1
" Gettate lungi da voi tutte le vostre trasgressioni per le quali avete peccato, e fatevi un cuor nuovo e uno spirito nuovo
Anno LXXX
Una copi
Eccoci anche q
Febbraio.
La festa gioiosa
tà ! Ma ci rendiam
to di che cosa Di
chiamandoci a lib
ci chiediamo in q
Ed è giusto che
posto il folklore
festa, e quale sic
scendersi sotto le
(vedete gli artieoi
di G. Tourn, di G
Il XVII Febbraio
damentale nella
dese, storia di lott
miserie umane e d
jest'anno al XVII
ECO
DELLE VALLI VALDESI
LONOO STIMA
Casi Valiese
toprp ptsmcs
Settimanale
della Chiesa Valdese
X - N. 7
L i re 30
ABBONAMENTI
}
Eco: L. 1.200 per rintemo I Eco e La Luce: L. 1.800 per Tintemo I Spediz. abb. postale • i Gruppo
L. 1.600 per l’estero
L. 2.500 per Testerò
Cambio d’indirizzo Lire S 0
TORRE PELLICE 13 Febbraio 1959
Ammin. Claudiana Torre Pellice • C.C.P. 2-17657
della nostra liber
0 sempre ben conio ci abbia donato
ertà? E' quel che
Desta pagina.
ci chiediamo quale
abbia nella nostra
nificato possa nanostre celebrazioni
1 di L. A. Vaimal,
Tron ).
è una tappa fonsbcolare storia val;a, di sofferenze, di
fede : ce ne giun
17 Febbraio
ga un'eco profonda, con la voce delle figure di questo passato, nella cui
debolezza inerme o violenta la forza
del Signore ha operato (leggete gli
articoli di A. Armand Hugon, T. G.
Pons, A. Jalla, e rispondete all'appello della Pro Valli).
E' la festa della solidarietà valdese; e nella misura in cui non è una
solidarietà di « carne », di razza, ma
di fede, è un grande dono di Dio;
solidarietà e comunione che va dalle
Alpi alla Sicilia, e da un emisfero all'altro (articoli di E. Ganz e P. Bosio).
Infine, ed è forse la cosa più importante, non possiamo non porre al
centro della nostra celebrazione la
coscienza che abbiamo ricevuto da
Dio la libertà per servirlo liberamente nel nostro paese : la nostra ragion
d'essere in Italia non è la placida (o
sonnacchiosa?) vita delle nostre comunità valligiano, ma l'annuncio delTEvangelo al nostro popolo (leggete
l'articolo di P. Bosio).
Sia la riconoscenza, l'allegrezza
della fede e dell'impegno nel servizio cristiano, la luce simboleggiata
dai nostri falò! E raccogliamoci al cospetto del nostro Signore, per ascoltarlo e adorarlo.
X OaHevè di Barbai Í
Comune di...
Sedici febbraio
Il cielo è stellatii
do; tutta la gente
re, in alto, sui mo
no accesi. Esclam
s’intrecciano; ogn
falò!
Anche gruppi
vivi; è, in qualche
mazione: « Ci sia:
— Anche se aspi
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—■ Anche se il p:
tilinente e ci offre
Ionio.
—' Anche se 1’
l’Immacolata acco
le i nostri bambini
Anche gli isolati
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falò. Si canta, si
discute; da lontai^i
una fisarmonica;
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sù è un (( disco »
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; fa piuttosto fredè fuori, a guardainti, do\'e i falò soazioni e commenti
anno un nuovo
isolati si sono fatti
e modo, mi’affertilo ancora! ».
ettiamo sempre inaio ambulante pastile a offrirci a la
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rete ci sorride geriil Pane di S. An
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i nella parrocchia
o stretti intorno al
scherza, si ride e si
o viene il suono di
da più lontano aniialche « marcia »:
la « Banda »; lasmi pare di ricono» : uno dei nostri
inni.
lo sono riinast
bra; ascolto le voi
ni ; mi pare che ti
strana armonia.
Pardon : quasi
che, dopo tutto,
tradizione: buon
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Natale? Cosa ne
Valli? Questi falò
nuova discussione
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Sono usciti a
miei amici cattoli*
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Pellegrina, del
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dei loro amici
dell’illuminazion
ta; sul rumore
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in realtà l’illum
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E pace confessi
buon valdese,
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0 (I giù », nell’omici, i rumori, i suoiitto si fonda in una
che mi commuove,
mi commuove; peranche questa è una
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accenderanno una
9
-NeH’ombra due « buoni » cattolici parlano. Li conosco; ripeto; buoni; cattolici « buoni » se preferite:
.1 liberali » come si dice comunemente.
Parlano.
Io ascolto.
Dice X, sobbalzando ad uno sparo
inatteso di mortaretti :
Giah ! l’è arrivale ’I Carlevè di
Barbet.
Risponde Y, sogguardando benignamente la piccola quantità di lumi
accesi :
Giah! A fan lon ca peulou.
Parole e sorriso benigno; benigna
l’intenzione; benigno il giudìzio.
E’ vero che c’è quel «barbet»!
Ma oggi, chez nous, è una parola di
natura benigna. Un vezzeggiativo.
Infatti s’è creato già un peggiorativo : barbetas.
I miei due amici sono per il vezzeggiativo: Barbet. In perfetta buona fede. In purezza di cuore. In letizia di spirito. Riconoscono il diritto della festa. Godono della luminaria. E’ Carnevale ed ogni scherzo
vale!
Però sono proprio dei fieri anticattolici ([uesti valdesi! Quando ’.i
Chiesa di Roma ha finito il suo Carnevale e cominciato la sua Quaresima, ecco che loro cominciano il loro Carnevale.
Un Carnevale alquanto quaresimale! Quel corteo di ragazzini che
grida a squarciagola: Viva il diciassette febbraio! Viva Carlo Alberto!
V’iva lo Statuto, non può competere con la mascherata aUegra e variopinta della sfilata delle maschere del Carnevale dei bambini nato
all’ombra dei campanili di S. Romana Chiesa!
Però... « a fan ijon ca peulou ».
Se « a peulou pa vaire », poverini, bisogna compatirli!
C’è una cosa che mi turba e m’impedisce d’uscir dall’ombra a ringraziare di tanta benignità.
Perchè parlano di « Carlevè »?
Perchè, buoni cattolici e cattolici
buoni, tutti, con un sorriso diverso,
guardano ed ascoi^sÙKr;-, Goèa vedono e cosa odono?
Il nostro XVII febbraio ha assunto e sempre più sta assumendo un
curioso travestimento; subisce l’influenza dell’ambiente; si cura l’aspetto « spettacolare »; si ostentano
gli striscioni variopinti; si raccomanda l’illuminazione delle case;
si deve dimostrare che anche noi
sapjiiamo fare! Tutte cose che si vedono; tutte cose che sono fonte di
(I movimento »; tutte cose che sanno di « Carnevale »; tutte cose che,
dopo tutto, possono anche avere un
qualche loro significato ; ma che non
])ossono esaurire il significalo del
XVII. E questo significato, i buoni
Valdesi come lo fanno sentire agli
altri? L. A. Vaimal
LIBERI
Fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un’occasione alla carne,
ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri.
Gal. 5: 13
Libertà, ai nostri giorni, è un ideale, un simbolo, ima parola d’ordine
obbligata di discorsi e dichiarazioni, una dottrina, un programma; una
ragione di malcelato orgoglio, e di deplorazione nei confronti di altri
che la calpestano; un idolo, anche.
Libertà, nella Rivelazione, è un atto ; la liberazione di Dio. « lo sono
TEterno, il tuo Dio, che ti ho tratto dalla casa di servitù »; da Ur dei
Caldei, dall’Egitto, da Babilonia: dalla schiavitù — dolce o insopportabile? — dell’incredula vita nel proprio parentado e nei propri affari. In
cui, di fatto, l’Iddio vivente è assente; dalla schiavitù di Un lavoro forzato senza senso e senza dignità, odiato servizio agli idoli famelici della
forza e del potere; dalla schiavitù del vivere in terra straniera, profughi
affidati alla pietà burocratica degli ospiti, vinti della storia e della vita.
Iddio ha liberato, ha tratto fuori dal confort di Ur dei Caldei, dai lavori
forzati d’Egitto, dail’esilic sconsolato di Babilionia. E’ l’Iddio vivente, il
Redentore, il Liberatore.
E poi è venuto il Cristo, il Compitore. E a chi ha avuto occhi per
intendere è apparso che tutte quelle servitù — e le molte altre che prostrano gli uomini — erano manifestazioni della grande servitù, sotto il
potere demoniaco della sofferenza e della morte, accettato col peccato;
ed è apparso che tutte quelle liberazioni — e le molte altre effe rallegrano
gli uomini — erano indizi e promesse della grande liberazione dal potere
demoniaco della sofferenza e della morte, aimientato da Colui che è
vissuto fra noi, con noi, senza fiaccato.
