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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE
ROMA - 30 GIUGNO 1918
ILLVSTRATA DI
STVDI RELIGIOSI
Anno VII : : Fasc. VI.
GIUGNO 1918
Roma - Via Crescenzio, 2
DAL SOMMARIO : ROMOLO MURRI : Gl’ Italiani e la libertà religiosa del secolo XVII - RAFFAELE CORSO: Deus pluvius (Saggio di mitologia popolare) - PAOLO TUCCI : La guerra e la pace nel pensiero di Lutero - V. CENTO : Colloquio con Renato Serra (1915-1917) - MARIO ROSSI: Esperienze religiose contemporanee - Dante LaTTES: Note di vita e di pensiero ebraico (111) - ERNESTO RUTILI : Vitalità e vita nel Cattoli-cismo (Cronaca XIV).
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BILYCHNIS rivista mensile di studi religiosi
****** < FONDATA NEL 1912 > > >
CRITICA BIBLICA * STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI * PSICOLOGIA PEDAGOGIA -FILOSOFIA RELIGIOSA ^MORALE - QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL pensiero RELIGIOSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL'ESTEROy_SJ PUBBLICA LA FINE DI OGNI MESE. REDAZIONE: Prof. LODOVICO PASCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D.» Redattore per l'Estero; Via del Babuino, 107, Roma. AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l’Italia, L. 7; Per l’Estero, L. 10; Un fascicolo, L. 1. [Per gli Siali Uniti e per il Canada è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica, B. D. Pattor, 1414 Carile Aye, Phlladelphla, ^Pa. (U. S. A.)].
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È uscito il 9° volume della Biblioteca di Studi Religiosi edita dal Dr. D. G. WHITTINGHILL
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Rivolgersi alla Libreria Ed. Bilychnis, Via Crescenzio, 2 - ROMA.
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BIDCtlNB
RJVI5IÀ DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA 5CVOLA TEOLOGICA BATTISTA • DI ROMAAnno settimo - Fascio. VI
Giugno 1918 (Vol. XI. 6)
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SOMMARIO:
Romolo Murri: Gl’Italiani e la libertà religiosa nel secolo xvn. . Pag. 314
Raffaele Corso: Deus pluvius (saggio di mitologia popolare) . . >321
La pietra della pioggia - La bagnatura delle statue.
Paolo TUCCI: La guerra e la pace nel pensiero di Lutero . . . >331
Il riformatore - Il regno interiore - La giustificazione per la fede -La dottrina dello Stato - La missione dell’autorità civile - L’elemento politico e l’emancipazione da Roma - La condanna della concezione
pagana della guerra - La pace cristiana e la storia.
INTÉRMEZZO:
V. Cento: Colloquio con Renato Serra (1915-1917) ...... > 344
Mario Rossi: Esperienze religiose contemporanee....... > 352
L’orizzonte cristiano - Il cammino - Lo spirito e l’attualità del Bat-tismo - La vita cristiana - Pietà, domina e chiesa.
Dante Lattes: Note di vita e di pensiero ebraico (III) . . . . > 363
L’università ebraica a Gerusalemme - Dio e la guerra secondo un rabbino inglese - La questione ebraica in Romania - Gerusalemme e Israele in un discorso del pastore Carlo Wagner.
CRONACHE:
Ernesto Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo (XIV). . . . . » 367 Quel che la censura soppresse - Il conte Giuseppe Della Torre, presidente dell’Unione popolare fra i cattolici d’Italia, accusato di disfattismo. Quel che si disse nel convegno di Udine - Le accuse di Ciriani e di Castelli - La denunzia alla Giustizia - Un precedente memorabile - Il convegno delle Giunte diocesane e dei Consigli generali dell’Azione cattolica in Roma.
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GL’ITALIANI E LA LIBERTA RELIGIOSA
NEL SECOLO XVII
■ l mondo spirituale moderno, che è il mondo della libertà, incomincia in Italia col Rinascimento e con l’Umanesimo; in questa Italia che, lungo tutto il Medio Evo, aveva dato il meglio di sé alla costruzione ideale della Chiesa cattolica, ed al governo di essa, impiegandovi le sue forze più pure, ma conservando pur sempre innanzi alla Chiesa l’atteggiamento, non di chi accetta con semplice docilità, ma di chi, dominando e dirigendo e adattando l’istituto alle condizioni dei tempi, conserva innanzi ad esso una certa superiorità, come l’artefice sullo strumento che egli foggia e maneggia.
Ciò apparisce non solo nelle non rare insurrezioni ed eresie — tipiche quelle di Arnaldo da Brescia e di Fra Dolcino — che intendono direttamente ad una riforma della Chiesa, ma anche nella iniziativa di apostoli che dalla Chiesa stessa non si distaccarono, come Francesco d’Assisi, e nelle concezioni e nell’opera di teorici, di artisti e di poeti, che, pur essendo come Dante ottimi cattolici, il Papato e la sua politica e la Chiesa giudicano con fiera libertà, criticandone le deviazioni e gli errori ed assegnando ad essi i loro confini, oltre i quali erano l'abisso e la tirannide e l’adulterazione del verbo di Dio; o giungendo, in pieno Medio Evo, con Marsilio di Padova, a preconizzare ed esaltare la libertà in materia di religione: incredibile audacia.
In questa specie di sovranità spirituale delle coscienze sulle istituzioni politiche ed ecclesiastiche, l’Umanesimo ha i suoi precedenti immediati; ed essa spiega come questo grande moto, che preconteneva conclusioni così radicali, potesse aver luogo senza un distacco formale dei suoi promotori dalla Chiesa, come un mondo nuovo che sboccia dentro un altro e se ne nutre; e, anche quando il distacco spirituale è completo, come in Machiavelli, della Chiesa conserva e rispetta le forme esteriori.
Ma per questo, anche, l’Umanesimo risultò, come qualcuno ha osservato, religiosamente nullo; poiché quel formarsi di esso per entro il Cattolicismo, che fu da principio effetto della libertà con cui questo era trattato anche dai credenti, divenne un poco alla volta semplice adattamento esterno, suggerito dal timore della potenza politica del Papato e dello Stato ancora strettamente avvinto ad esso, e degenerò in ipocrisia. Le audacie di una riflessione critica e di una speculazione trascendentale che avevano rinnegato i principi fondamentali della religione cattolica, rivendicato la ragione umana di contro alla fede, si alleavano con l’ossequio esterno ispirato da motivi puramente politici ed utilitari, alla religione dominante. Donde il dissidio fra il pensiero e la vita morale, frutto di quella insincerità, ed il convertirsi dell’umanesimo in un freddo ideale di pura cultura e la corruzione politica e lo
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scetticismo del Cinquecento; sicché poi, quando sorse per gli Italiani il problema c il dovere del difendere la loro libertà, nuovamente minacciata, non più dal Santo Romano impero, ma dagli Stati che si andavano costituendo con più saldo vincolo unitario ed entravano in gare di egemonie, la coscienza italiana, indebolita dalla corruzione ed interiormente scissa, si trovò fiacca ed inerme. Caduto, con Savonarola, l’ultimo tentativo di radicale riforma della Chiesa romana con intenti cattolici, la Riforma, che pure esigeva fervore di fede ed intima religiosità, trovò presso di noi la classe colta già corrosa dall'indifferenza e fiaccata dall’ipocrisi 1; e fu facilmente domata e dispersa dalla Chiesa che, messa in allarme e costretta ^difendersi, si irrigidì nella contro-riforma, e pesò come cappa di piombo sulle coscia .ize.it aliane, impedendo ad esse ogni libertà di movimento e dando luogo al Seicento, accademico e vuoto e gaiamente scettico o pesantemente devoto.
L’Umanesimo, che aveva già negato in radice ogni eteronomia di rivelazione esteriore e di grazia sacramentale, era più che la Riforma; ma, incapace di una rivoluzione che avrebbe dovuto rivolgersi contro il Papato nella sede stessa di questo e foggiare un nuovo Stato laico, dovette cedere le armi e rinunziare alla lotta, sul terreno religioso, e divenne, come ho detto, un ideale di pura cultura. Il problema della costituzione di uno Stato laico e dell’attuazione, che esso implica, della libertà religiosa, doveva in quésta Italia ripresentarsi più tardi, insieme con quello dell’unità politica; ed anche allora, come vediamo, non fu risolto che aqnetà; e rimase il dualismo mortificante e pericoloso di ima Chiesa che si considera sempre organismo politico di dominio e di uno Stato che, per evitare conflitti, rinunzia a farsi una salda base in una coscienza nazionale moralmente rifatta ed unificata ed educata a un senso profondamente religioso del dovere e della funzione civile. Alla « pura cultura » umanistica succede la « pura politica ». che è poi falsa e immorale politica.
E tuttavia non mancarono in Italia spiriti che accolsero avidamente la Riforma e lottarono per essa e se ne fecero ferventi propagandisti; ma, se non vollero finire sotto le unghie della vigilantissima inquisizione, dovettero emigrare d’Italia e disperdersi per l’Europa; e furono legione.
Emigrati e dispersi, non si confusero tuttavia nella folla dei riformatori; essi ebbero una loro parola da dire, portarono nel grande movimento di libertà religiosa una impronta loro propria ed elementi nuovi, gettarono germi che dovevano svolgersi e fruttificare largamente più tardi: e ciò per il vivo spirito ed ideale umanitario, che si era in essi integrato e nobilitato nella sincerità del fervore religioso. Essi furono nell’Europa del secolo xvi i campioni .della libertà religiosa; e per questa lottarono anche contro i riformatori e conobbero altre condanne e dispersioni e martiri. sinché un poco alla volta si fusero e confusero in nuove correnti di pensiero e di propaganda che ne avevano accolto i principi e lo spirito.
La riforma protestante se, nel principio del libero esame, preconteneva la libertà religiosa, in quanto alla interpretazione autorevole ed ufficiale della rivelazione cristiana sostituiva, contro la Chiesa romana e il Papato, il giudizio della coscienza dei fedeli, non giunse tuttavia nella pratica, se non dopo una lunga e sanguinosa esperienza, al riconoscimento formale ed aperto del diritto, in ogni credente.
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di accettare e professare, senza persecuzioni ed ostacoli legali, le norme di fede che la sua coscienza trovasse migliori. Per una inconseguenza dottrinale e pratica facile a spiegarsi, i riformatori si arrestarono a mezza via; e sancirono alcune dottrine ufficiali che non potevano, a loro giudizio, esser negate senza fare offesa alla rivelazione stessa ed a Dio ed incorrere quindi nel delitto di eresia, passibile di pene corporali e della stessa morte. È celebre la sentenza di morte fatta portare da Calvino contro Michele Serveto, reo di negare il domma della Trinità. Lutero, se fra le tesi di lui condannate da Leone X ce ne è una che dice: hacrcticos comburi est cantra voluntatem Spiritus (è contrario alla volontà dello Spirito cìie si brucino gli eretici) e difese talora una certa libertà di coscienza, in più occasioni, tuttavia, rivendicò e applicò il diritto di mettere al bando della vita civile e perseguitare con le armi e con le condanne i negatori; sicché avvenne che sostenitori della libertà e sostenitori della intolleranza invocassero egualmente l’autorità di lui. Tutta la storia delle guerre di religione, come mostra diffusamente il sen. Francesco Ruf-finì nel suo bellissimo lavoro su La Libertà religiosa, è storia di intolleranze e di esclusivismo delle due o delle molte parti e confessioni religiose che, nei vari Stati d’Europa (esclusi l’Italia e la Spagna) disputavano con gli argomenti e con le armi; e nei vari trattati di pace, come in quello, ad es., di Vestfalia, l’accordo si ottenne solo su di un regime di tolleranza per il quale le diverse confessioni in conflitto si riconoscevano diritto di vita e di dominio-nei paesi da ciascuna conquistati, e talora una pacifica coesistenza, non cessando l’ostracismo verso le confessioni rivali nell’interno di parecchi Stati e la persecuzione contro nuove dottrine e Chiese: onde - la lotta per una più larga e sincera libertà di coscienza. La Chiesa romana, poi, non ha cessato sino a questi ultimi tempi di proscrivere come un errore perniciosissimo ed una peste delle anime qualsiasi richiesta di libertà religiosa.
Che il Protestantesimo non giungesse se non dopo molte difficoltà ad ammettere la libertà religiosa si spiega facilmente. In un primo momento, da Lutero e dagli altri, la libertà era rivendicata contro il Papato e contro i principi cattolici. Cercando poi la ragione fondamentale di essa nella natura stessa dello spirito, nella impossibilità di far violenza a questo e nella iniquità del tentarlo, si giunse a stabilire l’aspetto, diremmo, individuale e interiore della libertà; ciascuno, dentro di sé, può trarre dalla lettura della Bibbia le conclusioni che il suo senno gli detta e credere in Dio e nel Cristo a suo modo. Ma il passaggio da questa libertà interiore alla libertà pubblica e politica era cosa più complicata e difficile. Fu convinzione dei riformatori che la rivelazione cristiana fosse di per sè così nitidamente consegnata ai libri sacri ed attestata nella vita e nei documenti della Chiesa primitiva, che solo per una lenta e colpevole degenerazione la Chiesa di Roma avesse potuto adulterarla; sicché, negare le dottrine che i capi della Riforma rivendicavano come proprietà certa ed inalienabile del Cristianesimo pareva un peccato contro Dio e contro il diritto dei fedeli, un annullamento dell’opera del Cristo.
Inoltre, dato il concetto ancora dominante dei rapporti fra i due poteri, religioso e civile, che era pur sempre quello medioevale, l’eresia assumeva aspetto di. reato politico, quando tendeva a dissociare Io Stato dalla confessione religiosa che se ne era impadronita, e spesso, come a Ginevra con Calvino, si identificava con
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esso: onde la legittimità dell’intervento del braccio secolare. E spesso i principi furono promotori e difensori della Riforma; sicché era ovvio che si volgessero contro di essa quando la vedevano volgersi contro di sè, e trovassero teologi accomodanti, cui non mancavano 1 agioni di ogni genere per sostenere le loro pretese.
Tipico è il fatto che, a un secolo dalle origini della Riforma, i due principali campioni della grande controversia cattolica-protestante, il Bossuet e il Jurieu, in così profondo contrasto su tante cose, su questo punto si accordassero; e proprio il secondo dichiarava essere il principio sociniano della libertà « le plus dangereux de tous ceux de la secte, puisqu’il va à ruiner le Christianisme et à établir l’indif-férence des religions» (1).
E c’è di ciò un motivo più profondo dei già accennati. Per quanto audace e radicale fosse quel l’insorgere contro la Chiesa romana, costituitasi pedagogo della società cristiana e degli Stati e tendente a fare dèi suo dominio uno scopo del quale l’umanità non era che il mezzo, ed a soffocare così lo spirito sotto il peso di quel passato cui essa si arrestava, rimase nella dottrina protestante un saldo principio di eteronomia, anzi, sotto certi aspetti, nel ritorno cioè a dottrine più rigide del peccato originale, della predestinazione e della grazia, si faceva un passo addietro, rinunziando ai temperamenti e al lassismo che il Cattolicismo era venuto adottando e che si precisarono, poi, per reazione, nella dottrina dei gesuiti. L’uomo del prote-testantesimo classico era ancora, per il vizio della sua natura, radicalmente incapace di libertà; la rivelazione e la salute giungevano a lui dall’esterno, affidati ad una parola scritta, a una tradizione, a un ministero sacramentale; solj quindi, per l’influenza di questi, nel seno della confessione religiosa nella quale per lui si concretava l’istituto divino di salvezza, egli era capace di libertà. E il principio protestante rimarrà, anche quando nell’idealismo hegeliano lo Stato prussiano diventa Chiesa, Dio incarnato.
Questa eteronomia era stata virtualmente superata dall’Umanesimo. Esso aveva in un primo momento visto il lato umano e terreno di quel grande armamentario di salvezza che era il chiericato e fattene le grasse risate, dopo il fallimento della riforma francescana; in un secondo momento, vide e riaffermò il lato e il valore divino dell’umanità stessa, nei suoi elementi costitutivi, la ragione, la sete di idealità, la faticosa ascensione, attraverso le forme storiche succedentisi, verso la cultura e la libertà e la giustizia.
L’Umanesimo, quindi, come ho detto, era più che la Riforma, nel suo intimo contenuto. Lo riconosce lo stesso Harnack, proprio a proposito dei rappresentanti del suo spirito e indirizzo nella Riforma, i sociniani italiani. Egli scrive:
« Nell'antitrinitarismo e socinianismo Medioevo e Evo moderno si tendono la mano, al disopra della Riforma. Quella che nel secolo xv sembrava cosa ineffettuabile, cioè l’unione della scolastica e della rinascenza, appare qui di già compiuta in singolari e molto varie maniere. E appunto per ciò in questo movimento è riposto anche un elemento profetico. In esso molte cose ci paiono già attuate con mirabile sicurezza, le quali per contro nelle chiese evangeliche rimasero compresse
(1) V. i! Rufeini, Op. cit.. del quale ci siamo largamente serviti pei i dati storici.
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da sovrapressioni passeggere, perchè l’interesse per l’ordinamento dato fin dal principio alla religione assorbe qui tutto il resto per più che 150 anni»(i). E cioè il concetto e la preoccupazione ecclesiastica (eteronomia ed autorità coattiva) prevalsero sullo spirito religioso e sulla sua fondamentale esigenza di sincerità e di fattività libera.
Da quello che abbiamo detto apparisce chiaro quale stretto nesso logico leghi la dottrina per cui i sociniani divennero più specialmente noti e furono con tenacia combattuti: la negazione della divinità di Cristo e quindi della Trinità, onde li si • hiamò prima anti-trinitari, poi unitari (nome, questo secondo, che è. rimasto ad una importante confessione religiosa) all’altro loro principio della libertà.
Il concetto di rivelazione che si riannoda al domma del Verbo incarnato in Cristo .pone il principio ed i mezzi della salute.umana fuori dell’uomo, nell’alleanza soprannaturale con la divinità, comunicata al fedele nella grazia mediante il Cristo. L’uomo quindi giunge alla libertà, — a quel tanto di libertà di cui la sua natura corrotta può esser capace — mediante questa immissione in lui di un elemento superiore, la cui distribuzione storica si ricollega al Cristo ed a un magistero di salute da lui istituito; onde la dipendenza dell'umanità da questo magistero e ministero, l’accettazione docile di esso, la subordinazione della storia che gli uomini da sè riescono a fare a quest'altra storia miracolosa e provvidenziale; sicché umano e divino si ricongiungono nell’istituto ecclesiastico e nell’uso dei mezzi dei quali questo è in possesso per la salvazione dell’anima. Ora, non si potrebbe intendere questa missione salvatrice della verità rivelata e delle istituzioni rituali divine nelle quali la si riconosce senza ammettere che queste sieno in possesso di una verità sostanziale, immobile, consegnata in documenti esteriori, convalidata da definiti mezzi pratici; deposito sacro che è quel che è, e si impone in blocco e che è necessario custodire e difendere contro i ribelli. La libertà, qui, è negazione, eresia, ateismo.
Se invece, con i riformatori italiani. Cristo e il Cristianesimo sono considerati bensì come persona ed opera divina, ma di una divinità immanente nell’umanità e che a questa si rivela dall’interno con opera ininterrotta, successivamente nelle varie religioni e negli sviluppi di esse, cessa il carattere di dato esterno, fisso è sacro, di una rivelazione, cessa l’esclusivismo di un istituto intermediario fra Dio salvatore e gli uomini perversi; lo Spirito risiede, permanente illuminatore e creatore, nell’uomo che si unisce direttamente ad esso con la volontà buona, e l’uomo stesso è fatto arbitro della sua vita religiosa, senza che alcun altro uomo possa sorgere ad imporgli o a vietargli dottrine e credenze, in nome di un qualsiasi monopolio storico della verità definitiva.
In Italia, alla vigilia della Riforma, il distacco da Roma si andava operando lentamente, negli strati profondi del pensiero; ma travolgeva, con la vecchia religione, la stessa intima religiosità dell’anima italiana, il cui ultimo, libero' segno si ebbe col Savonarola. Quando dal nord dell’Europa suonò la riscossa, vi fu tuttavia
(1) Ruffini, op. cit.. pag. 77.
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in Italia un buon numero di uomini colti la cui religione interiore era abbastanza viva per commuoversi all'appello luterano ed alla speranza di una grande liberazione. Di essi, parecchi affrontarono, come il vecchio Paleario, le carceri e il rogo, altri emigrarono da principio in Svizzera. Qui troviamo attivissimi propagandisti della dottrina antitrinitaria e della libertà religiosa: Lelio Socino, di Siena, il Blan-drata di Saluzzo, Gribaldi Moia, di Chieri, Giovani Valentino Gentili, di Cosenza, Bernardino Ochino, già generale dei cappuccini, Celio Secondo Curione, di Monca-lieri, Sebastiano Castellione e molti altri (1).
Nella loro propaganda essi urtarono presto contro l’intolleranza calvinista; parecchi furono incarcerati, processati e costretti ad abiure e al silenzio; qualcuno anche ucciso, come il Gentili, decapitato a Berna nel 1566; alcuni tacquero volontariamente, come Lelio Socino; altri infine, come il Blandrata e l’Ochino, ripararono in Polonia od altrove. Ma tutto quel movimento è pochissimo noto in Italia.
Con lo pseudonimo di Martinus Bellius, il Castellione pubblicò nel marzo 1554 un opuscolo latino, dal titolo: Intorno agli eretici, se debbono essere perseguitati e, a ogni modo, come si debba regolarsi qon essi, giudizi di uomini dotti antichi c recenti. Libro opportunissimo in questa epoca di turbolenze.
In esso il dotto umanista mostrava con serrata argomentazione, con citazioni di padri antichi e di riformatori, e con la confutazione degli argomenti più spesso addotti per rintolleranza, il diritto delle coscienze a non essere perseguitate per la loro fede. Il libro fece una enorme impressione: la tesi propugnatavi con tanto calore prese il nome di bellianismo; e teologi eminenti della Riforma, fra i quali Teodoro Beza, si affrettarono a confutarlo. Al Beza e a dichiarazioni di Calvino, che tentava giustificare l'uccisione di Serveto, rispose il Castellione con un nuovo opuscolo: Contro il libello di Calvino nel quale si cerca di dimostrare che gli eretici debbono essere messi a posto con la spada. Dialogò fra Calvino c il Vaticano.
Anche Bernardino Ochino, in dialoghi che gli procurarono lo sfratto dalla Svizzera e che al Castellione, il quale li aveva tradotti, chiamarono addosso tanti e sì grandi fastidi da farlo morire di tristezza, sostenne audacemente il rispetto di tutte le fedi.
Anche un italiano di Trento, Giacomo Aconcio, pubblicò nel 1565 in Basilea un libretto in cui si provò, per primo, a raccogliere in una. sintesi di pochi e fondamentali articoli di fede, comunemente accettabili, il Cristianesimo; e difese vivacemente il diritto dei credenti a non essere nè uccisi nè perseguitati corporalmente per le loro dottrine religiose. Il libro, che si intitolava: Degli stratagemmi di Satana in materia di religione, ebbe larghissima diffusione e fu tradotto in molte lingue.
Di un altro italiano. Mino Celso senese, è un librétto attribuito anche esso da molti, come quelli del Castellione, a Lelio Socino, in cui si disputa a favore della libertà religiosa. Anche esso provocò risposte vivaci ed ebbe parecchie ristampe.
In Polonia, i rifugiati trovarono per qualche decennio più libero campo; e quivi l'unitarismo si organizzò a confessione e spiegò una vasta opera di costruzione
(1) Di parecchi di questi riformatori biografie furono pubblicate dallo scrivente nella Riforma Italiana di Fiienze. negli anni 1915-1916.
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dottrinale e di polemica, irradiànte nell’intiero campo riformato. Nella vicina Transilvania si trasferì nel 1578 da Firenze Fausto Socino, nipote di Lelio, chiamatovi dal Blandrata; e negli anni seguenti ebbe tanta parte, quivi e in Polonia, nella diffusione degli scritti dello zio, nell’organizzazione dei seguaci, nella propaganda unitaria, e vi spiegò tale abilità di persuasione e di comando, che da allora e per molto tempo gli unitari furono detti socìniani. Anche Fausto Socino, come appare da molti suoi scritti, faceva della libertà religiosa il cardine della riforma vagheggiata: e per questa specialmente si adoperò.
Testimonianza celebre e cospicua della sua dottrina rimane il catechismo di Rakau al quale egli lavorò negli ultimi anni di vita e che, dopo la morte di lui, fu compiuto dal suo discepolo, il tedesco Schmalz.
