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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno III :: Fasc. XI. NOVEMBRE 1914
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 15 NOVEMBRE - 1914
DAL SOMMARIO: T. NEAL: Maine De Biran. - GIOVANNI COSTA: Mitra e Diocleziano. — UGO JANNI: Le varie dottrine circa (’Essenza della Religiosità. — ROLAND G. Sa-WYER: La Sociologia di Gesù. — L. RAGAZ: Cristianesimo e patria. — J. DEJARNAC : Per la lettura dei Salmi. — B. C. : Schiarimenti. — P. GhIGNONI : Replica. — ROMOLO MURRI : Stato e Chiesa negli scrittori italiani. — FERRUCCIO RUBBIANI : Gioberti. — F. R. : Rousseau. — ERNESTO RUTILI : Piccolo mondo a zio. — E. RUTILI: ! classici del Libero Pensiero. —C. GlDE: arles Péguy. — C. FORMICHI : Michele Kerbaker, ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore"Capo fi fi ------ Via Crescenzio, 2 - ROMA --D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per I’Estero ------ Via del Babuino, 107- ROMA AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO Per l’Italia L. 5. Per ¡’Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
fi Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine, fi
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IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ • FIDES ET AMOR» EDITRICE Amministrazione: Via S. Caterina, 14 MCMX1V
Pel prossimo Natale verrà messa in vendita in tutta Italia la ristampa di questa traduzione del N. T. che nella sua prima edizione del 1911 s’ebbe Si lusinghiera accoglienza da tante persone riconoscenti e bene auguranti : Antonio Fogazzaro, Pietro Ragnisco, Paolo Orano, Enrico Caporali, Baldassare Labanca, Luigi Ambrosi, Giacomo Puccini, Alessandro Chiappelli, Guido Mazzoni, Pio Rajna, Paul Sabatier, Nicola Festa.....
Questa nuova edizione, segna un progresso notevole : è stata accuratamente riveduta e qua e là ritoccata e corretta ; stampata presso la Tipografia « L’Arte della Stampa » in nitido elzevir, riesce molto simpatica all’occhio, grazie anche all’artistica copertina.
Sebbene conti oltre 660 pagine, non è voluminosa, essendo tirata su carta finissima.
Il bel volume si venderà a L. 1.50; ma gli abbonati a “ Bilychnis „ potranno averlo Inviando UNA LIRA alla nostra Amministrazione insieme con l’importo dell’abbon amento.
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BICOINB
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R.M5IÀ DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA 5CVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMASOMMARIO:
T. Neal: Maine-De Biran ... ............ pag. 285
Giovanni Costa : Mitra e Diocleziano . . ........ » 292
Ugo Janni : Le varie dottrine circa l'Essenza della Religiosità . . » 299
Roland G. Sawyer: La sociologia di Gesù ........ > 305
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
L. RAGAZ: Cristianesimo e patria......... .... >312
J. DEJARNAC : Per la lettura dei Salmi........... » 324
NOTE E COMMENTI:
B. C. : Per l’Unione delle Chiese cristiane. Schiarimenti .... » 320
P. Ghignoni: Replica........ . . ....... > 331
TRA LIBRI E RIVISTE:
Romolo Murri : Stato e Chiesa negli scrittori italiani ......... » 334
Ferruccio Rubbiani : Gioberti ................. » 337
F. R. : Rousseau......... ....... ...... . . » 339
Ernesto Rutili : Piccolo mondo egizio .............. » 339
E. Rutili : I classici del Libero Pensiero ...... ........ > 341
VARIA : Cristianesimo primitivo - Storia del Cristianesimo - Prigionia di San
Paolo a Roma - W. James e H. Bergson - Giorgio Tyrrell - Eloquenza civile e sacra - I sermoni della guerra - « Coenobium ■ - « La nostra scuola » - « Vita e pensiero » - « La Voce », ecc. ....... a 343
UOMINI E FATTI:
Ch. Gide : Charles Péguy — Carlo Fornichi : Michele Kerbaker — N. Zinga-relli: Alessandro D’Ancona................. » 346
NOTIZIE ............ ....... » 350
ILLUSTRAZIONI :
Ritratto di Maire De Biran. Tavola tra le pagine 288 e 289.
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fj^SfìEL prossimo fascicolo di dicembre, che sarà di 100 pagine e riccamente >Uustrato» daremo a» nostri lettori il programma di “ BILYCHNIS „ pel 1915. — Possiamo dire fin d’ora che la rivista uscirà regolarmente il 15 d’ogni mese — decisa a fronteggiare vittoriosamente qualunque avvenimento — in fascicoli di 64-80 pagine, e con illustrazioni.
Darà largo posto allo studio, al commento e alla documentazione della storia contemporanea in rapporto con lo spirito, il programma e i destini del Cristianésimo.
Quanto varrà a render la rivista sempre più utile, più interessante e più cara ai suoi numerosi amici ed a conservarle il posto che si è guadagnato nella considerazione del pubblico in Italia e all’ Estero, sarà da noi con ogni cura studiato e prontamente attuato.
Verremo via via pubblicando i seguenti articoli già da noi annunziati :
Giovanni Luzzi : Il modernismo nella Chiesa cristiana del primo secolo. — Angelo Crespi : L'evoluzione della religiosità nell'individuo e nella Società. — M. Velato: L'altare al Dio sconosciuto. — G. E. Meille: Intorno all'immortalità dell’anima. — M. Rossi: Un'interpretazione religiosa di una leggenda della Grande Sirie in Sallustio: i fratelli Fileni. — Giovanni Costa: L'impero romano e il Cristianesimo. — M. Rossi: Il « Tu es Petrus ve la storia- delle religioni - Saggio di una nuova interpretazione. — F. Momigliano: Gioberti e i Gesuiti. — Giosuè Salatiello: L'umanesimo di Caterina da Siena. — G. Adami : Preghiere democratiche. — S. Bbidget: Per la storia di un terribile dogma.— Paolo Orano: Neutralità filosofica. — Salvatore Minocchi : / miti babilonesi e le origini della gnosi.
questi possiamo aggiungere molti altri studi giuntici o promessici
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in questi giorni :
A. Taglialatela : Guida moralista.
R. Murri : La religione nell’insegnamento pubblico in Italia.
P. Orano : Gesù e la guerra.
G. Saitta : Il misticismo di Vincenzo Gioberti.
F. Momigliano : Gli Ebrèi d’Italia.
E. Rutili : Vitalità e vita nel Catlolicismo (V* Cronaca).
C. Vitanza: L'eresia di Dante.
S. Pons : Il panislamismo e il panturchismo nell'attuale momento politico.
W. Monod: La cultura della vita interiore.
A. De Stefano : Saggio sulle Eresie Medievali: Il contenuto sociale - La reazione laica -Lm reazione politica.
H. Bois: Il pragmatismo.
C. Wagner: Il Vangelo e gl'Intellettuali.
................. . . ecc., ecé.
I 0 0 0 0 Alcuni amici ci debbono ancora l’abbonamento pel 1914 (Italia L. 5 -I Estero L. 8). Non abbiamo voluto seccarli con cartoline o tratte. Ricambino ¡questo nostro riguardo, sollecitando T invio di quanto ci debbono.....
Queste parole sono per tutti quei nostri lettori che avranno trovato sulla I busta, accanto all’indirizzo, l’indicazione: < 1914 » con segno azzurro. 0 0 0
‘A ‘
A tutti gli altri che sono in regola pel 1914 — e che certo vorranno continuare a seguire con simpatia e sostenere praticamente l’opera della rivista — diciamo : riabbonatevi pel 1915!
NB. — Degli articoli firmati sono responsabili i singoli Autori.
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\ filosofia di Maine de Biran ha ormai un’assai abbondante letteratura, specialmente in Francia. Oltre gli studi di E. Na-ville» il benemerito editore e propagatore della dottrina e degli scritti di Biran, abbiamo il lavoro di Alexis Bertrand e la monografia di Marius Couailhac la quale riassume lucidamente tutta la teoria biraniana e uno studio assai pregevole di Tisserand swW' Anthropologie ou Science de 1'homme intérieur che è come il testamento filosofico di Biran, mutilo disgraziatamente e frammentario, ma importante, ad ogni modo, e suggestivo.
Finalmente, tralasciando altri studi minori, due interessanti volumi di A. de la Valette Monbrun. Il primo di essi s’intitola: M. de Biran critique et disciple de Pascal, ed è uno studio diligente ed una riproduzione quasi integrale delle osservazioni e delle note marginali che suggerì a Biran la lettura assidua e scrupolosa dei pensieri pascaliani. L'altro volume anche più importante dello stesso <Ie la Valette ha per titolo : Essai de biographie historique et psychologique d'après de nombreux docilmente inèdite. Paris, Fontemoing, 1914. Questo volume di oltre 500 pagine è importante per le notizie biografiche, per le ampie informazioni che ci fornisce sulla famiglia e sui parenti del filosofo, sulla sua carriera amministrativa e politica nonché sul cerchio de’ suoi amici e compagni di studio. È per questo riguardo la fonte più ricca e più preziosa che oggi abbiamo e chi vuole essere informato sulle circostanze biografiche e familiari del filosofo e sull’ambiente nel quale si formò la cultura e l’educazione filosofica di lui, dovrà ricorrere a questo studio di de la Valette il quale si è reso con esso grandemente benemerito degli studi biraniani. Ma se ha molta importanza per i dati biografici, non ne ha molta come esposizione dottrinale, come illustrazione e
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commento del pensiero di Biran. Per questo rispetto è un libro trascurabile e sono da anteporre gli studi precedenti dei quali facemmo sopra menzione. Noi in questi cenni brevissimi non ci occuperemo dei meriti particolari di ciascuno dei principali illustratori di Biran ma ci limiteremo a caratterizzare colla massima brevità il biranismo nelle sue teorie più salienti e ad accennare la sua direttiva speciale nel movimento della speculazione moderna.
De Biran è, come tutti sanno, il filosofo della volontà e dell’azione : è un pragmatista nel senso genuino ed originario della parola, come Blondel l'ha adoperata per primo, dandole il significato preciso di volontarismo e d’attivismo.
Il filosofo della volontà e dello sforzo, dell’attività e dell’azione fu, del resto, com’accade molto spesso, un timido e un esitante. Temperamento femminile, facile agli abbattimenti e ai languori, de Biran ebbe tutte le sensibilità e le delicatezze delle nature artistiche e contemplative, nessuna delle audacie e delle crudezze degli uomini d’azione.
L’introspezione fu come il suo abito e la sua seconda natura: riflettersi costantemente e rimirarsi minuziosamente e curiosamente nello specchio della coscienza fu la vocazione vera di tutta la sua vita. Quest’abito e questa vocazione diventarono presto in lui come un’ossessione. È in quanto ossessione, la abilità a vedere a fondo dentro il proprio io lo portò anche qualche volta a travedere, esagerando e deformando in parte il dato della osservazione.
Il nocciolo della sua teoria fondamentale sullo sforzo volontario in cui si fonda la personalità e la coscienza, l’individualità libera e l’egoarchia, lo troviamo nettamente accennato e rilevato in alcune parole che togliamo dalla sua dissertazione sull’ófaz di esistenza o appercezione immediata. Questa memoria fu pubblicata per la prima volta dà Cousin in forma errata e scorretta ed è stata recentemente ripubblicata da Tisserand in un’edizione molto più corretta e accurata in seguito a una diligente e coscenziosa revisione dei manoscritti originali fornitigli da E. Naville. Noi ci serviamo di quest’edizione e da essa riproduciamo le parole che seguono: « Lasciando dunque le ipotesi e le nozioni a priori per tornare al fatto di coscienza e cominciare dal principio, noi diciamo con sicurezza che la forza od energia la quale crea lo sforzo a volontà e determina il movimento o la modificazione muscolare, è la causa produttrice di questo atto o modo. Ed essa non riferisce a sè quell’atto a titolo di causa se non in quanto lo percepisce come effetto, in quel rapporto interamente soggettivo per cui i due termini quantunque coesistenti e simultanei, non sono però meno distinti l'uno dall’altro. E son distinti non come il modo passivo si distingue dalla sostanza in cui è percepito o sentito ma come un effetto transitorio si distingue dalla forza che l'ha prodotto e di cui manifesta l’esistenza. Di qui con induzione legittima (o, come vedremo, legittimata), la realtà del principio assoluto o della nozione universale e necessaria di causa o l’idea di forza, presa nella causalità dell’ànima manifestata a sè stessa collo sforzo ch'essa vuole ed opera, è trasferita innanzi tutto al me assoluto, all’anima che esiste a titolo di forza virtuale che era prima ed è dopo l’appercezione interna del volere o dello sforzo determinato e cioè alla forza virtuale in sè quale è agli occhi dell'intelligenza suprema da cui emana ma non per sè stessa, dacché non si percepisce nè esiste interiormente se non in quanto agisce o si determina ». (Cfr. l’ediz. di Tisserand, Alcan, 1909, pp. 58 sq.j.
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Sebbene alquanto confusamente, de Biran stabilisce, adunque, che il dato psicologico fondamentale è lo sforzo volontario per cui l’anima si apprende come causa e forza attuale: e da ciò con legittima induzione apprende la sostanzialità dell’anima stessa e la sostanzialità divina nella quale quella ha fondamento, ragione e giustificazione.
Tutta la seconda parte della vita speculativa di de Biran a cominciare dal 1813 e forse anche prima fino alla morte nel 1824 fu impiegata nello stabilire le basi e determinare le imprescindibili esigenze di una teodicea che doveva servire come ragione ontologica dei dati psicologici già precedentemente stabiliti. Questa stessa memoria sull'appercezione da cui ricavammo le parole sopraccitate, doveva secondo ogni probabilità formar parte di quell'antropologia che se fosse stata compiuta, sarebbe stata il coronamento di tutta la speculazione biraniana. Ed in essa si dimostrava come la vita divina dell’anima compie ed assolve l’esigenze poste e non risolute dalle due vite inferiori, da quella organica, cioè, e da quella puramente intellettuale.
Tutta la filosofia biraniana è come una seconda edizione riveduta e perfezionata dell’itinerario della mente in Dio di S. Bonaventura. Questo itinerario della mente in Dio il quale è la fonte e la foce di tutti gli esseri contingenti, è, come porta naturalmente il volontarismo biraniano, d’indole più morale che intellettuale. La volontà produce l'intelligenza e la tiene perpetuamente al suo servizio. La luce intellettuale deve ¡Iluminaré la via in cui la volontà si lancia per indirizzarsi al suo destino.
Nella visione e constatazione e soprattutto nella valutazione pratica di questa verità fu spesa e assorta tutta la vita di Biran : tutta, intendiamo, la parte più pura e degna di questa vita, dimessa come veste inutile e ingombrante o come ganga caduca e servile, tutta la parte frivola e mondana. Anch’egli, come sant’Agostino e tutti i mistici più autentici, aspirò a partecipare sempre più del divino e a liberarsi da questa mortalità terrestre per essere assunto e sublimato nella immortalità dello spirito : « ci hai fatto, o Signore, per te e inquieto e travagliato è il cor nostro finché non s’adagi in te ». Partito dall’ ideologia e dal sensismo di Tracy e di Condillac, De Biran traversò, in una faticosa ascesa verso aere sempre più spirabile e luminoso, lo stoicismo e finì nel cristianesimo, nel cristianesimo integrale e nel misticismo che alla volontà dell’uomo inferma e vacillante invoca e prepara il presidio della grazia divina.
Una siffatta evoluzione filosofica e spirituale in cui si assomma tutta la vita e tutta la esperienza di Biran, è perfettamente consona alla dialettica della volontà e dell’azione umana. L’uomo si eleva necessariamente a Dio nello Sforzo incessante che la dialettica del volere deve compiere per adeguar sé a sé stesso: volere la pienezza dei fini umani vale quanto trascendersi e infinitizzarsi nella volontà divina. L’aver fortemente rilevato ciò costituisce il merito principale del più insigne tra i seguaci di Biran, di M. Blonde! in quel capo lavoro di psicologia e dialettica morale che è \' Action. « Dio, osserva giustamente un interprete del biranismo, si scopre a Biran come il luogo di quelle verità necessarie che il nostro spirito concepisce ma non crea, che erano quindi prima che egli le concepisse e che sarebbero quand’anche alcuna intelligenza come la nostra non esistesse. Queste verità sono gli attributi di una intelligenza eterna, partecipabile a tutte le intelligenze che vogliono farvi ricorso. Quello è il fonte della verità
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e del bene assoluti. In questo sènso può dirsi con Bossuet: «non la verità si adatta al giudizio umano ma ogni giudizio umano, per essere veramente morale, deve adattarsi alla verità, all'assoluto della legge divina». Noi possiamo e dobbiamo elevarci a Dio: il pensiero nostro finito e fragmentario postula come un compimento necessario a un tempo e inaccessibile il pensiero infinito e incondizionato che condiziona il nostro perchè lo domina e lo trascende. La navicella del nostro intelletto non ha vele per correre quel mare infinito : bisogna che si rimetta al buon volere e alla fede. L’azione buona e fiduciosa anche se oscura e piena di rischi può arditamente tentare quel pelago che è impervio alla pura intelligenza. Questa non s’adegua mai all’ infinito al quale non può tendere che con deboli analogie e timide e imperfette proporzionalità. Chi parla, come fanno gli hegheliani, di adequazione dello spirito o della mente con Dio, ignora i primi e più indispensabili elementi della logica e della psicologia.
Indivìduum inejffabile', ogni individuo contingente è ineffabile: a for fiori è ineffabile l’individualità divina o assoluta. « Per ciò stesso che criterio della verità è l’evidenza psicologica e cioè, per Biran, un’evidenza di fatto, non di ragione, il filosofo deve rinunziare a comprendere perfettamente la realtà : la si può bensì constatare ma non comprendere o, in ogni caso, qualunque spiegazione ha un limite che la coscienza stessa riconosce impossibile di superare». La ragione constata e non crea, trova e scopre, riceve e inventaria, non inventa. Il biranismo vuol essere una filosofia del reale, non un soggettivismo arbitrario o un cervel-lottico idealismo; il pensiero è fragmentario, discontinuo e inadeguato perchóla realtà di cui è il pensiero, è diversa, molteplice, inesauribile e contingente.
Una filosofia cosiffatta può dirsi, se si vuole, lacunosa, logicamente fluttuante e rilassata perchè il rigorismo logico non è interamente compatibile coll’ossequio debito alla realtà: il rigore sistematico ripugna a un pensiero che vuol essere docile all'essere reale il quale sarà bensì sistematico od unitario in se e per se ma non ci si rivela che a fragmenti difficilmente raccordabili tra loro. Può parere paradossale ma è verissimo che il biranismo con tutte le sue fluttuazioni e incertezze è un tentativo opportuno, anche se parzialmente sfortunato, di restaurare l’essenziale dell'aristotelismo. De Biran non conosceva direttamente nè bastantemente Aristotele nè il peripatetismo medievale : aveva per la scolastica il disprezzo di tutti gli sciocchi e gli ignoranti ; ma aveva la fortuna d’incontrarsi, sia pure senza accorgersene, con alcuni dei dati fondamentali del peripatetismo: tanto è difficile esser buoni psicologi e non essere al tempo stesso aristotelici. Era per parte di Biran un'assimilazione inconscia e imperfetta di alcuni principi deH’aristotelismo che venivano a lui dalla tradizione tarda e corrotta e sporadica e che per mancanza di forza e di preparazione erano assorbiti, digeriti e rielaborati da Biran in modo assai mediocre ed imperfetto. Comunque, questo sforzo fu in lui meritorio e non rimase inefficace nè infecondo. La sua filosofia è più sana del kantismo e supera di molto il fichtismo appunto perchè si scosta meno dalla retta tradizione. Il curioso poi di questa singolare avventura biraniana si è che il suo vero inconsapevole aristotelismo Biran lo pigliava e lo gabellava col massimo candore per leibnizia-nismo e platonismo. « La filosofia platonica di cui egli parla (osserva giustamente Tisserand) è in realtà la filosofia d’Aristotele che conosceva male». Tis-serand rileva alcune analogie tra il pensiero dello Stagirita e quello di Biran. Alcune di queste però sono mal fondate. Quella specie di trinità d’esistenza che
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forma il fondamento dell’antropologia biraniana, esistenza animale, umana e spirituale, è di sapore piuttosto platonico ed alessandrino e non aristotelico, come pare erroneamente a Tisserand. Aristotele e Biran s’accordan meglio nel principio della contingenza e nell’escludere quel determinismo inflessibile che i fisiologi antichi e i materialisti moderni son propensi ad ammettere. Anche il volontarismo biraniano può facilmente conciliarsi col Ideologismo e col dinamismo dello Stagirita. Ma Biran differisce e sottosta d'infinito intervallo ad Aristotele per tutto ciò Che riguarda gli universali e le nozioni di genere e di specie. Queste nozioni hanno per Aristotele un valore obiettivo ed una portata ontologica laddove per Biran sono puramente soggettive. Sono a suo parere processi comodi di cui però convien diffidare perchè nascondono ma non tolgono affatto la nostra ignoranza sulla realtà effettiva delle cose. Oltracciò, il biranismo opera tra la grazia e la natura, tra la ragione e la sensazione un distacco che Aristotele non avrebbe ammesso, sebbene in fondo non sia forse così completamente estraneo all'aristotelismo, come a giudici superficiali potrebbe a prima vista sembrare. La ragione aristotelica corrisponde in una certa misura alla santità cristiana, ha qualcosa di mistico ed è introdotta nell’uomo dal di fuori e dal di sopra e rappresenta in esso l’elemento veramente divino ed immortale.
Tutto sommato, adunque, e fatte tutte le debite riserve ed eccezioni, il biranismo è un tentativo ingegnoso e fecondo anche se parziale e imperfetto, di ricondurre la speculazione filosofica al forte e dissueto realismo aristotelico. La filosofia di Biran vuol essere, com’è quella dello Stagirita, una filosofia dell’essere. Resta per lunghissimo tratto inferiore a quella perchè non riesce a liberarsi dalla superstizione del soggetto nella quale si perde tutta la moderna filosofia come fu inaugurata da Cartesio e continuata infelicemente da Kant e da tutte le propaggini del kantismo. Il timore dello scetticismo non è come il timore del Signore; questo è sempre l’inizio della sapienza; quello invece è spesso l’inizio della follia. Per timore dello scetticismo Descartes cerca nell’intuizione deH’2z> un principio di certezza e Kant cerca nel soggetto e crede di trovarvi le forme a priori che fondano l’esperienza. Ma somiglia un po’ al topolino che si rinserra nella trappola come in fortezza inespugnabile e vi muore d’inanizione perchè non può più uscirne. L’ar iste tei ismo si guarda bene dal cascare in questa trappola: per esso l’intuizione principiale e fondamentale è l’intuizione dell’essere con tutte le sue forme essenziali che rispondono alle note e ai caratteri generali ed universali delle cose Che cadono nella conoscenza, non escluso da esse il soggetto stesso del conoscere che è il nostro io. Queste note o caratteri stampati in tutte le cose corrispondono alle forme a priori di Kant e alle nozioni o idee generali di Biran ma con una differenza essenziale e gravissima di conseguenze. Nell’aristotelismo la conoscenza ha valore pienamente obiettivo, è conoscenza dell'essere e del reale, conoscenza inadeguata ma valida ne’ suoi limiti ed efficace. Nel kantismo invece la conoscenza ha valore subiettivo, è conoscenza del parere, non dell’essere, fenomenica e non noumenica. Finalmente nel biranismo, che è una specie di timido e incoerente compromesso tra i due, il noumeno è attingibile ma con la credenza più che con la conoscenza.
Insomma, la portata metafìsica che ha la nostra intuizióne dell’essere, non fu pienamente nè chiaramente formulata mai da Biran. Sebbene tenti spesso di reagire contro la monade chiusa del leibnizianismo che è la trappola nella quale
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cascò poi Kant co’ suoi seguaci, non seppe tuttavia emanciparsene compieta-mente. Il monadismo porta al monoideismo totale in Kant, parziale in Biran. Le idee come le monadi non sono isolate nè isolabili : un’ interdipendenza e reciprocità continua e perenne lega le une alle altre indivisibilmente monadi e idee: un relativismo costante e indeclinabile domina l’ordine logico non meno dell’ordine ontologico. Confusamente ciò sentiva Ampère l’amico e l'ispiratore di Biran e glielo faceva osservare più e più volte. Ma nè Biran lo comprese mai bene nè mai bene, del resto, lo formulò ed espresse Ampère. Il primo intuito o perfetto dell’essere è in sintesi confusa, implicitamente e virtualmente, tutta la conoscenza con tutte le note e nozioni generali dell'essere che il giudizio discorsivamente s'incarica di formulare ed esprimere dopo. L’analisi del giudizio non è, come sembrava erroneamente a Kant, sterile ed infeconda: è, nell’ordine logico, fecondissima di tutta la varietà e molteplicità infinita che si contiene nell’ordine reale. Biran ha avuto il merito di presentire confusamente e parzialmente la verità profonda di questa noetica e metafisica : studi deficienti, ignoranza delle grandi fonti, assenza di vigore e di rigore dialettico gli tolsero di rendersene conto pienamente e di renderne conto agli altri. Malgrado però le lacune e i difetti, l’influenza del biranismo sul pensiero francese è stata benefica. E da esso deriva, come già dicemmo, in molta parte un vero capolavoro di psicologia e di metafisica, VAction di Blondel, sebbene anch'essa però si risente un po' troppo del-l’anti-intellettualismo del maestro. Bisogna intendersi : l’intelletto è limitato: chi non riconosce i suoi limiti, l'inadequatezza normale e costante, il finitizzamento che è della sua essenza (intendere è {mitizzare, circoscrivere), non è filosofo serio: gli assolutisti, come gli hegheliani, sono, nella migliore delle ipotesi, dei semplici abborraccioni e dei confusionari. Ma con tutti i suoi limiti la filosofia o è intellettualismo o è nulla. Essa è l’organizzazione logica delle relazioni infinite, com’è possibile farla a un intelletto finito, in forma, cioè, inadeguata e inade-guabile ma utile, efficace e necessaria dentro i suoi limiti e nella misura delle sue forze. Il volontarismo biraniano e blondelliano, legittimo finché è positivo, è insostenibile quando nega, quando, cioè, impugna i diritti dell’intelletto a discutere e pesare i titoli della volontà e dell’azione nell ambito dell’attività microcosmica e macrocosmica.
Lagneau in un corso inedito di cui abbiamo in Tisserand un saggio, rileva assai acconciamente il punto debole del biranismo. < Il torto, egli dice, di M. de Biran è appunto di non avere compreso che il sentimento dell’azione muscolare ha la sua condizione in quel sentimento superióre che è alla sua volta condizionato dalla rappresentazione d’un ordine assoluto e razionale. Se, infatti, non sapessimo che vi ha dell’essere, non avremmo neanche l'idea di volere. Perchè vorremmo noi se non avessimo la certezza d’una realtà che non è ancora in noi?» Parole giustissime che mostrano la vanità d’un volontarismo cieco come di un assolutismo ebbro, del biranismo come del fichtismo e dell’heghelismo. Immanente e trascendente son solidali e inseparabili tanto nell’ordine logico come in quello ontologico. L’essere nostro e l’essere fuori di noi sono dell’essere a titoli uguali. Le note generali e le universali nozioni di forza, di causa, di sostanza caratterizzano noi come il non-noi. L’io non è attività pura ed isolabile, come Biran inclina a ritenere. In tanto è, in quanto è tutto il resto: questo non ha titoli minori o men validi alla certezza e all’evidenza, di quello. E’ impossibile
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considerare il volere come attività pura. Niente è puro a questo mondo. E niente è isolato anche se tutto è monadico. L’atto puro è Dio. Tutti i contingenti son misti d’atto e di potenza, d’azione e di passione, d’essere e non essere. E sembra strano che un introspezionista come Biran non scoprisse subito nella coscienza questa mistione di attività e passività. Forse, volendo egli reagire contro gl’ideologi e il sensismo che trascuravano troppo l’elemento attivo della coscienza, fu portato quasi inconsciamente ad esagerare l’importanza di quell’elemento e a dare ad esso la prevalenza assoluta e quasi esclusiva. E come quelli eran troppo passivisti, cosi fu egli troppo attivista. L’istinto di sano realismo che era in lui, avrebbe dovuto metterlo in guardia. L’anima non può essere attività pura, nè pura causalità: è atta a patire non meno che a fare. Ampère aveva ragione d’insistere presso Biran per fargli accettare la sua teoria delle relazioni. E veramente quella teoria, per quanto confusa e soltanto abbozzata, poteva giovare per farlo avvertito della necessaria interdipendenza di tutte le nozioni nell’ordine logico e di tutte le azioni e passioni nell’ordine ontologico. Noi siamo in un mondo d’individui la cui autonomia è reale non meno che relativa, dacché non sono isolati ma uniti, non chiusi ma aperti a tutte le influenze.
E se Biran voleva parlare di atto e di sforzo a qualunque costo, poteva ben dire che l’intelletto è anche atto ed è anche sforzo. Ma è atto e sforzo .di intendere, non, come sembrava a lui, di volere. E’ una dottrina peripatetica antica che F intelletto equivale all’atto d’intendere. Cotesta dottrina la troverete così formulata da Moisè Maimonide, per dirne uno tra mille: < Ogni intelletto è identico col suo atto. Un intelletto in atto non è una cosa diversa dal suo atto perchè la vera natura ed essenza dell’intelletto è l’intelligenza e non dovete credere che l’intelletto in atto sia una cosa di per sè stante, separata dall’ intendere e che questo sia un’altra cosa connessa con quello. La vera essenza dell’ intelletto è intendere. Se avete l'intelletto in atto, voi avete l’intelligenza della cosa intesa». {Guida dei perplessi, tr. Friedlànde, 2* ed., Londra 1904, pag. 101). Intelligenza è dunque atto ma atto d’intendere, non di volere. Biran confonde a torto i due atti. La volontà in senso improprio precede l'intelletto : la volontà in senso proprio lo segue. Ignoti nulla cupido. E così gli atti volontari e quelli intellettivi sono uniti con nodo indissolubile: uniti sì, inseparabili anche, ma distinti e inconfondibili. L’intelligenza è la lampada che guida il passo del volere e il processo dell’azione.
La ragione dunque è un complesso ed un processo: è intelligenza in principio, poi volontà, dedizione e amore. La nostra intelligenza è una povera cosa, siam d’accordo. Ma è meglio che nulla. E meglio o pèggio, non è mai in nessun caso il nulla. Gli elementi onde consta la coscienza, sono eterogenei, distinti, irreducibili, checché sogni l'assolutismo degli uni, il relativismo fenome-nistico degli altri. Ma distinti, sono anche solidali e inseparabili. Tutti hanno il loro valore relativo e tutti debbono intervenire e intervengono realmente a formare quella catena infrangibile di cui parlava già Cameade e che Blondel ha descritto magistralmente. Sarà sempre merito grande di Biran l’aver raccolto molti di quegli anelli che lo stupido filosofismo tedesco aveva separato e disperso e l’aver tentato di riconnetterli in salda e sana catena. Altri lo hanno seguito e lo seguiteranno per cercar di compiere l’opera salutare da lui felicemente iniziata. In questa iniziativa è la sua gloria. T. Neal.
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li.’INTENTO di lumeggiare compiutamente uno dei maggiori fatti della storia politica e religiosa dell'impero romano alla fine del in sec. d. Cr. importa sommamente stabilire quale fosse l’essenza del carattere che assunse la riforma di Diocleziano per volontà del suo autore, se cioè essa fosse, per dir così, classica e nazionale o non piuttosto nuova e orientale, in apparente corrispondenza con il carattere orientale del cerimoniale, fissato per sostenere la maestà dell’impero. Importa sommamente, se non erro, approfondire l'essenza di tale carattere per poter apprezzare non solo il valore e la portata della riforma di Diocleziano, ma benanche per giudicare le conseguenze che essa ebbe di fronte al Cristianesimo e per determinarne la reale posizione nella storia delle religioni. Naturalmente non è mio intendimento di riprendere qui in esame tutti i dati e tutte le notizie che ci permettono di ricostruire il fatto storico che ebbe per fine nella mente del suo ideatore di offrire alla dissolventesi compagine dell’impero il modo di raccogliere e concretare le proprie forze per una valida resistenza ai vari elementi che ne minavano la solidità: debbo presupporre cognito ai miei lettori quanto io stesso ed altri prima di me ne scrisse e limitarmi ad esaminare qui semplicemente l’essenza del fenomeno politico-religioso accennato (1). Sebbene essa non sia stata forse che vagamente considerata dagli storici — i quali si preoccuparono più dell’analisi che della sintesi — alcune opinioni sorte quasi sporadicamente ed affermatesi con troppa sicurezza in un senso contrario, secondo me, alla verità (2), permettono di formulare il tema di questa breve ricerca in questo modo : Diocleziano nella sua restaurazione politico-religiosa fu arcaizzante — e volle il ritorno all’antico culto ed agli antichi dei — o fu neote-rizzante — e comprese la necessità dei nuovi tempi e si appoggiò a nuovi culti e specialmente al culto monoteistico del Sole o di Mitra?
Nessuno dubita che la riforma politica e la restaurazione religiosa di Dio(i)V. il mio Imperatore dalmata, cap. Ili e VI specialmente.
(2) Cumont, mystères de Milhra, pagine 49. 88 e 210; nell'ultima edizione di questo classico lavoro FA non ha aliano modificato le opinioni già svolte in Textes et
Monuments, 1, 154 segg. e 291, n. 4; Le religioni orientali nel pagan, romano, trad. Salvatorelli, pag. 145 e 153; Salvatorelli, Saggi di storia politica religiosa, pag. no ; Gurlitt e G. Kowalczyk, Denkmäler d. Kunst in Dalm., I pag. 7 e seg.
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cleziano fossero unite da un nodo indissolubile di religiosità, quasi di misticismo che, in modo non differente da quel che avveniva nel campo esteriore con la costituzione di un rigoroso cerimoniale, doveva imporre ai cittadini dell’impero la grande opera di riordinamento e di rinvigorimento delle istituzioni dello Stato. Quel che si domanda invece è se l’obbietto di tale religiosità fosse arcaico o neoterico.
