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BILYCHNI5
RIVISTA BIMESTRALE ILLVSTRATA DI STUDI RELIGIOSI
Anno II : : Fasc. VI.
NOVEMBRE-DICEMBRE 1913
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 DICEMBRE - 1913
DAL SOMMARIO: L. SALVATORELLI: La Storia dei Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia civile. — M. ROSSI : Culto ed escatologia presso i Babilonesi. — G. MONTALBO: Miti e religioni dell'antichità classica. — A. CERVESATO: Mazzini e noi. — ROMOLO MURRI : Religione e politica. — P. GHIGNONI : Protesto. — A. TAGLIALATELA: Il tempo e noi. — L’ERETICA (quadro di Frank Craig». — NOTE E COMMENTI. — TRA LIBRI E riviste. — Notizie.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo #
-------- Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l'Estero
Via del Babuino, 107- ROMA fi Si pubblica alla fine di ogni mese pari
in fascicoli di almeno 64 pagine, fi fi fi
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Illustrazioni del presente fascicolo.
L’ERETICA: Quadro di Frank Craig (Tavola tra le pagine 516 e 517).
Ritratto di Pietro Tagli alatela (Tavola tra le pagine 528 e 529).
Vetrate con simboli cristiani nel nuovo Tempio Valdese a Roma (Tavola tra le pagine 500 e 551).
Copertina, disegni e fregi di Paolo A. Paschetto.
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SOMMARIO:
Luigi Salvatorelli : La storia, del Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia civile . . . . ............ pag. 477
MARIO Rossi: Culto ed escatologia presso i Babilonesi. >485
Gino Montalbo: Miti e religioni dell' antichità classica......... » 491
A. CERVESATO: Mazzini e noi.............. » 497
Romolo Murri: Religione e politica (Lettere elettorali) . . . . . » 504
INTERMEZZO:
Frank Craig : L'Eretica (Quadro) ............. » 515
Vittoria Fabrizi de' Biani: Notturno (Poesia) ....... » 517
VOCI E DOCUMENTI :
P. Alessandro Ghignoni: Protesto............ »518
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Alfredo Tagi.ialatela : Il tempo e noi........................... » 523
Domenico Ciàmpoli: L'opera di Pietro Tagliatatela ...... »528
NOTE E COMMENTI:
M. R. Nuove condanne dal Vaticano................................ » 530
Leonardo Bianchi: Religione e clericalismo........... »531
X. : La politica ecclesiastica nei discorsi del Trono.- . » 531
ARISTARCO FaSULO: La t Settimana Sociale* di Milano .... >532
Ernesto Rutili: Mariano Rampolla ........... » 535
TRA LIBRI E RIVISTE:
Filosofia e religione: I valori cristiani e la cultura moderna (Alfredo Tagliatatela). — Il pensiero filosofico di R. Ardigò (E. R.). — La psicologia di Gesù (Oscar Cocorda) ........ ....... pag. 537
Storia del. Cristianesimo: Voci d’Oriente (A. Fasulo). — Riforma. > 545
Paria: La crisi del celibato (E. R.)................ » 549
NOTIZIE ........ ........ . . . >550
Bilychnis nei 1914 ...................... » 555
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PEI PROSSIMI FASCICOLI:
Roland D. Sawyer: Gesù e lo Stato — Gesù e la famiglia — Gesù e la proprietà.
GIOVANNI LUZZI: Il modernismo nella Chiesa cristiana del primo secolo.
Mario PUCCINI: L'opera di Raffaele Mariano.
ANGELO Crespi : L'evoluzione dèlia religiosità nell' Individuo e nella Società.
Paolo Orano: Dio nella coscienza.
G. LESCA: Sensi e pensieri religiosi nella poesia di A. Graf.
M. Velato : L'altare al Dio sconosciuto.
G E. MEILLE: Intorno all'immortalità dell'anima.
JOH. Lo VER: Religione e Chiesa.
Mario Rossi : Un'interpretazione religiosa di una leggenda della Grande Sirte in Sallustio : i fratelli Fileni.
C. Rostan : Le idee religiose di Pindaro.
N. H. Shaw : « L'uomo e l'universo » di Sir Oliver Lodge.
ANTONINO De Stefano: Le due riforme - Giovanni Calviuo e Sebastiano Castiglione.
ASCHENBRÖDEL: *Boanerges*> o i Gemelli Celesti.
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N. B. — Degli articoli firmati sono responsabili i singoli autori.
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LA STORIA DEL CRISTIANESIMO
ED I SUOI RAPPORTI CON LA STORIA CIVILE'”
CHI si faccia a discutere del concetto di storia del cristianesimo, un quesito preliminare si presenta : devesi parlare di storia del cristianesimo o di storia della chiesa? In Germania, come è noto, è il secondo nome quello che assolutamente prevale {Kirchengeschichte\ così nei titoli dèlie cattedre universitarie come in quelli dei libri dedicati a tale disciplina, tanto da potersi dire che è, senz’altro, il termine tecnico colà adoperato. Non si è mancato, per verità, in quel paese che ha una disposizione naturale a trattare questioni
teoriche e metodologiche, di discutere anche questa; ma la discussione non è stata spinta molto a fondo,-e, in generale, si è detto che conveniva conservare il nome di storia della chiesa perchè oggetto della disciplina era, sì, il cristianesimo, ma il cristianesimo costituito in comunità, il cristianesimo in quanto vita
collettiva, in quanto, appunto, chiesa.
Ora, è proprio questo argomento che mostra la debolezza della posizione difesa. Giacché il fatto che il cristianesimo costituisca una comunità, sia una
vita collettiva, è certo una sua nota caratteristica fondamentale, ma pur sempre una accanto alle altre; o, a volersi esprimere in termini più precisi, la chiesa non s’identifica, col cristianesimo — l’estensione dei due concetti non si copre — ma è uno dei prodotti della vita di questo, a comprendere e spiegare il quale è necessario comprendere e spiegare il cristianesimo stesso. E infatti è facile vedere come una storia della chiesa, che voglia rimaner fedele al suo tema, rischi di trascurare dei soggetti che pure importano, e molto, alla storia del cristianesimo. Per esempio, nessuno potrà negare che la ricerca e la determinazione dell’influenza che l’idea, il sentimento, la tradizione cristiana esercitano sulla società moderna, al di fuori di ogni vincolo confessionale, non faccia parte integrante di una storia del cristianesimo; difficilmente, invece, si potrebbe affermare ch’essa debba far parte di una storia della chiesa. C’è, anzi, molto di
(i) Questa memoria è, con pochissime modificazioni, una comunicazione da me fatta al Congresso della Società delle scienze a Siena, dell’anno corrente, nella sezione di storia delle religioni, istituita ora per la prima volta in quella Società.
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peggio: una storia della chiesa, dato un certo punto di vista critico, o anche teologico, può lasciare fuori di sè niente meno che le origini del cristianesimo e la persona stessa di Gesù; ciò che infatti noi vediamo avvenire, per citare due opere appartenenti a campi assai differenti, così nella Histoire ancienne de l'Eglise di monsignor DUCHESNE, come nel primo volume {Das Altertnm) del recentissimo Handbuch der Kirchengeschichte, edito dal KRUEGER, volume dovuto al Krueger stesso ed al PREUSCHEN. Che senei primo caso è lecito pensare, senza peccar troppo di malignità, a ragioni non teoretiche, ma pratiche, che hanno indotto l'autore a tale prudente omissione, nel secondo sono gli autori stessi che giustificano una tale esclusione col dire che, non risultando conforme alla storia il presupposto teologico che la chiesa sia stata fondata da Cristo, la persona di questo rimane nella preistoria della chiesa. E poiché, in Germania, storia della chiesa e storia del cristianesimo, come si è detto, s’identificano, si arriva in tal modo a questo bel risultato, che Gesù non appartiene alla storia del cristianesimo. Risultato il quale mostra che i cosidetti protestanti liberali sono talvolta più terribilmente teologi — se anche a rovescio — dei protestanti conservatori; giacché, per negare il concetto di Gesù fondatore, nel senso teologico della parola, della chiesa — e senza accorgersi, che, in un senso storicamente più profondo, egli è davvero questo fondatore — troncano addirittura il rapporto fra Gesù e il cristianesimo. E riescono in tal modo a riconfermare quella concezione prettamente teologica, per cui Gesù e il periodo neotestamentario fanno parte, non della storia del cristianesimo, ma della teologia bibl ica, o, come si preferisce oggi dire nel campo della scienza protestante liberale tedesca, della storia della religione neotestamentaria. Creazioni antiscientifiche per cui, nel primo caso, si scambia il punto di vista dello storico, che esamina i libri del Nuovo Testamento come documenti storici, con quello del teologo, che li studia come fonti di verità dogmatica, mentre nel secondo un complesso di documenti relativi al primo periodo della storia del cristianesimo viene arbitrariamente isolato e considerato come manifestazione di una religione, o di una religiosità speciale. E l’una e l’altra creazione non hanno per fondamento se non il concetto teologico di canone, e l’altro — teologico anche questo per eccellenza — della separazione fra il periodo iniziale del cristianesimo, che sarebbe il normativo e l’essenziale, e lo svolgimento seguente.
Non si fermano qui le limitazioni, potremmo dire le mutilazioni, che la « storia della chiesa > porta con sè nella trattazione storica del cristianesimo : un'altra, importantissima, è quella della storia dei dogmi, considerati, non in quanto oggetto di discussioni e di contrasti nella vita collettiva della chiesa e di deliberazioni di questa, ma in sè stessi, come svolgimento intimo del pensiero e del sentimento religioso. E’ chiaro, dunque, che il concetto di < storia della chiesa » significa una limitazione artificiale e deformatrice di quello di storia del cristianesimo, e che quest’ultimo, pertanto, è preferibile.
* ♦ »
In Germania, dunque — io mi riferisco precipuamente alla scienza tedesca, perchè la storia del cristianesimo è stata nel secolo passato, ed è anche oggi, sostanzialmente opera sua — noi vediamo che alla determinazione del concetto
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LA STORIA DEL CRISTIANESIMO ED I SUOI RAPPORTI CON LA STORTA CIVILE
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e dei limiti di storia del cristianesimo e della chiesa non sono state estranee idee teologiche. Ma c’è di più : la stessa « storia della chiesa » è considerata lassù come disciplina teologica, e costituisce una delle materie della facoltà teologica, non di quella filosofica ; il che vale tanto per il campo protestante quanto per quello cattolico. Si è creata, anzi, una distinzione fra teologia normativa e teologia storica, per cui alla prima toccherebbe stabilire che cosa si deve credere dai cristiani e come debba essere organizzata la società cristiana, mentre alla seconda spetterebbe determinare come si è arrivati a quelle date credenze e a quella data organizzazione, e per quali vicende la società cristiana sia passata.
Ora, di fronte a tale inclusione della storia del cristianesimo nell’enciclopedia teologica, un dilemma s'impone. O la storia del cristianesimo, come teologia positiva, deve essere assolutamente indipendente dalla teologia normativa, deve procedere per conto suo, compiere un lavoro assolutamente autonomo — salvo, ben inteso, alla teologia normativa il diritto di servirsi come crede e può e sa dei suoi risultati, diritto che nessuno può pensare a contestarle — ; ed allora voi potete chiamarla teologia positiva, o teologia storica, o quel che più vi piace, ma essa non ha da fare in realtà con la teologia più di quello che, in generale, la ricerca e la ricostruzione puramente ed obbiettivamente storica abbiano da fare con le utilizzazioni che dei loro risultati possono essere compiuti dal moralista, dall’uomo politico, ecc. Oppure la teologia storica, la storia del cristianesimo, accingendosi al lavoro, è già in un determinato rapporto con la teologia normativa o dogmatica, ha da questa assegnato il suo cómpito, ne riceve i dati su cui lavorare e l’indicazione dei risultati a cui pervenire. Ma allora questa non è storia del cristianesimo, è apologia ; la quale, naturalmente, ha pur diritto all’esistenza, ma non è Storia. La storia vera non riceve il suo cómpito e i suoi dati dal di fuori; li trova, o, per dir meglio, li crea e li elabora essa stessa, come quella che è libera attività immanente dello spirito. La storia non ha da ricevere dalla teologia un certo schema, per esempio, di Gesù, apportatore all’umanità di una nuova concezione religiosa e della sua redenzione, morto per i peccati degli uomini, risorto, fondatore della chiesa, per provarne la verità Storica, o magari la falsità : tocca ad essa stessa ricreare, per suo conto, la personalità di Gesù e l’opera sua.
Il concetto, pertanto, della storia del cristianesimo come disciplina teologica, per avere un senso, non può non importare una dipendenza, scientificamente inammissibile, dalla teologia normativa o dogmatica. E, infatti, noi troviamo affermato, in uno dei prodotti più cospicui della scienza tedesca, nella Realen-cyklopàdie fiir protestantische Theologie und Kirche, che « la storia della chiesa è una parte della teologia perchè suo fermo presupposto è la certezza di fede che la Chiesa cristiana... non è un prodotto dello sviluppo naturale dell’umanità » (i); vale a dire, la storia della chiesa, come disciplina teologica, nega quello che è il presupposto fondamentale di ogni storia. Ma poiché la teologia tedesca ci tiene a salvare i diritti della scienza, così essa dice che alla ricerca storica tocca esporre la vita della chiesa « in quanto essa entra nel mondo dei fenomeni » (in Er-scheinung triti. ; ibid.) ; ciò che è meglio spiegato, sempre nello stesso luogo delia
(i) Art. KirchengeschuMe, dei Bonwetsch.
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Realencyklopädie, eoi dire ehe soggetto della storia della chiesa è l’esporre come si effettui in questa la destinazione dell’umanità a divenire una umanità di Dio. Vale a dire. Ja fede e la teologia normativa stabiliscono quale è l’essenza della Chiesa; alla storia della chiesa rimane mostrare come questa essenza si attua e si svolge, in Erscheinung tritt. Soggetto a tema obbligato ed a lieto fine prestabilito : ecco che cosa diviene la storia dèi cristianesimo intesa come disciplina teològica. Ma la storia non conosce una essenza separata dal suo svolgimento fenomenico; per essa l'una si attua nell’altro, ed è tutta una cosa con esso.
E' appunto su questa distinzione della « essènza » dalla Erscheinung che riposa, in sostanza, quella separazione, da noi sopra criticata, della storia della chiesa dalla storia di Gesù e del cristianesimo apostolico, concepiti piuttosto come «teologia biblica». Il HEINRICI, infatti, nella sua Theologische Encyklo-pàdie, ci dice esplicitamente che tale distinzione dipende dal fatto che la teologia storica considera il cristianesimo « in quanto esso si è realizzato come una concezione del mondo in sich abgeschlossene und begründete, e che con essa « si afferma il carattere teologico delia scienza biblica nel senso della chiesa della riforma», per cui gli scritti del canone del Nuovo Testamento stabiliscono la norma credendi (pagg. 25-26). Ma tali concetti, se hanno la loro ragion d’essere e trovano il loro posto nel mondo delle idee teologiche, non hanno invece da far nulla con la Storia, la quale non conosce nè alcuna norma credendi, nè alcuna concezione in sich abgeschlossene und begründete, ma solo l’evoluzione perenne e unitaria dello spirito e della società umana.
«
Abbandoniamo dunque il concetto della Storia del cristianesimo come disciplina teologica. Ma con quale ramo allora dell'enciclopedia scientifica la metteremo più specialmente in rapporto?
Se nel mondo protestante tedesco si afferma la separazione fra « storia della chiesa» e «teologia biblica», da noi invece vi è piuttosto la tendenza a considerare la storia del cristianesimo come parte della scienza biblica, se non addirittura come una disciplina orientalistica. Idèa ancor meno accettabile riposante sopra un doppio errore: l’uno, di considerare come storia del cristianesimo solo il periodo delle origini, quando invece essa deve estendersi a tutta la vita di questo, e cioè fino ai giorni nostri ; l’altro, più profondo, di non saper distinguere fra lo studio dei testi biblici in sè, come prodotti letterari — il che è appunto compito della scienza biblica — e il suo studio come documenti storici. I libri del N. T. che, nel primo caso, sono il soggetto della ricerca, nel secondo divengono lo strumento, il materiale per il soggetto vero ch’è la storia del cristianesimo. So benissimo che l’una e l’altra considerazione possono unificarsi nella sintesi di una scienza superiore e più alta, della filologia presa nel suo senso più ampio e più elevato; ma ciò non toglie che la distinzione dei due punti di vista sia legittima e doverosa. Tanto varrebbe, altrimenti, confondere la storia della letteratura greca e della letteratura medioevale colla storia della Grecia o del M. E.
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Un'altra tendenza più esplicita e più cosciente di sè della prima vorrebbe invece assorbire la storia del cristianesimo nella storia delle religioni: ed essa si è affermata così in Germania, come fra noi, in Italia.
Ma qui bisogna distinguere. Se s’intende dire Che la storia del cristianesimo è una disciplina di natura perfettameate analoga alla storia di altre religioni — buddismo, islamismo e via dicendo — si dice cosa indubbiamente giusta. Se si vuole affermare inoltre che la storia del cristianesimo non deve rimanere isolata da quella delle altre religioni, ma deve tenersi a contatto con essa e trar lume per il suo soggetto della comparazione, anche questa è tesi indiscutibilmente vera. Ma con ciò non abbiamo detto nulla che valga a determinare o a cambiare il carattere della disciplina; e infatti i sostenitori della tesi suaccennata intendono dire qualche altra cosa; intendono dire che la storia del cristianesimo non ha diritto di esistenza a sè, ma deve essere assorbita in una disciplina più ampia, la storia o la scienza delle religioni. Ora, di questa scienza, se non la si intende come la somma delle singole discipline studiami le varie religioni, nel qual caso, evidentemente, essa sarebbe un puro aggregato meccanico, non una entità scientifica, di questa scienza, dico, non sono possibili che due concetti. O s'intende per essa la fenomenologia religiosa, vale a dire lo studio dei vàri fenomeni religiosi — il sacrificio, la preghiera, il sacerdozio, ecc. — considerati, non nel sistema di una religione determinata, ma in sè stessi, come si manifestano nel complesso di tutte le religioni: o s’intende la storia generale della religione, cioè della religiosità, studiata come fatto unitario, anch’essa attraverso le sue manifestazioni nelle singole religioni.
E' evidente che nè l’una, nè l’altra di queste discipline possono togliere il diritto all'esistenza autonoma, nè alla storia del cristianesimo, nè a quella di qualunque altra religione, in quanto anzi le presuppongono e su esse si fondano. Ñon solo, ma la loro natura, il loro metodo, i loro procedimenti sono assai differenti da quelli della storia del cristianesimo, o di altra singola religione. Esse, infatti, procedono per astrazione e generalizzazione. La prima isola i dati raccolti intorno a ciascun fenomeno religioso di una singola religione dall’insieme della vita e della storia di questa per riunirli e fonderli con i dati raccolti intorno al fenomeno analogo nelle altre religioni, arrivando così a costruire il concetto e la storia del sacrificio in generale, della preghiera in generale, ecc. : costruzione scientificamente legittima ed utile, ma non rispondente alla realtà storica concreta, la quale conosce invece soltanto il sacrificio vedico o quella data preghièra cristiana, e va dicendo. La seconda isola, anch’essa, la storia di una data religione dalla storia della civiltà, del popolo, del tempo in cui si è svolta la vita di questa per accostarla e combinarla con le storie delle altre religioni ; o, in altri termini, considera nella storia di ciascuna religione l’elemento religioso puro, astratto dalle contingenze storiche concrete —- ogni religione che abbia vissuto, che si sia attuata nella realtà è, sì, un fatto religioso, ma anche un fatto politico,' economico, e va dicendo — così da arrivare alla determinazione di una linea, di uno schema unitario che è la storia generale della religione, della religiosità ; costruzione, anche
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questa, che ha gli stessi caratteri di astrattezza della precedente. L’una e l’altra disciplina dunque hanno un metodo e un procedimento analogo a quello delle scienze naturali, e distinto dal metodo e dal procedimento dello storico che deve cogliere il fatto, la realtà individuale in tutta la sua concretézza, arrivando, per questo stesso mezzo, a determinarne contemporaneamente il valore universale.
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La storia del cristianesimo, dunque, se se ne vuole ben cogliere la natura, va considerata, come lo vuole il suo stesso nome, quale disciplina storica, e messa in rapporto con la cosidetta «storia civile».
Che la storia del cristianesimo, infatti, abbia dei rapporti con la storia civile è cosa evidente e Che nessuno pensa a negare. Sembra, però, che tali rapporti siano visibili sopratutto in certi periodi, per esempio, nel medioevo assai più che nei primi tre secoli del cristianesimo, 0 che nel secolo XIX ; o, per raggiungere una determinazione meno empirica, sembra che essi non si verifichino se non in certi periodi in cui la storia del cristianesimo viene più specialmente in contatto con la storia politica e sociale dei popoli. Si fa, cioè, la distinzione fra storia interna e storia esterna del cristianesimo o della chiesa. Quest’ultima interesserebbe la storia civile, rientrerebbe anzi nel suo ambito, non la prima. Per fare un esempio, è certo che la lotta di Gregorio VII e dei suoi predecessori e successori per il celibato ecclesiastico rientra nel campo, nella competenza della storia medioevale. Ma ci rientrerebbe solo in quanto, per questa lotta, l'autorità ecclesiastica venne in rapporto e in contrasto con la civile, e ne risultò modificata la situazione politica e sociale del tempo. Rimarrebbe, invece, proprio della storia del cristianesimo, o della chiesa, il trattare dell’origine e dello svolgimento del celibato, come esigenza religiosa e come istituzione ecclesiastica, in seno alla chiesa. Forse nessuno storico, venendo ad un caso determinato come questo, oserebbe formulare così nettamente una tale distinzione. Pure, una volta ammessa la distinzione generale fra storia esterna e storia interna della chiesa, questa che io ho fatto non è Che una sua logica applicazione ad un caso particolare. Essa mostra però chiaramente l’assurdità della distinzione stessa. Infatti, la lotta per il celibato appare nella storia civile qualche cosa di campato in aria, qualche cosa come un improvviso deus ex machina, ove non si conoscano i motivi che la produssero e che ne costituiscono la logica concreta; e questi non è possibile conoscere se non si ricostruisce la storia interna dell' idea e dell’ istituzione, e, in genere, della chiesa cattolica. Lo stesso si dica, per esempio, riguardo alla riforma. Gli storici ci descrivono le condizioni politiche e sociali della Germania che concorsero a produrre il grande rivolgimento; ci parlano anche della situazione esterna della chiesa, dei suoi rapporti con gli stati germanici, del sistema finanziario pontificio, dei costumi del clero, ecc. Poi, venendo a parlar di Lutero, sono costretti a discorrere della giustificazione per la fede, del valore delle opere buone, ecc. ; concetti teologici, esperienze religiose che vengono fuori ex abrupto, senza connessioni e senza precedenti. Così, la storia della riforma diviene un guazzabuglio di elementi poli-
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tici, sociali, economici, religiosi, di movimenti collettivi e di crisi psicologiche individuali, senza che di tutto questo si colga il nesso e l’intima ragione. E non può esser diversamente, quando lo storico non si è curato di farci conoscere le varie correnti della religiosità medioevale, la fisionomia differente assunta da questa nei vari paesi, la teologia scolastica nel suo svolgimento, nella sua crisi, nella sua decadenza, e va dicendo. Senza una conoscenza della storia dell’ago* stinismo, della mistica tedesca, deH’occamismo, senza un’analisi dei risultati religiosi e culturali dell’umanesimo, senza metter tutto questo in rapporto con il contrasto fra il papato e lo sviluppo della vita nazionale germanica, con il carattere romano del papato stesso, ecc., la rivoluzione protestante rimane un mistero. E di questi misteri se ne incontra più d’uno nella cosiddetta storia civile.
E se ne incontrano altresì nella storia del cristianesimo, trattata per conto loro dai teòlogi « specialisti ». Non si può comprendere la diffusione e la vittoria del cristianesimo se non si conosce il processo evolutivo dell’ impero romano da stato cittadino del tipo greco-romano a monarchia universale autocratica impregnata di orientalismo. L’analisi di quel gran fenomeno religioso che è il monachiSmo non si può compiere senza rendersi conto delle condizioni sociali ed economiche del tempo. I contrasti continui e la definitiva separazione fra la chiesa greca e la latina sono strettamente connessi con i rapporti fra il mondo occidentale e l’orientale e con la costituzione dell’ impero bizantino. La storia di certe eresie orientali — il monofìsitismo — non è se non un aspetto di un fenomeno assai più ampio, che è la reazione delle varie nazionalità orientali contro il dominio politico e spirituale dell’occidente, contro la civiltà ellenistico-romana. E la riforma protestante, ad essere interamente compresa, va considerata in prima linea come il termine della lotta fra il papato e la Germania, come la liberazione della nazionalità germanica dal dominio del papato.
La verità è che la separazione della storia religiosa dalla storia civile è artificiale, perchè artificiale è lo stesso concetto di «storia civile». Se l’analisi scientifica può separare, astraendo, l'elemento religioso dagli altri elementi, la considerazione storica concreta non conosce fatti religiosi puri e fatti politici puri, ma fatti della società umana, momenti della vita complessiva dell’umanità. La storia della chiesa cristiana, nella sua totalità, è un elemento integrante della storia della fine dell’impero romano, dell’evo medio e dell'evo moderno; e, alla sua volta, ha bisogno essa stessa d’integrarsi con la totalità di questa storia. Il cristianesimo, la chiesa sono, certamente, dei fatti religiosi, ma sono altresì dei fatti politici, economici, artistici, e va dicendo. Una volta si limitava il concetto di storia alla storia politica, anzi, più precisamente, alla storia esterna degli stati. Le guerre, le alleanze, i trattati che cambiavano la carta geografica del globo : ecco qual’era il soggetto unico, od almeno principale, della storia. Poi si affermò l’idea che l’intima evoluzione degli stati, la formazione ed il cambiamento dèi loro organi costitutivi erano pure elemento essenziale della storia. Venne poi la volta del fattore economico, artistico, ecc. In verità, però,
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a guardar bene, questi successivi ampliamenti del concetto di storia hanno avuto per risultato piuttosto il formarsi di singole discipline — storia economica, storia dell’arte, ecc. — che non l’assorbimento delle singole ricerche, dei singoli punti di vista nella storia, considerata unitariamente in tutta la sua organica complessità.
In questa evoluzione del concetto di storia, il peggio è toccato al fatto religioso e, in genere, a tutto quello ch’è più propriamente storia dello spirito, del pensiero. Voi troverete abbastanza facilmente chi, facendovi la storia dell’impero romano, parli delle condizioni e dei cambiamenti economici di quel periodo; ma trovare chi vi mostri, come elemento di essa storia, la trasformazione religiosa per cui le religioni orientali divennero predominanti, questo sarebbe quasi miracoloso: solo quando si arrivi al 303 o al 313 gli storici si accorgono che una di queste religioni — essi anzi non arrivano neanche a cogliere il rapporto esistente fra il cristianesimo e le altre religioni orientali — si avvia a conquistare l’impero e ad esserne conquistata.
Bisogna dunque proclamare altamente che la storia del cristianesimo non è che un elemento della storia, in generale, poiché la storia è una, e suo soggetto è la società umana in tutti i suoi elementi di vita e le sue manifestazioni. Una volta stabilito questo, apparirà chiaro che la divisione tra storia del cristianesimo e storia civile non ha ragion d’essere.
Prevengo una obbiezione che mi si potrà facilmente muovere. Si dirà che allo stesso modo converrebbe assorbire nella storia la storia della filosofia, là storia dell’arte, la storia della letteratura, e va dicendo. E, dentro certi limiti, è proprio così. Da una parte, infatti, non è possibile intendere pienamente, ad esempio, la Storia delle teorie e delle scuole filosofiche, se queste non si ripongono nell’ambiente sociale, politico, ecc., nell’ambiente storico, insomma, in cui si svolsero; dall’altra, lo storico deve teve tener conto di queste teorie e correnti filosofiche, in quanto esse sono ad un tempo espressione, risultato delle condizioni generali di un’epoca, e fattore determinante di queste condizioni stesse. Così, per la storia della fine dell’impero romano non è certo indifferente che la filosofia predominante in quel periodo fosse il neoplatonismo, il quale forma una delle caratteristiche precipue del mondo antico giunto al termine della sua vita, uno dei fattori dell’evoluzione finale di questo. Così pure, chi penserebbe a negare che l’arte del rinascimento sia elemento essenziale della storia di quell’epoca, sia, al tempo stesso, espressione e determinante della vita d’allora? Tuttavia, accanto a questa concezione della storia dell'arte e della storia della filosofia, un’altra può affermare legittimamente il suo diritto all’esistenza, per cui si ricerchi lo svolgimento intimo del pensiero concettuale puro e dell’attività artistica pura, secondo i caratteri e le leggi all’uno e all’altra immanenti ; con il che, certamente, siamo fuori del campo della storia della società umana. Qualche cosa di analogo si può affermare per la storia del cristianesimo, intesa come storia dell'essenza intima della religiosità e del pensiero cristiano, nel qual caso essa rientrerebbe, per una parte, in quella storia generale della religione di cui si è sopra discorso, e per l’altra, nella storia della filosofia. Ma questa — lo ripeto ancora una volta — non sarebbe più storia del cristianesimo come fatto sociale, collettivo, nella sua concretezza e determinatezza storica. Una tale storia rientra e si assorbe, senza residuo, nella storia della fine del mondo antico e del mondo medioevale e moderno. LUIGI SALVATORELLI.
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CULTO ED ESCATOLOGIA PRESSO I BABILONESI
1.1 scavi recentissimi sul vasto territorio dell’antico impero assiro-babilonese, apportando agli studiosi nuovo e prezioso materiale di ricerca, han modificato su molti punti i risultati fissati nelle opere classiche o almeno han permesso di tentare un abbozzo meno incerto intorno ad alcuni aspetti della ricca religione babilonese.
Il Langdon, d’Oxford, che ha dato al Passi rologia un cosi ricco contributo di studi e di ricerche — ricordiamo, fra le altre cose la grammatica sumeriana e l’opera Sumerian and Babylonian Psalm — in due studi sintetici (i) ha ripreso, con la scorta degli ultimi testi scoperti, a trattare di due argomenti fortemente suggestivi, dell’escatologia e dell'organizzazione del culto pubblico presso i Babilonesi.
$ * *
I. Il culto pubblico. — La maggior parte dei testi utilizzati dal Langdon nel Babylonian Liturgies sono frammenti di liturgie sumeriane copiate per le biblioteche di Assurbanipal (2); nessuno di essi è anteriore al periodo Cassila. Son testi che rimontano così all’antico periodo sumeriano (Nippur), come al periodo sumeriano classico (Lagash) e a quello della così detta prima dinastia babilonese (Sippar e Babilonia). L’influenza delle antichissime popolazioni sumeriane s’è fatta sentire sui semiti, babilonesi ed assiri anche nel culto pubblico; esso infatti è restato sempre sumeriano, nelle forme come nella lingua, tanto che del lungo periodo che va dal tempo di Sargon di Akkad (2800 av. Cr.?) al primo secolo av. Cr. non è stato ancor trovato un solo testo semitico che venisse cantato nei templi.
Nel trattare lo svolgimento del culto pubblico, il Langdon fissa queste date approssimative per i vari periodi della storia assiro-babilonese:
i° Età accadiano-sargonica (2900-2700);
2° Dinastia di Gudea (2650), seguita da quella di Gutium;
30 Dinastia di Ur (2475-2358);
(OS. Langdon, Babylonian Eschatology (in Babyloniaca, t. VI, fase. IV, 1912); Baby-Ionian Liturgies (Sumerian texts from the early period and from the library of Ashurbanipal, Paris, Geuthner. 1913).
(2 ) Alla trascrizione scientifica preferiamo, per ovvie ragioni, la trascrizione più comunemente usata nei manuali di storia orientale e di storia delle religioni.
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BILYCHNIS
4° Dinastia di Isin (2358-2133);
5° Ia dinastia babilonese (Hammurabi ; 2232-1929);
6° Periodo cassila (1763-1180);
7° Periodo di mezzo (1180-625);
8° Impero neo-babilonese (625-539).
Sebbene non possediamo alcun testo del periodo pre-sargonico, conosciamo però il nome tecnico del « salmista », il sumeriano gala, tradotto dal semitico Kalù. L’antico ideogramma per indicare il « salmista » ci rivela chiaramente la sua funzione originaria, quella, cioè, di placare con canti gli dei nel tempio. Il culto pubblico infatti nacque fra i sumeriani dal desiderio di pacificare gli dei irritati, che manifestavano con l’invio di mali la loro contrarietà. « Oh tempio, il tuo abile cantore non è presente: il tuo fato chi fissa? — Il salmista che conosce il canto non è presente : il tuo fato sul tamburo egli non canta. — Colui che sa toccare la lira non è presente; il tuo fato sul tamburo egli non canta». Così in un antico inno. Nell’evoluzione ulteriore della liturgia, come un’eco dell’ufficio primitivo del salmista, resta il refrain che ricorre continuamente fra una strofa e l’altra: «Fino a quando,© dio, finché il tuo cuore non sia placato?».
La lira [balaggu) era lo strumento per eccellenza dèi salmista, ma egli usava anche il tamburo, la tamburella e più tardi il flauto.
Uno scriba assiro, che copiò per la biblioteca di Ninive gli antichi servizi religiosi sumero-babilonesi, scrive commosso, che i salmisti sono la « sapienza di Ea, il tesoro della sapienza, coloro che son destinati a pacificare i cuori dei grandi dei ».
Essi costituivano un corpo scelto, a cui era esclusivamente affidato il canto delle liturgie del tempio e dei salmi; i Babilonesi riguardavano evidentemente il canto nel culto pubblico come un’azione Che esigeva una purità sacramentale e quindi eseguibile solo da persone, che, pur non possedendo una consacrazione sacerdotale, erano destinati a compiere un’azione sacra.
Nel periodo più antico i salmisti non devono aver occupata un’alta posizione sociale ; più tardi si organizzano definitivamente in collegi dedicati esclusivamente al servizio del tempro. Si dividevano in tre categorie; il capo salmista aveva una grande importanza e percepiva un alto salario. Queste associazioni di salmisti divennero negli ultimi tempi degl’imperi assiro e babilonese delle comunità di dotti, una specie di collegi che studiavano e pubblicavano la letteratura officiale liturgica e si occupavano anche di astronomia. Il Museo reale di Berlino possiede una vasta porzione di una grande biblioteca liturgica edita da un’associazione di salmisti di Babilonia (li-i sec. av. Cr.).
Il taro, simbolo della lira, era il patrono della salmodia e dei salmisti. I sumeriani dell’età classica infatti comparavano il suono della lira, lo strumento per eccellenza della salmodia, al muggito del toro. Probabilmente una statua in bronzo del toro veniva collocata nel chiostro dell’edifìcio dove vivevano i liturgisti.
