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BIIYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno VI : : Fasc. Vili. AGOSTO 1917
Roma - Via Crescenzio. 2
ROMA - 31 AGOSTO 1917
DAL SOMMARIO: Carlo FORMICHI: Cenni sulle più antiche religioni dell’ India - GIOVANNI PIOLI : Morale e religione nelle opere di Shakespeare (con illustrazioni) - ALFREDO TAGLI ALATELA: Interregno immortale - ILLE EGO: Un altro lato del modernismo: La democrazia cristiana in Italia - WlLFREDO MONOD: Preghiere nazionali - L. GIULIO BENSO: La Chiesa e i nuovi tempi - m. : Rassegna di filosofia religiosa (XVII), ecc.
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BILYCHNIS
RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
< < < < FONDATA NEL*. ¿912 » » ► >
CRITICA BIBLICA - STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI - PSICOLOGIA - PEDAGOGIA FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE - QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL’ESTERO ^Sl PUBBLICA LA FINE DI OGNI MESE.
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma. D. G. WH1TTINGH1LL, Th. D., Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l’Italia, L. 5; Per l’Estero, L. 8; Un fascicolo, L. 1. [Per gli Stali Uniti e per il Canada è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica. B. D. Pastor, 1414 Castle Ave, Philadelphia, Pa. (U. S. A.)).
Recentissimi "Estratti" di Bilychnis
Mario Puglisi: Le fonti religiose del problema del male. Pag. 100....... L. 1.50
Giovanni Pioli: Inghilterra di ieri, di oggi, di domani. Esperienze c previsioni. Pag. 57, con 20 illustrazioni.1 S'invia in dono agli abbonati di Bilychnis che sono in regola con i'Amminislrazione.
Fra Bernardo da Quintavallc: L'avvenire secondo l'insegnamento di Gesù. Pag. 43 . - 0.80
Raffaele Corso: Lo studio dei riti nuziali.
Pag. 9 ............... 0.40
Ferruccio Rubbiani: Un modernista del Risorgimento (il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga). Pag. 23 ............ 0.60
Paolo Orano: La nuova coscienza religiosa in Italia. Pag." 19 . . . - • 0.50
Giuseppe Rensi: La ragione e la guerra.
Pag. 27 ............... 0.75
Dino Provenza!.: Giuoco fatto. Pag. 12. . 0.40
Vedasi elenco completo degli ' Estratti ’
——— a pagina 3 della copertina NOVITÀ
Raccomandiamo ai nostri lettori:
L Editore della Biblioteca di Studi Religiosi ha pubblicato in questi giorni un bel volume ch'è destinato ad avere senza dubbio un ottimo successo:
LA CHIESA
E I NUOVI TEMPI
E una raccolta di dieci scritti originali dovuti alla penna di Giovanni Pioli - Romolo Murri Giovanni E. Meille - Ugo Janni - Mario Falchi -Mario Rossi - ■ Qui Quondam " - Antonino De Stefano - Alfredo Tagliatela.
I soggetti trattati, preceduti da una vivace introduzione dell'Editore Doti. D. G. Whittinghill, sono tutti vivissimi:
Chiesa e Chiese - Chiesa e Stato - Chiesa e Questione sociale - Chiesa e Filosofia - Chiesa e Scienza-Chiesa e Critica (2 studi)-Chiesa e Sacerdozio - Chiesa ed Eresia - Chiesa e Morale. È un libro-programma.
E un libro di battaglia.
Il bel volume con significativa copertina artistica di Paolo Paschctto, ai compone di pagine xxxi-307 e costa L. 3.50.
Rivolgersi alla Casa Editrice * Bilychnis *
Via Crescenzio, 2 - Roma
AI NUOyi ABBONATI si spedisce in DONO, franco di porto, il bel volume (4° della Biblioteca di Studi Religiosi'):
“VERSO LA FEDE
guenti soggetti: Intorno al Divenire ed all'Assoluto nel sistema Hegeliano (Raffaele Mariano) - Idee intorno all'immortalità dell'anima (F. De Serio) - La questione di autorità in materia di fede (E. Comba) - Il peccato (G. Arbanasich) - Di un concetto moderno del dogma (G. Luzzi) - È possibile il miracolo? (V. Tummolo) -// Cristianesimo e la dignità umana (A. Crespi).
In deposito presso la Libreria Editr. "Bilychnis"
Pietro Chiminelli: Il 9 Padrenoslro' e il mondo moderno. Volume di pag. 200 con 8 disegni originali di P. Paschctto . . . L. 3 —
Romolo Murri: Guerra e' Religione :
Vol. I. Il Sangue e ('Altare. Pag. 178 . . 2 —
Vol. II. L’Imperialismo ecclesiastico e la democrazia religiosa. Pag. 118...... 2 —
**: La Bibbia e la critica (opera premiata).
Volume di pag. 150 .......... 2 —
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BILYCMNI5
R.M51À DI SlVDi RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DE LI* SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA - DI Q.OMA
Anno sesto - Fascio. Vili
Agosto 1917 (Vol. X. 2)
SOMMARIO:
CARLO FORMICHl: Cenni sulle più antiche religioni dell’india (con suggerimenti bibliografici) ....... ....... Pag. 70
Giovanni Pioli : Morale e Religione nelle opere di Shakespeare (secondo articolo). . ' . . . ........ . ., . • . . . > 83
Illustrazioni: I. Il teatro «Globe» ai tempi di Shakespeare - 2. Scenario semplificato (nuovo sistema) pei drammi di Shakespeare (Tavola tra le pagine 84 e 85).
Mario Rossi: Chiesa e Critica .......... ... > 92
INTERMEZZO. ... ........... . . > 93
Alfredo Tagliatatela: Interregno immortale ....... » 94
ILLE Ego: Un altro lato del modernismo - La democrazia cristiana
in Italia . .' .................. > 98
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
WiLFREDO Monod: Preghiere nazionali ........ . . > 107
TRA LIBRI E RIVISTE:
Luisa Giulio Benso: « La Chiesa e i nuovi tempi ». 112
m. : Rassegna dì fi osofia religiosa : L’ospite ignoto - Filosofia della religione L’errore morale - Guerra e filosofia - Diritto e libertà........ » 114
Varia:. Dalla scuola alla vita (S. Bridget)................. » 120
NB. A questo fascicolo sono annessi gl’ INDICI del primo semestre dell’anno in corso (Voi. IX).
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RII YCHNIS RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
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CRITICA BIBLICA * STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA - PEDAGOGIA FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE » QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO ' LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL’ESTERO SI PUBBLICA LA FINE PROGNI MESE.
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l’Italia, L. 5; Per l'Estero, L. 8; Un fascicolo, L. 1.
(Per gli Siali Uniti e per il Canadà è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica. B. D. Pastor, 1414 Culle Ave, Philadclphia. Pa. (U, S. A.)].
Recentissimi "Estratti" di Bilychnis
Mario Puglisi: Le fonti religiose del problema del male. Pag. 100....... L. 1.50
Giovanni Pioli: Inghilterra di ieri, di oggi, di domani. Esperienze e previsioni. Pag. 57. con 20 illustrazioni.? S'invia in dono agli abbonati di Bilychnis che sono in regola con ('Amministrazione.
Fra Bernardo da Quintavalle : L'avvenire secondo l'insegnamento di Gesù. Pag. 43 . . 0.80
Raffaele Corso: Lo studio dei riti nuziali.
Pag. 9 ............... 0.40
Ferruccio Rubbiani : Un modernista del Risorgimento (Il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga). Pag. 23 ............ 0.60
Paolo Orano: La nuova coscienza religiosa
in Italia. Pag. 19 ........... 0.50
Giuseppe Rensi: La ragione e la guerra.
Pag. 27 ............... 0.75
Dino Provenza!: Giuoco fatto- Pag. 12. . 0.40
Vedasi elenco completo degli ' Estratti ' ——-----a pagina 3 della copertinaNOVITÀ
Raccomandiamo ai nostri littori:
L Editore della Biblioteca di Studi Religiosi ha pubblicato in questi giorni un bel volume ch'è destinato ad avere senza dubbio un ottimo successo:
LA CHIESA
E I NUOVI TEMPI
È una raccolta di dieci scritti originali dovuti alla penna di Giovanni Pioli - Romolo Murri Giovanni E. Meille - Ugo Janni - Mario Falchi -Mario Rossi - ■ Qui Quondam " - Antonino De Stefano - Alfredo Taglialatela.
I soggetti trattati, preceduti da una vivace introduzione dell’ Editore Doli. D. G. Whittinghill, sono tutti vivissimi:
Chiesa e Chiese - Chiesa e Stato-Chiesa e Questione sociale - Chiesa e Filosofia - Chiesa e Scienza-Chiesa e Critica (2 studi)-Chiesa e Sacerdozio - Chiesa ed Eresia - Chiesa e Morale.
E un libro-programma.
E un libro di battaglia.
Il bel volume con sicnificativa copertina artistica di Paolo PaSCHETTO, si compone di pagine xxxi-307 c costa L. 3.50.
Rivolgersi alla Casa Editrice ■ Bilychnis ’
Via Crescenzio, 2 - Roma
AI NUOyi ABBONATI si spedisce in DONO, franco di porto, il bel volume (4° della Biblioteca di Studi Religiosi}:
“ VERSO LA FEDE ” 'V™
guenti soggetti: Intorno al Divenire ed all'Assoluto nel sistema Hcgsliano (Raffaele Mariano) - Idee intorno al-¡'immortalità dell'anima (F. De Sarlo) - La questione di autorità in materia di fede (E. Comba) - Il peccalo (G. Arbanasich) - Di un concetto moderno del dogma (G. Luzzi) - £ possibile il miracolo? (V. Tummolo) -Il Cristianesimo e la dignità umana (A. Crespi).
In deposito presso la Libreria Editi*.n Bilychnis "
Pietro Chiminelli: Il ■ Padrencslro* e il mondo moderno. Volume di pag. 200 con
8 disegni originali di P. Boschetto . . . L. 3 —
Romolo Murri : Guerra e' Religione :
Voi. I. Il Sangue e ('Altare. Pag. 178 . . 2 —
Voi. IL L'Imperialismo ecclesiastico e la democrazia religiosa. Pag. 118...... 2 —
***: La Bibbia e la critica (opera premiata).
Volume di pag. 150.. . ....... 2 —
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SOMMARIO:
Carlo FORMICHI: Cenni sulle più antiche religioni dell’india (con suggerimenti bibliografici) ........... ... Pag. 70
Giovanni Pioli : Morale e Religione nelle opere di Shakespeare (secondo artìcolo). . ' . . . . . . i •» • • • ■ • > 83
Illustrazioni: 1. Il teatro e Globe« ai tempi di Shakespeare - 2. Scenario semplificato (nuovo sistema) pei drammi di Shakespeare (Tavola tra le pagine 84 e 85).
Mario Rossi: Chiesa e Critica . . . ........ . . . » 92
INTERMEZZO. . . / . . .. . . . » 93
Alfredo Taglialatela : Interregno immortale ....... > 94
ILLE EGO: Un altro lato del modernismo - La democrazia Cristiana
in Italia . ; . . . . . . . . . . . . . . > 98
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
WiLFREDO Monod: Preghiere nazionali ........ . . » 107
TRA LIBRI E RIVISTE:
Luisa Giulio Benso: « La Chiesa e i nuovi tempi » ............ »• 112
m. : Rassegna di fi osofia religiosa : L’ospite ignoto - Filosofia della religione L’errore morale - Guerra e filosofia - Diritto e libertà.. 114
Varia'. Dalla scuola alla vita (S. Bridget)................... 120
NB. A questo fascicolo sono annessi gl’ INDICI del primo semestre dell’anno in còrso (VOI. IX).
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CENNI SULLE PIÙ
ANTICHE RELIGIONI DELL’INDIA
(CON SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI)
a vita religiosa dell'india esordisce col politeismo. Sono prima semplici pastori e poi ingenui contadini i quali nelle forze della natura operanti vedono nascosto uno spirito, un’anima, un Dio. La prosperità dei pascoli e i pingui raccolti sono impossibili senza il calore del sole, l’acqua fecondatrice delle nuvole, il giro delle stagioni. Come temprare senza fuoco i rigori dell’inverno e senza l’acqua delle polle l’arsura dell’estate? Per vivere l’uomo ha bisogno del sole, della pioggia, del fuoco, del favore
cioè di quelle potenze della natura dispensiere di salute, benessere, ricchezza. A cattivarsi la grazia e la clemenza altrui non si conosce mezzo più adatto della lusinga e del dono. Il nume che presiede ai fenomeni atmosferici e dal quale s’invoca la pioggia è Indra. Indra dunque sarà propizio sol che lo si lodi, sol che gli si facciano pervenire offerte di burro e d’altre sostanze di cui è ghiotto. Sorgono così l’inno e il sacrificio a dare corpo e figura alla religione vedica. Gl’inni sono indirizzati ora a questa ora a quella divinità e così pure le pratiche sacrificali. Ci sono gli dei della volta celeste: Varuna (probabilmente un dio lunare), Savitar, Surya, Pùsan (varie ipostasi del sole), Usas (l’aurora), ecc.; gli dei dell'atmosfera: Indra (dio del temporale), i Marut (personificazioni dei venti), Parjanya (ipostasi della pioggia), ecc.; gli dei terrestri: Agni (il fuoco). Soma (il liquore che inebriando il vate gl’inspira l'inno), Prthivi (la terra), ecc.
La raccolta degl’inni alle varie divinità porta il nome di Rgveda e contiene la prima e più antica poesia religiosa del popolo indiano.
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CENNI SULLE PIÙ ANTICHE RELIGIONI DELL’ INDIA 71
Per essere l’inno recitato con modulazioni e quasi cantato si sentì il bisogno di un’altra raccolta che riproducendo quasi integralmente il testo del Rgveda aggiungesse l’intero apparato necessario al canto. Si ebbe così il Sàmaveda.
Abbiamo detto che la lusinga e il dono, ossia l’inno è il sacrificio costituirono la mentalità e l’operosità religiosa dell'età vedica, e difatti se il Rgveda e il Sàmaveda documentano che gli dei venivano magnificati e adulati con gl'inni, lo Yajurveda attesta Che si offrivano loro vittime e libazioni con un rituale minuto e complicato. Yajus significa formola o regola del culto, e il libro,che accoglie queste forinole, le commenta e spiega simbolicamente, è appunto tò Yajurveda. È redatto per lo più in prosa e dei quattro Veda è quello che soprattutto si ricongiunge strettamente ai commenti liturgici chiamati Bràhmawa dei quali dovremo occuparci fra breve.’
L’Atharvaveda compie il patrimonio religioso dell’età vedica e contiene esso pure degl’inni, ma assai differenti da quelli del Rg- e del Sàmaveda. Non si tratta più tanto di magnificare la potenza e le gesta d’un nume, ma di suggerire i mezzi che puerilmente si pretendono atti a scansare i pericoli e. ad assicurarsi il favore della fortuna.- Scongiuri contro la febbre, la tosse, le malattie in genere; formole magiche da recitare quando si occupa una nuova abitazione o s’inizia un viaggio o s’impalma una sposa; malie per destare amore in altri o far capitar male un nemico; tutto quello insomma di cui può compiacersi la superstizione popolare trova posto nell’Atharvaveda.
Facendo capo alle quattro fonti anzidetto risulta chiaro che in questa epoca l’uomo era contento di vivere e poneva le sue brame ed aspirazioni più nel di qua che nel di là. Pingui armenti e prole maschia s'invocano soprattutto dagli dei; e il pensiero dell’oltretomba turba poco o punto la serenità di questi pastori e agricoltori. I morti seguendo il cammino del sole occiduo vanno nel regno di Yama a godervi una vita beata ed eterna.
Il Rgveda fu da principio considerato in Europa come un documento che rispecchiasse fedelmente la civiltà della famiglia aria più che della gente indiana. S’immaginarono i progenitori delle varie stirpi indo-europee intenti ad ammirare i grandiosi fenomeni della natura e negli dei vedici si vollero scoprire personificazioni di aurore, levati e tramonti del sole, ovvero di temporali, nembi, fulmini. Tutto doveva spiegarsi con e‘riportarsi a fenomeni di luce o di meteorologia, e non è maraviglia se le oscurità e gli enimmi si addensassero e moltiplicassero. È chiaro che qui si. vuole accennare a quella pur tanto benemerita scuola di filologi che segnatamente per opera del Roth, di Max Muller e di Adalberto Kuhn, del Grassmann e tra noi del Kerbaker, ci diede dizionari, edizione e volgarizzamenti del Rgveda i quali restano e sempre resteranno un mirabile monumento di lavoro, di dottrina e di genialità.
Fu merito di A. Bergaigne l’aver dato agli studi del Rgveda un nuovo indirizzo segnalando la parte cospicua che già negl’inni prende la pratica sacrificale col suo simbolismo a scapito della concezione naturalistica e dell’intuizione poetica. Il fenomeno della natura non è più presente al vate vedico nell’atto che compone o recita l’inno, ma egli è soprattutto preoccupato del rito sacrificale. Più che dalle
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spiegazioni a base di sole e di tenebra, di tempesta e di sereno ovvero di riavvicinamenti coi miti primordiali delle altre stirpi indo-europee, il Rgveda riceve luce, secondo il Bergaigne, dalla letteratura posteriore dei Bràhmawa e deve considerarsi come un documento letterario e religioso specificamente indiano e non già ario. Queste idee sono sostenute dal Bergaigne nel volume intitolato: La Religion védique d’après les Hymnes du Rgveda.
Restava a fare un altro passo e cioè studiare il Rgveda non solo al lume degli altri tre Veda e dei Br.àhmawa, ma della Etnografia, e questo passo fu fatto da Hermann Ohlenberg il quale pubblicò nel 1894 Die Religion des Veda. Concezioni di popoli primitivi e specialmente la magia dichiarano, secondo l’Oldenberg, più d’un passo oscuro del Rgveda.
I lavori più recenti sulla religione vedica consistono in traduzioni; note esegetiche, indagini speciali e sintesi generali. Si leggeranno con grande profitto tra le ultime versioni quella curata dal Geldner {Der Rgveda in Auswahl, 1907-09) e l’altra dovuta allo Hillebrandt {Lieder des Rgveda, 1913). Modello di precisione filologica e d'acume ermeneutico sono Die Textkritische und exegetisch^ Noten dello Ohlenberg (vedi Abhand. d. König. Ges. Wiss. Göttingen, 1909-1912). Particolarmente utili per acquistare una notizia sintetica della religione vedica sono il primo volume della Geschichte der indischen Literatur del Winternitz, Leipzig, 1905, il fascicolo del Grundriss der indo-arischen Philologie und Altertumskunde intitolato Vedic Mylhology e dovuto al Macdonell e il non mai abbastanza lodato volume di Auguste Barth, Les Religions de l’Inde, del quale è stata opportunamente curata la ristampa in Œuvres de Auguste Barth recueillies à l’occasion de son quatre-vingtième anniversaire, tome premier, Paris, Leroux, 1914.
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I Brâhmana sono, come abbiamo detto, degli ampli commenti ai quattro Veda e non v’ha dubbio che a questi sono posteriori. La lingua s’è trasformata, e piti che ai dialetti vedici è da ravvicinarsi al sanscrito classico; non più il Penjab, ma la pianura irrigata dal Gange ospita i nuovi teologi; alla poesia è sottentrata la prosa; la religione s’è tutta concentrata nel culto. Il rito sacrificale s’è complicato spaventevolmente, è divenuto una scienza simbolica e mistica, è assùrto a legge dell’universo, ha oscurato con la sua potenza la potenza degli dei. Il sole sorge, la fiumana scorre giù nel piano, l’albero tagliato cresce in tanto in quanto è stata recitata la tal formula, è stato libato col tal cucchiaio, è stata scannata la tale vittima. La preghiera ha una forza magica la quale non ottiene impetrando, ma strappando la grazia degli dei. Le caste sono quasi già belle e formate e quella sacerdotale domina e popolo, e re, spadroneggia, s’arricchisce col monopolio del culto ch’essa è riuscita a far credere fonte d'ogni bene per questo e l’altro mondo. Formalismo, superstizione, vaneggiamenti mistici rendono la lettura dei Bràhmana faticosa eppure interessantissima, chè tra quelle tenebre guizzano lampi di genio, nunzi dei tempi nuovi. La identificazione delle cose più disparate della quale si compiacciono tanto questi teologi e che a volte ce li fa sembrare dei veri e propri
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CENNI SULLE PIÙ ANTICHE RELIGIONI DELL’INDIA
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mentecatti ovvero dei ruderi di preistorica età primitiva, prelude alla dottrina panteistica dell’Uno-Tutto.
Resta anzi ancora a dimostrare se quest'ultima dottrina sia stata l’esito o non piuttosto la causa-delle aberrazioni teologiche dei Bràhmawa, sia stata posteriore o non piuttosto contemporanea e rivale della liturgia formalista & sconclusionata. È probabile che contemporaneamente c’era chi identificava bene una cosa con l’altra e giungeva a dimostrare identica l’anima individuale con l’anima universale {tal tvam asi), e chi malamente imitando e adattando il metodo della identificazione al sacrificio vaneggiava così: « il sacrificio è l'anno; il sacrificio è la parola; il sacrificio è la bestia; l’occhio è la verità, il metro tris/ubh è la forza ». La confusione, la indeterminatezza delle idee è senza dubbio caratteristica di questa letteratura religiosa: continuano a vivere gli dei, ma di vita debole e stentata, minacciati come sono sempre dal vedersi fusi in un solo dio, in Prajàpati; vaga e fluttuante è la visione escatologica in quanto si parla ora di un cielo dei Mani ora di un cielo degli dei, ora di una seconda morte e d’una rinascita nel di là, ora di un ritorno in questo mondo; qua rosseggiano le are del sangue delle vittime e si prescrive perfino il sacrificio umano, là s'apre l’adito una nuova vitale teoria che cioè non già l’opera meccanica e formalista, ma la purezza della fede ed il sapere procaccino meriti religiosi. In un tale caos si corre facilmente rischio di biasimare o lodare troppo e dinnanzi agli indovinelli, alle stranezze, alle incomprensibili fantasticherie ricorrenti di continuo nei testi ci si domanda: per bocca di questi teologi parla l’antica magia, la grama logica dei primitivi, ovvero combatte il pensiero le prime sue ardue battaglie per penetrare nel mistero delle cose?
I giudizi che la filologia europea pronuncia sui Bràhmawa risentono appunto di questa incertezza: chi esagera la parte che nei Bràhmawa ha la magia e la mentalità primitiva, chi prende troppo sul serio e si lambicca invano il cervello per rendere intelligibile e logico un astruso mito cosmogonico, una identificazione cervellotica, un ragionamento puerile. Certo è che i Bràhmawa rappresentano un periodo di transizione e di fermentazione nel quale tutto è sulla via del divenire e niente è stabilmente formato, un periodo in cui lottano il vecchio mondo delle idee e il nuovo, le peggiori e le migliori energie del popolo indiano.
A voler formarsi un’idea di questa singolare letteratura mistico-liturgica la via più breve sarà sempre quella di ricorrere direttamente alle fonti e leggere nel testo o nella versione inglese dell’Eggeling {Sacred Books of thè East, voi. XII, XXVI) lo Qatapatha-Bràhmawa. La letteratura recente intorno ai Bràhmawa. la quale, com’è già stato accennato, non brilla per unità di metodo e concordia di giudizi, si può riassumere nelle seguenti opere e parti di opere: A. Hillebrandt, Ritual. Litteratur, Vedische Opfer und Zauber (Grundriss d. indo-ar. Philol. u. Alt. Strassburg, 1897); P. Deussen, Allgemeine Geschichte der Philosophie, Leipzig, 1906 (vedi nel primo volume la sezione intitolata: Die Brdhmanazeil, a pag. 159 sgg.); P. Oltramare, L‘Histoire des idées théosopkiques dans VInde, Paris, 1907 (vedi il Chapitre II: Les antécédents brahma-niques de la Théosophie, a pag. 17 sgg.); V. Henry, La magie dans linde antique, Paris, 1909; H. Oldenberg, Die Lehre der Upanishaden und die Anfänge des Buddhismus, Göttingen, 1915 (vedi a pag. io sgg. la trattazione della Opfer Wissenschaft).
