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PEE PPjMlù
BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
AnnoV :: FaSC. IV.
APRILE 1916
Roma - Via Crescenzio. 2
ROMA - 30 APRILE - 1916
DAL SOMMARIO: Guglielmo quadrotta: il Pontefice romano e il Congresso delle Potenze per la Pace - Un' inchiesta - Il questionario - Le risposte (P. Blasema, A. Chiappclli, M. Mazziotti, G. De Lorenzo. I. Bonomi. A. Bussi, P. Cogliolo, A. Solmi, G. Cimbali, G. Arangio-Ruiz, U. G. Mondolfo. U. Janni. G. Pioli, L. A. Villari, A. Cervesato). — 1VAN LlABOOKA : L’adommalismo russo e il rinnovellamento religioso del cristianesimo. — J. BRE1TENSTEIN : La santità di Gesù. — GIOVANNI LUZZI : La versione diodatina della Bibbia e i suoi ritocchi. — P. A. PASCHETTO: '...Quando pregate...'; ' Pa<$re nostro...'; '...11, tuo regno venga...' (Tre disegni). — m. : Rassegna di filosofia religiosa. — XXX Cronaca biblica. — La guerra (Notizie, voci, documenti), ecc.
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NOVITÀ
È uscito il 7Ó volume della Biblioteca di Studi Religiosi edita dalla Direzione della Scuola Teologica Battista:
PIETRO CHIMINELLI
Il “Padrenostro,, e il mondo moderno
Volume di pagine xn-200
Con copertina e 8 tavole disegnate da Paolo A. Paschetto *
Prezzo L. 3,00
Prezzo ridotto per gli abbonati di Bilychnis L. S
SOMMARIO
I. Introduzione: r. Ragioni dell'attualità di questo studio — 2. Alla scoperta delle bellezze e delle lezioni del Padrenostro—• 3. Occasione in cui fu insegnato. — 4. Sue caratteristiche: completezza 5. Ordine — 6. Originalità — 7. Se il
Padrenostro sia semplicemente un modello oppure la formula obbligatoria della preghiera cristiana.
11. Paternità divina e fratellanza umana: 1. l ’arte nella preghiera e specialmente
• Vedine tre nell’ intermezzò del presente fascicolo di Bilychnis.
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nella Introduzione del Padrenostro — 2. Incompletezza delle definizioni precristiane intorno alla divinità — 3. In quale senso gli Ebrei e i pagani chiamarono » Padre » Iddio— 4. Valore della rivelazione della paternità divina fatta da Gesù — 5. Valore della rivelazione della fratellanza umana — 6. Dove abita il Padre — 7. No-blesse obligc — 8. Le sorgenti del moderno idealismo nella vita e nell’arte— 9. Concludendo...
III. II Nome del Padre: 1. Ogni frase del Padrenostro pesa- uh mondo — 2. Il valore delia prima petizione — 3. La santità del nome di Dio — 4.- Duplice ostacolo alla glorificazione di questo nome — 5. Le bestemmie del linguaggio: psicologia della bestemmia italiana — 6. Come glorificare il nome del Padre: esempi — 7. Il patrizio veneto e l'iscrizione del suo palazzo lagunare— 8. Ricapitolazione: un apologo russo.
IV. Il Regno del Padre: 1. Là parola « regno » usata da Gesù di fronte alla moderna coscienza democratica — 2. La nozione del regno di Dio nel pensiero giudaico — 3. Le vàrie interpretazioni della nozione del regno di Dio: interpretazione escatologica; interpretazione passatista; interpretazione ecclesiastica; interpretazione ascetica; interpretazione evoluzionistica; interpretazione materialistica — .4. Che intendeva dire Gesù con la nozione «regno di Dio»? — 5. Triplice legge regolatrice dello svolgimento di questo regno — 6. Condizioni necessarie a ben capire la seconda domanda — 7. Commento miltoniano al < Venga » del Padrenostro.
V. La Volontà del Padre: 1. la petizione centrale del Padrenostro: cinque definizioni — 2. La rassegnazione cristiana alla stregua dei paralleli criteri filosofici — 3. I.a nota caratteristica dell’obbedienza cristiana: esempi della • perfetta letizia • — 4. Un poema di luce e di ombra, ovvero valore e contrasti intrinseci della preghiera di Gesù — 5. Il modello che occorre si
prefigga colui che vuole fare la volontà di Dio: L’angclogia dell’A. T. — 6. Il più bel vanto del cristianesimo del secolo xix: conclusione.
VI. il Pane del Padre: 1. Ancora della vastità e dell’ordine del Padrenostro — 2. Le fortune della quarta petizione nella storia della sua esegesi — 3. Gesù e il problema del pane — 4. Provvidenza paterna e gratitudine filiale — 5. Il valore del termine « oggi ■ nell’esperienza cristiana — 6. La semplicità doverosa: nella vita — 7. II pane guadagnato col nostro lavoro — 8. TI pane santificato dalla nostra onestà — 9. Il pane condiviso dalla nostra solidarietà: conclusione.
VII. Il perdono del Padre: t. Sguardo d’insieme alla quinta petizione del Padre-nostro— 2. Storia aneddotica—3. Il peccato nel pensiero di Gesù — 4. Il peccato nella, testimonianza della coscienza attraverso i secoli — 5. Assurde distinzioni del peccato escogitate dalla cas.uistica medievale — 6. Psicologia del perdono del padre — 7. L’idea dell’odio c dei perdono nel paganesimo greco-romano — 8. La .coscienza moderna al bivio tra l’ideale orientale e l’ideale occidentale in tema di perdono — 9. La profonda umanità della legge del perdono— io. I.a profonda ragionevolezza del perdono condizionale del Padre: conclusione.
Vili. La Liberazione del Padre: 1. Il posto dell’ultima petizione nella Preghiera — 2: Valore linguistico del termine « tentazione ■ —•’ 3. La prova costituente il momento religioso della vita— 4. Disci -plinamento delle energie dello spirito insegnato nel Padrenostro—5. Battaglie e. vittorie spirituali neH’esperienza cristiana — 6. Implicito impegno che si assume colui che ripete questa Preghiera. — 7. Dibattiti tra i commentatori e i nostri punti di vista in proposito — 8. Rivelazione del prestigio-dei male, deWottimi stmo e dell’incontentabilità cristiana in questa petizione — 9. La dossologia — io. Conclusione dello stùdio: Sguardo d’insieme alla preghiera di Gesù.
Dirigere richieste,, mediante cartolina-vaglia, all’editore D. G. WHITTINGHILL, Via del Babuino 107, ROMA, ò alla Libreria Editrice “ BILYCHNIS ”, Via Crescenzio 2, ROMA.
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GUERRA E RELIGIONE
Studii sulla storia e sugli aspetti religiosi dell’Europa in guerra
E in "vendita il primo volume :
romolo murri : I. IL SANGUE E L’ALTARE.
Pag. VIÌI-176. Con copertina illustrata su diségno di Paolo. Paschetto: Lire DUE.
// volume comprende i seguenti capitoli:
I. La diana. — II. Gli dèi hanno sete. — III. In faccia al mito. — IV. La vendetta dello spirito. — V. La religione della patria. — VI. Lo Stato-Chiesa e i suoi eretici. — VII. Morte e immortalità.
GIUDIZI INTORNO AL VOLUME
Dall’ Idea Democratica di Roma (29 aprile 1916).
Questo nuovo libro del Murò si legge con vivo interesse. Perchè c’è ih eSso l’audacia di un formidabile problema: il significato della vita e della stòria, visto nella possente commozione di questa terribile guerra; il valore della . religione, come tentativo sempre rinascente e sempre ridiscusso, di cercar di scuoprire z quel significato. Ciascun uomo si fa con infinito lavoro il suo piccolo mondo, spesso senza sapere donde gli vengono i materiali per la costruzione; e questi ijnumerevoli piccoli mondi sono dominati, avvolti e talora sconvolti come da un grande uragano, da energie, da passioni, da potenze misteriose, per le quali si è anche costretti a operare sacrificandosi. . •
La forza occulta che travolge gli uomini nella guerra è quella stessa che créa le religioni e le patrie e le concezioni varie-e coz
zanti del mondo e della storia; è l’anima umana affaticata da un destino che la trascende e che si insinua in essa attraverso alle lente formazioni secolari concretandosi negli istituti sociali.
R. Murri sente e vive e comunica spesso ’ al lettore l’ansia di cosi inquietanti ed essenziali domande. Nella coscienza dell’Europa in guerra, egli’scruta questo travaglio secolare che forma le fedi e gli ideali e le patrie e le istituzioni: un passato .in gran parte ignoto, che si- precipita verso un avvenire appena, vagamente intraveduto. Che importa se solo qualche raggio di luce rischiara le tenebre così fitte? Le tenebre dànnp un brivido religioso e la luce improvvisa rischiara profondità insospettate.
Gli spiriti vuoti, superficiali, quelli che hanno l’abitudine di impiccolire il mondo sino alla loro piccolezza, per illudersi di capirlo. sono pregati di non leggere queste pagine; non'ci.si troverebbero.
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Da La Luce di Firenze (4 maggio 1916).
Romolo Murri ha intrapreso una granellosa opera di una serie di volumi su •< Guerra e Religione » della .quale il presente Volume costituisce « I Prolegomeni ».
Quale lo scopo dell'A-? Quello di sviscerare le lezioni immediate della presente esperienza tragica, rivedere le dottrine che la precedettero e prepararono, e definire i problemi che. essa pone o rinnova, ricostruire i valori religiosi e politici.
Il primo volume di formato assai elegante, con artistica copertina del Paschetto è di introduzione. Il titolo altamente simbolico, il sangue, che è il sigillo che gli uomini pongono alle loro, fedi: l’altare, espressione tradizionale delle fedi, intorno al quale le coscienze avvolte nel velo dell’ignoranza e delle superstizioni si raccolgono, per intravedere, come da uno squarcio, un lembo di cielo, per sentirsi percorrere da un fremito divino, scrive l’A.
Il presente volume si compone di otto capitoli, dal titolo suggestivo, preceduti da sommarii che nel pensiero dell’A. indicano il posto di ciascun capitolo in una sistemazione razionale degli argomenti trattati.
Fra i capitoli del volume, i più interessanti c saturi di pensiero indichiamo quelli rispettivamente intitolati: «La Diana» «La religione della patria ». Ma sono tutti in-, teressanti e ricchi di considerazioni, che confermano nell’A. una cultura di prim’or-dine e uno spirito assai acuto di osservazione.
Diamo ampia lode a Romolo Murri di avere pensato a discutere i rapporti tra religione e guerra così complessi, e fonte di insegnamenti che non andranno perduti. E auguriamo un grande numero di lettori che troveranno in queste pagine un grande godimento intellettuale, ancorché non accettino tutte le idee espresse con grande accento di sincerità dall* Autore.
E. M.
Seguiranno
in maggio: „ CHI£SE Dj AUTORITÀ Lire DUE
in ottobre: ni. L’ANARCHIA SPIRITUALE IirpIiII.
Abbonamento ai tre volumi Lire 5,50 (Per gli abbonati di Bilychnis Lire 5).
Dirigere richieste, mediante cartolina-vaglia, all’editore : D. G. Whittinghill, Via del Babuino 107, Roma - 0 alla Libreria Editrice “ Bilychnis ”, Via Crescenzio 2, Roma.
H .ì;'.W: • »Sri• ’• '••i' - . ./
(Per copie da spedire direttamente a bibliotechine di lettura di ospedali militari o a soldati in zona di guerra: Lire 1.50 il volume. Per l'estero; Lire 2,20 il volume:, abbonamento ai tre volumi Lire 6).
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # #
------ Via Crescenzio, 2 - ROMA ---D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore peri'Estero ------ Via del Babuino, 107 - ROMA AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO Per l'Italia L. 5. Per l'Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
X* Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine, fi
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----------------------------------------------------CRISTIANESIMO E GUERRA
Recentissime pubblicazioni in deposito presso la Libreria Ed. “ Bilychnis „
Via Crescenzio, 2 - ROMA.
[Novità]. Romolo MURRI, Il sangue e Vallare..L. 2 —
ALFRED Loisy, Guerre et religion. Duexième éd. ...» 3 —
JOHN WlÉNOT, Paroles françaises prononcées à l’Oratoire du
Louvre. Pagine 180 ............ . » 2,50
PAUL StaPFER, Les leçons de la guerre. Pagine 180 . . . » 3,50 WlLFRED MONOD, Vers V Évangile sous la nuée dé guerre.
Courtes méditations pour commencer chaque semaine. Première et deuxième série. 2 volumi di 200 pp. ciascuno. . »5,75
Alexandre WESTPHAL, Le silence de Dieu (pag. 26) . . » 0,65 HENRY Barbier, L'Evangile et la Guerre.......» 0,50
E. DOUMERGUE, La Guerre, Dieu, la France. La France peutelle demander à Dieu la victoire? ........ » 0,30
H. BOIS, Patrie et Humanité..................> 0,75
» » La Guerre et la Bonne Conscience.......» 0,65
JEAN LaFON, Evangile et Patrie, Discours religieux. Il 1° vol.
di pag. 210 L. 3.25, il 2° di pag. 360 ...... » 3,75
H. Monnier, W. Monod, C. Wagner, J.-E. Roberty, etc., Pendant la Guerre. Discours prononcés à l’Oratoire et au Foyer de l’âme à Paris. 11 volumetti di 100 pagine. Ciascuno ....................................» 1,25
LOUIS Trial, Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre
1914-1915. (Vol. di pag. 100) ......... > 1,25
P. Batiffol, P. Monceaux, E. Chénon, A. Vanderpol,
L. Rolland, F. Duval, A. Tanqueroy, L'Église et la Guer re ................. » 4 —
G. QUADROTTA, Il Papa, l'Italia e la Guerra..» 2 —
R. MURRI, La Croce e la Spada...... » 0,95
A. TaGLIALATELA, I Sermoni della Guerra ...... » 3,50
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BICOINB
RM5IÀ DI SÌVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA •DI ROMASOMMARIO:
Guglielmo Quadrotta: Il Pontefice romano e il Congresso delle Potenze per la Pace. —- Un’inchiesta — Il questionario — Le risposte (P. Blaserna, senatore - A. Chiappelli, senatore - M. Mazzetti, senatore - G. De Lorenzo, senatore - I. Bonomi, deputato -A. Bussi, deputato - Prof. avv. P. Cogliolo - Prof. A. Solmi -Prof. G. Cimbali — Prof. G. Arangio-Ruiz — Prof. U. G. Mon-dolfo - Pastore Ugo Janni - Prof. G. Piòli - Prof. L. A. Villari -Dott. A. Cervesato) . .......... ..... pag. 269
Ivan Liabooka : L’adommatismo russo e il rinnovellamento religioso del Cristianesimo . .......... ...... » 287
J. BREITENSTEIN : La santità di Gesù .......... » 298
Giovanni Luzzi: La versione Diodatina della Bibbia e i suoi ritocchi . » 310
INTERMEZZO:
Paolo A. Paschetto : !.«... Quando pregate...» -II. « Padre nostro... » -III. «... Il tuo regno venga...» (Tre disegni). Tavole tra le pagg. 316 e 3»7TRA LIBRI E RIVISTE:
m. : Rassegna di filosofia religiosa (L’organicità del reale e la filosofia scolastica - Storia del domina e filosofia del domina - Scuola e religione - Il nuovo realismo - La religione di Fichte) ....... » 317
XXX : Cronaca biblica (Bibbia e Babilonia - I profeti - Circa la vita di Gesù). □ 322
Pagine rosa:
Ernesto Rutili: Pro e contea l’intervento del Papa al Congresso della Pace (Sunto dei principali scritti comparsi sul soggetto in riviste e giornali italiani) : N. Massimo Fovel - On. Cesare Degli Occhi - Roberto Corniani - Cesare Olmo - D. Francesco Baroni - Ernesto Nathan (II) - Eugenio Valli .................. > 329
LA GUERRA (Notizie, Voci, Documenti):
Giovanni Pioli: La discesa all’inferno - Un comando .......... » 338
Cambio colle Riviste ........................ » 338
Libreria Editrice « Bilychnis » ........................... > 342
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Estratti dalla Rivista “Bilychnis”
(In vendita presso la nostra libreria)
Giovanni Costa: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con 2 disegni e 2 tavole). . . . 1,00
Giovanni Costa: Critica e tradizione (Osservazioni sulla politica e sulla religione di Costantino) . 0,50
Giovanni Costa: Impero romano e cristianesimo (con 3 tavole)............1,00
Salvatore Minocchi : I miti babilonesi e le origini della Gnosi..............0,60
Luigi Salvatorelli : La storio del Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia civile.............. 0,30
Calogero Vitanza: Studi commodianei (I. Gli anticristi e l’anticristo nel Carmen apologclicum di Commodiano; IL Com-modiano doceta?) ... 0,30
Furio Lonzi: Di alcune medaglie religiose del iv secolo (con 1 tavola e 4 disegni).................0,30
Furio Lenzi: L’autocefalia della Chiesa di Salona (con ir illustrazioni) . . 0,50
F. Fornari: Inumazione e cremazione (con 6 illustrazioni)...............0,30
C. Rostan : Le idee religiose di Pindaro.............0,30
C. Rostan: Lo stato delle anime dopo la morte, secondo il libro XI del-1’«Odissea»..............0,30
C. Rostan : L’oltretomba nel libro VI dell’« Eneide» .......... 0,50
Alfredo Tagliatatela : Fu il Pascoli poeta cristiano ? (con ^tratto e 4 disegni) ..................0,30
F. Biondolillo : La religiosità di Teofilo Folengo (con un disegno).... 0,30
F. Biondolillo: Per la religiosità di F. Petrarca (con 1 tavola).........0,30
Giosuè Salatiello: Il misticismo di Caterina da Siena ^con 1 illustraz.). 0,25
Giosuè Salatiello: L’umanesimo di Caterina da Siena (con 1 illustraz.). 0,30
Calogero Vitanza: L’eresia
di Dante ....... 0,30 Antonino De Stefano: Le
origini dei Frati Gaudenti ......... 1 —
A. W. Muller: Agostino Favoroni e la teologia di Lutero ....... 0,30
Arturo Pascal: Antonio Caracciolo, vescovo di Tro-Ìes....................0,80
•io Pons: Saggi Pasca-liani (I. Il pensiero politico e sociale del Pascal; II. Voltaire giudice dei « Pensieri » del Pascal; III. Tre fedi: Montaigne, Pascal Alfred, di Vigny) con 2 tavole...... 0,50
T. Neal: Maine de Biran, 030 F. Rubbiani: Mazzini e
Gioberti ........ 0,50 Paolo Orano: Dio in Giovanni Prati (con una lettera autografa inedita e ritratto) ....... 0,40
Angelo Crespi : L’evoluzione della religiosità . 0,30
Paolo Orano : La rinascita dell’anima ....... 0,30
Angelo Crespi : Il problema dell’educazione religiosa
Jntroduzione) . . . . . 0,30
Angelo Gambaro: Crisi con temporanea. . . . . 0,15
Giov. Sacchini: Il Vitalismo . . . . . . .... 0,30
R. Murri : La religione nel-l’insegnamento pubblico in Italia........ 0,40
Ed. Tagliala tela: Morale e
Religione ....... 1 —
Mario Puglisi : Il problema morale nelle religioni primitive........ 0,50
A. Tagliatatela : Il sogno di Venerdì Santo e il sogno di Pasqua (con 5 disegni di P. Paschetto) . . 0,20
G. Luzzi : L’opera Spence-riana.......... 0,15
M. Rosazza: La religione del Nulla (con 6 disegni). 0,30
R. Wigley : L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) ......... 0,50
James Orr: La Scienza e la Fede cristiana. . . . 0,25
T. Fallot: Sulla soglia. (I nostri morti) con una tavola . . .- ....... 0,30
G. E. Meille: Il cristiano nella vita pubblica. . . 0,30
F. Scaduto: Indipendenza dello Stato e libertà delta
Chiesa ......... 0,30
Guglielmo Quadrotta: Religione, Chiesa e Stato nel pensiero di Antonio Salandra. (Con ritratto ed una lettera di A. Salandra). . .• ...... 1 —
D. G.: Verso il conclave. 0.15 E. Rutili: Vitalità e vita
nel Cattolicismo (Cronache: 1913-1914) 3 fascicoli .......... 0,90
E. Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di essi......... 0,15
Paolo Orano: Gesù e la guerra................0,30
Edoardo Giretti: Perchè sono per la guerra. . . 0,20
Romolo Murri : L’individuo e la Storia. (A proposito di cristianesimo e di guerra) ...... 0,40
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IL PONTEFICE ROMANO
E IL CONGRESSO DELLE POTENZE PER LA PACE
UN’INCHIESTA
[.la vigilia dell’intervento dell’Italia nella guerra, confortato dal consenso di un maestro, Francesco Scaduto, chi scrive ritenne utile fissare in una speciale pubblicazione (i) alcuni problemi che il conflitto mondiale aveva rinnovato intorno ai rapporti fra lo Stato e la Chiesa in Italia. Dopo un esame della situazione della Chiesa Cattolica alla morte di Pio X, l’indagine della pubblicazione si rivolgeva all’atteggiamento del diplomatico assunto alla tiara verso la guerra delle nazioni, soffermandosi a consi
derare il valore e la portata politica della prima Enciclica e dei primi atti di Benedetto XV, nelle loro connessioni al conflitto italiano jralo Stato e la Chiesa dopo il 1870.
Un puntò di particolare attualità di quella pubblicazione fu l’interpretazione ricavata dalla Legge detta delle Guarentigie Pontificie, e precisamente del suo art. u, secondo la quale il Governo italiano, nell’eventualità della dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria, avrebbe dovuto rilasciare i passaporti, in uno ai rappresentanti austro-tedeschi accreditati presso il Re d’Italia, anche all’ambasciatore austriaco e al
(i) Il Papa, l’Italia e la guerra. Prefazione di F. Scaduto. — Milano, Società Editoriale italiana, 1915.
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BILYCHNIS
ministro di Prussia accreditali presso il Valicano. Francesco Scaduto, con la sua superiore autorità in materia, avvalorava questa tesi.
La discussione, trasportala anche su alcuni giornali politici, si estese a tutta la stampa italiana; e vi intervennero Luigi Luzzalti — il quale occupandosi del mio lavoro sul Corriere della Sera, accese un breve dibattilo con lo Scaduto — i padri della Compagnia di Gesù sul loro organo la Civiltà Cattolica, e competenze quali Francesco Rufftni e G. C. Buzza ti.
Il Governo, scoppiata la guerra, garantì ai ministri austro-tedeschi presso il Valicano l'osservanza delle immunità di cui godevano; ma essi preferirono partire con i loro colleghi accreditali presso il Re d'Italia, perchè, come poi dichiararono ai loro giornali, non avrebbero potuto resistere alla pressione dell'opinione pubblica.
L’effetto di quella discussione non fu dunque vano, se pure il Governo non credette opportuno di fare un’affermazione di principio nel senso richiesto dalla parte liberale-democratica del Paese, applicando invece — come più tardi dichiarò il ministro Guardasigilli on. Orlando — un’interpretazione più larga della Legge delle guarentigie, e completandola nelle « inevitabili lacune », dovute all'eccezionaiità del momento storico.
Il ricordo di questo precedente non lontano ci sembra non superfluo nel dare conto di un'inchiesta che abbiamo iniziata, sulla possibilità dell'intervento del Pontefice Romano al Congresso delle Potenze che dovrà fissare le condizioni della pace c la nuova configurazione europea. Esso può giustificare, anzi, l’opportunità e l’utilità dell’inchiesta. Di questo stesso argomento il sottoscrìtto si è occupato, oltre che in quel libro, anche in varii articoli nei giornali politici, dei quali basterà ricordare quello apparso il 4 agosto 1915 nel Secolo di Milano e nel Messaggero di Roma: «Un anno di pontificato. Benedetto XV c la pace », che ebbe l’onore di una risposta, alla cui compilazione non furono estranei alcuni prelati della Segreteria di Stato del Pontefice, che vide la luce sui quattro giornali quotidiani editi a Roma. Bologna. Milano e Torino dalla cattolica Società Editrice Romana.
L’allocuzione pontificia del 6 dicembre 1915 riaccese la discussione sul valore della Legge delle guarentigie e sull’intervento del Papa ad un Congresso di Potenze; ad essa, il giorno dopo, alla Camera dei Deputali, fu data risposta alta e serena — talché anche alcuni deputali cattolici si congratularono con l’oratore — dall’on. V. E. Orlando, ministro Guardasigilli; essa fu anche oggetto di una profonda disamina da parte di un alto magistrato, l'on. Tommaso Mosca. I contributi recati alla discussione da alcuni scrittori cattolici e liberali, sono ormai noti. Ma il dibattilo allargatosi sulle pagine della Nuova Antologia, venne chiuso dalla Direzione di quella Rivista.
Non tutte le persone che, a nostro giudizio, potevano esprìmere un pensiero utile sulla grave questione hanno avuto l'opportunità di manifestarlo; di qui l'iniziativa della inchiesta alla quale ci siamo accinti.
Occultare il nostro pensiero, del testo più volte manifestato, ci sarebbe apparso un mezzo non dignitoso; tuttavia nel formulare le domande da sottoporre all’esame delle personalità di ogni parte religiosa e politica, abbiamo tenuto conto, netta indispensabile brevità, di tutte le tesi affacciate nel dibattito.
Abbiamo tralasciato di rivolgerci, naturalmente, a coloro che hanno responsabilità direttive, politiche e militari; e nel diramare il Questionario che qui segue, è stata nostra
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IL PONTEFICE ROMANO E IL CONGRESSO DELLE POTENZE PER LA PACE
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cura di non ricercare molti nomi soltanto illustri, ma di fare appello alla cortesia di coloro che potevano dire qualcosa di veramente interessante e meditalo, recando contributi essenziali alla illustrazióne del problema, 0 per la dottrina loro 0 per essere rappresentanti od esponenti di gruppi e di istituzioni dalle quali l’opinione pubblica riceve idee ed orientamenti.
Abbiamo, quindi, prescelti senatori e deputati rappresentativi, professori di Università e docenti particolarmente competenti, direttori dei- maggiori giornali e giornalisti fra i più eminenti, studiosi noti per la loro coscienza scientifica, ecclesiastici autorevoli, rappresentanti delle varie confessioni religiose, al disopra di valutazioni soggettive. Probàbilmente cademmo in qualche omissione; ma chi ritiene di poter rispondere, senza aver avuto il personale invito, ci farà cosa gradita.
Molte risposte ci sono già pervenute, e qui, per la cortesia della Direzione di Bilychnis, ne iniziamo la pubblicazione integrale, dividendole in due gruppi: « Uomini polilici » e « Competenti e studiosi ». Nel primo gruppo comprenderemo anche coloro che pur non essendo Senatori 0 Deputati, possono appai tener e, come i giornalisti, alla categoria dei politici; nel secondo, anche i rappresentanti delle diverse Chiese, che rientrano nella categoria degli studiosi. Ci siamo permessi di togliere dalle risposte gli accenni preliminari 0 finali di carattere personale, ingombranti ed inutili qui. Le raccoglieremo poi in un volume, con una più razionale sistemazione, insieme ad altri documenti attinenti alla materia.
E auguriamo — come le prime risposte che seguono ce ne assicurano — che pur nel- dissenso delle varie opinioni e dottrine, la discussione confermi l’alta coscienza delle classi dirigenti la vita della Nazione, il profondo amore di tutti e di ciascuno per la Patria, l'aspirazione concorde alla vittoria indefettibile delle nostre armi e delle ragioni di giustizia per le quali, con i nostri alleati, combattiamo, per la realizzazione di una Europa più civile e moralmente più grande.
Guglielmo Quadrotta.
IL QUESTIONARIO
Onorevole Signore,
Fra i più alti e complessi problemi politico-giuridici sollevati dalla guerra mondiale, che dovranno essere risolti prima della cessazione delle ostilità, è quello della presenza del Pontefice Romano al Congresso delle Potenze che dovrà definire le condizioni della Pace.
L’Italia ha un particolare interesse nazionale — oltre quello generale in comune con gli Alleati, riflettente i principii internazionali che verranno sanzionati dal Congresso — alla soluzione del problema: interesse che nasce dal fatto di ospitare in Roma il Pontefice e di aver promulgato una legge che fissa i suoi rapporti con la Chiesa. Cattolica e assicura al suo Capo guarentigie e immunità sovrane per il libero esercizio del ministero spirituale. Queste guarentigie, delle quali il
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BILYCHNIS
Pontefice gode anche nel periodo della guerra, non furono da lui mai accettate formalmente: il che ha creato un dissidio latente fra la Chiesa Cattolica e lo Stato Italiano che la separazione fra i due poteri — affermata dal Ministro degli Esteri Emilio Visconti-Venosta, in una circolare alle Potenze del 18 ottobre 1870 — non ha attenuato, e che potrebbe avere, nel venturo Congresso delle Potenze, qualche manifestazione, risolventesi in un attentato alla sovranità dello Stato Italiano. L’allocuzione pontificia del 6 dicembre 1915, nella quale si rilevava e deplorava l’insufficienza delle guarentigie di cui gode il Pontefice, avvalora questa possibilità.
Il sottoscritto, modesto cultore dei problemi politico-religiosi contemporanei, che già ebbe ad occuparsi alla vigilia della guerra italiana, in una apposita pubblicazione, dell’argomento di cui si discorre, ritiene che la conoscenza precisa del pensiero degli uomini di scienza e dei rappresentanti delle correnti colte e consapevoli del Paese — a qualunque categoria intellettuale e politica appartengano —-sulla dibattuta questione, giovi non soltanto all’ indagine più esauriente di essa, ma anche alla manifestazione degli indirizzi collettivi, perchè il potere responsabile possa prenderne cognizione.
Si permette quindi rivolgersi alla S. V., sottopónendo al suo esame alcune domande, alle quali sarà grato se vorrà rispondere, anche parzialmente e brevemente.
I. Ritiene Ella che il Congresso delle Potenze, che seguirà alla cessazione delle ostilità, limiterà la sua opera a fissare le condizioni della Pace, o affronterà tutte le questioni internazionali e nazionali suscitate dalla guerra e preesistenti ad essa?
IL Dovrà il Congresso amméttere nel suo seno oltre i rappresentanti degli Stati belligeranti anche quelli dei Paesi neutrali ed i delegati delle Chiese universali e nazionali?
III. La partecipazione di rappresentanti religiosi ad un Congresso politico non contrasta con il carattere fondamentale degli Stati moderni?
IV. Poiché fra le Potenze belligeranti che saranno rappresentate al Congresso sono quelle ove il Capo dello Stato è anche Capo della Religione nazionale, questo fatto implica forse la necessità dell’intervento del Pontefice romano a garanzia degli interessi dei cattolici? 0 i cattolici non hanno la legittima rappresentanza in quella del loro Stato, o cattolico o parzialmente cattolico? Gli interessi religiosi non sono tenuti dagli Stati in considerazione in quanto interessi degli Stati stessi?
V. Può il Pontefice Romano essere invitato al Congresso, nell’eventuale esclusione dei rappresentanti delle altre Chiese? Per quali titoli?
VI. Possiede il Pontefice Romano la figura di persona internazionale ed il carattere di sovrano con quegli attributi giuridici necessarii a partecipare ad un Congresso di Stati?
VII. L’esclusione del Pontefice dal Congresso costituirebbe un attentato alla libertà e indipendenza di esercizio delle sue funzioni religiose?
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IL PONTEFICE ROMANO E IL CONGRESSO DELLE POTENZE PER LA PACE 273
VITI. Lo Stato Italiano ha motivi politici per ritenere dannosa, come ritenne nel 1899, la presenza del Pontefice ad un Congresso di Potenze?
IX. La partecipazione del Pontefice al Congresso non restituirebbe ad esso, in altra forma, il carattere di sovrano politico, toltogli nel 1870?
Le risposte che mi perverranno saranno raccolte e pubblicate appena sarà possibile. Sarò grato alla S. V. se vorrà farmi pervenire la Sua con cortese sollecitudine.
RingraziandoLa vivamente, con ossequio mi creda
dev.mo
Guglielmo Quadrotta
Redattore del Secolo e del Messaggero,
LE RISPOSTE
UOMINI POLITICI
Rispondendo ai nove quesiti posti con la Sua circolare, mi affretto a dichiarare Che, a mio modo di vedere, non vi è uomo di Stato, nè in Italia, nè all’Estero, che vi possa con sufficiente precisione rispondere.
Ella non deve quindi meravigliarsi, s’io non Le rispondo e se molti seguiranno il mio esempio.
Prof. Pietro Blaserna dell'Università di Roma
Vice-presidente del Senato del Regno.
000
Mi par difficile l’antivedere fin da ora se vi sarà propriamente un Congresso di Potenze per la pace, e se, in tal caso, vi saranno Chiamati gli Stati ora neutrali. Ma se il Pontificato o alcuna delle Potenze politiche mostrasse il desiderio che la Chiesa cattolica fosse, in qualche modo, rappresentata in quel Convegno, credo sarebbe interesse e dovere dello Stato Italiano il non opporvisi, se non anche il favorire un tale intervento. Il consentire liberamente quella rappresentanza apparirebbe un adempimento manifesto e a tutti visibile della Legge delle Guarentigie; ed escluderebbe perciò, co ipso, che potesse sorgere, per parte di alcuno, nel Convegno, la proposta di discutere la convenienza di porre quella legge sotto la tutela intemazionale: il che annullerebbe la sovranità intangibile dello Stato italiano. Il Papato, intervenendo per mezzo del suo legato, riconoscerebbe, non solo implicitamente, sì anche esplicitamente, la validità di quella legge e la sua esclusiva italianità.
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Volere, invece, escluso il Pontefice da quel Convegno, significherebbe proprio dare esca a far sorgere quella questione che per noi non è ammissibile, e che dobbiamo ad ogni patto eliminare. E poiché il Congresso avrebbe, oltreché un carattere politico, economico, ecc., anche un valore essenzialmente morale, la presenza del delegato pontificio avrebbe appunto questo valore di rappresentanza di una potestà spirituale, non politica.
A stretto rigore di logica, nessuno potrebbe escludere l'intervento di altre confessioni religiose o chiese, a quel Consesso. Ma ciò avverrebbe, per così dire, automaticamente; non solo per molte ragioni di preminenza storica (riconosciute, per esempio, spontaneamente dai rappresentanti internazionali nel Parliement of Religione di Chicago nel 1893), ma per il fatto incontestabile che la Chiesa cattolica xè la sola che abbia una rappresentanza diplomatica, riconosciuta dalla stessa nostra Legge delle guarentigie e dagli Stati stranieri.
Prof. Alessandro Chiappfi.i.i Senatore del Regno.
000
Io credo che non sia assolutamente prevedibile il limite delle discussioni che sorgeranno nel futuro Congresso della Pace, poiché esso dipenderà dai risultati della guerra, come agevolmente si comprende. Se la vittoria, come ne abbiamo sicura fede, arriderà alle potenze dell’Intesa, certo la quistione, circa i nostri rapporti con la Chiesa, non potrà essere sollevata.
Non panni che alcun precedente possa giustificare ed essere invocato, per ammettere nel futuro Congresso altri che non rappresenti uno Stato sovrano. In questa condizione non si trova il Pontefice che ha semplicemente un’autorità spirituale. E ritengo che l’accenno, fatto nella stampa degli imperi centrali, ad una possibile partecipazione del Papa al Congresso, non risponda menomamente ai desiderii del Vaticano. Un rappresentante del Papa nel Congresso avrebbe poca o nessuna autorità e darebbe luogo a vivaci proteste che non gioverebbero al prestigio della Chiesa. Invece, anche senza una rappresentanza, il Papato può esercitare un’altissima influenza morale a prò della pace. E dubito molto che sia negli intendimenti del Vaticano elevare quistioni circa i rapporti dell’Italia con la Chiesa.
M. Mazziotti
Senatore del Regno.
000
Il Suo questionario non può avere risposte concrete che dall’esito della guerra. Noi italiani dobbiamo, con i nostri alleati, combattere e vincere. Combattendo e vincendo, nessun papa, di nessuna chiesa, potrà intervenire od interferire in un futuro congresso della pace tra le potenze, che hanno combattuto.
Prof. G. De Lorenzo dell’ Università di Napoli Senatore del Regno,
000
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I. Per quanto sia pericoloso formulare previsioni, pure panni probabile che il futuro Congresso delle Potenze avrà così vasto lavoro nel regolare le molte e complesse questioni che toccano da presso gli attuali belligeranti da non aver tempo e modo di occuparsi anche di tutte le questioni internazionali e nazionali che sono del tutto estranee agli Stati oggi in conflitto.