I grandi centri liturgici, come il tempio di Shamash in Sippar, di Enlil in Nippur, di Innini ad Erech, dovevano possedere ciascuno una scuola musicale. La salmodia era in un modo particolare associata al nome di Innini, che i sumeriani riguardavano come la madre che piange per tutte le sciagure degli uomini. Essa stessa è chiamata perciò « salmista del tempio » .
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Qual’era la posizione dei salmisti? Fin dal tempo di Gudea nel tempio di Ningirsu a Lagash il salmista è associato intimamente nel servizio del tempio al sommo sacerdote, ed è sotto il suo controllo. La magia e la pubblica liturgia sono elementi originariamente indipendenti e mutualmente escludentisi nella religione babilonese. Ma gli assalti e l’invadenza della magia sulle più pure forme del culto, la crescente tendenza ad introdurre nelle funzioni del tempio le cerimonie sacramentali, fecero sì chea nche i salmisti prendessero parte come cantori e come musici nelle nuove aggiunte al culto tradizionale.
Nei tempi più antichi, il culto pubblico era intieramente libero da riti di carattere sacramentale e le stesse litanie non contenevano alcuna allusione alla magia. Ma poi altri servizi religiosi, come quelli per l'espiazione del tempio, per la dedicazione di edifici, si svilupparono. Così il salmista ricevette altri nomi [zur (su rii i) surru (seni.)].
In semitico la parola tecnica più frequentemente usata per il canto su istru-menti è zamaru, da cui si ebbe zammeru ^ salmista, colui, cioè, che manda lamenti o esprime un canto di gioia.
Un’altra categoria di musicisti, anch’essi risalenti ad una remota antichità, è quella dei ZWzzzsem. nàru (giovane) (1); mentre i primi sono i pubblici salmisti, questi sono invece salmisti privati, che accompagnano col canto i privati servizi penitenziali e specialmente le preghiere nelle cerimonie d’incantesimo. I cantori privati sono distinti interamente' dai cantori del tempio perchè usano strumenti a fiato (es. : la cornamusa), mentre i secondi solo il tamburo e gli strumenti a corda. Questa distinzione è ben definita fin dal periodo di Hammurabi. La salmodia penitenziale, il canto nei funerali entrano intieramente nell’orbita delle attribuzioni dei salmisti privati. Ai funerali, poiché non appartenevano al culto del tempio, cantava il nàru. Il nàru però non aveva a far nulla con il mago, sebbene assistesse per le parti cantate i maghi nei loro misteri.
* » ♦
Il popolo sumeriano e le razze semitiche di Babilonia e di Assiria furono troppo lungamente ossessionati dal senso tragico della vita per poter sviluppare nel culto pubblico un elemento lirico di letizia. Su nove litanie risalenti al tempo della dinastia di Ur, alcune sono delle lamentazioni intorno alla ruina della città e a calamità nazionali, altre sono manifestazioni di sofferenze spirituali (2). Può sembrare strano come una liturgia di questo genere sia potuta divenire veicolo per esprimere sentimenti di contrizione spirituale ; i « lamenti locali » divennero le litanie quotidiane. Solo col mutare il nome della città, i salmisti di un altro
(1) In ebraico si ha l’equivalente nòar {Esodo, 33, 11); si noti però che, mentre la parola sumeriano-babilonese ritenne il senso primitivo di « parlare con voce acuta », in ebraico significa ragazzo o giovane che attende al servizio religioso in genere.
(2) Un salmo sul flauto alla dea di Lagash e che lamenta la mina della città, non ha alcun riferimento a bisogni spirituali : « Della mia città, i tesori lontano sono dispersi... ; o madre, tu, regina umiliata, alla desolata quando farai tu ritorno?... O pastore, la preghiera possa placarti ; — il maestro del canto nella mia città e nel mio paese più non canta ». Si confrontino le Lamentazioni di Geremia nella Bibbia!
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tempio potevano introdurre nel loro repertorio una lamantazione popolare di un’altra città. Un melodioso motivo, antichissimo, di un lamento su flauto intorno alle rovine di Nippur (nizinu uruzu udedu zz pentiti, ecco la tua città!) divenne popolare non solo nei templi di Sumer, ma fu adottato anche dalle grandi liturgie di Babilonia e di Assiria, magico ritornello che destava i più profondi sentimenti di milioni di credenti. L’accompagnamento dell’inno, in una tonalità bassa e piena di tristezza, sul flauto, doveva produrre un effetto sorprendente; la mancanza di elevati sentimenti non significa nulla: la melodia, i ricordi storici, la simpatia pei dolori umani, ecco gli elementi religiosi che fecero delle lamentazioni le litanie di tutti!
Più spirituali nella loro concezione, più universali nel loro contenuto sono gii antichi ershemmas (in origine canti col doppio flauto e, in appresso, l’intercessione liturgica in fine delle complicate liturgie), nelle quali la dea madre apparisce come una vera mater dolorosa. Sia nella persona della vergine madre Innini di Erech innamorata del morente dio Tammuz, sia in quella della dea madre-maritata, Ban di Lagasho Gula di Isin, questa dea divenne non soltanto nelle liturgie particolari dei lamenti di Tammuz, ma anche nel maggior numero delle liturgie pubbliche il simbolo del dolore umano. Ben diversamente dalle altre divinità che fanno cadere la loro ira sulle città a causa dei peccati, essa appare invece nelle liturgie di tutte le città come piangente con il popolo, specialmente ad Erech, ad Isin, a Larsa, centri del suo culto. Così in una litania su flauto assai diffusa e il cui carattere generale non permette più di assegnare ad essa il luogo d’origine, indirizzata alla vergine madre che porta il nome di Girgilum, la dea che va vagando lontano dal tempio è scongiurata dal salmista a ritornare : la sua sventura e quella del suo popolo sono dovute all’ ira del dio della terra, Enlil. « La sua mano al santo in preghiera essa solleva: in lagrime di dolore essa si disfà. — “ Io stessa ad Enlil ricorrerò : « Fino a quando, o mio Signore, dovrò lamentarmi ? ».
E* probabile che nel periodo primitivo i canti sul flauto venissero accompagnati da parte dei cantori e dei flautisti da movimenti processionali e i canti sulla lira da inchini e da prostrazioni.
« « «
IL L’escatologia babilonese. — Anche in questo campo gli scavi di questi ultimi anni (i) han rinnovato le idee e le ipotesi consacrate dai manuali classici.
Le antiche città assiro-babilonesi giacciono sepolte sotto colline caratteristiche che divennero il suolo sacro ai cimiteri sotto i persiani e i Sassanidi : Babilonia, Nippur, Ur, Erech, Sippar, Ninive sono ancor in parte oggi ricoperte da cimiteri di parti, di mussulmani e di cristiani.
Il fatto abbastanza singolare della mancanza di sepolture del periodo assiro nelle rovine di Ninive e nelle colline circostanti è stato spiegato dai recenti scavi tedeschi ad Assur; là maggior parte degli Assiri preferivano infatti di seppellire i loro morti nel sacro suolo di Sumer.
La più antica scena funeraria è quella di Vultures(2) che risale al 3200 av. Cr.
(1) A Nippur, Fara, Abn-Hatab (K ¡surra) e ad Assur.
(2) Vedi Thureau-Dangin-Henzev, La stèle de Vautours.
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Nessuna iscrizione di quelle fino ad ora ritrovate accenna alla cremazione.
Il termine sumerico per indicare il sacrificio per i morti era Ki-amag, reso dal semitico Ki-sig « frazione del pane », dovuto molto probabilmente ad una particolare concezione semitica del sacrificio.
Il regno dei morti era chiamato irsit la tari, cioè, « regione da cui non si ritorna»; più frequentemente con parola sumerica, arallu, che significa «luogo di desolazione» od anche bit ilu Tommuz, cioè «casa di Tammuz ».
Allo studio dell’escatologia babilonese bisogna far precedere quello dei riti funerari : il rituale è spesso il più sicuro e più fecondo mezzo per studiare i più profondi problemi di una religione.
La descrizione dei riti funebri fatta dallo Jeremías, Ubile und Parodies (in Der Alte Orient, I, 3, 1903) appare ormai antiquata di fronte ai risultati degli ultimi scavi; così è lo stesso dell’opera classica del Perrot e Chipiez (1884) per ciò che riguarda le rappresentazioni dei monumenti.
inumazione veniva effettuata sotto terra o sotto delle volte di mattoni. In genere il corpo veniva collocato sopra una piattaforma leggermente elevata sulla quale era distesa una stuoia di canne (barn): il tutto veniva ricoperto da una specie di volta di creta. Accanto al cadavere venivano collocati dei vasi d’acqua ed altri oggetti necessari per il benessere dell’anima. Questo era l'uso più comune. Un’altra forma d’inumazione consisteva nel collocamento del cadavere in una bara di creta in forma di capsula, ottenuta con l’unire insieme due grossi vasi, oppure,, semplicemente in un enorme vaso: in questo caso il corpo veniva mutilato per adattarlo alla forma del vaso funerario. Questo costume si ritrova nel periodo sumeriano come nel più tardo periodo semitico.
Un miglior tipo di celle mortuarie s’è trovato recentemente ad Assur, l’antica capitale assira. Mentre infatti nella Babilonia il deposito funerario con volta di mattoni veniva poi definitivamente murato dopo l’ultimo seppellimento, nell’Assiria veniva lasciato aperto dalla parte occidentale ed una scala di mattoni conduceva in basso.
In una di queste celle mortuarie ad Assur furono trovate delle urne funerarie di creta cotta, a forma di cono e contenenti resti di cremazione.
Urne funerarie di questo tipo si son trovate da per tutto e specialmente negli strati più bassi delle colline di Babilonia, « mancano però prove dirette per l’uso della cremazione nel periodo classico».
Anche a Nippur nei più profondi stati sumeriani nel cortile della torre a piani, accanto a dei resti di celle mortuarie furono trovate tracce di cremazione. L' Hilprecht crede che all’angolo della torre a piani vi fosse un gran crematorio.
Una spedizione tedesca qualche anno fa esplorò gli avanzi di due vaste necropoli (Surghul e El-Hibba) a poche miglia al sud di Lagash, ora divenuta famosa per gli scavi del De Sargec: ebbene, si scoprirono in esse le ceneri di milioni di antichi sumeriani. Ivi i cadaveri dovevano venir collocati in una ristretta cassa di mattoni avvolta di materie infiammabili e ricoperta da un leggero strato di creta. Veniva poi dato fuoco ad una catasta di legna che ricopriva lo strato di creta: se le fiamme riducevano il corpo in cenere, i resti venivano collocati in un'urna e seppelliti nel deposito familiare; altrimenti la cassa di mattoni rimaneva la tomba definitiva.
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Il rito della cremazione è antichissimo, e si ritrova, più o meno diffuso, in tutti i periodi della lunga storia assiro-babilonese. Nei tempi più antichi i morti venivano bruciati nei vasti cortili dei tempi, per il desiderio diffuso presso quasi tutti i popoli di riposare dopo morte in un suolo consacrato.
La più antica indicazione di seppellimento è in una iscrizione di Urukagina (circa 2900 av. Cr.) che si trova al Louvre. « Quando il morto fu collocato nella sua bara, sua bevanda tre giarre, suoi pani ottanta, un letto, un Kig-sag come offerta funeraria egli ricevette». Questo prova che la bevanda posta accanto al morto nel periodo antico non era l’acqua ma una specie di birra. Solo nei periodi più recenti nacque l’idea che l'acqua fosse necessaria all’esistenza dell'anima.
La parola usata per indicare l’offerta fatta alle anime dei morti è anag. Una buona sepoltura costituiva solo il necessario preludio di una felice esistenza dell’anima di un defunto nt\\'Arallu\ le erano necessarie anche le cure rituali da parte dei parenti, altrimenti essa saliva dall’inferno a tormentare gli uomini e in particolar modo i propri parenti. Così « l’offerta per il riposo delle anime » formò una parte importante delle pratiche religiose dei Sumeriani e dei Babilonesi. Anche nella religione officiale erano stabilite delle somme per un’offerta generale per alleviare le anime dei morti. Abbiamo qui evidentemente la primitiva concezione della festa di tutti i morti.
Possiamo citare, come esempio caratteristico di parentalia la seguente iscrizione (1) ;
Una pecora per il re-sacerdote,
un capretto per il sacerdote delia dea Nina,
un agnello ed un capretto per il sacerdote della dea Ninmarki sono stati mangiati nell’assemblea.
Una pecora per il re-sacerdote, una pecora per il capo degli scribi nel mese di... alla celebrazione del sacrificio mortuario sono state mangiate.
Una parte del pasto veniva naturalmente bruciata come sacrificio al morto. I pasti commemorativi per i re, per i sacerdoti, per i personaggi importanti facevano parte della religione ufficiale. Essi presero un carattere sempre più spiccatamente sacramentale, quando il capo del governo venne deificato. Anche in questo caso il sacrificio mortuario ordinario venne mantenuto, poiché il reggitore deificato veniva considerato come sopravvivente nella- natura umana.
Nei sei giorni in cui duravano le grandi feste in onore della dea Nina venivano offerti orzo, birra, olio, datteri, vino e pesce per i sacrifici mortuari.
Dalle fonti sumeriane possiamo dunque concludere all’esistenza e alla pratica dei parentalia come atto essenziale necessario al riposo dell’anima. I parentalia « per tutte le anime » si celebravano nel primo, secondo e terzo giorno delle grandi feste di Nina e Ban, cioè, al principio del quinto e del settimo mese. Però parentalia più modesti venivano celebrati tutti i mesi. Col tempo accanto al sacrificio per il morto, consistente nell’offerta fatta ad esso della parte bruciata, si delineò un rituale più elevato e spirituale, lo « spezzamento del pane » (la /radio panie). Nell’evoluzione ulteriore del rito le due forme sacrificali si vennero come a fondere in una sola. Mario ROSSI.
(1) Allottb de la Euye, Documento Présargoniques, n. So.
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(Vedi Bilychnit, sctt.-ott. 1913, p. 380).
Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia.
■ L volume che Emanuele Ciaceri ha dedicato ai Culti e miti nella storia dell'antica Sicilia, Catania, Battiato, 19n (Biblioteca Filo). Class, n. 2) è abbastanza commendevole. L’A. era preparato al suo compito da lunghi studi fatti su l’argomento e dei quali nel libro che recensiamo si sente largamente l’eco. Ñon per questo si deve negare l’originalità del volume, Io perchè vi si trova unito in un corpo unico ciò che era stato oggetto di sparse analisi particolari ; 2° perchè vi sono molte parti veramente nuove, e molte antiche sono state rinnovate.
L’A. giovandosi largamente del materiale offertogli dall’archeologia, iscrizioni, monete, monumenti, riesce a tracciare un quadro che dall’epoca indigena o preellenica della Sicilia arriva, attraverso la colonizzazione greca, di carattere dorico, fino alla conquista romana. La quale favorì quei culti che più giovavano alla sua politica unificatrice, come quello della Venere Ericina, patrona della stirpe di Augusto. Il C. tien conto anche delle infiltrazioni orientali, per esempio della triade egizio-alessandrina Iside, Serapide, Arpocrate, e delle sopravvivenze che dei culti pagani si son conservate nel Cristianesimo, per esempio in occasione della festa di sant’Agata a Catania, Che richiama quella di colorito marittimo in onore di Iside. L’opera di un acuto gesuita del sec. XVI, il P. Ottavio Gaetani, Isagoge ad historiam sacravi siculam, gli è di scorta in questo come in altri analoghi ravvicinamenti.
Persuasivamente il C. stabilisce l’origine indigena di vari culti ritenuti orientali, come quello di Adrano, Venere Ericina, ecc. Egli mostra come anche il cane sia un elemento di culto indigeno dell’isola, come lo prova il persistente folklore e il fatto che il cane è il compagno fedele della pastorizia, professione degli antichi Siculi. E appunto perchè protettore, si capisce come sia stato dato quale scorta fedele ad Adrano, il dio patrono dei Siculi, che squinzaglia i cani contro i ladri ma li adopera per ricondurre in casa gli ubbriachi. Ma da questa venerazione per il cane a concludere che il fedele animale doveva essere un totem degli antichi Siculi — come fa l’autore a pag. 133, raccomandandosi alnomedi S. Reinach, i cui entusiasmi totemistici sono veramente fuori di misura — ci corre davvero un bel tratto. Non bisogna mai dimenticare che il totemismo suppone
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sempre un gruppo sociale che riconosca la propria discendenza dall’animale od oggetto totemico e si regoli perciò rispetto ad esso e nelle relazioni tra i suoi membri secondo certe norme particolari. Se manca il riconoscimento di questo rapporto (il quale del resto ha un’importanza molto più sociale che religiosa, cfr. FRAZER, Totemismi and Exogamy, Londra, 1910) l’ipotesi totemistica, oltreché scientificamente infondata, è inutile, bastando a spiegar il culto animalesco le ragioni animistiche, le quali nel cane, animale che va soggetto al furore idrofobo, sono anche più ovvie ed evidenti.
Molto giustamente l’A. comincia con parlare dei culti indigeni, sia pur rivestiti di veste greca, e stabilisce questo principio, ovvio ma facile ad esser dimenticato sotto la fioritura letteraria della mitologia classica, che in Sicilia quei culti che sono in relazione con le sue forze telluriche : l’Etna con i suoi crateri fumanti, la terra con la sua vegetazione rigogliosa, ecc., sono indigeni; e che l'ellenismo colonizzatore non ha fatto che appropriarseli e considerarli dal punto di vista ellenico. Così si spiega il culto di Adrano, personificazione dell’Etna, protettore del paese, il cui nome e il cui culto sono estranei ai Greci dell’isola. Così si spiega il culto dei Palici, i ruderi del cui tempio famoso erano ancora visibili nel secolo XVI, e che personificano i crateri dell’Etna ne' cui « lacus ebul-lientes» si compievano i giudizi per ordalia. Questi Palici assumono veste di divinità nazionali, patrone dell’elemento indigeno, prima contro l’elemento greco sotto la guida di Ducezio nel sec. v a. C., poi contro l'elemento romano durante le guerre servili nel sec. ir a. C. Così si spiega il culto delle Meteres o Madri di Engio, divinità della terra feconda.
I Greci sopravvenuti posero su tutto la propria impronta, riuscendo a trasformare completamente la fisionomia religiosa di alcune terre soggette al loro dominio, mentre nell’interno della regione più vivaci e riconoscibili si mantenevano le divinità indigene dell’isola.
Il volume del Ciaceri è dunque un’opera utile per la cultura italiana, e sarebbe desiderabile che le regioni italiane la cui fisionomia etnica è rimasta più costante e più pura, avessero aneli’esse il loro illustratore.
La religione primitiva in Sardegna.
La Sardegna, per suo conto, ne ha trovato uno assai buono in Raffaele Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Piacenza, 1912. Quest’opera è un ottimo esempio del connubio che deve sempre unire l’etnologia e la filologia in materia di storia delle religioni. Non tutto nell’opera del P. è inedito : i Rendiconti dei Lincei, il Ballettino di Paletnologia italiana, la Renne d'ethnographie et de sociologie, la Rivista italiana di sociologia, avevano già pubblicato qualche parte dell’attuale volume. Ma nella ulteriore elaborazione il vecchio e il nuovo sono stati egregiamente armonizzati e n’è uscito fuori un libro che fa veramente onore agli studi italiani.
Il P. comincia con parlare del culto dei morti in Sardegna, al quale si riferisce la pratica dell’incubazione, per cui, secondo ehc ricordano gli antichi autori, i Sardi si compiacevano di dormire presso le tombe degli eroi. E i luoghi che
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in Sardegna vanno considerati come tombe degli eroi sono le cosidette tombe dei giganti, specie di lungo corridoio a fondo cieco alla cui imboccatura si allarga un emiciclo, nel’làmbito dei quale doveva avvenire l’incubazione e le altre pratiche rituali.
Dopo il culto dei morti è notevole quello delle acque, di cui abbiamo, presso gli antichi autori, memorie, e nei folklore tracce relative al suo valore salutare e ordalie©. Il luògo dove quest’acqua sacra si conservava era un vero e proprio tempio a cupola, simile alla tholos dei Greci, affondato in parte nel terreno, al quale Si accedeva mediante una scala. Davanti all'accesso superiore della scala si apriva un vano rettangolare protetto dov’erano disposti e fissati sul muro gli oggetti, e nel mezzo l’ara per le offerte sacrificali. Un esempio di tali templi è quello trovato su la giara (o altipiano) di Serri presso la chiesa di Santa Vittoria, al cui scavo il P. ha preso parte. Il fondo della cella è costituito da una specie di conca incavata nel suolo roccioso, dove un tempo si raccoglieva l’acqua, conforme ad un uso paesano di cui è possibile trovare anche oggi le tracce. La cella doveva essere accessibile al solo sacerdote che scendeva ad attinger l’acqua salutare e la portava in alto alla folla dei supplicanti che attendeva nel vestibolo, ricco di attestati votivi.
Esaminate le forme del culto protosardo, l’A. passa a studiar l'immagine che della divinità i Sardi si son fatta. Non bisogna ritener come divinità quelle figurine di bronzo con quattro occhi e quattro mani provenienti specialmente da Abini nel Gennargentu e che secondo il P. sono statuette votive le quali con la duplicità di occhi e di braccia vogliono esprimere il raddoppiato vigore ottenuto alla vista e a tutta la persona mediante l’uso delle acque sacre.
Più importante è la figura del Sardus Pater t che si trova menzionato ed effigiato su le monete coniate in Sardegna dal magistrato romano: essa ha occhi grandi, acconciatura di penne ritte sul capo, lancia al collo. Questo dio apre la storia mitico-leggendaria della Sardegna, storia di successive invasioni capitanate ciascuna da un eroe : quella libica indigena dal Sardus Pater, quella libico-punica da Jolaos (nome grecizzato, forse di Esmun, forse di altra divinità punica di nome affine a Jolaos), quella iberica da Norax, il cui nome è evidentemente apparentato con quello di Nuraghe, le note Costruzioni coniche dell’isola, e con molti nomi di luogo sardi: Nuri, Nuoro, ecc. Ma queste varie divinità si debbono concepire come tre aspetti diversi o ipostasi dell’unica divinità suprema dei Sardi, il Sardus Pater, la divinità protettrice e guaritrice, centro e fulcro delle credenze indigene. « Quando la sua figura sorge sull’orizzonte religioso protosardo, sembrano tramontare o meglio fondersi e confondersi nella sua luce, tutti i fantasmi preesistenti, preformati nella coscienza religiosa delle età anteriori... Nell’incal-zare delle invasioni straniere sul suolo di Sardegna, nel succedersi delle genti semitiche, greche, romane, apportatrici di civiltà nuove, ma tutte estranee e tutte ostili allo spirito indigeno, il popolo sardo guardò, invocando, al suo dio. Il dio fu veramente l’ideale della stirpe, nel quale i vinti cercavano riposo allo spirito e pace; così come sulle aspre balze e nelle foreste odoranti del Gonnargentu trovavano rifugio i superstiti ribelli al giogo straniero » (pag. 90).
Esposti gli elementi della religione sarda, l’A. va cercando le comparazioni tra detta religione e quelle che fiorirono in tempi preistorici e protostorici nel
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bacino del Mediterraneo e chiama a contributo sia le notizie letterarie sia 1 etnografia religiosa attuale, riuscendo a fissare una serie di punti che si possono considerare come bene stabiliti. E comincia con rilevare una serie di paralleli ordalici delle acque sia in Sicilia (le acque sulfuree dedicate ai Palici, cui abbiamo accennato più sopra), sia in Corsica (rito dell'implorazione dell’acqua), sia nel-l’Africa settentrionale dove la religione musulmana si è adattata, massime per il Culto delle acque, alle credenze e pratiche indigene. L’A. ricorda il bagno rituale del 24 giugno di cui è memoria anche in un testo di sant'Agostino « Natali Johannis... de sollemnitate religiosa pagana, Christiani ad mare veniebant, et ibi se baptizabant» (serm. 190). Ma inesattamente interpreta la parola «baptizabant» per battezzarsi, mentre nel testo ha il senso etimologico di bagnarsi, lavarsi, anche più favorevole del resto alla tesi dell’A. e più vicino all’attuale cerimonia berbera dell’Anserà, che cade appunto nel «die natali Johannis» secondo il computo solare, non ostante che i Berberi, come musulmani, seguano il lunare. Questo rispetto dell’acqua, unito al lavacro religioso, si capisce soprattutto presso un popolo come l’africano, che vede le sue terre bruciate da un sole implacabile.
Dal Mediterraneo occidentale l’A. passa nell’orientale, a Creta, dove trova un riscontro del Sardus Pater nel Zeus (nome improprio) del monte Ideo ; il quale sul monte ebbe il suo sepolcro poi trasformato in tempio, sepolcro di cui rimase sempre vivo il ricordo nella tradizione. Anche il cosidetto Zeus cretese aveva la potestà di guarire e, probabilmente, presso la sua tomba si praticava l'incubazione, come si ricaverebbe dal caso di Epimenide, che vi dormì per 57 anni e poi si destò per recarsi ad Atene a narrar le visioni avute durante il sonno.
Segue ora una serie di comparazioni etniche tra la Sardegna e l’Africa, che valgono a convalidar la tesi paietnologica della provenienza dei Protosardi dal-l’AfriCa settentrionale. Nel rito funebre, al riso con il quale gli antichi Megabari (trogloditi dell* Alto Nilo) accompagnavano la tumulazione dei cadàveri, corrisponde il proverbiale riso sardonico che i Sardi antichi emettevano neH’uccidere i loro vecchi che avevano oltrepassato i settant'anni. L’uso dell'incubazione cui abbiamo accennato in principio per i Sardi, si ritrova presso i Nasamoni della Libia, di cui ci dà notizia Erodoto, e presso gli attuali Tuareg, che insieme ai Cabili ne occupano l’antica sede. Le costruzioni megalitiche si trovano così nell’isola come nel continente africano. Perfino le caratteristiche etnogràfiche si corrispondono : infatti le sei penne che sono su la testa del Sardus Pater rispondono alle penne che, secondo Dione Crisostomo, i Nasamoni portavano sul capo. Sicché l’afiermazione di Pausania (X, 17, 7) che i Protosardi (Ilieis) si assomiglino ai Libici nell’aspetto fisico, nell’armatura e in tutto il regime di vita, appare provata, e il P. può a buon diritto concludere che « se c’è tra le conquiste della paletnologia un concetto la cui portata possa paragonarsi con quella del concetto, ben altrimenti costruito, dei popoli ariani, esso è quello della connessione etnica sardo-africana, come esponente della connessione etnica di quelle genti che in un dato momento dell'età preistorica abitarono il bacino occidentale del Mediterraneo » (pag. 168).
Questa rassomiglianza apparisce anche più evidente nella pratica dell’ordalia. Abbiamo più sopra accennato come i Sardi praticassero l’ordàlia dell’acqua. Chi
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giurava il falso in materia di furto e si toccava gli occhi con l’acqua sacra, rimaneva immediatamente accecato, come si esprime Isidoro nel 1. XIV delle Etimologie, abbreviando Solino. « Fontes habet Sardinia calidas, infirmis tnedelam praebentes, furibus caecitatem si, sacramento dato, oculos aquae eius tetigerint ». Ora in tutto il territorio dell’Africa troviamo l’uso dell’ordalia per i casi di furto, e specialmente nell’Africa occidentale, tra quei gruppi Che abitano la riva settentrionale del Golfo di Guinea : Accra (Costa d’oro), Ewe (Costa degli Schiavi), Yoruba (Niger). Si tratta di una coincidenza fortuita o di una connessione di origine? Il P. senza pronunziarsi definitivamente, inclina per quest’ultima ipotesi e trova l’anello di congiunzione tra Guinea e Sardegna su la costa mediterranea dell’Africa dove abitavano un tempo i Nasamoni e vivono oggi i Berberi, i Cabili, i Tuareg, e dove si riscontrano taluni elementi culturali che sono comuni con la Sardegna (monumenti megalitici) mentre altri sono comuni con l’Africa interna ; specialmente occidentale (i manufatti litici). « Molto è da attendersi su questo terreno dalle ricerche future. Ma già si delineano sufficientemente le tre aree culturali : l’atlantica, la libica, la mediterranea dell’ovest ; e tra l’una e l’altra si intravede una trama sottile che le avvolge e accenna a collegare gli estremi : la Sardegna e la Guinea» (pag. 121).
Nell'ultimo capitolò dell’opera il P. mette in comparazione il Sardus Pater con gli esseri supremi dell’Africa e dell’Australia ed assurge in fine a considerazioni e vedute su le origini degli esseri supremi e su l’evoluzione delle credenze religiose che, per quanto accuratamente pensate, non escono dal campo delle ipotesi.
L’essere supremo viene tra le tribù africane invocato a giudice nelle ordalie : ma anche in Sardegna si doveva invocare il Sardus Pater, cui certamente erano dedicati i templi, come quello di Santa Vittoria, nei quali era custodita la sacra acqua. L'essere supremo è concepito in Africa come il cielo, datore di piogge, ed ugualmente doveva avvenire in Sardegna, dal momento che « homo Sardus opem plurimam de imbrido caelo habet», come afferma Solino IV, 5.
Se poi dall’Africa passiamo in Australia si trova che gli esseri supremi (chiamati con vario nome presso le varie tribù: Nurrundere, Nurelli, Bungil, Mungangàua, Daramulun) si presentano come signori del cielo, unici, patrocinatori della vita morale, padri della loro gente; così come Sardus è il padre per eccellenza e scopre mediante il rito ordalico dell'acqua lo spergiuro e lo punisce.
Quest’essere supremo appare come una personificazione del cielo e quindi una divinità di carattere naturistico; ma oltre questo aspetto uranico ne ha anche un altro che l’A. chiama demiurgico, ossia è concepito come la sublimazione dell’ umanità nei suoi tipi superiori : < quindi è, anzi tutto, un operatore magico, il più possente degli agitatori di forze magiche; e, come tale, è il fattore pressoché universale, il creatore degli uomini e delle cose, l’autore della vita e della morte, il fondatore delle costumanze tribali, l’istitutore delle sacre cerimonie, il legislatore e il demiurgo » (pag. 228). Ed è appunto questo aspetto demiurgico che avvicina l’essere supremo all'uomo sotto la figura dell’eroe inci-vilitore, mentre l’aspetto uranico lo fa dileguare in alto, nella remota regione del cielo in una sfera pallida e inaccessibile. Talora i due aspetti si sdoppiano fino ad aver l’elemento uranico come padre e il demiurgico come figlio. Del
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doppio aspetto dell’essere supremo si può trovare un esempio anche in Sardegna dove accanto all’uranico Sardus Pater sta Jolaos, che è l’aspetto demiurgico del dio, la sua ipostasi mitica ed eroica, ipostasi a cui non è estraneo il fenomeno della morte, che è come il suggello dell’umanità. Infatti muore Daramulun tra gli Australiani, muore Zeus in Creta e Jolaos tra gl’isolani della Sardegna.
Tuttavia il concetto dell’essere supremo non è nato dalla mentalità animistica (quella cioè che ha prestato un culto agli avi divinizzati dopo morte, ma dalla mentalità preanimista, nella quale l’essere supremo è concepito come il rappresentante mitico della storia antichissima della tribù. Ma appunto per questo l’essere supremo non è un dio perchè dio è uno spirito e questi esseri supremi non sono concepiti come spiriti. Quando, poi, nasce l’idea di spirito e viene a fondersi con quella mitica, allora sorge il dio la cui concezione può diventare anche monoteistica, cioè escludere gli altri esseri mitici, se in lui solo avviene la fusione delle due correnti. Cosi è avvenuto in Israele, dice il P. ; ma per i Sardi questo monoteismo non fu mai raggiunto, sebbene adombrato e preannunziato dall'idea primordiale dell’essere supremo.
Quest’ultima elucubrazione non è chiara e non è concludente, perchè dal fatto che la concezione dell’essere supremo sia preanimista, non ne segue che l’essere supremo non abbia per i selvaggi il valore che è incluso nell’epiteto che l’etnologia moderna gli ha applicato e che equivale in sostanza quello di Dio. Del resto, anche all’essere mitico, senza aspettare il sorgere della mentalità animista (come si fa a fissare certi momenti nella Storia dello spirito umano?) può essere stato applicato il concetto di spirito per una spontanea induzione della mentalità primitiva, che lo ha immaginato fornito di quella medesima entità interiore (chiamiamola così) che egli intuiva sottostare ai vari movimenti della sua vita psichica.
Ma il valore dell’opera del P. sta tutto nella parte comparativa e critica, nella parte che veramente rimarrà del suo bello studio su la Sardegna.
Gino Montalbo.
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(Continuazione vedi Bìfychnit, fase, sett.-ott. «9x3) pag. 373'*
in.
URE, sparsa come oggi è, l’opera sua, quando sarà composta a unità dalla nostra devozione, apparirà sintesi del migliore, del vitale pensiero moderno: lo apparirà a tutti, come ai pochi già ora appare.
Certo essa è fuori (lo ripeto) di ogni contestazione del « puro » erudito e del « puro » filosofo; i quali non vedono e non possono vedere di là delle zone di loro specialità e ad ogni modo, óltre le frontiere del dottrinarismo sola
mente culturale, mèta a sè medesimo e troppo spesso privo di ogni contatto con la sfera feconda delle idee (forse non ancora classificabili, è vero) veramente vitali.
E converrà ricordare — ancora — che il Mazzini è tutto e soltanto « nella vita » : come ho, or ora, fugacemente tentato di ricordare.
Nel campo dello stesso pensiero astratto, sua è una prima veduta dei rapporti tra la religione e la filosofia, che oggi gli stessi tecnici più scolastici della filosofia moderna accettano ; quella che è contenuta nella frase seguente : « Vi sono scuole che fondano un perpetuo dissenso tra la religione e la filosofia, senza pur sospettare che la filosofia non accerta mai la caduta d’una credenza, se non a patto di preparar la via ad una nuova credenza e che, generalmente parlando, la vera profonda differenza tra la religione e la filosofia sta in questo, che l’ultima (quando non voglia chiamarsi filosofia lo scetticismo) è la religione delPindividuo, mentre la prima è la filosofia delle moltitudini, dell’umanità collettiva ».
E aggiungeva, nel trentacinque, percorrendo il James, il Vorbout e il Balfour : « Sopra tutte le futili esigenze e le diatribe e le assurdità particolari di che si compone la così detta questione religiosa, v’ha tal cosa la cui virtù è indipendente ed aliena da tutte queste miserie e senza misura più importante pel nostro avvenire, pel nostro stato sociale, per l’incremento della nostra patria. Vogliamo dire il sentimento religioso. Il sentimento religioso è la fonte divina di tutte le credenze che hanno Dio per principio e l’umanità per fine e che sono animate dallo spirito, senza il quale ogni credenza è inerte e infeconda, ogni religione non altro che setta, ogni fede non altro che tradizione, abitudine e pratica esteriore ».