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Nei Bràhmana già compaiono personificazioni d’idee astratte elevate al grado di potenze cosmiche. Si parla del Brahman, ossia dell’essenza della santità, del sapere teologico, della preghiera, del sacerdozio, e accanto al Brahman si fa purè il nome dell’.4/wki», ossia dell’alito concepito come principio fondamentale della vita universale e individuale. Compito delle Upanisad è di partire da questi due concetti, identificarli e mostrare com’essi sieno la sola realtà. Il rito sacrificale perde sempre più importanza dinnanzi alla maestà e onnipotenza del sapere filosofico il quale, si dice, è il solo vero mezzo per sottrarsi alle morti e alle rinascite. Questo sapere filosofico è impartito a pochi eletti nella solenne solitudine delle selve, con un linguaggio simbolico, ma inspirato, alato, quant’altro mai suggestivo. Le Upanisad possono ben chiamarsi le liriche del monismo e-del panteismo, quando celebrano il ritorno in Brahma dell’anima individua e la grandezza e felicità incomparabili dell’Essere assoluto. A questa letteratura filosofico-religiosa ha dedicato il Deussen parecchi volumi i quali restano un’opera fondamentale e indispensabile ad ogni ulteriore ricerca. Nelle Sechzig Upanishads des Veda, Leipzig. 1905, abbiamo una accurata e dottamente illustrata versione dei testi più importanti, mentre nella-Allgemeine Geschichte der Philosophie (erster Band, zweite Abteilung, Leipzig, 1907) ci viene presentata una esposizione sistematica della mistica dottrina. Di facile e piacevole lettura è il volume Die Geheimlehre des Veda, Leipzig, 1909. Vi si trovano tradotti dei brani scelti delle Upanisad, i quali opportunamente rendono possibile ai profani di orientarsi riguardo ai principali problemi dibattuti dalla speculazione filosofica di quella età.
Accanto a questi egregi studi del Deussen sono da menzionare la pregevolissima . sopra citata opera dello Olt ramare, Hisloire des idées théosophiques dans l’Inde, e il recentissimo volume dell’Oldenberg, Die Lehre der Upanishaden und die Anfänge des Buddhismus. Quest'ultima pubblicazione, essendo l'esponente ultimo e più autorevole dello stato delle indagini intorno alle Upanisad e delle questioni che s’agitano circa l’importanza delle medesime e il metodo con cui vanno studiate, merita un cenno specialissimo. A giudicare da alcune note dichiarative sembrerebbe che l’A. vòglia rivolgersi non pure agli specialisti, ma ad ogni lettore di comune coltura. Si stima infatti opportuno di spiegare a pag. 25 nota, 1, che cosa s’intenda per triplice sapere, a pag. 108, n. 1, che cosa sièno i Jàtaka, a pag. no, n. 1 i Cabala, a pag. 128, n. 3 il Sattva, il Rajas e il Tamas, a pag. 131, n. 4 i Rishi, eco. Osiam dire che chi non abbia più che familiari tutte queste nozioni e non sia già addentro alle idee, e alle cose dell’india antica durerà fatica a seguire l’Oldenberg nella acuta e sottile discussione dei numerosi ed intricati problemi storici, filosofici ed ermeneutici ch’egli imposta in questo suo libro. In realtà se ne possono giovare soltanto gl’indianisti. L’A. si propone di esporre storicamente nel loro sviluppo le idee religiose germinate nelle più antiche Upanisad e modificatesi via via attraverso le Upanisad di data più recente fino al sorgere del Buddhismo. Egli non si dissimula le difficoltà d’una tale ricostruzione storica e il valore assai relativo della medesima quando si è obbligati a dare alle disordinate, o per metà
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ordinate concezioni filosofiche degli antichi un ordine che non avevano e che corre il pericolo d'essere arbitrario, (v. pag. 67), quando si è obbligati a lavorare su fonti insufficienti e monche (v. pag. 151, 271). D'altra parte come può la scienza procedere all’esame e alla valutazione d’un prodotto spirituale senza vederne i nessi coi prodotti spirituali anteriori, contemporanei e posteriori e staccandolo dal tempo e dall’ambiente in cui sorse? Le Upanisad sono un anello tra iBràhmawa ed il Buddhismo, formano parte d’una non interrotta evoluzione religiosa, e come tali vanno studiate in relazione non già con le analoghe speculazioni di altri popoli e di altri tempi, ma con tutto quello insieme di pensieri, donimi, pregiudizi, che costituiscono la tradizione vedica, il patrimonio spirituale del popolo indiano, e che non hanno riscontro fuori dei confini dell’india. Secondo l’Oldenberg bisogna pure guardarsi dallo scambiare idee sorte in epoca più matura con quelle dei primi tempi e dal credere che la materia delle Upanisad più antiche possa essere suscettibile del sistema e delle spiegazioni della posteriore scuola del Vedànta. È evidente che questo programma cerca di contrapporsi a quello già svolto dal Deussen e di segnalarne gli errori di metodo. Il Deussen spesso interpreta il contenuto dottrinale delle Upanisad ragguagliandolo con le speculazioni platoniche o coi principi della filosofia di Kant e di Schopenhauer. Tra il concetto di dlman, di Ding an sich, di Wille, il Deussen non vede differenza sostanziale e non si perita quindi d’illustrare il testo indiano facendo capo a nozioni ed espressioni prettamente moderne. Il risultato è che le Upanisad assumono un carattere di grande razionalità e sono messe alla pari con le più insigni produzioni della filosofia occidentale. Si prenda per esempio il passo della Brhad-Arawyaka-Upanisad I, 4, nel quale la storia della creazione è descritta in questi termini: « In origine tutto questo mondo era l’Atman in forma di purusa. Essendosi guardato intorno nulla vide fuori di se stesso. Allora in principio egli esclamò: sono io qua. Indi ebbe origine l’espressione: io Perciò anche ora chi è chiamato, dice prima: sono io qua, eppoi pronunzia l’altro nome che ha... Egli ebbe paura. Perciò chi è solo ha paura. Egli pensò; poiché nient’altro esiste all’infuori di me, di che cosa posso aver paura? Così dileguò la sua paura. Di che cosa avrebbe dovuto aver*paura? Si ha paura soltanto di un altro. Ma egli non era contento. Perciò non è contento chi è solo. Egli desiderò un altro. Egli era tanto grosso quanto una donna e un uomo abbracciati. Questo suo corpo egli fece scindere in due parti: indi ebbe origine il marito e la moglie. Con lei egli s’accoppiò e ne nacquero gli uomini. Ma essa pensò: avendomi generato dal suo proprio corpo come può egli accoppiarsi con me? Suvvia, voglio sparire. E si trasformò in. vacca e toro divenne l’altro e s’accoppiò con essa, indi ebbero origine le vacche e i tori. Essa si trasformò in giumenta e stallone divenne l'altro; essa diventò asina e somaro si fece l’altro. Con lei egli si accoppiò; indi ebbero origine i solipedi. Essa si trasformò in capra, l’altro in becco; essa in pecora, l’altro in montone. Con lei egli si accoppiò; indi ebbero origine le capre e le pecore. Così appunto egli creò tutte le coppie, fino alle formiche, tutto questo mondo ».
Il Deussen a proposito di questo mito cosmogonico accenna al riscontro nel Simposio di Platone e poi aggiunge (Allg. Geschichte der Philos. I, 2, pag. 179): « si potrebbe essere tentati di mettere a base di questo mito un senso più profondo;
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il principio maschile sarebbe il Wille, che cerca di manifestarsi, il principio femminile l’insieme delle forme (delle Idee platoniche), le quali, sebbene originate dal Wille, sono tuttavia eterogenee ad esso, friggono dinnanzi ad esso, finché il Wille creatore se ne impadronisce, per manifestare in tutte quante sono la sua propria essenza ». Uh siffatto metodo d’illustrazione sembra all’Oldenberg del tutto erroneo, talché egli vi- si oppone con molta energia esclamando (pag. 80, nota 2): « ma questi aborti dell’antica fantasia dei brahmani lasciamoli una buona volta sussistere nella loro crudezza e nella loro genuinità. In realtà qui non si tratta nè del Wille nè delle Idee-platoniche, ma di toro e vacca, di asino e di asina ».
A pag. 74 l’Oldenberg nella nota a pie’ di pagina espone anche più chiaramente il suo programma in contrapposizione a quello del Deussen: «le idee delle Upa-nishad più che alla critica della Ragion pura debbono essere ravvicinate a concetti primitivi ».
A pag. 156, nota 2, leggiamo: « bisognerebbe guardarsi dal far entrare in scena estranee correnti di pensiero in un testo antico e semplice introducendovi arbitrariamente delle espressioni caratteristiche e proprie della filosofìa moderna». A pag. 68, nell'espressione nàmarùpa (nome e forma) l’Oldenberg cerca di dimostrare la continuazione di concetti primitivi che nulla hanno a che vedere con gli attributi spinoziani Extensio e Cogitaiio, ma piuttosto richiamano alla menté le grossolane credenze e pratiche di magia. Del pari a pag. 73 viene negata la possibilità che già in quei tempi remoti si pensasse a liberarsi dalla tirannica categoria di spazio, e pare invece più naturale di vedere in giuoco forze magiche soprannaturali.
Non meno avverso si dichiara l’Oldenberg alla tendenza di spiegare il contenuto delle Upanisad più antiche facendo capo a concetti della posteriore dottrina del Vedànta. Così a pag. 89 sgg. e a pag. 136 egli non ammette come già bella e formata nelle Upanisad la dottrina della Màyà e la conseguente natura illusoria dell’emancipazione dalla Màyà stessa. Se anche si potesse dimostrare, egli dice a pag. 94, che i filosofi delle Upanisad, precorrendo i tempi, abbiano avuto sentore della posteriore teoria della Màyà, la dottrina upanisadica ciò nonostante conserverebbe sempre una fisionomia assai diversa da quella che assume nella esposizione fattane dal Deussen. E a pag. 96 aggiunge: «La natura illusoria del mondo quale dottrina più antica e genuina delle Upanisad, fa il paio con quel monoteismo primordiale che alcuni storici della religione hanno voluto trasferire nel principio delle cose. Così come là pregiudizi religiosi, hanno qua pregiudizi filosofici turbato il giudizio ». Scartato dunque come fallace il metodo dei riavvicinamenti d’idee antiche a concetti della filosofia moderna ed evitando di confondere le fasi del pensiero indiano più evoluto con quelle anteriori e ancora prossime alla mentalità primitiva, l’Oldenberg tenta di esporre con la maggiore fedeltà possibile il contenuto dottrinale delle Upanisad, di segnalarne i pregi e le manchevolezze, di assegnargli il posto che realmente occupa nella storia della filosofia indiana e in quella della cultura universale. I risultati ai quali egli è pervenuto possono riassumersi nel modo che qui appresso si vede. Il prete-mago comincia nelle Upanisad a trasformarsi in filosofo, a sostituire alla disordinata sbrigliatezza della fantasia la ricerca razionale della radice dell'essere. Spogliarsi interamente dei vecchi pregiudizi della magia, del simbolismo sacrificale.
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dei traviamenti della immaginazione, non gli è possibile. Tuttavia il concetto che la coscienza può sussistere solo quando ci sia la dualità d’un soggetto e d’un oggetto, diventa una conquista sicura di questa giovane speculazione. Nella forza arcana che è a base di tutte le cose ogni dualità, ogni coscienza deve sparire, talché l’Uno-Tutto non è suscettibile di nessuna limitazione e non può essere definito che negativamente, spogliandolo, vale a dire, d’ogni attributo. L’Uno-Tutto non vede, non ode, non conosce, non è cosi, non è cosi. Quanto diverso, osserva l’Oldenberg, questo Uno-Tutto indeterminato, privo d’ogni forma, quanto diverso dalle Idee platoniche che il magistero dell’arte è riuscito con tanta pienezza a individuare! Se non che, l’Uno-Tutto non ha potuto spogliarsi dei suoi attributi in modo da evitare che lo si adombrasse nella sillaba Om; che lo Yoga, questo inestricabile viluppo di filosofia e magia, di lui s’impossessasse; che il dio. Brahma con quattro facce e nato dal fior di loto ne fosse il continuatore.
L’idea dell’Uno-Tutto doveva necessariamente contrapporre al mondo di qua un altro mondo, chè l’Uno-Tutto non si limita ad animare e sostenere questo mondo, ma ha una vita sua propria indipendente da quest’ultimo e incomparabilmente più importante. Però al mondo di qua, ossia al mondo del molteplice e del vario non si negava la realtà, nè l’Uno-Tutto veniva concepito come l’unico essere: l’Uno-Tutto in ogni forma dell’Essere era tutto ciò che domina, dura ed ha pregio. D’altra parte il mondo del molteplice e del vario non aveva ancora acquistato quella importanza che più tardi nel sistema Sàwkhya gli consentì di contrapporsi da pari a pari all'Uno-Tutto. L’idea della liberazione dai ceppi di ciò che è finito per ricongiungersi con l’infinito dominava già le menti e si cominciava a scorgere la differenza tra essere e divenire, in quanto che l’essere sembrava proprio ed esclusivo della vita dell’Uno-Tutto staccata da quella del.mondo vario e molteplice e il divenire invece pareva la caratteristica essenziale di quest’ultimo. L’Uno-Tutto avendo creato e continuando sempre a reggere il mondo di qua faceva sì che in questo apparissero intrecciati essere e divenire, finché resisi questi due inconciliabili nella speculazione posteriore si negò al mondo di qua ogni idea di essere.
Il punto centrale della dottrina upanisadica è la mistica aspirazione di fondere l’io individuale coll’Uno-Tutto sì da sfuggire alla transitorietà e alla morte. Non già l’analisi scientifica delle nostre facoltà conoscitive, ma un misticismo analogo a quello di Plotino e dei filosofi del Sufismo costituisce il fondo delle Upa-nisad e loro suggerisce l’alato linguaggio. Quanto al carattere intellettualistico e dottrinale che le impronta, esso è dovuto alla loro origine brahmanico-sacerdotale, chè il tono e l’orgoglio di gente conscia del proprio sapere, della propria superiorità intellettuale, non si smentiscono mai in qualunque fattura dei brahmani. Propria delle Upanisad è inoltre la visione pessimistica del mondo fenomenico e la convinzione che ad emanciparsi da esso valgano le forze spirituali dell’individuo coadiuvate dalla guida e dall’insegnamento d’un maestro illuminato. Si fa. strada inoltre il principio che tale emancipazione non possa raggiungersi se non rinunziando al mondo ed abbracciando la vita del monaco mendicante. Si va così formando un nuovo ordine sociale indipendente dalla casta brahmanica e con nuovi ideali. Non sono più i tesori di scienza magica che l’asceta ramingo s’industria di farsi svelare
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dai brahmani che gelosamente li custodiscono, ma egli cerca soprattutto il sapere mistico-filosofico il quale deve consentirgli l'affrancamento dall’errore e dai patimenti di questa vita caduca.
' Secondo il Deussen (zl/Zg. Ges. d. Philos,. I Band, zweite Abteilung, Vorwort, pag. V a VI) la filosofia delle Upanisad segna il punto culminante della speculazione indiana, chè il Sàwkhya ed il Buddhismo derivano da essa nè giunsero a superarla in importanza. « I pensieri — egli dice — espressi dalla scuola del Fe-dànta sono stati e rimangono la vera alma aura spirituale che pervade tutti i pro-- dotti della letteratura posteriore, e anche oggidì le Upanisad sono per ogni indiano brahmanico ciò che per ogfti cristiano è il Nuovo Testamento ».
Così non la pensa l’Oldenberg il quale vede [invece nel Buddhismo la più alta manifestazione dell'ingegno speculativo degl'indi.
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Troppo in lungo ci porterebbe il riassumere, sia pure brevemente, la ricca e vasta letteratura sul Buddhismo apparsa negli ultimi anni. Del resto tale lavoro è stato già fatto dall’Oldenberg nello Archiv für Religionswissenschaft (Siebzehnter Band, drittes und viertes Heft, Juli 1914, G. Teubner in I^ipzig und Berlin). Vogliamo nondimeno segnalare il secondo volume (erste Hälfte) della Geschichte der indischen Literatur del Winternitz, pubblicato a Lipsia hei 1913. L’A. con una esposizione ordinata, piana, lucida e garbata mette a giorno il lettore di tutto quanto sommariamente interessa di sapere circa il contenuto del canone pàlico e di quello sanscrito e degli studi principali intorno ad entrambi. A chi voglia iniziarsi nella conoscenza delle fonti e della letteratura relativa al Buddhismo non si saprebbe suggerire opera più utile e adatta. E da ultimo gioverà esporre succintamente il terzo capitolo della più volte citata opera dell’Oldenberg e riprendere il filo del discorso interrotto là dove si diceva che per quest’ultimo indianista il pensiero indiano trova la sua più alta espressione nel Buddhismo anzi che nelle Upanisad. A torto, dice l’Oldenberg si suole fare un fascio di brahmanesimo e buddhismo, quasi che il secondo derivasse dal primo senza soluzione di continuità, senza sbalzi. Invece sta di fatto che profonde sono le differenze tra l’uno e l’altro, nè sempre è possibile scoprire storicamente le ragioni immediate di esse. La lingua adoperata dai brahmani è la vedica che via via si trasforma nel sanscrito, ossia in un idioma dotto, patrimonio di pochi, delle caste dirigenti. Da un ben altro spirito si mostra animato il Buddhismo valendosi dei dialetti popolari e prescrivendo che ciascuno apprenda nella sua propria lingua la parola del Maestro; A nord-ovest della confluenza del Gange e della Yamunà deve cercarsi la patria del brahmanesimo, mentre quella del buddhismo è all’est e sembra che i monaci avvolti nel giallo mantello abbiano da principio scelta la via dell’oriente, mai quella dell'occidente per evangelizzare il nuovo verbo. Non vi può essere dubbio di sorta sulla posteriorità anche della più antica letteratura buddhistica rispetto alle Upanisad del primo periodo. La lingua, la metrica, la capacità di dominare un' maggior numero d’idee, l’arte di propagarle con l’insegnamento, la forma progredita del dialogo, la vita evoluta della città in
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cambio di quella primitiva e limitata del villaggio, testimoniano di tempi nuovi, d’una civiltà più matura che presuppone dietro a sè il lungo e lento lavoro dei secoli. Sporadici appaiono nelle Upanisad i casi d’individui che rinunciano al mondo per diventare monaci girovaghi: nel buddhismo questi apostoli mendicanti diventano legione; ubbidiscono a un codice disciplinare, formano una’nuova vera e propria istituzione sociale. Nelle Upanisad le idee non assumono contorni netti e definiti, la teoria della trasmigrazione delle anime non è stata ancora elaborata, il principio che il destarsi alla verità affranchi dal dolore mondiale è lungi dall’essere assurto a venerabilità di domma, l’autorità dei Veda e il rispetto alla tradizione restano integri, domina l’amore del mistero e il linguaggio della fantasia viene spesso e volentieri anteposto a quello della ragione. Quanta diversità, quanta più sicura visione del mondo nel buddhismo che personifica il fluttuante Brahman delle vecchie Upanisad, trasforma la teoria della trasmigrazione delle anime in una fonte inesauribile di novelle fantastiche e di apologhi, concepisce la grandiosa idea dei Buddha e dei Bodhisattva, appunta gli strali d’una critica illuminata e coraggiosa contro i vaniloqui e le superstizioni dei libri sacri tradizionali, scansa i problemi metafisici, pone a base del divenire la ferrea legge del nesso causale, studia di percepire ed esprimere le cose tali quali sono nella loro realtà.
L’Oldenberg si volge quindi a lumeggiare la dibattuta questione dei rapporti fra Sànkhya e Buddhismo. L’analisi acuta e profonda delle due dottrine gli consente di formulare i seguenti principii: è impossibile .parlare di un influsso diretto del Sànkhya sul Buddhismo, ma un influsso indiretto c’è stato e in maniera cospicua; il Sànkhya classico è posteriore al Buddhismo più antico nel quale quindi troviamo riflesse idee d’un sistema Sànkhya anteriore a quello classico e documentato in parte dall'epica e dalle Upanisad del tipo della Maitràyana. Sebbene il Buddhismo a differenza del Sànhkya si oppone al tentativo di tutto sapere e tutto spiegare; sebbene il mondo gli apparisca come un processo di dolore che può venire realmente distrutto e eliminato non già, come nel Sànkhya, èssere semplicemente scansato dall’anima individua che riconosce se stessa diversa dalla materia; sebbene la catena buddistica delle dodici cause si riferisca soltanto a processi psichici in stretta relazione coll’origine del dolore e si discosti fondamentalmente dalla evoluzione dei ventiquattro principii materiali del Sànkhya; è tuttavia evidente che certe strane contraddizioni sono nel Buddhismo frutto di antiche idee ereditate, pel tramite del Sànkhya, dalla dottrina upanisadica e vanamente dissimulate. Così per esempio il dualismo tra spirito e materia, tra l’io e il non io riappare nella predica che il Buddha fece seguire a quella famosa di Benares e nell'altra in cui afferma che tutto è in fiamme. Del pari l’aver voluto eliminare il concetto dell’anima individuale (dtonan) fece incorrere il Buddhismo in una contraddizione inevitabile a proposito della teoria del karman: se il corpo non costituisce l’io, se le sensazioni, le rappresentazioni, le disposizioni, il conoscere non costituiscono l’io, quale sarà l’io che dovrà portare i frutti buoni o cattivi delle azioni compiute dal non io?
Anche più stretti che col Sànkhya sono i rapporti del Buddhismo con lo Yoga. Le pratiche d’ascetismo, di meditazione, le quali condussero lo stesso Buddha al conseguimento della verità liberatrice, sono indubbiamente patrimonio dello Yoga.
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Buddha del resto non fa un mistero di averle imparate da Alàra Kàlàma e da Ud-daka. Parimenti presi in prestito dallo Yoga sono l’atteggiamento ostile ai digiuni e ai cilizi e il convincimento che i gradi più alti della contemplazione si raggiungono soltanto da chi si è ben nutrito ed ha scelto un luogo ameno come il più adatto al meditare. Perfino la terminologia tecnica e a volte interi versi si corrispondono mirabilmente nelle due dottrine. Vero è che nel Buddhismo non si attribuisce alle pratiche meditative quella importanza essenziale ed esclusiva che hanno nello Yoga. Esse possono esserci e anche non esserci, perchè ciò che sopra a tutto importa è il conoscere. Si aggiunga che tutta la parte teorica dello Yoga, segnatamente la credenza in un Dio personale, è rimasta estranea al Buddhismo. Dal lato della teoria il Buddhismo è più vicino al Sànkhya, dal lato della pratica allo Yoga.
Questi cospicui imprestiti dalle scuole brahmaniche tolgono forse al Buddhismo il vanto dell’originalità e ne esauriscono il contenuto? « La giusta risposta a tale domanda — dice l’Oldenberg — non potrà fare difetto a chi nell’indagare reciproci rapporti, influssi e anteriori modelli, ha tuttavia conservato la capacità di riconoscere la parte che spetta al genio creativo ».
Prevalentemente buddhistico è il risalto che i testi e palici e sanscriti dànno alla legge della causalità e all’assioma che il mondo fisico e psichico è in un continuo divenire. Esclusivamente buddhistico è il velo di cui il Buddha ha voluto coprire il soprannaturale. « Questo l’Eccelso non lo ha rivelato » è la formola stereotipata. « Dalla negazione dell’Essere e del Non essere, da abissi anche più inscandagliabili del Brahman e del Purusa, brillava il Nirvana al presentimento dell’uomo pio il quale non ambiva di scioglierne l’enimma, ma di spegnersi in esso ».
Il Buddhismo si è bensì giovato in massima parte di conquiste spirituali delle scuole e delle sètte ascetiche che nell'india lo precedettero^ ma quanto maggiore consistenza ed unità esso riuscì a dare a tutte le dottrine fino allora fluttuanti, sparse, disorganate, quanta preponderanza dell’elemento etico sulle aberrazioni mistiche! Non le Upanisad, non il Sànkhya e lo Yoga valsero mai a fondare una vasta comunità religiosa, quale la buddistica, destinata a oltrepassare i confini dell’india e ad espandersi in quasi tutta l’Asia. Chi mai prima del Buddha aveva osato evangelizzare il verbo della salute non meno agli umili che ai potenti, a tutti senza distinzione di caste? E dinanzi alla maestosa e serena figura del Buddha quale saggio indiano dell’antichità non impallidisce? Può Yàjfiavalkya, può Rapila reggere al confronto della sovraumana creatura che attraverso gli evi migrando di esistenza in esistenza ha raggiunto infine la perfezione? Nel Buddha che tutto deve a se stesso, che come tutti gli altri sottoposto alla ferrea legge della causalità si è in ultimo emancipato per sempre da essa, storia e mito, verità e poesia sembrano trovare il naturale e fatale loro ricetto. Egli non è un dio, ma è un uomo superiore a qualunque dio e la grazia che viene da lui non consiste già nel sottrarre i devoti alla legge causale, nell'esimerli dalla responsabilità morale indulgendo e perdonando ai loro peccati, ma nell’esempio della sua santa vita, nella rivelazione della verità salvatrice. Ogni individuo non può aspettare la salute dell’anima che da se stesso pur confidando, col cuore pieno di gratitudine, nella luce che la grazia del Maestro ha diffuso nel mondo con la predicazione. Fiducia illimitata nelle proprie forze e
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illimitata riconoscenza all’Eccelso pieno di grazie segnano il più alto punto dell'evoluzione religiosa indiana. L’arte quindi non indugiò a dare corpo a tanta grandezza spirituale nelle innumerevoli statue del Buddha disseminate dappertutto nell’Asia e che lo rappresentano in guisa da non lasciar più sorprendere nei suoi lineamenti soavi nemmeno una lontana ombra di « quanto appartiene al divenire e morire, all’essere e non essere ».
