1
BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE
ILLVSTRATA DI
~ STVDI RELIGIOSI
Anno VII :: Fasc. II.
FEBBRAIO 1918
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 28 FEBBRAIO 1918
DAL SOMMARIO : Luisa Giulio Benso : Lamennais e Mazzini. I due profeti - LIVIO TaNFANI: Il fine dell'educazione nella scuola dei Gesuiti - M. A. GaBELLINI: Morale e religione nella vita e nell'arte di Olindo Guerrini (II) - CARLO WAGNER: « L’anima mia ha sete di Dio* - Qui quondam: Roberto Ardigò - Dante LaTTES: Note di vita e di pensiero ebraico (II) - TRA LIBRI E RIVISTE: Nel IV centenario della nascita della Riforma (G. Pioli) - Rassegna di filosofia religiosa (m.).
2
RII YCHNIS rivista mensile di studi religiosi
U1U ** __ « « « « FONDATA NEL 1912 > » > >
CRITICA BIBLICA STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI - PSICOLOGIA «• PEDAGOGIA -FILOSOFÌA RELIGIOSA MORALE -> QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELL Gl OSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA SI PUBBLICA LA FINE DI OGNI MESE.
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PASCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l’Italia, L. 7; Per l’Estero, L. 10; Un fascicolo, L. 1. (Per gli Siali Uniti c per il Canadà è autorizzalo ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica, B. D. Paator, 1414 Caslle Ave, Philadclphia, Pa. (U. S. A.)].
BBBBBBBBBBB0B000B0BBBB00BBBB0B0000000B000BB0BB
IMMINENTE PUBBLICAZIONE
È molto avanzata la stampa del 9° volume della Biblioteca di Studi Religiosi edita dal Dr. D. G. WHITTINGHILL
GESÙ DI NAZARETH
STUDIO STORICO CRITICO di PIETRO CH1M1NELLI autore del voi. Il 11 Padrenostro 11 e il mondo moderno.
Il nuovo volume che sarà messo in vendita per Pasqua comprende i seguenti capitoli:
1 . Il mondo al tempo della nascita di Gesù.
IL II paese di Gesù.
MI. La Madre di Gesù.
IV. Gli anni silenziosi di Gesù.
V. La predicazione di Gesù.
VI. Le Parabole di Gesù.
VII. I principali insegnamenti di Gesù.
Vili. Gli “ agrapha 99 o le parole di Gesù non registrate.
IX. I miracoli di Gesù.
X. Le riforme operate da Gesù.
XI. L’ultima settimana della vita di Gesù.
XII. Oltre la tomba.
Il voi. di 500 pagine sarà venduto al prezzo,di L. 4.
Rivolgersi alla Libreria Ed. Bilychnis, Via Crescenzio, 2 - ROMA.
3
®l
□DO1N5
RJVI51À DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCUOLA TEOLOGICA BATTISTA • Di ROMAi
Anno settimo - Fascio. Il
Febbraio 1918 (Vol. XI. 2)
SOMMARIO:
LUISA Giulio Benso: Lamennais e Mazzini (V). I due profeti . . Pag. 66
Livio Taneani: Il fine dell’educazione nella scuola dei Gesuiti . . > 71
M. A. GaBELLINI : Morale e religione nella vita e nell’arte di Olindo
Guerrini (IIj:S •-.. . . . . . . . . . . .- . . . . . . » 83
PER LA CULTURA DELL'ANIMA:
Carlo Wagner: L’anima mia ha sete di Dio ........ > 89
NOTE E COMMENTI:
Qui quondam : Roberto Ardigò ........ ...... > 94
CRONACHE:
Dante LatteS: Note di vita e di pensiero ebraico (II): 4. Il significato ideale del promesso risorgimento ebraico - 5. Una strana teoria sulla filosofia della letteratura ebraica - 6. Z. Schneiur, un ribelle poeta ebreo - 7. I morti ebrei nelle lettere e nella scienza ebraica dei due ultimi anni ............. > 97
TRA LIBRI E RIVISTE :
Giovanni Pioli: Perii IV Centenario delta nascita della Riforma (1): Origine e vicende storiche della Rifórma ................... > 102
m. : Rassegna di filosofia religiosa (XXI) : Guerra e filosofia - La guerra come catarsi spirituale - L'etica nella preparazione dei maestri - Pedagogia e filosofia - L’inversione dell’idealismo tedésco - Dall’idealismo al realismo.................................... » m
Varia: E. Babelon, La grande question d’occident: le Rhin dans l'hisloire (Giov. Cista) - V. Morelli, La Corte di Francia eia * malizia di Roma » * r 18
Si distacchino dal presente fascicolo il frontespizio e gl’ Indici del voi. X della Rivista (2° semestre 1917).
4
LAMENNAIS E MAZZINI
(Continuazione e fine. Vedi BilycJinis dì gennaio 1918, p. 28)
I DUE PROFETI
Dio ultima speranza di Lamennais - U A venir modello dei giornali cattòlici - Giudizi di Renan - Lamennais fu un socialista cristiano - Suoi consigli sull'educazione femminile - « Riflessioni svilì'Imitazione di Cristo » - Lacune nella cultura del filosofo francese - Lotta contro l'infiltrazione 'materialista fra il popolo - La religione sostanza d’ogni idea e d’ogni azione di Lamennais.
Rinascenza delle concezioni mazziniane - Sua irradiazione benefica - Attrazione sulle anime - Mazzini fu un educatore - La fede sua luce e sua forza - Armonia della sua vita - Teoria della trasmigrazione delle anime - I Doveri sono una profezia ed una scuola - Definizioni sociali che precorsero i tempi - Idealismo e non materialismo -• Rinnovamento morale prima che materiale - Vita d’apostolo - Sacrificio senza tregua all’ideale.
1. // riformatore francese
uando Lamennais moriva a Parigi il 27 febbraio del 1854, àncora perseguitato dai suoi nemici, esortato con insistenza dai parenti, perchè si riconciliasse con la Chiesa, da cui s'era pei sempre distaccato, con pochissimi amici dattorno, cercando Dio come la luce suprema della vita umana, non credeva che dopo brevi anni molte delle sue dottrine, nei vari campi in cui furono seminate, avrebbero dato tanti frutti.
V Avenir fu il modello dei nostri giornali cattolici, e se
purtroppo non si troveranno più così facilmente dei collaboratori, come quelli che aiutarono l'abate francese nella compilazione del foglietto battagliero, vi sono però dei loro seguaci, che smorzando gli antichi ardori, cercano di far trionfare il motto: Dio e la. libertà, anche fra gl’intransigenti.
Lamennais, è vero, ha esagerato nei suoi giudizi. Renan scrisse che il genere parabolico adottato da lui, e quel dividere la società con un taglio netto, ponendo i buoni da una parte, dall’altra i pessimi, di qui le vittime, di là i carnefici, senza gradazioni, senza scusanti ha finito per creare dei tipi assoluti, che invano si potrebbero trovare fra gli uomini. Ma quei suoi terribili giudizi, fugando il vizio ed elevando la virtù, furono come un fermento benefico in un liquore che stia per guastarsi. Egli tra convinto che « una rivoluzione non è un colpo di mano, e che per realizzarsi nelle cose, è necessario che prima sia fatta negli spiriti », ed adattò la sua azione a questo principio.
5
LAMENNAIS E MAZZINI 67
In tutti i sudi libri egli tentò di migliorare il popolo e per il modo di concepire i più vasti problemi sociali, si può affermare che ha grandemente contribuito a spiritualizzare la politica della democrazia. Egli fu l’antesignano del socialismo cristiano, ed uno dei primi che profetizzò l’avvento del suffragio universale. Fra tutte le lodi date dai romantici, in quei tempi, alle donne, e tra le vane utopie che si avanzavano e si sfasciavano al contattò della realtà per elevarle spiritual-mente, Lamennais con poche,, eloquenti pagine, nel Livre du peuple e in Amscafpands et Darvands (i), delinea una nuova educazione femminile, ed un avveniie per cui, dall’adempimento di più importanti doveri, la donna avrà i mezzi e la spinta per formare una migliore umanità. La sua filosofia, i valori della coscienza ch'egli ha approfonditi, le speculazioni dello spirito, a cui diede tanta parte del suo tempo, le sue concezioni della libertà e della religione, della fede, si trovano in embrionè nei lavori di Loisy, Marcel Hebert, Houtin, Loyson, Murri ed anche in Tyrrell. Da quella sua lotta titanica còlla Santa Sede ne'sono uscite nuove forme di vita per la Chiesa militante, e nessuno può obliare che le Riflessioni sull’imitazione di Cristo fatte da lui nei primi anni del suo apostolato cattolico, e sempre stimate un libro scaturito dal cuore, infiammato di fede, sono le migliori pagine di meditazione religiosa, scritte da molto tempo a questa parte.
Si dice che Lamennais non conosceva, o parve non conoscesse, i libri di critica che cominciavano a stamparsi allora, e la nuova via per cui s’incamminava lo studio della storia. Ma sappiamo che il mondo, sotto qualsiasi manifestazione lo stancava, e gli era difficile togliersi dal silenzio della sua povera abitazione, dove dimenticava le lotte e i disinganni, perseguendo i sogni che gli sorridevano e lo incitavano a lavorare. Nè mai volle essere chiamato socialista, protestando continuamente contro questa qualificazione, benché se la meritasse, meglio e più di qualsiasi altro. Il materialismo, di cui già allora sembravano rivestirsi i principi di rivendicazione del proletariato lo irritava, nè poteva soffrire le adulazioni che dei cupidi ed ambiziosi demagoghi usavano col popolo, onde condurlo alla meta che si prefiggevano. Egli fu. sempre, in tutti i campi, sacerdote e, secondo quanto scrive lo Spuller: « Il n’a jamais considéré la religion que comme le fondement même des sociétés; et de toutes ses idées c’est la seule permanente et indéfectible, c’est en quelche sorte la substance même de son esprit » (2).
2. L’esule Italiano
Esule antico, al ciel mite e severo Leva ora il volto che giammai non rise — Tu sol — pensando — o ideal sei vero.
POetie di Giosuè Carducci: Giurefi/e Mazzini.
Quanto è vivo e quel che è morto di colui che « de’ romani ebbe la forza », fra la nostra generazione? In questi ultimi anni la sua parola è ripetuta con insistenza dai diversi partiti politici d’Italia. Nazionalisti, imperialisti, socialisti e perii} Lamennais, Oeuvres complètes.
(2) Spuller, Lamennais, opera citata.
6
68
BILYCHNIS
fino demo-cristiaiii ricordano le sue dottrine; ed il suo sogno di riconquistare Trento e d’aver libere le coste; la sua politica economica; il suo desiderio di formare una scuola veramente nostra, senza ingerenze o correnti di pensiero teutonico sono discussi ad oltranza.
Ma quelle sue frasi tanto citate e così piene d’amore, non sono tutto il suo ideale. Bisogna leggere i suoi libri, cominciando dalle' lettere a Carlo Alberto, a Pio IX; scorrere le pagine dell’opuscolo Fede e Avvenire, studiare i suoi concetti politici; vedere la sua interpretazione del nazionalismo; pensare alle verità religiose enunciate nello scritto rivolto ai membri del Concilio residenti in Roma e meditare sui suoi Doveri, per capire la sua mente e rivivere le sue speranze.
Assertore di unità italiana, ebbe virtù d’infondere nei suoi compatrioti una vita nuova, di trarli dietro a sè negli osigli e di sospingerli nelle battaglie. Quel suo ardore era comunicativo, e donne straniere ed italiane si dedicarono appassionatamente all’opera di unità patriottica e morale dà lui intrapresa. I Bandiera prima di morire benedicono a Mazzini; Mameli gli spira al fianco «per illuminare (l’un ultimo raggio la caduta di Roma repubblicana >'•; Gabriele Camozzi lotta strenuamente in suo nome: Saffi, Campanella e poi Bovio si formano alla sua scuola, Garibaldi gli fu amico, i Cairoli e la loro madre lo amarono assai (i). Perchè egli era essenzialmente un apostolo, ed in quel continuo trapasso dal pensiero all’azione, dal rumore della lotta al silenzio dell’esilio, s’affermava senza tregua, si dilucidava, s’ingrandiva il suo credo religioso. Repubblica, politica, rinnovamento di popolo tutto è permeato di fede. Questa sua forza spirituale, che obliarono per anni ed anni i suoi seguaci, in gran parte materialisti, abusando del suo pensiero, rinnegando in silenzio le sue più pure aspirazioni, si ripresenta a noi come la base del rinnovamento a venire.
Egli era troppo alto e puro spirito italico per ritenere che un ritorno della nostra gente fra le genti si compiesse senza che tutto il nostro mondo ideale si rinnovasse, e questo mondo, nella sua essenza è religione, nella sua forma è arte. E arte è azione, è dramma; tanto nella realtà, quanto nel sogno.
Mazzini apparteneva a quella ardente generosa famiglia, non di pensatori, ma di predicatori e di rinnovatori, nell’evangelico senso della parola, tra i quali lungo i secoli si possono annoverare l'abate Gioachino, il Savonarola, ed altri; egli, come il Carlyle e il Lamennais, fu mente organica, e più che scrutare e penetrare, intuì
,(i) Moscheles, l’apostolo della pace fu uno degli amici di Mazzini. Giovanni Pioli, che fu a visitarlo a Londra, riferì un’intervista avuta con lui sulla Rassegna Nazionale del 16 maggio 1914 (Istituzioni e amici superstiti di Giuseppe Mazzini a Londra). « Aver conosciuto Mazzini — disse il Moscheles al Pioli — significa non dimenticarlo più, udir sempre la sua voce, subire la sua influenza, vedere le sue forme... I suoi occhi sfavillavano mentre parlava e riflettevano la fiamma interna sempre avvampante; esso esercitava un fascino magnetico, penetrava nei più intimi recessi della coscienza e là dove non era che tenebre accendeva una scintilla. Sotto l’influenza di quell’occhio e di quella voce yno si sentiva la forza di « abbandonare padre e madre e di seguir lui », eletto dalla Provvidenza a rovesciare l’edificio dell’errore, che mantiene in servaggio l’umanità, a propagare il Vangelo dei Doveri dell'uomo* (pag. 195).
7
LAMENNAIS E MAZZINI
69
l'intero poliedro della vita e delle cose create, ma la sua forza maggiore risiede ancora nel cuore, nell’umanissimo suo cuore, anzi che nella ragione.
Egli fu un.grande poeta che visse (e non scrisse) il suo poema; fu ung rande politico che sognò (e non seppe compiere) il suo programma storico; fu un grande sacerdote che adorò (e non disse) la divina orazione che doveva dar pace ai convenuti intorno a lui. In lui, è vero, vi fu qualche cosa di vago, di superficiale, di riflesso, di fiamma più che di rogo biuciante; il segreto fascino era nella sua persona; la sua forza era nella preoccupazione dell’avvenire, dentro cui osava arditamente affissarsi e guardare; la sua gloria fu quella degli annunciatori. Con lui è apparsa la nebulosa dell’astro che un giorno sfavillerà, e sarà nostro.
« « «
Il Bolton King ed altri biografi di Mazzini riconoscono che poche vite, al pari della sua, danno un esempio così vivo di coerenza e di continuità: nessuna conversione, nessuna ritrattazione, eccetto che in qualche particolàre politico di secondaria importanza. Il segreto di quest’armonica esistenza va cercato come accennai, nella fede che era centro di tutto: guida, luce e forza « eterno .essenziale, imminente elemento della vita ». Entrato in una società esoterica, ne assimilò varie credenze, ed ammise la trasmigrazione delle anime, come fondamento di giustizia universale. Questa sua certezza nel continuo evolversi dell’umanità attraverso gli spazi, forma la base di varie associazioni spirituali presenti, ed il nostro Fogazzaro la sfiorò nei suoi romanzi, specialmente in Malombra.
I suoi Doveri sono una profezia continua, e se si realizzasse l’ideale in essi contenuto, certamente il popolo « affratellato in una sola fede, in una sola tradizione, in un solo pensiero d’amore » (1), s'avvierebbe verso più alti destini.
Prima che Carlo Marx licenziasse il suo libro sul « Capitale » egli esponeva una dottrina che, a sua stessa insaputa, tendeva alla comunità socialista. Le sue aspirazioni, altrettanto ardenti di quelle dei socialisti; volevano una trasformazione del capitalismo; egli fondava le sue speranze sullo svolgersi dell’associazione; riconosceva la inevitabile rivoluzione storica dei lavoratori, convinto che non l’eroe, ma la marcia dell’umile moltitudine ignota determina il progresso de) mondo. Come Lamennais, non volle essere definito un ■ socialista. Troppo differiva la sua scuola dà quella degli uomini che fondavano i loro sistemi sui fenomeni materiali; per lui l’ordinamento sociale del mondo esterno non è se non manifestazione dell'uomo interno, della condizione morale e intellettuale dell’umanità in un dato periodo, e segnatamente della sua fede (2).
Una lettera del Mazzini, inviata probabilmente a Tommaso Villa, agli ultimi di dicèmbre del 1854 o ai primi di gennaio del 1855, uscì sul Fanfulla della Domenica 1’8 ottobre 1916, preceduta ed illustrata da un buon articolo storico dal titolo « Il torinese Goffredo Mameli e una lettera di Giuseppe Mazzini sul socialismo », del prof. Luigi Piccioni. « Intendetemi bene — esorta il grande esule. —
(1) Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inedili, voi. V - « Fede e Avvenire » (1848).
(2) Mazzini. Scritti editi ed ined.» voi. VII, pag. 336 - « I sistemi e la democrazia».
8
BILYCHNIS
Voi dovete trattar la causa del popolo, e delle classi operose; dovete sancire a ogni momento che la rivoluzione deve farsi, se non vuol essere una ironia, a vantaggio । sopratutto di chi ha più bisogno; dovete far la critica delle rivoluzioni passate;
dichiarare assurda e immorale la pretesa di confinar le rivoluzioni nella Sfera politica. Ma secondo me, dovreste evitare il nome: (socialismo^, il nome, francese, suona funesto, per le sette che si sono innestate in Francia sull’albero del pensiero sociale europeo; per la tristissima condotta dei subalterni del socialismo; per la meschinità colla quale è diventato sinonimo d'una questione unicamente d’interesse, creando egoisti, pur sempre dannosi, sia che abbiano abito o biouse; per la rovina che innegabilmente ha meritato, coll’odio della piccola borghesia e coll’indifferenza alla questione d’onore e d’educazione morale. Abbiamo precedenti nazionali da studiare: i Ciompi non si chiamavano socialisti e avevano idee di riforma d’imposte ed altre innoltrate quanto quelle d’oggi ».
* ♦ |
Dopo aver tanto combattuto per la conquista materiale d’un benessere da lungo agognato, il popolo, avanzando nella sua via, s’accorge che gli manca un bene supremo: l’ideale, che può diventar fede, luce, speranza, realtà della vita. Mazzini ritorna dunque col suo verbo ad imporsi ai lavoratori; ritorna a mostrare quanta fede fosse nei nostri geni, in Dante specialmente, le cui dottrine si trovano in germe negli scritti del grande genovese; lipete il binomio: Dio e popolo', e quanto di vago, d’indeciso, d’utopistico v’era nei suoi disegni economici, quanto d’astratto si osservò nella sua religione, scompare in quel grande insegnamento che scaturisce da tutta la suà vita d’apostolo, la quale fu un travaglio continuo, un gigantesco, straordinario sacrificio all'ideale (i).
Ibsen, in un suo discorso a Stoccolma, del 13 aprile 1898, disse: « La mia vita è stata come una lunga, lunga settimana di passione » ed è dal dolore, e per il dolore' dei nostri geni, che l’umanità impara ad ascendere nel suo faticoso cammino.
Torino. - t Luisa Giulio Benso.
(1) Giovanni Faldella, il sen. Faldella in un tempo in cui s’esaltava essenzialmente la politica mazziniana e si cercava d’adattare il pensiero dell’esule genovese che conteneva un mondo, alle meschinità d'una vita senza slanci, sènza fecondi entusiasmi, senza profonde fedi, tutto sminuzzando, tutto immiserendo, in una conferenza fece risaltare il vero insegnaménto di Mazzini» essenzialmente spirituale, rinnovatore, nemico d’ogni sopruso e d’ogni macchiavellismo da strapazzo. La conferenza è stampata nel volume terzo della Rapsodia di storia patriottica c Profeti Massimi ». Piemonte ed Italia -Torino, edit. Lattes, 1910.
Paolo Orano, La rinascita dell'anima (Repubblica e Religione). « I.eggete il Mazzini di Giovanni Bovio — scrive l’Orano — qui Die è superato e di Mazzini non resta che il programma civile. Bovio, in quel suo Mazzini pubblicato postumo e certo assai notevole, ci lasciava, come sempre, pensieri e immagini solenni; ma non ragionava a puntino per quanto si riferisce a Mazzini...
« Mazzini si sentiva sopra ad ogni cosa un riformatore religioso, come non può non sentirsi chiunque viva l’infinita poesia dell’amore per gli esseri umani, ed egli poneva come sine qua non d’ogni rinnovamento ed incremento la fede, senza dubbi nell’esistenza precisa e consapevole e agente e onnipossente di Dio ».
9
IL FINE DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI
(Continuazione. Vedi BUythuit dì N’ov.-Dic, 19x7, p. x6j).
r6. Tutto lo spirito, pertanto, a cui sono informate le dotti ine che s’insegnano nelle scuole è in antitesi con la Riforma. Infatti l’Ordinc, malgrado tenesse in altissimo concetto S. Tommaso, ne diverge, quanto alla dottrina del rapporto fra la Srazia ed il libero arbitrio, nella quale il losofo del Cristianesimo si avvicina d’assai alla tesi evangelica. Agostino aveva insegnato che» in seguito al peccato originale, la razza umana tutt’intcra era caduta sotto il colpo della eterna dannazione. Dio, nella sua misericordia, salva taluno di questi reprobi comunicandogli la sua grazia: gli altri, invece, abbandona alla loro sorte, seguendo i suoi disegni nascosti, ma giusti, di cui egli solo ha il segreto. Il motivo dell'elezione divina o della riprovazione deve essere cercato, non nel libero arbitrio dell’uomo, ma nel beneplacito del sovrano padrone dell’universo. È la grazia divina che produce la volontà irresistibile e la forza di compire il bene. Però, secondo Tommaso, la grazia influisce sulla volontà in modo che questa la segua liberamente, quantunque la volontà stessa abbia anche il potere di determinarsi in senso contrario. Insomma, la grazia spinge infallibilmente la volontà all’effetto ch’essa deve produrre: ecco perchè la grazia è efficace di per se stessa. In ciò consiste la teoria della predestinazione come viene definita dai Tomisti, la quale fu da Tommaso portata alle ultime sue conseguenze, sino al punto cioè da affermare l’esistenza di un ordine morale, irrefragabile, del mondo, in conformità dei decreti divini, il quale Ordine vuole che soltanto un piccolo numero di eletti sia destinato alla felicità celeste e la maggior parte, cioè i reprobi, alla dannazione. Or da questa dottrina a quella di Lutero, il quale afferma l’impotenza del
l’uomo quanto alla propria conversione, essendo esso un cieco strumento nelle mani della provvidenza, non vi è che un passo.
Ma l’opposizióne che i gesuiti facevano alla Riforma obbligò i gesuiti a professare un’altra dottrina, ed i loro rappresentanti, Lainez e Salmeron, esercitarono un’influenza decisiva sulle deliberazioni dei Concilio di Trento (i), che vuol conservare alla volontà libera dell'uomo, risvegliato da Dio, là sua cooperazione nell’opera della giustificazione, e che ripudia la dottrina dell’inerzia e dell’impotenza radicale dell’uomo in presenza dell’appello che gli indirizza il suo divino Salvatore. E, sempre in antitesi con la dottrina tomista, i gesuiti di Colònia sostennero Che la grazia di Dio è sempre pronta a soccorrere i cuori aperti a riceverla; e quelli di Louvain affermarono che Dio, dopo aver previsto la caduta di Adamo, formò il disegno di fornire ad .Marno ed alla sua posterità i mezzi sufficienti per vincere il peccato ed ottenere la vita eterna. Per conseguenza Egli presta la sua assistenza a chiunque voglia salvarsi.
Ancor più stridente è il disaccordo col tomismo nell’opera del Molina, pubblicata a Lisbona il 1588. Per lo scrittore gesuita l’uomo può elevarsi sino all’amore di Dio e vincere la tentazione senza speciale soccorso divino, -con la sola forza della sua
(1) Se il Concilio avesse approvato Indottrina sul peccato originale e sulla giustificazione della fede di S. Agostino, si saiebbe accostato alla tesi evangelica, tanto da render possibile un componimento della glande controversia tra protestanti e cattolici. Si deve all’abilità ed all'eloquenza del Lainez se l’assemblea prese tutt'altra deliberazione. Cfr. BofefMER, op. cit.» p. 78 e seg.
10
72
BILYCHNIS
volontà libera e con la cooperazione generale dell’Altissimo; e siffatta teoria fu ben presto adottata dall’Ordine, come la sua dottrina ufficiale. Tale insegnamento sollevò le proteste dei Domenicani, e la controversia fu si violenta che la Santa Sede fu costretta ad intervenire per comporre il dissidio. I gesuiti, per far trionfare la loro tesi, non si peritarono di fabbricare una falsa edizione dell’opera di Agostino sulla Grazia. Ma Clemente Vili riuscì a scoprire il falso ed i Domenicani uscirono vittoriosi dalla prova. Senonché il suo successore Paolo V non osò apertamente condannare il molinismo, il che sarebbe valso quanto incriminare di eresia lo stesso gesuitesimo.
I gesuiti, pertanto, nella lotta contro la dottrina agostiniana e tomista della grazia, vedono un mezzo eccellente per poter combattere vigorosamente il protestantesimo e per conquistare le coscienze soggiogandole ai voleri dell’Ordine. Se, infatti, la grazia divina « ha sì gran braccia » da' accogliere ogni sorta di reprobi, purché mostrino la buona volontà di emendarsi, quale smisurato potere non avrebbero potuto essi esercitare sulle anime, nella loro qualità di onnipotenti ed accorti intermediari tra Dio e l’umana coscienza? « Il loro scalpello — così scrivesi in uña rivista tedesca — s’indugia a trarre dalla più o meno informe roccia chiesastica 1’ imagine ben definita di un sistema completo: sistema che può davvero considerarsi com-Sleto, persino nei minimi dettagli, e reca a uon diritto, come il capolavoro di un’artista, il nome ed il suggello dei suoi autori » (i).
17. Così essi si ponevano nell’insegnamento da un punto di vista di assoluta æsizione al protestantesimo, ed inolino nei teneri cuori l’odio contro i credenti in altra fede.
Nel catechismo, per esempio, i ragazzi apprendevano • doversi fuggire ed evitare, come la peste, i credenti di altra fede, votati a Satana ed alla morte eterna, se non si con verta no » (2). Disposizioni contro gli eretici contiene anche l’ordinamento scolàstico del 1586 (3). Così le nuove
(1) Preussische lahrbücher, 1893, pag. 3.10: Moderner Jesuitismut.
(2) Kelle, Die Jesuile>igymnasien in Oslerreich. Wag. 1873, pag. X7O(3) Mon. Germ. Paed., voi. V, pag. 221.
istruzioni scolastiche del 1830. per le pro-vincie tedesche, raccomandano al professore di teologia di trattare profondamente le controversie teologiche, dovendo gli scolari esser sempre pronti a discutere con gli eretici (1).
L’ordinamento del 1832, tuttora in vigore, ha anzi, se pure è possibile, inasprito, rispetto a quello del 1586, l’intransigenza contro i protestanti. Questo, di fatti, proibisce nel capitolo » Sulla Sacra Scrittura » i commentari eretici: quello esige invece, nella regola i6, che i professori di Sacra Scrittura espongano i testi biblici in antitesi alla dottrina protestante.
La penultima (XXII) congregazione generale del 1859 ha poi sanzionato un mezzo più comodo di lotta: siccome non sempre la Sacra Scrittura può utilmente adoperarsi come arma contro il razionalismo ed il protestantesimo, permise che si ricorresse anche alla tradizione (2).
Naturalmente i gesuiti ingaggiano la lotta con molta scaltrezza ed oculatezza. Speciali istruzioni si dànno sulla condotta che essi debbono tenere nei diversi paesi, dove i protestanti abbiano molto seguito, come in Germania ed in Francia; ma si partì invece apertamente nelle altre nazioni ove i protestanti sono in minoranza. (3).
L’ipocrisia e la doppiezza che giovava contro i protestanti, veniva per reazione a danneggiare la Chiesa cattolica, e talvolta il suo Capo Supremo; poiché l’Ordine non dubitava di porsi al disopra della Chiesa quando lo richiedessero i suoi interessi. Sotto questo riguardo si può affermare che l’Ordine educava i suoi scolari non per la Chiesa, ma per se stesso: ciò malgrado la categorica smentita del Duhr che invece pone come fondamento della « Ratio Studiar um » la dottrina della Chiesa cattolica.
18. La verità è che, per dirla con l’Huber, • i grandi servigi rési al papato dall’Ordine dei gesuiti esaltano la sua fierezza fino all’arroganza; inebriato dai suoi successi. esso aspira a regnare sulla Chiesa, ad imporle le sue dottrine, a ridurre il papato sotto la sua dipendenza: esso contribuisce inoltre a distruggere l’antica costituzione della chiesa: opprime tutti gli altri
(1) jWgm. Germ. Paed., voi. XVI, pag. 149.