A questa libertà, fratelli, siamo stati chiamati. Non a ragionarci su,
e non a conquistarla, con la forza delle nostre mani o con quella della
nastra vita interiore, con i nostri piani quinquennali o con il nostro
sdegnoso ritiro nell’interiorità — ma a rceverla, ad entrare in questo
nuovo stato di fatto: «Cristo ci ha affrancati perchè fossimo liberi»
(Gal. 5: 1). . . .. . w ,
Come prima, cosi fino ad oggi gli uomini hanno continuato a balbettare il loro anelito alla libertà e'la loro soddisfazione per le briciole
raggiunte. Anche noi Valdesi. Ma quale libertà? forse non quella di
« essere come tutti »? di avere una terra propria, come tutti, una propria
indipendenza, un proprio dio-patrono?
La libertà: il nostro diritto! — No, il dono di Dio: libertà non soltanto da qualcosa, da qualcuno, ma per qualcosa, per qualcuno; Se no si
fa della libertà «un’occasione alla carne». Si intende Spesso questa
parola esedusivamente in senso moralistico, come esortazione a non tra' sftmnaic la libertà ttr libierttnaggfc persowale; ma ess^ '^e assai idù
ampiamente : il credente e la chiesa approfittano egoisticamente della
libertà ricevuta se ricordano soltanto — e ancora in modo imperfetto,
ottuso — da cosa sono stati liberati, e non per che cosa sono stati liberati. Se è così, in realtà non si è già più liberi, come non fu libero Lot,
che scelse la grassa pianura, come non fu libero Israele, che si volle fare
un vitello d’oro, come non fu libero il popolo dei reduci che si chiuse
nella torre d’avorio della sua terra e della sua religiosità tradizionale.
Dovette venire il Liberatore, il solo Libero; e nessuno capi la sua
libertà; vivere di carità, dipendere dagli altri, non avere una propria
casa, una propria famiglia, essere esposto, impotente, all’ingiustizia e
alla violenza... Eppure era sovranamente libero. Colui chp era venuto
a compiere la volontà perfetta del Padre : non essere servito ma servire,
per amore. , . ,
Questo è il segreto della libertà; se no si rivolta contro noi stessi.
Non facciamo dell’Emancipazione un’occasione alla carne; non lasciamo
che il dono meraviglioso della libertà, di cui l’editto del 1848 è stato un
segno cosi lieto, sia per la nostra Chiesa un fermento mortale che ci
affondi nella schiavitù della nostra buona pace. Saremo liberi nella
misura in cui, forti del « servizio » perfetto di Cristo, avremo accettato
di servirci gli uni gli altri nell’amore ; nella nostra comunità e nel
nostro paese in cui il Signore, liberandoci, ci ha dato una precisa missione. G*“® Conte
pche i cattolici, i
ci che mi attendoiiando, in occasiono
i la della Madonn.i
longresso Eucaristiito tanti commenti
Valdesi sullo sfarzo
B pubblica e privadegli altoparlanti;
di domicilio prida spietate diffue e riti religiosi,
o usciti e guardano
luminaria (sostanti(co comune — indidi lumi accesi —);
dice il vocabolario;
[inazione è alquanto
olta però era inesi
mboinbo di petardi,
i artificiali,
[^irridono, ma stanno
e Valli, nell’anno di
vive in clima di pace
o quasi) ; qualche
rinsalda l’amicizia!
onale significa, per il
oppo spesso : indif
dottrinale, mascheerboso e verbale an
DIETRO LA FACCIATA
Si potrebbe ripetere a proposito del
XVII febbraio molto di quanto si è
detto in questo stesso giornale sulle
feste di Natale, perchè queste due date
hanno molti punti in comune nell.i
pietà valdese odierna. Non che si
possano mettere Natale ed il XVII
sullo stesso piano, nessun valdese,
anche il piu legato alla tradizione oserebbe fare un paragone tra le due
feste della nostra vita di chiesa; Natale è pur sempre la grande festa cristiana, mentre il XVII è solo una celebrazione valdese. Pure, questo avvicinamento si può fare perchè queste
due date, e si potrebbe ag^ungere
anche Pasqua, sono le date che ogni
buon valdese si sente in dovere di celebrare non fosse che con la sua pn^
senza al cultO’ del mattino. Sente cioè
di essere membro di un gruppo, di
una comunità, di una chiesa che commemora in quei giorni avvenimenti
particolarmente importanti della sua
storia; sente che la sua assenza non
si potrebbe scusare nè spiegare che
con l’abbandono delle più aiitiche e
buone tradizioni; sente che in queiToccasione si può, anzi si deve, manifestare il proprio attaccamento alla chiesa.
Non staremo a fare l’analisi di qu^
sti sentimenti, ne prendiamo semplicemente atto. E prendiamo anche atto di un altro punto di contatto tra
il Natale ed il XVII. Come nel giorno
di Natale così nel XVII ci sono due
cose: c’è il ricordo, il significato di
quel giorno, la commemorazione di
un qualche cosa di eccezionale, e poi
c’è la festa con cui si celebra, si ricor
da, questo qualche cosa di eccezionale,
e la festa non è per nulla eccezionale,
è come tutte le feste.
A Natale c’è il ricordo della nascita del Salvatore, c’è la grande gioia
delTevangelo, c’è il miracolo della venuta di Dio fra noi uomini e tutto
questo lo celebriamo con una festa
come tutte le altre, nè meglio nè peggio'. Molti si sono domandati se era
opportuno continuare cosi, se quelle
innumerevoli cosette di cixi si riempie il giorno di Natale non rischiano
di fare dimenticare il suo signiSca,io
profondo. Domanda legittima e g’,u
sta. Le festicciole dell’albero non sono niente: nè bene nè male e non è
detto che soffochino la vera gioia di
Natale; semplicemente, sono come
un vestito che uno si mette la festa
e non aggiunge nulla alla gioia se
ce l’ha nel cuore. E’ del tutto indifferente che si sia vestiti bene o male
se si è in pace nell’animo : uno potrebbe andarsene in giro con i vestiti di tutti i giorni e non cambierebbe
niente. Così è delle festicciole di Natale. Certo, se non si è capito ed amato il giorno del Signore si potrebbe
fare feste tutto il giorno e farle anche più belle di quelle che facciamo:
non sarebbe Natale lo stesso, sarebbe
come volere essere felici solo perchè
SI e vestiti bene.
Al XVII è un po’ la stessa cosa:
c’è grande ricordo del dono della libertà fatto ai padri, che rimane
sempre un grande dono anche se noi
ne abbiamo fatto una occasione per
peccare, come dice Paolo, una occa
sione alla carne. C’è dunque questo
grande ricordo che è come una felicità, un’allegrezza che ci si porta nel
cuore e poi c’è la festa, quella che è,
come per Natale, un po’ un vestito
che si indossa e che non cambia
niente al cuore.
Perchè non cambia proprio niente
che si celebri o no il XVII, che si f^cia o no vacanza ufficiale, riconosciuta, approvata. Non cambia proprio
niente che si facciano i falò o si vada
invece a dormire, perchè la libertà
delTevangelo, la libertà della fede, la
libertà di essere oggi figli di Dio non
3’è vacanza, falò, discorso o corteo
che te la pcssa dare, come non c’è stato mài nulla che la potesse togliere ai
padri. Ed il nostro XVII potrebbe essere altrettanto sentito, altrettanto
festeggiato senza nessuna festa ; potrebbe essere davanti a Dio un gior0 di vera e grande riconoscenza anche senza tutto quello che lo riveste
o addobba da 100 anni a questa
parte. Insomma se sono riconoscente
a Dio per quello che mi ha dato e mi
dà, posso esserlo anche senza mettere legna al falò e senza far scoppiare
petardi mentre se non so essere riconoscente non seno 10.0(X) petardi che
mi possono far capire il XVII, e me
ne tomo a casa alla fine della giornata un po’ più euforico ma senza
avere capito nulla.
Si potrebbe allora eliminare tuttoi cortei e le bande, i discorsi ed i fuochi, lo si potrebbe senz’altro ma non
è detto che davanti a Dio sarebbe un
XVII più .spirituale, più fedele, più
riconoscente. Non è il vestito dicevar
mo sopra che rende uno felice o meno; è il cuore. Si potrebbe e si dovrebbe invece chiedere alla nostra
gente, e — siamo certi — lo si chiede,
se ha capito il dono di Dio di cui si
parla ,se ha inteso ,© no che cosa significa essere liberi di professare la
propria fede.
Non è questo però che intendiamo
sottolineare oggi, è’un’altra cosa. La
festa del XVII si compone da noi, al->
le Valli di tre elementi essenziali;
il culto del mattino, il pranzo, la serata, ed i falò naturalmente la sera
del 16. Tre cose dunque, o quattro se
contiamo anche il falò, che fanno di
questo giorno la festa valdese.
In tutto questo c’è naturalmente
una forte dose di folklore, se si guardano le cose dal di fuori, e questo folklorismo sta diventàndo il modo più
moderno e facile di eliminare dal
campo la debole ma pericolosa voce
dell’evangelismo. I Valdesi non sono
più la testimonianza a Dio ma solo
una tribù im po’ speciale.
Potrebbe però anche trattarsi di
una moderna ricerca di presenza, di
socialità della chiesa, e si dovrebbe
allora pensare si alla eliminazione
del folklore ma alla parallela ricostruzione del corpo sociale del popolo
valdese sul tipo delle comunità evangeliche nord-americane.
