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RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV :: Fasc. I. GENNAIO 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 15 GENNAIO - 1915
DAL SOMMARIO: Mario Falchi: Confessioni. — GIOVANNI PIOLI: Riccardo Cobden, l'Italia e Pio IX. — G. C. MEILLE: Un vescovo socialista - F. S. Spalding. — ANTONINO De STEFANO: Saggio Sull'Eresia Medievale nei secoli XII e XIII. —• ARTURO PASCAL: Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes. — C. WAGNER: Sii un uomo! — E. RUTILI: Vitalità e vita nel cattolicismo (Cronache). — Tra LIBRI E RIVISTE : Saggi critici commodiani (C. Vitanza) — La Scienza e la magia (E. Rutili) — La crisi del pensiero nella cultura contemporanea (F. Rubbiani) — Intorno alla conversione della famiglia Manzoni (P. Chiminelli), ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo #
------- Via Crescenzio, 2 - ROMA —
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per 1‘Estero ------- Via del Babuino, 107 - ROMA —
AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per l'Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
# Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine. fi
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IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ •FIDES ET AMOR» EDITRICE Amministrazione: Via S. Caterina, 14 . MCMX1V
Prossimamente verrà messa in vendita in tutta Italia la ristampa di questa traduzione del N. T. che nella sua prima edizione del 191'1 s’ebbe si lusinghiera accoglienza dà tante persone riconoscenti e bene auguranti : Antonio Fogazzaro, Pietro Ragnisco, Pàolo Orano, Enrico Caporali, Baldassare Labanra, Luigi Ambrosi, Giacomo Puccini, Alessandro Chiappelli, Guido Mazzoni, Pio Rajna, Paul Sabatier, Nicola Festa....
Questa nuova edizione, segna un progresso notevole : è stata accuratamente riveduta e qua e là ritoccata e corretta ; stampata presso la Tipografia « L’Arte della Stampa » in nitido elzevir. riesce molto simpatica all’occhio, grazie anche all’artistica copertina.
Sebbene conti oltre 660 pagine, non è voluminosa, essendo tirata su carta finissima.
Il bel volume si venderà a L. 1.50; ma gli abbonati a “ Bilychnis „ potranno averlo Inviando UNA LIRA alla nostra Amministrazione insième con Firn orto dell’abbonamento.
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RIVISlÀDI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELi* 5CVOLATEOLOGICA BATTISTA • DI ROMA
SOMMARIO:
Mario Falchi: Confessioni [li] ............. pag. 5
Giovanni Pioli: Riccardo Cobden, l’Italia e Pio IX...... > 11
G. E. Meille: Un vescovo socialista - F. S. Spalding . . . . . > 19
Antonino De Stefano: Saggio sull’eresia medievale nei secoli xil
e XIH - Il contenuto sociale delle Eresie popolari . . . »24
Arturo Pascal: Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes (II. Le opere) » 48
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
C. Wagner: Sii un uomo!................................................ » 52
CRONACHE:
Ernesto Rutili: Vitalità e vita nel Cattolìcismo [VI] . . . . . » 58
TRA LIBRI E RIVISTE:
C. Vitanza : Saggi critici commodiani ............... » 65
G. E. M. : Introduzione all’Antico Testamento ............ » 67
E. Rutili : La scienza e la magia...................................... » 68
F. R. : La crisi del pensiero nella cultura contemporanea ........ » 72
F. R. : Nazionalismo e cosmopolitismo nell’etica dei Soloviev ...... t- » 73
P. G. : Le idee sociali del Tommaseo ............. • ■ » 74
P. Ciiiminblli : Intorno alla conversione della famiglia Manzoni...... » 75
F. Rubbiani : Una pàgina della stòria temporale dei Papi ........ » 77
P. C. : Epitteto............................. . . . » 7
ILLUSTRAZIONI:
Ritratto di Riccardo Cobden. Tavola tra le pagine io e ix.
Ritratto del vescovo F. S. Spalding. Tavola tra le pagine x8 e 19.
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“BILYCHNIS” E LA GUERRA
Bilychnis — che continuerà ad uscire regolarmente nel 1915, qualunque siano gli avvenimenti — intende occuparsi della Guerra.
I. La Religione e la Guerra.
II. Quale è Patteggiamento dei cristiani dei vari paesi di fronte all’attuale guerra?
III. Che cosa si dice nel mondo dell’avvenire del Cristianesimo in relazione con questa guerra?
Pubblicheremo nel corpo della Rivista in esteso o largamente riassunti gli studi più importanti che intorno a questi soggètti troveremo in giornali, riviste, opuscoli e libri editi nei paesi belligeranti.
Sugli stessi argomenti i lettori troveranno in Bilychnis pensieri ed articoli originali della Redazione e di nostri Collaboratori italiani.
Completeremo questo speciale servizio, dando in ogni fascicolo parecchie pagine in cui raccoglieremo obbiettivamente tutto il materiale più minuto (notizie, voci e documenti) desunti dalla stampa religiosa francese, inglese e tedesca.
Con questo non intendiamo di abbandonare per ora lo svolgimento del nostro programma in favore della diffusione della coltura religiosa in Italia. Anzi intendiamo fare meglio al riguardo, attuando con fermo proposito e diligente lavoro tutte le nostre promesse vecchie e recenti : pubblicheremo Studi originali italiani, accurate relazioni sui più importanti movimenti contemporanei nel campo della religione, fresche ed ampie notizie delle ricerche e dei risultati ottenuti nella Critica Biblica, nella Storia del Cristianesimo e Storia delle Religioni; conserveremo le pagine Per la cultura dell'anima (così gradite a tanti nostri lettori) e continueremo ad alimentare le altre rubriche fisse.
Con speciale attenzione seguiremo quanto avviene nel mondo Cattolico e ne informeremo i lettori con brevi Cronache mensili.
Quanto varrà a render la Rivista sempre più utile, più interessante e più cara ai suoi numerosi amici ed a conservarle il posto che si è guadagnato nella considerazione del pubblico in Italia e all'Estero, sarà da noi con ogni cura studiato ed attuato.
L’abbonamento per tutto il 1915 è di L. 5 (Italia) e L. 8 (Estero).
Tutti pagano il loro abbonamento, anche i nostri collaboratori.
AMICI! riabbonatevi e trovateci nuovi abbonati;
Con questo fascicolo si inizia il voi. V che comprenderà il 1° semestre 1915 (fascicoli I-VI).
Il ritardo con cui esce questo fascicolo è dovuto al fatto che siamo stati sui luoghi devastati dal terremoto e, tornati a casa, non abbiamo potuto riprendere subito il lavoro perchè malati.
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Caro Paschetto,
Se non fosse così dolorosa e solenne la materia sulla quale mi interpelli, sarei lusingato e commosso della lettera aperta che mi rivolgi, come quella che mi fa oggetto di una stima, da parte dei cari amici e compagni che scrivono su « Bilychnis », ch’io non sapevo di godere.
Ma la materia è dolorosa, solenne e grave; e la tua lettera, caro Paschetto, mi rende, trepido e mi preoccupa; non tanto per le cose che sento di dovere rispondere, quanto pel senso di responsabilità che essa eccita in me.
Mi chiedi una confessione?
Non ho difficoltà alcuna ad esporti l'animo mio in presenza della ipotesi mostruosa di ieri diventata la spaventosa realtà di oggi; anzi procurerò di lasciare affatto da parte — mi auguro di riuscirvi, quantunque non sia facile eliminare da quel che diciamo gli schemi logici cui si è un po’ tutti abituati — di lasciare da parte i ragionamenti per sforzarmi solo di esprimere i sentimenti dell’animo, quali credo di poterli leggere in un esame introspettivo, che è un dovere dopo il tuo appello, ma è al tempo stesso una specie di sollièvo per me.
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Turbato? Sconvolto?
Certo che lo sono; come uomo e come cristiano, Io sono, fin da quegli ultimi giorni di luglio scorso nei quali apparve evidente che la cosa spaventosa, contro la quale da anni lottava la gente di cuore, e contro la quale avevo portato anch’io là mia piccola e poco valida attività, la cosa spaventosa e piena di orrore e di pietà stava avvicinandosi, era qui! Il turbamento non viene da ciò ch’io veda ottenebrato quello che ritengo il mio dovere cristiano di fronte alla guerra, di fronte a questa guerra, di fronte alla fase di essa che può essere la fase di domani, cioè la guerra, oltre che degli altri Stati, anche dello Stato d’Italia — dico, il mio. perchè non oso tracciare linea di condotta a nessuno; ognuno che vuole sforzarsi di seguire Cristo esamini e giudichi nella sua coscienza secondo la luce che ha (i) —; no, quel mio dovere non è eclissato; lo discerno chiaro nella piena e completa portata che il Cristo ha dato al nuovo comandaménto, in antagonismo coll’antico spirito di violenza, che l’attuale guerra rievoca per intero, riproclama e rimette in onore.
Il mio turbamento è complesso, ma non è d’ordine ideologico; esso è anzitutto turbamento di sensibilità.
Ad un caro comune amico, che mi parlava di ciò, scrivevo in settembre scorso, e non era esagerazione, che a momenti, pensando alla immensità del dolore fisico e morale prodotto dall’attuale conflitto, allo sconvolgimento completo di ogni concetto di rispetto della personalità umana, alle manifestazioni di odio che si producevano e si preparavano, mi trovavo a desiderare di essere già fuori di questa vita. Non posso non risentire la ripercussione di questa acuta e generale sofferenza di milioni e milioni di miei fratelli di ognuno degli Stati in lotta; e se anche dovessi essere persuaso che dopo la vertigine verrà la saviezza, e che la discesa in questo baratro infernale era necessaria per potere risalire dopo alla luce di un sole di pace e di giustizia tra i popoli, non risentirei meno l’onda riflessa dell’angoscia di quelli il cui martirio dovremmo ritenere essere stato l’ostia necessaria affinchè noi ed i nostri figli godessimo in pace i beni di una società fatta savia.
— Il mio turbamento è dovuto inoltre ad un rimorso per la mia parte di responsabilità come membro della grande collettività che è la chiesa' cristiana. — C’è un
(t) La parentesi non è sufficiente ad esprimere le idee che qui si incuneano nella esposizione di quel che sento, e però aggiungo qui in nota poche altre cose.
Ho detto « il mio •, non per prepararmi un alibi di responsabilità per chi volesse trarre illazioni poco benevole al mio riguardo quando io dicessi agli altri cristiani « dovete anche voi sentire così! »; tu, caro Pascnetto, mi conosci e sai che alle responsabilità vado incontro, se fa d’uopo, con amara fermezza, ma con fermezza.
Dico mio, perchè nell’ora grave della storia della umanità in cui siamo mi sembrerebbe orgoglio temerario volere dettare una norma di condotta collettiva che vada fino alle estreme conseguenze, e mi sembra doveroso arrestarmi ad un « questo penso io », aggiungo però. « ora credo d’avere anch’io lo Spirito di Dio
Dico « mio » inoltre perchè non sto qui discutendo idee, sto palesando quel che sento e come lo sento, e perciò mi affretto anche ad aggiungere che, in questo momento almeno e su tale »oggetto, i sentimenti personali non debbono essere oggetto di polemica e una polemica su essi la riterrei fuori di luogo. Ognuno che legge ritenga quel che crede buono, e lasci quello che trova meno buono a suo giudizio.
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episodio della storia dell’antica chiesa cristiana che la critica mette in dubbio, ma che ad ogni modo, almeno come simbolo, è ben forte ed eloquente per la dimostrazióne di coerenza e di fedeltà cristiana che esso ne porge; esso è l'episodio dell’eremita Telemaco o Almachio, che nel Colosseo sacrifica sè stesso, ma colla sua protesta mette fine alle lotte dei gladiatori.
Il mio turbamento è di partecipazione a responsabilità per questo che la chiesa cristiana non fu Telemaco: e se mai nella storia ci fu un’ora in cui la chiesa cristiana doveva essere Telemaco, doveva incontrare la persecuzione e la morte ma essere fra i contendenti, questa che noi viviamo era quell’ora!
Fremiti di eroismo guerriero scuotono il nostro sistema nervoso; impeti ed impulsi di azioni violente, ma generose, che una meta di giustizia politica e sociale sembra nobilitare e coronare di gloria, investono il nostro cuore, — sì, anche il mio, o caro Paschetto! —; ma l’eroismo della chiesa cristiana, che già fu il più bello ed il più santo perchè si volgeva a tutta l’umanità sofferente e colpevole, l'eroismo della chiesa sembra spento; ucciso dal timore del soldato cristiano di agire costantemente in base al sentimento della responsabilità sua personale e piena per ogni atto che compirà, ucciso dal timore del predicatore e del fedele di apparire probabilmente — che dico? — di apparire certamente non patriotta — nel senso che i più danno a questa qualifica — se testimonia del pensiero completo di Cristo; ucciso dal timore di trovarci in urto aperto col potere politico ed esserne perseguitati, quando si testifichi che l’ideale cristiano è condanna netta e precisa di tanti e tanti dei principi in base ai quali si svolge la vita politica e sociale dello Stato moderno.
— Il mio turbamento è dovuto ancora a questo, al fatto delle ragioni morali Con cui molti si acquetano ad accettare la guerra in questa occasione!
« Per l’ultima volta — dicono non pochi a sè stessi —, come mezzo infine per « fare regnare la pace colla giustizia! »
Ahimè! Napoleone, nell’ùltimo periodo del suo impero, allargava sempre più la lotta giustificandosi collo stesso ragionamento!
Ahimè! alla Convenzione si chiedevano a certi momenti le ultime carrettate di condannati per finire appunto l'èra delle stragi!
— Si pensa anche che l’allargare la guerra, il lanciare ancora noi stessi sui campi sanguinosi, può essere giustificabile, se... se il fare questo mette fine più presto allo spaventoso incubo di dolori e di lacrime che ci ossessiona. E la ragione è seducente; se non che essa è tutta fondata su un « se ».
E se l’allargarsi ancora del conflitto non volesse punto dire mettere un fine più rapido all’orribile cosa? Se per circostanze possibili, che forse si possono anche già prevedere col pensiero, o che pure sono affatto imprevedibili — i tempi che viviamo sono fatti per farci realizzare l’imprevedibile— se non si facesse che allargare il campo delle sofferenze e dell'angoscia?
Oh! sento tutto quel che c’è di grave, di sincero e di generoso in queste perplessità e in questi contrasti di ordine morale da cui molti sono travagliati e per le quali mettono per un po’ da parte l’avversione alla guerra! Formolando qualcuna delle obbiezioni che il mio spirito solleva contro di esse, non posso disconoscere il valore di esse;
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Sento anche— in minor grado però— la preoccupazione e l’ansia di quelli che, identificando l’allargamento di confini territoriali d’Italia, fino a comprendere tutti i popoli della nostra parlata, identificandolo con una ragione di giustizia pura, e vedendo la possibilità di un arraffare di altri in un catastrofico sommovimento, abbandonano le posizioni di attaccamento alla pace fin qui tenute e dicono a sè stessi, « ebbene, per stavolta, per l’ultima volta, vada; e sia la guerra! »
Tutto questo sento, e non mi azzardo a pronunciare giudici in merito; pure davanti alla mia coscienza, per me, quello che giudico essere il pensiero, e che credo sarebbe l’azione del Cristo, ha più peso di tutto ciò, che pure mi fa correre rapido il sangue nelle vene — non esito a dirtelo, caro Paschetto — e che a momenti sembrerebbe voler prendere il sopravvento sulla luce della coscienza.
Per me sento che quello là ha più peso di tutte le ragioni le quali sembrano stavolta assolvere il male che è la guerra.
Perchè essa è bene il male — o noi non sappiamo più che cosa voglia dire, male in tutti i sensi!
Ora il male può tutt’al più essere qualche cosa non ostante il quale si giunge alla soluzione di uno Stato di cose, ma il male non è mai una soluzione.
Il male sotto l’aspetto fisico del dolore può apparire soluzione in una malattia quando si asporta il guasto dell’organismo; ma il male in tutte le sue più spaventevoli manifestazioni fisiche e morali, il male completo che è la guerra non è, protestiamolo con tutta l’energia possibile, non è l’asportazione del guasto dall’organismo sociale.
Se prospettiamo l’umanità come un essere organico, la guerra nella storia di essa, non è il colpo di bisturi nell’ascesso purulento formatosi nell'organismo, è il colpo di coltello che il forsennato vibra su sè stesso martoriandosi sotto l’impero di allucinazioni che gli turbano la. mente.
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— Caro Paschetto, è l'ora in cui dobbiamo riguardare alla possibilità delle cose che sembrano più fuori della possibilità immediata. Tutti dobbiamo riguardarci, tutti! Mi pare che il re deve avere pensato alla possibilità che in qualche cataclisma ignoto del domani vada travolto il trono; mi pare che l’uomo politico italiano deve avere considerato come uno degli eventi possibili dell'avvenire lo smembramento dello Stato italiano; mi pare che chi vive di una vita queta ed agiata col reddito di fondi pubblici e privati o col frutto di oneste industrie deve avere intuito la possibile svalutazione di tutto ciò; mi pare che chi ha case e terre debba avere pensato l’eventualità di vedersele devastate e violentemente tolte; mi pare che chi serve amministrazioni pubbliche o private, come te e me, deve avere prospettato il caso di uno sconvolgimento di esse da capo a fondo sì da distruggere dall’oggi al domani ogni posizione per quanto modesta.
Mi pare insomma che gli eventi cui assistiamo debbono farci considerare come possibilità prossime le possibilità estreme, debbono togliere la sicurezza di tutto quello Che teoricamente, certo, sapevamo essere non sicuro, ma che pure eravamo abituati a considerare relativamente sicuro. E nota che in quanto ho detto ho ancora
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taciuto le possibilità più tragiche, che le centinaia di migliaia di morti dei campi di battàglia di questa misera Europa tolgono dagli orizzonti prospettati in lontananza per farceli toccare con mano.
A chi dicesse che i tocchi del quadro delle possibilità sono esagerate, risponderei con una sola parola, « Belgio! ».
Ora questo fatto, così grande e solenne, — perchè è grande e solenne il fatto di avere ad un determinato istante la percezione che anche la sicurezza relativa può mancare da ogni parte — questo fatto coopera a pormi di fronte il dovere mio individuale verso Cristo, se ho, come credo di avere, il sentimento deciso e fermo di volere a Lui affidato lo spirito mio per questa vita e per l’eternità.
Ora egli npn parla all’entità patria, o nazione o Stato, che è creazione storica relativa, cui aderisco e dò la cooperazione della mia attività a patto soltanto che l’entità stessa non soffochi la mia personalità morale e spirituale.
Egli parla a me come individuo; se accetto la parola e l’esempio suoi. Egli è l’imperativo categorico della mia vita; ed io mi sforzo di essere prima cristiano poi italiano; e ciò sento di doverlo fare sempre, dovunque ed a qualunque costo.
E però, non ostante il turbamento complesso che ho cercato di descriverti.ri-mango fermo a quello che credo il mio dovere cristiano, dovere di non adesione ad alcuna fase di guerra, dovere di pace.
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— Nell’ora in cui ha fatto naufragio l'azione collettiva della chiesa cristiana e quella dei partiti politici e sociali, nell’ora in cui venne meno il valore di ogni principio etico e di diritto, di Ogni forinola filosofica, in cui apparve nullo il valore morale del progresso scientifico, procuro che non vadano eclissati alla mia visione quelli che sono i lineamenti più divini della figura del Cristo, e fra essi è quello che scorgo attraverso alle sue parole, « amate i vostri nemici! ».
Dei Valdesi lontani me le segnalano da Ginevra stampate su una cartolina che viene diffusa in Svizzera come, « motto pour 1915 », e il mio pensiero ricorre a quanto scrivono dei giovani « Unionisti » che sono alle trincee in Francia, o al confine svizzero. Uno di essi, ufficiale elvetico che comanda una batteria da montagna, scrive dalla frontiera presso Basilea:
« Quelle triste réalité de se voir obligé à considérer comme but un travail si contraire à l’idéal dont on a l’esprit et le cœur tout plein, tandis que la conscience et le cœur vous crient sans cesse que la seule vie utile est la vie consacrée aux autres; à l’heure où il faudrait pouvoir se donner avec toute sa force physique et spirituelle au travail pour les malheureuses victimes de tant d’indignité, qu'il est dur de devoir concentrer ses forces à une besogne qui, sans être inutile, est si peu chrétienne et si peu digne de notre'enthousiasme de jeune disciple du Maître! ».
Un altro, un francese questo, un umile operaio, soldato del genio, dal campo presso Belfort, scrive: « Te donner des impressions? on éprouvé comme une joie de tirer, qui est vivement évanouie lorsque les yeux constatent les résultats et que la conscience parle. Mon cœur aspire au jour où cesseront toutes ces turpitudes que la
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Croix surmonte bien au dessus, d’un autre message... Dites aux amis que nous restons disciples de celui qui nous a appris à aimer. Tout cela ne fait que me rendre plus pacifiste que jamais ».
* * *
— C’è nel linguaggio militare una frase che corrisponde ad una esatta e savia osservazione psicologica.
Ai soldati che in una marcia, quando il sole rende stenuati e congestionati o la pioggia abbatte ed intirizzisce, tendono a rimanere indietro ed a distanziare chi guida la colonna, si dà l’incitamento, « conservate il contatto! », perchè si sa quanto rapidamente ogni energia vien meno se il contatto è perduto, e come lo smarrimento segua ben presto. Credo che per chi sente essere il Vangelo la forza della vita morale e spirituale una cosa sia ora dà fare in modo specialissimo, « conservare il contatto col Cristo! ».
Quanto a me, caro Pacchetto, cerco di farlo; e perciò, in quest’ora, come l’operaio di Belfort, «/e reste plus pacifiste que jamais! ».
Con affètto, tuo
Mario Falchi.
Torre Pellice, Gennaio 1915Per non ritardare più oltre l'uscita di questo numero abbiamo rimandato alrprossimo fascicolo molto interessante materiale già composto riguardante 1‘ atteggiaménto dei Cristiani di fronte alla guerra.
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RICCARDO COBDEN
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RICCARDO COBDEN, L’ITALIA E PIO IX«
el terzo volume delle « Lettere della Regina Vittoria d’Inghilterra » trovo una lettera assai curiosa, se non proprio interessante, in cui il sig. Odo Russell, « Agente ufficioso di Sua Maestà Britannica», riferisce una conversazione tenuta con Pio IX il 17 luglio 1859. « Poveri noi ! » — aveva cominciato col dirgli il « Santo Padre »; — « Con vostro zio e con Lord Palmerston alla testa degli affari in Inghilterra !... ». E aveva seguitato a sbottonarsi confidenzialmente: « Voi vi credete, che, perchè la
Costituzione si adatta a voi Inglesi, stia bene a tutte le nazioni! Ma voi non conoscete che razza di malcontenti, impiccioni, turbulenti e intriganti sono quest’Italiani: teste calde che non sanno neppur loro quel che vogliono. E quel vostro Lord Granville
(•) Richard Cobden (1804-1865) è uno splendido tipo di self-mate man; non solo nel campo intellettuale, ma ancora in quello morale.
Entrato a sedici anni, dopo modesti studi nel nativo Midhurst nel Sussex, nello stabilimento di un suo zio in Londra, non solo riusciva prima di trent’anni a divenire direttore comproprietario di una delle prime case manifatturiere di Manchester, ma nel frattempo completava la sua coltura con un’assidua lettura, specialmente nel gran libro della natura umana, della vita, della grande politica e della sociologia intuitiva, e nel 1835 pubblicava anonima una serie di lettere sull’.'Inghilterra, ¡'Irlanda, l'America». Nel 1836, nel suo «Russia», combattè là Russofobia del suo tempo, preludendo alla sua campagna contro la guerra di Crimea.
Dopo avere nel 1836-37 visitato, —- cioè studiato profondamente, — la Spagna, l’Egitto, la Turchia (e sarebbe sommamente interessante leggere nel suo diario i limpidi giudizi, e le previsioni che noi oggi vediamo avverarsi), tornato in Manchester fondò la ■ Anti Corn-Law Association » per combattere il sistema protezionista, che, impedendo all’America di esportare in Inghilterra i suoi prodotti, negava anche ad essa i mezzi di acquistare dall’Inghilterra i manufatti di questa. La campagna anti-protezionista, che sviluppò in una lotta epica, gigantesca, costata milioni e tutte le energie di Cobden e dei suoi valorosi collaboratori, terminò nel 1845 con uno splendido trionfo. Rinunciando all’idea di un periodo di riposo, Cobden percorse nel 1846 il resto dell’Europa non visitato dieci anni prima, per far divampare dappertutto la fiamma della grande riforma. Al suo ritorno in Inghilterra, si consacrò al complemento logico dell’idea del « libero scambio », facendosi apostolo delle idee di pace internazionale e della riduzione degli armamenti, avendo compagno, inseparabile e valoroso il « Quaker » John Bright. L’aborrimento per la guerra era in lui una passione sì viva, che gli fece sfidare, non solo la taccia di utopista al Parlamento inglese, ove propose l’istituzione di un tribunale internazionale di arbitrato (1849) e la riduzione generale degli armamenti (1851), ma anche l’impopolarità e le grida di <: nemico della patria ».opponendosi nel 1853 alla guerra di Crimea, e poi alla spedizione contro la Cina. Nella Russia, egli vide fin ¿¡'allora la liberatrice degli Stati Balcanici
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che va a fare certi discorsi (al Parlamento inglese) a nostro riguardo, dopo essere stato trattato a Roma così ospitalmente!... Si vede bene che la gotta che aveva già ai piedi, quando era in Roma, gli deve esser salita alla testa... » E qui se la prese bonariamente con un’altra mezza dozzina di diplomatici inglesi, e arrivò a Riccardo Cobden, l’apostolo del « libero scambio », che dodici anni prima, in un viaggio internazionale di cui sei mesi spese in Italia, aveva in Roma fatto visita al neo-eletto Pontefice.
« Conobbi il sig. Cobden nel 1847: egli è sempre in favore della pace, e deve essere assai affezionato agli animali, perchè quando arrivò qui dalla Spagna, voleva che scrivessi a quella nazione acciò la facciano finita con la giostra dei tori: è proprio una brava persona, ma non conosco le sue idee relative all’Italia ».
Ciò che Pio IX non conosceva, però, lo conosciamo noi ora grazie ai « Ricordi » della signorina Schwabe che accompagnò nel viaggio il Cobden e la sua moglie, e grazie al voluminoso giornale, in cui Cobden stesso pubblicò quelle impressioni e quei giudizi sereni e acuti, che si era guardato prudentemente dall’esprimere con gli uomini politici con cui era venuto in contatto, per non pregiudicare lo scopo economico-sociale della sua magnifica tournée, che era di far la réclame al « libero
dal giogo della Turchia — « l’unica nazione non suscettibile di progresso in Europa », e protestò contro il falso allarme del < pericolo Russo ». Ed egli ebbe la sua ora di rivincita, e potè per undici anni ancora consacrare le sue enormi energie e la sua fama europea al servigio dei suoi ideali, che si potrebbero tutti riassumere nel: « pace alla terra e buon volere fra gli uomini », sentito e vissuto da un economista, sociologo e politico, del secolo xix. L'ultimo suo discorso a Rochdale e un incauto sforzo che spezzò la sua nobile vita, furono un tributo estremo alla causa della pace, minacciata da nuove proposte di armamenti.
Egli fu per l’Inghilterra, e partendo dallo studio del fenomeno industriale, ciò che Federico I.e Play fu per la Francia, e pel mondo agricolo.
L’amore di R. Cobden per l’Italia si sviluppò nelle tre sue illustri figlie, in un vivo interesse per il movimento di riforma religiosa e morale ivi operato negli ultimi anni, 'ed in modo speciale per il « Modernismo », e per il Clero che, entro o fuori dei quadri gerarchici, lo promosse e ne fu vittima. Particolarmente benemerita di questa causa fu la signora Me licent Cobden, la più giovane di esse, che in più modi efficacemente si adoperò per sostenere moralmente e materialmente i promotori e le vittime di un risorgimento spirituale in Italia, coi quali, nei suoi viaggi, venne personalmente in contatto. Di attuare più largamente i suoi piani benefici, specie a pro del clero perseguitato, non le fu dato: essa venne recentemente tolta alle sorelle e agli amici, che in lei vedevano una delle più alte personificazioni della bontà.
Del Cobden essa mi diceva:
« Mio padre, senza mai occuparsi di proposito di controversia religiosa, e rispettando e venerando il senso religioso qualunque forma esso assumesse fra i diversi popoli e spiriti, e pur appartenendo, per nascita, alla Chiesa inglese, naturalmente fu sempre portato verso tendenze liberali e umanitarie. La religione che a noi, bambini, insegnò, fu solo quella di una grande compassione e tenerezza per tutti i sofferenti, di un amore sconfinato per tutti gli esseri viventi, di una bontà, non astratta ma concreta, a favore d’individui e di bisogni pratici e attuali. Gli interessi svariati a cause sociali, umanitarie, filantropiche e filosofiche, a cui le sue figlie si sono consacrate, si svilupparono dai pochi semplici accenti, avvivati dalle sue costanti maniere soavissime e dagli esempi di squisita bontà, di cui la tirannia della vita pubblica gli permise di infiorare e profumare la nostra adolescenza ».
G. P.
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RICCARDO COBDEN, L* ITALIA E PIO IX 1$
scambio». E per quanto Pio IX, non ci sia più a togliersi la curiosità, spero che a qualcun altro interesserà di sapere qualche cosa delle impressioni di viaggio di questo grande economista, che oggi, grazie all’on. Giretti, torna ad essere uno dei Santi la cui protezione è invocata anche in Italia.
II viaggio di Cobden nel 1846-47 ebbe tutto il valore di un sintomo: l’accoglienza favorevole e spesso entusiasta che ricevette in tante nazioni politicamente anche allora sì ostili: Francia, Spagna, Germania, Russia, Italia, e negli Stati diversi, mostrò come fosse possibile un internazionalismo d’interessi economici e sociali, al di fuori e al di sopra di animosità politiche e religiose.
Richard Cobden aveva da prima progettato di prendersi un periodo di riposo assoluto, dopo l'esaurimento prodotto dalla recente aspra lotta coronata da vittoria: e di ritirarsi per un anno in Italia o in Egitto nel silenzio e nella quiete. Ma all’ultimo momento cambiò piano, e propose invece di fare un giro di propaganda, per evangelizzare le nazioni e convertirle al libero scambio. E se non riuscì a convertire, potè seminare idee che più tardi fruttarono, in interviste con quattro sovrani, col papa, con ambasciatori, e con tutti gli uomini di Stato più eminenti di Europa; in discorsi pronunziati a ricevimenti e banchetti dati in suo onore e, in tutto il suo viaggio trionfale di 14 mesi. A Parigi, ciò che piò lo'colpì fu la « diffidenza di Luigi Filippo verso la natura umana, e il suo disprezzo per il popolo da cui e per cui professava di aver ricevuto la sovranità »: e la sorpresa si spiega tanto più in lui, che molti anni dopo esclamava: « Quanto più vado avanti negli anni, tanto più credo nella sincerità umana». A Madrid, il suo disgusto per la selvaggia giostra dei tori si accrebbe nel vedere che (’Arcivescovo e Primate cattolico la presenziava e che tali sanguinosi spettacoli si mescolavano anche a feste religiose.
Giunse a Genova il 13 gennaio ’47, e fu visitato dal Marchese d'Azeglio, « un Piemontese che ha scritto poesie, romanzi, opere politiche, e si diletta anche di pittura: un amabile e intelligènte gentiluomo, che mostra di avere delle idee ragionevoli sul progresso morale della sua nazione... e che è stato espulso da Roma e poi dalla Lombardia e da Firenze a causa dei suoi scritti. ». Nel pranzo che gli fu offerto e a cui intervennero « sedendo vicino l’uno all’altro come tanti agnelli » i consoli di tutte quasi le nazioni, e parecchi rappresentanti della nobiltà e del commercio, Cobden tenne un discorso « indirizzato più al governo di Torino che agli ascoltatori » in cui non mancò di esaltare « il coraggio, la sobrietà e la perseveranza» dei commercianti e dei navigatori genovesi ». Ma della vecchia nobiltà genovese scriveva, dopo un ricevimento ufficiale: « Gli attuali rappresentanti delle vecchie famiglie hanno, in generale, degenerato assai dallo spirito eneigico e dall’attività cittadina dei loro antenati ».
A Roma giunse il 22 gennaio, e vi si trattenne più di un mese. Roma era allora tutta frenetica di entusiasmo per « la meraviglia dell’epoca, un Papa riformatore»: le Speranze dei liberali avevano il loro quarto d’ora d’illusione, ed i festeggiamenti a Cobden furono intesi come un’occasione opportuna per proclamare all'ombra della libertà inglese le libertà vagheggiate per l’Italia. Cobden stesso, con la sua sagace intuizione di uomini e cose, indovinò perfettamente il doppio senso dell’entusiastica accoglienza degli Italiani, è scriveva: « Per quanto grato agli Ita-
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liani della più che dozzina di banchetti pubblici e degli innumerevoli privati dati in mio onore... non posso nascondermi che i liberali Italiani hanno afferrata l’occasione della mia presenza come un buon pretesto per tenere adunanze nelle quali trattare di argomenti di pubblico interesse, tenere discórsi, e fare dei brindisi, in molli casi per la prima volta. Essi pensano che sia tanto di guadagnato, e così è infatti. Anzi, sono rimasto talvolta sorpreso come i governi lo abbiano tollerato: nell’Italia soggetta all'Austria, tali dimostrazioni sonò senza precedenti ».
E tale parve, anche ai liberali di Roma, il solenne banchetto dato in suo onore dalla Camera di Commercio. La sera avanti, egli si era incontrato ad un ballo all'ambasciata di Francia, col conte Rossi, il principe Brogliò, il ministro Antonelli e il governatore di Roma Grassellini, a cui aveva raccomandato di eternare le memorie del suo regno regalando alla città di Roma l'illuminazione a gas, e qualche marciapiede. Nel banchetto, presieduto dal marchese Potenziani «che brindò alla salute insieme del Papa e della regina d’Inghilterra! », con l’intervento dell’aristocrazia più liberale, Cobden elettrizzò i suoi uditori rievocando le glorie commerciali e la sapienza industriale dell’Italia del medio evo: se ne giudichi da una lettera che il conte Verzaglia ne scrisse ad un giornale inglese pubblicato in Roma, il « Roman Advertiser »: « Un pranzo nazionale dato ad un illustre forestiero, è per noi una cosa sì totalmente nuova, che chiunque vi assistè per la prima volta dovè provare un senso di stupore, — una sensazione di piacere affatto nuova... Questo illustre forestiero non può immaginare quale balsamo egli ha versato sul cuore degli Italiani con le lodi tributate alla nostra patria, al popolo che per due volte diffuse la civiltà sull’Europa, e che fu per un tempo ciò che ora è l’Inghilterra... Cobden ci chiamò il modello della sua patria; fece allusioni alla « Via dei Lombardi », il centro dei banchieri di Londra, al sistema italiano della tenuta del libri, ancora in vigore in Inghilterra... La vostra memoria, o Cobden vivrà in eterno nei nostri cuori...' ». Il Cobden stesso, nelle sue lettere ricorda il fremito di emozioni e le lacrime tratte dagli occhi di tutti dagli ultimi versi del famoso improvvisatore Masi, Che gli furono tradotti con le parole: « Quando tornerete in Inghilterra, direte che avete, sì, trovato l’Italia un cadavere, ma che su di esso era piantato un ramo verde il quale un giorno darà nuovi fiori e produrrà frutti ». Ed esclama: « Pensare che eravamo così vicini alle mura del Vaticano...! ».
