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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno VII : : Fasc.VII-VIII LUGLIO-AGOSTO 1918
Roma - Vie Crescenzio, 2
ROMA-31 LUGLIO-31 AGOSTO 1918
DAL SOMMARIO: A. Mario Rossi: Giovanni Hus, l’eroe della nazione Boema - V. L'influenza germanica nella Boemia pre-ussita - G. PIOLI : Il Cattolicismo tedesco e il « Centro cattolico » - Luisa Giulio Benso : Il sentimento religioso nell’opera di Alfredo Orfani - DANTE LATTES : Il filosofo del rinascimento spirituale ebraico : Abad-haam e la sua opera — ROMOLO MURRl : La « Religione * di Alfredo Loisy - MARIO PUGLISI : Realtà ed idealità religiosa (a proposito di un nuovo libro di A. Loisy) - Qui QUONDAN : La Carriola - PIETRO CHIMINELLI : Gesù e la riforma dell’individuo - GIOVANNI LaFON : Le piccole cose - EMMANUEL: Un programma di riforme scolastiche -G. PIOLI : Lutero, figura centrale della riforma : giudizi sull'uomo e e sul riformatore; ecc.
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BILYCHNIS Rivista mensile di studi religiosi
___ ____ < 4 « 4 FONDATA NEL 1912 • > > > >
CRITICA BIBLICA - STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI * PSICOLOGIA * PEDAGOGIA FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE QUESTIONI VIVE '^'lÈ~CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL ESTERO - SI PUBBLICA LA FINE DI OGNI MESE.
REDAZIONE: Prof. Lodovico PASCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l'Italia, L. 7; Per l'Estero, L. IO; Un fascicolo, L. I.
(Per gli Siali Uniti e per il Canada è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica, B. D. Pastor, 1414 Cosile Ave, Philadelphia, Pa. (U. S. A.)].
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II. Il paese di Gesù.
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IV. Gli anni silenziosi di Gesù.
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VII. I principali insegnamenti di Gesù.
Vili. Gli “ agrapha ” o le parole di Gesù non registrate.
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Rivolgerei alla Libreria Ed. Bilychnis, Via Crescenzio, 2 - ROMA.
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BTO1NI5
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SJ R.M51À DI S1VDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELI* 5CVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMA
oc.1 iiMu- bAScic. Vll-Vlll Luglio-Agosto 1918 (Vol. XII. i)
SOMMARIO:
A. Mario Rossi: Giovanni Hus, l'eroe della nazione boema V. L'influenza germanica nella Boemia pre-ussita . . . . . Pag. 2 Giovanni Pioli : Il Cattolicismo tedesco e il < Centro Cattolico ». » 11
Luisa Giulio Benso: Il sentimento religioso nell’opera di Alfredo
Oriani (Parte I).................. > 27
Dante Lattes: Il filosofo del rinascimento spirituale ebraico:
Ahad-haam e la sua opera . ....... . . . . . » 40
Romolo MURRl: La «Religione» di Alfredo Loisy ...... » 49
Mario Puglisi: Realtà e idealità religiosa (a proposito di un nuovo
libro di A. Loisy) ................ > 63
INTERMEZZO:
Qui quondam: La Carriola. La brouette. Dalle Musardises di Rostand » 74
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
PIETRO Chiminelli: Gesù e la riforma dell'individuo . . , . . > 77
Giovanni Lafon : Le piccole cose ............ > 89
NOTE E COMMENTI :
Emmanuel: Opera di ricostruzione. Un programma di riforme scolastiche » 94
TRA LIBRI E RIVISTE:
Giovanni Pioli : Per il IV Centenario della nascita della Riforma - III. Lutero. figura centrale della Riforma : giudizi sull’uomo e sul riformatore. » 98
Varia : La Cina religiosa (F. de Vargas) - Problemi fondamentali dell’ E-braismo (E. O.) - Psiche (Giov. Costa) - «L’ombra delia croce» Romanzo di Jerome et Jem Tharaud (D. Lattes) - Onomasticon totius latinitatis (Giov. Costa) . . . . . . . . . . . . . . . . . . » xo/
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GIOVANNI HUS, L’EROE DELLA NAZIONE BOEMA
(A proposito del V centenario della sna morte : 1415*1915)
(Coniinuaiionc - Vedi fascicolo di febbraio 1916)
V.
L'influenza germanica nella Boemia pre-ussita.
* Antiquatum odium et nimis radicatom est inter haec duo ydiomata Teutonicorum et Bo-hemorum, ut sicuti lodaci non coutuntur Sa-maritis, sic ipsi Boheme Tcutonicus ad viden-dum sit gravis >.
(Dalla Cronaca di Ludolfo di Sacan).
l movimento ussita segna l’aurora della coscienza nazionale degli czechi offuscata dall’elemento germanico e l’inizio di una delle più grandi reazioni alla civiltà e alla cultura tedesca, che fino dal secolo x, compiuta la conquista delle tribù barbare germaniche dell’Est, si avviò a germanizzare metodica-mente le popolazioni slave occidentali, opera mai venuta meno e che conta come una delle cause più forti della guerra attuale.
Di qui l’importanza storica dell'ussitismo. Non si possono
però intendere le origini e l’importanza della rivoluzione ussita se non si ha un’idea chiara dell'estensione e dell’importanza dell'occupazione pacifica tedesca nella vita boema.
Gli storici boemi di razza tedesca, ricercando minutamente e a scopo apologetico le molteplici e continue tracce di questa invasione silenziosa in ogni ramo della vita boema, han reso il miglior servizio alla causa boema oggi rinata, legittimando pienamente e circondando, di un’aureola di grandezza la rivoluzione nazionale ussita.
La società boema al principio del '400 per quanto avvinta nei tentacoli dell'influenza tedesca riuscì a ritrovare se stessi» nella lotta nazionale e religiosa dell’ussitismo. Giovanni Hus va ricordato in questi giorni come uno dei più forti oppositori alla civiltà tedesca e dei più fieri assertori del principio di nazionalità. Le vicende della sua vita essendo strettamente unite a quelle del risveglio della coscienza czeca costituiscono la migliore storia della lotta antitedesca sul suolo boemo al principio del secolo xv. TI suo ideale politico-religioso andò anche più
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in là; Tralasciando ora di parlare del suo sogno di veder rinnovata ed unificata l’Europa cristiana nello spirito della riforma wicleffita, egli capì la necessità della lotta contro i tedeschi (i) come l’unica via per preparare il suolo patrio a divenire come la Gerusalemme dello slaviSmo occidentale. Egli voleva una specie di panslavismo con i czechi alla testa (2); non voleva solo riunire i czechi di Boemia, di Moravia e della Slesia, ma anche gli slavi confinanti. In questo programma era il continuatore del programma politico di Ottacaro II, sostenuto — per opportunità politiche nella lotta contro i tedeschi dell’ Austria sotto Rodolfo d' Asburgo — nel manifesto del 1278 ai polacchi redatto e concepito dal suo segretario, un italiano, Enrico d’Isernia. L’ardente compagno*di Hus, Girolamo da Praga, cercava di attuare questo ideale panslavista nei frequenti^viaggi di propaganda wicleffita in Moravia, in Slesia, in Polonia.
La Boemia, divenuto un paese imperiale di marca al confine fra il mondo tedesco e il mondo slavo, non potè avere per parecchi secoli una spiccata individualità culturale; influenzeTdiverse vi si facevano sentire, anche per la instabilità delle sue condizioni politiche. Posta fra le popolazioni slave politicamente fiacche e poco sviluppate e all’alba ancora della civiltà e i tedeschi colonizzatori ed espansionisti, padroni dell’impero e suoi docili strumenti; forti .della forza organizzatrice della Chiesa, divenuta strumento potente di germanizzazione del mondo slavo, e della loro coltura latino-germanica; avvantaggiatisi sempre delle lotte di rivalità fra la nobiltà indigena e la dinastia; favoriti dalla posizione geografica non ci deve meravigliare se l’influenza tedesca, dall’alta sovranità politica alla coltura, vi si sia fatta sentire più prepotentemente delle altre.
* Le prime influenze italiane e schiettamente latine, che però non si allargarono oltre il cerchio della corte e di una frazione della nobiltà e del clero, restarono isolate e come un ricordo del passato e continuarono a farsi sentire di quando in quando come si facevano sentire benefiche nell’universalismo internazionale dell’Europa medievale in quasi tutti i paesi.
Influenze del diritto canonico, del diritto romano più tardi, delle cancellerie italiane, della retorica classica (ricordo Enrico di Isernia e la scuola notarile a Vischerad), di dotti, di artisti, del primo umanesimo (Petrarca), la presenza di abili mercanti italiani e di attive maestranze italiane (3) non riuscirono ad esercitare una influenza seria sulla vita politica, economica e culturale del paese, come l’esercitarono i tedeschi.
È una storia lontana, quella dei metodi e delle finalità dell’espansionismo te(1) Non va dimenticato che la Chiesa boema divenne presto »ma chiesa tedesca. E questo suo fatale in tedeschi mento fu una delle cause più importanti che provocarono la rivoluzione ussita.
(2) Scriveva all’università di Praga da Costanza: « Semper intcndebam profectum uni versi tatis, qualiter nationem nostrani praeclaram volebam congregare in unum ».
(3) Ricordo la industria del vetro, la celebre cristalleria di Boemia introdotta da Venezia nel secolo xm, quando Ottacaro II, il re d’acciaio, vincitore di Bela re d’Ungheria a Kressenbrunn (1260) ottenne anche il possesso di una parte del nord d’Italia (Friuli, ecc.).
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desco in quel lontano medioevo; ma quanto simile a quelli che il mondo civile di nuovo scopre e deplora!
Pare d'oggi la rampogna di Hus, che aveva pur proclamato che « il Cristo m’è testimonio che. io amo più un tedesco galantuomo che un cattivo boemo, fosse anche mio fratello », contro i metodi tedeschi di invasione e di penetrazione .« Quando i bavaresi e i sassoni invasero (i) il regno di Boemia e bruciarono le città e martirizzarono ed ucci ero i poveri boemi, mi lamentai di tanta malvagità e dissi: «In questo i boemi sono più miserabili dei cani e dei serpenti, perchè non difendono, stando dalla parte giusta, la loro patria. Ed anche dissi e lo ripeto che i boemi nel regno di Boemia, secondo le leggi, anzi secondo la legge di Dio e l’istinto naturale, dovrebbero essere i primi negli offici nel regno di Boemia, come i francesi nel regno di Francia e i tedeschi nelle lo o terre, e che un boemo dovrebbe sapere governare i suoi sudditi e un tedesco i tedeschi. Ma qual vantaggio, quando un boemo che non conosce la lingua tedesca sta in Germania a fare il parroco o il vescovo? In realtà, tanto varrebbe che un cane muto, che non sa abbaiare venisse messo a custodia di un gregge; così anche per noi boemi va la faccenda quando a comandare c’è un tedesco. Sapendo perciò che ciò è contrario e alla legge di Dio e ai Canoni, affermo che questo è cosa illecita ». Così rispondeva coraggiosamente Hus al Concilio di Costanza ai suoi accusatori che lo facevano responsabile della animosità dei boemi contro i tedeschi destata dalla sua predicazione.
E per ricordare ai posteri la violenza tedesca, scatenatasi contro il predicatore nazionalista e la sua cappella di Betleem in seguito alla sua condanna nel 1412, il 2 ottobre, scriveva: « I tedeschi ricoperti di corazze con archi, aste è spade si slanciarono contro la cappella di Betleem... (2) Poi i tedeschi, intesisi, volevano distruggere la cappella di Betleem avendolo proclamato unanimemente nel palazzo municipale; ma contro la loro proposta parlò un boemo, Holubar, ai boemi, se volevano come i tedeschi distruggere la cappella.
« Ma i boemi comprendendo che una simile decisione ripugnava a Dio, alla sua parola e alla salvezza umana e sarebbe stata per i boemi un disonore e che non avevano il potere di distruggere in una così grande città un tempio di Dio così utile, non- vollero assentire.
• Ecco l’audacia tedesca! Un forno 0 una stalla lì vicino non era lecito ad essi di gettar giù senza il permesso del re: ma assalire un tempio di Dio, quello sì, era lecito! Ho scritto queste cose perchè servano di documento ai posteri! (3) ».
La lotta ussitica ridestò la coscienza antitedesca, che si manifestò sotto tutte le forme. È abbastanza curiosa questa maligna osservazione di uno studente boemo
(1) Probabilmente Huss si riferisce all’invasione del 1406 delle truppe di Roberto.
(2) Nella condanna ecclesiastica di Huss era comandata la distruzione della cappella di Betleem. Ma solo la borghesia tedesca approffittò della condanna per sfogare il suo livore, acuito dallo scacco subito dai tedeschi all'università di Praga.
Il Loserth, lo storico tedesco di Huss, sa abilmente attenuare ai suoi fini apologetici l’avvenimento e dice che « in realtà un attacco fu fatto contro la cappella di Betleem dai cittadini di Praga », lasciando cadere l’aggettivo « tedeschi » che avrebbe illuminato il lettore!
(3) In Postillarum liber II, 115.
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che in una nota marginale al De Ecclesia di Wiclif, (intorno al 1415), scrive: « Il cavolo è un’erba melanconica {sic), la quale rivela chi è dato ai piaceri del mondo ed ecco perchè i tedeschi più degli altri popoli mangiano il cavolo, perchè più degli altri sono dati al mondo e alla dissipazione ».
Ancor oggi il sauer-kraut è un piatto nazionale dei tedeschi!
• * •
L’opposizione, il contrasto fra l’impero tedesco e la Boemia si delinea fin dal principio della politica espansionista dell’impero verso le popolazioni slave confinanti. La Boemia ebbe la fortuna, con la Polonia, di poter resistere e di salvare la propria individualità etnica e storica, al confronto delle altre popolazioni slave confinanti, abbracciando a tempo il cristianesimo, volgendosi verso la civiltà occidentale ed entrando nel cerchio degli interessi e della politica dell’impero. Ma i primi tentativi di cristianizzazione venuti dalla Germania non poterono trovare un’eco profonda', perchè venivano dai nemici tradizionali dell’occidente e perchè missione cristiana, organizzata feudalmente nei paesi più avanzati delle marche orientali, ed egemonia politica tedesca dei Franchi in quel periodo significavano la stessa cosa.
Il cristianesimo vi si potè affermare, pur non riuscendo ad imporsi se non gradatamente a tutta la nazione, quando l’abile movimento della cristianizzazione degli slavi da parte di Bisanzio fu fatta con criteri intieramente opposti ai criteri germanici. E il cristianesimo penetrò largamente in Boemia dalla vicina ed affine Moravia e nell’873 (?) il principe Borivoj fu battezzato da Metodio in Moravia e la liturgia slavo-bizantina si estese anche in Boemia (1). Ma il rapido tramonto della politica slava anti-tedesca di Bisanzio attraverso lo scacco subito dai due grandi missionari degli slavi, Cirillo e Metodio per opera del clero tedesco, riportò sotto i figli stessi di Borivoj i nuclei cristiani sotto l'egemonia episcopale di Ratisbona e al riconoscimento della supremazia politica tedesca. Infine la definitiva liquidazione, dopo l’insuccesso di parecchi tentativi per sottrarsi all’influenza politica e religiosa dell’impero durante tutto il secolo x e parte dell’xi, con la pace dì Ratisbona (1041); la necessità di appoggiarsi all’impero nel caos politico dell’occidente slavo pericolante sotto la pressione magiara orientarono definitivamente verso l’impero la Boemia che da nazione tributaria passò a vassalla dell’impero. E fu così che i suoi reggitori, sostenendo la politica degli imperatori per aumentare la loro potenza nell'interno e all’estero ottennero vantaggi non lievi e successivamente il titolo di duca e di re, prima personale (Vretislav I nel 1086) e poi permanente ed ereditario (da Otte caro I nel 1197).
Le continue lotte interne fra membri della stessa casa regnante e fra nobiltà e monarchia, caratteristiche dei regni slavi, spinsero la monarchia a favorire la co(1) Le pretese della gerarchia tedesca su i cristiani di Boemia e specialmente la dipendenza dal vescovato di Ratisbona, contro il fatto della cristianizzzione compiuta dai discepoli di Metodio erano fondate sul diritto di precedenza per il battesimo di quattordici nòbili con i loro dipendenti avvenuto a Ratisbona nell’845.
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Ionizzazione nelle campagne e lo sviluppo della borghesia cittadina con una larga immigrazione di tedeschi per contrastare con questi nuovi elementi alla feudalità. Già sotto Vretislav I (1061-92), i tedeschi in gran numero potevano affluire a Praga. È sotto il più grande re della dinastia nazionale dei Premyslidi, Ottacaro II, che l’emigrazione della borghesia tedesca venne appoggiata ampliamente e metodica mente per fiaccare la nobiltà e per aumentare le rendite della corona.
Alcune date serviranno a segnare il rapido sviluppo dell’influenza tedesca nel paese. Come abbiamo visto sopra, intorno al ixoo, si delinea nettamente a Praga la direzione dell’emigrazione tedesca. L’insiedamento tedesco si fissò fuori delle antiche mura Cittadine, sul suolo dell’attuale Poric, a nord-est della città vecchia ed i tedeschi eboero la loro chiesa nazionale, S. Pietro, e privilegi esenzioni dalle tasse ed aiuti dai principi per rinforzare la loro colonia. Nel 1178 Sobeslav II concede ai numerosi coloni tedeschi la prima'carta di libertà. Nel 1235 la Città Vecchia, divenuta il centro dei mercanti tedeschi e. nel 1257 sotto Ottacaro II, anche la Mala Strana alla sinistra della Moldava ricevevano una costituzione municipale tedesca sui modello di quella di Magdeburgo, la seconda e di Norimberga la prima. Nelle colonizzazioni prevaleva lo jus possessionis tedesco su quello locale czeco. Nel 1240 Venceslao I concede ai tedeschi il territorio intorno al monastero di S. Gallo vicino a quello che divenne poi il Carolinum, nel cuore della Città Vecchia. Anche le associazioni di artisti avevano statuti tedeschi ed erano formate quasi intieramente di tedeschi (1).
Come la base della vita comunale era tedesca, così, a partire dal principio del 1300 l’amministrazione cittadina a Praga era caduta in mano ai tedeschi. Le re gistrazioni nei libri municipali a Praga erano fatte in tedesco; ancora nel 1412 la maggioranza dei consiglieri municipali della Città Vecchia era tedesca. Questa incontrastata egemonia negli affari della capitale stessa del regno di Boemia venne per la prima volta combattuta efficacemente dagli czechi negli ultimi anni del turbolento regno di Venceslao IV. I tedeschi erano anche nelle miniere special-mente in quelle d’argento a Kuttenberg (Kutna-Hora) e a Deutch-Brod, che costituivano la più abbondante sorgente delle rendite del tesoro reale. A Kutna-Hora naturalmente la potente borghesia tedesca divenne un centro di opposizione all’elemento ussita, nazionale e democratico.
Dalla metà del secolo xin circa si fece sentire più attiva l’influenza tedesca, non solo nell’opera Oscura dei coloni, dei mercanti, delle maestranze d’arte, ma anche nella coltura e nei costumi, oltre che nell’antico asservimento della Chiesa. E proprio sotto la dinastia nazionale de Premyslidi! Lo spirito cavalleresco, i tornei, la poesia d’amore tedesca d’ispirazione francese trovarono alla corte di Praga un eccellente asilo.
I poeti tedeschi vi ricevevano la più larga ospitalità e dedicavano ai re di Boemia i loro poemi. Ulrico di Eschenbach dedicava così al figlio di Ottacaro II il suo poema intorno ad Alessandro Magno, ispirato alle gesta del gran re boemo.
(1) L’elemento tedesco vi stava all’elemento boemo come 5 ad 1 (Neuwirtb).
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e il suo « Guglielmo di Wenden » alla regina Guta. Lo stesso Venceslao II, figlio di Otta caro II, amò gareggiare come poeta dei Minnensänger.
Fioriva così proprio alla corte di Praga, nel cuore dei paesi czechi, una fioritura postuma dalla poesia medievale tedesca! E dalla corte appunto partiva il favore dato all’arte, al diritto, ai costumi, alla colonizzazione tedesca. Le nuove città imperiali fondate nel secolo xm vennero date dal potere regio a colonizzatori tedeschi. Lo stesso avveniva per l’altro grande paese czeco, la Moravia (i). La colonizzazione tedesca cominciò a fissarvisi fin dal tempo di Enrico Vladislav, rimediando alla rarefazione di popolazione che vi si era prodotta in seguito alle invasioni mongoliche. Anche qui il potere reale per i suoi fini politici favorì largamente la formazione di vere e proprie comunità autonome tedesche rette secondo le leggi tedesche e le costituzioni comunali di Magdeburg© e di Norimberga.
Sotto Venceslao I, figlio di Ottacaro I, questi privilegi furono concessi a Brno (Brünn) nel 1243 e ad Iglau (1250) e sotto Ottacaro II ad altre città. Uno stato nello stato! L’estensione dell’influenza tedesca in Moravia si vide nelle guerre ussite, quando l’ussitismo che aveva guadagnato rapidamente il popolo minuto, i contadini e la nobiltà indigena trovò i suoi più fieri oppositori nell’elemento tedesco della maggior parte delle città imperiali abitate da tedeschi.
Altri episodi illustrativi di questa lotta.
Finita tragicamente la stirpe nazionale dei Premyslidi — dopo il tentativo del Re dei Romani, Alberto, che, dichiarato feudo vacante dell’impero la Boemia, cerca di far eleggere suo figlio — i boemi insorgono contro il successore Enrico di Carinzia per il suo eccessivo favoreggiamento de' coloni tedeschi in Boemia ed eleggono Giovanni di Lussemburgo. In realtà la germanizzazione della Boemia, per quanto mitigata dall’influsso francese, fu condotta abilmente a maturità proprio sotto i primi tre re della casa dei Lussemburgo e specialmente sotto Carlo IV quando Praga non divenne solo il centro della Boemia rinnovata, ma dell’impero. Come testimonia il Chronicon Aulae Regiae (2), la casa di Lussemburgo cercò l’unità e il dominio nell'unità della lingua « facendo del tedesco nelle città e nella corte la lingua officiale». La regina Bianca di Francia che andò sposa a Carlo IV quando egli non era ancora imperatore, alla corte boema a Praga dovette imparare il tedesco per farsi capire, perchè il tedesco vi era meglio compreso che lo czeco (3). Questa influenza tedesca nella corte, come s’è veduto sopra, aveva una lunga tradizione ed era dovuta, oltre che ad altri comprensibili fattori politici, alla frequenza dei matrimoni fra principi boemi con tedesche. Con esse penetrava, anzi, addirittura s’imponeva nella corte la lingua, il costume, un largo stuolo di cortigiani e di ecclesiastici tedeschi. I figli naturalmente dei regnanti di Boemia imparentati con principesse tedesche venivano educati nella lingua e nello spirito
(1) Dal 1197, sotto Ottacaro I, divenuta .definitivamente un margraviato feudatario della corona di Boemia.
(2) In Fontes Rerum Bohcm.. p. 320.
(3) Rodolfo, abate di Sagan, nella sua Cronaca, p. 409.
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tedesco. La nobiltà finirà per necessità di cose per seguire il costume della corte tedeschizzata. Non mancavano però le proteste contro questo stato di cose. « Vorrei piuttosto — dice il principe boemo Ulrico (i) — prendermi per moglie una contadina boema che una regina tedesca. Ogni cuore è attaccato alla propria nazione; perciò una donna tedesca non può favorire la lingua del mio paese. Una tedesca vorrà avere dei servi tedeschi, e tedesco insegnerebbe ai miei figli » (2). E la leggenda narra che egli sposò una contadina, la bella Boz na. Ma questo sentimento era ancor vivo quando la Boemia lottava ancora con speranza di liberarsi dall’influenza politica, economica e culturale della Germania. Ma si riaccenderà vivamente all’alba del movimento ussita.
• * •
E la chiesa boema?
Nel tenace lavoro medievale di germanizzazione della Boemia la Chiesa fu uno dei fattori più efficaci e che servì a meraviglia il piano degli imperatori tedeschi; così come il definitivo snazionalizzamento della Boemia fu opera nel 1600 della reazione austro-cattolica. A partire dalla fine del secolo xi il clero in maggioranza in Boemia fu tedesco (Lützov (3)). Dalla Germania vennero pure i potenti ordini religiosi che coprirono nelle fitte maglie di una refe la terra boema, special-mente i Premostratensi e i Circestensi che mantenevano con la madre patria continui ed attivi rapporti e che in Praga innalzarono in grandi e sontuose dimore il simbolo della loro potenza e della loro influenza sulla Boemia.
La storia della Chiesa in Boemia (pre-ussita, s’intende) è la storia della lotta fra l’elemento indigeno e l'elemento tedesco e della definitiva vittoria di quest’ul imo. Le prime scuole ecclesiastiche latine erano tedesche. Così una delle prime scuole a Budec (Bunza) (4). La latinità fu rappresentata dai tedeschi. « Chiesa e dominazione tedesca andarono di pari passo in Boemia » (Hauck).
Le origini stesse della Chiesa boema illuminano questa lotta fra l'elemento nazionale e l’elemento tedesco. Svanito il tentativo bizantino, l’opera di cristianizzazione degli slavi confinanti.con l’impero fu ripresa con metodo dagli Ottoni, che inaugurarono una vera politica missionaria di germanizzazione e di organizzazione ecclesiastica delle marche di confine con fondazione di numerosi conventi e di vescovati nel territorio slavo dell'impero (vescovato di Brandeburgo, di Havelberg, di Marseburg, di Zeitz, di Meissen, di Posen) e fecero di Magdeburg una metropoli degli slavi, malgrado le opposizioni dell’arcivescovo di Mainz.
(1) Figlio di Bolcslav II, morto nel 1037.
(2) Dalla cronaca in versi, la prima in czeco, de! così detto Dalìmil (principio del secolo xiv).
(3) Ciò è vero. Ma non mi sembra giusta la sua osservazione che « col poco amore alla lingua czeca e a tenere il culto in slavo (sic), favorì l’elemento tedesco ». L’influenza temporanea e superficiale del movimento di Metodio fu ben presto eliminata con la vittoria dell’elemento tedesco-latino e con lo stabilirsi della gerarchia latina. Quanto alla predicazione tenuta esclusivamente in tedesco l’osservazione è vera. La Chiesa boema fu sventuratamente per gli Czechi una chiesa tedesca.
(4) Vedi la Fifa Vencezlai, in Mon. Gcrm. Historiac, Script. IV p. 211 ss.
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L’erezione dei due vescovati suffragane} di Maihz, di Praga sotto Ottone II e j oi di Olmüz (Moravia) (i) nel 975 rientrano appunto ih questo vasto piano di germanizzazione.
Boleslav I, che messosi a capo della rinnovata reazione czeca contro l’elemento tedesco-cristiano aveva ucciso il fratello Venceslao (935?) a Alt-Bunzlau (2), aveva finito con l’assoggettarsi ad Ottone il Grande. Ma poicl è dipendenza della Germania significava in quel periodo rinforzamento dell’elemento cristiano-tedesco e dell’organizzazione ecclesiastica che dirigeva le fila dalla Germania, il figlio Boleslav II, per rafforzare i vincoli ecclesiastici e per avviare a compimento l'opera di cristianizzazione della Boemia, ottenne che Praga fosse elevata ad episcopato, soggetto a Mainz. Il primo vescovo fu naturalmente un sassone, Deothmar (in. 983?).
Il sentimento nazionale si sentì vivamente offeso da questo passo e una violenta reazione si scatenò contro l’elemento cristiano-tedesco. L’imperatore Ottone Il cercò di ovviare al pericolo e di dare qualche soddisfazione al sentimento nazionale con la nomina a vescovo di Praga di uno czeco, imparentato però con là sua casa di Sassonia: Adalberto. Il suo caso è tipico. Di nobile familia czeca va a studiare alla scuola cattedrale di Magdeburg e muta il suo nome czeco di Voitec in quello tedesco del suo maestro Adalberto, arcivescovo di Magdeburgo. Ottone II ammirava in lui sopratutto la coltura tedesca. La nomina di un nobile czeco, imbevuto di spirito e di coltura tedesca, sembrava all’imperatore offrire le migliori garanzie di una pace duratura e del consolidamento del cristianesimo e dell’influenza tedesca. Ma poiché con lui tornava l’elemento tedesco, il popolo e la nobiltà finiscono con l’odiarlo ed egli è costretto a fuggirsene a Roma dove le sue tendenze ascetiche lo portano al monastero benedettino di S. Alessio. Nel 992 obbligato dal papa e dall’arcivescovo di Mainz ritorna a Praga dove fonda il celebre monastero benedettino di Brenov. Ma è costretto a fuggire di nuovo l'anno seguente ed eccolo nuovamente a Roma. Nel 996 al seguito di Ottone III lascia Roma per Praga, ma per le nuove forti opposizioni nazionaliste finisce missionario degli slavi della Prussia al servizio della Polonia e martire.
La reazione nazionale, come abbiamo accennato, s’accende ancora fino alla metà del secolo seguente anche nel campo ecclesiastico. Il cristianesimo vi si rafforza nondimeno. Si cercano nuove vie per affermare in questo campo il bisogno di indipendenza.
Le vicende alterne della fortuna degli imperatori tedeschi favoriscono questi progetti. L'apice è raggiunto sotto il regno di Vretislav, col duplice programma di indipendenza dello Stato e della Chiesa dall’impero e dalla chiesa tedesca: una nazione czeca non più vassalla dell’impero con Boemia e Moravia, e Praga, liberata dall’obbedienza a Mainz, elevata ad arcivescovato. Ma la ferrea politica di Enrico III dissipò questo piano. Solo con Carlo IV, quando la Boemia divenuta
(1) In quel momento la Moravia era sotto il dominio dei boemi che l’avevano tolta ai Magiari invasori.
(2) Il San Venceslao della leggenda cristiana e nazionale della Boemia, divenuto uno dei due santi protettori della Boemia.
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la piattaforma della nuova politica imperiale acquista nuova importanza, la diocesi di Praga diviene Metropolitana. Ma il suo primo grande arcivescovo, il braccio destro (con Giovanni di Neumarkt, eletto poi vescovo di Olmüz in Moravia) della politica di Carlo IV era un tedesco, Ernesto di Pardubiz e tutta la-politica riformatoria di Carlo IV è fatta con l’appoggio dei'prelati tedeschi.
Ma l’Università e l’importanza della vita politica della Boemia avevano dato al popolo czeco i benefici effetti della coltura superiore e ridestato il senso nazionale. E contro l’aspettazione di Carlo IV — ciò è ben chiaro nella politica di assenteismo tedesco di Venceslao IV — il piano di favorire la Boemia come un forte stato ben organizzato per dominare ed unificare l’impero aveva finito col far prevalere gli interessi boemi agli interessi generali. I lamenti dei principi tedeschi contro Venceslao IV che chiedevano almeno la nomina di un vicario dell’imperatore che risiedesse in Germania è il segno di questa maturità di opposizione nel seno dell’impero fra gli interessi tedeschi e gli interessi boemi. Le vicende ulteriori dell’impero e della Chiesa al principio del secolo jxv maturarono nell’occasione della propaganda wiclefìta di Hus nell’interno stesso della Boemia questa fatale opposizione che è nel cuore stesso della storia boema.
* ♦ ♦
Nella leggenda boema vive la figura della fiera oppositrice dei tedeschi, la regina Drahomira madre di S. Venceslao e di Boleslao; nella storia del popolo czeco spicca la figura del più grande oppositore della prepotenza tedesca, non avvolta come la prima nella luce smorzata e nel pathos della leggenda, dell’entusiasta oratore della cappella czeca di Betleem, G. Hus.
A. Mario Rossi.
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IL CATTOLICISMO TEDESCO
E IL " CENTRO CATTOLICO '
° NON VI SONO CHE DUE ORGANIZZAZIONI PERFETTE: L’ARMATA PRUSSIANA E LA CHIESA CATTOLICA"
La mitologia classica, non meno di quella ebraica, paria di connubi mostruosi tra «figli degli Dei e figlie dell’uomo», e di giganti e di mostri che ne furono la prole.
Il Cristianesimo, prodotto esso stesso dell’incontro fra il Giudaismo cristiano e l’Ellenismo, cioè fra due forme aspiranti all’egemonia religiosa e- artistico-intellet-tuale, disposandosi, dopo più secoli di cimenti e di rivalità sanguinose, al suo stesso antagonista, il cesarismo pagano, diede origine al nuovo imperialismo romano, che maturossi nel cattolicismo medioevale, e nel cesarismo cristiano.
Il moderno imperialismo tedesco, degenerazione anch’esso — come accennammo in un precedente articolo — di un movimento per l'egemonia spirituale, non si è trovato e non può trovarsi in contrasto col neocesarismo romano che a causa appunto della loro somiglianza, la quale fa sì che l’uno debba escludere l’altro dall'ambito della propria azione.
Se — come già intuiva il filosofo tedesco Feuerbach cinquant’anni fa — «i due più grandi nemici della Germania sono lo Zar è il Papa», ciò non significa che « nel pangermanesimo moderno e nella concezione della vita che ad esso sta a base sia risorto quel cesarismo pagano contro cui si levò, a rivendicare in vènti secoli di storia cristiana, i diritti inalienabili della coscienza, il Cristianesimo... * come è detto in un articolo della Nuova Antologia del settembre dello scorso anno. No! Se Germanesimo e Romanesimo Papale sono antitetici, essi lo sono appunto, perchè entrambi degenerazioni cesaristi-che e pagane di concezioni spirituali: e se il Troeltsch, nella sua opera recente ziwgw-stin: die christUche Anlike und das Mit-telalter, riconosce che il Cristianesimo, come valore religioso, può sussistere solo nel sacrificio dell'individualità al potere statale, e nella sua abnegazione di fronte agli interessi del predominio nazionale: se anzi esso giunge ad esaltare l’attività bellica dei Tedeschi, che scorgono nella propria organizzazione statale e nella propria coltura l'immanente divinità della ragione e la lotta per propagarne il dominio, non
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è d'fficiie riconoscer in questi lineamenti le note individuanti del Cattolicismo Romano, con la sua avidità di dominio assorbente tutta la personalità dei suoi membri, e con la sua identificazione della religione a un domma e ad una filosofia, il domma e la filosofia medioevale. Nella sua « Politica Tedesca », il manuale classico del Pangermanismo pond rato e scaltro, il principe di Bülow di hiara altamente che ciò che tuttora impedisce al'a politica tedesca la libertà dei movimenti è ciò che resta ancora in essa dello spirito individualista — di quello spirito cioè che la Riforma ravvivò e proclamò. Ed egli riproduce, approvandolo, il giudizio emesso da un ambasciatore tedesco all’estero: Non vi sono che due organizzazioni perfette sulla terra : l’armata prussiana e la Chiesa Cattolica ».
Antitesi dunque, per ciò che riguarda il Cattolicismo e il Germanesimo, non già di concezione della vita e d’ideali, ma di incompatibilità di condominio di due cesarismi, solo numericamente differenti, sullo stesso suolo.
Eppure, Cattolicismo e Germanesimo hanno tentato anch’essi il connubio: e la prole, — come tutte le proli nate da unioni tra consanguinei, affetta dallo stimma ereditario, — ha accentuato le qualità comuni ai due genitori. Il Cattolicismo tedesco o Germanesimo cattolico, ha trasferito nel campo religioso tutto lo spirito, la disciplina, il meccanismo tedesco, e ha rafforzato ancora nelle sue attività sociali e politiche l’ambizione di dominazione, la sete di proselitismo, lo spirito battagliero. Il Cattolicismo, come religione, ha perso in Germania il suo « latinismo », divenendo Prussiano: il Germanesimo dei cattolici ha assunto, alla sua volta, i metodi, le abitudini, lo spirito del Cattolicismo politico, divenendo il Centro Cattolico.
Soffermiamoci alquanto ad esaminare
queste due esagerazioni e caricature dello spirito tedesco-cattolico e cattolico-tedesco: la prima specialmente, dietro esperiènze personali; la seconda, più ampiamente, nelle sue esplicazioni di ordine sociali e politiche, che ne fanno un Cattolicismo dentro un altro, un Germanesimo entro un altro: il pendant tedesco e politico di quello che latinamente e religiosamente è il Gesuitismo.
CATTOLICISMO LATINO
I Cattolicismo, nato su suolo romano e nutrito del succo del genio latino, ha rappresentato nelle nazioni latine un compromesso fra il legalismo e il formalismo giuridico romano, e l’individualismo, essenziale a un sentimento sì personale e spontaneo quale il religioso.
Fu Fichte che pronunziò le parole: «Gli inventori delle formole sono i benefattori dell’umanità»: e infatti, fu per mezzo del «diritto romano» cioè di quel genio particolare nel cogliere sotto ogni atto esterno degli individui le leggi eterne ed universali dell’attività umana; nell’a-dattare ed imporre ad ogni istituzione sociale una speciale forinola e categoria rigida ed inflessibile, nel trattare i sentimenti e gli atti morali come se fossero cose concrete da essere distribuite in un casellario giuridico: di quella avidità di introdurre i metodi della matematica e della bilancia nell’accertamento e nella definizione degli oggetti di ogni diritto e giustizia e degli equivalenti di ogni obbligazione e di ogni servizio: fu, in breve, grazie al culto romano per le definizioni e le formole, che ha reso la lingua latina un monumento di scoltura e un capolavoro di anatomia, che Roma diede al Mondo antico il più grande dei doni sociali e politici: la unità nella legalità.
Ma i Romani, non paghi di applicare il loro culto per le definizioni e le formole alla vita del fenomeno e al mondo delle
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azioni, furono spinti dalla tirannia del loro genio a trattare i sentimenti profondi dell’animo e le loro estrinsecazioni religiose con un sistema ben definito di formalismi è di sacramentalismi. Da essi, la « Pietas » fu definita: « Giustizia verso gli Dei »: « Giustizia », nell’aspettativa di un giusto trattamento anche da parte loro. La « Religio », fu concepita come un codice di doveri, diretti a riscattare lo spirito romano dall’incertezza insopportabile di dover trattare esseri ignoti ed assicuriti mi ra> po ti ver o di essi la stessa maniera appropriata e conveniente con cui trattavano i loro concittadini. Il « Calendario » delle festività religiose, la minuta determinazione di ogni rito e cerimonia, la stessa tolleranza, anzi la cordiale ospitalità, accordata al panteon degli altri popoli — fino a che questi altri culti non pretendevano a una intollerante egemonia — tutto testimonia questo carattere legale e formalistico della religione di un popolo, il cui « lus » fu definito una « ratio scripta ».
Il Cattolicismo Romano, erede dello spirito del «diritto romano», e, per molti secoli almeno, della sua abilità nel governo del nuovo Impero Romano-cristiano, ne ereditò ancora, anzi esagerò sotto Fin flusso dell’amore per le astrazioni derivatole dallo spirito greco, il formalismo re-igioso, il bisogno di definire, il sacramen-talismo — aggiungendovi quello spirito di esclusivismo derivatogli dall'Ebraismo.
Ma il legalismo, il formalismo, la geometria logica che tanto successo ebbero nella elaborazione di un sistema giuridico, cioè nel trattare atti e sentimenti della vita giom liera, si addimostrarono già nella religione romana, e poi molto più in quella delle nazioni neo-latine, pietosamente insufficienti a soddisfare il bisogno di esprimere quello che è essenzialmente intangibile, indefinibile, individuale, le' aspirazioni dell’anima ad una comunione
più intima col principio e propulsore della Vita umana.
Come al lato della religione romana di Stato, della sua mitologia, dei suoi templi, delle sue ceremonie, del suo sacra-mentalismo, fiorirono in ogni «pagus», in ogni « gens », in ogni « familia», leggende, edicole, culti locali, festività campestri e popolari, così il Cristianesimo cattolico, pur ereditando e intensificando nei suoi, domini, nei suoi riti, nella sua disciplina e organizzazione la rigidezza, il formalismo, il Cesarismo romano, dovette fare concessioni al bisogno popolare di spontaneità, di emozioni sbrigliate, di leggende e cerimonie sorte dall’anima artistica ed emozionale del popolo, di espansioni individuali irrazionali: a tutta la volontà del genio neo-latino.
Fu questo compromesso, che sacrificando l'unità all'uniformità, riducendo il doinma cattolico ad una bandiera utile a simboleggiare una fede, benché inetta a servir da programma a una società, e permettendo allo spirito critico italb-franco e allo scetticismo religioso e al paganesimo della Rinascenza di esercitarsi e prosperare all’ombra del cattolicismo, lasciò che questo rivestisse la porpora imperiale mentre lo scettro cadeva dalle sue mani irrigidite, e preparò la insurrezione «modemistica» dei paesi latini.
VARIETÀ TEUTONICA DEL CATTOLICISMO
Sorvoliamo sulle note vicende storiche della «Riforma», movimento separatista oltre che e forse più che riformatore, e consideriamo brevemente la varietà leu-Umica del Cattolicismo latino, quale essa è al presente. Anzitutto, la nota con cui essa colpisce chi, sotto alla splendida magnifica, «colossal» organizzazione cattolica tedesca, ricerchi l’anima religiosa, i rapporti tra i fedeli ed il clero, il concetto che questo ha delle sue funzioni
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e attribuzioni, è quella di una burocrazia perfetta, di un’azienda commerciale per «salvare anime» e qualcos’altro, di un servizio di Stato inappuntabile, che per una ragione apparentemente inesplicabile, invece di far capo all’imperatore di Berlino, fa capo a quello di Roma.
Ricordo — se mi si permette la nota personale — la mia impressione nei miei rapporti con una parrocchia cattolica in Pappel Allee, nel Nord di Berlino, circa dieci anni or sono.
Il « Pfarrer » (il Parroco), uomo sui cin-quant’anni, vissuto fino a pochi anni prima in una casa di commercio, non aveva provato alcuna difficoltà, anzi era stato gran-demènte aiutato dalle sue capacità d’industriale, ad organizzare l’industria della salvezza delle anime in quel popoloso quartiere.
Il suo Ufficio Parrocchiale non si differenziava per nulla da quello di un’azienda commerciale: parecchie signorine dattilografe gli fornivano continuamente migliaia di circolari, di moduli, schede: elencavano, classificavano, sistemavano, registravano. Negli ampi scaffali si succedevano registri, libri mastri, atti e posizione: copiose finche ponevano a sua disposizione lo stato morale, materiale, religioso, ecc. di tutte e singole le sue pecorelle: una esatta registrazione lo teneva informato sulla origine e parentela di ognuna di esse, sulla data della loro recezione dei sacramenti, iscrizioni o dimissioni da società, circoli, associazioni, cattoliche e non cattoliche, studi, capacità, attività, e sulle vicende di quelle che, prima o dopo di avere appartenuto alla sua parrocchia, erano passate — sempre sotto la «longa manus» della burocraiza sacra onnipresente e onniveggente, per altre parrocchie, altri stati dell’impero, altre nazioni fuori dell’impero. Ho detto «burocrazia» e «casa commerciale»: ma la parola che meglio esprime l’impressione
diretta da me provata, è quella di regime tra il militare (quale caricatura del « Miles Christi » di Tertulliano!) e il conventuale. Infatti la parrocchia da me studiata —- e tutte, più o meno, si rassomigliano, — era un prodigio di metodo, di orari, di caselle, di movimenti a suono di tromba o di campanella. Il lunedì, ad es., dall'ora a all’ora b, Confessioni per gli adulti uomini; dall’ora c all’ora d, Confessioni per i fanciulli tra i sette e i dodici anni; all’ora e, Messa con le tali e tali pratiche; all’ora f, tale altra Messa con le tali altre funzióni. All’ora g, presentazione o ritiro dei tali documenti: all’ora h, adunanza del tale comitato; all’ora i, istruzione religiosa del tale ordine e classe: e poi, all'ora k, circolo delle madri fino all’ora l; all’ora m, contemporaneamente « club » tale e adunanza tal’altra, fino all’ora n. Sosta fino all'ora o, e ripresa dell’azienda con la scuola tale e l’amministrazione dei sacramenti tali altri. All’ora />... e così di seguito, per tutta la settimana, con moto perpetuo, inappuntabile, — ricordo l’os sessione perpetua del «Pfarrer»: quella del tale circolo o della tale ceremonia, cominciata o terminata «Zwei minuten später! », « due minuti più tardi! » — ciò che non significa che, se la gabbia era perfetta, gl’ingabbiati si trovassero a loro pieno agio. O per essere più esatti, la maggior parte dei fedeli, già abituati ad esser vissuti in ogni istante della loro vita macchinale e incanalati entro le guide ferree della burocrazia statale, semplicemente sommavano all’inevitabile civile l’inevitabile religioso ed estendevano a questo le stesse categorie mentali e morali di quello,, trovando naturalissimo che gli « affari » religiosi fossero amministrati in modo anàlogo a quelli civili.
Un buon parroco cattolico, in Italia, si sentirà capo patriarcale dei fedeli della sua parrocchia, ài quali prodigherà tutto se Stesso, e tutto il suo, tanto più dimentico
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del suo carattere di ministro di Dio quanto più si sentirà umano fra uomini fratelli, curando più gli individui che le. organizzazioni, più lo spirito e le disposizioni con cui ricevono i sacramenti che l’esattezza dell’orario e la registrazione delle date; mirando più a conquistarsi la loro fiducia che ad imporre la sua attività; più a rendersi loro utile che a rendere essi utili alla sua parrocchia, e più a fare del suo gregge una famiglia che un'azienda industriale o una caserma. Questo è il Cattolicismo latino «sotto il suo aspetto migliore».
Questo elemento famigliare, questi rapporti d’intimità personale, questa spontaneità, questa irregolarità che è ordine nel disordine, questo patriarcalismo, esulano generalmente dai rapporti tra il «pfarrer» e i suoi fedeli. Il «pfarrer» è un Kaiser nella sua parrocchia, come il Kaiser è un Papa...' non latino.
Le parole che un seminarista irlandese mi volse un giorno all’uscire da un'udienza di Pio X: « Volesse Dio che i nostri parroci fossero sì affabili e modesti come il Papa», trovano riscontro nel senso di gioia e di liberazione che i cattolici tedeschi provano nelle contrade latine, e che faceva dire ad una signorina, berlinese, in mia presenza: « Dinanzi ad un parroco italiano il mio cuore si apre: mi sento innanzi a un amico; davanti ad un nostro « pfarrer », il cuore mi si stringe: mi sento innanzi a un superiore, che si tratta soltanto di ubbidire.
Nelle contrade latine, il Cattolicismo, retrogrado e despótico per quanto si voglia, generalmente, specie nelle grandi città, non giunge all’individuo, non lo controlla, non lo sorveglia, non lo stringe in un pugno di ferro dal primo respiro nella culla all’ultimo sull'orlo della tomba, e fin dopo morte. Intollerante da un lato, specie per riguardo al suo clero, noncurante dall’altro, i fedeli possono servirsene, e se ne servono più o meno, come
«cuscinetto spirituale» e come «soffitta di riserva», gettandolo lungi da sè quando non ne han più bisogno, e facendo ricorso alle sue risorse sol quando, e nei limiti in cui, le trovano utili.
Non è così il Cattolicismo tedesco. L’obbligo legale che incombe ai fedeli d’inviare i loro figlioli a. scuole cattoliche, anche negli Stati in cui. la Confessione evangelica è dominante; l’obbligo legale di pagare tasse speciali per il mantenimento dei ministri e del culto cattolico e delle istituzioni sussidiarie; la necessità in cui si trovano di frequentare sacramenti, appartenere ad associazioni, leggere giornali, partecipare ad attività svariate cattoliche, sotto pena di essere — grazie alla scrupolosa registrazione di tutti i loro atti od omissioni, — messi fuori del Cattolicismo, sotto l’imbarazzante obbligo legale di scegliersi entro 24 ore un’altra religione, o irreligione, ben definita ed elencata, — fan sì che il clero si senta padrone quasi assoluto dei suoi fedeli, e sia invitato ad esercitare su di essi quel despot ismo religioso, sociale e politico, che sopprime la libertà e soffoca qualcosa più che le coscienze.
Ma per avere un’idea concreta della forza organica del cesarismo cattolico tedesco, è bene di prospettare ormai la situazione numerica, sociale, politica della Chiesa in Germania, quale risultava alla vigilia della guerra (1).
SITUAZIONE DEL CATTOLI-CISMO IN GERMANIA PRIMA DELLA GUERRA
In cifie tonde, il Cattolicismo conta in Germania 24 milioni di fedeli contro 40 milioni di protestanti: e la proporzione tende a spostarsi a favore del cattolicismo.
(x) Utilizzo, specie nei dati statistici, lo studio pubblicato da A. Tibal sul Revue du Mois del gennaio 19x5; V History of our times di P. Gooch, ed il The Socialist movement di R. Mac Donald.
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grazie non soltanto alla emigrazione dai paesi cattolici (Austria, Italia, Polonia), ma sopratutto alla maggiore percentuale delle nascite. I cinque arcivescovi e venti vescovi vengono nominati, secondo i diversi stati, conforme a speciali concordati, ma sempre in modo da lasciare al Papa l’autorità di ricusare i candidati dei Capitoli cattedrali o dei Governi, e di assicurare insieme a questi ultimi l’esercizio del loro diritto di esclusione. I parroci poi sono nominati liberamente dai vescovi, quasi senza ingerenza dello Stato.
Gli ordini religiosi, ricostituiti poco a poco dopo la secolarizzazione del 1803; poi espulsi in gran parte durante il periodo del Kulturkampf (« lotta per la coltura» mossa da Bismarck dal 1851 al 1857), hanno di già ripreso piede, e taluni si sono solidamente stabiliti. I gesuiti stessi sono stati già autorizzati, se non ad aprire degli istituti, almeno a predicare, e dirigere le missioni specie nel nord e nel centro della Germania, ove i fedeli sono troppo dispersi per poter essere aggruppati in parrocchie.
• La potenza attuale degli ordini religiosi risulta già solo dalla cifra di 60 mila, di ambo i sessi, nel 1906, considerevolmente aumentata negli ultimi anni, tanto che nella sola Prussia essi erano circa 35 mila al principio del 1914.
Non solo le scuole primarie pei cattolici sono sotto la stretta sorveglianza del clero, ma anche nell’insegnamento superiore esiste un certo numero di facoltà di teologia cattolica di Stato, oltre a cattedre di filosofia e di storia riservate esclusivamente a cattolici. E notare, che in tutte le università della Germania e nella maggior parte delle sue scuole industriali esistono associazioni di studenti cattolici, in numero di circa 20 mila, federate fra loro e con la federazione degli studenti cattolici austriaci.
L’associazione è per il tedesco l’ossessione di tutta la vita: ed è stato
detto che due tedeschi non s’incontrano in un deserto senza dare origine ad una società. L'associazione è come la forma geometrica che la molecola tedesca assume spontaneamente nel cristallo sociale, sotto l’impulso istintivo verso il dominio. E poiché il cattolico tedesco si trova sotto un duplice impulso di dominio, ed è mosso da due ambizioni di grandezza, l’una temporanea e l’altra eterna, la « Verein », la società, l’associazione, il eh colo, è la ossessione di tutta la sua vita, dalla nascita alla tomba.