L’opinione di chi propende per quest'ultima spiegazione e vede nel mitria-cismo la fede di Diocteziano è fondata principalmente su di un unico documento, un’iscrizione trovata nelle ruine del famoso mitreo di Carnunto (CIL. 3, 4413) la quale dice: D(eo) s(ancto?) i(nvicto) M(ithrae} fautori imperii sui, lovii et Her-culii religiosissimi Augusti et Caesares s >crarium restituerunt. Come si vede, l’iscrizione dedicatoria di questo tempio restaurato non è datata: gli avvenimenti storici però ci permettono di ritenere che essa rimonti all'anno 307, quando convennero in Carnunto Diocleziano e Massimiano con Galerio e forse Licinio che fu allora eletto Augusto. Bisogna por mente però al fatto che i due primi sovrani avevano abdicato fin dal 305 e che quindi la loro intromissione negli affari di Stato non ha più carattere ufficiale, ma è dovuta allo scopo di ripristinare l’ordine turbato dalle pretese dei vari antagonisti imperiali e dalle necessità di salvare la costituzione dioclezianea, fortemente compromessa, ormai. Ammesso tutto ciò, e ehi segue la cronologia comune deve ammetterlo, qual valore ha per stabilire il carattere della riforma di Diocleziano un elemento, non sicuro in tutti i suoi particolari, che non rimonta molto probabilmente neppure al lungo periodo del suo regno? Nè può bastare all’appoggio di quella tesi il fatto che nell’iscrizione Mitra è chiamato da sovrani «lovii et Herculii», cioè da sovrani che traggono il loro appellativo dalia nuova costituzione dioclezianea, « fautor imperii sui », perchè non sarebbe difficile vedere come tale denominazione potrebbe essere dovuta a Gàlerio anziché a Diocleziano. Sebbene per parte mia sia dubbio che anche il primo tendesse al mitriacismo, anziché al vecchio paganesimo romano, come vedremo tra breve, si potrebbe, accettando l'interpretazione moderna non convincente, in vero, di una notizia antica non molto chiara (1), attribuire a Galerio una certa tendenza al culto di Mitra e quindi, nel momento del restauro del celeberrimo sacrario pannonico, il suggerimento o l’approvazione di una frase atta a far pensare ad un riconoscimento ufficiale della protezione del dio orientale sull’impero ricostituito.
Molto fragile è dunque questo argomento per fondarvi l'opinione che Diocleziano fu mitriasta : vediamo quindi se altri dati ci conducono ad una tale conclusione o se non ci fanno piuttosto propendere per un’altra soluzione.
La fraseologia ufficiale conserva, è vero, quel carattere di orientalismo che
(x) Cumont, Mystèreo, pag. 210, ove cita Teofane sub a. 5794, secondo cui un tal Teo-tecno avrebbe suggerito a Galerio di perseguitare i Cristiani, e per ottenere ciò avrebbe provocato un oracolo ó-oòù; ivrp.»(CSB., XXX (1) p. 12). Ora se su quest’ultimo elemento si fonda il giudizio che Teotecnp fosse un sacerdote mitriasta, credo non si possa
essere molti sicuri della deduzione. Anche nel tempio dell’Apollo Milesio che venne consultato da Diocleziano prima di emanare il suo primo editto contro i Cristiani, vi era una specie di antro con una sorgente. Non si accennerà piuttosto a questo in tale notizia confusa, come quasi tutte quelle dateci dai cronografi bizantini? V. la nota 1 a pag. 8.
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le derivò dall’introduzione nel mondo romano dei culti orientali, cui era propria, e le rappresentazioni allegoriche delle monete lo confermano : abbiamo cioè per i sovrani l’attributo di invictus, di aeternus e le raffigurazioni da\X Oriens Augusti o Augustorum, deW Aeternitas, della Claritas (i). Questo però non ci permette di concludere sul carattere mitriasta della riforma dioclezianea : in primo luogo si deve convenire che ormai nel linguaggio ufficiale s’erano introdotte forme ed abitùdini per reagire alle quali occorreva una violenza che traesse origini da un principio veramente nuovo ; in secondo luogo attributi e rappresentazioni erano comuni a tutte le religioni orientali ed avevano quindi formato mercè la larga infiltrazione loro nel mondo romano un vero e proprio substrato, comune a tutti i culti, di coscienza e di pensiero che non era facile sradicare da un momento all'altro, tanto che neppure il Cristianesimo potè farlo, perchè anzi dovè subirlo.
Tra gli appellativi usati nelle iscrizioni potrebbero, cionondimeno, sembrare molto atti a mostrarci una tendenza prettamente orientalistica in Diocleziano e quindi nella sua riforma due formule speciali conservateci in due importanti documenti epigrafici: CI L. 5, 2: Domino et deo deorum sacrami) \ C I L. 3, 710: Diis genitis et deorum creator ibus d(ominis) n(ostris) Diocletiano et \Maximiano\. Ora non è improbabile per il fatto che effettivamente data dalla riforma dioclezianea l’origine d'una stirpe imperiale divina in terra, non è improbabile, dico, che la prima delle due iscrizioni sia proprio dedicata a Diocleziano. Non ne siamo certi però (2), ed anche ammessolo, non ne troviamo affatto speciale la fraseologia, poiché non solo nell’uso del tempo era frequente chiamare una divinità ritenuta superiore alle altre deus deorum (e Diocleziano, pater Augustorum, come si sa, meritava questo titolo secondo la costituzione da lui fondata), ma benanche in quello della più antica liturgia romana non era raro trovare un tale appellativo. Difatti se ne ha una prova nei carmi Saliari ove Giano è detto deus divom senza che certamente per essi si possa supporre alcuna infiltrazione delle forme e degli usi dei culti orientali (4).
Nè è più convincente la fraseologia dell'altra delle due iscrizioni citate se, come è notissimo, il « diis geniti et deorum creatores » ha un ragguardevole precedente nel virgiliano « dis genitus et geniturus deos > detto di Giulo (Aen. 9, 642) e da Seneca giustamente riferito agl’imperatori (5).
Nessuna prova adunque ci è dato desumere in favore del mitriacismo e dell’orientalismo religioso di Diocleziano dalle forme dei documenti dell’epoca:
(1) Per le iscrizioni e le leggende delle monete sono costretto a citare il mio lavoro ove sono raccolte, comparate e messe in evidenza (pag. 207 seg.); per le raffigurazioni monetarie v. Gnecchi, in Atti Congresso intemaz. scienze sfor,, 1903, VI, pag. 37 e segg.
(2) Non dimentichiamo che secondo Su et. Doni. 13 la forinola ufficiale voluta da Domiziano era « Dominus et deus noster » e che da Mart. 8, 2, 6, egli è detto « terrarum dominus deusque rerum ».
(3) Apul. Ap. 11, 30 dice di Osiride «deus
detìm magnorum potior », eco. ; e Tert. adv. Marc., 1, io, pag. 303 (ed. Kroymann), conferma l’abitudine volgare dell’appellativo « deus deorum » anche tra i pagani
(4) Macr., I, 9, 14 di Giano: «Saliorum quoque antiquissimis carminibus deorum deus canitur ». Cfr. Varr. ling., 7, 27 ; « divum deo supplicate ! ».
(5) Sen. ad Marc, de consol. 15, 1: « ne eos quidem, qui dis geniti deosque genituri di-cantur... ».
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vediamo se esaminando la sostanza stessa della riforma ed i dati che abbiamo su di essa e sul sentimento religioso dell’imperatore dalmata siamo più fortunati.
Se è vero quel che ci dice Aurelio Vittore (Caes. 39, 13) Diocleziano salì» per così dire, al trono chiamando in testimonio della propria innocenza della fine di Numeriano, ucciso da Apro, il Sole. Ma anche qui il culto del Sole nel senso in cui era stato fondato da Aureliano e come poi venne mantenuto e rafforzato da Costantino, nulla ha che vedere con il giuramento imperiale. E’ noto che anche nelle forme primordiali del culto greco-romano e forse in quelle originarie anteriori alla scissione delle due genti — se non nel comune substrato di credenze dei popoli primitivi — si trova l’origine della convinizione che il sole è luce non solo materiale, ma morale, è verità e perciò è quello cui nulla è ignoto e che allontana le tenebre così della notte, come del falso (1). L’invocazione di Diocleziano è fatta sotto questo aspetto, quindi, e va intesa non come l’omaggio di un credente, ma come l'appello di chi si crede sospettato a torto e non potendo chiamare a testimonianza della sua innocenza uomini e cose, si rivolge disperatamente all’ « occhio che tutto vede » (2).
E’ vero che in un’ iscrizione dedicatoria noi vediamo Diocleziano e Massimiano prestare culto al Sole : Deo Soli Diocletianus et Maximianus invidi Augusti) (CIL. 5, 803) (3), ma non possiamo considerare questo fatto come un indice di un culto monoteistico o orientalista speciale, giacché le divinità che ebbero onori e omaggi dai sovrani sono varie, come ora vedremo, e fanno pensare più ad una religione politeista con prevalenza classica, che ad una predilezione per una o più determinate divinità dell’Oriente. Difatti gli dei che si trovano maggiormente onorati durante l'impero di Diocleziano, da lui, dai suoi colleghi o per probabile loro ispirazione sono: Apollo, Marte, Mercurio, Pallade, Plutone, Eeate, il Genio del popolo romano, ed in modo speciale, naturalmente, Giove ed Ercole. Come si vede siamo in pieno Olimpo greco-romano (4).
11 culto specialmente tributato a Giove ed Ercole, i capostipiti divini della duplice dinastia imperiale dei lovii e degli Herculii è veramente sintomatico per la concezione religiosa dioclezianea. Nè si tratta di un Giove che nella sua persona nasconda una qualsiasi delle somme divinità orientali, si tratta di un Giove Ottimo Massimo senza altri attributi, di un Giove chiamato conservato^ il più frequentemente, come era antico uso di chiamarlo, poiché fin sotto Augusto troviamo esempi di un tale appellativo (5), di un Giove infine compagno {comes), protettore (tutator), vincitore [yidor), vendicatore (idtor) e così via (6).
(1) V. per ciò l’art. Sol, in Daremberg et Saglio, Dici, des anliq. gr. et rom., IV, pag. 1381; Preller, Röm. Mythoi, I, 325; WissowA, Relig. u. Kultus d. Römer, 3x5.
(2) Ovid., Metani., IV, 227: Omnia qui video, per quern videt omnia tellus | mundi oculus. Così in r 227 : ’HsXw? s’, 5; Trayr xat wavT* ticaxeucc$.
(3) Cfr. anche C I L., 3, 14450 e le monete che portano la leggenda Soli invitto. (Cohen, n. 457). le quali non vanno disgiunte da quelle che hanno Orions Augusti o Claritas con le note rappresentazioni solari. Sul culto del Sole nel senso classico, anteriormente quindi all’orientalismo ed alla riforma di Aureliano ed alla propagazione del Mitria-cismo, v., oltre i citati. Cesano in Boll. ass. ardi, rom., 2, 231 segg., e Rass. Num. 8, 33 segg- . (4) Per le prove epigrafiche, numismatiche, letterarie del culto di tali divinità, v. il mio lavoro più volte citato, pag. 146 segg.
(5) Thesaurus ling. lai., IV, 418.
(6) Imp. daini., pag. 148.
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Similmente è prettamente arcaica là concezione di Ercole, l’altro protettore imperiale della stirpe in sottordine, della linea di sovrani che debbono fornire a quelli che sono la mente dell’ impero, il braccio. Egli non è quindi solamente il conservator della dinastia, 1’ invictus, il comes, ma è il debellatore il pacijer o Dacator terrarum e l’unione delle due divinità per la felicità del mondo e per la sconfitta dei ribelli (i Titani della leggenda) è magnificata dai retori del tempo (1). Anzi la concezione dell’Èrcole classico permette di concludere con maggior sicurezza sudoccidentalità, per così dire, della religione dioclezianea, poiché l’Èrcole mitriaco che ha simili attributi e simili leggende se si vuole, ha piccola e ristretta efficacia nel culto d’origine persiana (2).
Ed è proprio l’origine persiana, straniera dunque, della nuova e fortunata religione che deve confermarci la latinità della riforma di questo sovrano che pure, inconsciamente e consciamente, portò tanto d’Oriente nell’impero: ne è testimonio il disprezzo con cui parla a proposito dei Manichei della « doctrina Persarum », proveniente « de Persica adversaria nobis gente » e la ferma volontà con cui esprime il suo divisamento di non concedere quartiere ai nuovi culti a scapito delle antiche fedi. Si ripete quasi come un ritornello nell’editto contro i Manichei, l’anatema contro la nova religio, contro le « novellae et inauditae sectae », contro 1’ « inaudita et turpis atque per omnia infamis secta » contro cui si elevano la vetus religio, le veteres religiones in una prosa che acquista per un momento un senso di misticismo sincero che conquide (3). Onde non può assolutamente negarsi fede ad Aurelio Vittore quando ci assicura che l’antico culto fu da Diocleziano scrupolosamente sostenuto: « Veterrimae religiones castissime curatae » (Caes. 39, 45) ; nè può essere interpretato il suo passo in opposizione al Cristianesimo, dacché, come testé vedemmo, la sua attestazione trova così appropriato commento nei testi ufficiali dell’epoca.
A proposito de’ quali è bene ricordare quanto sopra accennammo sulla poca probabilità del mitriacismo di Galerio, il quale si afferma come il continuatore — ne fu anzi in parte l'ispiratore — più rigoroso e più convinto dell’opera di Diocleziano, lui figlio di una donna « deorum montium cultrix » (4), lui che prostituiva sua madre per farsi credere figlio di Marte (5), lui che nell’editto del 311 confessava con un rimpianto forse sincero di aver voluto « iuxta leges veteres et pubblicam disciplinam Romanorum cuneta corrigere » ed insisteva sul desiderio di veder ripristinati i « veterum instituta » (6).
(1) imp. daini., pag. 148-149: Pan. 3, 3; Reitzknstein, Zwei religiongesch. Fragen, pag. 49 e forse anche Clermont Ganneau in Etud. d’arch. Or., I, pag. 178, per un Massimiano-Ercole che atterra i Giganti.
(2) Si veda a questo proposito ii Cumont, Texteset Monunients, II. cc. Le considerazioni •svolte nell’ultimo dei passi sopra citati si oppongono in un certo qual modo alle precedenti. La stessa leggenda e rappresentazione di luppìler futgerator nelle monete non mi sembra possa permettere di concludere in favore •della tesi opposta alla mia, come i testi ivi riportati (nota 9, pag. 157 e n. 6 pag. 158) non
provano nulla in contrario, anche se nelle origini delle leggende greche debba vedersi l’influsso orientale come è generalmente ammesso.
(3) 'Mos. et Rom. leg. coll., 15, 3, 2-4. Gito l’edizione del Mommsen, non essendomi ancora accessibile quella di Oxford, curata dallo Hyamson.
(4) Lact. de ni. pere., 11,1.
(5) Lact. de ni. pere., 9, 6, confermato dall’arco di Salonicco in cui accanto a Diocleziano sacrificante vi è il suo dio protettore Giove; accanto a Galerio Marte. V. Imp. daini. p. 146.
(6) Lact. de rii. pers. 34, 1-3.
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Nè basta: noi assistiamo con Diocleziano ad un molto probabile rinvigorimento della fede nell'aruspicina, nell’arte augurale, negli oracoli se vediamo iniziarsi con un sacrificio augurale mal riuscito l'epurazione militare e se all’Apollo Didimeo, all’antico oracolo ormai in decadenza, come per il penetrare dei culti orientali era decaduta l’aruspicina, è affidata dallo scrupoloso e religioso sovrano la decisione della necessità di infierire contro i Cristiani (1). Diocleziano ci si mostra così anche in ciò il devoto e sincero ammiratore e seguace di Marco Aurelio del quale voleva emulare il tenore di vita ed i sentimenti (2).
Così l’indiscutibile religiosità del sovrano riformatore, religiosità alla quale egli doveva tenere, poiché i testi dell'epoca, ufficiali o no, sono concordi nel-l’affermarla, si ricostruisce nel senso politeista più perfetto e nel senso classico del culto greco-romano. La religiosità che pervade l’opera stessa politica di lui ha intenti arcaici: il Giove Ottimo Massimo di cui egli si crede l’incarnazione terrestre, come l’Èrcole cui egli affida la protezione del braccio che deve permettergli il consolidamento dell’impero, sono gli-antichi immortali dei « Romano nomini, ut semper fuerunt, faventes » (3). Dinanzi a Giove Massimiano giurerà di deporre quando che sia la porpora avuta per volontà divina (4) ; a Giove ad Apollo, a Marte, a Plutone, a Mercurio egli ed i suoi colleghi innalzeranno templi ed offriranno doni (5) e domanderanno ai sudditi, nell’ interesse dell’ impero, tributo di venerazione.
L’obbietto adunque dèi culto e della religione dioclezianea è prettamente arcaico, ma il carattere della religiosità che avvolge tale oggetto, il suo sentimento è invece eminentemente orientale : la religiosità dioclezianea non è più romana, è siriaca, é persiana, è come si voglia, ma non è romana.
Ecco perchè questa restaurazione arcaizzante è debole, è falsa ; ecco perchè scoppierà, una volta che essa sarà determinata in tutti i suoi particolari, la lotta contro i Cristiani: gli dei di Roma erano ben morti; raffigurarli sugli archi di trionfo (6), magnificarli nella retorica, imporli nella prosa ufficiale era inutile, poiché il sentimento che nei tempi primitivi li aveva sorretti crasi trasformato
(1) Bouché-Leclercq, Hisl. de la divinai., IV, pag. 334, nota come Diocleziano perseguili gli astrologi, i «matematici», ecc., il che, a vantaggio della aruspicina ufficiale, è prettamente romano. V. Imp. dal., pag. 152.
Per la cerimonia che determinò l’epurazione dell’esercito v. Lact., de ni. pers., cap. io.
Per F Apollo Didimeo (P « Apollo Milesius» evidentemente di Lact., op. cit., 11, 7) vedi Pauly-Wissowa. Reai. Encycl. d. class. Allei'liimw., V, 437 segg.
(2) V. J/. Ani. 19, 12 : «deusque etiain mine habetur, ut vobis ipsis, sacratissime imperator Diocletiane, et semper visum est et videtur, qui cum inter numina vestra non ut ceteros sed specìaliter veneramini ac saepe dicitis vos vita et clementia tales esse cupere, qualis fuit Marcus..'. ». Sulla concezione religiosa di Marco Aurelio e sulla tentata restaurazione che ne
derivò vedi Mamassero, Imp. rom. e crisiìan p. 1S5 seg.
(3) Mos. et Rodi. leg. coll., fi, 4, 1.
(4) Pan., 6, 12: «.. . «cum tu ingenti animo diceres * recipe, luppiter, quod commoda-sti ’ >...
(5) E’ magnificata dai retori la « pietas erga deos» dei sovrani (Pan. 3,6): «Quos aris simulacris templis donariis, vestris de-nique nominibus ascriptis, adiunctis imagi-nibus ornastis sanctioresque fecistis exemplo vestrae venerationis ».
(6) Si noti come nell’arco di Salonicco non siano raffigurate se non divinità classiche, Giove, Ercole, Marte e personaficazioni allegoriche di carattere generale : v. Kinch, Are de trioniph de Salon., pag. 26, 35 e seg. Cfr. n. 5 pag. prec.
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e chiedeva nuove forme di culto. Diocleziano fu in questo un restauratore inabile di cose morte come Giuliano : questi da letterato, quegli da politico, ambedue Con sincerità, però, e con vero spirito religioso.
Ambedue necessariamente dovevano fallire, poiché l’unica e sola strada che l’impero doveva seguire per la sua salvezza era quella che seguì Costantino, spirito più sagace e più acuto di essi. La riforma politico-religiosa non poteva resistere se non si fondava sul monoteismo ! Forse se anche Diocleziano fu tra i suggeritori dell’iscrizione dedicatoria a Mitra in Carnunto, il fautor imperii sui fu una delle tante resipiscenze dioclezianee posteriori all’abdicazione. Egli dovè riconoscere nel fallimento dell’opera sua, nella cruenta opposizione dei Cristiani, come solo nel monoteismo solare si trovasse il /autor imperii, non nel politeismo fosse pur posto sotto l’egida di Giove. La fortuna di Mitra per un momento oscuratasi riprendeva il suo corso!
Giovanni Costa.
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LE VARIE DOTTRINE
CIRCA L’ESSENZA DELLA RELIGIOSITÀ
EL nostro primo articolo sul libro di E. P. Lamanna, La religione nella vita dello spirito, trattammo la questione di metodo nella ricerca di ciò che sia la religiosità. In questo secondo articolo parleremo, invece, delle dottrine che nel secolo xix sono state formulate per risolvere il problema dell’essenza della religiosità. Escluderemo però dalla nostra trattazione quel novissimo indirizzo di filosofìa religiosa il
quale, accogliendo e intensificando il processo anti-intellettualistico, sostiene la presenza nell’anima umana di un particolare organo di espe
rienza della realtà divina : di quest’ indirizzo ci occuperemo più tardi in un terzo
ed ultimo studio.
Il criterio per classificare le varie dottrine ci è dato dalla distinzione funzionale della vita psichica umana, la quale — se si considerano i fatti della coscienza da un punto di guardatura dinamico, cioè in quanto fanno parte di processi tendenti a determinati scopi — assume tre atteggiamenti diversi : il conoscitivo, il pratico e il contemplativo. In un primo paragrafo, diremo delle dottrine aventi comune il principio che la religiosità dipenda dall’essenza conoscitiva', nel secondo, indicheremo quelle che fanno derivare la religione dalla consapevolezza che l’uomo ha degli ideali supremi posti alla sua attività pratica’, nel terzo, accenneremo a quelle dottrine che, senza alcuna preoccupazione d’ordine conoscitivo e pratico, affermano che nella religiosità l’uomo altro non cerca se non l’abbandono di sè a Dio, l’acquetamento di ogni contrasto tra soggetto e oggetto, e tra le varie tendenze ed aspirazioni del soggetto stesso: funzione contemplativa.
§ i°. La religione come prodotto della funzione conoscitiva.
Viene in prima linea il dialetticismo hegeliano’.
Lo spirito finito — che è dipèndente dalla natura che lo limita, ma che essenzialmente è libertà — è premuto dal bisogno di superare il suo limite e risalire alla sua essenza fino a identificarsi con l’assoluto. Questo è il contenuto
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e il fine della religione e della filosofìa; ed organo di siffatta elevazione, così per l’una come per l’altra, è il pensiero. Unica differenza è la forma di pensiero : rappresentativa nella religione, speculativa nella filosofia. La religione considera come fatti compiuti una volta per tutte i processi eterni dello spirito (es., la caduta, la redenzione, ecc.) e così apprende le verità spirituali pel tramite di fatti naturali e storici. Ma l’hegelianismo considera inadeguata questa conoscenza, perchè gli oggetti suoi (dati nello spazio e nel tempo) sono esterni l'uno all’altro e dotati di reciproco esclusivismo. Questo, culmina nell’opposizione tra spirito e natura ed in quella tra io finito e spirito assoluto. Sicché, tra l'io finito e l’assoluto non vede l’unità, ma solo un rapporto di dipendenza. Ora, questo non è ammissibile che all’ inizio, non mai come permanente, perchè lo spirito è libertà ed anela alla libertà assoluta. Qui appunto soccorre il pensiero speculativo col suo principio del movimento dialettico per cui ciò che in un momento inferiore appare come dualità di termini contrapposti deve apparire, in un momento superiore, come unità e identità delle differenze. Applicando questo principio ai rapporti tra l’uomo e Dio, si vede che lo spirito finito non può attuare la più elevata possibilità della sua essenza se non negando la negazione, cioè il suo limite. E così il finito non è che un momento dell’ infinito. Chi pensa in noi è il pensiero universale il quale, così, attua se stesso nella pienezza della sua natura, cioè come uno-molti (repubblica dell’essere) (i). In tal modo, tra il soggetto e l’oggetto vi è identificazione.
Ninno può disconoscere la grande parte di vero che è nella concezione hegeliana. Se le individualità non formano una mera collezione ma un sistema organico per cui ogni singolo serve ai fini degli altri esseri, non si può a meno di riguardare il mondo intero come la estrinsecazione dei pensieri di una mente assoluta. Senonchè la verità di ciò non rende mica illusoria la coscienza dell’zo, non ne sopprime affatto la realtà e l’incomunicabilità, poiché lo spirito assoluto è appunto universalità capace d’individuazioni immanenti e permanenti in se stesse! Ora si badi : la realtà ed incomunicabilità degli io individuali implica il carattere permanente della dipendenza e perciò nega V esclusivismo della libertà come essenza della religione. Inoltre, essa implica la spontaneità relativa degli io indi; viduali, e quindi la realtà etica del male morale e del peccato. Se ne deduce che la religiosità non può risolversi in pensiero, ma implica pure l’attività pratica in genere e quella morale in ¡specie...
Partendo da presupposti non già hegeliani ma di sinistra hegeliana (esclusione della trascendenza, l'idea incosciente che acquista coscienza di sè solo nello spirito umano, ecc.) il Vacherot arriva alla sua religione dell'ideale che deve risolversi in filosofia. Dagli accennati presupposti egli deduce che Dio è soltanto in quanto è pensato, che resistenza di Dio è l'idea di Dio, e che quindi l’unico
(i) Questo è (e sono in buona compagnia) il mio modo d’intendere il pensiero hegeliano su questo punto. Io non credo — come sembra credere il Lamanna — che lo spirito assoluto non divenga, secondo Hegel, autocosciente se non per la mediazione dello spirito finito. Bisogna distinguere, nella repubblica dell’essere, l’autocoscienza dell’essere come assoluto, universale, e il suo cercarsi ed attuarsi come molteplici. [ti. j.)
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LE VARIE DOTTRINE CIRCA L’ESSENZA DELLA RELIGIOSITÀ
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Dio vero si risolve neWideale umano. Per ottenere il vero Dio, bisogna astrarre quei caratteri che la realtà ci mostra e idealizzarli, cioè apporvi il concetto di perfetto; non dimenticando però che questo Dio è un’astrazione della mente e non ha altra esistenza che quella dell’idea. — A questa nozione si ricollega la religione della norma dello Spir. Il riconoscimento delle anomalie del mondo prova una norma assoluta delle cose, senza di che quelle anomalie non potrebbero essere riconosciute come tali. Questo Dio-norma non è onnipotente, nè onnipresente, non è dotato di pensiero, nè di volontà, nè di coscienza. E semplicemente un’ideale di bontà, di verità, di perfezione che sono aspirazioni supreme dell'uomo e ci dànno la certezza che la nostra vita, se da un lato è un semplice prodotto della natura, dall'altro ha un significato eterno. Questo ideale, questi principii normativi alla stregua dei quali la realtà esistente dev’essere valutata, e che costituiscono l'unico vero Dio, la religione trasforma in idolo con l’attribuire ad essi una realtà ed una personalità concreta: il che è assurdo, perchè l’ideale è perfezione e perciò non può trovarsi nella realtà che è imperfezione. La religiosità non e, quindi, una funzione specifica permanente, ma è lo stato d’infanzia dello spirito umano. A questo deve succedere lo stato più maturo della filosofia che rivela all’uomo l’ideale astratto, la norma. Il Dio-per-sona, il Dio realtà della religione era oggetto del sentimento ; il Dio vero (ideale astratto, norma) non può essere che oggetto del pensiero...
Ma — di grazia — se l’ideale non ha realtà, come mai accade che l’universo si presta a quel processo di astrazione e di sintesi che permette di cogliervi tracce di bontà, di bellezza, di verità che sono attuazioni, in gradi diversi, di quegl’ideali supremi? Se l'ideale, la norma, è affatto estraneo al principio creativo agente nell’evoluzione dell’essere, come ha potuto avere origine? Inoltre, se è vero che l’ideale si sprigiona dalla esplicazione delle superiori attività dell’uomo, e se d’altra parte è vero che all’azione dell’ideale è refrattario quel mondo reale in cui l'uomo esplica le sue attività, non si riduce l’ideale stesso ad una utopia? Gl’ideali di giustizia, bontà, bellezza, verità, nella determinazione dei quali si esaurisce lo « stato » filosofico, non possono essere riguardati come manifestazione del divino nell’uomo se non a condizione che si riconosca la religiosità come forma autonoma di esperienza irriducibile ad altra, cioè si ammetta nell’uomo la facoltà di porsi in rapporto personale con l’Essere nel quale quegl’ideali sono già attuati, e che, essendo egli il principio dell’universo in cui deve realizzarli l’uomo, costituisce la garanzia della possibilità di questa realizzazione. Una Giustizia, una Bellezza, una Verità assolute sono inconcepibili fuori di una Coscienza assoluta !
Alle accennate correnti idealiste seguono (sempre in questa categoria di dottrine per cui la religione è prodotto della funzione conoscitiva] alcune correnti naturaliste :
Menzioniamo per primo il Gratry, un cattolico altamente spirituale, un mistico. Ma egli fonda la misticità sul principio naturalistico Che ogni conoscenza reale debba appoggiarsi ad una esperienza sensoriale. L’uomo è fornito di un « senso » dell' infinito. Quando un grado qualunque di perfezione eccita l’anima, questa cancella col suo slancio dialettico i limiti ed afferma l’infinito e le sue
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perfezioni. Ciò per induzione, ma così rapida che può dirsi conoscenza immediata, di cui nell’uomo esiste un senso specifico. — La verità è che l’uomo, pur non appagandosi mai del finito, non ne spezza subito i limiti per saltare nell’infinito ; ma piuttosto li allarga via via, e solo dopo ripetute esperienze e pel lavorìo della riflessione può giungere a farsi un’idea dell’infinito, la quale perciò non è il presupposto, bensì il risultato. Ingiustificato, dunque, l’appello del Gratry ad un misterioso « senso > per spiegare una conoscenza immediata insussistente...
Altra forma di conoscenza immediata è la < percezione dell’ infinito > di Max-Müller :
L’infinito — secondo questa dottrina — non ci è dato per.via di astrazione negativa dal finito, ma è una realtà sperimentale dataci dai sensi. Per esempio, l’uomo vede fino ad un certo punto; là il suo sguardo si spezza, ma precisa-mente in quel punto s’impone a lui la percezione dell’infinito... Da questa nozione vaga d’infinito si è giunti alla nozione di agente personale, di Dio, per l'azione del linguaggio sul pensiero: le radici di tutte le parole erano predicati esprimenti le maniere di agire proprie dell'uomo; impossibilità, quindi, di parlare di cose non personali, e necessità di personalizzare anche gli oggetti della natura: donde la concretizzazione metaforica dell’impressione dell’infinito in oggetti naturali, animati per effetto di una malattia del linguaggio... Di qui una specie di oscillazione tra due poli: da una parte, la reazione spirituale contro la grossolanità del linguaggio; dall’altra, continue ricadute dallo spirituale nel materiale. Quando l’attrazione dell’un polo è troppo forte, la religione si trasforma in mera filosofia; quando è troppo forte l’azione dell’altro, si trasforma in mera superstizione...
Ma è falso il primo fondamento di questa dottrina, che — cioè — ogni conoscenza reale sia conoscenza sensibile. Se l’uomo non avesse che i cinque sensi rimarrebbe inesorabilmente chiuso nei finito. Solo per un'operazione dell’intelletto può trascenderne i limiti ed affermare che al di là di essi v'è altro; e quest’altro non è ancora l’infinito, ma solo il relativamente più ampio: all’infinito non si arriva che per uno sviluppo della conoscenza. Quindi, non è vero che la conoscenza religiosa sia una conoscenza immediata di carattere percettivo, perchè la percezione sensoriale non può darci per se stessa un oggetto adeguato di un rapporto religioso.- Nè può reggersi l’origine dei miti attribuita a malintesi linguistici; perchè siffatta origine è solo di alcuni miti, ed essa implica che in quei fenomeni si era abituati a vedere storie analoghe alle umane, cioè presuppone quella facoltà animatrice e personificatrice che, secondo il Müller dovrebbe invece creare...
Guglielmo Wundt si oppone a Müller in quanto, contro di lui, pone le radici della religiosità nell’ idea metafisica del sovrasensibile, ma gli si ricollega in quanto, come lui, ammette l'immediatezza della conoscenza religiosa sur un fondamento sensoriale. Secondo Wundt, nella formazione del mito non entra nè il simbolismo (questo è venuto più tardi in seguito alla ri flessione) nè il concetto di causalità per spiegare la realtà. Il mito è surto in forza di nessi /zwìvzWzW, per la proiezione immediata di stati soggettivi nell'oggetto. Esempio: l’uomo primitivo è colpito improvvisamente dal dolore di una malattia. Quel dolore è
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LE VARIE DOTTRINE CIRCA L'ESSENZA DELLA RELIGIOSITÀ
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straordinario, ma non è nuovo; egli lo riconosce analogo a quello prodotto dall’arma di un nemico ; ed ecco che al dolore della malattia si associa immediatamente l’idea di un essere ostile che l'ha colpito. Quésto processo Wundt chiama « appercezione personifìcatrice >, che è proiezione — sull’oggetto stesso — dei sentimenti e degli affetti che esso suscita. Per tal modo, la religiosità è bensì conoscenza del sovrasensibile, ma essa si va enucleando da elementi che si connettono immediatamente ad ogni percezione sensibile per via di associazione meccanica...
Erra il Wundt nell'escludere dall’origine del mito ogni esigenza razionale. Ridurre tutto il processo ad un mero giuoco di associazioni meccaniche si potrebbe solo quando si supponga un essere senz’altra attitudine che quella della contemplazione del móndo circostante ; ma in tal caso le rappresentazioni mitologiche resterebbero poesie, e non si presterebbero mai a divenire religione, perchè questa esige un assenso reale. La verità è che l’uomo primitivo, ricevendo irregolarmente dalla natura benefici e malefici, vive in una oscillazione continua di timore e di speranza; donde la tensione continua dell’intelletto a ricercare i motivi degli avvenimenti, ad interpretare, cioè, la realtà. Sarà interpretazione non sottoposta a controllo di critica, ma sarà pur sempre una scienza ed una filosofia, nella misura in cui queste sono necessarie per stabilire un rapporto religioso pratico.
