1
BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno VII : : Fasc. V. MAGGIO 1918
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 MAGGIO 1918
DAL SOMMARIO: Giovanni PIOLI: Morale e religione nelle opere di Shakespeare (Con due tavole) - LUCY Re-BaRTLETT: Il Cristianesimo e le chiese - GIOVANNI e ADA MEILLE : Giana vello. Scene Valdesi (Con disegni di Paolo A. Paschetto) -MaSUMI HlNO : L’evoluzione del pensiero giapponese - MARIO PUGLISI : Storia e psicologia religiosa (1) -= RAFFAELE CORSO : Etnografia religiosa (VI) - G. ADAMI: La Boemia protestante saluta l'alba d’un’era nuova, ecc.
2
BILYCHNIS RIVIRA
_ 4 4 4
MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
< FONDATA NEL 1912 c > > c
CR/77C4 * STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA PEDAGOGIA
FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE - QUESTIONI VIVE - LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO - LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL'ESTERO - SI PUBBLICA LA FINE DI OGNI MESE. REDAZIONE: Prof. LODOVICO PASCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l’Estero ; Via del Babuino, 107, Roma. AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l'Italia, L. 7; Per l'Estero; L. 1.0; Uh fascicolo, L. I. [Per gli Stali Uniti c per il Canada è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rcv. A. Di Domenica, B. D. Pastor.
1414 Calile Ave, Philadelphia, Pa. (U. S. A.)].
00000000000000BBBBBBBBBBBBB0BBBBBBBBBBB0BBB0BB
NOVITÀ
È uscito il 9° volume della Biblioteca di Studi Religiosi edita dal Dr. D. G. WHITTINGHILL
GESÙ DI NAZARETH STUDIO STORICO CRITICO di PIETRO CHIMINELLI autore del voi. Il ■ Padrenostro " e il mondo moderno.
II volume comprende i seguenti capitoli:
1. Il mondo al tempo della nascita di Gesù.
II. Il paese di Gesù.
III. La Madre di Gesù.
IV. Gli anni silenziosi di Gesù.
V. La predicazione di Gesù.
VI. Le Parabole di Gesù.
VII. I principali insegnamenti di Gesù.
Vili. Gli “ agrapha ” o le parole di Gesù non registrate.
IX. I miracoli di Gesù.
X. Le riforme operate da Gesù.
XI. L’ultima settimana della vita di Gesù.
XII. Oltre la tomba.
11 voi. di oltre 500 pagine si vende al prezzo di L. 4.
Rivolgersi alla Libreria Ed. Bilychnis, Via Crescenzio, 2 - ROMA.
3
BIIYO1NI5
1
RJVI51À DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMAs
■ Anno settimo - Fascio. V
Maggio 1918 (Vol. XI. 5)
SOMMARIO:
Giovanni Pioli: Morale e Religione nelle opere di Shakespeare. . Pag. 250
Illustrazioni : Vecchia ceramica rappresentante la figura di Shakespeare ci rcondata dai suoi ricordi in Stratford-on-Avon —' Tomba di Shakespearé nella chiesa parrocchiale di Stratford-on-Avon. (Due tàvole tra le pagine 256 e 257).
Lucy Re-Bartlett: Il Cristianesimo e le chiese ....... » 263
Giovanni e Ada Meille: Gianavello. Scene Valdesi (III e IV atto) » 272
Illustrazioni: Veduta di Piamprà (p. 271) - Il Col Cassuler (p. 281) - La casa dove nacque Gianavello a Bobbio Pellice (p. 290) - (Disegni di Paolo A. Paschetto).
Masumi Hino: L’evoluzione del pensiero giapponese...... » 291
TRA LIBRI E RIVISTE:
Mario Puglisi: Storia e psicologia religiosa (I) : Due centenari - Mazzini e Rousseau - La polemica religiosa nel secolo xi - Chiesa e Stato nella mente di Gregorio VII - La fase attuale degli studi religiosi . . » 297
Raffaele Corso: Etnografia religiosa (VI): I germani. Storia d’una idea e d’una «razza» - Il blasone popolare................ » 303
Varia: Corpus scriptorum latinorum paravianum (G. Costa) - Il «sessantasei » di P. Silva (Ag. L). - Un libro sulla psicologia dei combattenti di P. Agostino Gemelli (Ag. L.) - Moi !... moi !... di A. Spire (D. Lattes) -« Ubi christianus? » di L. Trafelli .......................... 305
LA GUERRA (Notizie, voci, documenti):
G. Adami: La Boemia protestante saluta l’alba d* un’era nuova...... » 311
4
MORALE E RELIGIONE NELLE OPERE DI SHAKESPEARE (Continuazione e fino. Vedi BUycJmis di novembre-dicembre 19x7, pag. 271 e ss.).
il volgeremo allora alla morale « vissuta », per chiedere ad una concezione etica della vita di illuminare la tragedia Shakespe-riana, e direi quali valori festino messi in evidenza e proclamati attraverso tante svalutazioni e tanti elementi areligiosi e agnostici? Se la teologia e la filosofia son mute dinanzi alle critiche della vita, sarà la vita, coi suoi stessi valori attuali, sufficiente a giustificare sè per se stessa, senza rinviarci ad altri piani di valutazione? Certo, sorgono attraverso il dramma e la tragedia
Shakespeariana, qua e là, lampi di bellezza morale, che gettano sulla scena una luce fulgida che sopravvive pur in mezzo alle tenebre più fìtte; L'addio del cardinale Wolsey alla gloria, alla corte e alla vita, nell’« Enrico Vili » è, per es., uno di questi (Atto IH, Se. 2a):
« Io ti scongiuro, o Cromwell, lungi da te l’ambizione
Sia il tuo amor proprio l’ultima cosa: dolcemente tratta i cuori che ti odiano.
I trionfi della corruzione non sono maggior di quelli dell’onestà.
Nella tua mano ognora reca l’amabile pace.
Per ridurre al silenzio lingue invidiose, sii giusto e non temere:
Fa che tutte le tue mire siano rivolte alla tua patria,
Al tuo Dio e alla verità; e se, dopo ciò, perirai, o Cromwell, Tu cadrai come nn martire beato ».
5
MORALE E RELIGIONE NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
251
A questo che è stato chiamato: « Il ritratto del dovere », seguono i famosi versi, il cui valore estetico però non nasconde la povertà morale e religiosa d.ell'an-titesi fra morale e religione, e dell’utilitarismo nell'una e nell'altra:
«O Cromwell, Cromwell!
Se io avessi soltanto servito il mio Dio con la metà dello zelo
Con cui servii il mio re, egli non mi avrebbe alla mia età Abbandonato nudo nelle mani dei miei nemici ».
Così, nell'avviso paterno di Polonio al suo figlio Laerte (Hamlet, I, 3) splendono di luce morale la più pura ed illuminano il sentiero della vita individuale, anche se le stelle del cielo tacciano e tutta la filosofia sia muta, le parole che formano degnamente il motto e il programma della «Società etica» di South Place, in Londra:
«Questo sopratutto: Al tuo proprio io sii fedele;
Dovrà seguirne, come a notte il giorno Che con ni un altro potrai esser falso ».
Ancora, Shakespeare non fa un secreto della sua irriducibile avversione pei caratteri vili e menzogneri, pure sì umano e indulgente quale egli è.
Ma invano cercheremmo nei suoi drammi tipi di condotta che incarnino in tutta la loro vita un alto ideale morale. Il Prospero stesso della «Tempesta», il personaggio da alcuni additatoci come il migliore rappresentante della « perfezione divina », quando ha constatato che, con tutta la sua magia, egli è impotente ad umanizzare il brutale Caliban, che anzi complotta, con altri, contro di lui, dispera di « vincere il male col bene », e più simile al Dio giudaico che a quello di Gesù, non sa proporre di meglio che « tormentarli tutti, fino a farli ruggire ». Più ancora, se , l’ideale morale è insufficiente a esaurire i singoli caratteri dei suoi personaggi, è, molto più, inetto a fornirci la chiave delle « sentenze » pronunziate da lui con giudizi inappellabili, su quelle complesse situazioni umane — altrettanti quadri quasi completi della scena universale — che si chiamano i suoi drammi, e più le sue tragedie. Se la nota morale, non manca nel testo della sentenza, e se spunti di motivi religiosi s’intravedono nello sfondo, essi sono sopraffatti con l’impeto della tempesta, dalle forze che si scatenano indomabili e irrazionali da abissi più profondi del cuore dell’uòmo, da forze e da pressioni elementari, da tenebrose caverne dolorose, da vulcani che irrompono attraverso la crosta della civiltà irridendo alle dighe e alle mura della mano umana, e scagliano contro il Cielo una face sanguigna di fumo e di luce. Che illumina il disastro senza spiegarlo.
Shakespeare ha scrutato le profondità dove i Ciclopi foggiano le loro armi e martellano per Giove le saette: e senza narrarci di proposito come Dante, in una « Divina Commedia », le sue esperienze, ha creato degli individui a cui ha affidato la incarnazione di esse e la rivelazione del dramma mondiale. Egli sa quanto precario sia il dominio della volontà umana sulla crosta appena solidificata che maschera un mare di fuoco divampante e quanto siano ingannevoli i sottili schermi di costumi ordinati e le prosaiche parole oneste: egli sa che ad ogni istante questa
6
252
BILYCHNIS
crosta sottile può essere spezzata dalle forze profónde liberate dal caso o dal fato, ed il mondo può essere restituito alle forze che già si cimentarono nel regno del caos. Sarà uno studio sommario delle grandi tragedie, non più nei singoli caratteri, ma nel significato loro generale e nella concezione della vita a cui esse .spontaneamente recano il contributo, che ci. aiuterà ad approssimarci alla visione di quello stato d'animo e di quella concezione della vita in cui la grande opera Shakespeariana fu sentita e scritta.
♦ • ♦
È stato detto che, qualunque possa essere la ricostruzione che i diversi lettori delle tragedie di Shakespeare danno della « mens » dell’Autore, ciò che è certo si è che nessuno ha mai chiuso la loro lettura con l’impressione che l’uomo sia una miserabile creatura. Esso può essere malvagio e orribile, ma non meschino. La sua sorte può essere misteriosa e tale da spezzare il cuore, ma.egli non è spregevole. Il più indurito nel cinismo, cessa di esser tale quando egli legge questi drammi.
Ma d’altra parte, un’altra sensazione dolorosa s’impadronisce dell’animo: un’impressione di spreco e di sperpero. « Quale capolavoro è l’uomo » — siamo anche noi costretti ad esclamare con Amleto. — « Quanto nobile la sua ragione! Quanto immenso nelle sue facoltà!... Come simile ad un angelo nell'attività e ad un Dio nella sua cómprensione. Esso è la bellezza dell'universo e il più nobile degli animali...! ». Eppure, perchè dovrebbe esso essere così bello e grande, se questa bellezza e grandezza non serve che alla propria tortura e dissipazione? Potere, intelligenza, gloria che ci producono stupore e gettano nella venerazione; tutto vediamo perire, e divorarsi a vicenda e distruggersi, spesso con dolori atroci, come se tutto non esistesse per altro scopo. E la forma tipica di questo mistero è la tragedia.
Così entriamo nell’antro della terribile sfinge, da cui sì pochi spiriti dell'età moderna uscirono calmi, possenti, operosi — tre soli, dice il Nencioni: cioè Shakespeare, Goethe e Browning —: osserviamo da presso l’arcano dell'universo e le tenebre del cuore umano, che abbatterono e paralizzarono gli spiriti più vigorosi, la cui parola divenne un gemito, un fremito, un sogghigno o una maledizione con Byron, Leopardi, Shelley, Heine, Musset: e vediamo come, mentre altri trovarono pace nella rassegnazione e nella contemplazione religiosa — es. Manzoni e Words-worth, — ed altri passarono alternativamente dai grandi abbattimenti agli ardenti e sconfinati entusiasmi — come Schiller, Victor Hugo, Giorgio Sand — Shakespeare potè col suo sguardo limpido e profondo e con il dono di una sconfinata simpatia mantenere la serenità di fronte al presente e la fede nella vita e nei suoi destini, per quanto, e nei limiti in cui la tragedia lo comporta.
Mentre la poesia elegiaca infatti non ha, di fronte al cadere dei petali del fiore della vita, allo sfrondarsi delle illusioni, al tramontare dei sogni, all'insoddisfazione dei fervori di gioventù, che uno sguardo melanconico, e un atteggiamento romantico, e sua epigrafe eterna è il « vanitas vanitatum et omnia vanitas » — « tutto è vanità » — di Salomone, la tragedia si erige in un , atteggiamento di protesta contro lo spreco e lo sperpero, non di ciò che è « vano », ma di ciò che ha, invece, un valore formidabile, assoluto, irriducibile.
7
MORALE E RELIGIONE NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
253
È importante notare, che due elementi costituiscono essenzialmente il fatto tragico, senza che sia possibile obliterare l’uno 0 l’altro. Anzitutto, esso resta essenzialmente qualcosa di intensamente pietoso, di pauroso, di misterioso, che c’impedisce di sentire e di ammettere quale legge e potere supremo e dominante una legge e una forza morale di ordine, sperimentata o creduta quale giusta, benevola, simpatetica agli uomini. Se così fosse, i fattori del fatto tragico, specie il senso di vana sofferenza e di spreco, troverebbero riposo e riconciliazione in un pelago di giustizia e di bontà, e il nostro animo, anziché indugiarsi nello sbigottimento pauroso, nella compassione senza conforto, nel mistero desolante, si drizzerebbe forte e protenderebbe fiducioso, appuntando lo sguardo verso la soluzione che, pur se invisibile, è sentita presente e operosa nello sfondo eterno.
D’altra parte, la potenza che si agita nel fatto tragico non è sentita come un fato crudele e maligno, o cieco e indifferente alla bontà e felicità umana: se così fosse, lo spettacolo susciterebbe la nostra indignazione o ci getterebbe nella disperazione^
Approfondiamo alquanto sulla guida di Bradley, (« Shakespearean Tragedy » London 1905), questi due fattori essenziali nella tragedia di Shakespeare, e vediamo fino a qual limite possano essi coesistere, o almeno non escluderla, con una concezione morale e religiosa.
Il protagonista e i personaggi principali dell’intreccio tragico Shakespeariano ci appaiono bene spesso come degli esseri devoti al loro destino, lottanti disperata-mente, eppure sospinti da una corrente irresistibile in cui sono immersi fino alla gola, verso le cataraffe e l’abisso. Colpevoli e responsabili per quanto siano, la loro colpa è ben lungi dallo spiegare adeguatamente tutte le loro sofferenze. Essi si lanciano, o sono lanciati, nel gorgo, perseguendo i loro ideali, e quello che essi raggiungono è terribilmente diverso da quello che cercano: il potere che in essi e per essi agisce, li fa strumenti di un disegno che non è il loro, e a cui pur essi si immolano, mostrando di nulla comprendere di quel mondo in cui operano. E la loro intenzione, buona o cattiva, non altera punto la sostanza del fatto tragico.
Bruto può ben ricevere dal. suo più fiero nemico l’elogio funebre:
« FU questo il più nobile dei Romani...
La sua vita fu gentile e gli elementi
Così si armonizzarono in lui, che la Natura potrebbe drizzarsi E proclamare a tutto il mondo: «Egli era un uomo!»
Pure, la grande impresa a cui si è consacrato fallisce miseramente sotto la guida di questo .filosofo idealista, e trascina nella sua rovina il protagonista e tutti i suoi cooperatori. Amleto, un altro idealista avvelenato dall’esperienza della dissonanza fra la realtà che è, e l’ideale che vorrebbe essere, dalla visione’fosca del male che striscia e che è fecondo di male, paralizzato nelle sue facoltà attive e rifuggendo dal dovere della vendetta sanguinosa, è sospinto tuttavia a coinvolgere nella sua rovina, prima ancora che il suo ferro giunga al cuore del re omicida e incestuoso, tutto ciò che più ama e stima.
8
254
BILYCHNIS
Jago non sfugge alla rete preparata per altri, e Otello, pur volendo eseguire giustizia solenne, immola l'innocenza e strangola l’amore stesso. Coriolano non conosce il suo cuore, fino al momento in. cui si scioglie come neve al fuoco dinnanzi alle lacrime d’una madre, che salva Roma sol perdendo il figlio.
Lady Macbeth scambia per forza di carattere e di volontà quello che è solo un esaltamento nervoso: essa, che credeva di poter sagrifìcare alla sua ambizione tutto, anche il cervello del suo pargolo, vien meno nel momento decisivo trattenuta persino dalla rassomiglianza di Duncan dormiente con suo padre, ed è incapace a cancellare dalle sue inani la macchia del sangue di un estraneo, che la perseguita ed incalza a morte. Il suo consorte, che per una corona è disposto a giocarsi tutta la vita avvenire, trova tutti gli orrori dell'inferno in questa stessa corona. Falstaff s’immagina di poter evaporizzare col riso le due realtà della vita: ma egli muore col cuore infranto. Dappertutto troviamo che l’esecuzione di un'idea e di un piano di azione riesce, in bene o in male, all’opposto di ciò a cui essa tendeva. « I nostri pensieri sono nostri, ma il loro risultato non è punto nostro ».
Eppure questa incorrispondenza, questa cecità e impotenza dell'uomo non ci suggerisce l’idea del falò greco, di un decreto indeprecabile che ha prestabilito le azioni e i dolori dei protagonisti, inesorabilmente e violando i loro sentimenti, idee e propositi, o di una gelosa avversione morale del potere supremo contro un individuo o una famiglia.
Fatale sembra, invero, l’intero sistema, di cui gl’individui, coi loro caratteri» formano una parte debole e trascurabile; e sì vasto e complesso, che essi quasi non riescono a concepirlo e a controllarlo, e che sembra influire, assai più che il loro volere, sulle loro disposizioni naturali e quindi sulle loro azioni. Ma quest’ordine non ci apparisce come fatale necessità, cieca a ogni interesse umano e ignara di ogni differenza fra bene e male, giusto e ingiusto: anzi, esso ci mostra caratteristiche tali, che ci inclinerebbero piuttosto a descriverlo come un ordine morale e una necessità morale: l’uomo ci appare fino a un certo punto quale causa responsabile della sua propria rovina.
È Vero che l'irrazionale, l’imprevedibile, l’accidentale, sono sempre in agguato per compiere la loro azione malefica. Giulietta si sveglia dalla sua catalessi appena un minuto troppo tardi: un sol minuto decide della unione dei due amanti nella vita o nella morte: un innocente minuto, benché Fra Lorenzo faccia ricorso all’ipotesi di « un Potere troppo grande per la nostra opposizione, che ha frustrato i nostri disegni »; Desdemona perde il suo fazzoletto nel solo momento in cui lo smarrimento poteva avere sì gravi conseguenze; un altro insignificante momento decide della vita di Cordelia e spezza il cuore al Re Lear : ma, quale che sia là responsabilità immediata del caso e delle vicende indipendenti da ogni volontà umana, resta sempre che il fatto centrale della tragedia, su cui gravita la responsabilità ultima e principale della catastrofe, è una azione umana, del protagonista o di altri. La catastrofe è, in un certo senso, il riflusso dell’azione dell’agente sul suo capo: e questa sorte di determinismo morale, mentre salva la legge di causalità, dà anche una tal quale impressione che si tratti di un atto, per quanto rigoroso e terribile, della giustizia delle cose. Non la giustizia, certo, delle « Sunday Schools »
9
MORALE E RELIGIONE NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
255
o della Provvidenza pseudo-cristiana, contro cui Mark Twain appuntò la sua ironia: quella giustizia che vigila e scruta le intenzioni, i sentimenti e le azioni per distribuire prosperità o avversità, in proporzione al merito dell'agente e in contradizione con la realtà della vita. No: niente poesia nella giustizia distributiva di Shakespeare; il quale sa bensì che ognuno deve sopportare le conseguenze delle sue azioni e anche che il malvagio non resta mai, in ultimo, il vincitore trionfante, ma non si cura affatto di stabilire egli una proporzione fra grado di malizia o di virtù e di castigo o di premio che esiste, sì, nei racconti o drammi « edificanti », ma non nel gran dramma della vita e della storia: niente giustizia poetica nel fato di Desde-mona e Cordelia, Riccardo III e Bruto, Otello e Jago.
Più ancora, è inesatto lo stesso parlare di giustizia e di merito o demerito, dinanzi al fato di Otello e di Bruto, ed assurdo dinanzi a quello di Cordelia ed Ofelia, di Giulietta e Romeo: senza dire, che davanti allo spettacolo tragico i sentimenti che noi proviamo sono sibbene di compassione o di aborrimento, di terrore, di attrattiva, di odio forse, per i diversi personaggi, ma non ci sentiamo punto invitati a esprimere un giudizio sulla loro responsabilità. Tutto ciò che si può dire quindi àaWordine morale che presiede alla tragedia e che ne forma il sottinteso essenziale, è che esso non si mostra indifferente al bene e al male, o egualmente amico 0 nemico, dell’uno o dell'altro, ma che la sua Nemesi inesorabile, immanente, tende a ristabilire attraverso il fatto tragico, l’equilibrio e il rispetto alle sue grandi leggi.
Infatti — e questo è il punto centrale per la valutazione morale delle tragedie, — la principale causa della convulsione e del conflitto tragico è in ultima analisi, un elemento o un presupposto moralmente « cattivo », che prima di riassorbirsi e neutralizzarsi insozza della sua bava pestifera esseri innocenti è puri, o involge nella vendetta del bene spodestato, egualmente chi errò e chi peccò: Go-nerild e Re Lear, Jago e Otello. Perchè Cordelia deve morire ? Forse perchè l’Uni-verso è amorale o immorale? No: perché la solidarietà umana vuole che quando un gran colpo le è inflitto, gli esseri buoni ed amabili restino anch’essi offesi. Il serpente, pur ferito a morte, ha facoltà di mordere, col suo dente velenoso, esseri nobili e puri. Sono le ambizioni di Regan, Gonerild ed Edmund gli elementi primi della tragedia del Re Lear, quella appunto in cui Edgardo proclama che « gli dei sono giusti, e dei nostri vizi prediletti si servono come di strumenti per torturarci »; l’assassinio e l’adulterio riempiono la tragedia di Amleto, e un’ambizione sfrenata quella di Macbeth; e se è l’amore che conduce Romeo e Giulietta ad una morte, l’odio delle loro famiglie ne è il carnefice.
Ora, se il fatto tragico è conseguenza della violazione dell’ordine morale, quest’ordine non può essere indifferente al « bene » o al « male »: e quindi quell’ultimo potere che reagisce al disordine e al male, deve essere di natura contraria ad esso, e inesorabilmente contraria.
Si aggiunga la riflessione, che il « male » appare sempre incapace e infecondo nella costruzione, benché fecondo di distruzione, e della distruzione degli stessi suoi scopi: sterile, esauriente, dissolvente, causa di morte di tutto ciò che è leggiadro puro, nobile, bello.
10
256 BILYCHNIS
Più ancora, ciò che c’impedisce, generalmente, di essere ingiusti verso i responsabili morali del fatto tragico e di ricusare ad essi una scintilla di compassione e una parziale ammirazione, — ed è Shakespeare stesso che ha cura di porre in rilievo ogni titolo che possano avere' a tali sentimenti — è appunto ciò che di bene resta in essi. È questo che ci spiega le loro doti e il loro stesso successo nel male; ed è solo la finale prevalenza di questo sul bene che è in essi, che preduce la catastrofe per essi e per gli altri. Se possiamo convenire con Coleridge che « Shakespeare non .conosce adulteri interessanti, incesti innocenti e vizi virtuosi », è anche vero che non vi è quasi personaggio, per quanto posseduto dal genio del male, la cui tetraggine non sia interrotta da qualche guizzo di luce, e la cui deformità non sia parzialmente' redenta da qualche aspetto di bene.