Da questa veramente mirabile e magniloquente esaltazione del Buddhismo s’ingannerebbe a partito chi volesse inferire un giudizio favorevole pronunciato dall’Oldenberg sul contributo dell’india al progresso e alla civiltà umana. La condanna del popolo indiano come d’una gente fiacca, snervata, è ripetuta in questo recente volume dell’insigne orientalista anche più energicamente e recisamente che nelle altre sue opere. Paragonare i prodotti del pensiero filosofico occidentale con quelli caotici dell’antichità indiana significa, secondo lui, rendere a questi ultimi soverchio onore o anche sforzarli a dire quello che non dicono (pag, 351). Gli effetti della dottrina del karman furono deleteri non meno di quelli del sistema castale e sembra a essere stato il destino della fiacca anima popolare indiana di avvolgersi nei ceppi non solo per le istituzioni che creò, ma anche per i pensieri che venne escogitando» (pag. 115). Il pessimismo indiano lungi dall’essere irutto di maturità e profondità di pensiero, sembra all’Oldenberg derivare da disposizioni fisiche le quali indeboliscono l’energia vitale e la capacità al godimento dei piaceri, mentre alimentano dall’altra parte l’ansia con la quale la fantasia si compiace d’indugiare in ogni cura, in ogni fosco pensiero. « Non più movimento e tumulto di lavoro, di avvenimenti, ma aspirazione verso il sicuio porto dell'eterna pace! » (pag. 124). Altrove (pag. 179) l’indefesso lavoratore tedesco pel quale è religione non perdere un solo minutp di tempo e che la fretta della penosa indagine scientifica sospinge ed incalza, si tradisce protestando contro le lunghe e inutili ripetizioni dei testi indiani: « (in questi circoli filosofici dell’india) par che da chi parla e da chi ascolta s’ignori ciò che vuol dire non aver tempo da perdere, l’impazienza di stimolare l’ine-'sorabile lentezza con la quale procedono. Nelle scuole brahmaniche e nei romitaggi silvestri il tempo che si ha a propria disposizione è illimitato ».
E per concludere mi piace qui ripetere le parole che il nostro Kerbaker rivolgeva appunto all’Oldenberg nel 1904 a proposito del Mahàbhàrata: « L’illustre prof. 01-denberg, nella sua recente opera Die Literalur des alien Indiens afferma essere il Mahàbhàrata il preciso ritratto della razza aryo-indianà, degenerala sotto gl’influssi deleterii del clima tropicale e contaminata dalla mescolanza colle razze non arye, dravidiche ecc. », e trova in esso «la bibbia dell’induismo ove si respira quella torbida atmosfera mistico-sensuale, che ben va d’accordo coll’oppilante regime castale e col dommatismo fantasmagorico e superstizioso del Brahmanesimo...». Tutto inteso il dotto uomo a notare nell'indica letteratura il differenziamento etnico, da altri troppo trascurato per amore delle affinità indoeuropee, di nulla fu più sollecito che di segnalare la degenerazione irremediabile degli Arii-indiani, gente dirazzata, a suo avviso, dalla nobile famiglia, una volta che ebbe la disgrazia di piombare, andando all'incontro del Sole levante, nella caldaia Gangetica, staccandosi del tutto dalla fresca e vivificante zona dell’occidente, la più confacevole al tipo ario nativo.
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secondo che oggidì si afferma, dell’Europa nordica o centrale (Deutschland)! Ma bisogna andare un po’ adagio a sentenziare sui degenerali. Dalla semplice deviazione di taluni caratteri esterni da un tipo prestabilito non si può inferire, così.nelle nazioni come negli individui, la degenerazione (triste parola, con cui si vorrebbe dannare alla Geenna i deboli e disgraziati, che è ora di moda il confondere coi dappoco!), sintantoché rimane inesplorata la parte più sottile e interiore dell’organismo (alla quale più che mai sono ora rivolti gli studi biologici), che è come il centro misterioso della vita, il quale si vede spiegare le sue energie indipendentemente dalla complessione più o meno robusta e compita del corpo in cui,risiede. Da codesto centro biologico dipende la tenace vitalità del carattere etnico nei popoli trasmigrati in clima troppo diverso dall’originario, e con esso si spiega il loro rifarsi e risorgere, dopo l’accasciamento e il decadimento,causato dalle circostanze. esterne. Come dunque si può dire che la genialità etnica primitiva si sia consunta ed estinta negli Arii indiani? O non ce la ritraggono a chiare note la lingua e lo stesso carattere fisiologico? Da tale premessa si è condotti a filo di logica ed affermare l’assoluta inferiorità morale e intellettuale degli Indiani, e quindi a generalizzare le qualità negative della loro produzione letteraria, raffrontandola cogli archetipi europei; mentre d’altronde a tali conclusioni apertamente contraddicono i fatti particolari attestanti la singoiar potenza ed originalità, così artistica come speculativa, del pensiero indiano, i quali niuno sa meglio apprezzare e mettere nel debito rilievo, quando gliene viene il destro, che il prof. Oldenberg ». (Vedi Sommario del Mahàbhà-rata coordinato alla traduzione di luoghi scelti del Poema. Proemio. Napoli, Stabilimento Tip. nella R. Università, pag. 13, nota 1).
Roma, 28 maggio 1917.
Carlo Formiche
CHIESA E SCIENZA.
........ Se molto meno accanila fu l'opposizione delle Chiese Riformale alla Scienza' pure non mancò neppur essa; e il Protestantesimo non è immune da una pecca della quale però seppe, bisogna riconoscerlo, fare ammenda in più occasioni, come ad esempio in riguardo della memoria dell’infelice Michele Servet, ucciso per intolleranza dei Riformali di Ginevra, ^d onorato con un monumento espiatorio dai figli dei Riformati stessi. Ma è giusto e doveroso ricordare anche le opposizioni delle Chiese minori, come è giusto e doveroso' riconoscere che certo pietismo cieco affetta verso la Scienza — raggio dell'Eterno'aneli’essa, lo ripeto — un disdegno che più che di fede ardente è figlio di ignoranza; è giusto e doveroso ricordare tulio ciò, per poter ricordare altresì che c'è uno spirilo diverso e superiore a quello del CaUolicismo romano, diverso e superiore a quello del Protestantesimo, diverso c superiore a quello dell’Ortodossismo diverso e superiore a quello di un pietismo malato; è lo spirito del Vangelo .di Cristo-col quale, diciamolo dunque conferma e sicura parola, la Scienza non ha serio motivo di conflitto... Miario Falchi.
(Dal volume La Chiesa e i nuovi tempi).
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MORALE E RELIGIONE
NELLE OPERE DI SHAKESPEARE
(Continuaxione. Vedi Bilychnit, tue. di aprile xjxy, pag. 253 • **■>
A seconda metà del sec. xvi, e il primo decennio del sec. xvn, cioè i regni di Elisabetta e di Giacomo I — i contemporanei di Shakespeare — furono caratterizzati dallo spettacolo di tali orrori perpetrati in nome della religione, e di tale cozzo di sètte e di partiti, da ingenerare nell’animo di uno spettatore capace di amare la vita e di apprezzare l’umanità in modo intuitivo e diretto, disposizioni di tolleranza sconfinata o di scetticismo filosofico, morale e religioso sopratutto.
Se la « sanguinaria Maria » aveva durante i suoi cinque anni di regno, religiosamente arrostito 255 èsseri umani sul rogo in nome del « Papismo », la « buona regina Bettina » non solo doveva giustiziare 168. persone, perchè « preti, o ricettatori di. preti, 0 convertiti » (impiccandoli, squartandoli, e peggio), ma sospendere alle forche molte diecine di migliaia dei suoi « ben amati sudditi » gareggiando col suo degno padre Enrico Vili. « Tantum religio potuit suadere malorum ». Strappare nasi, forare orecchie con ferri infuocati, mozzare mani e capi, sbudellare, impiccare, bruciare vivi uomini, donne e fanciulli a causa delle lóro «opinioni religiose» erano cose sì ovvie ai tempi di Shakespeare, e tali persecuzioni costituivano parte sì prominente della teologia che era predicata dai pulpiti della Londra in cui egli si recò ventenne, che ve n’era più che a sufficienza per distogliere un giovane ambizioso, amante dei piaceri e anelante alla felicità, troppo religioso, troppo morale e troppo filosofo per identificarsi con religioni, morali e filosofie che sopprimevano la vita anziché risolverne i problemi, dal divenire attore della insensata e disumana tragicommedia.
Egli che fórse aveva appreso sulle ginocchia della madre « a indirizzare le sue preghiere mattutine al Cielo in sacra ufficiatura » del cuore e dell’entusiasmo irrazionale: egli il cui decalogo morale e civile si racchiudeva già tutto, forse, nel: « Il dovere di ogni uomo è verso il re, ma la coscienza di ogni uomo è sua propria » dovè provare una istintiva ripugnanza dinanzi a quel macello religioso, e ru il suo buon senso a intimargli di tenersi lontano dal prendere partito in quel labirinto di controversie, e attingere invece alle fonti della vita vissuta.
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E la vita a au grand air » lo compensò ad usura della sua saggezza, e la società « che fu sua » gli offrì nella sua struttura intima e nel suo centro di gravità che restava ancora sano ed equilibrato, il modo di sfuggire al secolo decimosesto e decimosettimo, per tuffarsi non in un’altra epoca, ma in un altro mondo.
Shakespeare visse ipfatti in un’epoca rigogliosa, ricca e proteiforme: piena di speranza, di energia e di eroismi. Egli la definiva da par suo quando affermava: « Noi siam fatti di quella stoffa- di cui sono formati i sogni ». L’impulso dato alle arti, àll’industria, al commercio dai Tudors, che culminò nell'apogeo del regno di Elisabetta, specie dopo la sconfitta dell’« Invincibile Armada » nel 1588; le imprese politiche, le spedizioni geografiche, Timmigrazione di esuli artigiani e di dotti, protestanti ed eretici, facevano scorrere un fremito di vita turbinosa ed intensa; alimentavano un’atmosfera di splendore e di lusso, di squallore e malvagità, di voluttà e di orgoglio, di prodigalità, di. avventure, di eccessi in ogni direzione.
Con tutte le sommosse e le violenze, e le sanguinose esecuzioni per motivi politico-religiosi, la gioia della vita aveva il sopravvento e le giornate di sole eccedevano quelle tetre ed uggiose. La grande maggioranza della popolazione, specie quella dedicata all’industria e al commercio, si teneva lontana da ‘ controversie religiose, allora come sempre: e in una Londra tanto più angusta che al presente ma pure, in proporzioni pili ristrette, altrettanto movimentata che oggidì, e più animata ancora per lo sfoggio dei colori degli abiti, dei costumi, delle abitudini chiassose e gioconde, Shakespeare potè trascorrere gli anni più formativi della sua vita in un’atmosfera intellettuale eccitante, stimolante, educativa di ogni, senso e di ogni facoltà, ma punto o poco religiosa, punto o poco consapevolmente e categoricamente morale.
L’Inghilterra pre-puritana non si dava ancora alcuna preoccupazione per la sorte eterna della sua « anima ». Il Protestantesimo che nell’anno 1563, un anno prima della nascita di Shakespeare, aveva trovato la sua forma anglicana in un Credo di 39 articoli, aveva alleggerito la popolazione del fardello per essa sensibile della soggezione a Roma e. delle decime esatte in nome delle anime del Purgatorio, senza incalzarla ancora verso l’arduo compito di accertarsi se avesse conseguito veramente la « Grazia di Dio », se la sua « Conversione » fosse sincera, se il pericolo di eterna perdizione fosse scongiurato. Il temperamento religioso e la mentalità divota era ancora quella del cattolicismo medioevale dei laici: infantile, anticritica, credula solo nel senso che accettava senza analisi la struttura dommatica del Cristianesimo come impalcatura di sostegno di una religiosità indefinita fatta di sentimento, di speranze, di emozioni; aderente alle cerimonie della Chiesa come ad un elemento formale entro il quale ognuno è sicuro di ritrovare ciò che egli vi ha messo con la sua immaginazione. Il Paradiso era ancora le meta naturale di tutti quelli che ricevevano i Sacramenti della Chiesa e conducevano una condotta passabile: sènza bisogno di ruminare i complicati problemi della « Predestinazione » e della « Salvazione per la fede o per le opere ». Sarebbe impossibile immaginare Shakespeare in preda ad ansie e torture spirituali, nell’incertezza se egli fosse stato, o no, salvato dal Sangue di Cristo, o se fosse possibile che egli decadesse dallo « Stato di grazia »; e vederlo immerso in digiuni e preghiere, meditando
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I. Il teatro " Globe " ai tempi di Shakespeare.
2. Scenario semplificato (nuovo sistema) pei drammi di Shakespeare ("Giulio Cesare" - esterno).
(1917-Vili)
-ISrr.'S'a
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sui quattro Novissimi: il mondo in cui si svolse la sua vita, l'età a cui egli appartiene, l’Inghilterra di Elisabetta e dei primi anni di Giacomo I, vi si oppongono (i).
Mentre i due terzi della Scozia erano già stati conquistati da un senso più coscenzioso, fanatico e insieme più cupo e puritano della religione e della morale, i due terzi della vita inglese erano ancora governati dal Credo delle feste campe(1) Mentre scrivo, uno sguardo -volto ad un’incisione di Shakespeare, cade a caso su un foglio di carta ingiallito in cui l'antiquario mi aveva avvolto l’incisione stessa. È una pagina di una vecchia cronaca degli avvenimenti della rivoluzione puritana, che culminò nell'esecuzione di Carlo I Stuart nel 1649 e nella repubblica di Crqm-well, nella quale sono riprodotti dei « tracts » rarissimi con temporanei, riferenti" le ! lesta demolitrici del puritanesimo appena trent’anni dòpo la morte di Shakespeare, a demolizione a furore di popolo delle croci secolari esistenti in Londra, in Cheapside e Charing-Cross e altrove, la distruzione col fuoco per opera del carnefice del Libro degli Sporls, ecc. Ne cito il breve tratto — contributo inaspettato al mio quadro.— nel suo stile impressionista e per noi semi-comico, dolente che si perda nella traduzione l’aroma degli arcaismi linguistici:
« il giorno 2 di maggio 1643 la croce in Cheapside fu demolita. Una squadra di cavalieri e due compagnie di fanti fecero la guardia: alla caduta della croce in cima (al monumento) i tamburi rullarono, le trombe suonarono, e gran moltitudine di berretti furono lanciati in aria, e un grande grido di gioia salì dal popolo. 11 giorno 2 di maggio, dice il Calendario, fu quello dell’invenzione della Croce. Lo stesso giorno, di notte, furono abbruciati i papi di piombo sul luogo stesso dov’era prima la croce, con grande suono di campane ed acclamazioni: e durante queste operazioni non accadde nulla affatto di male ».
(Notare che i papi di piombo non erano che figure di eminenti personaggi poste a contorno della croce, ma interpretate così dalla superstizione popolare).
«Il dieci dello stesso mese» — continua il « tract » — «il Libro degli Sporls (raccolta di statuti che contrastavano alla « santifica/.ione delle Feste ») fu bruciato per mano del boia, sul posto dove prima era la croce, è prèsso l'Exchange (Borsa) ».
Un altro «tract» contemporaneo agli eventi dice anche: «Le croci di Cheapside Grosse, di Charing-Crosse, e tutte le altre Croci in Londra e nei dintorni furono demolite dalle fondamenta e abbattute, e queU’abbominevole e blasfemo «Libro sulla tolleranza degli Sports e Passatempi nel Giorno del Signore (Domenica) fu condannato alle fiamme, e poco dopo effettivamente bruciato, insieme a molti Crocifissi e cianciafruscoli e anticaglie papistè, proprio nello stesso posto ove sorgeva la Croce di Cheapside e all’Exchange ». Ed un altro «tract» pubblicato nel giorno stesso 3 maggio 1643 da Thomas Wilson, s’intitola: «La demolizione del Dragone, cioè l’abbattimento della Croce di Cheapside •: e contiene i paragrafi: « 1® La Croce di Cheapside malata di cuore; 20 Sua Morte e Funerale; 3® Suo Testamento, Legati, Inventario ed Epitaffio; 4® La Ragione per cui fu abbattuta e l’Autorità con cui ciò fu fatto; 5® Il Beneficio e il Vantaggio che si trasse dal suo Materiale, e le diverse somme di Danaro offerte, nonché la soddisfazione che darà a migliaia di Persone; 6® Il Lettore deve notare che la Croce fu demolita proprio il giorno in cui le Croci furono per la prima volta inventate ed erette ».
Ciò che il buon Thomas Wilson abbia messo sotto questi sei promettenti titoli sarebbe indiscrezione chiederlo al mio causale fòglio di carta da involgere: ciò che è certo si è, che la Londra di Shakespeare era ben lontana dalle ridicole ossessioni di accanirsi attorno ad una innocua croce e trovava ben altre fonti di gioia che la condanna alle fiamme del Libro desìi Sporls per opera del boia. E a questa differenza enorme di ambiente, pure alla distanza di solo mezzo secolo circa, siamo debitori se Shakespeare potè senza animosità, anche se senza troppa simpatia, rimirare alla vecchia fede con l’occhio dell’artista, scevro dalle nebbie e dalla tetraggine dell’approssimantesi Puritarismo, e se potè con Chaucer compiere per l’Inghilterra la funzione che Dante compiè per l'Italia, di preservarci il Medio-Evo.
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stri e danze di maggio (Maypole), delle festività religiose, delle rappresentazioni popolari, della poesia, della musica, dei pellegrinaggi; più o meno in quelle condizioni stesse che Chaucer aveva Sì mirabilmente ritratte due secoli prima e narrate nei suoi Racconti di Canterbury. È così che si può dire che nell’età di Shakespeare la vecchia visione e concezione della vit*a, più latina che sassone, perseverava ancora, pur sul tramonto, nell’isola di smeraldo; che il sogno secolare della giornata medioevale brillava tutt’ora in un crepuscolo rosseggiante, prolungato e attardan-tesi sull’età d'oro Elisabettiana, e che se il Cat'tolicismo, come domma e imperialismo, papale, ha cessato d’incombere sulla società shakespeariana, il senso meridionale e latino della vita mantiene ancora il suo possesso romantico e sentimentale — come là Roma imperiale che seguitava, secondo il goto Gornandez, a possedere per forza d’idea (« imaginarle tenuit ») quei popoli su cui non più brandiva il suo scettro.
Il vantaggio per Shakespeare, di tale sopravvivenza del senso artistico e ro-mantico del simbolismo cattolico fu che egli si trovò in condizione di potere intendere lo sfondo storico e psicologico del medioevo, e 'porre in esso i suoi personaggi dei drammi del periodo cristiano. Non già che egli abbia analizzato e vissuto intimamente il loro Cristianesimo: solo egli ha visto intorno ad essi un’aureola o una atmosfera che ha riprodotto: li ha intesi parlare in termini di religione, e si è sforzato di trasmettere il loro linguaggio: li ha visti agire, il più spesso, in modo incoerente con la fede che professavano e i precetti morali che proclamavano, e realisticamente ci ha rappresentato le loro incoerenze e i loro convenzionalismi.
Che egli non abbia rivissuto geneticamente la religiosità dell'epoca in cui la maggior parte dei suoi drammi si svolge, lo mostra un'ovvia osservazione: cioè che la sua religiosità — quale che essa sia stata — non fu creativa. Non v’è tra i mille caratteri di sua creazione un solo in cui la passione o il sentimento dominante sia la religione. Egli ci ha dato eroi del dovere, del valore, della pietà figliale, dell'amore, della furfanteria anche con Falstaff, ma non un santo. Egli, il poeta del feudalismo, non potè ignorare il Cristianesimo come elemento integrale dell’organizzazione sociale europea, nè disconóscere che il Cristianesimo medioevale fu «cattolico»; ma la teoria di santi e di sante,-di martiri e di vergini, di re e di guerrieri, di sacerdoti e di monaci tipicamente « cristiani » passa dinanzi a lui con tutte le.seduzioni che avevano conquiso l’arte del medio evo e della Rinascenza, dall’estasi del santo all’entusiasmo del fanatico e alle virtù modeste ma pur fulgide, del semplice fedele, senza che la sua curiosità ne sia attratta, nè il suo genio ispirato a esplorare e riprodurre un’esperienza di sedici secoli.
Un esame analitico ci mostrerà ulteriormente l’assenza di ispirazione religiosa anche nei momenti religiosi dei suoi personaggi: ma ora solo un accenno per illustrare la reciprocità, cioè l’assenza di religiosità negativa o irreligiosità, e di quella che è intermedia fra religione e irreligione, cioè la superstizione (i).
(i) I fautori della tesi della « irreligiosità di Shakespeare » non mancano di accentuare il carattere pagano della Rinascenza elisabettiana, del quale i drammi di quel periodo venivano additati dai « Puritani » quale indizio eloquente. Filippo Stubbes, un contem-
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L’Ateismo era stato discusso da un contemporaneo di Shakespeare, Francesco Bacon: anzi Marlowe, il fervido e passionale drammaturgo suo con temporaneo» che si sarebbe eretto a suo competitore se la sua vita « Bohémienne » non l’avesse fatto morire appena trentenne in una rissa da taverna, fu un ateo professo: Giordano Bruno probabilmente conosciuto da Shakespeare, fu panteista-, ma non solo nè l’una nè l’altra parola ricorre nei drammi di Shakespeare, e neppure quella à’infedele, eccetto come sinonimo di Ebreo o di Turco, ma quel che è più, egli nulla ha da dire contro — benché neppure in favore — delle dottrine /correnti del Cristianesimo. Egli confina le sue vedute e osservazioni ad un mondo aon teologico; il quale è sostanzialmente lo stesso, sia che storicamente appartenga al periodo pre-cristiano, sia che ad un ambiente di Paganesimo cristiano o di Cristanesimo pagano.
I suoi personaggi « pagani » non sono peggiori, benché neppure migliori, dei «cristiani »: ed egli si mantiene lungo tutta la sua opera rigorosamente neutrale e scrupolosamente fedele e oggettivo, senza offesa —- nè rispetto — alle fedi o alle speranze dei suoi personaggi.
Eppure vi è un «soprannaturale » che occupa una non piccola parte nei drammi di Shakespeare: è il soprannaturale non religioso, duplicato umano, con l’aggiunta di proprietà e poteri sopra-umani, che prepondera nel Sogno di una notte di estate in cui l'uomo è il suo balocco; nel Macbeth, in cui le potenti energie umane a mala pena ne attenuano la visione e l’efficacia onnipresente, e nella Tempesta in cui sono gli spiriti ed il fato che vengono sottomessi all’uomo.
Si tratta dell'elemento sparso a profusione nelle commedie e nelle tragedie, di spiriti e di spettri, di streghe e di silfidi, di nani e di cento « aerei nonnulla », di cui Addison, il famoso « essaysta », scriveva, un secolo dopo Shakespeare, sullo Spectator’. « I nostri antenati solevano riguardare la Natura con più riverenza ed orrore prima che il mondo fosse illuminato dalla coltura e dalla filosofia: e amavano incutersi terrore con apprensioni di stregonerie, prodigi, incantesimi e magie. Non vi era villaggio in Inghilterra che non avesse il suo « spirito »; i cimiteri erano tutti infestati; ogni Comune un po' esteso aveva il suo circolo di fate; e non era quasi possibile di trovare un pastore che non avesse visto uno spirito ».
Che Shakespeare avesse o no creduto a questo mondo soprannaturale non religioso è una questione di lieve importanza, di fronte al fatto ben altrimenti significativo, che questo mondo rimane sequestrato e. confinato nella cornice e nello sfondo dei suoi drammi, che non si compenetra con il loro intreccio sostanporanéo di Shakespeare, nella sua Anatomia degli Abusi addita nei teatri del tempo la più diabolica invenzione del demonio.
