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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV :: Fasc. IV.
APRILE 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 30 APRILE - 1915
DAL SOMMARIO: F. RUBBIANI: Mazzini e Gioberti — CALOGERO VlTANZA: Studi Commodianei (I. Gli anticristi e l'anticristo nel Carmen apologelicum di Commodiano - II. Com- / modiano doceta?) — SALVATORE MlNOCCHI: I miti babilonesi e le\/ origini della gnosi — MARIO ROSSI: La cattedra di Storia del/\ Cristianesimo all' Università di Roma — RAFFAELE VIGLEY : L'autorità del Cristo — EDOARDO GIRETTI: Perchè sono per la guerra— G. PIOLI: Preghiere in tempo di guerra — FELICE MOMIGLIANO : La guerra e gli Ebrei russi — D. G. .Whittin-GHILL: Siamo sani di mente? —. La guerra e il Cristianesimo (Notizie, Voci, Documenti), ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # — Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l’Estero
Via del Babuino, 107 - ROMA -AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per ¡’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
# Si pubblica il 15 di ogni mese
in fascicoli di almeno 64 pagine.
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In deposito presso la LIBRERIA "BILYCHNIS"
Via Crescenzio, 2 - Roma:
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Pubblicazioni religiose sulla guerra: (vedi notizie a pag. 170).
N.B. - Ai nostri abbonati che fanno acquisto di libri presso la nostra Libreria per una somma non inferiore alle 15 lire accordiamo facilitazióni nel pagamento.
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BILYCHNI5
R.M51À DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMA- 2
SOMMARIO:
FERRUCCIO RUBBIANi: Mazzini e Gioberti ......... pag. 261 Calogero Vitanza: Studi commodianei.
1 . Gli anticristi e l’anticristo nel Carmen apologeticum di
Commodiano . . . ........ . . . » 274
IL Commodiano doceta? ............ »281
Salvatore Minocchi: I miti babilonesi e le origini della gnosi. . » 285
Mario ROSSI : La cattedra di Storia del Cristianesimo all’ Università
di.Roma . .. . . . . .. ........... » 307
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Raffaele Wigley: L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) . . » 310
RELIGIONE E GUERRA:
Edoardo Giretti: Perchè sono per la guerra ........ >319
Giovanni Pioli: Preghiere in tempo di guerra. ....... » 326
Felice Momigliano: La guerra e gli Ebrei russi....... » 330
NOTE E COMMENTI :
D. G. Whittinghill: Siamo sani di mente? ........ > 333
TRA LIBRI E RIVISTE:
Religione e democrazia (P. Chiminelli) - Varia (S. Bridget) ...... » 334
LA GUERRA (Notizie, Vóci, Documenti):
Voci e propositi cristiani di pace - Due congressi cristiani - Il pensiero di Norman Angeli - Come ottenere la pace dopo questa guerra? - L’unica via I - Ci vuole fede nell’ ideale ! - La « non resistenza » e l’attività dei àuackeri - A fascio ...... .............. » 337
icazioni pervenute alla Redazione.... .......... » 337
Cose nostre . . . % . . . . . . . . . . » 339
Libreria Editrice « Bilychnis » ..................... » 345
ILLUSTRAZIONI :
Sfinge italica (Disegno di Paolo Pascbetto) - Tav. tra le pagine 320 e 321.
Lovanio (Disegno dal Graphic) - Effetti di un obice in un convento a Nieuport (Da una fotografia) -Tavole tra le pag. 344 e 345.
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IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
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MCMXIV
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MAZZINI E GIOBERTI
'uno e l’altro sono collocati dalla nostra ammirazione fervente tra i numi indigeti della patria, e però circonfusi della stessa luce di gloria e di devozione. Se ci si stancasse d’essere originali fino all’assurdo potrebbero in Italia riprendere da l’uno le fila per stabilire e consolidare quel riformismo religioso il quale, per essere morto e sepolto dovrebbe avere nel sepolcro la Libertà cattolica e il Gesuita moderno, dall’altro le mosse per dare alla politica italiana quel contenuto ideale di democrazia
e di moralità che anima da l’un capo all’altro tutta la sua opera teorica e pratica e che è come un soffio di religiosità possente oggi non risentito solo da chi — dalla burbanza e dalla presuntuosità d’un mal combinato aforisma politico— ha offuscata la visione vera dei destini d’Italia all’interno e all’esterno. C’è dunque tutta un'educazione Giobertiana e Mazziniana da fare.
Intanto la storia afferra questi eroi del nostro Risorgimento e con lo spirito critico che la pervade li racchiude nelle sue inflessibili conclusioni.
La storia dunque ci dice che tra Gioberti e Mazzini non ci fu quell’accordo ideale che la nostra ammirazione, la quale ha così larghe braccia da comprendere con loro Carlo Alberto e Cavour, Garibaldi e Rattazzi, potrebbe farci credere. Talvolta anzi il disaccordo ideale si mutò in violenza di parole, tumultuoso rinfacciarsi di presunte colpabilità. Sempre tra l’uno e l’altro ci fu un disaccordo pratico insanabile.
Mazzini ha scritto di Gioberti: « Non fu nè filosofo nè credente. Ingegno facile, rapido, trasmutabile, fornito d'una erudizione copiosa, ma di seconda mano e non derivata dalle sorgenti, capace di eloquenza, ma di parole più che di cose, fervido d'immaginazione, non ambizioso, nè cupido di potere o di agi. ma vano e irritabile e in tollerante d’ogni opposizione. Gioberti soggiacque per impazienza di successo e per indole naturalmente obbiettiva, agli impulsi esterni, agli avvenimenti che si sotten-
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tra vano ej v’accomodò, scendendo dalle serene, immutate regioni della Filosofia, le sue facoltà. Non diresse, riflesse. E dacché il periodo era, come io dissi guasto d’immoralità, non cercò di vincerla, vi si adattò. Ei fu, inconsciamente, con Balbo e Azeglio tra i primi corruttori della giovane generazione: mentre Balbo insegnò la rassegnazione della scuola cattolica e seminò lo sconforto nelle forze collettive del paese —- mentre Azeglio pose in core alle classi medie della nazione il materialismo veneratore servile dei fatti, i germi d’un militarismo pericoloso— Gioberti rivestì di sembianze filosofiche l’immorale dottrina deli’opportunità e mascherò da idea l’irriverenza delle idee» (i).
Altrove: « Gioberti, avendo esordito dalle dottrine di Giordano Bruno, si sommerge in un concetto neo-guelfo di primato italiano per mezzo del papato... e avendo salutato di entusiasmo la formula Dio e Popolo la rinnega poi a profitto d’un cattolicesimo rintonacato ». Dei giobertiani poi egli scriveva così: « La fazione protea. Che s’andò intitolando, a seconda dei casi, dei moderali, dei riformisti, dei pratici, degli uomini dell’opportunità, e che io chiamerei fazione delle torpedini, dopo avere iniziato la propria carriera, aiutando, fra il 1814 e il 1815, l’Austria a impadronirsi della Lombardia, e strisciato di tempo in tempo ad ogni sciagura che feriva il principio d’azione, tra le nostre cospirazioni, sorse quando appunto morivano i Bandiera per la fede repubblicana dell’unità nazionale, e dichiarò che bisognava conquistare non il governo ma i governi d’Italia. Era il vecchio programma di federalismo monarchico del 1820-21, accresciuto da un ingegno potente ma traviato, di una forinola di filosofìa religioso-politica e peggiorato di tanto quanto il vecchio conservava implicito nel fatto dell’insurrezione il diritto di sovranità popolare e la nuova edizione, richia mandOsi unicamente alle concessioni dei principi lo cancellava. Però nondimeno dacché trovò fautori quanti, per fiacchezza d’animo e di principi, disperavano di salvare il paese per altre vie — quanti, per mediocrità d’intelletto, si cacciano corrivi dietro ad ogni sistema, che trovi un ingegno facile a svilupparlo in molti e grossi volumi, quanti affascinati dalle guerre parlamentari di quel periodo francese che fu chiamato meritamente la commedia dei quindici anni, erano presti a creder parto d’ingegno raffinato e sottile l’immoralità politica, quanti vagheggiavano opportunità di parere agitatori patrioti senza gravi pericoli, e quanti per concetto falsato e carichi d’egoismo o teneri delle stranezze che allignano, come in ogni parte anche nella democratica, abborrono dal simbolo popolare, crebbe rapidamente in vigore, e, come avviene d’ogni setta potente per numero giovò a suscitare le menti che intorpidivano nel silenzio, e schiuse, con un mezzo gergo di libertà, l’arena alle discussioni politiche confinate fino allora nel cerchio delle associazioni segrete o della stampa clandestina e vietata ». Dal canto suo il Gioberti nel programma del Saggiatore che uscì il 19 marzo 1849 scriveva del Mazzini: « Uopo è che si sappia da tutti essere Giuseppe Mazzini il maggior nemico d’Italia, maggiore dello stesso Austriaco, che senza lui saria vinto, e per lui vincerà. E di che pregio può egli vantarsi, se non di una pertinacia incredibile ne’ suoi delirii a danno e sterminio della patria? Non tro(1) Mazzini, Scritti edili e ined., VII, pag. 144 e seguenti.
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vereste in esso alcuna delle parti che fanno l’uomo di Stato: ignoranza profonda degli uomini e delle cose; imperizia assoluta anche negli affari di picciol conto; politica puerile; misticità ridicola; religione intessuta di giaculatorie e di bestemmie: la spedizione di Savoia e le ultime vicende di Toscana chiariscono a che valga, quando discende all’azione dal suo ufficio abituale di sognatore e di congiurante. Come la sola sua parola abbia forza di un solutivo e corrosivo sociale, non mette il piede in nessun paese che non vi porti la discordia, il disordine, la licenza: incapacissimo di far cosa alcuna, solo riesce a sciogliere e sperperare. Le angustie impotenti del suo intelletto non sono pur compensate dalle qualità dell'animo: essendo egli non men codardo, che inetto, e come ultimo a mostrarsi nei pericoli così primo a fuggire. Saria sperabile, per un uomo così volgare, che la sua ricordanza seco perisse; ina il male fatto (che è immenso) gli assicura un triste privilegio di fama; e il suo nome giungerà abborrito ed esecrato alla posterità». Nè più lusinghiero era il giudizio sui mazziniani e sulla Giovane Italia. « Numerosa famiglia che non vanta un sol uomo illustre per ingegno, per dottrina, per senno, per autorità, per eredito, per servizio fatto alle scienze o alle lettere, al comune o alla patria; falange di eroi, che impiega il tempo a chiacchierare, e maneggia il sigaro in cambio della lancia e della spada; accolta di scrittori o poetanti, che coi vapori, colle scene, colle smancerie, onde gremiscono i fogli, comprometterebbero la virilità del sesso, se non fosse attestata dai baffi e dalle barbe, eletta di statisti, che vanno rinfracescando le ciarle dismesse e derise di oltremonte, senza pur consolarle con una idea loro propria, pensieri barbari in barbarissime favelle».
Non sarebbe certo possibile racchiudere meglio i termini del dissenso di quanto non l’abbiano fatto i due autori stessi nel giro dei periodi sovracitati. È vero che l’uno scriveva la violenta invettiva contro Mazzini e i mazziniani quando vedeva la sua fortuna d’uomo politico ormai smontata dagli avvenimenti e dall’opera di coloro che pur non essendo nella direttiva ideale e pratica dell'agitatore genovese e neppure auspicando ad un governo repubblicano-mazziniano tuttavia avevano constatata l’inconsistenza del conservatorismo neo-guelfo (1) — c’era quindi nell’animo suo tutto il rammarico per un lungo travaglio d’anima compiuto invano e — perchè no?
(1) Del Primato L. C. Farini che pure fu col Mamiani, col Balbo, col D’Azeglio, col Durando., col Torelli e col Castelli uno dei primi propagatori delle idee moderate già messe innanzi dal Gioberti dava questo giudizio (Cfr. L. C. Farini, Epistolario, ed. da L. Rava, Roma, Albrighi e Segati, 1911,1, pag. 200): «Ho letta l’opera di Gioberti. Dal lato della invenzione nulla ha di nuovo, perchè il sogno Guelfo è vecchio, dal lato della opportunità v’è molto da discutere, e con gli uomini fatti come sono, e non come dovrebbero essere, perchè il progresso Giobertiano avesse luogo, parmi un gittare ranno e sapone. Trovo anche lodati fedifraghi e despoti, che io non loderei mai, e trovo poi che tutto l’edificio poggia sul falso, pifatti l’autore parla di una Lega di principi italici, e non fa motto dell’Austria, che è la più forte potenza italiana. Se l'Austria entra nella lega, addio nazionalità, se ne viene reietta, addio pace. Sicché non capisco come nazionalità e pace possano affratellarsi nel sistema proposto. Si favella eziandio di istituzioni, di cui il tempo e la esperienza hanno fatto giustizia, e che egli presenta in tutta la verginità primitiva, In sostanza sai quello che trovo di bello? La lingua e la volontà, ma credo che agli italiani bisogni qualcosa di più della bella lingua e della buona intenzione ».
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— per un suo piccolo o grande sogno politico svanito — l'altro raccoglieva le voci non sempre disinteressate che si andavano propalando nei chiusi ambienti politici quando assalito forse da quegli sconforti (1) che gli illuminarono qualche volta come fallace la sua propaganda unitaria, colpiva nell’isolamento esacerbato dove potevano essere gli ostacoli, fossero in alto o in basso, fossero materia od ombra. Voglio dire che per tutti e due, per Gioberti e per Mazzini, non era forse il momento nel quale potessero con animo sereno lasciare alla storia il giudizio equanime del vicendevole valore, giudizio che a noi nè tardi nè stanchi ammiratori di quanti (pur facendo e disfacendo per loro conto) contribuirono a dare anima e vita all’unità civile e morale d'Italia avremmo scritto volentièri tra le nostre note a nostra consolazione.
Eravi per ambedue troppo vicina la ripercussione di avvenimenti forse d’altronde suscitati, ma non c’è dubbio che avviene quotidianamente a noi lo stesso ed è nella nostra stessa Sostanza psicologica: quando abbiamo accumulato buon numero di critiche e di avversioni personali e le abbiamo tenute con ogni sforzo compresse per ragioni d’umana opportunità, basta la più lieve occasione perchè tutto l’impeto della nostra sincerità — momentaneamente fuorviata— trovi la sua via più diretta e giusta. Non c’è motivo per collocare gli eroi tanto fuori dall’umanità che non risentano la necessità delle stesse nostre leggi psicologiche: perciò ai giudizi del Gioberti e del Mazzini purdando tutte le attenuanti possibili che li liberi da quel tanto di acredine
(1) « Quand’io mi sentii solo nel mondo, solo, fuorché colla povera mia madre, lontana e infelice essa pure per me, m’arretrai atterrito davanti al vuoto. Allora, in quel deserto, mi si affacciò il dubbio. Forse io errava e il mondo aveva ragione. Forse l’idea ch’io seguivo era sogno. E fors’io non seguiva una idea, ma la mia idea, l'orgoglio del mio concetto, il desiderio della vittoria, più che l'intento della vittoria, l’egoismo della mente e i freddi calcoli d’un intelletto ambizioso, inaridendo il core e rinnegando gli innocenti spontanei suoi moti, che accennavano soltanto a una carità praticata modestamente in un piccolo cerchio, a una felicità versata in poche teste e divisa, a doveri immediati e di facile compimento. Un giorno in cui quei dubbi mi solcarono l’anima, io mi sentii non solamente supremamente e inesprimibilmente infelice, ma come un condannato conscio di colpa e incapace d’espiazione. I fucilati d’Alessandria, di Genova, di Chambery, mi sorsero innanzi come fantasmi di delitto e rimorso purtroppo sterile. Io non potea farli rivivere. Quante madri avevano già pianto per me. Quante piangerebbero ancora s’io m’ostinassi nel tentativo di risuscitare a forti fatti, al bisogno d’una Patria comune, la gioventù dell’Italia? E se questa Patria non fosse che una illusione? Se l’Italia, esaurita da due Epoche di civiltà, fosse oggimai condannata dalla Provvidenza a giacere senza nome e missione propria, aggiogata a nazioni più giovani e rigogliose di vita? Donde traeva io il diritto di decidere sull’avvenire e trascinare centinaia, migliaia d’uomini al sacrificio di sè e d’ogni cosa più cara? Non mi allungherò gran fatto ad anatomizzare le conseguenze di questi dubbi su me: dirò soltanto ch’io patii tanto da toccare i confini della follia. Io balzava la notte dai sonni e correva quasi deliro alla mia finestra, chiamato, com'io credeva, dalla voce di Iacopo Raffini. Talora, mi sentivo come sospinto da una forza arcana a visitare, tremante, la stanza vicina, nell’idea ch’io v’avrei trovato persona allora prigioniera o cento miglia lontana. Il menomo incidente, un cenno, un accento mi costringeva alle lagrime. La natura, coperta di neve com’era nei dintorni di Grenchen, mi pareva ravvolta in un lenzuolo di morte, sotto il quale m’invitava a giacere. I volti della gente che mi toccava vedere mi sembravano atteggiarsi, mentre mi guardavano, a pietà, più spesso a rimprovero. Io sentiva disseccarsi entro me ogni sorgente di vita. L’anima incadaveriva. Per poco che quella condizione di mente si fosse protratta, io insaniva davvero o moriva travolto nell’egoismo del suicidio ». (Mazzini, Sonili ed. ed ¿ned., vol.V, pag. 205-8-10).
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che ci dispiace, sono indubbiamente lo sfogo sincero d’una vecchia convinzione che essi — è una parte di merito di questi padri del nostro Risorgimento — avevano fino allora sacrificata alla grande causa ed all’idea dell’Unità nazionale. Uno spirito storico che volesse approfondire un po’ più nella verità i suoi giudizi, direbbe anzi, che dalla parte dell’abate piemontese ci fu scrivendo quel programma del Saggiatore un tantino di malafede... giornalistica, giacché non doveva essergli ignota la calda difesa che il Mazzini, altre volte attaccato da gente che non fu mai, come fu il Gioberti, con lui aveva lanciato 'alle anime libere, della sua purità d'intenzione: « A tutti gli uomini, i quali sospettassero nel simbolo che noi predichiamo, prave intenzioni; a tutti gli uomini che ci attribuissero passioni di sangue o anelito di guerre civili, noi qui diciamo solennemente, ed ogni sillaba che noi scriviamo giovi a condannarci nell'avvenire, se i fatti non converranno colle parole: noi non siamo feroci, uscimmo da una madre ed amiamo. Ah! v'è un peso di delitti e d’infamie su questo suolo d’Italia, accumulato dalla tirannide e dalla viltà, v’è un tal suono di pianto dietro di noi, un tal grido di vittime sotterrate per noi, che se anche un pensiero di vendetta e di sangue ci strisciasse sull’anima, amara per la perdita di ogni cosa diletta e per vederci il fiore dei giorni giovenili, consunto nel tormento d’un’unica idea, o solcasse la fronte di uomini, sulla cui testa canuta pesano undici anni d’esilio e di patimenti non meritati, nessuno avrebbe diritto di rimproverarlo come delitto! Ma noi non siamo nè crudeli nè tristi. Non cacceremo le nostre sciagure sulla bilancia, non sommoveremo alle proscrizioni le moltitudini: non abuseremo del diritto di nazione: sottometteremo il tradimento e i traditori alla giustizia della nazione, e ci cacceremo tra il popolo e le vittime dei suoi sospetti. Abborriamo dal sangue fraterno: non vogliamo il.terrore eretto a sistema (1); non vogliamo sovversione dei diritti legittimamente acquistati, non leggi agrarie, non violazioni inutili di facoltà individuali, non usurpazioni di proprietà».
Per scagionare 0 meno il giudizio del Saggiatore questa commossa pagina del Mazzini è utile documento.
Se il dissidio tra Gioberti e Mazzini esiste è un po’ ingenuo volere annullarlo come fa Edmondo Solmi nell’ultimo dei volumi (2) consacrati allo studio del pensiero e della dottrina di Vincenzo Gioberti — prima che la morte lo cogliesse giovane d’anni e di attività nella quiete d’un villaggio del suo e mio modenese dove sperava ritemprare le forze esauste dallo studio e dal lavoro e mentre molto aveva dato e altro faceva attendere per la nobiltà del nostro insegnamento universitario.
E come annullarlo? Nello spirito che dovrebbe indirizzarci ad invocarli « Grandi vati della patria, che rapiste la fiamma divina e ne foste puniti da assiduo avvoltoio, date a noi una scintilla del vostro ardore magnanimo, un guizzo della vostra volontà dominatrice. Al concetto titanico che vi sorrise fra le tenebre del vostro secolo di una terza meravigliosa Italia, fate che possiamo levarci alfine. Conservate a noi il fiero senso della italianità, che spira da ogni vostra pagina; educateci a
(1) II corsivo è dèi Mazzini.
(2) Edmondo Solmi, Mazzini e Gioberti, Roma, Milano, Napoli, Albrighi e Segati.
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quella virtù di sacrifizio, che fu la norma della vostra vita, avviateci ad essere quel forte e generoso popolo, per la cui risurrezione, o grandi anime tragiche, avete combattuto e sofferto » (pag. 455).
Se non che questo stesso spirito arrischierebbe di lasciare senza soluzione per adesso e per sempre il problema accennato dal Solmi nel periodo precedente: «Chi fra il Gioberti e il Mazzini abbia più giovato alla causa italiana e chi abbia meglio colto nel segno, lo dimostrerà la storia il giorno in cui, sfumati gli odi codardi e i biasimevoli amori, eserciterà nella sua pienezza i propri diritti e i propri doveri ». Giacché per lo meno è inopportuno lasciare al sentimento di risolvere precedentemente quello che la storia a suo tempo e in sede propria potrebbe risolvere in senso contrario. Se prendiamo il Risorgimento italiano come fatto, a me pare, che la storia non abbia più nulla da risolvere. Sentimentalmente nessuno di noi si sentirebbe di dover meno o più a Gioberti o a Mazzini, a Cavour o a Ricasoli. Ma l’epopea del nostro Risorgimento è fatta anche da tanti piccoli atti che ci sono ignoti, di tanti piccoli eroi dei quali ogni movimento fu un verso e a tutti noi sentiamo di dover essere risonoscenti.
Evidentemente non da questo punto di vista si può farne la storia e solo se lo consideriamo nel suo svolgersi ci è possibile concludere dando un valore — il solo vero valore — agli avvenimenti e agli uomini. Se no Giolitti e Cavour si equivalgono.
Il Solmi si è trovato in una singolarissima situazione di spirito. Egli è stato forse il primo, certo il più serio ed appassionato studioso del pensiero di Vincenzo Gioberti — per questo noi gli dobbiamo anzi tutto quanto è stato fatto di securo per l’interpretazione del filosofo piemontese, ha amato il suo autore come lo si può amare quando ci si propone di spremerne tutto il significato possibile (1). D’altra parte egli fu — e conviene credere alla sua parola — nutrito al culto del Mazzini dal mazziniano Giuseppe Silingardi di Modena del quale fu allievo prediletto (Del Silingardi che prima di essere professore di storia al Liceo Muratori di Modena, fu canonico della cattedrale di Carpi e che per tenacia e per fede ad un ideale che in quel tempo era violentemente avversato dal vescovo Mons. Caiani si ebbe noie non poche e finì per lasciare l’abito e la Chiesa, nessuno ha scritto con amore, mentre la sua figura meriterebbe d’essere meglio lumeggiata).
(1) La bibliografia giobertiana di Edmondo Solmi sta ad attestare questa mia convinzione. Scritti edili: i° Meditazioni filosofiche inedite di Vincenzo Gioberti, pubblicate dagli autografi della Biblioteca Civica di Torino; 2® La teoria della mente umana - Rosmini e i Rosminiani. La libertà cattolica; 3® La controversia di Vincenzo Gioberti con il rosmi-niano Gustavo Benso di Cavour; 4® L’egemonia italica di Vincenzo Gioberti; 5° Il costituto di Vincenzo Gioberti; 6° Il sistema dell'identità di Schelling esaminato da Vincenzo Gioberti. — Scritti postumi: 70 La dottrina della conoscenza di Vincenzo Gioberti, secondo gli autografi inediti; 8° Vincenzo Gioberti, nel 1848 (dal carteggio inedito); cfì Lo svolgimento del pensiero di Vincenzo Gioberti secondo documenti inediti; io® La filosofia della natura di Vincenzo Gioberti secondo gli autografi inediti; 11® Gli anni di studio di Vincenzo Gioberti; 12® L’ultima replica ai Municipali; 13® Mazzini e Gioberti.— Scrini inediti: 14® La filosofia dello spirito di Vincenzo Gioberti secondo gli autografi inediti; 15® Concetto e fine della filosofia secondo gli autografi inediti di Vincenzo Gioberti; 16® Il principio di creazione nel sistema giobertiano, secondo gli autografi inediti; 17° Lineamenti di una teoria del giusto negli autografi di Vincenzo Gioberti; 18® L’estetica di Vincenzo Gioberti secondo gli autografi inediti; 19® Vincenzo Gioberti poeta metastasiano; 20® Epistolario di Vincenzo Gioberti.
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« Rammento sempre — scrive il Solmi — che il Silingardi, quasi ogni giorno, mi introduceva nel suo studio dove, come in un sacrario, dominava il grande e sacri) busto di Giuseppe Mazzini. Quivi egli sfogliava alla mia anima commossa gli autografi mazziniani che possedeva e, commentavami le opere del sommo maestro». Gioberti entrò più tardi nelle passioni del giovine studioso; ma a nessuno parrà strano che preso dal ricordo dell'antica educazione — la quale ispirata da un uomo quale fu il Silingardi non potè non lasciare traccie non facilmente cancellabili— e dal nuovo amore si affacciasse l'illusione che la storia potesse salvare l'una e l’altra simpatia. L’amante è certo il miglior storico del suo amore, ma non così il figlio può essere il miglior storico della sua famiglia, perchè la sua non sarà che storia di figlio il quale la vede in una determinata luce che è la sua e non è quella di suo padre e non sarà probabilmente a sua volta quella di suo figlio.
Così è avvenuto che la commozione ha viziato fino dalla sua impostazione il libro del Solmi—libro che io cito perchè mi è stato l'occasione di questo studio e perchè è il più recente che siasi pubblicato su l’argomento, ma che è perfettamente sulla direttiva di quanti hanno fin qui ufficialmente, più con fini parenetici che con serenità storica, trattato del periodo del nostro Risorgimento.
Il Solmi — ha scritto il Ruffini — pone il massimo sforzo nell’accentuare le somiglianze dei due caratteri e le concordanze delle due vite.
Ma mentre la linea mazziniana è facilmente ritrovabile attraverso al pensiero del Risorgimento italiano, perchè è di una dirittura maravigliosa, di una dirittura che qualcuno sarebbe tentato di chiamare caparbia se non fosse noto ad ogni osservatore anche superficiale su quali basi granitiche di moralità poggiasse quella coscienza austera, la linea giobertiana si perde qualche volta nell’infaticato lavorio politico, si ottenebra la visione che è in qualche parte così luminosa degli sforzi suoi, onde per inserirle ambedue nella più pura tradiziane italica, è Gioberti e non Mazzini che fa d'uopo ritrovare. Così avviene che lo sforzo di ricongiungerne le traiettorie è un cattivo gioco in mano pure del più entusiasta ammiratore. Di Mazzini si dovrà riprendere il vieto instancabilmente ripetuto giudizio che fu un’anima di sognatore cui fallì spesso se non sempre la chiara visione delle necessità pratiche, un mistico dell’azione e della politica che non riuscì a comprendere mai un gesto che non fosse nella luce della sua mistica esaltazione, un profeta non un condottiero, ma si dovrà dire che « non guardò a tempi, nè ad uomini, e rimase fermo al suo ideale, inascoltato talora, maledetto dai contemporanei, perchè i posteri lo riverissero un giorno e ammirassero che non s'era ripiegato mai », di Gioberti verrà scritto — come scrive a pag. 449 il Solmi — che « per compiere l’opera sua dovette dissimulare, talora anche simulare, dovette tacere, con apparente apostasia, parte del vero, perchè l'altra possibilmente prevalesse, e aprisse la via al raggiungimento dello scopo ». « Tristi necessità della vita! — prosegue il Solmi. Desideroso di una riforma radicale della Chiesa e del Papato perchè entrassero nella via della civiltà moderna e rispondessero ai bisogni ed alle aspirazioni dei tempi nuovi. Avversario della monarchia e repubblicano fin da giovane dovette celebrare e monarchia e principi, perchè la Casa di Savoia, ch’egli aveva preconizzata liberatrice dell’Italia dall’Austria e dai tiranni indigeni, snudasse la spada e compisse la sua missione ». Il pietoso eufemismo che è dispiaciuto a qual-
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cuno (1) per la nuova concezione rivoluzionaria della figura della vita dell’azione politica del Gioberti, lascia intatto, mi pare e in tutta la sua gravità, il giudizio che nella Lotta politica in Italia ne scolpisce l’Oriani — e pur non aderendo a chi scoprì in questo grosso volume un più grosso plagio delle idee di Giuseppe Ferrari, sarà bene ricordare quale profonda influenza abbia avuto il filosofo lombardo sul pensiero politico dello scrittore emiliano. «Gioberti sempre oscillante nelle opinioni, rivoluzionario a Torino, poi esiliato ed ultramontano nel Belgio, spregiatore di ogni pensiero filosofico antico o moderno non suo, intricato come una foresta e proteiforme come il mare, nemico della Francia e poscia suo ammiratore, alleato di Rosmini quindi suo implacato nemico, si spinse all’ultracattolicismo ecc... ».
Non è da dirsi che le tergiversazioni del pensiero di Vincenzo Gioberti siano sfuggite — e come potevano sfuggire a lui felice editore di tante inedite confessioni? — al Solmi: ma le interpretazioni che egli ne dà per ridurre ad uno svolgimento uniforme non escono dallo sforzo commovente che egli vi dedica. Si capisce quindi, come, per lui, le divergenze tra Mazzini e Gioberti fosssero tutte e sole divergenze di metodo, ma per questo ha bisogno di mantenere il Gioberti in una linea repubblicana nella quale egli pubblicamente non volle insistere mai, se ne toglie quella lettera famosa comparsa in uno dei primi numeri della Giovane Italia dove le proteste e le professioni di repubblicanesimo erano molte e gravi ma che lo stesso autore avrebbe volentieri voluto non aver scritto quando la dirittura mazziniana volle farsene un’arma di difesa contro i violenti attacchi dell'abate conservatore. Si capisce ancora come egli ne attenui i bruschi e violenti distacchi. Quando il Mazzini esumò dal fascicolo VI della Giovane Italia la lettera anonima dello sconosciuto « che, attesa la debolezza delle sue forze, non può promettere altro (ma questo ve lo prometto francamente) che una costante disposizione e un vivo desiderio di morire per voi, se v’ha d’uopo per la comune patria» e nel 1849 la pubblicò con un ironico proemio nell’opuscolo della Repubblica e del Cristianesimo perchè « ora che la scure del regio e del pontificio carnefice fu conculcata dal dispregio del popolo, e dal suo perdono, noi possiamo, senza pericolo del venerato vostro capo, solvere a voi pure il debito della gratitudine nazionale, e palesare qual tesoro la mente vostra conferisse nelle vittoriose dottrine della Giovane Italia «o illustre Vincenzo Gioberti», che « apparteneste voi pure alla sacra coorte », tutti i nemici del Gioberti se ne impadronirono. Gli amici, il Pinelli ed il Massari, non credettero di meglio che negarne l'autenticità. Ma nessuno vorrebbe credere alla malafede di Mazzini e il Solmi ribadisce gli argomenti della paternità giobertiana. Ci fu chi pensò addirittura che l’abate piemontese fosse stato per qualche tempo affigliato alla Giovane Italia. Il Solmi non riesce a provare, apoditticamente che non lo sia stato mai perchè non ci dice per quale ragione attaccato in quel modo, il Gioberti non rispondesse. Il Ruffini (2) ha
(1) È dispiaciuto al Ruffini il quale (cfr: Il Risorgimento Italiano, Voi. VI, pag. 896 e segg.) non crede che i dati nuovi messi in luce e in valore dal Solini valgano a mutare dalle fondamenta la biografia del Gioberti e sostiene che è ancora poco rispettoso lo sforzo di stabilire fra il Gioberti della giovinezza, ehe ancora non conta, e il Gioberti prossimo alla morte, che non conta più, una perfetta e ininterrotta coerenza di idee.
(2) Vedi loc. cit.
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potuto provare invece che il Gioberti rispose, e subito, nel periodico La Nazione che visse dal 2 gennaio al 23 maggio 1894 « di una grande dignità di intonazione e insigne per collaboratori illustri, ma di così poca diffusione, e di così córta vita, che la risposta sfuggì evidentemente al più dei con temporanei avversari od amici che fossero, e rimase ignota ai posteri ».
La risposta — già nello spirito del proemio citato del Saggiatore diceva sostanzialmente: « Io fin dal ’33 ricusai in Torino di appartenere alla Giovane Italia e ne distolsi parecchi amici. Molti vivono che possono attestarlo. Giunto a Parigi e invitato di cooperare alla famosa spedizione di Savoia non solo la disapprovai altamente, ma feci ogni mio potere per impedirla; parendomi che fosse, quale era infatti, una solenne pazzia. Richiesto nel ’34 o ’35 di dettare un catechismo politico secondo i principi della setta, risposi che io credeva doversi redimere l'Italia colle riforme, non colle rivoluzioni. Quanto alle contraddizioni dottrinali che Ella mi dice imputarmisi, V. S. non ignora quanto sia facile il trovarne, se le parole di un autore si separano dal contesto. Le voci di sovranità del -popolo, di democrazia e simili ammettono sensi differentissimi; e il lettore può vedere a dilungo dichiarato nelle varie mie opere, secondo quale intendimento io le faccia buone o le rigetti ». Io rinuncio alla esegesi di questa risposta giobertiana per cui ci si potrebbe chiedere come mai accusato specificatamente di fedifrago imputandogli un fatto determinato quale era l’aver scritto la lettera famosa di questa non fa cenno neppure ma si limita ad una generica affermazione della sua coerenza ideale e pratica. Adottando per lui la presunzione che adottammo pel Mazzini la risposta prova che il Gioberti non fu mai ascritto alla Giovane Italia giacché lo esclude espressamente. Ma che prova anche contro il Solmi? Questo: che il Gioberti — il quale ad una risposta polemica dovette certo voler dare un significato definitivo circa le sue affermazioni di pensiero e pratiche molto più quando nulla poteva oramai più costringerlo’ a quelle eleganti tergiversazioni che le necessità politiche altre volte gli imposero, decisamente disconosce ogni ravvicinamento ideale col Mazzini e coi mazziniani.
« Repubblicani entrambi di convinzione » li chiama il Solmi e perciò tutte le divergenze sorte fra loro sono di metodo non di sostanza. Ma a parte se sia tutta e sola una questione di metodo — e converrebbe qui riesumare le lunghe e dotte discussioni che a questo proposito furono fatte quando le stesse divergenze si manifestarono nel socialismo— il volere una redenzione per riforme piuttosto che per rivoluzioni, sta di fatto che nel ’34 0 nel ’35 richiesto dai mazziniani di stendere un catechismo per la Giovane Italia, quindi un catechismo repubblicano, il Gioberti si rifiutò e che— quando teneva a dare un certo assetto definitivo al suo pensiero politico come nel '49 — espressamente ci avverte che se mai parlò di sovranità del popolo o di democrazia — è pure qualche cosa di meno che la repubblica — la intese in un senso molto diverso da quanti — o io mi sbaglio — stettero nettamente e costantemente nella più pura tradizione repubblicana. La lettera di cui è parola la quale è l’unica affermazióne pubblica del pensiero repubblicano di Gioberti, fu pubblicata nel giugno del 1834. quando il Gioberti era già al sicuro in Francia, ma fu scritta, come dimostra il Solmi, tra il 9 e il 31 maggio del 1833. Ma ad un anno di distanza che avevano fatto i fondatori della Giovane Italia perchè non fossero più
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« i precursori della nuova legge, primi apostoli del rinnovato Evangelio »? e che era avvenuto perchè la loro impresa non fosse piu «giusta e pietosa, e santa essendo quella del Popolo e quella di Dio » ? L'infelice spedizione di Savoia, un errore tattico che ogni buon repubblicano avrebbe cercato di riparare perchè tutto il patrimonio ideale non andasse in rovina. Non grande cosa quindi idealmente, anche se politicamente grave, perchè si dovessero completamente rovesciare delle salde convinzioni e dei principi così categoricamente affermati. Meglio, molto meglio ritenere che quella lettera del '33 fosse frutto d’uno di quegli estri politici che il Fiorentino riconobbe al Gioberti filosofo. L'animo ed il pensiero erano, senza dubbio, altrove.
Gli autografi inediti conservati nella Biblioteca di Torino e che i Solmi ha con pazienza da certosino e con legittima soddisfazione editi ci hanno rivelato certamente una parte del Gioberti che ci era ignota: quella che riguarda il suo travaglio interiore che lo spingeva a fermare sulla carta, forse a suo più tardo ‘tormento, ogni nuova forma che via via andava acquistando il suo pensiero ed ogni espressione di esso. Quegli autografi ci danno un Gioberti che va da un materialismo quasi ateo ad un panteismo semi-spinoziano, da questo ad uno spiritualismo cattolico per riprendersi più volte e riperdersi incessantemente, un Gioberti rivoluzionario repubblicano quando meno crederemmo di trovarlo. Ma chi non sa che nella valutazione d’un uomo politico vale solamente quello che egli ha espresso pubblicamente e quello di cui si improntò e si segnò lo spirito pubblico e civile d’un popolo? il resto sono le nugae di cui possono dilettarsi gli studiosi di psicologia 0 gli storici da camera. Ora si può ben affermare che col tacito repubblicanesimo di Gioberti a Roma senza il Papa non ci saremmo arrivati mai, cioè l’unità d’Italia sarebbe restata un sogno, mentre se la visione della terza Roma quale apparve allo sguardo profetico del Mazzini fosse stata negli occhi e nell'anima di tutti non solo a Roma con o senza gli intrighi e le cautele politiche ci saremmo tosto o tardi arrivati, ma sarebbe stato molto prima, come lo è oramai adesso, un luogo comune del giobertiano d’Azeglio, che giunti a Roma c'era qualche cosa ancora da fare. Perchè era capitale del pensiero politico ed unitario del Risorgimento lo stabilire che cosa si sarebbe dovuto fare del Papa o quale posizione avrebbe potuto avere in questa nuova èra di unità. Non si poteva trattare Pio IX alla stregua di Francesco V o di Ferdinando II; tutta la sostanza di vero contenutavi era presentita dai politici italiani. Poi ci si fece di essa un immenso incubo. La storia di Roma parve schiacciarci col suo peso enorme e fu una barriera che il cannone di Porta Pia non riuscì che a sfondare materialmente. « Nessuno fra i più intrepidi miscredenti della politica, ha scritto l'Oriani, pensava allora che andando a Roma si potesse non tener conto del papato. Fra il volgo dei liberi pensatori, che avrebbero voluto distruggere tutti gli altari, e la monarchia che sostituendovi il papato nel governo temporale tendeva a diminuire con quello il numero degli scontri, non vi era ancora un partito democratico abbastanza forte per comprendere che la rivoluzione italiana non avrebbe avuto significato mondiale se non col risottomettere il catto-licismo alla legge comune pareggiandolo con tutte le altre religioni. Allora il cat-tolicismo avrebbe dovuto provare contro tutte queste la propria superiorità senza alcun aiuto di privilegi nella lotta sotto pena di perdere il proprio primato storico. Un'immensa rivoluzione sarebbe avvenuta nei costumi e nelle idee: il cattolicismo
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costretto a vivere delle oblazioni dei fedeli, nella nuova miseria procuratagli dall’incameramento di tutti i beni sarebbe disceso alla più ignobile idolatria, o salito nelle proprie migliori idealità (1) ».
Se non che per giungere a porre questa prova al cattolicismo romano bisognava essere arrivati idealmente molto più in là di quanto non fosse il pensiero italiano di allora. Che si sapesse rinunciare alla forma cattolica per la sostanza religiosa. Il papato aveva compreso donde poteva venire il pericolo: quasi presago della fine del proprio regno, riuniva in San Pietro un concilio ecumenico per stabilire il dogma dell’infallibilità pontificia, mentre il principio dell’autorità divina rappresentato per tanti secoli da pontefici e da re, doveva necessariamente indebolirsi nei campi della politica conquistati dal principio razionalista della sovranità popolare, e mentre il governo italiano cercava invano in una formula rimasta senza accettazione di conciliare il neo-guelfismo giobertiano con il liberalismo di Cavour.
