1
BIDCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STUDI RELIGIOSI
Anno III :: Fasc. IV.
APRILE 1914
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 30 APRILE - 1914
DAL SOMMARIO: G. LESCA: Sensi e pensieri religiosi nella poesia di Arturo Graf. — M. ROSSI: 11 Giudaismo liberale e Gesù. — R. MURRI: Estrema Destra. — M. ROSSI: I tre « Misteri » cristiani di Woodbrooke. — RENDEL HARRIS : La liturgia dell'allodola. — A. DELIO : La Rivelazione di Gesù è luce o tenebra? — ***: Reazione alla reazione: I Gesuiti avanzano liberaleggiando. — UGO JANNI : La personalità di Dio e la filosofia dell* Immanenza, ecc.
3
REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # & -------- Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore peri’Estero Via del Babuino, 107 - ROMA -------------ABBONAMENTO ANNUO Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine.
4
Illustrazioni del presente fascicolo.
Ritratto di Arturo Graf quarantenne.
Ritratto di Arturo Graf negli ultimi anni. (Due tavole tra le pagine 248 e 249).
Lettera autografa di Arturo Graf (pag. 255).
L’allodola. (Disegno a pag. 278).
Copertina, disegni e fregi di Paolo A. Paschetto.
5
BILYCMNI5
1
R.M51À DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMASOMMARIO:
GIUSEPPE LESGA : Sensi e pensieri religiosi nella poesia di Arturo Graf pàg. 245
Mario Rossi: Il Giudaismo liberale e Gesù......... » 261
Romolo MURRI e G. B : Estrema Destra .......... > 269
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
M. ROSSI: I tre « Misteri » eristiani di Woodbrooke ...... »275
RENDEL Harris: La liturgia dell'allodola (Liturgia della primavera) » 278 Antonio Delio : La Rivelazione di Gesù è luce o tenebra ? conforto
• 'io; umiliazione ? ■&' . . . . . . . . . ...... > 284
Adele Kamm: Felici nelle afflizioni (Pagine scelte) ...... > 287
C. G. MONTEFIORE: Gesù e la donna ......... . . > 289
NOTE E COMMENTI :
*** Reazione alla Reazione. I Gesuiti avanzano liberaleggiando . . > 290
TRA LIBRI E RIVISTE:
Ugo Janni: La personalità di Dio e la filosofia dell’Immanenza...... » 294
Felice Cacciapuoti : Jésus dé Nazareth d’après les témoins de sa vie . . . » 299
E. Rutili: Per la spiritualità della Chiesa ............. » 302
Librerìa editrice Bilychnis: Novità .............. » 303
6
PROSSIMAMENTE:
Roland D. Sawyer: — Gesù e la f amiglia — Gesù e la proprietà.
Giovanni LUZZI: Il modernismo nella Chiesa cristiana del primo secolo.
MARIO Puccini: L'opera di Raffaele Mariano.
N'SGVA.Q CRESPI: L'evoluzione della religiosità nell'Individuo e nella Società.
Paolo Orano: Dio nella, coscienza.
M. Velato: L'altare al Dio sconosciuto.
G. E. MEILLE: Intorno al!immortalità dell'anima.
Mario Rossi : Un'interpretazione religiosa di una leggenda della Grande Sirie in Sallustio: i fratelli Fileni.
ALFONSO Vittorio Muller : Agostino Favorini, generale degli Agostiniani, arcivescovo di Nazareth, come precursore di Lutero.
Giovanni Costa : L'Impero romano e il Cristianesimo.
Mario Rossi : Il « Tu es Petrus » e la storia delle religioni - Saggio di una nuova interpretazione.
Mario Rosazza: Tedi crepuscolari.
F. Momigliano: Gioberti e i Gesuiti.
Giovanni Pioli: Un nuovo libro del Tyrrell.
7
SENSI E PENSIERI RELIGIOSI
NELLA POESIA D’ARTURO GRAF
ON
è la prima volta,
di scrivere intorno
e non sarà alla poesia
trasporto per chi fa sentire in
forse l’ultima, che mi piace d’A. Graf. Ammirazione e modo diverso da quello di
quasi tutti i nostri poeti, e fa seriamente meditare? Proposito di richiamare su di lui l’attenzione d’uditori e lettori, quasi ignari o non bene consapevoli, e di giovare dunque alla fama d’una Musa, che da parecchi fu detta, e continuerà credo a dirsi, posposta ingiustamente tra i più a varie altre? M’hanno mosso, e mi muovono anche oggi, tutti questi motivi, oltre la stima per lo scrittore in genere sagace, vario e nobile, nonché l'affetto per l’uomo diritto, buono, più accompagnato dalla tristezza che dalla letizia del vivere.
Oh gravi ombre della tristezza, che i più fuggono come un male, sia pure nei sensi e nei pensieri dell’arte ! Senza di essa l’opera poetica del Graf sarebbe meglio conosciuta e gradita? Forse. Non avrebbe però quell’originalità, che la distingue e l’andrà anche maggiormente distinguendo, pare a me, tra lettori e critici futuri. Nel periodo Che va dal 1875 a questi ultimi anni, essere stato fratello spirituale del Leopardi piuttosto che dei poeti contemporanei più in voga, è fatto così speciale da parere a qualche superficiale un’eccezione voluta, quindi insincera, e trascurabile. Come mai A. Graf. poeta, è stato quest’eccezione, se si, deve dire così, ma sincera, nobilissima, e perciò, nelle vicende curiose della fama, poco fortunata?
Dell’arte sua, in quello ch’essa veniva essenzialmente a rappresentare, egli ebbe presto piena coscienza ; e come tale appunto gli piacque perseguirla, anche se avesse potuto fare diversamente (ciò che non è ammissibile per varie ragioni e per una specialmente: un lirico soggettivo, com'è stato il Graf, non può essere che se stesso, spirito e casi della vita). Volle quest'arte, certo d’andare, come
8
24Ó
BILYCHNIS
portarlo atavis spiritualmente
suol dirsi, contro corrente : la volle, anche perchè non ad altra avrebbero potuto mo, cred’io, qualità sue fisiche e morali, esperienza d’una vita, varia, non breve, intesa ad elevarsi e ad elevare sèmpre.
£
* *
Chi avesse visto il Graf, d’altezza media, ultimamente un po’ curvo, ma certo un tempo validamente eretto, con viso ovale barbato, pallido, magro, labbra tumide, occhio di miope, acuto e fisso, fronte spaziosa, avrebbe còlti subito i caratteri della sua spiritualità: meditazione, malinconia profonda, impero di volontà tenace, rapimento d’amore per la bontà, la bellezza, il sapere. Le sembianze di lui quarantenne e dell’ultimo tempo, quali sono qui offerte, vorrei valessero a far intendere e anche a completare quelle stampate nella mente di chi lo vide varie volte dal 1895 in poi. Rileggendo il sonetto autoritratto del Foscolo, s'andrebbe lontani dal vero a trovare qualche somiglianza? Moralmente, lo congiungono a lui ira, dolore, sdegno, nonché un sacro ufficio affidato all’arte, specialmente nella forma del verso, anzi per essa tentato.
Da padre tedesco, dato agli affari, ma raccoglitore e studioso di buoni e bei libri, specialmente di poesia, e da madre anconetana, d’antica famiglia fiorentina (per essa dunque quella sua parola quasi di toscano), il Graf nacque ad Atene il 19 gennaio 1848. I suoi s’erano sposati d’amore, vivendo in accordo perfetto. Chi dei due più dato all’altro? o più riflesso nei figli? più guida della casa?
Il padre, tutto famiglia, non appena libero da' suoi impegni, benché luterano, accompagnava sposa e figli in chiesa (di cinque, presto non rimasero ai buoni, se non il piccolo Arturo e il primogenito Ottone, più vecchio di sei anni), e ascoltava con loro la messa, o seguiva ogni altra funzione: amoroso dunque e condiscendente, più idealista che pratico. La madre, rimasta prestissimo vedova, senza deporre mai più « quelle gramaglie dell’anima che l’occhio non vede» (1) venne ad essere tutto, nell’età più docile e malleabile, per i figli e il loro avvenire.
La morte del marito era accaduta a Trieste (1855), quando v'erano appena da tre anni per gravi dissesti finanziari (il brav’uomo sarebbe Stato meglio in mezzo ai poeti anziché negli affari, e gli aiutatori della rovina economica non eran mancati); e quante mal celate, angosciose lacrime non vide nel fratello e nella sconsolata donna, per la sventura irreparabile, il fanciullo, stato non poco inquieto interrogatore per la scomparsa del genitore, poi acquietatosi tra persone e in paese nuovo! E quali queste persone? quale il paese?
Con la dolente madre e il fratello, un laborioso zio materno e i frequenti ospiti da lui generosamente ospitati; il paese: la rumena Braila, senza strade, senza scuole, mancante quasi d’ogni conquista civile, spersa in una pianura triste, interminabile, nota specialmente ai cólti per il tormentoso esilio e la morte del poeta dei Tristìa. Qui, con circa cinquecento volumi paterni, tra casa quasi cam(1) Son parole del figlio : Infanzia e giovinezza di illustri contemporanei, memorie autobiografiche, ecc. : raccolte da O. Roux, parte II, pag. 93. Firenze, R. Bemporad e figlio.
9
SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA d’aRTURO GRAF
247
pestre e giardino (il luogo preferito), il giovanetto trascorse sette lunghi anni, leggendo a suo talento (prediletti il ROBINSON CROSUÈ ed il ROBINSON SVIZZERO, il Don Chisciotte), tentando ingegnose macchine con vecchie scatole e fili di ferro, incurante dei balocchi, seguendo per tre anni con parecchi cugini l’insegnamento privato di certo Luigi Frollo.
Da lui infatti le cognizioni d’un po’ di latino, di francese e di tedesco, con qualcuna di storia e geografia, di disegno e... versificazione (due brèvi liriche a dodici anni ! varie tragedie dello Schiller volte in endecasillabi di li a poco, con un poemetto eroico in ottave sulla battaglia di Lepanto, e un poemetto satirico ! i primi versi stampati a quattordici!). Nel giugno 1863, con la madre viene a Napoli, fervida e gioiosa, così diversa dalla triste Braila; e, facendo quasi tutto da se, vi compie il liceo e gli studi di legge.
Napoli ! Doveva essere la città rimasta poi sempre cara per ricordi, speranze e per uno strano abbattimento e un amore poco felice, pare, perchè dovuto soffocare con la lontananza d’un viaggio di qualche mese. Qui, un abate, « liberale e molto spregiudicato e franco di lingua» gli addita per primo (« il Signore glielo perdoni ») il CoURS DE PHILOSOPHIE POSITIVE d’A. Comte(i); qui speciali studi d’astronomia, tentativi di scritti vari (non pochi i versi), letture svariatissime, l’amicizia di giovani studiosi, tra i quali A. Labriola, da cui è invogliato allo studio della filosofia herbartiana; qui, la laurea infine e un tentativo di vita avvocatesca. Lasciata la quale, perchè inadatta, ecco il ritorno a Braila, per il commercio, col risultato invece : d’un volume di versi, pubblicato, e d’altre cose, rimaste incompiute e inedite; cui s’accompagnarono molto studio, specialmente letterario, una grave malattia d’occhi, guarita a Vienna, e la molta pena, comune a tanti giovani pur volenterosi : di non sapere a che cosa decidersi, nel contrasto tra necessità e non ancor chiara vocazione, nel dolore della dimora in luogo non amato e disadatto a qualunque volo.
Sul finire dell’estate del 1874, il Graf decide di lasciare nuovamente Braila, affidandosi un po’ alla ventura ; e ritorna in Italia, venendo a Roma.
« Chi mostrasse di valer qualche cosa, specie se giovane, trovava, tra i maggiori e migliori, premurose accoglienze e mani tese » (2), nella città da poco conquistata alla nazione ; ed egli vi avvicina e conosce gli uomini più notevoli e benemeriti della patria, vi trova il Labriola, docente all’Università; e, dopo qualche incertezza tra il darsi alla fisica o alla direzione del museo pedagogico del Bonghi, a un giornale di critica letteraria o a un posto in Germania, mentre prosegue studi e ricerche nelle biblioteche (verso la fine del 75 ripubblica il volume di Braila eon aggiunte e con dieci novelle ; inizia la collaborazione, non più cessata, alla Nuova Antologie^ presa la libera docenza, prima in letteratura italiana, poi in quelle neolatine, con un secondo concorso (un primo per Pisa non era.stato favorevole) va per l’insegnamento delle neolatine all’università di Torino. « Incominciava il professorato ; era finita la giovinezza » (3) : una giovinezza di studi, di meditazioni, di lavoro, quasi tutto a fianco della madre amorosa ed
(1) Il virgolato è del Graf, op. cit.
(2) Op. cit.
(3) Op. cit.
10
248
BILYCHNIS
amata: una giovinezza di prove, con uniche gioie quelle dello spirito, quasi senza svaghi, successa alla puerizia non molto diversa, se non forse meno operosa e meno triste.
Dalia conquista della cattedra torinese agli ultimi giorni del maggio dell’anno scorso (si spense dopo un male breve ma tormentoso il 30), là vita del Graf è stata scuola, lavoro, studio. Le indagini nel campo delle neolatine hanno dato con vari, scritti minori (1) le ben note opere Roma nelle memorie e nelle immaginazioni del medio evo (volumi due, Torino, Loescher, 1882), Miti, leggende e superstizioni del medio evo (volumi due, ibid. 1892), Il diavolo (Milano, Treves, alla III edizione nel 1890); dall’amore alla letteratura italiana, preferita ben presto per l’insegnamento, e alle neolatine, son venuti gli Studi drammatici, Attraverso il cinquecento (Torino, ibid. 1878 e 1888), le acute, mirabili pagine sul Leopardi, il Foscolo e il Manzoni e sulle correnti letterarie moderne (grosso volume del 1898); come alla conoscenza delle letterature straniere, in comparazione alla nostra, dobbiamo il poderoso e ultimo volume L'Anglomania e Iinflusso [inglese in Italia, per non dire d’altri scritti vari, tutti meritevoli d’essere presto raccolti, comparsi specialmente nella Nuova AntologiaQuel che abbia lasciato il poeta, che è tutt’uno col pensatore e scrittore religioso-sociale, si vuol qui vedere e far meglio conoscere.
Che quanto s'è affermato sulla scuola, lo studio e specialmente il lavoro sia verità indiscutibile, è anche provato da questo : dopo la sua scomparsa, il volume miscellaneo in onore del centenario boccaccesco offriva un suo importante studio, e la Nuova Antologia del 1° giugno recava tre liriche; che sembrano l’ultima parola agli uomini di chi sia per lasciare questa vita (lo vedremo più innanzi). Staccandosi dalla quale, volto all’alto, poteva ripetere il noto paoliniano a Timoteo, già servitogli di conclusione in uno scritto di fede (lo ripetè, dopo aver affermato: che morale sia la suprema legge del mondo e non fisica; che aver religione voglia dire: riconoscere qui e di là un’immensurabile potenza spirituale, operante per un fine buono, e mantenersi sempre stretto a lei, volendo con lei più vita, più intelligenza, più bontà, più bellezza) : Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi. A proposito anzi di certame combattuto, si deve anche ricordare ch'egli, prima del De Amicis, s’era accostato ai socialisti, pur non dandosi mai a propaganda e avendo anche rinunziato a una candidatura politica ; ma s'era subito separato dai corifei del socialismo militante, vedendolo assalire acremente la borghesia, tendere unicamente al materialismo e negare ogni proposito religioso e morale (2).
* * ®
« Quando le credenze religiose, che per secoli hanno sorretto e governato lo spirito, vanno in dissoluzione, quando i sistemi filosofici si scompaginano l’uno dopo l’altro e le scienze più giovani, intente a raccogliere e ordinare i fatti, non
(1) Storia letteraria e comparazione, Dell'epica neo-latina primitiva, Provenza ed Italia, p. .es.. : prolusioni e studi editi dal Loescher nel 1S77.
(2) La discussione^ tra lui e F. Turati, fu fatta nella Critica sociale del T. (fase. 1 e 3, 1892). Vederla, vuol dire ammirare mente e cuore del Graf, ed essere con lui.
11
ARTURO GRAF
A QUARANTANNI
11 ».il elisegli', di C. Chessa, nella 1
I III edizione di Mtdufa, 1890|
Í19I4-IV]
13
ARTURO GRAF
NEGLI ULTIMI ANNI
1l)a fotografia dello stabilimento 15. Pasta di Torino, gentilmente favorita dalla Vedova
15
SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA d’aRTURO GRAF
249
parlano ancora se non confusamente alla ragione, la poesia deve sorgere e parlare in lor luogo, e tener desta la fiamma della coscienza, affinchè non si spenga nella oscurità del silenzio. In ogni tempo fu compito sacro della poesia rievocare il passato, presentir l’avvenire e palesarlo in parte. Essa rammemora quando noi siamo perdimenticare, quando lo scoramento e il dubbio penetrano negli animi nostri, quando incrociam le braccia dinanzi allo spettacolo delle rovine irreparabili e c’ingombra il fastidio dell'opere; essa di sulle cime raccoglie i presagi, stringe nel verso le voci che si levano di mezzo alle genti, compone d’arcani sussulti il suo ritmo e annuncia l’idea della vita nuova ».
Di qual poeta-sacerdote, o di quale ricercatore d’una poesia umanamente divina, sono queste parole?
Le scriveva il Graf nel settembre 1879, acceso per quanto Prometeo aveva suscitato in tanti poeti-filosofi, da Eschilo, al Carducci, al Rapisardi (1): quel Prometeo, cui s’era vòlta anche la sua musa qualche anno prima, come sappiamo dal volumetto di Braila, diventato qui nel ’75 l’accennato Poesie e novelle (Roma, Loescher), ossia il suo primo veramente notevole saggio poetico.
Dal quale conviene senz’altro rifarsi.
Offerto a un buon amico, il Graf lo dava come dono di « poveri versi ». Perchè chiamati così i quarantasette « canti » con nove « sonetti » al fratello, quattro « satire », un fantastico « Amore mercante », otto brevi « scherzi », per non dire d’altro? Modestia di creatore, discorde dal titolo «poesie», o qualificazione di contenuto? Forse più questa che quella: nei canti e nei sonetti, pur balenando nelle satire e negli scherzi i lampi di uno spirito ironjco, alquanto parente di quello ond’è distinto E. Heine, tu hai le voci d’un medidativo, inclinato a vedere la parte più triste della vita e voglioso di scoprirne il mistero, d’un cuore trafitto dalla perdita d’una cara morta, che è rimpianta con le perdute illusioni d’un animo gagliardo e tenace. Il quale, mentre sente tutta l’aspra battaglia alla quale è sortita l’anima umana, e se ne lagna, ne pare anzi oppresso così da desiderare qualche volta la pace della morte, si leva fiero e nobile a celebrare là resistenza e la ribellione eroica, cantando Prometeo e il Galileo, e pasce l’animo di nobili sensi patrii dinanzi al passo delle Termopili, rispondendo alla celebre interrogazione manzoniana su Napoleone « fu vera gloria?» con un’ode che afferma subito : « Non fu ! ». Queste anzi sono le prime poesie del volume, che, dopo le Novelle. ha un’appendice di traduzioni dal Bürger (ZZ cavaliere e la sua belld}. dal Béranger {A centellini}. dall’Iglesias {Sotto il verde), dal Longfellow (Excelsior). dall’A. de Chamisso {Inverno), da A. De Musset (A Giulia): anch'esse testimoni d’una certa specie di poesia prediletta dal traduttore.
Vespri malinconici, notti lunari, solitudini alpine, morti, piante, cipressi tristi, sono qui quello che vorremmo dire mondo esterno del poeta, se non fossero invece la rappresentazione sensibile dell’anima sua; un tutto insomma, per
(x) Prometeo nella, poesia, prefazione. Di questo studio, vide la luce nell’88 (Torino, Loescher) una seconda edizione. Non è forse inopportuno ch’io citi l’accenno che ne faceva G. A. Borgese nel suo Giove e Prometeo, {Hermes, VII, Firenze 1903), che precede di poco lo scritto più importante sul volume del Manara Valgimigli {Eschilo: La trilogia di Prometeo, Bologna, Zanichelli 1904) apparso nella Critica a. Ili, fase. V, Napoli.
16
250
BILYCHNÍS
intenderci, leopardiano, non d'imitazione ma di naturale affinità, con arte però molto inferiore a quella che distinse presto i canti del recanatese.
Con arte molto inferiore, s’è detto, alla precoce del Recanatese: arte, che qui sarebbe inopportuno esaminare; giacché giova solamente aver notato nel primo abbondante saggio, le caratteristiche della poesia grafiana : pensiero, sentimenti nobili, tutt’altro che amore di popolarità (giova ricordare la data dei Postuma stecchettiani : il 77, ossia l'anno stesso in cui uscivano le prime Odi barbare del Carducci e i Giambi ed epodi tratti dai volume Poesie del 73): una ottima promessa in conclusione, che doveva essere mantenuta.
Nell'8o infatti ecco la prima edizione e nell’81 la seconda, per poco accresciuta, duna nuova raccolta, fatta definitiva con molte aggiunte nel 90.(1): raccolta di poesie composte fra il 76 e 1' 89, divisa in tre libri e che ebbe in fronte il nome d’una delle tre figlie di Forchis, l’anguicrinita orrenda Medusa, cui Perseo mozzava il capo, la cui vista nell'inferno dantesco avrebbe dovuto, pietrificando il poeta, impedirgli quel « fatale andare », che tutti sappiamo. Dopo il tramonto, composto di due parti, comparve nel 93> comprendendo, com’è presumibile, cose di quattro anni; nel 97 uscirono Le Danaidi, accresciute poi nel 1906 per la 2a edizione (ricordiamo le sciagurate figlie del re d’Egitto, che, per aver ucciso i mariti lor cugini, furon dannate —- simbolo d’una vana eterna fatica — a versare acqua in un recipiente senza fondo 1) ; Morgana s’intitolarono le poesie, edite il 1902: un volume in due libri, che richiama in mente la sorella di re Arturo, la disprezzata amante di Lancillotto, rivivente nella famosa fata; i Poemetti drammatici (dieci), furono raccolti in volume nel 1905 ; Le rime della selva vennero l'anno dopo. Accanto a queste raccolte di poesia, non possono non mettersi Il riscatto, specie d’autobiografia o « memorie d'un redivivo », in cui evidentemente è molta parte dell’autore (esso comparve sulla Nuova Antologia, il 1900, e in volume l’anno seguente) ; come gli « aforismi e le parabole » di Ecce homo (Treves, 1908), che vogliono come essere la rivelazione completa dell’animo e della mente del Graf, o la sua immagine spirituale.
Questi titoli dicono che non si ha che fare con le solite varie raccolte di liriche: no! Ogni volume è una costruzione omogenea, organica, più o meno attraente, ma logica nella causa e nel fine. Quali gli spiriti, quali i motivi di questa copiosa poesia di quasi trent’anni, e non di quelli, per l’autore, in cui si sale ma si discende rateo della vita?
Non sento facile la risposta, quantunque na abbia già fornito qualche elemento con quanto ho detto delle prime liriche giovanili, se, per giudicare e far assentire al proprio giudizio, anche chi mi segue, creda con me necessaria una certa prova. Ma essa non equivarrebbe a riferire del poeta molto più di quello che possa piacere e convenire, sebbene per far conoscere un artista nulla paia più adatto che porsi quanto meno è possibile fra lui e gli animi aperti e disposti a sentirlo?
(1) La prima edizione, un elzeviriano di 100 pagine, col virgiliano « Horror ubique animos simili ipse silentia terreni», che fu tolto nelle seguenti, si compose di sessanta poesie, ritoccate poi qua e là ; mentre la terza risulta di centosessantadue, in miglior veste tipografica, con circa cento disegni di C. Chessa. Le poesie del terzo libro, che è interamente aggiunto, sono precisamente cinquantotto.
17
SEN'S! E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA D’ARTURO GRAF 251
Ebbene, per chiarire meglio il mio concetto sull’essenza e il carattere speciale di essa, ci soccorre un pensiero dello Schiller : « i poeti o sono la natura, o cercano la natura perduta ». Se natura vuol dire serenità, ingenuità, direi quasi una certa vergine fanciullezza, il Graf è della seconda schiera, come siamo oramai un po’ tutti, com’è quasi sempre l'uomo in certi tempi di predominio del pensiero sull’azione. Prevalentemente cupo negatore con Medusa e con parte di Dopo il tramonto, elegiaco con le Danaidi e con Morgana, eccitatore di fede nella vita col Riscatto e con alcuni dei poemetti apparsi prima sparsamente, poi raccolti in volume; assertore di profondi sensi morali e maestro di meditazioni severe con Le rime della selva e con Ecce homo.
Cupo negatore! Apriamo il libro che s’intitola dalla Forcide tremenda: poiché esso è pieno del tenebrore di lei, ecco come il poeta ne dà ragione, volgendosi al lettore:
Chiedi tu donde mova ii disperato
Dolor che m’urge e mi dilania il verso?
Dalla terra e dal mar, dai turbinato
Aere, dal cielo luminoso o terso ;
Dall’ignìvomo sol. dall’increato
Buio, dall’infinito ove sommerso Tutto disvien, dall’eterno passato, Dall’eterno avvenir, dall’universo; Dai morti innumerati che in arcano Sonno per sempre giacciono, dai vivi Innumerati che piangono invano;
Da quest’anima mia, da questo core
Ebbro d’odio e d’amor, che ii sangue a rivi Perde e bramoso di morir non muore.
Chi ricorda i cupi motivi coi quali s’inizia e prosegue nel Lohengrin gran parte dell'atto secondo, quando le fosche anime d’Ortruda e Telramondo tramano contro Elsa? Immaginiamo, coi suoni intorno di questa musica tenebrosa, d’esser portati in uno strano, fosco paese, quale si traversa soltanto nell’angoscia di certi sogni. Ora landa sterminata con stridi d’uccelli sinistri, rotta da nere acque, con rovine qua e là di chiese, di conventi..., da cui i morti fanno ancora echeggiare paurosi tocchi di campana e sordi fragori d’organi ; ora mare plumbeo in tempesta, Sotto un cielo plumbeo, con qualche legno fatato alla morte; ora cime selvagge, percosse dai vènti, che frustano, sul ciglio di profondi burroni, mentre le acque stridono in alto, qualche tronco irato, che non vuol cedere e morire; ora cupe caverne, in cui immani giganti condannati dai numi alle tenebre, tentano squarciare le rocce sovrastanti e sfuggire la morte.
— Dove siamo? (chiediamo esterrefatti). Perchè qui? come salvarci? Oh fosse almeno con noi la cara anima d’un tempo!...
— Orrore, perdizione ! (dicono le cose intorno). — Morta, morta per sempre la dolce creatura già tanto fulgente di bellezza! sospira il cuore, che ricorda, rimpiange e si sente disperare, mentre il sole cala tristamente all'orizzonte estremo, fra nuvole fosche, o una falce di luna accresce il terrore dell’ignoto paese.
Dopo l’inferno dantesco, non credo che più orride scene si possano trovare in altro poeta, e così vivamente rappresentate: esse rimangono indimenticàbili.
18
252
BILYCHN1S
Quasi tutto in Medusa, scene di natura e persone, impressioni e ricordi, vicende intime, fantastiche immagini, miti e credenze: quasi tutto è figura e voce d’un « disperato dolore »; onde stimata tormentosa e vana la vita, sprezzati Generalmente la donna e l'amore, invidiati quanti non sono più, invocata e non invocata la morte, perchè dopo di lei, nel « dilà » sentito e affermato eterno il dolore del « diquà ».
Nella più cupa e tremenda meditazione Ascolta, che comincia chiedendo
Quando sarai sepolto
Speri tu d’aver pace eternamente? Speri tu nella morte e nel niente? O stollo, o stolto!
il poeta dispera e vuol fare disperare anche di quella, che generalmente si suol credere datrice di riposo e di sonno. La scienza non insegna che la morte non è se non la mutazione duna forma in un’altra? Se la vita, che è dolore, è eterna, non soffriremo dunque in eterno dell’esser nati?