Là tragedia sarebbe quindi null’altro che lo spettacolo detta reazione convulsa dell’anima profonda dell’ordine morale, cioè del bene; la visione dell’aspetto dinamico e ristoratore, di quello Stesso principio che ammiriamo e amiamo nelle vittime nobili e pure della sua medesima reazione. E la coscienza o il sottinteso che la collisione è prodotta non da un potere cieco, inumano, ma da un potere morale, spiega appunto il fatto che le sue devastazioni producono in noi non sensi di ribellione disperata, ma di terrore, raccapriccio, pietà immensa per le sofferenze vane, le lotte atroci, lo spreco di tante belle energie e di sì adorabili e sante vite: spiega il perchè, dopo tutto, noi preferiremmo di morire con Desdemona che sopravvivere con Jago. Se sulle nostre labbra corre la parola « fato » e. « destino », in realtà non è al fato cieco o capriccioso che noi pensiamo, ma al determinismo interno e alle leggi non meno spietate che quelle del fato, che eseguiscono la vendetta dell’ordine morale.
Potrebbe, naturalmente, osservarsi, che quest'Wwe morale che apparirebbe così come la sintesi dei due elementi che abbiamo additati dal principio di questa analisi come essenziali al fatto tragico, in realtà non è un fatto oggettivo, ma una interpretazione soggettiva che ricostruisce ed anima elementi oggettivi, e che un uditorio composto di Jaghi, di Generiteli e di Calibani proverebbe simpatie e antipatie ben diverse dalle nostre: e si potrebbe spingere la critica soggettivistica' fino ad insinuare la ipotesi, che gli spettatori e i lettori delle tragedie siano essi migliori dei personaggi Shakespeariani, a introdurre nel dramma di vita l’interpretazione della simpatia dell’ordine dell’universo e del potere ad esso sottostante, vèrso quella che abbiamo chiamato « legge morale ».
Senza addentrarci qui nella questione, se la convergenza delle preferenze morali soggettive verso una certa uniformità di principi e criteri morali — per quanto relativa a tempi, luoghi e civiltà — autorizzi il filosofo a parlare di legge e di ordine morale oggettivo e assoluto, notiamo che nel campo positivo storico esiste in un dato momento una concezione media sociale della legge e dell’ordine morale, e che essa è identificata con l’ordine morale assoluto, espressione delle finalità essenziali della natura umana. Ora, quale fosse questa concezione media della morale nell’Inghilterra di Shakespeare ci è abbastanza noto, per poterne dedurre che l'ordine morale che noi indoviniamo amico ai « buoni » e ostile ai « cattivi » nelle sue tragedie potesse essere tale nella concezione e nelle intenzioni, anche se non esplicitamente volute, di lui.
11
Vecchia ceramica rappresentante la figura di Shakespeare circondala dai suoi ricordi in Stralford-on-Avon
• -- --- - -
13
Tomba di Shakespeare nella Chiesa Parrocchiale di Stratford-on-Avon
15
MORALE E RELIGIONE NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
257
Ma l’avere indovinato nello sfondo della tragedia Shakespeariana un potere morale amico al bene ed ostile al male, non risolve l’enimma: poiché a questo potere incombe pur sempre l’onere di spiegarci il « male » che forma parte integrante di esso non meno che il « bene »; Jago non meno che Desdemona. « L'ordine morale », — dice il Bradley sopra citato, — « non è avvelenato, ma avvelena se stesso: noi non pensiamo ad Amleto come a un personaggio che non soddisfa le esigenze dell’ordine morale, e a Macbeth come a chi le viola direttamente, bensì sentiamo che ambedue sono suoi aspetti, espressioni, prodotti, e che nei loro difetti o colpe esso è infedele a se stesso, alla sua anima buona, ed entra in conflitto é collisione con se stesso: che nel farli soffrire e sperperarsi, esso stesso soffre e sperpera il proprio essere, e che, quando per salvare la propria vita e riconquistare la pace dalle sue lotte intestine esso li espelle da se stesso, viene a perdere una parte della propria sostanza, ed una parte, se più pericolosa e turbolenta di quella che resta, anche assai più preziosa e più vicina al suo cuore... La tragedia non è nell'espulsione del male, ma nello spreco di bene che essa involge... ». L’ordine morale sembra così animato da una sete di perfezione che non può èssere soddisfatta che con la produzione della propria negazione e con l’espulsione di esso. In questo dilaceramento intestino, in questa auto-mutilazione (si ricordi il Vangelico: « se il tuo occhio, se la tua mano ti sono cagione di scandalo, cavàtelo, tagliatela e gettali via da te: meglio per te la vita eterna con un solo occhio ed una sola mano», ecc.) e nell'agonia che ne consegue è riposta la tragedia della vita e la vita della tragedia: sopprimerlo, sarebbe non risolvere il problema della vita e della tragedia, ma sopprimere anzi rendere impossibile l’esistenza, dell’una e dell’altra.
Ma non possiamo davvero domandare alla tragedia di Shakespeare la soluzione di questo che è il problema fondamentale dell’« essere o non essere», il problema fondamentale di tutta la filosofia nonché della morale, il problema che solo l’intuizione religiosa può superare senza risolverlo: non possiamo molto meno domandarlo alla tragedia, che, come abbiam detto, implica la coesistenza dei due elementi ambedue essenziali e ambedue irriconciliati, ed è appunto la rappresentazione artistica del cozzo eterno tra Ahura Mazda e Ahriman, dell’agonia del Geth-semani, della crocifissione eterna dell’ideale trionfante.
Shakespeare non si è proposto di giustificare le vie di Dio verso l’uomo o di presentarci l’Universo sul piano di una Divina Commedia: e la tragedia, a condizione di essere, deve restare un penoso mistero e una misteriosa pena.
È vero che — a parte le allusioni alla « divinità che foggia i nostri destini », e ad influenze e spiegazioni trascendentali che, come abbiam visto, sono formali anziché vitali, e marginali anziché consustanziali alla tragedia — sembrano brillare qui e là allusioni ad un mondo di valori di cui noi non vediamo che il rovescio, ad una bellezza nell’eroismo e nell’amore nella quale l’agonia che ne è l’aspetto tragico rimane come assorbita e soppressa: è vero che talora ci vien fatto di esclamare che per questi spiriti, celesti o demoniaci, ma sempre grandi, la breve vita terrena sarebbe un orizzonte troppo limitato, e che se essi svaniscono non è il nulla ma la libertà che li accoglie: e ci ossessiona il presentimento, anche se non riesca a prendere consistenza razionale, che tutta la furia della battaglia a cui assistiamo con
16
9 " ' ' ■ ’ 11 —V--258 . BILYCHNIS
tutti i suoi dolori e la sua perdita di energia, non ci rappresentano che una frazione minima della realtà; e che se « noi siamo quella stoffa di cui sono formati i nostri sogni, e la nostra piccola vita è circondata da un sonno », i nostri sogni sono visioni, e il sonno in cui è immersa la nostra piccola vita è il « sonno della pace ». Ma questi pallidi e scarsi indizi di vita immortale delle tragedie, questi presentimenti che il mondo tragico non sia che un frammento di un tutto che sorpassa il nostro campo visivo, e non esaurisca tutta la realtà, non risolvono e non interpretano il mistero. Gli atroci dolori, le dilaniazioni di coscienze, gli sprechi e sperperi di belle vite, sono fatti e dati che nessuna vicenda successiva può cancellare è nessuna eternità può obliterare. Il dato misterioso di un mondo agitato da una legge interna di perfezione, che attraverso ai dolori del parto dà alla luce, insieme a tesori di bellezza e di bontà, mostri di deformità e malvagità, e che solo attraverso torture e dissanguamenti propri riesce a superare le successive interminabili crisi, è un fallo dementare, irriducibile, che sussiste attraverso ogni interpretazione, come nozione essenziale della vita e del progresso: ed è questo dato irriducibile, misterioso, nè « morale » nè « religioso » perchè trascendente tutte le categorie che pretendono d'interpretarlo o superarlo, ma neppure « immorale » o « irreligioso » perchè è esso stesso il punto di partenza della « morale * e della religione », che, nella sua espressione artistica si chiama tragedia (i).
(1) Chi desiderasse di trovare a qualunque costo in Shakespeare il rappresentante e il portavoce di una religiosità più precisa e più tradizionale, non avrebbe molto da cercare per esser soddisfatto. Potrebbe ad esempio far sua la finale del Von Rietmann («Ueber Shakespeare's religiose und ethische Bédentung •) che, come finale, non manca di pregi letterari: «Shakespeare è il rappresentante della coscienza religiosa moderna...: egli ha deposto nei sui drammi il contenuto etico e religioso della Riforma, ed ha in essi operato la unione tra Dio e il Mondo che nel Cattolicismo eran divenuti estranei l’un l’altro.
« Shakespeare è quell’uomo a’ piedi dell’Horeb — il roveto ardente dinanzi a lui e l’ariete del sacerdote presso di lui — che vide lo spirito di Dio sulla Terra quale fuoco che dà luce e fiamma e non si consuma, e udì la voce: “Togliti i tuoi calzari, poiché il luogo su cui tu stai è terra santa! ”. E fu allora che egli ricevette la grande missione. "Tu trarrai il mio popolo dalla schiavitù delle tribolazioni terrene, ed io sarò con te, io che fui e che sarò". E questa missione egli ha compiuto e compie fino al dì d’oggi. Ecco ehi è Shakespeare ».
A questo giudizio ravviciniamo, per ragione di antitesi, quello del Robertson («The Religion of Shakespeare»): «I drammi di Shakespeare sono di un fascino perenne appunto perchè essi non ripetono le solite formolo rese a noi sì famigliati dal Cristianesimo convenzionale, ma invece ci presentano il risultato dello sguardo penetrante gettato sulla vita umana da una grande intelligenza comprensiva e simpatica. Egli è 1! nostro grande maestro appunto perchè mai professa di esserlo, è la mente più universale appunto perchè non si è fatto eco di cose ripetute dalla maggioranza. Egli rappresenta la serenità e la vittoria sulla vita, perchè la pace che scese sui suoi ultimi anni fu conquistata da lui con una profonda esperienza e con un'infinita riflessione: e la nota di riconciliazione dèi suoi ultimi drammi... è il frutto di ampiezza grande di giudizio e di un senso costante della relatività delle cose umane». A
17
MORALE E RELIGIONE NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
25$
* * *
All’indomani della tragica catastrofe di Messina, un connazionale di Shakespeare, anima di mistico e intelligenza di razionalista, provato e affinato da grandi dolori e tribolazioni, gettava il suo sguardo acuito dall’abitudine dello scandaglio e munito delle risorse dell’esperienza e della scienza, sul problema stesso che Shakespeare aveva sentilo e fatto vivere dai suoi personaggi. Ciò che egli scrisse in tale occasione nel linguaggio del pensatore e del filosofo presta una voce a quello che è lo sfondo, l'atmosfera, la voce inarticolata dei drammi e delle tragedie del poeta. A tre secoli di distanza, e in circostanze tanto diverse e con temperamenti e caratteri antitetici, pure le idee suggerite all’uno dalla grande catastrofe suonano come il miglior commento e forniscono l’accompagnamento e l'interpretazione più verosimile dello stato d'animo, della visione della vita che ispirò l’opera Shakespeariana. Forse non andiamo errati affermando, che se Shakespeare fosse stato un temperamento filosofico e un’anima, a suo modo, religiosa, si sarebbe posto i medesimi problemi che si propose — e si sarebbe arrestato dinanzi alle stesse conclusioni che trepidamente ammise — Giorgio Tyrrell, nei suoi timidi sollevamenti di velo dinnanzi al mistero dei « Destini umani » e della « Fecondità divina » (Faith and Itn-mortality, London, 1914).
Eccone alcuni brani, che, senza presentare alcun rapporto diretto col problema che ci ha occupato in questo lavoro, suggeriscono idee e atteggiamenti spirituali che, come alcuni motivi musicali i quali dispongono l’animo a sentimenti e a propositi definiti, o danno il suggello a emozioni insinuate altrimenti, potranno coronare il processo che più importa per la comprensione di uno scrittore, e al quale abbiamo finora specialmente mirato benché in maniera indiretta, cioè porci nel punto di vista e nello stato d’animo centrale di cui la sua opera fu l’espressione.
« È la Natura, è Dio, indifferente al bene dell’umanità? » ■ — si domanda G. Tyrrell nel suo « Divine fecundity ». — « Tanta e sì evidente è la sua cura, e tanta e sì evidente la sua noncuranza rispetto agli stessi interessi. La costruzione e la distruzione sono due fattori chiaramente dipendenti dal medesimo sistema: la Natura distrugge mentre crea, e crea mentre distrugge; e la morte non è che una funzione dell’economia della vita nelle sue forme superiori. La mosca ed il topo debbono perire, perchè il ragno ed il gatto possano vivere. Eppure la Natura si trova contemporaneamente da ambo i lati: col gatto che adunghia e col topo che fugge. Essa esulta col vincitore, lotta e si affligge col vinto. E non è lo stesso in tutto il mondo ? Dapertutto forze, tendenze, istinti di affermazione, preservazione ed espansione propria, e sembra che la Natura non si proponga meno il loro insuccesso che il lóro successo.
« E neppure possiamo dire che gli esseri inferiori siano vinti dai superiori: — l’uomo può ben esser vittima di un microbo; — nè che gli uni siano destinati all'uso degli altri, giacché non vi è alcun essere che si arrenda spontaneamente a Chi vuol divorarlo, e tutte le invenzioni della Natura tendono alla conquista o alla difesa. Il mondo è pieno di esseri che vogliono mangiare, ma non di cibo da
18
2Ó0
BILYCHNIS
esser mangiato. In ogni individuo esistente, sembra che la ■’Natura sia interamente dalla sua parte e contro tutto il resto, mentre nel tempo stesso la rivalità degli individui e delle specie fra loro è la condizione della loro esistenza ed evoluzione. L’uomo si è ingenuamente dato a credere, e si è fatto insegnare dalla religione che egli costituiva un’eccezione a questa legge di vita, e che la forza e la direzione dei suoi impulsi e delle sue aspirazioni naturali era una garanzia del loro finale adem pimento; che le piante esistessero per gli animali, e questi per il vantaggio degli uomini. Ma pure, non vi è alcuna garanzia che l'uomo, ubbidendo alla legge innata del suo essere, lottando in tutte le direzioni per elevarsi dalla brutalità allo stato selvaggio, da questo alla barbarie, e di qui, grado a grado verso forme superiori di civiltà, sia il beniamino della Natura e destinato alla prosperità... È quella combinazione di cura e d’incuria che costituisce lo sperpero e lo spreco della Natura... Essa sembra gioire nell’azione, senza curarsi dei risultati di essa: smisuratamente abile e smisuratamente insensibile.
«Ma allora, è forse l’Universo privo di scopi e di significati? Al contrario, esso è riboccante di scopi e di significati, benché non abbia un solo scopo ed un solo significato. Esso somiglia ad un grande albero che mette fuori i suoi rami comunque e dovunque può, sforzandosi per quanto è possibile, di realizzare in ognuno di essi la sua natura intiera, senza mirare ad alcuno scopo collettivo. È questo il suo gioco, la sua vita, il suo scopo, se volete... Sembra che il piano si fermi agli individui: che Dio nella natura pensi e provveda non alla specie ma alle singole vite. Il lavorare per lavorare, è difficilmente concepibile a noi che non ci lasciamo indurre al lavoro che per soddisfare ai nostri bisogni e a causa delle nostre limitazioni.
« Noi abbiamo costruito Dio non all’immagine dell’artista, ma a quella dell'artigiano o dell’uomo di affari, e ci domandiamo che cosa vorrà egli mai ritrarre dal suo lavoro. Può essere niente: può essere che l’Universo non sia che la sua eterna tastiera, la sua tela eterna: può essere che ogni melodia, ogni, pittura, abbia un valore per se stessa, e a parte da tutto il resto.
« Ad ogni microbo Dio intima: « Crescete, moltiplicatevi, riempite la terra e sottomettetevela »; ad ogni forza ed energia ripete: « Sii tu il reggitore dei tuoi fratelli »; ad ogni anima: « Tu sei il mio figlio: io ti ho oggi generato ». Come una foresta, il mondo cresce in tutti i sensi e in tutte le direzioni, ubbidendo alla sua spinta dal di dentro. Che i suoi rami si contorcano e soffochino e aduggino l’un l’altro: Egli non si cura di quale di esso abbia a prevalere...
«Così noi abbiamo una eterna lotta, senza principio, senza fine, tra l’essere e le inevitabili limitazioni dell’essere, tra una fecondità illimitata e i limiti che ne risultano. Noti vi è tregua nè riposo nell’oceano dell’essere. In milioni innumerevoli di nuove forme, il compito è ripetutamente e pazientemente ripreso e la soluzione dell’enimma ritentata. •
« In tutte le nostre lotte contro il male, in tutti i nostri sforzi per dare alla vita la massima pienezza, noi siamo con Lui, ed Egli è con noi. Giacché è Egli che ci ha gradatamente sollevato a simpatizzare con Lui stesso,.., e di certo. Egli stesso sopporta i nostri dolori e porta il fardello delle nostre miserie. Egli non è, quindi, indifferente ai nostri sogni o alle nostre battaglie per l'avvento di un Regno di Dio
19
MORALE E RELIGIONE NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
2ÓÌ
sulla terra, fino a che essi siano ispirati dal supremo amore: non quello di idee e di schemi, ma d’individui umani. Ma questa ispirazione non ci garantisce un finale, impossibile trionfo. Tutte le sue opere dovranno perire: dalla più piccala alla più grande. Egli solo rimane, ed opera eternamente... ».
« Noi sappiamo che la grande maggioranza dei « destini » umani è destinata a fallire... e che l’unico « destino » che è assoluto e infallibile è il bene del tutto — non già quello delle specie o degli individui in quanto tali, cioè distinti dal tutto. I flutti della Natura battono per secoli, invano, contro gli scogli della inerzia e della limitazione, prima che un’ultima ondata la vinca, ed effettui quello che era nell’« inten-tenzione » di ciascuna. Ci basti sapere che quandochessia e dovechessia, l’idea che opera nel nostro spirito riuscirà finalmente ad attuarsi; che anzi può di già essersi attuata milioni di volte, e che è il nostro stesso spirito è esso il solo soggetto di ogni esperienza; che, se sono Io che qui ed ora fallisco, sono ancora Io che riesco « lì e allora »; e che se io riesco lì, ciò è perchè ho lottato non solo lì, ma dovunque» per conseguire il successo. Ogni servigio reso alla causa della bontà, è una conquista eterna... L’Zo empirico di ogni istante è perduto o salvato per tutta l’eternità...
« Io mi domando ora se questa concezione non sia tale da arricchire la nostra religiosità di un elemento che riscontriamo nel paganesimo più raffinato, mentre esso è assente dall’ottimismo piuttosto crudo delle nostre tradizioni religiose: intendo dire, quel modo patetico di guardare da fanciullo sbalordito e impotente in mezzo alle strane e ignote cose che lo circondano; quella muta rassegnazione alla futilità delle più grandi speranze ed imprese umane; quel senso di cieca fatalità che non si cura dell’uomo più di quello che l’uomo si curi del mondo microscopico che egli distrugge ad ogni passo che fa. Non vi è in tutto ciò una buona parte di verità? E non è vero che noi troviamo un’eco di questo nei più grandi veggenti di tutti i tempii ».
Se noi mireremo negli occhi dei ritratti tramandatici del «gentile Shakespeare », vi sorprenderemo forse questo sguardo di grande bambino trasecolato, e negli accenti più tragici e più profondi di cui arricchì il tesoro dell’auto-rivelazione umana, leggeremo la « weltanschauung », la concezione della vita, accennata a rapidi tratti nelle pagine del Tyrrell: noi avremo forse allora penetrato un po’ addentro nella concezione morale e religiosa — anche se tale solo in senso generico anziché specifico — che si esprime nell’opera di Shakespeare.
«Nell’ampia magione divina ospite curioso.
Osservò come tutte le sue opere prendano il volo ».
Milano, x° maggio 1918.
Giovanni Pioli.
20
262
BILYCHNIS
BIBLIOGRAFIA.
A. C. Bradley, Shakespearian Tra-gedie. London, 1905.
George Brandes W. Shakespeare. London.
Rev. Stanislas Boswin S. J., The Religion of Shakespeare. London.
Rev. Seb. Bowden, The Religion of Shakespeare. I.ondon.
Mis Cowden Clarke, The complete concordance to Shakespeare. London. 18S6.
Huntly Carter, Shakespeare's Menage to-day. (The Herald of the Star). London, 1916.
S. Taylor Coleridge, Lecture on Shakespeare.
Ed. Dowden, The Mind Art of Shakespeare. London, 1877.
• Cha. Ellis, The Christ in Shakespeare.
London, 1902.
G. H. Gilmore, Shakespeare’s final, attitude toward life (The home circle). 1916.
C. H. Herford, Shakespeare. London.
W, Jaggard, Bibliography of Shakespeare. London, 1911.
Franz, Lutgenau, Shakespeare als Phi-losoph. Leipzig, 1909.
W. Libby, Shakespeare’s final Philosophy. London, 1914.
Margaret Lucy, Shakespeare and the supernatural. Strafford-on-Avon. 1911.
Sir Sidney Lee, The life of IF. Shakespeare. I.ondon, 1916.
' Rev. J. Fort Newton, The Religion of Shakespeare. I.ondon, 1916.
Rietmann, Ueber Shakespeare’s religiose und ethische Bedeutung. 1873.
J. N. Robertson, The Religion of Shakespeare. London, 1877.
A. J. Roffe, The real Religion of Shakespeare. London. 1872.
W. Raleigh, Shakespeare. London, 1907.
E. Russel, Essay on the Religion of Shakespeare.
George Tyrrell, Faith arid Immortality. London, 19x4.
Edwin P. Whipple, Literature of the age of Elizabeth. London.
iE. Williams, English history. London.
. G. Whittinghill, Shakespeare and his theology.
Queste le principali opere consul tate, oltre quelle di cui d fatta menzione nel corso del lavoro.
21
1 LUOGHI DI GIANA VELLO. PIAMPRÀ. (Disegno di Paolo A. Paschelto)
22
GIANAVELLO
SCENE VALDESI IN QUATTRO ATTI«*»
ATTO TERZO
LO SPIRITO DI GIANAVELLO
22 marzo 1686: nella Parrocchia di S. GiovanniAttraversa la scena lo « Chemin des Rossignols » Nel fondo, a sinistra un gruppo di alberi; verso destra, il fondo della valle nebbiosa e le Alpi biancheggianti. A destra la facciata della casa dove abitano i due cognati Giovanni Muston e Stefano Bonnet: una casa di contadini, col solito balcone e la scala esterna. Breve prato dinanzi alla casa. È una bella mattina.
PERSONAGGI.
Maria, figlia di Giana vello.gmoglie di Stefano Bonnet
Jeanne altra figlia di Gianavello, moglie di
Giovanni Muston, dettò il Mancino
Enrico Arnaud, Pastore valdese
Gaspare ) . .. t . ... . , . , . .
_ > de Muralt, fratelli, Ambasciatori ginevrini
Bernard ) 0 z
Bartolomeo, servitore dei Signori de Muralt
¡Giacomo, fratello di Giosuè Gianavello Giuseppe Garnier Giuseppe Pelenc Paolo Vacherò
Ia DONNA VALDESE
2® » »
3a Uomini e donne valdesi.
(•) Per 1 due primi Atti vedi Bilychnis numero di marzo-aprile 1918. In detto numero avrebbe dovuto essere pubblicata la seguente Nota, che, per disguido, rimase fuori dall’impaginazione. Ne chiediamo venia agli Autori. (N. d. R.).
Non avendo noi inteso fare Opera rigidamente storica, abbiamo creduto superfluo di citare le fonti e tanto meno di redigere una Bibliografia del soggetto. Non possiamo però non ricordare.il lavoro più preciso e più completo che su Gianavello sia stato scritto, cioè la Monografia di Giovanni Jalla, professore nel Liceo di Torrepellice, pubblicata nel Bulletin N° 38 de la Société d'Histoire Vandoise del settembre 1917 (Torrepellice. Tipografia Alpina, L. 3).
All’ illustre storico, delle cui ricerche ci siamo largamente valsi e che volle favorirci preziosi consigli, vanno la nostra ammirazione e la nostra più viva gratitudine.
G. e A. M.
23
GIOSUÈ GIANAVELLO
273
SCENA I.
Jeanne E Maria, poi Bartolomeo.
