ma, via, di opportunità di lavoro e di propaganda — non parlo di apostolato, perchè la parola m’è sempre, anche quando ero prete ed avevo tanto seguito di giovani preti, parsa pretenziosa — me se ne sono offerte e mese ne offrono ogni giorno, fra il popolo più modesto con il quale sono a contatto e su su fino ai più larghi ambienti intellettuali e politici; e me se ne offrono più di quelle che io possa accettare. E son riuscito, in Italia!, a vivere come volevo io, non cercando solidarietà utili per il successo personale ma nocive alla libertà spirituale, continuando a fare esattamente quel che facevo prima, quando ero prete, senza sacrificar nulla delle mie idee e della mia libertà alle necessità, pur pressanti, della vita.
Le difficoltà vere e grandissime sono d’altro genere, e valgono per il prete spretato esattamente come per chiunque altro si proponga gli stessi fini : inerenti al tentativo di scuotere l’apatia spirituale del paese, dei clericali e degli anticlericali, dei molto e dei poco colti, eccitar gli animi a rifarsi della vita e del mondo un senso religioso personale.
Ma di quello che, in questo campo, alle mie modeste forze ed alla mia ostinatissima tenacia è stato possibile fare, con un lavoro naturalmente non destinato al pronto e largo successo, è inutile parlare ora, e sarebbe curióso che io parlassi, altro che per mettere sull'avviso contro i facili giudizii troppo negativi, come quello di Qui quondam ; e an
che questo, non per amor proprio, ma solo perchè non si traggano da una supposta esperienza conclusioni e ammonimenti non giustificati dalia reale esperienza.
Cordialmente suo
Romolo Murri.
Gualdo (Macerata) 22 aprile.
0 0 0
25 aprile 1919. Caro Paschello,
C’è una morale nei fatti odierni ed è la seguente : che una volta di più dobbiamo constatare essere una sola, una sola. una. sola la personalità complèta nella storia dell’umanità, il Cristo. Tolto questo, sono tutte, saranno tutte, personalità relative. Il che sopevamo fin da prima, ma lo dimentichiamo cosi facilmente !
Mario Falchi.
0 0 0
27 aprile 1919.
Carisi. Prof.
O cosa le viene in mente di pubblicare quel rancido, cavilloso e fratesco scritto di M. Lutero ?
Scusi se metto bocca, ma se ne sballano già tante oggi, che vederne esumare qualcuna anche di qualche secolo fa mi accresce il malumore...
Suo Qui quondam.
28 aprile 1919 Caro Qui quondam,
Mi giunge la critica sulle ali della sua franchezza. Capisco la sua impressione che fu anche la mia alla prima lettura ; ma ho sentito poi che è pure un dover nostro l’esumare documenti che oggi possono sembrarci rancidi, cavillosi e magari frateschi, quando valgano a ristabilire la verità storica cosi spesso oscurata dai giudizi “ sballati ” da una così generale ignoranza storica in fatto di “ Riforma ” e di “ Riformatori ”. E sul conto di Lutero, in relazione col germane-simo del secolo XX, se ne sono sballate troppe qui da noi durante gli anni della guerra!
Suo aff. L. Paschetto.
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STORIA E PSICOLOGIA RELIGIOSA
ni.
FEDERICO SCHLEIERMACHER
Fra coloro che esercitarono un’azione benefica sul pensiero e su la vita religiosa, tra il secolo xvin e xix, va certo annoverato Federico Schleiermacher. Su di lui poco si è pubblicato in Italia, ed à fatto bene l'editore Remo Sandron di Palermo ad arricchire la sua collana di Grandi Pensatori con una monografia di Cecilia Dentice di Accadia su questo autore (i).
Bisogna riconoscere subito che questo volume mostra una estesa conoscenza delle opere del pensatore tedesco, e anche della ricca letteratuia alla quale quelle opere ànno dato luogo, e mostra altresì la mente chiara ed equilibrata dell' A., il suo giudizio sicuro c quasi sempre giusto. L'A. in un primo capitolo si propone di far conoscere i legami che uniscono il pensiero schleiermacheriano con la filosofia di Kant, di Spinoza, di Hamann, di Herder, di Jacobi, di Schelling e di Hegel, e si studia d’intendere l’anima di Schleiermacher ed il suo pensiero filosofico, che distingue in due periodi di sviluppo, 10-mantico l’uno e sistematico l’altro. Tratta poi, nei successivi quattro capitoli, della vita di Schleiermacher, della sua dialettica, della filosofìa della religione e dell’etica. Il libro si chiude con opportune notizie bibliografiche. Queste avrebbero potuto esser più numerose, con vantaggio degli studiosi. Così p. e. non avrebbe dovuto mancare, in queste notizie, lo studio di
(i) Cecilia Dentice di Accadia, Schleiermacher. R. Sandron, ed. Palermo. Un voi. di p. 250, L. 7.
E. P. Lamanna sul Concetto di religione in Schleiermacher, pubblicato nella Cultura Filosofica (anno IV fase. 3, 4 e 50e l’interessante capitolo che lo stesso autore à scritto nel suo volume: La religione nella vita dello spirito (Firenze. 1914. Cult. Fil. ed. Un voi. di pag. 436, L. 7) dove tratta della religiosità come prodotto della funzione contemplativa. E. P. Lamanna è uno dei pochissimi che si sono occupati in Italia e con competenza del pensiero religioso di Schleiermacher.
Ma Cecilia Dentice vuole principalmente esaminare e valutare il sistema filosofico di Schleiermacher che è appunto la parte più debole del pensatore tedesco. Come riconosce la medesima Dentice — che del resto non risparmia le sue critiche — la filosofia di Scleiermacher risponde più a un bisogno estetico che .filosofico. Uno scrittore che, come lui, giudica povera ed arida cosa ogni sistema filosofico non si mette efficacemente a costruirne uno. Le dimostrazioni di Schleiermacher — e lo dice la stessa Dentice — sono prolisse, poco efficaci e spesso mostrano una mancanza di convinzione nel medesimo autore. E. Zeller lo giudiéÒ un dilettante in filosofia. Se-Suace della filosofìa dell’ identità Federico chleiermacher, per risolvere l'antitesi tra spirito e natura, opina una unità di processo di cui l’uno e l’altra dovrebbero esser momenti necessari. La sua cognizione psicologica delle attività dello spirito è manchevole. Egli non indaga che sia il Sensiero, non sa distinguere il giudizio alle relazioni affettive, e crede che conoscere e volere siano sostanzialmente identici senza vedere.chejion è possibile venire
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a identificare il giudizio con la volontà: c senza riconoscere che la verità è nel retto giudizio gli sfugge l’essenza della certezza.
Schleiermacher si dibatte invano intorno al problema centrale deiresserc, e oscilla fra la concezione dell’essere per sé — presupposto dalla nostra attività conoscitiva — e quella di un essere in noi, identità di pensiero e d’essere. Non più felice che nella soluzione del problema della conoscenza e di quello ontologico, appare nella logica, nella psicologia e nella soluzione del problema etico. Cecilia Dentice à dovuto riconoscere, infine al suo diligente esame, che l’etica schleiermacheriana, aperta con accenti rivoluzionari contro le antiche concezioni, e annunciatasi come originale, si chiude senza una conclusione, anzi non si chiude, ma si distende e si disperde stanca e sbiadita, in contorni sempre meno netti e precisi che dileguano verso le linee delle antiche forme c talvolta si confondono in quelle.
IN CHE CONSISTE IL MERITO DI SCHLEIERMACHER
Laddove invece Schleiermacher eccelle è nella sua grande e geniale versatilità e sopì atutto nel suo pensiero religioso. Schleiermacher, come scrisse lo storico Zeller, in un suo eccellente saggio, che non veggo rammentato da Cecilia Dentice (ForZr. und Abh. 1. p. 178-201) oltre ad essere uno dei maggiori teologi che abbia avuto la Chiesa protestante, fu un ecclesiastico il cui grande pensiero prevarrà per l'unione delle Chiese, per una più libera organizzazione ecclesiastica, per i diritti della scienza e della individualità religiosa, ad onta di ogni retriva 1 esistenza; oltre ad essere un predicatore eloquente, Schleiermacher fu un eccellente professore di materie religiose che seppe trovare le vie del cuore per mezzo dell’intelletto e quelle dell’intelletto per mezzo del cuore; oltre ad essere un conoscitore dell’antichità classica, le di cui opere su la filosofia greca sono di grande importanza, fu una grande personalità che eser-, citò un’azione benefica su quanti lo avvicinarono. cosicché molti furono coloro nei quali egli seppe destare una nuova vita spirituale. Schleiermacher eccelle sopratutto come colui che primamente esaminò, con grande competenza, la natura della religiosità; e il suo pensiero deve esaminarsi non solo per il suo valore intrinseco, ma anche per il tempo in cui fu espresso. La religione era allora ritenuta generalmente
dagli uomini colti un asylwn ignoranti™. Si amava la cultura, l’arte, la poesia, si voleva indipendente la scienza e la filosofia, ma sembrava che la religione non avesse più alcun vigore di vita, e dovesse cedere il posto a più giovani e fresche energie spirituali. Ma quando nell’estate del 1799 apparvero per la prima volta i Discorsi sulla religione. senza nome di autore. l’impressione fu indescrivibile. Essi prendevano in esame gli aspetti fondamentali del problema religioso, e con un vigore e con una eloquenza a cui la letteratura religiosa non era da lungo tempo abituata. Che è religione? In quale facoltà spirituale à essa radice? Come sorge nello spirito? Come appare dapprima nella storia? Che cosa sono le religioni? Che è Cristianesimo? Che significa'religione naturale e positiva? Che valore à la comunità religiosa, la Chiesa? Quali sono i rapporti tra religione e morale? Quali quelli tra religione e conoscenza? Che valore ànno i concetti e le dottrine nelle religioni? Queste le principali domande, oltre a quelle sul problema metodologico, che si poneva Schleierma-chcr, e le risposte che egli dava suscitavano un grande movimento innovatore sia nel campo del pensiero che in quello della vita religiosa.