Clie Shakespeare abbia conosciuto Giordano Bruno il quale nel 1585 era in Inghilterra e diede pubbliche lezioni ad Oxford, è più che probabile, benché su tale punto si sia lavorato molto di fantasia;
Che poi Shakespeare sia stato un « agnostico » resta ancora da provarsi, non ostante la lunga lista di citazioni che si possono addurre dalle sue opere a sostegno di questa come di tante altre ipotesi.
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ziale, non interferisce nell’intimo del dramma, non ne muta i termini, nè risolve alcuno dei tragici problemi dell’« essere o non essere ».
Esempio tipico di tale « marginalità » del mondo degli « spiriti » nel dramma shakespeariano è appunto il famoso soliloquio, nel quale Amleto rivolge nella mente femmina dell’«/ di là, senza riuscire a valicare oltre « il timore di qualche cosa dopo la morte, nella terra mai scoperta dal cui confine nessun viandante mai tornò »,... e ciò subito dopo che lo spirito di suo padre gli è apparso, e gli ha parlato appunto della sua sopravvivenza « in ¡stato di purgazione ».
È appunto il medesimo trattamento che poi vedremo applicato al soprannaturale religioso: la stèssa mancanza di compenetrazione e di reazione fra i principi e le dottrine morali e religiose professate e la condotta pratica dei suoi personaggi: e questa analogia dei due atteggiamenti fa sì che importi trattenersi alquanto'a notare la corrispondenza del «soprannaturale non-religioso » shakespeariano e le credenze superstiziose del suo tempo.
La sua storicità e perfetta oggettività nell’uso di tale elemento è talmente spoglia di qualunque tendenza soggettiva, che, al di fuori del criterio che poi svilupperemo a proposito del soprannaturale religioso, dell’influenza, o meno, di esso sul carattere dei personaggi e sull'andamento del dramma, non è quasi possibile ancor oggi decidere se, ad esempio, nei tre drammi summenzionati: Macbeth, Sogno di una notte d’estate. La Tempesta, egli intenda che l’elemento soprannaturale sia preso in senso letterale o allegorico: benché il linguaggio e le immagini da lui adóptate siano tali, che ogni uditore poteva interpretarle in conformità alle proprie preferenze e temperamento, aiutato certamente— come nel caso delle tre « streghe » (woird sisters) di Macbeth — dall’abitudine allegorica dei « drammi morali » (Mo-rality plays) di personificare vizi e virtù.
Una breve analisi e commento precisamente delle figure delle tre streghe in Macbeth, ci darà occasione di mostrare quanto profondamente la fede nella stregoneria fosse radicata nel popolo e impregnasse l'atmosfera del suo tempo, e quanto difficile sia poter formulare induzioni sulla proclività o refrattarietà di Shakespeare a subirne l’influenza sul suo sentimento impressionabile, anche se in contrasto con la sua ragione.
Un lettore della detta tragedia potrà rimanere esitante, ad esempio, di fronte al linguaggio, molto tecnico ma punto chiaro, della Ia Strega nel i° atto, scena 3a, se far risalire a Shakespeare il merito, o demerito; di averle messo in bocca quelle diavolerie piene di allusione per noi quasi inintelligibili, o se farne ricadere la responsabilità sul « folklore » noto ai suoi uditori, ai quali le allusioni della strega dovevano essere assai più inintelligibili che a noi.
La strega esprime così i suoi truci propositi vendicativi contro un marinaio la cui moglie le ha ricusato delle noci: «... Su di un setaccio io navigherò, e ad Aleppo lo raggiungerò... Io possiedo tutti i venti e le porte per cui essi spirano, e le regioni ad essi note sulle carte del marinaio. Io lo renderò asciutto come fieno disseccato: il sonno nè giorno nè notte lo visiterà sotto coperta; ed egli vivrà la vita d’un interdetto: stanco per sette notti, nove volte nove, egli si consumerà, dimagrerà e deperirà: benché la sua barca non possa andare perduta, essa sarà battuta dalla tempesta... ».
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Ora non è difficile ravvisare nelle allusioni della strega gli elementi comuni ad altri racconti di stregonerie del tempo: ad esempio la credenza, che foggiando una piccola figura di cera rappresentante la persona invisa dalle streghe, e ficcando in essa delle spille o esponendola al fuoco fino a che lentamente si struggesse, queste potessero causare a quella sofferenze, deperimento e morte. Ma un’allusione anche più particolarmente circostanziata è quella che si riscontra nella leggenda contemporanea relativa a Giacomo VI, di Scozia (figlio della cattolica Maria Stuart, e poi re d’Inghilterra), e che ci si perdonerà qui di riferire, come assai adatta a comunicarci il senso della « storicità e oggettività » suaccennata, del soprannaturale Shakespeariano. Eccola su una narrazione dell’epoca: Satana, nemico della Riforma Protestante (naturalmente, perchè nel Cattolicismo si trovava più a suo agio), fu grandemente allarmato all’udire che Giacomo VI di Scozia, futuro re d’Inghilterra, aveva sposato la Principessa Anna di Danimarca, appartenente alla Chiesa Riformata. Per scongiurare le conseguenze di quest’atto, egli mandò prima una fìtta nebbia sopra il mare, nella speranza che il vascello che portava il re e la sua sposa naufragasse: ma non essendo riuscito nel suo disegno, mandò un’intimazione a tutte le streghe perchè venissero ad incontrarlo in un concilio plenario. Infatti, la vigilia della festa di Ognissanti si adunarono più di 300 streghe e molti stregoni. Mentre essi attraversavano il mare, ognuno sul proprio setaccio, « molto sicuramente », in alto mare s’incontrarono con un demonio, che aveva un gatto che era stato tratto dal fuoco ben nove volte. Egli lo consegnò ad uno stregone, il quale fece con esso scatenare una furiosa tempesta, nonostante la quale navigarono felicemente, e, giunti alla riva, marciarono col setaccio in mano verso la Chiesa incantata di North Berwich, nella quale Satana doveva tenere un sermone. Arrivati fecero una processione intorno alla Chiesa in direzione opposta al movimento del sole: quindi il dott. Fian segretario del Diavolo soffiò nei buco della porta, la quale subito si aprì, e tutti entrarono. Con un altro soffio sulle candele dell’altare, queste tutte si accesero, e rivelarono Satana già pronto sul pulpito. Prima di cominciare il suo discorso, il Diavolo si volle informare sull’esito della loro congiura contro la coppia reale. Grey Maill, uno stupido vecchiaccio di stregone, che funzionava da bidello dell’assemblea, fu così sciocco da rispondere: « Finora il re non ha sofferto nulla, grazie a Dio... »: sicché il diavolo arrabbiato gli misurò un ceffone. Sorsero quindi due streghe, Agnese Sampson ed Eufemia Macalzean, a domandare al diavolo se egli avesse portato con sè una immagine o una pittura del re Giacomo perchè potessero con le loro punzecchiature su di essa causare all’originale dolori e malattie. Il padre della menzogna questa volta disse la verità e confessò che se n’era dimenticato, e ne fu castigato dalle due streghe con una solenne lavata di capo, che egli prese in santa pazienza. Ristabilito l’ordine, il diavolo volle offrire a tutti un macabro banchetto, e fu tanto generoso per riguardo a vino, che presto tutti divennero assai brilli. Una strega cominciò a suonare con la tromba, ¿.il diavolo inaugurò la danza ballando con Eufemia Macalzean: e così continuarono tutta la notte a far baldoria, finché il gallo cantò.
Il più notevole si è che nel 1591, due anni dopo il viaggio di Giacomo VI di cui si tratta nella leggenda, Agnese Sampson, la strega summenzionata, confessò
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che mentre Sua Maestà era in Danimarca, essa aveva preso un gatto, e, battezzatolo, lo aveva legato con diversi pezzi di carne di cadavere umano, e la notte seguente lo aveva portato, con altre streghe, in alto mare — navigando sui loro setacci — e lo avevano gettato in mare dinanzi alla città di Leith in Scozia, provocando così una furiosa tempesta « quale non era mai stata vista per l'innanzi », la quale aveva cagionato il naufragio di un vascello diretto verso Leith. Confessò ancora, che il detto gatto battezzato era stato cagione del vento che soffiò contro la nave di Sua Maestà « al suo ritorno dalla Danimarca », mentre le altre navi della sua scorta avevano un vento favorevole: ciò che il Re stesso aveva in fatto osservato con grande maraviglia.
La sorte delle streghe della leggenda e del dott. Fian fu assai pietosa. Agnese Sampson e il dott. Fian furono impiccati dopo aver sofferto altri tormenti, mentre Eufemia Macalzean fu condannata ad essere legata a un palo e bruciata viva.
Prima ancora di essere torturate, le vittime confessarono di avere avuti) commercio col Demonio, riconoscendo così la giustizia della sentenza in conformità con le leggi esistenti. Nessuna misericordia fu loro usata: nè al dott. Fian, maestro di scuola, nè ad Eufemia Macalzean di alto linguaggio, figlia di Lord Cliftondale, nè ad Agnes Sampson non ostante il « suo aspetto grave, simile a matrona ».
Ancora riguardo ad un altro avvenimento storico contemporaneo a Shakespeare; ed anche più notorio, quello della famosa « congiura delle polveri » (che dovevano far saltare per aria il Parlamento inglese il dì 5 novembre 1605) fu comune voce che la scoperta del complotto fosse dovuta a un certo dott. John Dee, il quale si sarebbe servito- di uno specchio magico: versione questa, fissata anche in illustrazioni di parecchie edizioni del Libro di Preghiere Comuni » {Common Prayer Book). Se si pensi che il Macbelh fu scritto verosimilmente nell’anno 1606, un anno dopo la scoperta della « Congiura delle polveri » e un quindici anni dopo l’episòdio della leggenda suesposta, e la Tempesta sólo alcuni anni più tardi, si dovrà convenire che il « soprannaturale non-religioso » dei drammi di Shakespeare è perfettamente intonato « al colore locale », senza che noi siamo punto autorizzati per questo ad ascrivere a Shakespeare stesso le superstizioni dei suoi personaggi o a riconoscere altro intento che artistico nell'uso che egli ne fa.
Dèi resto questo almeno sappiamo, che, abbia o no Shakespeare partecipato e in qualunque grado, della comune credenza, egli ebbe certo piena conoscenza dell’atteggiamento ad essa contrario: egli che nel Racconto d'inverno, atto III, scena 3* pone in bocca ad Antigono le parole: «... Ho sentito dire (ma non ho creduto) che gli spiriti dei morti possono camminare di nuovo: se ciò fosse vero, tua madre, mi apparve la notte scorsa; poiché mai sogno fu così simile alla veglia... I sogni sono balocchi: tuttavia, quanto» a questo qui, benché superstiziosamente, mi lascerò regolare da esso»; e che nel Pericles introduce questo dialogo:
« Marinaio’. Signore, il cadavere della nostra regina deve esser gettato in mare: il mare si è gonfiato, il vento è impetuoso, e non si calmerà fino a che la nave non Sia liberata dal morto.
« Pericles’. Ma questa è una vostra superstizione!
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« Marinaio'. Vi chiedo scusa, signore; ma per noi marinai, questa è la costante usanza, e noi siamo fortemente attaccati alle consuetudini ».
E sé si annumeri anche là fede nei « miracoli » di ordine fìsico alla categoria del soprannaturale non-religioso (si ricordi il Paolino: « Gli Ebrei chiedono prodigi, e i Greci cercano la sapienza: noi invece predichiamo un Gesù Cristo crocifisso, con scandalo degli Ebrei», ecc.) Shakespeare, contemporaneo di Bacon, Bruno e Campanella, non ignora il verdetto della' scienza che « I miracoli sono cosa del passato ». Egli lo pone di già in bocca all’Arcivescovo di Canterbury nel suo Enrico V, (l’azione, si ricordi, è al principio del scc. xv) a cui fa dire — volto al vescovo di Ely: — «Così deve essere, poiché i miracoli sono passati, e perciò dobbiamo necessariamente ammettere i mezzi (per spiegarci) come le cose sono compiute ». E nel: « Tutto è bene ciò che finisce bene », Lafeu (un vècchio signore) nell’atto II, scena 3a rappresenta pure, benché non associandovisi, lo stesso atteggiamento, nelle parole: « Dicono che i miracoli sono cosa del passato e noi abbiamo le nostre k personalità filosofiche per rendere moderne e famigliar! cose soprannaturali e prive di causa. E così ne viene, che per noi i terrori divengono bagattelle; chè noi ci trinceriamo nella nostra presunta scienza, quando dovremmo invece sottometterci al timore dell’ignoto... ».
E forse era Shakespeare stesso che dava il congèdo a tutto il soprannaturale non religioso, nelle parole di Prospero in La Tempesta — forse l’ultimo e il più sereno e maturo dei suoi drammi: «... Questi nostri attori... erano tutti spiriti ed ora si sono risolti in aria, in una sottile aria... Abbiamo finito di folleggiare... ».
(Continua).
Giovanni Pioli.
CHIESA ED ERESIA.
, ... Eretici ed ortodossi adempiono quindi una funzione utile e necessaria. Tra gli uni e gli altri deve esistere quello stato di lotta che è una delle condizioni essenziali della vita, ma senza odio vano, senza sciocca ferocia., Basta capire, e comprenda c’est aimer, ha scritto il Guyau. Ai persecutori di tutte le eresie si possono rivolgere le parole del saggio Gamaliele al sinedrio, quando eretici e perseguitati erano i cristiani: « Se la loro fede è dagli uomini, essa cadrà da sé, se da Dio, voi tenterete invano di soffocarla ». L’Inquisizione ha macchialo di sangue umano la Chiesa sangue che grida ancora vendetta; ha potuto ritardare l’avvento di una nuova idea, ma non ha potuto impedirlo. È che la funzione dell’eretico non è meno utile e meno necessaria di quella dell’ortodosso allo sviluppo normale della vita sociale. E tra le due forze è la più bella e la più soddisfacente, e per questo conviene all’eretico essere perseguitato e soffrire di più... ».
. Antonino De Stefano.
(Dal volume La Chiesa e i nuovi tempi).
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CHIESA E CRITICA.
... Una legittima domanda: « Rispetto alle grandi verità cristiane i risultati della critica biblica in qual misura e in qual maniera hanno modificato le concezioni della teologia ufficiale delle Chiese? » La critica biblica, rivissuta dalle grandi menti cristiane moderne, ha dato alle verità cristiane uno spirito nuovo, quasi un nuovo e fresco significato, ha aperto nuovi orizzonti, ha unificato le singole verità -riallacciandole intorno a poche centrali; ne ha scorto l’intimo vincolo e la gerarchia; ha portato — aiutata dall’immenso lavoro compiuto contemporaneamente dalla sua sorella, la « storia dei donimi » — l’unità, la semplificazione là dove regnava la pluralità e l’eterogeneità; ha dimostrato come i venerabili Simboli della cristianità sono il frutto della speculazione di una data età, inadeguati ad esprimere oggi sia la realtà biblica che il nostro modo di pensare e di sentire il tesoro della verità cristiana. Ma ha anche favorito la scoperta di realtà religiose obliate, come quella del Regno di Dio, di cui ne ha messo in luce il vero significato realistico e l’importanza nella predicazione di Gesù e nel cristianesimo primitivo. Ha messo poi in evidenza il vero rapporto fra Chiesa c Bibbia e l’importanza della speranza nella Bibbia. Ha dato un significato profondo al fatto della rivelazione divina, ci ha dato il contatto con l’umanità di Gesù, il senso di un Dio vivente nella storia, di una religione sociale; ci ha riportati dai Simboli e dalle definizioni astratte alla realtà, concreta e complessa fusa nei fatti, della progressiva religione biblica; ci ha mostrato con un rilievo netto e precisarle idee madri, poche, ma feconde, del mondo religioso della Bibbia; ci ha fatto comprendere l’errore secolare dei teologi che trattavano la Bibbia come un libro astratto, dottrinale, invece che come un libro d’ispirazione e materiato di storia.
Un lavoro enorme al quale non possono sottrarsi incombe alle Chiese di domani sotto la spinta della crisi, dómmatica e dei risultati della critica biblica e della storia dei dommi: la costruzione- di una nuova e vivente teologia. È il compito costruttivo a cui s'erano accinti, con piena coscienza della gravità del problema dottrinale in seno alla Chiesa, i modernisti di tulle le Denominazioni, forse prematuramente rispetto alla lenta penetrazione della coscienza del problema stesso nelle masse impreparate delle loro rispettive Denominazioni. Ma è evidente che se la Chiesa vorrà avere un pensiero suo, la sua teologia da scolastica dovrà tornare ad essere una vera conoscenza comprensiva del divino, una teologia dinamica, che, non uccidendo il fatto, si elevi al di sopra di esso nella vera sfera del mondo religioso. Questo sarà uno e non dei più piccoli ineriti della critica biblica! •
Concluderò con le parole, che sono una « testimonianza », di un grande critico e grande cristiano: « La critica nelle mani degli studiosi cristiani non distrugge l’ispirazione del Vecchio Testamento; anzi, la presuppone. Cerca solo di determinare le condizioni nelle quali essa opera e le forme letterarie attraverso le quali, si manifesta; cosi ci aiuta a formarci una più vera concezione dei metodi che a Dio piacque usare nel rivelare se stesso al suo antico popolo d’Israele » (dal Driver)...
. ' ' Mario Rossi.
(Dal volume La Chiesa e i nuovi tempi).
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INTERMEZZO
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INTERREGNO IMMORTALE
(LEGGENDA)
Gli uomini avevano tanto gridato contro la Morte, le donne tanto pianto; i filosofi e i poeti l'avevano tanto apostrofata in rime e in apoftegmi, che, quasi seccata di queste scenate, la Morte se ne andò dal mondo.
Allora gli uomini non morirono più.
Una sera i giornali delle grandi città sparsero la notizia che durante la giornata non era stato denunziato alcun caso di morte. Benché la notizia fosse confermata dagli organi ufficiali, non tutti la credettero. L'esodo dalla vita non aveva mai sofferto irregolarità, fin dal principio della creazione. Pareva incredibile che all’improvviso, anche per un solo giorno, esso fosse interrotto.
Ma di nuovo, l'indomani, la medesima notizia fu lanciata da città a città per tutto il mondo. Nessuno era morto. Nè nelle città nè nelle campagne. I più increduli dovettero arrendersi. Per due giorni di fila non un essere umano aveva varcato la soglia della Morte; di più, i moribondi che già la toccavano còl piede erano balzati indietro prodigiosamente guariti.
.Fu un grido altissimo di stupore; quasi di timore, a causa della misteriosa straordinarietà dell'avvenimento.
I grandi giornali fecero « intervistare ■ gli uomini di scienza. Questi si mostrarono tutti impressionati dal fenòmeno; ma non concordi nella indicazione della causa. I fisici propendevano per una causa d’ordine fisico; mentre i chimici invocavano la chimica e gli astronomi l’astronomia. Un medico positivista, che non ammetteva portenti, dichiarò che in fondo il fenomeno era semplicissimo perchè rientrava nella categoria delle epidemie: soltanto, era una epidemia di salute.
A Lodovico e ad Elena Pa-Khetto per la morto della piccola Mirella, nata e cresciuta con Bi-ly (finis.
E passò un altro giorno, e in nessuna Sarte della terra fu registrato alcun caso i morte.
Allora la gioia scoppiò universale, irrefrenabile. I figli non si stancavano di abbracciare i genitori, già vecchi e cadenti, ora improvvisamente rimessi in forze; le mogli abbracciavano i mariti; le madri i giovani figliuoli sul volto dei quali ricordavano d'aver visto altre volte scendere l’ombra della Morte. Quantunque vi fossero, in quel tempo come sempre, uomini che desideravano la morte di altri uomini parve che, deposte tutte le inimicizie, sedati tutti i 'rancori, una gioia sola brillasse sulle facce umane. Era ¡’Angelo della Vita, questa volta, non quello della Morte, che batteva a tutte le porte d’Egitto, anzi del mondo.
I rappresentanti delle varie religioni espressero pur essi differenti ipotesi, almeno tante quante gli scienziati. I teosofi iniziarono un grande lavoro di reinterpretazione degli gnostici. Dei teologi e dei predicatori cristiani chi s’attaccò ad una Srofezia dell’Apocalisse, chi a una sentenza i S. Paolo, chi ad una parola di Gesù. I swedenborgiani e gli jrvingiani dimostrarono che a ben scandagliare le dottrine della « Nuova Chiesa » e dei « XII Apostoli », vi si trovavano sia la predizione che la spie-{azione dello strano fatto che succedeva.
»a tutte le chiese, in tutte le lingue, si sentivano levar inni di saluto al Millennio.
Passò una settimana: ancora feste e tripudi.
Passò un’altra settimana: feste, ancora feste.
Passò la quarta settimana.
La quinta settimana gli uomini si accor-
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sèro che da questa abolizione o sospensione della Morte nascevano anche degli inconvenienti.Alcune industrie e mestieri restavano Earalizzati. I becchini, i costruttori di are e di tombe, ih una parola i « lavoratori del morto » si dichiararono colpiti negli interessi della loro classe e sollecitarono provvedimenti.
Le società di assicurazioni sulla vita furono prese d’assalto da folle tumultuanti che reclamarono il rimborso del denaro versato. Coloro che si erano obbligati a somministrare vitalizi pretendevano l’annullamento dei contratti: contro di che elevavano le più alte proteste gli interessati. Gli impiegati delle amministrazioni pubbliche e private chiesero la riforma degli organici, essendo tolta la possibilità di avanzamenti in base alla morte dei superiori. I condannati a vita invocarono, anche con ammutinamenti e con tumulti, la modificazione delle sentenze basate sul vecchio criterio di misura della vita. Per analoga ragione, in taluni luoghi scoppiarono movimenti riformatori dell’istituto matrimoniale. Centinaia, migliaia di casi nuovi negli annali Siuridici furono sottoposti ai tribunali, iccome le corti non si pronunziavano uniformemente, moltiplicavano i casi, moltiplicavano la confusione.
Usurai che avevano prestate cospicue somme di denaro a giovani dell’alta vita in aspettativa di eredità, ne reclamarono l’immediata restituzione; conti e baroni decaduti che stavano per impalmare stagionate ereditiere si ecclissarono; letterati che per incarico di editori avevano già preparato il libro o l’articolo « improvvisato » che doveva apparire all'indomani della morte di un illustre vegliardo di fama mondiale, attaccarono lite cogli editori e quasi anche coll'illustre vegliardo; nei paesi cattolici i preti elevarono enormemente la tariffa dei battesimi e dei matrimoni, per la ragione che veniva a mancare il cespite delle estreme unzioni e dei funerali. Insomma, discussioni e litigi da per tutto. Il mondo sembrava convertito in una vasta aula giudiziaria nella quale tutti gridassero le proprie ragioni. I giudici non sapevano più a qual muro batter la testa.
E passò un’altra settimana, e nessuno, in nessuna parte del mondo, morì.
Gli economisti fecero pronostici severi. Se il prodigio continuasse per lo spazio
di un anno, nè scemasse, contemporaneamente, il numero delle nascite, avverrebbe, dicevano, una grande alterazione nello stato economico dei paesi. Se poi durasse dieci anni... ma qui i sacerdoti dell’economia e della statistica pronunciarono oracoli differenti e cominciarono a litigare anche tra loro. Molti insistevano nel consiglio d’intraprendere la colonizzazione delle parti meno abitate della terra. Ma, oltre che nessuno si risolveva a partire, era grande la indecisione nella scelta della località... E poi, dove s’andrebbe a cercare altro posto quando anche le nuove contrade occupate fossero piene zeppe di popolazione? V'erano alcuni che si sforzavano di persuadere il pubblico di adottare, quale unico rimedio possibile, il più rigoroso Malthusianismo. Ma costoro sollevavano da una parte un’accanita opposizione, e dall'altra parte, in quegli stessi che approvavano la loro proposta, una grande disparità di vedute quanto ai mezzi di controllo da essere esercitati dallo Stato.
E passò un'altra settimana e non si sentì parlare di morte.
Gli uomini si fecero nervosi, impazienti. Ogni mattina spiegavano i giornali e li scorrevano con occhi ansiosi. Volcvan forse assicurarsi che la falce della Morte giacesse ancora inoperosa? Così dicevano ma, in realtà, deponendo i fogli, che non segnalavano novità, sospiravano.
— Nessuno!
— Nessuno che?
— Nessuno morto!
Alcuni non si curarono più di nascondere la sorda irritazione interiore; altri cominciarono a sciogliere la lingua.