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Il concetto di analogia e di successione delle religioni, della individuazione dei loro principi nei « grandi iniziati » che le annunciano, anche questa concezione esoterica della storia di Edoardo Schurè, è sua, tutta sua, ripetutamente espressa e da lui collegata alla grande tradizione pitagorica della metempsicosi.
Ogni idea religiosa, sintesi di un’epoca, ha avuto la missione etica d’affermare e di manifestare, simbolicamente, uno di questi principi, che viene a costituire poi il fine speciale di un’epoca determinata; per questo «ogni religione trasfonde nell’anima umana una nuova goccia della vita universale » ; ma, compiuta la sua missione, affermato il suo principio, il suo vincolo morale, essa non si trasforma, muore, affidando, per trasformarlo, il principio conquistato alla religione successiva; questa d’altra parte, affermerà con altri simboli, una nuova sintesi, un nuovo principio religioso. Due elementi costituiscono dunque una religione : l’uno esteriore, manifestantesi nei riti e nelle forme, proprio dei tempi in cui la religione ha vita e destinato a cadere; l’altro fondamentale ed è il principio etico che ne costituisce l’essenza ed è destinato ad eternarsi, trasformato nei secoli. E l’evoluzione pure è duplice : affermazione da una parte d’un nuovo principio, trasformazione dall’altra del principio affermato dalla religione anteriore.
E, rivolto ai giovani, concludeva: « A voi, giovani, io intendo parlare oggi della questione religiosa in base ad ogni altra; studiatela, è debito vostro, non nei frizzi più o meno arguti dei francesi di cent’anni addietro o in un frammento di scienza che non oltrepassa una sola serie d’effetti più o meno esattamente osservati ; ma nella filosofìa della storia che quei francesi ignoravano e che sóla può additarvi nel suo svolgimento pratico la legge della vita».
Religione dell’umanità di oggi e di domani sia quella del Dovere, sia quella dell’Amore .(Le due parole sono sinonime pel Mazzini; e vedremo fra poche linee il perchè di questa analogia).
E con questo principio — osserva il Della Seta — non intendeva solo sintetizzare la trasformazione religiosa futura, ma additare anche il cammino su cui avviarsi verso questa trasformazione. Tenendo conto, in altri termini, della situazione religiosa dei suoi tempi, egli predicava, come prima e vera realizzazione della legge d’amore per l’umanità, la tolleranza religiosa, la libertà di coscienza.
E di questo «grande principio», come egli lo chiama (ricollegandosi così al nostro Socino che ne fu il vero precursore) fu il più strenuo e ardente apostolo il Mazzini, non solo, nel senso strettamente giuridico e politico della parola, cioè come libertà di culto ampiamente riconosciuta e concessa dallo Stato, ma come ideale vagheggiamento di una società in cui l'individuò, al di fuori e ai di sopra delle libertà sancite e garantite dalle leggi, cesserà, per un più evoluto stadio della sua educazione, per voce intima della coscienza, dal non considerare in ogni uomo un fratello sol perchè professante un culto e una credenza diversa.
Tale nuovo ideale, conclude, non sarà intollerante, nè infallibile, Non infallibile; e per questo, ripete ancora una volta, proclamerà santa l'eresia, come pegno d’evoluzione religiosa e come riconoscimento della libertà e della personalità umana. Non intollerante; e per questo proclamerà la coscienza inviolabile e, ridotta ta guerra al campo puro delle idee, riconoscerà che le « credenze religiose, se false o consunte, non possono combattersi se non con tollerante e pacifico apostolato ».
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Il «dovere», 1’ «amore» — adunque — a base del sentimento religioso. E’ del pari questa la conclusione della più recente indagine filosofica.
Il Boutroux nel suo libro su La scienza e la religione nella filosofia contem-poranea, scrive così : « Se noi ci chiediamo come si affermi la fede su cui si basa necessariamente ogni azione cosciente, noi vediamo che essa posa, consapevolmente o no, su l’idea del dovere». Il dovere è una fede, la fede per eccellenza ; non ha scopi fuori di se stesso e del suo incorruttibile disinteresse. È la ragione sente potente un’affinità per lui : si direbbe esso il punto d’unione della ragione e della fede. E la mèta che la mente pone come base, come espressione del dovere è necessariamente la più alta, la più perfetta che sia possibile concepire, è una mèta ideale.
E’ così che all’idea di «dovere» si sposa l’idea di «amore», dell'amore che non giudica, non discrimina, non condanna (espressioni incertissime e spesso viziose dell'imperfetto raziocinio) ma aiuta, comprende, ma dà solo e sempre, e nulla chiede.
IV.
Infaticata fu la battaglia del Mazzini contro il materialismo, pianta estranea alla cultura italiana.
Nel cinquantuno scriveva: « Il materialismo non fu mai frutto spontaneo della nostra terra. E’ carattere predominante dell’intelletto italiano — e la storia più severamente interrogata lo proverà — la perenne tendenza ad armonizzare ciò che ora chiamiamo sintesi e analisi, teoria e pratica e dovremmo chiamare cielo e terra. La mente italiana è naturalmente religiosa, naturalmente adoratrice àe\V ideale \ ma sospinta da non so quale ingenito istinto, tende a tradurre in fatti quante parti può di quell’ideale nelle cose terrestri e a far sì che ogni pensiero diventi azione ».
E già quattordici anni prima aveva sentenziato : « I lavori filosofici non rivelano attività. Come gli studi filosofici si rimangano tuttavia addietro in Italia è chiaro non foss’àltro dalla esagerata importanza data a uomini dotati senza dubbio di mente e dottrina, ma non di vera filosofia, come Galoppi, Rosmini e Romagnosi medesimo, per ciò almeno che riguarda le sue idee sulla filosofia della storia. Io non ho qui lo spazio necessario all’esame di quegli scrittori e delle condizioni della filosofia in Italia ; ma dico che l’intelletto italiano non è ancora abbastanza emancipato dall’ influenza degli autori francesi del secolo xvm. La metafisica della scuola di Voltaire, la filosofia, più o meno travestita, dei sensi, regnano tra noi tuttavia trionfanti, nel principio come nel metodo. E s’anche il principio fondamentale è respinto, il metodo delle applicazioni pratiche, lo spirito d'esclusiva analisi, l’abitudine di guardare alle parti, non all’insieme, l'individualismo, la tendenza allo scetticismo, l’arroganza, l’ironia e tutte le condizioni tradizionali di quella scuola rimangono immedesimate dagli uomini che s’occupano in Italia di filosofia... Il principio filosofico di Romagnosi s’accosta alla dottrina dell’Hobbes. Noi gli dobbiamo un riassunto mirabile delle idee e delle discussioni del secolo xvm, ma non una nuova via aperta all’intelletto italiano o la fondazione d’una scuola dell'avvenire. La filosofia italiana non pertanto si
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rimane finora inerte, adoratrice muta di Romagnosi e la sua influenza minaccia d’essere funesta ai giovani».
E già, prima ancora, dal trentaduè, aveva ammonito (nelle prime istruzioni della «Giovane Italia»). «Noi dobbiamo tendere a rannodare la tradizione filosofica italiana, tradizione di sintesi e di spiritualismo ».
Sulle nostre tradizioni filosofiche egli anzi aveva (i) raccolto largo materiale, che poi le vicende dei tempi, al solito, non gli permisero riordinare, onde poter più tardi, come desiderava, dettar su di esse uno Studio organico e ponderato; talune sue lettere appunto (1836) ci rivelano l’ansia con la quale da Londra seguiva le ricerche che taluni, per suo conto, facevano in Italia, onde raccogliere materiali per una vita di Bruno; per la vita, insisteva, perchè, per quanto riguarda la sua filosofia, il suo merito o il suo demerito, chi scrive ha le sue idèe.
Questo mancato saggio d'interpretazione mazziniana del pensiero bruniano è davvero una grave perdita per la storia della nostra filosofia!
Ma, con questo proclamato necessario ritorno all'idealismo dei nostri padri, non è a credere che, quasi apostolo, come il Gioberti, della italianità assoluta in filosofia, il Mazzini, obliando la necessità storica, intendesse ridurre la nostra filosofia ad una pedissequa riesumazione di quella della rinascenza, nè tanto meno, con un gretto spirito nazionalista, chiuderla in sè stessa, sottrarla a qualsiasi influenza e isolarla da tutto il movimento del pensiero europeo ; che se la filosofia, aveva detto, non può esistere senza tradizione, aveva pur bene osservato che un’attività cosi universale, come la filosofia, non può davvero rigidamente ridursi entro i limiti di una sola nazione; onde, nel poco fiorente stato cui s’erano ridotti, per speciali condizioni politiche, gli studi filosofici tra noi, non mancò dall’ammonire che la nuova filosofia doveva non solo continuare, ampliandola e migliorandola, la scuola di Bruno, Telesio e Campanella, doveva non solo « andare oltre rivendicando coi nostri sommi del secolo XV1 le origini di quella filosofia che l’epoca invoca», ma, per risorgere veramente, prima di retrocere a quella scuola, doveva fortificarsi con l’esame « dei lavori sintetici tentati altrove », doveva allargare la sfera delle sue osservazioni « e lo studio delle manifestazioni filosofiche dell'epoca».
« Le vostre Università — scriveva, nel 1856, nell’appello di giovani delle Università d'Italia — diffusero istitutori e scienza a tutti i popoli; le vostre scuole filosofiche cacciarono fin dal XVII secolo i germi, purtroppo inavvertiti tra noi, delle dottrine che diedero e danno lustro alle scuole francesi e tedesche ».
« Badate — tornava ad ammonire ai giovani, nel 1871 — le più fra quelle idee, se non tutte, che vi si affacciano oggi pomposamente da terre straniere, stanno da lungo registrate nelle pagine d’uomini nostri, che scrissero d’antico o in tempi recenti per voi. Ora voi ch’escite dal silenzio di tre lunghi secoli di servaggio e siete tuttora sviati nel vostro sorgere da chi s’impadronì del vostro moto a falsarne il carattere, avete bisogno e obbligo d’affermare i concetti che sono vostri, di ricordare ai popoli ciò che pensaste e operaste da per voi stessi, di non mostrarvi servili copisti, perchè i popoli non vi disprezzino incapaci ed inutili». E più d’una volta, specificando meglio il suo concetto — più d’una
(1) Della Seta, pag. 379-80.
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volta ricordava egli il Vico, che « ben più di cent' anni le baie erudite la inerzia degli animi dannarono all’oblìo; ed ora molti libri commentano i principi di Scienza nuova, molto teoriche sono sviluppo d’alcune idee ch’egli seminava oscuramente, al solito, nè’ suoi scritti » ; molte idee, ripeteva, « non sono esclusivamente francesi, sono europee; uscirono dalla filosofia della storia, i germi della quale. Cacciati dal nostro Vico, ebbero fecondazione, segnatamente, dai pensatori germanici ».
Onde, per tutta la sua vita, quella sua febbre ardente nell’ incitare i giovani ad afferrare « sulle tombe dei nostri grandi la bandiera dello spirito, la bandiera sollevata dall'Alighieri, da Bruno, da Vico », ripulendola « della polvere che copre fossa di quei primi padri citati sempre e sempre fraintesi » e levandola « in alto, raggiante di luce novella e d’una fede italiana » : di qui quel suo continuo invocare « una scuola italiana che dimostri ai giovani che sia il razionalismo e la scienza, che richiami la filosofia alla sua vera base, che tutto non riduca a fredda analisi, che redima !Intuizione-»', di qui, pure esplicandola storicamente come una filosofia inevitabile in ogni epoca di crisi e di transazione, ma severamente considerandola come «una tristissima irruzione di barbari del pensiero», quella sua guerra accanita, inesorabile, negli ultimi anni di vita, e ad impedirne il dilagare in Italia, contro il nudo materialismo allora imperante del Vogt, del Büchner è del Moleschott.
Una scuola italiana che redima l'intuizione, era questo il suo pensiero forse più assiduo. Non ebbe egli a scrivere infinite volte in italiano e in inglese, che « tutte le grandi scoperte derivano dall’intuizione » e che «il controllo della ragione serve solo a verificare e completare l’opera dell’intuizione» divinatrice?
Il materialismo non riconosceva che l’analisi, l’analisi isolata ed esclusiva ed egli si pone ad esaltare la sintesi, non soltanto, essa, quale risultato ultimo dell'analisi, quale unica e vera forma filosofica e scientifica di conoscenza, ma — quella che nella logica, si chiama sintesi primitiva — quale guida alla stessa analisi attraverso la molteplicità e la diversità dei fatti; quale intellettiva percezione di un oggetto, conosciuto appunto, prima di analizzarlo, come idea, unitariamente, nel suo tutto;
« La sintesi, facoltà ingenita, suprema dell’anima umana, illumina dall’alto la via all’analisi, che senz’essa brancolerebbe a tentoni, incerta e impotente, per entro a un labirinto di fatti, molteplici d’aspetto e significato, a seconda della loro relazione con altri fatti ».
In conclusione — a due, in armonica sintesi, possono essere ridotti, secondo Mazzini, i fattori della conoscenza; l'uno, il fattore naturale, sperimentale, dato dai sensi, dalla osservazione, dalla esperienza; l'altro, il fattore intellettuale e razionale, dato dall'intuizione, dall’ ipotesi, dalla sintesi.
Straniente dato alla vita per la ricerca progressiva del Vero è !ispirazione della coscienza, illuminata dall'osservazione.
Il germe di dottrine modernissime, quali 1’« intuizionismo » del Bergson, e il « sublimale » del Myers è, così, già tutto nella dottrina mazziniana dell’ intuizione e del genio : e uno studente di lettere che voglia dedicarsi a questo tema (invece che al solito petrarchista del Cinquecento) potrà dimostrarlo a pieno.
E, nota benessimo il Della Seta, se gli spiriti dei grandi pensatori potes-
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sero intimamente gioire delle postume diffusioni e affermazinni delle loro dottrine, grande davvero dovrebbe essere oggi la esultanza del Mazzini, non tanto per la concezione storica e diremmo quasi dinamica che la nuova filosofia religiosa è venuta sempre più dando della Divinità (è noto che il Dio di Renouvier è un Dio vivente, un Dio che s’inserisce nei Divenire, allo stesso modo che Bergson nella Evolution Créatrice, ha potuto scrivere che « Dieu, ainsi défini, n’a rien de tout fait, il est vie incessante, action, liberté >) quanto per l’inatteso risorgere, col l’accresciuto valore conferito alla personalità umana, del problema dello spirito.
La psicologia moderna certo supera il mazzinianismo, in quanto con la neutralità agnostica propria della scienza, sente di non poter dare sull’alto problema la parola decisiva e definitiva ; in quanto viene a riconoscere, col Chiap-pelli, che « l'esperienza finita non può decidere per l'infinito», che «non c’è dato decifrare la grande incognita perchè non possediamo tutti i termini dell'equazione » ; però essa rientra nel mazzinianismo quando, sia pure sotto nuove forme — come sopravvivenza della nostra coscienza individuale o come sopravvivenza della parte sub-cosciente della nostra psiche, quello che il Myers, il James, l'Eisler chiamano sublimino! self— la fede nella immortalità deduce dalla scienza stessa, che da una parte spiega la immortalità come una delle forme del senso indistruttibile dell’ Infinito e dell’ Ignoto e dall’altra, come corollario logico, come un caso particolare della grande legge cosmica della evoluzione universa e ascendente verso una progressiva individuazione, come riprova insomma delle infinite leggi che, pur nel campo fisico, chimico e biologico, ci dicono che tutto si trasforma, che nulla può essere creato, distrutto e annichilato nella vita.
Se nulla si distrugge, torniamo oggi a domandarci col Mazzini, perchè dovrebbe perdersi la coscienza individuale, « il fiore più eccelso della vita? ».
Siamo di nuovo sulla soglia del pensiero religioso del Maestro: ed è nelle regioni dell'azione che esso si fonde con quello filosofico come a iniziarne l’auspicata unità finale. Ed anche in ciò precorritore.
E che dire (i) aggiungerò con il Della Seta, di quella eterna evoluzione della vita, di quello spirito di moto progressivo che affatica il creato, di cui, sin dal 1833» parlava il Mazzini?
Il concetto dell’evoluzione, va oggi subendo anch’esso una crisi ; le Classiche dottrine del Darwin e dello Spencer — a cui i naturalisti, sino a poco tempo fa, quasi unicamente, feticisticamente, aderivano e che tendevano a generalizzare per l’universa realtà una legge biologica oggi — scòsse nelle loro basi, volgono quasi al tramonto ; e se non tutti sono disposti razionalisticamente ad ammettere, con l'Ardigò, che il tipo a cui ubbidisce la universa realtà è lo sviluppo del pensiero, pochissimi però sono quelli disposti a non riconoscere ciò che dell’evoluzione creatrice del Bergson costituisce il principio fondamentale, cioè che la vita è per se stessa movimento, svilupppo; che aleggia nel cosmos come pure è venuto ad ammettere il Flammarion, un elemento dinamico, invisibile e imponderabile; e che questa stessa legge di trasformazione infinita è una riprova della concezione mazziniana dell’universo.
(1) Per ciò che riguarda il «principio d’associazione», il Maiorana ha definitogli scritti del Mazzini «meravigliosamente intuitori di dottrine future».
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E ricordiamo che è dato ritrovare in Mazzini ciò che della vita universa è oggi riconosciuta come legge suprema: l’intelletto scientifico — scriveva nel 1855 — non conosce morte, ma solamente trasformazioni.
E, per quanto riguarda il particolare problema del metodo — neppure nuovissima, in verità, ma tutta mazziniana, o meglio, propria di quella orientazione speculativa di cui Mazzini fu uno dei massimi rappresentanti, è la odierna tendenza critica ad armonizzare, in una sintesi feconda, i fattori idealistici a quelli realistici della conoscenza.
Non solo la necessità logica e psicologica di cercare, con un processo deduttivo, nella costituzione della mente la ragione dei fatti è oggi unanimamente riconosciuta; non solo sulla esperienza, sempre dato incrollabile e incontestabile di ricerca, viene pure oggi ammessa la influenza che, come guida, viene ad esercitare il fattore soggettivo, l’attività della mente; ma, sovratutto, con un più perfetto senso nella realtà, nella indagine e nella scoperta del vero, vengono oggi assai più valutate quelle che sono le più spontanee tra le energie dello spirito, non escluse, contro l’eccessivo intellettualismo, quelle sentimentali ed immaginative.
Ricordiamo. Di fronte al materialismo dominante e tutto riducente ai sensi, alla osservazione, alla esperienza, Mazzini invocava una nuova scuola filosofica che redimesse l’intuizione ; oggi il valore psicologico e gnoseologico della intuizione è quasi generalmente riconosciuto (Della Seta).
Il Bergson anzi, è noto, non giunge a concepire la filosofia se non come le retour ' conscietit et rèflèchi aux donnèes de l'intuition.
Ricordiamo. Uno dei concetti su cui più insisteva il Mazzini è che ogni scoperta scientifica non si riduce in fondo che ad un'ipotesi verificata; orbene, coll’unanime concorso dei pensatori e degli scienziati dei pili opposti indirizzi filosofici, vero coro concorde di menti mai avuto — il Naville, il Brochard, il Poincaré, il Bernard, in Francia; il Sergi, il Righi, recentemente, tra noi — orbene la rielevazione e la riabilitazione dell’« ipotesi » come a strumento scientifico rispondente ad un bisogno d’economia del pensiero, può ben dirsi uno dei postulati primi della gnoseologia contemporanea.
Giuseppe Mazzini è invero, giova che lo ripetiamo insieme coi poeta amato e pianto, « colui che fu, colui che è, colui che deve venire ».
Muova adunque, ancora e sempre, lo spirito suo, oltre ogni sofisma, oltre ogni meschinità accademica — verso le zone spirituali ancora irredente della rinnovata Italia. Se da Roma — come tu l’hai detto, Maestro — deve sorgere una nuova parola religiosa nel mondo ; il segno della nuova missione questo sarà che la tua vita ha santificato, questo : « Per guida la coscienza, col dovere, verso l’ideale ».
Roma, • Arnaldo Cervesato.
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RELIGIONE E POLITICA
(LETTERE ELETTORALI)
Le recenti elezioni politiche hanno portalo a compimento un fallo che, iniziato nel 1904, si era venuto preparando e svolgendo in un laborioso decennio ; la partecipazione diretta e ufficiale dei cattolici, come tali, e della Chiesa alle elezioni politiche. In 328 collegi, per dichiarazione ufficiate del conte Ottorino Gentiioni, si ? detto ai cattolici: voi dovete votare per questo candidato e vi si vieta di volare per qualunque altro.
A in molti collegi i sacerdoti, per vincere, non hanno sdegnato di ricorrere a metodi ed atti che la coscienza morale riprova e la legge dichiara reati, rivelando uno stalo d’animo e aspirazioni e tendenze che meritano la maggiore attenzione, così dal punto di vista della nostra storia religiosa come da quello dei risultali prossimi e lontani che essi possono avere.
Uno che, per il suo passato e per le sue idee, si è trovalo a sostenere la più aspra e violenta delle battaglie elettorali impegnale direttamente dalla Chiesa e dal clero, con l’oro delle banche c con il veleno delle scomuniche, Romolo Murri, toglie dalle vicende della lotta occasione e motivo per riesaminare, alla luce di questa esperienza novissima, l’anima, gl’intenti ed i melodi della politica clericale italiana: ed il fallo personale non è per lui se non spunto e motivo di un esame che, nel contenuto e nella portala, ha valore altamente impersonale.
/ molti e complessi lati della questione egli esamina in lettere vivaci e nervose. Ne diamo qui alcune, in saggio; le altre, se queste prime interesseranno — e non dubitiamo che interesseranno — i lettori, daremo in seguito. La redazione.
A un sacerdote intransigente.
LI.A, dunque, si è molto occupato di elezioni politiche nell’ultima lotta. E ha vinto. Deve essere stato, i primi giorni, molto contento. E deve aver detto a tutti che era molto contento. Non so se un poco di amaro, non ostante tutto, fosse nella sua bocca, indizio di stomaco, o di animo, cattivo. Qualche volta la coscienza ¿/importuna ed ha i suoi capricci. Si è fatto quello che tutti i confratelli, e con più zelo i più autorevoli,
hanno fatto, si è meritato l’elogio dei superiori maggiori, quelli Che dispongono anche degli avanzamenti, si è detto e ripetuto le mille volte che si agiva per interessi religiosi, per dovere sacerdotale. E pure, forse, la coscienza dal fondo più profóndo solleva una timida protesta, inascoltata ma insistente; lontana, velata, soffocata spesso, ma solo per poco, dal vocìo delle chiacchiere quotidiane, e risorgente sempre, con strana tenacia.
Perchè, dopo tutto...
Perchè, dopo tutto, certe cose non si fanno, certi mezzi non si usano, a certi eccessi non ci si abbandona proprio impunemente. Per quanto l’abitudine sia fatta da tempo, e l’educazione avuta, lo spirito di casta, le preoccupazioni, le passioni, le ambizioni entro le quali e in mezzo alle quali si vive abbiano
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RELIGIONE E POLITICA
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quasi creato una seconda coscienza, molto ecclesiastica o sacerdotale, l’altra, la coscienza puramente umana, quella che è data a tutti gli uomini i quali abbiano raggiunto un certo grado di dominio di sè e di critica, non cede il campo del tutto; e se è in conflitto latente con quella prima, se ha il suo Dio — un altro Dio —, la sua legge morale, il suo senso dei fini e delle responsabilità, le sue sanzioni, non si lascia intieramente soffocare.
Io la conosco un poco, quest’altra coscienza. Conosco la sua, quella de’ suoi confratelli, quella di tutti, perchè tutti l’hanno e in tutti è la stessa; più o meno chiara, spesso quasi oscura, più o meno ascoltata, spesso non ascoltata mai, ma insomma e non ostante tutto viva e parlante. A quella io scrivo; anzi, in nome di quella le parlo. Non sono quindi un intruso ; se ci riflette, vedrà anzi che l’intruso, in casa sua, è piuttosto lei; lei, l’uomo del seminario, della casta, della vita professionale, ed, ora, della lotta politica, che si è sovrapposto a queiraltro, al vero padrone di casa, e l’ha cacciato nei nascondigli e obbligato a tacere... almeno dinanzi agli altri. Ma non può ucciderlo, nè farlo tacere intieramente.
Io la conosco, quest’altra coscienza, perchè io l’ho seguita.
Sono stato per più di venti anni — per tutto il periodo della mia educazione e molto tempo anche dopo — nelle mani di quelli che volevano foggiarmene un’altra a loro piacimento, eguale alla loro, li ascoltavo, li obbedivo, li seguivo, desideravo di compiacerli ; eppure non l'ho tradita.
Forse era in me più robusta che in altri uomini, non so. Lo penso, non per farmene vanto, ma perchè so che non ho mai potuto agire diversamente. Vivevo molto con me stesso, ero ritroso e, quando parole od atti degli uomini mi dispiacevano e mi offendevano, mi ritiravo in me stesso ed opponevo la chiusa protesta della mia vita interiore. E guardavo avanti aspettando e sperando che nella Chiesa — per tutto quello che me ne dicevano di bello e di buono — avrei trovato finalmente uomini e tempi fra i quali e nei quali mi fosse stato possibile vivere il mio sogno, seguire la mia vocazione, non io solo, ma con tutti quelli che sapevo legati con me a uno stesso servizio, il Servizio della verità e del bene.
Ma tempi ed uomini invocati non vennero. Ed anzi, via via che procedevo nella Chiesa, fra voi, sentivo maggiore il disgusto di tante cose, vedevo maggiori le resistenze contro quella che era la ragione e il pregio del mio sacerdozio ; ed andavo innanzi e non cedevo dentro di me, pur adattandomi e cedendo spesso nei particolari, e speravo disperatamente. Finché, crescendo il dissidio e crescendo le vostre esigenze e divenendo sempre più difficile attendere e pazientare e rinviare e trovare degli adattamenti, voi mi spingeste a un punto nel quale mi fu necessario scegliere fra quella mia coscienza e l’altra che volevate impormi, fra il mio Dio e il vostro.
E scelsi. Scelsi il vostro odio, la vostra condanna, le vostre scomuniche, la persecuzione vostra, che mi sarebbe oramai stata implacabile alle calcagna, contro la quale — tanto forte essa è e tanti alleati ha anche là dove non avrebbe dovuto averne — non so più che cosa mi sarà possibile salvare. Ma salverò, siatene sicuri, essa, la mia coscienza, l’anima mia. Che vale all’uomo se guadagni tutto il mpndo e perda la sua coscienza?
Ecco dunque chi scrive, a chi scrive. E solo per farvi intendere questo ho fatto là breve digressione personale.
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Avete vinto, dunque. Ma nella lotta, quando si è dato ad essa tutto il pròprio consenso e fervore, spesso si è trascinati e si va più lontano di quello che si vorrebbe.
Si va, per esempio, alla menzogna. Avete detto e ripetuto che chi votava per il candidato scomunicato dal papa era scomunicato a sua volta; avete minacciato l’inferno, l’ira di Dio, le disgrazie temporali, la negazione dell’assoluzione e degli altri sei sacramenti; avete così sparso il terrore per tutte le campagne, sollevato contro colui che volevate far cadere la coscienza ignara e superstiziosa dei poveri contadini di tutto un collegio ; minacciato di rigettar da voi, dai vostri altari, dalle vostre chiese popolazioni intiere; costretto degli umili contadini che possedevano dalla nascita, ereditata dai padri e dagli avi dei padri e degli avi, la loro ingenua fede cattolica, a riscattarla, a riconquistarsene il diritto con la scheda che voi volevate deposta nell’urna. Li avete scossi, turbati, disorientati, fatti tremare e piangere perchè servissero alla vostra vendetta.
Ora, non vi sembra di essere andati... un poco troppo oltre?
La legge è severa, direte. Chi vota per uno scomunicato è scomunicato. Ma non sapete che, secondo il vostro stesso diritto canonico, questo è falso? Che solo il contatto e il commercio in cose spirituali e religiose con lo scomunicato — in divinis — è un contagio che moltiplica gli anatèmi ? E voi non potevate, così senz'altro, per il solo comodo dei vostri odi, convertire un atto essenzialmente politico, il voto per un candidato politico, in commercio religioso con l’apostata. La confusione è sovvertitrice di ogni sana distinzione di uffici e di poteri nella vita, è, religiosamente, anarchica.
E poi, quanti scomunicati, dacché questa Italia si cominciò a costituire a dispetto vostro e della Santa Sede, non si sono presentati a chiedere il suffragio degli elettori? Avete mai fatto il conto? Ne avete segnalato nessuno? La Chiesa è larga di scomuniche, specie da quando esse significano più così poco, almeno civilmente ; e anche oggi, applicando leggi non antiche e non mai revocate, molti dovrebbero essere gli scomunicati, a cominciare dai ministri del re. Ed .invece vi siete oramai riconciliati persino con i liberali, oggetto di così lunghi vostri odi; e questo vostro sacro furore di scomunica è solo rivolto contro un uomo la cui presenza vi infastidisce, lo so, singolarmente.
Volete difendervi da lui per ciò che egli vuole, contro di voi? Ma in che còsa, sotto questo aspetto, è egli peggiore di tanti altri anticlericali i quali, anche se non fanno molto sul serio alla Camera, combattono tuttavia apertamente e radicalmente il vostro privilegio, i vostri pretesi diritti, la religione stessa che rappresentate? Voi sapete, anzi, in che cosa egli differisce dagli altri.
Non è, come essi, nè antireligioso, nè irreligioso. Chiede la libertà religiosa per tutti, e anche per voi. Rispetta il cattolicismo e vuole solo che esso si abitui a vivere nelle libertà: libertà di ricerca, di critica, di dibattiti, di esistenza civile, di azione. Rispetta, innanzi tutto, la fede religiosa del popolo italiano e chiede che non si attenti ad essa con tutte le indegne speculazioni economiche e politiche che vi fonda su il clericalismo. Proponeva, persino, che ai parroci poveri si aumentassero ancora, e notevolmente, le congrue, a spese — è vero — dei benefici maggiori, troppi e spesso inutili e spesso lussuosi, i quali non so perchè lo Stato debba ancora riconoscere, per gli effetti economici e civili che dipendono ancóra dal suo riconoscimento.
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Vi rimprovera, non di sostenere la vostra religione, ma del combatterla e rovinarla voi stessi, come fate, confondendola con le parti politiche, addossandole interessi e speculazioni estranee, sollevandole contro il formidabile cozzo di altri interessi economici e sociali, di tutto l’ineluttabile moto della democrazia.
Per questo stesso, forse, voi sentite che la sua opposizione è più pericolosa. Ma riconoscete, allora, che essa è pericolosa per voi, per la vostra casta, per il vostro dominio politico, che difendete ancora e che volete ricuperare, non per la religione in sé stessa. E tanto più vergognatevi, quindi, di far della lotta contro di lui una lotta eminentemente religiosa, di mettervi di mezzo la salute delle anime, i sacramenti, il crocifisso, tutte le cose sacre.
O combattete l’uomo perchè egli fu prete, per il suo passato, perchè si è staccato da voi e si permette di vivere senza di voi e di riconquistare i suoi imprescrittibili diritti umani e civili e di farne uso contro il vostro beneplacito ?
Questa, in fondo, è la sola ragione vera, e non così occulta che non l’abbiate confessata, della vostra lotta; non volete che il prete spretato, scomunicato, ammogliato possa andare al Parlamento. Vi è intollerabile il fatto che dove fu stampato il marchio del servizio ecclesiastico passi la libertà civile a cancellarne le traccie; che chi fu della Chiesa le sfugga e si permetta di vivere senza tener conto del suo incessante richiamo — ipocriti! — e della sua implacabile persecuzione.
E questo è il vostro torto maggiore. Poiché dove le armi spirituali vi son diventate in mano insufficienti ed innocue, voi cercate di munirvi di altre armi e scendete, preti camuffati da cittadini, nel campo delle lotte civili, e fate del voto una continuazione della scomunica e, per aver dalla vostra gli ignari, 1' ingannate e ne turbate le coscienze, e minacciate di chiudere ad essi sul viso le vostre chiese, anche a costo di veder molti di essi rimanersene fuori disgustati e di dover domani, mentendo alle vostre minaccie, riaccettar tranquillamente gli altri che non vi hanno obbedito, per non assottigliar di troppo la vostra clientela.
Ma poi, comunque vogliate giustificare il vostro odio, non ci sono dei limiti ai mézzi di offesa? La legge civile, la quale pure vi garantisce una posizione di privilegio e una vita di ozio e prebende spesso laute, non vi pone anche dei doveri ? E non commina multe e carcere a chi eserciti pressioni spirituali sugli elettori, per un candidato o contro l’altro?
Pensate, forse, e forse non a torto, di poter ridervi oggi della legge, perchè sapete che non sarà fatta applicare, perchè il conte Gentiioni ha avuti lunghi e frequenti colloqui con il capo gabinetto del ministro degli interni. Ma vi basta questo? Vi basta poter peccare impunemente, per peccare?
E c’è l’altra legge, quella che pure dovreste conoscere un poco e Che vi vieta di odiare, di mentire, di calunniare, di dir testimonianza falsa, di desiderare e di fare il male del prossimo? Mi pare che il Vangelo qualche cosa di simile dica. È abrogato il Vangelo? Può darsi. Certo è un librò formidabilmente anticlericale, e Pio X ha fatto a ragione sopprimere una versione ed edizione popolarissima che il suo antecessore, distratto, aveva permesso e lodato.
Siete andati tanto oltre nella disinvoltura che tutto questo male voi lo commettete tranquillamente, per zelo religioso, nel nome di Dio; e il crocifisso vi diviene galoppino elettorale, mezzano di corruzione, garante di illegalità.
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Ecco perchè, non potendo più parlare a voi nè di Dio, nè di crocifisso, nè di Vangelo, io appellavo incominciando, non alla vostra coscienza di sacerdoti, nella quale ogni cosa sacra è profanata e adulterata, ma a quell'altra coscienza, alla voce del Dio immanente che è stato anche lui scomunicato da Pio X, ma che, ciò non ostante, non riuscite e non riuscirete mai a togliervi di dosso.
Fra tante scomuniche, questa tocca voi e vi coglie nel più vivo e crea ih voi una ferita che andrà sanguinando eternamente ; la vostra umanità incatenata e conculcata, avvilita in una servitù totale ed eterna, costretta alla rinunzia e al rinnegamento di sè, vi accompagna e vi parla e protesta.