Nella prima pagina di esso che, come dichiara lo Harnack, non si può leggere senza intima commozione, Socino scriveva:
« Dando in luce il catechismo della Chiesa nostra, non intendiamo di dichiarare guerra a nessuno. Bene a ragione si lagnano i buoni che le varie confessioni o i catechismi che le diverse Chiese vengono pubblicando sieno pomo di discordia fra i cristiani; e ciò perchè si pretende di imporli alle coscienze e si dichiara eretico chiunque da essi dissente. Lungi da noi una tale follia; noi non intendiamo nè di prescrivere alcunché nè di opprimere alcuno. Sia libero a ciascuno di giudicare della religione; ciò il Nuovo Testamento e l’esempio della Chiesa primitiva impongono. Chi siete voi, omuncoli, che pretendete di spegnere negli uomini il fuoco dello spirito divino, che Iddio stesso vi accese? Avete forse voi il monopolio della scienza delle Sacre Scritture? Perchè non vi rammentate che nostro solo maestro è Cristo e che noi siamo tutti fratelli, di cui a nessuno fu data podestà di sorta sulle coscienze degli altri? Se pure alcuno dei fratelli è più dotto degli altri, quanto alla libertà ed alla figliazione da Cristo, essi sono tutti eguali ».
La persecuzione cacciò poi i capi sociniani anche dalla Polonia e li costrinse a nuove dispersioni; e nel secolo xvn li troviamo anche in Olanda, dove al loro movimento si innesta, e ne discende, specialmente per la parte che riguarda la libertà religiosa, l’arminianismo; e dall’Olanda vennero, nella prima metà di quel secolo, le più efficaci e celebri rivendicazioni, per quel periodo, della libertà religiosa.
Intanto l’impulso riformatore si era esaurito in Italia, soffocatovi dalla occhiuta vigilanza della Chiesa romana; e l’indagine filosofica e critica, lasciati in pace i feroci teologi, si volgeva ad altre vie. Più tardi, quando sorse il problema della libertà politica e dell’unità nazionale, il pensiero e le coscienze italiane si trovano ancora faccia a faccia con la Chiesa romana; e la libertà spirituale, già affermatasi vigorosa altrove, e specialmente nell’America del Nord, torna ad essere il loro affanno.
Come e dentro quali limiti, prevalendo preoccupazioni politiche e mancando un sincero impulso di profonda religiosità, essi risolvessero il loro problema del contrasto irreducibile con le pretese della Curia romana; per quanta parte, e con quanto danno, lo lasciassero insoluto, così da trovarselo di nuovo dinanzi, in forma più acuta e con incalcolabile danno, in quest’ora decisiva della storia, non può esser detto in breve: ed è argomento che merita uno studio accurato.
Romolo Murre
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DEUS PLUVIUS
(SAGGIO DI MITOLOGIA POPOLARE)
vrete probabilmente appreso dai libri o nei discorsi che, in vari luoghi, allorquando la stagione decorre secca e nell’arido paesaggio, che ha perduto la viva freschezza, si vedono alberi avvizzire, prati arsi e fonti quasi esauste, i popolani per avere la desiderata pioggia ricorrono a speciali pratiche, che la superstizione alimenta e la tradizione mantiene in vigore.
Non alludo alle processioni sacre che, in casi di lunga siccità, si formano nei borghi e nei paesi; e che nel Medio Evo
erano frequenti per i santi Pietro e Giacomo; e che ancora, in un tempo molto lontano, dominando il Paganesimo,. le donne eran solite fare a pie’scalzi e coi capelli sciolti per invocare l'acqua da Giove (i). Simili scene rivivono, si svolgono non di rado sotto i nostri occhi in diverse regioni, nei tempi attuali, e sono quasi comuni nell’ambiente religioso, insieme coi prodigi e coi miracoli.
Perciò non ne ricordo alcuna; parlo invece di altre pratiche, che considerate
negli ultimi elementi radicali, rivelano il pensiero e la coltura dell’uomo quali erano in epoche anteriori ad ogni religione, quando l’essere mortale credeva, cogli espedienti suggeriti dalla scienza magica, potere imitare o riprodurre i processi naturali, impedire o sospingere il corso delle forze, dei fatti, delle volontà.
LA PIETRA DELLA PIOGGIA
Nella Francia, in un angolo del dipartimento dellTsère fino a mezzo secolo addietro, si potevano vedere in tempi di siccità, processioni recantisi a visitare un sasso, che aveva fama di portentoso, e che alcuni tra’ processionanti sollevavano dal suolo una, due, tre volte, secondo la quantità d’acqua desiderata (2); nel Portogallo, e propriamente a Villanova da Fuscoa, è probabile osservare ancor oggi, che per avere la pioggia s’inviano in una determinata località nove ragazze per girare una grossa pietra e recitare in quel mentre una preghiera alla Vergine (3).
Queste due cerimonie nascondono sotto la patina del novello culto una vecchia usanza già praticata dai pagani: quella del « Manalis lapis » che, nella Roma dei Consoli, allorquando i solchi erano da lunghi giorni assetati, si trascinava per le vie dell'abitato (4). Noi veramente non conosciamo in tutti i particolari l’intreccio e il meccanismo del rito romano, giacché le notizie pervenuteci intorno ad esso non sono tali da permetterci la ricostruzione completa della sua figura. E se i più non credono seguire nell'ipotesi quell’archeologo che suppone la pietra ma(1) Tylor, La CivilisatioH primitive, (trad. frane., Parigi, 1878), II, 340; Petr. Arbitro, Satyricon. XIV.
(2) Sébillot, Le Paganismi contcmporain. pag. 243.
(3) Braga, O Perno Portuguez, II, 118.
(4) Festo, v. aqaelicium. ntanalent lapiden; Nonio Marcello, v. Ivullum; Servio, Comm. di Virgilio, En. HI, 175; Fulgenzio, Expos. serm. antiq.
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naie forata e per la circostanza poi, riempita d'acqua, che si faceva scorrere per imitare il cadere della pioggia (i), forse, oseranno pensare che la pietra di Porta Capena, presso la Casa di Marte, giacesse in luogo umido, o presso qualche sorgente, o qualche pozzo. E chi sa che non sia di tal natura il sito del sasso del-l’Isère e di quello di Villanova, non ostante che i folkloristi serbino il silenzio su questa circostanza!
Il « manalis lapis >• doveva avere qualche connessione o relazione con la « fons manalis », la fonte perenne: lo fanno intendere gli etimologisti che derivano l'appellativo « manalis » dal verbo « mano » esprimente l’idea dell’emanazione o della provenienza dell’acqua. La credenza che il « lapis » coprisse la porta del regno degli dèi inferi, del regno dell’Orco, o dei « Mani », deve essere posteriore all’origine del rito; è un elemento aggiunto dal paganesimo religioso alla pratica primitiva, che pare di natura magica.
Non è fuor di luogo ricordare che in simili occasioni, quando la terra arida attende invano il benefico tributo dal cielo, il popolo, in varie regioni, butta delle pietre negli stagni, nei ruscelli, nei fiumi. Nel paese nativo di Lutero e al tempo del grande riformatore, si gettavano dei sassi in una palude; nella Lusi-tania si immerge tuttavia nel ruscello Severa la pietra detta della Vergine Gusara; e nella Francia, a Brion, si cala in una fonte un ciottolo portante l’effigie della croce (2).
Quelli che a base di queste pratiche pongono la credenza nelle divinità e negli spiriti delle acque, i quali, turbati dal cadere del sasso, farebbero precipitare la pioggia dal cielo (3), non s'accorgono che la loro opinione non spiega l’origine del rito, giacché la credenza negli spiriti o nei geni benefici o malèfici, negli dèi 0 nei demoni delle fontane e delle sorgenti, dei ruscelli e degli stagni appartiene all’età dell’animismo, e si perfeziona lentamente in quella teologica, che tale credenza associa ad esseri o enti antropomorfi. Quindi essa non può avere originato le pratiche, che spogliate degli accessori e ridotte nei loro .termini elementari, sono magiche come quelle che poggiano sul solito errore dell’umana fanciullezza mentale, la quale ritiene che l’effetto somigli o corrisponda alla causa. Onde il rito d’aspergere, o turbare, o agitare l’acqua dei rivi o delle fonti, sia che si muova, sia che si raccolga in una conca, perchè, evaporando, credesi abbia l’efficacia di provocare il fenomeno pluviale.
Il patrimonio delle idee di un popolo è più facile a trasformarsi, che a perdersi; più atto ad assumere vesti e caratteri dell’epoca nuova alla quale arriva colle novelle generazioni, che a spogliarsi degli elementi essenziali e del nucleo sostanziale. Passato da uno in altro ambiente morale e religioso, esso si acclima, vive e persiste, continuando la sua origine e la sua storia; trapiantato in un paese differente dal proprio, si adatta e risorge, come una pianta che ha buone virtù vegeta(1) Warde Fowler, Roman festivals of the period of the Republic, Londra. 1899, Pag. 233.
(2) Bellucci, La grandine nell’Umbria, Perugia. 1903, p. 107: Sèbillot, Op. cit., pag. 247.^
(3) Frazer. Le Rameau d’or, I. 115 (trad, franc, di Stiebel), Parigi 1905: Bellucci, op. cit., 1. c.
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ti ve, e che, innestata a specie esotiche, rigermoglia in una molteplicità di forme. Così è nel caso in esame, giacché il sovrapporsi dei concetti cristiano-cattolici a quelli antichi, a quelli dell’epoca mitologica o pre-mitologica non intacca, non muta la sostanza fondamentale delle idee primitive. Come sovrapposizioni possono considerarsi i caratteri sacri che si notano nei riti delle pietre della Vergine Grisarà e di Brion, essendo essi quasi necessari a ‘ battezzare ' all'avvento del novello culto, come cristiana la vecchia pratica superstiziosa e ad appagare così lo scrupolo delle plebi devote. Tant’è che, stando ai confronti, la storia delle costumanze e delle tradizioni presenta dei casi analoghi, in cui i simboli e i segni sacri (quello della croce, ecc.), non intervengono, e il prodigio avviene lo stesso. Gervasio ricorda una sorgente che, al gettarvi dentro un ciottolo o un bastone, faceva cadere una pioggia tanto abbondante da inzuppare fino alle ossa l’impiu-dente che aveva osato turbarla; e Giraldo di Cambria racconta che in Munster esisteva una fontana, la quale toccata o guardata da un essere umano, inondava di pioggia l’intera provincia (1).
E questo basta a illuminare quelli che credono di vedere nel rito magico della pioggia una cerimonia di semplice devozione atta a suscitare l'effetto miracoloso, e opinano che l’importanza della pratica s’imperni nel simbolo della sacra impronta (ciottolo con la croce dell’Isère) 0 nella santa reliquia (ciottolo della Vergine Eusara).
Il ricordo di Gervasio richiama, di uso in uso, a quello di muovere l’acqua con un ramo o un bastoncello e riversarla sulle pietre che circondano la fonte o la sorgente.
L’uso fu già praticato nell’antica Grecia, nell’Arcadia, dove il sacerdote di Giove, quando il cielo era avaro di piòggia, immollava un ramo di quercia in una fonte del monte Liceo, nella fede che dall’acqua mossa si levasse una nube, che salendo alla volta del firmamento ricadesse in acqua (2). Ma esso può vedersi ancora in vigore nei paesi europei, associato ad elementi del culto prevalente.
Chi ha visitato il dipartimento dèlia Loira e della Saona, sa che gli abitanti delle vicinanze di Laizy, dopo avere invocato invano la grazia dalle nubi,’ minacciati dal pericolo della carestia, ricorrono alla pietra di S. Giuliano, detta così perchè porta l’impronta del cavallo del santo. La pietra è perforata, e, per l’occasione, i popolani sogliono bagnarla versandovi dell’acqua benedetta, dopo averla agitata con uri bastone 0 con un ramo di bosso (3). Nella provincia di Ile-et-Vilaine sorge una solitaria fontana nel più folto della selva, circondata da leggende romantiche, tra cui quella del mago Merlino che dorme ancora presso la ceppaia di un biancospino. La chiamano la fontana di Barenton, e a quella da secoli i Bretoni ricorrono per avere la pioggia in casi di prolungata siccità, e attingendo dell’acqua con un vaso, cospargono un lastrone di pietra in prossimità della fonte (4). I popolani di Florenville, nel Lussemburgo belga, un tempo e allo stesso scopo, inaf-fìavano le strade; e ancora nel 1875, il clero di Paimpout recavasi in processione
(1) Gervasius von Tilbury, Olia hnperialia (cdiz. del Liebrecht), p. 41 c seg.; Giraldos Cambrensis, Topography of Ireland, cap. VH: Mannhardt, Antike wal'd-und-Feldkulte, pag. 341 (nota).
(2) Pausania, VII1, 38. 4.
(3) Sebillot, op. cit.. 245.
(4) Frazer, op. cit., p. 118: Sebillot, op. cit.. 24 4.
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a una sorgente prodigiosa, nella quale il rettore aveva cura d’immergere il piede della croce e bagnare coll’aspersorio i sassi circostanti (i).
Riscontri notevoli si trovano in lontani paesi dell’Australia, dell’America, dell'Africa, tra popoli incivili e semi-civili. In un villaggio di Samoa, quando la stagione si presenta molto alida, i sacerdoti portano solennemente a un fiume una pietra gelosamente custodita e la bagnano. Nella Nuova Galles del Sud, nella tribù di Keramin, lo stregone sceglie nel letto d’un torrente un ciottolo piatto e rotondo, lo bagna e lo nasconde. I Vavamba che abitano sui monti dell’Africa centrale, posseggono nelle loro sedi nevose il sasso della pioggia. I vicini della tribù di Vaconda, quando soffrono la penuria d’acqua, domandano mediante un compenso il sasso in prestito, lo lavano, lo spalmano con olio e lo pongono in un recipiente pieno dacqua, convinti che le nubi non tarderanno ad apparire e a disciogliersi. I feroci Apasci che infestano gli aridi deserti dell’Arizona e del Nuovo Messico, spesso avvertono la sete per la secchezza del suolo, e perciò sono costretti a ricorrere ad espedienti magici per provocare il maltempo. Essi lanciano sulle pareti rocciose di una determinata località lo scarso liquido raccolto da qualche esile polla, nella speranza che presto l’acqua dal cielo si riverserà sulla terra in abbondanza (2).
A questo punto, fermato l’occhio sulla trama delle analogie dei citati esempi, possiamo affermare che la vera ragione dell’uso di spargere l’acqua sulle pietre consiste nel pensiero che queste, a preferenza della terra assorbitrice, la evaporano, producendo le benefiche nuvolette, che salendo negli spazi eterei, apportano la pioggia. Questa ragione che emerge dai documenti esaminati, fa ritenere erronea l’ipotesi del Frazer (3), il quale inclina a vedere nella pietra della pioggia annidata qualche divinità. Ma chi osserva che la pietra non è oggetto di culto, ma mezzo o strumento di un’arte, di una pratica, non potrà ammettere l’idea del sommo etnologo inglese. Quand’anche tale carattere volesse attribuirsi a quelle pietre con impronte e simboli cristiani, lo escluderebbe la natura della pratica e la considerazione che essi sono elementi aggiunti o sovrapposti, che caratterizzano la epoca e la forma della nuova vita religiosa, senza intaccare o mutare quelli sostanziali e originarii. Ogni nuovo culto, per vivere e propagarsi, assimila un buon numero d’idee e pratiche, di riti e cerimonie appartenenti a quello vecchio. Come il cattolicismo avanzò incorporandosi misteri, 1 ibattezzando tempii, mutando nomi agli antichi idoli del paganesimo, così questo aveva già, molto prima, proceduto sul terreno delle conoscenze magiche e delle credenze animistiche; le quali, a poco a poco, penetrano nei costumi del culto, nel sacrario dei tempii. Per virtù di questo fatto, noi vediamo sul monte Liceo, il sacerdote di Giove eseguire un rito magico sotto gli auspici! del padre Giove; nella Tessaglia, gli abitanti di Crannon custodiscono in un sacro luogo un carretto di rame (4), che si metteva in movimento quando si desiderava là pioggia, e che, secondo l’ipotesi di un archeologo, fondata
(l> SÈB1LLOT, Op. Cit., 1. C.
(2) Frazer, op. cit., pag. 116-117.
(3) Op. cit., pag. 119.
(4) Antigonus, Misi. Mìrab., 15 (Scriptores Rerum mirabilium Graeci. ed. Wester-mann, pag. 64);
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sui documenti numismatici di quella città, doveva reggere un barile pieno di acqua, che si faceva scorrere col movimento del carro per incitare il precipitarsi della pioggia (1). E vediamo del pari la pietra di S. Giuliano a Laizy cosparsa d’acqua benedetta; e il rettore di Paimpont immergere nella fonte il piede della croce.
In tali esempi ed episodii di vita religiosa, il sacerdote, sia esso quello di Giove, quello cattolico, o quello samoano, sostituisce il mago e lo stregone, che in simili casi compie o dirige analoghe cerimonie per avere la pioggia, nelle società rudimentali è quasi incolte.
Gli etnografi hanno ormai descritta e seguita nel suo svolgimento l’idea della divinità, come sorge e si consolida e fiorisce nella mente umana; che, nei primordii, da umile allieva della natura, tende ad associare quelle cose che l’esperienza dimostra essere materialmente connesse; ond'essa arriva, per induzione (per errore, direbbe il Tylor) a invertire questo rapporto e ad inferire dall'associazione subiettiva quella obbiettiva corrispondente. In tale inferiore stato di mentalità e mediante pratiche, che a noi si rivelano essere puramente immaginarie perchè fondate su supposte relazioni naturali, l’uomo si spinge nel mistero vitale delle cose, delle forze, dei fatti, per scoprire e indovinare avvenimenti, predire e produrre nuovi fatti e rivelare la verità nascosta. Così esordisce la scienza speculativa dell’uomo.
Le arti magiche, che più tardi daranno vita e forma a una gran parte delle cerimonie dei culti, sono il risultato di tale misticismo infantile per cui si attribuisce a un’associazione ideale carattere di associazione reale. Onde quelle che i teorici designano coi nomi di «magia imitativa» (imitazione della natura), e di « magia omeopatica » (simpatia naturale), nelle quali l’energia magica interviene per contatto diretto o mediato, svolgendosi ora del tutto, ora da una parte di esso.
Le usanze che abbiamo raggruppato sotto il titolo generale di pietra della pioggia partecipano di tale principio, per la ragione che l'acqua evaporata ere-desi torni a ricadere sul suolo attirando vapori e nuvole, che presto si scioglieranno in pioggia.
LA BAGNATURA DELLE STATUE
Tra le popolazioni rustiche dell’Europa meridionale, per ottenere la pioggia, si suole immergere nell’acqua del mare, dei laghi, degli stagni l'immagine venerata della Vergine, di S. Pietro, di S. Benedetto o quella di qualche $Itro taumaturgo (2). Questo nuovo episodio del nostro argomento, nella varietà delle sue manifestazioni popolari, indica che, quando si attenua o scompare o anche degenera il concetto dell’energia magica universale, la mente umana vi sostituisce la fede in esseri dotati del potere di dominare gli elementi cosmici. Gli dei superni ed inferi, del male e del bene, delle tenebre e della luce; i santi e i demoni caratterizzano questo momento della storia del fenomeno religioso, quando il rapporto magico tra il rito eseguito e l’effetto desiderato si modifica lievemente, più nella forma, che nella sostanza, e l’essere divino, in aspetto antropomorfo o zoomorfo, a chi ben l’osservi» si palesa essere un sostituto del mezzo magico primitivo. Onde la sostituzione del(1) Head, Hisloria numorum, p. 249: Furtwàngler, Meisterwerke der Griechi-schen Plaslik, pp. 257-263.
(2) Tylor, op. cit., II, 223.
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l’idolo alla pietra della pioggia, fatta con altra ispirazione rispondente alle idee religiose, e cioè che la divinità, che la statua, l’immagine e l'effigie stanno a rappresentare, regge e governa i fatti meteorologici. Curiosi e notevoli sono gli esempi che le tradizioni e le consuetudini della vita volgare offrono e presentano. In qualche paese della Sicilia la statua del santo è portata processionalmente con imprecazioni e minacele, tra cui quella di buttarla nell’abbeveratoio; e a Licata, in provincia di Girgenti, i processionanti, trasportato in riva al mare il simulatro di S. Angelo, patrono della città, esclamano: « 0 ciovi o coddu » (1) (piovi o corda, o anche: piovi o affoghi), per fargli comprendere che qualora non mandi la pioggia lo legheranno con una fune e lo getteranno nel mare, come difatti sogliono fare. In Calabria, a Catanzaro, si venera nella chiesa del Carmine l’immagine di Sant’Elia, ritenuto patrono della pioggia (2). In momenti di siccità, l’immagine, legata pel collo, si cala in una cisterna. In parecchie parti de Portogallo, è la statua di S. Antonio che subisce la prova dell’acqua (3); la quale per altri santi è frequente in molti luoghi della Francia (4). Spettacolosa è la processione dell’Ecce Homo osservata nella provincia di Siracusa, in Sicilia, dove un migliaio di villani a piedi nudi seguono un contadino recante l'effigie dell’Uomo Dio, e mentre le donne urlano e si percuotono il petto e gli uomini si flagellano con discipline di ferro, le Cinque Piaghe s’immergono in una fonte, ove si lasciano finché all'orizzonte non apparisca il segno della grazia, ossia qualche nuvola (5). Ad Acquappesa, in Calabria, si ricorre alla Madonna del Rifugio; a Malvito, a S. Michele; ed è mólto diffuso il detto che in un paese della provincia di Cosenza si applica una sardina salata sulla bocca del malcapitato santo, il quale, vinto dalla sete, è costretto a implorare dall’onnipotente la grazia desiderata (6). In Cetraro ogni ventuno di marzo, la statua di S. Benedetto viene trasportata dal tempio alla marina, perchè un piede di essa sia lambito dalle onde (7). Talvolta, invece di essere immersi in tutto o in parte, nel mare, nelle fonti, nelle cisterne, gli idoli sono aspersi con acqua. A Guardavalle — siamo ancora in Calabria — l’osso del braccio di S. Agazio è portato in processione alla marina, dove «tutti si fermano sulla spiaggia, e l’arciprete entra in una barca, già prima preparata. La barca, allontanatasi per poco dalla spiaggia, si ferma. Quello è il momento solenne. Il popolo, sul lido, genuflesso, si batte fortemente il
(1) PiTRfe, lì ibi. trad. pop. siciliane. Usi e costumi, III, 49, 142, 143.
(2) In Cassano s’invoca questo santo per la pioggia, dicendo: Chiova, chiova, santu Lia, E a sette c a otto:
Ca lu granu vad’a sia, È sunata inezzannotta.
Secondo il Dorsa (Op. cit., p. 70), il nome Elia, rispondendo nel suono al greco nella ignoranza dei tempi il culto del sole dovette assimilarsi con quello dell’omonimo Elia.
(3
(4
. (6 nesi —
Leite de Vasconcellos, Ensaios Elhnographicos, 1903, IL p. ,48.
SÉ BILLOT, Op. Cit., p. 246/
PlTRÉ, Op. Cit., 1. C.
De Giacomo, Il Popolo di Calabria (Trani, 1899); voi. II, p. 124. « I rossa -scrive di quei di Rossano G. Brinati, nella Calabria, anno VI, 1894, p. 57. — in caso di siccità, portano a processione S. Nilo, che è, come tutti sanno, una loro gloria: ma prima hanno cura di mettergli in bocca una sarda salata; poi lo fanno correre tanto su e giù per la città fino a che non suda ».
(7) De Giacomo, op. cit., 128.
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petto o si pesta la faccia, piangendo e singhiozzando; e l’arciprete, afferrando il braccio d’argento con la destra, e tenendolo sospeso sull’acqua dice:
Sant’Agaziu meu O riii vagni tu o ti vagnu! Si non mi vagni tu, ti vagnu cu.
E tuffa ripetutamente il braccio nell’acqua. A S. Andrea Apostolo sull’Jonio i popolani fanno quasi lo stesso. Portano il protettore sulla spiaggia e, spruzzandolo con l’acqua del mare, gli rivolgono la stessa minaccia deprecativa dei guar-davalloti: « O mi bagni, o ti bagno! ». A Curinga, nel circondario di Nicastro, il santo si portava in processione, e poi si collocava sotto un mulino con le spalle alla corrente, dove doveva rimanere finché non fosse venuta la pioggia (1).
Passando dalla Calabria nella Francia, possiamo osservare che i contadini dei dintorni di Bain (Ile-et-Vilaine) quasi con la medesima formola dei calabresi di Guardavalle implorano la pioggia da San Melanio. Essi si recano a una fontana, sorgente sulle rovine di un'antica cappella per aspergere con l’acqua* un rudero della vecchia statua del .santo, esclamando: « Santo Melanio, mio buon santo Melanio, bagnaci come ti bagniamo! ». Analoga cerimonia è stata osservata presso là cappella in rovina di San Convai in Hanvec (Finistère)-, dove si suole spruzzolare ' l’immaginé col liquido della sacra .fonte (2). Celebre è la sorgente di San Gervasio, presso il vecchio priorato di Commagny. Nel bacino di quella ricca scaturigine d’acqua popolo e clero, in processione, tuffano la statua di pietra che si trova in una nicchia, presso la sorgente, allorquando desiderano la pioggia. Non molto differentemente si comportano i contadini di Collobrières e di Carpentras con le statue dei santi Ponzio e Gens (3). In parecchi villaggi della Navarra, si prega San Pietro di mandare l’acqua, e per rendere le preghiere più efficaci, si porta in processione il santo al fiume. Colà il simulacro dell’apostolo è invocato per tre volte, e se si ostina a negare la grazia, è tuffato nel fiume. La pioggia cadrà sicuramente nelle ventiquattr’ore (4).