L'essenza esplicativa della realtà come fattore della religione, negata dalle dottrine della conoscenza immediata or ora esposte, si accentua, invece, nella teorica dèlio Spencer:
Il problema dell’essenza della religiosità è quello del rapporto tra religione e scienza. L'elemento essenziale della religione è il concetto dell’ « Inconoscibile », l’affermazione, cioè, che il fondo della realtà è un mistero inscrutabile. Questo non è, perdi un mero concetto negativo, cioè, la semplice negazione del conoscibile. No, anzi : l'Inconoscibile, cioè l'Assoluto, è una realtà positiva. Come lo sappiamo? Certo, una consapevolezza definita non si può avere che del relativo a causa appunto dei limiti che lo definiscono. Ma questi limiti sono applicati a qualcosa che ne è la materia ; se li togliamo, qualcosa rimane come materia greggia del pensiero. Se si combinano tutti i concetti relativi possibili e di tutti aboliamo i limiti, resta una sostanza indifferenziata; ed è questa l’Assoluto, di cui acquistiamo in tal modo una coscienza indefinita^ sì, ma concreta. Esso è il fondo permanente di tutti gli atti della coscienza, è l'obbiettivamente reale. Di esso, nulla possiamo predicare tranne una cosa: desistenza reale. Ed allora: la religione è il riconoscimento del mistero nell’assoluto; la scienza è la conoscenza del relativo...
Facciamo alla teoria spenceriana tre osservazioni preliminari. Prima: Il sentimento religioso si riduce, per lo Spencer, allo stupore, all'ammirazione umile pel mistero, ed è innegabile che questo è un elemento costante della religiosità ; ma tale sentimento non può essere suscitato dall'assolutamente inconoscibile: qualsiasi sentimento riguardo all’ignoto noi lo possiamo provare solo in quanto questo è concepibile come analogo a qualcosa di noto. Seconda: La religiosità non è semplice riconoscimento del mistero, ma è sforzo per diradarne le ombre. L’importanza delle religioni storiche è tutta nel tentativo di risolvere positiva-
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mente i problemi dello spirito, e non già nella semplice confessione dell'impotenza a farlo con le sole forze della ragione. Terza: Il tratto più essenziale della religione — come apparisce attraverso tutta la storia religiosa — è l’affermazione di un rapporto tra il principio dell’universo e il destino umano. Ora, se il prin-ipio dell’universo è ¿r, che per definizione non deve poter entrare in alcun rapporto con gli uomini, questa x non può essere oggetto di un rapporto religioso...
Ma è tra i corni del seguente dilemma che la teoria di Spencer va ad infrangersi definitivamente : o è vero che l’Assoluto non dee poter entrare in relazione con checchessia, ed allora non deve potersi trovare in alcun modo nella nostra consapevolezza, e perciò la sua reale esistenza è indimostrabile. O la nostra coscienza ce lo rivela non come un concetto negativo, bensì come realmente esistente, ed allora esso non è più Inconoscibile, anzi è oggetto di conoscenza...
Accenneremo, da ultimo, al positivismo antropologico:
Queste scuole non ammettono alcun elemento religioso come costitutivo dello spirito umano. La religione viene dal di fuori. Sorge, sopra un fondo areligioso, per ignoranza su certi fatti umani. Per esempio, l’uomo primitivo, sognando di aver visto un paese, crede d’esservi stato, e perciò è indotto ad ammettere un doppio di lui capace di andar vagando: donde, l'applicazione di questo concetto alla morte, e l’idea di sopravvivenza; e poi l’intervento degli spiriti come avversari o cooperatori dei viventi, e di qui il culto, esteso più tardi agli esseri inanimati.
Secondo Guyau, poiché la causa che nell’uomo produce un movimento è un desiderio o un' intenzione, lo stesso — secondo l'uomo primitivo — dev’essere per ogni movimento della natura. Arrivati così alla nozione di vita della natura, basta aggiungervi il concetto di potenza e quello di propiziabilità per giungere alla divinizzazione di essa. Ma poiché la conoscenza della natura fugava le tracce degli dei, gli uomini per non rinunziare ad essi li ricacciarono nel soprannaturale, e così la fisica religiosa si trasformò in metafisica religiosa. Date le origini eterogenei ¡che attribuite alla religione dalle scuole positiviste, ne segue che essa, per le medesime scuole, è destinata a scomparire. Senonchè, pure ammettendo che nella radice della religiosità si trovi l’esigenza esplicativa della realtà, e pure essendo certissimo che le forme primitive della religione sieno illusorie come interpretazioni scientifiche della realtà, da ciò non deriva punto nè poco che la maturità scientifica possa, quando che sia, proclamare illegittima l’esigenza che ha lo spirito umano di dare alla realtà una interpretazione che garentisca all'uomo la possibilità di attuare i suoi fini, cioè una interpretazione religiosa...
Concludendo: le diverse e contrarie dottrine esaminate fin qui, le quali hanno in comune il far dipendere la religiosità dalla mera esigenza conoscitiva, non sono riuscite — appunto a causa del loro esclusivismo — a spiegare l’atteggiamento religioso.
San Remo, luglio 1914. UGO JANNI.
Nei prossimi fascicoli pubblicheremo i due paragrafi seguenti : g 2. La religiosità come prodotto della funzione pratica, e $ 3. La religiosità come prodotto della funzione contení-piativa. [Red.].
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(Continuazione e fine. Vedi Bìlychttìt, fascicolo di agosto 1914, pag. 101).
CAPITOLO VI.
Insegnamenti occasionali di Gesù che hanno una portata sociale.
LTRE ai suoi insegnamenti riferentisi direttamente alle grandi istituzioni sociali, il concetto di Gesù riguardo alla vita e le dottrine derivanti da questo concetto furono tali ch’egli insegnò parecchie cose di grande valore sociale. Colla pratica e col precetto egli dimostrò di tenere in grande onore l’antico concetto ebraico relativo al lavoro manuale. Egli insegnò la dignità umana. Un uomo ha sempre per lui un maggior valore che un'animale, e molto amaramente egli parlò contro quella
società ipocrita che avrebbe salvato la vita di un animale in giorno di Sabato ma avrebbe lasciato che perisse un uomo. Egli sentì profondamente il problema della malattia; egli soffrì per la miseria degli ammalati ed apprezzò in certo qual modo il danno sociale arrecato dalla malattia. Egli ebbe una grande fede nella natura umana; egli vide che tutto ciò Che era richiesto per riabilitare un traviato era di offrirgliene l’occasione; ed egli oppose a questo sciupìo di vita umana l’utilità e la felicità.
Egli credette fino all’ultimo in un ordine sociale migliore nel quale sarebbe stabilito il Regno della fraternità, della giustizia, dell’amore. Insisto: la religione per Gesù era qualcosa di sociale, non il gretto, pietistico concetto delle istituzioni religiose di oggigiorno. Gesù credette che l’uomo realmente religioso fosse l’uomo socialmente attivo. Egli insegnò il concetto del servizio sociale; egli a mala pena riconoscerebbe per suo l’insegnamento religioso moderno che ha solo due elementi morali : la purezza sessuale e la repugnanza per l’ubriachezza, con spesse volte una benigna condiscendenza anche a questo riguardo. La chiesa primitiva che scaturì dall'insegnamento di Gesù era un’istituzione molto larga; essa faceva la carità, seppelliva i morti, aiutava i viventi ed era, sopratutto, un tentativo grandioso per realizzare la democrazia. La chiesa primitiva fu un movimento sociale, producente un malessere sociale e provocante una agitazione pubblica. Essa era una protesta vivente contro la scandalosa oppressione sociale esercitata dalle classi alte sulle classi basse. Essa conduceva gli uomini a resistere allo Stato, a rifiutare di portar le armi. Le organizzazioni che scaturirono
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dalia vita e dall' insegnamento di Gesù erano sature di principi politici considerati come sediziosi. Vittor Hugo, contemplando il falegname galileo appeso al romano strumento di tortura, esclama: « Colla croce del Golgota fu piantato l’albero delle libertà ». Tutte queste cose che sbocciarono dalla vita del falegname di Nazaret devono essere tenute in conto quando noi indaghiamo il contributo da lui arrecato al pensiero e al progresso sociale del mondo, perchè tutte quante queste cose ebbero l’effetto di aiutare l'uomo, di raffermare le sue gambe tremanti, di svincolare le sue braccia legate e, di farlo stare ritto a combattere per una più libera atmosfera sociale.
Gesù fu una delle grandi fiaccole che hanno brillato al cospetto degli uomini e Che li hanno aiutati a vedere sè stessi, a vedersi l’un l’altro, a vedere ciò di cui abbisognano, e per cui devono combattere. Perciò io sono convinto che l’uomo il quale cerca di comprendere i fattori e le energie che hanno sospinto l’umanità nello sviluppo della vita sociale trascurerà un importantissimo elemento s’egli lascia nell'ombra Gesù di Nazaret. Io credo difatti fermamente che dalla sua vita e dai suoi insegnamenti è scaturita non solo una grande forza atta a plasmare la vita sociale, ma una grande forza per il bene e quindi eterna.
Mosè, Numa, Solone, Budda: tutti concorsero per la loro parte. Platone nella sua Repubblica, Aristotile nella sua Politica, Cicerone, Seneca o Plinio, tutti quanti promulgarono doveri sociali e metodi economici; ma Gesù, il falegname di Nazaret, raccolte intorno a sè una schiera di lavoratori ai quali Platone e Cicerone non avrebbero concesso i diritti della cittadinanza ed egli osò insegnar loro ch'essi avevano dei diritti. Egli unì la sua sorte alla loro, tentò di elevarli all’ idea di solidarietà e si sforzò di condurli a credere che anche loro facevan parte del consorzio sociale.
CAPITOLO VII.
Gesù e la filosofia socialista della vita.
Già è stato detto abbastanza per dimostrare che Gesù fu un riformatore sociale, ch’Egli professò una scienza sociale e insegnò idee di rinnovamento sociale, abbiamo veduto eh’ Egli nacque in un umile ambiente, fu educato in circostanze difficili, lavorò ad un mestiere, appartenne alla classe dei lavoratori, ebbe una coscienza di classe dalla quale non uscì mai. Abbiamo visto eh’ Egli insegnò dottrine così affini al socialismo moderno che noi sentiamo che, s’Egli fosse in vita oggi, sarebbe uno dei nostri (1).
Gesù insegnò che l’operaio doveva avere il prodotto del suo lavoro (Luca 10-7
(1) È il sòlito sistema «americano» che pretende identificare Gesù con una data situazione umana, punto debole questo del grande romanzo pur così efficace della Sheldon intitolato «Che farebbe Gesù?». Siamo convinti anche noi che Gesù, se fosse in terra oggi, affermerebbe i medesimi principi democratici ch’egli affermò 20 secoli or sono mettendoli in rapporto coll’attuale organizzazione economica (macchinismo, ecc.). Ma certamente Gesù non s’ascriverebbe ad alcun partito politico neppure al socialista. Gesù è una vetta, i partiti sono... pantani. (N. d. T.).
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e Matteo io-io). Egli condannò l’interesse (Luca 34-35). Egli condannò quella idolatria della ricchezza che è il prodotto del sistema di competizione (Marco 10-17 a 1 25» Luca 6-24). Egli arringò i capitalisti con parole più severe di quelle adoperate di solito dalla maggior parte dei socialisti moderni. Egli spese la sua vita nel soccorrere > miseri, i malati, i sofferenti. Egli dichiarò Che, nel giudizio finale delle cose, i salvali sarebbero coloro che avrebbero sentito la responsabilità sociale nutrendo gli affamati, rivestendo i denudati, soccorrendo i malati, visitando i prigionieri e che i dannati sarebbero coloro che non avrebbero fatto questo. L'unico uomo che Gesù condannò all’inferno fu l'arrogante, scettico, soddisfatto capitalista che non curava il mendico accovacciato alla sua porta.
E’ appena necessario di paragonare i singoli insegnamenti di Gesù con le dottrine del socialismo per constatare ch’egli oggi sarebbe un socialista. Forse questo è stato fatto meglio che da qualsiasi altro da Bierbower nel suo libro: Il socialismo di Cristo. La conclusione sua è che Gesù intese fondare un regno dei miseri, una teocrazia ugualitaria. La « Magna Charta » di questo regno, Bierbower la trova nel « Padre nostro ». Egli interpetra là ben nota preghiera come segue :
Padre nostro questo significa l'uguaglianza;
Nel cielo non abbiamo superióri sulla,terra;
Il tuo regno venga, dacci il nostro pane, cancella i nostri debiti, liberaci dai mali della miseria', qui noi abbiamo i principali aspetti del Regno che Gesù desidera fondare. Kantsky ed altri hanno rilevato l’uso di cancellare i debiti dei poveri nelle antiche nazioni e essi pensano che questo intenda dire Gesù. Ciò apparirebbe strano anche se essi avessero ragione ; ma, al fine di evitare ogni pericolo, la Chiesa, nella sua condiscendenza per i ricchi, ha cambiato la parola debito nella parola peccalo (1).
Nella parabola della Gran Cena, Bierbower trova che l'idea di Gesù era il fallimento delle classi dirigenti e il passaggio delle redini del governo ai poveri. Egli trova che Gesù evitò di pagare il tributo a Cesare e questo è un fatto. Ed egli crede che i discepoli di Gesù si armarono segretamente per una rivoluzione : un'altra questione questa riguardo alla quale esistono sintomi palesi (2).
Bierbower trova altri principi di uguaglianza nella paga uguale per tutti i
(1) Abbiamo già precedentemente stigmatizzato queste arbitrarie interpolazioni dei testi evangelici. Ripetiamolo ancora una volta, la parola àuapria esprime l’ idea di peccato, di colpa morale : essa non è suscettibile di essere intesa come colpa economica, come debito materiale.
(.V. d. T}
(2) A dire il vero, gli unici sintomi che a noi risultano di questa « preparazione armata » si riducono... alle due spade di Pietro e persino queste due misere armi non furono ben viste da Gesù, il quale si affrettò a raccomandare al suo bollente discepolo di rimetterle nel fodero soggiungendo le ben note parole: Coloro che avranno presa la spada periranno per la spada. In quanto al passo Luca 22-36 è ovvio che Gesù parlava in figura come in Matteo 10-34. Egli voleva che i suoi discepoli conquistassero il mondo non con un’arma guerresca ma con quella che San Paolo chiamò più tardi « la spada dello spirito » Efesi 6-17. Può darsi benissimo, anzi è certo, che lì per lì i discepoli non capissero il Cristo, ma questo non autorizza i commentatori moderni a vedere nelle velleità carnalmente rivoluzionarie di qualche primitivo discepolo di Gesù una prova della loro fedeltà ai principì^/w-iTwa/i del
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lavoratori (Parabola dei lavoratori delle diverse ore) e nel pensiero, secondo il quale Gesù stesso si considerava uguale agli altri tantoché egli prese l’asciugatoio e lavò i piedi dei suoi fratelli. Quindi Bierbower trova nell’ insegnamento di Gesù queste tre idee socialiste:
i° Abolizione della proprietà privata.
2° Tutti, uomini e donne, provveduti sulla base del principio : dà ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni.
30 Uguale lavoro e paga uguale.
Ma, sebbene il socialismo di Bierbower sia quello del periodo utopistico piuttosto che quello del moderno periodo scientifico, pure esso mostra quanto strettamente affine al socialismo fossero le idee di Gesù.
Noi troviamo adunque che Gesù ebbe uno splendido ideale sociale, l’ideale d’un sistema sociale di giustizia, di pace, di fratellanza: ideale simile al nostro.
Rimane da discutersi un punto solo, cioè la sua filosofia della vita e della condotta umana.
Noi socialisti abbiamo una filosofia della vita umana accuratamente elaborata, in base alla quale noi affermiamo che le condizioni economiche hanno formata la massa e che ai caratteri della massa partecipa il singolo individuo. Ora, la filosofia di Gesù riguardo alla vita umana armonizza dessa con questo concetto ?
I teologi odierni dicono di no. Essi ammetteranno, se sono onesti e intelligenti, che Gesù ebbe un messaggio sociale; ma essi dicono che Gesù fece del male una diagnosi radicalmente diversa e propose un rimedio del tutto differente. La chiesa di tutti i tempi, ma specialmente la chiesa moderna, dice che ciò che difetta è la natura umana. La chiesa dice: «Raggiungete e rendete ogni uomo pio >, laddove il socialismo dice: « Migliorate le condizioni sociali » (1). La chiesa dice: «Il guaio sta nel difetto di rettitudine personale», il socialismo dice: « Il guaio sta nell’ ingiusto ambiente sociale ». Così i teologi dicono che, anche se l’ideale di Gesù fosse quello socialista, egli proporrebbe un differente metodo per realizzare un tale ideale. E così gli uomini religiosi chiamano i socialisti grossolani, materialisti e atei, i socialisti rispondono col dire che gli uomini religiosi sono antiscientifici, stretti, ignoranti.
Ho sotto gli occhi una copia del The Christian Record un periodico religióso pubblicato in relazione col movimento di risveglio di Moody a Northfield, Mass. In esso è ristampato un sermone di uno dei maggiori astri della predicazione che questo movimento importa dall’Inghilterra ed esso bene illustra il modo in cui la media dei teologi considera la vita. Questo predicatore, un certo reverendo dott. Stevenson, dopo aver visitato un cotonificio, sale in pergamo la domenica e comunica le sue esperienze alla sua ben pensante congregazione. Cito :
« Blackburn non è un sito dove vi piacerebbe vivere ; non vi sono belle vedute, il popolo è povero ma, sono gentili e uno dei più gentili mi condusse attraverso la fabbrica. Ho visto le grandi balle di cotone, i formidabili ingranaggi
(1).E noi diciamo: Avete ragione tutti e due. Ai socialisti chiediamo: Chi fa le condizioni economiche se non l’assieme dei singoli individui? Ai cristiani individualisti domandiamo: Come rendere ogni uomo pio se non si fa uno sforzo per migliorare le condizioni in cui vive ?
W d. T.)
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delle macchine, ecc., ho visto piccoli ragazzi e ragazze tendere accuratamente i fili stando spesse volte accanto alle loro madri; quando un filo si rompeva la grande macchina si fermava finché fosse riallacciato. Ora voi, ragazzi e ragazze, state accanto alle vostre mamme tendendo dei fili, i fili dell’abitudine che producono la bontà; le vostre piccole vite sono macchine che producono caratteri per Cristo. Dire la verità è un filo, dolcezza, onestà, coraggio sono altri fili. Quando voi mentite, o vi arrabbiate un filo si rompe e voi non fate più il bene che piace a Cristo. Ma ricordatevene : Cristo verrà e vi aiuterà a riallacciare il filo; una delle più belle cose che io conosco riguardo a Cristo è che egli sempre viene per aiutarci a riallacciare i fili».
Ora queste parole, pei socialisti, sono bestemmie. Questo predicatore vede nel lavoro dei fanciulli nelle fabbriche solo tanto materiale omiletico quanto gli occorre pel suo sermone pieno di luoghi comuni o, al massimo, egli vi vede soltanto un campo dove può esercitarsi la beneficenza della sua congregazione. Un socialista capisce ben presto perchè i ricchi d’America fanno venir dall'Inghilterra dei predicatori come Aked, Jowett, Campbell-Morgan, quando essi parlano come quell’altro (i). Il fatto, messo in rilievo dal predicatore, della bontà della gente di Blackburn, doveva, secondo lui, provare che il carattere personale è indipendente da ogni rapporto con le condizioni di vita e di lavoro (cioè che lo stato morale non è influenzato dall’ambiente). Nel riconoscere che la loro città è povera e ch’egli non vorrebbe viverci, egli tradisce la sua propria durezza di cuore e quella della sua congregazione. La sua dichiarazione riguardo a Gesti
(i) È doveroso per parte nostra dichiarare che quanto il Sawyer asseriva nel mese di settembre 19x2 non è oggi più vero riguardo all’Aked. Sotto il titolo: La conversione dei cristiani, leggevasi di fatti in un numero del periodico: Zt’ Peuple di Bruxelles del mese di ottobre quanto segue:
— Alcuni anni or sono, il miliardario americano Rockefeller invitava il pastore scozzese Ch. F. Aked a venire in .America per dirigere la Chiesa battista di New York di cui egli è membro; egli offriva ai predicatore 75.000 lire all’anno. Aked era già conosciuto in quel tempo per un cristiano serio a tendenze fortemente democratiche; egli aveva elevato coraggiosamente la voce in favore delia giustizia all’epoca delia guerra dei Boeri ed era stato persino malmenato da alcuni chauvins forsennati. Però egli accettò l’invito del plutocrate, sperando forse, chissà?, di condurlo ad un più giusto concetto dei suoi doveri.
Egli ha ora rinunziato alia carica, provando in questo modo che la coscienza di un galantuomo vai più di 100.000 lire all'anno. E mentre rinunzia al suo posto, egli aderisce apertamente ai socialismo. Ecco un brano di una comunicazione da lui fatta alla stampa rispondendo alle domande che gli erano state poste:
« Il grande movimento socialista, con la sua bandiera rossa che simbolizza il sangue dei martiri di tutte le nazioni, è l’espressione della speranza umana e dello zelo per la fraternità universale. Se qualcuno afferma che il vessillo rosso è un simbolo di sconvolgimento sanguinoso, che cosa penserà egli di questa vecchia massima della chiesa, che il sangue dei martiri è la semenza della fede ?
« Sino ad oggi, non ho fatto parte del Partito socialista, ma io vedo in quel grande movimento delie masse lavoratrici una espressione della nuova vita spirituale dell’umanità, la quale rifiuta di tenersi paga di qualcosa che non sia la solidarietà umana e la mutua giustizia fra gli uomini. Da questo impulso socialista nascerà uno zelo nuovo per un vero Cristianesimo, quello che per tanto tempo è stato sepolto sotto le macerie del formalismo ecclesiastico».
Così parla l’Aked. Si può dissentire dalle sue idee ma non è permesso più oltre di accusarlo di essere pagato dai ricchi per cullare le loro coscienze cantando loro la ninna-nanna de! Paradiso. (Ai d. T.)
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che viene a riallacciare i fili è una chiacchiera, perchè, se Gesù potesse venire ad accomodare tutti i fili, noi sappiamo ch’egli riallaccerebbe appunto quei fili che i piccoli fanciulli delle fabbriche debbono tendere; e questo egli farebbe perchè essi potessero andare a studiare o a baloccarsi. Qui ci si appalesa la cinica ipocrisia del fariseismo moderno, il quale pure pretende che Gesù approverebbe i suoi concetti e si unirebbe a lui nel perseguitare i poveri a motivo della loro mancanza di rettitudine personale.
Nel medesimo giornale osservo una lezione antialcoolica del Rev. A. T. Pierson, D. D. un famoso predicatore di New York. Il dottor A. T. Pierson cita fatti e statistiche per provare a se stesso che tutte le malattie, i delitti, le pazzie, il pauperismo sono la conseguenza del bere e quindi egli s’addentra in una lunga dissertazione riguardo all'uso del vino nella comunione delle chiese apostoliche. Ora questo è semplicemente voler buttare della polvere negli occhi. Il delitto, la pazzia, le malattie sono in gran parte il prodotto della miseria e quest’uomo piglia una cantonata quando ignora il male sociale della povertà, e si accanisce contro l’abuso di abitudini personali (i). In quanto all’uso del vino nelle chiese di 1900 anni or sono, esso non ha davvero nulla a che fare coi problemi di oggi.
Questa l’attitudine dell’uomo religioso ; egli non vede che una cosa da fare : provocare la pietà, assicurare la salvezza dell’anima individuale. Il socialista invece constata che il mezzo scientifico d’ottenere un miglioramento consiste nell’elevare le condizioni materiali.
Ora, in quale, campo si schiererebbe Gesù? Io non esito a dire eh’Egli starebbe dalla parte dei socialisti. Non c’ è dubbio che il cuore di Gesù si stringerebbe al cospetto della malizia, delle dissipazioni, della mancanza di controllo personale ; ma la sua mente acuta rintraccerebbe la causa di tutto ciò e cercherebbe di rimuoverla. In uno dei discorsi di Gesù noi troviamo quale atteggiamento egli ha preso di fronte alla nostra filosofia della vita. E’ nella parabola del seminatore.
In questa parabola Gesù disse che c’erano tre cose che impedivano alla « buona semenza » di Dio di portar frutti nella vita umana. In primo luogo c’era la malvagia influenza dal di fuori che la spazzava via ; in secondo luogo c'era la mancanza di energie interiori, gente troppo debole per continuare ; ma in terzo luogo, e soprattutto, c’era il cattivo ambiente. Così egli s’esprime:
«Le sollecitudini di questo mondo e l’inganno delle ricchezze affogano la parola ed essa diviene infruttuosa ».
Qui noi abbiamo Gesù d’accordo con noi.
Quando gli scrittori prerivoluzionari francesi incominciarono a insegnare che il mondo era un luogo piacevole ove vivere, che la natura umana era essenzialmente buona e che tutto ciò che occorreva erano condizioni decenti e educazione,
(1) Qui di nuovo c’è del vero nelle due teorie estreme. L’alcoolismo individuale b fonte di delitti, di malattie e di miseria. D’altra parte sono le classi povere, cioè denutrite e male alloggiate, che forniscono all’alcoolismo il maggior contingente di vittime. Si può essere poveri e sobrii ; si può essere ricchi e ubriaconi ; ma il fatto che ci sono assai più ubriaconi poveri che ubriaconi ricchi deve pure insegnare qualcosa: {N. d. T.)
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LA SOCIOLOGIA DI GESÙ
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la Chiesa cristiana trattenne il respiro dall’orrore ; e la larga e potente ala della Chiesa ancora oggi non si lascia sollevare da quel vento ; ma noi possiamo dire con certezza che gli Ebrei ed i primitivi cristiani assunsero la medesima posizione presa più tardi dall’ Enciclopedia francese. Mosè, Isaia, Amos, Gesù, tutti son d’accordo con Diderot, Voltaire, D’Alembert e Mably (i).
Un paziente studioso della Bibbia ha recentemente dichiarato che, dei 31,173 versetti del Vecchio Testamento, 2412 si riferiscono alle condizioni temporali e che, dei 7,959 versetti del Nuovo Testamento 1,901 si riferiscono a preoccupazioni materiali.
Così più di un versetto su dieci nella Bibbia si riferisce alle condizioni di vita degli uomini e delle donne. Gesù fu il culmine e il centro di questo movimento ebraico, il più grande e luminoso astro in quella costellazione ed è legittimo il dire che un esame accurato dei suoi insegnamenti dimostra la sua simpatia profonda per gli oppressi e che la sua filosofia della vita fu sufficientemente acuta per convincerlo che la via sicura e rapida da seguire per elevare un popolo è di cominciare col migliorare le sue condizioni materiali. Gesù dunque sarebbe d’accordo con la filosofia del socialismo moderno.
Roland D. Sawyer.
Nota del Traduttore. — Terminando ci preme dichiarare ancora che il punto di vista del nostro autore ci sembra eccessivamente semplicista. La realtà, tanto nella società e nel cuore umano quanto nel pensiero e nell’opera di Gesù, ci appare infinitamente più complessa, ed è per questo che il nostro cristianesimo sociale, filosofico e scientifico, è ben altra cosa dello spesse volte settario socialismo cristiano del nostro autore.
Ciò malgrado, la fatica che ci è costata la traduzione di questo elaborato e sintetico studio del Sawyer non ci pare, e speriamo non parrà ai nostri amici, del tutto sprecata. Attraverso le dottrine assolute di un estremista, i lettori discerneranno e apprezzeranno le illustrazioni da lui date di uno speciale aspetto del pensiero di Cristo, aspetto purtroppo lasciato nell’ombra dall’insegnamento ufficiale e dalla tradizionale predicazione di tutte quante le chiese cristiane. Giovanni E. Meillb.
(1) Queste sì che sono bestemmie! Gesù di certo, pur vivendo in comunione con Dio, visse sulla terra, s’interessò dei bisogni umani terreni, invocò migliori condizioni economiche e rifiutò, ciò che non fanno troppi suoi seguaci moderni, di rimandare alla vita ultraterrena la realizzazione pratica dei suoi principi di giustizia è di amore. Ma d’altra parte, senza impelagarsi in disquisizioni teologiche intorno al peccato originale, Gesù affermò che la natura umana attuale di ogni singolo uomo è essenzialmente cattiva e disse a ricchi e a poveri, a beneducati e a maleducati che : « Chi non nasce di nuovo non può vedere il regno di Dio ». Ormai sono ben pochi quelli che osano sostenere la teoria assoluta del Rousseau : L’homme naît bon, la société le déprave. Sì, di certo, la società influenza l’uomo in male e anche in bene, ma l’homme naît mauvais. Basta aver dei figliuoli per-persuadersene. L’homme naît mauvais e resta mauvais se non trasforma se stesso per mezzo di un atto violento della volontà, sussidiata dalla forza che viene dall’Alto. Uno scrittore moderno, Paul Franche, dice in modo originale ed efficace : « Tout homme a dans son cœur un cochon qui sommeille. Il s’agit de lé découvrir sous les fleurs et les fines herbes où les préjugés, les écoles et les conventions l’ont enfoui, et de lui pincer la queue assez vivement pour qu ’il fasse son bruit de bête. {N. d. T. )
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PER£G/DvRA DELL'ANIMA
CRISTIANESIMO E PATRIA1"
Studiando i rapporti che esistono tra la religione e il patriottismo, non possiamo proporci di esprimere tutto ciò che di elevato e profondo può essere detto su questo argomento. Le argomentazioni alle quali s* ispirano di solito i predicatori nei giorni di solennità nazionali, le considereremo come date e concesse. Ciò di cui vogliamo occuparci è il problema religioso e nello stesso tempo patriottico che in quel campo si pone : problema angosciante che richiama con crescente insistenza la nostra attenzione.
I.
Suppongo la questione abbastanza nota, perchè sia sufticente ricordarne i dati principali.
Che cosa ha turbato il felice e pacifico accordo da tanto tempo esistente nell’anima del popolo di tutti i paesi tra la religione e il patriottismo? Dei fatti nuovi, e delle teorie o delle tendenze da quei fatti scaturite. Posso riassumerle in una parola : l’internazionalismo, pur riservandomi di dimostrare che questo termine non basta per caratterizzarle.
L’internazionalismo, non è soltanto il domina socialista e il programma dei « senza patria » contro i quali gli oratori delle nostre feste popolari scagliano i loro fulmini ; è uno stato di fatto che risulta dal progresso degli scambi economici e intellettuali dei popoli, e al quale nè le classi medie nè i proletari possono sfuggire. Il capitalismo e il socialismo, questi frali) Discorso pronunziato alla Conferenza religiosa-sociale di Berna nell’ottobre 1910.
.talli gemelli ambedue internazionali, sono dei prodotti inevitabili del presente stato di cose. Gl’impulsi che si propagano tutto intorno al globo non possono fare a meno di rompere le barriere che separano tra loro gli Stati. Nessuno può sottrarsi alla loro influenza. Non appena sale in treno, non appena legge in un giornale le ultime 'notizie delle Indie o del Giappone, il più ardente dei patrioti professa l'internazionalismo. Ora queste cose avvengono tutti i giorni. Sia che ne siamo o no coscienti, l’internazionalismo, a guisa di una atmosfera, ci circonda. Senza dubbio il socialismo ha contribuito ad acutizzare le questioni che ne scaturiscono, ma rimproverare all’ intera classe degli operai socialisti di mancare di patriottismo, è proferire un’accusa che può essere mantenuta soltanto per ignoranza o per partito preso.
In generale si constala, invece, che l’uomo del popolo è, per natura, meno internazionale dell’uomo colto; egli è fortemente attaccato alla terra non appena ne possiede un pezzetto. D’altra parte bisogna confessare che il proletario può trovarsi sradicato nelle nostre patrie moderne e sentirvisi ridotto ad un puro meccanismo. Stando così le cose, l’internazionalismo, per lui, non è più soltanto uno stato di cose che s’impone e che si ammette più o meno volentieri ; è un ideale, un articolo di fede; è la speranza che consola nell’oppressione del bisogno, è il nuovo Regno di cui s’aspetta l’avvento. La parola d’ordine, il motto del-VInternazionale : « Lavoratori di tutto il mondo unitevi!» prende allora l’accento che aveva altra volta quest’altro motto : « 11 Regno di Dio si avvicina!» Per chiunque l’ode vibrare
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così, il proletario straniero è un fratello, è un compagno, un suo simile, un suo prossimo più prossimo di certi compatrioti di classe agiata. Si avrebbe torto di esserne sdegnati; questi sono sentimenti naturali e legittimi, ai quali non c’è nulla da rimproverare dal punto di vista morale ; e fra i socialisti i più nobili cuori sono forse quelli che più fortemente li provano.
Ammetto che questo concetto ideale e quasi religioso dell’internazionalismo, oltrepassi il significato ordinario di questa parola. Però questa interpretazione è il sintomo d’un cambiamento profondo che s’opera oggi nelle anime e che io chiamerò una comprensione nuova della solidarietà umana che lede la coscienza nazionale e la modifica. Il centro dell’amore del prossimo sembra essersi spostato. In altri tempi ci si amava tra concittadini, uomini della medesima razza o del medesimo popolo; lo straniero non era oggetto di simpatia, a meno che non fosse un correligionario in pericolo. Oggi l’affetto va all’uomo in quanto tale. Si è fatto la scoperta dell’uomo. Noi impariamo a meglio capire i nostri simili e capire vuol dire amare. Senza dubbio, questo sentimento oggi non è profondo, appassionato ; e neppure è cosciente se non in un piccolo numero di anime ; ma presso quasi tutti i nostri contemporanei esiste allo stato subcosciente e più o meno indefinito.