Comunque sia, culto, pranzo, falò
recita sono il vestito del XVII febbraio. La tentazione è davvero granI di vedere ognuno di questi quattro
momenti con un occhio un po’ ironico e orendendoli sul serio quel tanto
(segue a p. 3) G. Toum
2
2 —
L'ECO DELLE VALLI VALDESI
A Torre Pellice nel 1559
'w
la pridionìa del primo Pastore
E’ noto a tutti che i primi templi
^otestanti ia Italia furono quelli delle Valli Valdesi costruiti nel 1555;
tii questi anche, quello di Torte Pellice, edificato ai Coppieri. La scelta
della località fu dovuta al fatto che
la gran maggioranza dei Valdesi di
Torre abitava la regione della Costiera, mentre il centro del paese si era
In parte conservato cattolico. In quel
^mpo inoltre la collina era molto più
popolata di adesso, e il pastore di
Torre Pellice era comunemente chiamato a ministro del Tagliaretto », in
quanto in questa borgata alpestre soprattutto vi era il più forte nucleo di
fedeli. Altri tempietti furono successivamente elevati nel quartiere dei
Bonnet. in quello di Bourel e nella
stessa (Í niata » del Tagliaretto, ma il
tempio centrale rimase quello dei _
Coppieri. Tempio semplice, modesto,
specie di « casalasso », destinato soltanto a riparare dalle intemperie gli
uomini desiderosi di professare a Dio
il culto in spirito e verità, e di non
essere confusi dagli addobbi dell’ambiente.
11: presbiterio o abitazione del pastore non era vicino al tempio, ma
più in alto, nella borgata dei Serverà
e quivi rimase per mólti anni.
Il primo pastore di Torre di cui
ci sia rimasta menzione è Geraldo
Imbert, nativo dell’Angoumois in
Francia. Non sappiamo di lui se fosse
giovane o anziano e se avesse famiglia ; ci risulta soltanto che era a uomo eruditissimo e pio ministro », come scriveva il medico Aiasiano di
Busca nel 1559 ai principi tedeschi.
Non possiamo neppure dire con esattezza da quale data egli esercitasse il
suo ministero nella parrocchia di
Torre, ma, poiché non ci vien detto
nulla di altri pastori primardi lui, è
da supporre che fin dall’istituzione
del culto pubblico, cioè dal 1555, egli
curasse il gregge del fedeli di Torre
Pellice,
Erano anni quelli in cui la parrocchia si stava organizzando, i ' primi
anni di attività fervente, di proselitismo felice e di belle speranze: infatti la massa della popolazione locale si staccò dalla Chiesa Cattolica,
e da abbandonàta e trascurata come
era dal prete locale, trovò nella chiesa in formazione il modo di sedare
la sua sete spirituale e il desiderio di
più profonda vita religiosa.
Non erano d’altra parte tempi facili per, l’opposizione confessionale:
l’inquisizione era sempre all'erta, il
Parlamento di Torino (eravi allora
ancora l’occupazione francese del
Piemonte) era pieno di zelo nella punizione degli eretici, e specialmente
i pastori erano sottoposti a stretta sorveglianza. Basterebbe citare l’esecuzione in Piazza Castello a Torino, nel
1558, del pastore di S. Giovanni Gioffredo Varaglia.
Geraldo Imbert, al principio del
1559, stava tornando dalla Svizzera,
ove era andato probabilmente a procurarsi dei libri e ad abboccarsi con
i fratelli in fede: ed ecco che a Susa
il suo passaggio fu notato, ed essendoci anche un premio in danaro per
i delatori, il suo arresto e la sua traduzione a Torino nelle carceri del Senato fu cosa presto fatta. Narra Teodoro di Beza che egli era così maltrattato e strettamente incarcerato che
sarebbe fórse morto di fame, se un
fratello in fede, l’armaiolo Argencourt,
non avesse trovato modo di andarlo
a visitare e di recargli aiuto e conforto.
Il pastore fu naturalmente sottoposto alla prassi inquisitoria, cioè alla
interrogazione da parte del tribunale
del Parlamento, e fu riconosciuto colpevole di eresia, e pertanto condannato a morte. In quel tempo esisteva
a Torino una piccola comunità evangelica, fedele nella tormenta, e guidata da un pastore: nel giorno in
cui si seppe della condanna a morte
di Imbert, i fratelli si riunirono e pregarono a lungo per lui e per la sua
salvezza.
Di questo periodo di carcere ci è
rimasta, tramandata dallo storico
Lentolo, una bellissima lettera del prigioniero alla sua parrocchia di Torre,
calda di affetto e piena di fede ; « Fratelli nel Signore, havendo inteso in
quanta afllitione et amaritudine siate
per cagion mia, per l’amor grande
che vi porto non ho potuto mancare
di consolarvi con la presente. Perciò
vi dico che più tosto dovete rallegrarvi di una santa allegrezza da poi che
vedete haver piaciuto a nostro Padre
farmi tanto honore... , Non ha egli
detto di sua propria bocca che noi
saremo odiati per lo «uo nome da
tutto il mondo, il qual non ama se
non quel è suo?... Io vorrei, miei cari
fratelli, haver più carta per iscrivervi
e confortarvi più a lungo nel Signore; et voglio dirvi che non ho mai conosciuto come hora, quale e quanta
fosse la grande affettione che vi portò. Del che io laudo il nostro Dio e
Padre: pregandovi che camminiate
di continuo nel timore del suo santo
nome... e domando a Dio che vi voglia fortificare e condurre con lo spirito Suo... ».
Non era però detto che questo fedele servitore dovesse diventare martire per la sua fède. Infatti l’armaiolo
•Argencourt, recatosi dal boia, che all’indomani avrebbe dovuto fare l’esecuzione, lo indusse forse con denaro,
a darsi ammalato; il Parlamento dovette perciò rimandare la condanna
di due giorni. Nel frattempo Argencourt riuscì a persuadere il boia, ancor giovane, a cercarsi un altro mestiere meno infame, e datagli una
somma di denaro, lo fece allontanare
da Torino.
A questo punto, l’avventura del
pastore Imbert divenne romanzesca.
Infatti la Corte impose al comandante militare di trovar subito un carnefice, e fu mandato a chiamare quello
di Grenoble: ma questi, giunto sul
Monginevro, fu vittima di alcuni soldati che tornavano ih Francia, che lo
depredarono e lo uccisero. Fatto allora ricorso al boia di Chambéry, questi rifiutò di muoversi, onde evitare la
mala sorte del collega. Nè miglior esito ebbe la richiesta fatta al carnefice
delle compagnie tedesche di stanza a
Torino, perchè egli, forse segretamente luterano, si rifiutò di giustiziare un
civile.
Intanto il Parlamento era stato pregato e supplicato di aver pietà dell’infelice condannato da parte del comandante e degli ufficiali di tutte le truppe stanziate in Piemonte; e a quel momento sopravvenne una circostanza
storica di grande rilievo, cioè la firma
della pace di Cateau Cambrésis (3
aprile 1559), con la quale si stabiliva
che il Piemonte doveva essere restituito al duca di Savoia Emanuele Filiberto.
Fu allora che il Presidente del Parlamento Francese a Torino, Renato
Birago. di fronte a tante insistenze e
a così straordinari casi, non volendo
forse finire il suo soggiorno in Piemonte con un molesto ricordo, decise
di lasciar fuggire il prigioniero.
Avvertì pertanto il carceriere di lasciare aperta la prigione, e il detenuto
potè fuggire, per ritirarsi nell’Angoumois per qualche tempo. Ritornò in
seguito alla sua parrocchia di Torre,
accolto dall’amorevole e rispettosa gioia dei suoi fratelli, fino al principio
dell’anno seguente 1560, in cui lasciò
la chiesa nelle mani di Claudio Bergio nativo di Sampeyre in Val Varaita. Nè di lui si sa altro.
Tempi eroici e difficili, nei quali le
prove e il sangue dei martiri forgiavano su basi incrollabili le chiese del
Piemonte. Aui>usto Armctnd Hugon
Ci dispiace vivamente di dove rinviare, per mancanza di spazio, alcune corrispondenze e cronache : ce ne
scusiamo coi collaboratori e coi lettori. red.
oT
1 \ñ nuits k fabiria
Deux aiw aiwès JqI notre bon
le Prix Intematio- —----------------
nal de Cannes 1957,
pour la meilleure
interprétation îéminine, le film de
F. Fellini a été
porté sur l’écran de notre petite ville
de province. Aussi, n’en parlerionsnous pas ici, si ce n’était pour souligner l’attitude du public des grandes
occasions, qui n’a pas manqué cette
bande exceptionnelle.
Comme on le sait, on y voit une
séquence de la durée d’environ vingt
minutes, qui se déroule aux alentours
de Rome, à l’endroit nommé «Madonna del Divino Amore », une sorte
de Lourdes minuscule, but de nombreux pèlerinages et de non moins
nombreux pique-niques de la pai’t des
romains. C’est dire que F. Fellini a
souligné dans sa bande cette grotesque et scandaleuse mixture, que les
italiens, particulièrement les méridionaux, ont l’abitude de faire entre le
sacre et le profane. E il y avait de
quoi! L’idolâtrie mairane, la superstition, l’étonnante familiarité des
catholiques vers l’objet de la foi s’étalaient, je dirais à perte de vue!
