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RICOSTRUIRE INSIEME
UNA NUOVA SPERANZA
Dal 30 ottobre al 1“ novembre si è svolto
a Vico Equense (Napoli) un Convegno organizzato dalla Federazione delle Chiese
Evangeliche in Italia con l’intento di raccogliere suggerimenti rilievi e orientamenti
dai delegati dalle chiese e da esperti invita
ti per approfondire e precisare le prospettive dell’intervento che la FCEI ha impostato a seguito del terremoto del novembre
1980. Nei limiti delle 4 pagine di questo
inserto, diamo un quadro del lavoro e dei
risultati di questo convegno.
Ìli una prima parte di analisi
della « questione meridionanale come questione nazionale », Sergio Aquilante collega il problema meridionale al
modo in cui « si è formata la
classe dirigente ed in cui si è sviluppata la borghesia del nord come classe egemone del capitalismo » e al problema dello « stalo e della democrazia » in Italia. Per comprendere oggi la
realtà meridionale bisogna vedere queste regioni come una società "dipendente" dal resto del
paese sia sul piano produttivo
che su quello politico e culturale.
Ma una società dipendente non
è statica. Al suo interno si verificano mutamenti a livello economico (industrializzazione di alcune zone, redditività dell’agricoltura in altre zone), sia sul piano della vita sociale (urbanizzazione) che politica-culturale (es.
voto sull'aborto).
Una possibile trasformazione
che sia capace di realizzare l'autonomia decisionale del sud in
tutti i campi (economico, culturale ed istituzionale) deve porre
il problema del modello di svi
DALLA RELAZIONE DI SERGIO AQUILANTE
Terremoto e questione meridionale
luppo italiano e dell’allargamento della democrazia.
I portatori di questo progetto
di trasformazione sono il movimento operaio e nuovi strati sociali quali le donne, i giovani, gli
intellettuali.
Pur consapevoli di rendere parziale un discorso molto più articolato, obbligati da limiti di spazio, abbiamo scelto di privilegiare nella relazione Aquilante, di
cui pubblichiamo ampi stralci
della seconda parte ( testo provvisorio), gli aspetti teologici e i
riferimenti più diretti alle chiese
e opere evangeliche nel Sud. Per
il discorso complessivo rinviamo
al testo integrale e definitivo che
verrà pubblicato negli atti del
convegno e su altre pubblicazioni evangeliche (Gioventù Evangelica, Diakonia).
Il ruolo delle comunità evangeliche
Due cose mi sembra che ormai
possano essere acquisite:
1) le nostre comunità non
sono né devono essere una « opinione » che vaga qua e là, o una
setta che vive i suoi rapporti
con i problemi deH’esterno partendo sempre da sé, dalle preoccupazioni per le sue purezze dottrinali, spirituali e morali: esse
sono ben radicate nella realtà
italiana, con concrete attività e
proposte, interventi nei vari settori della vita associata; sono
comunità che, mantenendo intatta la loro identità, vogliono portare un contributo per la soluzione positiva delle gravi questioni che travagliano il paese,
e, in particolare, per quel che ci
riguarda ora, delle questioni che
affliggono il Mezzogiorno, e più
specificamente le aree colpite dal
terremoto del novembre 1980.
2) Le nostre opere sociali,
per la loro stessa natura, sono
strettamente legate, strettamente
connesse con le nostre comunità
e la loro azione: non sono pensabili senza le comunità (non è
il problema di chi nasce prima:
è il problema del rapporto essenziale di un’opera sociale con
la comunità): esse quindi devono
tener conto di questo legame
profondo; il che significa che
non possono vivere fuori del
quadro di un impegno e di un
consenso della comunità, che però non cade dall’alto, ma va tenacemente e costantemente costruito.
Le nostre comunità e le nostre
opere sociali sono dunque nella
storia e ne vivono le congiunture
essendo e cercando di essere
sempre se stesse; e pertanto ci
sono con un loro disegno e una
loro specificità, il che non vuol
dire un aprioristico o moralistico « specifico cristiano ».
Da anni abbiamo assodato, per
lo meno su un certo versante,
che il problema
« non è di raccomandare o sottolineare la necessità di una presenza della
Chiesa o, per lo meno, delle nostre
chiese nella società: queste vi sono
state e vi sono presenti... (La Chiesa
perciò non deve) recarsi nella società perché è già in essa, essendo una
"assemblea" — EKKLESIA — di uomini e di donne che, in un modo o nell'altro, sono inevitabilmente parte di
determinati tessuti sociali » (1).
Il problema è viceversa in che
modo le nostre chiese scelgono
di essere dentro le questioni della società, e quale è il contributo che esse vogliono e possono
portare. E qui tornano a riproporsi alcuni tratti di quel disegno di trasformazione del Mezzogiorno, che abbiamo riferito
nelle sue grandi linee: la questione istituzionale; la questione della dipendenza del Sud, e quindi
deH’autonomia nella scelta della
qualità della sua vita; la questione dell’agricoltura, della scuola,
del lavoro, dei nuovi soggetti. Le
nostre comunità, con le loro opere sociali, sono dentro queste
questioni. Le nostre chiese (sparute, deboli, sparse qua e là sul
territorio nazionale, e in questo
nostro Mezzogiorno) sono le
chiese del « sacerdozio universale»; ogni credente è pienamente
responsabile della comunità, della predicazione, della testimonianza, dell’intera attività che
questa svolge.
E cos’è in pratica una chiesa
che vive ii sacerdozio universale, se non un momento di ampia
e profonda democrazia, nel senso appunto che ciascuno sente
il tutto come cosa sua, come
cosa che lo riguarda direttamente, che gli appartiene, in cui è
personalmente coinvolto e su
cui esercita il suo controllo?
Qualcuno dirà che qui si scivola dal « sociale », in cui è sem
pre stata nostra tradizione intervenire, al « politico », da cui abbiamo sempre cercato di tenerci
« separati ». Non avrei paura
(s’intende a certe condizioni) di
questo scivolamento, se così lo si
vuole chiamare. Sono convinto
che una chiesa del sacerdozio
universale essendo una esperienza, modesta ma concreta, di democrazia, è « oggettivamente »
una indicazione, un contributo,
per la costruzione di una democrazia diffusa, essenziale per la
soluzione dei problemi, anche di
queste aree.
D’altronde il « progetto di Intesa » che le chiese valdesi e metodiste hanno concordato con la
apposita commissione governativa, non incide forse sulla natura stessa del nostro Stato, in
quanto lo porta a pensarsi e a
porsi, sia pure limitatamente al
campo della politica ecclesiastica, in modo diverso, nuovo, secondo un modello di libertà e di
effettivo pluralismo?
Cosa c’è di « diabolico »? Per
quale motivo le nostre chiese
non possono realizzare un rapporto con uno Stato che, nel suo
movimento, nelle sue articolazioni, non sia più, come lo si continua ad immaginare, un corpo
compatto, a sé stante, ma, come
invece si suole dire, un sistema
di relazioni complesso?
Non riesco proprio a vedere il
Supplemento del n. 49 del 4
dicembre 1981 de « La Luce »,
settimanale delle Chiese valdesi
e metodiste.
Dir. resp. Franco Giampiccoli ■
Reg. n. 176/1960 Trib. dì Pinerolo - Stampa: Coop. Tip. Subalpina, Torre Pelllce (Torino)
Sped, in abb. post. Gruppo 1"
bis/70.
La mozione finale
« Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date ».
Con queste parole di Gesù
esprimiamo il senso dell’impegno che abbiamo preso, come evangelici, nel terremoto.
Su questa grande tragedia il
Signore ci ha permesso di vivere una comunione di fede e
di azione che non ha conosciuto differenze denominazionali né frontiere. A quasi
un anno dalla sera del 23 novembre riconosciamo che il
Consiglio della FCEI (Federazione delle Chiese Evangeliche) ha saputo interpretare in
modo tempestivo lo slancio
delle chiese fornendo loro gli
strumenti adeguati per intervenire. Ci sembra che quello
che abbiamo ricevuto, in uomini e mezzi, sia stato effettivamente dato, secondo criteri adeguati alla situazione di
emergenza pur nella limitatezza delle nostre forze.