Tale amore per l’essere umano in se stesso, può assumere delle tendenze socialiste, ispirare la passione fraterna d’un san Francesco o d’un Tolstoi ; ma può anche esprimersi sotto forma individualista, coll’affermazione della personalità libera, come presso Ibsen o Zara-tustra-Nietsche. In ambedue i casi, esso tende a voltarsi contro lo Stato, il cui potere gli sembra restrittivo dell’ Io, od oppressore degli uomini, e ch’egli considera come un Moloch al quale sono immolati dei cuori e delle anime. Ecco donde viene l’anarchismo, voglio dire l’anarchismo idealista di un Guyau, di un Tolstoi, per cui il potere stabilito incarna la violenza e lo sfruttamento del debole, o per lo meno la forza, cioè un principio che è inferiore all’anima umana. Non è egli strano di trovare qui l’uno a fianco dell’altro il socialismo che fa dello Stato il suo Messia (dello Stato socialista s’intende !) e l’anarchismo che lo considera come un Anticristo, congiurati ambedue contro lo Stato sotto la sua forma attuale, concertantesi per la sua rovina, e creanti in questo modo i più gravi impicci ai governi? Tali sono le strane complicazioni dell’ora presente. Noi discerniamo però una fonte comune a queste due dottrine contradittorie, una delle quali proclama la solidarietà e l’altra la libertà senza freno ; ambedue possono ispirarsi alla passione nuova, umanitaria, che s’infiamma per i diritti dell’essere umano, per la sua felicità e il suo affrancamento. Nulla di strano dunque che le due tendenze possano talvolta confondersi insieme.
Da questa medesima sorgente possono provenire l’antimilitarismo e l’antipatriottismo, dottrine riprovate da molti d’infra noi come insensate e persino delittuose. Qui, come altrove, la passione nuova attacca le passioni vecchie che le fanno ostacolo ; si odia — o ci s’imnagina di odiare — la patria per amore dell’umanità e, in questo stato di spirito, ogni dimostrazione patriottica o militare pare ridicola o brutale! Viceversa tali sentimenti sollevano altrove le più vivaci proteste e sono denunziati come un’infamia.
Non negheremo che tutte queste teorie, anarchiche, antimilitaristiche, antipatriottiche, possano servire di pretesto per commettere delle infamie. (E quali teorie non vi potrebbero servire?) Senza dubbio, esse provocano spesso delle manifestazioni insensate e disordinate ; esse talvolta non sono altro che l’indice d’un antagonismo contro l’ordine sociale motivato da cause più o meno confessabili ; ciò nonostante, siamo costretti a riconoscere, nell’anarchismo di certe anime superiori, la presenza di nozioni ideali nuove, o per dir meglio, di un nuovo ideale.
Agli occhi dei seguaci d’un ideale antico, ogni ideale nuovo appare facilmente come una follia o come un sacrilegio, e succede di conseguenza che l’antico ideale si rianimi e riprenda forze per difendersi. Così noi vediamo quasi dovunque sorgere il nazionalismo e lo chanvinisme militare per opposizione all’antimilitarismo. Il patriottismo si esaspera perchè si sente minacciato.
Qual’è l’atteggiamento del cristianesimo di fronte a queste manifestazioni ? In quale campo si schiera egli ? Queste correnti contraddittorie hanno prodotto fra i cristiani uno stato di turbamento e di malessere. Noi quasi tutti, sentiamo che i nostri obblighi religiosi e patriottici hanno cessato d’essere identici a quelli d’altri tempi. Lo stesso nostro cristianesimo ha subito l’influenza delle idee che sgretolano il patriottismo tradizionale; esso è diventato da un lato più universalista e più sociale, e, dall’altro lato, più personale e più soggettivo. Vi sono fra noi degli uomini il cui cuore vibra alle speranze e alle aspirazioni nuove ; eppure sono patrioti, forse con passione, quand’anche i rappresentanti del patriottismo ufficiale li so-
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spettino volentieri del contrario. La divisione è penetrata fra noi.
E che cosa pensare dei rappresentanti della Chiesa unita allo Stato ? Il loro atteggiamento è desso sincero ? La maggior parte osservano gli usi soliti, e continuano ad associarsi alle manifestazioni convenzionali del patriottismo religioso. Ma lo facciamo noi senza scrupoli di coscienza ? E’ con piacere e senza contraddizione interna che ci assumiamo la direzione dei servizi religiosi delle truppe durante le manovre o che ascoltiamo le prediche loro rivolte? Le parole di pace degli Evangeli non risuonano in noi, allora, come dei rimproveri e non ci sentiamo noi colpevoli d’inconseguenza? Non ci dice una voce in noi: «Che hai tu da fare qui ?» I conservatori della tradizione, sempre certi del nostro appoggio, e i partigiani delle idee nuove, i quali ci credono loro avversari, non possono essi, gli uni quanto gli altri, supporci pronti a sanzionare e a benedire tutto ciò che il gran numero approva? Nell’interesse della religione e in quello del patriottismo, non è forse urgente che noi acquistiamo su questo punto delle convinzioni chiare e che prendiamo un atteggiamento in armonia coi nostri principi ?
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In che modo acquistare queste convinzioni ? Come discernere quell’orientamento logico? Non mi abbandonerò in proposito a una dissertazione teologica o dotta ; mi propongo soltanto di esporre la questione nella luce in cui la considero lasciando al lettore la cura di concludere. Mi pare utile per ciò il gettare uno sguardo sulla Storia e il ricordare certe considerazioni di principio. Traducendo i fatti del passato in termini attuali, mi sforzerò di mostrare che il problema d’oggi non è altro che uno dei problemi capitali della Storia e che la sua soluzione rappresenta una tappa nella marcia evolutiva dei secoli colla quale il genere umano sale verso le vette.
A rischio di apparire paradossali, si può dire che il conflitto aperto oggi tra la religione e il patriottismo è un episodio del duello impegnato tra il principio cristiano e il principio de! paganesimo.
Una delle caratteristiche delie civiltà pagane è difatti questa : clic per esse religione e nazionalità si confondono. Nella Grecia antica, la città — «¿Xk — è una comunità religiosa; l’anima nazionale si riflette nella divinità ; il dio cresce, cade e muore insieme alla nazione; la religione è un patriottismo, e il patriottismo è una religione incondizionata,
esclusiva, persino fanatica come tendono spesso ad essere le religioni.
Questa identificazione implica il politeismo, perchè un dio e un popolo, così confusi, si oppongono ad altri dei e ad altri popoli. L’impero romano è la manifestazione tipica e grandiosa di questa concezione : sottomettere il mondo a Roma è un servire Giove di cui il tempio è al Campidoglio. La religione è la politica; la politica è una religione; il cittadino appartiene allo Stato, corpo ed anima, perchè lo Stato è l’Assoluto. Malizia, violenza, carneficina, brutalità senza limiti sono sanzionate se contribuiscono ad edificare l’Impero. Finalmente, per una conseguenza obbligatoria, Cesare è divinizzato : in lui s’incarna dorinnanzi questo principio che lo Stato è di Sua natura divino, qualunque sia la sua origine, sia egli sorto naturalmente o si sia egli stabilito col ferro e col fuoco; Roma, imperatrice del mondo, rivestita della gloria suprema, è lo Stato sovrano, per diritto divino proprietario dei corpi e delle anime, perchè esso è la religione e perchè la sua legge è la legge religiosa.
E’ con questo impero romano che il cristianesimo entrò in conflitto. Ciò noi sappiamo sin dalla nostra infanzia, eppure pochi ¿’infra noi afferrano tutto il significato di questa lotta. Un fatto, da lui solo, la illumina: il gran delitto imputato ai cristiani, è il rifiuto di rendere un culto a Cesare. Condotti davanti all'effigie sacra, coloro che rifiutano di adorarla sono, per ciò stesso, giudicati. È il momento decisivo della lotta, quello in cui essa riveste tutto il suo carettere distintivo. Qui è palese l’antagonismo del Cristianesimo collo Stato, del Regno di Dio coll’impero del mondo. « Cesare o il Cristo », tale è la parola d’ordine che, dor’ innanzi, risuona attraverso la storia. Se noi seguiamo un momento coll’occhio la lotta di questi due principi nei tempi precedenti e posteriori, vi scopriamo il senso e il valore di ciò che Israele è stato per il mondo e constatiamo una volta di più che è per Israele che ’passa la linea direttrice dell’azione divina nella Storia. Il paganesimo divinizza le forze della Natura e — abbassando in questo modo ciò che è divino al livello di ciò che è naturale — esso sbriglia le passioni istintive dell'uomo pur opprimendo in lui ciò ch'è veramente umano. Al contrario, in Israele, la natura si subordina al Dio unico e santissimo ; per converso, ciò ch’è umano nell’uomo si affranca. Solo regna la Maestà divina, la sua legge soltanto prevale. Alle pretese nazionali e all’orgoglio patriottico questa legge impone silenzio. Non
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è Dio che serve il popolo, è il popolo che deve servire Iddio: questo servizio è la sola sua ragion d’essere e tutta la sua speranza per l’avvenire. Tale è la verità che proclamano con passione i più grandi dei profeti. In nome dell’ Unico, del Santo, del Vivente Altissimo, essi combattono il razionalismo religioso del popolo, dei politicanti, dei sacerdoti e dei falsi profeti ; per questa ragione sono odiati e perseguitati, accusati di sacrilegio e di tradimento; ma, mentre il nazionalismo religioso trascina il popolo alla sua perdizione, sono i profeti che salvano Israele e che assicurano la sua grandezza proclamando che Dio è più grande d’Israele. Non come entità nazionale quel popolo ha una missione straordinaria ; ma come latore del messaggio in cui si rivela il piano di Dio per l’umanità. La speranza dei profeti ha bensì come punto di partenza Israele ; ma essa riveste una portata internazionale, o per dir meglio universale: Israele diventa il centro del regno di Dio sulla terra. Questo regno divino, però, è un regno umano, un regno di giustizia e di bontà, fondato sulla verità divina che alfine risplende agli occhi di tutti. In quel regno, Dio stesso abita fra gli uomini, perchè è quaggiù ch’egli vuole stabilire la sua dimora ed è nell’uomo che la sua gloria vuol manifestarsi. In questo modo si stabilisce il suo diritto. Il segno di questa scoperta è che la violenza, io sfruttamento del debole, e quindi la guerra, scompaiono ; la persona umana è riconosciuta come sacra sotto le spoglie del più povero e del più infermo, dello straniero, della vedova e del-l’orfano.
Non principalmente dalla Grecia antica, come a torto si prefende, ma da Israele è venuta la rivelazione dei diritti dell’uomo e della sua libertà. Di fronte alle nazioni e alle potenze mondiali, di fronte allo Stato-dio, asservito però ancora alla natura, ecco il regno dell’uomo, che procede da Dio. Qui sta la vera e forte radice di ogni socialismo, come di ogni individualismo di buona lega. Questo fondamento è misconosciuto ai giorni nostri, ma allorquando si scorgerà meglio l’insieme delle evoluzioni storiche, esso apparirà in piena luce.
Il regno contemplato nelle loro visioni dai profeti, richiamerà più tardi il Regno di Dio. Esso fu simbolizzato da un uomo, il « Piglio dell’uomo», in opposizione al regno del mondo, raffigurato nella bestia. L’uomo nel quale questo regno doveva personificarsi — per cui doveva compiersi l’unione di Dio e dell’uomo, in modo che la vera natura divina fosse manifestata nell’umanità — fu annunziato come
il Messia, il Cristo. Israele diventò il popolo che aspettava il Messia e il suo regno, e il contraccolpo di questa speranza fu l’odio dei regni di questo mondo.
La speranza si realizzò e gli Ebrei ne respinsero l’adempimento. Perchè? perchè questa realizzazione fu così umana; umana perchè divina. Gesù oltrepassa di gran lunga l’aspettativa d’Israele, ma egli ne mantiene l’orientamento. Allo stesso modo che, nelle visioni profetiche, la conoscenza del Dio unico e santo aveva rivelato l’uomo e condotto al regno dell’uomo, del pari in Gesù la conoscenza del Padre conduce al Figlio e ai fratelli. Mi pare evidente che il Regno di Dio proclamato da Gesù implica una Società in cui l’impero di questo mondo è abolito e che domina da molto alto le istituzioni politiche. Gesù, è vero, non combatte lo Stato, per la ragione stessa ch’egli non nutre alcuna speranza politica, ma ch’egli aspetta con fiducia dal Padre il nuovo ordine di cose; però ai suoi occhi gli Stati politici sono subordinati al Regno di Dio. Queste parole cosi spesso fraintese : « Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» non sono affatto un’espressione di condiscendenza verso lo Stato ; esse dichiarano, invece, che la causa di Dio è incomparabilmente superiore a tutte le aspirazioni politiche. A Cesare, il danaro, segno della potenza di questo mondo! Ma a Dio ciò che è molto più grande! Lo stesso pensiero s’illumina più intensamente ancora con questa parola di Gesù, una delle più centrali dell’Evangelo: «Voi sapete che i capi delle nazioni le signoreggiano e che i grandi esercitano l’impero su di esse. Non sarà così tra voi. Ma chiunque vuol esser grande fra voi, si faccia vostro servitore ; e chiunque vuol essere fra voi il primo, si faccia vostro schiavo. In questo modo è venuto il Figliuol dell’uomo : non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in redenzione per un gran numero » (Matteo 20, 25, 287- Gesù proclama qui la completa inversione da lui compiuta nella scala dei valori: al potere e alla forza, e sostituisce il principio del servizio; e al mondo, personificato dallo Stato, l’ordine nuovo d’una umanità rigenerata. È per effetto dell’urto violento di questi due principi portati alla loro più alta espressione che Gesù morì. Lo Stato-Religione e la Religione-Stato, congiurati insieme, lo crocifissero. Ma la sua croce segna una svolta nella strada del mondo. Noi non l’abbiamo ancora capito appieno.
A partire da quel momento, l’anima della storia d’Occidente, che tende a diventare la storia universale, è il prolungamento dello
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slancio impresso da Gesù, e la lotta del suo regno contro quello del mondo. I suoi discepoli, i cristiani come presto son chiamati, sanno d’essere i precursori d’una umanità nuova, un terlium genus, cittadini del terzo1 impero che soppianterà l’impero romano. Gli altri chiamano Cesare il loro padrone; per essi, il Signore è il Cristo. Anch’essi non combattono l’impero; anzi, per essere dei cittadini irreprensibili, essi pagano le imposte e pregano per l’imperatore. Purnondimeno, essi aspettano la caduta di quell’impero, e l’aspettano con un’ardente aspettazione. In essi l’impero discerne una potenza avversa; cosi tollerante per altri rispetti, egli sente con sicuro istinto di dominio, che quegli uomini minacciano alla base la sua esistenza ; si dice che sieno anarchici, atei ; essi sono antimilitaristi della stretta osservanza; non appena si mette in dubbio fra loro che non sia permesso al cristiano il portare le armi, questo principio è ribadito col più grande rigore.
La lotta prosegue nel corso dei secoli, Cristo trionfa su Cesare, per lo meno esteriormente. La Chiesa cattolica personifica la sua vittoria. Il merito più grande di quella chiesa — spesso misconosciuto dai protestanti — è di avere incarnato l’idea della sovranità del regno di Dio al disopra delle potenze del mondo, degli Stati e delle nazionalità, e di esserne ancora, a modo suo, la dimostrazione. Da questo punto di vista, essa fu una potenza direttrice della libertà e dell’umanità. Questo fatto, ancora ai giorni nostri, costituisce la forza dell’ultra-montanismo.
Però la Chiesa, alla sua volta, diventa potenza temporale e perde cosi in parte il titolo acquistato. Con questo amalgama del potere terrestre col potere divino, essa implica, coinvolge quest’ultimo in un pericolo maggiore che l’aperta ostilità dell’impero. Allora la Riforma si eleva contro lo Stato-Religione, rappresentato dalla Chiesa, e combatte per affrancare da esso il regno di Dio. Ma, alla sua volta, il protestantesimo viene a consacrare lo Stato tale quale esso è, e a dare la sua sanzione diretta o indiretta a ciò che di anticristiano vi è nel potere stabilito. In ogni tempo, però, si vedono delle comunità religiose separarsi dalla Chiesa-Stato, e reintegrare l’orientamento iniziale del Cristianesimo. Allorquando, come ai giorni nostri, queste tendenze sorgono nuovamente con forza nel campo religioso e sul terreno politico, non sarebbe questo un segno che la lotta secolare ripiglia la sua acuità e che il regno di Dio e quello del mondo rientrano in lizza per delle lotte decisive?
Da questo sguardo retrospettivo risulta distintamente, a mio parere, che il Cristianesimo si orienta verso il Regno universale d’una umanità divina, passando sopra gli Stati e le nazionalità, e persino, fino a un certo punto, in opposizione con essi.
Una osservazione però s’impone per completare quanto ho brevemente esposto: se l’impero romano ha combattuto il cristianesimo, rimane però il fatto ch’egli l’ha preparato, perchè, senza il primo, l’estensione del secondo sarebbe stata impossibile. Roma aveva la sua missione da compiere nell’adempimento dei tempi. Israele, apportatore del messaggio del Regno, offre il tipo perfetto d’una nazionalità resistente; senza questo carattere, egli non avrebbe potuto compiere la sua missione religiosa. Sono anche popoli dalla forte tempra nazionale gli agenti della Riforma. Ne concludiamo che, s’egli oltrepassa le nazionalità nella sua realizzazione, il Regno di Dio ha bisogno di nazioni forti come preconizzai rici. Vi è in questo una misteriosa antinomia, di cui bisogna considerare i due termini. Forse, meditandola, noi acquisteremo qualche intelligenza delle vie di Dio nella Storia.
Consideriamo ora i principi che possono illuminare questi fatti. Allorquando cerchiamo di discernere l’atteggiamento del Cristianesimo di fronte al mondo, o, per meglio precisare, quello presupposto dal Regno annunziato da Gesù, ci colpisse una seconda contraddizione apparente, una contraddizione simile a quelle che s’incontrano negli Evangeli e che dànno a questi ultimi tanta vita e tanta profondità : da un lato, il Regno di Dio si manifesta in flagrante contrasto col mondo e trasporta l’uomo a una grande altezza al disopra di esso ; dall’altro lato, il Regno di Dio conferisce all’uomo, di fronte a quei medesimo mondo, una libertà e una sicurezza straordinarie. Ricordiamo, per dimostrarlo, un passo molto significativo.
Quando sua madre e i suoi fratelli cercano di trascinarlo lungi da Capernaum, Gesù esclama : « Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Chiunque fa la volontà di mio Padre che è nei cieli, quegli è mio fratello e mia sorella e mia madre (Marco 3/33-35). Nella veemenza dolorosa di quelle parole, vibra la eloquenza del messaggio pel quale Gesù ha vinto il mondo; egli vuole così sollevare l’uomo al disopra dei vincoli terreni che Io rinserrano talvolta sino al punto di compromettere ciò che v’è di più grande in lui. Famiglia, nazionalità, posizione sociale; questi legami, difatti, possono essere delle catene ; essi possono servir di pretesto all’egoismo, alla pi-
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grizia, all’orgoglio naturale, e distogliere in questo modo da Dio non meno di quello che facciano la sensualità e l’avarizia. Il pericolo è tanto più reale in quanto che queste relazioni hanno un aspetto ideale. E’a motivo della loro forza di ¡esistenza che l’Evangelo, quando ciò è necessario, li ripudia con santa veemenza e, col rigore dell’Assoluto. L’anima deve interamente affrancarsi e appartenere a Dio solo, in cui essa possiede se stessa. Qui non è possibile un’altra alternativa. Tutto o nulla. Quando la chiamata s’è fatta udire, chiamata alla libertà, ¡.più preziosi vincoli della terra non contan più, una pietà mal posta deve tacere : « Chiunque ama suo padre o sua madre più di me non è degno di me ». « Lascia i morti seppellire i loro morti; tu vai e annunzia il Regno di Dio».
Ancora a trasposizione dei valori ! Per sua natura, l’uomo .è incline ad asservirsi a queste relazioni. Di solito non è necessario di esortarlo ad attenervisi ; occorre al contrario una forza sovrumana allorché si tratta di svincolarsene. Per tal ragione, è contro queste catene della natura che l’Evangelo dirige sempre il suo sforzo ; questo anzi è una delle sue caratteristiche. Ci si sbaglia di molto se si suppone che il Cristianesimo consista nel rinforzare lo spirito di famiglia e nel coltivare le virtù elementari del cittadino. Era questa la missione d’Israele e dell’Antichità pagana; e oggi l’inclinazione del cuore umano e i bisogni sociali bastano ad incoraggiarci in tal senso.
Il Cristianesimo, potenza liberatrice, deve elevare l’anima più in alto. In questo modo esso opera il più grande degli affrancamenti. Quanto era pesante, nella città antica, il giogo della famiglia, del parentado, dello Stato ! Non erano soltanto servitù esterne ; esse tenevano prigioni anche le anime (i). Gesù istituì un rifugio in alto loco che fu per la libertà un baluardo invincibile. Là sboccia, a dispetto delle condanne del mondo, ciò che è divino nell’anima, quella « libertà gloriosa dei figli dell’Altissimo », canto di trionfo e parola d’ordine di tutti i grandi ispirati dallo Spirito Santo. E’ da quelle vette che ci viene il soffio d’aria libera quando il mondo vuole soffocare l’anima nostra. L’uomo vi è padrone e signore di ogni cosa. Al disopra del tipo compiuto del capo famiglia e dell’uomo pubblico,
(x) Cóme esse gemessero sotto quelle tirannidi, di quali passioni furibonde vi si consumassero, si vede descritto con fona nell'opera di Giacobbe Burkiiakdt, Gricchitche Kul iurgftchichte, nel capitolo consacrato allo Stato nell'antica Grecia.
si eleva l’uomo di Dio, formato all’imagine del Cristo.
Ma ecco in che cosa consiste la contradizione apparente. Di fronte,al mondo, di cui l’anima sua ha trionfato, l’Evangelo dà a quell’uomo un’atteggiamento libero e fiducioso; esso, in ultima analisi, santifica per lui le cose di questo mondo stesso. L’Evangelo non annienta la famiglia, esso la eleva ad un -livello superiore. L’uomo affrancato dalla tirannia familiare sarà il migliore degli sposi, dei padri, dei figli, dei fratelli. L’Evangelo non impedisce di lavorare per il bene pubblico; l’uomo emancipato dalla tirannia del mondo, servirà meglio di un altro questo mondo per mezzo del suo lavoro. La stessa gioia dei sensi e la loro soddisfazione naturale non sono proibite. Nella purezza e nella bellezza esse possono anzi diventare un servizio divino. In questo mondo terreno, al disopra del quale si eleva l’anima sua, il cittadino del Regno vive in piena libertà, semplice e naturale come un fanciullo, perchè questo mondo appartiene a suo Padre, è il luogo dove il suo regno deve stabilirsi. Qui ancora, quale trasposizione dei valori ! L’antichità pagana divinizza la natura, ma intanto la fugge e si rifugia in timide ordinanze di servitù. Anche presso i cristiani, l’appello a soggiogare la natura conduce talvolta a fuggirla. E’ così che l’ascetismo interpreta le parole di Gesù sulla famiglia. Agli occhi dell’asceta, la natura è impura in tutte le sue manifestazioni, essa è macchiata dal peccato. Il fedele crede doversi sottrarre ad essa; ma lo spavento eh’essa gl’ispira aumenta l’attrazione da essa esercitata, e l’ascetismo diventa il pungolo che esaspera le concupiscenze.
La verità divina e umana manifestata in Gesù, ci emancipa da tutte quelle servitudini. Liberati da ogni legame, siamo liberi per servire. L’uomo ingrandito, arricchito dalla comunione col Padre e dal contatto coll’infinito, sa che il mondo non può più incatenarlo. Egli vi si muove liberamente, egli è sposo, cittadino, egli gusta nella loro purezza le gioie naturali. Il Regno di Dio non è una legge, esso è una liberazione, e non è altro che una liberazione. Esso non crea degli uomini ansiosi e misantropi, ma dei grandi uomini di Dio, dall’anima eroica e dal cuore di fanciullo. Lo stesso vigore fisico vi è stimolato perchè esso diventa una forte base naturale per il vigore dello spirito.
Come vediamo, il Cristianesimo non soffoca la vita istintiva, esso la trasfigura e prepara in questo modo la vita a delle vette di libertà e di potenza dove la vita in Dio si espande
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in piena conformità colla natura. Esso in questo modo conduce a degli scopi che oggi noi solamente intravediamo, raggianti sopra di noi, come illuminati dai chiarori di un’alba : l’Uomo-Cristo e il mondo in Cristo.
th.
Non cominciamo a discernere l’orientamento che fa l’oggetto delle nostre ricerche? Dei principi che abbiamo ora esposto tiriamo le conseguenze e applichiamole al rapporto che passa tra l’idea cristiana e l’idea di patria. Ne scaturirà anzitutto la critica del nostro atteggiamento più generale.
i. Da questo punto di vista, noi scorgeremo necessariamente la ragion d’essere delle tendenze e delle idee moderne, di cui parlavamo all’inizio di questo studio. Il cristianesimo dovrà riconoscere che quelle tendenze sono con lui imparentate, per lo meno nella loro espressione più nobile. Che cosa vi può essere di più cristiano, in sé, che, per esempio, l’internazionalismo? Il Nuovo Testamento non parla egli d’un sol pastore? E l’antimilitarismo, l’opposizione alla guerra: che cosa vi può essere di più autenticamente cristiano? Avremmo noi dimenticato quel che dice Gesù a colui che traeva la spada : « Rimetti la tua spada nel fodero, perchè chiunque trae la spada perirà di spada?». Ma l’anarchismo? Certo l’anarchismo è anticristiano quando esso diventa terrorismo, ma le aspirazioni anarchiche ideali alle quali facevamo allusione più sopra, non potrebbero essere l’espressione della sete dell’anima per la libertà gloriosa dei figli di Dio? Lo stesso anarchismo fuorviato, nei suoi slanci selvaggi, non proverrebbe esso talvolta dal fatto che questo evangelo di libertà è calpestato nel mondo, mentre vi prevalgono la violenza e lo spirito di dominazione? Finalmente anche l’antipatriottismo, qualunque sia il biasimo che possa meritare agli occhi del patriota, non offre desso agli occhi del cristiano delle affinità con quella inspirazione dell’anima cristiana, quell’amore appassionato per l’umanità che gli è proprio e che pose sin dall’inizio i discepoli del Cristo al livello degli antipatrioti?
E’ tempo che il Cristianesimo riprenda coscienza di questa verità e ch’egli modifichi di conseguenza il suo atteggiamento. Non deve più essere lecito di scagliar fulmini in nome suo contro coloro che nutrono nel cuore delle aspirazioni internazionali e contro i «senzapatria », perchè, ciò facendo, si rischia, in
realtà, di sostituire' il Paganesimo alla religione del Cristo. Non deve più essere lecito di cantare religiosamente le lodi della guerra, nè, in generale, di assimilare il patriottismo al Cristianesimo, ancora meno l’Evangelo allo Stato. I cristiani devono riconoscere e proclamare esplicitamente eh’essi tendono a dei fini più elevati e più vasti di qualsivoglia istituzione politica o nazionale. La religione del Cristo deve chiamare a sè e benedire i suoi figli che Pignorano e ch’essa stessa non ha riconosciuto per suoi.
Bisogna ch’essa li benedica affinché essi riprendano coscienza di loro stessi. Lo dichiaro qui nettamente una volta ancora, io non intendo adatto sostenere che P Internazionalismo e altre tendenze di cui parliamo, quali le vediamo manifestarsi oggi, siano conformi al Cristianesimo. Questi movimenti consistono spesso in impulsi selvaggi e confusi, anche nella loro espressione più nobile. Essi tendono spesso a dei fini mal giustificati e talvolta illeciti dal punto di vista morale; bisogna che, alleandosi col Cristianesimo, queste tendenze vi trovino la loro salvezza, bisogna che, proclamate dai Cristianesimo come sue, rivendicate da lui come una parte integrante delle sue proprie verità, esse si purifichino per questa adozione. Allora il Cristianesimo rivestirà il carattere universalista che gl’in-combe, non più solamente pel fatto della sua attività missionaria, ma da tutti i punti di vista. Egli iscriverà nel suo programma il movimento pacifista e gli darà una portata più profonda. E’ una vergogna difatti, per la nostra religione, che le Chiese unite allo Stato non possano ancora risolversi a dichiarare la guerra alla guerra, che ancora succeda loro di glorificarla. La voce forte e vibrante della Chiesa cristiana deve, per proclamare la libertà gloriosa dei figli di Dio, elevarsi cosi alto che ogni voce di anarchismo ne sia coperta e vi si perda; deve affermare che, nei seno o al disopra di tutte le correnti dello spirito umano, come in seno ai fenomeni dell’Universo fisico, i quali compiono parai lelamente le loro evoluzioni, Dio è all’opera per edificare il suo regno e per condurci — fuori dei quadri che ci sono apparsi più sacri, che noi anzi credevamo definitivi — verso regioni ancora più vaste e più elevate ancora.
2. Questa intuizione nuova avrà per effetto di modificare le nostre abitudini mentali nel campo in cui il patriottismo e la religione s’incontrano. Si vedono, fra noi come altrove, degli esempi d’un patriottismo che asservisce ai suoi fini la religione e che sconta la san-
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zione divina per non importa quale impresa nazionale, anche s’essa è prettamente egoista. Per quegli spiriti, va da sè che Dio favorisce tutto ciò che sembra vantaggioso pel loro paese. Questo sentimento non sarebbe granché biasimevole in se stesso, se rimanesse entro giusti limiti. E’ ben lecito di considerare ciò che noi abbiamo di più nobile nel cuore come la voce e la volontà di Dio. V’è però un pericolo in questo modo di pensare ; esso può condurre a prendere per volontà divina la sete di dominio di un popolo e il suo orgoglio nazionale. Associate all’idea religiosa, queste passioni egoiste si esaltano sotto apparenze ideali e il loro potere inebriante s’accresce. E’ in questo modo che la religione si fa complice dell’accecamento patriottico. Ora la fine di quelle cose, è il giudizio. Iddio, l’Altissimo, non può abbassarsi a servire l’egoismo degli uomini, quello delle nazioni non meno che quello degl’individui. Non è Dio che è al servizio dei popoli, sono i popoli che devono servire Iddio, sottomettersi ai Suoi giudizi, considerare la loro causa alla Sua luce, far loro il Suo scopo dovunque essi possono discernerlo. E questa linea di condotta è la loro migliore salvaguardia. Essa costituisce una difesa più sicura che « i cavalli e i cavalieri », i cannoni e le baionette. Essa è che assicura ai popoli la loro grandezza duratura, perchè anche ai .popoli si applica la legge fondamentale del mondo di Dio : « Chi amerà la sua vita la perderà ; ma chi avrà perso la vita per amor mio la ritroverà ». In altri termini: il popolo che mira alla grandezza senza riguardi pei fini umani e morali più elevati, cioè a danno dei fini divini, vedrà un giorno la sua grandezza piegare, e forse naufragare; il popolo invece che si mette risolutamente al servizio di ciò che gli è superiore, arriverà un giorno agli onori e ai potere. La Storia ne fornisce numerose dimostrazioni. Non fu per i suoi eserciti o i suoi uomini politici che Israele diventò un grande popolo: fu per merito di quelli d’infra i suoi figliuoli che rimasero fedeli all’alta sua missione attraverso epoche tetre e agitate. La potenza mondiale dell’Inghilterra gli fu conquistata dallo spirito pubblico di cui i movimenti religiosi del secolo xvu furono la prima manifestazione. La grandezza della Germania trae la sua origine dai fatto eh’essa arrischiò la vita per l’opera della Riforma. Ginevra dovette la sua importanza storica alla disciplina alla quale essa acconsenti di attenersi sotto l’influenza di Calvino. Cosi giustificansi, secondo me, anche nel campo politico, queste
parole di Gesù : « Cercate prima di ogni altra cosa il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in più ».
Il mondo cristiano ha perso il ricordo 'di queste verità. Se un Federico Naumann, per esempio, non ha dato tutta la sua misura è forse perchè egli ha fatto prevalere la grandezza della Germania sull’idea religiosa alla quale egli avrebbe dovuto subordinarla. Egli del resto non faceva che magnificare una disposizione di spirito molto estesa allora fra i teologi e i credenti dei suo paese. Io sono convinto che, in quel campo, noi dobbiamo rimetterci a camminare sulle tracce dei profeti e proclamare com’essi che la religione, lungi dall’asservirsi al patriottismo, deve mostrargli la via. Può darsi che bisogni per ciò dar battaglia come i profeti, essere misconosciuti, accusati, come Geremia e lo stesso Gesù, d’essere dei cattivi cittadini, o peggio ancora; ma noi renderemo in questo modo al nostro paese il più grande dei servizi - un servizio difficile, lo ammetto, e che non sedurrà tutti quanti. Guardiamoci adunque, per amore del nostro popolo, di rimpicciolire il Cristianesimo; sforziamoci invece di elevare il popolo fino alla sua altezza.
3. E’ certo che, considerate da questo punto di vista, buona parte delle manifestazioni del patriottismo comune cadono in disuso. Vi sono cose alle quali un uomo che pensa in questo modo non può più associarsi. La boria nazionale, per esempio, quella glorificazione di sè che implica quasi sempre il disprezzo del vicino, egli non può gustarla; per lo meno egli si rifiuta di prenderla sul serio. Egli non può patire una certa magniloquenza pomposa delle nazioni potenti, attraverso la quale ei non scorge che egoismo e volgarità travestiti. In se stessi, i sentimenti patriottici non hanno che poco valore ai suoi occhi; li onora quando si accompagnano ad atti di devozione per la patria.
In generale, l’affetto che si prova per la patria gli sembra naturale, proprio come l’amore, l’amicizia, le gioie della famiglia; non ci vede nulla di meritorio. In quanto alla glorificazione della guerra, essa gli fa orrore. Anche se la stimasse inevitabile, e s’egli stesso portasse le armi, ei non può entusiasmarsi per la guerra, perchè il cittadino straniero che si dovrà uccidere, storpiare, maltrattare, ei lo considera come suo simile, suo fratello! La guerra e tutto l’apparecchio militare, come pure il genere di patriottismo eh’essi fomentano, gli fanno, dal punto di vista etico, l’effetto di un anacro-
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nisnio; ciò che in altri tempi era circonfuso da un’aureola di eroismo gli appare oggi meschino, brutale, inumano. Gli è che un più alto ideale di umanità ha finalmente visto la luce e si afferma. In linguaggio biblico: noi voltiamo le spalle al « regno della Bestia » per salutare il regno del Figlino! dell’ Uomo. Questo è l’antipatriottismo cristiano.
