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RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIÓSI '
Anno V :: Fasc. X1-XII.
NOV.-DIC. 1916
Roma - Via Crescenzio. 2
ROMA - 30 NOVEMBRE-31 DICEMBRE 1916
DAL SOMMARIO: Aldo BENINI: Caratteristiche della vita religiosa contemporanea - ENRICO BoiS : Pragmatismo - PAOLO TUCCI: Il Cristianesimo e la Storia - GIOVANNI PIOLI: L’In-fhilterra di ieri, di oggi, di domani (con due tavole fuori testo) -’AOLO A. PASCHETTO: “La pecora perduta., (tavola fuori testo) - WlLFRED MONOD: Il prezzo del sangue - ERNESTO RUTILI : I Cattolici italiani di fronte alla guerra - G. Q. • Il Pontefice romano e il Congresso delle Potenze per la pace (Risposte al questionario) - MARIO PUGLISI : Le fonti religiose del problema del male - RAFFAELE CORSO : Ultime vestigia della lapidazione (con due disegni di Paolo A. Paschetto) - ni. : Rassegna di filosofia religiosa (IX) ; ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi
------- Via Crescenzio, 2 - ROMA ——
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l'Estero
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Via Crescenzio, 2 - ROMA
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in fascicoli di almeno 64 pagine, #
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È in preparazione il fascicolo di Gennaio 1917 e l’indice pel voi. Vili (20 semestre 1916).
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BICOINB
RJVI5IÀ DI S1VDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLATEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMASOMMARIO:
Aldo Benini : Caratteristiche della vita religiosa contemporanea . . pag. 325
Enrico Bois : Pragmatismo ............... » 332
Paolo TUCCI: Il Cristianesimo e la Storia ......... » 341
Giovanni Pioli: L'Inghilterra di ieri, di oggi, di domani . . . . > 348
(Con due tavole fuori testo).
INTERMEZZO:
« La pecora perduta » - Parabola di Gesù ......... > 384 Paolo A. PASCHETTO: «La pecora perduta» (Disegno) Tavola tra
le pagine 384 e 385).
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
WlLFRED MONOD: Il prezzo del sangue .......... » 385
CRONACHE:
Ernesto Rutili: I Cattolici italiani di fronte alla guerra . . . . » 392
Guglielmo Quadrotta: Il Pontefice Romano e il Congresso delle Potenze per la Pace - Risposte di Giuseppe Bruccoleri, Antonio Manes, Leone Luzzatto, Vincenzo Cento ......... »413
Mario PugliSI: Le fonti religiose del problema del male (Cap. III). > 421
Raffaele Corso: Ultime vestigia della lapidazione ...... » 447
(Con due disegni di Paolo A. Paschetto).
TRA LIBRI E RIVISTE:
m. : Rassegna di filosofia religiosa (IX) : Immanenza e Trascendenza - L’etica di G. Renzi - La Nuova Teologia - Idealismo e Pedagogia - La Volontà Buona - La Dialettica dell’assoluta Trascendenza .......... » 456
S. Bridget: Varia ............................ » 462
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CARATTERISTICHE DELLA VITA RELIGIOSA CONTEMPORANEA
gci ancora, come ai tempi di Gesù, il mondo è nell’attesa dell’avvento del regno di Dio. Ma il nuovo regno di Dio non è quello catastrofico profetizzato dall’Apocalisse. La coscienza cristiana ha sentito il bisogno di rinnovare la propria nozione del Regno, attraverso un’appassionata ricerca del pensiero e della coscienza di Gesù, e sotto l’impulso imperioso dei bisogni creati dalle nuove condizioni sociali.
I primi cristiani, ricordando che Gesù aveva detto che il
regno di Dio era imminente e che altro segno non sarebbe stato dato che il segno di Giona profeta, vissero con gli occhi rivolti al cielo, nell’attesa del ritorno del Messia. Quando le speranze messianiche si furono dileguate, la Chiesa stessa già saldamente organizzata con un sistema di sacramenti e di dogmi, di leggi e di riti, divenne il regno di Dio, fondato da Gesù. Si ricordarono le sue parole Tu es Petrus, e da esse si fece scaturire tutta la divina vitalità del cristianesimo.
Ma la chiesa era lungi dal realizzare quella pace e quella felicità che il regno di Dio dovea apportare ai fedeli, e l’ascetismo cristiano identificò il regno di Dio con il regno dei cieli, di cui l’anima avrà il possesso dopo la morte. Il testo « quid prodest hotnini » divenne l’emblema della vita, e il disprezzo del mondo l’ideale della perfezione.
Più tardi ancora lo spirito mistico richiamò l’attenzione sulle parole di Gesù « Il regno di Dio è dentro di voi » e predicò il regno interiore dello spirito, in cui il perdono di Dio e la riconciliazione con lui si rendono sensibili nella gioia del possesso e nel rinnovarsi delle speranze.