Credenza nello spirito e in un mondo diverso dal terreno, suffragata dalle indagini della ragione, hanno condotto a quella che è potuta sembrare casuística della disperazione, forse limite estremo a cui può trarre in arte la fascinazione del nulla (1), e a me sembrano il più acuto grido angoscioso di vivente, vólto all’autore della vita, perchè non ancora ben compresa (compresa o intesa in certo senso, essa porterà a ben altro che alla disperazione).
Volendo ricordare ed esaltare i due più ben noti benefattori e martiri del-l'uman genere, chi non ricorda subito Prometeo e Gesuì Ebbene, il mitico figlio di Temi, cantato già dal Graf quale eroico resistente alla tirannide di Zeus, fatto anzi, secondo la moderna concezione, una specie di Capane©, è qui dolorante come un umano: perchè? Confitto alla cruenta rupe, egli vede impavido nascere e morire i giorni, minare i monti, abbagliare le nevi circostanti, rimuggire sul su© capo ....... il rotante
Ciel che l’ignita folgore disserra
e allargarsi
. . . ondulata e verdeggiante Già nel profondo la ricurva terra ;
ode le scuri tempestare nella foresta, i massi precipitare dalle alture scoscese, vede gagliarde prue scorrere in cerca di nuove sponde; e gioisce, quasi non curando i suoi tormenti fisici. Senonchè di lontano vede anche il fuoco da lui rapito: il fuoco, per cui la terra s’empiva di meraviglie ed era nato l'odio dei numi contro lui, alzarsi sull’are con incensi in loro onore: e solo per questo gli geme profondamente il cuore. Accanto a lui può ben collocarsi il Cristo redentore, presentato subito dolorosamente: crocifisso, dalie sue membra il caldo sangue-scorre a rivi, lacerato le tempie da spine, con la madre piangente ai piedi e intorno la turba tumultuante «briaca di delitto», esterrefatta e muta la Terra,
(1) G. A. Cesareo, in Poeti con temporanei, A. Graf. (Nuova Antologia. 1 febbraio 1900, pag. iSS), poi in Critica militante, Messina, 1907.
19
SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA D’ARTURO GRAF
253
s’apre a lui l'età futura: arcane fughe di tempi, tumulto e rovina delle cose, trionfo della menzogna ; infami gioghi imposti al mondo da’ suoi vicari, benedetti nel suo nome i sicari e date le vampe ai roghi ; l'iniquità dominante il mondo, che invoca il cielo a suo presidio, schernita la croce, ingiuriarne il volgo dai clivi cadenti, non sazio ancora di vendetta.
«Ma tu l’ingiuria vii, ma tu lo strazio» (il poeta ha sempre parlato al martire direttamente)
Di tue misere carni non sentivi;
Chè un’angoscia più grave, un duol più rio, Qual giammai non s’accolse in mortai petto. Ti strinse il cor, t’avvinse l’intelletto, Ed esclamasti : O padre, o padre mio, Per tal d’abbietti e di codardi schiavi
Nefando gregge ho il sangue mio versato?
Questo scempio cui giova? E, reclinato Sul petto il capo, l’anima esalavi.
Un poeta filosofo, E. Quinet, « notevole in mezzo ai poeti del suo tempo e del suo paese, soprattutto per la grandezza e la sublimità dei concetti » (1), nel suo Prometeo, aveva fatto che il Titano annunziasse i profeti e il Cristo salvatore: ardito e confortevole avvicinamento, ben diverso da quello del Grafi (Le due liriche accennate sono appena divise da un’altra breve : La serenata di Schu-bert). Per esso, invece, son fatti disperare del genere umano persino quelli, che la tradizione e la fede fecero i martiri più fidenti.
Disperazione e morte sono le due aspre note fondamentali dei lugubri accordi, che s’accompagnano ai motivi di tutto il volume. Ma quale vigilanza e ricchezza di sensi ! che mobile fantasia trascorrente da un’età all’altra, come un baleno trascorre da cielo a cielo! che sincerità di sentimento si sono alternamente adoperate e fuse insieme a creare questo mondo pauroso, eppure così originale e artisticamente bello, come l'opera d’un grande creatore!
Deve il poeta dire quale sia l’anima sua in questo o in quel mondo? E’ così pieno d’anni, benché non canuto nè curvo, che la memoria gli trema a risalire il corso della vita e aggiunge:
Dentro il mio cor nè brama, nè rimorso. Nè duol, nè sdegno: abbandonato e stanco Giaccio, qual nave in sull’aperto fianco Travolta, fuori d’ogni uinan soccorso.
Passa il tempo, egli è fatto insensibile, e se ritorna in se, ha vergogna di trovarsi vivo (Oblio). Altrove, o è un mare cupo in cui la luna si mira con terrore e racchiude *< Tutta un’infinità di cose morte » {Mare interno)', o è un legno antico, lacerato, che non resiste ai flutti (Infinito) ; un astro sperso che non vede il suo centro (Astro)', un bel mausoleo, in cui dormon tre donne: Fede, Speranza, Carità (Mausoleo)’, vuol essere mutato in pietra (Omnia ruunt)\ sente freddo il suo cuore (Lampeggiamenti); si sente morire (Quiete)', è stato vinto e muore (Laocoonte) ; logora la vita nel lavoro e nel sogno d’un’ idea eterna, che non ha
(1) A. Graf, Prometeo nella poesia, pag. 141.
20
2J4 BILYCHNIS
compagna la fede {Triste guadagnò]} è una brulla livida pianura, « Sparsa di sepolcreti e di rovine», mare nero senza fondo, infinito, «Pien d’orror, di silenzio e di paura», cielo torbido che non si serena mai, «Una tetra deserta, orribil scena, Del gelo ingombro della morte... » {Pittura interiore). Che cosa vi accada, dice Nel profondo} che cosa veramente sia, afferma così:
La coscienza mia, usa al cimento Era uno scudo di temprato acciaro Lucido e forte, invulnerato e chiaro; Squillava il suo metal come l’argento.
Sorgendo, l’orbe suo vinceva in poco Spaziò Horror della più fitta notte, E tra le nubi sgominate e rotte Sedea come un superbo astro di foco.
Tal fu ; tal più non è : sopra il suo disco
Immobil ora si distende un'ombra, Che la mia mente di paura ingombra Ogni qualvolta di guardarvi ardisco.
E fuor del suo metal temprato e forte Scoppia una voce d’ira e di flagello, Che per l’anima mia suona a martello La rovina, il terror, l’odio e la morte.
Tutto si dipinge nell'anima sua, ma tutto il doloroso (Fanciullò]; e che cosa sia il cuore suo, canta in Cuore strano} come finisca, in Nirvana; in cui siamo come nella vita del caos o della morte di tutte le cose: buio, silenzio, vuoto, eterno! Ma
Solo in quel vuoto ed in quel bujo sento
Il perduto mio cor che vibra e pulsa
Sempre più stretto in sé, sempre più lento;
Con un lieve rumor d’ala che frulla
Con una stanca ansietà convulsa
Più lento ancor... più lento ancor... più nulla!
•
In nessun poeta è il senso di una scena e d’un momento così paurosamente grandioso ; e come sublimemente sentito quel cuore, che è l’ultimo ritmo, l'ultimo palpito della vita!
Ma perchè questa ossessione del nulla? Soltanto per il suo dolore? No. È una notte e un grido lo sveglia: sereno il cielo, tutto par calmo; e invece lo ferisce il pianto delle cose (Planctus mundi). Qual’è il pensiero che ha dentro l’anima, più angustioso della morte, più amaro dell’assenzio? Non ha nome (Un pensiero). E noi possiamo supporre sia la persuasione che il suo destino è anche quello di tutti: destino, che per lui non è se non l’aspettazione della morte, perchè questa sola è la vita (Angoscia).
Contro questa prostrazione, questa che pare invincibile disperazione, egli sa resistere e anche opporsi fiero: anzitutto non vuol morire, perchè sente che risorgerebbe in eterno (Febbri titaniche)} esalta tutta la vigoria del sangue umano, di cui ogni stilla è un mondo, i cui fervori non conosce il fuoco, come il mare non ne conosce le rabbie (Sangue). Perchè natura cela la fattura delle opere sue ? Si sveli: avesse il vólto duna Gorgone egli rimarrebbe fermo (Provocazione).
■t i nrfiip
21
SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA D* ARTURO GRAF
255
-M» M-M*«*/ -Zoa/ 4***~
a) *^*A44.
«£*2 -»CAA4VVA) MAJ
„MaJ aJ^aÍaJ <*i
■iAfJ <^U«</p 4£AMtV JÍW 44«Z^ cÍa)
C^J d^«) '^^CA/ '^’4°^
A**' a) \jaá^Ho> t ©4<?^<A4/%
^Aàì AA^IaJ. 4) 1a^
^hAAK,^^ * >^Í<^J
Mx^QavJ c2ö».
-%í?-/ «4.
T
JLj
ty hLaca^6^a) ^<^’’ '''* 1 ’ *** 4M*Ma iMJiAiyt
T^^DI1I>.
K>A^tio del Poeta. (Lettera da Torino in data 23 febbraio I9I3 al prof. G. Losca).
22
256
BILYCHNIS
Invano nel capo gli urla la folgore, e sotto gli trema la terra: non è vinto, benché lo prema l’ora bieca, che lo attende da gran tempo; e morrà ma senza ambascia, senza chiedere tregua e difesa, resistendo all’impresa disperata, finché gli tremi l’anima. Incalza anzi eroicamente:
O nume ignoto ancor ti sfido! occulto Tu combatti; nell'ombra che t’avvolve De’ tuoi passi, cadendo, io spio le impronte.
E'tanto che il mio core abbia un sussulto Tu mi vedrai dalla percossa polve Risollevar la fulminata fronte.
Così nel sonetto "ì'fJft; ; mentre in un altro {Umana tragedia), enumerazione dei mali del mondo in cui trionfano l’onta e l’errore, stretto da odio, da angoscia, da pietà, da sdegno, prorompe:... «Empia natura, Quanto ha mai da durar questa tragedia? ».
Tragedia sempre? liceo l’Olimpo grandioso: i numi si allietano con canti, vini, amori, mentre il baleno guizza sugli uomini (Superi): ecco Sole, vigneti, belle campagne : la Morte arroti la falce (Morte mietitrice) ; è primavera : le fanciulle esultino! Non lui che vede in essa prepararsi la morte (Primavera).
E vivo contrasto è còlto fra il Sole e noi, in Morituri, come solitario, pendente sulla balza dell’Alpe. Rupi, baratri di sotto, sopra invece l’immenso etere in giro luminoso, con nuvole bianche, col Sole sfolgorante nell’azzurro :
Lontan nella bassura, il solitario abete
Vede colli ubertosi, vede pianure liete Di messi e d’acque, di paschi e fior;
Vede come sognando, e tra le selci ignude In sua triste gramaglia, più rigido si chiude Muto, superbo nell’alpino algor.
Della morte però in generale si canta ben diversamente! In Esercito, a schiere da lei condotte, si grida cupamente: avanti! avanti! Lodata è in Dall'Oriente, come invidiato è chi morì nella culla in Epijonema', invocata in Azione di grazie', chiamata compagna nelle strofe che recano questo titolo ; altrove affermata regina (Morte regina). Come vorrebbe trovarla in un ameno lago! (Picciol lago rotondo). Che cos’è rivivere? rimorire. (Cenere). Descrive un tramonto sui mare livido, sonnolento, dove un bastimento anela a un porto ignoto:
Io guardo l’infinito
Spazio e la stanca vela
E mi rincresce di non esser morto. {In riva al mare).
Era nella foresta, e si vide galoppare accanto la Morte : essa pareva volerlo, invece gli gridò singhiozzando:
Q tu che non ¡schivi
I colpi, e mostri di morir desio. Ti raccomanda a Satanasso o a Dio, Non aspettar da me tal grazia : Vivi !
mentre, sfolgorando sul nero cavallo fa cadere quanti incontra (Morte guerriera). Qualche volta però ne è angosciato: è in un convito festoso, ma egli ode la
23
SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA D’aRTURO GRAF
257
cupa regina, e vede spegnersi la donna amata, e domanda: perché si muore? [Pallida mori}. Sennonché nel Sonno di Carlo Magno, possenti quartine descrittive, il vecchio imperatore, mentre dorme, sogna e si lamenta d’esser vissuto!
Nel La fine e il fondo, dopo aver detto che riso, speranze, tutto è morto per lui, conclude:
La fine e il fondo io vidi e il sempre e il mai, E all’amara tua coppa a fronte prona, O sacra morte, ancor vivo libai.
E in Strige (ha sentito cantar l’uccello indovino, a notte oscura, sui muri d’una squallida chiesa in rovina), l’oscuro epicedio gli discende in cuore più dolce che il canto d’usignolo.
E non solo abbiamo contrasto fra luce e tenebre, gioia e dolore, vita e morte, ma scherno sarcastico o sorriso ironico.
Siamo dinanzi ad un mare calmo, che incanta; ma ecco d’improvviso la tempesta, e una nave, prima sicura, ha naufragato; la ciurma è morta, e... il mare torna come prima.
La poesia che descrive questi cambiamenti s’intitola Scherzo di natura ; come L'elisire della vita è intitolata l’altra, che raffigura l’alchimista con l’ampolla in mano, morto stecchito da trecent’anni. In Fontana di gioventù si canta della famosa fonte, che ringiovanisce le membra ma non l’animo : chi ne vorrà bere? In Invito ecco un pellegrino stanco, perchè ha tanto camminato, cercato... ma scenda una buona volta nella fossa ! Un cipresso canta alle anime addolorate là sua canzone funebre : venite a me che sono albero del perdono, sdraiatevi al mio piede :
Voi dormirete un blando
Sonno, e perchè v’annoi Meno il tempo, cantando Io veglierò su voi.
E la canzone è detta gentile*. Oh come vorrebbe amare! ma s’è giocato il cuore a dadi {Repulse}. Vorrebbe esser morto da tremila anni, ma non sepolto : esser su là cima d'un monte, in alto aito, passare per un eroe, aver l’aria di covare un gran segreto, senza pensare a nulla {Desiderio}. E quasi scherzoso chiude le quartine, nelle quali è descritta un’affogata {Affogata}', com’è amaramente scherzoso in Voi savio e in Ragni, e direi macabramente in Ghiribizzo l Ha un antico desiderio nell’animo, che non è nè iniquo, nè impudico:
Vorrei, quando la messe
A raccoglier s’affretta
Sugli arsi campi il mietitor sfinito,
Vorrei che mi cogliesse In capo una saetta, E mi lasciasse li morto stecchito.
Ma, venendo, la gran mietitrice porterebbe la pace? No. E allora perchè egli nell’epitafio suo, quando l’abbiano suggellato nella fossa, vuole si scriva:
« Chi mai non l’ebbe, finalmente ha pace »? {Epitafid}. E perchè impreca, sentendosene straziato, dinanzi alla fossa dove cala la madre?
24
258
BILYCHNIS
Tronco il respir, l’occhio sbarrato e fisso Guardo senza pensier : fossa che atttendi ? Oh ! madre, oh madre mia sei tu che scendi
Nel disperato abisso !
O vitupero d’eterno consiglio, O violenza che il pensier rivolta! La madre morta, la madre sepolta Sotto gli occhi del figlio (XXVIII Agosto MDCCCLXXX).
Contraddizioni che dànno immagine viva della tempesta d'un’anima, e formano come il dramma d’aspre e discordi voci ; fra le quali saranno anche udite quelle di mesti rimpianti e di tristezze, rompenti qua e là l’orrore predominante.
Ecco un tranquillo lago: egli guarda, contempla fiori, nuvole che passano specchiandosi, e piange (Acqua chiara). Su un vecchio tronco che arde, vede scritto il nome di lei: pensa piangendo al passato (Vecchio tronco). E’ notte, solo : pensa alla giovane compagna, rapitagli da dieci anni, e la rugiada lo asperge di lagrime (Rimembranze!). E’ il triste inverno: che bellezza invece un maggio lontano! (Oh! mio core!)
Ed è certamente lui la campana che rimpiange la fede morta (Campani); lui Fra Benedetto, che prega e ricorda, invocando mantenuta da Dio la promessa di pace; lui che sente per tutto la voce Invano! invano! invano! (pag. 228); lui che fa dileguare un’arcana isola di felicità dinanzi al nocchiero che anela ad approdarvi ; lui certo il cigno in un mesto e soave sonetto (Il canto del cigno), che fa pensare a una musica originale e bella del finlandese Sibelius intitolata . Il cigno di Tuonela » (pag. 279).
E fra le tragiche, le sarcastiche, le piangenti, mettete pure anche qualche voce di letizia.
Non tutto, non tutto è dolore e orrore nella vita.
O santa, inviolabile bellezza,
Dacché cogli occhi e col pensier ti vidi Mia dolce brama, mia soave ebbrezza ;
Io rido e fremo e piango ove tu ridi ;
Io languo e muoio della tua carezza ;
Tu m’avvampi d’amore e tu m'uccidi
esclama nel primo dei due sonetti consacrati alla Bellezza. E in Estasi arcana e in Estasi amorosa com’è celebrato e profondamente sentito il prodigioso rivivere per opera d'amore! Un nuovo ardore gli corre per le vene stanche, e non sa dire la voluttà che prova : si ricorda di antiche speranze, ritrova nel cuore le morte fedi, gli sembra di capire il gran mistero.
Sia benedetta la virtù d’amore!
La clemenza d’amor sia benedetta!
Gli cantano voci chiare e sonore:
Pace all’anima tua! Dalla memoria
Sgombra il dolor ; tergi le amare stille : E’ giunta l’ora della tua vittoria.
25
SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA D* ARTURO GRAF
259
E gli pare finalmente
In una immensa visTon di gloria Chiuder ridendo l’umide pupille.
Nè meno serena e dolce è la poesia Sogno, in cui rievoca una sera estiva dolcissima, in un’amena pianura interminabile, dove errava il canto lontano d’una fanciulla innamorata: qui chiude soavemente:
Sempre mi torna il luminoso e blando Sogno alla mente, nè potrò giammai Saper dov’io l’abbia sognato e quando.
E Che delicatezza di tocchi in Ninfea e nella Danza delle ore !
Suggestiva rievocazione, che mi fa correre colla mente, e col cuore, alla Matelda dantesca, nella foresta divina, e a quella Silvia soavissima, al cui Canto, nel maggio odoroso, suonavano le quiete stanze, colmando di tenerezza il cuore del poeta innamorato.
Chi negherebbe al Grafil sentimento profondo del dolce e della gioia? Chi non sente da questi pochi accenti quanto egli potrebbe togliere di incanto da tale corda, quando volesse? E verrà tempo in cui voglia, e possa? Generalmente però la donna non è da lui presentata favorevolmente-: in Sogno, una bella e ricca parla, sognando: di che? del tradimento. In Vendetta, l’uomo livido guarda la traditrice uccisa ; e non par troppo inclinato all’amore, quando lo definisce lo spasimo maggiore (pag. 233), o causa della sua consunzione (pag. 275).
Qua e là tuttavia lo rimpiange ; e una tenera elegia è in lode d’una morta, {Ultimo amore); com'è un profondo rimpianto Allucinazione, in cui sono ricordati i baci, le ebbrezze, le care ansie di cose troppo fugaci, di giorni troppo brevi.
Chi lo crederebbe? Abbiamo qui anche certe tenui cose, che paiono scherzi, e ricordano certi lieder heiniani: Alloro, Saggio di commento al Petrarca, Ghiribizzo.
Il volume però, come si apre, si chiude con versi cupi, nei quali, come colpi ripetuti in profondità cavernose, le strofe ripetono il nome della tremenda Gorgone, da cui ha preso il titolo.
Di fredda ombra soffusa
E’ la volta del cielo;
Pien son io del tuo buio e del tuo gelo, O Medusa! O Medusa!
Nell’anima confusa,
Fra le sparenti forme,
Chiara tu soia, invariata enorme, O Medusa ! O Medusa !
Senonchè tutto questo, può dire qualcuno, è trama di pensieri, storia d’anima nei sentimenti ond’essa vive; ma l’arte che fa degno il pensiero d’indagine e di studio?
Se fantasia e cuore sono i venti che gonfiano le vele alle navi superbe dei veri poeti, anzi sono come l’essenza caratteristica delle loro opere; in Medusa fantasia e cuore sono cosi evidenti, che bisogna uscire dall’età nostra, per tro-
26
2ÓO
BILYCHNIS
vare poesia simile. Percorso il volume, anche rapidamente, il lettore non può non aver sentito qualche cosa ¿’arcanamente nuovo in ciò che pareva vecchio: gli ha soffiato intorno come il sóffio d’un genio distruttore, ma genio da cui si è rimasti soggiogati : il pensiero vola a certe creazioni del Byron, dello Shelley, del Goethe, del Leopardi ; e rievochiamo Manfredo, Alastor, Mefistofele, il Pastore errante dell'Asia, Bruto, l'immagine del recanatese, in atto di cantare la Ginestra.
Se per arte s'intenda varietà di evidenti rappresentazioni, dominio della materia espressa in locuzioni proprie, atteggiamento diverso, continuo di pensiero, per significare più volte uno stesso fenomeno o alcunché di simile, ricchezza verbale, opportunità e novità di rilievi e variazione di suono nei versi : insomma tutto quello che si suol dire la veste esterna del pensiero e del sentimento, appunto quest’arte si potrebbe facilmente provare, dato che qui si volesse questo. Basti invece assicurare, come a parer nostro, senza di essa, o senza la cognizione della sua bontà, non ci saremmo occupati di metterne in evidenza la spiritualità ispiratrice.
Non ha Medusa nessun difetto? Certamente ne ha (alcuni come inerenti ai pregi), ma di quelli che meritano davvero d’essere detti formali e che non sono dunque materia nostra in questa nobile rivista di pensieri e sensi religiosi. In complesso però i veri proverbiali nei.
Ma di tutta l’opera aveva ben ragione di fare schietto e giusto elogio E. Nen-cioni in un suo articolo (i); nel quale, fra le altre cose scriveva : « La Musa del Graf è una tremenda sfinge granitica, una Medusa chiomata di serpi e dal vitreo sguardo pietrificante. Eppure essa ci attira magneticamente perchè
Its beauty and its terror are divine.
... Mai ombra di declamazione, mai un gesto rettorie© o istrionico — ma una calma composta o glaciale ; un manto profondo di neve sopra un nascosto e sobollente vulcano. E ciò dà aria d’aristocratica distinzione a queste poesie, così esenti da luoghi comuni d’ogni genere, così pure d’ogni ombra di filisteismo, e nel loro pessimismo così reali e sincere ».
S’è però visto che Medusa non è del tutto immagine della sfinge e della Gorgone atroce.
Ma infine il poeta, in cui prevale desolante la visione della vita, s’è dichiarato vinto, e ha chiesto pace d’estinto: non vuol più lamenti, non canterà più, chè il suo cuore è di pietra.
(Co»tóa<a). Giuseppe Lesca.
{1} Nuova Antologia, ! settembre 1891, pag. 67 e seg.
27
IL GIUDAISMO LIBERALE E GESÙ
HI potrebbe direi quali sarebbero i risultati di una critica penetrante e moderna che dei nostri Vangeli o, meglio, della figura storica di Gesù che in essi è tratteggiata, ci darebbe un sereno studioso nato sulle rive del Gange o nella celeste... Repubblica o in un’isola dell’Estremo Oriente? Estraneo alla nostra civiltà, ai suoi presupposti come al suo modo di valutare i fatti dello spiritò, il suo giudizio sarebbe veramente libero da ogni pregiudizio e potrebbe egli mostrarci nel divino
pi vieta ai Nazaret una prospettiva di luci e d’ombre diversa da quella a cui la nostra educazione cristiana ci ha abituati? E questa sua visione, fresca ed imparziale, sarebbe più vera e più intima della nostra, o non sarebbe per caso soltanto diversamente unilaterale*. Tutta la letteratura critica, storica, ecc., sui Vangeli è un prodotto indigeno dei paesi di civiltà cristiana; anche se viene da persone ostili o diffidenti verso il cristianesimo, l’influenza oramai secolare dell’ambiente cristiano vi si manifesta troppo chiaramente. Da qualche anno abbiamo una letteratura che potremmo chiamare cristiana, o per l'origine o per l’oggetto, anche nel Giappone, in cui il cristianesimo è penetrato largamente con la civiltà meccanica dell’occidente ; però in genere si tratta di una letteratura di carattere pratico, apologetica o polemica, che risente troppo l'influenza americana. Quindi noi non abbiamo —- a parte giudizi da impressionista di qualche erudito buddista pellegrino nell’occidente — il modo di vedere la figura di Gesù sotto inaspettati angoli visuali. Per la nostra curiosità moderna, che s’illude, attraverso le escursioni della storia, di rivivere mille anime dimenticate e mille civiltà tramontate e lontane, questa è un po’ una mancata soddisfazione a cui non sa adattarsi. Quindi si comprenderà l’interesse e la curiosità con cui fu accolto un corso di conferenze che un grande critico israelita, il Montefiore, tenne nel 1910 intorno a Gesù alla società delle Jowett Lectures a Londra e al Manchester College ad Oxford. Sono cose , oramai note, e il risveglio degli studi giudaici (ricordo soltanto l’attività scientifica te\\' Istitutum Judaicwn a Berlino, diretto dallo Strade, e la pubblicazione con traduzione e commento nella Mischna, edita per cura del Beer e di O. Holtzmann), e la diffusione del giudaismo liberale. Ed è appunto quest’ultimo che va riconciliandosi con Gesù, se non con Paolo e con il cristianesimo, riconoscendo nel profeta di Nazaret il prodotto più puro e più elevato della religione dei profeti, il più nobile rampollo della razza d’Israele.
28
2Ó2
BILYCHNIS
La coscienza cristiana ha un po’ troppo dimenticato le sue origini giudaiche; però è uno dei tanti vantaggi della moderna scienza biblica quello di averci ridato il senso delle condizioni reali, dei problemi del giudaismo palestinese e della Diàspora, nel cui seno nasce e si sviluppa da prima la predicazione cristiana. Il realistico fondamento della predicazione escatologica del Regno di Dio, l’importanza e la fisonomía della Diàspora, i problemi della teologia farisaica, la rivelazione della vastità della letteratura apocalittica, la conoscenza più profonda della letteratura allegorico-fìlosofìca del giudaismo ellenizzato, una meno superficiale penetrazione della letteratura talmudica e sopratutto il richiamo alla importanza per la storia evangelica delle condizioni economiche e sociali della Palestina nel I secolo, l’analisi dei procedimenti letterari e dello sviluppo tematico della letteratura evangelica: tutto questo ci aiuta meglio che in un lontano passato a comprendere l’ambiente del primitivo cristianesimo. Ed è appunto in grazia a questa ampliata visione del passato e ad una nuova interpretazione più spirituale e più umana insieme dei vecchi schemi teologici, elaborata nei circoli del giudaismo liberale in Germania in questi due ultimi secoli, che è nata una corrente di simpatia del giudaismo verso la figura di Gesù, che viene rivendicata naturalmente al giudaismo stesso. Ma più di tutto ha contribuito la scoperta — non saprei dare altro nome — dell’importanza e della vera natura del profetismo nella storia d’Israele e che tanta luce insieme ha gettato sulla funzione sociale della vita religiosa.
Le sei interessanti conferenze del Montefiore sono state tradotte recentemente con grande efficacia di stile dal Dr. G. Pioli, un valente cultore di studi religiosi, nella < Biblioteca di varia cultura » (n. 6) del Formiggini (i) e sono precedute nell'edizione italiana da uno studio di F. Momigliano sul « Giudaismo liberale e il Gesù dei Sinottici ».
Il Montefiore, il cui nome ricorda le origini italiane della sua famiglia, è nato in Inghilterra nel 1858; fu discepolo ad Oxford del Jowett e a Berlino venne poi a contatto del giudaismo liberale. E’ il fondatore con l’Abrahams, professore di letteratura ebraica a Cambridge, della importante The Jewish Quar-terly Review. Nel campo del Nuovo Testamento egli, oltre alle sei conferenze di cui ci occupiamo, ha pubblicato nel 1910, un importante lavoro sui Sinottici, in due volumi [Commcntary upon thè Synoptic Gospels}y in cui riprende per proprio conto le indagini critiche sulla composizione letteraria e sulla storia evangelica dei più autorevoli critici moderni, ed, ultimamente, un lavoro su s. Paolo, di cui quanto prima la nostra Rivista parlerà.