LA NATURA DELLA RELIGIOSITÀ SECONDO SCHLEIERMACHER
Come giustamente avverte Cecilia Dentice, Schleiermacher protesta vigorosamente contro Kant e contro Hegel perchè il primo aveva fatto della religione un’appendice della morale ed il secondo una forma ancora involuta di sapere e quindi aveva posto la religione in un grado inferiore rispetto alla filosofia. Ma cercando entrambi questi pensatori di cogliere l’essenza della religione, perdevano di vista la natura della religiosità, e con questa ciò che è proprio alla vita religiosa. Con Schleiermacher la religione acquista dignità nuova, si afferma autonoma e diviene centro e base della vita dello spirito, sintesi e potenziamento di tutte le attività psichiche, principio primo ed unico della loro unificazione. Qualunque siano per essere i difètti di questa teoria — che certo non è meno unilaterale di quella di Kant e di Hegel —-non si può negare a Schleiermacher il merito di avere ricondotto lo studio della religione nell’ambito della psicologia, e di avere avvertito quindi nel sentimento reli-
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gioso ciò che esso à di caratteristico, il palpito della vita universale, la vita nel-l’infinita natura del tutto, l’elevamento umano verso la divinità, il sentirsi con essa in rapporto di assoluta dipendenza.
LE RELIGIONI POSITIVE E LA CHIESA SECONDO SCHLEIER-MACHER
Oltre che per la indagine intorno alla natura della religiosità, rimarrà viva e feconda in molte parti la concezione schleicr-macheriana delle religioni positive e della Chiesa. Fu qui che si rivelò un geniale riformatore della teologia protestante non solo, ma anche come colui che à fatto uno dei più poderosi tentativi per purificare le religioni positive. Secondo lui nessuna delle Chiese esistenti contiene tutta la verità, e nessuna rappresenta intieramente la vera religiosità cristiana. Ciascuna nel suo processo di evoluzione viene risolvendo, volta a vòlta, l'errore nella verità, pur senza raggiunger mai la perfezione definitiva. Questa perfezione non può divenire realtà, ma dev'essere lo scopo costante del suo svolgimento.
Da ciò si vede — e Schleiermacher lo à dichiarato espressamente — che egli riconosce come indispensabile per il progresso religioso la molteplicità delle religioni, pur con le loro imperfezioni, c la necessità della Chiesa per tutte le anime che cercano una religione. La Chiesa però deve essere unica, la vera madre di tutti i credenti, e per essere unica dev’essere libera; la concezione che ebbe Schleiermacher delle religioni positive e quindi del Cristianesimo e della Chiesa, bisogna rilevarlo, è ancor viva e feconda in quanto egli reputa che in esse lo spirito non deve trovar vincolo o menomazione della sua libertà e della sua religiosità, ma anzi una esplicazione di queste. La partecipazione degli individui alle religioni positive non deve perciò menomare la originalità dell’individuo, che appunto dalla religione positiva assurge a forme più elevate e più pure di religiosità.
In questo campo si trovano i semi fecondi che à lasciato sul percorso delle sue indagini Schleiermacher, ed è in questo campo appunto che devono sopratutto cercare gli studiosi ciò che rimane vivo del suo pensiero. Procedendo per altra via lo spirito di Schleiermacher si sottrae alle nostre indagini e méntre crediamo di averne colto il più recondito e originale aspetto, non ne abbiamo visto che la superficie e
l’accessorio. Il pensiero di Schleiermacher mostra il suo valore quando lo si considera in ciò. che esso à di più caratteristico, in in ciò che esercitò una decisiva, influenza su l’oricntamente della cultura. Égli seppe trasfondere nell’ambiente in- cui visse la potente aspirazione religiosa che sentiva dentro di sé, e seppe fare della religione, come giustamente avverte < esilia Dentice, una questione di interesse vitale per lo spirito, dimostrando la importanza, di essa nel processo della storia e della vita. « La religione, dice Schleiermacher, fu il seno materno nelle cui sacre latebre la mia giovane vita ebbe il suo nutrimento, in essa io vidi schiudersi il mondo, in essa il mio spirito respirò quando ancora era privo di esperienza e di scienza, essa fu il mio sostegno quando cominciai a valutare la fede dei miei padri e a sgombrare dal cuore gli avanzi del passato,, c ad essa rimasi fedele anche quando Dio e l’immortalità si dileguarono dai miei sguardi ».
METAFISICA E RELIGIONE
Chiederà qualcuno, e con ragione, come mai Schleiermacher poteva dire di rimaner fedele alla religione quando diveniva dubbioso intorno alla credenza in Dio c nell’immortalità dellp spirito umano. Ma egli è che circa l’essenza della religione Schleiermacher non ebbe, come invece comunemente si ritiene, quella sicurezza di vedute che ebbe su la natura della religiosità. Combattendo contro Hegel, egli accettava le antinomie kantiane della ragion pura, e spezzava così ogni filo che potesse condurlo al giusto apprezzamento del contenuto metafisico della religione.
A ricondurre la questione nei suoi veri limiti occorreva anzitutto sgombrare l’indagine metafisica e psicologica dai pregiudizi e dalla confusione in cui era caduta; occorreva considerare la metafisica, non come una poetica costruzione dello spirito ma come qualsiasi altra indagine scientifica ; se vuole progredire la metafisica non deve esser un affare di gusto, o il mancipio della moda, ma seguire uno storico sviluppo che la conduca grado a grado verso la soluzione dei suoi problemi, perfezionando la concezione religiosa del mondo.
NUOVI STUDI Dì PSICOLOGIA E FILOSOFIA
È perciò con viva soddisfazione che abbiamo visto in una recente pubblica-
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zione di Francesco De Sarlo (1) ripresi, e con molto, vigóre, alcuni dei principali problemi della filosofìa è della psicologia che ànno attinenza con gli studi religiosi. « Credo sia quasi dovere del filosofo c del pensatore — scriveva F. De Sarlo alcuni anni or sono (Il problema dell'Immortalità, una lettura fatta al Circolo filosofico di Roma, il io febbraio 1910) — non sfuggire alla responsabilità di pronunciarsi intorno a quegli argomenti che da una parte si connettono coi problemi più aidui c fondamentali della scienza e della filosofia, e dall’altra ànno le più strette attinenze coi più vitali interessi della coscienza e dello spirito. Che oggi molti filosofi affettino quasi disdegno per la trattazione di simili argomenti... non è buona ragione perchè ne sia rimandata la discussione ».
L* opera che qui esaminiamo raccoglie XXI saggi riguardanti i punti principali della scienza dell'anima umana. Essa è una revisione di quasi tutta l'indagine psicologica che un valente pensatore à fatto da trent’anni a questa parte, ed è senza dubbio uno dei più importanti contributi che agli studi psicologici e filosofici à dato, nei tempi moderni, il nostro paese.
Dopo alcuni saggi propedeutici, riguardanti la vecchia e la nuova psicologia, i due punti di vista nelle indagini psicologiche — teorico l'uno c pratico l’altro — e su la necessità del metodo psicologico per le scienze dei valori, Francesco De Sarlo affronta, nel IV saggio, la sottile indagine intorno alla esperienza psichica per conoscere la natura della coscienza e quella della permanenza o della identità del soggetto nei suoi atti molteplici e successivi. La riflessione, dice l’A., in tanto è possibile in quanto il pensiero, svolgentesi in atti successivi nel tempo, è sempre il pensiero d’uno stesso pensante. Con l’esperienza psichica noi cogliamo la identità e l’unità della persona, e raggiungiamo la evidenza, che è fondamento di ogni certo sapere.
I due saggivche seguono, il V e il VI, sono una illustrazione di ciò che è l’individuo dal punto di vista psicologico, e il soggetto. Da queste indagini risulta che solo chi à veramente coscienza di sè, come fine e valore assoluto, presenta i caratteri di
(1) Francesco De Sarlo, Psicologia c Filosofia. Studi c Ricerche. Firenze, La Cultura Filosofica ed. 19x8. Due grossi volumi di complessivamente xooo pp. L. 20.
unità icalc e perfetta e quindi di persona. D’altro canto si vede che l'unità reale, non potendo esaurirsi nella molteplicità delle sue manifestazioni, deve trascenderla.
Acute osseivazioni si trovano nella critica che in questi due saggi fa l’A. della teoria che attribuisce priorità alla conoscenza degli oggetti rispetto a quella di noi stessi ,e all’altra che ritiene la vita sociale creatrice dell'individualità. La psicologia e la sociologia religiosa sono cadute spesso in questi erroii.