Eh bien, il fallait voir notre public !
D’une part, des visages embarrassés.
Vieux Français] S
peu honteux : ceux
des catholiques,
lesquels, de leur
religion « de premier choix» qui,
ici dans le nord, les rapproche d’une
conception éminemment spiritueile
de la foi chrétienne, se voyaient tout
à coup plongés dans un autre catholicisme, plus concret' mais plus matérialiste, plus superficiel, et au surplus
étrangement païen. J’ai bien l’idée
que plusieurs aient pensé que « Les
nuits de Cabiria» n’étaient pas un
film adapté à ...la capitale de l’hérésie Vaudoise!
D’autre part, il fallait voir la mine
des protestants. Mi-réjouis, mi-étonnés, ils avaient l’air de se dire : «alors,
nous avions quand même raison,
quand nous disions que le culte catholique est superstitieux! C’est plus
fort et encore mieux dit que dans ies
traités de nos Th. Gay, G. Ribetti e
L. Desantis! ».
De toute façon, cette séquence, pour
tout le monde, a été une excellente
leçon pratique d’histoire des dogmes
(en vue du Concile oecuménique?).
Petit Valdo
NOS EPHEMERIDES PARMI
LES VAUDOIS DE L’AMERIQUE DU SUD
La commémoration des éphémérides vaudoises 17 février et 15 août
— revêt un cachet tout particulier
dans nos colonies de l’Amérique du
Sud. Dans l’hémisphère austral les
saisons sont à l'au rebours d’ici; le
17 février tombe en plein été, et le
15 août en hiver. La latitude de nos
colonies est aussi assez variée, en Uruguay elles se trouvent entre les parallèles 35-37, ce qui correspond à peu
près dans l’hémisphère boréal, entre
Sfax en Tunisie et Syracuse en Sicile.
Colonia Iris, notre vaste parroisse dans
la Pampa Argentirie. a la latitude des
Calabres, et nos disséminés dans le
Nord de l’Argentine, province du Chaco (lisez à l’italienne: Ciàco), sur le
parallèle 28, connaissent les chaleurs
torrides des Canaries. En outre le vent
du Sud — le Pampèro — apporte souvent des masses d'air polaire, qui rendent l’hiver plus cru de ce qu’il devrait
l’être à ces latitiv^es, et fort pénible
pour ceux qui se trouvent encore —
au logis comme en voyage ~ dans
des conditions primitives.
il est naturel que la vie vaudoise
soit plus intense et nos éphémérides
mieux rappelées en Uruguay, où nos
colonies sont bien plus nombreuses et
rapprochées les unes des autres. Les
sentiments vaudois plus ou moins sentis par de jeunes conducteurs spirituels
y entrent aussi pour quelque chose!
Sans contredit, nos colons ont de
tout temps rappelé le 17 février, l’émancipation de leur peuple, grâce à
laquelle ils avaient obtenus l’égalité
des droits civils, et par là même, la
possibilité d’émigrer et de s’établir où
bon leur semblait. 11 est hors de doute que les premiers pasteurs auront
profité de cette occurrance pour rap
peler à leurs ouailles le glorieux passé qui honore nos aïeux, et les responsabilités qui en découlent pour les générations actuelles.
Plus tard lorsque la Société d’Histoire Vaudoise de La Tour commença la publication des opuscules du 17
février, ceux-ci vinrent largement distribués parmi les familles vaudoises
du Rio de la Plata. Au fur et à mesure que l'espagnol remplaçait le français comme langue courante, le pharmacien Auguste Revel - Vaudois de
vieille roche — entreprit la publication
d'opuscules historiques en espagnol,
édités par centaines d'exemplaires.
Dés 1926, à la suite de la fondation
de la « Sociedad Sudamericana de
Historia Valdense » — grâce à l’initiative du pasteur Guido Rivoir. vaillemment secondé par collègues et amis
— le Vlme District de notre Eglise
eut un organisme propre à maintenir,
répandre et approfondir tout ce qui a
trait à la cause vaudoise. Depuis 1935,
cette Société publie régulièrement un
opuscule à l’occasion du 17 février distribué en raison de trois mille
exemplaires dans nos différentes paroisses, qui à leur tour lui remettent
la collecte du culte commémoratif de
notre émancipation. Ces cultes ont
lieu le dimanche plus proche au 17 février.
Ce n’est qu’en 1948, à l'occasion du
centenaire de notre émancipation, que
le 16 soir un gros « falot » fut allumé
dans un champ par des Vaudois émigrés des Vallées, et sur un emplacement central on jouit du magnifique
spectacle de feux d'artifices. Les soirs
du lendemain 17 et du surlendemain
un groupe de jeunes gens récita le drame : (( La hija del Anciano ». dont le
texte original en italien e.st dû à la
plume bien taillée de Mr. le Prof. Sa
LE RENDEZ-VOUS
Depuis que le hameau s'est dépeuplé Dand' Madleno se sent quelquefois bien seule, comme abandonnée,
surtout quand le vent hurle ou qu'il
y a une tempête de neige... le soir.
L'année dernière elle avait encore
dès voisins. C'est bon les voisins... on
s'entraide. A leur petite fenêtre elle
voyait une lueur... le soir.
Maintenant elle est seule dans le
hameau. Des pensées de solitude, de
infirmité, de vieillesse envahissent son
coeur... le soir.
Elle a fini de soigner les bêtes. La
Rouso rumine, le chat ronronne. Le
coq et les poules, juchés dans un
coin de l'écurie, dorment depuis longtemps. Dand' Madleno a fini de manger son quignon de pain dur trempé
dans du lait. Elle a mis de côté l'écuelle noire. Elle s'est assise sur un
escabeau près de l'étroite fenêtre, et
regarde, dehors. Comme tout est sombre... ce soir.
Non pas. Voilà une lumière qui
s'allume dans un village, perché sur
les rochers, puis une autre encore,
puis une troisième. Ce sont les feux
de joie de la veille du 17. Ce n'est
pas un soir comme les autres, c'est
un soir anniversaire. C'est le soir du
grand rendez-vous vaudois. Voilà que
tout à coup Dand' Madleno ne se sent
plus seule. Elle aussi fait partie de la
grande famille vaudoise. Les flammes,
que des garçons ont allumées sur des
crêtes, montent montent et les cimes
en sont illuminées. Il ya a un grand
rendez-vous... spirituel là-haut sur la
montagne. Les Vaudois sont là, par
leurs pensées... ce soir.
Ils sont tous venus de près et de
loin parce qu'ils ont une flamme dans
le coeur, dont le « falò » est le symbole. Cette flamme c'est l'amour du
pays où ils sont nés, des rochers dont
ils ont été taillés. Malgré leurs divergences, ils sont tous unis dans l'amour
du sol sacré... ce soir !
Mais il y a quelque chose de plus
profond qui lie tous ceux qui sont
marqués du nom de Vaudois : c'est
l'amour de la liberté. Cette liberté que
ils ont reçue en héritage des pères,
de ces pères qui ont préféré être spoliés, exilés, emprissonnés, torturés
plutôt que d'y renoncer.
Les Vaudois remontent ensemble le
cours des années. On sent vivre une
âme collective — l'âme vaudoise —
ce soir?
Les flammes montent encore, les
austères sapins en sont illuminés, tous
les buissons font penser à des buissons ardents. Le reflet du feu de joie
éclaire même un peu la petite étable
de Dand' Madleno. Le coq, croyant
que ce sont déjà les premières lueurs
de l'aube a lancé un « cocoricò » qui
a réveillé les poules. «Quèz-tè» gronde Dand' Madleno, qui n'aime pas
a être dérangée dans cette heure de
recueillement, « quez-tè ce n'est pas
encore le jour. Ce sont les « falò » du
Drésset ». Et le coq doit avoir compris quelque chose, avec sa pauvre
petite cervelle d'oiseau, parce qu'il
s'est tu et a refermé ses yeux ronds.
Peu à peu les feux se sont éteints.
Tout est tranquille dans la petite étable. Tout se taît, excepté le vent qui
—■ comme l'Esprit — souffle où il
veut. Le soir du grand rendez-vous on
dirait qu'il chante, le vent, qu'il chante la liberté que personne n'a jamais
pu enchaîner, même pas les plus
puissants de cette terre. Son souffle
passe sur tous les villages disséminés
sur la montagne, sur les hameaux
presque déserts pour chasser les fantômes de la peur. Dand' Madleno s'est
endormie avec une sensation de sécurité... ce soir. G. Tron
muel Tron. Non moins de huit cents
personnes eurent ainsi l’occasion de le
suivre. Les toiles, les costumes et les
objets, représentaient le puis fidèlement possible des scènes des Vallées.
Cette commémoration, où les Chorales aussi jouèrent un rôle important,
attira un public très nombreux!