Associazioni a scopi di beneficenza, di educazione, di moralizzazione della gioventù, associazioni per l’evangelizzazione (quella di San Bonifacio spende annualmente a questo scopo due milioni di marchi); associazioni per la diffusione di libri cattolici (quella di San Borromeo spende per questo 200 mila marchi all’anno); accademie di scienze morali e politiche secondo i principi cattolici, fra cui più eminente quella Gòrres le cui pubblicazioni fanno autorità pei cattolici; associazione tedesca dell’arte cristiana: e poi, associazioni per tutte le condizioni sociali, professioni, arti e mestieri: di professori, istitutrici, avvocati, commercianti, industriali, artigiani, apprendisti, impiegati di commercio, lavoratori agricoli, operai, operaie, domestici, ecc. (l’associazione dei commercianti con 23 mila membri e 4 milioni di marchi; quella degli apprendisti con 120 mila membri e sei milioni di marchi; l’associazione degli operai con 400 mila membri). Tutte queste società organizzano ogni atomo, ogni cellula, non permettendo di restare isolati, moltiplicando con l’associazione gli sforzi e la loro efficacia... : ma anche sopprimendo o quasi l’iniziativa individuale, la libertà dei movimenti, la capacità di esplicare la propria personalità in maniera originale. E tutte queste società sono poste sotto la direzione non già solo
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onoraria, ma il più spesso effettiva, dei preti e dei vescovi: e sono federate e affiliate a Società nazionali cattoliche, che mettono in valore gl’innumerevoli gruppi sociali, quali, ad es., la « Volksverein fiir das katholische Deutschland » (Associazione popolare della Germania cattolica) che, fondata nel 1890, conta più di 600 mila membri, con un bilancio di un milione di marchi.
Queste società nazionali tengono ogni anno, le loro assise solenni nei congressi cattolici, in cui vengono passate in rassegna le forze attive del cattolicismo, c si propongono piani di azione rispetto alle questioni pubbliche d’attualità.
Lo strumento poi c l’organo di questa rete di organizzazioni è la stampa cattolica, ammirabilmente organizzata essa stessa, rappresentata da più di 4Ò0 giornali quotidiani con un milione e mezzo di abbonati, con numerose e pregevoli riviste, e grandi case editrici a Treviri, a Colonia, a Kempten, e con la società di Sant’Agostino per la diffusione di opuscoli di propaganda, di «tracts», di foglietti volanti.
Edificio magnifico, macchina perfetta, organizzazione potente! Ma uno strumento non è specificato che dal lavoro che è capace di produrre; un edilìzio desume la sua nobiltà dall’uso a cui è destinato; un'organizzazione è qualificata dai fini che essa si propone. E l'organizzazione cattolica tedesca sembra troppo divenuta — come e più intensamente che il Catto-licismo latino — da mezzo e strumento ad un fine spirituale e religioso, anzitutto fine a se stessa.
“ CENTRO CATTOLICO ” TEDESCO: SUO PROGRAMMA E SPIRITO
Questa sostituzione dei fini interni e dei vantaggi egoistici della associazione alle finalità esterne e alla causa altruistica
originale — degenerazione questa che minaccia tutte le società all’uscire dalla età minore, e a cui non isfuggì certo il Cattolicismo, — si esprime con maggiore intensità e in modo, a così dire, esponenziale, in quello che abbiamo definito «un cattolicismo dentro un altro e un germanesimo dentro un altro », e il « pendant » politico del « gesuitismo », cioè il « Centro cattolico » tedesco.
Sorto nel primo Reichstag germanico (camera elettiva dell’impero) nel marzo 1871, con 63 deputati, esso si presentò fino dal principio con quello che è a tutt’oggi il suo programma, cioè: mantenere all’Impero germanico il suo carattere federativo, combattendo le tendenze unitarie; difendere la libertà religiosa di tutte le confessioni; contribure al miglioramento delle condizioni delle classi operaie.
Ma quali fossero le vére finalità del Centro, il suo programma non lascia trasparirlo se non attraverso le circostanze della sua nascita e la conoscenza degli intenti dei suoi fondatori, specie del Wind-thorst e del vescovo democratico-cristiano di Magonza, mons. Ketteler.
Il « Centro Cattolico » sorgeva, ricordiamolo, all’incontro e per la sovrapposizione di due egemonie imperialistiche: quella cattolica culminante nella definizione della « Infallibilità pontificia » nel settembre 1870; e quella tedesca con la proclamazione dell’impero Germanico, quattro mesi dopo. Da un' lato la centralizzazione cattolica e lo sviluppo dell’assolutismo papale provocava in Germania, per contraccolpo, una maggiore intransigenza « ultramontana » nei Cattolici, un contegno più altero e aggressivo: dall’altro lato, per reazione all’i m-perialismo e al dommatismo di Roma, si rafforzava l’alleanza del Protestantesimo col liberalismo, e si riaffermava l’individualismo religioso.
Inoltre il Papa, per un singolare capriccio di eventi, aveva perso il suo do-
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minio temporale nell’atto stesso di raggiungere lé somme cime del suo potere spirituale; ciò che faceva sembrare — non ostante le frasi storiche di Napoleone I e di Bismarck — che il suo potere politico fosse assai indebolito. Contemporaneamente, il piedominio assunto dalla Prussia protestante, e con dinastia protestante, su tutta la federazione germanica, faceva temere ai cattolici una «diminuito capitis» del Cat-tolicismo, anche negli stati aventi dinastie cattoliche, e intravedere il pericolo di un unitarismo politico anche più marcato, in cui la forte preponderanza numerica avrebbe permesso ai Protestanti una egemonia sui Cattolici.
Fu in questo momento storico, pieno di esaltazioni di potere, di preoccupazioni e di falsi allarmi, che il « Centro Cattolico » fece la sua comparsa sulla ribalta parlamentare, forte di ben 63 deputati, avendo alla sua sinistra il minuscolo partito socialista con tre deputati, con il quale aveva nel terzo articolo del suo programma un punto di contatto.
Proclamando la sua fedeltà al sistema federalista, il Centro intendeva opporsi all’unitarismo anti-cattolico, mentre propugnando la libertà religiosa di tutte le confessioni, esso non aveva in mira che la parificazione dei Cattolici ai Protestanti.
E non tardò a smascherare il suo carattere e i suoi metodi acattolici», presentando fino dalla primavera del 1871 quella mozione tendente a fare intervenire l’impero in nulla meno che nel ristabilimento del potere temporale dei Papi; la quale doveva provocare la risposta del «Kultur-kampf ».
Ma lo scopo del « Centro » era tattico e non politico: esso voleva solo affrettarsi a ricevere il battesimo del fuoco, affermare la sua forza e pregiudicare la politica dell’impero. E riuscì: ed il piano di Bismarck di separare da Roma « i nemici dell’impero », i « servi d'una potenza
stranierà», eliminando la superfetazione cattolica nel cuore del germanesimo, fallì. Mail trionfo del «Centro» fu in qualche modo la consolidazione della stessa sua colpa di origine, della sua deformazione da movimento per fini esterni che traducano ideali fissi e universali, in partito che cerca il proprio successo a qualunque costo. Infatti la prima vittoria fu una prima contaminazione politica, che inaugurò V opportunismo, nota caratteristica del « Centro »: giacché fu soltanto la sua alleanza col socialismo che sosteneva contemporaneamente il battesimo del fuoco, che debellò il « Cancelliere di ferro ».
È interessante confrontare l'ascensione parallela del partito del »Centro» con quella del partito socialista, sopratutto per il fatto assai istruttivo da essa emergente, che il « Cèntro » trae un rendimento assai maggiore che il Socialismo, dal numero dei propri elettori; ciò che si spiega con la più rigorosa suà disciplina di partito dovuta al principio autoritario rappresentato dal clero, e con la situazione speciale del Socialismo, che è più soggetto a trovarsi di fronte coalizioni di altri partiti.
Nel 1871, con 352.000 elettori, i Socialisti non avevano che tre deputati al Reichstag contro i 63 del « Centro », il quale nel 1874 sbalzava, dopo tre anni di Kulturkampf, a 1.500.000 elettori con ben 91 deputati; e nel 1890 a 106 deputati (numero massimo): mentre il Socialismo, pure con 1.427.000 elettori, non giungeva nello stesso anno che a far riuscire 35 deputati; saliti a 44 nel 1893. Nel 1903 il Socialismo raggiungeva i 3 milioni di elettori e conquistava 81 seggi al Reichstag, ma nel 1907, nonostante che il numero degli elettori salisse a 3.258.968, il numero dei suoi deputati scendeva a soli 43, laddove quello dei deputati del «Centro», con soli 2.145 mila elettori, si manteneva al numero di 104, per scendere a 90, con 2 milioni di elettori, nel 1912; mentre i Socialisti, pur
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risalendo alla cifra del 1903 rimanevano ad esso inferiore per numero di eletti, benché con 4 e più milioni di elettori.
Nella camera Prussiana (« Landtag ») ancora, i membri eletti dal «Centro» variano attorno al numero di 100, cioè il quarto dell'assemblea, mentre i socialisti sono impediti dal sistema delle tre classi di avere più di sette rappresentanti, benché abbiano un numero di voti assai maggiore di tutti i partiti. Nel Landtag bavarese il « Centro » è predominante; ed in quello del Wurtemberg e del Baden, spesso prevale anche contro la coalizione degli altri partiti.
Resta óra a vedere, dopo questa breve rassegna della genesi e del valore numerico del « Centro », quale sia il valore religioso, morale, politico, del suo programma e dei suoi metodi.
È IL CENTRO UN PARTITO CONFESSIONALE O POLITICO?
Questa domanda mi richiama alla memoria una sera — anzi una notte: chè il comizio durò fino quasi all’aurora del giorno seguente — del periodo più acuto della lotta del « Centro » contro la politica coloniale di Bulow nel 1908, che culminò nelle dimissioni del Gran Cancelliere.
Lo scopo della « Versammlung », dell’adunanza in una vastissima sala di Berlino, era appunto, di discutere in contradittorio la politica del « Centro »; e la discussione, alimentata da deputati del « Centro» e di partiti opposti, fu animatissima.
In sostanza essa era posta allora nei medesimi termini e discussa coi medesimi argomenti che nello storico duello fra Bismarck e Windthorst, già nel gennaio 1872, quando nel Reichstag, il Gran Cancelliere denunziò il « Centro » come « uno dei fenomeni più mostruosi della vita politica », come « la costituzione nell’ambito politico di una frazione puramente confessionale », alle quali affermazioni Windthorst e Mallinckrodt protestarono solennemente negando il carattere confessionale del partito.
L'oratore principale del partito del « Centro» — un giovane deputato fornito di grandi doti di lucidità e di eloquenza tattica — sostenne con grande energia, che se l’immensa maggioranza degli elettori dei deputati del « Centro » è cattolica, l’ingresso nel partito non è vietato ad alcuno, protestante o di altra religione, purché aderisca al principio della libertà religiosa: che il «Centro» non ha mai chiesto per la Chiesa una condizione privilegiata, ma solo una uguale tolleranza; che se esso è l’unico partito al quale un Cattolico possa logicamente appartenere, perchè è il solo che tuteli la libertà di coscienza e che congiunga il lealismo alla Costituzione con l’interesse vivo per il benessere specie delle classi popolari, pure non è solo pei Cattolici che esso è l’asilo più sicuro della libertà e del progresso: che per il fatto stesso che esso riunisce tutte le classi e tutte le condizioni sociali, esso è il partito per eccellenza delle Opinioni medie e del giusto mezzo, equidistante dagli estremi, rispettoso dell’autorità sovrana ma tenero degli interessi del popolo: che esso rende alla Germania il grande servizio di fornire un centro di gravità e come il tessuto connettivo alla sua politica, garantendo la nazione da « revirements » troppo bruschi, agendo da diga contro la marca incalzante del Socialismo, e da cemento ira tutti gli Stati e le provincie dell'impero, da tutti i quali trae i suoi elementi.
E l’oratore suggellò la sua perorazione citando nullameno che le parole di Bulow stesso, che aveva detto un giorno, che se il « Centro » non fosse esistito, sarebbe stato necessario inventarlo.
Gli animi dell’udienza erano sovreccitati e gli avversari del « Centro » stentavano a contenere la loro animazione, quando sorse in buon punto il loro oratore a farsi espres-
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sione dei loro sentimenti. Ricordo ancora la sua voce vibrante, commossa, e 1’incidente umoristico di uno dei presenti, suo fervente ammiratore, che non la finiva con una voce stridula, gracidante, provocante, di intercalare ad ogni sua frase un frenetico «gut gesagt!»; «ganz gut! »: «ben detto », « benissimo », accompagnato da un fragoroso plauso di mani, nè volle smettere, non ostante l'ilarità e le proteste del pubblico, dal compiere a quel modo quello' che egli reputava il suo dovere e la sua missione.
Ricordo t ut t’ora lo scheletro delle argomentazioni del contradittore: «Il«Centro» è un partito politico nella sua forma e nella sua tattica: è vero. Ma nel suo spirito e nelle sue finalità esso è cattolico. La sua « r ai son d’étre » non è nè il federalismo politico — programma tròppo limitato per formare la base d’un partito politico — nè il miglioramento della condizione delle classi popolari — programma troppo vago, e che non gli ha impedito di allearsi più volte coi Conservatori contro i Socialisti: la sua « raison d’étre » è quel solo elemento che tutti i suoi membri, di diverse regioni e di diverse tendenze economiche, sociali e politiche, hanno in comune, cioè la difesa e l'avanzamento degli interessi cattolici, e più propriamente, dei cattolici tedeschi.
Il «Centro» è un partito cattolico, precisamente come il partito della «Soziai Democratica o.Socialismo, è un partito operaio benché non tutti i suoi membri elettori ed eletti siano operai.
Se il «Centro» ha sempre rigettato con energia l’epiteto di «cattolico», nessuno può nutrire dubbi sul valore e sul significato di questa sua abile tattica. Esso comprende troppo bene tutti gl’inconvenienti e i pericoli di adottare un carattere nettamente confessionale, ciò che provocherebbe una formidabile coalizione di tutti i partiti, riconciliati dal pericolo comune. Ma non è men vero, che quando i suoi « leaders », duci, pubblicisti parlano sulla loro propria responsabilità, essi proclamano altamente la dottrina cattolica dell’origine • divina della Chiesa e quindi della sua superiorità allo Stato, e dichiarano che solo la « vera » Chiesa ha diritto allo libera esplicazione delle sue funzioni, e che quindi «l’uguaglianza di tutte le religioni» non è che una tolleranza concessa dalla Chiesa ad evitare mali maggiori. Ora non è presumibile; che individui che professano queste teorie non sentano il dovere di tradurle in pratica per mezzo dei loro sforzi associati. E benché il « Centro » non proclami quale sua ultima finalità il trionfo e l’egemonia del Cattolicismò, resta però che un partito d’individui che a questo mirano come a loro meta suprema, non può non ascondere fra le pieghe della sua bandiera •il « Pro Ecclesia et Pontefice », per quanto il suo motto svolazzante al vento possa essere: Libertà ed eguaglianza».
Questi erano nella sostanza i termini del dibattito nel 1908 come nel 1872, e tali forse resteranno ancora, fino a che la crisi religiósa che sta provando tutte le Chiese Cristiane non avrà compiuto la sua opera risólvitrice, e cimentato alla prova delle alte esigenze dello spirito è della vita i valori delle Chiese e delle Religioni.
Frattanto, ciò che a me sembra doversi • riconoscere si è, che i due fattori costitutivi del « Centro», Germanesimo e Romanesimo, lungi dal sommarsi costantemente fra loro e intensificarsi, sono talora fatalmente destinati a trovarsi in quella situazione di contrasto e interferenza, per cui due raggi di luce di direzione contraria si elidono e danno tenebre.
Esempio storico fu quello del contrasto tra gl’interessi nazionali del «Centro» sul punto di cogliere il frutto di 15 anni di resistenza al Kulturkampf, nella questione della legge del settennato militare, e quelli della politica pontificia, che per mezzo del suo nunzio Mons. Galimberti chiedeva ad
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IL CATTOLICISMO TEDESCO E IL « CENTRO CATTOLICO «
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esso l’abbandono della preda a vantaggio degl’interessi generali della Chiesa.
Altro caso, anzi altra categoria, di contrasti, è quello dell’antagonismo permanente tra le due frazioni del « Centro »; la sinistra più nazionalista, e perciò incline ad attenuare il carattere cattolico delle sue attività, specie sociali, per unirsi con la Chiesa Protestante in un partito cristiano, eliminando l’influenza del clero, e la destra, più « ultramontana », che anche nelle questioni sociali vuole si tenga alto il vessillo cattolico, e a dispetto del famoso motto del vescovo di Magonza e uno dei fondatori del « Centro »: « La fame non è nè cattolica nè protestante », non ammette associazioni miste di operai cristiani.
Questa seconda corrente, intensificatasi dopo il 1909 nel cuore stesso della Prussia (« la tendenza di Berlino » personificata per molti anni dal l'arcj vescovo di Breslavia Card. Kopp) vuole esplicitamente applicare a tutte le manifestazioni della vita individuale e collettiva, sociale e politica dei cattolici, il carattere confessionale, con la conseguente subordinazione dei fedeli, e del • Centro » loro rappresentante politico, alle direttive del clero dei vescovi e del Papa in bitte le questioni anche .non religiose, e con • la mira espressa di rovesciare il sistema di uguaglianza dei culti, offensivo del primato del Cattolicesimo.
Il «Centro» ha sentito troppo bene il pericolo di questo atteggiamento trasferito nell’azione politica, e nella sua condotta ha inclinato piuttosto verso la « tendenza di Colonia», capitanata dal defunto Cardinal Fischer e incarnata nella «Volksverein für das Katholische Deutschland», e di cui è organo la Kölnische Volkszeitung ».
Ma la tendenza di Berlino, forte della sua organizzazione, favorita dalle simpatie cfie tra le masse riscuote sempre a preferenza uno spirito battaglielo che uno conciliativo e costruttivo, e sopratutto soste
nuta dal clero tedesco cattolico che, come abbiam visto, sente superlativamente l’ambizione del potere concentrata e intensificata dalla sua stessa condizione celiba-taria, è ben lungi dal rinunziare alla sua intenzione di prevalere: e periodicamente, la « Santa Sede » è costretta a intervenire, per impedire che le due tendenze si scindano in due partiti, e che il Cattolicismo tedesco venga a perdere una delle sue due capitali: Berlino e Roma.
L’esito della presente guerra non mancherà certamente d’influire sul cattolicismo tedesco e di accentuare grandemente una delle due tendenze: sintomi non mancano per fare anche pronosticare un movimento di liberalismo e di decentramento, se non anche un « Los von R^m ».
Ma vano sarebbe chiedere ad una bilancia che oscilla di descriverci la sua prossima posizione di equilibrio stabile. Interroghiamo invece ancora una volta la storia del « Centro » nel suo mezzo secolo, quasi, di esistenza, e dopo il suo significato e valore religioso, investighiamo brevemente il suo valore morale e politico.
VALORE MORALE E POLITICO DEL “ CENTRO CATTOLICO ”
Per rapporto al suo spirito, alla sua condotta, ai suoi metodi, il «Centro» è caratterizzato dalla sua mancanza di carattere, dal suo'opportunismo, dalla sua combattività, dal suo egoismo e dalla sua ambizione. Nato dal connubio di due delle più grandi ambizioni imperialistiche della storia, la cattolica e la prussiana, il «Centro» -come scrive il Tibal sopra citato —- possiede nel più alto grado la volontà del potere, l’ambizione e l’egoismo di partito. Cresciuto in mezzo a lotte vittoriose, esso ha contratto il gusto della guerra e del trionfo: e non disarma mai, ma tenendosi in uno stato di mobilitazione permanente, si compiace di far sentire la sua forza, di assaporare il suo potere, di gustare la voluttà
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di regnare per regnare. E come tutti gli ambiziosi e tutti i partiti, ma-in un grado superlativo, esso sagrifica volentieri i suoi principi al successo; anche i principi religiosi, nel senso che, a costo di compromettere agli occhi degli avversari gl’interessi religiosi, non raramente grida al pericolo della fede e della morale là dove esse non sono punto implicate, allo scopo di chiamare a raccolta tutte le forze cattoliche per il trionfo di un interesse o di un pun? tiglio del partito.
La sua abilità consiste appunto nell*identificare le finalità dei dirigenti del partito con le supreme finalità della religione, nel persuadere i suoi membri che la religione è in pericolo ogni qualvolta la situazione elettorale minaccia d’indebolirsi, e nel gridare continuamente alla persecuzione, sforzandosi di provocare una serie di microscopici Kulturkampf, da cui sa che riuscirà rafforzato.
Bisognoso di mantenere sempre desti ed uniti gli elementi più disparati di diverse e opposte tendenze, il « Centro » deve continuamente offrir loro qualche nuova meta da conquistare, additando qualche nuovo aspetto della questione religiosa per cui prendere le armi : ottenendo così, oltre all’unità interna, il rispetto e i riguardi del governo e degli altri partiti. Tra i motivi che forniscono argomenti inesauribili per ravvivare la lotta quando minaccia di esaurirsi, sono, ad es., quello della piena libertà dei gesuiti, dei missionari nelle colonie tedesche, dell’istruzione pubblica.
La stessa laconicità e imprecisione del suo programma ufficiale non è che un capolavoro di opportunismo politico: essa lascia al «Centro» la piena libertà di scegliere in ogni occasione la situazione che più gli aggrada, s‘fingendo successivamente, senza alcun ritegno, le alleanze più con-tradittorie, aiutato in ciò dalla sua posizione centrale e dalle diverse tendenze in Seno al partito stesso.
Dal 1880 al 1893 alleato — salvo breve interruzione — ai liberali di sinistra e ai socialisti, nel 1893 scopre nelle pieghe del suo programma una anima monarchica e si allea ai conservatori, che abbandona nel 1903 pei nazionali liberali, e nel 1906 per ritornare agli antichi amori socialistici - per breve durata a causa dello scioglimento del Reichstag provocato dalla nuova alleanza. Dal 1906 al 1909 è la volta della campagna anticoloniale che termina con le dimissioni di Bulow nel 1909: e il suo ritorno alla minoranza nel 1912 rese effimera fino allo scoppio della guerra la maggioranza socialista liberale.
Gli avversari del «Centro» sembrano giustificati quando gli rimproverano un'as-senza assoluta di principi : in realtà il principio onnipresente benché latente, riconosciuto dallo stesso deputato Martin Spahn, è sempre lo stesso: il trionfo della Chiesa da raggiungersi per mézzo della conquista del potere politico. Solo, esso dimentica troppo spesso, che partito, potere politico. Chiesa stessa, non sono nè possono essere fini assoluti ma solo mezzi a fini supremi di moralità e di vita superiore, e che sagrificare questi a quelli è un invertire la tàvola dei valori, e « per la vita perdere la ragione stessa di vivere» — «et propter vitam, vivendi perdere causarti ».
Il «Centro» può ben vantarsi di essere nella politica tedesca il « Trumpf », la carta e il peso decisivo che la decidere le sorti della partita e scendere il piattello della bilancia; può vantarsi di possedere, grazie al clero tedesco, la più perfetta ed efficace organizzazione elettorale; può vantarsi -se questo è un vanto — di possedere in grado eminente la plasticità e l’adattabilità che gli permettono di navigare senza sommergersi nei mari più tempestosi... Ma il vanto che un equo osservatore fornito dell’occhio dello spirito sarà meno disposto a riconoscergli, è quello di essere, oltreché un partito confessionale — quale è in
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IL CATTOLICISMO TEDESCO
realtà benché ricusi di professarsi tale — un partito sinceramente e profondamente religioso — qualesi proclama, ma in realtà non è.
Quattro anni or sono, il Cancelliere Bethmann Hollweg si levò nel Reichs-tag a protestare con una straordinaria energia conti o le « pretese del «Centro» ad un potere che il governo non può tollerare»: e il segretario di Stato Demburg inveì dalla tribuna contro questo « ascesso purulento nell’organismo dell’impero; questo potere occulto, e questo governo laterale (nebenregierung) ».
Infatti, l'azione del «Centro» appare alla maggioranza protestante per la quale lo Stato e la Chiesa vivono in una perfetta simbiosi sotto lo stesso capo, come un tentativo di nulla meno che costituire sotto l’egida del Cattolicismo, un corpo estraneo e un vero Stato dentro la compagine dell’impero. Questo sospetto è avvalorato da tutto lo spirito del movimento e della organizzazione, che tende a mantenere gelosamente separati e isolati i Cattolici dal resto della nazione; e autenticato, a così dire, dal fatto stesso, che mentre la suprema autorità cattolica ha reso più volte all’autorità suprema dell’impero l’omaggio: « L’Impero germanico è la regione di Europa in cui regnano l’ordine, la disciplina, il rispetto dell’autorità e della Chiesa, e in cui ogni cattolico può vivere liberamente secondo la sua fede», il «Centro» invec-che non avrebbe ragione di essere se non. fosse un partito di opposizione, ha sempre continuato nella sua tattica aggressiva, accentuando quel dualismo religioso che non può non riuscire funesto alla nazione intiera.
Conclusione di questa breve analisi, è che il «Centro» appare quale un partito molto « cattolico » ma poco religioso: molto «prussiano» —- nello spirito, nella disciplina, nei metodi — ma poco benemerito dell’unità e dell’armonia nazionale.
Ma ad essere esatti, il nostro più che un
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cenno biografico, è stato un necrologio del « Centro », quale esso era fino all’ agosto del 1914: ciò che l’indomani della pace ci prepara nella politica europea, nazionale ed ecclesiastico-religiosa in genere, ed in quella interna della Germania e. dei suoi partiti in specie, sarebbe temeraria pretesa indagare. Certo è che il «Centro» come la Soziai Deinocratie e come tante altre cose e partiti, in Germania e fuori, sono stati presi tra le spire del vortice livellatore della guerra, la quale, come ghermisce uomini di età, di condizioni sociali di professioni e mestieri disparati, e stampa su di essi la sua unica impronta facendone dei soldati, così a partiti, a tendenze, a chiese, ha chiesto di offrire tutte le loro organizzazioni e 'attività’ al solo servizio, quasi, che la patria loro chiede in questo momento.
E noi abbiamo testé visto Von Bulow ed Erzberger, il Cancelliere del 1909 e il suo più accanico avversario di allora, deputato del « Centro », dimentichi delle loro animosità, venire in Italia’ allo scoppio della guerra, e qui in Roma, nella « Villa delle Rose » l’uno, e negli appartamenti del Vaticano e di personaggi più elevati dei clero e del mondo cattolico l’altro, lavorare di perfetto accordo e con un’abilità degna di miglior causa, per ipnotizzare e cloroformizzare l’Italia ufficiale, e all'attimo neutralista intimare il: « fermati, chè sei bello! » Ma la Roma del Vaticano, non meno che quella del Quirinale, restarono insensibili alle seduzioni di Berlino. Nel maggio 1914 non solo la triplice alleanza si scioglieva, ma forse anche il cordone ombelicale fra Roma ed il «Centro» fu rotto, mentre « Erode e Pilato divenivano amici... ».
ERZBERGER: IL PROVINCIALE DEI DOMENICANI: UN ALTO PRELATO DELLA CURIA ROMANA
Ricordo il deputato Erzberger. Lo vedo ancora in un fréddo pomeriggio del novembre 1908 in un comizio di propa-
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ganda del «Centro», in un sobborgo di Berlino.
L’adunanza aveva luogo, come di solito, nei locali di una vasta « Bierhouse » (Birreria): ma anziché nelle sale, in un vasto cortile ornato di piante e seminato di piccoli tavoli, attorno a ciascuno dei quali tre o quattro persone siedevano sorseggiando birra e acclamando di quando in quando con sonori « Schön! Ganz recht » mentre i camerieri circolavano rifornendo assiduamente gli ‘sciop’ del biondo liquore.
Al tavolo della presidenza sedevano, al centro il Padre Provinciale dei Domenicani — che per l’occasione indossò, come un magistrato la sua toga, l’uniforme bianca e ner.a del suo ordine—e al suo lato destro il deputato Erzberger, tutti coi loro • sciop ’ di birra ben colmi, a cui appressa-van le labbra ogni qualvolta le approvazioni dell’assemblea accordavan loro qualche secondo d’intervallo.
Sorse il padre Provinciale, e pronunziò un elaborato discorso, il cui assunto era istituire un parallelismo fra «il primo Papa, Pietro», ed il Parroco di Riese che allora governava la Chiesa col nome di Pio X. « Petnis... Pius», era il suo ritornello oratorio favorito.
Naturalmente, da buon teologo, egli sottopose alla sua brava analisi scolastica i due testi di Malico e di Giovanni secondo i quali Gesù affida a Pietro una Chiesa ed agnelli che ancora non esistevano, probabilmente neppure nella sua idea, (è noto che la redazione dei Vangeli è posteriore di parecchi decenni alla morte di Gesù, e che non pochi avvenimenti sono in essi predetti postfactum): insistè sulle qualità personali di Pio, ridotto, come Pietro, « senza argento nè oro », ma che pure poteva come lui intimare alla moderna società: « In nome di Gesù, levati e cammina»: fece notare l'esempio di democrazia dato dalla Chiesa eleggendo a suo pastore supremo un figlio del popolo: e ribadì più volte l’idea della
necessità che «tutti gli agnelli del gregge di Gesù si stringano a Pio successore di Pietro e ne seguano le direzioni docilmente... ». In complesso, un discorso privo d’ispirazione, più scolastico-teologico che da comizio di propaganda in un periodo di lotte politiche: e dovetti ricordarmi che ci trovavamo presso Berlino, cioè nella regione in cui il cattolicismo tedesco è maggiormente prussiano, e in cui le magiche parole: «disciplina, ubbidienza, unione a Roma » non mancano mai di suscitare un eco profondo negli strati più profondi dell’anima prussiana, per spiegarmi il successo del padre predicatore — più che oratore — che fu vivamente e lungamente complimentato anche da signore, che sfilarono innanzi al banco della presidenza per dirgli tutta la loro riconoscenza per le sue opportune parole.
Ed ecco dopo di lui levarsi il deputato Erzberger: dopo il molto reverendo e imponente e solenne padre predicatore, un tipetto di tribuno battagliero, dalla faccia intelligente e lo sguardo vivace e critico, che con tono concitato ma senza calore intimo, fece una brusca mutazione di registro.
«Voi avete inteso — disse in sostanza e non forse senza una punta d’ironia -dimostrata eloquentemente la necessità per i Cattolici di ubbidire al Papa, come a Pietro: ma Pio X, a differenza di Pietro, ha bisogno di «argento e di oro» per far giungere alla società il suo: « Sorgi e cammina», ed anche per aiutarla a levarsi e a camminare: ora specialmente che egli è privo del suo dominio temporale, e ridotto a vivere delle oblazioni dei fedeli. Il nostro amore per il Papa, deve dunque mostrarsi efficacemente col contribuire generosamente all’« Obolo di San Pietro »... » E dopo queste quattro battute di suono metallico, scivolò nel « pro domo sua », facendo l'apologià dell’atteggiamento ostile alla politica coloniale, assunto dal ««Centro» —
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IL CATTOLICISMO TEDESCO E IL • CENTRO CATTOLICO • 25
era la campagna del momento —, della quale ostilità egli era stato uno dei principali fautori, con la pubblicazione (egli era, se ben ricordo, archivista del Reichstag) di documenti relati vi,.compromettenti per il Governo.
Fu null’altro che un’impressione personale, forse, la mia, ma questa impressione fu, che il «Centro» che per sua bocca aveva parlato, fosse più interessato assai ad avere Roma dalla sua che di essere esso con Roma: e che gettando Tossa alle fameliche canne vaticanesche, come pegno di devozione e perchè si disinteressasse dei suoi affari e delle sue brighe interne, esso mirasse assai più a Pio che a Pietro, all’imperatore romano che al « Vicario di Gesù »...
E fu, egualmente, null’altro che una coincidenza, — ma che volete? l’esperienza si estrae dalla realtà concreta, — quella che il giorno seguente mi diede l’impressione di trovarmi innanzi ad un autentico rappresentante dello spirito di quella stessa Curia Romana a cui il « Centro » gettava l’offa d’oro.. Si trattava di un prelato romano, già in gioventù mio compagno di studi, che allora occupava un posto eminente in una «Congregazione» (dicastero) pontificia, e che ora si trova alle soglie della porpora cardinalizia.
Ment re percorrevamo i viali del « Tiergarten» (la gfan villa contenente il giardino zoologico di Berlino) io gli parlavo delle mie impressioni di ordine psicologico e morale nei miei mesi di vita Berlinese. Ricordo che, dopo avergli descritto le mie esperienze e riferito le mie osservazioni sullo spirito tedesco sì avido di ubbidienza e di servitù, sì feticista dell’autorità, sì diviso a caselle e a categorie senza comunicazioni fra loro, ero passato a dargli un giudizio sul clero cattolico tedesco, e a contrapporre al suo spirito burocratico, dominatore, onesto e operoso ma mai eroico, quello dei migliori rappresentanti del clero latino; ricor
d ivo il misticismo e l’ascetismo che ha presieduto alla fondazione dei suoi ordini religiosi — non pensioni di rispettabili gentiluomini, ma piuttosto asilo di esseri profughi dalla sfera dei valori umani —: lo zelo dei nostri « buoni « parroci (quando sono tali), che dimenticano interamente se stessi, non nel partito e neppure nella Chiesa, ma direttamente, nel bene dei loro fedeli... Egli m’ascoltava con un’attenzione di pura cortesia, come se si trattasse di un argomento estraneo affatto al mondo dei suoi interessi, e cogliendo un intervallo di pausa: «Già!... È vero!...» — mi disse, sforzandosi di farmi sentire con l’accento e il tono sospensivo della sua adesione, che non era per mancanza di buona volontà o scortesia che egli non era in grado di potersi interessare a un argomento tanto lontano dalla sua mentalità di prelato di Curia quanto possono esserlo osservazioni di psicologia religiosa — e, senza transizioni, continuò: « Ma sai, — e scusa se passo ad altro argomento — che oggi ho mangiato dei « Wurstchen » (i salamini tedeschi) veramente squisiti, e ho bevuto una birra da non farmi rimpiangere il mio vino di Frascati? » E la conversazione dovè continuare su questo tono, poco « latino » ma molto « romano ».
CONCLUSIONE GENERALE?
Nessuna : se non forse questa : che il clero tedesco, anche il cattolico — e il Cattolicismo tedesco in generale — deve alla « Riforma » di essere nella sua media, e nonostante^ tutte le sue deficienze, se non forse più religioso in senso specifico, almeno più serio, attivo ed onesto del latino; che, se il Cattolicismo tedesco, nello scopo d’inserire la religione in tutti gli atti della vita comune, di uomo e di cittadino (la grande concezione di Lutero), ha finito per perdere buona parte del senso mistico e trascendentale, caratteristico del medio-evo cattolico, viceversa il Cattoli-
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cismo latino è ancora troppo lontano dalla compenetrazione dell’ideale nel reale, e dalla fusione nella medesima persona dei due sensi, umano e sovrumano: e se questo può ancora vantarsi di preservare — a gioia di artisti, di psico-patologi e di cacciatori di emozioni, nei conventi e nei monasteri e fuori di essi, — i «giullari di Dio », gli esaltati visionari, le ardenti anime mistiche ed ascetiche, esseri incomplèti, ma pur fatti salire sugli altari e additati all’imitazione, però la sua ossatura sociale, la sua organizzazione, il suo governo, e le
sue masse, sono costituiti da esseri assai comuni e sprovvisti di qualunque senso superiore, non solo religioso ma anche umano e civile.
La definizione «complexio'oppositorum», «sintesi di contrari» data del Cristianesimo daU'Harnack, si adatta ¡orse al Cat-tolicismo latino: il Cattolicismo tedesco appare piuttosto nella sua storia specie dell'ultimo secolo, quale un duplicato cattolico ed una intensificazione del GermaniSmo prussiano.
G. Pioli.
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IL SENTIMENTO RELIGIOSO
NELL’OPERA DI ALFREDO ORIANI
PARTE I.
« Una rivoluzione è cominciata scomponendo tutti gli ordini e rigettando tutte le idee nel crogiuolo: coloro, che prima non chiedevano il perchè di sé medesimi, non credono più alle vecchie spiegazioni e cercano in una verità più umana un ideale più divino. Non vi possono .essere più assenti dalla storia dopo la proclamazione della sovranità in ognuno, gli istituti antichi sono troppo piccoli per contenere la nuova gente; la Chiesa, che vorrà davvero essere cattolica, dovrà aprire più largamente le braccia perchè le anime hanno già aperte le ali ».
Alfredo Oriani, La rivolta ideali (cap. • L’appello •), pag. 387.
el 1876 Alfredo Oriani esordiva con un libro, il cui titolo | ricordava un volume di Carlo Gozzi: Memorie inutili.
L’autore faentino era alle sue prime armi. Il carattere altiero e con una forte tendenza al pessimismo, che mai si can-I celiò coll’andar degli anni, un’intuizione tutta speciale della vita, un realismo, fatto di indipendenza e quasi di rancore contro uomini e cose; un lirismo nato nello squallore e nel-1 l’abbandono amaro di sè; il desiderio di distinguersi fra la
snervata letteratura di quei tempi lanciando fr.a il pubblico una specie di sfida reboante e superba: dicendosi scettico, mentre un profondo bisogno di fede e d’amore lo assillava, vantandosi pagano, quando in tutti i suoi aneliti verso la società era inconsciamente cristiano, lo stile gonfio dai ricordi classici c pervaso da reminiscenze letterarie francesi e guerrazziane, fecero che il suo primo libro ribelle urtò le coscienze timorate, eccitò la rivolta fra il mondo letterario
e diede dello scrittore ventunenne un concetto poco benigno e simpatico.
Eppure in quelle: Memorie inutili, in cui s’avvicendano le più strane teorie, e fra una realtà dolorosa prende forma un romantico dramma d'amore; dove le più alte virtù si mescono al vizio, l’orgoglio primeggia, la passione regna, vi sono pagine commoventi, lampi geniali, sfoghi intimi che mostrano a nudo un’anima tor-
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mentala, la quale chiede alla vita d’esser compresa ed amata, alla fede più luce, alla società la redenzione di sè stessa. Tutto l’Oriani del futuro, l’uomo che studierà le creature nei loro errori e nelle loro disfatte, flagellatore del vizio, maestro d’ogni più nobile aspirazione, storico originalissimo e profondo, critico insigne è in embrione in quel suo primo manifestarsi al pubblico. Olocausto, uno dei migliori romanzi dell’Oriani, è già accennato in questo lavoro, con la storia a forti tinte della povera Emilia. Lo scetticismo amaro e terribile della protagonista di « No » preme nelle Memorie, e s’esala in frasi ingenue e gonfie di retorica. E là dove posa a materialista ed ateo, ha pure dei giudizi sul Cristo e sulla Vergine, che dimostrano l'anelito verso il rinnovamento religioso, ed il bisogno di luce, fra le ombre che ci avvolgono e ci nascondono il vero.
Il tempo s’incaricherà di smussare l’alterezza dei vent’anni, e l’autore che nella lettera di presentazione del suo volume giovanile scrisse:
« Pretendere ad un’opera di arte bella ed originale è diritto degli imbecilli o dei grandi: e quindi non mio. Mi annoiavo, e scrissi : ora che ho finito, gitto il •volume dalla finestra, e che il pubblico lo raccolga se vuole, legga, o anche, risparmiandosene la fatica, critichi, condanni, calunnii ciò mi è indifferente » (i), avanzandosi verso il vero vorrà esser maestro, e sognerà, nei suoi ultimi anni, quella rivolta ideale,- che dovrà rinnovare l’umanità:
« Nell’ideale soltanto, egli afferma, sia pure una larva dentro un miraggio, è la bellezza della vita: se qualche cosa può somigliare alla verità, che non sappiamo, è la virtù che dà invece di ricevere e muta i sogni del dolore in opere di pensiero » (2).
• * ♦
Il sentimento religioso è vivo in tutte le opere dell’Oriani, e, nascosto o palese, si comprende ch’egli pone in quest’anelito al divino, in una Chiesa rinnovata, tutte le speranze migliori (3); sicuro che la religione è l’unica aspirazione da cui l’uomo possa aver conforto, benefizio spirituale; l’illusione, forse, che culla ed addormenta in .una suprema speranza tutti i suoi dolori.
(1) Memorie inutili di Ottone di Banzole (A. Oriani), due voi. editi da Sonzogno, Milano, 1876. (I primi libri dell’O. furono firmati collo pseudonimo Ottone di Banzole).
(21 La rivolta ideale, Oriani, edit. Ricciardi, Napoli, 1908, pag. 387.
(3) Renato Serra nella Rassegna Contemporanca. (Roma, Fase. XV, Anno VI, Serie II. io agosto 1913). scrisse dell’Oriani in un articolo intitolato Juvenilia, pag. 379.
« C’è qualche cosa nell’animo dello scrittore che lo abbassa al livello dei suoi lettori più volgari, il desiderio sommario e precipitoso del sùccesso, in quel che la cosa ha di più materiale; plauso, rumore, urto, curiosità, anche scandalo.
« Le sue audacie e le sue singolarità non sono soltanto la dimostrazione tumultuaria e immediata di un temperamento ribelle, difficile, vario e non ancora ridotto a unità. Non è un’anima di artista, che si cerchi attraverso gli affanni o magari le aberrazioni di uno svolgimento solitario, temerario, incurante di ogni regola e di ogni convenienza: ondeggiante fra un eccesso e l’altro, cozzando contro tutti, ributtata da tutti, nella sua febbre di indipendenza e di sincerità. Il travaglio di Oriani è violento, febbrile, ma non disinteressato; è dominata dal pensiero e dal l’aspettazione del pub-
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IL SENTIMENTO RELIGIOSO NELL'OPERA DI ALFREDO ORIANI
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Nei suoi romanzi, fra lo studio psicologico, quasi sempre amaro della società, nella trama dei fatti, fra lo svolgersi degli eventi, la religione appare nelle sue varie forme: rito, culto, consolazione delle anime semplici, elevazione degli spiriti superiori, provati dalla sventura, combattuti, disfatti nella lotta senza tregua della vita. Si direbbe che il suo stésso pessimismo lo porta al Cristianesimo:
« Il cristianesimo non scomparirà forse mai dalla storia — scrive l’Oriani in Matrimonio e divorzio — perchè lo spirito umano non potrà mai trionfare interamente del proprio pessimismo, e finché tutti non abbiano conquistato l’altissima coscienza dell’ideale, la concezione antropomorfica di Dio creatore e il mito della redenzione dal dolore non saranno abbandonati. Infatti da oltre un secolo il cristianesimo prosegue la battaglia contro lo spirito moderno. Invano il pensiero, attaccandolo da ogni lato, gli ha perfino rifatto una storia e una metafisica, nella quale meglio rifulge la sua passata grandezza; il cristianesimo, chiuso nella formidabile rocca del cattolicismo, sorride sprezzantemente a tutti gli sforzi dell'attività moderna, e attende le anime al varco della tomba per schiudere loro le porte del vero mondo » (1).
' L’Oriani di natura triste, solitario, provato dal dolore e dall’abbandono, nauseato dalla volgarità e dalla bassezza del mondo, trasfuse nei suoi scritti la malinconia del suo pensiero. Ed anche nei suoi libri migliori, quando il pessimismo un po’ forzato dei primi anni s’era attenuato nella conoscenza piò piena ed equa dell’umanità, sia .per il silenzio in cui vedeva sepolta la sua opera così «legna d’essere conosciuta, sia per carattere, per tendenze, rimase assai mesto e dalla lettura dei suoi volumi ne viene un giudizio amaro sugli uomini.
Per questa flagellazione continua dei nostri costumi, che urta troppe abitudini e punge al vivo una gran parte della società, e per i suoi primi libri in cui. secondo Benedetto Croce: « Vi ha l’ossessione per l’osceno e per l’orrido;... un capovolgimento della scala dei valori, onde il patologico vi prende il posto e l’importanza del fisiologico » (2),.i libri dell’Oriani furono quasi sconosciuti, a Sono lo scrittore meno letto d’Italia », disse di sé con triste e verace ironia. Egli, secondo la giusta definizione di un suo giovine ammiratore, Giulio de Frenzi, sovrasta il tempo suo. La sua prepotente originalità sembra staccata dall’età e dall’ambiente in cui è nato. « Cresciuto in quella Romagna, ove si conservava ancora, nel culto delle, buone lettere, la dignitosa prudenza umanistica dei Costa e degli Strocchi.
blico. Egli scrive per il pubblico; per l’effetto. Con una avidità prepotente e insana di riuscire e insieme con una intelligenza così chiara e amara della propria infelicità che ne dura nell’animo uh perenne e tragico dissidio, principio poi così dei progressi come delie cadute. Ma adesso si tratta dei romanzi. Diciamo subito che, superiori per l’ingegno e per la forza a molto di quel che si stampava allora in Italia, riescono, da questo animo appunto, enormemente diminuiti * (pag. 382-83). Serra tratta essenzialmente dei primi romanzi dell’Oriani e la sua critica non manca di acume.
(1) Matrimonio e divorzio, Oriani (Ottone di Banzole) pag. 267-68, edit. Barbera, Firenze, 1902 (la ia ediz. fu edita nel 1886).
(2) Benedetto Croce, Scritti di storia letteraria e politica. La letteratura della nuova Italia. Saggi critici. Voi. Ili, edit. Laterza, Bari, X915, cap. Alfredo Oriani. pag. 227.
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affacciatosi alle prime battaglie dell’arte in un momento nel quale positivismo e classicismo trionfano, rielabora in una sintesi personale gli elementi anche più torbidi del romanticismo poetico e filosofico di tutto il secolo » (i).
11 Carducci è da lui ammirato, ma non seguito; D’Annunzio eccita la sua ironia; tutta la pletora di scrittori e poeti, che cercano nello stile elaborato, nei vocaboli originali e negli intrecci, aristocraticamente e raffinatamente scandalosi il maggior merito d’un lavoro, non sono da lui curati. Invece Guerrazzi e Byron ebbero le sue prime simpatie e tutti gli autori che eccelsero in Francia nell'altro secolo furono letti dall’Oriani con amore, con passione grandissimi. Victor Hugo e Balzac gli dànno l'ampiezza della concezione; Lamennais lo stile profetico; Michelet il fraseggiare conciso ed espressivo, sempre un po’ retorico e quel desiderio di sollevarsi fuor del tempo per giudicare i contrasti fra i popoli e l’idea, per interrogare la storia mondiale e la vita nelle sue più grandi manifestazioni. Ma la sua anima assetata di verità volle particolarmente indagare la filosofia nei suoi massimi autori. Schopenhauer ed Hegel furono i suoi maestri, i primi mistici cristiani confortarono gli ultimi suoi anni solitari e Mazzini gli additò le fonti da cui attinse per dare al suo rinnovamento tanto alito di poesia, al suo apostolato così grande attrazione. «Sulle due scuole della rassegnazione e della rivolta, sui nuovi guelfi e ghibellini, su coloro che non avrebbero voluto sacrificare il cattoli-cismo alla rivoluzione, e quelli che dichiaravano la libertà inconciliabile colla religione, Giuseppe Mazzini, alto nello sforzo di riassumere le due opposte tendenze, predicava l’insurrezione in nome del diritto e il martirio in nome di una religione che dal cristianesimo accettava quasi tutta la parte essenziale » (2). Così l’Oriani definendo l’opera fondamentale del grande genovese, dimostra qual’è il lato di quel pensiero e di quella straordinaria attività che più lo entusiasmava, e nelle affinità ideali, ih quella tensione ad un rinnovamento religioso, diverso nel concetto dal suo, ma uguale nel grande desiderio di progresso e di unione dell’umanità, v’è il motivo principale dell’amore e di quella calda ammirazione per Mazzini, che mai diminuirono cogli anni.
Nelle Memorie inutili, in un affastellamento singolare di meditazioni, fra digressioni filosofiche estremamente romantiche e scettiche, così scrive:
« La religione del Nazareno fece della speranza una virtù, del dolore il sentiero della felicità, dell'uomo il re della terra e l’amico del Creatore; gli educò la fantasia turbolenta a sogni e ad affetti verecondi, la ragione ad una confidente umiltà popolò il cielo di pallide ed amorose parvenze, e quando vide scorato, oppresso, agonizzante sotto il peso della vita questo pellegrino di un giorno, chinandosegli all’orecchio gli disse:, coraggio, patire è meritare!
«E la filosofia quali consolazioni ci porge?
(x) Giulio de Frenzi, Un eroe. Alfredo Orioni, Biblioteca della «Rivista di {Rema », pag. 8, anno 1910.
(2) Ori ani. La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale (4J6-1887) edit. L. Roux, Torino, 1892, libro quarto, cap. terzo: « Il pensiero politico nel moto letterario », pag. 344.
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« ...Godi, soffri, ridi," piangi — non ha che due cose ad offrirti: nella vita il caso, nella morte il nulla » (i).
« ...La religione è un sentiero che si perde nell’infinito, e cui l’uomo percorre cercandone con lo sguardo la meta senza mai trovarla; occorre quindi che lo cangi ad intervalli per non perdere la speranza di poterla toccare in un altro » (2).
In questi concetti ed in altri espressi con eguali enfasi, particolarmente nei dialoghi con Don Felice,' si comprende come il cattolicismo sia intuito daH’Oriani essenzialmente da artista. I suoi simboli lo esaltano, le sue forme poetiche lo attirano fra la calma del tempio, ed il credere in molte cose che i suoi padri hanno tenute sacre, gli riesce spontaneo in modo da neppur accorgersi del dissidio fra lo scetticismo tanto vantato e la fede che talvolta esalta in alcune sue pagine ed in varie digressioni della prima manièra. Egli stima il Cristo troppo grande per essere un uomo da chiudere in una pagina di storia; troppo dolce per un gigante; lo vede qual un incognito dalla poesia ravvolto in un velo di luce, l'unico che possa innalzare l’orifiamma su cui sta scritto: pace ed immortalità. Ed ansioso di scrutare il divino in questo genio «che espiava sulla croce l’errore di avere troppo amato questa misera e vile umanità », continua in tutta la sua vita a studiare le religioni da poeta e da artista, mai svincolandosi interamente dalla materialità dei simboli, per assorgere alla fonte pura del vero.
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Nello squilibrio dei suoi primi lavori, fra urli, disordine, tumulto, verismo e liricità, acume psicologico e declamazione romantica, pessimismo ironico ed ebbrezza retorica, in quella sfida che getta senza ritegno alla società, sceglie Giuda di Simone di Carioth per modello, stimandolo l’apostolo dei deboli e degli oppressi, fattosi per odio e vendetta traditore di Cristo. Compone quindi una lettera-programma,, in cui asserisce di voler ripigliare il pensiero e l’opera dell’apostolo ingannatore.