Il Montefiore esamina nelle sei conferenze, < dal punto di vista del pensiero ebraico contemporaneo»: i° Gesù come profeta;' 2° i rapporti di Gesù con la Legge; 30 il Regno di Dio nel pensiero di Gesù; 40 la concezione di Dio, in sè e nei suoi rapporti con l’uomo, nella dottrina di Gesù ; 50 ciò che Gesù pensò di sè e della sua missione, ed infine 6° gli ampliamenti e i mutamenti fatti alla dottrina primitiva di Gesù dal cristianesimo. Non è possibile dare in un facile riassunto il contenuto così interessante del libro, nè è possibile, d’altra parte,
(’) C. G. Montefiore, Gesù dì Nazareth nel. pensiero ebraico contemporaneo (versione dall inglese con introduzione di F. Momigliano). Formiggini, Genova, 1913.
29
IL GIUDAISMO LIBERALE E GESÙ
263
seguire con un lavoro d’analisi le affermazioni d’ogni genere, alle volte perfino paradossali, che s’incrociano ad ogni passo con sviluppi laterali e lunghe parentesi di pensiero, permesse dallo sviluppo oratorio del tema. Mi limiterò, seguendo l’ordine delle conferenze, a richiamare l’attenzione su qualche punto più interessante.
II.
Il Montefiore suppone dimostrata l’accettabilità, per quel che riguarda la composizione letteraria dei Sinottici, delle tesi unanimemente accolte dai critici neotestamentari, cioè : a) la priorità del Vangelo di Marco, che ha fornito il materiale narrativo e l’ordine fondamentale comune ai tre Sinottici ; à) l’utilizzazione da parte di Matteo e di Luca di una collezione di discorsi (Aóyca), la celebre fonte Q(uei/e) dei tedeschi; tj l’esistenza di una o più fonti diverse per il materiale particolare [la dei critici tedeschi] a Luca e a Matteo.
Se il giudicare dei Vangeli e di Gesù fosse intieramente una questione di critica letteraria o storica, l’accordo fra gli studiosi sarebbe presto raggiunto. Ma quando dal problema letterario Si sale al contenuto, quando dai puri fatti si passa ad un giudizio di valore, entrano in giuoco profondi ed irriducibili criteri personali che, chi li applica, li giudica altrettanto obbiettivi e consistenti quanto le più sicure norme del metodo critico, di cui si è servito nell’esame dei testi. Per giudicare della storia religiosa è necessario un criterio religioso, una esperienza religiosa? Il Montefiore crede di sì, e va anche più avanti. « Io penso — dice — che una religione non si possa conoscere se non appartenendovi: un osservatore esterno non conoscerà nè capirà i suoi segreti e le sue gioconde intrinsechezze. Con lo studio non ci si arriva, ma fa d’uopo d'averne l’intima esperienza». Il lettore forse s’aspetta come conclusione che solo un cristiano illuminato possa conoscere, cioè, valutare il cristianesimo primitivo; no; il Montefiore invece crede che un giudeo si trovi in condizioni migliori, perchè Gesù e il cristianesimo palestinese sono dei fenomeni essenzialmente giudaici: gli stessi evangelisti, secondo l’A., non potevano essere dei giudici sereni e profondi, perchè avevano perduto il contatto con il giudaismo, che avevano abbandonato ! Ma allora come spiegare l’antinomismo paolino?
Dal punto di vista giudaico (così anche nei Sinottici) Gesù appartiene alla classe dei grandi profeti, è l'erede e il continuatore — dopo il risveglio profetico del Battista — di Amos, di Isaia e di Geremia. La nozione storica del profeta ebraico non implica solo la predicazione contro i mali sociali e religiosi che provocano, sotto l'influenza dello Spirito, la missione divina e lo sdegno dei profeti, ma anche \'annuncio di grandi avvenimenti catastrofici, imminenti, che segneranno il trionfo definitivo della giustizia sull’ iniquità che dilaga. Così per Gesù la predicazione escatologica del Regno di Dio, che è già alle porte, costituisce il motivo iniziale e il centro della sua attività profetica, sebbene, per il Monte-fiore, « la dottrina morale e religiosa di Gesù, come quella dei profeti, abbia un valore indipendente in gran parte dagli errori di prospettiva». Il liberalismo teologico impedisce forse qui al Montefiore di scorgere la profonda unità che legava insieme in Gesù la predicazione escatologica la coscienza messianica e l’elemento
30
264
BILYCHNIS
dottrinale, e lo spinge ad isolare prima, a concentrare poi,tutta la sua attenzione in un contenuto etico ed astratto dell’ insegnemento di Gesù, che storicamente non può stare isolato.
Il Montefiore, preoccupato poi com’è a limitare nella predicazione di Gesù il conflitto suo con la Legge e il tradizionalismo rabbinico, s’indugia a voler scorgere un’altra affinità psicologica fra Gesù e i profeti: la tendenza ad ingrandire i mali. E’ vero ch’egli dice che ciò è fatale ad ogni riformatore e che il messaggio di Gesù fu provocato dai peccatori e dai peccati d’Israele, e che, in fondo, questa pretesa esagerazione è una visione più profonda dei mali.
Ma mi permetto di notare, prima di tutto, che la questione avrebbe guadagnato in chiarezza, se il Montefiore avesse cercato di mettere bene in evidenza l’attitudine di Gesù con un preliminare esame critico del conflitto così com’è esposto, con una prospettiva particolare a ciascuno di essi, nei singoli Sinottici, e vedere se e fino a che punto abbia potuto farsi sentire nello schematismo prammatico dell’esposizione degli avvenimenti l’eco della polemica paolina. Poi, se è vero che, come ci dimostrano le ricerche recenti (1), il fariseismo al tempo di Gesù non doveva .essere nell’insieme così insanabilmente pervertito dal punto di vista religioso come potrebbe credere un lettore superficiale dei Vangeli e che le forze più notevoli vennero alla comunità cristiana appunto dal fariseismo (chi non ricorda Paolo, l’ex-fariseo ?), mi sembra d’altra parte una conclusione troppo semplicistica il dire, con il Montefiore, che i « Guai a voi, scribi e farisei ! » vanno interpretati « in questo senso storico che, cioè, v’erano alcuni scribi e alcuni farisei cattivi »!
Il Montefiore non è disposto a riconoscere che il difetto, dal punto di vista della vita religiosa, fosse appunto nel sistema, cioè, nella Legge e si domanda, naturalmente, se la condanna di Gesù si estendesse soltanto alla condotta dei peccatori o anche al sistema religioso e morale del giudaismo. Gesù sarebbe, tanto per intenderci, un Pier Damiano o un Lutero, un denunciatore di colpe o un ardito distruttore? Il problema può essere interessante, ma storicamente non si deve porre così; Gesù probabilmente non ha mai pensato a porsi come riformatore del giudaismo. Da un punto di vista giudaico, si può affermare, anzi, che il fariseismo, con la sua teologia messianica e con il suo fervore, ha affrettato la maturazione del cristianesimo (e quindi è il vero colpevole dinanzi al giudaismo), più che con tutte le sue esagerazioni legaliste che provocarono lo sdegno di Gesù e che formarono il tema prediletto della polemica cristiana della seconda generazione contro il giudaismo, sebbene per i cristiani e per i giudei il vero nocciolo della questione fosse ben diverso. Se la questione si fòsse aggirata, tanto per Gesù che per i paolinisti, intorno ad una riforma o ad una interpretazione più spirituale e più sintetica della Legge, il cristianesimo non sarebbe mai sorto; tanto è vero che è esistita una comunità messianica importante, la comunità cristiana di Gerusalemme, che in realtà non accettava affatto la critica di Gesù contro la Legge, ciò che dimostra che la critica alla Legge o ai suoi interpreti è un elemento secondàrio nella predicazione di Gesù. Bisogna saper
(x) Per i risultati si legga l’eccellente esposizione del fariseismo nella Geschichte des jüdischen Volkes im Zeitalter Jesu dello Schürer.
31
XL GIUDAISMO LIBERALE E GESÙ
265
leggere più profondamente per trovare nei Sinottici il giusto punto di vista per la prospettiva della predicazione di Gesù.
Il tema « Gesù e la Legge » trattato a sè può fornire lo spunto ad un uomo d'ingegno e ad un dotto ebraista come il Montefiore per una bella ed interessante conferenza, ma le sue conclusioni non possono essere più decisive di qualsiasi trattazione accademica. Ad ogni modo ciò che egli dice è molto interessante e va discusso.
Il Montefiore sostiene che al tempo di Gesù la Legge, creduta tutta ugualmente divina, nei precetti legali come nei precetti religiosi (si pensi che p. es. nella Thorà dopo il precetto eminentemente etico : «Tu amerai il tuo prossimo come te stesso», se ne trova un altro, ispirato a concetti magici: «Tu non indosserai un abito intessuto di due fili diversi »), era non soltanto apprezzata e difesa contro lo straniero, ma anche praticata non solo dalle classi agiate e coite, ma anche dal popolo, che la considerava come una legge popolare e nazionale. Ottimamente! Ma, Gesù, come appare dai Sinottici, non si scagliò appunto contro la pur troppo diffusa, incontrastata ed esagerata applicazione della Legge, com’era patrocinata dai farisei e dagli scribi zelanti?
Non è appunto Gesù a sentirne tutto il peso e l’impedimento alla pratica di altri precetti spirituali, profetici, pur contenuti nel Libro? Bisogna distinguere nettamente l’attitudine di Gesù verso tutti i cirenei incoscienti del legalismo da quella verso quei pochi violatori attuali ed inveterati della Legge, come i pubblicani, le meretrici, ecc.... fatti oggetto di obbrobrio in una società di fanatici, distinzione che non hanno fatto i critici contro i quali combatte il Montefiore. Per comprendere in parte l’opera di Gesù, bisogna pensare al passaggio in conflitto esteriore, nella maturità del giudaismo, del conflitto interiore e latente fra la predicazione profetica anteriore alla Legge ed insieme creatrice della Legge e la Legge stessa che fissava ed imponeva come un blocco l’eredità giuridica, storica, morale e religiosa di Israele.
Contemporaneamente prevaleva l’attività delle scuole rabbiniche nei commenti generatori e fissatori di nuove pratiche (creazione a latere di ogni codice) e la concezione escatologico-messianica che solo nell’osservanza esatta, completa di tutta la Legge da parte di tutti i fedeli poteva attendersi il trionfo nazionale d’Israele nella venuta del Regno.
La posizione di Gesù — ciò che mi sembra sia sfuggita al Montefiore — dinnanzi alla Legge, come interpretata dai farisei e dagli scribi (1) è appunto una conseguenza (o almeno è ad essa intimamente connessa) della sua ben diversa concezione del modo con cui Israele potrà affrettare la venuta del Regno di Dio. Così Legge e prossima venuta del Regno di Dio sono due nozioni in stretta connessione nello spirito di Gesù. D’altra parte, per dare un giudizio definitivo sui rapporti fra Gesù e la Legge, noi dovremmo conoscer meglio la predicazione dèi Battista, da cui parte la predicazione messianica di Gesù. Il vangelo di
(1) Il partito sacerdotale dei Sadducei ci mostra in fondo ciò che doveva essere in origine e ciò che è, simpliciter, la Legge, meglio che le interpretazioni e la funzione che ad essa assegnano i farisei e in seguito i talmudisti. Parlando di Gesù e della Legge, bisogna porre in evidenza questa distinzione.
32
266
BILYCHN1S
Marco ci mette in modo sistematico sott'occhio le fasi del conflitto fra Gesù e i farisei: la questione del sabato, del digiuno e delle purificazioni legali ed infine del divorzio. Ma è una visione sistematica, data troppo per scorcio, in cui sono trascurati gli antecedenti e i nessi storici. Nè le lunghe liste delle invettive contro i farisei e gli scribi, sia per loro non chiara inserzione nel racconto evangelico, sia per i problemi redazionali che involgono, ci possono fornire troppa luce sullo sviluppo del conflitto.
La questione dunque non può ridursi a quella questioncella del Montefiore, se « circa l’anno 30 la percentuale dei rabbini non buoni fosse maggiore che nel secolo vi, l’età classica del Talmud». La legge non va considerata come una quantità a sè, separata dalla impressione che produceva in una determinata età; cosi, nel secolo I, in cui la speranza messianica si riacutizza per l’oppressione romana e per il disagio economico nei centri palestinesi dove il fariseismo era in fiore, l’entusiasmo per la Legge è in funzione della speranza messianica; mentre nel secolo VI la fedeltà alla Thora è il prodotto dell’ importanza del rabbinismo nella comunità giudaica, il ritorno all’ideale intransigente della «comunità dei pii » del periodo persiano, il mezzo per rinforzare in un tradizionalismo integrale il vincolo dell’unità etnica in un mondo definitivamente ostile al giudaismo.
Il Montefiore ha però ragione nel notare l'inconsistenza delle posizioni di qualche critico «cristiano», che applica incoscientemente alcuni criteri paolini e alcune arbitrarie spiegazioni psicologiche (troppo moderne per essere del I secolo 1) alle condizioni in cui si doveva trovare l’osservanza della Legge (impressione di pesantezza e conseguente attesa di un liberatore) al principio del I secolo nella Galilea meridionale. La genesi, p. es. dell’attitudine antinomistica di Paolo ha origini del tutto diverse dalle critiche fatte da Gesù agli impositori dell' integralismo legale in vista del Regno di Dio, sebbene in un certo senso Paolo continui ed allarghi, traducendolo su altra scala, il rapporto fra Legge e Vangelo (predicazione del Regno) quale è implicito nella predicazione messianica di Gesù. Tanto in Gesù che in Paolo la critica alla Legge o alle sue interpretazioni (in pratica le due cose finivano col confondersi) sono connesse ad un altro centro di idee, messianiche o soteriologiche.
Se realmente il legalismo farisaico non fu, come dimostra il Montefiore, quell’ ingombro enorme per la coscienza religiosa giudaica, quale suppongono certi commentatori del Nuovo Testamento, e se supponiamo d’altra parte che Gesù e Paolo/<2r/a»0 dalla critica del legalismo della Legge, l’atteggiamento iniziale di Gesù e di Paolo restano abbastanza incomprensibili allo storico. E’ invece sul campo della salvezza (vedute intorno alle condizioni di salute per il Regno) che la lotta s’ingaggia, prima fra Gesù e i farisei della Galilea e poi, con nuovi criteri e più larghi orizzonti, fra Paolo e i giudeo-cristiani, in riguardo alla Legge. Se lo zelo per la Legge da parte dei farisei e delle comunità giudeo-cristiane avesse significato solo esaltamento o àbberrazione pietistica, il conflitto non sarebbe scoppiato, nè tanto meno si sarebbe allargato come nel paolinismo, maturando una nuova religione universalistica. Il conflitto, anche nel periodo iniziale (Gesù), è già più profondo di un contrasto fra due concezioni della pietà, come vorrebbero ridurlo alcuni critici-teologi. Il Montefiore ha evidentemente davanti agli occhi, nella sua conferenza, quella singolare concezione, storicamente e teologicamente anemica,
33
—w
IL GIUDAISMO LIBERALE E GESÙ 2<>7
che s’immagina un Gesù — un Lutero prima della Riforma! — tutto occupato in un’opera salvatrice di liberazione dal giogo insopportabile delle prescrizioni legali del giudaismo (tipo pietà medievale della chiesa romana!) in favore dei poveri, degli umili, dei reietti della società farisaica, di coloro che non potendo per ignoranza o per altre ragioni osservar tutte le prescrizioni cadevano nella disperazione religiosa e in mille impurità che li escludevano come dei lebbrosi morali dall'aristocrazia religiosa dei farisei. A parte gli equivoci e gli anacronismi psicologici, è facile scorgere la meschinità di una tale concezione che non vede la cornice grandiosa dell'opera salvatrice di Gesù, che predicò la venuta del Regno di Dio e se ne annunciò Messia.
«Il non cibarsi di lepri, di conigli, di porci e di gamberi — conclude il Montefiore — doveva esser così facile e naturale, come a noi il non mangiar gatti, cani e cavalli. Il sabato, poi, malgrado le sue minute prescrizioni, doveva fin d'alìora (secolo I) per la maggior parte dei giudei essere in fondo una giornata di piacere e di privilegio. La purità rituale o levitica non doveva aver gran parte nella vita del modesto campagnolo e dell’artigiano, cioè, egli non doveva vivere affatto in continua ansietà per tema di contrarre l’impurità levitica o rituale... La purità rituale era cosa che riguardava e preoccupava i sacerdoti e alcuni pochi rigoristi che spontaneamente si davano a vivere da sacerdoti ; ma per i laici la purità legale era necessaria Solo nelle rare occasioni in cui visitavano il tempio di Gerusalemme » (pag. 32). Per fortuna, che il Montefiore, stesso s'accorge che, a forza di attenuare, ha distrutto la possibilità stessa del conflitto che è storicamente accertato e nota melanconicamente che il guaio peggiore di una teoria erronea a scopo polemico (io però dubito che sia nata per questo fine, come ho accennato sopra) è quello di indurre gli oppositori, cioè il Montefiore, a cadere alla lor volta in esagerazioni. Il Montefiore ammette che « non esiste alcuna religione la quale non porti seco i difetti dei suoi pregi » e che nel caso particolare del legalismo giudaico il pericolo di mettere l’elemento rituale al di sopra di quello morale poteva generare un certo scoraggiamento e sconforto da una parte e una separazione fra i praticanti che si sentono insuperbiti e i trasgressori che si sentono umiliati. « Ciò che caratterizza il maestro di Nazaret e gli conferisce singolare grandezza è appunto l'aver egli voluto stendere la mano e l’averla stesa di fattoai caduti, una mano di simpatia di conforto e di salvezza > (pag. 35).
Tutto ciò è vero ed è detto anche bene; però non possiamo sottrarci all’impressione di un restringimento, di una vaporizzazione della realta storica che noi presentiamo più complessa e dei problema religioso formidabile che è coinvolto in tutta l'attitudine di Gesù. Il Montefiore è un po’ troppo preoccupato di conservare Gesù al giudaismo e di « separarne la dottrina, qual’è nei sinottici, come un tutto, dal cristianesimo » (pag. 6).
« Le invettive contro gl’ individui e contro certi (?) risultati del sistema [legalistico] disdicevoli od erronei ai suoi occhi portarono Gesù quasi inconsapevolmente ad attaccare, almeno implicitamente, il sistema in se stesso » (pag. 36). No, c’è qualche cosa di più: Gesù interpreta la Legge applicando le ultime conseguenze dello spiritualismo profetico; così il vino nuovo ruppe fatalmente l’otre vecchio. Ad un certo punto il Montefiore sembra aver visto chiaro nella questione, pur restando dal suo punto di vista : « Quando parlavano Amos, Osea
34
268
BTLYCHNIS
ed Isaia non v'era una legge mosaica divina, universalmente riconosciuta come tale ; ma allorché parlava Gesù vi era... Come avrebbe potuto un nuovo maestro, al cospetto della Legge, ... far rivivere la dottrina dei profeti, applicandola direttamente alle condizioni del suo tempo, senza per lo meno rasentare il conflitto eon la lettera della Legge ! > (pag. 37).
Ma se, infine, come un giudeo liberale simpatizzante con la figura di Gesù ed insieme fiero della tradizione secolare della Legge, volessimo, restringendo il dibattito, formarci un giudizio pratico intorno alla polemica fra Gesù e i farisei, potremmo forse concludere con il Montefiore, che « secondo la logica e la coerenza [della Legge], la ragione stava dalla parte dei rabbini, ma, che, secondo le esigenze religiose universali e definitive la ragione stava dalla parte di Gesù > (pag. 46).
(Continua) Mario Rossi.
35
ESTREMA DESTRA
L volume di Mario Missiroli è un documento (i). Un documento — mi dispiace dirlo — della superficialità e artificiosità di quel moto di simpatia e di ritorno verso la chiesa cattolica che vediamo svolgersi in certi ambienti di cultura, anche al-l’infuori dei confini del nazionalismo. « Oggi il problema, dice Mario Missiroli, è di autorità, non di libertà». Molti spiriti, infatti, sono stanchi e disillusi della libertà e delle responsabilità che essa impone : e ripensano con nostalgia alle cipolle
d’Egitto, alia Chiesa cattolica e al suo ferreo concetto di autorità e di obbedienza e al « maestro infallibile ».
E, dapprima, un lato per il quale questo moto di spiriti rivela l’insincerità sua sta in ciò che all’autorità si tende e si torna non per una necessità intima del proprio spirito ; ma per proteggere se stessi e la propria personalità, che sembra minacciata da questo ascendere di volgo e dilagare di mediocrità e di licenza che appare oggi essere la democrazia, per fare della servitù degli altri una barriera intorno alla propria autonomia;.
Sarebbe ridicolo e ingiurioso pensare di Mario Missiroli e dei suoi colleghi in ritorno al cattolicismo che essi si rivolgono verso il « maestro infallibile > per credere umilmente e docilmente nelle numerose storielle nelle quali egli ripone la sua fede, e per difendere le quali fu dichiarato infallibile. Nella Chiesa essi e i nazionalisti e i loro cugini francesi non veggono che l’istituto di dominio buono per porre un freno alle masse, la negazione netta e sistematica della democrazia. I « valori » più propriamente religiosi del cattolicismo o sono da essi negati o sono fuori della loro considerazione. Guardate questo libro del Missiroli. L’autore comincia — prime linee della prima pagina — dal dire : « Questo libro si propone di ridurre a un solo problema — quello religioso — la storia d’Italia dal ’48 ai nostri giorni ». E poi in tutto il libro non trovate una pagina sola in cui si agiti davvero un problema religioso, in cui le molte piccole e grosse questioni che si riconnettono all’istituto ecclesiastico e alla storia e all’opera sua sieno viste e valutate dal punto di veduta delle esigenze dello spirito religioso contemporaneo e dei formidabili problemi teorici e pratici che esse sollevano. Monarchia, destra, liberalismo, Stato, socialismo, cattolicismo politico, questi i nomi e queste le cose che si rincorrono continuamente nelle pagine del Missi(1) M. Missiroli, La monarchia socialista. Estrema destra. Bari, Laterza, 1914.
36
BILYCHNIS
270
rol i, con significazione che non è mai ben precisata, fra paradossi spesso verbali, su di un filo di raziocinio così tenue che si spezza e si avvolge e ingarbuglia, a ogni momento, senza che riusciate a dipanarlo.
Le sole direttive del « maestro infallibile » che il Missiroli si trattenga ad esaminare sono le politiche; e le esamina, graziosa ironia, per trovarle contrarie agli interessi vitali e allo spirito del cattolicismo, attribuendole al conte Genti-Ioni e non a Pio X, solo la fiducia del quale ha chiamato e conserva il Gentiioni alla presidenza dell’ Unione elettorale cattolica. O che il M. ha già per suo conto costituzionalizzato la Chiesa e tratta gli strumenti di Pio X come dei ministri responsabili di un sovrano irresponsabile? Ma allora, addio logica del suo libro.
Non starò ad esaminare partitamente il contenuto del volume. Quindici anni addietro, nelle prime annate della Cultura Sociale, io svolsi una mia concezione della civiltà nostra come di lotta fra la Chiesa e lo Stato : pensando, allora, che la Chiesa stesse per la libertà (tutela dell’autonomo svolgimento della personalità umana) contro lo Stato accentratele e tirannico. Era una ingenuità, contro la quale insorse allora Filippo Meda; ma pure era il presupposto necessario di quella illimitata fiducia nella Chiesa, come organo di democrazia e di cultura, dalla quale sgorgò la « democrazia cristiana > ; era quindi un momento spirituale pieno di sincerità e in qualche senso anche di originalità e di efficacia.
M. riprende quella tesi: la riprende, dopo l’insuccesso colossale, come se fosse una novità, e senza alcun desiderio di giustificarla e spiegarla. Poche affermazioni, sulle quali torna con insistenza, gli bastano. — Il liberalismo, figlio della rivoluzione protestante, individualista e ateo, è nato in opposizione alla Chiesa, è essenzialmente persecutore, profitterà della forza che i cattolici incauti gli danno difendendolo contro il socialismo per ripigliare, quando si sentirà sicuro, la persecuzione religiosa; il socialismo, assai più pericoloso sul terreno costituzionale che su quello economico, è stato abilmente sfruttato dalla monarchia per spezzare là logica del liberalismo dei sinistri, come la sinistra servì a spezzare la logica statale del liberalismo di destra; esso o sarà cattolico o non sarà, e sparirà come un effimero movimento di plebe. — Il modo come M. giustifica, passando, quest’ ultimo paradosso è esempio caratteristico del suo ragionamento. Infatti, egli dice: « L’organizzazione operaia si compendia nel sacrificio e nello sfruttamento quotidiano dei migliori a beneficio dei peggiori... Questo sacrificio... assume un altissimo valore morale se lo si riguarda da un punto di vista religioso, in quanto realizza ancora una volta la formula messianica del progresso insegnata da Gesù Crocifisso ! » E la dimostrazione è fatta! E si può dedurre che se il socialismo si avvicina al cattolicismo per la ingenua dabbenaggine di organizzati che si lasciano sfruttare, quando la dabbenaggine sarà giunta al colmo, si avrà senz’altro la profetata coincidenza di socialismo e cattolicismo. Conclusione lusinghiera per il cattolicismo, la quale ha molta più giustezza di tanti altri paradossi del M.
Il nazionalismo gli è sospetto perchè apparentato con il liberalismo. « Il nazionalismo dovrà esser cattolico, se vorrà davvero risalire alla tradizione italiana ».
Ma i più graziosi paradossi del M. sono riservati per il cattolicismo e per Pio X. Quello vuol instaurare il regno di Dio... sulla terra (p. 190); questi torna in onore l’imperativo della coscienza; con una divinazione che gli assicura un
37
ESTREMA DESTRA
271
posto grandissimo nella storia del mondo (non sappiamo leggere questa frase senza correre col pensiero a una saia di caffè, un’ora dopo mezzanotte, studenti nazionalisti in conversazione e due mondanine ammiccanti poco lontano; grandi cenni di stupefazione compiacente a sentir proclamare la... genialità divinatrice di Pio X) ha intuito la verità che può salvare la Chiesa. Egli ha sconfessato la politica, riconcilia il cattolicismo con la democrazia. E giù boutades dello stesso tenore, alle quali è difficile trovare un qualche significato approssimativo, e sulle quali non vai la pena di fermarsi, anche perchè non si può parlare con semplice verità di Pio X senza parere insolenti.
E pure non è forse difficile scuoprire il metodo con il quale il M. è riuscito ad infilar giù questo libro, la specie di escamotage che gli è servita a metterlo insieme e dargli parvenza di organicità e di contenuto. Egli è, come abbiamo detto, interamente estraneo al cattolicismo come religione; a giudicare dal libro, è uomo di una perfetta a religiosità. Ma ha avuto contatti con l'idealismo crociano, sa parlare di spirito e di universale; e allora, identifica la Chiesa con lo Spirito, la sua dottrina con l’universalismo, deduce dall'idealismo, frettolosamente, giudizi e conseguenze storiche e appiccica il tutto a questa Chiesa della su? fantasia. Non c’è altro, in sostanza.
« L’universalità del pensiero, che divenne patrimonio comune di tutto il genere umano solo col cristianesimo, è la nostra dottrina e la nostra fede. Noi difendiamo la democrazia, i diritti dello spinto, la libertà; noi neghiamo la realtà assoluta delle nazioni e degli Stati, perchè il nostro ideale supremo è la perfetta unità del pensiero e della coscienza nella vita: la teocrazia ».
Questa teocrazia può essere egualmente lo Stato di Hegel e la Chiesa di M. ; ma il Dio del quale qui si parla è V universale concreto di Hegel, col quale Pio X è in pessime relazioni personali.
Posizione sostanzialmente errata del problema fondamentale delle democrazie moderne, il volume del M. è vuoto di vivente significato. E’ un documento, come dicevo, della menzogna clericale, che è politica e vuol parer religione. Mario Missiroli, figlio del suo tempo, e non privo d’ingegno, ha sentito il problema che egli indica con le parole: autorità, non libertà; e cerca l’autorità nella Chiesa della quale poi, dimentico della sua tesi e incurante della realtà storica, fa una dottrina e una. scuola di libertà hegelianamente concepita.