Ciascuno ha letto nell’evangelo l'evidenza della propria convinzione e ciascuno vi ha trovato le parole misteriose da cui sgorga la vita per la coscienza cristiana.
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Così oggi facciamo anche noi: anche noi abbiamo formulato un nuovo ideale del regno di Dio e anche noi ci sforziamo di riattaccarlo alla tradizione cristiana, e di trovarne il punto di partenza nella parola di Gesù. Ma non è ciò che importa: ciò che importa è di avere questo ideale, è di viverlo con pienezza di coscienza e con fermezza di entusiasmo. Quel che Gesù abbia pensato o potuto pensare intorno al regno di Dio, di cui egli annunziava l’avvento, il modo come i primi cristiani abbiano interpretato il suo pensiero, le diverse fasi del suo sviluppo attraverso i secoli di vita cristiana, hanno certamente una grande importanza, ma tutto ciò non ci aiuta che ben poco nel tentativo di vivere realmente la nostra vita spirituale e nel realizzare il legno di Dio nelle nostre coscienze.
Anche se ci fosse possibile renderci conto esattamente della coscienza storica di Gesù, noi non potremmo ridurre il concetto del regno di Dio a un concetto statico, determinato e fisso nei suoi particolari e nel suo valore storico. Il regno di Dio non è qualcosa di fisso e d’immutabile, esso è creato dalle anime stesse che lo vivono, esso è foggiato dalle coscienze stesse che lo realizzano, e come ciascun’anima, ciascun periodo storico, ciascuna società ha una sua propria intensità di vita religiosa conforme al suo sviluppo ed ai suoi bisogni, così ciascuna di esse ha il proprio ideale del regno di Dio. L’unità di questo regno di Dio, non è l’unità esteriore che classifica e regola, ma l’unità dello spirito che si eleva al di sopra delle forme mutabili, l’unità dello scopo che collega tutte le energie passate, presenti e future in un tutto organico, aperto a tutte le possibilità, a tutti gli atteggiamenti come a tutti gli entusiasmi.
Così ogni secolo attinge al patrimonio spirituale del passato, adattando ai propri bisogni gli elementi vitali che in esso ritrova, e vi aggiunge il frutto della propria esperienza religiosa in conformità alle nuove esigenze della vita, che si presenta in forme diverse da quelle anteriori, nello stesso modo come si presenterà diversa a quelli che verranno dopo. La coscienza cristiana di oggi, pur non rinunziando alla sua fede nella vita avvenire, torna ad affermare fortemente il valore di questa vita e la realizzazione in essa del regno di Dio.
Non un regno apocalittico che dia l'egemonia ad un popolo eletto, non un regno di gerarchie ecclesiastiche, sostenute da sistemi penitenziari spirituali, non un regno invisibile di deliri mistici e di poetica fraternità da sognatori, ma un regno visibile e reale in cui i diritti dello spirito non sieno misconosciuti, e in cui si realizzi una forma di vita sociale per cui amore e giustizia non sieno vuote parole, ma santa realtà per il miglioramento ed il benessere degli uomini.
Che questo sia il nuovo ideale della coscienza cristiana, e che verso di esso tendano tutte le energie spirituali di oggi, è provato dalle tre principali caratteristiche della vita religiosa contemporanea, cioè:
i° Le nuove tendenze sociali dello spirito cristiano; reazione contro l’individualismo.
2° Il rinnovato fermento mistico; reazione contro l’intellettualismo.
3° Il nuovo apprezzamento della figura e dell’opera di Gesù; reazione contro l’insegnamento ufficiale delle chiese.
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CARATTERISTICHE DELLA VITA RELIGIOSA CONTEMPORANEA
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L’individualismo religioso che popolò le solitudini e i chiostri nel passato, comincia a diventare estraneo alla coscienza moderna c lo spirito di ascetismo dell’imitazione di Cristo, che mira alla perfezione dell’individuo sequestrandolo dalla società, è divenuto quasi incomprensibile per noi. L’eremo non è più per noi l’ideale della vita pura, come la fuga non è più l’ideale della virtù. In fondo è il vecchio concetto dualistico dell’etica cristiana che ha perduto l’efficacia sul nostro spirito e che se ne va.
Non che il male e la sofferenza siano spariti dal mondo, ma è il nostro atteggiamento passivo di fronte ad essi che è sparito o sparisce. Invece di maledire il fato come nelle tragedie, o di curvare le spalle in una indolente rassegnazione alla volontà di Dio, come nelle vite dei Padri del deserto, noi rivolgiamo tutta l’energia del nostro spirito cristiano a combattere il male e la sofferenza, a studiarne le cause e a provarne i rimedi, perchè la vita sia quale dev’essere, cioè benessere in ogni senso per la gioia'tdello spirito.
La vita per la gloria di Dio, nel senso che i dolori e gli affanni delle sue creature possano contribuire alla sua gloria e alla sua perfezione è una profanazione del concetto stesso di Dio, è un rimasuglio di antiche credenze selvaggio in deità sanguinarie. La vita per il benessere degli uomini per il loro continuo miglioramento è ciò che può meglio glorificare Dio.