Il Cobden descrive anche il Carnevale Romano: « ...nel quale i più chiassoni e i più violenti sono sempre gl’inglesi e altri forestieri. Mentre gl’italiani si scambiano solo mazzi di fiori e confetti in maniera pacifica e assai graziosa, gl’inglesi si scaraventano fra loro confetti di gesso, con uno zelo ed energia da navigatori. Non c’è dubbio, che se avessimo il Carnevale in Inghilterra... si comincerebbe con tirarsi prugne inzuccherate; si continuerebbe con gli aranci e con mele; si seguiterebbe con le patate, e si finirebbe, probabilmente, con fare a sassate ». Assistè anche a una càccia alla volpe, e rivide il d’Azeglio, di cui scrisse: « evidentemente si trovava sotto l’influenza delle idee patriotiche », e che gli fece dire: « Vi è sempre speranza per una nazione che produce tali uomini! ».
Dalla sua visita a San Pietro in Vaticano riportò, fra altro, questa impressione: « Quelli che vogliono dimostrare che l’accesso a edifici consacrati all’arte eleva il
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popolo e sviluppa il senso di pulizia e di decoro, non devono citare in appoggio della loro tesi la folla sucida e dagli abiti a brandelli che si affolla attorno alla statua di San Pietro per baciargli il piede ».
La sua originalità e indipendenza di giudizio si manifesta ad ogni piè sospinto nei giudizi sia su personaggi come su opere d’arte. Di pellegrino Rossi allora ambasciatore di Francia, « uomo dall’aspetto acuto e intelligente » dice: « In lui sospetto vi sia più del diplomatico che dell’economista e più del politico che del libero scambista »; nel Conte di Siracusa, fratello del re di Napoli, dopo una lunga e svariata conversazione trova che « per essere fratello di un re, ha una mente assai lucida, ed è bene informato sulle questioni ».
Del « Mosé di Michelangelo » critica la « mancanza di dignità e di onestà nell'espressione del volto, ed il capo da cui sembra assente la sapienza e la capacità del grande legislatore ». Invece, « l’espressione pensosa e commovente della faccia di Beatrice Cenci », gli produce un’impressione « che rimarrà nella memoria anche quando le altre pitture di Roma saranno, forse, dimenticate ».
L’uomo pratico e positivo parla poi in lui in tutta la drammaticità di uno humour misto a dispettosa irritazione, quando sentenzia degli affreschi di Michelangelo nel soffitto della Cappella Sistina: « È da deplorare che un uomo di genio abbia fatto sì cattivo uso del suo tempo e del suo talento, da dedicare anni intieri alla pittura di un soffitto di una cappella, a cui non è possibile riguardare senza uno sforzo, che costa al collo troppo incomodo perchè la mente resti libera di godere il piacere artìstico ».
Il 22 febbraio, pieno di quell’ansiosa curiosità con cui era entrato in Roma, di verificare se « tutto ciò che aveva udito da lontano delle tendenze liberali del nuovo Papa fosse vero», Cobden saliva i gradini dell’appartamento di Pio IX ed era introdotto alle ore sette nel suo gabinetto privato.
Della sua visita a Pio IX, il Cobden riferisce in una lettera agli Schwabe— (La signorina Schwabe, ardente Fròbeliana e grande amica di Garibaldi, si occupò a Napoli per molti anni della educazione dell'infanzia... ) — ed anche nel suo giornale di viaggio. Egli aveva condiviso la corrente di simpatia verso il nuovo papa dalle tendenze liberali, senza però lasciarsi trascinare dagli entusiasmi, anche dei meno ortodossi, che asserivano che «l’elezione del giovane Mastai Ferretti ad una carica per cui mai aveva intrigato e a cui nessuno aveva prima pensato, era l’effetto di uno speciale intervento della Provvidenza per il bene dell’Italia ». Ed ecco come descrive rincontro: « Pio IX mi ricevette con un'espressione di compiacenza cordiale e senza affettazione. Mi fece le sue congratulazioni per il trionfo riportato nella lotta per il libero scambio e per la tenacia e i motivi della letta, notò che l'Inghilterra è la sola nazione in cui queste vittorie si riportano con anni di lavoro indefesso, per le vie legali e della persuasione: e si mostrò favorevole al principio, e disposto ad applicarlo con tutte le sue forze — «assai limitate » aggiunse modestamente. Io gli portai l’esempio della Toscana ove vige il libero scambio, soggiungendogli che l’Inghilterra non aveva avuto vergogna di utilizzarne le esperienze...
Ñon dimenticai poi di dire a Sua Santità delle giostre di tori che si eseguiscono in Spagna nel giorno della festività della Vergine e dei Santi in loro onore, e gli
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feci leggere dei trafiletti di giornali Spagnoli — (egli conosce lo Spagnolo essendo stato nel Chili) — in cui si decrivono le giostre di tori tenute a Saragossa in onore della Vergine loro patrona, che il giornalista chiama « degne dell’occasione ». Gli feci naturalmente mille scuse per la mia audacia... e gli insinuai, che se il clero cessasse d'incoraggiare quella sorte di divertimenti e le donne fossero dissuase dal-l’assistervi, pian piano essi cadrebbero in desuetudine.
Il Papa... mostrò di essere impressionato dalla crudeltà dell’istituzione e della demoralizzazióne che produce; mi ringraziò e mi disse, che poiché stava per inviare in Spagna un messo speciale, gli avrebbe dato istruzioni su questo punto... Fece anche allusione all’opportunità che una lega doganale si stringesse gra gli Stati di •Italia... ». Quanto al carattere e alle qualità di Pio IX ecco la impressione di Cobden, della cui giustezza furono testimonio gli avvenimenti che così presto dovevano succedere. « Semplice e senza affettazione nei suoi modi, pure è pieno di dignità morale: e benché non osi dirlo uomo di genio, quelli che lo conoscono da vicino lo dicono dotato di talenti affatto superiori. A me sembra che il suo vero carattere consista in un solido buon senso accompagnato felicemente da un naturale amabilissimo: se egli è insufficiente e impari all'arduo compito che gli è dinanzi, ciò è perchè non è dotato di energia pari all’impresa. Mi si dice, è vero, che ha fermezza e coraggio morale in alto grado; ma quali stalle di Augìa dovrebbe ripulire! Ha trovato le finanze in un disordine terribile, ogni ramo dell’amministrazione corrotto o pieno d’incapaci, migliaia di persone detenute qual prigionieri per offese politiche o perchè sospettate da un governo crudele o timido, e più migliaia esiliate. Ha cominciato con l’amnistia per i condannati politici, e ora cerca di riporre in assetto le finanze: ma è solo: non tanto perchè manchino uomini di buona volontà per cooperare con lui, (anzi i riformatori sono oggi di moda), quanto per la scarsità di persone capaci di governare su principi sani. — Personalmente, egli è robusto, di bell’aspetto, e sulla faccia gli si legge il suo buon naturale ed il suo buon senso. Dall’unanime testimonio tributato alle sue doti eccellenti, riporto l’impressione che egli sia uno dei migliori uomini che abbiano mai esistilo.
Con un altro solenne banchetto ufficiale a cui intervennero tutti gli ambascia-tori. Cobden si licenziò da Roma « sopraffatto di gentilezze, di ricevimenti, e bra moso di passare un paio di giorni di viaggio in vista delle sole pecore ». Poco prima di partire, 1’ « improvvisatore » Nasi (a quel tempo 1’ « improvvisatore » aveva là funzione e la dignità del rapsodo greco) l’incarico di portargli a Napoli vari pacchi del suo giornale il «Contemporaneo»: insomma di diventare «un contrabbandiere morale ». Giunge a Napoli. « Noi siamo giunti » — egli scrive — « nel territorio del re delle due Sicilie, il quale si può vantare di avere nel suo regno più accattoni che in qualunque altra nazione. Sembra che l’accattonaggio qui sia l’occupazione supplementare di ogni lavoratore quando l’occasione gli si presenta. Non appena si vede da lontano una diligenza, che vecchi e giovani le piombano addosso, la contadina getta via il suo bagaglio per essere in grado di correrle appresso e guaire le sue miserie; il fanciullo che sta a guardia delle pecore a due prati lontano, corre saltando siepi e fossi e v’intercetta il passaggio quando la diligenza si trova in salita: e quando essa si ferma per il cambio dei cavalli, è circondata da uno stuolo di zoppi, sciancati, ciechi, che sbraitano e strillano e chiedono l’elemosina. La loro
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miseria e i loro brandelli mi ricordano l'Irlanda. Le sole persone nei villaggi e nelle piccole città che si vedono con abiti puliti, pelle lucida e ben vestiti sono i preti e i soldati ». A Napoli, le solite visite, un'udienza dal re, « che si dice sia eccessivamente divoto e intieramente in mano del suo confessore, che non gode una fama lusinghiera... », e poi, via per Firenze, passando per Perugia, della cui accoglienza la Sig.a Cobden scriveva: « Non ho mai gustato alcuna cosa, più che la maniera elegante ed entusiastica con cui gli abitanti di questa raffinata città accolsero mio marito». Ma a Firenze li attendevano accoglienze non meno cordiali e più solenni. Nel banchetto offertogli dal sig. Peruzzi, gonfaloniere della città, il Cobden pronunziò parole che toccarono profondamente i commensali e commossero tutta la Toscana. Le estraggo dal « Morning Chronicle » di Londra del 14 maggio 1847.
«... Devo confessare, che entrai in Toscana con gli stessi sentimenti di entusiasmo con cui un pio pellegrino visita il santuario della sua fede... giacché alla Toscana spetta la gloria di aver preceduto di mezzo secolo il resto del mondo, nell’applicazione delle teorie della scienza economica alla sua legislazione... Io qui non sono che un fratello minore nella comune fede del libero scambio, che la Toscana prima, proclamò. Ora devo dirvi...che nel mio viaggio di otto mesi nell’Europa meridionale non ho trovato alcuna nazione che possa eguagliare la Toscana in prosperità. La campagna sembra un giardino: la popolazione è dapertutto ben vestita, non ho visto quasi mendicanti, eccetto pochi storpi o ciechi, benché la stagione sia stata scarsa di raccolto, qui, col libero scambio, vi è più abbondanza di generi alimentari che altrove, e le industrie locali fioriscono. Ma non questi solo sono i vantaggi di cinquant’anni di libero scambio: bensì un sentimento di fratellanza verso i forestieri, di cordialità, di ospitalità amabile, che fanno della Toscana il preferito soggiorno degli stranieri... ».
La politica, naturalmente, fece anche qui capolino nei ricevimenti entusiasti: certo, più che Cobden stesso potesse rendersene conto, non conoscendo egli l’italiano. Ad es., ad un ricevimento offertogli nella villa del sig. Fenzi a sei miglia da Firenze, si pronunziarono alcune parole che: « premettero lacrime dagli occhi delle signore e fecero digrignare i denti agli uomini, che si guardavano l’un l’altro esasperati ». S’immagina la nota toccata. Mi duole vivamente che Io spazio m’impedisca di diffondermi sulle accoglienze e sui discorsi pronunziati al banchetto offerto al Cobden in Livorno, che furono riferiti da Enrico Mayer in un opuscolo da me ritrovato nel « Museo Britannico », stampato a Livorno — per chi avesse vaghezza di farne ricerca — dalla Tipografia Giulio Sardi nel 1847. Il saluto a Cobden fu detto dall’illustre Giuseppe Montanelli, il futuro Triumviro, con senso di grandiosa e ricca italianità e con splendore di forma: « Noi, o Cobden, più che l’idea della libertà del commercio antichissima nelle nostre istituzioni, qui festeggiamo la virtù con la quale la propugnasti..., la tua eroica costanza nel propugnare principi di civiltà. Nè questo ammaestramento poteva riuscire più opportuno all'Italia. Dalle falde dell’Alpi a quelle del Vesuvio sentisti un fremito come d’oceano romoreggiante...: noi abbiamo sì gran bisogno d’esempi che Ci confortino a proseguire animosi l’opera gigantesca del nazionale risorgimento. Non risorgono i popoli senza volontà di ferro, le quali non si sgomentino mai, e prendano vigore dalle parziali disfatte; certe come sono del finale trionfo...
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Oh sorgano tanti Cobden, Italiani, quante sono le idee di civiltà che come astri splendono nel cielo del nostro avvenire! Un Cobden per le franchigie individuali, un Cobden per le franchigie municipali, uno per l’unità dei Codici, della moneta, dei pesi e delle misure d’Italia, un Cobden per la lega doganale...
Ma tu ritornando alla terra natale racconta le battaglie civili cominciate fra noi..., di’ che noi pure brandiamo l’arma innocente dell’apostolato civile, — La Parola. — Di' che lo spirito ferve di vita immortale nel maraviglioso teatro Che Dio qui gli compose... Sì ! all’aprile delle italiche speranze, al mattino dell’italico risorgimento, plaudiscano di lontano i fratelli nostri Britanni... ».
La risposta di Cobden che mi duole dover tralasciare, accenna anche al silenzio che si è imposto sui « famigliari interessi » della nazione, ma fa trasparire tutte le sue simpatie, là dove dice... « Proverò sempre vivissima simpatia per quanto possa concorrere alla prosperità dell’Italia... chè il paese che già due volte ha impresso sul mondo la sua civiltà contiene in sè stesso tutti gli elementi della propria rigenerazione ». Anche il vice-presidente Pietro Bastogi parlò, conchiudendo: « Possa domani il pensiero di una lega, doganale Italiana avere il suo Cobden »: e similmente il de Regny, il Ricci, il Sansoni, brindando al « Municipio Italiano », al Progresso dello spirito pubblico, alla « Libertà Commerciale ».
Al ritorno in Genova il 20 maggio, Cobden trovò che il giorno innanzi 0’ Con-nell era morto, e fece visita al figlio del gran patriota Irlandese. A Torino ebbe un colloquio con Carlo Alberto, con Cavour, e con altri ministri; e a Milano, contro ogni aspettativa, la Polizia Austriaca permise che la « Società d’incoraggiamento » gli desse un solenne ricevimento, séguito da un banchetto a cui intervennero ottanta amici del libero scambio, molti di essi eminenti letterati, — leggi liberali. — Presiedette l'avvocato Basevi, di cui il Cobden osserva, che essendo quella la prima volta che dirigeva una adunanza del genere, cominciò i brindisi a metà pranzo, inaugurando una serie di discorsi che presto entrarono nel terreno vietato della politica austriaca. Una lettera anonima Scongiurò il Cobden di non bere alla salute dell’imperatore d’Austria. Altro banchetto di 70 coperti a Venezia con relativi discorsi, e poi.... a Vienna dove il principe di Metternich cercò con le sue gentilezze e complimenti di neutralizzare l’impressione della visita in Italia. Ma sembra non vi riuscisse troppo. Infatti la Cobden ne scriveva: « Vi... assicuro che mi sentivo a disagio a tavola a sedere vicino a lui, pensando che i miei buoni amici Italiani attribuiscono a lui tante delle loro disgrazie »: e il Cobden conchiude nel giornale il resoconto della conversazione tenuta con lui con questi giudizi: « Mi colpì l'impressione, che il suo odio per gl’italiani partecipa dei sentimenti descritti da Rochefoucault, quando dice che noi non possiamo mai dimenticare quelli che abbiamo offeso.. Mi sembrò che parlasse sempre sulla difensiva, come colui che è consapevole che l’opinione pubblica in Europa non era favorevole alla sua politica...
Egli è forse l’ultimo di quei medici della politica che mirano solo i sintomi di una nazione e si appagano di palliativi, senza mai tentare di approfondire la natura del male e scoprirne la genesi ultima. Questa classe di statisti è destinata a sparire con lui...».
E con questo giudizio e profezia, ahi! non intieramente avverata, Codben si licenzia dall’Italia... e noi ci licenziamo da Riccardo Cobden.
Giovanni Pioli.
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Vescovo F. S. SPALDING
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UN VESCOVO SOCIALISTA
FRANKLIN SPENCER SPALDING
Un uomo non può essere un cristiano se non è convinto che i diritti umani devono aver la precedenza sui diritti della proprietà. Io ho capito questo molti anni or sono; il credere che il programma socialista sia la sola via che conduca ad anteporre i diritti umani ai diritti dèlia proprietà, venne in sèguito.
F. S. Spalding.
Perchè non la rivoluzione sociale, amici cristiani ? Noi che lavoriamo per essa e preghiamo per essa e cerchiamo di persuadere i lavoratori a lottare per essa, noi stiamo semplicemente domandando al corpo organizzato ciò cbeS. Paolo, nel nome dì Cristo, reclamava dal singolo individuo : una < nuova creazione >.
F. S. Spaldinc.
na triste notizia ci giunge dagli Stati Uniti d’America: il reverendo F. S. Spalding, vescovo della Chiesa episcopale nello Stato dell’Utah, notissimo come ardente socialista, è stato ucciso da un automobile, la sera del 25 settembre scorso, nella città del Lago Salato dov’egli abitava.
Il vescovo, che era molto miope, stava attraversando la strada per imbucare alcune lettere quando la disgrazia successe.
Erano le 21.30 e, nell’òscurità, chi guidava l’automobile, una giovane di 17 anni, non lo vide che quando era troppo tardi. Egli riportò la frattura del cranio e la morte fu istantanea.
Non era sposato ma lascia madre e sorelle. Era figlio di un vescovo ed era nato nella città di Erie, in Pensilvania, 49 anni or sono.
* ♦ »
Dei numerosi articoli necrologici scritti in suo onore riportiamo due soli brani che ci paiono caratteristici.
Il primo è tratto da una lettera dei suoi colleghi: gli altri vescovi della Chiesa episcopale; il secondo rappresenta un ordine del giorno votato dai socialisti della sua città.
. Dicono i vescovi:
« Egli spesso diede alla gente l’impressione d’esser un intollerante, a motivo della sua violenza contro ogni forma d’ingiustizia, d’oppressione o d’iniquità. Ma
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presto si vedeva come fosse l'uomo più cortese del mondo. Egli era ciò che si suol chiamare un socialista: uno di quei socialisti i quali credono che Gesù Cristo venne per stabilire un nuovo ordine sociale, fondato sui principi della Paternità di Dio e della Fraternità degli uomini. Ed egli era, nel senso più assoluto, un Cristiano, un credente e un seguace di Cristo, tanto nella lettera quanto nello spirito. Se i suoi principi lo portarono a parlare con linguaggio sgradevole di cose dovunque tollerate o scusate, fu perchè pensava che valeva meglio essere retto che essere accomodante. Egli non pensava che gli uomini dovessero essere salvati rimanendo nei loro peccati, specialmente se si trattava di peccati comodi, e questo appunto fece di lui quel tipo di socialista ch’egli fu. Un uomo così energico eppure così cortese, così positivo eppure così caritatevole, così ansioso dei diritti degli uomini eppure così disinteressato riguardo a sè stesso, un uomo simile può morire, ma la sua opera continua ».
Ed ecco ora ciò che dicono i socialisti:
« Noi apprezziamo i servizi resi dal vescovo Spalding a noi e all’umanità, come fattore sociale per il bene, coll’insegnare i principi dell’eguaglianza e della giustizia e col l'elevare in varie circostanze la sua voce contro il delitto internazionale del militarismo. Egli fu un audace difensore del diritto e arditamente dichiarò la sua opposizione e la sua condanna contro il sistema capitalista nel quale viviamo. Noi apprezziamo dunque la forza dell’aiuto ch'egli ci ha dato nel propagare i principi del socialismo ».
« * *
Così è stato parlato dello Spalding dopo la sua morte; vediamo ora come egli stesso ha parlato mentr’era in vita.
«In che modo sono diventato socialista ».
Dapprima, io accettai senza discuterla la teoria che la società è Stata migliorata, o lo può essere maggiormente ancora, solo per opera di personalità individue e che il solo dovere della Chiesa era quindi di prendere gli uomini uno alla volta e di renderli puri, altruisti e zelanti nelle opere buone. Diventato ministro del culto in una città industriale, mi trovai per la prima volta di fronte al sistema della concorrenza come esso attualmente funziona. Fui costretto a constatare che migliaia di uomini, che possedevano altrettanto diritto quanto io alla pienezza della vita, non avevano, ih quella direzione, alcuna possibilità. L’affermazione di Giacobbe Riis, che l'ambiente conta pel 90 %, riassume la conclusione alla quale fui obbligato a giungere e la cui verità è dimostrata dalla dottrina del determinismo economico.
Ma ancora pensavo che la formazione dell’ambiente buono per ogni vita umana dipendesse dal fatto che le Chiese persuadessero i ricchi e i potenti ad essere cortesi e generosi e preoccupati del bene comune. Una frequentazione prolungata dèi ceto ricco refutò questa teoria. Fui costretto a constatare che l'energia dirètta a raccogliere e a risparmiare del denaro distrugge l’impulso a darlo via. Ci vuole un minuto soltanto
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per trasformare in necessità una cosa superflua, ed un milionario dà l'impressione d’esser poveri a tutti colóro che posseggono soltanto cinquecento mila lire. Io vidi che i lauti stipendi concessi àgli amministratori ed i grossi dividendi distribuiti agli azionisti non potevano esser prodotti se non sfruttando il lavoro umano, e che un padrone non poteva rubare ad un uomo il prodotto del suo lavoro e nello stesso tèmpo rispettare quell'uomo.
Io scoprii che il sistema capitalistico, per quanto si proponga di sostituire la Carità alla Giustizia, si sforza diabolicamente ad allontanare il cuore dalla Carità, e, a dispetto di nobili eccezioni, vi riesce. Così fui condotto a constatare che l’antica affermazione che gl’interessi del capitale e del lavoro sono economicamente identici è una menzogna.
Il primo scritto socialista da me lètto fu il « Manifesto Comunista ». Esso portò in me verità e speranza. Io lessi quanto potei procurarmi intorno al movimento proletario dal punto di vista delle Classi lavoratrici ed imparai il fatto tremendo della u Lotta di classe ». Ma l’appello di Marx al popolo mi sembrò oltremodo egoista e materialista e quel mio sentimento fu rafforzato da una conferenza di A. M. Simons. Fui male impressionato dalla volgarità dei motivi da lui messi avanti: « Lavoratori del mondo, unitevi. Tutte queste ricchezze possedute dalle classi satolle sono prodotte da voi. Prendete coscienza dei vostri bisogni, e della vostra potenza e impadronite vene ». Nella sua mente — e i suoi compagni sembravano essere dello stesso parere — c’era un mondo da vincere, non un mondo dà salvare.
Mi occorse parecchio tempo per uscire da questo stato d’animo; e, strano a dirsi, crèdo che fu l’opera di Guglielmo Liebknecht, intitolata: « Nessun compromesso » che maggiormente mi aiutò a vedere che, dietro alla terminologia materialista ed egoista, c'è una magnifica fedeltà ai principi, ci sono rifiuti eroici a coglier le briciole e ad accettare mezze vittorie e c’è una devozione disinteressata, nella lotta per emancipare le classi lavoratrici dal sistema che distrugge la speranza e la gioia di milioni di esseri e per liberare la classe capitalista da un ordine sociale che conduce, colle sue tentazioni, ad uh egoismo senza cuore/
La Chiesa Cristiana esiste per l’unico scopo di salvare la razza umana. Sino ad oggi non vi è riuscita; ma io penso che il socialismo le mostra in che modo essa possa riuscire. Esso insiste sull’idea che gli uomini non possono esser fatti buoni finché non sono fatte buone le condizioni materiali della vita. Per quanto l’uomo non possa vivere di solo pane, egli deve avere il pane. Quindi la Chiesa deve distruggere un sistema di società il quale crea e perpetua inevitabilmente condizioni disuguali ed infelici di vita. Queste Condizioni disuguali e ingiuste sono state create dalla concorrenza. Dunque deve cessare la concorrenza e il suo posto deve esser preso dalla coopcrazione. La concorrenza non sarà abolita col rendere i vincitori così pietosi ch’essi spontaneamente dividano le spoglie; ma col rendere i vinti così forti ch’essi non possano essere più óltre derubati.
Quindi è mio dovere di far vedere alla Chiesa ch'essa deve cessare d’essere l'elemosiniera del ricco e deve diventare invece il campione del povero. Si tratta d’un aut, aut ». « Voi non potete servire Dio e Mammona ».
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« ♦ •
Il discorso del vescovo Spalding che fece più chiasso fu certamente quello da lui pronunziato circa due anni or sono nella seduta consacrata al « servizio sociale » dal Congresso triennale dèlia Chiesa episcopale d’America.
Ecco il brano più notévole di questa Conferenza.
Una sfida alla Chifsa.
Veniamo a questo congresso generale della nostra Chiesa come ad un convegno capitalista perchè i delegati provvedono da sè alle proprie spese e per questo fatto non ci sono che i capitalisti, o coloro che ricevono un onorario elevato vendendo ai capitalisti la loro intelligenza, i quali siano in grado d'essere qui presenti.
Adoriamo il nostro Dio in una vasta Chiesa, come quella in cui siamo raccolti in questo istante, e così dimentichiamo i bassi fondi sociali, laggiù dall’altra parte della strada. Diamo importanza ai ricchi paludamenti sacerdotali dei vescovi e dei preti e dimentichiamo che milioni dei nostri concittadini sono ricoperti di cenci. Discutiamo intorno ai canoni teologici, ai nomi e alle forinole. e dimentichiamo i milioni d’uomini che invocano invano un salario il quale permetta loro di vivere. Ragioniamo d’inni e di preghiere, e dimentichiamo che decine di migliaia di nostri concittadini hanno il cuore troppo gonfio per poter cantare e una fede così indebolita dalla miseria ch’essi hanno dimenticato come si prega.
Non v’è pericolo di sbagliare affermando che il reddito annuo di ogni delegato a questo congresso è probabilmente dieci volte maggiore del salario medio dell’operaio americano. Questo equivale a dire che il vostro reddito medio varia da 15.000 a 50.000 lire annue. Come vi sorride l’idea di vivere con un decimo del vostro red dito annuo?
Oppure poniamo la questione in questo modo: Ogni membro d’una Chiesa dà (o dovrebbe dare) il decimo del suo reddito. Ora, come fareste voi per provvedere à tutti i vostri bisogni per quest'anno: necessità, lussi e piaceri, a quanto dovete spendere per voi, pei vostri amici, pei vostri vestiti, pei vostri libri, pei vostri divertimenti, come fareste a provvedervi con ciò che avete dato al Signore l’anno scorso?
In quanto la Religione è finanziariamente sostenuta, l’aiuto proviene dai profitti dei capitalisti e non dai salari degli operai. Per questo, nella mente del lavoratore cosciente dei suoi interessi di classe, la Chiesa esiste soltanto pél fatto dei doni dei ricchi, resi possibili dalla spogliazione dei poveri. E, se la Chiesa gode dei redditi di fondi propri, questi fondi altro non sono che il prodotto di furti nel passato. Ecco perchè il rispetto che devono a sè stessi costringe i lavoratori coscienti a ripudiare il Cristianesimo organizzato come si respinge una elemosina che il decoro e la dignità personale non permettono di ritenere.
L’operaio pensa che il capitalista paga il predicatore e ne è il proprietario Il capitalista non pensa egli la stessa cosa?...
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UN VESCOVO SOCIALISTA
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Che cosa deve fare la Chiesa? Essa deve accettare questa verità, scoperta dalla democrazia industriale, che la base della produzione è costituita non dal capitale ma dal lavoro. Certo non può esservi alcun dubbio riguardo al campo nel quale deve schierarsi la Chiesa di Gesti Cristo allorquando trattasi di una lotta tra i dollari e gli UOMINI.
Non deve la Chiesa ribellarsi contro il sistema capitalista il quale inesorabilmente significa lo sfruttamento degli uomini, delle donne e persino dei fanciulli? Sì veramente, essa deve allearsi al grande movimento della democrazia sociale. E questo movimento alla sua volta ha bisogno di ciò che la Chiesa è in grado di dare, e ch’essa sola può dare: lo ze'o sacro. L’entusiasmo, che costituisce la forza del socialismo d’oggi, corre il pericolo di diventare uno zelo profano. Ciò è chiaramente dimostrato dalla filosofia del sindacalismo. E noi, discepoli di Gesù Cristo, sappiamo meglio di ogni altro che un movimento, qualunque esso sia, se vuol .trionfare, deve possedere dentro a se stesso la potenza di una grande passione.
Così pensava e parlava il vescovo socialista Franklin Spencer Spalding. Sentiamo con piacere che il nuovo vescovo dell’Utah, Paolo Jones, è anche lui un socialista. Possa egli, nel profondo solco tracciato dal suo predecessore, spandere a piene mani la semenza dell’Evangelo genuino, individuale e sociale, di Gesù Cristo!
Giovanni E. Meille.
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SAGGIO SULL’ERESIA MEDIEVALE
NEI SECOLI XII E XIII
(Contintui'ionc. Vedi Bilychiif, Settembre, 19x4, p. x6j).
IL
IL CONTENUTO SOCIALE DELLE ERESIE POPOLARI
e eresie a tipo evangelico, laico e popolare sono essenzialmente eresie di reazione. L’opulenza delle chiese e dei monasteri, lo sfarzo dei prelati, l’avida ingordigia di molti chierici (i) in una società dove profonda era la spei equazione delle fortune, doveva necessariamente acuire, tra la folla degli oppressi, il sentimento di disagio, di rappresaglia e di rivolta (2). Il malcontento popolare, così come era impostato, trovava una preziosa giusti
ficazione nei precetti evangelici.
La reazione, come vedremo meglio in seguito, si colora naturalmente di religiosità e, dato il suo carattere di opposizione ecclesiastica, assume l’aspetto di eresia. Le nuove eresie, infatti, che reclutano i loro membri tra i poveri e gli scontenti presentano, tutte, questa doppia caretteristica: professione della povertà assoluta (evangelismo) e opposizione alla Chiesa (laicismo). Questo, il contenuto di tutte le eresie popolari.
San Gregorio il Grande (f 604), passando in rassegna le eresie del suo tempo, ci parla di sette costituite da umile gente, le quali, alla ricchezza e alla prosperità mondana della Chiesa, opponevano l’esempio di una vita povera ed austera; di essi;
(t) È inutile insistere su questo argomento e specialmente su l’auri sacra fames di Roma. «Quando hactenus aurum Roma refugit?» esclama San Bernardo (De con-sid. Ili, 3). Il tema è stato largamente sfruttato anche dalla letteratura contemporanea: cfr., per esempio, le poesie satiriche dei Carmina Durano e le famose invettive dei trovatori provenzali: Figueira e Peire Cardinal.
(2) « Nonnulli etiam nos deridebant et eibos delicatos ac pigmentorum potus in prae-cipuis sumptos solemnis, ad memoriam subsannando nos deducebant », confessano 1 monaci di Farfa, nei Regesti di Far fa, Roma, 1892, ad an. 1119,
« Clamant vero nudi, clamant famelici, conqucruntur et dicunt: numquid aurum a freno repellit frigus, sive esuriem? ■>, San Bernardo. De moribus episcoporum, c. 2.
« Sic jam ornati prodimus, ut magis sponsi quam clerici videamur ». Innocenzo III, Sermo in consecr. ponti/.
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SAGGIO SULL’ERESIA MEDIEVALE NEI SECOLI XII E XIII
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alcuni davano tutto ai miseri, e, nonostante i dissentimenti reciproci, queste varie sette, come quel papa constata, nutrivano un comune odio contro la Chiesa (1).
Avvicinandoci al basso medio evo, a misura che la Chiesa diventa sempre più avida di dominio e di ricchezza, le eresie accentuano i loro elementi costitutivi: l’ispirazione evangelica e l’opposizione ecclesiastica.
Studieremo brevemente quest’opposizione, sopratutto nei suoi riferimenti sociali, in quanto essa è reazione laica (valorizzazione e irruzione del laico nella vita pubblica), reazione economica, reazione politica (cooperazione ai moti comunali) ed anarcoide.
Concluderemo esaminando la portata e il significato dell’aspetto religioso delle eresie popolari.
LA REAZIONE LAICA.
La società laica, e quindi la società moderna, comincia a configurarsi appunto in quei secoli in cui si diffondono per l’Europa le eiesie a tipo evangelico e popolare.
Il grande fatto che domina questo periodo storico è precisamente l’irruzione del laico nella vita pubblica, è la sua valorizzazione, lenta ma progressiva, come individuo e come cittadino. I laici, nel senso ecclesiastico e storico della parola, cioè i poveri, gli illitterati, gli idiòti, la turba dei mananti «taillables et corvéables à merci », si affacciano all’esistenza sociale, si associano, si organizzano, si affermano, fanno quelle prime conquiste che li condurranno poco a poco sino all’egemonia politica e sociale.
Compito del laico, in quest’ora decisiva del suo destino, è quello di acquistare coscienza dei suoi diritti, di spezzare quei ceppi che irretiscono la sua vita interiore ed esteriore, di uscire dal servaggio spirituale come dal servaggio economico e sociale.
L’eresia medievale a tipo popolare fu appunto vivida espressione e più ancora forse fattore importante dell’affrancamento del laico di fronte alla teocrazia ecclesiàstica e del servo di fronte al suo signore. Essa contribuì largamente a valorizzare l’individuo per mezzo del suo elemento evangelico e valorizzare il cittadino grazie alla sua opposizione economica e politica alla Chiesa. Come Arnaldo da Brescia, l’eretico sarà considerato come un adulatore del laico (2).
Quest’accusa è caratteristica: essa coglie al vivo l’essenza stessa della funzione sociale dell’eresia e che è messa in valore da mille altri fatti e testimonianze.
« Quando un laico incontra per via un chierico, insignito dei sacri ordini, deve inchinarsi facendo una riverenza profonda. Se il chierico ed il laico si trovano a cavallo, il laico lo saluterà umilmente, scoprendosi il capo. Ma se il chierico va a piedi e il laico a cavallo, questi scenderà a terra, per rendere l'onore dovuto al chierico che egli ha incontrato ».
(1) Cfr., Nino Tamassia, San Francesco (¿’Assisi e la sua leggenda. Padova, 1906, pagine 7-8.
(2) « Clericorum ac Episcoporum derogato!* *, Monachorum persecutor, Laicis tantum adulans ». Otto Frisingensis episc.. De gestis Frederici primi, ap. D’argentré, I, 27.
* Plebis adulator, gaudens popularibus auns». Guntherus Ligurinus, Carmen de gestis Friderici, ap. D’Argentre, 1, 28.
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Così, al tempo del re Gontran e del vescovo san Prisco, il 2° concilio di Mâcon fissava le norme protocollari che dovevano regolare i rapporti sulla via pubblica di un laico con un ecclesiastico (i).