Maria è seduta sulla scala esterna, con la testa fra le mani. Dal primo atto son passati 30 anni; ella è sempre robusta e bella, ma nei suoi capelli sono molti fili d'argento.
Jeanne, con un fascio d’erba sotto il braccio e un falcetto nella mano destra, viene da sinistra, attraversa la scena e si ferma guardando Maria.
Jeanne. Maria!
Maria. Ah sei qui Jeanne! Stefano e’tuo marito si sono già avviati al Ciabàs. Jeanne. È cominciato il culto?
Maria. Sì, ma farai a tempo per la discussione.
Jeanne. È passata molta gente verso la Chiesa? (butta presso la casa il fascio d’erba}. . Marta, (alzandosi) Oh! tutto il paese! Già di buon ora. Tutti sono impazienti.
Jeanne, (va verso il fondo e guarda a sinistra, facendo solecchio colla mano) Ce n’è fin fuori della porta! (tornando, a Maria ch’è rimasta in piedi immobile, conte assorta) Allora io mi metto lo scialle e vado, vero Maria?
Maria. Sì, Jeanne, vai, Vai pure, resto io. Farò tutto io stamane. Sta tranquilla. Jeanne. Ma che hai. Maria? Tu sempre così allegra, così attiva, cos’hai oggi? Maria. Oh Jeanne non so. (scuotendosi) Ho come dei presentimenti.
Jeanne. Presentimenti? Ah non sei piò la brava sorella d’una volta. Sei diventata superstiziosa? Diventi come Margherita?
Maria. Ah Jeanne! Sì, i presentimenti possono essere superstizioni e in casa no stia si è sempre riso delle superstizioni, ma qualche volta si ha un bell’essere forti, si sente attorno a noi un freddo, un soffio, un respiro gelato che vi fa rabbrividire, come se la Disgrazia o la Morte vi stessero accanto invisibili. Vi sono, fra la terra e il cielo, molte cose che noi non sappiamo. Margherita aveva di questi giusti preavvisi talvolta! Ha avuto spesso ragione! Non burlarti di lei.
Jeanne' (affettuosamente). Maria, come puoi credere ch’io voglia rider di Margherita, della sorella nostra che ci manca tanto, che vorrei tanto rivedere. Ma desideravo farti sorridere, scuoterti! (seriamente) Maria! Vi è una grande cosa di cui siamo certi: Dio ci ama! (suonano le dieci). Già le dieci. Vuoi che resti con te, Maria?
Maria. No, no, Jeanne; vai anzi, ti prego, così mi racconterai tutto.
Jeanne, (sale la scala, entra in casa e Maria prende l’erba e la porla dietro la casa, dove si presume siavi la stalla. Torna subito e Jeanne scende la scala: ha la cujfietta valdese, uno scialle nero sulle spalle e sta legandosi alla vita un grem biute di seta turchina).
24
,..X-.VA^^v^x—. ,v . ‘x.-,t*>r-A^*‘- ' *— —' -»-«r^i—*
274 BILYCHNIS
Maria, (le va incontro) Dieci anni, Jeanne! Dieci anni soltanto!... Ah che Dio sia con voi! Che Dio benedica codesta riunione.
Jeanne. Che Iddio sia con tutti noi. Maria (esce).
Maria, (resta un po' immobile) Non ho la testa a far nulla stamane! (Prende un cesto di biancheria lavala e comincia a stenderla sui fili tesi presso la casa).
SCENA II.
Maria e Bartolomeo;
Bartolomeo, (a mezza voce) Giana vello?
Maria, (volgendosi di scatto) Eh? Che avete detto?
Bartolomeo. Gianavello!... Stanno qui i Gianavello?
Maria. Maria Gianavello sono io, ma piano.
Bartolomeo, (guardandosi attorno) Perchè?
Maria. Questo nome, sì, è bene il mio; ma è pericoloso a pronunciarsi alle Valli, ora. Bartolomeo. Ma perchè?
Maria. Non lo sapete? Io sono la figlia del difensore d’Israele, ma questo nome è quello d’un bandito, ora... (1) (piange).
Bartolomeo. Una lettera di lui.
Maria, (scattando) Di chi?! L’avete visto?
Bartolomeo. Sì, lo conosco, gli ho parlato, a Ginevra, poche settimane or sono. Maria. Ma chi siete?
Bartolomeo. Sono uno dei due servitori dei Signori de Murali, i deputati da Ginevra a parlare al Duca di Savoia per il bene di voi Valdesi; già lo sapete... quelli che oggi parlano al Tempio del Ciabàs dopo aver parlato l’altro giorno a Torino col Duca per mettervi d'accordo (2).
Maria, (sorride ironicamente) Il Duca e noi! Se il Duca vi sentisse!
Bartolomeo. Gianavello venne a trovarmi a Ginevra appena si seppe che. gli ambasciatori mandati dalla Svizzera a Torino erano i miei padroni e m’incaricò di portarvi, se io fossi giunto alla Valli, questa lettera sua.
Maria, (la prende febbrilmente).
Bartolomeo. Non dite che ve l'ho portata io, non vorrei Che si sapesse.
Maria, (bacia la lettera, la ripone in seno, poi prende una mano a Bartolomeo con grande effusione, guardandolo) Voi avete veduto il mio babbo?
Bartolomeo. Un mese fa.
Maria. Come sta? Che vi disse, sapendo che venivate qui nel paese suo?
Bartolomeo. Sta bene: è forte ancora. Nella sua bottega di libraio va molta gente istruita ed egli, semplice e alla buona, pure parla ascoltato con reverenza anche da pezzi grossi: tutti l’amano a Ginevra.
Maria. Tutti?
Bartolomeo. Non tutti, certo, lo conoscono; ma molti! Vive da povero, ma onorato da poveri e da ricchi.
ì
25
Giosuè GIANAVELLO
275
Maria. Vi parlò delle Valli?
Bartolomeo. Sì, per ispiegarmi bene dove voi abitavate. Questa è dunque la sua casa?
Maria. Ah no; la nostra easa era alle Vigne di Luserna. Laggiù vedete, dall'altra parte della valle {accennando a destra) dietro quella bella collina verde; ma, per l’editto del febbraio 1670, noi Valdesi abbiamo dovuto, sloggiare di là e cedere quei luoghi ai cattolici. Noi ci siamo dovuti ritirare più su, verso la montagna. {Si sente giungere da lontano un canto religioso) Ecco, il culto è terminato; ora comincerà la discussione. Vi disse altro mio padre?
Bartolomeo. No, egli non paria molto.
Maria. Niente altro vi disse delle Valli? delle sue Valli che conosce palmo a palmo, che ha insanguinate del suo sangue, che ha tanto amate?
Bartolomeo. Niente. Mi guardò fisso fisso. Io gli domandai: solo portar questa lettera? Egli mi disse: È abbastanza! Poi stette un po' zitto, sorrise così come sorride lui , a mezzo. Disse ancora: Salutami il Frid... il Fridland... Dev’essere un monte (3).
Maria. Sì, il Friuland... Sorrideva?
Bartolomeo. Già sorrideva, così a mezzo; ma certo il petto gli s’alzava e gli ¿'abbassava ed io m’accorsi che aveva gli occhi più lucenti del solito!... E sapete come li ha lucenti!
Maria. Babbo mio! {piange).
Bartolomeo. Stupido, imbecille ch’io sono.
Maria, {alzando la testa) Chè? Perchè?
Bartolomeo. Imbecille; non vi volevo dire cose tristi ed ecco che vi ho fatta piangere.
Maria, {sorridendo un poco) Venite: un bicchier di vino vi consolerà. Bartolomeo. Ecco che sorridete come lui.
Maria. Ah come lo vedo il mio santo babbo! {Esce e torna con del vino e un bicchiere, lo lava con un po’ di vino che getta, ne mesce dell’altro, l’assaggia lei stessa, poi l’offre). Non siete voi che mi fate triste! Sono i tempi che sono tristi. Venti anni di dolori, di privazioni, di lotte d’ogni giorno, d’ogni ora; poi, come prezzo della nostra pace, l’esilio del babbo, del Léger, dei nostri difensori. E, con tanti sacrifici, eccoci di nuovo, dopo appena dieci anni di pace... ora che Si cominciava a respirare...
Bartolomeo. Non siete voi una delle tre figlie fatte prigioniere durante le Pasque Piemontesi e alla cui liberazione rinunciò Gianavello per mantener la sua fede?
Maria. Sì, sono ben io. Il Marchese però non ci bruciò vive come aveva minacciato e come fece di tanti altri; non voleva togliersi di mano quest’arma contro mio padre, fors’anche temeva il suo furore. Insomma rimanemmo in prigione tre mesi,, ne uscimmo per la pace del 1655, ma la mamma sopravvisse poco. Giovanni, mio fratello, che il babbo aveva messo in sicuro >n Francia, vive con lui a Ginevra. Forse lo conoscerete. Margherita è in Isviz-zera col suo Francesco. Sapete la storia.
26
276 BILYCHNIS
Bartolomeo. Sì! Quel soldato del Marchese di Pianezza che si fece calvinista dopo aver visto la fede di Gianavello e divenne suo genero. Egli abita, mi pare, nel cantone di Vaud.
Maria. Dieci anni appena di pace; i campi riprendevano un po’ il loro aspetto* di prima, le vigne si riordinavano, gli animi si calmavano, e siamo alle persecuzioni da capo.
Bartolomeo. Speriamo che, per l’intromissione del nostro paese, non s’arrivi alla persecuzione. Sapete che la Svizzera ha nominato appunto il mio padrone e suo fratello, che sono due talentoni, per parlare col Duca di Savoia e dirgli come l’intenda con voi Valdesi.
Maria. Ma il Duca li ha mal ricevuti e a Pinerolo tutto è già pronto per lanciar nelle Valli quei cani furiosi di soldati senza fede e senza coscienza/
Bartolomeo. È quel dannato, quel, libertino di Sua Maestà cristianissima il re di Francia Luigi XIV che, ogni volta che ne fa una grossa contro la legge di Dio, qualche adulterio secondo il suo solito, cerca di calmare i suoi confessori col bandire una crociata Contro i riformati.
Maria. Sss... Sono i confessori suoi che, per calmare i suoi scrupoli, glie lo suggeriscono. Quanto a loro, che importa la legge di Dio?!...
SCENA I®
Detti poi Giacomo Gianavello, il Garnier, il Pelenc, il Vacherò, UOMINI E DONNE VALDESI.
Pianti di donne in lontananza.
Maria. Ascoltate; si direbbero pianti, gemiti... Di già?
Bartolomeo. Già finita la seduta coi delegati Svizzeri?
Maria, (guardando a destra in fondo} Tornano dei gruppi dal Ciabàs.
Bartolomeo. Impossibile! .
ia Donna, (buttandosi al collo di Maria} Ah Maria!
2® Donna, (si getta su un sasso piangendo; un bimbo, che piange anche lui, le si attacca al vestito} Poveri noi!
3a Donna, (con disperazione} È finito!
(Alcuni uomini fan gruppo esprimendo dolore, rabbia, minaccia}.
Maria. Rachele, che c’è? E l’adunanza?
ia Donna. Ah Maria, sai tu, sai tu che cosa ci han detto al Ciabàs?
Giacomo G. Impossibile!
2a Uomo. Mai, mai!
3a Uomo. Lotteremo sino alla fine!
ia Donna. Via, ci hanno offerto d’andare!
Maria. Che cosa?!
27
GIOSUÈ GIANAVELLO
277
za Donna. Andar via, andar via tutti dalle Valli! Così disperata è la nostra condizione. Via, capisci? andarsene, lasciar le nostre case, dove son nati i nostri figlioli, lasciare i nostri campi, i nostri prati, i nostri monti. Andarcene in esilio, come tuo babbo che amava tanto questa nostra povera terra, come il moderatore Léger, per sempre (4).
3a Donna. Dio! Ogni uccellino ha diritto al suo nido, ogni volpe ha una tana, ma noi, no.
2a Donna. Andar per il mondo come zingari, senza patria e senza tetto, come mendicanti che non sanno donde vengano e dove vadano e insanguinano tutte le strade dèi mondo colla loro miseria. Piccino mio! (stringendosi il bimbo al petto).
Vacherò. Eh chetatevi con codesti lamenti che ci strappano il cuore! Qui resteremo; qui, dove Dio ci ha messi, dove i nostri vecchi son sepolti, qui resteremo quanto è vero che non si scrolla il Vandalino: così ci scrolleremo noi.
Maria. Ma i deputati?
ia Donna. Questo, questo han detto; han detto che siamo separati da tutti quelli che potrebbero aiutarci, che nessuno può muover guerra a una potenza come la Francia,, che abbiamo appena 3000 combattenti, che le truppe regolari attendono solo il segnale d’attacco...
Maria. E allora?
Giacomo G. E allora noi abbiamo detto: Consigliateci!
Garnier. E questo ci han risposto: Acconsentireste a lasciar la vostra patria se noi otteniamo dà Vittorio Amedeo che vi lasci disporre come volete dei vostri beni e uscire dai suoi Stati colle vostre famiglie?
Giacomo G. Sì! e tutti siam balzati in piedi allora! e le donne gridavano, i vecchi,, i ragazzi piangevano, noi ci siamo avventati agli ambasciatori che pareva volessimo divorarli.
Pelenc. E chi si aspettava una proposta simile?
Maria. Ma dunque tutto è finito? Tutto è perduto davvero? E il Signor Arnaud?
3a Donna. Non so, noi siamo fuggite piangendo.
Pelenc. Essi discorrono ancora. Noi non abbiamo più nulla da dire.
Maria. I Signori de Muralt e Arnaud debbono passar di qui per tornar a S. Giovanni. Bartolomeo. Quanta gente sulla strada! (guardando fra le quinte a destra) Eccoli. Vacherò. Sì! Ecco Arnaud-e i due Signori ambasciatori.
SCENA IV.
Detti e Arnaud, (5) i De Murali, altri Valdesi fra cui Muston, Stefano e Jeanne.
Gaspard De Muralt. {parlando ad Arnaud e ad altri) Sì, la patria ha un fascino sacro, ma i beni del cielo sono preferibili a quelli della terra. Voi potete ancora uscire da questo paese che vi è sì caro, ma sì funesto ad un tempo! Potete condur via con voi le vostre famiglie, conservare la vostra religione, evitare di spargere sangue...
28
278 BILYCHNIS
Muston. {con fierezza} Le nostre Valli conoscono il nostro sangue...
Maria, (va a Stefano e gli abbandona la lesta sulla spalla) Oh Stefano...
Stefano. Coraggio, Maria!
Bernard De Muralt. In nome del cielo, non v’ostinate in una resistenza inutile. Rimane uno scampo alla vostra completa distruzione.
Arnaud. Dio ha liberato i Padri nostri, ha salvato tante volte il nostro popolo. Noi, pei nostri peccati, non meritiamo la Sua grazia; ma abbiamo ancora fede e, là dov’è fede, la grazia sovrabbonda!
Bernard De M. Sarebbe una follìa contare oggi, in questi tempi, su avvenimenti miracolosi; vi è impossibile di lottare colla forza contro un nemico cento volte superiore. Riflettete ai casi vostri.
Muston. Io ci ho già riflettuto!
Gaspard De M. Vi resta un solo modo di uscirne bene: non convien egli trasportare altrove il candeliere della vostra fede piuttosto che di vederlo spento nel sangue? (i due Ambasciatori si allontanano con Arnaud e pochi altri).
SCENA V.
Detti, meno gli usciti.
Stefano. Chi ci garantirà che non si cerchi di distruggerci, quando noi, a gruppi isolati, ci dirigeremo fuor del Paese? Non hanno rispettato gli editti che ci garantivano il soggiorno in queste Valli; rispetteranno meglio l’impegno di farcene uscir salvi?
Muston. No! Non si tratta di uscir salvi! Si tratta di restare! Qui Dio ci ha posti! Qui Dio ci ha benedetti! Qui resteranno i figli nostri e i figli dei nostri figli.
SCENA VI.
Arnaud e Detti.
Arnaud. Giosuè Gianavello ha pur ceduto: egli è in esilio.
Stefano. Perchè, esiliandosi, salvava il suo popolo; noi, esiliandoci; lo perdiamo. Chi dubita di Dio? Non è egli onnipotente?
Arnaud. {solennemente) Egli è onnipotente!
Maria. Signor Arnaud...
Arnaud. Sei tu. Maria?
Maria. Ecco una lettera di mio padre.
Tutti, {affollandosi} Di Gianavello?
Maria. Certo questa lettera è più per voi che per me.
Arnaud. Còme e da chi l’aveste?
Maria. Or ora, dà uno giunto da Ginevra.
29
GIOSUÈ GIANA VELLO
à
279
Arnaud {guarda la lettera, l’apre, legge) (6) « Queste poche parole sono per salutarvi di tutto cuore e testimoniare a voi, fratelli miei, dell’affetto vivissimo che vi porto. Voi non vi offenderete nell'ascoltare i miei sentimenti circa parecchie cose che vi riguardano ».
María. Vedete? La lettera è per tutti!
Arnaud. {leggendo). « Egli è che, se Dio volesse mettere alla prova la fede vostra, come si dice e come si crede, io vi prego di prendere in buona parte il contenuto della presente. Quantunque io non dubiti punto della vostra prudenza, nè della vostra condotta, la prima cosa che voi avrete a fare è d’essere bene uniti. Che i signori, pastori seguano il loro popolo giorno e notte. Il loro primo dovere sarà quello di riunir tutti, grandi e piccoli, e, dòpo averli esortati secondo la parola di Dio, far loro giurare colle mani levate al cielo, fedeltà alla chiesa e alla patria fino alla morte. Sì facendo, voi vedrete che la spada dell’Eterno sarà al vostro fianco ».
Garnier. Per Iddio, Sì, questo è un parlare.
3a Donna. Fedeltà alla patria sino alla morte!
Arnaud. {continua a leggere) « Se gli affari volgono alla guerra, la prima cosa ch’io vi consiglio è di rivolgere delle suppliche umilissime al sovrano; ma sin d’al-lora procurate di non esser sorpresi: vegliate! In nome di Dio, non accettate nessun soldato, nessuno nelle vostre case, sotto nessun pretesto, sotto nessun colore; altriménti la vostra rovina è certa. Ricordate i massacri del 55 »...
di leggere). Oh Gianavello, profeta nostro, lo spirito tuo veglia con noi, è con noi ancora, per consigliarci e dirigerci, {legge ancora) «Colui che spera nell’iddio vivente non perirà giammai »... {risolutamente) Fratelli, tutti i nostri debbono ascoltare queste parole e qui siam pochi {si raccoglie un momento). Sì! Questo faremo: noi sceglieremo un luogo sacro ai nostri ricordi; un luogo che sappia le stragi e la vittoria,..
Muston. A Rocca Piatta! (7)*
Arnaud {riflette ancora un momento mentre tutti, sospesi, lo guardano) A Rocca Piatta, sì... Là inviteremo tutti i Valdesi, là leggeremo la lettera di Gianavello, là giureremo il Patto dei nostri Padri, dei nostri figli, del popolo di Dio: esser sempre uniti, difendere il nostro paese, la nostra fede fino alla morte e Strappare, una volta liberi, quante più anime potremo alla crude! Babilonia. Là, insieme inginocchiati, romperemo ancora una volta il pane della comunione di Cristo, Salvator nostro, e berremo il calice della Sua grazia, pronti a bere quello del sacrificio... Poi avvenga che può.
Stefano. « Dove due o tre son riuniti nel mio Nome, io sono in mezzo a loro », dice Gesù.
Arnaud. E S. Paolo dice: « Io posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica ».
CALA LA TELA.
30
28o
BILYCHNIS
Note all'alto terzo.
(i) I-a cosidetta « Guerra dei Banditi », cominciata dopo le Pasque e condotta Erincipalmente da Gianavello, Jahier e égcr, terminò coll’accordo del 14 febbraio 1664: l’amnistia concessa ai Valdesi escludeva però Léger, Gianavello e altri 26 che, per salvarsi dalla tortura e dalla morte ignominiosa, dovettero prendere la via dell’esilio. Gianavello si ritirò a Ginevra, dov’ebbe amici preziósi, e la sua bottega di libraio fu il principal focolare della causa dei profughi Valdesi. Dicesi che tornasse varie volte nelle Valli in incognito.
(2) Dopo aver, colla revoca dell’editto di Nantes e gli orrori che precedettero e seguirono, soffocato il protestantesimo nelle sue terre. Luigi XIV impose al Duca di Savoia Vittorio Amedeo di fare altrettanto nel suo Stato. Questi peiò, conti a-riamente al suo regai parente, non chiuse le frontiere ai propri sudditi, ma lasciò libera la scelta fra l’abiura e l’esilio. I Valdesi chiesero consiglio ed aiuto ai loro fratelli svizzeri e i cantoni svizzeri, decisero, in una memorabile assemblea, d’inviare al Duca di Savoia due deputati per perorare la Causa valdese. Furono i due fratelli Gaspard e Bernard de Muralt, che si presentano in questo atto. La riunione del Ciabàs del 22 marzo e la disperazione che scatenò, è storica; le frasi messe in bocca agli ambasciatori sono tolte testualmente da lettere loro, inviate da Torino ai Valdesi più tardi, dopo altre inutili pratiche.
all Friuland — che giganteggia su — è una montagna poco nota, ma fra le più maestose delle Valli Valdesi.
(4) Giovanni Léger, pastore valdese, esercitò il suo ministero nelle parrocchie di Prali, Rodqretto e S. Giovanni. Anch’egli aveva studiato in Isvizzera e la sua vita fu particolarmente drammatica. Le sue avventure a Ginevra, a Torino, le sue dispute coi frati, la sua perigliosa fuga attraverso le nevi per salvarsi dalle stragi della Pasqua in terra di Francia, i suoi intelligenti sforzi per fare ottenere giustizia e soccorsi al suo popolo, le accuse mossegli, i tranelli invano tesigli, le reiterate condanne a morte, infine l’opera sua di storico, ne fanno uno dei perso
naggi più straordinari della storia valdese. Egli morì in esilio, a Leyda. Lasciò una storia, accusata di partigianeria, ma ricca di documenti tremendi; nè si può far carico della sua parzialità a ehi descrive il martirio della propria gente e la fornace da cui egli è uscito in quello stesso momento.
(5) Enrico Arnaud, nato a Embrun, di famiglia riformata ed esiliato dal proprio paese, venne alle Valli, che elesse come seconda patria. Studiò teologia a Basilea e viaggiò per l’Europa. Tornato alle Vaili, fu pastore a Massello e, nel moménto in cui ce lo presenta il III Atto, godeva fra i suoi correligionari di grande autorità. Si deve a lui principalmente la vittoria del partito della resistenza nel 1686. Durante il massacro la sua testa fu messa a prezzo di 100 pistole d’oro. Ma riuscì a riparare in Isvizzera, dove, insieme a Gianavello, fu l’anima dei preparativi pel «glorioso rimpatrio». Sfuggì miracolosamente a varie imboscate tesegli da emissari del Duca di Savoia, che lo voleva nelle mani vivo o morto, e fu il condottiero militare e spirituale dell’epica legione. Gli episodi di questa spedizione, storica quantunque incredibile assurgono a meraviglie, di epopea. nè si possono riassumere. Qui la figura dell’Arnaud sfolgora.
Ottenuto il riconoscimento dei diritti valdesi, fu nuovamente pastore a Rorà e a S. Giovanni, ma amarézze di vario genere l’attendevano: infine, come francese, fu bandito dalle Valli definitivamente nel 1698. Morì pastore di Schònenberg, dove le sue ossa riposano.
(6) La lettera di cui si ripetono alcuni brani non è altro che il manoscritto, conosciuto sotto il nome di « Istruzioni e Regolamento per la guerra del 1686 » che, secondo lo storico Giovanni Jalla, fu scritto da Gianavello nei primi di quell’anno e ch’egli fece pervenire alle Valli in maniera ignota.
(7) La Comunione generale a Roccapiatta per prepararsi al martirio è altresì una pagina sublime di storia. che xievoca, per rapida analogia, la grandiosa preghiera dei martiri ciistiani dinnanzi alle belve ciel Colosseo. la riunione però non* fu verisímilmente già stabilita la mattina del 22 marzo, ma più tardi ed ebbe luogo il 19 aprile 1686.