L’autorità è infatti necessaria alle coscienze contemporanee ed alle democrazie moderne; ma esse non possono uscire dalla libertà, per trovarla, non possono ricostruire gli idoli che hanno atterrato, quando iu irrevocabilmente proclamata là sovranità dello spirito, che si fa Storia, su tutte le sue istituzioni, le religiose e il cattolicismo compreso. M. è troppo intelligente per non capire che, per la nostra coscienza storica,,il papa, fantoccio o teocrate, è creatura nostra, ingenua oggettivazione del nostro spirito, e non altro.
Il problema dell’autorità non può mai più esser posto come fu un tempo.; esso è un momento nel processo della libertà; un risorgere dall’interno, come necessità della libertà, dei limiti soppressi esteriormente, un porsi della libertà come autonomia. E il resto son ciancie e illusioni e ingenui ritorni indietro.
R. Murre
38
272
BILYCHNIS
o
Il prossimo numero di Fede e Vita, il bollettino della Federazione Studenti per la cultura religiosa, pubblicherà un notevole e vivace articolo di un dotto modernista sul volume di Mario Missiroli.
Dobbiamo alla cortesia dell’autore e del nostro amico Mastrogiovanni il piacére di riprodurre integralmente l’articolo pei lettori di Bilychnis.
Non so se Mario Missiroli sia molto giovane di anni : l’immagino. So però, e il libro me lo dimostra in maniera luminosa, ch'egli è molto giovane, anzi è un vero adolescente, in fatto di idee sociali e di esperienza umana. Perchè solo a chi conosce poco della vita, e a chi è ancor novizio nella dura disciplina dell’osservazione e del pensiero, capita, come a lui, di scambiare per programmi altrui le proprie incipienti prospettive etiche e sociali, e di tessere così, con una disinvoltura e una inconsapevolezza che piacciono tanto come tutte le manifestazioni della ingenuità e della semplicità di spirito, il proprio panegirico credendo e facendo mostra di tessere il panegirico altrui. Maniera quanto mai graziosa di insuperbire, senza cadere in peccato di superbia, e di decretare a sè stessi « un grande posto nella storia dell’umanità » fingendo di assegnarlo ad altri.
Nè crediate che il mio giudizio sia una gratuita malignità. Pio decimo, nei volume del Missiroli, appare come uno dei più straordinari, dei più immens, papi, che possa annoverare la storia del pontificato, cui pure non sono ignoti-a quanto mi pare, autentici giganti del governo e della dottrina. « Solo Pio del cimo, con una divinazione che gli assicura un posto grandissimo nella storia del mondo, ha intuito la verità che può salvare la Chiesa. Egli ha sconfessato la politica, perchè essa non può prescindere dall’accettazione dello stato e del suo principio, e nello stesso tempo .ha lanciato i cattolici nella mischia sociale, assegnando loro il compito altissimo di risolvere tutti i problemi alla stregua dei principi assoluti del cristianesimo e della morale. Un simile comando riafferma il principio universale della Chiesa e si ricongiunge alla tradizione dei secoli. E la più alta parola del secolo: la distruzione della politica nella morale. Essa interrompe la politica aulica degli ultimi tre secoli, e riconcilia il cattolicesimo con la democrazia » (p. 14). Altrove Pio decimo è additato come precursore del Sorel (p. 186), è celebrata la sua « grande mente » (p. 176). Infine tutto il capitolo decimoterzo, intitolato: «c’è un maestro infallibile» spiega un eloquente ditirambo alle idee e agli atti di papa Sarto. Ora chiunque ha raccolto la più indiretta eco dei conversari del mondo vaticano, sa che quanti avvicinano Pio decimo, ad eccezione naturalmente di De Lai, hanno cominciato’ a dubitare da un pezzo se nel cervello del nostro Santo Padre ci siano mai state idee direttive ; mentre hanno dovuto constatare che gli atti... oh, gli atti, quanto sarebbe stato meglio se non fossero mai usciti dallo stato di potenza. E poiché quel mondo ha una profonda fede nell’assistenza che lo Spirito Santo elargisce al successore di Pietro, moltissimi hanno veduto la loro fede esposta alle più diaboliche tentazioni. Mario Missiroli sarà venuto in buon punto a rinfrancarli. Ma non si capisce bene dal suo volume se la provvidenzialità dell’opera di Pio decimo debba attribuirsi al pontefice venutoci da Riese, o allo .Spirito Santo, che
39
ESTREMA DESTRA 273
lo rende infallibile. Il titolo che abbiamo riportato sembrerebbe far pensare a questa seconda alternativa. Ma in tal caso perderebbero significato le altre dichiarazioni surriferite, perchè, per esempio, nessuno ha mai dubitato che allo Spirito Santo sia, per definizione, « assicurato un posto grandissimo nella storia del mondo». E allora, ha voluto contradirsi il Missiroli?
Lasciando ad altri la soluzione di questo imbarazzante quesito, mi limiterò ad affrontarne un altro. Questo precisamente : come mai il Missiroli, dopo aver detto tanto bene di Pio decimo, dice tanto male del conte Gentiioni (vedi le appendici), quel famoso conte, che abituato a cacciare allodole a Maccarese, (occupazione già tanto poco cristiana), scambiò Montecitorio per la palude, e le elezioni generali per il passo delle quaglie, e con spirito ancor meno cristiano, si diè ad aprire trabocchetti elettorali, e a tirare pallottole morali contro i designati alle ire del clericalismo ? O non gode forse il conte Gentiioni intiera e immutata la fiducia di Pio, fiducia che nè pure una sfacciata e virulenta intervista ha potuto intaccare? Vuol dunque il Missiroli essere più papista del papa? Io non so se si potrebbe desiderare argomento più persuasivo di questo per ritenere senza ombra possibile di dubbio, che tutto il programma solido e coerente dal Missiroli attribuito a Pio decimo, è nel cervello del giornalista bolognese, non già in quello del papa. Il quale, retrogrado fino al midollo, si è lasciato unicamente guidare nel suo governo, ormai valutato al suo giusto valore da tutta la Chiesa (vedrete quali profondi rivolgimenti vi apporterà il futuro pontificato), dai suoi istinti conservatori, tenaci e implacabili. Se nell’atteggiamento politico verso l’Italia ha abbandonato le ritrosie di Leone, è stato per il fatale andare della realtà circostante. E se il suo intervento in favore delle classi conservatrici italiane ha assunto tante forme di precauzione e di sottintesi, ciò non è dovuto ad una valutazione idealistica dello stato e della politica (parlare di idealismo hegeliano a proposito dei decreti di Pio decimo, sarebbe come parlare di filosofia bergsoniana a proposito dei proclami del Gran Senusso), bensì alla posizione singolarissima del papato, che non può recedere dal suo atteggiamento di diffidenza verso lo Stato italiano, senza suscitare immediatamente le gelosie di tanti altri Stati, più o meno cattolici. Cosicché una soluzione completa e definitiva del dissidio ecclesiastico-politico in Italia potrà solo aversi, forse, quando le condizioni generali europee siano tali, da ripermettere, quando che sia, quella magnifica armonia di rapporti, che illuminò alcuni periodi della storia medioevalè, e fu teorizzata dal divino Alighieri.
Anche a Giovanni Giolitti è riservata nel volume del Missiroli una amplificazione meravigliosa dei suoi meriti. Questo sagace, ma limitato burocrate, che non ha mai guardato forse al di là del suo domani politico, è dipinto, nientemeno, come il salvatore della monarchia, mediante la conquista del socialismo. « Giolitti è il più grande politico che abbia avuto l’Italia dopo Cavour e Sella. Nessuno sentì meglio di lui l’insondabile volgarità di questo periodo politico e degli uomini che lo rappresentano, che nel suo segreto deve giudicare con un disprezzo cordiale, ma nessuno seppe mai meglio di lui eliminare lentamente, silenziosamente, tutte le opposizioni anticostituzionali, che dopo Adua minacciavano di prendere il sopravvento. La fortuna lo assecondò in modo imprevisto e mirabile. Il socialismo salvò la monarchia» (p. 116). Poiché ai paradossi si
40
274
BILYCHNIS
risponde con un sorriso, tanto più aperto, quanto più il paradosso è felice, abbozzeremo qui, anziché una confutazione, un sorriso, ma molto a fior di labbra.
Dopo ciò, se si domanderà che cosa ci sia di buono in questo volume del Missiroli, dirò che è la parte storica, diretta a porre in luce i coefficienti spirituali e i dissidi religiosi che accompagnarono il nostro Risorgimento. Sulla prima pagina del volume si legge: « Questo libro si propone di ridurre ad un solo problema, quello religioso, la storia d'Italia dal ’48 ai nostri giorni. Problema tremendo e senza uscita ». Le frasi in verità non sono felici, e l’ultimo inciso non sembra molto opportuno nel preambolo di un saggio, che del problema religioso stesso vuole additare la soluzione più logica e decisiva. Ad ogni modo il Missiroli ha ragione di proclamare che il problema religioso è quello che pesa più gravemente sulla vita italiana dal secolo decimosesto in poi. Ma per avviarsi alla sua risoluzione non occorre evocare dal nulla una destra più... radicale di quella già rappresentata, con quanto caotico programma non importa, dal manipolo nazionalista. Basterà svecchiare la inesauribile tradizione cattolica; rialzare nella chiesa del Cristo quei valori culturali e sociali, che soli possono imporsi ad un mondo Che vuol vivere di pensiero e di lavoro e che non riconosce altra nobiltà se non quella dell’intelligenza e della cultura; ricercar nel Vangelo le forme elementari delle esperienze, che hanno per secoli mirabilmente nobilitato gli uomini.
* ♦ *
Per finire : il succo del volume del Missiroli è squisitamente, schiettamente antimonarchico, e pure giornali monarchici gli hanno fatto abbondante ridante. Nessuna meraviglia : ci sono giornali di così... coerenti direttive politiche, da pubblicare oggi un inzuccherato articolo del Bellonci sull'etica nazionalista, domani un invito all'alleanza con l’Estrema, come unico mezzo per formare un gabinetto, posdomani un panegirico del Salandra, e il giorno dopo un buon incoraggiamento alle velleità sindacaliste dei ferrovieri. E così è illuminata l’opinione pubblica della capitale!
G. B.
41
PERIäG/LTVRÄ
DELL'ANIMA
1 TRE “ MISTERI ” CRISTIANI DI WOODBROOKE
PREFAZIONE
Non lontano dalla fumosa Birmingham, nel-l’Est dell’ Inghilterra sta un pacifico Settlement, o colonia, della Società degli Amici (Friends), Woodbrooke, diretta da quell’anima di artista e da quei geniale ricercatore dei tesori nascosti dell’antica letteratura cristiana che è il Rendei Harris, il cui nome è legato oramai indissolubilmente alla scoperta delle Odi di Salomone(i). Centro di liberi studi, di esperienze sociali e pedagogiche, di intensa e lieta vita mistica, oasi di pace e di gioia cristiana in mezzo ad un mondo industriale agitato dalla febbrile vita moderna e da gigantesche lotte sociali, Woodbrooke è un cenacolo, un coenobium non di anime stanche della vita, di dilettanti pellegrini d’ascetismo in cerca delle inedite emozioni di un illusorio ritorno alla natura o di un altrettanto illusorio misticismo, ma di anime robustamente moderne e gioiosamente cristiane. Una simpatica festa religiosa chiude colà i corsi trimestrali di studio, allo scoppiare cioè delia primavera, al principiar dell’estate e dell’inverno. Sono una specie di misteri medievali, ma senza le figure grottesche di qualche diavolo o di qualche mostro; rappresentati, non più nell’atrio di qualche chiesa da ministri rivestiti di abiti sacri, ma in mezzo ai boschetti e ai prati di una villa inglese da giovani studenti dei due-sessi ; sono delle Liturgie, come le ha volute chiamare il Rendei Harris(2). L’una s’intitola
(x) Intorno al Dr. Rendei Harris, v. articolo di Aschenbrödel nel Bìlyehnit del 31 ottobre «9 <3, pagg. 390-394.
(a) Three V/oodhrooke Liturgìe!, arrangiti R. Harris. London, Headlcy, 1914.
dall’allodola, l’altra, l’estiva, dalla rosa e la. terza, celebrata nell’umido inverno, dalle foglie cadenti !
Le venerande liturgie ecclesiastiche furono formate in tempo di libera ispirazione religiosa e di geniale creazione ; i loro eleménti, prima di entrare sotto le volte oscure delle chiese e di stilizzarsi ieraticamente in ritmi definiti, conobbero il libero e rigoglioso sviluppo all’aria aperta. Gl’inni più suggestivi della liturgia cattolica entrarono a far parte dell’offi-ciatura ecclesiastica dopo di esser stati i cantici prediletti del popolo : i più forti inni luterani erano stati prima espressione del sentimento e della vita nazionale tedesca.
Ogni età ha per la vita civile come per la vita religiosa la sua architettura, la sua arte, la sua poesia. E se contemporaneamente la la vita sociale religiosa non è in ristagno ; se il vincolo sociale della religione feconda le ispirazioni individuali, essa s’esprimerà efficacemente in nuove creazioni rituali e liturgiche. Un tale rinnovamento perenne dell’attività artistica della comunità religiosa in armonia con il variare della gamma dei suoi sentimenti, delle sue intuizioni, dei suoi orientamenti è insieme una sua legge e la prova della sua vitalità. Chi può negare che oggi il cristianesimo, malgrado i dinieghi dei pessimisti e i timori di qualche adoratore della lettera, si trovi in un periodo di profondo rinnovamento, preludio ad un nuovo periodo creativo? Il nuovo, ma per tanti lati così antico, orientamento verso la gioia dalle desolate lande delle teorie pes-simiste; il rinnovato senso della solidarietà spirituale ; una comprensione più intima della natura dovranno pur un giorno trovare ade-
42
BILYCHNIS
276___________
gnate forme cultuali, liturgiche, in cui tradursi con efficacia ed immediatezza. Per oia abbiamo raccolte di inni più gioiosi, di preghiere con ritmi più ampi ed energici ; abbozzi di nuovi riti ; assimilazione di nuovi elementi di culto dalla natura e dalla vita sociale ; tentativi di consecrazioni sacramentali di campi su cui il cristianesimo non aveva osato ancora far scendere le sue benedizioni; un insieme, insomma, di elementi nuovi o rinnovati, eterogenei e vari, ma che dànno già in abbozzo le linee del culto cristiano di domani, che si innesterà genialmente sul vecchio. Il rinnovamento dunque dello spiritualismo cristiano, l’allargamento della atmosfera spirituale del cristianesimo al contatto dei problemi immensi posti dalla vita moderna, insieme a tutta la rinnovata sensibilità estetica che cerca la sua espressione trionfante attraverso numerosi tentativi, alla nostra intuizione simbolista e al ridestato senso del mistero, «aprono le nostre orecchie interiori alla voce della natura e di Dio, fatte sensibili a cogliere qualche suono, qualche sillaba del discorso del profondo mistero e a trasformarli dall’apprensione del santo nella sensazione del semplice, per la quale l’amore, la gioia e la pace possan venir sentite da quelli che camminano con fedeltà e con obbedienza attraverso le cose visibili e caduche verso, o meglio, nel cuore stesso delle cose invisibili ed eterne». Il mondo delia natura ritorna ad essere, ma in una maniera più intima che nel simbolismo dell’arte e della liturgia medievale, un libro aperto per l’arricchimento dell’anima, un nuovo itinerarium ad Dami. • Benedetti, dice il Signore, gli occhi che vedono e le orecchie che ascoltano! Ed ecco perchè Egli benedisse da prima le visioni e i suoni di cui è piena la sua creazione, come delle cose in sè belle e dolci, e poi benedisse gli strumenti con i quali Egli ha stabilito che la bellezza e la dolcezza dovessero venir accolte nel tesoro dell’anima » (Rendei Harris),. In questa nuova riscoperta della comunione spirituale con la natura, sta la fonte di nuovi e più freschi simboli, di un ricchezza senza fine di nuovi segni, per dir così, sacrameli tali. Una vera liturgia, che è immediata comunione di sentimenti e di impressioni unisone dinanzi al Divino nel linguaggio dell’esperienza comune, non può fissarsi in una ripetizione meccanica di antiche preghiere, da cui è esulato lo spirito che le ha per la prima volta vivificate o in gesti, della cui spontaneità è perduto il segreto.
Un elemento tradizionale del culto cristiano, che ha le sue origini, sia nella letteratura ebraica sia nella natura stessa sociale del
culto e nelle profondità del nostro spirito, è il parallelismo, il verso e il responsorio, che dividono, come la voce e la sua eco, l’espressione di un dato sentimento o lo sviluppo di una data azione in due parti che s’alternano, si incontrano, si provocano, si riconoscono cospirando verso una unità più profonda. Questo elemento è storicamente e psicologicamente troppo importante, per non costituire come la traccia ritmica di ogni liturgia, cosi dei passato come dell’avvenire. Ma una vera liturgia sostiene l’Harris, non può limitarsi al parallelismo o al recitativo (l’elemento dottrinale, pedagogico, la « lezione »), ma deve contenere in sè il dialogo, « la scintilla mentale che sfavilla dall’acciaio percosso dall’acciaio », perchè una domanda provoca una risposta e questa a sua volta un’altra e più profonda questione. La gioia intellettuale del dialogo, dei vero «Simposio» platonico, costituisce ancora una delle più pure, che coronino la vita dello spirito : essa è degna della vita religiosa, del culto cristiano, perchè tutto ciò che innalza e nobilita i rapporti umani è già per ciò stesso nel gran mare della religione.
La nota fondamentale del culto cristiano non può essere la tristezza, l’avvilimento dell’umiliazione ; ma perfino la gioia, l’allegria, V humour, che pur sono le pietre preziose della nostra vita quotidiana, debbono trovare il loro posto nel culto come lo trovano nei nostri pensieri. Perchè irrigidirci e dar un’aria cosi squallida al nostro volto come alla nostra anima, quando dobbiamo esprimere nel culto i nostri sentimenti dinanzi ad un Dio che è gioia, padre di bontà, dolce e caro amico? «La mia anima gioisce in te»: non dice cosi il salmista? «Se noi cacciamo in esilio l’allegria dal nostro culto come dal nostro cuore, dice l’Harris, il Regno di Dio non è ancora pienamente venuto in noi ! « Comincieranno ad esser lieti » dice la Scrittura e continueranno poi ad esserlo sempre di più ».
Una libera liturgia moderna deve inoltre saper unire intimamente lo sviluppo drammatico con l’elemento simbolista, che nei momenti lirici si tradurranno in pura musicalità. Ma, se, evidentemente, le attuali liturgie ecclesiastiche si sono sviluppate e fissate appunto per la fusione avvenuta in altri periodi creativi diversi dal nostro di tutti quei vari elementi di cui abbiamo parlato fino ad ora, la loro attuale stabilità non permette che l’occhio scenda a trovare le traccie del lavorio delle forze diverse che l’hanno costituite. Le liturgie attuali non fanno supporre che creazioni apparentemente diverse domane, nello spazio come nel tempo, abbiano ubbidito
43
PER LA CULTURA DELL'ANIMA
277
alle stesse leggi spirituali, e che la nozione stessa genuina di liturgia sia assai più ricca e feconda di forme, di quanto non lascino sospettare. Cosi, sono egualmente una creazione dello stesso spirito e delle stesse tendenze spirituali, forme liturgiche e drammatiche cosi diverse fra loro, quale la danza sacra e le nenie d’un popolo primitivo, le evoluzioni e il canto alterno dei cori nelle belle processioni greche, le movenze e i canti dei cori che assistono ad un sacrificio, il complesso rito della messa cattolica quanto la rappresentazione sacra medievale, la lauda sacra e il corale evangelico.
E allora si comprende come la liturgia cristiana possa svolgersi anche fuori dalle artistiche pareti di una chiesa, non più circondata da un silenzio convenzionale. «All’aria aperta ! » potrà essere un grido di risveglio non solo per la medicina, per la pedagogia e per il teatro moderno, ma anche per il culto religioso. Dinanzi al dramma alternativamente rinnovantesi della natura, il cristiano potrà trovarsi ad esprimere con i propri fratelli di fede con maggiore intensità e ricchezza di visione e di sentimento la lode a Dio e a comprendere l’ammaestramento comune.
* * •
Le tre graziose liturgie, che il R. Harris con delicato senso mistico e con fine gusto d’arte ha composto, traendone, quale apis industriosa, gli elementi da poeti, da mistici di ogni età e di ogni paese, da antichi libri religiosi e da dimenticate liturgie, potranno valere come fecondo esempio di forme intermedie e preparatorie delle attese liturgie di domani, da cui usciranno rinnovate le stesse liturgie ecclesiastiche.
Scorre in esse una corrente quasi panteistica o, meglio, se fosse permesso l’ardito neologismo, una corrente pancrislica (« Tutto nel Cristo !») simile, ci dice l'Harris, all’esaltamento mistico del Sufi, che esclama: «Il nostro amico ci versa del vince ci invita a berne— ecco, tutto il mondo è come uno smisurato tinello ed ogni cosa un calice ! »
La liturgia che pubblichiamo in questo numero è la prima delle tre; essa s’ispira al sentimenlo di gioia che dà il risveglio della primavera ; il suo motivo introduttorio è dato dai primi versi dell’ode magnifica dello Shelley all'allodola: Mail lo thee bithle Spirili (« To a skylark »).
Privata, però, dall’accompagnamento musicale di alcune Sue parti, dalla ricca veste idiomatica inglese, dalla visione dell’azione, essa apparirà forse ad una prima lettura una creazione di nessun interesse ; ma chi ne sa cogliere nella sua mortificata veste italiana il profondo senso mistico e sacramentale e sa mettere all'unisono la sua anima con la gioia cristiana che in quella canta, esulta, s’inebria nei suoi canti come l’allodola nei suoi voli gorgheggianti ; chi riconosce e segue i motivi-conduttori (leit-motif) del modernissimo mistero cristiano, afferrerà attraverso i simboli il senso profondo di alcune umili verità cristiane, troppo spesso dimenticate.
***
Alla « Liturgia dell’Allodola » abbiamo fatto seguire i brani più importanti di un’omelia dello stesso R. Harris, e che è un commento spirituale ai temi che s’intrecciano nella liturgia.
Mario Rossi.
44
278
LA LITURGIA
DELL’ALLODOLA
(Liturgia della primavera)
Tulli. Salve, giocondo spirito — anzi che uccello, — che dal cielo o da presso — versi il tuo pregnante cuore — in abbondanti canti con un’arte spontanea. — Salve, o giocondo spirito!
Dotli. Noi sospettiamo eh’essa sia davvero uno spirito
Allodole- Noi siam certi, ad ogni modo, che è un lieto spirito.
D. Il suo rituale è il «Sursum corda!».
A. Essa è un’incarnazione della propria dottrina.
D. E’ evidentemente un uccello sacramentale !
A. Quasi il segno esterno e visibile di un’estasi interiore...
D. Che il Signore ha preparato per quei che l’amano...
A. Che il Signore ha conferito a quelli che gli ubbidiscono.
D. Chi ascolta il canto dell’allodola — udirà il fruscio delle ali celesti.
A. Chi la segue in alto con gli occhi — giunge alle porte del paradiso.
D. Anche Shakespeare ci dice che l’allodola canta dinanzi alle porte de! cielo.
A. E i Santi ci dicono che l’anima benedetta e felice già si trova nell’atrio del Paradiso.
Leclor. Vi sono altri dopo san Francesco che la saluteranno come una sorellina che è insieme una gran maestra, come una sorellina che è una gaia sorella, un'anima, anzi, sorella.
'rutti. Salve, o lieto spirito!
L. La sua musica ha una nota evangelica, sebbene ci sembri un po’ strano che un cosi gran messaggio possa esser legato ad un cosi esile corpo e incarnato in un canto così umile. Può l’abisso verso l’invisibile venir superato su di una corda sottile, quale un canto d’uccello? Può la scala che sale fino a Dio esser formata di ali distese di un uccello, e il suo motto : « Più in alto ancora, sempre più in alto», può divenire la scala su cui salire e il nostro cantico ?
T. Possa la sua musica invitarci per salire su insieme !
D. Se le allodole potessero parlarci nel loro canto, le sentiremmo chiederci di partecipare armonicamente ai loro canti e ci direbbero : « Salite più in alto ! ».
45
PER LA CULTURA DELL’ANIMA
279
A. Vi direbbero che «Shakespeare era uno di noi » e che Shelley anche ; che hanno avuto alla loro scuola di canto tutti i santi e tutti gli angeli.
D. Ci fu uno che chiamò un angelo, che vegliava su di un’anima, col nome di uccello di Dio!
A. E che cosa ci impedisce di chiamare un uccello, sorpreso nel suo atto di vera adorazione e nel suo spirito di gioia veramente esultante, col nome di « piccolo angelo dell’Altissimo»?
D. Salve, uccello-angelo!
A. Salve, angelo-uccello!
D. L’allodola è veramente l’uno e l’altro per la legge della corrispondenza spirituale, che fa di un uccello del nostro cielo il tipo di un angelo in quell'altro cielo.
A. Per la stessa corrispondenza, l’innumerevole schiera dell’esercito celeste può venir rappresentata da un boschetto animato da usignoli e da un cielo solcato da allodole.
D. Se esse cessassero di cantare, il cielo e la terra apparirebbero impoveriti.
A. Un’allodola ferita in un’ala, — un cherubino che più non canta!
D. Noi siamo invitati a cantare : « Santo, Santo, Santo!» con i serafini.
A. Noi siamo invitati a cantare: «Santo, Santo, Santo ! » con le allodole.
D. È un canto alterno, un cielo elevato che fa eco ad un altro cielo elevato.
A. Talvolta si deve essere in due per essere perfettamente uno.
D. Anche il cielo e la terra, divisi da mura di fiamme e separati dal fiume di Morte, una sola cosa sono in Lui.
A. Che i santi cantino cantici terreni — con quei che alla gloria son arrivati. — Perchè tutti i servi del nostro Re — in cielo e in terra una sol cosa sono.
D. Noi cantiamo meglio quando siamo in compagnia ed abbiamo a chi rivolgere il nostro canto.
A. Oh, venite, cantiamo al Signore!
D. Oh invisibile Amico, ascolta la nostra adorazione !
A. A te sospiriamo attraverso le tenebri e le nubi.
D, O invisibile Amico, che i nostri canti giungano fino a Te, che nei nostri canti perdiamo noi stessi !
A. Così canta l’allodola quando si immerge a perdita di vista in vortici di splendore e di azzurro nel cielo.
D. O invisibile Amico, nessun limite sia posto al nostro canto !
A. E nessun freddo silenzio alla nostra musica.
¿. Ecco : io ho visto un’allodola che s’alzava dal suo letto verde dei prati. Si slanciava verso l’alto, cantando a mano a mano che s’innalzava, come se sperasse di salire fino al cielo e di superare le nuvole . Ma il povero uccello è respinto dai violenti colpi di un vento d’oriente e il suo corso diviene irregolare, poco costante, mentre discende ad ogni raffica della tempesta più di quanto può riguadagnare con il librarsi e con il frequente battito delle ali. Alla fine la piccola creatura è obbligata a discendere, a palpitare, a fermarsi finché non cessa la tempesta. Ed ecco di nuovo l’allodola fare una felice volata ed elevarsi cantando, come se avesse imparato musica e velocità da un angelo.
T. Salve, gaio uccello!
Qualche volta uno splendore sorprende — il cristiano mentre canta : — E’ il Signore che sorge — con salvezza nelle sue ali. — Quando il conforto vien meno — Egli all’anima di nuovo concede — un periodo di chiara luce — per allietarla dopo la pioggia. — In santa contemplazione — noi lietamente allora gli occhi rivolgiamo al tema della salvezza di Dio — nuovo sempre ritrovandolo. — Liberi dal dolore presente — noi lietamente pos-siam dire: L’ignoto domani con sé — porti pure ciò che vuole!