La Chiesa si dava gran pena allora per accrescere il prestigio degli ecclesiastici, comminando scomuniche ed altre pene contro chi mancasse loro di rispetto (2). Sin dall'alto medio evo, essa tende a farne una classe separata, distruggendo così queirintima e cotidiana comunione di vita che, nei primi tempi, legava il prete al laico, che era il suo elettore e perciò anche il suo giudice (3). L'insistenza però con cui, a partire specialmente dal secolo x, sinodi e concili si lamentano del contegno dei laici, vanno sempre più dimostrando la vanità delle prescrizioni e minacce ecclesiastiche (4).
L’ostilità verso il clero andrà assumendo, come vedremo meglio in seguito, forme sempre più violente; il popolo aveva ben gravi motivi per insistere in questa sua attitudine, nonostante tutte le scomuniche e tutte le rappresaglie.
In prima fila tra gli oppositori, portavoce di tutti coloro che non sanno e non osano gridare alto, sta l’eretico. Questi ammonisce: <« Nessun laico deve piegare le ginocchia davanti al sacerdote» (5). Il suo primo gesto è quello della rivolta, la sua prima eresia, la scaturigine di tutte le altre: il disprezzo per l’autorità ecclesiastica (6). Nel Vangelo, che, come abbiamo visto, egli si era affrettato a tradurre in volgare, a leggere o ad imparare a memoria (7), egli attinse a piene mani gli elementi della sua critica, i motivi della sua emancipazione. Di fronte ai prelati che lo inceppano nella libera esplicazione del suo ideale religioso, gli Atti degli Apostoli gli suggerivano una risposta, sacra insieme e liberatrice: « obbedire piuttosto a Dio che agli uomini » (8). Da questo sentimento di comunione diretta dell’uomo con Dio
(1) Conc. Mac., del 23 ottobre 585, can. 15,
(2) Ved. il 2° conc. di Valenza (Delfinato), del 23 maggio 584 o 585, can. 9; il concilio di Magonza, dell’888, can. 7.: ecc.
(3) Il 6° conc. di Parigi, deÜ’829, can. 21, proibisce ai vescovi di mettersi a tavola in compagnia di laici.
(4) Ved. conc. di Troxlé (dioc. di Soissons), del 26 giugno 909, can. 5, ecc., e poi il sinodo di Montélimar o Monteil del 1248, can. 19; quello di Nantes, del i° luglio 1264, can. 9: « quia laici clericis oppido sunt infesti •; ecc. Ctr. il rapporto presentato da Bruno, vescovo di Olmutz, al «40 concilio ecumenico di Lione, del 1274; Hefele, Histoire des Contiles, trad. Delarc, IX, 13.
(5' “ Quod nemo debet flectere genua sacerdoti ». Anonino di Passau, ap. D’Argent ré, I, 93(6) (Valdesi) « in primi» arguuntur de inobediente, quia scilicet non obediunt Ec-clesiae Romanac ». Bernardo, abbate di Font-Cauld, Adv. Wald, seclatn, ap. Migne, P. L., to. 201, col. 795.
■ Prima haeresis fuit et adhuc perseverat, contemplus ecclesiasticae potestatis. ex hoc excommunicati, praecipitati sunt in errores innúmeros ». Atti dell’Inquis. di Car-cassona, ap. Döllinger, Beiträge sur Seklengeschichte des Mittelalters, II, 7.
(7) Cfr., le pagine precedenti.
(8) « Isti Valdenses asserunt neminem debere obedire alicui nisi Deo, freti aucto-ritate quae est in actis apostolorum ». Alanus de Insulis, De fide cattolica, lib. 2“ C. Vald., ap. Migne, P. L. to. 210, col. 380.
«Sed inquiunt: obedimus Deo non hominibus. sequens Petrum qui dixit: obedire
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scaturiva la coscienza della personalità. L’eretico riviveva lo stato d’animo dei cristiani antichi, egli portava nel suo cuore quella forza che aveva rifatto il mondo. La sua affermazione possiede il fascino contagioso delle cose vive e la fecondità esuberante dei germi che rifioriscono.
Certo è che all’eretico medievale, l’intuizione orientata dal Vangelo, tenne luogo di critica. Egli affinò così la sua spiritualità, epurò così la sua coscienza. Egli vide ed insegnò l’inutilità di tutto il simbolismo materialistico; proscrisse il culto della croce, delle imagini, dei santi, negò il purgatorio, l’efficacia delle pratiche espiatorie, delle indulgenze, delle assoluzioni, dei sacramenti (i).
In questa concezione ultra-spiritualistica della Chiesa non c’era più posto per vescovi e per preti. Proclamando l’uguaglianza di tutti i fedeli dentro l’ambito della Chiesa (2) e il sacerdozio universale, fondato unicamente sul merito individuale e non sopra una consacrazione esteriore (3), l’eretico spezzava le basi stesse della gerarchia ecclesiatica.
oportet Deo magisquam hominibus ». Bernardo, abb. di Font-Cauld, op. cit., ap. Migne, P. L. to. 204, col. 817.
• Soli Deo obediendum esse ». Innocenzo III, Epist. 04 (an. 1210).
« Quod non sit obediendum praelatis, sed tantum Deo ». Anonimo di Passau, ap., D’Argentré, I, 93.
(Gerardo Segarelli) « suos discípulos Apostólos nominavit, et eos voluit sic appellar!, qui viverent sub nullius bbedientiae, nisi soiius Dei sicut primi apostoli domini nostri Ìesn Christi ». Additamentum ad historiam Jratris Dulcini, ap. Muratori. Per. Italie criptores, to. XX, p. 447.
(1) Cfr. la predicazione: di Gandolfo (conc. di Arras, del 1025. ap. Mansi, Coll. Condì. to. XIX, 423); di Pietro de Bruis (lettera di Pietro il Venerabile abbate di Cluni) cfr. A. Luchaire, Les Premiers Capítiens, ap. E. I.avisse, Histoire de France, II, 2, p. 362; di Enrico di Losanna,cfr. Luchaire, op. cit.; degli Apostolici, cfr S. Bernardo, Serm. LXV e LXVI in Cantica, ap. Natat.is Alexander, Historia Ecclesiastica, ed. Roncaglia-Mansi, Venèzia, 1776, to. VII, p. 76; degli eretici del Périgord, cfr. D’Argentré, I, 35.
(2) « Quod nemo fit maior altero in ecclesia ». Anon. di Passau, ap. D’argentré, I, 93.
« Sexto dicunt, quod Papa, archiepiscopi, episcopi non habent majorem auctori-tatem, quam sacerdotes ». Errores haereticorum Waldensium. ap. Döllinger, Beiträge. IL 337(3) (Valdesi) « Item dicunt omnes bonos esse sacerdotes, et tantum posse quemlibet bonum in absolucione peccatorum sicut nos ponimus papam posse; et tarnen, si veritatem sue credencie fateantur, ponunt solum Dominum posse a peccatis absolvere et quem li-bet bonum hominem hoc posse dicunt, quia hoc solus Deus opcratur per ipsos, qui habitat in eis, per quem omnia possunt ligare et solvere ». Stefano de Bourbon, Anecdotes his-toriques, ed. Lecoy de la Marche, pag. 295.
« Magis operatur meritum ad consacrandum vel benedicendum, Jigandum et solven-dum, quam ordo vel officium ». Alands de Insults, op. cit., ap. Migne, P. L. to. 210, col. 385.
Secondo altri eretici il laicus bonus non aveva maggiore potestà del laicus malus: « Et ita dicunt, quod omnis factus est sacerdos ». Atti dell’Inquis. di Carcassona. ap. Döllinger, Beiträge, II, 7.
« ítem dicunt quod quilibet laicus sive sit bonus sive malus, potest conficere dummodo sciat verba, et quod potest absolvere et ligare ». Summa de haeretibus, ap. Döllinger. Beiträge, II, 300.
Cfr. Schmidt, Aktenstücke besonders zur Geschichte der Waldenser, in Zeitschrift für historische Theologie, to. 22 (1852), p. 245.
Altri ancora sembra limitassero il potere sacerdotale ai seguaci della propria setta: • dum tarnen sit de secta ipsorum ». Bernardo Gvi. Practica Inquisitionis, part. V.
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Si emancipavano così, per via di considerazioni religiose, dalla dipendenza dalle autorità ecclesiastiche (i), disprezzando le scomuniche (2), e le tradizioni ecclesiastiche (3), dichiarando, con gli eretici d’Orléans, del tempo del re Roberto, di non ammettere « altra norma di vita che quella scritta nel cuore di ognuno » (4) e con frà Dolcino di non poter subire « vincolo di obbedienza esteriore ma interiore soltanto » (5). Tutte le voci liberatrici, anche violente, anche anarchiche, sono destinate a conquistare d’un colpo il favore popolare. C’è già nell'aria odor di polvere. Si sparge la notizia che, qua e là, i popolani, talvolta dopo lotte sanguinose, come a Làon, vanno conquistando le prime franchigie comunali. Il popolo ascolta volentieri l’eretico che dice male del prete, e al quale egli è superiore nella virtù e nel disinteresse (6). Contro il clero, gli permette anche le diatribe le più virulente (7). e non si appaga
cap. 3; «dummodo haberet sandalia»: Pietro di Vaux-Cernai. Historia Àlbigenlium, ap. Bouquet, Recueil, to.19, p. 6,
«Malos autem omneS appellarti qui sunt extra sectam ipsorum ». Summa de ha?-reiibtts, ap. Döllinger, Beiträge, II. 300.
Alla proclamazione del sacerdozio universale, gli eretici erano forse pervenuti a traverso la distinzione gregoriana del sacerdote degno e non degno. I valdesi, infatti, facevano appello, in questo punto, anche all’autorità di Gregorio VII: « Item, dicit aucto-ritas quod illius sacerdotis missa audienda non est, de quo indubitanter constai quod habeat concubinam ». Ai.anus de Insulis, op. cit., ap. Migne, P. L. to. 210, col. 388.
(1) » Dicebant se Papae, Romanac ecclesiae et Praelatis cjus non esse subjectos. proinde ab illis se non posse excommunicari ». Atti dell’Inquis. di Carcassona, ap. Döi -unger. Beiträge, II, 7.
I Fraticelli affermavano che coloro i quali professavano la regola di san Francesco non erano obbligati ad obbedire alle dichiarazioni ed interpretazioni date, intorno ad essa, dal Romano Pontefice. Cfr. Natalis Alexander, Hist. lìcci., ed. Roncaglia-Mansi, Venezia 1776, to. Vili, 79. .
(2) « Absoluciones et excommunicaciones Ecclesie contempnunt, quia solus deus est, ut dicunt, qui pot.est excommunicare ». Stefano de Bourbon. Anedoctes históriques, ed. Lecov de la Marche, p. 295. _
?3) « Septimo dicunt, quod ex quae constituuntur ab episcopis et ecclesiae praelatis non sunt servanda, eo quod sint traditiones hominum, non Dei», Errore haereticorum Wal-densium, ap. Döllinger, Beiträge, II, 337.
(4) • vetus et Novum Testamentum eijciebant vehit figmenta carnalium hommum. solamque legem in cordibus scriptam te admitterc gloriebantur ». Natalis Alexander, Hist. Eccl., to. VII, p. 66:
I seguaci di Enrico di Losanna: « Asserebant quoque sibi a Domino antiquam et authenticam Prophetarum collatam fuisse benedictionem, et spiritum quo mortalium excessus cceteris incognitos, visa tantum eorum facie, cognosceret et proderet ». D’Ar-gentré, I, 15. . ... .
(5) « asserii illam suam congregationem spiritualem esse, et propriam in proprio modo vivendi apostolico, et proprio nomine eum paupertate propria, et sine vinculo obe-dientiae exterioris, sed cum interiori tantum ». Historia Pulcini, ap. Muratori, to. IX, 450.
(6) « Illi autem contempserunt in hoc claves ecclesie, dicentes clericos hoc lacere per invidiam, quia viderent eos meliores esse et melius docere et maioren favorem populi ex hoc habere ». David d’Augsburg, op. cit. ibid., 26.
u Nam libenter audiebat eos populus, eo quod sermo veritatis esset in ore eorum et viam salutis ostenderet ». Da un codice di Klosternburg, ap. Döllinger, Beiträge, II, 353.
(7) « Obloqueris ctiam sacerdotibus Ecclesiae dicens: Fornicarii sunt. Usurarii sunt, Tabernarii sunt; et alia multa vitia coniectas in eos ». Pietro di Pilichdorf. Contra haeresim Waldensium, ap. Max. Bibi. Patrum Lugdun., XXV, 281.
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sempre di approvazioni platoniche. Esso, come vedremo meglio in seguito, manifesta talvolta il suo assentimento sotto le forme le più brutali ma che sono per ciò stesso caratteristiche per significare il suo stato d'animo.
Dopo la predicazione di Enrico di Losanna, verso la metà del secolo xi, i chierici di Mans che osavano avventurarsi per le vie venivano oltraggiati, presi a sassate, uccisi (i). I loro domestici erano boicottati e messi al bando (2).
Evidentemente il popolo del secolo xi e più quello del sècolo xn non è più quello dell’alto medio evo. Sbocciano le industrie, si intensificano i commerci, fioriscono le letterature in volgare. C’è sopratutto lo spirito pubblico che si apre alla discussione ed alla critica.
Ed esso discute e critica tutto, e specialmente — nonostante che gli scrittori ecclesiastici ammonissero essere sacrilegio mettere bocca negli affari papali (3) — la Chiesa, i suoi insegnamenti, le sue istituzioni, le sue pretese. Che tutte queste cose sacre potessero venite in discussione, segno è che esse avevano cominciato a perdere il dominio assoluto sulle anime.
Questo stato di cose, che si manifestò forse indipendentemente dagli eretici, fu senza dubbio per opera loro che sopratutto si diffuse.
A partire dal secolo xi, vengono segnalate dispute frequenti tra eretici appartenenti a sette di verse, come tra Catari e Valdesi, ma specialmente tra eretici e cattolici.
Verso il 1140, eretici e cattolici disputano pubblicamente e con intervento di laici, a Colonia (4).
Tra il 1189 e il 1190 ebbe luogo a Narbcnne una solenne disputa pubblica tra cattolici e valdesi, provocata per quosdam tam clericos quam laicos, e in cui i valdesi diedero prova di stupefacente erudizione biblica e patristica (5)Analoghe dispute avvennero tra cattolici ed albigesi (6), o altre specie di eretici, nel secolo xm (7).
(1) Cfr. A. Luchaire, Les Premiers Capétiens, ap. E. La visse, Histoire de France, II, 2, p. 362.
(2) « Qua haeresi plebs in Clerum versa est in furorem, adeo quod famulis eorum minarentur cruciatus, nec eis aliquid vendere, vel ab eis emere vohiissent; immo habe-bant eos sicut ethnicos et publicanos». D’Argf.ntré, I, j6.
Vedi le difese ehe il Popolo di Roma prese di Arnaldo di fronte al papa e ai cardinali, nel passo citato altrove di Gualtero Map, De nugis curialium, ap. Man. Gemi. Misi., S. S., XXVII, 65. . . .
(3) <1 et os in coelum ponunt, Romanae Curiae detrahentes, cum instar sacrilego sit de facto summi pontificis disputare». Alanus de Insults, op. cit., ap. Migne, P. L.. to. 210, col. 382.
(4) Cfr. D’Argentré, I, 35.
(5) Bernardo, abbate di Font-Cauld, ce ne lasciò un resoconto abbastanza dettagliato nel suo C. Wald, sedani, ap. Migne, P. L., to. 204.
(6) Cfr. A. Luchaire, Innocent III et la croisade des Albigeois, Paris, 1905, p. 92 ss.
(7) In un trattato tedesco del secolo xm, edito dall’Haupt, si legge: «wann in alien Lamparten waren mer chetzer, die öffentlich predigtfen] und mit den Christen dispu-tirten und die lewet zu ihr predigen rueffen ap. Zeitschrift für Kirchcngeschichte, tomo XXIII (1902), pp. 189-190. .... .. .
Un altro antico documénto parla degli allievi delle scuole ereticali, 1 quali « publice disputabant, et populum ad solemnes disputationes convocabant », pseudo-Rainero, ap. Max. Bibl. Patruni I.ngd., to. XXV.
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La Chiesa si oppose con ogni suo sforzo alla diffusione di questo spirito di discussione, proibendo, sotto pena di scomunica, al laico di disputare intorno ad argomenti religiosi, così in pubblico come in privato (i). Essa vi riuscì certamente in gran parte, specialmente dopo ch’ebbe istituito il tribunale dell’inquisizione e che una legione di monaci e di frati fu pronta a spiare ed a punire sino il sospetto d’eresia.
La propaganda, cioè la predicazione, è una delle manifestazioni più sensibili della maturità dello spirito e dell’intensità delle proprie convinzioni.
La Chiesa interdice ordinariamente la predicazione al laico, misura che appare necessaria, volendo salvaguardare l’ortodossia della propria dottrina (2).
Una ben giustificata diffidenza dovevano ispirarle quei laici del medio evo, così digiuni di sottigliezze scolastiche quanto essi erano pieni di spirito ribelle. Chè, infatti, nonostante i divieti e le pene minacciate (3), gli eretici fecero sempre gran predicare (4).
A coloro che rimproverano loro di non avere la ntissio Ecclesiac (5), essi si reclamarono della missio Chrisli (6) e dell’esempio degli apostoli e di santi laici e il-litterati (7). E, come abbiamo già visto, la loro predicazione incontrava presso il popolo un così largo consenso che i vigili custodi dell’ortodossia non potevano far nulla per disturbarli (8).
(t) «Item firmiter inhibemus, ne cuiquam laicae personae liceat publice vel pri vatim de fide catholica disputale; qui vero contra íecerit, excommunicationis laqueo in-nodetnr ■». Capitula a Gregorio papa IX contra Patarenos editas (a. 1236), ap. Mansi, Coll. Cone. to., XXIII. p. 74.
Cfr. Hefele, Histoire des Concites, trad. Delarc, to. VIII, pp. 201, 202, 281.
(2) « Praedicare autem laico non licet et ei pericnlosum est, quia non intelligit quod elicit, nec scripturas intelligit quas exponere praesumit. Ergo si praelatus ei injungat ut taceat, tenetur tacere, et si non tacet mortaliter peccat. Unde si sub poena excommunicationis prohibet ei praedicare, si praedicat, sententiae excommunicationis subjacet ». Ai anus de Insulis, op. cit., ap. Migne, P L., to. 210, col. 382.
(3) Cfr. la 40a costituzione sinodale di Odone, vescovo di Parigi, del 1107: .« Item districte prohibetui sacerdotibus ne permittant praedicare aliquos ignaros sive ¡Iliteratos etiam extra ecclesiam, sive in vicis, sive in plateis, sive in aliis parochiae suae et sa epe de dominici? diebus sacerdotes moneant, et etiam sub poena excommunicationis, inhibeant parochianis auis ne tales audiant propter pericula haeresum et errorum, quos seminant », ap. Mansi, Coll. Cone., to. XXII, col. 863.
(4) (Valdesi) « Secundo, praedicant omnes passim, et sine delectu conditionis, ae-tatis vel sexus». Bernardo, abb. di Font-Cauld. op. cit., ap. Migne, P. L. to. 204, col. 805.
(5) Cfr. Moneta, Adv. Gatti et Vald., p. 441: « nullus debet praedicare nisi missus sit ». ecc.
(6) ■ Postea ceperunt ex se, ut plenius se Christi discípulos et apostolorum successores ostenderent, etiam officium prediracionis sibi iactanter assumere, dicenter Christum precepisse suis discipulis ewangelium predicare ». David d’Augsburg, op. cit., ibid., pp. 26-27.
(7) « Ad hoc dicunt quod multi laici verbum Dei in populo fideli disseminaverunt, sicut fecit B. Honoratus et sanctus Equitius... Deniquc et primi apostoli idiotae et sine literis, fecerunt. Et ist omnes, licet laici, verbum Dei praedicaverunt ». Bernardo abb., di Font-Cauld, op. cit-, ap. Migne, P. L., to. 204, col. 805.
(8) « in campis praedicabant et in tectis, et non erat qui eos impedire auderet, propter Ertentiam et multitudinem fautorum ipsorum », pseudo-Rai nero, ap. Max. Bibi. Patrum ugdun., to. XXV.
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Abbiamo già visto altrove come gli eretici mostrassero un ardore straordinario di apprendere e d'insegnare e quale largo margine fosse assegnato alla donna nella predicazione e nella progaganda.
Tutto questo fervore di discussione, di critica, di propaganda tradisce, e provoca a sua volta, un notevole risveglio dell’intelligenza del popolo, che toccherà il fastigio poi nel '400 e nel ’500 italiano. Gli scrittori ortodossi si maravigliavano dei rapidi progressi fatti da quegli uomini rezzi, che abbracciavano l’eresia, e anche nella conoscenza della sacra scrittura, dei padri e del latino (1). Di fronte-alta crassa ignoranza del clero plebano che spesso non osava misurarsi con loro (2), e degli ortodossi in generale (3), gli eretici potevano ben peccare di vanità e d’orgoglio (4).
Innegabilmente, l’eresia fu efficace strumento di emancipazione popolare, concorrendo a svegliare gli ingegni, a diffondere lo spirito di discussione e di critica, a provocare il desiderio di sapere, a rendere il laico cosciente del proprio valore, dei propri diritti e della propria forza.
LA REAZIÓNE ECONOMICA.
• « Ci siamo separati dalla turpe meretrice, cioè dalla Chiesa di Roma e vediamo cosa sono i prelati della bestia ! Hanno mille marche di rendita, e chi più e chi meno, e vedete un po’ come le spendono: lussuriando e gozzovigliando. Come possiamo credere a un nido di serpenti? » (5). Queste parole, che sembrano còlte, vive, sulle
(i) « Nullus etiam tam rusticus est, si se eis conjunx crit, quin infra octo dies tara sapiens sit litteris, ut nee verbis, nee exemplis, amplius superati possit». D’Argentré, I, 35.
• qui, etsi essent laici, latinitatem sermonis satis fuerunt feriti et divinae scripturae voluminibus plurimo legende intenti, nisi quod sanum scripturarum pervententes sensum ad sui erroris propositum retorquebant ». J. Trithfmi.us, Annates Hirsangienses, I, 450-451. Il trattato polemico del domenicano Moneta, Adv. Cath. et Wald, composto versò la metà del secolo xm, mostra quale notevole coltura scritluristica e patologica possedessero già gli antichi càtari e valdesi. Dei loro argomenti, lo scrittore nota: « vel ex ore eorum, vel ex scripturis suiS iìla habui », ibid., p. 2.
Per più ampi dettagli intorno allo studio e alle scuole specialmente dei valdesi, cfr. l’art. già cit.: L’attività letteraria dei Valdesi primitivi.
(2) « Quo facto, curri (sacerdotes) laycos nesciant decere, ipsi heretici fiunt doctores populi: ut òmnes abducant post se ». David d’ Augsburg, op. cit., 35.
« Haec autem omnia fecimus maxime ad instruendos et commonendos quosdam clericos, qui vel imperita vel librorum inopia laborantes, hostibus veritatis non resistendo, positi sunt in offensionem et scandalum ndelibus, quibus praesunt », Bernardo, abb. di Font-Cauld, op. cit., ap. Migne, P. L., to. 204, col. 795.
(3) • quare (dico) propter diligenciam eorum in malum et negligenciam catholico-rum in bonum, quorum plures sunt ita negligentes circa suam et suoni m salutem, ut vix suum Pater Koster aut Credo sciant vel famulis suis docea.nt ». Stefano de Bourbon, Anecdotes, 309.
(4) « Omnis gloriacio eorum et de singularitate, quod videntur sibi pre ceteris scioli quod aliqua ewangelii verba vel epistolarum sciunt corde vulgariter recitare. In hoc pre-ferunt se nostris, non solum laycis sed etiam literatis ». David d’Augsburg, op. cit., ibid., 32.
(5) « Forte heretici dicent: Nos sumus partiti a turpe meretrice, scilicet ab ecclesia Romae, et videamus de praelatis huius bestiae. Tpsi habent mille marchas de reddenda et plus et minus, et videatis, qualiter expendunt ipsas, adulterando, fornicando, etiam quia tantum comedunt, quod ipsi evoment per ore estra; igitur quomodo credere debeo ad nidum serpentis? ». Salve Bürge, ap. Döllinger, Beiträge. Il, 64.
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labbra dell’eretico, rivelano un altro elemento costitutivo dell’eresia medievale: la reazione economica.
Questo sentimento di reazione di fronte all'ingordigia degli ecclesiastici è, del resto, diffusissimo in quest’epoca. Scrittori anche ortodossi non esitano ad attribuire al fiscalismo romano la decadenza generale della fede (i).
Nota un inquisitore che se gli eretici aizzano i laici all’odio del clero, più li aizzano gli stessi chierici con i loro mali esempi e le estorsioni pecuniarie (2). Tra la turba di questi laici angariati e scandalizzati, gli eretici reclutano i loro adepti.
Roma è fucina sempre di eresiarchi; Romam vidisli, fidetn perdidisti, per lo meno la fidem romanam.
Come nel pieno fiorire del Rinascimento, Lutero, davanti agli splendori, le ricchezze e le orgie della corte pontificale, sentì nascere in sè il demone della Riforma, così, alla vista delle mense dei cardinali, onuste di oro e di argento, a Roma, nel secolo xii, il Lutero del medio evo, Arnaldo da Brescia, lanciò quelle sue invettive terribili che feconderanno tutte le eresie popolari (3).
Arnaldo, con le Scritture e i canoni alla mano, dimostrava al popolo di Roma « che i vescovi, occupati negli affari secolari, trascruravano la missione religiosa, ricevuta da Gesù Cristo; egli insegnava che la Chiesa deve restare povera e che le ricchezze sono la causa principale della Sua decadenza » (4).
Il moto arnaldistico, per il valore dell’uomo, per il numero dei seguaci, per l’importanza delle ripercussioni, costituisce l'espressione forse più caratteristica di quello stato d’animo, sempre più profondo e diffuso, da cui dovevano scaturire gran pai te di eresie e di eretici. Il tema delle invettive arnaldistiche sarà ripreso e sfruttato sino alle sue ultime conseguenze.
(1) Il cronista Matteo di Parigi insiste su questo punto: « Qualiter excitabatur per hec fidelium devocio: sed cito decidit, visa Romanorum avaricia ». Matthaei Paris. Cron. maj., in Mon. Germ. Hist. Scriptores, XXVIII, 128.
« Itaque imminet dissensi© manifesta, et si non corporum, cordium tamen, quod gravius est, exasperatio fere generalis contra Romanam ecclesiam suscitatur, et igniculus extinguitur devocionis», ibid., p. 331. Cfr. anche ibid. p. 134: « Et sic diatim multorum devocio fidesque titubatur plurimorum ».
(2) « Et ideo valde male faciunt, quia quacunque occasione láyeos provocant in odium cleri, quod tamen ipsi clerici maxime faciunt per mala exempla et extorsiones pecunie et multiplicaciones excommunicacionum aliquoeiens indiscrete ». David d’Augsburg, op. cit., p. 39.
(3) « Hie cum Roman venisset, venerati sunt Romani doctrinan! ejus. Pervenit tandem ad curiam et vidit mensas cardinalium vasis aureis et argentéis honustas et delicias in epulis. Coram domino papa reprehendit eos modeste, sed moleste tulerunt et eicierunt eum foras, qui rediens ad urbem, indefesse dqcere cepit. Conveniebant ad eum cives et libenter audiebant. Factum est autem, ut audirent de contemptu premiorum et mammonae sermonem fecisse cardinalium in aures, presente domino papa, predictum Ernaldum et ipsum a cardinalibus eiectum. Congregati sunt ad curiam et jnrgati contra dominum papam et cardinales, dicentes Ernaldum virum bonum et iustum et ipsos avaros, iniustos et malòs et qui non essent lux mundi; sed fex, et in hunc modum et vix continuerunt manus. Quo tumulta vix pacificato, missis ad imperatorem legatis, dominas papa denunciavit Ernaldum excommunicatum et hereticum, et non recesserunt muncii donee ipsum suspendí fecerunt ». Gualtero Map, De nugis curialium, ap. Mon. Germ.. Hist'. Scriptores, to. XXVII, p. 65.
(4) ’ Jean dé Salisbury, Historia pontificane. ap. M. G. H. SS.. tò. XX, p. 537.
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La povertà assoluta sarà la pietra di paragone della vera Chiesa. Là dove regna l’insolente ricchezza, il fiscalismo vessatorio, non è la Chiesa di Cristo (i). Questa non è più la chiesa di Roma dal giorno in cui papa Silvestro ebbe accettato la leggendaria donazione di Costantino, che lo fece signore temporale, successore di Cesare ma non di Pietro (2).
L’argomento « economico » doveva costituire in fondo, più che tutte le discussioni dommatiche e religiose, il leit-motiv della predicazione dell’eretico. Argomento vivo, palpabile, accessibile a tutte le intelligenze e che il popolo conosceva già per lunga e dura esperienza. Come poteva esso non gradire una voce che, confortata dal buono esempio dell’oratore e dell’autorità del Vangelo, gli affermava il diritto di non pagare più tributo alcuno ad ecclesiastici, nè sotto forma d’imposta, nè di elemosina, nè di culto, nè, specialmente, le tanto odiate decime?
Nei secoli xi e xn, le decime erano divenute così esose, così rovinose per i piccoli proprietari liberi, che questi, per sottrarsi ad un balzello che oramai pesava su tutte le abituali risorse del lavoro e della produzione, preferivano dar se stessi e i loro beni allodiali alle chiese ed ai signori, quando non s’inducevano a devastare e ad abbandonare i loro campi, colpiti dalla decima (3). Nascevano e si rinfocolavano così rancori e sentimenti profondi di rivolta e che. di tanto in tanto, esplodevano sotto forme diverse, mistiche od anarchiche. Specialmente a partire dal 1000. Sono le prime congiure degli oppressi e non soltanto della classe dei servi; sono i primi moti rivoluzionari che si risolveranno, presto o tardi, nella conquista delle franchigie comunali (4).
(1) « Papa et episcopi et praelati et clerici qui habent divitias hujus mundi, et sanc-titatem apostolorum non imitantur, non sunt ecclesia veri Dei pastores et gubernatores, sed lupi rapaces et devoratores » Atti dell’ Inquis. di Carcassona, ap. Dollinger, Bei-tràge, II, 13.
« Item dieunt quod nostri clerici et saccrdotes, qui habent divicios et possessiones, sunt filii dyaboli et perdicionis ». Stefano de Bourbon, Anecdotes, 297.
(2) « Adhuc ctiam haeretici agitati veneno perfidiae nituntur probare, quod Romani Pontifices, et qui eis adhaerent, non sunt successores Petri, sed Constantini, nec a Petro incœpisse Ecclesiam, sed a Constantino, ve! a Silvestro. Dieunt enim quod cum Paulus venisset Romani, Sancti, qui tunc Romae erant, quia et ab Imperatoribus Romanorum capiebantur, carcerabantur, et contradicebàtur eis fere ab omnibus, et occidebantur. Tunc autem Roma imperium mundi tenebat. IHiìd autem imperium tenuit Roma usque ad tempus Constantini, qui in eodem imperio superbe successit. et sicut habebat tradidit Silvestro, qui fuit papa hujus Romanac Ecclesiae, et omnia insignia imperii illi tradidit, scilicet coron am imperialem, Chlamidem coccineam, Palatium l.ateranense. et potestatem, atque dominium mundi, sicut et ipse habebat, sed ipse habebat hoc per violentiam et rapinam, sicut Julius Cæsar, et ahi oraedecessores sui; ergo Silvester, qui illa, accepit injuste, et per rapinam illa possedit, similiter et omnes ahi qui a Silvestro per succes-sionein acceperunt, non dicant ergo Romani Pontifices se esse successores Petri, sed Constantini ». .Moneta, op. cit., pp. -109-410.
Cfr. David d'Augsburg, op. cit., p. 26; Summa ir. Reinert, De Gath. et Leon, ap. Martène, Thés. nov. anecd., V, 1775; D’Achery, Sfidi, I, 209; Bericht des inquis. Petrus, ap. Preger, Beitràge sur Gesch. der Wald, in M. A., p. 68.
“ (3) Cfr. Inama-Starnegg, Deutsche Wirtschaftsgcschichte in M. A., li, 41-42.
(4) « Foedus valida« coniurationis in Italia exontur. Inferiorcs namque milites su-periorum iniqua domination« plus solito oppressi, simul omnes illis résistant coadunati.
Nec non etiam quidam ex servili condition« contra dominos suos pioterva facilone conspirati, ipsi sibimet inter se judices, iura ac leges constituunt, fas nefasque confun-
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Verso il looo, Liutardo, della diocesi di Chalón, predicava al popolo che i profeti si erano qualche volta ingannati e che non bisognava più pagare le decime feudali (i).
Il moto popolare contro il pagamento delle decime ebbe nelle eretici i più tenaci e validi assertori. Niente decime, niente oblazioni, niente altre prestazioni pecuniarie (2). Sarebbe un peccato grave, sarebbe come voler aggiungere del grasso al lardo (3).
È per spillar denaro che i chierici, con mille astuzie, tengono in soggezione i laici, e questo denaro serve a pascere le loro concubine ed i bastardi (4).
Così come esse erano esercitate, sembrava che il dio Mammona avesse ispirato tutte le funzioni sacerdotali. Tutte le istituzioni ecclesiastiche sembravano trovate apposta per accrescere le risorse dei preti: le consacrazioni, gli ordini e tante altre feste (5). A che potevano servire i lumi accesi la notte nelle chiese se non ad impedire che il sacristano inciampasse? (6) È certo che le oblazioni per i suffragi fossero assai utili ai chierici, che mangiavano, ma ai defunti? (7).
Questa propaganda spicciola, a base di affermazioni gradite alle orecchie della folla e di violenti attacchi personali, mirava a questo duplice scopo: distruggere il
dunt. Contra quos sedandos episcopus Mediolanensis alitane senatores Italiae insurgentes, conati sunt cos a tanta insolcntia revocare, si possent. Seti nullatenus eis voluerunt ac-quiesccre, donee scripto concessum est illis a rege, jus patrum suorum inviolatum tenere ». Ann ales Sangallenses majores, ad an. 1035 (1841), ap. Mon. Germ. Hist. SS. to. I, p. 83.
(1) Ved. la cronica di Raoul Gabler, ed. Prou, Paris, 1886. Nel medio evo si fabbricarono anche delle lettere di Cristo dirette ai fedeli per indurli a pagare le decime. Cfr. la Rivista ecclesiastica di Metz, gennaio 1901, p. io.
(2) «Dissuadent ergo eis dare oblaciones, decimas et alia similia» David d'Augsburg op. cit., 35. . . . ...
■ Laicos ad solvendas alicui Ecclesiae romanae sacerdoti decimas non teneri, nisi perfectionem et paupertatem apostolorum sit assecutus ». Natalis Alexander, Hist. Eccl., Vili, So.
« Quod Clerici et Claustrales non debeant prebendas habere ». Anonimo di Passau, ap. D’Argentré, I, 93.