31
I LUOGHI DI G1ANAVELLO. IL COL CASSULER. (Disegno di Paolo A. Passetto)
ATTO QUARTO
LA BOTTEGA DEL LIBRAIO A GINEVRA
agosto 1689. Una bottega un po' oscura, a Ginevra. Alle pareti sono allineati piccoli scaffali con libri A sinistra una tavola, a destra uno scrittoio, nel mezzo un'altra tavola. Nel fondo finestra con inferriata e porta aperta, da cui si scorge un bel cielo soleggialo e un lembo del lago di Ginevra.
PERSONAGGI.
Giosuè Gianavello
Giovanni Gianavello, suo figlio
Margherita, sua figlia, moglie di
Francesco
Enrico Arnaud, Pastore e Colonnello valdese
Capitano Turrel, profugo francese
Paolo Reynaudin, studente valdese in teologia
Alcuni studenti ginevrini e francesi
Un vecchio signore ginevrino
Un messo.
32
a&2
BILTCHMIS
SCENA I.
Giovanni e alcuni studenti.
Giovanni, (seduto alla tavola di sinistra guarda -pensoso il lago} Addio mia bella speranza... A me neppur questo è concesso.
Una banda di Studenti, (entrando) Qui, è qui!
Primo’ Studente. Ma dove sei andato a cacciarti, libraio del...
Secondo Studente. Sss... Attento alla lingua. Francese!
Terzo Studente. Sei nella città di Calvino, ricordatelo!
Primo Studente. Dunque, pet tutti i Santi, si può sapere se troverò qui... Ehi! Libraio! Quel Commentario di...
Terzo Studente, (prendendo un volume da uno scaffale e leggendo con aria trionfante} Ecco qui, 1577; l’avevo detto io! Ho vinto io la scommessa. Fuori il luigi. L’opera è dèi secolo scorso.
Secondo Studente. Viva! Quand’è così, pagaci da cena!
Terzo Studente. E chi ve l’ha promesso?
Secondo Studente. Ma è inteso! Quando uno studente vince una scommessa se la beve cogli amici!
Terzo Studente. Non conosco quest’uso!
Secondo Studente. Te l’insegneremo noi, avaraccio.
Primo Studente. Quest’opera è apocrifa! Ehi, libraio del diavolo, dove ti sei cacciato?
Giovanni, (che è sempre rimasto triste e immobile} Son qui, Signore!
SCENA IL
Un vecchio Signore e détti.
Vecchio Signore. Giovanni, quel libro è arrivato?
Giovanni: Eccellenza sì. Eccolo!
Vecchio Signore. Tuo padre dov’è?
Giovanni. È uscito un momento. Eccellenza!
Vecchio Signore. Ch’egli non giri tanto in questi giorni!... Noi vogliamo bene a voi Valdesi, lo sai; ma in questi giorni c’inquietate molto, ecco (scuotendo la testa).
Giovanni, E in che maniera. Eccellenza?
Vecchio Signore. In che maniera, in che maniera! Lo sai meglio di me (lo scruta; Giovanni resta impassibile). La patria, la patria! Noi Svizzeri l'amiamo quanto voi la patria e certo, se io dovessi lasciare Ginevra... (guarda il lago, si fa più dolce). Ma insomma, quando è volere del cielo, bisogna pur rassegnarsi ed accettare riconoscenti la vita tranquilla, la fede libera e un'altra terra non meno bella della vostra e che ai vostri figli diventerà cara come a voi quella che avete lasciato.
33
GIOSUÈ GIAMAVELLO
283
Giovanni, [prorompendo e poi fermandosi subito) Se è volere del.eielo, ma... ma... Primo Studènte. Del resto poi neanche questa è la prima edizione, dùnque anche Valentino ha perduto.
Terzo Studente. Perduto!? Protesto io. Che cosa avevo scommesso?
Vecchio Signore. Un po’ di silenzio, giovinetti!
(gli studenti van per uscire, poi si fermano).
Secondo Studente, Ehi, Giovanni.
Giovanni. Un momento, permette Eccellenza?
• (il vecchio signore accenna di si).
Secondo Studente, (sul davanti della scena) Prendi nota per piacere di questa ordinazione. (piano mentre Giovanni sta per scrivere) Tuo padre, Giosuè Gianavello tornerà presto?
Giovanni. A momenti.
Secondo Studente. Tutto è pronto, tutto va bene. Stasera, alle, cinque, Arnaud e i suoi compagni verranno qui. (Giovanni gli stringe con effusione la mano) È intóso (esce).
SCENA III.
Vecchio Signore e Giovanni.
Vecchio Signore. E tornando al nostro discorso: il cielo, amico mio, mi par che si sia espresso chiaramente; avete voluto lottare nonostante il parere di tutti, siete stati massacrati come pecore al macello, la metà morti nelle stragi, quasi tutta l’altra metà mangiata dai vermi nelle fosse delle prigioni.
Giovanni. Oh Eccellenza, sì, è vero! Noi eravamo già in esilio, mio padre ed io, ma mia sorella Maria e mio cognato Stefano son morti laggiù nella strage e quanti e quanti con loro...
Vecchio Signore. E avete dimenticata la scena d’arrivo dei primi profughi? Giovanni. Avrò fin ch’io campi quella visione negli occhi.
Vecchio Signore, (pensoso) Anch’io!... E quanto ce ne volle per ottenere che quei miseri avanzi fossero liberi di prendere la via dell’esilio £
Giovanni. Ah vi ricordate, al ponte dell’Arve, il 22 gennaio dell’87. Mio padre ed io eravamo lì dei primi quella mattina d’inverno per incontrare i profughi; e voi anche... Quella mattina bianca, tutta neve! E s’aspetta e s’aspetta! Che freddo, che gelo nell’anima, nel cuore!! Mio padre in piedi, livido, tremava verga a verga... non l’ho mai visto tremare così. Ah di certo egli non tremava pel freddo...
Vecchio Signore. Ed ecco da lontano, fra il nevischio, delle ombre, dei lamenti! Giovanni. Ah. tacete. Eccellenza: i nostri erano, i nostri!... e parevano tutti dementi, tutti spettri.
Vecchio Signore. Fatti uscire improvvisamente di prigione la vigilia di Natale, dopo mesi di prigionia, incamminati subito ferocemente al confine, la metà era rimasta per la strada!
34
284
BILYCHNIS
Giovanni. Quelli arrivati coperti di piaghe, tutti straziati da lutti recenti: madri a cui erano morti o erano stati rubati i figlioli per la strada, mariti che avevan veduto le mogli cadere sfinite senza poterle soccorrere...
(Tacciono).
Vecchio Signore. Ricordi eh?! Per settimane e' settimane vedemmo arrivare questi dolenti avanzi... (con forza) E con ciò vogliono ritornare nel loro paese! Sissignore! Sapete che avevano già preparato tré battelli, che sono stati presi con 50 fucili? Qui sono stati accolti a braccia aperte, instradati per paesi fertili, circondati d’affetto. No! Vogliono ritornare in quel paese d’inferno da cui sono stati strappati a forza, come erbaccia parassita con le radici e tutto, e scaraventati lontano. Ma che ci avete laggiù?
Giovanni. Ah Signore io amo Ginevra e il suo popolo generoso; son. vissuto qui • il maggior tempo della mia vita; ma, quando penso a quei monti della mia giovinezza, alle valli tranquille, tutte verdi, nostre... (si copre gli occhi colla mano, singhiozza). Signore, voi non sapete che cosa sia essere strappato dalla patria, da una patria come l’Italia. E poi, io non son capace di parlare bene, ma le montagne, voi lo sapete meglio di me, non si possono dimenticare
x quando si son conosciute... starei per dire nell’anima. Son cóme persone... (riscaldandosi) sì Signore. Chi le ha viste dalla pianura, dalle ultime pèndici» chi ne ha visto soltanto le colline, le grandi vallate e le cime, di profilo, così, allegre nel sole o severe nell’ombra contro il cielo di fiamma, o anche minacciose fra le nubi, non conosce delle montagne che l’aspetto esterno, quello che in una persona è il viso, è il corpo! Ma chi s’è addentrato nelle strette gole e ha veduto il torrente fragoroso assottigliarsi in un filo e le roccie innalzarsi come muraglie di templi giganteschi, di città favolose, chi ha sentito il silenzio... Signore, comprendete? Il silenzio pieno d’echi e di mistero delle petrose vallate solitarie e il fischio delle marmotte e ha veduto il camoscio-saltare e le salamandre nere strisciare, chi ha contemplati gl’immensi nevai, chi è stato sfiorato dalle valanghe e ne ha udito il rombo immenso, oh signóre, •
» Òhi ha respirato il soffio della vetta ed è giunto lassù: un’isola in mezzo a un mare immobile, un’altare al disopra d’ogrii fango, nei cieli più alti, ah! chi ha sentito il brivido della montagna, ne ha conosciuta l'anima e non potrà dimenticarla mai più.
Vecchio Signore. Voi Valdesi, quando parlate del vostro paese, diventate poeti. Giovanni. Sì, signore! Noi tutti Valdesi abbiamo visto tante cose meravigliose:
abbiamo visto sul Palavas il candeliere d’oro della nostra fede posto a. illuminare l’Italia, e non possiamo pensare che sia tolto di là!,
Vecchio Signore. Sì, sì... Io capisco (borbottando) capisco... (arrabbiandosi) e capisco che, quando non si ha abbastanza giudizio, bisogna che gli amici l’abbiano per noi. E voi vedrete che Giosuè Gianavello avrà presto un avviso (per uscire).
Giovanni. Mio padre? Che?...
Vecchio Signore, (uscendo) Che! Che? Vedrete!... Arrivederci, figliuolo.
35
GIOSUÈ GIANA VELLO
285
SCENA IV.
Giovanni poi Gianavello.
Giovanni, {resta pensoso, guardandogli dietro appoggiato alla porta) Doman l'altro all’alba salperanno, moveranno per rientrare nel paese. E io...
Gianavello. {entrando raggiante e abbracciandolo, resta appoggiato a luì) Giovanni mio! (si scioglie e lo guarda).
Giovanni. Io no...
Gianavello. Tu sai che, se io ti credessi utile, ti direi d’andare. Dio lo volesse! Ma io ho sempre ascoltato la voce della testa insieme a quella del cuore: sì! io sarei felice di saperti fra coloro che primi rientreranno nelle Valli; mi parrebbe che i miei occhi, che proprio questi vecchi, stanchi occhi potessero rivedere, per mezzo di te, le cime del Gunivert, del Granerò e del Bucie. Non lo potrò, tu non lo potrai... Bisogna scegliere uomini robusti; le fatiche saranno grandi e un debole—perdona s’io ti parlo rude — indebolisce altri dieci intorno a sè. Tu fosti già ferito e ora il tuo posto è qui. A ognuno il suo, credilo.
SCENA V.
Un Messo e Detti. ■
Un Messo. Giosuè Gianavello?
Gianavello; Sono io!
Un Messo, Ordine del Consiglio di Ginevra: « Mèsser Giosuè Gianavello {conse--gnando un foglio) si ritirerà per una settimana nel Cantone di Vaud » (1).
Gianavello. E perchè?
Un Messo. Perchè la condotta dei Valdesi ha urtato il Consiglio. Gianavello. Sta bene. Partirò domattina.
Messo. Basterà {esce).
SCENA VI.
Gianavello e Giovanni poi Margherita e Francesco.
Gianavello. Non credo che abbiano scoperto il complotto. Lo temono, ma non sanno ancor niente di certo,
Giovanni. Roberto mi ha avvertito che oggi, alle cinque, verranno qui Arnaud e gli altri.
Gianavello. Alle cinque? Fra poco dunque! Va bene! Le carte sono pronte. Chiudi la porta, che non riceviamo più clienti {serrano. Gianavello va alla scrivania, tira fuori delle carte che esamina. Dopo un momento, mentre Gianavello legge e Giovanni rassetta la stanza, si sente bussare molto vivamente? Giovanni va a aprire. Entrano Margherita e Francesco).
36
286 " ' BILYCHNIS
Margherita. (gettandosi tutta fremente al còllo di Gianavello) Babbo, babbo! È dunque giunta l’ora!
Giavanello. Chiudi la porta, figliuola. Francesco!
Francesco. Son pronto!
Margherita, {attaccandosi a lui, ma con alterezza) Sarà dunque finito questo esilio grigio, interminabile; non saremo più la gente senza patria; non avremo più dinanzi agli occhi la continua visióne della nostra terra desolata, delle nostre montagne inselvatichite. Ah babbo! Le Valli saranno ancora valdesi.
Gianavello. Tu sei sempre la mia piccola profetessa dalle belle parole. La mia Maria invece, come la Marta del Vangelo, ti ricordi? operava silenziosa e in silenzio ha dato la sua vita. Tu canti, ma dài qualcosa anche tu d'altrettanto prezioso.
Margherita, {guardando Francesco) Egli è più della mia vita!
Francesco. Come Dio vuole, diletta mia! Forse il tempo verrà che tu mi raggiunga!
Margherita. Ah, io vivrò talmente con te, nei giorni che verranno, che vedrò quel che tu’ vedrai... Nevvero Giovanni?
Giovanni, {con risolutezza) Sì, e cercheremo di far qui il nostro dovere.
Gianavello. Fra poco verranno gli amici; voglio ancora raccogliermi un poco (esce).
SCENA VII.
Detti meno Gianavello.
Giovanni, {teneramente a Margherita) Tu soffri?
Margherita. Soffrirò molto più dopo, quando sarò sola; ma voi verrete con me, tu e il babbo. E poi io so dove trovare consolazione: mi esalta la gioia di vedere il ritorno nella santa mia terra, mi esalta il pensiero che vi partecipa Francesco, che è tanta parte di me. Vedi Giovanni, noi ci eravamo già esiliati qui col babbo prima che tutti i Valdesi fossero esiliati; ma allora non era come ora: non eravamo i « senza patria > e per questo son santi i martiri fratelli nostri che non hanno accettato il sacrificio del popolo tutto. Necessità può spingerei fuori delle Valli, ma le Valli restano il luogo santo della luce costante di Cristo, attraverso nebbie di errore e di superstizione. Là deve brillare ancora, finché tutta l’Italia ne sia illuminata.
Francesco. Tempi verranno...
Giovanni. I nostri amici, ginevrini, svizzeri, ci amano, ma non ci comprendono. Francesco. Sta a noi il comprendere loro; essi sono, in certa qual maniera, responsabili per noi, hanno assicurato per conto nostro il Dùca di Savoia e il Re di Francia che non tenteremo mai più di rientrare nei loro Stati e colle nostre speranze minacciamo, secondo loro, di turbare l’equilibrio europeo.
Giovanni. Chiacchiere! Quando si- saranno accorti della nostra spedizione, l'equilibrio sarà tutto stupito di sentirsi egualmente stabile. Le cinque!... Fra poco devono èssere qua {si bussa).
37
GIOSUÈ GIANAVEL1O
28jr
SCENA Vili..
Detti e un Messo poi Gianavello.
Giovanni. Son loro.
Messo. Giosuè Gianavello?
Giana vello, (comparendo) Eccomi!
Messo. Ordine del Consiglio di Ginevra: «Messer Giosuè Gianavello parta (porgendo un foglio) giusta gli ordini ricevuti, già questa sera stessa ».
Gianavello. E perchè?
Messo. Per buone considerazioni che gli devono esser note.
Gianavello. Il tempo di riunire alcuni oggetti e parto.
Messo. Sta bene.
SCENA IX.
Detti e un Signore con barba, poi Turrel (2) e Reynaudin.
Signore. Il libraio?
Gianavello. Sono io.
Signore. La Bibbia di Olivetano?
Gianavello. Accomodatevi.
Messo. Salute a voi (parto).
Turrel e Reynaudin. (incappucciati} Il libraio?
Gianavello? Comandi!
Turrel e Reynaudin. La Bibbia di Olivetano?
Gianavello. (chiude vivamente l'uscio) Fratelli... (si tolgono i cappucci, uno leva la barba, è Arnaud. Si abbracciano senza'far parola}. Fra due giorni dunque?
Arnaud. Sì, il 16, quando si leveranno le prime stelle, 15 battelli ¿spetteranno a Nyon; passeremo il lago. Come insieme combinammo, o Gianavello, nelle settimane scorse, secondo i vòstri illuminati consigli sbarcheremo in Savoia, passeremo il colle di Voirons che si vede qui dal lago e attraverseremo la città di Viù. Ivi dovremo essere già la sera di sabato. Per la Valle dell’Arve arriveremo ai mónti di Praz e di Haute Luce, li attraverseremo e poi vali-: cheremo il Col Bonhomme: saremo così nella Val d’Isère. Discenderemo il fiume, supereremo il monte Isera e saremo al Cenisi©. Al di là... l’Italia! la valle della Dora! Sulla Dora è il ponte di Salbertrand, si passa, si sale la montagna di Sci, ecco Val Pragelato che sa tanti ricordi nostri. Si veggono già le vette più alte dei nostri monti, oh Gianavello!... Poi c’è il colle del Pis e la Val S. Martino (3).
Gianavello. (approva) E i Valdesi?
Arnaud. Valdesi son giunti da tutte le parti: dall*Assia, dal Wurtemberg, dal Palatinato, dal Brandeburgo. Da più di due mesi, dietro una parola udita, hanno lasciato mogli e figli, impieghi, lavoro e, cercando d'armarsi e di non farsi notare, a tappe son giunti fin qui per l’ineffabile speranza della patria terrena.
38
288
BILYCHNIS
Turrel. Il bosco di Prangins è pieno di Valdesi armati, alcuni sono stati scoperti e arrestati, ma 1200 son pronti e altri verranno se le notizie son veraci.
Giana vello. Dio sia con voi! (si abbracciano con effusione).
Arnaud. Le istruzioni, o profeta di nostra gente.
Gianavello. No, non profeta; umil servo di Dio, Arnaud. Eccole, quali la mia esperienza le ha dettate. (Mentre Arnaud ripone il manoscritto, Gianavello, stringendo una mano a Reynaudin, gli dice). Voi, studente, voi che sapete maneggiare la penna come io una volta la colubrina, prenderete nota giorno per giorno di ciò che avverrà al vostro piccolo esercito benedetto, nevvero? Solo una grazia speciale di Dio può darmi la consolazione di aver vostre notizie; ma, se non a me, quei vostri ricordi giungeranno forse un giorno, e saranno cari ad altri che, come me, poterono partecipare al rimpatrio soltanto in ispirito (4).
Reynaudin. Ve lo prometto, capitano; scriverò pensando a voi, nè vi saranno fatiche gravi -abbastanza da farmi obliare questo mio quotidiano dovere (Arnaud s’è avvicinalo).
Gianavello. (a tutti) Levate il cuore e l’anima al Signore affinchè vi doni il Suo Santo Spirito/ Siate uniti, siate giusti, non spargete sangue inutile o innocènte, affinchè Dio non sia offeso. Non fatevi mai trasportare dalla paura o dall’ira; e, quando vi sopraggiungerà qualche inconveniente, abbiate paziènza, raddoppiate di coraggio, in modo che non vi sia niente di più forte della vostra fede. Così facendo, la spada del Signore, come la Sua grazia, saranno sempre con voi. Troverete nelle mie Càrie varie indicazioni pratiche; Vi raccomando anche a voce di avere un luogo fisso in ogni valle per assicurarvi lo scampo. Vi consiglio, in Val Luserna, la località Barmadaut, l’Aiguille e la Comba di Giausarand, il più antico rifugio dei Padri nostri; in Val S. Martino, • vi consiglio fortemente la Balziglia, che vi sarà baluardo inespugnabile. Non abbandonate la Balziglia che ridotti agli estremi. Non mancheranno di dirvi che, per venirne a capo, la Francia e l’Italia intera vi si volteranno contro;, ma voi ripetete, che non temete niente, neanche la morte e che, se il mondo intero fosse contro voi e voi soli contro tutti, non temereste altro che l’Onnipotente, il quale è la vostra salvaguardia. Di nuovo ripeto: non dimenticate che lottate per Iddio ed Egli lotterà per voi. Guardate in alto: alla brua! Mirate alla vetta: alla brua! Essere più alti del nemico in ogni cosa e sempre, è vittoria sicura (5).
Margherita; Addio, Francesco (si abbracciano).
Giovanni. Noi i deboli restiamo, ma non vi lasciamo; saremo con voi, pregheremo per voi.
Arnaud. Le vostre istruzioni ci saranno preziose. Sempre io vi vedrò innanzi a me, o duce nostro! E sempre i Valdesi, nei secoli avvenire, sulle roccie più alte della loro patria riconquistata, vi vedranno, oh Giudice, oh Profeta di nostra gènte, incitarli alle cime col vostro gesto d’energia e di benedizione!
39
GIOSUÈ GIANAVELLO
289
Gianavello. lo pregherò per voi:
Turrel. Sì, voi che restate, pregate, pregate con lui, sostenetegli le braccia come a Mosè sul monte; finché egli avrà le palme al cielo, la vittoria non potrà lasciarci.
Gianavello. Addio, figlioli! Voi beati! Io non vedrò più la mia patria terrena, ma presto entrerò nella patria celeste; e anche lassù la mia giòia sarà raddoppiata se il popol mio, come io credo fermamente, avrà pace, avrà bene alfine!
Arnaud. In verità, fratello, anche in quella patria celeste, una vetta, una cima eccelsa è preparata per te... Arrivederci {per uscire Arnaud, Turrei, Reynaudin e Francesco. Si voltano).
Gianavello. (alza le braccia, benedicendoli e sorridendo un poco) Lassù... alla brua!
FIN®. ' *
Note all'atto quarto.
(1) A più-riprese il consilio di Ginevra invitò infatti Gianavello a ritirarsi nel cantone di Vaud, ritenendo pericolosa là sua presenza in città contemporaneamente ad altri profughi ferventi patriotti, come ad esempio l’Arnaud. Fra l’altro, il io e il 21, il 27 e il 28 giugno 1687 l’invito fu reiterato per « buone considerazióni che a lui dovevano esser note ». Gianavello obbedì con ritardo perchè malato.
(2) Il capitano Turrei, profugo di Die, assai esperto di cose militari e coraggióso, fu nominato Comandante generale della 3»edizione. insieme ad Arnaud, in luogo di ourgeois de Neuchàtel, già a tal carica destinato e che non potè presentarsi all’appuntamento.
(3) Inutile dire che l’itinerario qui riferito è quello realmente seguito nella marcia di riconquista.
(4) Avanti di morire, Gianavello ebbe la gioia di poter conoscere i prodigi degli eroi del rimpatrio. Il 6 novembre 1689, nella perdita della Aiguille di Bobbio, che condusse alla ritirata sulla Balziglia, fu dimenticato il giornale della spedizione tenuta dallo studente in . teologia Paolo Reynaudin. Esso era compilato sino al 27 ottobre. Un ufficiale di S. A. Reale lo portò alla corte di Torino; di là, dopo essere passato per parecchie mani, pervenne — non si sa bene come, — in Snelle di un letterato di Ginevra, che ne ece dono a Gianavello pochi giorni avanti la sua morte, avvenuta il 5 marzo 1690, all’età di 73 anni.
(5) Tutte queste ultime raccomandazioni sono tolte dalle sue < Instructions pour attaquer les Vallées avec les armes » del 1688-89.
40
lllt ««(!
La CASA DOVE NACQUE G1ANAVELLO a Bobbio PELUCE (Disegno di Paolo A. Paschettó)
41
L’EVOLUZIONE DEL PENSIERO GIAPPONESE(,)
In nessun paese, il pensiero e la vita di questi ultimi cinquant’anni hanno subito una evoluzione cosi rapida e completa come nel Giappone. Gli sconvolgimenti sociali ed economici hanno esercitato sull’anima giapponese una notevole influenza ed hanno trasformato così le speculazioni dei filosofi come i concetti popolari sui problemi della vita. Una monarchia costi-t uzionale ha preso ad un tratto il posto del Giappone feudale, quando il samurai viveva chiuso nel medesimo orizzonte dei suoi avi, quando egli era tztt’una cosa col suo feudo ed era costretto a circoscrivere i suoi progetti e la sua attività alla città sua o alla provincia, di cui, al pari che del suo sovrano il Daimyo, egli era l’umilissimo servitore.