Una concezione così religiosamente autonoma, tanto più cristiana quanto meno cattolica non entrava evidentemente nel pensiero di Gioberti. Siccome il papa era in Italia, a lui spettava di rialzarla, e a questa di redimere i popoli d’Europa dalle barbarie, nella quale erano piombati. Roma essendo più ideale dell’Italia, l'Italia dell’Europa, l’Europa dell’oriente e l’Oriente del mondo, ciascuno di questi aggregati viene ad essere il contenente ideale dell’altro come l’anima del corpo, l'idea dello spirito e Dio dell’universo. L’Italia è l’organo della sovrana ragione, della parola regia ed ideale, la sorgente, la regola, la guardia di ogni nazione, d’ogni lingua, poiché ivi risiede il capo che dirige il braccio che muove, la lingua che insegna, il cuore che anima là cristianità. Roma deve dominare la confederazione dei principi italiani, l’Italia deve sostituirsi alla supremazia francese, riprendere la sua superiorità su tutti i popoli, avere le proprie colonie, convertire la Russia, reintegrare la Germania nell’antica fede, soccorrere l’Inghilterra nell'imminente sua crisi. Sostanzialmente è questo il pensiero politico di Gioberti, che discende logicamente dalla sua forma mentale di filosofo. L’ontologismo non lo liberava dal Dio cattolico, il federalismo neo-guelfo dal papa. È vero che in uno degli autografi inediti trovo scritto: « L’unità civile d’Italia non avrà luogo se non dopo estinta la potestà temporale del papa. L’estinzione del potere temporale del papa porrà fine agli abusi principali del cattolicismo, che sopravissero al concilio di Trento, i quali sono i disordini della curia romana, le ricchezze, la potenza temporale e la corruzione dei chierici, la loro ignoranza e quindi l'intolleranza e l’avversione alla libertà e civiltà, la frateria corrotta o inutile, i gesuiti. Levati via questi abusi, cesseranno le eresie e sopratutto i quattro grandi scismi: il greco, il protestante, l’anglicano ed il maomettano, perchè cessata la causa devono cessare gli effetti. Così l’unità religiosa di Europa e della Cristianità da un lato e l'unità civile d’Italia dall’altro, saranno due eventi contemporanei, strettamente legati insieme e originati dalla medesima causa. Roma, ridivenendo capitale politica d’Italia, sarà di nuovo metropoli spirituale del mondo » (2). Ma non è questa forse una di quelle verità storiche che egli
(1) La lotta politica in Italia.
(2) Autografi inediti. Passo T, riportato dal Solmi.
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dovette vedere e sacrificare alle esigenze esteriori della politica che pretendeva rimorchiare e alle interne di tutto il suo sistema? Mazzini invece era assurto per conto suo ad un concetto così religiosamente liberale, dentro cui potevano benissimo collocarsi tutti gli avvenimenti che da una rivoluzione veramente italiana si sarebbero potuti svolgere dentro o contro il cattolicismo romano. Giacché egli aveva detto sopra tutte le meschine contese di elezioni diocesane, di esami, di giurisdizione, v’ha tal cosa, che è immensamente più grande, più santa e più vitale per la Chiesa, per la coscienza e per la fede. Sopra tutte la diatribe ecclesiastiche, le futili esigenze e le assurdità particolari di che si compone la così detta questione religiosa, v’ha tal cosa la cui virtù è indipendente od aliena da tutte queste miserie, e senza misura, più importante pel nostro avvenire, pel nostro stato sociale, per l’incremento della nostra patria. Vo-gliam dire il sentimento religioso. Il sentimento religioso è la fonte divina di tutte le religioni, di tutte le credenze che hanno Dio per principio e l’Umanità per fine e che sono animate dallo spirilo senza il quale ogni credenza è inerte e infeconda, ogni religione non altro che setta, ogni fede non altro che tradizione, abitudine e pratica esteriore». E completava: « Là religióne è eterna. La religione collocata d’un grado più alto della filosofia (i), è il vincolo che unisce gli uomini nella comunione d’un principio generatore riconosciuto e nella coscienza di una tendenza d'una missione, d’una direzione comune — una parola darà all’umanità uno stendardo innalzato in mezzo alle tribù della terra. La Religione è l’umanità » (2). Tale concezione del fatto religioso toglieva di mezzo ogni ostacolo politico che sotto il manto d’una tradizione religiosa potesse opporsi all’esaurimento della grande opera dell’Unità. L'Italia e il popolo nella breve, ma grandiosa idealità mazziniana erano tutto: l’uno voleva l’altra perchè all’Italia bastava il popolo pel suo destino. Fu per questo che l’unità d’Italia apparve fin da principio in tutta la sua interezza al solo Mazzini ; chi vi arrivò, v’arrivò per gradi 0 perchè trascinatovi dalla forza delle cose: altri si perdettero per via.
Perciò egli potè scrivere senza compromessi che l’Italia per costituirsi a unità doveva distruggere due ostacoli: il Papato e l'Austria. Perchè se questa era minata dallo sforzo d’insurrezione che metteva a nudo tutte le intatte forze della libertà italica, l’altro era battuto in breccia dal nuovo spirito che — pur scostandosi dai delirii materialistici ed atei dell'Enciclopedia e del razionalismo del secolo xvm — sovvertiva le basi del potere e dell’autorità e non da Dio, ma dagli uomini ripeteva le sorgenti della sovranità. Così se egli vide definitivamente cacciata al di là delle Alpi l’orda degli eserciti austriaci anche prima che alcun fatto d’arme lo annunciasse, previde — molto prima del ’70 — la caduta del papato, perchè la sua non era la logica d’un sistema, ma la più profonda non meno inesorabile logica del popolo italiano, del quale
(j) Per uno spirito cosi eminentemente mistico e religioso quale fu il Mazzini non fa meraviglia che egli ponga la religione al vertice dello sviluppo umano. Ma è da compiacersi che egli nella indecisione di chi non fu strettamente filosofo mai abbia accennato ai due diversi momenti dello spirito che s’assommano in filosofia e religione che poi — capovolgendoli — avrebbero svolti il Croce ed il Gentile. È una di quelle intuizioni di cui fu così feconda quella sua mente possente.
(2) Scritti ed. e ined. di G. Mazzini, voi. II, pag. 247.
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egli fu la espressione politica più completa. Fino dal 1834 egli scriveva:« La rovina del papato era inevitabile ne’ fati dell’umanità e rivela intanto l’azione d’un elemento, sociale finora negletto e che minaccia vendicarsene: l’elemento popolare. Il papato fu potenza un tempo, perchè si appoggiava sul popolo. Costituiva solo un centro visibile d’associazione. Riconosceva in certo modo il principio di capacità escludendo ne’ primi tempi l’aristocrazia, aprendo il varco all’uomo del popolo, al servo per giungere alla dignità ecclesiastica. Tenea guerra contro il feudalismo, guerra contro- il principato: opponeva il pastorale allo scettro. Però il popolo in Italia principalmente era guelfo, come nelle altre contrade d’Europa si stringeva al trono da dove i re guerreggiavano ad abbatter il predominio dell’elemento signorile. In seguito, quando spento e senza trionfo Giulio II ultimo grande fra i papi, i pontefici si avvidero che il popolo cominciava a sentirsi potente e attendeva il rivelatore de’ suoi destini d’altrove che dal Vaticano, si diedero a collegarsi coi re. Questa alleanza ineguale, stretta tra il principio guelfo e il principio ghibellino, nemici giurati per secoli, è la prova più convincente della rovina papale. Del resto, il tarlo era dentro all’idolo... ».
Quella che egli non previde mai fu la legge delle guarentigie. Difatti essa fu opera di quei politici moderati che pur superandolo in qualche parte, amavano riattaccarsi al Gioberti.
Abbattuta la teocrazia papale può venir fatto di chiedersi se a questa non se ne sostituisse fatalmente nell'idea mazziniana un’altra non meno pericolosa: la teocrazia popolare (1). La questione può essere posta in verità e risolta in senso diverso; ma essa esorbita dai limiti che mi ero prefisso in questo studio.
Io ho voluto solamente insistere sull'inutilità di una fatica: quella di conciliare l’inconciliabile, come è il pensiero di Gioberti e quello di Mazzini. Ricordare che pure nelle sue manifestazioni più estreme il pensiero del filosofo piemontese non seppe liberarsi dai vincoli di un sistema che lo collocava su una via diametralmente opposta a quella che con indiscussa coerenza dal 1821 alla morte battè l'infaticato agitatore genovese. Accennare al punto — secondo me — capitale dell’irreconciliabilità.
Non indegna nè inutile cosa, io credo.
Ferruccio Rubbiani.
(1) Cfr. per questo le acute pagine che il Salvemini vi dedica nel suo doppiamente raro volume: Il pensiero religioso politico, sociale di Giuseppe Mazzini., il miglior lavoro d’insieme che sia uscito da noi e altrove sulla dottrina del Mazzini.
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STUDI COMMODIANEI
GLI ANTICRISTI E L’ANTICRISTO
NEL CARMEN APOLOGETICUM DI COMMODIANO
no dei tratti più caratteristici dell’opera poetica di Commo-diano è senza dubbio il quadro escatologico, con cui egli chiude il suo Carmen Apologelicum.
Le immagini ardite, le figure strane, le scene bizzarre e paurose di quel dramma apocalittico, inquadrato in una cornice di bagliori sinistri, hanno giustamente richiamato su di esse l’osservazione degli studiosi della storia della letteratura cristiana e della storia del dogma, così che è oramai assodato che,
dal punto di vista teologico, salvo qualche spunto originista, Commodiano, nella sua escatologia, dipende da Lattanzio, e che, dal punto di vista letterario, egli non ha fatto che una fusione, o diciamo meglio, un amalgama di scritti antichi e di leggende popolari (i).
Tutte le visioni, tutti i racconti apocalittici intesi nel significato più materiale e abbelliti di tutti i commenti intessutivi attorno dalla fervida fantasia cristiana trovan posto nell’escatologia commodianea, la quale, essendo, diciam così; la risultante di tutta quanta una letteratura e una tradizione apocalittica, acquista colori speciali e fisonomia tutta propria. Ma il particolare più curioso, che costituisce come il carattere differenziale per cui, secondo rilevò il Boissier, l’apocalissi di Commodiano si scosta dalle altre, è quella presenza dei due anticristi: Nerone e VUomo della Persia, di cui in nessuna delle antecedenti troviam traccia (2).
Ma perchè questa duplicità di anticristi in Commodiano, quando tutte le apocalissi annunziano la comparsa di un solo?
Il Boissier crede di poter spiegare la cosa, pensando che il poeta abbia voluto così mettere d’accordo due tradizioni differenti. Celle duplicità d'anléchrist est, egli scrive, pur le poèle, une manière d’accorder ensemble deux Iradilions difiérentes (3).
(1) I. Tixeront, Hìsloire des dogmes, Paris, Lecoffre, 1906. voi. I, p. 450 e scg., (Commodien). Vedi pure la bibliogr. ivi riportata.
(2) G. Boissier, La fin du paganisme, Paris, Hachette, 1913, voi. Il, p. 35.
(3) Op. cit., p. 35, in nota.
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STUDI COM MODI AN El
Noi, accettando, come vedremo, sino a un certo punto l’opinione del Boissier, ci permettiamo di osservare che la differenza delle tradizioni stava tutta nell’identificazione dell’Anticristo. E poiché alcuni lo volevano vedere in Nerone, altri in Beliar, in Caligola, in Diocleziano, ecc., crediamo che poteva bensì esser lecito agli scrittori ecclesiastici di scegliere tra le identificazioni varie quella che a lor giudizio sembrava la più verosimile, non mai però pensare alla venuta di due anticristi veri e propri, perchè questa novità presso che ereticale avrebbe trovato la più recisa smentita nel verbo della rivelazione confermato dall'unanime consenso patristico. Contrariamente a tutti gli studiosi di Commodiano, noi quindi stimiamo che, per quanto neH’/l^o/o-getico appaiano ed operino due anticristi, il poeta abbia inteso parlare di un solo anticristo vero e proprio, e che la sua pittura escatologica non contenga alcun particolare che non si trovi di già nella tradizione biblica o patristica.
♦ • «
L'escatologia giudaica, di cui ci restano cospicui documenti, lasciò anche nei libri canonici del N. T. parecchi riflessi, di cui ci è dato riscontrare i principali in Maltli., XXIV, 15c seg.; Marc., 13; 14 e seg.,Lue., XII, 23 e seg.; I Cor., Il, 6; XV, 24; II Cor. IV, 4; VI, 15; II Thess. Il, 7 e seg.; I loan., II, 18; Apoc., II, passim, ecc. Oltre alle varie fonti extra-canoniche e patristiche a cui attinge: Apoc. di Baruch, IV libro di Esdra, Ascensione d'Isaia, Libri Sibillini, Cipriano, Lattanzio, Ippolito, ecc., Commodiano nella sua escatologia, non perde di vista anche quei riflessi dell’apocalittica giudaica nel N. T., al lume dei quali, la finzione poetica dei due anticristi ci apparirà conforme alla tradizione neostestamentaria e ci si chiarirà nel suo significato, diremo quasi, ortodosso, ove si consideri che. allora quando il poeta scriveva, non si era ancora formata una stabile e precisa dottrina dogmatica sulla natura e sull’essenza deH’Anticristo. Stando al cap. XXIV, io e seg.'di Malico e passi paralleli, la prossima fine del mondo, che preludierà la xaoóuc&a del Figlio di Dio, sarà preceduta dalla comparsa di molti pseudo-cristi e pseudo-profeti, i quali opereranno prodigi e segni mirabili così da mettere a duro cimento anche la fede degli eletti : Kac noXXoì syspS^GOvra',, zaì ^Xav^couci zoXXov;... covra». vàp
•J/sudó^p'.CTO'. zai «!»suSo77CO©-?¡ra’., zac Sócouc». CTjusva. jzsyàXa zas rspara ¿ócrs TzXav/íca'., si Suvaròv, zas rov; szXsztoó; ...
In questo e negli altri passi dei Sinottici, che raccolgono più da vicino l’escatologia di Gesù, la figura deH'Anticristo, così come s’intese presso le generazioni seguenti, cioè di un personaggio che dovesse apparire sulla terra prima del ritorno di Cristo e far la guerra ai fedeli, non si trova affatto. L'Anticristo, quale noi l'intendiamo, era del tutto estraneo al pensiero di Gesù, il quale credeva di aver di già distrutto il regno di Satana (1), e si aspettava di ora in ora il principio del regno dei cieli, la resurrezione e quindi la lotta finale, in cui il Cristo, per la virtù di Dio, avrebbe debellato
(1) !.. Coulange, Le retour du Christ, in Revue d'histoire et de littéralure relig., Paris, 1911, h. 6, p. 555 e scg.
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per sempre Satana, ultima trasformazione dei mostri del caos del mito cosmogonico, soggiogati la prima volta da Jahvè nell’opera della creazione, c rimasti sotto altre spoglie attraverso le vicende storiche d’Israele (i).
Aggiungiamo, anzi, che tutto l’apparato grandioso, di cui Matteo ha voluto rivestire il discorso sulla fine del mondo (XXV, 31, 46), forse più che corrispondere a concetti precisi del Maestro in proposito, riproduce i particolari delle concezioni escatologiche predominanti allora in Giudea, che la tradizione evangelica fuse con l’idea del regno messianico (2).
Paolo, che per questo riguardo s’avvicina più d’ogni altro a Gesù, opina che Beliar ed il suo regno saranno fra breve distrutti e che a questa guerra di sterminio seguirà immediatamente la resurrezione dei giusti (3).
L’Apostolo delle genti, come Gesù, non ha.cognizione dell’Anticristo, e il brano dell’Epistola seconda ai Tessalonicesi, in cui è cenno di esso, è un'interpolazione del secolo II, se pure non è a ritenersi che tutto quanto quello scritto appartenga ad altra penna (4). La differenza anzi, tra l’escatologia paolina e quella della Apocalisse Giovannea, a cui s'inspira il brano anzidetto, come fu notato (5), è grandissima, poiché mentre Paolo, più conformemente all’idea di Gesù, concepisce quello intervallo indefinito di tempo, che corre tra la ^aGoucriz e la fine del mondo, come un’epoca di lotte in cui saranno debellate le potenze di Satana, l’autore dell’Apocalisse ce lo descrive come un regno di beatitudine e di felicità della durata di mille anni, trascorsi i quali. Satana, ch’è rimasto per tutto quel periodo incatenato, lasciato libero, sarà dopo breve lotta prodigato per sempre e si avranno quindi cieli nuovi e terre nuove.
Nei Sinottici, per tanto, ed in Paolo nessun accenno all’Anticristo nè a dottrina d’indole chiliastica; l'Apostolo e gli Evangelisti ammettono soltanto l’ultima lotta finale con Beliar, che sarà come l’epilogo delle lotte antecedenti, in cui molti pseudocristi e pseudo-profeti metteranno a dura prova l’umanità.
La credenza dell'Anticristo, quale si propagò tra i cristiani e si perpetuò sino a noi, è il prodotto di speciali vicende storiche, il frutto di dolorose esperienze; e sorse nelle comunità di Roma e di Gerusalemme dopo l’anno 64. Penetrata nella coscienza cristiana, la figura dell’Anticristo si fece anche entrare nel disegno prestabilito da Dio, s’invocò l'aiuto della profezia, si fece ricorso a Gog e Magog, ad Antioco, a Ciro, ecc.» e si aggiunse ai personaggi del quadro escatologico dei Sinottici e di Paolo (6).
Il risultato di questo lavorio di adattamento, operatosi durante quel periodo agitato di trepide aspettazioni parusiache, ci si fa manifesto assai chiaramente in
(1) A. Loisy, La religione d’Israele, trad. ital.. Piacenza, 1910, p. 287 c seg.
(2) A. Loisy, Jésus et la tradilion évangtìiquc, Paris, Nourry, 1910, p. 159 e seg.
«. C9r'.' V1, IV- 4? / Cor., XV, 24. Per questi passi, vedi Tilmann, Die Wiederkunjt Chnsti nach den Paulinischen Briefen, Friburgo, 1907, p. 31 e seg.; L. Coulange, Le retour du Christ, in Revue cit., p. 546 e seg.
(4) L. COULANGE, Op. Cit.
. (5) A. Chiappelli, Le idee millenarie dei cristiani nel loro svolgimento storico, in Nuove pagine sul Cristianesimo antico, Firenze, Le Monnier, 1903, p. 147. Vedi pure la bigliografia ivi riportata.
(6) L. Coulange. op. cit., p. 555 e seg.
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un passo <fe\\’Epistola prima, che va sotto il nome di Giovanni, in cui la presenza di numerosi anticristi, corrispondenti ai pseudo-cristi e pseudo-profeti dei Sinottici, ci è dato come segno sicuro dell’avvento del proprio e vero Anticristo: llx'.Six, ¿c/xttì coca sere zzi zzSà^ •/jzo’jGaTS otc sozstx'. v£»v zvTÌ^p’.cro'. ttoXAoì ysvovaw
ó'3sv Y'.vwGxop.?y or'- ¿g/z"ó copa sgtìv.
Da questo breve esame dei tratti escatologici del ¿V. T. possiamo quindi ricavare che da un canto, secondo l’escatologia più antica di Gesù, dei Sinottici e di Paolo, abbiamo pseudo-profeti e pseudo-cristi, la cui comparsa precederà la lotta finale con Satana, seguita dalla fine del mondo: e dall'altro, secondo l’escatologia più recente dell’Apocalisse, della così detta Epistola I di Giovanni, dell’#/». II ai Tessalonicesi, insieme ai pseudo-projeti e agli anticristi abbiamo il vero e proprio Anticristo, la di cui sconfitta segnerà il principio del beato regno millenario, trascorso il quale, avrà luogo l’ultimo esizio di Satana e quindi l’universale palingenesi. La natura però dell'Anti-ticristo di questa più recente escatologia, elaborata sulle antiche profezie e adattata alle circostanze della storia, non ci appare ben definita.
Nell’interpolazione della Epistola II ai Tessalonicesi, l’Anticristo è detto: l’uomo del peccato (ò àvàpcozo; -rifa àvojwas), il figlio della perdizione (ò viò; vZ; àzoXsix?), l’uomo senza legge (z.voa.o;).
L’autore dell’Apocalisse, ispirandosi a Daniele, lo designa coll’appellativo: tò Sr.-oióvj la bestia, figura antitetica dell’Agnelllo, simbolo del Cristo. Stando a questi dati, che dire di lui? Doveva pensarsi ad una semplice creatura umana, in sommo grado perversa ed iniqua, come pare accenni l’interpolatore di Paolo, oppure ad un essere straordinario di natura diabolica, come sembra insinuare l’autore dell’Apocalisse?
Ippolito, che Sull’Anticristo ci ha lasciato un libro intero, con una concezione tutta simile alla cristologica, pensa che esso non sarà altro che un demonio uscito dall’inferno e incarnato in una natura umana, alla stessa guisa che il Verbo di Dio, disceso dai cieli, si era fatto carne in Gesù (1). Lattanzio ed Esichio di Gerusalemme, sulle orme d’Ippolito, credono che l’Anticristo nascerà dal commercio di Satana con una vergine, come Gesù era nato da Maria per opera dello Spirito Santo (2).
Premessa questa breve digressione sull’origine della credenza dell’Anticristo presso le prime generazioni cristiane, vediamo di spiegarci, nel suo genuino significato, là duplicità degli anticristi nel quadro escatologico commodianeo.
Dopo la comparsa del re Apollyon e del nuovo Ciro che libererà Roma, il poeta ci annunzia che ritornerà dall’inferno, dove era stato per lungo tempo rinchiuso, Nerone col primiero suo corpo (Carni. Apoi. v. 825 e seg.).
Stimolato dai Giudei, egli si volgerà contro Elia, il tradizionale precursore del regno messianico, perseguiterà e metterà a morte i fedeli, sino a che non sorgerà dal l’oriente un re di quattro nazioni che trarrà seco moltitudine infinita di gente e, dopo
(1) De Anlichristo, 6, 14.
(2) Lactantii, Inst. div., VII. 17; Hesychii, Quaest., XIX.
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di avere soggiogati molti regni, muoverà contro Nerone e i suoi due Cesari, farà scempio di essi e adeguerà al suolo Roma (Carni. Apoi., v, 847-924).
Distrutta la potenza romana, VUomo della Persia passerà in Giudea, dove farà multa signa, affinchè i Giudei possano credere in lui, che è stato mandato proprio per trar loro in inganno:
Ad scducendos cos, quoniam est missus iniquus (A poi., V, 930).
A questo punto il poeta, aprendo una breve parentesi per manifestarci il suo pensiero intorno a Nerone e all’Uomo della Persia, ci dice che quello si renderà anticristo dei cristiani, questo dei giudei, ma che entrambi saranno sempre i profeti nell'ultima desolazione:
Nobis Nero factus A nticrislus, ille ludeis,
Isti duo semper prophetac sunt in ultima fine. Urbis perditio Nero est, hic terrae lotius
(Apoi., V, 935).
Or se ben si riflette sopra questi versi e sui prodigi che Commodiano fa operare a Nerone e all’Uomo della Persia, chiaramente apparisce che il poeta, scrivendo di essi, aveva in mente il particolare della comparsa dei pseudo-cristi o, come altri li chiamò, anti-cristi e pseudo-profeti, precursori dell’Anticristo, particolare, che, come abbiamo visto, dall’escatologia dei Sinottici e di Paolo passò anche in quella più recente, tanto è vero che per chiarire meglio il significato di queirappellativo anticrislus, attribuito ai due perversi personaggi, e per conformarsi di più alla sua fonte biblica, li chiama anche profeti:
Isti duo semper prophetac sunl in ultima fine.
Se non che dell’Uomp della Persia, missus iniquus e anch’egli prophela in ultima fine, Commodiano ha da rivelarci qualche notizia riposta, che ha avuto la ventura di conoscere:
De quo panca lamen suggcro, quac legi secreta.
Dopo di aver compiuto molte atrocità e nefandezze, costui e il suo esercito, volti in fuga dal popolo santo nascosto al di là del Tigri, che, per ordine di Dio ritornerà in Gerusalemme, riparano per poco presso i re del Nord, ma coll'intervento delle angeliche schiere e fatta breve battaglia, saran profligati.
Et prensus adulter, ipsius et pseudopropheta
Mittuntur in stagnum sub ignea poena vivente s.
(Carni. A poi., V, 986).
Per bene intendere questi due versi, bisognerà far ricorso alla dottrina d’Ippolito: nell’Uomo della Persia si è incarnato il demonio, ch’è il solo e vero Anticristo; ed è esso appunto che insieme al falso profeta, in cui alberga, è fatto prigione e buttato in uno stagno di fuoco.
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Nè è a dirsi che questa interpretazione abbia il valore di un’ipotesi, perchè essa riceve la conferma dalla bocca stessa di Commodiano, il quale, come notò il Dombart nell’Iwte verborum et locutionum aggiunto alla sua edizióne dei Carmina, coll’epiteto adutter vuole sempre significare il demonio (1). E poiché il poeta non ha parlato di altri pseudoprofeti all’infuori di Nerone, che è già stato ucciso (2), e dell’Uomo della Persia, ben chiaramente apparisce come il pseudoprofeta catturato altro non sia che quest’ultimo, in cui, secondo la dottrina d’Ippolito, si è fatto carne.
Si direbbe quasi che Commodiano, sotto certi rispetti, nella finzione dell’Uomo della Persia, pseudoprofeta e vaso di elezione di Satana, che vive in esso, si accosti ad una delle più belle creazioni fantastiche dell’Alighieri: i dannati della Tolomea. Dante, che ha voluto e potuto spaziare pei liberi campi della fantasia, fa che l’anima del traditore, appena esso ha compiuto il suo delitto, piombi nell’inferno e il suo corpo sia tolto
Da un demonio, che poscia il governa Mentre che il tempo suo tutto sia volto.
(/»/., Cant. XXXIII, 132-133).
Commodiano, invece, che ha foggiato il suo Anticristo con intenti, per dir così, scientifici sul tipo teologico del Cristo con le due nature ed operazioni corrispondenti: l’umana e la divina, seguendo l’imperfetta cristologia dei padri africani (Tertulliano, Cipriano, Lattanzio) in cui l’unità della persona in Gesù non è ben definita (3), fa che il demonio viva nell’Uomo della Persia, il quale, pur formando con quello, nel gergo degli scolastici, unico supposto, poiché, come scrisse Tertulliano del Cristo: sùbstantiae ambae in stabu suo quaeque distintine agebant (4), non perde i caratteri della sua natura umana e le operazioni di essa, secondo la quale può esser chiamato pseudoprofeta ed anche Anticristo, nel senso voluto dal Pseudo Giovanni, dai Sinottici, ecc. Il poeta, insomma, pur ammettendo la comparsa di più anticristi, crede in un solo Anticristo vero e proprio, il demonio, o, come egli lo chiama, l'aduller. E che sia questo appunto il suo pensiero si rileva ancor più chiaramente osservando la fine del primo Anticristo e pseudoprofeta, Nerone, e quella del Secondo.
Nerone va^a finire come un malfattore qualsiasi, abbandonato all’aperta campagna, esca degli uccelli. Non così l’Uomo della Persia, pseudoprofeta e albergo del-Vadulter, e solo a lui è riserbata la fine che la tradizione biblica (Apoc., XIX, 20) assegna all’Anticristo (5).
(1) Conf. Inslrucliones, I, XXXVI, 3; Carni. Apoi., v. 179, 206.
(2) Carni. Apoi., v. 913.
(3) I. Tixeront, op. cit., p. 341, 446, 447.
(4) Adversus Prax., 27.
(5) Identica fine, presso a poco con le stesse espressioni, il poeta fa fare all’Anti-cristo nell’acrostico: De pop. absc. sano, del II libro delle Inslrucliones:
ipse cum infondo contprehendilur pscudoptophda
Dccrdo Domini Iraduntur vivi gekennie.
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Si osservi intanto che anche interpretata così nel suo genuino valore, questa duplicità di Anticristi nell'escatologia Commodianea non cessa di essere un particolare curioso e interessante, e noi crediamo ch’essa sarà stata suggerita al poeta da quelle stesse ragioni storiche che, probabilmente durante il regno di Caligola, influirono sulla formazione della leggenda dei due Anticristi presso gli Ebrei, cioè l’odio contro i Romani persecutori da un canto, e dall’altro il rispetto alla primitiva tradizione giudaica, secondo la quale l’Anticristo doveva venire dall'oriente, da dove appunto erano sorti i più antichi e implacabili nemici d’Israele (i).
Così il primo Anticristo Commodianeo, Nerone, accettato di già come tale dalla tradizione cristiana e simboleggi ante l’imperialismo persecutore di Roma, trova il suo corrispondente neW Armilos ebraico, in origine, simbolo anch’esso della potenza ostile romana, indi degli altri nemici del popolo ebreo (2). L’Uomo della Persia, poi, in cui si perpetua la figura dell’Anticristo della più antica tradizione biblica, corrisponde precisamente al Gog, che da quella passò alla talmudica (3).
Se non che Commodiano trovò nei Sinottici, in Paolo e più specialmente nell'Epistola che va sotto il nome di Giovanni e nella dottrina d’Ippolito il mezzo di armonizzare e di fondere il contenuto della più antica escatologia biblica con la credenza comunissima tra i cristiani dei primi secoli, che videro in Nerone l’Anticristo. Non sappiamo però con quali epicheie di chiosatori o sottili distinzioni dottrinali abbiano potuto gli Ebrei giustificare per conto proprio la novità della comparsa dei due Anticristi, Armilos e Gog, quando nel Vecchio Testamento si parla sempre della venuta di un solo.
Leonfcrte, gennaio 1915.
C. VlTANZA.
(1) A. Loisy, La religione d’Israele, trad. ital., Piacenza, 1910, p. 287.
(2) Non poco si è fantasticato per l’identificazione di questo Armilos, o, come altri volle, Ermolaos e Romilos, in cui si credette di ravvisare Caligola, Romolo, ecc. (Coni. Buxtorf, Lexic. lalm., col. 221; Stapfer, Les idées religicuses en Palestine au temps de Jésus-Christ, p. 119).
Anche recentemente R. Ottolenghi (Voci d'Oriente, voi. II, Lugano, 1913, p. 134-135) ha tentato di rintracciare il personaggio che si asconde sotto il velame di questo tipo assai strano e discusso. L'egregio scrittore, il quale vede sicuramente che il Nicola padre dei primi eretici Nicolaiti altro non sia che un simbolo di Paolo, ideato presso i più antichi circoli ebioniti a lui avversari e passato poi anche nel Talmud babilonese coll’appellativo di Balaam, accostando le radici : ta Xa$;, vincitore del popolo, Bàal-aham, signore del popolo, con "£?<*« Xaó{, sostegno del popolo, azzarda la congettura che nel-1 Armilos ebraico si nasconda verosimilmente l’Apostolo. Quanto però siffatto procedimento sia spicciativo e arbitrario non è chi non veda. A parte ogni altra considerazione su questi grossolani e cervellotici avvicinamenti, si noti solo che basterebbe aver riguardo ai caratteri essenziali che Armilos presenta nel Talmud, dove è sempre rappresentato come un re soverchiatore e dispotico, simbolo quindi trasparentissimo della potenza romàna (vedi D. Castelli, Il Messia presso gli Ebrei, p. 206 e seg.) per respingere senz’altro le fantasticherie dell’Ottolenghi.
(3) L. Castelli, Il Messia secondo gli Ebrei, Firenze, Le Monnier, 1874, P- 1 2 3 39 e seg.
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COMMODIANO DOCETA?
Il prof. G. Révay dell’università di Budapest, in un suo saggio (Ueber das Zeitalter Kommodians) pubblicato nel Di-DASKALEION (1), ripiglia la dibattuta questione intorno all’età di Commodiano, e, cercando di raccogliere tutti gli argomenti interni ch’ei crede più valevoli a sostegno della sua tesi, esamina anche la teologia Commodianea, in cui crede d’aver trovato elementi tali da farci con sicurezza concludere che l’autore del Carmen Apologe-ticum dovette necessariamente vivere entro il secolo terzo. In questa minuziosa disamina dottrinale, dopo d’aver messo in rilievo il millenarismo e il monarchianismo modulistica del poeta, il Révay aggiunge che la terza specialità della teologia Commodianea è il docetismo, (die dritte Eigentümlichkeit der Theologie K. s bildet der Doketismus) secondo il quale, com’è noto. Cristo non avrebbe avuto un corpo reale ma apparente.
I dati, che hanno permesso all’illustre critico di scendere a questa conclusione, sono i seguenti versi del Carmen Apologetici™, ch’egli cita e che noi riproduciamo: Nec enim rehquil coelum ut in terra parerei, Sed, sicut disposuil, visa est in terra maiestus. De virtù te sua carnaliter nasci se fecit Carni. Apol. v. 279, 281. lam caro Deus crai, in quo Dei virlus agebat. v. 284; Qui, cum vexa-retur, tacuit, sicut agnus ad aras. Hic homo ium non crai, sed crai Deus caro prò nobis v. 341, 242.
Nella forma più chiara, il docetismo poi sarebbe manifesto nel verso 632 (Am klarsten aber ist das Wesen des Doketismus dargelegt im v. 632): Ut videretur homo, sed Deus in carne latebat.
Senza entrare in merito della tesi sostenuta dal Révay intorno al secolo di Commodiano, ci permettiamo però di osservare che, lungo lo svolgimento di quella, è capitato all’illustre professore ciò che spesso accade alla maggior parte dei critici e dei chiosatori, che, infatuati di alcuni loro presupposti, pur di proseguirli ad ogni costo, credono di rinvenirne le traccie ad ogni punto del testo che hanno tra mano, senza accorgersi ch’essi sono vittima delle più grossolane illusioni.
Ed effetto di una grossolana illusione è appunto il docetismo che al Révay è parso di scorgere attraverso il Carmen Apologetici™.
Tralasciando, per ora, l’esame dei versi Commodianei incriminati d'eresia docetica, rileviamo anzi tutto che se l’egregio critico si fosse preventivamente reso esatto conto delle origini, dell’essenza e dell’evoluzione del docetismo, avrebbe di certo rinunziato a ricercarne le traccie in Commodiano, il quale, sol che si pensi a taluni particolari della sua escatologia in perfetta antitesi con le dottrine dei doceti, deve necessariamente apparire trovarsi al polo opposto di quelli.
Sorto, com’è noto, nella seconda metà del primo secolo c al principio del secondo, come conseguenza della dottrina gnostica, la quale non poteva permettere che la divinità entrasse in contatto con la materia, come sarebbe stato appunto nei caso dell’incarnazione di Dio in un uomo, il docetismo portava come corollario a rinnegare la risurrezione, la parusia e il giudizio finale. Paolo, Ignazio e Policarpo, i quali primamente si volsero contro i doceti, fanno appello, per confutarli, a tutti quei testi biblici in cui è cenno della nascita di Gesù, della stirpe di lui (la davidica), delle sue funzioni ordinarie di vita, dei suoi bisogni, delle sue sofferenze, dell’invito ch’egli stesso fa agli Apostoli increduli nella sua resurrezione di toccare e palpare con mano il suo corpo risorto (1). Rinato con Marcione, il docetismo, sebbene in una forma attenuata, trovò sostenitori nei suoi discepoli, Valentino ed Apelle.
Marcione, pur pigliando le mosse da principii diversi da quelli degli gnostici, arriva alle stesse conclusioni. Egli, infatti, ammettendo l'esistenza di un Dio superiore, quello rivelato da Gesù, e di un Dio inferiore, quello degli Ebrei, il creatore del mondo, non può consentire che il Redentore, ch’è un’apparizione del dio vero e buono, si contamini con la materia, ch’è produzione del dio inferiore, epperò professa il docetismo e, come corrollario, nega la resurrezione della carne, la parusia e il giudizio finale.
Contro Marcione e i suoi discepoli scrisse, com’è noto, Tertulliano, ch’è una delle
(x) Ottobre-dicembre 1912, fase. IV, pag. 445 e seg.
(x) J, Txxbront, Histoire des dogmes, Paris, Lecoffre, 1906, vol. I, pag. 137, 175. ecc.
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fonti dottrinali di Commodiano, e che, specificatamente sull’argomento, ci ha lasciato un libro intero: De carne Còristi.
Tertulliano, in esso, ripiglia gli argomenti di Paolo, d’Ignazio, di Policarpo e, per sfolgorare gli avversari, insiste su particolari così grossolanamente realistici da offendere la convenienza. Valga per tutti il tratto in cui parla della Vergine, da cui Cristo assunse la carne: Virgo quantum a viro, non virgo quantum a parlu; itaque magis (vulva) patcfacta est, quia magis crai clausa (i).
Bastava tener presente queste brevi notizie, del resto assai elementari, della storia del dogma e leggere piò attentamente l’opera di Commodiano, nella quale l’escatologia con la risurrezione dei corpi, colla parusia, col giudizio rappresenta una parte preponderante per escludere senz'altro l’idea che nel poeta avessero potuto trovarsi spunti ed accenni all’eresia docetica.
Ed ora esaminiamo, senza preoccupazioni di sorta, i versi incriminati:
Neo cnin reliquti coelum ut in terra parerei, Sed sicut disposati, viso est in terra maieslas. De virlude sua carnaliter nasci se fecti.
Quel « parerei » e quel « visa est » hanno evidentemente tratto in errore il Révay, il quale, senza badare al significato che parere e videri acquistano in Commodiano (apparere, comparere, aspici) (2), e più che altro, senza aver riguardo al contesto, interpreta quei due verbi nel senso docetico di sembrare, che un’esatta intelligenza del pensiero Commodianeo esclude assoluta-mente. Il poeta, infatti, che ha voluto fare mìa digressione intorno al suo Dio, dopo di averci detto ch’esso è unus ubique (v. 277) ch’è venuto nel figlino! suo, che non poteva appellarsi padre, se prima non fosse stato fatto il figlio, aggiunge che per manifestarsi in terra non lasciò di abitare nel cielo, ma, conformemente a quanto aveva stabilito, fece vedere in terra la sua maestà e per la sua virtù nacque nella carne.
Dove qui l’eresia docetica? Il « parerei » e il avisa est« rammentano, per citare uno dei tanti passi simili, l’Eire?à«5 z X«pc« iov r, n9ov» àvopóroi; di Paolo (3);
(1) Tertulliani, De carne Christi, 23.
(2) Vedi index verborum et locutionum, in Com-modiani, Carmina, ed. B. Dombart, Vindobonae, 1S87.
(3) TU., 2, II.
così che qui, se mai, accanto all’errore patripassiano, c’è anzi l’affermazione della realità del corpo di Gesù nel carnaliter nasci se feci! e nel caro del verso 284:
lam caro Deus crai in qua Dei V trias agebat , realità confermata maggiormenrc alla distanza di un altro verso:
Ut cartias tanta fiord homo quoque prò nobis (l)
Non si sa vedere del pari dove sia il do-cetismo nei versi:
Cum vexarelur ¡acuti sicut agnus ad aras, liic homojam non crai, sed crai Deus caro prò nobis.
Abbiamo anche in essi una prova di più del patripassianismo modalistico del poeta: Gesù non poteva dirsi un semplice uomo, ma Dio fatto carne. Dell’errore docetico però nessuna traccia; anzi il « Deus caro • lo esclude assolutamente. Il verso, infine, nel quale il Révay crede di trovar l’Achille della sua tesi, è proprio quello che la distrugge:
Ut viderelur homo, sed deus i»i carne lalebal.
L’egregio critico, seguendo anche qui il metodo dei teologi, che, a dimostrazione dei loro dogmi si servono d’un apparato di passi biblici e patristici staccati dal contesto e collocati come tanti pezzi da musaico entro una schema prestabilito, ha creduto di poter trarre buon partito da quel « viderelur » il quale, preso isolatamente e interpretato nel suo valore, diciam cosi, classico grammaticale, sembrerebbe favorire l’eresia docetica.
Gli è però che il « viderelur homo • non è solo: il poeta ha aggiunto: Deus in carne latebat, inciso questo che ci riporta al pensiero precedente, cioè: il Cristo sembrava un uomo, ma non era tale; era invece Dio nascosto nella carne. Nè ciò è tutto. In questo verso non solo non è traccia di eresia docetica, ma essa v’è anzi combattuta. Colleghiamolo infatti col precedente, e la cosa ci si rileverà a luce meridiana:
Hic (Deus) crai ventar us commixlus sanguine nostro Ut viderdur homo, sed Deus in carne lalebti.
(1) Preferisco la lezione: chartias a quella: da-ritas, seguita dal Dombart.
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Si vuole una condanna al docetismo più esplicita di quella che viene dal sanguine nostro?
Del resto la confessione sulla realtà del corpo umano di Gesù in Commodiano, si può dire che s’incontra in ogni pagina, così che se volessimo citare ed illustrare tutti i passi che a quella si riferiscono, rischieremmo d’ingrossare di molto questi pochi appunti. Per non esser troppo lunghi, citiamo i principali.
Il poeta, nella digressione anzi connata sul suo Dio, dice ch’esso, pur essendo invisibile, si rende visibile agli angeli, secondo la loro forma, e agli uomini, facendosi uomo: in entrambi i casi però il Verbo di lui fa testimonianza della sua divinità:
Praebel se visibilem angelis iuxla formati forum Et homini fit homo; eeterum deus verbo probatur.
(Apol., v. ni, 112).