Il precetto dell’amore del prossimo è stato sempre inculcato dal cristianesimo come una virtù cardinale, ma tale precetto ha avuto uno scarso valore sociale, sia perchè il pensiero preoccupante della salvezza dell’anima ha sopraffatto ogni altro concetto riguardante la presente vita, sia perchè quando l’amore è considerato come virtù è naturale che trovi il suo valore piuttosto in ciò che esprime, anziché in ciò che compie. L’elemosina è un dovere per ogni buon cristiano, ma l’elemosina non ha salvato e non salva il mondo.
Le parole di Gesù « I poveri saranno sempre con voi », sono state stranamente interpretate, e hanno servito di suggello religioso alla ingiustizia sociale. La filantropia del secolo xvm e l’umanitarismo del secolo xix segnarono un nuovo indirizzo: con l’ingrandirsi del concetto dei dritti dell’uomo, crebbe altresì l’interesse per il miglioramento delle condizioni di vita delle classi umili. In seguito, le dottrine dell’evoluzione, presentando l’uomo come il prodotto di un progresso continuo dallo stato selvaggio alla civiltà di oggi, crearono la fede nel progresso indefinito della società umana, facendo rifiorire le speranze in un assetto sociale che eliminasse gran parte delle sofferenze della società presente.
La concezione statica della società che il cristianesimo avea adottato alleandosi col mondo politico e sociale del medio evo. ha ceduto il posto ad una concezione dinamica. Intanto è avvenuta la grande trasformazione delle industrie, con l’organizzazione del capitale e l’accentramento formidabile dei mezzi di produzione: per contraccolpo e per istinto di difesa, anche il lavoro e la produttrice energia vivente si sono organizzate: organizzazione contro organizzazione. Come è sparito dalla vita moderna l’eremita, così è sparito o sta per sparire il lavoratore individuo, il produttore isolato nella sua officina isolata.
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Questo cambiamento nelle relazioni economico-sociali, ha prodotto un uguale cambiamento in tutte le altre relazioni della vita. Tutte le cose sono connesse l’una con l’altra sia nell’ordine fisico, come nell’ordine morale, dappertutto vi è unità e continuità. Così la nostra psicologia si socializza; la personalità è riconosciuta come prodotto sociale, la coscienza come una serie di relazioni inconcepibili al di fuori della società. La pedagogia attinge a questo nuovo criterio e trasforma i suoi metodi. La religione non poteva certo rimanere estranea in tutto questo movimento: anche dal punto di vista religioso l'individuo separato non è più concepibile e la filosofia della religione è divenuta filosofia sociale. Lo svilupparsi del socialismo scientifico e più ancora l’organizzarsi di esso come forza politica destò le chiese dal loro sonno secolare; il socialismo era nato e cresciuto non solo al di fuori della religione, ma con uno spiccato carattere antireligioso e col suo ascendente sulla mentalità del popolo'cominciava a sostituirsi alla religione medesima.
Le chiese si trovarono al bivio, o accettare le nuove condizioni o perdere il posto di religione del popolo. E il passo fu fatto. La teologia, anche quella conservatrice, si aprì più o meno all’influenza della sociologia e della psicologia sociale. In seno alle diverse chiese si formarono delle organizzazioni con carattere popolare per regolare il lavoro e l’attività rivolta al nuovo scopo: il servizio sociale.
Così nacquero la Guild of Si. Matthew e la Christian Social Union in Inghilterra, la Freunde der Christlichen Welt e la Cristlich-sozialer Congress in Germania, la Christian Social Union e la Brolhcrhood of thè Kingdom in America, e V Unione popolare in Italia, con lo scopo di mostrare alle classi lavoratrici che la Chiesa s’interessa vivamente del loro benessere, onde guadagnarsene le simpatie, e l’appoggio. Alcune di queste associazioni hanno un carattere quasi socialista, altre invece sono prettamente conservatrici, ma tutte sono segno della stessa preoccupazione, tutte rivelano la nuova tendenza verso una soluzione del problema sociale, sia che credano di trovarla in una trasformazione radicale della società, o soltanto in un miglioramento che non distrugga il presente ordinamento economico.
Mai il sentimento della solidarietà delle classi si è fatto sentire così forte come adesso. Emerson diceva trent’anni fa, che «le anime non si salvano a mucchi»; noi oggi diciamo che l’anima che si salva sola è .perduta. Il sale del mondo non è sale perchè è stato salvato dalla terra, ma perchè possa salvare la terra.
Il concetto,del peccato è anch’esso divenuto sociale; noi siamo peccatori in quanto noi siamo membri della società, per conseguenza la nostra redenzione anch’essa non può essere che redenzione sociale. Con ciò non s’intende dire che il senso della responsabilità individuale debba essere attenuato o distrutto, ma soltanto che esso debba essere armonizzato con il principio della salvezza sociale.