Sollevandosi così contro molte cose abitualmente considerate come manifestazioni patriottiche, il sentimento religioso, o per dir meglio cristiano, si mette in opposizione colla natura. Bisogna porre in rilievo questa considerazione. Difatti, il sentimento naturale d’amore per la patria non mancherà di sorgere da se stesso e con forza nelle condizioni normali. Non è necessario che la religione venga a sovreccitarlo. Gli occorre, invece, un contrappeso; esso ha bisogno d’essere epurato da una verità più alta, per non essere consumato dal suo proprio fuoco. In tesi generale, la religione non è chiamata a sanzionare i nostri istinti naturali raddoppiando la loro potenza; essa ha una funzione liberatrice di fronte ad essi e non può compiere questa funzione che reprimendoli in qualche modo. In particolar modo in presenza delle passioni patriottiche, non le incombe di fomentarle prestando loro il sussidiò della sua propria esaltazione; al contrario, le appartiene di moderarle e di mantenere così il patriottismo nell’equilibrio salutare.
Arriviamo in tal modo alla questione che più di un lettore si è di già posta certamente : Bisogna dunque, per essere un cristiano logico, diventar cattivo patriota? Dovremo noi, per l’amore verso Dio, soffocare in noi l’amore del paese, se non strapparlo dai nostri cuori ? Desidero esprimere ancora le mie convinzioni in proposito e, dovendo esser breve, metterò in ciò che segue una certa insistenza.
Ci troviamo qui di fronte all’antinomia segnalata più sopra. L’Evangelo del Regno di Dio, affrancando l’uomo dalla tirannide del mondo, gli conferisce - dicevamo - completa libertà e sicurezza di fronte a questo mondo. Ne risulta che l’uomo, la cui anima è stata in questo modo affrancata, diventerà perciò stesso miglior cittadino, benché in un senso diverso dal solito. Un patriottismo nato una seconda volta, se oso dire, sarà il frutto del suo nuovo atteggiamento. Proviamoci ad indicarne alcune caratteristiche.
A) Il cristiano sa che il Regno di Dio, il quale oltrepassa tutte le frontiere, si realizza però per la strumentalità delle nazioni. Quindi, più una nazione è eminente e forte, più essa è atta a compiere quell’ufficio di precursore.
Il cittadino cristiano non neglige dunque nulla di ciò che dipende da lui perchè la sua patria sia forte ed eminente. Ciò non basta : anche lui fa della sua patria la sua gioia, egli la stima e l’apprezza come un dono di Dio : egli ha anzi il diritto di esserne fiero, come può esserlo della sua famiglia, se ne è degna. Egli non ha da fare puntò violenza a questi sentimenti innati che ispira naturalmente il fatto di appartenere ad un popolo. Non bisogna stancarsi di ripeterlo : il Regno di Dio non è una Legge, ma una Liberazione; non è una regolamentazione meticolosa, ma una vita spontanea. L’anima affrancata dal giogo della natura può muoversi' senza ostacoli nel campo di quella stessa natura. Un certo entusiasmo nazionale le è permesso.
A mio parere è anzi bene che, in presenza d’un falso internazionalismo, il sentimento nazionale si affermi e protesti. I popoli devono considerarsi come un’associazione di famiglie, sta bene; ma ognuna di queste famiglie vuole e dev’essere qualche cosa; ciascuna ha il diritto d’essere padrona in casa sua; essa accoglierà volentieri le altre come ospiti, ma non come intruse. Per quanto mi concerne, io sottoscrivo la dichiarazione del Congresso cristiano sociale di Besançon: « Ogni patria è un pensiero di Dio ». Ora i pensieri divini devono fare la nostra gioia anche quando ci siamo noi stessi implicati.
B) Se il sentimento patriottico si santifica e si nobilita trionfando dei suoi impulsi inferiori, d’altra parte esso acquista maggiore profondità per la coscienza, eminentemente cristiana, della solidarietà delle gioie, dei dolori e soprattutto del peccato, che unisce tutti gli uomini. In questo il patriottismo cristianó manifesta tutta la sua grandezza e trova la sua piena giustificazione. E’ difatti come cristiano, che ognuno di noi si sente posto da Dio stesso in seno al suo proprio popolo e a lui legato dalla stretta e santa comunanza delle responsabilità ; noi comprendiamo anche come vi abbiamo moralmente diritto di cittadinanza solo se noi lavoriamo per lui. Tutta la sofferenza e tutto il peccato che ci circondano, li consideriamo come nostri e ci sentiamo obbligati a recare tutte le nostre forze, tutte le nostre attitudini, tutti i mezzi materiali e morali di cui disponiamo, in una parola tutta l’anima nostra per guarirli. Il cristianó anch’egli ha per motto:, Patrias in serviendo consumar, o forse, di preferenza, la versione apostolica di queste parole : « Portate i carichi Sii uni degli altri e adempiete così la legge i Cristo». Per la ragione stessa che gl’impedisce di associarsi a certe dimostrazioni
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patriottiche, ei si sente obbligato a distinguersi pel patriottismo del servizio, e la sua opposizione cristiana a quelle altre manifestazioni non è giustificata che nella misura in cui vi riesce. I) nostro carattere di cristiani deve renderci atti a servire il nostro paese nel modo più elevato che si possa concepire, cioè accettando di soffrire per la giustizia e per la verità. Vi è, oserei dire, un patriottismo della croce; è quello che dichiara di professare il discepolo di Gesù Cristo. Fra i nostri concittadini dobbiamo tenerci in piedi, ciascuno al suo posto, e per mezzo del nostro lavoro, della nostra speranza, delle nostre lotte e delle nostre sofferenze, dare accesso alle forze salutari del Regno di Dio, a quelle forze centrali di cui vivono i popoli e che alla loro volta essi comunicano al mondo intero.
C) Finalmente, in quanto siamo cristiani, ci è permesso di credere alla missione divina della nostra patria. Se ogni individuo ha la sua missione in questo mondo, quanto maggiormente i popoli non hanno essi la loro? Da ciò non deriva affatto che questa missione debba adempiersi a scapito altrui ; anzi, può essere una missione di servizio a loro riguardo. I profeti, elevandosi contro il falso patriottismo d’Israele, non cessavano di segnalargli il suo destino vero e più alto; del pari, gli uomini d’oggi che discernono qualcosa delle vie di Dio, hanno per dovere di mostrare ai loro connazionali la missione nazionale ch’è loro propria ; la funzione del patriota cristiano è di prestar l'orecchio a codeste ispirazioni e, conformandovisi, trasformare la politica in un servizio divino.
La forza vitale di un popolo è costituita da quegli uomini che si consumano al suo servizio e che soffrono per lui ; il loro patriottismo consiste nel trasmettere al loro popolo la vocazione all’alto destino del Regno di Dio; essi l’aiutano così a prender coscienza di sè stesso e, nel medesimo tempo, ad aflret-tare la salvezza di tutti.
(Qui l’autore sì occupa particolarmente della missione attuale della Svizzera, concludendo che, secondo lui, questa missione consiste nel camminare all’avanguardia verso la soluzione dei problemi sociali d’oggi e nel lavorare a risolverli mediante una cooperazione nuova dell’ispirazione cristiana coll’amore pel paese. Ed egli soggiunge : • Meglio la Svizzera compierà questa missione, meno avrà essa da temere le forze avverse, sia al di dentro, sia al di fuori ».
Noi crediamo che queste considerazioni possano applicarsi oggi a tutti i popoli, ed in modo particolare alla nostra Italia].
IV.
Il problema sembra dunque risolversi secondo le esigenze rigorose della coscienza cristiana senza ledere la patria, anzi, per il più gran bene di questa, per la sua protezione e la sua libertà. Tuttavia, e per quanto corretta sia in massima questa soluzione, è difficile la sua applicazione. Sul terreno pratico, sorgono nuovi ostacoli. E’ necessario ch’io li indichi sommariamente, non foss’altro per dimostrare che non li misconosco. Tutti si riassumono in questa questione decisiva: Il Cri-, stianesimo è desso praticabile in questo mondo ? Può egli essere applicato alia politica? Questa, noi dicevamo, deve servire il Regno di Dio ; ma lo può essa realmente? L’ordine divino delle cose è il rinunziare all’interesse personale, è offrire la guancia sinistra a chi ci ha colpiti sulla destra; la politica esige, invece, che un popolo prenda coscienza dei suoi interessi, che li difenda, se occorre, a detrimento altrui, ch’egli respinga gli attacchi, se occorre anche con la forza, cioè colla guerra. Tali essendo, senza dubbio, gli oggetti frequenti dell’azione politica, sembra impossibile di parteciparvi senza cessare d’essere il cittadino fedele del Regno del Cristo. Così il problema che in teoria poteva sembrar risolto, minaccerebbe di rimanere praticamente insolubile. V’è egli modo di uscire da questa difficoltà?
In due modi, i cristiani di tutti i tempi vollero sfuggirvi : gli uni cercarono di praticare una politica cristiana applicando alla cosa pubblica i più alti criteri della religióne.
Tale fu l’intenzione della Chiesa romana, di Zwinglio, di Calvino, dell’ Inghilterra sotto Cromwell. Per questa via, però, si arriva facilmente ad uscire dalla verità nascondendo dei motivi mondani sotto la maschera delle intenzioni cristiane. Altri, invece, disperando di poter mai conciliare la politica col Regno di Dio, risolsero di rimanere estranei ad ogni politica. Tale fu l’atteggiamento dei pietisti, degli asceti, e anzitutto dei cristiani primitivi. Lutero prese un atteggiamento medio tra questi due estremi. Egli non credeva a una politica cristiana; ma pure egli esortava i cristiani ad occuparsi di politica ed a fare la guerra, sotto vari pretesti: condotta difficile a tenersi senza una certa duplicità. Checche* nesia, vivendo in questo mondo in cui la politica compie una cosi grande funzione, il cristiano non può impedirsi dal partecipare ai vantaggi acquistati per mezzo di essa, nè di soffrire delle conseguenze dei suoi errori: l’uomo e il cittadino non si possono sdop-
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piare. Non potremmo ammettere oggi che il cristiano si disinteressasse puramente e semplicemente d’una sfera cosi importante della vita pubblica.
Che fare allora? Io stimo, in coscienza, che il dilemma si risolva così: Il Regno di Dio non è una legislazione applicabile alle condizioni presenti del mondo; èia speranza d'un mondo nuovo che sta realizzandosi. Questo mondo nuovo si realizza nella misura in cui le forze vitali che procedono da Dio trovano accesso nella vita collettiva ; ma, per realizzarsi, esso esige del tempo e, da parte di coloro che l’aspettano, esso richiede pazienza. Certe condizioni d’esistenza della Società presente, alle quali non possiamo sottrarci, dobbiamo sopportarle, subirle con dolore, accarezzando la speranza di un ordine di cose migliore. Il cristiano può così — anzi egli deve — portar la sua parte delle stigmate di egoismo e di violenza di cui è macchiata la politica attuale, egli deve accettarle come un lottatore che combatte senza requie, nella sua anima, contro quelle potenze avverse, e che, dovunque ne trova il mezzo, oppone loro degli atti di fede e di amore. Più saranno numerosi gli uomini che agiscono in questo modo, più rapida sarà l’azione dissolvente interna che trasforma la Società contemporanea e che prepara il Regno di Dio. La mia conclusione sarà dunque: non c’immaginiamo che sia possibile, dall’oggi al domani, istituire una politica del Regno di Dio, ma non asteniamoci neppure da ogni politica. Lavoriamo nel mondo d’oggi per il mondo di domani.
Certamente sorgeranno ancora, nonostante tutto, delle difficoltà e dei conflitti inevitabili. Per esempio la questione della guerra ci si porrà con accento particolarmente acuto. Ci si può chiedere, infatti, ciò che succederebbe di un popolo in cui la mentalità cristiana antagonista alla guerra fosse diventata predominante.
In virtù dell’antimilitarismo religioso che vi si manifesterebbe, un numero sempre più grande di cittadini rifiuterebbe, per ragioni di coscienza, il servizio militare o per lo meno non accetterebbe di adoperare le armi. Che ne avverrebbe? Quel paese non correrebbe desso il rischio d’essere attaccato e invaso da un popolo meno scrupolosamente cristiano? Allora il cristianesimo logico sarebbe diventato un fattore di rovina, se non per il popolo in questione, almeno per la sua indipendenza. La maggior parte degli uomini, in un caso simile, non sarebbero essi condotti a rinnegare il cristianesimo piuttostochè sacrificare l’onore nazionale e la libertà? E in
quel paese, come nell’antica Roma, i cristiani non sarebbero considerati come un pubblico flagello?
Lo dichiarerò senza esitazione: io stimo che, su questo terreno, il cristiano sia libero di scegliere tra due linee di condotta : oppure, conformemente ai principi enunciati più sopra, egli presterà il servizio militare e farà, se occorre, la guerra, ma con dolore, deplorando con tutta l’anima questa necessità e aspirando a un ordine di cose migliore ; oppure, invece, se la sua coscienza glie lo prescrive, egli rifiuterà quei servizio, ei si sottoporrà volontariamente alla pena che lo Stato è costretto d’infliggergli, e, raddoppiando allora di ardore per essere utile alla sua patria, gli offrirà in un altro campo i suoi servigi disinteressati. Dal punto di vista cristiano, non possiamo ad ogni modo condannare l’uomo che si attiene a quest’ultimo partito. E se, una volta ancora, si allegasse che questa condotta potrebbe minare l’edificio nazionale e condurre' il popolo alla sua rovina, risponderò: anzitutto, non è affatto probabile che questo modo di agire si propaghi rapidamente ; ma, se esso venisse a generalizzarsi, la potenza militare che ne risulterebbe diminuita non sarebbe quella d’un popolo soltanto, ma piuttosto quella di tutti i popoli alla volta, ciò che sarebbe fortemente in vantaggio della pace del mondo. Si vede altresì chiaramente che, se questo antimilitarismo religioso guadagnasse tutte le nazioni, esso sarebbe per i piccoli popoli la protezione più sicura e costituirebbe una difesa ben migliore di quel che non sia il loro esercito. Così l’antimilitarismo, causa d'inquietudine oggi che è poco sparso, diventerebbe, in vaste proporzioni, il fattore stesso della sicurezza nazionale. Uno spirito nuovo nella vita dei popoli, ecco qual’è la nostra speranza. Solo uno spirito nuovo può condurre alla pace generale. Non v’è alcun altro mezzo di giungervi.
Se questo spirito nuovo deve propagarsi a poco a poco fra gli uomini e guadagnare le nazioni, ciò avverrà per un’unica via, la via antica, quella del sacrificio, delia croce. Degli uomini devono far da precursori, romperla coll'antico ordine d’idee e recare i loro beni, il loro onore, la loro vita in olocausto alla umanità nuova. E’ così soltanto che tutti insieme ci eleveremo di un grado. I volontari di Dio devono mettersi in marcia: e devono essere uomini.
Ad ogni modo, noi lo vediamo ora chiaramente, si tratta qui, in ultima analisi, di fede. Chiunque è persuaso che delle forze puramente materiali, oppure che la furberia, la violenza.
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l’egoismo, governano il mondo, chiunque crede altresì che queste forze prevarranno nelle lotte che succedono tra le nazioni, non può che respingere le nostre conclusioni e le respingerà sdegnosamente. Ma è come cristiano e a dei cristiani che io parlo. Come tali noi crediamo che, al disopra delle agitazioni del mondo, v’è una potenza più forte di tutte le grandezze di quaggiù, e che la vittoria appartiene a colui che stringe alleanza con essa. La volontà di questa potenza suprema, crediamo di vederla chiaramente rivelata nella persona dei Cristo. Ci è dunque lecito affermare che un popolo, facendo sua la causa del Regno di Dio per quanto egli ha potuto comprenderla, e servendo questa causa a suo rischio e pericolo, assicura per ciò stesso nel ’modo più infallibile la propria esistenza ; e che fra i cittadini di quel popolo, coloro che, con cuore non diviso, camminano all’avanguardia per quella via, sono per la loro patria i maggiori beni e i migliori difensori. E’ questa certezza sola che ci autorizza a seguire questa via e a camminarvi rischiando tutto con Dio e per Dio.
A ciò io ho reso testimonianza. Essa forma
il fondo del mio pensiero. All’avvento d’un mondo nuovo, d’un mondo superiore, io credo con un’intera certezza, così fermamente come ¡0 credo in Dio e nell’uomo, in Cristo e nella realtà della sua croce. Coloro che condividono questa fede costituiscono certamente oggi una piccola minoranza. Cent’anni or sono, un Kant aprì gli occhi sulle prospettive di quel mondo superiore, e i suoi più eminenti contemporanei condivisero il suo modo di vedere. Poi venne un lungo periodo di tempo durante il quale la vita delle nazionalità’ prese un grande sviluppo, e in seguito dei fiumi di sangue inondarono nuovamente la terra. Ma vi è come una magia nel sangue. A quell’epoca di nazionalismo, che non era senza ragion d’essere, succede ora un’epoca d’universalismo e le visioni dei profeti si sono riavvicinate a noi.
Io credo che al disopra delle fermentazioni spaventevoli e delle tempeste attuali, vi è il Cristo e il mondo divino manifestato da lui: quel mondo divino che è altresì il mondo veramente umano.
L. Ragaz
Professore di teologia a Zurigo.
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PER LA LETTURA DEI SALMI“’
Fallot ha scritto : « Per imparare a pregar bene, cercale un salmo che convenga alla situazione vostra... ». Quelli che cercano si accorgono che tutti i salmi non convengono ugualmente all’edificazione o alla cultura religiosa e morale dei tempi nostri. Potrà dunque essere utile, pei cercatori, il conoscere fra i salmi :
x® Quelli che convengono meno.
2® Quelli che convengono maggiormente.
3® Quelli che convengono e che converranno sempre.
Ci fermeremo poco sulle due prime categorie e maggiormente sull’ultima.
I.
I salmi, o frammenti di salmi, che meno convengono tal quali perchè le circostanze, troppo diverse, devono essere adattate, sono quelli che trattano argomenti come questi:
A) Gerusalemme. — S. 46 ; 48 ; 87 ; 122 ; 125 ; 132 ; 137. A seconda dei casi, questi salmi possono essere adoperati con profitto se, al posto di : « Gerusalemme », noi mettiamo : la nostra patria, o la nostra Chiesa, o il Regno di Dio.
B) Il tempio di Gerusalemme. — I salmi precedenti più 1’ 84 e il 134; poi qua e là nei S. 5/7 ; 22/aa, a5 ; 23/6 ; 24/3 ; 26/5,8, 12 ; 27/4 a 6 ; 35/x8 ; 40/10, IX ; 42/4 ; 43/3,4 ; 48/9 ; 52/8.9 ; 63/2 ; 65/«, 4 ; 68/xS, «e ; 78/68,69 ; 92/12, «4 ; 93/5 ; >oo/4 ; 107/32 ; 109/30 ; xix/x ; x x6/ia a 18,19 ; x 1S/26 ; 122/x ; 138/1 a ; 149/x. Utilizzabili se pensiamo ai nostri templi, locali di culto, ecc.
C) I sacrifici. — S. 4; 6; 27/6; 5I/x9i 66/13 » xsJ 118/27- Questi passi acquistano molto ad esser presi nel senso spirituale, come sacrificio del cuore e della vita, nel
(’) La numerazione dei ferititi nei Salmi varia di una e talvolta di due unità a seconda delle versioni. Alcuni traduttori hanno difatti numerato come versetti le indica* zioni relative all'autore, all’accompagnamento musicale, ecc., mentre altri lasciavano fuori queste indicazioni. Le cifro date in questo lavoro sono quelle della traduzione italiana di Giovanni Diodati.
senso di S. 40/6 a s; 50/7 a «4, «3, 5»/«6. «7 ;
D) Z preti. — S. 99/0; 115/10,12; 118/3; 182/9, x6. Passi che possono ugualmente applicarsi a tutti coloro che hanno parte a qualsiasi opera santa!
E) Il re e le promesse gloriose falle alla sua regalila. — S. 2 ; 20; 21; 72; 61/6,7; 89/3,4,39, 35,45,51 ; 11G ; 132/10 3 18 e altri. Essi possono essere interpretati nel senso profetico del Re-Messia.
F) Un canto di amore, il S. 45. Esso è stato spiegato in vari modi.
G) Accenni a grandi ricordi, nazionali. — Se ne trovano nei S. 60 ; 68/7 a 18 ; 77 ; 79 ! 83 ; 89; 95; 99; 114; 132 e specialmente nei salmi storici 78 ; 105 ; 106 ; 135 ; 136. Questi salmi ci sono utili per riassumere a larghi tratti la storia degli antichi tempi israeliti.
Bisogna ugualmente ricordare in questa categoria tutti i salmi degli oppressi, i quali non servono molto che in tempi di persecuzioni. S. 7; 9; io; 17; 35; 42; 43; 57; 64; 69; 109; 129.
Tra questi salmi, quelli che sono stati chiamati salmi di vendetta non convengono più a motivo della differenza dei tempi e dei sentimenti. « Il discepolo di Gesù Cristo, il quale conosce cose migliori dì quelle note al giusto dell’Antico Patto, non chiede più a Dio di annientare i malvagi, ma di averne pietà e di trasformarli. Egli non invoca mai sui suoi nemici l’ira di Dio, bensì la sua misericordia » (Fallot). Questi accenti di vendetta s’incontrano nei S. 59 ; 79/6, 12 ; 83 ; 109 ; 137/8,9 ; i39/’L »»» e Qua e là nei S. 5 ; 28 ; 35 ; 40 ; 41 ; 54 ; 55 ; 58; 69; 71 ; 92/,, ; 129 ; 240/xo,n ; X4l/6, xo; X49/6 a 9n.
Salmi che convengono maggiormente tal quali. Sono per es., 1 salmi che celebrano la legge : S. 1/2 ; 1 19/191», e che possono servirci ugualmente per celebrare la parola di Dio nel suo insieme. Aggiungiamo S. 37/3x5 40/8; 78/x, 5,10 ; 89/31 ; 94/» ; 105/45-
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I salmi polemici contro i falsi dei, utilizzabili tra i pagani contro gl’idoli, e fra noi contro ogni culto idolatrico dell’io, della carne e di ciò eh’è inferiore o cattivo. Sono i S. 115/4,8; 135/1$ a x8, e qua e là S. 16/4 ; 31/6 ; 8i/9 ; 96/5 ; 97/7 a 9Mettiamo qui i salmi che descrivono le perfezioni di Dio : S. 8 ; 19/, a 7 ; 29 ; 65/5 a ,3 ; 71/19 ; S9A * is ; 93 ; 104 ; 139 ; 145 ; ’46 ; 147III.
Salmi che convengono e converranno sempre. Sono i salmi che ci aiutano a pregare, poiché sono essi stessi delle preghiere
Leggete i primi sei versetti del S. 142:
• Colla mia voce io grido all'Etcrno
Io spando il mio lamento davanti a lui. Gli racconto la mia distretta
Quando il mio spirito è abbattuto dentro a me. Tu conosci il mio sentiero...
Nessuno si preoccupa dell’anima mia;
Eterno, io grido a te ».
Queste parole d’un salmo solo ci danno un’idea della facilità colla quale i salmisti esponevano tutto a Dio colla preghiera.
Non solamente essi pregavano facilmente, ma lo facevano regolar niente. Era per loro un' abitudine :
« La notte, le mie mani sono distese senza stan-, [carsi (77/a).
Io grido giorno e notte davanti a te...
Io t’invoco ogni giorno, o Eterno,
Il mattino, là mia preghiera si eleva a te (88/l>9, ,3). In quanto a me, io grido a Dio;
La sera, la mattina e a mezzogiorno, io sospiro ed [egli udrà la mia voce » (55/17)Quando vediamo che i salmisti pregano cosi spesso e cosi naturalmente, ascoltiamo volentieri i loro consigli allorquando ci dicono :
■ In ogni tempo, o popoli, confidatevi in Dio. Spandete i cuori vostri nella sua presenza » (62/3).
Come essi, eccoci disposti a raccontar tutto a Dio.
«) Cosi, quando pregano, essi narrano a Dio la situazione in cui si trovano. E io fanno con tanta semplicità che ci par possibile di fare altrettanto, e senza sforzo ; tanto più che spesso la loro condizione si trova essere identica alla nostra. Leggendo ciò che loro succede, ci sembra di vedercisi noi stessi, e che si tratti della nostra propria sorte.
Altre volte, l’analogia è meno evidente, i
casi sono anzi molto dissimili. Per esempio, nei salmi in cui è parlato dei nemici persecutori, non possiamo riconoscere la nostra condizione, come i martiri di tutte le epoche storiche hanno potuto riconoscervi la loro: « Perchè devo io camminare nella tristezza sotto l’oppressione del nemico ? » (42/9)^Quelle parole sembravano scritte per loro.
Per noi, che godiamo d’una maggiore libertà religiosa, il confronto delle situazioni non è guari possibile. Tuttavia possiamo ispirarci a quel, linguaggio nei momenti in cui soffriamo angherie e opposizioni contro le nostre persone o contro le cause che sosteniamo.
Ed è sempre possibile di trarre un ottimo profitto da quei salmi interpretandoli spiritualmente. Basta fare questa trasposizione; al posto dei nemici, leggere : « il Grande Nemico», il Tentatore e le sue diaboliche potenze, quali l’immoralità, l’aleoolismo, il mam-monismo, le passioni, e tutti i peccati individuali e sociali, ai quali conviene fare una guerra senza quartiere, servendosi delle buone armi spirituali.
Per esempio al salmo 109/5,4 ’• * Essi mi fanno la guerra senza ragione, ma io ricorro alla preghiera», l’autore pensava a uno dei suoi avversari politici. Pensiamo noi al Principe del male o ai suoi agenti, e la tattica di difesa del salmista ci converrà perfettamente : ricorrere alla preghiera come alla migliore di tutte le armi. « I miei nemici (leggete : i demoni) indietreggiano il giorno in cui io grido» (56/9)- « Essi m’hanno assai tormentato sin dalla mia infanzia, ma non mi hanno vinto » (129/x, a)b) Nelle loro preghiere, i salmisti raccontano a Dio non solamente la loro situazione esterna, ma il loro stalo d'animo, i loro sentimenti intimi. Avendo l'abitudine di spandere liberamente la loro anima in Dìo, hanno della facilità nel l’esprimere ciò che risentono. Ed è per noi un privilegio il conoscere ciò che hanno espresso davanti a Dio, nell’ intimità della preghiera. Vi troviamo un meraviglioso quadro della loro anima, e nello stesso tempo della nostra, perchè l’anima umana è in fondo sempre press’a poco la stessa. L’ha detto Calvino: «Ho l’abitudine di chiamar quel libro (il salterio) un’anatomia di tutte le parti dell’anima perchè non v’è alcun sentimento nell’uomo che non sia qui rappresentato come in uno specchio... Parlando a Dio, i profeti scoprono tutti i sentimenti interiori, e chiamano ciascuno di noi ad esaminare sé stesso, affinchè nulla rimanga nascosto delle tante infermità e dei tanti vizi ai quali siamo soggetti »
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BILYCHNIS
Lettori dei salmi, noi amiamo quivi ritrovare, e ritrovare detto bene, ciò che proviamo noi stessi e che avremmo difficoltà a esprimere in modo così elevato. Ma, a grado a grado che li leggiamo, noi siamo condotti a dirlo più liberamente a Dio come a Colui al quale si può dir tutto senza soggezione. Più noi ci abituiamo a confidare a Dio il nostro stato d’anima, seguendo l’esempio dei salmisti, più noi possiamo acquistare quel dono di perspicacia — abbastanza raro — di after-rare esattamente ciò che succede in noi. Se non lo dicessimo a Dio non lo diremmo forse a nessuno, neanche a noi stessi, e ciò ci rimarrebbe nascosto. Pregando come i salmisti per dire a Dio a che punto siamo, ci guadagnarne una facilità d’osservazione interiore più sviluppata, un senso psicologico e spirituale più acuto. Camminiamo alla scoperta dell’anima nostra.
c) Finalmente, mentre raccontano a Dio il loro stato d’animo, i salmisti gli raccontano i bisogni che ne derivano. Esporre i propri bisogni e i propri desideri parrebbe così naturale che non dovrebbe essere necessario di essere incoraggiati a questo riguardo. Eppure molti uomini sentono che loro manca qualcosa, senza sapere esattamente che cosa loro manca, che cosa devono desiderare, e sopratutto senza sapere come esprimerne il desiderio. William Ward, il leader delle Fraternità inglesi, confessava, quando era giovane, che era appunto questo che l’imbarazzava. Egli provava delle « difficoltà a esporre i suoi bisogni a Dio». Il suo pastore gli consigliò di leggere i salmi per imparare a tradurre in parole i suoi desideri. « L’ho sempre fatto sino ad oggi, dice W Ward. Non posso esprimere abbastanza tutto l’aiuto eh’essi mi hanno dato; perchè s’è verificato il caso che quei salmi, scritti tanto tempo fa, hanno perfettamente espresso le emozioni e i desideri del mio cuore».
Il Fallot raccomanda quel medesimo metodo che anche per lui è del pari riuscito : « Allorquando il cuore vostro è più arido che un torrente senz’acqua, allorquando volete pregare e non ci riuscite, prendete la vostra Bibbia, cercate un salmo che convenga alla vostra situazione. Leggetelo lentamente ; e ripetetelo servendovi delle parole che pronunciate per avvolgervi le vostre proprie richieste. Sono 35 anni che adopero in questo modo i salmi. Qualunque fosse lo stato d’animo in cui mi trovassi, essi non mi hanno mai lasciato senza soccorso. Mi bastava un po’ di perseveranza per trovare un salmo che mi mettesse il cuore al largo, aiutandomi a meglio capire
me stesso e a meglio farmi capire da Dio».
Ecco dunque il rimedio che è riuscito ad altri: cercare un salmo che preghi come noi dovremmo pregare, un salmo che ha saputo fare salire sino a Dio la domanda che non sappiamo fare uscire dal nostro cuore. Quella domanda è li, in quel salmo; serviamocene per formulare la nostra propria richiesta.
***
Solo che Fallot ci raccomanda di darci la pena di cercare il salmo che ci conviene. Egli non ci raccomanda il sistema che consiste ad aprire la Bibbia a casaccio, e a prendere il primo salmo che ci capita sott’occhio come quello che dovrebb’essere per noi il salmo provvidenziale. Questo modo di procedere può riuscire qualche volta, ma non sempre. Potremmo capitare in qualche salmo di vendetta, i cui accenti di maledizione non ispire^ rebbero molto la nostra preghiera, o su dei salmi che incoraggiano la tendenza alla propria giustizia parlando troppo volentieri il credente della sua innocenza, come nei S. 7 ; 17/1 •$; »S/I9a26; 44; 46.
Ma accanto a quelle pagine, riguardo alle quali siamo costretti, come discepoli del Cristo, a fare delle riserve, i salmi abbondano in modelli di preghiere alle quali Gesù non avrebbe niente da obbiettare, poiché egli stesso le ha adoperate. Serviamocene per esporre i nostri bisogni personali.
i° Nei momenti d’infedeltà, avremmo bisogno di chiedere perdono. Apriamo i sette salmi che sono stati chiamati i «salmi penitenziali»: 6; 32; 38; 51 ; 102; 130; 143- Leggiamoli con attenzione, specialmente i S. 32 ; 51 e 130. Essi metteranno sulle nostre labbra le confessioni che avevano tanta difficoltà a uscirne, e ben presto, grazie ai loro accenti di vero pentimento, ci aiuteranno a conoscere le sante umiliazioni che conducono al perdono e alla pace dell’anima.
Bisogna aggiungervi, in altri salmi, dei passi come i seguenti : S. 25/7,18 ; 3i/xo ; 39/8; 40/13; 4 »A; 65/< ; 69/5.
2° Nei momenti di distretta o di pericolo, noi avremmo bisogno di gridare al soccorso. I salmi sono pieni di questi gridi d’angoscia, i quali sono così naturali e sinceri che ci strappano supplicazioni analoghe. Che si tratti di soccorso di fronte agli eventi, o di fronte agli uomini ; in tempi di afflizioni, di calamità, di catastrofi ; sia in viaggio o in una camera di malati : ogni qualvolta gli esseri o le cose ci minacciano o ci angosciano, noi troviamo in molti salmi dei gridi di aiuto.
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Per esempio : S. 4/x ; 5/j, i» ; 6/22 4; 17/x; 19/14 ; 22/,,, ,9 a a, ; 25/, 6 a x9 ! 27/7 » 9 ; 28/,. 2 ; 30/8,10; 35/03,03; 38/21,22; 39/12; 4O/«3, 17; 41/4. xo; 44/26; 54/r,»; 55/193; 57/1; 63/1; 64/x ; 69/1 «3, 13 9 «9. 99 ; 71/4. 9. «2 > 86/, a 7,16,17; 88/, a 3, 9, 13 ; Io8/x2 ; 109/x, al, 2». 26 2 28 ; 130/:, a ; I4»/x,2,8,9; 142/196; 143/x, 6 ; 144/597Essi c’insegnano poi a fare assegnamento sui soccorso richiesto, perchè la promessa di soccorso vi è garantita.
Per es. : S. 12/5 ; 33/,8, >9 ; 37/3 9 6,23,24.39,4«; 46/x.; 50/15; 9,i/x5Ci aiutano infine a fare l’esperienza della liberazione, perchè raccontano molte liberazioni concesse. Per esempio : S. 3/4 ; 4/3 ; 6/9l ,o ; 17/6,7 18/32$, ,52,8; 28/6,7; 30/2,3,11!
31/21,22; 34/4a9; 40/x,a; 54/6; 66/,6ax9; 86/6, x6 ; 120/x; 13S/3 e ¡due salmi 116 e 11S.