E ciò non basta. Questo Dio che i cieli non comprendono, pure sumptus est in cameni (v. 120). Nulla ostante però questo suo immenso atto d'amore, essendo egli hu-milis caro nata, non potè rammollire i duri cuori dei Giudei, v. 231, che non credettero in lui. Eppure Isaia ne aveva predetto il nascimento e la stirpe: Exurget in Israel homo de radice lesse (v. 291); aveva predetto le sofferenze e i martiri che avrebbero reso il suo corpo una piaga: Nec crai prae-clarae figurae in plaga descriptus homo (y. 336. 37); aveva predetto perfino i particolari più minuti delle pene a cui sarebbe stato sottoposto, gli schiaffi, gli sputi :
Dorsum quoque meum posili ad flagella caedendum, Maxillasque meas fialmis feriendas iniquis Praebui, nec faciem averti spulis eorum
(Apol.. v. 335. 338),
Nè di questo soltanto ci aveva parlato il veggente d’Israele. Egli aveva profetato che il Cristo sarebbe stato concepito e partorito da una vergine; che si sarebbe chiamato Emanuele; che si sarebbe nutrito di miele e butirro:
Concipiet virgo et p iricl «»» terra celcstem Emanuel aulem vocctur....
.....nulrirdur incile et bulyro.
(Carm. Apol., v. 406-409).
E la profezia si avverò interamente. Iddio si fece carne e si sottopose a tutti i tormenti (Deum latta passimi, v. 357. Deus passibilis profuso cruore, v. 414); morì: scese
nella tomba: ma non permise che il suo corpo si decomponesse (Nec dabis sanatimi tuum intentimi quoque videre, v. 448); e, risorto, volle che l’incredulo Tommaso lo toccasse e mettesse il dito sulle sue cicatrici:
Accede proprius et contage corpus ut alile:
Non ego sum umbra mortuorvm qualis iiabbtvr; Vestigium umbra non facit, considera vulnus.
Extendil palmas: al ille tangere coepit Et manum in lalcre, faterai quo lancea fixa Misti.....
(Carm. Apol.. v. 561-567).
Che più? Dove il docetismo commodianeo, quando il poeta espone la vita di Cristo fermandosi su tutti quei particolari che avean formato gli argomenti resolutivi di Paolo, d’Ignazio, di Policarpo prima e di Tertulliano poi per combattere il docetismo degli gnostici e di Marcione? Ed ora, per finire, ci sia lecito far qui una osservazione la quale di certo non riguarderà la competenza ed il valore del Révay, ma che l’errore in cui esso è caduto, ci suggerisce per una spontanea associazione ideale. Sin da pochi anni a questa parte si lamentava, e a ragione, che, a causa di gravi pregiudizi confessionali, politici e scolastici, in Italia insieme agli studi sulla religione facessero difetto anche quelli sulla letteratura cristiana nei secoli in cui il cristianesimo operava la più vasta e la più profonda delle rivoluzioni sociali.
Tramontati ornai quei pregiudizi, anche tra noi finalmente l’attività degli studiosi s’è volta ai vasti campi inesplorati della patristica latina e greca.
Ad esaminare, però, il frutto di tante fatiche c’è spesso da rimanere assai poco sodisfatti. Si crede dai più, e lo han creduto anche parecchi valent’uomini che stanno alla direzione di una rivista (1), la quale per ciò stesso tradisce quelle preoccupazioni confessionali che vorrebbe nascondere, si crede, diciamo, che la letteratura cristiana possa essere studiata esclusivamente dal punto di vista estetico, filologico, lin-linguistico sorpassando sul contenuto ideale di essa.
Da qui una colluvie di scrittarelli frivoli.
(1) Vedi Didaskaleion, Studi filologici di letteratura cristiana antica, Torino, 1912, Anno I, Fase. I, .4:- nostri lettori.
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riboccanti di scempiaggini e di errori banali, opera di gente, per altro, se si vuole, anche ragguardevolissima, che senza alcuna preparazione storica e dottrinale sul cristianesimo, si dà con leggerezza stupefacente allo studio critico della letteratura di esso, come se a bene intendere anche filologica-Ìlente e a giudicare anche esteticamente ertulliano o Erma, basti possedere una conoscenza più o meno sufficiente del greco di Senofonte o del latino di Cicerone.
Nessuna fallacia maggiore di questa. Il cristianesimo, al pari che il classicismo, è storia e leggenda, filosofia ed etica, teologia e mito, vita spicciola e idealità sovrumana; epperò come non è possibile studiare filologicamente e gustare esteticamente Pindaro e Virgilio, senza prima aver conosciuto tutto il mondo greco romano, così del pari non s’arriverà mai a comprendere, a giudicare, a gustare, ad analizzare anche nelle forme più umili della linguistica la letteratura cristiana, senza aver prima seguito quel fiume immenso di pensieri, d’immagini e di sentimenti che vi circola dentro.
Auguriamoci, poiché il male è alla ra-dice, che un nuovo ordinamento degli studi superiori in Italia, tenga nella considerazione che si deve la storia del cristianesimo fino ad ora tagliata stoltamente fuori dell’ambito degli studi universitari, mentre nessuno ignora quale e quanto influsso abbia esercirato ed eserciti tuttavia nella vita moderna la religione di Gesù. Sino a quando però l’ignoranza della storia di questa costituirà come un immenso jato tra il mondo classico e il nostro, è ben giusto che coloro i quali si sentono inclinati verso gli studi dell’antica letteratura cristiana non nascondano a se stessi le difficoltà, cui vanno incontro, e che perciò, solo quando saranno sicuri di sè e consci della via da seguire, s’affidino all’afto pelago. a meno che non vogliano, come oggi fanno tanti illustri perdigiorni, affogare miseramente...
Leonforte, 28 gennaio 1915
C. V1TANZA.
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I MITI BABILONESI
E LE ORIGINI DELLA GNOSI
(Continuazione c flnc. Vedi Bìlychnìt, dicembre. 19:4, p. 383).
IV.
Teologia babilonese.
La somma Triade. — L'idea d'un principio tripartito dell’essere fu sistemata fra i Babilonesi in un'età che coincide a un dipresso col regno di Hammu-rabi (circa 2300 av. Or.). E' l’epoca, all' incirca, nella quale i Babilonesi non solo definiscono la loro teologia, ma con una floridissima letteratura, civile e religiosa ad un tempo, creano quel tipo di civiltà che poi, continuato dagli Assiri, tollerato dai Persiani, riassorbito dai Greci e dai Romani, per millennii predomina nell’Asia e nel Mediterraneo, e protende le sue lontane propaggini nel cristianesimo e fino ai tempi nostri (1).
E’ da notare, però, Che regnante Hammurabi la concezione triadica dell’universo, d’origine, del resto, assai più antica, non è ancora ben determinata; il grande conquistatore si contenta bene spesso di esprimere' con una diade la sua fede nelle supreme divinità del mondo. — Da secoli è ormai superata la primitiva concezione demonica dell’universo. I vecchi demoni della fede popolare son diventati dèi, e dominano sulle città che, per opera di re guerrieri, tutt’intorno si vanno accentrando uno stato politico sempre più vasto. E poco a poco nelle regali inscrizioni le nuove deità gerarchicamente si ordinano in piccoli panteon^ nei quali il primo posto è tenuto dal dio dominatore, quello di deità femminili in coniugio, o maschili in filiazione, dagli dèi, a vicenda, de' popoli alleati o soggetti. Ma a questa coordinazione meramente politica va sostituendosi, in seguito, quella informata a un’idea religiosa e «scientifica»; è la primiera monade divina — monoteismo demonico e terrestre — si scinde e perfezionasi in una diade, nella quale si considera il cielo, non soltanto indipendente
(1) Per evitare soverchie ed ingombranti citazioni, osserviamo ciie la esposizione seguente del pensiero teologico babilonese è fondata principalmente su Morris Jastrow, Die Religion iìabylonìens und Assyriens (Giessen, voi. I, 1905; voi. II, 1912). Benché riuscita alquanto confusa e affastellata, quest’opera è nondimeno un vero arsenale di materiali di studio. Manca tuttora il volume, contenente la interpretazione dei miti e dei poemi, che dovrà completarla. Ved. anche il buon lavoro di P. Dhorme, La religion assyro-babylonienne (Paris, 1910).
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ed autonomo., rispetto alla terra, ma di superiore natura, e meritevole del primo nome. La più celebre delle antiche divinità demoniche, Bel, il « Signore » del mondo terrestre, è accompagnata in diade con Anu, signore del cielo, che assume il primo posto nelle liste regali, innanzi a Bel. In progresso di tempo alla diade si aggiunge il nuovo elemento di una terza divinità, quella di Ea, signore delle acque celesti, e si forma così la somma Triade: Anu, Bel, Ea (i).
La concezione triadica del mondo allora è perfetta : e, come nel sistema dei Perati, ciascuna delle tre parti, nelle quali è diviso l’universo, è a sua volta suddivìsa per triadi : il cielo, la terra (caos, inferno), l’etere intermedio, hanno ciascuno la sua propria triade. Anu, Bel, Ea sono le deità del cielo (culminante al di sopra dello zodiaco), della terra celeste (zodiaco), dell’oceano celeste (sotto lo zodiaco); Apsu, Tiamat e Mummu è la triade caotica terraquea dell’oceano primordiale; Samas (Sole). Sin (Luna), Adad, signore del tuono e del turbine, è la triade reggitrice dell’etere intermedio, del cosmo, dalla volta del cielo alla superficie della terra lasciata in dimora agli umani.
I teologi babilonesi avevano bene coscienza — e lo dimostra il principio della Cosmogonia di Babilonia— non solo del (atto storico, che la suprema triade fosse stata un dì preceduta da un concetto diadico del mondo, reso quindi più perfetto da quello triadico, ma anche della necessità logica inerente alla concezione diadica o, meglio ancora, triadica dell’universo. E questa logica necessità era per i teologi babilonesi insita nel presupposto naturalistico o materialistico di un principio a vicenda duplice (cielo e terra), o triplice (cielo, terra e aria), onde il mondo risultava composto. Dicevano infatti i teologi babilonesi, che in principio di tutte le cose non vi erano che le tre deità del caos primordiale: Apsu, il Profondo, il Bythos degli gnostici (elemento maschile); Tiamat, il Mare, V acqua terribile o thàlassa degli gnostici (elemento femminile); Mummu, forse il Tumultuoso, il Vento o Spirito turbinoso degli gnostici, generato dalla matrice cosmica universale, e generatore (o generatrice) a sua volta di tutti i viventi. Da costoro ebbe origine in prima la diade demonica di Lachmu (maschio) e La-chamu (femmina); e da questi la diade divina di Anshar, totalità del cielo (maschio) e Kishar, totalità della terra (femmina); e quindi la gran triade di Anu, Bel, Ea.
Ma leggiamo i primi versi della celebre Cosmogonia (2) :
(1) Come apparirà sempre meglio dal seguito della dimostrazione, è dunque errata l’opinione del Bousset, Gnosis, 1510, nonché d’altri studiosi della gnosi, che il « dualismo » gnostico sia una combinazione del tardo dualismo persiano col pessimismo greco. Dualismo e pessimismo sono d’origine babilonese, molto più antica. Ved., per es., il mito di Ea e Atrachasis; e scongiuri, preghiere, ecc.
(2) Versione dal testo in Jensen, Assyrisch-Babylonische Mythen und Epcn (Berlin, 1901), p. 2, e Dhorme, Textes rei. assyro-babyl. (Paris, 1907), p. 2 segg. Nel quarto verso intendo (col Winckler, Keil. Texlbuch, Leipzig, 1909, p. 94) Mummu come nome proprio, e non come apposito (Jensen) o aggettivo (Dhorme) relativo a Tiamat. Manca, è vero, la congiunzione ti ; ma non la troviamo neanche dopo Lachmu. Essa ha il valore più sovente di anche, inoltre, in babilonese; come semplice congiunzione, suol essere trascurata. Apsu è l’oceano mondiale superiore dell’acqua dolce (nuvole, pioggia, fiumi), Tiamat quello inferiore dell’acqua salata (Jensen, 559 seg.). Secondo Jensen, è possibile tradurre al v. 7 : « allorquando gli dèi non avevano prodotto nessuno;*, ecc., nel qual caso il poema affermerebbe la preesistenza degli dèi al caos. Per quanto lusinghiera, questa versione non panni confortata abba-
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Allor che in alto il cielo non era nominato, . e in basso ancor la terra con un nome non era appellata :
e l’Apsu primigenio, loro progenitore,
Mummu e Tiamat, di tutti genitrice, le loro acque insieme avean commiste; le giuncaie fissate non erano, i canneti non apparivano ; allor che degli dii nessuno era stato prodotto, un nome a nessuno era dato, e il destino non anco stabilito : allora furon fatti gli dèi nel mezzo...
Lachmu e Lacliamu furono prodotti...
Gli evi si moltiplicarono...
Anshar e Kishar furono fatti...
Lunghi tempi trascorsero...
Anu lor figlio possente...
Anshar Anu...
E Anu...
Ea, i cui padri, ecc.
L'intelligenza del testo, purtroppo assai frammentario, è agevolata da un passo di Nicolò di Damasco, il quale senza dubbio ne dipende (1):
« Tra i Barbari, pensano i Babilonesi non doversi tener conto di un sol principio del tutto, e ne assumono due : Tante e Apason. E fanno Apason marito di Taute, e questa dicon madre degli dèi. Da loro nacque il figlio unigenito Moymis, che io reputo essere il mondo intelligibile, originato da’ due principi. Da essi provenne un’altra generazione: Lache e Lachos. Quindi una terza: Rissar e Assoros; dai quali provennero i tre: Anos e Illilos (Bèl) e Aos. Da Aos e Dauke provenne il figlio Bel (Marduk), che dicono essere il creatore ».
Quest'ultima triade: Ea, Damkina, Marduk, è, come vedremo, il corrispondente perfetto della triade primigenia Apsu, Tiamat, Mummu; e da! canto suo corrisponde esattamente alla Triade suprema degli gnostici Padre, Madre, Figlio figlio dell’Uomo, Pneuma, ecc.), che sua a volta è derivata dal presupposto naturalistico di Bythos, Thalassa \Sige) e Aere (Vento, Spirito, Psiche). Ma restringiamoci per ora all'esame della prima gran triade: Anu, Bel, Ea.
«
« eInnanzitutto il carattere fondamentale di questa triade del cielo, opposta alla triade del caos (mondo inferiore), è la sua umanità, opposta alla bestialità delle potenze caotiche. Nella triade il principio dell’essere è umano, ha umana sembianza, è XUonio, come presso gli gnostici. Anche la diade Anshar e Kishar sembra essere stata concepita umana ; ma questa diade è una mera creazione dei mitografi, nè si può dir propriamente che appartenga al corpo dogmatico della
stanza nè dalle forme verbali, nè, tanto meno, dal contesto: ved. il v. 29: «allora Apsu, il genitore degli eccelsi dii, », ecc. Osserviamo una volta per tutte, che la versione dei miti babilonesi presenta dal lato filologico molte dubbiezze, sulle quali non ci dilunghiamo, di là dallo stretto necessario. ’ • f
(1) Damascius, De primis principiis, 125 (testo in WlNCKLBR, 94). Notiamo che il dio Bel (nome generico di « Signore ») anche nei testi babilonesi suol essere denominato Enti/, nome che può esser letto UHI.
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teologia. Invece Lachmu e Lachamu — altra invenzione dei mitografi a fine cosmogonico — sono certamente deità demoniche, e li vedremo poi figurare fra i mostri creati da Tiamat a sua immagine e somiglianza. Anche Tiamat è concepita in forma di serpente o dragone, o comunque di mostro marino, cosi come l'oceano primordiale fra gli gnostici. E come fra gli gnostici il vento o spirito creatore, generato dalla universale matrice, ha figura di serpente, così Mummu fra i Babilonesi, considerato anche nei paralleli cosmogonici dell’aquila-tempesta Zu, e del leviatan Labbu.
Nella tripla triade che domina sul tripartito universo (Anu, Bel, Ea — Samas, Sin, Adad — Apsu, Tiamat, Mummu) s’intravede la stessa tendenza di .distinguere, come fece Marcione (Phil.t X, 19), il mondo in tre parti: il buono, il giusto, la materia. Samas, a capo della seconda triade, è propriamente il dio della giustizia; mentre la qualità della triade suprema vuol essere piuttosto la bontà. Non è precisamente Bel il tipo caratteristico della suprema triade, e vi resta come nell’ombra. E infatti egli non può nascondere troppo il suo nativo carattere demonico di deità terrestre, opposta, come nella diade antica, a quella celeste di Anu. Bel ha un carattere solare che lo avvicina e spesso lo identifica a Samas, e tende come tale a restituirgli il suo primiero grado inferiore. E Bel, deità terrestre, è un dio cattivo assai più che buono ; guarisce le malattie, libera dal dolore, ma si compiace anche’ di gettare l’umanità creata da lui in preda a orrende sciagure, e attenta fino di distruggerla con un generale diluvio (1).
La somma triade, invece, è ben caratterizzata dal primo e dal terzo elemento, Anu ed Ea. Ea possiede molti dei tratti del sommo Padre degli gnostici. Egli è Vilu Amelie, il dio Uomo, creatore dell’umanità, padre del dio Uòmo Marduk, restitutore del cosmo, redentore del genere umano. Egli è in pari tempo la deità dell’tf/iw primigenio, identica pertanto al bythos gnostico; è il dio della sapienza e della scienza, della gnosi cioè, nonché delia pietà, della bontà, cui gli uomini non mai si rivolgono indarno. E quando imperversa terribile sul genere umano la giustizia distruttrice degli dei, la principal cura di Ea si è di rivelare ai mortali i divini segreti della scienza celeste, della gnosi, per cui solo mezzo è possibile la redenzione umana dal dolore e fin dalla morte, e il passaggio al paradiso dei beati.
E non meno è Anu il prototipo del Padre degli gnostici. Anu è il gran padre degli dei e degli uomini, nella teologia babilonese — tranne che nel poema cosmogonico — identico ad Anshar; è divinità primigenia e ingenita, da cui tutti i viventi dell’universo traggono l’essere e la vita. Il mito di Adapa mostra, come vedremo, che la bontà in Anu prevale alla giustizia, e che Anu può e vuole concedere agli uomini vita immortale. Ma Anu ha questo ancora di particolare, che, a differenza di Bel e di Ea, personifica già dall’origine un ideale. Nativamente Bel è un demone terrestre, Ea un demone dell'acqua dolce, i quali, come altri loro compagni, da un’umile origine locale debbono a fortunate circostanze politiche l’ascensione alla suprema dignità. Ma il loro carattere primitivo demonico, concreto e definibile, è tuttora ben compreso dal popolo che ad essi
li) Il carattere distruttore di Bel è a sufficienza dichiarato dal mito di Ea e Alrachasis, e da quello del Diluvio {Gilgames, XI) che ne è il compimento.
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rivolge le sue preghiere e gl’inni. Ma Anu è un dio ignoto, e, per quanto vene-ratissimo, quasi senza preghiere e senz’inni; perchè egli è fin da principio una creazione, non della fede popolare, ma del pensiero e della speculazione religiosa. Simbolo grafico di Anu è una stella, ma Anu non è questa o quella stella, è il cielo; non il cielo materiale e visibile, opera del demiurgo, ma il Cielo ideale, superiore e invisibile, perciò ineffabile e inconoscibile, eppure persona viva e Uomo e Padre del tutto, come il sommo Dio degli gnostici. Per questo suo carattere di assoluta comprcnsività dell’essere, la « Divinità » è fra i Babilonesi detta Anutu, termine astratto di Anu; e per quanto ad Anu sia data una Antum astratta per coniuge, nondimeno sovente egli figura, come il Padre degli gnostici, generare gli dei della triade, con indivisa virtù di Padre-Madre. Tale qualità mascolina — cioè maschile e femminile ad un tempo — dell'Ente supremo è propria appunto di tutt'e tre gli elementi della somma Triade, la quale già manifesta nella teologia babilonese la tendenza a ridurre l’antico ideale triadico ad una concezione monadica, che ha il termine suo naturale nel Dio Padre degli gnostici (1).
* * *
Sizigie e Pleroma. — Nella teologia babilonese è assioma che a ciascuna divinità maschile debba corrispondere una divinità femminile in coniugio con essa. Quando il dio non ha una dea coniuge nota, questa gli viene applicata artificialmente, formandola col suo medesimo nome grammaticalmente reso femminile, oppure denominandola con un termine astratto qualsiasi. Altre volte varia il coniugio fra dii e dee ben note; lo stesso dio qua e là apparisce con questa o quella dea coniugato, la stessa dea maritasi ora a questo ora a quel dio. Uguale varietà è nel sistema delle filiazioni, nelle quali s’intrecciano fra loro e si confondono, da una sizigia all’altra, le più varie deità.
Come abbiamo accennato, sizigie e filiazioni hanno origine del tutto politica; ma in progresso di tempo doverono formarsi a poco a poco, nei templi della Babilonia e dell'Assiria dove la speculazione teologica subiva l’influenza della fede religiosa nonché delle esigenze politiche, raggruppamenti svariati di deità coordinate in modo da far comprendere che un’idea gerarchica soggiaceva a quelle liste di dei. La regolarità con cui, per esempio, gli stessi re assiri o babilonesi, nelle iscrizioni storiche, presentano la lista delle loro divinità ufficiali — determinata, certo, dai loro teologi — è uguale a quella che offrono le singole sètte gnostiche nel denominar le sizigie ciascuna del loro'¿sistema; e la varietà,
(1) In conseguenza, non coglie nel giusto il Bousset (Gnosis, 1512), ravvicinando solamente il sommo Dio gnostico, all’/Mzzr« del parsismo, o allo Zervan akarena (tempo infinito) delia teologia zoroastriana più tarda. Egli stesso, del resto, riconosce che la comparazione giova poco, e che pertanto il prototipo del Padre gnostico ha da essere cercato in altra direzione. Ved. sul Dio ignoto o inconoscibite <te\\a il dotto lavoro di E. Norden, Agnostos Theos (Leipzig, 1913), particolarmente pagg. 68 segg., 97 segg. Anche l’osservazione del Bousset (Gnostiker, 1540), che tra gli gnostici il concetto di un Dio Padre-Madre (yeù. Pitti.,N, 6, formula liturgica dei Naasseni) sia posteriore al primitivo culto della Madre, non ha fondamento: Anu, Bei ed Ea sono già Padre-Madre fra i Babilonesi (Jastrow, I, 49’)•
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d'altro canto, nel numero e nel modo di questi gruppi di dei, a seconda dei vari documenti — inni, preghiere, scongiuri — a noi pervenuti, cioè dei vari templi e sistemi teologici che rappresentano, ci rammenta la facilità con cui le varie scuole o sètte gnostiche dall’una all’altra variano le loro gerarchie d'emanazioni è sizigie.
Il numero delle divinità indicate nei gruppi varia inoltre a seconda dei casi; le liste più numerose contengono dagli undici ai quindici nomi, all’incirca, talvolta anche di più. La teologia babilonese riconosce volentieri che il numero perfetto delle divinità superiori è cinquanta; ma, per quanto fra loro ve ne sia che rappresentano semplici concetti astratti, facili a moltiplicare, nessuna lista arriva a determinarli, e a superare il numero, circa, di trenta. La religione dei Babilonesi con tutto ciò riconosce che vi sono moltissimi dèi sconosciuti agli umani; e molti inni e preghiere sono rivolti, non meno che agli dèi conosciuti, agli ignoti. I teologi di Babilonia sono arrivati a presumere di determinare il numero assoluto delle divinità, la pienezza degli esseri divini celesti o terrestri, denominati Igigi od Anunnaki, sino a trecento o a seicento. Ma per il solito il pleroma degli Igigi e degli Anunnaki, con cui si designano in genere le deità superiori del cielo e della terra, è costituito di sette, e consta cioè di una ebdomade, che unita alla ottava deità che impera sopra di essi, e che suole essere Anu, forma la grande ogdoade delle divinità babilonesi (1).
« »
La Madre e l'ogdoade inferiore. — Anche per i teologi babilonesi in origine la Madre personifica il caos primigenio, il Mare, V acqua terribile, da cui proviene ogni essere vivente e che possiede il profondo segreto delia vita, malgrado la potenza generatrice di lei si manifesti in guise mostruose. Nella Cosmogonia di Babilonia la Madre, che è Tiamat, innanzi a tutti apparisce origine prima ed attiva, quasi unica, della vita inferiore, mentre Apsu e Mummu, prigionieri come sembra degli dei, rimangono inerti in disparte; ed è Tiamat, la Madre, che impegna la gran lotta contro i celesti, generando per intima sua propria virtù un esercito di soccorritori, dei quali stanno a capo dodici terribili mostri (le future costellazioni zodiacali), analoghi ai dodici Eoni demonici di Giustino lo gnostico e del Pislis Sophia, relativi od opposti alla duodecade del pleroma valentiniano:
Madre Chubur, creatrice d’ogni cosa, ammassa armi mortifere, produce draghi immani, dai denti acuti, crudi, intenti a dilaniare;
(1) Nella Cosmogonia, Vii, 123, Marduk è proclamato il dio « Cinquanta », (attributo anche di Ea o Bel o Ninib), costituente il pleroma divino. Un esempio di sizigie in filiazione sarebbe: Ea con Damkina genera Marduk, e questi con Sarpanilum genera Nebo in coniugio con lasmitum. Ved. in Jastrow molti esempi di liste di dèi, con sizigie o senza._Il Bousset, con altri studiosi, crede che la presenza nelle sizigie di deità astratte sia d’origine greca -ma ¡Babilonesi già ne danno degli esempi: sposa di Nebo (dio della sapienza) è Tasmiium la Rivelazione; figlie di Samas (dio della giustizia) sono Retta c Mesharu, il Diritto e là Giustizia
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di veleno a guisa di sangue il loro corpo riempie, mostri furiosi ch’ella di terrore circonda;
portatori li fa di spavento, enormi li compie, tali che ognuno a vederli esterrefatto cade; dei quali il corpo drizzasi, nè il loro petto s’incurva. Ella costrusse i Bashmu, Draghi furenti, i Lachamu, Umu-giganli, Cani furiosi, Uomini-scorpioni, Umu-turbini, Uomini-pesci, Arieti, dotati di letali armi, nè paventai! la pugna, feroci nell’assalto, contro cui nessuno resiste;
in tutto undici mostri siffatti ella creò
Tra i divini, progeniti suoi, ch’ella adunò in ¡schiera, esaltò Kingu e lo fece sopra di essi regnare, per avanzarsi a capo dell’armata, comandare la schiera, dare di piglio alle armi, scontrarsi, iniziare la pugna (1).
Berosso, sacerdote babilonese dell’epoca greca, accennando a queste medesime figure cosmogoniche, dice che « le loro immagini erano rappresentate nel tempio di Bel(Marduk) » in Babilonia, e conferma che « sopra tutti costoro imperava una donna di nome Omorka, in caldeo Tamat, e che significa Mare » (2). Ma siffatta concezione della Madre, matrice primordiale dei viventi, esprimeva piuttosto un’idea filosofica sacerdotale, che un prodotto genuino della fede popolare. Il popolo aveva bisogno di figure concrete e definite, se anco più lontane dal rappresentare genuina l’idea delle origini del mondo; e quella della Madre era incarnata in deità più note ed alle quali era più agevole volgere preghiere o lamenti, animati di timore e speranza. Tali furono, particolarmente nel tempo piti antico. Bau figlia di Anu, a sua volta genitrice di Ea, detta senz’altro la « Madre » in vetuste iscrizioni, e la cui prerogativa era quella di donare la vita; Gula moglie di Nibib, talvolta reputato identico ad Anu, distinguibile spesso a mala pena da Bau, c datrice aneli’essa di vita; Damkina sposa di Ea, e madre di Marduk, il Salvatore, regina degli dei, signora dei demoni, concedente lunga vita ai fedeli che ne la pregano. Tutte e tre queste immagini di donna e madre degli dei e degli uomini hanno in comune il carattere di deità del mondo inferno caotico ed oceanico, che ne tradisce l’origine ed il primo significato, anche poi che dalia fede popolare sono state esaltate fino al cielo, (.’importanza soprattutto di Damkina non potrebb’essere esagerata; negl'inni e nelle preghiere, che meglio rappresentano l’anima del popolo, la gran triade Ea Damkina Marduk contende il primo posto a quella mascolina dei teologi Anu Bel Ea, fra i Babilonesi, come fra i tardi loro discepoli gnostici.
La celeste esaltazione della Madre produsse già in Babilonia, come poi fra gli gnostici, la distinzione della Madre in due, la celeste e divina, la infernale e demonica. Il gran demone femmina Labartu, figlia di Anu, che fa parte dei
(1) Testo in Jensen, 6, Dhorme, 14-18. — Madre Chtibur (che è Tiamat) può essere anche tradotto : La madre di Chtibur, che apparisce essere un fiume infernale (wrfr Chtibur'}, di derivazione caotica (Jensen, 307 e 541). Unni, parola oscura; forse tempesta ? (Jensen, 310 seg.).
(2) Testo in Winckler, 95. — Non è stato ancora possibile determinare in che rapporto stia VOmorka (altrimenti: Omoroka} con la Ummu Chtibur (Madre Ch.) del testo babilonese. Benché, è difficile che il testo greco riporti il nome con precisione originaria.
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Sette o dei Dodici demoni del male, i quali spargono il dolore e la morte fra gli uomini, offrì ai Babilonesi il prototipo d’una tremenda divinità femminile, generatrice dei demoni, derivata dal cielo, ma destinata a vivere e imperare nei regni dell’inferno, dove perennemente tumultuano le mal contenute acque del caos primigenio. Questa dea fra i Babilonesi è denominata Ereshkigal. Figlia dei celesti e appartenente al pleroma del mondo della luce, essa è caduta o discesa volontariamente, come l’Achamót gnostica, nel regno delle tenebre, dove imperano le forze del caos, dove non più libertà, felicità ed amore, ma leggi inesorabili e dolore e morte imperversano. Il mondo di Ereshkigal, inflessibile dea della giustizia, è concluso in sette giri concentrici, inaccessibili, alle cui porte vigilano i sette Demoni del male, procreati .da lei. Essa nel centro impera sul suo trono, e con i Sette forma la ogdoade delle tenebre, opposta a quella della luce in cielo (1).
* * *
Abbiamo tuttavia potuto osservare che, malgrado i tentativi ripetuti di scindere la Madre della gnosi in due correspettive ed anzi opposte deità della terra e del cielo, delle tenebre e delia luce, essa mantiene pur sempre un carattere contradittorio e piuttosto degradasi dalla sua situazione originaria di principio dell’essere, per subordinarsi alla prima dignità del sommo Padre o della triade od anche della ogdoade. Questa difficoltà per gli gnostici di definire, in guisa confacente al loro sentimento religioso, l’idea della Madre, proviene dal fatto che essi nutrivano la loro concezione del mondo con eleménti già determinati dal pensiero dei secoli anteriori. E come essi prendevano a vicenda dalla teologia babilonese il tipo dell'unica primigenia Madre oceanica e poi quello sdoppiato di Bau-Gula-Damkina e di Ereshkigal-Labartu ; così avevano presente e sancito ormai da millenni, l’altro tipo della Madre, inferiore al Padre di grado e derivata da lui, ma che in tale condizione riassommava in se stessa le più contradittorie qualità di regina del cielo e signora dell'inferno, di vergine della luce e cortigiana delle tenebre, di largitrice di vita e datrice di morte: ristar babilonese. In origine, forse, iddia locale della città di Erech, dove in onore di lei sorgeva il celebre tempio di Eanna, affollato di cortigiane che ne facevano un covo di lussuria, poco a poco il culto ' di Istar, dea della vegetazione primaverile e della terra feconda, andò diffuso per tutta la Babilonia
(1) Il Bousset (Gnosis, 1510), come osservammo, reputa credenza fondamentale della teologia gnostica la ogdoade delia Madre e dei Selle, che identifica con i pianeti (dèi superiori) della tarda teologia babilonese, o meglio della demonologia parsista. Riconosce, però, come un fatto nuovo, che abbisogna di spiegazione, la degradazione dei sette dèi a figure più o meno demoniche. Prima di tutto è contestabile questa identificazione generale con i sette pianeti ; Celso (Orig. VI, 30) parla di sette demoni, raffigurati in forme animalesche, che non rammentano in complesso le planetarie. Ma, di più, la teologia babilonese ci olire ben determinato il tipo dei sette demoni del male (Ved. Jastrow, I, 2S2, 360 seg.); e la teologia gnostica non offre pertanto nessuna novità che abbisogni di interpretazione. Rammentiamo, poi, che tra gli gnostici è scambiato il numero selle col dodici-, e così pure fra i Babilonesi (Jastrow, I, 353).
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e l’Assiria, e riuscì a sopraffare od oscurare quello d’ogni altra divinità femminile, tanto da diventare sinonimo il suo nome, in generale, di < dea ». Da antica età reputata figlia di Anu, e assunto, in luogo di Adad, il terzo posto nella seconda triade, Samas Sin, Istar, volta a volta essa uniscesi in coniugio con gli dèi principali, fino con Bel della suprema triade, s'identifica a Belit, a Gula, a molte altre dee, assorbendone il nome e la virtù ; è signora dei demoni, regina dei sette Anunnaki, cioè costituente con loro la ogdoade suprema del mondo inferiore ; è in pari tempo signora del cielo, regina degli dèi, giudice del genere umano, pura vergine luminosa, cortigiana insaziabile e crudele. Creatrice e madre degli uomini, essa è la buona dea che guarisce da ogni malattia, ed alla quale mai non si volge indarno l’orante. Essa conosce i segreti della terra e del cielo, incarnata sapienza, e per via degli oracoli rivela l’arcano ai sacerdoti ed ai fedeli. Dea della guerra, Istar è anche fra gli Assiri la principale divinità femminile, onorata qual figlia di Assur e di Bel (Marduk); forse col suo nome di Figlia di Bel, cioè del Signore, Marat Bel, in aramaico antico Barai Beél, passò poi direttamente nella teologia della gnosi, denominata Bar belo (1).
Uno dei tratti più caratteristici della gnosi è, come abbiamo veduto, la caduta 0 la discesa della Madre nel mondo inferiore, sorpresa dalla avversa potenza dei « Sette » demoni o dèi dell’inferno, o volontariamente discesavi e là quindi imprigionata, nella impossibilità di liberarsi. Nella sua duplice forma, questo mito è già stato elaborato, prima che dalla gnosi, dalla teologia babilonese. Una volta (2) sono i « Sette » che per le vie del cielo dileguano furibondi e tempestosi (sparizione delle Pleiadi nell’inverno), e vanno in cerca di Istar (Venere) per imprigionarla, mentre nel più alto dei cieli « Istar aveva preso, allato al re Anu, luminosa dimora, e tendeva a diventare regina del cielo »; l’altra volta è Istar medesima che di sua volontà scende all’inferno, e vuol passare per le sette porte, costodite dai Sette portinai, fino al trono su cui siede Ereshkigal (3) :
Istar alla porta della terra senza ritorno arrivando, al guardiano della porta la parola rivolse:
« O portinaio, olà, apri la porta tua, aprimi la tua porta, sì che possa entrar io. Chè se non apri la porta, sicché vi possa entrar io, spezzerò io la porta, ecc. ».
(1) Il nome è troppo solenne e costante fra gli gnostici perchè possa essere
creduto col Bousset \Hauplpr. 14) un semplice scambio di -aaO£voc. Con assai maggiore probabilità può essere creduto derivato da Màral Bèl, nome di Istar nell’ultima epoca dell’impero assiro, al tempo, cioè, delle prime origini della gnosi. Ved. l’inscrizione di Assurbanipal in Keilinschr. Biblioihek, II, 24S (Berlin, 1S90), circa di cui i dubbi dell’ Jastrow, I, 217, n. 7, sono arbitrari!: « nel mese di Ab, festa della gloriosa Regina Maral Bèl (Istar) », ecc. — Il Bousset (Gnosis, 1514), accenna appena (« idi erinnere... andi» all’Istar babilonese. — Epifanio (Haer., 21, 2) riferisce il mito degli arconti sedotti dalla Madre; è ovvio il raffronto con la VI tavoletta del poema di Gilgames.
(2) Versione del mito in Jeremias, Dos A. T. ini I.idite des Alien Oriente (Leipzig, 1906), p. 102 seg.
(3) 'Pesto in Jensbn, So segg. Dhorme, 326 segg.
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Il portinaio la bocca aperse e parlò, disse alla grande Istar:
« Sta’ mia Signora, non la sconquassare, andrò e annunzierò il nome tuo alla mia sovrana Ereskiga. • Entrò il portinaio e disse ad Ereskigal :
« Ecco v’è là la tua sorella Istar, ecc. ».
Ereskigal concede il permesso:
« Va’, portinaio, ed apri a lei la tua porta, trattala a norma delle leggi antiche ». Andò il portinaio e le aprì la sua porta: « Entra. Signora mia, e Ruta (Dite) si rallegri di te, la reggia del paese senza ritorno gioisca innanzi a te ». Per la prima porta la introdusse, spalancata, e le tolse la grande tiara dai capo.
« Perchè, o portinaio, mi togliesti la grande tiara dal capo?» « Entra, Signora mia, della Signora del paese queste le leggi ».
Lascia in tal guisa per le sette porte Istar i suoi ornamenti e le vesti, finché perviene nuda nel cospetto di Ereshkigal, e le si avventa contro; ma Ereshkigal ha pronta la vendetta:
Ereskigal aprì la sua bocca e parlò.
a Namtar suo messaggero la parola rivolse: < Va’, Namtar, imprigionala nella mia reggia, scagliale addosso i sessanta morbi.
scagliali addosso a Istar: male di occhi a’ suoi occhi, male di fianchi a’ suoi fianchi, male di piedi a’ suoi piedi, male di cuore al suo cuore, male di capo al suo capo, ecc. ».
Vinta e abbattuta Istar, la madre feconda, Vergine-Cortigiana, così attende la sua liberazione.
* ♦
Demiurgo e Salvatore. — Nella teologia babilonese anteriore all’età di Ham-murabi, la qualità di creatore del mondo e de) genere umano è principalmente assunta dalle vecchie deità, di origine demonica, Bel ed Ea ; ma da quell'epoca in poi il dio di Babilonia (città), Marduk, come demiurgo soverchia poco a poco tutti gli altri — indarno dagli Assiri gli viene opposto Assur — diventa figlio di Ea, favorito di Bel, prende le attribuzioni e i nomi e la potenza dell’uno e dell’altro, ed è per eccellenza il creatore del mondo. Ma non, a parlar propriamente, è un creatore dal nulla, e neanco da una semplice ed informe materia preesistente; perchè il mondo ch’egli crea non è il primo mondo creato. Piuttosto che un Demiurgo, Marduk è un Salvatore ; un restitutore, cioè, un rinnovatore cosmico del mondo già creato da altri, e male creato e male governato. Vi fu prima di Marduk (Bel Ea) un mondo, opera di Demiurgo anteriore; ma questo Demiurgo apparteneva al mondo inferiore della materia e dei mostri. Generato dalla Madre caotica, e com’essa di natura bestiale e rettile, egli non
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poteva creare che un mondo simile a se, materiale e tenebroso, in cui dolore e morte regnavano, non la vita e la felicità; un mondo imperfetto, corrotto, che, non avendo in sè ragione di vivere, decadeva sempre più nel disordine e nella rovina. Tale è il mondo che Marduk, il Demiurgo Salvatore, si accinge a creare, o meglio a recreare; e crea o riforma quindi un mondo di vita e di luce, quale opera d’arte ordinata e perfetta, di tanto superiore a quello di prima, di quanto il cielo supera la terra, e il divino aspetto dell’uomo quello de’ mostri e dei rettili. Marduk è infatti 1’ Uomo, figlio dell' Uomo (Ea) (1).
Come nella teologia della gnosi, anche in quella babilonese non è propriamente la Madre che crea il mondo dapprima, ma il Demiurgo (il vento tempestoso dei Sethiani, Phil.y Ny 19) generato da lei; e la madre è qui e là piuttosto la matrice universale, da cui trae origine e lo spirito creatore e, per esso, ogni altro vivente. Alcuni miti babilonesi, di formazione secondaria, rappresentavano il tipo di questo Demiurgo primitivo come un Labbu, drago immenso uscito fuor dell’acqua tenebrosa all’assalto del cielo e degli dèi, e che finalmente Bel-Marduk riesce ad uccidere ; o come Zu, drago volante, uccello-tempesta, che, preso d’invidia per lo splendore e la potenza di Bel, pensa di rapirgli un dì — ed eseguisce l’impresa — le tavole dei fati, in cui è la segreta virtù della creazione e dell’imperio del mondo (2):
Il fulgore delle acque pure, in presenza di lui (Bel), l’autorità dell’imperio contemplano i suoi occhi (di Zu). L’infula dell’imperio suo, l’ammanto della sua divinità, le tavole dei fati delia sua divinità Zu contempla. Egli contempla il padre degli dèi, dio di Duranki ; libidine d’imperio penetra nel suo cuore:
« Ben io torrò per me le tavole dei fati degli dèi, i comandi di tutti gli dèi io assumerò: costituirò un trono, proclamerò leggi.
dominerò sopra tutti gli Igigi ».