Una prima conseguenza di questo nuovo ideale religioso si è che il concetto di chiesa, quasi completamente svalutato da mistici e da filosofi, dai primi in nome della vita interiore in cui sta il loro regno di Dio, dagli altri in nome della ragione, torna da capo ad affermarsi vivacemente. La religione separata dalla chiesa, ciò che sembrava una grande conquista del pensiero moderno, si risolve in una vana illusione: la religione torna ad essere di carattere sociale, torna ad aver bisogno di
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CARATTERISTICHE DELLA VITA RELIGIOSA CONTEMPORANEA
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una organizzazione esteriore, cioè di una chiesa. Non è certo la chiesa dogmatica e gerarchica che tuona dal Sinai o discute sul probabilismo, ma la chiesa che in nome di Dio consacra tutti i suoi tesori spirituali e tutte le sue energie umane ad affrettare prima e a conservare dopo, il nuovo regno di Dio, la società umana rinnovellata e purificata.
Questo vigoroso impulso verso un ideale di vita sociale, connesso con un accrescimento di valore della vita e del mondo nella coscienza cristiana, nonché distruggere o svalutare il concetto della vita avvenire, lo rende più forte e più sereno, poiché accresce la fede pura e rinvigorisce la speranza. Anche la coscienza religiosa individuale che noi condanniamo quando si chiude in se stessa ed isterilisce nella contemplazione della sua virtù o dei suoi vizi, diviene più salda se attinge dalla compattezza sociale. Società ed individui sono reciproci: non si possono trascurare gli uni senza trascurare l’altra. Nel ricondurre la religione alla sua vera funzione sociale, noi ritroviamo la manifestazione di Dio nella vita della società e noi ricordiamo che è dalle singole coscienze che quella vita si muove e si propaga, ed è alle singole coscienze che essa ritorna. Così attraverso l’ideale di ciò che dev’essere, noi torniamo al reale di ciò che è; attraverso la società noi torniamo all’individuo, senza sacrificare l’uno all’altra, senza condannare al pianto l’ora di oggi, perchè frutti un sorriso all’ora di domani.
La seconda caratteristica dello spirito religioso di oggi è la nuova passione mistica, che reagisce contro l’arido intellettualismo del precedente periodo. La filosofia stessa è in piena reazione.
La letteratura è satura di misticismo in tutte le sue forme più o meno pure: la storia ritrova e analizza le correnti mistiche vitali attraverso i secoli, l’arte è tutta invasa da un fremito di misticismo che si manifesta in immagini e in simboli. Nelle chiese protestanti l’influsso mistico si rivela fra l’altro in una crescente domanda di forme più estetiche nel culto. Nella chiesa cattolica la reazione mistica ha condotto al modernismo.
Ma non vi è contraddizione tra la tendenza mistica e la tendenza sociale? Non è il misticismo vita interiore individuale, non è il ^mistico come il monaco del medio evo, che salva la sua anima invece di esporla per salvare il mondo? La coscienza cristiana di oggi ha formato un tipo diverso di misticismo, con altre finalità, e con altro valore.
Un secolo fa Schleiermacher scriveva: « La religione non è conoscenza, perchè la misura della conoscenza non è la misura della pietà; non è azione perchè dietro ogni azione vi è una regione di passiva accettazione e di contemplazione. Religione significa pensiero, ma non è il pensiero; religione significa azione, ma non è l’azione; il sentimento in quanto esprime la vita universale di cui partecipiamo è la religione: essere uno con l’infinito, partecipare in ogni momento della vita all’infinito.
In questa filosofica giustificazione' del misticismo, comincia la storia della nuova teologia. Il dominio del sentimento è nella coscienza religiosa più profonda del dominio del pensiero e dell’azione.
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Il pensiero e l’azione attingono la luce e il potere dalla corrente misteriosa del sentimento che risale al monte santo di Dio. È lì il segreto della vita. Poiché come una sorgente senza sbocco si muta in un pantano, così la vita interiore dello spirito si corrompe e imputridisce se non fluisce in pensiero ed in volontà ».
« Maestro, è bene per noi stare qui », diceva Pietro sul monte della Trasfigurazione; « Facciamo qui tre tabernacoli ». Ma egli non sapeva quel che dicesse. Benché assorto nella visione di gloria, il Maestro sentì il grido del giovanetto indemoniato che aspettava a pie’ della montagna, e depose subito il suo nimbo di luce per scendere a compire l'opera di salvazione. Ciò che si compiè a pie’ della montagna, non era meno sublime di ciò che si era compiuto sulla vétta, e le due azioni erano strettamente vincolate l’una all’altra, perchè l’una spiegava l’altra.