II. Non credo che il Congresso (intendo il Congresso della pace, non le conferenze internazionali che potranno tenersi dopo per regolare rapporti secondari) debba ammettere nel suo seno i rappresentanti dei paesi neutrali. Il Congresso di Berlino fu il Congresso delle grandi potenze europee per regolare la questione di Oriente sollevata dalla guerra russo-turca. Ma oggi tutte le grandi potenze europee partecipano alla lotta, c non vi sono più in Europa grandi potenze neutre che possano modificare i risultati ottenuti con le armi dai belligeranti. Naturalmente, a più forte ragione, non vedo perchè dovrebbero parteciparvi i delegati delle Chiese.
III. I maggiori Stati europei sono laici, prescindono cioè da qualunque confessione religiosa. Essi quindi, in una contesa che non è religiosa, non' possono consentire, senza snaturarsi, a introdurre elementi estranei nella soluzione della contesa stessa.
IV. Il fatto che lo Czar dei russi è capo della religione del suo popolo non implica la necessità dell'intervento del Pontefice romano. Lo Czar rappresenta, nel grande conflitto, lo Stato russo, non una corrente religiosa, giacché la presente guerra non è guerra di religioni.
V. Per le ragioni dette dianzi non parmi possa essere invitato al Congresso il Pontefice Romano. Volendo anche fare una questione numerica (che comunque non avrebbe valore alcuno) si deve riconoscere che i cattolici impegnati nel conflitto, non sono superiori di numero ai loro compagni d’anni di altre confessioni religiose.
VI. Dopo il 1870 il Pontefice Romano non possiede più gli attributi giuridici per partecipare ad un Congresso di Stati.
VII. Nessun attentato.
Vili e IX. La partecipazione del Pontefice Romano avrebbe effetto di riconoscimento di podestà politica nel Papato, con diminuzione e pregiudizio di tutta la co-struttura politica e giuridica con la quale l’Italia della rivoluzione nazionale ha saputo dar forma ad una Chiesa libera entro uno Stato sovrano. Per questo lo Stato italiano non può consentire la presenza del Pontefice in un Congresso di Potenze.
Prof. Ivanoe Bonomi
Deputalo al Parlamento.
o o o
I. Il Congresso delle Potenze dopo la guerra dovrebbe non solo fissare le condizioni della pace, ma affrontare anche tutte le questioni internazionali e nazionali suscitate dalla guerra e preesistenti ad essa — e risolverle. Sarà un passo innanzi verso gli Stati uniti d’ Europa che dovrebbe essere il fine non remoto.
IL Credo possibile e legittima l’ammissione dei rappresentanti degli Stati
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neutri. Non vedo invece perchè dovrebbero intervenire i delegati di Chiese universali e nazionali.
III. Tale partecipazione contrasterebbe col carattere fondamentale degli Stati moderni.
IV-IX. E inutile il rispondere, data la risposta ai quesiti Ile III.
Doti. Armando Bussi
Deputalo al Parlamento.
COMPETENTI E STUDIOSI
Alle domande ch’Ella cortesemente mi rivolge non rispondo partitamente, perchè il mio pensiero posso esprimerlo con una formula generale che tutte le comprende. Nel congresso della futura pace il Pontefice romano non deve e non può essere rappresentato: nessuna esplicazione di potere temporale può essergli riconosciuta.
Prof. Avv. Pietro Cogliolo dell'università ài Genova.
L'intervento del Sommo Pontefice nel futuro Congresso delle nazioni, nel quale dovranno essere discussi e risoluti i gravi problemi politici suscitati dalla guerra, è cosa estremamente improbabile. La storia dell’ultimo cinquantennio, sia per il nuovo e sicuro indirizzo dato ai rapporti tra le religioni e lo Stato, sia per le tendenze stesse della Chiesa cattolica, sembra escluderlo in modo decisivo.
Nel futuro Congresso, qualunque sia la forma da cui sarà regolato, si discuteranno soltanto interessi di carattere temporale: questioni di confini tra gli Stati, questioni di equilibrio politico e relative garanzie, questioni economiche e doganali, regolamento di conflitti, obblighi di risarcimento per danni ingiusti, ecc. Tutto ciò forma materia propriamente ed esclusivamente politica, giuridica, temporale, che trova la sua rappresentanza immediata e necessaria negli organi responsabili dei vari Stati, senza possibilità di intromissione di forze e di poteri, che hanno invece la tutela di interessi non meno elevati, e, se si vuole, strettamente connessi agli altri, ma d’indole diversa, poiché rappresentano interessi morali, religiosi, spirituali. Questa è la sola soluzione possibile di fronte al diritto, al pensiero e alla civiltà moderna; una soluzione diversa, anche sostenuta con ragioni d’interesse pratico e contingente, segnerebbe un passo indietro nell’evoluzione giuridica e risospingerebbe ancora una volta a discussioni e ad attriti inutili e dannosi, che già furono felicemente superati e che nulla annuncia essere per ritornare.
La Chiesa medesima mostra già da lunghi anni di avere piena coscienza di queste esigenze che, oltre tutto, sono conformi alla sua natura religiosa, nonostante alcuni atteggiamenti apparentemente contrari a questo indirizzo, che sono proposti soltanto per ragioni di opportunità. Quando si scriverà la storia della Chiesa cattolica nell'ultimo cinquantennio, si vedrà di quanto prestigio essa si sia accresciuta nel mondo, quale avanzamento essa abbia compiuto nella sua espan-
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sione universale, dopo che, per felice incontro di eventi, essa si è mostrata spoglia di ogni forza terrena, pronta quasi a rinunciare ad ogni ambizione umana. In fondo, quegli stessi atteggiamenti tradizionali, a cui accennavo, hanno servito a quel fine. Chi rappresentasse oggi la Chiesa come fosse ancor cupida di competere, in un Congresso di nazioni civili, con poteri di natura essenzialmente diversa, mentre essa può esercitare in mille modi più efficaci, come ogni altra e più di ogni altra organizzazione di forze morali, quella nobilissima funzione di pace, di fratellanza e di elevazione spirituale per cui è sorta; chi la volesse confusa con quei poteri in tutto distinti e avviati a diverso fine, non farebbe che abbassarne ancora una volta la dignità e la funzione.
Fortunatamente, nel diritto italiano, il problema è deciso con la legge delle Guarentigie, legge fondamentale dello Stato ed uno dei più splendidi e robusti monumenti del genio giuridico italiano; legge che, dopo aver assicurato alla Chiesa molta più libertà che essa non abbia goduto e non goda in nessun paese cattolico, dopo aver riconosciuto al Pontefice quelle guarentigie di sovranità, compatibili col diritto sovrano dello Stato, guarentigie che la tradizione storica e la posizione mondiale del papato pienamente giustificano; ha segnato d’altra parte con tutta precisione i legittimi e naturali confini, in cui l’autorità religiosa può e deve liberamente muoversi; e con questo ha risparmiato al nostro Paese quelle lotte aspre e dolorose, che hanno turbato altri tempi ed altri paesi.
Prof. Arrigo Solmi
dell' Università di Pavia.
000
I. Bisogna, anzitutto, distinguere il caso della vittoria degli Imperi centrali {Quod Deus aver tal) da quello della vittoria della Intesa {Quod Deus faxit). Evidentemente nel primo caso, disgraziatissimo, il Congresso delle Potenze, dopo la cessazione delle ostilità, non potrebbe che « limitare la sua opera a fissare le condizioni della Pace ». Queste condizioni sarebbero imposte dalla spada della Germania e, come espressione della violenza vincitrice, non ci sarebbe luogo, in esse, a pietà alcuna pei vinti, nè pei deboli. La giustizia ne rimarrebbe assente, come lo fu da quello del 1815. E vi sarebbe, in peggio, questo: che, ora, non vi sarebbe, come allora, un Tallyerand per proporre di aprire il Congresso in nome del Diritto delle genti. Non vi sarebbe bisogno, così, di un altro Guglielmo Humbold per opporre, con ottusità teutonica, che qui, « il Diritto dèlie genti non c’entra! »
Il quesito si deve supporre quindi formulato pel caso, felicissimo, che dobbiamo augurarci con tutte le forze dell'animo, della vittoria dell’Intesa. Solo in quest’ipotesi si può chiedere se il Congresso « affronterà anche tutte le questioni internazionali e nazionali, suscitate dalla guerra e preesistenti ad essa » e qualche cosa di più, ossia l’attuazione del programma emergente dalle dichiarazioni esplicite, a favore del riconoscimento e della intesa dei Diritti dei popoli grandi e piccoli, fatte da tutti i più alti rappresentanti dell’Intesa: dallo Czar al Presidente della
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Q.'jZ BILYCHNIS
Repubblica francese, da re Giorgio a re Vittorio Emanuele e a re Alberto, da Briand a Salandra e ad Asquith, da Grey a Sonnino e a Sazonoff. _
Il dubbio è lecito. Mi sono permesso di affacciarlo, sin dalla fine del 1914, nella mia prolusione universitaria Gli insegnamenti della guerra per la fede nella democrazia internazionale (Campobasso, Colitti, 1916, 2a ediz.). « Questo diciamo — così allora mi espressi — all’indirizzo di quegli Stati belligeranti, i quali, perchè aggrediti, gridano contro la criminalità degli aggressori, invocano a loro profitto i Diritti naturali, ma dimenticano che essi tengono in soggezione de’ popoli, che rodono il ferro e che aspirano, in confronto di essi, al rispetto dei medesimi Diritti naturali, che non possono soffrire eccezione di sorta. Ecco perchè l'appello ai Diritti dei popoli, che erompe sinceramente dall’animo della Francia e dell’Inghilterra va, forse, più oltre delle loro intenzioni e colpisce virtualmente a morte i loro imperi coloniali. Ma, fin da ora, non pare che l’una e l’altra siano pronte all’adempimento di questo dovere di liberazione».
Può temersi, pertanto, che, anche in questa ipotesi, il Congresso non vada oltre alle condizioni della pace o vada poco oltre. Se non che sarebbe interesse supremo, per la grande famiglia umana, che le cose non tornassero, puramente e sempH-cemente, allo slatu quo ante; sarebbe questo un tradimento e una vergogna. Verrebbe frustrata la legittima aspettativa fatta nutrire da quelli,, che hanno autorevolmente detto che «da questa conflagrazione dovrà uscire qualche cosa di più d'una tregua o d’una pace ».
Sarebbe questo il dovere dell’Intesa; ma, in corrispondenza, noi ne avremmo un altro: quello di essere ragionevoli e discreti nelle pretese, se non in ordine al programma massimo, in ordine all'attuazione di esso.
Non tutto, invero, si potrebbe ottenere d’un tratto. Onde nessuno dovrebbe trovare a ridire se il Congresso cominciasse col definire i rapporti fra i belligeranti e se, quanto al resto, si limitasse senza spezzare la continuità, a tracciare le prime linee del nuovo modo di organizzare la Società internazionale. Per condurre, pòi, a compimento la sperata organizzazione giuridica, occorrerebbe un altro Congresso a cui dovrebbero partecipare i rappresentanti di tutti i popoli, come ad una vera e propria costituente, intesa a proclamare il disarmo, il diritto dei popoli (1), la costituzione dello Stato universale co’ poteri legislativo, esecutivo, giudiziario. Una riunione di questo genere non sarebbe senza esempio. Il Congresso delle razze, che ebbe luogo, or sono tre anni, in Londra, n’è stato come la prova generale e indica che non si può parlare della sua impossibilità.
II. Se, come non può dubitarsi; la Pace concernerà gli Stati belligeranti, è chiaro che il Congresso non avrà obbligo di ammettere, nel suo seno, i rappresentanti dei paesi neutrali. Questi non hanno titolo alcuno per intervenire. Sono stati e dovranno rimanere spettatori. Non hanno avuto gli oneri e non potranno avere gli onori, nè altri benefici di qualsiasi genere. Essi ne vengono esclusi naturalmente, ricorrendo il caso della res inter alios acta.
(1) Conitela mia prolusione di quest’anno Un'intesa scientifica intemazionale per la dichiarazione dei diritti dei popoli, Roma, Casa Editrice Mantegazza, 1916.
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III. È assurda l’ipotesi dell’ammissione al Congresso di delegati di « Chiese universali o nazionali». Nessuna di esse può vantare personalità giuridica alcuna, essendo non al di fuori, ma dentro gli Stati. Non si tratta di Congresso teologico, ma politico, ossia non concernente interessi spirituali, ma temporali. Ammettere rappresentanti di Chiese al Congresso per la pace significherebbe misconoscere e, quindi, offendere il carattere fondamentale degli Stati moderni, che hanno per base la terra non il cielo, questa vita non altre vite, la ragione non le credenze, la realtà non il mistero, la luce non le ombre, la sovranità del popolo non la grazia di Dio (i).
IV. L’esserci. fra le Potenze belligeranti, che prenderanno parte al Congresso, quelle, nelle quali il capo dello Stato è anche capo della religione nazionale, non implica affatto la necessià dell’intervento del Pontefice romano a garanzia degli interessi dei cattolici. Col permesso di Monsignor Benigni, che ha compiuto inutilmente per questo fine delle improbe fatiche, questi capi di Stati saranno rappresentati come tali, non anche come capi di religione. La presente materia del contendere non è la teologia. Non ci sono in contrasto interessi politici dipendenti da patti religiosi. In tal caso gli Stati garentirebbero i propri cittadini.
V. Certo, gli Stati belligeranti potrebbero, se volessero, invitare al Congresso il Pontefice. Quest’invito, appunto perchè volontario, non implicherebbe l’obbligo d’invitare rappresentanti di altre Chiese. Titolo speciale del Pontefice per essere invitato, sarebbe l’essere a capo (sarebbe stolto non vederlo o negarlo) della Religione più universale e più organizzata del mondo e il costituire la più grande autorità morale che esista sulla terra, alla cui potenza ha fatto, testé, appello perfino l’Unione israelitica americana, forte di ben tre milioni di anime, per tutela dei propri correligionari nei paesi d’Europa e dell’Asia devastata dalla guerra. Ma stimo che, per questo, il Pontefice sarebbe diminuito, non ingrandito, coll’invito a sedere, par inter pares in un Congresso per la pace. L’hanno ingrandito, invece, quegli Stati che l’hanno fatto, all’epoca di Leone XIII, arbitro di lor conflitti. E aggiungo che questa sarebbe la sola tesi razionale, che gli apologisti pontifici potrebbero, se fossero sinceri o cauti, sostenere per tenere alto il prestigio del Vaticano, che dovrebbe essere al di sopra di tutte le miserie umane, per là giustizia e contro tutte le prepotenze, tutore di tutti e non per mire mondane contendere con chicchessia.
VI. Il Pontefice romano, qualunque sia la sua altezza spirituale e la sua importanza morale, non possiede, dal punto di vista del Diritto internazionale, personalità alcuna. Il massimo rispetto che gli si deve non dipende per nulla dal riconoscimento implicito di questa personalità che gli manca. La possedette, è vero, fino al 20 settembre ’70; ma non come capo di Religione, sibbene come Re di Roma. Caduto il Potere temporale, si dileguò la sua personalità politica.
(1) Quanto all’ultima, trionfale battaglia contro il diritto divino e pel trionfo della sovranità popolare, vedi la mia opera: Vanti-Spedalieri ossia despoti e clericali contro la dottrina rivoluzionaria di Nicola Spedalieri, Documenti e frammenti, Torino, Unione tipografico-editrice, 1909.
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Nè è sostenibile che questa sia stata restaurata dalla nostra legge delle guarentigie, che attribuì al Pontefice de’ caratteri di sovrano. Per ragioni storiche e puramente temporanee, la legge, che è un patto interno, non ha riconosciuto, nel Pontefice, il Sovrano, ma l’ha semplicemente considerato, anche in omaggio al prestigio derivante dalla tradizione, come un sovrano. Tra l’una cosa e l’altra corre un abisso. Trattasi di una fictio juris, che ha qualche effetto, non tutti gli effetti di ciò che si finge. Del resto sono così poco inerenti alla figura del Pontefice questi attributi sovrani che essi si estinguerebbero, ipso facto, quando si volesse attuare la vecchia idea di abolire la legge delle guarentigie. E la migliore maniera da larvici ripensare è, proprio, quella di interpetrarla, stiracchiandola, in un senso lato, che non ha, nè potrebbe avere.
Ciò stante, il Pontefice non ha, per se stesso, diritto di partecipare ad un Congresso di Stati.
VII. Se il Pontefice non ha veste alcuna per avanzare, di pieno diritto, la pretesa d’intervenire nel Congresso della Pace, non so vedere perchè il restarne fuori possa significare attentato alla libertà ed indipendenza nell’esercizio del suo ministerio religioso.
Vili. Il Pontefice è, in Roma, un Re decaduto e non in esilio. Si direbbe meglio, dopo Pio IX, che il Pontefice, è, in casa nostra, un perpetuo pretendente. Quindi, tutto ciò che tende a galvanizzare il cadavere del Papa-Re non potrebbe che costituire un’onta, un danno per l’Italia. Ecco perchè l’Italia, pur deferente e rispettosa della grandezza storica e dell’importanza spirituale e morale del Pontefice romano, ha e avrà in avvenire, come pel passato, imperiosi motivi politici per l’esclusione di esso da’ Congressi internazionali. Il Pontefice, in questo caso, adulterandosi, scenderebbe dalla sua eccelsa altezza alle umilianti proporzioni di capo di uno Stato qualsiasi, unicamente per contendere con l’Italia. Ebbene: questo l’Italia non potrà permettere giammai.
IX. La partecipazione del Pontefice al Congresso — non per volere dell’Italia, ma contro il volere dell’Italia — sarebbe un atto politico, che potrebbe cominciare a ricostituirgli quella verginità di sovrano temporale, perduta (speriamo per sempre) nell’istante in cui i cannoni del generale Cadorna squarciarono, aprendo la famosa breccia, le mura di Roma presso a Porta Pia.
Giuseppe Cimbali
Prof, di Filosofia del Diritto nella R. Università di Roma.
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Per difetto di competenza e di dati necessari, non sono in grado di rispondere adeguatamente alla sua prima domanda ed alla connessa prima parte della seconda domanda. Occorrerebbe ch’io potessi intravvedere lo svolgersi ulteriore della guerra, conoscere se altri Stati saranno coinvolti nell’immane conflitto, prevedere la condizione che ne determinerà la fine.
La storia ci offre molti esempi di trattative di pace condotte fra i soli Stati
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che aveano guerreggiato, molti esempi di congressi dopo guerre tenuti non soltanto dai già belligeranti, ma anche, e specialmente, dagli Stati principali e dirigenti, non esclusa l’ultima conferenza di Londra dopo la seconda guerra balcanica. Al congresso della pace, da noi aspettato, gli Stati principali e dirigenti d’Europa ci saranno tutti come già belligeranti, e ci sarà per soprammercato il Giappone; ci saranno gli Stati minori che avranno combattuto o almeno dichiarato guerra. Penso che i neutri bisogna distinguere: in neutri che, interessati oggi, durante la guerra, non abbiano interesse diretto alle questioni molteplici di cui il congresso si dovrà occupare (Danimarca, Svezia, Norvegia, Lussemburgo, Olanda, Svizzera, Spagna e, perchè no? Nord-America); neutri ad esse direttamente interessati (Grecia, Romania). A che titolo potrebbero intervenire i primi? I secondi potranno esservi chiamati, benché forse occorrerà sia modificata la situazione, pietosa per uno Stato, in cui la Grecia si dibatte, sia chiarito l’atteggiamento della Romania, che forse attende da un’altra passeggiata militare l’agognato ingrandimento a nord, assai difficile a conseguire con gli stessi mezzi che furono idonei a sud. Interverranno essi, o meno, a seconda della loro posizione alla cessazione delle ostilità.
Io penso che il congresso affronterà tutte le questioni internazionali (eccettuate quelle concernenti il Diritto bellico) e nazionali suscitate dalla guerra. Nè lei opportunamente chiede, nè si potrebbe dire, quante fra tali questioni saranno risolute, quale sarà ogni singola risoluzione.
A tutte le altre domande sento di potere rispondere con sicurezza, frutto di saldo convincimento.
Il Diritto moderno conosce soltanto gli Stati come subbietti di Diritto internazionale, e non esiste oggi una confessione religiosa il cui capo sia, per ciò, capo di Stato; esiste il caso inverso: che capi di Stato sono, per ciò, capi della rispettiva confessione territoriale dominante. Gli Stati interessati, sia che si trovino in questa seconda situazione giuridica, sia che, come l’Italia, abbiano, per tale rispetto, separazione dalle confessioni religiose, interverranno al congresso come Stati; senza che la differenza interna si ripercuota nel congresso internazionale. L’unica istanza di intervento può essere avanzata dal sommo gerarca della Chiesa cattolica, e dovrà essere reietta, come fu nel 1899.
Giuridicamente, tutto è detto, in favore della reiezione, ricordando che ormai è pacifico non essere il Vaticano uno Stato, nè il sommo pontefice un capo di Stato. La Chiesa cattolica sia la socielas perfecta che legittimamente si vanta di essere, non per ciò è uno Stato, anzi si fraziona in tante Chiese territoriali, o nazionali che si vogliano chiamare, quanti i gruppi di suoi fedeli, sudditi dei diversi Stati,, da ciascuno dei quali è formato il Diritto che stabilisce, nel territorio dello Stato singolo, i diritti e i doveri della gerarchia ecclesiastica, dei fedeli cattolici.
Nè, anche trascurando il Diritto internazionale spetta al sommo pontefice di intervenire come capo della Chiesa cattolica, perchè non sono oggi in conflitto questioni religiose, ormai superate. Non è più il tempo della pace di Westfalia, che, d’altronde, Innocenzo X non volle fosse firmata dal plenipotenziario pontificio e contro quel trattato egli fortemente protestò. È utile che Benedetto XV ricordi la cosa e aggiunga la distanza di tempo da allora ad oggi.
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A che titolo dunque potrebbe questi reclamare il suo intervento? A un titolo solo: per la « questione romana », da risolversi, o restaurando, più o meno territorialmente limitato, uno Stato pontificio, o internazionalizzando le guarentigie di libertà e indipendenza del sommo pontefice. A parte che uno Stato pontificio non può esistere nel secolo xx, come non poteva non sorgere nel medio-evo, non credo che gli Stati, a qualunque gruppo appartengano, possano avere interesse ad aumentare le questioni, già molto difficili e complesse. Lo Stato italiano non può mai consentire che il sommo pontefice partecipi a un congresso internazionale, e non già perchè ne reputi politicamente dannosa la presenza, sì pel rispetto della sua personale sovranità. Se esiste una « questione romana », essa è questione interna italiana, non già internazionale, e l’ordinamento giuridico interno è nettamente distinto e separato dall’ordinamento giuridico internazionale.
Non restituirebbe al sommo pontefice il carattere di capo di Stato il suo intervento ad un congresso di Stati, ma negherebbe il carattere giuridico al Diritto internazionale, il quale può ben ricevere dalla violenza offese e lesioni, ma, di questa cessato il transitorio impero, il Diritto ripiglia completo il suo vigore.
Io persisto, come qualche anno fa, a credere che in Vaticano non si prenda più sul serio la questione romana. Il sommo pontefice ha interesse di restare a Roma, l’Italia di tenervelo; nessuno Stato vorrebbe un tanto ospite, in nessuno Stato il pontificato cattolico troverebbe la libertà e l’indipendenza trovate finora in Roma italiana, e che io spero, per la pace d’Italia, vi trovi sempre.
Gaetano Arangio-Ruiz del1 II. III. IV.’Università di Modena. o o o
I. Ritengo che il Congresso futuro non potrà restringersi a dichiarare quanta parte di territorio debba rimanere od esser ceduto o restituito a questo o a quello Stato, ma dovrà proporsi e, possibilmente, risolvere molte questioni internazionali e nazionali (armamenti, politica doganale, regime delle colonie, ecc.) di cui la guerra ha meglio messo in luce la gravità. Non credo che tra tali questioni sia anche quella attinente ai rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
II. Sarà molto bene (anzi: necessario) ammettere i rappresentanti degli Stati neutri, dal momento che si vuole non solo risolvere singolarmente i problemi da cui la presente guerra fu generata, ma dirimere le possibili cause di conflitti futuri, costituendo un equilibrio politico che conceda il massimo rispetto possibile agli interessi e ai diritti di tutti gli Stati.
Non veggo invece alcuna necessità di ammettere al Congresso i delegati delle varie Chiese, perchè non c’è nessun contrasto religioso che il futuro Congresso debba risolvere. La sola quistione attinente a problemi religiosi, che il futuro Congresso dovrà risolvere, cioè quella degli Ebrei in Russia e in altri Stati, non sarebbe risolta con la presenza al Congresso dei rappresentanti delle varie Chiese; e io temo forte che non ci saranno forze che sapranno imporne la soluzione.
III. Credo che sì.
IV. Se si vuole che il principio di libertà esca rafforzato dalle deliberazioni del
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futuro Congresso, si dovrà cercare di abbattere ogni vestigio di teocrazia. Là costituzione di certe Chiese nazionali (come quella anglicana) rappresentò un progresso verso la concezione moderna degli Stati, in quanto fu assorbimento della Chiesa nello Stato. Ma il cammino sarebbe a ritroso, se nel Capo dello Stato oggi noi facessimo rivivere l’esclusivismo della Chiesa. Perciò nessun capo di Stato dovrà ritenersi al Congresso come rappresentante anche della propria Chiesa nazionale. Quindi nessuna ragione di parità di trattamento alle varie Chiese richiede la presenza al Congresso del Papa cattolico.
V . Nè v’è alcun’altra ragione — allo stato delle cose — per cui egli debba essere invitato a partecipare al Congresso, anche nel caso di esclusione dei rappresentanti delle altre Chiese. Lo stato delle cose potrebbe mutare solo se l’avvento della pace sia stato effettivamente avvantaggiato dall’opera del Pontefice, con un esercizio della sua autorità spirituale, di cui per altro non si veggono accenni per ora.
VI .VII.VII! e IX. Ma anche in questo caso il Pontefice non potrebbe avere parte al Congresso se non in virtù dell’efficacia che questa sua autorità spirituale avrebbe dimostrato di avere, come propulsore di pace: non perciò come sovrano fra sovrani, molto meno poi come potestà che abbia le sue speciali questioni da affacciare e da far risolvere.
Per conto mio, anche ogni altra forza che si fosse dimostrata idonea a favorire l’avvento e la conservazione della pace, in nome di idealità superiori alle esigenze e competizioni dei singoli Stati, potrebbe utilmente, e dovrebbe, anzi, essere ammessa a partecipare al Congresso.
Ma questo augurio varrà... alteri succido (se ci saranno ancora guerre), quando prevalga una diversa concezione dei diritti di controllo e di sovranità in materia di politica estera e d’ogni altro ramo della politica.
Piof. Ugo Guido Mondolfo.
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Rispondo soltanto alla quarta domanda del suo questionario.
Fatta eccezione per il Capo dello Stato turco, che è anche il Califfo dei Musulmani' io rispondo alla domanda semplicemente per negare il preteso Jatto.
Lo Czar di Russia non è affatto il Capo di quella Chiesa Nazionale. Egli ne è semplicemente un mèmbro, nè più nè meno che l’ultimo dei suoi sudditi. Capo spirituale di tutti gli ortodossi è il Patriarca di Costantinopoli, poiché il Seggio di Costantinopoli è il centro canonico di tutte le Chiese Ortodosse non scismatiche. Suprema autorità della Chiesa Russa in quanto Chiesa nazionale autocefala, pur in comunione con Costantinopoli, è il Santo Sinodo che si compone di Arcivescovi e Vescovi. Presidente di questo non è lo Czar, nè, come erroneamente si crede, il suo Procuratore, ma bensì il Metropolita di Pietrogrado. lì Procuratore del Santo Sinodo, che è un laico, non è un’autorità ecclesiastica, ma un funzionario governativo che siede nel Sinodo a causa dei rapporti amministrativi che esistono tra la Chiesa e lo Stato e per vigilare a che il Sinodo nelle sue deliberazioni non violi le leggi dello Stato.
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In Inghilterra, il Capo della Chiesa non è il Re; questi è semplicemente un umile membro laico di essa. La Chiesa d’Inghilterra è una Chiesa nazionale che fa parte di una Comunione Ecumenica, cioè della Comunione Anglicana che si compone di numerose Chiese Nazionali autocefale. L’Arcivescovo di Cantorbery, ed egli solo, è il Primate tolius Angliae, cioè Capo della Chiesa particolare d'Inghilterra. E, come Patriarca Ecumenico, riconosciuto primus inter pares dai Vescovi di tutte le Chiese nazionali autocefale costituenti la Comunione Anglicana, ha pure una dignità onorifica di carattere universale in quella Comunione. A causa dell’unione dello Stato con la Chiesa in Inghilterra, lo Stato — e quindi il capo di esso — ha ingerenze in affari amministrativi riguardanti la Chiesa particolare ¿'Inghilterra; niente di più. Dicasi lo stesso per il Kaiser tedesco. La leggenda dei Re-pontefici è invenzione gesuitica diffusa allo scopo di screditare nei nostri paesi la Chiesa Ortodossa, la Comunione Anglicana, e la Chiesa Evangelica luterana. L'impresa è riuscita così bene, che tutti presso di noi — clericali e mangiapreti, ignoranti e persone colte — ripetono pappagallescamente l’insigne sciocchezza. Credo che la sia stampata persino nei manuali scolastici!...
Ma questa strabiliante fortuna che ha arriso al mendacio gesuitico non ha la virtù di mutare di un ette la realtà delle cose.
Se dunque il Papa fosse ammesso alla Conferenza della pace, bisognerebbe vi fossero ammessi, per lo stesso titolo, il Patriarca Ecumenico Ortodosso, il Primate della Chiesa d’Inghilterra, centro canonico della Comunione Anglicana, e così via; poiché tali comunioni non vi sarebbero affatto rappresentate da Capi di Stato, essendo una calunniosa leggenda quella che allo Czar di Russia, al Re d'Inghilterra e all’imperatore di Germania attribuisce l'ufficio di Capi della Religione o anche sem plicemente della Chiesa nazionale a cui ciascun di essi rispettivamente appartiene.
Ugo Janni Pastore Valdese. 000
I. Sì, alla seconda parte, se saranno gli Alleati a imporre le condizioni della pace.
IL Potrà — secondo le vicende della guerra — gli Stati neutrali: non dovrebbe le Chiese, che non sono società politiche.
III. Certamente.
IV. No, perchè l’unione è personale, e non è il capo religioso, ma il sovrano che interviene.
V. No: in Europa, il Cristianesimo cattolico è inferiore numericamente forse, anche solo al Cristianesimo « Ortodosso » o al Cristianesimo « Riformato > : certo minore a tutto il Cristianesimo non cattolico.
VI. Il papa ha importanza internazionale, ma non figura giuridica internazionale. VII. No: e non sarebbe questo il primo Congresso a cui il papa non interverrebbe. Vili. La risposta è ovvia.
IX. Sarebbe almeno un passo verso di esso, ovvero un’incocrenza di diritto internazionale.
Proj. Giovanni Pioli.
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IL PONTEFICE ROMANO E IL CONGRESSO DELLE POTENZE PER LA PACE 285
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Mi pare difficile dire ora se il Congresso delle Potenze affronterà o no tutte le quistioni internazionali e nazionali suscitate dalla guerra o anteriori ad essa; certo se si limitasse a stabilire le condizioni della pace, farebbe opera sterile, a meno che non si trattasse di un Congresso preparatorio. Mi pare, per altro, fuor di dubbio che dovrà dar luogo, se non a tutte, a molte quistioni nesse e connesse con una pace duratura.
Per questa ragione mi sembra che il Congresso non possa astenersi dal l'ammettere i rappresentanti degli Stati neutrali e che, ove risultasse utile o necessario (il che è discutibile), potrebbe ammettervi anche i delegati delle Chiese, ma in tal caso senza preferenze e distinzioni.
Credo che la partecipazione dei rappresentanti religiosi non contrasterebbe col carattere fondamentale degli Stati moderni quando fosse possibile ottenere che i rappresentanti intervenissero nei limiti di una stretta conciliazione dei loro interessi particolari con gl’interessi generali degli Stati stessi.
Se gl’interessi religiosi saranno tenuti in considerazione puramente e semplicemente per incidenze connesse degli Stati stèssi, ai cattolici può bastare, come agli altri, la loro legittima rappresentanza, ma se invece quegli interessi fossero tutelati particolarmente dai singoli Capi in veste religiosa, allora ne risulterebbe inconcusso l’intervento del Pontefice Romano.
Non mi sembra che il Pontefice abbia nessun vero titolo per essere invitato a partecipare senza gli altri Capi di Chiese; e tanto più mi parrebbe strano che egli pretendesse di essere invitato solo o di escludere altri. Le sue prerogative diplomatiche evidentemente non sono pari ai diritti posseduti in attinenze concrete dai Capi che governano e che vi si limitano; ed essendo meramente formali, non escluderebbero in caso inverso i diritti dei delegati non sovrani che potessero essere invitati per parità religiosa e sociale.
Discende da ciò che il Pontefice Romano — pur possedendo la figura di persona internazionale, che in questo caso poi passa ipso pire in ciascun delegato —-non riacquisterebbe col suo intervento il carattere di sovrano politico, escluso dal fatto di non governare e dalla limitazione effettiva delle sue prerogative.
Ne consegue che la esclusione del Pontefice Romano non può esercitare attentato di sorta, ove gli altri Capi non investano nel Congresso le funzioni, per dir così, di pontefici delle loro Chiese.
Lo Stato italiano potrebbe ancora aver ragioni di temere l’intervento del Pontefice, qualora non gli si riconoscesse, che è impossibile, il diritto di premunirsi ab initio contro invasioni che nessun altro Stato tollererebbe.
Finalmente non si dimentichi mai che la religione trionfa solo a modo del Cristo, cioè con l’evangelio e l’esempio.
Prof. Luigi Antonio Villari.
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O O O
In omaggio, almeno, ai nostri sacrifici, ai nostri dolori, ai nostri lutti giova sperare che il futuro Congresso sia serbato ai soli popoli che l’aggressione contennero — e che in esso non sia posto, non chè per gli assassini, neppure pei cinici spettatori, alcuni dei quali frugatori di tasche. Sarà esso — se lo permetta la miopia degli uomini politici d’oggi, quasi tutti troppo piccoli (e gli italiani in primissima linea) al cospetto dei giganteschi eventi — l'esatto ‘pendant del Congresso della Santa Alleanza; e ne gioirà, come di sacra vendetta, l’ombra di Napoleone, il grande calunniato.
Non v’è posto per il Pontefice Romano, nè per alcun Capo di Religione (in quanto tale) al Congresso di domani; la loro autorità essendo nulla di fronte a quella dei Governi.
Doti. Arnaldo Cervesato.
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L’ADOMMATISMO RUSSO
E IL RINNOVELLAMENTO RELIGIOSO DEL CRISTIANESIMO
oi assistiamo al crepuscolo delle vecchie ed antiquate concezioni della dommatica cristiana, asseriscono gli adommatisti russi. In un periodo di turbinosa attività dello spirito, in una società che più non si lascia guidare dagli oracoli di una fede credula e superstiziosa, ma tutto misura secondo i dati reali dell’esperienza sensibile, o della pratica utilità, sotto l’influsso di un nuovo orientamento del pensiero che riduce al minimum il sovrannaturale nella vita delio spirito, e sottomette il feno
meno religioso all’analisi di una critica psicologica che si burla dei sedicenti responsi infallibili dell’autorità gerarchica, il cristianesimo storico non serba più che un’ombra della gloria e della grandezza del passato. La sua pompa esterna non è il segno d’interna vitalità. Esso continua a muoversi in virtù di un impulso iniziale impresso ad una massa inerte, ma la sua sfera di attività decresce, il suo movimento si rallenta, e scema nello stesso tempo l'intensità della sua azione. Come tutti i sistemi religiosi i quali hanno le loro fasi d’intensa vitalità e di fatale esaurimento, il cristianesimo è oramai entrato nella sua parabola discendente. A differenza tuttavia delle altre religioni, esso nasconde nel suo cuore un principio divino che gli trasfonde una perenne energia vitale. Il paganesimo scomparve perchè incarnava un ideale umano, l’apoteosi dell'uomo nelle sue virtù e nei suoi vizi. Il cristianesimo, al contrario, incarna l’ideale divino, s'immerge in un oceano di luce che piove dall’alto, parla un linguaggio che nessun uomo parlò su questa terra, predica verità che i filosofi e gli scienziati non divinarono, ci appare ricinto di una aureola di sovrannaturale, tocca con le sue dottrine le fibre più riposte del cuore, risuona nelle nostre anime come l’eco fedele di tutte le nostre aspirazioni, anima naturalità chrisliana, e perciò risponde alle esigenze morali e religiose di tutti i tempi e di tutti i popoli. Il cristianesimo è una religione eterna, in quanto possiede nelle sue intime fibre una virtù rinnoveDatrice del suo essere e del suo pensiero. Una forma esterna, una forma storica del cristianesimo può svanire, rosa dalla ruggine del tempo, o perchè invisa a una società che cerca nuovi orientamenti di coltura, di sociale progresso, di reggimenti politici, di criteri morali. Ma l’essenza del cristianesimo, il nocciolo della sua dottrina, il complesso delle sue energie vitali, non teme il cozzo formidabile dei secoli, il piccone demolitore della critica umana. La sorgente donde
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sgorgano le linfe vivificatrici del cristianesimo è perenne. Non possiamo quindi parlare di un cristianesimo agonizzante, perchè la sua pretesa agonia non sarebbe che il preludio, i segni precursori di un’alba novella. La decadenza del pensiero e della vita cristiana rappresenta una fase transitoria nella storia dell’umanità redenta. L’impulso dello spirito dà vita a nuove forme religiose, modifica l’involucro esterno del cristianesimo storico, imprime una nuova direzione alla coscienza religiosa dell’umanità, quando questa sembra matura per un passo avanti nella marcia indefinita del progresso spirituale. « I credi, le professioni di fede, dicea Emerson, sono le malattie dell’intelletto ». Questa massima informa tutta la nuova filosofia religiosa dell’adommatismo russo. La coscienza rinnovellata dell’umanità deve tendere a sopprimere le cause efficienti di queste malattie intellettuali, a ridurre al minimum la cristallizzazione formalistica del cristianesimo, ad infrangere le barriere dom-matiche che imprigionano lo spirito in una cerchia di angusti orizzonti, a cancellare ciò che vi è di ufficiale, di artificioso nelle relazioni tra l’uomo e Dio. La religione del futuro non sarà la religione dei credi, l’idolatria delle formole, l’impero della dommatica, il despotismo del sacerdozio, le rivendicazioni della gerarchia, il ritorno di controversie teologiche, la coercizione morale delle coscienze. Il sentimento religioso più si affina a misura che si spoglia per così dire delle bende umane, le quali comprimono la sua libera espansione. La religione del futuro sarà quindi una religione più semplice, più interiore, un fatto intimo della coscienza più che la sommissione ad una autorità esterna e l’adesione a un simbolo stereotipato.