« Come ai tuoi tempi (gli dice), ancora i deboli sono oppressi, i forti oppressori; a questi la scienza, il lusso, la nobiltà; a quelli la fame, la fatica, la brutalità: leoni e cani, padroni e servi, uomini ed umani... Giuda, il grido che non volesti allora gittate, dovrò io scagliarlo sul mondo, e scuoterlo dai cardini? Tenteremo ancora una volta di abbattere le prigioni dei condannati, giovandoci della leva dell’odio se tutte le altre s’infransero negli sforzi? ». E finisce a questo modo: « Quando l’incendio sarà così vasto, che il vento sia incapace di accrescerlo e tutta l’acqua del cielo di spegnerlo, tu vi getterai il labaro sublime, io il troncone del coltello o della fiaccola; e ci ritrarremo sulla guglia dell’ultimo tempio in fiamma... Da quella guglia, ultimo poeta, innalzerò l’ultimo canto dei morti; ultimo, e il più grande degli uomini, tu avventerai la tua ultima e trionfante maledizione... »
Ancora in queste imprecazioni alla vita, fra tanta ipersensibilità etica, cerca per suo compagno di lotta uno degli apostoli; dai Vangeli toglie l’essere al quale
(1) Memorie inutili, op. cit., voi. I, pag. 196-197.
¡2) Memorie inutili, op. cit. voi. I, pag. 279.
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vanno le maledizioni dell'umanità da secoli, e per una strana ribellione lo esalta a modello di rinnovamento sociale, a Nella patria dell'euritmia — come ben disse Giulio de Frenzi — egli si avventò verso il suo sogno d’arte con la disordinata veemenza d’un barbaro » (i). Era perciò naturale che pochissimi lo seguissero in questi suoi pensieri di rivolta, e si guardassero i suoi libri con diffidenza.
Un anno dopo la pubblicazione delle Memorie inutili l’Oriani, forse per amore di stravaganza, diede alla stampa un altro romanzo che eccitò le più severe critiche: Al di là (2). In esso fa la storia di varie donne amanti di donne. E quasi per scagionarsi d’avere scelto un tale tema, dice: « Non ho sublimato a passione ciò che altri chiama vizio, per renderlo più attraente; ma ho supposto, ingenuamente, che fosse una passione, e l’ho dipinta ».
. NO(3)
Nel 1879, sempre dall’editore Galli, fa pubblicare Gramigne, di poca importanza, e nel 1881 No, che segna il culmine della prima maniera deH'Oriani, ed in cui si scorge già un profondo senso della vita. A questo volume che sollevò molto scalpore, e fece sì che attorno all’autore si facesse poi un biasimevole silenzio, e lo si stimasse erroneamente un violento e bestiale verista, che riproduce materialmente la vita, senza alito di poesia, si potrebbe porre per epigrafe il dettò di Péguy: « Tutto sarebbe valso meglio, e infinitamente, che questo mondo moderno, storico, scientifico, ’sociologico, incurabilmente borghese ». .
No è la storia d’una cortigiana, d’un’Imperia dell’altro secolo, che voleva far rivivere fra la mediocrità dei costumi presenti Fetóre e le Aspasie greche. Ella era: « Una pianta robusta che aveva duopo di vento e di sole » (pag. 63). — « Il suo cuore inaridito lasciava libera la testa e la sua testa era un vortice che ingoiava tutto il mondo » (pag. 70). — «Il mondo la opprimeva ed ella studiava il modo per combatterlo. Scrutava le sue leggi, i suoi pregiudizi, i suoi dogmi; rifaceva la sua storia e ne ricercava i confini. Ad ogni sosta un miraggio che svaniva, una grandezza che sfumava in una parvenza, una virtù che si risolveva in una ipocrisia: la scienza era impotente, la religione bugiarda, l’umanità affannata a sostentarsi la vita materiale e morale, l’una aiutando di fantasie, l’altra di delitti, perchè i forti divorano i deboli. La storia era una leggenda di dolori, la vita una marcia dementò. Aveva cercato un momento la formula della felicità e non l’aveva trovata; allora si ribellò nuovamente... lo scetticismo le parve il trionfo della ragione, l’aristocrazia * dei forti e però vi si tuffò ingordamente » (pag. 71). Questa giovane cortigiana per calcolo e per vendetta, più cerebrale che sensuale, intelligentissima e coltissima, urta tutti i nostri concetti della donna, anche caduta, e ci rivolta coi suoi freddi calcoli. Ma l’Oriani, pur essendo sempre enfatico, come in Memorie inutili profondendo vizio e tenerezza a piene mani, facendo sfoggio di scetticismo, bollando con ironia
(1) Giulio de Frenzi, Un eroe, op. cit., pag. 16.
(2) Oriani, Al di là, edit. Galli, Milano, 1877.
(3) No, edit. Galli, Milano, 1881.
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mordace la società nella sua larvata corruzione, abbattendo i falsi idoli, mostrandosi ancora caotico nella concezione ha pure delle pagine ammirabili sulla religione, e qui, meglio che nei libri anteriori, risalta il suo amor d'artista per le forme, cattoliche, così grandiose e commoventi, così poetiche nei loro simboli. La scena dell’agonia nella morte della madre di Ida, la protagonista di No, è fra le più belle del libro, e la funzione deWOlio Santo emozionante, per i contrasti che suscita nella mente della giovanotta (r).,
LA DISFATTA
Dopo aver pubblicati vari altri romanzi e volumi di. critica, in cui l’anima dello scrittore si palesava affinata e la piena dei suoi sentimenti, come le acque vorticose di un fiume, andava ordinandosi e calmandosi, diede alla luce: Gelosia (2), profondo romanzo psicologico, crudo e verista. In questo libro la religione non ha posto, ma occupa invece diverse pagine del La disfatta, la cui trama si svolge in un ambiente raffinato e signorile, con tipi d’una delicatezza spirituale singolarissima (3). Le delusioni che via via avevano reso sempre più malinconico il carattere dell’Oriani, la società come gli si presentava nei suoi brevi contatti con essa, l’avevano fatto sicuro nel giudizio che: più le anime sono elette, e meno trovano nella vita quei beni verso i quali tendono. L’inganno, l’ambizione, il lucro, le malattie insidiano le persone migliori ed in questa lotta senza quartiere non avranno finalmente riposo che rifugiandosi nello studio delle eterne verità, nel comando degli istinti e nella fede. I più importanti problemi, fra cui quello dell’ereditarietà che urgevano in quegli anni, sono svolti ne La disfatta, romanzo equilibrato, perfetto nella prima parte, meno omogeneo nella seconda in cubi caratteri non conservano quella serenità così cara e davvero ammirevole.
La Vergine è la Dea che infiamma, consola le donne de La disfatta. Si comprende che l’Oriani vede in Lei la più alta espressione di purezza dell'umanità, e come tale l’accetta, senza indagini storiche ed esegetiche, trovando in quella poesia della madre di Gesù, in quell’arte che per Lei ebbe capolavori il motivo più soave ed umano del cattolicismo.
, . <xì ^oyANNi Papini, ha nel suo volume: Testimonianze un buon capitolo su Alfredo Onani: «Ma nei romanzi stessi l’eloquenza, ad un tratto, gli prendeva la mano: un problema gli dettava una pagina di riflessióni; un nome gli dava' occasione a un saggio di critica; una novella gli diventava una discussione lettraria o filosofica come a volte, un ritratto storico cominciava come una novella. Ma dappertutto batteva animando la vita. Perchè l’eloquènza d’Oriani non era l’eloquenza vuota del letterato d* carriera c (I maniera nè quella sofistica dell’avvocato. Era un’eloquenza riscaldata dalla passione, nutrita di fatti, sostenuta dall'idee, ricca d’intuizione e di scoperte > (Pag. 139-40). Testimonianze di G.'Papini, Milano, Studio Editoriale Lombardo 1018 Alfredo Oriani, a pag. 135. -, ’ y '
(2) Gelosia, edit. Omodeì Zorini, Milano, 1894 (ristamp. dal Laterza. 1913).
. .(3) La disfatta, edit. Treves. Milano, 1896 (si ristampò dal Laterza il 1013) ani si cita quest’edizione. ■ v 0/
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« La verginità cristiana — fa dire l’autore al professor di filosofia De Nittis — non è più la preparazione all’amore, l’attesa della maternità, come nel mondo antico: l'uomo ne è escluso. Egli non saprebbe essere vergine, perchè nella sua lotta contro la natura deve subirne tutti i contrasti e penetrarne tutte le contraddizioni. L’uomo potè, con uno sforzo supremo di ascetismo, salire sino alla castità isolandosi dalla vita, ma questo suo trionfo parziale non ebbe mai il valore di un principio religioso. La verginità è femminile: tutte le religioni lo hanno sentito, quasi tutte, almeno le più eccelse, osarono la fusione fra i due termini, verginità e maternità. Ma nel cristianesimo questo simbolo divenne anche più alto, e Maria vergine m%dre ne perfezionò la stessa bellezza plastica con una nuova perfezione morale: quindi ella fu la più vera bellezza umana nell’immunità, dalle deformazioni del piacere, e l’eroismo più puro accettando tutti i dolori dell’umanità nel proprio figlio, senza aver peccato nel partorirlo. Nessuna poesia supererà mai quella della Madonna cristiana, giacché coloro che come voi, dottore, non si prostreranno alla sua immagine, dovranno adorarla nello spirito » (pag. 20).
Quest’adorazione, che non si potrebbe paragonare a quella di Dante o di Michelangelo, spiriti austeri, imbevuti di teologia cattolica, risente ancora in sè qualche cosa di pagano. È la donna vergine materialmente quella che studia con amore d’artista l’Òriani, e quest’antitesi di vergine e madre, questo culto alla purità Io esalta ed in esso si compiace in tutte le sue opere future. La leggenda che il Cristianesimo intesse intorno a Maria è giudicata dall’autore su per giù come il Fracca-roli vede l’evoluzione nella leggenda, nel suo libro: L’irrazionale nella letteratura. Evolvendosi la specie è naturale che anche l’ideale si muti, e la leggenda si trasformi per adattarsi agli ideali nuovi; quindi i dati di prima ricevono un’altra spiegazione e un’altra luce, e nuove circostanze e nuovi fatti si aggiungono e si sovrappongono. Si capisce pertanto che non sempre la materia sia così docile a trasformarsi come l’idea, e che l’adattamento nuovo non corrisponda sempre in ogni sua parte alle forme antiche. Di qui la trasformazione quasi totale che fra il popolo hanno subito certi fatti del Vangelo, e che urta i critici moderni; di qui le sovrapposizioni che i secoli hanno elaborato attorno alla figura di Maria, madre del Cristo. Ma siccome, per quanto si voglia discutere, anche la storia finisce, in certi casi, per accettare l’inverosimile, anche lo strano, anche l’incidentale, così la leggenda quando prende forma di vero, ed è accertata come verità, per tale è creduta.
Però l’uomo della leggenda è ben diverso dall’uomo della storia, e l’Òriani non lo nega. Esso si spoglia di ogni accidentalità che sia estranea al carattere che in lui si volle incarnare; se ne aveva alcuna nelle sue origini storiche, nella leggenda se ne libera; se glie ne mancava tale altra più propria a rappresentar meglio il fatto o l’idea, se l'aggiunge. In questa maniera la leggenda è poesia, quella poesia che è più alta e più filosofica della storia, perchè essa sola sostituisce veramente l’universale al particolare e prepara una materia più propria alla speculazione filosofica. Nè sempre la leggenda è artistica, per quanto poetica, chè essendo una creazione collettiva o almeno riconosciuta e approvata collettivamente, è un fenomeno spontaneo e quindi legittimo, mentre da ciò che da molti è definito per arte e stimato tale, non è facile escludere sempre le gonfiature e sconciature retoriche. La-leggenda
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è veramente una parte la più gentile, e dirò addirittura necessaria, della vita po polare; ed innalzando un uomo od una donna al disopra degli altri dando loro, come a certi santi, virtù speciali, conforti particolarissimi, se ne fanno i tipi più perfetti dell'umanità, i più vicini a Dio, gli esempi più puri, i mezzi, i tramiti per cui da questa travagliata esistenza terrena si può con minor fatica accedere alla felicità, od almeno a quella che in un certo momento sembra avvicinarsele e darne la dolce illusione.
Gli studi filosofici fatti dall’Oriani lo portano a discutere l’Ente supremo, al quale va sempre la sua mente, e da De Nittis fa comporre la storia di Dio, attraverso i tempi.
« La filosofia greca aveva già risolto Dio in un puro spirito, quando nella terra di Mosè, quasi a protesta contro questa vittoria della persona umana sull’impersonalità divina, un’altra rivelazione, la più importante fra tutte, umanizzava nuovamente Dio, facendolo morire volontario sulla croce. Dal Dio che violentava Giobbe il giusto, al nuovo, che perdonava ai propri assassini, quale distanza! Era Dio disceso sino all’uomo, o l'uomo salito sino a Dio? Comunque fosse, l’uomo aveva vinto, se Dio era stato costretto a ottenere da lui la fede col sacrificio di sè medesimo » (pagina 148).
« ...Il pensiero umano, sperduto col proprio pianeta nell’infinito, sente che tutto vi naviga ad una meta misteriosa, e il medesimo soffio, che incendia gli astri come fari, dirige le migrazioni delle comete, attraverso i grandi oceani di stélle, per la serenità delle notti. Perchè dunque l’infinito può essere pensato? È questa la prima delle rivelazioni che ci attendono' o Dio volle anticiparne qualche altra, come affermarono tutte le religioni? » (pag. 319-310).
De Nittis chiude la sua vita con questo studio di Dio, dimentica i suoi affanni seguendo la traccia del Creatore nell’universo, e dall'amore con cui è tratteggiato questo mistico tipo di filosofo, si capisce che l’Oriani ha trasfuso in lui le sue idee. Anche lo scrittore romagnolo ha negato, dubitato e cercato il divino nell'umanità; nella continua indagine .l'intelletto s’è affinato, l’anima s’è sentita accesa da un nuovo amore per i suoi simili. Ad ogni tappa del pensiero, ad ogni progresso il Dio ignoto gli si svelava fra nuovi nimbi di luce ed anch’egli, come quasi tutti i pensatori, rientrava, avanzandosi negli anni, nella.Chiesa per piegare la fronte sui gradini dell’altare, dal quale il suo spirito era partito temerariamente alla ricerca della verità.
VORTICE (1)
Vortice è forse il più potente romanzo dell’Oriani. La singolarità del tema, la difficoltà nell’esser trattato, la sobrietà con cui è condotto, la commozione, l’ansia che genera in chi lo legge, i pensieri sempre profondi di cui è formato; lo stile robusto, espressivo, ricco; 10 fanno degno d'esser stimato uno dei migliori della letteratura italiana. Eppure quando si stampò pochissimi lo lessero, tanto l’Oriani ri(1) Vortice, Casa edit. Battistelli, Milano, 1899 (Ristampato da Laterza nel 1913).
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belle e verista aveva urtato il gusto del pubblico; ed ancor adesso nei salotti dove . si ammirano troppi romanzi stranieri Vortice non è conosciuto.
L'Oriani volle descrivere, in questo suo libro, le ultime quarantott’ore d’un suicida. Egli sceglie per protagonista un mediocre possidentello di provincia, nato e cresciuto fra la vita inoperosa d’una cittadina, in un cerchio ristretto, senza vasti ed alti ideali, senza vive ambizioni. Romani è ammogliato e padre di due figli, ma il calmo amore perda moglie non gli impedisce i facili capricci, ed incappatosi in una cantante senza arte, nè bellezza, ma viziosa e corrotta, spende per lei molti denari, finendo col segnare con una firma falsa una cambiale.
Alla vigilia d’esser pubblicamente scoperto, e processato, il suicidio gli par quasi un’espiazione e vi si accinge dopo ore ed ore d’affanno inesprimibile. Presa la tragica risoluzione. Romani si sente staccato dai suoi simili, lontano, già verso quella riva, da cui più nessuno ha fatto ritorno. Allora guarda con occhi diversi gli amici, i conoscenti, la vita e giudica. Pochi han vissuto con più onestà di lui; chi è ricco ha ingannato il prossimo con indifferenza; chi gode passa sopra ad ogni senso di bontà e di pudore, pur di divertirsi. La mediocrità è generale, la bassezza,. l’apatia grandissime. Che cos’è la religione per quella gente? E la morte come la giudica?
« Poiché suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà: si ha forse paura d’addormentarsi, pur non essendo sicuri del risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte. L'esperienza e la sciènza umana non avevano trovato un modo per inoltrami in questa ombra: tutti vi arrivavano nella medesima ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione sola dichiarava di averne penetrato il mistèro colla parola di Dio. Non di meno la sua spiegazione era oscura, se no cóme la gente avrebbe seguitato a dubitare?
« Vi era dunque Dio? Era lui, che volendoci così oscuramente soggetti al suo volere distribuiva con tanta inesplicabile parzialità la gioia e il dolore? » (pag. 92).
In un dialogo con un semplice prete, senza istruzione, il quale gode della vita tutto quel po’ di bene che può dare, ritorna sul pensiero di Dio, sul suicidio, sulla espiazione. Il sacerdote non ha ragioni convincenti, ripete le solite trite frasi senza anima e senza slancio e Romani, ritrovandosi nella piena solitudine, solo colla sua coscienza, guarda il cielo dove le stelle crescevano sempre nella sua opacità; miriade di mondi viventi di un’altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede.
«Che cosa c’era lassù? Più alto di lassù?
« Dio?
« Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile? » (pagina 129)..
E quando là vaporiera stava per travolgerlo, mentre l'alba di quell'ultima sua notte angosciosa spuntava sull’orizzonte, aprì gli occhi nella fiamma « e per una paura più terribile gridò:
« Mio Dio!
« Ma l’enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta, l’inutile parola» (pag. 206).
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OLOCAUSTO (1)
Se la morale è in un certo senso religione, e se l’una non può far a meno di esistere senza basarsi sull’altra, svolgersi con essa, ampliarsi e rinnovarsi per suo mezzo Olocausto è un romanzo profondamente morale-religioso. 11 libro condensa in pochi capitoli una storia che rattrista intensamente l’anima, e pone a nudo una delle piaghe più penose della società. Una giovane è venduta da sua madre, che teme la miseria, e spera lauti guadagni dal turpe mercimonio. Un mondo corrotto si mostra quasi di scorcio e s’agita aftorno alla figura principale che ha rivolte commoventissime, sofferenze tragiche, ribellioni che la straziano e consumano la sua carne rosa dalla tisi, arsa dalla febbre. La società che, indifferente, lascia commettere certe turpitudini, permette il mercato d’una creatura, la quale non sa nella sua miseria materiale, e nel suo ambiente immorale rivoltarsi contro l'atto crudele: il suo olocausto, la sua infelicissima morte tutto è descritto magistralmente, con tocchi sobrii e forti che s’imprimono nella memoria e lasciano un solco nel cuore.
Perchè vi1 devono essere di queste vittime? A che cosa serve tanta filantropia se non sa porre un freno alla lussuria, e salvare dal Vizio molte giovani, le quali della vita non conoscono che la prostituzióne, la miseria, il lenocinlo povere naufraghc ignoranti la dolcezza della carità che solleva, le leggi d’amore redentrici del Cristo? . e
Tina finisce con la rivolta contro la società. Ella s'è lasciata vilipendere per non far patire la fame a sua madre, ma tutta la sua carne martoriata si ribella fino all’ultimo'contro le offese subite, e muore prima d’aver avuto quelle speranze della giovinezza, nelle quali ogni donna sale come dentro un incanto. Nella visita che un buon prete le fa méntre la morte sta per ghermirla e toglierla, anima sofferente e pura, dall’abiezione in cui il destino l’ha posta, l’Oriani trasfonde la poesia che sente alitare in ogni manifestazione religiosa, sia essa il canto di gioia per un bimbo che nasce o l’ultima assoluzione al morente, che lascia la vita dopo essersi punto a tutti i suoi rovi, straziato a tutte le' sue spine.
Tina, ignorante d’ogni credenza, non comprende l’alto ministero del sacerdote; per lei la confessione non ha uno speciale significato, non è lavacro, non è conforto. Ella vede nel prete l’uomo che vuol scandagliare il segreto della sua povera anima ferita; vuol entrare nel mistero della sua coscienza martoriata, vuol giudicare lui, un ignoto, l’atto che la fa morire. Eppure a lei misera, conculcata, reietta l’uomo di Dio che comprende la sua tragica sventura, fa brillare il più puro conforto fra le ombre che 1’avvolgono; la eleva, la purifica nella preghiera alla Vergine.
« Sì, Madonna santissima, suggerisce alla morente, io avrei voluto vivere pura come voi, ma se non ho potuto resistere alla tentazione del peccato, soffiate voi eoi vostro alito sulla mia anima, affinchè si rischiari e vegga le vie del Signore. Sì, ripetete ancora con me: Ave Maria, Virgo Virginum. Ella è la santa dei bambini
(1) Olocausto, 2* edizione, l.aterza, Bari. 1913.
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e delle vergini, che sa tutti i segreti del dolore, lei sola può dire alla morte di cancellare dalla vostra carne la macchia del peccato. Ave, Maria degli innocenti e degli abbandonati; voi siete la grande stella dei naufraghi, che non veggono più la sponda, voi siete la stella dei moribondi, che chiudono gli occhi nel vostro sorriso per riaprirli alla verità eterna di Dio. Ave, Maria! » (pag. 192).
• * «
Il fato domina le creature dei romanzi dell'Oriani, ed attorno al nucleo fondamentale, aU'oroina 0 misera od eletta, che soffre, ama, dispera, v’è il coro, l'umanità cioè, che accompagna le sue disfatte o le sue gioie e fa da' sfondo al quadro espressivo. Egli è andato a scrutare nei più profondi recessi del cuore umano ed ha resi i suoi aneliti; ha guardato la società nei suoi vizi e nella sua miseria e l’ha descritta. Da Flaubert ha preso la singolare chiarezza, e la misura delle descrizioni nello studio psicologico dei caratteri, ed in questo Olocausto ci ha dato l’opera più umana della nostra letteratura.
La fede è anche nell’Olocausto permeata di arte, così come fu intuita essenzialmente dallo spirito italiano nei suoi anni più gloriosi e fervidi di opere. Arte che sorride nelle più incantevoli luci ai reietti, che ha conforti celesti per gli abbandonati, iridi di pace, redenzione per tutti. E come in ogni manifestazione creatrice della vita, l’arte s’accompagna dando più gioia e poesia all’amore, entusiasmo al genio, un fiore anche alla putredine, così nella religione, che è il fiore dell’anima, l’arte, che è l’esSenza . del sentimento, s’immedesima con essa, le dà tutti i suoi fulgori, l’orna delle più pure bellezze e la fa letizia e speranza ai mortali. L’Oriani della prima maniera: ribelle, pessimista, disordinato, paradossale, dubbioso, pur nelle sue negazioni ha dato heì suoi romanzi un posto importante alla religione; e quando la vita si mostrò a lui in tutta la sua pienezza, soffusa di dolore e d’illusioni, fece risaltare la fede nelle sue opere, comprendendo che in essa v’è il respiro più potente dell’umanità.
Pochi, come ho accennato, hanno letto questi libri, perchè prima della nostra guerra l’uomo colto disprezzava i romanzi, quasi che quella forma d’arte con cui si rivestiva il pensiero, non fosse una delle più geniali manifestazioni umane; e la maggior parte del pubblico non li curò. Ma siccome ogni opera, in cui lo spirito vibri in tutta la sua energia creatrice, abbracci in sè un po’ dell’universo, stringa nel suo complesso e dia più luce ai grandi problemi che ci urgono non può andar perduta, per una specie di suprema giustizi^ spirituale e compcnsatrice, così anche i libri artistici dell’Oriani, trascurati un giorno, a poco a poco furono letti, compresi, ammirati. La parola che non aveva avuto eco in altre anime, forse non ancora mature a capirla, suscita discussioni, entusiasma, apre nuovi orizzonti. E fra le lagrime di cui taluni di questi romanzi sembrano stillanti, fra il pessimismo proprio dell’artista che provò in sè ogni angoscia (1), s’alza e grandeggia quella luce ideale che
(1) Questo aspetto subiettivo dei Pessimismo, l'Oriani l’ha comune colle menti più originali, nate, in ogni tempo.- a scorgere, traverso il sorriso stesso della vita.
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IL SENTIMENTO RELIGIOSO NELL’OPERA DI ALFREDO ORIANI
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sorride a De Nittis ne La disfatta, e gli fa attraversare calmo e tranquillo le ultime battaglie della vita, come i primi cristiani, quando con lo spirito lanciandosi a volo pòi nuovi cieli aperti dalla resurrezione di Cristo, si sentivano più forti della morte, più grandi nella loro miseria d'ogni superbo tiranno.
Creature di dolore e d’amore, esponenti d’un secolo di transizione, che non sapeva più chiedere all'arte un capolavoro, alla fede un apostolo; artisti consunti di passione per un bello che non aveva più adoratori; filosofi che cercavano Dio nel nuovo assillo d’una fede; giovanetto perdute, cortigiane ribelli, suicida, falsari, sogni fatti realtà da una mente poderosa, da un ingegno pieno di fiamme, di ardori, di passioni, rivivrete nel futuro mostrando l'ultima tappa per cui è passata l'Italia, prima di. salire, fra il sangue ed i lutti, un breve gradino nel progresso spirituale dell'umanità.
(continua) Luisa Giulio Benso.
quelle che Virgilio chiamò così bene le lacrime delle cose, con Cakyamuni Buddha, con Agostino, sulla cui gioventù dissipata pesò, come idea fissa che lo rendeva pensoso in mezzo ai piaceri e agli amori, il grano di problema dell’origine e dell’esistenza del male.
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Il filosofo del rinascimento spirituale ebraico
AHAD-HAAM E LA SUA OPERA
È nell’Oriente europeo, accanto al rinascimento della lingua e della letteratura ebraica — di cui qualche vaga notizia è giunta agli orecchi del mondo intellettuale — un altro rinascimento: quello dei valori non solo formali ed esteriori, ma anche interni e sostanziali del pensiero d’Israele.
Gli otto o nove milioni di Ebrei orientali si van così ricongiungendo spiritualmente ai padri che crearono la storia e l’idea ebraica nell’antica terra, nella « vecchia terra nuova »,
Allneuland, come la chiamò Teodoro Herzl, il creatore del Sionismo, nel suo romanzo omonimo; si son ricongiunti alle nostalgie che i padri eternarono nelle scuole, nelle sinagoghe, nei libri, nei sogni.
A noi pare che meriti far conoscere brevemente agl’idealisti d’occidente che cosa vuole quest’Ebraismo della rinascenza; che cos’è questo fermento politico, religioso, filosofico, letterario che rifiorisce dall’anima meravigliosa della gente biblica, tanto lontana da noi quant’è lontano l’Oriente dall’occidente.
Noi assistemmo prima della guerra ad un rifiorimento veramente inatteso della lingua e della letteratura d’Israele. In un bel saggio sulla Rinascenza della Letteratura ebraica pubblicato in francese nel 1903 dal doti. Nahum Slouschz, professore all'università di Parigi, l’autore notava che questo periodo di creazione letteraria, questo fermento d’idee che s’infiltrano da ogni parte è così potente da annunziare un fecondo raccolto. « La fioritura attuale della lingua dei Profeti è tal fenomeno da attrarre lo spirito di tutti coloro che si occupano dell’evoluzione dei misteriosi destini dell’Umanità ».
Ora fra i massimi cultori della lingua dei Profeti, fra coloro che più hanno contribuito ad indirizzare verso il risveglio spirituale le anime degli Ebrei, fra gli
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IL FILOSOFO DEL RINASCIMENTO SPIRITUALE EBRAICO
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scrittori che han più profondamente riprodotto nella lingua della Bibbia la com-• plessa ed affannosa questione dell’ Ebraismo — non degli Ebrei soltanto — c’è colui che da sè si chiamò Ahad-Haam — « uno del popolo » —.
È questo che io brevemente, per quanto si può, tenterò di presentare ai lettori italiani, poiché-è il più grande oggi degli scrittori ebrei, poiché ha veramente impresso un indirizzo nuovo all’ideale d'Israele e perchè forse è quegli che col suo pensiero è capace di rappresentare e raccogliere tutte le forze vive dèi pensiero ebràico.
Mi limiterò a riassumere in italiano, con pochi commenti e nella forma più accessibile, le principali idee che Ahad-Haam ha esposto in tre volumi di circa 800 • pagine, i quali comprendono un’attività letteraria di vent’anni, spiegata nelle varie riviste ebraiche e studiano i problemi più essenziali della esistenza giudaica.
L’opera è intitolata: Al fiarasciàl derahim (Al bivio) ed è stata stampata prima nel 1895 a Odessa, poi in una seconda'edizione aumentata a Berlino fra il 1904 e il 1905. È stata tradotta in tedesco dà Israele Friedjander, in inglese non completamente da Leon Simon, in un’edizione pubblicata a Filadelfia presso la Jewish Publication Society of America (1912).
I.
Ahad-Haam (Ascer Ginzberg) è nato il 5 agosto 1856 a Skvira presso Kiew. Educato nel severo spirito del misticismo, più avanzato d'Israele, il Hassidismo, ricevette una perfetta istruzione talmudica e si dedicò poi aHo studio della filosofia del Giudaismo. Una visita nel 1878-a Odessa lo iniziò alla conoscenza della letteratura russa e poi di quella tedesca, francese, inglese, specie nei loro prodotti filosofici.
Nel 1884 s’inizia per il Ginzberg una nuova fase di attività. Una seconda visita a Odessa, importante sede di vita intellettuale israelitica, Io introduce nel campo dei Hovevè-Zion (gli amici di Sionne), i precursori pratici della colonizzazione ebraica in Terra Santa. Viene allora eletto membro del Comitato centrale, presieduto dal dott. Pinsker, — l’autore Auto-emancipazione, un opuscolo che segna l’alba della nuova vita nazionale dell’Ebraismo, —- e diventa la guida morale di quella società. Zederbaum, fondatore e direttore di Hameliz, l’organo principale del movimento emancipatore e dei riformatori ebrei, scoprendo in lui un originale e vigoroso pensatore, lo indusse a presentare al pubblico dalle colonne del giornale ebraico le sue principali idee. Nel 1889 comparve il suo primo articolo « Ló ze a-ddéfeh » (Non è questa la via); e i pensieri che v’erano esposti s’incarnarono nella Lega dei Benè-Moscè (i figli di Mosè) fondata da lui nello stesso anno. Le tendenze e i fini di quest'associazione furono fermate nel suo Déreh a-hajrn (La via della vita), ancora inedito. La lega visse dal 1889 aj 1897 [ed ebbe fra i suoi membri la maggior parte degli attuali campioni dell’emancipazione nazionale ebraica in Russia.
All’influenza dei a Figli di Mosè » si deve la fondazione della grande rivista ebraica Ha-sciloah e la creazione della famosa Scuola ebraica di Jaffa. La rivista
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ebraica, ch'egli diresse per alcun tempo, ebbe poi a redattori il più grande poeta ebreo vivente, Hajm Nahman Bi^lik, ed il critico e storico Josef Klausner.
Nel 1895 Ahad-Haam veniva chiamato a Varsavia a dirigere l’importante Istituto editoriale ebraico Ahiasàf di cui ampliava il programma. Poiché laggiù in Russia c’erano molte case editrici arditissime condotte da filosofi, da poeti, da letterati. Industria spirituale, non commerciale. E quanto esse abbiano fatto per il rinascimento intellettuale e nazionale ebraico lo jmmàginino gl’italiani che sanno del Gabinetto Vieussieux e deW Antologia.
Ahad-Haam è dunque un rinnovatore d’idee e di vita ed uno dei più perfetti e più originali artisti della parola ebraica. Il dott. Leo Metmann in uno studio sulla Lingua ebraica pubblicato nel 1907 a Gerusalemme lo chiama «il padre del moderno stile ebraico ». La sua lingua è un organismo perfetto che trae profitto da tutto il tesoro filologico ebraico di ogni tempo, e riproduce con precisione e con magistrale limpidezza i più ricchi, profondi ed astratti pensieri. È un modello di stile neo-ebraico ed europeo originalissimo, poetico e vigoroso nella sua semplicità (Die Well, 17 agosto 1906-30 agosto 1907). L’autore stesso, nella Prefazione al III volume, confessa che molti lettori amano i suoi scritti non solo per il loro contenuto ideale, ma anche per il loro stile, e che molte maniere linguistiche create da lui hanno acquistato ormai diritto d’incolato nella nostra letteratura.
IL
L'opera di Ahad-Haam è il prodotto e l’esponente più significativo di un periodo di transizione e d’inquietudine psicologica e nazionale: è l'analisi, lo studio, la posizione e la soluzione del problema storico e spirituale d’Israele. L’Ebraismo è al bivio come non fu mai nei lunghi secoli della sua dispersione. Qual’è la via?
Il periodo romantico del pensiero e dell’opera giudaica, che seguì all’èra dell’emancipazione o la precedette di poco, è passato: è venuto il realismo. Il • materialismo storico ha sostituito l’idealismo. L’arma di battaglia, l’anima teorica, la tesi che riassumeva- in un dogma ed in .un motto tutta la vita d’Israele fu — fino a poco fa — la missione. La missione è stata una parola grande, solenne, epica, ma una parola. « Nessuno — dice' Ahad-Haam — nessuno dei seguaci di questa teoria pensò mai di portarla veramente fuori dalle pareti della scuola ».
La «scienza d’Israele» non si preoccupò neppur lei del suo compito pratico, del suo ufficio concreto nella vita. Già lo studio del secolare pensiero ebreo, in cui sta la chiave per la soluzione del problema giudaico, è fatto dai critici o cattolici o protestanti o liberi pensatori.
A che cosa mfr&ftti, secondo i suoi primi creatori, la Wissenschaft des Judenlums la scienza giudaici r Lo Zunz ed il Weiss osservarono che il diritto di cittadinanza accordato alla scienza giudaica doveva procurare l’eguaglianza dei diritti agli uomini ebrei. Una specie di quello che Adolfo Frank diceva a Pisa al filosofo ebreo livornese Elia Benamozegh dopo la pubblicazione della sua « Kabbale ou philosophie religieuse des Hébreux »; cioè che l’opera mirava a dimostrare che an-
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che gli Ebrei — gli uomini coi loro corpi — hanno diritto ad avere « une place au soleil ». Non chiedevano troppo questi pensatori di Francia e di Germania?
La «scienza israelitica» fu dunque una créatura dell’emancipazione: venne a riempire il vuoto lasciato nell’anima giudaica dopo la distruzione del sentimento nazionale. Il nome era grande, come il còmpito. Ma le opere della scienza giudaica presentarono un fenomeno strano: c’era una prefazione ricca di sentimento, di passione, di buone parole per Israele, per la sua nazionalità, per la sua letteratura, e dentro, nell’opera, un ammasso di ricerche minuziose, d’inezie.erudite, alla maniera tedesca, sopra argomenti di poco o di nessun valore. Gli scienziati d’Israele, mentre la condizione degli Ebrei migliorava, mentre per l’ottenuta libertà le loro forze andavano rinnovandosi ed acquistavano la possibilità di lavorare attivamente per quel futuro così a lungo sognato, gli scienziati d’Israele cancellavano perfino il ricordo delle speranze giudaiche. Nirvana^ fu l’ideale nuovo che gli scienziati d’Israele diffusero fra le folle, in luogo dell’avvenire nazionale; ed insieme al Nirvana, il passalo mòrto, per divertire ed occupare lo spirito dei risorti d’Israele. Ma un passato che non ha futuro che cos’è?
Dunque qual’è la-via? Oggi il popolo d’Israele, irrequieto, critico, s'è meravigliato di sè stesso, ha cercato il fine della sua vita, l’ultimo porto del suo vagabondaggio, non per un esercizio teorico, non per una ginnastica filosofica come prima, ma.per perseguire praticamente, in alto, la mèta e il porto. Ecco il bivio. Questa preoccupazione e questa necessità d’una soluzione concreta ha fecondato il «Sionismo».
Il Sionismo? Che cosa vuol dire? Molte cose; ma nel concetto complesso c’è una nota che tutti accettano, dice Ahad-Haam: «l’accentrarsi della nazione a Sion ». Una cosa che non è tanto semplice, per cui è necessario non solo un corpo sano, ma unWflu sana. Bisogna redimere l’anima, prima di emancipare il corpo: ecco la sua parola.
Quando nacque il Sionismo, l'autore non era nè scrittore nè militante in alcun partito: era un ebreo soltanto. Gli parve allora che il popolo non fosse preparato alla grande rivoluzione: che il Sionismo avrebbe dovuto esser inteso come primo elemento spirituale, come tensione verso un centro spirituale.
È qua il nodo di tutto il sistema dell'autore e l’anima di tutta la sua opera. Il centro spirituale. Questo pensiero ha fatto nascere in lui lo scrittore e lo ha indotto, suo malgrado, ad esporre al pubblico come uno del popolo, — ahad-haam — alcune sue idee. Fu 29 anni fa, abbiam detto, la prima presentazione di questo scrittore; il suo saggio era intitolato: Non è questa la via, e fu di due articoli e riassunse in sè il motivo dominante di tutta la sua opera.
Faceva della letteratura quest’uomo che non voleva essere un letterato? No. L’arte per l'arte è una formula ed una-cosa ignota alla storia letteraria d'Israele. I profeti non han dato mai alle loro invettive il valore d'un dilettantismo artistico, d'un divertimento della fantasia, d’un passatempo in cui non vibrino che la Bellezza e la Musica della forma colle lettere maiuscole. La bellezza c’è, ma non è cercata per sè stessa. La virtù delle scritture giudàiche si manifesta per altra via. E virtù di pensiero morale, religioso, nazionale, umano, filosofico, ed è questa virtù che l’autore vuole che sia anche la sua.
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Noi sappiamo dunque qual è stato il motivo che in mezzo alla tempesta della vita universale e della vita giudaica ha armato della penna la mano [di questo nomo del popolo. L’han chiamato a borghese » e l’han combattuto in nome di tutti i partiti e di tutte le idee. I sionisti pratici e i sionisti politici gli han$-rimproverato il suo pessimismo; i tradizionalisti l’hanno scomunicato: i giovanetti del libero pensiero lo hanno accusato di segregare il giudaismo dalla vita contemporanea.
Eppure questo scrittore è quello che ai loro tempi furono Ghebirol o Avi-cebronio, Jehudah Allevi, Maimonide: un'anima in cui rifioriscono su dai solchi della cultura nazionale e della cultura moderna i germi del complesso ideale giudaico. Quest’uomo, risalendo, come fecero tutti i geni d’Israele, le vie della storia giudaica, ha constatato che la Thorah ebbe uno scopo solo: la prosperità collettiva della nazione ebraica nella sua terra.
La « legge » ebraica non conosce che il popolo: l’individuo per lei non è 'che un membro del popolo stesso; le azioni individuali trovano il lóro premio nella prosperità generale. Il concetto che ispira ed informa l’antica legislazione mosaica è la ininterrotta solidarietà che congiunge tutte le generazioni israelitiche da Abramo fino il termine dei giorni. Il popolo è uno in tutte le età e gl’individui che nascono e- muoiono in ogni secolo son come gli atomi dell’organismo umano che vanno rinnovandosi quotidianamente senza trasformare in nulla la generale natura specifica del corpo stesso.
Ma dopo la caduta del i° Tempio, per la disperata coscienza del presente e l'incertezza del futuro che agghiacciò gli spiriti migliori d’Israele’; quando più nessuna speranza di prosperità nazionale fioriva su dai cuori e l’individuo ncn poteva appagarsi più degli spiriti collettivi che avevano informato l’idea mosaica, nacquero, accanto al vecchio concetto civile, le teoriche del premio concesso ai buoni nell’«/ di là. Le mizvoth (i doveri) assumono dunque un contenuto individuale, mentre il sentimento nazionale si rifugia nella vita politica. Ma dinanzi alla vita politica che andava quotidianamente declinando, cominciò a prevalere più tardi la vita religiosa, ed il principio individuale prese a soffocare quello nazionale, finché questo perdette l'ultima ragione di vita la quale si fondava sulla [speranza della redenzione futura. Il sentimento nazionale si attenua sempre più: il cuore d’Israele si restringe alla vita della famiglia e della Comunità. L’io individuale o l’io del piccolo nucleo sociale hanno spento o sopito l’amore nazionale. •
La solidarietà giudaica s era così ridotta ad un’espressione vaga, quando nacque il movimento per la colonizzazione della Palestina. Ma si voleva ricostruire il popolo e la terra senza ricostruire il sentiménto dell’unità collettiva: si voleva dar vita a tutte le espressioni dell’anima giudaica, facendo appello soltanto alla lotta per l’esistenza, all’utile personale. Era un errore: non era quella la via per il risorgimento d’Israele. Bisognava prima ricostruire lo spirito del popolo, e poi condurlo praticamente per le vie lunghe ed aspre del risorgimento.
In questa prima ribellione contro le tendenze individuali, utilitarie, filantropiche, pratiche, affrettate dei. primi soldati della colonizzazione giudica, è il germe
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di tutto il sistema e di tutta l'opera di Ahad-Haam. L’amor di Sion non dev’essere per lui la soluzione proposta al Judenschmerz, al dolore degl’individui ebrei, ma deve ricondurre nel popolo lo spirito smarrito nelle vie dèll’esilio, dev’essere la medicina del dolore giudaico, della vecchiaia e dell’impotenza giudaica.
HI.
Tornate alla patria — avevan gridato i primi amici di Sion, i hovevè Zion. E Ahad-Haam è tornato alla patria. Egli ha passato alcuni mesi in Palestina, la prima volta nel 1891, la seconda nel 1893. Ha visto le sue rovine, i resti della sua vita passata; ha osservato la sua miseria presente, ma più di tutto ha pensato al suo futuro. Ha avuto assidua, tormentosa nel cervello la domanda: Può la terra risorgere? possonoci Ebrei ridestarla dal suo sonno?
Jehudah Allevi la vide cogli occhi di poeta medioevale innamorato, attraverso gli epici e religiosi ricordi biblici, e la cantò come un amante che sogna il viso della sua donna o come un fedele i santuari dell’antica e sempre viva credenza; Jehudah Allevi fu il poeta lirico ed elegiaco della patria lontana e della sua atmosfera spirituale; Ahad-Haam, nonostante il grand’amore per il paese dei padri e per i fratelli dispersi, è molto spesso un critico freddo, in cui la visione della realtà tempera le luci del sogno.
I termini della questione sono dunque due: la terra e gli Ebrei. Nessun ostacolo al risorgimento si oppone da parte del paese. Basta percorrerlo un po’ di giorni per ammirarne la fertilità. Alla prima domanda è facile dunque dare una risposta. Non così per la seconda.« Ho lasciato ora il paese a cui volava la mia anima: l’ho lasciato col cuore infranto e lo spirito abbattuto. La mia fantasia non ha più la libertà di alzare il volo come prima. La terra non è più per me un dolce sogno, ma una verità tangibile ».
E rivela una parte di questa verità, la più dolorosa.
Egli ha dinanzi agli occhi il suo dogma concreto: centro spirituale giudaico. Gli Ebrei non vogliono nè possono tornare in Palestina per mangiare, nè perchè vi sieno spinti dalle miserie del corpo e dalle necessità economiche; ma perchè sono costretti dalla morte dell’anima a cercare un luogo sotto il sole — sia pur piccolo — in cui anche l’ebreo, come gli altri uomini, possa alzar la testa e creare col suo spirito nazionale le condizioni della sua vita specifica. La colonizzazione della Palestina dev’essere un’opera collettiva, determinata dai bisogni nazionali e rivolta ad un fine nazionale.
Ahad-Haam proponeva quindi la costituzione d’una grande società nazionale per la colonizzazione della Palestina, per opera degli Ebrei occidentali, special-mente inglesi, la quale inviasse in Terra Santa una Commissione di tecnici a raccogliere tutte le esperienze e le notizie possibili per una colonizzazione nazionale ed ottenesse quindi dalla Porta il permesso d’indirizzare in quei paesi l’emigrazione giudaica. Egli ideava così fin dal 1891 quello che Herzl poi doveva nuovamene pensare ed effettuare; ma con uno spirito meno politico, meno grandioso, meno messianico del grande animatore; ma con -un senso pratico e con un sentimento
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poetico grandissimo. Il popolo d’Israele, nelle sue preghiere e nella sua nostalgia ha pianto più la patria perduta e la terra distrutta che sé stesso, poiché per la religione e la speranza esso si sentiva vivo e disposto a traversare i secoli; Ahad-Haam sente tragicamente la rovina dèi popolo, poiché lo vede inerte e sente la necessità assoluta di un'azione concorde e ordinata per la risurrezione dello spirito e del corpo giudaico nella, terra dei padri.
IV.
Egli vuole ricongiungersi al Dr. Pinsker, l'autore deh’Auto-emancipazione. Il suo Sionismo spirituale vuol trovare i suoi precedenti e il suo sostegno nelle idee del grande rinnovatore della coscienza nazionale israelitica.
La Palestina non era secondo Pinsker il paese più adatto, per le sue condizioni politiche e le sue relazioni internazionali, a servir di asilo sicuro alla nazione isra-litica. Non si deve però abbandonarla per trasportare i penati in un’altra terra. È nostro dovere —- disse Pinsker negli ultimi giorni della sua vita — di sostenere e di allargare per quanto è possibile la colonizzazione della Palestina. In Palestina dobbiamo e possiamo costituire un centro spirituale nazionale: « merhaz leummì ruhanì ». Una patria per gli Ebrei? No, una patria per- V Ebraismo, per lo spirilo nazionale; una patria nella cui ¡orbita si accentri la dispersa vita universale d’Israele ed in cui essa si unifichi: un centro che emani la sua luce su tutti i punti della periferia e per il quale sia sensibile e. quasi tangibile l’unità nazionale.
Questo era il testamento nazionale del Dr. Pinsker. Ora come espone e difende Ahad-Haam il suo disegno?
Egli immagina di sognare. Sogniamo che l’antisemitismo non esiste più sulla terra e il progresso delle idee umanitarie avanza rapidamente. La questione degli Ebrei è già passata.nel dominio della storia: gl’israeliti vivono tranquilli in tutte le terre, avanzando sulla via dell’assimilazione esteriore. Ma di fronte a questa felice condizione dei corpi ebrei sorge la questione dell’Ebraismo. Nessun avvenimento rende sensibile la solidarietà giudaica; gli usi della religione e della vita hanno assunto una fisionomia nuova, che va adattandosi allo spirito dei vari paesi. Il popolo ebraico non esiste più; esso si avanza verso il tramonto nazionale. Alcuni ebrei soltanto si trovano che assistono con angoscia all’agonia della loro gente e van cercando i mezzi per riavvicinare le sparse membra d’Israele. La scienza del Giudaismo s’è dimostrata insufficiente a questa funzione ravvivatrice. Non rimane che un mezzo: la» colonizzazione della Palestina.
L’autore immagina nel suo sógno che le colonie fondate con questo spirito, rese più complete da tutti gl'istituti morali e intellettuali necessari ormai ad ogni raggruppamento umano e tanto più ad una società giudaica, prosperino economicamente e diano una generazione nuova di ebrei civilmente superiori, di agricoltori israeliti, i quali tornando la sera dal campo che hanno arato, seminato e mietuto con le loro mani, leggano e studino gli antichi e nuovi libri della stirpe. Questi resultati inattesi hanno prodotto nel cuore degl’israeliti lontani un amore nuovo per la terra degli avi e per i fratelli laboriosi che glorificano colla vita naturale e
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sana il nome d’Israele di fronte alle nazioni del mondo. Sicché gli Ebrei stimano dovere ed onore sostenerne l’opera restauratrice e fanno della Palestina la meta dei loro pellegrinaggi e dei loro viaggi di piacere. La lingua ebraica è risorta: ha riconquistato il suo posto onorevole fra le lingue europee mercè l’opera dei nuovi ebrei: i giovani europei di religione mosaica han cominciato a ricordarsi che in questa lingua parlarono i loro padri dell’antico tempo e ne hanno inteso l'armonia e il vigore come un pregio prima ignoto e hanno avuto il desiderio d’im-pararla dalla bocca dei fratelli palestinesi come l'italiano si impara volentieri da un maestro di Toscana.
Di fronte a questi successi dovuti ad un lavoro costante di ricreazione di tutti i valori giudaici, l’Associazione che dirige le opere colonizzatrici, allarga la sfera della propria azione; fonda a Gerusalemme un gran giornale quotidiano ebraico che conquista presto un posto onorevole nella stampa europea; pubblica buoni libri che diffonde in tutte le terre dell’esilio. La letteratura giudaica così si arricchisce in quantità, e, quel che vai più, in qualità.
Il sogno potrebbe prolungarsi ancora... Vediamone piuttosto la morale.
Il movimento, poiché non era suscitato dalla questione degli Ebrei, ma dalla questione del Giudaismo, poiché non era prodotto da cause accidentali, da fenomeni esteriori, ma da una causalità razionale ed interna ed era condotto non con mezzi fantastici, nè con grandi frasi ed esagerazioni, ma aveva progredito lentamente, era riuscito a creare in Palestina, dopo alcune generazioni, un centro nazionale spirituale per V Ebraismo, un centro religioso, scientifico, linguistico, letterario, un centro d’attività materiale e di purità spirituale: una miniatura, un modello del popolo ebraico...
Questo è il sogno ed il sistema per cui Ahad-Haam è divenuto il fondatore d’un moto che ha i suoi seguaci e i suoi ardenti difensori: un sistema che lo ha messo in continua lotta, qualche volta aspra, col Sionismo politico e coi suoi condottieri ufficiali: un sistema troppo aristocratico, troppo sdegnoso della vita materiale e quotidiana, che l’ha costretto a starsene lontano dalle grandi agitazioni preparate in questi ultimi anni dal popolo ebreo. Gli antichi dottori del Talmud dicevano e Gesù ripeteva che non gli Ebrei son fatti per il sabato ma il sabato è fatto per gli Ebrei. Ahad-Haam par che dica che l'Ebraismo è vissuto non per gli uomini e il corpo d’Israele, ma per la sua idea, e per la sua creazione spirituale. Togliete ad Israele il suo spirito e voi gli sottrarrete la ragion d'essere e di combattere, lo scopo e il porto del suo travaglio secolare; poiché la questione giudaica esiste in quanto esiste una questione del Giudaismo e in noi non è combattuto il corpo o la potenza materiale, numerica, ma l’idea e la personalità storica.
Noi abbiamo riassunto il sogno che rappresenta l’utopia spirituale, l’ansia di quest’Ebreo di Russia. Vediamo ora qual’è secondo lui la realtà.
La realtà? L’antica «psicosi» domina l’Europa israelitica in tutta la sua ferocia. C’è la questione degli Ebrei che travaglia ed opprime gli spiriti, senza lasciar modo di manifestarsi alla questione dell’Ebraismo.
Quale terra per gli Ebrei? domandano gli spiriti sotto i colpi della sofferenza giudaica. La Palestina — rispondono gli amici di Sion, i Hovevè-Zion.
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No —- rispondono i « modernisti », gli uomini della cultura europea —, la Palestina è per ora irraggiungibile.
Avete ragione tutti c due — replica Pinsker, l’autore deU’Auto-emancipazione. La Palestina, per gli Ebrei no, ma per VEbraismo si; non perchè ci sia un qualche ostacolo esteriore, ma per un’impossibilità interiore; perchè noi non siamo ancora un popolo, perchè difetta in noi la coscienza nazionale, la comprensione della collettività e dei destini comuni; perchè siamo soltanto degl'individui ebrei.