3® Nei tempi d’ingiustizia, in cui lo spettacolo delle presenti iniquità ci condurrebbe all’irritazione, alla ribellione e alia bestemmia, perchè sono privilegiati gli strumenti delle cattive cause, mentre gli operai delle giuste cause sembrano condannati all’insuccesso e al disprezzo, i salmi 37 ; 49 ! 73 sono ben fatti per restituirci la calma e l’equilibrio, dandoci l’assicurazione che i malvagi non trionferanno sempre e che la giustizia di Dio trionferà. Vedere anche i S. 1/4.6; 7/x4 a 16; 9/15 3 :8; xo/16 a x8 ; 33/xo. X» ; 34/x9 a 22 ; 36/12 ; 52 ; 55/22,93! 57/6; 92/6 ax4; 94; 112; 125.
4® Quando siamo colpiti dalia rapida fuga del tempo e dalla vanità delle cose umane, i S. 39 ; 58 ; .90 ; 102/X2, x3,94 2 28 ; 144/x 9 4 ci aiutano a discernere ciò che è fragile, e ad afferrarci a Colui che rimane come un Rifugio di generazione in generazione. Salmi 4; 23; 73/25,26 ; 103/,» a ,6.
5® / salmi di riconoscenza e d’azione di grazia ci aiutano a ricordarci le benedizioni di Dio ed a ringraziarlo. S. 18; 28; 30; 40; 103; 107; 116; 118; 124; 126/3. «L’Eterno ha fatto per noi delle grandi cose».
6® / salmi di fiducia ci aiutano ad aver fede nell’avvenire, in nome di ciò che Dio ha fatto nel passato. S. 4/9 ; 23 ; 49/15 : 55/,6 a 18 ; 62 ; 7i; 73/24328; 9»; X2i. «Checché succeda, l’anima mia si riposa su Dio».
Essi ci ricordano che la nostra fiducia non può esser messa nè in noi, nè nell’uomo, nè nelle potenze del mondo, ma in Dio solo. S- 20/7.8 ; 33/x6 a 22 ; 44/2,3,6,7 ; 56/4, •• ; 6o/IX; «OS/X2.,3; 118/62»; 124; 146/j2 5. « Non è un grande esercito che salva... L’anima nostra spera nell’Eterno ».
7® I salmi di lode e di vittoria c’incoraggiano a cantare e a glorificare Dio. «Viva l’Eterno e benedetta la rocca sua... Ti loderò
fra le nazioni e canterò alla gloria del tuo nome ». S. i8/4$ 2 49. Sono questi specialmente i salmi 33 ; 92/, 2 7 ; 111 a 118: 135 ; 136 ; 138 ; i salmi che sono stati chiamati i cantici del Regno perchè profetizzano il regno trionfante dell’Eterno e che sono i S. 33; 43; 47; 67; 72 ; 93 a 98; 100; 102/12 228; e finalmente i sei ultimi salmi, dal 145 ai 150, dove non v’è più una soia parola di lamento, nè un solo grido di angoscia, nè una sola domanda di aiuto. Tutto è alla gloria dell’Eterno; l’umanità intera, tutti gli esseri creati e tutta la terra si uniscono al cielo per intonare l’inno universale a colui che sarà il Signore di tutti.
In riassunto, i salmi ci aiutano ad esprimere a Dio i nostri bisogni precìsi, ora di perdono, ora di aiuto, ora di giustizia, ora di riconoscenza, di fiducia o di lode.
« « »
Si obbietterà forse che spesso i nostri bisogni non sono così precisi e così determinati ; sono bisogni misti, compiessi e confusi. Spesso, non abbiamo bisogno di perdono soltanto, o di soccorso soltanto, o di fiducia soltanto, ma di tutto ciò alla volta. Tutti quei sentimenti vari sono mescolati in noi a tal punto che non li discerniamo bene, e che non sappiamo formulare la minima richiesta. Eppure i salmisti hanno conosciuto quelle difficoltà, e ciò non li impediva di pregare. Anzi. Quando erano maggiormente divisi e sballottati da sentimenti contraddittori, essi pensavano che il meglio ch’essi potevano fare, era di dirlo a Dio, cosi, come veniva loro — sperando che, coll’abbandonare a Dio il disordine dei loro pensieri, davanti a Dio e grazie a Dio, l'ordine vi si metterebbe. E difatti certi salmisti cominciano con dei lamenti, dei « perchè», « fino a quando » ; mentre continuano a pregare qualcosa s’accomoda, e alla fine tutto si accorda. Vedere per esempio S. 2; io; 13; 22; 31; 42; 43; 74; 102.
Un salmista, che aveva cominciato rammaricandosi con Dio sul tono dell’angoscia e delio scoraggiamento, continua passando per la scala delie sensazioni più varie; e finalmente, rammaricandosi con sè stesso, non pone più davanti a Dio il suo disperato perchè; è alla sua anima inquieta ch’egli chiede perchè si stanca di sperare : « Perchè ti abbatti, anima mia? Spera in Dio perchè ancora lo loderò. Egli è la mia salvezza e il mio Dio ». (S. 42).
Sottoponendo tutto a Dio, cercando di veder tutto alla luce di Dio, tutto si è rischiarato», tutto si è armonizzato.
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BILYCHNIS
Associandosi alle medesime preghiere, noi condivideremo le medesime esperienze. Mi sia permesso di citare l’impressione di un cristiano che mi par essere l’impressione generale dei credenti lettori del Salterio : « Dolori di ogni genere, delusioni, pericoli, dubbi, rimorsi, fino a quella disperazione di perdere in qualche modo il proprio Dio, di non più trovarlo quando lo si cerca : tutte queste an-goscie hanno lasciato la loro traccia in ognuna delle pagine del libro dei salmi.
Eppure, voi lo sapete, non si tratta di poesie pessimiste ; si esce dalla loro lettura non depressi e demoralizzati, ma invece fortificati e restaurati. Nella preghiera, nella fede e nella speranza, il dolore di quegli uomini di Dio si trasforma in gioia, e i loro lamenti in azioni di grazia: «Tu hai cambiato i miei lamenti in allegrezza, tu hai slegato il mio manto di lutto e mi hai cinto di gioia, affinchè il mio cuore ti canti e non sia muto». (S. 30).
Se dunque non preghiamo come i salmisti, rimarremo nello stato di confusione e di squilibrio dell’anima stiracchiata in tutti i sensi. Se preghiamo come loro, l’anima nostra sbattuta uscirà più facilmente d’impaccio e si eleverà al vero punto di vista. Essa sarà saldamente equilibrata per quanto concerne la sua esistenza individuale.
* * »
Ma, per quelli che nello stesso tempo aspirano all’equilibrio sociale dell’umanità, soggiungo che vi è un grande incoraggiamento a leggere certi salmi attraverso la nozione del regno di Dio che viene. Se noi li leggiamo su quel piano ingrandito — ingrandito dagli stessi salmisti, che avevano talvolta delle prospettive mondiali — o ingrandito da noi allargando il loro orizzonte — quei salmi esprimono le nostre aspirazioni verso tempi migliori. Allora, è una preghiera sociale che i salmisti ci aiutano a far salire dai nostri cuori verso Dio, per chiedere una società nuova, per sperarla, e vederla in anticipo realizzata. (S. 102/18 a m).
Come certi salmi non si comprendono veramente che se noi li trasportiamo nell’antico quadro storico e geografico dei loro autori, — cosi altri salmi s’illuminano d’inattesa luce se noi li portiamo fuori dal quadro dell’attuale umanità, troppo spesso anormale, per trasportarli nel quadro dell’umanità normale avvenire. Cosi leggete i S. 1, 8, 15, 16, 19, 23. 24, 29, 34, 37, 46, 47, 65, 67, 72, 84, 35/3» X3> 9> a 98, 103, 104, 112, 113, 118, 121, 128, 133, 144/xa a X5, 145 a *5O> pensando
non all’uomo d’ieri, nè all’uomo d’oggi, ma all’uomo di domani, vivente nella società rinnovata, in cui l’equilibrio della vita collettiva faciliterà l’equilibrio della vita individuale, e vedrete se la lettura di quei salmi non sarà una rivelazione per voi che sapete quello che dite allorquando pregate : « Il tuo regno venga ».
Nella misura in cui il mondo nostro realizzerà il suo destino terrestre ed umano, che è così profetizzato :
La nostra terra darà i sudi frutti (85/12)-Tu visiti la terra c le dai l’abbondanza. Tu la colmi di ricchezze (65/9).
La bontà e la fedeltà s'incontrano.
La giustizia e la pace si baciano (85/10)Nè disastri, nè schiavitù, nè grida nelle nostre [vie (144/14)L’Eterno benedice il suo popolo e Io rende felice (29/xx).
— si, nella misura in cui « nella generazione futura quel popolo sarà creato», e in cui «tutti i popoli si aduneranno per servire l’Eterno », nella medesima misura l’uomo di questa terra e di questa società restaurate realizzerà il suo destino personale così descritto :
Beato l’uomo che trova il suo piacere nella legge [dell’ Eterno.
Egli è come un albero piantato presso un corso [d’acqua, Che dà il suo frutto nella sua stagione, E il cui fogliame non appassisce. Tutto ciò ch’egli fa gli riesce (1/1, 3).
I giusti crescono come la palma, S’innalzano come il cedro del Libano. Portano dei frutti nella vecchiaia. Sono pieni di linfa e verdeggianti
Per far conoscere che ¡’Eterno è giusto (92/ia a x<). Il giusto fiorirà e la pace sarà grande (72/7), La sua posterità sarà potente sulla terra (1x2/2). 1 giusti possederanno il paese e vi dimoreranno [per sempre (37/29)Il grano abbonderà nel paese
Gli uomini fioriranno nelle città come l’erba della [terra (72/16).
Coloro che cercano l’Eterno non saranno privati [di alcun bene (34/10)Nessuna disgrazia ti succederà,
Ti sazierò per lunghi giorni (91/10,16).
E’ Lui che sazia di beni la tua vecchiaia. Che ti fa ringiovanire come l’aquila (103/5).
L’Eterno è il mio pastore ; nulla mi mancherà ; Sì, la felicità e la grazia mi accompagneranno Tutti i giorni della mia vita (23/1 a 6).
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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Lavoriamo perchè giungano questi tempi, e preghiamo per l’adempimento di questo voto di Dio stesso:
Oh! se il mio popolo mi ascoltasse!...
La sua felicità durerebbe sempre (Sx/I3, ,6).
J. Dejarnac.
Si potrebbero classificare i salmi, secondo il loro valore, in queste tre categorie:
i® Salini, il cui valore è superalo, — sia perchè sono l’eco di preoccupazioni anziane che non quadran più molto colle nostre situazioni attuali (salmi su Gerusalemme, sui sacrifici, sui preti, ecc.), sia perchè riflettono la morale e la pietà d’un’epoca giudaica in cui la rivelazione era incompleta e imperfetta (salmi di vendetta).
Quei salmi possono servire di guida per giudicare le tappe percorse nel l'educazione progressiva della storia religiosa. Ma non bastano più alia cultura e all’edificazione moderna.
2° Salini il cui valore è relativo, — che non valgono direttamente per tutti i tempi e per tutti i paesi, perchè riguardano un argomento troppo specializzato, o un'occasione troppo localizzata (salmi sul tempio di Gerusalemme, sui ricordi nazionali, sui falsi dei, salmi degli oppressi, ecc.).
Quei salmi sono specialmente utili in circostanze analoghe, altrimenti hanno bisogno di essere trasposti.
3® Salini il cui valore è attuale ed eterno, — perchè rispondono direttamente ai bisogni fondamentali del cuore umano. Sono i salmi-preghiere, individuali o sociali. Quelli varranno per tutti gli uomini di tutti i tempi.
Presso la Libreria Ed. “ Bìlychnii,,: I SALMI tradotti dal testo originale e commentati da SALVATORE MINOCCHI. Roma, 1905. Voi. di pag. 448- Prezzo L. 4.50, per L. 3.50.
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PER LA UNIONE DELLE CHIESE
SCHIARIMENTI
Non posso lasciare senza risposta le osservazioni che A. Ghignoni muove, nell'ultimo Bilychnis, alla iniziativa di una Lega di preghiera per la riunione delle Chiese.
Egli dice in sostanza :
i° Quando gli uomini saranno veramente religiosi, le Chiese diverranno degli organismi superflui.
2° Intanto, è socialmente utile che vi siano delle Chiese separate.
3° La unione vera non è quella delle Chiese fra loro (cosa ufficiale) ; ma sibbene fra tutte le anime vive e aperte al senso delle cose eterne e divine.
4° Esse avverano sempre la condizione suddetta e formano sempre la vera Chiesa cattolica (o che abbiamo superato la grande crisi, o che tuttora vi si dibattano, o che ne siano immuni). Pregare per questi, onde acquistino coscienza del loro trovarsi insieme? Sia: ma non pare sia questo l’intento della Lega.
5° O deve inalzarsi per quelli che si attardano nella divisione? O questi sono gli officiali, e non vorranno mai saperne — o ¡fedeli passivi e questi, se in buona fede, non vanno disturbati. Per quelli in mala fede, la sarà fatica sprecata.
6° E poi perchè restringere la preghiera alle Chiese cristiane? E le altre religioni? e gli atei in buona fede ? Perchè non rispettare la legge provvidenziale che permette le differenze, come tappe indispensabili nella marcia progressiva dell’umanità?
Meglio limitarsi a pregare : Adveniat regnum iuum....
Laonde, « non è piccolo e angusto intento quello proposto dàlia Lega di preghiere ? »
Rispondo schematicamente ad singula;
A che gli uomini divengano veramente religiosi è necessaria, insieme a quella intima e personale degli individui, l’opera esterna, collettiva e pedagogica delle istituzioni religiose. Alle quali non potranno certamente sostituirsi nè la politica, terrena e opportunistica, nè la scuola laica, nè la società scettica e profana, nè la scénsa che è del fenomeno, nè la filosofia che è del razionale ; mentre la Religione è del Divino, che è anzi tutto s.u-praterreno e suprarazionale.
E quelle istituzioni 'saranno pur sempre necessarie per coltivare e mantanere la religiosità più pura, perchè non si atrofizzi, non svapori, perchè intorno comunichi più efficace il suo calore.
2° E’ bene che vi siano Chiese distinte e libere di quella libertà che è delio spirito di Dio e che è condizione di unità viva, organica. Ma non è bello, no, che vi sieno Chiese separale. Se Cristo è il capo e noi i tralci, non possiamo esser separati fra noi, senza esserlo da Lui: e san Paolo aveva certo in mente una unità e interna ed esterna e visibile, quando diceva: Un Dio, una fede, un battesimo', e anche : « v’è un sol pane, come siamo un sol corpo noi tutti che partecipiamo a quel solo pane » ; e quando inculcava di avere « un sol sentimento ».
Aggiungerò che la unità esteriore, bene intesa. è simbolo della interiore e la promuove, giacché noi siamo fatti di anima e di corpo.
3° La unità delle Chiese tornerebbe vana se non preesistesse quella delle anime religiose. Va bene, ma le nostre distinzioni ingegnose
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NOTE E COMMENTI
non sopprimono il processo di ricambio — azione e reazione — che a somiglianza di ogni organismo vivo, c’è anche nella chiesa tra il di dentro e il di fuori, il tutto e le parti.
4° Se dei cristiani professano opinioni contradittorie, anche in punti vitali di fede e disciplina; se tutt’al più ammettono nei separati errore invincibile, se non credono lecito di pregare pubblicamente in comune — non mi pare che realizzino le condizioni di una unione vera e intera.
E la Lega vuol pregare per tutti questi: perchè acquistino coscienza di ciò che li unisce e ne gioiscano in Dio ; ma ancora perchè divengano consapevoli di ciò che li divide e se ne pentano e ne facciano ammenda, se e in quanto la loro responsabilità si trova in causa.
5° Ministri e Vescovi delle divèrse confessioni, pregano con noi, come noi, sapendolo o no. E se la buona fede nell’errore equivale al possesso della Verità, compiangiamo tutti gli apostoli di Verità....
6° Perchè ? Per la sapientissima legge della divisione del lavoro; per lo scandalo delle nostre divisioni; per la edificazione, presso tutte le genti, e non solo ammirativa, che verrebbe da una restaurata — ma sincera.— unità cristiana; per obbedire a chi pregò: Un ovile e un Pastore.
Non disconosco la lentezza di ogni progresso ; là utilità di certi mali. Ma guardiamoci dal cavarne delle conseguenze indebite. Le malattie, le calamità, gli errori, gli stessi delitti possono risolversi in cagione di bene. E che per questo ? Si deve noi cessare dal combattere strenuamente quei mali, con tutta l’anima, con tutte le forze, in ogni ora?
Prego, chiudendo, l’amico Ghignoni d’integrare un concetto troppo individualistico di religione con un senso più consaputo di cattolicità nel tempo e nello spazio, nello spirito e nella lettera, in omaggio a Colui che « non venit solvere sed adimplere ».
B. C.
REPLICA
Profitto della cortesia di Bilychnis, per cui ho potuto conoscere in bozze le osservazioni dell’amico B. C.» non per contendere verbis, ma pei' chiarire e completare qualche idea.
La prima osservazione intorno alla necessità e utilità delle istituzioni religiose anticipa il secondo punto del mio articolo.
quale apparisce nel riassunto dello stesso B. C. L’unica differenza è questa che B. C. dice: le varie istituzioni religiose saranno necessarie sempre, mentre io ho affermato: Ìuando gli uomini saranno diventati pro-òndamente religiosi, le varie chiese si ridurranno una sola.
Però noi possiamo andare benissimo d’accordo.
Certo, se gli uomini diventassero cosi, profondamente religiosi, tutti o nella gran maggioranza, e chi dirige le varie chiese si trovasse sotto l’azione di una veemente fiamma di puro amore di Dio, e la religione risalisse alle altezze nude e divinamente ricche, semplici, formidabilmente semplici del Vangelo, si scoprirebbe da sè che quanto forma ora l’impalcatura speciale caratteristica di esse chiese varie (salvo poche dottrine essenziali e più spesso qualche loro aspetto secondario) consiste in cose umane, in una tenace incrostazione d’orgogli, d’interessi, di egoismi, di opportunismi, o quanto meno, di malintesi, di puntigli, di sottigliezze, di meschinità, di ombrosità, di paure. Una volta scoperto ciò, chi vorrebbe, chi potrebbe più ostinarsi nelle separazioni? Tutti sentirebbe l’effetto superare la causa; la causa chiaramente appresa sopprimerebbe l’effetto. Allora, dove oggi è scissione risulterebbe unità, le istituzioni scisse fra loro tornerebbero una sola, e le vane spoglie delle istituzioni separate cadrebbero e se le porterebbe il vento.
In questo senso parlavo di sparizione.
Morte allora e rimorte le chiese? Tut-t’altro! respiranti anzi nella piena libera loro vita, una di tutte, seppure il loro essenziale è il loro divino.
Ma così noi siamo nel mondo delle ipotesi, tanto caro a noi che scriviamo e ci occupiamo di altre faccende altrettanto importanti. Perchè, quand’è che tutti gli uomini, e mettiamo anche solo tutti i cristiani, divengano puramente e profondamente religiosi? È un desideratum di così remoto avvenimento, da permettere benissimo a B. C. di parlare di persistenza indefinita delle istituzioni religiose - così, in plurale - come si può parlare di costanza indefinita, non so, ...del sorgere e del tramontare del sole, non ostante che l’astronomo preveda il futuro spegnersi dell’astro diurno. Vuol dire, se mai, che io sarò stato l’astronomo, dagli occhi svariati fra le -nuvole e le nebulose; B. C. mi avrà richiamato a calcoli più controllabili' ma noi
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seguiteremo ad andare d’amore e d’accordo come prima... distinti, ma non separati.
Ria ecco, per l’appunto, osserva B. C., è bene che vi siano Chiese distinte, ma non è bello, no, che vi siano Chiese separate.
Distinte, per che cosa? per lingua, tradizioni, storia, riti, proporzione ira vita attiva e culturale? Son cose di relativa importanza, ma tiriamo via: non separate nel sostanziale. Sarà possibile? Io so che in humanis la distinzione, specie in certe faccende, scivola presto dagli accessori dottrinali al sostanziale o a quello che ne ha la faccia. Non c’è cosa piò solida e semplice della fede religiosa, più solida e semplice nel fondo delle anime non sopraffatte dalla bestia umana; ma altrettanto, non c’è cosa più porosa e rampinosa della teologia. E purtroppo la teologia poi, e non con la sua parte migliore, è molto diffusiva, e discende dal tronco chiericale e scolastico fino ai rami della vita popolare, della plebs religiosa, o press’a poco. Perciò qui massima-mente, nel mondo delle istituzioni religiose le distinzioni tendono a risolversi in divisioni e separazioni - la storia ammaestri. Indi i miei dubbi. A buon conto però ho riconosciuto cosa bella e buona il pregare perchè tutti gli uomini religiosi di buona fede, a qualunque confessione religiosa essi appartengano, acquistino coscienza del loro trovarsi insieme, ed ho fissato gli occhi su questo attuale trovarsi insieme, pur senza rendersene conto, di tutte le anime rette e buone. Non ho negato nulla; mi son consolato di un futuro ipotetico o remotissimo con un presente sicuro.
Alla terza osservazione non ho nulla da controsservare; ringrazio invece l’amico B. di avermi opportunamente ricordato la legge del ricambio. Vorrei essere più ottimista davanti ad essa: ma il non riuscirvi lascia intatti la legge e il suo beneficio.
Mi chiedo: ottenendo una riunione e-sterna delle varie chiese cristiane, questa influirebbe davvero a generare e nutrire l'unità interiore? Può darsi, ma mi insiste in mente l’idea, che è piuttosto l’anima la quale si forma il corpo , che non viceversa.
Siamo su per giù al caso del culto: se quello esterno non è come l’erompere della esuberanza di quello interno, i valori s’in-yertono troppo spesso e nessun ricambio interviene; e il culto esterno, in luogo di fomentare quello interno, riesce solo a palliarne la mancanza desolante nei cuori, come il falso colorito dissimula in un organismo malato il morbo che internamente
lo insidia, e la profusione dei complimenti sostituisce il sentimento profondo dell’amicizia e dell’amore.
E non si ha invece il caso contrario, che anche il culto più imperfetto esterno viene vivificato e impreziosito impensatamente dalla schiettezza e da! fervore di quello interno? L’anima si forma il corpo; caro autem non prodest quidquam.
Però io sono pessimista e probabilmente ho torto.
A proposito della quarta osservazione di B. C. devo soltanto insistere sopra un fatto: che, se è vero quanto egli asserisce, darsi cioè dei veri cristiani che non credono lecito pregare pubblicamente in comune, solo perchè appartenenti a confessioni diverse, ciò segue non per difetto di sincerità e buona fede, o per altra loro colpa, nè perchè siano meno uni nella semplicità del loro spirito, ma, in via ordinaria, per la suggestione delle loro guide religiose, in questo forse non ree nemmeno esse, perchè ingannate da una falsa prospettiva, e fin credendo così di provvedere nel migliore dei modi alla salvezza delle anime e alla maggior gloria di Dio. E non c’è di peggio per darci l’appuntamento alle calando greche per ricrederci.
Quelli che fra tali guide pregano come noi, e cioè riconoscendo un po’ di torto e un po' di ragione da parte di tutte le chiese nel fatto della separazione, pronti, in vista della unità da comporre, qua a cedere, là ad accogliere; dove a rinunziare, dove a modificare; a lasciar cadere molto, tutto anzi il caduco, dicevo, e l’umano: quelli che così pregano sono, sempre, una notevole minoranza. Preti e vescovi? Sì, e credo di non sbagliarmi ritenendo in questo più facili i preti e i vescovi cattolici che gli altri; ma sempre in numero esiguo. Quando ho parlato degli officiali, ho inteso senz’altro accennare alla maggioranza.
Quanto poi alla verità - e qui s’intende la religiosa - essa purtroppo, salvo la sua parte più semplice e una per tutti, perchè una in tutti, non si modifica, no, in sè, ma si piega e atteggia un po’ sempre per mo-dum recipienlis, direbbe uno scolastico dabbene: talché qualche sua parte che a noi, poniamo, pare lampante, ad altri non riesce nemmeno albeggiante. Non son dunque da compiangere lutti gli apostoli della verità, ma da augurar loro molta discrezione, molta vereconda temenza di sè e un grande rispetto alla condizione degli animi a cui consacrano il loro apostolato;
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NÖTE E COMMENTI
verecondia e discrezione che sono una specie di bellezza, e non ¡scemano punto nè la fiducia nel vero, nè l’efficacia della operosità di chi li accoglie nell’animo e se ne fa una regola di condotta.
Della sesta osservazione confesso di non capir nulla.
Come? pregando (bada, caro B., pregando) ci restringeremo a domandare l’unione delle chiese cristiane per la sapientissima legge della divisione de! lavoro? O che, ci affaticheremo troppo noi a pregare per tutti i nostri fratelli in umanità, o temeremo di sovraccaricar di lavoro Domineddio, raccomandandoglieli tutti, come fossimo dei bolsi ministri d’un monarca frollo, imbarbogito e gottoso, i quali recandosi da lui, alleggeriscono al possibile il portafoglio degli affari, per non abusare di quel rudere di sovrano? Tu dici che dobbiamo pregare solo per la riunione delle chiese cristiane per obbedire a Gesù che pregò', un ovile e un pastore. Decisamente non capisco: ma appunto perchè così pregò Gesù, io non posso restringer nulla. Il Padre nostro non è, che io sappia, il Padre dei soli cristiani, ma degli uomini, senza eccezioni. E Gesù stesso diceva: altre pecore ho che non sono di quest'ovile, e anch'esse ascolteranno la mia voce.
Quando si trattasse di venire al concreto e di organizzare noi qualche cosa di positivo per la riunione delle chiese, allora sì capirei e anche troppo la divisione del lavoro; ma finché si tratta di pregare, allarghiamo i confini, abbattiamo i confini. La preghiera da ogni limite soffre soffocazione e violenza.
Spero di aver tolto con quanto precede ogni ombra di individualismo religioso dalle mie parole e di averne davvero integrato, se occorreva, il contenuto con un senso più consaputo di cattolicità nel tempo e nello spazio, come ha mostrato di desi
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derare B. C.; quantunque, non l’individualismo, ma l’individualità religiosa, e cioè l’operazione divina in ogni singola anima e la costei personale cooperazione, mi paia il fondamento e la fonte della religiosa socialità nel tempo e nello spazio, e non viceversa; questo, pure riconoscendo tutto il suo valore alla legge del ricambio accennata da B. C.
Frattanto consoliamoci pensando che le anime buone si salvano in ogni confessione. le anime buone, ignare sempre di ciò che divide e pone antagonismi irreconciliabili fra i concettualisti sottili di tutte le parti. Consoliamoci pensando che quelli i quali prendono parte alle lotte che scindono sono stati e sono sempre i meno, e che il caso di quella povera donna della chiesa orientale si ripete ad ogni istante. Sentiva da anni ripetere: processione dello Spirito santo, processione dello Spirito santo, mentre arrivava fino a lei, il fragore delle battaglie a colpi di volumi che ne seguivano. Un giorno finì per esprimere anch’essa una sua stupita opinione così: Ma vale la pena di accanirsi tanto gli uni contro gli altri per una processione? O la facciano, in nome di Dio, e torniamo tranquilli.
La verità che salva è più semplice di quello che a volte pensiamo, e Iddio è Iddio della bontà e non delle sottigliezze anche le meglio teologiche, e se benedice e promuove le cooperazioni umane, ne può fare e spesso ne fa anche a meno.
Tutto questo non vuol dire che non si possa pregare perchè il Dio uno sia più sempre riflesso nella sua unità anche sulla terra nella unità fratellevole di tutti gli uomini suoi figlioli, secondando questi lo spirito di Gesù che, alzato una volta doloroso sopra la terra dolorante, promise di attrarre a sè OGNI COSA, OMNIA TRAHAM AD MEIPSUM.
In questo senso aderisco anche io alla Lega.
Wnwu. p GHIGNO»!.
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CHIESA E STATO
NEGLI SCRITTORI ITALIANI DEL SEICENTO E SETTECENTO“1
La rivoluzione francese e l’occupazione napoleonica hanno così violentemente spezzato in Italia ogni tradizione politica dei secoli precedenti e radicalmente modificato la concezione e gli sviluppi storici della società civile, che la storia delle dottrine canoniche di quei secoli e del conflitto fra curialisti e giurisdizionahsti, fautori dell’autorità civile e dell’autorità pontificia, è proiettata dinanzi al nostro spirito in una lontananza che ne diminuisce di molto l’interesse.
Gli uni e gli altri, curialisti e giurisdizio-nalisti, sono egualmente lontani da noi, per il concetto che essi avevano comune della autorità, delle sue origini, del suo ufficio e dei suoi diritti ; ma in quanto i due poteri tendevano reciprocamente a porre dei limiti l’uno all’altro ci appariscono strumenti, anche se inconsapevoli e riluttanti, di libertà. Ed è interessante come nella polemica, e nel tentativo di diminuire l’avversario, si contribuisce dal-l’una e dall’altra parte ad accelerare la dissoluzione critica delle idee sulle quali poggiò la ocietà medioevale.
Cosi, ad es., i giurisdizionalisti secondavano spontaneamente, con il contrastare che facevano all’esorbitanza e ai privilegi tradizionali del clero, quel moto di laicizzazione che è là caratteristica fondamentale dello sviluppo dello spirito in quei secoli ; mentre i curialisti, rivendicando per la sola Chiesa il diritto di risalire a una rivelazione soprannaturale e ad una diretta delegazione di poteri da parte della diti) A. Jbmolo, Stato t China, ecc. Torino, Bocca, 1914.
vinità, deprimevano le origini dello Stato ri" ducendole alla volontà collettiva dei consociati, rivendicando il diritto di insurrezione nei sudditi di fronte al tiranno e le riserve della coscienza dinanzi alle leggi di questo ; motivi che si prestavano a radicali e pericolosi approfondimenti del concetto di libertà, ai quali altri non avrebbero mancato disgiungere.
Il Jemolo, per non vedersi crescere di troppo fra le mani la materia del suo lavoro — lo studio della evoluzione dei concetti di Stato e Chiesa in quei due secoli collegandosi a tutto lo sviluppo della storia e della cultura europea — ha dovuto porre ad esso dei limiti molto precisi. Di questi, i limiti di tempo che coincidono quasi esattamente con quelli cronologici dei due secoli che egli studia, sono facili a giustificare. Come termine ad quem la rivoluzione francese, crisi profonda e rinnovatrice di tutta la società italiana ; come termine a quo il periodo nel quale, vinta e caduta oramai in Italia ogni velleità di riforma religiosa antipapale, e delineatasi nelle sue linee essenziali e nei suoi primi risultati la controriforma cattolica del Concilio di Trento, consolidata l’autorità pontificia, ribadita la dipendenza da questa e dai suoi teologi di ogni manifestazione del pensiero religioso, il cattolicismo e la difesa di esso sono considerati dal potere politico come una esigenza fondamentale, e la lotta dei due poteri si svolge nell’interno di una società cattolica, esulando da essa ogni minaccia di scisma, la quale ne avrebbe mutato sostanzialmente il carattere.
Meno facile riesce definire i limiti di spazio :
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TRA LIBRI E RIVISTE
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l’Italia. Perchè l’umanesimo, grande sforzo della coscienza italiana dei due secoli precedenti, diffondendosi per l’Europa, aveva suscitato altrove movimenti di pensiero che imprimevano le nuove direttive alla coscienza europea; la libertà perduta, le vie commerciali spostatesi ali’Atlantico, il costituirsi tutto intorno a noi delle grandi monarchie, il contendersi che esse fecero le provincie italiane, asservendone una grande parte, ci ridussero alla dipendenza politica e spirituale dallo straniero, mentre Roma ribadisce il suo dominio. Sicché gli Stati italiani, o piccoli o vassalli — benché taluno di essi, come, ad es., la repubblica veneta, avesse una nobile e fiera tradizione di resistenza alle esorbitanze politiche dei papi, che dà al principio di questo periodo, con fra Paolo Sarpi, i suoi frutti migliori — erano oramai troppo deboli e dipendenti per poter da soli, e con indirizzo proprio, contrastare alia Chiesa di Roma.
Certo è, e l’A. lo pone in luce nella sua introduzione e nel corso del volume, che le dottrine giurisdizionalistiche dell’epoca hanno in Italia, e particolarmente in talune regioni, loro caratteri speciali; e soprattutto una più chiara consapevolézza del limite, una maggior cura di giustificazioni giuridiche, una più concreta e pratica visione delle opportunità immediate. E anche in quest’epoca si vedono manifesti i segni dello speciale atteggiamento del la coscienza italiana dinanzi al papato ; la quale, pur fra gli innumerevoli contrasti, considera poi sempre questo come cosa sua e come strumento di governo italiano del mondo, desiderandone e procurandone atteggiamenti diversi da quello che esso assumeva, ma rispettandone la vocazione storica e immedesimandosi nella universalità che esso tentava di imprimere nella storia intorno a sé.
Ma la polemica religiosa era cosi viva in Europa nel secolo xvi, e nei paesi cattolici i rapporti con la Chiesa di Roma e le condizioni del clero secolare e regolare avevano una cosi viva importanza politica, suscitavano discussioni cosi accalorate e cosi gravi contrasti fra i due poteri, che spontaneamente quanti scrittori si occupavano fra noi di tali argomenti dovevano aver l’occhio rivolto alla condotta delle grandi monarchie vicine e allo sviluppo della controversia religiosa in altri paesi, dove essa maggiormente ferveva. Cosi nel tardivo movimento giansenistico dell’arciduca Leopoldo e del vescovo Ricci, è evidente l’influenza diretta delle riforme giuseppine e del giansenismo francese ; come, un secolo innanzi, nella controversia religiosa del De Dominis e
degli altri si rispecchia largamente là nuova teologia anglicana. E i riferiménti si potrebbero moltiplicare.
E tuttavia l’Italia segue un suo ritmo speciale. Essa aveva già avuto la sua riforma religiosa, uscendo prima fra i popoli d’Europa dal medio evo, con il risorgere del pensiero e dello spirito clàssico, nell’umanesimo; ma era stata una riconquista della libertà interiore e di nuovi ideali di cultura e di vita, la quale aveva dovuto adattarsi alle forme esteriori di vita cattoliche e soggette al papato: contraddizione profonda, della quale lo spirito italiano rimase e rimane tuttora impregnato, e che ne scinde l’attività, assoggettando gli atteggiamenti e la condotta verso la Chiesa a motivi politici che non hanno nulla di comune con l’intimo convincimento religioso.