Il misticismo filosofico del Minsk.
Nel definire però la religione del futuro, gli adommatisti russi seguono due vie diverse. Gli uni dànno nelle loro concezioni la prevalenza all’elemento naturale del sentimento religioso, considerano la fede come una nuvoletta che scomparirà quando la coscienza umana potrà respirare liberamente non più curva sotto il giogo del dommatismo. Questa scuola naturalistica è capitanata da Minsk, un geniale espositore di una nuova sintesi religiosa a base di umanesimo. Altri tuttavia riconoscendo nel cristianesimo un principio ultra-razionale, l’azione continua di Dio che illumina le menti umane, rappresentano la religione del Cristo come una fase storica del processo divino illuminativo, come un periodo medio della vita religiosa dell’umanità. Il cristianesimo dottrinale è il prodotto di una rivelazione divina, ma il torto dei dommatisti è stato quello di asserire, che con la scomparsa del Cristo dal teatro delle sue gesta si è esaurita la vitalità dell’intelletto divino, si è spenta la fiaccola del suo insegnamento, si è reso l’intelletto umano impotente a scoprire nuovi filoni di verità nell’inesauribile miniera dell’essere divino. La rivelazione cristiana ha lacerato un lembo solamente del velo che ci nasconde l’oceano di luce della divinità. I veri che noi abbiamo appresi dalie labbra del Cristo, ci riempiono di gioia, e guidano i nostri passi vacillanti attraverso i dirupati sentieri della nostra vita. Ma la nostra brama d’indagare nuovi aspetti misteriosi dell’inesauribile natura divina rende necessarie nuove rivelazioni, le quali completeranno le lacune della rivelazione cristiana.
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Per comprendere la lotta delle tendenze religiose che si agitano nella moderna società, secondo gli espositori russi della religione naturalistica del futuro, noi dobbiamo distinguere accuratamente tra il sentimento religioso e il senso di fede. Religione c fede non sono da classificarsi nella medesima categoria. L’una e l’altra presentano differenze caratteristiche. Per citare un esempio volgare, noi non possiamo confondere la nutrizione con l'allattamento. Cibarsi è una legge immutabile richiesta dall’istinto naturale della conservazione dell’esistenza: l’allattamento è al contrario una speciale applicazione di questa legge generale, una forma speciale di nutrizione. Parimenti il sentimento religioso è un’appendice necessaria, indistruttibile della natura umana. La ragione e la volontà non sono in grado di svellerla. La tendenza religiosa dell’umanità è perenne, è il prodotto di energie intime e vitali che muo-vonsi nelle fibre più riposte del cuore alle quali non giunge lo scalpello anatomico. Il sensus fidei al contrario è un momento fugace della nostra vita religiosa, un momento che ci colma di felicità, che ci fa sussultare di gioia, che accelera i battiti del nostro cuore, che infonde freschezza e vigoria alle nostre facoltà spirituali: ma sventuratamente esso è transitorio, è una meteora che lampeggia nel cielo della nostra anima e lo stria con raggi luminosi di breve durata. La fede è come una rinascita infantile della nostra anima, come una rugiada celeste che l’umetta. La sua brillantenzza è il prodotto dell’ignoranza: gli entusiasmi che provoca sono suggeriti da infantile fiducia. In seguito la ragione si rinvigorisce, apresi alla luce della verità e la fede si annebbia, si dissipa, e l’uomo festa in presenza delle fredde realtà. Non ci meravigliamo quindi dell’antagonismo tra fede e ragione. L’armonia, la conciliazione tra questi due potenti avversarli è un sogno di mente inferma. La fede scorge nella ragione un avversario che non le darà mai tregua: la luce della mente è una spada che la minaccia e che un giorno le trafiggerà il cuore. Se fossimo vaghi di paragoni, potremmo dire che il sentimento religioso è come un albero fiorito, e che il sensus fidèi è il fiore che durante la primavera sboccia sui rami di quest’albero, un fiore che spande un grato profumo ed abbaglia le pupille col suo candore, ma che per breve tempo farà pompa della sua bellezza, e coprirà il suolo con le sue foglie avvizzite per cedere il posto ai semi ed ai frutti.
Per non aver tenuto conto di questa distinzione fondamentale tra due elementi separabili: religione e fede, scuole opposte di filosofia religiosa deviarono dal vero. Da un lato abbiamo gl’idolatri della ragione, che concepirono questa come un contraltare a riguardo della fede. Lo sviluppo del pensiero critico che sgretolava gli edifìcii traballanti delle vecchie credenze sradicò la fede nelle anime, e l’ecelissarsi della fede fu salutata con gioia dai dottrinari della ragione, i quali inneggiarono a Prometeo che con le proprie mani spezza le catene, e proclama la disfatta della religione e della metafisica. Così esultarono i filosofi naturalisti, i quali dimenticarono che la metafisica avea contribuito efficacemente alla loro vittoria. Sorsero nuovi schemi di dottrine religiose. Gli uni proposero di sostituire alle conclusioni teologiche i principi delle scienze naturali: gli altri di fondare la religione sui dettami di so-
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cíale equità: gli altri di ricercare le radici della religiosità nei naturali istinti del nostro io. Il torto di quésti banditori di nuove concezioni religiose ristrette nella cerchia della nostra conoscenza delle leggi della natura fu di eliminare il divino dal concetto di religione, di misconoscere l’evoluzione che nel dominio della coscienza religiosa compievasi dinanzi alle loro egre pupille. Coi loro paroioni di morte della religione, di crepuscoli degli Dei, di metamorfosi del Dio-uomo in uomo-Dio essi non compresero che il religioso sentimento non tramontava sugli orizzonti umani, ma che solamente il sensus fidei si estingueva, come fiammella cui manca il vitale alimento. Nel compiersi di una fase storica del progresso evolutivo della religiosità umana, essi non intravidero il mistero del rinnovellamento della vita religiosa, la quale non è legata alla professione di una fede determinata, all’adesione cieca, infantile più volitiva che intellettiva, ad un simbolo di affermazioni dommatiche.
Un’altra scuola di pensiero nei suoi conati di gettare le basi di una ricostruzione religiosa dell’umanità inneggia alla fede come a un elemento perenne della coscienza umana. Se la scuola naturalistica proclama lo spegnimento della fiaccola religiosa, una. scuola mistica afferma l’eterna vitalità della fede, la necessita pel genere umano di ritornare all’antico per non ¡smarrirsi nei sentieri dell’amoralismo irreligioso. Gl’idealisti mistici di questa scuola chiudono le loro pupille di fronte alla realtà dolorosa del tramonto di una fede la cui penombra è diradata da raggi cocenti del sole nel suo splendore. Essi raccolgono i petali caduti dagli alberi in fiore, e artificiosamente li appiccicano ai rami verdeggianti per darci l'illusione di alberi perpetuamente fioriti in una campagna allietata da una perenne primavera. Essi si lusingano di ricondurre l’umanità al suo stato di beata ignoranza dopo che la luce del vero è penetrata nello spirito umano. A parer loro, l’uomo a suo talento potrebbe cessare di essere angosciato dal dubbio eziandio quando il dubbio è penetrato nella sua anima. Ma il dubbio trionfa, e riduce in spirali di fumo gli schemi religiosi e morali elaborati dai mistici infatuati di un passato storico che più non ritorna. Perciò il rinascimento religioso dei nostri giorni è torbido come un torrente ingrossato che rompe i suoi argini. Gli uni contemplano con gioia la sua fiumana impetuosa che tutto rovescia e trascina nella sua corsa vertiginosa, e vorrebbero che questa fiumana non lasciasse nemmeno le traccie dell’antico letto del torrente. Gli altri al contrario esprimono la brama di riedificare le dighe infrante affinchè le acque non allaghino le campagne circostanti e non ¡scorrano fuori delle sponde loro assegnate; dalla natura.
Contro i rappresentanti delle due scuole noi dobbiamo arditamente asserire che la fede è morta, ma che il sentimento religioso per sua natura è imperituro. La perdita della fede è fuor di dubbio una grave iattura per la poesia della felicità umana. Quando la fede irradia in un’anima come il sole, i suoi raggi sono sovranamente belli e chiari. Il gelo delle nostre fibre si scioglie al loro tepore. Tutto il nostro essere tripudia al soffio primaverile che la fede spira nella nostra coscienza. Ma il sole ha il suo tramonto, e tutta la scienza umana è inetta a ritardare di un solo momento la sua dipartita dal nòstro orizzonte. E parimenti vi è un tramonto nella nostra fede, vi è la brina dell’inverno che intorpidisce c gela l’anima estasiata nella contemplazione fantasiosa di un mondo idealizzato dalla fede. E quando la
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fiaccola della fede si estingue in noi, perchè l’anima nostra non resti immersa nel buio di dense tenebre, noi dobbiamo accendere in noi stessi una fiaccola meno luminosa, ma più fedele, una fiaccola non bella esteriormente, ma più perfetta, la fiaccola della conoscenza mistica di Dio. Alla luce artificiale che irradia dall’esterno nei penetrali della nostra coscienza noi dobbiamo sostituire la luce naturale che irradia nelle fibre pili intime dell’essere spirituale. Fuor di dubbio che per colui che s'inoltra nei sentieri rischiarati dai fulgori abbaglianti della fede, la luce della coscienza mistica, il raggio naturale della ragione filosofica sembrerà pallido, fosco, nebbioso, incerto fioco, oscillante come la fiammella di una lampada esposta al sole del meriggio. Ma per colui che ha varcato i confini segnati dalla fede, e che privo della stella polare vagola nel buio di oscurissima notte la coscienza mistica è l'unica ancora di salvezza.
La ragione non è il carnefice del sentimento religioso. La conoscenza interiore di Dio. lo slancio di tutto il nostro essere verso l’Assoluto, i fremiti di tutto il nostro cuore che anela l’abbraccio della divinità: i sussulti di tutte le nostre fibre che come fiori avvizziti agognano la goccia di rugiada celeste non sono compressi e soffocati dalla vitalità esuberante della ragione che paralizza le attività artificiose della fede. La ragione è un elemento purificatore della nostra coscienza religiosa, una fiamma che consuma c incenerisce in noi lo spirito di servilismo e di egoismo e fonda le nostre relazioni con Dio sulla pietra angolare dell'amore. L’età nostra è l’età della ragione trionfante, del predominio del pensiero scientifico, della morte ingloriosa delle leggende che formavano il sostrato della fede, e nondimeno lo slancio dell'anima verso Dio, lo sviluppo del sentimento religioso non è stato mai così intenso, così puro, così disinteressato come ai giorni nostri.
Vi è una differenza essenziale tra la vita religiosa del passato sgorgante dalla cecità della fede, e la vita religiosa delle presenti generazioni svolgentesi negli orizzonti luminosi della ragione. Nei tempi andati una rinascita, un nuovo orientamento del pensiero religioso era concepito come una nuova disfatta della ragione impotente a scoprire le occulte forze della natura, le leggi che le regolano, le armi per dominarle. Atterriti gli uomini si rifugiavano nel seno di misteriose divinità, alla cui vendetta, al cui corruccio attribuivano i cataclismi del nostro pianeta. L’età nostra ha rovesciato le barriere dell’ignoranza, e liberato l’uomo dal suo terrore superstizioso. I dotti, i sapienti, gli esploratori, i riformatori del secolo xix c’illuminarono sull'umiltà delle nostre origini, ci convinsero che non è un’onta per noi l’essere discesi dai bruti, o forse dai vegetali. Noi spingemmo il nostro sguardo nell’immensità dei cieli, ed accertammo che la loro esistenza data da milioni di anni. Nelle grandi catastrofi della natura, quando i nostri avi si prostravano nella polvere, e con vani esorcismi scongiuravano gli Dei, o con sacrifici si lusingavano di placarne la collera, o con voti e promesse di conciliarsi la loro clemenza, noi indagammo le leggi misteriose della natura e le strappammo i segreti. Invece di organizzare pie processioni e sventolare orifiamme intorno alle mura delle città, per allontanare il flagello delle epidemie, noi canalizzammo le acque, costruimmo strade, spargemmo disinfettanti, e così distruggemmo i germi della peste e delle malattie contagiose. Fugammo la grandine col rombo dei cannoni, riducemmo in cattività la scintilla
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elettrica coi parafulmini, e quando il cielo con la sua monotona serenità ci negava la pioggia fertilizzatrice noi inaffiammo artificialmente i nostri campi adusti, e nella lotta titanica contro le forze brute e cieche della natura, noi cercammo in noi stessi la gagliardia della resistenza, noi strappammo dal suolo le palafitte sulle quali poggiavano la fede e la preghiera dei nostri avi. E nonostante la nostra scienza, le nostre vittorie nel dominio delle forze naturali, con lo stesso riverente amore dei nostri avi, ma con più disinteresse, con più serena baldanza, con più cosciente fiducia in noi stessi noi ci prostriamo ai piedi della divinità, e questo nostro omaggio verso l’Ente Supremo non è suggerito dal terrore o dall’egoismo. Noi ci prostriamo a cospetto di Dio perchè vi è in noi,' nelle radici più profonde del nostro essere la scintilla della divinità; perchè noi non siamo atti a mutare le leggi che governano la nostra anima, nello stesso modo che non siamo atti a cambiare le leggi della natura. Noi siamo mistici senza fede, ma il nostro misticismo esclude la possibilità del dubbio.
Il nostro misticismo non distrugge in noi la gioia intima della preghiera, la visione radiosa delle speranze al di là della tomba. La natura non è per noi il regno degli spettri che sfilano innanzi alle nostre pupille atterrite e paralizzano le nostre energie. Ragione e sentimento mistico sono fatti per riconciliarsi nella nostra coscienza religiosa, e noi non dobbiamo, come i positivisti, proclamare il loro eterno divorzio per appagare le ubbie capricciose di chimici e fisiologi. Nella via del misticismo noi dobbiamo seguire il corso ordinario della natura: dal noto procedere verso l’ignoto. Il processo della conoscenza mìstica di Dio, conoscenza che è l’esordio della nostra vita religiosa, deve compiersi nelle segrete regioni del nostro io. Noi conosciamo scientificamente quando dalle visioni degli obbietti esterni rientriamo in noi stessi, meditiamo su ciò che a noi è intimamente noto delle cose percepite dai sensi. Sembrerebbe di primo acchito ch’e con questo ritorno nei penetrali della nostra coscienza noi ci rinchiudiamo nel regno angusto della nostra personale esperienza. Questa illazione sarebbe erronea. Rientrando in noi stessi noi scopriamo il sentiero che c’introduce nel cuore, negli anditi misteriori della natura. Per muoverci da un sito a un altro, noi dobbiamo prendere il nostro slancio dal punto dove sono fermi i nostri piedi. Se restando immobili, col pensiero noi ci trasportiamo verso la meta finale del nostro viaggio, corriamo il rischio di scorgere con la nostra immaginazione non già la realtà, ma il fantasma che noi stessi abbiamo foggiato, non già un nuovo elemento della nostra scienza, ma la reminiscenza di vecchie idee. Lo stesso fenomeno si avvera nel dominio della nostra conoscenza di Dio. Noi non siamo in grado di comprendere Dio, la sua eternità ed umiltà, ma noi possiamo investigare in qual modo l’idea di Dio sgorga nel nostro spirito limitato. Come i magi nel deserto, noi dobbiamo seguire la stella del pensiero per giungere alla grotta nella quale ha luogo la nascita del Dio-uomo, ed alla mangiatoia nella quale Egli riposa. La stella che ci guida verso Dio è la nostra esperienza personale, la quale ci spiana la via per penetrare nel cuore della divinità.
L'esperienza personale dissecca le radici della fede. Il mistico razionale confessa Dio nel quale non crede, è uno spirito religioso che la fede più non attrae nell’orbita delle sue nebbie. Egli non crede in Dio, perchè Dio è per lui una cer-
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tezza, una realtà profondamente sentita. Vi è un triplice mondo al quale si estende la nostra conoscenza mediante la certezza o la fede. Vi sono dei fatti che appartengono all’esperienza interna dei singoli individui, e di essi noi abbiamo una certezza intima che elimina il dubbio. Io sono certo dei miei sentimenti di gioia e di dolore, delle mie impressioni, delle conclusioni logiche del mio pensiero, della verità degli assiomi matematici. Vi sono fatti esterni che cadono sotto il dominio dell’esperienza sensibile, e di questi noi abbiamo certezza, non fede. Noi siamo certi che le stelle errano nell’immensità dei cieli. È ben vero che alle volte i sensi c’illudono ma la ragione corregge l’errore dei sensi. È ben vero che alle volte la limitazione dei nostri sensi non ci permette la soluzione certa di problemi dell’ordine naturale. In questo caso però non abbiamo la fede, ma l’ipotesi. Infine vi è un terzo mondo, l’esperienza interna degli altri, e di questa noi abbiamo la fede, non la certezza. Simboli materiali ci nascondono le vere sembianze dell’esperienza interna dei nostri simili. Quando altri ci parlano dei loro sentimenti interni, delle loro simpatie, antipatie, speranze, ideali, credenze, noi ci limitiamo solamente a credere alla loro parola. Le relazioni umane, anche le più intime e sacre, per es. l’amore coniugale, sono basate sulla fede. E questa fede si mesce al dubbio ed alla brama di conoscere. Quando la brama di conoscere si fievolisce e muore, la fede eziandio si estingue nella morta gora dell’indifferenza. Quando il dubbio si dissipa alla luce di argomenti irrefragabili che generano in noi la convinzione, la fede muore di esaurimento. L’idolatria era poggiata sulla fede, e morta questa fede gl’idoli scomparvero: di Giove non restò più che un cadavere marmoreo. Parimenti tutti gl’idoli religiosi sono predestinati a perire quando in noi si sveglia la vera coscienza religiosa, ma coscienza che ha per fondamento la certezza della conoscenza, non già il dubbio della fede. Dio si rivela a noi, e diventa un obbietto della nostra scienza solo in virtù di una rivelazione interna, vale a dire, in virtù di una esperienza interiore che genera la certezza. Perciò il dubbio non è possibile a riguardo del vero Dio. Il Dio vero è il nostro proprio pensiero, il nostro proprio sentimento, le nostre proprie aspirazioni. A riguardo di Dio non vi sono nella nostra anima alternative di desiderii e d’indifferenza. Chi amò e conobbe Dio non cessa mai di possederlo e di amarlo. E se alle volte ci sembra che noi ci separiamo da Dio, la nostra espressione è impropria. Affermando di amare Dio noi amiamo gl’idoli pagani, fatti ad immagine dell’uomo, e la nostra fede negl’idoli è già morta. Il sentimento mistico cresce in noi, e tende a spezzare, a ridurre in polvere l'involucro materiale della rivelazione esterna. L’antica fede deve riposarsi nella tomba, e tutte le volte che una fede muore, l’uomo si aderge ad un grado più elevato della conoscenza di Dio, e le nebbie che in lui fondevano il reale con l’ideale si diradano.
In tal guisa il problema religioso dei nostri tempi potrebbe risolversi in tre vie distinte: Io ripudiare la coltura moderna con le sue negazioni nel dominio della fede storica, e ritornare all’antico despotismo dei simboli dommatici; 2° ripudiare totalmente il sentimento religioso, e prostrarsi innanzi all’idolo della ragione, e sostituire ai simboli dommatici il vangelo razionale della coltura; 3° o ricercare nella coltura medesima, nei principii della civiltà che spazza le tenebre, la fonte di una nuova concezione religiosa. La filosofìa critica ci mostra che l’avvenire reli-
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gioso dell’umanità dipende dalla sintesi armonica della coltura spirituale col sentimento religioso. Seguire la prima via sarebbe lo stesso che sperperare le ricchezze accumulate da eroici sforzi, da erculei lavori, da giganteschi conati, da incessanti martiri delle passate generazioni, e rientrare volontariamente in un odioso servaggio, nelle tenebre della barbarie. Seguire la seconda via equivarrebbe a strappare all’uomo la sua aureola divina, a togliergli quella felicità intima, quella gioia sovrumana che fluisce nella sua anima dal sentimento religioso. Seguendo la terza via l’uomo si india: l’uomo si libera dalla scoria teologica dei credi: l’uomo cerca e trova Dio, o per dir meglio Dio stesso cerca e trova sè medesimo in tutti gli atomi dell’universo e sovratutto nello spirito umano. Mediante questa rivelazione interna della divinità, questa conoscenza intima di Dio noi viviamo nel tempo, ma moriamo nell’eternità, noi viviamo nella natura, ma moriamo in Dio, noi viviamo nella scienza, ma moriamo nel cielo della religione. Noi non siamo schiavi di un sacerdozio esterno, ma ergiamo l’altare di Dio nella nostra anima, un altare che più non si nasconde alle nostre pupille tra le nuvole di fumanti incensi, ma che ci appare nella sua artistica maestà e nella bellezza sovrana delle sue linee riflesso nello specchio luminoso della ragione.
Il misticismo apocalittico di Merejkovsky e Berdiaeo.
A questo misticismo filosofico de! Minsk, che ci sembra un rinnovellamento del misticismo neoplatonico di Plotino fa. riscontro il misticismo apocalittico di Merejkovsky e Berdiaeo. L’uomo moderno nella sua evoluzione religiosa deve spogliarsi dell'elemento temporale e storico della rivelazione cristiana, ed. orientarsi verso una rivelazione mistica eterna ed assoluta. Egli deve slanciarsi con rapide ali nei sentieri della coltura universale, e quando il suo intelletto trionfante in un’orgia di luce avrà strappato il velo all’ultimo segreto ehe ci nasconde un lineamento misterioso della natura, allora tutto ciò che è finito nella sua natura, nella sua visione, nelle sue aspirazioni cadrà, come foglia ai primi freddi dell’autunno, e un prin cipio eterno dominerà tutto il suo essere.
Secondo i due mentovati filosofi e teologi dell’adommatismo russo, fallace è l’asserzione dei dommatisti del cristianesimo storico i quali affermano l’esistenza di due sole rivelazioni: la mosaica e la cristiana. La rivelazione continua, ininterrotta, progressiva di Dio nel cuore e nella mente dell’umanità è un fenomeno perenne, una realtà permanente della coscienza religiosa. Il Geova del Giudaismo rappresenta una pietra miliare della rivelazione di Dio nella concezione giudaica. Ma il paganesimo con tutto i suoi idoli continua il processo evolutivo della coscienza religiosa, la manifestazione successiva di Dio nel mondo delle intelligenze create. Gl’idoli pagani, dice il Berdiaev, sono maschere che ci scoprono le eterne sembianze del Dio Padre in un modo non meno perfetto di quello della rivelazione mosaica. Il cristianesimo fuor di dubbio è l’antitesi del politeismo etnico, ma la pienezza della rivelazione stabilirà la sintesi armonica tra le tesi pagane e l’antitesi cristiana.
Secondo il Merejkovski, non è esclusa la possibilità di una nuova creazione religiosa, di nuovi dati profetici, di nuòve rivelazioni. Il regno di Dio non è solamente una società esterna, una collettività umana sottomessa ad un codice di leggi promul-
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gate più dagli uomini che da Dio. Il regno di Dio è in noi, nelle aule sante del tempio dei nostri cuori. Ogni palpito del cuore umano è la voce possente, misteriosa, di nuove rivelazioni della divinità. I singoli minuti, le singole ore, i singoli giorni della nostra vita svolgono i germogli, aprono i bccciuoli, maturano i frutti di nuove rivelazioni, di nuovi riflessi dell’Ente increato. La sorgente della rivelazione è inesauribile. Essa è Gesù, che dice ai suoi discepoli: « Quando colui sarà venuto, cioè, lo Spirito di verità, egli vi guiderà in ogni verità: perciocché egli non parlerà da se stesso, ma dirà tutte le cose che avrà udite e v’annunzierà le cose a venire. Esso mi glorificherà, perchè prenderà del mio e ve l’annunzierà » (Giov., XVI, 13-14). La rivelazione cristiana non è completa, ma noi speriamo sempre nel verbo di Dio, il quale afferma che dovunque due o tre saranno radunati nel nome suo. Egli sarà nel mezzo di loro (Mat., XVIII, 20).
La Chiesa storica, la tradizione cristiana non riuscirono ad appagare la coscienza religiosa dell'umanità, a spazzare le nebbie del dubbio religioso. L’evoluzione quindi della coscienza religiosa non si arrestò e noi siamo attualmente in presenza di una fase novella dell'evoluzione religiosa, noi assistiamo allo sbocciare del cristianesimo apocalittico, il quale darà al mondo nuove creazioni del sentimento religioso, nuove visioni profetiche. La rivelazione cristiana non sarà distrutta, ma resa perfetta e completa. Essa comprenderà nel suo amplesso tutti i dommi, tutti i misteri, tutte le rivelazioni parziali, tutta la santità del cristianesimo storico. Essa sarà la rinascita, lo sfruttamento, la maestosa irruzione delle acque a lungo compresse della rivelazione cristiana finora chiusa coi sigilli del dommatismo. Nello Stesso modo che la coscienza messianica del Vecchio Testamento preparò la via alla coscienza messianica del Nuovo, così la coscienza messianica del Nuovo Testamento getta le basi del terzo testamento, il testamento dell’umanità perfetta, lo svolgimento finale della Triade divina, l’irradiazione completa della vita di Dio nell’anima dell’umanità. L’antropologia del Cristianesimo storico restò essenzialmente pagana e giudaica nella sua applicazione pratica. In Gesù l’elemento divino ed umano si fusero in una personalità perfetta. Ma nella vita della storia e nell’espressione esterna del sentimento religioso il divino separossi dall’umano. In una forma storica del cristianesimo, il cattolicismo romano, l'uomo fu simultaneamente abbassato ed esaltato; in un’altra forma storica, l’ortodossia orientale, l’elemento umano soggiacque a una diminuito capitis.
La nuova rivelazione cancellerà l’antitesi tra l’elemento divino ed umano, antitesi che è il prodotto del cristianesimo storico. Esso attuerà l’unione perfetta dell'umano col divino mediante la portentosa influenza dello Spirito Santo, il quale sarà il principio attivo della nuova coltura, della società religiosamente rinnovcl-lata. La Chiesa del futuro, fondata su basi mistiche sarà immune dalla tabe dell’ascetismo, dal giogo del Cristo, dal peso della croce. Esso ristabilirà i diritti della carne conculcata dal rigorismo ascetico. Per usare le espressioni del Tarieev, il quale tra parentesi è un professore dell’Accademia ecclesiastica di Pietrogrado, l’uomo trova lo slancio delle sue ali verso il cielo, quando la sua vita tripudia nella libertà dei sensi e della carne. Fuor di dubbio il Vangelo impone la rinunzia alla famiglia, ai beni della terra, il sacrifizio dell’anima, ma queste rinunzie hanno valore solamente per coloro che hanno goduto le estasi umane dell’amore sensuale, la dome-
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stica felicità, i piaceri dell'opulenza. Il sacrificio non è possibile per coloro cui non fu dato il retaggio della ricchezza, delle gioie, della forza. I precetti evangelici risuonano come un’eco lontana alle orecchie di coloro che non hanno gustato la voluttà dei sensi e le gioie della vita. L’interesse quindi del Vangelo esige la libertà religiosa della carne.
L'evoluzione della vita religiosa dell'umanità ci presenta dapprima un periodo, nel quale la carne è glorificata a danno dello spirito: esso è il periodo della rivelazione del Padre, o della legge mosaica. Ad esso succede un periodo di reazione, la rivelazione del Figlio, che rinnega i dritti della carne, e a danno di questa esalta lo spirito. Il mosaismo è l’impero del godimento dei beni della terra, una rivelazione a base di ottimismo: il cristianesimo è l’impero della mortificazione dei sensi, del martirio .volontario della carne: una rivelazione a base di pessimismo. L'umanità aspetta quindi il terzo periodo, il periodo della rivelazione dello Spirito Santo, la sintesi della rivelazione del Padre e della rivelazione del Figlio, in altri termini, la sintesi della carne e dello spirito. L’impero dello spirito non saià distrutto, ma rinchiuso in limiti più modesti. La carne non sarà considerata come una sentina di corruzione, ma sarà ristabilita nei suoi diritti. L’uomo non sarà diviso. Le sue potenze sensibili e le sue facoltà spirituali agiranno come corde armoniche del medesimo strumento vibranti sotto l’archetto di valentissimo artista. L’uomo godrà nello spirito, nuotante nella pienezza della vita e godrà eziandio nei sensi, i quali non saranno più considerati come l’acido dissolvente dello spirito. La religione del futuro ristabilirà l’armonia completa tra due mondi che il cristianesimo storico aveva divisi e schierati l’uno contro l’altro.
♦ ♦ ♦
Tale è la religione del futuro nei concetti e nelle visioni apocalittiche degli adommatisti russi. Vagliata al lume della critica storica e filosofica essa ci presenta un miscuglio di elementi razionalistici e mistici attinti a nuovi e vecchi sistemi di filosofia religiosa. La teologia Ritchliana forma il sostrato dell’adommatismo russo. Anche pel Ritsch e la sua scuola il cristianesimo storico non è una religione sovrannaturale. Esso è un’evoluzione naturale dello spirito religioso dell’umanità. Il Ritchlianismo sorge come una protesta contro la razionalizzazione della cristianità compiutasi in virtù del dommatismo e dell’elaborazione filosofica delle verità cristiane. Perciò esso insorge contro le formole dommatiche e proclama il ritorno ai primi elementi del cristianesimo evangelico, e la necessità di sottrarre il sentimento religioso cristiano alla cappa di piombo dell’erudizione teologica. Tuttavia in un punto capitale la teologia di Ritsch dissente dalla teologia degli adommatisti russi. La prima è per sua natura antimistica: la seconda è mistica, perchè esprime essenzialmente la tendenza caratteristica della psiche religiosa russa. L’ostilità del Ritsch a riguardo del misticismo è il prodotto del suo metodo teologico che bandisce la metafisica dalla vita e dal pensiero religioso, e che considera le ascensioni mistiche dell’animo come un pernicioso retaggio ■ del paganismo decadente. Ma il pensiero slavo per sua natura assueto alla riflessione interiore, all’analisi psicologica, alle peregrinazioni per così dire nei recessi in-
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terni del cuore, un cuore sentimentale ed ardente, non può astrarre dallo slancio mistico nelle sue relazioni con Dio.
Il misticismo però che pervade con le sue nebbie religiose l’adommatismo russo ha un forte sapore di neoplatonismo. Le teorie, gli assiomi, ed anche i termini di Plotino e di Proclo fanno capolino negli schemi del misticismo adomma-tico. Come Plotino gli adommatisti russi affermano che Dio non è al di fuori di noi. Egli è al contrario il centro del mio io e il centro del mondo. Conoscere sè stesso equivale a conoscere l’ente da cui derivo. L’anima religiosa giunge a un grado di visione in cui il soggetto e l’obbietto, il conoscente e l’essere conosciuto si confondono in una mistica unità. L’estasi di Plotino è adombrata nelle teorie gnoseologiche del misticismo di Minsk.
Ed infine lo stesso misticismo apocalittico degli adommatisti russi ci fa risalire a secoli lontani in cui mistici visionarli preannunziavano il regno dello Spirito Santo citando quei testi che Rozanov e Merejkovsky invocano in favore delle loro rêveries. Nella seconda metà del secolo secondo dell’era cristiana Montano e i suoi seguaci predicavano l’attuazione . della Chiesa perfetta mediante l’influenza divina dello Spirito Santo che avrebbe insegnata tutta la verità. Al principio gerarchico dell’autorità che acquistava nervi e vigore nella Chiesa, egli opponeva lo spirito di profezia, lo sviluppo graduale e progressivo della rivelazione. Il Vècchio Testamento nel Montañismo impersonava l’infanzia della Chiesa; il nuovo, la gioventù; il terzo, il Testamento dello Spirito Santo il possesso della verità completa nella maturità dell’uomo religioso. La fondazione della Chiesa dello Spirito Santo era l’ideale vagheggiato da Montano, dai suoi seguaci del secolo terzo, e dai rinnovatori russi del suo sistema apocalitico nel secolo xix. Perciò noi possiamo asserire che gli elementi dell’adommatismo russo non sono originali benché originale sia la loro sintesi. E se vi è una conclusione da trarre da questo breve studio è la seguente: Lo spirito religioso dell’umanità non si esaurisce, ma si rinnova; la vita religiosa non si spegne, ma traversa le sue crisi di decadimento e di rifiorimento; le idee religiose muoiono e rinascono, e molte volte nelle loro forme novelle la critica storica e filosofica mette a nudo i lineamenti non cancellati di forme antiche. Tutto è flusso e riflusso, tutto è circolazione e movimento, tutto nella vita dei pensieri e dei sensi è mormorio di ruscelli che scorrono placidamente, o fragore di cascate che saltellano scintillanti, o reboati di marosi che si accavallano nell’oceano.
Ed in questa marcia disordinata e ininterrotta verso orizzonti che si dileguano ai nostri sguardi, in questi conati affannosi dell’umanità che anima attraverso i secoli con un soffio novello di vita le idee scheletrite, nei rivolgimenti perenni delle nostre concezioni, delle nostre aspirazioni, delle nostre visuali, il solo punto luminoso che non si spegne nella coscienza umana, la sola colonna immobile abbracciati alla quale noi non cadiamo, il solo specchio che mai non si appanna quando noi gli chiediamo di riprodurre fedelmente i lineamenti della nostra beltà creata, della nostra dignità spirituale, è Dio.
Ivan Liabooka.
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LA SANTITÀ DI GESÙ
In che modo s'intende affrontare il problema.
ella figura di Gesù, còsi ricca, così complessa, così sovrumana a tanti riguardi, v’è un aspetto più straordinario di tutti gii altri, un carattere che lì solo s’incontra con una tale pienezza: voglio dire la santità. Quando si leggono gli Evangeli si sente, in ogni parola come in ogni azione di Gesù, la presenza di Dio; si ha l’impressione che il Profeta di Nazaret non ha conosciuto per esperienza personale le cadute, i rimorsi, l’orrore delle cose irrevocabili che noi lasciamo sulla nostra strada; che non v’è
tra lui e Dio un abisso formidabile; che per lui il male non è, come per noi, fatale e il bene impossibile. Ciò che noi troviamo in fondo al suo essere è della certezza.
della pace, della vittoria, della gioia, del divino. Egli sfugge alla tragica contraddizione del volere e del potere che costituisce l’ininterrotto dramma della nostra storia morale. Questa impressione l’hanno già risentita, con grande intensità, i testimoni della sua vita. I primi cristiani, che hanno conosciuto Gesù da vicino, hanno avuto la convinzione assoluta ch’egli non s’era mai, neppure per un istante, allontanato da Dio, ed essi hanno predicato con entusiasmo la santità del loro Maestro.