Per l’Ebraismo prima; gli Ebrei verranno dopo; — replica Ahad-Haam — quando avremo’ cessato di essere soltanto degli individui ebrei. Perchè allora, quando l’Ebraismo sarà tornato alla sua fonte e dà tutte le terre della loro dispersione, anche dagli asili più tranquilli, gli Ebrei rivolgeranno il cuore alla Gerusalemme presente, l’auto-emancipazione del Giudaismo sorgerà da sè, come un prodotto necessario del sentimento d’amore degli Ebrei per l’Ebraismo e per la loro terra.
La via è lunga — gridano gli scettici.
Sì—- rispondono insieme il Dr. Pinsker e Ahad-Haam, — lontano, molto lontano è il porto a cui anela la nostra anima. Ma per un popolo che erra da migliaia d'anni, la via più lunga non sarà mai troppo lunga.
Dante Lattes.
(La fine al prossimo numero).
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LA “ RELIGIONE
Il volume nel quale A. Loisy ha esposto, con la competenza sua grande e la chiarezza di pensiero c di linguaggio che si ammirano in tutte le sue opere precedenti, la sua concezione fondamentale della reli-Ì;ione, lascerà molti insoddisfatti, sia per e premesse di metodo, sia per le conclusioni alle quali giunge. Ma esso ha un valore di sintesi e di programma che può difficilmente essere esagerato: sotto taluni aspetti, e specialmente nella ricostruzione storica del processo religioso .dell’umanità, nell’esame dei rapporti storici della religione con la moralità e con la vita sociale, nella dimostrazione delle necessità e delle esigenze intime di una severa disciplina morale per l'individuo e per le società umane, nulla di meglio crediamo si sia scritto da molti anni a questa parte.
Riteniamo dunque nostro dovere di far posto, in questa rassegna, ad una esposizione, necessariamente sommaria e talora frammentaria — così conciso e stringato è il lavoro — del pensiero del L.; riserbando alla fine talune nostre sostanziali riserve.
Gli studi biblici avevano fatto del L. uno storico competentissimo dell’ebraismo e delle origini del cristianesimo; l’interpretazione ricostruttiva dei testi aveva affinato il suo occhio nella indagine dei processi psichici per i quali si formano le credenze e i miti. Chiamato all’insegnamento di storia delle religioni alla Sorbona, egli ha esteso a tutta la storia religiosa i suoi studi traendone corsi e scritti nei quali non si cerca la semplice descrizione storica di determinate religioni, ma si tenta, a proposito di riti o di credenze caratteristiche, di ricostruire, geneticamente, un processo reli” di ALFREDO LOISY'■>
gioso, nelle sue immanenti ragioni umane e storiche, in rapporto con lo sviluppo della cultura. In queste ricerche giovava grandemente al !.. il possesso sicuro di alcuni dei momenti essenziali — il precristiano e il proto-cristiano—dello sviluppo religioso della umanità, e l’avere accompagnato il aolo religioso per eccellenza, il giudaico/ e lontane origini politeistiche sino all’esplosione. del sógno messianico nel più Curo universalismo religióso del quarto angelo. '
Venuta la guerra europea, anche il L. fu preso dall’ansia dell’immane problema nuovo. Solingò, severo, circondato di ostilità implacabili e di diffidenze vigili, egli non si è fatto e non è divenuto articolista o conferenziere di moda. Nessuno, salvo forse pochi intimi, gli ha chiesto che cosa Pensasse della guerra, specialmente sotto aspetto religioso. Egli ha parlato egualmente; e la sua solitudine gli ha permesso di parlare non affrettatamente, nè per compiacere uditori e lettori, ma nella maniera più pensata e sincera. Egli pubblicò prima un opuscolo: Guerre et religion. che poi è divenuto, nella seconda edizione, un volume in 12° di 200 pag. (Nourry, 1915)'. Pubblicò quindi una vivace ed efficacissima risposta al romanzo-tesi di Paul Bourget: Le seni de la mori, intitolato: Mors et vita. Egli dimostra come per bene morire per il proprio paese non è necessaria la fede cattolica nella immortalità personale; altri, non cattolici e non cristiani, hanno quella fede; molti non l’hanno che pure compirono con eguale fervore di devozione alla patria il loro sacrificio. E conclude esaltando questa religione della patria, in
“<<< (•) Alfredo Loisv: La religion. I. Religion et morale - II. L'évolution religieuse et morale - IH. Le» caractères et les facteurs de l’évolution religieuse - IV. La discipline humaine - V. Les Symboles de la foi. - Voi. di pag. 316. Prezzo in Italia L. 5. — Rivolgersi alla Libreria Ed. <Bilychnis». Via Crescenzio a. Roma.
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cui tutti i Francesi concordano e nella quale è empio distinguere gradi e sfumature.
Da una ulteriore riflessione critica su questa « religione della patria », che poteva pai ere un motivo ed una verità di guerra e trovare nella commozione solenne di quest’ora tragica la sua legittimità passeggera, è nato il volume: La Relieion; nel quale quello che c’era di universalmente e perennemente vero in quella frase « religione della patria » è -chiarito e spiegato, con una mirabile interpretazione e ricostruzione storica della religione e delle religioni In esso, mentre la religione diviene morale, contenuto intimo del dovere e della solidarietà e del civismo, la patria diviene umanità- concreta, operosa costruzione solidale di giustizia e di bene, e l’umanità è la vita in universale, l’assoluto.
Interpretazione filosofica, avrei dovuto dire, e ricostruzione storica. Ma il L. diffida della filosofia. Ne diffida a torto, come ignorando di quanto la sua storia, che non si ferma al fatto, ma vede la coscienza umana fare — inventare e costruire — e fare quello che nella cultura e nella vita esprime più direttamente la vocazione nativa e le necessità immanenti dello spirito, i suoi dèi o il suo Dio, le sue credenze e i suoi riti, si sia avvicinata ad una filosofia che non è astratta speculazione di astratti problemi, ma ripensamento di quel Processo inventivo e creativo nel quale umanità tesse il suo pensiero e la sua storia, acquistando coscienza di sè. Il L. è filosofo di questa filosofia; ma l’aver egli un altro concetto della filosofia e il diradare di questa gli vieta di intendere quello che nella posizione e nella soluzione del suo problema del divenire religioso dovrebbe essere appunto il nodo centrale; e lo fa rimanere di qua del problema vero, in una soluzione che può esser trovata non sufficiente nè soddisfacente.
GUERRA E RELIGIONE
Lo scopo del libro è nettamente posto ne\Y Avani-propos. Il L. vi riassume i suoi due lavori precedenti e fa della posizione raggiunta in essi il punto di partenza per la ulteriore indagine.
La guerra è stata anche una ardente invocazione di Dio cd insieme uno strano abuso di Dio. Davvero, gli uomini hanno fatto Dio a loro immagine; ma in questa immagine, benché si sia tentati di credere che essi in migliaia di anni, quanti ne cor
rono dalla conquista ebraica della Palestina alla conquista germanica di oggi, sieno poco mutati, si rispecchia un intimo lavorio di autocoscienza (la parola è nostra, non del L.; ma essa è nel suo pensiero), un vivo processo spirituale.
Sotto perpetue variazioni, il problema umano non cessa di porsi nei medesimi termini essenziali. Questa guerra ripete tutta una storia di furori e di stragi; ma quanto più senso di responsabilità, quanta più ricerca di soluzioni ideali! I delitti tedeschi sono mascherati di idealismo, la forza è divinizzata, fatta espressione di cultura. La resistenza tedesca attiva ad una coalizione formidabile non è solo prodigio di una sapiente disciplina, è impiego di una grande forza morale, di coesione nazionale, di civismo, una «miscela strana di orgoglio e di esaltazione mistica. Gli alleati combattono per la libertà, contro un proposito di dominio. Ma molte cose, nei loro propositi, non si accordavano con questo programma: ed essi non hanno, a ogni modo, saputo trarre prima dagli ideali che difendono la disciplina e la potenza che assicurasse la vittoria.
La libertà deve essere giustizia sociale, l’autonomia nazionale attuazione di un principio di diritto che vale per tutti i popoli; la società deve essere una città ideale, stabilita sull’accordo delle attività individuali che la servono e delle quali favorisce lo sviluppo; e quindi un che di morale e mistico, per riguardo al quale si spiegano doveri e diritti degli individui, non avendo essi significato che in questo rapporto ad esso. Così intesa, la società è l’umanità che si cerca, e il concerto desiderato delle società la piena espressione dell’ideale umano, in un legame, in una unità mistica e morale, che gli uomini cercano, anche attraverso alla guerra. « In fondo a tutti i grandi problemi contemporanei c’è dunque una questione anche più grande, che dà a tutti un significato comune, la questione di moralità, di umanità; e questa, per la sua stessa natura, si identifica col problema religioso, cioè dell’organizzazione della vita umana conformemente ai principi superiori che la dominano. Così il problema morale della guerra si inquadra nella storia religiosa dell* umanità ».
La Francia ha subito una grande prova. L'incertezza e il dissenso intorno ai problemi fondamentali della disciplina, della coesione, dell’unità spirituale di un popolo, la rendevano per essa pericolosa. Renan,
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vedendo la grande importanza morale e sociale, per lo spirito francese, della vecchia religione, scriveva: • Noi viviamo dell’ombra di un’ombra. Di che si vivià dopo noi? ». I cattolici compromettevano la forza della loro disciplina legandola a concezioni, a dottrine, a vincoli che lo spirito contemporaneo non poteva più accettare. La crisi delle credenze era inevitabile. Ma, di fronte alle vecchie credenze, stavano dei tentativi, delle ricerche, diritti senza doveri, libertà senza disciplina interiore: pericoloso distruggere se non si edifica. « La fede si svolge con l'umanità che vive e le credenze mutano; ma una rivoluzione inconsiderata delle credenze può mettere in pericolo la fede morale e la vita morale di un popolo. Non impunemente si scuote una disciplina secolare, se si ha l’aria di rigettare al tempo stesso ogni disciplina, e si proclama l’emancipazione dell’individuo, se non lo si istruisca, a un tempo, a governarsi da sè ».
Eppure, venuta la guerra, i Francesi hanno risposto tutti, o quasi, meravigliosamente all’ appello. C’era dunque una disciplina morale, un ideale umano, una religione comune, per la quale uomini di fedi diverse combattevano e morivano con lo stesso fervore: ed era la fede nella Francia, la religione della patria. < Questo senso della umanità francese è il frutto di tutti i secoli che la Francia ha vissuto, benché porti più spécialmente il segno delle sue più recenti esperienze. Esso è la nostra religione comune, e tutto quello che poco innanzi era fra di noi principio, non di discussione leale, ma di divisione astiosa, costituiva una eresia verso di essa. È il senso che, in diverse forme e gradi, si riscontra in tutte le società umane. Per esso queste sussistono ed esso definisce il loro carattere proprio. Esso è la loro coscienza morale e religiosa più intima e più potente, il tipo al quale si subordinano le coscienze religiose e morali degli individui, provvedendo queste, in ricambio, alla sua perpetuità e contribuendo al suo sviluppo. Importa scrutare la natura, il segreto vitale e la legge di questo sentimento, di questo grandeamore, non potendo questa legge essere altro che la vera norma dell’uomo e la sua religione eterna ».
Così L. pone il problema, in mezzo alla sua Francia guerriera. Così altri lo porrebbe in Inghilterra, dove anche, su tanta libera diversità di religioni, giganteggia la patria. In Germania, anche, cattolici o
protestanti, liberi pensatori o ebrei, hanno accettato la superiore religione della Kultur, e si ritrovano tutti in essa. Per noi italiani la cosa può essere meno chiara; oscura, qui, in molti la coscienza civile, come oscura la coscienza religiosa. La patria non è una religione... per quelli che hanno una religione inaridita o che dichiarano di non averne nessuna. L’eccezione, se si riflette, conferma mirabilmente la regola, mostrando che la malattia della volontà nazionale è, in ultima analisi, una crisi profonda di carattere religioso.
Po dimostrare la sua tesi, il L. fa ancora appello a questo senso possente di patriottismo ravvivato dalla guerra; fa appello alla intimità delle coscienze e « a la voce fraterna di quelli che riposano ne la porpora del loro sangue, martiri de la fede comune. Così conviene meditare sulla vita, la morte e il dovere, dinanzi alla vita, alla morte e al dovere in azione, e non nell’isolamento di una ragione fiera di sé stessa e che tormenta le sue idee per trarne una soluzione inedita del problema umano».
« Cerchiamo dunque », egli prosegue, di esaminare la realtà della vita come essa apparisce nella storia umana e nella realtà del tempo presente. Vediamo che cosa sono state realmente, umanamente, la religione e la morale nella storia degli uomini, e se il dovere morale non si presenti a noi come una obbligazione reli; £‘osa; che cosa sia stata nelle Sue grandi lee l’evoluzione religiosa e morale dell’umanità; e se la morale non sia stata sempre strettamente legata alla religione; ' !|uali sono stati i caratteri generali e i attori di questa evoluzione, e se essa non sia essenzialmente consistita in una specie di individuazione e di interiorizzazione progressive della religione e della moralità, per l’opera combinata della fede, della tradizione, della volontà di sacrificio e della ragione; quello per che questa azione è stato efficace: cioè una disciplina umana abbracciante tutta la vita degli individui, disciplina senza la quale nessuna società avrebbe potuto nascere e sussistere; e se una tale disciplina, via via perfezionata, non sia sempre più necessaria per assicurare l’avvenire della civiltà e della umanità; come si è espressa e’ mantenuta la fede che sorregge la vita morale dell’uomo, cioè per mezzo di simboli, formule e riti, mezzi di comunione umana allo stesso tempo che sorgenti
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di emozioni religiose, e se questi simboli, che fatalmente invecchiano, non sieno suscettibili di nuova giovinezza.
« A chi intende per filosofia la discussione astratta dei concetti fondamentali del nostro spirito e le deduzioni che possono edificarsi su questa analisi di idee, il presente studio parrà non aver quasi nulla di filosofico... Ma la vera’ filosofia non sarebbe piuttosto la considerazione generale. immediata ed attenta, delle cose e dell’uomo? Si vuol qui osservare il Srande fatto della religione sotto i suoi ifferenti aspetti, dopo di averne determinato l’ampiezza; lo si riguarda nell’insieme della sua evoluzione, poi nell’intimità della sua vita, poi come disciplina dell’esistenza, poi in certi elementi essenziali di questa disciplina, il pensiero e il rito religiosi, al fine di. raggiungere con la varietà di queste considerazioni il più possibile di una realtà infinitamente complessa, forma superiore della vita umana, e quindi il più degno oggetto che si raccomandi alrattenzione del filosofo ».
Il lettore attento troverà forse un qualche contrasto fra la commozione viva da cui il L. diceva di prender le mosse e questo atteggiamento di osservatore distaccato e di critico innanzi alla storia. Ma la fredda imparzialità del critico non impedisce, anzi serve, la commozione profonda del patriota; nel sentimento vivo della patria in pericolo, nel proposito ardente di lavorare per essa, come cercando di districarne la concezione unificatrice da tutto quello che divideva e divide ancora i Francesi, e pareva metterli gli uni contro gli altri, è un fervore di devozione e di sacrifìcio che fa dello studioso solitario e veggente un soldato, a suo modo.
Nò il L. si inganna quando rivendica alla sua ricerca un carattere filosofico, benché egli faccia più specialmente opera di riflessione storica; la filosofia, mostra B. Croce, è storia, autocoscienza che diviene, nel processo medesimo del pensiero, che svolgendosi, si fa storia. E a questa concezione il L. rende, con la sua opera stessa, una singolare testimonianza.
RELIGIONE E MORALE
Religione e morale sono fatti antichi quanto l’umanità, e le idee nelle quali esse si sono immediatamente espresse hanno mutato a misura che il loro oggetto
si trasformava, ma, senza cessare di affermar questo, la realtà dell’ideale divino, il valore sostanziale del bene morale. Le teorie ingegnosamente formulate sul-l'una e sull’altra non valgono se non iu quanto sono espressione della vita che volevano interpretare; se i grandi specialisti della morale umana, i santi e gli eroi, i veri servitori dell'umanità, avessero avuto cura di analizzarsi e raccontare il segreto della loro dedizione, avremmo avuto altre ed assai più interessanti teorie. Ma le teorie non sono la vita; e nella vita, che è società, morale c religione appariscono unite ed inseparabili.
Che cosa è la religione? Nella sua idea più generale, essa è «il rapporto speciale nel quale l’uomo crede trovarsi e si mette verso esseri o principii superiori, dai quali si ritiene dipendere; rapporto che si assomma e si realizza specialmente in quel che si chiama culto, cioè il modo di comportarsi verso gli esseri e principii dei quali si tratta, e che sono riguardati come personalità trascendenti, capaci, di essere affette in qualche maniera, onorate od offese, dalla condotta degli umani ». Taluni riducono la fede — il cristianesimo — a pura interiorità; ma si tratta di una tendenza più che di una realtà, di uno sforzo per rendere radicalmente individuale una cosa che, di sua natura, è sociale, per concentrare nel sentimento una direzione che deve anche regolare tutta la vita esteriore. Il buddismo trascura le divinità ed è una sorta di ascesi delia rinunzia, della sottrazione al mutamento. In quanto programma di condotta, in ordine a questo fine, esso è una morale; in quanto economia di salute eterna, è una religione; ma storicamente non vive se non rinnegando la sua dialettica estrema, per far posto agli dèi ed al dovere sociale, mescolandosi con altre fedi e culti religiosi.
Si è cercato di identificare il concetto di religioso con quello di sacro, abusando delle primitive esperienze religiose. Esso è una realtà positiva, innanzi tutto, superiore e quindi venerabile, verso la quale si è portati da simpatia ed ammirazione. La parola rispetto è quella con la quale meglio si interpreta e si caratterizza il sentimento religioso. Ogni forma di rispetto è fondata in qualche modo sulla religione, cioè su di una considerazione mistico-morale del suo oggetto; e, reciprocamente, tutto quel che è religioso, che ha valore mistico-morale, domanda rispetto.
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Religione è, si può dire, lo stesso ordine mistico-morale.
Ora, quest’ordine è eminentemente sociale. Nella società l’uomo vive ed agisce; la sua umanità, ad ogni momento storico, è società. L’accettazione della vita, degli affetti, degli istituti sociali è il primo atto in cui si afferma la coscienza morale; per essa l’individuo si riconosce parte di un corpo potente che lo porta e lo conserva; di un corpo mistico, legato agli, esseri ed ai principii trascendenti, nel quale comincia ad articolarsi la religione, come concreta manifestazione del rispetto sociale; rispetto che è poi ed apparisce ’quale attuazione di un dovere morale.
Considerata nel suo oggetto, la morale è l’insieme delle regole di condotta che si impongono all’uomo vivente in società, mediante l’osservanza delle quali si ritiene che ciascuno realizzi la perfezione del suo essere individuale e dpi suo compito sociale. La moralità del soggetto consiste nel buon volere che egli ha di realizzare questa perfezione e nella attitudine acquistata a realizzarla: buon volere al quale la norma apparisce come una volontà superiore,, degna di essere rispettata. L’approvazione dell’atto buono e la riprovazione dell’atto malvagio, offesa del dovere, sono espressione di uh senso mistico di questo, giudizii di valore sentiti religiosamente.
La morale è dunque dovere. L’elemento mistico del rispetto la differenzia dalla condotta puramente utilitaria. Il dovere è in rapporto con una certa concezione ideale della condotta umana, che trascende l’interesse individuale, e lo colloca nel rango delle cose' religiose, venerabili e sacre. Esso è la volontà augusta di una coscienza tradizionale e collettiva; si fa intendere nella coscienza di ciascuno dal momento che questa è svegliata e formata da quella coscienza superiore, rivivente in essa e arricchita, a sua volta, dall’intimo sforzo della vita dell’individuo.
Per buona parte il dovere consiste in autolimitazione e rinunzia, ed anche in positiva devozione, cioè in rinunzia attiva, che va talora sino al rischio e al sacrificio della vita, per un interesse superiore, che non può evidentemente esser quello dell’individuo. Da 'questo intimo senso di una realtà e di un vincolo spirituale fra l’individuo e la società e la divinità è sorto, ed ha poi preso tanta parte nella vita delle religioni, il riio del sacri
ficio. Nel progresso del tempo, il sacrificio morale si è sostituito a quello rituale. La dedizione di sè è la vera azione sacra; e questo sacrifizio non sarà mai abolito, perchè esso è la forma essenziale del dovere sociale, condizione di vita per ciascuna società umana, tanto più necessario quanto più perfetto è l’ideale da attuare storicamente. Questo sacrificio non ha cessato di essere religioso, poiché esso è fatto a un ideale mistico e col senso di intimo rispetto che si addice a un tale ideale. Esso rimane anzi l'atto religioso per eccellenza, tanto più quanto più è consapevole e volonteroso. *
Anima del sacrificio è l’amore, dal quale tutte le rinunzie necessarie sono rese possibili e relativamente facili. E questo amore è religioso; anzi in ogni amore serio e sincero c’è qualche cosa di religioso. L’ultima parola dell’ideale umano è ramo-re. Ma è chiaro che questo ideale umano, per il quale si vive e si muore, non è mai stato, non è oggi, non potrà mai essere un programma puramente razionale, fondato sul calcolo esatto degli interessi sociali e individuali. Esso non è estraneo a questi interessi, ai quali vuol soddisfare nel miglior modo, ma li supera. Ad onta delle oscurità, degli errori, delle imperfezioni, esso rispecchia la forza misteriosa che presiède alla educazione progressiva dell'umanità; è mobile e grandeggia con questa vita che sale: è, senza dubbio, la suprema intuizione della coscienza umana, nel più alto senso, nel più religioso rispetto che essa possa avere della sua dignità.
Morale e religione sono dunque cose, distinte, ma unite; nel pensiero come nella storia. Sono due aspetti della vita superiore dell’umanità; insistendo nel penetrarne la natura e l’attuazione, si troverà che tendono ad essere una cosa sola, la pienezza dell’umanità: la religione essendo come lo spirito che anima la morale e questa la pratica della religione.
DOTTRINE E VITA MORALE
Le religioni storiche si sono affermate, non dimostrate. La ragione è intervenuta appresso, per favorirne il trionfo o per difenderle dagli assalitori; e si è preteso di costruire delle apologie razionali di una fede che non riposava che su se stessa. Ma la fede fissava i limiti alla ragione e le prestabiliva le certezze, che era poi facile vestire di argomenti dialettici.
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Ogni religione si creile definitiva; la più elementare come la più perfetta. Essa è un equilibrio morale, faticosamente raggiunto. in vista di certe condizioni date ai vita e di cultura; e ogni mutamento è pericoloso. Le religioni, giunte a maturità, si chiudono quindi in un sistema di tradizione e di dottrina e si oppongono al flusso della vita e della storia che passa oltre, e invoca nuove espressioni e nuovi equilibri. Dal principio, esse non cessano mai di trasformarsi per vivere ed insieme non cessano di moi ire, per difetto di adattamento al corso della storia.
La concezione dell’universo e della vita implicita in ciascuna religione, teoricamente formulata, costituisce la credenza, e il costume che se ne deduce la morale. L’insieme è un sistema pratico e mistico, provocato dalie esigenze della vita, che si mantiene rispondendo ad esse, e per rispondere ad esse ama circondarsi di venerazione e di mistero, chiudendosi così nel passato e distaccandosi dalla storia.
Le spiegazioni ingenue che le religioni hanno dato del mondo e della vita non resisterebbero mài a un esame più attento; sotto la critica esse si trasformano in miti, cioè in qualche cosa di letteralmente falso, ma che somiglia a una immagine prefigurativa delle realtà più nettamente percepita in seguito; sinché la foimula della nuova percezione, incalzando la conoscenza, diviene anche essa un mito. Le regole morali obbediscono alla stessa legge. Esse sono date come divine e assolute, e la vita, passando oltre e divenendo r più intensa e più ricca, le eccede; e i rappresentanti dei muovi ideali sono spesso severi verso gli antichi, accusandoli di vizio o di barbarie. Nelle crisi più gravi, se un nuovo ideale non si sostituisce all’antico, eroso dalla ragione, lo scetticismo supplisce la fede, con grande danno della società; poiché lo scetticismo morale è caratteristico delle società che si decompongono.
Questa necessità sociale delle religioni non è stata spesso compresa dai critici. Essi non hanno veduto in queste dei sistemi di disciplina sociale che permisero alle società di vivere e svolgersi; e che possono essere mutati o sostituiti, purché la disciplina sociale non ne soffra. Pretendere di fondare la vita sociale su delle massime razionali è vano; esse non hanno autorità: non creano il dovere, non ispirano la condotta. Il teismo, credenza senza misteri e morale senza Chiesa, è
ancora fede in una interpretazione dell’universo non volendo esser fede, o è pura escogitazione individuale, senza vita morale e sociale: la forza non si attinge che nelle profondità di un ideale comune. Esso non ha potuto prender radici nelle nostre società occidentali e la vecchia fede gli è sopravvissuta.
Una morale razionale è anche essa impossibile. I filosofi greci non seppero cogliere il carattere fondamentalmente sociale e religioso della legge morale; essi fecero appello all'iiylividuo. risolsero la morale in conoscenza; l’ellenismo non seppe creare o conservare una disciplina morale e sociale, e di questo difetto morì. Istruttivo è il confronto con l’ebraismo. costruito per l’immortalità, per la forza irreducibile della sua coscienza religiosa. morale e sociale, questi tre aspetti essendo una cosa sola.
Il più grande sforzo della filosofia antica, nella’ morale, è stato lo stoicismo; e non fu senza frutto. Poiché lo stoicismo ritiene una certa nozione del dovere che non era senza colore mistico: il saggio doveva obbedire alle leggi della natura, identificate alla volontà di Zeus, e la felicità attendeva chi si regolasse su questa volontà superiore, frenando o dominando gli istinti e le passioni, riuscendo — lo si diceva almeno — a sopprimere le emozioni che turbano la ragione. Esso è stato una scuola di virtù; ma la virtù vi è ancora confusa con la conoscenza del bene; disumano, nel modo di trattar le passioni naturali, aristocratico nel con? cetto. non poteva nè diffondersi largamente nè sostituire la religione: e il Cristianesimo lo ha vinto ed eliminato.
Incauti, certi saggi recenti hanno di nuovo tentato la costruzione di una morale indipendente, senza obbligazione o sanzione: od hanno preteso che la società si costituisse da sé, automaticamente, come religione e come inorale, quasi per una specie di geometria o meccanismo della condotta. Essi non potevano che trascurare e trascurando inaridire le sorgenti mistiche e religiose della volontà buona, della disciplina sociale e del sacrificio, a vantaggio di un individualismo utilitario disgregatore.
L’EVOLUZIONE RELIGIOSA E MORALE
Nel secondo capitolo il L. abbozza un Ì,'rande quadro, potente sintesi, dello svi-uppo religioso dell’umanità, dalle origini
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ad oggi. Egli mostra prima il sorgere graduale degli organismi sociali e di religioni in stretta corrispondenza con essi. Clan, tribù. Stato legano fortemente gli individui per mezzo di norme sacre e di riti, intorno a delle divinità proprie, in lotta con quelle di tribù e popoli concorrenti, esclusive, gelose. La società civile, nei suoi varii stadii, è tenuta insieme dalla religione, e questa è difesa còme il più grande interesse collettivo. Queste umanità nazionali erano strettamente chiuse in sé. divise dalle altre. Perchè apparissero delle religioni cosmopolite, più o meno universalistiche, in cui nazioni diverse si unissero in una stessa fede, era necessario sorgessero, per conquista o per commerci, mondi di cultura e di diritto più vasti.
La storia non conosce ancora nessun caso di religione la cui espansione non sia stata limitata nel quadro di un impero o di una razza; o che sia vissuta senza adattarsi alle precedenti condizioni pò--litico-religiose dei popoli che la adottavano. Il Cristianesimo si è foggiato dentro l'impero romano, penetrandosi del suo spirito; il Buddismo, emigrando dal suo paese di origine, si è mescolato altrove ai culti locali. Una coscienza comune dell'umanità, con un ideale religioso comune, non si è, sino ad oggi, formata.
Ma le congiunture della storia hanno dato luogo al formarsi di religioni le quali erano più che la coscienza mistica di un popolo dato, e si sforzavano di essere sia la coscienza mistica di una umanità più larga, benché ancora limitata, sia un tentativo di riforma dentro questa coscienza. Per distinguere tali religioni da quelle nazionali,, si potrebbe chiamarle economie di salute, perchè il loro scopo diretto e confessato non è di assicurare la fortuna di un popolo, ma di dare agli individui, dopo la vita presente, una immortalità felice. Esse hanno potuto nascere quando, nelle società giunte a un certo grado di cultura, l’individuo cessa di essere strettamente legato al suo gruppo sociale e la sua personalità si svolge e si afferma come per diritto proprio. Si offre allora al suo spirito l’idea di un destino speciale, che non si fonde con la perpetuità del gruppo del quale egli fa parte: e iniziazioni mistiche di varia natura gli si offrono, a condurlo per via. Così si producono religioni che possiamo dire più intime e discipline di salute personale.
Il L. esamina il sorgere di certe religioni orientali, rispondenti a questo fine, e le
miscele fra popoli orientali e mediterranei provocate dall’Ellenismo; e si trattiene poi più a lungo sul passaggio dal-l’Ebraismo al Cristianesimo, nel mondo ellenico e romano, nel quale, all’infuori della religione che trionfò, si notava già tanto fervore di iniziazioni mistiche, con credenze e riti di purificazione e di resurrezione in gran parte affini, e tanto oscuro anelito versò una religione universalistica. In questo movimento Roma non mise clementi nuovi; ma gli creò il terreno adatto e formò col suo organismo, con l’accentramento amministrativo, con le relazioni costanti e facili fra la capitale e le provincie, i mezzi della propaganda.
Un culto nuovo, costituitosi intorno all’annunzio del Regno da parte di Gesù ed alla credenza nella resurrezione di lui, diventa poi, con facile e rapida assimilazione, un mistero di iniziazione c di salute, vince i misteri -concorrenti e in tre secoli si impadronisce dell’impero. All’evan-gelo di Gesù il mondò greco-romano non avrebbe potuto convertirsi; esso si è convertito al mistero cristiano. Ma Gesù forniva a questo mistero un fondamento storico ed un ideale morale assai più consistenti di quelli dei misteri pagani.
Il Cristianesimo fece l’unità — unità relativa — nel caos delle religioni. Esso conquistò il mondo romano, ma lasciandosi conquistare da questo: fusi in uno, si sono imposti alla attenzione e al rispetto dei barbari. Poi l’Oriente, più mistico, si distaccò da Roma, che diveniva istituto prevalentemente giuridico. Più tardi il nord d’Europa si distacca ancora da Roma: i popoli germanici, anglo-sassoni e scandinavi, guadagnati più tardi al Cristianesimo, dai popoli latini o prima latinizzati: e il dissidio ha impoverito l'uno e l’altro gruppo di elementi religiosi essenziali, Ora le lotte confessionali e il movimento della civiltà moderna hanno finito per scuotere tutto l’edificio dell'antico domma. Le controversie dottrinali dei secoli xvi e xvii non facevano che mascherare, o svelare, i mutamenti profondi operantisi nella società, invocanti una nuova organizzazione delle forze umane nel nostro mondo occidentale. Il dilagare dell’incredulità nel secolo xvm fu un nuovo e più acuto periodo della crisi, che dura ancora. Dinanzi ai protestantismi, ai razionalismi, ai modernismi, il cattoli-cismo apparisce come il peso morto di una tradizione immobile, incapace di contenere la vita: ma molti elementi di
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vita esso racchiude ancora; c, nei suoi avversari, non vediamo la vita ncH’ordine, sibbene. assai spesso, l’agitazione nell’incertezza.
La guerra è la crisi di un mondo spirituale che cerca una nuova sintesi di umanità.
I CARATTERI DELL’EVOLUZIONE RELIGIOSA
È facile ora vedere i caratteri essenziali di questa evoluzione, benché le linee generali sieno incerte c capricciose nello sviluppo. Il punto di partenza è nella solidarietà dei gruppi umani, e il progresso è costituito nel far più salda la posizione della persona umana in una società mi-Sliore, fra i due eccessi, sempre presenti, ell’assolùtismo sociale e dell’individualismo disgregatore.
Costante ci si presenta l’indissolubile associazione, nello sviluppo umano, della religione e della morale, della fede mistica e del dovere. Il senso mistico del dovere .è assai confuso alle origini, quando il timore domina il rispetto; ma nel senso della necessità di osservare le leggi e le tradizioni del proprio gruppo, vigilate dagli anziani, c’è già in germe una elementare coscienza dell’utilità e insieme un primo senso del dovere mistico. L’esperienza del selvaggio non è semplice osservazione di fatti naturali, ma è legata ad una considerazione mistica delle cose nella quale è in germe la religione'. Le interdizioni sacre sono sotto la sanzione non solo dei capi civili, ma di potenze misteriose, che saranno più tardi gli dèi sociali.
Il precisarsi di questi nei miti c nei riti dice già un progresso; un rapporto personale si stabilisce fra essi e l’uomo, dando alla legge un carattere di interiorità, creando la responsabilità personale. Nasce la morale religiosa, in senso stretto. Un carattere anche più intimo prende il dovere nelle religioni di salute, nelle quali agli elementi sociali comuni si aggiunge una speranza personale di immortalità, con sentimenti e riti particolari. Certi culti mistici sono divenuti una vera orgia di individualismo; come è il caso delle confraternite dionisiache, di certe sette gnostiche nei primi secoli del Cristianesimo e di certi mistici cristiani in tempi più recenti; ma, in generale, nelle religioni di salute che hanno provato di sostituirsi ai culti nazionali Io sviluppo della coscienza individuale era in pro
porzione della coscienza più larga di umanità che esse affermavano.
Il monoteismo assoluto è più una costruzione astratta che una realtà concreta, poiché sempre Dio è stato più o meno il Dio di un gruppo o di una Chiesa; ma certo l’umanità divina del Cristo tradizionale fu un tipo di umanità ideale ed efficace. «Questo tipo è lo spirito del Cristianesimo traaizionale e, in verità, la anima della Chiesa; esso, perpetuamente riprodotto e individualmente rinnovato nelle coscienze cristiane, vi mantiene l’ideale religioso. Io realizza, nella misura in cui lo vediamo realizzato, in cui era realizzabile. Questo spirito è come una legge viva alla quale vengono subordinate le leggi tradizionali e le regole che si im-engono contingentemente alla condotta.
distinzione di una morale religiosa e di una morale umana non ha valore qui più che altrove, poiché non c’è morale più umana, nell’origine e nell’oggetto della morale cristiana. Si può oggi riconoscere che èssa non corrisponde più in tutto alle esigenze ed aspirazioni della nostra umanità; ma essa non è stata e non poteva essere che umana e la nostra umanità non avrebbe potuto, senza di essa, divenire quello che è.
La morale che si va facendo, se è umanità più ricca, non è tuttavia meno religiosa. Certe pretese concezioni razionali del dovere sono terribilmente incomplete. Nella vita pratica i teorizzatori della morale razionale agiscono anche essi secondo un ideale, non certo volgare, ma in nessun modo personale, se non nella applicazione; un ideale compreso e sentito come universale, un tipo di condotta morale che è come il migliore spirito della società nostra, e che si impone alla coscienza Come legge di bene, dalla conformità intima alla quale procede un senso di pienezza e di gioia.
Parallela alla nozione del dovere si svolse quella del peccato;, risultante dapprima dalla semplice infrazione materiale alla legge, poi anche dall’intenzione; punito per reazione immediata della coscienza sociale al delitto che la offende e minaccia, compì eso più tardi come un contagio. La nozione del peccato originale è uno sviluppo di quella del tabou. Pei gli ebrei delle origini esso doveva spie-, gare non il peccato individuale, non atto a destar sorpresa e bisogno di spiegazioni, ma la morte, che colpiva assai
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più l’immaginazione. Oppresso dal vecchio mito. Paolo vi ha costruito su l’antitesi fra la morte per Adamo e la salute per Cristo, la sua dottrina della redenzione e della grazia, delle due incarnazioni e generazioni. Restava da dire più esattamente come si trasmette questo peccato; e S. Agostino, giovandosi di nozioni attinte al manicheismo, ne trovò il tramite nella concupiscenza e nella .generazione carnale. Così fu costruito questo mito del peccato, che ha tanto pesato sulla coscienza del nostro mondo occidentale. Fatto curioso, il Cattolicismo, con la dottrina dei gesuiti, che ha ridotto il peccato originale a una semplice privazione, si è in gran parte liberato da quell’incubo, che pesa ancora su molti protestanti.
Anche la nozione di peccato è quindi di origine sociale, e fu indotta a spiegare il sempre rinascente contrasto fra l’individuo empirico e la legge; contrasto che accompagna tutto lo sviluppo umano e. ce lo fa apparire come un flusso perpetuo fra il dispotismo e l’anarchia, ma che tende costantemente a risolvere l’antinomia fra individuo e società in una concezione più chiara della libertà nell’ordine, di interiorità della legge, di elevazione dell’individuo, nella società e dei valori sociali in personalità più ricche e più saldamente costituite. Via via, la società dà di più all’individuo ed insieme esige di più. E il comandare diviene più manifestamente un servire, secondo la parola del Vangelo.
I FATTORI DELL’EVOLUZIONE RELIGIOSA
Fattori di questa evoluzione sono la fede, la tradizione, lo spirito di sacrificio, la ragione.
Interessante e degno di attenzione è il concetto di fede che il L. ci dà. « La fede non è la credenza, benché sia in questa e la animi; essa è un sentimento, una specie di istinto superiore (noti il lettore l’imprecisione di queste parole, ovvia in chi non giunga alla risoluzione del sentimento nella volontà) del quale il principio profondo non si lascia definire Siù che non faccia il suo oggetto ultimo; e i questo sentimento si può dire che esso è stato tutt’insieme bisogno, forza, molla. Perciò la fede sopravvive, in religioni nuove, alle religioni che muoiono. Essa è un principio di azione, il grande motore dell’attività umana, che dà a questa at
tività il suo significato proprio, ciò è a dire il significato morale, altruista, sociale, che vi mette un valore e non solo un interesse, un’anima di giustizia con una prospettiva di eternità. Si è detto che la fede sposta le montagne. In realtà essa non ha mai spostato un granello di sabbia; ma ha fatto di più che gettare in acqua i continenti; dal principio essa sostiene l’umanità nella sua dura e pericolosa odissea, conducendola sempre più alto, ottenendo da essa sacrifici più volontari, gettando nell’abisso tenebroso sul margine del quale va il nostro cammino il raggio di speranza che ci preserva dalla vertigine. In verità, la fede è il principio della vita morale nell’umanità; essa è questa Stessa vita, o almeno he è il succo fecondo ».
Amplificazione, che nasconde a stento la difficoltà di precisare. E il L. lo sente ed aggiunge: « Questa potenza della fede è il mistero dell’umanità ed il punto in cui questo mistero tocca l’altro dell'universo e si salda con esso. Poiché, affermando il valore morale dell’esistenza umana, la fede afferma anche, contrariamente a tutte le apparenze, il significato morale del mondo e della vita che è nel mondo. Se la ragione scuopre il meccanismo del mondo esterno, la fede percepisce istintivamente e rivela un mondo interno che non è meccanismo, che è coscienza e volontà, in cui la spontaneità della vita si determina in conoscenza del vero, in amore del bene; un mondo che, oppresso in qualche modo dal determinismo universale, non lascia di districarsene, di dominarlo almeno relativamente ».
Questo concetto della fede è il nocciuolo centrale del volume del L. Ed esso ne è, in qualche modo, anche il punto debole, appunto perchè non è un concetto, ma un mistero ed un mito. Più fòrte è il L. appena, sfiorato cosi il problema propriamente filosofico, rientra nel campo storico che è il suo proprio; e svolge acute osservazioni sulle crisi della fede, in cui cioè da vecchie credenze si districa la fede, nuova sempre ed antica come Io spirito umano. E se ne. districa per l’azione del dubbio; azione salutare sinché è inquietudine, ma che spesso _e quasi naturalmente degenera in scetticismo morale, il peggior male delle società che si decompongono.
Interessantissimo è anche lo studio sul valore della tradizione, testimonianza storica perennò al carattere ed al contenuto universalistico, e quindi sociale, delle fedi religiose, ed al loro carattere di pedagogie
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della società. « La forza della tradizione è nel sentimento di perennità che essa dà alla fede, nel senso dell’unità sociale, dell'unità umana, nella durata, per la stessa opera, ieri, oggi e sempre; è l’appoggio che la fede trova nel suo passato, pegno di conservazione ulteriore; è questo passato medesimo, vivo ancora nel presente e garanzia dell’avvenire. La tradizione avvolge l’individuo e lo penetra di una impressione viva di comunione con l'umanità di ieri, quella d’oggi e di domani. La tradizione viva è inseparabile dalla fede; è la fede che dura trasmettendosi. Ma i documenti della tradizione non sono la tradizione; ma i canali di essa non sono la sua vita continua. Nè un libro, nè un sacerdozio sono l'anima della religione; il che non impedisce che, entrando nella religione, essi la confischino a loro profitto, la materializzino c immobilizzino.
La ragione, come fattore di sviluppo religioso, è anche acutamente analizzata dal L. E sono, queste, fra le pagine più saporose del libro, più fresche, a volte, di viva immediatezza d’analisi.
Poiché questa ragione ha sempre fatto due parti in commedia. Sempre, anche quando si ammanta di scientismo, è anche essa, in fondo, una fede, una concezione mistica della materia, della natura e del mondo; e, facendosi teologia, è diventata spesso la principalissima responsabile delle intolleranze e degli eccessi sofistici delle religioni storiche. Ma insieme essa è sempre analisi, risoluzione di vecchi problemi e posizione di nuovi, e quindi critica e invenzione, distruzione e creazione; porta la fiaccola innanzi alla fede e segue questa, speculando e spiando con fredda curiosità, con un sorriso che talora diventa, sogghigno. E così precipita le crisi della fede e poi. per il suo abito critico, ritarda le nuove genesi, e rende quelle crisi tanto più vaste e pericolose. Per il bene della società, essa dovrebbe quindi diventare più rispettosa e più modesta in quanto è critica, più sincera in quanto è fede.
LA DISCIPLINA UMANA
Morale e religione e tutte le loro risorse sono dirette a dare una disciplina agli uomini ed alle società umane: dentro di essa e per essa si svolge e cresce l’umanità; e molti popoli sono morti o per i difetti della loro particolare disciplina o per negligenza in seguirla. Nella storia dell’uma
nità, per quanto essa ci è nota, non sono i violenti che prevalgono, come potrebbe Ì avere a una considerazione superficiale.
più celebri conquistatori sono passati cóme un turbine nel mondo, e quel che dura è l’opera dei popoli che hanno coltivato il loro talento. Noi possiamo dire quel che dobbiamo alla Grecia, a Roma, a Israele, quello per che la Grecia, Roma, Israele vivono in noi. L’opera spirituale delle nazioni è la loro opera eterna; ed essa passa ad eredi indiretti quando gli eredi diretti si mostrano indegni o incapaci di continuarla.
Se avesse seguito le passioni e gli istinti e la natura, l'uomo sarebbe rimasto incolto e selvaggio. Egli ha dovuto costantemente farsi o educarsi secondo una norma tratta da se medesimo e coordinare le sue attività a questo fine superiore: imporsi cioè una disciplina più o meno severa, spesso illogica nei suoi dettagli, ma tanto più efficace quanto più consapevole e costante. Perfezionare, interiorizzare questa disciplina è esigenza di ogni progresso ulteriore.
Disciplina e libertà non si oppongono, ma sono correlative. L’una è condizione dell’altra; la prima essendo l’iniziazione indispensabile alla libertà, la condizione permanente del suo esercizio utile, e questa non avendo ragion d’essere che in questo esercizio stesso e nei frutti che ne risultano. La libertà si misura dunque da quell’ideale di piena e sana umanità al quale tendono individui e società: la facoltà di sbagliare e di fare il male può essere, in un certo senso e misura, condizione della libertà, ma non è un diritto di essa: ne è piuttosto il rischio e l’ostacolo.
L’iniziazione alla libertà ha avuto sempre un carattere religioso nelle società primitive. Essa riguardava l’uomo, e la donna ne era più o meno esclusa; di qui l’incapacità tradizionale di questa alle funzioni del sacerdozio, conservata nel Cristianesimo.
Chi è padrone della disciplina con la Suale si formano gli uomini alla vita è pavone della società; di qui, nei tempi più recenti, e nei paesi latini, l’aspro conflitto fra due metodi di educazione e di disciplina, il religioso e il laico; parole, del resto, che non corrispondono esattamente alla realtà; poiché il primo è, piuttosto, confessionale e il secondo non può non essere religioso a suo modo. E l’uno ha spesso sacrificato alla preoccupazione confessionale l’ideale nazionale ed umano; il secondo.
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?er meglio differenziarsi, si preoccupava i essere anticonfessionale, anticattolico, perfino antireligioso più che di educare ad un ideale di vita il cui approfondimento ne avrebbe rivelato il carattere religioso.
Compito dell'educazione è formare lo spirito, esercitarlo, dare il senso e il gusto del vero. Non contano le nozioni date, ma le attitudini create ad osservare, a riflettere, a tradurre in pensiero chiaro e quindi anche a bene esporre quel che davvero si pensa. C’è nella educazione una immanente esigenza di sincerità, innanzi tutto verso se stesso, di unità e di armonia interiore, che l’educazione confessionale spesso viola e calpesta.
Eguale importanza ha l’educazione del « sentimento », della volontà; ravviamento alla vita morale. Essa è faccenda religiosa, da che non segue che sia affare delle religioni; come là vita, l’educazione è religiosità, guida a una concezione totale e valutazione etica del mondo e della vita, che è sempre in atto di farsi di nuovo; e le religioni non educano, ma diseducano, quando si oppongono a questa attività perenne-mente viva per costringerla nelle loro forme.
Il L. si diffonde poi a parlare dei vari Sradi della disciplina sociale: famiglia e tato; e tocca le più gravi questioni di carattere morale inerenti all’una ed all’altra nell’attuale stadio del loro sviluppo. Vuol mostrare come falsa e rovinosa sia la concezione corrente di un affrancamento dal Cattolicismo che sia a un tempo affrancamento dalle norme etiche, spesso molto severe, nelle quali la vita umana deve esser costretta per realizzarsi secondo le sue immanenti ragioni. Ogni volta, anzi, che la questione è così messa: Cattolicismo o indisciplina, egli sta per il primo contro la seconda; salvo a mostraré poi che l'antitesi è vana, e che dal.Cattolicismo non si può uscire e non si uscirà se non quando si sia trovato modo di salvaguardare sostanzialmente tutti i valori morali e sociali del quali esso aveva preso la tutela e possiede ancora un metodo di formazione, per elevare gli animi ad una più salda e severa disciplina. C’è un ideale di società umana piu alto e perfetto di quello al quale il Cristianesimo aveva assuefatto gli uomini; un ideale che esige più libertà di autogoverno per tutti, più giustizia, più larga, anzi illimitata, solidarietà e fraternità.
« L'idea dell’uomo e dell’umanità, della famiglia, della patria, della fraternità dei popoli e della giustizia da stabilire fra di
essi come fra gli individui nel seno di una stessa nazione, questa idea che noi incominciamo soltanto ora ad intravvedere ed a coltivare, che impone, in fondo, doveri più grandi dell’ideale cristiano, è più religiosa, è una più grande fede che il Cristianesimo stesso, poiché essa intende realizzare nell’umanità vivente la perfezione di bontà nella giustizia che il cristianesimo rinviava, per una specie di disperazione, all’eternità invisibile ed alla eventualità di un rinnovamento cosmico». Ma, aggiunge il L., « bisogna osare di dirlo: questo ideale umano è la più esigente delle religioni che sieno mai state concepite dagli uomini. E per questo esso reclama una specie di disciplina umana, rigorosa e profonda, che non è stata ancora applicata e nemmeno sognata dall’umanità ». E seguono pagine dense di riflessione intorno alla severità del dovere in questa società ventura di « redenti ».
Il L. distingue l’ideale umano dei gruppi più avanzati dal Cristianesimo; e ciò corrisponde ad una sua speciale nota concezione di questo. È da osservare tuttavia che i cristiani sociali degni di questo nome hanno rivendicato, e non senza buone ragioni, al Cristianesimo stesso la paternità dell’idea di giustizia sociale che il socialismo .divulga e... profana; e stabiliscono fra la loro religione e il Cattolicismo ecclesiastico 'un rapporto di successione simile a quello che corse fra (’Ebraismo e il Cristianesimo, attraverso la crisi spirituale de! Messianismo.
I SIMBOLI DELLA FEDE
Un’ultima ricerca: i simboli della fede; tanto più importante, nella concezione del L., in quanto la fede è misteriosa ed oscura, intimità e profondità in parte ineffabile e non può quindi avere linguaggio altro che il simbolo. Ed è noto oramai il rapporto che corre fra l’espressione ed il suo contenuto, la loro consustanzialità.
I mezzi speciali con i quali la religione sostiene lo sforzo morale dell’uomo, lo illumina e rinsalda, perchè la fede vi si appoggi esprimendosi e confermandosi essa stessa, sono la credenza e il rito; due forme di simbolo capaci di agire, mediante immagini che fissano la nostra attenzione, toccano la nostra sensibilità, mobilitano la nostra azione. Non tutte le immagini hanno tale efficacia; ma solo quelle che possiedono un valore mistico e per ciò' stesso sono capaci di commuovere i nostri senti-
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menti più profondi, le forze più vive e più nobili dell’anima.
I simboli sono opera della fede, fatti, spiegati e giustificati solo da essa, storicamente delimitati, spesso, fra due crisi della fede medesima.
Grande importanza ha per noi il simbolo cristiano. Il L. fa un riassunto, come egli può fare, del sorgere e delinearsi e precisarsi delle credenze nel Cristianesimo cattolico e del loro declinare, attraverso il libero esame, rivendicato dapprima alla intimità religiosa, poi alla ragione e alla scienza, le cui nuove conquiste sempre più discordano dal sistema dottrinale in cui le credenze si adagiarono. Cieco è oggi chi non vede la lenta e profonda crisi del domma, anche se a questo spesso si abbarbica con ogni sforzo una fede sincera, che suole identificare la certezza che essa ha di sé con la certezza della formula.