Gli altri saggi, che completano il primo volume di questi studi e ricerche, si riferiscono alla vita dello spirito, prendendo consecutivamente in esame la causalità psichica, la sensazione e la coscienza, la classificazione dei fatti psichici, le determinazioni formali della vita psichica (disposizioni funzionali, esercizio, abitudine, lavoro mentale) l’attività immaginativa, la vita affettiva e l’attività pratica, la teoria somatica delle emozioni e l’attività conoscitiva. Come ognuno vede, si riatta Sui dei più importanti e difficili problemi ella psicologia e della filosofìa, problemi che ànno una particolare importanza per chi si occupa di studi religiosi. Senza seguire, per brevità, l'A. nelle sue indagini circa la causalità psichica e il sensazioni-smo (dove vengono esaminati alcuni punti essenziali della conoscenza e della libertà umana, dei rapporti tra psiche e psiche individuale e di quelli tra coscienza individuale e coscienza univcrsale)'basti considerare lo studio di F. De Sarlo su la classificazione dei fatti psichici, per convincersi della importanza che ànno questi studi per la psicologia e per la filosofia della religione. Abbiamo veduto dianzi a quali conseguenze perveniva Schleicrmacher per avere confuso il giudizio e la volontà c per aver perso di vista il fondamento della certezza. In un capitolo del primo volume della sua Psychologie, Franz Brentano fece la storia e la critica di alcuni tentativi delle classificazioni delle attività psichiche fatte prima di lui (1874). D’aL lora la scuola brentarliana à sempre più sviluppata, in vari sensi, la dottrina del maestro (r). La classificazione che propone
(x) Quei capitoli della Psychologic di F. Brentano che riguardano la classificazione delle attività psichiche, sono apparsi da me tradotti con aggiunte originali dell’autore — in parte risposte a obiezioni che gli erano state fatte — in Lanciano, R. Carab-ba, ed. 1913. Un voi. di pp. 151, L. 1.
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F. De Savio è più dettagliata e comprende anche.i fatti psichici che l’A. distingue in primari, secondari e terziari. Riguardo al contenuto della coscienza, nel suo aspetto subiettivo, l’A. distingue due classi, una di stati e un'altia di atteggiamenti. Devo, per brevità, tralasciare di prender qui in esame le determinazioni formali della vita psichica, e i saggi XI, XII, XIII e XIV su l'attività imaginativa, su la vita affettiva, su le emozioni e su l'attività conoscitiva, che pure tanto interesse ànno per gli studi religiosi.
Qualcuno sarà forse indotto a discutere c a dubitare intorno a certe considerazioni di F. De Sarlo, ma per coloro che appartengono alla scuola brentaniana ritengo si tratti di ’questioni di dettaglio, e sul Sunto essenziale.della triplice ripartizione elle attività psichiche in conoscitive, contemplative, (imaginative) e pratiche, cóme su molti altri puntiprincipali, possono perfettamente convenire, con l’A. A ogni modo però, chiunque legge, con diligenza, quésti scritti di F. De Sarlo, deve riconoscere che sono frutto di pazienti e diligenti ricerche e meditazioni. E se di fronte a questioni così difficili e complesse, come son quelle che abbracciano tutta la vita dello spirito, non si può raggiungere un immediato accordo, questo non è poi indispensabile per il progresso della scienza, e dev'essere sufficiente che i pensatori, compresi dalla serietà e importanza dell’ indagine scientifica, vengano indotti, per mezzo delle nuove indagini di F. De Sarlo, a riesaminare le loro conclusioni nelle parti in cui non siasi raggiunto quell'accordo completo. Il progresso della conoscenza filosofica, come dicevo dianzi, si ottiene per gradi, e quindi non ricominciando da capo a tracciare sempre un nuovo cammino — ciò che non darebbe garanzia di successo — ma partendo da quel punto che altri ànno felicemente raggiunto per procedere verso maggiori, altezze.
IL METODO NEGLI STUDI DI PSICOLOGIA
Un impedimento al progresso delle indagini psicologiche si ebbe quando la psicologia fu studiata con intenti metafisici, rivolta specialmente a chiarire le questioni dell'essenza dell’anima, della sua origine, del suo destino e del suo rapporto col corpo, prima che i fatti psichici fossero sufficientemente studiati. Questi fatti ve
nivano allora assai spesso e volentieri determinati e classificati in base a criteri extrapsicologici e cioè ètici, religiosi e metafisici. Ma quando sorse e si affermò un vivo interesse per la cognizione scientifica dell’anima umana, si cercò di adoperare nella indagine psicologica, il metodo stesso che erasi mostrato fecondo di buoni risultati nell’indagine dei fenomeni fisici. La psicologia veniva cosi ad assumere un significato e un’importanza che prima non aveva e diveniva propedeutica necessaria di ogni speculazione o scienza filosofica fondamentale. Un rivolgimento nel campo degli studi psicologici si ebbe alla metà del secolo xix quando con l'aborrimento per le costruzioni metafisiche, fantastiche cd arbitrarie, coincise il progresso delle scienze fisiche. È certo dannoso distrarre l'attenzione dall'analisi della vita psichica occupandosi dell’anima. Quando si ricercano, si descrivono, si analizzano le leggi dell'attività dello spirito, non è necessario che la psicologia si occupi della realtà dell’anima, è tuttavia quelle ricerche sono indispensabili alla comprensione della vita religiosa. Ma quando si arriva alle analisi particolari e si perviene al problema della realtà dello spirito, la soluzione di questo problema s’impone come il presupposto necessario di tutti i fatti psichici dei quali si sono indagate la natura e le leggi.
E cosi mentre le prime indagini sono indispensabili per lo studio della vita religiosa, le seconde sono di capitale importanza per valutare il pensiero religioso e per incanalarlo verso ulteriori progressi.
IL CONCETTO DI ANIMA NELLA PSICOLOGIA CONTEMPORANEA
11 secondo volume degli Studi e Ricerche di Psicologia e Filosofia di F. De Sarlo tratta dell’attività psichica incosciente, della psicologia della suggestione, dell’alterazione della vita psichica (studio questo che, secondo me, à una importanza- non comune) e della psicologia degli animali; problemi che ànno richiamato l’attenzione dei maggiori pensatori dei nostri tempi, e i di cui studi F. De Sarlo esamina c discute consecutivamente nei saggi XVII, XVIII. XIX. XX e XXI. Ma i saggi che qui richiamano maggiormente la nostra attenzione sono il XV è XVI, occupandosi essi del concetto di anima nella psicologia contemporanea, e delie idee metafisiche circa lo spirito umano. Questioni capitali verso le quali
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gravitano quelle esaminate dalla maggior parte di questi saggi.
L’anima, c giustamente lo avverte De Sarlo. non dev'esser considerata come un atomo, un oggetto spaziale e quindi capace di localizzazione, ma come spirito. Il concetto di anime deve quindi eliminare ogni elemento che possa farla confondere col mondo corporeo la di cui natura c le di cui leggi sono assai diverse. F. De Sarlo, dopo avere esaminato e confutato le dottrine di Langc, Mùnsterbcrg, James, Wundt. viene alla conclusione che l’anima, per la psicologia moderna, non può esser posta al di fuori e al ói sopra delle manifestazioni ma come una realtà che vive in queste. E psichiche, passando dall'analisi psicologica ad altro ordine di considerazioni, non bisogna negare, egli dice, ogni realtà alla verità e al bene, e si deve quindi ammettere la realtà del soggetto per l’azione del quale solamente il vero c il bene ànno significato e valore. Ciò dev’essere inteso nel senso che quanto ha pregio in sè non può esserci dato e indicato da una illusione, e quindi l’affermazione della verità — atto reale — non può manifestarsi nell’illusione del soggetto; l’affermazione del bene non può avere radice in ciò che è mera apparenza. Secondo le ultime indagini dun-nque. della psicologia si deve concludere che dal concetto di anima deve risultare necessariamente il valore che essa à in sè e per se stessa, e basta riconoscere questa verità perchè si renda evidente la insufficienza di ogni concezione religiosa del mondo che faccia astrazione di tale realtà.
NATURA E REALTÀ DELL’ANIMA
Che la realtà psichica sia distinta da ogni altra’ forma di realtà, F. De Sarlo lo dimostra nel saggio XVI del volume qui esaminato, rilevando i caratteri essenziali che la costituiscono quali sono il necessario riferimento a un oggetto, la subiettivi o incomunicabilità., l’apprendimento diretto come fatto. Circa la natura dell’anima l’A. distingue quattro principali concezioni. Per la prima la natura dell’anima dev’essere pensata sul tipo di quella del coi po; per la seconda è una sostanza contrapposta a quella materiale e distinta dalle manifestazioni psichiche: per la terza l’anima è risoluta nel complesso degli stati di coscienza, e infine, per la quarta concezione, la natura dell'anima non è altro che un’attività, uno sciluppo.
Ciascuna di queste concezioni però, urta contro insormontabili difficoltà. Le definizioni dell'animismo, del realismo associazionistico, del dualismo spiritualistico e della dottrina dinamico-evolutiva, sono da rigettarsi. Per intendere la natura dell’anima bisogna ricorrere al solo mezzo che essa ci offre per intenderla: l'osservazione accurata della sua vita. Da qui emergono i caratteri essenziali che la costituiscono e che ò or ora accennati.