Io credo, per parte mia, ch’essi hanno avuto ragione e che Gesù ha obbedito a Dio in ogni circostanza e in tutti i modi: ciò che per un uomo è il solo modo d’essere santo. Credo che questo è un fatto, certo il più misterioso e il più incomprensibile di tutti; ma altresì quello che dà al nostro Signore un posto unico e alla sua persona un valore decisivo. Credo che bisogna accettare quel fatto, lasciarsi penetrare semplicemente, senza resistenza, dall’ascendente morale di quella personalità immacolata, non cercar di spiegare, di ridurre la psicologia di Gesù nei nostri quadri e ai nostri tipi abituali. Bisogna ammettere che quell’essere incomparabile costituisce un caso psicologico unico. Questo vorrei provarmi a mostrare in questo studio. Non tenterò dunque di provare la santità di Gesù; cercherò piuttosto di far vedere quanto sia difficile di negarla ed anche di spiegarla.
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LA SANTITÀ DI GESÙ
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I.
La santità di Gesù negata.
Si è voluto negare questa santità in molti modi.
Si è detto ad esempio, per scartare in blocco il problema, che quella è una questione insolubile, di cui, per conseguenza, è perfettamente ozioso di volersi occupare. Determinare qualcosa d’assoluto in un essere contingente e storico, quando siamo noi stessi contingenti, imperfetti, incapaci di afferrare soltanto il significato di questa parola: santità, ciò è contradittorio, ciò è insensato. Noi non abbiamo i mezzi di sapere se Gesù è stato assolutamente santo.
Se si trattasse di distinguere sino a qual punto la santità di Gesù differisce dalla santità divina, dalla santità in sè oppure si avvicina ad essa, l’obbiezione sarebbe fortissima, specialmente per coloro i quali, come me, non vogliono uscire dal terreno della storia e della psicologia. Difatti, dopo Dio, non ci sono che i dommatici i quali possano veder chiaro in simili questioni trascendentali. Ma siccome io qui mi occupo non della santità divina e dei suoi attributi, ma della straordinaria psicologia dell'uomo Gesù, questa prima obbiezione non mi tange.
Si è anche detto — e questo è pili specioso — che non abbiamo i dati storici indispensabili per conoscere il carattere di Gesù. Non sappiamo che cosa i suoi nemici pensavano di lui e le colpe ch’essi potevano rinfacciargli poiché, s’essi hanno scritto qualche opera su questo argomento, la Chiesa ha avuto cura di distruggerla.
Certamente vi è a questo riguardo una rincrescevole lacuna. Ma di due cose l’una: oppure è stata rimproverata a Gesù qualche azione scandalosa, e, nel caso questa fosse vera, sarebbe molto strano che Gesù abbia potuto suscitare così fervidi aderenti e che questi siano stati, fino a morirne, degli apostoli di verità, di purezza, di dirittura, di sincerità, e ciò senza che li si veda mai polemizzare contro i detrattori del loro Maestro o avere per lui un amore in qualche guisa riparatore—oppure a Gesù è stato rimproverato l'orgoglio, la scaltrezza, la bestemmia, come facevano, ad esempio, coloro i quali pretendevano che, se egli cacciava i dèmoni, ciò avveniva perchè era al servizio del Principe dei demoni. Ma su questo puntola testimonianza di nemici non ha valore. Sappiamo tutti, se abbiamo la disgrazia d’averne, ch’essi giammai ci renderanno giustizia, ch’essi abilmente travestiranno le nostre migliori intenzioni, e che, per apprezzare quello che noi siamo, essi sono dei cattivi giudici. Bisogna consolarcene dicendoci, come Gesù, che « la saggezza è giustificata dai suoi figliuoli » vale a dire che quelli soltanto i quali hanno trovato Dio in loro.stessi sono capaci di ritrovarlo negli altri, e che solo una coscienza può conoscere un’altra coscienza.
Si soggiunge: Quel che colpisce d’insufficenza le Jouli d’inj orinazioni da noi possedute è ch'esse sono l'opera d’amici di Gesù.
È certo che le testimonianze di questo genere sono affette d’una certa parzialità. Però, dopo tutto, per ben conoscere un uomo, vai meglio interrogare i suoi amici.
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i suoi inlimi — il termine è espressivo — piuttosto che i suoi nemici. Ma non bisogna dimenticare quel che noi possediamo oltre le testimonianze degli amici. Abbiamo i Vangeli, specialmente i tre primi, dove vediamo Gesù agire, dove lo udiamo parlare direttamente, in cui possiamo, con un piccolo sforzo, afferrare, immediatamente l'originalità della sua persona (i).
Lasciamo dunque in disparte i giudizi portati su Gesù e consideriamolo lui stesso.
La teoria di Félix Pécaut.
Certi critici hanno cercato di attenersi a questo partito, e, dopo aver esaminato alla lente gli atti e le parole del Maestro, ne hanno tratto la conclusione ch’egli non è stato santo. Il rappresentante tipico di questi critici è Félix Pécaut il quale, nel suo libro Le- Christ et la- Consciencc, ha insistito sui « lati piccoli », sulle ombre morali di Gesù. Si prendono alcuni tratti sparsi, si mettono insieme e si presentano con aria severa. Si rimprovera a Gesù la risposta ch'egli fece a sua madre in occasione del miracolo di Cana. Lo si critica per aver lasciato in pensiero i suoi genitori allorquando, all’età di dodici anni, egli rimase ne! tempio, credendo, nel suo candore, di trovarvi il cielo sulla terra. Lo si condanna per aver abbandonata la famiglia; per aver dichiarato ch’egli non salirebbe a Gerusalemme in occasione di una festa ed esserci poi andato; per esser stato duro verso la donna sirofenice; per essere stato violento quando cacciò i mercanti dal tempio. Si osserva ch’egli un giorno disse: « Perchè mi chiami buono? Dio solo è buono ». Ma, operando per mezzo di questa critica frammentaria, si ha una base troppo stretta. Lo stesso può dirsi di coloro i quali vogliono fondare la santità di Gesù su tre o quattro parole ricavate dal-l’Evangelo di S. Giovanni: « Chi di voi mi convincerà di peccato? »; « Io ti ho glorificato sulla terra, ho terminata l’opera da te affidatami »; « Il principe di questo mondo viene e non ha nulla in me »; « Tutto è compiuto ». In realtà tutti quei particolari che si affacciano contro la purezza morale di Gesù possono essere facilmente spiegati in un altro senso e la prova è che i cristiani, i quali ce li hanno trasmessi, non vi hanno visto nulla di contrario alla santità del Cristo, di cui essi erano persuasi.
Bisogna trattare la questione con maggiore larghezza e da un punto di vista più alto, e chiedersi se, sì o no, Gesù si è considerato peccatore alla pari degli altri uomini. Vi è forse, nel suo atteggiamento generale, nelle sue parole, nei suoi atti, un indice qualunque ch’egli siasi considerato tale?
Noi possiamo arditamente rispondere: No. E ciò è tanto véro, ciò s’impone talmente a chiunque legga gli Evangeli che — per chi non voglia ammettere che questa santità di Gesù corrisponde alla realtà storica perchè un uomo non può essere
(i) Non posso ammettere, come fa una critica veramente troppo scettica, che, nei tre primi Vangeli, troviamo soltanto la figura di Gesù attraverso quella dei suoi testimoni e del cristianesimo primitivo. Che tale sia il caso per parecchi passi, mi guarderò dal negarlo. Ma ve ne sono molti altri — la maggioranza — che ci forniscono una visione diretta del profeta galileo.
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LA SANTITÀ DI GESÙ
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santo e perché, se Gesù è stato un uomo, egli non è stato un santo — non rimangono che tre sole e disgraziate vie d’uscita: quella di Giran, quella di Piepenbring e quella di Drews.
Le teorie di Giran, Piepenbring e Drews.
Secondo il Giran, Gesù è stato cambiato dal suo battesimo. Questo battesimo, dic’egli nel suo libro Jésus de Nazareth fu per lui un atto di rigenerazione: égli ne uscì veramente rinnovato, trasformato. In questo modo, l’impressione che danno gli Evangeli conserva i suoi diritti. Il Gesù ch’essi ci mostrano è santo. Ma gli Evangeli non ci ragguagliano che per un periodo molto breve della sua storia, ed è prima di questo periodo ch’egli come ogni uomo fu peccatore. Vedremo presto quanto questa idea si accordi male colla psicologia e colla morale di Gesù.
Secondo il Piepenbring, nel suo libro Jésus historique, la santità di Gesù, quale ce la mostrano i Sinottici, è vera in tesi generale. Accanto a ciò v’è stato probabilmente in lui qualche piccola cosa, qualche minima « défaillance », ma furon queste piccole miserie, e si capisce che tanta luce abbia rischiarato così poca ombra... « Gesù, dice il Piepenbring, non sembra aver avuto bisogno di passare per una vera e propria conversione o di sottomettersi ad una seria penitenza ». Notate come ciò è detto con indulgenza. Il teologo di Strasburgo anche lui non ammette che un uomo possa essere senza peccato, e allora egli è costretto a supporre in Gesù qualche debolezza umana di cui i Vangeli non parlano. Vedremo pure che cosa bisogni pensare di ciò. Ma constatiamo di passata che il Piepenbring riconosce, per la sua teoria stessa, che gli Evangeli, quali li possediamo, ci presentano Gesù come un essere santo.
Questo ugualmente riconosce il Drews, del pari che i dotti della sua scuola, quali Smith e Jensen, ed è questo fatto che costituisce uno degli argomenti della loro critica distruttiva. Gli Evangeli, essi dicono, fanno indubbiamente di Gesù un santo. Ora un santo di quella statura non è un uomo, è un personaggio di leggenda, una specie di Dio. Dunque gli Evangeli non sono delle opere storiche, ma degli scritti mitici, delle opere d’immaginazione, e Gesù non è mai esistito.
Come si vede è molto difficile negare la santità di Gesù. Essa a tal punto fa parte integrante della sua persona, essa appare così manifesta negli Evangeli che l’unico mezzo per sbarazzarsene è di aggiungere agli Evangeli dei capitoli ricavati dalla propria immaginazione, oppure di sopprimere i Vangeli stessi vedendo in essi solo più un tessuto di favole.
Occorre, per lacerare gli Evangeli, un notevole coraggio, non solo dal punto di vista religioso e morale, ma dal punto di vista scientifico. Per poco che si possegga il senso della vita, si sente che colui del quale parlano quei libri è un essere vivente e reale. Gli è per questo che l’immensa maggioranza dei cercatori accettano oggi senza altro la testimonianza di quei Vangeli, dopo essersi sforzati di afferrarne il tenore originale e primitivo con tutti i mezzi della più minuziosa critica. Essi constatano infatti che dalla persona di Gesù si sprigiona un'impressione di purezza morale assoluta, ch’egli è stato in pace con sè stesso, in comunione piena con Dio, le quali espressioni sono perfettamente equivalenti al dire ch’egli è stato santo. Però, siccome la carat-
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teristica della scienza è di essere comprensiva, di classificare, di ricondurre il complicato al semplice, di ridurre il più possibile i casi eccezionali, i dotti d’oggi si chiedono se non si potrebbe far rientrare il carattere psicologico di Gesù in qualche quadro conosciuto e spiegare in questo modo quella perfetta serenità di spirito che si è costretti a riconoscere in lui.
n.
Le varie spiegazioni della santità di Gesù.
Qui ci troviamo in presenza di parecchie possibilità, di cui farò l’enumerazione, cercando di mostrare che nessuna di esse può soddisfarci.
È AMMISSIBILE LA FOLLIA DI GESÙ?
La prima di cui parlerò non ci farà perdere molto tempo, per quanto essa sia davvero originale. Essa è stata sostenuta in questi ultimi anni da uno psichiatra tedesco il quale scrive sotto lo pseudonimo di dott. de Loosten, da un danese, il dottor Ras-mussen, e da un francese, il dott. Binet-Sanglé. È incontestabile, dicono quei Signori, che Gesù si è creduto in rapporto ininterrotto e unico con Dio e si è anche considerato come il Messia. Ora è questo un sentimento che un uomo normale non può avere. Bisogna concluderne, per conseguènza, che Gesù era anormale e che, s’egli s’è creduto santo, in realtà era pazzo.
Si trovan di fatti, in ogni manicomio, dei poveri infelici che si credono Dio, o Gesù Cristo, o la Santa Vergine, o qualche grande ispirato. Tutti costoro si considerano superiori al rimanente dell’umanità, tutti costoro si credon santi e guai a chi si permette di sorridere della loro convinzione. Essi s’infuriano e diventano pericolosi. È questo un caso ben noto di paranoia.
Noto di passata quanto le posizioni di coloro che vorrebbero sopprimere dalla storia la grandezza di Gesù sono contradittorie e quindi precarie. Drews ci afferma che i Vangeli non hanno alcun valore documentario, ch’essi altro non sono che un cumulo di miti senza consistenza. Gli psichiatri, i quali mirano in fondo allo stesso scopo di Drews, considerano invece i medesimi Evangeli per fonti così sicure fino nei particolari, che se ne può fare la base di una diagnosi clinica. Gli uni e gli altri pretendono del resto parlare in nome della scienza moderna. Ciò prova che, in storia come in psicologia, nei giudizi di valore che si portano sui testi, occorre non parlare troppo presto di risultati scientificamente sicuri, guardarsi dalle affermazioni troppo perentorie e diffidare del proprio subbiettivismo.
Io non perderò il mio tempo a dimostrare che Gesù non è stato un pazzo. Metterò in rilievo due punti soltanto:
a} Coloro che sono affetti dalla follia di grandezza insistono con compiacenza sulla loro dignità eccezionale, essi ne fanno mostra, tanto che si è costretti a rinchiu-
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derli per proteggere la società contro le loro insistenze e le loro eccentricità. Gesù invece nasconde piuttosto la sua regalità morale, gli ripugnano i facili successi, egli non provoca volontariamente l’entusiasmo delle turbe, e, allorquando questo entusiasmo prorompe subitaneo, egli vi sfugge.
b) I pazzi che si credono degli dei s’irritano quando li si misconosce (1). Quando li si contraddice apertamente, essi addirittura non si posseggono più. Gesù, invece, resta calmissimo davanti all’opposizione dei suoi contemporanei, e, a questo riguardo, i suoi discepoli sono più intolleranti di lui. Egli non vuole che ci si opponga ad un uomo il quale fa dei miracoli nel suo nome, pur rifiutandosi di camminare coi Dodici, e, in quella occasione, egli pronunzia quella parola così larga: « Chi non è contro a noi è per noi ». Egli si sdegna contro Giacomo e Giovanni perchè essi hanno augurato lo sterminio dei Samaritani che non hanno voluto albergarlo. Egli dichiara che si può essere perdonati anche se si è parlato contro il Figliuol dell’Uomo. Si ricordi finalmente la sua magnifica, maestosa calma allorquando, la notte del suo arresto e in un’ora in cui i suoi nervi dovevano essere sottoposti ad una dura prova, dal Sinedrio preso da una vera e propria crisi di demenza, si sente accusare di bestemmia perchè egli ha dichiarato d’essere il Messia.
No, questo modo davvero troppo semplicista di spiegare la santità di Gesù non resiste ad un esame, anche superficiale, dei fatti.
Ma si possono dare delle spiegazioni meno arbitrarie.
Gesù, l’uomo del dovere?
•
Questa è la seconda teoria di cui ci dobbiamo intrattenere. Si può concepire quello stato di equilibrio morale, di sicurezza di coscienza, in un uomo che si farebbe de) dovere un’idea molto rigida, ma altresì molto circoscritta. Per quell’uomo, il bene consisterebbe in un certo numero di cose precise, distintamente catalogate, che si tratterebbe di compiere, e il male in un certo numero di cose, non meno precise, di cui si tratterebbe di astenersi. Al di là, vi sarebbe il vasto campo degli atti indifferenti, dei peccati senza gravità, di ciò che (per ripetere le parole del Piepenbring) non esige nè «vera conversione» nè «serio pentimento». È questa la mentalità dei Farisei, attenti ad obbedire scrupolosamente alle prescrizioni della Legge e della tradizione, i quali consideravano dall’alto della loro grandezza i peccatori e la gente di mala vita,
(1) A questo si potrebbe, è vero, obbiettare che vi sono stati dei pazzi, molto celebri, che si prendevano pel Cristo e che rispondevano ai loro contraddittori con una dolcezza del tutto evangelica. Ma l’imagine tradizionale del Cristo implica quella stessa dolcezza. In che modo credersi il Cristo e non essere sempre pieno di bontà e di mansuetudine? un altro atteggiamento sarebbe troppo contradditorio per un pazzo di genio! Ai tempi di Gesù non era così. L’imagine tradizionale del Cristo ne faceva piuttosto un giustiziere, un grande vendicatore. Si ricordi la predicazione di Giovanni Battista! A quell’epoca, un illuminato il quale si fosse preso pel Messia avrebbe tentato di sollevare il popolo e di distruggere la dominazione romana. Vi furono, lo sappiamo, degli pseudo-Cristi che fecero appunto quel sogno.
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e che, nelle loro preghiere, rendevano a sè stessi, con riconoscenza inverso Dio, la testimonianza di non essere come gli altri uomini. È ancora la mentalità delle persone oneste di oggigiorno, le quali si sentono d’accordo colla morale del mondo, sanno quello che sono e non lo dimenticano mai.
Ora Gesù non ha appartenuto a quel gruppo psicologico, ed è a questo punto che la posizione del Piepenbring è battuta in breccia dalla storia. Difatti, se v’è qualcuno che abbia combattuto la distinzione corrente tra piccoli peccati e grossi peccati, è proprio Gesù. Non dic’egli che le donne di mala vita precedono le oneste persone nel Regno di Dio, e non rimprovera egli, in quell’occasione, alle oneste persone, precisa-mente di non essersi pentite? Non dichiara egli che non è venuto a toglier nulla dai rigori della legge? Chi violerà uno di quei comandamenti, anche il minimo di essi, e insegnerà agli uomini a violarli sarà stimato il più piccolo nel Regno dei Cieli. Per entrare in quel Regno, bisogna realizzare una giustizia superiore a quella di quei grandi meticolosi che chiamansi Scribi e Farisei. Per Gesù, un movimento di collera è altrettanto grave che un omicidio, uno sguardo di concupiscenza altrettanto colpevole quanto un adulterio. Tutti quegli esempi, e molti altri che mi sarebbe facile citare, ci fanno vedere chiaramente quanto esigente ed intransigente, quanto profonda ed intima sia la morale di Gesù. In essa nessuna forma, nessun gesto facile, nessuna convenzione: per Gesù non viene dal di fuori il male, esso è nell'uomo, alle fonti del suo essere: « non ciò che entra nell’uomo lo contamina, ma ciò che esce da lui, perchè è dall'intimo del cuor suo ch'escono le cose malvage ».
Dunque Gesù non potrebbe rientrare nella categoria di coloro i quali non sentono il loro peccato perchè essi hanno del bene e del male una nozione superficiale, e s’immaginano di potere, con un po’di vigilanza, sfuggire alla tabe che contamina gli altri. Gesù si sarebbe ribellato contro i partigiani di una tale morale ed avrebbe gridato loro: « Perchè guardate voi la paglia che è nell’occhio del vostro fratello, e non osservate la trave Che è nell’occhio vostro? Ipocriti! Togliete prima dal vostro occhio la trave e allora ci vedrete per togliere la paglia dall’occhio del vostro fratello! ».
Gesù un superuomo?
Terza teoria. Si potrebbe ancora provare di far di Gesù una specie di superuomo moderno, quale Nietzsche lo ha immaginato, cioè una personalità geniale, che rimpasta il mondo alla sua immagine e che, per evolversi senza ostacolasi crea i valori morali di cui ha bisogno, i valori morali che esprimono il suo essere profondo. L'uomo di genio ha la sua propria morale, che oltrepassa e può contradire ciò che il vii gregge degli schiavi chiama bene e male. Che importano, per esempio, al conquistatore le vittime ch’egli fa, i lutti e le lacrime che segnano il suo passaggio, l’orgogliosa affermazione di sè stesso che si ritrova nel minimo dei suoi atti? Il comandamento: «Tu non ucciderai » o « Tu amerai » non è fatto per lui (i). Le sue ragioni non sono le nostre.
(i) Questo studio è stato scritto prima della guerra (N. d. T.).
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egli si muove sopra un piano diverso, egli è se stesso, perdutamente, con ebbrezza. Si scandalizzino i profani pei suoi delitti, e lo considerino come il peggiore dei flagelli, egli conserverà ugualmente la sua calma olimpica, perchè è stato ciò che ha voluto ed ha voluto quello che è stato. Egli si è dato una morale proporzionata alla sua statura.
Così si spiegherebbe adunque che un uomo, il quale in ultima analisi non è stato altro che un uomo, abbia potuto, malgrado tutto, possedere quel sentimento permanente di equilibrio interno e di pace spirituale che di solito ci è rifiutato. Ciò verrebbe semplicemente dal fatto che, uomo di genio,, egli si sarebbe creato i valori morali di cui aveva bisogno.
Non mi fermo a discutere questa nozione così romantica del superuomo e questa idolatria, oggi tanto in voga, per colorò che si scuotono d'addosso la vecchia morale umana. Non mi chiedo nemmeno se è possibile, impunemente, di liberarsene del tutto e se i superuomini non hanno, per finire, la loro Sant’Elena come Napoleone, oppure, come Nietzsche, la loro cella al manicomio. Prendo la spiegazione quale ci viene data e la stringo da presso. Dunque la serenità di Gesù proverrebbe dal fatto ch’egli, genialmente, ha formulato dei valori morali nuovi, quelli cioè che esprimevano meglio la sua personalità e le assicuravano il più completo sviluppo? Ma quali sono questi valori morali? Sono che la vita esteriore non deve mai essere separata dalla vita interiore, in modo che nulla ha valore salvo per lo stato d'anima e di coscienza che l'ha provocato e che il bene stesso diventa la peggiore delle abbominazioni quando è accompagnato dall’ipocrisia. Bisogna dunque esaminare se stessi, prendere al tragico le più piccole mancanze e scrutare, più ancora dèi propri atti, i sentimenti che li hanno ispirati. E quali devono essere questi sentimenti ispiratori? L’obbedienza a Dio, l’amore per Dio e per gli uomini, il disinteresse assoluto, lo spirito di sacrificio e d'umiltà. Ma nello stesso tempo questa morale, del tutto interiore, non vale che s’essa è vissuta, se si esprime negli atti. Le buone intenzioni non bastano. Occorrono dei fatti. Gesù oppone con insistenza il fare al dire. E questa attività buona è infinitamente complessa ed esigente. Essa implica il rispetto assoluto di tutti, anche dei più piccoli, il dovere di non essere un’occasione di scandalo per nessuno, l’obbligo del perdono l’accettazione serena del dolore e della persecuzione. Chiunque segue Gesù deve avere il destino austero e doloroso dei profeti. Egli deve, dimenticando del continuo se stesso, dando se stesso fino alla morte, star attento ai bisogni degli altri, servire, amare, costituirsi il campione di tutti coloro che sono oppressi e calpestati. In una parola la morale di Gesù è dovunque, essa compenetra tutto, non v’è nulla di nascosto o di pubblico che sfugga al suo controllo, essa pretende presiedere al pensiero più secreto come all’atto più esteriore.
Questa morale che Gesù, secondo la legge del superuomo, avrebbe foggiata secondo la sua statura perchè vi si sarebbe trovato a suo agio, è la morale cristiana, vale a dire ciò che v’è al mondo di maggiormente imperioso e di maggiormente insaziabile, quella di cui i superuomini si sbarazzano per non esserne schiacciati, quella che è per noi una continua fonte di tormenti che ci ossessiona e ci dispera, che ci condanna spietatamente, che noi sentiamo ad un tempo obbligatoria ed impossibile. E allora ci troviamo ricondotti al problema che nessuna delle soluzioni date
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fin ora ha potuto veramente risolvere: Come mai un uomo ha potuto trovare un tale riposo di coscienza nella nozione morale più severa e più intransigente, in quanto esiste quaggiù di più atto a far disperare l’uomo e a fargli considerare il bene come inaccessibile? Come mai Gesù, avendo del bene un tale concetto che questo bene diventa inaccessibile, ha potuto sentirsi libero da ogni male?
Gesù un ottimista?
Si risponde, ed è la quarta spiegazione proposta, che Gesù è stato un temperamento ottimista. Vi sono difatti tra gli uomini religiosi dei temperamenti ottimisti. Essi hanno una potente gioia di vita e una certa superficialità di anima che permette loro di non troppo insistere sui lati oscuri della loro storia intima: essi non si esaminano mai molto a fondo e possono dimenticare presto. Questi temperamenti considerano le conversioni radicali, i drammi di coscienza degli altri con uno stupore ammirativo e lontano. Essi riconoscono senza dubbio che son lungi dalla perfezione: ma, in ultima analisi, non sono troppo infelici d'essere quello che sono; si rassegnano volentieri all’inevitabile e portano in fondo a loro stessi non so quale augello che ha sempre bisogno di cantare.
Da tutto quanto abbiamo visto della morale di Gesù, possiamo affermare con piena certezza ch’egli non ha avuto un simile temperamento. Certo egli è stato un ottimista, perchè più di noi era vicino a Dio. Egli non ha mai disperato di Dio nè degli uomini, e la certezza d’essere col Padre gli ha permesso di attraversare da vincitore le peggiori agonie. Ma egli non ha avuto quell’ottimismo umano, troppo umano, che consiste nel soddisfarsi a buon conto e nel chiudere gli occhi sui lati sinistri della realtà. Giammai egli si è accontentato di poco, nè per lui nè porgli altri. La sua morale è rigorosa, senza compromessi e senza attenuazioni. Essa vuol regnare sull’uomo intero e sulla sua vita intera. Il temperamento di Gesù fa piuttosto pensare a quello di alcuni rari cristiani che ci fanno l’impressione d’essere molto grandi e di vivere in piena realtà spirituale. Sono a torto chiamati dei pessimisti. Dovrebbero essere chiamati dei viventi della vita tragica. Sono anime rette, sincere, ardenti, per cui, nel campo del dovere e dell’obbedienza a Dio, non v'è che tutto o nulla. Esse vogliono salire, perchè sentono che lo devono, verso la piena libertà, verso la perfetta giustizia, verso l’amore integrale. Si sentono create per essere sante ed hanno la nostalgia della santità. Queste anime sono fini e dolorose perchè, nella loro ascen-zione sacra, quanto più nuovi orizzonti si scoprono a loro dinanzi e quanto più nuove vette loro appariscono, tanto più desolata è la visione e tanto più dolorosa è la conoscenza dei loro deficit e della loro miseria. Colpe dimenticate risuscitano, peccati sino allora inavvertiti si ergono implacabili e incancellabili. Più crescono quegli uomini e più si sentono piccoli, perchè capiscono sempre meglio che cosa sia la vera, l’unica grandezza. Questo sforzo che del continuo s’irrigidisce, questa sincerità spietata, costituisce il martirio di quelle anime elette; ma ciò conferisce loro altresì una bellezza senza pari. Che cosa c’è di più meraviglioso di un santo che s’incurva sulla più immonda delle creature e che le dice: « Sono il tuo fratello e valgo meno di te »!
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È un S. Paolo il quale, per quanto abbia tutto abbandonato per servire il suo Maestro, per quanto abbia infranto la sua carriera per ubbidire, per quanto abbia conosciuto le lacerazioni più crudeli, lavorato senza requie nè riposo, lottato, faticato, corso tutti i pericoli, sopportato la prigione e le percosse, per quanto porti sul suo corpo le stimmate di Cristo, scrive queste parole, piene d’una così commovente umiltà: « Sono il minimo degli Apostoli, non sono degno d’essere chiamato Apostolo perchè ho perseguitata la Chiesa di Dio ». È lui ancora, che, dal fondo di un carcere in cui è trattenuto per la causa di Cristo, scrive ai Filippesi:«Non sono arrivato alla perfezione». Certo il suo passato è perdonato, egli è una nuova creatura, ma il passato, è là, le sue esperienze quotidiane son là per ricordargli ch’egli per grazia soltanto è salvato. Egli benedice tutto quanto lo curva e l’umilia, perch’egli sa che, per essere forte, deve sentirsi debole.
Ora, su questo punto come sugli altri, il discepolo non è più grande del suo Maestro. In alcun luogo la morale di S. Paolo appare più rigida e più invadente della morale di Gesù, e Paolo, il quale-sapeva meglio di qualsiasi altro « i sentimenti di cui Gesù Cristo è stato animato » non ha mai avuto l'idea che i sentimenti di lui Paolo fossero ancora più religiosi, più compenetrati dei diritti di Dio che quelli del suo Signore. Anzi egli ha sempre considerato la persona di Gesù come il più sublime e il più perfetto ideale morale che fosse possibile di concepire. In Gesù, Paolo ha ritrovato sè stesso, colle sue aspirazioni, la sua sete di perfezione, gl’imperativi sacri della sua coscienza; solo che ciò che in lui era tenebre gli è apparso luce in Gesù Cristo.
Così stando le cose, immaginate che Gesù, dalla coscienza così scrupolosa, avesse avuto delle cadute nella sua vita, in modo che il battesimo fosse stato per lui, come scrive il Giran, « un atto di rigenerazione », credete voi ch'egli potrebbe avere la sicurezza morale che troviamo in lui secondo gli Evangelisti? Se anche il suo sguardo acuto avesse scorto in sè stesso non un grosso peccato, ma una lentezza, un moto d’egoismo immediatamente represso, una spinta di concupiscenza tosto soffocata, una piccolissima macchia, a tutti ignota, un’ombra, l’ombra di un’ombra, credete voi che ciò non sarebbe assurto agli occhi suoi a una desolante grandezza, a guisa di una macchia d'inchiostro che sciupa e deturpa irrimediabilmente una veste bianca, ristante prima immacolata? Credete voi che Gesù non avrebbe avuto anche lui allora un’anima dolorosa di peccatore? Credete voi ch’egli avrebbe tollerato quel martirio d’essere considerato del continuo per quel che non era? di passare per un modello, per un maestro venerato che si ascolta, per un uomo che parla con Dio, per un profeta, per il Messia e ch’egli non avrebbe gridato la sua propria miseria, ch’egli non avrebbe detto a tutti: «Sono peggio di voi? ». Se la legge della psicologia cristiana che sto esponendo è vera (e in quanto a me non ne conosco di pili certa) Gesù, che non faceva distinzione fra grandi e piccoli peccati, fra trasgressioni d'intenzione e trasgressioni di fatto, che credeva formidabilmente alla responsabilità umana e sapeva che è richiesto molto da colui al quale si è molto dato, Gesù avrebbe dovuto considerarsi come l’ultimo degli uomini s’egli avesse scoperto la minima colpa in sè stesso.
Certo, anche sentendosi un grande peccatore, egli avrebbe potuto recare ai suoi fratelli il medesimo messaggio di perdono e di speranza: egli avrebbe potuto, in nome di Dio, annunziare la misericordia del Padre verso chiunque si pente. Ma
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l'avrebbe fatto in un altro modo, avrebbe predicato rendendo la sua testimonianza, avrebbe detto che cosa il suo Dio era stato per lui, in che modo Dio gli aveva perdonato, lo aveva rassicurato e rialzato. Or bene non troviamo in Gesù niente di tutto ciò. Gesù ha parlato delle sue tentazioni, ma non come ne parla uno che vi ha soggiaciuto: egli ne parla invece come un uomo che le ha vinte. In un insegnamento che verte interamente sul dovere, sul peccato, sulla spaventosa solennità della vita, in una predicazione in cui non mancano i giudizi severi e in cui è detto però che nessun uomo ha il diritto di giudicare perchè l’uomo è peccatore, non v’è una sola parola per cui Gesù lasci comprendere che sia oppresso lui stesso da quello che dice e ch’egli proponga non quello che vive, ma il suo ideale, ciò che vorrebbe vivere. Ed è questo il profondo mistero, ciò che la psicologia, se vuole essere storica e prendere i documenti quali le sono dati, deve constatare senza poterlo comprendere. Ci troviamo qui in presenza di quel fatto, ch’è il più sconcertante di tutti : l’essere che, secondo i principi della stessa sua morale, avrebbe dovuto sentire il più intensamente ii male in se stesso, è il solo che veramente non lo abbia punto sentito.
Le due ipotesi sole possibili.
Davanti a quel fatto sono possibili due sole attitudini.
0 bisogna negare ogni valore storico al ritratto di Gesù tracciatoci dagli Evangeli, pretendere che la tradizione, l'immaginazione popolare, la pia illusione che mantiene la fede hanno qui lavorato con una intensità fenomenale, sopprimendo tutte le ombre, esagerando tutte le luci, lasciando cadere tutti gli atti e tutte le parole che avrebbero rivelato le debolezze e le colpe di Gesù. È vero che, su molti particolari, più o meno speciali, la tradizione cristiana ha lavorato in questo senso. Vi sono avvenimenti che l'immaginazione dei primi credenti ha di buon’ora amplificati e deformati al punto che, già negli stessi Sinottici, è impossibile di sapere esattamente quello che furono in origine. Ma sono questi dei punti particolari, mentre, nel caso presente, è tutta la persona di Gesù, l’asse stesso del suo carattere, l’unità fondamentale del suo essere che sono in giuoco. Se quello che ci riferiscono gli Evangeli dell’atteggiamento morale di Gesù non è vero, bisogna concludere che quello ch’essi hanno detto di Gesù è esattamente il contrario di ciò che è stato, che di un grande pentito essi hanno fatto un uomo che non parla mai del proprio pentimento. E allora come conciliare una tale deformazione colla cura presa dai primitivi cristiani di conservare fedelmente la parola del Cristo, la sua storia, la sua immagine, per trasmetterle ai loro successori? Come ammettere ch’essi abbiano potuto non credere in altri che in Gesù Cristo, al punto di lasciar tutto e di tutto perdere per seguirlo, e che, nello stesso tempo, lo abbiano cambiato il più completamente possibile? Come capire che Gesù, il quale pure fu una personalità potente, non sia riuscito a far comprendere ai suoi amici ch’egli era un grande peccatore e sia giunto a lasciar loro la sola impressione di un uomo che non parla mai come un peccatore? Altrettanti insolubili problemi. Se Gesù è stato precisamente l’opposto di quello che ci dicono gli Evangeli, questi, interamente falsi sul punto capitale, non meritano alcun credito.
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Essi altro non sono che un ammasso di chiacchiere senza valore, e allora è inutile di voler discorrere sopra Gesù e provarsi a conoscerlo perchè non possediamo alcun documento solido che ci permetta questo lavoro. Si giunge, in questo modo, allo scetticismo storico completo.
Oppure, ed è questo il secondo atteggiamento possibile, bisogna riconoscere che gli Evangeli, pur non volendo essere dei libri di storia, sono però dei documenti storici in questo senso: ch’essi ci rappresentano fedelmente quel che è stato Gesù, e ciò per mezzo di un’accumulazione di tratti, di particolari, di parole che non s’inventano. E allora non resta che da prendere quel Gesù quale lo presentano gli Evangeli, confessando che c'è in quella personalità un mistero, qualcosa d’inesplicabile; qualcosa che è, davanti a cui ci s’inchina e che è perfettamente vano di assimilare a qualche altra grandezza conosciuta; qualcosa che, dal punto di vista psicologico, isola Gesù, lo mette a parte. Questo qualcosa, che non si può nè analizzare nè catalogare, che situa Gesù al disopra e al difuori dei quadri nei quali si fa rientrare più o meno bene il resto dell’umanità, è la sorprendente, incomprensibile, reale ed assoluta serenità della sua coscienza, quel che si chiama la sua santità. Fra coloro che posseggono questa serenità vi sono da un lato i pazzi, gli aridi legalisti, i superuomini e gli ottimisti e dall’altro lato, tutto solo, vi è Gesù.
Tale è per lo meno la convinzione alla quale sono giunto, per quanto strana essa possa apparire a uno spirito scientifico, assetato di regola, di unità, ed ostile alle eccezioni. Ma io stimo che i fatti sono più grandi della scienza e che la scienza non può nulla contro un fatto. Mentre, nell'ipotesi che la santità di Gesù altro non sia che una chimera, non si capisce più nulla nè degli Evangeli, nè delle Epistole, nè delle origini del Cristianesimo, tutto s’illumina, invece, allorquando si ammette che Gesù fu moralmente un essere a parte. Si comprende l’azione straordinaria ch'egli ha esercitata sopra coloro che lo conobbero da vicino. Si comprende come, per essi, nulla di quanto potevano pensare del loro Maestro, sia apparso troppo grande; eh'essi lo abbiano sentito vivente, risuscitato, operante per sempre nei loro cuori; ch’essi abbiano potuto salutare in lui il Figlio unico di Dio, colui che aveva presieduto alla creazione del mondo e che tornerebbe quaggiù sulle nuvole del cielo. Idee così eccezionali non sono ammissibili che suscitate da un essere eccezionale. E si comprende altresì l'influenza permanente esercitata da quell’essere, si comprende ch'egli abbia potuto, attraverso i secoli, comunicare agli uomini una linfa morale ch’egli solo possedeva. Bisogna proprio che ci sia stata, in Gesù, una veramente straordinaria fonte d’acqua viva, e di una qualità affatto speciale, perchè tante volte sia bastata una sola goccia di quell'acqua per trasformare una vita, per far fiorire il deserto.