(2) Decr. 37. 2.
(3) Aquaviva ad provincias a. ¡585. Corp. inst., voi. Il, pag. 77; Man. Germ. Paed., voi. Il, pagina 254.
11
IL FINE DELL'EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI
73
ordini, li ferisce in tutti i modi c tende, con un odio inestinguibile, ad estirpare tutte le tendenze, ad annientare tutte le autorità contrarie alle sue dottrine favorite » (i)
Noi qui non possiamo trattare minutamente siffatto argomento che ci condurrebbe assai lontano dalle indagini .che ci siamo proposti sulla pedagogia dei gesuiti.
Più tardi, per altro, ayfemo da trattare dei mézzi educativi, dai gesuiti adottati, per conseguire il fine suaccennato in seno al cattolicesimo, come gli esercizi spirituali ed il culto mariano. Contentiamoci, per ora, di notare che gli Esercizi spirituali furono il parto più profondo della fervida fantasia di Ignazio ed. approvati da Paolo III, divennero poi parte integrante delle pratiche del culto cattolico (2).
19. Parleremo invece brevemente .del culto mariano, che permise, ai gesuiti di entrare nelle buone grazie dei papi e. di esercitare un grande ascendente sul loro animo. Senonchè la mariologia, degenerata in mariolatria, dell’Ordine di Gesù, divenne altresì causa di demoralizzazione e di depravazione in seno all’Ordine' ed alle sue comunità religiose e scolastiche.
I.oyola s’era fatto cavalier servente della Vergine: così che il culto mariano formava il fóndo della sua religiosità. Questo culto ebbe un tale sviluppo, dopo di lui. che si è preteso spesso, e non senza ragione, che esso fosse la vera religione dei gesuiti. Se un tal giudizio può sembrare esagerato, è per lo meno vero che il culto di Maria fu la sorgente più feconda delle superstizioni che inquinatone la vita dei paesi cattolici sino ai giorni nostri. Maria è considerata come la nutrice, la patronessa, la seconda fondatrice della Società di Gesù. « La società, sostengono i gesuiti, è un dono della
(x) I. Huber, op. cit., voi. II, pag. 241.
(2) Traduciamo della Bolla Approbalio excrci-tiorum (a. 1558) quella parte che può interessare i lettori del presente lavoro. • Noi esortiamo ardentemente nel Signore tutti insieme i fedeli, e singolarmente ciascuno d’ambo i sessi, di fare, con profitto, queste sante istruzioni e gli esercizi. Ordiniamo che le pie istiuzioni e gli esercizi non possano essere stampati che da un libraio scelto dal suddetto Ignazio e che, pertanto, senza l’autorizzazione di Ignazio e dei suoi successori, nè questi nè quelle possano essere stampale, sotto pena di scomunica e multa di 500 ducati da essere spesi a scopi pii ». Corp. instit., voi. I, pag. 17.
grazia di Maria. Pei glande che sia stato Ignazio, essa è stata l’opera di Maria; su ciò non cade dubbio ■ (1). L’Huber dice che « Leyóla stesso era convinto d’avere redatto i suoi Esercizi sotto l’ispirazione della Vergine ». F riferisce una serie di fatti che valgono a dimostrare la tendenza a voler mantener viva la superstizione nelle classi popolari. « Un gesuita aveva visto la visione di Maria che copriva la società col suo manto,'in segno della sua speciale protezione. Un altro, Rodrigo di Gois, fu talmente colpito dalla visione della sua inesprimibile beltà, che la vide librarsi a volo nell’aria. Un novizio nell’Ordine, che morì a Roma nel 1581, fu sostenuto dalla Vergine nella sua lotta contro le tentazioni del diavolo; per fortificarlo, essa gli dava a gustare di quando in quando il sangue di suo figlio e • la dolcezza dei propri seni » (3).
Questo culto, pertanto, degenera spesso in manifestazioni licenziose e sensuali, per esempio nelle cantiche dedicate dal padre Giacomo Fontano alla Vergine. « Il poeta non conosce niente di pili bello che i seni di Maria, niente di più dolce che il suo latte, nulla di più eccellente che il suo basso ventre » (3).
Il culto di Maria invase man mano tutti gli uffici divini dei gesuiti. Essi furono infaticabili nell'inventare sempre nuove devozioni. La Vergine prese a poco a poco il posto del Salvatore, e le grazie che essa compie sono più numerose giacché si mostra più indulgente nell’elar-girle (4). . .
Le congregazioni ed 1 circoli, sorti in nome di Maria, .per opera dei gesuiti, furono riconosciuti e protetti dal papa Gregorio XIII, il quale riconobbe al Generale della Compagnia perfino il diritto di instituiré nuove congregazioni fra i non studenti ed i laici; e tali diritti furono accresciuti da Sisto V e da Clemente VITI (5). per modo che il culto mariano riuniva persone di tutte le età e di tutte le classi so(x) Imago primi saeculi S. I., Anversa. 1640.
(2) -I. Huber, op. cit.. vol. II, pag. 99.
(3) Œuvres complètes de Bucher. Munich, 1819, II, 177 etc. in Huber, op. cit., vol. II, pag. xox.
(4) Per uno studio completo sulla mariologia cd i gesuiti, rimandiamo all’opera dcll’HusER vol. II, pag. 99-118.
(5) Ordin. Gen., C. 21; De sodalilatibus B. Virginis. Corp, instit., vol. II, pag. 77-
12
74
BILYCHNIS I
ciali Tutti quelli che entravano nelle congregazioni, si sottomettevano ad una confessione generale ed erano tenuti a confessarsi in avvenire non ad altri che ad un prete, designato a tal uopo dal padre gesuita preposto alla congregazione stessa (i). Obbligatorie per gli affiliati sono le macerazioni, gli esercizi spirituali istituiti da Ignazio, la frequenza assidua alle pie riunioni, oltre alla sommissióne e all’obbedienza ai voleri del Generale o di suoi speciali delegati (2).
« Salta agli occhi, dice l'Huber. che erasi creato, nelle congregazioni di Maria, che reclutavano i loro adepti tanto nei palazzi quanto nelle capanne, un potente strumento per dominare la società laica e per asservirla agli interessi dell’Ordi-ne » (3).
20. La Compagnia erasi così formata, con l’aiuto dei papi (i quali, il più delle volte, non erano che sue creature e suoi strumenti) una posizione eccezionale nella chiesa, quale nessun’altro ordine religioso aveva mai potuto conseguire (4). Gregorio XIII minaccia perfino di scomunica chi osasse avversarne gli istituti (5).
Fu, pertanto, possibile che la Compagnia spesso si opponesse, come già- vedemmo, agli stessi papi, sprezzasse gli ordini dei vescovi e le decisioni dei c< ncilii; come Suando l’Ordine dovette lottare con aolo V per alcune divergenze da S. Tommaso che la Chiesa riconobbe sempre Sualc guida principale nelle sue dottrine.
ella « Ratio Studiorum » inoltre si ammette che il professore di Sacra Scrittura possa, pensare ed insegnare in antitesi con le deliberazioni dei papi e dei concini (6).
Insomma il loro opportunismo nel condurre a buon porto un intrigo politico, dal quale l’Ordine dovesse uscire più potente e temuto, li indusse talora a piendere partito pei principi temporali contro il papa, contrariamente alla loro dottrina fondamentale che afferma invece esser la potestà del Pontefice superiore a quella dei principi
(1) I. Huber, op. cit., voi. I, pag. 39.
(2) I. HUBER, Op. cit., voi. 1.
(3) I- Huber, op. cit., 1. cit.
(4) Raxke, op. cit.
(5) Censura* * Collida*. Corp. insiti., voi. IÍ. pag. 219.
(6) Ratto Studiorum Reg. dei profos. di Sacra Scrittura, 6.
temporali (1). Nelle querele che Luigi XIV ebbe con papa Innocenzo XI, essi sposarono la causa del primo, e nella guerra di successione sostennero del pari gli interessi della Casa di Borbone, in aperto contrasto con la politica papale (2).
Talvolta le opere dei gesuiti furono persino condannate dall’inquisizione Romana perchè esse difendevano con troppa vivacità i diritti della corona. Ed i superiori dei gesuiti in Frartcia evitavano ogni contatto col nunzio pontificio per non essere sospettati di idee ultramontane! (3). Di questo contegno antipapale fornisce la miglior prova uno scritto del generale Aquaviva del 1614. « Deve il provinciale proibire che nella sua provincia, in qualunque modo, si dica o si scriva intorno alla preminenza del Papa sui re e principi... Se ciò si permettesse, la Compagnia ne risentirebbe grave danno, ed i nostri in Francia correrebbero un ben serio pericolo • (4).
Volgevano, in vero, tempi non troppo favorevoli alla Compagnia, almeno in Francia, giacché qualche anno prima la potente suggestione degli scritti del Mariana aveva acuminato contro Enrico IV il pugnale di Ravaillac; e queiraccorta mente di politico, che fu il generale Aquaviva. correva ai riparii
Anche verso -le decisioni del Concilio
(r) La teoria della supremazia politica del Papato e della Chiesa sul potere civile trova ii suo maggior assertore in Roberto Bellarmino. Secondo lui
• II papa è il monarca assoluto della Chiesa universale, il dispensatore delle corone, la fonte unica di ogni giurisdizione ecclesiastica, il giudice infallibile della fede, superiore allo stesso concilio ». « Surnmus pontifex simpliciter et absoluto est supra Ecclesiam universam et supra concilium generale, ita ut nulluin in terris supra se iudicem agnoscat • {De conciliorum auciorilate, lib. II, cap. 17). Cfr. Saitta, op. cit., pag. 247.
Eppure i gesuiti non si peritarono di tacciare di iniquo e di infame il breve ■ Dominus ac Redemp-tor» di Clemente XIV col quale dichiaravasi disciolta la Compagnia (cfr. Cri tinca u Joli, tom. V, pag. 303-306). Quanta incocrenza fra le parole e gli atti, quando trattavasi di difendere un inteiesse vitale dell’Ordinc!
(2) I. Huber, op. cit., voi. I, pag. 219.
(3) Ranke, op. cit., voi. HI, pag. 127.
(4) De potatale Pontificia et Tyrannicidio ad Provinciales. A. 1614: Mon. Germ. Paedagogica, voi. Ili, pag. 49.
13
il. FINE DELL EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI /5
Tridentino i gesuiti furono in qualche caso recalcitranti. Infatti la IH Congregazione generale emanò una serie di decreti contro le conclusioni del Concilio stesso. In una nota a siffatti decreti si enumerano ■ I luoghi del Concilio Tridentino che sono in aperta opposizione alle leggi ed alle consuetudini della nostra Compagnia • (i). Essi si sentivano talmente forti da potersi sottrarre a quei vincoli di disciplina a cui tutta la Chiesa era obbligata, appellandosi senza dubbio ai privilegi che avevano ottenuto dalla condiscendenza dei papi, giacché il Papa è superiore ai concini (2).
Quanto all’obbedienza verso il Papa, il quarto voto pronunciato dai professi di prestargli speciale obbedienza, aveva ed ha solo valore riguardo alle missioni. È così infatti che. debbono intendersi i brevi apostolici che trattano quest’argomento (3) Ogni qualvolta il Papa ordinava che si inviasse nelle missioni qualche gesuita, il Generale doveva fare eseguire l’Ordine papale (4). Ma il Generale aveva il potere di rendere illusorio il voto di obbedienza assoluta ad una missione, poiché, se da un canto il Papa inviava i professi ovunque gli sembrava opportuno, dall’altro il Generale poteva richiamarli a suo beneplacito. Mentre poi il papa non poteva liberare alcun membro dell’Ordine senza il consenso del Generale, questi poteva congedarlo a suo arbitrio ed anche dispensarlo dal compimento dei suoi VOJ? (5)- .
Stando così le cose, il Generale è in certi casi superiore, al Papa, potendo anche esporre giudizi ed. emanare decreti in contrasto con l’autorità di lui. Inoltre i gesuiti sono affatto indipendenti dall’inquisizione, e dai vescovi, nè fan mostra di riconoscere alcun altro potere in seno alla Chiesa tranne quello del loro Generale. Non sono rari i casi di disobbedienza perfino
(x) Corp, instil., vol. I, pag. 8x4 e segg.
(2) Ratio Studiorum 1586. Continuazionc della scelta dello opinion!. Sui concil? cd i Papi. Mon. Germ. Paed., vol. V, pag. 215.
(3) Const. 5, C. 3 deci.: Corp.i nslil.. vol. 1. pag- 370.
(4) /• Congr. deer. 86; Corp, instil., vol. I, pag, 721.
(5) Huber, op. cit., vol. II. pag. 55- Sul potcre del general«* 'cfr. anchc Boehmrr, op. cit.. pag. 65 c seguenti.
agli ordini del papa. L’Huber narra che i gesuiti, gelosi dell'influenza dei Francescani nel Giappone, suscitarono contro di essi il malcontento della popolazione ed ottennero l’espulsione dei loro rivali. Clemente X volle reprimere questi eccessi, ed intimò ai gesuiti di sottomettersi riconfermando i pieni poteri ai vicari apostolici dell’Ordine dei Francescani. Ma i gesuiti rifiutarono obbedienza, dichiarando di aver ricevuto ordini contrari dal loro Generale, né si curarono delle bolle papali o dei brevi scagliati contro di essi e continuarono a perseguitare i vicari apostòlici più crudelmente di prima (1).
21. Quanto ai rapporti con i vescovi, basti ricordare che l'invito della diocesi a dirigere una scuola era accolto solo quando l'autorità ecclesiastica avesse compieta-mente rinunciato a qualunque direzione od ingerenza nella scuola stessa (2). Nel Concilio di Trento, del resto, il Lainez si era chiarito il più formidabile avversario del potere vescovile, avendo contribuito a far respingere una mozione presentata dai vescovi spagnuoli, tendente a far considerare come divino il dovere dei principi della Chiesa di risiedere nella diocesi. Questa mozione implicava la credenza, molto penosa alla curia romana, che i vescovi fossero istituiti direttamente da Cristo, e non già per il tramite del papa (3). In pratica, poi, i gesuiti non rispettavano affatto la dignità ed i diritti dei vescovi. Infatti i privilegi che erano stati conferiti ai membri dell’Ordine, loro permettevano di sottrarsi alla giurisdizione vescovile. Essi, pertanto, si misero in aperta ostilità con l'episcopato, per modo che questo cominciò ben presto a temere la potenza dei gesuiti. Ed il Cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, dovette nel 1579 sostenere un’aspra lotta contro l’invadenza c la corruzione dell’Ordine nella sua diocesi, nè meno gravi furono gli intrighi orditi dal padre Parsons contro il ristabilimento d’una gerarchia episco(1) I. Huber, op. cit., vol. I, pag. 250. Sulle frequenti ribellioni dei gesuiti alla Santa Sede sotto i papi Paolo IV, Pio V, Sisto V, Clemente Vili, Urbano XIII, Clemente XI, etc., cfr. Huber, vol. I, pag. 205-300.
(2) Decr. 18 della II Congreg. A. 1565. Moti. Germ. Paed., vol. Il, pag. 75.
(3) Cfr. I. Huber, op. cit., vol. I, pag. 285-287,
14
7ó
BILYCHNIS
pale in Inghilterra (i). Or corneja Chiesa e il papato possono porre un freno ad una simile istituzione, quando i gesuiti insegnano ai loro scolari che in dati casi bisogna obbedire più ail’Ordinc che al papato ed alla Chiesa? È così, pertanto, che il fine che l’Ordine dice di perseguire, promuovere cioè la maggior gloria di Dio, si risolve in un ’ predominio spirituale tendente a soverchiare continuamente, e ad opprimere, ogni altro potei e ed'ogni altro ente in seno alla Chiesa.
22. Vediamo, ora. come i gesuiti si contengano verso i principi e le patrie, e se promuovano almeno il bene degli Stati in cui sono vissuti.
La questione è stata trattata da tanti, e con tanta copia di argomenti, che noi possiamo limitarci a poche osservazioni (2).
Il gesuita non ha patria: nè riconosce alcuna dinastia regnante. Egli è cosmopolita. La sua patria è l’Ordine, il suo principe il Generale, la sua lingua madre il latino, la lingua della Chiesa e dell’Or-dine. Ogni tenerezza per la patria lontana viene sradicata dal suo animo. Egli si sente una sola cosa con l’Ordine che abbraccia il mondo « Guai a noi se dovesse troncarsi una volta questo forte e vitale vincolo del cosmopolitismo! » (3).
Perciò essi non ammettono mai in un collegio, a studiare o ad insegnare, persone della medesima nazionalità.
Non deve essere permesso che la Compagnia abbia nella città, ove mantiene collegi ed istituti scolastici, professori di teologia, filosofia ed umanità che appartengano al popolo, in mezzo a cui soggiornano. Tanto meno è permesso che tali siano i superiori, giacché questo è in assoluto contrasto con le consuetudini dell’ordine (4) « Non siano i maestri sudditi dello Stato nel quale vivono, per non esser così tenuti ad ubbidire alle sue leggi ». Così essi non sono vincolati dalle leggi della loro patria perocché ne sono lontani; nè tampoco da quelle vigenti nel luogo della loro dimora abituale, giacché vi si trovano come stranieri. Se i gesuiti s’interessano dello Stato in cui vi(1) Cfr. I. Huber, op. cit., vpl, I, pag. 288-299.
(2) Preussischen larhbüchern-Moderner Jesuilismus.
(3) Ep. II R. P. N. Gostoini Nickel-De Nationali Provineialique spirilu vitando: Corp, instil., vol. II, pag. 863.
(4) Decr. 21 R della IIP Congr. Gen.
vono, si è per il carattere eminentemente politico dell’Ordine (1); essi, per altro, a niun costo permettono che lo Stato s’intrometta nelle loro scuole (2).
Come l’Ordine sappia attivamente eludere tutti gli ordinamenti dello Stato intorno alle scuole, lo dimostra minutamente il Nelle specialmente per l’Austria (3).
23. Come poi per rimunerare lo Stato del suo spirito conciliante, i gesuiti professarono, e professano tuttora, nelle lóto scuole dottrine assai pericolose. Essi scendono in lizza per difendere c propagare dottrine sovvertitrici degli Stati, e rivendicano per la Chiesa una superiorità illimitata sullo Stato (4). Verso il 1880, cioè quasi sullo scorcio del secolo xix. Matteo Liberatore riunì e pubblicò in un volume gli articoli inseriti nella Civiltà Cattolica su questo argomento. Egli sostiene che la Chiesa ha il diritto d’imporre la sua volontà, allo Stato anche negli affari temporali. Essa può correggere ed annullare le leggi civili, i giudizi Pronunciati dai tribunali laici, impedire abuso del potere esecutivo e della forza delle armi, o prescriverne l’uso in tutti i casi in cui l’esiga la difesa della religione ciistiana. II Papa insomma sovrasta per potere tutti gli altri principi temporali, in quanto è investito d’un diritto di giurisdizione universale ed assoluto. A conferma delle sue dottrine, l’autore invoca il pieno riconoscimento della Bolla Unam Sanctaw, rivestendo questa il carattere di decreto dogmatico ex cathedra (5).
Donde è lecito arguire che i gesuiti si chiariscono ancor’oggi, in Italia e fuori, i più accaniti propulsori di tutte le agitazioni temporalistiche, il cui eco — pur nella catastrofe odierna — prorompe talora e.si sovrappone al rombo stesso delle artiglierie belligeranti, come una sinfonia monotona, alla quale sono intonati gli articoli delle varie xeitung tedesche, non importa se luterane o cattoliche, inneggianti, in un accordo commovente, alla restaurazione del papato politico. Ed a
(1) I. Huber, op. cit., voi. I, pag. 40.
(2) G. Saitta, op. cit., parte II, cap. II: Roberto Bellarmino.
(3) Kelle, op. cit., pag. 222.
(4) Ranke, op. cit., voi. Il, pag. 178; Saitta op. cit., parte II, cap. Il: Roberto Bellarmino.
(5) I. Huber, op. cit., voi. Il, pag. 17.
15
il. FINE DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI
77
Ìuesto coro di proteste giornalistiche iede, in forma ufficiale, il suo assenso l’attuale pontefice Benedetto XV, inaugurando il Concistoro del decembre 1915. La questione, dunque, è più che mai viva e scottante; nè i gesuiti hanno rinunziato a risolverla secondo le loro vedute.
Esaminando le dottrine dei gesuiti sul potere dei principi verso i loro sudditi, si rileva ch’ossi inclinano piuttosto verso la sovranità popolare. Già al Concilio di Trento, il Lainez aveva affermato in un suo discorso che le comunità laiche organizzano esse stesse il loro governo e che, per conseguenza, esse sono libere ed hanno in se stesse la fonte di ogni giurisdizione che trasmettono alle loro autorità, senza per questo spogliarsi del loro potere. Dopo di lui il Bellarmino affermò che lo Stato è di diritto divino', e non appartiene ad alcun individuo in particolare, ma al pòpolo nel suo insieme (1).
« Dio, quindi, dice il Saitta, non accorda il potere temporale a persone particolari: il potere riposa nel popolo, che può conferirlo ad una sola od a più persone; ![uindi conserva il diritto di cambiar le orme di governo; donde la. legittimità della rivolta, che, non ammessa esplicitamente dal Bellarmino, trovasi però "nel suo pensiero intimo » (2). Due sono, dunque, le vie legali aperte per sbarazzarsi dei cattivi principi: la destituzione da parte del popolo o la destituzione da parte del Papa. Essi hanno, in altri termini, come dice il Ranke (3), a fuso in un unico sistema la dottrina dell’onni-K'tenzà papale e della sovranità popo•e • (4).
Questo accenno alle dottrine politiche del gesuiteSimo sarebbe, di per se stesso, sufficiente a collocare in piena luce il fine recondito perseguito nel loro inse(x) «nulli homini particulari dedit hanc poto* statein (potere civile): ergo dedit moltitudini... ». Bellarmino, De Laicis, cap. V, pag. 436.
(2) Saitta, op. cit., pag. 228.
(3) HOber, op. cit., voi. II, pag. 182.
(4) Il Bellarmino non fa che riprendete ciò che il Francescano Maisilio da Padova aveva affermato molto tempo prima sulla sovranità popolare, desumendo le sue teorie da Aristotele. Senonchè nel Bellarmino la teoria democratica risponde alle tendenze del Papato, che lavorava alla restaurazione della Chiesa ed al suo consolidamento (Cfr. Saitta, op. cit., pag. 232).
gnainento, qualora non si rendesse altresì necessario far notare che le teoriche dei loro scrittori politici condussero, non di rado, ad un tragico epilogo nella viva realtà storica.
Il Mariana, infatti, portando sino alle ultime conseguenze le dottrine del suo predecessore, giùnge sino a far l’apologià del regicidio. Nella sua opera De rege et regis institutionc egli sostiene il diritto del'popolo a difendersi con ogni mezzo dalla tirannia del principe, poiché, se un principe compromettente la salute d’un paese, minaccia la religione dei suoi padri, nè vi ha più speranza di ricondurlo sulla buona strada, il. popolo può sollevarsi contro di lui, destituirlo e, se non gli rèsta altro mezzo di difesa, ucciderlo. « essendo un tiranno il principe, che lede la giustizia e la religione ». Quindi il Mariana esalta le figure dei regicidi dell’antichità e di Giacomo Clément, l’assassino di Enrico IH. Per lui l’assassinio del re di Francia è un . » facinus memorabile > ed il regicida è
* una gloria eterna della Gallia » (1).
Ora l’atteggiamento politico dell’Ordine non ha ancor’oggi subito sostanziali mutamenti, se si pensa che la congrega- v rione generale del 1883 stabiliva non doversi scrivere, nè insegnar nulla che toccasse il potere del papa rispetto ai principi temporali (2).
24. Quanto alla lingua materna, i gesuiti la trascurano, per tener lontano gli allievi dall’ideale patrio. Ma di ciò parleremo più a lungo quando tratteremo delle varie materie d’insegnamento.
Insistiamo piuttosto su di un altro argomento.' Durante i suoi studi, l’allievo dei gesuiti è completamente sottratto all’affetto della famiglia ed all’amore verso i suoi genitori e parenti. « L’uomo che è morto alla carne per non più vivere che secondo lo spirito, non ha altro padre che il padre celeste, altra madre che rOrdine sacre, al quale appartiene, altri parenti che i suoi fratelli in Cristo, altra
(1) Sul pensiero politico dei gesuiti, oltre all’opera più volte citata del Saitta (pag. 203-3x1), vedere: Ranke, Storia del papato; Ritter, Die Wider-hersleUung der Katholicismus, pag. 553 e segg. D8li.inc.er, Die Selbslbiografie des cardinals Bellarmin. Bonn, 1887; I. Huber, Lcs /¿suites, vol. Il, pag. 17-47 (trad, dal tedesco).
(2) Decr. 15. Mon. Germ. Paed.,vo\. (I, pag. 118.
16
78
BILYCHNIS
patria che il ciclo » (1). Insti liando principi siffatti si mirava evidentemente ad estirpare dall’animo dell’educando ogni affetto terreno, ed a staccarlo sempre piti dalla cerchia della famiglia e dei congiunti
Il superiore, preposto alla dilezione di un collegio, doveva esercitare un tale ascendente morale sugli allievi, da sostituirsi ai genitori stessi. «Amateli, dice il Generale Aquaviva, rivolgendosi ai superiori dei collegi; e siate per essi madri, nutrici, medici e tutto per essi, non omettendo nulla per convincerli che tali sono i veraci sentimenti vostri per loio. In siffatta guisa voi li condurrete ove e come vorrete perchè possederete il loro cuore • (2).
Sarebbe tuttavia ingiusto credere che i gesuiti distolgano intenzionalmente i loro allievi dalla casa paterna. E vero, per altro, che coloro che insegnano debbono considerare come una colpa contio il loro Ordine ogni amore verso i genitori ed i parenti (3).
Ora dei maestri che non hanno essi stessi il diiitto di amare i loro parenti, non possono inculcare con entusiasmo ai fanciulli, affidati alle loro cure, il sacio comandamento di amare i genitori. Ed in realtà ogni incoraggiamento ad amare il padre e la madre, benché nel loro cuoi e precludano la via ad ogni moto di tenerezza, deve ricordar loro i propri genitori e ravvivare nell’animo l’amor filiale violentemente represso. In questo caso gli allievi possono anche, come vedremo in appresso, divenire accusatori dei loro maestri!
(x) I. Huber, op. cit., voi. 1, pag. 91.
(2) Epist. I ad Superiores R. P. Aquavivac (confronta Micmelbtti, Pedagogia Ecclesiastica h
(3) • Unusquisque conni), qui societatem ingre-diuntur consiliuni illud Christi sequendo, qui dimi-serit patrein... existimet sibi patroni, matrein, fra-tres et sorores, et quicquid in mundo habebat, re-linquendum* ¡mino sibi dietimi existimet verbum illud: Qui non odit patrem et matrem insupcr et ani inani suam non potest meus esse disci pulii?. Et ila curandum ei est, ut omnem carnis affectum erga sanguine junctos exuat ac illuni in spiritualem con vertati cosque diligat co solimi amore, qucin ordinata charitas exigit, ut qui mundo ac proprio amori mortuus, Christo domino nostro soli vivil cumque loco parentum fratrum et rcrum omnium habet » Conslilut. et Deci. Examinis Generalis, eco., cap. IV, n. 7.
Ma è precisamente questo distacco da ogni legame terreno, contrario non pure al precetto divino di onorare il padre e la madre, ma anche al più elementare buon senso o meglio alla voce della coscienza, esaltante il dovere santissimo di sostenere, in ogni tempo e luogo, col consiglio e coll’opera, la famiglia indigente e bisognosa, che spesso serve a raccomandare i maestri gesuiti; giacché essi soltanto possono consacraci interamente alla loro missione in una completa indipendenza di spirito e scevri da ogni altra preoccupazione che non sia quella dell’insegnamento. Ciò doveva indubbiamente contribuire a rafforzare la loro vocazione. Ma il problema è duplice: dei maestri, guidati sólamente dall'interesse e dallo spirito del-l’Ordine, che hanno il dovere di non pensare che a quest’ordine, può dirsi che abbiano precisamente le attitudini per educare gli allievi con un carattere veramente morale ed indipendente? Ed, in secondo luogo, il loro insegnamento risponde pienamente alle esigenze di tutti i tempi e di tutte le condizioni sociali? Su ciò si otterrà diffìcilmente, anche dai più zelanti fautori dei gesuiti, una risposta assolutamente affermativa. Tale argomento. del resto, esamineremo più a lungo, trattando delle materie d’insegnamento e del metodo (1).
25. Ora, piuttosto, si presenta alla nostra indàgine un’altra importante questione, a cui è giuocoforza subordinare il valore pedagogico di tutto l’insegnamento gesuitico. Può contribuire alla formazione di un carattere integro e saldo negli allievi una morale, come quella dei gesuiti, che in ogni tempo fu oggetto di tante appassionate ed. il più delle volte, meritate censure?
Spogliamoci pure di quella tendenza iperbolicamente ostile ai gesuiti, invalsa in molti scrittori del secolo scorso, che vuol caricare ad ogni costo le tinte e non vedere nella Compagnia che un’associazione di uomini i quali mirano, con le sottigliezze della loro dialettica, a pervertire lo spirito umano ed a scusare il male-tìzio, perpetrato anche nelle forme più brutali, piuttosto che condannarlo. Manteniamoci pure obbiettivi e sereni di fronte
(1) Siffatta materia sarà prossimamente trattata in un lavoro completo intorno alla pedagogia dei gesuiti.