Dopo questo esame sommario del mito cristiano cosmogonico, cristologico, escatologico, e della crisi delle credenze cristiane, il L. si chiede quali possano essere le nuove credenze, verso cui l’umanità, emergente dal Cristianesimo storico, si avvia. » Che l’elemento vita, spirito, moralità, del quale noi siamo una labile manifestazione, sia essenziale nell'economia generale del mondo, è possibile, probabile anche, certo — se si vuole — metafìsicamente. Ma una bella metafisica non è quel che ci è più necessario per la nostra vita morale. La meglio costruita avrebbe sempre un carattere ipotetico e non parlerebbe che al nostro spirito. Il sostegno immediato della nostra vita morale non può più essere in una idea generale dell’universo, di qualunque nome essa si ammanti: ordine del mondo, unità dell’essere, comunità di fini, nozione naturale del divino od anche slancio dello spirito, evoluzione creatrice. Tutto questo, per la direzione della nostra esistenza, non è che l’ombra di Dio e non ha più virtù di un’ombra. Ci basta sapere, o meglio credere, — poiché è qui che interviene necessariamente la fede, il senso di una realtà intravista, che supera il campo delle esperienze esterne nel quale si compiace la ragione, ed è qui, per conseguenza, che avrebbe luogo l'articolazione della fede con la conoscenza razionale sul fondo comune della nostra natura intelligente — ci basta credere che, cercando il vero e praticando il bene, noi siamo nella corrente più nobile e, per quel che ci riguarda, più indispensabile della vita universale ».
Riappare qui il pregiudizio antimetafisico del L. Pregiudizio legittimo quando si rivolge contro i sistemi e contro il razionalismo, pretesa dell’attitudine della « ragione » a scuoprire un ordine di leggi naturale, oggettivo, assoluto, costituito all’in-fuori di essa; ma che rivela nell’a. poca conoscenza di una concezione, la quale non è sistema, benché abbia dato luogo a dei sistemi, ma conquista di una nuova e più Srotonda veduta della realtà, come spirito, el mondò come atto dello spirito, anteriore ad ogni distinzione di ragione e di fede; profondità dove, appunto, l’una si articola con l’altra, perchè sono una cosa sola.
E nel razionalismo ricade un poco lo stesso L., quando vuol meglio precisare, osservando che quel principio da lui posto non basta a fondare il dovere, l’oggetto e il sostegno della sua fede. Contenuto di questa è l’umanità; una umanità impersonale, universale, di cui l’individuo parrebbe essere un momento esterno e numerico, secondo la ragione, ma intimo e sostanziale, secondo la fede. Il L. vuol credere « all’avvento della umanità una, santa, universale e perpetua, vera Chiesa dello spirito, perchè da ora noi là vediamo tale, militante e soffrente, e perchè è nell’ordine della sua natura spirituale d’essere di più in più trionfante. I suoi progressi sono lenti, ma il tempo le appartiene, e il tempo lavora per essa ».
Senza dubbio la legge del dovere è una legge di sacrificio; ma la legge del sacrificio è una legge di amore, nella quale finalmente si trova là pace. Ma che cosa è questa pace, per chi si sacrifica? Che cosa è per lui l’umanità? Se questa è un fenomeno, nel tempo e nello spazio, il trasferire il problema dell’essere assoluto e perenne dalla coscienza individuale alla umanità non lo risolve, non fa che estenderlo ed aggravarlo. C’è dunque nel domma della immortalità personale un contenuto che il L. non giunge a vedere. *
IL RITO DI DOMANI
Stesso esame per quel che riguarda il rito. Il L. esamina dapprima la preghiera, che diviene nei mistici sforzo di conformazione alla volontà divina, eterna e assoluta. « non mea voluntas, sed tua fiat », ma che conserva nei più il carattere magico di una pressione su forze soprannaturali per il raggiungimento della nostra volontà. Questa seconda forma di preghiera ebbe per lungo tempo, ed ha ancora in parte, un
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grande valore sociale e nazionale. « Tali sistemi di culto, talora suntuosi, quasi sempre onerosi, erano in verità la forma spirituale della vita nazionale, che essi ispiravano ed alimentavano. Tutta questa spesa era nulla per l’effetto che i celebranti sene ripromettevano (di regolare il corso dei processi naturali e storici in senso favorevole all’uomo), ma nulla in fondo era perduto per la società che ne faceva le spese, tutte queste cerimonie essendo come il nutrimento della coscienza nazionale, che esse rinnovavano incessantemente, nel ricordo del suo passato venerabile e nella speranza di un avvenire felice. E il culto segnava anche della sua impronta e avvolgeva della sua influenza la vita degli individui e delle famiglie ».
L’influenza morale dei riti sacri si è fatta più penetrante, per riguardo agli individui, nelle religioni di salute, senza perdere nulla, il più spesso, del suo valore sociale.
La persuasione di condurre il mondo con la virtù del gesto e della parola magica è oggi caduta. La persuasione di condurlo guadagnandosi con sacrifici il favore degli dèi è anche caduta. La persuasione di agire sul corso delFuniverso e di guadagnare per l'uomo una immortalità divina mediante l’immolazione, una volta avvenuta, ma simbolicamente perpetuata, di un mediatore celeste, è in via di cadere... La sola cosa acquisita e, il più spesso, vagamente intravista, è l’effetto psicologico, sociale e morale, la realizzazione di forza spirituale e di solidarietà umana nella percezione più o meno distinta di un ideale vivente. Sotto le illusioni delle credenze c’era dunque una f rande forza, forza dello spirito, forza dei-umanità, forza della vita tendente ad espandersi nella autocoscienza e nella libertà. Incontestabilmente, il sentimento di questa forza, l’intuizione che ne ha la fede, hanno trattenuto sì lungamente gli uomini in religioni chimeriche, e trattengono ancora tante anime nella professione di un culto tanto ammirabile .per la sua efficacia morale quanto sconcertante nelle sue credenze.
In un breve esame dei vari riti sacramentali cristiani, il L. nota la povertà, in confronto, ad.es., alla consecrazione sacerdotale, del rito del matrimonio.^ Delle vocazioni comuni della vita nulla, nel rito cattolico, dimostra la grandezza. Mancanza che potrebbe essere in rapporto con quel che c’è di meno perfetto nell’economia morale del Cristianesimo cattolico.
Verso quali riti andiamo? Un culto non si improvvisa. La fede che si va facendo troverà i suoi riti. La comunione in un ideale umano, non ostante la resistenza che l'ideale non manca mai di provocare, è la cosa più ordinaria e, in un certo senso, la più naturale che ci sia fra gli uomini. Dacché l’ideale esiste, esso crea i suoi simboli, credenze e riti, o meglio esso si fa storicamente in una con queste sue espressioni. La condizione del loro successo, del loro valore educativo, è che nè le ime nè gli altri abbiano un significato astratto, che sieno l’espressione concreta e viva di un ideale che, per essere efficace, deve essere anche esso concreto e vivo. Tale ritiene il L. l’ideale di umanità giusta che egli ha delineato. Ma come esso si definisce via via in credenze efficaci e regolatrici di moralità, così vi si definirà anche in atti commemorativi e simbolici, espressioni comunicatrici di questo ideale vivo. E le celebrazioni religiose più solenni e vive saranno a un tempo le celebrazioni nazionali e quelle di una più vasta umanità, associata nell’idea viva e presente della sua unità.
Tale il volume del L. nel breve riassunto che abbiamo potuto farne. Per la rara conoscenza della storia delle religioni nel suo sviluppo vitale, per la serena soggettività con cui esse sono esaminate e giudicate, ed insieme per il convincimento saldissimo, appassionato, del fatto che lo spirito umano è religione, che religioso continuerà ad essere il suo sviluppo e che solo dalla potenza di trarre dalle vecchie fedi una nuova fede e dai vecchi simboli dei nuovi simboli dipenderà il valore pratico di questa tragedia umana che è la guerra, come di tutti gli sforzi verso una piu alta civiltà, esso è, per quanto sappiamo, la più alta espressione della inquietudine religiosa suscitata dalla guerra.
Molti potranno non esser contenti nè della critica del passato, che è in questo libro, nè delle soluzioni additate. Gli uni troveranno ancora nel misticismo del L., nel suo concetto della fede e dell’ideale umano, ombre di un pensiero non ancora pienamente chiaro a se stesso; altri, assai più numerosi, gli rimprovereranno il suo giudizio sostanzialmente negativo sul Cristianesimo, non ostante la comprensione storica piena di rispetto, e diranno, forse a ragione, che l'autore de L'Euangi/e et l’Eglise ha un poco sacrificato alle forme storiche il contenuto vivo e perenne di esso e non ha veduto che, in fondo, la religione
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stessa che egli ci presenta non è se non il Vangelo, liberato dalle angustie di Chiese che ne hanno, limitandolo nello spazio e nel tempo, compresso il divino ideale, e che abbia finalmente per Chiesa l'umanità.
Comunque, l’esame compiuto in queste a* le delle religioni storiche e quindi presente coscienza religiosa del mondo in guerra offre un prezioso aiuto a chiunque altro, di qualunque dottrina e scuola religiosa, voglia rifare in sè e per sè quell’esame senza timore della verità; e piena di conforto è la testimonianza fedele che esse
rendono al valore eterno della religione, contro ogni scetticismo religioso e morale. « Ilfgrido dello scettico disilluso: — O abisso, tu sei il Dio unico, — non è una parola sincera; esso mente in faccia all’umanità. Il Dio unico è il nostro ideale umano, che si fa sempre più grande, sempre più vero. Ben lungi che — un immenso fiume di dimenticanza ci trascini verso un gorgo senza nome— (Rénan, Prióre sur V Acropole), una potente speranza ci guida su di un oceano di vita senza fine ».
Romolo Murre
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REALTA E IDEALITÀ RELIGIOSA
(A PROPOSITO DI UN NUOVO LIBRO DI A. LO1SY)
Il filosofo e il politico che meditano su le tristi pagine della storia del tempo nostro, per preparare una migliore umanità, un’èra feconda di progresso intellettuale e morale, non possono impunemente trascurare il problema che riguarda il valore teorico e pratico della religione: risponde essa a uña esigenza naturale dello spirito umano, o è un prodotto di Í»articolari contingenze storiche, una ilusione destinata a scomparire dalla storia del mondo tostochè queste contingenze spariranno ? Vi sono nella religione credenze permanenti, atteggiamenti costanti che non possono venire per alcuna ragione rimossi e sostituiti ? Ha la religione un ufficio proprio e uno scopo da raggiungere, diverso da quello di altre produzioni dello spirito umano ? E se lo ha, come dev’es-ser fatta essa affinchè riesca veramente efficace cooperatrice dell’umano progresso ?
Al problema religioso sono intimamente, indissolubilmente legate e connesse le più gravi questioni di metafisica e di morale; problemi che abbracciano il vasto insieme dell’ordine del mondo, che si riferiscono alle sorgenti del bene e del male, al valore e al senso della vita, ai principi dell’etica non meno che alle applicazioni di questi principi, ai morali rapporti fra le nazioni e fra i singoli individui.
Ma ancor più grave e assillante si presenta il problema religioso quando incalzano eventi che sembrano distruggere le basi su cui, per lunghi secoli, le passate’ civiltà avevano trovato il loro assestamento e la loro giustificazione.
Che sarà di questa civiltà se le vecchie religioni si disgregano e rovinano? Non è forse vero ciò che è stato da diverse parti affermato, che le civiltà, nate, con le religioni, periscono con esse e che nulla è più
distruttivo delle ceneri delle estinte divinità? (i)
S’impqne quindi un riesame della natura della religione e dei supremi principi regolatori della vita spirituale, per vedere se la nuova società umana sarà religiosa, e, in questo caso, quale dovrà essere il suo orientamento, quale la sua religione, quale il contenuto di questa, quali i simboli della fede, che rinasceranno dalle rovine delle fedi tramontate e delle vecchie istituzioni.
Fra gli studiosi del problema religióso si eleva certamente d'assai la figura del valente storico ed esegeta Alfredo Loisy. Da circa un ventennio egli ci aveva abituati a sentire una parola semplice, ma sicura ed. efficacissima, per diradare i più astrusi problemi della storia e della esegesi deW Antico e del Nuovo Testamento. Non amava occuparsi di indagini psicologiche e filosofiche, ma preferiva rimanere, formidabilmente armato, nel campo a lui ben noto della storia religiosa e della esegesi biblica. Da qualche tempo, però, accennava ad uscire da questo campo, e scriveva non più d’Israele e degli Evangeli soltanto, ma anche della religione in genere, affrontando questioni filosofiche: non prima d’ora però aveva esposto cosi decisamente, su la natura della religione, il suo pensiero (2). Egli si propone ora di determinare l’ampiezza della religione, „di guardarla nell’insieme della sua evoluzione nell'intimità della sua vita, come disciplina dell’esistenza e, si propone di
(x) Cfr. G. Le Bon, Les lois psychologiques de {’¿volution des peuples. Paris, Alcan, X894.
(2) Alfred Loisy, La religion. Paris. Emile Nourry, 19x7. La vendita presso la Libr. Ed.BilytA-nis, Via Crescenzio 2. Roma. .Prezzo in Italia; L. 5.
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determinare, in certi elementi essenziali di questa disciplina, il pensiero e il rito religioso, per ottenere dalla varietà di questa contemplazione, la comprensiva conoscenza di una realtà così complessa.
Diverse dottrine filosofiche hanno successivamente condotto a diverse opinioni circa la natura della religione. Al metodo dell'apriorismo teologistico seguiva l’apriorismo razionalistico di Kant, Fries, Hegel, Feuerbach, Schleiermacher e quindi seguivano. quelle dottrine che, rifuggendo dall’osservare la religiosità là dove essa veramente si trova, nell’unità dello spirito umano, e rifuggendo altresì dall’esaminare i fatti storici, pretendevano inquadrare la religione nei diversi sistemi filosofici: onde la religiosità veniva interpretata or come prodotto della funzione conoscitiva, or come prodotto della funzione pratica e or come prodotto di quella contemplativa; confondendo così la religione o col semplice sapere e quindi con la filosofia, o con la vita pratica e quindi con la morale, o con la funzione contemplativa e quindi con l’estetica. Seguace di queste dottrine esclusiviste è stato lo psicologismo antintellettualista, dominante alla fine del secolo scorso, e che si può dividere in due diramazioni: in una delle quali la religione vien intesa or come esperienza immediata del divino nella coscienza dell’ ideale morale, or nell’assoluto che si riconosce immaneute nell’azione, e ora nell’intuizione del divenire; mentre nell’altra, di tendenze empiriche, la religiosità si fa derivare dall'esperienza realistica del divino nell’incoscio.
Alfredo Loisy si mostra seguace delle dottrine idiogenetiche e precisamente di Snelle che. da Comte a Durkheim, consi-erano la religione in funzione di valori sociali, separandosi da costoro solo in quanto egli non ritiene la religiosità, come voleva Comte, un’adorazione dell’umanità, nè come vuole Durkheim un autoadorazione della coscienza sociale, ma un'adorazione dell'ideale d’umanità. Secondo Loisy il problema religioso s’iden-yr tifica con quello dell’organizzazione della vita umana, conformemente a principi superiori che la dominano, principi morali questi, che sono, secondo lui, di alta reli-Ìione. I-a religione è un fatto sociale, un atto umano, dominato da umana idealità: nessun’altra realtà metafisica oltre questo ideale; il dio unico è appunto quest’ideale umano, egli dice, e l'im
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mortalità, sognata dalle vecchie religioni, rimane solo concepibile nel ricordo che si conserva dei defunti. Sui ruderi delle spente credenze solo la fede in un avvenire di umanità sempre migliore è il religioso elemento che permane. La religione appartiene all’ordine mistico-morale, caratterizzato dal rispetto; si può anzi dire, che essa sia questo stesso ordine, e nulla più.
Non una interpretazione razionale e come tale discutibile dell’universo, così come spesso è apparsa a filosofi superficiali, i quali non vedevano nella religione altro che credenze più o meno strane e curiose; questa interpretazione, secondo Loisy, sarebbe cosa del tutto secondaria: ciò che costituisce propriamente la religione, sarebbe invece il carattere mistico-morale che la concezione riveste, o piuttosto, il sentimento mistico-morale che l’uomo, a traverso questa concezione, sente per l’universo, per i suoi simili, per se stesso.
Come nasce la religione? Hebcrt aveva scritto che essa è un prodotto della educazione, della suggestione, della tradizione, e Loisy ripete che essa è una disciplina umana imposta dalla tradizione. La forza della tradizione è nel sentimento di perennità che essa dà alla fede; tradizione e fede sono forze attive della religione in cui è lo sforzo che l’uomo fa per adattarsi religiosa-mente, mistico-moralmente, alle condizioni di una esistenza mistico-moralmente condizionata.
Il fondamento della religione è la morale, e non solo il fondamento, ma anche la sua stessa vita. Religione e morale, dice Loisy, considerate nel loro oggetto e nelle loro manifestazioni sono cose distinte ma connesse; e lo stesso si dica se cosiderate nella loro storia. La morale non è religione, ma l’una non si può concepire senza l'altra. La determinazione speciale dei doveri non dipende dalla religione come tale, essendo questa la considerazione delle cose in quanto sono venerabili, non in quanto obbligatorie. Tuttavia, tanfo la morale che la religione si riferiscono alla vita superiore dell'umanità, della quale esse rappresentano piuttosto due aspetti, anziché due sfere distinte. I fedeli di una tale religione; aveva scritto Loisy in un precedente volumetto (1), non troveranno più alcun senso alla prima parte dell’antica promessa:
(x) Alfred Loisy, Guerre et Religion. Paris, Emile Nourry ed., 19x6.
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« Gloria sia a te nel più alto dei cieli », ma nella seconda: « Pace su la terra agli uomini di buona volontà ».
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Per spiegare l’origine della, religione, A. Ix>isy accetta la teoria animistica, e limitando l’ufficio della religione alle relazioni sociali, come fa Durkheim, ne viene di conseguenza il riconoscimento, dell’organizzazione totemica delle tribù, come religione originaria e universale. Per la medesima ragione, il culto primitivo doveva essere un culto magico. Da qui l’origine della vita religiosa, intesa come disciplina umana, e l’origine dei simboli della fede. La credenza fondamentale avrebbe per oggetto gli spiriti degli avi del clan, prossimi parenti di quelli della specie totemica. Le società primitive dovrebbero essere società totemiche, e il doppio celeste della società (doppio dovuto a un miraggio) sarebbe .costituito da spiriti; onde questa società, adorando quel doppio, sarebbe dominata soltanto dalla cura della sua conservazione per la quale unicamente, secondo Loisy, esistono l’universo e gli dèi che lo governano. Il dio supremo si fa in seguito, e il mondo divino resta il doppio dell’universo, la di cui umanità, simbolizzata nel dio supremo, è nel medesimo tempo una umanità più larga. L’origine dell’idea di dio sarebbe dunque sempre effetto di un miraggio c in essa non vi sarebbe altro che l'umanità personificata e divinizzata. Nè da questo miraggio farebbero eccezione le religioni più progredite. Anche il Cristianesimo, che non abolisce i vecchi miti e si fonda principalmente su di tre: il cosmogonico, il cristologico e l’escatologico, ora miseramente caduti, non fa eccezione, come non fa eccezione la così detta religione naturale, o credenza in un dio unico e nell’immortalità dell’anima umana, che non è altro, per Loisy, se non una riduzione dell’antica credenza, un effetto del medesimo miraggio, meno ingenuo, ma non meno illusorio.
Per limitarmi qui ad alcuni punti essenziali, a cominciare dalle origini della religione, dirò che non solo l’ipotesi animistica non è dimostrata vera, ma oggi non è più possibile fondarsi su la interpretazione dell’essere supremo come un doppiò del capo tribù, nè conseguentemente riconoscere la società celeste come un doppio di quella terrena.
Quando si scoprivano le credenze australiane in esseri supremi. Howitt. per ricon
durle all’animismo, cercava di applicare anche qui l’ipotesi del dóppio; ma contro questa ipotesi sorgevano gravi difficoltà.
È stato giustamente avvertito che gli Australiani non concepiscono l’essere supremo come il primo degli spiriti passati da questa all’altra vita, è che anzi non si tratta qui affatto di uno spirito, ma di un essere diverso dalla specie conosciuta. Gli Enahlagi dicono anzi che l’essere supremo riunisce tutti i totem nella sua persona. L'essere supremo australiano non è accompagnato dal consiglio degli anziani, come avviene del capo tribù; e se fosse un doppio di questo capo non si concilierebbe il credere nello stesso tempo che i capi tribù perdono, con la morte, ogni autorità su la terra;eche l’essere supremo nehauna grandissima; nè si comprenderebbe perchè l’essere supremo australiano sia pensato creatore del cielo e della terra, mentre i capi tribù hanno esercitato la loro influenza limitatamente al territorio occupato da questa tribù; nè perchè sia pensato come capo unico, ’mentre gli Australiani sanno che su la terra vi sono molti capi e non dipendenti gli uni dagli altri; nè infine perchè un capo tribù morto venga idealizzato sino al punto da poter far tutto e andar da per tutto, quando non solo la potenza del capo tribù, per quanto idealizzata, rimane pur sempre assai al di sotto di quella dell’essere supremo, ma anche la stessa, dopo la morte, si limita a continuare l’ufficio che aveva in terra, come gli spiriti dei morti continuano nell’al di là la medesima vita, mentre ben diverso è il caso dell’essere supremo. È impresa quindi assai difficile voler far derivare dal «nanismo .la credenza australiana nell’essere supremo.
’Ma senza entrare qui nei particolari, chè lo spazio non lo consente, basta volgere uno sguardo alle religioni primitive nel loro insieme per vedere che le credenze animistiche (alludo qui al totemismo) pur tanto diffuse, non sono universali e nemmeno da per tutto le più antiche. Lo stesso Loisy aveva notato in un altro lavoro (1) che 1 vestigi di culti di animali e di piante in Asia e in Europa non richiedono affatto la spiegazione totemica, e che talvolta animali sacri e animali totemici coesistono; egli affermava allora che la religione, se influenzata dal totemismo,non hailsuofon(x) Le totemismi et l'exgogamie, in Revue ¿'Histoire et liUiralure religieuse, 19x1-13.
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(lamento in esso.. Martin P. Nilsson(i) è del parere che il totemismo non può da solo spiegare l’origine della religione, e Bois, B.Spencer e Gillen hanno contribuito parecchio a métter in chiaro che il totemismo non è la forma unica e originaria della religione. Gli studi che gli etnologi ànno fatto d'allorasu l’evoluzione sociale in Australia, sono venuti alla conclusione che l’immensa maggioranza delle tribù, aventi una credenza a bastanza chiara e pura in un padre di tutti, appartengono a un circolo culturale più antico, a quello dei nigriti, dove il totemismo non è così sviluppato da regolare la vita matrimoniale. E per concludere, secondo le ricerche di F. Graebner, G. Mattew, Langlot-Parker, A. Gennep, A. ' Lang, E. Sitìney, N. W. Thomas, G.
Schmidt e altri, il totemismo non appare sempre come primordiale credenza religiosa.
Ora bisogna aggiungere che Io stesso totemismo non si limita alla concezione di rapporti sociali, come vorrebbe la scuola sociologica di Durkheim e come ritiene anche Loisy; sicché non solo il totemismo non è, come abbiamo visto, credenza e nomina originaria di universale vita religiosa, ma non può servire nemmeno a dimostrare che la religione originaria, se anche il totemismo lo fosse, si limita a un semplice rapporto sociale mistico-morale, o, per dirla col Loisy, a una realizzazione di forza morale e di solidarietà umana nella percezione più o meno distinta di un ideale vivente.
Se alle prove storiche volessimo aggiungere quelle psicologiche, potremmo facilmente vedere che per intendere l’origine e l'ufficio della religione bisogna ricorrere ad altre ipotesi, E come si deve rinunciare a trovare un tipo unico di religione primitiva universale, dal quale tutte le altre siano derivate, così bisogna rinunciare a trovare .una religione che sia semplicemente un prodotto dell’attività pratica e il suo oggetto dato nell’esperienza immediata di un. ideale di umanità.
L’ufficio della religione infatti non è solo quello di appagare. pratiche esigenze, ma anche teoriche. Se l’umanità non comincia col chiedersi chi ha creato il mondo, ma col cercare quale doveva essere il suo
(x) Primitive Religion, 19x1
atteggiamento per appagare^ dapprima i più urgenti bisogni della vita fìsica, e di poi le esigenze spirituali, pure non troviamo religione, per quanto rozza, che ricusi di appagare anche esigenze spirituali; e non ne troviamo che non possegga miti esplicativi degli oggetti naturali, del destino del mondo e dell’uomo, di ciò che maggiormente colpisce l’attenzione nelle diverse civiltà e nelle particolari contingenze in cui si esplica la vita umana; e sono 8recisamente le relazioni che l’uomo stailisce tra sè e le invisibili cause supreme quelle che costituiscono la relazione religiosa. .
Vero è che poche persone si prendon cura di spiegare la fede e di rendersi conto di ciò che la religione insegna; ma questo "non dev’esser inteso come una mancanza di esigenza noetica nell’anima primitiva e K'*i precisamente.nella coscienza religiosa.
religione è vero, non dice: ciascuno cerchi la suprema verità; ma vuole che tutti, per suo mezzo, la posseggano; e quindi la massa degli uomini che vive senza speculare su le cause prime e le ultime finalità, trova nella religione anche l’appagamento delle sue esigenze noetiche. A. Loisv non ha ragione di dire, parlando di religiosi, che cercare chi hacrea*o il mondo non ha più senso per noi e non poteva averne per il primitivo; lo ha invece per il primitivo e per noi : e per quanto oggi possiamo formulare queste concezioni in modo diverso da quelle dei primitivi e anche, se si vuole, della tradizione giudaica, pure sappiamo che una religione la quale lasciasse inesplorato ’1 mistero delle origini prime e delle ultime finalità, non sarebbe adatta ad appagare le esigenze dello spirito umano. Non si tratta di un puro interesse speculativo che la religione deve appagare, ma nemmeno esclusivamente di un interesse pratico; perchè è dalla concezione metafisica del mondo che le religioni ricavano insegnamenti morali per la vita pratica. La religiosa concezione dell’ordine metafisico determina il religioso atteggiamento pratico e questo si trasforma radicalmente con la trasformazione di quella; mentre anche di fronte ai mutati eventi della vita, l’atteggiamento umano può rimanere lo stesso, e deve logicamente così rimanere, quando identica rimane la concezione della suprema realtà metafisica.
. Ciò che deve dunque postularsi nella religione non è un ideale limano, ma una realtà concepita come divina, e cioè al di
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fuori dell’uomo, superiore a lui. indipendente da lui e dal mondo:' e per quanto questa credenza possa esser , con fusa, deve nondimeno dirsi essenziale, poiché da essa provengono le primitive sistemazioni delle esperienze sensibili, e, con le primitive norme per la vita religiosa, i culti primitivi. Ed è precisamente da questo micleo di credenze, lo si noti bene, che si sviluppano tutte le religioni; non dalle superstizioni, le quali, contenute spesso nel corpo di credenze ed atti costituenti le religioni primitive, non suscettibili di sviluppo, rimangono identiche in tutti i tempi c vengono tramandate, senza subire alcuna trasformazione, da una a un’altra civiltà.
Lo stesso deve dirsi della vita religiosa, perchè se essa contiene, presso i primitivi, parecchi elementi superstiziosi, non è da questi, ma dalle pratiche religiose che si sviluppa il religioso atteggiamento. Lo stesso si dica delle emozioni che, associate presso i primitivi, ancor più che presso i popoli civili, ad emozioni che non sono specificamente religiose, non devono esser confuse con queste, come accade talvolta, per il fatto che queste emozioni accompagnano riti magici e totemici. Così non avremo nemmeno ragione'di confondere le pratiche specificamente magiche e superstiziose con quelle*religiose, nè le emozioni che accompagnano le prime con le emozioni che accompagnano le seconde. Non si doveva quindi dall’insieme delle primitive credenze e pratiche religiose .e superstiziose, che informano tutta la società nella sua vita pubblica, privata, civile, morale, spirituale ed economica, non si doveva, ripeto, far derivare la religione, perchè appunto nella vita primitiva bisognava anzitutto isolare quel nucleo che è specificamente religioso.
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Se ora dall’esame dell’origine e dell’ufficio della religione passiamo a considerare la concezione che ha Loisy della natura della morale, intendiamo meglio in qual modo sia egli venuto alla conseguenza che morale e religione siano così indivisibili da non potersi concepire l’una senza l’altra.
La morale, secondo Loisy, consiste nell’insieme delle regole della condotta imposte all’uomo vivente in società. Non si tratta, nella morale, secondo lui, della semplice, cosciente adesione dello spirito a un principio riconosciuto giusto e dall’agire conformemente a questo principio, ma del
sentimento che si ha della regola come volontà superiore alla quale si deve ubbidire, e dell'azione degna di stima o di biasimo secondo che si è rispettata o no quella volontà. In altri termini, morale, per Loisy. equivale a rispetto alla legge. La ragione può consigliare, non obbligare; ciò che obbliga è la volontà generale riconosciuta giusta dalla ragióne, cioè, come superiore ad essa e avente perciò il diritto, che non ha la ragione individuale, di comandare su la volontà di ciascuno.
Ora è chiaro che in tal modo Loisy ha accordato alla morale quel carattere obbligatorio che è proprio dell’esteriore comandamento religioso. Ma se da un canto l’obbligazione religiosa non trae la sua vita dalla costrizione sociale, ma dal riconoscimento che ciascuno fa degli obblighi religiosi come i più importanti e decisivi per l’uomo e per il suo destino, e anche come i più elevati nella gerarchia di valori, d’altro canto l’obbligazione morale non può neanch’essa ridursi a una costrizione sociale. La volontà di tutti non può essere giustamente accettata cóme volontà morale se non nel caso che la si riconosca tale, e quindi solo nel caso che il comandamento, proveniente dalla volontà sociale, sia conforme a quello che emana dalla coscienza etica. Ogni obbligazione esteriore, provenga essa pure da un corpo mistico, come è ritenuto quello sociàle da Loisy, se non è riconosciuta giusta, non può dirsi morale. Se domandiamo infatti come riconoscere se sia morale il senso di obbligazione che impegna l’individuo verso la società della quale fa parte, verso l’umanità di cui è membro, verso l’ordine mondiale — che per Loisy si confonde, o meglio si limita ai bene dell’umanità — e se domandiamo come riconoscere se questo corpo mistico-sociale pretende il giusto o l’ingiusto,, noi non possiamo ottenere alcuna risposta soddisfacente; e così doveva accadere allorché si sostituiva la coscienza etica — ciò che è fondamentale per la morale — con l’obbedienza ai dettami del corpo sociale. Nè vale il dire che l’individuo ha obblighi vèrso la società, e ripetere ancora una volta quanto Comte aveva voluto insegnarci. La società che ha dato all'individuo alimenti e assistenza, ha fatto opera giusta, ma .l’individuo non la farebbe se, anche per gratitudine, obbedisse a comandamenti che ripugnano alla sua coscienza etica: ed è ben diverso il caso in curia ragione consiglia, da quello
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in cui la coscienza comanda; solo in questo ultimo caso si può dire che abbia luogo il sentimento morale, o retto odio ed amore, come preferiscono dire alcuni filosofi. L'obbligazione quindi, se non lo è, non diviene morale per il fatto della sua provenienza da un corpo mistico-sociale.
E vi è di più. Se neghiamo il principio fondamentale dell'etica, che è riposto, come ho detto, nel retto riconoscimento del bene e del male, nel retto odio ed amore, come sapere se sia giusto l’ideale proclamato dal corpo sociale? Non può dircelo il sentimento di solidarietà, come vorrebbe Loisy, perchè questo, per se stesso, non è un sentimento morale, ma lo diviene se si ha consapevolezza che la solidarietà ha un fine buono. Così, per esempio, la solidarietà che lega i malfattori tra loro non può dirsi certamente morale. Non può dircelo lo spirito di sacrificio alla comunità da parte del singolo individuo senza indagare se esso abbia veramente un carattere morale. Il sacrificio, come tale, è un atto semplicemente eroico e quindi nè morale nè religioso. Non può dircelo il concetto di sacro, nè sacro è, come invece vorrebbe Loisy, tutto ciò che è interdetto; ma sono gli oggetti sacri che come tali vengono interdetti; così mentre la infrazione alla legge è una colpa, questa diviene peccato se si tratta di cosa sacra. Non può dircelo la devozione e il sensodi rispetto che spesso non sono nè morali nè religiosi. E dopo ciò, non si comprende come possa giustificarsi il voler fare di un ideale di umanità—che come tale non è nè morale, nè immorale — oggetto di religione.
L’obbligazione esteriore non crea la morale, ma è il sorgere della coscienza etica' che crea le obbligazioni morali; e la tradizione lungi dall’essere principio di obbligazione morale, non può esserne che la conseguenza, quando anche la tradizione, come talvolta avviene, non sia principio di perseveranza nel male. L’obbligazione religiosa, giova ricordarlo, è creduta proveniente da fonte trascendente, non da autorità umana. Da qui quella particolare forza posseduta dal dovere religioso che lo distingue da ogni altra obbligazione umana. Questa può anche esser riconosciuta ingiusta, erronea, ma non quella che proviene dal dio. E anche quando l’obbligazione umana è riconosciuta morale, npn diviene per questo fatto immediatamente religiosa, ma solo se è riconosciuta come proveniente da quelle fonti divine; e quando, per dirla con Leibniz, la religione la incorona di raggi che si elevano verso il cielo.
Ma avendo Alfredo Loisy identificato il problema religioso con quello dell’umanità, ne veniva di conseguenza la inseparabilità, anzi la identità della religione con la morale. Nè valeva il dire che la differenza tra religione e morale consiste nel fatto che la religione considera le cose in quanto sono venerabili e la morale in quanto sono obbligatorie, quando poi tanto l’una che l’altra si riassumono sotto il medésimo concetto del sacro.
Si .dirà che guardando la storia delle religioni, queste appaiono costantemente unite alla morale, ed io, contro Waitz, Lubbock, Goblet d'Alviella e gli altri che hanno sostenuto la tesi della precedenza di una religione amorale, sono pienamente d’accordo con Loisy che nega una tal precedenza. E dirò di più, che non solo non vi è, ma non vi può essere religione amorale, perchè una tale religione sarebbe assurda, essendo la prescrizione di norme morali uno degli scopi precipui che essa si propone. Le medesime leggi supreme sono dalle religioni definite in termini morali, e le, ultime finalità non sono che finalità morali. Una religione che concepisse il mondo come un sistema amorale, o che solo rimanesse indifferente rispetto alla condotta umana, sarebbe contraddittoria, postulando essa una suprema legge morale della quale è rivelazione, funzione, applicazione. La inseparabilità Suindi della religione dalla morale è fonata su la natura medesima della religione.
Questa indissolubilità però, bisogna aggiungere, è unilaterale, perchè non è ugualmente fondata su la natura della morale. Mentre la religione è inseparabile dalla morale. questa è separabile dalla religione, e per sua natura indipendente da essa. Basterebbe guardare i sistemi morali areligiosi per convincersene; e per rammentare solo di antichi moralisti, nè Aristotele, nè Epicuro, nè gli stoici fondavano la morale su la religione. E infatti, i motivi che determinano l’azione morale possono essere attinti dalle religioni e anche da singoli elementi religiosi, come credenze, abitudini, o suggestioni; possono, dico, ma non debbono essere attinte necessariamente da esse. La legge morale è per sua natura autonoma, e la sua sanzione è una sanzione naturale.
Per sgombrare ogni dubbio, gettiamo un rapido sguardo su la storia dei rapporti tra morale e religione. La storia della morale è associata in origine con quella della religione, ma ciò avviene perchè nella storia
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della primitiva civiltà la religione è il centro dal quale come tanti raggi si dipartono le attività umane. Nondimeno, bisogna convenire che è impossibile avere una morale concezione religiosa prima che si desti la coscienza etica: c non essendo possibile, come ho detto, una religione che non includa norme per la vita morale, così dovrà dirsi, se mai, che è possibile una precedenza della morale rispetto alla religione e non viceversa; in questo senso Martineau e Brentano potevano dire che la morale precede la religione.
Ma la morale, nata nella vita spirituale, in una sfera diversa da quella della religione, non rimane indipendente da quest'ultima che tende invece ad assorbirla compieta-mente ed a confonderla nella sua medesima vita, quantunque non vi riesca appieno. Ed è per questo che nella storia ci è dato vedere come morale e religione agiscano reciprocamente l’una su l’altra, ciò che non avverrebbe se la morale si fosse del tutto esaurita nella via religiosa. Le antiche cosmogonie e teogonie, in origine, erano amorali e vennero in seguito ad acquistare un carattere morale. Molti doveri, riconosciuti dapprima come tali, indipendentemente dall’obbligazione religiosa, vennero solo col tempo ad acquistare il carattere di obbligazioni religiose. E così man mano che la coscienza etica progredisce, le norme morali delle religioni vengono a subire, sin dove è possibile, una riforma: appunto perchè la maggiore visione etica, sviluppatasi al di fuori delle norme religiose — che tendono a rimanere stabili — non può a lungo durare senza spingere la religione — che mal si regge accanto a una coscienza etica più sviluppata — ad accettarne le norme e quindi a rivestirle di carattere religioso. Grandi movimenti morali si compiono nell’ignoranza completa dell’elemento divino nel .pensiero umano, o almeno con una confusa idea della divinità: e gli stessi grandi riformatori religiosi trovano spesso maturi i semi per la morale quando li raccolgono per gettarli nel solco aperto e fecondo della coscienza religiosa.
Ma religione e morale non hanno lo stesso oggetto, nè sono coestensive. La religione ha per oggetto la realtà suprema, per scopo la salvezza umana, per mezzo la vita morale; la morale, invece, ha per oggetto la virtù, per scopo il raggiungerla, per mezzo lo stabilire norme opportune. Chi è consapevole della propria religiosità, chi sente esigenze religiose, è conscio di sentimenti ben diversi da quelli che provengono dalla
coscienza dei diritti e dei doveri. La morale stabilisce i rapporti tra uomo e uomo, la religione quelli tra uomo e Dio; e questa comunica alle leggi morali un carattere sacro che l’etica non può dare, perchè non si può attingerlo dall’umanità ma dalla divinità. La religione non si esaurisce nei precetti morali, nè tutti i suoi insegnamenti si propongono uno scopo morale, nè tutte le sue norme sono morali : essa prescrive culti che non van compresi nell’attività morale, e impartisce comandamenti che possono persino trovarsi non in piena armonia col grado di sviluppo raggiunto dalla morale. Questa completa, arricchisce e nobilita la concezione e la vita religiosa, ma il suo ideale è compreso tutto qui, su la terra, fra gli uomini,-mentre l’ideale religioso non è mai completamente realizzato, nella vita terrena, ma nell’al di là.
• • •
Ripeteremo ora ciò che Loisv diceva nella sua prima lezione al Collegio di Francia, esser cioè la religione mossa dall’aspirazione dell’umanità verso un ideale vagamente percepito e voluto di società buona e di coscienza soddisfatta? Non vediamo invece che la religiosità ha vita dall’apprensione del divino e la vita religiosa dalla precisa necessità di evitare, superare o vincere il male, di raggiungere il bene supremo, eh’ è al di là della vita terrena? Se ammettiamo invece con Loisy che oggetto della religione sia un ideale di umanità4 non solo il religioso dovrebbe riconoscerlo, ma l’interesse della religione dovrebbe essere tutto rivolto al bene sociale.
Per cominciare da quest’ultimo punto, osserviamo che l’uomo, in genere e il religioso in specie, non può essere interpretato col sociologismo come ricevente dalla società tutto ciò ch'egli è, e quindi restituente ad essa tutto ciò che ha ricevuto: in tal modo si renderebbe inesplicabile il progresso e l’impulso chea questo hanno dato gli uomini di genio. I.a coscienza sociale è un’astrazione che non ha realtà indipendente dalla coscienza degli individui, ed è solo in funzione di queste coscienze, quando sono in armonia, che si può parlare di una coscienza sociale. Se infatti i membri di una comunità avessero su qualche punto diversi propositi, se fossero tra di loro in disaccordo, non sarebbe più possibile, nemmeno figuratamente, parlare di una coscienza sociale. E giustamente avvertiva
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Boutroux (1) che se si volesse ammettere una coscienza sociale indipendente da quella individuale, si dovrebbe pensare aegli individui come fatti di due pezzi separabili: l'io individuale da una parte c una frazione dell’»e sociale dall’altra.
L’uomo ha invece una doppia funzione: da un canto riceve e accumula il risultato delle esperienze degli individui riuniti in collettività, dall’altro arricchisce e trasforma questa esperienza; da una parte egli riceve l’azione dell’ambiente sociale, dall’altra reg^isce e può persino mettersi n contrasto con questo ambiente.
Se ora consideriamo la coscienza, umana come religiosa, dobbiamo applicare i medesimi principi che sono validi per i rapporti tra individui e società. La religione della comunità non è un prodotto sociale, ma un prodotto di singole coscienze religiose in armonia fra di esse. Quando la religione si è costituita viene imposta ai singoli individui che man mano si aggregano alla comunità; ma la religione diviene funzione dello spirito solo nel caso che essa sia funzione della sua vita interiore, solo ne! caso cioè che sia vita individuale. Se la religione della comunità non è riconosciuta da tutti come vera ed efficace per il destino umano. Sorgono gli eretici: e se si formano altre credenze religiose, sorgono nuove fedi, appunto perchè la coscienza religiosa individuale non è rimasta assorbita da quella sociale. Il soggetto reale della funzione religiosa rimane sempre la coscienza individuale, centro dei fatti psichici accaduti nell’ambiente e le di cui risonanze giungono sino a lui. centro di vita religiosa e quindi di individuali e di sociali esigenze religiose.
La distinzione che fa Loisy tra magia e religione appare, da questo punto di vista, inesatta, perchè quando sappiamo che la religione è un culto ufficiale e pubblico, mentre la magia è un rituale privato, spesso mal visto e anche proibito, non abbiamo chiarito la natura dell’una e dell’altra, sib-bene le condizioni in cui esse vivono. Niente esclude che un insieme di riti magici divenga pubblico e ufficialmente riconosciuto come accadde in Assiria; e niente esclude che una religione possa essere odiata e malvista e costretta a un rituale privato, come avveniva in Roma pel Cristianesimo
nei primi anni della sua storia. Ma la religione. anziché limitarsi a un culto pubblico e a interessi sociali, è anche un culto individuale ed ha cura degli interessi individuali. come dimostra la conservazione della personalità che essa garantisce dopo la morte terrena. Anziché dire che la società primitiva ha cura delia propria conservazione. come fa Loisy. si dirà meglio che l’individuo à cura della propria conservazione. Non è quindi vero che l’individuo religioso abbia un solo interesse, quello sociale; l’individuo può insorgere contro quest’interesse tutte le volte che lo crede ingiusto, o in contrasto col suo. Pertanto Beniamino Ridd (1) aveva giustamente riconosciuto che la religione dà la sanzione soprannaturale a tutti gli atti dell'individuo là dove gli interessi individuali e quelli dell’organismo sociale sono in opposizione, e subordina i primi ai secondi per la grande* evoluzione che compie la razza. La religione garantisce interessi) individuali e sociali insieme, e pochissimi accetterebbero spontaneamente una religione se ‘questa servisse solo ai fini della comunità. I santi non sono necessariamente eroi che si sacrificano per il bene della comunità, ina uomini virtuosi che hanno spesso vissuto una vita solitaria ed eremitica. Essi hanno persino talvolta odiato il mondo come fonte di male, e rifuggendo da esso non hanno sperato di raggiungere un ideale di società buona e migliore, ma un mondo al di là che, lungi da essere un ideale di questo, nessun rapporto hanno creduto aver con esso, dominato dal cieco destino, dal karma, dallo spirito malefico, pervaso e corroso dal peccato umano.
Se esaminiamo ora l’oggetto della religione dobbiamo negare che questo sia stato o pòssa essere un ideale di umanità.’
La realtà che è oggetto della religione, ed uno dei due termini necessari al rapporto tra l’individuo e la divinità, non si esaurisce nella contemplazione, nella morale o nel sapere, non si esaurisce nella esperienza psichica che dà l’ideale di umanità. La scienza naturale può strappare alla natura il segreto delle sue leggi per piegarne le innumerevoli e for(1) Science et Rclizion dans la pMosophtc can-letnpwaine. Paris, Flmnmarion. tooa.
ti) I.‘evoluitone toaale, trad. it. Firenze, Barbera, 189R.
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iniziabili forze e metterle ai servizio dell’uomo, ma non può condurre l’uomo al dominio che di una parte piccolissima dell’immenso sistema che sfugge alle sue prese e il di cui senso intimo e profondo cade al di là del suo sapere. La scienza può condurre a intendere ciò che è divino nell’universo, nelle costellazioni roteanti negli spazi siderei, come nell’umile fiore del campo; può distruggere molte cause del dolore e della colpa, la fame, la povertà, la malattia, l’ingiustizia, la violenza; può accrescere la potenza dell'ingegno umano, c quindi può elargare il dominio dell’uomo su se stesso e sul mondo. Si può aver ferma fede che siano schiusi all’uomo nuovi orizzonti verso plaghe infinite, ma nè scienza, nè morale daranno riposo all’anima individuale che anela ai raggiungimento della beatitudine. L’amore del bene e del giusto, . l’amore verso gli uomini è necessario al religioso come la pietà; ma questo amore, come la contemplazione dell’armonia della natura, come la scienza naturale che ne indaga le leggi, come la stessa formidabile immensità dell’universo, rimangono sempre nella cerchia del finito, del condizionato, e l’uomo tende ancora più in alto. Negare alla ragione la facoltà di raggiungere verità metafìsiche: applicare questo principio alla esplicazione religiosa del mondo; ridurre il riconoscimento della realtà religiosa a un decreto del volere che lo esige per l’attuazione di un ideale di umanità; interpretare il suo oggetto come un miraggio dello spirito che adora principi personificati e non realtà trascendenti, obiettive, attualmente esistenti, equivale a ridurre l’ufficio della ragione umana a un semplice strumento per il raggiungimento di fini pratici, e a fare della religione qualcosa profondamente diversa da quella voluta dai religiosi. Il filosofo può limitare la validità della conoscenza umana ai fenomeni, può negare che essa abbia una obiettiva validità, può pensare conscguente-mente che le credenze circa le realtà metafisiche si fondano su illusione e miraggi; ma il credente non dubiterà mai dell’esistenza di un mondo trascendente dal quale egli dipènde,' e se ne dubitasse non sarebbe più credente, cesserebbe di esser religioso.
Nei postulati del pensiero religioso, il divino lungi dall’esser un’idealità posta in un nebuloso avvenire, è una realtà che precede l’uomo nel tempo; lungi dall’essere oggetto ideale è una realtà trascendente. Nessuna traccia di adora nione d’un ideale d’umanità nel feticcio e nel roana: nessuna traccia nel naturismo e nel manismo; e se nelle religioni primitive incontriamo uomini-dei, non è l’uomo che si'trasforma in dio da se medesimo, ma sono uomini che vengono divinizzati, perchè una divinità si è in essi introdotta. L’ideale di umanità di Loisy; come l’infinito di Max Müller, sono elicetti logici, mentre la religione reclama un oggetto reale, attuale. Non si tratta nella religione di una idealità che è solo reale in quanto è oggetto del nostro pensiero, ma di una realtà viva e attuale che sussiste per sè, anche quando non si pensa ad essa, di una realtà che si crede governare il mondo, di una realtà da cui l’uomo .crede dipendere, e non come può dipendere da un ideale, ma da un essere che ha esistenza obicttiva, più completa di quella umana. L’alleanza, l’aiuto, il sostegno, la difesa, la grazia, il perdono, la clemenza che il religioso domanda ed invoca non si fendano sopra astrazioni, ma precisamente su credenze che si riferiscono ad esseri estraumani o sovraumani. E se la divinità vien definita con termini presi a prestito dalla categoria dell’ideale, ciò non avviene per effetto di un miraggio, ma perchè l’uomo non ha mzezo migliore per rappresentarsi la grande realtà con cui ha fede di trovarsi in relazione.
Si potrà dire che nel futuro, sgombrati gli errori, possa l’uomo appagarsi di una religione che miri a interessi esclusiva-mente limitati alla, sua vita terrena, e tenda solo a nobilitarla, ad elevarla moralmente ? Non potrà l’uomo adorare un ideale di umanità in vece di una divinità ? Non potrà appagarsi dell’opera sua che lascia un ricordo duraturo e benefico per l’avvento d'una umanità sempre migliore, anziché sognare una personale immortalità?
I.c religioni possono liberarsi dagli errori, ma non possono sostituire impunemente l’oggetto specificamente religioso con uno'che non lo è; e quando, come nell’antico buddismo, se ne allontanano, esse non si perpetuano. Ih buddismo si diffuse e perpetuò nelle masse quando'si amalgamò con le religioni di tipo comune, con la credenza negli dèi, con la nozione positiva dell’immortalità dell’anima* e quindi col culto che ravviva rielle masse la fede e rende possibile una più uniforme vita religiosa. Non si vede come raggiungere
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con una religione, che abbia per oggetto un ideale di umanità, una educazione nazionale e di umanità che conduca le masse alla completa, attiva e perseverante devozione. Si può anche dubitare che l’ideale di eguaglianza e il benessere umano sia raggiunto al di fuori della vita propriamente religiosa membri della comunità non si possono sentir solidali gli uni verso gli altri solo in vista di vantaggi materiali. La giustizia e la libertà sono, è vero, le basi di un ordine sociale perfetto; ma non vi è giustizia e libertà, nè solidarietà senza un’alta concezione religiosa dell’esistenza. Questa offre la base alla morale e stabilisce la profonda fraternità umana, assai più della comune partecipazione ai beni della terra. Il sentimento del dovere fondato sopra un ideale di umanità non è e non può essere per tutti agualmente efficace, e se si apre all’uòmo una prospettiva di benessere, non si eccitano che appetiti. Il benessere è irrealizzabile se gli appetiti sono insaziabili, e non vi è un limite che ne definisca il diritto. Vi è il dovere, si risponde, che lo limita, e la migliore ricompensa del dovere è la soddisfazione di compierlo. Ma giustizia, moralità, dovere, saranno vane parole per la maggior parte degli uomini senza obbligazione proveniente da una concezione religiosa dell’esistenza, e invano si vuoi raggiungere la fòrza d’unà obbligazione religiosa col sentimento di umana fraternità, col desiderio di compiere un nobile e alto ideale di umanità, che sono di efficacia assai più limitata di quella obbligazione.
La fraternità umana non si ottiene con semplici disposizioni internazionali, o minacce di pene, come, con la prigionia e la forca non si ottiene la eliminazione dei delitti. La fraternità umana non si raggiunge col suggerire un unico e grande ideale di umanità se questo non trova fondamento su ciò che permane tra le mutazioni della storia. Non è la violenza che distruggerà la violenza, ma il rispetto religioso e il sentimento morale.
Una evoluzione progressiva dovrà condurre l’umanità ad avvicinarsi sempre più alla religione ideale; ma una religione ideale non sarà quella che avrà perduto ciò che costituisce la sua natura, sibbene quella che, libera da pregiudizi e superstizioni, da ciò che è teoricamente erroneo e praticamente inefficace, avrà sviluppatoci massimo grado le sue migliori qualità. La reli
gione della futura civiltà, se deve appagare anime migliori, deve essere più ricca e completa; ma senza la credenza in un governo divino del mondo, in una legge di giustizia eterna, immutabile, riparatrice della ingiustizie terrene; senza la cooperazione dell’umano col divino; senza la credenza in un ordine metafisico che sta al di sopra del mutevole e fugace mondo visibile in cui si vive, si soffre e si‘spera; senza la credenza in una immortalità personale non vi sarà religione. L’effimero ricordo delle virtù dei defunti non dà la vita a chi l’ha perduta; la resurrezione delle nostre migliori speranze non potremo attenderla se più non saremo. L’effimera speranza di una umanità sempre migliore non dà vita a questa umanità; e poiché l’uomo non può trovare sicurezza nè garanzia nella natura umana, l’opera sua non assicura l’evento di una progressiva civiltà.