Chaque année la Société d’Histoire
Vaudoise organise une commémoration générale, autant que possible
dans l'après midi du 17. en plein air.
généralement dans le (( Parque diecisiete de Febrero ». C’est un parc immense sur les rives du Rio de la Plata, où la « Féderaciôn Juvenil Valdense » organise pendant les mois d’été (décembre-février) une série ininterrompue de camps. La brise raffraîchissante, l’air pur, l'ombre, les bains,
les bâtisses et l'organisation achalandent toujours plus cette Institution!
Le 15 août est dûment observé comme « Dìa de la Fraternidad Valdense ». Cette fête aussi est rappelée dans
presque toutes nos paroisses, le dimanche le plus proche à la mi-août.
Les collectes de cette commémoration
sont destinées à la fornialion du fonds
(( Lit Vaudois de l’Amérique du Sud ».
pour le maintien d’un asilé au Refuge Roi Charles Albert de Saint Jean.
Dans l’après midi de ce même dimanche une commémoration générale est organisée sous les auspices
de la Société d'Histoire Vaudoise. Plusieurs orateurs y interviennent, prenant successivement à leur charge la
méditation de la Parole de Dieu, un
exposé d’histoire vaudoise sud-américaine parfois (pourquoi pas?), riche
elle aussi en exemples de fois, de renoncement. d'endurance et même de
héroïsme. D’autres allocutions versent
sur notre oeuvre d'évangélisation, les
missions - nos paroisses, soit dit en
pas.sanl. contribuent depuis toujours
et chaque année pour la Société des
Missions de Paris ou d'autres objets.
Bref, quoique nos assemblées se réunissent dans nos temples plus vastes,
en raison de l'intempérance de l’hiver
austral, nous voulons que la fête du
15 août rappelle le plus possible par
son programme, les grandes as.semblées que nous aimons aux Vallées. Le
public est généralement nombreux, la
recette pour le Refuge est bonne; les
ressortissants des Vallées aiment s’y
rendre, les femmes avec le costume
vaudois. Notre bannière pend du haut
de la chaire, avec son chàndellier et
sa devise << Lux lucet in tenebris » bien
visibles.
La commémoration de nos éphémérides exige comme il se doit
le chant de nos hymnes patriotiques;
nos chorales s’y prêtant aisément. A
la clôture le public chante toujours le
Il Serment de Sibaud ». (Nos hymnes
patriotiques en italien et en français,
.sont dans notre receuil de cantiques
en espagnol).
Que le Seigneur veuille que ce chant
souvent répété, soit réellement un désir et une prière du cocar « de ne
point le trahir... ». « Aux autels de
mon Dieu je veux vivre et mourir ».
Il Seigneur, sois avec nous, qui voulons
être à toi ».
Emile Ganz-Bert
3
L'ECO DELLE VALLI VALDESI
f
1 piani di Dio devono compiersi
In questi giorni il nostro pensiero è rivolto, in
modo speciale, al passato. Rileggendo le pagine
più belle della storia dei Valdesi, riviviamo le loro
lotte e le loro angoscie e ci esaltiamo nella visione
della loro fedeltà a Dio, in condizioni particolarmente difficili.
Il pensiero va specialmente ad un episodio che
non esitiamo a definire centrale della storia dei
Valdesi: cioè al « glorioso rimpatrio » dall’esilio,
nel 1689, per riconquistare le loro Valli. Da quel
momento, si può dire, è apparso in piena evidenza
ciò che Dio stesso aveva stabilito per loro, nei suoi
piani divini.
Poiché non è stato soltanto un senso di dolorosa
nostalgia delle loro montagne che li ha spinti ad
impegnarsi nell’impresa umanamente folle di gettarsi contro le forze preponderanti della Francia
e del Piemonte, per riconquistare la terra dalla
quale erano stati violentemente esiliati. Noi, oggi,
guardando da lontano, obbiettivamente, alla loro
epopea, siamo in grado di meglio comprendere che
la loro folle impresa faceva [)arte integrante dei
|)iani superiori di Dio il (juale voleva che i Vaidesi tornassero nelle loro Valli, per compiere la
missione spirituale cirKc:li aveva stabilita per loro.
Solo cosi la loro eccezionale imjtresa trova la
,-.ua spiegazione e diventa cosa ragionevole e giustificata. Perchè se la volontà <li Dio li guidava, niente era iin|)ossibile a quel pugno di eroici montanari.
La missione che Dio ha affidata ai Valdesi nella
loro ]iatria è il segreto che aiuta a comprendere
tutta la loro fantastica epopea.
Una missione sovrumana
(dii non comprendesse il valore della missione
leliiriosa dei Valdesi non sarebbe certo in grado
(rintendere la loro storia anche nei secoli seguenti.
(hiell’elemento so\ rumano è tornato ad apparire in tutte le fasi della loro storia e le ha conferito liti carattere particolare.
Talvolta quella missione è stata sentita più
intensamente; talvolta in^■eco è apj)arsa più sottintesa che manifesta: ma sempre ha esercitato la sua
inlluenza sulla nostra gente e sulla nostra Chiesa.
Se non ci fosse stata quella missione e la preocrup:izione di adempierla, la storia della nostra
acute sarebbe stata ben diversa e ben ])iù misera.
(Quando infine, con l’Emancipazione, venne
i‘oncessa iti Valdesi la possibilità di manifestare
ajiertamcnte il loro animo, la missione che fino ad
allora era stata sentila e comjiiuta neU’oinbra, potè
essere proclamala alla luce del sole: quella è stata
l'ora pili grande della nostra storia.
(lente semplice, povera, sprovvista di esperienza e di terrena abilità, si è gettata in un’avventura
che esorbitava dalle sue possibilità umane. Dai
monti, i nostri padri sono calati alla pianura: son
dilagati ]>er tutta l’Italia fino alla Sicilia i missionari Valdesi, per proclamare al loro popolo —
come già Saionarola aveva proclamato —:« Io ti
avviso o Italia, io ti avviso o Roma, che iiiima cosa
li |uiò Sahare se non Cristo ».
Ihaqirio di ((itesii teinjii abbiamo riletto un voImneMo (I) (che dovrebbe esser ristampato e letto
da molti) contenente i ricordi di diversi venerati
Pastori \ aidcsi. Erano uomini .semplici, dal carattere integro, animati da grande fede e da ardente
zelo missionario. Essi erano scesi dalle loro montagne e si erano difl’iisi p(-r l’Italia per annunziarvi
PEiVangelo. ( dii li ascoltava non poteva fare a meno
di esser col|>ilo dalla loro figura morale e spirituale ed anche dalle loro non comuni conoscenze.
Ricordiamo un giornalista ben noto per il suo
stile (laradossalc e umoristico ,il quale, a Firenze,
.dia fine d(d secolo scorso, dopo aver udito uno di
quei missionari, concludeva la sua cronaca con
una ^boutade » umoristica su quel Pastore. Scriveva: « Biondo si, ma convinto! ».
Era (jiiesta la forza di quei missionari: erano
poveri, erano in molte cose semplici ed ingenui,
ma erano convinti e credevano ed operavano con
una fede ardente che si comunicava al (irossiino.
Vari metodi successivi
in ogni c()oca la missione valdese è continuata
con zelo e con passione.
V’c stata diversità di melodi, dovuti alle circostanze diverse.
Al metodo polemico adatto al periodo risorgimentale. è succeduto un metodo più costruttivo,
(piando la nostra Chiesa ha sentito il dovere di
|iref:ccu|)arsi unicamente di offrire alla Patria —
finalmente costituita —. la sola forza capace di svihqiparla armonicamente, col risvegliare la sua vita
religiosa: la potenza cioè dfd puro Evangelo.
Poi si (' adottato un metodo apologetico capace
di rintuzzare lo scetticismo beffardo che dilagava
con rincrednlità. Nella nostra epoca .si è più preoccu()ati di coojierare alla cultura religiosa di un
(lopolo che ha bisogno di conoscere meglio la religione di (insto e di porre solide basi dottrinali alla
sua fede.
Metodi diversi, ma immutata missione e immutata passione nel nome di Cristo e della sua Rivelazione.
Tre pensieri !
Concludiamo que.sta rapida rievocazione con
tre pensieri che s’impongono alla nostra riflessione :
—- 1) Non dimentichiamo che colui che ha molto
ricevuto deve fare molto e molto dare. La
nostra Chiesa Valdese ha ricevuto dieci talenti !
— 2) Non dimentichiamo che chi compie una
missione nel nome di Dio, è il primo ad
esser beneficato dalla sua ubbidienza. La
iiiù grande benedizione per le nostre Valli
Valdesi è derivala dall’Opera di evangelizzazione a prò’ dei connazionali, che l’ha spiritualmente arricchita.
— .8) Le missioni che Dio ci affida devono avere
sempre il primo posto nella nostra vita.
(( Dieu premier servi » diceva Giovanna
d’Arco
Ci gu.nrdi Dio dal considerare mai come secondaria e subordinata, la missione ch’Egli ha affidala ai suoi figli Valdesi! Paolo Bosio
(1) Per non dimenticare - Ricordi di alcuni veterani.