Il lavoro intrapreso va ora
proseguito nella linea delle
scelte già operate. Le esperienze di questo anno e il confronto delle idee che si è svolto nel Convegno di Vico Equense — 1” novembre 1981 —suggeriscono alcuni punti che
proponiamo alla riflessione
degli organi della FCEI e alle
nostre chiese.
1) Alla luce dei contenuti
di analisi e delle valutazioni
espresse nella relazione del
pastore Sergio Aquilante sui
termini attuali della questione meridionale come questione nazionale, nonché dei risultati del lavoro condotto
nei gruppi di studio, riteniamo che il lavoro nelle zone
terremotate sia per le nostre
chiese un impegno prioritario
che riguarda il futuro della
nostra testimonianza evangelica non solo nel sud, ma in
tutto il paese.
2) Il sud, essendo parte integrante della vita del paese
e delle nostre chiese, non può
essere oggetto di solidarietà
distaccata o assistenza. Riteniamo dunque indispensabile
che l’intervento nelle zone terremotate si inquadri organicamente in un intensificato
impegno dei credenti nel mezzogiorno e che tutte le comunità evangeliche testimonino
la portata e il significato nazionale dei nuovi termini della
questione meridionale.
Ci attendiamo perciò che
la FCEI prosegua sempre più
intensamente in questa direzione, nella piena consapevolezza che la responsabilità e
la dignità di protagonisti, nella traduzione in concreto di
questa linea di azione, va riconosciuta alle comunità dei
credenti operanti nel mezzogiorno.
Consideriamo inoltre utile
continuare nella unificazione
dei nostri sforzi con quelli di
tutti coloro (singoli e organizzazioni) che già operano
per la trasformazione del mezzogiorno.
3) La testimonianza evangelica che dobbiamo continuare a dare è quella di affrontare, in modo efflcace e giusto, senza privilegi né clientelismi, i problemi concreti
posti dal terremoto. Ciò non
esclude, anzi prevede che la
nostra presenza di credenti
evangelici appaia esplicitamente come tale, con le modalità che le situazioni diverse sapranno suggerirci.
4) La massima cura dovrà
essere impiegata nella scelta
e nella qualificazione delle
persone che opereranno, per
un periodo che prevediamo
lungo, nella zona terremotata.
E’ chiaro che si dovranno
trovare degli operatori sociali
possibilmente evangelici, che
abbiano le necessarie qualifiche professionali; ma ci sembra altresì: utile che l’azione
continui ad appoggiarsi anche
sui volontari opportunamente
selezionati che affianchino i
professionisti.
Si auspica, inoltre, che la
dislocazione delle forze pastorali tenga sempre più conto
della situazione di emergenza
in cui continuano a trovarsi
le nostre comunità nelle zone
colpite.
5) Ci rallegriamo che la
FCEI, attraverso la ricostituzione del Servizio di azione
sociale preveda di dare alla
nostra azione una struttura
organizzativa più adeguata,
capace di assumere le necessarie funzioni di orientamento, gestione e coordinamento,
e con una composizione che
rifletta la volontà e la capacità di iniziativa delle chiese
membro.
6) Siamo persuasi che con
il nostro impegno esprimiamo in modo unitario la realtà
del protestantesimo italiano
al dì là delle diverse denominazioni. Vediamo perciò nel
lavoro della FCEI non solo
uno strumento attraverso il
quale le singole chiese operano nelle zone terremotate, ma
l’occasione in cui si esprime
la nostra unità in Cristo.
7) Raccomandiamo al Consiglio della Federazione di dare la massima diffusione alle
relazioni ed agli atti di questo Convegno, nonché di quello tenuto in giugno, in modo
che essi possano essere oggetto di studio e di dibattito all’interno ed aH’esterno delle
chiese evangeliche.
Vico Equense, 1° novembre ’81
motivo per il quale le nostre
chiese non possano avere un rapporto con uno Stato di questo
tipo (un rapporto ovviamente
dialettico), per portare avanti, e
magari, se ci riescono, affermare valori che sono loro propri,
senza per questo diventare una
sorta di partito politico, con un
programma complessivo di statualità, ecc., ma restando sempre delle comunità che direttamente sono interessate solo a
certi momenti specifici (la piena
democrazia, la piena libertà), e
per questi si battono, in quanto
sono costitutivi del loro stesso
modo di porsi come chiese di
Gesù.
Per una cultura delia
decisione autonoma
Nel II Congresso Evangelico
del 1965 noi abbiamo accettato
il principio che la chiesa locale
è l’elemento ecclesiologico primario. Vivere politicamente fino
in fondo questo principio, a mio
avviso significa — nel Mezzogiorno, come per altro altrove — porsi e costruirsi giornalmente come
momenti concreti di autonomia,
e pertanto di decisione autonoma; e quindi inserire, nel quadro del nostro Mezzogiorno, esperienze di abitudine a decidere da
sé e per sé, per il proprio lavoro,
per la propria vita; certo, insieme agli altri, ma rifiutando la
pretesa dell’altro a voler decidere lui per tutti e la delega ad
altri, perché si è stati immersi
nell’inganno che soltanto « gli altri » (che guarda caso poi sono
1« potenti») sono in grado di decidere. Dunque, un contributo alla costruzione di una cultura
della decisione autonoma, della
gestione realmente indipendente
e responsabile.
Non abbiamo voluto dare soltanto case, né ora qui, nelle località della Campania e della Lucania dove stiamo intervenendo,
né in altre parti prima (la Sicilia, ecc.). Abbiamo voluto costruire anche centri sociali, culturali, di aggregazione di comunità scolastiche, cooperative ecc.
Mi riferisco ai tentativi di sperimentare nuove metodologie,
nuove pedagogie, nelle nostre
opere nel Mezzogiorno (il cui
numero è addirittura sproporzionato rispetto alle nostre forze);
ai tentativi di utilizzare il tempo
libero dei ragazzi in un’opera
culturale collettiva, per imparare
a discutere e decidere insieme,
di abituarli ad una acquisizione
critica del sapere, di aiutarli ad
essere attori nel processo della
loro formazione.
Penso ai nostri esperimenti di
cooperazione, non solo oggi a
Ruvo del Monte, a Senerchia, ma
già da ieri a Villa San Sebastiano, a Vita ecc. ; questi tentativi di
creare una solidarietà nel lavoro, di raccordare la piccola proprietà contadina alle esigenze
dell’azienda moderna, e così resistere all’avanzata capitalistica
nelle nostre campagne.
Penso alla nostra etica del lavoro. Su questa non mi sembra
che sia necessario spendere molte parole. Fin dalle loro origini
le nostre comunità hanno vissuto
il lavoro come vocazione. Ed è
vero; è vero proprio nei villaggi del nostro Mezzogiorno. Una
vocazione che coinvolge non solo gli uomini, ma anche le donne, secondo la parola biblica;
« non c’è qui né Giudeo né Greco, non c’è né schiavo né libero;
non c’è né maschio né femmi
(segue a pag. 3 dell’inserto)
2
o
CIRCA 200 PARTECIPANTI AL LAVORO SU 4 TEMI SPECIFICI PER PRECISARE L’IMPEGNO DELLA FEDERAZIONE
Le mozioni dei gruppi di lavoro al convegno
L ^intervento delle chiese evangeliche a favore
dei terremotati va al di là del problema
della ricostruzione. In fondo sarebbe stato
più facile costruire dei prefabbricati, dare
un tetto e poi ritornare da dove si veniva.
Le chiese evangeliche italiane hanno scelto invece una strada più difficile: quella di collegare il
problema della ricostruzione materiale allo sviluppo.
Questa frase può sembrare uno slogan privo di
conteriuti. Infatti finora non vi sono concreti piani
pubblici di sviluppo per le zone terremotate a cui
riferirsi. Quindi è difficile, per un intervento limitato quale quello della FCEI, porsi il problema degli obiettivi di sviluppo.
Alcuni tra di noi, critici, lo hanno detto: mettersi in ottica di programmazione economica e sociale rischia solo di essere una ulteriore complicazione e di provocare un ritardo nell’opera di ricostruzione, che va invece fatta in fretta.