17
UE.5.C-¿JMSUSS**i-—-ir^— , ■ . i.
IL FINE DELL EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI 79
a questa riputazione d'infamia che grava come una cappa plumbea sui loro casuisti e moralisti ufficiali; e diciamo che nella condotta morale, come in ogni altro campo del-l’opcrare umano, le loro incertezze non sono poche, nè lievi. A parer nostro, dunque, l’errore sta, fondamentalmente, nella premessa su cui poggia tutto il sistema morale del gesuitesimo: ed invero non pare possibile che possa applicarsi una misura esteriore al peccato, consistendo il male soprattutto in una disposizione interiore che veruna mente di psicologo, per quanto acuta e perspicace, è ancor riuscita, con lo scandaglio della scienza, a penetrare intimamente. Non si scende nelle pieghe dell’anima umana per ¡strapparvi l’oscuro segreto che rinserra gelosamente nei meati profondi della coscienza. Solo l’occhio di Dio potrebbe scrutarvi e leggervi dentro, ma niuno può pretendere di frapporsi quale intermediario tra il creatore e la sua creatura. Seguire pertanto i suggerimenti che solo una fede illuminata e calma può darci, ecco la norma indefettibile di ogni nostra azione, la quale seguita costantemente, vale ad imprimerci quel saldo carattere morale e quel sentimento della responsabilità che deve guidarci, come una bussola infallibile, attraverso i marosi della vita.
Ora i gesuiti, erigendosi a giudici dell'umana coscienza, dovettero fatalmente cadere sul pendio sdrucciolevole di una colpevole indulgenza e cercare, accomodando le rigide norme della morale alla fragilità dell’umana natura, di conciliarsi il favore delle masse che accorrevano al loro confessionile piuttosto che a quello di altri ordini ecclesiastici. J. Huber calcola che nel 1772 il numero dei comunicandi, nelle chiese gesuitiche della Baviera e della provincia dell’alta Germania, si elevasse, nientemeno, che a 2.029.590 (1).
Quando, poi, essi giunsero a sostenere che il fíne giustifica i mezzi, che cioè lo scopo buono può giustificare un'azione ritenuta oggettivamente illecita, non vi fu coscienza onesta che non si ribellasse contro chi pretendeva far riconoscere la bontà del fine contro la riconosciuta perversità del mezzo.
Intendiamoci: la massima posta, come ognun sa, dal Machiavelli nel Principe, come base di ogni politica sapienza, può
(-1) I. Huber, op. cit., vol. Il, pag. 90.
talora inspirare le più nobili e lodevoli azioni umane. Nella storia, per esempio, quando si tratti di eseguire un piano grandioso e legittimo, sai ebbe praticamente impossibile di tenere un conto troppo scrupoloso dei diritti e del benessere dell’individuo; ed è permesso di compiere i disegni che si vogliono realizzare anche a prezzo di molte sofferenze individuali. L’individuo è nulla, lo Stato è tutto. La guerra che oggi si combatte in Europa, per il predominio di un gruppo di nazioni sull’altro, n’è la prova più luminosa. Del resto chi rigettasse assolutamente la tesi che il principio giustifica i mezzi, sarebbe costretto a condannare molte rivoluzioni benedette dalla storia, le quali non hanno potuto compiersi che ledendo dei diritti acquisiti, ed a condannare in pari tempo i grandi uomini che le hanno guidate. Talvolta, insomma, l’allontanarsi dalla norma morale, in luogo di seguirla pedantescamente, può considerarsi il corollario logico di una moralità superiore.
Non è men vero, tuttavia, che questo principio non può mai essere elevato a dignità di regola universale, poiché esso condurrebbe, in pratica, ai piu spaventevoli abusi (1), come appunto verificaronsi nella casistica gesuitica ch’ebbe nondimeno per assertori uomini personalmente onesti, come un Alfonso Liguori, un Busembaun, un Figliucci ed altri. « C’est-pai* cette conduite obligante et accomodante, comme l’appelle le P. Peteau, qu’ils tendent le bras à tout le monde », esclama Pascal nelle sue Provinciali (2).
Nel suo immortale panifiet, che ha preso posto nella storia fra i più grandi capolavori della letteratura francese, il Pascal ritrae al vivo i reverendi padri della Compagnia, e, nel citarne i responsi, non sapresti distinguere dove il ridicolo contenda con l’odioso (3).
Magistralmente l’A. ci fa toccare con mano come questa morale sia composta di reticenze segrete, di compensazioni occulte, di dubbi e di peccati filosofici.
(x) Per tutta questa questione consultare le due opere fondamentali sui gesuiti: I. Huber, op. cit., vol. I, pag. 146-154, e Fr. Huber, La morale dei gesuiti. Bocca, edit., pag. 491-504.
(2) B. Pascal, Les Provinciales. Flammarion editore, Paris, pag. 57.
(3) Cfr. Pascal, op. cit., pagg. 59, 63, 64, 67. 69. 74, 75, 77. So, Si, ecc.
18
8o
BILYCHNIS
di probabilismo, di anfibologie, di infinite scappatoie, insomma, per coonestale il vizio ed indulgere alle umane passioni. Nessuno ignora come la furba dialettica dei padri giungesse a capovolgere ogni principio di morale, col pretesto del libero arbitrio; ed è semplicemente mostruoso che la loro morale continui a essere oggi quella ch’era nel 1656 quando apparvero le Provinciali, la vecchia morale opportunista dei Filicius, degli Emanuel, dei Sanchez, degli Escobar, ecc. Anche nella morale, come nella pedagogia, l’Ordine non poteva rinnegare se stesso.- « Sint ut sunt, a ut non sint » è fama che esclamasse l’ultimo Generale sopravvissuto allo scioglimento della Compagnia! Nel qual motto risiede tutta la psicologia di un ordine insuscettibile di rinnovamento, perchè nato in seno alla Chiesa Romana q materiato di quello spirito conservatore e retrivo che la rende sistematicamente contraria ad ogni soffio di modernità.
La decisione del Pai lamento di Parigi del 1762 è il più formidabile atto d’accusa contro la morale dei gesuiti. In essa si chiede al Re Luigi XV di prendere delle misure contro persone « le cui dottrine varrebbero a distruggere la legge naturale, questa regola dei costumi che Dio stesso ha impresso nei cuori umani, e per conseguenza a rompere tutti i legami della società civile, autorizzando il furto, la menzogna, lo spergiuro, ecc. ».
Ora, anche ammettendo che le accuse siano artatamente esagerate a scopo polemico, è incontestabile che il probabilismo e' la restrizione mentale sono teorie, che, seguite ciecamente, potrebbero scalzare ogni principio di onestà e di rettitudine.
Il probabilismo si può ridurre alla tesi seguente: in generale, sia in matèria di fede che di costumi, è permesso a ciascuno di seguire qualunque opinione, direttamente meno probabile e meno sicura, quantunque l’opposta sia più probabile e più sicura e sia ritenuta come tale. È Srobabile ogni opinione basata su consi-erazioni d’una certa gravità: in conseguenza, ogni opinione rivestita dell’autorità di un ecclesiastico pio e sapiènte, d’un dottore « grave », è probabile. Se i casuisti sono divisi su di un caso determinato, è permesso a ciascuno di seguire l'opinione che gli paia più comoda (1). Da
(1) Escobar, ihcologiac moralis. Pr incip. ei- IH, c. 3, n. 8-ro.
tali premesse teoriche non potevano in pratica derivare che le più strane ed immorali applicazioni. Così, secondo il Gui-menio, frodar una gabella e non restituirla non costituisce peccato mortale (x). Giorgio di Valenza ritiene che un giudice E a, fra due opinioni egualmente proli, sentenziare, per amore di un amico, secondo quella che è a questo più favorevole (2): e via di questo passo, sino alle aberrazioni di Castro Palao che giunge Ì-eisino a dare una giustificazione del urto, come l’opinione più probabile. Abbiamo voluto illustrare questo capitolo della morale gesuitica, parendoci necessario ai fini del presente lavoro. Se infatti i gesuiti in ogni tempo non si stancarono mai di accarezzare senza scrupoli le debolezze, le inclinazioni, le passioni e le abitudini peccaminose degli uomini, come potevano poi, nel campo della scuola, chiarirsi degl’impeccabili maestri e degli inflessibili educatori, mentre cotanto perniciosi maestri di morale si mostravano dal confessionile e dal pulpito?
26. E su questo argomento potremmo concludere, se, tuttavia, non vi fosse un punto che conviene mettere in luce, e che generalmente si omette di trattare nelle opere più note intorno alla morale dei gesuiti: la dipendenza del loro sistema di morale dagli scritti morali di Aristotele, che nelle scuole dell'Ordine fu Sempre l’autorità prevalente. La virtù è, secondo lui, l’osservanza del giusto mezzo nell’attività pratica, non del mezzo in se stésso, ma rispetto a noi medesimi. Una tale definizione ha sempre qualcosa d’impreciso, e può, per conseguenza, esser suscettibile di varie interpretazioni ad arbitrio dei casuisti.
Il Pachtler cita diverse ordinanze emanate da più di un Generale per reprimere la rilassatezza morale dell’Ordine. Il Geli) »Gabellam defraudare et non restitueje, non esse mortale docti viri asscrunt. Ego id totuin non ausim ad firmare, sed ncque eos tamen, qui fraudatimi, ad rcrtitutionem obligarem »... Amadei Guimenii S. I., Opusculum, Lugduni, 1664. Traci, de opinione probab. propos. II, n. 4.
(?) • ...Si iudex reputarci utramque opinionem acque esse probabilem, licite potest propter amicura sccundum illam i udì care, quae amico magis favet... » Georcii de Valentia, Sacrac Theologiae, Lute-tiae, 1609, Tom IH, disput. V, quacst. VII, punct. 4, col. 1152)-
19
IL FINE DELL'EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI
«I
ncrale Goswini Nickel nel 1657 ingiungeva ai censori dei libri di vegliare espressamente sul lassismo (1), • poiché è soprattutto a cagione di esso che nói siamo attaccati da ogni lato dai nostri avversari che 1 ilevano con zelo tutto quello che essi trovano nei nostri libri, e lo pubblicano tosto per farci vergogna nella misura del possibile ». Inoltre, in un decreto della XI Congregazione Generale nel 1661 (2), fu deciso che il professore di morale non dovesse insegnare che principi generalmente riconosciuti; che occorreva usare il massimo rigore nella censura dei libri di morale; che, in ogni caso, i membri della Compagnia dovessero tenere un linguaggio molto riservato ed, interrogati su questioni di morale, rispondere soltanto per iscritto, e dopo avere interpellato i superiori ed ottenuto il loro consenso. '
Altre ordinanze contro il lassismo furono emesse dal Generale Oliva nel 1662 (3), e più tardi dalla XII Congregazione Generale (1682), in termini ancora più espliciti, contro i trasgressori, gli autori, cioè, di opinioni trop.po libere in fatto di morale (4).
Tali ordinanze dimostrano abbastanza chiaramente che anche in seno all’órdine' si riconosceva la necessità di porre qualche freno alle opinioni arrischiate dei suoi casisti; ma esse acquistano maggiore importanza quando si pensi che gli stessi gesuiti poi ne impedirono la pubblicazione. Ed, invero, riesce strano che, dopo il secolo xvii, non si siano più pubblicate ordinanze di tal genere, mentre nello stesso secolo si susseguono frequentissime. Ebbene: bisogna cercarne la ragione non già in un miglioramento della morale dei gesuiti, bensì in un cangiamento di cir-’ costanze. E noto che i più terribili avversari dell’Ordine furono i giansenisti (5).
(1) Pachtler, voi. Ili, p. 102; Mon. Germ. Paed., voi. IX.
(2) Decr. 22 Mon. Germ. Paed, voi. Il, pag. 647. (3) Mon. Germ. Paed., voi. IX, pag. 104, 107, xi8. (4) Decr. 2S, Mon. Germ. Paed., voi. II, pag. 99:
« È data facoltà al generale prima di tutto di allontanare dall’insegnamento i trasgressori e di pronunciare contro di essi delle pene severe, corrispondenti alla colpa, ed inoltre di punire con rigore i superiori colpevoli di negligenza nella repressione di opinioni troppo libere ».
(5) Sui rapporti fra gesuiti e giansenisti rimando al magnifico lavoro, più volte citato, di I. Huber, voi. Il, pagg. 240-906, ed all’opera classica del Sainte-Beuve, Port-Royal, Paris, Hachette, voi. I.
Ora; ecco, come l’antigesuitesimo, promosso dai giansenisti, potè influire a moderare la corrente del lassismo: «La compagnia di Gesù » dice un valente Studioso del mò vi mento pedagogico francese che prese nome da Porto-Reale « fu l’avversario naturale del giansenismo nella dottrina teologica e nelle pratiche, religiose. nella morale e nella pedagogia; ed il conflitto scoppiato su tutti i punti fu formidabile, eroico quasi. Èra il pensiero cristiano potentemente agitato da menti diritte, da coscienze severe, dà temperamenti violenti contro il pensiero cattolico, il cui senno politico veniva tratto all’estreme conseguenze di un lassismo rivoltante, per le vie di una casistica che lunghi secoli di sottili speculazioni etiche avevano preparata » (1).
Per poter combattere ad armi uguali i gesuiti, dovevano anzitutto spezzare nelle mani dei loro avversari l'arma più formidabile: l'immoralità, se non praticata, incoraggiata e tollerata dai casuisti. I giansenisti, dunque, hanno promosso le ordinanze sul lassismo.
Ma, passata la bufera, i reverendi padri della Compagnia ripigliarono, in fatto di morale, il vecchio indirizzo opportunistico; tanto è vero che al gesuita Elizaldo si vieta di pubblicare la sua opera Della vera morale in cui, alla fine .del xvn secolo, respingeva il probabilismo.
Alfonso Maria De Liguori (2), uno dei Siù notevoli rappresentanti del lassismo, 11, al contrario, grazie agli intrighi dei gesuiti, beatificato da Pio VII nel 1816 ed elevato alla dignità di dottore della Chiesa da Gregorio XVI e da Pio IX. Non si poteva avere una prova migliore che l’Ordine. ancor’oggi, rappresenta i Erincipt più genuini del lassismo e che la hiesa ne ha sposate ufficialmente le sorti! Giova, dunque, ripetere quanto
(x) P. Nicole, DeWeducazione d'un principe ed altri scrini. Trad, e note di G. A. Sacheli. Sandron, editore, Palermo, pag. 14.
(2) « ...Solemniter deelaravit sacra Rituum Con-gregatio nihil esse censura dignum in operibus S. doctoris (Ligorii). Herum ex decreto S. Poeni-tentiariae ’(5 Jul. 1831), a S. P. Gregorio XVI approdato, professor quivis teologi ae sequi et docere potest omnes opiniones, quas in sua theologia morali profitetur S. Ligorius nec inquietandus est con-fessarius, qui casdem in praxi sacri tribunalis poe-nitentiac sequitur ».
[6]
20
82
B1LYCHNIS
abbiamo detto più sopra: legittimo sorge il dubbio che dei maestri professanti la morale di un Alfonso de Liguori, siano precisamente adatti alla funzione di educare! Ma giudizi ancor più ostili sono stati emessi da altri, < Con la loro educazione, dice per esempio il Kelle, i Gesuiti hanno
(x) Kelle, op. cit.,pag. 170. È poi oggi tanto più legittimo, per quanto severo, un giudizio siffatto sull’opera educativa della Compagnia di Gesù, che in tempi abbastanza recenti il Generale Becks confermava che fatto dei loro allievi dei tartufi superstiziosi e dei fanatici senza giudizio, che
debbono durante tutta la loro vita lavorare per ¡ fini della Società sotto la condotta dei padri, pieni di dubbio e di inquietudine, ed appunto perciò tanto più proclivi a lasciarsi manodurre e sfruttare » (1).
Livio Tanfani.
(La fine al prossimo numero).
gli allievi non ricevono che l’insegnamento approvato dalla Compagnia e che i parenti non debbono dimandare, nè attendere niente altro. (Circolare intorno al Coiso triennale dì filosofia del Generale Becks, a. 1858. Mon. Gcrm. Paed., voi. XVI, pag. 574).
21
MORALE E RELIGIONE
NELLA VITA E NELL’ARTE DI OLINDO GUERRINI
(Cootinuaz. e fine. Vedi BilycJinit, fase, di Gennaio 1918, pag. 35).
Il
’uomo si presenta allegro, spensierato, orgiastico, quasi. Egli è amante della buona tàvola, di vivande succulente, inaffiate 1 dai vini generosi della sua Romagna. « Noi l’opulenta mensa abbiam per ara - E i cantici di Bacco al ciel leviamo ».Un | suo sonetto, d’intonazione solenne, quasi èpica, a Venezia, finisce così: « V’amo templi ove splende ogni tesoro - e d'arti e di memorie, ove Tiziano - pingea fanciulle dai capelli d’oro. - V’amo, trofei rapiti al mussulmano - di Candia e di Morea:
v’amo, v’adoro, - sogliole fritte e vin di Conegliano».
Un suo brindisi funerario per se medesimo: «morì la fede, la speme, tutto - e di me stesso io porto il lutto; - Riposo ai morti non al'bicchiere: - Servo da
bere!»
Ma i suoi gusti sono semplici: « Una casetta, e il mare - vicino all'uscio e cacio in abbondanza,. - una raccolta di bottiglie rare - e la santa ignoranza». E, rivolgendosi alle tortore: « Dite ai critici miei che ad ogni costo - vi vogliono veder ne’ miei sonetti - che mi piacete sì, ma cotte arrosto ». Gusti semplici, dunque, d’uomo sano: si direbbe di campagnuolo, dichiarati con altrettale semplicità e con ingenua schiettézza. Il vino è vino, non licore o ambrosia o nettare; il bicchiere è bicchiere, non coppa o calice o nappo.
In prosa, confessa le sue preferenze gastronomiche con esclamazioni di un candore pieno di comicità. « Quanti passeri! passer, deliciae meae puellae, e sono eccellenti in umido! » - « La vendemmia davvero è una bella istituzione! » - « Oh, i tordi, con la polenta, dopo aver girato la mattinata intera per i campi ad aguzzare l’appetito! Oh, i tordi con la polenta! Onore a Carlo Porta che li ha celebrati in versi immortali, egli che vide... i tordi più di trenta - in superba maestà - a seder sulla polenta - come turchi sul sofà. E come ci si beve bene dietro ai tordi, come si alza il bicchiere contro la luce per accarezzare cogli occhi le splendide tinte del vino! Dopo un banchetto simile non c’è che da desiderare un sigaro di contrabbando per giungere all’apogeo di ogni felicità umana ».
Tutto ciò ci dà la misura esatta dell’uomo sano e gioviale, cui piace di mangiar bene, di ridere e di scherzare: un capo-scarico, ameno, burlone in somma.
22
84
BILYCHNIS
Egli può essere avvicinato a quei fiorentini spiriti bizzarri delle antiche brigate spendereccie 0 a Cecco Angiolieri, a Folgòre da S. Gemignano, a Cene della Chitarra, spavaldo un poco come loro, ma distaccandosi da loro per una bonarietà e, diciamo pure, per una bontà che quelli non hanno. Come Vanni Fueci —- ma non, s’intende, ladro e barattiere come lui — egli ostenta il suo disprezzo verso il cielo, si prende beffe di Dio e de’ nemici e degli amici suoi, di tutti e di tutto, insomma, a cominciare — ripeto —- da se medesimo. La sua vita e, in fondo, l’arte sua è una burla continua. Quale burla maggiore e meglio riuscita di quella di essersi presentato al pubblico sotto le mentite spoglie di Lorenzo Stecchetti? E come a buon diritto egli poteva sorridere in faccia a’ suoi critici! «Sono essi che m’hanno applaudito quando mi credevano morto e due giorni dopo m’hannp gridato pericoloso e immorale perchè hanno saputo che son vivo! Al morto dissero: peccato che non sia vivo! Al vivo dicono: era meglio che fosse morto! » Altra burla, e questa atroce, quella del Giobbe. Poco dopo la fierissima polemica Carducci-Ra-pisardi, quest'ultimo aveva detto: «ai detrattori del Lucifero risposi col Lucrezio: ai detrattori del Lucrezio risponderò con la serena concezione del Giobbe». Ed ecco che, prima del suo Giobbe, si pubblica il « Giobbe serena concezione del professore Marco Balossardi », poema satirico, nel quale lo Stecchetti insieme a Corrado Ricci prendeva in giro tutto il mondo politico e letterario di allora (1882), e anche lo Stecchetti veniva così bollato: «Celebrar le baldracche ed i birbanti -alla tua sporca musa non ripugna, — e Dio bestemmi e fai le fiche ai santi, — pien dibinaedi vin come una spugna.—Ti fingi virtuoso e ti presumi — che del pubblico l’occhio temerario — ad indagar non giunga i tuoi costumi, — e velando col tuo riso bonario — l’avidità per cui tu ti consumi — cerchi di diventar bibliotecario! » E questo ritratto feroce lo aveva abbozzato proprio lo Stecchetti!
E lasciamo stare altre burle atroci e non atroci, letterarie' e non letterarie; lasciamo andare il sonetto terribilmente acrostico contro il barone Mistrali e dal Mistrali stesso pubblicato nel proprio giornale. Ma non si può passare sotto silenzio il tiro birbone che lo Stecchetti giocò ai critici togati che non prendevano sul serio i suoi studi storici e letterari, di non comune forza e di severa erudizione. Lo Stecchetti prese il nome di un personaggio imaginario (Leone Rimini) e pubblicò per nozze pitre imaginarie delle lettere di un certo Brighenti bolognese a un tale Albertazzi di Modena, lettere in cui, tra questioni d’affari e di strozzinaggio, si davano qua e là indiscrezioni sul Foscolo, sul Leopardi, sul Costa e su alcuni professori della -Università di Bologna. La burla arrivò ove doveva. Il Giornale Storico della Letteratura Italiana lodò e mise in rilievo l'importanza della pubblicazione. Imaginate quale rovina per i critici togati che avevano bevuto di grosso, quando si seppe che le lettere così importanti erano il frutto di una invenzione davvero spiritosa dello Stecchetti!
Così, lo Stecchetti si divertiva. Il Carducci sorrideva delle amene iniquità e delle allegre birbonate di Argia Sbolenfi, ma scuoteva il capo, mormorando: « pare impossibile! » sottointendendo: « pare impossibile che il Guerrini sciupi il suo ingegno così»; e aggiungeva, come a spiegazione dell’impossibile: «lui Ci si gode un mondo! ».
23
MORALE E RELIGIONE NELLA VITA E NELL’ARTE DI OLINDO GUERRINI 85
Questa è la verità. Lo Stecchetti obbediva al suo istinto di uomo contento, allegro e faceto. Ma tutta questa allegria è soverchia, e dà a pensare. Dà a pensare che anche questa perenne giocondità sia una finzione o se non propriamente una finzione, una maschera, un velo, una vernice. Che questo riso continuo sia un poco voluto, se non interamente forzato; che sia un riso di reazione. Che sotto questa maschera o velo o vernice di spensieratezza ci sia qualche cosa. Che sotto lo scetticismo umorista e beffardo ci sia un tarlo roditore. Il poeta stesso ci mette in guardia. « Oh, non tradire il mio dolor segreto, — pallido aspetto mio! Mostrati lieto, — chè la folla ti guarda. — ...Oh, se sapeste ciò che si nasconde — sotto al mio lieto riso e che ' profonde — sanguinanti ferite — m’han lacerato il core, oh se sapeste — tutto il martirio mio, voi torcereste — le pupille atterrite ».
Leggiamo, dunque, nel cuore del poeta. « Il mio cuore è uno scrigno di velluto — che con sette sigilli è- sigillato. —. Molti voller saperne il contenuto, — ma nessuno finor l’ha indovinato.— Lungamente il segreto ha mantenuto — c il labbro come il cor tenni serrato, — ma più a lungo tacer non ho potuto — ed i sette sigilli ho lacerato ».
Leggiamo, dunque, nel cuore del poeta senza pericolo di essere indiscreti. E forse stupiremo nel vedere che l’ateo, il blasfemo, il piccolo Capanco che gridava, in momenti d’inconsapevolezza: « impavido — sfido la morte e Dio », non si era chiuso in alcuna formula di negazione.
Ricordando l’infanzia lontana, cresciuta in asili di preti, egli ha detto: « La religione era seccante per pratiche esteriori infinite, le quali mi resero odioso per tutta la vita il culto ed i suoi ministri in genere ». (Questa veramente è la genesi di molti casi di miscredenza. Ma notate: io non ho parole di approvazione nè di condanna per alcuno. Da critico onesto e spassionato studio un fenomeno psicologico, e cerco di spiegarlo). « Ebbi pochi giorni (una settimana al più, sotto la prima comunione) in cui mi sforzai di credere a quel che mi predicavano, ma o per stanchezza, o per cecità religiosa, o per carattere indolente, non ci pensai più, per allora. Dopo, ho letto, ragionato, pensato c concluso che l’oltramondano è un punto interrogativo. Dio dà la fede e se a me non l’ha data non è colpa mia. Il ragionamento del Pascal il quale, nell’incertezza, opta per la religiosità, come quella che non fa perder nulla, ma forse tutto guadagnare, è un ragionamento da egoista. Non potrò mai credere che un Dio giusto mi condanni al fuoco in eterno per aver mangiato una fetta di salame il venerdì. Mi basta di non fare il male quando posso evitarlo e sono ancora di questo parere ». Egli sentiva, come il Maestro suo grande, il Carducci, l’affanno di « questo enorme mister dell’universo ». Sentiva la molestia di quel « punto interrogativo », e nulla vale meglio a dichiarare questo suo particolare stato d’animo (comune del resto a molti, che hanno il capo sulle spalle) come quel suo colloquio alle nuvole e al suo bambino. « 0 bianche nubi che ne ’1 ciel turchino — come fiocchi di lana il vento spinge, — perchè nova un’angoscia il cor mi stringe — quando lassù vi guarda il mio bambino, — ed un dubbio m’assal che ne ’1 divino — azzurro a figger gli occhi mi costringe, — un desio di tentar l’ignota sfinge — che l’avvenir conosce e il mio destino? —-
24
86
BILYCHNIS
Ma no, bambino mio, non ci diranno — queste nuvole bianche il gran mistero, — e, come noi, se viva Iddio non sanno. — Io stanco scenderò nel cimitero, — i tuoi riccioli biondi imbiancheranno, — povero bimbo, e non sapremo il vero ».
Questo è il suo stato d’animo, riguardo all’ignota sfinge, nel 1878. Ma nel 1903 l’interrogativo sarà ancora nella mente e nel cuore del poeta. Parlando, questa volta, alla sua cara bambina morta, si chiederà con nuovo struggimento d’angoscia: «E pellegrin per la deserta via — che dei morti conduce alla dimoia — il tuo babbo discende, o bimba mia. — Ma dimmi, dimmi, tornerai nell’ora — in cui spasimerò per l’agonia? — Dimmi, e di là ci rivedremo ancora? ».
Del resto, un suo Dio e una sua religione anche il Guerrini ce l’ha. « Perchè cercate un Dio pauroso e bieco nel silenzio forzato dei monasteri, nel raccoglimento voluto ed imposto delle chiese senza luce e dei chiostri senza vita? Qui (nel bosco) bisogna venire a cercare il Dio vero e vivo, il Dio che non ha bisogno di teologia e di sacerdoti; e così, nella rivelazione della natura, lo’ cercarono i pagani e lo trovarono. Il nostro Dio è fuori, dove sbocciano i fiori, dove maturano i frutti, e sussurrano il suo nome le querce mosse dal vento e cantano le sue lodi gli uccelli nella libertà del bosco. Il nostro Dio è fuori dalle chiese buie, nei cieli azzurri, nei campi ricchi d’oro delle messi, nel mare immenso, nella verità della giustizia, nel giubilo della bellezza ». Panteismo? Sia pure; ma anche il panteismo è una religione. E ripeto: non approvo e non condanno. Una fede religiosa non si discute, e non si ha il diritto di discùterla nè pure da chi ne abbia una diversa o negativa. A me premeva solo di dimostrare ancora una volta che il diavolo non è poi tanto nero quanto lo si dipinge; e che questo nostro diavolo è, in fine dei conti, un buon diavolo. Ne dubitate? Ecco una confessione più esplicita e precisa in questo campo, a un anno prima della morte dello Stecchétti: «...conclusi di restringere tutta la mia fede alle prime quattro parole del Credo (Credo in unum Deum) e negligere tutto quanto il resto come superfluo e parassitario »: confessione che — comprendo bene — dispiacerà tanto a certi credenti quanto a certi miscredenti; ma, in somma, voglio semplicemente distruggere una leggenda che presenta lo Stecchetti come una specie di anticristo.
E pensate che questo gaudente, questo epicureo fosse insensibile davanti alla sventura? Ma è suo, proprio suo questo accento — così sincero e così nuovo nella letteratura italiana — di pietà e di compassione davanti a un’orfana mendica: « Io sentii che talvolta ancor bisogna — pianger dell’infelice — e innanzi alla miseria ebbi vergogna — d’esser quasi felice ». Pensate che questo ironista mordente, questo fustigatore implacabile, questo combattitore terribile de’ suoi avversari, sia sempre in campo aperto contro di essi e si goda di straziarli e di calpestarli? •No: sa gittare, quando occorra, la spada e, con la gentilezza e la lealtà ond’eran nomati gli antichi cavalieri, gridare: « Va, dunque, o mesto fior da me cresciuto — porta a chi m’ama del mio cuore il voto, — ed a chi m’odia porta il mio saluto ».