A nos chers amis des Vallées, M. Th. Pons et M.me Pons
Enric Arnaud
Enric Arnaud, la nueit passada.
Pausant son capel, son espada.
Se sietet subre lo rocas
Ont d’estar, de longa era las.
Dins la suava nueit estelada.
Montavan totas las seniors
L’olga forta de las Valadas
Del Vandalin fins al Cornor,
L'olga forta d’aquela raça
Que malgrat las persecucions
Malgral las guerras, la aurassas,
Sapiet servar sa religion.
Tornava coniplir en pensada
Amb SOS companhs estavanits
Aquela (( Gloriosa Rintrada »
Pretz-fait que Dieu a benasit...
Ouantas cimas escalabrosas,
Ouantis gorgs calguer traversar!
E dins de spolgas solombro.sas
.S’escondre per poder pregar...
A l’entorn del roc ont se pausa,
D’ombras s’enairan, venon, van.
Bufecas... Mas sabi una causa;
Son las anmas dels vielhs companhs...
La breve poesìa in lìngua occitanica
che pubblichiamo è dovuta allo scrittore francese Marcel Carrières, che
passò alle Valli i mesi di luglio ed
agosto dell’anno scorso, realizzando u'n
antico suo sogno.
Furono gli scritti del prof. Giovanni dalla a far nascere nel sig. Carrières un particolare amore per le Valli,
la loro storia e i loro dialetti, di cui
il sig. Carrières è profondo conoscitore e per I cptali nutre un vivo interesse.
À luì dobbiamo la dimostrazio'ne
che la lingua di Valdo, nella traduzione dei brani delle Sacre Scritture da
lui effettuate con la collaborazione di
due chierici lionesi, non era il puro
dialetto di quella città, bensì un dialetto più vicino ai vari parlari occitanici, la letteratura dei quali era diffusa allora non solo nella Frància meridionale, ma ancora nella Spagna orientale e nella zona di confine franco
piemontese.
Il sig. Carrières sta preparando una
eomifnicazione commemorativa del
professor Giovanni dalla per la Radio
francese. Fin d'ora glie ne rivolgiamo
i nostri ringraziamenti fraterni e tanto
più riconoscenti, in quanto il sig. Carrières non è Un nostro correligionario,
ma è cattolico praticante.
Nella poesia che pubblichiamo per
i 'numerosi lettori dell’Eco che ne
apprezz.eranno. col sapore dicdettale,
lo spirito aperto e comprensivo, il
poeta immagina che Enrico Arnaud,
nel silenzio della notte, quando tutto
tace nella valle, depo.sta la spada che
la malvagità dei tempi gli aveva messo In mano, veda .sfilare rapidamente
dinnanzi a sè il passato, mentre si riposa, seduto sulla rexteia sopra la quale, nella .statua del Calandra, è raffigurato in piedi, come una sentinella vigile. T. G. Pons
Henri Arnaud
Henri Arnaud, la nuit dernière.
Posant son chapeau, sa rapière.
Voulut s’asseoir sur ce rocher
Où. jadis, on l’avait perché.
Dans la douce nuit étoilée.
S’exhalaient les mille senteurs,
L’haleine forte des Vallées.
Du Vandalin jusqu’au Cournour,
L’haleine forte de la race
Qui malgré les persécutions
Les guerres, sut suivre sa trace
Et conserver sa religion.
11 refaisait dans sa pensée
Avec ses amis disparus
(Tette Glorieuse Rentrée
Rude épreuve, bénie de Dieu...
Quelles cimes inaccessibles.
Quels gouffres dût-on traverser!
Et dans des grottes invisibles
Se terrer, pour pouvoir prier...
Autour du rocher où il se pose,
Des ombres naissent, viennent, vont.
Vaines... Mais je sais une chose:
C’est l’esprit des vieux compagnons...
Marcel Carrières
Dietro la facciata
(segue da p. 1)
che basta a vederne anche le pecche
Quando vedi tutto il trambusto del
falò e pensi che tutto quel lavoro se
ne va in fumo — con qualche fiamma
e si vuole, ma in fumo — e pensi che
per delle opere ben più serie e durature. per delle cose che davanti a Dio
3 davanti agli uomini non se ne vanno in fumo stiamo a contare e lesinare collaborazione ed aiuto ti viene
qualche dubbio sul significato di
quella gioia.
Il culto del mattino in certe chiese
un vero culto, in altre una specie
li commemorazione storica con canti
discorsi il tutto preceduto dall’immancabile corteo. Apparentemente
tutto in regola e nel migliore dei modi; forse i problemi sono nascosti e
tanto più difficili.
Lasciando da parte la recita con
iutti i problemi annessi e connessi:
scelta del dramma : valdese? roba
vecchia; non valdese? stona con il
resto; non troppo valdese per non
correre il rischio di urtare la suscettibilità dei non valdesi presenti eoe.
ecc. Il pranzo? è sempre un incontro
fraterno nella gioia del Signore o
spesso im banchetto del tutto profano? Dipende dalle persone che vi partecipano, che sia vera comunione di
fede o solo menù. Abbiamo anni fa
messo le mani su un invito al pranzo,
un bel cartoncino con intestazione
appropriata con in basso un versetto
non ricordiamo quale, una di quelle
sentenze che si tolgono dalla Bibbia
per infiorare gli eventi della propria
vita: «Anima, mia benedici il Signoe...» o un versetto analogo; aprivi il
cartoncino e trovavi: antipasto, minestra, ecc., insomma tutto il menù.
\ voler fare le cose troppo bene e volendo rmire lo stemma valdese, la
Bibbia ed il menù si fini^ per non
vedere più dove stanno i limiti tra
il « savoir faire » e la mondanità.
Tutti questi elementi del XVII di
cui ognuno di noi potrebbe continua' la critica e se lo volesse la demolizione esprimono però, ed è qui che
volevamo venire, una solidarietà,
un’unione, diciamo anche una fraternità di individui che deve farci riflettere. Nel giorno del XVII cioè ci
sentiamo compatti, uniti, legati da
ricordi, tradizioni, speranze... forse
non tutte evangeliche dirà qualcuno;
non importa, legati comunque gli uni
agli altri. Come mal allora questo
succede solo il XVII?
C’è forse in questa festa il lontano
ricordo della morte, delle sofferenze,
degli esilii, il ricordo di un patire
che si può sopportare solo se uniti?
C’è forse il lontano, ormai sbiadito
ricordo di una comunione di lacrime
e di preghiere che ci univa o almeno
uni alcuni fra noi nei secoli dell’umiliazione e del silenzio? Forse c’è in
questa nostra comunione del XVII
solo dell’ipocrisia e del calcolo, come
un giorno di sole in un marzo piovoso. Nessuno saprà mai dirlo.
Il fatto rimane i^rò che, viste le
cose dal di fuori, siamo uniti ed allora tanto più grave è la nostra disunione cotidiana. Quella disunione
di cui si potrebbero elencare le infinite manifestazioni e che distrugge come un cancro la nostra vita di uomini e di credenti. Non ci interessa sa
pere se altre comunità cristiane ed
altre comunità civili possono esserci
paragonate, non ci interessa affatto
perchè peccato comune non è affatto
mezzo gaudio. Pensiamo a noL Se la
nostra chiesa lamenta una carenza
profonda di vitalità, di energia, di
spirito missionario, ci chiediamo come potrebbe essere diversamente, fat„1 come siamo. Come piotrebbe essere
più vitale, più energica, più missionar
ria una chiesa i cui membri non pensano che a dilaniarla, a distraggerla
cotidianamente con le loro divisioni?
Come potremmo produrre frutti di risveglio, di consacrazione, di fede se
,e nostre comimità non offrono che
lo spettacolo di una costante divisio.le e distruzione alimentata dall’invidia, dalla calvmnia, dalle chiacchiere, dalle gelosie.
^ume non pensare a questo il XVII
quando si segue il corteo con bandiere e petardi? Come non essere tristi
sapendo che quella unione fraterna
e torse solo una finta, una tregua;
che domani riprenderà nei villaggi e
nelle famiglie la lotta, il seguito di
beghe insensate e malvagie? Un cancro nascosto che stronca anche i più
coraggiosi ed i più forti, una opera di
distruzione lenta, costante, radicale
ui ogni cosa giusta e pulita, di ogni
pensiero e parola buona. Uno sporcare ogni cosa, un invelenire ogni si
inazione, un distruggere ogni sforzo
prima ancora che sia tentato, un goaere dell’ingiustizia e della divisione,
una febbre di dividersi e dividere. Ci
0 stata data la libertà ed ormai la
abbiamo già scontata e sporcata, ci
j stato dato l’evangelo e non fosse
di Dio avremmo liquidato anche quello; quello che non ci può essere dato
e ci dobbiamo dare da soli è l’unione, cioè lo spirito della chiesa.
Ma a costruire quell’unione, quella
comunione quanti lavorano? Per la
distruzione e la disunione del nostro
popolo valdese e della nostra chiesa
non c’è da stare in pensiero, saranno
sempre troppi quelli che ci pensano.
Ma per la edificazione e l’unità di
questa chiesa non bastano il pranzo
ed il discorso del XVII. Ci vuole spirito e preghiera e quelli sono più rari dei falò sui motm.