E forse anche nei vostri odii vittoriosi c’è il livore impotente dello schiavo che sente il peso delle sue catene ed odia l’uomo che è riuscito a spezzarle ed a farsi libero.
Miserabili, passate...
Ad un repubblicano.
Dunque lei, avvocato, lei positivista, materialista, ateo, scettico in materia di religione, volendo combattere un avversario politico al quale capita di essere stato prete, e combatterlo perchè non è antilibico e antimonarchico e antiministeriale, e volendo, con la serena oggettività che è oggi così in onore nella democrazia specialmente estremissima, travisare il suo pensiero, malignare sulle sue intenzioni, esporlo, se le riesce, al dileggio di quelli che vuol guadagnare alla sua causa repubblicana, trova comodo e pratico rimproverare per mille vie all’avversario il suo passato.
O divide il pregiudizio popolare contro coloro che essendosi comunque trovati, per vicende personali non dipendenti dalla loro libera volontà, a servire la Chiesa cattolica romana ed avendo fatto la dolorosa esperienza personale della menzogna ecclesiastica, si liberano e rientrano nel campo dei liberi, o, non dividendolo, ne profitta per comodità polemica.
Forse la scelta le è difficile. Forse, ed è la spiegazione più vantaggiosa per lei, ella non aveva riflettuto ed aveva seguito la corrente così, sbadatamente.
Come fanno, e qui alla malvagità si accoppia il ridicolo, quegli altri i quali, mettendosi a servizio dei preti o intendendosi con essi, e accettandone i favori ed i voti, se poi si trovano a combattere, per far piacere ad essi, l’avversario che fu prete, mettono spontàneamente e allegramente in ridicolo, non lui, ma il sacerdozio stesso al quale egli un tempo partecipò ; e dicono « prete » con molto dispregio e parlano di « tonaca svolazzante » e di « gesuitismo » e di altri simili emblemi o vizi ecclesiastici, non accorgendosi di far torto, innanzi tutto e direttamente, a quelli stessi che vogliono ingraziarsi e difendere, ed onore a quello il quale, avendo avuto che fare con tali cose, se ne è liberato e salvato.
Ma lasciamo il clericale che, a ogni modo, è molto minore di lei e tenuto per professione all’ipocrisia e a tutti gli inconvenienti che ne provengono: a questo, fra gli altri, comicissimo, di mettere a servizio dei preti il disprezzo dei preti e di tutto ciò che li riguarda; e torniamo a lei.
La società nostra è ancora, in fondo, terribilmente ecclesiastica e romana. Noi non abbiamo in Italia che gli estremi, la superstizione clericale e l’indiffe-
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renza scettica, e gli estremi si toccano, come dice da tempo il proverbio; si toccano tanto che, qualche volta, combaciano. Chi lascia la religione cattolica e non sostituisce a questa un’altra religione più intima e più pura, chi non esce dal cattolicismo per salire, in uno sforzo personale di conquista dei motivi ideali del vivere, diventa ateo e rimane cattolico, diventa Voltaire e rimane Tartufo, diventa Robespierre e rimane Torquemada. Perchè egli crede di aver fatto tutto gettando via i domìni, senza sostituire un’altra fede viva, e nel posto lasciato vacante rientrano il pregiudizio e la superstizione che sono per tutto intorno.
Aveva subito un processo di corruzione morale che investiva tutta la sua coscienza ; stacca la parte morta, la fede religiosa, ma il resto riman corrotto come prima, perchè manca un processo di ricostruzione e di rinascente sanità dall’ interno.
E in Italia, nella mia e sua Italia, avvocato, la Chiesa di Roma aveva talmente ingombrato e sopraffatto e mistificato le coscienze, si era talmente imposta ed è stata con processo, anzi con spezzamento così brusco sostituita dalla incredulità, l’incredulità facilona e beffarda di ehi ha trovato il terreno sgombro, che assai pochi sono, e non hanno importanza sulla massa, gli individui i quali abbiano una storia religiosa propria; storia di dubbiò e di dilacerazione interiore, e di crisi, e di senso pauroso del vuoto, e di inquietudini ansiose, e di lenta riconquista e di gioioso possesso. E tutto quello che è sforzo interiore per la riconquista e il possesso di una fede personale è ignoto ai più.
E perciò avviene che nella storia di chi fu nella Chiesa e ne esce e ne affronta la collera e si libera non si vegga o non si cerchi di indovinare e di rispettare lo sforzo onesto e generoso, e doloroso spesso, di una coscienza che si redime e si libera e si costruisce una fede e si rifà a grande fatica una vita ; ma si vegga solo la cronaca esteriore, circondata di pettegolezzo malvagio, di mutamenti di veste e di professione.
E la curia di Roma, vede, avvocato, ha talmente desiderio e bisogno di rendere quanto più difficile si possa la via ai temerari i quali osano abbandonarla che mette in questo tutte le sue arti. Chi le appartiene, deve appartenerle tutto e per sempre \ chi le sfugge deve pagare talmente cara la sua audacia da essere monito perenne a quegli altri i quali meditassero un proposito simile.
Bene accetta, quindi, a Pio X e ai suoi gesuiti è la collaborazione dei « liberali » — in quale campo oramai non collaborano?—. Spargiamo di diffidenza e di scherno la via dell’ex-prete. Ricordiamogli il suo passato; facciamo che lo ricordi sempre egli stesso, quel passato che ha voluto lasciare dietro di sè.
In paesi più civili il ridicolo colpirebbe —- non forse lo scherno, perchè i paesi più civili son meno capaci di scherno — chi volesse così farsi paladino di un volgare pregiudizio medioevale e rimproverare a Martin Lutero, se non il suo magnifico sdegno contro i papi, la moglie e la numerosa figliuolanza; quei paesi sono anche accostumati al « reverendo » pastore che ha la sua famiglia rispettata; ed è forse per questo che hanno della donna e dell’amore una concezione meno pagana e più severa.
Da noi — beato paese — il liberale esalta l'antimodernismo di Pio X, il repubblicano mazziniano grida: dagli all’ex-prete, il prefetto fa l’agente provocatore perchè sieno rispettati i decreti del vescovo, il ministro laico si fa ribat-
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tezzare dal prete al fonte elettorale, l’ateo è clericale. Ne è meraviglia, perchè, grattando bene l’ateo e il clericale, si trova che la distinzione non regge: son tutti atei e tutti clericali.
A rivederla, reverendissimo avvocato repubblicano.
A un deputato, cattolico.
Sei dei pochissimi, amici e compagni di lavoro di un giorno, che non torcono il viso quando m’incontrano ; è nei saluti, passando. A te posso dunque parlare, cosi da lontano.
Seguo le vostre vicende e peripezie ; l’abilità infinita che vi è necessaria per non lasciarvi prendere e coinvolgere nelle assurdità della politica pontificia ed insieme non staccarvi dal clero, contro il quale e senza del quale verrebbe a mancarvi ogni base elettorale fuori delle grandi città. Ammiro e compiango le audacie, le reticenze, le incertezze, le contradizioni dei vostri giornali, l’equilibrio instabilissimo delle vostre dichiarazioni, le mosse rischiose seguite dalle ritirate prudenti. Apprezzo il vostro programma di cristianesimo civile e leggo nei vostri silenzi la critica delle pazzesche pretese della stampa « papale » che vi combatte.
Ma, in sostanza, non riesco a mettere in tutta questa storia, che andate tessendo con così paziente tenacia e fra tante difficoltà, un grande interesse. Perchè tutto questo, a parte i piccoli dettagli dell’attualità, lo conosco, lo so già da tempo, è passato, è ricordo di altri giorni, per me. La critica del loro procace clericalismo, del vostro timido liberalismo, delle intollerabili sovrapposizioni di una politica papale, intimatavi dalle autorità, alia vostra politica di cittadini credenti, io l’ho già fatta, anni addietro, in innumerevoli articoli di riviste e giornali e libri.
Anzi questo passato, che è ancora il vostro presente, uomini di ieri, inceppati e trattenuti dall’autorità del papa e della tradizione, noi lo vivemmo insieme; esso fu storia della mia e della vostra attività, la nostra magnifica battaglia di un tempo. Il processo di revisione, di critica e di autocritica, di superamento di tante cose morte e tristi che il catolicismo gerarchico trascina con sè fu in me più rapido, è in voi più lento ; ma è, in sostanza, lo stesso, dovesse anche esser compiuto solo in tre generazioni, per voi e per i vostri figli, quando per me bastarono io anni.
Pio X ha ragione a tenervi in sospetto, a farvi attaccare tutti i giorni dai suoi giornali, a mettervi in mora e sconfessarvi di quando in quando, con una tal quale delicatezza, perchè siete laici e indipendenti e perchè non tutti i vescovi si prestano volentieri a far dà aguzzini e meno si prestano quelli che oramai sono al sommo della carriera. Vi è venuto mai in mente che egli ha ragione appunto perchè io avevo ragione?
No, certo, poiché voi vi ostinate a pensare che il papa ha torto. E vi ripugna adattarvi all’ idea che egli ha ragione per il solo fatto che è papa. Ed invece qui è tutto il nodo della questione. Egli vi nega il diritto di avere una vostra coscienza, un vostro programma, una vostra azione politica; e voi insistete, pur protestandovi obbedienti. Siete dei modernisti ; cattolici, ma modernisti ; con in più un poco di contraddizione inconscia ed un poco di contraddizione consapevole. E quest'ultima è, perdonami la parola forte, ipocrisia.
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Pio X, tutta l’Italia oramai se ne è avvista e lo sa, preferisce a voi i liberali. E O. Malagodi e E. Marrone e L. Ambrosini e tanti altri gliene sono molto grati ; più gliene sono grati quelli che per la grazia del pontefice e del suo conte O. Gentiioni riescono a conquistare la medaglietta parlamentare.
E si capisce. I liberali lo servono, o servono la sua politica, senza comprometterlo. Prende da essi quel poco o molto che possono' dargli e tutto il resto che egli vuole rimane fuori di discussione. Domani, quando i liberali non gli servissero più, egli può scrivere una enciclica per trattarli da cani rognosi e mandare avanti le falangi dei suoi cacciatori, per la nuova caccia grossa.
Voi lo servite, di certo, ma facendo un poco di testa vostra; e questo è il primo torto che egli non può perdonarvi. Lo servite, inoltre, compromettendo quell’altra parte del suo programma politico che non potete accettare ed anche quello che, accettando, non potete attuare. Poiché, cattolici, voi dovete, per aver credito presso i liberali, smentire le pretese temporalistiche, liberticide ed egeno-miche del papato e l'opera vostra implica in qualche modo la responsabilità della Chiesa.
Per il papato voi siete quindi, evidentemente, pericolosi. Ed ecco perchè esso vi tollera si e no, mentre va gongolante verso i liberali, fossero anche ebrei, vecchi massoni, atei professi e perfin protestanti. Faelli, Luzzatti, Teodori, Gra-bau, questi sono i nuovi cavalieri di S. S.
E c’è una vena di comico in questo. Quando qualcuno dei maggiori giannizzeri del Vaticano ha uno speciale interesse a colpire persone particolarmente detestate dal papa beatissimo, allora, per parare il colpo, questi giannizzeri, anche se non trovano di meglio che un qualche arnese vecchio e logoro del loro clericalismo locale hanno cura di dire : guardate, votiamo per lui, ve lo raccomandiamo, ci facciamo in quattro, mettiamo a sua disposizione il crocifisso e tutti i nostri santissimi sacramenti, perchè non è cattolico, wìw è dei nostri, è un liberale. E dimenticano che « il liberalismo è peccato » e che le libertà sono il diavolo ed essi l’acquasanta. Si che anche la politica vaticana di oggi potrebbe essere riassunta in quella frase celebre: il diavolo nell’acquasantiera.
Ed è strano che tu e i tuoi amici non vi avvediate di un’altra cosa, benché V Unità Cattolica e tutta la stampa papale ve la ripetano ogni giorno. Questa sognata e faticosamente cercata autonomia politica non può venire da sola; per cercarla, voi dovete sforzarvi di essere uomini del vostro tempo, e di cercare commerci con uomini del loro tempo: giudicare di libri, di teatri, di conferenze, di avvenimenti, con criteri che non son quelli dei gesuiti della Civiltà Cattolica, della segreteria di Stato, dell’Indice e del Santo Ufficio.
On. amico, dove si arriva per questa via? Pensate che il veleno del male è, anche qui, tutto nelle origini : nel distaccarsi dal criterio della rigida ortodossia e delle autorità superiori per fare da sé. Quando avete infilato la via della perdizione, che poi andiate d’un passo più o meno lento, e facciate delle tappe al primo, al secondo, al terzo chilometro questo non fa differenza. Plus vel minus non mutai, speciem.
Lo dicono così bene i giornalisti liberali nella Tribuna, e i nazionalisti e i neo cattolici \\tW' Idea nazionale o nel Resto del Carlino. La Chiesa è quella che è, logica, coerente, diritta, ammirabile. Così piace, gran dama arcigna ed austera...
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a quelli che le danno appuntamenti segreti, nei gabinetti dei ministri e delle prefetture; e così dovete prenderla voi che la vedete solo pontificare in sua casa.
Amico, in ginocchio. Le confidenze della Chiesa non sono per voi. Infatti... sarebbero contro natura.
A un democratico cristiano.
Dunque ti sei portato candidato politico nel tuo collegio ed hai avuto, su per giù, un centinaio di voti. Col suffragio allargato, non sono moltissimi. Spero che abbia più soci la Lega democratica nazionale di quel che abbia avuto elettori tu. Dico così perchè non ne so nulla, da mólto tempo, e non leggo — non ricevendola — le vostra Azione; il non mandarmela voi mostra o che siete meravigliosamente parsimoniosi nella spesa o che anche nei piccoli fatterelli amministrativi mettete una grande giustizia. Sempre idealisti !
E della tua candidatura non avrei forse saputo nulla se non me l’avesse annunziata, nella concisione di un biglietto di poche righe, uno dei vostri migliori, già buon propagandista nella mia lotta elettorale del 1909, avvertendomi che non poteva venire a parlare in favore della mia candidatura perchè il dovere lo chiamava a lavorar per la tua ; ed egli stesso poi mi ha dato notizia una sera che c’ incontrammo in Piazza Colonna, dei tuoi cento voti; con molta tristezza sul volto, non so se sólo per la tua caduta o anche un poco per la mia.
Ed egli mi disse, per spiegare quel così piccolo numero di voti — il quale ti designa a una candidatura trionfale nel regno dei cieli, dove gli ultimi passano ai primi posti — che ordini severissimi erano stati impartiti al clero perchè ti si combattesse senza quartiere, e che ogni prete - anche il buon G? anche il buon R? — era stato avvertito che, se nella sua sezione ci fosse stato un voto solo per te, egli sarebbe stato imprigionato, torturato, squartato, impiccato, bruciato; e al resto della pena Si sarebbe venuti pensando per via.
Dio, come è lussuosa e voluttuosa negli odii questa Chiesa di Roma, mio povero amico ! Perchè, via, io non riesco a capire che il combattere la tua candidatura avesse per lei tanta importanza che ella ti dovesse contendere così ferocemente gli altri 200 voti dei quali i tuoi amici ed ammiratori ti sarebbero stati larghi.
Non scherzo con malevolenza verso di te. So che la vostra tenace devozione alla Lega democratica nazionale è prova di ammirabile generosità, forse un piccolo poema di eroismo. La fondammo insieme, l’abbiamo alimentata, per anni, del meglio della nostra giovinezza, del sangue che scendeva dalle ferite inferteci dall’odio implacabile di Pio X ; poi voi l’avete voluta far vivere senza di me, contro di me, scomunicandomi anche voi, perchè sentii l’inanità di quel piccolo campo trincerato in territorio papale, perchè cessai di essere quello che ero apparso a voi, un riformatore religioso alla Rosmini, aspettante, fra le timide audacie mistiche e i lunghi silenzi ascetici, l’angelo di Dio, perchè avevo — horribile diciu — preso moglie.
Così, pochi ma fedeli, avete tenuto in vita la Lega e \'Azione. E mi dicono che siete rimasti fedeli all’antico programma: cattolici, ma mettendo sopra il papa la vostra coscienza; cattolici, ma anticlericali, democratici-cristiani senza
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nessuna e di mezzo, murriani dei Murri che è morto per voi il giorno nel quale al papa che lo scomunicava rispose su per giù come Carducci a Pio IX : ed anche io, alla mia volta, ti scomunico; che fu un grande sacrilegio, a detta di Antonietta Giacomelli, e una deviazione imperdonabile dal retto cammino: perchè lei, come voi, riceve Iddio nelle autentiche e legittime dosi della Santa Madre Chiesa, per la mano dei ministri di questa, ma poi si permette delle miscele clandestine di ortodossia e di scisma, delle quali sola ha il segreto.
Senonchè quel programma voi lo avete ucciso ; e come Giovanna la pazza, portate in giro il cadavere e ci fate celebrar su la santa messa. Poiché, amico, quel programma aveva la sua logica interiore, anche se da principio ignota a noi, i suoi inesorabili sviluppi, la sua vita, insomma. Sinché quella sua vita fu la nostra vita, la dolorosa conquista della nostra crescente esperienza, il dramma e il dissidio della nosta fedeltà alla Chiesa, la Lega e tutto il nostro lavoro fu anche esso cosa viva e scosse coscienze e le agitò e trascinò le folle ed ebbe larga ripercussione di lotte e di consensi.
Ma le idee non perdonano. Finché foste con esse, esse vi portavano ; quando, spaventati di quella logica, perchè ad esse non avevate dato tutta la vostra anima, perchè avevate messo dei recinti, e scritto sui pali: riservato a Pio X, e un bel giorno vi piantaste, rigidi, a difendere contro l’inflessibile logica delle vostre idee quel recinto e quei pali, esse vi abbandonarono e se ne andarono altrove ; e voi siete rimasti lì a guardare quei pali, sui quali, portata anche essa dalla sua logica inesorabile, si abbatte, sinché non li svelta e non vi ripigli tutta l’anima, la collera della Chiesa di Roma.
Rifletti. Voi non fate oggi che ripetere quello Che fu già detto, rinnovare, per abitudine e imitazione, gli atteggiamenti che furono già presi, immaginare le sottili distinzioni di un giorno, ridire il vostro lamento vano ai cattolici, che non vi ascoltano, dall’ una parte, e alla democrazia, che vi volge le spalle, dall’altra.
Gli eventi non vi obbediscono più : il mondo non ha più risonanze per voi. Cresce, alla Camera, la legione socialista ; giunge ai fastigi del potere legislativo la democrazia cristiana confessatasi e fattasi • assolvere dai parroci e dai vescovi, e voi intristite nell’ isolamento. Mirabili sareste, se vigilanti alla custodia di una fiamma che racchiude incendii vicini ; poverelli, cercate di alimentare con i vostri sospiri un lumicino che sta per spegnersi.
Ai nostri giorni, ci ascoltarono i cattolici e ci ascoltò la democrazia; e fummo la storia di un tentativo, la risoluzione di un problema storico. Ricorda il movimento neo-guelfo del 48-49. Era la Chiesa cattolica italiana capace di partecipare intensamente, utilmente, al grande modo di rinnovazione civile dei paese? Il sogno appariva magnifico e aveva conquistato molte coscienze. Molti, infatti, credettero che sì e provarono. Per un certo tempo parve che anche il papa fosse con essi. E il fervido lavoro fatto non fu certo inutile, poiché esso mise in moto molte coscienze, che poi continuarono per la loro via, e permise a quelli che, infischiandosi dei divieti pontifici, andarono innanzi di dire: ieri, voi eravate con noi.
Così in Italia, dopo il 1890, noi ci chiedemmo: è possibile creare un vivace movimento di riscossa operaia, di democrazia, d’accordo con la Chiesa, nel nome della Chiesa? Il sogno ci affascinò. Ci demmo al lavoro con un entusiasmo irrefrenabile. Trascinammo moltissimi. Per un momento parve che il papa fosse con
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noi. Poi la logica delle cose riprese il sopravvento. E fummo sospettati, perseguitati, isolati, scacciati. Il cattolicismo romano continuò per la sua strada e la democrazia fece a meno di noi. Quelli che parvero continuare, ridivennero dei clericali, un poco diversi dagli altri, un poco più moderni, ma ligi e soggetti alle direttive sostanziali del clericalismo. E se qualcuno ha conservato qualche cosa di quel vecchio sogno è sempre, in essi, lievito e fermento di seismi e di eresie. E l’ortodossia cattolica veglia e abbaia e la Chiesa italiana è piena anche oggi dell’urlio delle cagne che dànno la caccia ai semi-modernisti. A sentire l’tnìtà Cattolica, pare che questi epigoni abbiano passato il Rubicone; ma il Rubicone è un fiumiciattolo, con poca acqua, credo ; e quei buoni figliuoli lo passano e ripassano molte volte il giorno, nei loro campestri trastulli.
Questa è la verità cruda. La storia pone degli <2, o ai quali è impossibile rifiutarsi. Newman diventa assurdo quando il suo pensiero si è aperto in quello del Tyrrell, Vigouroux un ciarlatano quando la critica biblica ha maturato i suoi frutti in Loisy, la vostra democrazia-cristiana è un trastullo dopo che Murri fu scomunicato da Pio X. Non è per la Chiesa, che non la vuole; non è per la democrazia, che non tollera la vostra papale animuccia. Il cattolicismo muore — dove è più un lampo, un fremito, una mossa di vita vera, fresca, sicura? — condannato ad esinanirsi nella dispersione o ad irrigidirsi nel raccoglimento, comunque a putrefare negli opportunismi delle banche e dei patti Gentiioni ; e voi volete presentarvi come dei precursori e dei rinnovatori. La democrazia si smarrisce nell’assenza di entusiasmi e di fedi ardenti, essa deve rifare, dopo tante crisi e di tanti elementi dispersi, tutta la coscienza morale dell’ umanità e voi volete portarla a confessarsi. Se si accorgesse del vostro piccolo gesto, che potrebbe far altro se non ridervi sonoramente in faccia?
Amico, una parola di Cristo è buona per i singoli ed è buona per le generazioni. Il fato di un’epoca storica che cerca la sua via è qualche volta troppo grave per le umili spalle di un singolo che vive i brevi anni di una generazione, e lo schiaccia. Il fato dell'Italia di oggi è, benché innumerevoli si ostinino a negarlo, liberarsi dal cattolicismo del papa, per ritrovare la sua anima religiosa : la quale potrà anche essere cristiana, cattolica magari, ma sarà tutta un’altra cosa ; e solo quando questo cattolicismo, con i suoi teologi, con i suoi catechismi, con le sue Unioni, non ci sarà più, potrà, se mai, essercene un altro, non so quale nè come. Il lavoro va lento, perchè al lavoro non c’è un’anima intimamente religiosa. Rifacciamo quest'anima alla democrazia; ma un’anima che sia per distruggere, per poi rinnovare.
E dobbiamo, per questo, perdere le nostre anime, smettere tutte le vigl Sacchette paure e le umili sottomissioni e le reticenze?
Al vento e alia bufera.
Romolo Murre
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INTERME/O
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ERRORE secolare è stato quello di far dell’/dea il criterio dell’ortodossia. L’ortodossia non è d’ordine intellettuale. Se Dio ci avesse dettato un catechismo, l’ortodossia sarebbe d’ordine intellettuale; ma poiché ci ha datò una persona, l’ortodossia è d’ordine morale. Se Gesù ci avesse detto: «Pensa ciò e vivrai!» l’ortodossia
sarebbe d'ordine intellettuale. Ma poiché ci ha detto, mostrandoci le sue mani forate e la sua corona di spine: « Sii questo e vivrai! » l’ortodossia è d’ordine morale.
Ovunque è una Scintilla di bontà, v’è un chiarore d’ortodossia. V'é un ortodosso ovunque è un uomo che accetta per se medesimo la morte e la vita di Gesù Cristo. L’ortodossia viene realizzata dalla relazione normale d’una persona morale con la persona morale di Dio.
L’eretico è dunque il clericale che, sotto specie di adorare Dio, non sa adorare se non la propria Chiesa.
L’eretico é l’intellettualista, che s’imagina essere salvato per le sue idee e di guadagnare il cielo mediante il proprio Credo.
L’eretico è il legalista che si ravvolge nel suo onesto e ben pensante egoismo, come in un manto di giustizia.
L’eretico, finalmente, è l’uomo che, volendo essere di Dio, lavora nell’opera di Dio senza impiegare i mezzi di Dio, e che dice: sono ortodosso! quando non é convertito alla vita d’amore di Gesù.....
A. Westphal.
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Notturno
Fremiti d’astri accendono la notte e suscitan baleni nel pensiero.
— Dove sei Tu?... Dove t’ascondi, o Vero di cui si disse: — Tutte Vombre inghiotte.—?...
O fiore eterno sull’eccelsa Detta
del Calvario e del Thabor ! — Gli umani Danno e cadono e sorgono — le mani protese al sogno che la lena affretta.
Ma giungeranno ?... Ditelo, ooi, stelle, onde nel buio palpitano raggi!
Ditelo: quanti tragici Diaggi
Digiterete ancor, trepide ancelle?
O siete forse i gradi dell’ascesa ed accennate con la pia lusinga?... — Umanità, procedi! e ti sospinga la nostalgica forza dell’attesa ! —
Vittoria Fabrizi de’ Biani.
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VOCI E DOCUMENTI
PROTESTO
E incredibili parole d’un Vescovo, quello d’Arezzo, che la stampa ha fatto conoscere a tutta Italia, aspettano ancora una protesta cristiana.
Le parole furono queste.
« Invano i cattolici d’Italia sperarono che per il loro « concorso leale e volenteroso portato alla guerra d’Africa, « lo Stato si mostrasse più inclinevole a comporre ogni « differenza e a studiare i mezzi per accomodare il lungo « e dolorosissimo dissidio che separa l’Italia ufficiale dal
« Pontefice Romano; essi s’ingannarono a partito ».
Innanzi tutto : il Vescovo d’Arezzo misurò le responsabilità che si assumeva parlando, così in generale, di cattolici d’Italia? Non crede egli che molti di loro, pur cedendo per la guerra, in forza della necessità legale, il fiore più gagliardo del loro sangue, l’abbiano detestata in cuor loro, oltre il resto, se non esclusivamente, per sentimento cristiano? Di questi molti io stesso ne conosco parecchi, ai quali la parola del Vescovo non suona vanto, ma calunnia.
Poi: come mai non avvertire la contradizione che dirime questi due concetti : i cattolici d’Italia prestarono leali e volenterosi il loro concorso alla guerra, però sognando che questa lealtà e questa volenterosi tà avrebbero loro fruttato il cento per uno?
E che bella figura fanno i cattolici nella Pastorale aretina! Per ragion dei contrari, ci si viene a dire che, se non avessero sperato quello che sperarono dal Governo d'Italia, si sarebbero ben guardati dal concorso leale e volenteroso. Dal punto di vista nazionale, o anche semplicemente dell’onore e della lealtà, c’è tanto da adontarsene e da sporgere querela per diffamazione.
Ma quel che più preme è ben altro, e questo precisamente: sapere se un Cristiano, se un Vescovo può accennare a una guerra di conquista con la compiacenza che traspare dalle parole della Pastorale d’Arezzo. Corretto l’errore statistico, rimane sempre, e infinitamente più grave, l’errore di massima e di diritto.
Ebbene, se il Vangelo non s’è alterato col passar del tempo, se del Cristo si può ancora ripetere la sicura parola di Paolo : è oggi quello che ieri e per tutti
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VOCI E DOCUMENTI 519
i secoli, la guerra di conquista è un delitto sociale, è l’anacronismo più stridente nei secoli cristiani, la smentita più sacrilegamente solenne ai principi del Vangelo.
Non l’ha avvertito il Vescovo d’Arezzo?
Ma è scusa quest’oblio in un uomo che è maestro in Israele?
O fórse io indovino. Molti, e il Vescovo di Arezzo con essi, sono ancora alle guerre sante, all’abbor ri mento della turchesca rabbia e alle indulgenze largite agli infiammati da Pier l’Eremita. Ammetterebbe altra spiegazione questo fatto, che mentre i giornali del così detto trust cattolico hanno avuto richiami per tante peccata, nessuno ne han toccato per aver più o meno tutti contribuito a fornire al Vescovo d’Arezzo lo pseudo documento su cui Egli ha dovuto fondare la sua asserzione: i cattolici d'Italia invano sperarono, eccetera, eccetera? E un pervertimento di criteri cristiani da far piangere, ma possibilissimo, ma probabilissimo ; basta essere un po’ pratici dell’ambiente, per entrarne più che in sospetto.
Ma via. Eccellenza! tempi furono e tempi sono, comprensione evangelica fu e comprensione evangelica è. Oggi, come noi giudichiamo una curiosa utopia quella dei secoli di mezzo che pretendevano purificare l’Oriente con la spazzatura dell’Occidente; così, religiosamente parlando, sentiamo, o certo dovremmo sentire, che l'unica sognabile conquista è per un cristiano quella che si può compiere con la pacifica civiltà del Vangelo.
Dice: ma i Turchi son Turchi, e maculavano l’Europa.
Già, e perciò le loro terre erano nostre? Comoda assai!
E c’è la tragica questione degli Arabi, che noi abbiamo sciolto col calcio del fucile e peggio.
E poi, maculavano l’Europa!... Via, ha proprio paura questa verginella Europa di venir maculata ?
Ah, mi scordavo che gli Europei, e fra essi gl’italiani, sono monogami.
Del resto: vi davano e vi danno fastidio, ombra, uggia, scandalo i Turchi? Disfatevene ; ma giù, a fondo, fino alla radice — parlo a voi cristiani sacerdoti e vescovi, se avete brama di purificazione vera.
Come !
Certo : convertiteli ; allora potrete divertirvi anche voi a cantare sulla ricantata arietta-castigo di Dio: A lripoli i Turchi non regnano più. Non ne regne-rannno più nemmeno a Gerusaleme : sul Santo Sepolcro monteranno la guardia i cristiani.
Ah, un affare spiccio!
Non è questione di spiccio, ma di lecito. La questione dello spiccio lasciatela, se mai, a chi crede tutto alla forza, poco o nulla al diritto. Ma un Vescovo, un Cristiano deve credere tutto al diritto, nulla alla forza, nulla, salvo passare con armi e bagagli ai Turchi.
Ho detto forse indovino, perchè non voglio nemmeno sospettare che un Vescovo o siasi lasciato trascinare, senza una propria sua personale elaborazione, dalle montature della stampa e degli altri mezzi onde dispongono pochi arruf-fapopoli e acchiappanuvoli ; o abbia fatto sue le fatalità storiche, le estetiche imperialistiche, e le altre consimili monellerie del nazionalismo liceale e ginnasiale del bel paese.
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Piuttosto io credo che in fondo in fondo una certa speranza, buona in sè, quanto utopistica in realtà, abbia allettato le menti di molti cattolici e di molti vescovi, nell’ultima nostra avventura in terra d’Africa: la speranza di potere, a guerra finita, compiere una penetrazione evangelica nelle terre conquistate, creduta invano sperabile senza la guerra e la vittoria.
Ma lasciando stare che, anche in questo caso, il vanto del famoso concorso leale e volenteroso suona sempre stonato su labbra vescovili, nessuna speranza anche la più rosea, nessun fine anche il più santo potendo giustificare quel delitto sociale che si chiama guerra di conquista, lasciando star ciò, rimane da domandarsi: son proprio gli Italiani come popolo in grado di portare la religione cristiana in paesi nuovamente conquistati ?
Perchè questo è provato, oltre che già intuitivo per sè medesimo: quando non sia un drappello d’apostoli, pronti a diventar martiri, che se ne vada solo solo e per conto proprio ad evangelizzare un paese, ma gli apostoli seguano in coda gli eserciti invasori e le cavallette colonizzatrici; quando cotesti apostoli si immunizzino la cute dal microbo del martirio con lo sventolio delle bandiere nazionali, allora essi i missionari non bastano, ci vuole inoltre, anzi prima, che il popolo sopravvenuto porli esso, ripeto la mia espressione, la religione da inoculare, nel caso nostro il Vangelo ; altrimenti, quello che da una parte si tenterà di edificare verrà smantellato e demolito dall’altra. . È necessario che il popolo sopravvenuto porti esso la religione, e la porti non tanto nelle parole, quanto nella condotta, nella vita; la porti come un palpito concorde, la diffonda come un alito, come una fragranza che da tutto esali e penetri tutto. E il concetto immaginoso di S. Paolo che scriveva ai Corinti: noi siamo la soave fragranza di Cristo.
Ora — sia detto con una franchezza che non amareggi, ma induca a piegar la testa con la purificatrice vergogna di chi ascolta un testimonio di coscienza — dov’è fra noi quel diffuso e penetrante spirito religioso che ci renda atti al grande scopo di innamorare del cristianesimo un popolo non cristiano? In genere, altro che diffuso e penetrante spirito religioso! Con molti popoli della vecchia Europa, noi, anche quando abbiamo nome di cristiani e magari di cattolici, presentiamo le più irreconciliabili antinomie fra quanto crediamo e la vita. Cristiani, e magari, cattolici, a parole, siamo il più bel fior di... pagani — uso degli eufemismi per educazione — a fatti.
Perciò, non i portatori, ma siamo i più autentici demolitori del Vangèlo e del Cristianesimo che ne deriva, parlo sempre come popolo e in generale.
Se anche quando ci si può riguardare come abbastanza rettamente cristiani, ci fa sempre difetto quel profondo entusiasmo religioso che, come indica un vivo focolaio interno, così rende animosi e fidenti e comunica efficacia irresistibile al buon esempio !
Bisogna ardere per accendere, e anche per non spegnere il fuoco acceso da altri vicino a noi.
Ardete voi, fratèlli d’Italia, per Cristo e pel Vangelo?
Vi vien quasi da ridere a tale domanda, non è vero? Ebbene, il vostro sorriso è la vostra condanna: restate a casa vostra, cristianelli.
Non mancano i savi Che andarono e vanno ripetendo : prima di darci l’aria
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di colonizzatori e civilizzatori di terre straniere, finiamo un po’ di colonizzare e d’incivilire l’Italia; mancherà chi alle ipotetiche speranze evangelizzatrici di sacerdoti e di laici opponga, scoprendo le molte magagne di famiglia : prima di evangelizzare altri, non sarebbe bene pensare ad evangelizzare noi stessi ?