— Non vi accorgete — così parlò un rinomato conferenziere al cospetto di un immenso uditorio — non vi accorgete che dal punto di vista del pathos la sparizione della Morte segna piuttosto una perdita che un guadagno? Quali toccanti situazioni psicologiche erano create dal fatto della Morte! Padri che con la mano tremante cercavano il capo dei figli per deporvi l'ultima benedizione;. madri che volgevano loro l’estremo sguardo fervido dell’amore mai smentito; figli che singhiozzavano prostrati; spose che s’abbattevano sul petto immobile dell'amato; filosofi che pronunziavano la finale parola della loro sapienza; poeti che scioglievano il canto del cigno; statisti che dettavano l’ammonimento • sintetico della politica
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che avevano seguita; soldati che chiedevano la bandiera per imprimervi il bacio d’addio; capitani che levavano la spada spezzata indicando ancora una volta la via del nemico; sovrani che gemevano come semplici mortali; maestri che mandavano il supremo messaggio ài discepoli sparsi pel mondo; colpevoli, sempre sfuggiti alla giustizia, che confessavano il segreto dei loro delitti... Quante magnifiche situazioni psicologiche che davano senso e colore, alla vita mentre apprestavano le più feconde ispirazioni all’arte! Ma ora perdute! tutte perdute! Oh miniere d’arte e di pensiero donde i padri nostri * trassero tesori, voi siete chiuse ai figli, chiuse per sempre! La poesia, l’arte, • la bellezza, sono andate,- sono andate, sono andate. Vixerunt.
Queste recriminazioni si attaccarono come un contagio da bocca a bocca. Dovunque si parlava, il discorso cadeva sulle opere dell’arte e della scienza che gli uomini avevano create per ispirazione della Morte nel tempo eroico nel quale la Morte li visitava. I giovanotti chiomati dicevano che se la Morte non avesse loro giuncato quell’indegno scherzo di ritirarsi dalle umane vicende, essi pure avrebbero dato al mondo un capolavoro. Ma oramai le ali erano stroncate; non esistevano più ispirazioni.
Altri oratori e pubblicisti trattarono la questione dal punto di vista morale, e sostennero che anche nei riguardi dell'etica il mondo era scemato di valore.
— Pensate quale fonte d’educazione morale era — per chi restava nella vita — lo spettacolo offerto da chi ne partiva! Si poteva non essere profondamente colpito dalla vanità delle cose del tempo e non desiderare di contemplare le eterne? Si poteva non sentir precipitare nel fondo dell’anima le piccole ambizioni, i piccoli rancori, e non assurgere alla visione degli alti doveri e dei sommi ideali? Si poteva non pensare ■ domani sarà l’ora mia, debbo tenermi pronto»? Si poteva non acquistare un sempre più profondo senso della responsabilità della vita?
A queste commosse interrogazioni tutti assentivano e acclamavano con fragore. Pareva che gli uomini avessero d'un colpo dimenticata la loro storia.
Nè mancarono filosofi e critici più radicali i quali fecero osservare che l'abolizione della Morte non serviva neppure alla causa dell’immortalità.
Questa nuova specie d’immortalità che si svolgeva prosaicamente sotto gli occhi della carne, che si scontava sulla terra, sempre sulla terra, come una pena da domicilio coatto, questa curiosa immortalità awtó mortevi — essi dicevano — non seduce più il cuore degli uomini. In fondo l'intimo e più essenziale desiderio degli uomini non è tanto di viver sempre quanto di vivere variatamente, di cambiare stanza nel grande palazzo dell’universo. La Morte soddisfaceva a questo desiderio. Essa significava non solo vita e vita ancora, ma vita altrove. Quando veniva con i piedi fasciati di lana e ci rapiva i nostri cari e li trascinava in un turbine di ombra e di mistero, noi s’aveva ragione di sperare, anzi si teneva per certo, che fossero portati in una stanza più ampia di questa nostra terrena, più luminosa, più pura, più bella... Vedete, era il pensiero di questa migliore stanza, di questo migliore altrove che rendeva l’immortalità amabile e seducente. Ma ora! Immortali sì, ma sulla terra, sempre sulla terra. Immortali sì, ma sempre gli stessi, senza trapasso, senza altrove, senza mistero, senza speranza, eternamente legati a questa greppia terrena. L’immortalità ha perduto il suo contenuto di gloria e di vita. Non è più vita; non è che esistenza: esistenza eterna quanto volete, ma eternamente monotona, eternamente grigia, eternamente...
— Che dite? — incalzavano altri dal Bensiero acuto come la voce — che dite? tando alla logica pura, noi non possiamo ncppur concedervi che il fenomeno dell’abolizione della morte provi una interminata continuità di vita. Anzi! L'uomo poteva sperare in una vita che non finisse più, quando moriva, quando cioè, per il fatto che si dissociava dagli elementi della materia destinati a perire, poteva credere di andare ad aderire ad altri elementi di un. ordine superiore, spirituali ed eterni. Ma ora non c'è più Morte, non più dissociazione dagli elementi mortali, destinati a perire, e perciò manca la base a supporre una conseguente adesione agli elementi eterni. Contro la fede di rivestire l’immortalità che in passato si abbarbicava così profondamente e razionalmente ai nostri cuori, sapete che è tutto quello che c’è dato di credere oggi? che, una volta identificato il nostro destino col destino della terra, noi s'avrà a perire colla terra il giorno che, come c’insegnano la fisica e l’astronomia, il nostro pianeta
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dovrà inesorabilmente perire. Ecco la bella novità! Non si muore più ad uno ad uno, ma si morrà tutti insieme e davvero e per sempre! Ecco la bella novità salutata dal mondo con tante acclamazioni e tante feste!
Ormai gli uomini si esaltavano in questi argomenti. Si discuteva da per tutto, nelle scuole, nei circoli, nelle accademie, nelle case, negli alberghi, nelle banche, negli uffici, nelle botteghe, sulle piazze, sui mercati.
Alle dispute si aggiunsero i disordini. Perchè nelle città più popolose si organizzarono compagnie di giovinastri che si abbandonavano ad ogni genere di sfrenatezze. Quegli stessi che in altri tempi1 avean detto: « Mangiamo e beviamo perciocché domani morremo ■ ora dicevano: « Mangiamo e beviamo perciocché non morremo ». La paura di rovinarsi la salute e di morire anzi tempo era stata l'unico freno che aveva trattenuto una gran parte degli uomini dal gettarsi a capofitto nei Eiaceri. Ora questo freno era rimosso.
e vie dei saturnali formicolavano di gente. Pareva che un vento di follia passasse sul mondo.
Ma l’orgia si alternava col fastidio. Perchè appena rinvenuti da quegli eccessi, gli uomini si sentivano assaliti da un tedio mortale al pensiero che il domani sarebbe stato eguale all’oggi. In altri tempi si erano lamentati dell'incertezza del domani; ma. ora li opprimeva, invece, il pensiero della sua esagerata certezza. La luce-dell’alba era guardata con dispetto, salutata dallo sbadiglio. Non pareva più che il sole avesse fulgori.
Anche i cristiani che una volta avevano pregato con fervore e cantato inni, si fecero gravi e tristi. Se aprivano la Bibbia per cercarci una parola di conforto... ahimè, qual conforto poteva ministrare loro un libro che non sembrava più scritto per loro, perchè parlava di profeti che
morivano, di re che morivano, di sacerdoti che morivano, di santi che morivano, di apostoli che morivano, di Gesù che moriva? I cristiani che possedevano il crocifisso ne torcevano gli sguardi come da un geroglifico che non si poteva più intendere. — Commuovermi per Te che moristi?...— fu udito uno d’essi esclamare. — Ma beato Te che potesti morire! La vera croce è un mondo che non si può più lasciare!
* * •
Che avvenne?
Avvenne che improvvisamente, d’un colpo, il fenomeno della sospensione della Morte cessò ed il mondo rientrò nell'ordine.
A Roma, un giovane ventenne che non s’era abbandonato alla follia generale, che non aveva neppur preso parte ad alcuna discussione, se ne andò al Cimitero del Testaccio con una rivoltella in tasca.
Si fermò presso la tomba di Shelley e si tirò un colpo al cuore. Cadde. Morì.
Come l’incantesimo d’un cattivo genio rotto dal suono del Nome santo, così a quel secco colpo di rivoltella fu sciolto e dissipato l'incantesimo dell’interregno immortale. Nello stesso giorno, a Roma e in tutte le grandi città furono denunciati casi di morte. I giornali diffusero ovunque la notizia. La Morte era tornata nel mondo.
Fu un'esplosione di gioia irrefrenabile, universale. I figli non si stancavano di abbracciare i genitori, i genitori i figli, le mogli i mariti, i mariti le mogli
La sera', in tutte le città furon fatte luminarie. Nelle campagne i contadini accesero fuochi di gioia. Il giorno dopo furono sciolte le campane delle chiese e fatte suonare a gloria come la Pasqua di risurrezione.
Si tornava a morire. Per ciò il mondo si sentì risorgere alla vita.
Alfredo Taglialatela.
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UN ALTRO LATO DEL MODERNISMO
LA DEMOCRAZIA CRISTIANA IN ITALIA
n due studi precedenti, pubblicati in questo periodico (i), ho esaminato il modernismo còme fatto ecclesiastico e momento della storia della Chièsa; ed ho mostrato come esso, che da principio fu accettazione docile e fiduciosa di questa, in quanto istituto e dottrina, e tentativo di modificazioni esteriori, verso la cultura e la democrazia, per restituire ad essa nella vita e nella società l'influenza che andava rapidamente perdendo, dovesse poi» deluso dolorosamente nelle sue aspettative e premuto dalla
logica immanente delle idee, volgere la sua critica verso la logica immanente delle idee, volgere la sua critica verso la Chiesa medesima e finire con l'essere uno sforzo di superamento delle Chiese e di risoluzione di esse nella storia, interna ed esterna, dello sviluppo religioso.
Ma il modernismo non è stato soltanto questo. 0, essendo questo, ha dovuto entrare e provarsi in un campo assai più vasto di reazioni culturali e sociali. Ho detto già come, per taluni dei modernisti più rappresentativi, l’esser cattolici e il trovarsi a svolgere la loro attività, da principio, nella Chiesa fosse, più che un assunto, o una scelta consapevole, libera e personale, un dato, una contingenza della vita; e come dalla legge intima di questa, tenacemente obbedita, fossero portati prima a. cercare fiduciosamente di mettere d’accordo, in se stessi, la religione storica cui appartenevano con le esigenze della loro personalità spirituale, poi a rivendicar queste contro di quella, sino alla conquista della piena libertà.
La democrazia cristiana ci mostra anche più chiaramente questo carattere spirituale del modernismo; essa è un moto con scopi politici e sociali, che usa ed elabora taluni valori essenzialmente religiosi, e, in questo suo lavoro, ha per ambiente e per sfondo, la Chiesa. Anche qui noi troviamo quel duplice momento che abbiamo detto. L’assunto è un ideale, o un programma, di rapporti civili nei quali si attui la democrazia. Il primo momento è caratterizzato dalla fiducia che i postulati ideali di questa ascensione civile dello spirito nella storia sieno in intimo sostanziale consenso con lo spirito e con la dottrina dell’istituto cattolico, così da dover essere rivendicati contro inetti od indegni interpreti di questo e promossi nell'interesse medesimo della Chiesa e di un nuovo e meraviglioso sviluppo della sua influenza civile e sociale. Poi, quando la Chiesa si sottrae a questo
(i) Vedi Bilychnis, nov.-dic. 1915,. p. 345 e marzo 1916, p. 225.
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UN ALTRO LATO DEL MODERNISMO
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tentativo e resiste e respinge e condanna, il movimento si volge contro di essa; e i principi che si era creduto di derivare dalla sua dottrina sono invece applicati a questa, ed alla costituzione interna del cattolicismo, come criterio di discernimento e di'risoluzione, e l'incompatibilità diventa contrasto; processo'spirituale cui si sottraggono solo le coscienze le quali, per docilità alla Chiesa o per difetto di coraggio, si rifiutino di vedere nella rivelata incompatibilità un dissidio teorico e storico risolutivo, e si adattino invece a considerarla come temporanea incapacità o colpa di uomini, ed attendano con rassegnata fiducia, e fra alternative di docilità e di resistenza, di speranza e di disperazione, che la storia si corregga e torni ad essi.
La democrazia cristiana fa quindi parte, forse anche prima e più che della storia della Chiesa, della storia civile. La Chiesa è chiamata in causa, non per quello che essa è interiormente, come istituto specificamente religioso, ma per il posto che essa occupa, l’atteggiamento che ha preso, l’influenza che spiega nella vita politica e sociale. Come è stata nei tempi della sua decadenza, religiosa a un tempo e politica, per principi e gruppi dominanti e classi privilegiate uno strumento per piegare le coscienze e mantenerle in quello stato di soggezione politica che faceva comodo ai loro interessi, così ora sarà uno strumento per scuotere la potenza di queste, per destare i dominati e gli sfruttati, vincere con la forza di una persuasione religiosa la loro servilità ed apatia, eccitarli a sorgere in piedi, ad agire ed a conquistare. C’è, insomma, un rapporto di classi, un possesso politico e sociale, una gerarchia di valori civili da invertire, e c'è una Chiesa storicamente immischiata nel vecchio regime, fatta strumento di taluni interessi, presa in un ingranaggio politico di dominio, che bisogna- svincolare da questo, volgere da destra a sinistra, impiegare come strumento di lotta e di liberazione.
L'importanza del movimento è data dall’effettivo potere che questa Chièsa ha messo a disposizione dei vecchi istituti e dei dominatori politici; quanto più l'autorità di essa nelle coscienze è grande e questa si esercita nel senso voluto dai dominatori, tanto più vasta e profonda e gravida di conseguenze è la trasmutazione e la conversione che si vuole operare; e la riforma civile e sociale si converte in una lotta interiore della Chiesa stessa, fra quelli che vogliono difendere le posizioni politiche e il possesso per il quale essa sta, e tutti gli stati d’animo che favoriscono questo suo atteggiamento, e quelli che vogliono invece distaccarla risolutamente da tali rapporti, metterla dalla parte delle nuove rivendicazioni e libertà.
E a questa lotta partecipano, poi, appunto perchè essa è un aspetto del contrasto per la potenza che si svolge nell’interno della società, tutti gli interessati; e i conservatori stanno per il partito ecclesiastico della reazione, contro i novatori, qualunque sia poi la loro fede od opinione religiosa; e i novatori, gli estremi, i radicali in politica, sono, o dovrebbero essere, per l’altro partito.
Dovrebbero essere, ho detto. Perchè poi qui, in realtà, la situazione si com-, plica. Questi altri novatori (socialisti, repubblicani, liberali democratici, massoni, ecc.) sono abituati a considerare tutta la Chiesa in blocco come un istituto di dominio e di reazione; essi diffidano quindi dei novatori religiosi e temono nell’opera loro una insidia e riguardano il contrasto come una bega interna della Chiesa.
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Od anche, essi hanno una loro dottrina; una concezione della vita, una filosofia, dei donimi; e il tentativo di mettere una fede religiosa a servizio di un movimento sociale, di ravvivare nelle coscienze oppresse da una schiacciante tradizione ecclesiastica il senso dei valori religiosi li irrita e li contraria nelle loro credenze e dottrine. Una democrazia italiana la quale avesse conservato vivo l'inse-mento e lo spirito di Giuseppe Mazzini, il quale aveva detto essere il problema della coscienza dell’Italia nuova un problema fondamentalmente religioso, avrebbe tenuto una assai diversa condotta verso la d. c. italiana.
Così alla lotta fra novatori politici e conservatori — nel senso materiale e gretto della parola — se ne aggiunse un’altra fra novatori e novatori; lotta di supremo interesse, poiché è la stessa elaborazione, fra dissidi é contrasti, dei nuovi valori umani, della concezione, di vita, della filosofia, della fede da porre a base dei rinnovamenti civili e delle libertà agognate. E, in questa lotta, l’interesse della vecchia Chiesa è favorito da quelli che sembrano più risolutamente negarla; ed essa dà come può il suo favore ed aiuto a socialisti e libérali e massoni contro ,i novatori religiosi, dai quali ha assai più da temere. Perchè chi la nega in blocco, in sostanza la. lascia come è; e le permette di farsi forte di quel molto di pratica-mente vero e di buono che la negazione improvvida minaccia.
Per tali ragioni la democrazia cristiana d’Italia — di essa sola ci occuperemo-^-appartiene alla storia politica ed alla storia della cultura del nostro paese; ed ha avuto, nell’una e nell'altra, una influenza profonda e durevole, della quale gli effetti incominciano già ad essere segnalati ed appariranno meglio più tardi.
Gli anni nei quali essa'apparve sono già lontani nel ricordo dei più. Regnava allora incontrastato sugli animi pigri il positivismo, e il socialismo, nella giovanile pienezza del suo sviluppo, dominava gli spiriti più alacri; in politica, dopo la rovina morale rivelata dal primo ministero Giolitti, empieva le cronache la lotta parlamentare Csjvallotti-Crispi, finche venne la rovina militare di Adua e poi le convulsioni sociali del maggio 1898; nel campo cattolico dominavano intangibili la Civiltà cattolica e la vecchia temporalista opera dei congressi, soffocati, con una specie di furore demagogico, gli ultimi resti del liberalismo di Manzoni e Rosmini. Il misticismo di Daniele Cortis era un fiacco movimento di epigoni, incerto fra Y Imitazione di Cristo e Y Evoluzione di Darwin.
In questo marasma degli animi sorse e si propagò, con una rapidità stupefacente, la democrazia cristiana. Sorse, nel 1895-96, fra i giovani universitari. Al principio del' 1898 usciva la Cultura sociale: al principio del 1900, dopo l'enciclica Graves de communi, il Domani d'Italia; due anni dopo la democrazia cristiana aveva un organo settimanale con 14.000 copie di tiratura, parecchi periodici di studio, una casa editrice, la « Società di Cultura », più di 300 sezioni, in tutta Italia, senza contare i sindacati operai, le cooperative, i circoli di studio aderenti; riunioni regionali numerose si erano tenute nelle città più importanti, dalla Lombardia alla Sicilia, e nessuna speranza sarebbe parsa oramai troppo audace a quei giovani pieni di fede e di entusiasmo, se essi avessero potuto strappare al Pontefice il consenso definitivo.
Intanto il movimento si impose all’attenzione di tutti, in Italia. Il cattoli-cismo e la Chiesa erano discussi di nuovo, come una grande possibilità di avve-
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nire; la vecchia organizzazione clericale era in isfacelo; il socialismo fu affrontato e discusso, in assemblee numerose di operai, in nome di una dottrina sociale che ne accoglieva francamente i postulati economici e il metodo di lotta, ma correggendone radicalmente lo spirito, e la filosofia: un soffio di fede e di idealismo religioso passò su tutta la gioventù italiana e inebriò, per qualche anno, il giovane clero e le reclute dei seminarii.
Nel febbraio del 1902 venne, con le celebri istruzioni di Leone XIII, il primo gravissimo colpo; e cominciò la crisi interna della giovanissima organizzazione. Ma il movimento spirituale si era diffuso, e gli effetti di esso apparivano già anche in altre correnti. La rinascita degli studi religiosi in Italia data da allora; da allora la decadenza spirituale irreparabile del socialismo. Il movimento della Voce fu per molta parte stimolato, sorretto, seguito da adepti del cattolicismo rosso o da anime che questo aveva risvegliate; anche l’idealismo crociano deve ad esso una parte della sua rapida diffusione.
Altri segni della profonda e durevole influenza di quel momento sono apparsi più tardi. Una nuova generazione di italiani, più seria, pensosa dei problemi dello spirito, avida di fedi e di devozioni ideali, è apparsa durante la guerra. Antonio Pagano scriveva testò nell’Idea nazionale che le origini ne vanno ricercate in parte nella democrazia cristiana. E di molti movimenti di idee venuti dopo, non è difficile rintracciare i precedenti nelle pagine migliori dei più noti scritti di democratici cristiani; così, ad es., del riformismo socialista, della critica dello Stato e della vita italiana da un punto di vista etico, della ricostituzione dei valori morali tentata, pur con diverso spirito, dai nazionalisti, ecc. Le origini prime e dirette dell’atteggiamento che una gran parte dei cattolici italiani ha preso dinanzi alla guerra- nazionale vanno anche ricercate in essa.
.Ma io non intendo far l'apologià della democrazia cristiana; e d’altronde sarebbe, ora, troppo tardi o troppo presto. Meglio giova intendere l'intima dialettica che presiedette al suo sviluppo, nel quale taluni videro trapassi bruschi, attribuendoli ad arbitrio capriccioso e ad incongruenze dei capi; e che, colto nei suoi momenti essenziali, ci gioverà a meglio intendere la natura di tutto il movimento e il valore di esso come di un segno dei tempi.
Nasceva, esso, come un movimento cattolico; ed incominciò con una esaltazione ingenua, piena di confidente ottimismo, della Chiesa. Ancora oggi taluni rimproverano al Murri qualche sua dichiarazione dei primi tempi sulla questione romana e la sua parola d’ordine: con Roma e per Roma, sempre. Testò, nel Corres-pondant, un biografo di F. Meda, divenuto ministro del re d’Italia, ricordava una polemica del 1899 fra il Murri e il Meda, nella Cultura sociale, in cui il primo si dichiarava per la Chiesa contro lo Stato e per l'egemonia sociale di quella e il secondo per un savio e prudente parallelismo.
Eppure, come punto di partenza, questa esaltazione della Chiesa era naturale. Le prime e fondamentali esigenze del movimento, apertamente dichiarate sin dal principio, con una serietà intellettuale e modernità di dottrina che furono fra le cause principali del rapido successo, erano: cultura e democrazia. Per esse si esigeva una rinnovata funzione sociale della Chiesa. Questa funzione sociale era de-
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_________j__—-------------------------------------------------------dotta storicamente e romanticamente dal passato e dal periodo della maggiore grandezza. A uno spirito ecclesiastico fermo nella tradizione degli ultimi tempi, reazionario, routinier, inacidito, scomunicatore di ogni libertà moderna intellettuale e politica, bisognava opporre un concetto grandioso della Chiesa suscitatrice di attività spirituali, somma e sintesi della cultura di un’epoca, dominatrice degli spiriti per potenza di intelletti e di iniziativa e per intimo sostanziale accordo con le più vive e forti-correnti della coscienza contemporanea. La Chiesa non poteva convertirsi da destra a sinistra se non per ritrovare se stessa, e per ritrovarsi in tutta la sua grandezza. Illusione, ma sincera; e senza di essa la democrazia cristiana non sarebbe mai nata.
Del resto parecchi di quei cattolici che oggi irridono alle esagerazioni di allora applaudono poi le stesse dottrine quando le veggono ripresentate da Charles Maiirras, o in Italia — e con più cattolica coerenza — dà Mario Missiroli; o almeno le pregiano e le vantano come un segno di forte originalità di pensiero; e sono vecchie spoglie della democrazia cristiana.
La differenza sta in questo che i nazionalisti francesi e l’imperialista papale italiano esaltano la Chiesa e la sua funzione contro i principi rivoluzionari é la democrazia e il liberalismo per una dottrina di autorità sociale e di saldo accordo fra Chiesa e Stato antidemocratico, con prevalenza ed egemonia — necessariamente — della prima e del papa infallibile sui fallibilissimi principi; mentre nella democrazia cristiana dei primi tempi il pensiero era ben diverso; e la Chiesa appariva come araldo e garante di tutte le libertà spirituali, come espressione storica di un ritorno delle coscienze e della storia ai fondamentali valori religiosi. Era, insomma, la Chiesa del sogno democristiano, sostanzialmente diversa, dal cattoli-cismo po’itico che si era venuto, negli ultimi tempi, isolando dalla cultura e dalla vita ed irrigidendo nell’assolutismo papale, che in essa vide presto una contraffazione e una minaccia.
Talune concessioni storiche che i d. c., nei primi anni, facevano alle pretese politiche della Curia romana erano ben distinte, sin dal principio, nello spirito e nel contenuto, dalle vecchie pretese dei temporalisti, ai quali esse erano opposte, e che non si illusero sulla loro portata; g furono presto spazzate via da un pensiero che affaticava l’inesorabile logica delle idee; ed, oggi, è puerile cercare in quelle prime timide ed ingenue manifestazioni, e non in tutto lo spirito del movimento, il carattere e il valore storico di questo.
La d. c. fu avidamente accolta dai giovani e dalle masse cristiane e subito fieramente contrastata dai rappresentanti più autorevoli della tradizione cattolica; dai gesuiti, dai capi delle organizzazioni ufficiali, dall’t/w/tó cattolica, dalla Riscossa, ecc. Le autorità, titubanti dapprima, si orientarono presto in questo secondo senso. La lunga polemica con i clericali e l’opposizione crescente costrinsero i d. c. ad approfondire le loro idee. Se la Chiesa di autorità si allarmava, quello che essi volevano era un ritorno allo spirito originario ed autentico del cristianesimo, all’ideale francescano, alla purezza dei motivi e della condotta religiosa. Un poco alla volta, non si trattò più di formulare e suggerire un programma alla gerarchia, ma di creare un grande moto nelle masse cristiane, che si fòsse poi imposto a
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quella, traendola, anche se riluttante, con sè. La revisione dal costume ecclesiastico si estende gradualmente alla dottrina e alla disciplina. D. c. e modernismo teologico si avvicinano.