Non sono i paesi cattolici ad avere il monopolio di tali cerimonie, giacché in altri luoghi, come nella Mingrelia (5) e nell'Estremo Oriente, si- trovano casi analoghi. .Gli Scian affondano nell’acqua le statue di Budda quando il riso si'dissecca per mancanza di pioggia (6).
Accade ancora di vedere bagnati reliquie e reliquiari e frammenti di oggetti sacri. La parte per il tutto. In Francia gli esempi sono frequenti (7). Nella Valtel(1) Brinati, Canti Sacri e Leggende Religiose, nella Calabria, anno VI, 1893, p. 3, >894. P- 57(2) SÈBILLOT, Op. Cit., pp. 244-245.
(3) Bèrenger-Fèrand e De Mortillet nei Bulletins de la Société d'Anthropologie' de Paris (4' Serie, II, 1894) pp. 306, 310; Bèrenger-Ferand, Supcrstilions et Survi-vances, I, 477.
(4) Le Brvn, Misi. Critique des Pratiques Superslitieuses (Amsterdam, 1733, 1,' 245): BÈRENGER-FÈRAND, Op. Cit., 1. C.
(5) Lamberti, Relation de la Colchide ou Mingrélie, Voyages au Nord, VII, 174 (Amsterdam, 1725).
(6) Hallet, A Thousand Miles on an Elephant in thè Shan States (Edimburgo e Londra, 1890), p. 264.
(7) SÈBILLOT, op. cit., 245.
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328 lina, in caso di siccità, si lavano nel torrente dei teschi antichi conservati nella chiesa di S. Salvatore (1). Questa operazione si suole fare anche in caso di inondazione, ed essa è una conferma dell’origine magica della cerimonia. Perchè l’arte dei maghi ha, oltre i riti di natura positiva atti a portare l’effetto desiderato, anche quelli di natura negativa, atti ad ottenere l’effetto contrario, neutralizzando o impedendo il primo. E il popolo, che è il depositario tenace delle tradizioni dei maghi e degli stregoni, conosce insieme alle pratiche per produrre la pioggia, la bufera, anche quelle per evitarle o arrestarle, quando il prolungarsi di esse potrebbe riuscire dannoso. Ecco qualche ricordo.
Al ramoscello che il sacerdote di Giove immollava nella fonte del monte Liceo per ottenere la pioggia, pare faccia opposto riscontro il ramo con cui il mago della tribù di Alquamar, nell’Hadramut, impediva il disciogliersi delle nuvole, accendendolo prima, e adacquandolo poi. La pioggia (è lo storico arabo Makrisi che parla), si arrestava nel momento in cui l’acqua, cadendo sul ramo in fiamma, si evaporava (2). Tra noi, comunemente, dal volgo si ritiene di poter dissipare le nubi temporalesche. dando fuoco ai tizzoni del ceppo di Natale e gettandoli sul tetto della casa o esponendoli, alla finestra; accendendo nei crocicchi palme benedette e carboni natalizii, bruciando i fiori gettati sulle statue al passare nelle vie nei giorni delle feste e dandone al vento le ceneri, giacché «si ritiene fermamente che il fumo sollevantesi dalla combustione abbia la virtù di scongiurare potentemente la caduta della grandine» (3). In alcuni paesi dell’Umbria e dalla Calabria si appiccano all’aperto dei fuochi, che ad Amelia, a San Vito in Monte (Perugia), a San Pietro (Cosenza) debbono essere determinati da paglia bagnata, da legna umida, tutoli di frumentone, stipa inumidita perchè producano molto e denso fumo (4). A Loreto Aprutino si buttano sulla strada i panini di San Nicola, nella convinzione che « a misura che quei panini duri s’immollano, bevono l'acqua cattiva » (5). E vi ha ancora dell’altro. Come in alcuni villaggi calabresi in casi di prolungata arsura la statua del patrono è portata nell’aperta campagna perchè senta il calore insopportabile del sole (6); così, in altri luoghi, estendendosi a lungo il maltempo,
(1) Archivio delle Tradii. Popot. Italiane, XVII, 1898, 422. La divinità oltre che dalla reliquia, può essere rappresentata dal suo sacerdote. Nella Russia il sacerdote, durante la processione, è gettato a terra e bagnato dai suoi fedeli. Nel Poitou e in altri luoghi, al tempo della processione al santuario del Morvan, il curato subisce la prova dell’acqua. Frazer, I, 102; Sèbillot, 244, 245.
(2) Noskowyj, Magrizii de Valle Hadhramaut Libellus arabico editus et illustralus (Bonn, 1866), p. 25.
(3) Bellucci, La grandine nell’Umbria, p. 75: Finamore, Credenze, usi e costumi abruzzesi, p. 28, 30.
(4) Dorsa, La Trad. Greco-Latina nella Calabria Citeriore (Cosenza, 1884), P- X3O: Bellucci, op. cit., 80.
(5) FlNAMORE, op. cit., 1. C.
(6) ■ A Paradisoni, circondario di Monteleone, portavano S. Pietro, patrono, e S. Francesco in una cuntura (terreno senz’alberi, coltivato) e ve li lasciavano legati con una fune fino a che non si fossero decisi a far piovere... A Conidoni, paesetto vicino a Paradiso™, facevano quasi lo stesso; meno che il santo era uno solo e lo lasciavano nel campo senza legarlo ». Brinati, op. cit., I. c. In un villaggio delle Alpi giapponesi, quando la divinità locale è rimasta sorda alle preghiere degli abitanti, che domandano la pioggia, si precipita la statua in uno stagno perchè senta l’acceso calore del sole. Frazer, op. cit., p. 113.
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l’immagine del santo è esposta alla bufera perchè ne risenta gli effetti e ponga il rimedio. « In qualche comune — scrive queirinsigne folklorista che è Gennaro Finamore (1) — si porta la statua del santo protettore in luogo eminente, e vi si lascia stare fino a che il pericolo di una tempesta non sia cessato. Se la grandine cadesse, tanto peggio pel santo che non abbia voluto o potuto tenerla lontana. I fedeli prenderebbero il coperto, e il santo l’avrebbe tutta sulle spalle ». In un borgo della Calabria, a Fagnano Castello, un tempo, a quanto dicesi, il simulacro di San Sebastiano, quando nevicava molto, veniva legato con una fune e lasciato sulla montagna esposto alla neve, al vento, alle intemperie (2).
Queste e altre simili cerimonie e consuetudini popolari in cui i santi e gli idoli sono minacciati o maltrattati, posti in luoghi umidi, qualora non apportino la grazia domandata dai fedeli, possono riguardarsi come modificazioni dell’antico tipo rituale. I contadini della Cornovaglia, nell’Inghilterra, al principio del secolo decimosettimo, minacciavano. i santi delle chiesette più prossime ai loro villaggi di ogni sorta di cattivo trattamento se non avessero assicurato il ritorno dei loro cari, ed eseguivano infatti la minaccia percotendo le sacre immagini e collocandole nell’acqua. I pescatori poi, legavano le statue, apostrofandole in malo modo e facendo l’atto di gettarle nel mare, per intimorire la divinità dalla quale invocavano il favore della brezza. E allorquando il vento era contrario, le donne della piccola isola di San Quay, presso la costa settentrionale della Francia, scagliavano della polvere contro la statua del santo, che aveva la virtù di far cambiare il vento (3).
Nell’estremo sud del continente europeo, in Calabria, a Cetraro, ogni ventuno di marzo l’immagine di San Benedetto è trasportata sulla riva del mare Tirreno perchè lambisca col piede le onde e mandi l’acqua. Ma quando questa non viene a ristorare le arse zolle, il santo è legato, con funi e costretto a rimanere in tale stato per giorni e settimane, in mezzo della chièsa, e talvolta è tradotto per le vie del paese (4). A Nicotera solevano pure, fino a non molti anni fa, legare San Giuseppe e quindi coprirlo d’ingiurie. E si narra che l’impresario della festa, per scongiurare il cattivo tempo che impediva l’uscita della processione, «legò il santo mani e piedi, spense le candele accese attorno a lui, minacciandolo che, se non avesse fatto il miracolo di far rasserenare il tempo, lo avrebbe lasciato all’oscuro e senza pompa » (5).
Anche i cacciatori d’Arcadia, quando non erano contenti della cacciagione, percotevano l’idolo di Pane; come i contadini spagnuoli battono le loro Madonne (6). E mentre quei di Tiro incatenavano la statua del Sole, i Greci di Ghio avvolgevano con funi la statua di Padre Libero; gli Efirei, quella di Diana; gli Spartani, quella di Venere; come i Romani quella di Saturno. Forse, per assicurarsi la protezione di
1) Op. cit., p. 28.
2) De Giacomo, op. cit., p. 124.
3) SÈBILLOT, op. cit., p. 285.
4) De Giacomo, pp. cit., 1. c.
5) Laureami, Pregiudizi religiosi, nella Calabria, anno VI, 1894, PP- 34*35! Brinati, Canti Sacri e Leggende Religiose, nel periodico cit., anno VI, 1894, p. 57. L’uso esiste anche altrove. V. Pepe, Storia di Castrovillari, p. 370.
(6) Daremberg et Saglio, Dictionn., V. Pan.
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tali dei, perchè legati non fuggissero da loro? (i). 0 forse, per infliggere una punizione? La prima opinione è fantastica (2) perchè sorge dalla considerazione che il popolo, lungi dall’idea di maltrattare la divinità, abbia avuto sempre il preoccupante pensiero di accattivarsene le grazie; mentre, in sostanza, negli aneddoti di vita religiosa ricordati, ha luogo un vero e proprio sistema punitivo. Su questo principio si basa l’altra interpretazione del fatto di legare, minacciare, percuotere i santi e gli idoli; ma se essa, è ammissibile a spiegare il criterio da cui parte il popolo nel momento in cui compie il fatto; è da respingersi quando con essa si creda di. poter illuminare il processo storico del rito. Di fatti non si può negare che la cerimonia essenziale e principale sia quella d’immergere nell’acqua il simbolo o la statua del dio o del santo in luogo del mezzo magico (pietra, ciottolo, ramo, ecc.); e che ad essa poi, coll’affermàrsi del concetto della personalità dell’essere divino, s’uniscà quella di legare l’idolo; e che, più tardi, scomparsa o decaduta la ragione magica, rimanga l’uso come minaccia o punizione della -divinità. Le prove sono nella scena di Licata, ove il Sant’Angelo è minacciato di essere legato pel collo e affogato nel mare; in quella di Catanzaro, ove il Sant’Elia è avvolto con una corda e calato in una cisterna; in quella di Cetraro, la quale fa vedere la scissione dei due episodii: quello della bagnatura e quello del legamento.
Errerebbe chi volesse considerare/come semplice fatto punitivo l'uso di sovrapporre alla statua un mantello bagnato, come sogliono fare i contadini di Longo-bucco in Calabria, come mezzo per far cessar la pioggia; e quello di applicare sulle labbra, all’immagine sacra, una sardina salata, come espediente per ottenerla.
A mano a mano che si forma, si sviluppa, si perfeziona nella concezione umana il tipo della divinità con bisogni e organismo analoghi a quelli della creatura terrena, al rapporto magico per cui il simile reputasi agire sul simile,. per via diretta o mediata, e produrre risultati della stessa natura della causa operante (dall’àcqua che avapora si leva una nube che attira le sorelle del cielo, e ricade in pioggia; dal tizzone bagnato o dalla paglia umida sorge un denso fumo, che dilegua dall’alto le minacciose nubi), se ne sostituisce un altro di carattere ñon più magico, ma animistico, in cui l’essere mortale si presenta all’essere immortale e antropomorfo, quasi dicendo: « Se mi largisci il bene, ti tratterò con devoto riguardo; se mi dispensi il male, io ti maltratterò». Onde le minaccie e le ingiurie, le percosse e i tuffi nel- / l’acqua, che assumono forma di castigo inflitto alla persona del dio, qualora non accondiscendesse ai voleri e alle aspettative dei suoi devoti. E questo ha luogo così nel feticismo, come nell'idolatria, così nel culto pagano, come in quello di Budda e in quello degenerato di Cristo; così per gli idoli di Pane, di Saturno, di Padre Libero, di Diana, di Venere; come per le statue di San Pietro, San Giacomo, Sant'Elia, Sant’Angelo, San Benedetto, dell'Ecce Homo, e così via. ’
Raffaele Corso.
(1) Plutarco, Quest-. Romana, LXI; Lobeck, p. 275; Tylor, op. cit., II, 220 Dorsa, op. cir., p.71; La Calabria, XI, p. 5. .
(2) Simili opinioni appartengono al tempo delle interpretazioni simboliste n Mancini (Archeol. Greca, IV, 196, Napoli, 1820) crede che la Venere armata, $h§ «]j Spartani veneravano sopra un colle, col capo coperto e le catene ai piedi, simboleggjasse la fermezza con cui le donne debbono essere legate ai loro mariti.
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LA GUERRA E LA PACE
NEL PENSIERO DI LUTERO
IL RIF( AMATORE
a riforma religiosa, della quale, al principio del xvi secolo, fu iniziatrice e centro propulsore la Germania, fu un evento di così straordinaria importanza che superò la sfera della vita e degli interessi di un popolo per esercitare una decisa influenza su tutto il corso della storia mondiale. Esso fu, nella sua essenza, un ritorno alle pure fonti del Cristianesimo, ma esso avanzò di molto il contenuto e i limiti di una rivoluzione teologico-dommatica, e segnò il cominciamento di una
azione di nuove forze spirituali in tutta l’attività morale, sociale, politica di alcuni dei principali paesi d’Europa.
E per intèndere la sostanza vitale di quel vasto movimento che fu la Riforma luterana è necessario penetrare bene il pensiero di colui che ne fu l’audace iniziatore.
Martino Lutero fu uno degli uomini più rappresentativi della stirpe tedesca, alla quale egli schiuse, con la Riforma, le porte di una nuova èra, e costrusse, per gran parte, come Dante fece per noi con la Comedi a, la lingua nazionale con la traduzione della Bibbia. Un peso superiore alle sue forze chiama egli l’immane lavoro, ai quale dette principio nel 1521: « noi tutti, scrive all’Amsdorf, dovremmo consacrarvi l’opera nostra, perchè la Bibbia è il libro di tutti e della comune nostra felicità ». Guglielmo Scherer chiama la traduzione un capolavoro imperituro, che gettò le basi dell’unità linguistica della Germania; e Giacomo Grimm designò il nuovo alto-tedesco come « il dialetto del Protestantesimo ». « Lutero non è solo
il più grande, ma anche il più tedesco uomo della nostra storia, scrisse Heine; nel suo carattere sono tutte le virtù e i difetti dei Tedeschi al più alto grado riuniti, e dalla sua persona è rappresentata la meravigliosa Germania» (1).
Ma noi non vogliamo accingerci ad uno studio di così vasta estensione quale sarebbe l’esame della mente di Lutero e della immensa opera da lui compiuta, sul quale soggetto, d’altra parte, già esiste una ricca letteratura formatasi, special-mente, in Germania e in Inghilterra. Noi vogliamo limitare la nostra indagine ad un campo più ristretto e ad un obietto ben determinato, cercare, cioè, di conoscere quale sia stato il pensiero di Lutero intorno ad uno dei massimi problemi della storia, il problema della guerra e della pace, ricercare se egli abbia stimato
(1) Heine, Germania. Sulla storia della religione e della filosofia in Germania. Kibro I.
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conciliabile la professione della pura fede cristiana con l’ufficio delle armi, il Cristianesimo con la guerra. I risultati di questa ricerca acquisteranno, forse, maggior valore se verranno considerati in relazione ad alcuni intimi aspetti della religiosità tedesca, quali ci si rivelano nel grande dramma che, da quasi quattro anni, va tingendo il mondo di sanguigno, e ad alcune sue profonde, quasi ascose, forze che pure esercitano una grande influenza nel campo dei valori etico-religiosi.
Il pensiero di Lutero ci è, meglio che da ogni altro dei suoi scritti,; messo in evidenza dal suo opuscolo apparso nel 1526: « Se la gente di guerra possa, anche essa, essere in istato beato » (1) e col quale egli rispose al quesito postogli da un nobile di Biunswich: Assa von Kram.
Si racconta che il pittore Luca Cranach, amico personale di Lutero, presentasse una copia dell’opuscolo, senza il nome dell’autore, al duca Giorgio di Sassonia, uno dei più accaniti avversari di Lutero e della Riforma, e che il Duca, dopo averlo letto, esclamasse: « Voi vantate sempre il vostro monaco di Wittemberg come il solo dotto e coinè il solo il quale possa parlar bene il tedesco e scrivere buoni libri. Ma voi avete tòrto su ciò come su altre cose. Vi è qui un libro migliore, in verità, di quanti altri possa averne scritti il vostro Lutero». Ma quando Cranach porse al Duca un'altra copia del libro col nome di Lutero quale autore, il Duca fu urtato e proruppe: « È intollerabile che un così abbominevole monaco possa avere scritto un libro così buono! ».
L’opuscolo, del quale mi è caro offrire ai lettori di Bilychnis la prima versione in italiano nei passi più sostanziali e significativi (2), lasciando da parte le prolisse esemplificazioni e i brani di troppo arida trattazione teologica, ci pone sott’occhi i canoni fondamentali della dottrina riformistica per quanto ha rapporto con la trattazione dell’argomento.
In esso, in quello stile che riflette la forza incontenibile dell’innovatore, e che talora rasenta una certa quasi volgare rozzezza, talora si eleva ad altezze sublimi, spesso il teologo mostra di non essersi àncora del tutto liberato dall’abito mentale delle sottili distinzioni e dei sofismi scolastici'— e il lettore rileverà ciò da sè facilmente— ma, per contrapposto, quale potenza di pensiero egli non ci rivela quando, in antitesi al metodo scolastico che aveva tutto subordinato ad servitutem ecclesia#, costruisce, come un monumento imperituro di granito e di bronzo, l’edificio della nostra interiore inviolabile libertà di esame e di giudizio!
IL REGNO INTERIORE. LA GIUSTIFICAZIONE PER LA FEDE
Lutero, scrivendo della guerra, mette come fondamento di ogni azione il valore primordiale della sua dottrina: l'elemento interiore. L’opera e l'ufficio sono, per sè stessi, buoni, ma, perchè possano rimaner tali e perchè colui che li adempie
(1) D. Martin Luthers, Wevke-Kritische Gesammrausgabe, 19 Band, Weimar, Hermann Bòhlaus Nachfolger, 1897: « Ob kriègslcute auch ynn seligen stand seyn kùnden ».
(2) Verrà pubblicato in un prossimo fascicolo. Red.
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LA GUERRA E LA PACE NEL PENSIERO DI LUTERO 333
possa restare fedele alla legge divina e salvarsi, occorre che essi siano compiuti con assoluta purezza di sentimento e di volontà. Così, sul primo schiudere il breve libro, troviamo l’enunciazione cardinale dell’insegnamento cristiano quale ci appare in Paolo e in Aurelio Agostino e quale fu ripreso da Lutero: « L’uomo è giustificato per mezzo della fede, senza le opere della legge » (i). Anche qui vediamo come il maggior merito della Riforma non fu quello di avere sostituito all'autorità della Chiesa l’autorità del libro e al principio « Là è il Cristo dove è la Chiesa, e là è la Chiesa dove è il papa » l’altro « Là è la Chiesa dove è il Cristo e là è il Cristo dove è la Bibbia». Il suo merito sovrano fu quello di avere ricondotto la religione dalla cura delle pratiche esteriori al dominio interiore, e di avere introdótto, come metodo, in un movimento, che pure aveva così prevalente carattere dommatico, il principio del libero esame. Questo applicato, non nel campo ristretto dell’attività scientifica, come avvenne in Italia, ma in quello infinitamente più vasto e fecondo della religiosità popolare, nella vita di un popolo, che, per peculiari circostanze della sua storia, possedeva ancora, allo inizio del xvi secolo, uno stato entusiastico di fede, dette frutti di una portata e di un valore così considerevole che ancora' oggi è difficile valutare.
Benché Adolfo Harnack (2) pensi che è già un recare offesa alla religione il domandare quale influenza essa abbia eseicitato nello sviluppo della civiltà sociale, essendo essa un valore dell’intima e più ascosa coscienza individuale e come tale operante nel mondo della nostra interiorità, tuttavia noi, pur ammettendo la giustezza del rilievo dal punto di vista della valutazione del puro fenomeno religioso, non possiamo rinunciare a riconoscere la importanza del rapporto di connessione che corre tra i due termini: natura e grado di religiosità di un popolo e sviluppo dei suoi valori psichici e delle intime energie della sua vita morale.
Certo quell'aver posto la coscienza del singolo individuo direttamente al cospetto di Dio, quel non aver veduto nell'intima elaborazione religiosa del nostro io che l’anima e il suo Dio, quello avere indotto lo spiiito a farsi, da sè, un suo mondo religioso penetrando, da solo, la riposta significanza della parola divina, senza adagiarsi nella facile pace di una comoda inerzia mentale e della docile accettazione di una esteriore guida umana, quello avere attuata una così austera semplificazione del culto, purificandolo della materialità pagana che, ancora oggi, nel cattolicesimc, ne costituisce tanta parte — quella semplificazione che sta a rivelare l’ansiosa sollecitudine’che nulla distragga l’anima dall'oggetto della sua interiore contemplazione — tutto questo affinamento delle nostre intime attività spirituali ha operato, potentemente, per vie molteplici e sottili, sulla formazione dell’anima dei popoli òhe accolsero la Riforma.
Poiché che cosa è l'ànima individua, l’unità-cellula onde si compone l’anima di tutta una nazione, se non il frutto d’un processo d’interiore formazione? Noi la plasmiamo traendola dagli abissi oscuri della forza bruta e del cieco istinto.
(1) Paolo, Ai Romani, HI, 28.
(2) Harnack, L'essenza del Cristianesimo, Conferenza i.
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noi la alimentiamo e la facciamo in ogni ora del nostro vivere. Il lento lavorio di affinamento degli elementi greggi e primigeni è una elaborazione delle piò ardue — eroica quando attinge le pure vette della santità — ma è soltanto attraverso questa faticosa ascensione, che talora diventa un acuto tormento, che l’anima riesce ad accostarsi all’ideale divino di perfezione e ad acquistare il pieno dominio di sé stessa.
Ora occorre considerare che ciò che importa, sommamente, nello sviluppo delle forze morali di un popolo, non è tanto il creare poche alte individualità morali quanto il determinare un'alta media di comuni valori morali, favorire, cioè, la formazione d.:l più gran numero possibile di coscienze morali — nel grado maggiore di compiutezza che sia dato raggiungere — in guisa da ottenere la più estésa ed intensa valorizzazione di singole forze individuali.
Nel campo religioso non è l’eroe-santo quello che testimonia del grado di religiosità del suo tempo, ma questo ci è fatto manifesto dalla media dello spirito religioso della comunità.
Il santo sorge nella sua ora, giunge dai regni lontani dello Inaccessibile, nella pienezza della sua luce, come un miracolo della Grazia, ma esso è, quasi sempre, in pieno antagonismo con il suo secolo. Per quanto potente possa essere la sua azióne sugli spiriti dei contemporanei e dei posteri questa non determina, se non in pochi eletti i rapidi e compiuti rinnovamenti morali. Nella grande maggioranza delle coscienze, e più precisamente, nella vita d’una società, le rinascite non si realizzano se non attraverso lente, graduali superazioni di stati d’animo, che attingono la loro ragione di essere, più che dalla suggestione dello esempio eroico e dalla capacità d’imitazione, da altre forze spirituali operanti per altre vie e con altri mezzi. Anche qui vale la legge naturalistica: « natura non facit saltus ».
Se consideriamo come questa cresciuta valorizzazione della nostra interiorità, che potremmo chiamare il dinamismo della Riforma, sia stato, moralmente, feconda di vitali risultati, intenderemo l’importanza fondamentale che Lutero dava ad essa anche nella persona del soldato e nell’attività cruenta del combattente per giungere alla sua concezione cristiana e mistica della guerra.
Egli, che non aveva veduto altra via di salute per il popolo che nel ritorno al Cristo «salus tua ego sum»; che aveva predicato che nelle università fino allora « porte spalancate dello inferno » dovesse cessare il dominio del « cieco e pagano maestro » Aristotele, per esservi sostituita la lettura della Bibbia come « il più utile e il più popolare degli insegnamenti »; egli che ha ritrovato la Chiesa soltanto nella « unione di tutti i cuori in una sola fede » e che ha proclamato che «le buone e pie opere non rendono pio un uomo, ma un uomo buono e pio fa opere buone e pie »; egli che in ogni cristiano ha ravvisato il sacerdote con tutti i diritti e gli uffici del sacerdozio; egli è potuto pervenire, attraverso l'intimo spirito di tutta la sua dottrina, alla affermazione che la guerra possa essere considerata come un'opera di amore.