Ci sono bensì anche tra noi delle consolanti eccezioni alle condizioni comuni, alcune anime grandi e molte anime piccoline, o meglio oscure e ignorate, a cui il Vangelo è davvero ritmo di vita, a cui la fede è gagliardia nei quotidiani sacrifici, la religiosità elevazione, il mistico fuoco sacro alacre impulso di operosità; ma che vai ciò ? Nè queste eccezioni formano la maggioranza d'Italia, nè si poteva sperar mai da nessuno, massime poi da un Vescovo, che per l’appunto queste eccezioni avrebbero costituito il mondo italiano nella nuova colonia. Se mai, ora, per consolarsi, il Vescovo d’Arezzo dia un’occhiatina laggiù nelle terre afro-italiche; ecco, a rappresentare la nostra civiltà cristiana e a convertire alla nostro santa religione gli infedeli, ci sono tre elementi principali: l'elemento militare, un nuvolo rapace di sfruttatori ad oltranza e di astuti monopolizzatori d’ogni ben di Dio... e degli uomini, e quel l’altro stormo di faccendoni officiali e non officiali, che, per prime... faccende rappresentative della cività nostra latina, italiana e cristiana, sistemarono nelle terre conquistate la prostituzione e il gioco del lotto.
Ma fossimo stati pure in grado noi di riprometterci la più preziosa e feconda delle evangelizzazioni, era da prevedere che tutto avrebbe reso vano la conquista.
Un popolo conquistatore, anche quando semina il bene, lo semina in un terreno ingrassato di sangue e fermentante odio e vendetta.
Oh, io avrei capito una partecipazione leale e volenterosa di cristiani in una guerra sorta in Europa contro la Mezzaluna, quando dei vessati e dei massacrati da lei, in Armenia mettiamo, giungevano a noi le grida invocanti pietà e soccorso; l'avrei capita, benché detestata, perchè la guerra è la guerra, uno scagliarsi di buoni, miti e ignari figli d’un popolo, contro altri buoni, miti e ignari figli d’un altro popolo, a un cenno brutale, insindacato e insindacabile, e per i begli occhi, per gli ebeti dissensi, per le feroci politiche delle loro eccellenze; l’avrei capita, benché abominata, perchè delle stragi e i massacri non è il popolo, non sono i figli del popolo i responsabili e i rei, ma chi li incita, li aizza, li suggestiona per i propri fini, per i propri sfoghi malvagi; responsabili e ree sono le solite poche eccellenze che impugnano quella misera carne umana come s’impugna e si maneggia il pugnale, la scure e la fiaccola incendiaria. E dopo la partecipazione a una guerra come io dico, capirei oggi chi invitasse i figli della pace così: andiamocene con la Croce dove ieri i nostri connazionali puntarono i cannoni ; capirei Chi si lusingasse di poter rispondere a opposizioni come queste: — ma voi ieri ci avete bombardato e assaltato alla baionetta — così : è vero, ma fu la compassione pei nostri fratelli oppressi, solo questa, non odio, non oltraggio,, non cupidigia, che forzò il nostro paese ad accorrere in armi. — Invece ora, che si può sperar di rispondere che non suoni un’insultante ironia a un popolo conquistato ? La religione di chi gli è andato a trucidare i figli, i mariti, i padri, di chi gli smantellò le città e i paesi, di chi gli ha deturpato, defiorato, depredato tutto; la religione vostra, o cristiani, o cat-
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telici del leale e volenteroso concorso, il popolo vinto e sottomesso l’odierà insieme con voi, la confonderà in un odio solo con voi.
Aveste potuto dire, diceste oggi almeno: bada, popolo non cristiano, io popolo cristiano ho subito la guerra, non l’ho voluta, non l’ho fomentata, non l’ho incitata; io vescovo cristiano ti reco la Croce, invitandoti a superare i vecchi pregiudizi di casta, i vecchi odi religiosi, e a guardarla da vicino questa Croce che tu ignori e perciò detesti; e te la reco e te la inalzo davanti con le mani monde e l’anima incontaminata di violenze e di sangue! Pensa che io, per quel che mi suggerisce questa Croce, ho visto le armi e ho predicato pace, ho udito le stragi e ho gridato amore, ho appreso le vittorie e non ho intonato nei tempi di Cristo nessun Te Deum al Dio di tutti, ma in lagrime l’ho supplicato di perdono per chi uccideva, di requie per chi era ucciso ; e mentre il popolo veniva inebriato, inconsciente, d’armi, di stragi e di vittorie, io non cessai d’inculcargli l’umana fratellanza di tutti i popoli, al di là, al di sopra del misero orgoglio nazionale, pago in me stesso a un tacito approvar di coscienza, pur rimanendo profeta solitario e deriso.
Ma no, non solo questo non potete, non potreste dirlo, ma c’è una segreta compiacenza fino in voi Vescovo cristiano cattolico di non poterlo dire. E andate oltre, e proclamate in una pubblica Pastorale che i cattolici d’Italia hanno prestato il loro concorso leale e volenteroso alla guerra. Violentare la realtà intuitiva e statistica vi dev’esser parso, meglio che onesto, decoroso : avete creduto di fare un bel gesto patriottico, di cogliere in fallo di slealtà e di ingenerosità il Governo, e per rimbalzo di ben meritare della Chiesa e del Pontefice Romano. O non v’accorgete invece di gettare all’odio in mezzo ai popoli sottomessi, con le vostre mani consacrate, la Croce?
O mi opporreste per la bonne bouche qualche adesione al cristianesimo nella nuova colonia? Prima di crederei, vorremo vederle; e in ogni caso, badate: non è là prima volta che ci si consola con una propaganda d’ipocrisia, scambiata per propaganda cristiana. Ovvero, chi già doveva odiarci per ragione di dottrina e di tradizione, e ora deve odiarci dieci volte di più per odio di guerra, ci apre le braccia e cerca le nostre, accetta la Croce e ci butta ai piedi il Corano? e voi guardatevene; non si tratterebbe di una di queste tre brutture: 0 di un inconsciente, o d’un ignavo, o d’un traditore?
E basti.
Io non ho bisogno che altri mi faccia notare la dignità dèi personaggio alle cui parole ho opposto la mia protesta, nè la mia piccolezza rimpetto a lui ; conosco l’una e l’altra, e perchè ne ho piena coscienza, se si fosse trattato di idee mie e di miei modi di vedere, per sentimento di rispetto avrei taciuto. Ma qui si trattava dell’ idea cristiana in quello che ha più di essenziale. Perciò ho protestato. Le disparità scompaiono, siamo tutti discepoli e servi.
Dio tolga dalle mie parole ogni intenzione d’alterigia, ogni suono d’asprezza, e ridesti in tutti i cuori il mite, veggente e onnipotente spirito del Vangelo.
Venezia
P. Ghignoni.
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PERISG/DVRA DELL’ANIMA
«BffEMPO E NOI
(Pensieri di fin d'anno).
... Ricomperando il tempo perciocché i giorni sono malvagi.
Efesi, V. 16.
UAL’fc mai il significato di questa esortazione di Paolo, di ricomperare, o, come dice la versione inglese, di * riscattare il tempo perciocché i giorni sono malvagi » ? Che cosa vuol dire questa malvagità dei giorni e questo riscatto del tempo ? riscatto Come ? riscatto da che ? Bene, si tenga in mente che riscatto è l’operazione che si faceva per restituire in libertà una persona caduta schiava, e sarà subito evidente il significato dell’esortazione dell'Apostolo. Il vostro tempo — pare ch’egli dica — il vostro tempo che vi fu dato perchè fosse vostro e ve ne serviste pel bene, è caduto in servitù di padroni che l’usan male, sicché i vostri giorni che potevano essere fecondi di bene sono diventati malvagi, pieni di male: e se voi volete veramente riformare la vostra vita, dovete cominciare dal ricomperare, dal riscattare il tempo. Se il tempo di uno è caduto nella servitù dei pensieri oziosi e delle vane immaginazioni che lo sciupano senza costrutto, riscatti il suo tempo, quel tale, e lo impieghi nel lavoro. Se il tempo di un altro è caduto in mano di sregolate passioni che lo divorano — e si sa con quale avida voracità divora la passione — riscatti il suo tempo, quel tale, e lo trasporti al servizio dei sani ideali onde poi vengono le oneste e utili opere. Se il tempo di un altro è caduto nella schiavitù degli affari, ma degli affari che assorbono tutto l’uomo senza lasciargli un’ora da ricordare che è uomo e che deve qualcosa alla sua umanità, riscatti anche colui il suo tempo, una parte del suo tempo, per dedicarla alla cura e allo sviluppo dell’anima. Se non fate questo riscatto, non c’è speranza per voi : i vostri giorni continueranno ad essere nel male e pel male — malvagi.
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BILYCHNIS
E’ chiaro ? Ebbene, poiché di qui sorgono e un nuovo concetto del tempo ed un consiglio, anzi una serie di consigli, sull’uso del tempo, sarà bene — anche perchè l’ora mesta di fin d’anno ne invita a tali pensieri — sarà bene soffermarci e considerare.
« *
Il vecchio concetto del tempo è noto : è il concetto del tempo-padrone che tutto consuma, che tutto distrugge.
Ecco qui a Roma tante rovine : le rovine del palazzo dei Cesari e del Colosseo e dei Fori e delle Basiliche e dei Circhi e dei Mausolei, e poi anche le rovine delle rovine... Echi le ha fatte queste rovine? Il tempo: dunque, tempo padrone e distruttore, edax rerum, come lo ha chiamato il poeta delle Metamorfosi :
Tempus edax rerum, tuque invidiosa vetustas omnia destruitis vitiataque dentibus aevi paulatim lenta consumitis omnia morte.
E non solo edax rerum, divoratore delle cose, ma edax hominum, se corrispondono a verità i tre simboli che D'Annunzio ci fa passare sotto gli occhi nel meraviglioso capitolo del Fuoco che s’apre con revocazione del quadro di Francesco Torbido. Ricordate? Una vecchia rugosa, sdentata, floscia e gialliccia che non può più nè sorridere nè piangere, una ruina umana, una parca terrestre che tiene in mano, invece della conocchia, un cartiglio su cui è scritto: « Col tempo ». Capite? E’ la prima accusa lanciata al tempo: distrugge la vita. Ma il capitolo prosegue, e vi trovate dinanzi alla misteriosa casa, solitaria sopra una riva di canale (l'azione è a Venezia) dove vive ermeticamente chiusa la vecchia contessa, un giorno meravigliosamente bella, che non volle che lo sfioramento della sua bellezza avesse testimoni. Capite? altra accusa al tempo: distrugge la bellezza. Ma il capitolo prosegue ancora, ed ecco Riccardo Wagner che transitando per una calle, grave di anni e di malattia, cade pesantemente a terra svenuto. Capite? terza accusa al tempo: distrugge la mente... Edax rerum, dunque, edax hominum : tempo padrone, tempo distruttore...
Eppure, questo concètto dei tempo padrone e distruttore non è esatto.
Anzi tutto: sarà vero che il tempo distrugge, ma non è anche vero che costruisce? Non è forse col tempo che il seme germina e diventa pianta, che il bambino cresce e diventa uomo, che la tribù si sviluppa e diventa impero, che la palafitta si moltiplica e diventa metropoli? Cose e uomini si disfanno col tempo, ma col tempo pure si fanno e, qualche volta, dopo essere disfatte, si rifanno. Quel cartiglio « Col tempo » ha un significato di distruzione solo perchè attaccato al sembiante d’una vecchia, ma attaccatelo al sembiante d’un bambino e assumerà un significato tutt’opposto, vorrà dire «Col tempo, si crescer. In-somma non distrugge solo, il tempo, ma crea.
Ossia, nè distrugge nè crea. Perchè, se si osserva più attentamente, si deve convenire che distruggono e creano certe forze che sono ed operano nel tempo, non il tempo stesso. Prendete, ad esempio, il palazzo dei Cesari. Lo hanno distrutto i Vandali, l’incuria dei romani, le intemperie, le bestie roditrici che vi
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PER LA CULTURA DELL'ANIMA
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Stabilirono i loro quartieri, non il tempo : immaginate difatti che appena costruito il palazzo fosse stato coperto da una immensa e impenetrabile campana di cristallo, ed esso sarebbe ancora lì in piedi, intatto. E prendete, d’altra parte, il filo d’erba che cresce in pianta. Non è mica il tempo che lo fa crescere, ma la sua propria virtù vitale e gli umori del terreno e l’aria e la luce onde quella si alimenta. Private, spogliate di queste cose il filo d’erba, dategli cento secoli di tempo ed esso non crescerà neppur d’una sola cellula. Il tempo entra sì come fattore nelle distruzioni e nelle creazioni, e, se volete, come fattore primo, come fattore indispensabile, ma non è nè di queste nè di quelle la causa efficiente.
E allora? Allora è chiaro non solo che il vecchio concetto del tempo distruttore e creatore — del tempo padrone — non regge, ma che, lungi dall’essere un padrone, il tempo è proprio il contrario, è un servitore: un servitore che in
natura distrugge se a servizio di forze distruttrici e costruisce se a servizio di forze costruttrici ; e, nel dominio della vita morale, fa bene o crea se a servizio
della riflessione e della virtù e fa male 0 distrugge se a servizio di passioni sregolate e di vizi...
E questo è proprio il concetto di Paolo quando, nel testo che abbiamo dinanzi, parla di riscattare il tempo, di riscattarlo cioè dal servizio delle forze morali distruttrici per metterlo a servizio delle costruttrici: perchè il tempo è un servitore.
« * «
Dato questo concetto, 0 questa teorica, del tempo, quale la pratica? O, piuttosto, poiché la pratica è anch’essa data in quel consiglio di ricomperare 0 riscattare, da quali padroni va il tempo riscattato?
Lo vedremo : ma intanto non sarà male osservare — a coloro che chiacchierano sempre di Cristianesimo umiliante — che anche qui, di faccia al tempo, il Cristianesimo riconosce all’uomo una dignità di cui non si sono neppure accorti i suddetti chiacchieratori nè gli stessi cristiani a corto di spirito paolino. Che non hanno detto costoro per esaltare, a scapito dell’uomo, la possanza del tempo! Anche per Petrarca il tempo trionfa dell’amore, della castità, della morte e della fama — di tutto — e non gli è superiore che l'eternità. Ma Paolo crede che nell'uomo, nell'uomo che costoro si rappresentano come la creatura e il trastullo del tempo, vi sia qualcosa che domina il tempo, rispetto alla quale il tempo è servitore. Sicuro: è la sola eternità superiore al tempo? ma le radici dell’anima sono nell’eternità : < Egli ha posto l’eternità nel cuore degli uomini » : e l’uomo è più che un trastullo del vecchio Tempo. Così il Cristianesimo che, a sentir costoro, umilia, degrada, avvilisce, getta a terra la dignità umana....
Ma quali son dunque i cattivi padroni da cui va riscattato il tempo?
Se pensate all’anno che sta spirando — come l’avete, giorno dopo giorno, impiegato — sarete colpiti dal fatto di aver dormito... tre mesi. Come no? Calcolando sei ore di sonno su ventiquattro (ed è una cifra modesta, forse troppo modesta) avete duemila centottantaquattro ore che fanno proprio tre mesi. Aggiungete un altro paio di mesi per i pasti e per la cura del corpo e sono cinque
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mési asserviti alla vita meramente animale... E’ egli possibile, è egli savio riscattare un po’ di questo tempo così impiegato ? Io non so, io non oso pronunziarmi ; ma non posso non pensare che forse non v'è un solo tra colóro che salirono alto nelle lettere e nelle scienze, nella politica, nelle industrie, nelle armi e negli affari, che non abbia riscattato molte ore dal servizio del pranzo e del sonno. Dianzi ho nominato il D’Annunzio: nella sua casa di Settignano, una iscrizione correva, ripetuta, sulle pareti della camera da letto: « Per non dormire ».
E quanto tempo a servizio di conversazioni oziose, di cerimoniali inutili, di vane attese, d’insignificanti nonnulla che si assorbono ciascuno i suoi diedi modesti minuti, ma tutti insieme quasi la metà dei sette mesi a cui si riduce l’anno quando ne son tolti i cinque detti dianzi. Ebbene, riscattate ! riscattate ! Descartes meditò le sue maggiori opere profittando delle mezze ore che gli toccava passare nelle poste attendendo la diligenza. Leopardi imparò l’inglese utilizzando i minuti d’attesa a tavola. Il cancelliere d’Agnessau compose un’opera in due tomi nell'intervallo tra la chiamata a tavola e l'andata; e un altro filosofo che accompagnava la moglie nelle sue visite alle amiche scrisse non so quanti tomi, certo più di due, profittando del tempo che correva tra il primo e l’ultimo saluto scambiato dalle signore allorché si separavano. Ah, v’è una grande verità nel detto di Seneca : che ci lamentiamo della brevità del tempo nell’atto stesso che lo sciupiamo come se non avesse mai da finire, e nell’esortazione sempre fresca e opportuna del già citato Ovidio: — non sciupare il tempo che nè l’onda passata nè l’ora trascorsa tornarono mai indietro:
Nec quae praeteriit iterum revocabitur unda, nec quae praeteriit bora redire potest : utendum est aetate...
Ma questi cattivi padroni del tempo nominati finora sono i meno cattivi. Udite, che c’è di peggio : c’è la passione del giuoco o della vita galante, la passione degli sports, gli alcools, le abitudini illecite... Chi può dire quanto tempo delle vite umane, e talvolta delle migliori vite, cade in servitù di questi padroni che vi tengono per ore dinanzi a un tappeto verde, o a un tavolo di caffè o vi trascinano per le gare e i teatri e i salotti, e le finzioni e i pettegolezzi e le mille altre miserie di una vita che sembra sfavillante ed è piena di buio, sembra avventurosa ed è monotona, sembra allegra ed è triste, sembra elegante ed è volgare?... Riscattate il vostro tempo, riscattatelo in frétta!
Chi non conosce la commedia di Ottavio Mirbeau, Les affair es sont les affaires ? Chi non ha rabbrividito allo spettacolo che di sè offre il protagonista, cupido e feroce animale da preda della finanza, che non apprezza che gli affari, che non vive che per gli affari, che agli affari sacrifica — e quel che è peggio senza rendersene conto — ogni altra parte vitale della sua anima? Un giorno gli portano la notizia che il figlio è perito in uno sciagurato episodio automobilistico : la tragedia paré che schianti il cuore dell'uomo terribile — anche perchè segue ad un'altra tragedia, la ribellione di sua figlia all’autorità paterna: ridi 10 vediamo piangere, singhiozzare, balbettare con tronche parole il suo strazio... Ma in quel-l’istante si presentano a lui due ingegneri che gli avevano proposto un affare vistoso... ed ecco il padre il cui cuore è fatto a brani dalla sciagura, rimet-
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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tersi in meno di un attimo e contrattare e contendere e azzuffarsi coi due uomini che profittando del suo dolore vogliono imbrogliarlo... Gli annunziano che hanno portato il cadavere del figlio, che la moglie è svenuta, ed egli : — Vengo, vengo subito... voi altri cancellate qui, scrivete là, firmate... — Ah, gli affari ! Sono diventati il padrone e il despota della vita di quell’uomo, hanno mezzo prosciugato il suo cuore e lo prosciugheranno ancora... E sempre che il tempo della vita di un uomo cade tutto in servitù degli affari, gli è la stessa oscura tragedia Che Si ripete, lo stésso oscuro epilogo.
Se questo è il vostro caso, per amore di voi stessi, riscattate il vostro tempo ! Anche perchè coll’ impero assoluto degli affari sull’anima, verrà la nevrastenia, e la nevrastenia vi toglierà il colpo d’occhio e la padronanza di voi stessi, e commetterete delle sciocchezze che pagherete caramente: se non altro commetterete la sciocchezza di perdere la salute, sì che vi toccherà dire con quel tale : « Ho perduta la salute per farmi una fortuna, ora perdo la fortuna per rifarmi la salute ».
Guardate all’esempio di Colui che fu in ogni cosa l’esempio. Chi ebbe più da fare di lui? Predicazione, viaggi, discussioni, guarigioni, insegnamento privato ai discepoli... i suoi < affari » si precipitarono su lui per asservire, per inghiottire tutto il suo tempo... Ma egli strappò al mostro tutta quella parte di tempo che consacrava all’intimità col Padre, alla preghiera. «Salì in sul monte per orare »... «Si gettò in tèrra e pregava »... « orò la terza volta »... « se ne andò in un luogo deserto e quivi orava »... « egli orando, il cielo si aperse »... « mentre orava il sembiante della sua faccia si mutò »... «si sottraeva nei deserti e orava »... «in agonia orava più intensamente »....
Non sarebbe questo il segreto per il quale Egli sbrigò tutti i suoi affari e potè morire dicendo: «Tutto è compiuto»?
Alfredo Taglialatela.
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UOMINI DI FEDE
L’OPERA LETTERARIA
DI PIETRO TAGLIALATELA
(7 gennaio 1829-23 settembre 1913).
) davanti un volume, molti opuscoli, fogli Sparsi, riviste : un trattato di filosofia, polemiche sulla scienza e la vita, inni spirituali, due poemetti patriottici, liriche, epigrammi, brani di storia (i). Tutta una vita gettata e rivelata in frammenti ; tutta una mente balenante a lampi, a folgori, a barbagli. Ecco: un giardino abbandonato, deserto; gli alberi, le piante, i fiori vivono ancora ; ma il giardiniere è lontano ; forse nell’aura limpida e luminosa vaga invisibile intorno a quel cerro robusto, per le spalliere di rose, pel pruneto delle acacie spinose, sugli steli dei gigli purpurei, per le aiuole aride, per le quali volan le fronde secche. Il giardiniere è lontano; riposa, o vive nascosto in que’ tronchi, fra quelle ramaglie, per quegli stami, in quei profumi, nella stessa luce... Tutte queste carte, ch’egli forse ebbe fra le mani e che senton come olezzo di rose morte, io ho sfogliate, ho lette, ho ripensate; tutto quel giardino ho percorso tra le ombre e i raggi, fra le corolle e le spine. E così ho visto l’uomo, il giardiniere ne’ lineamenti dello spirito, ne’ voli dell’ideale, nella potatura, nella semenza, nel colore, nel profumo de’ calici, sin negli aguzzi pungiglioni. Non mi è parso un letterato da mestiere, che veste di metafore la fiacchezza del pensiero; ma il letterato che al pensiero cerca la forma che colpisca e rimanga; onde il suo valore sta nel-Tesser lui, tutto lui, e non tanto nel « come » si rivela, ma in « quello » che rivela. Egli non cristallizza il suo spirito nelle formole schematiche dello stesso suo sistema di pensatore; pur seguendo il sistema, innova, corregge, si svincola, si libera. E nella libertà del dire, non ha l’eroismo clamoroso; ha l’eroismo vigile e calmo di chi « sente » e < conquista la moltitudine », di chi combatte non per vincere, ma per persuadere alla verità. La trasfigurazione ch’egli fa del passato è nell’un tempo volontà di redenzione, e ascensione all’avvenire; la stessa deformazione di figure reali in fantasmi lerci e bizzarri è la visione interna di quanto è storicamente brutto e dee o rigenerarsi o sparire. Anche la vita contemplativa che si fiorisce nell’ inno, è desiderio di cose vaghe e lontane, è ansia di perdersi nell’oceano Sterminato dell’essere, è spasimo ed augurio della eternità senza tempo ne’ secoli, senza spazio nell'universo. La poesia così, nel tono apocalittico, diventa monito e minaccia; nel sorriso epigrammatico, si fa dardo che ferisce securo e
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PIETRO TAGLIARTELA
(1913 - VI.)
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L’OPERA LETTERARIA DI PIETRO TAGLIALATELA
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penetra spietato; nell’#** della patria assume la vastità della leggenda e l’impeto della rivendicazione. Poesia romantica senza dubbio, come tutta quella del secol suo, che dette al mondo capolavori; romantica per lo squilibrio fra sentimento e intelletto, fra potenza e volontà ; ma poesia umana, rude talora e violenta, ma schietta, forte, santa, se pur esteticamente inferiore. Così la critica : s’egli scopre il falso, lo reintegra nel vero; non lavora da iconoclasta, ma da suscitatore; ama la scienza nella vita, e se fa della vita una scienza, questa trascende la breve cerehia della terra. Egli è sano nella vigoria; ma sembra aver la malattia dell’anima, la nostalgia dell’al di là, quasi certo dell’ inesauribile correntia che per la morte ne mena ove non è più morte. Il nocchiero tende all’altra riva luminosa, e vogando, canta l’ode al mistico divino... Sono frammenti: frammenti anche quando paiono volumi; poiché io penso che solamente la sua vita fu la sua opera intera, e la migliore ; opera che scrisse nel cuore di varie generazioni, quando lo scriverla era minaccia di patibolo o, ne’ tempi più prossimi, sfida a potenti, invito a persecutori, avidità di sacrifici... Or mentre egli ci pare lontano, torniamo in questo giardino abbandonato, deserto ; spicchiamo un ramo di quel cipresso, tagliamo gambi di gigli, di rose, di semprevivi; facciamone un mazzo e mettiamolo sulla sua fossa recente... Sarà per lui promessa che i figli saranno come lui giardinieri delle anime per tutta la loro vita; e Che le piante lasciate loro non morranno nel seme prodigato a larga mano.
ji ottobre 1913.
Domenico Ciàmpoli.
(x) Il prof. Ciàmpoli accenna alla « Istituzione di Filosofia», al «Papa-Re», alla < Dottrina Filosofica di Vincenzo Gioberti », a vari opuscoli, a manoscritti inediti ed ai molti articoli apparsi e nei periodici dal Taglialatela diretti, « I nuovi tempi » e « La nuova Puglia », ed in altri periodici e riviste di carattere filosofico e religioso.
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OTIUGDMMENTI
I
Sii!
Nuove condanne dal Vaticano.
A quali esagerazioni possa giungere un clericalismo che con logica inflessibile voglia perseguire per una società religiosa l’ideale di segregazione e di preservazione da ogni influenza del mondo circostante e da qualsiasi deviamento da rigidi teologumeni, ci è mostrato dall’ultima Lettera che il card. De Lai, prefetto della Congregazione della Concistoriale ha diretto il 17 ottobre ai vescovi italiani, come a presidenti dei rispettivi seminari diocesani. Dopo di aver richiamato in vigore un’altra circolare dell’anno scorso, suggerita dalle relazioni dei Visitatori apostolici in seguito all'inchiesta nei seminari italiani, il De Lai si lamenta che sieno ancora adottati come testi scolastici dei manuali che per « lo spirito scientifico non orientato (sic) verso gli insegna-menti di quella suprema cattedra di verità che è la sede di Pietro, possono compromettere la formazione di quell’equilibrio e di quel criterio intellettuale eminentemente cattolico» che deve « preservare il clero... d? debolezze e da traviamenti ».
Ieri erano il Duchesne e il Semeria; ogg sono i cattolicissimi, ultra ortodossi manual — almeno fino a ieri ! — del Funk e del Rau schen, lodati come contravveleno ai manual protestanti e modernisti dalla Civiltà Catto tica, dalla ormai dimenticata Miscellanea di storia ecclesiastica del Benigni, dall’ÒM/d Cattolica... Ed allora? E’ forse diventata l’ortodossia clericale assai più rapidamente mutevole ed instabile delle esecrate teorie pro-testantiche e... modernistiche?
Il Duchesne può dichiararsi soddisfatto, ora: «a trascurare, ad omettere la parte sopran
naturale, elemento indispensabile nei fasti della Chiesa » nello scrivere una storia ecclesiastica non è più solo ; perchè anche contro l’innocuo manuale di storia ecclesiastica del Funk vien lanciata, dopo tanti anni di indisturbata influenza soporifera sugli studenti dei seminari, un’uguale accusa. Per la storia del Kraus — il biografo tedesco del Cavour, il valente cultore della storia dell’arte cristiana — la sua espulsione dai banchi della scuola e dagli scaffali delle biblioteche dei seminari, non ci sorprende, sebbene attraverso le nuove edizioni e le traduzioni avesse perduto per istrada, per volontà dei censori ecclesiastici, a brandelli i numerosi passi poco simpatizzanti per Roma e per la sua politica.
La storia non è un’àpologìà nè un panegirico ; non ha la rigidezza e la linearità di una teoria, ma è complessità del reale, luce ed ombra. Cercate un po’, se vi riesce, a far brillare lo splendore del soprannaturale nella narrazione di quei fasti ecclesiastici che furono per esempio le vicende del pontificato romano nel secolo ix e x, o la lotta aspra e volgare in cui la chiesa allora trionfante consumò le sue migliori energie etiche nel secolo iv e v?
Nell’insegnamento teologico cattolico per l’importanza data alla tradizione ecclesiastica, vien concesso, almeno teoricamente, un posto d’onore alla Patristica ; nei seminari italiani in cui fino a pochi anni fa non si faceva nulla o quasi nulla di storia del cristianesimo e di patristica, io non so come potrà essere facilmente sostituito per la patristica il modesto manualetto del Rauschen, professore nella facoltà teologica di Bonn.
Condannalo: ma perchè? « L’esposizione delle dottrine dei Padri è esposta — risponde
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NOTE E COMMENTI
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la lettera — in modo difforme dalla verità oggettiva e dal senso della chiesa ».
Neppure il gruppo dei gesuiti che dirige la Revue Bollandisle sarà troppo lieto apprendendo che un’opera così seria e che aveva fatto tanto bene alla causa cattolica, quale /.r-leggende agiografiche del p. Delehaye, sia stata esclusa « dal sacro recinto del seminario » anche come semplice libro di consultazione. Era il campo te\V agiografia condotta con criteri scientifici uno di quelli in cui i cattolici, superando con coraggio delle difficoltà secolari, erano entrati da qualche tempo, guadagnandosi la stima degli studiosi indipendenti.
Ricordiamo, fra i tanti, gli studi del Du-chesne sulle leggende della pretesa origine apostolica dei vescovati delia Gallia meridionale, dello Chevalier sulla Casa di Loreto e sulla Santa Sindone di Chambéry, dell’Holt-zapfer sulle pretese origini del Rosario da s. Domenico.
Con i criteri integralisti che regnano ora in Vaticano come sarà possibile la formazione di una «scienza cattolica moderna», di cui gesuiti e prelati sentono vivamente il bisogno e che Pio X stesso in fine all’Enciclica Pasce ndi promesso di favorire con l’istituzione in Róma di grandi istituti scientifici internazionali ? M. R.
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Religione e clericalismo.
Desidero rispettate e libere le coscienze religiose di qualsiasi confessione ed i relativi culti. Siccome ritengo essere la morale una delle grandi forze per la fortuna economica e per il progresso civile dei popoli, non ho condiviso il pensiero di quelli eminenti uomini politici i quali tenderebbero a sopprimere l’elemento religioso nella struttura spirituale del popolo. Io sono un entusiasta della morale evoluzionistica ; ma non so concepire la morale del popolo se non sostanziata dall'elemento religioso. Niente dunque politica antireligiosa ; confesso anche che sono molto pensoso e preoccupato della debole religiosità dei popolo italiano. Nel quale è più formalismo che sentimento ; più festa che raccoglimento ; più apparenza che sostanza, ed in molti dirigenti, più politica che devozione. 11 massimo rispetto alla religione, e la massima libertà ai suoi ministri nell’alto ministero della cura delle anime e del l’orientazione delle coscienze alla divinità. Ma non potremo piegarci ad una religione che si faccia strumento politico per conseguire una qualsiasi parte del potere civile.
Su questo terreno io prevedo che le diverse gradazioni del grande Partito veramente liberale, batteranno in comune codesta via, senza sottintesi, senza compromessi, orali o scritti, senza equivoci, senza alcuna limitazione del potere civile nel' suo naturale non affrettato sviluppo, ravvivato dal perenne flusso delle scienze, il cui meraviglioso progresso mette sempre più lo spirito umano in contatto con la realtà e con la sua storia».
Leonardo Bianchì.
La politica ecclesiastica nei discorsi del Trono.
Il primo accenno alle relazioni dello Stato con la Chiesa si trova nel discorso di Vittorio Emanuele II del 23 novembre 1850, col quale si apriva la seconda sessione della IV Legislatura. « Le cure del mio Governo — disse il Re — non giunsero finora a superare le difficoltà che occorsero con la Corte di Roma in conseguenza di leggi che i poteri dello Stato non poterono ricusare alle sue nuove condizióni politiche e legali, norma degli atti come delle pratiche usate su quella costante riverenza che tutti professiamo verso la Santa Sede, unita ad un fermo proposito di mantenere inviolata la indipendenza della nostra legislazione ».
Un altro accenno alle leggi di carattere civile che venivano elaborate in quel tempo si trova anche nel discorso della Corona che apriva la seconda sessione della stessa Legislatura.
Nel discorso inaugurale della V Legislatura si accenna all’opera di riforma civile compiuta nonostante le opposizioni del clero e si parlava di indipendenza del potere civile.
Ma una vera protesta contro le sopraffazioni clericali si trova nel discorso del 2 aprile 1860 (VII Legislatura): «Fermo, come i miei maggiori, nei donimi cattolici e nell’ossequio al Capo Supremo della Religione, se l'autorità ecclesiastica adoperi armi spirituali per interessi temporali, io, nella sicura coscienza e nelle tradizioni degli avi miei, trov 'rò la forza per mantenere infera la libertà civile e la mia autorità, della quale debbo ragione a Dio solo ed ai miei popoli».
Nel discorso del 18 novembre 1865 (IX Legislatura, prima sessione) si affermava che « la pienezza dei tempi e la forza ineluttabile degli eventi scioglieranno le vertenze fra il Regno d’Italia ed il Papato»; e in quello del 15 di-
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cembro 1S66 (seconda sessione deila medesima Legislatura) si diceva che « la sapienza del Pontefice, il sentimento religioso ed il retto giudizio del popolo italiano aiuteranno a distinguere e conciliare gli interessi cattolici e le aspirazioni nazionali che si confondono e si agitano in Roma », e in quello del 18 novembre 1869 (X Legislatura, seconda sessione), insieme all’annunzio della concessione ai vescovi di recarsi al Concilio in Roma si affermava che « la nazione è convinta che il Sovrano serberà intatti i diritti dello Sfato e la propria dignità».
Nel discorso del 5 dicembre 1S70 — due mesi dopo la caduta del potere temporale — si assicurava alla Chiesa piena indipendenza nell’esercizio del suo ministero religioso e nelle sue relazioni con la cattolicità, e nel discorso del 27 novembre 1S71 (XI Legislatura, seconda sessione) si ricordava che l’Italia aveva proclamalo la separazione dello Stato dalla Chiesa, riconoscendo la piena indi]>endenza dell’autorità spirituale.
Nel discorso del 15 novembre 1873 (Legi-statura XI, terza sessione) la Corona affermava : « Risoluti di rispettare il sentimento e la libertà religiosa, noi non pennelleremo che sotto il manto di questi sacri diritti si attenti alle leggi ed alle istituzioni nazionali».