Ma un criterio fondamentale dominerà quella sino all’ultimo, criterio che potremmo dire prammatico. Dinanzi àgli elementi tradizionali della Chiesa, essa non prende un atteggiamento di negazione e di resistenza. Dall’una parte vuole che la cultura e la ricerca scientifica facciano la loro via, fedeli ai propri metodi, senza limitazioni arbitrarie e conclusioni imposte d’avanzo; e dall'altra rispetta il valore pratico della fede popolare, cerea nei miti e nei riti l’espressione storica di una fede sincera, che importa far rivivere, non vuol turbare e scandalizzare le coscienze credenti, nella loro semplice e ingenua adesione al cattolicismo. Così la lotta con i reazionari di questo, e poi con l’autorità, conserva sino all'ultimo carattere di opposizione1 intorno a postulati e metodi sociali e politici ed alla condotta pratica dei cattolici dinanzi ad essi.
Da principio, adunque, la democrazia è accettata dai d. c. con tutto il fervore di un cattolicismo ingenuo e precritico. Essi credono di non far con ciò che accogliere docilmente il programma stesso del papa, di Leone XIII; di attuarne le direttive e svolgere le conseguenze di queste. Quando le cose si complicano, e l’autorità piega a una interpretazione e a una pratica nelle quali si rispecchiano interessi economici e politici ostili alla ascensione delle masse, contro questo programma restrittivo e mortificante l’accordo è cercato e affermato fra democrazia e cristianesimo; e, per persuadersi di esso e dimostrarlo agli altri, si impone una critica piìì penetrante e severa dell’una e dell’altro. E la critica è poi sollecitata e provocata anche dalla polemica con i socialisti. Contro di questi, i d. c. ripigliano la posizione di Mazzini; e cercano del moto rivoluzionario — borghesia contro le classi privilegiate — e del socialismo — proletariato contro borghesia — l'intima sostanza e il valore, che deve essere ed è, per essi, di natura essenzialmente religiosa. Trovare nella democrazia e nel socialismo stesso, come moto di una classe nuova assetata di libertà e di giustizia, una derivazione diretta dello spirito cristiano, contro le degenerazioni di una società ecclesiastica alleata al vecchio regime, interpretare e rivivere l’una e l’altro come moti intimamente ed essenzialmente religiosi, è oramai l’assunto dei d. c. Con che essi appartengono già alla storia ed al processo di autocritica dei moti e delle dottrine sociali contemporanee. E la loro posizione viene ad essere una di primissima importanza nella storia dello sviluppo di queste in seno alla civiltà latina.
Del socialismo accettarono il metodo: la lotta di classe, e in parte anche il realismo politico, scisso dalla filosofìa del materalismo storico. Quanto al primo punto, non può esservi dùbbio. Essi aderirono incondizionatamente alla organizzazione del salariato come classe a sè, in contrasto con gl’imprenditori e i detentori del capitale, anche se cristiani e cattolici; accettarono gli scioperi, come mezzo di lotta, ed indussero spesso i propri seguaci a parteciparvi, accanto ai loro compagni di mestiere; qualche volta, ne promossero anche ed organizzarono per loro conto. L'accusa di krumiraggio, così frequente in quegli anni di scioperi vasti ed appassionati, non potè essere portata contro di essi. Non essi, certo, volevano.
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predicando la benevolenza ai padroni, le trattative pacifiche e l'accordo a ogni costo ai lavoratori, smorzare e snervare, col pretesto della religione, e a servizio degli industriali e de’ proprietari, il magnifico sforzo del quarto stato. Il movimento loro non avrebbe mai potuto divenire uno specchio per le allodole, o un modo di far reclute elettorali per i partiti dell’ordine e della reazione.
Questa condotta implicava, ho detto, una veduta realistica della politica. La costituzione sociale, il diritto, i rapporti economici e di classe non hanno nulla in sé di immutabile e definitivo. Da un lato essi sono indici di rapporti di forze, e come tali possono sempre essere modificati. Dall’altro, sono espressione di un certo grado di sviluppo raggiunto nella concezione e nella pratica della libertà umana e della giustizia, e come tali, anche, sono sempre modificabili e perfettibili, sotto l’impero di forze morali e per il progresso dello spirito etico e religioso. Il proletariato non è solo, come vuole il marxismo, una classe che miri a invertire .rapporti di forza e di potenza; è lo strumento per l’attuazione di una superiore e più vasta giustizia; e l’uso della forza deve essere, in esso, dominato da questo concetto etico, dinamico e non statico. Di qui i limiti del socialismo: la collaborazione delle classi, quando anche uomini e gruppi di altre classi sieno mossi non dal loro particolare interesse, ma da un concetto di diritto e di giustizia, come spesso avviene, poiché la più intima e sicura sede di ogni progresso etico è lo spirito umano nella universalità sua, la coscienza religiosa aspirante, oltre ogni divisione storica di gruppi e di classi, all’unità. Di qui anche il rispetto e la rivendicazione dei valori nazionali.
Quando si vorrà o si potrà giudicare più serenamente si vedrà che talune cause ideali della cui difesa il nazionalismo si appropria il merito: la critica del liberalismo e della democrazia demagogica, la rivendicazione dell’autorità e della sua legittima funzione, l’importanza dei valori morali in politica, l’unità delle classi nella nazione, come vincolo spirituale, erano state già fatte pròprie e validamente .difese dalla d. c. Poiché essa fu e volle ad ogni momento essere un moto religioso, cioè una valutazione e trasvalutazione religiosa dei rapporti giuridici e sociali; e la religione sua fu l'essènza stessa del cristianesimo considerato come dottrina morale o come posizione di una gerarchia di valori e di fini, nella quale ogni forma di materialismo e di immoralismo politico e di indisciplina interiore e di barriera elevata, nell’individuo o nella classe o nella nazione, alla universalità del bene e dell’amore trova la sua più recisa condanna.Ma un dissidio intimo dilacerava ancora la democrazia cristiana, finché essa designò se stessa con un nome di significato politico sociale e con un aggettivo religioso. Negli eventi esteriori questo dissidio si rivelava col fatto di una persistente adesione al cattolicismo, benché questo, poi, si manifestasse irreducibile, nella sua forma dommatica e gerarchica attuale, alla democrazia. Essa pretendeva di investire i rapporti politici e sociali di un nuovo spirito religioso, di tradurli in rapporti religiosi; ed insieme dichiarava la propria autonomia politica e sociale dalle autorità del cattolicismo, nel quale pure riconosceva e dal quale accettava la forma della sua vita religiosa. La religione doveva a un tempo legare i d. c. alla gerarchia e dividerli da essa', quando diveniva forma e spirito di una nuova vita sociale.
Di fronte a questa illogicità, la condotta del Vaticano appariva logica; poi-
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chè esso diceva, in sostanza: voi dichiarate di voler rifare religiosi lo Stato e la società; insieme, voi accettate da me la religione e mi professate obbedienza in materia religiosa; o dunque questa religione che voi accettate da me è quella che volete applicare allo Stato e alla società, ed allora dovete riceverne le norme da me; o è un’altra, ed io ho il diritto di sconfessarvi e di smascherarvi.
Uno sforzo assiduo e sincero fu fatto per superare questa contraddizione, che taluni scrittori più acuti notarono, ad es. G. Gentile; e conviene riconoscere che esso non fu, e non poteva essere, felice.
Sino al 1902 la d. c. si era organizzata autonomamente dalla autorità ecclesiastica. Con le Istruzioni ricordate, Leone XIII imponeva che le sezioni avessero il loro assistente ecclesiastico, nominato dal Vescovo, e che il movimentò fosse coordinato all’Opera dei congressi, opportunamente rinnovata, facendo capo all’Unione economico-sociale. Il Domani d’Italia, con una dichiarazione memorabile, firmata da tre laici, dichiarò fermo e rispettosamente di non poter accettare le nuove disposizioni; e la commozione fu grande. Se il laicato cattolico italiano avesse in quel momento compreso il suo dovere e fosse stato capace di un gesto di fermezza e di coraggio, una rivoluzione politico-religiosa, di incalcolabile portata, si sarebbe compiuta in quei giorni. Essi tacquero e si nascosero, deboli o vili. Dopo pochi giórni, durare nella resistenza apparve impossibile, per la timidezza della maggior parte dei giovani; e il Vaticano, impaurito, si mostrava blando e pieno di condiscendenza. Si cedette. Il movimento, nella sua fase ufficiale, ebbe una nuova effimera fioritura; e nel congresso di Bologna del novembre 1903 parve oramai padrone, in un ultimo scontro decisivo fra le due tendenze, della stessa Opera dei congressi.
Ma a Leone XIII era, nel frattempo, succeduto Pio X, con ben diverso programma; e nel marzo 1904 sciolse bruscamente l’Opera dei congressi, e incominciò, contro i capi del movimento, una implacabile persecuzione. I democratici cristiani, padroni di sé, si ricostituirono nella Lega democratica nazionale; bandito dal nome, e nel fatto, ogni carattere confessionale,s questa non poteva più essere direttamente colpita dal Vaticano. Ma Pio X, con una lettera enciclica ai vescovi d’Italia, proibì ai sacerdoti di appartenere ad essa e comunque favorirla. Era la guerra dichiarata.
La Lega aveva nel suo nome stesso un magnifico programma. Scissa da ogni rapporto con la Chiesa ufficiale, essa poteva costituirsi, all’infuori di questa, come centro di rinnovamento e di educazione dei valori nazionali, spirituali ed etici; raccogliere giovani, delle più varie fedi, che concordassero nel suo indirizzo spirituale e svolgere un’opera di cultura, di critica, di azione sociale. Ma, per far questo, bisognava uscire dal dissidio che ho detto; trovare in sé e nel proprio programma tutte le ragioni della vita; derivare direttamente dalla coscienza religiosa, senza passare pel.tramite obbligato di una Chiesa, lo spirito e le norme della religiosità nuova che si voleva imprimere alla vita civile e sociale. Se la democrazia stessa era, nell’essenza sua spirituale, l’attuazione storica del cristianesimo; se era necessario rivendicar questo contro un istituto ecclesiastico che lo mortificava nella teologia e nella disciplina e nei vincoli politici con i quali l’essenza di esso non aveva
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nulla di necessariamente comune, la Lega democratica nazionale aveva in sè tutto quello che le era necessario; si trattava oramai di prendere la nazione nella sua intierezza come proprio campo di azione rinnovatrice, di ricondurre la coscienza nazionale al senso della vita dello spirito ed alle sue più nobili tradizioni, di indurre lo Stato, i partiti e le classi a riconoscersi nella unità dei valori morali e di trarre dalla rinascita di questi un nuovo soffio, di vita. La concreta Chiesa cattolica, l’insieme dei suoi iedeli in Italia, doveva apparir solo come una parte, e in qualche senso la più malata, del corpo nazionale; come quella che nè sapeva dar vita in sè ai veri valori religiosi, nè permetteva, rivendicando di questi, dinanzi a uno Stato pi vido e vile, il monopolio, che la società li ricuperasse per conto proprio. Forzare la Chiesa a trasferirsi dal regime di privilegio e di monopolio che essa gelosamente rivendica in un regime di piena libertà spirituale significava, non combatterla direttamente, nè attentare alla fede ingenua e 'sincera dei suoi seguaci, ma mettersi contro di essa sul terreno politico ed indurre l’organo della nazione, 10 Stato, a curare quei valori morali che sono nell’ambito delle sue attribuzioni e senza dei quali esso è una corrotta e corruttrice organizzazione di potenza, di intrigo e di sfruttamento. 0 il ritorno al cattolicismo o l'anarchia morale, questo pareva essere il dilemma al quale era ridotta l’Italia; uscire da quel dilemma, dando alla nazione, e allo Stato il senso della propria autonomia spirituale e dei doveri etici indeclinabili, era oramai il compito di questa nuova democrazia religiosa.
Mancarono animi capaci di giungere a questo ultimo termine logico dello sviluppo della d. c.; capaci di un tale eroico senso di autonomia-interiore, di una così salda consistenza morale, di un cristianesimo così ricondotto alla essenza sua, di un così alto concetto della libertà religiosa. E i pochi che rimasero fecero un passo indietro, e nel titolo della loro organizzazione risostituirono alla parola « nazionale » la parola « cristiana ».
Uno andò innanzi per suo conto, solo oramai. Alludo a R. Murri, che era nel frattempo divenuto deputato, entrando a rappresentare alla Camera un collegio rurale delle Marche. Ma la sua opera politica doveva offrirci, con drammatica evidenza, il singolare contrasto di un programma che proprio quando acquistava, portato nei dibattiti parlamentari, i suoi precisi contorni di programma eminentemente politico, di eguaglianza giuridica, di libertà popolari, di autonomie, di democrazia religiosa, nel significato che aveva dato a queste parole G. Mazzini, rivelò la sua intrinseca debolezza come forza e consenso di numero e potere organizzato; ed urtò contro una resistenza che divenne facilmente sopraffazione, contro un clericalismo nel quale si rispecchiava tutta la vecchia forma mentis di una Italia politica senza fede e senza dignità e senza ideali, immatura alla libertà, povera, corrotta da una dittatura parlamentare, divisa in 508 staterelli, nella maggior parte dei quali il clero è divenuto la forza politica prevalente. E questa Italia clericale celebrò, come in un’orgia di vittoria, i suoi fasti nelle ultime elezioni politiche, caratterizzate dall’accordo del potere esecutivo con il rappresentante delle forze elettorali cattoliche.
Era l'ultimo gradino di abbiettezza al quale potesse discendere il paese, condotto da Giovanni Giolitti.
Dopo, venne la guerra. Ille ego.
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PREGHIERE NAZIONALI <*>
T.a nostra fiducia serena, tenace nel trionfo d’una giusta causa aumenta e si afferma di settimana in settimana, di mese in mese, quanto più si prolunga la guerra delle nazioni; e allo stesso modo che si giudica l’età d’un tronco d’albero dai cerchi concentrici di cui è circondato il suo cuore, del pari potrebbe valutarsi la durata del presente confitto dagli strati successivi di ferma certezza e di speranza incrollabile che circondano ormai l’anima nostra e la sostengono.
Alcune coscienze però restano turbate al pensiero che la nostra Francia avrebbe negletto di assicurarsi uno dei più essenziali pegni del successo: le preghiere nazionali. Quando Gesù Cristo stesso ha formulato per l’umanità questa regola sovrana: « Abbiate fede in Dio » la patria nostra si ostinerebbe in un ateismo ufficiale senza scuse e senza grandezza che scalza sotto i nostri piedi il cammino dell’avvenire. Durante la battaglia della Marna, un cattolico esprimeva le sue apprensioni in questi termini: « l a Francia è in pericolo e Dio aspetta forse una parola soltanto per salvarla. Questa parola, il Governo non osa dirla; ma egli non ha il diritto di negligere un fattore della vittoria ».
Abbiate fede in Dio. Marco XI, 22.
Simili inquietudini sono desse fondate? Personalmente, m’è impossibile di condividerle: e vorrei rassicurare, in proposito, gli spiriti ansiosi e le coscienze delicate, ma timorose.
O Dio nascosto! Dio vivente! che sei, che eri e che sarai, in cui abbiamo la vita, il moto e l’essere, da cui, per cui e per mezzo di cui son tutte le cose — Dio spirito! e che reclami dai tuoi adoratori un culto spirituale e vero, inspira la nostra meditazione!
• • •
Fratelli miei, scartiamo anzitutto un malinteso. Mi attribuireste il più inverosimile e il più grave errore, se traeste dalle mie parole una conclusione di questo genere: pregare per la Francia è inutile. Giorno e notte ardenti supplicazioni salgono verso il cielo in suo favore: « sotto l’oscuro chiarore che cade dalle stelle », nelle trincee, alla luce velata dei lumini da notte nelle ambulanze, davanti agli altari scintillanti di ceri o .davanti agli orti di maggio, bianchi di fiori e di sole, innumerevoli anime intercedono pel nostro paese. Queste preghiere fervide, fitte, continue, fanno pensare a quelle bolle d’aria che s’innalzano rapide e impetuose verso la superficie di un liquido che sta
(•) Discorso pronunciato a Parigi il 9 maggio 19x5.
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per entrare in ebollizione. Fsse creano, nella massa della nazione, un moto morale, un’agitazione spirituale, un’ascensione dei cuori. Il mondo invisibile si mescola al mondo visibile e delle correnti d’anima si disegnano verso l’Al di là. Quelli stessi che hanno disimparato la preghiera, assaporano l’amarezza del loro isolamento, e un giornalista esclamava con malinconia, a Natale, in un articolo dedicato ai nostri soldati: « Ahimè! fratello mio: di non poter nulla per te, neppure pregare, se tu sapessi come mi vergogno »!
Beati, dunque, coloro che conoscono la consolazione e la fierezza, il sollievo quasi fisico (simile a quello d’un asfissiato che respira) e la gioia soprannaturale deH’intercessione per la patria. Si moltiplichino costoro! perchè, se tutti i Francesi pregassero, è la Francia stessa che pregherebbe attraverso le loro labbra, la Francia intera non nel Giornale ufficiale, ma nella realtà! Le Chiese specialmente prendano sempre piè coscienza, in questo campo, della loro provvidenziale missione, poiché sono chiamate a diventare, sull’albero nazionale, ciò che sono le foglie nella foresta, gli organi misteriosi che fissano l’ossigeno dell’aria e facilitano gli scambi indispensabili alla vita.
A queste preghiere spontanee, scaturite come tante fonti ardenti dalle profondità stesse della Francia, perchè sopraggiungere preghiere ordinate, governative? Quale singolare e meschino concetto dell’Altissimo s’imporrebbe a noi, s’egli aspettasse per difendere la giustizia, che gli oppressi gli rivolgessero delle suppliche amministrative. dei placet colla stampiglia ufficiale. Come! il Campo illimitato del libero Spirito e il regno dell'Amore salvatore, sarebbero sottoposti alle regole sofistiche che gl’impiegati dei Ministeri applicano troppo spesso ai loro sportelli! Il gran Dio santo e compassionevole dei profeti, il Dio vendicatore delle vittime innocenti, « marito della vedova e padre dell’orfano », rifiuterebbe d’intervenire, quaggiù, in favore del Diritto e della Verità, sinché non gli si presenta una richiesta collettiva, redatta secondo la formola! Davvero, una simile credenza rassomiglierebbe assai a della superstizione. Ci si dice: organizzate delle preghiere nazionali per dimostrare la vostra « fede in Dio ». Ma siamo noi ben certi ch’esse non rischierebbero di provare il contrario?
Mi appello alla vostra lealtà, al vostro
buon senso, alla vostra esperienza delle realtà spirituali. Nello scompiglio intellettuale dell’epoca nostra, nell'anarchia filosofica e dottrinale della nostra generazione tormentata, dove farete voi passare la linea di demarcazione tra i credenti e gl’increduli? La fisserete voi tra coloro che accettano il Credo è quelli che lo rigettano: tra i teisti e gli atei? No, fratelli; no! — per poco che vi animi lo Spirito santo, non oserete mai tracciare una frontiera così artificiale. Il vero ateo, voi lo sapete, è colui che vive ciecamente per sè stesso, foss’egli devoto fra i devoti, zelatore di buone opere, coperto di pie medaglie come un cavaliere antico della sua armatura; e, d’altra parte, il vero credente è colui che si sacrifica all’ideale, che calpesta i suoi interessi propri e soffre per coscienza, foss’egli anticlericale, massone, libero pensatore, e magari adorno deH’immortella rossa quando assiste, per disciplina, alla cremazione rituale d’un « compagno ».
Ancora una volta, me ne appello alla vostra sincerità: dopo la cinica violazione della neutralità belga, dove dunque, nell’impero germanico, s'è manifestata la vera fede in Dio? Non nei Consigli ecclesiastici, poiché hanno serbato il silenzio o benedetto i delinquenti; ma in quel partito politico in cui la voce solitaria d’un miscredente si è arditamente elevata, sotto un diluvio d’insulti, in pieno « Reich-stag », per difendere Abele contro Caino.
E in Francia, a quale spettacolo assistiamo noi? Mentre il clero reclama dal Governo preghiere ufficiali, come se i preti dubitassero del buon volere di Dio e della sua libera iniziativa, un giornalista incredulo risponde a quei suggerimenti d’una pietà allarmata e timida con un superbo atto di fede nella potenza vittoriosa delle realtà spirituali: • Ciò che chiamate Dio, scrive egli, perchè volete voi impedirci di chiamarlo il Diritto e la Giustizia? Non è forse un pregare Iddio, il battersi pel Diritto e la Giustizia e per la Libertà delle nazioni! ».
Certo, le nostre chiese non intendono appropriarsi i termini stessi d’una teologia così laica; ma è permesso d’apprezzare lo slancio e l’elevatezza d’una dichiarazione generosa in cui vibra l’entusiasmo e palpita la fede.
• • ♦
Ah! certo, una Francia unanime e che pregherebbe di comune accordo, non colla
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fronte nella polvere, come i maomettani, ma in piedi come gli ugonotti; una Francia evangelicamente cristiana colle mani alzate verso il cielo, presenterebbe un nobile quadro. Ma, nello stato attuale degli spiriti, a che cosa metterebbero capo delle preghiere ufficiali, delle preghiere decretate, se non all’ipocrisia e allo scandalo?
Anzitutto aWipocrisia. L’imperatore della Cina, nei tempi passati, offriva, a quanto pare, due volte all’anno un culto alla divinità suprema, in nome del popolo che rappresentava. Che cosa vi è di più freddo, di meno religioso che una simile cerimonia, in cui il rito tradizionale scavava l’abisso tra le anime individuali e Dio? Eppure, simili conseguenze non sono forse inevitabili non appena un Governo compie un atto di pietà ufficiale, non appena bandisce una manifestazione cultuale obbligatoria pei funzionari?
Però ciò che v'è da temere, innanzi tutto, nelle dimostrazioni di questo genere, è lo scandalo, una regressione quasi fatale del cristianesimo verso il paganesimo, un ritorno al politeismo. Per comprendere tale affermazione, basta conoscere le trasformazioni successive del concetto di Dio e.i progressi realizzati da questo concetto nel succedersi dei tempi.
Nell’antichità greco-romana, ogni città monopolizzava un Dio; prima di tentare l’assalto d’una città, gli assediami si sforzavano di espellerne per mezzo di uno scongiuro la divinità protettrice. Questo concetto, così infantile, del dio localizzato fu anche quello del pòpolo d’Israele nei primordi della sua storia;, nei documenti primitivi della letteratura ebraica, Jahveh è un dio nazionale, un guerriero che è rappresentato, dio al campo, dall*Arca del Patto. Ma i profeti, più tardi, ebbero il coraggio intellettuale e morale di dissociare la causa di Dio e la causa d’Israele; affermarono che ¡’Onnipotente era il campione della Giustizia universale prima d’essere il guardiano d’un popolo particolare; osarono predire l’annientamento della loro nazione se rifiutava d’essere lo strumento dello Spirito santo al servizio d’una causa mondiale; la quale causa era quella dell’unità umana. Quando si pensa che la Palestina aveva sempre tremato tra il nemico del sud, l’Egitto, e l'invasore del nord, l’Assiro, come non si ammirerebbe l’arditezza inaudita di questa parola sublime, attribuita all’Eterno dal veggente ebreo: « Benedetti l’Egitto,
mio popolo e l’Assiria, opera delle mie mani, e Israele, la mia eredità! ». Affermazione rivoluzionaria e persino empia in apparenza, nell’epoca in cui venne formulata; ma che apriva all’umanità intera insondabili orizzonti nel cuore ancora inesplorato di Dio.
E, di fatti, il Dio della giustizia, un poco per volta, si rivela come il Dio dell’amore salvatore, il Dio della sofferenza acconsentita e dell’immolazione meditata, il Dio misconosciuto, il cui « Servitore » 5redestinato sarà, quaggiù, « l’Uomo di olore », l’agnello muto « che toglie il peccato dal mondo », la vittima santa, volontariamente sacrificata per unire i popoli, per por fine alle guerre, per affrettare l’avvento dell’èra senza violenza in cui i giavellotti e le spade saranno trasformati in ¡strumenti agricoli.