E perchè egli mette crudamente alla berlina gl'idealisti, credete voi che sia l’iconoclasta di ogni ideale? e perchè parla con tanta sincera1 rudézza e, se volete, con tanta brutalità, credete che sia davvero, secondo una poco elegante definizione
25
MORALE E RELIGIONE NELLA VITA E NELL’ARTE DI OLINDO GUÉRRINI 87
rapisardiana, un « idealista della porcheria »? Ma no: egli « ricusa — le comode bugie dell’ideale »; se la prende contro i tartufi dell’ideale, contro i poeti pinzocheri che predicano il magro e mangiano di grasso; ma anch'egli ha un ideale, un ideale di mondizia e dì castità, un desiderio di amori eterei e spiritualizzati, una febbre di estasi angelicali. « Là su, là su, dove salir non anche — fu dato a’1 nostro desiderio intenso, — forse un dì voleremo, anime stanche, — spiriti vani e liberi da '1 senso. — Là su, là su, dove le stelle bianche — fan la notte più bella e- il ciel più denso, — anime volerem giulive e franche, — raggi di luce ne l’azzurro immenso. — Voleremo a delizie interminate — in alto, in alto, luminose larve — eternamente libere e beate. — Scorderemo là su l’antico errore — e questo mondo vii dove ci parve — balsam l’odio e tossico l’amore ».
Per questo, il Guérrini ha potuto dire con pieno diritto di se medesimo — piaccia o non piaccia ai critici consequenziari —: lasciva nobis pagina, sed vita proba est, egli che ben lungi dal correr dietro alle nuove Armide — come il lettore maligno può supporre per i di lui rimati racconti boccaccevoli — si <§ra raccolto chiuso e beato nella sua famigliola veramente adorata, nella quale è stato sposo e padre esemplare. Con pièna verità e giustizia ha potuto dire ancóra di se medesimo: « L'anime intanto castigate e buone — che. confondon gli apostoli e i poeti, — l’anime pie mi credono Un briccone, — perchè gli affetti miei cari e segreti — non portai tutti quanti a processione —■ ragliando salmi come fanno i preti ».
Sì, bisogna scendere nelle profondità del suo cuore per vedere di quanta soavità e santità d’affetti fosse capace il Guérrini, che è stato creduto troppo leggermente la seconda incarnazione di don Giovanni Tenori©. Bisogna leggere quella prosa deliziosa che s’intitola Monte Santo di Dio per conoscere di quanto perfetto amore amasse la sua donna; bisogna leggere, per comprendere come altamente sentisse le ansie,, le gioie e la gloria della paternità, quell’altra prosa dolcissima: Santo Natale, di cui non so non cedere alla tentazione di citarvi un brano che resterà tra le pagine più schiette ed eloquenti della nostra letteratura: « Mi ritornavano in mente i bei ‘giorni trascorsi in villa colla mia povera bambina e sentiva ancora le sue parole come se l’avessi lasciata poco prima. La rivedevo bionda, rosea, sorridente, attraversare con me i campi dove le spiche mature erano alte come lei, dove i passeri spaventati dalle nostre risa volavano via cinguettando. Mi ricordavo il giorno in cui andammo assieme a pescare ed io la portavo sulle spalle per attraversare l’acqua e stavamo tutti e due nascosti nell'erba fresca e alta delle rive, in silenzio, aspettando. Sentivo il suo grido di trionfo quando una lasca minuscola finalmente penzigliò dall’amo, e la vedevo ritta, coi ricci per le spalle e la felicità negli occhi, batter le mani e gridare. Oh, quegli occhi, azzurri come foglie di mammole, grandi come occhi di donna, io li vedevo e li vedrò sempre che mi guardano come nell’agonia sua, imploranti un aiuto che io non poteva dare, nuotanti già nelle nebbie della morte, ma sempre grandi, sempre azzurri, belli sempre e ora per sempre chiusi. Si può soffrire al mondo quanto soffrii adagiandola colle mie mani nella cassa e chiudendole gli occhi, i dolci occhi che non posso ricordare senza sentire qualche cosa che si straccia nelle mie viscere? Per questo desideravo che mi na-
26
88
BILYCHNIS
scesse ima bambina, e tremavo pensando che i presagi eran poco favorevoli al mio desiderio...
« Nella culla bianca, affondata tra i veli ed i pizzi, giaceva la nuova venuta, riposandosi della fatica fatta nel venire al mondo. Quando allontanai il copertoio per vederla, la neonata aprì gli occhi e mi guardò. Era lei! Erano i suoi occhi, i suoi dolci occhi, azzurri come le mammole! Era la povera morta che mi guardava ancora cogli occhi della sorella! Come non diventano matti i babbi in certe occasioni? Oh santo natale della bimba mia, che tu sia benedetto! ».
Più tardi, quando anche un bimbo completerà la sua gioia di padre, esclamerà con bell’impeto di gloriosa baldanza: « Ed anche a me da l’innocente cuna — ridon due bimbi che l’amor mi diede; — e quei due bimbi son la mia fortuna, — la mia bella speranza e la mia fede»; Ed è proprio nell’àmbito dell’asilo familiare che il poeta si riposa, si ritempra, si rinnova: « Qui, sulla fronte affaticata, un raggio — santo d’affetto piove, — qui riprendo la forza ed il coraggio — per le battaglie nuove». E ancora: «Oh maledette queste battaglie che l'odio avvelena! -Sia maledetta questa fatica mia! — Voce che in cor mi parli, che i giambi feroci mi detti, — solo un momento, solo un momento taci! — Ecco, da ’1 sol destati che allegra le candide cune — i miei bambini mi tendono le braccia. — Splende nei ricci biondi il tremulo raggio de ì sole — e su le bocche vermiglie il riso splende. — 0 miei bambini, orgoglio, speranza dell’anima mia, —- o miei bambini, voi mi guarite. Prendi, — prendi il mio libro, o Mcvio, inchiodalo pur su la croce; —- da queste cune sorrido e ti perdono! ».
Io mi sono lasciato andare a queste molte o troppe citazioni non per dimostrarvi la mia conoscenza dell'opera dello Stecchetti, ma unicamente per lumeggiare coi tratti più salienti di quest'opera, se bene dalla maggioranza più dimenticati o trascurati, la fìsonomia vera di lui, per correggere anche la imagine, stereotipata ma poco fedele, che di lui circola da tempo ora mai remoto tra il pubblico. E se io sono riuscito a ciò, come mi lusingo, di questa mia conversazione potrò andare lieto come di un atto di giustizia reso alla memoria del poeta. Del poeta che, sia pure con vere o presunte audacie, con gesti composti o tribunizi, strappando le foglie di fico, le foglie dell’ipocrisia, e tentando di sollevare a dignità di persone libere gli umili, gli anonimi, gli uomini-numero, ha obbedito a un alto ideale di sincerità e di verità, di libertà e di giustizia; e che raccogliendo nel 1903 le molte fronde e i molti fiori del siio giardino prendeva commiato dal pubblico, di cui fu per lunga stagione il beniamino, con queste parole:
«Giunto oramai dove dovrò fermarmi, guardo serenamente la via percorsa e saluto i giovani che mi seguono e che mi sorpassano nell’arte. Giovani, a voi! Non sdegnate di raccogliere questa bandiera ch'io credetti di verità nello scrivere, di libertà e di giustizia nel vivere. Raccoglietela da queste povere mani, stanche ma fedeli, deboli ma non vili, e portatela voi, migliore e più bella, in alto, in alto, nella radiosa gloria dell'avvenire! ».
M. A. Gabellimi.
27
PER LA CULTURA
DELL’ANIMA *
L’ANIMA MIA HA SETE DI DIO <*>
La fame è un grido d’allarme che scaturisce da un organismo sfinito. Tutti gli organismi materiali e spirituali vivono di prestiti. La vita è un capitale iniziale che ci è stato dato: preziosa eredità degli avi, accentramento di doni celesti, di ricchezze naturali e di risultati del lavoro umano. Ciascuno, nascendo, possiede quella dotazione prima.
Ma perchè questo capitale prosperi, occorre che continui a togliere ad imprestito dal mondo ambiente. Gli .organismi materiali vivono sulla Natura:, gli organismi spirituali vivono sullo Spirito.
Nella vita materiale c’è non solo il grave problema dell’alimentazione, che sembra dominare su tutti gli altri, ma c’è il problema della respirazione, più angoscioso e più urgente ancora. S’ha un bel avere magazzini colmi di viveri, se non si ha l’aria per respirare, è la morte.
Nel mondo spirituale è la stessa cosa. Ci occorrono un nutrimenti) e un’atmosfera. Per ricordarcelo, se fossimo in pericolo di dimenticarlo, v’è quel richiamo severo che si manifesta con un languore di. stomaco, un’angoscia fisica o un grido dcH’anima^
Esistono periodi d’un realismo beato e inferiore, in cui gli uomini dimenticano che appartengono nello stesso tempo al mondo
I giorni vengono, dice il Signore Eterno, in cui manderò una fame nel paese, non la fame di pane e la sete d’acqua, ma la fame e la sete di udire le parole di Dio...
Amos, VII, xr.
visibile e al mondo invisibile. Allora i valori che non sono valutabili in cifre, i pesi che non possono deporsi sulla bilancia: tutto ciò che non colpisce gli occhi, nè si può metter sotto i denti, nè indossare come ornamento, non conta più. È il regno dei bisogni e degli appetiti materiali, la perdita dell’equilibrio umano.
In periodi simili, i genitori, sognando all’avvenire dei loro figliuoli, dicono: « Hanno bisogno di guadagnarsi la vita; manca loro il tempo .per adornare il loro spirito di ogni sorta di nozioni sentimentali e poetiche che voi chiamate educazione morale e religiosa ». Nel corso di queste eclissi spirituali, alcuni, adoperando una espressione brutale, dichiarano: «l'onore? Che cos’è? Che potrei io comprarmi coll’onore? ».
In tempi simili si possono altresì vedere molti fra quelli che possedevano una vita interiore ed avevano incominciato a coltivarla, subire il contagio dell’ambiente e trascurare di mantenere quanto hanno ricevuto. La necessità di prenderne cura appare loro così poco urgente! Così, d'autunno si vede la gente camminar sulle frutta. La loro abbondanza è tale, che non si prendono la briga di chinarsi per raccattarle: quelle frutta, così saporite, così piacevoli quando
(•) Discorso pronunziato a Parigi nel dicembre 19x5.
28
90
BILYCHNE
fa caldo, c di cui una sola, nel deserto, in circostanze estreme, potrebbe salvare una vita. Quando nulla manca, quando gli avvenimenti sono favorevoli e l’esistenza facile, fa pietà di vedere il grande gregge disprezzare e calpestare delle provviste spirituali accumulate in altri tempi al prezzo dei più duri sacrifìci.
Ciascuno sa pure — ed è il frutto d’una analoga mancanza di saviezza — che, allorquando non vi sono state inondazioni per molti anni, si è tentati di negligere le dighe dei fiumi, e se nessun incendio è scoppiato da tempo, si smette di verificare le pompe. Succede una catastrofe, le dighe sgretolate non resistono, le pompe arrugginite non funzionano, e, per colpa dell'in-curia, delle vite umane son distrutte. Allora grida si elevano e s’invocano le cose prima disprezzate.
Il materiale e lo spirituale si assomigliano* come fratelli. La stessa osservazione vài per ambedue: Finché l’esistenza segue il suo corso ordinario, la massa vive nella spensieratezza. Non le viene l’idea che farebbe forse bene di pensare all’indomani e di circondarsi di precauzioni per non esser preda del primo incidente che capita. Ma nel giorno della carestia si è ben. felici di trovare il pezzo di pane che la previdenza ha messo da parte.
L’epoca nostra ci ha fatto fare ad un tempo felici e tristi esperienze. Esperienze felici sono quelle, ad esempio, in cui si può apprezzare l’efficacia d’un rimedio, la sicurezza di un’arma o la qualità dei veri amici. Rimedi, armi, amici si provano nelle circostanze''difficili e le provviste spirituali dimostrano la loro efficacia .nei momenti decisivi. Attraversiamo uno di questi momenti. Le provviste d’anime son diventate preziose e, per la stessa ragione, avviene lo smistamento tra ciò che vale e ciò che non vale, tra ciò che nutre e ciò che non nutre. Sono venuti sopra di ‘noi giorni tali, che la loro severità fa tabula rasa di tutto quanto non è solido. La vacuità delle cose e degli uomini superficiali ci è apparsa in una luce stridente. Come la tempesta porta via i tetti delle case, l’uragano che passa su di noi ha portato via molti ripari sotto ai quali le anime si credevano al sicuro. La miseria d’essere senza ricovero, triste sorte di tante vittime della guerra, è altresì, in un senso spirituale, la sorte di tanti nostri simili che vivevano in quietudine. Essi fanno la triste esperienza.
È questa l’ora in cui s’afferma la neces
sità d’una vita interiore, d’un focolare dove riscaldare e rifornire lo spirito. Uomini di recente convertiti alla vita seria e uomini che mai ne hanno conosciuta un’altra s’incontrano nel medesimo convincimento, e ciò era inevitabile. Abbiamo veduto i pilastri delle case, le basi di ciò che si chiama la felicità della vita, scosse, scrollate e talvolta rovesciate, ridotte in frantumi da eventi formidabili. Che ci rimarrebbe se non avessimo un appoggio in ,ciò che non può nè crollare, nè scomparire? Di che vivremo noi, se non potessimo attingere alle provviste interiori di cui parla il Profeta? Quando ci afferra la fame, quando ci divora la sete, quando la povera nostr’anima sconvolta cerca qualcosa per attaccarvisi e nutrirsene, che cosa ci resterebbe se non avessimo la parola di Dio?
Ma, direte voi, che cos’è una parola? E possibile nutrirsene? Pensate a coloro che si pascono di parole e finiscono nell’inanizione.
L’osservazione è giusta e dev’esser fatta. Badiamo. Una parola può essere meno di nulla. Una parola può non essere altro che una sonorità vuota, senza fondo e senza resistenza. Molti uomini non sanno ciò che vuol dire parlare. La parola per essi è-tutta d’apparato: è un divertimento da oziosi. Hanno talmente avvilito la parola colle dichiarazioni vuote, ch’essa è diventata simile ai biglietti di banca fuori corso: stracci di carta. La parola è stata screditata dai procedimenti e dalle pratiche dei bugiardi, degli ipòcriti, dei promettitori che non mantengono, dei brillanti chiacchieroni che agitano parole come si agiterebbe un sonaglio.
V’è di peggio. Non solo le parole ordinarie, umane, vanno soggette a perdere il loro valore. Simile disgrazia può capitare a quelle chiamate < parole di Dio ». Esse possono non esser altro che parole morte. Abbassata allo stato di formole, si ripetono invano. Non sono più che astrazioni o subtilità o povere ripetizioni. Non con delle formole si ristorano gii affamati, si abbeverano gli assetati, si curano i feriti, si consolano coloro che sono nella tristezza. Non è con frasi fatte che si destano le coscienze morte, che si percuotono come con una catapulta i baluardi dell’iniquità.
Vi sono dunque — e l’omaggio dovuto alla verità ci obbliga di riconoscerlo — vi sono parole, una volta divine e ispirate.
29
PER LA CULTURA DELL’ANIMA
9*
paiole la cui forma è consacrata, che si tolgono ad imprestito da quel vecchio libro sacro, la cui luce, tante volte è scaturita sul mondo, le quali son divenute inefficaci: sono lame che non taglian più, fucili che non sparano, fiammiferi che fanno cilecca.
Ahimè! lo abbiamo provato il sale ormai insipido e senza virtù; l’abbiamo sperimentata quella religione di morte e d'ipocrisia che fa più male che bene. L’abbiamo incontrata troppo spesso quella devozione di parata, di pie rodomontate e di ostentazione. Si porta come un bel vestito convenzionale, dal quale ci si riconosce, sotto il quale s’indovinano le persone della buona società che sanno vivere e che pensano bene. Quelle parole sono simili ai ciondoli fabbricati dagli orafi. Parole di Dio? E via! Non sono altro che fumo! Ed anche fumo sono quelle dichiarazioni fatte talvolta dall’alto ai popoli anelanti ad una parola che faccia risplendere la giustizia e metta in luce il diritto oltraggiato, e che non sono altro se non moneta di diplomatici, moneta a doppia faccia, di cui una dice bianco e l’altra dice nero. S’era chiesto del pane e si riceve una pietra.
Che pensare delle parole divine, allorquando servono di maschera allá scelleratezza dei malvagi pastori, tanto che i semplici come gl’intelligenti, scandalizzati dalla cinica usurpazione dei termini più sacri. Sono costretti ad esclamare: « Voi scherzate con essi come la mano empia cogli arredi dell’altare*».
È per causa di tutto questo che il nome di Dio è bestemmiato fra coloro che non lo conoscono.
Per fortuna, quando le anime hanno fame e sete, quando gli uomini sono miseri, abbattuti, schiacciati dagli eventi, Dio viene a loro e li nutre con parole che sono sostanza, forza, vita che da la vita.
La loro grandezza e la loro efficacia si nascondono alle volte sotto apparenze modeste.
Avete voi, talvolta, vissuto d’una buona piccola parola; avete voi, se siete un guerriero o un uomo occupato in un duro mestiere o in severe occupazioni, avete voi, al momento della partenza, portato via, nel più profondo di voi stessi una carezza di bimbo, un sorriso, una parola? L’avete voi mille volte ripetuta, ne avete voi vissuto nei giorni difficili, vi ha dessa rischiarati sulla via oscura, vi ha dessa confortati quando tutto pareva mancarvi o contrariarvi ?
Oppure avete voi piamente tolta da un cassetto, dov’era nascosta, qualche letterina, d’un assente o d’una assente, oppure d’uno di quegli scomparsi che non sono più separati da noi da un’assenza la cui durata si può calcolare, ma che sono assenti per sempre nell’economia presente? Avete voi talvolta stretta contro il vostro cuore una tal lettera, l’avete voi riletta, ha dessa assunto agli-occhi vostri una luce e come una fiamma che vi rischiarava, vi ha dessa sostenuti come sostiene un viatico? Allora voi sapete ciò che può essere e qual’effetto può produrre una vera parola.
Ma nessuna parola di alcuna creatura, di alcuna madre, anche la migliore, nessuna parola dei viventi o dei morti, nessuna carezza di,bimbo, nessuna promessa d’uomo sulla quale si può costruire la propria casa, vale la buona, dolce, carezzevole e sorridente parola dell’Eterno, del Dio buono dei giorni cattivi, dell’Amico che viene a noi, quando tutto ci ha lasciati, quando non abbiamo più nulla, che ci guarda e che, talvolta, non dice nulla, ma il cui silenzio stesso ci avvolge, ci raccoglie da terra, ci solleva e ci compenetra.
• • *
La parola di Dio è anzitutto una parola riparatrice, consolatrice, una parola che guarisce. Ma tale parola non consiste in vocaboli, in formole, in frasi tradotte dall’ebraico o dal greco, in litanie ripetute colle labbra. Gesù ha detto: « Le mie parole sono potenza e vita •: è forza, è energia che circola in noi, che vibra attraverso noi.
Quando più nulla ha efficacia, quando più nulla giunge sino a noi, in fondo alle anime nostre si desta Colui che è più presso a noi di noi stessi. Colui che pòrta i nostri dolori, Colui che ode i nostri sospiri, il Compagno inseparabile che è sempre lì e che si stende accanto a noi nella tomba quando vi scendiamo, perchè la fossa sia meno nera. « Non temere, sono con te! Quand’anche si scuotessero i monti e crollassero i colli, il mio amore non si allontanerà da te e il mio patto di pace non si cancellerà. Io vi consolerò come consola una madre. Non vi lascerò orfani... E Dio stesso cancellerà tutte le lacrime dai vostri occhi ». Il libro santo è pieno di voci rassicuranti che i credenti antichi hanno intese nelle loro angosce, e chiunque si confida allo Spirito invisibile che non ci lascia mai. ode le medesime voci, sotto forme sempre nuove, sorgere dal fondo dell’essere suo.
30
92
BILYCHN'IS
La parola dell’Eterno è. anche una parola di luce, una parola di verità. Il mondo è pieno di dolore, è vero — tutti i poveri mutilati, tutti i lutti ne sono la prova — ma è pieno altresì di menzogna. Vi sono menzogne dovunque: nella famiglia, nella Chiesa, nella politica, nel mondo sociale, nel mondo internazionale, llannq fabbricato tale quantità di gaz asfissianti, hanno talmente moltiplicati i miasmi, i bugiardi, hanno così intensamente esercitata la loro industria malsana, che le lacrime ci riempiono gli occhi e che ciò che respiriamo'di-strugge gli organi respiratori.
Se non ci fosse — al disopra delle menzogne umane, al disopra di questa nera e tenebrosa cospirazione di tutti i bugiardi al minuto, di tutti i bugiardi all’ingroso, di tutti i bugiardi all’interno e di tutti i bugiardi all’esterno — se non ci fosse al disopra di tutta quella nebbia mortifera, lo squarcio che lascia vedere il cielo azzurro e le stelle, che lascia passar l’aria pura e tonificante dell’infinito, è un’pezzo che le anime umane sarebbero morte asfissiate, come poveri animali rinchiusi sotto una campana di sterminio. « La tua parola è una luce sulla mia via ». « Le tencbie stesse, per te, non sono oscure. Il popolo seduto all’ombra della morte ha veduto una grande luce ». L’anima dei credenti, di tutti i tempi ha camminato in quella luce.
La parola di Dio è una parola di verità, non solo nelle pagine rivelatrici della Bibbia ma nella vita di tutti i giorni. Talvolta la pronunzia un fanciullo o un ignorante: talvolta scaturisce dalle labbra d’un morente, come un ultimo grido. In mezzo al trionfo selvaggio della forza bestiale, qualcuno si accascia: egli pronunzia debolmente un’ultima parola; e, più forte, più potente dei cannoni rombanti, più rapido a spargersi che la stessa menzogna, dominando i clamori di tutti coloro che vorrebbero coprire quella voce, quell’ultimo sospiro conforta lontano le coscienze sconvolte. In lui, esse hanno ritrovato l’accento della voce del Pastore che dice: « Le mie pecore odono la mia voce »: e chiunque ha una coscienza, un residuo d’anima rettilinea, ode quella parola.
Non v’ingannate; la voce di Dio non è confinata nè in questo libro, nè in altri libri. .Fortunatamente, si trova qui; ma, ancora più fortunatamente, si trova in tutti i luoghi in cui delle coscienze si destano e comprendono le grandi lezioni della vita e della storia. Basta oggi adoperare
i propri ocelli per vedere ed i propri orecchi per udire. Intorno a noi, uomini di Stato, capi militari, semplici soldati, giornalisti, hanno proclamato delle verità eterne, hanno reso testimonianza a ciò che non può nè morire, nè diminuire. I lampi del Verbo ci abbagliano, e sentiamo passare il suo tuono.
Del pari che il Dio giusto e misericordioso) è altresì un Dio temibile, quella voce, per la quale il suo Spirito si manifesta, è spesso una voce vendicatrice. I vecchi profeti erano pieni di pietà per l’oppresso, per la vedova e l’orfano, per coloro che sono maltrattati, che sono schiacciati e flagellati dalla vita; ma essi èrano altresì come pilastri irriducibili e formidabili opposti alla tirannide; all’iniquità, all’impostura, a tutto ciò che è cattivo. « Ti darò una parola di fiamma, diceva l’Eterno al suo inviato, farò la tua fronte dura come il bronzo e resistente come il diamante. Va’ verso di loro e non temerli! La mia parola è un martello che infrange le rocce ». Per questo, dovunque si commette la rapina, il ladrocinio, la spogliazione, l’iniquità si è provato il terrore del profeta, il terrore dell’uomo giusto, il terrore di colui che altro non ascolta se non la verità, che ne è il portatore e il propagatore da parte di Dio.
E allorquando la misura dei delitti è colma, allora viene il giorno in cui quella S»aróla di Dio che in certe ore raccoglie i enti, li cura, che passa attraverso la vita degli uomini con precauzioni materne; viene il giorno in cui quella parola di Dio appare terribile, vendicatrice, armata di tutte le folgori. Tutto cede davanti alla sua marcia! Quando è passata, l’umanità stupita esclama: Afflami Deus et dissipati sunt: « l’Eterno ha soffiato ed eccoli dispersi ».
Oh! amici miei, noi che lacrimiamo, abbiamo bisogno d’una parola che consoli; noi che sentiamo la nostra respirazione resa difficile dall’aria pesante e opaca della menzogna dell’ambiente, abbiamo bisogno d’un raggio di verità; noi che assistiamo così spesso al trionfo orribile di tutte le violenze e di tutte le tirannidi, abbiamo bisogno d’un lampo che colpisca e che, mentre proietta una luce immensa e distruttiva sul volto pallido dei delinquenti, orienti la strada della gente onesta.
E poiché abbiamo bisogno di ciò, bisogna che ci manteniamo in condizione da
31
PER LA CULTURA DELL’ANIMA
93
approfittarne. V’è un modo di accudire alla propria* anima che non le permétte di approfittare delle parole divine. V’è un modo di negligersi, di rinchiudersi, v’è specialmente un modo d’essere neutro, complice di ciò che è cattivo; v’è, d’altra parte, una forma d’incredulità che non fa credito a Dio e non crede a ciò che dice in fondo a noi stessi la voce riparatrice. Lottiamo contro tutto questo. Manteniamoci in grado d’approfittare della fonte che può rifornirci. Facciamo quest’onore alla verità su Seriore e invisibile, di non tener nulla al ¡sopra di essa, di amare la sua stessa severità, salutare e purificante, allorquando ci assale come una spada. Pensiamo che essa è, dopo tutto, la sola cosa necessaria, perchè tutte le altre, senza di lei, non sei-vono a nulla.
Bisogna altresì fare alla parola divina, alla santa verità che domina le nostre fragili esistenze, questo onore: di educare i nostri fanciulli, la nostra gioventù e la nostra adolescenza, in modo tale, da deporre nelle loro anime delle provviste di cui profitteranno nei tempi dimoili. Non ama suo figlio e sua figlia, colui che raccoglie per loro soltanto di che nutrirli più tardi: quando anche fosse il miglior padre di famiglia, il più economo e il più ordinato, quand’anche rifiutasse a se stesso un tozzo di pane perchè i piccini non abbiano fame. Non ama i suoi figliuoli colui che li manda nelle migliori scuole, che fa dar loro la migliore istruzione, ma che pensa soltanto al loro intelletto, ad ornare la loro memoria d’ogni sorta di conoscenze. L'uomo non vive solo di pane e di sapere. 'Abbiamo conosciuto la scienza criminale, la scienza inumana, la scienza che fa dell’uomo un lupo per gli altri uomini.
Ciò che occorre è che il cuore sia nutrito, che la coscienza sia elevata, diretta, raddrizzata quando si smarrisce. Quindi fate provviste per voi e pei vostri figliuoli, cercatele dove si trovano. E sappiate che, per non mancare dell’indispensabile nei giorni
di.carestia, è essenziale di guardare più in là del minuto presente. Quando la fame ci afferra, non è più il momento di spargere la semenza sui solchi per potere mietere poi, perchè, aspettando la messe, si può morire di fame. Bisogna essere previdenti, non lasciar passare il tempo di grazia, senza preoccuparsi di ciò che può venire in nostro soccorso e sostenerci nei tempi difficili.
• * •
Dio mantenga nei cuori vostri la fame, la buona fame, la sete, la buona sete. Quando l’anima vostra avrà fame e sete, non lasciatevi dire da nessuno: « Mio povero amico, mi dispiace tanto, ma devo dirti che non c’è nulla per te. La povera umanità ha fame di giustizia, di speranza, d’ideale, d’immortalità, essa morrà nella sua fame; ha sete, morrà nella sua sete; si dispera sulle tombe, finirà nella sua disperazione. Non v’è nulla quaggiù, e non v’è nulla al di là per le anime che hanno fame e che hanno sete. Rassegnatevi: è il meglio che possiate fare. Vi diremo tante buone cose, e vi terremo un mondo di discorsi simpatici, ma rinunziate alle chimere ».
Non ascoltate quel linguaggio, non vi lasciate abbattere: La fame, è la prova del B.ne, la sete è la prova dell'acqua. Se ab-àmo fame è che esiste in qualche luogo qualcosa per nutrirci. Nelrarmonia immensa delle cose, le precauzioni son prese perchè la fame sia soddisfatta e la sete estinta. « Beati coloro che hanno fame e sete, perchè saranno saziati! ». Dunque se avete farne e se avete sete, non lasciatevi morire, coltivate quei nobili bisogni che vi faranno trovare di che soddisfarli. Per mezzo di tale fame e di tal sete, l’umanità è stata liberata dai suoi appetiti inferiori; sono un segno di nobiltà in noi, la prova che non siam fatti solamente colla polvere della terra, ma che siam fatti con un soffio di Dio..