L’uomo che vedesse limitare il suo orizzonte alla vita terrena, ignorando donde viene, dove va, che si svolge in virtù di forze cieche che lo sostengono, povero essere lanciato come piccolissimo atomo pensante nello spazio infinito; dominato da ingranaggi che girano senza scopo, senza mèta, senza freno; navigante incontro al proprio destino e solo per un’ora nell’eternità, impotente a scansarlo, senza speranza di mutarlo; l'uomo che perdesse l’assoluta garanzia che il bene trionfi, che sia fatta giustizia rimuneratrice a chi ha vissuto una vita di dolori, quest’uomo cadrebbe nel più disperato pessimismo e avrebbe ragione di chiedersi: a che giova l’ideale umano, se lascia dietro di sè tante ingiustizie e se cadrà alla fine nell’eterno silenzio, nella morte, nel nulla ? E come potrebbe infatti l’uomo lottare e soffrire per il bene, se non attendesse da una legge suprema e infallibile la vittoria della giustizia su la violenza, dell'amore su l’odio, della bontà su la malvagità, della verità su la menzogna ? E come potrebbe nutrire questa speranza se si fondasse unicamente su le deboli sue forze e guardasse anche solò intorno a sè, dove così spesso vince il male sul bene, l’ingiusto sul giusto ?
Il sentimento religioso è affermazione prepotente dell’aspirazione dell’individuo a sottrarsi dal dolore che pesa su la vita umana per raggiungere uno stato di beatitudine ; è aspirazione a sottrarsi dall'annullamento e dal male per acquistate individuale eternità e felicità. L’uomo cerca Dio, aspira a Dio, e vuol divenire
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divino per condividerne beatitudine, c immortalità, e diviene religioso solo quando ha trovato Dio. La società, lo Stato, l’umanità ideale non sono termini della religione, non scopo ultimo, non suoi oggetti, ma materia sua. L’anima, diceva Channing, è più sacra di tutte le istituzioni ed è fatta per sopravvivere ad esse; l’uomo non è stato fatto per essere assorbito nell’insieme della comunità, ma per la sua propria perfezione. La religione mira alla conservazione di valori individuali umani per trasformarli in valori individuali divini, non per sopprimerli e annullarli in una impersonale umanità.
L’oggetto della religione non sarà dunque il corso eterno di una umanità anonima.
sempre antica e sempre nuova, in cui l’antico si mescola col nuovo in un indistinto continuo. La religione che si riducesse all’ adorazione di un ideale d’ umanità non sarebbe più capace di compiere le sue specifiche funzioni, e avrebbe sostituito il suo oggetto con un altro assai mitico e mal sicuro. L’ideale d’umanità è ben piccolo se avulso dalla concezione religiosa, se concepito nella breve e incerta vita nostra che lo persegue senza raggiungerlo. Esso è grande soltanto se concepito come norma della vita religiosa, come una breve linea che rivela l’immenso disegno della suprema realtà che infinitamente lo supera e lo trascende.
Mario Puglisi.
È nostro dovere affidare a queste pagine il ricordo di un caro giovane che per parecchio tempo ci fu di valido aiuto nel lavoro della Rivista. Egli era allora
studente nella Scuola Teologica Battista. Quando fu chiamato alle armi, era Pastore Evangelico Battista a S. Gregorio Magno (Salerno). Divenne soldato di Santità ... Il 2 luglio u. s. è caduto sul Piave ... sotto
tenente di fanteria, anzi volontario ardito. Intelligente, studioso, ardente di fede, generoso fino al sacrifizio,
EDOARDO ROCCO
dev essere ricordato nella schiera dei giovani migliori d’Italia che si sono dati volontariamente per la Santa Causa.
Raccogliamo qui parte d’una lettera ch’egli scrisse nel settembre dello scorso anno al collega A. Fasulo :
< ... Ero allora in Sanità. Prestavo la mia modesta opera in un ospedale: bendare qualche ferita, lenire qualche dolore, asciugare qualche lagrima : era opera santa e buona che onorava il mio cuore cristiano. Ma quando poi riflettevo che quella ferita versava il sangue di uno dei tanti soldati nostri dai capelli resi grigi dagli anni, e quel dolore racchiudeva la nostalgia per una casetta lontana, per piccoli bimbi aspettanti il loro papà, e quella lacrima significava il mistero di una super-consacrazione angosciosa... io, giovane, mi sentivo umiliato e avvilito, sentivo che non èra vera pietà offrire bende e conforto quando potevo offrire me stesso, pel suo posto, in trincea.
• E poi, il sapere che un privilegio, di casta, direi — quello che godono tutti i ministri di culto —- mi teneva in Sanità, era ragione di sofferenza continua per me: per la mia coscienza era transigere con un favoritismo immorale, condiscendere ad una ingiustizia sociale di cui la guerra, quésta nostra guerra di redenzione, avrebbe dovuto a quest’ora guarirci.
. «Mi decisi. Volli il mio posto nelle armi combattenti. Mi fecero fare il corso allievi ufficiali. Oggi sono aspirante a sottotenente di fanteria, già proposto a sottotenente. Sono stato già in mezzo al fuoco. Ho dolorato e sofferto, ho amato e benedetto. Ho fissato con gli occhi aperti la morte e ho visto la gloria nostra balenare sulle linee aspramente contese.- La mia anima l’ho intesa più libera, il mio cuore più puro...»
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LA CARRIOLA
(LA BROUETTE)
Eome un figlio di re, a sorprendere abusi, a scovar prepotenze, a sventare sorprusi, pei domini paterni, senza veste regale, va in ronda; così, a volte, la sua fronte mortale Gesù ripiglia e in giro se ne viene pel mondo, Telemaco divino serenamente biondo.
San Pietro, vecchio Mentore, l'accompagna nei viaggi: per non tradirsi ha sotto la cappa aureola e raggi.
Un giorno — era d’inverno — il Signore ed il Santo per monti e piani avevano camminato mai tanto che sostarono a un bosco. — Tutte le rame spoglie, per la terra muffita triti mucchi di foglie. —
In suo cuore san Pietro faceva sogni vani : sedersi a una fiammata, riscaldarsi le mani... Ma la sola casetta che si scopriva intorno, col suo colmo di seccia, in quel cielo piovorno, non spandeva l’allegro pennacchietto di fumo che fa pensare a un buon cantuccio ed al profumo della zuppa di casa. Il più savio consiglio era godersi lì nel bosco il sol vermiglio, un solicello timido, oh, appena un tantino tepido, ma un tesoro, in quel triste mattino.
San Pietro intirizzito, stanco di camminare, sedutosi a quel sole come ad un focolare, prima l'una, poi l'altra vecchia mano diacciata sgranchiva dentro quella scialba luce rosata.
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INTERMEZZO
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Gesù intanto lì presso, diritto in piè, pensava A che cosa?... Nè freddo, nè fatica provava.
All’improvviso Pietro gridò: — Maestro, là, là in fondo, guardate quella donna che fa! Oh, per l'anima mia! non vedete che vuole quella povera pazza?... ma raccogliere sole!
Gesù calmo alzò gli occhi. Una curva vecchietta era là, dal profilo adunco di civetta — la vecchiaia dei campi. — Ella, scansando il rezzo/ con una carriola si teneva nel mezzo d'un sentiero ove il sole inviava un suo raggio; e appena le dorava il misero carriaggio, faceva atto ridicolo di caricarne, e via, in fretta in fretta andava, con alacre energia premendo sulle stanghe. Ma allo scarto più lieve di qua o di là da quella traccia pallida e breve di luce, ecco che il sole s’involava.
San. Pietro si divertiva un mondo, mentre teneva dietro a queiringenuo gioco: prima la gran cattura del bel raggio di foco nella carretta scura e fra Passi motose, poi il suo pronto sparire. Oh che curiosa cera — senza punto capire perchè il sole sì rapido ci fosse e non ci fosse faceva la vecchinà! che stendeva commosse un momento le braccia, quando il sole svolava, ma presto e pazientemente sempre tornava a tentare il gran colpo. — 0 può esser più grulla! ...Benissimo!... di nuovo!... Un affare, di nulla! — — San Pietro ripeteva. — Come, come rideva!
♦ * ♦
Ma ecco che Gesù punto di maraviglia., accostatosi a quella povera donna, piglia con estrema dolcezza a chiederle così: — O donna, vuoi tu dirmi quel che tu fai costì ? Ma ci pensi?! Nel bosco, con la sizza che regna, invece di raccoglierti un buon fascio di legna e di foglie risecche, vuoi raccogliere sole ! E poi che sole!... —
— Ma,... è il bimbo che lo vuole, gli risponde la donna, sollevando la testa, e io lo porto a lui. O chi altri gli resta, fuor di me sola povera sua nonna?... Ed è malato! Questo freddogli ha ucciso la mamma; e se n'è andato anche il babbo! E io non posso guadagnarmi il campare: le braccia non mi reggono. Posso sì spigolare, ma è lavoro che frutti?... E intanto se ne muore nella buia capanna il mio piccolo amore, senza una chicca, senza un boccon di focaccia.
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senza nulla di ciò che sulla bianca faccia il sorriso richiama fin dei bimbi morenti. Oh, non poter viziare un bimbo! Che tormenti per chi è nonna!... Oche dargli?... Io già mi ci struggevo, quando stamani appunto, come appena l’avevo desto: « O nonna, sapessi come sarei felice se avessi un po’ di sole! » di stianto egli mi dice: perchè, sa, quel bimbino mai e poi mai la spera del sole vede entrare nella capanna nera!...
Io, allora, qui scopro questo grande conforto, e un briciolo di sole mi piglio e glielo porto.— E la vecchia tranquilla torna a provar daccapo.
• ♦ ♦
Gesù ascolta : è commosso... Ma Pietro crolla il capo: Dice: —Ma è pazza!... Ecco, non ha fatto due passi, e il sole?... Oh, ma che testa! È più dura dei sassi!
Non capisce ragione. —
*iV
Gesù con pietà guarda la donna asti atto: poi esclama: — Ninno sa ciò che possa dei semplici l’amore. Non intende
il buon Pietro, e la sua frase ancora riprende: — Ella è pazza. Signore, ella è pazza!... — Però, come già quella notte quando il gallo cantò, ad un tratto s’arresta, perchè con occhi lieti quella donna cammina. Fra le quattro pareti della carretta, chiara in mezzo all’ombra nera, come un bel blocco d’oro ¡sfolgorante c’era!
Senza punto scomporsi, la donna muta e sola trasportava del sole nell'umile carriola.
Qui quondam (dalle di Roitwd).
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PERI5GO/RA DELL'ÀNIMA
GESÙ E LA RIFORMA DELL’INDIVIDUO*’’
a differenza di Socrate, il quale esercitò una profonda influenza personale sul pensiero, Gesù esercitò una profonda influenza personale sul sentimento.
Per esercitare questa influenza Egli fu istintivamente costretto a creare una nuova scienza: la scienza delle anime, la quale consiste nel modo di attrarle, di scandagliarle, di leggervi in esse come in un libro aperto e di renderle, quasi diremmo, trasparenti. È certo pertanto che, da Gesù
in poi, l’insegnamento più degno di questo nome fu sempre considerato quello che va da un cuore a un altro cuore. Il segreto di un siffatto insegnamento si può apprendere solo alla scuola di Gesù. Presso gli antichi non fu affatto conosciuta l'azione individuale sulle anime. I Greci, i quali idolatravano il bello, sceglievano i loro sacerdoti, cioè le loro guide spirituali, non tra i giovani più buoni ma bensì tra i giovani più avvenenti, onde Anacarsi ebbe a dire: « I Greci davano il premio alla bellezza e i barbari lo davano alla virtù ». I Romani d’altro lato affidavano ai loro sacerdoti il solo compito di presiedere a festose cerimonie, dimostrando per tal modo che la vita morale dell’individuo non era una cosa che li riguardasse. Gesù invece, prima di accingersi a qualsiasi altra riforma, si rivolse all’individuo. Su di esso Egli basò tutta la sua opera.' Il Maestro che in cielo non vedeva se non il suo celeste Padre, in terra, oltre le bellezze della natura e gli aculei del dolore, non vide se non le anime dei singoli individui. Questo è notevole nel Vangelo, che mentre le folle del continuo cercavano Gesù, Gesù del continuo cercava l'individuo. Fu per tal modo Ch’Egli rivelò il valore dell’uomo come uomo. Se prima si annetteva valore all'uomo non per se stesso ma soltanto per certe ragioni esteriori che Io contraddistinguevano
(•) Dal volume recente: Pietro Chiminelli: Gesù di Nazareth - Studio Critico-Storico. - Pagine xv-524. Prezzo L. 4. In vendita presso la Libreria Editrice Bilychnis, Via Crescenzio 2, Roma.
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- come la nascita da gente libera oppure in una data città e via discorrendo -Gesù considerò l’uomo per l’uomo. Egli ebbe il dono di scoprire sempre qualche nota interessante, anche nelle persone che apparivano come le meno interessanti. Anche i più semplici individui, che altro non erano considerati se non come impari « unità », Egli li assommò nel computo dell’umanità e in ciò riuscì molto meglio che non riescano i moderni uomini di Stato.
Per tal modo Gesù scoprì l’anima universale.
Scoprì l’anima del fanciullo, della cui esitenza i farisei dubitavano. Scoprì l’anima della donna della cui esistenza dubitavano gli Elleni. Scoprì l'anima dello schiavo della cui esistenza dubitava la filosofia. Scoprì l’anima del peccatore della eui esistenza dubitavano nel loro orgoglio tutti gli aristocratici dello spirito. Gesù la scoprì e la rivelò all’individuo, creando nel mondo il più puro degli individualismi. « È cosa tragica pensare ‘che un numero così esiguo di persone ‘posseggono la loro anima’prima di morire. Emerson dice che‘nulla è tanto raro in un uomo, quanto un atto che sia suo,. Ed è assolutamente vero. Cristo non fu soltanto il supremo individualista, ma fu il primo individualista della storia. Nella sua visione della vita. Gestì è d’accordo con l’artista il quale sa che, per la legge inevitabile dello sviluppo perfetto del proprio io, .il poeta deve cantare, lo scultore pensare nel bronzo e il pittore deve fare del mondo lo specchio delle sue emozioni: cose naturali come il fiorire del biancospino {a primavera, l’indorarsi delle spighe al tempo della mietitura, il mutarsi della luna da falce a scudo e da scudo a falce. Ma mentre il Cristo non ha mai detto agli uomini: Vivete per gli altri, ha però indicato che non v’è alcuna differenza tra la vita degli altri e la nostra e con questo mezzo Egli ha dato all’uomo una personalità estesa e titanica. Dopo la venuta di Gesù, la storia di ogni individuo particolare è o può divenire la storia del mondo » (1).
E, ciò che è ancora più importante, Gesù non si limitò a scoprire e a rivelare all’individuo là sua anima e la sua personalità, ma gliela volle trasfigurare. Come il sole fa sbocciare la rosa e dischiude il calice del giglio - preziosa coppa d’argento in una gloria di pistilli d’oro - così il contatto di Gesù trasfigura le anime e rinnova le coscienze individuali. È a Gesù che l’uomo moderno deve quanto ha di migliore e ogni suo slancio verso il bello, il buono e il santo. Nè può essere [diversamente, poiché Gesù, a detta di un antichissimo apologeta (2), è « 1? legge viva » della coscienza; è « una morale vivente ed eloquente » (3), e il fondatore stesso dell’unico « messaggio morale (4).
Spesso ci si è domandati che sarebbe diventato, alla scuola di Gesù, qualche eletto spirito del paganesimo il quale non lo conobbe. Chissà, a contatto col Maestro, che sarebbe diventato Cicerone il quale per primo e in un modo elevatissimo parlò della Provvidenza, quel Cicerone la cui immagine - due secoli dopo la di lui morte - un imperatore romano faceva collocare fra gli dèi tutelari della propria famiglia ! E Vergilio ? A contatto con Gesù che cosa sarebbe
(1 O. Wilde, De profundis, pagg. 36-37. Milano, Sonz. Trad.
(2 Lattanzio.
(3 Luthard, Dieci lezioni, Firenze, Claudiana. Trad.
(4 A. Harnack, L'Essenza del Crist. Trad. Bocca.
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diventato quel delicatissimo cantore delle bellezze naturali, quella canora personalità di poeta del quale la tradizione vuole che Paolo da Tarso abbia visitata al Posillipo la tomba e abbia esclamato: « Oh sommo poeta, qual uomo io avrei fatto di te se t'avessi conosciuto ! ».
È certo però che chi fu con Gesù sentì sempre un principio nuovo nella propria vita e un fervido lavorio nella propria coscienza. Sarebbe una fruttuosa ricerca quella che ponesse in luce le testimonianze a lode 'dèi cristiani primitivi fatte da quei pagani loro contemporanei i quali pure non potevano perdonare ai medesimi la recente conversione. E dire che quelle testimonianze sono le testimonianze di Plinio, di Epitteto, di Galeno, di Libanio e di Giuliano ! Questo è un segno evidentissimo che il contatto con Gesù aveva interiormente rinnovati que’ suoi discepoli.
Quale metodo pedagogico adoperò Gesù in questa cura d’anime ? Quale fu il suo contatto con i suoi discepoli e i suoi convertiti ? La trattazione di questo argomento sarebbe vastissimo. Vi accenneremo solo schematicamente.
Vera « coscienza della coscienza » (i), Gesù fu dotato di una acutissima introspezione delle anime, Ch’Egli lesse intimamente come un libro aperto portando la luce della sua conoscenza fin nelle pieghe più nascoste. Così la donna di Samaria potè dire che Egli le « aveva detto tutto quello eh’essa aveva fatto » (2) Così il figliuolo di Tolmai, meravigliatissimo, domandava a Gesù: « Da che mi conosci ? » (3). Così lo scittore del quarto Evangelo acutamente notava che Gesù « da sè conosceva quello che c’era nell’uomo » (4). Non ci fu nessun altro al mondo ch’ebbe, come Gesù, conoscenza della natura dell’anima, delle leggi dell’anima e della direzione dell’anima.
In base a questa conoscenza, Egli fu ottimista con l’individuo ed ebbe fiducia anche dell’individuo più immeritevole. C’è stata, a questo proposito conservata dal Talmud una significativa tradizione circa Gesù. Narra la tradizione che Egli passava un giorno per una sudicia via campestre nella quale c’era un capannello di sfaccendati i quali, intorno alla carogna di un cane, erano intenti a fare i loro commenti. Ognuno diceva la sua contro quel povero animale: Com’è deforme ! - Gli è caduto tutto il pelo ! - La sua pelle non vale più nulla ! -Che pelo sozzo !... Gesù, ascoltati quei commenti, aggiunge alla sua volta, dolcemente: « Ma però i suoi denti sono vere perle ! » È una tradizione talmudica. A ogni modo è certo che Gesù si fidò nell’uomo e si fidò al punto da proporgli, come vetta di perfezione da raggiungere, nientemeno che la perfezione del comune Padre celeste (5), e di affidare a qualcuno ch’egli aveva da poco conosciuto il più grave compito che mai uomo avesse ricevuto: l’apostolato.
(1 Vinet. Opere. Losanna. ■
(2 Gxov. IV, 29.
(3 Giov. I, 48.
(4 Giov. II, 24. Adduciamo qui anche altri passi dei Vangeli dai quali risulterà luminosamente tutto l’insegnamento di Gesù intorno all’anima. Cfr. Matteo X, 28 e 39; XVI, 26: Luca XII, 16-21: XIV, 26; XVII, 33.
(5) Matteo V, 48.
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Orbene, quest’ottimismo di Gesù verso l'uomo fu un aureo criterio pedagogico, nel senso che moltiplicò costantemente le energie in ogni uomo generoso che abbia voluto mostrarsi pari alla fiducia riposta in lui. E Gesù sospinse, all’eroismo l’uomo ! Egli non s’appellò alle emozioni o alle opinioni, ma alla volontà dei suoi, esercitando su di essi un vero magistero di educazione. Ecco alcuni, moniti del Maestro. A uno Egli dice recisamente: « Seguimi ! ». - A un altro : « Prendi la tua croce e seguimi ! ». - A un altro ancora: « Non temete coloro che possono uccidere il corpo, ma non l’anima ! » (i). Oppure: « Se la tua mano o il tuo pie’ ti fa cadere in peccato, mozzalo e gettalo via da te: e se rocchio tuo ti fa cadere in peccato, cavatelo e gettalo via da te ! » (2).
E ad altri, infine, metteva avanti - in contrasto con le virtù comuni, umane e calcolatrici dei pagani - le sue nuove virtù sulla base del « superamento » individuale e dello « straordinario » cristiano (3). Era nelle inesauribili ed eroiche risorse che la natura cela in sè, che Gesù faceva affidamento. Questa fu una regola a cui costantemente s’attenne il Maestro, anche nelle occasioni che parevano le meno indicate per una consimile lezione di eroismo.
Eccone un esempio. Un giorno i due figli di Zebedeo, appoggiati alla propria madre - con una ambizione maggiore che non ne avesse mostrato Cesare quando disse di « preferire d’essere il primo in un villaggio piuttosto che il secondo a Roma » - chiesero nientemeno a Gesù di poter essere i primi nell’ imminente regno messianico, ch’essi supponevano materiale e mondanamente spettacoloso. Quale sogno, ambizioso quello di questi due fratelli ! Eppure Gesù se ne serve per spronarli all’eroismo più eccelso poiché Egli, nonostante la superficie del loro orgoglio, li sa sinceri e scopre nella loro audace natura quel metallo nel quale si fondono gli eroi. Perciò, non volendo lasciar cadere a vuoto una tale riserva di slancio lodevolissimo, chiede loro con una figura ben nota nella letteratura e(1) U. Zuinglio, trafitto a morte, mentre assisteva .in qualità di cappellano dell’esercito zurichese, i combattenti, spirò pronunciando queste parole di Gesù. Oggi sul posto della sua morte, dentro ad una siepe viva, c’è un blocco di granito con l’iscrizione: ■ Essi possono uccidere il corpo, ma non l’anima! Così disse in questo luogo — Ulrico Zuiniglio, morendo da eroe — per la verità e per la libertà della Chiesa cristiana. 11 ottobre 1531 ».
(2) Gesù deve avere ripetuto più volte questa sua forte immagine metaforica. (Cfr. Matteo V, 29-30 e Matteo XVIII, 8-9). Spesso si ha fatto dello spirito intorno a queste parole del Maestro. Leggerézza e ignoranza: ecco la ragione di queste arguzie di belli spiriti. Un orientale che ascoltava Gesù quando teneva un simile linguaggio iperbolico, tante intonato alla mentalità siriana, non lo avrebbe certo interpretato materialisticamente. Esso ben sapeva che « tagliare un membro dal corpo ■ non significava rimuovere un peccaminoso desiderio del cuore, ma, ben più semplicemente, significava che l’uomo e le membra del suo corpo devono portarsi davanti a Dio come strumenti di giustizia. Il Maestro con questo parlare alludeva alla credenza ebraica secondo la quale i corpi dei risuscitati sarebbero stati identici al loro corpo terrestre. In tutta la letteratura talmudica si trovano traccie di questa concezione materialistica della risurrezione, che aveva lo scopo d’inculcare che. ognuno sarebbe stato identificato nella vita avvenire.
(3) Matteo V. 46-47.
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PER LA CULTURA DELL'ANIMA Si
ebraica: « Potete voi bere il calice eh' io bévo ? » (x). Il Maestro non s’era sbagliato ! Nella loro franca risposta i .due generosi fratelli guadagnano quelle vette dell’eroismo verso cui Gesù li aveva sospinti: « Si; lo possiamo ! » e con essa purificano il loro precedente di orgoglio e lo trasfigurano in un roveto ardente di sacrificio.
L’eroismo (2) e il progresso individuale è un carattere che sempre si ravvisa ‘ in chi si è messo alla scuola di Gesù.
Il Maestro, a seconda dei casi, lavorò, cesellò, martellò o tirò a perfezione chi venne in contatto con Lui, squisito artefice di anime eroiche. E queste diventarono spiritualmente incontentabili e prennemente anelanti a una meta sempre più alta. Pur in mezzo alla contrastante realtà d’un ambiente deleterio, ad esse sempre sorride un cielo splendido di luci ideali. La loro anima diventa inesauribilmente multiforme e, come la natura moltiplica le sue creature belle e varia all’infinito le specie d'una rosa e d’una camelia affine di realizzare sempre meglio il tipo, esse durano infiniti sforzi per riprodurre in loro alcune linee della rivelazione interiore del Cristo rivelatore. In questo sforzo sta il proseguimento nel mondo delle anime, dei colloqui misteriosi del Cristo.
Da quanto vedemmo, appare che Gesù creò la scienza della psicologia, la storia dello spirito e la valorizzazione dell’ anima individuale da Lui resa oggetto di una cura e di un mistero religioso. Con ciò Egli dimostrò pure di possedere una sensibilissima comprensione del dinamismo morale della vita interiore la quale,.lungo le traccie da Lui segnate, non può avere nè pause estetiche, nè quietismi passivi, nè abbandoni mistici, così imperniata com’è, di propria essenza, sullo sforzo ascensionale e sulla immortale vigilia che attende il gran giorno di Dio.
Gesù ottenne questi altissimi risultati col metodo della dolcezza. Due sole volte, in linea eccezionale. Egli dimostrò collera: contro il fariseismo formalista (3) e contro lo spirito mercantile infiltratosi persino nel luogo.santo a inquinare la spiritualità del culto (4). Ma appunto perchè quelle occasioni di collera furono rare, perciò spesso impressionarono vivamente. Altra bella norma pedagogica questa tanto spesso dimenticata !
Questo metodo di dolcezza fece sì che Gesù usasse spesso la lode nelle sue relazioni personali. Ogni qual volta Egli vide qualcòsa di lodevole ebbe una dolce parola d’incoraggiamento. Vide un giorno una povera vedova che lietamente aveva offerta al Signore tutta la sua sostanza, consistente nella somma di due
(1) Marcò X, 38. Gesù parlò pure del < battesimo del fuoco » in questo episodio.
(2) Epitteto — che una tradizione fa uditore di Paolo da Tarso e che Agostino desiderava fosse accolto tra i beati— parla nei suoi scritti dell’eroismo dei cristiani Ch’Egli denomina col titolo di « galilei » e li porta a esempio di incrollabile resistenza contro le .minacele dei tiranni.
Del pari il famoso medico Galeno (161-230) loda i cristiani come dèi « filosofi nella loro vita » e degli < eroi nel loro disprezzo della morte ».
(3) Matteo XXIII.
(4) Matteo XXI, 12-17.
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leptà. Gesù la lodò clamorosamente per l’offerta di quella monetina che pure no» aveva un valore maggiore della quarta parte dì un soldo romano ! Vide un altro giorno Natanaele, figlio di Tolmai, il quale - secondo l’uso dei viaggiatori di Oriente - seduto alfombra d’un fico che bordava la via di Caña, leggeva le Scritture. Con rapida intuizione Gesù comprese che quel lettore attraversava una delle ore sacre della sua vita e, non appena Filippo lo condusse entusiasticamente a Gesù, Egli lo accolse tessendo questo lusinghiero elogio del suo bel carattere: « Ecco un vero.israelita in cui non c’è frode ! » (i). E tante e tante altre volte Gesù lodò. Lodò la generosità di Maria di Befania; lodò la fede, di un centurione romano e d'unà donna greca, come pure lodò la gratitudine di un preteso • eretico » samaritano.
Infine, l’ultima caratteristica che crediamo opportuno mettere in rilievo nei colloqui di Gesù è l’uso frequente delle domande. Il metodo socratico non trovò mai un’applicazione più entusiastica di quella che ne fece il Cristo. Egli rivolge del continuo delle domande le quali spingono alla riflessione, alla decisione, alla introspezione e alla volizione. Eccone alcune: .Chi cercate? — Chi dite voi ch'io sono ? - Chi dicono gli uomini eh’ io sono ? - Credi tu questo ? - Che vuoi tu ch’io ti faccia ? - Vuoi tu esser sanato ? - Mi ami tu? E altre, e altre. Ce ne sarebbe materia per un volume (2).
Quanto siamo fin qui venuti dicendo trova il suo riscontro in ogni pagina del Vangelo e il suo avveramento in ognuna delle personalità che vennero in rapporto col Maestro. A dimostrazione pratica porteremo alcuni medaglioni di questi personaggi. L’unico imbarazzo sta nella loro scelta, poiché tutte le biografie di Gesù pervenuteci si possono paragonare ad ampie gallerie teppezzate di quadri d’individui formatisi alla sua scuola.
Un primo medaglione: Nicodemo. Era uno dei capi dei Giudei di Gerusalemme l’uomo che portava questo nome il quale, per quanto di derivazione greca (3), era usitatissimo fra gli Ebrei. Volle avere un abboccamento con Gesù - cosa compromettentissima per un Sinedrita qual’ egli era - e vi si recò in un’ora inoltrata della notte. Affiliato al partito farisaico, come tutti i membri di quella setta egli era pienamente convinto che un posto nel regno del Messia a lui sarebbe aspettato di diritto, secondo l’insegnamento dei rabbini: « Universo Israeli est portio in regno futuro ».
Imbevuto di questa cicca fiducia, egli era andato da Gesù soltanto per avere da Lui una di quelle tante regolette di vita esteriore desiderate dalle anime pie e metodiche, oppure per prendere visione del piano che Gesù avrebbe adottato nello svolgimento di quel rivoluzionario programma messianico che, si diceva, Egli avrebbe attuato.
Tal’era l’uomo orgoglioso o curioso che Gesù aveva davanti a sè.
(ri Giovanni I, 47.
(2) Cfr. infatti le splendide meditazioni di E. Monod su: Le domande del Salvatore rrad. Lenzi, Palermo.
(3) Nella famosa Orazione contro Timarco di Eschinb si cita un ateniese di nome Nicodemo. Peraltro il nome di Demonico, che suona lo stesso, in Grecia era assai più comune. r
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Nel ricordo rimastoci di questa conversazione, abbiamo un immortale modello dei tanti colloqui tenuti da Gesù con i più diversi tipi di umanità : colloqui drammaticissimi per le impressioni e per le decisioni suscitate, come pure per le correnti di simpatia, di neutralità o di contrasto cui essi dettero luogo, a seconda delle differenti disposizioni degli animi. In questo colloquio notturno con Nicodemo Gesù si rivela il più fine psicologo che abbia mai interpretato i misteri d’un’anima e che ne abbia rovesciato tutti i precedenti valori. La descrizione di questa conversazione - pur frammentaria com’è, a stile telegrafico quasi - è tuttavia sufficiente per mettere in luce il metodo adoperato da Gesù con Nicodemo: metodo consistente nell’annunciargli con poche parole una dottrina tanto per lui nuova, tanto diversa da ogni sua precedente nozione e da quanto si attendeva di udire, ch’egli ne rimase addirittura perplesso, nonostante ogni sua pretesa di conoscere tutta la sciènza della religione. Il punto più saliente del discorso che Gesù gli tenne fu quello in cui gli rivelò che « se uno non è nato di nuovo, non duò vedere il regno di Dio». Quale rivelazione questa, in diametrale 'opposizione con tutte le maturate convinzioni di Nicodemo ! Egli si credeva un giusto e, forse, era dell’avviso di coloro i quali sostengono che « l’uomo nasce buono ». Gesù lo fece ricredere ben presto,, insistendo sulla necessità che ognuno ha di « nascere di nuovo ».
Era questa una grande rivelazione che Gesù faceva a Nicodemo: una rivelazione che stava alla base di tutto il cristianesimo. Questa nuova nascita è un’esperienza indispensabile per chi vuole essere cristiano «per la semplice ragione che, altrimenti, sarebbe incapace di rendersi conto di ciò ch’egli ha fatto. Il momento del pentimento è il momento dell’iniziazione. Più ancora, è il mezzo per cui si trasfigura il passato. I Greci ritenevano ciò impossibile e, nei loro aforismi gnomici, dissero sovente: «Gli dèi stessi non potrebbero mutare il passato». Cristo dimostrò, invece, che il peccatore più volgare può farlo;’ anzi che « questa è l’unica cosa ch’egli può fare » (i).
Alla enunciazione di questa teoria di Cristo, Nicodemo rimase deluso anche per un altro riguardo. Forse egli s’attendeva di sentire da Gesù tutto un grandioso progetto politico riguardante la manifestazione della sua messianità. E invece!... Altro che espellere le legioni romane e marciare alla conquista del Campidoglio!... Rinascere spiritualmente: ecco il grandioso progetto - tutto spirituale e niente politico - che Gesù gli annunzia!
Deluso nelle sue aspettative Nicodemo, ribatte grossolanamente, ma Gesù insiste sul suo punto di vista e glielo illustra, ampliandolo, con tutte le immagini che gli si presentavano. DaU'altyaA - o cameretta degli ospiti - dove stavano a colloquio Gestì e Nicodemo, si sentiva in quel momento il vento (2) che soffiava per le vie di Gerusalemme e che faceva stormire le piante dell’attiguo giardinetto:
— Odi tu questo vento? — chiese allora Gesù a Nicodemo. - Esso soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai nè donde viene, nè dove va: così avviene ¿’ogni nato dello Spirito.
(x) O. Wilde, De Profundis, pag. 48. Milano, Sonzogno Trad.
(2) La supposizione, assai verosimile del resto, è del Tholuck.
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Qui Gesù, in modo tutt’affatto naturale, entrò a parlare del misterioso lavorio del divino nelle anime.
Il colloquio toccò a poco poco le più alte vette di quello spiritualismo culminante, da ultimo, nella rivelazione dell'universalismo cristiano. Gesù, infatti, forse prevedendo che Nicodemo non avrebbe più avuto occasione d’intrattenersi con Lui, gli riassume. come in una vivacissima miniatura tutto il Vangelo (i) con queste parole: « Iddio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figliuolo, affinchè chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna».
Con questo mirabile riassunto della sua dottrina e dello scopo della sua vita, il colloquio volgeva naturalmente al suo termine.
Già l’alba con i suoi gigli imbiancava il cielo a oriente. A poco a poco, anche le rose dell’aurora lo vennero ravvivando, foriere della più grande luce. Nicodemo stava per accomiatarsi e Gesù, adittandogli quella luce sopravveniente, lo congedò dicendogli che da ora'in-poi essa, la grande «luce del mondo » spirituale, formerebbe la condanna, di chi non avrebbe creduto, « poiché la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, dato che le loro opere erano malvagie ».
Con siffatta conclusione quel colloquio, iniziato nella notte, finiva in piena luce del giorno. E per la coscienza di Nicodemo quale bene ne venne da quei colloquio con Cristo? Non si sa nulla di preciso. È un mistero della sua anima. Però nel corso del ministero di Gesù noi ritroviamo due altre volte questo personaggio e il suo atteggiamento ci dice ogni volta ch’egli è oramai decisamente favorevole a Lui. Una volta (2) egli tenta in pieno Sinedrio il salvataggio di Gesù e non si perita di tirarsi addosso gl’insulti personali dei suoi colleghi sfavillanti di collera. L’altra volta che lo ritroviamo è al momento della sepoltura di Gesù. In quell’occasione, incoraggiato dall’esempio di Giuseppe di Arimatea - suo collega in Sinedrio -Nicodemo si unisce a lui nel mesto ufficio di comporre nel sepolcro (3) il corpo esanime del Maestro che aveva saputo, in un solo colloquio guadagnare la sua anima.
Altro splendido colloquio è quello avvenuto tra Gesù e Fotina (4), la samaritana, intorno al famoso pozzo di Giacobbe (5). In esso Gesù rivela a questa donna verità così alte che nessun filosofo avrebbe mai confidato a un uditorio, come quello di Gesù, formato da una sola persona, donna per giunta. L’arte del più grande pedagogo brilla in questa pagina del Vangelo. « Un grand’uomo del paganesimo ebbe l’arte di risvegliare negli uomini la coscienza dell’umanità e Cristo ha l’arte di Dio; accende una divina scintilla, non in una statua, ma in una figura d’uomo fatta di fango: dico in un’anima infangata di peccati » (6).
(1) Espressione di Martino Lutero.
(2) Giovanni VII, 50-52.
(3) Giovanni XIX, 39. Posteriori tradizioni cristiane portano molte leggende in-' torno a Nicodemo il cui nome è pure associato a un vangelo apocrifo. Però in tutto ciò non c’è nulla che abbia valore storico.
(4) Secondo una tradizione conservata nella Chiesa greca, il nome di quésta donna è Fotma.
(5) Tutto porta a credere che il Sychar del biografo Giovanni (capo IV) sia il moderno Askar. con le sue nostalgiche rovine e con la sua fresca sorgente
(6) V. Fornari, Vita di Gesù. lib. II, capo V, Roma.
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Tale fu il risultato dell’incontro di questa donna peccatrice con Gesù: incontro nel quale brilla un’insuperabile sapienza pedagogica. Ogni cosa serve a Gesù per portare quella donna a conversione.
Dapprincipio le chiede in favore dell’acqua da bere. Poi Gesù si serve dell'acqua di quella stessa fonte per procedere dal noto all’ignoto, dalla natura alio spirito. Quella donna prova una profonda sorpresa per quella comparazione d’idee che essa non .è riuscita ad afferrare, e allora il Maestro adopera, con insuperabile utilità didattica, anche quest'elemento della di lei sorpresa per insinuarsi' bellamente a ragionare della simbolica acqua della grazia divina e per comunicarle il maggior numero possibile di idee madri, che Egli considera una forza e una luce. E difatti Fotina ne udì e ne tesoreggiò molte nel breve giro di quel dialogo con Gesù.
Le mancava assolutamente l’idea della unità e della fratellanza umana e Gesù le insegna l’affratellamento che avrebbe rinnovato i rapporti sociali.
Essa ignorava la realtà del mondo invisibile. Gesù la solleva verso quel mondo e, col.passaggio simbolico dalla sete fisica alla sete spirituale la porta, a farle sentire come s’eprimeva il Poeta parlando di lei :
La sete naturale che mai non sazia Se non coll’acqua onde la femminella Samaritana domandò la grazia (1).
Essa ignorava se stessa e .lo stato miserando della propria coscienza. E Gesù, facendola ripiegare sul proprio spirito, le fa noto il suo peccato e la necessità che ella ha di un Salvatore.
Essa ignorava persino l’idea d’una religione spirituale e, attaccata a una concezione magicamente materialistica, localizzava Iddio esclusivamente sul monte samaritano Gherizim, escludendolo per conseguenza da Gerusalemme e da tutta la terra. Gesù — allargando all’infinito i di lei orizzonti spirituali e sollevandola sopra qualsiasi localizzazione del divino — le addita i sublimi pinnacoli dove Dio s'adora in ispirilo e in verità.
Non ci fu bisogno d’altro per rendere quella donna tanto audace nel bene, quanto prima lo era stata nel male. Cògliendo l’occasione del sopraggiungere dei discepoli — ritornati dalla compera del necessario per il pasto frugale — essa si allontana di là, dimenticando di portare seco il proprio secchiello di cuoio (1) che le aveva servito per attingere l’acqua dal pozzo profondo e rientrata animosamente in città narra in pubblico il fortunato incontro che aveva trasformato la sua anima invogliando i suoi concittadini a recarsi da Gesù che sta presso allo storico pozzo di Giacobbe.
Alla scuola del grande Maestro una sola lezione era stata sufficiente per trasformare una peccatrice in un ardente apostolo. Perchè non si deve dimenticare che la storia vide la prima donna-apostolo, il giorno in cui Gesù — seduto al pozzo di Giacobbe — aveva convertita questa peccatrice samaritana (3).
(1) Dantb, Purgatorio, XXI, 1.
(2) Giov. IV, 28.
(3) C. Arrighi, Storia del femminismo, Firenze, Razzolini.
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Il poeta Rostand, nei suo poderoso dramma: La Samaritana, dipinge questa neo-convertita nell’atto in cui annunzia a’ concittadini il grande Maestro:
Udite: presso il nostro pozzo un giovane è assiso, Un nazareno. pallido, il quale mi ha parlato: È sì dolce,.che il core wì subito tremato...
Tanta eloquenza mite e possente è in Lui solo.
Ed il suo gesto è tale che par liberi un volo!
« L’esempio della Samaritana trovò in Occidente e in Oriente, in Grecia e in Roma ove i! sesso femminile non avea mai potuto combattere direttamente le battaglie sociali, numerosissime imitatrici. Oh se tante delle odierne femministe, che in nome del femminismo hanno dichiarato guerra alla religione del Cristo, si ricordassero di essere spiritualmente figlie della cortigiana di Samaria; si ricordassero che Cristo; e Cristo soltanto, nella persona della* Samaritana, assegnò alla donna l’apostolato, come uno dei tanti suoi doveri morali e sociali! » (x).
E gli apostoli?
Non è forse vero che ognuno di essi è il miracolo vivente e il vivente capolavoro della sapienza di quel grande risvegliatore di anime che fu Gesù, il quale coi triennale contatto cotidiano plasmò quelle forti tempre d’uomini fino a renderle sempre più atte all’apostolato al quale Egli le aveva designate? E qui, riferendoci al tempo antico, ci occorre aggiungere uno speciale particolare parlando dei discepoli. Essi erano degli umili lavoratori e tuttavia Gesù si rese il loro Maestro e s'intrattenne con essi (2). In quel tempo nessun altro Maestro avrebbe fatto altrettanto.* Platone li avrebbe spregiati come discepoli- troppo ignobili, giacché il loro impiego non avrebbe a loro concesso di «consacrarsi liberamente agli amici oppure allo Stato ». Aristotile e Cicerone li avrebbero del pari'spregiati giacché, essendo operai, la « professione meccanica » e la « speculazione mercantile » sarebbe ad essi parsa « degradante » (3).
Neppure la religione antica avrebbe voluto aver nulla da fare con quella gente. Se ne sarebbero ben presto accorti que’ discepoli il giorno stesso in cui dai loro silenti. villaggi siriani si fossero, per esempio, recati a Roma. Là, data la loro qualità d'operai, essi sarebbero stati scacciati dal marmoreo Forum allorquando il grande pontefice celebrava un sacrificio espiatorio (4).
Gesù invece cercò proprio questa povera gente. Se ne fece il loro filosofo e, giorno per giorno, in un corso d’istruzione durato tre anni. Egli li formò per l’apostolato.
Dal complesso di questa scuola di Gesù risulta chiaramente un'altra profonda caratteristica del Maestro ; l'affratellamento delle intelligenze cui egli principalmente mirò. Specialmente nel suo insegnamento privato, Gesù rese accessibile a
SC. Arrighi, Storia del femminismo, Firenze, Razzolini;
A detta di Origene (Cont. Cels. lib. I, 62) Gelso insisteva del continuo sulla bassa condizione sociale e sulla ignoranza dei discepoli scelti da Gesù. Però il punto sta non nel sapere quali erano al momento della loro vocazione i discepoli, ma ciò Che divennero in progresso di tempo.
(3) Aristotile, Polii., IV, 8. Cicerone, De offre., I, 42.
(4) Svetonio, Claudius, 22.
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tutti la verità che gli antichi velavano sotto il velo d’Iside misteriosa, giudicando inopportuno di rivelarla apertamente. Dopo che Gesù è stato il maestro di Pietro il pescatore e di Matteo l'esattore, i più grandi geni del mondo cristiano avvertono che un infrangibile legame li affratella con il più umile lavoratore e anonimo analfabeta. Più ancora. Nel suo magistero verso i discepoli Gesù non distrusse nè abbattè la loro natura, sia pure per raffinarla, per aristocratizzarla o per intellettualizzarla.
Tutt’altro. Dalla loro natura e dalle loro passioni stesse Gesù cavò i materiali-con i quali costrusse le loro nuove, colossali personalità.
Al contatto di Gesù, dal pescatore Simone uscì fuori Pietro. Gesù cominciò col convertirlo. Lo convertì una prima volta con uno sguardo (1) e poi di nuovo,- dopo la sua caduta, lo riconvertì con apposite preghiere (2) e con un secondo sguardo (3). E, a poco a poco, con una tattica di estrema pazienza, di quell’uomo incostante, Gesù formò quel cristiano sincero che tutti ammirano; di quella natura mobile come l'acqua, Gesù formò un apostolo incrollabile come una roccia di granito.
L’ardente Giovanni era chiamato il « figliuol del tuono » (4) perchè nelle sue idee e nel suo modo di prendere la vita c'era qualcosa che ricordava il tuono. Gesù piegò quel carattere ribelle fino a trasformarlo nel mistico discepolo dell’amore e dell’ideale e lo piegò mediante l’affetto il più tenero. Era l'unico mezzo adatto a domare un carattere come quello! E Giovanni si sentì amato da Gesù! Il quarto Evangelo per ben cinque volte copre là personalità di Giovanni col poetico, trasparentissimo velo di questa perifrasi: il discepolo che Gesù amava (5). Intorno a questa definizione trema la commossa tenerezza di tanti, tanti vividi ricordi gentili: quei ricordi i quali facevano sì che, anche da vecchio, Giovanni non potesse mai scordare l’ora precisa nella quale per la prima volta s’intrattenne a colloquio col Cristo. « Or era l'ora decimai » (6) così egli nota, vibrante di squisita sensibilità.
Il positivo Tommaso, il quale pare quasi quasi un figlio sei secolo del metodo Sperimentale, alla scuola paziente di Gesù — l’unica adatta al suo temperamento — pervenne pure, alla fede più convinta e più entusiasta.
E così, con tutti gli altri discepoli, Gesù usò sempre un metodo individuale, in conformità alle svariate esigenze di quelle singole anime che rappresentavano per Lui « il valore dei valori » (7).
Dicemmo che il Vangelo è una galleria di quadri dei differenti caratteri che quel grande artista che fu Gesù formò o riformò col suo insegnamento. Però non tutti coloro che il Maestro iniziò alla vita dello spirito e del bene sono ricordati nel Vangelo. In quelle pagine troviamo di tanto in tanto degli accenni ad anonime, evanescenti figure che si muovono, nell’orbita di Cristo e che furono indubbiamente dei convertiti dalla sua parola.
(1) Giovanni I, 42.
(2) Luca XXII, 32.
(3) Luca XXII, 61.
(4 Marco III, 17.
(5 Giovanni XIII; 21, XIX, 26: XX, 2; XXI, 7; XXI, 20.
(6 Giovanni I, 39.
(7 Matteo XVI, 26; Marco Vili, 36: Luca IX, 25.
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Tale dovette essere quel proprietario della cavalcatura sulla quale Gesù fece il suo solenne ingresso a Gerusalemme (i); tale il padrone della casa nella quale mangiò la cena dell’ultima, desideratissima Pasqua (2); tale pure Giuseppe d’Ari-matea: tutti discepoli anonimi o segreti di Gesù, che il suo contatto personale e la sua parola portarono in una nuova e più fervida realtà di vita vissuta e.che furono felici ogni qual volta poterono renderglisi utili e in qualche maniera collaborare nella grande opera che formava lo scopo della sua vita.
Così Gesù concepì la sua riforma dell’individuo: riforma apparentemente modesta ne’ risultati e che di consueto èra stata trascurata. Questa riforma individuale fu invece in cima dei pensieri di Gesù.
Oggi ancora, a mezzo di quella sua possente personalità religiosa che domina i secoli, Gesù prosegue nell’individuo questa sua azione riformatrice. Non è vero infatti che la migliore esperienza cristiana consiste oggi nel risentire in sè il lavorìo interiore che proviene dal contatto personale con il Maestro? « Più passa il tempo — scrisse -un filosofo — e più larga conferma trova l’eterno miracolo per il quale i» colui che va a Dio pel mezzo del Cristo, viene creato un nuovo cuore » (3). E sulle linee della medesima-esperienza un fine esteta scrive: « Pel solo fatto d’essere condotti alla presenza di Cristo, si diventa qualche cosa. Una volta, almeno, nella propria vita ogni uomo cammina con Cristo fino ad Emmaus » (4).
Per tal modo la riforma dell’individuo, iniziata-da Gesù durante la sua vita, non cesserà giammai. Da quando Egli pronunciò quelle parole assicuranti che sènza Lui nulla si avrebbe potuto fare (5), quasi a illustrazione e a conferma di quelle altre che Ovidio aveva posto sulle labbra di Medea: < Io vedo il bene-e lo approvo, ma mi appiglio al male >’(6), da allora l’individuo, nella lotta per la sua riforma morale, esperimento sempre che alla scuola di Gesù poteva apprendere tutto e che fuori di quella scuola non poteva apprendere nulla. Da quando Gesù —- dopo Ohe una solenne processione ebraica èra un giorno sfilata portando al tempio, in uri simbolico vaso d’oro, l’acqua della fonte di Siloe —- proclamò: « Se uno ha sete venga a me e beva » (7), da' allora andarono e andranno a Lui, come a Maestro, e a risve-gliatore delle loro coscienze, le anime migliori per impararvi ininterrottamente tutte le lezioni della vita e della verità.
P1KTKO CHIMINELLI.
(2 (3
(4
(5 (6 (7)
Marco XI, 2-6.
Marco XIV, 13-15.
FlCHTB.
O. Wilde, De profundis, p. 49. Milano, Sonzogno.
Giovanni XV, 5.
Ovidio, Mtlam., lib. VII, 20-21.
Giovanni VII, 37.
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«9
V
LE PICCOLE COSE"»
Chi è fedele nelle piccole eose, è fedele altresì nelle grandi.
Evang. di S. Luca, xvi-ro.
È proprio il caso di parlare di « piccole cose » in un’epoca in cui stanno compiendosi avvenimenti prodigiosi, i quali, nella storia, segneranno una data altrettanto importante di quella della Rivoluzione francese, e che sconvolgeranno la carta del mondo in modo più profondo e più durevole di quanto non abbiano fatto le guerre di Napoleone? L’attenzione nostra è concentrata meno sui particolari della lotta immensa che sull'insieme delle operazioni e ciò che ci preoccupa innanzi tutto, in questo momento, sono le decisioni dei Governi, i risultati della guerra sottomarina, l’atteggiamento dei paesi neutri e i discorsi del Presidente Wilson.
È certo che l'intervento americano, o il piano d’attacco o di difesa stabilito.dagli Alleati, o un ordine emanato da un capo d’esercito avrà delle ripercussioni più estese e provocherà un'emozione più intensa che l’esecuzione del lavoro oscuro, dell'umile
dovcre in cui si confina la nostra attività. Ma oltre a non poter nulla per trascinare quelle volontà, di cui aspettiamo con angoscia le decisioni, oltre a sottrarre al nostro compito personale il tempo che consacriamo a contemplare, a discutere, a rimaneggiare nel nostro spirito il lavoro altrui, occorre davvero dirci che, a dispetto della nostra oscurità, noi costituiamo un ingranaggio dell’immenso meccanismo e che le concezioni più geniali dei Governi o dei Capi non possono realizzarsi, non possono conseguire il successo, senza la collaborazione paziente, ostinata, instancabile dei semplici soldati e dei cittadini. Il secreto della vittoria resta sempre formulato nella semplice parola d’ordine di Nelson a Trafalgar: « La Patria aspetta che ciascuno faccia il proprio dovere ».