Tal'era, coi Profeti, il tracciato delle linee di penetrazione nell’avvenire. Esse furono prolungate dall'Evangelo, che le condusse al punto terminale: la nozione del Dio Padre. Senza esitare, Gesù disegna, con tratto fermo e preciso, il vessillo dei tempi nuovi: « Uno solo è vostro maestro e voi tutti siete fratelli ». Motto che l’apostolo Paolo commenta in questi termini ispirati: « Non v’è più nè Greco, nè Giudeo, nè Barbaro, nè Scita, ma Cristo è tutto in tutti ». È questo l’universalismo cristiano, l’internazionalismo evangelico, quello di cui i riscattati celebrano lo splendore nelle visioni dell’Apocalisse in cantici deliranti di letizia e di adorazione; inni grandiosi in cui si mescolano tutte le lingue del cielo e della terra, cori giganteschi’ orchestre cosmiche. Te deum finale e trionfale intonato con una sola voce dall’insieme delle creature.
Più semplicemente, è la morale del Pater noster. Allo stato di dispersione, di sfiducia, di odio e di lotta costituito dalla Natura, l'orazione domenicale oppone un insieme armonico, una federazione umana, una famiglia terrena; alla molteplicità degli dèi pagani, la preghiera del Signore oppone l’unità di Dio, nostro Padre.
Così stando le cose, fratelli miei (e con quale accento vorrei pronunziare un simile titolo: « fratelli miei » — in Gesù Cristo) così stando le cose, non vedete voi in qual senso le preghiere nazionali rischiano d’essere scandalose? Ricordate le elucubrazioni imperiali e le pie bestemmie di Vienna e di Berlino al momento dell’entrata in campagna dei colossali e perfidi
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eserciti che si gettarono l'uno sulla piccola Serbia, l’altro sul debole Belgio. Ricordate d’altra parte l’ordine del giorno capitale in cui il Consiglio della Federazione delle Chiese protestanti di Francia dichiara altamente che « riprova l’abuso di frasi pie di cui gl’imperatori di Germania e d’Austria dànno lo scandaloso esempio dal principio delle ostilità, constata con tristezza quanto quello sfruttamento di Dio rischia di compromettere la religione davanti alla coscienza moderna, e denunzia alla cristianità intera il male compiuto da pratiche le quali mascherano, sotto l’orpello di parole evangeliche, la negazione della religione dei profeti e di Gesù Cristo ».
Certo lo scandalo, ip quel caso famoso, raggiunse il colmo, poiché i due imperatori invocavano la benedizione di Dio sulla menzogna diplomatica e sull’aggresionc premeditata. Eppure, anche nell’ipotesi in cui il buon diritto avesse sostenuto le ali spiegate delle aquile imperiali, oso affermare che delle preghiere pubbliche, ufficiali, .decretate da un Governo per fortificare i suoi disegni politici, rischiano sempre d’offendere Dio, cioè di rimpicciolirlo, di travestirlo, d’incatenarlo al carro d’uno Stato particolare, come facevani i pagani della Città antica, la cui divinità nazionale era, fatalmente, nazionalista, ostile al resto dell’universo.
Eppure, come se non percepissero il pericolo, la china rapida e infida che ricondurrebbe il mondo al politeismo ancestrale, ad una spaventosa e stupida mischia di divinità litigiose, tutti i popoli in guerra, nel presente con”itto, hanno invocato la benedizione del cielo sulle lorb armi — tutti, eccetto uno: il popolo francese (i). Quando ciascuno dei belligeranti scongiurava solennemente l’Altissimo, la nostra Francia è partita per ¡a battaglia — e quale battaglia* —senza violare la neutralità (2) di Dio, ch’essa sola ha nella sua pienezza rispettato. Quanto quell'attitudine mi appare leale.
(x) A dire il vero, anche nei documenti ufficiali del Governo italiano non si riscontra alcuna invocazione di carattere religioso. Resta il fatto che il nostro Governo ha incoraggiato anche troppo una certa propaganda elenco-militare pseudo religiosa, spesse volte puerile e superstiziosa e talora persino intollerante. N. d. T.
(2) Meglio sarebbe parlare d'imparzialità. L’»m-parzialità di Dio è tutt’altra cosa della neutralità... interessata del Papa. N. d. T.
seria, audace. Dall’origine delle età, quando mai si è contemplato lo spettacolo d’una grande nazione che sta per giuocare i suoi destini supremi, che deve vincere o perire, e che pur tuttavia, per sincerità intellettuale, per scrupolo morale, affrancata da atavici terrori e da superstizioni secolari, non pretende portar con sé Dio nei propri furgoni? Colpite un simile atteggiamento (se vi basta il cuore), colpitelo col marchio dell’ateismo’... Agli occhi dell’anima mia, quell’attitudine austera e virile riveste tutta la maestà d’un incomparabile atto di fede.
E valga il vero. Nell’indimenticabile giornata del 4 agosto 1914, il Parlamento francese ha egli pronunziato delle parole di scetticismo? Ascoltate questi fieri accenti, credo d’una democrazia cosciente e pacifica: «Nella guerra che s’inizia, la Francia avrà dalla sua parte il diritto, di cui i popoli non meno che gl'individui non possono impunemente misconoscere l’eterna potenza morale. Essa verrà eroicamente difesa da tutti i suoi figli, di cui. nulla infrangerà l'unione sacra perchè rappresenta oggi, una volta ancora, davanti all'universo, la libertà, la giustizia e la ragione ».
Coloro che si espressero in quel modo, in nome della nazione unificata, in uno slancio di entusiasmo patriottico e di misticismo repubblicano, hanno forse negato Dio? Non più che non pretendiamo abolire il sole, quando proteggiamo colla mano gli occhi nostri contro lo splendore dell’astro abbagliante. Fraternità. Giustizia, Diritto, Verità, altrettanti raggi attutiti dell’inesauribile Luce che fiammeggia allo zenit per tutti gli uomini, salvo pei volontariamente ciechi.
Sènza dubbio, la nostra Francia diletta, intrepidamente ed ingenuamente logica, instancabile cercatrice di fonti per vie ine splorate, ha talvolta sùbiti i contraccolpi d’un ateismo intemperante e grossolano. Ma l’orrenda tormenta in cui siamo impegnati guarisce l’anima nazionale da un materialismo soffocante. Negli ambienti maggiormente estranei alle chiese e più ribeni al cristianesimo tradizionale sbocciano oggi i preziosi fiori del più puro idealismo; da ogni parte salgono gli appelli alla disciplina concorde, alla cooperazione metodica, allo spirito di sacrificio. E allo stesso modo' che l’università laica non è necessariamente il focolare d’un insegnamento antireligioso — e allo stesso modo che lo Stato laico non è fatalmente il feudo d’un Governo ateo —
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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del pari, la guerra laica non è irrevocabilmente la guerra senza Dio.
Fatti innumerevoli e consolanti vengo- ■ no, ogni giorno, a provare il contrario. « Abbiate fede in Dio! • dichiarava il Cristo. Ed è precisamente quella fede che, sotto una forma o sotto un’altra e qualunque sia il vocabolario impiegato, sostiene l'anima della Francia attraverso le fiamme, nutre la nostra pazienza, esalta il nostro coraggio, moltiplica in noi le irreprimibili energie dell’indignazione, dell’entusiasmo e della speranza. Non sappiamo tutti, nè sempre, che Dio stesso è presente fra noi, ma ciò avviene forse perchè, sotto ùn certo aspetto, siamo troppo vicini a lui. L’atmo-stera apparisce azzurra solo a distanza; intorno a nói l’aria rimane incolore. Del pari v’è un modo d’invocar Dio, di supplicarlo, di scongiurarlo che ricorda quelle miserande convulsioni dei preti di Baal, accaniti a destare coi loro gridi, in fondo allo spazio, una divinità sonnacchiosa. Mentre che, nella Gerusalemme futura, quale il veggente biblico la descrive, nella Città sacra in cui lo Spirito divino regnerà senza contrasti e riempirà tutti i polmoni, l’edi-fizio cultuale sarà scomparso; la città santa sarà senza Tempio! Perchè, difatti, localizzare la presenza soprannaturale che sarà diventata la dote, la gloria c la benedizione di tutti?
• • •
« Non è chi va ripetendo: Signore, Signore! che entrerà nel regno dei cieli, ma colui soltanto che adempie la volontà di mio Padre. Molti mi diranno, nel giorno del giudizio finale: Signore! Signore non è forse nel tuo nome che abbiamo profetizzato’ Allora dirò loro apertamente: Non vi ho mai conosciuti. Ritiratevi da me, voi che avete commesso l’iniquità ».
Tale è l’ultima parola. Mettiamoci dunque alla scuola di Gesù, e, allorquando si tratta di religione, non pretendiamo fare a meno di Lui. Non appena si neglige di consultarlo, la « fede in Dio » può racchiu-* dere le peggiori aberrazioni della coscienza è del cuore. l’uomo fa la divinità all’immagine dell’uomo, tanto che egli si esalta e deifica se stesso pregando il così detto creatore fabbricato dalle proprie passioni. Ma il Cristo fa l’uomo all'immagine del Cristo; e allora tutto ci guadagna: la morale e la pietà sono fuse in una sola realtà spirituale; e il Padre che è nei cieli non è più tormentato da quelle preghiere empie che il Dio d’Isaia già respingeva in questi termini: « Quando moltiplicate le orazioni, non a-scolto: perchè le vostre mani sono rosse di sangue ».
Ecco perchè, coloro che marciano nel solco del Figliuol dell'uomo, sono esauditi anche senza parole, perchè la loro attitudine è una preghiera. Lo stesso nostro testo .lo indica: • Gesù disse loro: Abbiate fede in Dio. Ve lo dichiaro, se alcuno ordina a questa montagna: Vai a buttarti nel mare! e se non dubita nel suo cuore, vedrà la cosa compiuta ». V’è dunque un modo di credere in Dio che consiste a squadrare i monti, a sradicarli con un atto interiore di comandamento. ad annichilirli per la pura padronanza dell’ascendente morale.
O Eterno. Signore del cielo e della terra! questo è davvero il compito ch.e incombe oggi alla nostra Francia. Esaudiscila, Dio mio' perchè prega... soffrendo per la Giustizia; esaudisci la nostra nazione leale, accesa dall’adorazione in ¡spirito e verità, e concedile, nonostante la sua indegnità e le sue colpe, concedile la vittoria, una vittoria che sia quella del Diritto e della Verità, per l’amore del tuo Regno immortale.
WlLFREDO MONOD.
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“LA CHIESA E I
In questi giorni di lotta terribile sui campi di battaglia, par quasi cosa straordinaria la pubblicazione di un libro, in cui si dibattono soltanto i più gravi prò; blemi dello spirito umano, e che tenta di delineare, non i confini d’una o dell’altra nazione, ma vorrebbe stringere in un religioso connubio tutta la società che segue, o vorrebbe seguire, le orme del Cristo ed adora un solo Dio.
Eppure in questo libro, che per molti parrà un’utopia, sono racchiusi i severi quesiti, che l’umanità dovrà proporsi dopo la guerra, e che saranno la prima base d’una pace sicura e d’una civiltà veramente cristiane.
Scrittori di vari partiti e delle due Chiese: cattolica e protestante, composero gli articoli interessanti del volume: < Introduzione », « Chiesa e Chiese », « Chiesa e Stato », « Chiesa e questione sociale », « Chiesa e filosofia », « Chiesa e scienza », « Chiesa e critica (I) », «Chiesa,e critica (II) », • Chiesa e sacerdozio », « Chiesa ed eresia », « Chiesa e morale ».
Il primo studio di Giovanni Pioli, animato da un profondo spirito religioso, mi lascia però un po’ perplessa. ' L’autore batte e ribatte contro la Chiesa cattolica che non sa andar avanti coi tempi, ed invece di cercare una via d’unione coi protestanti, li allontana continuamente da sè — mentre gli evangelici in questi
NUOVI TEMPI”«
ultimi anni, ed in diversi congressi, stimarono opportuno d’unire il più possibile le Chiese o sètte nate nel loro seno, com-S«rendendo che solo da quest’assieme di orzo in Cristo ne potrà venire un rinnovamento alla società. Ma il Pioli non pensa che è facile alle Chiese evangeliche stringersi in libertà di fini, perchè in una forma di cristianesimo in cui ogni credente è giudice, può discutere, accettare o non i dogmi, passare facilmente da una setta ad un’altra, è molto più semplice lo stabilire delle discussioni e tentare una fusione di spiriti stimata opportuna per la .Stessa vita della fede. Invece la Chiesa cattolica è ferma, nella sua lunga tradizione, ha l’autorità e l'unione di tutte le sue energie per base, ed una discussione fra i suoi fedeli, un facile ammettere le varie correnti nel suo seno, segnerebbe certamente in essa uno squilibrio ed una grande confusione. Non dico con questo che la Chiesa cattolica debba chiudersi nella sua to/re d’avorio, anzi, per prosperare, rinnovarsi, ed esser vita dei credenti dovrà aprire tutte le sue finestre ed accogliere con amore i nuovi raggi di luce, che vi battono incontro pieni d’inviti. Ma ci vorrà pace negli animi, istruzione nel clero, buona volontà nei cattolici tutti Ser conseguire questo nobilissimo fine, i cui dobbiamo renderci degni seminando l’amore in ogni classe sociale.
(x) « La Chiesa e i nuovi tempi >, con introduzione di D. G. Whittinghill. — Via Crescenzio, 2, Roma — L. 3,50. Per gli abbonati di Bilychnis che sono in regola Coll’Amministrazione, il prezzo del volume è ridotto a L. 3.
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TRA LIBRI E RIVISTE
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L’articolo del Murri: « Chiesa e Stato » è sintetico, profondo come tutti gli scritti di quest’autore; quello del Meille su: « Chiesa e questione sociale « è ardente di fede, vibra in ogni sua linea d’amore Eer il prossimo, da della Chiesa ideale di risto la migliore definizione, quando le fa dire: « Io non sono mossa da alcuna ambizione mia propria, nè ecclesiastica, nè politica; io non combatto nè contro, nè per gl’interessi materiali di nessuno; io solo affermo i diritti dell’anima... ». Forse la Chiesa del Meille non potrà mai realizzarsi fra i fallibili uomini, ma il desiderarla, ma l’operare per renderla cosa tangibile ira noi è già una di quelle azioni, che dànno bene a sperare per l’avvenire.
Le pagine di Ugo Janni, buonissime e che hanno la grande qualità di far conoscere le diverse correnti del pensiero filosofico di questi ultimi anni, non mi trovano appièno consenziente in vari punti.
Il Janni, dopo una rapida rassegna dei moderni sistemi di filosofia religiosa, condotta da un punto di vista essenzialmente negativo, in quanto vuol farne apparire la incapacità a comprendere e definire il problema religioso, vuole stabilire una distinzione ira queste due forme dello spirito. Giudica il Janni la religione distinta c superiore alla morale, ma la morale ben intesa non è altro che religione, e religione vera, cioè armonia dell’individuale coll’universale. E nemmeno vuol riconoscere la dipendenza delia religione dalla filosofia, ma se pure la religione è momento necessario dello spirito e perciò incancellabile (religione fura Serò non si dà, perchè sarebbe astrazione alla realtà vera), tuttavia la religione come l’arte sono assorbite nella filosofìa che è la verità di ambedue. Certo, ben dice il Janni, che la religione non è anelila philosophiae, poiché o diventa filosofia pura o la filosofia, se non riuscisse a trascenderla, non sarebbe tale, ma ancora religione e- perciò momento inferiore dello spirito; nè la filosofia può essere ancilla della religione se è vera filosofia, giacché nel caso opposto è quella parte di filosofia che è implicita nella religione, poiché lo spirito umano è spirito -uno nella molteplicità delle sue manifestazioni, quindi tanto l’arte che la filosofia sono concomitanti ed implicite nella forma religiosa.
Ripeto: lo scritto del Janni sarà utilissimo ai lettori, ed allargherà la visione
religiósa di molti, come lo studio: « Chiesa e scienza » del Falchi sarà letto con vivo interesse e compiacimento. In esso v’è serena equità, fede, scienza vera, e, dopo averne ponderate le diverse parti, il lettore vedrà con quali armi il dogmatismo potrà esser vinto, affinchè la scienza cammini di pari passo con la fede e non sia intralciata da questa nelle sue ricerche, e come il materialismo scientifico possa esser debellato da una religione veramente cristiana.
« La Chiesa e la critica »di Mario Rossi è assai importante, dato il soggetto che tanto appassiona gli animi. Da questa revisione, dei libri sacri e di tutta la storia della Chiesa, l’autore ammette volentieri che ne deve scaturire una fede più pura, cosciente, elevata per gli animi. Ma non pensa che tutta questa critica un poco arida ha finito per isterelire molti cuori, e che la fede negli umili, ed anche negli altri è frutto essenzialmente di sentimento a cui le critiche non potranno mai giungere, anche in tutta la loro giustezza. L’umanità ha finito per foggiarsi dei tipi ideali, e dirò necessari, in Maria, in Giuseppe, nella peccatrice Maddalena, come attorno a Gesù ha ricamato i suoi racconti che sono la poesia della fede, ed il bisogno di riposare nel sogno dell’irrequieta nostra anima. La critica potrà sfrondare questi racconti, non distruggerli, e preparare le vie peruna migliore religione cristiana, ciò che il Rossi vivamente desidera. Avrei poi voluto ch’egli desse minore importanza all’Houtin. che non soddisfa sempre nelle sue conclusioni, e che è un po' troppo acerbo contro la Chiesa cattolica.
Vivaci, bene scritti, composti dà chi conosce intuì: et in cute le debolezze della Curia e del sacerdozio, le1 manchevolezze, le piccinerie, le miserie di tutto quej mondo che s'agita attorno al Vaticano, sono gli articoli di « Qui Quondam », come benpostato e sereno è lo studio del De Stefano su « Chiesa ed eresia ».
Il Tagliatatela, benché assurga nelle ultime pagine del suo studio su « Chiesa e morale» a consolanti speranze, .nell’assieme del suo. lavoro è ingiusto contro il cattolicesimo. Egli incolpa la Chiesa cattolica d’una morale tiepida, infrollita, tutt’altro che adatta a rifare i caratteri, ed adotta per suo punto di partenza due autori, l’uno giudice severo della morale cattolica, il Sismondi, l’altro che eleva l’insegnamento etico cattolico al più alto
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BILYCHNIS
grado: Manzoni. Stupisco che il Tagliatatela non abbia addirittura preso per cardine del suo articolo il Michelet, nel libro: Le prêtre, la femme et la famille, tanto critica il sacerdozio nelle sue funzioni di guida delle anime.
la morale ch’egli combatte è quella del Settecento, che noi nella nostra liberta abbiamo posta in quarantena, volenti o nolenti i gesuiti. Purtroppo di morale cattolica e protestante il popolo pare che in gran parte ne voglia far senza; nè si può incolpare la sola Chiesa se tanta immoralità dilaga per il mondo. Il materialismo, il socialismo arruffone ed ateo, l'indifferenza hanno fatto si che gli aurei insegnamenti di Gesù (i quali sono pur sempre il fondo d’ogni predicazione) siano poco ascoltati e pochissimo messi in pratica. L’amore al benessere regna nella società, e ci voleva il presente ciclone per scuotere le anime dal letargo lunghissimo. Nè i protestanti hanno dimostrato d’aver una morale migliore delta nostra (la Germania insegni), nè l’Inghilterra col suo pauperismo, là sua prostituzione eguale a quella dei paesi latini e le esagerazioni religiose di varie sètte, dà prova di esser molto superiore a noi. Cattolici ed evangelici da vari anni tentavano di dar un’altra
forza morale ai popoli, ma tutto non si deve attendere dalle Chiese, nè stimare che gli uomini possano migliorarsi senza vivere una più profonda ed intima vita spirituale, secondo le belle espressioni di Andrea Towianski. Del resto del volgo ve n’è, e ve ne sarà, dappertutto, tiepido al bene, ignorante, superstizioso, calcolatore, cercante nella religione un intermediario secondo i suoi fini e non un motivo d’elevazione.
• • •
Le piccole mende che ho segnate in: La Chiesa e i nuovi tempi non tolgono sicuramente importanza al volume. Esso è bene scritto, ed il valore degl ¡egregi autori dà un interesse anche maggiore agli articoli. La Chiesa vi è studiata sotto molteplici aspetti da uomini che vogliono trovar in essa il conforto, l’educazione, il miglioramento della società; ed il desiderio espresso con amore, con dottrina e con fede è un chiaro indice della tendenza di molti spiriti ira questo conflitto di nazioni e di coscienze, è la prova delta speranza caldissima di vedere, finalmente, tutti i cristiani uniti sotto un solo labaro redentore.
Luisa Giulio Benso.
RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
XVII.
L’OSPITE IGNOTO
Vi è mai avvenuto di avere d'un tratto, in un ritrovo pubblico affollato o nel silenzio del vostro studio, la sensazione improvvisa della vacuità delle apparenze del reale, dell’inutilità' folle di tanto agitarsi e faticare umano per dei fini che non sono labili se non perchè sono vani?
Se vi è avvenuto qualche volta di avere una tale sensazione potete fare una ipotesi; d’un’anima che cerchi di approfondirla, di provocarla di nuovo in sè in certi momenti, di collocarsi da quel punto di vista per osservare se stessa e il mondo, da farne il centro della propria vita interiore. È l’origine
perenne dell’ascetismo monastico, in tutte le religioni che lo conoscono, e specialmente in quella di Budda. Ed è un momento essenziale della vita religiosa.
Anche un europeo con temporaneo» di una delle culture più raffinate, ad es., della francese, non credente in alcuna religione costituita, imbevuto di pensiero positivistico, può avere quella sensazione e fissarla e farne il centro della sua vita di artista e svolgerlo con una intima logica sentimentale: Maeterlinck.
Maeterlinck dovè avere più volte quella sensazione quando, giovane a vvocato, ascoltava un poco distrattamente i suoi clienti e li osservava; un cliente avanti a un avvocato, che tenta di persuaderlo della bontà della sua causa, dalla quale è tutto preso.
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è un buon momento psicologico per studia-re l’infatuazione dell’attimo vuoto.
E la vita parve a M. una vita di marionette; egli creò figure di teatro tenui, quasi evanescenti, mosse da fili di un fato occulto e doloroso, che amano e peccano quasi automaticamente e muoiono; e c'era intorno ad esse come una atmosfera di invisibile e penetrante mistero. Tutti sanno queste figure: Maleine, Melisande, Alladine, Titan-giles.
Un giorno, sui trentacinque anni, M. lavorava intorno^ad una di esse, Aglaveine; ed ebbe pietà della sua creatura. Davvero la morte", il mistero della vita, è così disumana e crudele? E se anche questa fosse una illusione, l’errore di una considerazione superficiale, se il Fato fosse una ragione e una provvidenza misteriosa sì, ma buona, che ci conduce, inconsapevoli, verso forme più ricche e più pure di vita? Non era un approfondimento dialettico del problema, ma una transvalutazione sentimentale e fantastica. Il M. vi si indugiò lungamente. Cinque anni fa egli ci diede un libro sulla Morte- in cui tenta di vedere attraverso qualche tenue spiraglio oltre le apparenze, nel mistero.
Le sue ipotesi non hanno persuaso molti; manca in esse totalmente l’autocritica e la legittimazione dei concetti dei quali vi si fa uso e del proprio punto di vista; ma si appoggiano su di una certa somma di esperienze e espongono talune sottili intuizioni che le fecero degne dell’attenzione di molti; specialmente di quelli che venivano dal positivismo, ed avevano dato importanza alle ricerche psichiche.
Ora, con un suo nuovo volume, {’Ospite ignoto (L’ Hôte inconnu) il M. fa un passo innanzi; e ci dà un misto di osservazioni quasi sperimentali e di spunti filosofici che sarà letto da molti, e specialmente da molte, con interesse.
Nel libro egli si occupa di sopravvivenza, di psicometria, di presente e avvenire e dei cavalli di Elberfeld. Dei racconti di apparizioni di morti, frequenti e certe, in luoghi ad essi noti, per un certo periodo di anni che ñon va di molto oltre la mòrte, in un gesto caratteristico di qualcunodei momenti centrali della loro vita degli ultimi anni, sono piene le cronache di riviste spiritiche. E i fatti non possono essere negati. Ma d’altra parte assai poco si può dedurre da essi. Se non si tratta di allucinazioni visive, Srevocate nella sfera del subconscio, siamo inanzi a una forma di sopravvivenza che
non ci istruisce e non ci edifica molto. Il M. la prende come punto di partenza; è, per lui, un minimo certo sul quale possiamo costruire ipotesi; e quali altre se non quella di un io disincarnato, che si avvolge per qualche tempo nelle forme e nei luoghi noti, e pur tenta di districarsene, come premuto da una nuova esperienza vitale, in un mondo col quale questo ha contatti, ma che si estende di là dai nostri sensi? Altri fatti, che avvengono fra viventi, testimoniano resistenza di questo mondo. Se ricevo una lettera da un ignoto assente, io posso, con l'aiuto di un buon medium, accrescere quel primo contatto, sapere delle condizioni di vita, della psicologia, dell’àmbiente di quell’ignoto lontano. È un saggio di psicometria. Il M. scrive: « essendo cellule di un immenso organismo, noi siamo legati a tutto quello che esiste da una inestricabile rete di onde, di vibrazioni, di influenze, di correnti, di fluidi senza numero e ininterrotti. Quasi sempre, presso quasi tutti gli uomini, tutto quello che apportano questi fili invisibili passa inosservato. Ma qualche volta una circostanza eccezionale, la meravigliosa sensibilità d’un medium di primo ordine, ci rivela bruscamente l’esistenza della rete infinita ».