Cosi, quando sopraggiunse la riforma protestante, la coscienza italiana era già stanca, e lè nuove correnti non vi attecchirono.
I riformatori italiani, elaborando i motivi che erano stati già deposti nella nostra cultura, trascurarono i lati minori, il giuridico e il politico, del conflitto con Romà, per elaborare invece una nuova concezione della natura e della vita (Campanella, Bruno, Galileo) o motivi teologici fondamentali ( Aonio Paleario, Socino).
L’energia vivificatrice delle grandi lotte fra il papato e l’impero che aveva agitato il medio evo, alimentandovi i germi fecondi di contrasti di cultura e di libertà politiche, si era oramai trasferita altrove. La controriforma cattolica, culminante nel Concilio di Trento e nell’opera vigorosa di una pleiade di forti caratteri, come Pio V, il card. Borromeo, Filippo Neri, ecc., aveva trovato la coscienza italiana debole e docile e se ne era facilmente impossessata, ponendo ad ogni attività scientifica libera e ad ogni iniziativa spirituale ostacoli tali da intimidire ognuno che osasse e costringere i più riluttanti a prendere le vie dell’esilio.
Così la controversia filosofica e teologica, un poco alla volta, tace o si cela, come in Vico, sotto un apparente ossequio alla Chiesa ; e quella fra curiaiisti e giurisdizionalisti se è ancora, nel secolo xvi, impregnata di quei più grandi motivi che fuori agitavano gli animi, e assorgeva talora alla visione di una radicale e totale riforma della Chiesa, come nel De Dominis, si viene un poco alla volta impicciolendo nei dibattiti curialeschi e minuziósi ai quali davano luogo le vicende mutevoli dei rapporti fra i due poteri; e la riforma della Chiesa è vagheggiata da un punto di vista
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sempre più strettamente politico e amministrativo (1700-1760» nella tripartizione del Je-mnlo); solo più tardi, facendosi più larga e più viva l’influenza delle nuove correnti filosofiche e storiche che tanno capo all’illuminismo, la controversia si ravviva. E’ il periodo del-l’Enciclopedia, della soppressione dei gesuiti, delle riforme giuseppine, del nascente romanticismo. Sotto il peso delle critiche pungenti e decisive a tutta la dottrina e la tradizione ecclesiastica, all’aspetto di una decadenza politica ed economica insanabile, della quale la Chiesa di Roma aveva gran parte di colpa, e a cui essa si rifiutava ostinatamente di provvedere, le menti più alte invocano e si sforzano di promuovere una riforma religiosa che valga a risanare la società ed a toglier pretesto agli attacchi più vivaci ; e il sinodo di Pistoia è il fatto più saliente e sintomatico di questo periodo.
11 punto di appoggio per queste riforme, mancando e non essendo sperabile un concorso attivo delle masse popolari, troppo lontane da ogni moto di interiore rinnovamento, e ignoranti e docili a ogni servitù, fu cercato spontaneamente nei principi. Questi non si erano mai quetati all’egemonia pontificale; nè potevano. La dottrina curialistica, tenacemente svolta, da teologi devòti a Roma e desiderosi dei suoi favori, sino alle ultime conseguenze, poneva tali esigenze di subordinazione del potere civile all’ecclesiastico, invadeva talmente con le sue materie miste ed immunità il campo di quello, da non poter essere accettata senza una implicita abdicazione del sovrano civile ad ogni vera ed autonoma sovranità. I privilegi del clero, le sue ricchezze, l a sua potenza si erano talmente sviluppate — un quarto della proprietà territoriale, in taluni luoghi, era in mano loro, ed esente da imposte —- da costituire un ostacolo insormontabile ad .ogni riforma la quale avesse carattere anche solo economico e da porre nei più gravi imbarazzi la finanza pubblica, costringendola a gravare enormemente la mano sui più piccoli redditi. Nell’abbondanza e nell’ozio, il clero regolare più particolarmente era guasto e corrotto a tal segno da dar luogo a uno scandalo pubblico permanente, dinanzi al quale le autorità civili non potevano arrestarsi. E, del resto, la stessa Chiesa di Roma, nel corso delle sue vicende, aveva concesso al potere civile numerosi diritti di regalia, i quali traevano a forza il sovrano ad immischiarsi del reggimento ecclesiastico ed a cercare di controbilanciare con ciò le incursioni molteplici della Chiesa nel suo campo.
L’esercizio del potere civile si scontrava
cosi, ad ogni passo, con l’ecclesiàstico; e il conflitto fra di essi continuava ad essere la contraddizione immanente, 10 scandalo sempre vivo, della società cattolica. In Italia anche più che altrove, ma, altresì, in condizioni sempre meno favorevoli allo Staio e con minor contenuto di attività spirituale ; sicché spesso degenera in pettegolezzo di corti, di tribunali e di conventi, per quanta sottigliezza di acume giuridico vi mettano dentro i campioni delle due parti.
Il Jemoio ci conduce infatti attraverso a una densa selva di controversie giuridiche, della quale sono oggetto le ragioni dello Stato e della Chiesa in generale, la posizione del clero secolare, che era, nell’ interno stesso della società ecclesiàstica, una fonte perenne di dispute, i privilegi e le immunità ecclesiastiche, le ricchezze del clero, l’assegnazione di benefici! a stranieri da parte della Curia di Roma, l’attività punitrice del clero e i limiti delle due giurisdizioni, il diritto matrimoniale, la tolleranza religiosa, richiesta in crescente misura dallo sviluppo del pensiero. Ognuno di questi argomenti offriva materia a rivendicazioni civili e fiere resistenze ecclesiastiche, con alternativa di audàcie e di viltà, di avanzamenti e di ritorni indietro, di trattative, di nuove formule concordatarie.
E non si riusciva, naturalmente, a trovare il bandolo della matassa; nè nella vita pratica, nella quale là serviti! dei sudditi era interesse solidale dei due poteri, sicché le dispute fra di essi somigliavano, se il paragone non è irriverente, a quelle dei ladri di Pisa ; nè nella teoria, finché il concetto medioevale dell’autorità e lo sdoppiamento di essa fra la Chiesa-Stato e Stato-Chiesa permaneva intatto e fondamentale e i criterii addotti per decidere del diritto e del torto non potevano quindi non essere contingenti ed occasionali.
Ed è da notare che spesso, come nelle riforme del culto e della disciplina promesse dal Ricci, o nelle varie misure adottate a Venezia, a Firenze, a Napoli per reprimere e prevenire la corruzione dei conventi e l’eccessivo numero dei frati e la loro attività litigiosa, sono i fautori del potere civile che invocano vigorosamente l’azione di questo, il quale li seconda irresoluto e prudente. La Chiesa, oppressa dal peso delle sue stesse fortune, non ha più modo di infrenare l’eccessivo numero del clero, la propensione ad incoraggiare lo spirito superstizioso delle masse e la falsa religiosità, intrisa di ipocrisia, da essa stessa incoraggiata ed imposta nel suo terrore di ogni libero moto del pensiero e dell’ànimo; e ogni vigore di riforma interna
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sembra oramai spento in essa, come mostra l’assenza totale di scrittori e di santi. Piccoli uomini e piccoli tempi, in tutto, e piccole questioni.
E se esse hanno importanza per lo studioso di diritto canonico, che tutto il processo di questo deve tener presente, sicché buona cosa ha fatto il Jemolo a raccogliere ed elaborare tanta e cosi poco nota materia di studio in un quadro diligente e perspicuo, poca ne hanno per chi nella storia religiosa e civile cerca i problemi e i motivi fondamentali, il sorgere e il crescere, nella dissoluzione del passato, delle idee e delle istituzioni delle quali oggi viviamo, il farsi dello spirito umano nella sua storia, là dove essa corre intensa e vivace. Nessuna ragione idéale giustifica più, nei secoli Xvi e xvn, il privilegio e il potere politico della Chiesa ; le sue dottrine, la costituzione sociale di cui essa è tenacissima fautrice sono minate dalla critica e dalla democrazia che va elaborando negli spiriti le sue conquiste di poi; tutti gli elementi della cultura e della civiltà nuove e dogli ulteriori sviluppi umani sono fuori della società ecclesiastica ed in lotta con questa ; cosi come essa ci si presenta, non possiamo vedervi che una grande inerzia, un potere di stasi e di servitù che tiene insieme i detriti del vecchio mondo, sinché la società nuova non li raccolga e trasfonda in sé, liberandoli e vivificandoli.
Ma l’Italia, salvo che nell'opera di alcuni suoi solitari pensatori, fra i quali grandissimo G. B. Vico, non partecipa a questo grande dramma ; essa è fuori della storia, e non sarà ricondotta nel circolo di questa, violentemente, che dalla rivoluzione napoleonica. Questa sopravviene, per noi, ad aprire vie radicalmente nuove e diverse al pensiero politico ed allá storia ; essa trova un mondo spirituale già guasto e minato interiormente, senza più forze di resistenza, altro che quella che vien dall’inerzia ; e la raffica napoleonica passa sopra, sconvolgendolo, al privilegio politico della Chiesa, divelle, per un momento, lo stesso papa da Roma, dà il primo impulso all’idea della rinnovazione e ricostituzione politica dell’unità nazionale.
Al Congresso di Vienna la curia romana riacquista per poco il potere politico e gran parte delle antiche posizioni ; ma è ritorno effimero ; fra poco, si leverà Mazzini e Camillo di Cavour berrà a Ginevra lo spirito della libertà religiosa e conoscerà a Parigi degli abati che preconizzano l’alleanza della Chiesa con la democrazia. L’ultima illusione...
Romolo Murri.
GIOBERTI
EUGENIO PASSAMONTI. — II giornalismo giobertiano in Torino nel 1847-48-Roma, Albrighi e Segati.
Con questo volume lo studio della personalità e della vita del filosofo piemontese si mette per quella via della ricerca minuziosa che servirà a darci la storia com-Sleta di lui. Non è perciò la ricerca maniaca ell’aneddoto e della particolarità che vi racconti ad esempio come il filosofo si sedesse per scrivere le pagine vibranti del Rinnovamento, ma del documento vivo che ne illumina la figura d'una luce incomparabilmente più serena della esaltazione e della stroncatura critica, perché emanante dalla ineluttabile realtà delle cose. Il Solmi ci ha fornito coi suoi studi copiosi il materiale per seguire lo sviluppo interno del pensiero di Gioberti, il Passamonti ci offre il primo lavoro che ne permetta di cogliere la sua ripercussione esterna sugli uomini e sugli avvenimenti del suo tempo. Ha fatto bene? Io non esito a rispondere affermativamente, anche se l’autore ha mostrato troppo ostentatamente di volersi mettere in disparte. Si direbbe che da tutti gli elementi raccolti egli non abbia saputo trarre un suo giudizio, il quale non poteva essere definitivo per gli altri ma per lui doveva esserlo dopo tanto amore e tanto studio nella ricerca. Invece la sua è la timidità di chi non osa guastare il giudizio degli altri e molto meno scalfire il colosso che gli sta davanti. È la timidità, in fondo del metodo storico rigorosamente applicato pel quale s’impara a leggere il documénto e lo si capisce, quindi ci si forma una personale convinzione del suo reale valore, ma non si fa parlare, un po’ per non guastarne la naturale eloquenza, un po’ per timore di strafare. Mentre la storia ognuno la rifà quando la studia ed ha un significato per questo. Così le singole responsabilità del Gioberti, nell’avviccn-darsi dei fatti politici dell’epoca studiata le vaglia il lettore e l'autore o le accenna fugacemente o le tace. Comunque una cosa è evidentissima; come tutta la materia graviti verso l’ultimo capitolo • i •brirni Ìtorni del Ministero Gioberti ed il giorna-isnto giobertiano » ed è merito dell’Autore averla condotta con un senso di serenità e d’imparzialità indiscusso.
Dunque il volume potrebbe essere una definitiva discussione su l'opera politica del filosofo -- dando alla politica un si-
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gnificato corrente e che del resto avrà finché vi saranno degli uomini che la faranno, la questione potrebbe essere più precisamente questa: la opposizione che il giornalismo giobertiano fece prima al ministero Balbo, quindi al ministero Sostegno - giacché la parentesi del ministero Casati-Gioberti non fu che un segno della immaturità politica del filosofo - fu sincera e spassionata od erano in giuoco delle più o meno colpevoli velleità di potere di cui ogni uomo politico è purtroppo foderato? Avremmo corretto o ratificato il giudizio che i manuali ci hanno appreso o qualche studioso più sbarazzino - tipo Ferrari - suggerito. Il Passamonti ritorna su la inesperienza del Gioberti al quale sfuggiva la portata vera degli avvenimenti e dell’opportunità politica, ripete la purità d'intenzione e la santità dello scopo a cui mirava il movimento giobertiano, ma non risolve la questione. E ciò che egli non ha risolto in un volume sarebbe sciocco pretendere di risolvere in poche colonne di recensione, tanto più quando gli studi critici sul Gioberti vanno affermandosi appena adesso.
Il lettore troverà tuttavia nelle quattro-cento pagine del Passamonti molte utili cose non soltanto come storia del giornalismo in genere, quanto come storia del pensiero italiano in quel momento d’agitazione nazionale.
È mirabile come l’idea della indipendenza, e dell’unità d’Italia riuscisse a raccogliere così intimo nesso di problemi spirituali: gli uomini che venivano dalla educazione giobertiana, li videro tutti nella loro intimità feconda? È ancora lecito dubitarne. L’Antologia, la Concordia, il Mondo Illustrato, il Risorgimento - che sebbene negli ultimi tempi dissentisse non leggermente dalle idee propugnate dai primi due, era tuttavia da principio, finché il Cavour non dubitò che al disopra dei principi! ci fosse qualche meno nobile intenzione, di ispirazione giobertiana - furono l’eco fedele dei rivolgimenti ideali e pratici ma-turantesi in Italia e altrove. Qualche volta la loro interpretazione fu piuttosto semplicista e facilona, ma è certo che ebbe sempre la attenuante delle idealità patrie che la rimorchiavano. Cosi la rivoluzione francese del 1848 - che a parte le differenze di dettaglio poteva legittimamente riannodarsi alla grande rivoluzione dell’89 e quindi poteva averne per riverbero il valore ideale - trovò i giornali giobertiani
discordi nella valutazione. Se compresero tutti la relazione che il nuovo governo di Francia acquistava col ceto operaio ed i problemi sociali derivantine - il Cavour anzi esaminò la questione dal lato del monopolio del lavoro - parve che il senso profondo dei principii che l’ispiravano sfuggisse loro. Il Balbo - che ad onta di tutto fu il più logico rappresentante delle idee giobertiane - ammonì subito come il primo fondamento della libertà italiana era l’unione con i nostri principi sotto l’egida altissima del vicario di Cristo. Era naturale.
La rivoluzione di Francia non fu soltanto un rivolgimento di popolo, ma sopra tutto un rivolgimento di coscienze e la violenza esterna del gesto aveva ùna più salda base in una santa violenza di principii per cui a vecchie idee e a vecchi sistemi se ne sostituivano nuovi, espressi dal lungo travaglio della libera speculazione filosofica e della libera credenza: da noi questa preparazione ideale non era ancora stata fatta, nò uomini come il Gioberti ed il Balbo sapevano rinunciare alla propria tradizione, per la quale, solo vigile e consenziente il Papa, era possibile la salute d’Italia. Si capisce che ogni rivoluzione ha una sua logica significazione solamente se prima si è sottoposto a discussione il principio di libertà e di autorità: da noi ogni tentativo di simil genere s’infrangeva contro Io scoglio insormontabile dell’autorità papale ritenuta indiscutibile ed infallibile prima ancora che èssa tale prego-rativa si definisse. Lo spirito di libertà che doveva trasformare, la costituzione degli stati dandone nuova vita e sussidiandoli dèi più largo appoggio popolare se era legittimo e giustificato doveva pervadere le istituzioni magari abbattendo le riluttanti.
Il Piemonte, come il Napoletano, la Lombardia come la Venezia. Non c’era ragione perchè lo Stato Pontificio dovesse andarne salvo. Ma per questo bisognava insistere maggiormente, io direi anzi esclusivamente, sul lato più trascurato dei Giobertiani. Secondo il Balbo i malintesi che impedivano allo Stato del Papa di concedere lo Statuto si potevano riassumere in tre principali: 1® che la potenza temporale dei papi nocesse alla indipendenza ed alla libertà d’Italia; 2® che il capo della Chiesa', per natura dèi suo ufficio dovesse di necessità avversare le opinioni liberali e progressive; 3® che fossero in
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compatibili il pontificato e la libertà degli Stati romani. Il Passamonti dice le due Ultime le maggiori obbiezioni e loda la soluzione che ne dava il Balbo. Io ritengo che la soluzione della prima avrebbe risparmiato delle predicazioni inutili e vane - in quanto • che il cattolicismo romano non soltanto andava immobilizzandosi in una forma che lo poneva al di fuori della vita e della società moderna, ma andava proprio da quel tempo preparando gli elementi per sostenere gli attacchi interni del genere di quelli del Balbo -- e mi spiego come dovesse essere trascurata. Ma per me è anche il punto debole del sistema giobertiano. Ferruccio Rubbiani.
ROUSSEAU
GIORGIO DEL VECCHIO. — Sui caratteri fondamentali della filosofia politica di Rousseau. A. F. Formiggini. Genova.
La materia che forma questo breve ma succoso saggio del valente professore della filosofia dèi diritto all’Università di Bologna entra ne! campo degli studi della nostra rivista, in quanto che rendendo conto altra volta, con entusiasmo, del centenario del Rousseau è delle opere che in quell’occasione si pubblicarono pren demmo un po’ sotto la nostra responsabilità il pensiero del grande ginevrino. Il quale - come giustamente osserva il Del Vècchio - fu preso da alcuni come assertore della onnipotente volontà dello Stato, il teorico dell’assolutismo che al dogma della sovranità popolare avrebbe sacrificato ogni traccia di libertà individuale, giungendo, almeno virtualmente, perfino alla negazione della proprietà privata: da altri come il rivendicatore dei diritti fondamentali del cittadino, l’individualità per eccellenza, che, distruggendo ogni autorità, avrebbe dato allo Stato la base atomistica della mutevole volontà dei singoli. La giustificazione del Rousseau politico fatta dall’autore, pel quale nell’ordine di pensieri del filosofo è la radice dello Stato di diritto moderno, o, più ancora, di quello dell’avvenire, e perciò anche giustificazione dell'ammirazione nostra pel Rousseau. Giacché il Del Vecchio tiene bene a dimostrare - ed è una dimostrazione che egli conduce con una chiarezza ed una sagacia ammirevole - il carattere precipuo dèi suo pensiero politico. Ciò che distingue - egli scrive - il Rousseau da tutti gli altri scrittori politici è essenzialmente che egli trae da sì stesso, cioè dalla pura voce della sua coscienza, la legge fondamentale della convivenza sociale e politica. Non è pure per questo che noi lo amiamo scrittore di pedagogia e di religione, per avere fatto suo il motto di S. Agostino: «Noli foras ire, in te redi, in intcriore homine habitat veritas ». quando molti l'andavano cercando altrove? F. R.
w
PICCOLO MONDO EGIZIO
Chi ha letto o leggerà il curioso volume dal titolo Un rontan vieti il y a- vingl-cinq sii-c>cs (i), chiudendolo avrà detto o dirà certo filosoficamente: Tutto il mondo è un paese! Sotto questo titolo infatti viene pubblicata l’adattazione francese, fatta da Jean Capati, di un papiro egiziano appartenente alla John Rylands Library di Manchester e pubblicato dal prof. F. L. Griffith di Oxford nel 1909 nel Catalogne of thè Demotic Papyrt in ¿he John Rylands Library.
Vi si narrano, raccontate da uno degli interessati (Peteisis III figlio di Essemteu, anno IX di Dario, 513 av. Cristo), le vicende delle relazioni d’una famiglia sacerdotale egiziana con i preti del tempio di Teuzoi, dall'anno IV del regno di Psammetico I al IX del regno di Dario.
Il raccónto ha due parti: nella prima si narrano le vicende della famiglia di Peteisis e le sue relazioni coi tempio di Teuzoi dal regno di Psammetico I fino al regno di Cambuse. Peteisis, che faceva un esposto che doveva servire ad ottenere giustizia dai tribunali egiziani e dal re, racconta come un altro Peteisis, governatore dell’Egitto del Sud, domandò al Faraone di associargli nell’amministrazione della provincia affidatagli un suo nipote chiamato anch’egli Peteisis (I), figlio di Jeturoù.
Questi, '
suoi viagg tra Memfi
lasciato in abbandono un santuario già celebre. Domandate ad un vecchio prete, che solo era rimasto a servire il tempio, le cause di quella desolazione ne apprende che la .ragione
assunto all'alta carica, capito, nei fi d’ispezione dei corpi di guardia ed Assuan, a Teuzoi. dove trovò
(>) Vromant e C°, editori, Bruxelles e Parigi. L. 3.50.
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dell’abbandono si deve ai gravami fiscali troppo forti imposti indebitamene al tempio di Ammone.
Riferita la cosa al governatore suo zio, questi dà ordine che’non solo non vengano più richieste contribuzioni al tempio di Teuzoi, ma che, quanto ne era stato senza ragione percepito, venga restituito ai sacerdoti di quel santuario. Al nipote, suo aggiunto e che gli succede ben presto nella carica, viene conferito il titolo di profeta di Ammone di Teuzoi, col diritto alla quinta parte delle rendite del tempio. Le altre quattro parti venivano divise tra i sacerdoti che erano ritornati in grande numero ora che erano ritornate anche le ricchezze.
Più tardi Peteisis (I), che nel frattempo aveva ricevuto anche altri titoli e benefici, ritirandosi a vita privata cedette le sue rendite come profeta di Ammone di Teuzoi al suo genero. Questi però non nasconde i suoi timori che i preti « vere canaglie » gli rechino dei fastidi. . .
Difatti, nell’assenza del padre, i giovani nipoti di Peteisis, presenti alla ripartizione del grano del santuario, avendo reclamato il quinto loro dovuto, furono senz’altro accop-pati a furia di bastonate dagli avidi sacerdoti nello stesso tempio.
Sollecitato dal genero, Peteisis ritornò rapidamente a Teuzoi con un forte nerbo di soldati, ma trovò che lutti i sacerdoti, ad eccezione di due vecchi, erano precipitosamente fuggiti per timore del castigo. Peteisis dovea essere tre volte buono poiché impetrò il perdono dal Faraone e dal governatore per gli assassini, ed a questi, ritrovati tutti dalla polizia, fece giuramento di non vendicarsi e di non molestarli affatto. Volle solo che una stele in pietra venisse eretta nel tempio, che testimoniasse per l’avvenire i diritti della sua famiglia. Cedette quindi il suo titolo ed i suoi diritti a suo figlio Essemteu (I), il quale ne godette fino alla sua morte.
Gli successe Peteisis (II), il nonno dello scrittore.
L’anno IV di Psammetico II, cioè il 592 a. C.. egli dovette recarsi in Siria al seguito del Faraone. Approfittando della sua assenza, i preti lo spogliarono dei suoi diritti e parte delle sue rendite offrirono al figlio del governatore d’Fracleopoli, dividendosi il resto tra di loro.
Al suo ritorno dall’Asia, Peteisis (II) andò a Memfi a reclamare, poi a Tebe, ma non venne a capo di nulla. Un giudizio gli fu sfavorevole. Non ebbe il coràggio d’insistere dal momento che tutti gli dicevano : « È inuti le che tu adisca i tribunali : il tuo avversario è più ricco di te. Anche se tu avessi da spendere cento monete d’argento, egli ti vincerebbe lo stesso». Così Peteisis(II)dovette rassegnarsi poiché la giustizia dava ragione a chi pagava meglio.
L’anno XV del Faraone Amasi II il sovrintendente delle terre coltivate, il ministro di agricoltura d’aliora, volendo vendicarsi di un suo nemico, fece confiscare un’isola che i preti di Teuzoi avevano occupato, e sequestrare il grano che vi avevano raccolto, 4000 misure. I sacerdoti non vollero rassegnarsi e si recarono alia capitale Memfi a farvi i loro reclami. Un impiegato del santuario di Piali, che li ospitava, li avverti che se volevano conseguire il loro intento, dovevano assicurarsi la protezione d’un pezzo grosso della Corte, certo Khelkhons, che godeva i favori del re. I sacerdoti mandarono a dire a costui, per mezzo del suo eunuco : « Se ci difendi nei nostri interessi, e ci fai restituire l’isola che era stata acquistata da Ammone, ti daremo trecento artabe (misure) di grano, duecento misure di cinque litri d’olio di castoro, cinquanta misure di cinque litri di miele e trenta òche, come tua parte annua ». Ma Khelkhons non si contentava delle parole di quelle 4 genti del sud che hanno grande la bocca quando che tratta di promettere », e pretese che. per cominciare, gli dessero la parte per quell’anno e che suo fratello venisse nominato profeta del loro tempio. Il titolare; che rivestiva questa dignità dovette, volentieri .0 no, cederla, e il favorito di Faraone, pur non riuscendo a far restituire ai preti l’isola confiscata, appianò la vertenza.
Qui comincia la seconda parte.
11 fratello di Khelkhons, divenuto cosi profeta di Teuzoi si rese conto subito che il titolo cosi conferitogli non era legalmente valido, poiché esistevano i discendenti dei legittimi possessori. I sacerdoti s’impegnarono ad ottenere da questi la rinuncia ai loro diritti, ma, avvertito in tempo, Essemteu (II) figlio di Peteisis (II) riuscì a sventare i disegni dei preti ed a fuggir da Teuzoi. Per vendicarsi, i preti distrussero la sua casa, abbatterono la stele eretta da Peteisis (I) e precipitarono nel Nilo le sue statue.
Un impiegato alla contabilità, dipendente dal sovrintendente dei tesoro, avendo bisogno d’uno scriba Peteisis (III), lo scrittore del papiro, figlio di Essemteu (lì) gli si offrì, nella speranza che accattivandosene l’animo questi Io avesse aiutato nelle sue rivendicazioni famigliar!. Così difatti avvenne. I preti furono ar-
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restati, ma negarono ogni colpevolezza. Per timore che, per l’influenza del solito favorito del re, l’affare si ingarbugliasse ancora una volta, Peteisis accettò una transazione, con cui i preti s’impegnavano a versargli dieci debcns d’argento.
Con questi Poteisis ricostruì la sua casa a Teuzoi, e vi si restituì con tutta la famiglia.
La cosa sembrava dunque finita Senonchè nel mese di Phamenoth dell’anno IX di Dario (luglio 512 a. C.) un funzionario, avendo constatato la mina di Teuzoi e come non fosse piti possibile percepirne le tasse fece interrogar Peteisis sulle cause di tale decadenza. E Peteisis sotto minaccia di essere torturato dovette scrivere il racconto degli avvenimenti di Teuzoi, pur non tacendo il suo timore della vendetta dei sacerdoti.
Questi, infatti, impadronitisi di Peteisis, cercarono di assassinarlo.
Salvatosi a stento, corre a Menili a portar le sue querele al governatore, ma una persona influente intriga presso di questi e fa in modo che i preti non vengano disturbati. Non per questo Peteisis si scoraggia, e riuscito ad avvicinare il governatore questi gii domanda di redigere la storia compieta delle questioni tra i sacerdoti e la sua famiglia. Mentre egli mo-scrive i preti vengono a burlarsi di lui. Chi strava di proteggerlo, mentre invece era d’accordo coi sacerdoti, gli toglie ogni speranza e lo accontenta con lettere di raccomandazione ai sacerdoti stessi.
Con queste Peteisis intraprende il ritorno a Teuzoi, ma giunto ad Eracleopoli seppe che la sua casa era stata incendiata. Corre nuovamente a Menili ed ottiene che i colpevoli vengano ricercati. Ma poi, per le solite influenze, l’affare si trascina stentatamente e va per le lunghe. L’amministratore del tempio, capro espiatorio, riceve cinquanta colpi di verghe e, per timore di peggio, promette di riaccompagnare Peteisis e di fargli rendere • giustizia dai sacerdoti.
Ma, conclude Peteisis, « disgraziatamente non mi è stata data la soddisfazione promessa, malgrado la mia miglior volontà di arrivare ad un accordo».
Questo è il memoriale che lo scrittore non avrebbe certo supposto che sarebbe stato riletto a venticinque secoli di distanza. Esso, benché riguardi affari particolari, è importante perchè ci fa conoscere molti dettagli dei costumi egiziani di quell’epoca remotissima, e ci dimostra come anche allora spesso la giustizia si vendeva al miglior offerente e come i sacerdoti, il che avviene qualche volta anche adesso, per amor di denaro, per cupidigia o per vendetta, fos
sero capaci d’ogni peggiore azione, sino a sbarazzarsi con l’assassinio degli avversari.
E’ un mondo vecchio che ci discopre questa lunga e complicata storia: ma chi oserebbe dire, dopo averla scorsa, che il mondo vecchio non è come quello contemporaneo ?
Ernesto Rutili.
CLASSICI DEL LIBERO PENSIERO
Della collezione iniziata dalla editrice Galileo Galilei di Roma, di cui già ci occupammo quando fu pubblicato il primo volume, son venute a far parte due altre pubblicazioni e cioè un libro dedicato a Pietro Pomponazzi, di cui comprende volgarizzati il trattato sul-\' Immortalità dell’Anima e li Libro dcgt*incantesimi (1), e in due volumi l'opera minore di C. F. Dupuis sull’Oronzo di tutti i culli (2).
L’avere messo a disposizione degli italiani, traducendoli dal latino, i trattati di Pietro Pomponazzi non è davvero piccolo merito. Poiché significa aver loro ricordato come sulla fine dei medio evo un uomo seppe concepire e scrivere un’opera modernissima. Significa rivendicare la memoria di un precursore e un precursore di uomini che ebbero nome Vico, Lessing, Herder, Kant, per non dire dei più lontani come Tommaso Campanella e Giordano Bruno.
Pietro Pomponazzi è l’uomo che primo seppe utilizzare, in un’epoca in cui era follìa solo il sognarlo dato l’imperio assoluto della scolastica, quello che possiamo chiamare il positivismo filosofico, non fu cioè un adoratore cieco di testi e l’umile ammiratore dell’altrui autorità, ma volle discutere tutto al lume della ragione naturale. E non era posa la sua o capriccio di elegante intellettualismo quello che lo spingeva per vie inesplorate : era invece l’assillo della coscienza e dell’onestà di studioso che aveva in lui generato l’idea nuova, ch’era un tormento per lui, in quanto veniva tratto dalle sue stesse conclusioni verso il materialismo e verso la negazione della sopravvivenza dello spirito, mentre a questa voleva
pi Pirrno Pomponazzi. —- Sull’ Immortalità dell'Anima e il Libro degl’ incantesimi (con traduzione e note di Italo Toscani). Biblioteca dei Classici del Libero Pensiero. Voi.a* (Editoriale Galileo Galilei in Roma).
(a) C. F. DuruiS. — Dell’Origine di tutti i culti. (Traduzione di Antonio Carnieri con prefazione e note di Guido Podrecca). Biblioteca dei Classici del Libero Pensiero. Voi. 30 e 4° (Editoriale Galileo Galilei in Roma).
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credere ancora. Ciò lo induceva a paragonarsi a Prometeo. « Queste adunque—egli scrive— sono le difficoltà che mi premono e mi angustiano, che mi rendono insonne ed insano acciò che si verifichi la favola di Prometeo, il quale, mentre si studia di rubare il fuoco a Giove, viene da esso relegato sopra Una rupe di Scizia ove il suo cuore serve di pasto al feroce avvoltoio che lo divora. Il filosofo è pure un Prometeo, il quale, mentre vuol sapere gli arcani consigli di Dio è roso da perpetui dubbi e pensieri ; non sente nè fame, nè sete, nè bisogno di sonno o di nutrimento, da tutti è deriso e come stolto e sacrilego tenuto, è perseguitato dagli inquisitori e fatto spettacolo al volgo ».
li richiamo alle persecuzioni degli inquisitori non è puramente accademico. Se il Porh-ponazzi riuscì a sfuggire alle fiamme del rogo lo dovette certo alla fortuna che pontificasse a quel tempo Leone X, ed avesse potenti protezioni.
Questo contrasto tra lo spirito e le deduzioni scientifiche si rivela completo nel trattato Sull’ immortalità dell’Anima che è un vero monumento di sincet ita e di dottrina. In esso, esaminando l’opera d'Aristotele, giunge alla conclusione che v’è un legame indissolubile tra la materia e lo spirito, per cui l’anima dovrebbe considerarsi anch’essa mortale, se non vi fosse, all’ infuori delle considerazioni puramente fisiche e materiali, un principio ètico naturale che lo induce a ritener per vero che l’anima sia immortale. Così infatti si può riassumere l’ultimo capitolo del singolare trattato. La conclusione è questa: la questione dell’immortalità dell’anima è un problema neutro come l’altro della eternità del mondo, e perciò non può essere risòlto con le sole facoltà umane. Queste sciolgono il quesito in senso negativo, e pongono il fine della vita umana nella pura virtù. Ma trattandosi di un problema trascendente le facoltà umane, non c’è dinanzi ad esso che dichiarare la propria impotenza e rimettersi a chi solo può sciogliere il nodo, cioè a Dio. La fede risolve in altro modo dalla ragione. E se non è lecito imporre alla ragione di tacersi in nome della fede, nqn è neppur lecito sottomettere questa a quella.
Il Libro degli incantesimi, che completa il volume, è una critica vigorosa e coraggiosa di tutto quel cumulo di superstizioni popolari che erano gran parte delle credenze religiose di quell’epoca ; vi si studia la natura dei miracoli e se ne nega la possibilità — a lume di ragione s’intende: chè parlando al lume
della fede, il Pomponazzi si rimette alla Chiesa come nelle conclusioni dell’altro e trattato — così pure per quanto riguarda l'esistenza degli angeli e dei demoni.