(3) « Item dicunt... quod peccant qui dant eis decimas vel ablaciones; et dicunt quod est quasi impinguare lardum », Stefano de Bourbon, Anecdotes,
(4) « Dicunt eciam quod per astuciam et potenciam clerici teneant laycos sibi su-biectos, ut dent eis decimas et oblaciones, ut inde alantur et luxurientur et concubinas et parvulos suos pascant ». David d’Augsburg, op. cit., 34.
(5) x Dicentes quod hec et alia tantum pro sua utilitate statuerint, et causa lucri sui omnia ecclesiastica ordinaverint instituta ». David d’Augsburg, op. cit., 35. « Omnia talia bkuphemant et dicunt ea pro avaricia solum a clericis instituta, ut ea ad suum questura reducant, et a subditis hac occasione pecuniam et oblaciones exquirant ». David d’Augsburg, ibid., 27. «Itera consacrationes clericorum, ecclesiarum et ordines eccle-siasticos dicunt esse insaniam et errorem et quod papa et episcopi etiam invenerint propter lucra ». Errores haer. Wald., ap. Döllinger, Beiträge, II, 340.
(6) ■ Item dicunt quod luminaria nocturna bona sunt, ne sacrista pedes suos offen-dat». Summa de haeres., ap. Döllinger, Beiträge, II, 298.
(7) « Unde dicunt quod oblaciones facte pro defunctis, prosunt clericis, qui comedunt, non animabus qui huiusmodi non utuntur ». David d’Augsburg, op. cit., 28.
« Purgatorium negant, et ita... omnia suffragia ecclesiae subsannant, dicentes, quod oblationes ad altare pro defunctis bonae sint, scil. ad pascendos sacerdotes ut eo lautius comedant et luxoriosius vivant ». Summa de haeres., ap Dollinger, Beiträge, II, 298.
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potere spirituale dei chierici sui laici e annientare la loro forza materiale, renderli odiati (i) e miserabili (2). E certo, molto contribuirono a renderli malvisti, meno ricchi e menò privilegiati.
LA REAZIONE POLITICA.
Le autorità ecclesiastiche attribuivano generalmente la prodigiosa diffusione dell'eresia alla negligenza, all’assenteismo e alla scostumatezza dei prelati, così che una predicazione più frequente degli insegnamenti ortodossi sembrava loro essere il rimedio più efficace a tanto male (3).
Certo, il contegno dei prelati favoriva il dilagare dell’eresia e dalla loro sregolatezza gli eretici sapevano tirare eccellente partito per intensificare là loro propaganda. Ma le loro invettive erano anche quelle di tutti i riformatori ortodòssi e non raggiunsero forse mai la violenza verbale di un san Pietro Damiani, autore del Gonorrea.
È facile pensare che questa formidabile reazione laicale dovette avere motivi più profondi ed obbedire ad impulsi più immediati.
Questi motivi e questi impulsi vanno, mi sembra, ricercati in quel sostrato eco-nomico-sociale che, a partire dal 1000, determinò, con moto sempre più accelerato, l’orientazione degli animi verso sempre più ampie rivendicazioni di libertà e di benessere, culminando nelle carte di franchigia e nella costituzione dei comuni. Di questa lotta dei manenti, dei rustici, dei servi, del popolo minuto e della piccola borghesia contro i feudatari, l’eresia fu un elemento d’indiscutibile efficacia e un fattore forse decisivo.
La Chiesa era allora l'alleanza della feudalità (4) come più tardi lo sarà della nobiltà privilegiata e infine della borghesia capitalistica. Come oggi il movimento proletario assume, per necessità di cose, un’attitudine anticlericale, così nei secoli xi e xn la borghesia che veniva emancipandosi dal servaggio feudale doveva anche essere naturalmente antiecclesiastica.
Del resto, la Chiesa stessa era divenuta un’istituzione feudale e i suoi prelati erano quasi tutti dei feudatari, più o meno grossi. Questi, poi si mostrarono difensori più feroci dei propri privilegi, che non gli stessi laici (5), e aggiungevano ai mezzi coercitivi di questi le pene ecclesiastiche per rintuzzare l’insania dei servi che osavano ribellarsi ai loro padroni.
(1) « Ideo autem clero detrahunt, ut cum exosos reddiderint, non credatur eis nec obediatur ». David d’Augsburg, op. cit., 34-35.
(2) « Item spem habent clerum reducere ad statum paupertatis apostolorum, et ?uod potestatem quam exercet ecclesia in eos, hanc ipsi in ecclesiam exercere deberent ». ximma de haeres., ap. Döllinger, Beiträge, II, 301.
« Audivi ab ore haereticorum, quod intendebant clericos redigere et claustrales ad statum fossorum per ablationem decimarum et possessionum et per potentiam et mul-titudinem credentium ipsorum et fautorum ». ap. Max. Bibi. Patrum Lugdum., to XXV.
(3) Cfr. il sinodo di Avignone del 6 settembre 1200, can. 1. (Labbe, SS. Concilia. to. XIII).
(4) Il concilio di Magonza dell’847, can. 5, scomunica « tutti coloro i quali congiurarono contro il re, i ministri di Stato e contro le potestà ecclesiastiche »
(5) Cfr. la congiura del 1035, nei citati Annales Sangallenses.
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Chi lottava contro il feudatario si trovava spesso anche a lottare contro il proprio vescovo. Agli albori del moto comunale, nel 1126, abbiamo, a Làon, un caso tipico di sanguinosa rivolta contro il vescovo-signore, finita con la proclamazione del comune. Per non citare che qualche altro caso di Francia, nello stesso secolo XII, nel 1167, i borghesi di Béziers assassinano il visconte e rompono i denti al loro vescovo; nel 1194, gli abitanti di Mende espellono il vescovo dalla città; quei di Cape-stang, nel 1195, gettano in prigione l’arcivescovo di Lodève; nel 1198, i borghesi di Lodève costringono il loro vescovo, con il coltello alla gola, a concedere loro le franchigie comunali.
Questa cospirazione d’interessi tra la feudalità e la Chiesa tendeva naturalmente ad accomunarle di fronte all’opposizione dei laici. Chi metteva a base della vera Chiesa la povertà assoluta, chi affermava che vescovi e abbati non potevano possedere diritti feudali (1), lavorava indirettamente a battere in breccia tutto il regime sociale esistente. Per valutare la portata sociale che poteva avere la negazione del diritto ecclesiastico alla possessione, bisogna ricordarsi quanto enormi fossero i beni stabili amministrati dagli ecclesiastici. Nonostante tutte le falcidie, infatti, verso la fine del secolo xm, questi avevano ancora in mano la terza parte circa dei beni delle città e dei contadi (2). Ma l’eretico fa di più.
È direttamente che egli lavora in favore dell'emancipazione popolare, per lo meno, mano a mano che ci avviciniamo al secolo xm. Arnaldo da Brescia riconosceva la sovranità del « principe » sui beni temporali, da cui i laici derivavano il loro diritto di goderne (3). Ma già gl'Incappucciati, una cinquantina d’anni dòpo (1186), miravano a sovvertire non solo la disciplina cattolica ma anche quella politica (4). 1 Valdesi primitivi, verso la stessa epoca, insegnavano che non solo nè il papa, nè i cardinali, nè i vescovi, ma che neppure gli imperatori, re, principi, duci e giudici, tanto spirituali che secolari, potevano salvarsi (5). Gli eretici dannavano le leggi canoniche, ma anche quelle dell’impero (6).
Secondo alcuni eretici, della vera Chiesa, non fanno parte nè re nè principi, i quali solo dal mondo e non da Dio ricevono l'investitura e che per ciò quante volte emettono un giudizio tante volte peccano (7). Nè mancano testimonianze dove
(1) Quod Episcopi Abbates non debent jura regalia habere». Anonimo di Passau, ap. D’Argentre, I, 93.
(2) Cfr. Cibrario, Dell'economia polìtica nel medio evo, II, 44.
(3) Cfr. Ottone di Frisinga, De gestii Friderici, lib. II, cap. 21.
(4) Vedi più giù.
(5) « Item dicunt, papam esse caput omnium haeresiarcharum et ex eo ipso cardinales, archiepiscopos, episcopos, imperatorem. reges, principes, duces et omnes judices tara spirituales quam sàeculares, disserentes, si possibile esset aliquem saivari ex illis, fides eorum esset falsa et mala et nulla, et hoc reputant impossibile ». Error, haer. Wald., ap. Döllinger, Beiträge, II, 33$-339(6) » Item dampnant et reprobant leges imperiales et sanctiones canonicas ». Cod. s. Emmer. Ratisp., ap. Döllinger, Beiträge, II, 309.
(7) Reges gentium etc. vos autem non sic. Erratici, et maxime pauperes Leoni-stae et Lombardi; haec volunt introducere pro cis, dicentes, quod per haec verba pro-batur, quod nec reges nee potestates debent esse in ecclesiae Dei, et super haec volunt inducere rationes. Ünde dicunt, quod reges, nec potestates non sint a Deo ordinati, imo
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l’opposizione dalle potestà civili è estesa a tutti i ricchi e che rivestono un carattere apertamente economico, come quando esse affermano che i re e i principi, e tutte le persone facoltose non possono salvarsi (i).
Il programma dei Pastoureaux, che verso la metà del secolo xm, sciamarono attraverso la Francia era, come vedremo, di distruggere, oltre il clero secolare e regolare, i cavalieri e i nobili (2). Dolcino, infine, affermava che i suoi nemici erano tanto gli ecclesiastici, che i potenti ed i tiranni (3).
La finalità ultima dei moti politici popolari era del resto implicita nel carattere di « fraternità » e per ciò di membri godenti di uguali diritti, dato da alcuni erètici, e specialmente dai Valdesi, alle loro associazioni (4). Noi ritroviamo ih queste appunto, quella tendenza ugualitaria che riscontriamo in tutte le corporazioni di arte e mestieri dell’epoca (5).
Non sarebbe difficile trovare parecchie e singolari analogie tra le forme esteriori dell’organizzazione comunale e delle sette catari e valdesi.
La fraternitas dei valdesi è senza dubbio anche una amicizia. Gli aderenti portano anche il nome di «amici «(6). Amicitia communis, detta anche communùas amicùiac, chiamasi pure l’associazione degli abitanti di una città, che si sono legati in intima solidarietà con un giuramento (7). I magistrati di questa associazione erano il prefetto (praefectus amicitiae) e dodici giudici (XII sciceli judices), che più tardi
sint contra Deum et in quocunque casu faciunt vindictam peccant mortaliter, quia non sunt ordinati a mundo, ab ilio mundo qui est contra Deum, i. e. a mundanis ». Salve Bürge, ap. Döllinger, Beitrage. II, 75.
(1) « Dixit, quod Reges et Principes, praelati et religiosi et omnes alii qui divjtias habent, saivari non poterant ». Confessio Bealricis, ap. Döllinger, Beiträge, II, 109.
(2) Vedi più giù.
(3) « Item adversarios suos, et ministros Diaboli asserit esse Clericos saeculares cum multis de populo, et potentibus et tyrannis, et omnes Religiosos, specialiter Prae-dicatorum et Minorum Ordinum et aliorum ». H istoria Dulcini, ap. Muratori, R. I. S.S., to. IX, 450. Cito, qui, anche quei rivoltosi della diocesi di Sens (1315) i quali volevano abbattere: Regem et Papam; Coni. Chron. Guill. de Nangis, ap. D’Argentré, I, 285.
(4) «Item postquam sunt ad istam societatem, quam vocant fraternitatem ». Atti dell’lnquis. di Carcass., ap. Döllinger, Beiträge, II, io. « Item communiter vocant se fratres ». Ibidem.
« Ipsi inter se vocant se Fratres sen Pauperes Christi ». Bernardo Gui, Practica Inguisttionis, ed. Douay, p. 256.
«In ipsa secta honiines et mulieres recipiuntur et fratres et sorores nuncupantur ». De vita, et aclibus, ecc.» ap. Preger, lieber die Verfassung der französischen Waldesier, in ä. z., p. 70.
(5) Cfr. Gino Arias, II sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni, Roma, 1905, cap. I.
(6) « dilectis in Christo fratribus ac sororibus, ainicis et amicabus ». Rescritto dei valdesi lombardi ai leonisti di Germania, ap. Döllinger, Beiträge, II, 42.
« Consueverunt convenire ac exhortari fratres ad invicem et amicos ». Innoc. Ili, Epist. (1909).
« amicos et credentes... per ipsos haereticos perfectos visitantur ». De vita et aclibus, eccetera, ap. Preger, Ueb. d. Verf. d. franz. Wald., p. 70.
(7) Celebre è, nella storia delle istituzioni municipali francesi, la carta comunale di Aire-sur-la-Lys (Pas-de-Calais), detta Loi de l'amitié, della fine del secolo xi. Ved. il testo ap. D’Achery, Spicilegium, III (1793). p- 553- Gir. A. Wauters, Les HberUs commu-nales en Belgiquc dans le nord de la France et sur le bord du Rhin, Bruxelles, 1879, L 355-
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presero il nome di majeurs. Mayores è appunto il nome che portano gli amministratori delle sette catari e valdesi, in numero di dodici (1), presieduti probabilmente da un major minister o majoralis (2).
Inoltre, gli eretici si reclutavano principalmente tra quella gente angariata, tra quei rustici, quei servi, quegli artigiani {tessitori) che sono, nello stesso tempo, gli artefici dei comuni (3).
Quella libertà e uguaglianza, che questi rivendicavano, era stata già annunziata, voluta e praticata, sia pure in margine alla società costituita, da una folla di sette anonime di Apostolici, che spuntarono un po' dapertutto: a Colonia come nel Périgord, à Orléans come a Parma. A queste sette si possono riannodare gli Spirituali Francescani, i Fraticelli, i Saccati di Provenza, i Giambonitani e i Britti delle Marche, per tacere dei Valdesi, dei Beguini e di tante altre, la cui predicazione si aggirava intorno al binomio: libertà ed uguaglianza.
Questi eretici, saturando l’ambiente di ribellione alle autorità costituite, e alla più formidabile tra di esse, quella ecclesiastica, maturavano il germe rivoluzionario che, sopra un terreno storico in cui la tradizione libertaria non s’era mai spenta del tutto durante l'alto medio evo e che la rivalità tra la Chiesa e l’impero non cessava di alimentare, non poteva non dare il suo frutto appena le condizioni lo avessero permesso.
L’eresia religiosa ci appare quindi come la rivolta delle classi proletarie sul terreno economico ed ecclesiastico insieme, come un aspetto di quell’eresia politica che fu il moviménto comunale (4). L’eretico che contesta alla Chiesa il diritto di possedere e alle autorità civili il diritto di giudicare, e il borghese che spezza il servaggio allodiale del barone, spesso un vescovo, e rivendica il diritto di far le sue proprie leggi, sono i rappresentanti di uno stesso stato di coscienza, i fattori della stessa società che nasce.
Quest’identità di natura è confermata da parecchie constatazioni.
Anzitutto noi troviamo spesso gli eretici mescolati alle fazioni civili di varie città, integrandone l’azione e corroborandone i risultati (5). Il compito rivoluzionario dell’eresia si manifesta specialmente nei periodi di acuto dissenso tra la società
(1) Cfr. A. De Stefano, La Noble Leçon des Vaudois du Piémont, Paris, Champion, P- xi-xi 1. Detti anche magistri e redores. Rettori si chiamavano coloro che reggevano il comune.
(2) Cfr. A. De Stefano, La Noble Leçon, idib.
(3) La maggior parte dei seguaci di Dolcino erano contadini e servi fuggiti dalle terre dei vescovi di Vercelli e di Novara e dei proprietari vercellesi e novaresi. Cfr. G. Volpe, Eretici e moti ereticali dall’ xi al xiv secolo nei loro molivi e riferimenti sociali. Estratto da II Rinnovamento, Milano, an. I, 1907, p. 72/
(4) <1 II movimento comunale rappresenta l’eresia politica, cioè il distacco cosciente dalla costituzione generale dello Stato; il movimento religioso che è sostanzialmente eretico, si svolge parallelo all’altro; le due tendenze si confondono, fino ad un certo punto, Eer trovare un rimedio materiale e morale all’intollerabile disordine. Ecco perchè l’eresia a tanta vitalità dal secolo xi in poi, ed un carattere così particolare in Italia ». Nino Tamassia, S. Francesco d'Assisi e la sua leggenda, p. 20.
(5) Cosi a Brescia tra il 1220 e il 1230. Treviso, nella prima metà del secolo xn, ebbe le sue agitazioni eretiche contemporanee a quelle dei cittadini contro la signoria vescovile. Cfr. G. Volpe, Eretici e moti ereticali dal xi al xiv secolo, pag. 72.
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laica e il clero. In questo momento, i laici passano facilmente all’eresia, così che i due movimenti, quello prevalentemente politico e quello prevalentemente religioso tendono a confondersi (i). Del resto, questi homines novi delle città, come tutte le classi uscite dà un movimento rivoluzionario avevano una mentalità spiccatamente ereticale; che se non furono eretici nel senso ordinario della parola, ciò non fu perchè fossero profondamente ortodossi, ma piuttosto perchè non avevano fede abbastanza per diventare catari o valdesi. Spesso furono indifferenti, e anche increduli; quasi sempre anticlericali (2).
Ciò appare anche più 'manifesto da quest’altra considerazione, che, cioè, gli eretici hanno trovato nella borghesia la protezione più efficace e il più valido aiuto per difèndersi contro la persecuzione della Chiesa.
« Dappertutto — scrive il Luchaire — dove signori e borghesi guerreggiavano con il clero, essi accoglievano con entusiasmo gli eretici che venivano, in nome di una moralità superiore, a combattere il cattolicismo e lavoravano a prenderne il posto. Il predicatore cataro o valdese si presentava come un ausiliario insperato. Ben presto, grazie, all’attrattiva dell’ignoto e al dilettantismo, nel mondo feudale e nelle città, divenne di moda di ostentare il disprezzo per l’antico culto e di favorire il nuovo » (3).
Lo sviluppo dell'eresia popolare segue passo passo quello del regime comunale e coincide con l’evoluzione commerciale, industriale e intellettuale dei vari paesi. Vedansi, infatti, le Fiandre e la Champagna (4), Milano e la Lombardia, Tolosa e là Provenza.
A Milano, detta perciò fovea haerelicorum, pare che si sieno date convegno tutte le eresie. Nella prima metà del secolo xm se ne contano sino a diciassette (5). Gli
(1) • Multimi autem gaudent heretici, quando populus contra clerum et doctores ecclesie provocatur, quia tunc audacius audent clero c etrahere et laycos in detestacionem cleri inducere, quando populus estât contra clerum et < octores ecclesie, quasi sub communi contencione et facile tunc possunt làyci trahi in haeresim... Et hec astuti heretici attem-ptare non negligunt, uti viderint opportunum ». David d’Aubsburg, op. cit., p. 39.
(2) Come esempio di mentalità borghese cito questo tratto di storia padovana: « Anno 1282... Et multi Presbyteri, Clerici et Religiosi fuerunt occisi in Padua, et Pa-duano districtu, quia tunc per commune Paduae fuit stabilitum, et scriptum in quodam parvo volumine, quod vocabatur Donatellus, prò homicidio commisse in persona alicuius ecclesiasticae personne condemnari debeat homicida solum in uno denario Veneto, grosso nuncupato. Quod statutum factum fuit propter multa et enormia scelera quae commit-tebantur per Clericos, de quibus [nulla] fiebat justitia per D. Episcopum Paduanum ». Cronaca di Ongarello, ap. Federici, Istoria dei Cavalieri Gaudenti, Venezia, 1787. I, 153.
(3) A. Luchaire, innocent III et la croisade des Albigeois, p. 28.
(4) « Lés pavs les plus riches, les plus commerçants, les plus ouverts à la culture intellectuelle, la Fiandre et la Champagne, sont précisément ceux, où les doctrines hétérodoxes se propagent le plus aisément ». A. Luchaire, ap. E. Lavisse, Histoire de France, III, I, 314. Focolari di eresia sono segnalati infatti nei 1193 a Arras, nei 1200 a Troyes, nel 1202 a Charité-sur-Loire, nel 1204 a Fraine.
(5) “ requisitus recognovit quod bene noverai apud Mediolanum septemdecim sectas ad se invicem divisas et adversas, quas ipsi edam de secta sua omnes dampnabant., et eas mihi nominavi! et différencias earum ». Stefano de Bourbon, Anecdotes, 280.
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eretici vi trovano facilmente protezione e favori (r). Essi erano in Lombardia così numerosi e i loro seguaci così potenti che vi osavano agire da padroni (2).
La Provenza fu, non meno della Lombardia, la terra classica dell’eresia. Questa, nel secolo xii e specialmente nella prima metà del xm, aveva pervaso tutta la regione. Gli eretici vi godevano una grande libertà: vi predicavano sulle piazze pubbliche, vj riunivano concili alla vista di tutti, vi costituivano centri di propaganda e luoghi di rifugio, vi organizzavano la difesa contro ogni eventuale attacco (3).
Narbonne, Montpellier, Carcassona, Béziers, tutte le fiorenti città del mezzogiorno, di Francia erano focolari intensi di eresia, ma sopratutte Tolosa. Gli eretici, a Tolosa vi stavano veramente come a casa loro: l’attitudine degli ortodossi stessi non poteva essere più tollerante e pili benevola, ifoec Tolosa, tota dolosa, si diceva. L’eresia era un patrimonio che fin dalle prime origini cittadine, i padri trasmettevano ai figli (4).
Un’altra considerazione infine che suggerisce il ravvicinamento tra eresia popolare e moto comunale è l’attitudine dell’autorità ecclesiastica che tutte e due accomunò in una stessa condanna. Vero è che, la Chiesa favorì qualche volta l’emancipazione della piccola borghesia in certe regioni, quando ciò poteva esserle utile nella lotta contro alcune autorità civili, ma fu solo quando il movimento borghese divenne travolgente che essa attenuò la sua diffidenza e fece buon viso a cattivo gioco (5).
Come di fronte ad altri movimenti, così anche di fronte al nascente moto di emancipazione sociale, la Chiesa si mostrò per principio avversa, in nome del rispetto all’autorità e ai poteri costituiti. Troppo bene essa s’accorgeva dell’affinità reale che esisteva tra eresia e comune (6). Un esempio tipico di questa mentalità ecclesia(1) Milano diede ai Poveri Lombardi un campo per le loro riunioni. Cfr. Innoc. HI. Epist. XII, 17.
(2) « confisi de multitudine et potentia credentium et defensorum eorum ». Summa de haeres., ap. Döllinger, Beiträge, II, 301.
(3) a En 1206 et pendant les années suivantes, les prédicateurs des*Albigeois et des Vaudois parlèrent publiquement sur la grande place, à Dun près de Mirepoix, à Montréal, à Fanjeaux, à Tarascon, à Laurac. Une sorte de concile cathare se réunit même à Mirepoix et les délibérations aboutirent à un plan de défense. Pour parer aux éventualités probables, on décida de constituer des places de sûreté qui serviraient à la fois de centre de diffusion de la nouvelle doctrine et de lieux de refuge pour les crevants ». A. Luchaire, Innocent III et la croisade des Albigeois, p. 88.
(4) « Haec Tolosa, tota dolosa, a prima sui fundatione (sicut asseritur) raro vel nunquam fuit expers hujus pestis vel pestilentiae detestabilis, hujus haereticae pavitatis. a patribus in filios successive veneno superstitiosae infidelitatis diffusio ». Pietro di Vaux-Cernay, Hist. Albig., ap. Bouquet, to. 10, p. 5.
(5) Prima che- gli abitanti di Tolosa prestassero, nel 1203, davanti a Pietro di Castelnau legato del papa, giuramento di conservare la fede cattolica, il legato dovette anzitutto dichiarare che questo giuramento « non avrebbe apportato alcun pregiudizio alle loro libertà » e che anzi egli aveva mandato di confermare, in nome del papa, i loro costumi e i loro privilegi ». Cfr. A. Luchaire, Innocent III et la croisade des Albigeois, pp. 83-84.
(o) La parola stessa «comune» suonava sospetta alle pie orecchie. Essa includeva 1 »dea di congiura e di rivolta. Nella regola dei Templari commune significa complotto di due o piu fratelli contro un altro. Cfr. A. Rastoux, Les Templiers fu 18-1312), Paris, Bloud, 3m® éd , p. 12.
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stica ci è offerto dal seguente tratto del cardinale Giacomo de Vitry, a cui il comune appare come una sentina di vizi e di violenze, utile solo allo sviluppo dell’eresia.
« Questa detestabile razza di uomini — scrive egli — corre tutta intiera alla sua perdita, nessuno di essi o ben pochi saranno salvi; tutti camminano a gran passi verso l’inferno. Come potrebbero, infatti, espiare le iniquità e le violenze di cui si sono resi colpevoli? Noi li vediamo tutti, infiammati già di fuoco infernale, aspirare alla rovina dei loro vicini, distruggere le città e gli altri comuni che essi perseguitano e rallegrarsi della morte altrui.
« La maggior parte dei comuni si fanno una guerra spietata: tutti, uomini e donne, sono felici della rovina dei loro nemici... Il comune è come il leone di cui parla la Scrittura, che strazia brutalmente e anche come il dragone che si nasconde nel mare e vi spia per divorarvi. È un animale la cui coda termina in punta per nuocere al vicino e allo straniero, ma le cui testi multiple si ergono l’una contro l’altra: poiché nello stesso comune, essi non fanno che invidiarsi, calunniarsi,.soppiantarsi, ingannarsi, infastidirsi, schiacciarsi reciprocamente. Al di fuori, la guerra; al di dentro, il terrore. Ma ciò che c’è di più detestabile in queste Babilonie moderne, è che non esiste comune in cui l’eresia non trovi i suoi fautori, i suoi manutengoli, i suoi difensori, i suoi credenti » (1).
LA REAZIONE ANARCOIDE.
« Noi non siamo sudditi nè del Papa nè di nessun altro » (2). Questo grido, attribuito a frà Dolcino, sembra essere stato il programma, sin dal secolo xi; di parecchie sette antiecclesiastiche a tipo anarcoide. Sono, senza dubbio, manifestazioni sporadiche, sebbene vaste ed importanti, e di breve durata, che quasi sempre vennero soffocate prontamente nel sangue. Hanno più valore di simbolo che di contenuto: come indice di mal represse esplosioni di rivolta, che di un programma di realizzazioni pratiche. Non possiamo tuttavia trascurarle, perchè nel loro stesso carattere ipertrofico ed esagerato, tradiscono la natura di altri moti che se ne differenziano più per la misura che per il contenuto, più nei mezzi che nelle finalità.
Una delle pili notevoli di queste sette a tipo anarcoide, che colevano, sotto l’orpello religioso, avidità di saccheggi ed impulsi di rivolta civile, fu quella degli Incappucciati, che si manifestò in Francia verso il 1186. Fu una larga sommossa di plebei, pervasi da un'ondata di ribellione e di anarchia. Essi formarono un’associazione, giurandosi aiuto reciproco in tutti i loro bisogni e nella lotta entro i nemici comuni. I congiurati si distinguevano per certi cappucci di tela che portavano, muniti di segnacoli di piombo, in onore di santa Maria del Poggio.
Gli Incappucciati rigettavano ogni autorità superiore e affermavano il diritto a quella stessa libertà che era stata concessa ai nostri progenitori. Professavano l’eguaglianza assoluta tra gli uomini, abolendo ogni distinzione tra grandi e piccoli, e miravano ad un rivolgimento generale della società.
(1) Citato da A. Luchaire, La société française sous Philippe-Auguste, pp. 16-17.
(2) • Nee Romano Pontifici nec alieni hominum se subditos esse ». ap. Natalis Alexander, Hist. Eccl., to. Vili, p. 80.
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La setta si diffuse largamente, eccitando vivamente gli animi dappertutto. In alcuni luoghi, gli Incappucciati passarono dalla teoria alla pratica, rivendicando con la violenza la libertà sognata.. Ma un vescovo dei piti animosi, Ugo de Noèriis, d’Orleans, la cui diocesi aveva particolarmente sofferto per la presenza dei saccheggiatori, li perseguitò vigorosamente ed ebbe infine ragione di questa « follia di servi che insolentivano contro i lor signori » (i).
Verso il 1230 si diffuse per il Brabante e l'Olanda una nuova eresia rivoluzionaria, detta degli Stedinghi. Si tratta evidentemente, anche qui, di un ampio moto popolare, sopra tutto contadinesco, diretto anch’esso contro il clero e contro i signori feudali. « Un infinita moltitudine di rustici » sorse, come per incanto, intorno a questi eretici, pronti a seguirli ed a difenderli. Non pare però che questo moto abbia avuto notevoli risultati (2).
Moto anarcoide, anticlericale, con titoli e apparenze religiose, fu anche la cro(1) «In diebus illis... horta est in Galliis horrenda nirais et periculosa praesumptio, et quae plebeios ceperat universos in superiorum ribellionem, et exterminium potestatum; quae, tamquam a bono habens originem, Angelo Satanae, sese in lucis angelum transformante, exitialia suggeret, simulatam boni speciem praetendebat. Nam, sub obtentu mutuae charitatis, praestitis juramentis, confoederabantur ad invicem, quod sibi in ne-cessitatibus suis mutuum ferret consilium, et auxilium contra omnes. Cujus confoedera-tionis consortes, telatura caputia, cum signaculis plumbeis, quae B. Mariae de Podio di-cebantur, assumpserant in characterem, et in signum, quae eos a coeteris distinguebant. Diabolicum profecto, et perniciosi! m inventum. Nam, de hoc sequebatur, quod nullus timor, nulla reverentia superioribus potestatem habcretur; sed in earn libertatem sese omnes asserere conabantur. quam ab initio conditae creaturae a primis parentibus se contraxisse dicebant, ignorantes peccati fuisse meritum servitutem. Hine etiam sequebatur, quod minoris, majorisve nulla esset distinctio, sed potius confusi©, quae rerum summam, quae nunc superiorum moderamine ac ministerio, actore Domino, regitur, brevi tempore traheret in ruinara. Consequenter etiam omnis sive Politica, sive Cattolica, in pacis humanae et salutis dispendium, daretur in exterminium disciplina; et quae sola carnalia adstrnhunt, haereses pullularent, vigore ecclesiastico succumbente. Postea ista, licet ple-rosque Galliae fines, tractum tarnen Antissiodorensem et Bituricum, finesque Burgundiae, latius coeperat pervagari; et jam in tantam prorumperant insaniam, ut, collatis viribus, prompti essent, essertore gladio, libertatem sibi degenerem vindicare. Contra hanc for-midabilem pestilentiam, quae, non blandis exhortationibus, sed immensis erat conatibus compescenda, Episcopus tantius animosius se accinxit, quanto uberius in sua diocesi, et in villis ejus propriis, maxime palmites suos extendebat, veniensque, prout negotii deposcebat neccssitas, in multitudine armatorum, apud Giacum, villam suam, quam fere totam ilia occupaverat impertigo, quotquot ibi Caputiatos reperit, omnes cepit, et poena multans eos pecuniaria, insuper eis praecidit caputia, et ut tantae praesumptionis vindicta palam esset, discerentque servi non insolescere contra Dominos, praecepit ut per annum integrum absque caputiis, nudis omnino capitibus, et aöri expositis, aestus et frigora, variasque expenentur aeris passiones... Sic igitur in brevi e villis suis et finibus tantae praesumptionis exterminavit vesaniam, cujus exemplo, per alias quoque villae dioceses et provincias brevi tempore hujusmodi temeritas. favente Domino, fuit radicitui extirpata ». Ex antiqua- historia Episcoporum Antissiodorcnsium, ap. D’Argentré, I, i23-124.
(2) « Clericos etiam et Religiosos impie lacerantes, cruciabant omni genere tormèn-torum. Nee propria eis sufficit perditio; sed omnes, quos poterant, et máxime rústicos, in foveam suae perditionis secum traher nitebantur... ita ut infinita rusticorum multitude, tarn in remotis quam in vicinis provinciis, constituía, verbo tenus eos defenderet; et, si se opportunitas obtulisset, prompt© animo proterviae eorum auxilium obtulisset ». ap. D’Argentré, I, 138.
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ciata dei Pasloureaux, che nei 1251, partiti dalle province del Brabante, dell’Hei-naut, delle Fiandre, della Piccardia, dilagarono in Francia, infestando specialmente la regione di Parigi. Sub Ululo Crucis e col pretesto di andare in Palestina a liberare il re Luigi IX, prigioniero dei musulmani, quest’orda di gente miserabile e affamata, percorse le contrade perseguitando rabbiosamente il clero, rapinando e saccheggiando. Li guidava un uomo dalle origini oscure, di cui la leggenda raccontò le cose più stravaganti, e che fu probabilmente un monaco evaso dal convento, detto il Maestro d’Ungheria. Per quanto poco raccomandabili, questi singolari crociati erano, grazie senza dubbio al loro feroce anticlericalismo, accolti cordialmente ovunque (1). Ad Amiens li ritennero per « saintes gens », e i cittadini li rifornirono di tutto il necessario.
A Parigi, dove giunsero in numero di sessanta mila con armi e bandiere al vento, « tale è stata — scrive il custode dei francescani ad un suo confratello di Oxford — l’emozione popolare che, in pochi giorni, un gran numero di ecclesiastici vennero uccisi, gettati all’acqua, feriti. Un prete che diceva messa fu spogliato della casubola, coronato di spine e deriso. Il loro capo viola la dignità ecclesiastica; egli maledice i sacramenti, benedice il popolo, predica, distribuisce croci, ha inventato un nuovo battesimo, fa dei falsi miracoli, uccide le persone di chiesa. Predicò dal pulpito di sant’Eustachio, in costume di vescovo e con la mitra in testa ».
Poi i Pasloureaux si divisero in vari gruppi. Uno si diresse a Rouen, dove penetrò di forza nella cattedrale ed espulse i chierici dalla casa arcivescovile. Un altro, condotto dal Maestro, fece un’entrata trionfale a Orléans ed anche quivi, come a Parigi, a Rouen e ad Amiens, gli ecclesiastici ebbero la peggio. I borghesi che, nonostante le rimostranze del vescovo, avevano aperto loro le porte della città, lasciarono fare.
A Tours, i francescani e domenicani ebbero la stessa sorte: i crociati li trascinarono nelle strade, mezzonudi, e ne saccheggiarono le chiese. A Bourges, i chierici, al loro arrivo, abbandonarono prudentemente la città; i crociati si attaccarono allora agli ebrei ed ai borghesi, che pure li avevano accolti bene. Fu il principio della fine: quei borghesi, imitati anche altrove, si vendicarono, uccidendoli e disperdendoli. Il capo perì in un combattimento presso Villeneuve-sur-Cher. Il custode dei francescani di Parigi afferma cjie avesse avuto l’intenzione: i° di distruggere il clero; 2° di sopprimere i monaci; 30 di abbattere i cavalieri e i nobili (2).