Nella dimostrazione della realtà e natura dell’anima confuta l’A. le difficoltà sollevate da Fichte. Herbart, Schopenhauer e conclude che l'anima è una sostanza identica nelle varie fasi e nelle variazioni della sua vita. Come la sostanza di un qualsiasi organismo è nel principio che rende possibile lo sviluppo del germe, così la sostanza psichica è nel principio che rende possibile e regola l’esplicazione delle varie funzioni e insieme tutto il processo evolutivo.
ORIGINE E DESTINO ULTIMO DELL’ ANIMA
Esaminata la natura e la realtà dell'anima, è naturale domandarsi donde l’anima proceda e quale sarà per essere il suo destino. Se essa cioè è sempre stata o da chi, o da che cosa è prodotta, e se essa cesserà di esistere con la cessazione della vita corporea. Gravi questioni queste che 1’ uomo si è posto sin dalle origini dell’incivilimento e alle quali le diverse religioni ànno tentato di dare risposte che appagassero le esigenze spirituali e morali. Il filosofo che osserva serenamente i fatti e li coordina nel pensiero per x scoprirne le leggi, deve riconoscere che ogni qual volta si produce un nuovo essere si aggiunge nell’ordine dei reali qualcosa che prima non esisteva. L’aggiunta non è effetto dell'arbitrio o del caso, non è una trasformazione di ciò che prima esisteva, nè si può dire che non sia determinata. Come un ordine fisso regola il nascere c il conservarsi, il crescere, e io svilupparsi delia vita fisica, così osserva il filosofo sovvenire per la vita psichica.
A questo punto però intervengono altre considerazioni. Il nascere, il conservarsi c lo svilupparsi di ogni reale, per avere un senso, deve mettersi in rapporto con Fazione divina, e poiché tutto avviene nel tempo, così l’origine dell’anima è nel tempo, c la sua vita si manifesta, sorge c si sviluppa quando son date le condizioni
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opportune, e quando le sue attività possono dispiegarsi. I teologi più abili sono talvolta caduti in errore per la inesatta concezione che essi avevano del tempo. Un tale errore si rende visibile ancora nel problema della eternità delle anime, quando l’eterno è concepito come qualcosa al di fuori del tempo. Tali difficoltà possono, secondo me, eliminarsi se il passaggio da ciò che si ascrive all'eternità a ciò che si ascrive al temporaneo venga concepito come il passaggio da ciò che nella mente divina è stata sempre come qualcosa da effettuarsi a ciò che nella stessa mente è come qualcosa che si effettua. Quanto era eterno nella teerna Ragione, diviene attuale nella storia della creazione. Mi limito qui a un rapido accenno, ma la questione merita certamente di essere approfondita. F. De Sari© giustamente afferma che l’intelligibilità delle cose è sospesa alla condizione che esse siano considerate presenti a una coscienza che tutto penetra e sostiene, e per rendere intelligibile l’atto creativo si riferisce a talune attività dello spirito umano, che offrono qualche analogia con quel potere creativo che è necessario ammettere nell'Assoluto.
Col problema dell’origine e natura dell’anima umana è connesso quello della sua durata e del suo destino. Le religioni ànno dato una soluzione al problema dell’immortalità, come ò accennato, anche nell’interesse della giustizia che governa i destini umani. Il filosofo deve esaminarlo invece sopratutto da un punto di vista psicologico, e si giova della teodicea c della metafìsica soltanto come una riprova delle sue conclusioni. La questione dell’immortalità si fonda dunque sopratutto sui risultati delle indagini circa la
realtà c la natura dell'anima. Se vediamo che questa à una natura diversa da quella corporea, dobbiamo vedere se è tuttavia suscettibile di quella decomposizione alla quale è suscettibile il corpo, e quali possano esser le cause che determinano una tale decomposizione o annullamento. F. De Sarto fa un esame dettagliato e diligentissimo dei risultati che ànno dato le indagini moderne intorno all'immortalità, e viene alla conclusione che ógni forma di psichi-cità dey’esser dichiarata indistruttibile, e quindi, ogni anima, perchè tale e in quanto tale, non può non essere, in un certo senso, immortale. Spesso si confonde l’autocoscienza con la funzione, e quindi molti, dal disturbo delle funzioni, o dal cessare visibile di esse, sono stati indotti a concludere che l'anima sia mortale. Ma se si distingue l’autocoscienza, in quanto esplicazione di funzione, dalla capacità di essere autocoseienté, si vede che se la prima può andar soggetta a modificazioni e alterazioni, l’altra rappresenta una rivelazione culminante della realtà; e non può esser perduta, non solo perchè ciò sarebbe contrario all’ordinamento razionale ed etico dell’universo, ma anche perchè sarebbe contrario alla sua specifica natura.
Come può rilevarsi dall’esame che per sommi capi abbiamo fatto della nuova e importante opera di F. De Sarlo, la religiosa credenza nella immortalità trova oggi sufficienti garanzie in un complesso di considerazioni attinte da forme differenti di esperienze, ed è procedendo su questa via che la psicologia e la filosofia religiosa possono raggiungere un vero progresso.
Mario Puglisi.
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K/ARIA^ZFI $ IT*
ITALIANI IN AMERICA
Sons oj Italy (I figli d’Italia) di Antonio Mangano, direttore de! reparto italiano del Seminario Teologico Colgate. New York, 1917.
Social and religious lije oj Italiane in America by rev. Enrico C. Sartorio. A. M. Boston.
Si è molto parlato durante questi anni di guerra degli italiani emigrati in America e dell’entusiasmo col quale risposero all'appello della madre patria nella sua < grande ora ». Però poco si è parlato, di quanto fosse in diretta relazione con la loro vita coloniale, studiata principalmente dai suoi due punti di vista informatori, il sociale ed il religioso.
È perciò con piacere che salutiamo la pubblicazione di queste due opere che è bene non vadano a cadere nel silenzio in cui caddero, a causa delia inevitabile confusione di guerra, tante altre opere pur degne di rilievo. Entrambi, scritte come sono in inglese, s’indirizzano principalmente alla pubblica opinione americana per attirare l’interesse della medesima sui nostri connazionali delle « piccole Italie ». Così poeticamente si definiscono le varie colonie italiane.
È pure sintomatico il fatto che queste interessanti pubblicazioni sono uscite dal cuore e dalla penna di due ministri del Vangelo, d’animo e di nascita italiani. In America i pionieri dell’evangelizzazione italiana tra i nostri connazionali sono in primissima linea tra quella gente di cultura c di sentimento che efficacemente s’interessa del rilevamento sociale e morale degl’italiani. Colaggiù ogni chiesa evangelica italiana, piccola o grande che sia, è nel contempo scuola per la intelligenza e palestra per la vita dello spirito. Ora queste chiese evangeliche italiane del Nord-America non sono meno di quattrocento, con una organizzazione di un trentamila connazionali.
T.’aichitettuta. diciamo così, di questi
due volumi del Mangano e del Sartorio —-a parte le inevitabili divergenze, princi-palissimámente dovute al diverso temperamento e alla diversa denominazione ecclesiastica dei due chiarissimi autori — non differisce di molto. In molti casi anzi i loro punti di vista mirabilmente coincidono, pur rimanendo ciascuno dei due splendidamente indipendente nel proprio giudizio, segno che entrambi furono animati da un unico move'nte egualmente buono e da un unico intelletto d'amore.
Il Mangano dà dapprima uno sguardo sintetico alla vita coloniale italiana nel Nord-America. Dopo questo capitolo di intioduzione egli in tre capitoli s'indugia, amorosamente quasi, a tracciare un quadro — sobrio di tinte ma sicuro di linee -della vita sociale, religiosa e politica dell’italiano nel suo ambiente naturale qual’è l’Italia e, infine, nei capitoli V. VI e VII, che sono gli ultimi, egli figge uno sguardo acuto e realistico nei ponderosi problemi che involgono con sè le questioni della americanizzazione degli italiani, della loro evangelizzazione in senso protestante e della loro partecipazione alla civiltà dell’America odierna.
Il Sartorio dal suo canto studia la vita delle colonie italiane ed il problema del-l’americanizzazione delle medesime che, per lui come per noi, aureamente deve essere « non un processo artificiale, ma un processo spontaneamerìte naturale ». Poi passa a studiare la psicologia e la pratica della religione negl’italiani e, infine, delinea le varie espressioni’ di questa religione nelle chiese cattoliche ed evangeliche, e nelle loro varie opere sussidiarie, chiudendo il suo bello studio, tutto soffuso di misticismo e di alta concezione ecclesiastica (è dedicato al suo Vescovo episcopaliano W. Lawrence del Massachusetts);' con un inspirato finale — vera e propria antologietta di direzione d'anime — circa il modo migliore onde accattivarsele e conquistarle per il bene.
Tutt’e due queste opere recensite sono corredate di una ricca bibliografia dell'argomento. Opere magnifiche. Pagine di passione, di fede e d'italianità, sono quanto di meglio c’è e di più interessante per conoscere i fratelli emigrati nell’America del Nord.
Conoscerli per amarli come parte vivente ed integrante della Patria!
Pietro Chiminelli.