L’andata della sinistra a) potere, dopo la celebre rivoluzione parlamentare capitanata da Depretis, fu caratterizzata dal discorso reale pronunziato il 20 novembre 1876, che conteneva i seguenti periodi :
« Ci rimane ad affrontare un problema fin qui intentato. Le libertà concesse nel nostro Regno alla Chiesa tanto largamente quanto in nessun altro Stato cattolico, non possono essere applicate in modo che ne vengano offese le pubbliche libertà e menomati i diritti della sovranità nazionale (lunghe e ripetute salve di applausi). Il mio Governo presenterà al vostro esame i provvedimenti necessari per dare efficacia alle riserve e alle condizioni indicate nella stessa legge che sanciva le franchigie ecclesiastiche ».
Re Umberto nel suo primo discorso del trono (7 marzo 1878, XIII Legislatura, seconda sessione) proclamava la necessità della irremovibile difesa dei diritti delio Stato e dei grandi principi della civiltà, e nel discorso col quale apriva la XVII legislatura (io dicein-vre 1S90), si gloriava di aver tenuto salda la potestà civile in dodici anni di regno e prometteva di non permettere che a fini politici si portasse in nome della religione offesa alla sua sovrana autorità.
Nel discorso del 20 febbraio 1902 — durante
il ministero Zanardelli — il Re, dopo il famoso annunzio d’un progetto sul divorzio, soggiungeva :
« Nelle relazioni fra lo Stato e la Chiesa il mio Governo intende mantenere strettamente la separazione dell'ordine civile dall'ordine, spirituale, onorare il clero ma contenerlo nei limiti del santuario : portare alla religione e alla libertà di coscienza il più illuminato rispetto, ma serbare inflessibilmente incolumi le prerogative della potestà civile, i diritti della sovranità nazionale ».
Il discorso reale del 24 marzo 1909 non fece alcun accenno alla questione ecclesiastica, benché i clericali avessero partecipato alle elezioni e mandati alla Càmera deputati cattòlici.
Dal discorso della XXIV Legislatura (novembre 1913): « In Italia hanno particolare importanza i rapporti fra la Chiesa e lo Stato, sapientemente disciplinati dalle nostre leggi sulla base della più ampia libertà religiosa, la quale però non può mai tradursi in ingerenze della Chiesa nelle funzioni dello Stato (vivissimi, ripetuti e prolungali applausi), poiché lo Stato, che è il solo rappresentante della universalità dei cittadini, non può ammettere limitazione alcuna alla sua sovranità», (Applausi unanimi e prolungati).
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La “ Settimana Sociale „ di Milano.
Ora che la « Settimana Sociale » di Milano si è chiusa e che la stampa di tutti i partiti l’ha ampiamente commentata possiamo anche noi esporre la nostra opinione serena su quell’avvenimento.
Occuparsi di tutti i lavori di quei congresso cattolico sarebbe lungo ed anche superfluo, perché, come già la stampa quotidiana ha dimostrato, le lezioni dette dai vari oratori della « Settimana Sociale » si riducono ad esposizioni cattolicamente ortodosse delle principali dottrine o pretese dei circoli clericali. Sono lezioni quindi, che esaminate dal punto di vista del diritto canonico, filano dirette senza fare una grinza ; ma che per ognuno che non abbia una mentalità educata sui trattati teologici e canonici— e quindi per l’immensa maggioranza degl’italiani — si riducono ad essere delle semplici, per quanto elaborate, discettazioni accademiche che altro valore non hanno eccettuato quello di commemorare i tempi che furono. Sono state pagine di vita e concetti medievali quelle sciorinate tanto abbondantemente alla « Settimana Sociale » di Milano.
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NOTE E COMMENTI
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Possiamo esser sicuri che non hanno persuaso neppure i meglio intenzionati tra gli uditori.
La base di tutte le discussioni è stata sempre l’equivoco, non sappiamo se voluto o se frutto spontaneo dell’educazione dei relatori. E valgano i fatti, secondo l’espressione doverosa in questi argomenti: l’avvocato Rosa parlò sul « Diritto dei cittadini ad esigere l’osservanza del i° articolo dello Statuto». Orbene tutto il suo discorso ha per base un equivoco : egli ha confuso deplorevolmente la religiosità con l’ecclesiasticismo cattolico, e tutti gli argomenti che potevano jx>rtarsi a favore della religione egli li ha addotti a favore... della Chiesa cattolica, quasi che fossero la stessa cosa! La religione, egli ha detto, è naturale nell’uomo ed è necessaria alla società; lo Stato non può disinteressarsi della religione senza sovvertire l’ordine sociale; ergo... lo Stato ha il dovere di applicare strettamente il primo articolo dello statuto, cominciando col ristabilire l’obbligo dell’insegnamento religioso nelle scuole! In altri termini, secondo il relatore, lo Stato per rispettare la religiosità dei cittadini deve riconoscere alla Chiesa cattolica una posizione scandalosamente privilegiata e condannata dalla coscienza moderna. Ma che concetto ha il sig. avv. Rosa della religione ? Non si avvede egli che il confondere la religiosità con l’ecclesiasticismocattolico è un equivoco addirittura pietoso?
Altri equivoci hanno costituito il fondamento delle altre lezioni o discussioni. Per esempio, quando i congressisti parlarono in difesa dell’insegnamento religioso finsero di credere che quell* insegnamento potesse dare alle scuole un contenuto religioso e cristiano. Se i sostenitori dell’ insegnamento religioso — cioè della dottrinella cattolica — credono sinceramente che quelle lezioncine di catechismo possano dare alle scuole una veste religiosa, debbono avere un ben meschino concetto della religione e della scuola. Possibile eh’essi si contentino di si piccola cosa! ma via, signori clericali, siate sinceri una volta tanto e confessate apertamente che voi confendete volutamente la vostra dottrinella con la religione solo perchè volete servirvi di essa per avere la possibilità d’introdurvi nelle scuole e di plasmare le anime tenere dei bimbi secondo i vostri interessi! Se voi giocherete a carte scoperte, mettendo in vista i vostri autentici scopi, tutti i veri liberali vi combatteranno lealmente; ma se voi continuerete a servirvi del nome della religione per nascondere i vostri pensieri reconditi, tutti gli onesti avranno il diritto di smascherarvi e di qualificarvi per gli eterni manipolatori di equivoci.
Cosi ancora si può dire per ciò che riguarda il divorzio. I clericali dicono e la « Settimana Sociale ha ribadito, che il divorzio verrebbe a spezzare l’unità della famiglia che è un’isti-zione sacra. Ma anche qui i clericali si accontentano delle semplici apparenze, perchè essi sanno benissimo che il divorzio praticamente è attuato in numerosissime famiglie, le quali potrebbero vivere in condizioni di felicità e di onestà assai migliori, ove la possibilità del divorzio fosse loro concessa. Ma i circoli clericali sono contrari alla istituzione del divorzio solo perchè temono che molti ne approfitterebbero non curandosi degl’impedimenti messi innanzi dalla Chiesa. Orbene anche qui vi è un dilemma al quale i clericali non possono sfuggire: o gl’insegnamenti delia chiesa sono vivi ed efficaci, ed allora non occorre l’ausilio della legge civile per impedire il divorzio tra le anime credenti ed ossequiose agli ordini delle autorità ecclesiastiche; o, al contrario, gl’insegnamenti della Chiesa non sono più vivi ed efficaci per ciò che riguarda il divorzio, ed allora la legge non fa altro che imporre uno stato di cose che non corrisponde più alla intima coscienza dei credenti : in tal caso il valore morale della dottrina cattolica è completamente distrutto perchè non poggia più sulle coscienze, ma ha bisogno dell'aiuto della legge civile per essere rispettata. Ma i clericali non si preoccupano di tutto ciò; essi desiderano ad ogni costo conservare alla chiesa cattolica una posizione privilegiata, e restano indifferènti innanzi al perpetuarsi dell’equivoco, pardi conseguire l’intento loro.
Ma la parte più importante della « Settimana Sociale» di Milano è stata indubbiamente quella che ha trattato della posizione del papa. Possiamo anzi dire che tutta la « Settimana » ha servito solo da riempitivo ed ha avuto lo scopo di mettere in maggior rilievo il discorso di mons. Rossi, arcivescovo di Udine, che parlò sulla legge delle guarentige in modo da far intendere chiaramente ch’egli era il semplice portavoce della curia vaticana, almeno in quel momento. Giustamente il Giornale d’Italia definì quel discorso col titolo : « La parola del Papa », poiché in quei giorni tutti ebbero l'impressione che il papa avesse finalmente abbandonato gli ormai troppo passatisti «imprescrittibili diritti » sull’antico territorio romano. Ma i poveri interpreti del pensiero vaticano vanno soggetti ad alti e bassi repentini, ond’è che molto cautamente debbono accettarsi le loro dichiarazioni, perchè i circoli vaticani non hanno nessuna difficoltà ad
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BILYCHNIS
annientare con una breve smentita quelle stesse dichiarazioni che poco prima avevano ispirate. Così è infatti accaduto anche in questa occasione : il conte Dalla Torre, nel suo discorso riassuntivo, non ha più accennato alla proposta di internazionalizzare la legge delle gua-rentige — come il Rossi aveva fatto — e si è ristretto a proclamare il patriottismo dei clericali italiani, i quali però vogliono sì una patria libera e grande, ma... solo in quanto la chiesa è disposta a riconoscerle una certa autonomia ; anch’essi vogliono lo Stato laico, ma... cattolicamente laico! In sostanza il conte Dalla "''orre non ha detto che parole prive di valore, poiché egli sapeva benissimo che giammai lo Stato italiano avrebbe accettato il suo laicismo cattolico. Il suo discorso quindi, ad onta del suo sfoggio di patriottismo parolaio, non fu che una ritirata in buon ordine di fronte alle dichiarazioni di mons. Rossi, ritirata che il Vaticano accelerò rudemente colla sua nota ufficiosa nell’0£-servatore Romano che scrisse : « Non mancheremo di dire a suo tempo la nostra parola per chiarire il significato e la portata dei due di scorsi di Milano» ed aggiunge ancora: «a Milano si sono riuniti degli studiosi cattolici per trattare questioni che li interessano senza l'idea d’interpretare o prevenire il pensiero di Chi solo può risolverle». Cosicché tutto il chiasso suscitato dal discorso dell’arcivescovo di Udine, che pure aveva parlato dopo essere stato autorizzato dal Vaticano, ricade nel nulla e la curia romana serba intatte le sue vecchie pretese. Evidentemente il discorso dell’arcivescovo di Udine doveva essere un ballon d’essai e vaie la pena di esaminarlo.
Fatta una distinzione tutta scolastica tra la libertà e la tolleranza mons. Rossi concluse che lo Stato, se vuole riconoscere la libertà della chiesa, non deve limitarsi a permetterle di esternare le sue idee religiose, ma « poiché la libertà è propria soltanto della persona che è sui iuris. il concetto di libertà suppone quello di personalità, di fronte alla quale lo .Sialo rinuncia a far valere le sue pretese e, lungi dal sopprimerla, la garantisce e la protegge. Protezione che é qualche cosa più che la libertà, tanto che questa può essere senza protezione, e la protezione può a sua volta inceppare la libertà». In altri termini la libertà, secondo mons. Rossi — e quindi secondo il Vaticano — significa libertà solo per i cattolici, anzi significa addirittura licenza per le autorità cattoliche, le quali vogliono essere libere di far quel che credono, senza che lo Stato debba •permettersi d’intervenire in modo alcuno. Dal che si vede che la curia romana
non cambia mentalità : essa non si preoccupa minimamente di domandarsi se quella libertà illimitata che chiede per sé non debba necessariamente ledere la libertà dei terzi ed anche la sovranità dello Stato. Che importa tutto ciò alla Chiesa romana? Per essa lo Stato non deve essere che il suo «braccio secolare» sempre pronto a sostenerla nelle sue pretese, ma altrettanto pronto a trarsi in disparte di fronte alle sue ambizioni smodate !
Parlando della indipendenza del pontefice l'arcivescovo di Udine disse, fra le altre cose : « Ora, nelle nuove condizioni —- cioè abolito il potere temporale — perduta la società la sua fisionomia cristiana, divenuta atea e pagana, non potrebbe la Provvidenza assegnare alla Chiesa un’altra forma di garanzia e immunità e indipendenza?» Certo, si può rispondere, la Provvidenza potrebbe assegnare un’altra forma di garanzia ; ma giacché non 1 ' ha fatto non è lecito credere che i decreti della Provvidenza non sono conformi ai desideri del Vaticano?... Ma già, dimenticavamo che per la curia romana la volontà della Provvidenza si deve manifestare solo in modo favorevole alle invadenze dei clericalismo e della Chiesa cattolica, altrimenti non è più Provvidenza !
Così mons. Rossi si è incaricato, col suo discorso, d’indicare alla Provvidenza la via che dovrebbe prendere oggigiorno per favorire le autorità cattoliche, visto che del potere temporale la Provvidenza ha dato troppi segni di non volerne più sapere. E qual è questa via? quella stessa che, dopo la presa di Roma la Santa Sede non voile prendere in considerazione neppure come lontana ipotesi, allorché le fu proposta: cioè la internazionalizzazione della legge sulle guarentige — debitamente ritoccala naturalmente — la quale cosi da legge nostra di diritto pubblico interno, dovrebbe trasformarsi in un patto sottoposto al controllo delle potenze.
Tutti i partiti — salvo forse il nazionalista che, secondo me, non ha più ragione alcuna di differenziarsi dal partito clericale — sono stati pronti a rispondere come si conveniva alla temeraria richiesta che — se per dannata ipotesi dovesse essere appagata — ridurrebbe l’Italia al livello dei paesi a regime capitolare.
In che modo infatti dovrebbe esplicarsi codesto controllo internazionale? e non basterebbe ogni minimo pretesto per indurre le potenze straniere a dichiarare insufficienti le garanzie del Governo italiano e ad allacciare la necessità di far presidiare il territorio romano da milizie non italiane ? Ognuno intende che una simile soluzione della questione ro-
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NOTE E COMMENTI
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mana sarebbe più dannosa per il prestigio e la sovranità dello Stato italiano che non la restaurazione del potere temporale.
Orbene, noi siamo lietissimi del fatto che il clericalismo va ognor più acquistando audacia ed avanzando pretese assurde, perchè tale suo contegno indurrà una buona volta chi di dovere ad inaugurare una politica ecclesiastica più energica e più rispondente alle orientazioni della coscienza moderna. La curia romana ha dichiarato ancora una volta, per mezzo di mons. Rossi, di non essere per nulla soddisfatta della tanto decantata legge delle guarentige; i liberi pensatori e gli acattolici in genere hanno sempre anch’essi sostenuto la necessità di abolire quella legge che dà alle autorità cattoliche una posizione privilegiata ; la stessa legge delle guarentige infine, con l’art. 18 che promette una • legge ulteriore » in materia, mostra di non essere neppure essa del tutto contenta di sè stessa.
O che si aspetta dunque per abrogare una legge che non contenta nessuno?
Aristarco Fasulo.
Mariano Rampolla.
Francesco Giuseppe d'Austria, portavoce della Triplice, di Zanardelli e di qualche vescovo italiano, nell’incaricare il card. Puzjna di porre nel conclave il velo contro il cardinale Rampolla del Tindaro, non avrebbe creduto mai che il suo atto, con cui si sostituiva allo Spirito Santo, avrebbe segnato una data fatale per la Chiesa di Roma. Nel Rampolla, egli ed i suoi consiglieri vollero combattere l’uomo politico: vollero che l’opera di Leone XIII andasse distrutta e che gente nuova ponesse mano al timone della barca di Pietro. Purtroppo forse il loro malo animo andò oltre le loro previsioni ; combattendo l’uomo politico non si avvidero di combattere pure un nuovo orientamento religioso della Chiesa che si veniva lentamente instaurando, non si avvidero che ad un cristianesimo più consono ai tempi ed alle esigenze intellettuali e morali, sostituivano, con Giuseppe Sarto, la reazione medievale e l'oscurantismo. Ma se pur di ciò si fossero avveduti in tempo gli avversari di Mariano Rampolla, non avrebbero esitato egualmente a strappargli dalla testa la tiara ; che importa, infatti, ai calcolatori della politica del giorno per giorno, dei problemi dello spirito e dell’avvenire di una Chiesa ? Non ne importava neppur nulla ai padri, riuniti per la elezione, che videro compiacente
mente eliminato col Rampolla il più temibile concorrente; non ne importava neppur nulla a colui che divenne Pio X, che aveva consentito —- prendendo atto supinamente della violenza fatta al conclave, accettando anzi di porre la sua candidatura al papato, bene accetta al Signore d’Austria — a che lo... Spirito Santo venisse scacciato via. come uccello di malaugurio, dalla sala delle riunioni.
Mariano Rampolla avrebbe forse seguito la politica di Leone XIII : forse, mente acuta e pronta, al momento opportuno l’avrebbe temperata o modificata. Io non sono troppo ammiratore della politica di quel pontefice, ma, paragonandola alle ruine venute accumulando da quella del suo successore, trovo che non mancava di forza e di abilità. Anche in ciò che riguarda i rapporti con lo Stato italiano, era sempre da preferirsi l’atteggiamento sdegnoso e severo di Leone XIII e del Rampolla.
Certo si è che questi avrebbe seguito Leone XIII nei suo programma religioso. Uomo colto e studiosissimo, Mariano Rampolla sapeva che le idee non muoiono per una condanna autoritaria : sapeva che, contro posizioni basate solo su tradizioni malferme, la storia e la critica avevano ragione di esercitare il loro diritto: sapeva che se è opportuno alle volte tirare i freni perchè non si corra troppo, non può imporsi mai allo spirito umano la immobilità. Ricordo, a questo proposito, che quando Romolo Murri, allora alle sue prime armi, pubblicava sulla Cultura Sociale le famose lettere sulla cultura e sulla formazione del clero, e mentre da ogni parte d’Italia dai vescovi, spaventati che qualcuno ricordasse loro di vivere all’alba del ventesimo secolo, piovevano proteste in Vaticano, il Rampolla, chiamato a sè il Murri e mostratogli il cumulo dei richiami. Io incitò a continuare nella critica intrapresa, con prudenza ma senza preoccuparsi di ciò che da parte dei dignitari della Chiesa si sarebbe potuto dir contro di lui.
Più tardi, dopo l’articolo rimasto celebre // crollo di Venezia, nel quale il Murri aveva dato l’ultimo colpo all’opera dei Congressi di vecchio stile, invocando maggior libertà per i cattolici italiani, e contro cui si era levato il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, il Rampolla aveva difeso il prete contro il porporato ed il futuro papa era stato dall’antico segretario di Stato avvertito severamente di non eccedere dalle sue attribuzioni.
Di questa larghezza di vedute e di questa serenità dello spirito resta esempio, anche più significativo, il non aver voluto mai unirsi a
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coloro che negli ultimi tempi del pontificato di Leone XIII si agitavano onde ottenere la condanna delle opere del Loisy. E se il vecchio papa resistette energicamente a tutte le pressioni che gli venivano fatte contro l’esegeta francese, un merito non piccolo ne va dato al Cardinal Rampolla.
Certo, messo alla porta da Pio X, il cardinale siciliano non dovette troppo dolersi dei disastri politici del nuovo papa. E dovette sorridere di una politica che inimicava al Vaticano la Francia, che perdeva il Portogallo, che veniva alienandosi la Spagna, che non soddisfaceva la Germania, l’Austria, l’Inghilterra, l’Italia e tulli gli altri Stati fino al Chili e... alla Repubblica di San Marino. Ma certo non sorrise, ma pianse, quando vide il vuoto
religioso che le nuove direttive formavano attorno alla chiesa romana. E pianse certo non perchè egli, che credeva nell’avvenire del cat-tolicismo, disperasse dell’intervento della Provvidenza a salvarlo, ma perchè vide che vi erano nella Chiesa degli uomini che credevano ancor possibile governare gli spiriti col porre loro il bavaglio, perchè vide cosi ritardato indefinitamente il sogno degli uomini migliori di una conciliazione anche nella chiesa romana della fede e della scienza.
Oggi l’uomo, che invidia di uomini e calcoli errati di politicanti impedirono fosse pontefice romano, è morto. Nella pace eterna avrà trovato il compenso alle miseriole di quaggiù.
Ernesto Rutili.
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FIIPJOFIAE RELIGIONE
I Valori Cristiani
e la Cultura Moderna.
UGO JANNI, I Valori Cristiani e la Cultura Moderna, Mendrisio, Casa editrice Cultura Moderna, 1913, voi. di 380 pagine, prezzo L. 6.50.
Leggendo quest’ultimo libro di Ugo Janni, ho spesso pensato a coloro che ne saranno scandalizzati : che ne saranno, intendiamoci, non che affetteranno di essere.
Molti di certo, perchè non c’è capitolo dei dodici nei quali è divisa la materia del volume, starei per dire non pagina, non paragrafo onde non parta un colpo, e spesso un fiero colpo, all’indirizzo del vecchio edificio delle credenze cristiane, quale l’ha alzatola teologia medievale.
Dio non è più il grand’Uomo che questa teologia si raffigurava, il grand’ Uomo più benigno e morale, se volete, del Giove d’Omero, ma non più grande perchè non uscito dalle linee antropomorfiche: ma è l’Essere fondamentale, l’Io universale e soprapersonale.
La creazione non è più la produzione ex nihilo dovuta a un atto arbitrario divino, ma la manifestazione quantitativa del qualitativo, la irradiazione dell’ Essere in particolari forme finite, dovuta alla necessità essenziale che preme l’Essere stesso.
Gesù di Nazaret non è più la combinazione di due nature, il Giano misterioso una cui faccia è uomo e l’altra Dio, che una volta parla e agisce come uomo e un’altra come Dio, che come uomo ignora e come Dio sa, come uomo soffre e come Dio è inaccessibile al dolore, come uomo prega e come Dio esaudisce: ma la creatura privilegiata, unica, nella quale l’incarnazione divina, che è un fatto universale, raggiunge il grado sommo, il grado perfetto.
Di conseguenza, il Cristianesimo non è più l’unica religione divina alla quale tutte le altre stieno nel rapporto di errore a verità: ma l’apice di una rivelazione universale, che — come Dio s’incarna in tutte le forme per esprimersi compiutamente in Cristo — s’incarna in tutti i culti per raggiungere nel Cristianesimo il « culto in ¡spirito e verità ».
E la Bibbia? La Bibbia non è più il libro senza errori, il libro magico che si consulta come una cabala per trovarvi sia la « sana dottrina» che i misteriosi chirografi dell’avvenire : ma la storia — come gli uomini l’hanno potuta e saputa scrivere — la storia umana del fatto divino.
La fede non è più la credenza o il mero assenso intellettuale, sia pure scaldato dall’assenso del cuore ; ma un impeto di tutto l’essere, un atto nel quale entra tutto l’uomo, un’espressione della vita nella quale entra tutta la vita.
E l’opera di Cristo non è più una finzione giuridica, una sostituzione nel castigo, sicché punito Lui, il Santo, noi peccatori ci si possa fregar le mani e dire : giustizia è fatta : e tornarcene col cuore alleggerito a casa, come
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ai suoi dì fece Barabba — ina è l’offerta di un’obbedienza eroica perfetta, compiuta, straripante, per la quale fu fatto il primo e più grande passo nella espiazione del peccato, nella cancellazione del male dalla faccia della terra.
E la Chiesa non è più una Chiesa, questa o quella Chiesa, una specie di fortezza cinta di fosse e di torrioni ove non s’entri che in virtù d’uno scibbolet bene pronunziato : ma una società d’anime diffusa in tutti i luoghi e in tutti i tempi e rivestente molte forme, della quale si fa parte quando il peccatore, già in dissenso Coll’Assoluto, verso l’Assoluto si orienta...
E potrei continuare un bel pezzo nella enumerazione delle idee (come chiamarle? rivoluzionarie? l’A direbbe conservatrici; conservatrici? l’A. direbbe rivoluzionarie) di questo libro che susciteranno una folla di scandalizzati. Ma mi fermo qui perchè ho fretta di dire a questi scandalizzati, che suppongo veramente pii, ma turbati dalle asserzioni dell’Au-tore che poi sono oggimai asserzioni di tanta parte dei credenti : — Leggete, leggete il libro! Se pure ciò eh’esso dice non vi persuaderà, voi sentirete correre attraverso le pagine, attraverso la fitta argomentazione, tanta calda e luminosa corrente di fede che — se le vostre anime sono davvero pie e perciò dotate del senso delle cose di Dio — non potrete non riconoscere il fratello in colui che da quelle pagine vi parla, non potrete non pensare — forse |x*r la prima volta nella vostra esperienza cristiana — che si può entrare nel cuore della stessa Verità per porte diverse, e di là in formule diverse professarla e predicarla.
* « *
Ma io penso ad una seconda categoria di lettori dello Janni : i lettori che — ben lungi dall’essere scandalizzati — si sentiranno confortati da questo libro, forse tratti alla fede.
E’ ormai legione il numero di coloro che sentono essere nell’ intimo del Cristianesimo qualcosa di vero e di grande che li commuove e li attrae, eppur ne restano lontani come se una potenza malefica avesse tracciato attorno alla Verità Cristiana un cerchio magico che le loro anime non possono oltrepassare... E sì, difatti : la potenza malefica ha tracciato questo cerchio : esso è la definizione teologico-dom-matica che le vecchie filosofie hanno data del fatto cristiano.
Era naturale che i pensatori del secondo, dei terzo, del quarto, del quinto secolo e via dicendo fino al secolo dell’Aquinate, i pensatori, dico, che accettarono il Cristianesimo,
lo intendessero e lo esprimessero — scientificamente parlando — come comportava la filosofia del loro tempo, la filosofia eh’essi professavano e nella quale erano, bene spesso, insigni maestri. Ma fu egli naturale che quella espressione e interpretazione, legata alla filosofia di un tempo, rimanesse attaccata al Cristianesimo per tutti i tempi, quasi come essendone divenuta parte integrante, sostanza e midollo?
Non solo non naturale, ma fu fatale alla conquista che la Parola di Cristo doveva fare delle anime!... Vedetelo: le anime che sono progredite coi tempi, che si sono dissetate alle fonti delle nuove filosofie e della nuova scienza, che hanno imparato ad esprimere e a intendere le grandi Verità nei linguaggio e nella forma concettuale d’un tempo che al patrimònio di pensiero raccolto dall’Aquinate ha aggiunto il pensiero di Galileo e di Spinosa, di Bacone e di Bruno, di Vico e di Hegel, di Kant e di Spencer: queste anime non intendono più, non sentono, non amano un Cristianesimo chiuso nell’otre vecchia delie formule alessandrine, o nicene, o tomistiche... non lo possono più intendere, sentire e amare !
Ebbene, a queste anime appunto il libro dello Janni parla un chiaro e dolce linguaggio di convinzione. Esso fa loro vedere che altro è la sostanza del messaggio cristiano ed altro la forma nella quale lo gettarono le antiche filosofie e lo gettano e lo getteranno le nuove e le future ; altro è il fatto ed altro la teoria che vi fabbricano su i teologi ; altro, insomma, l’otre ed altro il vino.
Ed io sono sicuro che sarà inteso e farà bene questo linguaggio. Come è stato inteso e ha fatto bene il linguaggio del Campbell al quale il Nostro si è tanto ispirato. Non dimenticherò mai le due domeniche ch’ebbi la fortuna di udire l’autore di New Theology dal suo pulpito nel City Tempie, assiepato d’un immenso uditorio che sentivo fremere. Quasi tutti uomini — contrariamente a quanto si vede nelle altre chiese di Londra — uomini che durante la settinana hanno ietto Spencer, Matthew Arnold, J. Stuart Mili, Clifford, Haeckel, Clodd, Leslie Stephen e Bernard Shaw, e la domenica vogliono sapere che cosa il Cristianesimo ha da rispondere a costoro e se può rispondere...
Guardando a quei vasti uditori e pensando ai turbamento die la.'V¿w Theology aveva creato nel mondo quieto della Chiesa mi sovvenne del quinto capitolo di S. Giovanni : « Di tempo in tempo un angelo scendeva nella pesci na e intorbidava l’acqua : e il primo che vi entrava, dopo l’intorbidamento dell’ acqua, era sa-
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nato... ». Sarà interpolato quel versetto, non sarà stato dettato dall’evangelista, ma che grande verità contiene! Soltanto quando le acque della dommatica stagnante sono intor* bidate dall’angelo del pensiero, soltanto allora v’è guarigione a certe anime!
• * *
Ma il libro? il libro stesso ? che vale questo libro che parla di valori cristiani?
Tra i pregi va notata la semplicità e chiarezza della forma. Ti accorgi che l’Autore ha parlato molto al pubblico e acquistata l’arte di esprimere gli astrusi pensamenti nello stile a tutti accessibile. Ogni persona di media coltura può intendere la più diftìcile di queste pagine.
Altro pregio, la divisione della materia fatta anch’essa in modo da aiutare il lettore. Non ti trovi dinanzi al tipo ordinario di libro filosofico che corre tutto d’un fiato e richiede polmoni robusti a chi voglia seguirlo : qui vai a piccole giornate, a tappe frequenti.
Ed è anche pregevole, nel suo assieme, la sostanza ideale. L’autore si è ispirato, come ho detto, al Campbell : veramente il suo libro non è che la presentazione al pubblico italiano della New Theology ; ma è una presentazione fatta bene, bene adattata all’indole nazionale, bene agganciata a tutti gli elementi della coltura nostra nazionale che possono favorirla, Qua e là l’A. ha tolto, qua e là ha aggiunto, altrove ha riformato, sempre tenendo d’occhio le tradizioni e il genio proprio del pensiero italiano.
Quanto ai difetti, o a quei tratti del libro che a me paiono difetti, poche noterelle in fretta.
Mi sembra che qua e là l’A. addebbiti alla teologia medievale colpe che non sono propriamente sue, ma dei suoi meno felici interpreti. Per esempio, là dove parla della creazione ex nihilo come d’una « derivazione del nulla» quasi che «dal nulla possa emergere qualche cosa ». Ma la verità è che dicendo che il mondo è stato fatte dal nulla gli scolastici non volevano dire che Dio avesse preso il nulla e n’avesse fatto qualcosa, ma — puro concetto negativo — che l’Uviverso non fu tratto dall’intimo di Dio stesso nè formato da una materia preesistente, sibbene posto', quanto alla sua derivazione esso non deriva dal nulla ma dalla virtù creatrice del suo autore.
Qualch’altra voltai’Janni non segue la linea retta del suo proprio sistema. Per es., là dove tratta della Trinità nell’io divino. La Trinità nell’io divino è logica nel sistema medievale pel quale — non essendo l’Universo attuazione
dell'Io divino — questo, Pio divino, ¡¿atto pieno. Allora s’intende che in quest’atto pieno la vita dell’io si possa svolgere nel grandioso processo di una generazione eterna ad intra. Ma quando Pio divino non è più atto pieno ma la Potenza prima, iniziale, che poi si attua nell’U-niverso, allora non ci può essere altra Trinità che quella che l’A. chiama la « Trinità del-l’Essere considerato nel suo tutto». Difatti Hegel — e la logica è il forte di Hegel — non ravvisa altro Trino all’infuori dell’Autogenesi, della Genesi e dello Spirito Assoluto, che costituisce l’intero processo evolutivo dell’Essere.
Qualch’altra volta, a proposito dell’Essere, l’A. cade in contradizioni che però credo più di forma che di sostanza. Per es., dice nelle prime pagine che Dio è l’Essere. Poi, più oltre, che Dio e l’Universo sono due modi dell’Essere, il che verrebbe a dire che il quid sostanziale non è più Dio, come pareva che volesse significare la prima proposizione.
Qualch’altra volta l'Janni compie sulle vecchie formule e alio scopo di modernizzarle, uno sforzo,che,mentre non riesce nell’intento, compromette la serenità e l’obbiettività del libro. Gli è che l’Janni s’è legato al metodo, del Baudry «rien détruire, tout transformer », come se non fosse più « semplice » e « profondo» quest’altro metodo: distruggere quel che va distrutto e trasformare ciò che va trasformato... E, poi, distruggere? trasformare? ma non ha diritto il nostro pensiero di arricchirsi di nuovi elementi e di creare, si, proprio, creare ex novoì L’umanità non è un bove condannato a ruminare eternamente ciò che una volta mangiò: l’umanità mangia e assimila sempre nuovi elementi. Di fronte alle vecchie formule — sien pure quelle di S. Paolo o di S. Giovanni — non dobbiamo sentirci schiavi ma liberi. Noi abbiamo avuti e forse abbiamo altri Paoli, altri Giovanni.
Qualch’altra volta l’A. non estrae abbastanza dalle premesse ch’egli medesimo ha poste. Vi pare che la sua teoria dell’opera espiatoria di Cristo sia pari alla teoria della persona dell’espiante? Se Gesù è la perfetta incarnazione di Dio e perciò l’uomo perfetto, l’uomo vero, l’uomo in cui si compendia e sublima l’umanità, la sua opera espiatoria deve essere più che un principio d’espiazione, deve essere tutta l’espiazione. E di ciò non segue punto che avendo egli fatto tutto, noi s’abbia a far niente, perchè ci resta da appropriarci quell’opera mediante la fede, appropriazione che è a sua volta un’opera e quanto mai ardua! Ugo Janni, che ha mente filosofica, doveva cogliere questi altissimi valori ideali, non
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limitarsi ad una interpretazione che sa di quel piccolo razionalismo che egli ha, e giustamente, in uggia.
Ma qui faccio punto : sia perchè ho già scritto troppo, sia perchè ho fiducia d’avere già invogliato il lettore (non per ciò che ho detto io ma per quello che qui ha ridetto )’Janni) a leggere il libro stesso. Oh, è un buono e bel libro ! un libro che merita la sua copertina rossa fiammante, perchè è tutto una fiamma d’idea e di carità; un libro, anche, che merita d’essere apparso nella « Biblioteca » cosi saggiamente e audacemente diretta dal Battami, la quale ha dato alla famiglia sempre crescente dei nostri studiosi i volgarizzamenti dell’Harnack e del Lea, del Weizsàcker e del Doellinger, e tant'altri ne darà a misura che svolgerà il suo ardito programma.
Chi legge questo libro dell’Janni non solo si convincerà che, lungi dall’essere un addor-inentatore, P Janni è un suscitatore di pensiero e perciò uno di quelli che in cattolicaia sono più temuti — ma sentirà le finestre dello spirito aprirsi ad una più larga visione... E non Pha detto Victor Hugo? Toni assainissemenl coni-mence par une large ouverture des fenélres.
Alfredo Taglialatei.a.
&
Il pensiero filosofico di R* Ardigò.
ROBERTO ARDIGÒ’. Pagine scelte, a cura di E. Troilo. — Genova, A. F. Formiggini, editore. (L. 7; edizione in carta a mano rilegata, L. io).