Per lui il soldato deve partecipare alla guerra obbedendo agli ordini dell’autorità, ma convinto della giustizia e della bontà della causa, per la quale impugna la spada. Giudice supremo di questa giustizia e di questa bontà è la sua coscienza, ed egli
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deve rifiutare di combattere quando quella convinzione non è salda. Nel suo cuore non deve essere alcuna cupidigia nè di ricchezze, nè di onore, nè di gloria; niun orgoglio della propria bravura, niuna confidenza nel proprio diritto, ma soltanto la sicura certezza di servire una causa degna e la fede che la vittoria gli verrà, soltanto, dalla grazia e dalla misericordia di Dio. Dio è nella battaglia e in tutte le sue terribili necessità. La mano del soldato, che è quella stessa dell’Eterno, può, dunque, spargere intorno tutto il terrore di una strage feroce, e colpire senza pietà, ministra di una giustizia che non vuole conoscere pietà.
Il soldato come lo vuole Lutero è», così, un essere infinitamente diverso dall’eroe classico, dal campione di Roma e di Grecia. Esso è una creazione tutta affatto mistica, quasi irreale, che sta fuori del campo del comune determinismo economico ed etico delle azioni umane, sopra le grandi figure che imparammo a conoscere come le perfette-creazioni estetiche della storia delia guerra.
Nell’animo impetuoso ed ardente del riformatore la giustizia divina operante nella guerra ha tutta la inesorabilità dell’assoluto, e solo colui che ha trasceso, in cuor suo, la sfera dell’umano desiderio e degli amori umani, e ha raggiunto le certezze supreme della fede, può, senza peccare, esserne strumento. «Tu non potrai di una spada fare una penna, scrive Lutero allo Spalatino nel 1520, la parola è di Dio è spada, è guerra, è rivoluzione, è scandalo, -è veleno: essa, come dice Amos, va incontro ai figli di Efraim come un leone sulla via e come una leonessa nel bosco ». Lo stesso pensiero domina nelle parole sue a Melantone, in una lettera del i° agosto 1521: «Esto peccator et pecca fortiter. sed fortius fide et gaude in Cristo; qui victor est peccati, mortis et mundi... Ab hoc non avellet nos pee-catum etiamsi millies uno die fornicemur aut occidamus».'
Qui la dottrina paolina della giustificazione per la fede è portata al suo più alto grado di potenza, e rasenta, si può dire, una fanatica esagerazione, alla quale, certo, non partecipano- oggi gli spiriti equilibrati della grande maggioranza del mondo protestante. Ma è in virtù di questa mistica esaltazione, che parte dello esatto presupposto che il Cristianesimo è, sopratutto, nella sua essenza, una conquista della nostra interiorità, che il soldato può apparire agli occhi di Lutero come un mite, puro e benefico sacerdote del governo e dalla giustizia temporale, e le sue mani restare incolpevoli sopra l’orrore delle rapine, delle uccisioni e del sangue.
Quale contrasto tra questa concezione della guerra e quella del De Maistre tutta penetrata di spirito paganamente materialistico e fatalistico, tutta spirante amore di gloria mondana!: « Dans le vaste domaine de la nature vivante il règne une violence manifeste, une espèce de rage prescrite qui arme tous les êtres, in mutua fuñera... La guerre est divine dans la gloire mystérieuse qui l’environne, et dans l’attrait, non moins inexplicable, qui nous y porte » (1).
(1) Joseph De Maistre. Les Soirées de Saint-Pétersbourg. La guerre.
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LA DOTTRINA DELLO STATO. LA MISSIONE DELL’AUTORITÀ CIVILE
Pari, per valore e per significazione, a questo elemento fondamentale del pensiero di Lutero — la purezza interiore che rende possibile la giustificazione per la fede — ci appare, nelle pagine del riformatore, l’altro elemento, quello, cioè, della concezione che egli ebbe della potestà sovrana dello Stato, ovvero dei diritti del-F Autorità civile.
Egli ha collocato al sommo della scala dei valori morali il governo e la giustizia spirituale, e ha loro assegnato, unica arme ed unico strumento del loro ministero, la forza pacificamente e divinamente propagatrice e trionfatrice della parola che conduce alle beatitudini. La. parola è per lui la scaturigine inesauribile della verace vita e della invincibile virtù. Egli l’ha cantata nell’inno guerriero col quale, insieme ai suoi compagni, è entrato a Worms: « Il principe di questo mondo — per quanto ci sembri crudele — non ci potrà affatto nuocere: —una breve parola, ciò è scritto. — può ricacciarlo di nuovo. La parola ci deve essere lasciata — e non renderemo grazie per questo. — Essa è con noi e per noi, — con tutto il suo spirito e i suoi doni. — Si prendano il nostro corpo — i beni, l’onore, i figli, le donne, oh facciano pure! — Essi non guadagneranno niente: — L’impero dovrà restare a nói! (i).
Ma egli ha anche riconosciuta la necessità del governo e della giustizia temporale, del cui ministero è arme la spada, e a capo di essi ha posto un’inviolabile, intangibile autorità, che egli vuole rimanga tale per i sudditi, quando anche sì gravi di tutti i peggiori delitti della tirannide. Così il principio di autorità è fermato da lui sopra basi incrollabili, poiché, per lui, ogni sovranità viene da Dio e finisce in Dio. Mentre egli eleva giudice incontrastabile della giustizia della causa la coscienza individuale, quando.si tratti di muovere in gùerra per ordine dell’autorità, e riconosce all’uomo il diritto di rifiutare la sùà obbedienza, d’altra parte, gli nega ogni possibilità, in tutti gli altri casi, di ribellarsi all’autorità e di opporre ad essa la forza.
Questo suo pensiero lo ritroviamo dovunque egli tratti la medesima questione, e, più che altrove, ampiamente svolto nello scritto: «Sulla Civile Autorità».
È anche questo concetto una pura derivazione della dottrina di Paolo intorno allo Stato: « ogni anima sia soggetta alle potestà superiori; imperocché non è potestà se non da Dio, e quelle che sono, sono da Dio ordinate » (2).
Se oltre le ragioni dottrinali altre d’indole pratica e più immediata agissero in Lutero nel consigliargli d’inculcare ai credenti il rispètto assoluto alle autorità, anche quando la loro signoria degenerasse in tirannide, non è facile dire.
Certo è che egli; — che aveva trovato protezione e salvezza presso un potente, l’elettore di Sassonia Federico il Savio — ebbe alleata, nella grande audace lotta.
(1) Heine, op. cit., libro I.
(2) Paolo, /li Romani, XIII, 1
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la bassa nobiltà tedesca malcontenta, per diverse ragioni, delle condizioni sociali e politiche dell’impero, e la quale si era venuta abituando all’idea di un violento cangiamento di cose, sino al punto di divenire un elemento rivoluzionario.
Nel sermone sulle buone opere — marzo 1520 — egli aveva fatto la sua professione di fede economica, dichiarandosi a favore del- lavoro agricolo, e dimostrando la eccellenza di esso .sovra tutti gli altri generi di attività economica. Viveva in lui ancora l’etica medioevale in fatto di economia.
L’aristocrazia agraria, con l’Hutten alla testa, nemica delle città scorgeva la difesa dei suoi interessi nella guerra decisa che Lutero bandiva contro la potenza del danaro, e mostrava le maggiori simpatie e prestava il più valido appoggio al monaco riformatore.
Quali che siano state, in ogni modo, nel suo pensiero, le ragioni prevalenti egli si è, sopratutto, preoccupato di consolidare il principio di autorità, che ha da attuare e difendere nel mondo il Bene e combattere il Male; e di questo principio ha veduta la vivente incarnazione nello Stato. Nei suoi maggiori scritti, ai quali attese durante l'anno 1520 e i seguenti, si adoperò a restituire alla vita mondana e allo Stato i loro diritti, o, per dirla colle sue parole, « il loro carattere divino ». Già in alcune lettere allo Spalatino aveva accennato ai rapporti tutt’altro che naturali tra Chiesa e Stato, tra la società laica e la ecclesiastica. Più tardi non esitò a portare queste questioni in pubblico e a discuterle liberamente.
Nello studio di così importante materia gli aspetti pratici della vita sociale erano stati da lui seriamente considerati; e, così, egli aveva pensato* al riordinamento dei servizi municipali, tra i quali voleva efficacemente curato quello della benefi-. cenza pubblica a mezzo di una larga organizzazione di istituzioni sociali (1).
Lo Stato, nella mente di Lutero, ha una grande missione da compiere: quella di assicurare la pace al popolo, cioè garantirgli l’ampio, tranquillo e ordinato svolgimento delle sue attività spirituali e materiali e difenderlo da qualsiasi attacco nemico. La pace è il bene supremo, il dono più alto concesso da Dio agli uomini, epperò la guerra deve avere, sopratutto, la funzione di prevenire il turbamento della pace da parte dei malvagi. La guerra .è, per lui, una breve limitata infrazione della pace fatta per evitarne una più estesa e di più lunga durata.
Poiché lo Stato ha un alto fine etico da raggiungere, la guerra è uno dei mezzi in virtù dei quali quel raggiungimento è reso possibile. Ma entro quante e quali limitazioni l’esercizio di esso non deve essere ristretto! Solo la guerra difensiva, dalla quale sia escluso ogni desiderio di conquista, di arricchimento, di onore e di gloria può essere giusta. Si direbbe che il medesimo processo d'interiore purificazione che Lutero vuole si verifichi nell’animo di ogni soldato debba, secondo lui, aver luogo nella volontà, nell’atto e nella funzione imperativa dello Stato.
Machiavelli proclama « quella guerra è giusta che l’è necessaria, e quelle armi sono pietose dove non si spera in altro che in elle » (2). Ma Lutero porta ad
(x) Per queste e per altre notizie sulla materia vedi la magistrale opera: Federico Von Bezold, Storia della Riforma in Germania.
I (2) Macchi avelli, Il Principe, Cap. XXVI.
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una concezione, eticamente, più alta la valutazione della giustezza della guerra, sottraendola allo apprezzamento del criterio relativo di necessità — nel quale possono trovar posto, facilmente, tutte le ragioni di ampliamento o di conservazione di conquiste imperialistiche — e segnandone la giustificazione, soltanto, in una preventiva difesa del Bene, in una. non troppo ritardata opposizione al trionfare del Male, quando questa difesa e questa opposizione appaiono inevitabili al giudizio del Principe.
Così pel grande riformatore la missione dello Stato si identifica, quasi, con l’attuazione della volontà divina nel mondo: non il mutevole apprezzamento della condizione di necessità,- ma la legge stessa di Dio, la sua parola, devono essere guida al Principe nel fargli assumere la più ’alta responsabilità che possa gravare sulla sua coscienza.
Sono chiaramente riconoscibili, in questa materia della dottrina di Lutero, le derivazioni della « Civitas Dei » di Aurelio Agostino e quelle anteriori della teoria platonica intorno allo Stato, secondo la quale questo viene concepito come un uomo in grande. Come Platone aveva fondato l’idea di Stato su presupposti naturalistici e psicologici, cosi Agostino e Lutero la consolidano e la sviluppano su basi puramente morali e religiose.
Se dunque lo Stato ha una-così importante, capitale, finalità etica da attuare esso deve stare da sè, liberato da ogni soggezione alla potestà sacerdotale gerarchica, al Papato. Qui appare la decisa fisonomía politica della Riforma e il suo carattere nettamente antiromano.
L’ELEMENTO POLITICO E L’EMANCIPAZIONE DA ROMA
Fu detto, in fatti, che la Riforma fu antigerar^hica, antipapale e antiromana; ed è vero. Essa fu rivoluzione, oltre che religiosa, sotto alcuni aspetti, anche politica. La lotta ghibellina contro il Papato era stato il primo cozzo violento dell’idea imperiale tedesca, contro Roma, ed era finita con la vittoria guelfa. Ma essa riprese, più tardi, sul terreno spirituale, col movimento che il figliuolo del povero minatore di Eisleben iniziò a Wittemberg e affermò a Worms, e che distruggeva, nelle radici, l’autorità del papa e della chiesa e rompeva, nella sua intima tessitura, l’unità cattolica per gettare le basi d’una grande democrazia religiosa.
La libertà d’esame e d’interpretazione della parola divina, rivendicata alla coscienza individuale, trasferiva l’autorità religiosa dal sacerdote al singolo credente e poneva di fronte al Papato — antitesi irreconciliabile — il concetto etico-giuridico dello Stato moderno.
Roma, che portava nel suo destino la forza, fatale d’una parola universale, e che questa aveva già diffusa nel mondo con la sapienza e la formula del suo Diritto, aveva conferito al nuovo istituto, al Papato, il suo- carattere cosmopolita, che superava e assorbiva, nella vasta orbita della sua virtù di espansione, ogni entità ed ogni valore nazionalistico.
Così la nuova sovrana potestà spirituale, che era venuta crescendo nell'orga-
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nismo d’una grande istituzione giuridica e politica, affermava il suo predominio su tutte le altre potestà terrene e la supremazia del suo impero sulle coscienze, di contro ai diritti che sulle medesime esercitava l’autorità civile. Il dualismo nato, in tal modo, e cresciuto nella coscienza umana del mondo cattolico-latino pareva incomponibile; e il conflitto rinasceva ad ogni passo dall’attività del credente e del cittadino.
La Riforma oppose alla universalità imperiale del Papato il concetto di una religione nazionale autonoma e la possibilità d’una armonica coesistenza, nella città terrena, dei doveri e della missione del cittadino e del cristiano. Così essa segnava nella società germanica le linee direttive dello Stato moderno, il quale più tardi doveva raggiungere, nel pieno rigoglioso sviluppo del pensiero dello stesso popolo che aveva compiuto la grande rivoluzione spirituale, la più alta concezione della sua funzione etica, la più compiuta struttura giuridica e la missione la più imperativa.. Certo senza la tappa della Riforma non sarebbe stato possibile il fenomeno che pare da essa così lontano e così ad essa opposto e pure ne discende tanto intimamente e direttamente, la formazione, cioè, della dottrina dello « statismo » che è la base del « Deutschtum », e alla quale Hegel portò così formidabile contributo, affermando che lo Stato è necessario e divino. Per lo Hegel lo Stato è la realtà piena della idea morale: nella esistenza dello Stato consiste il procedere di Dio nel mondo. In quella dottrina come osservò il Vera (i), germanesimo e assolutismo dell’idea di Stato si compenetrano e si confondono. Già lo Schlegel (2) aveva scritto: « appartiene a noi d’accelerare la grande rivoluzione che si compie nel mondo e d’instaurare il regno visibile di Dio! Sarà mediante l’idea di Stato che si risolverà la crisi moderna, e per questa via l’ideale germanico si realizzerà ». E Lorenz von Stein diceva: « noi non ammettiamo che si possano imporre dei limiti alla idea di Stato: « die aufgabe des Staats ist eine begrifflich unendliche! ».
Così il moto che era stato, al suo inizio, la più ampia e radicale rivendicazione della libertà di coscienza individuale contro l’idea assoluta d’autorità rappresentata da Roma, e che aveva dato vita al più esteso sviluppo della libertà di pensiero nel campo filosofico e letterario, mette capo, attraverso il necessario stadio dell’emancipazione del pensiero tedesco dal romanismo, alla idea metafisica hegeliana dello Stato entro cui il diritto dell’individuo annega e si perde!
Il Papato aveva scritto, nei duri secoli di ferro e di sangue, di cieco dominio della violenza e della forza, le pagine più luminose della sua grande storia, partendo dalla premessa della sua incontrastabile supremazia morale nel mondo; ed ancora oggi la sua precipua ragione di essere, storica e politica, risiede nella volontà di conservazione del suo carattere d'istituto universale e del suo intangibile principio d’autorità.
E come oggi non può, così al principio del xvi secolo esso non poteva abdicare alla sua tesi fondamentale senza veder crollare l’edificio del suo potere. Ep(1) Vera Aug.. Inlroduction à la Philosophie de Hegel, 2“ edit., Paris, 1864.
(2) Philosophie der Geschichte. 2° voi., i8z8.
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però quando la Riforma esplose, in tutta l'acre sua violenza di aperta e completa ribellione all’autorità tradizionale, fu contro di esso, contro Roma, che tutto un giovane, vasto e complesso mondo levò il capo e si eresse, accingendosi a costruirsi un suo destino ed un suo avvenire. Lo spirito antiromano ed antilatino del pan-germanesimo moderno risente, per gran parte, ed eccettuate le deplorevoli degen-nerazioni, dell’ant ¡romanismo della Riforma; ed è stato, certamente, in virtù di queste rispondenze di premesse e di postulati ideali che il più acceso esalatore odierno della storia tedésca ha creduto di potere rimproverare alla Frància come causa dei suoi mali « il calamitoso editto che bandi da essa la fede evangelica » (1).
In un senso meno politico e più largamente morale l’ant¡romanismo della Riforma fu un violento sentimento d’opposizione a ciò che costituiva la mentalità italiana al principio del xvi secolo, della quale il discepolo .diPoliziano.il pagano umanista Leone X. era l'uomo meglio rappresentativo, e che Lutero aveva avuto agio di conoscere, nelle sue manifestazioni salienti, con profondo scandalo della sua anima durante la sua visita a Roma nell’anno 1510; « non avrei mai creduto, egli esclama, che il Papato fosse un così grande errore (so ein grosser Gräuel) se non avessi veduto io stesso la corte romana ».
Di quello che fossero in quei giorni le condizioni della religiosità cristiana nella chiesa cattolica ci testimoniano, anche eloquentemente, le parole di Calvino. «Quando Dio ha, in principio, egli scrive, suscitato Lutero e i suoi compagni, che ci hanno illuminato con la loro dottrina per trovare la via della salvezza e che hanno fondato e istruito le nostre chiese, i principali articoli della dottrina cristiana erano quasi aboliti » (2).
Quell’austera reintegrazione del regno dello Spirito, di cui l’anima passionale del riformatore era assertrice e banderice, contrastava duramente con le condizioni di vita dell’Italia di quel tempo, che sfoggiava un elegante, sapiente scetticismo e adorava soltanto le pure forme della Bellezza, e che, come la Grecia dei primi anni della guerra del Peloponneso, nascondeva, nello splendore culminante del momento, ¡germi della fatale decadenza che doveva essere contrassegnata dalle sopravvenienti signorie straniere.
Quasi a conforto della vicina rovina una grande anima italiana tracciava, in quei giorni, con mano potente, il nuovo indirizzo realistico della storia, insegnando che bisognava considerare le cose nella loro verità effettuale; ma il «Principe» rimaneva, tuttavia, documento eloquente della moralità che dominava nel reggimento della cosa pubblica, così come 1’« Uomo savio » del Guicciardini segnava il livello della moralità privata.
In realtà la rinascenza italiana, seycostituì l’affrancamento della classe intellettuale dalla Chiesa, non fu rinnovamento della coscienza morale del paese. In Germania, invece, il movimento umanistico', di cui Erasmo fu tanta parte, e Norimberga il centro più splendido, fece sua la causa di Lutero e la lotta contro la scoti) Treitschke. La Francia dal primo Impero al La repubblica e il colpo di Stato.
(2) Calvino, Opera, VI, pag. 473;
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LA GUERRA E LA PACE NEL PENSIERO DI LUTERO 34r
¡astica, sicché la Riforma rappresentò, nel campo del sentimento popolare, uno dei risultati capitali e decisivi dell’umanesimo tedesco.
L’Italia, al contrario, aveva toccato il massimo fiore del suo splendore intellettuale ed artistico, ma aveva perduto ogni virtù di religiosità. L’ultima riviviscenza dello spirito dell’evangelo era sbocciata, sulle soglie estreme del mistico medio evo, accesa dall’anima ardente di Francesco, ma essa non era pervenuta a determinare la rigenerazione morale di tutto un popolo.
L’eroe ed il santo, il divino asceta, che aveva messo « nei cuori felici la nostalgia dei dolori ideali », e che aveva oltrepassato la sfera d’azione spirituale dello stesso Cristianesimo, dilatando il suo abbraccio di amore a tutte le creature sofferenti, anche oltre l’umanità, dell’unica universale' passione — Francesco non aveva potuto ricondurre il dolce paese sulle ardue vie della fede.
Niuno, forse, ha ritratto meglio le condizioni morali degli italiani della fine del xv secolo di come abbia fatto il Macaulay quand’egli, paragonando la vita e lo stato d’animo dei Greci di due secoli avanti Cristo e dei Romani loro signori, istituisce un confronto fra gl’italiani di quell’epoca e gli altri pòpoli d’Europa. « Prodi e risoluti, fedeli agl’impegni, e sotto potente influsso di sentimenti religiosi, i vincitori erano, al tempo stesso, ignoranti, despoti e crudeli. Il popolo vinto era depositario di tutta l’arte, la sciènza e la-letteratura del mondo occidentale; in poesia, in filosofia, in pittura, architettura, scultura non aveva rivali; di modi civile, di percezione acuta, d’immaginazione pronto; tollerante, affabile, umano, ma di coraggio e sincerità quasi totalmente destituito. Ogni rozzo centurione si consolava della sua inferiorità d'intelletto, osservando che il sapere ed il buon gusto parevano servir soltanto a rendere gli,uomini àtei, codardi e schiavi » (i).
La Riforma fu dunque, nel suo accentuato antiromanismo, — più di quanto non sembri a chi non ne penetri lo spirito — anche una vasta rivoluzione politica; essa fu il moto di emancipazione di un popolo, che le sue maggiori rivoluzioni ha sempre compiute, più che sul terreno delle esteriori mutazioni e sovversioni di ordinamenti statali, nel campo del puro pensiero e delle sue libere attività indagatrici. Più tardi verrà Lessing, il figliuolo spirituale di Lutero, a continuare l'opera rivoluzionaria; e poi, più tardi ancora, Emanuele Kant, il freddo, impassibile demolitore, che brandirà dal triste silenzio di Königsberg, la sua «Critica della ragion pura», più formidabile di tutti gli strumenti di distruzione, che, in quei giorni, operavano al servizio della grande rivoluzione.
LA CONDANNA DELLA CONCEZIONE PAGANA DELLA GUERRA. LA PACE CRISTIANA E LA STORIA
Lo scritto di Lutero, che abbiamo ora rapidamente esaminato nella sua intima essenza, ci mostra come nella mente dell’autore della grande riforma religiosa del xvi secolo la guerra, giudicata alla luce della pura fede cristiana, è colpita da una
(i) Macaulay. Literary Essays. Macchiavelli.
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condanna inesorabile. Lungi dal riguardarla, come gl'infatuati apostoli di tutti gl’imperialismi la riguardano ancora oggi, cioè, come il naturale, normale modo di divenire della storia, come il fatale estrinsecarsi della idea nella realtà, e come una prova della indentità che esiste tra razionale e reale, egli la considera come il più grave male che possa colpire la società civile, come l’antitesi della legge divina, e, spogliandola di tutte le attrattive e le seduzioni che essa ha, nelle civiltà pagane, esercitate sul cuore degli uomini, egli la restituisce — quasi creazione puramente ideale della sua mistica fantasia, senza riscontro nella effettuale vita delle cose — al severo ufficio di una rigida ministra di una più rigida giustizia divina. Sopra di essa, sulle sue stragi e sulle sue rovine, sul fosco impero della forza bruta e dell’odio fratricida, sta l'aspirazione nostalgica alla pace, che è il bene più prezioso e più desiderabile, la fervida ansiosa aspirazione delle anime alla pace cristiana.
Ma la pace cristiana non è quella che trae la sua ragione di essere e le sue salvaguardie dalle conferenze, dai trattati e dai codici internazionali. Essa discende da un ordine .di valori infinitamente più alto, dalle forze che risiedono fuori del terreno delle competizioni della guerra millenaria, delle sue torbide passioni, delle terribili cupidigie dell’amore e dell’odio. Essa viene dallo Spirito e vive per lo Spirito. Essa è al di sopra delle quotidiane lotte del nostro egoismo, comunque mascherato dall’ipocrita convenzionalismo sociale. Essa fiorisce nel regno interiore, nell’anima, pur nello impetuoso acre tumulto della circostante discorde vita, pur nel dilagante impero della tracotante impudenza della civiltà plutocratico-borghese, pur nella viltà della piccola transigenza diuturna delle pavide accomodanti coscienze. Essa è al di sopra di tutto questo, intangibile bene all'occhio del più acuto e implacabile inquisitore, ignorata ricchezza e inviolabile forza delle grandi severe solitarie coscienze, dei poveri e dei reietti del lieto, felice e gaudente mondo! Chi varrà ad infrangerla, o a turbarla soltanto, nello austero cuore che seppe conquistarla? Essa è la pace sovrana che Agostino ha scolpito con parole di verità folgorante quando ha detto: «Tu, o Signore, ci hai fatti a tua immagine, e il nostro cuore è inquieto finché non trovi la sua quiete in te».
Ma l’antico e sempre rinnovantesi dramma dèlia storia non mostra, certo! almeno per ora, di avere come epilogo questa pace. Le vie del millenario dissidio, che si riaccende sempre intorno alle stesse contese, alle medesime rivalità e ai consueti sogni di predominio, non conducono alle rive di quest'alfa sovrana quiete. Lutero stesso lo. ha riconosciuto quando ha detto che la beatitudine è il premio riservato soltanto ai militi della incruenta giustizia spirituale, ai pacifici annuo* ziatori della buona parola. La storia procede per le sue vie, che non sono quelle dell’interiore, libero e pieno dominio dello Spirito, e tutta la intima sostanza degli avvenimenti che ne costituiscono la trama, e che noi viviamo, sfugge, per la massima parte, alla nostra più sottile facoltà di penetrazione, alla nostra conoscenza e alla nostra esperienza. Essa non ci fornisce, nè'nella espressione del momento attuale; nè in quella di tutto il passato, alcuna certezza, quando lo spirito inquieto ricerca, nel mondo dei puri valori ideali e morali, la suprema certezza entro la quale soltanto potrà sentirsi, finalmente, pacificato.