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CORPUS SCRIPTORUM LATINORUM PARAVIANUM
Ci pervengono i nn. 17, 22 e 23 di questa ormai notevole collezione di classici latini, di cui avemmo la ventura già di recensire i nn. 1-7. De’ numeri intermedi ci riserviamo di parlare non appena ci perverranno.
Questi che abbiamo sott'occhio contengono metà deft'Eneide curata dal Sab-badini con la consueta perizia (nn. 22 e 23) e, per interrompere probabilmente la monotonia dei testi scolastici, una raccolta di poesie giocose romane, curata dal direttore della collezione, dal Pascal. Una interessante prefazione precede la raccolta, la quale è composta del pervigi-lium Veneris. del carmen de rosis e del prìapeorum libellus. La prefazione non fornisce solamente interessanti notizie sui còdici, ma accenna con notevole e importante erudizione alle principali questioni che hanno attivato l’acutezza e... l'ottusità dei critici sui carmi raccolti ed è completata da una ricca bibliografìa che sarà di grande utilità ai lettori più specialisti.
Tanto i carmina ludicra Romanorum, quanto V Eneide. che aspettiamo di veder compiuta con l'altra metà, sono chiusi dalle relative appendici critiche fatte con là consueta sagacia ed accortezza.
Non possiamo esprimere la nostra simpatia per la prosecuzione dell’opera, sé non con l’augurio ch’essa rimanga sempre all’altezza cui finora si tiene.
Giovanni Costa.
E RIVISTE ¿05
PUBBLICAZIONI PERVENUTE ALLA REDAZIONE
Guido Santini: Coscienza nuova. Problemi di tutti i giorni e d’ogni uomo. —- Milano. Libr. Ed. Mil., 1919. Pagine 40. L. 1.
Pietro Zama : ore del mio pensiero, Le consultazioni — La meditazione della morte — La meditazione dell'amore — La meditazióne della vita. — Libr. Ed. Mil. Milano, 1919. Pagine 86. L. 2.
Alessandro Chiappelli : Virgilio nel Nuovo Testamento (Estratto). — Firenze, 1919. Pagine 14.
John Viénot : Les protestants français eli’A-merique. — Paris, 19x9. Pag. 22. Cent. 75.
Luigi Russo: La catarsi aristotelica.— Marino Ed. Caserta. 1919. Pag. 23. L. r.
Livio Livi : Gli Ebrei alla luce della statistica. — Caratteristiche antropologiche e patologiche ed individualità etnica. — Libr. della Voce, Firenze, 1919. Pag. 279. L. 5.
Baron A. de Maricourt : ¿4 drame de Sentis. Journal d’un témoin. — Paris, Bloud et Gay, 1917- Pag- 22$. Frs. 3.50.
Hubert dé Larmandie : Les eoo numéros du " Petit Français ”. - Organe authentique des officiers français prisonniers à Brandebourg et Halle (Allemagne). Bloud et Gay Ed. Paris, 19x7.
Albert Autin : L’échec de la Réforme en France au XVI siècle. — Contribution a l’histoire du sentiment religieux. —- Libr. A. Colin, Paris, 191S. Pag. 2S6. Frs. 4-55P. M.-J. Lagrange: sens du christianisme d'après l’exégèse Allemande. — Paris. Libr. Lecoffre, 1918. Pag. 337.
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Si annunzia la morte dello scienziato Crookes, noto per le sue scoperte. Grazie all’invenzione dei tubi che portano il suo nome i raggi X hanno potuto avere una applicazione benefica. A lui si "deve altresì il mezzo pratico per cui è possibile aumentare notevolmente la produzione dei cereali. I suoi lavori più recenti sono rivolti alla soluzione pratica di problemi di ottica'.
I nostri lettori non ignorano certamente che da lui sono stati offerti non pochi contributi impressionanti alla questione della sopravvivenza e della riapparizione di persone defunte.
Egli non era unito ufficialmente ad alcuna Chiesa ; ma chi ebbe modo di avvicinarlo asserisce ch’egli era un cristiano convinto.
La rivoluzione boema del Novembre 1918 ha abbattuto la famosa statua della Madonna innalzata nel Novembre del 1620 a Praga per la vittoria delia Montagna Bianca e della Controriforma dei gesuiti.
Per :l cinematografo educativo. In questi giorni svolge il suo lavoro promettente di ottimi risultati una * Società per proiezioni educative» con un vasto programma inteso alla rinnovazione artistica e morale degli spettacoli cinematografici.
E’ infatti intenzione di questa valida organizzazione oltre che il noleggio delle « films » dedicate al divertimento educativo del. nostro
grande pubblico, mediante il concorso delle migliori case di produzione italiane ed estere con cui essa è in rapporto commerciale ed artistico, la compilazione di un catalogò completo per i cinematografi degli istituti di educazione, dei ricreatori, oratori, enti e associazioni per la gioventù, per l’ampia scelta di soggetti di divertimento come di istruzione storica e scientifica; a cui si aggiungeranno particolari facilitazioni per gli stessi impianti cinematografici.
Le origini del movimento simbolista nella letteratura contemporanea sono studiate da Ernesto Rayaud nel suo volume dal titolo Mélée simboliste.
Questo primo volume va dal 1870 al >890: esamina, cioè, l’evoluzione del movimento simbolista dalle prime manifestazioni individuali — i volumi di Rimbaud, di Tristan Cor-bière, di Charles Cros — alla fondazione del « Mercure de Franco », attorno a cui, poi, si raccolsero i simbolisti più singolari e più importanti.
Della raccolta delle pagine sparse di Benedetto Croce, fatta da G. Castellano, è stata già pubblicata la seconda serie': Pagine stilla guerra (un voi. in-16 di pag. vin-328. Prezzo Li 7) che presenta per la prima volta' nella sua interezza il pensiero del Croce sui grandi avvenimenti che si sono svolti dal 1914 al 1918. La’ prima serie: Pagine di letteratura c di cultura (1887-1918) è stata or ora pubblicata presso l’editore R. Ricciardi di Napoli. Essa offre una svariata cronaca della vita letterària italiana degli ultimi trent’anni.
Gli opuscoli filosofici dei Ro magnesi. a cura di Renato Fondi, sono, stati ora ripubblicati da Rocco Càrabba di Lanciano, nella collezione della Cultura dell’anima. Il libro è corredato da una buona biografia e da una bibliografia completa. Questi opuscoli filosofici hanno per argomento : 1. Le osservazióni sulla scienza nuova del Vico ; 2. La dottrina^Ogica del Galiuppi ; 3. La esposizione storico-critica del kantismo: 4. La libertà morale.
Una ristampa dei « Primato >, di Vincenzo Gioberti, appare adesso nelle edizioni dell’Unione tipografica editrice torinese, con introduzione e note di Gustavo Balsamo Crivelli. Il testo
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è condotto sulla guida della seconda edizione del « Primato » pubblicata in Bruxelles nel 1844. Nei proemio il Balsamo Crivelli esamina punto per punto la evoluzione filosofica del Gioberti nel decennio dal 1833 al 1S43 e indaga accuratamente la vera genesi dell’opera sua capitale, mostrando come l’idea che lo informa si trovi già nelle opere anteriori al 1843, nonché nei carteggi con Pietro Unia e Giuseppe Mazzini. L’opera sarà di tre volumi di cui, finora è apparso solo il primo, gli altri due appariranno entro l’anno.
«L’Eroica», la Rassegna italiana di Ettore Cozzoni — « ritorna nella luce » : « la via della croce si è riaperta ancora per questa creatura di italianità, di bellezza e di fede ».
E’ uscito il quaderno 58, n. r del IX anno. Milano. Casèlla postale 1155.
In un ampio studio denso di interessanti osservazioni A. Parrot, missionario al Madagascar, paragona • costumi di un popolo primitivo — quello dei Malgasci — con un altro popolo primitivo, quello ebreo di tremila anni fa. Alla luce di questo confronto, l’Antico Testamento si rischiara e molte incoerenze ed oscurità scompaiono. Il volume forte di 400 pagine, è scritto in difesa della Bibbia, contro la critica negativa, come è espressamente indicato nel suo titolo : « Dótense de la Bible contre ia critique négative dite “ Haute critique ”, au moyen de l’observation des moeurs et de l’étude de la littérature d’un peuple primitif ».
Se il volume non può soddisfare i seguaci del metodo critico-storico, esso offre però un notevole materiale di confronto, per quel che riguarda i costumi, che merita di esser preso in esame ed utilizzato dagli studiosi dell’A. T.
Al presidente della Federazione mondiale delle Y. M. C. A. (Associazioni cristiane della gioventù) Dr. John Molt è stata conferita dal Governo francese la croce della Legión d’onore per gl’immensi servigi resi all’esercito mediante la creazione dell’opera delle Case del soldato.
Nella chiesa evangelica greca di Salonicco domenica 12 gennaio si svolse una cerimonia molto simpatica. 11 cappellano protestante dell’armata francese d’Oriente, in segno di riconoscenza verso quella chiesa che aveva ospitato per tanti mesi i soldati evangelici francesi residenti a Salonicco, alla fine del servizio religioso presentò alla chiesa una grande tavola di marmo su cui
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era incisa in caratteri arcaici e nel testo originale greco, il saluto apostolico col quale s'inizia la ia epistola ai Tessalonicesi: <» Alla chiesa di- Salonicco, in Dio Padre c nel nostro Signore Gesù Cristo: a voi grazia- e pace ». Nell’angolo inferiore, a piccoli caratteri ed in greco moderno, jeg-gesi: « I fratelli in servizio nell'esercito francese, in segno di riconoscenza 1915-1919 ». Seguì un servizio eucaristico cui parteciparono cristiani greci e cristiani francesi.