Il pensiero filosofico di Roberto Ardigò può esser discusso e rigettato da molti: io stesso che scrivo di questo libro, non condivido le idee del grande pensatore e mi trovo sulla opposta sponda. E’ vero purtroppo però che spesso l’opera del filosofo mantovano non è da amici o dagli avversari, da chi si afferma seguace del positivismo e da chi per contrario segue le nuove correnti dell'idealismo, direttamente e sufficientemente conosciuta, ma i più si affidano alle opinioni desunte da qualche manuale di filosofia che va per la maggiore, ovvero ad un istintivo senso di adesione o di ripugnanza verso ciò che viene volgarmente sotto il nome di positivismo. Eppure è noto che l’opera di R. Ardigò, come quella di ogni filosofo, è troppo vasta, è troppo varia, è troppo irta di difficoltà perchè possa essere compresa ed assimilata dalla maggior parte, e perchè possa parlarsene con un apriorismo o con un dilettantismo volgarissimi.
Per questo, il volume di cui parliamo, in cui Emilio Troilo, con affetto di discepolo e con competenza profonda, ha pubblicato le pagine scelte dell’insigne maestro, ci sembra altamente commendevole. Tanto più che questo grosso volume non contiene una scelta farraginosa e confusionaria, ma tale scelta è invece disposta con un ordine mirabile e con una sistemazione perfetta, in modo che il lettore possa subito afferrare lo schema centrale di tutta la meditazione esposta dal filosofo. Così è facile seguirlo nelle sue idee sulla filosofia in generale, sulla storia della filosofia, sulla morale e sulla pedagogia.
Ma ciò che, anche per gii avversari più convinti e più... onesti, rende prezioso questo volume, sono alcune pagine che chiudono il volume, pagine inedite, in cui Roberto Ardigò ci dà la sua autobiografia, che è un do-comento umano di primo ordine e che conferma all’uomo che l’ha scritte il rispetto e la venerazione meritatigli dalla sua forte coscienza, dalla vita esemplare, dalla serenità di studioso, dalla modestia singolare. Particolarmente chi ha provato in sè qualche crisi di anima e sa le tragedie dello spirito, non potrà non restar commosso nel leggere queste pagine autobiografiche. In esse PArdigò ricorda la sua nascita umile ed i primi insegnamenti che nella povera casa di contadini la madre gli impartì: rievoca la sua vita di maestro elementare nel seminario ed i primi studi di filosofia scientifica intrapresi allo scopo di combattere le teorie contrarie alla fede cattolica: e poi la tragica lotta operatasi nell’anima sua tra la fede ingenua e la coscienza di scienziato, tra l’angoscia di recare inefia-bile dolore a chi lo amava — fra questi primo il confortatore dei Martiri di Belfiore, monsignore Martini, che lo aveva educato e amato come un figlio — ed il dovere assoluto, improrogabile, a cui nessuno che non sappia mentire a se stesso può sottrarsi mai.
Il Troilo riporta precisamente la famosa pagina Guardando il rosso di una rosa, nella quale l’Ardigò si compiacque di sognare, come in un simbolo, il punto di partenza della sua concezione positiva e la prima origine del positivismo che egli diffuse poi in Italia e di cui fu poi il caposcuola. Ora la coscienza contemporanea va orientandosi verso un polo opposto, è vero : ma non è men vero che nella storia del pensiero italiano il pensiero dell’Ardigò ha avuto una speciale importanza e che almeno dal punto di vista storico meriti di essere conosciuto e studiato. Anche per questo, cioè per il riconoscimento dell’alto valore scientifico come dell’altissimo valore
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morale, noi siamo stati ben lieti che sebbene troppo tardivamente, io Stato italiano abbia alfine iscritto il venerando uomo nel numero dei senatori. E. R.
La Psicologia di Gesù.
Sotto quel titolo, il sig. ATTILIO JALLA ha pubblicato nella Rivista Cristiana (n. 1-2 corr. anno), un interessante articolo che ci ha suggerito le seguenti osservazioni : Dopo aver accennato alla poca importanza che gii antichi davano allo studio dell’uomo, i’A. dice che « Gesù fu il rivelatore della persona umana; che sebbene amasse la natura non l’osservava mai per se stessa, ma, come Socrate, in vista dello spirito umano ; Ch’Egli si occupò dell’uomo in senso puramente morale e spirituale e ne scoperse la parte centrale ed eterna; che sebbene, in un senso, Egli fosse figlio del suo tempo, non si accostava a nessun sistema filosofico o morale anteriore, e che soli iniziatori alla sua speculazione psicologica furono la Bibbia e l’osservazione della natura. Di più, Gesù esaminò l’uomo in sè, distinguendolo anzitutto da quanto gli è estraneo, dagli oggetti esterni alla sua persona, dalle ricchezze, dalla gloria mondana e dalla propria attività morale. Poi esaminò la persona umana stessa nelle sue caratteristiche essenziali, e lo fece a modo suo, poiché la sua psicologia non è una scienza speciale, ina un semplice mezzo per ¡stabilire il fondamento della morale universale, non un’esposizione teorica delle varie facoltà intellettuali e morali, ma una cognizione pratica rivolta ad uno scopo ulteriore e già esposto nell’Antico Testamento ».
Passando poi all’esposizione della psicologia di Gesù, l’A. dice : < Egli distingue nell’uomo due parti principali: il corpo e l’anima. Il primo è l’elemento meramente fisico, il mezzo per cui l’anima si manifesta nella vita sensibile e nelle relazioni esterne. Ma per l’esistenza e la vita stessa dell’anima, il corpo non ha nessuna importanza. L’anima creata per ispirazione diretta di Dio, quindi assolutamente distinta dal corpo, è l’elemento spirituale costituito dall’insieme delle facoltà che formano la sua personalità, non solo quelle intellettuali e morali, ma pure quelle fisiologiche. Essa è indicata con due nomi : anima (psychè) che costituisce la vita cosciente nel suo complesso, —- e spirito (pneuma) che è l’anima considerata nelle sue relazioni spirituali con Dio. Molti han creduto poter soste
nere che anima e spirito fossero due principi essenzialmente diversi, o due parti, due facoltà ben distinte dello stesso ente, quindi l’anima veniva a significare il principio della vita animale che l’uomo ha in comune col bruto, oppure quella regione inferiore della persona che comprende gli affetti e gl’impulsi caratteristici dell’uomo ; —lo spirito invece indicava il principio della natura razionale ed immortale che l’uomo solo ha nel creato, oppure quella regione superiore della persona in cui si comprendono le aspirazioni verso Dio, la volontà morale, le forze intellettuali. Tale teoria è di origine non evangelica nè biblica, ma evidentemente platonica, ed è penetrata nel Cristianesimo specialmente in forza delia ispirazione mistico-ascetica dei Padri greci. Basta esaminare attentamente l’uso delle parole negli Evangeli per convincersi che quella teoria non è esegeticamente sostenibile. — che anima e spirito, pur non avendo un significato identico, vogliono indicare l’identico essere considerato in funzioni diverse con l'esterno ed in atteggiamenti diversi rispetto a sè... Anima e spirito sono ambedue la parte viva dell’uomo, semplice, ma inscindibile, eterna, origine delle energie che mantengono l’esistenza del corpo, ed al tempo stesso, delle forze che innalzano l’uomo ad una vita superiore ».
Fermandoci qui per ora, rileviamo in quella esposizione varie cose che cozzano colle stesse premesse dell’A. e colla Rivelazione. Egli dice che Gesù fondò la sua psicologia e ne attinse la cognizione, o almeno le grandi linee nell’Antico Testamento. Poi ci dà di quella psicologia una descrizione che non è conforme a quella della S. Scrittura. Anzitutto alludendo alla creazione dell’uomo, mostra di non aver compreso il racconto genesiaco il quale presenta il fatto come risultante da tre elementi, cioè: l’elemento materiale: la polvere della terra; l’elemento formale: il soffio di vita; a l’elemento finale: l’uomo fallo anima vivente. L’anima vivente {Nephesh-Chayah} è dunque il risultato dell’unione dei due altri elementi : la polvere della terra ed il soffio di vita,— quindi non facoltà speciale ma la persona intera, l’uomo. Si osservi inoltre: i° che la stessa espressione (Piephes/i-Cliaya/i) si applica alla creazione animale come all’uomo e che nel cap. I della Genesi, le bestie son chiamate anime viventi. 2° Che la voce indicante il soffio di vita, è al plurale: Niscemat-Chayim e che quel soffio non indica lo spirito morale o religioso, ma lo spirito creatore il quale crea tutte le vite. 30 Che codeste espressioni descrivono non già la composizione psicologica dell’uomo, ma semplicemente l’atto formatore
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che lo chiamò all’esistenza, ed accennano al fatto che l’uomo fu creato direttamente da Dio.
L’A. dice che « la teoria che considera l’anima e lo spirito come due principi diversi o due facoltà distinte dello stesso ente, è di origine non evangelica nè biblica, ma evidentemente platonica ». Questo giudizio non è conforme alla storia. Platone ed i suoi seguaci vedevano nell’anima tre parti distinte : l’intelligenza o la ragione {noits), il desiderio (Epi-IhymètiAon), e l’istinto passionale ( 7'hymoeides). Nel dialogo Timeo, ammette due anime. Tra l’anima o l’intelligenza divina e la materia che non può riceverla, Iddio ha creato un intermediario, cioè l’anima mortale che è il principio del moto e la sede degli affetti. Altrove ammette tre anime: l’intelligenza o la ragione è il divino in noi, è di natura immor-inortale, è della stessa essenza che l’intelligenza divina, e abita nella testa. Perchè l’anima mortale non possa contaminare l’anima immortale, Iddio la collocò nel petto ov’è la sede del coraggio. Ma siccome vi è in essa una parte bassa [Thymos) ed una cattiva (Epi-thymia), quest’ultima fu posta nell’addome.
Dopo Platone, Aristotile fu il primo pensatore che abbia compresa l’anima nella sua unità, sebbene egli pure talvolta la divida. Ma dopo di lui la teoria dell'unità dell’anima dominò nella filosofia pagana, tranne nella scuola neoplatonica. Fra i primi cristiani surse una nuova dottrina che ammetteva nell'uomo tre elementi distinti: lo spirito, l’anima ed il corpo, il che pare corrispondere alla teoria platonica, ma ne differisce in quanto che io spirito non è solo la sede dell’intelletto, ma una vita divina che esiste nei soli credenti, — il che esce dalla psicologia per entrare nella religione. I principali rappresentanti di questa credenza furono: Clemente romano, Ignazio, Policarpio, Giustino, Teofilo Antiocheno, Taziano, Ireneo, Atanasio, etc. — Ma la reazione p-odotta da Tertulliano ed Origene, fece predominare, specie in occidente, l’idea dell'unità e dell’immortalità dell’anima, le quali sorrette dai trionfo della filosofia di Aristolite nell'Evo-Medio, regnarono fino ai giorni nostri.
Tuttavia sui principio del secolo xix, parecchi pensatori cristiani rinnovarono la distinzione tra lo spirito e l’anima, sebbene divisi in due campi: gli uni vedendo nell’anima e nello spirito due elementi distinti avendo ciascuno finizioni particolari ; gli altri scorgendovi due sostanze diverse, cioè da un lato l'anima, dall’altro lo spirito di Dio. Oggi il numero di questi pensatori è numeroso assai, ma la differenza si mentiene, sebbene i progressi della psicologia cristiana facciano viepiù
trionfare l’idea della triplicità nell’unità della natura umana.
La conclusione del nostro A. presta pure il fianco a parecchie obiezioni : difatti, come vedemmo, egli conclude : « Anima e spirito, pur non avendo un significato identico, vogliono indicare l’identico essere considerato in funzioni ed in atteggiamenti diversi. Anima e spirito sono ambedue la parte viva dell’uomo, semplice, una, inscindibile, eterna, origine delle varie energie che mantengono l’esistenza del corpo e delle forze che innalzano l’uomo ad una vita superiore ». In appoggio all’idea che «anima e spirito indicano l’identico essere in funzioni ed in atteggiamenti diversi, egli cita il turbamento di spirito di Gesù in Giov. XXVI-2i, e l’oppressione dell'anima sua in Mail. XXVI-38. Ma ciò non toglie che le angosce dello spirito possano essere diverse da quelle dell’anima, come non impedisce che entrambi codesti elementi provino la stessa gioia e lo stesso dolore. Ma queste non sono ragioni per confonderli. L’A. insiste sull’tótvz/z/d dell’essere. Ma chi la nega ? Anche noi crediamo all’identico essere, soltanto crediamo che questi sia Vtiomo, il quale è composto non di due ma di tre elementi : spirito, anima e corpo, mentre per l’A. è un essere assolutamente semplice, talché l’anima e lo spirito formano una parte sola semplice, una, inscindibile, eterna. E’ vero che c’è il corpo, e siccome questo imbarazza l’A., egli si affretta di metterlo da banda col dire che « per l’esistenza e la vita dell’anima il corpo non ha nessuna importanza », il che provoca fortissime obiezioni. In primo luogo, ciò contradice quanto egli ha detto che « Gesù distingue nell’uomo due parti principali : il corpo e l’anima, e che il corpo è il mezzo per cui l'anima si manifesta », — per cui senza di esso l’anima non potrebbe manifestarsi, e che cosa può essere un’anima che non si può manifestare? Di più l’A. dimentica da un lato che il corpo fu creato il primo, che senza di esso l’uomo non esiste, che non poche delle energie dell’anima le vengono dal corpo, e che per altra parte se Cristo non fosse morto nel corpo il suo sacrifizio non sarebbe valido, che nel linguaggio della S. Scrittura il sangue di Cristo equivale all’anima sua, e che infine il nostro corpo deve partecipare alla santificazione alla, salvezza ed al risorgimento. Per cui credo che se la rivelazione distingue nell’uomo uno spirito, un’anima ed un corpo, il rispetto per essa e per l’uomo stesso ci impone di non separarli, nè confonderli.
Vi sarebbe un’ultima obiezione suscitata dall’asserto dell’A. che «la parte viva del-
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l’uomo composta dall’anima e dallo spirito è non solo semplice ma pure eterna ». Ma siccome la questione dell’eternità o dell’immortalità dell’anima-spirito esce dalla psicologia ed entra nella teologia, non vi tocchiamo per oggi, anche per amor di brevità.
Una cosa ci colpisce nel lavoro del sig. Jalla, ed è ch’egli non fa parola della psicologia degli apostoli che conferma quella di Gesù. Ricordiamo dunque il fatto che il Nuovo Testamento conferma l’Antico, descrivendo l’uomo come composto di tre elementi e designando questi con tre termini particolari ; talché ai vocavoli ebrei Ruach, Nephesh e Passar corrispondono esattamente i tre vocaboli greci Pneuma, Psychè e Sòma. Fra i passi ove ricorrono questi ultimi, alcuni contengono tutti e tre quei termini, ed altri soltanto due, ma tutti concorrono a dimostrare non solo la differenza che corre tra i detti elementi, ma pure il fatto di una triplicità della natura umana. Codesta triplicità fu chiamata Tricotomia ed i relativi passi furon detti tricolomici, e se alludono a due soli elementi : dicotomici. Ecco la tavola dei passi principali:
Passi tricotomici : spirito, anima e corpo'. Giob. Xll-io. I. Tess. V-23, Eb. IV-12.
Passi dicotomici: spirilo e anima'. Isa. LVII-16. Lue. I-46, 47.
Spirilo e corpo (o carne}-. I Gor. VI-20. II Cor. VII-i. Giac. II-26.
/Inima e corpo (o carne)-. Salm. XV-9, io. Fai. II-31. Mat, VI-25.
A codesti possono aggiungersi quelli che mentovano lo spirito solo, ma in tal modo eh’esso apparisce distinto dall’anima, come Prov. XVIII-14. Zac. XII-i. I Cor. II-n. Rileggendo tutti quei passi si sente quanto è vero ciò che dice il Delilzsch : « La Scrittura parla talvolta in tono chiaramente dicotomico e talvolta in tono assolutamente tricotomico. Perciocché vi è una falsa tricotomia, ed in opposizione ad essa una dicotomia biblica ; e vi è una falsa dicotomia, ed in contrasto con essa una tricotomia biblica ».
Ma fermandosi un istante ai due passi tricotomici più concludenti (1 Tess. V-23 ed Ebr. IV-12), lo stesso Delilzsch dice che « essi richiedono un esame speciale, perchè descrivono non solo casualmente ma intenzionalmente la natura dell’essere umano, ed il loro modo tricotomico di espressione, logicamente rigido, non può esser posto sommariamente da banda coll’asserire che in essi si traila della condizione della vita umana, e special-mente della vita cristiana, non in relazione coi suoi Ire distinti elementi ma (assumendo l'esistenza di due soli elementi) soltanto in rap
porto colle tre distinte relazioni di essa ». Abbiamo sottilineato queste parole perciocché si applicano a capello alla tesi del nostro A. Circa I. Tess. V-23, Delitzsch aggiunge : «Il linguaggio del testo corrisponderebbe male all’ordine dei ire concetli antropologici fondamentali, se si attribuisse all’apostolo la nozione che Pneuma e Psychè sono soltante due relazioni di quella natura interna, e non due elementi della medesima ». Infine riguardo ad Ebr. IV-12, egli combatte l’opinione che il passo non è tricotomico e che Pneuma e Psichi non indicano due distinti elementi della natura umana, ma vogliono esprimere la vita interna. Quindi egli spiega il passo comesegue: « L’autore dell’epistola attribuisce alia parola di Dio un efficacia dividente che si estende all’intera condizione pneumatica, psichica e corporea dell’uomo». E conclude che « il passo col descrivere la parte immateriale della natura umana coi termini Psychè e Pneuma, e la parte materiale colle parole arrnón e muelón (giunture e midolle), proclama un concetto tricotomico della natura umana » (1).
Aggiungasi che il testo paragona la parola di Dio ad una « spada a due tagli, la quale penetra fino alla divisione (merismos) dell’anima e dello spirito», e che questa espressione conferma la differenza tra quei due elementi. A proposito di questo passo, il Mazzarella ha osservato che le versioni ordinarie traducono male il membro di frase ove leggono : « giudice dei pensieri e degl’intenti del cuore », poiché invece di giudice (kritès), il testo ha krilikos (critico), il che, secondo lui, esprime meglio l'idea dell’autore, cioè la penetrazione della parola divina nel discernere ¡pensieri e le intenzioni degli uomini, e, aggiungiamo noi: specialmente i motivi segreti della incredulità (2).
Concludo questa parte colle seguenti parole dei sig. Heard : « Gli uomini hanno persistito a discutere sopra un punto anticipata-mente sciolto. L’avrebbero compreso se avessero pensato di consultare gli oracoli di Dio. La natura tripartita dell’uomo che i filosofi antichi hanno sospettata, ma non hanno mai scoperta, è altrettanto chiaramente dimostrata nella S. Scrittura quanto qualunque altro fatto relativo alla natura umana. La psicologia della Scrittura illumina la sua teologia » (3).
Convien tuttavia riconoscere che il problema psicologico biblico non è facile, anzi presenta varie difficoltà di cui ecco le principali :
(t) J. B. Hbard, The Tripartite Nature o/ Man.
(a) DSLITZSCH, Psicologia Mliea : Cap. Il, Se*. IV.
(3) Mazzarblla, Della critica-. Lib. I. Cap. VII.
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La prima, e forse la maggiore, è relativa ai termini Ruach e Pncutna i quali si applicano di frequente tanto all’uomo quanto a Dio, e spesso descrivono l’azione dello spirito di Dio in quello dell’uomo, e ciò in tal guisa che spesso non si vede di quale dei due Pneuma si tratti. La confusione che ne deriva è causa di un fatto strano dovuto pure alla secolare influenza della filosofia platonica e della psicologia animistica della Chiesa, che cioè parecchi esegeti i quali riconoscono la Tricotomia umana vedono ovunque nel Ruach-Pneuma lo spirito di Dio nell’uomo, dimenticando che anche l’uomo ha il suo proprio spirito, e non discernendolo neppure laddove è chiaramente indicato (come in Zac. XIl-i, Lue. I-47. XXIII-46, XXIV-45. Fat. VII-50. Rom. VIH-16. 1. Cor. Il-n, V-9, VII-34. II. Tim. IV-22). Il più chiaro di detti passi è I Cor. II-n, che è come una definizione delio spirito dell’uomo distinto da quello di Dio : « Chi conosce le cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo, che è in lui? Cosi nessuno conosce le cose di Dio se non lo spirito di Dio ». E cotesto confronto del nostro spirito decaduto e debole con quello dell’Onnisciente dovrebbe impedire ogni confusione tra di essi, non solo, ma pure tra lo spirito e l’anima dell’uomo.
Un'altra difficoltà della psicologia biblica è il fatto che la voce anima {Nephesh-Psychè) ha vari sensi di cui i tre principali sono : Facoltà-psichica, e Persona. Sono tutti e tre frequentissimi, ma il più frequente è il primo, cioè quello di Vita, non già nel senso di vita spirituale, nè di vita in potenza che dicesi Zot;, nè di vita vissuta che dicesi fìios, ma nel senso di vita personale. Al secondo senso, di facoltà-psichica, si connettono tutti i passi che parlano di sentimenti, di desideri, di affetti dell’anima, cosi buoni come cattivi. Al terzo senso, di Persona, vanno aggiunti molti passi in cui la voce ebraica Nephesh serve di pronome personale. Ma ad onta di tanta varietà si può sempre riconoscere che le voci Nephesh e Psychè descrivono l’anima senza mai confonderla col Ruack-Pneuma.
Una terza difficoltà della biblica psicologia è il fatto che accanto alla trilogia fondamentale dello spirito, dell’anima e del corpo, ve n’è un’altra pure importante. L’A. ha toccato d uno dei termini di essa, il Cuore, che secondo lui è sede non solo degli affetti, ma pur di quanto riguarda la coscienza umana, della intelligenza, della volontà, ed al quale attribuisce bensì funzioni morali, relative al bene ed al male, ma conclude : « Ogni azione morale si buona che cattiva deriva dal cuore,
il quale come sede dell’intelligenza, della volontà, del carattere, dell’attività pratica, è veramente il centro della vita umana ». Riconosco che la S. Scrittura dà al cuore una grande importanza, e so che il dott. J. I. Beck fa pure del cuore il centro della natura umana, il focolare principale della vita, il luogo di sviluppo delle funzioni. (1) Ma mi pare che trascenda col farne il portatore del carattere personale, il che appartiene piuttosto alla coscienza. E così pure panni esagerare il nostro A. coi far del cuore la sede dell’intelligenza.
Cosa strana! In questo studio psicologico l’A. nomina una volta sola la Coscienza, e due volte sole la Volontà. e di più le fa dipendere dal Cuore, sebbene esse non sieno meno importanti di esso. Si è detto che la Coscienza è di rado mentovata nelle Sacre Carle. E’ un errore ; vi è mentovala trentadue volte. Se è vero che dal cuore nascono da un lato i buoni sentimenti ed affetti, e per altra parte le cattive parole ed azioni e persino i malvagi pensieri, è pur vero che la Coscienza, la quale fa parte della rivelazione naturale, è il testimonio di Dio in noi, e che se può essere corrotta e cauterizzala, può eziandìo essere purificata, e ad ogni modo avrà una parie importante nel giudizio (Rom. II-14-16). La volontà da parte sua non va trascurata, poiché sta a base della incredulità e della fede. Basta ricordare in proposito i detti di Gesù : « Se alcuno vuol fare la volontà dei Padre mio, conoscerà che la mia dottrina è da Dio... Voi scrutate le S. Scritture... ma non volete venire a Me per aver la vita ». Questa duplice importanza della Coscienza e della Volontà è stata rilevata dai nostri migliori pensatori cristiani moderni : Pascal, Nèander, Vinel, Secretan. Lèbre, ecc. ; i cui pensièri si compendiano nel motto dei primo: « La volontà, organo della credenza ».
Per cui credo che si debba lasciare ciascuna cosa al suo posto e che invece di far preponderare un elemento sull’altro e di separarli o confonderli a capriccio per far prevalere un sistema psicologico parziale, sia molto più savio lasciare ciascun elemento nel suo ambiente naturale e cercarne la conciliazione e l’armonia, rispettando tutti i dati della Rivelazione. A questo fine parmi sommamente utile, per quanto concerne gli elementi della natura umana, studiare oltre al loro senso particolare, la loro rispettiva posizione e le loro reciproche relazioni, argomento questo
(:) J. I. Brck Um riseder BUlisckeH Seelen-Mtere (Tu-bingen, 186a).
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importantissimo che fu denominato la ìerar-chia degli elementi umani.
Parmi pure che la prima Trilogia studiata dal sig. Jalla, cioè quella di Spirito. Anima e Corpo costituisca propriamente la psicologia antropologica o fisiologica della Bibbia, cioè relativa alla natura dell’uomo, e che la seconda Trilogia, quella di Coscienza, Cuore e Volontà ne costituisca la psicologia morale, ossia relativa all’Etica o ai doveri dell'uomo.
Parmi infine che la prima Trilogia sia fondamentale, e ne vedo la prova indiretta nel fatto che l’ignoranza generale della psicologia biblica e la conseguente esagerazione di ciascuno degli elementi umani, per parte dei diversi partiti, sono state una vera disgrazia e quasi una maledizione per il mondo e per la Chiesa. Difatti l’esclusiva preponderanza dello spirito fu la madre dell’intellettualismo razionalistico; l’esclusivo predominio te\\'anima fu la fonte dell’animismo scientifico e chiesastico; e l’esclusiva preoccupazione del corpo fu una delle cause del materialismo teorico e pratico. E questi tre flagelli furono e sono tuttora la rovina della vera psicologia cristiana, e per essa, dell’antropologia e della teologia bibliche nella cristianità.
Oscar Cocorda.
Voci ¿’Oriente.
RAFFAELE OTTOLENGHI, Voci d’Oriente (Opera in 3 volumi. Casa Editrice del « Coe-nobium». Lugano, ovvero Milano: Casella Postale, n. 912. — Ciascun volume L. 3,50. Gli abbonati al « Coenobinm » possono avere i tre volumi per L. 7,50).
I tre volumi dell’Ottolenghi, sotto il nome generico di Voci d’Oriente, portano i seguenti titoli che tracciano le grandi linee dell’opera :
Voi. I. Prime elaborazioni dell’idea cristiana nel mondo ebreo.
Voi. II. Elaborazione travagliala del dogma cristiano.
Voi. HI. L'epoca del trionfo cristiano.
Nel primo volume abbiamo l’esposizione minuta della storia ebrea che precedette la nascita del Cristo. La fine del periodo inter-biblico — con la dinastia degli Asmonei o Maccabei che, lottando contro i Seleucidi di Siria,
conquistarono di nuovo l’indipendenza ebrea ; e poi il passaggio dell’autorità regale della famiglia dei Maccabei a quella di Antipatro, padre di Erode il Grande, i cui discendenti ebbero tanta parte nelle vicende che segnarono l’inizio del Cristianesimo — è narrata con ricchezza di particolari che riescono molto utili per la conoscenza dell’ambiente ove nacquero e vissero il Cristo ed i suoi apostoli. Indi il volume prosegue con la esposizione della storia del popolo ebreo, che necessariamente deve essere inquadrata negli avvenimenti dell’oriente europeo e nelle convulsioni che precedettero e condussero alla costituzione dell’impero romano sotto Augusto. Cosi assistiamo alle gesta di Pompeo, Cesare, Marc'An-tonio, Crasso, Augusto, intorno ai quali manovrano i piccoli re che cadono e risorgono a seconda del capriccio di quei potenti romani. Vediamo la Palestina perdere di nuovo in parte la sua indipendenza con l’annessione della Giudea a Roma ; riacquistarla per breve tempo sotto Agrippa per volere di Caligola; perderla infine e definitivamente dopo aver sostenuto un eroico assedio in Gerusalemme contro i due primi Flavii, Vespasiano e Tito. La storia della ribellione ebrea, della sua lòtta disperata ed eroica contro le legioni romane, del suo annientamento finale che ebbe per epilogo la distruzione del Tempio e della città di Gerusalemme nel ’70 d. C., è narrata con abbondanza di minuziosi particolari e con efficacia drammatica, nei capitoli XI-XIV, che sono trai più notevoli del volume, anche perchè generalmente gli storici cristiani sorvolano quasi su questo periodo ultimo della vita nazionale degli ebrei. L’Ottolenghi, che è un israelita, si sofferma invece a lungo su tutto ciò che riguarda la vita nazionale dei suoi padri e ce ne dà un quadro vivo e completo.
E’ interessante anche il cap. IX nel quale l’A. — che ha una sicura conoscenza dei documenti biblici sia dell’A. che del Nuovo Testamento — vuol dimostrare, contrariamente all’idea generalmente accettata, che l’Apocalisse fu scritta nell’anno 68.
Egli interpreta l’Apocalisse col metodo storico e ne spiega i punti più oscuri, mediante raffronti con gli altri scrittori con temporanei, riferendoli ad avvenimenti, diciamo cosi, del giorno. Il suo metodo è molto persuasivo e getta fasci di luce sulle oscurità apocalittiche, le quali oscurità sarebbero state necessarie allo scrittore per misura di prudenza, non potendo egli, senza grave rischio per sè e per i suoi correligionari, fare apertamente il nome di Nerone e dell’impero di cui parla con tanta asprezza.
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Difetto principale di questo primo volume, che si nota ancora e più grave negli altri due, è la mancanza di ordine ed anche le troppo frequenti digressioni.
Nel secondo volume l'A. torna indietro per studiare l’origine della Chiesa e, sulla traccia dei Fatti degli Apostoli,.accompagna Paolo nei suoi viaggi missionari. Si ferma negli ultimi capitoli a considerare lo gnosticismo per dimostrare eh’esso trovò la sua prima base in alcune delle epistole pauline. L’intero volume è animato dai desiderio di rimpicciolire tutte le proporzioni del Cristianesimo primitivo il quale, nell’opera dell’Ottolenghi, non ha altro di buono che quel poco che ha ereditato dal ceppo ebraico. Mosso da simili sentimenti l’A. comincia fin dal primo capitolo a creare un dissidio tra Giovanni Battista e Gesù e, naturalmente, dà al Cristo la parte più umiliante; infatti, secondo lui, Gesù era avverso al battesimo e lo avrebbe accettato solo per tema di Giovanni! Inoltre, avendogli chiesto idisce-Ì»oli un modello di preghiera, Gesù non avrebbe atto altro che... copiare una preghiera di Giovanni. Va da sé che codesta ipotetica inferiorità di Gesù verso il Battista non è affatto dimostrata dall’Ottolenghi.
Nei capitoli seguenti egli — con un ardore ed un’ abilità degni di miglior causa — si sforza di dimostrare che tra l’apostolo Paolo e gli altri apostoli intercorsero sentimenti di odio accanito e, da tutto l’insieme del suo argomentare, sembrerebbe ch’egli avesse una questione personalecontro il grande Apostolo delle genti. A pag. 37 — basandosi su Epist. Filip-pesi IV, 2, e precisamente sulle parole: «io prego te, leal consorte...» — fa addirittura sposare Paolo con Lidia, ch’egli definisce allegramente: «la bella (?) negoziante di porpora». Eppure egli sa benissimo che l’aggettivo tradotto per leale in italiano non può far incorrere in equivoci poiché in greco è vocativo maschile, y*ww, e perciò deve necessariamente riferirsi ad un compagno d’opera, non ad una donna. Cito questo passo non perchè abbia importanza, ma perchè è sintomatico: mette in rilievo lo stato d’animo dell’A. che, spinto dalla sua passione d’Israele, cade non di rado in affermazioni cervellotiche.
Nel cap. IV vuol dimostrare l’odio che avrebbe dovuto esistere tra Paolo e gli altri apostoli, col fare un’esegesi tutta personale della parabola del Seminatore e di quella delle Zizzanie, come sono riportate nell’Evangelo di Matteo. E’ interessante vedere a quali sottigliezze abbia dovuto ricorrere per sostenere 1 ’ ipotetico odio apostolico : in Matteo XIII, 19, Gesù dice : « Quando alcuno ode la parola dei
regno e non l’intende, il maligno viene e rapisce, ecc. ». Orbene l’Ottolenghi è perfettamente sicuro che il maligno di cui parla Matteo sia nè più nè meno che l’apostolo Paolo in persona! E ciò perchè il testo greco dice che, secondo l’Ottolenghi, era l’epiteto che i circoli giudeo-cristiani avevano affibbiato a Paolo, avendo egli permesso l’uso di carni impure tra i suoi convertiti. Ma allora anche nel Padre Nostro (Matt. VI, 13) dove è detto : «... liberaci dal maligno » si dovrebbe alludere a Paolo, poiché il testo greco usa lo stesso aggettivo irovxpsc; ed anche in Matt. V, 37: «sia il vostro parlare si, si, no, no; ma ciò che è di soverchio sopra questo procede dal maligno» poiché anche ivi è usato il medesimo vocabolo; e cosi via.
Con tale sistema si può far dire ai documenti biblici ciò che si vuole.
Cosi ancora egli vuol vedere nell’«uomo nemico » della parabola delle zizzanie raffigurato l’apostolo Paolo, e ciò perchè in MatteoXIII-41 si parla di «operatori d’iniquità» che, nel testo greco, son detti roù; àvoy.j«v. La
traduzione di &•*«•.« con iniquità non piace al-l’Ottolenghi, il quale invece vuol tradurla con illegalilà, abolizione della legge per avere la possibilità di domandare : chi è che vuole abolire la legge? non è forse Paolo? dunque la parabola delle zizzanie è stata scritta per mettere in guardia i credenti contro la propaganda paolina!
Ma anche qui il confronto con altri passi biblici dove la parola àv«y.?« è usata chiaramente per iniquità, peccalo fa crollare tutte le faticose induzioni del nostro A. Si veda per esempio, nel testo greco, Matt. XXIV, 12; Romani IV, 7 e VI, 19; 2aTessalon. Il, 7, ecc.
L’Ottolenghi ha una profonda conoscenza dei documenti biblici, ma si perde a voler condurre fino al parossismo dell’odio la semplice differenza di vedute che esistè tra Paolo ed i cristiani giudaizzanti. Egli infatti torna su questo argomento nel cap. VII ed anche negli altri volumi ne parla qua e là.
* « «
Procedendo col suo sistema di accentuare esageratamente il male che potè trovarsi tra i cristiani primitivi ed a non parlare mai di tutto il sublime che fu ed è nel Cristianesimo, l’Ottolenghi ci porta, nel suo terzo volume, innanzi alla Chiesa cristiana ormai trionfante — ed anche già tralignata — senza averci detto come essa potè-fare le sue prodigiose conquiste. Chi sia digiuno di storia ecclesiastica e legga l’opera di cui ci stiamo occupando
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deve rimanere assai perplesso poiché in essa i cristiani primitivi sono presentati come un pugno di fanatici, litigiosi, ignoranti e non si vede quindi come della gente di così poco valore intellettuale e spirituale abbia potuto sostenere vittoriosamente la lotta contro il paganesimo, tanto da sovrapporsi ad esso e da trasformarsi da perseguitata in persecutrice sotto Teodosio.