L’abolizione del feudalismo, nel 1871, condusse alla politica della « porta aperta » ed ebbe per conseguenze immediate l’ammissione di tutti i cittadini in tutte le città e in tutte le province, l'affranca-.mento dell’individuo da ogni limitazione di carattere regionale. Nello stesso tempo, però, tale abolizione fece rapidamente scomparire l’attaccamento alla residenza ancestrale e al villaggio natio: attaccamento così fortemente insegnato nella dottrina di Confucio, il quale esigeva che l’uomo fosse sepolto coi suoi padri. La gente fu costretta ad andare alla ricerca di lavoro, e la conseguenza fu grave: ormai, per un giovane Giapponese, il focolare sarà nel luogo dove ha trovato lavoro.
Di non minore importanza sono state le modificazioni economiche. Non è guari, non Solo i fuòchi rituali, ma tutti gli altri erano accesi colla pietra focaia; ora si adopera l'elettricità anche nei villaggi di pescatori; dall’uso ristretto delle cose più semplici e più naturali, si è passati all'uso
Ìuasi illimitato dei processi industriali, ’industria giapponese, paragonata alla industria americana o europea, è ancora Sul nascere; ma intanto essa già impiega un milione di lavoratori. Il Giappone agricolo diventa commerciante e industriale. Questa evoluzione economica ha qecessa-riamente portato a modificazioni morali: buone e cattive.
Un altro fatto ha la sua importanza nella trasformazione del pensiero. Le masse si rendono conto che il Giappone è il concorrente delle altre nazioni nell’arena della civiltà. Si ripete a più non posso che la potenza è il grande coefficiente di vittoria nella lotta per la vita. Il favóre col quale in certi circoli è stata accolta la filosofia nietzschiana del superuomo e la filosofia bergsoniana del cambiamento, collima col-l’intensifìcarsi della lotta per resistenza e armonizza in parte colle sofferenze del popolo in tale lotta. Il paese passa da un Seriodo relativamente calmo a un periodo i attività aggressiva. Nel corso di questa trasformazione non è possibile spiegare il Giappone modèrno colla sola letteratura classica e coi soli libri sul Bushido. Per capirlo, bisogna leggere la letteratura contemporanea e specialmente studiare con perspicace simpatia il cuore dei giovani Giapponési: in simili ore di transazione, i giovani manifestano in modo più evidente i diversi modi di pensare e rappre-sentan bene la vita nuova.
Vi sono stati tre periodi nella vita spirituale del Giappone, a partire dalla restaurazione del 1868:
il primo, è stato quello teW illuminazione', il secondo, quello della riflessione;
il terzo, quello del romanticismo.
Questi termini d’< illuminazione » (Xm/-klaerung) e di « romanticismo ■ devono es(♦) Articolo pubblicato nell'ZflJmia/iona/ Revie* of Missione del luglio 1917 e, un po’ abbreviato, nel Semeur del novembre stesso anno. ■
42
292
BILYCHNIS
sere intesi nel significato da loro assunto nella storia del pensiero europeo. Sebbene sia difficile tracciare linee precise di demarcazione, può dirsi che il primo periodo va dal 1868 al 1890, data della convocazione del primo parlamento; il secondo, nel quale il popolo giapponese prese coscienza di se stesso, sopratutto in seguito alla sua vittoria sulla Cina, va dal 1890 al 1900; l’ultimo va dal principio del nuovo secolo ad oggi.
I.
L’uso della parola Aufklaerung,. è giustificato dal nome « Meiji » (letteralmente ■ regno dell’illuminazione >) dato al regno dell’ultimo imperatore. Questo periodo presenta nettamente, in Giappone, il carattere proprio dell’epoca che nella storia generale del pensiero e della cultura, è stata chiamata ■ dei lumi ».
,i° Sopravvento del materialismo facilone e volgare.
Subito dopo la restaurazione, la ragione umana venne esaltata; si ripeteva al popolo ch'essa deve vincere ovunque e sempre. Riforme di ogni .genere furono iniziate. Si cacciarono dal cervello della gente, anche suo malgrado, le idée ingenue e superstiziose; gli dèi furono spesso rovesciati, i giorni fasti, le cose sacre furono rigettati, con grande scandalo dei devoti alla tradizione. I Giapponesi giunsero al punto di odiare tutte le superstizioni umane, e tutto ciò ch’essi chiamavano con tal nome: se essi non pensavano che la religione è stata inventata dai preti, la consideravano però come un fenomeno patologico e contrario alla natura umana normale.
2® Difetti di senso storico e mancanza del concetto di evoluzione.
« Il passato seppellisca il passato » dicevano coloro pei quali il passato altro non rappresentava che il cumulo degli errori, delle superstizioni e delle tristi conseguenze della debolezza umana, e i quali respingevano l’attaccamento di Confucio al passato, persuasi che ogni bene scaturisca dall’appello dell’onnipotente ragione, come — secondo la leggènda — il monte Fuji sorse in una sola notte in un certo punto del paese, mentre la depressione prodotta in un altro punto dava origine al lago Biwa. Templi illustri furono cambiati in istituti di cultura e comuni lavagne scolastiche presero il posto di meravigliose opere d’arte cancellate dalle mura dorate.
3® Entusiasmo per la libertà politica.
Questo entusiasmo s’incarnò nel conte Itagaki, il quale; colpito a Mino, esclamò: « Itagaki muore, ma la libertà vivrà eternamente ». Quel motto contribuì assai all’espansione dei concetti di democrazia e di governo rappresentativo. Il conte aveva subito l’influenza della costituzione americana e della dichiarazione d’indipendenza, mentre il sig. Nake subiva quella delle idee francesi di libertà e d’eguaglianza. Nel 1873, quel movimento ' s’era manifestato coll’appello del conte Itagaki e dei suoi amici in favore di un governo costituzionale e- colla fondazione di un partito politico che si chiamò dapprima Jiyuto (partito liberale) e fu poi ricostituito dal principe Ito; il suo capo è presentemente il sig. Hara.
4® Influenza dell’utilitarismo anglo-americano.
L’influenza del sig. Fukuzawa, fondatore dell’università di Keio e apostolo dell’utilitarismo, fu profonda negli ambienti commerciali e industriali. Sebbene favorevole alla democrazia, egli voleva stabilire l’indipendenza degli individui sulla ricchezza legittimamente acquistata; l’azione di quell’uomo fu la maggiore di tutte quelle che influirono sulle modificazioni economiche del. Giappone.
5® Empirismo intellettuale e materialismo.
Furono potentissimi in un’epoca in cui misterioso e superstizioso erano divenuti sinonimi. L’università di Tokyo fu il cèntro di questo modo di pensare; Erberto Spencer fu tenuto in grande onore: molti, fieri della loro indifferenza riguardo a tutte le religioni, consideravano l’agnosticismo come solo degno e dell’uomo d’affari e del dotto.
Questo periodo delle « Luci » è, insomma, caratterizzato dalla conoscenza superficiale dell’uomo e dei suoi bisogni, dalla mancanza di vedute profonde, dal disprezzo per le aspirazioni del cuore. La vita affettiva era negletta e l’arte, considerata inutile, veniva disprezzata. Tutto ciò ch’era nuovo e razionale progrediva a rapidi sbalzi; tutte le riforme ispirate dalla civilizzazione occidentale sembravano facili. Molti cristiani pensavano che gli uomini colti, desiderosi di scienze e di giustizia, sarebbero facilmente convertiti e che il Giappone diventerebbe cristiano prima dell’apertura del Parlamento nel 1890. Il « risveglio » del cristianesimo nel 1884 parve dar loro ragione. In fatto, la
43
l’evoluzione del pensiero giapponese
293
conversione istantanea del popolo era im-ftossitile; questo periodo era come l’ado-escenza dell’uomo: ricca di speranze e di utopistici sogni, estranei alle dure realtà, e ignara — perché solo possono insegnarlo il tempo e l’esperienza — che la vita non é un giuoco.
II.
Durante il secondo periodo, dal 1890 alla fine del secolo xix, il programma degli apostoli della nuova cultura fu realizzato in parte, coll’apertura del Parlar mento nel 1890, colla codificazione delle leggi, la diffusione dell’istruzione, la ciea-zione di banche e d'industrie. Le città godevano di una certa autonomia; i diritti e i doveri dei cittadini erano riconosciuti come non lo erano stati mai dal feudalismo o dalla dottrina, di Confucio; ma l’ideale del Regno di Dio non era ancora prossimo. Si cominciò a dubitare dell’onnipotenza della civiltà occidentale e della ragione; le riforme in progetto non soddisfacevano più completamente, si produsse una reazione contro le pretese « Luci ». L’ammirazióne infantile e l'imitazione della civiltà forestiera cedettero gradata-mente il posto all’amor proprio nazionale. Il rescritto imperiale sull’istruzione, in data 30 novembre 1890, fu considerato negli ambienti pedagogici come ostile all’edu-Ìizione cristiana; il professore Inué, di qkyo, era alla testa del movimentò anticristiano che fece perdere molti allievi alle scuole delle missioni. L’insegnamento della lingua e della letteratura giapponesi fu maggiormente curato; e, mentre si negligeva l’inglese, là letteratura cinese era rimessa in onore come se fosse prossimo un rinascimento cinese.
I Giapponesi presero coscienza del loro valore e vantarono all’eccesso le buone qualità del popolo e le glorie della storia nazionale, il lungo regno della famiglia reale e il lealismo dei sudditi, le virtù numerose dei samurai e delle donne giapponesi. Intanto il paese era povero, deboli il suo esercito e la sua marina in confronto di quelli d’Europa e di America; molti ne erano consapevoli, .dimodoché tale orgoglio patriottico, unito alla coscienza della debolezza nazionale, sviluppò in essi una irritazione e quasi una prostrazione morbosa, le quali spiegano la credenza allora generale che Saigo, l'eròe della restaurazione del 1868, non erasi suicidato nella
ribellione di Satsumo npl 1877, ma, rifugiato in Siberia, ne sarebbe tornato durante la crisi risultante, da un possibile conflitto colla Russia.
L’esito felice della guerra cinese pose un termine a quel malessere. Prima di tale guerra, non solo erano considerate superiori le nazioni europee, ma la Cina era considerata come un antico maestro e come un fratello maggiore arrogante. La guerra cinese restituì al Giappone la salute morale. Da quel tempo, nonostante avvenimenti gravissimi, l’atteggiamento del popolo è stato sano e sensato. La critica liberale, impossibile prima della guerra, diventò molto più indipendente. Se le critiche del prof. Kumè sullo Shintoismo e la storia giapponese furono male accolte, il fatto ch’egli potè pubblicarle rivelava nel pubblico, se non nelle sfere ufficiali, resistenza d’una tolleranza maggiore riguardo ai dotti.
Dal punto di vista cristiano, questo periodo fu disastroso per le giovani Chiese. La parola d’ordine « Il Giappone ai Giapponesi » essendo risuonata per tutto il paese, le Chiese giapponesi si considerarono umiliate nel loro orgoglio nazionale pel fatto di ricevere l’aiuto finanziario di cristiani forestieri e si prefissero l’indipendenza economica come lo scopo immediato da raggiungere. Uomini che godevano di posizioni eminenti non desideravano recarsi in Chiese dirette da forestieri che non simpatizzavano coi Giapponesi più di quanto non capissero la storia e la vita di quel popolo. I ministri dell’Evangelo soffersero molto. Inoltre, alcuni capi della Chiesa cristiana furono presi dal dubbio riguardo alla teologia calvinista — che era quella dei missionari americani o in-Slesi — e la fède dei neofiti fu molto scossa al movimento della « nuova teologia » e dai suoi concetti anti-calvinisti.
in.
Il terzo periodo, dal 1901 ai giorni nostri, è quello romantico. Quanti conoscono la Sioventù giapponese, s’accorderebbero nel ire che l’atmosfera spirituale è ora tut-t’altra che quella anteriore al 1890 e differisce non poco da quella della fine, del secolo XIX. L’anima giapponese è gradata-mente passata dal periodo delle « Luci » al modo romantico di pensare e di vivere. I giovani più non ubbidirebbero alla ra-
44
r 1 ■ ■ --------------- -----------------------------294
BILYCHNIS
gion pura o all’imperativo ^categorico, bensì ai loro desideri. La sete di felicità, la soddisfazione dell’istinto e la volontà di vivere, tali sono le idee che dominano nella massa. Giammai l’arte e la letteratura sono state così popolari. Sembra che questo movimento sia nato dal lusso risultante dalla vittoria del Giappone sulla Cina, e sia stato sviluppato per gli sforzi del dott. Takayama, la cui penna incantava i giovani. Nel suo celebre articolo su La vita bella del luglio 1901, egli disprezzava così la vita intellettuale astratta come la vita delle virtù tradizionali e dell’obbedienza costante a una casuística rigida, e insisteva su « la vita bella », che non è altro, in definitiva, se non la sfrenata soddisfazione dell’istinto egoistico. Tale articolo, degno di Schopenhauer, ebbe molto successo nei più vari ambienti. Il dott. Takayama morì nel 1902, lasciando numerosi discepoli; da quel tempo, l’arte, la letteratura, la bellezza e l’amore, l’istinto e l’obbedienza alle esigenze dell’istinto, agiscono magicamente sul cuore dei giovani e sono accolti come la chiave del «sancta sanctorum » della vita. Takayama, apostolo del pangiapponismo nel secondo periodo, fu il promotore ardente e convincente di questo neo-romanticismo che regna sulla vita spirituale dei giovani Giapponesi. I segni di quella padronanza sono evidenti. Per esempio, agli studenti piace leggere romanzi realisti; a quegli studenti che prima erano fieri di leggere soltanto libri che facessero appello alle loro facoltà intellettuali; essi aborrono dal ragionare, mentre i loro predecessori si dilettavano nelle discussioni. I predicatori cristiani dei due primi periodi sceglievano argomenti come questi: «la causa prima, critica dell’evoluzione, la teleologia del Cosmo, i vizi del Confucianismo, l’educazione della volontà, le azioni eroiche di Gesù ». Oggi, gli argomenti sono di molto cambiati: « dolori della vita, il naturalismo e le sue conseguenze, la cultura estetica, l'unione mistica con Dio, l’estasi spirituale ». L’influenza di Schopenhauer è evidente.
Certo, il concetto della vita non è più puritano e ispirato da Confucio, e certo la gente ricerca quanto le piace e fugge le difficoltà. Le lingue straniere sono abbandonate, perchè. gli studènti più non si preoccupano di lottare con grammatiche e dizionari, mentre sinora avevano ricercato l’atletismo intellettuale per amore dell’esercizio su se stesso. D’altra parte.
le riviste e i giornali che vent’anni or sono non erano illustrati', sono pieni d’immagini, e ciò non dipende soltanto dal successo dell’insegnamento obbiettivo. I libri che trattan di cucina e dei piaceri della tavola sono popolari tanto da arricchire i loro autori. Formolo come queste a il vangelo della ricchezza ■ o « il vangelo del piacere », per quanto possano apparire strane ai seguaci d’un rigido cristianesimo, piacciono a molti giovani Giapponesi. Gli studenti leggono, ed anche raccontano con diletto, storie d’amore che ai samurai parevano argomenti indegni di conversazione. I Giapponesi apprezzano ora l’arte; cattedre di estetica sono state create nelle università di Tokyo e di Kyoto; i quadri raggiungono prezzi inauditi nelle grandi vendite. Tutti segni questi del valore ora attribuito alla bellezza e d’una fede romantica nell’onnipotenza della vita emotiva. Bisogna notare ancora, tra i fenomeni caratteristici dell'ora presente, lo studio della musica; vent’anni or sono, la maggior parte degli studenti non sapeva cantare; ora in tutte le scuole s’impartiscono lezioni di canto, mentre le scuole domenicali, buddiste e cristiane, contribuiscono molto allo sviluppo musicale dei giovani.
All’origine di tale tendenza, sembrano esserci tre cause:
i° Disprezzo pel pensiero concettuale.
Per pensiero concettuale, s’intende l’abitudine di considerare le cose in gruppi, Ser classi, generi, o specie, invece di consi erarle una separatamente dall’altra. È questo l’abito del razionalista, il quale generalizza nei suoi giudizi, invece di studiare gli oggetti uno ad uno, secondo il metodo empirico. Sotto il regno dei Togukawa, il metodo sperimentale era poco conosciuto e i dotti giapponesi pensavano per concetti, specialmente in materia di educazione. Il loro ragionamento può così riassumersi:
« Confucio ha detto che un gentiluomo deve comportarsi in un dato modo.
«Tu sei il figlio d’un gentiluomo.
■ Dunque, tu devi comportarti nello stesso modo ».
Questo insegnamento deduttivo ritrovasi ancor oggi nei libri usuali e nella disciplina familiale* applicata ai fanciulli.Un tale modo di pensare per concetti non ammette eccezioni nell’applicazione dei principi sacri alla vita umana. Per conseguenza, il razionalista assoluto pensa
45
L EVOLUZIONE DEL PENSIERO GIAPPONESE
295
alla famiglia prima di pensare a ciascuno degli individui che la compongono, considera la città prima di considerare la famiglia che ne costituisce solo un elemento; finalmente vede lo Stato come superiore alla città, e il rappresentante dello Stato come l’essere più importante di tutti, ch’egli è disposto a credere infallibile nei suoi giudizi e al disopra di ogni critica nella sua condotta. Perciò, prima del terzo periodo, ogni cosa era giudicata dal punto di vista dello Stato e dell’interesse pubblico, l’individuo non essendo- tenuto in alcun conto. Per i soldati non v’era in ciò nulla che fosse diverso da quanto succedeva negli altri paesi; ma questa tendenza si faceva sentire persino nella pittura. I pittori giapponesi, che sono accusati di non sapere esprimere i caratteri individuali per mezzo del giuoco della fisionomia, sono abituati a pensare per concetti. Per essi non si tratta tanto di dipingere questa o quella donna, ma piuttòsto* una donna la quale personifichi una certa classe; e si tratta di differenziare le classi meno con tratti caratteristici di fisionomia che col costume e cogli ornamenti.
Nel terzo periodo, il metodo empirico ed induttivo delie ricerche scientifiche sbalzò dal trono questo modo di pensare Sr concetti. Si prese in considerazione la icità dell’individuo prima di considerare il bene dello Stato.. Però il metodo empirico non deve essere considerato come causa unica di questo cambiamento nell’ordine dei valori; gli studenti stessi, e i dotti, non provengono ora più dai medesimi ambienti dai quali provenivano nei due primi periodi, e ciò è della massima importanza. Gli studenti del primo periodo erano di solito figli di samurai o di benestanti; e, non avendo da procacciarsi il pane, essi nàturalmente s’interessavano agli affari pubblici ed aspiravano a diventare funzionari dello Stato. Lo sviluppo della democrazia accrebbe il numero degli studenti di modeste condizioni. L’educazione, sino allora concepita còme una disciplina, s’intravide come un « apprentissage >; la vita, considerata come un conflitto, diventò un fenomeno di cui si deve godere.. Poco fa i giovani, persino gli studenti di liceo, discorrevano dello Stato e dei pubblici affari; ora non ne parlano molto. È evidente ch’essi s’interessano i olto meno al bene pubblico; ma è anche evidente
che sono diventati più pràtici, che sono f>iù sinceri nel loro sforzo per risolvere e questioni formulate dall’esistenza, perchè i problemi della vita — del pari che i problemi religiosi — hanno acquistato per loro un interesse personale e immediato.
2® Opposizióne al rigorismo stoico.
Per quante riserve possano farsi sulle teorie di Confucio, non v’ha dubbio che la sua influenza sulla vita giapponese scaturisse dall’importanza da lui attribuita alla volontà e alla disciplina. Il Bushido e il Confucionismo non sono insomma che una severa disciplina dello spirito e della volontà; ed esigono una condotta conforme a tale disciplina. L’azione loro nella vita giapponese fu simile a quella del profetismo nella vita ebràica, dello stoicismo fra i Romani o del puritanismo sugli abitanti della Nuova Inghilterra. Perchè i missionari del primo periodo, dopo la restaurazione del 1868, predicavano un cristianesimo puritano e calvinista ai figli dei samurai, soldati di nascita," educati secondo Confucio. l’Evangelo fece così rapidi progressi; ma lo stoicismo di Confucio era intimamente legato negli spiriti al pensiero scolastico e perciò lo seguì nella sua disgrazia. Quando si è rimproverato a questo pensiero scolastico di subordinare il particolare al generale, di sovrestimare lo Stato a detrimento dell'individuo, d’essere indulgente pei grandi, sovraccaricando i piccoli di doveri e di discipline, si è giunti naturalménte ad aborrire la disciplina della volontà e ad amare l’indipendenza. Ma la libertà può degenerare in licenza: per molti uomini essa costituisce l’esenzione completa da tutti i doveri e da tutte le restrizioni sociali, e la disciplina rappresenta un giogo artificiale ed inutile imposto ai giovani a profitto di qualche vecchio. Ün così detto naturalismo, odioso e sfrenato, servito da una letteratura sporca e a buon mercato ha fatto strage a Tokyo. È questo ancora, in una certa misura, un risultato dello spirito romantico, dell'influenza di Scho-S:rihauer e di quella, più recente, di
ietszche.
3® Cambiamento d’ideale nell'apprezzare la vita e i suoi problemi.
Durante il primo periodo, l’arbitro supremo degli scopi dèlia vita era la ragione; nel secondo, era o la volontà 0 lo Stato, fascio di tutte le volontà individue.
46
296
BILYCHNIS
Ora tutti e tre sembrano troppo astratti e spiacevoli, e le cose spiacevoli sono buttate via come vestiti usati: nella scala dei valori l’individuo è diventato superiore allo Stato, la sensibilità è posta al disopra dell’intelligenza e della volontà. Così stando le cose, il sentimento del piacere e del dolore ha finito coll’essere considerato come la corte suprema che valuterà i fini ultimi della vita e che indicherà il valore stesso e il senso dell’esistenza e della società; perchè, in ultima analisi, è l’individuo, soggetto della gioia e della tristezza, che ha il potere di apprezzare un valore, qualunque esso sia.
Ma i giudizi che poggiano sul sentimento soltanto son vaghi e suscettibili di modificarsi. Tutte le emozioni sono, in parte, altrettanto cieche come l’amore, e nessuna delle loro varie forme offre un criterio universale abbastanza immutabile per servire di guida nei momenti critici. Il senso del dovere s’è, di conseguenza, notevolmente indebolito; la dirittura e l’onestà non sembrano più destare il rispetto nei cuori, i fondamenti della morale sembrano scossi e i principi morali sono spesso considerati come regole inventate
dagli avi pel loro interesse o per quello del loro Stato.
La gioventù giapponese attraversa un periodo critico che non può non spaventare i patrioti e gli. uomini di governo veramente seri. Il sig. Tokonami, ex sottosegretario di Stato agl’interni, ha dichiarato che il Giappone poteva sfuggire alla catastrofe morale soltanto. per mezzo di una più attiva cooperazione dei ministri delle varie religioni. Per suggerimento suo, il sig. Hara, ex ministro dell’interno, ha convocato in Tokyo, il 25 febbraio 1912, i rappresentanti del Buddismo, dello Shintoismo e del Cristianesimo.
Nell’ora presente, i Giapponesi, assai Eiù nettamente che alla fine del secolo xix, anno coscienza della necessità d’una religione. Il paese s’apre ai vari modi dell’insegnamento cristiano, la predicazione ha una straordinaria influenza, il numero dei membri di Chiesa è più che raddoppiato in quindici anni: il suolo giapponese è fertilissimo nell’ora che volge, ma gli operai sono pochi ed il' compito è rude, perchè la messe sarà grande.
Masumi Hino
Professore nell' Università diJKyoto.
47
STORIA E PSICOLOGIA RELIGIOSA
i.