Nella quale, secondo il M., o oltre là quale il nostro io si rispecchia in una coscienza pii! vasta, eguale, totale, vivente, onnipresente, per cui il tempo è simultaneità, il presente è a un tempo passato e avvenire. « Dal fondo più oscuro del nostro io, l’ospite ignoto dirige la nostra vita vera, quella che non deve morire. Esso sceglie il nostro amore malgrado l’indignazione della nostra intelligenza. Sorride quando abbiamo paura e talvolta ha paura quando noi sorridiamo ».
Sogni? Può essere. Ma ci si ammetta che un sógno più grossolano e più puerile è questo vivere totalmente nel mondo dell'apparenza e dell’attimo e lasciarci travolgere da esso, tanto più scioccamente passivi quanto più ci sembra di empire la scena della nostra- rumorosa vanità.
FILOSOFIA DELLA RELIGIONE
Del volume di R. Murre Imperialismo ecclesiastico e democrazia religiosa altri si occuperà in Bilychnis; segnaliamo qui brevemente la tesi dell’A.; non svolta di proposito nel libro, ma implicitamente assunta e della quale le varie parti di esso sono la dimostrazione e l’esemplificazione.
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BILYCHNIS
I! M. distingue fondamentalmente la religione dalle religioni e, allo stesso modo, il cristianesimo dalle Chiese. La religione è Sor lui lo spirito umano commosso dalla ivinità, del quale le religioni sono una parte della storia. La filosofia non va confusa con la religione, perchè essa è un atto di riflessione critica sul pensiero e di deduzione razionale, mentre la seconda è tono di vita, posizione pratica di valori e di fini, fede, volontà. Ma la filosofia è, evidentemente, indice del grado di comprensione/aggiunto dallo spirito nel suo svolgimento storico; e quindi è anche indice del contenuto conoscitivo e delle attitudini valutative dello spirito medesimo, in quanto la valutazione è anche un atto di conoscenza.
Da ciò avviene che una delle condizioni dello sviluppo religioso è il grado di conoscenza raggiunto, la cultura, la filosofia dominante di un’epoca; mentre l'altra condizione è la stessa attività pratica dello spirito, il fervore della coscienza, l’attitudine a subordinare la propria condotta, il mondo esterno, naturale e sociale, alle esigenze della vita interiore, alla visione delle cose sub specie absoluti, alla sintesi pratica: la unità come atto di amore.
La religione, come lo spirito medesimo, è essenzialmente attività, vita, sviluppo. •Se una certa permanenza è possibile e necessaria nelle sue manifestazioni esteriori, dottrine, simboli, riti, istituzioni, ecc., essa procede solo da quel tanto di determiniamo che è richiesto dagli elementi naturali in cui si svolge e di cui si serve, e dall’uomo stesso, considerato come natura; ma, in quanto spirito, essa è necessariamente, libertà, contingenza, novità perenne, sviluppo. Da essa la coscienza, lattasi realtà e-sterna, leggi, istituzioni, rapporti sociali, consuetudini, tradizioni, è continuamente richiamata a rivivere queste cose, ad assoggettarle di nuovo all’attività creatrice dtì-lo spirito, a superarle. Quindi, in ogni tempo, l’atteggiamento religioso per eccellenza è quello di Cristo: la riintei prefazione viva del passato, la negazione della storia concreta e fatta, l'adempimento spirituale della legge contro la formula morta, la profezia, il martirio^
Le religioni sono la religione fatta storia; concretata, digesta in formule, rappresa in istituzioni e in vincoli gerarchici, associata nell’unità della storia ad altri interessi e istituti dominanti e prevalenti. Quindi esse risultano sempre di un doppio elemento, l’uno religioso, l’altro antireligioso; alimen
tano la religiosità e insieme la costringono e la materializzano. La Chiesa, in quanto scuòla e disciplina dello spirito, ripetizione nelle' singole coscienze, di grado in grado, del processo unitario della coscienza umana, linguaggio religioso, pedagogia, servono a tutti quegli spiriti i quali sono di qua del rgrado di sviluppo raggiunto dallo spirito nel suo insième. Ma in quanto essi hanno bisogno, per conservarsi, di conservare quel dato stadio sociale cui sono legati, diventano tradizione, lettera, interesse conservatore e di casta; e la coscienza religiosa che vuol progredire si rivolge necessariamente contro di esse, diviene rinnovazione, eresia, profezia o, come oggi si dice, modernismo.
Da questa concezione è facile derivare delle conclusioni pratiche importanti. Poiché le istituzioni religiose non vivono isolate, ma sono frammenti ed aspetti della più complessa vita sociale, il loro sviluppo interno si immerge e si perde nello sviluppo totale della società, e, secondo le loro condizioni intime, prendono posto in essa, fra gli elementi e le forze di rinnovazione e di progresso o di conservazione e di reazione. Nel loro stadio di crescenza sono rinnovatrici; nel loro stadio di involuzione reazionaria, autoritarie, illiberali. E poiché oggi il processo sociale è riassunto nel nome di democrazia — se si dà a questa parola il significato più vasto e più comprensivo — dall’atteggiamento della Chiesa verso la democrazia si può desumere la misura in cui in essa il perenne elemento religioso prevale sugli elementi storici irreligiosi, o viceversa. E, ancora, poiché la guerra presente si combatte per la libertà dei popoli, per la giustizia internazionale, per la democrazia, contro il militarismo imperiale, la posizione delle Chiese nel conflitto è ineluttabilmente determinata dal loro stadio di sviluppo, dal grado di religiosità viva che è ancora in esse.
Questa la tesi del Murri, da lui applicata all’esame di taluni dei più caratteristici a-spetti e momenti religiosi di questa guerra mondiale.
L’ERRORE MORALE
Diceva Shopenhauer (epigrafe al Fondamento della morale} che facile è predicar la morale, difficile è fondarla, determinarne cioè filosoficamente la base. A fondar la morale si adopera di nuovo, prendendo le mosse dalla Critica della ragion praticadi Kant, P. Carabellese; che, nella Rivista di Filo-
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II?
sofia, 1917, I, difende contro appunti polemici del Vidari una sua concezione della volontà buona esposta nel volume: I a Coscienza Morale (presso G. Laterza. Bari). Il P. critica la duplicità della ragion pratica di Kant che poneva accanto al motivo ideale — l’imperativo categoiico — i motivi empirici e sensibili, accanto alla volontà del bene la volontà dell'utile; e, in sostanza, due criteri del bene: la categoria a priori della volontà del bene e il rispetto. Egli vuol mostrare che questa dottrina e le altre che, sulle tracce di essa, distinguono il bene dall’utile e la volontà dell’universale dalla volontà del particolare contraddicono al principio stesso della iagion pratica: la quale, se è appunto ragione che si attua praticamente, non può essere che razionale e involgere nella razionalità l’universalità; mentre ogni altro criterio, che sia l’utile o il piacere o comunque la volontà del sensibile, o rientra nella ragion pratica, e si li-solve nel primo criterio, o è fuori della ragione ed è fuoii non solo della considerazione morale, ma della stessa razionalità attuantesi, cioè operante.
Contro questi dualismi il C. sostiene la unità della ragion pratica, ossia della volontà. Approfondendo, egli dice, la critica kantiana ed eliminando quel bene in sè, quell’assoluto bene oggettivo (fuori del soggetto) il quale corrisponde al noumeno della ragion pura speculativa, o, meglio, secondo che lo stesso metodo del Kant esige, facendo rientrare questo bene in sè nel soggetto, come la vera oggettività di esso, che non è senza il soggetto e fuori di esso, ma non si identifica.col soggetto empirico, noi abbiamo un bene in sè che è anche coscienza del bene in universale sempre presente e operante, criterio dell’atto buono e del cattivo, razionalità determinantesi in infinitamente varie ed anche in opposte maniere; è, per usare la frase del G., la coscienza morale come teoria della volontà.
Sottile è questa concezione critica della oggettività del bene. Da buon kantiano il C. avverte che il bene non può esser fuori della volontà, oggetto che la determini, ««determinazione che renderebbe condizionato l’imperativo, e quindi non più autonoma la volontà ». « Una concezione pienamente critica della soggettività... ci costringe ad abbandonare il concetto della assoluta oggettività, cioè di una oggettività che sia sempre e soltanto oggettività, cioè oggettività m se stessa e anche senza soggetto ». 11 bene è quindi categoria, a priori, costituisce
là funzionalità stèssa della volontà. Ma, d’altra parte/ non si può identificare pienamente il bene in sè col soggetto; una tal quale oggettività conviene ad esso, se dinanzi alla volontà che può essere del bene e del male e su cui agiscono necessariamente motivi empirici, conquista e possesso del proprio io, beni sensibili, eco., essa permane come vera universalità in atto, assoluta noi ma. Questa duplice esigenza metafisica il C. cerca di tradurre in dottrina della pratica; e ci presenta la coscienza morale come teoria della volontà, cioè come espressione 1 azionale, più o meno chiara, e avvertita, ma sempre presente, di quella universalità del volere che è poi la stessa razionalità. La sintesi trascendentale di soggetto-oggetto si tradurrebbe, insomma, nel campo della coscienza pratica, in questa sintesi di teoria — visione od autocoscienza dell’universale, coscienza morale — è di pràtica, determinazione concreta della volontà che attua le sue teorie, attua se stessa come teoria, e dà luogo all’atto buono, assumendo l'utile nella razionalità; o contraddice con l’atto alla teoria, oppone il soggetto empirico al soggetto-oggetto puro, l’utile al bene, e commette il male. Sicché non c’è per il C. — e l'ho già indicato — attività economica, o dell'utile, amorale; ma o l’utile è voluto secondo ragione ed è bene; od è voluto contro ragione, ed è' male. « Resta a vedere, conclude il C., come possa avvenire questa sostituzione di teoria che permette una soggettiva contraddizione della volontà. E questo si riattacca alla dottrina generale dell’errore che qui ed ora... non possiamo e non vogliamo fare ».
Indubbiamente il C. ha messo, con molta- perspicacia, il dito sulla piaga; ha posto cioè nei suoi più precisi termini l'insoluto problema della morale quale ci fu lasciato da Kant. Che egli l’abbia risolto non diremmo; e la prima e più ovvia delle difficoltà ci è offerta dallo stesso qualificare che egli fa la coscienza morale come teoria della volontà. Parlando di teoria, non usciamo dall'ambito della volontà? Non ci è necessario costituire la volontà, o coscienza morale, come un imperativo e un dover essere, e quindi come un atto, un impulso, un movimento della volontà, necessario come atto e pur libero nella connotazione del suo termine empirico, cosicché il male sia, in qualche modo, non l'atto stésso della volontà, ma il termine empirico che la specifica nel
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BÜ.YCHNIS
fatto, l'errore a un tempo teorico e pratico?
Ardua questione, che ci basta avere accennato.
GUERRA E FILOSOFIA
ÉMirio Boutroux ha dato, recentemente, due notevoli contributi allo studio dell’influenza della filosofia tedesca sullo spirito germanico e sulla guerra. In Italia e in Francia gli è stata ricordala da parecchi la sua grande ammirazione di ieri per la Germania di Kant e di Goethe. L’accusa è ingiusta, perchè dall’ima parte in tutto il suo lavoro filosofico il B. ha portato caratteristiche essenzialmente latine — a scapito, talora, dell’originalità — ed anche oggi egli non eccede, nella critica, la misura. In un suo articolo della Revue Biette, ro-i'7 marzo, egli esamina il volume di F. Sortiaux: Morale kantienne et morale humaine.
Il S. rimproverava a Kant di avere, con la sua concezione della morale pura, vuotata di ogni elemento empirico ed endemonistico, elevato a norma, contro ogni tradizione filosofica, che buono è, quale che si sia il suo contenuto, l’atto che si pone per comando di autorità, onde la sostanza stessa del militarismo prussiano. E il B. mostra facilmente che tut-t’altro è il pensiero di Kant, il cui imperativo formale è puramente razionale e interiore; e per il quale la volontà esterna, fosse anche di Dio, l’arbitrio, è fuori dello a priori, della pura forma morale. Caratteristica di Kant, nota B., è un dualismo radicale, per cui egli pone dall’ima parte un mondo di noumeni, esseri liberi, che obbediscono solo alla ragione pura pratica, e un mondo di fenomeni, legato da una necessità tutta meccanica.
Egli ha cercato di conciliarlo, ponendo in fondo alla natura una finalità divina per cui quella tende, per vie oscure, a realizzare un ordine che imita a sua modo l’ordine morale; ma il dissidio rimane, nell’intimo della coscienza morale, divisa fra l'imperativo categorico e i fini pratici, empirici. È noto come dal dissidio cercassero di uscire i continuatori di Kant, con l’immanentismo assoluto.
E di questo il B. si occupa in altro studio, pubblicato nel n. i di giugno della Revue aes deux tnondes. A chi si chiede Eer quale metamorfosi là Germania di* eibniz, di Kant e di Goethe è divenuta la Germania di Guglielmo II, egli oppone
i dati di quest’altro problema: in che consistono i principi, lo spirito, il temperamento morale che presiedono all’azione tedesca di oggi. B. constata che, in ogni tempo, nella sua teoria del santo romano impero germanico, come nei suoi poeti, filosofi e uomini politici, il tedesco è stato oppresso dall’idea dell’assoluto, del tutto, dell’universale. Egli ha concepito questo tutto, non come un insieme di unità viventi ed autonome, ma come un tutto unico, avente in sè la legge e il principio della sua esistenza. Tutto lo sforzo tedesco è consistito nel prender coscienza e possesso di questo assoluto; e in ciò sta anche l'essenza del suo lomanticismo.
Mentre la saggezza classica pone il fine supremo di ogni attività nella perfezione, concepita come una forma, compiuta e fissa, nell'esistenza, il pensiero tedesco mette al fondo delle cose un assoluto concepito come un eterno divenire, come una potenza in contraddizione con se stessa, che crea le forme per distrug-Serle e passale oltre. Per il pensiero te-esco, nulla di quel che esiste ha vera realtà; quel che ci sembra essere è solo posto come esistente da un io universale che vuol realizzarsi e che non può conoscersi come sè se non sdoppiandosi od opponendosi un ostacolo da superare. Cosi la filosofia tedesca ha ridotto all'ufficio di mezzi, di tappe, di momenti transitori tutto questo che l’umanità riconosce come un fine in sè e ridotto quindi a troppo poca cosa la morale assoluta, come gli uomini la intendono. Accanto allo stimolo fecondo della idealizzazione stava il bisogno grossolano della concretezza. Di ideale e trascendente, l’io tedesco è divenuto visibile e materiale. Dopo Hegel, non c’è più altro che lo Stato, e la moralità vera consiste nel far tutt’uno con lo Stato.
B., avvicinando a questa concezione generale la teoria della guerra che i tedeschi ne hanno dedotto, mostra che essa ha determinato, per la disciplina di ferro in cui si incarna, lo sforzo di insieme, unico e cieco, che è l'equivalente psichico delle grandi forze della natura. L’organizzazione che annulla l’individuo produce l'identità dei sentimenti e delle volontà. Sin dalla scuola il tedesco si abitua ad agire come parte di un tutto, come cellula di un organismo e, nei giorni di prova, crede, come a una legge d’acciàio, alla necessità, all’onnipotenza del sacrifizio.
A questa forza morale il B. paragona
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TRA LIBRI E RIVISTE
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Ìndia che portano nella lotta i francesi.
Ila concezione tedesca dell’assoluto egli oppone, un poco artificiosamente, la concezione latina, che ci fa prendere il mondo quale ci è dato, mondo m cui incontriamo esseri dotati di personalità, il che implica la coscienza, il possesso di sé, la libertà, la capacità morale. Egli ritiene che questo caràttere, sbozzato dalla natura e capace di perfezionarsi con un libero sviluppo, deve essere- rispettato dove esiste. È la personalità esistendo per le nazioni come per gli individui, noi riteniamo essere un dovere verso l’umanità riconoscere il diritto all’esistenza alle nazioni dotate di una vera personalità. Di qui la differenza fondamentale fra la tesi degli imperi centrali e quella dell’Intesa.
In fondo, più che di radicale opposizione filosofica, si tratta di differenza nel metodo di giungere all’unità. Per aver identificato l’assoluto col tutto empirico che è lo Stato e chiesto la disciplina ai mezzi esterni di coazione, il germanesimo può esser definito come una barbarie consapevole e voluta. Solo l'insuccesso radicale e rovinoso può guarirlo da questa criminale illusione.
DIRITTO E LIBERTÀ
Una prolusione, letta dal prof. Giorgio del Vecchio all’università di Feirara nel 1904, a un corso di filosofia del diritto, ci torna innanzi, in veste elegante, nella sua terza edizione. (Bologna, Zanichelli, 1917). E opportunamente; poiché la concezione meramente storica e relativistica del diritto che mise capo alla mostruosa esaltazione germanica della forza e del successo vi è serenamente, ma efficacemente confutata: ed è posta, come criterio del contenuto delle determinazioni giuridiche, « una esigenza assoluta della giustizia, la quale, pur rivelandosi solo Ser gradi nell'esperienza, è idealmente ssa e compenetrata con la natura stessa dell’uomo; di guisa che la ragione, considerando tale natura nella sua piena essenza, può dedurre categoricamente da essa i principi assoluti ed universali del diritto umano, senza attendere la rivelazione positiva nel campo storico, ma precorrendo e preparando pur questa, dove tuttavia manchi ».
Giova rileggere le pagine che il Del Vecchio dedica alla funzione del cristianesimo nello sviluppo del diritto. « La
concezione cristiana del mondo fu nelle sue origini un tentativo di sollevare la dignità dell'essere umano, riconoscendo in esso, sol perché tale, un principio divino ed eterno, e accomunando quindi tutti gli uomini in un ordine di ideale eguaglianza, sopra la contingenza della diversa sorte terrena. È da notare però che in tal concezione il valore dell’individuo è riposto non tanto nella sua natura attuale, quanto in una aspettazione ed aspirazione ultranaturale, di cui l'individuo stesso è capace; la sede, per così dire, della sua dignità etico-,giuridica, non è propriamente 11) lui, ma sopra di lui. Fino a che tuttavia cotesto rapporto fra l’individuo e il principio divino fu concepito nella sua formaoriginale,' per cui esso si risolveva in un vincolo puramente intcriore e diretto tra l'uomo e la dignità soprastante, esso poteva equivalere, massimamente nei suoi riflessi giuridici, a un titolo e a una ragione di autonomia. Ma da che un potere sociale si venne formando, quale terzo termine nel rapporto, ed impose la sua mediazione. come necessaria per ricondurre l’umano al superumano, quella medesima idea, che prima aveva avuto significato dì redenzione e di elevazione dell’individuo, si convertì al contrario in uno strumento di soggezione incondizionata. La dipendenza, puramente spirituale ed intima, tra l'uomo e una vox, divina manifestan-tcsi nella sua stessa coscienza, si rese obiettiva, divenne esteriore; cioè si mutò in una dipendenza gerarchica tra uomini dominanti e uomini dominati, tra i ministri e i sudditi della divinità. E, non ostante questo trapasso, tale rapporto di dipendenza conservò gli stessi caratteri di assolutezza e di introspetlività che gli erano proprii nella prima forma. Nella complicazione della gerarchia, circuente non solo l’attività esteriore, ma anche le fonti intime del pensiero, si doveva così smarrire infecondamente quel principio di elevazione etica della personalità umana che era pure nello spirito originario della dottrina...
«E pure tutto ciò è logico. La libertà è essenzialmente la posizione di un essere come fine; da che la vita dell’uomo è considerata, anziché come un fine, come un mezzo per ottenere un fine prefisso da una volontà superiore, essa non è più rispettabile per se stessa, ma solo finché sia diretta effettivamente a quel fine... Questo atteggiamento passivo ed eteronomico dello
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BILYCHNIS
spirito è esattamente l’inversione dell’angolo visuale necessario per concepire la personalità umana quale principio assoluto, sì nell’ordine speculativo come in quello etico-giuridico •.
In queste espressioni di crudo idealismo dell’insigne filosofo del diritto qualche lettore potrà vedere indicata la ragione sostanziale dell’imbarazzo in cui la Chiesa romana si trova dinanzi al conflitto europeo, in quanto esso è una lolla per il diritto. Il papa, infatti, non ha mài voluto riconoscerlo, dinanzi alle più insistenti pressioni del Belgio cattolico, come lotta per il diritto; perchè per il diritto popoli moderni e'democratici non possono combattere se non affermandone e rivendicandone praticamente l’autonomia; conquistandolo come espressione di libertà e di personalità. Ora la Chiesa romana, basata sulla soggezione dei fedeli ad una volontà divina manifestantesi autorevolmente per mezzo di essa, implica l’eteronomia, cioè la negazione radicale del diritto, come è oggi inteso e praticato nelle società libere; e si trova quindi irresistibilmente sospinta da tutto il peso della sua tradizione dall’altra parte, verso quelli che lottano contro il diritto. E poiché di questa sua solidarietà non può farsi confessatamente responsabile, il papato evade dalla lotta, e ne nega, in una con il valore ideale, il carattere e la portata giuridica, rifugiandosi nella anodina invocazione della pace.
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VARIA.
Dalla Scuola alla Vita. Rivista mensile per le Giovani Italiane. Genova, Via Serra, n. 9, abbonam. annuo L. 15.
Una Rivista che nasce ora, in un momento in cui si può dire che la umanità
è in preda alle doglie mentre s'attende una creazione nuova. Il motto che la Rivista ha scelto: Tempi nuovi, anime nuove, dice opportunamente lo sforzo umano d'orientarsi verso delle luci che si credevano spente, di inchinarsi a dei valori che si credevano sorpassati. L’Aomo sapiens, Vhomo germanicus sembrano infatti destinati a dare il posto all'uomo vero e completo, l'uomo che piange ai dolori altrui e s’esalta alle bellezze dell’arte e si commove per il delitto e s’appassiona per ogni ideale nobilmente perseguito; l’uomo spirituale, cioè, .quale l’ha creato Iddio: ad imaginem et simililudinem suarn.
Avvicinare alle menti delle giovinette italiane nel momento in cui lasciata la scuola stanno per entrare nella vera vita, in quella che dovranno dirigere loro stesse senza più ispirarsi alla guida d’altrui, avvicinare a queste menti una concezione serena ma esatta del valore della umana esistenza, del sacro, del divino che c’è in tutta la vita dell’uomo, della dignità della donna, della possibilità ch’essa ha di influire sulla posizione spirituale delle nazioni, della responsabilità ch’essa contrae di fronte alla umana società che le affida la prima formazione delle giovanissime anime sulle quali essa può imprimere incancellabilmente, se la sua anima ne è a sua volta capace, il battesimo della fede in Dio e nella vita, cioè non quello dell’acqua ma quello dello Spirito e del fuoco: tutto questo la Rivista si propone; e per la serietà e la capacità di chi la dirige e vi collabora è a sperare che molto e molto riesca effettivamente a fare nel campo che le si apre, che essa coraggiosamente, opportunamente imprende oggi a lavorare con paziente sicurezza e con fede.
S._ BriDget.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma - Tipografia dell'Unione Editrice, Via Federico Ceti, 45.
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Estratti dalla Rivista “Bilychnis”
(In vendita presso la nostra libreria)
Giovanni Costa: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con 2 disegni c 2 tavole). . . .
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o -o Paolo Orano: Dio in Gio-0 , vanni Prati (con una lettera autografa inedita
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sperienza religiosa (In memoria di G. Vitali) . 0,60 Mario Rossi: La Chimica
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nella vita pubblica. . . 0,30 F. Scaduto: Indipendenza
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Alfredo Tagliatatela: Fu il Pascoli poeta cristiano ? (con ritratto e 4 disegni) ....................
F. Biondolillo: La religiosità di Teofilo Folengo (con un disegno)....
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¡Giov. Sacchini: Il Vitalismo ..........
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D. G.: Verso il conclave. 0.15
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Paolo Orano: Gesù e la guerra.........
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