E’ un'obiezione certamente fondata, che la FCEI
però ha respinto. Il rischio che l’esigenza della programmazione finisca per ritardare gli interventi e
reale e lo stiamo correndo: le attese e le lungaggini burocratiche per poter collocare i prefabbricati a Napoli Ponticelli, a Salerno e a San Gregorio Magno sono li a testimoniarlo.
Non possiamo però credere che per queste zone
sia sufficiente autolimitarsi ad un progetto di ricostruzione. Questo servirebbe (e in qualche caso oggi sta servendo) alle clientele e ai gruppi di potere che possono trarre benefìcio dalla massa di
denaro che sta affluendo nelle zone terremotate.
La sola ricostruzione non rimetterebbe neanche le
cose come erano prima, perché certamente aumenterebbe le differenze sociali esistenti.
Per la FCEI invece è stato necessario darsi degli obiettivi di sviluppo, diversi tra loro e definiti
secondo le aree nelle quali si colloca l’intervento.
A Senerchia e Ruvo del Monte si è così individuato un intervento nella cooperazione agricola,
in altre zone, Avellino-Monteforte, Napoli, Salerno,
l’obiettivo ha una rilevanza sociale, è il centro sociale che viene costruito e messo in funzione dalle
chiese: occorre pensare alla scolarità, ai vari processi formativi delle coscienze, ma anche ai problemi del mercato di lavoro come avviene nel progetto di Napoli.
Tutti gli interventi però pongono dei problemi
alle chiese per quanto riguarda la loro organizzazione pratica. Chi assumerà il personale tecnico
necessario? Quale possibilità vi è per questo personale di trovare un’altra collocazione nell’ambito
delle chiese evangeliche finito l’intervento del terremoto? E' possibile che l’azione sociale delle chiese sia coordinata ed unitaria e condotta dalla
FCEI?
A queste domande il convegno di Vico Equense
ha risposto che tutto ciò è possibile e che è urgente
la costituzione di un Servizio di Azione Sociale della FCEI che abbia appunto questi scopi: assumere
il personale, coordinare l’intervento con le chiese
e le comunità locali, affrontare i problemi del volontariato, delle cooperative, dell’etica delle chiese
per una presenza nella società.
E’ questa un’importante conclusione cui è giunto il convegno. Si sono poste le premesse per la
costruzione di una struttura di servizio che aiuti
a realizzare il nostro « intervento sociale », nell’intero Meridione italiano. Non si tratta infatti dei
soli problemi delle zone colpite dal terremoto. Il
terremoto ha allargato le crepe e ha messo in luce
i problemi di sempre del Meridione e dell’Italia.
A Vico Equense è nata la volontà di affrontarli. E
non è poco.
Giorgio Gardiol
da di evitare ogni soluzione
emarginante, ma di attuare interventi aperti domiciliari e ambulatoriali volti alla prevenzione,
al recupero, alla socializzazione e
alla riabilitazione fìsica e sociale,
dopo aver espletato approfondita
analisi delle situazioni.
1° La pianificazione
Il gruppo ha individuato tre
temi e direzioni per l’impegno
della FCEI nelle zone terremotate:
1) questioni inerenti all’acquisto o no dei terreni sui quali
costruire abitazioni e centri sociali;
2) assunzione di personale
specializzato o volontariato;
3) coordinamento di queste
iniziative in un comitato di azione sociale della FCEI.
Sul primo punto il parere del
gruppo è che non si possa contrapporre l’acquisto o no, in alternativa l’uno dell’altro. Tenuto
conto delle situazioni diverse che
in futuro si determineranno, sarà necessario valutare di volta
in volta le modalità attuative per
l'esecuzione dei progetti di ricostruzione, ricercando la soluzione più efficace e tempestiva possibile, tenute presenti le finalità
della nostra opera che si indicano nel seguente modo: garanzie
di continuità della nostra opera
a favore dei terremotati o per
scopi sociali; assicurazione di
continuità nella testimonianza
evangelica.
In ogni caso sarà necessario
coinvolgere nelle iniziative che
via via saranno prese le comunità locali al fine di renderle protagoniste sia dell’opera di servizio che di quella della testimonianza, nello spirito della « povertà evangelica » che deve caratterizzarsi anche nelle scelte
inerenti situazioni politiche complesse.
Sarà inoltre indispensabile il
confronto e il dialogo con le forze sociali della zona di intervento, anche per responsabilizzare
i destinatari sul diritto di farsi
carico delle decisioni che li riguardano ed evitare soluzioni
assistenziali prolungate.
Sul secondo punto si evidenzia
ben presto che non si tratta di
una antitesi tra personale specializzato pagato o personale volontario. Questo per due motivi:
1) se si imbocca unicamente
la strada del volontariato si rischia di non avere continuità nel
lavoro e di non avere personale
preparato non essendoci ora chi
lo prepara;
2) se invece si imbocca la
strada dell’assunzione di tecnici
specializzati la cosa può anche
funzionare per la situazione contingente del terremoto (anche
perché la copertura finanziaria è
assicurata dagli amici esteri), ma
non c’è contatto con le comunità
locali.
Se si accetta di non scindere
le due proposte si affaccia subito
una grossa esigenza:
— avere un volontariato specializzato;
— avere una specializzazione volontaria.
Questo significa suscitare un
grosso dibattito nelle comunità
locali, significa essere in grado
di rivolgere vocazioni alle comunità non solo per un lavoro
pastorale ma anche per un lavoro diaconale. In altre parole si
tratta qui di pagare con forze
che la chiesa ha (trattamento pa
storale) una persona specializzata (ruolo diaconale).
Se questo discorso è valido si
tratta di estenderlo a tutta la
diaconia della chiesa e non solo
per la questione del terremoto.
Questo significa la formazione di
quadri diaconali con possibilità
di mobilità all’interno delle chiese e quindi della Federazione
A questo si può aggiungere To
biezione di coscienza che attuai
mente viene gestita da un comi
tato di coordinamento e informazione a cura delle chiese vai
desi e metodiste. Questo significa
un grosso cambiamento per le
chiese e quindi per la Federazione:
— Non è possibile che la Federazione agisca da Roma per
l’assunzione di personale o per
qualsiasi altra questione senza
un legame strettissimo con le
comunità, e tuttavia essa dovrà
avere una veste per poterlo fare.
— Sarà la Federazione che
dovrà assumere il personale, non
la chiesa locale e non le singole
denominazioni.
— Si dovrà formare un comitato locale coordinato dalla
Federazione che gestisca l’opera
a cui il personale dovrà fare riferimento.
— La Federazione dovrà quindi creare un Servizio di Azione
Sociale che coordini la diaconia,
informi le comunità, abbia un
suo bilancio. Questo servizio verrebbe ad assumere grande importanza per il reperimento, la
formazione e lo smistamento dei
volontari, compresi gli obiettori
di coscienza che la Federazione
potrebbe addirittura adibire esclusivamente per il terremoto.
Accettare questa ipotesi significa aver chiaro che:
— nell’anno che intercorre
tra l’attuale convegno e il prossimo congresso bisognerà avere
un grosso consenso dalle chiese
e di conseguenza fornire una
grossa informazione alle comunità;
— entro marzo avere alcune
persone preparate e qualificate
da assumere;
— avere una struttura della
Federazione che metta in funzione tutto questo;
— impostare la politica meridionalistica delle comunità.
2° I centri sociali
Il gruppo di studio sui Centri
sociali prende atto della necessità della realizzazione nelle zone
sinistrate dal sisma di centri sociali, di centri culturali, di centri di aggregazione, di cooperative e della rilevanza che questi
possono assumere nelle realtà
specifiche nelle quali andranno
ad operare.
1) Il centro sociale è una
struttura (istituzionale) che attraverso gli operatori di servizio
sociale risponde in modo globale alle esigenze dei cittadini.
Il centro culturale evangelico è
invece una struttura di movimento nella quale si porta avanti in
modo più esplicito un’opera di
testimonianza insieme al soddisfacimento di alcuni bisogni della
popolazione locale.
2) Ogni progetto relativo ad
un intervento sociale deve partire da un’indagine accurata della
situazione locale, onde individuare precisamente i settori di lavoro e le modalità di procedimento
più adeguate allo scopo.