Ora, nelle parole che studiamo, Gesù non si limita a segnalare l’utilità pratica, la necessità delle « piccole cose » troppo spesso spregiate; egli ce ne rivela il valore morale, dirò meglio, l’eminente dignità: «Chi è fedele nelle picele cose, è fedele altresì nelle grandi ». Gesù capovolge la
(i) Discorso pronunziato da Giovanni Lafon, pastore all’Havre, il 25 febbraio 19x7. Nella prima parte sono stati fatti alcuni mutamenti, adattando alla nostra situazione nazionale allusioni a speciali fatti ed episodi successi in Francia. Ma il fondo delle osservazioni dell’Autore rimane inalterato: i difetti presi di mira in questo discorso sono, purtroppo, debolezze morali essenzialmente latine ed è bene intesa carità di Patria attiraresu di esse l’attenzione dei nostri connazionali.
Fanno degno riscontro alle osservazioni del Lafon le seguenti considerazioni di T. Fallot, sèmpre attuali sebbene scritte più di 30 anni or sono, in un articolo intitolato « Una vita utile * pubblicato nella Revue Chr ¿Henne del xu aprile 1885.
< La scuola nella quale formiamo, tempriamo la nostra volontà,- è la scuola dèi piccoli doveri, dei pie-eoli rinunziamenti, delle piccole seccature: la scuola della vita quotidiana. Quivi noi acquistiamo il sencimento del dovere e ci esercitiamo ad una salutare disciplina. Quella parola forse vi spaventa. L’idea della disciplina, d’una disciplina accettata, sopportata, ripugna all'uomo. Il pensiero dell’ideale, d’ua grande ideale gli sorride assai più. Gli è perchè v’è nel cuore di ogni uomo come un artista addormentato; basta il più lieve urto e l’artista si sveglia e l’uomo ode delle melodie che l’incantano, e delle visioni meravigliose illuminano il suo orizzonte. Urtandosi allora alle fredde necessità della vita quotidiana, egli è tentato di disgustarsene. Si sforza allora di ripiegarsi su se stesso e di crearsi un mondo interiore di pensieri nobili, di affetti elevati che non abbiano nulla in comune colla prosaica realtà.
Occorre starein guardia. V’è un’intima relazione tra il mondo ideale, tra gli affetti che riscaldano il cuore dell’uomo e i suoi atteggiaménti nel mondo esteriore. V’è un vincolo profondo tra la fedeltà nell’adempi-mento dei più prosaici doveri e gli slanci misteriosi
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scala dei valori alla quale soliamo ricorrere, per apprezzare la grandezza degli uomini o l’importanza delle nostre azioni. Non nelle circostanze eccezionali, a grande effetto, diamo la misura del nostro carattere; anzi nei minuti particolari dell'esistenza appare il fondo dell'anima nostra e si rivela il nostro valore/ Le « piccole cose » sono l'infallibile pietra di paragone della nostra fedeltà.
Merita dunque il conto di concentrare l’attenzione nostra sulle modeste occupazioni che ci sembrano insignificanti o fastidiose, ma che rappresentano la parte nostra di responsabilità neH’insieme della vita nazionale e che, sul terreno morale, determinano, colla precisione d’un apparecchio registratore, ciò che realmente vale la nostra personalità.
I.
Credo poter dire senza ingiustizia che il popol nostro ha un grande bisogno di meditare questa lezione. Nessuno più di me si è fatto un dovere, da tanti mesi, di respingere le calunnie sistematiche dei nostri avversari e di mettere in rilievo le virtù Srotonde, di cui incominciavamo a creerei incapaci e che la guerra ha ridestato in fondo ai cuori. Non è più necessario oggi di rilevare simili oltraggi. È stato réso l’omaggio dovuto, non solo al valore dei nostri soldati, ma eziandio alla forza di resistenza della Nazione. È oggi ammesso ehe, da un lato, allo slancio sappiamo aggiungere la tenacia e che, da un altro lato,
che agitano l’anima sua. Per diventare capaci di affettLsempre più grandi, di pensieri sempre più nobili, d’ispirazioni sempre più elevate; per alimentare del continuo la fiamma dei sacri entusiasmi e per far risuonare ogni giorno l'anima di celesti melodie, v'è da osservare una cosa soltanto: la fedeltà nei pù piccoli doveri, la dura disciplina degli uomini e delle •ose accettata senza mormorare. Una vita disordinata può esser visitata da grandi pensieri; ma il disprezzo che in essa si manifesta riguardo ai piccoli doveri, la rende a lungo andare incapace di grandi cose. La disciplina ¿ madre della libertà e di ogni armonico sviluppo. Interrogate un grande musicista. Chiedetegli in che modo egli ha ragpunto quella naturalezza, quella virtuosità. Egli vi dirà che si è a lungo, penosamente, dolorosamente assoggettato alle esigenze del tutto matematiche di un’arte che non lascia nulla in balla del ca$o¿ che calcola minuziosamente la durata di ogni suonò, che misura scrusiamo capaci di riscattare le nostre imprevidenze mediante una meravigliosa facilità 'd’improvvisazione.
Rallegriamoci d’un tal mutamento dell’opinione pubblica a nostro riguardo; ma non approfittiamone per chiudere gli occhi sopra i nostri difetti. Ora, fra queste lacune, di cui comprendiamo meglio la gra-, vità in questi tragici giorni, ma che in ogn1 tempo hanno deturpato la nostra razza, occorre segnalare la negligenza, quella negligenza delle « piccole cose », che si manifesta, di primo accinto, da' un capo all’altro del nostro territorio, nella manutenzione delle nostre strade ferrate, nella bruttezza delle nostre stazioni, nella poca pulizia delle nostre strade, nell’aspetto polveroso delle nostre case. In molte città poste in un sito naturale incantevole, quante volte l’occhio non è egli attristato da particolari che contrastano col maravighoso Sanorama circostante! Peggio ancora quan-o si penètra nelle abitazioni. Per un quar-tierino operaio dove tutto luccica, dove il sole attraversa dei vetri trasparenti, delle tendine meravigliosamente candide, dove una massaia valorosa vi riceve con una fierezza dignitosa nel suo piccolo regno, la cui pulizia rallegra gli occhi c il cuore, quanti altri alloggi s’incontrano, di uguali dimensioni, ma dove tutto è scuro, dove la mano esita a posarsi, mentre il padre e i figli grandi s’affrettano a fuggire il tugurio inospitale per cercare una distrazione nell’ubriachezza, a tal punto ehe ci si' chiede talvolta se la casa mal tenuta è stata la vittima q la provveditrice della bettola!
pelosamente l’intervallo tra ogni nota. Egli vi dirà che è col sottoporsi a quella ferrea legge ch’egli, a poco a poco, ha acquistato il' genio dell’arte sua, l’istinto della legge: ch’egli stesso è diventato la sua propria legge; che la sua ispirazione, la quale sembra, comandare da padrona, è del tutto determinata dalle esigenze alle quali si è piegata e ch’egli è cosi completamente libero soltanto perchè ha imparato ad obbedire. Per tutti i veri artisti, la disciplina regola l’ispirazione, la feconda, la fortifica, la rinnova.
Or bene, la vita di noi tutti dev’essere un'opera d’arte, un’opera che realizza un grande pensiero. Tutti quanti siamo chiamati a fare dèlie nostre esistenze, cogli umili materiali di cui disponiamo, dei monumenti alla gloria di Dio. Le nostre vite devono essere compenetrate d’un'armonia dall'alto; esse devono diventare armoniose, e quindi devono sottoporsi ad una forte disciplina ■.
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PER LA CULTORA DELL’ANIMA
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Ora, questa negligenza, di cui ho ricordato alcuni fra i casi più comuni, infierisce sotto forme diverse, in tutti i gradi della scala sociale, dalla vita di famiglia sino alle più alte amministrazioni. Io non sono un pessimista per partito preso: riconosco volentieri le eccezioni; sono felice di proclamare che ci sono nel nostro paese delle case, degli uffici, degli ospedali, delle ambulanze, che sono dei modelli come installazione c come ordine. Ma non potete negare che, seil nostro popolo si distingue per l’abilità della sua mano d'opera, per la sua rapidità dì concezione,.per l’arte di trarsi d’impiccio in ogni circostanza, ei non sia d'altra parte singolarmente inclinato alla trascu-raggine, agli espedienti, a quelle negligenze di dettaglio che nuocciono al funzionamento dei servizi e producono dei ritardi esasperanti nel disbrigo degli affari. Accanto ad una compagnia in cui il soldato è ben nutrito, bene equipaggiato, in cui nulla è dimenticato per assicurare la sua salute e il suo ardore, ne trovate un’altra in cui, còlle medesime risorse, la medesima spesa, il benessere è sconosciuto, i piasti sono insufficienti, mal preparati; in cui un perpetuo malcontento irrita i cuori e de-E'rime le volontà. Perchè? Lo sapete come » so io: incuria, cattiva ripartizione delle mansioni senza alcuna preoccupazione delle attitudini professionali, mancanza d'interesse e di sorveglianza,-quando non si deve pronunziare una parola più grave e parlare di dilapidazione.
Ecco dei soldati da molto tempo al fronte, a cui è stato parlato a varie riprese di licenza e che del continuo sognano le dolcezze del tetto familiare ; ogni riguardo sono dovuti a quegli eroi che hanno sofferto ed esposta la vita per la salvezza di tutti. Eppure gli uni vanno a casa, gli altri tornano, e il turno di alcuni non viene mai! Credete voi che, se certi burocrati avessero un po’ maggiormente il senso dei loro doveri e delle loro responsabilità, potrebbe succedere ad esempio che in certi eserciti alleati dei militari abbiano trascorsi talvolta 15 o 20 mesi al fronte senza mai andarsene a casa per una buona licenza, mentre in altri eserciti, pure alleati, le licenze sono regolate e funzionano colla precisione di un orologio, in modo tale che, entro un periodo di 4 mesi, ogni combattente passa a casa io giorni completi?
E ciascuno dei miei lettori potrebbe citare qualche analogo esempio.
Le crisi economiche come quella dei tra
sporti, di Cui sentiamo le dure conseguenze, sono dovute, lo so bene, a cause generali, a errate direttive e specialmente allo stato di guerra; ma credete voi che le difficoltà non sarebbero attenuate se, in tutta l’estensione del territorio, in ogni porto, in ogni stazione, dovunque un piroscafo si carica o si scarica, dovunque un vagone si riceve o si spedisce, non si fosse prodotta alcuna di quelle negligenze che, moltiplicandosi a mille a mille, finiscono col disorganizzare ogni cosa? E gli accidenti in cui soldati valorosi trovano la morte appunto avviandosi a combattere per la salvezza del paese, diremo ch’essi risultano da un concorso fatale di circostanze soltanto? La fatalità è una parola comoda per eludere le responsabilità. Il motivo vero è una negligenza, piccola o grande, che ha talvolta le più tristi conseguenze*.
La guerra dà un’importanza eccezionale a queste mie considerazioni. Ma, se queste negligenze si producono nell’ora drammatica in cui tutte le volontà sono stimolate dalla grandezza delle circostanze, non vuol dir forse che il male è talmente inveterato, talmente generale che lo stesso risveglio di patriottismo non riesce ad estirparlo? Il regime del press’a poco non è forse il più antico, il solo duraturo in un paese che. come questo, non conta più le sue crisi di governo? Domandate agli specialisti il tempo medio occorrente per la Costituzione completa di un incarto e per l’avviamento della a pratica » sino all’autorità competente attraverso l’apatia, la sonnolenza di tutti gli uffici! Chiedete alle persone puntuali quanti quarti d’ora — e quindi d’ore, di giorni, di settimane — esse hanno perso nella loro vita per aspettare dei ritardatari! Chiedete alle persone ordinate la pena a cui devono, sobbarcarsi per riparare al disordine lasciato da quelle che hanno lavorato prima di loro, o che condividono la loro esistenza! Domandate agli uomini, alle donne devote che sono gli agenti davvero operosi di tutte le nostre Opere, quale sovrappiù di fatica e quale somma di scoraggiamento impongono loro le dimenticanze, le assenze ingiustificate, le inesattezze di quei loro col laboratori, infarciti di buone intenzioni, ma che non sanno dar prova d’una immutabile fedeltà!
Non la farei finita, se volessi mostrarvi le rovine prodotte nella famiglia, nella società o nella Chiesa, da quelle negligenze di dettaglio che si accumulano e costituiscono alla lunga un vero e proprio flagello.
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BRYCHKIS
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li.
Ora. se le • piccole cose » hanno una tale importanza, incominciamo a comprèndere l’attenzione che loro prestava Gesù Cristo e siamo meno stupiti ch'egli le abbia segnalate come la pietra di paragone che verifica il valore della nostra personalità. Ma occorre stringere il suo pensieroda più vicino ancora.
Gesù non dice soltanto che importa vegliare aH’adempimento dei piccoli doveri: Égli dice: « Chi è fedele nelle piccole cose, io è altresì nelle grandi ». E per Lui. evidentemente, la proposizione reciproca non è vera. Le piccole cose ci giudicano, ci classificano, ci conferiscono un brevetto di capacità più estesa. Le grandi non provano nulla aìl’infuori di se stesse: esse non ci qualificano per le piccole.
Non si tratta qui del. talento: è ben inteso che le nostre attitudini sono varie e non ci predestinano tutti quanti alle medesime funzioni. Le qualità intellettuali manifestate in una posizione oscura non ci designano necessariamente per un posto più in vista.
Si tratta qui di una qualità morale: della fedeltà. Se siete fedeli nelle « piccole cose ». lo sarete altresì nelle grandi, perchè le grandi sono moralmente più facili delle piccole.
Perchè? *
Anzitutto le grandi cose sono, generalmente, di breve durata. Un gran dovere sorge ad un tratto nella monotonia della «ostra esistenza e reclama da noi uno sforzo eccezionale. Esso desta, esso pone' in fioco tutte le energie del nostro essere.
i rialza ai nostri propri occhi, e non possiamo sottrarci ad esso senza e'sporci ai rimorsi, al disprezzo di noi stessi. Ci risveglia come un suono di tromba: tremendamente decaduto sarebbe colui che non risponderebbe all'appello! È un sacrificio del nostro riposo, dèi nostro egoismo, della nostra sicurezza forse; ma è un sacrificio passeggero. I piccoli doveri, invece, che si succedono, che si ripetono, come sono faticosi! Quanta perseveranza, quale forza di volontà occorrono per eseguirli? Vedete quella madre mondana che, dopo aver rivestito il suo costume da passeggio © la sua veste da ballo, corre a baciare il figliolo ch’essa tutto il-giorno abbandona alle cure di mani mercenarie: venga un pericolo, una malattia grave minacci la fragile esistenza, quella madre non esiterà a trasformarsi in nfermiera, essa passerà dei giorni e delle
notti per strappare la sua creatura alla morte. Ma, una volta vinto il male, siete voi certi ch’essa sarà capace di rinunziare alla mondanità per consacrarsi ai suo focolare e diventare la perseverante educatrice del suo figliolo?
Guardate invece quella madre cristiana che dona se stessa, che si consacra ai suoi figlioli, che non si stanca di curarli, di formare il loro cuore e la loro volontà, che s’assorbe interamente nel suo compito monotono e spesso ingrato. Potete voi dubitare un solo istante ch’ella non sia pronta ad affrontare la fatica e il contagio alliora del pericolo? Una consacrazione momentanea, uno slancio di sacrificio è assai più facile d’una costante abnegazione.
In secondo luogo, le « grandi cose », — pel solo fatto ch’esse sono eccezionali, strepitose — hanno sulle piccole il prezioso vantaggio di segnalarci all’attenzione degli spettatori; e chi potrà dire l’influenza che esercita sulla nostra attività, sul nostro contegno morale, l’opinione dei nostri simili?! Non conoscete voi delle persone che, nel mondo, hanno sempre il sorriso sulle labbra, che si dimostrano gentili, premurose, disposte a partecipare alle opere di beneficenza, a figurare in testa alle liste di sottoscrizione, e che, rientrate in casa, lasciano cadere la maschera e non presentano più che un viso seccato, un carattere difficile, un egoismo esigente e puntiglioso? Sono attori che, al fuoco della ribalta, manifestano un aspetto brillante ed ogni specie di seduzione; e che, calato il sipario, se ne vanno colla schiena curva, la bocca amara, poco preoccupati di far subire ai loro prossimi gli eccessi della loro nervosità morbosa e l’umore acre della loro sfrenata vanità: Le azioni che destano rumore, i sacrifici sensazionali, le prodezze eroiche si spiegano talvolta "collo slancio collettivo o co! desiderio di eccitare l’ammirazione. Si sono visti uomini dalla reputazione assai dubbia, venuti fuori dalle compagnie di disciplina, marciare alla morte con un ardimento sublime; ora niente prova che, rientrati nella vita civile, essi avrebbero dato l’esempio di tutte le virtù (i). Ma il solfi) Non condividiamo completamente su questo punto il pensiero del nostro autore. Vi può essere nel piti degenerato degli uomini una sete ardente e assolutamente disinteressata di espùuioiw. E un uomo che vuol espiare il proprio tallo esponendo la è sempre degno di ammirazione TV. D. T.
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PER LA CULTURA DELL'ANIMA
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dato che ha sopportato con pazienza tutti i dolori, che ha sempre tenuto fermo con un eroismo silenzioso, che, posto di sentinella, solo, nella notte, esposto alle pallottole traditrici, ha vegliato con calma sui suoi compagni addormentati, quel soldato non tremerà nell’ora in cui suonerà l’assalto. S’egli ha fedelmente tenuto un’oscura consegna, égli non fallirà all'onore nel momento in cui può ottenere l’ammirazione dei suoi capi e la riconoscenza del suo paese. L’opinione dei nostri simili è un freno che ci arresta sull’orlo degli abissi, è un eccitante che ci aiuta a salir sulle vette. Nelle circostanze eccezionali, sotto gli occhi di testimoni, la nostra energia si raddoppia — e talvolta persino si compone interamente — d’una forza a noi estranea; abbandonati a noi stessi e nascosti nell'ombra, noi diamo l’esatta misura della nostra fedeltà.
Finalmente e sopratutto, le < piccole cose » rivelano le delicatezza della nostra coscienza ed il nostro vero atteggiamento riguardo a Dio. La devozione dei grandi giorni, la fedeltà nei doveri eccezionali, sono meteore che scompaiono, dopo aver gettato una viva luce. Esse possono valerci l’approvazione del mondo, ma non bastano per assicurarci l’approvazione di Dio. Una coscienza veramente cristiana non si accontenta di qualche atto strepitoso, che si stacca sullo sfondo scuro d’una vita satura di egoismo: essa pretende una umile e costante fedeltà. Se vivete davvero sotto lo sguardo di Dio, se avete per ambizione unica di compiere la sua volontà santa, i più piccoli doveri vi appariranno segnati dal carattere dell’assoluto, essi vi sembreranno altrettanto sacri, altrettanto obbligatori che i doveri eccezionali; ed è nell'intimità della famiglia, nell’adempimento quotidiano del vostro compito, nel vostro sforzo per superare difficoltà meschine e per sopportare l’incessante puntura delle minute contrarietà; che voi ac-Suisteretc e manifesterete quella forza ’animo, che non si smentirà nelle occasioni solenni, nelle quali la vostra fedeltà dovrà palesemente manifestarsi. Il Dio che vi avrà sostenuti nell'ombra e nel silenzio non vi abbandonerà nell’istante in cui Egli vi dirà, come all’invitato della parabola: * Amico, sali più in su », e se voi l'avete
servito per amore, nell’oscurità, con una perseveranza instancabile, non sarete tentati di tradirlo, nell'ora in cui potrete apertamente glorificarlo.
Voi avrete, del resto, per stimolo l’esempio del vostro Maestro, la cui grandezza morale è fatta d’una serie innumerevole d'oscuri rinunziamenti, e il cui sacrificio supremo è stato il coronamento, il punto d’arrivo necessario del sacrificio quotidiano del suo tempo, del suo pensiero, della sua vita intima a sconosciuti, a malati, a ciechi, a lebbrosi, a discepoli incapaci di comprenderlo e di associarsi a! suo ideale. Lo splendore morale, che ha trasfigurato il Calvario, è la concentrazione, in un sol fascio luminoso, di tutti i raggi sparsi e fuggitivi che avevano illuminato gli angoli remoti della Palestina: e se il Cristo è stato capace d’immolarsi per la salvezza del genere umano, è perchè, durante l’intera sua vita, non ha cessato di rinunziare a se stesso, per occuparsi d’esseri ignoti, di miserie anonime, e perchè i compiti più infimi e più ingrati non hanno disgustato l'anima sua santa, la cui unica preoccupazione era di compiere là volontà del Dio che è amore.
Coraggio dunque, fratelli, operai oscuri, umili madri di famiglia, soldati ignorati dei nostri eroici eserciti, modesti artefici del Regno di Dio! Che importano il rango, la dignità, l’indifferenza o l’ammiraziope degli uomini: per quanto piccoli voi siate agli occhi del mondo, occupate un posto d’onore e l’essenziale è di compiere, sotto lo sguardo di Dio. con una perseveranza instancabile, il dovere speciale che avete il diritto di chiamare la vostra vocazione. Dio non guarda allo splendore esterno, all’apparenza; egli vi chiede di -prepararvi alle grandezze eterne per mezzo dèlia vostra terrena fedeltà; e se, nella condizione ’ in cui siete posti, qualunque ne sia il valore agli occhi degli uomini, voi non avete negletto alcuno di quei piccoli doveri in cui si riflette la Sua volontà, voi udrete un giorno la parola approbatrice: < Bene sta, buono e fedel servitore. Tu sei stato fedele in poca cosa: io ti stabilirò sopra molte: entra nella gioia del tuo Signore! ».
Giovanni Lafon.
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OPERA DI RICOSTRUZIONE
UN PROGRAMMA DI RIFORME SCOLASTICHE
Il 14 di gennaio, il vasto progetto di legge per la riforma di tutto il sistema di istruzione ed educazione inglese, ritoccato in alcuni punti,, in modo da rassicurare anche le diverse Chiese che temevano per la loro libertà d’insegnamento, è stato presentato in prima lettura alla Camera dei Comuni. È notevole che tra i primi ad allarmarsi per la dilazione di questa presentazione furono i vescovi della Chiesa Inglese, che in un’adunanza del 24 ottobre ne espressero al Governo il loro rammarico e disappunto.
In una intervista riprodotta dall'-Obser-ver » del 18 novembre, il nuovo Ministro inglese dell’Istruzione, Fisher, cosi illustrava il vasto programma di riforme scolastiche da lui proposto, specialmente sotto l’aspetto della elevazione intellettuale e morale della classe operaia. A tal titolo ci sembra essa meriti di essere ampiamente riassunta nei punti fondamentali, come quella che pone meglio in evidenza tutto l'organismo del progetto, e le condizioni ed esigenze nuove a cui esso risponde, applicabili a l’Italia, non meno che all’Inghilterra.
PER UN’INGHILTERRA MIGLIORE
« La guerra — ha detto il Ministro -ha eccitato le intelligenze non meno che gli spiriti. È la caratteristica del servizio sociale, di predurre la convinzione che coloro che ad esso si consacrano divengono degni di ricevere dalla comunità il meglio
che essa possa dare, appunto come essi le dedicano il meglio di se stessi. Tale è il case dei nostri uomini al fronte: essi sono assolutamente decisi di volere in avvenire un’Inghilterra in cui valga la pena di vivere: e dopo lo scopo immediato della sconfitta della Germania la chiave dei loro sentimenti è tutta in questa strenua determinazione.
« Naturalmente, il primo passo ad una Inghilterra migliore è un più alto livello di educazione (1) specialmente pei figli del popolo. Al presente tutto l’impero Britannico vibra sotto l’eccitazione di questa idea. Ultimamente, in un’adunanza di operai del Sud del Gallese che rappresentava centomila lavoratori, fu votato un ordine del giorno in cui si domanda che chiunque col suo profitto scolastico nelle scuole primarie mostra che il suo desiderio di proseguire gli studi è serio, sia ammesso gratuitamente ai Sorsi secondari e poi agli universitari. : da notare che quasi tutte le trade unione inglesi hanno votato simili proposte».
EDUCAZIONE DEI FANCIULLI AL LAVORO
• Un altro punto ò stato ed è oggetto di speciale attenzione ed esame: quello del rapporto fra l'educazione dei fanciulli ed il loro lavoro. Fino ad ora, un fanciullo
(xj Bisogna non dimenticare che la parola e il concetto di « educazione » è sempre usato in inglese invece dei nostro termine « istruzione ».
{Nota dell’A.).
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NOTE E COMMENTI
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prima di entrare in iscuola poteva lavorare per tre ore come giornalaio, lustra-scarpe,, fattorino, ecc. L’esperienza ha mostrato che questo lavoro prima della scuola non solo affaticava i fanciulli,- ma riempiva la loro mente di altri interessi e preoccupazioni, che troppo spesso avevano il sopravvento. Nel mio progetto di legge, sarà vietata qualunque forma di lavoro salariato prima di mezzogiorno, e, nei giorni di scuola, qualunque simile lavoro prima delle 17 o dopo le 20. Così si assicurerà la indipendenza intellettuale dei fanciulli ed il loro pieno riposo notturno E rima della scuola. In altre parole, in nghilterra l’educazione sarà la prima cosa e l’impiego la seconda ».
SALARI DEI MAESTRI
« Per quanto importante sia questa riforma, a mio parere la riforma cardinale è quella dell’aumento dei salari dei maestri. Persuadiamoci che fino a che l'insegnamento non diverrà una professione liberale diversa da quel lavoro di grado inferiore qual’è adesso: fino a che i bassi salari attrarranno all’insegnamento solo individui scadenti, sarà impossibile avere un buon sistema di educazione, e quindi un buon governo e una nazione prospera e felice.
« Dopo la guerra — e io sono assolutamente convinto di questo che dico — la nazione che avrà i migliori maestri, coi salari più alti, e col migliore sistema di educazione, sarà la nazione meglio governata, e per ciò la più grande. Non è possibile che un popolo che non rispetta il dovere di educarsi sappia darsi e mantenere un buon governo...
« Ecco quale sarà, secondo il nuovo sistema, il programma scolastico.
ASILI INFANTILI
« Anzitutto il primo stadio sarà: buoni asili infantili dai tre ai sei anni. Non obbligatòri, però, perchè è preferibile che i bambini di famiglie agiate restino in casa fino ai sei anni. In questi asili, certo, si giocherà e si dormirà più che istruirsi: ma il giuoco sarà organizzato in modo da educare, ed il sonno avverrà in condizioni tali da aiutare i fanciulli a «divenire sani e forti. Non vi saranno tavolini da studio ma solo lettini e tavole: e si prowederà perchè i bambini stiano all’aria aperta il più possibile. Nei quartieri popolari.
nei quali le madri generalmente sono operaie, questi asili infantili saranno una vera benedizione, specialmente per la cura che si avrà della loro salute con visita medica giornaliera, e con provvedimenti perchè non contraggano malattie infettive. In tal modo speriamo di preparare una moltitudine di fanciulli dai tre ai sei anni sani e robusti, sì da poter trarre vantaggio dai nostri piani posteriori di educazione.
ISTRUZIONE ELEMENTARE
• Ed eccoci al secondo periodo, dell’istruzione elementare. Esso verrà diviso, all’ingrosso, in due sotto-periodi: l’uno dai sei ai dodici anni, dedicato specialmente all’acquisto di uno sfiato fondamentale di coltura: e l’altro dai dodici ai quattordici, di perfezionamento nella letteratura, lingue estere, lavoro manuale, azienda domestica (per le fanciulle) ed elementi dei mestieri per i fanciulli, e musica per ambo i sessi.
« Quanto al terzo periodo, d’istruzione secondaria, faccio notare che il ncstro Ministero sussidia di già circa mille istituti d’istruzione secondaria; e che il mio predecessore Me. Renna ha già imposto a questi istituti sovvenuti dallo Stato che il 25 % dei posti siano concessi gratuitamente ad alunni di scuole elementari o popolari. Nostra intenzione è di stabilire due esami, in questo corso: l’uno a 16 e l’altro a 18 anni, e speriamo che queste « licenze » siano accettate come requisiti necessari e sufficienti per l’ammissione non solo alle Università, ma anche alle diverse occupazioni. Nel nostro progetto di legge, ogni fanciullo o fanciulla, lasciando a 14 anni la scuola elementare, dovrà frequentare la scuola secondaria almeno per otto ore la settimana, o in altra forma trascorrere almeno 320 ore ogni anno in corsi educativi fino all’età di diciotto anni, distribuendo queste ore d’accordo col suo orario di lavoro industriale. Oltre all’istruzione letteraria, storica, generale e professionale — questa ultima specie negli ultimi due anni — l’allievo farà esercizi ginnastici tali da sviluppare la sua abilità fisica.
MUSICA
« Spero che anche la musica troverà degno Posto in questo prógramma. Non vi è aspetto in cui là Germania eccella
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BILYCHNIS
su tutte le altre nazioni quanto quello della diffusione della conoscenza e gusto musicale. Questo le è stato di aiuto anche per la guerra. Io credo che tale conoscenza sarà di gran sollievo alla popolazione industriale, la quale, quando oppressa dal peso del lavoro materiale, potrà trovare rifugio in una musica veramente bella. È pietoso l’abbandono della musica da parte del nostro popolo, che pure era si musicista nei secolo xvii, e che ha tesori di maravigliosi canti popolari. Ma credo che pei poco che il nostro popolo sia incoraggiato, esso farà di nuovo dell’Inghilterra una nazione di musicisti: e credo anche che l'educazione sociale e musicale che verrà impartita nelle nostre scuote di continuazione serali, varrà a sollevare tutto il nostro popolo ad un livello più alto, nel corso di pochi anni.
EDUCAZIONE POPOLARE E INDUSTRIA
« Ed ora consideriamo per un momento il rapporto fra l’educazione popolare e l’industria.
< È vero che ogni nazione vive e prospera per la sua industria, ma è affatto a torto che'noi ci siamo abituati a riguardare lo sfruttamento dei fanciulli e dei giovani nell’industria come una necessità essenziale dell’industiia. Una nazione non prospera per l’industria della sua gioventù ma per quella dei suoi adulti; e l'industria degli adulti sarà perfetta solo se l’adulto sarà esso stesso perfezionato, cioè se l’adolescenza sua sarà stata adeguatamente curata e alimentata.
« Il pericolo di sottoporre la gioventù/ all’industria moderna .è anche maggiore che nei tempi andati, perchè essa è più monotona che per il passato, e più macchinale: e, in proporzione, importa che i giovani, prima di sottoporsi alla sua snervante influenza, abbiano ricevuto la fiù completa educazione possibile. Ora industria moderna permette più tempo da concedei e all’educazione che quella di altri tempi, appunto perchè la sua ripetizione dei processi riesce ad una esi--genza e necessità di più brevi ore di lavoro.
« E la monotonia quella che imporrà la giornata di otto ore. E se la giornata di lavóro tende ad abbreviarsi, è necessario che, se vogliamo evitare il caos, come precauzione elementare, educhiamo la nostra gioventù. Ma il nuovo progetto tende a proteggere gl’interessi dei padroni
non meno che quelli degli operai, ed il Ministero è disposto a riconoscere scuole di carattere professionale, stabilite e mantenute negli stabilimenti industriali dai padroni, purché queste raggiungano il voluto livello di coltura e sian sottoposte al controllo dello Stato... I padroni .sono talora diffidenti e sospettosi dell’ insegnamento, perchè temono che qualche competitore ne ritrarrà il vantaggio...
« Noi insisteremo perchè ógni scuola includa nel suo programma alcuni rami Senerali di coltura pei fanciulli fino all’età i sedici anni, e che tra sedici e diciotto anni l’educazione sia a preferenza culturale, mentre l’addestramento fisico dovrà continuare ininterrotto durante tutto il corso ».
CAMPI SCOLASTICI ESTIVI
« Un’altra idea che c’ispira grandi speranze è quella contenuta nel nostro progètto di legge riguardante i campi scolastici estivi. Abbiamo fiducia che gli studenti appartenenti alla classe operaia accorreranno in gran numero a questi campi estivi, almeno alla loro uscita dalle scuole elementari a quattordici anni, per spendervi una parte dei loro ordinari quindici giorni di vacanza. Questi campi estivi saranno organizzati dalle autorità scolastiche locali, e posti sotto la sorveglianza dei maestri di scuola, in maniera che i fanciulli che vi prenderanno parte vi ottengano istruzione, un po’ di disciplina e di esercizio fisico, vi acquistino qualche conoscenza della vita di campagna, vi conducano una vita all'aria apèrta, e subiscano la benefica influenza morale di un campo estivo ben diretto.
«In questo modo, il figlio, ad esempio, di un artigiano, dopo avere frequentato le scuole a orario pieno fino a quattordici anni, avrà il vantaggio dei campi estivi fino a diciotto anni, e avrà la sua scuola di otto ore almeno la settimana, e così, invece di chiudere il suo corso d’istruzione quando comincia a guadagnare, continuerà per molti anni ancora un esercizio fisico, artistico, professionale e morale, non solo acquistando una nuova coltura, ma venendo rattenuto dal perdere quella acquistata nella prima gioventù.
FINO AL MATRIMONIO
«Così il sistema educativo dello Stato accompagnerà gl’individui dalla nascita
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NOTE E COMMENTI
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fino all'età del matrimonio, sicché quando essi, alla lor volta, avranno dei bambini non abbiano perso di già ogni interesse in materia educativa come spesso avveniva nel vecchio sistema.
UNIVERSITÀ
■ Quanto all’ultimo gradino dell’educazione statale, quella delle Università, non vi è da aspettarsi dopo la guerra grandi cambiamenti essenziali di struttura o di metodo, specie dopo che un sì gran contingente di ballanti studenti universitari han dato la vita per la patria, e dopo la perdita di tante guide intellettuali. Ma ciò non esclude un energica ripresa di sforzi per il progresso della coltura superiore: e crediamo che anche dopo la guerra avremo abbastanza personale per soddisfare ai bisogni intellettuali della nazione ».
ARRICCHIMENTO DELLA NATURA UMANA
Interrogato se nulla nei suoi piani fosse diretto a preparare i giovani alla lotta industriale contro la Germania, il Ministro rispose: « No: ciò in cui io credo è l’arricchimento generale della natura umana. Una educazione diretta a equipaggiare per uno sforzo disperato di conquista dell'industria, sarebbe, a mio parere, un errore. Lo scopo dell'educazione deve essere la libertà: rendere i nostri cittadini liberi e spregiudicati, capaci e volenterosi di conquistare per la nostra nazione ciò che v’è di meglio, ma egualmente desiderosi e bramosi di dare ad ogni nazione ciò che le spetta.
« Nulla è più lontano dal mio pensiero che la subordinazione delle nostre scuole ad una campagna commerciale dopo la guèrra... ». Emmanuel.
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PER IL IV CENTENARIO
§ DELLA NASCITA DELLA “ RIFORMA ”
(31 OTTOBRE 1517-31 OTTOBRE 1917)
in.
LUTERO, FIGURA CENTRALE DELLA RIFORMA”: GIUDIZI SULL’UOMO E SUL RIFORMATORE
La Narodni Lisly, il principale giornale zeco, ricordando appunto il 4® centenario della Riforma, scriveva: « Lutero non rappresenta pei tedeschi e pel mondo un ideale eletto ed unico di virtù personale, «li coraggio nel difendere la verità, di patriottismo, di purezza d’animo, quale fu quello personificato fra noi da Giovanni Huss ». ‘
Così, attorno alla persona di Lutero la contesa degli avversari e l’odio dei fanatici si accanisce non meno che intorno alla figura della Riforma: segni entrambi «d’immenso odio e d’indomato amore ».
A sceverare, in mezzo alle ombre e alle luci con cui sì l’odio che l’amore annebbiano o trasfigurano la realtà, la figura umana di Martino Lutero, e a rendere quindi più intelligibile l’efficacia da lui esercitata, gioverà invitare alcune voci tipiche, pur se talune appassionate o intemperanti, a dirci che cosa si pensa ance ra del Patriarca della Riforma dopo che quattro secoli di tempeste hanno scherzato intorno al suo capo e cimentato la saldezza della sua opera.
Ecco anzitutto una testimonianza il cui valore non ha pari, a mostrare la cen
tralità » della figura di Lutero in mezzo ai riformatori anteriori e coevi.
Essa non d di altri che del patriarca genevrino, di Calvino, di colui che col suo spirito di organizzazione e di governo prestò alla Riforma elementi non meno essenziali di quelli dell’agitatore, dell’apostolo, del profeta. Eccola quale è citata dal Le Témoignage (i° novembre 1917): ■ Allorché la verità divina giaceva soffocata da tante e sì dense tenebre, la religione era insozzata da tante empie superstizioni e il culto divino corrotto da orribili sacrilegi...; quando il governo della Chiesa era ridotto ad un brigantaggio disordinato, e quei che avevano il compito di pastori, dopo aver ferito la Chiesa coi loro sregolati costumi, esercitavano sulle anime una spaventevole tirannia, e l’umanità era spinta come un gregge verso l’abisso attraverso l'errore, dal seno di questo disordine la figura di Lutero si levò; con lui s’incontrarono altri uomini che. riunendo i loro sforzi e il loro zelo, cercarono i mezzi e le vie di purificare la reli-Ì;ione di tutte le sue sordidezze, ristabilire a purità della sua dottrina, e ricondurla da un abisso di miseria al suo antico splendore. Noi seguiamo la via che essi ci hanno tracciata ».
Questa supremazia di efficacia è riconosciuta a Lutero anche da storici temperati e punto pregiudicati in suo favore. Ecco ad es. le parole di G. B. Eager dell’Univer sità di Louisville nel Review and Exspo-sitor (ottobre 1917) : « È evidente che mentre Lutero fu la figura centrale del
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movimento, non ne fu l’originatore: egli nulla insegnò nè inaugurò di assoluta-mente nuovo. Prima di lui e con eguale ardire, Giovanni Wessel aveva insegnato nella sua stessa Università la giustificazione per mezzo della fede: wycliff in Inghilterra, Huss in Boemia, Savonarola in Italia denunziarono la corruzione della Chiesa di Roma con un vigore mai ecceduto da Lutero.
Ma Lutero, più che chiunque altro, rappresenta la transizione dal mondo medioevale a quello moderno, ed è un’illustrazione del fatto che essa fu vitale anziché violenta.
.... Nei secoli prima di lui, il desiderio crescente di libertà da ogni oppressione e di uguaglianza di privilegi aveva cercato e trovato un’espressione piuttosto saltuaria e futile. Ma con lui, finalmente le lottanti fedi e aspirazioni trasmesse di Generazioni in generazioni trovarono al-improvviso una nuova voce e condizioni nuove, che diedero ad esse un’espressione coraggiosa e vivificatrice ».
Il ritratto morale e fisico di Lutero ci è presentato sotto una luce la cui parzialità emergerà dal contrasto che ad esso faremo seguire, dal gesuita Giuseppe Dominici, sulla Scuola Cattolica di dicembre 1917. Egli ha anzitutto cura di raccogliere le impressioni di due contemporanei sulla fisionomia e il carattere di Lutero. Dal Dantiscus, ambasciatore polacco che. visitò Lutero a Wittenberg nel 1523, cita un brano di lettera. « Io ho trovato in lui un uomo spiritoso, istruito ed eloquente, ma parlando del Papa, dell’imperatore e di altri principi, usava parole sarcastiche, amare e mordaci. Il suo volto è come i suoi libri: gli occhi penetranti e di uno scintillio un po’ sinistro quale si nota a volte negli indemoniati... L’orgoglio fa in lui capolino del pari che la grande ambizione »
Al legato pontificio Vergerlo, dodici anni dopo, egli apparve: « .. dalla faccia, dall’abito, dai gesti e dalle parole, che sia o no spiritato, l’arroganza stessa, la malignità e l’imprudenza ». Anche il Palla-vicino notò «gli occhi sguerci... affogati, incostanti, e con certo come furcr et rabia che vi si vede dentro ».
Quanto al suo ritratto morale di Lutero, ecco alcune linee:
« A Lutero non mancò la stoffa del rivoluzionario, bensì quella del riformatore. Egli ebbe qualità eccellenti per allacciare alle sue dottrine un’eloquenza brillante di immagini, impetuosa, umoristica; veemenza di parola per trascinare la folla avida di novità. Di ingegno robusto e vivace, affezionato allo studio ed in esso infaticabile. Ma siffatte prerogative erano oscurate dall'orgoglio, dalla collera, dalla lussuria, che lo predominarono in tutta la vita ».
Allo Schoell, allo Choisy, al Du Moulin che ci presentano un Lutero dotato di « generosa tolleranza » e che per diffondere le sue dottrine non ricorse che agli « argomenti dell’amore, e alla carità cristiana, il Dominici contrappone la figura tolta da scrittori cattolici.
«La violenza del suo linguaggio contro il papa, i monaci, i preti ed i chiostri,rassomiglia ad una folgore incendiaria. Scriveva nel 1529 desiderando che il papato venisse ridotto in polvere* come il vitello d’oro di Mosè, e che i capitoli e monasteri fossero sgretolati e mandati in frantumi. Due anni appresso augurava al papa ed ai papisti il fuoco infernale, anzi voleva che il papato sprofondasse nell’abisso dell’inferno. Nel 1532 esprimeva il desiderio di vedere papa, cardinali, vescovi e monaci andati al diavolo. Egli avrebbe preso le armi contro tutti i monaci e preti, e partecipato all’uccisione di tutti quei ribaldi come cani pazzi.
Se avesse avuto una casa con tutti i francescani, vi avrebbe dato fuoco gridando: « via al fuoco tutti ! » I religiosi, secondo lui, neppur meritavano il nome di troie. «Giacché non posso pregare almeno posso maledire ! Invece di dire: sia santificato il nome -tuo; dirò; sia maledetto e abominato il nome dei papisti. In cambio di dire: venga il tuo regno: ripeterò: il papato sia maledetto, condannato, ester-minato; così prego assiduamente ogni giorno con le labbra e col cuore ». Nel manifesto alla nobiltà germanica tempestò il papato e Roma delle più virulenti e selvagge contumelie. Poco prima di spirare dicesi che tracciasse con gesso sulla parete della sala da pranzo: Pestis tram vivus, marititi ero mors tua, Papa. Così nel parossismo dell'odio morì il 18 febbraio 1846 in Eisleben ».
■ Non minore avversione gorgogliava nelle viscere dell’ex-monaco contro il monachiSmo ed il sacerdozio. Invaso da
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Ìuesto odio frenetico, adottò per arma la ugia colla intenzione di spopolare i chiostri, e disertare il santuario.
«... Con fine accorgimento cominciò a preconizzare il matrimonio come un Paradiso: alla legge papale del celibato isognava anteporre il matrimonio... Egli si foggiò la comoda teorica delle bugie utili e necessarie: l’uso delle quali era sì frequente in lui, che il Duca Giorgio di Sassonia definì Fra Martino « il mentitore più sfrontato che abbia visto il mondo »
Qui l'articolista pone nella luce più fosca la storica bugia di Lutero che si collega con la bigamia del Langravio di Hassia - della quale torneremo a parlare, - e imputa a Lutero la reazione licenziosa a cui monaci, frati e monache di ieri si abbandonarono, dietro la sua proclamazione della santità del coniugio. E termina l’articolo con le tinte « sombres » « L'entusiasmo che spirò da principio attorno alla personalità del riformatore cominciò ad acquietarsi: l’epinicio prese un'aria di funebre cantilena. Tormentato dal mal di pietra, Lutero talora scartava in smania per l’atrocit dei dolori ».
« Accrescevagli dolore la stizza della sua Hàta non curata dalle donne di Witte.m-berga. Il paradiso sognato nell’epitalamio era svanito come una meteora. Di profonda afflizione fu ner Lutero la immatura morte della figliuola Maddalena che amava teneramente, e sulla cui tomba pose la iscrizione: < Dormio cum sanctis hic Mag-dalena Lutheri filia...».
« La sua baldanza era cresciuta a segno, che reputavasi il centro d’attrazione dell’umanità.
■ Chi non riceve la mia dottrina non può conseguire la salute », era stato il suo programma. Con insana persuasione prevedeva la scomparsa del papato e. dei conventi, e un clero coniugato. Ora nella sua stessa famiglia doveva lamentare il disprezzo della divina parola. Nuove sette refrattarie a! suo insegnamento gli sfrondarono l’alloro. e portavano via qualche foglia nella sua glòria... I seguaci più celebri dell’ora prima si staccarono da lui, stomacati dal suo atteggiamento. Ma ciò che più dovette accorare il monaco apostata fu la delusione provata allo spettacolo del papato, contro il quale per ventinove anni aveva diretto i suoi assalti, adoperando per armi il libello, la satira, la caricatura, la menzogna e la frode.
« Mentre Fra Martino piegava verso
l’occaso, intontito forse dal plauso del-Vexercilus facinorosa*, Alessandro Farnese col nome di Paolo III governava la Chiesa. La cristianità aveva accolto con entusiasmo reiezione perchè preludio non dubbio di riforma.
«La convocazione del concilio di Trento fu il culmine dell’attività del grande Pontefice, donde scaturì un largo fiume ristoratore della vita ecclesiastica e cristiana..., e sotto cui rifiorirono le istitu-tuzioni monastiche e campeggiò la Compagnia di Gesù, milizia agguerrita alla lotta, che tuttora vivente Lutero, fu alle prese colla psendo riforma...».
Lo studio del Dominici in cui l’accurata documentazione si accompagna con difetto di critica e si alterna e intt cecia con sentenze, principii, preconcetti dottrinali e dommatici, termina con l’espres sione della persuasione dell’A. che sembra aver presieduto a tutto lo- studio: « Fuori della Chiesa (Cattolica) potranno scaturire deformazioni morali, non riforme vere di costumi ».
Pregiudiziale questa che non lo qualificava certo per uno studio oggettivo di una personalità e di un fenomeno si complesso nelle sue luci e nelle sue ombre, quale la Riforma e Lutero.
Gli editori del settimanale Outlook di New York si domandano d’altro lato se i colpi di martello con cui Lutero affisse 400 anni fa le sue famose Tesi non siano soffocati oggi dalle voci dei cannoni, e se non vi sia qualcosa di vero nel motto di alcuni, che è venuto il momento di seppellire anziché di elogiare il riformatore tedesco. Essi osservano però che sottoponendolo all’esame dello storico, cioè considerando i risultati ottenuti anziché applicandogli le nostre audaci categorie moderne « il riformatore sassone appare uno dei più grandi dei figli degli uomini: il suo cervello fu dei più attivi, il suo cuore dei più appassionati, la sua volontà la più indomita »
Essi ancora si pongono la questione. Che sorta di uomo culi fu: ma la loro investigazione li porta alla scoperta, antitetica a quella del Dominici, che: « la più grande qualità di Lutero fu la sincerità. Prete ed uomo pubblico, non vi fu traccia di sinto mo d’ipocrisia in tutto il suo essere. La ciarlataneria gli riusciva intollerabile. Egli
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« spifferò » tutta la verità, come gli apparve, senza reticenze, non curante delle sue conseguenze per se stesso e per gli altri, e a dispetto « di tutti i cardinali, papi, re, imperatori, e di tutti i diavoli dell’inferno ». Fu questa sincerità che ne fece un riformatore. Salito sulla cattedra di Witteir.berg. trovò che vi s’insegnava sotto il nome di dottrina aristotelica, uno scolasticismo sterile e volgare, e non ebbe tregua fino a che non ebbe interamente purificato l’Università di quella zavorra: e per quanto non possiamo convenire con lui nel suo giudizio delle Stagirita come di un « maledetto pagano »,-crediamo che questo cambiamento fu salutare, come lo è ogni ritorno dal formalismo morto alla lealtà vivente. Nell’ordine degli Agostiniani a cui apparteneva presto trovò, al posto della vera rettitudine, dell’ipocrisia larvata e dell’unzione spuria: e furono gli sforzi che fece per purificare il suo convento che gli procacciarono fama di santo e d'oratore molto prima che si sentisse parlare di lui nel vasto mondo.
E quando le indulgenze gli .attraversarono il cammino, era inevitabile che egli o le distruggesse o perisse nel tentativo... Giacché Lutero, altro in esse non vide, che una frode grossolana praticata col popolo^ la vendita della promessa del perdono, della grazia e del Cielo, in cambio di un sordido danaro per soddisfare le cupidigie delle supreme autorità...
La sua noncuranza delle conseguenze , delle sue parole fu sì grande, che egli non si trattenne dal dire tutta la verità anche quando gli sembrava probabile che essa metterebbe a rischiò il successo della causa che gli stava a cuore. Così, quando nel 1519 cgl> discuteva contro Giovanni Eck sul potere ciel Papa, il suo avversario abilmente trasportò la pericolosa questione sul terreno delicatissimo della condanna di Giovanni Huss nel Concilio di Costanza, domandandogli che cosa egli ne pensasse. Ora quasi tutta la cristianità detestava allora Huss come eretico, giustamente punito dalla Chiesa. I Tedeschi in modo speciale, odiavano i Boemi con cui erano stati in guerra per lunghi anni. Ma Lutero, a costo di alienarsi l’appoggio dell'opinione pubblica cristiana e tedesca insieme, dichiarò coraggiosamente che gli articoli di Huss erano pienamente cristiani ed evangelici, e che la Chiesa Universale nel condannarli aveva sbagliato.
Negli anni seguenti pure, Lutero fu
sempre pronto a mettere in pericolo la sua popolarità presso i suoi stessi seguaci: così durante la « Guerra dei Contadini » nel 1525 egli prese la parte pili impopolare, con grave pericolo.
La sincerità fu, si può ben dire, la chiave di tutto il suo carattere. Il suo occhio fu così semplice, che gli disdegnò ogni ceri-monialismo. Nei suoi momenti migliori egli dichiarò di non dare importanza ad una più che a-un’altra forma di religione, fosse quella delle • opere buone » del Cristianesimo meoioevale.o delle prescrizioni della sua Chiesa. • Meglio » egli disse con Írande elevazione - « di avere il tempio atto a pezzi, che di avervi dentro un Cristo nascosto ».
Come tutti gli uomini convinti della giustizia della loro causa, Lutero fu persona da usare misure violente per raggiungere i suoi scopi: anzi in un caso estremo egli giunse a consigliare « una brava e solenne bugia per la causa e per il bene' della Chiesa ».