A. Miglior cosa che la scienza è la letizia dell’allodola.
/Z Eppure, esse possono nella stessa casa dolcemente insieme dimorare!
A. Purifichiamoci da ogni complicità con le continuate e mortali infrazioni dell’etica del cuore!
D. Purifichiamoci da ogni complicità con le continuate e mortali infrazioni dell’etica dell’intelletto!
A. Il Signore ci faccia gioiosi della sua gioia ! ZZ Il Signore ci faccia veri della sua verità ! A. Sia questa una dimora di cuori felici.
D. Divenga questa una dimora di onesto studio.
7*. Signore, a noi benedici.
A. Tutte le allodole che sulla terra fan dimora — con lieta voce cantino al Signore: — servitelo in letizia ; cantate la sua lode, —- avanti a Lui venite e rallegratevi !
D. Tutti gli studiosi che sulla terra fan dimora, —- con lieta mente pensino al Signore ; — con amore lo servano, la sua verità proclamino, — e le paure da pusillanimi abbandonino.
7*. E che? Il Signore nostro è buono, — la sua misericordia è per sempre assicurata.
46
28o
BILYCHNIS
— la sua verità in ogni tempo fermamente sta, — di generazione in generazione essa durerà.
/,. Io penso che questo deve esser proprio l’uccello che Gesù volle che noi considerassimo.
/?. La tradizione sinottica suggerisce trattarsi di un corvo.
A. Al Padre nostro piace ascoltare così il corvo come l’usignolo.
r Oh, venite, cantiamo al Signore — rallegriamoci di cuore nel Signore della nostra salvezza.
L. Qualcuno ha suggerito che la cosa che • Gesù disse ai discepoli di considerare era un nido di pellicani...
D. i cui petti sanguinanti danno l’immagine della croce del Cristo,
A. i cui petti sono la dispensa e il granaio dei loro piccini.
A. Quando pensiamo ad essi, noi ci eleviamo, col pensiero al Sommo Sacerdote della nostra Confessione.
T. Tutto ciò che ha un cuore, lodi il Signore.
D. O Signore, secondo le tue parole — i tuoi uccelli considerammo.
A. E noi buon? troviamo la loro vita -r- e meglio, sempre meglio comprendiamo.
L’Antifona.
{Cantata dai dotti e dalle allodole).
Davanti al maestoso trono di Dio — voi, nazioni, prostratevi con sacra gioia; — riconoscete che il Signore è il solo Dio; — Egli può creare e può distruggere ! — Il suo sovrano potere, senza il nostro aiuto, — ci fece di creta ci formò uomini — e quando, come gregge sbandato, ci sviammo, — Egli al suo gregge di nuovo ci ricondusse. — Noi coroneremo le tue porte con cantici di gratitudine — e alte come i cieli s’alzeranno le nostre voci; — e la terra, la terra con le sue diecimila lingue — riempirà le tue aule con sonore iodi. — Immenso come il mondo è il tuo comando, — vasto come l’eternità il tuo amore ; — ferma la tua verità come una rocca resterà — quando il corso dei secoli cesserà.
D. Il gran Sole è fermo ancora sui monti ad ascoltare questo uccello cantare con grande umiltà.
A. Egli afferrò e legò la mia ala prigioniera, ed ancora Egli si curva ad ascoltare il ' mio canto.
7*. In tutta la mia vita la tua bontà cosi chiaramente mi si mostrò, che nella casa di Dio, per sèmpre, la mia dimora sarà.
Amen.
Epilogo.
{Cantalo dai Dotti e dalle Allodole).
La mia vita scorre in un canto senza fine — al disopra del lamento del mondo.
Io già sento il dolce, sebbene lontano, inno — che saluta una nuova creazione.
In mezzo al tumulto e al contrasto — la sua musica io ascolto risuonare.
Essa un’eco trova nella mia vita : come posso dal cantare astenermi?
Eppure quanta morte nelle mie gioie e nel mio benessere! Ma il Signore, mio Salvatore, vive.
Quante tenebre d'intorno mi circondano!
—- Ma cantici nella notte Egli mi invia.
Nessuna tempesta può scuotere la mia calma interiore — mentre a quel rifugio mi afferro.
Poiché Cristo è Signore della terra e del cielo: come posso dal cantare astenermi?
Io alzo i miei occhi ; le nubi s’addensano — ma l’azzurro sopra di esse io vedo.
E giorno per giorno questo sentiero si appiana — da quando per la prima volta appresi ad amarlo.
La pace del Cristo rinnova il mio cuore — zampillante sorgente per sempre.
Tutte le cose son mie da quando son suo — come posso dal canto astenermi?
OMELIA SULLA LITURGIA DELL’ALLODOLA.
Noi abbiamo recitato insieme questa mattina la Liturgia delle allodole, una specie di allodola trascritta, della quale possiamo dire : « E’ possibile che tanta realtà e verità e felicità possano essere racchiuse in un così fragile corpo ed incarnate in un cosi esile canto?».
La Chiave della Liturgia è il precetto apostolico di gioire sempre più ; gioire sempre nel Signore è una dottrina che richiede un simbolo sacramentale, una dottrina difficile che ha bisogno perciò di un’illustrazione ben scelta; la Grazia si rivolge alla natura e le dice: «Aiutami», anche se non abbia realmente qualche volta bisogno di aiuto da parte delle cose visibili e create; essa dice: «Imprestami un raggio di luce o di calore, un
47
PER LA CULTURA DELL ANIMA
281
istante di quiete, o la bellezza di un bottone di rosa o la risonanza di dolci voci ed io saprò trovare in esse la mia via per giungere alla coscienza e posare le mie dita sulla volontà ».
Un apostolo alle volte può venir più volentieri ascoltato se ha un’allodola posata sul braccio o se questa si libri nei suo più vicino cielo. Come allora sarebbe tiene punteggiata la lettura ad alta voce della Epistola ai Filip-pesi e riempite le pause, che, in una buona lettura, dovrebbero accompagnare difficili precetti come quello di rallegrarsi sempre nel Signore, con i canti di una melodia che è « approvazione » !...
« Rallegratevi continuamente nel Signore ! » : qui fate una pausa, mentre la piccola fede viene aiutata a salire un gradino o due sulla scala. La pausa diviene uno dei cori e delle soste in cui si canta: «Salute a te, giocondo spirito ! » « Di nuovo, io ve lo dico, gioite ! » e i lieti spiriti formano un coro di approvazione al messaggio apostolico. Voleranno con lui da lido a lido, poiché sono ucelli apostolici, e quando esse, le allodole, han dato la loro testimonianza alle sue parole, in questo o in quei posto, sia o no vero che egli in persona abbia visitato questi lidi del nord, apriranno le loro ali per nuovi spazi più lontani e porteranno in simbolo il messaggio della gioia che non scema e dell’amore che non ci abbandona.
Senza dubbio è proprio nella Epistola ai Filippesi che di questo canto sacramentale, aggiunto all’insegnamento apostolico, c’era bisogno.
Si trattava di anime rattristate, spinte, cosi, insistentemente verso la letizia: o si trattava di persone che avevano bisogno appunto dei ritocchi della elezione divina e non conoscevano quello di cui avevano bisogno? .di persone che, richieste dal Signore o dall’apostolo, se avessero avuto bisogno di nulla, avrebbero risposto: «Si, di qualche cosa, ma di che cosa precisamente, non lo sappiamo * ?
Se a questa Epistola dovesse esser dato un simbolo vivente, ci è facile immaginare quale dovrebbe essere. Quei primi studiosi della Scrittura, che con un profondo sentimento di riverenza incisero sulle legature dei quattro Vangeli le quattro viventi creature della visione di Ezecchiele, dando a Matteo la faccia di un uòmo, a Marco la giubba e il ruggito del leone, a Luca l’aspetto sacrificale di un bue («opera e sacrificio»), a Giovanni lo sguardo e il volo di un’aquila, accorrano ora in nostro aiuto e ci assistano a trovare nuovi simbolismi alle Epistole e ai Vangeli... E così noi incideremo sulla rilegatura della Epistola
ai Filippesi le ali distese e il volo verso i cieli del.’allodola.
Poiché questi Filippesi, coloni romani, arricchiti dei diritti della cittadinanza romana, circondati da popolazioni fatte per servire piuttosto che per regnare, amavano sentir parlare della cittadinanza romana di cui godevano i benefici, ad essi l’apostolo, che partecipava come loro agli stessi privilegi romani, propone come ombra e tipo delie cose celesti, questi stessi privilegi e dichiara che la « nostra cittadinanza è in cielo». Ora, qual segno materiale più espressivo di una vita nei cieli e dei diritti celesti, di una creatura, come l’allodola, nata per il cielo, per le nuvole e per l’azzurro profondo? Salve, dunque, o giocondo spirito! Salve, o lieto apostolo!
Ora dobbiamo però fermarci e analizzare, anatomizzare un po’. Tutte le cose ben costruite possono venir scomposte nelle loro parti (almeno col pensiero) e di nuovo ricomposte: così una gola sonora di uccello, per esempio, o l’esperienza di un santo. Evidentemente ci debbono essere delle ragioni del canto dell’allodola e noi dobbiamo scoprirle. Cessa per un istante il tuo canto, caro uccellino di Dio, e dimmi il tuo segreto ! E prima di tutto, è la tua «elezione» (1) al tuo lieto canto un’elezione o vocazione arbitraria, per cui dobbiamo concludere che alcuni esseri sono destinati capricciosamente alla gioia ed altri, altrettanto arbitrariamente, alla tristezza?... E’ solo in qualche raccolta di antichi canti d’amore che si legge il precetto: «Mangia, inebbriati, o diletto», o non è il rapporto fra il Cristo e la sua Chiesa proprio come uno di quei canti d’amore (come gii antichi commentatori da san Paolo in giù han pensato), in cui ogni successiva stanza è marginalmente annotata con le profonde parole: Mysterilivi magnimi, de Christo et Ecclesia ?
Provocato così a spiegarsi, il caro uccello ferma le sue ali vibranti e discende pianeggiando fin presso a noi e comincia a bisbigliare, con delicati suoni, la ragionevolezza della sua letizia.
Prima di tutto, ci dice che il suo canto è un riflesso intimo di un’opera della grazia divina.
In secondo luogo, che esso sa la gioia delle preghiere cantate in comune, alternativamente.
In terzo luogo, che ha un cerchio sempre più ampio di aspettazioni realizzabili. Quarto, che possiede il senso della comunione con tutti i santi ; e quinto, la conoscenza che Vafflizione è lampo ed è passeggera, mentre la
(1) Nel significato teologico.
48
282
BILYCHNIS
gloria è infinitamente superiore, abbondante ed eterna.
Ed ecco l’allodola, per queste ragioni della sua letizia, in piena armonia e simpatia con i grandi insegnamenti apostolici, con Pietro, con Paolo c con Giovanni...
A
L’esperienza che un lavoro della grazia divina si compia nei nostri cuori è uno dei fondamenti del canto cristiano. Noi siamo l’oggetto dell’Amore di elezione, che ci ha scelti, ci ha obbligato a capitolare, ha posto la sua mano su di noi come in un atto di presa di possesso o distese le sue braccia nel segno sacramentale di un crocifisso, dicendoci : « Io ti ho amato fin dall’eternità». «Io ti ho attirato a me nel tempo ». « Io ti ho acquistato in proprietà con il mio danaro». L’esperienza di questa visita divina provoca un’emozione musicale ; prendendo a prestito il linguaggio del Cantico «lei Cantici, possiamo dire che Dio ha cantato sotto le nostre finestre e noi abbiamo cominciato a rispondere : « Ecco la voce, la voce del mio diletto ». Vi sono certe cose nel Vangelo che solo il linguaggio e la fantasia amorosa possono esprimere con efficacia ; per fortuna, tutti noi siamo potenzialmente degli amanti, come tutti noi siamo già esperimen-talmente amati.
E dopo questa spiegazione, ecco l’allodola librarsi di nuovo per il cielo e nei frammenti del suo canto che giungono fino a noi, ci pare sentire tradotto in dolci suoni :
« O amore, che a nulla amato amar perdoni ! »
E discesa di nuovo, l’allodola pone sotto i nostri occhi dei vecchi canti che son preghiere, trascritti e classificati con dei cartellini c su essi possiamo leggere dei nomi noti e cari: uno porta il titolo De Profundis clamavi ad le, un altro ¿a Corona di grazie, un terzo Ebenezer o V Amore nel passalo, un quarto II grido del poverello e la Risposta del Signore (1)... E provai un’indicibile gioia che per molli di essi il canto non era scritto soltanto per recitativo o per mettere in evidenza l’abilità di un a solo, ma per esser tradotto in un vero e genuino canto, e in cui tutte le diversità delle voci si fondessero per unirsi in un’unità superiore con quella del cantore principale.
La terza ragione del canto dell’allodola si fondava sull’allargamento della speranza e sull’accresciuta attesa di bene. Molti dei cantici erano l’espressione di una teologia superata, che manteneva l’iniquità nel cuore della
speranza cristiana (come se il peccato rappresentasse la prima necessità di un cristiano), sotto il pretesto dell’umiltà. Ma ora la speranza è divenuta più grande e la salvezza ci appare più meravigliosa. E’ stato dimostrato che l’ideale di santità per cui i santi lottano, accoglie in sé un profondo senso di umiltà, mentre non ha alcun bisogno della cooperazione del peccato per venir raggiunto...
E la musica delle allodole approvò subito, dall’uno all’altro punto del cielo, là bellézza della nuova scoperta dell’anima cristiana e cominciò ad esprimere la speranza senza limiti. Un timido uccello cominciò a vocalizzare cosi :
Signore! Io credo che un riposo sia concesso — a tutto il tuo popolo che hai eletto.
Un riposo dove pure gioie regnino — e Tu sia amato, soltanto.
Ed ecco un altro esaltare il grande precetto della Fede, dove la preghiera assume l’aspetto di un comandamento:
Termina, dunque, la tua nuova creazione (1), — Puri e immacolati facci essere, — Facci vedere la nostra grande salvezza, — perfettamente rinnovati da Te : — trasformati di gloria in gloria, eoe...
E tutti questi canti eran canti di speranza che dilata l’anima e di visioni che scoprono nuovi orizzonti : mentre essi si sprigionavano dall’incudine del pensiero, s’elevava, lentamente, la voce di un coro lontano di invisibili cantori :
V’è un giorno più radioso
V’è un giorno migliore, V’è un giorno più splendente che sorge all’orizzonte!
* * «
L’altra cosa che io ho scoperto nel canto dell’allodola è il suo senso di comunione con tutti i santi, già adombrato nei canti della Liberazione con i loro invili alle altre anime di reni te ed ascoltale e di renile e glorificale', ma qui diviene oramai evidentemente chiaro che i grandi cantici presuppongono la la Chiesa. Migliaia di cantici erano necessari per migliaia di lingue e come canta il minatore della Cornovaglia « vi sono altri 999 che io ho acquistato». Questi 999 debbono pur essere in qualche posto, perchè il canto non può nè deve lacere. Ora, in molti dei nostri canti l'orchestra è troppo esigua. «Dove sono 1 nove?» diceva Gesù, quando cercava un coro e doveva contentarsi di un a solo. Ma nella grande redenzione, ci saranno e i novi
(1) Titoli di vecchi cantici inglesi.
(t) Inno religioso inglese.
49
PER LA CULTURA DELL’ANIMA
283
e i 999 e i diecimila volte diecimila e tutti allora canteranno insieme. Ed Egli ha détto che inviterà e riunirà i suoi vicini e i suoi amici (le potenze celesti e le dominazioni, così come le anime umili a lui unite) per gioire con Lui per le singole anime trovate nel deserto e ricondotte all’ovile. Gioite con me! Chi dubita, se non nella musica? E chi può essere nella Chiesa e non prender parte a questo coro? E quanto a questo, il Signore è così sicuro di noi come degli angeli. Tutti questi canti sono canti che s’innalzano in due mondi : la musica di una Chiesa terrena e di una Chiesa celeste:
Cantino i santi della terra — con quei che son giunti alla gloria : — perchè tutti i servitori del nostro Re — in cielo e in terra sono una sol cosa. — Come una sola famiglia noi dimoriamo in Lui.
Quanto più viviamo nel Signore, tanto più sentiamo la certezza di entrare in comunione con tutti gli abitanti della stessa casa, dimoranti sotto io stesso tetto: le aperte ali del-l’Onnipotente.
Infine, tutti questi canori uccelli amano la solitudine e il deserto. A che prò’ allora il loro canto? Dovremo ad essi proibire di allontanarsi da noi, perchè questa è regione del silenzio? Dovremo piantare qui un palo con l’iscrizione : « Qui non si canta. — I pianti sono permessi. — I cantori saranno processati per le trasgressioni e puniti secondo suggerisce la legge di Natura », o non piuttosto collocare questo ardito e fiducioso annuncio: «Il deserto e la solitudine saranno ripieni di gioia ; il deserto si rallieterà e fiorirà come la rosa », o quest’altro che ho leggermente modificato da uno dei nostri Salmi: «Tu preparasti un libro di cantici per ine alla presenza dei miei nemici ? » Quali sono questi nemici denunciati
o rinnegati ? Quali sono questi deserti che Egli promette di irrigare, e che fino ad ora han conosciuto il lento defluire di amare correnti di pianto verso un mar morto di incertezze? Dove sono questi deserti che non si possono irrigare? Vi sono delle delusioni alle quali il Cristo non può dare un conforto, perchè Egli non le ha fatte sue ? Della solitudine a cui Egli non può parlare, perchè non vi ha partecipato ?... Quali delle nostre pene che non possa esser alleviata dalla promessa « Io sarò con te» e dall’assicurazione «Tu sei con me»?
Ma se il Cristo non ci vien meno, neppure noi dobbiamo venir meno al Cristo ; noi dobbiamo vivere in un’intima comunione spirituale, che faccia sì che la gioia del Cristo rimanga in noi e la gioia nostra sia riempita in Lui. Cosi il deserto e la regione solitaria divengono il paese del Signore e il suo giardino piantato a rose, dove « dal suolo sorgeranno dei rossi fiori e gioia senza fine ». Anche la solitudine dei fiume che fa paura (1) è una solitudine a cui altri han partecipato, perchè quando noi passiamo attraverso le sue acque, noi passiamo attraverso quello che è per i credenti una corrente, le cui acque, separandosi, han fatto un cammino (2) ; 0, ritornando di nuovo al linguaggio e alla metafora degli uccelli, l’anima benedetta e felice, giungendo al fiume dove non vi è nè ponte nè barca, può distendere le sue ali, come un uccello emigratorio, abbandonare la nera corrente e elevarsi al di là dello stretto e cosi passare oltre a piedi asciutti in una maniera nuova, per essere per sempre con il Signore.
(Tradusse M. Rossi).
Rendei. Harris.
(1) La morie è il pasteggio all'Eternilà beata.
(2) Allusione al passaggio del -Mar Rosso.
50
2&4
BILYCHNIS
LA RIVELAZIONE DI GESÙ È LUCE O TENEBRA?
CONFORTO O UMILIAZIONE?
C’è una teologia della rivelazione divina, in genere, della rivelazione di Gesù, in ispecie, fissa nelle sue linee fondamentali, ma ben lontana da quel rigore e da quella coerenza logica a cui essa pretende. Il mistero intellettuale, inteso come i teologi P intendono, oggetto di quella rivelazione e della nostra fede, è uno degli elementi massimi di contraddizione e di incocrenza.
Chi dice rivelazione dice luce per definizione. Chi pensa a un Dio rivelatore non può che pensare ad un Dio il quale illumina l’umanità pietosavienle, porta la intelligenza umana a vedere ciò che da sè non vedrebbe, come fa il Maestro coi suoi scolari. Queste due caratteristiche, Dio pietoso, Dio Maestro, appaiono in molte delle pagine che i teologi consacrano a giustificare a priori una rivelazione divina, o a commentare a posteriori la rivelazione di Gesù. Gesù è redentore, viene a salvare l’uomo a confortarlo tutto intiero, dunque anche la sua intelligenza. Questa era, è annebbiata nei più almeno, quando si tratta delle verità più vitali, più necessarie, e Gesù dissipa questa nebbia. Gesù è la luce, come si definisce da sè o io fa definire il IV Vangelo. Le verità ch’egli insegna sono il pane che i piccoli chiedevano e che nessuno spezzava loro. La rivelazione è opera di misericordia e di pedagogia ; la rivelazione è luce e conforto della umanità. Tutto questo (Dio rivelatore pietoso e pedagogo della umanità — verità rivelata chiara, in forza della rivelazione, alla intelligenza umana—fede, atto organico, fisiologico della psiche umana) è bello, è armonico, è consolante. Tutto questo è tradizionale nel vero senso, è primitivo. I vecchi apologisti hanno visto nel Cristianesimo il meriggio di quella luce spirituale che era stata crepuscolare nei profeti e nei savi, in Isaia e in Socrate.
Ma ecco nell’oggetto della rivelazione introdursi a poco a poco la nozione del mistero — verità oscura e incomprensibile, non solo prima della rivelazione e indipendentemente da essa, ma oscura nella rivelazione e malgrado di questa — un enigma intellettuale — una macchia nera — un quid intellettualmente eterogeneo, indigeribile al nostro intelletto, come i sassi sono indigeribili al nostro stomaco.
La Trinità com’è formulata a Nicea è un mistero : tre Persone in una natura, una natura in tre Persone. Questa verità, questa proposizione « Dio è una natura in tre Persone » non fa corpo affatto in nessun modo col sistema delle nostre cognizioni razionali, con il nostro mondo intelligibile. Fuori del nostro mondo intelligibile, vuol dire inintelligibile. Noi possiamo ripeterla come ripetiamo circolo quadrato. Ai più possiamo dire che, mentre di «circolo quadrato» è evidente l'assurdità, della formola Trinitaria misteriosa, comed’ogni consimile mistero, non è evidente la impensa-bilità, ma neppure evidente la pensabilità, nè lo sara mai per noi qui, mai per nessuna intelligenza umana di questo mondo.
E allora, per forza, dato che nella rivelazione entri un mistero cosi inteso, bisogna mutare il concetto di rivelazione. Dio allora non rivela più per illuminare, rivela per confondere. La rivelazione non è più opera di misericordia, è opera di giustizia (?) o meglio di severità. Non tende a rialzare l’umanità, tende ad umiliarla. Dio non è il maestro che comunica alio scolaro ciò che questi può assimilarsi per avvicinarlo a sè, per elevarlo, per farlo vivere ; Dio invece sarebbe un Maestro che comunica allo scolaro ciò eh’esso maestro sa e lo scolaro non può affatto, capire, e glielo comunica per fargli sentire la sua superiorità di maestro e la inferiorità di lui come discepolo. E’ maestro buono rappresentato così? o non piuttosto orgoglioso e crudele?
La teologia della rivelazione è a buon conto profondamente trasformata, a quest’esame, essenzialmente diversa da quello che vorrebbe essere.
Coerentemente a questo (oggetto ¿Iella Rivelazione misterioso, oscuro, Dio che non illumina più ma mortifica, rivelando, l’intelletto umano), la fede cessa di essere un atto psichico. vitale, organico, sano, com’è lo sforzo di chi sale sull’alta montagna, ma diviene un atto meccanico, un chiuder d’occhi, un tran gugiare un sasso indigeribile, una genuflessione materiale, un piegarsi passivo dello spirito. La rivelazione non è più un messaggio pietoso, è un ukase intellettuale, e l’intelletto piega sotto quel colpo, con una mossa inna turale, contraria alla sua natura d’intelletto
51
PER LA CULTURA DELL'ANIMA
285
che è quella d’intendere, di pensare. Il mistero è l’ impensabile; l’atto con cui cerchiamo d’afferrarlo è un non-pensiero.
Unità di persona con dualità di nature (mistero cristologico) e unità di natura con trinità di persone... sono parole accozzate, non pensieri organici.
Queste due teologie della rivelazione, Dio misericordioso e Dio severo, Dio che suscita e Dio che atterra, che rivela per vivificare pietoso, che rivela per mortificare olimpicamente dispotico, sono certo contradditorie, quantunque esse coesistano nella comune teologia cattolica dei nostri giorni.
Per giustificare la rivelazione (per accidens come dicono) di verità religiose e morali naturali cioè razionali, i teologi cattolici nei loro manuali ricorrono all’idea del Dio misericordioso e illuminatore, ma per giustificare la rivelazione (essenziale) del mistero ricorrono al diritto, alla sovranità di Dio. Il padre si trasforma in un despota; il padre che guida il suo figliuolo, eccitandolo e forzandolo soavemente, per salubri sentieri d’alta montagna, a una ginnastica faticosa, se si vuole, ma utile in proporzione della fatica fatta, si trasforma in nn padrone che fa fare ai suoi schiavi degli acrobatismi straordinari, in cui si deforma con pena il loro organismo. La contraddizione è stridente. Bisogna decidersi.
I teologi non veggono questa contraddizione, perchè la teologia è una formazione storica d’indole conservatrice. Le novità non mancano, perchè non possono mancare, quando si vive per davvero, lungo i secoli ; ma esse si giustappongono all’antico con una tranquilla incoscienza. Il primo senso, la prima esperienza dell’anima cristiana, dopo l’avvento di Gesti, è il senso lieto, l’esperienza della visione, della* chiarezza. L'umanità grida : vi-dimus, abbiamo veduto, grazie a Gesù. Dio come non l’avevamo visto mai ; ne abbiamo una cognizione nuova, ma che ci appaga tanto più e tanto meglio dell’antica. Ma poi l’umanità cristiana ricorda e rivive esperienze religiose indimenticabili : la esperienza dei Giudei, per cui Dio è l’ineffabile, ed è l'ineffabile perchè è l’impensabile; la esperienza religiosa dei Greci, per cui il cullo di Dio è mistero, è segreto riservato, forinola incomprensibile ai profani. Sotto le due esperienze c’è il senso profondo dell’anima intimamente religiosa, la quale, se tale per davvero, deve sentire Dio così grande e sè stessa così piccola ! Dio chi lo descrive? chi lo comprende? chi lo narra? Notiamo» a costo di ripeterci, che l’anima cristiana a tutta prima aveva visto nella parola di Gesù una narrazione del divino (è la pro
pria frase del IV Vangelo «!’Unigenito che è nel seno del Padre ci ha narralo Dio »). Ma il senso del divino necessariamente, fatalmente misterioso rinasce.
Lì, a questa constatazione generica del mistero dell’ Essere divino, della Sua incirco-scrività nella intelligenza umana, li avrebbe dovuto arrestarsi la coscienza cristiana. Ma il sottile spirito greco credette di poter dire l’indicibile, parlare l’ineffabile. Impresa intrinsecamente assurda, coni'è evidente, e la cui esecuzione doveva essere assurda del pari. Il mistero divino era allo stesso tempo svelato e ribadito, negato e affermato nei singoli misteri ; erano proposte forinole speciali che parevano sfondi luminosi, aperti sull’essere divino, ed erano invece delle inintelligibilità, delle tenebre. La forinola per sè stessa pareva un conato di espressione, ma per conservarsi fedele allo spirito della misteriosità, la forinola non diceva nulla, era un non pensiero. Il divino restava misterioso (e in ciò trionfava il senso religioso) ma si aveva l’impressione superficiale, l’illusione momentanea (in ciò agiva il convincimento cristiano della rivelazione) d’averlo superato. Il dogma della Trinità, la forinola dogmatica pare dica qualcosa intorno a Dio; in realtà non dice nulla, poiché consiste in un non-pensiero, in un non-pen-sabile. Lo sbaglio non è in quella forinola, ma nel fatto stesso d’averne voluto costruire una; non è falso, ciò che si dice, ma è sbagliata la pretesa di dire l’indicibile. Non sbaglia chi balbetta, ma sbaglia chi balbettando pretende d’aver parlato. Oggi noi aggiungiamo il senso e la umile confessione della trascendenza divina su ogni pensiero umano, alla gioiosa constatazione del progresso fatto, dopo Cristo, nella cognizione di Dio. Ma delle formolo metafisiche incomprensibili che la tradizione ci offre noi possiamo servirci, noi ci serviamo, non per cercare attraverso quelle Iddio, ma per sentire attraverso il loro vuoto la in-trovabilità di Dio con le valutazioni intellettuali e scientifiche, anche dopo il più sublime sforzo e il più sublime volo dello spirito religioso.