3) La FCEI avrà la responsabilità e la gestione dei vari interventi o direttamente o attraverso i suoi organi decentrati.
3° La cooperazione
La Commissione sulla cooperazione, sulla base delle indicazioni
generali scaturite dal dibattito
svoltosi nel Congresso, e di una
approfondita discussione sul tema affidatole e sullo stato delle
esperienze concrete in atto, sottopone alla attenzione del convegno le seguenti considerazioni:
1) Le esperienze poste in atto, ed attualmente a differenti
stadi di avanzamento, nelle aree
terremotate interessate all’intervento della Federazione, appaiono sotto il profilo tecnico — allo
stato attuale — certamente azzardate; sotto il profilo delle condizioni nelle quali sono state decise, certamente in larga misura
dettate dalla situazione di emergenza. Sotto il profilo dell’ispirazione ideale e sociale, infine, appaiono come il frutto di una
scelta coerente — per quanto
non ancora sufficientemente fondata su una esauriente analisi
delle condizioni concrete — tra
due possibilità: quella di riconoscere l’ineluttabilità dell’individualismo e deH’assistenzialismo
o quella di scommettere sulla
possibilità di uno sviluppo fondato sui valori di solidarietà, autonomia e collaborazione.
2) Sulla base dei contenuti
e dei propositi emersi nel corso
del Convegno, la commissione
ritiene che tali esperienze vadano fermamente e coerentemente
sostenute dalla Federazione e
dalle comunità evangeliche, assicurando a tal fine una continuità
nella mobilitazione di risorse tecniche e finanziarie e sviluppando
tutti i contatti necessari e utili
con le istituzioni pubbliche e
private coinvolgibili (regioni, comunità montane, comuni, associazioni cooperative ecc.).
3) La commissione ritiene di
dover specificare che lo scopo
ultimo di tale impegno deve essere non il perpetuarsi di un rapporto caritativo o di sostegno
materiale dall’esterno, ma il rag
Tutto ciò avverrà con la massima
collaborazione con le comunità
locali e ove possibile con le forze
politiche e sindacali.
4) Particolarmente importante, accanto alla presenza dei tecnici ove necessaria, quella dei volontari, per motivazioni non solo
di natura finanziaria ma, soprattutto, di natura etica. È da considerare specialmente la collaborazione di volontari residenti sul
posto, per ragioni di tenuta e la
possibilità di usare il servizio
civile. È essenziale che il volontariato non significhi spontaneismo ma che sia un servizio continuativo specifico e organizzato.
5) Nell’assunzione degli operatori, la preferenza va data agli
evangelici per i quali sarebbe auspicabile organizzare occasioni
di formazione adeguata.
6) Si sente la necessità di una
maggiore informazione sulla evoluzione dei vari progetti di lavoro diretta sia alle chiese che ai
nostri finanziatori esteri e ai potenziali volontari o collaboratori
finanziari.
7) Per quanto concerne un
eventuale intervento specifico a
favore degli anziani, si raccoman
giungimento di una piena e reale
autonomia e capacità gestionale
da parte dei soci cooperatori. In
questo spirito si suggerisce che
la partecipazione della Federazione alle istanze delle cooperative non assuma la forma dell’associazione, bensì quella della
rappresentanza negli organi di
controllo.
4) Al fine di facilitare i compiti suddetti, si ritiene indispensabile che ci si faccia carico in
tempi brevi della permanenza
stabile nelle aree interessate, di
una persona — di fiducia della
Federazione — dotata delle capacità e delle competenze necessarie a promuovere l’adeguata
messa a frutto delle risorse messe a disposizione dei soci.
5) Si rileva altresì, la necessità che, sulla base di queste
esperienze iniziali e di una più
ampia riflessione sulle esperienze in atto in Italia, la Federazione e le comunità evangeliche definiscano una propria linea di
condotta di valore generale sulla
cooperazione, intesa come proposta di diversa organizzazione
dei rapporti economici, sociali e
umani, sin d’ora praticabili. Si
ritiene inoltre utile ricordare che
la cooperazione non interessa
soltanto le attività di produzione
ma, anzi, rimanda ad esigenze
più ampie di organizzazione dei
servizi e della vita economica a
livello territoriale.
6) In coerenza con tutte le
considerazioni sin qui sviluppate,
si invita la Federazione a formare una commissione non eccessivamente ampia di competenti,
con compiti e scadenze periodiche precise che assicuri una informazione puntuale e articolata sul tema delle esperienze cooperative, ne curi la diffusione
negli organi di stampa evangelici e sappia prospettare e proporre soluzioni adeguate nei momenti di necessità operativa.
La nostra presenza di credenti evangelici nell’opera
di ricostruzione, materiale
e morale, delle zone colpite dal terremoto, richiede una
riflessione. Non solo sui problemi tecnici della pianificazione
dell'intervento, nei centri sociali
e nelle cooperative, ma anche, di
pari passo, sul significato di un
intervento promosso da credenti, sulla possibile testimonianza
che si può delineare.
Un numeroso gruppo di fratelli ha scelto di confrontarsi su
questi temi, nel recente Convegno di Vico Equense. La breve
mozione che cerca di sintetizzarne i lavori dà un’idea forzatamente limitata della ricchezza delle
proposte, delle esperienze, dei
suggerimenti emersi: riprendiamone alcuni, per meglio inquadrare la mozione, specie per co
loro che non erano a Vico Equense.
Molti interventi hanno ricordato situazioni di precedenti
terremoti, a partire da quelli storici di Avezzano, di Messina, fino
a quelli più recenti che tutti abbiamo avuto sotto gli occhi. Per
alcuni si trattava di ricordi personali, per altri di memorie di
famiglia o della comunità: esiste
cioè una memoria storica che ricorda una presenza evangelica
costante nelle vicende che hanno provato il paese, una presenza che spesso è diventata testimonianza, ha cercato di innestare un « terremoto spirituale » su
quello materiale. E gruppi di credenti son nati, o si son rafforzati nel passato, a partire da questa .solidarietà con il paese in cui
viviamo. Il ricordo non è stato
evocato per chiudersi nel passa
Una famiglia già insediata in una delle casette del villaggio di Portici non ancora completamente ultimato.
3
e
to, ma per trovarvi motivi di riflessione e di speranza, e per saper inventare metodi e linguaggi e soluzioni adeguati alla situazione attuale.
Nel gruppo si sono chiariti alcuni punti che avrebbero potuto
divenire falsi problemi se non ci
si fosse confrontati con sincerità
e volontà di ascolto tra persone
che vivono la loro fede in diversi
contesti e con accentuazioni diverse.
Per esempio, credo che abbiamo potuto superare l’antitesi testimonianza esplicita - testimonianza implicita, proselitismo sì proselitismo no, e via dicendo.
Non possiamo tacere la speranza evangelica che è in noi,
s'è detto, e i contenuti, i metodi,
le finalità della nostra testimonianza e della nostra predicazione non possono che provenire
dalla Parola di Dio: ma allo stesso tempo tutti hanno compreso
che la situazione richiede una
Comprensione dall’interno, una
attenzione particolare al contesto in cui si muove la nostra
azione, una presenza che deve
predicare la verità, non una propaganda, fosse pure propaganda
religiosa.
Per poter annunciare il mondo
nuovo di Cristo, nella zona dove
il terremoto non ha creato, ma
ha messo a nudo tutti i vecchi
mali della zona, del meridione,
del paese intero, dobbiamo noi
stessi rinnovarci, riproporre prima di tutto a noi stessi un ascolto della Parola di Dio, senza riproporre vecchi metodi, divisioni denominazionali, vecchi anti
clericalismi, ma indicando nella
Parola (non in noi stessi o nelle
nostre strutture) la via che ci
sembra la sola adeguata per un
vero riscatto morale e materiale.
Abbiamo trovato nel gruppo,
dopo una discussione lunga, viva.
Un grosso consenso sulle linee
che ho cercato di riportare e che
si è espresso nella mozione del
gruppo di lavoro.