Uno scrittore che nei primi del 1600, sapeva assurgere a tale altezza di pensiero e che, pur non essendo scevro da mende che son frutto dell’ambiente, della tradizione, del servilismo dottrinale e morale dell’epoca, potrebbe anche oggi esser maestro a’ molti, meritava bene, ripeto, di figurare tra coloro che eccelsero come affrancatori dello spirito umano.
***
Non eguale lode possiamo tributare a chi dirige la collezione dei classici del libero pensiero per avervi computato il Dupuis e pubblicatone il suo compendio dell’opera sull’tfrx-gine di tulli i culli, che non è se non un’affermazione di ateismo, non a base scientifica, ma di pura e qualche volta cervellotica induzione. L’opera del Dupuis, a differenza di quella del Pomponazzi e dello Strauss, non ha valore neppure storico. E’ una curiosa esposizione di una vasta erudizione male applicata : sto per dire è un romanzo a tesi in cui l’autore, partendo dalle figure zodiacali, che riannoda alle opere dell’agricoltura, ne fa derivare tutte le tradizioni mitologiche e religiose da quelledei popoli primitivi fino al Cristianesimo, sforzandosi a. dimostrare, con uno strano semplicismo di argomentazione, con un’analisi a volte infantile e con evidente scopo di propaganda, che tutte le religioni non sono che rappresentazioni simboliche degli astri e delle forze naturali, degenerate pòi nell’antropomorfismo. Così, per quel che riguarda il Cristianesimo, esso non sarebbe che una sacra leg-Senda che sotto il nome di Cristo ha per oggetto sole. La religione cristiana non avrebbe pertanto alcuna base storica e nessuna efficacia morale.
Orbene queste induzioni sempliciste dell’a- -stronomo Dupuis, che troppo tenero della scienza astronomica voleva ridurvi tutta la storia religiosa dell’universo se potevano avere un’efficacia di propaganda popolare al tempo della Rivoluzione francese, ora non credo siano più adatte a tale scopo. Óra anche gli ignari ridono di tali storielle, ed è per questo Che non ci sembra che l’opera del Dupuis abbia segnato una data di progresso pel libero pensiero e per la cultura, tanto da potere essere computato tra i classici del pensiero umano.
E. Rutili.
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Cristianes;mo primitivo
Shirley Jackson Case, dell’ Idiversità di Chicago, nel suo recente volume The evolution of early Christianity (390 pagine legato L. 11,25 oltre il porto) studia gli inizi del movimento cristiano da un punto di * vista del tutto nuovo; esaminando la situazione religiosa in cui i Cristiani del primo secolo vissero, FA. riesce a gettare nuova luce su molte parti del nuovo testamento. Ne riparleremo.
W. James - H. Bergson
Della relazione tra i due eminenti filosofi si parla in un recentissimo volume scritto da uno che fu discepolo ed amico del James: Horace M. Kallen. (Pagine 264, legato: L. 7,50 oltre il pòrto). Ne affideremo la recensione al nostro Pioli che ben conosce il Bergson.
Giorgio Tyrrell
La Libreria Editrice Milanese annunzia la prossima pubblicazione della traduzione italiana dell’autoliografia e biografia di Giorgio Tyrrell.
L’opera in grande formato, riccamente edita e che comprenderà i due volumi dell’edizione originale inglese, sarà messa in vendita a L. 15.
Storia del Cristianesimo
Abbiamo ricevuto dall’Editore Hoepli il volume di Tommaso de Bacci Venuti: Dalla grande persecuzione alla villoría del Cristianesimo, pag. xxxi-339; prezzo L. 4,50 (presso la Libreria Editrice Bilychnis). Eccone il sommario: I. La polemica religiosa e la crisi morale nell’impero durante il secolo in. — II. La tetrarchia. — III. La persecuzione. — IV. L’agonia di una grande idea. — V. Hoc vince. — VI. L'Editto di Milano. — VII. L'urto dei due Augusti. — Vili. Il conflitto ariano e il simbolo di Nicea. — IX. La nuova Roma. — X. Gli Ariani alla riscossa. — XI. Fino alle rive dell’Indo. — XII. La vittoria del Cristianesimo.
Di questo volume parlerà prossimamente nella Rivista il nostro collaboratore G Costa.
La prigionia di S. Paolo a Roma
Su questo argomento abbiamo letto un interessante studio del prof. E. Buonainti nell’ultimo numero del Bollettino di Letteratura critico-religiosa (fase. 50. nov 1914). Dello stesso autore il Bollettino contiene alcune note circa « Il problema dell’Am-brosiaste e la sua ultima soluzione » — « Il testo di Giuseppe Flavio » — «TI testo dell’apologetico » — TI Turchi vi pubblica un articolo sul « De Magia di Apuleio ».
Eloquenza civile e sacra
Alla Collezione dei 1300 Manuali Hocpii si aggiunge in questi giorni il Manuale di eloquenza civile e sacra del prof. Luigi Astoli (i\. Il Manuale è diviso in quattro libri: I. Eloquenza ingenerale; II. Eloquenza civile; III. Eloquenza sacra; IV. Cenni biografici degli oratori. Nei libri II e III sono riportati con sufficiente commento schemi, brani salienti, discorsi interi tolti da Demostene. Eschine, Lisia, Cicerone, Savelli, Ceneri, Giordani, Mordani, Guerrazzi, Cri-spi, Minghetti, Cavour, ecc., per l’eloquenza civile; s. Gregorio Magno, s. Gregorio Na-zianzeno, s. Tomaso da Villanova, s. Basilio, s. Giovanni Crisostomo, Savonarola, Segneri, Scotti-Pagliara, Parecchi, Ali-monda, Curci, ecc., per l'eloquenza sacra.
I Sermoni della guerra
Il nostro collaboratore Alfredo Taglia-latela ha iniziato una serie di dodici suoi sermoni sulla guerra. Ogni sermone è contenuto in un fascicolo che si vende al prezzo di L. 0,30. I dodici fascicoli saranno pubblicati in 4 mesi e formeremo un volume. — Abbonamento alla serie dei 12 sermoni:
(1) Quanto riguarda l'eloquenza sacra è scritto — $' in tende — soltanto dal punto di vista cattolico. —- Voi. di pag. viii-jox. 19x5- Prezzo L. 3. (Rivolgersi alla Libreria Ed. Bilycltnis\
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L. 2,50; per ’estero L. 5. — Inviare ordinazioni e vaglia alla Tip. Editrice « La Speranza- Via Firenze, 3«. Roma.
Sono usciti i primi quattro fascicoli: j. La preghiera di Alberico Gentili. — 2. La Cattedrale bombardata. — 3. L'aratro di Ulisse Grani. — 4. Materialisti, il Belgio vi •confuta.
rope; Non fate agli altri ciò che...; Dopo venti secoli di Cristianesimo; La Chiesa e la guerra; Il vero attaccato è il popolo; Cifre che dònno le vertigini — Rassegna bibliografica: E. Cimbali: Il cinquantenario dell'indipendenza e dell'Unilà nazionale — Rivista delle riviste: L'esperienza religiosa; Pio X e Benedetto XV; L'Inghilterra — Note a fascio.
Anche il noto predicatore ginevrino Frank Thomas ha iniziata la pubblicazione d’una serie di prediche sulla guerra: una al mese, cominciando dal settembre scorso. Ecco 1 titoli delle prime quattro: 1. Cri de détresse et d'espérance. — 2. D’où est venue la guerre. — 3. Les causes profondes de la guerre. — 4. L’ennemi caché. Abbonamento a 16 prediche (settembre 1014-dicembre 1915) L. 2.60.— Rivolgersi alla Libreria Editrice Bilychnis, presso la ■quale i nostri lettori possono trovare anche i due seguenti opuscoli recentissimi: A. Westphal: Le Diete des Armées, opuscolo •di 30 pag. in $0. L. 0,65 — e H. Barbier: L'Evangile et la guerre, con introduzione di W. Monod. I.. 0,35.
Coenobium
Sì è pubblicato il 69® fascicolo (settembre) contenente i seguenti articoli:
Dominique Parodi: Position philosophi-Sue du problème religieux — Guglielmo alvadori: Il Cristianesimo e la Cultura moderna — Vladimir Soloviev: Ai falsi nazionalisti — Documenti e ricordi personali: Ed. Platzhoff-Lejeune: Testament spirituel — Pagine da meditare: Romain Rolland: Au-dessus de la mêlée — Guerra alla guerra: la Redazione: Per una'lega dei Paesi neutrali; Antioco Zucca: L’ora presente; Raffaele Ottolenghi: Considerazioni sull'ambiente psicologico che covò nel suo seno la guerra — La voce degli amici del Coenobium: Filippo Turati; H. La Fontaine; J. L. Suarez, M. De Sanctis; J. M. Paumgartner; V. Nardi; Arnaldo Cervesato, Alma Dolens, ecc. — La guerra a traverso i giornali: Le prospettive della guerra; Le violazioni alle convenzioni dell'Afa; La neutralità degli Stali Uniti; Convegno di socialisti svizzeri e italiani; Le devoir des écrivains suisses; In memoria di Charles Péguy; Il « Vorwaerts » e i socialisti francesi; I neutri e la pace: La neutralità della Svizzera; Socialismo europeo e socialismo italiano; L’EuNonostante lo spaventoso turbine di sangue e di devastazione scatenatosi sull’Europa. la Direzione della rivista Coenobium persiste nella sua idea di promuovere la raccolta di testamenti spirituali, reputando che la eccezionale gravità del momento varrà ad imprimere loro un maggior carattere di sincerità e di solennità.
Quanti hanno ricevuto l’invito a partecipare col proprio testamento spirituale a questa raccolta, sono pregati di sollecitarne l’invio alla direzione del Coenobium.
Le risposte saranno prima pubblicate nella rivista e poi in un volume.
“ La nostra scuola „
Questo apprezzato periodico mensile, col numero del 15 ottobre, è entrato nel suo secondo anno di' vita. Sorto per iniziativa d’insegnanti indipendenti, propugna il ritorno della pedagogia alla filosofia, combatte il tradizionalismo e il materialismo didattico; svolge il problema della laicità della scuola tenendo conto del valore che nella vita hanno le concezioni religiose, accoglie voci, pensieri e proposte da tutti Eer far tornare la scuola in armonia coi isogni del popolo.
Aderiamo di cuore a questo nobile programma facendo voti perchè la coraggiosa redazione possa incontrare amici sempre più numerosi che l’aiutino ad attuare e svòlgere l’opera così bene iniziata.
Abbonamento annuo L. 4. Amministrazione presso la Libreria Editrice Milanese, M ilano.
“ Vita e pensiero „
Ecco una nuova « Rassegna italiana di coltura ». Essa vuole propugnare ed illustrare la concezione cristiana nel sapere e nella vita. Vuol essere organo d’informazione e di studio, seguendo ed esaminando ogni corrente di idee, commentando i fatti
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principali del movimento sociale e politico... « E intollerante coll’errore; ossia non ammette alcun accomodamento con dottrine e con uomini che non riconoscono la origine e la natura divina del Cattolicismo » — « Modernissima nella forma... è medievalista nella sostanza ». Questo nelle linee generali è il suo programma. Si pubblicherà in fascicoli di 48 pagine, ogni 20 giorni Abbonamento annuo L. 6 in Italia, L. 8 all’Estero. Sarà diretta da A. Gemelli, direttore della Rivista di Folosofia Neo-Scolastica, da V. Necchi e da F. Olgiati, archivista della curia arciv. di Milano.
Amministrazione: Firenze, Via del Corso, num. 3.
“La Voce,,
Col n. 22 del 28 novembre questa battagliera « rivista d’idealismo militante» escirà abbellita, ingrandita di formato e allargata di materia, ma non più sotto la direzione di chi la fondò e la fece quella che è : Giuseppe Prezzolini. Se gli amici della Voce sono pronti alla simpatia ed alla stima pel nuovo direttore Giuseppe De Robertis, che non mancherà di far valere i doni della sua giovinezza matura, veggono però con dispiacere allontanarsi colui ch’erano da anni abituati a sentire nelle pagine della sua Voce.
[Abb. annuo alla Voce: L. 5 - Via Cavour, 48. Firenze].
Problemi religiosi e sociali
La Federazione italiana degli Studenti per la cultura religiosa (Segretariato: Napoli, 373, via Roma) ha pubblicato un bel volumetto (stampato presso il ben avviato stabilimento tipografico del nostro amico G. Avoli© - S. Antonio a Tarsia, 2, Napoli) di pag. 170, contenente quattro delle relazioni presentate al IV Convegno della Federazione in Napoli (30 luglio-5 agosto 1914) e precisamente: I. F. Letizi: Come si debba studiare la storia delle religioni — II. Mario Falchi: Il profetismo— III. G. A volto: Cristianesimo e socialismo — G. E. Melile: La rinascita religiosa della democrazia.
Il volumetto costa 1 lira.
li Vangelo dei piccoli
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UOMINI
E FATTI
CHARLES PÉGUY
Péguy è stato ucciso in guerra... Questa notizia ha trafitto il cuore di quanti seguono il movimento intellettuale in Francia. Certo fra le tante migliaia di morti, tutti giovani, tutti cari, quasi tutti valorosi, che cadono ogni giorno, è uno di più soltanto, e par rebbe persino ingiusto porre tra essi, in nome del talento, una differenza di valore. Quelli che muoiono per il loro paese in questo momento si equivalgono.
Tuttavia, se non dobbiamo dire che dando la vita alla patria egli abbia dato più degli altri, abbiamo però il diritto di dire che nessuno tra coloro che son caduti sino ad oggi aveva trovato sì indimenticabili accenti per glorificare la Francia del passato e per preparare una Francia nuova. L'amore per la Francia lo aveva prosternato ai piedi di Santa Genoveffa e di Giovanna d’Arco ed aveva fatto de’ suoi ultimi libri un cantico d’Adorazione sconfinata alla fioria delle due patrone della Francia, che avevan salvata, la prima da Attila, la seconda dagli Inglesi. Tantoché la sua morte nella battaglia della Marna in difesa di Parigi appare come il coronamento logico di una simile vita. Dal momento che la Francia aveva bisogno di vittime ei doveva esser tra queste ed essa non poteva trovarne una meglio preparata.
Péguy era avvinto alla terra di Francia Ssr le radici più profonde: si diceva figlio i contadino. Non era — come si dice — un esprit distingui: mancava di tatto e sempre di misura ne’ suoi odi e ne’ suoi amori. Usava un linguaggio tutto suo, unico nel suo genere, fatto di ripetizioni incessanti come le onde del mare che sale, simili tutte, ma ciascuna spingentesi più avanti. Per sentirne l’effetto occorre leg
gerle a voce alta: quante volte ne ho fatto la prova dinanzi agli uditori più differenti! Snelli che, ascoltandole, sanno dominare
prima impressione, ch’è o una voglia di ridere o uno sbadiglio di noia, quelli che si lasciano cullare ed elevare dalla litania ascendente della frase interminabile, giungono a conoscere la sensazione del sublime. Quest’è la parola che dobbiamo dire : non è eccessiva ed egli è l’autore in tutta la letteratura francese, con Corneille forse, Eel quale si possa con diritto adoperarla, ito come, esempio 1’ « Hymne à la Nuit » che chiude il Mystère du Porche de la Deuxième Vertu — « O ma fille la Nuit, dit Dieu, c’est toi que j’ai créée la première • — o anche nel Mystère de la Charité il racconto della Passione: « Alors le Christ, disent les Ecritures, poussa un gran cri... Pourquoi criait-il? ».
Quando sapremo il luogo dov’è caduto Péguy — giacché una censura inutilmente crudele non ci permette per ora di sapere dove sono caduti i nostri morti — gl’in-nalzeremo un monumento. Vi si scolpiranno — colle mani giunte com’egli le ha messe nei suoi libri — le figure di Santa Genoveffa e di Giovanna d’Arco. Ah! sono quelle, certo, che gli han fatto la grazia di morire a tempo per non vedere la loro cattedrale di Reims in fiamme — e vi si incideranno questi suoi versi, che cito a memoria, ma che credo di non sfigurare molto, avendoli ripetuti tante volte:
E quand viendra le soir qui fermera le jour C’est elle, la candide et l'antique bergère, Qui rassemblant Paris et tout son alentour. Conduira d’un pas sûr et d’une main légère, Pour la dernière fois, dans la dernière cour, Le troupeau tout entier à la droite du Père.
(Da Foi et Vie, x* nov. 19x4) Cr
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UOMINI E FATTI
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C’è un Péguy libellista, autore di Misteri, poeta.
I misteri sono tre: Le Mystère de la Charité de Jeanne d'Are; Le Porche du Mystère de la deuxième vertu; Le Mystère des Saints innocents. Il più importante è il secondo. La lettura di questi misteri non è da consigliarsi a chi non abbia gusto e abitudine alle letture mistiche: rischierebbe di non comprendere e di annoiarsi. Ad ogni modo è meglio cominciare dal primo che è tale da sorprendere meno: Le Mystère de la charité de Jeanne d’Arc: ma la lettura vuol esser lenta e attenta meditazione.
Chi non ha mai avuto confidenza coi volumi di Péguy è bene cominci a conoscerlo Eer mezzo di uno scritto rapido e vivo che a la bellezza di un capolavoro. Notre patrie: poi si legga ancora un Cahier — l’Argent, l’ultimo pubblicato.
Péguy poeta vi apparirà dalla lettura di un Choix de poésies (Paris-Ollendorf). I più bei versi di questo scrittore sono in un Cahier di cento pagine: La tapisserie de Notre-Dame.
Ai lettori che volessero farsi un’idea del pensiero e dello stile di Péguy prosatore consigliamo Œuvres choisies (Grasset).
Ai nostri amici non dovrebbe esser necessario indicare qui la magnifica collezione dei Cahiers de la Quinzaine magnifico monumento della formidabile e pura attività di Péguy, tipografo, scrittore, editore. Cahiers de la Quinzaine, 8. Rue de la Sorbonne - au rez de chaussée.
di Cesena)
MICHELE KERBAKER
Mesto ma prezioso privilegio è il mio che mi chiama qui a tessere l’elogio di Michele Kerbaker (i). Una comunanza spirituale durata quasi un trentennio, la fortuna incomparabile d’essere stato un suo diletto discepolo e sopratutto il mio amor filiale per lui mi designano all’altissimo onore di dargli in nome dei Sanscritisti italiani l’estremo, solenne saluto in questo tempio della scienza orbato oggi d’uno dei suoi più sinceri e più fervidi sacerdoti. Eppure solo con titubanza m’accingo a dire di Lui,
(i) Discorso pronunciato all’ Università di Napoli. Riproduciamo da Urla latina del i* oli. 2954.
perchè troppo bene ricordo quanto Egli rifuggisse dalle pubbliche lodi e da qualunque solennità voluta dal formale CO; stume e per ciò stesso accomunante degni e indégni. Maestro insigne e venerato, accogli senza crucciarti le nostre lodi. Dinanzi alla tua bara non può parlare il convenzionalismo, ma solo la voce del cuore, la voce della gioventù studiosa che per bocca mia rende onore all’opera tua indefessa di studioso e con entusiamo unanime ti proclama uno dei grandi letterati della terza Italia.
Qui a Napoli Egli esordì quale insegnante di Latino e di Greco al Liceo e vi accadrà di sentir menzionato con venerazione e gratitudine il Suo nome da ingegneri,avvocati, medici, militari che ebbero la ventura di averlo a Maestro. Intere generazioni di discepoli vi parlano di Michele Kerbaker come d’un uomo diverso dagli altri, d’un uomo cioè di altissimo ingegno dotato d’una forza spirituale il cui fascino si sentiva quasi materialmente e che si doveva per forza riconoscere ed ammirare. L’aborrito Latino e l’ancor più aborrito Greco diventavano, a detta di tutti i suoi scolari, anche dei più neghittosi, le discipline più interessanti e più attraenti del corso liceale. Gli è che il Maestro sviscerava il classico, gli dava anima e vita, ossia riusciva con la sua potente individualità ad elettrizzare la scuola, a suggestionarla, a risvegliare in essa le forze spirituali necessarie ad intendere i grandi scrittori. E quanta riconoscenza serbano i giovani per il Maestro eccitatore delle energie spirituali che son poi quelle che rendono vincitori gli individui e le nazioni nei tremendi conflitti di cui è efsempre sarà colma la vita!
’ Immensa fu la dottrina di Michele Kerbaker: alla profonda conoscenza delle lingue e delle letterature classiche egli aggiunse la padronanza delle lingue e delle letteradure moderne e da solo studiò il Sanscrito e la Linguistica. L’insegnante liceale fu assunto per notorietà di sapere sulla cattedra dell’Ateneo napoletano, che oggi lascia deserta.
Insegnare in tempi come i nostri il Sanscrito e la Linguistica è un’ardua impresa. Coteste sono scienze peregrine, irte d’ogni specie di difficoltà,^ punto remunerative quanto ad agevolezza e rapidità di carriera e a guadagni d’oro e d’onori. Ma l’apostolo Kerbaker seppe anche col Sanscrito e la Linguistica far,^proseliti.
L'India coi suoi miti e lessile leggende eroiche, con lei sue maravigliose novelle e
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BILYCHNIS
i suoi mistici ardori, l’india con le sue audaci speculazioni filosofiche fu la passione di Michele Kerbaker.
Con le lezioni e con gli scritti Egli divulgò in Italia i tesori di questa antichissima civiltà consertando al 'opera del filologo consumato quella del ’artista squisitamente fine. Nessuno più Michele Kerbaker mai possedette il segreto di quella che suol chimarsi arte ermeneutica. Il testo più oscuro diventava il più piano, il più limpido, però che egli interpretandolo non metteva a partito soltanto la perfetta conoscenza che aveva delle forme grammaticali e sintattiche ma intuiva il pensiero dell’autore in modo da sembrar quasi un mago allo scolaro. Nè gli bastava di spiegare e commentare il testo alla cerchia ristretta dei discepoli. E’ pensava al gran pubblico e col magistero dell’arte rendeva accessibili ai profani gl’inni vedici, i canti del Mahàbhàrata, i drammi di Kàlidàsa e di Qudraka. Oggi l’Italia, per esplicita confessione degli stranieri, possiede un cospicuo numero di cattedre di Sanscrito e una eletta schiera di operosi indianisti. Napoli ha il vanto d'avere dato il primo impulso a questi nobili studi, Napoli degnamente rappresentata da Michele Kerbaker.
Eppure, intelligenza eletta, vasta erudizione, arte squisita son povere cose se facendoci ad ammirarle le vediamo aduggiate dall’ombra di meschine e basse passioni. Il volo dell’aquila che s’inalza per scorgere meglio la carogna di cui ha fame, ci lascia indifferenti e alieni dal plaudire. I più grandi diventano piccoli per la vanità, l'ambizione, la smania di godere. Il fascino che Michele Kerbaker esercitava sulla gioventù studiosa era dovuto segnatamente alla sua elevatezza morale. Non adulò mai nessuno, mai si fece innanzi per solleciterò uffici e onori. Visse appartato, modesto nella sua famiglia, tra i libri e i discepoli. La vita gli apparve una cosa altamente tragica e tale da non consentire la spensieratezza, l’illusione, l'oblio volontario o involontario della dura realtà. La sua mente non quietava mai e con quel suo tenor di vita austera e contemplativa sembrava ed era un veggente, un profeta. Nulla di quanto ei m’insegnò o predisse ebbi mai occasione di trovar smentito. Luce, luce, sempre luce veniva fuori dai suoi giudizi. Era un vero precettore spirituale che a volte spaventava con le sue esigenze, ma a torto, perchè quel che egli esigeva, nè più nè meno, era necessario a superare l’ostacolo, a
raggiungere l’intento. Non tutti avevano la forza e la costanza di seguirlo, ma chi lo abbandonava sentiva d’essere su di una falsa strada e mal dissimulava a sè stesso il proprio dispetto, il proprio rimorso. E fra noi meridionali bisognosi sopratutto di freno, di disciplina, d’esempi di serietà e tenacia, perchè le doti che tutti ci riconoscono di prontezza e vivacità d’ingegno e di calore del sentimento, portino i loro cospicui frutti. Michele Kerbaker sembrò l’educatore provvidenziale. Alla gioventù napoletana egli dedicò tutta la sua nobile esistenza, e la gioventù napoletana oggi gli tributa l’omaggio più sincero della sua ammirazione, della sua riconoscenza. Nobile figlio del forte Piemonte Ei divulgò fra noi quei sani principi d’educazione civile ch’ebbero in Gioberti, D’Azeglio, Balbo i loro massimi apostoli. D'incertezze e di dubbi, dei ma e dei forse fu sempre nemico e in ogni questione filosofica, letteraria politica amava prender partito e dire schietta la sua opinione. Fu pessimista convinto sì che tra i riformatori religiosi ammirò e predilesse Buddha, tra i filosofi Schopenhauer, tra i poeti Leopardi. Non capì e ancor meno favoreggiò quel tipo immorale o amorale d'arte che la ragione estetica anteponendo a ogni altra non si perita d’offendere il buon costume e si trincera dietro lo specioso principio dell’arte per l’arte. La letteratura divorziata da un alto e nobile fine morale, civile, sociale, politico, gli sembrava esercitazione da arcadi o peggio. Dante, Machiavelli, Parini, Alfieri, Manzoni, Leopardi: ecco i tipi di scrittori ch'egli amava e consigliava per lettura ai giovani. La retorica, le svenevolezze, i bisticci, i motti di spirito trovarono in lui un flagellatore implacabile. In politica disdegnò con la franchezza abituale gl’ideologi, gli umanitaristi, i pacifisti; e le spese per l’esercito e la marina gli sembrarono sempre le più produttive. Non concepiva un grande Stato senza una forte e disciplinata milizia e considerava come una causa di debolezza per le nazioni latine la fede eccessiva nella bontà dei principii ultrademocratici. Le riforme sociali piu liberali delle quali era fautore ardente e’ non poteva crederle incompatibili con un governo forte e insindacabile dalla piazza. Sognò e volle un’Italia grande e temuta, imitatrice e pedissequa di nessuno Stato ma conscia delle intime forze del suo genio e delle sue gloriose tradizioni. Al problema della riforma della scuola secondaria e uni-
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versitaria dedicò cure assidue e fu assertore di massima libertà e di corrispondente massima responsabilità nella scelta del tirocinio scientifico da parte dello studente.
Da principio le sue idee sembrarono pericolose e paradossali, oggi egli viene annoverato tra i più benemeriti precursori del movimento che sta per darci degli ordinamenti scolastici corrispondenti alle cresciute esigenze de’ tempi e del sapere.
Multiforme fu, come si vede, l’opera di Michele Kerbaker. Carità di patria esige che i suoi scritti sparsi in Memorie accademiche ed opuscoli sieno sistematicamente riuniti in volumi e che i numerosi manoscritti inediti vedano la luce. Soltanto allora potrà emergere chiara ed evidente a tutti la sua grande figura di orientalista, classicista, pensatore critico e poeta. Mancherà pur troppo l’esempio della sua vita austera ed illibata, l’opera dell’educatore e del Maestro, e non si può dissimulare il grave lutto che la dipartita dell’insigne uomo reca alle patrie lettere c a questo Ateneo segnatamente.
Michele Kerbaker non si può sostituire e in ciò appunto sta la sua grandezza. Abbandonandoci egli nulla ha perduto perchè ormai riposa. Non gode no, la fiamma quando arde, ma solo fa luce ad altri. E fiamma spirituale era Michele Kerbaker che la vita logorò nello spandere lume di sapere intorno a sè. Egli riposa e a buon diritto. Non disturbiamolo e piangiamo in silenzio amaramente la nostra immensa perdita!
Carlo Fornichi
ALESSANDRO D’ANCONA
Per apprezzare il valore di quest’ uomo, basta per un momento riflettere quale vuoto sarebbe nella nostra cultura se non fossero le opere, varie, poderose, che è venuto dando per cinquantanni, sino all’estremo della vita. A guardarci bene, quel vuoto si allarga in un baratro- Io non le ricorderò, perchè le hanno ricordate tutte ormai. Che se anche gli argomenti da lui trattati avrebbero non difficilmente trovato prima o poi altri cultori, a noi riesce anche difficile pensare che
cosa sarebbero divenuti senza lo spirito di Alessandro d'Ancona. La sua natura era cosi sana, così equilibrata, così agile, viva, forte, che egli dominava sin dal bel principio quel, che prendeva ad esporre, e vi legava a sè col diletto e la dottrina...
La sua prosa, che in qualche discorso inaugurale riesce pesante per gli obblighi della solennità, quando invece esprime francamente la sua propria natura, è di una vivezza deliziosa, arguta, piena di sali e di brio. Non ha avuto grosse polemiche, ma era un carattere fiero e severo, anche sdegnoso, senza mai rancori e senza asprezze e senza angoli...
Egli era anche una vera personalità, e le sue idee anche formavano un sistema politico, e sopratutto ebbe altissimo il senso d’italianità. La letteratura italiana per lui era sempre espressione di vita italiana... Se egli ha cosi studiato le origini della nostra letteratura da non avere più chi potesse stargli a pari, il maggio»* motivo credo debba cercarsi nell’ interesse che egli prendeva a vedere le prime apparizioni del nostro genio e della nostra civiltà. Così il D’Ancona ha lavorato a formare italiana la figura giovinetta della nostra letteratura, che prima era confusa c caotica. La « Rosa fresca », i poeti siciliani, e bolognesi e toscani, Cecco Angiolieri, Jacopone da Todi, il «Novellino », i « Sette Savi », il « Tesoro » di Brunetto Latini, la « Leggenda di Maometto », la poesia politica, le « Sacre Rappresentazioni », la « Vita Nuova» di Dante... Chi potrebbe ricordare tutto ? E non solo questo, ma egli amava anzi specialmente, di studiare le forine popolari... e l’uomo che saliva alle vette dantesche, si ebbassava a raccogliere canti e fiabe popolari, a rintracciare e trascrivere umili e ingenue leggende. Egli ebbe tanta vita che a noi non par vero che sia morto: e ci parrà sempre di averlo tra noi, e ci basterà sempre il porre l'occhio su di una delle innumerevoli pagine per vedercelo vivo innanzi a noi, col suo sguardo scrutatore, con la sua bella faccia piena di energia e di luce. Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci, Alessandro D’Ancona, i nostri grandi sono morti tutti.
Nicola Zingarellt
(Dal Giornale d'Italia del 12 novembre 1914)
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| NOTIZIE
I
Un collaboratore di “ Bi-lycbnis „ morto nel 1443|!
La fretta distanciar facili giudizi fa correre il rischio di cadere in equivoci ed in errori abbastanza gravi. L’error personae sembra l’errore preferito dalla stampa... clericale ed antimodernista. La passione di parte fa velo e ciò non in senso stretta-mente metaforico! Abbiamo già notato (v.fascicolo di maggio) l’allegro equivoco in cui volle cadere la Civiltà Cattolica prendendo per un pseudonimo modernista il nome di un notissimo professore di Upsala, il Sòderblom; recentemente, un modesto quotidiano clericale di Firenze, l’I/wttó Cattolica (12 luglio 1914), per provare esaurientemente come la lìilychnis si avviasse con «una corsa verso l’abisso, verso l’inevitabile materialismo panteistico » (sic), riferiva i nomi dei collaboratori, i cui articoli erano apparsi nel fascicolo del giugno scorso. Fra questi il primo posto, naturalmente, era assegnato al... nostro Favaroni, morto nel 1443!
L’equivoco è presto spiegato. Nel fascicolo appunto del giugno scorso A. V. Muelle* pubblicava un importante studio: « Agostino Favaroni, generale degli agostiniani e la teologia di Lutero ». Il ponderato articolista dcll’C7«i7d Cattolica s’era semplicemente permesso di scambiare l’oggetto dell'articolo con il nome dell’autore, operazione forse lecita e scientificamente onesta per la redazione del giornale clericale di Firenze, ma niente in armonia con quelle altre buone norme di metodo o meglio addirittura di manualità bibliografica che
perfino un buon padre gesuita, il Fonk, espone largamente e raccomanda in un libro ortodossissimo sul metodo del lavoro scientifico.
Benedetto XV e il Vangelo
Papa Benedetto XV in occasione della ricostituzione della Società ài S. Girolamo, ha raccomandato caldamente la propaganda per la diffusione e per la lettura del Vangelo.
« ... Che i sacri libri — ha detto — entrino nel seno delle famiglie cristiane ed ivi siano come la dramma evangelica che tutti ricerchino attentamente e gelosamente custodiscano in modo che possano i fedeli abituarsi a leggere i Santi Evangeli e a commentarli ogni giorno, imparando così a vivere santamente conforme in tutto alla Divina Volontà r.
Echi del Conclave
« Tra la gente di corte a Madrid si sussurra che i cardinali spagnoli giunti a Roma pel Conclave ricevettero dall’ambasciatore di Spagna l’ordine di porre il veto al cardinale Della Chiesa e che quelli non ubbidirono. Si dice che prima della loro partenza per Roma si erano recati dal Re e che S. M. non diede loro alcun ordine e che quindi l’intervento dell’ambasciatore fu arbitrario.
La Spagna s’aspetta un pontefice meno gesuita di Pio X ». (Madrid, P. O.).
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Fra Cristiani e Socialisti: F. Perroni-G. Quadrotta — Il punto di vista socialista: I. Bo-nomi — I due Cristianesimi: F. Turati — /.<? parola di un conservatore cristiano: A. Fogazzaro — Il punto di contatto fra Cristianesimo e Socialismo : D. Spadoni — Dal Cristianesimo al Socialismo: D. Spadoni — L'opinione di un socialista religioso: G. Rensi — L'opinione di- un socialista areligioso: F. Paoloni — L’opinione di un socialista ateo: A. Giorgio-F. Ciccotti — I « preti socialisti » del Reggiano: G. Zibordi — Il socialismo di fronte al Cristianesimo. Un esempio pratico: G. Zibordi — Clero e Socialismo: S. Minocchi — Dalla sacrestia, al socialismo: R. Levoni-G. Prampolini.
II. Cristianesimo, Socialismo e la nuova coscienza religiosa
L’essenza del Cristianesimo — Il Vangelo e la sua interpretazione: G. Quadrotta — Cristianesimo, socialismo e modernismo: F. Pér-roni - Socialistno cristiano : F. Lenzi-G. Avoho — Il Socialistno e Dio : G. Rensi — Gesù: G. Quadrotta.
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