J. Breitenstein
dell'università di Ginevra.
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E I SUOI RITOCCHI*
a traduzione diodatina della Bibbia apparve per la prima volta a Ginevra nel 1607. Non appena apparve, Giovanni Diodati, che l'aveva edita a proprie spese riducendosi addirittura alla miseria. S’ebbe subito gli elogi degli uomini più dotti del tempo; e il primato su tutte le versioni italiane allora esistenti le fu subito riconosciuto, nell’ambiente ginevrino, dagli emigrati italiani, i quali la prescelsero, mettendo da parte le traduzioni del Malermi, di Massimo Teofilo, di Antonio Brucioli e di Fi
lippo Rustici (1), di cui s’erano serviti fino allora. E se non è vero, come molti hanno asseverato, a cominciare da Cesare Cantù, che essa sia testo di lingua citato dalla Crusca, è però vero che in tutti i tempi si è meritata gli encomi di critici anche cattolico-romani, e di uomini quali lo Scaligero, il Giordani, il Cardinale Angiolo Mai e Monsignor Tiboni.
Il Nuovo Testamento diodatino, edito in formato piccolo già nel 1608, non tardava a varcare i confini della Svizzera; e penetrava in Venezia, dove, a que’ tempi, il movimento della Riforma iacea concepire grandi speranze. La diodatina iniziava così quella sua eroica storia missionaria che va dai giorni del movimento veneto, ‘nei primi albori del secolo 170, ai giorni nostri, e che contiene pagine epiche, come quelle che ricordano le sue vicissitudini in Roma ai tempi della Repubblica (2), o in Toscana sotto il Granduca, 0 nelle carceri, o in terra d’esilio.
S Prossimamente verrà pubblicata in opuscolo la relazione dell’opera compiuta mitato nominato nel 1906 dalla «Società Biblica» di Londra per la revisione della versione diodatina del N. T. Per gentile consenso del Relatore siamo lieti di riprodurre in anticipo sulla nostra Rivista la parte storica della relazione, che è frutto di intelligenti ed accurate ricerche. Red.
(1) La traduzione della Bibbia attribuita a Filippo Rustici (Ginevra, 1562) non è che una ristampa, riveduta e corretta, della versione del Brucioli. Il lavoro fu fatto appunto in vista degli emigrati italiani che aveano abbracciato la Riforma e si erano rifugiati a Ginevra.
(2) Nel 1849, a Roma, per cura del sig. Teodoro Paul, già pastore evangelico a Ginevra, e a spese del sig. Douglas di Cavers (Scozia, Roxburghshire), fu stampato il
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Ma il Diodati tradusse ai primi del '600; ed è naturale che la sua traduzione contenesse dei modi e delle voci destinate a cadere in disuso, e non poche parole che, siccome anche le parole hanno la loro fortuna, con l’àndar del tempo avrebbero acquistato un senso diverso da quello primitivo; e il giorno dovea venire in cui il bisogno si sarebbe sentito di provvedere in qualche modo a cotesti inco-venienti che, specialmente nel popolo, impedivano, o per lo meno limitavano, la retta intelligenza delle Sante Scritture.
E il giorno venne. — Nel 1702, a Lipsia, stampalo per Cristiano Gozzio, uscì un Nuovo Testamento | consacralo | a Sua Altezza Serenissima | Monsignor II Pren-cipe | Christiano | Duca di Sassonia... | dal | Ferromontano, | Licenziato delle Leggi. Questo lavoro, che avea l’aria di presentarsi come originale, non era che una riproduzione del testo diodatino del 1641, leggermente ritoccato qua e là, special-mente nella grafia.
Nel 1710, a Zurigo, edita da Davide Guessnero, apparve una revisione del Nuovo Testamento diodatino, fatta da un anonimo. S’intitolava: Il j Nuovo Testamento | di | Gesù Cristo | nostro Signore e Salvatore, j nuovamente revisto | e | con ogni diligenza corretto, | accresciuto de’ Sommarii | e d'uri | esatta divisione de’ Capitoli e versetti. Ma la « revisione » era superficialissima, e le « correzioni » non recavano davvero al testo diodatino i miglioramenti di cui aveva bisogno. Anche questa « revisione » non era insomma che una ristampa del testo diodatino del 1641, lievissimamente ritoccato.
L’anno dopo, cioè nel 1711, ad Altenburgo, coi tipi di Giovanni Ludovico Richter, un tale, che non volle mandare ai posteri il suo nome per intero, pubblicò Il Nuovo | Testamento | del Signor nostro | Giesu Christo, | tradotto j in lingua italiana | da D. C. H. F. E questo tale non fece che riprodurre la diodatina. ritoccandola appena appena qua e là. Nell’esemplare posseduto dalla Guicciardi-niana di Firenze, nella pagina bianca interna della guardia, si legge una noterella a lapis, che dice così: Versio Diodati paucis in locis mutala. Adler. Ed è la verità.
Un altro racconciamento di cotesto genere della diodatina si ebbe a Norimberga, per opera di Mattia d’Erberg. Fu pubblicato prima a Norimberga nel 1711. e poi nel 1712 e nel 1713 a Colonia e a Norimberga. Il frontespizio dice: La J Sacro Santa | Biblia | in | lingua italiana, j Cioè | il vecchio e nuovo Testamento nella purità della j Lingua volgare, moderna e corretta, corrispondente | per tutto al Testo fondamentale vero, distinta per Versetti à prò | della Gioventù, e stampata con
Nuovo Testamento diodatino. L’edizione, di 4000 esemplari, fu fatta col permesso del Triumvirato della Repubblica Romana. Però, non appena fu tornato da Gaeta, Pio IX riuscì a impadronirsi dei 3000 esemplari che rimanevano della edizione (il sig. Paul ne avea potuto distribuire soltanto un migliaio), e li fece tutti quanti bruciare. Oggi il volume è rarissimo e prezioso. La Guicciardiniana di Firenze ne possiede uno; un altro si trova nella Biblioteca della Facoltà Valdese di Teologia, pure a Firenze.
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lettere mollo leggibili, à prò di quei che sono d’età avan ■ zata: | Volume | a tulli i desiderosi della propria salute utilissimo, arricchì | lo d’ardentissimi Sospirii a Dio, quasi per ogni | Capitolo. | Da | Mattia d’Erberg, | cultore delle sacre Lettere. J NorMergo. | Alle spese di quest'istesso Autore. | Dimorante prossimo all'albergo dei tré Rè, l'Anno | MDCCXII. L’autore, nella Dedica, dopo aver lamentata la « grandissima scarsezza della parola di Dio, stampata in lingua volgare », così continua: « È ben vero, ch’alcuni divoti e Letterati nei secoli andati si siano affaticati a rimediarvi, particolarmente Don Nicolò de Malermi, Brucciuoli e Diodati, ai quali sia attribuito il dovuto honore, pure essendo passati quasi secoli intieri, a gran pena si può trovarne qualch’Esemplare, eccettuato quei pochissimi, che nelle case private, conspersi di polvere, dormono anni ed anni, e per minutezza di stampa non servono all’età avanzata ò toccante l’Ortografìa non sono della nettezza hoggidiana, onde non credevo far male, d’impiegarvi non solo ogni possibile diligenza, ma di sborsarvi anche tutt’il mio, affinché una lingua tanto eccellente, delicata, famosa ed usitata habbia, se non abbondanza, almeno il necessario, con haver’ aggiunto di propria divozione gli Sospirii quasi per ogni Capitolo ». Questa Erbergiana non è che la Bibbia del Diodati (edizione ginevrina del 1641), riprodotta più liberamente (e in orrido modo guastata) nell’Antico Testamento, e copiata più fedelmente nel Nuovo (1). I « Sospirii » alla fine dei Capitoli sono tante preghiere: concise, e spiranti spesso una spiritualità viva ed intensa.
Nel 1744, a Lipsia, edita da Giacomo Born, con un antiporto inciso dal La-beck, apparve la Bibbia diodatina, riveduta di nuovo | sopra gli originali | e corretta | con ogni maggior’accuratezza | da I Giovanni David Mailer, | Maestro delle Arti. L’ « avviso al lettore » in capo al volume, era dei più promettenti. « Eccoti finalmente sodisfatto d’una Bibbia Italiana, la quale, come speriamo, avrà tutte le qualità, che fin qui furono cercate in altre edizioni, composte in questo linguaggio, ma cercate indarno ». Con quali criteri fosse condotta questa « revisione », lo dice il Müller istesso: « Stimiamo necessario d’avvertirvi che qualche volta abbiamo mutato l'espressioni dell'Autore, ma questo non s’è fatto, che raramente, ed in tali luoghi, ove per maggior chiarezza del testo credemmo aver raggioni bastanti a giustificar ’ un’interprete, che non vuol seguire alla cieca le orme dell'altrui. Quanto allo stile l’abbiam purgato, castigato ed aggiustato secondo le regole della miglior pronuncia ed ortografia, che dai virtuosi d’Italia, e principalmente dai
(1) La storia di questa Bibbia Erbergiana è interessante. Essa apparve prima a Norimberga, nel 1711, col nome dell’autore, ma senza indicare, nella Dedica, homi di altri traduttori. Poi, nel 1712, riapparve a Colonia, col nome dell’autore e coi nomi di Don Nicolò de Malermi e del Brucciuoli, nella Dedica. Poi, di nuovo a Colonia, sempre nel 1712, ma anonima e senza ricordare precedenti traduttori. Poi, nello stesso 1712, a Norimberga: col nome dell’autore, ma senza accenno ad altri traduttori. Poi, ancora nel 1712 e a Norimberga, col nome dell’autore e con la menzione del Malermi, del Brucciuoli e del Diodati. Poi, sempre a Norimberga, ma nel 1713, col nome dell’autore, senza mentovare altri traduttori. Il nome del Diodati, quindi, non appare che in una delle due edizioni di Colonia del 1712. La riluttanza di Mattia d’Erberg a citare in queste sue Dediche il nome del Diodali è Sintomatica: accenna al malanno del plagio, che a lui premeva nascondere.
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Signori Academici della Crusca vengono approvate ». Disgraziatamente il lavoro fu ben lungi dal corrispondere alle promesse (1). Nè « aveva tutte le qualità che fino allora si eran cercate in altre edizioni », nè l’autore era davvero da tanto da « purgare, castigare, aggiustare lo stile e l’ortografia » del Diodati. Lo stile suo e la sua ortografia aveano bisogno d’esser « purgati, castigati e aggiustati » molto più di quello che ne avessero bisogno lo stile e l’ortografia della diodatina!
Nel 1819, a Londra, coi tipi di R. Priestly, Giambattista Rolandi pubblicò una revisione della Sacra Bibbia | tradotta da | Giovanni Diodali: e la revisione era corredata di un Indice generale, j formante | un Compendio dell’Antico Testamento | e | di utili Tavole cronologiche. Ma anche questa « revisione », che era tale di nome più che di fatto, lasciò il tempo che trovò. L’autore, nella sua Prefazione, diceva chiaro e tondo il modèstissimo intenso suo: « La presente edizione è stata fatta sopra quella del 1641, la quale venne seguita scrupolosamente per l’ortografia stessa, che fu alterata solo in quanto fu creduto indispensabile per facilitare la lettura e togliere gli errori trascorsi nella stampa ».
Stando così le cose, non è da stupire che il bisogno di una revisione della diodatina rimanesse tuttavia tale e quale. I lavori ai quali abbiamo accennato dimostravano soltanto che il bisogno esisteva: a soddisfarlo non erano atti.
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Il migliore interprete di cotesto bisogno fu Stanislao Bianciardi. Nel 1849, in una nota alla sua purissima e limpida traduzione della Lucilla di Adolfo Monod, egli scriveva (2): « Fedele, e coscienziosa veramente, è la traduzione del Diodati; ma quella sua dicitura, a volte antiquata a volte contorta, lo rende troppo poco allettante. Vi sono poi passi, o del tutto c quasi inintelligibili; ed io conosco non pochi Italiani, che avendone fatto acquisto col proponimento di leggerlo, ne sono stati da que’ difetti, con gran danno delle anime loro, distolti. E la Bibbia, o il Vangelo è rimasto nello scaffale a prender la polvere». E ancora: « Utilissimo lavoro sarebbe quello di ritoccare alquanto il Diodati: togliere da quello stile non la patina, ma la muffa dell’antichità; e serbando la fedeltà più scrupolosa, scegliere termini e giri più vivi, più snelli, più efficaci: farne veramente il libro della buona nuova annunziata ai poveri. La via da scoprire e godere il tesoro inapprezzabile della divina parola non sarà mai, credo io, spianata e agevolata tanto che basti ». E il Bianciardi continuava, citando alcuni passi, e dando un saggio (saggio veramente squisito) delle modificazioni ch’egli avrebbe creduto utile introdurvi. « 0 voglia il buon Dio », concludeva, « ispirare il lavoro ch’io desidero, ad un’anima degna, e darle lumi, volontà, e perseveranza da compierlo! »
(1) Di questa « revisione » e « correzione » si ebbe un’altra edizione, nel 1757, curata da Giorgio Corrado Walther.
(2) Lucilla, Genova, 1849. Nota C. pag. 263.
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Nel 1848, quando, per le speranze dei popoli rinvigorite dalle nuove aure che spiravano dalla Francia, i principi si trovarono obbligati in Italia ad allargare le loro concessioni e a promulgare gli Statuti, cominciarono a formarsi dei Comitati per la propagazione della Bibbia nella penisola. E si fu appunto in cotesti Comitati che il problema si affacciò: se si dovesse o no purgare la diodatina dai modi antiquati, e se vi si dovessero o no mutare le parole che non aveano più l’antico significato. Le discussioni furono calde, ma non condussero a un risultato unanime. In non pochi era forte la convinzione che ogni cambiamento di modi o di parole che si fosse adottato, avrebbe tolto alla diodatina la sua fisonomía originale. e avrebbe quindi diminuito, e di molto, il pregio della versione storica. Ognuno quindi si tenne la propria opinione, e mentre alcuni continuarono a servirsi del testo diodatino così com’era, altri, invece, impresero a emendarlo.
E qui, per seguire le tracce de’ primi tentativi di vero emendamento della diodatina, conviene che ci trasportiamo in Inghilterra, e, specialmente, fra i nostri esuli toscani.
Nel 1851 uscì a Londra, in inglese, coi tipi di Royston e Brown, una importante monografia, intitolata: Ragioni e suggerimenti | per | provvedere ogni nazione di una versione | delle | Sante Scritture | fedelmente tradotte dagli originali ebraico e greco, j e una calda richiesta | onde sia falla una immediata e accurata revisione della | Bibbia italiana del Diodati. L’autore si firmava: Clericus. La monografia era importante, perchè non criticava soltanto i difetti di jornia del Nuovo Testamento diodatino. ma anche quelli di sostanza (1).
Ed eccoci finalmente al più importante dei « restauri », se ci è lecito esprimerci così, della diodatina, nel secolo 19o (2). Esso apparve in terra d’esilio, a Londra, nel 1855; lu restauro del testo di tutta la Bibbia; ebbe per autori il conte Piero Guicciardini e Giorgio De Noè Walker; fu pubblicato coi tipi del Bagster e figliuoli a spese della « Society for Promoting Christian Knowledge », e si chiamò, come si chiama tuttavia: « Bibbia Guicciardiniana » o semplicemente: « la Guic-ciardiniana >. S’intitolò: La | Sacra Bibbia | contenente | il Vecchio ed il Nuovo Testamento | Versione | secondo la traduzione di | Giovanni Diodali | diligentemente e paratamente riveduta ed emendata, sugli | originali ebraico e greco. Fu lavoro di lena: coscienzioso, accurato, ben condotto. Giorgio De Noè Walker, che era forte conoscitóre dell'ebraico e del greco, curò il confronto del testo diodatino con gli oriti) Ad esempio il mctànoia, che l’autore diceva mal tradotto dal Diodati per. penitenza, e che con larga citazione di passi dimostrava aver egli reso promiscuamente: il più delle volte, per penitenza, come in Matt. 3, 8; ma poi anche per conversione (Atti 20, 21), per ravvedimento (2 Tim. 2, 25) e per pentimento (Ebr. 12, 17).
(2) Accenniamo soltanto di volo all’edizione: La Sacra Bibbia... secondo la traduzione di Giovanni Diodati (Londra, 1850), lievemente corretta e rimodernata da Teodorico Pietrocola Rossetti, nipote di Gabriele, per conto della « Society for Promoting Christian Knowledge », e all’altra: La Sacra Bibbia ossia VAntico e il Nuovo Testamento tradotti da Giovanni Diodati con sommari e riferente del medesimo, per conto della « Società Biblica» di Londra (Londra, 1854: il N. T. è datato 1853), curata da Salvatore Ferretti. Il Ferretti non fece che modificare lievemente la diodatina nella grafia e nella punteggiatura.
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LA VERSIONE DIODATINA DELLA BIBBIA E 1 SUOI RITOCCHI 3^5
ginali; il conte Piero Guicciardini, che era toscano, eccellente conoscitore della lingua e uomo di non comune cultura, curò i ritocchi della traduzione. La Società editrice, però, non si sentì di accettare tutte quante le correzioni e le varianti proposte dal Walker e dal Guicciardini: e di questo fatto il Conte ebbe a dolersi non poco, specialmente perchè, com’e’ diceva: « Il lavoro rimarrà incompleto, e renderà presto necessaria una nuova revisione ». E non fu cattivo profeta. Difatti, già nel 1856, ecco edita a Londra, per cura della « Società Biblica », La Sacra Bibbia... di Giovanni Diodali, con sommari e rijerenze del medesimo. Era il testo diodatino, nel quale la Società introduceva per la prima volta le correzioni di vari passi, che il Dr. Luigi Desanctis avea consigliate fino dal 1855: correzioni, che furono poi mantenute nelle successive edizioni della Società di Londra; ed ecco, nel 1860, apparire a Firenze il Nuovo Testamento | del | nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo | traduzione | di Giovanni Diodali, | ritoccata | con varianti e concordanze. Il lavoro, stampato dal Le Monnier a spese di James Gordon, era di Stanislao Bianciardi. I suoi ritocchi erano fatti sulla revisione del Walker e del Guicciardini, ed erano lavoro d’uomo di scrupolosa coscienza e profondo conoscitore della lingua (1).
Dal 1860 in poi, i ritocchi continuarono. Pareva che chiunque avea bisogno di ristampare il testo del Diodati si sentisse in dovere di metterci almeno qualco-sellina del proprio. La « Società Biblica Italiana », nel 1875, pubblicava a Roma il testo del Diodati, e ne rimodernava alquanto la grafia. Nel 1885, per cura della « Società Biblica » di Londra, usciva a Roma un’altra edizione del testo diodatino che il prof. Alberto Revel avea diviso in sezioni, con titoli relativi al loro contenuto. Da questa data fino al 1894 le edizioni della < Società Biblica » riprodussero il testo del 1885, omettendo spesso il nome di Giovanni Diodati nei frontespizi. L'ultimo ritocco importante si ebbe nella ristampa fatta a Firenze nel 1894, coi tipi della Claudiana, per cura della « Società Biblica » di Londra, e recante sotto il titolo antico la noterella: Nuova edizione (della Bibbia intera) | accuratamente riscontrata su quella del 1641 | e in taluni punti lievemente emendala (2).
(1) La Biblioteca Guicciardiniana di Firenze ha un esemplare di questo Nuovo Testamento, a cui è unito un manoscritto del Bianciardi. Sono tredici pagine di scritto, su carta da lettere di formato grande. Nelle prime quattro pagine son segnati i passi di tutto il Nuovo Testamento, a cui è stata fatta qualche correzione: nelle altre nove sono date le ragioni delle correzioni fatte a passi dei quattro Vangeli: talune di coteste ragioni dimostrano il gusto finissimo del correttore e la sua padronanza della lingua. I passi del Nuovo Testamento guicciardiniano, ai quali il Bianciardi recò qualche correzione importante, sommano a 326.
(2) In questa edizione, oltre al riscontro con la diodatina del 1041, si.fece una revisione a fondo e si aumentò il numero delle concordanze della edizione 1885; si emendò alquanto il testo e si diè disposizione metrica alle parti poetiche dell’Antico Testamento. Il lavoro di riscontro fu fatto dal Rev. Augusto Mefite; così pure quello relativo alle concordanze, per il quale ei si servì della <; Authorized Version » inglese e della « Scrivener’s Cambridge Paragraph Bible ». Le modificazioni al testo dell’Antico e del Nuovo Testamento e la disposizione sticometrica delle parti poetiche dell’Antico furono opera del Prof. Giovanni Luzzi.
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La « nuova edizione » però non riuscì a far sentire meno la necessità di una vera e propria revisione a fondo del lavoro del teologo e filologo lucchese. Cotesta necessità s’imponeva oramai per un altro fatto, molto più importante di quello delle voci e dei modi antiquati, che aveano consigliato i passati ritocchi.
Il fatto era questo. Tutte le versioni del Nuovo Testamento apparse nei secoli i6° c 17° erano state fatte sopra un testo assai imperfetto,, attinto a pochi manoscritti d’età recentissima. Primo a stampare cotesto testo greco del Nuovo Testamento era stato Erasmo, che ne avea dato cinque edizioni (1). Sulla quinta erasmiana Roberto Stefano avea condotto la propria del 1550 (Edilio regia): e su questa Teodoro di Beza avea fondato le edizioni sue, l'ultima delle quali, apparsa il 1598, fu appunto quella della quale Giovanni Diodati si valse per la sua traduzione. Ma, da quel tempo in poi, erano stati scoperti e coliazionati numerosissimi manoscritti (2), erano state confrontate le antiche versioni, si erano riscontrate le citazioni Scritturali de’ Padri greci e latini; e, con tutto questo nuovo immenso materiale, una forte schiera di studiosi, in Inghilterra e in Germania specialmente, avea dato delle grandi edizioni critiche del Nuovo Testamento, per le quali la Chiesa cristiana poteva esser certa di possedere oramai un testo di gran lunga migliore e più sicuro di quello servito al nostro Dicdati.
Di fronte a tanta ricchezza di materiali, era naturale che i paesi evangelici sentissero la necessità di rivedere le loro gloriose versioni tradizionali alla luce de’ testi nuovi, tanto meglio accertati degli antichi. E la Germania ritoccò la classica traduzione di Martin Lutero (1522-1534); l'Inghilterra e gli Stati Uniti rividero la grande « Authorized Version » del 1611, e le Chiese di Francia rividero la traduzione dell’Ostervald del 1724, che a sua volta era già stata una revisione dell’antica, storica traduzione di Pierre Robert Olivétan del 1535, originata in terra italiana. È egli da maravigliarci se anche le Chiese evangeliche d’Italia aspirassero ad avere una vera e propria revisione a fondo della diodatina ? La loro aspirazione non rimase delusa. La Versione riveduta del Nuovo Testamento, che costò nove anni di assiduo e coscienzioso lavoro a un Comitato di studiosi competenti, scelti dalla munifica “Società Biblica Britannica e Forestiera” di Londra, è oramai pronta, e si spera che sarà pubblicata prima della fine dell'anno.
Prof. Giovanni Luzzi.
(1) Dal 1516 al 1535.
-1 o-Piu di- V6°: e fra questi basti nominare, per la loro grandissima importanza: il Sinaitico e il Vaticano del 4® secolo, e l’Alessandrino del 5®.
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INTERMEZZO
Tre disegni di PAOLO A. PaSCHETTO:
“ ... Quando pregate...
" Padre nostro..."
“ ... Il tuo Regno venga..."
[Dal volume di PIETRO CHIM1NELU: Il “ PadrenoUro" e il mondo moderno].
[1916-IVJ
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* PADRE NOSTRO..
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IL TUO
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RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
Nelle rassegne di filosofia religiosa, la direzione di Bilychnis e il compilatore intendono di offrire mensilmente ai lettori studiosi notizia, il più possibilmente vasta e fedele, della riflessione del pensiero italiano sul fatto religioso e considerazione filosofica di esso: così che chi vuole possa giovarsi delle nostre note come di una guida bibliografica per ulteriori studi e ciascuno trovi in esse un sunto oggettivo di quello che di più importante si pensa e si scrive in Italia sulla religione, sul suo ufficio nella vita e nella storia e sul suo posto in una sistemazione razionale del mondo dello spirito.
In queste prime rassegne andremo riassumendo e prospettando la letteratura fi-losofica-religiosa del 1915 nei libri e nelle riviste; seguiremo poi passo passo lo svolgersi del pensiero italiano, non senza i riferimenti necessari ai contributi più importanti che verranno ad esso da altre lingue e letterature.
L’ORGANICITÀ DEL REALE E LA FILOSOFIA SCOLASTICA
Degna di attenzione, in parte come contributo alla critica della filosofia contemporanea, ma più come indice dello sviluppo intorno del pensiero filosofico nella Chiesa, è la filosofia neo-scolastica, rappresentata
in Italia dalla Rivista di filosofia neoscolastica, diretta dal P. Agostino Gemelli, in Milano.
C’è in essa una parte di pensiero che' non è neo-scolastico, ma semplicemente scolastico, filologia, direbbe G. Gentile, e non filosofia, e che appartiene, idealmente, alla metafisica pre-critica; ed i suoi rappresentanti, ad es., A. Cappellazzi, anche quando parlano di autori e di sistemi filosofici moderni, lo fanno dal loro punto di vista, incapaci di trasferirsi nel pensiero dell’avversario, per superarlo davvero. Cosi al Cappellazzi, e ad altri, il prof. B. Va-risco, che non è certo sospetto di intolleranza verso questa corrente filosofica, del quale anzi la stessa rivista nota l’imparzialità, rimproverava di aver lungamente ed inutilmente discusso il suo pensiero, senza comprenderlo.
Ci sono poi i cultori di psicologia sperimentale, come il P. Gemelli e il medico L. Nocchi; e questi, quando rimangono nel loro campo, fanno opera scientifica, non filosofica, e di dubbio valore filosofico, se, come noi pensiamo, questa psicologia, per lo stesso metodo suo, non può essere ridotta a filosofia; anche quando, ad es., si pensa a sostenere il vitalismo, contro i meccanicisti; dottrina che, in quanto difesa con prove sperimentali, è al di fuori del problema più propriamente filosofico.
Ci sono infine dei giovani che, pur partendo dai principi fondamentali della scolastica, implicati dalla difesa del domma
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cattolico, studiano seriamente la filosofìa moderna e cercano di comprenderla, cioè di rendersi conto delle esigenze filosofiche alle quali essa risponde, c di superarla dialetticamente. Di questi è E. Chiocchetti, trentino, ora internato in un campo di concentrazione austriaco, che scrisse recentemente un volume su la filosofia di B. Croce, e alcuni articoli del quale pare abbiano scandalizzato i lettori provetti della Rivista, che, nel numero di agosto 19.15, sente il bisogno di rivendicare la libertà di discussione nelle cose dubbie. Il Chiocchetti, «pur avendo comuni con la filosofia tomistica le tesi dell’esistenza di Dio, dell’anima, della libertà, del valore assoluto della ragione e via dicendo, dissente però radicalmente in una delle teorie principali e fondamentali, vale a dire intorno al valore dell’astrazione. Al concetto astratto l’À. vorrebbe sostituire il concetto concreto, perchè questo solo, a suo giudizio, ha un carattere conoscitivo, mentre l'altro ha un carattere esclusiva-mente economico e pratico. L'universale concreto è vero; l’universale astratto, le generalizzazioni scientifiche, le astrazioni matematiche sono concetti nè veri nè falsi, sono soltanto utili ».
Il Chiocchetti muove dal principio della organicità del reale; dal fatto, cioè, che nello spirito e nel mondo ciascuna cosa o momento è così intimamente connesso col tutto; da non poter intendersi se non in e con questo tuttodcl quale fa inscindibilmente parte; il vero processo conoscitivo è quindi sintetico e procede dal molteplice all'uno reale, all’universale concreto; astrarre, dividere, distinguere può talora giovar come metodo, ma è, se preso come funzione prima del conoscere, un impoverire via via il reale, un vietarsi di intendere.
In questa « unità intrinseca della verità », in questa « immanenza del principio in ogni concezione» non c’è, in ultima analisi, l’immanenza del pensiero nell’essere, l’identità hegeliana di pensiero ed essere od almeno l’intuizione dell’ente ro-sminiana ? Gli scolastici lettori della rivista l’hanno sospettato; e di qui i rimproveri. E forse il sospetto è avvalorato, più che rimosso, dai due articoli che F. Olgiati (un altro giovane studioso, il quale ci diede recentemente un serio volume su la filosofia di H. Bergson, edito dal Bocca) dedica nella Rivista a questa organicità del reale, (nn. 30 agosto e 30 dicembre 1915), che egli cerca di immunizzare. Basti un accenno.
L’organicità del reale va applicata innanzi tutto alla personalità umana. Lo spirito individuale, la coscienza, è, per essa, autocoscienza, non solo dal soggetto, ma, nel soggetto stesso, del mondo e della realtà universa. Come è conciliabile ciò con la dottrina cattolica che fa di ciascuna anima umana una creazione ex novo? L’Olgiati ricorre alla unione sostanziale, per là quale l'anima risente l'influsso del corpo e l’individuo rientra così in qualche modo nella trama delle formazioni storiche. Ma, con la risposta, se si spiega un certo ordine di fatti di ereditarietà, si è lungi dal problema filosofico che è, non problema di influsso, ma di autocoscienza.
Così quando, venendo al problema della libertà, l’OIgiati ripete con Hegel che « ogni nostro istante e sopratutto ogni nostro atto ha un influsso su tutta quanta la vita nostra e su tutta la storia — e dall’una e dall’altra non può mai più essere avulso », il che vuol dire anche che su ogni nostro atto ha influsso tutta la storia precedente, è opportuno notargli che la conseguenza, dal punto di vista etico, è enormemente diversa se si pone che lo spirito è un farsi e un creare la realtà, hegelianamente, o se si pone che essa è un fatto, una cosa creata, una realtà bien franchie da tutta la restante realtà.
Questi contatti vivi fra il pensiero scolastico e la filosofia moderna possono, come il lettore vede, elevarsi a un vero interesse filosofico e storico; ma temiamo forte che la scolastica non se ne avvantaggi troppo.
STORIA DEL DOMMA E FILOSOFIA DEL DOMMA
Nel Conciliatore, diretto da A. Borgese, L. Salvatorelli (anno II, n. 1) dando notizia della traduzione italiana della « Storia dei dommi » di A. Harnack, traduzione compiuta ed edita da Domenico Battaini (Mendrisio, Svizzera), rimprovera all’autore di non aver avuto chiaro nella mente se egli intendeva dare una storia del domma o una storia dei dommi o le due cose insieme. « Il H., egli scrive, in verità sembra appunto aver mirato a fare una storia del domina, che fosse al tempo stesso una storia dei dommi, in quanto questi costituiscono un tutto più o meno organico... Ma questa considerazione integrale della storia del domma, sintetica e analitica, finale e sostanziale, a cui il H. sembra
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aver mirato — il suo concetto e il suo piano non è mai esposto di proposito — non risulta effettivamente attuata ».
In che cosa e come la storia del domma si differenzierebbe dalla storia dei dommi? Sentiamo ancora il Salvatorelli.
« Fare una storia del domma (del domma cristiano, nel nostro caso) significherebbe stabilire il concetto generale di questo, e cioè, innanzi tutto, le note caratteristiche per cui un domma si distingue da una istituzione, da un rito o anche da una credenza, da un’opinione teologica, e quindi l’essenza dei domma stesso; indagare poi come esso sia sorto e si sia sviluppato nel cristianesimo, * terminando col mostrare quale sia attualmente il concetto di domma nella chiesa cristiana e il posto ch’esso vi occupa. Fare una storia dei dommi significherebbe invece esporre l’origine e lo sviluppo di quelle singole credenze cristiane che rientrano nel concetto di domma. E evidente, quindi, che ogni storia di dommi, che volesse essere qualche cosa di organico e, non una raccolta di tradizioni staccate, non potrebbe fare a meno di essere col legata a una storia del domma; mentre questa dovrebbe si, prendere i suoi elementi, le pietre per la costruzione del suo edificio, da quella, ma potrebbe tuttavia costituire una trattazione a sè. Il carattere di questa dovrebbe essere necessariamente formale'. essa cioè non dovrebbe esaminare in sè stesso il contenuto dei singoli dommi, ma fissare in questi quelle note caratteristiche e quell’essenza del domma di cui abbiamo parlato sopra o ricostruirne la storia. (Conciliatore, li, I).
In altre parole, c’è un punto di vista interno e un punto di vista esterno del domma. Esternamente, esso è una credenza o una dottrina che tende ad assumere carattere sistematico, a ridursi in formula, e ad avere per i seguaci di una determinata istituzione religiosa carattere obbligatorio e, diremmo quasi, costituzionale. Dal punto di vista interno, il domma è un momento dello spirito religioso, un processo spontaneo della fede, la speciale forma di adesione, ritenuta necessaria per l’eterna salvezza, ad una verità divina rivelata.
Sotto il primo aspetto il domma cristiano è intellettualisticamente considerato, il risultato del contatto fra il cristianesimo e la filosofia del tempo, risponde ad una esigenza razionale, fa capo ad una filosofia ed ha un suo proprio processo istituzionale e dialettico; sotto il secondo aspetto esso
è un fenomeno essenzialmente religioso e si riconnette alla fede, ed alla vita di questa nello spirito pratico, ed andrebbe sopratutto spiegato in dipendenza della fede, della quale, quindi, converrebbe fissar prima la natura e il significato.
L’importanza, dal punto di vista dei metodo, della distinzione nasce dal fatto che i due processi sono, in sostanza, un solo processo; il mondo interiore, costruito dalla fede, si rispecchia nel mondo esterno, delle istituzioni, delle dottrine e dei riti: l’uno spiega l’altro e ci serve per giudicare dell’altro. Sicché a tutti e due in realtà bisogna aver l’occhio costantemente, per scrivere una storia dei dommi; mentre una storia dei dommi che non fosse insieme storia dell’interno sviluppo della religione, come vita, finirebbe col perdere il filo conduttore nell’esame delle azioni e reazioni fra pensiero rcligoso e filosofia e cultura, come mostra il Salvatorelli essere avvenuto in più luoghi all'H. E una storia del domma che volesse essere soltanto questo, cioè formale e sintetica,- finirebbe con l’essere filosofia del domma o meglio, della fede; ricerca del valore pratico delle dottrine, dei simboli, dei misteri, per orientare e dirigere la vita religiosa; ricerca che potrebbe esser tentata o per il domma in generale o per un sistema di dommi, o per un determinato domma, ad es. quello della personalità divina o della divinità di Cristo o dell’Eucarestia, avulso dalla sua storia. Un esempio noto di questo genere di ricerca si ha nel volume di Edouard Le Roy: « Dogme et critique ».
SCUOLA E RELIGIONE
Nel n. is giugno 1915 de La Nostra Scuola B. Varisco pubblicava un articolo, su questo argomento, il quale ha dato poi luogo ad una vivace ed interessante discussione sullo stesso argomento. Diceva, in sostanza, il Varisco che « Dio, nella scuola, deve esser nominato; e non per incidenza, come si farebbe del Barbarossa o dell’elettricità; ma in guisa che il ragazzo ne avverta, ne senta l’importanza suprema; la posizione centrale nel mondo c in se stesso ». « Se nel somministrare al ragazzo i primi elementi di cultura... non gli parliamo «lei Dio personale — la concezione che egli si farà del mondo non includerà, ed anzi escluderà, il valore su-£remo » senza del quale nessun altro va->re di vita può essere solidamente posto.
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< Soltanto una tale istruzione può dirsi educativa... L’Educazione, perchè prepari alla vita, perchè sia davvero educativa, deve essere profondamente religiosa nel senso che abbiamo indicato; cioè deve parlare di Dio...in guisa da far comprendere o sentire al ragazzo che il mondo s’accentra in Dio ed ha quindi un fondamento e un significato ».