Essa comprende tre punti: l'affermazione che l’emergenza con
tinua, la convinzione che una vera predicazione nasce dal condividere i problemi delle persone
che incontriamo nel nostro impegno di ricostruzione, la richiesta
di un lavoro comune che coinvolga da un lato le chiese presenti
nella zona terremotata, dall’altro
la solidarietà delle chiese che fan
parte della Federazione, per una
risposta omogenea e unitaria ai
grandi problemi tuttora aperti.
Sergio Ribet
4° La testimonianza
Il gruppo di lavoro sui problemi della testimonianza evangelica nelle zone terremotate ha
constatato, sulla base delle esperienze riferite nel corso del
dibattito, la persistenza della situazione di emergenza.
Ritiene pertanto indispensabile
la continuità nel tempo e la coerenza nella qualità del nostro intervento.
La presenza delle nostre comunità nelle zone terremotate ha
significato già di per se stessa
una testimonianza che si è manifestata attraverso l’aiuto fraterno dato tenendo conto dei bisogni reali della popolazione senza discriminazioni di sorta.
Afferma che la testimonianza
nasce daUa condivisione della
condizione dei terremotati e de
ve continuare come espressione
della nostra vocazione cristiana,
manifestata sempre con sensibilità e discrezione verso le situazioni umane e sociali nelle quali
ci si inserisce, e come una occasione per rivedere le nostre posizioni denominazionali e vivere
in modo unitario l’evangelo.
Ciò richiede da un lato rapporto costante e diretto delle
comunità locali e dall’altro una
iniziativa della Federazione affinché si faccia portavoce presso le
chiese membro della necessità di
dislocare forze qualificate, anche
pastorali, capaci di inserirsi in
realtà cosi complesse e diversificate, puntando soprattutto a
stimolare il formarsi di una mentalità nuova che tenda alla ricostruzione anche in modo etico, umano e sociale.
15 novembre 1981: è passato
quasi un anno dal terremoto che
ha colpito cosi duramente la
Campania e la Basilicata. Alle 10
del mattino una piccola folla è
raccolta in uno spiazzo coperto
di ghiaia nel comune di Portici,
un palco è preparato per gli oratori, sullo sfondo 11 prefabbricati di cui alcuni già abitati, una
aria di festa nel fresco della mattina serena, uno scambiarsi di
saluti, un ritrovarsi di gente che
viene da posti diversi.
Siamo qui per l’inaugurazione
del primo villaggio di case prefabbricate offerte dalla PCEI ai
terremotati del posto — circa
3.000 — con i doni ricevuti in
gran parte dalle chiese europee.
Sono presenti il presidente Bensi e i membri del Comitato per
il terremoto della PCEI, il moderatore della Tavola Valdese, il
presidente dell’OPCEMI, i rappresentanti dell’organizzazione di
aiuto internazionale, lo staff di
Casa Materna, membri delle chiese della Campania, un folto gruppo di fratelli di Roma, vi è anche il delegato del Sindaco. Discorsi di circostanza tutti improntati al ringraziamento che
deve andare al Signore in primo
luogo, a Lui che ha mosso la
solidarietà umana e può ridare
inizio alla vita là dove pareva
che vi fosse la fine della speranza.
Vi è un momento di commozione quando ha la parola uno
degli assegnatari, un giovane terremotato che è stato fra coloro
che a Casa Materna si sono dati
da fare per porgere aiuto fin dal
primo momento. Gli mancano le
parole nel ringraziare il Signore
e i fratelli ma anche nel ricordo
di tutti coloro che in vari punti
di questo comune vivono ancora
nelle tendopoli e nelle roulottopoli. Sentiamo tutti quanto sia
grande ancora la tragedia e
quanto grande debba essere l’impegno.
Con la neve
Alle 15.30 siamo a Monteforte
Irpino, un comune limitrofo di
Avellino, nevica quasi per ricordarci l’urgenza di dare un tetto
a tante persone che sono ancora
sistemate in modo precario in
questa terra che pur essendo
nel Mezzogiorno non ha certo un
clima molto mite. La riunione
si svolge qui in un grande salo
ne stipato di gente aU’intemo
di uno dei prefabbricati più
grossi, qui si darà vita ad un
centro sociale. A Portici un prefabbricato per questo uso sarà
eretto quanto prima per dar modo agli abitanti del villaggio non
solo di ritrovarsi e godere di
quei servizi di cui essi stessi sentiranno il bisogno ma soprattutto per consentire loro di gestire
in un modo libero e autonomo
il loro villaggio.
Sono presenti anche qui i responsabili della Tavola Valdese,
dell’OPCEMI, della FCEI, del
Diakonisches Werk e del Consiglio Ecumenico delle Chiese, vi
sono anche il sindaco di Monteforte e il prefetto. Nei brevi messaggi ritorna il concetto della
solidarietà fraterna, fra popoli
diversi, fra coloro che hanno donato o dato del lavoro volontario e quelli che sono stati colpiti dal terremoto. Qui si potrà
insieme ricominciare una vita
nuova. Il nostro ringraziamento
deve andare innanzitutto al Signore che ci ha dato tutto. Come
Davide nella preghiera del cap.
29 di I Cronache possiamo solo
dirGli : « ti stiamo restituendo
quello che è tuo ». Il pastore
Weissinger ricorda l’esperienza
vissuta nel Belice nel ’68 dove
dai terremotati è partito il progetto di una cooperativa agricola di produzione. Il terremoto è
servito a dare a quelle popolazioni una possibilità di uscire
con le loro forze, e anche con
l’aiuto del Diakonisches Werk,
dal sottosviluppo e dall’emarginazione.
Toccherà al Diakonisches Werk
e all’HEKS — le organizzazioni
diaconali e di aiuto fraterno delle chiese nella Germania federale e in Svizzera — di aiutare anche queste popolazioni nel loro
sforzo di sottrarsi alla situazione in cui per secoli sono state
tenute. È quanto affiora anche
daH’intervento del pastore locale
Antonio Casarella della Chiesa
libera di Avellino, uno di coloro
che più hanno lavorato in questi
mesi. Dobbiamo salvaguardare la
dignità umana di questa gente
frustrata dalla delega e dal paternalismo. Speriamo di veder
diminuire le ingiuste differenze
socio-economiche e culturali fra
coloro presso i quali si aprirà
il nostro intervento e chiediamo a Dio di farci strumento della Sua opera redentrice.
Il pastore Maselli conclude la
Il villaggio di Monteforte al tempo della messa in opera dei prefabbricati.
Terremoto e meridione
INAUGURATI I VILLAGGI DI PORTICI E MONTEFORTE
Fin qui il Signore ci ha soccorsi
Molti fratelli riuniti in quest’occasione per ringraziare in primo luogo
il Signore che ha mosso la solidarietà degli uomini
riunione con la predicazione,
quanto mai concisa ed efficace,
su I Samuele 7. Come Samuele
pone una pietra per ricordare al
popolo l’aiuto ricevuto dal Signore, così noi mettiamo una
pietra, questo villaggio, che non
è una pietra per dormirci sopra
come non lo fu quella di Samuele. Fin qui il Signore ci ha
soccorsi e ci vuole ancora aiutare. Ci sarà lavoro per molto
tempo e per molti, insieme agli
abitanti del villaggio. Il villaggio
che si inaugura oggi non è un
punto di arrivo ma un punto di
partenza, il Signore ci darà la
forza come Chiese evangeliche di
portare avanti questo lavoro.
Non siamo chiamati a lavorare
per vedere dei frutti ma pensando allo sviluppo futuro di questo popolo.
Marco Tullio Fiorio
(segue da pag. 1)
na » (Gal. 3: 28). Dunque, un lavoro vocazione che in quanto
tale viene inteso non come fatica da evitare, ma come il luogo
in cui l’uomo, la donna manifestano la loro creatività, realizzano se stessi come soggetti attivi.
Nel contempo, la coscienza che
le forme in cui il lavoro si è
attuato e si attua non sono immutabili: c’è la libertà di criticarle e di modificarle proprio
perché la volontà di Dio non può
essere rinchiusa in moduli fissi,
validi sempre e dovunque.
Penso al ruolo delle donne, dei
giovani nelle nostre comunità. Le
donne che, già molto prima dei
movimenti femministi, predicano, amministrano i sacramenti,
fanno parte dei comitati esecutivi, ecc. I giovani che, con le loro
organizzazioni autonome, hanno
sempre occupato un posto di
primo piano aU’interno delle nostre chiese.