Tal propone in suo cuore l’impresa, all’entrata della reggia, ch’ei contemplò, attende il principio del di. Allor che Bel si bagna con l’acqua pura, e siede in trono, e la tiara s’impone.
le tavole dei fati rapì via la sua mano, l’imperio assunse ed il poter delle leggi.
Nella Cosmogonia di Babilonia, che più c' interessa, la funzione demiurgica è in prima rappresentata da Mummu — perciò, nella teologia babilonese, Ea e
(1) Uno dei principali titoli di Marduk è quello di Figlio degli Dèi, MAr /tòni, in quanto in sè riassomma la virtù di tutti gli Dèi (come il redentore gnostico è generato da tutto il Pleroma); infatti gli Dèi, anche nella Cosmogonia, tav. IV. v. 2 (macharish abbieshu, in presenza dei. suoi padri}, v. 27 {ilàni abbieshu, gli dèi suoi padri) sono detti padri di Marduk. Questo titolo di Marduk corrisponde dunque perfettamente al nome ebraico di Jaldabaóth, Figlio dei Padri, con cui è designato fra gli gnostici il Demiurgo. E’da notare che in ebraico una versione di J/rfr illini in Jeled Elohim o Fén Flohìm avrebbe dato un senso inapplicabile facilmente al Demiurgo inferiore. Sul mondo innanzi Marduk, ved. Beroso (Winckler, 92)
(2) Testo in Jknsen, 46-48. — L'autorità, lett. l'opera; divinità, iliilu (l’essere ilu}\ imperio, lìelùtu (l’essere Pel)'. si bagna, iramuku (il verbo ramàku denota l’atto della purificazione rituale); la tavola dei fati, tup-shimàli, espressione solenne, di cui ritroveremo altri esempi.
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Marduk assumono le attribuzioni di Mummu — e poi, sparito Mummu dalla scena, da Kingu, il nuovo primogenito di Tiamat, cui ella solennemente dà l'imperio del mondo (1):
Il comando supremo, a capo dell’armata, ella affidò in sua mano, lo intronizzò con pompa: «Pronunciai la tua formula, fra gli dei ti ho dato l’imperio, il principato su tutti gli dii rimisi in tua mano.
Tu regnerai, tu solo amante mio;
celebreranno il tuo nome su tutti gli Anunnaki».
Gli consegnò le tavole dei fati, e al suo petto le affisse: «Tu, il tuo decreto non cambierà mai, stabile sarà il verbo della tua bocca».
Poiché Kingu fu dunque esaltato a possedere la somma divinità, sopra gli dei suoi figli il fato predestinò, ecc.
La palingenesi di Marduk, il Salvatore, non può essere naturalmente che il frutto di una vittoria ottenuta dopo gran lòtta contro i poteri delle tenebre. I teologi gnostici osservano a questo proposito che il Salvatore è cinto dà uno splendido manto di luce, atto a porre in fuga i demoni, e che, discendendo a combattere contro il poter delle tenebre, trasformasi in serpente (2). Questa duplice situazione, che apparisce contradittoria, è la stessa con la quale presentasi a lottare contro Kingu, 0 Tiamat, Marduk, che si arma e rivestesi ad un tempo di luce e di tempesta, e toglie principalmente in mano Vabubu^ parola oscura che si suole tradurre diluvio^ ma che ha duplice significato, insieme luminoso e tempestoso, come raggio di sole e turbine folgorante. E il turbine, fra i Babilonesi, viene raffigurato come un drago (3) :
Tolse il Signore l’abubu, arma sua potentissima, sul carro, irresistibile turbine, orrendo, salì;
vi attaccò l’attacco a quattro, ed a fianco si mise i suoi flagelli crudi, sterminatori, guizzanti, ecc.
Il contesto della Cosmogonia si accorda singolarmente con i dati dei teologi gnostici, i quali accennano che la Madre è ad un tempo la grande matrice del cielo e della terra, da cui tutte le cose traggono origine ; e che i sette o i dodici « Eoni » del mondo inferiore, del cosmo visibile, sono quelli che più immediatamente reggono i destini del genere umano, ma fissi e incatenati nelle loro
(1) Testo in Jensen, 6-8, Dhorme, 18. Somma divinità, Antilu (l’essere Anu).
' (2) Pare che tra gli gnostici vi fossero manifestazioni di un culto del Serpente. Il Bousset (GnostiAer, 153S) dice che sarebbe bene poter dimostrare l’origine egiziana di questo culto. Non occorre ; l’adorazione del serpente faceva parte del rituale babilonese (Jastrow, I, 166, ecc.), Il dio Nergal, prototipo di Redentore, era sovente rappresentato e adorato in forma di serpente o drago (Jastrow, I, 469 seg.). — Il Bousset (Gf/ostiàer, 1542-1543) crede che special-mente il Pistis Sophia rappresenti una delle più tarde deformazioni della gnosi. Orbene: i capp. 9 segg. del libro I, che descrivono la potenza di Gesù, rivestito del suo gran manto di luce, è in sostanza un commento esplicativo dell’oscuro episodio in cui Marduk {Cosmogonia, IV, 19-32) lascia a vicenda e assume il vestimento. Sarebbe facile moltiplicare i parallelismi del Pistis Sophia con la teologia babilonese.
(3) Testo in Jensen, 24, Dhorme, 46. — Sull’aM/« discute ben a proposito Jensen, 563 seg.
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celesti mansioni dalla virtù superiore del sommo Padre e del Salvatore. Non è diverso il pensiero del mitografo babilonese. Con la vittoria di Marduk, la sola uccisa è Tiamat (superamento del concetto originario della Madre), il cui corpo serve a formare il cielo e la terra, ma tutte le milizie della Madre, che, vista lei caduta hanno preso la fuga, sono da Marduk inseguite e fatte prigioniere; Kingu e gli altri undici compagni sono incatenati a reggere le dodici mansioni zodiacali a servizio di Marduk (il Sole); e così le altre milizie generate da Tiamat, incatenate nel cielo. Lo stato frammentario del poema cosmogonico ci impedisce di vedere se e come, oltre i «Dodici», Marduk dispone in cielo i «Sette» pianeti, o stelle che siano ; certo, però, la mitologia babilonese, di cui non possediamo che pochi esempi, si svolgeva a seconda di un siffatto indirizzo di pensiero.
* * ♦
Abbiamo veduto che nella teologia della gnosi la principale figurazione del Salvatore del mondo, che lo ricrea in seguito a una vittoria riportata lottando contro le potenze delle tenebre, è volta a volta più particolarmente elaborata nel senso che il Salvatore anch’egli s’inviluppa nella materia entro la quale è disceso, o che nella materia, cioè nel mondo inferiore, discende con lo scopo di liberare la « Madre » (derivazione secondaria della Madre) Che vi è rimasta prigione in attesa di esser liberata. Ambedue questi tipi si riscontrano già definiti dalla mitologia babilonese. Il primo in figura di Nergal, il sole meridiano ed occidente, opposto a Marduk, sole oriente e primaverile (1):
Quand’ebbero gli dei pronto il convito, alla loro sorella Ereskigal inviarono un messaggero:
« Se noi medesimi da te scendessimo, però tu non verresti su da noi ; invia dunque chi tolga la tua parte». Inviò Ereskigal Namtar suo messaggero. E sali Namtar nell’inclito cielo, entrò là dove stavano assisi gli dei.
Taluno dei celesti non fa il debito onore all’ambasciatore delle tenebre, e corrucciata Ereskigal reclama vendetta, minacciando di scatenare contro il cielo i suoi demoni. Nergal allora seguito da « sette » e « sette > ausiliari, discende incontro alla dea. Dispone i suoi possenti a guardia delle quattordici (sette superiori, e sette inferiori?) porte infernali; poi scagliasi da solo contro la terribile dea.
Entro la casa egli afferrò Ereskigal, per le sue chiome la trasse dal trono giù a terra, il capo a mozzarle: «Non mi uccidere,-fratello mio; parlare ti voglio». La udì Nergal, ritrasse le mani. Essa gemeva, ululava: « Tu sii mio sposo ed io tua moglie : darò in tuo potere l’imperio sulla vasta terra; porrò le tavole
(1) Testo in Jensen, 74-
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della sapienza nelle mani tue; tu sarai signore, ed io signora». Udì Nergal questo suo detto, l’afferrò, la baciò, le lacrime di lei deterse, ecc. (1)
L’altro mito è quello già noto della discesa d’Istar all’ inferno. La prigionia di lei mette in costernazione i celesti (2):
Andò Samas dinanzi a Sin suo padre piangendo, e al sovrano cospetto di Ea giunsero le lacrime sue: « ¡star entro la terra discese e non è più salita ; dappoiché Istar in terra senza ritorno discese, sulla vacca più il toro non monta, l’asino più all’asina non si avvicina, alla ragazza per la via l’uomo più non s’accosta; giacesi l’uomo dentro la sua stanza, giacesi la ragazza da se sola».
Ea con la sapienza del suo cuore forma un’immagine, crea Asusciu-Namir, ecc.
Disceso giù nell’inferno, Asusciu-Namir, rinviato di Ea per la redenzione di Istar, pronunzia uno scongiuro misterioso e potentissimo, di cui non si comprende bene il senso, ma che è certo in rapporto con la arcana bevanda dell’acqua della vita. Esso vince in virtù tutti gli opposti scongiuri di Ereskigal, e provoca da parte di lei l'ordine a Namtar di restituire alla vita c alla luce la dea dell’amore (3):
Namtar andò, picchiò al palagio della giustizia, in sulla soglia fe’ strepito, ch’è di lucida pietra ; gli Anunnaki fece uscire e sovr’aurei troni sedere, Istar con l’acqua della vita asperse, la ricondusse via. Per la prima porta la fa uscire, e le rende .la vesta di verecondia del corpo, ecc.
Istar, risalendo alla luce, riprende l’abito e i suoi ornamenti di dea.
* * *
I Sacramenti della redenzione, r— Affermano gli gnostici, che nell’umanità — in genere, se non proprio negli individui — v’è un principio immateriale di origine divina, che rimane come sepolto indefinitamente nel corpo, ma che, liberato dai vincoli materiali nei quali è costretto, può raggiungere la sua celeste
(1) Testo in Jensen, 78. — La tavola della sapienza, dttppa sha ninitqi. La sapienza è anche prerogativa di Damkina sposa di Ea, di [star, ecc. — Il mito dunque termina con le nozze di Nergal e di Ereshkigal. La dottrina gnostica delle nozze del Redentore con Sophia liberala in cielo è del resto adombrata già nella gran festa primaverile con cui i Babilonesi celebravano le nozze di Marduk creatore con V argentea Sarpanituin (Istar); vedi Chantepie cit. I, 298.
(2) Testo in Jensen, 86; Dhorme, 334 seg.
(3) Sugli Anunnaki, dèi dell’acqua pura (dolce) e vivificante, ved. Jensen, 566. Si confronti poi la rappresentazione mitologica d’Istar denudata e rivestita, passando per le sette porte dell’inferno, con la dottrina gnostica delle qualità e passioni che l’anima riveste scendendo dal paradiso per i sette cieli ad abitare in terra, e di cui occorre nuovamente si dispogli per ritornare pura in paradiso. — Il battesimo risanatore di Istar ha da esser posto in relazione al rito gnostico per il quale i fedeli venivano battezzati in nome della Madre e per virtù sua.
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patria, e restituire all’uomo la qualità nativa di essere pari agli dei. L’origine di questo principio vitale è talvolta attribuita alla potenza creatrice del Padre o dell’Eone suo Figlio, tal’altra invece alla Madre. Ambedue le concezioni si ritrovano nella teologia babilonese.
Nel periodo anteriore all’età di Hammurabi, come abbiamo accennato, la prerogativa di creatore del genere umano è attribuita a Bel e ad Ea. Infatti, la citata Cosmogonia di Babilonia non è che un rifacimento di più antico poema, nel quale ascrivevansi a Bel le gesta gloriose, e fra queste la creazione dell’uomo, che ora sono attribuite a Marduk; ed Ea mostra la sua qualità di creatore dell’uomo nel mito di Adapa, il quale è appunto denominato per eccellenza; savia creatura di Ea, « zer ameluti >, progenie dell’umanità. Ma anche questa attività demiurgica è poi riconcentrata in Marduk, il gran Figlio di Ea(i):
Poiché Marduk eblie udite le parole degli dei, lo fa alacre il cuore ad opere esimie.
Il detto di sua bocca ad Ea rivolge, e ciò che nel suo cuore pensò fa noto a lui : Il mio sangue intriderò, e un corpo... comporrò l'uomo, che l’uomo...
Io farò gli uomini i quali dimorano...
che si adempia l’opera degli dei, ed essi i santuari...
lì testo frammentario è a sufficienza interpretato nel Suo vero senso da un periodo di Berosso, il quale evidentemente ascrive alla virtù della terra la produzione degli animali, ed esclusivamente a Bel (Marduk) la creazione dell'uomo : < Tutto essendo pertanto acquosità, e generati gli animali, lo stesso iddio si tagliò il capo, e, col sangue versatone, gli altri dei intrisero la terra e ne formarono gli uomini, i quali posseggono perciò intelligenza e sapienza divina > (2).
In altri testi mitologici, però, i quali certamente riferisconsi a concezioni di molto anteriori all’età di Hammurabi, la creazione degli uomini è attribuita alla Madre. Una volta è la dèa Marni che, tagliati quattordici pezzi di argilla, sette a destra e sette a sinistra, ne procrea i maschi e le femmine (3) :
La madre che adduce il destino, costoro essa compie : costoro essa compie in forma sua, le immagini degli uomini disegna Marni.
Altra volta è Aruru, la dèa creatrice degli uomini, che dà vita a Engidu, l'eroe compagno di Gilgames (4):
(1) Testo in Dhorme, 64-66; WiNCKLhR, 113- “ 11 mio sangue, damila vocale finale delia parola ha convenientemente da computarsi come un suffisso del pronome di prima persona. Cosi autorevolmente interpreta anche Berosso. Altrimenti bisognerebbe tradurre: del sangue intriderò, ecc. — Presso gli gnostici, in un’età più evoluta di spiritualismo, 1 anima è reputata essere non nel sangue, ma consistere in una scintilla.
(2) Testo in Winckler, 93- . „ n ,, . ,
(3) Dal mito di Ea e Atrachasis; testo in Jensen, 2S6 ; Dhorme, 13S. — Marni vai quanto : Signora degli dei (iìélil ilàni). La madre, iett. la matrice (s/iasuru).
(4) Testo in Jensen, 120; Dhorme. 1S6-18S. — 11 nome di Engidu era già letto Eabani.. Il suo significato « Ea è creatore » indica che Aruru in origine fu la creatrice intermediaria di Ea, non di Ami.
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Aruru essi invocarono, la grande:
• O tu, Aruru, che crei... orsù, crea l’immagine sua; che ne) giorno del suo desiderio... ei si combattano, ed Erech alfine abbia pace ». Aruru, poi che udì questo, un’imagine d’Anu formò nel suo cuore;
Aruru lavò le sue mani, elei limo fendette, ne gettò alla campagna, ... Engidu produsse, l’eroe, rampollo eccelso, schiera di Ninib.
In un frammento cosmogonie©, nel quale Aruru figura in coniugio creatore con Bel-Marduk, essa rammenta ancora più davvicino la Madre (caotica), perchè crea, .oltre l’uomo, anche gli animali e il resto, mentre Marduk sembra creare solo il genere umano (i):
Marduk un canniccio al sommo delle acque congiunse, terra produsse e insieme al canniccio la frammischiò ; gli dèi a far abitare in dimora di felicità per il cuore, l’umanità creò.
Aruru il genere umano, unita a lui creò ;
gli animali del campo, dotati di vita, in mezzo al campo creò; il Tigri e l’Eufrate creò, ecc.
La Madre è in questo, come in altri casi, identificata con Istar la quale, innanzi al diluvio che distrugge l’umanità, si duole della morte de’ suoi figli (2):
Grida Istar come una partoriente, rugge la signora degli dèi in voce sonante: «Ahi! questo giorno in fango si è ridotto, perchè dinanzi agli dèi parlai mala cosa ; sì, che parlai nel consesso degli dèi mala cosa, a sterminio del mio popolo battaglia ordinai. Io sola, io, genero il mio popolo, ed ora come nati di pesci, essi riempiono il mare».
Nella teologia babilonese, del pari che in quella gnostica, vi è dunque l’idea, che nell’uomo vi è un principio d’immortalità, capace di condurre alla vita beata non certo un gran numero d’uomini, ma gli eletti fra loro. Utnapistim, salvato da Ea dall’universale diluvio e portato sulla nave, con la donna il nocchiere e la figlia, nel paradiso dei beati, è fra i mitografi babilonesi la più illustre di queste eccezioni. Come gli gnostici, gli antichi babilonesi già sanno che il peccato può meritare all’uomo la morte dell’anima, ma che anche per i peccatori è aperto l’adito alla misericordia e al perdono divino. Adapa, creatura di Ea e prototipo dell’umanità, commette un grave fallo, ed è chiamato in cielo da Anu a renderne conto. Ma, per intercessione degli dèi, Anu poi gli perdona, ed anzi vorrebbe concedergli il paradiso, e soltanto un deplorevole equivoco riconduce Adapa in terra.
(1) Testo in Jensen, 40; Dhormk, 86.
(2) Gi/gamts, XI; testo in Jensen, 238; Dhormk, 110-112.
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Come per i teologi gnostici, anche per i babilonesi, ciò che rende l'uomo atto a conseguire la beatitudine è la sapienza, cioè la conoscenza della ¿itesi, della scienza profonda dell’essere, che è propria degli dèi, e che può solo essere all’uomo rivelata da un dio. Per la sua perfetta saggezza, Utnapistim, l'Atrachasis, l’Arcisavio, merita il dono della vita beata. Anche Adapa è giudicato per la sapienza sua meritevole del paradiso ; ma perchè all'ultimo momento gli fa difetto la rivelazione di Ea, l'Onnisapiente, nè conosce il segreto pensiero di Anu, fallisce e la perde. La teologia babilonese attribuisce ai re principalmente la qualità di essere immortali ; ma non precisamente come semplici dominatori politici, bensì come sapienti, destinati dagli dèi a reggere i popoli, e dotati perciò di sapienza rivelata e divina. Nel re è il sacerdote, anzi il profeta, che ha diritto all’ immortalità; perchè lui solo possiede la scienza segreta, lagnosi rivelata dal dio. Tale è il re-sacerdote Enmeduranki, « prediletto di Anu, di Bel e di Ea > ; che conosce « il segreto di Anu, di Bel e di Ea, la tavoletta degli dèi, la tavola del mistero del cielo e della terra » ; arcana scienza che trasmetterà a suo figlio, mantenuta gelosamente occulta, perchè egli pure a sua volta consegua la vita immortale.
Come fra i teologi gnostici, anche presso i Babilonesi la sapienza rivelata, la gnosi, si esprime in virtù di formole e di riti sacramentali che hanno virtù vivificante. Sapienza, formole e riti, soprattutto sono reputati aver la loro origine da Ea e da Damkina (o Istar) e per loro da Marduk.
L’acqua e l’olio hanno già fra i Babilonesi, come poi fra gii gnostici, un valore sacramentale di prim’ordine; adoperati insieme commisti, o separatamente, per lavacri o per unzioni, od a fine divinatorio, o nei sacrifici, fino dalla più alta antichità. La divina virtù del battesimo è dimostrata, del resto, negli esempi da noi poco sopra citati, di Bel che ogni mattina ritempra con salutar lavacro il suo vigore, o di Istar guarita da ogni male, Che incontrò nell’inferno, per via dell’aspersione battesimale. Come specialmente sacra è adoperata, per porre in luga i demoni, per guarire le malattie, per detergere i peccati, l’acqua dell’Eufrate, alla quale concessero una celeste virtù Ea e Damkina soprattutto ; sì come dice un testo rituale (1):
Le pure acque, le acque dell’Eufrate, che in puro loco... le acque che nell’Apsu sono ben custodite, le pure acque, purificate da Ea;
i sette figli dell’Apsu son essi, •
che le acque purificarono, chiare e luminose fecero:
in presenza del vostro padre Ea, in presenza della vostra madre Damkina. Egli (il malato, il peccatore) divenga puro, chiaro e luminoso diventi.
L’acqua ha grande importanza anche nei riti inerenti al concetto di un cibo e di una bevanda della vita: e il gran tempio di Marduk in Babilonia conteneva
(1) JaSTROW, I, 378. Si rammenti in quale venerazione i Naasseni (P/nZ., V, 8, 9) tengono la Mesopotamia e l’acqua dell’Eufrate particolarmente.
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nel suo saero recinto una fontana, nella quale gli dèi «si bagnavano la faccia», e che senza dubbio doveva essere adoperata anche come bevanda a scopo sacramentale e medicinale. Vera l’idea fra i Babilonesi che vi fosse un cibo e una bevanda destinata soltanto ai divini, e che, gustata, desse l’immortalità. Tale è il cibo e là bevanda che Anu al colpevole Adapa offre, in premio dell’alta sapienza, dopo avergli perdonato il suo fallo.
«Come mai Ea all’impura umanità le cose del cielo, e della terra svelò? Un cuore
magnanimo gli fece; un nome gii pose.
E noi che gli faremo? Cibo di vita ofìritegli, e ch’ei mangi ». Cibo di vita gli offrirono : non ne mangiò: bevanda di vita gli offrirono; non bevve, ecc. (i)
Un altro rito solenne, che tra i Babilonesi apparisce costituire la consacrazione del diritto dell’uomo all’ immortalità, è, come fra gli gnostici, quello del talamo, per cui è dato agli eroi, re, sacerdoti, profeti, di unirsi già sulla terra in coniugio con i divini, e parteciparne le alte prerogative. A questo rito accenna un episodio del poema di Gilgames, in ¡stato purtroppo frammentario, che parla di un solenne corteo che accompagna l’eroe nel tempio della dèa Ischara (poi identificata con Istar) (2) :
Il paese di Erech tiensi d’attorno a lui,
il paese si aduna...
volgesi il popolo...
1 cittadini cadono...
come un fanciullo debole...
Sì tosto un cittadino, belio...
alla divina Ischara il talamo...
a Gilgames, pari a un dio, inalzato...
11 fuggevole cenno del poema è confermato, del resto, da positive notizie che ci sonò pervenute degli antichissimi re babilonesi, i quali si vantano di essere sposi di Istar, e pari in grado ai divini : ciò che fa supporre un rito solenne nei templi, consentaneo alla assunzione di questa nuova qualità regale.
(1) Mito di Adapa; testo in Jensen. 9$; Dhorme, 156.
(2) Testo in Jensen, 152; Dhorme, 226; secondo i quali, appartiene alla IV tavoletta del poema di Gilgames. — Mi sembra conveniente di osservare, per quanto ciò non abbia rapporto direttamente col nostro tema, che invece io credo appartenga alla li tavoletta; ed è anche l’opinione di Ungnad-Gressmann, Das Zj/oì (Göttingen, 1911), p. 15 seg.
Ma, diversamente dagli altri, traduco nel primo verso l’espressione élishu, d’attorno a lui, invece che contro di lui (Engidu). I critici non hanno osservato, che la versione : contro di luì, in questo e in altri versi paralleli della prima tavoletta del poema impedisce di comprendere il significato di un episodio principale, eh’è l’incontro di Engidu con Gilgames; incontro, ch’è una lotta fra i due, nella quale Engidu è sostenuto e spalleggiato dai cittadini di Erech. In genere i critici sono ancora lontani dall’avere ben compreso e interpretato l’insigne monumento poetico. Ma di ciò discorreremo ampiamente, pubblicando la versione italiana del poema. — Un altro errore dei traduttori del poema è quello di identificare con Istar la dea Ischara della II tavoletta; e sì che la VI parla chiaro sui rapporti tutt’altro che amichevoli tra Gilgames e Istar!
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Dai »litografi babilonesi troviamo finalmente già delineato quello, ch’è il rito più solenne della gnosi, di un viaggio dell’uomo, in cerea della vita, al paradiso. Su questo motivo è elaborato per intero il mito di Etana, l’eroe dei tempi « preistorici », quando ancora nella terra non regnavano i re; il quale ascende al cielo, portatovi da un’aquila, per impetrare dagli dèi «l’erba della fìgliuolanza ». Il viaggio dura il volo di tre doppie ore, fino a che Etana perviene « al cielo di Anu, alla porta di Anu, Bel, Ea>; ciò farebbe supporre che egli abbia dovuto per ciò attraversare tre cieli. Ma il testo frammentario non permette sicure affermazioni ; secondo un’altra finale del mito, Etana intende raggiungere non il cielo di Anu, ma quello di Istar, la Madre ; e dopo un volo di tre ore doppie, l’aquila non resiste, e cade seco travolgendo Etana fin nell’inferno, dove poi lo trova Engidu, l’eroe compagno e amico di Gilgames (1).
Ma il classico esempio di un viaggio al cielo, per la immortalità, è quello del poema intitolato al nome di Gilgames. Esso è infatti concentrato tutto intorno all’idea che, pur essendo gli uomini soggetti alla morte, è possibile all’uomo sfuggire al tremendo destino, nè v’è pericolo che l'uomo non debba affrontare, nè viaggio che non debba intraprendere per giungere a possedere la vita. Engidu, l’amico di Gilgames, è morto. L’eroe, costernato e deciso a non soggiacere alla terribile sorte, lascia Erech capitale del suo regno, cerchiata di settemplice muro, e si avvia per raggiungere il paradiso dei beati, là dove dimora il suo antenato Utnapistim, per apprendere da lui il segreto di vivere. Lo stato del poema, pervenutoci dopo rifacimenti d’ogni sorta, non consente di determinare quale fosse in origine la via precisamente tenuta da Gilgames per arrivare al paradiso; e se realmente il viaggio si svolgesse, come sembra, attraverso i dodici cieli, o mansioni celesti, dello zodiaco solare. Questa conclusione, però, è' corroborata dal fatto che Gilgames, per arrivarvi, percorre in dodici ore doppie le vie notturne del sol.e, dopo avere attraversato le porte dell’entrata e dell’uscita dell’astro, guardate da uomini-scorpioni, i mostri orribili che Tiamat produsse per combattere contro Marduk (Bel Ea), e che stanno là incatenati. Pervenuto nel mondo della luce, sulla riva del mare (l’Apsu), incontrasi Gilgames con la dea Siduri Sabitu, che gli rinserra in faccia la porta di passaggio. Ma l’eroe la oltrepassa, e riesce a raggiungere Ursanabi, nocchiero di Utnapistim, e sulla sua nave a passare le acque della morte e pervenire così là dove abita il suo immortale antenato.
Gilgames dice a lui, ad Utnapistim lontano:
« Io ti veggo, Utnapistim ;
non hai diverso aspetto, sei come me tu pure, da me non sei diverso, sei come me tu pure.
Come tu entrasti nel consesso degli dèi, la vita vedesti ? » (2)
(1) Gli interpreti del mito (Jensen, Dhorme) coordinano in un solo racconto i due viaggi di Etana al cielo di Anu e di Istar. Io credo, invece, che si tratti di due diverse finali dei mito stesso; nella prima Etana ottiene il suo scopo, nella seconda, fallisce.
(2) Testo in Jensen, 228, seg. ; Dhorme, 100.
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BILYCHNIS
Utnapistim gli narra il famoso episodio del diluvio, provocato da Bel, ed a cui egli per la sua sapienza — rivelazione di Ea — riuscì a sfuggire, meritando per ciò la vita eterna. Questa, malgrado tutto, non fu l’effetto d’una causa necessaria, ma una grazia di Enlil (Bel), il creatore (1):
Quindi sali Enlil nella nave, prese la mano mia, fuor mi fece salire ; salir fece e inchinarsi la mia donna al mio fianco ; toccò la nostra fronte, e dritto in mezzo a noi ci benedisse: « Per l’innanzi Utnapistim fu umanità, ora Utnapistim e la donna sua diverranno uguali a noi dèi: e avrà dimora Utnapistim, lontano, alla foce dei fiumi ».
Mi presero quindi, e lontano mi dettero alla foce dei fiumi dimora.
Il poema continua narrando che Gilgames tornò in Erech, dopo il grande viaggio, senza riuscir per allora a conoscere il segreto della vita(2). Ma i mitologi babilonesi seppero che, malgrado le apparenze, Gilgames finalmente raggiunse la vita immortale; perchè egli tra i Babilonesi è onorato come un dio, non meno di Utnapistim. Quel viaggio era stato come un rito e un sacramento, capace di esaltare dalla terra un mortale alla vita celeste ; il rito e il sacramento della gnosi.
V.
Resultati.
Il paragone istituito fra la teologia della gnosi e quella babilonese, e che avremmo potuto facilmente estendere a molti altri particolari del sistema e della duplice tradizione, anche nei sommari limiti, entro i quali l'abbiamo presentato, dimostra fra la gnosi e il pensiero dei teologi babilonesi un rapporto così intimo e compiuto, da doverlo definire più che una semplice parentela — come vorrebbe, tutt’al più, l’Harnack— un principio di derivazione della gnosi dalla Babilonia. Nessun’altra comparazione di teologie orientali può resistere al confronto. Basta pensare, infatti, che la teologia babilonese; da noi raffrontata con la gnosi, era già tutta sistemata, come accennammo, nell’epoca del regno di Hammurabi; (3) e che i concetti informatori del suo sistema furono elaborati o delineati in una età che varia tra i venti e i quaranta secoli prima dell’apparire della gnosi. Si era ancora ben lungi dalla formazione storica del parsismo, e delle altre teologie della Siria e dell’Asia Minore, chiamate al paragone con la gnosi ; le quali tutte, si noti, furono di derivazione babilonese o ne subirono profondamente l’influsso.
(1) Testo in Jensen, 242-244, Dhorme, 118. — L’Ungnad vorrebbe sostituire Ea a Enlil (p. 59). Ma tutto il contesto, paragonato anche col mito di Ea e Alrachasis, che forma una specie di introduzione al diluvio, giustifica invece come originaria la lezione Enlil. E’ Enlil, creatore e distruttore degli uomini, che deve decidere se taluno può sopravvivere all’universale disastro.
(2) Ved. tuttavia (Gilg. XI) l’interessante episodio dell’acquisto e della perdita dell’erba che rende giovani.
(3) Superfluo notare ciò che l’Axz, 59 segg.» ha già messo in rilievo, cioè la piena consistenza della religione babilonese fin nei secoli contemporanei delle origini del cristianesimo.
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I MITI BABILONESI E LE ORIGINI DELLA GNOSI
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In simili condizioni non vi è che l’Egitto, che possa sostenere il confronto. Ma. la stessa teologia egiziana subì l’influenza della babilonese, per lo meno fin dal tempo di Amenofi IV, ch’è un buon millennio prima dell’apparizione della gnosi ; e poi, come hanno dimostrato i lavori del Dieterich, del Reitzenstein, di altri, i rapporti della gnosi con la religione egiziana, non sono sistematici, ma saltuari, e manifestano particolarmente i caratteri deU'ellenismo egiziano. E, del resto, che anche la gnosi egiziana derivi dalla Babilonia, lo indica Origene (C. Cete., VI, 28) dando per « introduttore » degli Otiti del suo tempo in Egitto, al solito, «un certo Eufrate».
Le conclusioni che, in tal caso, risultano dal nostro studio sono assai radicali, e dimostrano che, se è stata trovata la via a risolvere il grande problema delle origini della gnosi, i dotti sono ancora assai lontani dall’aver formulato con precisione i termini della soluzione. E' interamente errata, innanzi tutto, la ricostruzione storica che dell'origine e dello svolgimento della gnosi tenta alla fine del suo egregio lavoro il De Faye; secondo il quale, i molteplici «sistemi » gnostici, rappresentati specialmente da Ireneo e dai Philosophoumena, non sono che deformazioni più tarde dei sistemi originali di Basilide e specialmente di Valentino (1). E’ certo, invece, il contrario: che i sistemi delle sètte gnostiche sono in complesso anteriori di gran lunga ai più celebri dottori della gnosi; e che Basilide e Valentino, se pure dimostrarono originalità come sistematoli d’una loro teologia, non stanno a fondamento, ma in cima alla piramide della gnosi, progrediente sempre più vèrso il monoteismo spirituale.
Ma occorre dire, inoltre, che è pure errata la ricostruzione ugualmente avventurata dal Bousset; errata, non solo in molti particolari, a cui concede il Bousset troppa più importanza che non abbiano, ma anche nell' idea generale, secondo cui la gnosi, movimento religioso di pochissima importanza prima delle origini del cristianesimo, usufruisce dell’ impulso cristiano per emergere alla luce dèlia storia, e quindi si deforma e si trasforma in questi 0 quei sistemi, fra i secoli secondo e terzo, e si va disperdendo nel quarto (2). Quasi tutti gli elementi di teologia gnostica, reputati dal Bousset tarde deformazioni e soprastrutture delle sètte gnostiche, sono invece già costitutivi della teologia babilonese, anteriore di millennii alla gnosi ; talché in genere è da concludere, che nei sistemi gnostici di Ireneo e dei Philosophoumena — e ciò vale in sostanza anche per i documenti copto-gnostici — non vi è nulla che sia suscettibile di ricostruzione storica, di evoluzione storica e simili. Tutto è quivi più o meno situato allo stesso piano ; perchè tutto deriva da una teologia più volte millenaria. I singoli sistemi sono diversi fra loro, a seconda delle scuole, d’antica origine, e delle tendenze che rappresentano.
Si può e a parer nostro si deve riconoscere bensì, che la gnosi fu un movimento religioso di grandissima importanza storica, già prima delle origini del cristianesimo; non propriamente, lo ripetiamo, una religione, ma un fermento di nuova vita religiosa, diffuso in Oriente, dovunque rifulse e predominò la religione e la civiltà babilonese. Esso tendeva ad attuarsi in forme di religioni varie,
(ij De Fave, 417-466.
(2) Ved. specialmente Bousset, Gnosis, 1527-1531; Gnostiker, 1541-1543-
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BILYCHNIS
finché in una di esse riuscisse a trovare la sua più alta espressione. Potremmo dimostrare agevolmente, che tutte le religioni ellenistiche dei Misteri sono creazione e frutto della gnosi ; e che anzi lo stesso cristianesimo è fin dalle origini capace di essere caratterizzato come gnosi. Ed anche sul giudaismo la gnosi ebbe profonda efficacia di elemento dissolvente e trasformatore. La gnosi, per concludere, è un movimento religioso di derivazione politeistica e specificamente babilonese. Ma non è, a parlar proprio, una continuazione delle vecchie religioni dalle quali è derivata; bensì un superamento, e pertanto in opposizione con esse. Perciò essa contrasta al giudaismo, come al politeismo, e reputa il vecchio dio dei Giudei, Jaldabaòth^ un dio di giustizia, più o meno da rinnegare alla pari di Marduk, Marilàni, il dio di Babilonia. Essa stessa, però, manteneva nella sua concezione del mondo troppi elementi formali di politeismo, per poter essere accettata tal quale dal cristianesimo, cresciuto ormai sul semplice fondamento del monoteismo giudaico. Nondimeno la gnosi ebbe sul cristianesimo dei primi secoli tale e tanta efficacia, da poter dire che in esso ella trovò la sua migliore espressione possibile(1). Nella classica sua storia dei dogmi l’Harnack ha rinunziato a spiegarsi il problema, per lui rimasto un enigma, del come dalla teologia giudaica di Paolo si arrivi, tra il secondo e il terzo secolo, a quella ellenistica dei grandi padri della Chiesa. La sua riserva è giusta ; egli non poteva riuscire a darne sufficiente spiegazione, perchè non ha peranco — ed il presente stato della scienza non glie l’offriva — un concetto adeguato della gnosi.
Salvatore Minocchi.
(1) Osservo a titolo di curiosità, che nelle medioevali Griechische.... Gebele^ pubblicate dal Pradel (Giessen, 1907), sopravvive ancora il mito del demone-femmina (p. 28). Il Pradel raffronta questa parola con i demoni babilonesi, ma non vi ha riconosciuto la gran Madre Gula, di cui parla Jastrow, I, 545-551-
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LA CATTEDRA DI STORIA DEL CRISTIANESIMO
ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA
Siamo lieti che si sia venuti finalmente all’aggiudicazione della cattedra di storia del cristianesimo all’università di Roma, vacante per la morte del Labanca. Com’è noto, la Commissione giudicatrice, presieduta dall'illustre senatore A. Chiappelli, ha proposto al Ministro dell’istruzione la seguente terna: i° prof. E. Buonaiuti; 2°dot-tor L. Salvatorelli: 30 prof. U. Fracassini.
L’interesse generale con cui era attesa questa decisione, dimostra che si comprende l’importanza di un tale insegnamento. Non si sa ancora se verrà dato anche un successore al Mariano nell’Università di Napoli. In questo caso, si avrebbero non più una, ma due cattedre di storia del cristianesimo in Italia. Pur troppo, bisogna riconoscerlo, anche così, il numero di tali cattedre è veramente esiguo di fronte all'importanza e alla complessità delle moderne scienze religiose.
Speriamo, per il bene e per l’onore della giovane coltura italiana, che la modesta « coppia » di cattedre venga largamente moltiplicata e differenziata in un avvenire non lontano. La stessa cattedra di storia dei cristianesimo, dal momento che viene considerata come sinonimo di cattedra di storia del cristianesimo antico, di fatto andrebbe — oltre che integrata con corsi di letteratura cristiana antica, di archeologia e di arte cristiana antica, di lingua e letteratura ellenistica — anche continuata con corsi speciali di storia del cristianesimo medioevale e del cristianesimo moderno, che esigono preparazione speciale vastamente e differente da quella necessaria per il cristianesimo antico, il quale ha le sue radici nel mondo greco-romano, così diverso dal medievale e moderno. L’importanza poi del tutto speciale che ha lo studio scientifico del Nuovo Testamento, dal punto di vista filologico, letterario e storico, esigerebbe almeno un corso a parte, e non potrebbe — sebbene scientificamente dovrebbe esser ben altrimenti — venir assorbito nè dalla storia della letteratura cristiana antica nè dalla storia del cristianesimo, senza subire una vera mortificazione, dannosa per una piena intelligenza delle origini del cristianesimo.
Tutto ciò praticamente significa che lo stato attuale delle scienze religiose in Italia la maturità della coltura italiana e i suoi nuovi orientamenti esigono la formazione di una scuola organica di scienze religiose nel seno delle nostre Università e precisamente, suppongo, nelle Facoltà di lettere.
Nè vale obbiettare che il numero dei frequentatori delle Facoltà di lettere va diminuendo, perchè ciò significa soltanto che l’attuale Facoltà di lettere, così, com’è or-
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308 BILYCHNIS
ganizzata e con le sue finalità professionali, è un organo che va rinnovato, integrato e differenziato.
E poi l’Università deve servire solo per i matricolini? E non deve saper estendere la sua influenza oltre l’ambito scolastico ed invitare ad un'efficace collaborazione tutti gli elementi culturalmente attivi? (i).
O non è vero che il bisogno di un’utile coltura specializzata e personale, dato l’ingombro dei nostri programmi obbligatori, non è sentito dai giovani, se non dopo che essi abbiano conseguito l’inutile laurea?
Le due nuove cattedre, ne siamo certi, avranno un indirizzo strettamente scientifico ed un obbiettivo ben determinato.
Però il rigore dei metodi scientifici e la separazione netta fra la ricerca storica e la causerie pseudo-filosofica non dovrebbero significare oggi in Italia una specializzazione arida ed un insegnamento accessibile solo a degli « iniziati ». Per questi è bene che venga dedicato a parte qualche ora dell’insegnamento stesso. L’esiguità delle nostre cattedre, uniche a rappresentare il vasto trattamento storico-critico delle discipline religiose, l’indifferenza e l'impreparazione delle persone colte richiedono che l’insegnamento non venga impartito a piccoli scacchi e che sopratutto non si apparti da tutto ciò che è vivo del passato e del presente. Il compito della cattedra di storia del cristianesimo non è solo quello di fare dell’erudizione più o meno stupefacente, ma anche quello di diffondere il gusto e l’interesse per gli studi storici delle religioni. Solo di qui a parecchi anni, elevato il tono della coltura, sarà possibile fare delle cattedre attuali degli organi esclusivi di specializzazione. Del resto, per citare solo un esempio, i corsi di storia del cristianesimo dell’Harnack all’Università di Berlino sono quanto di più chiaro, di più semplice e di più interessante si possa immaginare, ed hanno servito per questa loro accessibilità alla diffusione della conoscenza della storia del cristianesimo in un ambiente più largo di quello dei non numerosi studenti di teologia. È un compito — brutto o no, questo non lo saprei — di tali cattedre, il servire a fini più vasti che non la semplice coltura universitaria. Esse hanno anche una missione.