Una statistica mondiale delle missioni cristiane è stata pubblicata recentemente. Attualmente esistono 412 società protestanti per le missioni fra i pagani: 128 risiedono negli Stati Uniti, 12 nel Canada-, 92 in Inghilterra, 70 sul continente europeo, 17 in Australia ed alcune altre in Asia e in Africa. Esse sostengono 24-039 missionari, di cui 7041 pastori. 1052 medici e 13.718 donne missionarie. Le chiese cristiane. organizzate in terra pagana sono 26.210 con 30.752 opere annesse; esse forniscono ai missionari 109.099 collaboratori indigeni e contano un totale di 2.408.900 membri comunicanti e 1.423.414 catecumeni. Nelle scuole missionarie vengono istruiti 1.973.816 alunni e 253.633 malati sono stati curati, in un anno, in 703 ospedali delle missioni.
Uno del delegati della Cina alla Conferenza di Parigi per la pace, Chengting-T. Wang, partecipando ad una riunione dell’Associazione Cristiana degli Studenti a Parigi, ha pronunziato un discorso in cui rileviamo i seguenti brani : Non è forse vero che nella grande lotta contro il male, abbiamo bisogno, non solo di spiegare tutte le nostre forze fisiche, ma di concentrare anche tutte le nostre forze d’animo? Gli è per questo che, sebbene le forze democratiche siano ancora numerica-mente deboli nella Cina, noi abbiamo il sentimento ch’esse potranno trionfare e non ci lasciamo certo scoraggiare dal sentimento degli insuccessi cui andremo incontro. - E che cosa è che sta alla base di questo sentimento di fiducia nelle forze democratiche, nelle forze della libertà? fe il sentimento che deve trionfare la giustizia, che ciò che è morale deve dominare, che Dio deve regnare nel mondo. Per questo, sebbene il numero dei Cristiani in Cina sia piccolo, io sono felice di costatare che la loro influenza può essere grande, infinitamente più grande di quel che il loro numero possa lasciar prevedere, e spero che molti giovani cinesi divengano discepoli del nostro Salvatore e Maestro. - lo credo che in
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questa Conferenza della Pace la cosa essenziale sia la Lega delle Nazioni per la pace. Ma cos’è che renderà possibile questa Lega delle Nazioni? Non sarà una semplice intesa! non un’alleanza di cui potremmo fare parte, non il pio desiderio di qualche uomo di Stato. Non è possibile alcuna Lega delle Nazioni se tutte le Nazioni non riconoscano che i principi di Gesù Cristo — che dobbiamo amarci, aiutarci, servirci gli uni gli altri — sono la vera regola della nostra vita... ».
Un funzionarlo bramano in un suo rapporto ufficiale ha reso questa testimonianza in favore del bene compiuto dai missionari cristiani nell’india meridionale : «Senza questi missionàri le classi basse della società indù sarebbero sempre rimaste nell’abiezione. A questi cristiani spetta l’onore d’essere andati nelle loro umili dimore e di averli innalzati alla concezione d’una vita migliore su questa terra. L’eroismo che occorre per trarre i paria dalla degradazione è un elemento civilizzatore che l'india antica ignorava».
Una statistica impressionante per la Francia è quella che si desume dal Journal officici relativamente al numero delle nascite durante il periodo della guerra. Esso è diminuito di metà, causando, una diminuzione di nascite di 1.200.000, dimodoché si può dire che le perdite causate dalla guerra, non hanno avuto alcun compenso.
Centodieci anni di lotta contro l’alcool negli Stati. Uniti. È agli Stati Uniti che cominciò la lotta contro l’alcoolismo. In una città dello Stato di New-York, Moreau, nel 1808, poi a Boston, nel 1813, furono fondate società aventi per principio l’astinenza dalle bevande distillate soltanto; ma durarono poco.
A Boston, nel 1826, fu creata la prima società americana di astinenza totale; si sviluppò rapidamente e divenne madre d’una moltitudine di altre associazioni. Tre anni dopo esistevano già negli Stati Uniti mille di queste associazioni con centomila aderenti, e nel 1835 ottomila società con un milione e mezzo di membri. Il numero degli spacci diminuì rapidamente e 4000 distillerie furono chiuse.
Nel 1851, uno degli Stati agricoli della Nuova Inghilterra, il Maine, in cui l’alcoolismo causava grandi rovine, adottò una legge di proibizione totale, che fu violentemente discussa e calunniata, ma che dopo molte vicende diede ottimi risultati.
Il grande patriota Lincoln fece il suo de
butto di oratore in riunioni di temperanza.. Egli era astinente e favorevole alla proibizione, ma nel periodo agitato della guerra civile lo si vide dissuadere i propri amici dal-l’insistere su quella questione.
Segui un lungo periodo in cui l’agitazione antialcoolica si mantenne costante ed in cui sbocciarono i tentativi più svariati. Non ci erano due Stati che avessero la medesima legislazione. Mediante la scelta locale, cioè col voto dei cittadini in favore o contro gli spacci in una città o contea, una gran parte del territorio fu nominalmente liberata dal traflìco-dell’alcool. Ma la pressione dei distretti nei quali l’alcool aveva libero corso era formidabile ; quindi lotte elettorali, contrabbandi, violente repressioni, la cui storia occuperebbe volumi interi ed avrebbe lo stesso interesse d’un romanzo di avventure.
Nel Texas si vide un gruppo di donne, condotte da una certa Carrie Nation, armarsi di scuri e precipitarsi nei bar per fracassarvi bottiglie e barili. I proprietari colpiti, si armarono contro quelle eroine.
Nei territori indiani, in cui regnava la proibizione, gli importatori di alcool scambiavano fucilate cogli agenti del governo e cogli agenti volontari delle società di temperanza, dei quali parecchi rimasero sul campo. La violenza della lotta si esprimeva in un linguaggio pittoresco; quelli che introducevano PàlcoOl di contrabbando si chiamavano «la gente del chiaro di luna»; gli spacci clandestini erano dei « buchi di serpenti » o dei « maiali ciechi • ; le città o gli Stati che rilasciavano patente al commercio dell’alcool si dicevano «-imbevuti»; le città o gli Stati proibizionisti erano detti « asciutti » e « asciutti sino all’osso » se era per giunta proibita anche l’importazione dell’alcool per il consumo personale.
Questi sforzi isolati e diversi fecero nascere delle società per l’eliminazione dell’alcool mediante una legislazione metodica e nazionale. Sorse così la Lega del nastro bianco, opera di Miss Francis Willard, cristiana ammirabile, che ha oggi la sua statua al Campidoglio di Washington ; poi la Lega contro la bettola
Anti Saloon League ») fondata nel 1897 dal pastore Howard Russe!, la quale estese ben presto la propria organizzazione su tutta la superficie dell’immensa repubblica.
Tuttavia, undici anni fa, tre soli«tati erano interamente « asciutti ». La Lega contro la bettola ebbe la fortuna di trascinare e di unire tutte le Chiese e di mettersi al di fuori d’ogni partito, pur conducendo energiche campagne sul terreno politico. La Casa editrice della Lega spende 2 milioni e mezzo di lire
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ogni anno e pubblica 2 milioni di copie dei suoi periodici ogni mese.
Il successo tinaie di questo immenso sforzo, in cui i cristiani di ogni denominazione si sono tenuti di proposito all’avanguardia, è stato affrettato dalla guerra, dalla propaganda di restrizione e dallo sviluppo dello spirito di economia e di sacrificio.
L’uno dopo l’altro 37 Stati su 48, si sono pronunziati per la proibizione nazionale, e il bill della proibizione dell’alcool in tutta la grande Repubblica Americana ha trionfato.
Temoignage].
Come si venne alla proibizione nazionale dell’alcool negli Stati Uniti. Il 17 dicembre 1917 la Camera dei Congresso, con forte maggioranza, votò un emendamento alla costituzione nel senso di proibire la fabbricazione, la vendita e l’importazione delle bevande alcooliche in tutto il territorio degli Stati Uniti. Ma la costituzione, carta sacra, non poteva essere emendata se non nel caso che la Legislatura di tre quarti almeno degli Stati dell'Unione ratificasse l’emendamento. Furono accordati sette anni per questa consultazione nazionale. Gl’interessati all’alcool credettero di avere tutto il tempo d’organizzare una opposizione efficace. Ora, in un anno solo, 24 Stati si pronunziarono per la proibizione, tra i quali la California, paese vinìcolo. Il 17 gennaio 1919 il totale necessario di 36 Stati era sorpassato di una unità; per il libero voto di tutta la Repubblica, veniva decisa la proibizione nazionale dell’alcool.
Questo è uno degli avvenimenti più considerevoli che si sia verificato dal tempo in cui s’iniziò la lotta antialcoolica. Le conseguenze economiche e morali d’una simile rivoluzione oltrepassano ogni previsione. Gli Stati Uniti non importeranno più bevande alcooliche e potranno esportare quantità assai maggiori di cereali e di frutta.