Soltanto l’azione, il lavoro di salvezza sociale può salvare il misticismo dall’aberrazione. E nobilitarlo anche. La visione ha idealizzato il mondo per il mistico, ed ha arricchito il suo spirito di energie e di entusiasmo. Poiché egli conosce la sorgente della vita spirituale e di là attinge non più la sola intensità della meditazione, che in se stessa sarebbe sterile ed inutile, ma anche la divina irrequietezza che spinge all’azione. Ed il misticismo di oggi non può essere che un misticismo attivo, che dedica le sue forze alla salvezza della società ed all’attuazione del regno di Dio.
Il senso della responsabilità sociale trasforma il mistico in apostolo; e la luce che egli attinge dal suo possesso del senso del divino, si trasforma in lui in intensa vita umana, in forte desiderio e in fruttuosa attività per la gioia e il benessere degli altri.
Nel sorriso e nella giòia della vita vi è Dio, e nessuno meglio del mistico sa trovare e comprendere Dio nelle sue creature.
La coscienza cristiana di oggi, sente il bisogno dell'ispirazione mistica, per la realizzazione del regno di Dio. Finché la vita religiosa non è che tradizione o imposizione di autorità esterna, essa non sarà che debole ed incerto possesso dell’anima. S. Paolo dice che un velo era frapposto fra l’anima e Dio nella legge giudaica, e che tal velo fu strappato via dal Cristo. È ciò che accade quando si passa dal formalismo alla comunione dello spirito, dal giogo dell’autorità esteriore alla testimonianza interiore.
Vi è dunque posto per il misticismo nella vita cristiana, e da esso il regno di Dio riceve la luce; non luce riservata agli individui chiusi nel loro esclusivismo nemico del mondo, ma aperta alle anime tutte, alla società intera in cui si manifesta Dio.
Come attraverso il processo sociale siamo arrivati all’individuo senza sacrificare l’uno all’altro, così attraverso il processo del misticismo dell’elemento individuale arriviamo al concetto sociale: i due movimenti si riuniscono in uno, si realizzano nel regno di Dio.
Altro elemento nella vita religiosa di oggi è un nuovo apprezzamento della figura e dell’opera di Gesù. Attraverso i secoli del cristianesimo gli uomini hanno adorato Gesù'. Gesù Messia dei primi cristiani divenne il . Gesù Signore di Paolo e il Cristo ufficiale della religione cristiana. Per le anime atterrite dalla -paura
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CARATTERISTICHE DELLA VITA RELIGIOSA CONTEMPORANEA
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millenaria, egli divenne il Giudice terribile dal cipiglio minaccioso, che gli artisti bizantini riprodussero nei mosaici delle cattedrali.
Più tardi nel mondo feudale, anche Gesù, cinse spada e corona; i santi furono suoi baroni, egli fu il loro re.
S. Francesco lo riaggiustò sulla croce e ne fece il cavaliere di. Madonna PovertàMa ben presto il fanatismo truce s’impadronì di lui e ne trasformò la placida figura nell’aspetto"di un inquisitore. Fu il triste Gesù che vide ardere in suo nome e per la sua gloria quelli che egli avea chiamato beati: i poveri di spirito.
D’altra parte il cavaliere della Povertà si era trasformato in gentiluomo: non discendeva forse egli dalla stirpe reale di David? L’ideale del gentiluomo è dunque in lui. e Poker chiama Gesù il primo ed il più vero gentiluomo.
Ma gli umili i poveri i disprezzati ricordarono che Gesù era apparso figlio di un fabbro e fu fabbro egli stesso, e lo sentirono fratello e come fratello l’invocarono. E l’avvenire era con loro. Oggi Gesù, l'ideale dell'uomo che visse la vita del popolo, si trasforma nell’ideale dell’uomo che affermò i dritti del popolo.
Gesù diventa l'agitatore delle folle, il condottiero dei diseredati della società che si muovono per domandare il loro posto sotto il sole. È in nome di Gesù che un nuovo assetto sociale è reclamato, è in suo nome che si condanna la miseria e il dolore.
Gesù è ancora oggi il simbolo delle speranze e degli ideali degli uomini, come lo è stato attraverso i secoli, ma egli lo è oggi, come non lo è stato mai nei secoli passati: egli è il Cristo della giustizia sociale. Egli è il simbolo dell’unione dell’elemento sociale e di quello individuale nella vita dello spirito c nella vita della società. « Quando tu vuoi pregare chiuditi nella tua stanza e parla al padre tuo che è nei cieli, da solo », così egli disse; ma quando insegnò la preghiera da recitare egli insegnò una preghiera sociale: Padre nostro.
Il regno di Dio è in noi, nel nostro ideale, nelle nostre speranze.
« Tempo verrà quando Dio non sarà più adorato nè sulla montagna, nè sul tempio, ma nei cuori ». E il tempo è venuto.
Noi possiamo oggi con la divina libertà dello spirito, ripetere le parole della nostra fede, e vivere apertamente della nostra speranza, senza paventare il rogo, o gli orrori di un carcere immondo. Ma non siamo noi ancora molto lontani dalla gioia del regno? Quanta tristezza, e quanto affanno non vi è ancora attorno a noi? Quanta brutalità umana non ha sopravvissuto dopo venti secoli di cristianesimo?