Chi può dire quali destini maturi entro di sè, per il dolore o per la felicità.
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LA GUERRA E LA PACE NEL PENSIERO Di LUTERO
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per il bene o per il male dell'umanità avvenire, questa immane tragedia, di cui oggi siamo attori e spettatori? Se come osservò Alfredo Orfani « la stoiia non sarà mai che filosofìa ed arte, l’esposizione del sistema ideale che i fatti verificarono e una intuizione dei grandi caratteri che si atteggiarono nei fatti stessi » (i) noi dobbiamo conchiudere che essa è una postuma elaborazione poetica, una postuma idealizzazione di avvenimenti, e che, pertanto, i contemporanei che la vivono non sono in grado di sentirne e di misurarne la significazione e lo svolgimento.
Anatole France ha reso, con la sua grande arte squisita, in uno dei suoi più mirabili racconti, il senso di questa profonda verità filosofica e di questa nostra inconsapevole, ma forse benefica, cecità, quando ha posto sulle labbra del preside romano il plàcido oblio del giovine profeta che era passato dinanzi al suo tribunale «Jesus, Jesus de Nazareth, je ne me rappelle pas! » (2). Nè Ponzio Pilato nè alcuno di coloro che erano stati testimoni di quella breve avventura di farisei e di scribi aveva sognato ciò che per i millenni futuri, per la intera umanità, per l’ascensione di tutte le anime a Dio avrebbe significato quel nome: Gesù!
Paolo Tucci.
SA. Oriani, La crisi cristiana, in La Rivolta Ideale.
A. France, Le procuratevi de Judée, in L'Etui de nacre.
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INTERMEZZO
COLLOQUIO CON RENATO SERRA
1915-1917
PRELUDIO
•sì. Renato: nessuna cosa cambia la guerra.
Neanche questo sollievo, neanche sapere che il tuo sacrifìcio spezzò una legge e ne germinò un’altra;
e il corso delle cose, almeno per un tratto, almeno, deviò la sua strada.
Ogni anno il villano con la vanga rivolta la gleba, che l’altro anno,
per cento e cento anni scavarono altri villani senza numero, in vicenda infinita; e l’uno all'altro lasciò in mano-la vanga;
e l’un dall’altro ereditò la pena;
e ciascuno piegò sopra la zolla.
Ma la terra non scolorò di pianto la sua faccia:
e tornò a splendere il suo riso, ogni anno, nella luce di primavera, e rimbiondeggiò la spica al sole di giugno.
Che vale il nostro dolore e il nostro amore?
Costruire una lunga catena di vite è il nostro destino; ma l’ultimo anello, l'ultimo, a chi lascerà il suo carco di gioia e di tormento?
Come più invocherà Gesù: « Padre, ti rimetto, il mio Spirito », se la terra sarà senza eco?
e il Padre più non vivrà negli spiriti?
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INTERMEZZO
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Pareva sacrilegio!
Tutto ci parve dover piegare su la grande ara: l’interesse, l’amore, il volete, il sogno, la gioia, — tutto che nella vita ci allaccia e trascina — fino il pensiero!
E ci sembrò miseria il nostro indagare, ed ebbirno a spregio la «filosofia», come fosse qualcòsa e non noi; e si potesse gittarla a guisa del bruco il suo spoglio inerte;
o si potesse dire all’occhio: non vedere.
S’era come murati in quel cerchio, senza luce di riscatto.
Pareva sacrilegio!
Ma, dentro, l’anima rugghiava il suo spasimo — oh! serrate nel pugno la terzina di Dante! — e nulla era distrutto.
Lo schianto delle madri, e l’urlo lacerante dei morenti e lo stridore orrendo degli ordigni di guerra non raffrena l’umile voce, che sa il dolor suo
e invoca la sua pace....’.
Balzavan sùbite le idee o sbucavan di soppiatto o timide insinuavansi lunghesso i sentieri della strage;
ed ecco! riapparivano, perfin l’amore, perfino la gioia, sovra la strage e la morte. E ruppe, alfine, l'anima il suo cerchio d’acciaio e s’erse al volo insopprimibile.....
•
E sovra il drama dei popoli sta — per i secoli — la tragedia dell’uomo.
E òhe la guerra è mia e non io della guerra... Ah! Renato, qual balzo di gioia, allora che questa luce miracolosamente splendette per entro il mio spirito..... «
« Il fatto più grande della storia?... »
Ma la storia è questo mio spirito che alza torri e scava fondamenta e. apre finestre a guardare e scandagliare...
Tutti i fatti umani sboccano nel mio spirito, come rivoli nel mare; or; come più grande, se questo ruscello non copre con la sua voce d'innumeri altri, non preme più violento, non inonda più ampio?
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BILYCHNIS
Oh! certo, le labbra scettiche di Augusto avrebber dato il loro miglior sorriso, se alcuno avesse proclamato,
— sul Foro o sul Palazzo de’ Cesari, —
che il fatto più grande del tempo era il nascere oscuro d'un figlio di falegname nella terra dei reietti;
allor che l’Aquila scagliava il suo rostro fin verso i pianòri sàrmati e le sabbie libiche, e c’era da sistemare, nientemeno che la grande conquista di Cesare; e gravissimi affari pendevano coi re del Ponto e della Cilicia; e Varo, — Varo! — lasciava spezzar le sue legioni dal ferro di Arminio!
Sul Foro, lassù, si faceva la storia!
E ben lo sapeva Ponzio Pilato, procuratore imperiale, che rideva in cuor suo, di quella calmana che i Seniori s’eran presa pel brav’uomo di Nazareth, cuore d’agnello, e non voleva che quelle misere beghe compromettessero i grandi interessi di Roma;
— e un pochino anche i suoi...
E Gesù salì il Calvario;
fatto assai modesto di cronaca, per vero —
— un patrizio poteva crocifiggerne a decine, in un giorno, di quella gente — che le gravi istorie di Giuseppe Flavio sdegnarono accogliere.
E da due millenni il mondo gravita dalla vetta del Golgota.
IH.
Fa male a dirlo;
Che questo tuo sangue. Renato, e il sangue d’infiniti ignoti,
— o che m’importa de’ centomila, se milioni occorsero a scalfir la tua scintilla? — non acceleri e non rallenti il corso della storia; nè la vicenda immane c’incateni l’anima sì, da farla immemore devota;
o apprestandoci a morire, scoppi dal labbro il grido de’ martiri cristiani: « credo ».
A che cosa crediamo, tu ed io. Renato?
a Questa è l’ora d’Italia » dicesti.
E dissi anch’io.
Ma ogni ora chiude il suo destino; il nostro, come de’ popoli.
E tra un secolo, tra venti, tra mille secoli, quante infinite ore scoccate e non colte?
Pure « l’Italia » sarà.
O, forse, sappiam noi qual sostanza di vita chiuderà, fra mill’anni, il nome caro Italia?
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E chi sui dolci colli canterà d’amore, e sui veglianti mari batterà il reme; e quali odi i novissimi nepoti animeranno?
O qual fiore spunterà sulla tua zolla, mamma; e quanta messe di pianto, dove noi, o cara, sostammo in amore, coglierà un’ignota anima vagolante,
— quando di noi e della « grande ora » nostra il pallido ricordo, anche, sarà spento?
0 muto spasimo delle Piramidi, crani ghignanti d'un’epoca.....
IV.
Ma su te. Renato, pesava a ignominia che l’ora tua, l’ora nostra passasse grigia e inerte:
« invecchieremo falliti... saremo la gente ehc ha fallito al suo destino».
Sei certo. Renato, che non fallirà così il nostro destino?
O non tutti, ogni giorno, falliamo un po’ al nostro destino; chè si spezza la via diritta, e s’aprono improvvisi tortuosi sentieri, che ci paiono intrusi sul nostro cammino: e son questi, invece, il cammino; fatto di canti e rovi, segnato di risa e sangue — cieco e improvvido, inesorabilmente?
E tu, poi, ed io che siamo?
Che vale l’onta nostra? od il valore?
Chi s'indugia a sgranellar dai secoli le onte infinite d’infiniti senza nome, che s’allacciano e s’intrecciano
e smarriscono il lor segno: —
e l’ombra del tempo avvolgeTdel suo grigiore?
Neanche peccare c’è dato:
il più gran peccato non tócca ¡'Universo, più che il rostro de l’ape la superficie d’un marmo.
V.
Ah! Renato, se davvero la guerra potesse darci la giovinezza di un sogno, e aprirci un destino, e inchiodarlo al termine del nostro andare!
I «martiri cristiani»!...
Oh beato chi nel tramonto guarda il nuovo Sole!
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Sprofondarsi nella nòtte, falciare il pensièro, obbedire, per indeclinabile volere, a un dovere che ci annulla:
questo è martirio.
Che ci annulla...
VI.
O Fauro, Fauro,
dolce virgulto della terra anèla!
Era tutta luce il tuo spirito, nè v’era posto per l’ombra.
Una sola idea, — una sola averne! — «la nazione sola costruisce ».
Non chiedesti di più; non volesti sapere di più: — chi chiama alla lucè in un meriggio assolato? —
Così andasti, senza téma e senza iattanza, anèlo e leggero; come chi, la sera, si avvìi alla sua casetta, che sa dov’è, e sa che deve andarci, a portar la tua pietra.
Non così, io, non così;
che infaticabilmente batto la via;
è invano, invano, nella notte, rincorro ogni fiammella, per vedere.
Non così io.
« La nazione sola costruisce ».
Costruire. non il castelletto di carta, che il primo soffio dissolve; ma l'edificio saldo, che non cede ai venti e al tempo; — al tempo! — questo è costruire’ Che cosa «costruisce» la nazione?
E l’Umanità? — nè visione d’Apocalisse terrena m’alletta o m'abbranca al beato gregge aspettante.....
Una pietra dopo l’altra, per secoli e millenni, costruire una lunga fila di pietre è il nostro destino; ma l’ultima mano, l’ultima, a chi rimetterà l'ultima sua pietra?
Come più invocherà Gesù: « Padre, ti rimetto il mio spirito » se la terra sarà senza eco?
E il padre più non vivrà negli spiriti?
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INTERMEZZO
0 Signore,
Tu guidi noi, ciechi ed impronti;
dove ci conduci, o Signore?
Perchè è tua questa cocente ansietà di ricerca;
e Tu mi facesti quest'anima che veglia in vigilia, e si macera con cilicio.
E s’io pecco. Tu vivi nel mio peccato;
e s’io brancolo. Tu pure, o Signore, sei nella mia tenebra.
Perchè, dunque, non mi salvi dalla colpa. Tu che sei senza macchia? Perchè non m’innondi di luce. Tu che sei la Luce?
VII.
Il « dovere »:
gran parola, piena d’echi...
Che risuona nell’animo con fragore di tuono, e conquide e piega.
Ma ahi! quanto arduo coglierla per entro i laberinti dello'spirito, in cui s’insinua e asconde; e più arduo, anco, fermarla e discoprirne il volto...
E guai a fissare con occhio inverecondo l’iddio inesorato!
guai al sacrilego che denudi l’inaccessibile Sacrario.
Obbedire:
—- tremando, amando, imprecando, adorando... Obbedire:
guai al sacrilego, che denudi l’inaccessibile Sacrario.
Prometeo brucia col fuoco involato:
che non è delli umani osare avverso ai Superni.
Vili.
E no'
questa realtà, per piccola che sia. non cessa d’esser reale:
— L’Italia —
è la realtà che mi plasma e in cui respiro; da cui trassi il sangue, e succhiai il pensiero, e bevvi l’amore;
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e mi venisti tu, Selvaggetta, Selvaggetta immensurabile bene!
E m'inebriai del suo mare; e n’ebbi fiori per la giòia, e una vela pe’ sogni e un cipresso per mamma...
IX.
Perchè son uomo,
— io —
tal de' tal1., nato l’anno tale, nel sito tale; che morrò l'anno tal'altro, essere concreto e finito, formica greve ed emerita:
e non m'è dato uscire dal formicaio.
X.
Povero'Faust tedesco, anche tu, disperatamente per la tua zolla balzi a battaglia; più doloroso se l’ira di patria ti faccia spergiuro e carnefice.
E tu, anche, pel tuo Diritto e la tua Giustizia;
chè Giustizia e Diritto, magnifiche parole, l’impeto
di vivere sono, oltre la vita:
e l’artiglio scrive la legge.
Anche tu, povero Faust, dannato alla catena, legato alla roccia, tutti e due sullo stesso sentiero, a fare il cammino, a lottare contro Dio, miseri capanei impossenti e impenitenti.
« L'aiuola » è così breve (e son tante le api a succhiare)
ch’è giocoforza spiar che l’un capojsporga dalla trincea, per troncare il pensiero e spegnere l’ambascia;
—- senza che s’abbia il conforto d'imprecare a un arbitrio!
Oh beati i poveri di spirito, poiché possono imprecare.
Il tragico è che sia necessario — e sia inutile d’esser necessario!
Ah! troppo fonda anima ci facesti per sì piccole cose, o Signore: è questo il tuo delitto.
XI.
E siam dannati qui, a crescere e morire;
a sognare e disperare e amare e odiare e infradiciar su questa crosta;
razza dopo razza;
millenni su millenni;
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e gridar — perchè lo gridiamo! — « è grande, è bello »!
Ieri incontrai una formica con cui, da tempo avevo stretto amicizia;
e mi parlò de' grandi eventi del Regno: la deposizione della vecchia dinastia de’ Formiconi e la instaurazione de’ Formicari, stirpe ardita e guerriera che avrebbe ridato nuova vita e fondato una Nuova Era?
E mi diceva, commossa, de' nuovi orizzonti aperti, del progresso, dei commerci, di tenitori conquistati, di idealità d’attuare, tutto un immenso mondo di pensieri, di affetti, di gelosie, di odi, di speranze, spiegato e concluso in un buco.
E vidi poi Lisandro, il mio compagno di vanga, tutto assorto nel gran fatto — il più grande che mai gli fosse occorso e, certo, sarebbe per occorrergli: — un mulo del valore d’ottanta scudi, il Governo, per via della guerra, gliel’aveva pagato trecento.
— Capite? — millecinquecento franchi, l'uno sull’altro, che mi pareva di sognare! e si può comprare il terrenuccio, ora, con quelli altri po’ di risparmi, e stare sul suo, ed esser padrone
— finalmente! —
Così, Renato; ciascuno lancia il suo più lungo raggio sull’orizzonte che lo limita!
XII.
Così, Renato!
la falce miete e miete; e più taglia e più affila la sua lama...
ma neanche uno dei raggi del Sole è arrossato dal sangue dei caduti;
o irrorato dal pianto delle madri.'
E la sera le stelle sempre ci guardano e treman di passione.
V. Cento.
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ESPERIENZE RELIGIOSE CONTEMPORANEE
■ Come il cervo desidera i rivi delle acque cosi l'anima mia desidera te, o Dio. L’anima mia è assetata di Dio. deli' Iddio vivente... »
(Salmo 43).
rima di compiere un atto così.solenne come il battesimo cristiano, io desidero dinanzi a questa congregazione prendere liberamente dalla antica preparazione dei catecumeni alcuni atti che meglio esprimano il mio desiderio di fondermi in quell'unità mirabile di propositi, di sentimenti, di carità che costituiva la forza delle comunità primitive, con la chiesa locale di cui sto per diventare membro......
...E poi lasciate che io canti la mia gioia spirituale con le
parole del passato, di un ignoto mistico del 11 secolo cristiano in ispirati inni battesimali (1) e che io offra la mia testimonianza di cristiano del secolo xx, sinceramente, secondo le mie esperienze e il mio linguaggio...
L’ORIZZONTE CRISTIANO
...Io non saprei concepire questo rito battesimale — che mi ricollega da una parte con le generazioni cristiane del passato e dall'altra con le generazioni future nell'espressione concreta della medesima fede in Gesù inauguratore del Regno attraverso la sua morte redentrice e la sua Risurrezione — come un atto di sola pietà individuale. Il Cristianesimo è dottrina troppo universalista ed impregnata di troppa realtà storica e sociale perchè noi possiamo esprimere le linee del suo edifìcio imponente in termini della nostra esperienza e della nostra vita individuale. La salvezza — ed il Cristianesimo è prima di tutto dottrina e potenza redentrice — non è un piccolo dramma della nostra vita* interiore. La grande salvezza cristiana principia in ognuno di noi; ma postula l'attesa di un radicale rinnovamento di tutto il mondo: è la salvezza offerta e voluta per tutta l'umanità.
(1) Sono le Odi di Salomone riscoperte pochi anni fa in siriaco dal Rendei Harris e che il Bernard in uno studio critico profondo e suggestivo giudi-a essere stati in origine inni battesimali.
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ESPERIENZE RELIGIOSE CONTEMPORANEE 353
Ricordiamo le parole del Cristo nella finale di Matteo: il battesimo dell’individuo è collegato intimamente all’informazione, all’evangelizzazione, all'annuncio del Regno di Dio a tutte le nazioni; questa fede è una fede collettiva, fede in grandi realtà, non in piccole realtà: l’orizzonte che è dato scoprire al cristiano attraverso lo spiraglio di luce aperto nell'anima sua dallo Spirito è vasto quanto il mondo e la storia. Il cristiano guarda in questo grandioso avvenire. Egli sa che unito al Cristo, forte della sua fede non perirà, perchè dovrà sopravvivere con quanto nel mondo di buono e di giusto è stato fecondato dallo Spirito del Signore. Questo è il senso gioioso, questa la visuale sconfinata, che riassorbe in sè tutti i contrasti, della primitiva e trionfante predicazione cristiana. Predicazione fatta di gioia, di entusiasmo, di speranza.
Io questa sera ho la fortuna di trovarmi unito spiritualmente con un gruppo cristiano che proclama come sua grande ambizione la fedeltà allo spirito della predicazione cristiana primitiva, e che giustamente fa del grande sacramento cristiano il centro della vita cristiana, ed afferma nell’amministrazione di esso compiuta nella pienezza originale del rito la sintesi di tutto il programma cristiano e la custodia del suo senso primitivo.
Io, venuto di lontano, attraverso numerose e complesse esperienze religiose, sono lieto questa sera di rendere l’omaggio della mia esperienza di cristiano e di studioso a questa loro fedeltà.
I riti, simboli di realtà spirituali più profonde delle sensibili, hanno un grande valore; ma l’elemento liturgico per eccellenza è sempre il nostro cuore, la nostra anima che vibra sotto l’influsso dello Spirito, la nostra voce che loda il Signore. Se il rito battesimale — come io ho veduto domenica amministrare qui — ha dismesso la ricchezza quasi tropicale di forme che lo rendevano così efficacemente venerando nella vecchia chiesa, ha guadagnato in compenso una più intensa virtù di significazione nell’importanza data alla voce dell’uomo, alla manifestazione delle sue esperienze, alla libertà dell'espressione dei sentimenti non incanalati nelle parole di un formulario. Noi tutti sentiamo qui quanto più ricca spiritualmente doveva essere una di quelle adunanze cristiane, come ci sono descritte dall’apostolo Paolo, dove i doni dello Spirito si manifestavano liberamente per l’edificazione della comunità in mille seppure tumultuarie forme, che una solenne cerimonia religiosa compiuta in mezzo allo sfarzo di luci, di oro in una grandiosa cattedrale cristiana.
Ho parlato di comunità e non a caso: il battesimo compiuto nel silenzio di una piccola cappella, quando la chiesa di pietre è deserta di quell’altre pietre che solo fanno la chiesa, gli uomini, per me non è battesimo. Il battesimo è avanti tutto una testimonianza, una proclamazione netta, precisa, che non teme smentita di una convinzione che è fede.
Il battesimo non è semplicemente un rito penitenziale un rito di purificazione, la rimozione di un ostacolo, un atto di assicurazione per la vita futura; no: è avanti tutto un atto di fede, il più grande atto di fede: è l’accettazione solenne di questa fede. Fede che ci unisce immediatamente a tutti gli altri che ne furono partecipi e che ne attendono come noi il compimento. Battesimo dunque e
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società cristiana, battesimo e comunità cristiana sono termini correlativi: l’uno include l’altro, l’uno richiama l’altro. Rito quanto mai complesso, malgrado la sua semplicità, rito in cui vengono ad incontrarsi idee e simboli religiosi vecchi quanto il genere umano ed idee e simboli religiosi che risalgono al tempo di Gesù; idee che s’incentrano intorno all’idea madre del Vangelo, anzi che costituiscono l’idea stessa del Vangelo, il Vangelo stesso: il buono e lieto annunzio del trionfo finale del Regno di Dio sul regno del male e del peccato sotto il quale giace infermo il mondo. Noi stessi oggi non possiamo dire di comprendere in una maniera sintetica e definitiva, in una veduta che abbracci i vari punti di vista, tutti i significati del battesimo cristiano; praticandolo però con spirito di fede e di fedeltà noi siamo ben certi di affermare efficacemente la continuità di quella fede e di quella speranza per le quali le prime generazioni cristiane accorsero a dissetarsi « alle acque di vita » del battesimo. E a noi ciò basta.
Il battesimo cristiano dunque è avanti tutto una testimonianza ed un vincolo'. non è possibile coltivare isolatamente la speranza cristiana. Ma c’è di più, ed è certamente uno dei meriti più notevoli del principio battista l’averlo messo In evidenza e praticato coraggiosamente, il battésimo è la toga virile del cristiano, il conferimento dell’esercizio dei suoi diritti nel regime democratico e laico della chiesa locale, cellula completa, fiera della sua indipendenza e della sua ricca personalità, della sua funzione specifica nella vasta rete vivente che è la grande Chiesa del Cristo con la quale vive in comunione spirituale. La chiesa locale è un’unità ben definita, autonoma di santificati e di eletti di personalità cristiane divenute tali per l’accettazione cosciente del battesimo. Regime democratico, an-t¡sacerdotale, e battesimo accettato in uno spirito di fede personale sono realtà che coincidono. In questa semplice affermazione che è stata tutta una rivoluzione religiosa e sociale di primo ordine contro la concezione dello Stato e della Chiesa del Medioevo e in cui è implicito lo spirito che anima la nostra società moderna, sta tutta la forza del battismo, forza religiosa e forza sociale e che lo stacca nettamente da tutte le altre dottrine e chiese maturate con la Riforma del secolo xvi, le quali si esaurirono in una concezione troppo individualista della vita cristiana. Il Battismo così è uno dei rami più viventi e a cui arride un glorioso avvenire perchè è in armonia con il nostro spirito religioso moderno e con la nostra mentalità.
IL CAMMINO
La mia breve esposizione del Battesimo e del Battismo che ravviva in uno spirito moderno la costituzione semplice e democratica delle prime comunità cristiane, è già per se stessa una dichiarazione di fede ed una testimonianza: perchè è il risultato di studi e di simpatie e chiunque cerca con spirito sereno, sa che i risultati delle sue ricerche e dei suoi sforzi, ai quali sinceramente s’inchina, entrano a far parte della propria personalità e della propria fede. C’è una parte del tutto intima del proprio spirito che un senso delicato di. pudore vieta di svelare leggermente. E poi non se ne troverebbero facilmente le parole. Ma qui
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nell’intimità spirituale di questa sera, in cui i pensieri di tutti noi sonò diretti alle cose più eccelse dello spirito e i nostri cuori sono uniti in un sentimento di fraternità cristiana, io credo che possa essere utile a me e a voi accennare confidenzialmente, pur nelle grandi linee e in maniera incompleta, a quelle esperienze religiose che formano il sustrato e la ragione della mia vita.
Chi è obbligato a fare per conto proprio, a proprio rischio, a piedi e da solo un lungo e difficile cammino, ha occasione di fare molte osservazioni e di conoscere meglio il paesaggio che attraversa, di chi lo fa in carrozza e con tutti i comodi in mezzo ad una lieta brigata. Così è avvenuto a me; senza saperlo, io ho rifatto il cammino che già aveva fatto il Cristianesimo nei secoli; son passato dal più puro ed autentico cristianesimo medioevale al cristianesimo moderno; sono sceso giù ¿giù ¡verso il cristianesimo antico' e sono andato a dissetarmi a quelle fresche oasi di vita religiosa che sono i Vangeli e i profeti; sono venuto a contatto, ho avuto simpatia per le più complesse come per le più semplici e superstiti forme di sentimento religioso, e nello studiò del passato e delle altre grandi religioni dell'umanità ho imparato tante cose, ho scoperto tanta ricchezza che non saprei chiudere il mio cuore e la mia intelligenza in nessuna di quell è formule o di quegli schemi in cui gli uomini religiosi credono di conservare gelosamente inviolato a loro stessi il dono divino della religione. Come vedete, ho viaggiato molto negli anni della mia giovinezza! Ma ho raccolto molta esperienza, ho fatto molte conoscenze, mi sono incontrato con dei morti che eran più vivi di noi; ho trovato, come dice la Bibbia, che « niente di nuovo v’è sotto il sole »; che ci sono fratelli d’anima da per tutto, e nel passato come nel presente. Il Cristianesimo è vivo, fratelli, assai più ¡vivo di quanto non credano gli stessi cristiani e non facciano credere certe grandi chiese, divenute mute custodi di un cadavere; ma come la figura dell’Apocalisse «sta alla porta e bussa» perchè trionfi nel mondo — è questa la sua unica ragione di essere —; bisogna che gli uomini gli aprano il loro cuore e l’accolgano. Il Cristianesimo è come un robusto ceppo di quercia che, dopo di aver confortato con il suo bel calore la fredda stanza della nostra ^civiltà, s’è ricoperto della sua cenere: scuotete la cenere e. lo vedrete di nuovo ardere vivacemente. Vi ricordate le parole di Gesù: «Son venuto a gettare il fuoco sulla terra e che cosa voglio se non che questa arda »?