Giorgio Toum
4
Fratelli, voi siete stati chiamati a liberti.
(Gal. 5: 13).
L'Eco delle Valli Valdesi
Non fate della liberti un'occasione alla carne, ma per mexzo dell'amore servite gli uni
agli altri. (Gal. 5: 13)
La Gianavella
La Gianavella consiste realmente in due
antiche casette rustiche, le quali s’affacciano a breve distanza l’una dall’altra sul
ripido pendìo d’un profondo burrone, la
Comba della Gianavella, che dalla cresta
di Rocca Bera scende precipitosa sul vallone della Luserna. In alto sta la Gianavella superiore, ove, all’inizio del secolo
XVII s’era stabilito un alpigiano di Bobbio Pellice, Giovanni Gignous, detto Gianavello. Qui il suo figlio Giosuè nacque
nel 1617 e passò coi genitori, la sorella
ed i due fratelli l’infanzia e la giovinezza.
Cento metri più in basso sta la Gianavella inferiore, la rustica dimora che Giosuè Gianavello stesso si costruì, quando,
nel 1639, unitosi in matrimonio con la
giovane Caterina Durand, di Rorà, si separò dai suoi per fondare il proprio focolare domestico. Qui egli visse sedici anni di fervido e prospero lavoro agricolo,
mentre intorno gli cresceva la bella famigliola, tre figlie ed un figlio ultimo genito. All inizio del fatale 1655, egli, cacciato dalla persecuzione, si rifugiò coi
suoi a Rorà, ove s’iniziò per lui la terribile gloriosa epopea delle Pasque Piemontesi, della resistenza, della campagna vittoriosa. Subito dopo la pace del 18 agosto
1655, egli riprese alla Gianavella con la
famiglia la vita normale. Ma il periodo
della tranquillità fu assai breve. A causa
d’una sempre crescente serie d’ingiustizie,
d’oppressioni, di tormenti contro i Val
desi, egli fu tratto ad ergersi a loro protettore e difensore. Si riaccese la lotta.
Egli raccolse intorno a sè nuclei numerosi
di perseguitati. La sua Gianavella divenne
allora il centro della nuova resistenza. Fu
allora che, nell’interno della cantina a
pian terreno della sua casa, fu scavata
nella roccia, come eventuale rifugio, quella famosa breve grotta, che porta incisa
nel sasso l’iscrizione IT. G. G. (Viva Giosuè Gianavello) e la data 1660. Ma in quella posizione la resistenza non poteva durare contro gli assalti nemici. Di nuovo
Gianavello dovette abbandonare coi suoi
la propria dimora all’inizio della primavera del 1662. Riprese apertamente attraverso le montagne la lotta contro l’oppreMore, fino alla nuova pace del 18 febbraio 1664; pace vittoriosa, ch’egli però
dovette amaramente ripagare con l’esilio
perpetuo. In quello stesso giorno egli fu
costretto ad abbandonare definitivamente
la casa, la famiglia, la patria per rifugiarsi in esilio a Ginevra, ove morì il 15
marzo 1690.
La sua rustica casetta fu dapprima occupata da una famiglia cattolica di Bagnolo.
Col trascorrere degli anni passò da un
proprietario all’altro. All’inizio del nostro secolo, si risvegliò l’interesse del
pubblico per quella ch’era stata la residenza del leggendario eroe della resistenza valdese. Nel 1912 il pastore di Torre
Pellice e Vice-moderatore Comm. Carlo
Alberto Tron riuscì in nome della Tavola
Valdese ad ottenere dalla famiglia Fenoglio, proprietaria della casa, l’acquisto
della cantina a pian terreno che dà accesso
alla nota grotta. Egli stesso, il 22 ottobre
di quell’anno, presiedè la semplice commovente cerimonia dell’inaugurazione del
modesto locale, opportunamente riordinato. Passarono gli anni. Un nuovo riordinamento del locale s’impose. Ne assunse
l’incarico, nella primavera del 1910. la
Società di Studi Valdesi, che, commemorando il 250® anniversario della morte di
Giosuè Gianavello. avvenuta il 15 marzo
1690, volle provvedere ad un restauro
completo della piccola camera, dandole
una forma dignitosa, decorandola con alcuni mobili rustici, con alcune riproduzioni fotografiche e con una iscrizione illustrativa, che rievoca la personalità di
Giosuè Gianavello e ne indica l’indimenticabile valore ideale. Riteniamo opportuno ripetere qui le parole dell’iscrizione,
in quanto esse indicano chiaramente il
significato ed il valore storico e spirituale
della Gianavella e quindi spiegano e giustificano l’importanza dell’iniziativa dell’acquisto presa dalla « Pro Valli »:
Il capitano valdese Giosuè Gianavello
costruì nel 1639 questa casetta per sè e per
la giovane moglie Caterina Durand, di
Rorà, e vi abitò con la fiorente famiglia
fino al 1664. Qui egli si costituì eroico difensore dei Valdesi perseguitati, tenace rivendicatore della loro libertà religiosa. Di
qui egli partì pel definitivo durissimo esilio il 18 febbraio 1654. Attilio Jnlla.
Un caldo appello
della "Pro Valli
La Commissione Pro Valli ha proceduto in questi giorni all’acquisto
della proprietà « la Gianavella » situata in regione Vigne del vallone di
Rorà, per farne donazione alla Tavola Valdese perchè la casa che fu di
una delle figure di maggior rilievo
della nostra storia rimanga in mano
valdese e possa essere sistemata in
medo da poter essere liberamente visitata da chi ritorna alle Valli per
rivedere la terra dove i suoi padri
vissero, lottarono e soffersero per secoli. Tutta la proprietà potrà essere
sistemata in modo che tutti possano
accedervi facilmente e che vi si possano eventualmente tenere anche
riunioni all’aperto. Abbiamo già avuti alcuni doni che ci hanno piermesso di far fronte al primo versamento ed ora rivolgiamo un pressante appello a tutti coloro che amano le nostre Valli perchè ci mandino la loro
offerta per poter coprire l’intera somma dovuta. Alcune Chiese delle Valli ci hanno già offerto una somma
'ed alcuni amici residenti alle Valli
ci hanno promesso il loro aiuto ma
desideriamo che il nostro appello
giunga a tutti i Valdesi che, ormai
stabiliti lontano dalle Valli, ricordano sempre con amore la terra dove
sono nati, le Valli dove son rimasti
i loro parenti, i loro ricordi. Il passo
che la Pro-Valii ha compiuto è stato
lungamente discusso e meditato perchè non vogliamo che si creda che
fra i nostri scopi ci sia specialmente
quello di creare dei monumenti o di
aumeiitare i beni materiali della
Chiesa. Abbiamo ritenuto che vi sono
:lei valori e dei sentimenti che vanno oltre le povere vecchie pietre della Gianavella, oltrq i magri campi ed
i castagni che la circondano. Gianavello ha lottato quando era alle Valli non solo per la sua casa e la sua
terra ma per tutte le Valli e dalla
lontana Ginevra ha lottato ed aiuta
ff
to i suoi fratelli non solo per rientrare in possesso della sua casa dove
sapeva che ormai non sarebbe più
ritornato, ma perchè alle Valli continuasse ad ardere la fiaccola della
fede Ora, per il riscatto della sua
casa, desideriamo vivamente che siano tutti i Valdesi ad inviarci il loro
dono, o.uelli delle Valli e quelli che
ormai non vi tornano più, perchè il
piccolo reddito che questa terra darà
sia come un dono simbolico a tutte
le Valli che ogni anno si rinnova nel
nome di Gianavello. Ed in questo
senso assieme alla figura di Gianavello ognuno di noi ricorda la figura
dei propri avi, della lunga schiera di
« barba » e di « magne » che ci hanno
preceduto e che, ciascuno nel suo
campo e secondo le sue possibilità,
hanno lottato perchè a noi fossero
tramandate la fede e la libertà.
Questa occasione che ci è stata data di riscattare un lembo di terra che
non era più in mano valdese ci sembra indicare alla Pro-Valli la linea
di condotta che deve seguire nella
sua attività Seguire ed aiutare col
suo consiglio e con tutto l’appoggio
possibile le attività svolte per ottenere un miglioramento del tenor di viV nelle nostre Valli, e ricorso alla
generosità di tutti gli amici quando
una qualche importante iniziativa
esige mezzi materiali notevoli. Dall’esito di questa nostra iniziativa e dalla decisione della Conferenza Distrettuale dipenderà se riunire tutti que
:,ti nostri amici in una associazione
che in modo ancora più diretto si interessi dei bisogni materiali delle
Valli.
Speriamo di poter presto mettere
sulla Gianavella la data del 17 febbraio 1959 a ricordo di un atto di riconoscenza a Dio per il passato e di
impegno per l’avvenire.
La Commissione Pro-Valli
Notizie daiie nostre Comunità
PRAROSTIHIO
Un grave lutto ha colpito la nostra
comunità, oltre che naturalmente la
famiglia e i parenti.