Allorché fu annunziato il trionfo del bill della proibizione, il senatore Sheppard fece la seguente dichiarazione : « Per la prima volta nella storia, una delle principali nazioni del mondo introduce nella sua costituzione una legge che proibisce il traffico delle bevande alcooliche, da cui i fondamenti stessi dello Stato avrebbero finito per essere scossi. La adozione dell’emendamento segna l’aurora di un giorno nuovo. È il primo passo di quello sviluppo d’una nuova legislazione per il bene dell’umanità, che deve succedere alla grande guerra d’Europa per la democrazia e la civiltà, a meno che le lezioni di questo conflitto non debbano essere accettate e messe a profitto».
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Il Bollettino n. 19 della Commissione preparatoria pel Congresso Pan-cristiano («World Conference on Faith and Order ») annunzia che il 6 marzo scorso è partita da New York una deputazione di cinque persone, tra cui tre vescovi della Chiesa Episcopale Americana, con l’incarico di recarsi presso i rappresentanti delle Chiese cristiane d’Europa per ripeter loro l’invito di partecipare al futuro Congresso mondiale del Cristianesimo.
La Deputazione seguirà questo itinerario: Londra, Atene, Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme, Alessandria, Roma, Svizzera, Francia, Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia, Svezia.
Con quale spiritò la Santa Sede si prepara a partecipare al Congresso Pan-cristiano ? Si desume dalle varie note, più o meno ufficiose e provenienti tutte dalla stessa fonte, apparse in aprile nella stampa italiana. Si leggeva sul Giornale d'Italia del 23 aprile: «Fu annunziato dà molti giornali che al prossimo congresso delle varie Chiese cristiane avrebbe partecipato anche la Santa Sede, forse assumendone là presidenza. Si disse anche che al Suo ritorno dall’America mons. Cerretti avesse recato ai Papa la lieta novella dell’invito formale fatto alla Chiesa Romana di partecipare al congresso. Ora la cosa sembrò a molli — noi compresi — un poco arrischiata poiché la Santa Sede, per quanto veda con interesse ogni movimento tendente alla unione delle Chiese, non può a costo di abdicare a tutta la sua autorità accettare di prendere parte ad un congresso dove si debba “ discutere ” di ciò che per essa è superiore ad ogni discussione. Da fonte officiosa si conferma appunto questa ultima interpretazione, e mentre si riconosce che il Congresso Pan-cristiano, può giovare ad eliminare molti pregiudizi e a dissipare degli equivoci, si esclude un intervento officiale della Chiesa Romana in una assemblea di tal genere. A Roma si attende che i dissidenti riconoscano i loro torti, non già che si discuta e si ammétta la possibilità di torli reciproci ».
E nell'iota del 12 aprile era apparsa la seguente dichiarazione presentata come proveniente «da fonte autorevolissima»:
« La Santa Sede non ha aderito al Congresso è quindi non vi parteciperà, perchè non sarebbe concepibile uh suo intervento, data l’indole dogmatica della Chiesa. Tutte le altre confessioni si sono allontanate di doro volontà durante i secoli dèlia Chiesa Romana, quindi sono i dissidenti che devono tornare nel suo seno e la Chiesa cattolica tiene sempre
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aperte le braccia per riceverli. Quindi nessuna difficoltà potrebbe frapporsi ad un ricevimento per parte dei Pontefice dei promotori del Congresso Pan-cristiano.
La Chiesa di Roma non si opporrà affatto a una intesa. La Chiesa ha mirato sempre alla sua storica unità. Nei riguardi del futuro Congresso Pan-cristiano conviene poi ricordare che Benedetto XV scrisse due lettere le quali destarono larga eco di compiacenza, al segretario di detto congresso e promotore del movimento signor Gardiner.
Per concludere, l’atteggiamento della Santa Sede sarà quello della madre verso i figli o quello del maestro che vede i suoi discepoli ritornare alla luce della verità dopo gli errori commessi ».
È certo che la notizia di questo atteggiamento della Santa Sede non farà una bella impressione fra i 200 milioni di evangelici da essa invitati « a riconoscere i loro torli ed a ritornare alla luce della verità dopo gli errori commessi! ».
Tanto più che, secondo il piano già stabilito per lo svolgimento del Congresso, debbono essere banditi tutti gli « epiteti che potrebbero ingenerare animosità, come eretico, ortodosso, scismatico, ecc... ».
Il Congresso Pan-cristiano e una voce protestante di Francia. Leggiamo nella Revue Chré-Henne di Parigi (gennaio-febbraio 1919, p. 64) quanto segue nella Cronaca mensile redatta dal direttore stesso della rivista, John Viénot: « Partigiano dell’unione dei cuori, non ci la-sceremo trascinare dal sogno dell 'unità. La unità è una chimera, sì, anche l’unità della Chiesa. Arrivano dall’America gli echi d’una campagna americana episcopale in favore della restaurazione dell’unità della Chiesa. Ci si parla d’un comitato che lavora a promuovere una conferenza mondiale ( World Conferente) per preparare questa instaurazione». Un organo cattolico francese, La Revue du clergè. dice a tal proposito: “È bene che noi teniamo dietro a questo movimento protestante verso l’unità: lutto ciò che tende alt'unità tende al cattolicismo ". Questa frase costituisce per i promotori del movimento il migliore degli avvertimenti. Il cattolicismo, quale si presenta attualmente è un’entità non riforma-bjXe. Non ammette l’idea d’una evoluzione, d ’un progresso religioso possibile. È racchiuso tutto intero nelle formule d’un San Tommaso d’Aquino. Chi si sente di retrocedere fin là,
lo faccia. È quistione di coscienza... Quanto a noi, vogliamo restare liberi riguardo il passato. Nella storia c’è tanto da prendere e tanto da lasciare, e tra ciò che siamo ben decisi a lasciar cadere senza ira ma senza debolezza, sono molte formule dèi nostri stessi dottori ed a più forte ragione sono altresì le imaginazioni potenti ma artificiali d’un Toni-maso d’Aquino. L’unione dei cuori, ii contatto fraterno, l’attività comune là dove la collaborazione è possibile con tutta buona coscienza, si; ma là servitù degli spìriti’ ad una verità bell’e fatta, mai. « Provate ogni cosa, diceva San Paolo, e ritenete il bene».
La Lettonia è un po’ l’Armenia del Nord, della régiOtìe baltica. Da secoli i Lettoni sono,, non massacrati, ma oppressi, perseguitati dai baroni baltici, nobiltà tedesca discendente dai terribili cavalieri teutonici. Questo piccolo popolo ha saputo resistere. - Durante la guerra il paese è stato devastato dinanzi all’invasione tedesca avendo dovuto i contadini stessi dar fuoco alle loro case. Le legioni dei Lettoni hanno fronteggiato eroicamente il nemico ereditario. ha Lettonia dev’essere salvata. I Lettoni sono protestanti.
Nuovi periodici giuriti alia Rivista:: La Rivista delle Battaglie. Direzione e amministrazióne, Roma, Via del Nazareno, i-b.
— Vie Nuove, bimensile; Direzione e amministrazione, Roma, Via Tritone, 201.
— Audax, mensile di letteratura, scienza ed arte. Direzione e amministrazione, Palermo, Discesa Bandiera, 3.
— Vessillo. « Vuole essere un mezzo di collegamento tra tutti coloro che sperano nella bontà umana». Direzione, Genova, Via Peschiera, 40-5.
Giornali spediti alla Redazione da nostri lettori : Corriere di Catania del 5 aprile : articolo segnato : « Battaglie di preti ». - Battaglie sindacali di Milano del 29 marzo: articolo segnato: «Getsemani». - L'edilizia di Torino del 17 febbraio: articolo segnato: «Il sovversivismo del Vangelo ». - L'imparziale di Messina dèi 30 marzo : articolo segnato : « La questione romana e il partito pop. cattolico». - L'avvenire democratico di Caltanissetta del 9 e del 16 marzo: articolo segnato: «Sulla legge delle guarentigie». -Compagni ! di Milano del 16 gennaio: articolo segnato: «Del Socialismo ».
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DALLA STAMPA
NOI CHE VENIAMO DALLA TRINCEA
[Il Popolo d’Italia, 7 gennaio .1919. «Noi che veniamo dalla trincea » di Fernando Schiavetti].
...Noi abbiamo nel viso, nel portamento, nel modo di fare, qualche cosa di diverso.
Camminiamo, sopratutto, diversamente.
Ma che cosa è dunque quel che ci rende diversi da tutti gli altri? Qualche ricordo di dolore, un’ombra di lontano sgomento? No, perchè nessuno ci ha fatto mai scuola di coraggio. Tante volte siamo andati in trincea, tante volte abbiamo saltato con allegre capriole i nostri reticolati per gettarci contro quelli nemici. Che cosa è dunque?
È una sapienza profonda che è nulla ed è tutto: tre anni di odio c d'amore, di rabbia e di patire ce l’han messa nel cuore, così in fondo che nessuno ce la potrà rubare e nemmeno noi potremo donarla ad un altro. È una cosa che non s’è mai letta nei giornali e nei libri e che è difficile ridirò nei giornali e nei libri.