Per carità, non si vuole proporre alcuna forma, neanche velata, di trionfalismo. Si vuole
soltanto sottoporre alla riflessione alcuni nodi oggettivi dentro i quali sono anche le nostre
comunità, per il semplice fatto
di essere e di vivere in un certo
modo; nodi dentro i quali esse,
se vogliono essere coerenti con
la loro vocazione, con la loro
stessa carta di fondazione, non
possono muoversi se non in una
direzione parallela a quella del
disegno di una società meridionale nuova nel profondo.
Nessun trionfalismo, dxmque.
Conosciamo fin troppo bene le
contraddizioni, ì ritardi che si
registrano all’interno delle nostre
comunità e delle nostre opere
sociali: la permanenza di una
certa struttura maschilista; di
una certa diffidenza verso le proposte dei giovani; di una prassi
comunitaria in cui il pastore, il
interventi
deila Federazione
Con i doni pervenuti e promessi da Chiese e organizzazioni
evangeliche all’estero e con i contributi raccolti dalle Chiese evangeliche in Italia, la Federazione
ha iniziato o progettato una serie di interventi che elenchiamo
a partire dalla relazione presentata dal Consiglio al Convegno.
Napoli Ponticelli. Si prevede
un insediamento di 60 case e 4
Centri sociali su area assegnata
dal Comune.
Napoli vico Tiratoio. È prevista la costruzione di un edificio
comprendente un « mercato rionale coperto », una sede del Consiglio circoscrizionale e un salone e locali da adibire a Centro
sociale gestito dalla Federazione.
Portici. È stato inaugurato un
villaggio di 11 case e annesso
Centro sociale su terreno del
Comune. Si studia la possibilità
di insediare un secondo villaggio.
Boscoreale. È stata ultimata la
costruzione di un prefabbricato
per il pastore battista del luogo
che ha subito la distruzione della casa.
direttore di un’opera sociale, magari semplicemente per situazione, continuano ad accentrare più
compiti e funzioni; di una organizzazione, a livello nazionale,
ancora troppo centralista; e così via.
Sappiamo che i connotati fondamentali delle nostre comunità
(il sacerdozio universale, la parità fra uomo e donna, il ruolo
di primo piano dei giovani, ecc.)
sono e restano oggetto di conquista giornaliera, spesso faticosa.
Come anche sappiamo bene
che le nostre opere sociali corrono il rischio permanente di
muoversi lungo una linea « filantropica » (in quello «spirito di
filantropia e di umanità », di cui
parlava Pasquale Villari, e che
forse un tempo anche si comprendeva); oppure di collocarsi,
di fatto, nel solco dell’intervento
straordinario dall’esterno (magari la bella, isolata realizzazione,
il bel gesto della « missione neocapitalistica »; cosa che si comprende molto di meno); il tutto
nel contesto di una lettura del
Mezzogiorno nella categoria dell’arretratezza.
E proprio perché conosciamo
bene queste cose, avvertiamo la
necessità di una costante verifica
della nostra proposta, della vita
delle nostre comunità e delle nostre opere sociali. Per altro questa verifica si impone anche per
il progetto di trasformazione,
di rinascita del Sud. A circa un
anno dal terremoto, ci chiediamo perciò a che punto sia questo progetto, e quale sia oggi la
situazione in queste zone.
La speranza
DAL RAPPORTO DEL CONSIGLIO DELLA FCEI
Salerno. È prevista ' l’installazione di 20 case e 3 Centri sociali
su terreno del Comune.
Monteforte. Su terreno acquistato dalla Federazione è stato
costruito un villaggio di 30 case
prefabbricate con un vasto edificio per Centro sociale. Si sta
progettando la costruzione di un
asilo secondo le richieste del Comune.
Montoro sup. Si prevede la
realizzazione di un Centro sociale.
S. Gregorio Magno. Su richiesta del Comune la PCEI interverrà con 5 prefabbricati per i
quali si sta studiando l’uso più
adeguato.
Senerchia. È stato presentato
al Comune un progetto per la
costruzione della stalla per la
Cooperativa zootecnica costituitasi in loco.
Ruvo del Monte. Si è costituita una Cooperativa zootecnica
per la quale è stata costruita una
stalla col dono di 20 mucche e
1 toro (altre 40 in arrivo).
A questo nostro Convegno è
stato dato un titolo suggestivo:
« ricostruire insieme una nuova
speranza ». Personalmente ho
sempre un po’ di timore ad adoperare, specie in queste zone, la
parola speranza: potrebbe essere
presa come un invito a volgersi
verso il paradiso del futuro, una
sorta di droga per dimenticare
il presente, e perciò lasciarlo così
come è.
So bene che non è questo il
senso che ha per noi la parola
speranza. Anzi, secondo me, è
proprio il suo vero significato —
quello che le dà la Scrittura —
che deve essere proposto con
chiarezza a queste popolazioni.
“ Con la sua predicazione e i suoi
strumenti di lavoro la chiesa deve
spezzare il quadro dell'accettazione della società così come è; e deve restituire il senso della speranza: e cioè
che il mondo può e deve cambiare; e
che la vita presente ha senso in quanto
è orientata verso l'avvenire. Ma non
per proporre una nuova evasione, una
fuga dal presente, bensì per annunciare, nella sua testimonianza, che il
presente è inevitabilmente connesso
con l'avvenire... (il quale) non resta puro
avvenire, e tanto meno il mio personale avvenire, ma deve determinare
il presente ed il presente sociale » (2).
Il presente connesso con l’avvenire; di riflesso l’avvenire strettamente connesso con il presente.
Il Nuovo Testamento, e in particolare i Vangeli, ci annunziano
infatti che in Gesù e nella sua
azione il futuro di Dio è stato
legato al nostro presente.
Uno studioso del Nuovo Testamento, Eberhard Jùngel, in un
suo discorso sul Regno di Dio,
{segue a pag. 4 dell’inserto)
4
o
Terremoto e questione meridionale
(segue da pag. 3)
dice che questo è nella sua essenza « vicinanza alla storia »: la
sua essenza è di essere vicino alla storia, portando il futuro nel
presente. Il Regno di Dio destinato, dunque, al presente, dà a
questo un senso, lo qualifica come tempo di salvezza.
Questo stesso studioso, nel suo
commento alla parabola del fattore infedele (Luca 16; 1-13), sostiene che con questa parabola
Gesù addita ai suoi ascoltatori
il presente come possibilità di
decidere per il futuro: la vicinanza del Regno di Dio ha talmente
vincolato il futuro al presente,
che questo riceve la qualifica di
una possibilità escatologica. Si
decide allora se il futuro si risolverà per l’uomo in minaccia,
oppure se questa è già stata superata. Con la parabola del fattore infedele Gesù non vuole affatto minacciare, bensì liberare
dalla minaccia del giudizio. Per
questo loda l’economo infedele
che sa utilizzare la possibilità
del presente come momento decisionale per il futuro. (3).
Una decisione che non può
essere teorica o puramente interiore: deve farsi scelta concreta,
azione, esistenza. Il presente ha
dunque, per noi credenti, una
sua valenza: non è una sorta di
vuoto contenitore in cui non si
può che rivivere il passato, più
o meno diversamente mascherato, magari con la maschera della
novità.
Per noi credenti il presente è
già tempo di compimento, in
quanto è tempo di decisione per
il futuro, e di azione che testimoni già ora questo futuro nuovo. Pertanto, già nel presente c’è
la possibilità dell’azione: per poter agire non occorre entrare
nella pienezza del domani, o del
dopodomani; già nel presente è
possibile un’azione reale ed incisiva, capace di mutare le situazioni, di rimuovere gli ostacoli e le opposizioni alla vita nuova del Regno di Dio, in un contributo umile e disinteressato
per togliere, secondo l’immagine della parabola del seminatore
(Matteo 13: 1-8), le spine, le erbacce, le pietre delle odierne ingiustizie, oppressioni, disonestà
e menzogne. Certo, queste erbacce, queste spine non le estirperemo mai definitivamente: domani
ricresceranno, sia pure in altra
forma. Non per questo, però,
dobbiamo rassegnarci ad esse.