C. Wagner.
32
ROBERTO ARDIGÒ
La notizia del tentato suicidio di Roberto Ardigò mi ha commosso sinceramente e profondamente, e mi ha fatto deplorare una volta di più che i principi della filosofia positivistica e materialistica abbiano da tanti anni allignato in quell’uomo così buono, buono nella sua vita privata, buono ncll’eser-cizio del suo ufficio di maestro, buono coi suoi discepoli, buono con quanti venissero in contatto con lui, buono persino, o forse più che mai, nei suoi spropositi.
Insegnava, non una pessima filosofia, ma una negazione di filosofia, ed era buono, perchè in buona fede, tanto che credeva — si può giurare — di compiere la migliore delle opere buone, pur compiendone una cattiva. E ora lo sbaglio di tutta una vita è conchiuso da uno sbaglio finale. Se non ci venisse fatto di pensare che, a novant’anni, quel mite bambino dalla lunga barba cappuccinesca sia stato turbato nella mente dagli ultimi avvenimenti disastrosi di Italia, e forse anche dal terrore dei bombardamenti tedeschi nella màrtire Padova, e che il suicidio ne sia la prova, noi diremmo che tutto il cumulo di sofismi tessuti a fil di logica in tanti volumi dal buon vecchio filosofo è stato riassunto in un dunque più che
mai logico e più che mai spropositato. « Ma perchè non sono motto? Lasciatemi morire. A che serve la vita?» Così ha detto ai medici, solleciti di cure intorno a lui, Roberto Ardigò. Non è questo un dunque?
« Non ho più nè l’alacrità, nè l’agilità dell’ingegno, per scrivere; non ho più forza d’insegnare; son reso inutile a me e agli altri nell'unica forma a cui avevo ridotto e costretto la mia attività: finiamola. Va in lungo la fine naturale: af-rettiàmola con un atto violento. Adesso, che il precipitato chimico del mio cervello ristagna, che le emozioni ntrvee diminuiscono, che quanto potevano dare i miei tessuti cellulari Khan dato e il getto ne è cessato o diradato, come i battiti del mio polso e del mio logoro cuore: finiamola ».
Fermiamoci a questa ipotesi, e facciamo pur conto che essa Sia vera. È un conto che ha novantanove probabilità su cento di essere esatto, pure ammettendo che, come per qualunque altro fatto, anche qui le determinanti causali siano state varie e molteplici.
Il dunque, dicevo, fu logico.
E perciò fu il più deplorevole e lagri-mevole errore, perchè fu aridamente logico. La vita nelle sue forine più elevate, complesse, feconde, è retta dall’irrazionale, è nell’irrazionale, in quello che così si chiama, si nasconde quanto
33
NOTE E COMMENTI
95
di più certo ha l’uomo. L’uomo, non la testa dell’uomo. Tanto è vero, che l’umanità nel suo complesso, se vive, e tenta, e ardisce, e opera, e progredisce di luce in luce, lo deve a qualcosa più che la testa e i suoi calcoli, a una logica superiore, che apparentemente non ubbidisce a nessuna legge di concatenazione fra atqui ed ergo, o che argomenta da premesse e principi d’intuizione semplicissima e complessissima, e conchiude a risoluzioni che paiono sofismi e sono realtà di vita, che paiono pazzie e sono le maggiori saviezze che guidano il mondo... persino dei filosofi, che paiono estranee a quei principi e a quelle premesse e vi si connettono, vi si devono riconnettere, per legami che sfuggono alle analisi della logica volgare e superficiale, ma tenacissimi, dacché producono gli effetti più maravigliosi, l’eroismo, mettiamo, le divinazioni geniali, il sacrificio. Se l’Ardigò fosse stato capace d’assorgere a questa logica superiore, o almeno almeno di sospettarne l’esistenza, la consistenza e la preziosità, non avrebbe conchiuso o tentato di conchiudere la sua povera vita con un dunque così logico e così miserabile e miserando come il suicidio. Perchè la vita si può arrivare a sentire, anche quando sembri non poterla più pensare, come un posto che non si diserta (vecchia immagine, ma così efficace!), un dovere a cui non si dice: basta; perchè — questo sopra tutto — pure ridotta a oscillante, fragile, filiforme, ha sempre la sua finalità più alta, quella di dar tempo e luogo all’uomo di crescere in virtù e bellezza morale; il che avviene spesso in ragione inversa della vigoria delle membra e della freschezza dell’età.
Di questa logica superiore Roberto Ar-digò non fu capace mai, e tanto meno sul declinare dei suoi novantanni, e il dunque volgare e rigoroso venne con la
inesorabilità d'una legge, con la ineluttabilità del necessario.
Tenne fede a se stesso. — Misera e mal tenuta fede!
Fra tante vicende di crisi ideologiche e psicologiche; fra tanti tentativi di trovar nuove vie al pensiero; nel sovrapporsi di sistema, a sistema; nel prevalere fra i migliori ingegni l’abitudine di non contentarsi d’una posizione presa per iscrutare il poliedrico mistero Che avvolge l’universo, riguardando ogni tentativo come un mezzo di relativo, semplicemente relativo, valore, al fine di scoprire il vero; adottandosi dai meglio avveduti il criterio pratico di diffidare delle teorie anche più luccicanti e allettataci, ove risulti che esse, per quel che sono e valgono in sè stesse, mettono capo a turpi, anguste, egoistiche conseguenze; Roberto Ardigò, già, prese il suo sistema troppo come fine a sè stesso, e poi vi rimase immobilmente attaccato. Lo spiritualismo, rinato, meglio ripullulato, di sul terreno dove l’aveva calpesto il positivismo materialistico per soffocarne ogni germe, e rifiorito e vigoreggiante nell’opera dei più gagliardi investigatori dello scorcio del secolo passato e dei primordi di questo, non disse nulla all’Ai-digò, ed egli seguì a scrivere le sue faticose e affaticanti opere, così lontane dai suoi vecchi concetti di seminario e di canonica, e di andatura così disperante-mente seminaristica c canonicale, ripetendosi senza posa. Pareva, a sessanta, a settanta, a ottant’anni, ed era, lo stesso identico uomo di tanti anni prima e sempre nell’identico atteggiamento davanti all’identica rosa.
0 forse una cosa gli disse tutto questo: che il suo tempo era passato, che l’opera sua era superata, che egli rappresentava ormai un rudere, a cui pochi faciloni e verbosi enumeratori di fatti e di fenomeni psicologici e sociologici facevano atto d’inchinarsi, uh poco per abitu-
34
9b
BILYCHNIS
dine e molto per darsi aria e mettersi in mostra. Ed egli se ne sentì contrariato, umiliato, amareggiato... forse. Ed ecco che io tento una seconda ipotesi. Di nuovo, con tutta probabilità essa ci avvicina al vero, compiendo la prima. La tristezza dell’animo deluso accrebbe l’efficienza del dunque logico, che già sa-sebbe bastato per condurre R. Ardigò alla sua mortale risoluzione.
È vero che Enrico Ferri, con la solita svolazzante disinvoltura, censuil clin eam ivit senlentiam riguardo al neospiritualismo (il neo è di E. Ferri), che esso non ha raggiunto nessuna convinzione nuova sui destini dell’uomo, riducendosi ad una ripetizione, con sole varianti verbali, delle astruserie filosofiche invano succedutesi da Platone in poi; ma è pur vero che a uno spirito infantilmente ingenuo come quello di Roberto Ardigò il prevalere, nel mondo del pensiero e delle ricerche, altri metodi dal suo; il vedersi passar davanti, senza un cenno, altro che di vago ricordo, molti uomini e molti giovani fra i migliori della nuova generazione, mentre ad altri giorni lontani (come dovevano parergli lontani!) aveva sentito into-narglisi da tutte le parti che egli, proprio egli, Roberto Ardigò, era il massimo rappresentante della filosofia in Italia, e giovani, e uomini, e fin donne sapute, gli si affollavano attorno a chiedergli volumi e volumi — che pare impossibile! — è pur vero, dico, o per lo meno verosimile, che a lui ciò dovesse arrecare un senso molesto della vita e di sè stesso. Rimaneva solo; e a ottanta, a novant’anni, ripianer soli sa di sepolcro. In ciò — se è esatta l’ipotesi, come io amo di crederla — il maestro
Ardigò si mostrò — diciamo: si sarebbe mostrato — spirito ben più serio del discepolo Ferri (perchè Ferri fu discepolo di Ardigò — lo sapevate? — dall’anno tale al tal altro; e anzi il maestro Ardigò dedicò a lui, discepolo Ferri, la Sociologia — anche questo sapevate? Stiano! perchè Ferri l'ha riridetto al mondo scrivendo un articolo necro-logico di Roberto Ardigò ancora vivo). Ferri si deve credere sempre seguito da numerosa clientela di neo-pensatori, i quali, se egli, bontà sua, dichiari e sentenzi, che il wso-spiritualismo non è altro se non una ripetizione, ecc., ecc., gli battano le mani, come fanno, o facevano, alla Sapienza. Ardigò — forse —-fu più serio e positivo, e — forse — prendendo la filosofia non materialistica e il metodo, non materialisticamente positivo, da quel giovane di belle speranze fallite di Platone in poi, come astiu-serie, dubitò che l’affare potesse dipendere da impotenza del suo cervello. Chi sa?
È doloroso per noi fare quéste melanconiche ipòtesi a fine di spiegarci in qualche modo il tentativo suicida di Roberto Ardigò; come è doloroso dover frapporre al discorso tutti questi forse ; ma purtroppo son soli, o presso che soli, questi forse che ci salvano ancora qualche cosa di questo filosofo, il cui estremo atto insano ci ha tutti profondamente contristati. Se dovessimo cancellare tutti questi forse, di Roberto Ardigò non rimarrebbe a dir altro che fu una persona, oltre. che intemerata e laboriosa, sincera e di buone intenzioni.
Del resto, anche questo solo sarebbe un grande elogio. In fondo, vale ben più un uomo che un filosofo.
Qui quondam.
35
|CRONÄCHE|
NOTE DI VITA E DI PENSIERO EBRAICO
II.
4. IL SIGNIFICATO IDEALE DEL PROMESSO RISORGIMENTO EBRAICO
Dopo la dichiarazione del Governo inglese favorevole al riconoscimento d’una sède nazionale ebraica in Palestina, come risultato di questa interminabile guerra di popoli, c’è stato a Londra un meeting che ha fissato il significato ideale e la portata politica di questa promessa.
Nel mondo d’Israele e presso gl’intellettuali che seguono con simpatia le vicende di questa gente dalle molte vite, il mes-Sio di Balfour è stato accolto con l'entusiasmo e quella lieta meraviglia con cui si accolgono le grandi promesse della storia. Sono le giornate del grande riscatto ebreo che ricordano il proclama di Ciro re dei Persiani e il primo ritorno da Babilonia donde vennero: la breve ricca storia del II Tempio, i Maccabei, una parte della letteratura ebraica canonica, apocrifa, pseudepigrafica, apocalittica, la creazione della Sinagoga, il fermento dell’ideale ’ messianico e poi il movimento che portò la Bibbia all’Umanità.
Oggi siamo all’aurora del terzo ritorno: e da questa resurrezione si attende non solo la libertà d’una razza e d’una nazionalità, ma il rifecondarsi d’un ideale, non morto mai nei secoli, ma un po’ soffocato, e il ritorno al sole e alla vita d’una energia spirituale che è una delle massime forze della storia interna dell’umanità.
Il significato del fatto trascende per molti lati i confini d’un popolo — del popolo d’Israele — per assumere un valore teorico, morale, universale. Dai discorsi fatti al Comizio di Londra sotto gli auspici dell’impero britannico che raccoglie tante civiltà; tante tradizioni, tante fedi, tanti continenti, tante razze, questo si-Snifìcato ideale è stato espresso con mira-ile concordia e altezza di sentimenti.
Lord Robert Cecie ha detto che uno dei più grandi passi, anzi il più gran passo verso la politica della libertà e della giustizia, il Governo inglese lo fa riconoscendo il sionismo. « Non è soltanto il riconoscimento d’una nazionalità: è qualche cosa di più. È la resurrezione d’una nazione. Io per me credo che questo grande evento avrà una larghissima influenza sulla storia del mondo e tali conseguenze che nessuno può prevedere per la futura storia della razza umana ».
M.r Herbert Samuel, ex ministro degli interni, ha affermato che una delle ragioni per cui egli sostiene la politica d’una Palestina ebraica è la speranza che il genio della razza sia di nuovo capace di dare al mondo una civiltà splendida e singolare.
La stessa nota ha vibrato nelle parole del colonn. on. Sir Mark Sykes:
« Questo comizio segna non già una svolta nella storia della vostra razza, ma nella storia del mondo intero. Forse voi sentite che il vostro destino può far di voi il ponte fra l’Asia e l’Europa, per cui recherete la spiritualità dell’Asia all'Europa
36
98
BILYCHNIS
e la vitalità dell'Europa all’Asia, lo vedo qui qualche cosa che è più grande d'un sogno o d’una Lega delie Nazioni. E una lega di Continenti, una lega di razze, una lega d’ideali. È una grande visione. Voi non andate a costituire una dominazione di sangue, nè una dominazione d’oro, ma il dominio d’una gran forza intellettuale, lo sono convinto che voi creerete in Palestina il gran centro d’ideali che irradieranno in ogni terra del mondo dov’è la vostra gente ».
E Israele Zangwill, il grande novellista ebreo-inglese, ha detto fra le altre cose profondamente brillanti: « Sette Crociate verso la Terra Santa hanno significato tutte massacro di Ebrei; se l’ottava Crociata vorrà dire la Palestina agli Ebrei, se sarà veramente una Crociata cristiana, questo fatto sarà una prova d’un nuovo ordine universale d’amore e di giustizia. Facciamo un grand’atto di fede e proclamiamo dal nostro centro di Gerusalemme la fratellanza degli uomini ».
Viviamo dunque un momento idealistico, non solo per merito dell’Inghilterra, ma anche per virtù della specifica storia ed anima ebraica. E questo aspetto non materialistico della resurrezione d’Israele è reso più profondo e più concreto dalle voci di simpatia delle varie Chiese inglesi e dei loro rappresentanti. È un dolce spettacolo per chi ama quella cosa maravigliosa. quantunque naturale, che dovrebbe essere la fratellanza delle religioni, specie di quelle discése, come rami, dal tronco della idealità biblica.
Vediamo alcune di queste voci sacre: a) Della Chiesa d'Inghilterra:
li vescovo di Bath and Wells scrive:
« Io ho avuto sempre il desiderio che questa grande aspirazione si compiesse e confido ch’essa sarà uno dei più importanti effetti di questa formidabile guerra. Se la Palestina ritornerà la sede nazionale della razza ebraica sotto il vessillo britannico, grandi benefici ne verranno al mondo intero ».
Il Vescovo di Birmingham:
« Tutti coloro che aspirano a intendere il romanzo della storia ebraica godranno alla speranza della restaurazione del popolo degli Ebrei nella loro terra nazionale ». ’
Il Vescovo di Chelmsford:
«Dall’aspetto religioso la decisione del Governo inglese è non solo il più interessante ma il più importante episodio di questa guerra ».
Il Vescovo di Liucoln:
« Quale uomo che ami la Sacra Scrittura e sia amico della libertà non deve godere all’idea del popolo ebreo che ritorna alla sua terra? È Iddio che li manda».
Il Vescovo di Norwich ha mandato in ebraico le parole bibliche: « Benedetto l’Eterno Iddio, Dio d’Israele, solo autore di prodigi ».
Il Vescovo Welldon:
« Non v’ha Cristiano che non guardi a questa restaurazione con un profondo senso di simpatia e di buona, speranza, poiché essa sarebbe uno di quei gran fatti che possono esser considerati decisivi nella storia dell’umanità ».
is) Della Chiesa cattolica:
Il Vescovo di Clifton:
« La ricostituzione delle piccole nazionalità è uno dei fini per i quali siamo entrati in guerra: e se la guerra riesce ad attuare tutti i suoi obietti e a recare la pace universale, non può esser certo dimenticata quella nazione che, secondo le parole del Cardinal Newman, ha avuto " una storia così grande, così romantica, così terribile ” ».
Il Vescovo di Clonfert:
« Nella mia qualità d’irlandese, godo alla notizia che il Governo britannico studia la ricostituzione d’una patria per il popolo ebraico nella sede della sua antica nazionalità. L’attuazione di quest’idea dimostrerebbe, io credo, un’opera meravigliosa della Provvidenza per ulteriori fini ».
• c) Le altre Chiese:
Il Rev. Alex. Alexander, Moderatore della Chiesa presbiteriana d’Inghilterra:
« Da molti dei nostri devoti sono state alzate le pili profonde preghiere per il compimento delle aspirazioni ebraiche. La terra, e il popolo a cui la terra appartiene di diritto, ci sono carissimi. Quale cittadino e amante di libere istituzioni, prego che il popolo ebraico possa presto adem-K‘ere ad una nobile parte nella storia come ce l’antico».
Il Rev. Thos. Phillips, Presidente del-l’Unione battista:
« Ogni cristiano amerà vedere l’antico popolo di Dio nella Terra Santa... Lo studio dei libri di Montefiore mi ha fatto accarezzare la grande speranza che gli elementi spirituali del Giudaismo e del Cristianesimo si accorderanno per evangelizzare l’intero mondo ».
Altre numerosissime voci di simpatia
37
CRONACHE 99
vengono dalle sfere diplomatiche, politiche, accademiche inglesi; fra gli altri dal visconte Bryce, dal visconte Grey, da Lord George Hamilton, da Arthur Henderson, da John Hodge (Ministro delle Pensioni), da sir Alfred Mond, ecc. È un entusiasmo che ricompensa in parte il popolo ebreo dèi suo lungo martirio e gli fa sperare giorni più lieti e migliori destini per le sue folle e per l’umanità.
5. UNA STRANA TEORIA SULLA FILOSOFIA DELLA LETTERATURA EBRAICA
11 dott. S. M. Melamed ha voluto, costruire in un articolo <\e\V Ha-tóren una nuova teoria sulla filosofia della letteratura ebraica.
Fra le molte opere scritte da studiosi europei sulla letteratura d’Israele — egli dice — non c’è che un libro intorno alla poesia ebraica, quello del Delitzsch, il quale penetri nello spirito e nella sostanza delle creazioni bibliche. Ora qual è il mistero che spieghi la forza storica della letteratura ebraica? È un fatto che questo popolo che vive per miracolo è riuscito ad esercitare una profonda azione sugli idiomi di due popoli energici, l’inglese e il tedesco. Tutti i geni della letteratura europea, da S. Agostino a Federico Nietzsche, pare non avessero altra aspirazione in vita loro che quella di raggiungere l’altezza e la profondità dello stile ebraico, quale fu creato dal genio letterario d'Israele. Esteticamente è certo superiore la letteratura greca: ed un contenuto morale altissimo c’è pure nella letteratura degli antichi indiani e nelle Leggi di Manu. In che consiste dunque il magnetismo della letteratura ebraica?
Ecco: essa è unica nel suo genere, coin’è unica la religione ebraica, perchè anche essa è pura e semplice. Come la religione ebraica è spoglia di contenuto sessuale, all’opposto di tutti gli altri sistemi religiosi, così il centro di gravitazione della letteratura d’Israele è immune da qualsiasi sessualità. La battaglia dei sessi è il punto centrale delle letterature di tutti i popoli e di tutte le età, ad eccezione di quella degli Ebrei.
La letteratura tende in generale a ritrarre le passioni elementari umane. Ora quelle che dominano l’umanità sono spe
cialmente due: la fame e l’amore. Tutta la letteratura e gran parte della lirica è letteratura erotica. Gli Ebrei non hanno conosciuto il dramma, perchè non esiste dramma senz’amore. Fra i 24 libri della Bibbia non c’è che un piccolo romanze, non molto pregiato agli occhi dell’antica tradizione: Riti, ed un solo poema d’amore: il Cantico dei Cantici. Per il Talmud l’amore è un prodotto dell ’istinto cattivo; e in tutta la letteratura ebreo-medioevale non c’è un’opera di qualche valore in cui l’amor sessuale sia la materia essenziale, se si eccettuano le poesie di Emmanuèl romano, che sono come gli apocrifi della posteriore letteratura. Lo stesso indirizzo si avverte nella moderna letteratura neoebraica. Tschernihowski sollevò una tempesta colla sua lirica erotica. Bialik è gi-Sinte nei Canti dell’ira. In Mendele Mohèr efarim (Abramowitseh), il nostro gran novelliere, domina il motivo della fame, della miseria. Il problema massimo delle lettere ebraiche è il problema del pane, da cui derivano i problemi del bene e del male, del giusto è dell’ingiusto, dell’onesto e del disonesto.
Per questo gli Ebrei pervennero ad una visione morale del mondo, e le nazioni ariane ad una visione estetica. Pietà ed onestà: ecco il verbo dei Profeti d’Israele, in un tempo in cui l’ideale ellenico era la bellezza che ha le sue fonti nell’amore sessuale. Ma i greci non furono un popolo errante come gli Ebrei: vissero nella loro terra, prosperi é tranquilli. L’ultima vetta dell’idea profetica è idealistica e fors’anche utopistica, ma le sue basi poggiano nella vita reale e le sue radici nel problema del pane.
È una filosofia un po’ strana questa del Melamed e un po’ troppo materialistica. Forse confonde il giuoco dell’amore infecondo o estetico, che è fine a se stesso, coll’amore che è sostanza di vite infinite e strumento di eternità. Il greco vede l’individuo, l’ebreo la stirpe: l’uno la breve vita che non ha domani e dev’esser goduta: l’altro la vita che s’infutura. Il tempo di fronte all’eternità; il relativo di fronte all’assoluto corporeo e spirituale, anche sulla terra. Gli ebrei sono presi dalla sostanza delle cose e dei sentimenti, i greci dalla forma. In ogni modo la teoria del Melamed è una teoria d’insieme che merita d’essere studiata per intendere meglio gli spiriti di questo popolo che creò la Bibbià.
38
100
BILYCHNIS
6. Z. SCHNEIUR - UN RIBELLE POETA EBREO
« Schneiur è il poeta ebreo della vita eterna e dell’eterna morte, della primavera del mondo, dell’agonia dell'essere e delia distruzione universa: delle ampiezze oceaniche c delle profondità abissali. È il poeta dell’uomo nuovo che anela agli amplessi universali: dell’Ebreo nuovo — disceso dai tronco dei re orientali —: dell’Ebreo nuovo la cui anima è piena dell’eco dei secoli remoti, e della nobiltà d’un figlio di quel po-Slo antico che creò i più alti valori civili, legge della giustizia per un mondo di selvaggi e d’antropofaghi ».
Così giudica questo già famoso poeta ebreo, un altro scrittore e critico d’Israele, Reuben Brainin, presentando una raccolta di « Liriche e poemi » (1900-1913) pubblicata a Odessa dalla Casa editrice Morijah pochi giorni prima deU’immensa guerra.
Il poeta si descrive da sè così:
• Dunque non ini conosci ancora,
« Tu nepotc di coloro che calpestarono la mia iena c il mio santuario?
« Io son... Ebreo, nipote di fanatici patriotti!
« Certa e troverai ancora nelle mie palpebre
« Qualche cosa degli occhi dì Siinon ben Ghiora;
« Guarda c tu troverai in me una scintilla di vendetta, la vendetta di Johahàn,
■ Che spezzò la cervice dei tuoi guerrieri migliori ■ Che tentavano l’assalto alle rocche d'Aleppo.. ».
La poesia di Schneiur — specie quella degli anni più recenti — è una poesia tempestosa, folgorante, e vi si sente l’eco delle altitudini ardue e solitarie. Il ritmo della sua lirica è come quello d’una valanga, come quello dei flutti durante la tempesta Ha il volo dell’aquila: cerca le altezze, la maestà della forza. Perciò più di tutto gli è cara la morte se essa possiede la nobiltà maestosa dell’eterna poesia, più della vita piena di desolazione, di umiltà, di bassezza.
La sua poesia è quella della ribellione, delle nuove creazioni, della nuova umanità, della nuova bellezza. Egli si rivolta contro la divinità creata dagli uomini, dalle genti civili, dagli abitanti delle grandi città, dai- figli di questo secolo dell’elettricità e del vapore. Questi dèi sono morti. Egli ha la nostalgia del Dio che ha perduto, che ha sempre cercato, nonostante le sue orgogliose negazioni. Il poeta immagina l’uomo del suo tempo che « ha chiuso gli orecchi al mormorio fascinatore delle morte
religioni » come un « bambino sbigottito dalla solitudine della casa, nell’ora del crepuscolo »:
« I suoi genitori son usciti ed egli è rimasto piccolo e solo;
« e la casa è grande e silenziosa, le pareti bianche «c truci ombre ci son negli angoli.
« Nessuna voce, nessun suono... Persino il vecchio
01 elogio
« Ha allungato la sua lingua arrugginita e ha smesso di battere.
» Il bimbo grida— e l’eco imita la sua voce.
• Si guarda nello specchio e vede la sua immagine: « Ombra strana in un pozzo tenebroso, occhi rotondi. < Pallido c tremante indietreggia piano piano «Col mignolo in bocca;
« Infila la porta e fugge fuori, fuori,
« Fugge dai suoi compagni piccoli e affoga la sua paura
■ Nei balocchi di legno, nelle bambole di polvere; « Però, di nascosto, il suo piccolo cuore palpita ancora:
« Dov'è il babbo? dov'è la mamma? Ohimè, quando torneranno a casa? ». (« Sulle rive della Soma »>.
In questa poesia c’è tutta la profonda tragedia e la celata angoscia dell’uomo civile contemporaneo. L’eco di questa nostalgia si ripete pure in un’altra lirica: E sarà alla fine... che non è se non una fiera’ protesta, la protesta d’un artista gigante, contro la sterile, la fredda cultura che ha smarrito la via della vita perchè non ha più Dio.
Schneiur non è il poeta del sentimento — quale fu rappresentato dal pianto contaminatore dei poetastri nani — ma il cantore della volontà, eterna creatrice.
• Ancora non è nata la inano che spezzi la mia volontà;
• E questo è il mio merito c questa è la mia colpa! , (« Dai Canti profetici »1.
7.1 MORTI EBREI NELLE LETTERE E NELLA SCIENZA EBRAICA DEI DUE ULTIMI ANNI
Fra i grandi morti ebrei perduti per la scienza e le lettere, alcuni meritano d’essere registrati in questa Rivista.
Il prof. dott. Abraham Berliner è noto in Italia per la sua grande opera in tre volumi: GeschicMe der Juden in Rom (Berlino, 1893) tradotta in ebraico e pubblicata nelle edizioni del Tempo (Wil-
39
CRONACHE
101
na, 1913). È opera fondamentale per la storia degli Ebrei di Roma, dall’epoca del II Tempio fino ai giorni nostri: preziosa per la ricerca archeologica e per lo studio dei valori culturali, condotti con perfetta critica scientifica. Fu editore del Commento ài Pentateuco del grande Rashì (R. She-lomò Izbaki) di Troyes, secondo numerosi manoscritti e di due studi sull’uomo e sulla storia delle sue glosse bibliche e talmudiche (Berlino, 1866, 1900). Non minore importanza storica e culturale ha l’altra sua opera: Aus dem inneren Leben der deulschen Juden ini MiUclaUev (Lipsia, 1871, II ediz., 1900) tradotta in ebraico nelle edizioni Ahiasaf (Varsavia 1000).
Il prof. dott. Salomone Schechter, notissimo nel mondo degli studiosi per la scoperta della Ghenizah (deposito di antichi e vecchi libri e manoscritti) di Fostat presso Cairo da cui trasse la maggior parte del Ben Sirà in ebraico, il « Libro dell’Evangelo di Damasco » (che egli denominò « Manoscritto sado-chita »), ecc. Pili che ricercatore di antiche cose e più che storico, lo Schechter fu pensatore ebreo. Le idee generali ch’egli attinse all’antica letteratura ebrea sono raccolte nei due volumi della sua opera:
Sludies in Judaism. È una nuova visione della Bibbia, tradizionale eppur scientifica, e del Talmud; una profonda maniera di penetrare la filosofìa mistica ed esoterica del)'Ebraismo, che non trova rivali nella letteratura degli Ebrei in lingua europea; un’esposizione positiva del fenomeno culturale d’Israele nel Medio Evo e nell’epoca moderna che è tanto raro trovare nelle opre degli studiosi ebrei dell’Europa occidentale.
D.r Jehudah Leib Biniamin Katzenel-son, scrittore di argomento scientifico in lingua russa e letterato in lingua ebraica. « Le parti del corpo umano » (Pietroburgo, 1888), «Le leggi della purità e impurità» (1913), a Le malattie cutanee nella Bibbia » (1894) sono le opere d’argomento scientifico pubblicate oltre a quelle maggiori che rimangono ancora inedite: « La medicina nel Talmud » e • Religione e politica presso gli antichi Ebrei », scritta in russo e tradotta dall’autore stesso in ebraico. Come letterato ha lasciato dolcissimi teneri racconti, pieni di desiderio della vita sana e naturale e di nostalgie profetiche. « Il Canto dell’usignolo », «La donna che non conobbe riso », « Dalle nebbie dell’età antica » sono preziosissimi idilli ebraici.
Dante Lattes.