L’importanza della cosa ci invita ad approfondire ancora un momento queste che abbiamo chiamate le due teologie della rivelazione, per potere, non solo assaporare meglio la loro assoluta incompatibilità, ma aver anche tra le due un sicuro e facile criterio di scelta.
Il Dio che dice alla umanità, nei Profeti o in Gesù e per Gesù : « Guarda com’è beilo questo nuovo punto di vista, come luminoso questo orizzonte che io ti dischiudo ; guarda.
52
286
BILYCHNIS
vedi», è in sostanza un Dio buono, il Dio bontà, il Dio amore, quello che ama le anime, che ne vuole la felicità. Il Dio che dice alla umanità delle forinole incomprensibili e le grida: «accettale, ripetile, anche senza capirle, sic volo, sic jubeo\ assapora, ripetendole senza capirle, la tua ignoranza e la mia sapienza e la elevazione incommensurabile di questa su quella; fa atto di povero suddito, genufletti, adora », è il Dio sovrano, il Dio che cerca la sua propria gloria a ogni costo e sopra ogni cosa. Dio amore e Dio grandezza; Dio altruista e Dio egoista ; Dio che vuol farsi amare a cuore aperto, Dio che vuol farsi adorare ad occhi chiusi; è una antitesi sola in tante forme, che basta porre con chiarezza per scegliere con giustizia. Il Dio che rivelando dà ordini alla intelligenza umana, il Dio sovrano e despota è al più il Dio del-!’Antico Testamento; il Dio amore è il Dio di Gesù. La teologia delle rivelazioni misteriose, oscure è tornata indietro, ad Elia.
In questa teologia non solo è snaturata Vazione divina (non più amorosa e luminosa, ma bieca e prepotente), ma anche l’atto religioso che le deve corrispondere. La così detta fede nei misteri che deve corrispondere logicamente alla rivelazione di essi, è una gnosi che non è una gnosi, una prelesa scientifica che rimane pretesa e niente altro. Lo spirito greco ha messo il Vangelo per una via gnostica o scientifica. Ne ha voluto fare una filosofia da mettere a paro e sopra quella di Platone. Il Cristiano dovrebb’essere un sapiente ; sapere di Dio quanto e più che nessun altro. Ma questo sapere per essere religioso deve essere diverso, altro dal sapere scientifico e ti diventa un sapere che non è sapere, un sapere che non sa, una visione che non vede, perchè le è dato da vedere un non visibile, un quid obscurum.
L’errore non fu e non è di voler conservare alla conoscenza cristiana un carattere religioso, l’errore fu di aver voluto darle il carattere di
conoscenza scientifica, d’aver fatto consistere il Cristianesimo in una conoscenza o gnosi. Platone ha parlato all’intelletto, e Gesù ha parlato alla coscienza ; Platone ha insegnato a pensare e parlar bene, Gesù a operare bene. La fede è l’accettazione della parola della vita che è anche luce; la professione filosofica è l’accettazione di un pensiero che sarà poi anche vita, o almeno è da sperarlo. Gnosi e fede ecco un’altra antitesi che non può lasciar dubbiosi, almeno i veri Cristiani.
Noi vorremmo che i teologi cattolici meditassero la confusione a cui si sono ridotti e che turba tante anime. Queste si ribellano oggi a delle catene intellettuali, si ribellano alla tormentatrice inutilità di formole che vorrebbero essere intellettuali rivelazioni, si ribellano a sentirsi imporre questi dolorosi acrobatismi di pensiero in nome di un Dio buono e misericordioso; si ribellano così in nome del buon senso più elementare e della coscienza religiosa più profonda. Abbandonano un pascolo che non pasce.
Del resto in ciò sono d’accordo colle stesse anime semplici che non si ribellano ma sfuggono inconscie alla tradizionale teologia. Quante sono le semplici anime devote che si occupino sul serio del dogma della Trinità nella sua formula metafisica? Quale predicatore oserebbe a un buon popolo di operai o piccoli borghesi esporre il Trattato di S. Tommaso sulla Trinità, colla distinzione tra Vesse in e Vesse ad? col concetto della relazione come distintivo della personalilà? Ma le anime anche nobilmente ribelli sono pronte ad accettare un Maestro di vita eterna in Gesù, un Maestro che non mortifica, non si diverte (strano divertimento!) a mortificare l’umano intelletto con formole inintelligibili, ma tutta l’umana anima trasporta in un mondo più alto, più bello e più buono colla forza concorde delle sue parole e della sua vita.
Antonio Delio.
53
PER LA CULTURA DELL’ANIMA
287
PAGINE SCELTE:
FELICI NELLE AFFLIZIONI®
Quando la malattia ci abbatte.
Durante le prime settimane di malattia, non è possibile nessun soccorso morale. Non solamente la nostra famiglia è disperata quanto noi, ma il caos è troppo completo, l’uragano troppo violento per permetterci d’intendere una voce di sollievo... l’edifìzio deve abattersi e le rovine debbono restare rovine durante un certo tempo. Non è sotto un suolo ghiacciato che Dio prepara il maraviglioso sbocciare della primavera?
Nel dolore, la violenza non può sempre durare, essa si dà dei colpi mortali e a poco a poco si attenua, sino a farci passare attraverso un secondo stato più grave ancora del primo : un torpore doloroso, particolarmente sensibile, zimbello di tutte le,impressioni esteriori ed anche interiori. Il nostro essere è troppo completamente indebolito dalla crisi violenta che noi abbiamo traversata per potere resistere agli influssi buoni o cattivi.
Benedette sieno allora le parole di speranza, e le nobili anime che sanno mettersi al nostro livello; farsi dolci per la nostra debolezza, tenere per il nostro dolore, compassionevoli per la nostra miseria! La luce dell’ideale penetra poco a poco nelle tenebre della nostra anima... una vita nuova rinasce dai ruderi, simile a un germoglio di serra calda e di cui essa possiede la fragilità. Bisogna aver cura di questa scintilla di vita, di questa debole pianta che un nonnulla può distruggere per sempre; irroriamola delle nostre lagrime, ma se noi piangiamo, che ciò sia con Gesù, perchè egli pianse; se noi ci lamentiamo, che ciò sia con Gesù, perchè egli si lamentò; se noi domandiamo la fine dell’angoscia, che ciò sia ancora con Gesù perchè egli la domandò, ma domandiamola come egli lo ha fatto, dicendo : « Padre mio, che questo calice vada lungi da me se è possibile; ma che ad ogni modo sia fatta, non la mia, ma la tua volontà». Poveri ammalati, non dubitiamone punto, è per noi com’è per tutti gli abbandonati nell’ora dell’angoscia, che il Salti) Dagli scritti di Adele Kamm di cui parlammo e demmo il ritratto nel fascicolo di luglio-agosto dell'anno passato. Di questa • Santa protestante » hanno scritto recentemente Ada Negri sul Secolo (<6 aprile) c G. A. Borgese sul Corriere della Sera (aa aprile).
vatore degli uomini ha voluto traversare l’ora crudele della sera del Getsemani. Noi non possiamo comprendere che una prova possa essere salutare ; noi non possiamo ammettere che la sofferenza abbia uno scopo.
Come può il Dio d’amore affliggerci così, quando noi compivamo con zelo il nostro lavoro quotidiano, per la nostra gioia e per quella di coloro che ci circondavano! Come Dio può colpire cosi tutta la mia famiglia colla prova che mi spezza? Veder piangere per causa mia; leggere la fatica su questi cari visi, pallenti per gli affanni, le angoscio, le lotte, le cure che debbono darmi ; assistere come un testimonio inutile a tutto questo so-prappiù di lavoro occasionato dalla mia forzata inazione... contemplare tutto ciò tranquillamente? No, mille volte no: lasciamo questo letto; l’energia supplirà alla mia debolezza; io riderò quando mi sentirò male; io camminerò, quando la febbre mi assalirà ; io lotterò sino all’estremo. No, queste settimane non sono state che un incubo orribile, io mi sento meglio, io posso alzarmi ; eccomi come prima, coffa stessa veste e con lo stesso piccolo grembiule da lavoro; su, coraggio, scendiamo nei giardino ! Ecco le lillà e i glicini in fiore; Dio, come è beffo! I miei occhi maravigliati passeggiano sopra il prato smaltato di fiori, io seguo colio sguardo il volo degli insetti, io sento il canto degli uccelli. Tutto il mio essere si mette al diapason di questo cantico di lodi che la natura innalza ai Creatore, e la mia anima, come tócca dalla bacchetta magica d’una fata benefica, ritrova la salute. Durante alcune ore, io mi inebbrio d’aria libera, di sole, di gioia, io dubito quasi dei miei sensi ; no, l’uragano non mi ha colpita, io ho sognato la storia di qualche altra ; viva l’esistenza ! — Ma che succede ? Un brivido mi assale, mi scuote, i miei denti battono, le mie gambe sfuggono, tutto gira intorno a me; eppure il sole continua a risplendere, gli uccelli a cantare, gl’insetti a volare ! L’orribile incubo tornerebbe a riprendermi e a torturarmi di nuovo?
A stento ritorno nella mia stanza, io non posso più resistere a questo malessere che mi invade, vorrei nascondermi come fanno gli animali ammalati e il letto è il solo rifugio che si offre alla mia energia vacillante. Ahimè ! Il sollievo desiderato non viene, la febbre mi agita, tutta la notte trascorre in visioni meravigliose seguite da orribili incubi, dove io
54
288
BILYCHN1S
lotto contro un peso enorme che mi opprime e mi soffoca. Infine, viene il mattino e con esso la calma... ma una calma spaventevole, una calma carica di elettricità... io sono vinta... vinta dalla malattia e, lo sento, per lungo tempo.
Un terzo stato sopravviene, quello della fredda realtà. Le diverse nostre esperienze ci hanno dimostrato chiaramente, duramente, la nostra posizione reale. I violenti uragani della stupefazione non ci turbano più; il torpore doloroso che succede non pesa più sui nostro spirito come un sonno pesante ; noi apriamo gli occhi e vediamo chiaro, noi analizziamo freddamente la grandezza del male che ci abbatte... noi diventiamo di ghiaccio per noi e per gli altri. Questa terza crisi è la più grave, tutto il nostro avvenire è appeso ad un filo. — Ah, non gettiamo mai la pietra a questi poveri infelici che hanno il cuore disseccato, l’anima fredda e senza speranza, e che menano una vita di disilluso in un corpo debole e vacillante! Il ghiaccio della realtà ha distrutto la fragile pianta di serra calda. Compatiamoli questi vinti della vita ; il nostro destino avrebbe potuto facilmente essere simile al loro. Cerchiamo di riscaldare questi poveri cuori, di fondere il ghiaccio che li circonda, di fare schiudere un sorriso su queste labbra irrigidite. Consideriamo la dolcezza di Gesù Cristo. Egli è dolce, benevolo, egli non spezza la canna fessa ; egli diffonde sopra tutti la dolce rugiada della sua parola che rialza, rianima e rende il colore al fiore che si disseccava. Seguiamo l'esempio del nostro maestro, e quando il compito ci sembra ingrato, guardiamo più in alto, serviamo Gesù nella persona dei suoi membri sofferenti. Egli riconoscerà questo servizio come se fosse fatto a se stesso!* •
L’utilizzazione della malattia.
Senza dubbio, molti fanciulli, come numerose anime elette, hanno attraversato questi primi mesi di malattia senza le lotte che io ho descritte. Ma vivendo lungamente in mezzo ai malati, io ho potuto constatare che la maggior parte di essi erano passati attraverso le stesse mie sofferenze morali. La felicità è più preziosa quando è nata dalla disperazione, la pace è più completa quando succede all’uragano, la luce più splendida dopo le tenebre. A coloro che traversano dei grandi dolori, Dio olire anche dei grandi soccorsi. Egli proporziona la sua grazia al bisogno che ne hanno i suoi figli. Le nostre sofferenze e
le nostre manchevolezze non sono che un’eco delle sofferenze e delle manchevolezze del nostro prossimo. Così il primo scopo della prova è raggiunto, senza che noi ce ne accorgiamo ; Dio ci ha introdotti nella grande famiglia della sofferenza umana, dove il nostro cuore deve allargarsi, riempirsi d’amore per tutte queste centinaia di fratelli e di sorelle afflitte.
« Beato l'uomo che sopporta con costanza la prova — dice Giacomo — perchè dopo di essere stato provato, egli riceverà la corona della vita ».
La prova è dunque per un cristiano che desidera la corona della vita un appello di Dio e un privilegio.
La mia fede personale riposa intieramente sopra questa convinzione. Mi sembra che se c’è qualche mitigazione nella malattia, nei lutti, nelle afflizioni, essa debba trovarsi nel pensiero, nella certezza che « tutte le cose concorrono al bene di coloro i quali amano Dio». «Le vie di Dio non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri ». La nostra vista è torbida, noi non abbiamo la percezione chiara delle cose, ma un giorno verrà in cui la luce brillerà di nuovo e ci riempirà di confusione e di vergogna a causa della nostra mancanza di fede. Noi ammireremo allora i differenti appelli che nella sua saggezza il Padre nostro ci rivolge oggi. Non è nelle ore più oscure della nostra vita che la nostra anima angosciata s’è slanciata alla ricerca di un rifugio onnipotente ? Non è nelle separazioni crudeli che noi abbiamo sentito più vivamente che mai questo desiderio, questa certezza anzi di un futuro arrivederci in un mondo celeste? Non è durante i mesi o gli anni di una lunga malattia che noi abbiamo compreso meglio la forza della religione come sostegno giornaliero? Perchè la felicità non ha la stessa possanza della prova, per gettarci nelle braccia del nostro Padre celeste? L’afflizione sola può illuminarci sulla .profondità e la qualità della nostra fede; essa è per noi un’occasione di fortificare la nostra fiducia, mentre la felicità l’indebolisce e l’adug-gia. Il dolore è una suprema pietra di paragone; ecco perchè noi che dobbiamo essere rinnovati non solamente alla superficie ma sino al fondo, noi dobbiamo soffrire. La sofferenza ci permette così di renderci conto della nostra miseria, della nostra debolezza, del nostro stato di peccato e di dipendenza. Solo il dolore può lacerare tutti i veli e avvicinarci a Cristo.
Adele Kamm.
(Dal francese).
55
PER LA CULTURA DELL’ANIMA
289
GESÙ E LA DONNA
L’originalità di Gesù sembra rivelarsi in maniera sorprendente nel suo atteggiamento verso la donna. E’ noto che le donne, erano le persone a lui più devote tra i seguaci suoi ; e da ciò, come pure da altri indizi possiamo arguire che Gesù sembra essersi ribellato contro il concetto piuttosto orientale della donna, che è implicito e esplicito in certi passi della Legge. Egli si ribellò eziandio contro quella falsa idea di purità la quale fa disdegnare e schiacciare il peccatore, e non il peccato soltanto. Il desiderio di salvare e di convertire fu un nobile tratto del suo carattere ; egli non trascurò nelle sue opere di redenzione, le adultere e le meretrici. Nel farsi difensore della dignità e dei diritti della donna, fu portato a esaminare quella gran piaga della vita orientale che è la legge dei divorzio. Secondo la legge del Pentateuco, un uomo può ripudiare sua moglie, ma una donna non può ripudiare suo marito. Inoltre, il modo piuttosto oscuro con cui nel capo XXIV del Deuteronomio si dà la norma circa il divorzio, si prestava e dava luogo a questa interpretazione, del resto ben conforme alle idee prevalenti tra molti popoli orientali, che si potesse ripudiare la donna per varie ragioni, oltre quella di vera infedeltà.
Quanto al determinare con precisione l’atteggiamento di Gesù a riguardo di tale questione, c’è contrasto di ragioni e opinioni. Alcuni opinano che egli, come il Sfiammai suo predecessore, insegnasse doversi restringere il divorzio al caso di adulterio ; un uomo non deve mandar via sua moglie a meno che non gli sia stata infedele. Però è possibile, e forse anche più probabile, che Gesù sia andato più in là, e si sia dichiarato contrario del tutto al divorzio, in ogni caso e per qualsiasi ragione. A ogni modo egli fu manifestamente biasimato dai rabbini per il suo andar
contro alla legge di Mosè: giacché la legge divina di Mosè permette il divorzio, può dirsi anzi che, in certe circostanze, lo prescrive.
Al dire di Marco, per la violenta ripugnanza del suo ideale etico con la lettera della Legge, Gesù fu spinto a questa straordinaria dichiarazione: «A cagione della durezza del cuor vostro, Mosè vi scrisse questo comandaménto». — Di nuovo qui scorgiamo come da un punto di vista avessero ragione i rabbini e torto Gesù, ma altresì come da un punto diverso e superiore, Gesù avesse ancora una volta ragione : e ragione come profeta, in entrambi i significati di questo vocabolo. Invero, nella Legge non vi è neppure una parola che indichi avere qualche sua disposizione il carattere d’una concessione ; nulla nella Legge che indichi non essere in ogni sua parte ciò eh’essa dice di essere, cioè assoluta, divina, perfetta e anche immutabile come il suo Autore. Eppure sappiamo che la prescrizione mosaica circa il divorzio, era in realtà una limitazione se non una concessione; poi sappiamo che la Legge, in parte ragguardevole, era come un compromesso tra il nuovo e l’antico, cioè i costumi popolari di origine pagana. Quindi, anche a tal riguardo Gesù ci appare come interprete della Legge in un senso moderno e profetico : egli ha ragione dal punto di vista della storia umana universale, mentre da un punto di vista limitato dalia lettera anche i suoi avversari per un dato tempo non avevano torto. Delle due parti contendenti l’ima non poteva intendere l’altra. La Legge era divina, e teoricamente egli non pensò mai a revocare in dubbio questo suo carattere ; ma vi era qualcosa anche più divina, ed era l’ispirazione dei suoi pensieri e delle sue parole, che nell’impeto e nell’agitazione del momento, il divino Spirito par-reva suggerisse alla sua mente.
Claudio G. Montefiore
(Getù di Nazareth nel pensiero ebraico contemporaneo).
[19]
56
REAZIONE ALLA REAZIONE
I GESUITI AVANZANO LIBERALEGGIANDO
Richiamiamo l’attenzione dei nostri lettori su questo articolo pervenutoci da un eminente ecclesiastico, che per t'attuale sua posizione e per la parte che ha avuto nelle ultime vicende della politica vaticana, è certamente bene informato ed in grado di dare un giudizio sicuro intorno a quel che va delincandosi sull'orizzonte odierno del Cattolicismo romano.
Da lungo tempo tace l’irosa voce di Pio X lanciata periodicamente in un decennio di pontificato contro tutte quelle «infiltrazioni democratiche, socialiste, sindacaliste, prote-stantiche, Kantiane » denunciate dalle vigili sentinelle dell'ortodossia integrale levatesi ad interpretare intenzioni, a far pronostici disastrosi, a compiere vendette inconfessabili in Italia, in Francia, in Germania, in Austria, nei Belgio e in Svizzera. Il mestiere eroico de) «j’accuse», cominciato dal vescovo di Nancy e dal p. Fontaine, ex-gesuita, in Francia aveva finito col procacciare danaro, onori e potenza illimitata ai suoi paladini che erano riusciti infine ad intendersi in una vasta lega di resistenza prima e di prepotente dominio poi. La loro campagna per la salvezza del cattolicismo e del papato minato da tanti pretesi pericoli era cominciata sulle pagine di vecchi giornali pieni di fiele e di amari rimpianti, su piccole riviste battagliere e distrug-gitrici di ogni buona reputazione per finir,- in una lega misteriosa, vera società a delinquere, che aveva il suo appoggio in alcuni circoli vaticani e che si faceva forte del nome e della autorità del papa, il cui nome, era trascinato in imprese abbastanza losche.
Quanti scandali ecclesiastici soffocati con ogni mezzo, lecito od illecito, solo che non non venisse fuori il nome del mandante, un nome che era sulle bocche di tutti! In Vaticano regnava incontrastato un piccolo gruppo di cardinali fegatosi ed intolleranti, e di prelati ambiziosi, senza eccessivi scrupoli, atei ma clericali. Ad uno di questi, appunto, exmassone cattolico (sic!), ex-democratico cristiano, ex-liberale in teologia, era stata affidata benignamente la direzione d’una corrispondenza semi-officiale del Vaticano « La corre-spondance de Rome», aiutata per gli affari dei monasteri e dei vescovati russi da uno zelante comitato di dame polacche e russe. Questa è storia, e storia dolorosa di ieri. Ed ecco perchè quasi, nei circoli ecclesiastici, non si crede ai segni ogni giorno più frequenti e inattesi del tramonto rapidissimo dell’oligarchia «papale integralista». Intanto anche gli uomini di Chiesa che s’erano lasciati trascinare dal grido incalzante del minacciato pericolo modernista, cominciano a vedere i motivi intimi di quella lotta, cecità e vendette personali, e i suoi effetti disastrosi. Ogni soffio di rinnovamento e di idealismo è spento dal momento in cui sul cattolicismo è passato il soffio grave di un vento caldo che ha distrutto tutti i germi di vita. I trionfi passeggeri dell’organizzazione cattolica nel campo politico non compensano lo spegnimento della vita spirituale ed intellettuale e si riconosce che la vera forza del cattolicismo è ancora nei paesi della vecchia coltura latina e germanica. Roma cosi sconta oggi assai amaramente l’illusione feroce di voler ricacciare violentemente nei ferrei schemi del passato, per fis-
57
NOTE E COMMENTI
29ï
sarvela in eterno, una società religiosa vivente qual’è il cattolicismo. Ed ecco perchè fatalmente la reazione alla reazione sta per scoppiare. Intanto, il vecchio papa tace, dopo di aver costatato il fallimento della sua politica; il gruppo vaticano è in sfacelo e qualche monsignore della reazione, messo per i suoi eccessi compromettenti in riposo, tenta di rifarsi una verginità liberale ; il clero secolare infiacchito da defezioni e da crisi economiche, è in uno stato di latente anarchia, il clero regolare in via di profonde trasformazioni. Così tutto s’avvia, proprio secondo la volontà del papa di Riese, ad «esser restaurato in Cristo » ! I segni della riscossa son ben evidenti a chi vive la vita ecclesiastica e ne sa scoprire i segreti celati sotto l’apparente correttezza e sotto, ciò non va dimenticato, l’impressione di terrore in cui vive da un decennio il clero e il laicato cattolico. Il buon senso offeso, la moderazione violata vanno riprendendo i loro diritti.
Ma è necessario dissipare subito un’illusione. Il vecchio movimento modernista non avrà più i suoi eiedi e i suoi continuatori diretti, e tanto meno potrà sperare in una qualche apocalittica insurrezione dei suoi morti : la fresca ingenuità di uomini di Chiesa e di laici entusiasti che s’illudevano, col sublimare nella Chiesa i suoi migliori principi, di portare la Chiesa stessa nel pieno della vita moderna per un fecondo connubio di civiltà superiore è stata distrutta per sempre da una più matura esperienza di ciò che è la Chiesa e di ciò che può storicamente compiere, il «48» del modernismo non torna più. Ma ciò non toglie allatto che la Chiesa cattolica non continui a venir travagliata nei suoi membri più sensibili e più intelligenti come nelle sue anacronistiche istituzioni dal flusso della vita moderna, le cui onde penetrano nei più intimi recessi del suo organismo secolare, allargandone le fenditure. Dopo il fallimento del tentativo « integralista » non ci può esser alcun dubbio che l’edifìcio cattolico, costruito con tanta pena nei secoli, non venga riassorbito nella società moderna, come fu riassorbito l’ultimo vestigio anacronistico dell’impero ro mano sotto Napoleone I. La romanità, in ciò che essa ha veramente di eterno, passerà a vivere, dalla sua rivestitura cattolico-ecclesiastica in altre società politiche o religiose.
Le rivelazioni giornalistiche intorno all’attività inattesa dei gesuiti a favore di una corrente liberale o moderata nel seno del cattolicismo e alla sconfessione della stampa papaie-integralista (tipo Unità Cattolica, iti
Italia) hanno dato ai profani un’idea della gravità «Iella crisi attuale del cattolicismo. Certo, per chi, attraverso alla buona stampa liberale ed indipendente, (tanto più liberale e più indipendente, quanto più favorita dal Vaticano!) credeva sul serio al trionfo definitivo del programma dei « papa di ferro » che aveva saputo far trionfare la disciplina, l’obbedienza, l’uniformità nelle file del clero e del laicato, tutto ciò è una sorpresa che disorienta. Altro che vittoria definitiva! Il singolare in tutta questa faccenda è che la riscossa non parte affatto dai vinti di ieri, cioè dai modernisti e dai democratici, ma dagli ortodossi più puri. Sono proteste vivaci di giornali e di riviste cattoliche, anzi gesuitiche, contro le aggressioni, le insinuazioni, le accuse dei «giornali del papa » ; sono rivelazioni inattese, come quelle intorno ai Rampolla; è l’ostilità sorda, ma tenace che parte dai partiti cattolici e dalle organizzazioni economiche contro le ingerenze arbitrarie della tutela clericale; è, infine, l’energico intervento dei membri più autorevoli della Compagnia di Gesù.
Questa dei gesuiti era una mossa veramente inattesa. Chi non sa che i gesuiti avevano in gran parte, per il loro tradizionale mestiere di vigili custodi dei papato, sostenuto e favorito la campagna tradizionalista di Pio X, forse anche con il segreto scopo di non perdere la loro non meno tradizionale influenza sulla coltura cattolica ed ecclesiastica? Ma Pio X era andato troppo in là : i suoi criteri erano troppo rigidi : e la rigidezza teoretica elevata a norma di governo è la cosa meno politica che possa esservi a questo mondo : e poiché la Compagnia di mondo e di politica è abbastanza esperta, ha esperimentato ben presto che favorire troppo Pio X, era lo stesso che cadere vittima del proprio tranello. E si noli poi che applicare a paesi di elevata coltura e d’intensa vita sociale, in cui il cattolicismo deve lottare tenacemente contro il socialismo e contro iì protestantesimo, dei criteri che possono valere al più per modesti seminari italiani (Pio X è il papa dei seminari e dicono che scambi il clero e la Chiesa per un Seminario!) è lo stesso che provocare dei conflitti, delle proteste e le accuse dei zelanti a Roma che invocano fulmini... Inoltre nella Compagnia accanto ad un elemento tradizionalista e conservatore, c’è un elemento progressista, formato di persone intelligenti e moderne. Il primo elemento aveva trovato nel precedente Generale, il p. Marlin, uno spa-gnuolo, il suo uomo. Ma le defezioni numerose dalla Compagnia avvenute negli ultimi anni del suo generalato e nei primi del go-
58
2Q2
BILYCHNIS
verno del nuovo Generale, ¡1 p. Wernzle, un distinto canonista, l’allontanamento o la segregazione di studiosi valenti (ricordare il p. Hummelauer e il p. Grisar, il Biederlack, fra tanti altri), le sempre più esorbitanti pretese degli « integralisti » che favorivano lotte intestine, distruggendo la forza stessa della Compagnia, pare che abbiano provocato una riscossa da parte dell’elemento migliore della Compagnia. E questo intervento inatteso della Compagnia in favore di un orientamento più umano, più tollerante, più illuminato da parte del governo ecclesiastico centrale, abbandonato nelle mani di pochi fanatici e di pochi ambiziosi, certamente peserà moltissimo a rendere più evidente e più grave la incominciata discesa del partito « integralista » e « tradizionalista ». Le esigenze della realtà e dell’attualità vengono così riconosciute !