Ricorderò qui il pensiero di uno scrittore francese che il compianto Cheyne, uno dei più grandi critici inglesi del Vecchio Testamento, faceva suo come programma del suo lavoro di divulgatore e di apostolo dei risultati critici a cui non disdegnava di abbassarsi in mezzo alle sue ricerche di critica testuale: « Sachons nous concilier le grand public par une benne et scientifique vulgarisation de nos travaux, et ne nous contentons pas de dix lecteurs érudits, quand nous pouvons réunir dans notre audi-toire tous ceux que le passe de l'esprit humain charme et attire ». E il pericolo di limitare l’ambito dell’insegnamento alla critica erudita può essere tanto più grande, in quanto gli studi sulle origini del cristianesimo e sulla sua vera natura suscitano una infinità di problemi, che una sospettosa mentalità teologico-clericale crede suo monopolio e che invece sono la parte più viva di questi studi e forse la ragione stessa del loro interesse. La ricerca scientifica nelle Università deve essere libera e deve muo(i) Perchè le nostre anemiche Facoltà non si arricchiscono di biblioteche specializzate e di centri di studio personale sul tipo dei Seminari germanici ?
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LA CATTEDRA DI STORIA DEL CRISTIANESIMO ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA 309
versi senza preoccupazioni e senza timori, per il bene stesso della vita nazionale. In Italia, bisogna pur dirlo, lo Stato ha assicurato questa libertà che è la condizione fondamentale per lo sviluppo dell’alta coltura nazionale, ma non è men vero che non son mancati e non mancheranno dei tentativi per annullare di fatto, mediante influenze abilmente esercitate, una tale libertà officiale. Noi ci auguriamo perciò per la buona fortuna delle due cattedre finora così sventurate, che il clericalismo, il quale ha sempre osteggiato una tale nobile iniziativa, non crei un’atmosfera difficile a chi sale oggi su di esse e non ne insidi l’influenza rinnovatrice, obbligandole a divenire un’appendice inutile e soporifera alla pesante erudizione ufficiale.
Non dobbiamo dimenticarci che nella terna proposta compaiono due nomi di ecclesiastici romani. Il loro compito potrebbe divenire un giorno estremamente duro in seguito ad una lotta sleale ed insidiosa da parte di certi elementi clericali. In Germania, malgrado l’influenza dell’organizzazione cattolica, non è stato tollerato che le norme e le limitazioni teologiche imposte a tutti i professori cattolici da Pio X potessero aver diritto di asilo nelle Facoltà teologiche cattoliche come numi tutelari e pedagoghi degli ormai maggiorenni metodi scientifici. E questa è stata una grande lezione di rispetto alla libertà scientifica da parte dei cattolici tedeschi e che vorremmo veder compresa ed applicata anche in Italia. La critica e la tutela clericale debbono arrestarsi dinanzi alle soglie dell’ Università.
Perciò siamo certi — per non citare esempi dalla storia più recente — che mai più in Italia Si verificherà un secondo caso Stoppani. Fra l'altro, l’Italia colta non lo permetterebbe più!
Mario Rossi.
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PERIAG/DVRÀ DELL'ÀNIMA
L’AUTORITÀ DEL CRISTO
PSICOLOGIA RELIGIOSA
(Continuazione. Vedi JiilyehHÌt, Marzo 191$, p. so»).
IX.
« Chi cerca trova » (i), ha detto il Cristo. È la parola più vera e più confortante che noi possiamo immaginare in questo oceano di mistero, nel quale siamo immersi. Ma troppo spesso la parola è applicata leggermente alle cose più futili e così la si sciupa e vien distratta l’attenzione dal suo profondo significato.
Lessi una volta in un'antologia di sentenze e di parabole d’antichi maestri israeliti un bel pensiero sulla incontentabilità dell’anima umana, che, quando ha conseguito una soddisfazione, una gioia, ne cerca un’altra che la superi. Ogni altra creatura trova presto la sua tranquillità; ma fra tutte l'anima nostra non sa adagiarsi mai e cerca e cerca ancora; e il rabbi la paragonava ad un’aristocratica signora dal gusto difficile che non è mai contenta delle vesti più belle nè dei gioielli più preziosi che le si portano e domanda del meglio ancora.
È un fatto certissimo che quando l’uomo è uscito da quello stadio della sua evoluzione, in cui partecipa del bruto, ed è specificatamente uomo, diventa incontentabile e cerca indefessamente ciò che può dargli riposo.
In questa ricerca l’uomo può venire alla conclusione che il sospirato riposo è una chimera, come un inganno della natura per farci muovere e mantenerci operosi; e molti ci vengono, a questa desolata conclusione; e sono spesso dei raffinati: poeti, artisti in generale e pensatori-artisti. Del resto l’idea che la vita sia una specie d’atroce burla è assai più diffusa che forse non si pensa. Sono troppi gli uomini che vivono come se questa e non altra fosse l’ultima parola del grande mistero; e la vita d’un uomo è sempre il riflesso del concetto ch'egli si fa del tutto. Perciò il Cristo diceva: « Voi li riconoscerete da’ frutti loro. Colgonsi uve dalle spine, fichi dai triboli? » (2).
(1) Mat., 7. 8 e Lue., ri. io.
(2) Mat., 7. 15.
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l’autorità DEL CRISTO 3ir
Tutti costoro han camminato fino ad un certo punto e poi si son fermati; non hanno più cercato. Contenti? No, piuttosto sopraffatti dalla paura dell’ignoto, nel quale non sanno vedere che la minaccia del peggio. Contentabilità troppo facile, ad ogni modo. Dov’è l’aristocratica signora, di cui ci parlava il buon rabbi? Dov’è l'uomo e la sua natura specifica?
Cercando ancora noi troveremmo nella nostra anima più profonda bellezze e bruttezze del tutto dissimili da ciò che si chiama bello o brutto nella vita comune. Donde vengono? Che significano? E, se il criterio della verità suprema fosse da cercarsi qui, e fosse indicato da queste bellezze consolanti, il cui splendore soltanto può far la vita degna d'esser vissuta, e indirettamente da queste bruttezze, nelle quali è possibile riconoscere altrettanti fatti che intralciano la speranza religiosa?... Invano si cercherebbe un’altra più vera ragione di queste bruttezze, che il credente comprende sotto il nome di peccato e di scandalo con l’idea d’un errore e un ostacolo o inciampo: brutte perchè contrarie all’evoluzione spirituale, all’esperienza della felicità. Laddove, quella scienza e quella pratica del bene che chiamiamo virtù, che gli uomini d’ogni tempo ammirarono e esaltarono coinè la più bella disposizione dell’animo nostro, come la nostra condotta ideale, è bella più specialmente perchè favorisce l’apparizione all’orizzonte dello spirito delle bellezze più grandi, che sono l’oggetto della speranza religiosa, il rinascimento spirituale, la conoscenza della verità.
Se tu cercando con quella semplicità e quella fiducia nel bene che sono proprie del fanciullo hai mai supposto nelle sospensioni della tua mente e nella dubitazione del tuo cuore, che la chiave che apre la porta serrata della verità sia la stessa virtù definita dagli antichi stoici come la gioia maggiore, tu non tarderai a riceverne 1’assicurazione. Non sai donde viene nè sai dove va; ma tu hai trovato riposo all’anima tua. Tu credi e tu speri.
In altre parole: la felicità è ciò che più importa all’uomo. Or provi l’uomo ad adoperare la felicità della sua anima migliore come il criterio della verità ed egli farà presto una meravigliosa esperienza; poiché egli sì sentirà trasportato sulle più alte cime della vita e non potrà nè vorrà più ridiscendere.
È l’esperienza che fa ogni vero credente qualunque sia il suo grado di cultura o d’incoltezza intellettuale. Del resto, come la cultura non nuoce, così l’incoltezza non apporta nessun particolare giovamento, signori « intellettuali »!
La certezza, propriamente detta, è la felicità dell’intelletto; e la felicità spirituale è la certezza della nostra anima migliore. «... Chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e sarà aperto a chi picchia... » (1)
X.
Il piccolo-grande fanciullo interiore vuole un terreno fermo e sicuro per la costruzione della vita; e cerca e anche non tarda a trovare; perchè, quando la meravigliosa creatura si mette a cercare, ha già in gran parte trovato e intravvede l’oggetto.
Non lo trova nella forma di questa vita deturpata dal dolore, infranta dalla morte; e il carpe diem, quam minimum credula postero (2) può contentare soltanto
(1) Mat., 7. 8.
(2) Orazio, Odi, lib. I, od. XI, v. 8.
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BILYCHNIS
lo spirito invecchiatosi alla superficie della vita, dove fu trattenuto dalla paura della vita e dei luoghi profondi. Ma il nostro fanciullo vive abitualmente nel fondo (è ciò che lo fa fanciullo e dei più anziani insieme) con una sensibilità spaventevolmente vivace, ed intensa e, cioè, con una immensa capacità di soffrire e un'immensa capacità di godimento; e gioie e dolori non sono più per lui dei fatti semplicemente desiderabili o semplicemente repugnanti, come sono per i vecchi del « Carpe dievi » con la loro assai mediocre e molto relativa sensibilità; ma acquistano un profondo significato, e sono il Xóyo? originario della natura, dal quale abbiamo appresa la nostra parola parlata e la nostra logica, e sono dati importantissimi, sono dimostrazioni ed argomenti. E il fanciullo... del Cristo, quando c’è, non potrebbe considerare questi suoi dolori _e queste sue gioie sott’altro aspetto, anche se volesse, costretto com’è dai suoi dolori, attratto com’è dalle sue gioie, che sono per lui potenze ineluttabili e non le solite cose che piacciono e dispaccano. È così che la sua felicità diventa per questo fanciullo il criterio della verità; ed egli non può vedere nè imaginare altra verità più grande nè altro più saldo fondamento della vita, fuorché Dio e la gioia di Dio, nella quale egli sarà fra poco introdotto. Intanto, la felicità non è altro per lui che la vita stessa, la misteriosa armonia della vita nelle sue note essenziali: amare, sapere e creare, e queste note sono incluse nella speranza religiosa come in una sintesi gloriosa; inclusa anche la potenza che crea le maggiori bellezze, le quali rallegrano ed illuminano il momento presente e le migliori difese contro l’innumerabile dolore dell’umanità.
Ora fu udita la parola che è la fedele indicazione del più saldo fondamento della vita e che nello stesso tempo ci descrive fedelmente le condizioni nelle quali la speranza religiosa può nascere e le identifica con le più grandi bellezze conosciute; perchè è sovranamente bello tutto ciò che nella condotta umana favorisce il rinascimento spirituale o che introduce nell’animo la felice persuasione che si può e si deve sperare. E il figliuolo della natura più vera, il fanciullo del Cristo, dovunque si trovasse ha ascoltato quella parola. È la sola creatura vivente che può ascoltarla; ma essa è superiore ad ogni altra creatura di quanto la natura è superiore all’arte; come la natura, semplice e grande. Questa creatura, che noi non possiamo ignorare e tanto meno sprezzare, senza nostro gravissimo danno, è la sola che ha trovato. Ogni altra creatura ha cercato invano. Ha dunque ascoltato quella parola; perchè ha veduto che i fatti che si svolgono in lei ne sono la ripetizione fedele, e che tutto in lei si fondeva con quella parola ed era la stessa autorità incontrastabile, superiore ad ogni altra autorità conosciuta, che imperava qui e là, dalle due parti. Oltre a tutto questo, là vita spirituale che ci si nascondeva un tempo e che noi abbiamo imparato a conoscere, lo stesso piccolo-grande fanciullo che solo può e vuole viverla, sono apparsi alla luce del sole, per quella parola che prima ce l’ha indicata distintamente. Il metodo usato dal Cristo non fu un’imitazione, sebbene tutto il meglio preesistente sia stato utilizzato per comporre questo metodo perfettamente originale. Perciò noi vediamo una grande verità, e non la più lieve ombra di millanteria in una certa parabola: « Chiunque viene a me e ode le mie parole e le fa, io vi mostrerò a cui egli ' è simile: egli è simile ad uno che edifica una casa, il quale ha cavato e profondato e ha posto il fondamento sopra la pietra; e quando è venuta una piena, il torrente ha urtato quella casa e non l’ha potuta scrollare, perciocché era fondata in su la pietra.
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l’autorità del cristo
Ma chi ode e non fa è simile ad un uomo che ha edificata la casa sopra la terra, senza fondamento, la quale il torrente avendo urtata, essa è di subito caduta e la ruina di quella casa è stata grande » (i).
XI.
Quando abbiamo ricevuta (vien di fuori, da molto lontano) la speranza religiosa, noi vediamo la vita da una grande altezza, tutto l’orizzonte s’allarga sotto i nostri occhi e tutti i valori appariscono nel loro vero posto, graduato cioè nella maniera più giusta e più vera, e spiegano al sole la quantità e la qualità della bellezza e del godimento, come la qualità e la quantità della bruttezza e del dolore che contengono. La stessa speranza, che ci ha portati a questa altezza e ci ha resi capaci d’una completa visione dei valori, è la grande bellezza e il profondo godimento che ci serve da pietra di paragone per saggiare tutti i valori della vita. Oltre a questo, la speranza religiosa introduce un nuovo elemento di bellezza e di gioia in ogni cosa. Moltissimi valori discendono; ma è un’illusione: si è levata semplicemente una grande altezza che fa parere più basso tutto il resto. Gli altri valori si sono, per così dire, incorporati col valore massimo e appariscono trasformati, più belli; anche il valore minimo si colorisce d’una nuova bellezza. Le gioie che si riferiscono al presente finiscono; perciò il loro valore apparisce dolorosamente relativo; ma contemplate da quella cima (quasi l'opo; ùòvjXòv Xcav di Matteo, 4, 8.) donde si vedono molte cose,appariscono come piccoli abbozzi, piccole copie incerte d’un quadro infinitamente bello, acquistano, cioè, un carattere d’eternità: perchè sono un'indicazione dell’eternità; ed è per queste piccole gioie che noi ci formiamo un’idea approssimativa della felicità più grande, più vera, che ci aspetta oltre la morte e che è già, come allo stato di larva, nella felicità presente.
Comprendiamo, dunque, la parabola della perla preziosissima (2) e del tesoro nascosto (3) con le quali il Cristo ha voluto illustrare questo valore massimo della speranza; e comprendiamo anche la vendita, che fa fare agli scopritori, di tutto ciò che hanno per acquistare il loro bene. Sono tutti gli altri beni o valori di questa vita che discendono, come per naturale conseguenza.
E come cadono tutti rovinosamente nella parabola dell’uomo ricco, la cui terra fruttò copiosamente é che perciò faceva i più bei piani per l’avvenire! « E dirò all’anima mia: Anima, tu hai molti beni riposti per molti anni; quietati, mangia, bevi e sta allegro. — Ma Iddio gli disse: Stolto, questa stessa notte l’anima tua ti sarà ridomandata, e le cose, che tu hai apparecchiate, di chi saranno? » (4).
XII.
La speranza religiosa è una singolare esperienza che si distingue da ogni altra. Comincia da se stessa e non deriva da nessun’altra forma di vita conosciuta; non dal cuore, non dalla testa, non dall’imaginazione, non dal raziocinio, non dal volere,
(1) Lue., 6. 47-49.
(2) Max., 13. 45. 4<>.
(3) Max., 13. 44,
(4) Luca, 12. 16-21.
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benché tutte queste altre esperienze della vita psichica siano da essa utilizzate e concorrano a darle una forma definita e concreta.
Quando noi abbiamo questa speranza, noi dobbiamo e vogliamo viverla; perchè da una parte noi siamo costretti dalla minaccia d’un disperato dolore, ossia dall’orrore per una vita che non fosse altro che una vigilia della morte (si ricordi che la sensibilità del credente è delicata e possente, cresciuta a dismisura) e per un principio dell’essere, che altro non fosse che un destino inintelligente, cieco, spietato (si pensi alla nostra vita, così grande anche nella miseria, dominata dall’inconscio, valore negativo che è infinitamente più sotto della scintilla di vita, che riluce nel più minuscolo insetto); dall’altra parte, noi siamo attratti da una grande bellezza che chiamiamo verità; perchè fa felice la nostra anima più umana; la quale per sua natura aborre da ogni illusione (quasi un'ipocrisia delle cose), come aborre da ogni menzogna; che ammira soltanto la cosa reale, la cerca in ogni sinuosità della vita e quando l’ha trovata vi aderisce e non se ne distacca più.
Quando una cosa è bella per questa nostra anima più vera e la fa felice, noi abbiamo la forma originale d'ogni altra verità. Anche il piccolo consenso di certezza che noi pronunziamo, quando ci si dice che una cosa di poca o niuna importanza è così come infatti noi sappiamo che è, è derivata, sia pure lontanamente da quella prima grande certezza, che suscitò nell'uomo l’idea di verità religiosa. Fu un fatto non veduto materialmente del quale però noi eravamo assolutamente certi. Era il nostro « io » più grande che era certo. Come? Non sappiamo. Ma conosciamo la nostra certezza che è superiore ad ogni altra: e questa certezza, ossia religione, è gioia, ogni altro concetto della religione non è schiettamente religioso.
Noi possiamo dunque comprendere il Cristo che paragona la speranza religiosa all’avvenimento più felice che si conosca nella vita domestica, alle nozze (i). E, come egli insiste volentieri in questa imagine, che ritorna nella parabola delle dieci vergini (2) e in quella dei servitori che aspettano il loro Signore! (3). E come tutte le sue lezioni sono impregnate della luce sfavillante della gioia! L’originalità perfetta della dottrina del Cristo sta soprattutto nell’idea che la religione è un’esperienza felice. Ne abbiamo l’annunzio nello stesso titolo ch’egli ha dato alla sua dottrina. È infatti la verità, perchè è la più grande bellezza concepibile.
Era proprio questa idea che gl’ipocriti con temporanei di Gesù di Nazaret vedevano anche espressa nella vita di lui e dei suoi discepoli che più li scandalizzava. La religione doveva essere cosa più seria; piuttosto un giogo o un canto di lamentevoli canzoni.
Ah, gli ipocriti che non possono vedere in una santa gioia la vera fonte d'ogni virtù vera e d’ogni abnegazione! Ma che cosa è un ipocrita? Un’anima che non ha fatto neppure lontanamente l’esperienza della speranza e non sa che cosa sia. Che se l’avesse mai conosciuta, tanto poco quanto è un granello di senape, non avrebbe mai imaginato d'usarla come materia da costruirne una maschera; ma l'avrebbe teneramente curata per sè e per i suoi vicini. L’uomo non può vilipendere in nessun caso ciò che lo ha fatto felice, ma aderisce alla gioia che sa.
(1) Matt. 22. 2-14.
(2) Matt. 25. 1-13.
(3) Lue. 12. 35-40.
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XIII.
La morte fu sempre giudicata e definita come il maggior male. Infatti ha tutta l’apparenza della fine d’ogni bene goduto e possibile a godersi, la fine d’ogni cosa desiderabile; e la vita che non è indugiata o interrotta da nessun ostacolo al suo naturale sviluppo, ossia la vita con tutto ciò che può dare e promettere, la vita nella sua integrità, è stata sempre immaginata come il massimo bene. Ora la religione è propriamente una vittoria della vita, un’esperienza felice, anzi l’esperienza della gioia più grande.
È in noi tutta una parte integrante di ciò che chiamiamo vita, la quale parte era forse in addietro, come la terra incognita degli antichi geografi per le altre parti: vita dell’intelletto, del sentimento, della volontà e dell'amore. Ma. quando pervenimmo alla vita spirituale, noi avemmo veramente tutta la vita e scoprimmo che quella era la parte essenziale, la miglior parte. Comprendemmo così la parola del Cristo: « Or d’una cosa sola fa bisogno. Ma Maria ha scelta la buona parte, la quale « non le sarà tolta » (i).
Ogni sincero credente, può far fede di questo fatto: che non gli fu sottratta nessuna forma onesta e onorevole di vita che fosse degna della nostra umanità, il giorno in cui imparò a sperare; ma fu un’addizione di vita e di felicità che per Lavanti egli non aveva mai imaginata, nè mai avrebbe osato desiderare. « Quando l’Eterno « riportò indietro la cattività di Sion », canta un salmo semplice come un grido di fanciullo e bello come questi monti che si spingono nel cielo sereno e questo verde che è dolcemente agitato dalla brezza e questo velo d’oro che il sole lascia cadere su tutto, « egli ci pareva di sognare. Allora fu ripiena la nostra bocca di riso e la nostra lingua « di canto » (2).
Non penso che possa esprimersi più efficacemente il meraviglioso diletto che riempie l’animo, quasi c’inebria allorquando noi possiamo e dobbiamo (è il dovere d’esser felici) credere e sperare. La terra incognita è cancellata dalla mappa della nostra vita ed è divenuto possibile ciò che pareva impossibile... Quale sarà dunque la nota che meglio consuoni alla speranza religiosa? La gioia e la bontà che deriva sempre da una grande gioia; e non conosco altra genesi più legittima della bontà.
Perciò comprendiamo che significa quel « vestimento da nozze », di cui parla il re nella parabola delle nozze: « Amico, come sei entrato qua, senza avere un vesti-« mento da nozze? » (3). Comprendiamo ancora perchè le dieci vergini dell'altra parabola devono uscire incontro allo sposo con le loro lampade accese (4). La nota che noi cerchiamo è chiaramente indicata da quell'abito nuziale e da quella luminaria portatile.
No, non è una costrizione la religione, benché sia anche questa; ma un’attrazione, l’attrazione d’una ineffabile fonte di gioia. L’anima religiosa è un’anima essenzialmente felice, e conseguentemente buona. Ógni altro concetto della religione è una detrazione, dedecoratio.
lì} Lue. io. 42.
(2) Sai. 126. 1. 2.
(3) Matt. 22. 12.
(4) Matt. 25. i-12.
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316 bilychnis
XI
Per sodisfare i suoi piccoli bisogni e i suoi piccoli desideri e per costruire i piccoli edilìzi della sua felicità sublunare, l'uomo generalmente fa i suoi calcoli e adopera tutta la saviezza di cui è capace, e, quando parla di prudenza, d’avvedutezza, di preveggenza, non pensa generalmente che queste virtù possano e devano essere utilizzate a fini più alti. Lo schietto credente non può meravigliarsi di questo fatto; perchè egli ricorda un tempo, in cui non sapeva che si fosse la speranza religiosa, benché forse s’imaginasse di possederla (caso più che frequente, comunissimo), e ricorda che anche per lui la vita ebbe già un orizzonte assai più ristretto, nel quale le diverse virtù conosciute servivano per assicurarsi dei vantaggi e condurre i propri interessi nel mondo visibile. Ora egli vede che la vita è infinitamente più ampia ed ha compreso che quelle stesse virtù, che sembravano fatte esclusivamente per il momento presente, devono essere impiegate in prima per procacciarsi la felicità più grande che è nascosta dietro tutte le altre felicità più piccole. Queste ne sono come le copie grossolane fatte da una mano inesperta o come i lontanissimi simboli. Non sono ancora la stessa realtà che ogni uomo vuole o vorrebbe nel più profondo dell’anima sua.
Il credente applica, dunque, la prudenza, etc. alla vita migliore che è nata in lui. Qui è prudente cercare, e la prudenza è riccamente premiata; perchè si trova; qui è prudente coltivare la vita (la nuova vita che si è aggiunta alle altre e le corona tutte); perchè questa cultura dà presto frutti di pace e d’allegrezza; qui è prudente non perdere mai la nostra pazienza e armarci di coraggio per non lasciarci sopraffare dai mali inevitabili tra via e non perdere mai di vista ciò che ci consola; è prudente astenerci da tutto ciò che, nel sentimento e nella condotta, oscura la visione spirituale o ne impedisce la formazione; qui è prudenza somma esser giusti e benefici, affinchè si mantenga viva in noi la fede nella Giustizia e nella Bontà Infinita; perchè questa fede vien meno nella misura esatta in cui degrada la nostra vera umanità. Ma quando la speranza religiosa è formata, essa stessa suggerisce tutta la prudenza che le occorre per sussistere. E non tarderà a proporci da ultimo quest’ultra misura prudenziale: rivolgere tutta la nostra attenzione alle nostre gioie più profonde e alle corrispondenti bellezze che fanno la vita della nostra più vera umanità, per adoperarle come criterio sicuro della verità più grande. Del resto, se noi attendiamo con qualche costanza a queste gioie come alle bellezze che le alimentano, esse non tarderanno ad impadronirsi di noi con la prepotenza inoppugnabile della verità. Ferrea e insieme dolcissima signoria della verità! E dolcissima servitù la nostra: poiché questa servitù è libertà suprema, della quale tutte le altre forme di libertà non sono che un pallido riflesso! Noi operiamo sempre per costrizione o per attrazione; e, se è per attrazione, noi parliamo di libertà; e invano noi cercheremmo un'altra libertà che nella sua vera sostanza non fosse questa medesima.
Insomma, la prudenza, la preveggenza e l'avvedutezza non sono virtù che appartengono esclusivamente alla vita visibile; ma sono ancora più necessarie alla nostra vita spirituale che ne è la ragione e la realtà occulta.
Perciò comprendiamo come il Cristo insista con più d’una parabola sulla necessità di trasportare nella vita spirituale quella sapienza che l’uomo adopera con buon successo nelle cose della vita presente. Vedi la parabola dell’uomo che vuol fabbri-
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l’autorità del cristo
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care una torre e siede e fa i suoi conti (1); quel re che vuol fare la guerra; ma prima conta i suoi uomini e quelli del suo nemico (2); e quella singolare parabola del fattore infedele che prende astutamente le sue misure per essere bene accolto altrove, quando sarà cacciato dal suo Signore (3).
XV.
Ma con le parabole di colui che desidera di fabbricare una torre e del re che va ad affrontarsi in battaglia con un altro re, il Cristo vuole illustrare una forma di prudenza che domanda una speciale attenzione; perchè è il nocciolo d’ogni prudenza imaginabile: la rinunzia (4). A questa rinunzia si è data per lungo tempo una interpretazione tutta esteriore, sensuale, ciò che non è nello spirito dell’insegnamento del Cristo; e l’errore persiste nei due volghi, ignorante e dotto. La Riforma ha ben compresa la rinunzia cristiana generalmente. Ed è degno di nota il fatto che nel-l’Estremo Oriente, dove ha fiorito e fiorisce sempre la dottrina del Buddha, si è sentita la necessità della rinunzia; ma le si è data l’interpretazione che ha dominato e domina ancora fra i popoli cattolici romani. I gesuiti missionari, quando la prima volta sbarcarono in quelle parti, vedendo l’analogia profonda tra quelle pratiche e le pratiche della loro religione, conclusero senz’altro che era il diavolo che faceva la scimmia di Dio e riproduceva tutti gli aspetti della vera religione per non far sentire il bisogno di questa e impedirne così la propaganda.
Ma no; l’evoluzione della vita occulta, che è retaggio comune a tutti i popoli della terra, a certi stadi si somiglia e anche erra nella stessa direzione.
La rinunzia voluta dal Cristo, come si può desumere da tutte le sue lezioni, dal suo carattere e dalla sua condotta, non ha altro significato che questo: che noi dobbiamo subordinare tutti i valori della vita alla speranza religiosa e alla bellezza perfetta che per la stessa speranza noi intravvediamo nell’opera e nei metodi di Dio. Il miglior commento dell’idea sta nell’altro precetto: «Cercate in prima il regno di Dio e la sua giustizia».
Dobbiamo quindi rinunziare a tutti i nostri piccoli altari, anche all’siSwXov che abbiam fatto della nostra persona, alla prevalenza del nostro piccolo « io » per sottoporci all' « Io » più grande, all’ « Io » divino e lasciarci immergere in quello come nel nostro unico vero « io ».
Sarà un distacco penoso da molte vecchie abitudini, da vecchi atteggiamenti del nostro spirito che ci erano cari, uno spostamento dei nostri ideali, una rivoluzione nella nostra psicologia particolare, una crocifissione del nostro vecchio uomo, secondo l’imagine dell’apostolo Paolo (5). Ma secondo l’imagine del Cristo, la quale è la fonte di quella dell’apostolo, noi dobbiamo portare la nostra croce e seguitare il Maestro,
(I) Lue. 14. 28-30.
(2) Lue. 14- 31-33(3) Lue. 16. 1-9.
(4) Lue. 14. 33-35.
(5) Rom. 6. 6.
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3lS bilychnis
che col detto e col fatto ci ha insegnato a sperare, se vogliamo essere suoi discepoli, se, cioè, vogliamo conoscere la sua pace e la sua allegrezza particolari. A chi volesse poi sapere che cosa è questa particolarità, ogni sincero credente può dire che sono stati d'animo felici che possono coesistere con l’assenza d’ogni illusione sulla durata di questa vita, che anzi coesistono con un’idea particolarmente chiara, oggettiva, della fine, che non ha generalmente lo spirito areligioso. Questo pensa ad altro; e solo a questo patto, può vivere con una relativa tranquillità. Oltre a che, questa pace e questa allegrezza pongono in piena luce le migliori qualità della nostra natura e ci permettono di purificare e d'ingrandire il nostro carattere e di nobilitare la nostra condotta alla stregua d’una vita che passa al disopra del cimitero, senza mai venire a fine.
Il Cristo insiste particolarmente su questa rinunzia (e non vi persiste la religione fino dalla sua nascita in noi?) e racconta quelle due parabole per confermare nella mente dei suoi discepoli ch’egli ne fa propriamente una questione di prudenza. Prudenza singolare che ha tutte le apparenze della più arrischiata imprudenza e che con la logica che le appartiene conduce Maestro e discepoli direttamente al supplizio! Può sembrare ancora più strano che il Cristo insegni che questa prudenza sia necessaria per non diventare un sale insipido che non è atto per la terra, nè per il letamaio, continuando l’imagine già usata in altra occasione: « Voi siete il sale della terra » (i).
Ma questa è una chiara figura che ci fa pensare a molte cose, come ogni parola che proceda dalla bocca di Gesù di Nazareth: che la speranza religiosa è una cosa desiderabile in grado supremo; poiché dobbiamo usare ogni diligenza per non porla a rischio: una grande gioia, dunque, che è la sola che dà sapore e alimento alla vita; che è una gioia essenzialmente generosa; perchè tutte quelle creature che ne hanno fatta l’esperienza devono necessariamente farla conoscere (« Voi siete il sale della terra » cioè dell’umanità): un bisogno più che un dovere,
Infatti áyámj è l’anima stessa della speranza. Senza áyasvi, noi potremmo essere bigotti o fanatici o persecutori d’eretici, non mai credenti. Da questa natura particolare della speranza religiosa deriva la propaganda religiosa che è il bisogno più generoso che mai si abbia potuto conoscere o imaginare. « Inutile! » dice l’uomo areligioso. « Detestabile! » dice l'uomo irreligioso e talvolta, anche il credente che non sa che una forma grossolana di speranza e d’adorazione, accarezza la sua pigrizia spirituale, Che chiamerà ortodossia, e teme la luce. Non importa; possedere un gran bene e volerne fare altri partecipi è amore grande, e l’amore conosce le sue vie.
(Continua). Raffaele Wigley.
(i) Matt. 5. 13-
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RELIGIONE E GUERRA
PERCHÈ SONO PER LA GUERRA
Caro Paschetto,
Non appartengo — come ella sa — per il fatto della volontà mia ad alcuna denominazione chiesastica, ma sento di potere ugualmente domandarle il permesso di interloquire nella discussione aperta nella sua Rivista su « I Cristiani e la Guerra »: i° perchè ho la sicura coscienza di essere stato sempre animato nella mia modesta azione di uomo pubblico da quegli ideali che costituiscono l’essenza stessa del Cristianesimo considerato come un assieme logico e coerente di regole morali per la vita non meno degli individui che delle nazioni;
2° perchè ho l’onore di rappresentare al Parlamento un Collegio politico, unico in Italia, diviso quasi a giusta metà fra cittadini cattolici e protestanti, i quali, nella loro grande maggioranza, si sentono uniti al disopra delle loro siepi confessionali dallo spirito veramente cristiano, che supera i confini pur necessari ed amati della patria per assurgere al concetto della superiore comunità internazionale.
Non occorre che io le dica come e quanto io dissenta profondamente dalle idee svolte in questa libera e battagliera Rivista dal signor Mario Rosazza.
È cosa che stringe il cuore dolorosamente il dovere constatare come un giovane di ingegno e di coltura, quale è certamente e si rivela nei suoi scritti il signor Mario Rosazza, possa essere vittima di una strana e deplorevole aberrazione morale sino al punto di cercare nel Cristianesimo, del quale egli si professa seguace, argomenti di polemica in favore delle guerre sostenute per puro spirito di conquista, nel vano e « nazionalistico » proposito di estendere indefinitamente il predominio violento ed ingiusto della propria patria sulle patrie altrui.
Torna comodo al signor Mario Rosazza, per accreditare il suo pregiudizio bellicista, di prendere come « testa di turco ». affibbiandomene una corresponsabilità del tutto insussistente, il « pregiudizio pacifista, il quale astraeva dalla realtà e dalla storia e faceva parlare di guerra e non di guerre singole ».
Al certo, io non voglio negare che vi siano stati e vi siano pacifisti, i quali, per l'effetto di una loro speciale mentalità religiosa, ripugnano in modo assoluto al servizio militare e condannano in blocco tutte le guerre, comprese quelle che possono essere ancora necessarie per la conquista delle libertà individuali e collettive oppure per la difesa di legittimi conculcati diritti.
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BILYCHNIS
Tuttavia il signor Mario Rosazza altera e snatura completamente la verità delle cose, quando, per farsi un avversario più facile da combattere, rendendolo prima (a modo suo) spregevole, insinua ai suoi lettori che la unanimità o quasi dei pacifisti sia composta di gente che « ruzza e freme » al solo sentire parlare di guerre.
Per quello che personalmente mi riguarda, non posso menar buoni questi metodi di polemica cari ai nazionalisti italiani, e, quindi, invito il signor Mario Rosazza, il quale da tempo mostra di prendere un interesse speciale alle mie pubbliche manifestazioni, a citare un solo mio scritto o discorso, un fatto qualunque della mia vita, il quale lo autorizzi a rappresentarmi come il predicatore di un pacifismo imbelle od a diffondere sul conto mio, e presso quelli che non mi conoscono da vicino, l’opinione che, propugnando l’ideale civile e «cristiano» della pace fra le nazioni, io abbia mai e comunque augurato o pensato una società internazionale non fondata sulle solide basi della giustizia e sui principii del diritto, sostenuti ed affermati anche, se occorre, con le necessarie sanzioni punitive e repressive della forza e dell’apparecchio militare.
Pur rispettando gli scrupoli di coscienza di quei cristiani, i quali si credono tenuti dalla loro fede religiosa a non resistere al male ed a non reagire contro la violenza ingiusta ed aggressiva, io credo, ed ho creduto sempre colla grande maggioranza dei cristiani pacifisti, che nell’insegnamento del Cristo non vi è nulla che ne giustifichi una interpretazione così contraria alle necessità dell’esistenza civile, perchè il risultato concreto di tale interpretazione sarebbe che è obbligo dei cristiani di nulla fare di praticamente efficace per impedire la trasformazione del mondo in un immenso Impero germanico, dominato da un Kaiser e da uno Stato Maggiore di pazzi criminali moralmente e religiosamente pervertiti tanto da mettere le loro spade ed i loro mortai da 42 sotto la speciale protezione divina.
Il cristianesimo del signor ¡Mario Rosazza, apologista, se non della guerra, di butte le guerre, a cui un qualunque dissennato Governo potrebbe impegnare l’Italia, sarà, se il signor Rosazza vuole, il cristianesimo inteso alla maniera di Simone di Monfort, del duca di Alba, di Giuseppe di Maistre e del visconte di Bonald, ma non è e non può essere il cristianesimo dei veri Cristiani, per i quali il precetto: « Non oc~ cides » ha valore tanto per la vita individuale quanto per la vita collettiva, colle sole limitazioni della legittima difesa e dell’affermazione doverosa dei più alti e perentori diritti.
Per togliere ogni possibile sospetto che, a mia volta, sia io a fraintendere ed a snaturare le affermazioni che combatto, cito testualmente questi due periodi dall’articolo del signor Mario Rosazza:
« Comunque voglia essere la guerra che ci attende, essa ci completerà come nazione, premessa necessaria a più grandi fini; sia dunque benedetta, per il sacrificio e per l’immolazione, se ci darà il modo di conseguire ragioni più vaste di vita; ragioni che, provvidenzialmente e per fortuna nostra, cominciano a formarsi in noi prima ancora del Risorgimento compiuto. »
« Per volontà di popolo sarà guerra all’Austria. Avrei preferito, se altra si fosse la maturità nostrana, e non è qui il luogo per dimostrarne i perchè, la guerra alla Francia. Altrove mostrerò come anche questa guerra sia necessaria all’Italia: e come
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SFINGE ITALICA
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mi spiego ch’essa non sia ora possibile per questa semplice verità, sentita non pensata dal popolo: prima essere come nazione, poi vivere come tale, prima risorgere, poi operare. La guerra all'Austria terminerà il Risorgimento, la guerra alla Francia inizierà la missione mediterraneo-universale.dell’Italia. Ma per tutto ciò, per sostenere e nutrire questa volontà di popolo, per purificare queste riflessioni nella mente dei dirigenti, non basta la politica. La riflessione matura, pura, vichiana, non è per intanto del popolo, è dei pochi: ma è necessario che riflessione e ciò che è del popolo siano pari e collimanti nell’ora dell’azione. E del popolo è il sentimento: la religione: or dunque, ci è ancora una cosa oltre la politica, è il sentimento-religione. »
Con tutto il rispetto dovuto al signor Mario Rosazza, questo preteso sentimento-religione che dovrèbbe spingere il popolo nostro alla guerra perpetua per affermare la «missione mediterraneo-universale dell’Italia >» per me è ròba da... manicomio futurista, degna di fare bella figura in qualche manifesto algebro-geometrico dell’inarrivabile Marinetti.
È semplicemente enorme, scherzi a parte, che da gente che non ha locato il cervello si possa tentare di conciliare simili teorie assurde ed antisociali col cristianesimo, vale a dire, se la parola ha qualche senso, colle « Regole d’oro » del Sermone sul Monte.
È ben vero che anche Torquemada era convinto di essere un buon cristiano quando bruciava gli eretici in nome della sua fede religiosa!
Se questo è il cristianesimo, al quale il signor Mario Rosazza pretende di inspirarsi, allora non ho più niente da dire.
A quel modo. Cristo non fu mai certamente cristiano, e cristiani non possono essere tutti quelli che, credano o no alla natura e missione divina del Cristo, ammirano la bellezza suprema della sua vita tutta dedicata a propagare il principio della carità e della fratellanza tra gli uomini di tutti i popoli e di tutte le discendenze.
* ♦ ♦
A questo punto, chiudo la polemica col signor Mario Rosazza. Ma poiché ho la parola, credo che non sia superfluo che io risponda francamente per conto mio all’inchiesta aperta dall’amico prof. Paschetto, dicendo, senza ambagi e senza perifrasi, che io, come cittadino e come deputato italiano, ma soprattutto come fautore della « Pace col Diritto tra le Nazioni civili » sono oggi favorevole all'intervento dell’Italia nel perdurante conflitto europeo per aiutarne ed affrettarne la soluzione colla sconfitta definitiva del militarismo aggressivo della casta dominante germanica e per la vittoria della Francia e dell’Inghilterra, soprattutto poi per la reintegrazione completa della libertà e dell’indipendenza del Belgio eroico e sfortunato.
Le nostre rivendicazioni nazionali del Trentino e di Trieste, per quanto in se stesse leggittime e rispondenti ai principii di nazionalità, che la guerra presente ha nuovamente e giustamente valorizzati, per me non vengono che in seconda linea e soltanto per il fatto che la integrazione della patria nostra nei suoi naturali confini geografici ed etnici contribuirà efficacemente a quella nuova e più salda divisione politica dell’Europa, che sarà la più sicura guarentigia della pace futura, come quella che eliminerà nella maggiore possibile misura i germi ed i motivi di nuovi dissidii e di nuove gelosie internazionali.
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Non direi la verità, se affermassi che a questa mia ferma convinzione della necessità dell’intervento armato dell’Italia nella immane crisi europea io sia arrivato senza contrasti intimi crudeli e dolorosi.
Posso però affermare che, sino da quando fu nota la violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo commessa dalla Germania, stracciando i suoi trattati più solenni, io avrei sostenuto la necessità doverosa del nostro intervento non soltanto diplomatico, se, purtroppo, non fossi stato convinto che in quel momento la nostra impreparazione militare, per colpe e responsabilità non certo imputabili alla propaganda pacifista ed antimilitarista, era tale che la nostra partecipazione alla guerra si sarebbe convertita in un immediato ed irreparabile disastro nazionale.
Mi contentai allora forzatamente della proclamazione della neutralità fatta subito dal Governo italiano, che mi parve il massimo aiuto che per noi allora si poteva dare alla causa delle Potenze della Triplice Intesa, in un momento, nel quale — come Italiano ho quasi vergogna di ricordarlo — la maggior parte dei nostri nazionalisti, quasi tutti gli attuali neutralisti ad oltranza (socialisti esclusi) e, con pochissime eccezioni lutti i clericali sostenevano l’intervento armato in favore dell’Austria e della Germania, per non renderci felloni a loro riguardo, mancando ai patti della Triplice Alleanza!