La nostra rassegna deve oggi riuscire necessariamente meno ricca di quello che potrebbe essere in tempi normali. Da circa quattro anni le pubblicazioni che riguardano il problema religioso sono assai diminuite e se ne comprende la ragione: doveri più urgenti richiamano la maggior parte degli studiosi' e le giovanili energie in un altro campo dove si maturano le sorti della futura civiltà. Ritengo nondimeno opportuno iniziare questa rassegna perchè, mentre le pubblicazioni riguardanti . il problema religioso sono diminuite, è ' invece aumentato, col sentimento religioso, come giustamente è stato avvertito in tutte le nazioni in guerra, anche un maggior interessamento per i problemi che sino a pochi anni fa, almeno in Italia, sembrava avessero fatto il loro tempo: e ritornano in vita non solo questioni teoriche, riguardanti il contenuto delle credenze, ma anche questioni pratiche, riguardanti la vita morale e politica degli individui- e delle nazioni. Con più vivo desiderio, oggi ci si rivolge alla storia delle religioni per conoscere ciò che essa è stata, quanto essa à influito, o à mancato d’influire, sui gravi eventi che c’incalzano, e cerchiamo di scoprire, dai particolari atteggiamenti dell’odierna coscienza religiosa, ciò che essa dovrà esser e come potrà contribuire alla riforma politica e morale del domani.
DUE CENTENARI
La guerra non à impedito che si festeggiassero due date rispecchianti due aspetti diversi della vita del Cristianesimo: voglio alludere al centenario del luteranesimo e a quello di Francesco Suarez. Con Lutero, nell’ottobre del 1517 s’iniziava quel grande movimento che doveva trasformare politicamente e religiosamente tutto il settentrione europeo; con la morte di Suarez, avvenuta il 25 settembre 1617, si chiudeva la serie dei maggiori rappresentanti della filosofia scolastica.
Fra le diverse pubblicazioni cui àn dato luogo questi due centenari, rammentiamo gli Scrìtti vari, pubblicati in occasione del terzo centenario della morte di Francesco Suarez, per cura del prof. Agostino Gemelli (Società ed. Vita e Pensiero; Milano, 1918) e la raccolta di scritti dedicati a Lutero, pubblicati in un numero unico dello Zeitschrifl fiir Philosophie und philosophische Kritik.
Nella raccolta italiana (pubblicata an-ch’essa in un numero unico della Rivista di Filosofia neoscolastica) notiamo, fra diversi articoli di P. G. Monaco, A. Masnovo, U. De Ercilla, A. Gemelli, G. Semeria, G. B. Tragella, un lavoro di A. Ber-nareggi su La personalità scientifica di F. Suarez, perchè ci sembra particolarmente adatto a farei conoscere lo sviluppo della personalità del teologo e giurista spagnuolo, così come si formò nella cul(20]
48
298
BILYCHNIS
tura del secolo xvi. Esposte FA. brevemente le dottrine di Suarez —- che à sempre il grave difètto di non aver preso contatto col campo politico e sociale del suo tempo, difètto che FA. vuole, secondo me, a torto giustificare — avverte le divergenze della sua dottrina con quella di S. Tomaso rilevandone l’eclettismo. Il lavoro si chiude con un rapido esame dell’influenza che ebbe Suarez sui suoi successori, da alcuni dèi quali fu anche paragonato al teologo protestante Filippo Melantone. Un pregio di Suarez consiste nel fatto ch’egli volle sottrarsi all’esclusivismo intollerante che favorisce il cristallizzarsi di sistemi entro limiti ristretti e secondo certe forme che vogliono rimanere immutate ed eguali per tutti i tempi. E a ciò forse si deve il fatto che egli non rimase esente dalle condanne del Santo Ufficio. Nella prima di queste si faceva anche divieto a lui di pubblicare nuove opere di teologia prima che fossero approvate dalla Congregazione. Un’altra opera di Suarez posta all’indice fu scritta nel fervore del conflitto fra la Repubblica di Venezia e la Santa Sede, conflitto al Suale prendeva anche parte Paolo Sarpi.
■’altro canto la sua opera Dejentio Fiaei, scritta contro la Chiesa anglicana, veniva data pubblicamente alle fiamme a Londra il 21 novembre, e di nuovo il i° dicembre 1613: e la stessa opera veniva bruciata a Parigi per condanna del Parlamento, il 26 giugno 1614. Egli fu incitato a scrivere quest’opera da Paolo V contro Giacomo I per sostenere il principio che ir Papa può esercitare una forza coercitiva sui Principi terreni e che egli poteva quindi detronizzarli se fossero divenuti eretici e scismatici. Ma nè Paolo V, nè Suarez si accorgevano che non eran più quelli i tempi di Gregorio VII.
Fra gli scritti della raccolta già rammentata, che riguardano Lutero, notevole è un articolo del teologo R. Seeberg, intorno alla filosofia religiosa di questo riformatore. L’A. ritiene che la ragione per cui Lutero è apparso confuso circa le sue concezioni filosofiche della religione, si deve non alle sue concezioni, ma al non essere stato studiato abbastanza da questo punto di vista. Questa, scrive Seeberg, è una lacuna che ai nostri tempi non dovrebbe aver luogo. Lutero si occupò dell’influenza esercitata dalla religione su la morale e in genere su la vita sociale, e cercò di inquadrare la religione in un
sistema filosofico, spiegando l’apparita di essa nell’umanità non in base a ricerche storiche, ma allo studio della natura umana. L’anima umana, secondo Lutero, si slancia verso la divinità e trova l’idea del divino non per via di estasi mistica o di speculazione, ma in se stessa, nella sua medesima natura.
MAZZINI E ROUSSEAU
Quando in Italia si accentuava il movimento unitario, dal 1815 al 1848, in Francia avveniva una ribellione nelle idee: i filosofi combattevano, chi più chi meno, il sensismo e l’enciclopedismo francese che fino allora avevano dominato. Mazzini, ammiratore del popolo francese, non,ave va alcuna simpatia per le sue istituzioni e per i suoi scrittori; tranne il Lamennais dell’ultima maniera, e la Sand, non ve n’è alcuno che lo contenti appieno, non escluso Victor Hugo, riprovato da lui come il promotore del funesto programma L'arte per l'arte. Ma ciò che può sembrare strano, dice A. Levi, nel suo recente libro su La filosofia di Giuseppe Mazzini (Zanichelli, 1917), è il vedere come Mazzini combatte Rousseau, filosofo, spiritualista e teista. G. G. Rousseau, dice A. Levi, era spiritualista come Mazzini, e non per ragioni di ordine filosofico, chè anzi la sua filosofia si riduce a un sensismo pencolante verso il materialismo; le ragioni del suo spiritualismo sarebbero, secondo A. Levi, tutte di ordine morale: da una parte l’impossibilità che il bene scaturisca dal senso esterno e dal corpo; dall’altra la necessità di un’armonia sovrannaturale in cui si realizzi quella perfetta giustizia che non si può attuare appieno in questa vita. Similmente, continua A. Levi, lo spiritualismo di Mazzini è tutto tessuto dell’orrore per le conse-Euenze morali del materialismo e del ¡sogno di una giustizia e felicità oltremondana. A. Levi si diffonde a considerare anche altri punti di contatto tra la filosofia e la politica di Mazzini' e quella di Rousseau, ed esamina quella del primo specialmente rispetto alle esigenze dell'ora presente.
Quest’esame fatto assai diligentemente e, arricchito di raffronti con altre dottrine, riesce a lumeggiare l’acutezza di mente del grande uomo. La parte più debole del libso ci sembra quella che riguardai! teismo mazziniano, contro il quale FA. non dissimula.
49
TRA LIBRI E RIVISTE 2Ç9
i suoi sentimenti. Per limitarmi soltanto al raffronto che fa l’A. tra il deismo di Rousseau e il teismo di Mazzini, la differenza non è semplicemente ortografica, ma fondamentale. Il Dio di Mazzini è un Dio vivente che opera — in contrasto con quello del deismo — continuamente nel mondo per mezzo della sua volontà e della sua potenza. E non è esatto il dire, con A. Levi, che tanto Rousseau come Mazzini trovano il loro Dio nella .coscienza e non si curano definirlo. « C’est ainsi, scriveva Rousseau, que contemplant Dieu dans ses œuvres, et l’étudiant par ceux de ses attributs qu'il m'importait de connaître, je suis parvenu à étendre et augmenter par degrés l’idée, d’abord imparfaite et bornée, que je me faisais de cet être immense. Mais si cette idée est devenue plus noble et plus grande, elle est aussi moins proportionnée à la raison humaine ». Se per esprimere l’essenza di Dio Rousseau non trova parole adatte, ciò avviene dun-Ìue perchè essa supera la ragione umana (i).
er Mazzini invece Dio si rivela diretta-mente e immediatamente nella coscienza umana; si rivela principalmente a traverso l’umanità alla quale perennemente comunica il suo pensiero e su la quale perennemente si diffonde il suo spirito. Il nostro Dio — obiettava Mazzini nel 1871 all’ateismo di Bakounine — è il Dio della vita e della creazione presente, è il Dio dell'azione incessante. Nè più giusto è il giudizio di A. Levi, riferendosi alle tendenze materialistiche di G. G. Rousseau. Questi diceva di ignorare se l’anima sia immortale, perchè gli sfuggiva tutto ciò che è infinito e quindi tutto ciò che non è colto mai dall’annullamento; ma non negava la immaterialità dell’anima umana e scriveva che alla morte: la substance active et vivente regagne toute la force qu'elle employait à mouvoir la substance passive et morte (Profession de fois). E quanto a Mazzini: noi, egli scriveva, passiamo viandanti, di un giorno, chiamati a compiere la nostra educazione altrove... l’amore è promessa da compiersi altrove, la speranza fruito in germoglio, il feretro una culla di nuova vita.
Ma la divergenza tra Rousseau e Mazzini, diviene, secondo me, irriducibile nei concetti loro circa l’origine e la natura della religione. Rousseau credeva
(1) Cfr. Profession de fois du Vicaire savoyard.
con Voltaire che l’umanità originariamente fosse stata laica, e venuta a reli-E'one solo dopo molti secoli di vita arenosa per lo spirito di dominazione destatosi in alcuni, e per la loro frode (1).
Come si vede l’erroneo concetto che ebbe Rousseau dell’origine della religione è una conseguenza di quella ch'egli ebbe dell’origine della società umana, considerata da lui come un effetto di convenzione contrattuale. Da ciò anche l’erroneo suo concetto intorno alla natura della religione, che, per lui, doveva esser fondata su interessi Brticolaristici e contingenti, mentre per azzini la religione, che à un carattere eminentemente psicologico, risponde a una profonda esigenza dell’uomo che domanda il segreto della propria origine e del proprio fine.
LA POLEMICA RELIGIOSA NEL SECOLO XI
La riforma religiosa, che s’inizia nel-l’xi secolo contro nicolaiti e simoniaci, contro la medesima cupidigia che Agostino aveva deprecato nei cittadini della città terrestre e che ora aveva invasa la Chiesa, fa oggetto di ricerche uno storico francese, A. Fliche, in un suo libro di Études sur la Polémique religieuse à l'époque de Grégoire VII (Paris, Société française d’imprimerie et de librairie) e dei quali à pubblicato sinora la prima parte, quella che riguarda i pregregoriani, cioè i precursori che prepararono le coraggiose riforme di Ildebrando.
Al tempo di Leone IX nella Chiesa, che si trovava in condizioni miserevoli, s’inizia, e precisamente per mezzo di questo papa, una politica riformatrice. Due secoli dopo la situazione non è semplice-mente mutata ma capovolta: il papa, forte del diritto divino, si arroga la facoltà di sorvegliare l’imperatore, i re, i signori, e Tommaso d’Aquino può dire, prima ancora di Suarez, che l’autorità religiosa domina la società, come la grazia divin? domina la natura. Come avvenne ciò?
Gli storici ànno emesso diversi pareri. A. Fliche è dell’opinione che le cause bisogna cercarle nella letteratura del secolo xi e nelle influenze moralizzatrici esercitate dall’abbazia di Cluny. Ma per
(1) Cfr. Discours sur l'origine et les fondements de V inégalité parmi les hommes.
50
3oo
BILYCHNIS
quanto abbia potuto esser grande questa influenza, noi riteniamo che bisogna ascrivere ad altre cause più fondamentali la ragione di un così profondo mutamento nella politica e nella vita religiosa della Chiesa.
Un’anarchia feudale seguiva alla caduta dell'impero carlovingio per la suddivisione di questo in diversi regni che volevano conquistare ciascuno per sè, con l’indipendenza politica, l’autonomia religiosa. Il papato era allora screditato, e a Roma la famiglia di Teofilatte disponeva della tiara. Sergio III e i suoi successori trasformavano il papato in una sentina di vizi e d’infamie d’ogni specie; la gerarchia ecclesiastica era in gran disordine; la simonia si diffondeva in Germania sotto Enrico IV (1058-1106) e in Francia sotto Filippo I (1060-1108). Ora tutto questo non poteva mutare soltanto per effetto della letteratura religiosa e per l’opera isolata dell’abbazia di Cluny. La letteratura religiosa del secolo xi non era che un segno della salutare reazione avvenuta allora nella coscienza religiosa contro tanta depravazione; un segno della esi-Ì;enza di riforma nella Chiesa e nella po-itica che si diffondeva tanto nel mondo ecclesiastico quanto in quello laico; e la stessa abbazia di Cluny sarebbe rimasta sola nella lotta cóntro nicolaiti c simoniaci, se non avesse trovato eco nelle vigili coscienze religiose dei cosiddetti pregregoriani, che con opera assidua e con disposizioni disciplinari pervennero poco a poco a mettere argine al mal costume e, in certo modo, a distruggerlo elevando la Chiesa a una potenza non prima raggiunta. Sorgevano infatti allora diversi conventi con regole simili a quelle dell’abbazia di Cluny, e ne sorgevano nel secolo x e nell’xi tanto in Francia che in Italia e in Germania.
D’altro canto non bisogna dimenticare che fin dai primi anni del suo pontificato Leone IX non si limitava soltanto a favorire la predicazione e la polemica contro nicolaiti e simoniaci, ma minacciava di esser severo persino contro i vescovi se trovati colpevoli. In tre Concili, tenuti nel Ì049 in Italia, in Francia e in Germania, s’iniziava la nuova politica che seguì da allora il papato per mezzo secolo. E bisogna notarlo, questo papa prendeva per suo collaboratore il monaco Ildebrando, il futuro papa Gregorio VII, che lo persuase di riunire a Roma un Concilio dove
fu posta, per la prima volta ufficialmente, la questione della riforma. Nessuno po.-teva più pervenire a cariche ecclesiastiche se non fosse stato eletto dal clero e dal popolo; nessuno poteva impunemente vendere e comprare ordini sacri, prendere compensi per seppellimenti, battesimi, eucaristia,, visite ai malati; nessuno poteva impunemente praticare l’usura. Nel 1050, secondo lo storico Bonizon (Libelli de lile imperatorum et ponlificum), Leone IX interdiceva al clero e ai laici di aver rapporto coi fornicatori, coi preti incontinenti, che pullulavano allora a Roma e in Toscana; anzi questi preti venivano allontanati dagli altari.
Non siamo qui dunque di fronte a una semplice polemica letteraria contro il mal costume del clero, o a un richiamo alla vita del chiostro, o all’ascetismo da parte di pochi monaci, ma di fronte a un diffuso riconoscimento dei mali che travagliavano la Chiesa e alla volontà di estirparli anche, occorrendo, con mezzi coercitivi. Le cause che affliggevano allora la Chiesa erano troppo palesi e il porvi rimedio pareva necessario ai pensatori, ai moralisti, ai politici, non menò che ai religiosi di quel tempo.
Due figure che eccellono in quel periodo burrascoso della storia della Chiesa, e che servono di anello di- congiunzione tra Leone IX e Gregorio VII, sono Pietro Damiano e il cardinale Humbert. A. Fliche, che vuole elevare, secondo me oltre il. giusto valore, l’influenza benefica della predicazione, della polemica letteraria è della vita claustrale, contro i vizi del tempo, fa un’esposizione critica dei trattati di Pietro Damiano contro il nico-laismo e specie contro la sodomia allora assai comune fra i monaci. A questi monaci Pietro Damiano opponeva iin ideale di monaco che fosse dedito al digiuno e alla flagellazione e che andasse macero, nudo, curvo sotto la legge che comanda una santa ignoranza. Pietro Damiano era condotto così a predicare ¡l’abbrutimento corporale e spirituale e a riconoscere che la pena corporale non è meno decisiva, per la salvezza, che la pratica degli esercizi spirituali. A. Fliche non avverte che la letteratura, la predicazione e la vita claustrale di quel tempo, per salvare la Chiesa dalla rovina morale, non sapevano alla fine proporre nulla di meglio, che il castigo corporale e l’ignoranza. Egli rimprovera inoltre a Pietro Damiano di parlare un
51
TRA LIBRI E RIVISTE
301
linguaggio incompreso ai vescovi dell'xi secolo e di non essere stato così chiaroveggente nel porvi rimedio: ma Fliche avrebbe dovuto invece rilevare che i rimedi e le argomentazioni suggerite da Pietro Damiano erano spesso assai manchevoli. Così, per esempio, invece di dire che il mal costume è sopratutto biasimevole in coloro che ànno la missione di ammaestrare a vita religiosa e morale, perchè non è insegnamento efficace quando è contraddetto dall’esempio di colui che lo impartisce, Pietro Damiano preferiva dire che il prete, come sposo della Chiesa, è padre dei figli di costei; ed essendo la generazione spirituale più forte di quella carnale, i preti nicolaiti devono esser ritenuti piu colpevoli degli incestuosi. Con simili argomenti si voleva anche negare al clero il matrimonio!
Un fatto però rimane accertato, e cioè che fra tutte queste polemiche pregregoriane, fra queste argomentaz;oni che dovevano rimanere poco efficaci, almeno per le persone più intelligenti, fra questo incessante richiamo alla vita claustrale ed ascetica, ma più ancora fra le minacce di castighi e pene gravi, il clero corrotto veniva, grado a grado, a epurarsi e a preparare il terreno sul quale dovevano prosperare in seguito le riforme gregoriane.
Un'altra corrente pregregoriana, con caratteri propri, alquanto diversi da quella italiana — rappresentata da Pietro Damiano — è quella che trova il suo duce nel cardinale Humbert. Questi fu il tipo del monaco istruito, letterato, teologo; mentre Pietro Damiano fu un asceta fervente, un amante della solitudine e della penitenza.
Il cardinale Humbert, che, come si sa, rappresentò, una parte importante nello scisma d’Oriente, inizia la sua lotta contro i simoniaci con un trattato Adversus Si-moniacos, libri tres. Nelle sue argomentazioni, che non sono sempre più forti di quelle di Pietro Damiano, riesce talvolta a mettersi con questi in contrasto; così, per esempio, quando Humbert riteneva che i preti simoniaci perdessero lo spirito di Dio, mentre Damiano riteneva che lo spirito di Dio, ricevuto con l’ordinazione, non si potesse perdere. A. Fliche non si pronuncia su questa astrusa questione teologica, ma la Chiesa che aveva dato ragione ad Agostino contro i Montanisti, non poteva essere in questo dalla parte di Humbert, il quale diceva: «Il simoniaco
non à fede; chi non à fede è eretico, dun-2uè la sua consacrazione episcopale non valida e i suoi atti sono nulli». Ma eretico è per la Chiesa chi rigetta un dogma, non in genere chi commette peccato, e perciò essa poteva sostenere la validità dei sacramenti amministrati dai preti simoniaci
CHIESA E STATO NELLA MENTE DI GREGORIO VII
Più interessante di questa artificiosa argomentazione contro i simoniaci appare la polemica sostenuta dal cardinale Humbert, prima che da Gregorio VII, per sopprimere l’investitura laica che egli prospettava come causa d'ogni male. L'imperatore, secondo una imagine gradita ai teologi del tempo, era come un tutore che avesse venduto a un uomo impuro la giovane fidanzata a lui affidata (la Chiesa); e con questa imagine Humbert voleva caratterizzare l’usurpazione dei principi laici, che avevano abusato del loro grado e della loro potenza per assumere nella Chiesa una parte preponderante, come un tradimento del loro mandato. L’ordine dell’ufficio dello Stato e della Chiesa era allora capovolto: il clero non aveva altre cure che quelle secolari, e i laici prediligevano occuparsi di affari ecclesiastici. Ma ciò cui tendeva la politica ecclesiastica al tempo del cardinale Humbert, era non solo la liberazione della Chiesa dall'ingerenza dei governi civili, ma il predominio della potenza ecclesiastica su quella politica. II sacerdozio, diceva il cardinale Humbert, sempre con quel modo speciale di argomentare, è simile all’anima; il regno al corpo; essi si amano scambievolmente, ànno scambievoli bisogni e si aiutano reciprocamente. E come l'anima domina e comanda il corpo, così la dignità sacerdotale è superiore a quella reale e deve comandare su di questa. Ma quanto siano distanti queste teorie da quelle sostenute da Gesù, da Paolo e dagli antichi apologeti circa i rapporti dello Stato con la Chiesa, non è chi non veda.
La parte più interessante del libro so-vrammenzionato di A. Fliche è precisa-mente quella in cui vien prospettata la grande lotta tra Chiesa e Stato nel secolo xi, quantunque lo storico francese abbia mancato di avvertire che le polemiche pregregoriane, e le stesse riforme di Ildebrando, solo indirettamente miravano
52
302
BILYCHNIS
a liberare la Chiesa dalla influenza dello Stato, mentre volevano soggiogarlo. Il Sntificato di Gregorio VII inaugura in-, ti la grande lotta del sacerdozio con l’impero, lo strepito della quale risuona attraverso tutto il Medio evo, e la sua attività è sopratutto richiamata dal desiderio ch’egli à di rendere la Chiesa non solo padrona dei suoi atti, rispetto all’impero, ma di dare ad essa un posto che stia al di sopra del regno degli uomini. Questo doveva notare A. Fliche e non darci l’impressione che Gregorio VII volesse definire i rapporti tra Chiesa e Stato, per sradicare mcolaismo e simonia.
Certo la Chiesa non avrebbe potuto avere autorità alcuna, nè esercitare le sue funzioni se fosse stata dominata da quei vizi; ma Gregorio VII, liberando la Chiesa dagli elementi deleteri che ne avrebbero minata la salda costruzione, voleva che la Chiesa divenisse anche una istituzióne politica, e fu così fortemente trascinato dall’interesse politico, da non vedere che, f>er dare la supremazia alla Chiesa su d Stato, nuoceva alla religione. Questa infatti non si avvantaggiava della supremazia politica, ma trovava in essa nuove cause di decadenza e di traviamento. Nel 1081, e precisamente nella lettera scritta da Gregorio VII il 25 marzo di quell’anno a Ermanno De Metz, la sua concezione dei rapporti tra Stato e Chiesa riveste una forma definitiva. Se la Santa Sede rappresenta la divinità in terra, egli pensava, è naturale che nemmeno i re possono sottrarsi alle sue decisioni, e la teocrazia viene così da Gregorio VII estesa a tutti i principi temporali che devono conformarsi, nella loro condotta e nel loro governo, non solo alle massime della morale cristiana, di cui la Chiesa è garante e de-Sositaria, ma anche agli interessi della anta Sede. Invano i giuristi tedeschi di quel tempo vogliono dimostrare che il potere imperiale è superiore a quello papale. Secondo Gregorio VII, tutto il gregge cristiano è affidato a lui e i re non devono farne eccezione. Se la- Chiesa può conoscere le cose spirituali, scriveva egli nella Bolla del 25 agosto 1076, perchè non conoscerebbe gli affari del secolo? E ancor più nettamente egli afferma il diritto che à la Chiesa di occuparsi degli affari del secolo scrivendo il 3 settembre di Enrico IV: Ch'egli non pensi più, d’ora in poi, che la Santa Chiesa gli sia sottomessa come una serva, ma che riconosca
invece il potere che essa à di dargli degli ordini (Ep. IV, 3). Dal criterio dell’inferiorità delle cose temporali, rispetto a quelle spirituali, impropriamente applicato al governo ecclesiastico e a quello civile — che si riferiscono ugualmente a cose spirituali e temporali —- si apre la via alle interminabili lotte che insanguinano il Medio evo e che dovrebbero servire d'ammonimento anche per ciò che prepara la storia ai nostri giorni.