40
PER IL IV CENTENARIO DELLA NASCITA DELLA “ RIFORMA ” (31 OTTOBRE 1517-31 OTTOBRE 1917)
La « Riferma » che va sotto il nome di Luterana — perchè Lutero è il nucleo centrale intorno al quale il grandioso movimento che trascende la sua persona, i suoi tempi e le sue stesse visioni e intenzioni si concretò — è indubbiamente Ser la testimonianza dei con tempora nei ell’avvenimento, dei suoi continuatori, sì fautori che avversari, e degli stessi uomini del palpitante presente, che in mezzo alle convulsioni più terribili che abbiano mai fatto strazio dell’Europa non possono ricusare l’omaggio loro richiesto dalla ricorrenza del IV centenario della sua nascita alla luce della storia dopo l’incubazione secolare, è, per confessione unanime dei figli e degli avversari, l’avvenimento più decisivo della storia del Cristianesimo, e, possiamo forse aggiungere, di tutta la storia dopo Cristo.
Se può sembrare che la lotta suprema in cui si tendono tutte le forze di vita e di morte delle nazioni che della Riforma furono principale teatro abbia' invidiato alla ricorrenza solenne l’omaggio dovutole, non sarebbe però difficile dimostrare che al contrario, nella lotta stessa, la posta è tuttora la medesima concezione e pratica della vita intorno alla quale l’Europa si polarizzò nel sec. xvi, e la quale ha ora imposto alle nazioni l’alternativa
o di accettare nella loro condotta e nei rapporti internazionali il suo spirito predicate già da essa agli individui, o di divenire infedeli alla loro missione storica e perciò riassorbirsi e scomparire disonorate. La guerra presente coi suoi fiumi di sangue è, suo malgrado, il monumento più colossale a quei principi del Cristianesimo che la Riforma ripose e impose di nuovo sulla ribalta della Storia.
E questo nesso è stato inteso, più o meno consciamente, dai rappresentanti e depositari di quelle correnti che attorno a Lutero e alla Riforma si polarizzarono già quattro secoli or sono: dalle diverse frazioni delle Chiese Riformate in Germania, in Francia, in Inghilterra, in America, in Svizzera, e altrove: ed anche, seppur meno chiaramente, da alcuni esponenti di quella Chiesa, che pur mortalmente ostile alla Riforma di I.utero, non sentì meno prepotente la necessità di ottemperare alla sua formidabile intimazione di riformarsi: e che a tale, benché parziale, reazione di riforma fu debitrice della rinascita e della vita che ancora possiede.
Perciò abbiamo creduto che il nostro omaggio e il nostro consenso ai grandi principi che la ricorrenza ripone sul candelabro, non potesse meglio esprimersi.
41
TRA LIBRI E RIVISTE
I03
che domandando a queste voci di apparire qui su queste nostre pagine, e tributare esse, con la loro concordia o discordia, glorificazione c biasimo della Riforma e dei sue autore, l'omaggio più eloquente alla vitalità perenne dei principi che 1 ¡suonarono già sulla bocca del professóre di Wittcmberg. Chè, non si discute dipo quattro secoli attorno a un cadavere, nè si accaniscono popoli e nazioni e chiese su di un principio ed uno spirito, senza apportare un tributo e una testimonianza alle pardo dell’uomo che proclamò: «Se non è opera di Dio, Reverendi Padri, sarà presto abbattuta: ma se è opera sua, lasciatela fare »; e senza riconoscere che: « Da allora l’opera si è consolidata, ed essa continuerà, se Dio vuole... ».
« Il Protestantesimo ha ancora una missione da compiere: è la conclusione che si distaccherà spontaneamente dalle pagine che qui abbiamo raccolte.
Ì1 materiale bibliografici risultante dalle voci che a noi sembrarono più significative, o da alcune note soltanto di esse, può essere raggruppato in cinque categorie, corrispondenti al contributo che eSse arrecano in prevalenza all’uno o all’altro aspetto del complesso e vasto argomento.
Queste categorie, predominanti nei diversi documenti, ci sembrano essere:
A) Origine e vicende storiche della Riforma.
B) Spirito, caratteri, effetti della Riforma.
C) Lutero, figura centrale della Riforma, Giudizi sull’ut ino e sul riformatore.
D) Rapporti fra lo spirito della Riforma e quello del Germanesimo odierno.
(A questo aspetto dell’argomento può essere complementare un saggio su: Lutero commemorato in Germania).
E) Aspetti de ttrinali, teologici, rituali, sociali, della Riforma di Lutero.
La nostra funzione di redattore del materiale si limiterà alla scelta dei brani, alla loro classificazione e intessitura e alle articolazioni necessarie a connetterli.
Lasceremc che le voci diverse, concordi o discordi, forniscano esse stesse l’analisi del grande fenomeno storico c religioso, e critichino vicendevolmente le interpretazioni parziali, unilaterali, incomplete che di esso potranno dare. La ricca complessità, la trascendenza di valore dell’avvenimento ne resterà viemeglio illuminata e illustrata.
I.
ORIGINE E VICENDE STORICHE DELLA RIFORMA
Il periodico bimensile lì Testimonio, organo delI’Unione Battista, reca nel numerò del io novembre 1917 un articolo, da cui togliamo le notizie:
«Il 31 ottobre 1517 il dott. Martino Lutero affiggeva a Wittenberga le sue no-vantacinque Tesi contro la. vendita delle indulgenze ebe avevano tramutato la Chiesa di Cristo in un lurido mercato. Per i venditori di indulgenze non esisteva peccato — passato, presente o futuro — di cui non 1 ctesse acquistarsi il condono a suon di scudi e di fiorini: «nell’istante stesso » diceva il domenicano Tezel, e lo ripetè nelle sue contro-tesi « nell’istante stesso in cui il pezzo di moneta risuona nel fondo della cassaforte, l’anima parte dal purgatorio, e s’invola, libera, verso il cielo»! Gli scudi fioccavano da tutte le parti; contemporaneamente la superstizione pili balorda dilagava e il livello morale si abbassava ognor più. Il pio ed accurato storico della Riforma, Merle D’Au-bigné, basandesi su documenti contemporanei, riferisce anche le tariffe stabilite dai venditori d’indulgenze: « I re, le regine, i principi, gli arcivescovi, i vescovi dovevano, secondo il regolamento, pagare venticinque ducati per un’indulgenza ordinaria. Gli abati, i conti, i baroni ne pagavano dieci. Gli altri nobili, i rettori e tutti coloro che avevano una lendita di 500 fiorini ne pagavano sei. Quelli che avevano 200 fiorini ne pagavano uno, gli altri soltanto' mezzo... Per i peccati particolari Tezel aveva una tassa speciale: la poligamia si pagava sei ducati; il furto in chiesa e lo spergiuro, nove ducati: l’assassinio otto ducati; la magia, due ducati. Samson il quale faceva in Isvizzera Io stesso commercio che Tezel faceva in Germania, aveva una tariffa alquanto differente; faceva pagare per un infanticidio quattro lire torneai, per un parricidio o un fratricidio un ducato ».
« Dove si sarebbe giunti marciando di questo passo? Ma quando il tempo fu mature, un colosso sorse, e con la sola potenza della sua fede basata sulle S. Scritture, riuscì ad imprimere un nuovo movimento ed un nuovo indirizzo al cammino dei popoli. L'Europa moderna nasceva da quel rivolgimento religioso e sociale che
*■
42
IO4
BILYCHNIS
ebbe inizio il 31 ottobre 1517, quando Martino Lutero ebbe l’ardimento inaudito di contrapporsi alla potenza papale, affliggendo sulla porta del tempio di Wit-temberga le sue Tesi. Egli ancora non imaginava fino a che punto quel suo primo passo lo avrebbe condotto; non pensava in nessun modo a staccarsi dalla chiesa romana: riteneva che il papa e le alte autorità della chiesa dovessero odiare come lui il turpe mercato delle indulgenze non appena fossero state rese edotte del male che si compieva in loro nome...
« Ma la sua semplicità doveva presto ricredersi. Sopravvennero contro di lui intimidazioni e minacce. Il cardinale Gaetani, legato del papa, tentò d’indurlo alla ritrattazione in nome dell’ubbidienza dovuta alle autorità ecclesiastiche; il dottor Eck, tronfio di vana sapienza, credette di vincerlo con le sue sottigliezze e sofismi nella’ famosa disputa che ebbero a Lipsia; il pontefice pensò di fulminarlo con la scomunica: la Dieta di Worms ov’erano raccolti i più potenti signori della terra — s’illuse di schiacciarlo col solo peso del suo fasto feudale... S’ingannarono tutti, e ne ebbero finalmente la piena sensazione quando invece di vedere un monaco tremante e invocante il perdono dell’imperatore e del papa, videro rizzarsi il gigante che, sostenuto solo dalla propria fede in Dio e in Gesù Cristo, parlò in tedesco ed in latino alla Dieta di Worms, al cospetto dell’imperatore, dei re, dei principi e baroni, dei cardinali, dignitari e dottori della chiesa, affermando con le Sante Scritture alla mano la legittimità del suo atteggiamene.- anticattolico, terminando con le notissime parole: « Eccomi. Non posso fare altrimenti, Dio m’assista. Amen ».
«Era il 18 aprile 1521. Tcmaso Carlyle affermò che da quella data ha inizio la storia moderna. La Riforma infatti aprì la porta alle moderne libertà e non può in nessun modo ritenersi una semplice fase della storia interna tedesca. L’attività di Lutero dal 1517 al 1521 è d’interesse mondiale, perchè il mondò intero ne trasse giovamento: il mondo intero ricevette dalla Riforma del xvi secolo il sommo beneficio del libero esame che ci ha condotti al progresso scientifico c filosofico moderno.
La teocrazia opprimeva tutte le nazioni e inceppava ogni/passo: la Riforma abbattendo la teccrazia, non solo liberò reli
gi osamente i popoli ma li preparò a quelle libertà civili che dovevano avere la loro pili alta proclamazione alla fine del Xviii secolo e durante il xix.
I costumi ciano ovunque estremamente rilassati, il clero era ignorante ed immorale, * letterati erano fiacchi e solo preoccupati della bella forma, i pensatori erano legati, il popolo o scettico o superlativamente superstizioso, i papi e alti dignitari della chiesa erano atei... La Riforma purificò i costumi, abbattè la potenza del clero nei paesi ove trionfò, rinvigorì e liberò il pensiero, elevò i popoli che l’abbracciarono, tanto religiosamente che moralmente, intellettualmente, socialmente; diede agli stessi papi ed alle autorità cattoliche il senso della necessità di una riforma in seno al mondo cattolico. In poche parole: la Riforma fu un benefico rinnovamento di tutti gli aspetti della vita ».
Dopo la rivista battista, ecco ciò che su la rivista Vita e Pensiero, organo di quel gruppo cattolico colto ancora trattenuto entro il girone dell’ortodossia ufficiale, che fa capo ad Agostino Gemelli, Vico Necchi e Francesco Olgiati — scrive, nel numero 20 ottobre 1917, Severino Ritter in un articolo temperato e oggettivo dal titolo: « Le tesi di Lutero su l’indulgenza ».
(Notiamo che in un articolo dello stesso numero della rivista, intitolato « Lettere dall’Inghilterra », scritto da un sacerdote inglese cattolico, si accusa ripetutamente Lutero e il luteranesimo di avere « accordato al Principe tutto quello che rifiutavano. al Papa »; di avere « originato la moltitudine delle opinioni contradittorie intorno al cristianesimo, alla ragione, al bene e al male... circa Dio e la coscienza e l’immortalità »; di aver prodotto « l’anarchia nella religione ». Vedremo discusse queste accuse, come anche l’identificazione da alcuni tentata fra Riforma e Gcrmanesimo, in altre riviste).
Ed ecco l’articolo:
« Quando Martin Lutero la vigilia d’Ognissanti 1517 affiggeva alla porta della chiesa del castello di Wittemberga le sue novantacinque tesi contro le indulgenze, avrà egli avuto il presentimento di compiere un atto di importanza mondiale immensa? Io non lo credo. L’affissione di tesi controverse non costituiva un fatto
43
TRz\ LIBRI E RIVISTE
105
nuovo c straordinario: tesi di ben altra gravità avevano visto in tempi anteriori e avrebbero visto in tempi posteriori gli albi delle università c i battenti delle chiese. E le tesi del 31 ottobre, anche nell’animo del loro autore, non volevano segnare un dissidio insanabile, una decisa ribellione alla chiesa cattolica. Esse però toccavano un argomento di grande attualità e notorietà e praticità ».
Accennato alle cause reali che la Riforma trovò all’opera e che attendevano un impulso per produrre i loro effetti, l’A. continua: « Questa fu la proverbiale scintilla che determinò il grande incendio; ma la materia infiammabile doveva essere già predisposta. Pertanto, come Lutero non è la vera causa-ma l’occasione per cui scoppiò la Riforma: così possiamo dire che le tesi del 31 ottobre furono l'occasione Eer cui Lutero si mise su quella che fu poi l sua strada, senza del resto che egli stesse potesse prevedere la paurosa meta, verso cui quel primo passo lo incamminava ».
Segue un cenno al mercimonio delle indulgenze per i vivi e per i defunti, promulgate da Giulio II e continuate sotto Leone X. È noto quali siano i rapporti storici fra la Riforma e la casa degli Hohenzollern: ma è bene che se li sentano rammentare da penna cattolica coloro che sono tentati di vedere in questa famiglia la incarnazione deio spirito di quella:
« Il giovane Alberto di Brandenburgo della casa degli Hohenzollern, creato nel 1513 a 24 anni arcivescovo di Magde-burgo, nel settembre dello stesso anno era pure nominato amministratore del vescovado di Halberstadt. Venuta vacante la sede arcivescovile di Magonza, per motivi politici era stato eletto a questa sede nel marzo 1512. Ma il neo arcivescovo di Magonza non intendeva rinunciare agli altri due vescovadi... A un simile accumulamento di benefici la Santa Sede non Sotcva non opporsi e per molte ragioni, i intavolarono delle trattative, e il risultato fu che Leone X nel concistoro 18 agosto 1514, confermava Alberto di Brandenburgo arcivescovo di Magonza e di Magdeburgo e amministratore del capitolo di Halberstadt, a condizione però che sborsasse alla curia romana oltre le solite competenze —-14.000 ducati circa —-una speciale « composizione » di 10.000 cu-cati per la conservazione degli altri due
vescovadi. Per indennizzare il nuovo arcivescovo di tutte queste tasse, gli fu concessa per otto anni la pubblicazione dell’indulgenza di S. Pietro nelle provincie ecclesiastiche di Magdeburgo e di Magonza, nel vescovado di Halberstadt e nei territori dipendenti dalla casa di Brandenburgo; la metà delle entrate doveva andare per la fabbrica di S. Pietro, l’altra metà rimanere all’arcivescovo.
« A un’indulgenza nata così male, toccò anche per maggior sfortuna un padrino disgraziato; il domenicano Giovanni Tezel al quale si addossarono certo molte colpe leggendarie, ma il quale non meno certamente era in voga di « buon » predicatore di indulgenze; di predicatore, cioè, che curava sopratutto di raccogliere molti denari...
• Il duca di Sassonia si era opposto a che l’indulgenza fosse pubblicata nei suoi territori; a Wittemberga, città sassone, non Eotè dunque esser predicata. Ma Wittem-erga era prossima a Juterborg, terra posta sotto la giurisdizione di Magdeburgo; colà gli abitanti accorsero; ne riportarono notizie, sia sul concorso dei fedeli, che sulle qualità e dottrine del predicatore... Il 31 ottobre 1517, vigilia della festa patronale, avviandosi alla chiesa del castello di Wittemberga, i numerosi devoti si fermavano a legger un foglio affisso alla porta; Disputalio prò declaratione virlutis indulgenza rum, del dottore Martin Lutero, professore nella locale facoltà di teologia.
« Pure dal poco detto in queste pagine appare che abusi reali esistevano tanto nelle ragioni della pubblicazione delle indulgenze, come nel modo con cui venivano predicate dai commissari: proteste erano dunque possibili e probabili. E ce n’erano state ormai tante e tante da qualche secolo a quella parte; e la voce « indulgenza » entrava nel lungo elenco delle riforme necessarie, urgenti, che si era cominciato a compilare specialmente dal concilio di Costanza in poi.
« Se Lutero si fosse messo con tenacia di volontà e bontà di propositi a combattere tali abusi, non solo non avrebbe compiuto opera cattiva,' ma avrebbe ben meritato della Chiesa di Cristo, che non mai si è mostrata sconoscente dei suoi riformatori... Ma Lutero nelle sue 95 tesi del 31 ottebre, oltre cominciare a far uso di quella crudezza bassa e volgare di linguaggio contro preti, vescovi e papa, che
44
106
BILYCHNIS
avrebbe poi portata a un grado fenomenale, portò il dibattito su punti più fondamentali che non erano discutibili...
•«Tuttavia, in sè e per sè, queste tesi non dovevano di necessità condurre alla scissione. Alcune erano ortodcsse e giuste; e se molte erano errate, non è men vero che dispute più gravi di quanto potesse apparire questa non portarono altre volte a conseguenze tanto dolorose. Ma l’uomo che iniziò la controversia, il luogo e il tempo in cui si svolse, formano un complesso tale di circostanze, che essa doveva allargarsi smisuratamente, perdendo poi di vista il punto di partenza ».
L’A. traccia la storia delle prime schermaglie, dei tentativi di strappare a Lutero una ritrattazione, delle trattative, dei libelli, delle dispute, e della influenza che esse ebbero sul corso ulteriore dello svolgimento della Riforma.
« Obbligato a precisare sempre più le sue idee intorno alla autorità del Papa e del concilio, Lutero aveva affermato a Lipsia che il concilio di Costanza aveva errate definendo che per esser membro della Chiesa è necessario credere al primato del papa; •' solo dalla sacra scrittura dobbiamo dedurre ciò che è diritto divine; la opinione anche di un semplice cristiano vale ben di più. di quella del papa c del concilio quando essa ha per sè un miglior fondamente...”. Queste idee guadagnarono a Lutero l’appoggio del-’umanesimo anticlesiastico e della cavai-cria rivoluzionaria impersonati in Ulrico von Hutten. L’odio implacabile di Hutten per Roma e i papisti, trova un riflesso di sè stesso nelle teorie di Lutero: il cavaliere letterato comprende che il punto di arrivo del monaco teologo sarà ormai necessariamente quel medesimo a cui egli aspira: la ribellione a Roma per ottenere l’indi-E cadenza assoluta della nazione germanica.
(utten mette a disposizione di Lutero i suoi amici, le sue forze militar;, economiche, intellettuali...
« Ai libelli atroci, blasfemi e rivoluzionari di Hutten, faceva riscontro nell’agosto 1520 ì’An den chrisllichsn A del deutschtr Nation, « alla nobiltà cristiana della nazione tedesca ». « Tre mura — ne dò il sunto quale trovasi in Pa«tor — sono state tirate da Roma attorno alla Chiesa: la distinzione fra clero e laici, il diritto della Chiesa di interpretare la Sacra Scrittura, e il diritto del papa di convocare il concilio. Queste mura di
paglia e di carta devono cadere. Tutti i cristiani appartengono allo stato ecclesiastico. tutti hanno il diritto di inter-Sretare la Sacra Scrittura: il concilio poi evc con ve carsi dall’autorità civile per liberare la Germania «dal ladro romano, dal vergognoso, diabetico reggimento dei romani >.. Roma succhia talmente i tedeschi, che « dovremmo meravigliarci di avere ancora da mangiare ». O nobili principi e signori, quanto a lungo vorrete mantenere aperto e libero a tali lupi feroci il vostro paese c le vostre genti ? Invece di combattere' contro i turchi, là bisogna cominciare, perchè sono più vicini ».
« Il mio dado è gettato • scriveva Lutero in quel tempo all’amico Spaladino, e veramente egli ha trovato la sua posizione. quanti lontana ormai da quella del 31 ottobre 1517! ».
Seguiva la condanna degli scritti di Lutero, con bolla pontificia, e la condanna della bolla pontificia da parte di Lutero:
« 11 io dicembre, prima ancora che Leone X lanciasse la nominale scomunica — ciò avvenne il 3 gennaio 1521 con la bolla Decet Romanum Pontifcem — Lutero dichiarava la sua completa rottura con Roma: a Wittemberga, dinanzi alla Elstertor, con grande solennità, circondato dagli studenti, bruciava la bolla papale unitamente ai libri di diritto canonico, e ad alcuni lavori dei suoi nemici: « Poiché tu hai turbato il Santo del Signore, così il fuoco eterno ti molesti e ti consumi ».
« Erano le prime fiamme dello spaventoso incendio che avrebbe fra poco avvolto nelle sue spire quasi tutta l’Europa, e che solo da sangue fraterno, versato a torrenti per più di un secolo, avrebbe potuto esser circoscritto e domato ».
Lo stesso elogio di imparzialità e oggettività non sembra potersi fare ad uno studio, ricco di un’erudizione posta al ' servizio di preconcetti e pregiudizi, del gesuita Giuseppe Dominici pubblicato dalla Scuola Cattolica di Milano nei numeri i° novembre e 1® decembre dello stesso anno. Da ciò che l’A. stesso scrive dell’ambiente sociale ed ecclesiastico in cui la Riforma nacque, sembra risultare chiaramente, che se la Riforma scatenò tutte le più infami passioni del clero e del popolo, questo spezzamento dei ceppi ecclesiastici fu ben lungi dall’eser responsabile della immoralità dei secolari pri-
45
TRA LIBRI E RIVISTE
107
gionieri: e che Lutero partecipò difetti comuni ai suoi confratelli ortodossi ai quali aggiunse qualità di cui essi mancavano. Riportiamo qui in parte la puntata del novembre, riservando, per altro gruppo quella del deccmbre:
« Nel prime ventennio del secolo xvi la disciplina, il culto, nonché i costumi giacevano depressi miseramente. Al d< -Ìoroso spettacolo dei mali che infestavano il santuario si levarono più incessanti e gagliarde le voci di una riforma, che salvasse la fede dalla imminente rovina.
«Ma più che altrove il guasto religioso e morale dilagava nella Gei mania, dove l’ignoranza del volgo rasentava la barbarie; ed i gradi della gerarchia ecclesiastica più cospicui erano conferiti a rampolli « utroque patente » illustri. L’Omts ecclesia diceva che colà < ogni cosa malvagia venisse in mente ad alcuno si ardiva commetterla ».
« Tuttavia nel folto sterpaio dei disordini la virtù conservava qualche oasi dove attecchire: pure i teutonici per vezzo antico, in cambio di ficcare lo sguardo nelle proprie miserie morali e religiose, lo torcevano di sbieco a Roma, onde rovesciare su di lei tutti i gravami ».
I tentativi di riforma interna del Cat-tolicismo abortirono per la semplice ragione che l’alto clero per.il primo non intendeva affatto di riformarsi: vediamo l’accoglienza che si ebbe la riforma esterna .
« Figlio di un minatore, venne alla luce Fra Martino in Eisleben ai io novembre 1483, circa un decennio prima di Ignazio de Loyola. Nella sua infanzia non respirò le affezioni domestiche, ma in cambio di quelle provò le battiture inflittegli per inezie fino al sangue dall’im-Setuosa genitrice. Frequentò la scuola ove in un pomeriggio fu sferzato quindici volte. Trascorse l’adolescenza va-gab» nda, sfruttando la bella voce per procacciarsi l’alimento, ed avviarsi nei rudimenti letterari. Fu alle scuole di Magdeburgo e di Eisenach sempre torturato dalla miseria, finché una giovane vedova, rapita al soave canto del precoce menestrello, se lo raccolse in casa, facendolo suo commensale. Ecco la prima vampa di affezione che sfiorò l'anima del Siovinetto, avvizzita sotto le gelide auree i insani rigori, e contorta dalle angustie di una penosa indigenza.
« Ad Erfurt nel 1502 conseguì il baccalaureato. e tre anni appresso fu insignito
del grado di magister arlium. Hans Luther, suo padre, vagheggiava nel figliuolo un Siurista, ed a questi albeggiavano più algide idealità. Ma un avvenimento impreveduto intorbidò l’orizzonte sorridente di magiche visioni, sgominando nel giovine universitario gli accarezzati disegni. Un amico carissimo morto in duello gettò Martino ih una cupa melanconia: un altro episodio sopravvenuto a breve intervallo mutò la rotta del suo avvenire, e disperse le speranze del genitore.
«Tornando dalla patria ad Erfurt. fu sorpreso da un pauroso uragano, ed in preda alla costernazione temendo di perdere la vita, fece voto, se scampasse dal pericolo, di indossare l’abito monastico.
• A 17 luglio 1505 varcava la soglia del chiostro Agostiniano di Erfurt contando ventidue anni di età, ed accompagnato dalle lagrime degli amici.
« Della sua vita monastica ci rimangono scarse e malsicure notizie. Confidata la sua educazione ad un esperto maestro. Martino visse da buon novizio, ebbe in grande stima la celeste chiamata, perchè meglio avvicinava alla croce: ed in quell’aurora della vita religiosa reputò la sua esistenza squisitamente calma e divina ».
Ma sembra che la temperatura di serra e la clausura di novizio non fossero il miglior tirocinio e la più valida immunizzazione contro lo spettacolo della rila-sciatezza dei suoi stessi confratelli e dell’ignoranza e corruzione nella Chiesa.
« Lutero formato lestamente in un biennio nella vita spirituale a! contatto cogli studi universitari c co’ suoi confratelli wittemberghesi. scemò di fervore, e così la carne prese il sopravvento. Sovraccarico di faccende, dopo l’anno 1515 non celebrava che raramente nè recitava sempre il suo breviario. Si scatenò la concupiscenza e Fra Martino, mancando dell’àncora della preghiera non seppe come e dove aggrapparsi per uscire dalla tempesta d> interiori contorcimenti e rimorsi. In quel turbinìo di passioni vide finalmente brillare il giulivo e soave nunzio " incundum et sttave nunlium ": che quale celeste araldo gli disse che la legge era stata " impìela per Christum " a noi bastare di aderire colla fede a lui... ».
Dal ritiro di Wartburg dove Lutero «sentì le contorsioni della carne e l’incendio della lascivia » alle ulteriori vi-
46
IOS
BILYCHNIS
cende del movimento, la Riforma fu tutta uno scatenamento delle più basse e violenti passioni.
« Lo strepito luterano Lutherische kann fu decorato col nome di riforma: ma quanta verità si rinserra in tal nome? L’autore di quel movimento confessava più tardi che se avesse previsto i mali quinci scaturiti, si sarebbe tirato indietro, nè avrebbe osato avanzare di un passo...
« Il popolo cominciò ad inferocire c buttarsi a capo fitto alla novità ed alla vita libertina. Le città erano divenute un teatro di tresche e di baldorie. T vagabondi, i disertori dei chiostri, i preti coniugati percorrevano le vie a branchi, e tra costoro v’avca parecchi nudi e famelici. Quella turba di miserabili riarsi dalla libidine andavano a caccia di donna e guadagno. Erano cotesti disordini il flusso àeiVevangelium carnis predicato dall’ex monaco di Wittemberga. Lo pseudo riformatore rassomigliava la Germania ad una troia.
« Non erano trascorsi undici anni dalla predicazione di lui, e pure *• la bricconeria, lo scandalo, la maldicenza, l’ingratitudine' la malvagità dilagavano nel nuovo ceto evangelico ”.
« L’alba di tempi migliori era svanita come un sogno matutino e come scriveva il Pirkheimer: omnia in carnis vertuntur delicia. Un brulicame di predicanti non pure rozzi e imperiti ma lenones et pessimi nebulones infestavano le citta " e sotto il pretesto del vangelo cercavano gloria, ricchezze, moglie e preziose suppellettili ”. Attorno a costoro faceva baldoria la più sozza bordaglia, rifiuto dei bassi fondi sociali.
“ La « carnale interpretazione del Van-, gelo ” cagionava dispetto al ncvatore; e rievocava i tempi del papa e dei monaci come migliori dei presenti.
« Ma se l’opera di Lutero fu nefasta ai costumi, riuscì non meno infesta agli studi.
« Gli studenti di Erfurt sfruttando la libertà concessa dal nuovo vangelo del menestrello di Eislcben commisero vandalismi àgli 8 aprile 1521; rinnovati nel giugno con gravissimo pregiudizio della città. Più gravi torbidi cagionarono i monaci tumultuosamente usciti di convento per inveire sulle vie contro la religione, i santi e le buone opere. Di ciò Fra Martino mosse lamento, non approvando quell’esodo tumultuoso, mentre avrebbero potuto quei sconsigliati abban
donare pacificamente il chiostro. Ma povera gente entrata in convento ve n tris et libertatis carnis gratta per lo stesso motivo n’era uscita. Nella città .furono distrutte 60 case di ecclesiastici; ad altre toccò pure la stessa sorte.
« Così cominciò la decadenza della università Erfudiana.
« Dovunque regna il luteranesimo, ivi muoiono le lettere » scrisse Erasmo di Rotterdam.
« All’esempio della studentesca tennero dietro anche i contadini , iquali ribellatisi nel 1524 devastarono il paese diroccando castelli e conventi. Lutero che li aveva adescati al dolce suono della libertà, ora consigliò di tagliarli a" pezzi o nutrirli di paglia ».
Ma fu l’esasperazione teutonica contro la Chiesa Romana, e non ragioni dottrinali . che alimentarono la fiamma della Riforma.
«Gli abusi innegabili della Curia Romana decorarono col nome di Riforma, il Lutherische K&nn : che senza tale vernice, qual moto incomposto sarebbe ricaduto nell’inerzia.
« Per troncarci nervi alle insanie del novatore, con ingenua franchezza e con animo deliberato a porvi rimedio, Adriano VI riconobbe la realtà di quei disordini, e promise efficacemente di estirparli.
« Per venire a capo dell’emendazione bisognava cominciare dalla riforma indigena Roma tamen purgando prius.