In seguito ad alcune osservazioni di G. Vitali, il quale, notando la difficoltà dell’applicazione di questo criterio in una scuola pubblica laica, con maestri ai quali si è riconosciuta piena libertà religiosa nell’insegnamento, ad alunni le cui famiglie hanno diverse fedi, e chiedeva quindi, nel maestro, un agnosticismo rispettoso e prudente, molto diverso dal-r agnosticismo indi fiorente od ostile, replicava B. Varisco nel n. 15 die. 1915 dello stesso periodico; ed insisteva soprattutto nel mostrare come il maestro che parli agli alunni di un Dio personale, anche non credendovi, non pecca di insincorità, quando egli espone ai fanciulli, nella sola maniera in cui sia ad essi praticamente accessibile, una concezione etica della vita e dei valori dello spirito, alla quale egli deve esser giunto, se vuole esser davvero educatore. E un tale insegnamento, meglio che quelli impartiti di autorità, da ministri di particolari religioni, salva il rispetto alla libertà del fanciullo, perchè lo prepara a coglier la sostanza della religione, concretando questa nelle forme e nelle fedi che egli preferirà. Mentre, con un metodo negativo ed areligioso, con lo scetticismo indifferente od ostile, si deforma l’anima del fanciullo, distruggendo, per odio alla impalcatura, quella costruzione della vita • del mondo come sistema morale che pure dovrebbe essere il frutto precipuo di ogni educazione.
Un pensiero simile a quello del Varisco è stato esposto da G. Gentile, da G. Lombardo Radice, da G. Salvemini, da R. Murri (nelle pagine di Bilychnis) da G. Ferretti e da altri; sicché non dovrebbe esser più lecito porre la questione dell’insegnamento religioso nella scuola elementare come si faceva anni addietro, da persone che non vedevano via di mezzo fra la confessionalità e la laicità areligiosa. Fra l’una e l’altra c’è nulla di meno che lo spirito religioso nella sua perenne freschezza ed ingenuità.
Degni di nota ne La nostra scuola di questi ultimi mesi anche gli articoli di
Giulio Vitali su l’educazione morale in Inghilterra; a proposito dei quali ci si permetta di ricordare qui, con vivo rimpianto, la fine immatura e tragica del Vitali, uno dei giovani che più avevano lavorato, negli ultimi venti anni, con serena libertà di spirito, al risveglio del pensiero religioso ed allo studio della filosofia della religione in Italia.
IL NUOVO REALISMO
Di questo nuovo movimento filosofico inglese ed americano aveva già fatto cenno A. Chiappelli ne La Nuova Antologia del i° dicembre 1914; e torna a parlarne, in una sommaria esposizione dello sviluppo del pensiero filosofico americano, nel n. i° aprile 1916 della stessa rivista. Ad esso dedica un diffuso studio A. Alliotta ne La Cultura filosofica, n. 2, 3, 6, 1915. Di sommo interesse sono, per chi studi il pensiero religioso, queste oscillazioni delle menti intorno ai supremi principi della conoscenza e della realta; l’esame di esse giova a richiamar l'attenzione dai sistemi, necessariamente unilaterali, alle esigenze perenni, e mai intieramente soddisfatte, dello spirito. L’America del Nord ci aveva dato in questi ultimi anni un neo-hegelianismo del quale il Royce è il migliore rappresentante e forse il solo noto in Italia (dei suoi volumi e in particolare della sua dottrina religiosa ci occuperemo in un prossimo numero); e più, come reazione antiintellettualistica, il pragmatismo di W. James, che ebbe tanta voga in Europa ed anche in Italia e del quale H. Bergson è considerato come un geniale continuatore e rinnovatore. I.a nuova filosofia suppone questi due momenti dialettici e tende a superarli. Essa, scrive l’Alliotta, «si presenta storicamente in antitesi con l’idealismo, o subbiettivismo, come son soliti chiamarlo anche i nuovi idealisti, per la sua recisa affermazione della indipendenza della realtà dal soggetto; ma l’idealismo in fondo non è passato invano per i nuovi filosofi, che ne attingono la teoria dell’identità della cosa con l’idea, cioè il monismo gnoseologico. Bisognava prima assorbire tutte le cose nei contenuti intelligibili, dissolverle con l’analisi in elementi concettuali, per poterle poi, così trasfigurate, proiettare di nuovo all’esterno; e dall’estremo subbiettivismo passare all’estremo obbiettivismo...
« Il nuovo realismo è d’accordo con l’idealismo nella sua critica della vecchia
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dottrina dualistica. Se da una parte c’è l’idea, dall’altra la cosa in sè, non si comprende come si possa affermare la corrispondenza del pensiero all’oggetto; questo non è mai dato nella coscienza e non è perciò mai possibile confrontarlo con l’immagine che ne abbiamo. I.a coscienza non potrà mai cogliere che i proprii stati; e ciò che è fuori della sfera intellettiva rimarrà assolutamente impenetrabile. La conclusione logica del realismo dualistico è l’agnosticismo. Per sfuggire a questo non c’è altra via se non identificare la cosa con l’idea, ammettendo che nell’atto di conoscenza abbiamo presente lo stesso oggetto reale proprio come esso esiste indipendentemente da noi. Con ciò non si vuol negare la conoscenza mediata, ma solo subordinarla alla conoscenza diretta...
« Se da una parte il nuovo realismo coincide con l’idealismo per l’identificazione delle cose con i contenuti ideali, si contrappone risolutamente ad esso in quanto asserisce l’indipendenza dell’oggetto dalla conoscenza, e dissolve il soggetto negli stessi elementi oggettivi onde risulta la realtà esteriore. T.’unità organica che collegava gli elementi intelligibili nel sistema dello spirito, secondo il pensiero dei neohegeliani, dal Green al Royce, è rinnegata dai nuovi realisti, che simpatizzano, ricollegandosi anche per questo lato al James, con una veduta pluralistica del mondo. Gli enti ideali non sono intimamente collegati fra loro nel sistema della Coscienza Assoluta, in cui ciascuno attinge la sua vera realtà, ma sono l’un dall’altro indipendenti e solo connessi da relazioni esteriori. Ogni entità sussiste indipendentemente dai suoi rapporti, e questi sono, alla loro volta, indipendenti l’uno dall’altro... Il monismo gnoseologico al quale il nuovo realismo aderisce non deve essere confuso col monismo metafisico ».
Molteplici difficoltà occorrono allo spirito contro questa dottrina cosi brevemente enunciata; nè la diffusa spiegazione che dà l’Alliotta le rimuove ma anzi le fa più insistenti. In che modo, secondo il nuovo realismo, la coscienza singola apprende Sueste cose-idee, questo universale in re? he cosa diviene, o come si salva, la conoscenza della realtà concreta, empirica, che non è fissità, ma movimento e durata? È possibile rinunziare all’unità, a Dio, come implica questo pluralismo nel quale si scinde lo stesso mondo del pensiero? E sopratutto, dove e come fondare la personalità, cóme
sintesi, come attualità vivente ed autocoscienza?
Quest’ultima difficoltà ci pare la più grave. Dinanzi ad essa il nuovo realismo, pur essendo essenzialmente idealistico e Slatonico, ci sembra abbia Io stesso vizio i origine del positivismo. Partendo da ciò che è esterno al pensante, dalla molteplicità e dalla oggettività, non si trova la via per tornare alla intimità del pensiero, alla soggettività, all’unità. E pretto sapore positivistico ha infatti la definizione della coscienza data dai nuovi realisti: a una coscienza è un gruppo di entità neutrali a cui un sistema nervoso reagisce con una risposta specifica ». E la soggettività « riguarda solo certi complessi presi nel loro insieme». Insomma, lo spirito è definito non come sintesi originaria ma come insieme degli elementi che ne fanno il contenuto attuale, su basi fisiologiche. E ci par che si annulli con ciò il supremo postulato della vita religiosa e morale, l’autonomia delle coscienze, come liberazione, conversione dall'esterno all’interno, e come farsi.
LA RELIGIONE DI FICHTE
Ad una concezione affatto opposta ci richiama un interessante articolo di G. Mag-Ììore, pubblicato, con questo titolo, nella 'ivista di filosofia- (luglio-sett., 1015).
In una serie di scritti nei quali la fede e la vita religiosa è la preoccupazione centrale, dagli Aphorisnien iiber Religion und Dcismus a Beslitnmung des Menchen alla Anwcisung zum seligen l.eben, alla Wissen-chajtlehre in ihrern allgemeinen Umriss questo altissimo rappresentante del più puro romanticismo religioso, che fu accusato di ateismo e dovette per l’accusa lasciare la cattedra di Iena, cerca appassionatamente nella filosofia la vera religione, il valore supremo della vita.
Dalla sua dottrina dell’io trascendentale, che, ponendosi come non-io, si definisce e si fa io empirico, dall’unità metafisica di uomo e Dio egli trae la fede nella quale si esalta, come per riscattare con una eroica devozione pratica al dovere l’orgoglio intellettuale del nuovo idealismo. La fede è il rimedio contro l’idealismo soggettivo, che per Fichte coincide con la scienza. « Contro la pretese della scienza, riassume il M., una voce intima ci grida: non è il sapere il tuo Destino! La vita non ti è stata donata per contemplare.
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ma per agire. L'azione soltanto restituisce la dignità al tuo essere. Ora io non posso agire se non credendo alla realtà delle cose che ini circondano, e all’esistenza di altre creature libere e ragionevoli, tra le quali mi è dato compiere il mio dovere. Così dalla scienza si esce in una sfera più alta, quella della fede. Non agiamo perchè conosciamo, ma conosciamo perchè siamo destinati ad agire. E la fede ci dice che no* ci troviamo al centro comune di due mondi, di cui l’uno è materiale e visibile, l’altro puramente intellegibile. La legge del dovere è il punto dove i due mondi si toccano ».
Con un alato inno alla vita si chiude l’aureo libro della destinazione dell’uomo. Alla vita dove non alligna nè corruzione, nè morte, nobilitata dallo spirito ed eterniz-zata dall’idea: e perciò è vita divina, Dio stesso nella sua attualità. Cosi la cerchia della religione si amplifica infinitamente. Essa non è più un sentimento, o un atto, che se ne sta rinchiuso nella romita cella dell’io; ma da questo allarga le sue Spire a tutto l’essere, all’universo intiero. Se Dio è la vita, la storia nostra, la religione è una interpretazione della vita, la scienza che la vita ha di se medesima. E però diviene intelligenza della realtà, filosofiadella storia«.
Per Kant il compimento del dovere era il freddo rispetto di una norma universale;
onde il frizzo di Schiller: fa il bene a malincuore. Per Fichte esso è passione, piacere, gioiosa operosità. Poiché per luì la fusione del finito nell'infinito è raggiunta mediante un atto di amore, amore che è « luce interiore, forza creativa: non il rovescio della ragione, ma la potenza stessa della ragione, la radice di ogni realtà, il solo creatore della vita e del tempo ».
Nè Fichte si stimava inventore di questa filosofia religiosa. Egli la ritrovava in Cristo e nei vangeli e, in particolare, nella introduzióne al vangelo giovanneo, che egli interpretava conformemente alle sue dottrine filosofiche, facendo del Verbo la razionalità stessa di Dio immanente nel mondo, l’io assoluto che non si rispecchia, bensì si realizza nell’io empirico.
Di questo intimo significato e valore religioso si impregnava anche l’amore patriottico del F. del quale sono documento interessante i discorsi alle nazione tedesca che egli tenne in Berlino occupata dai francesi e dei quali l’editore Sandron di Palermo, ci ha dato recentemente una versione italiana; discorsi che meriterebbero di divenire il testo di ogni buono c sano nazionalismo se non li guastasse in parte l’esagerata concezione che il Fichte ha anche egli della razza e della lingua e della missione germanica. m.
CRONACA BIBLICA
BIBBIA E BABILONIA
Oramai gli assiriologi sembrano in grado di descrivere con certa larghezza e sicurezza la storia millenaria degli Assiri, dei Babilonesi nonché, in parte, dei Sumeri i quali gettarono i preziosi germi di quella civiltà che poi stupendamente fiorì lungo le sponde del Tigri e dell’Eufrate. Ad esempio, il celebre assiriologo M. lastrow, dell’università di Pennsylvania, offre ai colto pubblico un volume dov’è descritta quasi sotto ogni aspetto « la civiltà di Assiria e Babilonia« (The civilizalion of Babylonia and Assiria. Filadelfia, 1915; pp- 500. in 8°, con molte illustrazioni).
Consta dei seguenti capitoli: 1® storia degli scavi; 2® storia della decifrazione della scrittura cuneiforme; 3® storia po
litica; 4® il panteon; 5® il culto; 6® legislazione e commercio; 7® l’arte; 8® la letteratura. Il prof. lastrow è autore di un’opera vasta e molto pregiata sulla religione assiro-babilonese; ed ha speciale competenza nella letteratura augurale, segnatamente circa le questioni di epato-scopia, praticata molto dai Babilonesi. In questo volume non si trattano questioni riservate agli assiriologi; e quindi può essere letto con profitto e piacere da ogni colta persona. Benché sia un israelita, forse, in certi confronti della letteratura legislativa e salmodica dei Babilonesi con quella biblica, l’A. non si cura abbastanza di far apparire la superiorità spirituale degli Ebrei; ma egli non è però seguace del panbabilonismo.
Un campione del panbabilonismo è
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il dott. A. leremias, pastore a Lipsia e orientalista valente. A suo avviso, la civiltà intellettuale di tutto l’Oriente antico non è quasi altra cosa che un riflesso di quella babilonese; perciò al suo ultimo libro, che tratta della civiltà babilonese, ha dato, senz’altro, questo titolo: < Manuale della cultura spirituale dell’antico Oriente » (Handbuch der altorientalischen Geisteskultur. Lipsia, Hinrichs, 1913; pp. xvi-366, in-80). La chiave per penetrare nel pensiero babilonese può essere additata con le parole che si leggono in testa di un capitolo di questo libro: Himntelsbild gleich Weltenbild, cioè, « il mondo celeste riflesso nel mondo terrestre». Il cielo stellato, secondo il I., è «il testo fondamentale » della cultura spirituale o intellettuale dei Babilonesi; i quali avrebbero espresso con miti astrologici tutto il loro sapere e il loro credere. A noi non pare maraviglia che il cielo stellato, rivelatore di Dio agli occhi di E. Kant, abbia esercitato un fascino possente sull’animo ingenuo dell’antico popolo babilonese, appassionato e privilegiato contemplatore degli astri; e quindi non ci sembra cosa inverosimile che un tal popolo abbia creato miti astrologici. Ma lo studioso moderno ha da essere cauto nel prendere le veci degli astrologi babilonesi; altrimenti l’opera sua, anziché la sublime parola di E. Kant sul cielo stellato, può far ricordare la favola di La Fontaine: unjour un astrologuc se laissa choir dans un puits! Noi però non sappiamo accertare se A. leremias, in veste di astronomo o astrologo babilonese, sia caduto nel pozzo simbolico, ma temiamo che sì e forse più d’una volta.
Per esempio, a giudizio dell'assiriologo G. Hehn, professore all’università di Wurzburg, i panbabilonisti errano allorché pretendono di additare nei testi religiosi babilonesi le origini del monoteismo biblico. Egli volle confutare questo errore nel volume dal titolo: « l’idea di Dio nella Bibbia e presso i Babilonesi » (Die biblische und babylonische Gottesidee, Lipsia, Hinrichs, 1913; pp. xn-436, in-S°). La trattazione è così distribuita: i° idee fondamentali dei Babilonesi circa la divinità; 20 il monoteismo e la religione babilonese; 30 confronto delle altre religioni semitiche con quella dei Babilonesi; 40 del concetto di un sol Dio chiamato Ilu ovvero El presso i Semiti; 50 i nomi attribuiti a Dio nell’A. Testamento; 6° speciale confronto della religione biblica con quella di
Babilonia. L’A. rivendica agli Ebrei la gloria di avere per i primi tra i semiti professato il monoteismo in senso vero e proprio. Il nome Elohim, usato spesso nel Pentateuco, non permette di supporre una religione politeistica preistorica in seno degli Ebrei. L’ipotesi che Mosè abbia preso dai Cheniti il nome e il culto di lahvè, è senza fondamento. Non diremo che tutte le opinioni del prof. Hehn espresse in questo libro siano incontestabili; ma la tesi fondamentale dell’originalità del monoteismo ebraico in confronto con la religione babilonese è da lui propugnata, sul terreno puramente storico, con argomenti che sembrano inconfutabili.
Una esagerazione panbabilonistica sembra pure la teoria secondo la quale gli Ebrei avrebbero adoperato la lingua babilonese, nei documenti legali e religiosi, per assai lungo tempo. Questa teoria venne S>er la prima volta indicata dall’assi riologo amoso Hugo Winkler (Altorientalische Forschungen. ÍH, 165 ss.); fu poi accettata da Im. Benzinger (Hebräische Archäologie, 3* ediz., p. 178) e recentemente propugnata da Ed. Naville, professore di egittologia al-l’Università di Ginevra, in un libro scritto in inglese (Archaeology of thè Old Testament, Londra, 1913) e tradotto in francese. Secondo lui, la Bibbia ebraica é, in gran parte, una ritraduzione dalla lingua babilonese; la quale sarebbe stata la lingua sacra e officiale degli Ebrei almeno fino al tempo del re losia (621 a. C.), e indi quella aramaica.
E. König, eminente ebraicista tedesco, ha esaminato accuratamente tutti gli argomenti raccolti dal Naville e da altri a sostegno di questa strana teoria, in uno studio pubblicato nel periodico londinese The Expositor (an. 1914, pp. 97-115; 193-211). Egli primieramente cerca dimostrare che « tutti gli argomenti portati a favore della nuova teoria non hanno il valore attribuitovi da chi li ha escogitati • (p. 114); e in secondo luogo enumera e illustra le ragioni che militano in favore della tradizione, la quale vuole che l’A. Testamento sia stato scritto in lingua ebraica, originariamente.
I PROFETI
Tra le recenti pubblicazioni intorno alla letteratura profetica possiamo indicare, in primo luogo, un volume di F. Hölscher dal titolo: «i Profeti» (Die Propheten. Lipsia, Hinrichs, 1913; pp. vm-486, in-8° gr.). Ha quésti capitoli: i° estasi e vi-
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sione; 2® la mantica primitiva; 3® il profetismo estatico; 4® lanvismo e profetismo; 5® i grandi profeti; 6® la composizione dei libri profetici. L’A. fa lunghe, considerazioni sulla psicologia della mantica o divinazione; osservando che la suggestione o eccitazione ipnotica pud esaltare la psiche in guisa da trasportarla in estasi. Di tal natura sarebbe stata « la profezia » primitiva tra gli Ebrei, e quindi simile alla mantica conosciuta in tutto l'antico Oriente semitico. Ma di altra natura era la profezia israelitica posteriore, cioè, al tempo del suo massimo splendore, quando era rappresentata da uomini quali Amos, Osea, Geremia, Isaia ed altri: essi erano profeti in quanto la loro personalità era quasi assorbita dalla coscienza religiosa, ossia, dalla loro fede e sensazione divina. Quanto all’idea messianica nel profetismo ebraico, l’opinione dell’A. si accosta al radicalismo negativo. Eziando le opinioni ch’egli propugna circa la composizione dei libri sono, in gran parte, d’indole radicale. Interessanti le sue notizie sul profetismo in Arabia, ma poco utili a lumeggiare il vero problema della profezia israelitica; alla quale del resto e giustamente l’A. attribuisce una parte preponderante nella storia religiosa ebraica. Anche chi non sia disposto ad accettare tutte le opinioni in esso difese, può consultare questo volume sui profeti ebrei con la certezza di trovarvi molte osservazioni e notizie importanti.
Degno di nota è pure il libro di M. But-tenwieser su «i profeti d’Israele dall’ottavo al quinto secolo » (The prophets of Israel from thè eight to thè fijlh century: their faith and their message, New York, Macmillan, 1914; pp. xxxn-350, in-8®). Egli dice che un abisso separa i profeti primitivi da quelli chiamati «i profeti scrittori », che furono maestri della religione ebraica dall’ottavo al quinto secolo; giacché la primitiva profezia non fu che un fenomeno di psicologia rudimentale e morbosa, mentre la profezia posteriore era la sublime manifestazione di una rivelazione divina. « La profezia scritta è frutto dello spirito umano autonomo consapevole di sè medesimo» (p. 155): la divina rivelazione profetica sai ebbe, in sostanza, « una spontanea creazione del genio religioso». Quanto alle visioni che i profeti attestano di aver avute, sono « imagi ni di cui si giovarono per tradurre le loro esperienze religiose ■ (p. 165). I
profeti predicarono una religione « in contrasto con la meticolosa osservanza dei riti » (p. 308); anzi. Geremia avrebbe dispensato il popolo dall’offrire sacrifici nel Tempio (p. 310). Tenevano per certa la catastrofe della nazione ebraica; però credevano con non minore certezza al messianismo; e quindi sono « autentiche » le loro parole circa la speranza nell’età messianica ventura. Eccettuato questo punto, nel resto l’A. si accosta alle dottrine della scuola liberalissima o radicale: e siccome egli è israelita, insegnante in una scuola israelitica di Cincinnati, questo suo libro é notevole come indizio di una nuova tendenza giudaica, e non già perchè contenga cose molto originali.
Nel volume intitolato « i profeti d’Israele e le religioni dell’oriente» (Les prò-fhetes d' Israel et les religions de l’Orient, aris, E. Nourry, 1913; pp. 327, in-8®) il dott. A. Causse vuole additare « le fasi Siù importanti nell’evoluzione dell’idea i lahvé, dalla primitiva nozione popolare, impregnata tuttavia di paganesimo semitico, fino alla sublime concezione universalistica insegnata nelle profezie del Denterò Isaia; e quindi esaminare sommariamente il cosi detto monoteismo nelle religioni orientali » (p. 9) pagane. Nei nove capitoli in cui è divisa la trattazione è descritto il lahvismo popolare dell’età israelitica più antica; indi l’insegnamento dei singoli profeti (capp. III-VIII), e si parla in fine del supposto monoteismo orientale.
Per ciò che concerne tale questione, l’A. giunge alle seguenti conclusioni. Le tendenze monoteiste che taluni stimano di avere scoperto nelle religioni di Egitto e di Babilonia, trovansi latenti nelle religioni di tutto il mondo. Le dottrine più o meno esoteriche dei sacerdoti babilonesi ed egiziani, serbateci nella loro letteratura liturgica, costituiscono certamente un grado notevolmente avanzato nell’evoluzione spirituale del genere umano però non ci è dato di scorgere ch’esse abbiano avuto per risultato una concezione propriamente monoteistica. « Il pensiero religioso orientale, eziandio nelle manifestazioni più alte, non si è mai liberato dal naturalismo e dall’idolatria. I teologi egiziani, come i poeti sacri babilonesi, serbarono intatta fede alle credenze e alle superstizioni della folla; e le loro idee filosofiche circa la natura, anziché urtarlo, favorivano il politeismo popolare. A quanto pare, non in Egitto nè in Babilonia è sorto
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mai un profeta a insegnare che Dio è spirito. Vero è che anche lahvé da principio era una divinità naturistica; e di questa primitiva concezione rimase traccia nel linguaggio dei profeti e dei salmisti che parlano di un Dio del quale i cieli narrano la gloria. Se non che presso di loro tale linguaggio non ha più interamente il significato primitivo: essi conoscono lahvé vivente c agente nella storia. Il monoteismo ebraico è sovratutto una religione etica: la prima Sarda dei profeti (quali Amos, Isaia e eremia) fu che lahvé è giusto • (p. 319 s.).
Nelle altre religioni orientali possiamo rinvenire idee notevolmente alte, ma soltanto nella religione di lahvé troviamo Ì»reclamata, come dogma fondamentale, a dottrina che Dio è assolutamente giusto e ama non i sacrifici ma la bontà. « Per quanto notevoli possano essere stati gli influssi orientali sulla religione d’Israele, nel monoteismo dei profeti c’è pur sempre qualche cosa la quale non si spiega per via d’influssi etnologici e storici. Qui si presenta un fattore spesso negletto nel nostro sistema del determinismo storico: esso è la libera personalità. Il monoteismo ebraico è una creazione individuale, una ferminazione (variation) spontanea nel-evoluzione, e non già un frutto dell’ambiente storico. In seno d’Israele sorsero uomini di Dio» (p. 321). Questo libro non è senza pregi, ma il capitolo sulle origini dèi lahvismo (dove sono esposte le idee delia scuola del Wellhausen) è particolarmente debole, e rappresenta un momento della critica moderna oramai superato da una nuova scuola meglio intorniata.
II volume postumo di S. Driver intitolato: « gl’ideali dei Profeti » (The ideale of thè Prophels. Londra, 1915, pp. xn-239, in-8°) consta di venti sermoni in cui è dichiarata e sobriamente illustrata la dottrina religiosa ed etica contenuta nella letteratura profetica. L’A. fa spesso notare che non era intenzione dei Profeti anticipare la narrazione della futura storia israelitica: essi volevano purificare l’ideale religioso, e accenderlo negli animi del popolo.. Questo volume è anche una prova che la critica biblica, di cui il D. fu un cultore eminente, non è poi inconciliabile con la pia predicazione della parola divina.
CIRCA LA VITA DI GESÙ
A voler avere un’idea degli studi circa la vita di Gesù pubblicati, la più parte in Germania, dalla fine del secolo xvm sino
ad ora, giova leggere il libro di A. Schweit-zer intitolato: « storia dell’indagine su la vita di Gesù » (Geschichtc der Leben-lesu-Forschung, Tübingen, Mohr, 1913; pp. xn 659, in-8°). Quest’opera fu pubblicata nel 1906 sotto il titolo: «dal Reimarus al Wrede » (Fon Reimarus zu IFrede); ma la nuova edizione è migliorata ed ai venti capitoli della prima ne aggiunge tre altri per ragguagliare i lettori circa le pubblicazioni sulla vita di Gesù uscite alia luce dal 1907 al 1912. L’A. è seguace della scuola escartologica ad oltranza, della Suale rintraccia i germi negli scritti del eimarus (m. 1768), dolendosi che per quasi un secolo siano rimasti abbandonati. Si scaglia contro il « razionalismo » e il dottrinarismo teologico tedesco che volle e ancora vuole scorgere, ad ogni costo, in Gesù un maestro di etica religiosa come potrebb’esserlo qualsiasi professore sedente oggi su di una cattedra universitaria di Berlino. Naturalmente, stima come su-Serficiale l’opera di E. Renan su la vita
i Gesù. Con ciò non si creda che l’A. sia un teologo piamente rigido e ortodosso! Ma questo suo volume, ricco di erudizione e di brio,, merita di essere attentamente letto da chi voglia conoscere la storia delle ricerche fatte nel secolo decimonono per ricostrurre e interpretare la vita — pur sempre misteriosa — di Gesù. Nei tre nuovi capitoli si dà notizia, specialmente, delle pubblicazioni recenti intorno alla controversia, se così può dirsi, sulla esistenza personale di Gesù da Nazaret.
A questo proposito notiamo il libro del dott. Thorburn dal titolo: « Gesù il Cristo, storico oppure mitico? » (lesus thè Christ: Historical, or Mylhical? Edimburgh, Clark, 1913; pp. xix-311, in-8®). L’A. dopo aver detto che il nuovo mitologismo circa la vita di Gesù ha vecchie radici nelle teorie dello Strauss e del Bauer, entra nell’esame: 1® delle prove per la tesi storica; 2° e di quelle portate a sostegno dell’epotesi mitica. Dopo le testimonianze del N. Testamento, cita quelle di antichi scrittori, tra cui Giuseppe Flavio, stimando^come autentico il passo delle Antichità giudaiche (XX, 9, 1) dove si parla del «fratello di Gesù chiamato Cristo, di nome Giacomo ». Se non che pur questo luogo di Giuseppe Flavio pare a molti critici interpolato da qualche scrittore cristiano. Del resto, l'esame delle testimonianze desunte da scrittori profani e dal Talmud è condotto dal dott. Thorburn con poca accuratezza.
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Meno reprensibile, sotto il rispetto critico, è la seconda parte della trattazione; dove sono discusse le teorie mitiche dello Smith,, del Drews e del Robertson. Viene dato giusto rilievo alla diversità che corre tra il mito della natura che muore e risorge periodicamente e il racconto evangelico del Cristo risorto una volta per sempre; tra le narrazioni evangeliche della nascita del Salvatore e i racconti analoghi del mondo pagano spesso recanti la traccia di dottrine immorali.
Chi voglia esaminare le testimonianze degli antichi scrittori circa Gesù Cristo, può leggerle raccolte in opuscolo pubblicato dal dott. I. B. Aufhauser (Antike lesus-Zeugnisse, Bonn, Marcus und Weber, <9*3; PP- 51 in-8°). E sono le seguenti: lettera del siriano Mara a suo figlio Sara-pione (tra il 70 e il 160); due luoghi di Giuseppe Flavio (dalle Antichità guiaaiche, scritte verso il 94); l’epistola di Plinio iu-niore all’imperatore Traiano e la risposta di questo (1x1-113); passo di Tacito negli Annali (110-116); passo di Suetonio intorno a una sedizione giudaica eccitata da Chrestos (119-121); la corrispondenza apocrifa di Abgàr re di Edessa; la lettera apocrifa di Ponzio Pilato all’imperatore Tiberio; quella di Lentulo al Senato romano; passi di letteratura giudaica con il testo originale e la versione tedesca. Quanto alla testimonianza di Giuseppe Flavio, oltre al passo da noi citato poco sopra, si adduce quello che incomincia così: « Viveva a questo tempo Gesù, uomo saggio, se però devesi chiamarlo uomo, ecc. (Antichità, XVIII, 3, 3). Questo passo è stato e certo sarà ancora discusso da molti. Però vogliamo soggiungere che il celebre E. Schürer, critico sagace e circospetto, è più tosto propenso a rigettarlo come spurio tutto quanto. Se autentico, non doveva sfuggire agli occhi de’ più antichi scrittori e apologeti cristiani, i quali avrebbero potuto trarre profitto dalla testimonianza di Giuseppe Flavio polemizzando contro gl’increduli: ma, invece, nei loro scritti non comparisce.
Quale valore poi abbia l’ipotesi, propugnata recentemente dal dotto olan<lese van den Bergli van Eysinga, che in certi tratti della storia evangelica ravvisa l’influsso di racconti buddistici, si può vedere dall’esame che ne fa il dott. G. Faber in uno scritto intitolato: « racconti ueote-stamentari e buddistici ». (Buddhistische und Neutcstamentliche Erzählungen, Lipsia,
Hinrichs, 19x3; pp. xri-70, in-8°) Il F benché sia per professione teologo e non orientalista, conosce però la lingua sanscrita. Secondo lui, la possibilità che idee e narrazioni buddistiche penetrassero nel-l’Oriente classico ci fu la prima volta, non già nell’età di Alessandro Magno, ma in quella di Tolomeo Filadelfo; perchè allora Taliputra, residenza della corte indiana con la quale esso aveva relazioni amichevoli, era veramente un centro di propaganda buddistica, segnatamente per l’ardore apostolico del re Asoca. Ma questo principe indiano pare che amasse diffondere nei mondo più presto le massime pratiche del Maestro che non le maraviglie della sua vita. Del resto, tale possibilità, la quale ci fu anche dopo di allora, è del tutto nuda; e dato pure che alcuni racconti evangelici sembrino avere punti analoghi alle narrazioni buddistiche, la buona logica vieta di tosto affermare l’influsso di queste su quelli. Per trovare la spiegazione delle narrazioni evangeliche pare che basti l’osservare bene cose a noi più vicine che non i fatti della leggenda buddistica; e se ciò basta, non c’è ragione di spiccare il volo verso le rive del Gange o ricercarvi i semi di fiori sbocciati pressa quelle del Giordano.
G. A van den Bergli van Eysinga, seguendo in parte le orme di R. Seydèl, vede un influsso della leggenda buddistica su queste cose evangeliche: i° nascita soprannaturale di Gesù; 2° profezia di Simeone intorno a Gesù infante: 30 pellegrinaggio di Gesù dodicenne al Tempio; 40 battesimo di Gesù; 5® tentazione di Gesù; 6° esclamazione muliebre verso l'avventurata madre di Gesù; 7® obolo offerto dalla vedova; 8° Pietro che cammina sull’acqua; 9® la donna samaritana al pozzo; io® predizione della conflagrazione cosmica (com’è dichiarata in II Pietro, 3, io). Il F. esamina diligentemente tutte queste cose; per alcune nega in ogni modo la somiglianza con la leggenda di Budda, per altre la riconosce come tenuissima e spiegabilissima senza la supposizione a cui ricorre il sopra nominato studioso olandese. Ad esempio, il significato della tentazione di Gesù manifestamente è altro da quello contenuto nel racconto della tentazione di Budda: il malefico Mara vuole distogliere dalla vita ascetica il Bodhisatva (il Budda, ossia, l’illuminato, in fieri); mentre Satana vuole ben altro da Gesù. Così, non c’è vera si-miglianza tra il motivo per il quale la
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samaritana non dà tosto da bere a Gesù, e quello per cui la donna dell’abietta casta dei Candala non vorrebbe dissetare Ananda discepolo diletto di Budda: questa donna vuole ammonire il richiedente essere per lui cosa impura il ricevere da lei la bevanda. Insomma, a giudizio del F., nei casi recati non apparisce l’influsso delle narrazioni buddistiche sui racconti evangelici; ed egli è più tosto incline ad ammettere che la storia evangelica, caso mai, abbia influito sugli elementi tardivi della leggenda buddistica che con quella sembrano avere una certa simiglianza, al che la cronologia non si oppone.
Sotto un aspetto merita nota la pubblicazione su Gesù (lesus, Tübingen, Mohr, 1913; PP* vin-184, in-8°) di W. Heitmüller, Srofessore di teologia all’università di (arburg. Consta di una monografia su «Gesù Cristo», già pubblicata, nel 1912, nel volume terzo dell’enciclopedia: Die Religion in Geschichte und Gegenwart: e di un discorso, tenuto a un uditorio di studenti convenuti nel marzo del 1913 in Arau (Svizzera), sul tema «Gesù di Nazaret e la via a Dio ». Il prof. Heitmüller, assai noto anche per altri suoi scritti, appartiene alla schiera dei teologi più liberali. Egli non vuole lo scetticismo divulgato da certi critici della tradizione evangelica, ma neppure sa mettersi in compagnia di coloro che piamente «con la lede immersi » (bei gläubiger Versenkung) nei vangeli, vi scorgono tutto ciò che loro Siù talenta. Per esempio, « che Gesù avesse i sè stesso un’idea puramente umana è cosa manifesta a chiunque legga, senza 6reconcetti dogmatici, i documenti alla ice necessaria della critica storica » (p. 68). Vero è che la documentazione propriamente storica non ci assiste quanto’ basti per narrare compiutamente la vita di Gesù, ma ci lascia intendere quello che più importa: « se poi su di ciò al cristiano non riesce di fondare la sua fede, tal cosa non riguarda chi fa professione di storico» (p. 41). Ciò che nella vita di Gesù più rileva per l’origine della fede cristiana, come fatto storico, non è certo il « mito • della sua nascita soprannaturale; non la sua resurrezione da morte, nè qualsivoglia elemento miracoloso; ma bensì la sua « religiosa vocazione », che è quanto dire, la sua « personalità creatrice ». Infatti, secondo il prof. Heitmüller, « la misteriosa efficacia della morte di Gesù scaturisce dalla sua personalità, plasmata da una
coscienza di vocazione religiosa cosi straordinaria che eccede ogni umana analogia » (p. 148). Il discorso tenuto in Arau è un commento, eloquente ma sui generis, delle parole di Filippo a Gesù: « Signore, mostraci il Padre, e questo ci basta ». Gesù « può essere ancora la nostra via a Dio: nói, come le generazioni passate, possiamo tuttavia rivolgere a Gesù la fiduciosa preghiera dell’apostolo Filippo » (p. 178). Per Gesù, «simbolo e veicolo della religione cristiana », noi possiamo concepire, sentire e amare Dio come Padre nostro.
Vogliamo aggiungere che, il 5 aprile 1913, alla Camera prussiana dei deputati il Freiherr von Schenck di Schweinsburg, disse: «sono costretto, o signori, di mostrarvi, con in mano un’opera scientifica fino dove una certa tendenza critica possa arrivare. Sarò molto breve, e col permesso del presidente, leggerò nell’opera scientifica Die Religion in Geschichte und Gegenvart un articolo su Gesù Cristo ». E lesse un brano dello scritto del prof. Heitmiiller, dove è detto che quasi si potrebbe dubitare della sanità mentale di Gesù; però abbiamo e non possiamo distruggere le parole di Matteo, ir, 25. La Camera ha sottolineato alcune frasi con « udite! > e « vergogna!». Von Schenck aggiunse che poneva il suo dito con orrore su quel berò scappatoia. Bisogna anche sapere ch’egli è presidente del concistoro distrettuale di Kassel, avente nella sua giurisdizione Mar-burg; la cui audace facoltà teologica è un grosso fastidio del Kultusniinisterium prus siano. Il prof. Heitmiiller ha ripubblicato quello scritto e lo ha accompagnato cól discorso tenuto in Arau, appunto per giustificarsi a petto del barone von Schenck, ma non sappiamo con che risultato.