Quando si pensi al favore che ha trovato in alcuni centri gesuitici il pensiero modernista, alla facilità d’assimilazione e d’adattamento caratteristico dei gesuiti, quando si ricordi nel dibattito intorno alla questione biblica l’intervento autorevole di un p. Hummelauer e che uno dei più valenti evoluzionisti è un gesuita, il p. Weiss ; quando si ricordi che i gesuiti sono stati i più caldi fautori di una democrazia cristiana e di una politica più liberale, non c’è da meravigliarsi di tutto questo. Il loro desiderio di dominio nel cattolicismo e la loro elevata coltura ; il trovarsi essi per i primi sui punti di combattimento, la loro duttilità tradizionale è appunto quello che li spinge ad assumere una tattica liberaleggiante. Se dunque essi, appunto perchè tendono al monopolio delle direttive e all’avanguardia, per dirigere sotto la loro guida spirituale i movimenti cattolici, piegano a sinistra, verso il liberalismo e la conciliazione con la società e con la coltura moderna, dopo il più gigantesco, completo fino all’assurdo, tentativo che una grande Chiesa possa aver fatto per chiudersi nelle sue posizioni tradizionaiiste e nel suo separatismo ecclesiastico, ciò vuol dire che tali tentativi sono destinati all’insuccesso e rappresentano più un danno che un vantaggio. La Compagnia di Gesù comprende benissimo che la salvezza è oramai nell’andare coraggiosamente avanti e non nel ripiegare indietro. Solo, perdoniamo questa volta alla loro vanità, essi si credono gli strumenti necessari ed unici della trasformazione moderna della Chiesa, la colonna di fuoco che segna il cammino ai cattolici. Essi per i primi han compreso, del resto, quanto di giusto v’era nelle richieste moderniste e democratiche. Così han sentito che non era più possibile evitare il problema biblico e che di
fronte all’assenteismo tradizionale del cattolicismo moderno, bisognava che il cattolicismo prendesse quel posto, nel lavoro della moderna scienza critico-biblica che il protestantesimo s’era guadagnato e monopolizzato.
Dal punto di vista cattolico si tratta sempre di un aspetto della lotta del cattolicismo per la sua supremazia morale, ma ciò non importa, sebbene un cattolicismo am modernizzato sia un nemico ben più pericoloso d’un cattolicismo integralista ; ma la logica delle cose è sempre più forte delia volontà e dei propositi degli uomini.
I gesuiti han voluto per loro V Istituto biblico internazionale, sorto da pochi anni a Roma, con criteri larghissimi e con vera munificenza. I fondi, questo va notato bene perchè è un sintomo ben significativo, sono stati costituiti quasi del tutto con danaro privato piovuto dall’America, dall’Inghilterra, dalla Francia e dalla Germania. L’ambizione di possedere una scienza cattolica della Bibbia e di veder rinnovato criticamente l’insegnamento anemico e teologico della Bibbia nei seminari cattolici da una schiera di preti studiosi, ha incantato molte anime cattoliche. Io non so precisamente quali potranno in realtà essere in un avvenire non lontano i risultali pratici di questo contatto del clero cattolico con i risultati più seri della critica biblica moderna; ma è facile prevedere che l’esito non sarà precisamente quello che ha voluto Pio X, sebbene una più larga partecipazione della scienza cattolica nel lavoro critico intorno alla Bibbia e alle discipline affini, debba produrre in un lungo tempo un mutamento notevole nelle idee e nella teologia cattolica.
Che importa? I gesuiti dell’istituto biblico hanno ottenuto da Pio X la decadenza della Scuola biblica di Santo Stefano a Gerusalemme e l’allontamento dell’oramai addomesticato padre Lagrange. Ciò non è certo una bella azione, e tanto meno — come voleva un nazionalista che prende le informazioni vaticane da un troppo astuto monsignore che vuol far vedere ai liberali in Pio X un papa italiano — una prova dell’amore del papa per... l’Italia e un danno per la Francia (la Scuola biblica dei domenicani a Gerusalemme è stata eretta col danaro francese e con intenti di antagonismo nazionale); però è in fondo la rivincita degli sconfitti di ieri e d’oggi : se a Roma si è dovuto istituire uh istituto biblico, se tutto l’immane lavoro critico, senza distinzioni di scuole o di confessioni religiose, è messo in mano agli studenti ecclesiastici, come il mezze necessario per orientarsi e per produrre alla- lor volta, ciò non sarebbe stato possibile senza la lotta
59
NOTE E COMMENTI
293
modernista che ha messo il dito sulla questione biblica, e senza gli studi e i tentativi più o meno fortunati, più o meno abili dei tanti e tanti studiosi cattolici sconfessati. Oggi i gesuiti s’impiantano anche a Gerusalemme e in Galilea ; oggi il loro insegnamento per le deficienze del corpo insegnante è ben lungi dal soddisfare i bisogni scientifici a cui vuol servire: ma che importa?
Superata l’odiosa ed antipatica fase di antagonismo attuale, i cattolici avranno domani un centro di più, un più ampio mezzo di propaganda e di diffusione degli studi biblici, studi essenzialmente critici e storici, che prepareranno lentamente il materiale per una nuova sintesi teologica nel cattolicismo futuro, quando i canoni del concilio di Trento e l’enciclica contro il modernismo saranno divenuti un venerabile e superato documento dell’antichità. *«.*
60
LA PERSONALITÀ DI DIO
E LA FILOSOFIA DELL’IMMANENZA
Il Saitta (i) è un seguace della filosofia neoidealistica del Croce. Di una filosofia — cioè — che afferma energicamente l’immanenza dello Spirito, ma ne esclude con pari energia ogni trascendenza. Lo Spirito (Dio) non è atto puro che a un dato momento crea e poi si riposa. Non è il Logos che per successive trasformazioni genera la natura e lo spirito. Non è la verità formata e perfetta in sè che noi dobbiamo semplicemente accogliere. No. Dio è un Dio-natura, è Io Spirito esclusivamente immanente. Questa immanenza è finalità, ma una finalità che non è fuori delle cose, bensì è attiva e presente in esse; è la vita, insomma. Sicché, il processo di Dio e quello della natura sembrano due, ma sono un solo processo. Lo Spirito è creatore. Ma si badi: non c’è un Dio indipendente dall’atto e dal fatto creativo. Lo Spirito è storia, è divenire. Esso pone e fa tutte le forme della realtà naturale e spirituale, e pone se stesso e si fa in esse. Cosi, il Dio vivente non è un Dio estramondano, ma è la nostra stessa spiritualità. La vita divina è la vita umana, anzi naturale. E’ personale cotesto Dio? Si, ma la sua personalità non è fuori dell’uomo. E’ l’identità della vita divina e della vita umana che costituisce la personalità. In altri vocaboli, lo Spirito — attività divina creatrice — arriva a pensarsi soltanto nella coscienza individuale, ed a riconoscersi come quel principio universale che ha posto e fatto tutte le forme c si è posto e fatto
(i)Giusbffk Saitta, f'rtonalità di Dio t la filo-tofia dtirimrnanenza. Saggio storico-filosofico. Fano, So-Q«ta Tipografica cooperativa. Pag. $o. Prezzo !.. 3.
in esse. La ragione umana non è creata, perchè essa è la creatrice. La ragione umana è la stessa ragione divina che ha posto il tutto e che nell'uomo arriva a conoscersi. L'individuo, col suo pensiero, è, dunque, la reale attualità del Dio-natura. L’A. dice: «Tale è il Dio nuovo, al quale non c’inchiniamo, perchè esso freme e vibra nel nostro essere». Un altro filosofo chiama tutto ciò: «Egotkismo».
Questo rapido schizzo della filosofia che domina il lavoro di cui qui ci occupiamo era indispensabile per comprendere la rassegna storico-filosofica del problema di Dio che costituisce il lavoro stesso, e della quale trac-ceremo — quanto più chiaramente e brevemente ci è possibile — le linee maestre :
* » *
Per gli antichi, Dio era estraneo all’uomo e scisso da lui. In contrasto col mondo antico, il Cristianesimo getta un seme fecondo, cioè il concetto dello Spirito come soggetto e libertà...
Ma i Padri, in generale, per evitare il panteismo, cercarono dimostrare che il mondo intelligibile non è l’idea che Dio ha di sè, ma quella che Dio ha del mondo come altro da sè : perciò il mondo non è Dio. Con ciò, evitarono il panteismo, ma — secondo PA. — accentuarono il dissidio tra Dio e la natura...
La Scolastica attenua questo dissidio. Per essa, le virtù teologali — fede, speranza e carità — immanenti nell’uomo, sono sviluppo e coronamento delle virtù naturali. Quest’idea
61
TRA LIBRI E RIVISTE
295
di sviluppo rompe le dighe tra Dio e l’uomo. Contribuisce a romperle anche l’idea di Chiesa depositaria della grazia: idea che fa di Dio e dell’umanità un grande organismo sempre attivo e creatore. Con ciò, siamo ancora molto lontani dalla meta, ma la via per giungervi è tracciata...
Le battaglie intorno al problema degli universali, tra nominalisti, concettualisti e realisti, mostrano come in quelle formule oscure vibrasse forte il sentimento d’individualità sebbene il vero individuo come unità di universale e particolare, come termine supremo dell’attività creatrice del Dio-natura e come autoriconoscimento di quest’attività sia rimasto ignoto al medioevo...
Per Scoto Erigena—che indagò il problema degli universali con più grande acume dei realisti, nominalisti e concettualisti — Dio o l’Universale è il reale originario che contiene e produce il particolare per un movimento di egressus, o irradiazione dell’Essere ad extra, seguito da un movimento di regressus che costituisce il ritorno dei particolari all’universale, cioè la deificazione di tutte le cose. La dottrina dell’Erigena conduce allV//i rcalissi-tnùtn di S. Anseimo e all’oggettivo veruni indubitabile di S. Bonaventura. L’A. opina che ammettere I’ Universale preesistente distrugge il particolare. E perchè? Perchè se alla base di tutto il movimento di egressus e di regressusesiste l’universale immoto, allora il divenire dell’universale è un’apparenza di ciò che rimane eternamente immoto e non esprime la creatività dello spirito...
L’A. scioglie meritamente un inno aS. Tommaso pel quale Dio diventa noto a noi mediante l’esperienza e la filosofia. L’Aquinate ebbe una visione più chiara e più profonda dei rapporti tra Dio e l’uomo che quella dei Padri e dei Dottori. Per lui, la rivelazione non è opposta alla ragione, e la teoria tomista della grazia non scava un abisso, come quella agostiniana, tra la teleologia della natura e la teleologia divina : gralia naturavi non tollit, sed perfidi. Ciò — secondo l’A. — costituisce un progresso verso il principio d’individuazione ...
Ma chi inaugura davvero — prosegue egli — la filosofia moderna è Nicolò da Cusa che scuote la trascendenza cercando (in opposizione alla scuola aristotelica che escludeva i contrari nell’uno) il nesso di tutte le antitesi, e lo trova nel movimento dove non si può parlare di un generante fuor del generato, di una potenza che non sia la potenza dell’atto, perchè l’unità o coincidenza degli opposti è prima della dualità. Seguono le divinazioni del Botane —
«se tu sei puro e santo, tu sei Dio» —, e i pensamenti più sistematici di Giordano Bruno. Questi afferma ¡1 Deus in rebus generatore del-1’ universo, ma accanto ad esso pone un Dio trascendente incussupra omnia, primo principio e prima causa che, mantenendosi immobile, produce il tutto. Conseguenza — dice l’A. — del vecchio dualismo che pone un pensiero sopra il pensiero .. .
Galileo imposta il problema con sicurezza ed acume affermando che la differenza tra il pensiero divino e l’umano è solo quantitativa. Malgrado alcune contradizioni, l’esigenza di risolvere il mondo divino e il mondo umano nel mondo del pensiero che è umanità doveva portar frutto. E lo portò in Cartesio. Vero è che questi ammette Dio attualmente infinito e perfetto; ma è anche vero ch’egli presente la conoscenza umana poter crescere all’infinito, e l'uomo poter acquistare tutte le perfezioni della natura divina. Nondimeno, il residuo di dualismo che vi perdura impedì al ¡»ensiero cartesiano di risolvere il problema...
E Spinoza si trovò dinanzi — dice l’A. — il problema posto da Cartesio e non risolto. Per Spinoza, Dio è la realtà assoluta. E’ infinito, indeterminato, impersonale, immobile, iden tico a sè. E’ in noi una coscienza fenomenica ed una intuizione superiore per cui sentiamo l’eterno e proviamo che siamo eterni. Lo spirito spoglio di passioni, il puro spirito, sopprime in sè la particolarità e l’individualità e s’immerge nella realtà assoluta che è Dio perfettissimo. Così lo spinozismo è conseguenza logica del cartesianismo. V’è in Spinoza un tentativo di superare il dualismo cartesiano concependo lo spirito ed il corpo come modi di un’unica sostanza, ma vi rimane pur sempre — nota l’A. — un dualismo modale...
Leibnitz, con la dottrina delle monadi (concepite come principi puramente interni, come forza di efficacia immanente) chiari il problema dell’individualità. Ma egli oscura l’indipendenza delle monadi con la dottrina dell’armonia prestabilita. Berkeley riconosce che le idee costituenti il mondo esteriore sono attività degli spiriti. Mail guaio è—secondol’A. — che a questi spiriti le idee si suppongono date, ponendosi in Dio l’origine di ogni idea e la vera forza attiva. Siamo, dunque, ancora lungi dall’unità assoluta del mondo come soggetto...
Questa è instaurata da Kant, il cui idealismo culmina in Hegel. Ma l’A. critica fortemente la nota triade di Hegel : Logo, natura, spirito. Quello spirito che è il terzo momento della triade, il termine ad quem, il risultato di un’attività, non gli garba, perchè — osserva egli — lo spirito è attività e non risultato di
62
296
BILYCHNIS
essa. 1! primo momento deve, fin dall’origine, essere anche l’ultimo; potenza ed atto coincidono sempre. E, siccome non puossi parlare di atto che non sia individuazione, ne segue che lo spirito è sempre individuazione e non mai un indeterminato che si individualizzi... L’individualità può arricchirsi, e questo è il divenire, non mai trasformarsi, poiché lo Spirito è presenzialità eterna, atto eterno. L’he-gelianismo contiene — secondo l’A. — questa profonda verità : che Dio non si può concepire scisso dai mondo, che Dio e il mondo, pur essendo differenti, sono identici (sic) nel lo stesso tempo. Ma — sempre secondo l’A. — erra 1’hegelianismo quando tra Dio e il mondo pone un processo che muove dall’indeterminato per arrivare alladeterminazione. Poiché — ragiona egli — se Dio e il mondo sono inscindibili, essi costituiscono una unità immediata (!). Ed essa — in quanto è immediata — é originaria. L’universo non è un grandioso meccanismo, ma è un immenso organismo vivente, il quale vive di una potente vita interiore, la cui peculiarità è la libertà e quindi l’attività creatrice. Lo Spirito — in qualunque momento lo si voglia considerare — è unità di autocoscienza e di coscienza : unità che diventa sempre più comprensiva, più ricca, più universale perchè «è in continuo ./fon...
Tale è — in riassunto — il pensiero svolto dal Saitta in questo momentoso lavoro. Ci sieno permesse, ora, alcune osservazioni :
« * •
Questa filosofìa neo-idealista non è certo la nostra. Ciò, tuttavia, non ci impedisce di riconoscerne gli aspetti veri e di apprezzarne gli effetti benefici.
Innanzi tutto essa, lumeggiando la fonda-mentalità dello spirito, costituisce una vigorosa e vittoriosa reazione contro il fallace principio del materialismo che pone la fondamen-talità della materia e considera il pensiero e la coscienza come epifenomeni di quella...
In secondo luogo è merito grande di questa filosofia il conto che • essa fa del pensiero, la sua professione di fede nell’assolutezza della ragione. L’uomo « nelle leggi del proprio pensiero porta l’archetipo delle leggi del mondo dell’esperienza». V’è armonia tra l’essere e il nostro pensiero, e quest’armonia è la logica. Intuizionismo, prammatismo e va dicendo, sono tutte verità ; non sono però la verità fondamentale. L’intuizione senza il ministerio della ragione è impossibile. E — chi ben guardi la forza del prammatismo stesso è la logica. Il razionalismo non è tutta la verità, perchè la realtà non è soltanto ragione, ma è vita. Nondimeno
le filosofie antirazionaliste — pur mo’ nate e già esauste — le quali, curioso a dirsi, pretendono squalificare la ragione a furia di ragionamenti, sono il principio dell’errore, poiché esse si sforzano di sopprimere quella luce in virtù della quale noi possiamo renderci conto e delle idee e dei fatti. Or è certo che il neoidealismo costituisce un efficace correttivo alla unilateralità delle prefate filosofie...
Inoltre, in quanto afferma l’inscindibilità di Dio dai mondo, esso ribadisce una verità di grande valore filosofico e religioso, e cioè che io spirito del l’uomo non è essenzialmente altro dallo spirito di Dio, e che la ragione divina è immanente nella ragione umana. ..
Infine, con l’insistere sull’idea che lo Spirito è storia e divenire, e che esso — ponendo e facendo le forme della realtà naturale — pone se stesso e si fa in esse, il neo-idealismo sviluppa, tuttoché unilateralmente, un aspetto della verità ricco di grande contenuto filosofico e spirituale, e che deve rientrare in una filosofia più completa e più vera, nonché in una teologia moderna; l’aspetto divenire di Dio...
« » »
Senonché, le deficienze del neo-idealismo sono per avventura più grandi dei suoi meriti :
Dio, o meglio lo Spirito, è — secondo questa filosofia — il solo e vero ed unico io, e \'io nostro è una fase storica dell’io in generale. Peraltro, questa distinzione sembra essere affatto verbale dal momento che, secondo l’idealismo nuovo, lo Spirito non arriva a conoscersi fuori del nostro io. Può egli parlarsi di un io il quale non si pensi e non si riconosca ? Io non Opero come io -— osserva il Varisco — che in quanto so di fare, in quanto so quel che faccio. Ora se lo Spirito non arriva a pensare ed a riconoscersi che nel nostro io, come ha potuto, senza pensare, crear la natura materiale ed agire nel mondo ?...
Inoltre, negando qualsiasi trascendenza, il neo-idealismo afferma che lo Spirito non è che storia, divenire, non è che la nostra stessa spiritualità. Lo Spirito non è fatto ; si fa. Ma — domandiamo — il divenire è possibile senza una realtà preesistente? Lo zero non può divenire Vano. « Diviene », scrive saviamente il prof. Michaud, ciò che « viene da » qualche cosa. Prima di mutare, bisogna essere...
Di più, il divenire è forse una carriera senza legge, una corsa fortuita e capricciosa, una bolgia anarchica? Al contrario, esso si svolge secondo la logica, che è legame delle idee e delle verità e fa che le parti formino un tutto, che il tutto si tenga fermo e solido, che le cose abbiano una sussistenza, che i sofismi.
63
TRA LIBRI E RIVISTE
297
le dissociazioni, i principi dissolventi trovino resistenza. Posto ciò, non basta affermare che la causa finale e l’impulso originario del divenire è la vita più piena e più ricca che circolando per tutte le cose le crea dando all’universo un significato sempre più pieno. Non basta ciò. Anzi, bisogna aggiungere che l’inesauribile divenire è la manifestazione della necessità, che è inerente al pensiero, di avere un adeguato oggetto. Ma questo — se ha un qualche significato — implica che il divenire si svolge secondo un ideale, e postula la realtà eterna di quest’ ideale da cui tutto prò cede...
La trascendenza dell’ ideale è reclamata dall’immanenza anche sotto un altro aspetto; ove — cioè — si consideri non più il punto da cui la natura e il divenire procedono, ma la direzione verso cui si svolgono. Possiamo noi riconoscere tutta la realtà dell’ideale nella natura? Porre la domanda equivale a rispondere negativamente: nella natura, piuttosto che l’ideale noi troviamo un'aspirazione ad esso, un’aspirazione — dice Fouillé — immanente al mondo stesso, una coscienza oscura che tende alla piena chiarezza. La risposta a questa aspirazione, che è il carattere della natura, non può dunque essere che trascendente la natura...
Se Io Spirito non è che divenire, su che si fonda la realtà dell’ideale? Sul divenire? Ma allora essa abbraccia tutti i momenti del divenire e sopprime ogni distinzione tra la verità e l’errore, tra il bene ed il male. Questa conseguenza della filosofia del Croce, mostra che il divenire non può essere fine a se stesso, e non è concepibile se non come un processo verso una meta. Or se questa mela non è — come abbiam visto — la natura, e non può essere il divenire, quale sarà se non è il trascendente? Forse la chimera?...
Donde si vede che l’immanenza, lungi dal-l’escludere la trascendenza, allorché è spinta alle sue estreme conseguenze logiche impone il riconoscimento di questa...
* * »
Nella sua dotta rassegna storico-filosofica, l’A. rilevando i movimenti successivi del pensiero filosofico verso il riconoscimento della unità fondamentale di Dio e del mondo, pretende sempre trovare in contradizione con se stessi quei filosofi che mentre da un Iato riconoscono quella fondamentale unità, mantengono dall’altro l’insopprimibile distinzione. Nella sua fraseologia non v’è posto che per l’identità e la scissione. Se Dio non è scisso dal mondo è identico ad esso, e se — vice
versa — Dio non è identico al mondo, allora ne è scisso. Ecco un dilemma che è veramente impossibile di accettare, poiché tra i corni di esso vi è tanto spazio quanto basta perchè vi passi la nozione di una consustan-zialità che non sia identità.
Può darsi che la maniera di concepire i rapporti fra il trascendente e l’immanente non sia perfetta nelle varie filosofie che mantengono l'uno e l’altro. Ma la possibilità di perfezionare la concezione di tali rapporti esclude la necessità di negare la trascendenza.
Nel mio recente libro / Calori Cristianie la Cultura Moderna (1) è esposta una nozione di Dio la quale parmi renda giustizia alla ve-nu specifica del neo-idealismo cioè il continuo divenire dello Spirito creatore il quale, ponendo le forme della realtà, pone sé stesso e si fa in esse. Le rende giustizia accettandola non già in modo esclusivo, ma integrandola in una concezione più complessa, la quale, mentre da un lato proclama che Iddio non si fa, ma è, riconosce dall’altro — e senza contradizione con ciòche precede — un aspetto divenire in Dio.
Credo sia opportuno che io chiuda questo articolo con un accenno a tale questione:
« « •
Dio è l’assoluto, il perfetto, l’infinito, il qualitativo puro, l’essere in sé che riposa in nessun altro principio che in se stesso : è perchè è. È l’antecedente universale che è la ragione di tutto, e nel tempo stesso la forza che tiene unite le parti dell’universo: forza cosciente di tutta l’intelligenza che dispiega nei minimi particolari, dunque padrona di sé e dell’opera sua e perciò eminentemente personale. Come essere in sé, assoluto, infinito, perfetto e dotato della personalità universale, o — per usare una felice espressione del Padre Giacinto — della supra-personalità, Dio non si fa,’ non diviene ; Dio fe. Perciò è da respingere l'idea che l’essere non esista se non in quanto crea. .Angelo Crespi, in un benevolo articolo sul mio libro, pubblicato nel Coeno-bium di gennaio scorso (di cui lo ringrazio di cuore, anche per le utilissime osservazioni) sembra attribuirmi il concetto «dell’essere che esiste in quanto crea, e crea per darsi le determinazioni senza di cui non sarebbe ». Evidentemente il Crespi s’è fermato sur una faccia della mia complessa concezione, trascurandone gli altri aspetti, e non accorgendosi
. (1) Casa Editrice « Cultura moderna *. Mendrisio. Prezzo Lire 6. [In vendita presso la Libreria di Bilychnif. Prezzo ridotto per gli abbonati L. 5.10].
64
298
BILYCHNIS
perciò che il concetto neo-idealista dell’essere ch’egli mi attribuisce è, nel mio libro, combattuto almeno implicitamente.
Si passi ora ad altra considerazione : Lo Spirito è concepibile — senza veruna contradizione — come universale capace d’individuazioni immanenti e permanenti in se stesse. Il che — si badi — non implica affatto che come universale esso sia incosciente. Se lo Spirito come universale è una realtà, ed una realtà sono pure le sue individuazioni, è perfettamente ragionevole l’idea che l’Essere si possegga ad un tempo come coscienza universale nel punto ideale della sua unità, e come coscienze particolari nelle diverse individualità. E cosi apparisce come complessa unità di coscienza che è la repubblica dell’Essere. Paul Janet scrive: « Noi manteniamo l’idea di una coscienza infinita ed assoluta all’origine delle cose. Ma questa coscienza assoluta, pur nulla perdendo del suo valore, s’irradia in coscienze particolari che sarebbero, secondo l’espressione di I^ibnitz, sfolgoramento di Dio ». E Cousin, pur non essendo in alcuna maniera panteista, considera necessario questo sfolgorare di Dio...
Non è cosa ardua rendersi conto di questa necessità (1). L’Essere in sè, l’Assoluto, non è cosa morta, è vivente. Non può dunque non vivere e, quindi, non agire, perchè vita che non sia azione è inconcepibile. Ma l’azione è irradiazione e comunicazione di sè: dunque 1’.Assoluto vivente s’irradia e si comunica. Ora, è impossibile concepire la necessaria irradiazione vitale dell’Assoluto senza ammettere che essa pone qualcosa di nuovo che prima di questa irradiazione non era. Bergson si serve di un paragone: Come l’ù> umano è capace di atto volontario, cioè di creazione, per cui la coscienza introduce qualche cosa di nuovo nel mondo e in se stessa, analogamente l’Assoluto personale e vivente pensa, parla, vuole, s’esprime, attua cosi qualcosa che non era e che comincia ad essere. Senza il mondo, l’Assoluto (pur possedendo come tale tutto il qualitativo) sarebbe in certo senso incompleto, perchè sarebbe senza irradiazione ed espressione. Il che spiega le parole del Mariano allorché afferma che l’assolutezza e l’infinità debbono, sotto pena di non esser più tali, comprendere in sè
Jx) Questa necettìlà non menoma la libertà di Dio, perchè c una necessità determinata dalla natura di Dio, non da alcun che di estraneo a lui. È necessità di perfezione, analoga — per esempio — alla necessità della bontà ài Dio. Potrebbe Dio non esser buono? E chi oserebbe dire che la necessità della sua bontà diminuisce Dio ? È necessità di perfezione senza la quale Dio è inconcepibile.
la finitezza e la relatività. Cosi l’Essere in sè - Assoluto — ha un aspetto divenire, appunto perchè, come assoluto deve comprendere in sè il relativo ed il finito. Non sono due esseri. L’Essere è uno, e fuori dell’essere nulla è: questo è il monismo fondamentale di Dio e del mondo. Ma il monismo fondamentale di Dio e del mondo, non implica identificazione di Dio col mondo, dell’assoluto col relativo. L’assoluto comprende in sè il relativo, ma non è il relativo. Viceversa il relativo, appunto perchè compreso nell’assoluto, non è l’assoluto. Dio e il mondo, pur non disgiunti, sono due aspetti inconfondibili dell’Essere. Dio è l’Essere in sè, il mondo è l’irradiazione finita di Dio, è l’aspetto divenire dell’essere.
Donde si vede come, nella nostra dottrina, la creazione non è l’atto pel quale Dio si determini, si attui, si dia l’essere; ma è l’atto vitale per cui egli esprime la sua vita, attuando in maniera distinta da lui (non però fuori di lui) i possibili che vede in lui stesso. Inoltre, chiaro apparisce come, in questa dottrina, la creazione non è un’addizione ali’Essere in sè, poiché le cose create hanno in lui il loro essere, il loro qualitativo ; ma la creazione è porre qualcosa di nuovo come irradiazione, come quantitativo che esprime il qualitativo dell’Essere, come forma particolare e limitata. Sicché l’aspetto divenire dell’essere, non è il farsi dell’essere in sè, ma bensì il divenire della sua irradiazione... E mi pare che dallo schizzo sopra esposto della dottrina nostra emerga pure una risposta all'appunto fattoci, in linea subordinata, dal Crespi che cioè il nostro pensiero, seguito coerentemente, conduca, se non al panteismo, ad un acosmismo pel quale Dio non esiste nel mondo, perchè solo Dio esiste. No, no. Nella dottrina esposta, Dio solo è, ma non Dio solo esiste. Poiché la distinzione reale ed insopprimibile (quantunque non sia scissione) tra l’Essere e la sua manifestazione, tra il qualitativo e il quantitativo che lo esprime, determina Vesistensa del mondo, sebbene il mondo abbia nell’essere, nel qualitativo la ragione della propria esistenza...