« Feriva profondamente l’amor patrio del buon papa neerlandese Io sconcio spettacolo di vedere l’eresia trionfante, ed una nazione tanto religiosa per unum fra-ter alluni... seduci. Ma la rivoluzione che travolse in abisso'la chiesa alemanna non era l’opera soltanto di un fraticello, bensì scaturiva dalle condizioni ecclesiastiche del paese “ materia infiammabile ' accumulata da sècoli, cui Lutero appiccò l’incendiario tizzone ”. Le novità dottrinali tallirono sul vecchio tronco di abusi inveterati, ed acquistarono vigoria ed incremento dall’operosità demolitrice del giovine umanismo ».
L’A. viene così ripetutamente a testimoniai e che ciò che nella Riforma vi fu di male non fu il prodotto della Rifórma.
La Chiesa Evangelica luterana di Francia ha il diritto di presentarci anch'essa il suo contributo, espresso da un numero
47
TRA LIBRI E RIVISTE
109
doppio speciale (15 ottobre - 1 novembre 1917) del suo organo bimensile: Le Té-moignage, nel quale le cause e le conseguenze della Riforma sono espóste con affetto di figli ma con temperanza di linguaggio e di concetto. Esso si apre con un appello rivolto da la Commissione esecutiva del Sinodo generale ai Pastori e Fedeli della Chiesa:
« Se il paese che per il primo ha visto brillare questa luce ha mancato ai doveri che questo privilegio gl’impòneva, l’indegnità dei figli non deve essere addebitata agli antenati.
«Dopo quattro secoli, la Riforma del secolo xvi può mostrare, come Cornelia mostrava a Roma i suoi figli, i popoli in mezzo ai quali essa ha prevalso e che si sono formati sotto la sua influenza: l’Inghilterra, l’Olanda, gli Stati Scandinavi, gli Stati Uniti d'America. Essa ha dei figli che fanno ». noie alla loro madre.
« Celebreremo dunque questo grande anniversario, noi lo festeggeremo con uno spirito di profonda riconoscenza verso Dio, di carità verso tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà; e soprattutto con un serio esame di noi stessi, domandandoci se noi siamt i degni eredi di quegli eroi della fede che hanno sofferto sotto il nome di luterani, in Francia ed altrove; fermamente risoluti di camminare sulle loro orme di onorare la nostra Chiesa colla nostra pietà, fedeltà ed intera consacrazione ».
Segue una pagina di Lutero di commento al Salmo 118, nel quale si trovano le parole:
« Se non è opera di Dio, Reverendi Padri, sarà presto abbattuta, ma se è opera sua, lasciatelo fare ».
« Essi non ebbero nulla da opporre a questo. Da allora l’opera si è consolidata ed essa continuerà, se Dio vuole ».
Su: Le cause della Riforma, il Roehrich scrive nella stessa rivista: « Converrebbe forse distinguere fra gli antecedenti della Riforma e le sue cause. È questo un doppio problema, l’uno •storico, che riguarda i fatti, l’altro filosofico e religioso; poiché si tratta di spiegare ed interpretare tali fatti.
« Non si può contare fra le cause della Riforma il grande risveglio delle intelli-genze dovuto alla Rinascenza delle lettere e delle scienze che ebbe luogo al principio del secolo xvi; meno ancora alla Rinascenza artistica. Questo fu un an
tecedente talvolta nocivo, spesso utile, ed anche sotto, qualche aspetto, necessario. Ma, nè la punture di spille di Erasmo, nè i colpi di mazza di Ramus contro il sistema di Aristotile, avrebbero potuto metter capo ad una sì grande rivoluzione nei sentimenti e nella vita di una parte del genere umano ».
Bisogna anche escludere la decadenza della Chiesa, le correnti di misticismo, l’ambizione dei principi, fra le cause reali sufficienti della Riforma: ed .invece, tentare di risalire, nella ricerca, dal fiume, alle sue sorgenti.
« Anzitutto bisogna tener d’occhio la parte personale di Lutero all’origine di questo movimento. La Riforma non sarà quale l’avevano concepita Savonarola, Huss, Gerson, o Wieleff. Senza dubbio ciascuno di questi aveva a cuore la fede cristiana più o meno purgata da ogni impurità. Ma Lutero, fin dalla sua altosonante protesta contro il commercio delle indulgenze il 31 ottobre 1517 e in seguito con tutto il fungolre della sua eloquenza affascinante, con l’ascendente del suo genio, con l’attrattiva emanante dal suo amore del povero popolo, ha rimesso in onore la pura dottrina della grazia. .
« Lutero seppe con accenti ispirati, intelligibili anche ai più poveri figli del popolo, proclamare questa semplice verità, che la fede nella grazia, ben lontano dal curvare le anime sotto il giogo, di una Se copiata su quella di Mosè, lontano ‘infliggere agli uomini il triste ascetismo e l'umiliante situazione del condannato, gli comanda invece di rallegrarsi, e gli dà le ali per conquistare uh posto nel regno deve tutti sono re e sacerdoti.
<1 In questo modo Lutero giunse a proclamare il valore della vita, e a riabilitare la natura così odiosamente disprezzata dal falso ascetismo spiritualista del Medio Evo. Egli fece riconoscere la dignità dell’autorità civile, la santità del matrimonio e in genere i diritti sacri della famiglia e della società ».
Bisogna anche notare che « nel secclo xvi una gran parte dell'aristocrazia intellettuale sognava tutt’altro che una Riforma; essa desideiava nel segreto, il mantenimento del vecchio edificio crollante, non per consolidarlo, ma per vederlo andare interamente in rovina. Molti, soprattutto in Italia, si dicevano pagani.
48
no
BI LYCHNIS
e provavano dispetto che dei Riformatori cercassero di salvare la Chiesa correggendone gli abusi. Valeva meglio, essi dicevano, lasciarla moiirc della sua bella morte: la lebbra della superstizione avrebbe distrutto lentamente e certamente questo corpo malato coperto dall'orpello della pompa romana ». E la questione si riduce a domandarsi donde siano venute alla Riforma la vocazione e le attitudini per la missione decisiva che le fu imposta in un dato momento.
« Se i Riformatori non avessero incontrato delle anime preparate, agitate dalla preoccupazione della salvezza eterna, assetale di giustizia, nobilmente curiose di verità, essi avrebbero predicato nel moto deserto senza eco. e la loro opera-sarebbe limitata alla loro propria edificazione, senza conseguenze sociali.
« Invece il numero di quelli che aspettavano era grande. Erano cristiani appartenenti a tutte le classi scciali, principi e contadini, dotti e mistici. Attesa dolorosa, poiché essi soffrivano non solo dello stato miserevole della Chiesa, ma soprattutto di esser privi essi stessi della luce del Vangelo, che intravedevano ma come affogata dalle tenebre. Essi soffrivano. « La loro, come dice Michelet, era una grande compassione pel Regno di Dio. La loro coscienza era desta... Essa era un terreno ben preparato, in cui il seme della divina parola poteva germogliare e produrre i suoi frutti... ».
Dall'articolo della stessa rivista: Conseguenze della Riforma, toglieremo alcuni tratti: « La Riforma non ha spezzato l’unità della Chiesa, per l’eccellente ra-Stone che questa unita non esisteva più. ¡asta ricordare io scisma dell’anno 1054, che ha determinato la separazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Greca e Romana: di cui solo quest’ultima rimase sottomessa all’autorità del Papa. Ma del resto, questa unità è essa veramente mai esistita? Esisteva essa almeno nella antica Chiesa, e specialmente nella Chiesa apostolica?
« Sicuramente no ».
Nè è esatto dire che la Chiesa Evangelica data dalla Riforma ed è nata da uno scisma: e ciò tanto più, perchè: « la stessa Chiesa romana non ha potuto sottrarsi all’influenza benefica della Riforma: certi abusi troppo stridenti, hanno dovuto scomparire: i costumi del clero si sono corretti e il suo livello intellettuale si è innalzato, in
virtù della necessità in cui si trovava di non condannarsi da se stesso con un contrasto troppo violento co’ suoi avversari; di maniera che, si è potuto dire a ragione, che Lutero deve essere riguardato come il riformatore anche del clero cattolico ».
Dopo un quadro sommario degli effetti benefici sia diretti, sia specialmente indiretti, della Riforma sia sulla Chiesa che sulla società civile, l’articolo conchiude:
« Noi protestanti e luterani siamo più che mai fieri della nostra origine e del nostro nome: poiché in fin dei conti, è l’opera cominciata da Lutero che noi continuiamo; di lui che Michelet ha ■chiamato: « il liberatore del pensiero moderno, il restauratore della libertà ne gli ultimi secoli ».
Interessante è una raccolta di giudizi, tra : quali spigoleremo, sotto la rubrica: « Lutero giudicato dai francesi ».
Per Bossuet, «Lutero fu l'autore della Riforma: È stata la tromba, o meglio il tuono, la folgore che ha strappato il mondo dal suo letargo ». Per Michelet, « Lutero sentì pietà del suo popolo».
« Egli lo vide mangiato da’ suoi preti, dix orato dai suoi nobili, succhiato dai suoi re: nulla intravedendo dopo questa vita di sofferenze se non ancora una eternità di sofferenze, costretto a togliersi il pane dalla bocca per ricomprare da birbanti il riscatto dall’inferno. Ebbe pietà del popolo, e ritrovò nella tenerezza del suo cuore il vecchio canto del Collard e le parole di consolazione: « canta, povero uomo, tutto ti è perdonato! ».
• La Pulzella, a quelli che le domandavano quale causa le avesse messe le armi in mano, rispose: « Lo stato pietoso in cui si trova il regno di Francia ». Lutero a-vrebbe risposto: « Lo stato pietoso in cui si trova il regno di Dio».
« La condanna di tutto il Mèdio Evo, di tutti i suoi grandi mistici, è questa: Neppur uno ha avuto la gioia.
.« Al contrario, la benedizione di Dio che era in Lutero, apparve sopratutto in ciò, che egli fu il primo nel inondo moderno ad avere la gioia ed il riso eroico. La gioia dell’uomo veramente forte, dell’eroe, fermo sulla rocca della coscienza, sereno contro tutti i peliceli e i mali del mondo. La gioia dell’inventore, felice di aver trovato, e felice di dare. La gioia del combattente nel momento della battaglia, la collera magnifica di un riso vin-
49
TRA LIBRI E RIVISTE
III
citore, più forte delle trombe con cui Josuè spezzò le mura di Gerico. Ed <ltre a queste gioie della forza, Lutero ebbe quelle del cuore, quelle dell'uomo, la felicità innocente della famiglia e del focolare.
Buona gente, egli diceva, vi vogliono vendere la dispensa dalle opere: rimettete il denaro in tasca, Dio vi salva gratis. Delle opere, la sóla necessaria è di credere in lui e di amarlo.
« Come! Dio è morto per voi, e non sarà abbastanza il sangue di un Dio per lavare tutti i peccati della terra?
«Cosa curiosa, il papa raccomandava le opere e tutto si riduceva alle opere della cassa. Lutero dispensa dalle opere, ed ecco che ricominciano le vere opere morali, quelle della pietà e della virtù ».
(Histoire de France. La Réformé).
Per De Remusai, « Lutero è l’uomo più importante del suo secolo, e la Riforma la più grande rivoluzione del Cristianesimo, che invase in meno di dieci anni la Germania, là Sjizzera, la Francia, l’Inghilterra... ».
(Segue). G. Pioli.
RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
XXL
GUERRA E FILOSOFIA
Ho già parlato altra volta, in questa rassegna, dell’atteggiamento dei filosofi dinanzi alla guerra. Giova tra notare che queste manifestazioni filosofiche sono tutte del primo periodo del conflitto europeo; lo svolgersi di esso non solo non ha sino ad ora provocato alcuna notevole manifestazione di più acuta filosofia, ma ha lasciato indietro, diremmo, la considerazione filosofica. Ed era prevedibile. La filosofia, infatti, non è esperienza diretta ed osservazione, ma appiofondimento; essa precorre e preannunzia le grandi novità storiche o le segue, nei pei iodi in cui l’attività verso l’esterno si rallenta e Io spirito torna quasi su se stesso, per interrogarsi e comprendere.
Venuta la guerra, noi non abbiamo quindi ascoltato che uomini i quali possedevano una filosofia, come sistema e come metodo, e quella filosofia hanno applicato alla nuovissima e singolarissima esperienza, allo stesso modo che avrebbero potuto fare a qualunque altro ordine di fatti, di esperienza corrente. E le più sagge parole di filosofi seno forse state appunto quelle che, penetrando e criticando, riducevano questo grandissimo fatto storico alle più semplici e fondamentali forme della vita dello spirito, cercando la qualità nella quantità.
In un senso, forse, la guerra ha avuto una grande importanza filosofica; non come invenzione, ma come propedeutica. Quello che ci è stato infatti di nuovo è stata la vastità e l’intensità dell’appello a molti perchè si disciplinassero sotto un'unica fede — quella della loro nazione e del gruppo di popoli cól quale essa ha parteggiato — e in un’unica azione. Con ciò la guerra ha messo in vivissima luce i requisiti e le condizioni dell’azione collettiva, o, in parole più filosofiche, dell’unità dei molti, nel campo della coscienza e dello spirito umano. Ora questa unità dei molti è la formula oggi più corrente e pili significativa del problema filosofico, nel suo triplice aspetto: gnoseologico, deontologico, etico.
Noi siamo, in altre parole, dinanzi ad una esigenza teoretica, di compìensione, che segue ad una necessità pìatica, di azione. E. sotto questo aspetto, si può dire con fondamento di verità che l’esperienza bellica ha favorito lo spiritualismo e più l’idealismo, mentre ha danneggiato ogni forma di individualismo e di materialismo; in generale, ha favorito le dottrine che ponevano l’uno oltre e sopra o dentro i molti, e cercavano nell’uno la spiegazione dei molti, mentre ha tolto prestigio ed efficacia alle dottrine che più negavano l’universalità concreta dello spirito o si allontanavano da questo concetto.
Se, tuttavia, questa esperienza avrà una notevole, e quindi durevole, efficacia
50
112
BILYCHNIS
conviene attendere di vedere dopo la guerra; poiché molti temono, e non a torto, dopo questa, una fortissima icazione in sensk individualistico e utilitario e di spensierato godimento. Ma forse la reazione sarà nelle coscienze superficiali; e qualche spirito più profondo, ripensando e coordinando ed esprimendo più efficacemente l’esperienza di oggi e tante furore di morte e fervore di sacrificio e ricerca di beni ideali, cioè superindividuali, ci dirà una nuova parola filosofica, la quale non potrà non essere anche una nuova parola religiosa.
LA GUERRA COME CATARSI SPIRITUALE
Ma, intanto, giova non illudersi e non essere troppo ottimisti. Ingenuo ottimismo, ad esempio, ci sembra quello che ha dettato a Luigi Ventura lo studio apparso nella Rivista di filosofia (1917. IV) col titolo La guerra come catarsi spirituale. La guerra ha imposto a tutti quelli i quali vi hanno partecipato una rude disciplina e gravissimi sacrifìci; e, come era naturale, tutti i sentimenti e le passioni e le idee atte a rendere più spontanei o meno gravi questi sacrifìci hanno avuto un grandissimo impulso. Strappati alla fatua vanità ed alle distrazioni ed agli ozi della vita di ieri moltissimi individui, dilacerate nel distacco, nel dolore e nella pei dita dei caii moltissime famiglie, costretta la città a pensare seriamente a cose serie — fossero anche le più umili necessità della vita — ed aprenderé un aspetto grave ed austero, la solidarietà, l'amore familiare, la pietà, il culto della patria e delle formule ideali che ne esprimono più o meno esattamente il contenuto specifico, hanno avuto larghissimo campo di manifestarsi, sovente anche in gesti eroici, ed acquistato un vivo spirito di pioselitismo.
Ma, perchè possa parlarsi di catarsi spirituale, di individui e di popoli, non basta fermarsi ai fatti concreti -èd alle lor< spontanee espressioni. In ciascuno stadio della loro esistenza, individui, famiglie e nazioni non si conservano senza un assiduo dispendio di energie spirituali; poiché sono opera dello spirito, il quale è essenzialmente, pur nelle infinitamente varie contingenze dello sviluppo storico, lagione ed eticità, in assiduo contrasto con la materia e la necessità e le passioni. Nella guerra, tutto ciò
che è connesso con le condizioni e le esigenze di essa, con la necessità della resistenza e della vittoria, diventa manifesto, occupa di sè l’attenzione o le crònache, prende il posto centrale, alla superficie della coscienza. Ma le qualità e le virtù che si manifestano preesistevano; le severe leggi esteriori impongono a molti una condotta e degli atti ai quali noi incliniamo a supporre una volontaria auto-decisione dello spirito che spesso manca; e tutte le qualità negative (in ordine ai criteri fondamentali stabiliti dalla guerra) di pusillanimità, di egoismo, di opposizione all’interesse pubblico nel nome di interessi privati e particolari, di viltà, non cessano anche esse di influire sulla vita e sulla condotta, anzi sono dalle circostanze e dal pericolo acuite ed esasperate; ma, apparendo manifesto e provocando spesso’ una immediata reazione il loro carattere antisociale, esse tendono a nascondersi, ad agire nell’ombra, a prendete la maschera di sentimenti religiosi, magari ad inalberare una bandiera ideale, nel nome di Cristo o di Marx o di altri.
Risulta quindi una immagine deformata della realtà delle coscienze e delle cose: alla quale immagine si può facilmente essere indotti a dare il nome ed il valore di una catarsi spirituale.
Perchè catarsi, cioè conversione e purificazione e rinnovazione, si abbia, è necessario che le forze e le energie di bene ottengano una reale vittoria nel contrasto con le avverse; e, perchè si parli di catarsi di popoli intieri, è necessàrio che queste vittorie interiori, per il numero e per l’efficacia, acquistino una tale ampiezza ed intensità collettiva da determinare durevolmente una nuova condotta, con visibili risultati sociali. Ora è evidentemente troppo presto, oggi, dire che la guerra abbia avuto, in Italia od altrove, un tale risultato; ed alcuno potrebbe anche sostenere che essa è in via di produrne uno opposto, specie presso quelli, individui e popoli, che più ne hanno sentito il peso. Una nuova disciplina zdi vita non diviene veiamente etica se non quando diviene disciplina interiore; che cioè l’individuo accetta, per ragioni superiori ed ideali, ed impone da sè a sè, così che egli la seguirebbe egualmente, e nella stessa misura, anche se cessasse la coazione esteriore, manifesta e presente in innumerevoli forme. In questo passaggio
51
TRA LIBRI E RIVISTE
II3
consisterebbe la catarsi; ma esso non è facilmente controllabile e, nella massima parte di casi, non è neanche presumibile. Che tuttavia in spiriti meglio disposti, più bisognosi di libertà spirituale e più aperti alle lezioni dell’esperienza, ciò sia avvenuto ed avvenga è, almeno, da sperare ed è verosimile; ma, per trarre da ciò il massimo vantaggio, è necessario non affogare e disperdere questa vera catarsi nel mare dell’ampiezza superficiale, ingenuamente supervalutata.
Del facile ottimismo del Ventura è esempio perspicuo l’ultima paite del suo studio, nella quale egli si sforza di vedere nella guerra una catarsi leligiosa, e scrive che un popolo, in tale occasione di guerra, si rafforza anche nel sentimento religioso. Poiché le religioni storiche hanno in generale per ufficio pratico il persuadere gli uomini, per via di sentimenti e di miti-, della razionalità del mondo e della possibilità di propiziarsi le forze occulte che lo governano e il coltivare in essi la speranza di una vita oltre morte, è ovvio che alle religioni si ricorra specialmente quando la storia visibile si presenta più tragicamente piena di irrazionalità e innumerevoli uomini, messi nel rischio della vita, sentono acuirsi in sé l’istinto della conservazione e la suggestione del mistero e del mito che vuol rivelarlo.
Ma un filosofo, più specialmente, dovrebbe guardarsi bene dall’accettare questa evidenza di reviviscenza di opinioni e di pratiche « religiose » come catarsi religiosa; studiando i fenomeni con maggiore attenzione, potrebbe capitargli invece di trovarli in contrasto con le esigenze spirituali che sono oggi la espressione più pura di religiosità. Se questa cautela avesse avuto il V. egli si sarebbe, ad esem->io, guardato dallo scrivere che « tutti i jopoli si seno rivolti al loro Dio, che è >oi il Dio di tutti »; poiché in tanto essi jotevano rivolgersi con fiducia al loro )io in quanto, non ostante affermazioni astratte, essi potevano sentire pratica-mente che egli non era il Dio di tutti, ma il loro. O se, sapendo .di combattere per una causa giusta e per uno scopo giusto, si sono rivolti al Dio della giustizia, hanno dovuto spesso persuadersi dolorosamente che quelli che essi credevano rappresentanti di questo Dio sono rimasti neutrali o che la vittoria non si poteva ottenerla, contro la maggiore audacia e preparazione ed astuzia della forza or
ganizzata per la potenza e per la conquista, se non in quanto la loro fede si facesse anche essa forza, e forza capace di vincere l’avversa; il che suggerisce l’idea di un Dio immanente, molto diversa da quella che le religioni storiche professarono, di un Dio distributore miracoloso di vittoria ai suoi eletti ed a quelli che più efficacemente lo propiziavano.
L’ETICA NELLA PREPARAZIONE DEI MAESTRI
' Segnaliamo come un felice risveglio morale l’importanza che si incomincia a dare, assai maggiore che per l’addietro, alla educazione nella istruzione, alla formazione della volontà nella più generale formazione dello spirito mediante la scuola, all’etica nella pedagogia.
Nel numero ultimo uscito della Rivista Pedagogica (luglio-settembre 19x7) troviamo su tale argomento due interessanti articoli; l’uno del prof. G. Tarozzi su L’elica nella cultura della classe magistrale, l’altro del prof. E. Troilo su I rapporti fra Pedagogia e Filosofia. Tanto il .Tarozzi che il Troilo vengono dal positivismo, e la loro testimonianza è, quindi, più notevole; anche se, non .riusciti a divincolarsi dalle angustie di un sistema filosofico nel quale si trovano sempre più a disagio, essi pongono il problema senza riuscire ad indicarne chiaramente la soluzione.
Il Tarozzi parte da questo principio: La considerazione della funzione etica che il maestro è portato ad esercitare nella scuola e fra il popolo è il principale fondamento per giudicare quale abbia ad essere la cultura magistrale; principio nel quale non può non ravvisarsi, rispetto alle condizioni presenti della pedagogia ufficiale, una vera rivoluzione.
La funzione etica del maestro è necessaria ed amplissima. L’insegnante di università o di scuola media si trova dinanzi alunni sui quali hanno già presa altri mezzi di diffusione di cultura. « La situazione del maestro elementare, sotto il rispetto etico-sociale, è assai diversa. L’età degli alunni gli conferisce il potere di iniziare quasi dai primi fondamenti la loro educazione morale, quando le influenze sociali sono ancora deboli ed, anche se contrastanti, àncora inorganiche ed informi; il contenuto di coscienza del maestro s’introduce o può introdursi, nella coscienza dell’alunno, come elemento
52
114
BILYCHNIS
essenziale, determinante, informatore. Ammettendo pienamente anche per il maestro elementare non solo la libertà, ma Spesso anche la convenienza e la necessità di distinguere la sua attività extra-scolastica di cittadino dalla sua opera educativa, è però innegabile che, non fcss’altro per essere la parte etica di quest’ultima essenziale e profondamente innestata e immedesimata con tutto il suo insegnamento, assai più facile-e naturale è che in essa si esprima intieramente la coscienza del maestro... Egli è,. fra il popolo adulto, il rappresentante della cultura laica, anche quando questa non è in contrasto con la cultura confessionale ».
Adunque, il problema etico ha, per'l’insegnante di qualunque grado, ma special-mente per quello delle prime età/importanza singolare e specifica, tanto per il compito che egli deve adempire nella scuola, quanto per là formazione della sua propria coscienza, in vista dell’azione particolare alla quale egli è chiamato nella società.
Basta a questo compito la pedagogia? Secondo il T., questa è cosa diversa dall'etica. Mentre fa seconda pone e avviva il problema morale, esamina le cose e la condotta sub specie moralitatis, quella insegna il modo di insinuare certi principi morali — che si possano ritenere come dati, in quanto sono la morale media corrente — nell’animo e nelle abitudini dell’alunno. Il T. avverte tuttavia l’insufficienza della distinzione. Come è arido il meccanismo meramente pedagogico della istruzione morale! L'educazione è cura d’anime, è intimo contatto spirituale. In ultima analisi, la morale che il maestro insegna è quella che il maestro vive, sia nel suo fondamentale atteggiamento' di vita, sia nelle ansie delle lotte sociali cui partecipa, investendole di una sua personale valutazione essenzialmente morale. Solo adunque la cultura etica che non gli è schematicamente trasmessa nella formazione pedagogica, ma che egli attinge alle sacre fonti della tradizione, della vita sociale, della sua intima anima ha, in definitiva, efficacia e valore nella scuola.
Da ciò apparisce quale misera cosa sia oggi l’insegnamento pedagogico delle scuole normali e quale alto .ufficio dovrebbe assumere l’insegnamento dell' etica in queste. « Se nella scuola normale quell’insegnamento che porta il nome di Morale fosse veramente di morale (e non una
congerie di nozioni varie) e se l'ora ad esso dedicata fosse di vero raccoglimento e intimità spirituale, in cui l’insegnante normale, dimenticando di essere anche insegnante di pedagogia, aprisse gli animi e le coscienze degli alunni e delle alunne ai problemi morali della vita, parlando alle alunne come a future donne (non solo a future maestre) e agli uomini come a futuri cittadini di azione esemplare (non solo come a futuri maestri) egli preparerebbe l'anima dei futuri insegnanti assai meglio che facendo delle lezioni di morale una continuazione dell’insegna-mentb pedagogico ».
Contrasti d’anime, dunque,, anche qui, e di fedi e di atteggiamenti profondi dello spirito verso gli ideali che sono la fonte della attività umana veramente morale; appello alla autonomia come a disciplina interiore in vista di un programma pratico di vita nobile e pura. Questo noi chiamiamo religione. Nel seguitò del suo studio, il T. cèrea ansiosamente di dove e cerne possa venire al maestro italiano quest'anima; e non trova.
PEDAGOGIA E FILOSOFIA
Alla stessa preoccupazione risponde lo studio seguente di E. Troilo. Per una Pedagogia liberatasi dalla angusta concezione di sè come di ’una tecnica del meccanismo psichico infantile sorge la ?uestione de’ suci rapporti con la-filosofia, osta la pedagogia di fronte, non ad una psiche deterministicamente considerata, ma allo spirito umano, sub specie aeterni, a ciò stesso che, in ultima analisi, fa la determinazione e la limitazione' della pedagogia — il contrapporsi del soggetto (educatore) all’oggetto (educando-educazione) — quello, cioè, che rende la pedagogia essenzialmente scienza ed arte, si risolve in un termine nuovo che si espande, si approfondisce ed eleva, non già sull’annullamento dialettico degli altri termini, ma nella loro più concreta ed efficiente espressione: lo spirito; lo spirito umano che si pone come energia, e fonte consapevole di fini e di ideali; realmente, fra la positiva realtà naturale e sociale, nel maestro e nel discepolo, ed oltre l’uno ed oltre l’altro nella pienezza viva e luminosa della sempre più alta ed ampia umanità. Il fatto educativo trascende, così, i rapporti dell’uno che in certo modo lo fa e dell’altro che lo riceve; trascende
53
TRA LIBRI E RIVISTE
questo o quel metodo ed indirizzo, questo o quel fine; trascende, mentre pur ne vive, istituti e indirizzi che sono, di loro natura e per necessità, mutevoli e passeggieri e diviene l’immanente impulso e il persistente sforzo e il fattivo motore dello spirito ad affermarsi, ad integrarsi, e costruire, in sè e fuori di sè, positivamente e idealmente (che è poi, in fondo, tutt’uno), a costruire, insomma, come pensiero, e come storia. La Pedagogia si fa essa medesima Filosofia ».
Ma quale filosofia?
Qui il T. critica, assai giustamente, la distinzione, che è ancora ufficiale nella università italiana, fra filosofia teoretica e filosofia morale. Questa seconda non può non esseie filosofia dolio spirito, cioè, semplicemente, filosofia. Ma, si tratti dell’una o dell’altra, c’è una filosofia che è semplice teoria, considerazione astratta, concetto, posizione dialettica di concetti. E non questa filosofia può essere pedagogica. Se problema essenziale di questa è l’atto del farsi, consapevole e libero, dello spirito, la filosofia in cui la pedagogia si risolve è l’attuarsi stesso dello spirito, come spirito etico, cioè una norma, una disciplina, uno spirito, nel senso che dice orientamento pratico e volontà; cioè una filosofia, non della pratica, ma pratica, prassi.
Bene scrive il T.: « La filosofia pratica è quella che suscita e crea e muove valori umani; quella che ha per suo fine l’accrescimento e il potenziarsi dello spirito, di fronte e in mezzo alle leggi e alle contingenze universali; quella che esercita e coordina energie per la più intensa, più alta, più degna e più vera vita; quella che tende a sospingere la realtà in quanto sopra tutto realtà umana, individuale e collettiva, al limite dell’ideale, o, che è lo stesso, l’ideale attuare nella realtà.