LA FASE ATTUALE DEGLI STUDI RELIGIOSI
Voglio finire questa prima rassegna rammentando uno studio di Giosuè Ma-liandi su La fase attuale degli studi di storia religiosa, pubblicato nella Nuova Rivista Storica al principio del corrente anno'. G. Maliandi à perfettamente ragione di condannare il pregiudizio che pretende togliere all’indagine storica il diritto di studiare le. religioni, considerando queste come eventi sacri che stiano al di sopra della storia. Essendo gli eventi sacri concatenati causalmente coi fatti storici che li precedono, li accompagnano e li seguono, non possono certamente sfuggire all’indagine storica. Maliandi però non à ragione di rigettare come studi pieni di pregiudizi quelli che si riferiscono alla primitiva religiosità, e doveva distinguere quelli fatti per puro interesse scientifico, non traviato da particolari vedute metafisiche, dagli altri che non ottemperano a queste condizioni, che sono fatti sotto la minaccia di un veto ecclesiastico.
Specialmente pieni di pregiudizi, e secondo me a torto, ritiene l'A. gli studi che si son fatti su l’origine dell’idea di Dio. La critica che egli fa delle opere ài Schmidt, Tielc, Pfleiderer, Sabatier, Ladd, Galloway, Hòffding, Tròltsch (e avrebbe dovuto esaminare accuratamente, fra altre che qui mancano, le opere di A. Lang), mi sembra per questo rispetto poco giusta. Questa critica doveva anche esser preceduta dall’esame di un problema che è indispensabile risolvere per giudicare dell’origine e natura della primitiva religiosità; occorreva esaminare se avere per oggetto la divinità fosse un fatto necessario per la religiosità, o accidentale; e se necessario, bisognava riconoscere che le religioni primitive, in quanto sono religioni, non mancano di quell’oggetto, per quanto oscuramente concepito. Ma es-
53
TRA LIBRI E RIVISTE
303
sendo Maliandi del parere che l’idea di Dio non è primordiale nella religione, considera come pieni di pregiudizi tutti gli autori che affermano il contrario.
La classificazione degli studi intorno all’origine e natura della religiosità (e dovrebbe distinguersi religiosità da religione, per non generare equivoci) in studi che considerano la religiosità primitiva come un prodotto di condizioni storiche, e in altri che la considerano di natura psicologica, è insufficiente. Bisogna anzitutto conoscere da quali fattori o motivi risulti la religiosità o se sia una specifica, irriducibile funzione dello spirito umano; e bisogna conoscere se la religiosità sia una funzione necessaria o accidentale della natura umana. In una classificazione degli studi su la religiosità condotta in base alla natura storica o psicologica di essa, come fa Maliandi, parecchi autori potrebbero pretendere di far parte di quella e di questa classe insieme. Da quanto qui accenno si può vedere che la classificazione degli studi intorno alla primitiva religiosità, alquanto più complessa di quella che pensa Maliandi, dev’esser fatta in base ad altri criteri.
Nello studio della religione non bisogna disconoscere il valore delle ricerche storiche e nemmeno quello delle indagini psicologiche. L’etnografia, l'archeologia preistorica ànno fatto conoscere elementi antichissimi che sopravvivono ancora nelle migliori religioni e ànno giovato a richiamare l’attenzione degli psicologi su tali ricerche che arricchiscono e completano le loro. Così senza lo studio delle religioni primitive e dell’Oriente classico, senza le ricerche etnologiche, antropologiche e storiche, non si potevano spiegare alcuni riti cristiani. Non è esatto quindi nemmeno dire, come fa Maliandi, che quelle religioni non siano preparatorie del Cristianesimo, perchè la natura umana è religiosa prima e dopo l’avvento del Cristianesimo, e la storia dimostra quanto delle morte religioni sia passato nel sistema di credenze e culti delle religioni vive. E come la storia completa e arricchisce l’indagine psicologica delle religioni, così non è possibile che la psicologia possa impunemente scompagnarsi dagli studi storici su le religioni.
M. Puglisi.
ETNOGRAFIA RELIGIOSA vi.
Alfredo Niceforo, I Germani. Storia di un'idea e di una « razza ». Roma, Società de’ Periodici, 1917.
L’idea del germanesimo e quella della razza germanica sono collegate nel loro sviluppo storico; anzi il concetto di una particolare razza germanica si evolve da quello della dominazione pangermanista, allorquando questa dottrina politica è collocata dai teorici sulla base scientifica della antropologia. Sorge così e si radica profondamente il principio che la supremazia politica dell'impero alemanno è dovuta alla superiorità della razza tedesca.
Il libro che Alfredo Niceforo ha testé pubblicato sui a Germani », è la storia arguta di questo principio, di questo pensiero, che ha affascinato i molti e molteplici lavoratori dell’erudizione e della politica tedesche, dallo storico Mommsen, che lanciò la prima opinione, e dal Nietzsche, che compose la formula principale, al Chamberlain, che enunciò i sovrani paradossi, e ad altri che li illustrarono, li avvalorarono con nuovi dati e documenti. Chi poteva pensare che le scoperte preistoriche della seconda metà del secolo decimonono dovessero far sorgere quell’equivoco fondamentale dell’uomo doticobiondo, che fu per lunghi anni, ed è ancora, il punto centrale della scuola antropologica e sociologica germanica?
Essendo stati scoperti intorno al 1865 gli scheletri dei Reihengraeben in suolo tedesco; ed essendo stato notato che le forme dei crani erano simili a quelle di altri crani trovati in altri punti dell’impero e in terreni del periodo neolitico e dell’epoca romana, gli antropologi d’oltr’Alpe furono indotti a vedere in quel tipo umano il tipo germanico, e ad identificarlo col popolo attuale della nazione tedesca. Da questo equivoco una serie di errori, e Srincipalmente quello per cui la storia ella civiltà è la storia della stirpe germanica. La rinascenza italiana, per esempio, è dovuta all’avvento delle tribù barbariche del settentrione; e il sangue germanico scorre in quasi tutte le genealogie illustri del nostro medioevo. Il nome del divino Alighieri sembra essere una corruzione del termine tedesco Aldighcr; quello di Ghi-berti pare derivato da Wilbert; quello del Brunelleschi da Bruenell; quello di Giotto
54
BILYCHNIS
3<>4_______
da Jotle; quello di Boccaccio da Buchaz, e così anche quello di Vinci da Winke; Ve-cellio da Vetzell: quello di Bonarroti da Bohnrodt.
Tipo germanico l’uomo di genio che creò in Italia la rinascenza; e tipo germanico ugualmente quello che. creò le grandi civiltà del passato, e cioè l’egiziana, la greca, la latina. E ciò si desume dal fatto che nelle aristocrazie e nelle classi dirigenti dei paesi egiziani, ellenici, latini l’elemento dolicobiondo con occhi azzurri era largamente disseminato. La zona della massima civiltà è cosparsa di fili d’oro, e basta osservare nella vasta trama l’intreccio di essi per identificare i biondi capelli ariani o indogermanici.
Che cosa oppone il Niceforo a questa scienza argomentativa della dotta Germania? I risultati della vera scienza, con ricchezza e agilità di confutazione. Il dolicocefalo biondo non può essere ■ confiscato » da nessuna nazionalità, essendo sparso, dal periodo neolitico infino ad oggi, su grandissima parte d’Europa, nella Norvegia, nell’olanda, nel Belgio^ nelle Isole Britanniche, e in parte nella Francia e nella Russia. Nei tempi preistorici questo tipo umano si differenziò in due varietà, una delle quali nel settentrione avrebbe subito, sotto l’influenza dell’ambiente climatico, un processo di depigmentazione; l’altra, bruna, detta varietà mediterranea, si trova tuttavia nella Spagna, nel litorale meridionale francese, nella Liguria, nel mezzogiorno d’Italia, nella Grecia.
È poi, difficile dagli epiteti omerici, e-siodei, pindarici ricavare il preciso tipo fisico dei popoli antichi, il colore dei capelli, degli occhi, della pelle. Spesso la traduzione degli aggettivi delle lingue morte non rende nelle lingue vive il vero ed esatto significato originale. Quando i traduttori omerici s’imbattono nell’aggettivo zuave««, traducono la parola per azzurro (Odissea, XII, 80, trad. Pindemon-te; Iliade, trad. Salvini), mentre i termini nostri corrispondenti non sono che fosco, nero intenso con riflessi bluastri. E ciò senza dire che i poeti, cantando ed esaltando gli uomini e le gesta loro, avevano davanti un tipo ideale, o almeno raro, e quindi pregiato in una società di bruni.
Se il Niceforo, per ricostruire i tratti fìsiognomici ed estetici dell’uomo e della donna, avesse voluto spogliare, oltre ,i documenti letterari, anche le tradizioni popolari, gli umili documenti plebei (e lo a
vrebbe potuto fare magistralmente l’autore di Classes pauvres), avrebbe rilevato che dappertutto, in Italia, l’uomo rosso è tenuto in dispregio. Da un punto all’altro della penisola corrono proverbi, motti, canti e pregiudizi che caratterizzano 1’« uomo rosso », il « capo rosso », il « pelo rosso » come proclive al tradimento, al furto, alla maldicenza, e come essere che emana un odore sgradito. Quell’ erudito paradossale e bizzarro del secolo xvi, che risponde al nome di Ortensio Lando, lo aveva già notato: « Guardate — diceva — da lombardo calvo, toscano losco, napolitano biondo, siciliano rosso, romagnolo ricciuto, viniziano guercio et marchigiano zoppo ». Come, poi. il pregiudizio, che a quei tempi, si limitava al siciliano rosso, si sia generalizzato a comprendere il tipo rosso delle altre regioni, non sappiamo. Secondo un dialettologo lombardo, Gabriele Rosa, questa volgare tradizione allude ai tristi ricordi delle invasioni barbariche, delle genti dai capelli d’oro; ma l’opinione di questo scrittore non mi pare accettabile perchè gli antichi non giudicavano diversamente l’uomo biondo o rosso (nelle tradizioni popolari spesso si .confonde il rosso col biondo) e dicevano che il sangue cavato dal suo corpo, quando è in orgasmo, è -veleno.
Da questo si desume che l’àpologìà del tipo biondo non è costante, nè ugualmente diffusa, come fanno fede innumerevoli documenti demopsicologici, esaltanti, al contrario, il tipo bruno, perchè forte, sincero, sensuale.
Raffaele Lombardi-Satriani, Il Blasone Popolare (Estr. dal « Folklore Calabrese » Laureaba di Borrello, tip. Progresso, 1917)L’egregio studioso, che si fa ammirare per i suoi continui ed efficaci contributi alla scienza delle tradizioni popolari, tratta in questo opuscolo di una quistione di nomenclatura demopsicologica, facendo osservare che, se il termine « blasone » serve nell’araldica a designare le armi gentilizie, non può poi, trasportato nel folklore, indicare le « ingiurie, con le quali si motteggiano vicendevolmente gli abitanti dei varii paesi ». Onde egli opina che il termine proprio da usare sia quello di «soprannome », essendo esso adoperato dal popolo in Calabria per denotare le ingiurie e le invettive paesane.
55
TRA LIBRI E RIVISTE
305
E in verità, letteralmente la parola « blasone », portata dal campo degli studi araldici in quello delle tradizioni popolari, potrebbe soltanto indicare quelle insegne e imprese incise, scolpite o dipinte che pel volgo fanno l'ufficio degli stemmi, degli scudi e dei trofei gentilizii, e di cui il Ninni neìV Araldica Pescatoria (Venezia, 1890) ha dato un saggio importante. Se-nonchè, a me pare che 1 folkloristi francesi e italiani, quando introducevano nella nostra disciplina il termine araldico, non guardavano tanto al suo significato letterale, quanto a quello metaforico, e forse, con un’aria ironica. E se ben osservi il Lombardi-Satriani, scorgerà un sorriso u-moristico sfiorare le labbra del Rolland nel momento di chiamare « Blasoni » gli epiteti e le apostrofi che caratterizzano i luoghi e i loro abitanti, i paesaggi, le persone, la storia di una provincia o regione.
In questo senso credo possa sostenersi ancora nella nomenclatura demopsicologica l’uso del termine blasone; che, per altro, in Italia non è frequentemente adoperato, nemmeno da quelli che lo introdussero tra noi; nemmeno, se vuoisi, dal Pitrè, che, fedele alla distinzione morfologica fondamentale tra canti e proverbi, nel XXV volume della Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, raccoglie insieme i « Canti sui paesi di Sicilia », senza confondersi coi proverbi che riguardano « paesi e città »; e nei XXV volume poi, chiama tali epiteti civici « nomignoli » (< Non c’è comune — scrive a pag. 454 — senza un nomignolo... »).
Questo ricordo del grande maestro potrebbe avvalorare, in parte, l’opinione del Lombardi-Satriani, il quale in questo saggio si rivela un eloquente, acuto e originale critico.
Raffaele Corso.
wki »¡pi
CORPUS SCRIPTORUM LATINORUM PARAVIANUM
Con una solerzia editoriale che è di ottimo augurio per l’avveniie, con una diligenza di critici che dimostra quali siano anco» a le nostre energie scientifiche, la ditta Paravia ed il prof. C. Pascal continuano nell’opera intrapresa di dare un’edizione critica italiana degli scrittori latini.
I nuovi numeri della collezione che, a malgrado delle difficili condizioni in cui ora si svolge l’arte tipografica, si pubblicano con la consueta eleganza e nitidezza di tipi e con discreta bontà di carta, sono dei pivi importanti: il de república di Cicerone, è curato dall’infaticabile Pascal e dotato di una prefazione e di un’appendice di testimonianze classiche sul de república da G. Galbiati, noto agli studiosi per il suo lavoro sulle fonti dello stesso trattato ciceroniano e del de legibus.
Un maestro di letteratura greca, C. O. furetti, per le attinenze che la commedia latina ha con l’opera di Monandro, pubblica lo Stichus di T. Maccio Plauto, uno dei lavori più discussi e più discutibili per la composizione e per lo spirito intrinseco.
L’Annibaldi, che già curò il de Germania di Tacito, dà ora alla luce l’altra delle operette minori del grande scrittore latino: il de vita I ititi Agricolae, al quale il Pascal fa seguire un’appendice sulle testimonianze che conserviamo dell’autore.
Un altro maestro, D. Bassi, ha dato le sue cure ad un'altra classica operetta, il de bello civili di Cesare, completando così la serie, indiscutibilmente ottima, degli studiosi che han dedicato finora le loro fatiche alla nuova collezione.
Come dissi già altra volta, non farò qui osservazioni particolari sulle nuove edizioni pubblicate, le quali tutte, senza eccezione, sono frutto di lavori acculati e, in gran parte, originali. Lamenterò solamente che non tutti i fascicoletti, che hanno pur appendici ciitiche e «testimoniali» copiose e ben redatte, siano dotati' di quegl’indici de’ nomi propri che recano
56
306
BILYCHNIS
tanto giovamento agli studiosi a qualunque grado di studi appartengano. Ne’ volumetti pubblicati non vedo, per es., per qual ragione un tale indice sia stato omesso per il de republica di Cicerone e ne’ precedenti perchè esso manchi all’Octavius di Minucio Felice; se a chi ha lette, studiate, commentate tali opere un indice è prezioso, a chi se ne serve per la scuola (maestri e scolari) sarebbe stato pur comodissimo. Vogliamo sperare che in una seconda edizione gli editori tengano conto di tale nostro desiderio.
Ed ora attendiamo il seguito dell’impresa così fiduciosamente iniziata e continuata, accompagnandola con i nostri voti. Qualunque debba essere il seguito dell’opera, qualunque sia il giudizio che nel complesso se ne possa dare in avvenire, rimarrà alla ditta Paravia e al Pascal il merito di avere, in tanto imperversare di demagogismo scientifico e, diciamo pure, in tanto imperversare di scetticismo de' mi-Ìliori, avviato felicemente un’impresa che a un valore spirituale, per noi Italiani, superiore al suo valore scientifico, per grande che questo possa essere.
Giovanni Costa.
IL “SESSANTASEI” DI P. SILVA
La pagina più nera, triste, inesplicabile della vita italiana moderna era, prima di Caporetto, quella riguardante la guerra italo-austriaca del 1866. Oggi disgraziatamente l’episodio tragicamente oscuro, e funesto di Caporetto, che investe fino alle radici tutta la vita nazionale, che pesa come il rimorso di un delitto personale su ogni anima di sincero italiano, è venuto a togliere alla guerra del 1866 il suo triste primato.
Ed è doloroso nel leggere questa monografia accurata del prof. Silva il notare •la schernitrice coincidenza fra la pubblicazione del libro e l’immane disastro dell’ottobre! L’A. scrisse il libro sotto l’impressione delle nostre vittorie. Egli gustamente inneggia alla conquista di >rizia come al grandioso evento che distruggeva il passato e proiettava una luce che dissipava le ombre del '66. E mentre le macchine imprimevano queste pagine la realtà dava una smentita allo storico e con Caporetto produceva un episodio stupefacente di rovescio militare e di catastrofe morale.
Errava lo storico o era l’Italia ancora in preda dell’istesso fatale errore di Custoza?
È la seconda ipotesi che purtroppo è vera... Il libro nella sua semplice narrazione degli avvenimenti del ’66 dà modo al lettore che lo legge dopo Caporetto, di dedurre quelle conclusioni che non fu possibile all’autore dedurre. E si vede con meraviglia, con angoscia, con sdegno che errori gravissimi, identici, o affini, o cause generali in certo senso analoghe influirono nel determinare la sconfitta di Custozza e il crollo di Caporetto... Allora come ora... l’istessa funesta mancanza di fede in alto ed in basso, l’istessa deficienza dei dirigenti, l’istesso allentamento dei freni più essenziali della vita militare e sociale... Ma è carità di patria tacere su tali analogie. Non tutto del resto è nel confronto motivo di sconforto: qualcosa a cinquantanni di distanza si è dimostrato migliore: è il paese nella sua massa, nelle sue classi agricole sopratutto. Nel ’66 il paese era assente, lontanò, incapace di rendersi conto degli avvenimenti; oggi, all’indomani di Caporetto insieme all’estremo cordoglio si ebbe un vasto esperimento di ripresa di coscienza ed una indiscutibile manifestazione di forza morale e di volontà di vita.
Mentre, come dice il Silva: « le conseguenze dei rovesci allora subiti riuscirono tanto più gravi, in quanto non trovarono un gruppo di uomini concordi nel fronteggiarle e nel ripararle », oggi l’Italia non si è perduta d’animo e non fece difetto di uomini che più o meno bene (rimandiamo le critiche all’avvenire!) seppero portar rimedio al disastro e apprestare la riscossa.
Il libro di Pietro Silva che venendo alla luce in questo momento (1), rinnova agli occhi degli italiani lo spettacolo di una loro passata sventura, è per la coincidenza con l’ora che attraversiamo altamente ammonitore. E l’ultimo periodo del libro è sotto questo riguardo significativo e attuale:
a lina sventura» grave in non ha conseguenze fatali, se chi ne è colpito non pièga e
pronto ai ripari: per contro un semplice rovescio può essere nei suoi effetti esiziale quanto un grande disastro, se chi lo subisce vacilla e non sa trovare la via della riscossa ».
se stessa, l’animo di sa correre
(x) Il libro del Silva, lì Sessanlasei, Studi storici, i edito dai F.lli Treves, Milano, e costà L. 4.
57
TRA LIBRI E RIVISTE
307
Come contributo alla storiografia della guerra del 1866, il libro del prof. Silva è buono. Egli ricostruisce con chiarezza gli avvenimenti che prepararono Custoza e ad alcuni episodi ignorati, sulla base di Sualche documento di fonte in gran parte rancese, apporta nuova luce.
Ag. L.
UN LIBRO SULLA PSICOLOGIA DEI COMBATTENTI DI PADRE AGOSTINO GEMELLI
È con soddisfazione che si legge il recentissimo saggio, pubblicato dalla «Società Editoriale Vita e Pensiero » di Milano su II nostro Soldato di Padre Gemelli. È un saggio di psicologia militare fra i pochissimi che esistono in Italia e rappresenta il miglior tentativo di quanti ne sono stati fatti.
La letteratura di guerra in Italia è finora una povera cosa... Il giornalismo dei corrispondenti di guerra, è riuscito alla falsificazione più audacemente invereconda delle personalità dei nostri combattenti, sicché tutte le raccolte di corrispondenza sono un cumulo di menzogne, di esagerazioni, di esaltazioni a freddo, di rettorica e di vanità collettiva. Ricordo che al fronte non v’è pei nostri soldati nulla di più irritante e disgustoso delle corrispondenze di guerra a base di eroismo a tiro rapido, di canti di gioia, di inni alla guerra e simili. Nulla di più antiumano di certe articolesse piene di particolari inventati, senza rispetto alla vera tragedia della guerra, senza il palpito doloroso della vita di trincea.
Nè in vero i romanzi sulla guerra sono tali da modificare la severità del nostro giudizio sulla letteratura di guerra. &Che dire per es. di quella Trincea, che è pure opera di un combattente e di un ferito? del tenente Francesco Sapori? Neanche in questo lavoro che pure in qualche pagina risente della guerra, perchè l’autore la guerra ha pur vissuto, v’è la fiammante passione inesorabile, infaticabile, infinita, del martirio guerresco. Il romanzo s’abbatte su se stesso: è letteratura, è artificio, manca l'anima possente del dolore.
La guerra è dolore, è sopratutto dolore. Ed è dovere. È imperscrutabile dominio dell’ignoto, è qualcosa di oscuro, di necessario, di immanente; contro questo qualcosa l’individuo reagisce, in misura
maggiore o minore, ma reagisce. La risultante è una prova di forza, è una esperienza eroica, è un documento di valore umano. Sicché per comprendere bene la guerra occorre dare più attenzione all’aspetto collettivo che all'aspetto individuale.. L’eroismo che dà la vittoria, in un esèrcito moderno, e nelle condizioni moderne della lotta, è la somma non di infiniti valori individuali, ma di pochi valori e di molte miserie individuali.
La verità è questa, per tutti i popoli e per tutti gli eserciti: chi non tien conto di questo aspetto tragico, di questo dissidio fatale fra individuo e collettività fra soldato e unità, sicché l’eroismo del tutto è la negazione del sacrificio, del dolore, della paura di molti, non intende la guerra.
Nel libro del Gemelli molte intuizioni vi sono che dimostrano che egli ha veduto questo aspetto dolorante ed insieme meraviglioso della guerra. Non v’è rettorica, non v’è sfoggio esagerato di elogi, non predicazioni a vanvera di eroismi: v’è compostezza, serietà e verità. Perciò parmi un libro raccomandabile e degno di esser letto. Il Gemelli scompone la psicologia del combattente nelle sue varie espressioni e le analizza con senso critico di medico e di scienziato., Forse il libro è un po’ prolisso, v’è quà e là qualche ripetizione: se il Gemelli avesse adoperato sulle bozze un po’ più i suoi ferri chirurgici, tagliando un po’ di pagine e riducendo il volume ad una descrizione più concisa, moltissimo l’opera vi avrebbe guadagnato di rapidità e di suggestione.
Dalle pagine del libro, esce finalmente chiaramente dimostrata una doppia verità: la prima quella della decisiva e suprema importanza degli ufficiali inferiori in questa guerra; la seconda il rapporto d’importanza tattica e strategica e quindi morale fra le funzioni della fanteria e quelle delle altre armi, e la dimostrazione di quanto il compito della fanteria, per sacrifici, pericoli, logoramento quotidiano quello di tutte le altre armi insieme unite ragguaglia e supera.
Mai come in questo momento siffatte verità è bene che siano dette al gran pubblico e siano finalmente comprese dai dirigenti. Una saggia politica militare oggi dovrebbe essere diretta alla adeguata sopiavalutazione di quelle armi e di quei gradi sui quali grava sommamente il pondo della guerra. Bisognerebbe dare ai
58
3o8
BILYCHNIS
subalterni le prove più decorose del sentimento di riconoscenza del paese e dei superiori ed alla fanteria le cure più sollecite senza economie e senza riserve per rendere meno dura e dolorosa l’asperrima missione.
Non pare purtroppo che ancora questo dovere sia stato del tutto compreso, neanche dopo il tremendo esperimento dello scorso ottobre. . _
AG. L.