* *
Resta ora a chiarire perchè ed in qual senso — dal momento che nella nostra filosofia il mondo non si confonde con Dio — noi abbiamo parlato di un aspetto divenire in Dio\
Con siffatta espressione, noi ci riferiamo non al mondo della natura ma alla sua finalità trascendente. Più su, abbiamo parlato della concezione dello Spirito come universale capace d’individuazioni permanenti, come
65
TRA LIBRI E RIVISTE
299
Uno-molti, come repubblica. Orbene, attraverso la natura, Dio si cerca come molteplici io particolari. La natura, con la resistenza delle sue particolari limitazioni, impone allo spirito in essa immanente una lenta evoluzione attraverso la quale lo spirito arriva a costituirsi in personalità finite. Ma non questa è la sua finalità suprema. Le personalità finite sono capaci di assorgere, attraverso lotte sforzi ed evoluzioni molteplici, di vita in vita ; fino a raggiungere lo stato deifico, rientrando nello spirito puro da cui l’evoluzione parti arricchite ai io ormai inalienabili perchè non determinati in alcun modo e misura da un limite esterno, come nella natura, bensì da un limite esclusivamente interno che è il perfetto possesso di sè, pur nella solidarietà della vita divina. Questo indefinito attuarsi di Dio come molteplici costituisce l’aspetto divenire di Dio, che .è il frammento di verità prospettata in modo unilaterale dal politeismo. Ed è chiaro
che siffatto divenire di Dio non costituisce per nulla un attentato alla nozione di Assoluto. L’Assoluto resta assoluto, poiché — pur nella nostra nozione — esso possiede eminentemente in sè tutto il qualitativo che costituisce gli io molteplici che esso attua. 11 divenire di Dio Uno-molteplici risguarda solamente l’aspetto molteplici, e perciò è la indefinita attuazione di un nuovo mododi essere, non una aggiunta di essere a l’Essere. A chi poi trovasse inconciliabile l’indefinito divenire di Dio come molteplici con l'eternità di Dio osservando che Dio avrebbe già dovuto attuare tutto sè stesso come finiti, ricorderemmo la risposta di Campbell : da tutta l’eternità, Dio è ciò che è, nè potrebbe essere altro ; ma se Egli volesse esaurire la vita che è in lui gli occorrerebbe l’eternità intera!
Sanremo, aprile 1914.
Ugo Janni.
JESUS DE NAZARETH D’APRES LES TEMOINS DE SA VIE <■>
Spendere poche parole per presentare l’A. a quelli che in Italia s’occupano del problema religioso, può sembrare a qualcuno portar vasi a Samo. Eppure non è così, infatti, per quanto l’eminente professore occupi un posto assai in vista nel movimento scientifico religioso contemporaneo, pure non mancano quelli che l’ignorano o perchè fingono o perchè non lo comprendono. La prova è questa : proprio in questi giorni mi è capitato fra le mani un giornale di nostra lingua in cui si combatte « un certo Westphal » per alcune sue dichiarazioni, riportate da Bilychnis (dicembre 1913), le quali sono tante sferzate a quelli che s’atteggiano a monopoiizzatori della vera ortodossia.
Alex. Westphal è oratore facondo e persuasivo e scrittore facile e seducente nel quale s’accoppia la profondità della razza nordica e l’originalità della razza latina. Egli è autore non solo di numerosi articoli ed opuscoli, ma anche di due opere importantissime e voluminose : « Les sources du Penlateuque » e « Jého-vah » che non dovrebbero mancare nella bi. (1) Alkx. Wrstphai.: Jlttu de Notare t. Voi. I, pagine 463; prezzo dei due volumi in Italia !.. 14 Rivolgerei alla ftoelra Librerìa.
blioteca di quanti coltivano gli studi religiosi. Oggi, egli lancia al. pubblico il i® volume del suo « fésus de Nazareth ». Non si tratta d’una vita di Gesù sullo stampo di quelle scritte dal Pressensé o dallo Stapfer, per non ricordare che i migliori e i più moderni.L’A. non vuol camminare sulle tracce altrui. I viottoli dalle siepi laterali gli sembrano monotoni, privi d’aria e di luce : egli vuol spaziare collo sguardo per il largo e libero orizzonte. Simile all’alpinista, il Westphal fugge i sentieri troppo facili per aprirsi un passaggio tra pietre e rocce, fiero di essere il primo a passar per quei luoghi.
Egli, infatti, è il primo a concepire una biografia di Gesù quale la troviamo nel suo volume. Egli è convinto che se oggi son legione quelli che si disinteressano del Cristo, è perchè la Chiesa ha fatto di Gesù un fantasma impreciso e misterioso sospeso fra cielo e terra. Da qui la superstizione degli uni colle loro numerose e stravaganti leggende, e lo scetticismo degli altri eh’è divenuto malattia generale nella presente economia. E’ necessario dunque precisare la personalità del Maestro, farla vedere nella sua storica esistenza terrestre, precisare il quadro della sua attività e le circostanze fra le quali que-
66
300
BILYCHNIS
st’attività si è svolta. Ma, se questo fu lo scopo anche di altri biografi, nessuno mai l’ha realizzato con tanta originalità. Volendo parlare del suo eroe, l’A. comincia col provarne la storica esistenza contro quelli che — con a capo il monista Drews — l’hanno negata rigettandola nel dominio dei miti. E per provare che il suo eroe non è leggendario ma storico, comincia col mostrare il valore documentario della testimonianza degli scrittori del N. T. ; poi, ristabilisce il quadro del ministerio di Gesù e ritrova il filo della di lui attività nell’armonia degli Evangeli. Nei secondo volume, che vedrà la luce fra un mese, l’A. affronterà alcuni problemi d’ordine cristologico, tra quelli che più turbano la coscienza contemporanea.
Analizziamo brevemente le due parli che costituiscono il primo volume.
Gli Evangeli sono veramente il racconto dei testimoni del Cristo ? Domanda questa che ha fatto versare un mare d’inchiostro e ha affaticato molte intelligenze. Oggi, ad eccezione di qualche testardo — e i testardi non mancan mai — s’è d’accordo nel riconoscere che i racconti dei tre primi Evangeli risalgono realmente alle origini e che i lineamenti che ci presentano sono quelli del Cristo storico. Ma sono essi sufficienti a darci una storia completa dell’eroe di cui parlano? No, risponde l’A., perchè i due primi si limitano al racconto dell’attività di Gesù d’un solo anno — quello passato in Galilea — e non fanno andare Gesù a Gerusalemme che una sola volta, Ser la festa di Pasqua nella quale fu croci-sso. Ora, tale lacuna rende impossibile ogni spiegazione psicologica dei complotti orditi contro lui al suo apparire e della sua tragica morte. Perchè tutto un popolo si sollevasse cosi prontamente è necessario ammettere che il popolo conoscesse già il nuovo profeta.
Luca, è vero, sembra colmare la lacuna lasciandoci comprendere che Gesù aveva avuto con la Giudea più frequenti relazioni. Ma questo non fa che complicare il problema perchè rende anche più evidente l’impossibilità di restringere in un solo anno tutta l’attività eh’essi raccontano.
E allora, dobbiamo rinunziare ad ogni tentativo di ricostruire un’intiera storia del Cristo? No, risponde il Westphal — e qui brilla appunto la sua originalità — essa è possibile se .si ricorre al quarto Evangelo. E’ questo che fa allusioni evidenti ad altri soggiorni su terra giudaica e ripartisce in tre anni quell’attività che i tre evangeli sinottici hanno condensato in uno solo.
Qui entriamo nella parte più palpitante
del libro. Il lettore che ha seguito l’A. tutto d’un fiato e con interesse sempre crescente, fa bene a sostare un poco. Il cammino sarà ormai meno facile, ma se là salita è affannosa, la vetta riserva liete, belle, incoraggianti sorprese.
Ma procediamo con ordine. Che non s’è detto e scritto da due secoli a questa parte per dimostrare che il quarto evangelo non è dell’apostolo Giovanni, ma opera speculativa d’un autore posteriore! Quante ipotesi sono state avanzate prò e contro l’autenticità ! Nessun problema ha forse appassionato tanto i teologi e li ha spinti nella lizza con tanto furore. Wellhausen ha visto nel quarto evangelo diverse sorgenti ; Spitta vi ha scoperto un documento di Giovanni al quale poi un autore posteriore aggiunse miracoli, racconti, il prologo ; Loisy, prendendo troppo ad luterani l’affermazione veritas in semplici tale lia risolto il problema dichiarando il quarto evangelo un frutto d'una svegliata e mistica fantasia e perciò privo d’ogni valore storico: Harnack lo attribuisce a Giovanni il presbitero, discepolo dell’apostolo Giovanni.
Perchè si nega l’autenticità dell'Evangelo di Giovanni ? Perchè — rispondono i critici — questo vuol essere una quarta biografia del Cristo: ma le lacune, le oscurità, le incoerenze sono tante e si gravi che un testimonio oculare non avrebbe assolutamente potuto commetterle. Ma, domanda l’A., il problema cosi precisato è posto nella sua giusta formula? Se il quarto evangelo non pretendesse d’essere una vera e propria biografia del Cristo, non cadrebbero ittico tutte le difficoltà per cui se ne nega l’autenticità.
E, se non è un Evangelo che cosa è?
Sullo scorcio del 1 secolo, i sinottici, eran conosciuti un po’ dovunque nella Chiesa, ma l’Evangelo di Luca lo era ancor più, sia perchè scritto in buon greco, sia perchè più completo e anche perchè animato da un largo soffio d’universalismo. Ora. l’apostolo Giovanni ritornato da Patmos ad Efeso, si compiaceva nella tarda età di far rivivere nel circolo dei suoi amici i ricordi degli anni felici quando, ancor giovane, seguiva il Maestro. Questi amici, fra i quali si trovava il discepolo che doveva succedergli ad Efeso — Giovanni il Presbitero — spinsero il vecchio apostolo a completare la biografia evangelica di Luca pubblicando — come se scrivesse in margine le sue esperienze e i suoi ricordi.
« Lue entend raconter depuis le commen-cement». Le commencement, ajoute Jean, remonte bien plus haut ! Si Jésus est né mira-culeusement, s’il est le Sauveur, c’est qu’il
67
TRA LIBRI E RIVISTE
était d’abord le Verbe, préexistant auprès de Dieu.
« Luc introduit Jean-Baptiste: Jean ajoute les faits dont il a été témoin et la vocation des premiers disciples.
« Luc confond les divers ministères de Jésus en Galilée: Jean distingue ce qui s’est passé avant l’incarcération du Baptiste de ce qui s’est passé dans la suite. Il intercale les voyages de Jésus en Judée, indique par la mention des diverses Pâques le cadre du ministère du Sauveur. Il complète, ordonne et précise tout le long du récit, et sa merveilleuse intelligence de la pensée du Maître lui a permis de retenir les discours là où d’autres n’ont retenu que les actes, il rétablit la harangue sur le pain de vie après le récit de la multiplication des pains; les entretiens de la chambre haute, là où Luc raconte l’institution de la Cène, et rectifie jusqu’à la fin, où, Luc parlant des saintes femmes se rendant ensemble au sépulcre, Jean distingue Marie-Madeleine qui y était allée seule avant toutes les autres et qu’il a vu pleurante aux parois du tombeau.
« Ainsi, sans avoir cherché à faire un Evangile, et toujours appuyé au texte qu’il commente, Jean se trouve avoir dressé avec son prologue, ses épisodes de Nicodème, de la Samaritaine, des missions pascales et de la chambre haute, les pierres sublimes du plus beau monument spirituel que le siècle apostolique et l’Eglise de tous les siècles aient élevé à Jésus-Christ*.
Dopo la sua morte, il suo discepolo — Giovanni il presbitero — gli succedette ad Efeso, e dovendo battagliare contro lo gnosticismo nascente, s’affrettò a raccogliere le note del suo maestro, le pubblicò a parte accompagnandole con un’appendice: ed è questa raccolta che i secoli ci hanno trasmessa sotto il nome d’Evangelo secondo S. Giovanni.
Tal’è la tesi del nostro A. Tesi originale, semplice, seducente. Leggendola, ho avuto l’impressione d’una rivelazione: è stata come un improvviso levar del sole in un mattino tetro e nebbioso. L’ipotesi del Westphal mi piace per la sua semplicità ma, sopratutto, perchè dissipa molte difficoltà e resiste, più di ogni altra, a tutti gli attacchi. Leggete, per convincervene, le pagine 93 e seguenti nelle quali l’A. colla sua dialettica e col suo metodo scientifico e psicologico spunta le armi che mirassero a combattere la sua ipotesi.
*
* »
Provato il valore documentario dei quattro evangeli, l’A. può ormai ricostruire il mini“
3© r
sterio storico di Gesù, fondendo in un solo-racconto le quattro sorgenti. Non già che questo tentativo sia assolutamente originale.
11 Westphal è il primo a dichiararlo. Ma sia il Dialesseron di Taziano, sia Das Vangelium Chrisli di Hilty, non hanno saputo darci una sintesi veramente completa quale questa del nostro A. Egli come trama generale del racconto ha preso il terzo Evangelo — annotato — come ho detto — dall’apostolo Giovanni. I discorsi contenuti esclusivamente in Matteo e in Marco, li ha intercalati al posto che loro sembrava assegnare l’ordine biografico. La cronologia dei fatti, l’A. l’ha stabilita in base a lungo studio e a pazienti ricerche nei lavori dei dotti più autorevoli. Quanto al testo, pur servendosi delle versioni piti accreditate, non se n’è fatto però schiavo. Egli s’è messo direttamente in presenza del testo greco che ha tradotto in una lingua elegante, viva, moderna. Ma nel ricostruire questa vita completa di Gesù, egli non s’è permesso d’aggiungere nè una frase, nè una soia congiunzione che già non fossero nell’originale. E’ per questo che, giunto al termine del suo lavoro, con fierezza può esclamare : « Cesi dotte bien le texte des Evangiles et des Evangiles setils, que le lede tir a sous les yeux».
Non saprei lodare abbastanza il pastore di Losanna per questo suo tentativo. Egli ha reso alla causa del Maestro un grandissimo servigio.
Ricordo questo aneddoto raccontatomi dallo stesso prof. Westphal. «Un avvocato, affatto digiuno della Bibbia, a cui avevo dato in dono un N. T., me io restituì poco dopo convinto elle fosse incompleto e non corretto, perchè vi aveva trovato due o tre volte lo stesso racconto, mentre altre volte si era imbattuto in narrazioni senza capo nè fine».
Io non so se altri hanno fatto una simile esperienza. Ma è un fatto — non mi si chiami eretico per sì poco — che il N. T. com’esso è non può affascinare il lettore, inchiodarlo al tavolo oer ore ed ore, appunto perchè la narrazione vi procede a sbalzi, disordinata, senza continuità. Vi leggiamo un episodio e non sappiamo le condizioni, il luogo, il momento in cui si svolse, leggiamo le sublimi parole del Maestro e spesso ignoriamo le circostanze che le dettarono. Vi sono libri che leggiamo e rileggiamo con interesse sempre crescente : li leggiamo da fanciulli, da giovani e da vecchi perchè gli eroi che ne sono i protagonisti ci attirano, s’impongono, ci perseguitano col loro ricordo. E perchè accade altrimenti del libro dei libri e dell’eroe degli eroi? La ragione non sta solo in cause psico-
68
302
BILYCHNIS
logiche. Non tutti fuggono la luce, non tutti hanno in odio i valori morali. Vi sono, grazie a Dio, coscienze rette, oneste, assetate d’ideale. Date a queste in un solo riuniti i quattro racconti evangelici in modo da formare un tutto organico, disciplinato, intero ; date, a queste anime, un Gesù completo e non frammentario, e voi le guadagnerete a Colui che s’è detto la sorgente di vita.
Il direttore della stamperia dai cui torchi è uscito il libro del Westphal, mi diceva ieri che i suoi operai componendo il testo si mostravano sì interessati che più volte sospendevano il lavoro per continuarne con avidità la lettura.
A me sembra che questa dichiarazione costituisca il miglior elogio dell’opera, e la prova migliore che l’A. non ha speso invano lunghi anni di fatica e di preghiere nella compilazione del suo «Jesus de Nazaret».
Termino questo articolo, redatto con fretta perchè giunga in tempo per la pubblicazione, esprimendo l’augurio che presto questa vita del Cristo basata unicamente sull’armonia degli Evangeli, sia tradotta in italiano e — pubblicata in edizione popolare e tascabile — sia diffusa tra il nostro popolo.
Lausanne. Felice Cacci ai» voti.
&
Per la spiritualità della Chiesa.
Del libro di Philipp Funk.Fom dir Kirche des Geìsles (Munchen, Verlag der Krausge-sellschaft. Prezzo L. 1,25), del quale ci occupiamo qui brevemente, i lettori hanno avuto un piccolo saggio nel numero di marzo della nostra rivista, in cui demmo, tradotto da questo libro, il grazioso commento sulla Pasqua.
Il Funk è un cattolico modernista, se le due parole dato il significato che la prima ha ora assunto, possono stare insieme. Anzi il dottor Funk é l’anima del modernismo tedesco e ne dirige l’importantissimo organo settimanale, il Nette Jahrhundert, in cui i saggi che ora compongono il volume di cui parliamo, vennero dapprima pubblicati.
Saggi degni di attenzione e di lode, per la finalità che li anima e per il loro contenuto veramente ammirevole. La finalità ne è indicata dall’autore nelle poche righe d’introduzione : « Questo libriccino — egli scrive — non vuol esser altro che un tentativo di tradurre in linguaggio moderno la religiosità cattolica. Vi sono forse in Germania parecchi cattolici che cercano ancora e che avranno piacere di trovare un interprete. Ma gli altri compagni di fede che non ne sentono il bisogno potranno convincersi, leggendo questo libro, che non è il sovvertimento e la ruina della religione ciò a cui noi tendiamo ».
Nobile tentativo dunque, egregiamente condotto a termine. Poiché in questo libro, che è un gioiello anche tipograficamente, un altissimo senso religioso è accoppiato al più alto senso della modernità. In verità tutto il libro può esser chiamato un commentario alle parole del famoso abate Gioacchino da Fiore, che formano il soggetto del primo degli articoli raccolti nel volume: «Il Padre ci ha imposto il giogo della legge, cioè il timore; il Figlio il giogo della disciplina, cioè la sapienza ; lo Spirinto Santo ci ha dato la libertà, cioè l’amore ». E tutti gli scritti sono una vera lotta per rivendicare questa libertà dataci dallo Spirito. Da essi trasparisce tutto l’amore che l’A. ha per la Chiesa, e tutto il suo dolore nei vederla degenerata: in essi è l'invocazione, la rivendicazione di tutti i diritti dell’anima contro i formalisti ed i dominatori nella casa di Dio.
Alcuni di questi scritti sono d’indole e di soggetto più generali come « La chiesa dello spirito», «II diritto di credere», «Il diritto di dubitare», ecc. Altri sono invece come commentari vivaci e dolci, teneri e pugnaci nel tempo stesso, delle principali solennità cristiane. Tali sono, ad esempio, «L’Avvento», «Gesù sul monte degli olivi », « Ecce homo », « Le ultime sette parole », « La comunione dei santi », ecc.
Vorremmo che molti fra i cattolici, ed anche fra i non cattolici, leggessero questo aureo libro. La fede di ognuno, ne uscirebbe più illuminata e rafforzata. E. Rutili.
69
LIBRERIA EDITRICE “BILYCMNI5,, VIA CRESCENZIO, 2 - ROMA ---------------------------------------Per libri recenti e per libri a prezzi ridotti rimandiamo i nostri lettori alle pagine verdi del fascicolo precedente.
NOVITÀ
Prof. ENRICO BOSIO, Le prime Epistole di S. Paolo. I e II ai Tessalonicesi ed Epistola ai Calati. Traduzione e Commento.
Firenze, Libreria Claudiana, 1914. Volume in-S° di pagine 170. Prezzo L. 4» rilegato in tela e oro L. 5.
JEVONS-PESTALOZZA, L’idea di Dio nelle religioni primitive. Milano,. Hoepìi, 1914. Voi. di pag. 178. Prezzo !.. 2 (rilegato).
Sommario: Prefazioni dell’autore. - Avvertenza del traduttore. - Bibliografia. - I. Introduzione. - II. L’Idea di Dio nella Mitologia. - III. L’Idea di Dio nel Culto. -IV. L’Idea di Dio nella Preghiera. - V. L’Idea e l’Essere di Dio.
GIOVANNI JALLA, Storia della Riforma in Piemonte fino alla morte di Emanuele Filiberto (1517-1580). Firenze, Libr. Claudiana. 1914- Grosso volume di pag. 400, con 19 illustrazioni fuori testo. Prezzo L. 5.
Sommario: I. Che cosa s’intenda sotto il nome di Piemonte in relazione colla storia della Riforma. — II. Stato morale e religioso del Piemonte nel principio del xvi secolo. — III. Cause che favorirono l’introduzione della Riforma in Piemonte. — IV. La Riforma in Piemonte e nel Marchesato di Saluzzo fino all’occupazione francese (1517-1536). — V. La Riforma in Piemonte al tempo della dominazione francese fino alla morte di Francesco I (1536-1547). — VI. La Riforma in Piemonte durante il Regno di Enrico 11(1547-1559)-— VII. Emanuele Filiberto rioccupa i suoi Stati e tenta estirpare la Riforma (1559-1560). — Vili. La guerra del conte della Trinità e la pace di Cavour (1560-1561). — IX. La Riforma nelle Valli delfinesi cisalpine e le loro relazioni col Piemonte prima delle guerre civili di Francia (1561-1562). — X. Le guerre di
religione nelle Alpi e la repressione della Riforma in Piemonte fino all’estinzione delle Chiese della pianura (1562-1567) — XI. La Riforma in Piemonte e le guerre di religione nelle Alpi fino alla pace di S. Germano (1567-»570). — XII. La Riforma in Piemonte dalia pace di S. Germano alla restituzione di Pine-rolo e Savigliano (1570-1574)- —XIII. La morte della duchessa Margherita. La Riforma in Piemonte negli ultimi anni del regno di Emanuele Filiberto (1574-1580).
CAMILLO TRI VERO, Nuova critica della Morale Kantiana in relazione colla teoria dei bisogni. Torino, Bocca, 1914. Pag. 308. Prezzo L. 8.
Sommario: Parte prima. La Morale pura. — Esame della « Fondazione della metafisica dei costumi» (La buona volontà. Il dovere. La legge. Definizioni. L’Imperativo. I fini. L'Autonomia e la Libertà). Esame della « Critica della Ragion pratica » (Dei principii della Ragion pura pratica. Del concetto di un oggetto della Ragion pura pratica. Dei moventi della Ragion pura pratica. Di una dialettica delia Ragion pura pratica in genere. Della dialettica della Ragion pura pratica nella determinazione del sommo bene. Dottrina dei metodo della Ragion pura pratica).
Parte seconda. La Morale applicata. — Dei fini-doveri. Della corrispondenza fra dovere e diritto. La perfezione propria e la felicità altrui. Digressione sul concetto del Bene. Del dovere di amare. Il principio aristotelico del giusto mezzo. Dei doveri verso se stesso in genere. Il dovere dell’uomo verso se stesso, considerato unicamente come essere morale. Dei doveri verso gli altri uomini. Della metodologia etica. Conclusione di E. Kant. Epilogo dell’Autore.
70
304
BI LYCHNIS
E. P. LAMANNA, La religione nella vita dello spirito, Firenze, La Cultura Filosofica Ed., 1914. Voi, di pag. 500. L. 7-Sommario: Parte prima. I Metodi. — Lo apriorismo teologistico. L’apriorismo razionalistico (Kant-Fries, Hegel-Feuerbach, Schleier-macher). L’osservazione storica (Scuola filologica, scuola antropologica, scuola sociologica). L’osservazione psicologica. Conclusione: La scienza• della religione (Il problema dell’essenza della religione. Il problema della verità immanente. Il problema della verità trascendente della religione).
Parte seconda. Le dottrine. — La religiosità come prodotto della funzione conoscitiva (Correnti d’ispirazione idealistica: Hegel-Caird, Vacherot, Spir. Correnti d’ispirazione naturalistica : Gratry, Max Müller, Wundt, Spencer). La religiosità come prodotto della funzione pratica (Correnti d’ispirazione idealistica: Kant, Ritschl, Herrmann, Hbflding, Tolstoi, Cohen). Correnti d'ispirazione positivistico-utilitaristica: Comte, Durkheim, Feuerbach, Nietzsche). La religiosità come prodotto della funzione contemplativa (Correnti d’ispirazione, idealistica: Friei, Schleiermacher, Schopenhauer, Hartmann, Guyau).
Parte Tersa. Lo psicologismo. — Caratteri e genesi dello psicologismo religioso. Dottrine psicologistiche di tendenza idealistica (Neumann, Ollè-Laprune, Blondel, Laberthon-nière, Le Roy). Dottrine psicologistiche di tendenza empirica (James).
Conclusione. La religione nella vita dello spirito. — Il tratto caratteristico del; l’atteggiamento religioso — Inammissibilità della specificità d’organo sostenuta dalle dottrine psicologistiche — Inammissibilità delle dottrine che riducono la religiosità a una data funzione psichica con esclusione delle altre ; caratteri che distinguono là religione dagli altri prodotti della vita spirituale — La religione come sintesi delle tre funzioni fondamentali dello spirito: carattere ontologico di essa.
EDUARDO TAGLIALATELA, La poesia di Rabindranath Tagore. Roma, 1914. Pagine 74. L. 1.
Interessantissimo saggio sull’opera del poeta idealista indiano cui fu conferito l’anno scorso il premio Nobel per la letteratura.
ARNALDO CERVESATO, Formazioni, Bari, Casa Ed. «Humanitas», 1914. Volume di pag. 260. Prezzo L. 3.
Sommario: Lettera dedicatoria. Prefazione. Mazzini e noi. Dal vecchio al nuovo idealismo. Un programma. Una missione dell’ Italia. Il « Nuovo Pensiero» americano. Edoardo Schurè e l’idealismo esoterico. Il modernismo di Giorgio Tyrrel. Maeterlinck e l’idea mistica. Il sentimento religioso di Tolstoi e Fogazzaro. La fede del Pascoli e di Arturo Graf. Perchè Carducci fu anticristiano. Commiato.
MARIO MISSIROLI. La Monarchia Socialista - Estrema dèstra, Bari, Laterza, 1914. Pag. 225. L. 3.
Indice: Pregiudiziale. — L II federalismo di Ferrari. — IL II dissidio di Mazzini. — III. I sottintesi clericali di Cavour. — IV. La intolleranza. — V. Il pensiero della Destra. — VI. La monarchia a Roma. — VII. La tragedia della Destra. — Vili. La controrivoluzione. — IX. Il socialismo monarchico. -X. Dittatura. — XI. Luigi Filippo. — XII. Liberisti e cattolici. — XIII. C’è un maestro infallibile.
Estrema Destra. 11 discorso del conte Della Torre. — I cattolici contro il Papa. — Cattolici bifronti. — Nazionalismo liberale. — La Massoneria. — Nota bibliografica.
A. HOFFMANN, Il libro de le madri (Versione italiana di Maria Gandolfo). Padova, Società editrice «In cammino», 1913. Elegantissimo volume di pag. 180. Prezzo L. 3. Sommario: Introduzione. Le basi dell’edificio. Eredità buone. Tu e il tuo bambino. Hai saputo amarlo. Non bisogna ferirlo. Non trattarlo duramente. Sopportarlo. Circondarlo d’amore. Renderlo felice. Il riso e la giocondità. Il tuo dolore, il tuo trionfo. Pazienza. Quando i fanciulli ci giudicano. Il rispetto nella famiglia. Confidenza. I perchè dei nostri bambini. La missione de le bambole. Tatto e cortesia. L’obbedienza. Punizioni. La verità. Educazione della volontà. Formazione dell’intelligenza. Vita scolastica. Angoscie di scolaro. Le abitudini. L’equilibrio in educazione. L’educazione sociale. Solidarietà. Semina e raccolto. Fratelli e sorelle — i ritardatari. Grandi e piccini. Tuo figlio. Crisi giovanile. La scelta della vocazione. Le nostre figliole. Figlioli e figliole. L’educazione de la purezza. Appendice e ricapitolazione.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell'Unione Editrice, via Federico Ceri, 45
72
Prezzo del fascicolo Lire 1 —