Il Gesù Inquisitore, il Gesù Giudice tremendo, non ha potuto fondare sulla terra il regno di Dio.
Esso sarà fondato dal Gesù dei poveri e dei ribelli.
Aldo Benini.
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PRAGMATISMO
a parola pragmatismo, come l’indica l’etimologia, significa filosofia dell’azione, della pratica, della vita. Ciò che a noi si presenta sotto questo nome, bisogna ben constatarlo, non è precisamente un sistema, quale ce ne offre la storia delle scuole, è piuttosto una tendenza, un metodo, uno spirito. La parola pragmatismo s'applica oggi a un vasto movimento di pensiero, il quale—sotto forme diverse e persino opposte, con delle svariate sfumature, ma altresì con un fondo comune — si manifesta un po’ dovunque in America, in Inghilterra, in Italia, in Francia, in Germania.
Senza esporre e criticare tutte le specie e varietà, talvolta sottilissime, di questa ondeggiante attitudine, mi limiterò a segnare una somiglianza fondamentale, e una divergenza altrettanto importante.
Ecco la somiglianza:
Qualunque possano essere le forme multiple che rivesta nell’ora presente il pragmatismo, un medesimo pensiero circolò attraverso tutti i pragmatismi contemporanei ed è che la verità non può concepirsi separata dalla vita, è che la vita e la verità si trovano strettamente unite tra di loro per mezzo di un vincolo indissolubile e profondo, e che è lecito, è inevitabile, è bene di giudicare del valore teorico di una affermazione dalle sue conseguenze nella pratica.
In quanto alla divergenza eccola:
Un certo pragmatismo — per esempio in generale il pragmatismo anglo-sassone — è essenzialmente empirico ed utilitario. Esso si fonda essenzialmente sull’esperienza pura nella teoria della conoscenza e nella teoria dei valori, sul principio di utilità considerata come solo elemento di paragone dei valori umani. Contro una simile riduzione della verità all’utilità o per lo meno contro una tale subordinazione del vero all’utile, si moltiplicano le obbiezioni simili a quelle che si rizzano di fronte a quei moralisti Che vogliono ridurre o subordinare il vincolo morale e obbligatorio all’utilità individuale o all’interesse collettivo.
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PRAGMATISMO 333
Ma v’è un altro pragmatismo al quale, contestando questo empirismo esclusivo, denunciando in esso una causa di scetticismo e d’immoralità, corregge il pragmatismo empirico utilitario, ponendo questa precisa questione: Quali sono fra le nostre tendenze, quelle il cui soddisfacimento garantisce un valore razionale al pensiero che le soddisfa?
Non appena posto questo quesito, s’intravede un mezzo di riconciliare il pragmatismo liberato dei suoi paradossi e dei suoi errori con quello che v’è di giusto nel-l’intellettualismo, severo difensore della nozione comune di verità. Non occorre, per fare al pragmatismo la sua parte, non è possibile da sè di cessare di concepire la razionalità come il criterio della verità. Poiché non si può evitare di portare dei giudizi di valore sulle tendenze, i gusti, i desidèri dell'uomo, ci si ricorderà che la ragione non è estranea ai giudizi di valore. Accanto ai giudizi di valore puramente logici, vi sono giudizi di valore — quelli che costituiscono la morale — ai quali non è possibile rifiutare il nome di razionali.
Fondandosi sui concetti razionali di obbligazione... di dovere, di diritto, di dignità, di giustizia, di libertà, la ragione stabilisce tra le utilità una gerarchia qualitativa riconoscendo che questa utilità è di ordine superiore a quella che deve, come essendo più nobile, più degna dell’uomo, esserle preferita; che può e deve essere universalizzata. In questo modo le nozioni morali, sono sovrapposte all’utilitarismo empirico, s’introducono nella ricerca e nella determinazione della verità.
Dal momento che l’esame delle stesse condizioni della conoscenza e delle leggi della nostra natura mentale ha condotto la critica a mettere nella ragione, fra ciò che Kant chiamava i concetti dell’intendimento, le leggi pratiche accanto alle leggi teoriche, la suprema condizione della verità ultima non può non essere l’armonia sintetica tra quelle diverse leggi dello spirito, anzi, la subordinazione totale delle altre leggi alle leggi morali della personalità che le comandano e le dominano nella stessa guisa che il concreto comanda e domina l’astratto che da esso è uscito e che solo per mezzo suo sussiste, anzi la subordinazione totale delle altre leggi alle leggi morali che. una volta stabilite nella ragione, non possono non esservi riconosciute sovrane, regolatrici non solo della pratica ma della teoria, così da prendere, in questo modo, un valore obiettivo. E quindi è razionalmente legittimo di proclamare con Secrétan e Renouvier il dovere di affermare il dovere con tutto ciò che il dovere implica; il dovere e il diritto di trarre dalla fede al dovere induzioni sull’esistenza d’un ordine morale dell’universo.