Ma d’altra parte egli non fece mai ricorso agli equivoci di un casuismo e di una sosfisticazione di coscienza che corrompono lo spirito, quali erano praticati in certi ambienti. 11 suo famoso: ■ Pecca fortemente purché credi anche più fortemente », non era che un modo di dire: « Sii onesto e poni tutto il tuo cuore in qualunque cosa tu faccia ». Così ancora il consiglio da lui dato ai suoi discepoli tentati di malinconia e di disperazione, di fare qualche giuoco, di scherzare, di bere, o di pensare a qualche bella ragazza, ha, qualunque possano esserne i difetti, almeno il merito di un candore sorprendente. La franchezza straordinaria del suo linguaggio spesso violento e spesso anche volgare, ha scandalizzato qualche animella meticolosamente attaccata alle buone forme: ma pure, tutto faceva parte della sua inmensa, virile natura, che aveva bisogno di esprimere in maniera forte tutto ciò che sentiva profondamente.
La sua intolleranza fu anche dovuta in in gran parte al fatto, che egli fu unilaterale, nella sua visione della verità, e non poteva immaginare che essa potesse avere molteplici aspetti. ■ Lo Spirito Santo » — fece egli osservare una volta — « non è un leguleio: o noi o loro dobbiamo essere ispirati dal diavolo.. Noi sappiamo che i nostri avversari non possono essere persuasi di cièche credono, poiché sappiamo che sono in errore ».
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Il suo coraggio fu così abituale, che non una volta nella sua vita egli esitò dinnanzi al compimento del dovere...
Uomo profondamente religioso, Lutero fu nel fondo un mistico. Il mondo di là ebbe per lui un carattere di realtà più che non abbia o non possa avere anche pei più caldi credenti dell’età nostra. Per questo riguardo si deve riconoscere che egli ereditò la superstizione del suo tempo e che credette nella stregoneria e oggettivò il diavolo nella maniera più vivace.
Benché non s’interessasse mai dei problemi della democrazia egalitaria e della libertà politica, nel fondo fu egli stesso un tribuno della plebe. Fu egli il primo a sfruttare pienamente la stampa, come organo per plasmare le idee del popolo: ed egli fu il più grande degli scrittori di « pamphlets ». Il suo stile ha una vivacità, un vigore, una forza di argomentazione stringente e serrata, che andava diritta al cuore dei suoi connazionali.
Per alcuni riguardi, il carattere di Lutero, come quello di altri geni, sfida ogni tentativo di analisi contenendo elementi originali e paradossali. Egli fu un mistico sognatore ed insieme un uomo pratico di affari: fu un sognatore che seppe realizzare i suoi sogni... Potè attaccare i suoi nemici con furia selvaggia, ed essere gentile femminilmente verso i fanciulli. I suoi inni aleggiano versa il cielo, mentre i suoi scherzi volgari strisciano nel fango. Compreso di profonda malinconia, eppur sempre sulla bocca uno schietto riso: egli fu superstizioso ma saggio, sottile ma semplice: gretto eppure assai grande».
itti ....
Le altre accuse lanciate da storici c da apologisti cattolici contro Lutero trovano una rettifica o una confutazione nel vigoroso « pamphlet » del Viénot: • Luther et l'Allemagne*, che rappresenta una pubblica conferenza da lui tenuta a Parigi. Riassumiamo: « Lutero era un monaco libidinoso che ha lasciato il suo convento per essere libero. Che cosa si può rispondere a quest’accusa? Che dal 1517 al 1546 Lutero ha vissuto sotto gli occhi deirÉuropa, in una casa di vetro: ed è ammirabile ch’egli abbia superato questa formidabile prova. Dal punto di vista dei costumi, nulla v’è in lui di biasimevole. Se Erasmo di Rotterdam raccolse dei rumori sparsi da monaci sul suo conto e li fece circolare, più
tardi riconobbe di essere stato ingannato e ne fece ammenda onorevole... « Bisogna sapere » — aveva detto il riformatore — <« che ciò che si conviene agli uni non si conviene agli altri. A me che son vecchio fa bene di bevere abbondantemente (« larga potatio »)', ma non consiglierei egualmente ad un giovane di alimentare in tal modo la sue brame. Agli uni si conviene il digiuno, agli altri la bevanda... ».
Ecco qui i suoi avversari alzar la voce: Abbiamo Lutero stesso che qui confessa di essere un bevone. Ma ascoltiamo Audin, uno dei suoi peggiori nemici, che ha dovuto dichiarare: ■ Lutero èra sobrio, era parco nel bere, e portava alla mensa tutto quello che ne forma l’incanto, cioè i dolci discorsi, una gaiezza espansiva, dei frizzi arguti e il tesoro della sua memoria inesauribile. D’altra parte Melantone, cui tutta l'Europa rispettava, gli ha reso l’omaggio luminoso:
«Benché non fosse né piccolo di statura, nè di gracile complessione, egli era d'una temperanza estrema sia nel bere che nel mangiare. Io l’ho visto, pure in periodi di perfetta salute, passare quattro giorni intieri senza prendere alcun alimento, e contentandosi, spesso. in tutta una giornata, di un po’ di pane e di un’aringa per tutto suo nutrimento ».
Dopo un amico, sentiamo un altro avversario. Erasmo. Egli pure scrisse di lui: « I costumi di quest’uomo sono generalmente encomiati: ed è questa una testimonianza di gran peso, che gli stessi suoi nemici no» trovino in lui materia per le loro calunnie ».
È stato detto da qualcuno che i suoi « Colloqui conviviali »oc Tischreden »siano pieni di sozzure. Ebbene, aprite le « Memorie di Lutero » di Michelet, estratte appunto da queste memorie, e giudicate. Vi sono nei « Colloqui » cinque o sei proposizioni che ricordano il monaco e l'uomo del sec. xvi col loro sapore rozzo e grassoccio ma quasi tutto il resto è il più altamente umano..... Dovremo dunque inchinarci avanti alla-santità di Lutero? AhiMè! Noi Lutero fu grande. ma pur sempre soggetto, come ogni uomo, ad errori. Buono, amabile, gaio ordinariamente, egli era talvòlta testardo e violento, specie quando si trattava di sostenere un’idea che credeva giusta. Egli stesso l’ha confessato, dolendosi di essere qualche volta stato violento e duro con i suoi avversari « Tuttavia • egli aggiunse —- « non ho mai cercato il
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pregiudizio di alcuno, e molto meno la perdizione di qualche anima ».
Ma dobbiamo nel novero dei suoi difetti porre anche quello di essere stato un teorico della bugia? È questa l’accusa di alcuni scrittori cattolici, che si basano sulla specie di gioco scolastico che si trova nei suoi « Colloqui conviviali »: < Vi sono tre sorti di bugie: quella ufficiosa, quella scherzosa, quella dannosa. La prima è permessa, la seconda è tollerabile, la terza è assoluta-mente vietata ». Dunque Lutero ammette che la menzogna profferita per evitare una disgrazia o un male maggiore sia. in certi casi eccezionali, un dovere.
Si potrebbe domandare: Donde ha preso Lutero questa teoria, se non dalla teologia cattolica da cui la cita a parola? È vero che i protestanti, nella teoria e nella pratica, sostengono che la menzogna non è mai permessa: che la verità è un dovere assoluto. Ma pure, non è forse vero che vi sono conflitti tragici di doveri contradittori? Ecco un uomo leale e veridico quanto altri mai: Augusto Sabatier: ed ecco un racconto che appresi dalla sua bocca: « Ero » — mi disse — < cappellano in un’ambulanza dell’armata della Loire.Un bel giorno fummo arrestati da una pattuglia tedesca, che mi domandò se sapessi dove fossero passati alcuni franchi tiratori da essi ricercati. Io lo sapevo: ma indicai loro la direzione contraria, e i franchi tiratori furono salvi. Io ho mentito. Ma ho fatto bene o male? Non ne so nulla. Ma una cosa so di certo: che, se mi toccasse lo stesso caso... farei lo stesso ».
Ebbene, ecco ciò che Lutero chiamava ■ menzogna ufficiosa »: utile non al sog-Setto, ma ai suoi fratelli. E in questo senso ovrebbero intenderla i suoi avversari.
E Lutero si trovò appunto una volta nella sua vita in questo conflitto di doveri, donde crede di potere sfuggire, conforme alle lezioni della Chieda dalla quale non s'era abbastanza ancora emancipato a questo riguardo, con una menzogna.
Ecco l’episodio che riempì d’amarezza tutta la sua vita.
Tra i principi che più avevano favorito la Riforma, il più potente era il langravio Filippo d'Assia, che avendo fatto un matrimonio disgraziato e non potendo più convivere con la sua moglie,s’avvisò di domandare al riformatore l’autorizzazione di contrarre un matrimonio secreto con una dama della sua corte. Notare che in ciò egli si mostrava ancora assai scrupoloso e
ingenuo: giacché avrebbe potuto fare come ¡ili altri principi tedeschi, ad es. come Car-o V che lasciò dei figli naturali, o come i papi del suo tempo i cui figli naturali erano notori in tutta Roma. Ma Filippo voleva vivere nell'ordine: donne la sua domanda ai Riformatori. Costoro, col cuore ulcerato, dinanzi alla minaccia di Filippo di gettarsi nel disordine se gli si negava il consenso, ebbero là debolezza di autorizzarlo, sotto il sigillo di confessione, nella maniera più secreta, a contrarre questo secondo matrimonio. Ma la cosa trapelò, e allora Lutero, dinanzi allo scandalo, emise l’opinione che bisognava sconfessare un’ autorizzazione che non era stata accordata che sotto il sigillo della confessione. E al congresso di Eisenach il 15 luglio 1540 egli gridò: « Che cosa sarebbe se, per il bene e nell’interesse della Chiesa cristiana, si dicesse una buona e grossa bugia? ». Al fondo, nè Lutero nè Melantone si perdonarono mai questa debolezza, e noi ci diciamo con tutù gli storici protestanti che è questa la macchia, benché la sola macchia della Riforma germanica.
Ma dopo aver detto questo senza ambagi, nè reticenze... ci rivolgiamo agli accusatori di Lutero e domandiamo loro: Che cosa è quest’unico fallo di Lutero di fronte alle infamie che si trovano nella storia dei papi Alessandro VI, Giulio II, Leone X?
La Riforma è stata compiuta da uomini che non si pretendevano infallibili e non lo erano: ma in tutta la storia della Riforma noi non troviamo un monumento d’infamia simile al giornale di Burcardo, cameriere ael papa Alessandro VI. Se chiamerò Roma sentina di tulli i vizi, non si troverà uno storico degno di questo nome che osi protestare... Machiavelli, che non era un protestante, ha scritto: « Noi Italiani abbiamo verso la Chiesa e i preti questa obbligazione, di esser divenuti senza religione e cattivi ». È lì che si troveranno i preti libidinosi e l’immondezza... Qualche anno prima, il grande Gersone aveva denunziato il male in questi termini: « I chiostri abitati da canonici regolari erano luoghi pubblici e di mercato: i conventi delle religiose, delle specie di luoghi di prostituzione; le cattedrali, caverne di briganti e di ladri. Sotto il nome di serve e di governanti, i preti mantenevano delle concubine » (« Decla-ratio defectuum virorum ecclesiasticorum ».
Il legato del papa, l’avversario di Lutero. Aleandro... scriveva al vescovo Erar-do di Liegi nel x8 gennaio 1518, dopo che
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il grido di protesta contro la Chiesa di Roma era stato già lanciato, una lettera in cui si vantava della relativa moderazione che poneva nei piaceri voluttuosi « prosalute potius ouam prò voluptate », e di non avere, e ciò come virtù rara in Roma, dei vizi innominabili comuni allora ai cardinali e ai più austeri Uditori di Rota.
« Monaco libidinoso » — dite voi. « Lutero era un ubbriacone »; « Lutero voleva propagare la Riforma con la violenza e col sangue »; « Lutero era contro il popolo, in favore dei principi ». Cosi per calunniare Lutero contate sull’ignoranza dei lettori in materia di storia...
Ecco che ne pensa un grande inglese, il Carlyle: « Io chiamerò Lutero uomo veramente grande; grande nell’intelligenza, nel coraggio,’ nell’affetto e nell’onestà, uno degli uomini più amabili e di valore. Grande non come lo-può essere un obelisco incavato dal masso, ma come una montagna alpina: tanto fu semplice, onesto, spontaneo, senza punto pose di grandezza e per tutt’altri scopi che per fare il grande. Ah, si! un granito indomabile che squarcia e si addentra su nei Cieli, eppure porta nelle sue screpolature fonti e verdi valli fiorite. Un vero eroe e profeta spirituale: un vero figlio della Natura e della Realtà, per cui i nostri secoli e molti altri a venire ringrazieranno il Cielo ».
« Lo stile è l’uomo » ha detto Pascal: e fossiamo ripeterlo dell’oratore, specie dei-oratore sacro, e applicarlo a Lutero. Analizzando la sua predicazione noi ci ritroviamo di fronte ad un Lutero alquanto diverso, è vero, da quello dei suoi panegiristi, ma più ancora da quello dei suoi denigratori e avversari. Questo studio è stato fatto con cura — ed i risultati ne sono stati espressi con moderazione — dal dott. E. C. Dargan di Nashville, in un articolo su « Lutero predicatore » nella Revicw and Expositor, organo della facoltà teologica battista di Louisville. Riassumiamole.
«... Una gran parte della predicazione medioevale era gonfia e formale: e sotto l’influenza scolastica era divenuta analitica in modo penoso e opprimente. Specie nei chiostri e nelle chiese, essa era arida, formale, senza vita. La Riforma irruppe in questo stato di cose con un’ondata di nuova vita e vigore: c Lutero fu uno dei primi campioni del nuovo metodo. La predica
zione di Lutero è il frutto del suo passato, dei suo ambiente e delle sue circostanze, ma anche della sua ricca personalità.
Il fatto che L. fu figlio di contadini ci spiega come il suo coraggio e la sua pazienza si sviluppasse dalle condizioni di povertà e dalle lotte della sua fanciullezza e gioventù gorgogliante di vita. Si deve d’altra Ì>arte osservare che la durezza e la grosso-anità derivata dalla sua condizione di contadino non si sradicò mai più dal carattere dell’uomo: egli mai fu, nè mai potè essere, raffinato e delicato. Egli venne su, svegliato d’ingegno, studioso, appassionato delia coltura per amor della scienza, largo d’idee e di tenace memoria, osservatore della natura non meno che dei libri. La sua attenzione fu fissata dalle abitudini degli animali e degli uccelli, e delle sue osservazioni fece largo uso nelle illustrazioni. Indirizzato dal padre allo studio della legge, ma più inclinato allo studio della Teologia c della Bibbia, egli entrò in monastero in seguito allo • shock » prodotto in lui dalla mòrte subitanea d’un amico; passo impulsivo, il quale ebbe poi a deplorare... Tuttavia l’educazione e la vita monastica, furono elementi decisivi nella sua vita e opera. Rigido e proclive all’ascetismo, deliziandosi degli studi e divenuto padrone della teologia scolastica, partecipe di quella corrente di misticismo che divenne caratteristica dell’uomo e del predicatore, dotato di una calda personalità e aspirando a una più alta vita spirituale, egli, divenuto professóre a Wittemberg, cominciò anche a predicare, dapprima con riluttanza, poi con .crescente successo. Intanto la sua vita spirituale cresceva e s’irrobustiva: il suo spirito si rivoltò contro gli errori del Romanismo, e la sua rottura con Roma, in tutte le sue fasi e circostanze, divenne e continuò ad essere un potente elemento della sua vita e della sua opera come predicatore.
Le controversie su materie bibliche e teologiche, il bisogno costante di preghiera c di unione con Dio durante la lunga e penosa lotta..., tutto influì potentemente sul corso del suo pensiero e la forma della sua predicazione.
Ma sotto il corso della sua educazione e l’opera modellatrice degli eventi, restava sempre a base il naturale e il carattere dell’uomo, e della formidabile personalità la cui forza, padronanza e rezza virilità, si affermò nella espressione di predicatore della parola di Dio. Lutero fu un tipico
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teutone: quella combinazione di tenerezza e rozzezza, di senso pratico e d'idealismo, di presunzione e timidezza, era caratteristica dell’uomo non meno che della razza... A lato della tenerezza e delicatezza di alcuni dei suoi sentimenti ed espressioni, troviamo la volgarità di naturale e di espressione che non vale la pena di scusare. Il suo era un naturale gagliardo, prepotente, aspro, volgaxc: e se i suoi contemporanei e cooperatori lo sopportarono, fu perchè, nonostante tutto, egli era un grande uomo. Un’immaginazione potente, intelligente, vivace: profondità e tenerezza di sentimento; semplicità di scopi; simpatia con tutti gli aspetti della vita umana, conoscenza acuta della natura umana nel contadino come nel principe, nell’ecclesiastico e nello scienziato; piena confidenza in se stesso; abilità nello scegliere e combinare un linguaggio atto ad esprimere i grandi pensieri e le emozioni che fervevano nel suo petto, queste erano le doti e le qualità del possente predicatore della Riforma.
La predicazione di Lutero ci è giunta nei ricordi di coloro che la ascoltarono e in Sualche saggio stampato e conservato di ¡scorsi poi pubblicati. È evidente che gli uni e gli altri sono documenti imperfetti di quell’oratoria, nelle Iodi della quale si accordano amici e nemici del riformatore... Lutero differì grandemente dagli oratori del suo tempo. Dopo la grande esplosione oratoria dei sec. xn e xiii, lo scolasticismo aveva toccato il sommo dell’analisi e della definizione, e le prediche erano aride, logiche, suddivise minutamente... Lutero seguì invece quasi interamente il metodo di esposizione dell’antica scuola alessandrina. Prendendo il Vangelo del giorno, egli generalmente espone il passo della Scrittura, verso per verso, senza ricercare l’unità e la suddivisione omiletica. Questo metodo, piuttosto slegato, era redento in Lutero dalla sua formidabile robustezza, dalla sua originalità, dal suo potere spirituale. Fu un difetto, ma lo stesso suo contrasto con il raffinamento esagerato gli dava un nuovo valore ed efficacia.
Ma il contrasto netto con la predicazione cattolica del tempo fu ancora più spiccato negli elementi più importanti di spirito e di contenuto. Per lui la predicazione non era l’opera dell'uomo, ma l’opra strettamente divina per mezzo dell’oratore.
Nei suoi « Discorsi da tav ola » egli dice: • Io sono certo e sicuro quando salgo sul
pulpito per leggere la Bibbia o per predicare, che non è la mia parola che io parlo, ma la mia lingua è la penna di un velóce scrittore, come dice il salmista ». « È con l’arma della conoscenza delle sante scritture che io ho confuso e ridótto al silenzio i miei avversari, ecc. •>.
Con questo concetto fondamentale della sua missione di predicatore, è naturale che l’esposizione della Scrittura fosse la cosa principale nelle sue prediche. Egli lo faceva verso per verso, con una sottilissima esposizione che rare volte trapassava all’interpretazione allegorica.
Egli era singolarmente versato nell’Ebraico e nel greco e nella teologia ed altri rami di coltura del suo tempo, conoscitore profondo dei Padri e specialmente appassionato di Agostino. Égli si dilettava e Ìioiva nell’esposizione dei sensi reconditi élla parola di Dio. ed era molto felice nell’applicazione di essa alle condizioni spirituali e morali del tempo e dei suoi uditori. Il suo trattamento della Scrittura non era accademico, ma pratico. Una volta ogni tanto, egli parlava anche volgendosi ai dotti; ma il suo oggetto principale era di render la Bibbia chiara alla comune del popolo. Qualità queste che rifulgono nei discorsi raccolti sotto il nome di « Postille domestiche », perchè destinate ai circolo famigliare a cui partecipavano visitatori occasionali e studenti.
1 discorsi di Lutero non erano formali discussioni dottrinali: tuttavia la sua grande dottrina caratteristica della giustificazione per mezzo della fede è fonda mentale nella sua predicazione: e le dottrine della dipendenza dell’uomo da Dio; della necessità di una fede personale in Dio; della piena accettazione di Cristo quale mediatore e salvatore; della divinità di Cristo; della realtà della convenzione e della vita spirituale... tutto questo e molto di più trova frequente e abbondante espressione nei suoi discorsi. Una grande enfasi egli pose nell’attaccare il peccato e le colpe e le follie del suo tempo: tanto che è stato accusato di averle esagerate. Ma la sua conoscenza della natura umana e il suo spirito di osservazione erano acuti e corretti. Molti dei suoi discorsi sono polemici, volti contro i papisti: « Wickliffe ed Huss attaccarono la condotta immorale, dei papisti: ma io mi oppongo principalmente alle loro dottrine e dimostro in medo chiaro e tondo che esse sono false ». Gli è in questi attacchi che appaiono gli elementi più
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grossolani del temperamento di Lutero, aspro e rude fino ad un punto tale, che non può trovare scusa se non in parte nelle circostanze e negli errori del suo tempo, c nel bisogno grande che vi era di correggere false dottrine e costumi riprovevoli.
Quanto alla lingua e allo stile di Lutero, la nostra ammirazione si trova in armonia con quella dei suoi contemporanei ed anche dei suoi critici cattolici.
Lutero fu in realtà dotato di una brillante immaginzione, di una profonda simpatia, di una robustezza di spirito. Fu acuto nell’osservazione della natura e della vita, vivace nella descrizione, abile e pungente nelle applicazioni, arguto e perspicuo neirargomentazione, potente nell’impressione. Egli seppe esser profondo col dotto e conversare con l’indotto con le frasi più comuni: seppe essere famigliare quando ciò si addiceva, e delicato e soave e incantevole quando ciò conveniva : egli fu un oratore versatile: uno degli oratori veramente grandi sorti in mezzo agli uomini... ».
Abbiamo inteso molti accenni aAValtro aspetto del carattere di Lutero: alla sua dolcezza femminea, alla sua tenerezza e squisita sensibilità, alla delicata compassione per ogni dolore e sofferenza. Chiediamo ancora una volta al Carlyle. dal suo capitolo: « L’Eroe come Sacerdote » che « per finire » ci faccia sentire il tocco di alcuna di queste intime corde dell’anima del rozzo e nero e talvolta volgare riformatore teutonico.
«... Il suo contegno così calmo, così grande e appassionato, al letto di morte della sua piccola Maddalena è fra le cose più commoventi. Egli è rassegnato che la sua figlioletta debba morire, eppure brama con ansia inesprimibile che possa vivere ancora: egli segue sbigottito il volo della sua piccola anima attraverso quei regni sconosciuti. Sbigottito, accorato, è chiaro: e sincero, giacché con tutti i credi e gli articoli dommatici, egli sentejftuanto poco, anzi
nulla sia quel che sappiamo o possiamo conoscere. La sua piccola Maddalena sarà con Dio come Dio vuole: anche per Lutero questo è tutto: l’IsIam è tutto.
«Una volta egli getta uno sguardo fuori del suo Patmos solitario del castello di Coburg nel mezzo della notte. La grande volta dell'immenso spazio, con lunghe fughe di nuvole che veleggiano attravèrso ad essa, muta, pallida, immensa: chi sostiene tutto questo? Nessuno ne ha mai visto le colonne: eppure c’è chi sorregge tutto. E questi è Dio. Ci basta sapere che Dio è grande, che Dio è buono: e dove la nostra vista non giunge, giunga la nostra fiducia ».
Una volta ritornando da Lipsia egli è co.pito dalla bellezza dei campi biondi di messe. Come fanno le dorate, bionde spighe di grano a sorreggersi ritte lì sul loro gracile stelo, curvo l’aureo capo, tutte ubertose e ondeggianti? La mite Terra, all’ordine divino, le ha prodotte di nuovo a sostentamento dell’uomo!
Nel giardino di Wittemberg una sera al tramonto un uccellino si è appollaiato per trascorrer la notte. « Quell’uccellino! — dice Lutero — Su di lui sovrastano le stelle e un cielo profondo di mondi: eppure egli ha raccolto le sue piccole ali e se n’è andato fiducioso a riposare lì come in sua casa: il suo Fattore ha fornito anche a lui una casa! ».
« Il linguaggio comune di Lutero ha una nobiltà ruvida, idiomatica, espressiva, genuina che sfavilla qui e là di belle tinte poetiche. Si sente che egli è un grande uomo fratello. E il suo amore per la musica non è esso, a così dire, la sintesi di tutti questi suoi sentimenti?’... Sfida della morte da un lato e amore appassionato della musica dall’altro: io chiamerei questi i due poli opposti di un’anima grande. Fra essi, tutto ciò che è grande trovò il suo posto... ».
. G. Pior.i.
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LA CINA RELIGIOSA
Riassumiamo dal Semeur di Parigi (gennaio 1918) una relazione stesa sull’argomento dal segretario generale della Federazione degli studenti cristiani in Cina.
La questione della religiosità cinese è piuttosto complessa. Parlando della Cina si distinguono di solito le « tre dottrine >: confucianismo, buddismo e taoismo. Viceversa, se si domanda a un cinese del popolo a quale religione appartiene, egli risponderà: « Alla grande dottrina ». Ciò perchè esiste anche una piccola dottrina: l’islam.
Il maomettismo s’è sparso in Cina pel tramite di mercenari venuti dall'ovest e entrati al servizio degli imperatori. Ma l’islam non è veramente una religione cinese e perciò non ne terremo conto in questo studio. Abbiamo ad esso accennato soltanto per spiegare che, allorquando un cinese dice : « Io sono della grande dottrina ». ciò vuol dire semplicemente: non sono mussulmano.
Ma che cos’è la grande dottrina?
È il confucianismo, la filosofia politica e morale del grande profeta cinese?
È il buddismo, sotto la sua forma settentrionale del mahàyàna?
È il taoismo, religione animista e politeista molto grossolana?
È l’insieme dei tre. In realtà il cinese incolto non ha il diritto di dirsi confucia-nista poiché non ha studiato la filosofia, ma agisce conformemente ai riti prescritti da Confucio, rendendo un culto ai suoi antenati. D’altra parte, egli è buddista praticante: ai suoi funerali non devono mancare i bonzi e la loro messa dei morti. Ma è sopratutto taoista poiché va a pregare l’una o l’altra delle numerose divinità taoiste per aver la pioggia, o il bel tempo, o una guarigione, o degli eredi.
Il cinese colto non dirà che appartiene alla grande dottrina: ei si dichiarerà senza altro confucianista; ma ciò non l’impedirà di ricorrere ai bonzi per le loro messe e di
mandare sua madre o sua moglie a pregare in un tempio taoista.
Questi i tatti. Ora come è possibile spie-Gre un tale miscuglio? E poi i Cinesi parlo del confucianismo come d'una < dottrina », senza specificare se trattasi o no d'una religione. Che dobbiamo noi pensare?
Ecco un tentativo di spiegazione:
La religione cinese primitiva consisteva nel culto degli spiriti. I sacrifici alle forze fecondanti della natura e ai mani degli avi ne costituivano il lato nobilmente solenne. AI sommo di questo sistema religioso stava la nozione di Dio, chiamata Cielo in quanto è forza centrale nella natura e Imperatore dall’Alto in quanto forse è antenato delle dinastie imperiali.
Al tempo di Confucio, però, la religione cinese era molto degenerata: l'elemento principale era costituito dal timore degli spiriti, e ne scaturivano innumerevoli casi di superstizioni degradanti; d’altra parte, nella disorganizzazione generale provocata dalla decadenza del feudalismo, la condizione morale del popolo era davvero miserevole.
Ciò che a Confucio apparve sopra ogni altra coSa abbominevole fu la superstizione: per distruggerla nelle radici, egli cercò di espellere dalla vita del suo popolo ogni credenza nel soprannaturale. Conservò i riti del culto degli avi e del culto del Cielo, ma spogliandoli dal loro significato religioso; essi dovevano essere soltanto delle forme, come tutte le cerimonie, alle quali Confucio attribuiva un immenso valore di civilizzazione, per sviluppare il senso dell’ordine e della dignità. Il confucianismo è nettamente ateo: e perciò molti, anche in Cina, dicono ch’esso non è una religione.
Disgraziatamente per la Cina, col’distrug-gere la religione non si sopprime la superstizione. Il culto degli avi e del Cielo persero il loro primitivo valore religioso, ma le superstizioni continuarono a fiorire: si trovò anzi un nocciolo intorno al quale esse si ragrupparono in un sistema che venne poi eretto in religione.
Al tempo di Confucio viveva un altro savio Lao-tzè. Era un metafisico e la nozione centrale della sua metafisica era un Principio razionale, una specie di lògos, in
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cinese Tao,che era tutto in tutti e assumeva tutte le forme. A poco a poco tutti i vecchi concetti animisti c le pratiche superstiziose si raccolsero intorno alla nozione troppo ricca e soffice del Tao e così venne a formarsi il taoismo, desolante degenerazicne d’un pensiero profondo.
Intanto i veri bisogni religiosi che esistono in fondo ad ogni anima umana non trovavano una risposta nè nella fredda dottrina ufficiale, nè nella superstizione.- È allora, nei primi secoli dell’èra nostra, che il buddismo passò in Cina.
La religione della tenerezza e della compassione, che parlava dell’al di là, si sparse come rugiada sulla terra inaridita dal Confucianismo. Il suo trionfale progresso non incontrò dapprima alcun ostacolo. Ma presto lo Stato si accorse che certi principi buddistici avevano delle conseguenze pratiche per lui disastrose: gli sguardi degli uomini si distoglievano dalle cose terrestri per rivolgersi verso le celesti; uomini e donne si chiudevano nei conventi e quindi abbandonavano il lavoro dei campi e non si curavano di procreare. Allora incominciò la repressione, seguita da una vera e propria durissima persecuzione. Furono sistematicamente distrutti i conventi; poi vennero limitati di numero e sottoposti alla sorveglianza dello Stato. Cessato dall’essere pericoloso, il buddismo fu tollerato; d'allora in poi non si manifestò guari che nelle cerimonie funebri, ciò che del resto bastò per serbargli un posto di capitale importanza nella vita del popolo.
Il buddismo e il taoismo sono ambedue dottrine eterodosse condannate dallo Stato: ogni uomo ragionevole deve disprezzarle ed ogni ledei suddito dell’imperatore deve rifiutar loro la sua adesione. Ma l’uomo non può trarre la vita da un sistema di economia politica, per quanto sublime esso sia. I Cinesi praticano dunque il buddismo ed il taoismo, ma si sentono in colpa; la sola religione ch’essi poseggono è una religione di cui si vergognano.
La liberazione che il buddismo non ha potuto dare sarà fórse recata dal cristianesimo? Religione essenzialmente morale, il cristianesimo risponde mirabilmente ai bisogni della coscienza cinese; il suo soffio d’amore e d'entusiasmo rianima aspira
zioni profonde che il confucianismo aveva lasciato intorpidirsi; la semplicità e la ricchezza della sua concezione del mondo e della vita è fatta per piacere allo spirito chiaro e comprensivo dei migliori tra gl’intellettuali cinesi.
Ma come il buddismo, sebbene in modo, diverso, il cristianesimo è rivoluzionario Incoraggiando i nuovi sposi a costituire una famiglia distinta, egli turbò uno dei più cari ideali'della vecchia Cina, quello della casa patriarcale. Interdicendo la poligamia, la Chiesa lede il dovere sacro di avere a qualunque costo dei figli maschi. Il cristianesimo non si concilia con un sistema che opprime le individualità; vuole un ambiente più libero ove possano svilupparsi; proclama come valore supremo l’anima umana e non lo Stato.
Tutto ciò, la classe colta e dirigente lo ha capito. Quando, al seguito di S. Francesco Saverio, i Gesuiti intrapresero l’evangelizzazione della Cina, parve un momento che il paese intero avrebbe accolta la' reli-S'one nuova. L'imperatore K’ang-ksi era vorevole ài Gesuiti. Gli è che, tollerando questi il culto degli antenati, la base dell’ordine patriarcale e monarchico era mantenuta. Nel 1692 fu pubblicato un editto che dichiarava buona la nuova religione e permetteva ai cittadini di aderirvi. Ma l’ordine rivale dei Domenicani portò la questione davanti al papa; Clemente XI condannò i metodi gesuitici e il culto degli avi; tale intransigenza indispose il Governo cinese e, subito dopo la morte di K’ang-ksi, fu iniziata contro il cattolicismo una persecuzione ufficiale.
Il secolo XIX segna invece uno scacco pel protestantesimo. Siccome le persone colte in Cina sono in istretto contatto col popolo ed hanno su di lui una grande influenza, i missionari del principio del secolo mirarono sopratutto alla conversione della classe colta; ma tutte le loro pratiche furono vane. I custodi del nobile passato della Cina erano troppo intelligenti per non vedere il pericolo, e d’altronde la loro sfiducia in ciò che proveniva dall’estero s’accrebbe appunto in quell’epoca degli attacchi dell’Europa e particolarmente della guerra dell’oppio.
La missione protestante fu dunque costretta a cambiare obbiettivo; si volse alle classi popolari e fu bene accolta; però il
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popolo esitò ad avviarsi risolutamente per una via dove le sue guide abituali lo lasciavano solo; e spesse volte l'agressiva politica europea portava sull’opera nascente ripercussioni crudeli.
Ma, pur dovendo rinunziare alla speranza d’una conquista immediata, la missione poteva preparare l’avvenire; e seppe farlo in modo da assicurarsi la riconoscenza della Cina futura: cioè mediante gli ospedali e le scuole.
E facile sorridere, dichiarando che sono quelli i soliti trucchi del proselitismo religioso, ma la cosa non dev’essere considerata cosi superficialmente. L’ignoranza dell'igiene, le superstizioni relative alle malattie, l’immensa sofferenza fisica della Cina impongono al cristianesimo l’obbligo di agire senza ale ma preoccupazione di secondi fini. Cosi dicasi dell’istruzione. Il popolo a cui appartengono le più antiche tradizioni intellettuali, possedeva una cultura scolastica talmente frustra che stava per essere assolutamente preso alla sprovvista dagli Stati occidentali, la cui scienza, maggiorante progredita, s’appoggiava ad una potenza materiale d’una superiorità schiacciante. Coloro che volevano il bene della Cina si sentirono l’obbligo di darle il mezzo per iniziarsi a questa cultura nuova. Ciò fu ottenuto per mezzo delle numerose scuole missionarie.
Queste due prove tangibili dell’amore cristiano fecero una profonda impressione sull’opinione pubblica ed attrassero l’attenzione dei cittadini colti. I loro figli, educati nelle se iole missionarie moderne, formarono finalmente, assieme ai loro compagni cristiani, l’embrione della giovane Cina.
Quando, per la decadenza del Governo manciù e per gli attacchi dal di fuori, crollò la yecchià Cina, la direzione del moto rivoluzionario fu presa appunto dall’elemento che doveva la propria esistenza alle, missioni protestanti. Ciò non significa che tutti 1 rivoluzionari siano dei cristiani. Tutt’al-tro. Ma la giovane Cina non può avere che un atteggiamento favorevole riguardo al cristianesimo. Anzitutto essa pròva il bisogno di avere, nel campo delle idee, qualcosa da opporre al confucianismo, il quale non ha perso la speranza d’un ritorno all’antico stato di cose. Poi, il rinnovamento della vita sociale e politica implica agli occhi di ogni cinese un rinnovamento morale, e perciò la giovane Cina fa assegnamento sulle forze morali del cristianesimo.
Ma per questo occorre che gli attuali rappresentanti del cristianesimo capiscano la situazione e vi si adattino. Occorre anzitutto che la Chiesa cristiana si liberi da ogni dipendenza dall'estero, a cominciare dal personale. Ciò non è cosa facile. Per cento anni, la Chiesa cristiana, vivendo appartata dalla nazione, è esistita e si è sviluppata quasi esclusivamente per opera dei suoi conduttori forestieri, cioè dei missionari. E occorrerà del tempo perchè essi possano essere sostituiti da pastori indigeni che godano della necessaria autorità morale e sociale. Certo l’assunzione di cristiani alle più alte cariche dello Stato moderno e l’iscrizione nelle file’ cristiane di persone colte darà presto alla Chiesa cinese delle individualità capaci di guidarla.
In che modo questa Chiesa, compieta-mente padrona dei propri destini, darà al suo cristianesimo le caratteristiche più atte a rispondere ai bisogni della nuova Cina ?
Chissà se la Chiesa cinese non troverà il modo di accogliere, modificandola, la più antica tradizione religiosa del paese: la venerazione degli antenati ? Sta formandosi tra i missionari una corrente d’idee, la quale riconosce il valore di certe forme che hanno spesso il loro equivalente nelle abitudini nostre riguardo, ai nostri morti: la cura.per le loro tombe, la contemplazione delle loro sembianze, la comunione di pensiero coi diletti che non sono più. I Cinesi non sembrano pregare gli spiriti degli avi nel senso di rivolgere loro qualche richiesta; ad ogni modo, dopo Confucio, il rito non rappresenta altro che una glorificazione del rispetto del passato. Sarebbe rincrescevole che i Cinesi non conservassero qualcosa dell’ideale bellezza di cui hanno saputo rivestire la pietà filiale.
I nostri dommi ebrei, greci, latini e tedeschi saranno trascurati dai cristiani cinesi. Il concetto esraelita del miracolo fisico come prova del divino li lascia freddi. La metafisica non è mai stata la loro passione ed il nostro sottile concetto della Trinità non avrà mai per loro una grande importanza. Essi non saranno, ahimè 1 completamente affrancati dalle miserie dello spirito dommatico. Ma certo non si troveranno divisi per causa dei dommi nostri.
L’aspetto del cristianesimo che la Cina saprà mettere in luce è quello morale. L’Oriente c'insegnerà forse la lezione delle
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beatitudini. Si formerà probabilmente un ideale cristiano della famiglia dal quale il nostro Occidente troppo individualista, avrà molte cose da imparare. Credo anche che, nell’applicazione della religione alla vita nazionale, la Cina farà interessanti esperienze.
A questo proposito è forse il caso di star bene in guardia. Il cinese è legato al suo popolo con tutte le fibre del suo essere. Il patriottismo della gioventù cinese è la maggiore forza morale che operi in questo momento. Per mezzo di questo patriottismo si conquista l’interesse dei giovani per la causa del progresso sotto tutte le sue forme: pubblica igiene, lotta contro la poligamia, o evangelizzazione. L'argomento che ottiene sempre il suo effetto è questo: • Perchè la Cina sia grande e forte, le occorre una fonte d’energia morale, e.la migliore energia morale è il cristianesimo ».
Ma, pur ammirando quell’altruismo pieno di entusiasmo, si esita un po’ dinnanzi ad esso. La giovane Cina tornerebbe forse, nonostante tutto, all’atteggiamento del vecchio Confucio: « Il bene supremo è la prosperità dello Stato»? V’è in ciò un >ericolo che non sfugge ai cristiani cinesi >iù eminenti. E credo che sapranno com->attere nobilmente la lotta che deve com->attersi in tutti i paesi del mondo perchè 'umanità intera conservi il primo posto nella scala dei valori collettivi.
F. de Vargas.
PROBLEMI FONDAMENTALI DELL’ EBRAISMO
Le Basler Nachrichten del 24 e 25 febbraio portano un ampio riassunto di quattro conferenze che il Dr. Jakob Klatzkin direttore del Bulletin Juif, tenne per invito dell’Unione accademica degli studenti e-brei di Basilea sul tema • Problemi fondamentalidell'Ebraismo ». Riduciamo qui ai punti più caratteristici l'esposizione del periodico svizzero.
Klatzkin segue il punto di vista sionistico nel modo più deciso e lumeggia il problema da forte individualità ebraica che non ammette compromessi. Per lui l'essenza del-l’Ebraismo non è quella cosa sbiadita che il modernismo ha cercato di farne, identificandola con una vaga ideologia universale, ma la legge: è essa che distingue, precisa c demarca il carattere del popolo ebreo. La
Bibbia — il Vecchio Testamento — non è un libro di dottrine teoriche, ma in parte Cronaca, in parte Codice. La sola base metafisica su cui riposa è questa: « Io sono Geova, Dio tuo ». Poi cominciano le prescrizioni e i divieti: « tu devi, tu non devi ». Anche le altre religioni hanno i loro principi morali, ma nessuna come l’Ebraismo compie la funzione di legislazione, penetrando fin nei dettagli della vita privata e collettiva. Per afferrare lo spirito di questa legislazione, bisogna conoscere e accettare l’intera Thora, non scegliere fra i comandamenti primari ed i precetti secondari, non lasciare da parte il rituale come superfluo. Soltanto quando il popolo ebreo, anche nell'esilio, osservava tutto quanto e intatto il suo Codice, continuò a costituire una unità, non solo religiosa, ma colturale, legislativa, economica —- nonostante la dispersione e le persecuzioni. Anzi, furono queste ultime il miglior barometro d’un ebraismo inalterato; e più era solida la muraglia costituita dalla stretta osservanza del proprio statuto, più assumeva entro quel recinto, in mezzo ai popoli stranieri e ostili, il carattere d’uno Stato ebraico in miniatura. Abbattere questa muraglia significa fusione, e fusione significa morte nazionale. Il conferenziere si scaglia quindi contro tutti quei tentativi da parte degli stessi Ebrei di ridurre l’Ebraismo ad un sistema morale e religioso eliminando l’osservanza di quei singoli precetti che servono a regolare la vita pubblica e privata e rileva il pericolo che la troppa condiscendenza dei popoli ospitanti di accogliere come pari gli ospiti ebrei rappresenta per la vita propria dell'Ebraismo. L’avvicinamento, dice, non è desiderato dai cristiani che col cancellarsi della fisionomia ebraica. Son questi i primi passi verso l’assimilazione. Che essa non si sia più compiuta nell’Europa occidentale è merito dell’influenza indiretta dell’Ebraismo più genuino d’Oriente. Ma ora anche quest’argine minaccia di cedere col cadere delle barriere restrittive. Si potrebbe supporre che il Dr. Klatzkin non desideri che ovunque si conceda agli Ebrei l’equiparazione legale. Ciò sarebbe un errore. Egli la desidera, ma con la clausola che sia appunto su questa base che possa svilupparsi il funzionamento autonomo d’una propria organizzazione. Non vede scomparire il gran conflitto fra il mantenimento d’un carattere separato e la necessità di vivere fra altri popoli; unico ri-
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medio gli appare la ricostituzione d’uno Stato proprio nella terra d’antica eredità. Anche ammettendo che una parte degli Ebrei della Diaspora possa riuscire ad assurgere a vita nazionale, garantita dalle S dei popolo ospitante, non sarà mai ittamentc disgiunta dalle influenze e dagli attriti provenienti da si stretta convivenza. Nella nuova patria invece, per la prima volta dopo due millenni, il nome di Ebreo sarà adoperato col medesimo significato che si dà al nome d’inglese, di Francese, di Italiano; esso vorrebbe dire: colui che ha per patria la Palestina e per lingua l’ebraico. Solo col possesso incontestato d’una patria verrebbe definitivamente eliminato il conflitto fra il proprio e il non proprio ed ogni pericolo di naufragio nazionale s’infrangerebbe contro il baluardo d’un funzionamento statale che rimetterebbe in vigore tutto quanto il valore dell’antico Statuto.
E. O.
PSICHE
E. Rohde, Psiche, trad. Codignola e Ober-dorfer. Voi. 2, 1914-16. G. Laterza, Bari. Nel 2® volume, uscito recentemente, la benemerita casa editrice G. Laterza e figli di Bari ha completato la pubblicazione dell’opera di E. Rohde, Psiche, in veste italiana. Anche le persone mediocremente colte sanno che questo è uno dei maggiori lavori che possono essere messi a disposizione degli studiosi per quel che riguarda il culto delle anime e la fede nell’immortalità presso i greci. L'opera quindi meritava di esser tradotta, pexchè essa non è solamente un buon mezzo di consultazione per i filologi e gli storici, ma pur anche un ampio contributo a quello studio delle religioni primitive, che forma un campo non ancora sufficientemente esplorato. D’alti a parte il lavoro del Rohde è tale che, sopratutto trascurando le note che possono interessare in modo più particolare gli specialisti, se ne può raccomandare la lettura a guanti, pur senza studiare i fenomeni religiosi, amano occuparsene per accrescere semplicemente la loro cultura. Sopratutto poi io ne consiglierei la lettura agli studenti universitari di lettere, a qualunque ramo si dedichino, perchè ne ricaverebbero indubbiamente delle cognizioni preziose e una visuale, starei per dire, tale nel considerare la religione greca che
impedirebbe loro di serbare quel fondo di luoghi comuni che si vede spesso, troppo spesso, purtroppo, esistere anche in quanti o per ufficio o per elezione si occupano di cose classiche.
D’altra parte l’opera del Rohde, benché abbia ormai un ventennio di vita, rimane sempre uno di quei lavori fondamentali il cui valore si deve riconoscere come classico nella letteratura speciale, perchè non solo nessuno studio successivo ne ha mutato le linee ed i risultati — e qui, anzi, si deve dire che pubblicazioni successive non ci sono state — ma perchè gli studi che potevano con la comparazione confermarne o svalutarne le conclusioni non hanno fatto che approvarle e renderle più sicuie.
Insomma la casa editrice ha fatto otti-mante a dar una traduzione di questo lavoro, che anche tipograficamente nella parte più difficile — cioè le note ed il testo greco — è, se teniam conto del momento in cui avviene la pubblicazione, generalmente corretto e chiaro: l’ampio indice analitico che lo correda gioverà a quanti *per i loro studi vorranno o sapranno servirsene.
Giovanni Costa.
“ L’OMBRA DELLA CROCE. „ ROMANZO DI JEROME ET JEAN THARAUD
«Conoscete Karlsbad? — domanda una eroina di quella terribile e deliziosa Colette Willy. — Laggiù ci sono ancora Ebrei in costume d’Ebrei.con la tunica macchiata di grasso, coi bei capelli di Cristo inanellati ed un piccolo vaso da camera in testa. Ci sono degli Austriaci che sputano quando passano vicino a loro ».
I fratelli Jérôme e Jean Tharaud hanno avuto l’idea, molto singolare per romanzieri parigini, di far visita a questi « Ebrei in costume d’Ebrei », molto al di là di Karlsbad, nei villaggi perduti in mezzo alle foreste dell’Alta Ungheria, dispersi nei piani bassi e melmosi della Galizia e ne hanno ritratto un romanzo sincero e commovente. Un quadro di costumi piuttosto che un romanzo.
Un ebreo d’Hunfalu, Faibisch Unger-leider, ha legato alla Comunità tre volte 180 fiorini per far copiare una Thorah (i cinque Libri di Mosè). Amram Trebitz s’incarica, dopo un’ardente discussione avvenuta alla Sinagoga, d’andare a Bels
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ad ordinarla all'illustre Sofèr (Scriba) Reb Elia Lebowitz. Egli si recherà pure a trovare un altro illustre abitatore di Bels, il Zaddiq, uno dei quattro rabbini taumaturghi dell’ Europa orientale. Amram compie le due missioni e riconduce il figlio del Sofir, Hertz Wolf, che darà in marito alla figlia Ghitele, sicché, vivendo alla sua tavola, potrà continuare a perfezionarsi nello studio dei libri sacri. Dopo una lunga attesa, nasce finalmente un primo figlio che riceve il nome di Ruben. Debolino, ha una grave malattia che dà luogo ad uno strano atto con cui il padre, per strappare il figlio alla morte, lo vende a un contadino mediante un contratto fittizio. Qualche tempo dopo il Sofèr venuto a Hunfalu, conduce con sé Ruben a Bels.
Là il ragazzo cresce nella più santa educazione ebraica. Ma la sua salute declina. Il libro finisce drammaticamente. Una sera di Chippùr (il gran digiuno), Reb Elia Lebowitz cade gravemente ammalato; Ruben, per salvare il nonno, fa firmare ai fedeli che sono venuti a recitare i salmi al capezzale del moribondo, una pergamena su cui registrano ciò che dànno della loro vita in favore del venerato Scriba: il ragazzo dà la sua vita. Poi va a deporre la pergamena nell’arca della Thorah. E presto muore; ma lo Scriba, salvato miracolosamente, scuopre il documento e disperato impazzisce.
Intorno al minuscolo eroe gli autori hanno saputo rievocare l’atmosfera della vita ebraica nelle lontane Comunità dell’Europa orientale, la vita ebraica con le sue angoscie, coi suoi aspetti un po’ ridicoli, ma anche coi suoi ardori ed i suoi entusiasmi, con le sue intime ricchezze e le sue speranze sublimi.
Dante Lattes.
ONOMASTICON TO-TIUS LATIN1TATIS
O nomasti con totius latinitatis opera et studio los. Per in, fase. IX e X. Padova, tip. del Seminario, 1917.
I due ultimi fascicoli di questa importante opera che progredisce con ammirevole costanza, contiene i nomi da Flavius a Ino. Vi sono compresi quindi nomi la
cui storia, anche se fatta compendiosamente come usa il Perin, non è perciò meno interessante. Come di consueto l’A. è ricco d'indicazioni e riferimenti di fonti antiche e di lavori moderni e nella massima parte gli articoli sono buoni e completi e non abbisognano di integrazioni o correzioni notevoli, anche se tutti non siano, com’è naturale, di egual valore. Discreti sono senza dubbio Gordianus, He-lius, anche se il primo sembri a me privo di qualche indicazione bibliografica che par-mi lo completerebbe. Ottimo trovo, per es.» quello su Hercules’, non altrettanto quelli di Herodes, Herodianus, Hcrodolus', migliore Hcsiodus, discreto Hiero, ove vi è qualche citazione inutile che poteva essere sostituita con opere più note e più valevoli e che in ogni modo è graficamente scorretta; buono Hieronymus, ove pare, però, che l’A. ignori le recenti conclusioni sulla patria del grande scrittore dalmata, se ritiene più probab le di porre Stridone in Ungheria di quello che in Dalmazia (che cosa vuol dire la citazione a coll. Bull in» ecc.?; si deve leggervi Bulich?); ed ove dà prova, come sempre, della sua poca serenità di storico e di studioso quando contro il nome augusto del Duchesne, sia pur bollato con un «recentiores quidam critici arrogantes» (pag. 743) pone quello ignoto del Bottaghio con 1 suoi «appunti sereni • all’opera del grande storico francese, che per la classicità della denominazione son degni da andar tener compagnia nell’ armamentario del musco storicoarcheologico, a la «critica temperata», a la • storia critica » ed a simili modernissime trovate del gergo metodologico storico.
Altri artìcoli notevoli sono: Homerus, Horatius (ove tuttavia si può notare qualche incertezza di carattere topografico sul praedium oraziano della Sabina), Ilium, lnd>a.
Nell’insieme il giudizio non può essere sfavorevole al proseguimento dell'opera così felicemente progredita: auguriamoci quindi che essa continui, sia pur con gli stessi piccoli difetti e con le medesime lievissime pecche. Sarà sempre un onore per l’Italia l’averla data agli studiosi ; sarà sempre un merito invidiabile per il Perin l’averla condotta a termine.
Giovanni Costa.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roeua - Tipografia ¿di'Unione Editrice, Via Federico Cesi, 45
115
In deposito presso la Libreria Editrice "Bilychnis" Via Crescenzio 2, Roma
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Milano. 1918. Pag. 468. - L. 6.
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... poiché in questo conflitto gli slavi stanno dalla parte della civiltà latina, è necessario che i latini conoscano i loro alleati... Nessuno in questa materia ha maggiore autorità del grande poeta slavo...
Sommario: Il Messianismo La tradizione - L'<de>a del dovere - Della proprietà -L'ideale della repubblica di Polonia - L'antipatia della chiesa per lo Spirito Nuovo -L'importanza della tradizione slava - Che cosa è la paro!» - Misteri della parola, eco.
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