(?) Uno scrittore contemporaneo mette in rilievo il favore con cui i laici accolsero questi energumeni sino al giorno in cui gli ecclesiastici e i signori non furono i soli a soffrirne: « Vidimus nuper, anno ab Incarnatane Domini 1251, mirabili et inaudita rabie, Pastorum multitudinem de diversis regionibus congregatami qui sub Cruds titulo, per quosdam flagitiosissimos viros, ad tantam perniciem induri sunt, ut in multis partibus Galliae, villas, civitates populos invadere et desti ubere conarentur: in tantum et hoc Pansus et Aurelianis, praeclarissimis urbibus, occisis pluribus clericis, attentarunt. Et vide, lector, mirabile et praegrande piaculum. His illoium facinoribus in odium cleri, applaudebat populns laïcorum; majoraque fuissent facta, nisi tandem, et cum clero communis plaga ipsos laïcos involvisset. Et hi quidem, auctore Deo, diversis locis et poenis citissime perierunt ». Thomas Cantipratanus, lib. 2, de Apibus, cap. n. is. ap. D’Argentré, I, 161. *•
(2) Cfr. Ch.-V. Langlois, Lectures historiques, Histoire du moyen âge Paris, Hachette, nouv. éd.. pp. 3S0-3S4.
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L’ASPETTO RELIGIOSO.
L’eresia ci appare così come l’aspetto religioso dell’immenso problema economico, politico e sociale che agitò gli ultimi secoli del medio evo.
« L’aspetto religioso — scrive un noto studioso di economia medievale — è il solito aspetto tutto estrinseco che nel medio evo assumono i grandi problemi e che serve a cointeressare più facilmente ed a trasportare verso il fine prefisso le massi operanti » (i).
Questa trasposizione religiosa di problemi economici e politici era il risultato spontaneo e forse anche necessario delle condizioni Spirituali e sociali dell’epoca.
La sommaria e rudimentale istruzione del popolo consisteva quasi tutta — insieme a qualche vago sentore di leggende epiche, portate in giro dai giullari — negli insegnamenti chiesastici, ascoltati dalla viva voce del proprio plebano e, in alcuni luoghi, riandati a traverso quella biblia paupcrum che furono le pareti delle chiese, coperte d’imagini e di rappresentazioni sacre.
Imbevuto così di tradizione cattolica, stretto tra le maglie di una legislazione e di una disciplina ecclesiastica, gravida di minacce, il popolo era artatamente portato a mettere in prima linea l’elemento religioso d'ogni suo gesto e d’ogni sua attitudine, in vista delle sue conseguenze tanto spirituali che materiali.
Che se poi si trovava, come avvenne, dentro l’ambito stesso della tradizione cattolica — nei vangeli e nei padri — i dati e i motivi più validi per formulare e coonestare, sia pure ancora in maniera provvisoria e rudimentale, le sue rivendicazioni sociali e .per reagire contro lo sfruttamento allodiale di cui era vittina, è naturale che il carattere religioso iniziale del problema minacciasse di diventare preponderante. Tanto maggiore, anzi, sarà l’audacia delle affermazioni e tanto più forte sarà sentito il bisogno di una autorevole legittimazione spirituale. Da ciò quella spiccata colorazione di misticismo che assumono le attitudini più temerarie e più provocatrici. Il vangelo, del resto, parve dare una voce alle sentite e diffuse esigenze della folla angariata e sofferente, e tutelare le future conquiste sociali. Furono, senza dubbio, pochi mcneurs, più intelligenti o più colti degli altri, che formularono le proteste evangeliche, ma queste erano già sentite dal popolo che li seguiva, e forse non più oscuramente da che i grandi riformatori dell’epoca da Roberto d’Arbrissel (t 1117) ad .Arnaldo da Brescia lo avevano istruito dello stridente contrasto che esisteva tra i precetti di Gesù e la condotta del clero.
Il popolo comprese che, nella lotta contro gli ecclesiastici, il vangelo era dalla sua parte, e sentì allora quel bisogno di leggerne e di capirne il testo, che diede origine alle prime e molteplici traduzioni della Bibbia in lingua volgare. L’esplosione della
(1) Gino Arias, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni, p. 370. Leggendo le carte di costituzione delle Gilde medievali sembra a prima vista che si tratti di disposizioni religiose per assicurare la salute eterna dei lavoratori. I membri della corporazione debbon far dire delle messe, assistere ai funerali, ed esercitare altre pratiche pie. Cfr. Moke, Moeurs, Usages, Fêle et solennités des Belges. Bruxelles. Il, 97-98.
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rivolta coincide così con una rinascita di religiosità evangelica (i). Evangelica più che cristiana. Perchè l’eretico, più che di vera riforma spirituale, aveva bisogno dei precetti di Gesù e degli esempi degli Apostoli per corroborare le sue rivendicazioni sociali. L’eretico non ci appare, socialmente, animato di quello spirito di rassegnazione, di rinunzia, di umiltà, di solitudine, che forma l’essenza stessa del cristianesimo.
Egli è invece orgoglioso, cosciente dei propri diritti, turbolento, sobillatore, avido di conquiste. Tende molto meno all’epurazione religiosa della Chiesa che a contrastarne i diritti, a fiaccarne la possanza, a soppiantarla.
Se gli fosse stato possibile monopolizzare a suo beneficio la forza della Chiesa, probabilmente se ne sarebbe servito contro di essa (2). C’è nell’eretico, del rivoluzionario mistico, del carbonaro, dell'anarchico anche. Forse dagli hospilia dei valdesi, dai cenacoli catari, delle varie « scuole » degli eretici, si dovette irradiare un’attiva e sotterranea propaganda politica in favore del movimento comunale, come, nel secolo scorso, dai templi massonici in favore dei moti d’indipendenza nazionale. Se fosse stato mistico puramente religioso, come tanti altri, l’eretico avrebbe potuto realizzare facilmente il suo ideale di penitenza presso gli austerissimi ordini che man mano venivano fondati in quest’epoca; quello dei trappisti, quello dei fre-mostratensi, quello dei cistercensi. Se poi fosse stato un uomo avido di agi e di richezze, avrebbe potuto procurarseli, non meno facilmente, entrando in uno di quei chiostri dove c'era poco da lavorare e parecchio da godere (3). Ma l’eretico non era nè l’una cosa, nè l’altra. Egli era un apostolo, e perciò il suo aspetto è quello di un mistico; ma era anche un apostolo dei nuovi bisogni sociali, e per ciò sotto il velame delle proteste evangeliche si nasconde il contenuto delle rivendicazioni economiche e politiche dell’epoca. Per certe sette a tipo anarcoide, come quella degli Stedinghi o degli Incappucciati, il mezzo, sub optentu muluac charilatis, si trasformava rapidamente in pretesto. Sarebbe, comunque, più facile, contestare il carattere religioso delle eresie popolari medievali che quello sociale. Per un verso e per l’altro, per la loro opera di emancipazione religiosa e di emancipazione sociale, esse ci appaiono come uno dei fattori più importanti della civiltà moderna.
Inconcepibile, mi riesce, poi, l’affermazione di Felice Tocco, più studioso delle forme che del contenuto dei fenomeni storici, secondo la quale, l’eresia medievale rappresenterebbe il non plus ultra dell’ascetismo e che essa avrebbe mosso alla famiglia, allo Stato, alla cultura, più aspra lotta che la Chiesa (4). Questo giudizio può essere vero solo per alcune manifestazioni superficiali o secondarie dell’eresia mediefi) Il Cristianesimo delle folle, dei periodi di transizione, ha più forse un contenuto politico che un contenuto religioso. Questo rappresenta la forma e l’altro la sostanza. Putte le epoche di rivolgimenti sociali sono caratterizzate dal rifiorire di aspirazioni a tipo evangelico e cristiano. « Il povero, dice Paolo Orano, lo schiavo, il reietto, il miserabile. sono sempre stati cristiani di fronte al ricco,al dominatore, al felice, al superbo». Cristo e Quirino. (Il problema del Cristianesimo), 3* ed., 1911, p. 215.
(2) «et quod potestatem quam exercet ecclesia in eos, hanc ipsam in ecclesiam exercere deberent ». Stimma de hacres., ap. Dòllinger, Beitràge. II, 301.
(3) I conventi erano il rifugio di molte vocazioni interessate. Un frate del secolo xm confessa: « Certe si in rebus meis habuissem prosperitatem. numquam venissero ad Or-dinem! ». Caesaru Heisterbacensis, Dial. miraouL, I, 28.
(4) Cfr. Tocco, Gli ordini, monastici e l'eresia, nel volume: La vita italiana nel '200.
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vale, specialmente del catarismo a tipo manicheistico, il cui orrore per la materia non era forse in fondo altro che una confusa reazione contro l’avidità della Chiesa per il dominio e i beni materiali. D’altra parte gli elementi antisociali contenuti nelle eresie sono puri elementi cristiani e fanno parte di quel vangelo, che gli eretici agitavano come un'arma di combattimento e che erano obbligati perciò ad accettare come era, senza discuterlo, pena la diminuzione della loro fede e l’inutilità dei loro sforzi. Ma sono affermazioni che possono colpirci oggi, formulate schematicamente, sotto una forma assoluta e vedute a distanza, ma che ebbero di fatto poco o nessuno influsso sociale e che perciò appaiono secondarie, se non del tutto trascurabili agli occhi dello storico (i).
A maggior ragione, quindi, ha potuto scrivere il Volpe: « il moto ereticale tutto quanto, nel suo complesso, è moto di cultura, checché si dica in contrario, è, cioè, indice e insieme spinta di nuovo e fervido lavorio intellettuale. Son coscienze che si plasmano e reagiscono; son cervelli prima inerti che si mettono in moto » (2).
È, aggiungo io, una società nuova che si forma, grazie all’influsso religioso e politico delle eresie popolari.
Antonino De Stefano.
APPENDICE
ALLA PRIMA PARTE DI QUESTO STUDIO PUBBLICATA IN «BILYCHNIS», SETT. I9I4.
Nota I. Sui francescani (p. 167).
Il cardinale Giacomo di Vitry parlando dei francescani che egli aveva, nel 1216, conosciuti ad Assisi, attesta che essi « secundum formam ecclesiae primitiva« vivunt de quibus scriptum est: multitidinis erat cor unum et anima una». (Lettera del 1216, pubblicata da P. Sabatier, nel Bull, di Storia Patria per l’Umbria, to. I, 1895). Lo stesso cardinale in un’altra lettara datata da Damietta, afferma che i Minori si sono rapidamente diffusi per il mondo perché « riproducono esattamente e in tutto la chiesa primitiva e la vita degli Apostoli». (Cfr. Götz, Die ursprüngliche Ideale des hi- Franz von Assisi, nella Hislor. Vierteljarhschrift edita dal Seliger, a. 1903. Cfr. G. Volpe, Eretici e moti ereticali diti xi al xiv secolo, p. 33.
Nota II. Sui Beguardi (p. 168).
« Item inhibemus sub poena excommunicationis ne quis in nostra civitate, diocesi et provincia trevirensi aliquem vel aliquos de illis rusticis, qui se Apostolos appellant, in domum suam recipiat aut eis eleemosynam eroget, cum, prout in antiquis statutis synodalibus continetur, sed Apostolica tàles reprobaverit contra fautores excommunicationis sententiam tulerit ipso facto ». Statuti sinodali di Treviri, del 28 aprile 1310. Contra Beguardos ne recipiantur in Fridericq, Corpus docum. inquis. haeret. pravit. neer-land., I, 154-155; doc. 163.
(1) Molte di queste affermazioni sembrano avere più carattere di difesa propria che di opposizione sociale; tali, per esempio quelle riguardanti la legittimità dei giudizi civili ea ecclesiastici, l’uso della violenza, il diritto della guerra, ecc.
(2) G. Volpe, Eretici e inoli ereticali dal xi al xiv secolo, pag. 52.
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SAGGIO SULL’ERESIA MEDIEVALE NEI SECOLI XII E XIII
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Nòta Ìli. Sul latino (p. 169).
Gli eretici esaminati nel 1178, a Tolosa alla presenza del cardinale Pietro, ignorando il latino, « necesse fuit cardinalem illum et episcopos illos condiscendere, et piopter eorum imperitiaxn vulgarem hatere sermonem ». D’Argentré, Coll, judic., I, 67-68. Ad Arras, il vescovo Reginaldo, dovè tradurre nel dialetto degli eretici la formula dell’abiura.
Cfr. G. Volpe, Eretici e »ioti ereticali dal xi al xiv secolo, p. 19.
Nota IV. Su Arnaldo ad Brescia (p. 175).
Di Arnaldo da Brescia, Gualtero Map dice: «Seundum sanguinis altitudinem... no-bilis et magnus, secundum literas maximus ». De nugis curialium, in Mon. Germ. Hist. SS., to. XXVII, p. 65.
Nota V. Sulla condizione degli eretici (p. 175).
Una « infinita rusticorum multitudo « segue gli eretici Stedinghi. D’Argentré, Coll, judic., I, 138.
Gli eretici di Tolosa e dintorni sono artigiani e tessitori. Döllinger, Beiträge, I, 95. « Mercatores » dice il Mattaci Paris. Chron., in Mon. Gemi. Hist. SS. to. XXVIII, 231. Un sinodo di Reims deplora che i manichei si servissero specialmente dei tessitori vaganti per attrarre le donne alle loro dottrine. Martene. Anecd. ampi, coll., VII, 74.
I Beguardi si reclutano particolarmente trai rustici. Cfr. Fridericq, Corpus docum. inquis haeret, pravit. neerland., I, 154, doc. 163.
Nota VI, Sulla condizione del valdesi (p. 175).
I Poveri Lombardi sono artigiani che vivono del lavoro e i loro maestri sono per lo più sutores. Cfr. Summa fr. Reineri, De Catharis et Leonislis, in Martene, Thesaur. novor. anecd., to. V. 1759.
« Doctores eorum sunt testores et sutores », dicono i documenti che riguardano i valdesi tedeschi e boemi dei secoli xm e xiv. Cfr. Preger, Ueber das Verhàltniss der Taboriten zu der Waldesier des 14 Jahrh., neWAbhdl. der K.K. Münch. Akad. to. XIII, 1889. P- 75- I valdesi tedeschi, polacchi, ungheresi e istriani, tanto maestri quanto discepoli, i quali si convertirono tra il secolo xm e il xiv, sono lanaioli, tessitori, fabbri, e specialmente sarti. Cfr. Döllinger, Beiträge, II, 330.
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ANTONIO CARACCIOLO
VESCOVO DI TROYES
(Continuazione. Vedi Bilycknif, Ottobre «9x4, p. aaa).
IL
LE OPERE.
Noto nella storia civile e religiosa di Francia, tanto t>er la nobiltà de’ suoi natali e per il riflesso della gloria paterna, quanto per la propria ambizione, per il continuo mutar di fede e la parte avuta in parecchie occasioni, il Caracciolo è rimasto invece quasi interamente ignoto, come scrittore e come poeta, nella storia delle lettere italiane e francesi del secolo xvi, e sopratutto nella storia letteraria della Riforma.
Ma ciò non è interamente giusto; e se ne potrà persuadere chi ci vorrà seguire nell’esame attento e sereno, che stiam per fare della sua produzione letteraria.
Essa si può dividere in due parti: opere in prosa ed opere in poesia, e queste alla loro volta suddividere in: opere di carattere profano ed opere di carattere religioso.
In prosa sono: a) Le epistole; b) L’elogio di Enrico 1I; c) Le Mirouer de la vraye religion.
In poesia: i° La Traduzione parziale dei Salmi; 2° L'Oraison à N. S. pour imfiétrer secours en la calamité présente; 30 L’Hymne génétliaque sur la naissance de Monsieur le Comte de Soissons; 4® Le Rime Sacre (in tre libri); 5° L’Hymne de la gloire des bienheureux.
1. LE OPERE IN PROSA.
i. Le Epistole sono promiscuamente di contenuto sacro e profano; ma, come le altre opere in prosa, più che importanza letteraria, hanno valore quasi unicamente storico-biografico. -Perciò già furono quasi tutte citate nella - Vita dell’autore».
Esse sono, disposte per ordine cronologico:
a) Epistola a Cornelio Musso, vescovo di Bitonto, per la giustificazione di Gabriel di Lorges, conte di Montgommery, che ebbe la sventura di uccidere il re Enrico II. È una relazione abbastanza esatta della tra-S'ca ed in volontaria uccisione del re, e scia intravedere nell'autore un testimonio oculare del fatto (14 luglio 1559) (1).
b) Epistre envoyée aux Fidèles de l’Église Réformée qui est à Troyes par un excellent personnagc, ministre du Saint Évangile, in cui, prendendo a testo il verso decimo del cap. i° della 2» Epist. Catt> di S. Pietro, esorta i Riformati a render ferma la loro vocazione e manifesta — come vedemmo — i suoi propositi di moderazione e di ubbidienza agli editti regi (1561 dicembre, s. 1. in 8°).
c) Èpistre a Aux Maire et Échevins de la ville de Troyes » in cui lamenta di essere stato cacciato dalla città ingrata, e ricusa di ospitare nel suo castello di Saint-Lyè i Calvinisti espulsi dalla città desiderando vivervi tranquillamente e senza rumore, nella pace intima della sua famigliola (9 agosto 1562) (•).
(x) Edita in Ruscelli, Lettere di Principi, t. I, lett. X4 luglio X559.
(•) Debbo a questo punto correggere una piccola inesattezza sfuggitami nella Vita del Caracciolo (Vedi Bilychnis, ottobre 19x4, p. 234). Questa leltera non fe scritta da St-Lye —• come diedi modo d'intendere — ina da Aix, dove si si trovava allora temporaneamente il C.
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ANTONIO CARACCIOLO VESCOVO DI TROYES
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(1) Lettre « A la Royne de Navarre sur la mori du Roy son mary » in cui la esorta ad avere fiducia in Dio, persuadendola che le vie del Signore sono spesso amare e misteriose, ma tornano sempre in benedizione dei veri credenti; che la volontà divina soltanto deve essere la nostra e che, se Dio l’ha orbata del suo sposo diletto, le ha dato però un altro sposo eterno ed onnipotente in Cristo, il quale asciugherà ogni sua lagrima. Sebbene qua e là senta il retore ed il concionatore, tuttavia la lettera è, nel suo complesso, un documento notevole della fede serena dell’autore e delle sue speranze nella vita futura (26 novembre 1562).
e) Lettre • Aux Ministres et Pasteurs de l'Eglise d’Orléans». È questa di tutte le epistole del Caracciolo, a noi giunte, la più importante perchè riassume brevemente tutta la vita dell’autore e ci attesta dopo il rinnegamento di Orléans il suo profondo dolore ed i suoi fermi propositi di una nuova vita santa e coraggiosa. È in altre parole il documento che pone termine alla vita avventurosa, mondana ed ambigua del Caracciolo, ed apre il periodo della sua vecchiaia serena e tranquilla (26 febbr. 1563).
2. Di poca importanza è \'Elogio di Enrico II (1) che non è opera soggettiva e personale dell’autore, ma una semplice traduzione dal francese dell’opera omonima di Pierre Paschal, stampata a Parigi nel 1560 in 40 ed in fol. Di essa dunque può bastare il semplice ricordo.
3. Speciale importanza ha invece, tra le opere in prosa, il « Mirouer de la vraye religion» (Paris, S. de Colines, 1544, in 8° 34 ft), che appartiene alla giovinezza dell’autore. Esso è in sostanza una glorificazione della vita cristiana e monastica a cui l’autore si era di fresco consacrato. Ma, impregnato di teologia patristica, di spirito ascetico, è in generale freddo, troppo sottile e troppo latineggiante nella forma, sebbene non manchi qua e là di calore, di sentimento e di una discreta analisi psicologica che pare già tradire (’influsso delle nuove correnti ravvivatrici del pensiero religioso.
2. LE OPERE POETICHE MINORI.
Le opere poetiche sono più numerose e notevoli, e soltanto per esse può l’Autore veramente pretendere ad un posto distinto
(x) Il titolo esatto dell’opera è: Elogium, effigies, tumulus Henfici II, Galliae regie, latine a Petro Panell’infinita schiera degli oscuri scrittori italiani e francesi del secolo xvi e nella storia letteraria della Riforma.
Esse si distinguono in: poesie profane e in poesie religiose.
1. Delle prime (profane), che dovettero essere assai numerose, massime nei primi anni di vita cortigiana, non ci sono giunti che pochissimi esempi.
a) Infatti, tutta la sua lirica amorosa, alla quale più volte si richiama nel Canzoniere Sacro, andò smarrita o fu distrutta dal poeta stesso, quando, negli ultimi anni di sua vita si consacrò ad un rigido misticismo e cercò di far dimenticare tutto il passato. Essa ci avrebbe permesso di conoscere più intimamente l’animo, l’arte e l’ispirazione del poeta e di far meglio spiccare, nel suo contrasto colla poesia religiosa, anche il contrasto che fu nella vita dell’autore tra le virtù morali e religiose dei suoi ultimi anni e la mondana leggerezza della sua prima gioventù
b) Smarrito è andato parimenti 1’ « Inno Genetliaco» composto nell’anno 1568, per la nascita del Conte di Soissons, figlio del Principe di Condè. Luigi di Borbone, e di Francesca d’Orléans. Di carattere sacro e profano ad un tempo, esso celebrava probabilmente le gesta famose degli antenati e ne prediceva altre non meno gloriose per il neonato, esortandolo a farsi, adulto, difensore della fede e della chiesa di Cristo (Paris, Mamert Patisson, 1568).
c) Soli saggi di' poesia profana ci restano la canzone « In morte ai Paolo III »; quella « In morte di Margherita di Navarra • e l’epistola « Alla Duchessa di Valentinois ».
Ma perchè esse si trovano inserite nel-terzo libro delle Rime Sacre, crediamo più opportuno rinviarne l’esame allorché tratteremo minutamente del Canzoniere.
2. Le opere religiose minori comprendono: La Traduzione italiana dei salmi; VOraison à N. S. poitr impèlrer secours en la cala-mité présente e VHyrnne de la gioire des bien-heureux.
a) La Traduzione in versi italiani dei Salmi di Davide, la quale si conservava in un manoscritto membranaceo della Bi blioteca Nazionale di Torino (1), andò distrutta nel nefasto incendio che, son pochi
Scalio, Gallici a Lancelloto de Carle; Italicc ab Antonio Caracciolo; Hispanice, a García Syl-vio, Parigi, 1560, in fol. ed in 40.
(x) Ms. xciv d. i. 6.
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BILYCHNIS
anni, privò quella biblioteca de’ suoi ci-melii più preziosi. Solo pochi frammenti dei 35 fogli, che l’opera conteneva, scamparono alle fiamme: ma, rosi ed anneriti dal fumo, sono quasi interamente illeggibili. Onde ciò che di certo, oggi, possiamo dire di questo salterio è quel poco soltanto che si desume dagli antichi cataloghi dei manoscritti di quella biblioteca (i) ed il saggio di traduzione che essi ci offrono del primo salmo:
Salmo I.
O felice e beato
Chi non s'è mai fermato
Nella via de’ perversi;
Coi burlator cattivi
Che di virtù son privi Non degnò mai sedersi.
Ma sprezzando il consiglio Di quei, pien di periglio, Nella legge di Dio Giorni e notti dispensa. Quella ama, in quella pensa, E mette il suo desio.
Perchè ei fera simile
All'arboscel gentile Presso al fiume piantato Che mai foglia o colore Perde, anz’il frutto e ’1 fiore Produce al tempo usato.
Dei maligni e de gli empi Son contrari gli esempi Chè Dio pietoso e giusto Gli sparge e gli dissolve Come il vento la polve Col suo braccio robusto.
Onde gli empi infedeli
Scellerati e crudeli
Non avran luoco mai Ne la Chiesa de’ Santi, Ma saran sempre in pianti, Disperazione e guai.
Perchè il dritto cammino
Piace all’occhio divino
Del giusto e innocente.
Ma quei, che al torto vanno. Senza dubbio morranno Perduti eternamente.
Il salterio del Caracciolo non comprendeva tutta la raccolta davidica, ma soltanto i primi quindici salmi, il 19® il 23®, 24°, 25®, ed
(1) Pasinus, Manuscriptorum Codicum Biblio-Iheca Regii Taurinensi alhenaei. Pars altera p. 441.
il 137®: e l’arte, a giudicare dal solo saggio rimastoci, doveva esservi appena mediocre, sebbene non fosse inferiore a quella di parecchie altre traduzioni poetiche italiane, che, tentate nello stesso secolo, godettero nel seno delle congreghe riformate di un certo pregio e di una certa oopolarità.
È molto probabile che il Caracciolo non risalisse al testo originale del salterio davidico, ma traducesse semplicemente dalla versione francese fattane dal Marot ad uso delle chiese riformate di Francia; e che, già simpatizzante colla Riforma, si proponesse con questa raccolta italiana non soltanto un vuoto tema di esercitazione poetica, ma uno scopo più serio di propaganda religiosa. Forse ebbe in animo di rivestirla anche di note musicali,- il che po trebbe spiegare assai bene la scelta di un metro cosi breve come il settenario adoperato nel primo salmo, ed attenuare, col fatto delle esigenze metriche, la gravità di alcuni difetti che vi si riscontrano. ,
L’opera fu composta verso la metà del secolo, quando il Caracciolo era insignito della dignità episcopale di Moriana, la quale è appunto ricordata sul frontispizio del manoscritto accanto al nome dell’autore.
In questa data di composizióne è — a difetto del giudizio complessivo sul valore letterario, che da un solo esempio non si Suò fissare — il vero valore, storico, del alterio. Il quale, pertanto, risulta: 1® uno dei più antichi salteri poetici italiani composti nel secolo della Riforma, anteriore di assai a quelli del Paschali, del Perrotto e del Diodati; 2® opera non di un riformato militante — come i suddetti —• ma di un vescovo ancora apparentemente cattolico; 3® la causa precipua che potè attrarre i primi sospetti e le prime accuse dell’inquisizione contro la persona dell’autore.
b) Dell'« Oraison à N. S. pour impétrer secours en la calami té -présente » non sappiamo che quel tanto che ne dice il Verdier nella sua preziosa « Biblioteca ». Essa era in versi e fu stampata nell’anno 1562 senza la designazione del luogo di stampa nè il nome dell'editore.
Tuttavia, considerandone il titolo e la data di composizione, crediamo potere con ogni probabilità aggiungere ch’essa fu scritta sotto l’impressione d’una grave sventura che colpi le chiese riformate di Francia, e più precisamente al domani stesso della battaglia di Dreux (19 dicembre 1562) in cui il Condè fu fatto prigio-
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ANTONIO CARACCIOLO VESCOVO DI TROYES
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niero ed il partito protestante per il doloroso scacco ricevuto, sembrò sfasciarsi. Forse, come Davide, il poeta nel momento della distretta gridava a Dio affinchè ristabilisse la pace, non aggravasse la mano contro il nuovo popolo eletto, nè permettesse il trionfo dell’intolleranza e della superstizione.
c) L’« Hyntne de la gioire des bienheu-reux (1) ■ fu composto nel 1569 e mandato alla infelice Renata di Francia, duchessa di Ferrara, nel mese di marzo, con queste
parole. « Ho composto quest’inno sotto allegoria e figura delle cose terrestri alla maniera de’ Profeti, il soggetto del quale ho tratto da una meditazione di Sant’Agostino ». Scritto a così breve distanza dalla morte, esso è come il testamento della fede del poeta e prova la sua intima relazione con Renata di Ferrara, che forse più d’una volta lo ospitò nel suo castello di Montargis.
Arturo Pascal.
(1) Haag et Bordier, op. di. I. c. segnalano quest’opera come esistente presso la Bib. Naz. di Parigi. Coll. Fontanieu n. 321. Ma l’indicazione è sbagliata onde non mi fu possibile vederla. Ai Proff. Philipp Lauer, che con vera abnegazione volle per me tentarne la ricerca, e Napolcon Wiiss, che mi forni preziose indicazioni, rinnovo qui pubblicamente l’espressione della mia viva gratitudine.
(Pubblicheremo prossimamente il seguito: Il Canzoniere-Il suo valore storico biografico - Il suo valore religioso - Il suo valore letterario - Le poesie profane del canzoniere - Le poesie mistico-dommatiche -Le poesie lirico-religiose - L’opera poetica del Caracciolo e la crisi religiosa della sua epoca).
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PERI5GO/RA DELL'ANIMA
SII UN UOMO!
(I. Libro dei Re, II, 2).
Scartiamo anzitutto, energicamente, un concetto falso, caricatura odiosa del grande ideale fattoci balenare innanzi dall’esortazione « Sii un uomo ». Non siale, in alcun modo nomini di partito. Certo il soffio d’entusiasmo che vi anima non ha nulla in comune cogli ardori malsani dello spirito esclusi vista(i). Vi sentite uniti col cuore a chiunque, e in qualsiasi ambiente, lavora su questa terra all’opera divina: non avete dato per misura alla vostra fraternità il quadro, sempre ristretto, d’una tendenza ecclesiastica. Eppure, insisto nel mio ammonimento. In quest’ora di disgregamento sociale, di divergenze politiche, di divisioni religiose, in cui ciò che ci difetta maggiormente, in tutte le sfere dell’attività umana, è un po’ di equità, un po’ di giustizia verso l’avversario, siamo attesi al varco ogni giorno da un pericoloso nemico, e se, per disgrazia, la nostra vigilanza si rallenta, questo nemico fa di noi la sua preda certa. Questo nemico te lo addito: è lo spirito di partito. Guarir) Queste pagine sono specialmente dedicate a quanti hanno cura d'anime.
dati da questo lievito impuro. Se s’infiltrasse nell'anima tua, t’impedirebbe per sempre di diventare un uomo.
« ♦ ♦
Per diventare un uomo, bisogna incominciare con un grande atto di abnega zione.
Occorre rinunziare, e per sempre, a tutto quanto v’è nella vita di fittizio, di superficiale, di convenzionale, per ritornare alle fonti pure e profonde del-l’umanità reale; occorre lasciar da parte tutto ciò che divide gli uomini e ne fa degli avversari, per ricercare ciò che li unisce e ne fa dei fratelli. L’evoluzione interna a cui alludo non ha nulla di fantastico, nè di nuovo. Essa è possibile e data da un pezzo. Allorquando il Cristo, in mezzo alle innumerevoli designazioni colle quali i suoi contemporanei si onoravano o si stigmatizzavano tra loro, assumeva il titolo di Figliuol dell'uomo, egli indicava e hello stesso tempo realizzava questa trasformazione essenziale. Allorquando esigeva dai suoi discepoli di rinascere, di diventare degli uomini nuovi, ei mostrava, con un'insistenza
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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che nessuno può misconoscere, la necessità di morire a tutte quelle vecchie cose. S. Paolo, uscendo dalla crisi che fece di lui un cristiano, esclama - e questo grido è come il grido del sangue della fraternità ritrovata - : «In Cristo, non v’è nè padrone nè servo, nè giudeo nè greco, ma una nuova creatura! ». Siamo dunque su terreno solido e nella buona tradizione. Le parole « Sii un uomo », benché si trovino nell’Antico Testamento, sono più che altrove al loro posto sulle labbra stesse del Figliuol dell’uomo. Ci pare sentirlo dire a tutti i suoi seguaci, e particolarmente a coloro : quali aspirano al rude onore di diventare Pastori d'uomini: i Siate degli uomini! ».
E, dopo aver compiuto il grande sacrificio, e averla rotta con ogni vana distinzione, occorre - per diventare un uomo — concludere un patto nuòvo. Occorre rinnovare il vecchio patto col Padre e coi fratelli, e sforzarsi di realizzare il duplice ideale che cercheremo adesso di esporre e che consiste nell’essere ad un tempo
un uomo di Dio e un uomo del popolo.
I.
Un uomo di Dio. Così chiama van si i profeti d’Israele. È forse una pretesa esagerata quella d’ispirarsi al loro spirito e all’opera loro che è stata compiuta dal Cristo? No di certo. Se il più umile filo d’erba in fondo alla valle può essere tocco dal medesimo raggio che illumina le più alte vette, perchè dunque Colui che accese, attraverso i secoli, come altrettanti fari luminosi, le grandi anime dei profeti, perchè, dico, non potrebbe egli far scendere, sino nei nostri abissi, una scintilla del fuoco che li infiammò?
Ciò che caratterizza i profeti è questo: la loro fede robusta è una fede di prima
mano. Essi non sono credenti per un atto di fiducia o per procura, ma sono credenti per ispirazione e per contatto immediato.
Rispettosi più di chiunque del passato religioso del loro popolo, lo vivificano assimilandoselo. Essi uniscono nella loro persona, in stretta armonia, queste due cose che di solito s’incontrano opposte l’una all’altra: la fedeltà alla tradizione, vincolo organico attraverso il quale ogni individuo si riannoda alle sue origini religiose, allo stesso modo che ci si riannoda coll’ereditarietà alle proprie origini fisiche; e la spontaneità, l’originalità che rende la credenza viva e nuova facendola scaturire con potenza dall’ individuo stesso. In una parola, i profeti sono dei liberi credenti, i quali portano in sè la prova che il Dio il quale aveva parlato ai padri parla ancora ai figliuoli.
Bisogna che, in questo medesimo senso, ognuno di noi sia un uomo di Dio. Non potremo mai abbastanza amare e venerare tutto quel passato religioso per cui ci furono trasmessi il succo e il sangue della nostra vita morale. Giammai, fermandoci davanti a quei monumenti e a quei simboli - in cui l’umanità narra le sue lacrime, le sue cadute, le sue ricerche, le sue lotte, come la sua pace, la sua riconciliazione, le sue vittorie spirituali - ; giammai, inchinandoci su quelle sacre pagine, ardenti d’amore, sature del soffio di Dio; giammai noi, gli ultimi venuti, potremo abbastanza venerare, per tutte le loro fatiche, i nostri padri sulla terra, nè adorare abbastanza, per le sue misericordie immortali, il Padre nei Cieli!
Ma il modo migliore di dimostrare la nostra gratitudine è di far fruttare tutto quel capitale religioso e di continuare, adattandola al presente con un paziente lavoro interiore, la grande opera divina dei secoli. Chi comprende il presente e lo serve alla luce del passato è colui che lo
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comprende e lo serve meglio. Chi sente rivivere in sé il passato sotto l’assillo vibrante del presente è colui che sa apprezzare meglio il passato. Ciò impone grandi doveri ad ogni uomo religioso, ma sopratutto al ministro del culto, al pastore d’anime che vuol essere un iniziatore, un custode delle cose sacre.
Questo lavoro d'interpretazione, di assimilazione del passato religioso ha del resto superato ormai il periodo suo più difficile e più sgradevole. Grazie a Dio non pensiamo più oggi che lo studio critico dei libri sacri sia uno dei modi peggiori di mancar loro di rispetto! Grazie a Dio non siamo più a quel punto desolante della via in cui la stanchezza vi prende e diventa cattiva consigliera! Abbiamo capito, finalmente, che la verità religiosa non è al di qua delle forme in cui la racchiudeva il passato, in una specie di misera riduzione, di meschino « minimum », ma è al di là, infinitamente al di là. Lungi dal dire troppo, i padri non hanno detto abbastanza. Le sante realtà fatteci intravedere dalla fede in fondo i misteri in cui viviamo sono così belle e così grandi che il loro involucro più ricco, le loro formule più maestose, somigliano a dei balbettamenti di fanciulli, che solo il Padre può comprendere. La gioia di credere, di vivere e di costruire è tornata nei nostri cuori. Un teologo ha detto che, per comprendere i profeti e lo stesso Cristo, siamo oggi meglio preparati di quel che non fossero i loro contemporanei più immediati; e l’affermazione è giusta. Ciò dobbiamo a quella scienza paziente, ostinata, scrupolosa, che si chiama la teologia storica. Nulla uguaglia l'onore che si merita se non il male che di essa si è detto; ma, per vendicarla di tutto questo male e onorarla degnamente, v’è un mezzo solo; misurare, adoperare i materiali eh’essa ci consegna bell’e pronti, per continuare
a costruire e a cementare quel tempio di Dio di cui i padri nostri gettarono nel suolo profondo le indistruttibili fonda-menta e in cui, un giorno, l’eco dei loro vecchi salmi si fonderà coi nostri canti nuovi.