Alla sua volta, quest’ordine morale dell'universo implica come postulato l’esistenza e l’azione d’un Dio personale; perchè la religione soltanto può dare un valore assoluto ed eterno alla condotta umana ed un valore universale alla moralità. La verità metafisica si trova così, nel suo fondo, non solo morale, ma religioso. Essa non si compie se non in questo modo.
Ci troviamo così di fronte a grandi principi morali e religiosi i quali costituiscono come un quadro nel quale ogni nazione, ogni individuo, a seconda del suo sviluppo spirituale, delle sue conoscenze e del suo carattere, tende a mettere un contenuto
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BILYCHNIS
sempre più ricco e fecondo; ossia, per adoperare un altro paragone, quei grandi principi costituiscono come una forma che ogni materia deve rivestire per essere veramente religiosa. Da questo punto di vista, infatti, l’esperienza religiosa concreta, che nulla può supplire, che non si deduce puramente e semplicemente dalla forma — ciò che è inconcepibile — ma che proviene da quella fonte originale e creatrice che si chiama l’ispirazione, si trova essere come la materia alla quale si applicano, per precisarla, determinarla, costituirla nella sua vivente realtà integrale, le forme morali e razionali della natura umana.
Da questo momento vi sono dei punti fissi, dei dati costitutivi della natura umana, i quali formano la base della valutazione dell’apprezzamento, della critica delle varie esperienze religiose particolari e che permettono di elevare su di esse dei giudici di valore e d'interpretarle. Vi sono dei punti fissi, dei dati costitutivi della natura umana, ai quali si può fare appello per appoggiare una propaganda morale e religiosa efficace e Che possono fornire non una dimostrazione, impossibile e piuttosto dannosa in tale Sfera, ma una base di spiegazione, di schiarimenti, di motivazione, suscettibile in certe condizioni di conquistare o di preparare il consenso del prossimo.
Una volta sostituito al pragmatismo empirico e utilitario il pragmatismo razionale e morale, possiamo ritornare all’asserzione fondamentale comune a tutti i pragmatismi. Rimane, o meglio diventa esatto di affermare che la verità dipende dalla vita, che la verità non può separarsi dalla vita, dalla vita concreta concepita in tutta la sua pienezza e la sua ricchezza e implicante per conseguenza quelle categorie personali e morali neglette dalla scienza.
La verità morale dipende dalla vita, e bisogna riconoscersi impotenti a snidare dal suo scetticismo e dalla sua negazione colui che, mancando di vita interiore non s’interessa alle realtà morali, non ricerca, non osserva i fatti e le idee che vi si riferiscono, non fa rientrare quelle realtà, nulle e non avvenute per lui, nel modo in eui si rappresenta Funi versò; o ancora colui le abitudini di pensièro del quale sono tiranneggiate dal semplicismo astratto della scienza, cosa eccellente quando rimane nella sua Sfera, ma illegittima non appena pretende universalizzarsi ed elevarsi all’assoluto.
Così stanno esattamente le cose per quanto concerne la verità religiosa. An-ch’essa precede direttamente dalla vita. Ben lo si vede negl’iniziatori. È da tutto lo sforzo del loro essere che scaturiscono le innovazioni ch’essi offrono alle anime. Ma l’origine sperimentale delle idee religiose, l'origine vitale della verità non è privilegio esclusivo delle idee professate dai grandi iniziatori religiosi. Ciò che succede agl’inizi della religione, si ripete in un certo senso da tutto il corso del suo sviluppo. Si può dire in modo generico che ogni vera fede religiosa presuppone l’esperienza religiosa, e che bisogna bene che così sia, se non si vuole che la vera fede religiosa si riconduca ad una generazione spontanea, ad una inspiegata e inesplicabile creazione ex-nihilo.
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Vi è in ciò una vera legge della vita religiosa. Basta per convincersene esaminare ciò che avviene quando un uomo accede alla verità. Un uomo può accettare per parecchi motivi ciò che a lui si presenta come verità religiosa. Può accettarlo per ubbidienza all’autorità, per docilità alla tradizione; può accettarlo — ciò che è già meno esterno — per convinzione intellettuale personale. Però tutti questi modi d’accettare una pretesa verità religiosa, anche l’ultima, sono ancora superficiali. Non sta in ciò veramente il conoscere e il possedere la verità, perchè non è conoscerlo còme verità il riceverla dal di fuori, senza metterci nulla di sé stesso, non è conoscerla come verità lasciarsi dare delle opinioni da qualchecosa estraneo a sè stesso.