In quella mia attitudine credetti doveroso discontinuare per i primi mesi della guerra, scindendo pubblicamente la mia responsabilità di uomo politico da quella di coloro che facevano pressione sul Governo per l’intervento in favore della causa del diritto e della democrazia, prima che il Governo stesso, il quale, a torto, secondo me, ha sino ad ora sottratto al Parlamento i necessari elementi di controllo, credesse ultimata quella preparazione militare, alla quale io non negai il mio voto, pur riservandomi esplicitamente il diritto di esigere, quando ne sarà il tempo, dal mio banco di deputato, se mi continuerà la fiducia dei mìei elettori, la documentazione del precedente sperpero e mal uso del pubblico denaro.
Aggiungo che sin da allora avrei voluto che il Governo non si limitasse alla dichiarazione di neutralità, ma avesse colla immediata denuncia della Triplice Alleanza giustificata dal brutale ultimatum mandato dall’Austria alla Serbia a nostra insaputa e dalla violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo (quest’ultima guarentita formalmente anche dall’Italia col Trattato di Londra del 1867) sentito il dovere di spezzare ogni sua solidarietà politica e morale coi Governi che mostravano di tenere in così poco conto i principii più riconosciuti del Diritto internazionale.
Presentai a questo scopo, valendomi del mio mandato parlamentare, due interrogazioni al Governo, che però non ebbero risposta alla Camera, perchè il Governo stesso, sempre a torto, a mio parere, ha voluto in così gravi e terribili frangenti continuare quella politica di misteri diplomatici, alla quale deve essere fatta risalire la responsabilità che indubbiamente tutti i grandi Governi europei hanno avuta nel preparare da lontano la guerra presente, scatenata all’ultimo istante, contro la decisa volontà pacifica della Inghilterra, della Francia, della Russia e forse dell'Austria stessa rinsavita, dal capriccio sanguinario del Kaiser tedesco e della sua Corte militare.
Deplorai anche e deploro che, mentre i Governi e le diplomazie degli Stati belligeranti della Triplice Intesa si sono in questi mesi di guerra riabilitati delle loro
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colpe passate, tenendo un linguaggio alto e sincero (il Governo e la diplomazia inglesi soprattutto), quale è necessario per giustificare la guerra in difesa delle pili sante ed indeclinabili ragioni della vita civile (il soccorso dei deboli e degli oppressi, là tutela dei propri interessi fondati nel rispetto dei legittimi ed inviolabili interessi altrui e dei trattati internazionali liberamente convenuti e stipulati), il Governo italiano abbia tenuto, se non nei fatti, nelle apparenze un contegno incerto ed equivoco, parlando di « sacro egoismo » e lasciando quanto meno supporre che esso fosse disposto a negoziare la sua neutralità col sacrifizio degli ideali più puri e più nobili, in nome dei quali l’Italia è sorta a nazione ed ha diritto di farsi ascoltare come Potenza civile e « cristiana ».
Ora è venuto, io credo, il momento di tagliar corto a tutte queste esitazioni ed a queste dubbiezze.
Questa orribile guerra, che da quasi nove mesi infuria in Europa e ci tiene tutti angosciati e sospesi nel dubbio affannoso e straziante che le ragioni brutali della forza materiale e selvaggia possano ancora prevalere su quelle della libertà e del diritto, che spetta a tutti i popoli di darsi gli ordinamenti che vogliono e di svolgere in essi tutte le loro pacifiche ed armoniche attività, non può forse essere decisa senza l’intervento di forze nuove e fresche, non da altro animate che dalla coscienza del solidale dovere che hanno in questa ora tragica per la civiltà europea e « cristiana » tutti gli individui ragionevoli e pensanti di mettere un termine ai vecchi sistemi di oppressione politica e militare tuttora rappresentati dal blocco austro-tedesco e di erigere il Tempio della pace futura, secondo la bella immagine di Lord Bryce, sulle solide ed incrollabili fondamenta del rispetto dei trattati internazionali.
Certo non è senza una suprema stretta di cuore che un pacifista ed un «cristiano», nel senso che tutti noi dobbiamo dare a questa parola per quello che concerne la sua applicazione agli ideali ad un tempo sublimi e pratici della convivenza internazionale, può in questo momento pensare alle stragi, ai lutti, alle distruzioni di un nostro intervento alla guerra europea.
Tuttavia, ora che la nostra preparazione militare deve essere compiuta, dopo che forse due miliardi di lire sono stati spesi a questo scopo, ora che il Governo si deve essere convinto della impossibilità di trattare colla Germania e coll’Austria per una integrazione territoriale, che ci lasci perfettamente liberi di uscire dall’orbita della Triplice Alleanza e di orientare, per adesso, la nostra neutralità e, più tardi, la nostra azione diplomatica nella Conferenza, che dovrà ridare la pace all’Europa, chiaramente ed energicamente contro le violazioni del diritto commesse dalla Germania e dal l’Austria-Ungheria, è il momento dei grandi e forse dei supremi sacrifizi.
Oggi il neutralismo adjoltranza dei socialisti italiani, a non parlare di quello infinitamente più abietto dell’on. Giolitti e dell’affarismo contrabandiere, si traduce praticamente in un aiuto che noi diamo agli Stati che hanno voluto e premeditato la guerra e contro quelli che, costretti dalla violenta ed impreveduta aggressione, hanno dovuto a malincuore impugnare le armi e da circa nove mesi lottano, con meravigliosa tenacia, ma con successo purtroppo ancora dubbio, per la difesa estrema delle loro libertà e dei loro diritti, per assicurare alle generazioni che seguiranno una migliore e più alta civiltà, in cui il pacifico sviluppo di tutte le individuali e collettive facoltà
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di progresso non debba più oltre essere insidiato e messo a repentaglio da un improvviso accesso di follia, dal quale possano essere colti un futuro Imperatore tedesco ed il suo Stato Maggiore allevati al culto della guerra e bestemmiatiti il nome della civiltà e del cristianesimo.
Di fronte al prolungarsi della guerra, di fronte al pendere ancora indeciso delle sue sorti definitive, ognuno di noi ha il dovere di coscienza di assumere la propria parte di responsabilità e di azione.
Perciò l’indifferenza passiva continuata di una grande Potenza, la quale — come l’Italia — intervenendo ora col peso del suo esercito e della sua armata, può decidere effettivamente la sconfitta prossima del militarismo aggressivo e dare sempre più il carattere di una lotta per il diritto e la pacifica convivenza dei popoli a quella che sostengono le forze alleate della Intesa, comincia a diventare moralmente colpevole, e più lo sarebbe domani un intervento determinato dal solo proposito di ottenere con esso quei particolari ed individuali vantaggi che forse la neutralità abilmente negoziata non è stata sufficiente ad assicurare.
No; la formula del « sacro egoismo nazionale » adoperata dall’on. Salandra non può essere l’insegna di una vile e sordida bottega da rigattiere trafficante sulle cose e sulle idealità più sante; essa non può essere altrimenti intesa ed interpretata che come la espressione — del resto non felice — del concetto che gli interessi nazionali dell'Italia formano una cosa stessa colle ragioni ideali della giustizia e si trovano in dipendenza strettissima con quella nuova organizzazione internazionale, che deve risultare per l’Europa dal fatto necessario che la Germania non possa conservare un palmo del territorio conquistato e sia costretta ed indennizzare, per quanto è materialmente possibile, le vittime della sua brutale e non provocata aggressione.
Questa è, a mio avviso, la sola e sufficiente giustificazione politica e morale del-’intervento dell’Italia nell’attuale conflitto.
Io sento per conto mio che posso volere questo intervento in questa guerra speciale, senza mettermi in nessun modo in contraddizione colle mie ferme idee di uomo civile e di pacifista; anzi sento che è precisamente per affermare queste mie idee con tutti i mezzi efficaci ed adeguati che io devo volere l’intervento dell’Italia, pur prevedendone ed apprezzandone giustamente tutte le gravissime conseguenze.
Preferirei morire od emigrare per sempre dal mio paese, il giorno, in cui ai miei occhi di cittadino e di patriota esso si macchiasse del vergognoso delitto di avere tradito i principii più puri del suo Risorgimento politico e di avere patteggiato la propria connivenza colle prepotenze e coi crimini del militarismo prussiano in cambio di qualche compenso materiale o di qualche allargamento di territorio, fosse pure l’integrazione totale dell’unità della patria.
Credo che non vi sia, oggi e sempre, per un paese interesse più alto e più sacro di quello del suo onore nazionale e del contributo che esso può portare alla solidarietà degli interessi generali svolgentesi in un regime di pacifica e sicura giustizia intemazionale.
Deploro — amaramente deploro — che i Ministri italiani, ai quali è affidato il destino della patria in questi momenti di crisi terribile, invece di fare là preparazione morale del popolo colla onestà ed aperta franchezza delle loro dichiarazioni
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e mettendo là legittima rappresentanza nazionale doverosamente a parte delie loro direttive e delle loro risoluzioni, abbiano continuato ad involgere il loro pensiero in formule, che, siano pur rette nel loro sostanziale intento, si prestano alle più equivoche e contraddittorie interpretazioni.
Blaterino a loro posta gli ignoranti saputelli del nostro nazionalismo più o meno sacro, che anche l'Inghilterra in fondo non si è decisa all'intervento che per la difesa dei suoi interessi, per quanto essa abbia astutamente cercato di ammantarli col dovere di correre in aiuto alla neutralità ed alla indipendenza violate del Belgio.
È un grande, un ammirevole paese quello che ha saputo giungere ad una tale concezione dei suoi interessi nazionali, immedesimandoli coi legittimi interessi altrui, col diritto che tutti i paesi hanno di vivere in pace e di non essere aggrediti ed assassinati da un vicino barbaro e potente.
E poiché non dimentico le origini e gli scopi speciali di questa inchiesta, alla quale ho Chiesto il permesso di prendere parte, mi sia lecito per concludere di riassumere le mie idee circa l’attitudine che i pacifisti ed i «cristiani» italiani devono assumere oggi di fronte alla situazione internazionale gravissima, opponendo al Kaiser be-stemmiante le benedizioni divine sulla « buona spada tedesca mai sempre vittoriosa » l’esempio veramente cristiano e commovente del Vescovo di Londra, il quale, nella presenza solenne dei Sovrani e del popolo accolto dei fedeli, il giorno della dichiarazione della guerra, invocava da Dio di spezzare la spada nelle mani della sua patria quando fosse stata ipocrita e bugiarda l'affermazione ufficialmente fatta dal suo Governo di averla sguainata soltanto per la difesa della giustizia e del diritto, vale a dire dei soli interessi, per i quali sia ancora oggi lecito di ricorrere al mezzo supremo e tremendo della guerra, dopo avere invano sperimentato tutti gli altri mezzi di soluzione ragionevole e giuridica.
Bricherasio, n aprile 1915.
Edoardo Giretti.
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PREGHIERE IN TEMPO DI GUERRA
eco un saggio delle « preghiere pei nemici » che si inalzano nelle chiese e cappelle inglesi:
La prima è riportata dal « Foreign Field ».
« Accorda, o Padre, la tua benedizione al popolo di quella grande e bella regione, coi duci della quale noi siamo in guerra. Rafforza il braccio dei saggi e dei giusti che seguono la carità e cercano la giustizia e la libertà, così presso di loro come presso di tive passioni di odio, di sospetto, di febbre guerresca, così fra loro
come fra noi. Solleva e conforta gli angustiati, gli orbati, i malati e i tormentati dal dolore, e tutta la smorta armata di quelli che soffrono, così in mezzo a loro come in mezzo a noi. Da’ un premio alla pazienza, all’industria, all'amabilità e alla semplicità della massa del popolo, e a tutti gli uomini onesti e di buon cuore, così fra loro come fra noi. Insegna a noi tutti a pentirci e ad emendarci. Aiutaci a servirci delle presenti afflizioni che vengono da noi e non da Te, in modo da Costruire stille rovine del nostro iniquo passato una pace salda e duratura. Concedici, che uniti tutti in una buona intesa con quelli che sono attualmente nostri nemici, benché siano in realtà nostri fratelli in Cristo, possiamo noi con essi stabilire un nuovo ordine, in cui le nazioni possano vivere insieme in reciproca fiducia e amicizia, seguendo in tutto le norme di vita proclamate dal Figlio dell’uomo, che noi abbiamo rinnegato ed esposto al disonore e crocifisso di nuovo, sul Calvario dei nostri campi di battaglia ».
Una «preghiera per il Kaiser», come conclusione dell'ufficiatura religiosa in una Chiesa Presbiteriana, era così concepita: « Per Guglielmo, imperatore di Germania, Ti preghiamo o Signore, acciò egli possa apprendere da quella Bibbia che, noi lo sappiamo, egli legge “ ad agire secondo giustizia e ad amare là misericordia, e a camminare umilmente con il suo Dio „. Te ne preghiamo in nome di Cristo. Amen ».
Un’altra preghiera, è Stata opportunamente esumata dall’opera di Tommaso Fuller, dal titolo « Buoni pensieri per tempi cattivi », composta nel 1645. È notevole la sua delicata spiritualità: « 0 Signore, da che questa orribile guerra è comin-
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data, una persona già mia intima amica è divenuta per me un’estranea, anzi nemica. Insegnami tu come debba comportarmi verso di essa. Dovrà il recente nemico cacciar via del tutto il vecchio amico? Non potrò io continuare verso di lui qualche rapporto di cordialità. Benché da sua parte l’amicizia sia spezzata, non potrei io preservare integra la mia parte? Ma pure, come potrò io essere gentile con un nemico senza riuscire crudele verso me stesso e la tua causa? Deh! guida tu la mia mano tremante, che non sa tracciare diritta una linea sì sottile; o piuttosto, poiché io non so come contenermi in questo conflitto, piacciati di sopprimere il soggetto stesso della controversia, e di riconciliare così irragionevoli e innaturali discordie. Così sia ».
Ecco una « preghiera di una donna restata sola in mezzo a una città », quale è intesa dagli organizzatori di « case-famiglia per operaie sole » in Londra. È questo uno dei grandi bisogni del momento, in Inghilterra come in tutte le nazioni attualmente in guerra:
« Tutta la giornata, il mio sguardo s'incontra con delle folle, ma nessun altro sguardo risponde al mio; nessuna vita viene in contatto benevolo con la mia, nessuna mano amica stringe la mia mano. Fra migliaia di compagne io non trovo compagnia: fra miriadi di cuori che palpitano, nessuno si cura di battere all'unisono col mio. Io sono affamata di amicizia, languisco per un volto umano. Qui, solitaria nella mia stanza, vengo a Te in questo silenzio penoso, non per chiederti cose vane, nessuna per domandarti estasi spirituali, ma per pregarti di concedermi un’anima amica, di farmi sentire che qualcuno, pur nel silenzio, vive con me. Vi son persone sì ricche di amicizie, che le loro giornate sono tutta una festa dell’amicizia. 0 Dio, concedimi qualche briciolo di quei sentimenti umani che cadono dalla loro mensa. Tu che guidi le anime per il mare, senza carta di navigazione, della vita, conduci qualche anima verso la mia navicella, indirizza verso di me la schiera gioconda di uomini onesti; fa’ che i fanciulli mi ritrovino. Mantienmi lo spirito caldo ed umano, sicché essi possano conoscermi quando mi troveranno: conservami saggia e prudente, acciò nessun pirata nel pelago dell’amore mi seduca. Infinito, immenso Spirito, rivelati a me come amico, e creatore di amici ».
Ecco ora una delle preghiere che risuonano ogni domenica nella vasta « Cappella » di « Westbourne Park », sollevate dal venerando John Clifford, veterano delle più belle battaglie cristiane in Inghilterra, e « leader » battista:
« Quanto è mai triste, o Signore, l’ora presente: ogni giorno ci adduce una nuova giornata di lacrime e di gemiti. Tu conosci il nostro cuore, e sai il nostro cordoglio per il contegno disumano degli uomini verso gli uomini. 0 Dio, quale mondo è questo per noi! Ma come appare esso a te che vedi il principio ed il fine? Noi non vediamo che il giorno d’oggi, e solo un piccolo tratto: possiamo anche crederci di vedere il domani, ed anche forse il posdomani, ma non più oltre. La nostra visione è limitata: ed ecco perchè i nostri cuori son tristi. Noi vorremmo aver della vita viste più lunghe, e mirare questo mondo con l’occhio con cui tu lo miri, scorgendo i risultati che effettueranno la conciliazione del cuore dell’umanità col cuore di Dio. Giac-
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chè, attraverso tutto questo scompiglio e questo accanimento, queste lotte e questo macello, la morte e la distruzione, sorgerà un nuovo Cielo e una nuova Terra in cui la giustizia regnerà. Dacci, o Signore, il conforto che sgorga da questa sicura fede. Che esso metta profonde radici nel nostro cuore, e ci corrobori, ci liberi dal panico, ci preservi dal livore verso coloro che operano il male, e ci sospinga innanzi, fidenti, operando il bene, fiduciosi che i desiderii più puri del nostro cuore saranno soddisfatti... Noi ti preghiamo di farci degni di rispondere alla chiamata che ora risuona nei nostri cuori come nazione, e di compiere il nostro dovere, certi che tu prenderai a cuore le sorti del tuo regno sulla terra. Amen ».
Dalle preghiere che s’innalzano, in mezzo ad un silenzio magnifico, dalla bocca del Rev. Campbell (di cui parlammo e demmo il ritratto nel fascicolo scorso) nel « City Tempie » di Londra, tolgo, come un saggio, la seguente:
«... A te, o Signore, noi gridiamo questa sera, in mezzo all’incendio delle passioni e dell’odio, e ai torrenti di inimicizia, di lutto, di sciagure. Ascolta la nostra preghiera, o Signore, nostro solo rifugio: nelle tue braccia eterne noi ci gettiamo. Noi ci sentiamo commossi al ringraziarti, questa sera, per tutte le benedizioni che furono e che non son più, ma che torneranno ad essere. Noi non sapemmo quanto fosse il loro valore e quanto noi le apprezzassimo fino a che non ci furono tolte. Sicché ti ringraziamo ora per i nostri « ieri », per tutta la loro gioia e gloria, per tutta la tranquillità e la letizia che noi godemmo, e per tutta l’esperienza ricca e matura che guadagnammo e divenne nostra per sempre. Noi ti ringraziamo, dunque, per tutti gli anni in cui la nostra terra ha conosciuto la pace: anzi, anche oggi, benché i rumori di guerra ci giungano tuttodì, i nostri lidi sono ancora sicuri. Noi ti ringraziamo per tutto quello che questa pace ha significato per noi negli anni passati, e noi sapremo di nuovo di quanto ti siamo obbligati per questo, ogni qualvolta l’inno della pace sarà udito di nuovo sulla nostra terra, e quando le nazioni ¡torneranno di nuovo a convivere come sorelle, con le spade nel fodero, lo speriamo, per tutti i secoli. Vi sono questa sera in questa Chiesa, persone che ti ringraziano per le soavi amicizie godute nel passato e nel presente. Sono esse che costituiscono la vita: e non vi è vita di alcuno di noi che non sia illuminata da qualche amore. Noi ti ringraziamo per tutta la gioia che aveva le sue radici in amori che non sono più, e di cui ora soltanto comprendiamo tutta la preziosità. Ora noi ci sforziamo di dire: “ Dio ce lo aveva dato, Dio ce l’ha tolto: sia benedetto il suo nome E questa preghiera dovrebbe esserci tanto più agevole, perchè sappiamo che tu hai tolto solo per restituirci centuplicato nell’avvenire: giacché “ la vita è sempre signora della morte, e l'amore non può mai perdere la partita,,.
« E ti ringraziamo inoltre per l’eredità spirituale del popolo inglese. Noi non sapevamo quanto grande essa fosse e quanta fosse per essa la nostra obbligazione fino a che, essa fu minacciata: Ti ringraziamo adesso, o Signore, per tutti quelli che hanno travagliato, e sofferto perchè noi potessimo assaporare oggi i frutti della libertà, della giustizia, della fede nella giustizia ideale, di una santa fiducia e di una vita santa. Accetta i nostri ringraziamenti, o Signore, e perdonaci se alcuni di noi, pur disposti
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volentieri a usufruire delle fatiche e dei sagrifizi di coloro che ci hanno preceduto, nulla han fatto essi stessi in ricambio; nulla per gli anni che dovranno èssere; nulla per la generazione che dovrà sorgere. Dà a noi tutti qui raccolti questa sera una visione più nobile del futuro, e una volontà ilare di fare a te l’offerta della volontà nostra, per il bene dell’umanità. Oh! quanto spesso noi ci siamo lasciati sfuggire magnifiche opportunità, e i nostri anni sono andati sprecati! Quanto leggermente abbiamo trattato le maggiori imprese, e come ci siamo mostrati impari al compito, quando tu hai affidato alle nostre mani qualche grande missione! Perdonaci o Signore! Noi affidiamo il rimanente della nostra vita alle tue mani. Ripara tu a quello che noi abbiamo »omesso di fare, o abbiamo fatto sì male. Purifica le nostre vite, perfezionale e nobilitale, e concedici di adempiere i tuoi propositi e i tuoi piani a nostro vantaggio. Noi vogliamo divenire una nazione in preghiera. Da, o Dio, a noi tutti qui presenti una fede infantile nel valore della preghiera, nella preghiera al cuore materno dell’Universo. Dacci il desiderio di pregare, e la fede che produce la preghiera... Quando questa sera noi usciremo da questo tempio, fa che noi rechiamo con noi la coscienza, che esso è stato veramente la casa di Dio e la porta del Cielo. Te lo chiediamo per il tuo nome. Amen »!
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Ecco un « Inno religioso per il tempo di guerra »:
O Dio, al quale i padri nostri supplicarono. Quando nelle ore più oscure
La tua mano arrestò la grande « Armada », E spezzò la potenza di un Napoleone,
Concedi che mentre i nostri figli procedono, o Signore, Alla battaglia sui campi della morte, Non l’orgoglio, ma il dovere, sia il motto Scolpito sui loro scudi.
Tu conosci, o Signore, che noi non calcoliamo il costo Di sofferenze e di dolori. Purché solo coloro che amammo e che perdemmo. Non siano morti invano.
Noi non oseremmo, o Signore, di pregare, E le nostre preghiere sarebbero vane. Se noi non avessimo la fede che combattiamo Oggi in ossequio ai tuoi divini comandi.
Concedici che il tuo Spirito, o Signore della vita. Fecondi le pianure desolate e insanguinate. Sicché del caos della distruzione Il tuo mondo sia di nuovo rigenerato.
E a questa terra che Tu hai fatta
Sì bella e libera e forte,
Dio dei Padri nostri, concedi il Tuo aiuto, Nella lotta contro il male.
Perchè, falsa e debole è la spada
Sfoderata dalla potenza di un tiranno;
Ma se la nostra causa è giusta, o Signore, Tu difenderai la giustizia.
G. Pioli.
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LA GUERRA E GLI EBREI RUSSI
a popolazione dell’impero russo è divisa in due grandi categorie: indigeni e Inoródzy o stranieri. Appartengono a questi ultimi i Samoiedi, i Ghirghisi della Siberia, le tribù nomadi e i Calmucchi dei governi di Astrakan e Strawropol, gli indigeni delle isole Commandor, le popolazioni nomadi del distretto cauca-i sico ed infine gli Ebrei. Ultimi nell'enumerazione legale, gli Ebrei son i soli stranieri che non godano i diritti politici nella stessa misura degli indigeni: per essi sono in vigore molte limi
tazioni che concernono il diritto di abitazione, il diritto dell’istruzione, il diritto di impiego, il diritto di possesso, ecc. Là raccolta completa delle disposizioni riguardanti gli avanzi d'Israello a partire dal tempo della grande Caterina a cui si deve l'istituzione della Tschertà, zona di territorio entro il quale sono confinati gli Ebrei, fino ai tempi nostri, comprende una serie di volumi più massicci della storia universale del Cantò. Il grosso dell'opera è occupato dai regolamenti, dalle dilucidazioni ai regolamenti, dai supplementi alle dilucidazioni, dalle disposizioni transitorie che regolano il diritto di abitazione. Il problema angoscioso ed assillante: «Come ottengo il diritto di abitazione? » accompagna l'ebreo russo dalla culla alla tomba. Per conquistarlo, sia pure temporaneamente, il povero semita, avvezzo alle sottigliezze casistiche del Talmud, mette in opera tutta l’acutezza del suo ingegno, tutta la finezza delle sue astuzie. Dei cinquantaquattro governi di cui si compone l’impero della Czar nove soltanto costituiscono il territorio della Tschertà:
i° La Polonia propriamente détta (Governo della Vistola).
2° Le antiche provincie annesse alla Polonia Lituanica, Russia, Piccola Russia, Nuova Austria con qualche breve tratto della Curlandia e della Li vania. Questa regione è conosciuta col nome di territorio ebraico non senza qualche opportuna restrizione perchè perfino nell’interno della Tschertà, ci sono città come Kiew e Jalta chiuse agli Ebrei che non posseggono il diritto di abitazione nonché villaggi al disotto di un determinato numero di abitanti ed i paesi di frontiera della Prussia, dell'Austria e gli Stati Balcanici per un raggio di cinquanta verste (la versta corrisponde a metri 1069). Non è difficile comprendere come codesto ghétto, o prigione all’aria libera, si è presto
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LA GUERRA E GLI EBREI RUSSI
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saturata di popolazione semita. In uno stato in cui l’industria fa le prime prove, gli Ebrei allontanati dalle professioni liberali, dall'agricoltura, devono necessariamente sentire il bisogno di sciamare fuori dal territòrio dove sono soffocati. Ma le barriere sono sormontabili soltanto a tre categorie di Ebrei: cioè ai mercanti di prima classe, che, mediante fòrti importi allo Stato, possano ottenere il diritto di residenza in tutte le parti dell’impero; il Governo s’arrende di fronte alla potenza del Dio Mammona; a coloro che sono forniti di diploma di dottorato presso le università e gli istituti superiori; ai medici, ai dentisti, alle levatrici. Peraltro l’intera Russia asiatica, la regione transcaucasica e la città di Jalta sono chiuse anche agli Ebrei delle accennate categorie; a una sòia classe di persone è concessa la libera abitazione nell’impero: alle donnine così dette allegre. Il Leroy Beaulieu racconta che ad una giovanotta israelita che era andata a Mosca per imparare stenografia per poter rimanere in quella città non le rimase altro espediente all'infuori di quello di incriversi all’officio di polizia, nel libro giallo delle prostitute. L'infelice fu espulsa senza pietà quando l’occhio linceo dei vigili scoperse che la professione era soltanto nominale, non reale. Rispetto alla classe dei commercianti della prima Ghilda, il vantaggio non è molto considerevole se si tien conto che circa l’8o % della popolazione ebraica si trova piombata nella miseria più squallida e fornisce le reclute a quell’enorme esercito straccione e proletario che si riversa annualmente nell’Austria, nell’Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti. Che la schiera di coloro che possono appartenere alla classe addottorata sia scarsa, ci pensa il Governo, coll’impedire con una serie di proibizioni, una più insidiosa dell’altra, che si moltiplichino gli Ebrei nelle scuole. Il numero degli Israeliti ammessi agli Istituti secondari non può superare il io % anche là dove la popolazione del territorio ove essi sono confinati, è il quinto della popolazione totale. Agli istituti superiori non può essere inscritto un numero maggiore del 5 % e del 3 % a Mosca. Non è tutto. Gli eletti tre o cinque per cento benignati dalla sorte che dischiude loro le aule sacre a Minerva, non appartengono alla popolazione indistinta universitaria, ma alle rispettive Facoltà. Tizio, per esempio va all’università col proposito di inscriversi in medicina; ma nella facoltà di medicina ci sono già i 5 % che seguono il curriculum di Esculapio, ed allora deve rassegnarsi ad inscriversi in diritto, se pure anche le pandette non hanno già i loro 5 % di studiosi ebrei, nel qual caso può passare alla facoltà di lettere, od alla peggio, a quella di teologia protestante. Il dottorato in legge, lettere e filosofia, non giova a fini pratici, perchè non è permesso all'ebreo l’esercizio dell’avvocatura, della magistratura e dell’istruzione, e il dottorato non essercitato li esclude del diritto di libera abitazione. I pochi intellettuali, come quelli del Medio Evo, si affannano a ghermire la laurea di dottore in medicina. Se gli Ebrei non godono diritti, viceversa hanno tutti i doveri e primo fra tutti il servizio militare leggermente inasprito. Per tutte le altre popolazioni dell’impero è riconosciuto il diritto di esenzione dal servizio militare pei figli unici: per tutte, ma non per l’ebraica. Per la quale una benevola disposizione di legge speciale dichiara abili anche i giovani che abbiano torace e statura al di sotto della media. Mentre nel 1897 la popolazione ebraica dell’impero era 4,13 %, il numero dei soldati ebrei dell’eseircto saliva a 5.73 %• I galloni di caporale costituiscono il loro bastone di maresciallo... più in là non si va.
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Evidentemente, concluderà qualche amico delle idee generali, sussiste un contrasto insanabile fra l'anima slava e l’anima semitica. La Russia non può digerire gli Ebrei e fa tutto quanto può per persuaderli a cambiar aria. Il celebre Pobedo-noszeff, il cupo Torquemada ex procuratore del Santo Sinodo, lo scomunicatore di Tolstoi, giustificava le persecuzioni contro gli Ebrei con queste parole: « Un terzo i convertirà, un terzo emigrerà, un terzo morirà di fame o sarà sgozzato ». Era un programma chiaro codesto, ma non del tutto conforme, pare, ai desideri attuali del Governo russo. Il sullodato amico delle idee generali cadrebbe in errore se credesse che gli Ebrei siano un elemento non desiderato nello Stato, e che tutte le vessazioni siano rivolte ad affrettare la loro distruzione e la loro scomparsa. Un grande umorista ebreo noto con lo pseudonimo di Saloirn Halechem ha scritto una serie di novelle in cui le lagrime abbondano e il riso stride come umidi sarmenti scoppiettanti, le quali descrivono le infinite difficoltà che il Governo accumola agli emigranti per impedire e ritardare loro la partenza dalla terra di schiavitù alla terra di libertà. Il sionismo il cui fine ideale è l'immigrazione verso la Palestina è proibito officialmente.
In una grande città dello Tschertà sorge un’agenzia governativa alla quale spetta il compito di far emigrare operai ebrei indigeni nell’interno della Russia.
Spesso accade che l’una o l'altra azienda commerciale ricorra al Governo perchè consenta di trasportare in determinate città negozianti ebrei, allo scopo di dare incremento al commercio. Lo spirito adunque di queste leggi è rivolto essenzialmente a lasciare carta bianca alla polizia, a fare della moltitudine degli ebrei un- istrumento (in questo caso di persone che pensano e che dolorano) da essere maneggiato a seconda delle finalità immediate dello Stato.
Che molti Ebrei russi i quali hanno potuto vivere la vita europea iscrivendosi nelle università tedesche perchè il loro paese d'origine li asfissiava con la mancanza di ogni ossigeno culturale, sentano per la Germania riconoscenza, è umano: per essi Berlino, Konigsberga, Breslavia, erano meno ostili di Mosca e ai Pietroburgo. Il dialetto adoperato nella Tschertà è il Iddish che contiene l’8o % di elementi tedeschi, io % di elementi slavi e io % di elementi ebraici. Ma allo scoppio della guerra europea le masse ebraiche diedero prove eloquenti di lealismo; i giovani volontari accorsero in gran numero; i ricchi e gli agiati parteciparono con generose offerte alla sottoscrizione dei prestiti di guerra; le sinagoghe echeggiarono di canti invocanti da Jahveh Sebaolh la vittoria delle armi russe. La guerra s’annunciava come la tragica prova suprema: il sacrificio che preparava la vittoria « l’augurio di più sereno dì ». Invero le promesse fioccarono, e V enibressement pareva sincero ed era da parte del popolo russo. Ma ben presto i funzionari antisemiti dei circoli di corte, le schiere dei cento neri che sono al servizio delle autorità per inscenare nelle ore opportune i pogrom, spensero le vampate degli entusiasmi.
Le restrizioni inique sono richiamate in vigore con rigore crescente. Ebrei feriti e trasportati negli ospedali della città vicina al luogo ove avvenne la battaglia, sono fatti sloggiare e sballottati di qua e di là perchè non hanno il diritto di soggiorno; nei cenni necrologici si vieta di esaltare le prove di valore compiute da militi ebre
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Morire per la Santa Russia dello Czar è per l’ebreo il dovere dell’ora presente: celebrarne la memoria con parola di lode c infamia. Calunnia la Russia chi attribuisce il maltrattamento degli Ebrei al popolo: i veri persecutori devono essere ricercati nell’oligarchia che Governa l’impero. Tutti i grandi scrittori russi, dal Tolstoi al Soloieff, hanno denunciato ciò all’Europa. L’ora attuale mette in discussione tutti i problemi della civiltà europea: il problema ebraico in Russia non è certo l’ultimo. L’ingratitudine del governo verso gli Ebrei che danno il loro sangue per un paese che nega ad essi lo sviluppo normale della loro personalità, passa ogni misura. La nuova Europa, che va maturandosi sotto i nostri occhi, deve tener conto di questo sangue ebraico versato per la Russia che continua ad essere la terra dei pogrom e dei « cento neri ».
Felice Momigliano.
NOTE E COMMENTI
SIAMO SANI DI MENTE?
Shakespeare, parlando di altre generazioni passate, si sentì spinto ad esclamare, in uno dei suoi miglioi i scritti: « Quanto sono sciocchi questi mortali! ». Dinanzi a tutto ciò che sta succedendo nel mondo ci pare che il detto del sommo poeta inglese possa applicarsi facilmente alia presente generazione. L’affermazione può sembrare esagerata; infatti noi siamo disposti a compiacerci di noi stessi, a lodare la nostra civiltà a vantarci della cultura moderna ed a credere che Iddio stesso debba essere abbastanza contento di noi. Ma lasciamo le cose astratte da parte e veniamo ai fatti. La guerra attuale illustra magnificamente ciò che vogliamo dire. Ogni giorno leggiamo racconti di conflitti orribili. Paesi e città sono devastati completamente, uomini, donne e fanciulli massacrati e anche gli animali sono soggetti a crudeli torture. Il commercio, l’industria e l’arte sono paralizzati ed ogni cosa che conduce alla felicità dell’uomo viene a lui tolta. Poi, quando gli eserciti, il denaro, il cibo, il materiale di guerra ed altre cose necessarie Ì>er le diaboliche stragi, sono esauriti, ai-ora ci si ferma. I rappresentanti delle varie nazioni si radunano in pace per discutere le condizioni della pace internazionale. In questi colloqui bisogna dare ed accettare secondo la giustizia. Quando la pace è fatta, le nazioni principiano di nuovo il cammino verso l’avvenire, ma con quanti svantaggi! Quanti milioni di morti ed invalidi. Quante vedove ed orfani! Quanti debiti addossati alle future
generazioni! Quanta miseria, povertà, ignoranza; quanti pregiudizi e odi. quante rivalità, umiliazioni, vergogne e lagrime!
Che prezzo per un erede assassinato, per un pezzo di terreno, per un poco di prestigio politico e commerciale, per la cosi detta esistenza nazionale!
E la pace viene conclusa dai rappresentanti dei governi e non dai generali. Se le difficoltà fra le nazioni si compongono dopo la guerra secondo la ragione da parte dei rappresentanti, perchè non possono radunarsi prima della guerra? Ci vuole veramente una fiumana di sangue umano per convincere, gli uomini del valore della ragione?
Ma la pazzia dell’uomo non finisce qui. Ecco, dietro l’esercito seguono schiere, di uomini e donne capitanati dalla Croce Rossa. Sono tutti lì per salvare e curare i feriti ed i malati. I cannoni, i fucili, le mine, gli aereo-piani e gli « Zeppellin » vanno avanti per uccidere, per distruggere, per ferire, e la Croce Rossa viene pochi minuti dopo per riparare e per annullare, se è possibile, l’opera diabolica dell’esercito! L’uno con milioni di soldati cérca di annientare persone e cose, l’altra con mezzi e uomini inadeguatissimi tenta di diminuire le sofferenze causate da quello! Siamo sani di mente?
Ma la guerra attuale non insegna, pare, niente alle nazioni che son fuori del conflitto. Tutte queste, quasi senza eccezione, stanno spendendo fortune colossali per la difesa nazionale, e ciò malgrado gli enormi debiti che pesano sopra di loro. Con quale facilità si votano miliardi per salvare l’onore e l’integrità nazionali!
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Ma quanto poco si spende per l’istruzione degli analfabeti, per i disoccupati, per i disgraziati, per i vecchi, per i fanciulli abbandonati, per sviluppare l’agricoltura ed il commercio; insomma per abolire la povertà e la miseria umana! A chi si ribella contro questa politica si cerca di dimostrare che il denaro è destinato a mantenere la pace! Abbiamo noi tutti veduto dove è andata a finire « la pace armata ». Chi porta il coltello lo adopera qualche volta. Le nazioni agiscono come individui in questo caso. Bisogna buttar via il fucile ed adoperare il denaro come si conviene. Il cannone non ha mai appianato definitivamente una difficoltà. Solo la giustizia può produrre la pace duratura. C’è un esempio in America che dovrebbe convincere perfino un « superuomo ». Due grandi nazioni, cioè l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che si sono battuti anticamente, hanno provata per un secolo la politica della pace disannata ed hanno visto che è un principio sanissimo. Di fatti, il Canadá e gli Stati Uniti hanno in comune un confine di migliaia di chilometri. Sui laghi non c'è una nave da’ guerra e per il lungo confine non ci sono nè reggimenti nè sentinelle di sorta! Tutto va bene e. non c’è l’idea dell’aggressione da parte dell’ima c dell’altra nazione.
La mancanza di sanità mentale di questa generazione non si mostra solo riguardo la guerra, ma anche negli altri rami dell’attività umana compresa la religione. L’uso enorme che si fa del tabacco, dell’alcool e dell’oppio in tutte le sue forme non è una specie di pazzia? Quanti omicidi, suicidi, idioti, invalidi, mendicanti, ubbriaco™, ladri, adulteri e falsari non debbono la loro condizione all’uso di questi tre veleni?
In una delle prime nazioni dei mondo nell’anno 1912 si spesero nove miliardi di lire in bevande alcooliche e tre miliardi e mezzo in tabacco. Questa somma sarebbe stata più che sufficiente per pagare il costo del cibo, del vestire 0 dell’ istruzione di tutto quel popolo.
La sola ragione perchè questo stato di cose vige nella società moderna sta nel supposto vantaggio materiale. Tanto il governo quanto gli individui permettono queste ingiustizie per avere la rendita che deriva dalla miseria altrui. Si dice che la rendita del tabacco e dell’alcool in Italia basti ad affrontare le spese per la flotta ed
altre spese necessarie. Va bene; ma bisogna pensare un poco al costo di questa renditi-. Almeno i tre quarti dei delitti, della pc vertà, della miseria e delle sofferenze fisiche e morali sono dovute a quelle di piaghe. Ci vuole poca riflessione per arri vare alla conclusione che per ogni lira ricavata da quei cespiti il governo dovrei' be versarne almeno tre per riparare i d inni finanziari e morali. Quando gli uomini avranno acquistato un poco più di giudizio aboliranno del tutto l’uso di questi veleni. Allora avremo meno bisogno di manicomi, di prigioni, di ricoveri per i poveri, di ospedali, di tribunali, di guardie e... della « pace armata! «
D. G. Whittinghill.
TRA LIBRI E RIVISTE
RELIGIONE E DEMOCRAZIA
LA RINASCITA RELIGIOSA DELLA DEMOCRAZIA? — Relazione presentata al IV Convegno Nazionale della Federazione studenti per la coltura religiosa. (Napoli luglio-agosto 1914) da Giovanni E. Meille. — Prezzo L. 0,50 presso Cesare Gay, Via Roma 373, Napoli.
Per quanti avevano ascoltata la magnifica relazione del Meille al Convegno napoletano, era un desiderio vivissimo di vedere raccolta in un volumetto la messe ricchissima e nitidamente disposta di <1 documenti umani » e di religiosità in seno alla democrazia, che l’autore da diverso tempo andava raccogliendo con tenacia e criterio pari all’amore che porta alla causa del cristianesimo sociale. Il volumetto testé edito, di lettura piana per la divisione lucidissima, si sarebbe potuto intitolare benissimo l’antologia delle ansie cristiane fra la democrazia. Con esso l’autore geniale, perseguendo tenacemente un suo maturato ideale, si mette in Italia per la via del cristianesimo sociale, altrove battuta con immensa fede da leaders come Sheldon, Gonnelle e Fallot, per non citare che i più notori. E ciò facendo l’autore fa l’ottimo tentativo di gettare dei ponti di contatto, dei germi d'intese e di consensi ideali tra i credenti in un cristianesimo sociale e la democrazia.