Aver compreso che cosa è il Cristianesimo, cioè, in una parola, ciò che per noi è realmente la religione, aver compreso che accettazione del Cristianesimo è missione, io sento che è la più grande conquista per un uomo. Chi ha fatto questa conquista ne va superbo; ha trovato la ragione della sua vita, è diventato un uomo nuovo. «Ebbene in che consiste questa conquista, che cosa ti ha dato di positivo, di pratico? ». Sarei un po’ imbarazzato a dirvelo, perchè è conquista troppo personale, troppo intimamente legata alla parte più intima e più sacra di ogni uomo; questa conquista o, se volete, questa riscoperta di ciò che il Cristianesimo è per un uomo, significa che la vita religiosa ha preso dei caratteri nuovi, che si provano dei nuovi sentimenti vivificanti, che il cuore e l’intelligenza si sono dilatati fino all’infinito, che si vedono le cose dello spirito e il mondo in una maniera più chiara, in una netta visione d’insieme; che la vostra anima è piena « di mu-
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sica e di gioia ». Avete risolto un problema ed un difficile problema: la stessa gioia, dopo tanta noia e tanta tensione di spirito!
Questa sera io consacro la rinunzia alla mia posizione a cui ho tenuto gelosamente per tanti anni, come ad una penosa conquista; rinuncio alla posizione di cristiano indipendente, di cristiano extra-ecclesiastico, rispettoso però sempre delle forme ecclesiastiche, quando fossero state sinceramente sentite ed usate come mezzi ad un fine più- alto; La mia posizione, se attingeva la propria forza ad una concezione così nobile e così interiore della vita cristiana quale era quella degli A mici, era però fuori della linea dello sviluppo storico del Cristianesimo e non poteva servire qui in Italia che come norma di vita individuale. L'accettazione cordiale dei principi e della comunione battista — e dico subito che il battismo si muove in un’atmosfera molto vicina a quella degli Amici — è il frutto della mia conoscenza e della mia antica simpatia per il Battismo e dell'opportunità di trovare una base definitiva per un lavoro pratico di attività cristiana. La comunione ecclesiastica con i Battisti m’offriva appunto quest’opportunità e dopo una lunga e cordiale intesa io sono lieto di entrare a far parte della loro grande famiglia spirituale. Sento così di passare dall'attitudine individualista e provvisoria di cristiano indipendente ad una cooperazione cosciente nel lavoro cristiano in una frazione storica del Cristianesimo, in cui vedo proclamate con energia principi, realtà, speranze verso le quali la cultura religiosa, l’esperienza, il temperamento religioso mi portavano.
Nelle acque battesimali deporrò tutto ciò che di caduco, di materiale, di ete-rogeneo, di superato v'è oggi ancora nella mia vita religiosa: in una parola consacrerò alla morte le scorie del passato; ma io spero anche che risorgeranno unificate nello spirito, intorno ai grandi principi vivificatori del Battismo, le esperienze vitali, fondamentali del mio passato.
Lo spirito moderno battista è stato uno dei più felici incontri nello sviluppo della mia vita.spirituale, non privo di conseguenze, nel senso che m’ha facilitato la risoluzione di un conflitto provocato dall’ortodossia medievale, fra la tendenza insopprimibile all’attività religiosa e la fedeltà ai risultati di una critica onesta.
L’esempio dell’Harper e tutto il lavoro che s’incentra nell’?!merican Journal of Theology e nel Biblical World e in quel vasto laboratorio di attività pratica e scientifica che è la grande Università Battista di Chicago è stato per me un conforto ed una guida.
LO SPIRITO E L’ATTUALITÀ DEL BATTISMO
Mi limiterò ora ad accennare ai motivi della mia simpatia per il Battismo, motivi che segnano, praticamente, il punto d’incontro delle mie esperienze e delle mie tendenze con le linee del programma battista.
i° Ammiro la insistenza dei Battisti sulla necessità di una accettazione cosciente e personale — non per procura o per « prescrizione » — del Cristianesimo, per cui la Chiesa diviene una società cosciente e di coscienti del suo fine. Chiesa forse di « pochi », ma spiritualmente più valida, più unita delle storiche chiese dei • milioni »;
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2° ammiro la tenuità dei vincoli ecclesiastici del Battismo, che s’attiene al sistema più antico del congregazionalismo-,
3° sento simpatia per il suo profondo spirito democratico;
4° respiro con gioia la sua libera atmosfera spirituale senza Credo nè teologia ufficiale, ma pregna dello spirito e del senso del Cristo;
5° ammiro il suo interesse- al Regno di Dio, che ha tenuto lontano il Battismo dai pericoli di un individualismo religioso esagerato con le sue dottrine mortificanti;
6° mi piace il suo orientamento verso la vita pratica
7° e il non essersi chiuso in una Chiesa ritualista o pietista;
8° ho viva simpatia per il suo spirito laico.
La sua semplicità di dottrine e la sua estraneità ad alcune dottrine del vecchio protestantesimo teologico, il suo carattere pratico e democratico, il suo interesse fondamentale'per la vita sociale, il suo sforzo odierno di riconnettersi al programma e allo spirito così prematuramente moderni degli Anabattisti del 500 — movimento parallelo alla Riforma, ma non confondibile con essa — mi sembrano rendere il Battismo — quando sia illuminato e vivificato dalla sua storia e prenda intiera coscienza dei suoi ideali — una fonte di energia spirituale pei la nostra patria. Ho la coscienza che il programma battista, nella sua ideale bellezza e com’è sentito dagli spiriti migliori e rappresentativi (1) del Battismo moderno, fa già parte della mia vita spirituale. Io sento di vivere in comunione spirituale con essi, come portatori della parte più viva e perenne del Cristianesimo, quale può essere vissuto nei nostri tempi e nella nostra civiltà. Sono partecipe delle loro speranze e del loro entusiasmo.
Non vi nascondo qui la mia diffidenza verso le forme troppo rigide e stilizzate di organizzazione ecclesiastica che favoriscono la mediocrità, V intolleranza, il fariseismo, per l’esperienza, amara che ne ho fatta. Non vorrei però esser frainteso. La riduzione del vincolo ecclesiastico (di gerarchia e di magistero) alla sua modesta, necessaria, originale funzione di collegamento e il rinforzamento degli individui nella collettività cristiana sarebbe una .ben misera conquista là dove non favorisse il senso della interiorità e della freschezza della vita religiosa in un’atmosfera di libertà, e non restaurasse nell’amore fraterno il vero vincolo dell’unità. La vita religiosa collettiva ha le sue malattie come la religiosità individuale. C’è un male e tutti lo deplorano giustamente: V ècclesiasticismo-, ma un bigottismo cieco, un'intolleranza fanatica, una gretta e superstiziosa bibliolatria possono assurgere in certi momenti a mali collettivi assai pericolosi per l’avvenire di una società religiosa. La storia è là per mostrarcelo: dopo il periodo così bello, così ricco di libertà, di profondità spirituale, di nuove creazioni della prima Riforma si cadde da una parte nell'onnipotenza ecclesiastica dello Stato, o di una teocrazia come a Ginevra; e dall’altra in una «scolastica» protestante, luterana e calvinista, ben più deplo(r) Cito, fra tanti nomi, sola quello dell’Harper, il defunto presidente della Università di Chicago, del venerando Clifford in Inghilterra, del Rauschenbush. professore alla Scuola di Teologia di Rochester ed uno dei rappresentanti del cristianesimo sociale.
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reyole della vecchia scolastica cattolica del Medioevo e che favorì una ridicola biblio atria e una pietà puramente formale, sì che ci volle il secondo movimento puritano della seconda metà del 600 e il metodismo in Inghilterra, il movimento arminiano nel mondo calvinista, il pietismo tedesco per salvare ciò che era ancora salvabile della Riforma del 500.
La gran tavola di salvezza e, naturalmente, la pietra di paragone per ogni Chiesa e dottrina cristiana è la vita cristiana. È su di essa che va posto l'accento. Con lo spirito più puro della Riforma, sto contro le costruzioni e il meccanismo della teologia intellettualistica. Mi piace ripetere con un grande riformatore del 500: « Conoscere il Cristo è conoscere i suoi benefizi » e non tutte p. es. le questioni inutili della teologia sulle «nature», sulla «persona», ecc., del Cristo, eredità di tre brutti secoli di lotte teologiche del Cristianesimo antico.
LA VITA CRISTIANA
Ed ora lasciate che esponga dinanzi a voi, con fiducia e con spirito fraterno, alcuni punti pratici e dottrinali, con cui ho cercato di tradurre come' meglio ho potuto, in piena armonia con quanto v’è di più vivo nel Battismo, la mia esperienza religiosa. « Vagliami il grande amore e il lungo studio... » della letteratura e della storia battista!
Dice il vescovo Carliol: «Tante facce, altrettante fedi. Anche quando si dicono gli stessi Credi — quando il Credo sia la vivente espressione della nostra intiera personalità e non una pura e meccanica ripetizione di sillabe — due uomini non possono pronunziarli precisamente nello stesso senso. Ora,, queste differenze sono una cosa divina: come la differenza tra le foglie di uno stesso albero o fra gli alberi di un bosco o fra i bambini in una stessa famiglia. Non v’è un nemico così pericoloso dell’unità e della cattolicità, come l’uniformità nel pensiero e nella fede. La vita è multiforme; la morte sola è uniforme. Gli uomini non sono manifattura! i secondo un solo modello, come le macchine: essi sono degli spiriti vibranti e scuotenti ».
Varietà dunque nell’unità: nell’unità dei cuori e delle speranze. La stessa luce si rifrange attraverso il prisma in un’infinità di colori l’uno degradante nell’altro: così le espressioni di una' medesima fede.
« La vita cristiana (1), attraverso tentativi lunghi e penosi, finalmente mi è apparsa ed è stata da me sperimentata:
i° come liberazione (nel godimento della spirituale libertà cristiana sotto il leggero giogo dell’amore del Cristo; contro il fariseismo e l’ecclesiasticismo);
2° come dignità morale (amici, non servi, di Dio; il lievito della sincerità e della franchezza: sì, sì; no, no);
(1) Cito per brevità da un libretto di appunti in cui altre volte ho cercato di fissare una specie di schizzo delle mie posizioni religiose. Schizzo, s’intende, dice cosa incompleta e slegamento!
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3° come gioia (l'avere scoperto il mistero della vita — per il senso di sicurezza, di pace, di armonia con noi stessi e con gli altri, ritrovati nel Vangelo — per aver superato nell’esperienza cristiana le antinomie paurose della religiosità tradizionale: spirito e carne, Dio e il mondo, individuo c società, religione e scienza, fede e critica, istituzionalismo e misticismo);
4° come entusiasmo (nel lavoro per il trionfo del Regno);
5® come ottimismo (perchè è stata vinta la morte, il peccato e il male; perchè «tutte le cose cooperano al bene a chi crede»);
6° come intimità ed ispirazione (per la presenza del Maestro interiore nel nostro cuore — L'importanza dello Spirito nella vita cristiana — « Dio è amore » — « Dio è un cuore in cui confidare »);
7° come creazione individuale (e non come imitazione o passiva uniformità);
8° come semplicità (il Cristianesimo è un mistero di semplicità', non è giogo nè per l'intelligenzà nè per il cuore);
9° come servizio del prossimo (perdersi per ritrovarsi — «Fa questo e vivrai », disse Gesù additando l’esempio del buon Samaritano);
io° come fede (la nostra fede è la nostra speranza, la speranza nel trionfo della giustizia superiore, del Regno; che ha costituito il vivente tessuto che lega ognuno di noi da Abramo all’ultimo uomo in cui oggi si accende viva la fede, nell’unità del « popolo di Dio »).
Potrei sintetizzare, come un programma, il mio orientamento spirituale con le espressioni programmatiche del Vangelo giovanneo: «Dio è luce, vita ed amore», « Gesù è venuto perchè essi abbiano una vita ed una vita più piena » e ritrovare la migliore eco delle mie più intime aspirazióni ed esperienze religiose nelle esortazioni paoline: « Non spegnete lo Spìrito — Provate tutte le cose, ritenete il bene — Gioite! Di nuovo vindico: gioite! ».
PIETÀ, DOMMA E CHIESA
«La vita religiosa si1 estende molto al di là dell’area assegnatale generalmente: la religione è il fulcro della vita. Preferisco parlare di un’attitudine religiosa nella vita che di una religione come sistema chiuso di idee e di vita. La religione deve investire tutta la vita e rinnovarla. Dio è nel più intimo dell’anima nostra e «in Lui ci muoviamo, sentiamo: viviamo ». Lo sforzo della vita religiosa è di destare questo senso dell’intimità di Dio. Ma la religione non è soddisfazione- egoistica; deve essere, rimovendone gli ostacoli che si riassumono nella complessa nozione di peccato, luce che ci illumini sui bisogni nostri e della nostra generazione e spinta ad attuare per quanto è in noi il Regno di Dio. Deve servire meno per noi che per i nostri fratelli, memori delle parole di Gesù: « Voi siete la luce, il sale... ». Deve essere sforzo continuo di idealizzare e rinforzare, alla luce dei principi fondamentali e dell’entusiasmo primitivo e creatore del Cristianesimo, la società cristiana. Questo è appunto, per me, il principio fondamentale e perenne della Riforma. La riforma non è solo un fenomeno storico del passato, ma è un’attività continua-mente all’opera per purificare, semplificare e rinnovare. « Svegliatevi, o voi che dor-
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mite » cantava un antico inno cristiano. Su ogni fuoco si posa la cenere: bisogna rimuoverla. Così nella Chiesa di Dio: risveglio e rinnovamento!
— Do una grande importanza aH’elemento mistico nella vita religiosa. Insisto sul valore dell’esperienza e della dottrina mistica e sul leale riconoscimento della varietà dell’esperienza religiosa. Accetto la dottrina paolina della fede come mezzo all’unione mistica con il Cristo e alla profonda sublimazione della personalità umana che n’è conseguenza. Ho fede nelle grandi realtà ed idee cristiane, divenute guida della vita e fonte di gioia e di sicurezza. La fede ha un’importanza centrale nella vita cristiana e deve esser espressa in funzione di questa. La fede non è una teologia (gnosi) nè semplice assenso ad un’autorità. È principalmente speranza e certezza, orientamento verso la « faccia di Dio », il vedere le cose di questo mondo «sub specie aeternitatis».
— Riconosco la grande importanza che nella vita cristiana ha l’influenza e l'ispirazione dello Spirito, eliminato dalle concezioni sacerdotali, e vedo in Lui il vero Maestro interiore, che compie in ciascunojdi noi l’educazione dell’anima cristiana.
— Il mio interesse, personale nel mondo religioso è verso le realtà spirituali e verso l’anima e non per la storia religiosa, per una teologia od una filosofia della religione, ricerche che sono frutto dello spirito e dell’attività scientifica e filosofica, e che nulla hanno da fare, sia nella loro ispirazione che nei loro metodi e nei loro risultati con il mondo della vita religiosa e con la Chiesa. Questo campo è di esclusivo dominio dello spirito scientifico e della ragione. Il mondo della storia, in particolare, non ha nulla a che fare con quello dello spirito (i).
— Una Chiesa che per eccessiva prudenza o per timore di perdere un dominio che non ha più ragione di essere e quindi iniquo, si chiude in se stessa e scomunica, esige dai suoi membri il sacrificio della propria intelligenza, la conformità passiva e cieca ai suoi dettami, uccide il libero e fecondo spirito di iniziativa e dimentica nella difesa del proprio prestigio teologico o mondano i veri fini dell’attività ecclesiastica, non è più una Chiesa vivente, ma una Sinagoga chiusa in se stessa, incapace di progresso e di influenza spirituale.
. — Il mio punto di vista nell'accettazione e nell’interpretazione della verità cristiana è in armonia con quello originale della Riforma (psicologico-individuale-interiore-prammatistico) (2).
— La conversione è l’intiero processo per il quale l’uomo diviene un vero cristiano; il cambiamento oggettivo e soggettivo che si verifica quando egli diviene un vero seguace di Gesù (Iones).
(1) Ciò si applica anche alia Bibbia. Su questo concetto ed altri affini rimando all’esposizione, «nolto succinta del resto, che ne ho fatta in uno studio « Critica e Chiesa • nella raccolta di saggi edita dal Dr. D. G. Whittinghill dal titolo: « Chiesa e Chiese ».
(2) Un esempio evidente e facilmente accessibile anche a quei che non han fatto studi speciali sulla teologia della Riforma nel 500 lo si può trovare nel Catechismo di Heidelberg, che può illuminare in pochi momenti sul vero spirito della Riforma più. di una biblioteca speciale.
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— La dottrina teologica del peccato va risolta in quella del rinnovamento spirituale, per cui solo ha un senso nell’insieme delle dottrine e delle esperienze cristiane. Su questa io pongo l’accento. Mi sembra inutile insistere, come sul motivo unico della vita spirituale, sul peccato e sulla nostra miseria fondamentale; bisogna, appena il credente abbia acquistata una chiara visione della nostra miseria ed impotenza spirituale, facilitare il passaggio da uno stato mortificante ed egoistico ad uno stato di ottimismo cristiano, fatto di gioia e di speranza. Il cristiano che ha trovato l’orientamento, la luce e la [via non deve venir continuamente tormentato con dottrine deprimenti: egli ha diritto oramai a più gioia e più luce nel Signore.
— Io credo che uno degli effetti e delle preoccupazioni della predicazione cristiana sia, oltre a quello primordiale del risveglio della coscienza specificamente cristiana e dell’orientamento verso Dio per mezzo del Cristo Salvatore, i° di istruire nel senso più ampio e più nobile; un’istruzione non d’applicazioni e di conclusioni teologico-pratiche, ma di principi e di ideali, riconnettendo la predicazione attuale al grande programma di riforma e di aspettazione di Gesù e dei profeti; 2® di educare il carattere cristiano, come migliore antidoto a quello spirito borghese di accomodamento, di transazione con la propria coscienza, di omaggio e di uniformità alle opinioni ricevute, ai criteri di vita della maggioranza, di esteriorità così diffuso oggi, sviluppando quelle doti che nell’opera e nella predicazione di Gesù hanno un così forte rilievo (sincerità, candore, franchezza, senso della libertà spirituale, dell’amore verso gli altri, di indipendenza).
— L’attitudine pratica che io accetto come norma dell’attività ecclesiastica concorda con quella che il presidente Mullins esige: « Noi richiediamo intelligenza e larghezza di vedute, abilità a vedere le cose nei loro più vasti rapporti e ad adattare i mezzi ai fini per l’introduzione del Regno di Dio. Tutto ciò non è attuabile, se tutti i nostri fratelli non sieno istruiti più che sia possibile » (i).
— Di fronte alle istituzioni ecclesiastiche ed umane, credo che il cristiano debba far suo l’atteggiamento di Gesù che proclamava: « il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato ». Esse sono mezzi utili e rispettabili, ma insieme migliorabili e superabili sopratutto quando siano di serio impaccio al programma spirituale e ai fini superiori del servizio del prossimo.
— Io credo nella Chiesa ideale e spirituale del Cristo, nella sua profonda unità nel tempo e nello spazio, vera società dei credenti che attendono con fiducia la venuta del Regno di Dio e ne prepararono efficacemente la via. Io accettò il fatto delie Chiese locali e storiche, organizzate secondo la pratica e lo spirito delle comunità apostoliche.
L’aggregazione ad esse deve essere spontanea e cosciente. Esse devono essere un'atmosfera di più alta e più attiva vita religiosa. È il terreno comune di un fecondo lavoro. L’individuo supera se stesso in esse.
— Il cemento che unisce stabilmente l’individuo alla sua Chiesa deve essere formato: i° dalla scambievole confidenza; 2° dalla collaborazione alle medesime generose finalità.
(i) Da I Battisti (Libreria Bilychnis), pag. 127.
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— Le Chiese debbono vivere in simpatia e in comunione fra loro, però indipendenti le une dalle altre. Collaborazione, non gerarchia. Per questo mio ideale io sento di essere profondamente congregazionalista, pur riconoscendo le manchevolezze e i pericoli di un sistema congregazionalista troppo rigidamente applicato. La Chiesa non deve soffocare i diritti imprescrittibili della libertà cristiana dei suoi membri. Armonia, generosità e non coazione o regime di sospetto e di diffidenza. La chiesa deve essere unita da una legge di attrazione spirituale, come le molecole di un cristallo si dispongono armonicamente in forme geometriche per una legge interiore di affinità che le lega fra loro.
— Io credo ed aderisco ad una Chiesa gioiosa'ed attivamente espansiva, ricca del senso della comunione e della cattolicità evangelica, vibrante e progredente insieme al moderno evangelismo delle grandi Chiese Libere, il cattolicismo di domani,
♦ *•* D
Vorrei infine proclamare con le belle'parole di uno dei primi catechismi della Riforma, che «la più grande gioia in vita e in morte è "per me l’aver conosciuto Gesù mio Salvatóre » e che ciò che dà sapore e valore alla vita è la certezza che in me dimora il germe di una vita divina a cui tutti siamo stati chiamati e che la storia e la vita hanno un significato profondo perchè il trionfo finale della giustizia e della vita è la speranza cristiana del Regno di Dio. Questa è la fondamentale fiducia e speranza cristiana che son fiero di affermare questa sera con un senso di commozione che supera i confini angusti della mia anima e della mia vita — è la fiaccola della vita spirituale che passa oggi nelle mie mani perchè l’agiti e che è passata per più di cinquanta generazioni cristiane e che non giungerà spenta alla fine dei secoli, perchè come ha detto Gesù: « II mondo passerà, ma le mie parole non passeranno ».
« Che il tuo regno venga! ».
Mario Rossi.
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NOTE DI VITA E DI PENSIERO EBRAICO
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8. L’UNIVERSITÀ EBRAICA A GERUSALEMME
Il Governo inglese ha dato facoltà ad una Commissione di Sionisti di recarsi in Palestina per provvedere al rimpatrio degli esiliati ebrei, alla restaurazione delle colonie, alla riapertura degl’istituti finanziari e culturali, all’organizzazione del movimento migratorio e, infine, alla creazione dell’università degli Studi a Gerusalemme.
«.Tale creazione - ha detto il dott. Weizmam, Presidente della Federazione sionistica inglese, - sarà il simbolo dello spirito con cui il popolo ebreo intende tornare alla sua antica patria ».
Infatti questo risorgimento nazionale non ha avuto nè avrà aspetti solo materiali ed economici, ma ha assunto fin dai primi anni del suo travaglio forme essenzialmente, spirituali. Il « popolo del Libro », che si* è conservato per lo studio delle tradizioni e dei monumenti del sue pensiero, sente che deve trarre dalla cultura nazionale l'alimento del suo ideale c la ragione del suo rinascimento.
La nuova Palestina ebraica possedeva, prima della guerra, oltre alle scuole elementari di cui ogni colonia era dotata:
i*> il Ginnasio di Giaffa - che da 100 alunni che aveva nel prim’anno della sua fondazione (1907) era arrivato nel 1914 a 700;
20 il Ginnasio di Gerusalemme, con tendenze più tradizionaliste e conservatrici di quello di Giaffa;
3® la scuola superiore Tachkemonì di Giaffa, fondata dall’ala destra dei sionisti, il partito ortodosso Mizrachì',
4° la scuola d’Arte industriale « Be-zalèl » di Gerusalemme.
Ora viene l’Università a completare gli istituti scolastici della nuova Palestina ebraica.
L’idea di creare questa massima sede della cultura ebraica nell’antica capitale
dello Stato israelitico vena : per primo al prof. Sciapira; fu appogg -ita nei 1901 al V Congresso dei Sionisti e resa popolare da una schiera di giovani studenti. Ma l’idea rimase per alcuni anni un sogno, poiché i tempi non erano maturi. Nel 1908 il dott. Israel Abrahams - non appartenente al Sionismo - ne riprendeva il disegno e l’XI Congresso concretava in un progetto pratico l’idea astratta, con una relazione dovuta proprio a quel dott. Weizmann che oggi è incaricato di attuarlo.