M
Ma non è solo cogli studi religiosi che il cristiano dev’essere un uomo di Dio; ei dev’esserlo altresì colla sua vita religiosa intima. Su questo punto mi limiterò a poche parole: al santuario del cuore si addicono soltanto il silenzio e la discrezione. Ma vi dirò ancora: Sii un uomo! Un uomo per l’umiltà, pel sentimento doloroso del peccalo, santa afflizione senza la quale non è dato ad alcuno di conoscere la salvezza; un uomo per la solidità del sentimento religioso, libero da ogni fantasia malsana e da ogni fantasticheria senza virilità; un uomo per la dirittura, pel coraggio d’essere solo se occorre, per quell’indipendenza di convinzioni e quell’assenza di riguardi umani che provengono dal timor di Dio, un uomo nella tentazione, nella disgrazia, nelle miserie e nei sacrifici sopportati senza proteste per una causa sempre avversata; un uomo per la gioia di vivere e per la semplicità nell’accettare la morte; un uomo per la rassegnazione e l’abbandono a Colui che, solo, conosce ogni cosa; un uomo per la preghiera, funzione regale dell’umanità divina; un uomo, un uomo di Dio, un cristiano insomma, per quella vita interiore in cui regnano la serenità, la mansuetudine, la pace e da cui si rifugia - aspettando che il mondo voglia riceverla - la santa immagine della Chiesa universale.
IL
Eppure, se il pastore d’anime fosse soltanto un uomo di Dio per lo studio, la vita interiore, la fede libera e possente.
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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l’adorazione, ei sarebbe incompleto. Anzi egli non potrebbe essere un tal uomo se non fosse nello stesso tempo un uomo del popolo.
Qui di nuovo scartiamo subito la contraffazione dell’ideale che c’ispira. A noi non occorrono uomini che siano zimbelli del popolo, adulatori della folla, eccitatori delle sue più malsane passioni. Di simili personalità non si sente il bisogno: ce ne son fin troppe.
Che il cristiano sia un uomo del popolo: ciò vuol dire ch’egli non sia l’uomo d’una casta, d’un gruppo rinchiuso in sè stesso, in cui si sviluppano interessi fittizi e in cui finisce coll’appassionare gl’iniziati, ciò che. forse è cosa indifferente al bene generale. Che il pastore d’anime viva la vita di tutti! Il popolo, d’altronde, non costituisce per lui una classe particolare.
È popolo, popolare, ciò ch'è comune a tutti, ciò che va da un capo all’altro dell’umanità e fa vibrare tutti i cuori, che si sia letterato o illetterato, potente o debole, ricco o povero. Senza dubbio, il pastore d’anime dev’essere anzitutto l’uomo dei piccoli e dei vinti, di tutto ciò che è schiacciato, sofferente, smarrito; di tutti coloro che inconsciamente fanno il male e s’insozzano e pei quali, d’età in età, sale verso il cielo la preghiera del Salvatore morente: « Padre1 perdona loro; non sanno quello che fanno ». Bisogna che le rive dell’anima sua siano battute notte e giorno dalle grandi ondate dei dolori umani.
Si ricordi che Dio è che soffre nei suoi poveri figli, poiché ci dirà all’ultimo giorno: « Ho avuto fame, ho avuto sete »; e che tutti i credenti saranno giudicati secondo che saranno stati misericordiosi o spietati. Ma, ciò malgrado, è necessario pel cristiano che il povero e l'ignorante non esistano solo come l’essere sofferente — di cui devesi aver pietà, di cui devesi
sostenere la causa, difendere i diritti, lenire i mali - ma è necessario che l’ignorante e il povero esistano ai suoi occhi come uomo e figlio di Dio. Bisogna talvolta di menticare questa cosa accidentale: la povertà, per ricordarsi di questa cosa sostanziale: l’umanità.
Il maggior bene che si possa fare all’essere isolato; disprezzato, ripiegato su se stesso, è di trattarlo da fratello, senza aria di protezione e senza bassezza, ma semplicemente e in tutta verità.
Chi sa far ciò, col tatto e collo spirito richiesti dalla circostanza, compie un atto che vale molte parole. Diremo dunque: col povero, coll’ignorante, col misero, sii un uomo, un fratello. E soggiungeremo: sii un uomo, un padre, pel fanciullo infelice.
È questo il lato più commovente del dovere pastorale. Il fanciullo del popolo, il fanciullo abbandonato che gli adulti scandalizzano e corrompono, il fanciullo infermo’... Se possiamo indovinare il cuore di Dio Padre attraverso le nostre emozioni paterne, tanto più vive in quanto sono destate da esseri più sofferenti, siamo costretti a concluderne che il punto di questo vasto universo in cui si concentrano in maggior numero i raggi della pietà divina dev’essere di certo il capo umile e dimenticato del fanciullo del popolo. Ve lo raccomando. Vedendolo debole e senza difesa, talvolta alla mercè di tutti, penserete a coloro che Dio ci condusse dalle capanne e dagli antri oscuri per farli grandi nel suo regno; penserete sopratutto al fanciullo del falegname di Nazaret, quel povero al quale dobbiamo ogni cosa; e, meglio ancora che negli splendori del creato o nelle ricchezze della vita interiore, voi comprenderete l’Evangelo del Figliuol dell’uomo contemplandolo e servendolo in quei piccoli coi quali egli s’è identificato.
Egli vi stenderà la mano, ei camminerà
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56 BILYCHNIS
presso di voi, ei vi sosterrà; voi non formerete più che un’anima sola: un’anima per la pietà, la carità, la sete di amare, di soffrire e di consolare.
Ma il pastore d’anime deve se stesso, in misura eguale, ai letterati, ai potenti, a quelli che il mondo chiama i felici. La più grande disgrazia dei re consiste in ¡uesto: che chi loro parla non dimentica mai che parla ad un re. Bisogna che, mediante una serie di sforzi, cerchiamo di arrivare a quel punto ottico in cui non si vede più dinanzi a sè la potenza, la ricchezza, la scienza, come non si vedeva un momento fa l’ignoranza e la miseria, per guardare soltanto l’uomo. In fondo, per la grandezza e l’indegnità, per le vestigia di vita divina e per le rovina del peccato, siamo tutti gli stessi e portiamo, sotto i nostri cenci o sotto i nostri splendori, il medesimo cuore angosciato. •
Beato colui che conosce la via dei cuori e viene a loro, messaggero di Dio, a recare, secondo ciò che richiede l’ora, la severità o la clemenza, l’ammonimento urgente o il bicchier d’acqua viva che conforta e risuscita.
Come il Cristo, suo maestro, che fu il mediatore, il pastore d’anime deve applicarsi ad essere anche lui mediatore. Allarghi il suo orizzonte, guardi la vita, ne studi le lezioni, si ragguagli a destra, a sinistra, in basso, in alto, e - dovunque fraterno, impersonale dovunque - sia egli una potenza di concordia; pianga con quelli che piangono e gioisca con coloro che sono nella gioia. Sappia egli talvolta ritrovare la fronte di bronzo dei vecchi profeti e davanti al male trionfante, sfacciato, apparisca egli forte della sua coscienza, come una roccia irriducibile. Comprenda egli, insomma, la nobiltà di un ministero unico al mondo in cui, pur essendo il servitore dei servitori, si dipende da Dio sólo.
Perchè, in ultima analisi, diciamolo chiaro, di che cosa si tratta nell’ora in cui siamo? Di stabilire la potenza d’una Chiesa? di risolvere dei problemi di filosofia? di liquidare forse una vecchia bega teologica o ecclesiastica? No! mille volte no!
È notte nell’anima umana, notte profonda quasi dovunque e la cosa di cui si tratta è di far penetrare in quell’oscurità un raggio di luce divina. Come giungere a ciò? Per coloro che predicano, parlano, seminano, vi sono momenti di grande spossatezza, di scoraggiamento profondo. Si direbbe che più nulla abbia influenza, che più nulla abbia presa sul fondo ingrato che lavoriamo. Che cosa fare allora? Ecco: Questo secolo ha percorso il ciclo delle ragioni e dei sistemi; egli ha esaurito tutte le fasi della vita spirituale rappresentativa. Egli non si convertirci più alla fede e alla speranza per dei molivi razionali. La sola probabilità di salvezza che ci rimanga è di convincerlo coll’azione, coll’esser degli uomini. Perciò, a tutti quelli che si sono stancati nel fare appelli e discorsi, a tutte le voci nel deserto, vorremmo gridare: non parlate più, agite ! tacete, e siate uomini! Se volete far rivivere l'Evangelo, siate l’Evangelo vivente! Una verità domina da molto alto quanto riguarda le rivelazioni di Dio, ci vengano esse dalla Bibbia, dalla storia del mondo o dalle nostre esperienze interiori: il Dio che VUOL SALVARE IL MONDO SI TRADUCE IN VITA UMANA, EI SI FA UOMO.
Una vita, quale dimostrazione!
Un carattere, quale testimonianza! Un uomo, quale argomento!
*•*
Allorquando avrete compreso sino in fondo questa grande Verità, ’non vi chi£
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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dete mai, praticandola, in quanti siete a servirla. Lavorate e sperate!
Ricordatevi quella scena così religiosa e così ricca in simbolica poesia, che ogni Natale riconduce nella nostra memoria.
Ricordatevi i pastori solitari e fedeli ai quali, pei primi, gli angeli annunziano, di notte, la nascita del Salvatore. Sarà sempre così.
Quando l’alba sta per apparire, molto prima che il suo pallore mattutino rischiari l’orlo del cielo, dei piccoli gridi, canti timidi ancora, e indecisi, si fanno sentire qua e là nella campagna. Sono i primi uccellini destati, ai quali, in mezzo alle tenebre, qualcosa ha detto che la notte sta per finire. Essi non si conoscono; ma, di distanza in distanza, le loro voci si rispondono e si comprendono e il loro istinto profetico non l'inganna.
Siate come loro, voi, che, attraverso l'oscurità del presente, sperate e annunziate tempi migliori! Tosto, non dubitatene, Dio ricondurrà nel cièlo la sua alba, la sua aurora magnifica, e da tutto il sonno della terra, da tutto il torpore, da tutta questa immobilità cupa e muta, verrà fuori il moto fremente dello Spirito. Voci sempre più numerose e più forti si avvicineranno, si uniranno le une alle altre, e non sarà più (coraggio! voi che incominciate), non sarà più il canto timido ed incerto dei primi messaggeri dell'alba; ma l'armonia immensa e vittoriosa: saranno le fanfare squillanti del mattino!
Cario Wagner.
(Trad. G. A.).
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[CRONACHE]
Vitalità e vita nel Cattolicismo.
vi.
I CLERICALI E LA GUERRA: IL DISSIDIO TR/\ I CATTOLICI PER L’INTERVENTO DELL’ITALIA -« L’UNITÀ CATTOLICA » E « IL CITTADINO » DI BRESCIA. - INTERVISTE E PARERI DI DEPUTATI CATTOLICI E PROTESTE DEGLI INTRANSIGENTI. - IL DISCORSO DEL PRESIDENTE DELL’UNIONE POPOLARE TRA I CATTOLICI D’ITALIA. fi LA LIQUIDAZIONE DEI CLERICALI DI DESTRA: LA FINE DEL « LABARO ». - LA RIABILITAZIONE DEI GIORNALI DEPLORATI DA PIO X.
N un'intervista accordata al giornale di Torino La Slampa (n. dei 24 ottobre 1914) dal deputato cattolico di Bardolino, on. Montresor, si affermava che l’Italia ha dei diritti imprescrittibili su tutte le terre italiane e che non può disinteressarsi dei fratelli irredenti e delle sponde dell'Adriatico e si concludeva che si deve fare in modo che al momento supremo il nemico trovi gli italiani « senza più differenze o divergenze interne, tutti uniti nel fine comune: il compimento dell’unità italiana... Certo i vescovi
italiani benediranno le armi d’Italia, tutto il clero e tutti i cattolici non si mostreranno inferiori nel loro patriottismo al clero ed ai cattolici delle altre nazioni ».
Così parlando fon. Montresor interpretava certamente lo stato d’animo di molti cattolici, i quali, pur alieni dal precipitar gli eventi, non sono ciechi ai diritti ed alle necessità della patria e sanno che la questione prima 0 poi dovrà essere risolta. E non diceva altro, in conclusione, che, quando sarà giunto il momento in cui le genti italiche dai reggitori saran chiamate alle armi, i cattolici non saranno secondi a nessuno ne! compiere il loro dovere di cittadini. La cosa dispiacque alla Unità Cattolica fiorentina, che nel numero del 5 novembre attaccava fieramente e il deputato intervistato e lo Stato italiano e la possibilità di una guerra, rivelando i sentimenti da cui sono animati gli informatori di quel foglio. Nell’articolo, intitolato « Parliamoci chiaro » si diceva:
Voi on. Montresor potete fare dichiarazioni per i cattolici nazionalisti, per i cattolici soscrittori dei fatti compiuti, e per altri di simile stampo, e per i socialisti ufficiali se dessi se ne contentano; ma non v’immischiate di noi cattolici che stiamo in tutto col Papa; cat-
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tolici innanzi tutto certi di essere patrioti, ovvero clericali se volete, chè a noi poco importano i nomi.
Per noi e per i nostri vi diciamo che salvi i supremi diritti di difesa e di giustizia, nessuna guerra neppur contro l’Austria ci troverà uniti con voi. Le vostre inquietudini, le vostre mene gli atteggiamenti di una neutralità che troppo puzza di velleità traditrici, potranno infine provocare l’alleato o spingere il nostro governo ad aprire ostilità. Noi fino a quel giorno grideremo senza tregua contro quelli che anche sol col'e chiacchiere inopportune ed importune vogliono spingere il paese all’avventura; e se un di il governo attratto nelle vostre reti, dimenticherà, sotto qualsivoglia pretesto gli interessi veri dell’Italia, che sono quelli della pace e dichiarerà una guerra cristianamente ingiusta, noi cattolici non ci ribelleremo a Cesare, non tireremo come diceva ier l’altro Mussolini ai generali, ma andremo al fuoco senza energia, senza entusiasmi, come vittime al macello, puramente e semplice-mente per dovere d’ubbidienza ai nuovi tiranni delle leggi laiche moderne, porteremo verso il nemico contro il quale ci aizzerete i nostri petti a bersaglio, ma non il valore di chi può gridare:« Dio è con noi! » nonostante la garanzia che on. Montresor ci date fin d’ora che le nostre armi saranno benedette dai vescovi!!
Mal vi prende di additarci l’esempio dei cattolici di altre nazioni. Poniamo da parte l’Austria, la Germania e il Belgio ove i cattolici possono almeno vantare rispetto e benevolenza da parte dei loro governi; ma nella Francia stessa, quantunque ieri perseguitati, il ricordo della Francia cattolica di un tempo, la formula non ismentiia per essi degli interessi indissolubili della Monarchia e della Chiesa, costituiscono elementi atti tuttora ad infondere loro l’energia per una lotta disperata contro il nemico, intendiamoci bene, ASSALITORE, onde potere ancóra, nei giorni terribili che le menti più acute di quella Nazione si attendono per il domani della vittoria, finire l’impresa contro il nemico interno, peggior di quel di fuori, cioè la repubblica settaria, che ringalluzzita tenterà con rinnovata audacia l’oppressione dei cattolici francesi.
Ma nói, cattolici italiani, all’ombra di quali vessilli con quali idealità, potremo essere spinti a combattere?
A parte l’ubbidienza ad un puro e semplice e discutibile dovere, inneggeremo forse nella marcia contro il nemico, ai santi laici della terza Italia tutti non uno escluso, fatali alla fede ed alla Chiesa? A qual passato di grandezza potremo sognar nella mischia se escludiamo i nostri Comuni di un di ed il Papato? di questo Papato che il governo italiano da oltre quarant’anni tiene sotto una dominazione ostile e lascia vilipendere da ogni imbecille o mascalzone della penisola?
E non è in causa di questa schiavitù del Papato che il Governo s'è visto fatamlente condotto ad alternare poco onoratamente gli atteggiamenti della sua politica internazionale incoerente sempre e disastrosa?
L’on. Montresor dice: « dobbiamo far si che nel momento supremo il nemico ci trovi senza più differenze o divergenze interne *».
Ebbene on. Montresor una delle maggiori differenze e divergenze interne (e domani anche internazionale) è la Questione romana.
Si tratta di farla scomparire prima che il nemico ci chiami alla frontiera, e supponiamolo, per giustissima causa.
Vói, onorevole, avete pronunciata la parola divergenze, noi l’abbiamo concretata; a voi deputato cattolico il compito vostro.
Ricordatevi quanto oggi vi diciamo: se gli eventi a tal punto giungessero da creare un’indubbia opposizione di interessi fra la vostra Italia ed il Papato e che ipoteticamente s’imponesse una divisione fra i cittadini, il partito dei cattolici non può essere che uno fino da questo istante.
Nonostante che l’atteggiamento del giornale fiorentino e del gruppo che vi fa capo fosse altrettanto noto quanto poco preoccupante, particolarmente dopo la fine di Pio X, vi fu ancora nell’altra ala del clericalismo chi si commosse per l’impronti-tudine violenta di tale scritto e fu questi il direttore del Cittadino di Brescia, il quale nel numero del 7 novembre del suo foglio, premesso che si augurava di
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gran cuore che la guerra avesse potuto essere evitata, veniva così a polemizzare coi temporalisti fiorentini:
L’Italia coltiva aspirazioni nazionali: sulla possibilità di realizzarle o meno in un prossimo avvenire o sulla opportunità di rinviarne, per forza di cose, la realizzazione ad un più lontano domani si può essere discordi; ma non si può non ammettere la legittimità storica e morale di queste aspirazioni comuni a tutti quei popoli che vivono sotto dominio straniero o che lamentano dei loro fratelli di razza, di religione, di lingua sotto il governo di altre nazioni. — L’Italia, e per l’Italia intendiamo e bisogna intendere, a meno di vivere nel mondo della luna, il popolo, la nazione italiana senza distinzione di partiti, è vitalmente interessata alla soluzione del problema orientale, alla sistemazione dell’Adriatico, alla difesa delle sue colonie, alla possibile divisione delle spoglie e dei mercati turchi nell’Asia Minore. Ora una neutralità che pretendesse prescindere da queste semplici ed evidenti realtà potrebbe voler dire il suicidio per cinquantanni, o più, del nostro paese, e nessuno che abbia senno ragionante, potrebbe aderirvi. — Una guerra resa necessaria da una di queste vitali ragioni non potrebbe certo chiamarsi ingiusta nè umanamente nè cristianamente.
Tutto ciò premesso e ripetuto, noi crediamo che l’on. Mcntresor abbia davvero, realmente e fedelmente, interpretato il pensiero della totalità dei cattolici italiani, allorché disse che, qualora le armi d’Italia dovessero battersi tutto il clero e lutti i cattolici non si mostreranno inferiori nel loro patriottismo al clero ed ai cattolici delle altre nazioni... I cattolici italiani — che non hanno alcun bisogno di aggiungere aggettivi al nome di cattolico quasi che la devozione al Papato o alla Sede apostolica possa essere monopolio privato di una ristretta minoranza che tale privilegio reclama a sua particolare esaltazione — farebbero in tal caso pieno e completo il loro dovere, dando il contributo loro di valorosi soldati e di buoni cittadini tanto sui campi di battaglia come in ogni altra esplicazione delle attività sociali.
U Unità Cattolica non si tacque, ma cercò un diversivo mettendosi a teorizzare quando la guerra sia o no giusta e rampognando il giornale bresciano di far giudice unico della opportunità della guerra il governo. E si domandava (n. dell’8 novembre), quasi presupponendo che le guerre promosse da un governo clericale siano sempre giuste — che significa non conoscer la storia e non badare alla cronaca! —:
Ma se il governo domani fosse invece anticlericale, crede il Cittadino che la guerra sarebbe sempre giusta?
Noi a leggere certe cose trasecoliamo: il laicismo ed il liberalismo se sono giunti anche a rivoluzionare le idee di certi cattolici vuol dire che hanno fatto molto progresso.
Poiché in una guerra giusta e di difesa dei veri interessi italiani tutti siamo concordi nello stringerci compatti e con entusiasmo attorno al governo: ma fuori di una guerra giusta e riconosciuta da ehi è giudice imparziale ed autorevole della morale cristiana come sostenere quello che sostiene il Cittadino?
E continuava specificando ancor meglio questo ultimo peregrino concetto affermando che il papa è quello a cui spetta di dare il « placet » ad una guerra, dichiarandola giusta.
Il principio potrebbe portare a deduzioni disastrose per la neutralità del pontefice. Poiché è evidente che dovendo il papa ritenere per giudizio riflesso che una delle parti combattenti è dal lato del torto e fa una guerra ingiusta, anche nell'attuale conflitto, suo dovere sarebbe di intervenire a favore della giustizia e non compiere il gesto di Pilato lavandosi le mani nell'acqua della neutralità, a meno che egli non sia quel famoso giudice che dava ragione a ciascuno dei contendenti.
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La nuovissima contesa fra clericali non si arrestò qui. L’on. Cameroni ebbe la malaccorta idea — dico « malaccorta » per le noie che glie ne sono derivate — di tenere una conferenza a Milano sull’atteggiamento degli italiani nell’ora presente, la quale conferenza provocò alcune osservazioni da parte del Corriere della Sera, a cui l’on. Cameroni credette opportuno replicare con una lettera al giornale stesso, protestando per essere stato presentato nel resoconto, come egli diceva, « in atteggiamento di ispirare o subordinare i miei sentimenti politici alle mie credenze religiose, come se, contro gli interessi e le aspirazioni nazionali, simpatizzassi coll’Austria (e non è vero) perchè l’Austria è cattolica... ed anzi perchè in Austria si tengono congressi cattolici che fanno voti per la restaurazione del potere temporale dei papi! » Proseguiva poi ricordando come tutto il suo passato parlamentare stesse contro questa « ingiusta ed offensiva » impressione e che egli non aveva mai fatto una politica confessionale dando sempre la propria adesione « senza riserve » alle patrie istituzioni ed a Roma capitale,.
Ce n’era abbastanza per tirarsi addosso tutti i fulmini degli antichi cattolici papali integrali che nel solito giornale (n. del 26 novembre) sotto il titolo « Per la concordia e l’unione dei cattolici » (!!!) scrivevano contro il malcapitato:
L’on. Cameroni sogghigna quando il Corriere della Sera gli dà dell’austriacante... Krchè l’Austria è cattolica e perchè in Austria si fanno voti perchè il Papa sia veramente ■ero di nome e di fatto e non più « sub /tostili dominalione! »
Tutte le sue chiare manifestazioni parlamentari — dice il Cameroni — resistono a questa ingiusta ed offensiva impressione! Nientedimeno!!! Noi speravamo che questi cattolici, parliamo sempre di Cameroni, che hanno il fegato di parlare in mezzo alla gioventù cattolica e di erigersi a maestri nelle feste federali cattoliche, nelle Settimane Sociali cattoliche, avessero finalmente compreso qual’è la retta via che devono percorrere, ma invece mentre alla parola papale noi promettemmo con tutte le nostre forze férma obbedienza e ritrattammo anche francamente, quello, che pur non essendo un errore, non era tuttavia nel desiderio del Pontefice, questi cattolici di nuovo modello senza un’appunto dei loro colleghi — neanche in camera charitalis — sorgono con una loro volontà che è, se ben comprendiamo le direttive pontificali, contro la suprema volontà della Chiesa, e ribattono i loro errori, e persistono nelle loro liberalesche aberrazioni.
E a un certo punto il deputato cattolico di Trovigli© incomincia lo sfoggio dei suoi meriti politici — naturalmente non subordinati alla credenza religiosa.
Signori, favoriscano... sembra che gridi il cattolico deputato on. Cameroni. Ecco il mio repertorio. Ecco le mie medaglie, le mie glorie, i miei gioielli. E questa nuova « Cornelia » si apparecchia ad accarezzare i Gracchi cresciuti all’ombra delle saggio convinzioni cattoliche... senza cattolicismo.
E i Gracchi mostrano: i diritti e gli interessi religiosi nell’orbita e nella libertà della legge, la negazione della politica confessionale, l'adesione senza riserve alle patrie istituzioni ed a Roma capitale, l’intervento doveroso dell'Italia per le terre irredente il cui miraggio affascina gli italiani ». Questi i principali gioielli di questa nuova Cornelia, in veste di deputato cattolico.
Questi concetti non hanno bisogno di confutazione, è vero? Hanno una evidenza così chiara che non c’è bisogno di ricorrere all’apologetica e alla teologia per la confutazione.
Ma dobbiamo tener presente che questi concetti sono nutriti, professati, insegnati talvolta pubblicamente in mezzo alle nostre associazioni cattoliche.
Dobbiamo dunque unirci in santa concordia per allontanare da noi questo pericolo, e per far sì che veramente i cattolici dai non cattolici chiaramente si distinguano. Non ci sono tergiversazioni di alcun genere. Chi non è con la Chiesa è contro di-essa. E colui che vende allegramente la gloriosa primogenitura cattolica per il piatto di lenticchie che il liberalismo offre astutamente, non può essere ammesso fra le nostre file. E dottrina della Chiesa.
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L’on. Cameroni è stato sincero. Ha esposto con sintesi precisa le sue credenze, le sue aspirazioni, le sue opere. Il Pontefice non vuole che noi al titolo di cattolico aggiungiamo altri appellativi, e poiché ci sembra di avere ad esuberanza dimostrato, come la pensi questo deputato che vedemmo a Milano fra le Associazioni cattoliche, a Brescia alle Settimane Sociali, e in altri luoghi dove si studiava, si combatteva per la causa cattolica, sia lecito a noi, come semplici giornali cattolici e senza autorità, di dire con molto rispetto, ma con molta fierezza: voi non siete cattolici, siete semplicemente dei LIBERALI autentici. Come tali vi rispettiamo, c se occorre vi avremo alleati su altri campi, ma la vostra bandiera non è la nostra. Il nostro vessillo è quello di Cristo e del Papa suo vicario.
Per voi, on. Cameroni, non c’è di meglio dell’on. Salandra. E sbandierate pure.
Venuto quindi il discorso Salandra alla Camera dei Deputati in cui il governo affermava solennemente che « nelle terre e nei mari dell'antico continente, la cui configurazione ‘politica si va forse trasformando, l’Italia ha vitali interessi da tutelare, giuste aspirazioni da affermare e sostenere » ed avendo consentito con esse e interpretatele nel senso che se si farà la guerra essa sarà contro l’Austria, parecchi deputati cattolici, come il Tovini, il Ciriani, il Cameroni, il quale ultimo aveva scritto che il discorso del governo era« una solenne affermazione che il Governo stesso, sente, al pari del popolo italiano la necessità di tutelare le aspirazioni nazionali », il foglio fiorentino ritornava alla carica e chiedeva al deputato di Treviglio (n. del 5 dicembre):
E quali sarebbero di grazia le aspirazioni nazionali a cui accenna 1’ on. Cameroni? O piuttosto non sarebbero aspirazioni... sue particolari!
E se le tenga pure le sue aspirazioni l’on. di Treviglio! Che abbiamo già veduto come si concretino e come intenderebbero di esplicarsi...
Dopo questi saggi di carità ed amor patrio di quella minima minoranza di clericali che riuscirono a dominar lungo tempo sotto Pio X, è facile comprendere che parlare di concordia nel campo cattolico è un non senso. E, certo per dissipare la triste impressione che avrebbe potuto produrre in questi tempi di rinnovati amori tra il governo d’Italia e... il Governo pontificio l’atteggiamento dei clericali « papali » — {Videa Nazionale del 22 decembre metteva già il broncio ammonendo i clericali di non costringere il nazionalismo italico a convincersi essere l’anticlericalismo politico, storicamente italiano, ancor necessario) — il conte Dalla Torre credette opportuno di tenere a Roma un discorso sulla neutralità come è intesa dai cattolici. In tale discorso, che aveva per scopo di spazzar via gli equivoci che l'atteggia--mento dei clericali aveva creato, non si fece è vero che illuminare ancor più gli spettatori sulle infinite doppiezze e contraddizioni di cui è contesto il manto politico dei clericali. Ma un pregio esso aveva ed era la sconfessione ufficiale di colorò di cui ci siamo occupati in queste pagine, che dichiaravano a più riprese e con costante ardire che, in caso che il Governo si decidesse per la guerra, essi non si sarebbero ribellati ma avrebbero marciato come pecore che sian condotte al macello, arzigogolando tra guerra giusta e ingiusta e negando al Governo il diritto di giudicare sulla necessità di un intervento armato. Non si possono, infatti, interpretar diversamente le parole del conte Dalla Torre, di cui riferiamo la parte conclusiva:
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È ben vero che il popolo brama e confida nella pace, che il popolo crede vantaggiosa ai propri interessi la neutralità; ma è altresì vero che noi vogliamo la neutralità condizionata non già assoluta, c quindi crediamo che il giorno in cui il Governo del nostro Paese, non dovrà ricorrere ad un pretesto per scendere in campo, il popolo comprenderà ch’è giunta l’ora del sacrificio e Raffronterà per la Patria con l’invincibile entusiasmo dei suoi padri. È sarà sacrificio vittorioso non soltanto di nuove conquiste, ma di un nuovo risorgimento di coscienza civile, perchè dalla prova uscirà il popolo temprato ed educato al sentimento delle sue responsabilità, al dovere verso l’avvenire del suo Paese, ad una visione più vasta e più generosa della sua azione e delia sua influenza, che non sia come fin’ora, il solo interesse, per quanto legittimo di classe.
La neutralità condizionata, la necessità dell’intervento non appena gl’interessi e le aspirazioni d’Italia positivamente lo reclameranno, per noi, rappresentano tutto questo: la fiducia cioè di una maggior potenza all’estero, e di un civile progresso all’interno nella coscienza pubblica: due scopi che non possono essere disgiunti mai in una moderna impresa, senza che la sua bontà ed efficacia non vadano fallite.
E continueremo su questa via e propugneremo questo programma con il solo obbiettivo del bene nazionale che sentiamo di agognare e perseguire con lealtà a nessun’altra seconda: chè se potranno prevalere differenti concetti, opposte direttive e chi ha assunto la responsabilità dell'ora gravissima di fronte al Paese, giudicherà diversamente, non mancheremo al dovere, perchè in quell'istante non ci ricorderemo che di un solo ideale, non vedremo che una sola necessità; l’onore della nazione e la dignità della Patria.
Non è necessario uno sforzo di ermeneutica per trovare la discordanza più perfetta tra le pretese e le riserve dei cattolici « papali » e queste dichiarazioni.
Gli avvenimenti si sono susseguiti senza interruzione nel dimostrare, aH’infuori della questione suaccennata, la liquidazione dei clericali di destra. E la cronaca potrebbe riuscire Oltremodo interessante ed amena se si potessero registrare tutte le fasi di questo funerale. Purtroppo ciò non ci è consentito dallo spazio. Non possiamo, per altro, non ricordare, come saggio, la fine inonorata del Labaro di Milano, il giornale sorto, col consenso esplicito e l’incoraggiamento e il sussidio di Pio X, per opporsi al foglio del trust dei giornali sconfessati dal vecchio papa, V Italia.
Morto Pio X, venuto meno il suo aiuto morale e finanziario, il Labaro il giorno 6 decembre cessava le pubblicazioni cedendo la propria azienda precisamente al-l’Italia! Non si può dire, sarebbe ed è un misero ripiego, che i giornali del trust abbiano cambiato rotta e mutato di un apice il loro vecchio atteggiamento per cui Pio X li interdisse. Senza lenti particolarissime che deformino la vista, ciò non si scorge.
Altro fatto che non può lasciarsi senza considerazione è la lettera scritta dal card. Gasparri, a nome di Benedetto XV con cui veniva in effetto revocata la famosa Avvertenza di Pio X contro parecchi giornali. Chi conosce le abitudini della Santa Sede non può interpretar diversamente le parole del Segretario di Stato: « adempiè al Pontificale incarico di significarle che l’anzidetta Avvertenza non ha avuto carattere di proibizione ». Tanto più se si consideri che tale rescritto era diretto dal vescovo di San Miniato in Toscana che chiedeva se i suoi sacerdoti potevano con tranquillità di coscienza far propaganda intensa per i giornali del trust. Evidentemente quei sacerdoti toscani non erano troppo soddisfatti deH'CJmtò Cattolica loro vicina.
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Ne sono seguiti casi molto carini. Basta uno per tutti. In diocesi di Arezzo quel vescovo, già noto ai nostri lettori, aveva senza dubbio considerato V Avvertenza come una proibizione, giungendo persino a toglier benefici e provviste di cui godevano — come aveva già fatto per chi si occupava della diffusione dei Vangeli della Società di San Girolamo — a quéi sacerdoti che non avevano considerato come una proi-, bizione esplicita la parola del papa. Ora, mutato governo, il vescovo Volpi ha dato ordine al suo giornaletto diocesano di accoppiare in prima pagina la réclame del-V Unità Cattolica con quella dei giornali deprecati.
Pio X è morto: altri occhi vigilano, altre menti governano e occorre piegar la schiena dinanzi ai nuovi dominatori.
Roma, gennaio 19T5,
Ernesto Rutili.
DICHIARAZIONE
Mi è stato fatto osservare che io scrivendo qui ho offeso la Chiesa cattolica alla quale appartengo. L'osservazione mi ha addolorato, perchè la mia ho inteso fosse e dovess’essere sempre parola di concordia e d'amore. Posso perciò dichiarare che qualunque offesa è stata lungi dal mio pensiero e dal mio cuore.
P. Ghignoni.
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SAGGI CRITICI COMMODIANI
li fascicolo quarto della Rivista di filologia e di istruzione classica di questo anno ha pubblicato un saggio del prof. P. L. Ciceri: Credenze e culli pagani nella polemica Commodianea. L’autore è uno studioso di Commodiano, come ci attestano quest’altri suoi saggi: i° Di alcune fonti dell’opera poetica di Commodiano e di Commodiano come scrittore estratto dal « Didascaleion » 1913, III-IV); 20 Sopra alcuni acrostici « de Diis • di Commodiano (estr. dal voi. di Onoranze a C. Pascal. Catania, Battiate, 1913); 30 Le « Instruciiones ■ Commodianee e la tradizione biblica (estr. dagli Atti e Memorie della R. Acc. di Padova, XXX, 3); 40 La resurrezione secondo una descrizione del III sec. d. C. (estr. dalla Rivista d’Italia, 19*4. sett.).