Tra la vita e la morte una somiglianza che quasi sempre ci faceva guardare il pericolo con occhi indifferenti e nello stesso tempo una diversità che ci faceva tremare il cuore per l'amico vicino. Vita e morte erano le nostre compagne di guerra, le nostre sorelle, le nostre amiche: una vita semplice come il nulla della morte, tutta bisogni primitivi e tempeste di collera e ineffabili ardori.
Ecco quel poco che ora ci risplende qualche .volta nel viso; si è trasfuso in tutta la nostra persona e dà al nostro modo di pensare, ai nostri atti, ai nostri movimenti, qualche cosa di diverso. Riconosco un compagno di guerra dal modo con cui mi guarda in faccia, c dalla guardinga tranquillità con cui un giovane passa dinanzi a un tram, giudico se è di quelli, nei quali la sapienza di cui parlo s’è trasfusa sin nelle gambe, c nel midollo spinale;
E sentite questo: non è la sapienza inutile c fredda di quelli che soglion commerciare per abitudini professionali con la vita e con la morte. È diversa ed è più reale e profonda di quella di qualsiasi altro o filosofo 0 medico o prete o becchino.
Il filosofo l’ha letta nei libri o l’ha acquistata.
Ma quale sapienza?
Soltanto dopo una faticosa marcia del pensiero; povero pensiero che ha camminato per anni e anni con lo zaino sulle spalle e il fucile a tracolla! Non ha trovato quasi mai una buona fontana d’acqua viva e fresca a cui dissetarsi (la fontana della nostra sete sul Carso: la neve dell’altopiano); sempre avanti sotto il sole con la sua faccia pallida di malato e di nevrastenico.
Dove il filosofo è arrivato col pensiero il medico crede di essere arrivato con gli occhi e con le mani. In fondo non ne sa nulla nemmeno lui e quando sta per morire urla come gli altri. E poi conosce troppi nervi, troppe vene, troppi muscoli; la vita c la morte sono invece cose tanto diverse da quello spezzatino scientifico!
Il prete ha troppa paura della morte. E perchè tutto quel nero e quelle lugubri preghiere e quegli uomini incappati?
Noi abbiamo visto troppi nostri compagni cadere nel lampo tonante di una granata per non sapere che la morte è una cosa piena di luce.
E il becchino? I! becchino ci guadagna con la morte e per questa sola ragione non può capirla. Due morti al giorno, due fosse al giorno; ce n’è a sufficienza per vivere e anche per bere la domenica un litro di •viridi
E che sapienza è quella di questi quattro!
È una scienza. È una cosa fredda, uno sciocco orgoglio del pensiero che ha visto qualche cosa. Il nostro invece è un sapere vissuto e da vivere. Senza schemi, senza meditazioni aride, senza gerghi ristretti noi
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portiamo la nostra sapienza connaturata in noi stessi e vediamo la vita con occhi con cui nessun altro la vede. Ci avviene spesso di sorridere di quelli rimasti a casa e di certe loro inquietudini.
Noi tra un boccone di pane e l'altro abbiamo assistito alla morte di molti nostri compagni, dei nostri amici più cari.
Con breve stupore abbiamo veduto l’anima svelta perdersi nel corpo ferito, l’uomo divenuto una povera bestia straziata, tremare, boccheggiare, vomitare, far cose da bambino di cui un minuto prima sarebbe arrossito.
Io ho visto il capitano Mario Zandrino, più che dio, più che re, più che generale, nella sua bella 88* compagnia alpina, disteso su una barella, imbrattato di sangue c di terra, portato via come una cassa, come un rotolo di filo spinoso; gli alpini guardavano inconsapevolmente stupiti che di quell'energia sicura e virile fosse rimasto soltanto quel miserevole avanzo.
E in tutti era sempre il tremendo pensiero che di ora in ora poteva a ciascuno di noi accadere lo stesso.
Cose di tutti ¡giorni; prima vivi, poi morti. C’era veramente una grande differenza? Dei nostri morti potevamo credere che si fossero allontanati improvvisamente da noi e che conducessero la vita in paesi lontani.
Orbene, cari soldati, chi ora vedrà la morte e la vita col nostro medesimo sguardo? Chi potrà gareggiare con noi in questa concezione svelta giovanile della vita? Non vi accorgete che c’è ancora della gente che si preoccupa seriamente di un raffreddore, di una febbriciattola o di qualche teppista notturno? Noi ci siamo sgrullata di dosso tutta questa roba, questi timoracci femminili c siam rimasti nudi e puri col nostro fresco corj>o di giovani, fiorente di sanità e di vigore.
Oggi il grigio-verde è il colore della vita; la senilità della gente in giacchetta non ci tocca e ci fa, sinceramente, schifo.
Un soldato: spalle quadre, sguardo diritto, disinvoltura e sveltezza.
Un borghese: spallucce striminzite, occhi bassi, timidezza, passo ignobile e senza energia ».
ROCCO POLESE, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dcll'Unione Editrice, ria Federico Ceri 45
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In deposito presso la Librerìa Editrice " Bi lychnis"
NOVITÀ
MARIA BERSANO BEGEY
Olla e pensiero
di Andrea Towianski
(1799-1878)
Milano, 1918. Pag. 468. - L. 6.
"... In questo libro M. B. B. ha fissato, con mirabile maestria, le linee del pensiero e la fisonomia della vita di Andrea Towianski : l'idea e l'opera sono fermate per sempre in queste pagine, ricche d'intelletto e d'informazione, nate e cresciute nell’ambiente che serba ancor vivida la vibrazióne dell'uomo. E un libro che resterà fondamentale intorno all'argomento...' "... La storia dell'avvenire riconoscerà al Maestro polacco un posto eminente in quella profonda elaborazione’religiosa che'riempie la prima metà del secolo decimonono...' ... A questo pagine ricorreranno molli spirili bisognosi di certezza e di forza, mólte anime anelanti alla luce della conoscenza e al riposo del bene...' Giovanni Amendola.
GLI SLAVI
di A. MlCKIEWICZ
... poiché in questo conflitto gli slavi stanno dalla parte della civiltà latina, è necessario che i latini conoscano i loro alleati... Nessunoin questa materia ha maggióre autorità del grande poeta slavo...
Sommario.* Il Messianismo La tradizione - L'idea del dovere - Della proprietà -L’ideale della repubblica di Polonia - L'antipatia della ebieta per lo Spirito Nuovo -L'importanza della tradizione slava - Che cosa è la parola - Misteri della parola, ecc.
Pag. 180. PREZZO L. 3.
POEMI FRANCESCANI di A. M. D. G. L. 4.25 ... L Autore ha una sola pretesa : di offrirci un Francesco dei * Fioretti '.
LA SCUOLA NAZIONALE
In questo volumetto V. CENTO raccoglie scritti (che nel periodico La nostra scuola agitarono e discussero largamente il problema della rinnovazione nazionale delia scuola italiana. - Vi si trovano gli scritti di Anile, Cento, Ferrétti, Modugno, Murri, Prezzolini, Terziglia, Sanna, Varisco, Vidari, Vitali e Volpe.
Pag. 206. PREZZO L. 3.
OCCASIONE FAVOREVOLE per i soli nostri Ab-bonati non morosi:
L’Amministrazione di Bilychnis, per accordi presi cògli Editori dell’opera, può offrire per L. 1O.SO (franco di porto) il bellissimo volume
GIORGIO TYRRELL
Autobiografia (1861-1884) e Biografia (1884-1909) (Per cura di M. D. PETRE)
Quest’opera, edita signorilmente, non può, non deve mancare nella biblioteca di quanti coltivano con amore gli studi religiosi.
Il grosso volume (680 pagine) costa normalmente L. 15.
Rivolgersi all’ Amministrazione
di Bilychnis Via Crescenzio 2, Roma
Opere di ALFREDO LOISY :
LA RELIGION
1. Religion et morale. -11. L'Évolution religieuse et morale. - 111. Les caractères et les facteurs de l'évolution religieuse. IV. La discipline humaine. - V. Les Symboles de la foi.
Ko/, di pag. 316.
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MORS ET VITA
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LA CHIESA
E I NUOVI TEMPI
E una raccolta di dieci scritti originali dovuti alla penna di Giovanni Pioli - ROMOLO MURRI - Giovanni E. Meille - Ugo Janni - Mario Falchi -Mario Rossi - ■ Qui Quondam 1 - Antonino De Stefano - Alfredo Taglialatela.
I soggetti trattati, preceduti da una vivace introduzione dell'Editore Dott. D. G. Whittinghill, sono tutti vivissimi:
Chiesa e Chiese - Chiesa e Stato - Chiesa e Questione sociale - Chiesa e Filosofia - Chiesa e Scienza-Chiesa e Critica (2 studi)- Chiesa e Sacerdozio - Chiesa ed Eresia - Chiesa e Morale. È un libro-programma.
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“VERSO LA FEDE”^'7™ guenti soggetti: Intorno al Divenire ed all'Assoluto nel sistema Hegeliano (Raffaele Mariano) - Idee intorno all'immortalità dell'anima (F. De Sarlo) - La questione di autorità in materia di fede (E. Ccmba) - Il peccai» (G. Arbanasich) - Di un concetto moderno del dogma (G. Luzzi) - È possibile il miracolo? Qd. Tummolo) -Il Cristianesimo e la dignità umana (A. Crespi).