L’autore divide la sua indagine in due parti. Nella prima delinea le preoccupazioni, i sintomi d'una rinascita religiosa nelle personalità più emergenti della democrazia ita-
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liana, francese, belga ed inglese. E nella seconda parte riassume tutti quei fatti generici che, con occhio vigile sull’orientazione molteplice della vita, ha potuto intravvede-re o cogliere a pieno, illuminando special-mente il duplice contatto stabilitosi tra la democrazia e la Bibbia, e tra la democrazia e Gesù Cristo.
Naturalmente il campo era irto di difficoltà, qualcuna delle quali l’autore non ha potuto del tutto sormontare, unicamente per la ristrettezza dello spazio, addirittura tirannico nelle esigenze d’una relazione.
Se invece di bloccarsi nelle angustie di una relazione, l’autore avesse svolta la materia in un libro, forse non sarebbe incorso nel pericolo dello schematismo che può parere arido al grosso pubblico; come pure avrebbe forse evitata qualche lacuna nella quale, data l’estensione della sua indagine, è inevitabilmente incorso, e infine, svolgendo e lumeggiando meglio certi punti, a preferenza di altri, avrebbe forse omesso qualche documento un po’ gramo che ora, posto accanto a qualche altro d’indiscussa importanza, pare indebolisca piuttosto che avvantaggiare la tesi generale. Ma queste sono mende leggiere, inevitabili in siffatta relazione.
Concludendo, il lavoro del Mei He è una cosa bella, un segno dei tempi, un quadro nel quale riproduce — cogliendola con sensibile vibrazione d’intuito — una delle vie della religiosità odierna, per la quale si sono avviate tante anime affamate d’ideale e di giustizia. Il lettore chiude l’ultima pagina di questa preziosa operetta, pervaso da speranza profetica e con un lirismo di attesa consolatrice in fondo al cuore.
Piero Chiminelli.
VARIA
Il Bollettino di Letteratura Critico-Religiosa che si pubblica in Roma da un gruppo di valenti cultori della critica e delia esegesi applicate agli studi religiosi ha nel suo fascicolo d’aprile una interessante nota di Luigi Salvatorelli illustrante le ricerche dello Staerk attorno al problema del Servo di Jahve nel Deuteroisaia.
Così un notevole rilievo del Buonaiuti sopra il recentissimo lavoro del Rackl sulla Cristologia di Ignazio antiocheno offre agli studiosi di Storia del Cristianesimo una veduta sommaria ma diligentissima della posizione del problema cristologico nei primissimi tempi della Chiesa.
La Revuephilosophique diretta dal Ribot ed edita a Parigi dall'Alcan ha nel suo fascicolo di marzo un pregevole studio del Dr. Segond « La dialectique du coeur ». Esso può offrire notevoli spunti ad indagini c studi di psicologia religiosa ai nostri giovani universitari, e lo segnaliamo volentieri a quelli di essi cui per avventura non fosse nòto ancora il nome del Segond che è uno scienziato valoroso del pari che un geniale scrittore.
Il medesimo fascicolo ha pure una interessante recensione del libro recentissimo del Frazer (nella trad. francese di Roth edita dal Colin) « Les bienfaits de la super-stition i».
La nomina di Benedetto Croce a senatore del Regno avvenuta per censo ha dovuto (equivoci di tal genere sono pui troppo possibili in Italia) dare un valore straordinario alla sua fama di filosofo. Sarà pertanto interessante richiamare l’attenzione dei nostri giovani studenti sii due Riviste che contemporaneamente rilevano il valore del Croce come scienziato autentico. Nel Conciliatore (già Cultura di Bonghi) diretto dal Borgese (fase. 3-4, 1915) il Borgese stesso ed il Tilgher hanno parole c rilievi efficacissimi a demolire in gran parte il »iedistallo dal quale il Croce guarda da un >ezzo alla folla dei filosofi senza soldi. E a Rivista Ligure (genn.-febbr. 1915) che si pubblica a Genova reca un vibrato scritto del prof. S. F. Bignone: « Note ai-sistema di B. Croce in relazione alla filosofia del diritto » nel quale uno studioso modesto insegna parecchie cose al grande filosofo.
Per la sincerità della nostra vita politica e più pei- la serietà della cultura italiana (noi non conosciamo il Croce di persona e non abbiamo nulla con lui) richiamiamo l’attenzione degli studenti sulle due pubblicazioni.
Coenobium contiene nel suo fascicolo di febbraio uno scritto di G. Tarozzi dell'università di Bologna che sulle orme del Crespi stranamente confonde teologia e fede chiamando. quel che è peggio, dalla sua anche i modernisti i quali, a farlo apposta, lavorarono e lavorano a liberare la fede cristiana da ogni contenuto intellettualistico, a purificare il cristianesimo da ogni sussi-
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dio di speculazioni filosofiche*? vecchie e nuove. Noi segnaliamo lo scritto del Tarozzi come l’indice tardivo d’una mentalità che il pensiero cristiano sta superando ed insieme esortiamo i giovani studiosi nostri a guardarsi a tutt’uomo da ogni tentativo dì applicare al cristanesimo la filosofia, cosi come a diffidare degli studi cristiani dei filosofi. Il cristianesimo ha tanto da fare colla filosofia quanto colla chimica e non ha bisogno davvero di supporti mentali vecchi o nuovi, nè di S. Tomaso nè di Kant. I signori filosofi, siano pur chiari come Tarozzi e Crespi, lo lascino in pace: sarà tanto di guadagnato anche per la fama loro di studiosi e di scienziati.
Il medesimo fascicolo, oltre ad un me-diocrissimo lavoro che non vale il suo titolo « L’elemento dinamico nella fede », ha belle e forti parole di Ellen Key (Coeno-bium dovrebbe più spesso giovarsi del fascino di questa vigorosa scrittrice) ed un buon Testamento spirituale, quello di Léonie Ronzade.
La Rassegna nazionale del i° febbraio ha un articolo, a firma Nemo, dove si cerca di intravedere « Che cosa farà Benedetto XV per la istruzione del giovane Clero ». Vi si suggerisce al Pontefice di ordinare che i chierici sieno mandati (in quei luoghi dove accanto ai Seminari non esistono Istituti pareggiati) ai ginnasi e licei governativi. O i voti del congresso Universitario di Genova, congresso benedetto da un Arcivescovo carissimo al Dellachiesa, caro .Verno, li avete così presto dimenticati ?'L’insegnamento pubblico, per vostra regola, .è cattedra di errore contro la fede e contro i buoni costumi per un buon cattolico cioè per un medievalista (vedi Gemelli); e voi vi ammettereste i Chierici? Vado retro. Satana'. E Dio vi perdoni!
Abbiamo letto con vivo piacere in Nuova Antologia del 16 febbraio uno-scritto dovuto all’on. Bettolini « Palingenesi pedagogica ». Ne parliamo: ai lettori nostrj esulando .un tantino dal nostro campo, degli studi Religiosi perchè il <metodovMontessori studiato dal chiaro uomo politico'ha per ordipe.'fon-damentale la libertà-èche sola’, permette lo svolgimento migliore*, della spontaneità nelle manifestazioni del. 'fanciullo. «E .dal-campo pedagogico rivoluzionato,dallo spirituale metodo della egregia signorina Montessori, ci richiamiamo al campo delle nostre quotidiane lotte, insistendo sulla necessità cristiana di lavorare, quanti crediamo nella divina pedagogia di Gesù, a fare intendere la suprema necessità della libertà dell’anima da ogni dogma e da ogni legge, per lo svolgimento spontaneo della religiosità umana. Contro la Chiesa, là quale continua non solo la servitù del rito che imprigionò l’ebraismo, ma ha. creata quella che la Sinagoga non conobbe (o almeno non esagerò): la servitù del dogma, è necessario (ogni più debole richiamo che ci fornisca occasione di ritornarci è prezioso) evocare l’idea della libertà Che il Cristo ha proclamata, che Paolo ha affermata virilmente di fronte; agli sforzi perseveranti del formalismo, dcll’ecclesiasti-cismo riapparsi ben presto a schiacciarla.
Recentemente .l’Amministrazione Comunale di Napoli ha disposto la remozione dalle aule scolastiche dei segni religiosi che esistevano; E poiché il prof. Caggese s’è E .esso di rallegrarsene in un suo pub-scritto scrivendo che la scuola elementare non può e non dev’essere nè confessionale nè irreligiosa, ma estranea ai conflitti più gravi che affaticano il pensiero filosofico e la vita stessa della società, la Critica di Benedetto Cróce ha nel suo fascicolo di gennaio una postilla in cui si dà al Caggese del massone e del paranoico (nientemeno!).
Noi troviamo'il pensiero dell’egregio prof. Caggese semplicemente cristiano. Anche quel famoso Crocifisso, .in cui si vuol vedere la più completa espressione del cristianesimo, in sostanza, non è che un prodotto del v secolo, dovuto ad una ragione ecclesiastica all’eresia monofisita. Le deviazioni strane del cristianesimo nel medio evo condussero poi alla esagerazione del primitivo simbolo per regalarci quegli orribili cristi medioevali dei quali fu afflitta specialmente la ¿Rancia. Non parliamo di altri simboli religiosi che saranno cristiani quanto ij famigerato scapolare del bandito... calabrese. Noi pensiamo col Caggese che la infanzia debba essere educata alla bontà senza essere indirizzata a concezioni • più o meno superstiziose. E la bontà è cristianesimo, come è cristianesimo la bellézza,-la. gioia.. . tutte cose che sono da darsieai bimbi in gran copia: « lasciale che vengano a me questi pargoli'. ». . . •
S. Bridget.
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Pubblicazioni
pervenute alla Redazione
VOCI E PROPOSITI CRISTIANI DI PACE
Due congressi cristiani.
« È la guerra una necessità permanente? ». Fu questo l’argomento discusso nel Congresso Cristiano tenuto a Liverpool nel febbraio scorso. Coloro che ritengono clic l’abolizione totale della guerra c ancora assai remota, fecero rilevare che, nell’ipotesi migliore della costituzione di un arbitrato internazionale, è pur necessario che essa possa disporre di uno strumento efficace per dare esecuzione alle sue decisioni: ed ecco la forza armata rientrare per la finestra. D’altra parte, contro l’affermazione che la pace infiacca le nazioni, e la guerra le rinvigorisce, fu protestato da parecchi oratori, che osservarono come le vittorie pacifiche e continue di scienziati, medici, infermieri, minatori, pompieri, marinai, operai del servizio sociale, ci presentano ogni giorno esempi di eroica fortezza e devozione alle grandi cause. Il presidente. Sir E. Russell, riassunse il risultato del congresso, come un’espressione di fede nei grandi ideali e nel loro trionfo per opera dei maestri morali della nazione. Aggiunse, che per un’istituzione che sembra evidentemente basata sulla negazione della morale, egli non poteva ammettere alcune giustificazione: e fece notare, che solo sei mesi prima che in Inghilterra fosse definitivamente abolito il duello, si riteneva che qualunque tentativo in tale direzione sarebbe stato vano: « Così — egli terminò — è lecito sperare che un cambiamento -radicale e sollecito si verificherà anche per riguardo alla guerra ».
Un altro congresso tenuto in Cambridge un mese prima, aveva pure discusso il problema della guerra alla luce della dottrina di Cristo. Ad esso intervennero uomini e donne di tutte le diverse chiese cristiane, che si trovarono uniti nella convinzione che la guerra è contraria all’idea di Cristo, e perciò proibita ai Cristiani. Il presidente Dr. Nodgkin fece nel suo indirizzo inaugurale risuonare la nota dominante del Congresso, dichiarando che essi non volevano il « pacifismo », e molto menò la « neutralità », ma una pace concepita come una forza positiva: una pace concepita come Amore. Non quell’amore di cui si parla quando si dice che dobbiamo amare anche i nemici nell’atto di ucciLibri, opuscoli ed estratti :
— Adriano Tilgher, Pragmatismo'trascendentale. Fratelli Bocca, editori, Torino, 1915. Pagine 390. L. 5.
— Dott. Alfonso Pistelli, I documenti costantiniani negli scrittori ecclesiastici. Contributo per la fede storica di Eusebio. Firenze, Libreria Ed. Fiorentina, 1914. Pag. 75. L. 2.
— Il Dogma dell'alta magia di Elifas Levi, in cui si rivelano gli sconfinati poteri della umana volontà e nella sapienza antica si ritrovano le fonti della conoscenza. Casa ed. «Atanor» di Todi, 1915. Pag. 200. L. 5.
— Luisa Giulio Benso, La-cordaire ed i suoi tempi. Firenze «Rassegna Nazionale». 1914. Pag. 190. L. 2,50.
— Mario Puccini, Faville. Milano, Studio editoriale lombardo, 1914. Pag. 162. L. 2.50 (Rilegato).
— Mario Rapisardi, Giobbe. Trilogia. Sandron ed., Palermo, 1915. Pagine 270. L. 2,50.
— Mario Rapisardi, Giustizia ed altre poesie politiche e sociali. Leone. Le epistole. Sandron ed., Palermo, 1915. Pag. ne 160. L. 1.
— Giulio Orsat Ponard, Vocabolario delle idee. A. Vallardi ed., Milano, 1914. Pag. 770. L. 4,50.
— Mezzo secolo di vita italiana (1861-19»')- A. Vallardi, ed., Milano. Voi. in 40 grande, con numerosissime illustrazioni. Pag. 215. L. 7,50. (Rilegato).
— Guglielmo Quadrotta, Il Papa, l'Italia c la guerra; con Srefazione di Francesco Scauto. Ravà e C. ed., Milano, 19'151 Pag. 170. L. 2.
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— Lettere dei morti: Cavour a Salandra - Mazzini a Marco-ra - Leone papa a Benedetto Eapa - Bismarck a Bulow -. Marx ai Signori della Direzione del P. S. I. - Carlyle a Maeterlink - Depretis a Giolitti - Cavallotti a Sacchi. Ravà e C. ed., Milano, 1915. Pag. 104, L. 1.
— Francesco Orestano, Verso la nuova Europa. Pag. 130. Le 2— Leonida Andreieff, Il Belgio vivrà. Prima versione dal russo, di Markoff e Morselli. C. A. Bontempelli, ed., Roma, 1915. Pag. 140. L. 2.
— Mario Falchi, h tuo regno venga. Quand’è che si potrà parlare di « Civiltà Cristiana». Associaz. Stud, per la Cultura relig. editrice. Napoli, 1915. Pag. 31. L. 0,50.
— Pendant la guerre. Discours prononcés à ï’Oratoire et au Foyer de l’âme, Paris. (4* serie). Paris. Fischbacher, 1915. Pag. 103. L. 1,25.
— Dr. Bruno Galli-Valerio, Per la giustizia e per la neutralità armata. Sondrio, 1915.
— P. (’Eremita. N. Cavaglià, A. Favero, P. Alessio; Paschale Praeconium. Torino, 1915.
— Parroco Raffaele Preiti, Della natura del protestantesimo. Monteleone Cai.» 1912.
— Parr. Antonio Marchetti, La Chiesa Parrocchiale di san Lorenzo martire in Faenza. Appunti storici. (Dal Bollett. Diocesano di Faenza, fase. II, i9>5— Nino Cavaglià, Saggia follia. «Fede e Vita» editrice. Napoli, 1915.
— Emilio Boch, Cieli nuovi e terra nuova. Roma. 1915.
derli, ciò che è un controsenso; ma un amore interpretato alla luce della vita di Cristo e che non può conciliarsi con l’odio dei nemici della nostra patria. « Noi dovremmo — egli disse — abbracciare la via del sagri-fizio come Gesù la abbracciò, con la certezza che essa è la via migliore: anzi l’unica via ».
Fra altri oratori, il Dr. Orchard parlò del carattere apocalittico della presente condizione del mondo, pronunziando una irruzione dello spirito e del potere di Dio simile a quello della Pentecoste, di S. Francesco, di Wesley: puché non manchino quelli che si arrendano senza riserva al suo servizio.
La questione del rapporto fra la guerra e altri problemi sociali sollevata da parecchi membri del congresso fu ampiamente discussa da Mr. Heath, direttore del famoso Selllement di Toynbee Hall, che propose l’arruolamento di un’armata di giovani, uomini e donne, che fossero disposti a « sagrificare per Cristo tanto, quanto i soldati sagrificano al presente per la loro patria ».
Si discussero proposte pratiche di propaganda, e si decise che l’opera di opposizione alla guerra, e per affrettare la pace dovesse compiersi, non già attraverso il meccanismo politico, ma per mezzodì un cambiamento dei cuori. « Poiché la soluzione del problema è riposta nel seguire individualmente Cristo, a qualunque costo... »
Il pensiero di Norman Angeli.
Un referendum, sull’argomento: « Come ottenere la pace, dopo la presente guerra », è stato promosso dalla «Cristian Commonwealth ». Dal significativo Symposium estraggo alcune risposte.
Norman Angeli, il noto autore della « Grande Illusione » scrive fra altro: « La manifattura e il controllo degli armamenti dovrebbero esserejaflidati ad una lega mondiale. Ma il primo passo dovrà essere diretto verso la creazione di una alleanza internazionale pacifica di otto o dieci Potenze, che s’impegnino all’azione concorde per la difesa contro ogni attacco. Sul principio, gli armamenti e tutte le questioni d’indole interna dovranno rimanere di spettanza delle singole nazioni: solo l’alleanza produrrà un’azione collettiva >er la preservazione della, pace... Quanto al convincere e nazioni che la guerra é un mezzo folle di risolvere e differenze fra Stati, l’unica via è l’esame, la discussione, il fermento intellettuale ». Quanto alla domanda proposta dal Referendum, in quale maniera sia possibile presentare il messaggio Cristiano di pace e di buona volontà, come un comando rivestito di autorità, egli risponde: « Forse, il messaggio di Gesù comince-rebbe ad avere per noi un altro significato, se noi cessassimo di considerare Gesù come un mattoide, per ciò che riguarda i rapporti della sua dottrina con la sociologia e con la politica. Se noi ci potessimo indurre a discutere il Discorso del Monte come una proposta seria (ciò che non abbiamo mai fatto) vi sarebbe qualche speranza di comprendere, in che modo le realtà più
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profonde della natura umana agiscano, se applicate ai rapporti sociali. Se qualcuno credesse che noi abbiamo accordato la minima considerazione ad alcuni consigli di contenuto sociale e politico suggeritici da Gesù, faccia pure l'esperimento. Metta questi consigli sotto una veste moderna, in modo che nessuno possa riconoscere la loro origine, e poi li proponga in una pubblica adunanza, in cui si discutano i problemi relativi alla guerra, dandoli come una soluzione delle nostre difficoltà. Supponete che la proposta fosse fatta da un membro del Parlamento: naturalmente egli dovrebbe rassegnare le proprie dimissioni. E se la sua professione giungesse fino alla stampa, egli perderebbe per tutto, il resto della vita l’opportunità di rendere qualunque servizio alla sua patria in una funzione pubblica. Questo può dare un'idea di quello che siano le nostre vere opinioni riguardo la messa in pratica degli insegnamenti di Cristo. Non solo noi neghiamo di praticarli, bensì ci ricusiamo perfino di discuterli. Ecco quale sarebbe il passo pregiudizial** da fare, prima di pensare al modo di presentare la dottrina di Gesù in veste di comando e di autorità ».
Lo stesso Norman .Angeli, in un recente discorso tenuto in un meeting di Friends (Quackeri) ha detto fra altro: * Questa guerra non finirà le guerre, e neppure porrà fine ai militarismo. Non sarà un’armata che potrà farla finita con le armate e con gli armamenti: sarà invece ogni umile, maestro che si sforzerà di comprendere la vita, di comprendere quali sono le vere leggi che la governano, e di aiutare gli altri a formarsene una chiara idea.
... Certamente noi andiamo incontro a una crescente e irosa domanda di vendetta. Voi dovrete schierarvi per le verità eterne e far presente che questi sentimenti non sono giusti. I.e Chiese tutte dovranno fare il loro dovere; con pena, e affrontando le difficoltà dei dettagli della propaganda; con la scienza della comprensione e della persuasione.
Voi dovete continuare a dare la vostra testimonianza sorretti dalla • luce interiore • c dagli argomenti esterni: e credo che voi siete destinati a mostrare al mondo, cerne in mezzo allo scompiglio ed al caos generale, lo spirito dell’uomo e la sua incoercibile coscienza possono rimanere ritti, più grandi e più forti che qualunque strumento di distruzione».
Come ottenere la pace dopo questa guerra?
Clifford Alien, segretario del giornale socialista londinese The Daily Citizen, risponde allo stesso referendum augnando—come primo passo — la nazionalizzazione manifattura di armi; l’estensione dell’istruzione che renderebbe cosciente dei suoi interessi e dei mezzi di tutelarli quelle masse che dalla guerra tutto hanno da perdere e nulla da guadagnare; e soggiunge, quanto al mezzo di fare acquistare autorità al messaggio cristiano: «Bisogna che le Chiese gettino via la loro divisa di classe: bisogna che la santità della vita umana, gli
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L'abbonamento alla Rivista deve pagarsi in anticipo.
Molli nostri lettori hanno fatto il loro dovere senza attendere sollecitazioni e ne li ringraziamo.
Ai molti altri, che, col non avere sin qui respinto la Rivista, hanno manifestala l’intenzione di continuare il loro abbonamento, rivolgiamo calda preghiera di non tardare più oltre ad inviarci il modesto imporlo, evitando di costringerci a valerci di tratte postali, come stiamo facendo per l’esazione dei nostri crediti presso un certo numero-di associati morosi del I914.
Egregio Professore e caro amicor
vedo pubblicata in Bilychnis del 31 marzo scorso la lettera con la quale, dietro di Lei cortese invito, ho, credo sufficientemente, spiegato il mio pensiero a riguardo d’una possibile coopcrazione di molti e molti ad un lavoro al quale da anni vado consacrando molta parte della mia attività ed al quale Bilychnis mi sembra guardare con simpatico interessamento. Avrei creduto però opportuno che la mia lettera fosse stata seguita da un apprezzamento della Rivista medesima, per prima cosa, e poi nella ipotesi d’un favorevole apprezzamento, da un invito rivolto ai lettori (ed a quanti s’interessano ai problemi toccati dalla mia lettera) perchè ciascuno volesse dire anche un po’ il proprio
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BILYCHNIS
Snsiero. Discusso e fissato iche con ritocchi) quel programma, si. sarebbero poi domandate adesioni. E dalle adesioni sarebbe potuta forse nascere una unione, non puramente ideale, con direttive e »lezzi propri atti all’incremento del comune lavoro.
La di Lei domanda « vuole intanto dirci... etc. », pareva preludere ad un qualche sviluppo delle idee da me toccate nella mia prima lettera. Ora che tutto sia finito colla pubblicazione della seconda che dice appunto, come Lei chiedeva, e dice molto, mi pare: sarebbe, credo, strano. Suppongo che Ella si riservi tornare e crederei lo suppongano altri e lo desiderino. Quanti almeno sono persuasi con me che agitare delle idee oggi non basti ma occorra incarnai le in organismi vivi e possenti.
Mi creda ancora e sempre, egregio Amico,
Suo con devoto affetto
Nel fascicolo di febbraio, pagina 166 (Cose nostre) pubblicando un brano d’nna lettera del nostro amico e collaboratore in cui era contenuto il primo accenno all’idea da lui sviluppata poi nel numero di marzo (pag. 243) noi scrivemmo poche paròle, dalle quali risultava chiaro l’invito ai nostri amici e lettori di intervenire nella discussione dell’idea lanciata in preparazione di qualcosa di pratico. Non abbiamo cambiato di parere. I lettori hanno sottocchio un primo abbozzo di programma (Bil. marzo, p. 243-248). Chi ne apprezza lo spirito e lo scopo si faccia vivo, con osservazioni, critiche, proposte, adesioni, che verranno qui raccolte.
A & &
Spesso abbonati e lettori, scrivendoci, ci parlano delle cronache sulla Vitalità e Vita
orrori della guerra, e le conseguenze disastrose di essa, divengano, da incidenti penosi che possono essere deplorati. ma che non sono ammessi come fattori preponderanti nelle decisioni riguardanti la soluzione dei conflitti, gli elementi decisivi in ogni questione: bisogna che in ogni nazione il Cristianesimo goda di tutte le opportunità per svilupparsi, ecc.... ».
Il sig. Harry Jcffs, vede in tutta la questione « un affare che riguarda le Chiese ». « Se esse dichiarano fallimento su questo punto — egli scrive — finiamola di parlare del Regno di Dio. Questo Regno verrà, ma Ser mezzo di forze al di fuori della Chiesa ». E il dottor 'rummond aggiunge: « Io non so pensare ad altro mezzo, che il rafforzarsi delle « Società per la pace », e il rendersi più insistente nelle Chiese della proclamazione del messaggio di un genuino Cristianesimo, conducendo così il popolo alla visione di ideali umani ben più grandi che quello dell’agiatezza, del lusso, e della possibilità di uccidere altri uomini per derubarli ».
Il Dr. Selbic, rettore del Mansfield College di Oxford, anch’egli, non crede che «• alcuna combinazione diplomatica o considerazioni di prudenza o d'interesse » possano influire validamente allo stabilimento della pace, se si prescinde da « quel mutamento radicale nell’animo degli uomini, che può essere operato soltanto dal Cristianesimo » « Tutto il futuro dipende — egli dice — dal grado in cui le Chiese Cristiane saranno capaci di assorgere all’altezza dell'opportunità che loro si offre... Ma certamente, il bisogno più urgente c la conversione di queste stesse Chiese ad una comprensione e ad una accettazione più radicale del Vangelo... ».
E il sig. Hamilton Archibald riassume così le sue vedute: « Il giorno della fratellanza mondiale si avanza lentamente, ma indubbiamente. L’idea si energicamente espressa dal Treitschke, che non vi potrà esser mai una nazione coestesa all’umanità, può anche esser vera, ma, se la vita del Nazzareno significa qualche cosa, essa è una testimonianza a favore della fratellanza umana. Ed io sono certo, che questa guerra, mentre ostacola il progresso di essa, affretta però il suo sviluppo: per quanto, lo spirito di pace e di buona volontà non conosca una via regia... ».
L’unica via!
Sulla stessa Christian Commonwealth, Edward Carpen-ter, un socialista cristiano, accagiona il xcommercialismo» e il » capitalismo » di tutti gli orrori della società presente, in guerra ed in pace. Ecco alcuni tratti della sua acerba condanna: • Acquistare concessioni di raoidchouc, miniere di oro, e di diamanti nelle quali sia possibile sfruttare il lavoro degli indigeni nel massimo grado; assicurarsi colonie in cui gigantesche imprese capitalistiche riescano a ottenere dividendi enormi; schiacciare qualunque altra potenza che si opponga a queste ambizioni voraci e disumane: sono questi i motivi delle guerre di oggidì, come i motivi delle guerre primitive erano la rapina di armenti e di messi, il far
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bottino di mano d’opera sul cui lavoro servile i vincitori potessero sussistere. Noi non vediamo ora chiaramente questo intimo nesso causale, semplicemente perchè la causa giace nello stesso nostro sangue: perchè fa nostra vita privata è tutta fondata sullo stesso principio e ispirata dagli stessi motivi. 1,’unico scope degli individui è di trovare qualche operaio o gruppo di operai, una parte del valore del lavoro dei quali essi possano appropriarsi, ottenendo dalle loro azioni o dal loro capitale il 5, 6, 7, 10, 12 per cento. Uno sfacciato e svergognato parassitismo, è all’ordine — o meglio al disordine — della vita ordinaria. La rapacità da animali di preda, è appena velata, nella nostra vita sociale, da uno strato sottilissimo di sentimento « Cristiano » sbiadito, e da una rete di istituzioni filantropiche, che si suppone servano a beneficare appunto quelle vittime che noi abbiamo derubato. Fa maraviglia che questo spirito di avidità volgare, di rapacità spietata, che governa la nostra vita privata, e che carica di delizie e di tesori gli uni, senza riguardo agli altri a cui è sottratto un benessere a cui han diritto, abbia per epilogo uno scoppio di rapacità, di cupidigia e di violenza su larga scala, che ha per teatro la scena delle nazioni? Non giova a nulla il proclamare con un devoto accento nasale, che noi siamo in armi per farla finita con la guerra e col militarismo, e intanto continuare a incoraggiare nella nostra Chiesa, e nell’Impero, e nelle istituzioni, il commercialismo più sordido ed egoistico, che è nella sua intima essenza una guerra di un genere assai più vile e codardo di quella che è caratterizzata da scontri di truppe e da imperversare di fucili e di cannoni.
No; non vi è altra via: solo con l'abbandono generale <lel sistema attuale di capitalismo e commercialismo, il flegello della guerra potrà venire arrestato ».
Ci vuole fede nell’ideale!
Dalla pubblicazione « Pagine per il tempo di guerra » ( «Papers for War Time») estraggo alcune parole: • La sola condizione con cui è possibile alla Chiesa di accettare la presente guerra, senza apostasia verso il Signore e solo come il minore tra due mali, è che essa si dedichi immediatamente a scoprire qualche mezzo adeguato per esprimere la volontà di Dio in mezzo alla società.
Allora, il Regno di Dio diverrebbe, in un senso affatto nuovo, una realtà vivente nel mondo. Esisterebbe cioè una società visibile, a cui gli uomini porterebbero lo stesso amore e la stessa fedeltà che ora mostrano alla società terrena: essa diverrebbe la vera anima di una vita superiore nel Mondo ».
Nell’opuscolo 12® della stessa pubblicazione, così si risponde alla difficoltà che la guerra è radicata, come il male, nella stessa natura umana, e non è possibile estirpamela:
« Se voi credete che un male sia inevitabile, l’esperienza costante insegna che voi avete fatto un gran passo
nel Cattolicismo che il nostro Rutili redige. E, per ordinario, essi tributano lodi e plauso per questa parte della nostra Rivista. Recentemente, ad esempio, un ecclesiastico francese, particolarmente noto nel cam-Ì»o degli studi storici, definiva e dette cronache admirables, ed un religioso italiano, attualmente all’estero, aneli’esso notissimo e assai stimato le trovava di interesse eccezionale.
In questi giorni però la posta ci ha recapitato un biglietto, di cui non abbiamo potuto stabilire nè la provenienza nè il mittente, in cui lo sconosciuto ci dice che desidererebbe che il Rutili « nei suoi giudizi sul Cattolicismo si mostrasse più filosofo che polemista. Il filosofo deve più investirsi delle personalità che deve giudicare ». Ed aggiunge: « È gioia che non oso pretendere, conoscere il pensiero filo-sofico-religioso di questo valente e non spregiudicato giudice del cattolicismo cattolico romano ».
Poche parole di risposta e di commento:
In verità non sappiamo a che si riferisca nè di che si dolga l’anonimo scrittore, che dei resto ringraziamo vivamente dell’interessamento per l’opera nostra. Le « cronache » che veniamo pubblicando non sono e non debbono essere una cronologia arida o una materiale esposizione dei fatti; esse vogliono essere una esposizione critica, un commentario dei fatti stessi, fi perciò che son largamente documentate perchè il giudizio a volte aggiuntovi non abbia a parer cervellotico o frutto di pregiudiziali, ma scaturiente dai fatti stessi. Non è dunque polemica la nostra — non lo sognamo neppure — ma disamina. Ed a volte, lo creda il cortese anonimo, i giudizi dovrebbero essere ancora più rudi. Sé egli vorrà fornirci dei documenti
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dell'autorità o della stampa cattolica che per avventura ci fossero sfuggiti e che contraddicessero alle nostre deduzioni ed ai documenti da noi pubblicati ne saremmo ben lieti e non mancheremmo di rilevare il dualismo, come spesso abbiamo fatto.
Esposti i fatti documentati lasciamo al lettore di « filosofeggiarvi » su. Sulla scelta dei documenti è evidente che teniamo conto dei più significativi e non possiamo arrestarci troppo sulla enorme massa degli insignificanti c degli a-morfi.
In quanto al pensiero filo-sofìco-religioso del redattore delle Cronache, non è nelle cronache stesse che possa farne un trattato, sebbene esso vi si riveli incidentalmente spesse volte. Ma se allo scrittore del biglietto, che ha «lato occasione a queste parole prende vaghezza di conoscerlo più a fondo, se è in buona fede, come non dubitiamo, scriva diretta-mente al Rutili (via Vespasiano. 12, Roma) e forse egli vorrà soddisfarlo.
Xa a
Per assoluta mancanza di spazio siamo costretti a rimandare la IX Cronaca al prossimo numero. In essa il Rutili tratta dei seguenti soggetti: II nuovo orientamento dell'azione cattolica in Italia : La religione degli assenti - La rigidità di Pio X e la duttilità di Benedetto XV - La « democrazia » cattolica - I semimodernisti in auge: Boggiano, Grosoli, Sturzo ed altri - Il programma dell’azione sociale clericale - Lo sfruttamento dei più umili. — Chiesa e Stato in Italia: Il papa di fronte allo Stato - Le trattative fra Governo e Vaticano in previsione d’una guerra - La legge sulle Guarentigie e la questione dèi ministri esteri presso la Santa sede. — Il clero italiano e la guerra nazionale:
per renderlo veramente inevitabile. Per esempio l’età in cui si nutrì l’idea che fosse impossibile convertire tutto il Mondo ai Cristianesimo, non poteva essere favorevole allo sviluppo delle Missioni. Non vi è una sola delle grandi crociate dell’umanità che non avrebbe potuto venir paralizzata da questa mancanza di fiducia nella vittoria del bene sul male.
Che sarebbe avvenuto della razza umana, se gli apostoli che proclamarono l’abolizione, per esempio, della schiavitù o delia poligamia, si fossero arrestati alla considerazione, che fino a quando ia lussuria e l’avarizia saranno radicate cosi profondamente nella natura umana, sarà vana impresa il tentare di rimuoverne le conseguenze sociali, e avessero proclamato, altro non essere esse, che « necessità biologiche ■», come il von Bernhardi definisce la guerra?
E un cambiamento di cuore, soltanto, che occorre. L'umanità deve sentire che negli ideali del passato vi era molto di spregevole, di arido, di banale, in confronto con i nuovi ideali che sono in gestazione; che le anime nobili e gl’ingegni più potenti sentano la seduzione delle grandi cause; allora queste diverranno grandi realtà...».
La “ non resistenza ” e l’attività dei Friends (Quackeri).
La società dei « Friends » (Quakers) prosegue a dare la sua testimonianza al principio della non resistenza non solo portando in numerosi meetings religiosi il suo originale contributo d’idee e di proposte, ma anche con una attiva organizzazione di « servizio sociale » a beneficio di tutti i sofferenti a causa della presente guerra. Diamo separatamenre qualche saggio delle due forme di attività.
Sul Friend organo dei Friends inglesi si legge: « Dando uno sguardo alla stampa « religiosa » inglese temiamo che sia altrettanto vero oggi quanto lo era 15 anni fa al tempo della guerra Boera, che cioè noi manchiamo di una guida morale. I discorsi dei condottieri, sì della Chiesa Anglicana come delle chiese Nonconformiste, sembrano contenere assai poco dello spirito profetico. Il pastore di una di queste chiese, in un meeting che si proponeva di ricercare quale sia il « dovere delle Chiese nella presente crisi », mostrò di non avere una parola da dire sui grandi principi morali che sono in questione. Egli ringraziò Dio perchè « noi, come nazione nulla abbiamo di che vergognarci », e insistè perchè le Chiese abbiano cura dei giovani che si trovano al campo e di quelli che si stanno addestrando per la guerra: questo solo.
Fortunatamente, vi sono eccezioni, specie in mezzo al clero giovane.
Compito della- Chiesa di Cristo dovrebbe essere, certamente, di dire e di dimostrare agli uomini di oggidì, che il presente cataclisma della civiltà è dovuto a una mancanza di fede: mancanza di fede in Dio, nel Cristo, nell’uomo; mancanza di penetrazione intuitiva e di confidenza nel potere e nell’efficacia della giustizia, dell’amore e della semplice verità. È stata questa man-
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canza di fede da parte della nostra nazione e di noi stessi, che ha trasformato la nostra lodevole « intesa * con la Francia e con la Russia in uno strumento per fronteggiare con la forza le naturali ambizioni piussiane: è stata una mancanza di fede da parte della Germania che l’ha gettata fra le braccia dei suoi condottieri militaristi, che rassicuravano che essa era accerchiata da Potenze cospiranti ad arrestare la sua legittima espansione, e che l’unico mezzo di guadagnarsi il suo « posto al sole » era la guerra. È stato il timore, il sospetto, la gelosia reciproca, che ha prodotto la folle gara degli armamenti e il ritorno alla baibarie, che nessuno degli statisti ha avuto il coraggio di osare di arrestare. Ed è questa mancanza di fede nella natura umana, che ha ora culminato in questo conflitto titanico... ».
Ecco ora alcune voci di meeting* di Friends. In quello tenuto a York presieduto dal deputato Rowntree, l’oratore, Mr. Dickinson, disse: « Noi accagioniamo la Germania della presente guerra. Ma quale Germania ? La massa della popolazione tedesca non fu meno sopresa di noi, di trovarsi in guerra. Questa fu cagionata dal volere di pochissime persone, da una gran dose di inconsideratezza, e da un po’ di cattiva volontà. La distinzione fra guerre aggressive e difensive può ben essere trascurata, dal momento che noi facciamo la guerra per impedire che una nazione divenga forte e « pericolosa ». Farla finita con la Germania, non significa averla fatta finita con i sospetti e le gelosie fra nazioni: del resto, la personalità e la nazionalità di un popolo non può essere distrutta, ma solo schiacciata temporaneamente.
È inutile rifare la carta geografica dell’Europa, se non presieda all’operazione uno spirito nuovo. E ciò che si suggerisce è: che si aduni un congresso di tutti gli Stati d’Europa, compresi gli Stati Uniti d’America; che i rappresentanti degli Stati siano liberi di trattare senza riferirsi ai loro governi; che tutte le decisioni siano prima discusse in ogni Parlamento •>.
Nel meeting di Manchester, fra altri, la signora Royden sostenne essere vano andare a caccia dell’uno o dell’altro testo del Vangelo per giustificare la guerra. « Tutta la vita e lo spirito di Gesù rendono testimonianza contro di essa: e ancor più. la sua immolazione. E fu appunto fino a che i primitivi Cristiani ebbero la forza di non opporre resistenza ai persecutori, che la loro fede conquistò il mondo. L’appello dei pacifisti non è quello di una neutralità negativa, bensì di una conquista appassionata della pace. Perchè qualche grande nazione non affronta a qualunque costo, il rischio della grande avventura dello spirito cristiano e non accetta il disarmo? ».
In un numeróso meeting di Friends tenuto in Londra» il prof. Franklin Argus di Cambridge, fece, sull’argomento delle conseguenze pratiche dell’atteggiamento di non resistenza, fra altre, queste riflessioni:
«... Noi dobbiamo, anzitutto, far violenza a quel senso di onore che noi tutti possediamo, e rinunziare alla difesa dei piccoli Stati. Dobbiamo inoltre sentirci
Timidi accenni - Il « patriottismo malinteso » - « Lo vogliamo di marmo! ».
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Il nostro egregio collaboratore dott. Antonino De Stefano che ha ripreso con ardore gli studi di storia medioevale di cui diede già anni or sono ottimi saggi, e di cui i nostri lettori hanno apprezzato il Saggio sulle eresie medievali pubblicato recentemente in Bilyehnis, ha preparato un nuovo lavoro che riguarda la storia medievale religiosa e che presto vedrà la luce nella nostra rivista: l’A. tratta in esso de « Le origini dei Frati gaudenti » e della loro organizzazione.
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Nel fascicolo di maggio Paolo Orano ci parlerà di « Dio in Giovanni Prati » regalandoci del poeta credente una lettera inedita che contiene una bella e « italiana confessione di Dio ».
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Terminato lo studio del Wigley sull’Jwtontó del Cristo, ne pubblicheremo uno scritto dal Breitenstein dell’Univer-sità di Ginevra appositamente per Bilyehnis su La santità di Gesù. Eccone il sommario:
Introduzione: In che modo s’intende affrontare il problema -1. La Santità di Gesù negata. La teoria del Pécaut, del Giran, del Drews-II. Le varie spiegazioni della Santità di Gesù. Gesù, l’uomo del dovere? Gesù un superuomo? Gesù un ottimista? - Conclusione: Le due ipotesi sole possibili.
Come promettemmo sin dal numero di dicembre scorso siamo andati pubblicando in questi mesi obbiettivamente scritti contenenti l’espressione del pensiero, del sentimento, lo stato d’animo di cristiani e di
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idealisti in questa tremenda crisi. Non ci dispiace affatto d’esserci accinti alla non facile impresai di documentare la variazione dell' esperienza religiosa in questa immane guerra. Nè crediamo sia ancor giunto il momento di sospenderla. Continueremo la raccolta, che sarà fatta — come sino ad oggi — di scritti tratti da giornali, riviste e libri esteri ed italiani e di articoli originali, dettati appositamente per Bilychnis da nostri amici e collaboratori. S’intende che la pubblicazione di tutti quei svariati documenti non vuol dire adesione della Rivista a tutte le idee o sentimenti espressivi. Ieri, tra l’altro. dando la parola al Ro-sazza, udimmo la voce d’un cristiano nazionalista; oggi siamo lieti di raccogliere quella dell’on. Giretti, cioè d’un idealista pacifista favorevole all’intervento dell'Italia nel conflitto. Domani sentiremo quella d’un pacifista assoluto, d’un cristiano che s’attiene fermo al principio della non resistenza, k suo tempo chiuderemo l’inchiesta e faremo le nostre considerazioni e si vedrà allora che quest’inchiesta non è affatto inutile, anzi!