Nel primo di questi lavori il Ciceri s’è Srefisso di mettere in luce le relazioni tra ommodiano e i precedenti scrittori cristiani, specie Cipriano, e di caratterizzare l’opera poetica commodianea dal punto di vista stilistici ed estetico; e, crediamo ci sia riuscito, quantunque, per la prima parte, sia stato preceduto da altri, e, per la seconda, parecchi appunti e non poche riserve ci sarebbero da fare lungo il corso della trattazione sua, nella quale non ha tenuto conto, come pur sarebbe stato da aspettarsi, dei lavori dello Zeller, del-l’Heer, del Revay, del d’Ales, del Martin, ecc.
Ben riuscito ci sembra come ricerca dèlie fonti classiche e cristiane del materiale polemico degli’ acrostici « De Diis », l’opuscolo dedicato a quest’argomento.
Altrettanto però non possiamo dire dell’altro lavoro: Le « Instructiones » Commodianee e la tradizione biblica, dove l’autore.
studiandosi di rilevare le dipendenze dirette del poeta dalla Bibbia, arriva a scrivere, come altri notò (1), che noi ci avviciniamo di più alla versione africana, cui forse attinse Commodiano, confrontando i Settanta che non confrontando l’itala e tanto meno la Vulgata, ecc. E non contento di questo, dopo di aver scambiato la À<òa/.x per un vangelo apocrifo (pag. 7), si permette di pensare che i compilatori del-V Itala abbiano in essa potuto mettere a profitto passi biblici tradotti da Commodiano, senza badare che anche dato che quei traduttori avessero voluto condannarsi da se stessi ad una ingrata fatica da ragni, non sarebbero di certo andati a ricercare le bricciche bibliche sparse nell’opera di Commodiano, che, come scrisse Gennadio, parum attingerai nostrarum litterarum e che, scrivendo, non poteva rompere le pastoie di certe leggi ritmiche, le quali non gli permettevano di fare una traduzione esatta del testo biblico.
Di maggiore e miglior conoscenza della letteratura cristiana antica e soprattutto della Bibbia avremmo poi desiderato che il Ciceri ci avesse dato prova nel suo saggio: La risurrezione secondo una descrizione del sec. Ili d. C., che vuol essere un commento al quadro millenario, che Commodiano ritrae dal v. 791 al v. 1060 del Carmen Ap. In questo saggio, in cui avremmo voluto veder citati i due pregevoli studii del Chiappelli: Le idee millenarie dei cristiani nel loro svolgimento storico (2) e La dot trina della resurrezione della carne nei primi
(1) E. BUONA IOTI, intorno al fotta Commodiano, in HoUrttino di Itti. crii, rrlig., fase. 6-7, pag. ai6.
(a) Vedi A. CxiArrsi.il, Nuove pagine sul cmuanenmo antico, Firenze, Succ. Monnier 1902.
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secoli della chiesa (i), l'autore, seguendo l’opinione dell’Eber, accettata dallo Schanz, dall’Aube, dal Boissier, ecc., che fissa la data della composizione degli scritti com-modianei tra il 250 e il 260, polemizza col Brewer che la sposta tra il 458 e il 466, senza occuparsi dello Harnack, che mostrò di già la fallacia delle induzioni dell’Eber e cne, per ragioni che qui lungo sarebbe riportare, pensò di fissar quella data negli anni susseguenti la persecuzione diocìe-zianea (2). Il Ciceri non si occupa nemmeno dell’opinione del Kraus, dello lulicher, del Ramundo, ecc., quando, per collocare il quadro nella sua vera visuale, bisognava, dopo un esame accurato delle varie ipotesi in proposito, stabilire approssimativamente ma con sicurezza l'epoca dell’attività poetica di Commodiano. Aggiungiamo poi che se l’autore avesse avuto una conoscenza piò ampia e più sicura della Bibbia ci avrebbe certamente presentato quel quadro entro diversa cornice, avrebbe messo in miglior luce la presenza dei due anticristi e non sarebbe incorso in errori gravissimi anche nell’interpretazione letterale del testo commodianeo.
Non possiamo qui certamente immotarci a mostrare quale sia l’opinione nostra intorno alla duplicità degli anticristi in Commodiano; e ci riserbiamo di scrivere una breve nota dichiarativa su questo curioso particolare dell’escatologia del poeta. Non possiamo, però esimerci dal notare il grave abbaglio in cui è caduto il Ciceri a proposito del profeta Elia.
Questi che appare in Giudea
Et signo signal populum in nomine Chrisli non è affatto un mendace e tanto meno un amico di Nerone, come ha creduto il Ciceri, interpretando malissimamente Commodiano.
La credenza nella venuta, e, diciamo meglio, nel ritorno di Elia alla fine dei tempi, che fu uno dei particolari più notevoli dell’escatologia giudaica (3), si perpetuò, com’è noto, non solo presso i cristiani ma anche nella letteratura talmudica. E
(«) Vedi Ofi. cit. prewo Atti del'a R. Acc. di scienze mor. e poi. di Napoli 89-91. Vol. XXVI.
(») A. Harnack. Gesehickle der allchrist. Lill. Leipzig, X904. pag. 435 e seg
(3) M alaci«., IV, «; Matt. XVII, io; Marc IX, io; Vedi : Sta»frk, Les idles religeuses en Pa ostine anx temps de J.-C. Per quanto riguarda la letter. Talmudica, vedi: D. Castklli. Il Messia secondo gli Ebrei, Firenze, Succ. Le Monnier 1874, P’Z- «0 « SCSl’Elia commodianeo, eh’è quello stesso che aspettava anche Gesù, non fa altro che adempiere l’ufficio assegnatogli dalla tradizione giudaica cristiana: confermare, cioè, in mezzo ai Giudei, il vero Cristo.
Il popolo giudaico però non vuol credergli; ed egli, come aveva fatto, diciamo così, nella sua vita anterióre in circostanze analoghe (4 Reg. I, io) prega Dio perchè gastighi gl’increduli. I quali vistisi colpiti dall’ira divina. Multa adversus eum con-flant in crimina falsa (Apól., v. 848) spacciano ch’egli è un nemico dei romani e, con donis iniquis, aizzano Nerone contro di lui.
Bastava riflettere su quel « conflanì in crimina falsa » e su quel < donis iniquis » Ì»er comprendere, anche senza conoscere a leggenda, che l’Elia commodianeo non è un mendace ma quel santo profeta che tutti aspettavano precursore dell’esizio finale.
Veniamo ora all’ultimo saggio del Ciceri: Credenze c culli pagani nella polemica comodianea. In esso l’autore, pigliando in esame alcuni acrostici delle « instrucliones > cerca di stabilire i punti principali dell’invettiva commodianea e di riattaccarli tanto alle loro sorgenti dirette: gli apologisti precedenti, quanto alle indirette: gli scrittori romani e greci. i
Veramente dopo tutto quello che si è scritto intorno a Commodiano e dopo tanti studi critici sugli apologisti dei primi secoli» dei quali ormai è nota la dipendenza dai pensatori di Roma e dell’Ellade anche per quanto riguarda le critiche e le invettive contro gli dei e i culti del paganesimo, il saggio del Ciceri arriva troppo in ritardo. Ad ogni modo, poiché esso può servire come opera di divulgazione di quanto è patrimonio di una ristretta cerchia di studiosi, possiamo anche lodarlo, non tralasciando di raccomandare all’autore di far menzione delle opere di cui si serve nel corso delle sue indagini e di pigliar in accurato esame i passi degli scrittori antichi; che cita.
Cosi, per esempio, crediamo che sarebbe stato opportuno citare i due scritti del Pascal: La resurrezione della carne nel mondo pagano (1) e Dèi e diavoli, là dovè il Ciceri ha parlato dei Genethliaci, delle divinazioni, dei libri sibillini, ecc.
E per quanto riguarda l’esatto esame dei passi, osserviamo che Tertulliano al Capi<i) In Palli e le/ geode di Roma aulica, Firenze, Succ. l-e Monnier 1913.
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tolo 28, e non 18, dell* Apologetico, non riferisce l’inciso: respectu praesentaneae po-teslatis al culto del dio Sole e della dea Luna, ma piuttosto a quello imperiale. Tertulliano, volendo difendere i cristiani accusati di lesa maestà, ritorce le armi contro gli accusatori dicendo loro che se essi onorano Cesare, ciò fanno non per intimo senso, ma perchè si trovano di fronte a un potere pronto a punirli: Sed ne hoc vos ratione fa-citis potius auam respectu praesentaneae potestatis. Qui il • praesentaneae » ch’è una (Ielle tante espressioni del gergo giuridico che abbondano in Tertulliano, non ha altro significato che quello che nasce dai commerciali: praesento e repraesento: pago pronta cassa, senza dilazione. Concludendo, poiché il Ciceri, come sembra dall’esame di questi saggi, si trova a far le sue prime armi in questo genere di studi critici, verso i quali dimostra di aver buone attitudini, non ci scandalizziamo delle sue deficenze, delle quali è proprio il caso di dir col poeta: Non ego paucis offender maculis. Ci auguriamo anzi che, insistendo nella via intrapresa, dopo una maggiore e migliore preparazione nella letteratura cristiana antica ci dia intorno a Commodiano un lavoro com-Sleto ed organico, in cui siano seriamente ¡scussi e possibilmente risolti i problemi, che, sin ad oggi, si agitano insoluti attorno a lui.
Lconfortc, 28 dicembre 1914.
C. VlTANZA.
INTRODUZIONE ALL’ANTICO TESTAMENTO (i)
L’analisi della recente opera del prof. Na-ville: Fu scritto in ebraico l’antico testa-mento?, pubblicata nell’ultimo numero della nostra Bilychnis (Dicembre 1914) contiene frequenti richiami ad un’opera di un altro professore svizzero, il Gautier, la quale opera — per il suo indiscutibile valore scientifico e la serietà delle sue vedute — meriterebbe di essere maggiormente nota tra gli studiosi italiani.
Ne riassumo i dati principali nel seguente Indice, il quale basta a dimostrare quali e
(x) L. Gautier, Introduction à VA ncien Testament, 2* ed., Lausanne, Bridel, 1.9x4, due grandi volumi in-8° di complessive pag. xxoo, L. 20. Rivolgersi alla Libreria Bilychnis. Aggiungere cent. 60 per il porto.
quanti problemi sono esaminati e spesse volte genialmente risolti dal dotto e competentissimo autore.
PRELIMINARI. Cap. I. L’introduzione all’A. T. - Cap. IL La lingua dell’A. T. -Il gruppo delle lingue semitiche - La lingua aramaica - La lingua ebraica - Dialètti, deformazioni e trasformazioni dell’ebraico, ecc. — Cap. III. La scrittura ebraica.
PRIMA PARTE. La legge (Thora) o il Pentateuco: Cap. I. I documenti: studio analitico - Cap. II. I documenti: studio comparato: 1® Dal punto di vista legislativo; 20 Da quello linguistico e letterario; 3® Da quello storico; 4® Da quello teologico e religioso - Cap. III. La formazione del Pentateuco — Cap. IV. La composizione del Pentateuco: storia della questione.
SECONDA PARTE. I Profeti (Ne-biim): Prima sezione: I Profeti della prima serie (Nebjim Rischonim. Cap. I a Cap. IV. Libri di Giosuè, dei Giudici, di Samuele, dei Re - Seconda sezione: I Profeti della seconda serie (Nebiim Akharonim) - Cap. I a Cap. IV. Libri d’I-saia, di Geremia, d'Ezechiele, dei dodici Profeti.
TERZA PARTE. Gli scritti (Ketubim) o Agiografi : Cap. I. Il libro dei Salmi -Cap. II. Il libro dei Proverbi - Ca.p. III. Il libro di Giobbe — Cap. IV, I cinque Rotoli (Cantico, Rut, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester) - Cap. V. Il libro di Daniele -Cap. VI. I libri delle Cronache e d’Esdra-Nelmia.
QUARTA PARTE. Gli Apocrifi e gli Pseudepigrafi: Cap. I. Gli Apocrifi-. 1® Ag-Siunte a Ester, a Daniele, la Preghiera i Manasse, il terzo Esdra, la lettera di Geremia, il libro di Baruc; 2° Libri narrativi: I tre libri dei Maccabei, il libro di Giuditta, il libro di Tobia. - 3® Libri didattici: L’Ecclesiastico, La Sapienza -Cap. II. Gli Pseudepigrafi - Lista degli Pseudepigrafi; Il libro d’Enoc, Il quarto di Esdra, i Salmi di Salomone, il quarto dei Maccabei, gli Pseudepigrafi e il N. T. QUINTA PARTE. Storia del Canone, del Testo e delle Versioni. Seguono accurate Note Bibliografiche.
Dall’Znrftce risulta adunque che siamo in presenza di un lavoro poderoso, succinto e completo, vero manuale d’Isagogica e ottima guida nelle numerose, difficili e spesso complicatissime questioni trattate; un volume d’una chiarezza mirabile, con-
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dotto con rigorosi criteri scientifici, e nello stesso tempo libero da quell’eccessivo cumulo di dati tecnici, che sono forse utili agli studiosi di professione, ma che, dando ad un’opera qualsiasi una facile apparenza di erudizione, sono talvolta a bella posta accumulati per mascherarne la reale intrinseca superficialità di svolgimento.
Ciò non è veramente il caso per l’opera del Gautier. I suoi due grossi volumi sono un cibo solido per le menti aperte, ed è da augurarsi che la lieta accoglienza, già fatta anche in Italia alla prima edizione, abbia a ripetersi per questa seconda, riveduta accuratamente dal suo illustre autore.
G. E. M.
LA SCIENZA E LA MAGIA.
Due volumi, non grandi di mole ma oltremodo importanti per il loro contenuto, P. Saintyves ha pubblicato finora in una collezione che si propone di studiare la magìa e le credenze popolari dal contenuto magico in rapporto a la scienza. Dei due volumi (editore Emi e Nourry, 62 rue des Ecoles, Paris) il primo ha per soggetto: La guèrison des verrues, de la magie mè-dicale a la psychcthérapie (1). In esso troviamo raccolta una ricchissima serie di tradizioni e di credenze intorno alla guarigione dei porri o alla loro comunicazione e moltiplicazione con procedimenti e sistemi di magia primordiale mista spesso a superstizione religiosa.
Secondo la credenza più diffusa è necessario per guarire dalle fastidiose escrescenze dei porri che questi passino ad un’altra persona. La tradizione integrale vuole infatti che si prendano dei sassolini tanti quanti sono i porri da cui è affetta una persona e che questa, dopo avere toccato con i sassi le escrescenze in modo da porre ciascuna delle pietre in rapporto con ciascuno dei porri, le riponga in un pezzo di carta o in una borsa che dev’esser gettata lungo una strada. Quel disgraziato, che, spinto dalla curiosità, avrà raccattato l’involto, si guadagnerà tutti i porri di chi ha compiuto l’azione magica per liberarsene.
Nè si creda trattarsi di credenze e di pratiche di altri tempi. Tuttora esse si incontrano tra i popoli anche più evoluti.
(1) Rivolgersi alla libreria ed. Bilychnis.
Infatti la- » trasferta • per mezzo delle pie-truzze — naturalmente con varianti diverse sulla tradizione integralo — si pratica ancor oggi in molte province inglesi, nel Suffolk, nel Lancashire, nel Northum-berland, nel Lincolnshire, in molte parti della Francia e cioè nella Touraine, nel Poitou, nella Lorena, nella Bassa Brettagna, nella Dróme, nella Vandea, ecc
Altrove, come in Sicilia, alle pietre si sostituiscono dei grani di sale.
Anche legumi e frutti servono allo scopo. Già Plinio (Hist. Nat. XXII, 72) scriveva dei piselli: « Ecco un mezzo con cui si crede si facciano sparire i porri: alla prima luna si tocca ognuno dei porri con un pisello: si mettono questi piselli in un involtino che si getta dietro di sé >■. Tale pratica, con lo stesso cerimoniale, si è perpetuata in vari luoghi. Con varie modificazioni è ancora più diffusa. In qualche luogo si aggiungono capelli ai piselli, altrove i piselli vengono sotterrati o gettati in un pozzo per affrettarne la corruzione. Giò e complicato da cerimonie diverse e da varie condizioni. In qualche luogo è necessario compiere tale operazione essendo a digiuno, prima dello spuntar del sole e gettando i ceci nel pozzo dietro le proprie spalle.
La prima persona che verrà ad attinger acqua avrà la disgrazia di prendere i porri. Altrove è necessario, appena gettati i pochi semi, scappar via velocemente per non sentire il piccolo tonfo che fanno nell’acqua, ovvero essere assolutamente soli e chiudere gli occhi e cosi di seguito.
Non mancano certamente anzi abbondano ricette in cui la preghiera e formulari religiosi sono parte integrale. In tali casi le preghiere hanno evidèntemente preso il posto degli antichi incantesimi. Ecco, ad esempio, il trattamento nel Bocage e nel Berry (Francia). Nel Bocage: Prendere tredici piselli e senza esser visto da alcuno, prima del levar del sole, lanciarne dodici l’un dopo l’altro nel pozzo. Dopo di che si recita un Pater ed un A ve, si getta l’ultimo pisello e si fa un segno di Croce.
Nel Berry (e tale ricetta è desunta da un giornale le Moniteur de l’Indre dell’8 marzo 1856, dóve se ne dà per certa l’efficacia) si provede in tal modo: « Scegliere tredici piselli dell’anno, involgerne sei in una stoffa nera, sette in una bianca, e portarli per tredici giorni sul petto a guisa di amuleto. Aspettare un venerdì e, alla mezzanotte, senza testimóni, portarsi ad un
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pozzo, recitare sette Pater e alla fine di ciascuno gettare nel pozzo un pisello; portarsi dal pozzo ad una talpaia, recitare sei Ave Maria e alla fine di ciascuna fare col dito mignolo della sinistra un buco nella terra e sotterrarvi un pisello ».
A seconda delle varie regioni si usano anche ad ottener la guarigione acini di diverse specie e frutta e patate.
L’antico culto delle acque, ancora così radicato anche nelle organizzazioni ecclesiastiche più puritane — Lourdes ed infiniti altri luoghi insegnino — non poteva mancare nella rassegna dei metodi inagico-em-pirici di cura delle escrescenze naturali. Cosi si va a Saint-Cyr-en-Talmondais, celebre per le sue virtù curative, a recitar le formule sacramentali per aver la guarigione dai porri; così negli Hautes-Vosges la guarigione viene attribuita al santo patrono della fontana; sant’Agostino è quello che cura, per le acque d’una fonte dedicatagli nella foresta del Comune di Cleurie, purché colui che immerge le mani nella fontana si trovi per puro caso in quel luogo.'
Ma non occorre sempre recarsi ad una fonte sacra, basta a volte l’acqua benedetta. Nel contado di Liegi basta, ad esempio» bagnare la mano affetta dai porri nell’acquasantiera d’una chiesa in cui si entri per la prima volta, recitando la formula:Tins! volti po l’ei qui vinrent aprts mi! (ecco, per colui che verrà dopo di me), e partendosene immediatamente senza voltarsi in dietro. E colui che per il primo toccherà l’acqua benedetta avrà la poca graziosa eredità.
Altrove basta lavarsi in un ruscello mentre le campane suonano a morto ed augurarsi che le proprie escrescenze passino al defunto.
La luna e gli astri hanno anch’cssi virtù curative in certe date condizioni, complicate a volte con pratiche religiose.
Il curar l’affezione della pelle per mezzo di inserzioni, piccatine e legature di rami di alcune piante, è praticato in diverse parti.
Del resto le più disparate cose vengono usate allo scopo. La « trasferta » del male vien fatta per mezzo dei lumaconi, dei rospi, di rettili, di pesci, del lardo, della carne, della saliva, delle secrezioni e degli escrementi animali. Così godono qua e là riputazione di buoni medicamenti la bava della ranocchia (nel Yorkshire), il morso d’un ragno (in Lorena), il morso d'un grillo, della cavalletta verde (nel Bocage normanno), il sangue della lueerta (negli Alti
Vosgi), il sangue d’anguilla (ne) Northum-berland) ed infiniti altri medicamenti di tal genere.
Tutte queste notizie e questi dettagli che colgo in qualche pagina del libro, non sono che una minima parte delle curiose storie che vi sono registrate. Ed esse si riferiscono alle cure che più o meno ciascuno può praticar da se stesso. Vengono poi notizie dettagliate sulla suggestione popolare, e sulle sue diverse forme e cioè sugli incanti e gli incantatori e le formule incomprensibili e le loro cerimonie religiose; sulle persone che dicesi abbiano la virtù di guarire i porri col solo riguardarli, cioè di quelli che fanno assegnamento sulla suggestione operata soltanto con questo semplice mezzo: su coloro che operano inVece per suggestione numerica, che cioè contano le verruche con diverse cerimonie c formule. Singolare è la formula, che l’A. riporta, adoperata nell’isola di Guernesey, la quale formula è destinata però a guarir l’enfiagione delle glandolo. Questa formula non è misteriosa, mentre invece quella destinata a guarire i porri è gelosamente tenuta secreta da chi possiede la virtù contro tale affezione della pelle. Nell’un caso e nell'altro l’operazione viene chiamata « Scontare • cioè contare aU’indietro; onde si può arguire che i due procedimenti non differiscano essenzialmente tra di loro. Ecco il cerimoniale per la guarigione delle glandolo: la persóna che opera deve cominciare col fare il segno di croce sulla parte malata e deve ripetere la formula seguente:
« Saint- Jean avait un veuble (enfiagione di glandolo) qui coulait à neuf pertins. De neuf ils vinrent à huit; de huit ils vinrent à sept; de sept ils vinrent à six; de six ils vinrent à quatre; de quatre ils vinrent à trois; de trois ils vinrent à deux; de deux ils vinrent à un; de un ils vinrent d rien: et ainsi Saint-Jean perdii son veuble ». L’indomani l’operatore deve cominciare a contar da otto, il giorno dopo da sette, e così di seguito sino al nono giorno. Dopo di che. se non è intervenuta la guarigione non può essere attribuito alla inefficacia dell'incantamento, ma a qualche negligenza nell’eseguir la pratica o nella mancanza di fede nell’operatore o nel paziente.
L’incanto o suggestione si opera pure Kr mezzo di toccamenti o per dei nodi
iti a un nastro, ad uno spago, o ad un filo che poi dev’esser gettato via, o sotterrato, o riposto in date maniere.
Vi è pòi nel libro un capitolo dedicato
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alla suggestione medicale, volontaria o no, operata cioè non da empirici o da gente • che ha la virtù speciale di operar gli incantesimi », ma da scienziati o con la semplice forza della volontà o per mezzo di medicine che non hanno diretto influsso sulla malattia e che se a volte e prescritte da alcuni danno buoni risultati, altre volte e prescritte da altri non hanno effetto alcuno.
Ho riassunto fin qui l'esposizione dpll’A. Egli la fa seguire da un articolo sulla natura e sul contagio dei porri, ed, infine, da una spiegazione dei fenomeni suaccennati per mezzo della teoria delle modificazioni organiche d’indole suggestiva. Secondo lui la suggestione, processo d’ordine psichico, determina un processo d’ordine nervoso. Essendo la malattia d’indole nerveo-va-scolare, l’onda nervosa può agire da un lato sull’irritazione vascolare per ridurla progressivamente. Pertanto i nervi simpatici, esercitando un ufficio direttivo a volta a volta ipertrofico o atrofico, sotto l’influsso della suggestione possono modificare la loro azione e determinar l’atrofia d’una escrescenza prodottasi in seguito ad una irritazione locale.
E J’A. conclude col domandarsi perchè, una volta ammesso che la suggestione ha una azione organica, non si senti di ricorrere per altre malattie d’ordine nervoso o vascolare come, ad esempio, le varici, le affezioni cutanee ecc„ alla psicoterapia.
Se però gli uomini di scienza - aggiungo io - non son giunti a queste nuove applicazioni della psicoterapia, non son mancati di arrivarvi i fattucchieri e gli incantatori, quelli che vivono speculando sulla credulità del prossimo e quelli che credono sul serio di avere la ■ virtù • di operar guarigioni. Ed in verità le loro cerimonie, i loro segni e numeri cabalistici, le loro formule senza senso, le loro invocazioni pie raggiungono a volte lo scopo. Per quanto mi consta. so ad esempio, che, in diverse regioni d’Italia, anche persone di certa coltura e di posizione sociale non umile ricorrono volentieri in molte malattie, cito qui la risipola, ai « sognatori », a coloro cioè che le curano con formule magiche e con particolari artifizi. Nelle campagne marchigiane per guarir dalla risipola l’operatore ha cura di raccomandare la più assoluta fiducia nella sua cura al paziente, senza la qual fede cieca ogni tentativo sarebbe vano. Poi, provvistosi, degli ingredienti necessari - una falce, un bioccolo
di lana strappato dal dorso d’una pecora, una piuma di gallina nera, ed un lume ad olio - recita un mucchio di preghiere e di invocazioni a Dio e ai santi e, fatti non so quanti segni di croce su di sé e sull’infermo comincia a « segnarlo ». Tale operazione consiste a passare gli accennati strumenti sulla parte malata per un numero determinato di volte in forma di croce, prima la falce, poi la lana, quindi la piuma intinta nell’olio del lume, recitando continuamente la seguente formula nel vernacolo locale:
La facía mctarcccia la lana carpitecela la piununa della gajina nira foglio de la ¡urna ’gni male consuma.
(la falce da mietere, la lana carpita dalla Secora, la piuma della gallina nera, l’olio el lume consumano ogni male).
Così si dica di moltissime altre malattie.
Certo gli operatori attribuiscono una virtù magica al loro intervento ed alle loro Strafiche e alle invocazioni religiose che ne an parte integrante. Essi non suppongono neppure che quel po’ d’efficacia che possono ottenere è dovuta alla suggestione esercitata da essi e dall'apparato con cui circondano le loro operazioni, suggestione che opera beneficamente a volte sull’organismo dell’infermo.
Spesso però - e pratiche di questo genere sono diffusissime ovunque, approvate, incoraggiate, mantenute dalle autorità ecclesiastiche - la suggestione viene esercitata per mezzo di pratiche esclusivamente religiose. Ho visto ricordato recentemente in qualche giornale ciò che avviene presso il famoso santuario di Oropa intorno alla celebre « cappella del Roc ». Esistono in quella bella conca, accupata già da un antico ghiacciaio ora scomparso, parecchie cappelle, la più parte disposte a zig-zag sulla morena di destra, qualche altra al disopra degli immensi ospizi in mezzo ai prati. Una di queste ultime è addossata a un enorme masso erratico che il ghiacciaio vi abbandonò dopo averlo sorretto e trasportato sul dorso. Nell’interno di questa cappella si può vedere una statua della Madonna adagiata sotto il masso e un gruppo di plastica rappresentante S. Eusebio col suo seguito, quando nell’anno 369 nascondeva colassù la divota statua che era sì venera nel Santuario. Ebbene, d'estate, intorno a questo gran masso e alla umilis-
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sima cappella che sostiene, si vedono girare più volte delle lunghe processioni di donne che pregano con grande fervore e compunzione. E quando giungono a un certo punto del masso vi battono contro coi fianchi e col dorso, avendo ferma feda che una siffatta ginnastica terapeutica, servirà loro certissimamente per guarire o per essere immuni dalla sterilità e dalle lomba-gini. Ciò non è del resto una specialità di Oropa: vi sono moltissime altre tradizioni locali che affermano sul serio che per guarir dalle lombaggini o dai mali di ossa, basti strofinarsi con la schiena intorno intorno alle mura di qualche chiesuola. E che cosaè se non una psicoterapia la specializzazione dei santi alla cura di determinati mali fisici, ed il culto loro prestato a tale scopo? Quale altra « virtù • può attribuirsi al dente di San Domenico a Cocullo o alla chiavetta di San Vito a Montevidon Corrado nel caso di morsi di cani rabbiosi o di rettili venefici? Ma qui è inutile esemplificare: ogni borgo, ogni chiesa hanno la loro specialità, senza contare i santi attorno a cui affarismo e credulità, coadiuvandosi, hanno stretto una clientela sterminata per i casi ed i bisogni i più disparati. Solo, per la curiosità che il fatto presenta, ricordo che in qualche parte dell’Inghilterra le mogli infeconde, per ottener le gioie della maternità, vanno a sedersi sulla cattedra del Venerabile Beda...
E che differenza, in fondo, esiste tra il « Segnare • con la falce, o con la piuma di gallina, o con un pisello, ecc., da parte di uno che crede di possedere la « virtù » di guarire, o a cui tale « virtù » ò attribuita, e il « segnare » con la reliquia di un determinato santo-San Biagio della gola, o San Tommaso delle ossa, ecc. ecc. - da parte di un sacerdote?
Il secondo dei volumi dell’illustre scrittore francese - a cui i cultori di scienze religiose son debitori di parecchie opere magistrali, come Les Vierges-mères et. les nais-sances miraculeuses, Les Reliques et les intages Ugendaires e particolarmente Les Saints successcurs des Dieux -. ha per soggetto La force magique, du Mona des primi-tifs au dinamismo scienti fique.
Esso contiene, come il libro di cui abbiamo già parlato, lezioni tenute alla Scuola di Psicologia a Parigi, e comincia dalla definizione della Magia, stabilendone la distinzione dalla scienza e la differenza assoluta dalla religione. 1 capitoli II, III e
IV contengono una minuziosa esposizione, attraverso le credenze dei popoli più disparati della forza magica, della produzione e culto di essa (dalla forza magica degli elementi, ai feticci, ai totem, agli emblemi, e all’uomo come produttore di detta forza), della Genesi e sviluppo di questa potenza (dalle forme aprioristiche dell’immaginazione alle forme concrete ed alle forme intelligenti della forza magica).
Il capitolo V - debbo per forza limitarmi ad accennar di volo al contenuto del libro -è una rassegna dell’occultismo quale surrogato equivalente dell’antica forza magica. E ci sfilano dinanzi il sistema di Paracelso, lo « spiritus Cattolicus ■ di Robert Fludd, il magnetismo teorico del p. Kircher, quello pratico del Wirdig e quello animale del Mesmer e giù giù fino ad Eliphas Levi ed al De Guaita.
Finalmente viene proposta l'ipotesi dinamica nella scienza moderna, trattando della forza psichica e della Psicologia fisica, della Dinamica e della Magia.
Riassumendo in una conclusione magnifica il contenuto del volume e le sue osservazioni il Saintyves dice che la forza magica dei primitivi era qualche cosa di indefinito e di inconcepibile, pari allo stato di confusione con cui un’uomo che non abbia ancora una coscienza ben netta della sua personalità considera tutte le forze della natura come forze viventi e si contenta di spiegazioni d’un carattere occulto o mistico.
Poi, per le necessità imprescindibili d’ordine pratico, s'operò la differenziazione della forza magica tra buona e cattiva, forza di benedizione e forza di maledizione. Sopraggiunta la tendenza a personificare ogni cosa, la forza buona divenne quella dello spirito o degli spiriti del bene, e quella cattiva là forza (lei demonio o degli spiriti del male. Nacquero parallelamente le idee morali e le preoccupazioni spirituali, ciò che confermò l’idea di tali personificazioni, e valse a formare dei sistemi teologici che non sono altro, in fondo, che speculazioni unilaterali sul valore della persona e particolarmente sul suo valore morale. La parte fisica dell'uomo è anche oggi, nei sistemi accennati, la parte del peccato, del male, e perciò è esclusa da essi.
Non tutti però furono dei teologi. A molti anzi le preoccupazioni delle morali teologiche sembrarono un eccesso e la condanna d’ogni tendenza naturale, considerate queste tendenze come un effetto del peccato
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d'origine, sembrò irragionevole. Per essi l’enigma del mondo non presentava meno interesse del problema morale. Essi partivano dal concetto che l’ideale non è il distruggere o il comprimere la natura ma di perfezionarla e di governarla saggiamente. • Essi erano meno spaventati -scrive l'A. - delle tentazioni della carne che dell’ignominia dell’ignoranza, meno preoccupati della Grazia che della Gnosi ». Gli occultisti, dai medievali ai più recenti, si posero per questa via.
Naturalmente vi furono delle esagerazioni, ma se pur non vi fossero state, i teologi si sarebbero levati, come fecero, quali vipere contro le nuove tendenze, perchè immaginavano che il naturalismo con tal nome intendevano ogni tentativo non esclusivamente spiritualistico -• avrebbe distrutto la religione. Non furono che Gas-sendi e Descartes che riuscirono a dar forza alla nuova Scuola, sebbene volesse quest’ultimo spiegar tutto col movimento e l’estensione. Poi con Newton la forza, con carattere di assoluta impersonalità, divenne l’ispiratrice di tutta la fisica moderna. Dopo la gravitazione dei corpi, la luce, il calore, l'elettricità, ecc. non furono che forze differenziate ma imparentate tra loro, rigorosamente impersonali. Non resta ormai che stendere questa maniera di considerare i fenomeni a quelli che ancora non sono stati sistematicamente studiati, anche ai fenomeni vitali ed ai fenomeni psichici.
Ma - avverte, a ragione, il Saintyves -ciò non pregiudica affatto il fondo del problema. 11 concetto di forza in fisica generale non è che un punto di vista dello spirito, l’uso d’un tipo rappresentativo per spiegare, simbolicamente l’universo e render più facile la sua analisi. La fisica generale non saprebbe mai fare a meno del simbolismo dinamico e deve sforzarsi di applicarlo a tutto il conoscibile, come la Storia Naturale fa col simbolismo atomico o animistico; ma, ancora una volta, queste non sono che forme imposte dalla nostra immaginazione alle nostre figurazioni ed alle nostre ipotesi. Nè l’una nè l’altra delle diverse concezioni possono aver mai la pre tesa di svelarci affatto il secreto della realtà.
Resta però accertato che un immenso profitto è venuto allo spirito -umano dalla nozione di forza e che tale nozione è ben lungi dall'aver dato tutti i suoi frutti per l’analisi e la rappresentazione dell’universo.
Ernesto Rùtili.
LA CRISI DEL PENSIERO
NELLA CULTURA CONTEMPORANEA
La crisi del pensiero nella cultura contemporanea è studiata da Alessandro Chiap-pelli in un articolo della Nuova Antologia. La crescente attenzione alla cose filosofiche che è così propria della nuova generazione invita oramai, secondo il Chiappelli, a seguire il nuovo atteggiarsi del pensiero.
Lo spirito del movimento scientifico nella seconda metà del secolo trascorso pareva tendere a sostituire al governo assoluto della filosofia lo specialismo delle discipline empiriche cosicché quando si è voluto offrire un quadro sintetico della filosofia sistematica al cominciare del nuovo secolo, si è affidata a scrittori diversi, quasi a specialisti della materia, l’una o l’altra parte o aspetto di quella che meglio si dovrebbe chiamare oggi enciclopedia filosofica che non propriamente filosofia. Contro tale spirito si viene reagendo in questi ultimi anni per vie diverse e in- varie forme. Si vien tornando, cioè, verso un concetto integrale e comprensivo della filosofia. In Germania col Paulsen e col Windelband, in Inghilterra col James, in Francia col Gaultier e col Rey e in Italia col Varisco. Ma questo bisogno di restituire alla filosofia il suo ufficio ha operato più direttamente in coloro che hanno sostenuto innanzi tutto l’autonomia del suo oggetto e dei suoi metodi. Perchè la filosofia è la scienza che ha per oggetto il soggetto stesso e trova il suo contenuto nella attività spirituale considerata per sè medesima, nelle sue leggi, nelle sue forme, nelle sue norme, onde proprio là dove sembra giustificare agli occhi dei fautori e adoratori dello specialismo il suo diritto all’esistenza, si riapre il segreto e la ragione della sua universalità.