La buona notizia è stata data dallo stesso dott. Weizmann alla Conferenza annuale della Federazione sionistica inglese, il 2 febbraio, a Londra. Il Governo inglese, cui è stata sottoposta l’idea, ha dato facoltà alla Commissione di compiere ogni ricerca intorno alla pratica attuazione del progetto, provvedendo che le autorità militari non facciano alcuna obiezione perchè ne sia iniziata l’opera. Proprio in questi giorni è stato stipulato il contratto per l’acquisto del terreno sul Monte degli Olivi, dove sorgerà l’edilìzio dell’università. 11 terreno fu già proprietà del defunto Sir John Gray Hill di Liver-pool. Presidente della Società giuridica, eminente cultore del diritto marittimo: ed è uno dei luoghi più pittoreschi e più S¡loriosi di storia che circondino Gerusa-emme.
Nell’alta scuola si udrà di nuovo vivo e fluente, dopo millenni, quell’idioma ebraico che dal periodo antico della Mishnah e del-l’Aggadah e poi dopo quello medioevale del rinnovamento scientifico, filosofico e letterario, non fu più linguaggio parlato nè accademico. Oggi, l’ebraico si è arricchito fino a diventar capace di rivestire qualsivoglia concetto astratto e qualunque idea pratica. Pei la medicina si è fatto già molto sulla via della cieazione d’una conveniente terminologia, e del resto il Talmud e la letteratura medioevale offrono un ampio vocabolario che non ha che da essere riesumato. Lo stesso si può dire per le
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scienze naturali. Per la matematica esistono già. oltre i modernissimi tentativi, tutti i libri di testo necessari ad una scuola media, con terminologia perfettamente scientifica. E non pochi sono oggi gli specialisti ebrei che si dedicano ad esumare vecchi vocaboli dimenticati nel gran mare delle lettere ebiaiche o a crearne nuovi.
Certo le Sacre Scritture ritroveranno 1 loro naturali cultori negli studenti del-l'Università di Gerusalemme. Oggi la critica biblica è fatta un poco dagli altri e il cervello ebraico si è limitato ad accettare i dati e le ipotesi delle scuole d’Olanda e di Germania. Una « Scienza del Giudaismo > volle regalare lo Zunz ai suoi fratelli tedeschi e alle Università dì Germania, ma essa risente troppo dell'atmosfera della Diaspora e non ha creato alcun indirizzo nuovo e non è penetrata nè nelle folle ebraiche nè nella intellettualità non ebrea. Col nuovo Istituto che sorgerà nella vecchia terra, a contatto delle cose •e degli spiriti che crearono la Bibbia, l’anima e l’ingegno ebreo sapranno .certo dare alla ricerca del Libro un nuovo alimento. .
E qualche cosa dell’idealità profetica si diffonderà da quelle aule per il mondo.
9. DIO E LA GUERRA SECONDO UN RABBINO INGLESE.
Risorgono ancora dopo quasi quattr’an-ni di strage le discussioni degli uomini che credono sopra un problema molto profondo: cioè sul rapporto fra Dio e la guerra. In generale la consueta teologia, a cui fanno onore rappresentanti di tutte le fedi, risolve il problema in una maniera semplice: la guerra è un castigo che Dio manda agli uomini per i loro peccati.
Questa teoria, che noi abbiamo inteso ripetere a voce ed in iscritto, dal pulpito e in salotto, dagli uomini di religione, è stata ripresa dal dott. Gaster, Rabbino della Comunità sefardita di Londra, in un discorso tenuto in uno speciale « Servizio di guerra > nel « giorno della preghiera • alla Bevis Marks Synagogue.
E’ un fatto che i Rabbini possono citare una lunga serie di testi, cioè di autorità, di correnti di pensiero, d’interpretazioni ed ammissioni ebraiche per questo cho parrebbe quasi un postulato corrente ed elementare della « Filosofia della Storia ■
per Israele. Però gli antichi uomini e specie gli antichi ebrei erano meno complicati di noi e la loro mentalità si adagiava in soluzioni più semplici, in assioni generici, tali che in cervelli più dialettici provocano a loro volta altri problemi non meno gravi e non meno complessi.
Per certe correnti ebraiche non è sempre vero intanto che ogni male sia il castigo d’un peccato o che non ci possa esser dolore se non c’è colpa. Il cervello ebraico è stato in ogni tempo cosi assetato di giustizia pura ed assoluta, cosi ansioso di penetrare il problema del male - che era il massimo problema .del suo orizzonte etico - che ha dovuto finir coll’ammettere che ci può essere e c’è nel mondo una sofferenza dei giusti, cioè un dolore senza colpa. I posteriori moralisti farisei finiscono con l’adagiarsi in una suprema rassegnazione del mistero inviolabile e col dichiararsi « incompetenti • a risolvere il problema della sofferenza umana. E poiché non si può sottrarre il male della guerra al generale problema del male universo e farne un reparto speciale e privilegiato per la sua chiarezza, non si può neppure affermare categoricamente — come fa qualcuno - che, secondo gli Ebrei, la guerra debba essere la punizione del traviamento umano.
Detto ciò, ritorniamo al dott. Gaster, e vediamo anzi quali sono le obiezioni che alla sua teoria fa un giornalista inglese. Intanto, dice, vorremmo qualche cosa di più definito che la nuda retorica sinago-gale per indurci a credere che ci fosse maggior peccato o malvagità nel mondo prima della guerra di quello che ce ne sia oggi o che ce ne sarà probabilmente dopo la pace. (Argomento questo che colpisce, se mai, l’efficacia del castigo non la sua realtà). Qualcuno sarebbe tentato di affermare che la guerra ha semplicemente aggiunto la sua messe speciale di colpe, dirette e indirette, alla somma del male che rimane indiminuito. (Ma se il male non fosse che la conseguènza, assunta alla dignità di sanzione, d’un altro male ? Ben’Azzaj sentenziava acutamente che una trasgressione morale ne provoca un’altra, come un’opera buona si trae dietro un’altr’qpera buona. C’è una lunga scala di valori positivi e negativi che si perdono nell’infinito del tempo e in una infinita quasi necessaria ripercussione. E’ il teschio galleggiante dell’annegato a cui Hillel (I sec. a l’E. V.) diceva: Perchè tu
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NOTE DI VITA E DI PENSIERO EBRAICO
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annegasti altri, tosti annegato, e la stessa fine faranno coloro che vannegarono).
Data poi la diagnosi del dott. Gaster -continua il suo critico - i provocatori della guerra sarebbero i mezzi per il compimento della volontà e della giustizia divina: da cui il paradosso che il Kaiser avrebbe ragione nel considerarsi strumento di Dio, e noi avremmo torto combattendolo, perchè tenteremmo di frustrare i fini della divinità. Ora la conseguenza non ci pare necessaria. Non è detto che Nebuchadnezàr, bastone dell’ira divina (Scebeth appi), avesse ragione secondo il Profeta ebreo quando assaliva la Giudea pacifica e la vinceva, come il Kaiser tedesco ha fatto del Belgio, perchè disponeva di armi ben preparate e aveva a servizio del suo imperialismo feroce un ben congegnato militarismo. Il carnefice non è mai un personaggio rispettabile e il mestiere di • esecutore della giustizia » dev’essere fatto da chi ne ha le attitudini; e Babele dovette scontare non tardi la vile, quantunque vittoriosa, aggressione.
C’è fra gli Ebrei un’antichissima canzone popolare in dialetto arameo, cara nelle sere di Pasqua alle famiglie raccolte intorno alla cena allegorica e che ha ispirato una delle più fresche cose d’Israele Zangwill. E’ la canzone dell’attesa ed immancabile giustizia, della suprema ed assoluta sentenza che riponga l’equilibrio nel mondo turbato e un po’sconvolto dalle giustizie relative che costituiscono altrettanti delitti per chi ne è strumento. La mente ebrea dei Rabbini e del popolo guarda - come quella dei Profeti - al di là del momento e della realtà angosciosa e perversa, a qualche cosa di definitivo, di assoluto e di trascendente, in cui si faccia la sintesi delle contraddizioni immanenti. Vuol dir questo rimandare il problema all’infinito ? Cioè dichiararsi incapaci di risolverlo ? Può essere. Ed allora è meglio non ricercare ciò che è celato.
10. LA QUESTIONE EBRAICA IN ROMANIA
Dalla Svizzera si annunzia la soluzione del problema ebreo-romeno in rapporto alla Pace di Bucarest. La soluzione è illusoria, poiché non si fa che ripetere, con qualche leggerissimo mutamento, ciò che si incluse nel famoso pezzo di carta che fu per gli ebrei romeni il Trattato di Berlino. Certo non sono gl’imperi centrali i più
indicati a risolvere le questioni etniche e nazionali e i problemi di giustizia storica. Le affannose^aspirazioni ebraiche dovranno dunque agitare ancora il mondo, almeno fino alla più sicura pace universale in cui le paci separate dell’Europa centrale saranno rivedute e corrette.
Gli Ebrei sono stabiliti in Romania da molti secoli. Verso il finire del xvi secolo cd al principio del xvn ed anche prima v’immigrarono dai paesi vicini e si stabilirono nelle città e borgate, divenendo gl’ intermediari fra le provincie romene e le contrade limitrofe, sotto la protezione e per invito dei Signori e dei Bojari. Vi furono fra loro artigiani, — occupazione che i Romeni di quel tempo non amavano. I più istruiti furono interpreti e talvolta ambasciatori presso i sovrani e resero servigi molto apprezzati alla loro terra. Tutti i principi li designano come regnicoli e cittadini «1 pamanteni, raíale» e li trattano come tali.
La condizione degli Ebrei di Romania va peggiorando nel secolo xvm, dopo l’immigrazione di Ebrei dalla Polonia, invitati od accolti con favóre e con privilegi dai principi e dai proprietari fondiari. I governanti romeni cominciano più tardi a far differenza fra i nuovi Ebrei « stranieri ■ e gli antichi « cittadini » per finire poi col considerarli tutti quanti forestieri. Col xix secolo le persecuzioni si fanno più numerose, specie in Moldavia. Molte promesse ebbero gli Ebrei, di emancipazione, di eguaglianza civile nel 1848, nel 1858 (Convenzione di Parigi) nel 1864. Coll’avvento al trono del Principe Carlo di Hohenzollern comincia il vero martirologio degli Ebrei romeni, che pare debba chiudersi nel 1878 col famoso art. 44 del Trattato di Berlino. Ma è una breve illusione. Gli Ebrei rimangono in Romania stranieri senza protezione straniera; gente senza diritti, ma con tutti i doveri, gente senza difesa nè in Romania nè fuori.
La Pace di Bucarest pone fine e rimedio a questa schiavitù inaudita d’un intero popolo ? No. Secondo l’art. 28 del Trattato di Pace concluso cogl’imperi centrali, i « senza patria » che abbiano partecipato alla guerra sia in servizio attivo sia in servizio, ausiliario 0 i nati o domiciliati nel paese e provenienti da genitori nativi saranno equiparati ai cittadini rumeni. È un giuoco che riproduce per altro fine la legge del controllo degli stranieri emanata nel maggio 1915. Si dichiarano in
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antecedenza stranierismo allora e sempre, tutti gli Ebrei (eccett<Jftmilitari mobilitati) che non possano privare con atto ufficiale ch'essi e i loro genitori sono nati nel paese. Ora la maggior parte degli Ebrei non possono fornire le prove che la legge richiede. Gli uffici di stato civile non furono creati in Romania che nel 1866, e poiché non è consentito agli ebrei di produrre alcun documento ufficiale anteriore a quell’anno, l’art. 28 farà la fine del suo compagno 44 de Trattato di Berlino. La preparazione re nona era già fatta colla legge del maggio* ^>15 e già. prima della pace, ne fu denunziato il pericolo dal Comitato Pro causa judaica di Zurigo. « La loi sur le contrôle des étrangers devint ainsi une arme dangereuse entre les mains du Gouvernement roumain contre toute discussion future de la question juive, au cas où il s’agirait de l’émancipation des Juifs roumains, soit que la question fut soulevée en Roumanie même ou bien qu’un Congrès européen vienne à présenter cette demande. Car, comme le Gouvernement roumain considère les Juifs comme des étrangers, il pourrait empêcher leur ¿mancipation en leur demandant d’apporter des preuves impossibles à fournir ■ (1). E ciò è accaduto! Ora noi aspettiamo che il trionfo di tutte le libertà umane conculcate esca non dalle diplomazie degl’Imperi centrali, ma dai popoli liberi dell’Europa. Quello che la Romania non ha concesso ora, lo concederà allora, poiché la voce delle democrazie occidentali sarà più suadente della bocca del cannone tedesco.
11. GERUSALEMME E ISRAELE IN UN DISCORSO DEL PASTORE CARLO WAGNER.
Mentre non tutta la stampa dell’Intesa, nei suoi vari colori, ha capito il significato che dovrebbe avere per il mondo dello spirito e dell’idea il ritorno della Palestina
(1) La question juive en Roumanie, Mémoire publié par le Comité Pro Causa judaica, Zurich, 1918, pag. 28.
agli Ebrei e degli Ebrei a Sion, ci sono però numerose e profonde espressioni di simpatia che non debbono essere trascurate da chi accarezza gli accordi delle anime. Perciò ci è grato riprodurre in questa nobile Rivista alcuni passi d’un magnifico discorso pronunziato dal pastore Charles Wagner sopra « Gerusalemme quale centro di unione religiosa del mondo ». Dopo aver detto quello che Atene, l’Egitto, l’antico Oriente, Roma hanno dato agli uomini nell’arte, nella letteratura, nel diritto, nella maestà religiosa e nell’organizzazione politica, egli osserva: « Ma nulla, nel mondo, è grande come Gerusalemme. Israele ha dato al mondo la categoria della Santità: Israele ha conosciuto la sete della Giustizia sociale e della santità interiore ché è la fonte della Giustizia... Israele! Gerusalemme! è il centro religioso del mondo. Là è l'unità di tutto ciò che noi adoriamo...
Gerusalemme non solo è il centro dell’accordo religioso del mondo e può tornar tale un giorno, ma Gerusalemme può ritornar pure il centro d’un progresso sociale e d’un progresso economico...
Noi facciamo la guerra perchè abbiamo un ideale più bello: e qua si leva Gerusalemme/
Non vi fu mai sulla terra un popolo pili infelice di quello... Pare che i secoli si accaniscano a dimostrare a questo povero resto d’Israele che dovrebb’essere ridotto al nulla. Ma la voce paterna che solleva e consola internamente i decisi campioni della coscienza dice loro: " Non temere, verme di Giacobbe, debole resto d’Israele, io vengo in tuo soccorso, poiché io sono l’Eterno tuo Dio che fortifica la tua destra». (Isaia, XLI, 13-14). Essi non hanno capitolato, questi vinti... Questi vinti, sulle rovine e sui cataclismi del mondo, sorgono come un’alba, come un sole nuovo. E l’ideale che Gerusalemme proclama è più forte della notte, più forte del nulla, più forte della morte, più forte di tutte le torture... ».
Parole che illuminano il Calvario d’Israele e le aspettative della giustizia e della pace universale.
Dante Lattes.
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Vitalità e Vita nel Cattolicismo
. XIV.
Quel che la censura soppresse — Il conte Giuseppe Della Torre, presidente dell'unione Popolare fra ¿cattolici d'Italia, accusalo di disfattismo: Quel che si disse nel Convegno di Udine — Le accuse di Ciriani e di Castelli — La denunzia alla giustizia — Un precedente memorabile: Il convegno delle Giunte Diocesane e dei Consigli generali dell’Azione cattolica in Roma.
(CENSURA)
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il Giornale d'Itfilia del 24 dicembre 1917, sotto il titolo « 11 convegno cattolico di Udine e il "Corriere del Friuli „ > pubblicava la seguente lettera dell’on. Ciriani:
« Signor Direttore,
« L’on. Pirolini nel suo recente discorso ha riferito il fatto che io ho rifiutato la difesa del Corriere del Friuli per il "famoso,, articolo " La risposta... alle trincee „ — ed io avevo chiesto di parlare per fatto personale: I tumulti verificatisi verso la fine della seduta resero impossibile la mia parola. Mi mancò così il modo di precisare fatti e circostanze. È perciò che devo ricorrere al Giornale d'Italia.
« Anzitutto è opportuno ricordare che fui richiesto della difesa di fiducia dal direttore del quotidiano cattolico della Sirovincia di Udine, don Pagani, diesa che io recisamente rifiutai, osservando a chi mi aveva fatto la richiesta che se fossi stato nominato difensore d’ufficio - data la mia qualità di capitano degli alpini - mi sarei riservato ugualmente di chiedere l'esonero da tale compito.
« Alcuni giorni dopo mi venne recapitato l’avviso di nomina a difensore d’ufficio del Don Pagani e mi recai al Tribunale militare di Codroipo, dove ebbi la confer-ferma che soltanto per gravi motivi avrei potuto essere esonerato dal “ servizio „ cui ero Stato comandato. Ebbi allora premesso di conferire con l’accusato, al quale - per la conoscenza che in precedenza avevo del convegno clericale del 30 lu-
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CRONACHE
Ìlio u. s. in Udine, presieduto dal conte >alla Torre - premisi che il mio patrocinio sarebbe stato possibile solamente se i fatti avessero consentito una chiara e precisa linea di difesa sulla base di Suella italianità che aveva reso inviso il
•on Pagani a tanta parte del clero e dei clericali dell’arcidiocesi di Udine per la propaganda da lui fatta e con discorsi e con articoli a me noti.
« Il don Pagani manifestò subito tutta la sua contentezza nell’apprendere la condizione che io avevo posto per difenderlo, senza avergli dato altra speranza che quella di farlo ritenere, come era, un perfetto italiano. In prova mi consegnò un memoriale da lui scritto con elenco di persone da chiamarsi a testimoniare fatti di non lieve importanza, compreso quello del Convegno di Udine di cui tenne Karola, con esatta rispondenza alla verità, on. Pirolini. Da quel memoriale, dalla testimonianza di persone degne di fede, dalla conoscenza che direttamente avevo io, risulta:
« I. Che il conte Dalla Torre, nella sua qualità di presidente della Unione popolare cattolica, espose ai sacerdoti ed ai laici clericali radunati a convegno nel 30 luglio in Udine i disagi e il malcontento delle popolazioni, la loro stanchezza nel sopportare (subire) la guerra più oltre, il morale depresso delle truppe:
« 2 Che la propaganda dei socialisti ufficiali faceva proselitti fra le masse cattoliche, le quali avrebbero finito per sfuggire in gran parte dalle file delle organizzazioni se i cattolici non si fossero e subito posti sullo stesso campo, nella medesima linea praticata dai socialisti ufficiali-,
« 3. Che bisognava quindi far macchina indietro e quindi mutare immediatamente l’intonazione interventista che il don Pagani aveva dato e conservato al giornale cattolico:
« 4. Che bisognava far comprendere la necessità di concludere la pace e il dovere dei cattolici di seguire le direttive del Papa.
■ Il don Pagani — che invano aveva protestato — uscendo da quel convegno, rattristato, avvilito, espresse tutta la sua amarezza all'avvocato Cadolini, sindaco di Tarcento. lo pregò d’interessare il conte Dalla Torre a modificare, ridurre almeno il programma imposto, e gli disse che se il Comandò supremo avesse saputo del convegno tenuto e delle delibe
razioni (o intese) adottate, avrebbe di certo " messo tutti in galera. „ E riuscì vano il tentativo che l’avvocato Cadolini avrebbe esperito per indurre il Presidente della Unione popolare cattolica sunnominato alle modifiche o riduzioni di cui sopra.
«Nella lista testimoniale a difesa del don Pagani doveva dunque comprendersi il conte Dalla Torre, l’avv. Cadolini ed altre persone, e non sarebbero mancate su questo punto le controprove.
.« In presenza di ciò e di altri fatti che non occorre rammentare, ravvisai compatibile con le mie convinzioni la difesa del don Pagani, ed accettai lieto di sentirmi ripetere da lui che non tanto lo esito del processo lo preoccupava, quando di risultare, nel dibattimento a porte aperte, un italiano senza restrizioni di qualsiasi genere, un vero patriota come 1 operato suo gli dava diritto.
« Mi accingevo allo studio della causa quando, qualche giorno dopo, venni officiato a non porre in essere al dibattimento i fatti suaccennati, anche perchè io avevo affermato non potersi per essi soltanto aver ragionevole probabilità di buon esito. Rifiutai per i motivi perso; nali suesposti e in omaggio alla volontà libera del Pagani, e quando si soggiunse che a difendere il Pagani si era offerto l’avvocato Toffanin di Padova, e mi si propose di costituire con detto avvocato collegio di difesa per patrocinare insieme e il Pagani e l’autore dell’articolo incriminato — contrariamente al proposito manifestatomi del don Pagani medesimo che non voleva confusa la eventuale sua responsabilità con quella del don Ga-sparutti (Marx) —si fu allora che rifiutai. Difensori di entrambi gli imputati furono l’avv. Toffanin, di Padova, e l’avv. on. Vecchini, come è noto a tutti.
« Fu poi Io stesso conte Dalla Torre di Padova che al caffè Pedrocchi in Padova (dove mi ero in antecedenza recato' per visitare un valoroso ufficiale superiore ferito, il colonnello Pizzarello che era stato mio comandante nel battaglione Tolmezzo) fu proprio lui che mi disse che in occasione del convegno di Udine di cui mi aveva tenuto parola, si era recato dal generale Porro. « Dev.mo M. Ciri ani ».
Il conte Dalla Torre, chiamato così direttamente in causa, e come persona e come capo del partito clericale italiano.
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si affrettò a contrapporre alla lettera del Ciriani una sua lettera, la cui parte essenziale è la seguente:
« Che io nel Convegno di Udine abbia ricordati i voti dal Santo Padre tante volte ripetuti per una pace giusta e durevole e non per un’altra qualsiasi; ed abbia invitato tutti a cooperarvi pel bene de) Paese; ch'io possa aver accennato alla propaganda socialista ed anticlericale nelle campagne, indicante i preti ed i cattolici come provocatori della guerra ed esortato a combatterla ed a smentirla con ogni mezzo, con quello della pubblica stampa innanzi a tutti; ch’io abbia ricordato il disagio delle popolazioni qgnor crescente, (non delle truppe sulle quali, è chiaro, che chi tornava allora, nel Friuli, da Roma poteva logicamente assumere, se mai, non dare notizie) per concludere sulla necessità, specialmente pel Clero, di assisterle, di non lasciarle allontanare dalla loro fede e dalle nostre organizzazioni, e, per i cattolici tutti, di compiere sempre il proprio cristiano dovere per essere di esempio e di conforto; non mi sembra che possa costituire ragione alcuna di demerito per ogni leale cittadino e onesto uomo di parte. .
«Ma mi sembra invece, ed è evidentemente assurdo, ch’io ne abbia voluto dedurre la opportunità di mutare la nostra costante e coerente condotta per ridurla al seguito di un partito irriducibilmente avversario, modificando persino gli indirizzi della stampa locale: mi sembra assurdo che d’improvviso, senza alcuna nuova ragione, non dico plausibile, ma appena spiegabile, anzi all’indomani di una pubblica circolare della Giunta Direttiva su tali argomenti; e proprio a Udine, dinanzi a numeroso convegno, contro ogni elementare prudenza politica e personale, io abbia contradetto ai principi), alle direttive, alla condotta, pur testé proclamata patriottica, di tutta la parte cattolica, e a! contributo che io stesso vi recai le mille volte, personalmente e pel mio ufficio, in circolari, in conferenze, in convegni pubblici e privati, in ogni regione d’Italia, prima e dopo il Convegno di Udine. Mi sembra, ripeto, assurdo e ridicolo agli occhi di chicchessia».
E il Dalla Torre proseguiva appellandosi alla testimonianza del comm. Bro-sa loia e di due altri consiglieri provinciali
di Udine, che, come membri del partito clericale, avevano preso parte al Convegno.
Uno dei, due, l’on. Ciriani o il conte Della Torre mentiva. O falsa era l’accusa lanciata dal primo, accusa assai grave e decisa, o insincera era la difesa azzardata dal secondo. Questa difesa appariva già assai fiacca ed indecisa: non vi si diceva sdegnosamente, come avrebbe richiesto l’accusa, no, non é vero! ma il Dalla Torre vi cercava piuttosto un alibi nei precedenti del Suo partito, precedenti che, come spesso abbiamo documentato, sono assai dubbi. Onde un giornale romano [Messaggero, 28 dicembre) volle interrogare il deputato per Spilimbergo, il quale colse l’occasione per determinare ancor maggiormente le sue imputazioni contro il presidente dell’Unione Popolare fra i cattolici d’Italia. Ecco l’intervista:
« Sulle cause e sulle origini del dissidio nel campo cattolico (dissidio di cui si occupa nuovamente in questi giorni la stampa politica italiana) abbiamo chiesto all’on. Ciriani, che ha di recente mosso, gravi accuse all’azione del presidente dell’Unione Popolare cattolica, conte Della Torre, notizie e schiarimenti.
- Il conte Dalia Torre - abbiamo chiesto al deputato di Spilimbergo - ha smentito interamente quando ella ha detto nella sua lettera ?
« — Il presidente dell’Unione Popolare Cattolica - ci ha risposto l’on. Ciriani -ha confessato di non poter smentire; poiché lungi dal negare e dall’ammettere i fatti precisi da me attribuiti a lui nel famoso Convegno del 30 luglio in Udine, sembra che faccia le prove per un interrogatorio. Infatti, mentre io affermavo e confermo, oggi ancora, tutto quanto fu oggetto dei suoi propositi in quel convegno, egli si preoccupa, nella sua lettera, di far passare come cosa assurda, inverosimile, tutto ciò che costituisce un'azione segreta ai danni del raggiungimento di 3uella pace che può derivare soltanto alla vittoria dell’Intesa.