MOI!... MOI!...
André Spire, Moi!... Moi!... Nevers, Imprimerie Nouvelle l’Avenir, 1917.
È un poemetto in cui si vuol esprimere il dramma delle coscienze francesi in questa guerra: Io spettacolo di esseri portati a galla da quelle che sono le cause dell’immane conflitto dei popoli, dall’egoismo parti colar ¡sta, nazionalista, capitalista e la responsabilità imperdonabile della Germania, poiché è questa guerra che ha indirettamente costretto le anime idéaliste e serene ad allearsi cogli elementi che impediranno molto tempo ancora la fratellanza delle nazioni.
Noi ammiravamo — dice il poeta —■ l’audacia industriale della Germania. La sentivamo diversa da noi, ma ad ognuno il suo compito.
« Mais, sois béni, Seigneur,
• Qui as donné au monde la diveisité ».
Essi, i tedeschi, lavoreranno attraverso il mondo per là sua possessione materiale, per la sua conquista, ma
ils apprendront comme nous la vanité de toutes les possessions!
Anche noi abbiamo giocato il giuoco della grande politica d’impero, ed è poco che seguimmo un tale chiamato Bonaparte che ci fece calpestare un po’ troppo, in lungo e in largo, le terre altrui,
et puis, dut nous ramener penauds dans nos. frontières.
Anche noi abbiamo istituito uffici sulle coste, gettato strade attraverso le sabbie del deserto, protetto tribù, deposto sultani, soggiogato ribelli, prestato la nostra finanza per zone d’influenza, spedito can
noni alle piccole potenze, con missioni militari, per insegnare loro a servirsene.
Mais le mondé vieillit, Le monde devient sage;
Il se fait doux, si doux, qu’il en écoeur.
Noi sognavamo insomma il segno dell’amore! Allora ci vedemmo assaliti e chiedemmo aiuto. E ci aiutarono gl’impuri eroi dell’egoismo e dell’idolatria nazionale:
D'écrivains déchirant les poésies de Goethe, De musiciens brisant le buste de Wagner, De gosses, portant sur des litières des effigies de .ois, Sur des coussins, des sceaux, des tities et des chartes, De militaires couverts de galons et de croix, De croquants, célébrant l’exclusive beauté dé leur colline. De’ marchands, demandant des tarifs protecteurs et des primes, De commis voyageurs vantant leur marque unique, lit, le buste en avant, dans le salon d’une maison publique. Une fille qui se penche hors du cercle des autres. Les deux mains sous les seins, en criant: Moi!... Moi!...
Ed ora bisogna tornare indietro a so-Enare il sogno delEamore e bisogna li-erarsi da questi compagni di quest’ora oscura.
Dante Lattes.
UBI CHRISTIANUS?
Veniva alla luce in mezzo all’abbondante letteratura di guerra un libro originale, dal titolo: Ubi Christianus* (1), proprio nel momento che il Pontefice lancia ai Capi dei popoli belligeranti il famoso appello delia Pace, in nome della sua missione cristiana. E facile indovinare che l'argomento dev’essere di natura delicata, perfino spinoso, e che quindi al libro come all’autore, oltre che una scomunica cattolica, potrà toccare censura e magari disapprovazione recisa, ánche da parte di lettori o di critici che non si occupano ordinariamente in alcun modo di professioni o di questioni religiose: specialmente se questi si limitino a sfogliare il libro piuttosto che a meditarlo nel suo significato più profondo.
Non si tratta difatti semplicemente d'un giuoco dialettico o d’una disquisizione sto(1) Gasa Maglione e Strini di Roma, 19x7.
-- - - ________________________________________________ .
59
TRA LIBRI E RIVISTE
309
rica o teologica: il libro è sopratutto una protesta, fondata su i fatti c sulle più naturali e fatali conclusioni che da questi prorompono.
L’autore, il dottor Luigi Trafelli, che nelle Università e dopo ha coltivato scienze matematiche e fisiche e che fino a ieri, Eri ma d’essere soldato, ne era docente nel
Liceo italiano di Tunisi, ma che mai ha fatto il filosofo di professione, ricostruita nella prima parte, come premessa, la dottrina cristiana nelle sue linee essenziali secondo un'interpretazione che fa ripensare a E. Renan e a L. Tolstoi, basandosi sopra i testi evangelici, minutamente e abbondantemente citati, trae come corollario che alla stregua degli avvenimenti svoltisi e svolgentisi nell'attuale guerra, o, come egli s’esprime dinanzi a questo expe-rimentum crucis le chiese, gl’istituti còsi detti cristiani, lo stesso Pontefice non risultane cristiani, bensì anticristiani. In alcuni capitoli aggiunti si tratta anzi della crisi particolare subita dalla Chiesa cattolica sotto le repentinamente mutate condizioni ambientali, il sopraggi ungere del terribile e'xperimentum: la guerra!
Il lettore osserverà che dal Trafelli la dialettica è adoperata soltanto còme argumentum ad hominem — secondo la espressione degli antichi filosofi scolastici — ossia come arma strappata agli avversari e rivolta contro di essi, cioè cóntro ?uegli uomini potentissimi spiritualmente è non solo spiritualmente!) che sono i teologi delle varie chiese cosidette cristiane, i quali appunto con la dialettica pretendono di stabilire l’autorità loro e quella di sistemi religioso-politico-sociali sulla base dei vangèli. Appunto sulla basi stesse e con lo stesso metodo, ricercando però onestamente le fonti genuine e riducendo il ragionamento a forma geometrica (basi e metodo che non possono essere rifiutati dalle centinaia di milioni di uomini che accettano l’autorità delle attuali chiese cristiane) l’Autore arriva alla conclusione opposta, eterodossa per tutte le Chiese. E perciò neppure un libro di dialettica — se lo scopo è idealmente elevato — è inutile, sia pure in tempo di guerra; anzi dovrà essere apprezzato da quell’l/ite d’uomini che potrebbe sottoscrivere all’ultima affermazione proclamata da Romain Rollano, Au dessus de la melée: « Nói abbiamo due città: * una, la nostra patria terrestre; l’altra « la città di Dio. Dell’una siamo gli ospiti.
« dell’altra i costruttori. Alla prima diamo « i nostri corpi e i nostri cuori fedeli, « ma nulla di quel che amiamo, famiglia, « amici, patria, nulla ha diritto sullo «spirito. Lo spirito è la luce. È dovere « ¿^innalzarlo al disopra delle tempeste e «di dissipare le nubi che tentano di oscu-« rado ». A quest’//«/« sembra evidente, infatti, che un gran popolo assalito dalla guerra non deve difendere soltanto le sue frontiere, ma anche la sua ragione, anzi che un popolo meritevole di tal nome, non plebe, deve sentire tale coscienza — come disse recentemente un primo ministro inglese — da guardare con fermo occhio tutte le verità, serbando l’equilibrio tra le seduzioni e i doveri che tutte le verità portano e reclamano. E perciò non deve sembrare a quell’////« deplorevole la formula che trascende l’oggi per allargarsi verso il domani: « Anche in tempo di guerra a ciascuno il suo ufficiò ». Agli eserciti l’ufficio di difendere il suolo della patria, agli uomini di pensiero di difendere il pensiero. Se questi mettono il pensiero a servizio delle passioni del loro popolo, può essere che se ne facciano utili strumenti, ma essi finiranno per tradire Io spirito che non è la parte minima del patrimonio di questo popolo.
Questo è il motivo di tutto il lavoro, che porta nella prima pagina la dedica « Alla Vittoria » spiegata dalla sentenza « La Vittoria è spirilo • pronunziata ne « La rivolle des Anges » di Ànatole Franco, dall'Angelo ribelle profetizzante, dopo confessati gli errori dei suoi compagni, la vittoria sulla tirannide a quando ciascuno avrà distrutto in sé stesso la parte di tirannide di cui è schiavo ancora. All’ultima pagina si fa la parafrasi della parabola biblica del Fariseo e del pubblicano, essendo raffigurato nel fariseo il sacerdote, il Pontefice, custode della legge, che pretende in nome di questa una superiore autorità, ma non testimonia apertamente di essa; e nel pubblicano l'uomo del mondo, il cittadino, uno dei. tanti c tanti, che dalla trincea, tra il sangue e il fango, leva la fronte contro il nemico e ama, odia, ricorda, spera, combatte e muore. Al confronto — si conclude —-Socrate non resterebbe più oltre ironico a formulare la sottile domanda; ma affermerebbe finalmente, rasentando — una volta — l’entusiasmo: « Non sono gli Dei che fanno sante le cose; ma sono le cose sante che fanno gli Dei!...quindi non que-
60
3io
BH.YCHN1S
gli, il sacerdote, è santo per il suo Dio; ma questi, il cittadino, per il suo sacrificio è santo di santità politica! ». E Gesù, come al chiudere della parabola, giustificherebbe l’uomo del mondo, il cittadino: «In verità vi dico, questi ritornerà alla sua casa giustificato dal confronto dell’altro; giacché tutto sarà perdonato, perfino il peccato contro il figlio dell’uomo — perfino le stragi umane! — ma un solo peccato non sarà perdonato in eterno: il sacrilegio contro la santità dello spirito] ».
E questa resta la principale intenzione del lavoro, la protesta di uno, « pure non «cristiano, contro il sacrilegio che, nel-« l'abuso del nome di Cristo, si compie di • quell’«/ di là, che è la idea superiore — « oltre la triste realtà del presente — della « libertà dello spirito ».
Anche Federico Adler diceva ieri protestando contro il tradimento dei socialisti austro-tedeschi: « Già nel ginnasio • era una convinzione che il più grande « dei peccati, quello che non si può perdo-« nare, è il peccato contro lo spirito...! ».
Una è protesta contro il cristianesimo, l’altra contro il socialismo: difatti le due fotenze morali che maggiormente ai-urto di questo genere — vàV experimen-tum crucis — han dimostrato debolezze, viltà tradimento negli uomini dirigenti e che ne bandivano il verbo (come sacerdoti o come organizzatori) sono state il cristianesimo e il socialismo.
Per il resto, riassumendo, i caratteri del lavoro in esame: forma matematica nell’argomentazione; metodo scientifico, quasi — si direbbe — sperimentale nella ricerca e nell’interpretazione dei fatti; analogie tra fenomeni spirituali nel mondo sociale-politico-religioso e fenomeni fisici; umorismo prorompente dalla fatalità delle conseguenze logiche e dalle analogie, ma che tuttavia è rimpianto e non sogghigno mefistofelico sulla desolazione delle ruine; stile e linguaggio caratteristici di chi non scivola sulle rotaie pedantesche d’una maniera filosofica appresa a scuola, ma porta nel lavoro tutta la vivacità e la potenza della propria critica e della propria cui1 tura; coscienza non cristiana, per esplicita dichiarazione che mostra di sentire a tal punto il fascino della libeità dello spirito sorgente superba dell’idea genuina cristiana da impressionare quegli stessi che professano questa fede. Chi scrive difatti ha potuto leggere una lettera entusiasta Scritta all’autore da un coltissimo Sastore d’una chiesa evangelica, in cui si iceva: « Fra noi cristiani non conformisti vi sono molti che applaudirebbero volentieri alla sua tesi ». Perciò ad ogni specie d’intellettuali questo libro serenissimo, anche quando vuol demolire ab imis, dovrà riuscire d’interessamento considerevole e di esca al pensiero in questo momento criticissimo della storia umana.
M.
61
LA BOEMIA PROTESTANTE SALUTA L’ALBA D’UN’ ÈRA NUOVA
Il Comitato zeco con sede in 1 svizzera ha diramalo alla slampa nello scorso gennaio l’importante comunicato che segue:
< Lutero non rappresenta pei Tedeschi e pel mondo quel nobile ideale eletto ed unico di virtù personale, di coraggio nel difendere la verità, di patriottismo e di purezza d’animo quale fu quello personificato fra noi da Giovanni Hus ».
Così scriveva il 13 gennaio 1917, il principale giornale zeco, le Narodni Listy, ricordando l’inizio dell’anno della Riforma. Lo stesso periodico pubblicò una serie di articoli intitolati: « La sapienza » che trattavano della riforma ussita ed avevano per autore un eminente scrittore zeco.
Tuttavia è solo dalla riapertura del parlamento di Vienna — dove gli Zechi fecero la loro clamorosa dichiarazione del 30 maggio 19x7, chiedendo la ricostituzione dell’antico Stato zeco-slovacco — che le tendenze dei protestanti zechi diventarono più chiare e più risolute. All’indomani della dichiarazione dei deputati, la popolazione zeca prese conoscenza di un’altra dichiarazione: quella dei protestanti zechi.
Eccone il testo:
« Ripieno di gioia, il popolo zeco protestante saluta l’alba d’un avvenire migliore. Frammenti dispersi e oppressi della Chiesa zeca, un tempo celebre, latori delle idee di Hus, di Chelciehy, dei fratelli Boemi eredi della Rifórma zeca, che per noi è l’opera suprema del genio zeco del passato, aspiriamo ardentemente e con tutta l’anima nostra al libero sviluppo dello spirito della Riforma zeca e speriamo essere li
berati dai ferri che c’incatenano dal tempo della tolleranza. L’editto di tolleranza del 1781 impedì ai protestanti zechi di praticare la confessióne zeca c furono obbligati ad adottare confessioni straniere (quella elvetica e quella d’Asburgo); il decreto imperiale del 1861 accentuò maggiormente ancora questo stato di cose che intralcia la cultura della nostra propria confessione nazionale.
« L’Unione di Costanza, associazione di tutti i protestanti zechi, rivolge ai rappresentanti e agli oratori della nazione zeca la preghiera urgente di compiacersi d’unire la sistemazione della situazione della Chiesa protestante alle altre questioni nazionali. Il popolo zeco protestante vuol tornare in grembo alla Chiesa zeca protestante indipendente e unificata, che ò stata, in tutti i tempi, lo scopo supremo dei padri nostri.
«Pei- V Unione di Costanza, centro dei protestanti zechi:
«Dott. Genek Dusek, presidente;
« los. Soncek, primo vice presidente;
« Dott. Ant. Frinta, segretario;
« Dott. Fer. Hrejsa, secondo vice presidente ».
L’avvento degli Asburgo al trono di Boemia e la loro vittoria sulla Montagna Bianca ebbe per conseguenza la cattoli-cizzazione dei paesi zechi. Dal 1627 al 1781, il protestantesimo vi fu interdetto. Ancora nel xix secolo, la religione cattolica godeva dell’incondizionata protezione del Governo ed in molti domini he gode in realtà anche oggi giorno. Il peggio è che non fu concessa agli Zechi l’autorizzazione a riprendere le loro antiche tradizioni ussite, loro solo privilegio essendo quello di potersi dichiarare protestanti della confessione elve-
62
312
BILYCHNIS
tica o ausburghesè. Perciò, amministrativamente, gli Zechi fanno parte della Chiesa protestante austriaca, la quale ha il suo centro e la sua facoltà di teologia (di lingua tedesca) a Vienna.
1 giornali zechi non cessano di protestare contro la dominazione austriaca nel campo della Chiesa oppure nella sfera ecclesiastica e reclamano la libertà della fede. È un fatto sintomatico che tutti i giornali zechi, anche socialisti, fanno questa cam-Bna. Così ad esempio l'organo dei socia, la « Ceska Demokracie » ricorda con fierezza che, prima della guerra dei Tren-t’anni, il 90 % della nazione era protestante. Quel periodico esprime il suo malcontento verso il Consiglio di Chiesa viennese: « Le nazioni — dic’egli — che hanno risolto di propria iniziativa il loro problema religioso, quelle che hanno trovato la propria via seguendo Gesù, che si sono create il proprio cristianesimo e la propria Chiesa nazionale, hanno raggiunto il più alto grado di sviluppo interiore ed esteriore. Oggi, che la nazione zeca vuole Sorre le fondamenta della sua indipen-enza, è un dovere imperioso per gli evangelici zechi, di risolvere il problema religioso secondo lo spirito dell’epoca nuova e di creare una Chiesa compenetrata dello spirito zeco che diventerebbe la base e il fondamento più solido della futura indipendenza zeca ».
I protestanti zechi domandano:
i° che la 'Chiesa ^evangelica zeca sia nuovamente stabilita sulle basi storiche della Riforma ussita, da cui è nata;
20 che la sua organizzazione sia puramente democratica, cioè che tutti i suoi dignitari siano eletti dallo stesso popolo e che il potere supremo sia concesso ad un organo della Chiesa nel quale i laici siano anche rappresentati, e non ad un’autorità di Stato, com’è il caso oggi;
3° che la Chiesa venga chiamata « Unità dèi Fratelli Zechi », secondo l’antica chiesa nazionale;
4° che si crei un solo Consiglio di Chiesa, avente sede in Praga, per l’insieme dei paesi zeco-slovacchi, comprese le colonie zeche all’estero;
50 che una facoltà di teologia protestante zeca sia creata immediatamente a Praga e ch’essa diventi il centro intellettuale della Chiesa zeca.
Per appoggiare tali rivendicazioni e allo scopo d’intraprendere subito l’opera di liberazione della Chiesa zeca, sono state fondate due nuove riviste: Ceska Refor-mace (la Riforma Zeca) e Kalich (il Calice della Comunione). Attualmente, vi sono circa 600.000 Zeco-slovacchi protestanti, appartenenti in maggioranza alla confessione elvetica (di Calvino). Altri sono Luterani e una piccola frazione pratica il culto dei Fratelli moravi (Boemi) di Her-renhut. Le parrocchie (che si chiamano in zeco a sbor ■) riuniscono in generale i membri appartenenti alle due diverse confessioni protestanti, ciò che costituisce il primo passo verso l’unione di tutti i protestanti zechi in una sola e medesima chiesa. y?-,«
G. Adami.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma - Tipografia dell'Unione Editrice, Via Federico Cesi, 45.
63
In deposito presso la Libreria Editrice " Biiyeh nis" Via Crescenzio 2. Roma
NOVITÀ
MARIA BERSANO BEGEY
Dita e pensiero
di Andrea Towianski
(1799-1878)
Milano, 1918. Pag. 468. - L. 6.
"... In questo libro M. B. B. ha fissato, con mirabile maestria, le linee del pensiero c la fisonomia della vita di Andrea Towianski : l'idea e l'opera sono fermate per sempre in queste pagine, ricche d'intelletto e d'informazione, nate e cresciute nell'ambiente che serba ancor vivida la vibrazione dell'uomo. È un libro che resterà fondamentale intorno all'argomento...1 "... La storia dell'avvenire riconoscerà al Maestro polacco un posto eminente in quella profonda elaborazione religiosa che riempie la prima metà del secolo decimonono...* "... A queste pagine ricorreranno molti spiriti bisognosi di certezza e di forza, molte anime anelanti alla luce della conoscenza e al riposo de) bene..." Giovanni Amendola.
GLI SLAVI
di A. MlCKlEWICZ
... poiché in .questo conflitto gli slavi stanno dalla parte della civiltà latina, è necessario che i latini conoscano i loro alleati... Nessuno in questa materia ha maggiore autorità del grande poeta slavo...
Sommario; Il Messianismo La tradì-none - L'idea del dovere - Della proprietà -L'ideale della repubblica di Polonia - L'antipatia della chiesa per io Spirito Nuovo -- L'importanza della tradizione slava-Che cosa è la parola - Misteri della'parola, ecc.
Pag. 180. Prezzo l. 3.
POEMI FRANCESCANI di A. M. D. G. L. 4.25 ... L Autore ha una soia pretesa : di offrirci un Francesco dei " Fioretti '.
LA SCUOLA NAZIONALE
In questo volumetto V. CENTO raccoglie scritti che nel periodico La nostra scuola agitarono e discussero largamente il problema della rinnovazione nazionale della scuola italiana. - Vi si trovano gli scritti di Anile, Cento, Ferretti, Modugno, Munì. Prezzolini, Tcrzaglia, Sanna, Varisco, Vidari. Vitali e Volpe.
Pag. 206. Prezzo L. 3.
____l OCCASIONE FAVOREVOLE == per i soli nostri Abbonati non morosi:
L’Amministrazione di Bilychnis, per accordi presi cogli £ Editori dell’opera, può offrire per L. 10.50 (franco di porto) il bellissimo volume
GIORGIO TYRRELL
Autobiografia (1861-1884) e Biografia (1884-1909) (Per cura di M. D. PETRE)
Quest’opera, edita signorilmente, non può, non deve mancare nella biblioteca di quanti coltivano con amore gli studi religiosi.
Il grosso volume (680 pagine) costa normalmente L. 15.
= Rivolgersi = all’ Amministrazione
- di Bilychnis —
Opéré di ALFREDO LOISY :
LA RELIGION
I. Religion et morale. — II. L'Evolution religieuse et morale. - III. Les caractères cl les facteurs de l’évolution religieuse. — IV. La discipline humaine. — V. Les Symboles de la foi.
PbZ. di pag. 316.
Prczzo in Italia: L. 5
MORS ET VITA
PREZZO L. 2.25
♦ ♦ ♦
ÉPITRE =
AUX GALATES
PREZZO L. 3.60
* * *
0 LA BIBBIA S E LA CRITICA (Un ottimo libro, scritto con dottrina, competenza e con spirito profondamente religioso e cristiano).
Prezzo L. 2
CUMONT FRANZ: Le religioni orientali nel paganesimo romano (volume di pag. 309) . L. 4 —
Profezie d*Isaia, figlio di Amoz. Tradotte e chiarite da Antonio di So-RAGNA . . . L. 5 —
Frank Thomas : Les heu-reux. Etudes pratiques des Béatitudes . L. 4.30
64
WILSON
La Nuova Libertà invito di liberazione alle gencroie forze di un popolo (legato)
Prezzo L. 4
NOVITÀ
Raccomandiamo ai nostri lettori:
L'Editore della Biblioteca di Studi Re,.gioii ha pubblicato in questi giorni un bel volume ch'è destinato ad avere senza dubbio un ottimo successo:
LA CHIESA
E I NUOVI TEMPI
È una raccolta di dieci scritti originali dovuti alla penna di Giovanni Pioli - Romolo Murri - Giovanni E. Meille - Ugo Janni - Mario Falchi -Mario Rossi - ■ Qui Quondam * - Antonino De Stefano - Alfredo Taglialatela.
I soggetti trattati, preceduti da una vivace introduzione dell' Editore Dott. D. G. Whittinghill, sono tutti vivissimi:
Chiesa e Chiese - Chiesa e Stato - Chiesa e'.Questione sociale - Chiesa e Filosofia - Chiesa e Scienza-Chiesa e Critica (2 studi)-Chiesa e Sacerdozio - Chiesa ed Eresìa - Chiesa e Morale. È un libro-programma.
E un libro di battaglia.
11 bel volume, con «ienificaliva copertina artistica di Paolo Paschktto, ai compone di posine XXXl-307 a coita L. 3.50.
Rivolgersi alla Casa Editrice ' Bilychnis*
Via Crescenzio, 2 - Roma
In deposito presso la Libreria Editr. "Bilychnis"
Pietro Chiminelli : Il ' Padrenostro ' e il mondo moderno. Volume di pag. 200 con 8 disegni originali di P. Paschetto . . . L. 3 —
Romolo Murri : Guerra e Religione :
Vol. I. Il Sangue e l'Altare. Pag. 178 . . 2 — Vol. II. L'Imperialismo ecclesiastico e la
democrazia religiosa. Pag. 118...... 2 —
***: La Bibbia e la critica (opera premiata).
Volume di pag. 150 .......... 2 —
AI NUOVI ABBONATI si spedisce in DONO, franco di porto, il bel volume (4® della Biblioteca di Studi Religiosi}:
“VERSO LA FEDE
guenti soggetti: Intorno al Divenire ed all'Assoluto nel sistema Hegeliano (Raffaele Mariano) - Idee intorno all'immortalità dell'anima (F. De Sarto) - La questione di autorità in materia di fede (E. Comba) - // peccalo (G. Arbanasich) - Di un concetto moderno del dogma (G. Luzzi) - È possibile il miracolo? (V. Tummolo) -Il Cristianesimo e la dignità umana (A. Crespi).
Prezzo del fascicolò Lire 1 —