Dei metodi fondamentali d’intendere la filosofia sembrano essere due quelli che si contendono oggi il terreno- la filosofia come scienza unificatrice (Spencer. Wundt) o come scienza speciale dello spirito (Cohen, Windelband. Rickert) e dei valori ideali. Ma la filosofia odierna non può essere nè una pura sistemazione delle scienze, nè una sola e pura analisi dello spirito. Poiché se è vero che essa deriva il metodo e il ritmo dell’analisi di concetti puri o universali concreti, è vero altresì che essa in questo suo mondo trova dei neccessari riferimenti alla natura esteriore che deve pure spiegare e illustrare. D’altra parte, il segno ideale verso
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cui tende il mondo moderno non è la eternità immutabile come l’immaginò il Cristianesimo medioevale, ma la vita eterna secondo la stessa espressione del Nuovo Testamento, cioè una vita che sempre si scrive e si rinnova, cosicché ovunque ci volgiamo l’intuizione biocentrica sembra offfrire l’ultima parola della presente sintesi scientifica e filosofica. Se non che il trionfo della vita è anche il trionfo del relativo sull’assoluto, del temporaneo sull’eterno. Come conciliare la Stabilità e l’universalità del vero, con la multiformità e la instabile natura della vita? È evidente che la preoccupazione abbia fatto sorgere delle scuole che nel campo strettameli to filosofico tentino far argine a questo pericolo di mobilismo per riaffermare i valori nazionali nella loro universale saldezza. Così la scuola di Marburg ha elaborato un sistema concettuale dove la realtà è realità del pensiero e nel pensiero, ogni entità di natura come ogni intuizione si risolve in una costruzione razionale; e i nuovi realisti tendono a ridurre l’opera dello spirito alla mera attività formale senza contenuto ed obietto, restituendo alla realtà esterna, anche fisica, tutta la ricchezza e l’obiettività di cui l’aveva dispogliata il subietti-vismo. Costoro sono, ad ogni modo, idealisti e filosofi dello spirito diversamente e meglio che non lo siano i cosidetti filosofi della vita e una volta ancora nella storia i veri idealisti sono i difensori del realismo e il positivismo si dissolve nel relativismo e nel subiettivismo fenomenico. Ma l’opera di queste scuole filosofiche è incompleta. Perchè si circoscrive nella critica del conoscimento e nel costruire una filosofia della scienza, una logica della morale, dell’estetica, della storia, mentre il tempo nostro richiede non soltanto il mondo della conoscenza, ma la conoscenza del mondo. Noi abbiamo bisogno di una dottrina della realtà e della vita. E il punto verso cui tendono da lontano a convergere le due linee maestre della cultura contemporanea è l’accordo fra le due vedute antitetiche del mobili-smo neoromantico e del razionalismo e la crisi è nell’antitesi del pensiero che tende all’unità e alla sostanzialità, ma corre al rischio di perdersi e di vaporare nella immobile astrattezza; e della vita, ricca, varia, mobilissima, facile quindi a smarrire l’unità di direzione: fra il pensiero che di per sè solo è vuoto e la vita che da sè sola è cieca.
F. R.
NAZIONALISMO E COSMO PO LITIS V1O NELLL’ ETICA DEL SOLOVIEV
Del nazionalismo e cosmopolitismo nell’etica di Vladimiro Soloviev fece materia della sua prolusione al corso di Storia della Filosofia alla Università di Roma il prof. Ugo Della Seta e Conferenze e prolusioni pubblica integro il discorso. Quella di Vladimiro Soloviev, nella sua essenza è la parola della più alta serenità, del più retto equilibrio tra molteplici vedute parziali e unilaterali. L'anima slava ci si presenta orientata verso due opposti ideali: o l’attaccamento tenace, profondo, alla propria terra, che tra questa e l’Occidente pone una barriera insormontàbile, ovvero la svalutazione dell’idea della patria, assorbita in un vago e vasto sentimento umanitario. Bisognava quindi affrontare il problema in sè e per sè vedere se, e come il principio di razza e di nazionalità possa e debba armonizzare col più vasto principio umanitario. Fu l’opera e il merito di Vladimiro Soloviev. I.a sua è una filosofia animata da un possente soffio di religiosità; nell’ansiosa ricerca del senso intimo della vita, essa tende quindi alla soluzione dei più gravi problemi morali. Come nella filosofia teoretica, dopo aver combattuto come concezione unilaterale, il positivismo e il razionalismo, egli è pervenuto pur movendo dalla teoria kantiana della conoscenza a quella che egli chiama la conoscenza totale o libera teosofia intesa come sintesi della teologia, della filosofia e delle scienze positive, così, nell’etica, combattendo tutte le concezioni unilaterali rispetto al predominio dell’elemento individuale o sociale, è pervenuto, con un profondo senso psicologico a cogliere l’intimo nesso tra i due elementi.
Il Soloviev pone nettamente la questione tra il nazionalismo e il cosmopolitismo. Tanto il falso nazionalismo, dando alla divisione degli uomini in nazioni un valore assoluto, quanto il cosmopolitismo, togliendone qualsiasi valore, non esprimono secondo il Soloviev, il vero rapporto, per quanto concerne detta divisione. La natura umana nella sua essenza è completamente rappresentata dall’individuo; la società per sè stessa poco o nulla vi aggiunge; lo stato sociale tuttavia è necessario per lo sviluppo della sua esistenza per la realizzazione di quanto in lui è polentia. Il vero bene sociale è quindi la solidarietà; il male sociale è la solidarietà violata; e questa legge di uni-
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versale solidarietà vuole che Ogni elemento del Gran Tutto, mentre conserva integra la propria personalità, trovi il grado maggiore della sua affermazione in un superamento di sé stesso armonizzante, senza eliminarsi, con un elemento superiore. Da una parte dunque la nazionalità è una delle >articolarità essenziali dell’individuo, dal-’altra la nazione è una vera forza creatrice. Un supremo ideale morale esige di amare tutti gli uomini come noi stessi: e poiché gli uomini non esistono fuori delle nazionalità e il bene nazionale non è un bene solamente fisico, ma sovratutto morale interiore, ne consegue che noi dobbiamo a-mare tutte le nazioni come la nostra. Perchè tale amore si verifichi non occorre che vi sia identità psicologica di sentimenti, basta che vi sia la eguaglianza »¡orale delle volontà. F. R.
LE IDEE SOCIALI DEL TOMMASEO
Giulio Salvadori, Le idee sociali di Niccolò Tommaseo e le moderne. Saggio. Città di Castello, Casa Editrice S. I.api. Prezzo L. 3,50.
Quando Venezia elevò al Tommaseo un magnifico monumento, essa volle significare che la di lui fama era già stata baciata dall’immortalità nella sua nazione adottiva. E fu molto studiato fra noi e sotto i più svariati punti di vista: come poeta e come patriotta, come irredentista precursore di odierni nazionalismi e come filologo e ultimamente, dall’autore di cui ci occupiamo, in rapporto a quelle idee sociali che tanto incalzano ed appassionano gli animi, in Sucsti ultimi tempi. Lo studio del Salva-ori è specialmente desunto da un’opera poco nota del Tommaseo dal titolo L’Italia, opera pubblicata anonima in Parigi nel 1835. 05811 risulta come il Tommaseo
- ingegno versatilissimo — sia giunto alla questione sociale dal profondo esame della questione politica che agitava l’Europa, e l'Italia in modo speciale, pochi decenni dopo che la rivoluzione francese aveva acceso in tutti la sete verso la libertà. « Era la libertà politica che doveva trionfare ed in quali limiti, o era V autorità? ». Tale la domanda che si era proposto l’autore. Dalla questione politica alla sociale il passo era breve: di qui lo speciale punto di vista dèlia monografia del Salvadori.
E l’autore si propone, da principio, di studiare la posizione del Tommaseo nella storia delle idee sociali moderne.
Mi affretto a dire che l’autore lo pone accanto all’Ozanam, come dei « primi che intesero come nella società nostra la questione politica, cioè di libertà, fosse mutata in questione di giustizia e di equità, cioè sociale» (pag. 27).
Splendido documento e ignorato ai più è la riproduzione di una famosa lettera che nel 1851 il Tommaseo indirizzò all’Ozanam, la quale gli dà il diritto di figurare fra gli antesignani di quel cristianesimo sociale che oggi riscuote tanti larghi consensi. Ecco qualche brano di quel famoso documento: ^«'Ñon voglio abbandonare gli argomenti sociali. Qui sta il punto. Non si tratta di tale o tale razza di servitori o padroni del popolo, non di tale o tal forma di reggimento: dell’intima società, dei destini umani si tratta. Doloroso a dire, che i nemici o i noncuranti di religione abbiano a porre le questioni meglio che non facciano i preti. Non dico, sciorre, ma porre. Gesù Cristo non si diede per inteso della questione politica, ma andò alla sociale diritto. Adesso i socialisti hanno ripreso quel filo abbandonato dai Cristiani: e siccome i Cristiani alla comunanza apostolica, alla comunità religiosa, al comune libero, misero invece la ricchezza avara, il privilegio snaturato e la servitù tracotante, i non credenti, a codesto comunismo coagulato è di pochi, intendono far sottentrare il comunismo ardente di tutti... Ma non i socialisti, egli è Dio che pone la questione così: egli è il maestro che, stanco del vedere lo scolaro canuto, stupido a non voler sapere leggere un libro a tanto di lettere, gli dà del libro sul capo... Voglionsi società nuove che confondano in amore le due razze degli aventi e de’ non aventi, che ammettano l'operaio in parte dei lucri se questi soprabbondino alla missione sua giornaliera: che nobilitino la condizione del villico, che ingentiliscano le arti sordide, che congiungano in nuovi patti gli uomini della medesima professione o di simile: che assicurino il debole contro il forte, lo spirito contro la materia, la famiglia e il comune contro lo Stato vorace e tiranno. Tale sarebbe la missione della Chiesa; ma io veggo qua e là preti buoni, pecore mansuete, che dànno la lana e si lasciano sgozzare; pochi pastori veggo ».
Questa la lettera tommaseiana la quale.
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sebbene scritta nel 1851. già porta in sè tutto l’ardore compresso che esploderà poi nelle infiammate e quasi incendiarie proteste del pastore svizzero, il Kutter! Questo documento, unito a quello che lo aveva sollecitato dall’Ozanam, avvolge nella stessa luce codesti due campioni che nessuno storico delle origini del Cristianesimo sociale potrà d’ora innanzi ignorare.
Dico del cristianesimo sociale poiché il Tommaseo, come l’Ozanam, si oppone diametralmente a quell’altra corrente di socialismo che nell’intenzione del Salvadori è piuttosto • il rivoluzionarismo sociale ».
Poiché questo è lo spirito con cui l’autore svolge il suo tema, cioè il rilievo dell’insanabile dissidio che corre tra la soluzione apprestata dal Tommaseo e quella del socialismo in genere. Dalla prefazione, come da tutto il corpo del libro, altro non si rileva che il socialismo marxista, con tutte le sue ramificazioni, è molto lungi dal godere le simpatie dell’autore, il quale non vi ravvisa se non • il materialismo storico e la guerra fatale di classe: cioè la menzogna con la quale fu rubato alle plebi il pane dell’anima e inoculato nel loro sangue il veleno dell’odio e il cieco furore delle rovine » (pagina 26).
Questo è, a vero dire, lo spirito che corre in tutta l’opera.
Ecco a questo proposito il nostro genuino pensiero in tutta schiettezza.
Certo è con dolore che notiamo come, a traverso le dotte pagine, fittissime di elucubrazioni (annegate talvolta in una nebbia di scolasticismo, impopolarissime per ogni modo), non si tengano in qualche conto quelli che pure sono i lati buoni del socialismo, le sue finalità sentitamente umane e le sue impetuose ribellioni a prò della giustizia. Se fosse unicamente deleterio e materialistico il sogno socialista, come spiega l’autore il favore mondiale che incontrò ed il largo seguito che determinò fra uomini di fede e di coscienza, i quali intravvidero in esso una finalità redentrice e messianica, a integrazione del loro programma cristiano? Accentua una nota materialistica? Ma, prima di questa esagerazione, non ne avevano commessa una equivalente quegl’interpreti del programma cristiano i quali lo avevano scombuiato con i loro filosofemi scolastici e le metafisicherie avulse dalla realtà della vita sino al punto da ridurlo un secco lavorio di cerebrazione dottorale oppure un pietismo di bigotti: raramente un lievito trasformatore della vita?
Il ponte d’intesa sul quale dovrebbero incontrarsi gl’incendiari dell’una sponda ed i sillogizzanti teorizzatori dell’altra, non sarebbe forse lo spirito umano e vivente della fraternità che abbatte gli steccati artificiali e che si « supera • in dedizione altruistica? Lo spirito di fraternità, lo spirito di giustizia, sono sentimenti « primordiali • nelle cui limpide atmosfere già si muove la migliore coscienza cristiana. Non scombuiare tanta serenità di -orizzonti con sistemi scolastici ingegnosamente stillati è la cosa più proficua in prò della grande « idea ».
È troppo arcigno un tale giudizio? Ma altro non intendevamo dire se non che attraente era il tema « Le idee sociali di Niccolò Tommaseo e le moderne », ma che l’architettata ed unilaterale disquisizione con la quale l’autore analizzò tali idee, fece perdere ad esse l’innato fulgore della loro bellezza. p. C.
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INTORNO ALLA CONVERSIONE DELLA FAMIGLIA MANZONI
C. dott. Ennio Fabbri, / Giansenisti nella conversione della famiglia Manzoni. — Faenza, Libreria Ed. S., 1914. L. 2.
Ecco un’operetta che dovrebbe incontrare molta fortuna nella diffusione e che viene a colmare una lamentata lacuna negli studi manzoniani. Suppergiù, io credo, quanto concerneva la vita e le opere del Ì¡rande romanziere era stato messo in uce con vero intelletto d’amore: solamente restava il punto della conversione sua e della moglie Enrichetta avvolto in discreta penombra che la riluttanza dell’autore a far parlare di se aveva sempre mantenuta intorno a questo fatto cosi saliente e fitto di conseguenze nella sua vita intima e letteraria. Gli studi del De Gubernatis si erano limitati a mettere in luce specialmente la personalità di quel p. Dégola che fu il primo mezzo delle conversioni manzoniane, come pure le indagini del Momigliano, studiando le figure dei convertiti manzoniani, si erano ristrette all’analisi del fenomeno spirituale della conversione come il Manzoni, da artista che viveva nell’opera d’arte le sue impressioni personali, lo drammatizzava, con raro intuito psicologico, nei suoi personaggi. Studio indiretto quindi.
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Ecco perchè il volumetto testé edito dal dott. Ennio Fabbri, merita un voto di Eiauso. L’autore imprende a studiare, dietro 1 scorta esclusiva delle fonti e dei documenti personali, quanto concerne la conversione dei coniugi Manzoni, ed in questa sottile opera d’indagine essendone risultati come unici strumenti i seguaci di Gian-senio e di Port-Royal, l’autore rese loro ampia giustizia intitolando il suo volume / Giansenisti nella conversione della famiglia Manzoni. Naturalmente l’autore non tira le conseguenze di quest’influenza esclusiva esercitata dai Giansenisti, poiché il cómpito prefissosi era un cómpito di ricerca di documenti e di dati storici, ma il lettore le deduce per conto suo e, chiuso il volumetto rivelatore, risponde affermativamente a quel dubbio che nella lettura gli si veniva man mano piantando davanti come un crescente punto interrogativo: * Non si converti al giansenismo e allo spirito di Port-Royal, adunque, quel Manzoni da tanti apologisti da strapazzo rivendicato come una genuina conquista clericale e romana nel senso ortodosso? ».
E codesta certezza trova ampia conferma da dati innumerevoli. Il i° capitolo dell’opera studia le condizioni religiose dell'Europa centrale sullo scorcio del secolo xvhi e delinea con sufficiente rilievo storico quel moto diretto contro l’autorità della chiesa di Roma che, iniziato da Nicola di Hontheim col pseudonimo di Giustino Fe-bronio, ebbe poi il suo progrediente adattamento nel febronianismo, nel giuseppini-smo austriaco, nel gallicanismo e giansenismo dapprima e nel costituzionalismo poi in Francia e man mano anche in Italia, dove, r opera di Scipione de’ Ricci, vescovo di stoia, venne portato a insperato sviluppo. Fra questi giansenisti italiani il Dégola,
il futuro strumento delle conversioni manzoniane, fu uno dei più convinti. Bel tipo originale nella sua fede religiosa il Dégola! Nemico acerrimo di tutte le superfetazioni e le • materiali ■ devozioncelle del rito cattolico, odiava con altrettanto ardore quel protestantesimo dal quale pure aveva preso la spinta il suo giansenismo.
Questo p. Dégola nel cenacolo giansenista parigino conobbe i coniugi Manzoni, uniti in nozze da Gaspare Orelli, pastore allora della congregazione riformata di Bergamo, essendo l’Enrichetta figlia di genitori protestanti.
Curioso però quel protestantesimo di casa Blondel, banchieri ginevrini residenti
a Milano! La figlia Enrichetta, la futura sposa del Manzoni, era nata a Casirote, l’i 1 luglio 1791, ma è il padre stesso che ci fa sapere: (Carteggio p. 175) «Mes enfants ont tous été baptisés à l’église catholique et éléves dans la religion protestante». E spiega questo anfibismo così: ■ Noi siamo qui fra cattolici, ma ciascuno cerca di vivere in società senza curarsi del culto nè di sapere se si è stato battezzato una q due volte c come... qui noi abbiamo dei protestanti che hanno sposato donne cattoliche i cui figli sono stati battezzati alia chiesa cattolica: i giovani allevati nella religione protestante e le giovanette nella cattolica, senza che per questo nessuno trovi a ridire in famiglia».
Questo accenno al lassismo religioso in cui era cresciuta la giovane Enrichetta, come pure l’ardore prosclitistico dei giansenisti, illuminano la docilità con cui si piegò quando fu invitata alle istruzioni catechetiche del Dégola. Il suo carattere dolcissimo, le tendenze reazionarie, dopo le ubbriacature enciclopedistiche, che erano naturalmente succedute in casa Manzoni, unite all’apparente forma liberale del credo giansenista, aveano preparato bene il di lei animo a fondo mistico e religiosissimo.
Interessante in proposito è la lista delle firme dei 28 testimoni che presenziarono l’atto d’abiura di Enrichetta Manzoni: sono tutte firme di notissimi giansenisti del clero e del laicato, resisi illustri nelle vicende del Concordato. E uno spunto di polemica antipapale non manca nemmeno nel discorso d’occasione pronunciato dal padre Dégola: « Loin de vous conséquemment tous ces adoucissements funestes que des chrétiens charnels ont prétendu pouvoir associer à la profession de l’Evangile et ces relâchement flatteurs qui énervent la morale... ». Era l’impeto smorzato delle ■ Provinciales » pascaliane!
L’autore stralcia pure passi abbondanti dall’et Règlement à une néo-ate che p. Dégola aveva dato e proposto neofita Manzoni. Quanto interessanti quei passi dove viene preso di mira il moli-nismo e la rilassata morale dei gesuiti! Sopra tutto è curiosissimo al paragrafo Ili dei Règlements la prescrizione delle «preghiere del mattino », dove l’ecclesiastico giansenista traccia per la sua fedele alunna tutto un nuovo elenco di santi giansenisti: « Vous vous souviendrez des Saints... de Port-Royal, et nommément [can abbé de Saint Cyran, Antoine Arnauid, Jean Ha-
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mon, Angélique réformatrice de Port-Royal, Agnès la sœur, Angélique de Saint Jean. Réunissez à leur mémoire l’invocation du Saint évêque de Senez, Jean Soo-nem et tous ces illustres confesseurs de la Foy ». «11 giansenismo, conclude il dottore Fabbri, aveva dunque fatto il catalogo dei Santi propri! » (pag. 77).
I documenti dello spirito di Port-Royal nella conversicele dei Manzoni si potrebbero addurre numerosissimi: sia nei libri di lettura consigliati (pag. 80), sia nella calorosa fede giansenistica del p. Tosi che surrogò a Milano la guida direttiva del Dégola; sia nell'influenza di codesta corrente di idee nell’attività letteraria di Alessandro Manzoni (capo 5®): sia infine nell’accusa di giansenismo fatta al Manzoni dal purista oratoriano Antonio Cesari e la risposta, tra aspra ed evasiva, del romanziere, dove all’abate veronese tra l’altro risponde: « Se invece di leggere codeste sue parole, io avessi avuto l’onore di sentirle dalla sua bocca, avrei certamente commessa l’inciviltà d’interromperlo... ». (capo 6®).
L’autore chiude la sua monografia, sul giansenismo manzoniano, dicendo: « Tale {ersistente dubbiezza negli atti e nell’idea* tà del poeta, che fu certo per lui tormentosa, non deve recare nessuna meraviglia tra le irreducibili antinomie della vita italiana nel secolo xix ».
Noi lo ringraziamo per la dotta fatica con la quale viene collocata al suo giusto Sosto, nel campo dell’esperienza religiosa, attività del giansenismo italiano e le sue migliori conquiste. E all’interessantissimo volumetto noi auguriamo tutta la fortuna che si merita.
P. Criminelle d*
UNA PAGINA DELLA STORIA TEMPORALE DEI PAPI
Olmo Francesco, La Rivoluzione francese nelle relazioni diplomatiche di un ministro piemontese a Roma. Roma, Albrighi e Segati.
Utile e saggio libro questo dell’Olmo, perchè ha messo alla luce, traendolo dal segreto dell’Archivio di Stato di .Torino, un materiale prezioso di notizie che servono a chiarire una pagina della storia temporale dei Papi non tralasciando — sotto
forma di osservazioni sparse qua e colà — di trarre logiche ed opportune conclusioni.
Che la Rivoluzione francese dovesse intellettualmente destare le apprensioni di Roma, è facile capire se si pensa al fondamento ideale, che attraverso alle manifestazioni d’ordine economico e politico — manifestazioni potenziate di violenza quanto meno ritrovavano la propria forza dì idee — serve a rintracciare la linea di quel-l’immane rivolgimento che diede l’ultimo colpo ad un mondo già prossimo a sfasciarsi per ricreare su le sue rovine uno nuovo. « Del mondo quivi incomincia la novella istoria ». Ma la vecchia storia non era fatta solo di lamenti e di imprecazioni di plèbi affamate di fronte al lusso e alla ricchezza esagerata di nobili, di titoli malamente conquistati cui si opponeva una nuova casta forte del proprio lavoro e del proprio successo economico, di nefandezze regali cui l’onesto senso risorgente del popolo si opponeva nella sua pressoché incorrotta moralità: era fatta di idee, di principi, di convinzioni cui male soccorrevano i desideri rinnovellati delle anime. Descartes segnando alla speculazione filosofica una nuova via di ricerca aveva valorizzato l’individuo, l’aveva sottratto a forze che per essere al di fuori di lui gli sfuggivano nella loro connessione e nella loro reale efficacia, posto centro e criterio di verità. Con lui la filosofia moderna gettava la Srima pietra contro l’edificio intellettuale ella teologia e della metafisica medioevale. E Voltaire con la sua apparente faciloneria di ridere di tutto e di tutti è meno lontano da lui di quanto comunemente non si ritenga, nè il suo scetticismo meno degenere del primo dubbio critico, mentre Rousseau elevando tutta la sua incolta genialità su le rovine degli altri, gli permetteva di ricongiungere la sua sorridente negazione al mastodontico edificio creato dagli Enciclo-Sedisti. Le posizioni erano oramai ben de-nite. La Rivoluzione fu idealmente l’esplosione violenta di quella secolare ansia critica: di fronte ad essa la Chiesa contemplava pacifica il succedersi dei secoli nella serena fiducia della Provvidenza divina. Evidentemente, due poteri avrebbero dovuto porsi minacciosamente di fronte presso a poco come un tempo il Cristianesimo e l’impero romano: invece la storia ci dice poco dell'opposizione ideale che la Chiesa oppose sul nascere, alla Rivoluzione imperversante. Non ne misurò la portata o sperò di acquetarla come le velleità della
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politica ecclesiastica gallicana? Non lisciviamo qui il problema ponderoso.
I principi della Rivoluzione francese avevano un valore non solamente circoscritto nei confini della nazione; così le sue opere dovevano tendere ad allargarsi oltre i confini di Francia. Poiché alla prima incomposta esplosione successe la più maturata coscienza, incominciò la sua vita politica. Raramente questa non si manifesta con le espansioni territoriali. La Francia pensò ad ingrandirsi di là dal Reno e di qua dàlie Alpi. Attraverso al Piemonte, là Liguria, la Lombardia essa mirava a Roma e per Roma all’Italia. Quali forze opponevano gli Stati italiani ? È la ricerca storica cui lo studioso Euò porsi anche se sui benefici della Rivo-izione s’è formata una sua opinione favorevole. Il Dutens (Mémoires d'un voyageur qui se repose) aveva scritto « Princes souveraines, noblesse de tout pays, ministres retirés ou disgraciés, jeunes et vieux, hommes déjà célébrés, ou qui le sont devenus depuis, tous vont à Rome et passent par Turin ■; e Vincenzo Cuoco (Saggio storico su la rivoluzione di Napoli) : « da duecento anni o conquistati o, quel che è peggio, protetti dagli stranieri, all’ombra del sistema Ìgenerale d’Europa, senza aver guerra tra oro, senza temerne dagli esteri, tra la servitù e la protezione, avevano perduto ogni amor di patria e ogni virtù militare ». Lo spirito pubblico dunque non era dei meglio preparati. Se non che tra i principi italiani quegli che sulla fine del secolo xvin doveva seguire con più ansiosa attenzione gli avvenimenti interni della nuova Francia era il pontefice. « La Religion romaine sera toujours l'ennemie irreconciliable de la république... par son essence » scriveva il Direttorio a Bonaparte. Ora quale forza interna animava lo Stato pontificio perchè GtesSe sostenere l’assalto? Se si guarda ne il pontefice è come fasciato completamente di sfiducia. Sono pochi quelli che credono ancora alla sua vitalità tra gli individui, non di più tra i governi. Giudicava esattamente il Barettl: che il papa non è più ormai il solo principe che possegga l’arte d’influire sopra diverse nazioni. E Pietro Verri più precisamente affermava che il peggior prognostico per Roma è l’indifferenza colla quale si riguardano i suoi fulmini e che « non v’è chi osi sostenere apertamente i diritti papali contro i sovrani ». Eppure questi difetti che apparivano all’occhio di osservatori sereni come il Ba-retti e il Verri non erano nella coscienza di
Roma. Che anzi lo sfarzo e la pompa dei quali Pio VI amava circondarsi e fare sfoggio davano alla politica vaticana un carattere di magnificenza e di forza atta a mantenere l’illusione che corrispondessero alla realtà. Non importa che coi pontificati di Clemente XIII e XIV il papato incominciasse la sua parabola discendente. Pio VI volle reagire, volle rialzare l’onore del pontificato romano ed abbagliò — spandendo a piene mani la sua ricchezza — il popolo, fino a spendere per la sua corte più di 500.000 ducati all’anno. Aveva ragione Carlo Botta : « la magnificenza che cresceva suppliva alla fede che mancava... Tale era Roma... che mancate l’armi comandò con la fede, mancata la fede, comandò con le pompe ».
interessato con Io Stato Pontificio — per ragioni politiche di altissimo valore che esorbitano dalla competenza di questa rivista—- ad opporsi ai disegni d’espansione della Repubblica francese era il Piemonte. Si capisce quindi come Vittorio Amedeo III, oltre che per una deferenza sentimentale che non sarebbe stata così accentuata in altri sovrani di sua casa come Carlo Emanuele III, per una necessità di difesa mantenesse — quasi solo tra i principi italiani — rapporti cordiali d’amicizia con Roma. Egli pensava che avrebbe ottenuto un valido aiuto di denari e di uomini per allestire la difesa necessaria che non era Si soltanto difesa del Piemonte, ma di¡a di Roma e d'Italia.
Come rispose il governo pontificio alla richiesta del Piemonte? È quanto ha raccolto l’Olmo dalle relazioni dell’ambasciatore piemontese a Roma. Singolare tipo di diplomatico costui che notava con una leggera punta d’ironia l’inutilità del suo lavoro diuturno e quando commentava più che la indignazione manifestava la commiserazione per la deferenza piemontese.
Come finisse quel tentativo di opposizione bellicosa che Vittorio Amedeo III provò contro l’invasione francese a tutti è noto.
Non molto tempo dopo i Francesi non soltanto erano nella Liguria, nel Piemonte o nella Lombardia, ma erano a Roma.
Eppure il popolo era profondamente antifrancese, uccideva sulla pubblica strada Ugo di Basville e capovolgeva gli stemmi all’Accademia! Perchè dunque? Non perchè a capo dell’esercito della Repubblica c’era un uomo come Napoleone Bonaparte, ma sovra tutto perchè il potere temporale dei
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papi cominciava già a non trovare neppure in se stesso le ragioni della propria sopravvivenza e l’opera incominciata nel ’500 dal trattato di Château-Cambresis andava compiendosi fatalmente. In tutta la storia del governo pontificio non ci fu mai una politica più tentennante, vile, subdola, ambiziosa ed utilitaria di quella compiuta da Pio VI, che in fondo preferiva reggerne da solo il grave péso, quando non soltanto per la sua sicurezza esterna doveva combattere, ma per una più elevata conservazione di Bincipit Egli avrebbe preteso che il piccolo emonte si fosse assunto gli oneri della difesa per cantare magari nella vittoria le glorie deirinvincibilità pontificia; e il Piemonte sentiva di non potere da solo.
Per questo la corrispondenza diplomatica dell’ambasciatore piemontese al suo «overno è d’una utilità grande ed ha fatto ene l'Olmo a pubblicarla perchè è una pagina di storia ignorata che getta una luce nuòva a giudicare l’opera di colui che morì vittima volontaria a Valenza.
Ferruccio Rubbiani.
EPITTETO
D. Bassi, Dai discorsi di Epilleto. Traduzione e commenti. Attilio Razzolini, editore, Firenze, 1915. L. 2,50.
Nasce con fine intendimento di cultura morale e con elegantissima squisitezza artistica questa nuova collezione che porta il titolo di « Cultura morale », di cui questo Srimo volume è come il saluto augurale.
ttima scelta questo volumetto di lettura morale desunto dai discorsi epitettiani. Ma dopo di questo quante altre promesse! Cari autori quelli che saranno ripubblicati nel
fior fiore della loro ispirazione, come S. Ambrogio, Channing, Solowief, Erma, Gratry, Plotino, ecc.» ecc.
L’accuratissimo D. Bassi che presenta al pubblico il meglio dei discorsi di Epitteto, merita già lode per avere preferito i Discorsi piuttosto che il Manuale, perchè nei discorsi, come anche il Martha aveva già osservato, si sente l’uomo, « mentre che nel Manuale non v'è che la statua in marmo o in bronzo dell’ideale stoico ».
Nè cotesta traduzione è un pleonasmo accanto a recenti traduzioni, del Vangelo Eer es. Il traduttore - prefazionista dice ene: « Certo il Vangelo deve essere per l’L'manità il vero codice morale: ma non possiamo negare che lo stoicismo in molte cose pratiche — ed Epitteto è eminentemente pratico — è quello che più vi si è accostato, tanto è vero che una tradizione ha fatto Epitteto uditore di S. Paolo, che S. Agostino espresse il desiderio che fosse accòlto tra i beati, che S. Carlo Borromeo si compiacque nel leggerne i discorsi, mentre l’abate Nilo, modificando alcune frasi, consegnava il manuale nelle mani dei suoi monaci ».
Eppoi un’altra fonte d’interesse per i cultori di studi religiosi, la si può far scaturire dal fatto che Epitteto è suppergiù coevo delle albe cristiane, anzi, con certe sue frasi, (V. pag. 58, ecc.) egli addimostra di avere conosciuti i cristiani e di averne ammirata anche la condotta, ch’egli poi motivava « per spirito di setta ». L’opera perciò ci trasporta nelle atmosfere del pensiero stoico e della Roma all’epoca del celebre viaggio missionario paolino. — La traduzione di D. Bassi è come un lavoro in un terso diamante e l’edizione... basta dire che è stata curata da un eletto artista come è Attilio Razzolini, il miniaturista delicatissimo.
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BILYCHNIS
LIBRERIA EDITRICE a BILYCHNIS „
Abbiamo ottenuto per la nostra Libreria Editrice " Bilychnis „ il deposito delle pubblicazioni della Casa Editrice Fischbacher di Paridi e siamo ora in grado di rispondere prontamente a coloro che ci avevano richiesto opere di C. Wagner, W. Monod, Vallotton, Rauschenbusch, ecc. — Li preghiamo di ripeterci l'ordinazione.
Chi desidera ricevere ogni mese durante tutto il 1915 un discorso del noto predicatore ginevrino Frank Thomas mandi subito L. 2.20 alla nostra Libreria, oppure, ci esprima il desiderio di associarsi.
A chi ci spedirà L. 1.70, manderemo Subito e franco di porlo un pacco contenente 14 discorsi religiosi Pendant la guerre dei predicatori francesi W. Monod, C. Wagner, Ro-berty, Vienot, ecc., nonché 9 fogliettini religiosi compilati da C. Wagner per i soldati francesi.
Abbiamo in deposito e possiamo spedire prontamente dietro ordinazione accompagnata da relativo importo:
W. RAUSCHENBUSCH, Prières du révefl social. L. 2.75.
Espériences sociales (Conférences). L. 3.80.
H. MONNIER, La mission historique de Jésus. 1914- Grosso voi. di pag,. 380, L.8.
JEVONS-PESTALOZZA, L’idea di Dio nelle religioni primitive. Milano,' Hoepîi, 1914. Voi. di pag. 178. Prezzo L. 2 (rilegato).
Sommario : Prefazione dell’autore. - Avvertenza del traduttore. - Bibliografia. - I. Introduzione. -II. L’Idea di Dio nella Mitologia. - Ili. L’Idea di Dio nel Culto. -I V. L’Idea di Dio nella Preghiera. - V. L’Idea e l’Essere di Dio.
KANSO OUTCHIMOURA
La crise d’âme d’un Japonais
GOMMENT JE SUIS DEVENU CHRÉTIEN?
Pagine 220
L. 3 (Aggiungere per il porto 0.25).
Vedi recensione di questo interessantissimo libro in Bilychnis di febbraio 1914, pag. 153.
PAUL VALLOTTON
LA GRANDE AURORE
Volume in-8® di pag. 459
L. 3.50 (Aggiungere per il porto 0.40).
Vedine recensione in Bilychnis di gennaio 1914 pag. 67
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