■ ■ Questa filosofia non è l’etica discorsiva, ma l’etica vissuta e vivente, consapevole di sè, e però scrutatrice di sè, speculativa, certamente, ma soprattutto coordinatrice e legislatrice in tal suo dominio; che è quello fervido, continuo, immenso, segnato dai confini stessi della vita, dalla sua forma più umile e fragile a quella più alta e possente che si identifica con lo spirito stesso.
« Come chiameremo noi questa filosofia pratica, questa dialettica umana e spirituale, se non col nome di quella filosofia-attiva per eccellenza; in quanto auto
attività ed etero-attività, attività perenne ed universale sub specie humanitatis, che è l’Educazione? Qui si illumina veramente della sua luce più bella la formula che dovremmo imporre a tutto il nostro pensiero, a tutta la nostra azione: Philo-sophia sive vita, e che non ad altra disciplina più degnamente sembra convenire che alla Pedagogia ».
Veramente, per indicare questa filosofia, della quale il T. parla con tanto calore e il cui ufficio attivo, anzi la cui realtà come atto morale, egli descrive con tanta abbondanza, la storia della cultura umana ha un’altra parola, per lungo tempo abusata, oggi sospettata e malvisa, la parola religione: alla quale, se si volesse definirla, calzano assai bene le altre parole con cui chiudendo il suo studio, il T. ci presenta la pedagogia che si costituisce, nel senso più alto e comprensivo della espressione, come filosofia pratica: « pensiero che non si chiuda e intristisca in sè, ma che sia esso medesimo principio, legge, luce e pienezza di vita; praxis che non si esaurisca in programmi, indirizzi e fini particolari, ma che nella realtà, psicologica e sociale, storica e morale, sia la prassi medesima dello spirito, azione che non sia solo azione, ma veramente creazione, poiesis infinita ».
Osserverà taluno che questa del T.. il cui pensiero si avvicina in ciò grandemente a quello dell’idealismo contemporaneo, è riduzione della religione a filosofia. E non ci dorremo della formula, purché si intenda che la nuova filosofia in cui la religione può esaurirsi senza residuo, non è attività speculativa, ma volontà pratica, fede, costruzione di un mondo di valori che lo spiirito crea ed esprime da sè e foggia nella sua storia, idealismo morale.
L’INVERSIONE DELL’IDEALISMO TEDESCO
L’idealismo trascendentale era morto e ben morto in un certo senso in Germania quando noi italiani cominciammo a studiarlo e imitarlo, dopo Gioberti, con la scuola napoletana; era finito, con Heine, in una clamorosa risata, era stato rovesciato da Feuerbach e poi da Marx, aveva ceduto il pósto alla febbre dell’azione, al nazionalismo di List, il cui Sistema nazionale di economia politica fu il livre de chevet di Bismarck.
In un articolo della Revue des Sciences
54
BILYCHNIS
politiques {15 febbraio 19x7) Jacques Flach esamina appunto l’inversione morale della Germania. Egli nota a ragione che è ingiusto e pericoloso far risalire la responsabilità deH'imperialismo germanico che ha scatenato e condotto la guerra al grande periodo classico della filosofia tedesca, da Kant a Hegel, dal 1770 al 1830. Fu necessario che il popolo tedesco si disgustasse di quell'idealismo, lo rigettasse nelle dottrine c nella pratica, si volgesse con un fervore febbrile e pur metodico ai compiti pratici della organizzazione e della conquista perchè avvenisse quel che è avvenuto.
Eppure un nesso intimo c’è, fra i due periodi, e lo si ritrova in Fichte e nei suoi discorsi alla nazione tedesca, il vangelo della Germania risorta. Ma non conviene esagerare; il programma di Fichte era ancora degno di una altissima speculazione filosofica e fede morale. Molti hanno su ciò preso equivoco; del suo dovere etnico, al quale Fichte ha fatto appello per risvegliare il sentimento nazionale, si è fatto un diritto e una missione divina. Un errore quasi generale —- e il F. confessa che v’cra caduto' anche egli — è state commesso sul significato di un passo celebre, il quale fu interpretato così: a La razza tedesca è il Popolo: non un popolo qualunque, ma il popolo tipo. Essa è la Razza: non una razza qualunque, ma la razza tipo. Essa è l’Umanità, tipo primitivo dell’Uomo. solo rimasto fedele alle sue origini. Onde il suo nome: Allman ».
E dunque Bernhard! dirà: « Dal loro entrare nella storia, i Germani si sono rivelati come un popolo civilizzato di prim’ordine; piti ancora, come il popolo civilizzato per eccellenza ».
Ora il testo esatto di Fichte (discorso VII) eccolo: « I discorsi precedenti hanno mostrato, con l’aiuto di avvenimenti storici, che i caratteri dei tedeschi sono quelli di una razza primitiva, avente il diritto di appellarsi il popolo, ad esclusione di altre razze separate da essa (il che vuol dire, riferendosi ai discorsi precedenti, il popolo germanico per eccellenza, ad esclusione degli altri rami germanici) ».
Ma il pensiero di Fichte è chiaro anche nel suo insieme. Dopo la sventura dell’invasione, egli invita la razza tedesca a riprendere coscienza di sè ed alzarsi, per un nuovo cammino. Ma questo auspicato progresso, Fichte lo concepisce come puramente spirituale, e vede in esso il
trionfo dello spirito sulla materia. Perciò egli proscrive e la conquista e persino il commercio internazionale. Pei realizzarlo, l’educazione deve liberare la razza tedesca da tutti i vizi e gl’impacci de’ quali l’egoismo e l’esotismo (Auswanderei) l'hanno inficiato, ma rispettando nelle altre nazioni il deposito della cultura antica che esse hanno ricevuto. Lo scopo sarà raggiunto con Io sviluppo della volontà morale che, nel suo pensiero, non è in alcun modo una volontà arbitraria èd egoistica di potenza, ma la volontà di bene agire, una energia spirituale che sembra quasi discendere in linea retta da Pascal, come certo discende da Kant. Fichte si lasciò fuorviate dalla presunzione teutonica solo attribuendo una specie di infallibilità agli educatori incaricati di sviluppare questa volontà nel popolo.
Quel che Fichte voleva che fòsse la razza tedesca egli dice in questi termini: « Noi abbiamo supposto una razza guidata unicamente dal suo amore del Bene e del Diritto, provvista di una ragione la quale non si assegna altro scopo che questo Diritto » (1).
Ed ecco con quale energia egli giudica e condanna d’avanzo lo spirito pubblico attuale della Germania: «Vi sono dei popoli che, conservando la loro personalità e sapendola rispettata dalle altre nazioni permettono a queste di fare altrettanto ». (Non pare di leggere l’elogio dell’Inghilterra di oggi?). «Ma ci sono dei popoli i quali non saprebbero, a causa dei limiti stretti del loro io, contemplare freddamente e tranquillamente le condizioni di esistenza delle nazioni vicine; essi sono forzati di credere che esiste un solo metodo per essere una nazione civile e che questo metodo la ventura lo ha donato ad essi. Tutti gli altri popoli non saprebbero avere altro destino che di divenire simili ad essi e ciò con riconoscenza per la fatica che essi si prendono a farli simili a sè.
«Questi popoli non saprebbero nulla creare, poiché essi sono incapaci di cogliere alcuna cosa ne’ suoi veri rapporti; essi vogliono soltanto distruggere tutti i rapporti attualmente esistenti e creare intorno a sè un vuoto nel quale potranno indefinitamente ripetere la loro propria immagine».
(x) Discorsi alla nazione tedesca. XII discorso.
55
TRA' LIBRI E RIVISTE
«7
Scrivendo questo, Fi bete pensava certamente alla Francia di Napoleone, in quell’anno padrone di Berlino. Ma con quanta maggiore verità esse non si applicano allo Stato prussiano di Hegel e, più. alla Germania di oggi!
DALL’IDEALISMO AL REALISMO
Questo passaggio dalla filosofia trascendentale all’azione pratica che si inizia, con àncora una così ingenua nobiltà di intenti, in Fichte, non abbiamo bisogno di riinventarlo noi oggi, con una analisi dirètta dello sviluppo dello spirito germanico, dalla battaglia di Jena all'avvento di Bismarck. Esso era stato studiato ed ammirato e descritto, mentre avveniva, da un acutissimo spirito francese, che l’ammirazione della Germania, imparata dal celebre libro di M.me de Stael, aveva condotto a studiare da vicino il popolo rivale del suo, a peregrinare le uni ve« sita tedesche, a condurre moglie tedesca; e che già nel 183 x aveva visto dove si incamminava la Germania e gettato inutilmente l’allarme. Questa testimonianza così acuta e così sollecita e così precisa, che giunge ad annunziare l’uomo « un uomo sta per venire dalla Prussia », quando Bismarck, ragazzo, disertava la scuola per sfogare altrove la sua indole esuberante e brutale, è una delle prove più singolari della necessità immanente che dirige i grandi processi storici; e chi vuole può vederla nel «volume nel quale Paul Gautier ha «accolto alcuni studi e scritti di Edgardo Quinet, pubblicati fra il 1831 e il 1870 (Un prophète, E. Q. Paris, Plon-Nourrit, 1917).
I più importanti di questi articoli sono il primo, scritto in Germania e pubblicato dalla Revue des deux Mondes, col titolo: De la révolution et de la philosophie, il x° dicembre 1831: il secondo: De V A Ile-magne et de la revolution, il x° gennaio 1832; e il quinto: Revue e tran gè re: L’Allemagne, Cubblicato nella stessa rivista il 15 otto-re 1836. In essi c’è tutta la Germania moderna, quale uscì dal periodo precedente, rifatta nazione e temprata per la conquista del mondo, con un processo dialèttico nel quale tutto apparisce alla sua ora ed è al suo posto, da Herder e Lessing a List ed a Bismarck,
Fichte aveva detto: » L’azione e il pensiero, tutti d’un sol pezzo, fanno una cosa sola ». Ma l’azione nasce pensiero. Nel suo
articolo del gennaio 1832, Quinet scriveva: « Noi che siamo fatti apposta per sapere quale potenza è nelle idee, noi ci addormentavamo su questo movimento di intelligenza e di genio, noi lo ammiravamo in-Ìenuamente, pensando che esso avrebbe atto eccezióne a tutto quello che sappiamo e che mai esso non avi ebbe l’ambizione di passare dalle coscienze nelle volontà, dalle volontà nelle azioni e di aspirare alla potènza sociale ed alla forza politica. Ed invece ecco che queste idee, le quali parevano così insondabili e incorporali, fanno come tutte quelle che seno sinora apparse nel mondo e si sollevano in faccia a noi come il genio stesso di una razza di uomini ». Non dunque inversione dell’idealismo, ma, a più propriamente parlare, incarnazione, in corpo ed anima tedesca.
Quinet rimproverava alla Stael, aCousin ed agli altri francesi ammiratori della filosofia tedesca di non conoscerla; mostrava l’abisso profondo che divideva il pensiero tedesco dal francese, aggiungendo che non si può giudicare la portata esatta di una filosofia se non nel paese dove essa è nata, dove ha messo radici e trovato nel suolo indigeno « i correttivi e i complementi necessari ». Acuto criterio di interpretazione storica, il quale mostra che è pericoloso per un popolo assorbire e ripetere dottrine altrui, senza averle con profonda e spontanea elaborazione rifatte per sè.
Poeti e filosofi avevano rivelato il popolo tedesco a se stesso. Nell’opera di Kant, di Schiller o di Goethe esso aveva preso coscienza del suo genio e del suo destino, aveva scoperto, dopo secoli di divisione e di terribili lotte religiose intestine, la sua unità nazionale. Tagliato fuori il cattolicisino austriaco, la Germania si rifaceva un’anima compatta. La dotti ina di Kant, in paiticolar modo, ispirata a un senso austero della autorità della coscienza e del dovere, aveva preparato gli entusiasmi e le discipline e i sacrifici che accompagnarono il risveglio civile, e che indussero monarchia e democrazia tedesca a « rimettere a più tardi, d’accordo, la questione della, libertà».
L’unità politica ebbe da fuori l’impulso. Il secondo potere che aveva finito di raccogliere in unità il popolo tedesco fu Napoleone; il vincolo preparato nel fondo delle anime dalla poesia e dalla filosofìa egli lo aveva 0 cementato a suo modo nel sangue e nell'azione, nel gran giorno della
56
118
BILYCHNIS
storia ». Egli aveva disfatto i molteplici frammenti della Germania feudale e unificato la massa; e le aveva insegnato il grande segreto che questa non doveva più dimenticare: l’organizzazione appoggiata sulla forza; e le aveva fatto bere la inebriante gloria della vittoria militare. La Germania era ubriaca di azione, della gioia di essersi ancora ritrovata nel grande movimento del mondo; essa si era svegliata urtando contro lo zoccolo del cavallo del-l’Imperatole.
Parole di un cieco erano quelle di un amico di Quinet, Michelet, che nel 1831, alla scuola normale di Parigi, diceva: « Come Parsifal, la Germania anche aspira all’isolamento, essa soffre tutto, ma non soffre che si turbi il suo ripose e che la si scuota dalle sue meditazioni ». Eppure, con l’unione doganale dell’anno innanzi, essa aveva gettato le fondamenta dell'unità politica, e si stava liberamente, volontariamente, dando tutta alla Prussia, caricando questa di tutti i suoi odii e di tutte le sue ambizioni, riservandosi solo • l'oscuia disciplina delle libertà interiori » alla quale i suoi filosofi l’avevano educata; e nell’universalismo in cui il suo pensiero era stato immerso, tiovando le forme mentali di un sogno di dominio universale, gettando le fondamenta della sua nuova religione, in cui tutti i seguaci delle vecchie religioni si incontreranno e si fonderanno: la Kultur tedesca, la teutomania ammirabilmente descritta dal Quinet, nel 1842, nell'articolo che ha appunto questo titolo.
Nel 1836 egli scriveva: « Hegel è morto, il possente Hegel. La sua cenere è ancora calda. Ma dove sono i suoi discepoli fedeli, i suoi credenti, i suoi apostoli? Non ne ha più. Se oggi rinascesse, importunerebbe quelli che ieri l’hanno imbalsamato: sarebbe come Epimenide dopo il sonno di un secolo, tanto il movimento che travolge ed invecchia i morti è oggi rapido e inesorabile. Ora è necessario cantare a tavola: i morti vanno presto ». Ma la lezione della filosofia la Germania l’aveva appresa. Se nulla la spaventava ora tanto quanto il pericolo di ricadere nel suo vecchio misticismo, se un desiderio ardente la orientava verso la conquista della materia e del mondo, per godere di tutto in deulschen wesen, essa aveva rifatto la sua coscienza, umanizzata la sua religione, plasmato la sua unità, costruito di tutti i suoi sogni di un tempo il sogno immane del dominio del mondo. E si mise in viaggio. m.
IWUA
LA GRANDE QUESTIONE D’OCCIDENTE
E. Babelon, La grande question d’occidenti le Rhin dans l'histoire. Vol. I: L’Antiquité (Gaulois et Germains); vol. II: IieS Francs de l’Est (Français et Allemands). — Paris, E. Leioux, 1916-1917-1 nostri dotti si dividono in due classi: quella degl’improvvisatori che- sanno de cmni re scibili, con quel che segue e parlano e scrivono poco di quel che entra nella loro cerchia di studi e moltissimo di quel che non .entra; e quella degli « scienziati » ehe non hanno mai alzato gli occhi al di là delle loro « specialità », hanno negato qualsiasi comprensione ai fenomeni che non sono di loio (?) pertinenza, hanno menato vanto della loro mancanza di cultura generale. Eccezioni? vi sono, ma poche, pochissime (una, ottima, quella di Roberto Paribeni che tra il lavoro e.le noie delle sue numerose occupazioni archeologie«.-antiquarie, trova pure il tempo di studiare e, quel che è più, di esporre al pubblico i risultati del suo studio sul problema dell’Italia nel Mediterraneo orientale); e le pochissime, naturalmente, confermano la regola che è, sinteticamente, questa: gl’incompetenti per coltura e per mentalità, gli speculatori del sentimento e dell’ignoranza del pubblico si occupano dei problemi maggiori che il momento attuale stesso solleva e provoca; i competenti per coltura e per mentalità, i coscienti indagatori dei problemi massimi del momento si appartano dal pubblico e non lo illuminano affatto. Conseguenza: formazione di quella opinione pubblica di nessuna seria base culturale, di meschina mentalità e di povero sentimento patriottico che se è dannosa in qualunque paese, è dannosissima nel nostro, privo di tradizioni politiche unitarie.
In Francia è stato sempre, ed è ora specialmente, tutto il contraiio. Voi vedete così Ernesto Babelon, il numismatico di fama universale, la cui operosità scientifica è stata tanta e tale da apportare notevoli
57
TRA LIBRI E RIVISTE
119
contributi al pregresso delle scienze storiche negli ultimi tempi, sopratutto nel campo greco e romano, pubblicare un’opera in fin dei conti di propaganda sulla « grande questione d'occidente », esaminando dal punto di vista storico il problema dell’Alsazia e Lorena, pomo di discordia principale tra la Germania e la Francia. Si è mai visto tra noi qualche cosa di simile per Tiento e Trieste o, meglio ancora, per la Dalmazia?
Ho detto « opera di propaganda », ma non ho detto con ciò opera antiscientifica, opera che abbia unicamente un intento polemico. No! nel lavoro si sente, si vede la ¡>assione, il bisogno di sostenere una tesi, a risoluzione di far emergere alcune luci dall’ombra e di porre nell’ombra altre: ma con ciò non è in alcun modo violata quell'oggettività storica, formale almeno, che costituisce il cruccio, a quel che pare, degli storici più soggettivi.
Nel primo volume con l’ampio sussidio delle fonti e della letteratura più competente, è rifatta la storia delle popolazioni ed è messo in luce, accanto all’elemento culturale ed etnico celtico, il maggior elemento di civiltà, di forza, di preponderanza che è costituito dal « romanesiino », di fronte al nessun valore dell’elemento germanico. Tutta l’accurata esposizione storica del Babelon dimostra, come forse molti dei lettori cosiddetti colti del suo e del nostro paese non lo imaginano, questo elemento germanico refrattario alla civiltà per caratteri etnici, per disposizione d'ambiente, per ragioni storiche: il massimo che si ottiene da esso, una volta che lo si è costretto al dominio d’un popolo superiore. Galli o Romani, è l’adattamento alla civiltà superiore, ma non in maniera assimilatrice tale da far scomparire le traccio delle proprie caratteristiche brutali, che, senza riguardo ad affinità di razza. Io spingono a combattere perfino i propri fratelli senza speciali motivi di animosità. L’esposizione del B. è tutta materiata di fatti e di idee e cosi viva e così completa che, a malgrado delle 500 pagine in cui è stesa (in 8« grande), la si legge con piacere ed interesse.
Non meno interessante è, indiscutibilmente, il secondo volume. In esso si fa la storia delle relazioni germanico-francesi dall’epoca merovingia ad oggi. Tutta la costante politica della monarchia francese, della rivoluzione e dell'impero per avere la frontiera del Reno vi passa in un’espcsizione che se riesce per i primi secoli, a malgrado dell’A., alquanto farraginosa, per i secoli seguenti sale ad un interesse e ad una bellezza che avvince il lettore e gli chiarisce situazioni ed avvenimenti odierni!
La questione, studiata così esaurientemente dal B., ha per noi pure un interesse analogico. La questióne cioè dell’Istria e della Dalmazia possono da questo studio e dai problemi che ne sorgono acquistare una nuova forma di esame ed un nuovo modo di soluzione. Il B. pensa per l’Ai-sazia e Lorena un protettorato francese ed un’appartenenza ad una confederazione di Stati renani, nei quali vi sarebbero compresi l’Olanda, il Belgio ed il Lussemburgo, confederazione che dovrebbe garantire alla Francia la sicurezza ed alle sue provincie irredente l’autonomia e la libertà. Non si potrebbe pensare a qualche cosa di simile per l’Istria e la Dalmazia?
Mi limito per ora a lanciare qui questa idea: verrà forse il momento di discuterne a fondo e di presentarla in forma più concreta altrove.
Concludendo, raccomandiamo la bella opera del Babelon a quanti si interessano dei grandi problemi politici d’oggi e li vogliono conoscere non solo nel loro stato attuale, ma pur in quello storico che ne chiarisce e ne illumina i più minuti particolari.
Giovanni Costa.
LA CORTE DI FRANCIA E LA «MALIZIA DI ROMA”
Dott. Vincenzo Morelli. — Z.a Corte di Francia e la « malizia di Roma », in una corrispondenza del Caracciolo al Tanucci (26 giugno 1772).
(Presso J’Autore: Strada Stella, 103, Napoli. — Prezzo L. 1,00).
Il dottor Vincenzo Morelli è uno studioso di buon gusto. La lettera ch’egli pubblica, facendola precedere da una bella e succinta introduzione esplicativa, è del periodo migliore della storia di Napoli: quello di Carlo III e del Tanucci, di cui la metropoli meridionale conserva ricordi monumentali. I.a lettera pubblicata dal Morelli fa parte della corrispondenza inedita del marchese Domenico Caracciolo, ambasciatore napolitano presso la corte di Francia. Dalla sua lettura si rileva che l’ambasciatore era ben degno Sìr acume e spirito libero, del ministro anucci, il ristoratore e rinnovatore dello
58
120
B1LYCHNIS
Stato napolitano. Sarebbe desiderabile che * il Morelli, procedendo nelle sue ricerche al-l'Archivio di Stato, ci desse l’opportunità di conoscere più ampiamente la figura di questo ambasciatore che, per la sagacia e la perspicacia nelle previsioni, fa pensare a quei maravigliosi ambasciatori della Serenissima i quali, nelle loro Relazioni, ci hanno tramandato i documenti forse più interessanti della nostra storia.
La lettera di cui ci occupiamo fu spedita dall’ambasciatore Caracciolo al ministro Tanucci nel giugno del 1772, nel periodo in cui la corte di Francia, con le sue sregolatezze morali e più finanziarie, preparava fatalmente la via alla grande rivoluzione. È un documento quindi di gran valore per la conoscenza di quegli anni preliminari. Il Caracciolo previde fin da allora che il disordine sarebbe stato irreparabile e la monarchia avrebbe corso pericolo. Con pochi tratti di penna traccia, in modo completo ed esatto, le figure fisiche e morali dei principi reali: il Delfino prossimo a divenire Luigi XVI), il conte di Provenza ed il conte d’Artois. I suoi giudizi furono confermati dagli storici posteriori.
Nella seconda parte della lettera il Caracciolo si occupa dei Gesuiti — il cui Ordine doveva essere disciolto da Clemente XIV l’anno seguente — e delle tergiversazioni e metodi poco leali del Governo papale in proposito. L’ambasciatore napolitano aveva ben poca fiducia e stima delle arti del Governo papale e si adoperava a smascherarle senza tante circonlocuzioni. La sua libertà di giudizio sarebbe desiderabile ancora oggi da parte dei nostri uomini di Stato. Innanzi alle « bugie venute di Roma » il Caracciolo pensa di c far conoscere al Re cattolico le pessime arti e la cattiva fede dei preti in generale e
particolarmente di questo frate Papa (Clemente XIV), acciò si risolva a prendere il bastone, unico espediente a poter far intendere ragione alle coste di Roma». Ahimè!, marchese buon’anima, la vostra sapienza e la vostra energia sembra che si sia estinta in Italia, tra gli uomini di Stato! Si è voluto mettere ¿la parte il vostro metaforico bastone e, come risultato, l’Italia nostra è stata allietata, còsi per dire, dai vari monsignori Doebling, Gerlàch, Scotton, Ca-ron, e dagl’ispiratori dei convegni clericali presieduti dal conte Della Torre, dietro le spalle dei nostri soldati.
(CENSURA)
Poco dopo il Caracciolo, accennando alla diplomazia gesuitica pontificia (Clemente da un lato affermava « che i gesuiti sono cattivi e perniciosi alla Chiesa e allo Stato », dall’altro « ricusava di volerli e-stinguere ») esclama: « A dire il .vero io le vorrei stampare quelle lettere (quelle di Clemente XIV) a render pùbblico a tutto il mondo il modo di negoziare ed i sentimenti della corte di Roma, e come si burla E SI RIDE DELLA PROBITÀ, DELL’ONESTÀ E DELL’ONORE PER VENIRE A CAPO DEI SUOI DISEGNI ».
È lecito chiedersi: quando furono scritte codeste riflessioni? nel secolo decimot-tavo o nel secolo ventesimo? Se non fosse per la data, scritta chiaramente sulla lettera, ci sarebbe da restar perplessi.
La lettera del Caracciolo termina con la seguente sentenza: « Si può perdonare la perfidia dei preti, trattandoli come si trattano le donne, ma è vergognoso il proseguire a fidarsi di loro ».
Aristarco Fasulo.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma - Tipografia dell’Unione Editrice, Via Federico Ceri, 45
59
LA CHIESA E I NUOVI TEMPI
Da L'Evangelista di Roma del 13 dicembre 1917:
« È uscito l'ottavo volume della Biblioteca di Studi Religiosi, edita dalla Direzione della Scuola Teologica Battista: La Chiesa e i nuovi tempi. (•)
« ...Interessante lo studio del Pioli massime là dove parla della Chiesa Romana, la quale non può andare avanti coi tempi. È un punto sostanziale che per la coscienza moderna abbatte tutto il Romanesimo.
« Quando una Chiesa si serve della sua lunga tradizione, della sua autorità, della sua unione solo per escludere ciò che non è lei e solo per affermare e sviluppare la sua potenza politica e sociale, può essere una meravigliosa società, ma per essenza essa non è poi una Chiesa.
« R. Murri è in Italia autorità competente nello studio del grave problema: La Chiesa e lo Stato. E tale competenza dimostra in questo studio, quantunque, come egli avverte, non aggiunge del nuovo alle sue idee altrove e più volte manifestate.
« 11 Meille, dopo una serie ricca di fatti e di dati in ordine alla funzione sociale della Chiesa, ai riva alla conclusione che la Chiesa deve poter dire: Io non sono mossa da alcuna ambizione mia propria, nè ecclesiastica, nè politica: io non combatto nè contro, nè per gli interessi materiali di nessuno: io solo affermo i diritti dcH’anima (pag. 107).
«Nello scritto di U. Janni, non ostante il titolo, vi è un’impronta di religiosità pratica la quale emerge in una descrizione analitica del fatto religioso. Con giusto criterio evangelico egli giudica la religione al di sopra della morale. L’armonia dell’individuale con l’universo è opera del puro atto religioso e la morale ne è solamente la pratica opinione. U. Janni respinge la dipendenza della religione dalla filosofia, e in ciò convengono ormai tutte le menti capaci di comprendere ciò che sia filosofia e ciò che sia religione. 11 ciclo scolastico è ormai chiuso: sta dinanzi a noi e basta guardarlo per insorgere quale servizio la filosofia abbia reso alla religione.
«Quando la filosofia ha voluto diventale la verità della religione, ha ucciso la religione. Solo con questi criteri si può sentire ed approvare la orofonda verità così bene sintetizzata in“ Chiesa e Scienza „ del Falchi.
« Nello studio “ La Chiesa e la critica „ di M. Rossi, un vero competente in materia, autorevole e simpatico scrittore, una cosa sopratutto appare: che tutta questa critica non potrà mai isterilire i cuori, poiché se l'atto della fede può essere del sentimento, l’oggetto della fede purificato dalla critica abbellisce ed esalta l’atto del credere. Di qui la sola, la vera poesia della fede. L’irrequieta nostra anima non ha bisogno di riposare nel sogno: ha bisogno di confortarsi nella realtà/...
« Qui Quondam fa una requisitoria minuta, esatta, sull'atteggiamento della Chiesa verso la Critica e il Sacerdozio...
• Ultimo è lo studio di A. Tagliatatela: " Chiesa e morale. „ Questo studio è pregevole specialmente per la sua forte dimostrazione della morale tiepida, infrollita, tutt’altro che adatta a rifare i caraticii, la quale vige dottrinalmente e pratica-mente nella Chiesa Romana. La prova schiacciante di questa verità sta nel fatto che se qualche anima cattolica romana vuole essere robustamente morale, sente il bisogno di porre in quarantena la morale del Settecento. Lo sbaglio di quest'anima sta nel credersi, ciò non ostante, cattolica romana, quando sa che nulla nella sua Chiesa le permetterà mai l’uso di questa libertà. L’infallibilità pontifìcia, è noto, non si estende solo alla fede, ma ancora alla morale; e la credenza in tale dogma è condizione sine qua non si può essere cattolici romani.
« In conclusione ecco l’introduzione del dott. Whittinghill. Non dimostra: raccoglie conclusioni le quali balzano fuori sicure, secche, robuste, dando allo scritto un certo che d’andare che non si può leggere senza che lo spirito frema in un’onda luminosa di santa libertà.
♦ ♦ »
« Certo che il libro è fatto per le anima virili, che vivono in una fede guadagnate nella lotta e nella sofferenza: e a queste è dedicato.
« Per le altre anime... è un po’ il ferro del chirurgo. Strillano infatti, ma coraggio dottor Whittighill: medico pietoso fa la piaga cancrenosa; o se non le piace questo brutto mestiere pensi a quel che dicono i toscani: “ a tela ordita Dio manda il filo. „
« Riccardo Borsari ».
(♦) Voi. di pag. XXXI-307. Prezzo L. 3,50. Per gli abbonati di Bilychnìs che sono in regola Coll'Amministrazione : L. 3.
60
Prezzo del fascicolo Lire 1 —