In questo terzo volume l’A. ci conduce fino al v secolo trattando — più con spirito polemico che con la compostezza del ricostruttore — del concilio di Ñicea e delle eresie che pullularono incessantemente durante tutto il periodo che ha impreso a studiare. E chiude il volume con un confronto originale ed interessante tra concetti che si trovano in illustri autori greci, quali Eschilo e Platone, e in autori cristiani, per dimostrare che il Cristianesimo più che la continuazione dell’ebraismo fu il portato della mentalità ellenica, che diede al Cristianesimo l’idea dell’ Incarnazione, del Giudizio universale, del Purgatorio ed altre minori specialmente appartenenti alla teologia cattolica.
La preoccupazione costante che si nota nei tre volumi delle Voci d’Oriente è precisamente quella di togliere al Cristianesimo ogni originalità ed ogni consistenza, riducendolo un vero ed ibrido mosaico : l’ebraismo gli avrebbe dato quel pochino di morale che l’Ottolenghi si compiace di riconoscergli; il paganesimo gli avrebbe fornito il linguaggio e la gerarchia ; la religione di Mitra avrebbe aggiunto i riti ; la filosofia greca avrebbe ispirato la sua teologia e Costantino infine gli avrebbe data la vittoria, impedendogli di vegetare miseramente. Che resta del Cristianesimo? proprio niente. E naturalmente codesto sistema iconoclasta di ricostruire la storia del cristianesimo è seguito anche nel tratteggiare le più eminenti figure cristiane. Abbiamo già detto che gli Apostoli ed i cristiani primitivi ci sono qui presentati come un gruppetto di pettegoli, fanatici, scostumati e litigiosi. Aggiungiamo che il medesimo ardore di distruzione morale si nota di fronte ad altri grandi posteriori, per modo che nel cap. IV del terzo volume ci vien presentato Basilio di Cesarea come un precursore di Lojola, Ambrogio come un fanatico intollerante, Gregorio di Nazianzo infetto anche lui di gesuitismo, Girolamo come un intrigante che conosceva l’ebraico per aver avuta la fortuna di essere stato in compagnia di rabbini ebrei. E così via.
Da che dipende siffatto furore di distruzione ? secondo noi da un solo fattore : dal temperamento passionale dell’Ottolenghi che gli im
pedisce, nonostante la sua vastissima cultura, di vagliare freddamente il materiale di erudizione di cui dispone abbondantemente. E’ tale passione che lo ha indotto a seguire un metodo di esposizione che si potrebbe dire il metodo del rovescio della medaglia : egli non si ferma mai sul lato positivo, sublime, prodigiosamente ricco di energie spirituali del Cristianesimo, ma rivolge tutta la sua attenzione su quel che vi è di negativo nel suo sviluppo. Si compiace di andar a cercare le mende, le grettezze, le fantasticherie, ed anche le crudeltà e volgarità che non mancarono in quel l’enorme ribollimento umano che si verificò nei primi secoli della nostra èra e — dopo averle esagerate, ingigantite, spinto più dalla foga della sua passione di figlio d’Israele che da un meschino odio anticristiano — ricostruisce molto soggettivamente l’origine e lo sviluppo del Cristianesimo che, per conseguenza, vien presentato sotto una luce falsa ed ingiusta.
Dalla medesima causa suddetta deriva l’altro grave difetto delle Voci d'Oriente che si manifesta in tre modi : disordine, digressioni frequenti, argomentazioni spesso più adatte ad un giornale di partito estremo che ad un’opera che vuole c deve essere critica, e quindi spassionata. Vi sono capitoli interi che, pur essendo interessanti in sè — come il cap. IX del primo volume, dove si cerca d’interpretare l’Apoca-lisse — non sarebbero necessari allo svolgimento dell’opera. Altri che sono addirittura superflui, oltre che ingiusti, come i capp. XIII e XIV del secondo volume, dove si vorrebbe dimostrare che il Cristianesimo fu causa di rilassamento negli affetti familiari (come se non fosse vero precisamente il contrario!) e che la sua morale ebbe una base utilitaria ed anzi feroce! Inoltre vi sono certi ravvicinamenti di fatti o di persone che, se da un iato dimostrano che l’Ottolenghi è un uomo nutrito di letture sconfinate ed enciclopediche, dall’altro però sono cosi strani ed .inaspettati che danno il capogiro. Nelle pagine 200-202 del terzo volume, per esempio, sono citati e ravvicinati i seguenti nomi : Socrate, Mario Pagano, San-torre Santarosa, Platone, Budda, Pitagora, Isaia, Petrarca, Carducci, Manzoni, Fogazzaro, Pompeo, Dante ed Hegel. Di simili scorribande se ne incontrano parecchie nei tre volumi ed è facile capire ch’esse nuocciono molto al valore dell’opera dandole un’aria troppo arruffata.
Un’ultima osservazione dobbiamo fare: l’Ottolenghi non sempre cita le fonti e non se ne capisce la ragione poiché è evidente che le conosce bene. Principalmente il secondo vo-
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lume, nei capp. VIII-XI! — che vogliono mettere in rilievo i varii influssi e dottrine che contribuirono alla formazione dell’edificio teologico cristiano e specialmente cattolico, e che quindi sono tra i più importanti — è manchevole da questo lato, poiché le fonti o non sono indicate o sono troppo generiche.
Detto questo dobbiamo aggiungere che le Voci d’Oriente sono ricche di materiale e dimostrano nell’autore un profondo conoscitore della storia. Benché esse rivelino un preconcetto anticristiano sono indiscutibilmente piene <!’interesse ed il lettore sagace saprà discernere la pula dal grano, che è abbondante e di ottima qualità. E' bene che nella ricostruzione della storia del Cristianesimo si ascolti una voce non cristiana, qual é quella delle Voci d*Oriente ; ci sarà modo cosi di farsene un’idea più completa per il confronto che sorge tra il lato positivo ed il lato negativo, messi in rilievo dalle due sponde rispettivamente.
Ci permettiamo solo di dare un consiglio all’egregio autore di Voci d’Oriente e siamo sicuri ch’egli non attribuirà a presunzione da parte nostra ciò che é frutto di un esame equilibrato ed obbiettivo: in una seconda edizione della sua opera — che gli auguriamo prossima — riordini tutto il ricco materiale di cui dispone; tolga tutte le affermazioni che non sono e non possono essere rigorosamente provate ; resista a tutti gl'impulsi della sua anima calda d’israelita che tende a trascinarlo in divagazioni che, pur mostrando la sua cultura, non sono a posto loro in un’opera storica, cioè critica. Siamo sicuri che. così facendo, offrirà agli studiosi un pregevolissimo lavoro storico che sarà apprezzato universalmente e diverrà un ottimo contributo per la nostra cultura nazionale. Aristarco Fasui.o.
Riforma.
GIOVANNI JALLA, Storia della Riforma in Piemonte. Bel volume di circa 500 pagine in-8° grande, con illustrazioni, pronto vèrso il 25 dicembre 1913. (Libreria Claudiana, 51, via Serragli, Firenze). Prezzo in Italia L. 5 ; estero L. 6.
Indice dei capitoli:
I. Che cosa s’intende col nome di Piemonte in relazione colia Storia della Riforma.
II. Stato morale e religioso del Piemonte al principio del xvi secolo.
HI. Cause che favorirono la introduzione della Riforma in Piemonte.
IV. La Riforma in Piemonte e nel Marchesato di Saluzzo fino all’occupazione francese ( >5>7-36). ■ .
V. La Riforma in Piemonte durante l’occupazione francese (1536-59)VI. Emanuele Filiberto rioccupa i suoi Stati e tenta estirparne la Riforma (1559-61).
VII. La Riforma in Piemonte e le Guerre di religione nel Delfinato fino alla pace di S. Germano (1547-70).
Vili. La Riforma in Piemonte dalla pace di S. Germano alla morte di Emanuele Filiberto (1570-S0).
Dal giudizio delia Commissione esaminatrice :
...» E ricco, ricchissimo di dati precisi, nuovi, ben documentati, esposti imparzialmente intorno alle cose ed agli uomini della Riforma piemontese. Le referenze a piè di pagina alle fonti consultate mostrano come l'Autore non abbia risparmiato fatica nè pazienza nel consultare fonti manoscritte, inedite in buona parte, libri e riviste in varie lingue, per raccogliere quanto avesse attinenza all’argomento, di per sé non facile, impreso a trattare. Ed i materiali sono stati vagliati al lume di una critica scrupolosa e sana».
« Dall’insieme del lavoro, il lettore esce con un senso rinnovalo di rimpianto per l’estinzione ottenuta con l’astuzia e con la violenza, di tante chiese fiorenti sparse per tutto il Piemonte nei xvi secolo — specie nella seconda metà di esso — ed esce anche con la rinnovata convinzione che i’Autore esprime a mo’ di conclusione alla fine dell’opera:
« Si vede dunque quale intenso lavorìo ave-« vano prodotto in Piemonte, in ogni sua parte « ed in ogni classe della popolazione, il mo-« vimento valdese o la Riforma, e con quanta « leggerezza si vada ripetendo che la Riforma « ebbe pochi rappresentanti in Italia e non vi « attecchì perchè contraria all'indole degli abi-« tanti... Solo la forza impedì alta Riforma « di fiorire in Piemonte come prosperò a Nord «.delle Alpi... ».
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TRA LIBRI E RIVISTE
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La crisi del celibato.
DON LIBERO, Im crisi del celibato ecclesiastico. Studio storico-psicologico. — Men-drisio (Svizzera), Casa Editrice « Cultura Moderna». 1913. (L. 1).
Il volumetto del quale parliamo fa parte della Biblioteca di propaganda, che, insieme con la Biblioteca di Scienze Religiose ed alla Biblioteca economica di Scienze Religiose, viene con infaticabile attività pubblicando il prof. Battami.
Queste pubblicazioni meriterebbero maggiore attenzione da parte di quanti si occupano del problema religioso e maggior diffusione particolarmente fra il clero, e ciò diciamo per il valore delle opere che sono veramente monumentali come quelle del Lea, di Harnack del Weizsàcher, ecc., come pure per rispondere convenientemente al magnifico sforzo ed alla degna impresa dell’editore.
Venendo a questo libro sul celibato ecclesiastico, diciamo subito che è stato scritto con piena cognizione del soggetto, con fede viva e col cuore sanguinante. L’autore, uno studioso e buon parroco marchigiano che si cela sotto lo pseudonimo di Don Libero, non ha voluto fare un trattato pesante e magistrale sul soggetto e d’altra parte non ha voluto che il suo volumetto fosse destinato propriamente al popolo minuto. Egli lo ha scritto invece come appello ai suoi col leghi perchè questi più seriamente e con maggior coscienza riflettano sul soggetto. Son cinque capitoli che Don Libero, ricapitolando in parte ciò che in opere maggiori (Lea, Dolomie, Cla-raz, ecc.), era già stato scritto, in parte giovandosi di esperienza personale e di osservazione, ha pubblicato in questo libro e cioè: « Il matrimonio di fronte alla questione sessuale » ; « II celibato del clero di fronte alla questione sessuale » ; « Origini del celibato ecclesiastico » ; « Il celibato ecclesiastico attraverso la storia » ; « Nei tempi nostri ».
Vogliamo augurarci che molti del clero leggano e meditino queste brevi pagine che un confratello indirizza loro. Particolarmente vo; giiamo sperare che le meditino i preti giovani a cui non si è ancora incartapccorita l’intelligenza e più ancora la coscienza.
E. R.
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COSE NOSTRE
Invieremo prossimamente a tutti gli abbonati l’indice particolareggiato del Volume Il di Bilychnis (anno 1913).
*
Bilychnis nel 1914 non sarà più bimestrale, ma mensile-, il numero dei fascicoli nell’anno sarà quindi raddoppiato ed il prezzo dell’abbonamento annuo viene leggermente aumentato: per l’Italia da L. 4 a L. 5 e per l’estero da L. 6 a L. 8. — Un fascicolo L. 1.
Preghiamo i nostri amici di fare buona accoglienza alla lettera che stiamo lóro inviando in favore della Rivista.
NOVITÀ!
Per il capo d’anno sarà pronto il /° fascicolo d'Arte di Bilychnis ; esso è dedicato all’ illustrazione del Nuovo Tempio Valdese che s* inaugurerà solennemente in Roma nel prossimo gennaio o febbraio. Il fascicolo elegantissimo, oltre una breve storia e descrizione dell’edificio, conterrà numerosissime tavole, di cui alcune a colori (tricromia) riproducenti la facciata e l’interno del tempio, le decorazioni, le sedici vetrate con simboli cristiani, i mobili, ecc. — Sarà un primo saggio di arte religiosa evangèlica in Italia.
Non dubitiamo che molti dei nostri lettori vorranno incoraggiare questa nostra iniziativa e si affretteranno ad inviarci le
loro ordinazioni. Una copia (franco di porto) L. 2.
L’elegante pubblicazione si presta ad essere inviata come regalo.
Rivolgersi al Prof. L. Paschetto, Via Crescenzio, 2. - Roma.
PER PROPAGANDA
Abbiamo pubblicato in forma di eleganti opuscoli il discorso del Prof. F. SCADUTO su: Indipendenza dello Stato e libertà della Chiesa da noi riprodotto in Bilychnis, ia-scicolo Maggio-Giugno 1913 e l’articolo di GIO V. E. MEILLE su : Il Cristiano nella vita pubblica (comparso su Bilychnis, fase. Settèmbre-Ottobre 1913). Sono due argomenti di palpitante attualità e si prestano assai bene per la propaganda d’un concetto serio, illuminato circa i rapporti della Religione con la Politica.
Inviamo i due opuscoli franchi di porto per L. 0.40. Per chi desidera più copie le cèdiamo al prezzo di cent. 15 ciascuna (franche di porto).
Per mancanza di spazio dobbiamo rimandare al prossimo fascicolo la lista dei libri e degli opuscoli pervenuti alla nostra redazione. Dei più importanti pubblicheremo recensioni accurate.
L’Amministrazione del COENOBIUM di Lugano spedisce gratis e franco a tutti i lettori di BILYCHNIS, che gliene faranno domanda, il volume del barone F. Von Hugel, intitolalo:
RELIGIONE ED ILLUSIONE.
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NEL’NUOVO TEMPIO VALDESE DI ROMA. Vetri di una bifora.
(1913 - VI.)
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NOTIZIE
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All’Indice! — La congregazione dell’indice ha pubblicato un decreto in data 13 novembre coi quale condanna il libro, apparso qualche mese indietro per cura di una casa editrice milanese e dovuto ad Antonietta Giacomelli : Per la riscossa cristiana.
Questa condanna ha meravigliato nel inondo cattolico più d’uno, poiché il libro della Giacomelli non è che un’antologia di scrittori cattolici, dal cristianesimo primitivo ad oggi, sui vari argomenti della vita religiosa e sociale. La Giacomelli vi ha premesso una prefazione vibratamente cristiana e un appello agli uomini moderni di tornare alle pure idee cristiane : un libro religioso adunque nel senso rigoroso ed elevato della parola.
La condanna dell’ Indice disorienterà ancora di più le coscienze religiose ; poiché essa è stata evidentemente emessa in odi uni auctoris. La Giacomelli, infatti, ha già veduto inscritti all’Indice gli altri suoi volumi intitolati : Ad-veniai regnum. luum, che erano stati pubblicati a cura di quella Società editrice dei Vangeli che Pio X, fra i suoi primi atti, disciolse perchè, secondo quel che affermò il Cardinal vicario Respighi ai componenti la società, non era opportuno diffondere troppo fra il popolo il Vangelo.
Ciò del resto è in perfetto accordo con l’indirizzo presente del Vaticano cosi nella vita religiosa, come nell’attività politica. Di più la Giacomelli è congiunta di Antonio Rosmini, dal quale ha ritenuto il fervore religioso e le dottrine filosofiche condannate dalla Chiesa ; fu intima di Antonio Fogazzaro e lo è stata di Romolo Murri, appartiene insomma alla schiera di quei cattolici che sono in sospetto nella curia romana.
Ce n’è di troppo per proscrivere ogni sua produzione, anche se essa si richiami alle sorgenti del cristianesimo, da cui è cosi lontano il Vaticano !...
(Messaggero).
La Curia di Napoli e « La Nuova Riforma». —- « Poiché alla rivista bimestrale Pai taglie d’oggi, condannata con decreto della Nostra Curia Arcivescovile, in data 30 ottobre 1909, è successo il periodico dal titolo ¿c Nuova Riforma — battaglie d’oggi — che, pubblicato in Napoli settimanalmente, arreca gravissimo detrimento e scàndalo alle coscienze; l’Em.mo sig. Cardinale Arcivescovo D. Giuseppe Prisco, in esecuzione delie pontificie disposizioni, emanate contro il così detto Modernismo, e per ragione del suo pastorale ministero, proibisce ai fedeli, sotto grave pre
cetto, altresì la pubblicazione e la lettura di detto periodico.
« Per speciale mandato adunque dell’Eminentissimo sig. Cardinale Arcivescovo, e per Sua Autorità Ordinaria, facciamo noto a tutti i fedeli di questa Archidiocesi, che niuno potrà, senza colpa grave, concorrere in alcun modo alla pubblicazione e diffusióne del periodico in parola, ovvero ad esso associarsi, comprarlo, leggerlo o ritenerlo. Gli ecclesiastici poi ordinati in sacris sappiano inoltre, che, contravvenendo in qualsiasi maniera a tale prescrizione, incorreranno ipso facto nella sospensione a divinis, riservata in modo speciale alla lodata Eminenza Sua Rev.ma.
« Infine, essendosi dalla tipografia editrice « La Nuova Riforma » pubblicato in Napoli un quaderno, n. 1, sotto il titolo « Il primo Convegno Modernista Cristiano — discorsi e adesioni » contenente scritti scandalosi e nocivi alle anime ; per speciale mandato di Sua Eminenza Rev.ma, e per Sua Ordinaria Autorità, proibiamo a tutti i fedeli di questa Archidiocesi di comprarlo, leggerlo o ritenerlo, sotto pena di peccato mortale. E gli ecclesiastici ordinati in sacris, non osservando questa ingiunzione, incorreranno inoltre ipso facto nella sospensione a divinis, riservata in modo speciale all* Emano.
« Napoli, dalla Curia Arcivescovile, il di 15 ottobre 1913.
« 11 Vicario Generale «Antonio can. Laviano ».
Indubbiamente, ciò che deve aver mossa la Curia di Napoli a colpire il periodico, a un anno quasi dalla sua pubblicazione in nuova veste — e solo alla vigilia delle elezioni — dev’essere stato il suo atteggiamento reciso anticlericale, la forte diffusione avuta dal periodico in Napoli, e in altri collegi, sin dai primi comizi elettorali, e forse anche gl’impressionanti articoli intorno all'acquisto e all’uso della ricchezza nella Chiesa.
In morte di Francesco Acri. — Non è fuor di luogo riferire in questi giorni di compianto per la morte di Francesco Acri un episodio che lumeggia la squisita bontà di cuore e il senso fine di rispetto che l’illustre filosofo aveva per tutte le opinioni.
Parecchi anni or sono, quando ancora egli teneva la direzione del Corso di perfezionamento per i maestri all’università di Bologna, assegnò questo tema di lezione pratica ai diplomami! del corso stesso : « Come s'ha a ispirare il sentimento religioso nei fanciulli ».
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BI LYCHNIS
1! tema non incontrò le simpatie di tutti. Ci fu anzi un insegnante — un socialista che è tuttora dei più in vista nella nostra provincia — il quale si alzò e pur con parola deferente verso l’illustre professore, volle rilevare che il concetto a cui s'informava quel tema era in aperto contrasto con la fede professata da lui e da parecchi altri esaminandi, i quali, per tanto, venivano a trovarsi in una assai difficile condizione.
Il professore rimase turbato. Evidentemente egli aveva dettato il tema in un momento di distrazione, assorto tutto nella sua fede. Ma fu un attimo. Sereno e cortesissimo, egli rispose che assai gli sarebbe doluto se i suoi scolari avessero potuto pensare a un'offesa ai sentimenti loro, rispettabilissimi qualunque essi fossero ; e che li invitava a trattare il tema sotto quell’aspetto e da quel punto di vista che avessero creduto, certi di trovare in lui serenità ed equità di giudizio.
L’indomani ci fu la prova di lezione pratica. L’insegnante socialista e la sua signora, entrambi diplomandi, trattarono... del come si ha ad ispirare nei fanciulli il sentimento della fratellanza e della solidarietà umana!
Naturalmente non nominarono nè Dio, nè religione, nè sentimento religioso ; ma le due lezioni furono fatte con cosi sapiente arte didattica, con metodo e forma così acconcia, che il buon professore ne fu profondamente commosso.
Propose per entrambi il massimo dei voti e la lode, e volle uscire nell’atrio a rallegrarsi coi due coniugi «.che Iddio aveva fatto, poi accompagnali» e strinse loro la mano e pianse per la commozione, presenti parecchi insegnanti di Bologna e presente chi oggi rievoca questo minuscolo ma pur significativo episodio della nobiltà d’animo dell’illustre scomparso.
(Giornale del Piallino, 24, XI, 13).
,s\ Pel Congresso cristiano-sociale di Basilea, settembre 1914. — Com’era da prevedersi, ha aderito a questo Congresso la Commissione d’azione morale e sociale composta di rappresentanti di tutte le chiese riformate francesi. L’adesione è formulata in un ordine del giorno che, anche in Italia, potrebbe servire di modello ad altri enti i quali — pur desiderando seguire da vicino tutti i tentativi e gli sforzi che si fanno per migliorare i metodi di evangelizzazione — desiderano non compromettersi in alcun modo dal punto di vista economico e sociale.
Ordine del giorno votato dalla Commissione di azione nella sua seduta del 29 ottobre 1913. La Commissione d’azione, in risposta all’invito che le è stato rivolto dal Comitato di organizzazione del Congresso cristiano-sociale di Basilea ;
Considerando che la partecipazione a questo Congresso non implica l’adesione alla dichiarazione di Besançon ;
Che gli organizzatori hanno formulato il loro progetto spinti dal desiderio di vedere l’attività morale e sociale prendere uni posto sempre più grande nelle preoccupazioni delle Chiese ;
Che è utile che le varie attività cristianosociali del mondo intero si conoscano e s’incontrino ;
Che questo incontro potrà contribuire a riavvicinare tra loro i cristiani dei vari paesi in uno sforzo comune verso la realizzazione integrale della volontà di Dio sulla terra;
Accetta l’invito degli organizzatori del Congresso. L. Maury, presidente,
**•
Ecco altre notìzie:
La circolare d’invito ai Congresso è stata tradotta oramai nelle seguenti lingue: francese, inglese, tedesco, italiano, ungherese, olandese, svedese.
Stanno costituendosi in vari paesi dei Comitati nazionali per concentrare il lavoro di propaganda e raccogliere le adesioni.
Hanno aderito:
Per la Francia : oltre alle trenta persone di cui già sono stati pubblicati i nomi su questa rivista, e oltre alla Commissione d’azione: i sigg. C. Wagner, C. Babut, H. Babut, P. Monod, P. Bosc, Ch. Vallée, Benoît-Germain, M. Boegner, Aeschimann, S. Biasquis, A. Boegner, Sig. e Sig.ra Philip de Barjau, Durand-Gasselin, Ebersolt e parecchi altri.
Per la Svizzera : vedi la lista già pubblicata.
Per la Germania : oltre ai nomi già pubblicati, hanno aderito gli Evangelici sociali (presidente prof. Baumgarten) e gli Ecclesiastici sociali (presidente dott. Seeberg). Inoltre i sigg. Werner, prof. Eucken, prof. Franche, prof. Gregory, past. Le Seur, Lie. Mumm, deputato F. Naumann, prof. Rade, professore Wagner e vari altri.
Per l’Inghilterra: un council dei principali leadets del movimento sociale nelle varie Chiese d’Inghilterra si è riunito il 16 ottobre a Londra per studiare quale sarebbe
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NOTIZIE
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la partecipazione inglese al Congresso di Basilea.
Dal Belgio: hanno aderito past. Teisson-nière, F. De Béthune, Wyss.
Dall' Olanda : past. ¿volle, dott. Slotemaker.
Dalla Svezia: past. G. Montan.
Dall’Ungheria: E. De Bernat, S.ra H. De Kolowary.
Dalla Danimarca: Dirett. Lindenberg.
Negli Stati Uniti si sta organizzando un lavoro analogo a quello fatto in Inghilterra. Hanno aderito personalmente i professori Raus-chenbusch e Peabody.
***
E l’Italia?
A questa domanda così rispondeva il periodico: \' Evangelista.
« L’Italia non vorrà mancare, ne siamo certi, a questo grande convegno che mostrerà le energie non solo speculative ma fattive del Protestantesimo.
« Per parte nostra aderiamo a questo movimento e siamo pronti ad aiutare e ad incoraggiare tutti i cristiani che vorranno esplicare nell’azione pratica la bellezza e la genuinità della loro fede cristiana ».
E lo stesso periodico faceva voti perchè l’Italia fosse rappresentata a Basilea dai «più intelligenti e fattivi elementi dei mondo protestante italiano».
La circolare d’invito al Congresso è stata riprodotta dai periodici : Bilychnis, la Luce, l’Evangelista. Hanno promesso di riprodurla in extenso o in riassunto i periodici : Rivista Cristiana, Coenobium, Cultura Moderna, la Riforma Italiana, Fede e Kita, Fiorente Gioventù.
La costituzione del Comitato italiano pel Congresso internazionale di Basilea è sulla buona via. Intanto hanno mandato la loro adesione i sigg. Celli, Nitti, G. Conte, M. Falchi, S. Mastrogiovanni, E. Rivoire, A. Jalla, A. Cutrera, L. Paschetto, D. Battami e G. E. Mèille.
Le Tesi di Besançon sono esaurite, ma ne sarà presto fatta una ristampa ed esse verranno spedite gratis a chiunque ne farà richiesta con cartolina doppia. Intanto tutti i cristiani evangelici d’Italia sono pregati d’inviare con sollecitudine la loro personale adesione al sottoscritto.
Giovanni E. Mèille.
Milano, 60, Corso Sempione.
N. B. L’adesione ha da considerarsi come una approvazione dell’idea che è opportuno e utile un Congresso internazionale del Cri
stianesimo sociale. L'adesione non deve intendersi cóme un impegno d’intervenire al Congresso nè come un’accettazione di uno speciale credo economico o politico. Le Tesi di Besanfon saranno una semplice base di discussione.
«*< Il prèmio Nobel a un poeta indiano. — Molti avranno letto con una certa sorpresa la notizia che il premio Nobel di quest’anno, per la letteratura, è stato conferito ad un poeta indiano, autore di tre o quattro volumetti di versi popolarissimi in India, ma appena noti ai lettori inglesi, o di inglese, attraverso la traduzione di un centinaio di strofe. Pure, credo che mai i giudici di Sto-colma abbiano così rettamente interpretato la volontà del testatore, di premiare la migliore opera di poesia « in senso ideale », come oggi assegnando la cospicua ricompensa a Rabin-dranath Tagore. Poiché questo bengalese, appartenente ad antica e nobilissima famiglia in cui è tradizionale il culto del sapere e dell’arte musicale e pittorica, è l'interprete novissimo della nostalgia dell’anima umana, anelante a ricongiungersi all’anima divina, dell’eterno sospiro dell’uomo verso Dio. Novissimo soprattutto rispetto al carattere personale dell’arte sua, all'espressione così limpida e pura, chè il pensiero più mistico e astratto ne resta meravigliosamente illuminato, e quel che era, nei secoli delle upanishad e del ve-danta, privilegio di scuole filosofiche e teologiche e di pochi spiriti colti, diventa il prezioso patrimonio spirituale degli umili e dei miseri, il conforto di chi soffre e di chi spera. Pochi, pochissimi poeti, e dei grandi, hanno trovato nei loro versi più ispirati le parole luminose, aeree, immateriali, le immagini di divina serenità che fluiscono e irradiano quasi ogni strofa di questo genio singolare. Tanta ne è la bellezza, da rimanerne più che un riflesso anche nella traduzione inglese, curata, per somma nostra fortuna, dall’autore stesso. Ma il lettore europeo non può nemmeno immaginare l’effetto, oltreché della musica di cui il poeta ha rivestito ¡suoi versi, della musicalità del linguaggio in cui sono composti, dell’intreccio armonioso di rime e controrime, della perfezione ritmica che fa di ciascuna strofa, anche dal lato formale, una vera gemma. La lingua bengalica tiene fra quelle discese dal sanscrito all’incirca il posto dell’italiano rispetto alle sorelle neolatine ; ed è quella che ha in parte conservato e in parte, per tendenza arcaicizzante, ripreso nel suo lessico il maggior numero di voci sanscrite; cosicché
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BILYCHN1S
le mirabili fattezze della lingua di Valmiki e di Kalidasa si scorgono ancora, armoniose e gentili, attraverso il tenue velo di poche mutazioni grammaticali; e nella mente del lettore sanscritista di un testo bengali sono rievocate e risuscitate immagini e pensieri di un mondo lontano e pur legato al presente da fili saldi e tenaci di tradizioni religiose, morali, poetiche.
Perciò, chi avrà familiare la letteratura filosofica e religiosa dell’ India intenderà e ammirerà di più questo poeta in cui, come del resto in tutti i grandi spiriti di quella terra, religione e filosofia sono una cosa sola; ma il suo messaggio potrà sonare dolce e commovente anche ad altre orecchie, oltre quelle degli indiani e degli indianisti. Nei suoi canti, infatti, non solo sentiamo il continuatore della riforma del bengalese Caitanya, che ammise tutte le caste al culto della fede e della devozione a Krsna (cosi il suo Dio scende a confortare i più poveri, i più umili, i più miseri): ma nella regione dove la potenza teocratica si è affermata con secolare tenacia, nell’india profondamente brammanica, egli parla cosi al sacerdote : « Lascia questo vociare e cantare e biascicare di rosari! Chi adori tu in questo oscuro e solitario angolo di un tempio con le porte tutte chiuse? Apri gli occhi e guarda che il tuo Dio non è dinanzi a te! — Egli è colà dove il contadino lavora la dura terra e dove il seiciaiuolo spacca le pietre. Egli è con loro nel sole e nella pioggia, e la sua veste è coperta di polvere. Metti giù la tua santa stola e come lui discendi sul suolo polveroso! — Liberazione? dove troveremo questa liberazione ? Lo stesso nostro Maestro ha preso su di sè con gioia i legami delia creazione ; egli è legato a noi tutti per sempre. — Esci dalle tue meditazioni e lascia da parte i fiori e l’incenso!
Che male c’è se le tue vesti si svacceranno e si insudiceranno? Vagli incontro e stagli accanto nel travaglio e nel sudore della tua fronte». E come avviene che talora, più che delle upanishad, crediamo sentire un’eco dei Salmi, e nel frequente parlare per parabole e per immagini quasi ripetersi i detti di Gesù ? L’onda purificatrice e consolatrice del cristianesimo era veramente passata sulle anime elette di alcuni indiani, soprattutto dei com-patriotti del nostro poeta, i fondatori della Brahma-Samaj, della «chiesa dei credenti in Dio», le cui vicende costituiscono uno dei più interessanti capitoli di storia religiosa. Elementi che avvicinano questi versi al pensiero europeo, tocco di simpatia anche da un’altra nota, che una sola volta in essi vibra, ma piena e solenne e suscitatrice di una radiosa visione : la nota patriottica. « Dove la mente è senza paura e si tiene la testa alta; dove la scienza è libera ; dove il mondo non è rotto in frammenti da anguste mura domestiche; dove le parole escono dal profondo della verità: dove instancabile zelo tende le braccia verso la perfezione ; dove la limpida corrente della ragione non si è persa fra la lugubre sabbia di morti andazzi : dove la mente è guidata da Te a sempre più ampio pensiero e azione — in questo cielo di libertà, o Padre mio, possa il inio paese svegliarsi». (ZZ Marzocco del 23 nov.). P. E. Pavolini.
Per iniziativa dei sigg. David lellin, il dottor Lévy e Meyohas di Gerusalemme, il rabbino Ruk, il dottor Ruppin e Barziiai di Giaffa, si è fondata recentemente una società per la conservazione dei monumenti storici di Palestina. Le tombe dei Maccabei, le antiche sinagoghe di Galilea, ecc., saranno l’oggetto dell’attenzione particolare della società.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile______________________________________
ROMA - Tipografia dell'Unionc Editrice, via Federico Cesi, 45
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“BILYCHNIS” NEL 1914
SI PUBBLICHERÀ REGOLARMENTE IL 15 DI OGNI MESE
Darà largo posto a studi originali italiani.
Pubblicherà accurate relazioni sui più importanti movimenti contemporanei nel campo della religione in Italia e al-1'Estero.
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Avendo riorganizzato il servizio di spoglio delle più importanti pubblicazioni estere dedicate agli studi religiosi, potrà dare fresche ed ampie notizie degli ultimi risultati delle ricerche scientifiche nel campo della critica biblica, della storia del Cristianesimo e storia delle religioni.
Continuerà ad alimentare la vita dello spirito pubblicando sermoni scelti, pagine vive, facendo risonare voci antiche e voci nuove...
Bilychnis in ogni numero, tra le pagine destinate a raccogliere i frutti dello studio talora freddo ed arido, farà sempre sentire l’anima sua ardente di fede.
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l 12 fascicoli dell’infera annata comporranno due grossi volumi di oltre 400 pagine ciascuno, riccamente illustrati.
Abbonamento annuo per l’Italia L. 5
per l’estero L. 8 — Un fascicolo L. 1
L’abbonamento si può pagare anche a quote semestrali di L. 2.50 per l’Italia e L. 4 per Pesterò
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1« La Direzione della « Biblioteca di Studi Religiosi » offrirà in dono interamente gratuito ai nostri abbonati libri di sua edizione, ora in preparazione.
££• La stessa Direzione concederà agli abbonati fortissimi ribassi per le pubblicazioni eh’essa ha in deposito e di cui daremo la lista sulle pagine verdi di Bilychnis.
d. Stiamo organizzando una Biblioteca Circolante per lo studio della Religione (storia, critica, filosofia della religione). Agli abbonati di Bilychnis Sarà concesso l’uso gratuito della Biblioteca, di cui pubblicheremo presto il regolamento.
Inviare cartoline vaglia al
Prof. LODOVICO PACCHETTO
Via Crescenzio, 2 - ROMA
I NOSTRI LETTORI IN AMERICA
sono avvertiti Che i seguenti nostri Agenti volontari sono autorizzati a ricevere gli abbonamenti a Bilychnis
Rev. ANGELO DI DOMENICA
301, George St. NEW HAVEN, Conn. U. S. A.
per gli Stati Uniti e il Canada.
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