Viceversa dobbiamo lavorare per
estirparle dal terreno quale si
presenta oggi; dobbiamo essere
pronti a tornare a lavorare per
estirparle dal terreno quale si
presenterà domani, o dopodomani, fino al giorno in cui Dio sicuramente darà il raccolto stabile. (...)
L’utopia di un ordine nuovo,
di un nuovo modo di vivere ( adopero di proposito la parola utopia, con la quale spesso si squalifica il nostro discorso, la nostra
proposta, la nostra stessa fede
e speranza) non appartiene più
solo ed esclusivamente al futuro, coniugato come tempo che sta
sempre davanti: non è una sorta di eterna dirimpettaia, chiusa
nelle stanze della casa di fronte
le cui finestre non s’aprono mai,
della quale tutti decantano la
bellezza, ma che nessuno riesce
a vedere, e alla quale non si può
che cantare ricorrenti serenate
individuali o di gruppo. Questa
utopia si affaccia finalmente alla
finestra.
Il presente è per noi il tempo,
lo spazio in cui questa utopia,
nella fede, può essere assaggiata,
pregustata; in cui, fuori dall’immagine, diventa progetto del quale si possono costruire segni concreti, sia pure nelle sconfìtte e
nella miseria della nostra situazione, nel confronto, duro e faticoso, con essa, con le sue varie
componenti e le varie forze che
vi operano.
L’alba,
crisi della notte
E già qui si intravede una prima risposta alla sfida che l’attuale realtà meridionale rivolge
anche alle nostre comunità: queste, nella certezza della loro fede, nell’ambito della speranza in
cui vivono ed operano, nella loro prassi, (malgrado tutte le durezze e le avversità, esse hanno
potuto costruirsi e continuare
ad essere delle esperienze possibili di vie nuove), dicono a queste popolazioni meridionali, ed
in particolare a quelle delle zone
in cui ancora pesanti sono le
conseguenze del terremoto, che
un progetto di trasformazione è
possibile, che esso, ancorché osteggiato, respinto, non è tuttavia un sogno.
Potrebbe essere considerato un
compito « presuntuoso », un « pio
desiderio », un vano volontarismo. Ma sarebbe un giudizio
frettoloso e sbagliato.
Da una parte le nostre comunità, pur nella loro scarsezza,
sono — come abbiamo detto —
delle concrete esperienze di novità, e quindi, di fatto, delle indicazioni concrete; dall’altra —
e questa è la cosa principale —
esse fondano la loro proposta
e la loro testimonianza sull’azione di Dio, lavorano nella certezza della fede che Dio compie
la sua forza nella loro debolezza.
Non si tratta perciò di presunzione, né di sforzo volontaristico: il compito da svolgere non
si fonda sulla semplice volontà
dei singoli e dei gruppi. Ci aiuta
a capire questo, una bella immagine di Paolo nella lettera ai
Romani: la notte è avanzata, il
giorno è vicino : gettiamo dunque
via le opere delle tenebre, e indossiamo le armi della luce (Romani 13: 13).
Ritorna, in certo qual modo,
il discorso sul significato del presente. La nostra condizione, sembra dirci questa immagine, è
oggi quella di uomini che vivono
all’alba: nel momento particolare in cui si affaccia un tempo
radicalmente diverso dal tempo
della notte, e tra le ombre incomincia a scorgersi questa novità.
Certo, è solo l’alba: si fanno
ancora sentire gli indussi della
notte che tendono a mantenere
l’uomo nel conformismo ad un
passato continuamente riproposto come presente. Ma l’alba, se
non è la pienezza del giorno,
neanche è la notte; in essa la luce
già irrompe nella tenebra e l’aggredisce.
Il giorno che si fa strada con
potenza già segna la crisi della
notte, del nostro sistema di vita
e dei suoi valori costitutivi: toglie loro la maschera e li mostra
nella loro realtà di strutture, relazioni, comportamenti che non
hanno più nulla a che fare con
il presente, in quanto sono della
notte, di una condizione che sostanzialmente si è chiusa, anche
se tende ancora a farsi sentire.
Nella fede è possibile vivere,
sia pure nel chiaroscuro dell’al
ba, questo trapasso dalla notte
al giorno. Questa è quindi la nostra condizione, e questa essendo, è possibile, oltre che doveroso, gettar via — come dice
Paolo — le opere delle tenebre ed
indossare le armi della luce.
Si ha qui un ulteriore chiarimento della nostra condizione
oggi. Il tempo nuovo — scrive
Paul Althaus — « è una realtà
soltanto nella lotta con l’antico.
Vivere in esso... è una possibilità
sempre nuova che si offre e che
si può cogliere soltanto nel combattimento ». (4).
Dunque, è nella lotta contro
il vecchio, e solo in essa che si
fa esperienza del nuovo ; questo
va conquistato giornalmente. Ed
è una lotta non facile; l’avversario spesso è qualcuno o qualcosa
cui si è legati o affezionati, se
non addirittura la propria spiritualità, le proprie elaborazioni
teoriche, la propria scelta di vita, il proprio comportamento, la
propria linea politica (individuale e di gruppo), che continuamente possono diventare, come in effetti diventano, « passato », « vecchio ».
Dimensione sociale
e questione culturale
Pur nel riconoscimento della
dimensione « sociale » di questa
lotta (« l’avvenire che non può
essere il mio personale avvenire,
ma deve determinare il presente, e il presente sociale », resta
per noi un punto di non ritorno),
non si può non porre contestualmente la questione « del soggetto », il suo ruolo, la sua responsabilità. È la « questione culturale » su cui alcuni di noi da anni
vanno esercitando la loro rifiessione.
In una situazione in cui non è facile
per nessuno proiettare i problemi reali
in uno schema di sviluppo diverso, e
individuare soluzioni abbastanza chiare
per ottenere un reale mutamento a livello politico, le nostre comunità, nel
rifiuto più rigoroso dell'Interclassismo
e dell’integrismo, hanno indubbiamente qualcosa da dire e da fare;
in questa situazione « religiosa »,
come è sostanzialmente quella italiana, resta intatta la loro responsabilità
dell'annuncio di un rapporto diverso
con Dio, liberato dalle mediazioni sacramentali e gerarchiche. È difficile in
DALLA DISCUSSIONE SULLA RELAZIONE AOUILANTE
Perché la speranza non diventi illusione
La relazione Aquilante ha avuto un merito principale: quello
di sottolineare adeguatamente
che il terremoto non ha soltanto
creato contraddizioni, ma assai
di più ne ha rivelate, o meglio
riportate in luce.
Il terremoto ha certo sollecitato la nostra memoria. Ed ha per
così dire dissepolto un dato di
consapevolezza che in modi diversi molti di noi avevano rimosso;
l’essere il Mezzogiorno non un
problema grave, sì, ma parziale
della società nazionale in cui viviamo, bensì un dato strutturale
di essa, ovvero il nodo principale delle contraddizioni sulle
quali questa società complessivamente è stata costruita e tuttora si sviluppa. È proprio fondandosi su questa « riscoperta »
della realtà che Aquilante ha potuto mettere in luce con adeguato rigore il carattere intrinsecamente politico (non nel senso ristretto di partitico, ma certamente nel senso di partigiano) che
deve avere qualsiasi intervento
nelle aree terremotate, e più in
generale nel Mezzogiorno, se
aspira a dare un contributo di
vero rinnovamento, e non soltanto di imbellettamento o di rattoppo della realtà qual è.
Nuovi aspetti del
problema meridionale
Ma il terremoto non ha soltanto riportato alla luce vecchie verità. Ha anche e soprattutto rivelato, agli occhi di coloro che
vogliono vederle, le caratteristiche economiche e sociali nuove
del problema meridionale. 'Vorrei citarne rapidamente soltanto
due che mi sembrano centrali
anche ai fini dell’orientamento
della nostra azione, che auspico
intensificata e incisiva negli anni a venire.