A volere rintracciare i lineamenti del Gesù storico bisognerebbe saper discernerli nelle primitive memorie o fonti scritte che formano il sostrato della narrazione e tradizione evangelica, cioè dei Sinòttici : cosi, tra mpiti altri, opina Charles Kerit, professore di esegesi biblica all’università di Yale, ciò che si può vedere nel suo libro dal titolo : « la vita e la dottrina di Gesù secondo le più antiche memorie» (The fife and theaching oj Jesus according thè earliest records. New York, Scribner, 1913, p. xm-337, in-8°). Com’è detto nella prefazione, Suesto volume vorrebb’essere una « ricerca el Gesù vero », un’indagine del suo « ritratto originario », mondato dall’ imbratto che su vi depose la leggenda piamente e fervida-
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mente fantastica. Di questa guisa l’A. disinvoltamente cava da supposte antiche memorie storiche un ritratto di Gesù dove la sua « grandezza morale non è offuscata da certi miracoli assurdi in rerum natura», un ritratto di Gesù deterso da elementi miracolosi quali la sua generazione sopranaturale, la sua fisica resurrezione dal sepolcro, la sua onniscienza e onnipotenza. E un tal ritratto benché circoscritto dai limiti della umana possibilità e realtà, secondo il professor K., dovrebb’ ancora apparirci divino : perchè divina l’idea di salvezza spirituale incarnata in Gesù, e perchè divina la verità morale in nome del Padre da Lui insegnata al mondo con parola sublime ed esempio impareggiabile.
Circa « il carattere di Gesù » si può leggere un articolo in The American Journal of Theology (XIX, 1915, pp. 529-549), scritto da John Richard Brown. Questi dice che oramai « il pubblico non si appaga più di ciò che circa il carattere di Gesù ode dire da’ suoi maestri ecclesiastici » ;. i quali dimenticano che Gesù « era inferiore a Dio nel sapere (Marco, 12, 32), inferiore a Dio nel potere (Luca, 12, 50), inferiore a Dio nel carattere (Marco, io, 18); e cadono in contradizionc mentre gli attribuiscono il possesso pieno immutabile di ogni perfezione divina». Ora il carattere di Gesù dev’essere interpretato alla luce di nuove idee. Per esempio, secondo l’antica mentalità greca dominante nella dottrina patri
stica, Gesù avrebbe dovuto possedere, per avere un carattere perfetto, sapiènza infinita, poiché Socrate faceva della cognizione e del * **- --- -a virtù una cosa sola. Ma noi oggi, o scrittore, pensiamo con il Novaiis
dice
che i carattere perfetto importa e significa perfe ta educazione della volontà. E in Gesù noi dobbiamo e possiamo scorgere, a suo dire, lo sforzo e l’ardore incessante austero e generoso, con che Egli rese ubbidiente e santa la sua volontà a traverso prove d’ogni genere, fino al martirio sul Golgota. Il carattere di Gesù è genetico e non già statico; e la sua bellezza morale è pari al trionfo inobliabile da Lui eroicamente riportato sul mondo: disse infatti in sua vece un sa
piente evangelista: « Io ho vinto il mondo».
Notiamo, in fine, la pubblicazione della Vita di Nostro Signore Gesù Cristo di G. Fouard, tradotta dal francese in italiano (Torino, Libreria edit. internazionale, 1915, pp. 410. in-80). Di questa opera (come di Ìuella simile pur pregevole e diffusa in talia, compilata dal Le Camus) possono del tutto appagarsi soltanto coloro che ignorino e vogliano tranquillamente ignorare il metodo, le esigenze, e non pochi problemi della critica moderna dedita allo studio della letteratura neotestamentaria, e all’indagine storica del mondo giudaico ed ellenistico in che tale letteratura, fonte della « Vita di Gesù », germogliò e fiori.
XXX.
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PRO E CO NT R A LA PARTECIPAZIONE
DEL PAPA AL CONGRESSO DELLA PACE
(RIASSUNTO dei principali scritti apparsi sul SOGGETTO IN RIVISTE E GIORNALI ITALIANI)
(Continuazione. Vedi BUychnii di Marzo 1916. p. 249 e iegc-)
N. MASSIMO FOVEL
Fatto un sommario confronto tra Pio X c Benedetto XV, e constatato che a chi e dove guardi il Papa nell’ora che volge, nessuno ancora lo sa. Massimo FoveI nel suo articolo « Il Papa » (Gli avvenimenti, 19-26 marzo 1916) dice che «anche la innocente colomba papale, messaggera di pace, ha certo i suoi artigli; e se Benedetto XV ripete le parole cristiane dette da secoli da tutti i Benedetto, i Leone, i Pio, ecc., ecc., che hanno salito la cattedra di San Pietro, viceversa il marchese della Chiesa, ligure, aristocratico, diplomatico e pontefice nel 1915, ha certo una parola sua, un sentimento, una visione e una preda suoi ».
Infatti sul tappeto della Conferenza euro-Sea egli ha una posta in giuoco: la legge elle Guarentigie. Questa è «il suo nemico e il suo ausiliario ». Benché non l’abbia mai riconosciuta, pure non ha fatto altro che protestare, stiracchiare, rivendicare. E in fondo non ha torto, perchè la sovranità graziosamente concessagli da quella legge è minorata dal fatto degli ambasciatori che preferirono andarsene piuttosto che restare a Roma senz’occhi, senza orecchie, senza lingua, nell’impossibilità cioè di far gli spioni. D’altra parte il governo ha fatto il suo dovere non tenendosi in casa delle spie invulnerabili. E se i governanti nostri accettassero domani la internazionalizzazione delle guarentigie, potrebbe essere che qualcuna delle altre Potenze ci imponesse appunto di tenerci in grembo qualcuno di questi spioni diplomatici, e se non lo volessimo, Sotremmo riveder, come ai bei tempi anati, la guarnigione austriaca a Ferrara o la cannoniera francese Orfnoque a Civitavecchia.
« Provatevi domani a dar nelle mani dello straniero cattolico, il più ben intenzionato, solo un lembo, solo un lembo della legge nostra che protegge e vincola il Papa, e voi ne avrete subito la conseguenza incalcolabile che il Pontefice, che può essere italiano, australiano od esquimese, acquisterebbe il diritto di farci dichiarare, su una sua semplice protesta di Sovrano violato, vessato o anche solo tediato, la guerra dallo Stato garante della legge, che fosse più suo amico o più nostro nemico. Sarebbe questo, senz’altro: il diritto che ha l’Italia di trovarsi in istato di guerra o in istato di pace quando essa, ed essa soltanto, lo decida sovranamente, si trasferirebbe di colpo in una Potenza estranea, straniera, cosmopolita, superiore. Al Papa basterebbe appellare all'imperatore d’Austria contro un preteso sopruso di «colui che detiene », per trovarci un’altra volta, di pieno diritto, in guerra con i soldati austriaci minaccianti e varcanti le frontiere, oppure rivolgersi alla Repubblica francese, probabilmente riconciliata anche se non più ultramontana, perchè dovessimo guerreggiare contro gli Chasse-pots dell’avvenire, recidivi nelle tristi e dimenticate meraviglie di Mentana ».
Perciò lo Stato non può consentire al suicidio consentendo alla internazionalizzazione della legge predetta. Ma se la sovranità assoluta dello Stato non deve essere neppur messa in dubbio, anche la Chiesa dev’essere rispettata. E poiché lo Stato italiano non potrebbe evitare, per la contradizion che noi consente, di colpire a sangue le suscettibilità sovrane della Chiesa, dovrà però almeno « ripagarla • riconoscendone con la più grande ampiezza quella maestà religiosa, che è decisiva nel determinare la volontà pubblica e il cumulo dei suffragi elettorali.
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La supposizione dei cattolici, se si urtassero le loro suscettibilità circa il papato, potrebbe domani divenire preoccupante poiché oggi è la massa rurale, analfabeta e ignara che giudica le sorti della patria e premia e punisce. Occorre riflettere che « l’opposizione prima anticostituzionale vastissima ed inerte dei cattolici, entrando sul terreno nazionale diventerà elemento vivo di realtà e di azione », particolarmente dopo la guerra, che essi non hanno voluto, ma che come tutti gli altri cittadini hanno operato e combattuto.
Il « garibaldinismo democratico » ed anche « quel garibaldinismo della diplomazia antica, che fu il cavourrismo » volgono rapidamente all’occaso. Troppe forze han fatto e stan facendo questa quarta Italia e troppo diverse da quelle che fecero la terza: il risultato politico, anche nella politica interna dovrà essere perciò diversissimo.
Onde, concludendo, il Fovel scrive: « E S: è dura ed amara, ma è legge; ed è e un prezzo necessario.
«Soltanto a questo patto, l’Italia, uscendo da questa prova che ne ha messo in luce tutte le virtù di volontà e di slancio, e ne ha messo a nudo la fragilità di composizione storica, riuscirà ad aver con sè tutti i suoi cittadini, unanimi nel proclamare la sovranità incrollabile dello Stato italiano. Tutti, e sopratutto i cattolici attivi, che si sentono e sono simultaneamente sudditi di due Sovrani. Essi sono stati guerrieri per l’Italia oltre la frontiera, ed essi debbono essere guerrieri per l’Italia invulnerabile di dentro. Ciò che la legge delle guarentigie ha fissato, deve restare immutabile; essa è un monumento di sa-Eienza bifronte, che da un lato ha inscritto i intangibile volontà terrena dello Stato nazionale, e dall’altro la inviolabile volontà religiosa del Papato internazionale; e qui dentro può e deve compiersi, come già il battesimo della terza Italia, la cresima di quella Italia più nuova e più forte che tutti auspichiamo ».
In una parola il Fovel sostiene la stessa tesi del Mosca circa l’immutabilità della legge sulle guarentigie partendo non da concetti giuridici, ma da considerazioni politiche interne.
ON. CESARE DEGLI OCCHI
Per l’intervento pontificio si è schierata nettamente la clerico-moderata Rassegna Nazionale di Firenze, la quale nel fasci
colo del i° aprile pubblica quattro articoli sulla questione, facendoli precedere da una nota della Direzione in cui si dichiara che due di questi scritti, quelli di Cesare Degli Occhi e di Roberto Cor-niani « lumeggiano più direttamente le idee di questo periodico ». Di un terzo, di Cesare Olmo, la Rassegna dissente dalle premesse ma accetta le conclusioni. II quarto articolo, dovuto ad un sacerdote, è una esercitazione apologetica intorno a Benedetto XV.
Riassumiamo partitamente i singoli scritti.
L’on. Cesare Degli Occhi, deputato clericale di A fiori, comincia con lo svalutare gli scritti avversari sulla questione, perché non sufficientemente sereni e profondi, e ne riduce le argomentazioni ad una considerazione di natura essenzialmente politico-italiana. Si mira cioè ad escludere persino la possibilità di una discussione c di una incertezza circa l’ammissione o meno del papa, perchè questi, intervenendo, potrebbe sollevare la questione romana, ciò che significherebbe una diminuzione dell’autorità dello Stato italiano ed una nuova minaccia nazionale.
Orbene —- dice lo scrittore — questo ragionamento parte da premesse alcune assurde, altre arbitrarie ed omette la considerazione di elementi certi. E si chiede: Per quali ragioni il papa interverrebbe al Congresso? Qui, prima di rispondere, il Degli Occhi fa una sommaria disquisizione sulla missione spirituale del papa e sulla sua necessaria libertà, reclamata legittimamente dai cattolici stranieri e cioè dalla collettività religiosa. Questo, perchè, prosegue il deputato di Affori, « quando avremo provato che importantissimi saranno i problemi di natura spirituale — sia pure a base politica — che si affacceranno al congresso della pace, avremo posto un primo elemento anzi la giustificazione dell’intervento del Ponte-ce al Congresso».
L’errore fondamentale degli avversari dell'intervento è nel credere che il papa debba intervenire al congresso per affermare i suoi diritti di fronte allo Stato italiano. Óra, che il pontefice, approfittando della occasione, possa ciò fare, è ammissibile; ma è già dubbio che questo suo problema si accetti di discuterlo. Ma è ancor più dubbio che sia liberale ed onesto, per tale presunzione, che venga cioè richiesta la discussione su di un problema, impe-
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dire la discussione di altri problemi a chi abbia diritto a questa discussione. Ciò senza discapito di una pregiudiziale: «se cioè sia stabilito che il Pontefice solleverà la questione romana per attenderne la soluzione, o non piuttosto si limiterà ad un’altra dichiarazione di efficacia meramente storica ».
La cosidetta opposizione italiana all’intervento del papa non è esclusivamente italiana, altrimenti «il Patto di Londra avrebbe potuto stabilire che alla richiesta del papa, intervenuto al Congresso, di discutere la sua posizione, si sarebbe opposta una recisa negazione ». Dunque il carattere dell’opposizione all’intervento è internazionale. Anzi la ragione italiana è assorbita perchè è provato che l’ammissione del papa non significherebbe discussione della questione romana.
Non si può negare che l’importanza del papato sia apparsa nella sua opera di Eùetà e nella sua efficacia morale durante a guerra, e non si può negare che l’intervento del papa al Congresso avrebbe ripercussioni protende.
Perchè il papa interverrebbe al Congresso ?
«Oltre che per un diritto che gli proviene dalla natura del suo ufficio universale, per il fatto che ha rappresentato in tanto turbine di guerra l’unico potere che abbia potuto rivolgersi a tutti i gruppi belligeranti recando voti e proposte che, indipendentemente dall’esito, sono stati presi in considerazione, ed hanno rappresentato un notevole sforzo per ridurre le spaventose conseguenze della guerra.
« Ancor più, per la Pace, a tutela degli immanenti diritti della Cristianità ».
Il Congresso dovrà risolvere i più ardui problemi. Ora uno importantissimo sarà Snello religioso dei popoli non ancora etti a nazioni. E dei diritti religiosi di questi popoli il papa sarà il difensore. Perciò i governi che non siano antireligiosi non dovrebbero opporsi all’intervento pontificio e tanto meno l’Italia perchè altrimenti « risulterebbe provato che la situazione politica del Papato in Italia è tale da non consentirgli la libera esplicazione della sua attività spirituale. E verrebbe a costituirsi una realtà assai più triste e preoccupante delle fandonie sulla paglia del Prigioniero1 ».
Insemina il Degli Occhi, un deputato italiano, ragiona sommariamente cosi: Al papà sarebbe impedito l’esercizio della
sua potestà spirituale escludendolo dai Congresso. Tesi ardita e curiosissima che dalle frammentarie affermazioni, che sopra abbiamo fedelissimamente riassunto, non sappiamo come scaturisca.
ROBERTO CORNIANI
Lo scritto di Roberto Corniani pecca, ancor più del precedente, di un semplicismo assoluto. Dice infatti che una parte dell’opposizione all’intervento del pontefice alla conferenza è di quelli che nutrono antipatia per la religione rivelata o che nel fatto mostransi nemici della religione dominante, come la massoneria, gli anticlericali, i socialisti, ecc. Ed è inutile ragionare con essi, essendo accecati da preconcetti.
Lasciatili pertanto da parte, considera le obbiezioni di altra natura mosse da altri non settari, nè anticlericali, nè antireligiosi. Esclude senz’altro che al Congresso intervenendovi il papa, abbia a parlarsi di ripristino del potere temporale, o d’internazionali zzazioné o di modificazione della legge delle guarentigie.
« Possiamo dire fin d’ora che quando un Congresso si riunirà esso sarà stato indetto all’unico fine di stabilire la pace c le conseguenze che saranno per derivarne.
« Di fronte a tale scopo tanto chiaro, definito e circoscritto, è evidente che qualunque argomento che al conseguimento della pace non avesse stretta e diretta attinenza non potrebbe esservi trattato ».
In tali condizioni non è possibile che il papa si attenti a gettarvi il seme di nuove discordie: dando forse occasione a nuove guerre.
« Un tale atto, se pure fosse concepibile, solleverebbe tale tempesta che neppure l’abilissimo nocchiero della navicella di S. Pietro oserebbe affrontare perchè essa rischierebbe di farla naufragare ».
Passa quindi il Corniani a rispondere alla obbiezione circa la sovranità, non avendo il papa sudditi, esercito, territorio proprio. Il papa, dice il Corniani, ha pure una sovranità, riconosciuta da potenze che han Sresso di lui rappresentanti diplomatici, bn possiede eserciti, ma per ciò appunto avrebbe autorità ed influenza grandissima, poggiandosi sopra ed unicamente all’autorità spirituale, nell’interesse di tutti i po-Soli, ai quali, più che ai governi. Bene-etto XV bada, esortando — come fece
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nella recente lettera al suo Cardinal vicario — a tener conto (nella futura pace) nella misura del giusto e del possibile delle aspirazioni dei popoli.
« È passato il tempo in cui i Pontefici tenevano conto unicamente del così detto diritto divino e Papa Benedetto vuole che le giuste aspirazioni dei popoli, come quelle che reclamano il riconoscimento delle loro nazionalità, vengano rispettati ».
Cosicché, al Congresso, il papa, dimostrando illimitata imparzialità, «pur adoperandosi pel bene di tutti i popoli indistintamente, certo non saranno le sue simpatie per gli oppressori anziché per gli oppressi, non per i governi che vogliono conculcare lo spirito di nazionalità anziché per quelli che Io sostengono ».
Qui, esaurita la sua dimostrazione, lo scrittore intravede nel futuro, prevedendo che al momento opportuno, per la questione dell’intervento o meno del pontefice al Congresso, si avranno scissioni nel seno della maggioranza parlamentare e, cessata allora la tregua di Dio dei partiti, su tale questione si acuiranno le divergenze. Egli si augura che l’Italia non si opponga all’intervento pontificio. Altrimenti si rinfocolerebbe quel dissidio tra la Chiesa e la nuova Italia, che « per merito dell’una o dell’altra » stava per scomparire.
CESARE OLMO
Cesare Olmo ragiona cosi:
La Santa Sede non può partecipare al Congresso come potenza territoriale. A nessuno oggi può venire in mente di rimettere sul tappeto la ricostituzione del potere temporale. E non pare che il Papa stesso vi pensi più. Per modo che sotto questo punto di vista l’argomento deve ritenersi sparito.
Non può parteciparvi il papa per la sua posizione morale come capo della Cattolicità, poiché forse a ragione altri invocano la posizione morale che parimenti hanno altri capi di religioni dissenzienti dalla cattolica. in quanto essi propugnano delle alte verità che stanno a base dello incivilimento. Contro l’intervento di costoro e del Papa sta che il Congresso si occuperà di spartizione di territori, di costituzione di Stati, di armamenti, di stretti, di libertà dei mari, ecc. A tutta questa svariata materia i capi delle religioni sono estranei. Manca per loro, come anche pel Papa, l’oggetto su cui deliberare. In quanto all’argomento della libertà religiosa di quei popoli che sono o
potrebbero essere impediti di esercitare il proprio culto. Ma la libertà di culto fa Sarte del diritto, pubblico interno d’ogni tato ed è un aspetto di quella libertà civile a garantir la quale deve ritenersi estraneo chi non ha da reggere il governo di popoli e di nazioni.
Però non é da dimenticare che il papa, a differenza di altri capi di religione ha una posizione di diritto internazionale. E può essere che qualcuno degli Stati che tengono ancora presso il Vaticano un rappresentante diplomatico e per cui il papa è persona di diritto pubblico, anzi di diritto internazionale, abbia a sostenere la legittimità dell’intervento del papa al Congresso per udir la sua voce e le sue proposte in quegli argomenti che possono interessar la religione e l'esercizio del culto. Non come sovrano decaduto dalla sovranità temporale lo richiederanno, ma come persona riconosciuta di diritto internazionale.
Ora: Quale accoglienza dovrà far l’Italia a questa richiesta? Respingerla per la ra-S'one che la religione è un affare privato?
pel fatto che ogni associazione di culto rientra nel diritto pubblico interno e non può formare oggetto di materia di diritto internazionale?
Teme l’Olmo che un simile atteggiamento possa render palese una contraddizione evidente nella quale siamo, di non voler riconoscere al papa oggi quelle qualità sovrane attribuitegli con la legge delle guarentigie. Lo Stato italiano non può senza contraddirsi venire a dire che il Sommo Pontefice non può intervenire perchè non è che un suddito. Convien dunque riconoscere che l’intervento del papa, ove egli lo chiegga e glielo consentano le potenze che con lui hanno relazioni diplomatiche, non si può legittimamente contrastare.
Si dice che l’Italia debba ad ogni costo impedire che il papa intervenga perchè la presenza di un suo rappresentante renderebbe possibile a lui o a Stati avversi all’Italia di presentar la questione delle guarentigie come questione internazionale da risolvere. Ma, escludendo il papa, si eviterebbe una eventuale proposta di ripristino del potere temporale, ma non si eviterebbe con certezza quella di internazionalizzazione della legge delle guarentigie, la quale contiene assicurazioni, disposizioni, prerogative, immunità che interessano anche gli altri Stati. Il Parlamento italiano, votando nel 1871 la detta legge, comprese che dava delle garanzie non ai papa solo ma a
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tutto il mondo cattolico, perchè tutte le chiese sparse per il mondo avevano il diritto di assicurarsi le condizioni adatte a sentire i suoi ammaestramenti. Dato ciò non sarebbe impossibile impedire che una qualsiasi potenza, per mal’animo verso di noi non chieda pel papa e pei cattolici garanzie maggiori di quelle date dalla legge.
Per questo non conviene insistere sulla tesi della esclusione del papa, che è una scappatoia, un espediente, un argomento procedurale. L’Italia deve, accettando eventualmente la discussione, dire apertamente a chi mostra dubitar di lei, che la leale osservanza nostra della legge sulle guarentigie ci dà diritto di ritenere esser congruo lo stato di diritto che proviene dalla legge del 13 maggio 1871.
Non si può certo accettare il concetto della internazionalizzazione. Il meravigliarsi che lo Stato sia garante esclusivo delle garanzie che egli dà, come fece l’arcivescovo di Udine nel suo noto discorso del novembre 1913, è puramente ingenuo e significa non conoscere il diritto pubblico interno degli Stati. « Solo agli Stati che sono all'ultimo gradino della potenzialità o della dignità si possono chiedere speciali garanzie. Tali garanzie, riguardo la libertà del papa, sono nel fatto che sono scritte in modo solenne nello Statuto, come disse Cavour alla Camera il 25 marzo 1S61, e, com’egli disse ancora, nel fatto che poggiano sopra l’indole e la condizione stessa del popolo italiano, vale a dire sopra la sua profonda coscienziosità e sopra il suo sentimento religioso. Altre garanzie lo Stato non può dare. La questione dell’indipendenza della Santa Sede in Roma si deve senz’altro ritenere risoluta.
E allora, visto che la presenza del papa al Congresso non accresce i pericoli se ve ne sono contro la sovranità piena dello Stato Italiano, resta a vedere se debba muovere ripugnanza la presenza al congresso della pace di un italiano di più, che tale è il papa attuale. E se non vi sia invece opportuna e desiderabile la presenza di chi non solo ha stigmatizzato fa guerra, ma ha portato giudizio severissimo sopra il modo con cui è condotta. « A me pare — prosegue lo scrittore — di non potere in coscienza respingere il consiglio, la parola, il voto di un rappresentante illustre della religione cattolica, tanto più in quanto questi, spogliato del potere temporale, si trova per necessità di cose e per abito, ad invocare le massime morali che sono la base della civiltà moderna, cioè della civiltà cristiana ».
D. FRANCESCO BARONI
L’ultimo scritto dei quattro che la Rassegna Nazionale pubblica sul papa e la sua azione odierna è di Francesco Baroni ed ha per soggetto « La parola del Padre. Riflessioni sull’ultimo documento pontificio ». Come abbiamo già detto, si tratta di uno scritto apologetico e che non ha nulla a vedere, neppure pel soggetto, con la legge delle Euarentigie e coll’intervento pontificio al ongresso. Tuttavia possono riferirvisi, con l’intento di prepararne le vie e di sbarazzare ostacoli, questi periodi dello scritto:
« L’Italia non ha niente da lagnarsi, ma molto da compiacersi dell’augusto pontefice, per la sua guerra di rivendicazione e di indipendenza. Tante e continue sono le prove di affetto che ha dimostrato verso di essa, — pur dovendo mantenere il riserbo troppo doveroso per il padre di tutti i popoli,--—che non vi è altro che la mentalità settaria, la quale sempre nega, e chiude gli occhi dinanzi ad ogni opera pontificia, che possa disconoscerlo. Dal principio della guerra, quando provvedeva a tutti i conforti spirituali pei militari combattenti, e comandava al clero di farsi tutto per tutti onde tutti guadagnare a Cristo, sino agli ultimi passi per allontanare i bombarda-menti aerei dalle città indifese, è tutta una sequela di atti dei quali l’Italia non ha che a compiacersi. Ed è giusto il pensare che nella sua grande anima di italiano Benedetto XV affretta coi voti il giorno, in cui la patria sua « diletta » si levi a più alta e solenne grandezza ».
ERNESTO NATHAN (II)
Nella Nuova Antologia del i° aprile v’è stata una ripresa dell’argomento, già trattatovi come abbiamo visto, dovuta ad Ernesto Nathan che ha creduto bene interloquire di nuovo e ad Eugenio Valli.
11 Nathan, del suo scritto, non sempre giusto e non sempre sereno, dal titolo Del Congresso e della Pace, dedica la prima parte, la più breve, all’argomento del papa al Congresso. Vi rileva che gli stessi assertori del presunto diritto pontificio son fra loro discordi. «Chi afferma spettar al pontefice potere spirituale e temporale; chi nel vaticinato Congresso afferma ufficialmente rappresentate le varie altre religioni all’infuori della cattolica; chi, invece, per superiorità del ministero esercitato dal a a lo colloca in una posizione eccezio:, superiore a quella dei capi di tutte le altre religioni ».
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La finalità però si rivela identica. Ma son cattolici coloro che parlano ?, si chiede il Nathan, e si risponde che essi, appartenenti ad una esigua minoranza che si occupa e preoccupa della posizione politica del Capo della Chiesa ed a restituirgli in tutto od in parte il potere politico, non sono cattolici ma clericali, non appartenenti ad una fede degna del massimo rispetto, ma professanti una politica ecclesiastica e reazionaria «legna della massima resistenza. Infatti «dalle cortesissime e sottili argomentazioni dovute al versatile e colto ingegno del marchese Crispolti, dalle dotte argute eleganze di mons. Benigni alle più recise affermazioni dell’onorevole Sederini, il pensiero comune mette in rilievo la individuale personalità clericale, accogliendo senza beneficio d’inventario le riserve del Pontefice per la rivendicazione del potere spirituale e temporale •.
E qui il Nathan rileva e confuta le argomentazioni di questi tre scrittori clericali. « Ingegnosa — egli dice — l’argomentazione di mons. Benigni. La religione è un ordinamento sociale di cui non può disinteressarsi una civile società, nè il suo Governo, quindi un fatto politico; ergo, alla politica deve partecipare il suo Capo.
« Il sillogismo non fa una grinza, soltanto collo ¡stesso rigore di logica sarà permesso di estenderlo, di non limitarlo ad una sola, ma a tutte le religioni, a tutte le filosofie, a tutte le istituzioni ed organizzazioni sociali, atte a supplire ai bisogni spirituali, intellettuali, fisici in una civile società. Ed allora non è forse a temersi che le istituzioni costituzionali, accettate dalla nazione e che governano il paese, possano essere alquanto turbate da codesta moltitudine di elementi intrammettentisi per mezzo dei loro capi nella politica nazionale?».
All’altro argomento del Benigni, che cioè al Congresso saranno rappresentati i capi di altre religioni e non è quindi equo escluderne il papa, il Nathan risponde che non i capi di altre religioni interverranno ma i loro rappresentanti insieme a quelli di altri paesi, e non per discutervi affari di culto, ma per definire interessi politici, economici, ecc. « Il mandato di quei dele-Sati, in materia di religione, al più si conferà ad assicurare le dovute libertà individuali ai diversi popoli, compresa la religiosa, patrimonio alla civiltà acquisito: in altre parole, alle tante Inquisizioni di qualsiasi dogma religioso vietare il trastullo
di erigere roghi per la cremazione degli infedeli ». Pertanto l’argomento proposto dal Benigni non è affatto conclusivo per la sua tesi.
Il marchese Crispolti, a sua volta, chiede quale sia la religione che ha come la cattolica una vita ed una organizzazione tanto distinta da quella degli Stati, delle nazioni, delle stirpi da spiccare per la sua forza morale. Il Nathan risponde ad hominem, qual’è l’altra religione che non l’abbia? Dalle molteplici suddivisioni del protestantesimo, all'ebraismo, al buddismo, ai seguaci di Confucio, tutte più del cattolicesimo traggono mezzi ed organizzazione dalla propria forza inorale, dalla propria tradizione. D’altro lato — osserva — i nostri parroci di campagna stenterebbero non poco la vita se dovessero affidarsi alla loro forza morale senza la congrua percepita dallo Stato.
Alla ragione desunta che solo presso il papa, unico fra i capi di religione, re e potenze tengono ambascerie, il Nathan oppone che sarebbe meglio non addurre un simile ragionamento. « In altri paesi, fuori del nostro, degli affari religiosi, in quanto riguardano le singole nazioni, si occupano gli ambasciatori, gli accreditati rappresentanti dei vari Stati. Si vuole allora mettere in rilievo la debolezza in un Governo che si allontanò tanto dai precedenti da concedere le Guarentigie? Se cosi è, se è un addentellato per indicare una interpretazione inaccettabile, contraria alla dignità nazionale e costringere il paese a riprendere in esame la questione in guisa da sottomettere il pontefice alla legge comune, non pochi sarebbero propensi ad entrare in quell’ordine di idee. Ma è questione interna; l’Italia non ammette estero intervento, voci grosse o piccine nel regolarla. Estraneo quindi ad ogni invocata rappresentanza pontificale in un convegno intento a determinar l’assetto delle varie nazioni ».
Questo è quanto è degno di rilievo, per l’argomento che ci interessa, nel nuovo articolo dell’ex sindaco di Roma.
EUGENIO VALLI
Dice Eugenio Valli che solo il dottrinarismo clericale q quello anticlericale possono rispondere in maniera perentoria se il papa debba sedere al Congresso della pace. Il dottrinarismo anticlericale, non tenendo conto delle formazioni storiche, vuol regolare la vita sociale e statale pre-
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scindendo del tutto dal fatto religioso e dalle associazioni c istituzioni che il fatto ha ingenerate. E deduce logicamente da tale principio che tali istituzioni non possano essere rappresentate al Congresso. Il clericale, viceversa, deve non meno recisamente dar risposta affermativa, poiché • tale dottrinarismo, che nella Chiesa costituisce una parziale deformazione, si è irrigidito e fossilizzato nei risultati delle concezioni medioevali II Papa non è soltanto religiosamente il capo della Chiesa Cattolica e il vicario di Dio in terra. È anche il capo della Società degli Stati. È anche investito per immutabile diritto divino, di quella Suzeraineté che, nell’interesse della fede, tutelato esclusivamente dal suo prudente arbitrio, gli dava, nel Medio Evo e sul principio dell’età moderna, la capacità di scio-Shere i- sudditi di un sovrano eretico e ri-elle alla Chiesa, dal giuramento di fedeltà e di dividere, fra le due potenze cattoliche, la sovranità delle terre scoperte c perfino di quelle che sarebbero state scoperte successivamente nel nuovo mondo ».
Pertanto il papa non solo dovrebbe partecipare al Congresso, ma iniziarlo, presiederlo e moderarlo.
È inutile discutere con tali scrittori ultra cattolici. Parlano il linguaggio di altri tempi ed esprimono suoni senza comprensione pratica.
Ebbene le due risposte estreme praticamente sono negative perchè, trattandosi della partecipazione al Congresso della rappresentanza del pontefice, allo stesso preciso titolo di quello dei singoli Stati, questa rappresentanza papale è incompatibile tanto colla soluzione negativa degli uni, quanto con quella ultra affermativa degli altri, i quali sostengono che il papa ha diritto jure proprio ad assidersi arbitro tra i rappresentanti degli Stati.
A questo titolo nessuno lo vorrebbe, neppure gli Stati più cattolici, come non lo han voluto con tali attribuzioni nel passato nel Congresso di Westfalia nel 1643 ed in quel di Vienna, alla fine dei quali i rappresentanti del pontefice dovettero protestare solennemente, perchè non s’era badato alle loro proposte.
Si dice che il papa potrebbe essere ammesso al Congresso come pretendente allo Stato della Chiesa e proporsi di chiederne in tutto o in parte il ripristino. È evidente che tale domanda, se venisse fatta, anche per un solo atomo di terra, metterebbe in questione la integrità del nostro territorio.
sottoponendolo a revisione o limitazione delle altre potenze. Quindi l’Italia deve pretendere in modo assoluto la esclusione di tali argomenti dal programma del Congresso, anche se venissero sollevati da terzi e anche nell’assenza di una rappresentanza del pontefice.
Non meno recisamente, perchè ancor più pregiudizievole, l’Italia deve opporsi non solo a subire, ma che pur si tratti in un modo qualsiasi al Congresso di garanzie internazionali per la Santa Sede, le quali, oltre che per l’Italia, significherebbero una diminuzione per la Santa Sede stessa. Gli altri Stati, nelle nostre condizioni farebbero come noi per la tutela della propria dignità, della propria indipendenza, del proprio territorio. L’Italia, infatti, si troverebbe, sotto il costante intervento di altri Stati, nella sua vita di ogni giorno, costituzionale e legislativa, con lacerazione della propria piena sovranità e dovrebbe giungere al riscatto di questa con sacrificio inconcepibile di una parte del territorio proprio; sacrificio, al quale non potrebbe più sottrarsi, dopo d’avere aderito, per tagliar via le proteste e le riserve del Sommo Pontefice, all’esperimento di una garanzia internazionale, milito nella pratica.
L’intervènto dei garanti presso il garantito è naturale. Orbene, nel caso in esame, se le potenze garantissero al papa la intangibilità delle prerogative, riconosciutegli dalla nostra legge, ne sarebbe irrimediabilmente lesa in due modi la piena sovranità dello Stato italiano. Esso non si troverebbe più nella condizione di non volere mutar la legge delle guarentigie ma di non poter farlo. Dovrebbe cioè subirla, non concederla.
« Non è finito. Tutto un gruppo di riforme legislative concernenti l’istruzione, la tutela dell’ordine pubblico, il diritto penale, i diritti degli enti collettivi, ecc., potrebbero considerarsi, nei riguardi del papa e degli Stati suoi garanti, come incompatibili colla condizione che gli fosse garantita. Quindi, tutta una parte delicatissima della vita dello Stato italiano, risulterebbe subordinata alla ingerenza straniera. Nè la semplice comunicazione della legge delle guarentigie al Congresso sarebbe sgombra di analoghi pericoli. L’Italia ne darebbe comunicazione pura e semplice alle Potenze. Queste si limiterebbero a prenderne atto. Si aggiungerebbe, come nell’art. 9 del Trattato di Parigi del 1856, riguardo alle riforme dell’impero Ottomano, la riserva che « in al->( cun caso tale comunicazione possa dare
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■ alle Potenze la facoltà di intervenire indi-« vidualmente o collettivamente nei rap-« porti dello Stato coi cittadini o nella in-« terna amministrazione dello Stato ».
• Ma non si potrebbe impedire, per l’Italia come non si è potuto evitare per l’impero Ottomano, la successiva ingerenza straniera, derivante, come effetto inevitabile, dalla comunicazione ufficiale fatta, in un solenne Congresso e ricordata in un solenne Atto internazionale, di quegli istituti e ordinamenti costituzionali che, per solito, gli Stati non si comunicano e non devono comunicarsi, perchè dipendono, rispettivamente ed esclusivamente, dalla singola volontà di ciascuno Stato e, in ogni paese, sfuggono al giudizio e all’apprezzamento di qualsiasi autorità, che non sia quella costituita nello Stato medesimo ».
Quindi su tutti questi punti: rivendicazione del potere temporale, domanda di assegnazione di un qualsiasi territorio italiano, garanzia delle prerogative, comunicazione al Congresso della legge delle guarentigie, l’Italia non può ammettere in alcun modo proposte o discussioni.
Fatte salve però tutte le sue ragioni, l’Italia non dovrebbe ulteriormente opporsi alla partecipazione del papa al Congresso, perchè « tale partecipazione non sarebbe in contrasto colle norme in vigore del diritto internazionale. Il pontefice infatti è considerato come un sovrano ed i suoi rappresentanti sono ritenuti come agenti diplomatici. Il papa possiede diritto di legazione attivo e passivo, riconosciutogli anche dalla legge delle guarentigie (art. 11); ora tal diritto implica, per naturale conseguenza, la facoltà di tutti gli Stati e di tutti i Sovrani, di farsi rappresentare contemporaneamente in un Congresso o in una Conferenza.