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Abbiamo pronto uno studio in cui il nostro collaboratore dott. Giovanni Costa passa in esame le più recenti opere riguardanti la storia del Cristianesimo nell’epoca imperiale. Ecco i soggetti trattati nel dotto lavoro: I. Roma e i Giudei - 2. La germinazione giudaica del cristianesimo: la « secta » - 3. I.’individuazionc religiosa del cristianesimo: la « religio ».
separati dalla nazione in uno dei momenti piu nobili della sua stona, in cui i più avversi al militarismo hanno riconosciuto come un dovere di prendere le armi. Dobbiamo immaginarci, che mentre noi ci crediamo di professare la santità, la figuia che facciamo è di vili che si sottraggono al pericolo, e osano di parlare mentre stanno al sicuro e protetti. Se noi c’illudiamo di avere alcun diritto ad una vita comoda e agiata, la nostra posizione è del tutto falsa. Giacché, se altri non ci avessero Erotetto, noi ci troveremmo ora nella condizione del elgio. Noi diciamo, implicitamente : « Siano grazie a Dio e alla Flotta per il nostro pranzo ». Noi cerchiamo protezione dietro una siepe che. in massima, non riconosciamo. Ricusando di combattere, noi veniamo a professarci gli schiavi del nostro prossimo. Supponiamo che fosse proclamata la coscrizione militare obbligatoria, e che anziché riuscire a sottrarci ad essa accampando ragioni di coscienza od altre, il Governo ci chiedesse una garanzia della nostra buona fede- non dovremmo noi esser pronti allora a rinunziare ai nostri diritti civili, a perdere forse, il diritto di votare; a pagare una tassa di rendita quattro volte maggiore degli altri; a mostrare in qualche modo che noi non vogliamo sottrarci alle nostre responsabilità nazionali? Ecco alcune delle conseguenze logiche del principio della nonresistenza. Esso ci domanda di esser pronti a rinunziare al nostro diritto di proprietà come cittadini, e se occorra, a tutto quello che possediamo. Ma non furono forse tutte queste conseguenze previste da Cristo, quando disse: « Chi non odia padre, madre, sposa, figli, fratelli e sorelle, anzi, chi non odia la sua stessa vita, non può essere mio discpolo? ».
Se queste sono le difficoltà che s’incontrano nel seguire in modo coerente una delle sue direttive; pure è ben su questo sentiero che Egli ha posato i suoi piedi. Egli pagò del suo per i principi che insegnò ».
E, dopo di lui, il sig. Paton aggiunse: « Non ci dimentichiamo, che se il nostro servizio volontario a Cristo e ai fratelli dovesse per noi riuscire più lieve ed agevole di quello che sia il servizio militare, ciò mostrerebbe che c’è qualchecosa che non va! Può essere che giunga l’ora, in cui sia doveroso di unirci tutti contro il pagamento delle tasse che servono a mantenere la manifattura degli armamenti. Dovremo allora mostrare che noi siamo sinceri ».
E, un altro Friend, Clifford Alien, scriveva contemporaneamente sul Daily Citizen facendo la proposta di risuscitare la pratica dello sciopero generale, quale espressione efficace, benché evidentemente pericolosa nel regime di legge marziale, della non-resistenza. Lo stesso dimostrava che chi anche solo ammette la possibilità di dare alla guerra una base morale, la rende inevitabile, formando alleanze, stringendo contratti, proponendosi scopi, la cui violazione viene poi difesa a nome della moralità, mentre non si tratta che di un interesse egoistico.
Non tutti però i membri della società dei Fricnds, hanno, in presenza del grande cimento, conservato la
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.... Gesù si mise risolutamente in via per andare a Gerusalemme. E mandò davanti a sè dei messi i quali, essendo partili, entrarono in un villaggio dei Samaritani per preparargli un alloggio. Ma quelli non lo vollero ricevere perchè era diretto verso Gerusalemme. E Giacomo e Giovanni, suoi discepoli, veduto ciò, dissero: Signore, vuoi che diciamo che scenda del fuoco dal cielo e li consumi, come fece anche Elia? Ma egli, voltatosi, li sgridò e disse; Vói non sapete di quale spirito siete animati.
(Luca, IX. 51-56).
LOVAN1O
(Dal Graphic).
Ed io vi aveva detto: Amateci gli uni gli altri.
(I9I54V]
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1 Padre, perdona loro perchè non sanno quel che fanno
Gl. effetti di un obice In un convento a Nleuporl.
<l)a una fotografia).
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LA GUERRA
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fedeltà al principio della non-resistenza. Una liève minoranza dei giovani ha creduto suo dovere di rispondere all’appello della patria, e di arruolarsi nell’armata. Questo fatto, nuovo nella storia dei Friends ha suscitato la discussione, se costoro debbano considerarsi ancora come membri della Società.
In una numerosa • adunanza mensile e dei Friends tenuta a Birmingham, fu all’unaminità approvata la relazione del comitato, in cui si giudica in questi termini della deiezione parziale: « ... Il giudizio più sicuro, è, che questi membri che si sono arruolati hanno agito in maggioranza per un vero senso del dovere: c possiamo credere che la loro ubbidienza a quella che essi credettero una chiamata alla propria immolazione sarà per essi un mezzo di avanzamento e di maggior luce nelle vie di Dio...
Ma non possiamo, tuttavia, non riconoscere che la loro condotta ha compromesso gravemente la testimonianza resa dalla società dei Friends, specie per ciò che riguarda il caratici e essenzialmente pacifico del Regno di Cristo. Ognuno che entri nell’armata, prestando giuramento di ubbidienza, consegna la sua coscienza senza riserva alcuna nelle mani di un’altra persona, nè può più ricusare di compiere l’azione ordinatagli dal suo superiore, per quanto sia essa in opposizione con la sua coscienza. Ora noi crediamo, che l’alienazione di uno dei più preziosi doni di Dio sia disatrosa e riesca alla negazione del principio fondamentale proclamato dai Friends. È inoltre cosa ovvia, che chi si arruola nell’esercito si arruola per un’opera di uccisione: opera Suesta in pieno contrasto con la fedeltà al comando di risto e al concetto che i Friends hanno della natura della personalità umana. Per queste ragioni, ci sembra che il servizio militare, in qualunque forma, sia incompatibile con la condizione di membro della società dei Friends. E crediamo che, per non far torto a quei membri che hanno mantenuto la loro testimonianza, e a coloro che, fuori della Società nostra, ci chiedono ansiosamente di dirigerli nel cimento, la nostra ■ adunanza mensile » debba nettamente dichiarare che noi non possiamo ritenere permanentemente fra i nostri membri coloro che dimostrano con la loro azione di differire da noi in materia così vitale ».
Seguono disposizioni pratiche, dirette a comunicare ai membri che si sono arruolati questa decisione, tenendo conto che chi ha già preso l’impegno non è più libero di recedere, e che alcuni, dopo avere sperimentato che cosa sia la guerra, potranno ritornare a una professione anche più ardente dei principi temporaneamente abbandonati.
Questa decisione, alla sua volta, ha suscitato parecchie critiche da parte di alcuni mèmbri adulti dei Friends. Eccone alcuni saggi: • Noi dobbiamo fare distinzione, dice W.. Perkins, fra guerre di aggressione cupida e guerre per la protezione degli innocenti e dei deboli. E ben lecito di non resistere quando si tratta dei diritti e privilegi nostri, ma non mai certamente quando si tratta di proteggere i membri più delx>li della comunità.
LIBRERIA EDITRICE “ BILYCHMS ”
Via Crescenzio 2. ROMA
(Novità). Gaetano Salvemini: Mazzini. Catania, 1915. Volume di pag. 200. L. 2,50. -Estero L. 2,75.
Parte prima. Il pensiero: Il criterio della verità - Le <■ basi di credenza » - La educazione del genere umano - Le religioni del passato - La discordia è per ogni dove - La nuova rivelazione - La nuova dogmatica - La nuova morale: il dovere - La nuova politica - Le repubbliche unitarie e democratiche - La teocrazia popolare - La teoria delle libertà -Le rivoluzioni nazionali e democratiche - La missione dell’Italia - La terza Roma-Carattere religioso del mazzinia-nismo.
Parte seconda. L’azione: Influenze immediate e influenze mediate - Insuccesso della predicazione religiosa mazziniana - Unità e repubblica nel pensiero mazziniano - Unità e repubblica nell’azione mazziniana-Mazzini egli altri repubblicani - Mazzini e l’Unità d’Italia - Mazzinianismo e Socialismo: le analogie - Mazzinianismo e Socialismo: le opposizioni - Il mazzinianismo sociale nel risorgimento italiano.
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[Novità]. Guglielmo Quadrotta. Il Papa, l'Italia e la Guerra. Con prefazione di Francesco • Scaduto. Milano, 1915. Voi. di pag. 175- L. 2.-Estero L. 2,25.
Sommario: La chiesa romana alla mòrte di Piò X -Il conclave di Benedetto XV -La figura de) Papa e la sua preparazione politica - I.a caduta del potere temporale e la politica ecclesiastica del nuovo regno - La legge delle Guarentigie e il suo valore-Il Vaticano e la partecipazione dell’Italia alla guerra delle na-
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BILYCHNIS
zioni - Benedetto XV e l’Italia-li papato in Europa -Documenti.
(Novità). N. Turchi. La civiltà Bizantina. Torino, 1915. Volume di p. 330. L. 5. - Estero L. 5.50.
Sommario: Introduzione -1 caratteri della civiltà bizantina - L'economia commerciale ed agricola dell’impero bizantino- I.e fasi della storia politica di Bisanzio - La letteratura bizantina - La religiosità bizantina-Un patriarca bizantino nel sec. IV: S. Giovanni Crisostomo - L’arte bizantina.
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Introduction à l'Ancien! Tes-tarnent par Lucien Gautier de l’Uni versi té de Genève. Seconde édition revue. Lausanne, 1914. Due grossi volumi in-8° di oltre 500 pa-Sine ciascuno. Prezzo dei
ue voli, a Roma L. 22,75; in Italia L. 23,25.
Religione e guerra
Alle pubblicazioni riguardanti questo soggetto da noi annunziate nel fascicolo di febbraio p. 170-171, c che abbiamo in deposito, si aggiungano le seguenti:
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(Novità). Pendant la guerre, 40 volumetto, contenente queste prediche: La loi du sacri lìce, di H. Monnier; L’étoi-le de Noèl, di C. Wagner; En perdi tion, di W. Monod; La Marche en avant, di J.-E. Roberty; Un mot d’ordre Kur 1915, di J. Bianquis;
iter dolorosa di A. W. d’Aygalliers. - Anche questo, come i precedenti, tre volumetti, costa L. 1,25.
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(Novità). Abbé Thellier de Poncheville, Patir ceux qui lullent, pour celles qui soufNoi non possiamo tenerci da parte quando si tratta di donne oltraggiate, di fanciulli affamati, di trattati violati, e di un militarismo che ammorba l’aere come una malattia contagiosa. Potremmo noi permettere che il mondo sia reso schiavo di idee che sono micidiali alla libertà del corpo e dello spirito? In un mondo tale, nessun’anima potrebbe essere salva... ■ Ed Albert Wilson, in altra lettera, scrive: * ... So bene che alcuni Friends preferirebbero di venire uccisi anziché uccidere altri, o anche solo prendere le anni.. Ma sarebbero essi disposti a rimanere spettatori e tollerare la violazione, il massacro delle loro mogli e figlie, se essi potessero scongiurare queste catastrofi, col solo mezzo dell’uccisione dei loro nemici? C’è qualche Friend che si senta di dare una risposta concisa a questa questione, il punto cruciale del problema?... Non pagano forse i Friends le tasse destinate agli armamenti? Protestarono, i critici di oggi, contro l’uso della forza per imporre al-l’Ulster (la provincia protestante d’Irlanda) VHomc Ruleì... In questa differenza di opinioni, conserviamo la carità, e sopratutto la pazienza» Un altro Friend, Frances Smee fa appello al principio mistico professato dai Friends • della luce interiore », e scrive « ... Chi conosce intimamente questi giovani che si sono arruolati, è stato colpito assai dalla serietà e gravità con cui essi hanno deciso di seguire la guida della loro « luce interiore ». Lasciamo che questa luce dia la sua testimonianza e che li guidi, anche se per vie che non tutti Eossono seguire. Abbandonare la casa, la moglie, i figli, none situazioni, e soffrire terribili privazioni, non è cosa che si decida in un momento di precipitazione...
Si comprende come, di fronte a questa divergenza di opinioni, anche i Friends sentano il bisogno di maggiore luce, e di investigare più intimamente ciò che lo spirito del Cristo voglia dar loro: e non farà maraviglia se nell’ultimo numero di gennaio della loro rivista si leggeva la seguente strana inserzione: « Si desidera, allo scopo di raggiungere la verità in rapporto alla guerra, di conoscere le ragioni per cui il < Discorso del Monte ». non si può applicare nelle condizióni presenti. Scrivere al numerò 5705. presso gli editori
Ma i Friends non si,limitano ad astenersi e a prote stare.
In ogni numero della stessa rivista, il Friend, si legge, sótto il titolo di « Servizio pacifico della società dei Friends», la seguente dichiarazione.
« Fin dallo scoppiare della guerra, noi abbiamo suggerito che il dovere della società dei Friends nel momento presente è triplice: di dar testimonianza al principio della pace: di preparare la ricostruzione sociale dopo la guerra; di assumersi un compito di servizio sociale allo scopo di mantenere la buona volontà e il benessere della nazione, e di recare soccorso a tutti i sofferenti e tribolati, sia in patria che all’estero. In questo programma di servizio pacifico, tutti i Friends, e
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quelli che con essi simpatizzano possono unitamente cooperare nel vincolo di uno stesso spirito. • Vi sono molti problemi che non sono suscettibili di soluzione, eccetto che nella vita pratica ».
Abbiamo già dato un accenno, in altro numero e nel presente, al modo con cui i Friends adempiono ai due primi doveri. Diamo ora una breve notizia delle loro attività di « servizio sociale »:
i° Essi hanno costituito un corpo numeroso di ambulanza, che presta servizio sia sul fronte di battaglia che in diversi ospedali. (Noto specialmente quello di St-Pierre presso Dunkirk per i soccorsi più urgenti. Nel bollettino del 25 dicembre, per esempio, appare di già la cifra di circa 7000 feriti curati, trasportati, ecc.).
2® Con un « Comitato per il soccorso degli Stranieri» (gli aliene appartenenti a nazionalità con cui l’Inghilterra è in guerra) i Friends soddisfano ad una delle più elevate opere di misericordia, prendendosi cura delle famiglie residenti in Inghilterra, di tutti i sudditi di nazioni nemiche, ora internati in « Campi di isolamento ». S’indovina la vastità, la complessità e la efficacia della loro attività benefica.
3° Un sottocomitato visita periodicamente i venti e più mila « stranieri » internati in 25 diverse località c procura di prestar loro tutto il conforto e i servizi che possono alleviare la penosa situazione.
4® Più vasto di ogni altro è il ramo di attività chiamato « Comitato per il sollievo delle vittime della guerra », che opera nelle nazioni devastate dalla guerra. Magazzini di vestiario, utensili, ecc. Squadre di operai per ricostruire o costruire ricoveri temporanei pei « senza tetto », ospedali di maternità, distribuzione di viveri con automobili volanti pei luoghi di maggiore miseria: basta enunciare questi titoli di alcune delle forme di soccorso delle vittime della guerra, per comprendere come « vi sia il modo di prodigare la propria vita a difesa della patria e dei principi sovrani'dell’umanità, senza bisogno di togliere la vita ai nemici della nostra nazione ».
Contemporaneamente, in un campo del Buckin-ghamshire, una, schiera di giovani Friends si sta addestrando per il lavoro che s’imporrà dopo la guerra, sotto la direzione del sig. E. Elcock, un esimio architetto. Essi imparano a riparare e riattivare le vie, purificare le acque, ricostruire le case demolite, prevenire le malattie, rendere abitabili di nuovo i luoghi devastati. Il loro è un tirocinio, pratico, per ogni genere di cognizioni che possa aiutarli a rendere questo « servizio pacifico », ed essere dei veri « amici ».
Ed alcuni si domandano di già: « Quando terminata la guerra, e ritornata quella che si è soliti di chiamare « pace » — mentre è in realtà una lotta continua benché meno sanguinosa — i superstiti dal macello internazionale saran tornati alla industria e al commercio, cioè a riprendere un altro genere di conflitto e concorrenza: quando sembrerà che di questa armata di ricostruzione sociale non vi sia più bisogno, che cosa avverrà di questi splendidi volontari dell’esercito del bene?
freni. Viatique de guerre. Paris 1915. Pag. 150. !.. 1,25. Sommario: Le Pater du soldat - Notre mère du ciel -Les mystères douloureux de la guerre - Les mystères glorieux - Pour ceux qui meurent -Tristesses et espérances -Pour celles qui souffrent au foyer - La mission de la Croix -Rouge.
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(Novità]. Mgr. L. Lacroix; Le Clergé et la guerre de 1914. Paris, 1915.- Pubblicazione periodica. Abbonamento a 20 fascicoli L. o - Sono finora usciti i seguenti volumetti: 1. L’histoire de la guerre - Comment la préparer.
2. Le Pape-3. Le clergé et l’Union nationale-4. Les prières publiques.
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[Novità]. Mgr. Mignot, Confiance, Prière, Espoir. Lettres sur la guerre. Paris, 1915. Pag. 60. L. 0,75.
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[Novità]. P. A. Oldrà, Perchè tanti flagelli? Pag. 35. L. 0,30. Del medesimo: Là preghiera per la pace. Pag. 43. L. 0,40.
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[Novità] A. D. Sertillangcs, La Vie Héroïque, Paris, 1914. Sono 20 «conferences données en T Eglise de Sainte-Madeleine, à Paris ». L. 6,50. Ecco i soggetti di alcune delle 20 conferenze: Ce que c’est que l’héroïsme; Le reveil de notre foi; Notre espérance; La charité et la guerre; La justice vengeresse; La justice pénitente; La force d’âme; La magnanimité; La gloire des morts; La vertu Îurificatrice de- la guerre;
.’amitié dans les luttes; La fraternité d’armes; Le noël français: ecc.
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(Novità] W. Monod. Le manifeste des Quatre-vingt treize. (Un cas psychologique). Paris, 1915. L. 0,50.
(Novità! L’Eglise et la guerre par Mgr. Batiffol, MM. P. Monceau, E. Chenon, A. Vanderpol, L. Rolland, ecc. L. 4. Ecco i soggetti di alcuni capitoli: Les premiers chrétiens et la guerre. Saint Augustin et la guerre. Saint Thomas d’Aquin et la guerre. Les applications pratiques de la doctrine de l’Eglise sur la guerre. Synthèse de la doctrine théologique sur le droit de la guerre, ecc.
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— Lettera Pastorale dei Vescovi Tedeschi sulla guerra. Trad. Ital. L. 0,30.
— P. A. Oldrà, La guerra nella morale cristiana. Torino 1915 L. 0,90.
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(Novità) H. Hoffding, Compendio di Storia della Filosofia Moderna, L. 5.
Teologia - Apologetica
(Novità) Georges Fulliquet, La doctrine du second Adam;
Etude anthropologique et christologique. 1 vol. in-8* *> di pag. 360. Genève. Paris, 1915. I- 5.30Sommario: Introduction. (Les textes pauliniens- D’où vient le parallélisme paulinien - Comparaison avec la christologie primitive). Première partie: Le premier Adam. L’affirmation religieuse sur l’homme et l’humanité - Examen scientifique de ces affirmations - Objections -Les données bibliques: les récits de la Genèse, La terminologie
Torneranno essi, prosaicamente, ai soliti negozi? O diverranno essi, invece, gli operai di un nuovo ordinamento sociale, basato sull’associazione e la fratellanza? Anche dopo ristabilita la pace, vi sarà un bisogno enorme di un’armata di ricostruzione: uomini e donne di buona volontà troveranno un larghissimo campo per una vita di intiera consacrazione al servizio dell’umanità... ». Cosi scrive, fra altri. Bruce Wallace nel suo « Brotherhood ». „ „
G. Pioli.
A FASCIO
I principali scrittori inglesi hanno indirizzato ai « Nostri colleghi russi » una lettera impressionante. • In questo momento ». essi scrivono, « in cui i vostri concittadini, come i nostri, affrontano la mortejper la liberazione dell’Europa, no; cogliamo l’occasione*per esprimervi sentimenti che da molti anni si trovano nel fondo del nostro cuore. Voi stessi non potete forse immaginare quale ispirazione gl’inglesi delle ultime due generazioni abbiano attinto alla vostra letteratura.
• Quando le nostre armate e le nostre flotte s’incontreranno vittoriose, e l’Occidente darà la mano all’Oriente nel compito di ricostruire il benessere di molti milioni di famiglie, la Francia e l’Inghilterra, certamente contribuiranno largamente con la loro buona volontà e saggezza, ma la vostra nazione avrà un contributo esclusivamente suo da apportare. Non è solo per la vostra bravura guerresca e pei vostri progressi nelle arti, nelle scienze e nelle lettere, che noi giubiliamo di avervi per alleati e per amici; ma è a cagione di alcune intime qualità russe, di qualche cosa, insieme, di profondo ed umano, di cui questi successi sono il risultato e l’espressione.
• Voi siete entrati, come noi, in questa guerra, per difendere una nazione debole e minacciata che si affidò a voi, contro l’ingiusta aggressione di una forte potenza militare; voi, come noi, l’avete continuata con una guerra di difesa e di emancipazione. Quando giungerà il termine e noi potremo di nuovo respirare, noi ci aiuteremo a ricordarci reciprocamente dello spirito con cui le nostre nazioni alleate presero le armi, e cosi lavoreremo insieme in un’Europa trasformata, per proteggere i deboli, per liberare gli oppressi, per apportare, al possibile, rimedio alle ferite infllitte all'umanità sofferente, sia da noi stessi che dai nostri nemici.
•Con assicurazione della nostra amicizia e gratitudine, ci firmiamo....»
Seguono i nomi di circa quaranta scrittori, tra cui il cattolico Chesterton, i romanzieri Wells, Nardy, Bennett, il Caine, il Murray, la Ward e la Woods).
Domenica 3 gennaio, tutte le Chiese della Gran Bretagna si sono unite in una umile preghiera ed intercessione per la situazione presente.
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In risposta all’invito del Cardinal Bournc, cattolico, dcll’Arcivescovo di Canterbury, e dei « leaders » delle Chiese Nonconformiste, anche la Chiesa di Francia si è associata alla preghiera. Cosi pure l’Alleanza Evangelica Mondiale ha indetto una settimana di preghiere universali, cominciata il 3 gennaio. Tutte le Chiese e denominazioni: Cattolici, Anglicani, Metodisti, Battisti, Congregazionalisti, Presbiteriani, Unitariani. Israeliti, Salvazionisti, si sono uniti in questo giorno solenne, ed hanno raccolto offerte, nelle loro chiese, a beneficio della « Croce Rossa ■ e dell’« Ambulanza di S. Giovanni ». Anche la Chiesa russa si è associata nell’alleanza spirituale alle nazioni a cui è alleata nelle armi nateriali. Così, il grido: «venga il tuo regno) • è stato l’espressione dell’avvento parziale di questo stesso regno che è « dentro di noi ».
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Il « Daily Citizen • riporta in un numero di dicembre la seguente lettera trovata a fianco di un ufficiale francese di cavalleria, morto in seguito a ferita ricevuta in un attacco. Essa era diretta alla sua fidanzata, una fanciulla americana, e fu raccolta dalla Croce Rossa insieme al cadavere dell’ufficiale. È un capolavoro di umanità.
«... Vicino a me giacciono due altri soldati» e credo che anche per essi vi sia poca speranza. Uno è un ufficiale di un reggimento scozzese, e l’altro un soldato semplice degli Ulani. Essi furono colpiti dopo di me, e quando io rinvenni li trovai curvi su di me, ad apprestarmi i primi soccorsi. L’Inglese versava, dalla sua boraccia, dell’acqua sulla mia gola squarciata, mentre il Tedesco si sforzava di arrestare il sangue con un preparato antisettico, di cui il corpo medico li fornisce.
« Lo Scozzese, un « Highlander », aveva una gamba fracassata, ed il Tedesco aveva ' diversi frammenti di bomba infitti nel suo fianco. Non curanti delle loro proprie sofferenze, essi si sforzavano di aiutarmi, e quando io fui pienamente rinvenuto, il Tedesco mi fece un’iniezione di morfina, e poi se ne fece una a se stesso. Il suo corpo medicò lo aveva provvisto di tutto; anche di una siringa per iniezioni. Dopo l’iniezione sentendoci molto sollevati, ci mettemmo a discorrere della vita che noi facevamo prima della guerra: parlavamo tutti inglese, e il nostro discorso cadde sulle nostre donne che avevamo lasciate in casa. Ambedue, il Tedesco e l’inglese, erano sposi solo da un anno: ed io...
«Ma per quale ragione mai noi combattevamo l’un contro l’altro? Io me lo domandavo’ e credo che gli altri lo chiedessero a se stessi... Intanto l’Highlander era caduto assopito per l’esaurimento, ed io me lo guardavo: egli, a dispetto del suo volto contratto e dell’uniforme imbrattata di fango, era la personificazione della libertà. Poi mi posi a pensare al mio tricolore, a tutto quello che la Francia ha sofferto per la libertà. Quindi Iiosai lo sguardo sul Tedesco, che aveva cessato di parare. Egli aveva cavato fuori dal suo zaino un libro di
de l’Ancien Testament, la terminologie grecque, la conception biblique, questions non résolues - Le problème du mal: Monde pénitencier, Evolutionnisme, Education par la souffrance, Lutte pour l’existance. Péché, Evolution, Inégalités -Le péché: Chute et péché, l’hom me pécheur. Seconde partie : Îfcsus le Second Adam. La 'aissance: L’hypothèse, contrôle de l’hypothèse - Vérification de l’hypothèse - Ce que l’hypothèse nous fait perdre-La préparation: l’enfance, l’adolescence, la conscience messianique, ecc., la tentation - Le ministère: la guérison des malades, la prédication, les disciples, la foule et les malentendus provoqués, ecc., la pers->ective de la mort-La passion'. a mort et le péché, la mort et a vie éternelle, la mort et la puissance spirituelle, la mort et la sainteté, la mort et l’amour, la mort et la solidarité, la mort et les sacrifices cultuels, le conflit entre la Justice et l’Amour en Dieu, Expiation et substitution -La Résurretion: L’histoire et la psycologie, l’hypothèse de la résurrection et ses appuis, le sort de Jésus.
Prediche
[Novità]. Venticinque Sermoni e allocuzioni di W. Burt: La luce del Mondo - Coraggio! -La testimonianza cristiana -La santa Cena - La Conversione di Paolo - Che cosa invece dell’anima? - Salario di peccato - L’acqua che disseta - Doveri di figliolanza -Come vivere - Tre parabole - Tutte le cose con Lui - Sul primo Salmo - Il battesimo dello spirito - Natale - Per la vita cristiana - Come si può vedere Gesù? - Le ultime parole di Cristo - Pasqua - Il vero fondamento, ecc. Prezzo L. 2.
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BILYCHNIS
In deposito:
R. J. Campbell, Le Christianisme de l* Avenir ou La Théologie nouvelle. Sommario: I. La situation présente du Christianisme et la Théologie Nouvelle. - IL Dieu et ¡'Univers. - III. L’homme considéré dans ses rapports avec Dieu - IV. La Nature du mal - V. Jésus, l'Homme-Dieu - VL Le Christ Eternel-VIL L’incarnation du Fils de Dieu-Vili, IX e X. Le Dogme de l’Expiation -XL L’autorité de ¡’Ecriture -XII. Le salut, le Jugement et la vie à venir - XIII. L’Eglise et le Royaume de Dieu - XIV. Conclusion. Prezzo L. 3,75.
Edmond Stapfer.J&t/sC/imt Sa personne, son autorité, son œuvre. 3 voli.: 1. Jésus Christ avant son ministère - 2. Pendant son ministère - 3. La mort et la résurrection. Prezzo dei tre volumi, L. 11.
A. Causse, Les Prophètes d'Israël et les Religions de Z’O-rient. Essai sur les origines du monothéisme universaliste. Volume in-8°, L. 8,50.
W. D. Morrison, Gli ebrei sotto la dominazione romana. Vol. di pag. 360. L. 6.
G. Prezzolini, Che cos’è il Modernismo? L. 2.
L Asioli, L'eloquenza civile e sacra. L. 3.
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Platone, Dialoghi, volgarizzati da Fr. Acri. Tre volumi L. 5 ciascuno. — Voi. I. L’Eu-ti fròne, ovvero del Santo -L’àpologìà di Socrate-Il Cri-tone, ovvero di quel che si deve fare - Il Fedone, ovvero della immortalità dell’anima - l.’As-sioco, ovvero della morte.
Voi. II. Il Ione, ovvero del furore poetico - Il Menone, ovvero della Virtù - L’Alcibiade, ovvero della natura dell’uomo. - I tre ragionamenti contro i
preghiere, e si sforzava di recitare le preghiere rituali per i soldati caduti sul campo di battaglia...
« Mentre lo-guardavo... compresi perchè noi combattevamo. Egli moriva in vano, mentre l’inglese ed io, probabilmente, con la nostra morte portavamo un contributo alla causa della civiltà c della pace...
Il Partito socialista francese ha indirizzato « Ai socialisti, ai lavoratori », un manifesto vibrato, firmato da tutti i deputati socialisti e dal comitato (generalmente anti-parlamentare) della Federazione generale del lavoro.
Eccone la finale. « Noi combattiamo perchè l’indipendenza e l’unità della nazione francese non sia mai più messa in pericolo. Combattiamo perchè le province perdute 44 anni fa, ritornino liberamente alla terra che sceglieranno. Noi combattiamo perchè i diritti del popolo ad essere l’autore dei propri destini siano riconosciuti una volta per sempre. Noi combattiamo perchè i popoli abbiano la libertà di aggrupparsi e federarsi come più a loro piace. Noi combattiamo perchè l’imperialismo prussiano, e tutti gl’imperialismi, la finiscano di Cristiani » — egli continua — «mi direte — consolandovi così di aver tradito i comandi del vostro Maestro » — che la guerra esalta la virtù del sacrifizio... Ed è vero che la guerra ha il privilegio... di spazzar via, in un bagno di sangue, tutte le scorie ed impurità: di temprare il metallo dell’animo... Ma non vi è un migliore impiego per la devozione di un popolo, che la devastazione di un altro? Non possiamo noi sacrificare noi stessi, senza sacrificare anche i nostri vicini? Lo so, che molti di voi, o Cristiani, spargete il vostro sangue con più prontezza che quello altrui. Ma questa è, essenzialmente, una debolezza. Perchè voi che non vi lasciate sgomentare da proiettili e da bombe, voi tremate dinanzi ai dettami di un folle spirito di razza, questo Moloch che voi ponete più in alto che la Chiesa di Cristo. Voi Cristiani di oggi, non avreste certo ricusato di sagrificare agli Dei della Roma imperiale: no, voi non siete capaci di tanto coraggio!
«E voi socialisti che pretendete di difendere la libertà contro la tirannide... perchè difendere un dispotismo contro l’altro? Perchè non unirvi e far guerra a tutti i dispotismi? Non vi era ragione per cui le nazioni occidentali fossero in guerra fra loro: noi siamo tutti fratelli e non ci odiamo punto a vicenda. La stampa missionaria di guerra è intossicata da una minoranza che ha vitali interessi per coltivare gli odi di razza, ma le nostre popolazioni, io lo so, non vogliono e non chiedono altro che pace e libertà. Sono i tre rapaci governi dei tre imperi di Europa che hanno, a mio parere, la colpa della catastrofe. 11 nemico peggiore di ogni nazione non giace fuori, ma dentro le sue frontiere: eppure, nessuno ha il coraggio di combatterlo: Esso è il mostro dalle cento teste, dell’imperialismo: sia esso militarista o finanziario; feudale o repubblicano, so-
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LA GUERRA
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ciale o intellettuale, esso è sempre il vampiro che sugge il miglior sangue dell’Europa. Che tutti gli uomini liberi di tutte le nazioni di Europa si uniscano, al termine della presente guerra per gridare « Ecrasez l’infame ».
Al termine della presente guerra! Che il male ora è fatto, il torrente imperversa senza freno e noi non possiamo fargli risalire il corso. Inoltre, i delitti commessi contro il diritto, le violazioni della libertà dei popoli, e dei sacri tesori del pensiero, debbono essere espiati... Ma per amor del Cielo, che questi delitti non si pretenda di espiarli con altri delitti! Che la orribile parola « vendetta » e « rappresaglia » non sia mai udita: perchè una grande nazione non si vendica, ma solo ristabilisce la giustizia. Che quelli che dovranno eseguire questa giustizia si mostrino degni del compito. E, noi dovremo porre ciò dinanzi ai loro occhi... Il nostro primo dovere sarà allora d’insistere sulla formazione di un’Alta Corte morale, di un tribunale delle coscienze, che vigili, e dia giudizii imparziali su ogni violazione dei diritti delle nazioni: e l’iniziativa di esso venga dalle nazioni neutrali...
«Quanto a noi artisti e poeti, sacerdoti e pensatori di tutte le nazioni, altro è il nostro compito. Anche in tempo di guerra è un delitto che gli spiriti più raffinati compromettano l’integrità del loro pensiero: è vergognoso che lo facciano servire alla passione mostruosa e puerile di razza...
L’Umanità è una sinfonia di grandi anime collettive, e colui che non sa amarla e comprenderla che distrug-Eendo una parte di quegli elementi, si rivela un bar-aro... ».
veristi: Contro i veristi filosofici - Contro i veristi politici -Contro i pochi veristi - Il Convito di Platone o dell’amore.
•Voi. III.. Il Parmenide, ovvero delle Idee - Il Timeo, ovvero della Natura - Dichiarazione del Timeo-Il Fedro, ovvero della Bellezza.
Eccellente versione.
Romanzi cristiano-sociali di Carlo M. Sheldon: Che farebbe Gesù? (L. 2) - Crocifisso! (L. 2).
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[Occasione] Del prof. Ernesto Buon aiuti: Saggi di Filologia e Storia del Nuovo Testamento. L. 2,50 per L. 1,80 - Lo Gnosticismo, Storia di antiche lotte religiose. (L. 3,50 per L. 1,85).
Il Comitato della Società umanitaria tedesca ha inviato per il nuovo anno un vibrante appello ai socialisti di Europa c di America. Esso è firmato, in data 29 dicembre 1914, in Rotterdam, da: Karl Bernstein, Jacob Mamelsdorf, Emil Gott, Conrad Schwabe, Gustav Ochs, Ernst Schuster, Franz Gaussen, Albrecht Zettel.
Eccolo nella sua integrità:
« Alla vigilia di un nuovo anno che si apre su di una scena di orribili e spietati delitti, senza parallelo neppure nelle liste di massacri degli infami complici della nostra nazione a Costantinopoli, noi ci appelliamo ai nostri fratelli sul continente europeo e negli Stati Uniti d'America, perchè non restino nascosti dietro il paravento della neutralità. Noi ci troviamo faccia a faccia coi nemici del genere umano. La nazione tedesca, trascinata ad una guerra perversa dal Kaiser e dal suo «entourage » militare, ingannata da uomini S»olitici spergiuri, nel Reichstag, e da false notizie atte circolare in ogni Stato della Federazione allo scopo d’ingannare i nostri connazionali, si è avventata a occhi chiusi e senza riguardo alcuno, contro forze che, sostenute da motivi morali indiscutibili, mostrano di non essersi affievoliti punto nella loro determinazione di espellere dal Belgio quelle truppe, che hanno coperto di sangue i suoi abitanti ed hanno rovinato
(Ottima occasione]. Pfenni-gsdorf-Gindraux, Le Christ et la pensée moderne. 1 voi. in-8° di pag. 370. Prezzo L. 6 per L. 3 (Estero !.. 3,50). Sommario: Les Religions (La jeunesse du Christianisme - Où est le bonheur? - Nature et esprit - L’idéal et le réel -Vestiges de vérité dans la mythologie grecque - La mythologie allemande - Le Bouddha, Mahomet ou le Christ? - La religion naturelle - Sa valeur). - Le Christ et les savants (Le progrès des sciences naturelles - Le divorce des sciences naturelles et du Christianisme - Nulle contradiction entre les sciences et le christianisme - Les frontières de notre savoir - Miracles et création -Le Darwinisme et les darwi-nistes - Darwinisme et christianisme - Le Christ et les philosophes - Pourquoi la science a besoin de la foi). - Le Christ et les artistes (L’art est un don de Dieu - La religion de la beauté - L’art a besoin de la foi - Le Christ dans l'art mo-
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dcrne - Les services rendus par l’art à la foi). - Le Christ et la Vie morale (Le naturalisme en morale - Le surhomme - La morale philosophique-La morale sans Dieu - La morale chrétienne). - La puissance du Christianisme dans l’histoire (Progrès mystérieux du christianisme - La propagation du christianisme dans le monde-La puissance sociale du christianisme - Le devoir social des chrétiens). - Rome ou l’Evangile? (Une Réformation était-elle nécessaire? - L’esprit actuel du catholicisme romain - L’ultra-montanisme - La lutte des confessions). - La vraie foi tvan-Îclique (Les maladies de la foi -.a foi joyeuse - Foi à la Bible et foi au Christ - Le devoir de confesser sa foi - La religion est-elle une affaire privée? - La conservation de la foi).
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Ernest Rostan, Les paradoxes de Jésus: Esquisse de morale évangélique, x vol. in-x6° di pag. 270. L. 3,25.
Sommario: Le paradoxe de l’impossible - du possible, - de la prière, - de la confiance, -du bonheur et du malheur, -des rétributions, - du savoir faire, - de l’ascétisme, - de la haine, - du nouveau talion, -de l’homicide, - de l’amour des ennemis, - du jugement, - de la pauvreté, - de la réciprocité, - de l’amour, - de la perfection, - de la vie.
irreparabilmente una nazione innocente cui i nostri governanti avevano giurato di proteggere.
«Vi preghiamo di ricordarvi, che gli Alleati non avevano minacciato il territorio di alcuno Stato tedesco, ed ora legalmente e onoratamente essi difendono i pieni diritti dei Belgi sì crudelmente oltraggiati, sostenuti dal buon volere di tutto il mondo.
«Ogni cittadino tedesco, ha in ogni tempo e luogo goduto piena libertà di attendere ai suoi affari senza ricevere alcuna molestia. Nel Giappone, nella Russia, nella Francia, nella Gran Bretagna, noi abbiamo goduto i diritti civili e libertà di commercio. L’Impero tedesco era libero di sviluppare sui mercati di tutto il mondo, in amichevole concorrenza con gli altri Stati, il suo commercio, le sue manifatture, le sue arti. Tutti i nostri legittimi interessi erano salvarguadati, protetti, e definiti da trattati e da convenzioni.
«Compagni lavoratori, potete voi restare più a lungo inerti e silenziosi spettatori di questi delitti mostruosi? Resterete voi sempre muti, in vista delle scene terribili di macelli compiuti nelle Fiandre, nel Brabante, nel-l’Aisazia, nella Lorena? Non vedete voi in mezzo alla mutilazione e alla strage degli innocenti ed inermi fanciulli, uomini, donne, bambini ancora da latte, che il Kaiser ha ricoperto la nostra nazione di un’infamia imperitura, e che l’onere imposto dalla guerra significa il sacrificio di vite preziose di lavoratori e di salariati, per una campagna diabolica e barbara nei suoi metodi, per mare e per terra?
«In cinque mesi di guerra, già le nostre famiglie, il nostro commercio, le nostre industrie, sono rovinate Ì>er almeno 50 anni, e se la guerra continua ancora, a perdita di vite umane e il disastro economico affliggeranno per un secolo ancora la nostra patria.
«Noi sappiamo da informazioni autentiche, che ci pervengono, che la democrazia delusa, irrequieta e indignata, che ora sopporta privazioni e ratliene i suoi lamenti, non può essere impedita dalla forza da un’attiva protesta: e noi scongiurarne col massimo vigore tutti i compagni che hanno a cuore l’osservanza degli obblighi internazionali, di fare il massimo sforzo per schiacciare c spazzar via per sempre quel dominio del militarismo prussiano nel cuore della Germania, che ha infamato e umiliato, con la sua congiura contro l’umanità, la nostra nazione agli occhi del mondo civile ».
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell'Unione Editrice, via Federico Cesi, 45
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