In primo luogo, il problema
dello sviluppo. Se si considerano dati relativi alla quota percentuale degli investimenti industriali nazionali che è andata
nel Mezzogiorno tra il 1951 e il
1973, ad esempio, è possibile che
qualcuno si stupisca, essendo ancora affezionato alla vecchia immagine del sottosviluppo come
stagnazione: in tale periodo infatti la quota è passata dal 15"/o
del totale al 44% circa (si parla dell’industria manifatturiera,
cioè escluse le costruzioni).
Parallelamente però (e questo
qualifica davvero il tipo di sviluppo) la percentuale meridionale sul totale dell’occupazione industriale propriamente detta passa dal 19,7% al 17,9%. Fenomeni
analoghi potrebbero essere documentati per ciò che riguarda
l’agricoltura, soprattutto delle
aree di pianura irrigua, considerando i dati relativi all’occupazione produttiva reale nel settore
(cioè non l’occupazione gonfiata
sulla carta per pure ragioni assistenziali-clien telavi ).
Due conseguenze
Cosa significano questi dati?
Nel concreto hanno significato
due cose; soprattutto negli anni
’60 e in parte dei ’70, la mobilitazione dei più grossi flussi migratori dal Mezzogiorno che l’Italia
avesse conosciuto dalla fine del
secolo scorso; ma negli anni più
recenti anche questo sfogo ha
teso a restringersi. In secondo
luogo, hanno significato un crescente aumento del peso della
spesa pubblica a fini assistenziali di varia natura nella determinazione dei livelli di reddito
d’un numero crescente di famiglie: e questo è, penso, il dato
che oggi (anche al fine di orientare correttamente gli interventi)
va tenuto particolarmente presente.
Infatti ad esso è connessa una
profonda trasformazione dei
meccanismi attraverso i quali si
esercita il controllo sociale e politico sulle popolazioni meridionali, ovvero della struttura e
dell’articolazione del potere.
Crescente dipendenza dalla
spesa assistenziale da un lato,
e scarse possibilità di incremento dei posti di lavoro produttivo
dall’altro, si sono tradotti in una
graduale sostituzione del vecchio
blocco dominante agrario (con i
suoi notabili e i suoi galoppini
di vario rango) da parte di uno
strato nuovo — che è stato recentemente chiamato « borghesia
di Stato » — il cui potere ha appunto le radici nella capacità (in
virtù dei rapporti di dare-avere
che intrattiene coi poteri politici e burocratici) di determinare
e di controllare l’erogazione delle mille forme di spesa assistenziale, di decidere sull’assegnazione di posti di lavoro per lo più
improduttivo, di influenzare la
stessa amministrazione pubblica e para-pubblica ordinaria ai
livelli locali.
Ciò che mi sembra importante sottolineare è che tale potere
(estremamente capillare come
struttura) si alimenta e si riproduce unicamente in un clima generalizzato di scarsità delle risorse, di ferreo controllo sull’infor
mazione, di obbligo al clientelismo. In questo senso è intrinsecamente contrario a qualsiasi
iniziativa che introduca elementi
0 fermenti di partecipazione.
Braccio di ferro tra
2 opposte razionalità
Tutti gli episodi, e ce ne sono
stati molti, di resistenza, di non
collaborazione, di assenteismo,
o a volte di vere e proprie intimidazioni nei confronti, ad esempio, dei volontari nelle aree terremotate, se considerati attentamente, lo dimostrano. Non tanto
di differenze partitiche, divergenze politiche o di orientamento
ideologico, etico o religioso si è
trattato, ma di episodi del generale braccio di ferro, per così
dire, tra due razionalità opposte:
quella della animazione e della
partecipazione per lo sviluppo
da un lato, quella del principio
d’autorità e del clientelismo per
l’amministrazione d’una perdurante scarsità dall’altro.
Penso che, mentre programmiamo l’intensificazione del nostro impegno in questa Italia,
concependolo come risposta responsabile al mandato di testimonianza che abbiamo ricevuto
dal Signore, dobbiamo essere
estremamente chiari sul fatto
che oggi è il secondo tipo di razionalità che ancora una volta sta
prevalendo nel Mezzogiorno.
La chiarezza su questo — e
sui conflitti che comporta di
conseguenza l’intervento — è una
condizione essenziale ad impedire che la nostra speranza diventi
sinonimo di illusione.
Giovanni Mottura
fatti presumere che vaste masse popolari, lasciate prigioniere di una religiosità fatta di obbedienza e di osservanze rituali, possano essere nel contempo
disponibili fino in fondo per le lotte
in vista di una società nuova. In questo contesto assume un senso molto
preciso e concreto la predicazione della libertà del cristiano, (5).
Il gruppo di Ecumene ha portato avanti una analisi delle componenti culturali della nostra società, e del loro ruolo nel processo di formazione dei comportamenti e nella determinazione
delle scelte anche politiche:
... tra le proposte politiche cui ci
troviamo di fronte — è un documento
del '75 — (“ rivoluzione » nel senso
corrente del termine, « riformismo » a
iivello di elaborazioni parlamentari e
direttive di governo, « strategia delle
riforme ») l'ipotesi delle riforme delle
strutture, gestite democraticamente mediante momenti di aggregazione sociale e partecipazione di base, appare
l’indicazione più realistica per una soluzione della crisi. Premesso... che.
sul piano politico, si tratta di operare
delle scelte fra proposte concretamente date, si è considerato d'altra parte
che non vi è una relazione di conseguenza meccanica tra mutamento dei
rapporti di produzione e dell'assetto
sociale e politico, e mutamento culturale: piuttosto, lo stesso quadro culturale esistente costituisce un nodo da
sciogliere in vista di una effettiva
trasformazione della società (...) (6).
Queste considerazioni (svolte
qualche anno fa) mi sembra che
si attaglino anche al nostro discorso. Ho l’impressione, infatti,
che la stessa battaglia ideale e
culturale nel Mezzogiorno (di cui
in certi ambienti si avverte l’urgenza e la necessità) resterà oggetto di « predicazione » se non
scatta una violenza giornaliera
contro il « vecchio », a livello anche individuale.
È in questa lotta che si costruiscono i « soggetti nuovi », che si
pensano e vivono, per così dire,
come il « prossimo », e perciò
sentono come cosa propria la vita e il bene del singolo e della
collettività; soggetti nuovi, capaci di avvicinarsi per primi alle
persone, ai problemi, alle situazioni, e di spendersi senza riserve: capaci quindi di « responsabilità » e di « partecipazione ».
Il nostro contributo
Nel quadro dell’annunzio e della testimonianza, in una prassi
coerente, del mondo nuovo di
Dio che in Gesù entra nel nostro
presente e ne fa uno spazio d’amore, spezzando il circolo chiuso
delle nostre vicende e delle nostre impossibilità storiche, le
nostre comunità e le nostre opere sociali hanno l’opportunità,
nell’attuale contingenza, di contribuire a rendere «protagoniste»
le nostre popolazioni meridionali, (protagoniste non di tanto
in tanto, ma sempre); e pertanto
contribuire a creare la coscienza,
la consapevolezza, individuale e
collettiva, dì essere e dovere essere soggetti attivi, già nel presente costruttori del futuro.
In questo mi sembra che si
delinei la prospettiva anche del
nostro intervento nelle zone colpite dal sisma. Ed è una prospettiva che consente a questo intervento di porsi non come pura e
semplice assistenza caritativa (il
bel fiore del campo che poi appassisce), ma, nel suo stretto
legame con la comunità e la predicazione dell’Evangelo (della
parola che sussiste in eterno),
come una risposta alla chiamata
di Gesù a portare frutto, e frutto permanente.
Sergio Aquilante
(1) Sergio Aquilante - Mario
Miegce - Documento preparatorio il
Congresso Evangelico (1965).
(2) Sergio Aquilante - Mario
Miegge - Documento preparatorio 11
Congresso Evangelico (1965): «La siinazione sociale ».
(3) Eberharo JÜNGEL - Paolo e Gesù
- Ed. Paideia.
(4) Paul Althaus - Commento alla
lettera ai Romani - Ed. Paideia.
(5) Sergio Aquilante - Mario
Miegge - Documento per Assemblea
FCEl 1973 : « L’attuale situazione economica, sociale e politica ».
(6) Documento conclusivo incontro
settembre 1975 in Quaderno di Ecumene n. 1 - La predicazione a confronto.