« Potrebbe tentarsi un’eccezione alla specifica rappresentanza del pontefice ad un determinato Congresso, ispirando il diniego ad un principio sancito nel Congresso di Acquisgrana del 1818. Si tratterebbe della mancanza di un’interesse del pontefice negli argomenti che formino il programma del Congresso. Ma. nel caso del pontefice, a me sembra evidente, che questa obbiezione possa essere eliminata per un doppio motivo. Primo, non si potrebbe contestare un interesse al ristabilimento della pace nel Capo di una Chiesa, che ha seguaci numerosi in tutti gli Stati ora nemici, e in tutti gli eserciti ora combattenti. Secondo, il limite dell’interesse, sancito nel
Congresso di Acquisgrana, riferibilmente agli Stati che debbano essere e degli Stati che possano non essere invitati ad un Congresso, vale per le potenze minori, ma non Ser le grandi potenze. E la rappresentanza el pontefice, giustamente secondo il criterio mio, è riconosciuta dal regolamento di Vienna, come quella di una grande potenza ».
Per questo il Valli ritiene non concludente la obbiezione del Nathan, affermante che ad ugual diritto dovrebbero sedere col papa a Congresso i capi di altre religioni. Essi infatti — ragiona il Valli — non ricevono nè mandano ambasciatori, non sono stati mai Capi riconosciuti di tutta una Società di Stati, non hanno prerogative diplomatiche, ecc. Cosi mentre l’ammissione, ad esempio, del Gran Lama implicherebbe l’adozione di una regola nuova, per l’ammissione del papa basta l’applicazione delle regole di diritto internazionale attualmente in vigore.
L’Italia — eliminati i pericoli di cui sopra — non avrebbe, circa l’ammissione o meno del papa al Congresso, diritti od interessi diversi da quelli degli altri Stati. Vi possono essere è vero, obbiezioni di carattere generale.
Una, che sarebbe decisiva, è quella che al Congresso dovrebbero partecipare soltanto le rappresentanze degli Stati belligeranti e non di quelli neutrali. Un’altra, piuttosto apparente che reale, potrà essercene nel senso che il pontefice possa, pel carattere universale della sua funzione e dei suoi interessi, essere sospettato dai vari Stati rappresentati o da una parte di essi, di poter esercitare, nel Congresso, un’azione perturbatrice. Ma come ciò non gli è riuscito altre volte quando era ben più potente, non gli riuscirebbe nep-pur ora. Ad ogni modo, in questa obbiezioni di ordine generale, l’Italia non ha maggiore o diverso interesse da quello degli altri Stati. «Quindi, da questo specifico punto di vista, l’Italia non avrebbe un motivo sufficiente a sollevarsi, separatamente dagli altri Stati, contro la partecipazione al Congresso di una rappresentanza del Sommo Pontefice. Questa opposizione si è fatta alla vigilia della prima Conferenza dell’Aja, perchè, allora, erano diversi i rapporti fra l’Italia e la Santa Sede, perchè non c’erano allora sufficienti garanzie contro una rievocazione insidiosa, nel corso della Conferenza, della questione romana. Ma. quando queste chiare e pre-
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«PRO» E «CONTRA» LA PARTECIPAZIONE DEL PAPA AL CONGRESSO DELLA PACE 337
cise garanzie, non manchino, anzi, quando queste garanzie sieno così complete, da escludere assolutamente che, anche ad altre rappresentanze diverse da quella particolare del pontefice, il tentativo di una tale insidia, sia esplicitamente impedito, i diritti e gli interessi particolari dell’Italia, sarebbero abbastanza salvaguardati ».
Quindi, prese tutte le necessarie cautele, non dovrebbe esser l’Italia, se il pontefice per un qualsiasi ragione dovesse essere escluso dal Congresso, ad assumersi la iniziativa e la responsabilità di tale esclusione, per considerazioni politiche sia di
ordine interno che nei riguardi internazionali. Se altri vorranno escluderlo, se ne assumano essi tutta la responsabilità. Il nostro Paese — conclude il Valli — «conscio dei suoi diritti e dei suoi interessi, deve cessare anche in ciò, come in ogni altra manifestazione della sua attività, di essere, nella grande politica intemazionale, uno strumento abilmente mosso e diretto da volontà diverse dalla sua e per la tutela di diritti e di interessi di rancori e di passioni, di ripugnanze e di aspirazioni, che non siano esclusivamente italiane».
Ernesto Rutili.
CROCE ROSSA ITALIANA
Chi si associa alla Croce Rossa compie il più dolce atto d’amore : lo stesso atto di colui che rialza il fratello ferito e, con le sue cure sapienti, lo ridona alla vita. Le cinque lire dell’associazione (*) non hanno solo un modesto valore di moneta, ma hanno sopra tutto un grande valore ideale che innalza la mente fino alla vetta della Bontà.
(i) Da versarsi ai proprio Comitato Regionale o da inviarsi -al Comitato'Centrale di Roma, Via Nazionale, 149.
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Cambio colle Riviste
Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausi-liarie. Roma, anno XXIV, fase. 279, 31 marzo 1916-G. Silvestri: « L’evoluzione dell’impero russo » - F. S. Fedele: «La dottrina delle virtù morali e della giustizia da Aristotile a San Tommaso » -R. Vuoli: « L’intervento degli enti pubblici nella delimitazione dei prezzi dei generi di Ì»riina necessità » - Sunto delle riviste - Esame d’opere - Note bibliografiche - Cronaca sociale.
NOTIZIE « •• • ■ VOCI DOCUMENTI
LA DISCESA ALL’INFERNO
Rassegna Nazionale. Firenze. i° marzo 1916. - G. Incontri: « Per la riforma organica delle spese dello Stato in Italia-II Ministero delle Colonie » -Cosimo Faggiano: « Per la Croce Rossa - Sull'origine della Croce Rossa » - Maria Douglas Scotti Brunialti: « Croce Rossa » (versi) - Norman Angeli: « Nazionalità e coopcrazione» - Carla Cadorna: «Il tesoro letterario del popolo serbo » - Un Cattolico italiano: « I cattolici italiani e il Belgio » - Mario Pratesi: « Il mondo di Dolcetta » (conlin.) Romanzo - Pietro Pagnini: c Scienza per tutti - Gli enti geometrici » - X. : • Rassegna Politica » - E. S. Kingswan : « Libri e Riviste Estere » -« Note e Notizie » - « Varia ».
— 16 marzo 1916. Angelo Crespi: « La Grande illusione e le vicende deU’imperialismo moderno » - Vincenzo Cicchiteli!: «Sulle epistole metriche del Petrarca a Benedetto XII e a Clemente VI » - Jolanda De Blasi: « Carmen Sylva » - Alessandro Righi: « Ferdinando di Parma e la sua politica di fronte ad emigrati francesi e S‘a co bini (1789-1796 » - Mario fatesi; « Il mondo di Dolcetta » (coni.) Romanzo - C.: • La Opera Pia Bonomelli nell’anno
Il Rev. John Campbell, già noto ai nostri lettori, ha recentemente datò le sue dimissioni da ministro congregazionalista di «City Tempie» in Londra, di cui aveva fatto da dodici anni il centro della teologia liberale e uno dei focolari più caldi di spiritualità. Motivi di salute ed altri più personali riflettenti la sua esperienza religiosa ed ecclesiastica, lo han fatto decidere ad associare di nuovo la sua attività alla « Chiesa Inglese », nella quale sarà ricevuto dal suo amico personale, il vescovo Gore di Birmingham, di cui diverrà cooperatore. Prima di lasciare la sua congregazione, egli ha parlato delle sue recenti esperienze nella visita al teatro della guerra che ha paragonato ad una « discesa all’inferno ». « Noi non sapremo mai — egli ha detto — che cosa sia pienamente l’amore divino, e che cosa noi stessi siamo, e che cosa sia il Paradiso, fino a che non discendiamo nel fondo dell’inferno: l’inferno intiero non riesce a distruggere l'amore: questa e la grande rivelazione. L’Europa sta facendo l’esperienza dell’inferno. Vi è l’inferno al fronte, dove milioni di uomini sono impegnati nel compito di macellarsi gli uni gli altri e d’infliggersi a vicenda le più atroci sofferenze, fisiche. E d’altra parte, vi è un inferno nelle nostre case, nel vasto cumulo di dolori causato dalla guerra e dalle devastazioni di essa nei cuori e nelle vite umane. Nella mia visita al fronte e ai degenti negli ospedali militari, ho avuto barlumi di visioni d’inferno. L’essere spettatore delle sofferenze di persone che sono state soffocate da gas velenosi, o peggio ancora, bruciate fino alle ossa da un fuoco liquido, lascia nell’animo un tormento indicibile. I nostri eroici soldati, non ostante il maraviglioso loro coraggio, il loro incoercibile buon umore e la loro gaiezza, non potevano a meno di ripetere sovente questa parola: « Inferno! Noi non avremmo mai creduto possibile che un tale inferno esistesse, che uomini possano essere talmente demoni nel trattamento dei loro nemici ». E al solo ricordo di ciò che ho inteso dalla loro bocca, rabbrividisco di
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raccapriccio. Eppure — ed ecco la più strana impressione da me riportata — le persone stesse che mi parlavano delle loro esperienze infernali, mi confessavane che mai per l’innanzi erano stati testimoni di grandezze più eccelse della natura umana. Poveri residui di umanità frantumati, rotti, alcuni di essi morenti, mi narravano col loro ultimo respiro di atti di tenerezza e di abnegazione senza pari nella storia. E quale pazienza, quale eroismo, quale fortezza divina in faccia alla morte ci si sono rivelati appunto in quest'inferno, non sospettati prima. A tutti quelli che sono venuti qui questa sera depressi e dolenti, nelle contorsioni e negli orrori di visioni e dolori infernali, ho una parola da dire. Alcuni di voi non sospettano neppure quanto ora essi siano vicini al Cristo glorioso: o piuttosto quanto egli — disceso in questo inferno — sia vicino a voi, sia nella vostra vita privata che in quella pubblica; tutti yoi forse siete passati attraverso l’esperienza di una vita storpiata, di una carriera spezzata, di risorse disseccate, per qualche responabilita di altri caduta su di voi. E più siete cresciuti in età, più avrete trovato quanto in apparenza le vostre vite erano impedite e inceppate per il fatto della vostra solidarietà con altre persone. Se avete nutrito illusioni di grandezza, vi siete dovuti avvedere che ciò non è possibile, nel senso terreno, perchè le debolezze di altre persone di condotta malvagia v’impediscono di sollevarvi. Ed è cosa strana e impressionante e segno della nostra unità spirituale, che ogni qualvolta voi discendete a fondo nell’intimo dell’anima di qualunque individuo prossimo vostro, voi vi ritrovate l'anima vostra e vi leggete la vostra storia, quella che voi credevate tutta propria di ciascuno di voi. Ora sentite, fratelli e sorelle di Gesù, ciò che in suo nome io posso dirvi. Persuadetevi che la vostra vita non è stata mai cosa vostra e non lo sarà mai: essa appartiene alla vita universale, e ad essa deve essere sacrificata, azione per azione, mettendola al servizio dell’amore. Lungi dall’essere per voi stessi un oggetto di compassione per ciò, * godete e rallegratevi ’ che sia cosi: ogni gradino che voi salite verso l’umanità è un gradino della scala che conduce a Dio. E man mano che la luce aumenterà intorno a voi, voi vedrete che il vostro più vero interesse in tutto il tempo è stato questo appunto. Mai un momento vi è stato, in cui il Cristo eterno non abbia cercato di trovare espressione in voi, ed egli l’ha soltanto trovata quando voi vi siete spontaneamente prodigati al servizio di quello che in apparenza era altro da yoi, ma in realtà era il vostro io più vero, cioè al servizio di qualche anima più bisognosa. Per arduo che ciò vi sembri, verrà tempo in cui saprete che questo servizio del’umanità era il solo mezzo per cui potevate ascendere alla piena consapevolezza della nostra eterna dimora in Dio.... ».
Dalla preghiera in cui il Campbell e tutto il suo immenso uditorio incorporò il meglio dei suoi sentimenti e i suoi slanci « ad lucem per crucem » colgo alcuni accenti: «Padre di luce presso cui nè ombre nè vicissitudini han luogo,... noi ti ringraziamo di quei doni che
1915 » - Lauretta Rensi: « I«a madrina di Guerra » (Discorso pronunciato al Lyceum di Firenze) - X. : « Rassegna Politica». - E. S. Kingswan: « Libri e Riviste Estere » -« Note e Notizie » - « Varia » -« Necrologia ».
Conferenze e prolusioni. Roma, anno IX, n. 5; 1® marzo 1916. - L. Francesconi: « Il contributo dell’Italia al progresso delle scienze sperimentali » - G. Bertacchi: « La parola d’Italia »-Fr. D’Ovidio:«!! patriottismo di Dante » - ecc.
— 16 marzo 1916. - Pio Foà: « Redenzione politica e civile » - G. Tusini: « L’università castrense » - ecc.
Nuovo Convito. Roma-Pescara, anno I. n. 2; febbraio 1916. - M. d. V. C.: « Anima Italiana • - Alessandro Chiappelli: «Critica e azione » - Antonio Bruers: « Le anticipazioni della presente guerra neiropera di G. D’Annunzio » - Paolo Orano: « Avvenire di gioia » - Achille Ricciardi: « La 4 messa in scena ’ tedesca » - Berthe de Prisilly: « Lettera da Parigi » - Giuseppe Ravegnani: « La sonata della morte » - Commenti conviviali.
Illustrazioni di T. Patini -G. Spellani - V. Alicandri -A. Rossetti - R. Galli - V. Bo-nanni.
La nostra Scuola. Milano, anno III, n. 6, 15 marzo 1916. - G. Santini: « La rivolta ideale » - A. Anile: « La nazione e la scuola » - I. Z.: « Scuola nazionale » - G. Marchi: « La scuola e la guerra » - V. Cento: « Alla radice », - ecc.
Eco della Cultura. Napoli, anno III, fase. IV; 15 marzo 1916. - G. Golay: « Un grand écrivain du nord (Knut Hamsun) » - N. Caravaglios: • Un sonetto raro di Angelo di Costanzo » - D. Bosurgi: « Breve studio psicologico della coscienza estetica » - P. E. Pa-
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velini: • Lamenti funebri greci » (traci.) - Recensioni, ecc.
— 31 marzo 1916. - E. Bar-toli: «La leggenda epica di Dharmavyàdha nella novellistica indiana» - D. Bosurgi: « Breve studio psicologico della coscienza estetica » - E. Nobile: « A proposito della cosiddetta educazione del sentimento » - D. Fienga: « Casanova conobbe Cagliostro ? » - ecc.
La Riforma Italiana. Firenze, anno V, n. 3; 15 marzo 1916- - Dopo un anno di guerra - R. Munì: « Religione, Società, Patria » - Un modernista: «Alle origini del dogma trinitario»-}. E. Carpentier: « La religione comparata ed il pensiero moderno » - E. Bou-troux: « La filosofia e la guerra » - ecc.
La Nuova Riforma. Napoli, anno IV, fase. 2; marzo-aprile 1916. - R. Valerio: « Alla ricerca degli ' untori ’ » - G. Avolio: «Per la giusta pace » - G. C. Avolio: « Guerra e sentimento religioso » - M. Cesario: « La filosofìa religiosa di Carlo Renouvier », - ecc.
Coenobium. Lugano, fascicolo 85-86; gennaio-febbraio 1916. - Ed. Platzhoff-Lejeune: « Lettre d’un neutre à deux belligérants » - Oddino Morgan: « Eroismo bellico e eroismo civile» - Marcel Hébert: « En marge du Phédon » -Augusto Calabi: « Parole umane »-A. De Vrangel: «La res-ponsabilité des peuples » -E. Chludzinska-Paolucci: « E. A. Butti » - Roger Bornand: « Les devoirs de la Suisse » -M. De Sanctis: « Propter vi-tam » - Nel vasto mondo: Dr. Scie-Ton-Fa: • La Chine républicaine » - Documenti e ricordi personali: E. Bignami: « Per un ' testamento spirituale ’ »; Lucy Re-Barlett: « Il mio testamento spirituale» -Pagine da meditare - Guerra
non possono subire svalutazione, nè venir meno, dell’amore eterno reso manifesto nella Croce di Cristo Signor Nostro, purità e verità eterna, pace e gioia sempiterna. E ti ringraziamo, anche, perchè questi tesori divini non sono separati nè indipendenti da cose con cui ci troviamo in contatto giorno per giorno ed ora per ora; perchè le cose più umili sono sempre il veicolo delle più alte; perchè ogni vita è spirituale per quelli che hanno occhi per vedere e orecchie per udire prediche nei sani volumi di eloquenza, nel gorgoglio dei ruscelli, e fuoco sacro di Dio in ogni cespuglio. Noi ti ringraziamo sopratutto e ti lodiamo e glorifichiamo per i tesori di bellezza e di santità che ci hai rivelato per mezzo di dolori e afflizioni, sacramenti del tuo amore. Noi ti ringraziamo per il conforto e il senso di comunione con te, per il sostegno e la medicina inviata alle nostre ferite: e ti chiediamo perdono per la nostra colpevole cecità e le petulanti proteste contro la durezza della nostra soite terrena... Ti preghiamo per quei tra i presenti che si sentono stranamente solitari, pure in mezzo a questa moltitudine, accasciati dal dolore e senza alcuno con cui sfogare le loro pene, alcuno che possa comprenderli interamente. Oh quale sollievo sarebbe per essi, se potessero sentire che tu li comprendi perfettamente e vuoi sanare, benedire e santificare i loro cuori e le loro menti ! Noi non possiamo dimenticare, che esseri doloranti come questi si rivolsero un giorno sulle colline e lungo i laghi della Galilea al tuo Cristo, tra noi qui presente tutt’ora, a lui chiedendo il rimedio a tutti i loro mali. La sua tenera voce, che allora risuonò consolatrice, risuoni anche quest’oggi su di essi: * Pace a voi; venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi ed io vi darò ristoro » Per coloro che si trovano in torturante ansietà per la sorte dei loro cari; per coloro che sono ammalati ed afflitti; per coloro su cui è piombata una fosca previsione d’impendenti calamita senza via di scampo; per quelli che partono oggi pel fronte, per quelli che restano nella gelida casa deserta... o Dio, ti chiediamo benedizione, conforto, sostegno... Fa che l’anima dell’Inghilterra si sollevi sui gradini di tanti eroismi, e salga ad altezze non mai toccate. Te lo chièdiamo in nome di Gesù Cristo. Amen ».
SxxW J llustrated Sunday Herald « del 28 novembre, il medesimo rev. Campbell volge « Due parole ai pacifisti ». Dopo avere esposto la posizione dei pacifisti cristiani, cita casi come il seguente: « Un bravo giovane da poco arruolatosi mi disse: ' Io sento di dover fare la mia parte in difesa della mia patria, a fianco dei miei compagni; siamo tutti sorti a tale scopo, ed io non posso rimanermene indietro mentre gli altri vengono uccisi e massacrati per una causa che è non meno mia che loro. Ma nello stesso tempo, io ho piena coscienza che quello che sto facendo non è cristiano, ma è invece tutto l’op-Sosto di quello che Gesù Cristo ci inculcò di fare ’ ». E dottor Salter del Settlement di Bermondsey, uomo la cui abnegazione illimitata nell’opera di elevazione dei più umili impone la generale ammirazione, ha detto in una recente occasione, che gli era impossibile immaginarsi
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Gesù nell'atto di tirare una baionettata nel petto di chiunque, e di squarciare carni ed ossa con degli esplosivi. Questa impossibilità di rappresentarsi un Gesù guerriero è divisa da molti che rievocano i suoi precetti di non resistenza, di offrire l’altra guancia al percus-sore, di opporre dell'amore alle -offese e alle ingiurie. E certo io non mi associerei alla interpretazione che del Cristianesimo ha data ai suoi fedeli, ad es., il Pastore Lòber di Lipsia, che sostiene, l’ammonimento del Nuovo Testamento sulla opposizione del bene al male non doversi applicare nella guerra, in cui al male deve essere contrapposto il male, e, se è possibile, un male anche maggiore: che la guerra è regolata dallo spirito severo dell’Antico Testamento, e non da quello più mite del Nuovo: ed ha parole come queste: « Noi imbandieriamo le nostre case, soniamo giulive le campane ed eleviamo l’inno ' Ora noi tutti ringraziamo il Dio nostro ' perchè moltitudini innumerevoli di Russi incontrarono una terribile morte nelle paludi Masuriane, o perchè due mila marinai sono stati inabissati dai nostri sottomarini: e tali manifestazioni di gratitudine e di gioia sono genuinamente tedesche e genuinamente cristiane». Ma d’altra parte... non solo la Chiesa cristiana ha sempre riconosciuto nello Stato il diritto di far uso della forza, ed anche di privare dell’esistenza, ma.... è chiaro più della luce solare che nell'idea di -Nostro Signore vi era che la forza si dovesse, a lungo andare, usare per opporsi al male. Il suo insegnamento, relativamente ai * nuovissimi ’ non lascia alcun dubbio che egli stesso si attribuiva il diritto di usare la forza contro i malvagi. Sembra che molti si dimentichino di questo quando citano l'esempio di Gesù. Egli predicò, sì, la tolleranza della malizia umana e l’uso della persuasione: prescrisse di fare appello ai migliori aspetti della natura umana, ma solo fino a un certo punto: al di là del quale egli dichiarò che avrebbe ripreso i malvagi con mano potente. Nè importa la minima differenza il fatto che questa repressione egli l'attendeva da legioni celesti, anziché da eserciti terrestri: il principio resta sempre lo stesso, cioè l’uso della forza posta a servizio della causa santa della vittoria sopra le forze del male... L’Apocalisse, con le sue terribili visioni di lotte fra le forze del bene e quelle del male, non è solo una grande allegoria: essa rappresenta un mondo inteso come reale... L’ideale cristiano era certo la pace universale: ma in un mondo cosi poco ideale quale il nostro, lungo la via che mena alla pace vi è di quando in quando da sfoderare la spada. Io però dissento radicalmente dall’idea che nella guerra, come guerra, vi è qualche cosa che essenzialmente sublima gli spiriti: Il Lecky, nella sua Storia della morale europea dice della guerra, che .... forse con la sola eccezione della Chiesa, essa è la sfera di azione in cui i motivi interessati dominano meno, in cui la condotta trascende maggiormente le categorie dcll’obbliga-zione, e in cui l’entusiasmo disinteressato ha margine più vasto. Un campo di battaglia è la scena di atti di abnegazione cosi eroici ed insieme sì drammatici, che, a dispetto di tutti i suoi orrori e delitti, esso suscita
alla guerra - Rassegna bibliografica - Rivista delle riviste -Tribuna del Coenobium - Note a fascio.
Vita e pensiero. Milano, anno II. fase. 4; 20 marzo 1916 - G. Faraoni: « Giovani Kurth » - M. Brusadelli: « Ravenna in uno studio inglese • - A. '¿incroni: a Previsioni di Don Bosco » - F. Meda: « I due De Marchi • - E. Brevetta: « Il siluro » - M. Sturzo: • Le ceneri al campo » - E. Vercesi: « L’Italia c gli Slavi del sud » - A. Gemelli: « La paura della morte nei nostri soldati », - ecc.
Bollettino della Società Teosofica italiana. Genova, anno X fase. II-III; febbraio-marzo 1916. - B. P. Wadia: « Lettere dal Quartier Generale ■ — Due pagine delle Memorie di Garibaldi - W. H. K.: « Il quarantesimo Congresso annuo della Società Teosofica » - G. Mazzini: « Ai membri del Concilio », - ecc.
Luce e Ombra. Roma, anno XVI, fase. 3; 31 marzo 1916. - C. Lucco: « Su alcune opinioni filosofico-religiose di Sir Oliver Lodge » - N. Licò: « Ottimismo e spiritualismo • - F. Zingaropoli: •« Disintegrazione della Personalità » - L. Granone: « Spiritismo e spiritualismo », - ecc.
Foi et Vie. Paris. Anno 19®, n. 4: i° marzo 1916. - Cahier A.: Paul Doumergue: «Velleità ou Volontà » - H. Gagneloin: • Un motet qui vient des tranchées: ’ Rejouissons-nous au Seigneur ’ » - H. Bois: « L’o-pinion étrangère. Au Japon » - ecc.
- Cahier B.: André Michel, Conservateur du Musée du Louvre: « Les droits de l’art et l’Allemagne ».
— 16 marzo 1916. Cahier A.: P. Doumergue: « Vague de chair » - R. Burnand: « A.
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Loysin. Les prisonniers français malades • - H. Bois: • L’opinion étrangère. Neutralité morale des chrétiens d’Amérique», - ecc.
— Cahier B.: E. Boutroux: « L’idée de liberté en France et en Allemagne ».
Record of Christian work. East Northfield. Vol. XXXV, n. 3; marzo 1916. - A german illustrated Testament - J. R. Davies: " The message of Matthew’s Gospel » - T. R. O’ Meara: • The life worth living », - ecc.
The modern Churchman. Lon-dra. Vol. V, n. 12; marzo 1916. - «The vital need» - A. J. Humphreys: ■ A national Mission » - Canon Mitchell: « Are our divisions essential? » -Felix Asher: « Robertson of Brighton • - B. H. Streeter: ■ Oxford theology ■ - W. A. Cunningham Craig: « The outfit of a modern churchman » - Canon Danks: « A spiritual conflict », - ecc.
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l'entusiasmo morale più appassionato ’ Ma, domando io, non vi è proprio altra via per suscitare l’entusiasmo morale, non vi è altra via per evocare lo spirito di abnegazione con eguale intensità? SI certo, se la civiltà potesse, elevarsi tutta quanta al livello morale necessario. Il defunto prof. William James dell’università di Harvard era solito dire, che una grande cosa che la civiltà moderna doveva ancora compiere era di trovare un sostituto morale della guerra, un incentivo all’azione, tale da far sprigionare le qualità più grandiose della natura umana, senza l’accompagnamento di stragi e di sofferenze e di angoscio che vi è unito. Oh se tutti avessimo un’anima sì grande da trovare questo sostituto morale .! ».
UN COMANDO
Sulla medesima rivista in un numero di decembre, il Campbell narra il seguente episodio testimoniato da uno dei valorosi australiani feriti ai Dardanelli. Un cappellano militare Wesleiano si trovava su uno dei barconi, da cui le truppe australiane fecero il famoso sbarco nella penisola di Gallipoli. Al vedere uno dei soldati ferito e pericolante, egli si slanciò per soccorrerlo e portarlo in salvo; ma un sacerdote cattolico che si trovava presso a lui lo trattenne dicendo: ' Ma non vi pensate: è una follia. Voi andate incontro a morte certa . Ma il cappellano Wesleiano, liberandosi dall’amichevole stretta, rispose: ' Io so qual’è il mio dovere: esso mi è imposto da un comando più alto che il vostro: e io vado ’ Egli andò ma fu colpito da una palla nell’atto di cominciare la sua opera pietosa. Il sacerdote cattolico si lanciò allora immediatamente al suo soccorso, ma l’ufficiale che comandava lo sbarco gl’intimò: ' Restate dove vi trovate: non posso permettervi di esporvi così: stiamo perdendo troppi uomini ’ Ma il sacerdote con calma proseguì il suo cammino contentandosi di rispondere: ■ Non avete inteso ciò che ha detto il mio collega Wesleiano? Anch’io ho ricevuto i miei ordini, impostimi da un comando più alto ' Entro pochi minuti egli giaceva morto a fianco del suo confratello e conservo del comune comandante più alto ».
Il Campbell commenta: « E questo è solo uno fra tanti simili episodi che si sentono narrare ogni giorno. È meraviglioso il vedere a quali altezze sanno sollevarsi uomini e donne all’appello solenne del grande momento. Il primo Ministro ha detto recentemente che prima della guerra noi ignoravamo di possedere una tal dose di valori morali nella nostra nazione e nel nostro impero. E infatti, tanti, fra cui anch’io, lo ignoravamo: tutti noi ci domandavamo, se i Brettoni di oggidì in Inghilterra o nelle colonie inglesi possedessero ancora le doti di fortezza e risolutezza dei nostri antenati. La grande crisi è venuta, ed ora sappiamo che la razza non è mutata.
Ma ciò che più mi occupa la mente è quello strano potere impellente posseduto dall’imperativo interno, del « comando più alto » che rende persone ordinarie capaci
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di imprese si alte. Donde viene esso e che cosa 4 in realtà? Esso prende le forme più strane. Un ordinario, comunissimo marinaio è fatto prigioniero dai dervisci, i quali gl’intimano di rinnegare il Cristianesimo e abbracciare la dottrina di Maometto se vuol salvare la propria vita. Egli risponde con disdegno alle loro intimazioni, e muore martire di una fede alla quale durante la sua vita aveva reso assai poco onore. Ora, perchè mai un individuo umano dovrebbe far questo? Non avrebbe egli potuto rifugiarsi sotto la scusa della necessità e salvare la sua vita? No: qualcosa dentro di lui non glie lo permette; qual cosa del cui biasimo egli ha più terrore che della morte stessa.
Un altro caso: ho testé parlato con un soldato degente all’ospedale, la cui delicata costituzione è stata rovinata per sempre, e forse senza possibilità di guarigione, da sette mesi si trincee... La sua vita è stata una successione di dolori, di privazioni, di orribili miserie. Egli ama unicamente sua madre, che ha già perso un altro figlio nel Belgio ed è rimasta soltanto con delle figlie — di cui una malata incurabile — a piangere e a combattere: e, d’altra parte, egli è compreso* e paria con grande amarezza, della dura sorte degli umili lavoratori in Inghilterra « nell’Inghilterra lussuriosa e stolta, avida di piaceri, traviata e zoppicante ». E pure, è proprio per questa Inghilterra che egli ha lasciato sua madre a soffrire ed a piangere, e volontariamente ha dato la suà vita. O piuttosto non si tratta di un altro ideale, di cui la patria è soltanto il simbolo? Io gli ho posta la questione ed egli non ha saputo rispondere se non: «Capirete, un uomo non può svignarsela e nascondersi quando si tratta di un affare come questo... ». Ma forse v’era in lui, benché appresa solo in maniera confusa, la visione di una causa più grande che quella dell’Inghilterra, la visione di tutto ciò che vi è di più dolce e caro e sano nella razza umana, di beni maggiori e più degni che i buoni salari e i lunghi riposi e la stessa raffinatezza della vita che essi possono procurare; la visione della causa della libertà e degli ideali democratici minacciati dal Prussianismo. Che vi fosse, o no, questo nel fondo del suo spirito, certo è che dietro a tutte le forme di sacrifizio e di eroismo vi è un motivo, un incentivo che non può mai essere completamente razionalizzato, una sacra fatalità che ha più del celeste che del terrestre. Può essere che noi siamo disposti a morire oggi per un ideale e domani per un altro, ma in fondo si tratta sempre della stessa cosa: la Giustizia Eterna. Noi non sappiamo mai che cosa essa sia, ma certo è che essa fa risuonare sempre il suo appello, alto, sempre, e quando esso giunge al nostro orecchio, i tesori più cari cadono dalle nostre mani senza che ce ne diamo pensiero e noi torciamo i nostri sguardi dalla contemplazione dei desideri del nostro cuore e li spingiamo su alle altezze luminose donde ci fa cenno un ideale di gloria che non è terreno... In tutti noi vi è questa strana, mistica suscettibiltà, quest'invito a de-forre tutto quanto abbiamo e siamo sull’altare dei-ideale ineffabile, che, lo sentiamo ha il diritto di doman(Novità] Jean Lafon: Evangile et Patrie. Discours religieux. Ili serie. Voi. di pag. 230. L. 3.75Sommario: Un capitaine (Luc. VII, 1-10) - Où est ton Dieu? -Guérison - Notre vie - Pour notre bien - La fuite en hiver -Les cheveux de notre tête -A quoi bon cette perte ? -Lamina Sabachthani ? - l.es forces invisibles -La prière discrète - Humilité - Regarder en avant.
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[Novità] Mario Rossi: Giovanni H use, l’eroe della nazione boema nel secolo xv (Conferenza) L. 0,40.
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(Novità] Alfred Loisy: Guerre et religion. Voi. di pag. 200. L. 3.
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[Novità] L. Salvatorelli e E. Huhn: La Bibbia. Introduzione all’Antico e al Nuovo Testamento. Voi. di pag. 542. L. ro.
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(Novità] Michelangelo Billia: Le ceneri di Lovanio e la-filosofia di Tamerlano. Pag.
Sommario: Perchè - Dopo settantanni - A Rodolph Euken (4 agosto) - Dedica - Le ceneri di Lovanio c la filosofia di Tamerlano (6 novembre 1914) -Dovere, io, coscienza - La guerra all’Austria non è inevitabile (1 marzo 1915) - Noi facciamo la guerra alla Germania (giugno 1915) - Austria troppo vi) nemico (1 luglio 1915b
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[Nuova edizione] Charles Wagner: Jeunesse (Ouvrage couronné par 1‘Académie française). 32^mc éd. revue et augmentée d’une Préface. Vol. di pagine xxxv-391. L. 4,20.
Dedicalo : • A ceux qui ont
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donné leur vie pour la patrie et pour un meilleur avenir! A nos jeunes héros, notre gloire pure et douloureuse dans le pieux souvenir, dans l’invincible espérance! ».
Sommario: Livre I. L'héritage. - i. Les conquêtes du siècle - 2. Les pertes du siècle -3. Les contradictions du siècle.
Livre IL Les héritiers. - 1. Le monde de la jeunesse - 2. Orientation intellectuelle - 3. Orientation morale-4. L’école de la vie - 5. Les moutons de Panurge - 6. Quelques mots sur l’esprit de parti - 7. Comment on se porte et comment on s’amuse - 8. La jeunesse populaire - 9. La jeunesse réactionnaire - 10. Sentiers de demain.
Livre III. Vers les sources et les sommets. - 1. I.e monde est-il vieux? - 2. La vie. Comment il faut la prendre - 3. L’Idéal - 4. L’Action: Discipline - Travail - Peine - Recueillement et repos - 5. Joie: Plaisirs et distractions. La Joie - 6. La solidarité. La Famille. L’amitié. L’amour. Patrie et rôle social de la Jeunesse -7. La Foi. - Conclusion.
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[Occasion e] Del prof. Erne-sto Buonaiuti: Saggi ai Filologia e Storia del Nuovo Testamento. L. 2,50 per L. 1,80.
dare ciò che di più grande vi è in noi. Io non conosco altra prova più convincente e piena della natura spirituale dell’uomo, altra più evidente differenziazione fra l'uomo e il bruto. Da una parte, voi avete l’uomo egoista, avido, terreno, falso, sordido....; dall’altra, a ripetuti intervalli nelle ore grandiose e solenni, viene questo appello austero a dare tutto quello che abbiamo: e noi lo diamo prontamente, con gioia, senza pensiero di compenso, e ricaviamo più soddisfazione da questa volontaria immolazione che da tutti gli altri guadagni messi insieme. È profondo, misterioso, inafferrabile questo appello potente dello spirito; ma tutte le generazioni lo hanno conosciuto prima di noi, e noi lo sentiamo senza tema d’inganno.
Leonida ed i suoi Spartani perirono tutti fino all'ultimo alle Termopili; per chi? Forse per la Grecia di cui è re Costantino? Nò. Se essi non fossero morti per qualche cosa più grande di ciò che la Grecia è, la loro morte sarebbe stata una tragedia senza alleviamento di sorta. Ma essi morirono per salvare l’anima dell’uomo, ed essi ne debbono avere avuta una qualche coscienza, sollevandosi sul loro trionfo dello spirito fino alle soglie di quello che di tanto supera l'uomo quanto l’uomo supera la bestia e la zolla. Essi raggiunsero più di quello che essi comprendessero o ricercassero.
La gente muore per cause che, alla nostra vista, non sembrano valere un momento di disagio; ma siamo noi che abbiamo torto e son essi che hanno ragione... La vergine figlia del re di una città assediata viene offerta in olocausto, per ordine dell’oracolo, per riconciliare gli Dei. Quali Dei? Nessuno ve n’era sì assetato di san-Sue, e nessuno ne restò placato. Sacrifizio vano, dunque?
o: l’elevazione di un’anima che sagrifìca volontariamente la vita per il suo popolo, si dovè comunicare, più o meno direttamente, a tutti i suoi concittadini. Chi si cura ora di sapere se la città cadde o no? Ed Edmondo Campion, martire dei Puritani inglesi, morì per costruire una nuova Inghilterra, non meno efficacemente che le vittime dell’inquisizione e del Papismo: per quella Inghilterra spirituale che è stata lentamente edificata lungo i secoli dalle vittime dell’una e dell’altra parte, e sempre con la devozione dei suoi figli.... ».
Giovanni Pioli.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell’Unione Editrice, via Federico Cesi, 45
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