« — Ma, nel Convegno di Udine, che cosa si era proposto il conte Dalla Torre ? «— Per i fatti che sono a mia personale conoscenza e che eventualmente persone degne della massima fiducia potranno comprovare, è doveroso ritenere che il conte Dalla Torre si proponeva di persuadere sacerdoti e laici, organizzati clericalmente, a portare in mezzo alle popolazioni ru-
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CRONACHE
rati la parola pace allo scopo di determinare nelle popolazioni stesse la convinzione che solamente con una loro azione sul Governo - poiché Paese e Esercito sarebbero stanchi della guerra e non potrebbero a lungo subirla - avrebbero potuto conseguire la fine di quella che il Papa pochi giorni dopo dichiarava "inutile strage,,.
•« Ora. basta ricordare la data del Convegno di Udine c la data della Nota pontificia per convincersi che quando il Dalla Torre esortava i convenuti a seguire le direttive del Pontefice, portava in quell’adunanza una voce autorizzata !
«— Ma se non ha smentito, il conte Dalla Torre ha però invocata la testimonianza del presidente della Giunta diocesana di Udine. Quale il valore della " rettificazione,, del comm. Brosadola ?
«— La lettera del comm. Brosadola ha il medesimo peccato d’origine di quella del Dalla Torre. Il conte vuole smentita l’accusa che io gli ho specificatamente rivolta, solo perchè sarebbe assurda una sua azione disforme dalle deliberazioni pubbliche delle organizzazioni che egli dirige, ma dimentica che io ho detto, e ripeto, avere egli - con l’autorità che deriva dalla carica conferitagli dal Papa — imposto ai convenuti delle intese che la stampa non ha pubblicato. Il commendatore, a sua volta, si limita ad escludere che sia stata presa in quell’occasione 3ualsiasi deliberazione circa l’indirizzo el cattolico Corriere del Friuli.
« Al signor conte Dalia Torre non posso che rivolgere l’invito formale di ammettere od escludere i punti che costituiscono la sostanza delle mie affermazioni, in confronto a l’opera da lui spiegata ! Quando egli osasse smentirmi, non mi mancheranno testimonianze. Se la mia casa e quindi il mio studio, non fossero invasi da Juei nemici che, tanto hanno proclamato i essere pronti alla pace, io potrei offrire sull’argomento qualche documento inte-teressante.
«Per quello che tiguaida il comm. Brosadola, non sarà inutile ricordare che egli è uno dei sette consiglieri provinciali di Udine, i quali in occasione del cinquantenario della liberazione del Veneto rifiutarono di aderire alla proposta della Deputazione provinciale per solennizzare il Venti Settembre e il cinquantenario della redenzione, col pretesto che le festività assumevano un carattere ed una finalità contraria alla Santa Sede.
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« Non è inutile neppure ricordare che due di quei consiglieri suoi compagni sono rimasti, l’uno a Gemona. l’altro in Udine, tutt’altro che malvisti dalle autorità imposte dagl’invasori !
«Che il Corriere del Friuli abbia, in effetto, mutato indirizzo dopo l’adunanza di Udine, lo provano gli articoli schiettamente patriottici del Pagani, anteriori al 30 luglio e un articolo comparso su quel foglio il 3 agosto, non di don Pagani, intitolato: Dopo il Convengo, nel quale fra l’altro si legge se sia utile adunarsi per resuscitare attività di partito, e se il ‘‘programma dei cattolici dovrà lasciare * libero il passo alla propaganda dei socialisti ufficiali che si fanno belli presso il popolo e cercano una vasta piattaforma elettorale, nella pretesa di monopolio dèi desiderio di pace.,. Tale domanda è seguita dall’affermazione che è urgente e necessario prendere in mano questi problemi, studiarne, la soluzione e iniziare anche il lavoro effettivo, pratico, compatibile con le attuali condizioni. Nè va di- ' monticato che si afferma il proposito di unità destinale a costituire saldamente il grande organismo rappresentativo della nazione cattolica.
• — Allora, secondo lei, i cattolici organizzati opererebbero diversamente da Juellc che deliberano in certi loro ordini el giorno a fondo patriottico?
« — Bisogna distinguere: la maggior parte degli italiani di religione cattolica, che sotto le anni e nel paese con tanto eroismo difendono e sostengono le finalità della guerra contro gli Imperi centrali non appartengono ad organizzazioni clericali. E ben pochi degli organizzati seguono le direttive dei capi: i quali, se vogliamo esser sinceri, si valgono di queste eroiche prove di salda italianità dell’opera costante spiegata dai cattolici nel paese per agire, insospettati e insospettibili, in modo tutt’altro che conforme alla necessità dell’ora.
« — L’on. Orlando - ha concluso l’on. Ciriani — nel suo discorso mirabile sopratutto per virile fermezza di propositi, ha promesso solennemente di raggiungere a qualunque costo quanto è ragione di vita e di onore per la patria: ma nello stesso tempo ha fatto ben comprendere che occorre più che la vKna concordia delle parole, la salda unione degli spiriti e delle volontà: unione alla quale possono secondo me, partecipare soltanto coloro i quali si sono proposti di agire - come
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esclama fon. Cameroni - per la Patria, al disopra di tutti e contro tutti. A questi propositi certamente non si inspira l’opera del conte Dalla Torre ».
Non con questo finirono le tribolazioni del Dalla Torre, chè anzi si può dire che dalle accuse dell’on. Ciriani ebbero inizio. Al focoso deputato fece eco infatti il professor Castelli, direttore del periodico .cattolico-nazionalista di Milano, La Patria, il quale in un dispaccio da lui inviato al prof. Toniolo e comunicato alla stampa, dichiarò:
« Mi consta da fonte certa e degna che il Convegno di Udine non fu che un episodio della tenace, subdola azione disfattista che tuttora si prosegue dai dirigenti la nostra organizzazione... Lo spirito dal quale il Convégno di Udine fu animato, la Presidenza dcll’Unione Popolare ha fissato in modo non equivoco in un documento ufficiale che non si potè e non si E »nò, perchè non si deve, diffondere pei a stampa, ma che è in stridente contrasto con la disciplina di cittadini leali di ■no Stato in guerra non meno che con la devozione che i cattolici devono a precisi disposti di documenti autorevoli.
« Il contegno dell’Unione Popolare nei riguardi della guerra e della pace ha dato già frutti amari per la Patria e per la Chiesa, e frutti più amari prepara per la realizzazione delle nostre sacre aspirazioni. Ma la persistenza, pure dopo Capo-retto, nella inopportuna linea di condotta che, pei strappare proseliti al socialismo, fa a gara con gli elementi più ferocemente anticristiani, col precipitare la Patria verso l’anarchia soviettistica, tende a trasformare l’associazione in una associazione a delinquere. Onde è che, chi si sente forse l'ultimo fra i cattolici, ma ha indossato volontariamente la divisa della Patria, che tiene desto il culto per gli amici eroicamente caduti, che tiene fede al programma iniziale da lui bandito, non sa più oltre tollerare imprudenti smentite, nè complici silenzi ».
Il presidente dell’Unione Popolare, inesso alle strette, credette opportuno replicare ancora, ciò che fece con una nuova lettera ai giornali, in data 30 dicembre, così formulata:
•• Leggo ciò che il suo pregiato giornale riceve da Milano sulle proteste dell’avvo
cato Castelli contro le direttive delPUnione Popolare.
« Debbo soltanto dichiarare che quel documento cui si sarebbe ispirato il Convegno di Udine, e che - secondo il Castelli - " non si potè, non si può, perchè non si deve pubblicare,, consiste evidentemente nella circolare della Giunta Direttiva dell’Azione Cattolica Italiana, del ano scorso; circolare pubblicata intemente da tutti i giornali cattolici.
« In essa, dando convenienti istruzioni per combattere le accuse che fin da allora si movevano ai cattolici con la prova eloquente della loro condotta prima e ■dopo la proclamazione della guerra, si faceva, ancora una volta appello alla generosa abnegazions dei cattolici perchè nulla li distolga dall’adempimento di quel cristiano dovere, che, in questa grave ora, è e deve essere costante e disinteressato tributo di attività e di sacrificio pel bene del Paese e del popolo. •
< E a questi sentimenti - è perfettamente esatto - rispose il Convegno di Udine.
« Voglia poi giustificarmi, se non credo decoroso rilevare, oltre l’accusa che si dichiara preventivamente di non poter provare, gli sdegni e le ingiurie dell’avvocato Castelli contro l’Unione Popolare, dopo giusti sei mesi
• Dev.mo: G. Dalla Torre».
La equivocazione voluta dal Dalla Torre circa il documento a cui il professor Castelli si riferiva, appare chiarissima. Evidentemente il Castelli alludeva a Sualche determinazione del tutto diversa a quella a cui si appella il Dalla Torre e con ogni probabilità, alla petizione diretta dall’Unione Popolare al Governo perchè aderisse alle proposte pontificie di pace, contenute nella famosa Nota pontificia sopra rammentata, petizione che, come abbiamo detto, non vide la luce, malgrado fosse stata solennemente annunziata dai giornali clericali. Dal contesto delle dichiarazioni del prof. Castelli risulta infatti che il documento ufficiale della Presidenza dell’Unione Popolare, a cui il Castelli accenna, seguì, non precedette il Convegno d’Udine che ebbe luogo il 30 luglio 1917. Onde non solo inutile, ma assai maldestro appare il Conte presidente quando, cercando di confondere i poco accorti ed abusando della buona fede di chi non segue troppo attenta-
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mente l’attività clericale, rivangava una circolare del giugno precedente e si ap-grappava disperatamente ad essa.
Ad ogni modo, con l’intenzione di farla finita con le tergiversazioni, intervenne a dare un carattere legale alle accuse l’avvocato Mario Ponili di Milano, il quale il 30 dicembre sporse formale denunzia contro il conte Giuseppe Della Torre alla Procura de! Re di Roma.
In detta denunzia l’avv. Ponili riporta le quattro accuse dell’on. Ciriani contro il presidente dell’Unione Popolare fra i cattolici italiani, quali sono esposte nella lettera del deputato per Spilimbergo che sopra abbiamo riprodotto, quindi prosegue:
« Le asserzioni di' cui ai commi 2, 3, 4 se, in fatto si appalesano atte a deprimere lo spirito e a diminuire la resistenza nazionale, in diritto essendosi effettuate in periodo di tempo anteriore alla pubblicazione del decreto luogotenenziale 4 ottobre 1917, n. 1561, sfuggono forse alla sanzione penale, salvo il diverso parere della S. V. Ill.ma.
« Non così si può dire, a sommesso avviso del sottoscritto, e salva sempre l'autorevole opinione della S. V. Ill.ma, della asserzione contenuta al comma 1. nella naie sembra giuridicamente sostanziarsi il qeato di diffusione di notizie non conformi ra verità e capaci di turbare la tranquillità pubblica.
« 11 contegno superbamente fiero opposto dalle popolazioni sia del Veneto che delle altre contrade d’Italia, nell’ora tragica dell’invasione nemica, nella quale lo scoramento avrebbe potuto, se non giustificarsi, essere spiegato, smentisce a chiare note che nel luglio 1917 le nostre popolazioni non fossero disposte, per l’attitudine morale, a subire più oltre la guerra. Il valore poi sempre dimostrato dalle truppe smentisce da solo e senza bisogno di commenti l’altra falsa notizia del morale depresso.
« Il sottoscritto non conosce neppure di vista il sig. Dalla Torre, e nulla può dire sulla sua proclività specifica a delin-Suere, nè quanto vi sia di vero negli adebiti mossigli dal Fon. Ciriani. Comunque tali addebiti, se fondati, mentre di fronte alla legge morale si risolvono, come si può dire ora, in un sabotaggio della guerra (con elòquio più puro: in tradimento verso la nazione in armi) di fronte alla legge scritta risulterebbero, per quanto si è accennato, costituire reato. E se il
Dalla Torre che ne è incolpato e, a quando consta, cittadino italiano, non se ne preoccupa e si limita a rettifiche e smentite, anziché provocare in sede più serena di discussione il loro accertamento, sembra al sottoscritto elementare dovere di cittadino sottoporle all’esame della Giustizia del suo paese trattandosi di fatti che esulano dall’ambito della polemica di due persone per interessare i diritti più alti e sacri della patria. Vedrà il magistrato se sia vero quanto Fon. Ciriani asserisce e in tal caso ricorrendo tutti gli estremi oggettivi del reato di cui più sopra, l’E. V. vorrà dar corso ai provvedimenti relativi oppure risulterà che il Dalla Torre ha mai detto le parole delle quali è questione e vedrà il magistrato se Fóri. Ciriani non si sia reso a sua volta responsabile, per la propalazione di circostanze non vere, del turbamento della tranquillità pubblica: reati preveduti così nell’uno come nell’altro caso del riportato decreto luogotenenziale. Quale teste indico Fon. Ciriani deputato al Parlamento per il collegio di Spilimbergo, e gli altri nominativi che lo stesso potrà rassegnare.
F.to Avv. Mario Porilli studio Foro Bonaparte, n. 60».
In tal modo la questione venne deferita alla giustizia. Qualche giorno dopo corse voce, raccolta dalla stampa, che il Procuratore del Re di Roma, avendo dovuto rilevare che nella specie trattavasi di reato commesso in territorio dichiarato in stato di guerra, aveva, in applicazione del bando Cadorna 28 luglio 1915, trasmesso la denunzia al Comando Supremo (reparto Giustizia militare) per la designazione del Tribunale di guerra competente ad istruire e giudicare.
(CENSURA)
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BILYCHNK
Quando poi infieriva la polemica e potevano temersi, come era logico, immediate ripercussioni in danno del Dalla Torre, si ventilò nelle alte sfere clericali e anche in Vaticano, se convenisse al Conte presidente di presentar le dimissioni. Un giornale, le cui informazioni vaticane tornano particolarmente gradite alla Segreteria di Stato di Benedetto XV, Il Tempo, così ne scriveva (n. del i° gennaio 1918):
■ A proposito dei guai polemici e sembra anche giudiziari, che sta passando il conte Dalla Torre per indisciplina di guerra, occorre chiederci perchè la stampa cattolica non abbia creduto di prendere una posizione. E nemmeno i pochi estranei che sono intervenuti nella polemica hanno avuto un atteggiamento deciso in favore del presidente dell'Unione Popolare fra i cattolici italiani. La risposta non è agevole, perchè essa si riallaccia alla speciale posizione dei cattolici nei riguardi della guerra. Per trattarne bisognerebbe fare qualche analisi di fatto e di persona che ci riserveremo di compiere. Per oggi e per la cronaca registriamo il fatto dell’isolamento in cui è lasciato il conte Dalla Torre. I dirigenti delle organizzazioni e dei giornali attendevano dal loro capo un passo deciso verso la soluzione delle incognite che Io riguardano dopo i rilievi dell’on. Ci-riani sul suo intervento al Convegno di Udine. Questo passo deciso — querela o giurì d’onore — non è venuto e vi è un po’ d’impazienza nei cattolici perchè il conte Dalla Torre trovi una via risolutiva. Questa via, dato che egli è nominato dalla S. S., non può che trovarla lo stesso Dalla Torre e ieri non si sapeva se onesta potesse essere la presentazione delle dimissioni o la richiesta di un congedo, e veniva in ogni modo dato per ipotesi quasi certa quella del ritiro del Dalla Torre dalla carica onde porre in chiaro la situazione ».
Senza dilungarci nell'esame di quanta sottigliezza si racchiudesse in tale tentativo, escogitato per scindere le responsabilità individuali del Dalla Torre da quelle del presidente dell’Unione Popolare fra i cattolici d’Italia, mentre appunto in tale qualità il detto signore interveniva al Convegno di Udine e lo dirigeva ed informava, ci piace riprodurre quanto in proposito scriveva II Secolo (2 gennaio):
« Conviene mettere in guardia il pubblico almeno pel rispetto che si deve alla verità, contro certi tentativi di salvataggio. Da quanto traspare tra le righe del nuovo giornale romano del mattino una cosa si apprende: che non si è alieni dal sacrificare il conte Dalla Torre per salvare più alti responsabili. Vi posso assicurare che non è per nulla nelle intenzioni del presidente dell’unione Cattolica di dimettersi dal suo ufficio. Che egli lo pensi, perpetuando un sistema che non torna ad onore di chi lo ha adottato, non lo si esclude negli ambienti clericali. Senza tuttavia preoccuparsi del Conte veneto il quale, poiché lo ha voluto, deve rispondere fino all’ultimo della sua azione, conviene dar ragione a coloro che apertamente tacciano onesto sistema di ingeneroso e di sleale. Sopratutto non si deve, venendo meno alla verità dei fatti o almeno attaccandosi eccessivamente alla lettera delle deliberazioni ufficiali delle organizzazioni centrali cattoliche, accusare il conte Dalia Torre di aver fatto una politica diversa da quella tracciata alle or-Snizzazioni: sarebbe ingiusto perchè è
(so.
< Il gran dibattito sulla condotta dei cattolici nei riguardi della guerra avvenne neH'ultimo Convegno tenuto a Roma, Convegno dal quale la stampa fu esclusa. Ora a quel Convegno la frazione contraria alla guerra, capeggiata dagli on. Berlini e Miglioli, dal sacerdote Bini di Mantova e dal direttore àe\V Azione di Cremona, fu sul punto di prevalere, e si fu così violenti nell'attacco che ad un prete il quale senza smargiassate ha compiuto intero il suo dovere di italiano dando in altri tempi fervida attività all’organizzazione cattolica e efie sosteneva la necessità di essere anzitutto italiani, furono gridati volgari e plateali insulti. Il conte Dalla Torre salvò in quella seduta la situazione con un ordine- del giorno che accontentò gli uni e gli altri. Quell’ordine del giorno non poteva essere naturalmente se non equivoco, ma fu votato dalla maggioranza e il presidente ha dovuto vivere nell'equivoco. D’altra parte la volontà della maggioranza trova per la costituzione stessa delle organizzazioni il suo limite nella volontà delle autorità superiori che dà le sue istruzioni al Presidente da lui nominato e ad esse informa la sua azione.
• Questi giuochi, dunque, che tendono a scindere delle responsabilità, ma appaiono sleali agli stessi cattolici, sembrano a noi
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CRONACHE
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ridicoli. Pretendere che il conte Dalla Torre si dimetta affermando che egli si troverebbe più libero di porre in chiaro la sua situazione, è per noi un non senso. Egli è denunziato quale presidente dell’Unione Cattolica e come tale deve .scolparsi. Le linee della sua difesa le ha già battute: ha dichiarato, di fronte alle accuse del-l’on. Ciriani, che la sua opera non s’è discostata dalle direttive tracciate ai cattolici. Non è vero dunque che non abbia fatto un passo deciso verso le incognite che lo riguardano. Ci si può chiedere: ma queste incognite riguardano proprio e solo lui? E a Udine, al Convegno in causa, andò per un eccesso di potere? ■.
L’accenno che nelle righe che precedono si fa al Convegno a Roma tenuto dài clericali merita qualche illustrazione, perchè non v’ha nulla di meglio per illustrare la duplice faccia, del clericalismo italiano. Si tratta del Convegno delle Giunte diocesane che ebbe luogo in Roma alla metà di gennaio del 1917. La stampa, come si è detto, ne era stata gelosamente esclusa. Si venne tuttavia a sapere che, per alcuni atteggiamenti patriottardi e certe manifestazioni fatte in precedenza dalla Direzione dell’Unionc Popolare, la Direzione stessa vi venne sconfessata, come venne sconfessata la stampa clericale di tendenze guerraiole. In tutte le varie discussioni che si susseguirono, tutti gli ordini del giorno proposti o sostenuti dai membri della Direzione del partito dovettero essere ritirati, perchè sarebbero stati decisamente bocciati. Infine si dovette accettare, per misura di disciplina interna, un ordine del giorno, che uno dei membri della Direzione e precisamente il prete Giulio De Rossi, direttore del bollettino ufficiale del partito. La Settimana Sociale, dichiarava essere la più completa sconfessione della Giunta direttiva, che rappresentava la tendenza nazionalista.
Ma il colmo dell’impudenza e dell’imprudenza fu l’ordine del giorno concordato fra i due Mauri-Bertini e Longinotti-Cingolani, sull’a.teggiamen o dei cattolici italiani di fronte alla guerra, votato nella seduta del 18 gennaio 1917. Come il detto ordine del giorno venne comunicato alla stampa suonava così:
« L’assemblea delle Giunte Diocesane e dei Consigli Generali dell’Azione Cattolica Italiana, preso atto delle comunicazioni
della Giunta Direttiva e udita la discussione,
« ritenuto che all’attenzione ed alle cure dei cattolici italiani oggi precipuamente si impone il lavoro di ricostituzione delle forze popolari per l’auspicato periodo della pace, informata a giustizia e consona alle LEGITTIME ASPIRAZIONI D’ITALIA, invita la G. D. a sviluppare un’azione vigorosa e continua in senso decisamente popolare, per indirizzare i cattolici verso tutti quei problemi, nella cui impostazione e soluzione, durante e dopo la guerra, debbono schiettamente affermare il loro programma sociale.
»Mauri — Longinotti — Berlini — ClNGOLANI ».
Come invece esso era stato approvato dall’assemblea^ là dove sì auspica una pace consona alle legittime aspirazioni d’Italia, si diceva « consona alle legittime aspirazioni dei popoli ». Così un ordine del giorno essenzialmente internazionalista e pacifista veniva truccato dalla Presidenza o dalla Segreteria, da chi insomma diramava i comunicati alla stampa, da interventista e nazionalista. Si ripeteva l’eterno giuoco: la dicitura destinata alla pubblicità era per solo uso esterno: in famiglia vigeva l’altra.
Allorché 1M vanti/(n. del 22gennaio 1917) divulgò tale notizia, uno solo dei giornali clericali italiani, V Avvenire (l'Italia di Bologna — gli altri prudentemente si tacquero — osò accusare di menzogna Francesco Ciccotti, corrispondente da Roma del giornale socialista milanese, che aveva dato tale informazióne. Il Ciccotti dichiarò allora che il deputato cattolico Miglioli e l’ex deputato Mauri (questi firmatario dell’ordine del giorno in questione) avevano fornito l’interessante notizia, raccontandola a vari giornalisti in un pubblico ritrovo della capitale ed autorizzandone la pubblicazione. Replicò il giornale bolognese col dire di aver ricevuto una lettera di smentita contro il Ciccotti dal Mauri, lettera che però... non era destinata alla pubblicazione. Il Mi-Ì;lioli intervenne anche lui dichiarando conorme a verità ciò che V Avanti! aveva divulgato! Nella seduta del 24 febbraio 917 della Giunta dell’Azione Cattolica questa si occupò della faccenda e cercò di tirarvi un velo sopra con la seguente dichiarazione:
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« La Giunta Direttiva ha esaminato l’incidente provocato dalla corrispondenza sull’ava»/:/ del 22 gennaio riguardo il Convegno delle Giunte diocesane; e avuta visione delle dichiarazioni inandate dagli onorevoli Mauri e Miglioli al presidente generale con le quali smentiscono recisamente quanto loro è stato attribuito dal predetto giornale, ha deliberato pubblicarle con speciale nota e ordine del giorno sulla Settimana Sociale del 23 febbraio, dichiarando dopo ciò chiuso l’incidente >.
A sua volta ¡‘Avanti! del giorno appresso recava:
« Non esitiamo a qualificare questo brano del comunicato un sorprendente capolavoro della faccia tosta dei signori della Giunta Cattolica.
• La dichiarazione dell’on. Mauri — cui si allude — non è stata pubblicata, e quella del Miglioli fu una conferma della nostra Subblicazione. Quali sono, dunque, " le ichiarazioni mandate dagli onorevoli Mauri e Miglioli..., con le quali smentiscono recisamente quanto loro e stato attribuito dal predetto giornale,, (¡’Avanti!)? Animo,
dunque, le pubblichino, e noi domanderemo che coloro i quali furono presenti alla conversazione fra noi c il Mauri e il Miglioli. attestino finalmente (e fra essi vi sono i col leghi Paolo Sgarbi e G. Mangiaufi del Giornale d’Italia) chi giuoca a partita doppia in questa schermaglia, che è durata anche troppo. Noi sfidiamo la Giunta dell'Azione Cattolica a pubblicare quelle dichiarazioni ».
l clericali non replicarono più.
Se qualcuno si prendesse il gusto di riannodare questo episodio col 'occorso nel Convegno d’Udine — «solo d’Udine? non vi sarebbero stati altrove a tri convegni del genere? » insinua ¡’Azione, settimanale della Lega democratica cristiana italiana (n. del 6 gennaio 1918) — troverebbe la spiegazione del contegno che il Della Torre vi tenne, e giudicherebbe esattamente del valore delle deboli smentite che il Conte Sresidente ha avanzato contro le accuse el deputato Ciriani.
Attendiamo ora il responso della giustizia militare.
Roma, aprile 1918.
Ernesto Rutili.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
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