Giovedì 29 u. s. mentre rincasava,
verso le ore 21,30, per una inspiegabile fatalità, tragicamente perdeva la
vita il nostro fratello Carlo Godin di
Pralarossa. La disgrazia avveniva a
meno di cinquecento metri dal villaggio. Il nostro fratello rientrava in
compagnia di un compaesano, col
quale si era recato a S. Secondo pei
un servizio, col carretto e il mulo; la
notte era sopraggiunta, ma la strada
era buona, non gelata. A un certo
punto, non si sa come, il carro ribalta rovesciando il nostro fratello giù
per il ciglio in pendenza, poi gli piomba addosso colpendolo mortalmente
al capo. Al richiamo del superstite,
accorre gente dai casolari vicini... ma
più nulla si può fare per Carlo Godin: il colpo vibràtogli dal carro è
stato fatale. Aveva 69 anni.
I funerali si sono svolti domenica
1« febbraio, con una immensa partecipazione di popolo, dalla Parrocchia
e da fuori, sopratutto da Inverso Porte e da S. Germano, ove il defunto
era molto ben conosciuto e stimato.
E' intervenuto anche il Pastore Bert,
che ha ricordato, nel breve servizio
alla casa, la figura del nostro fratello
per la sua bontà (manifestata più
volte anche nelle ore difficili della
guerra partigiana per quanti cercavano asilo e aiuto sulle montagne).
Il servizio si è poi svolto nel tempio
di Roccapiatta, ove il pastore locale
ha condotto l’immensa folla alla meditazione del testo: «Vegliate e pregate, perchè ncn sapete nè il giorno
nè l’ora».
Carlo Godin fu per molti anni Anziano del quartiere di Pralarossa,
membro apprezzato del Concistoro
Alla sua memoria il nostro pensiero
riverente mentre rinnoviamo alla famiglia nel dolore la nostra simpatia
cristiana.
SAI» SECOmDO
Un nuovo lutto ha colpito la nostra
parrocchia, con il decesso di Gay Ma
riarma vedova Rostan, mancata im
provvisamente in età di 77 anni. Il
tempio si è, come al solito, gremito
di una folla accorsa per testimoniare la propria simpatia alla famiglia
nel lutto e per udire le parole di Vita
eterna.
L’assemblea di chiesa ha nominato
la Commissione consultiva per la nomina del Pastore. Essa ha già avuto
con la Tavola il previsto contatto a
norma di regolamenti.
TORRE PELLICE
Domenica sera, 15 corr., alle ore
20.30, nella sala delle attività, per
la seduta mensile della Associazione
Enrico Arnaud, il pastore Emilio Ganz,
nello spirito delle Commemorazioni
del Centenario della Emigrazione Valdese nel Sud America, parlerà sulla
vita familiare, economica e sociale
dei Valdesi ivi immigrati.
Nel primo triste anniversario dell’immatura scomparsa della loro amata
Clara Costantino
la famiglia la ricorda a quanti ramarono, fidente nelle promesse del Signore.
Pinerolo, 15 Febbraio 1959
Allarme a Torre Pellice!
Non risiedo a Torre Pellice; non sono commerciante (nè a Torre Pellice nè altrove), ma tutto quello che
accade nella nostra piccola cittadina
m’interessa e quasi quasi mi commuove. Da quando De Amicis l’ha
battezzata « Ginevra » italica, guar
diamo un po’ tutti con simpatia e
(perchè no) con venerazione a «La
Tour ».
Anche se invece di « Ginevra » ci
sembra che sarebbe più opportuno
oggi chiamarla la nostra piccola « Roma ».
Una città « sacra », di cui bisogna
difendere il « sacro » carattere Valdese.
Un carattere « sacro » come quello
della grande Roma: edifici sacri numerosi, e scandaletti non pochi;.
A dire il vero, la gente che s’interessa alla vita della Chiesa, non è
molto numerosa; quella che frequenta i culti, lo è ancora meno; quella
che « contribuisce » secondo le sue
possibilità, è ridotta al minimo.
Però, Torre Pellice è sempre la capitale morale delle Valli.
Morale: cioè «moralmente parlando » senza alcuna allusione o riferimento alla vita morale dei suoi cittadini ! Perciò tutto è «sacro » a Torre Pellice ; anche gli interessi dei
commercianti Valdesi
Ho quindi letto con senso di angoscia profonda l’articolo teologicamente patetico (o pateticamente teologico) di r. b. : Il commercio a Torc Pellice!
Molti e molti anni fa, quando non
era ancora di moda scrivere hic et
iiunc, ma si diceva pedestremente;
« cosi come stanno oggi le cose a Torre Pellice », i nostri amici dell’Eco del
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Chisone ci servivano, caldo fumante
per il XVII febbraio, un articolo su';
«vittimismo» Valdese. Non so se lo
facciano oggi ancora. Ho l’impressione però (sono diventato vecchio?)
che un poco di « vittismo » faccia
veramente parte del « complesso di
inferiorità Valdese ».
Incapaci di organizzare, insofferenti di qualsia.si vincolo organizzativo,
i valdesi sono, notoriamente, troppo
« furbi » ; sospettano sempre la truffa, l’inganno; «mugugnano»; pretendono tutto dall’autorità superiore,
dal governo o dalla Chiesa ; hanno
sabotato e saboteranno sempre ogni
manifestazione cooperativistica. Soffrono di un incurabile complesso di
inferiorità: ogni iniziativa li spaventa. Se gli altri fanno qualche cosa, essi (i 'Valdesi in generale, — non i
commercianti di Torre Pellice in particolare!) strepitano, urlano, sospettano misteriosi interventi e mostruosi finanziamenti; parlano, ma non
fanno nulla.
Purtroppo è sempre stato così ; e se
il giovane direttore-redattore dell’Eco
delle Valli Valdesi avesse il tempo (e
volesse prendersi la briga) di rilegge
re le cronache del Témoin, dell’Echo,
per arrivare all’Eco ch’egli così appassionatamente dirige, quale amara
messe di iniziative fallite, abbandonate potrebbe raccogliere!
Cooperative sorte qua e là, poi sepolte, non per colpa degli altri!
Scuolette di quartiere, oggi ridotte
a tettoie o fienili!
Scuola «normale»: de profimdis!
Ombra di Giuseppe Malan, deputaoj
al Parlamento Subalpino, amico di
Cavour e membro della Tavola Valdese, che a Pralafera fondavi una
fabbrica, chi ti ricorda ancora?
In compenso, quando si tratta di
salvare un rudere più o meno storico,
tutti si muovono! E poi c’è sempre
■ ma speranza: la memoria di una
Commissione!
R. b. ne ha una tutta nuova da
sfornare : « Associazione per la difesa degli interessi dei commercianti e
dei consumatori Valdesi in Torre Pellice ».
Quali interessi? Quelli commerciali? Quelli spirituali? Oppure quelli
commerciali in fxmzione di quelli spirituali? Oppure quelli spirituali in
funzione di quelli commerciali?
indubbiamente un problema mol
o delicato, come premette r. b., perchè lo stesso può esser visto sul piano della fede, come la prospetta r. b.,
« La fede chiaramente espressa, coerentemente vissuta: la fede della nostra cara Chiesa Valdese in Gesù Cristo Salvatore nostro e dei nostri fratelli in fede » ; la fede però di un commerciante Valdese di Torre Pellice
può permettergli di vendere a un
cliente cattolico o comprare da un
non Valdese?!
i se è vero che Cristo è morto anche per Hitler, non è Cristo il Salvatore oltreché « nostro e dei nostri fratelli in fede » commercianti Valdesi
di Torre Pellice, anche dei clienti (e
commercianti) cattolici?
Non pensa r. b. che forse potrebbe
non bastare il fatto di essere « gentili signore » o « navigati » clienti o esperti commercianti per esser posti
di fronte « alla realtà spirituale di
una fraternità di opere e di intenti...
valida perchè si incontra su una fede
chiaramente espressa, coerentemente,
vissuta: la fede... in Gesù Cristo Salvatore...? »
Non pensa r. b. che forse egli ha
male impostato il problema? Che non
si tratta di andare a comprare una
dozzina di uova da x, anziché da y.,
ma di richiamare il cliente ed il commerciante valdese alla validità di
questa « realtà spirituale... che si incentra su una fede chiaramente espressa, coerentemente vissuta? ».
« ..coerentemente vissuta! » Non
pensa r. b. che invece della sullodata
Commissione, se ne potrebbe più opportunamente nominare un’altra che
proprio compiesse un’opera individuale di richiamo ad un impegno di
vita cristiana, coerentemente vissuta? E, senza Commissione, qualche
cosa di simile a quello che si è fatto
l’anno scorso nella parrocchia di Angrogna (Serre), e si farà quest’anno
a Frali?
L. A. Vaimal
Redattore: Gino Conte
Coppieri - Torre Pellice
Tel. 94.76
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Editrice Claudiana
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Tipografia Subalpina - s. p. a
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Prof. Dr. Franco Qperti
Libero Docente
in Clinica Ortopedica
Specialista in Ortopedia
Traumatologia e Chirurgia Plastica
Visite presso Ospedale Valdese di
Torino: Lunedi e Venerdì ore 16,30
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di Pinerolo con decreto del 1-1-1955
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