Di ciò testimoniano innumerevoli « conversioni » in cui si vede il soggetto — perfettamente istruito riguardo alle verità religiose riconosciute per tali dal suo ambiente, dalla sua chiesa, e da lui stesso — fallire però nel trovarvi la luce, la certezza. la pace, e ricercare a tastoni, con inquietudine, talvolta con angoscia, con disperazione, quella pace, quella certezza, quella luce interiore che gli mancano. E che cosa succede? Dopo un periodo di oscurità, di malessere, di ricerca febbrile. Ostinata, ad un tratto si compie l’illuminazione, si stabilisce il contatto tra la dottrina sino a quel momento esteriore e la natura spirituale del soggetto. Si opera una fusione tra i due termini. Si effettua una trasfigurazione. Quella materia immobile e morta si anima e prende vita. Quell’astrazione si cambia in realtà concreta. La verità si riallaccia a qualcosa al di dentro. Anzi, la verità viene d’ora innanzi dal di dentro. Essa scaturisce dalla vita. E allora — tanto è vero che proprio così si svolgono gli eventi sul teatro interno dell’anima — allora il soggetto prova con una straordinaria intensità, un sentimento traboccante di novità, di freschezza Che si riferisce non solo al suo stato affettivo, ma allo stesso suo stato, intellettuale. Gli è così che S. Paolo, secondo la sua propria testimonianza, è diventato cristiano solo « allorquando è piaciuto a colui che l’aveva messo a parte sin dal seno di sua madre di rivelare suo Figlio dentro a lui »: certo, Saulo di Tarso aveva sentito parlare di Gesù; egli aveva discusso a lungo coi cristiani; ei non ignorava alcuna delle loro dottrine essenziali sul Cristo; ma la conoscenza intima, piena e vivente, ch’egli ha acquistato del Cristo in un cèrto indimenticabile moménto, gli è apparsa con un così peculiare carattere di cosa inedita ch’egli non ha potuto caratterizzarla altrimenti che come una rivelazione interiore. È così ancora che Spurgeon è subitamente trasformato da un versetto della Bibbia ch’egli certamente già conosceva, poiché l'aveva egli stesso citato in uno scritto da lui composto qualche tempo prima della sua conversione; ma quel versetto gli appare ad un tratto così nuovo ch’ei non ricorda di averlo mai incontrato prima.. Gli è così ancora che Wesley convertito accusa lo scettico Law di non avergli insegnate certe dottrine che pure Law gli aveva perfettamente insegnate. Ma quelle dottrine non avevano fatto altro, allora, che sfiorare l’intelletto di Wesley, senza riuscire a far vibrare il suo essere tutto intero nelle sue intime profondità. Gli è così, insomma, che, nella conversione autentica, intensa, le verità che erano possedute solo come una informazione emanante
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da una autorità esterna o come un dato trasmesso dalla tradizione o come una conoscenza puramente « libristica », sono ora assimilate dalla coscienza e dal cuore, come immerse e ritemprate nell’essere. « L’Evangelo è creduto, ha detto Vinet, allorquando è passato per noi dal grado di verità esterna al grado di verità interna e, se oso dire, d’istinto, allorquando ci è appena possibile di distinguere la sua rivelazione dalle rivelazioni della coscienza, allorquando è diventato in noi un fatto di coscienza ». Allora la fede non è più una cieca fiducia in una dottrina arbitraria. Essa è il risultato di una esperienza personale che s’è compiuta nelle profondità misteriose dell’anima e che l’intelligenza si sforza di rappresentarsi secondo i suoi mezzi. Il convertito ha ricostituito, ricreato, reinventato in lui stesso, colla sua prò; pria attività vitale, la verità. La sua fede procede dalla sua stessa esperienza, interpretata dal suo essere tutto intero, alla luce e sotto l’impulso dei principi e dei postulati morali. Gli è perciò che, invece d'essere una credenza morta, essa è una fède vivente; che invece d’essere una pura ortodossia, essa è una convinzione personale energica, intensa ed efficace.
Importa difatti osservare che se la verità viene dalla vita, essa ritorna alla vita. Il soggetto, per il quale una tesi d’ordine religioso diventa vera, arriva a tenerla per vera non solamente perchè si riannoda a qualcosa di vitale e d’essenziale in lui, ch'esso gli spiega, gl’interpreta, nella quale si ritrova e si comprende. Il soggetto, per il quale una tesi d’ordine religioso diventa vera, è un soggetto pel quale la pretesa verità si verifica. Dopo aver fornito alla fede la sua base di fatto, grazie alla quale la credenza ha potuto pascere per via di elaborazione, di evoluzione, d’interpretazione, è l’esperienza religiosa che fornisce al soggetto la verifica costante e crescente della verità che ha abbracciata. Come fa osservare W. James, il mezzo di provare che un’opinione è fondata, è qui lo stesso che nelle scienze, e non ne conosciamo altro. Come lo scienziato sa egli se la sua ipotesi è la buona? Egli la prende per buona e agisce in conseguenza di quanto ha premesso. Egli è persuaso che ha raggiunto la verità, s’egli ottiene dalla natura la perpetua conferma dell’interpretazione ch’egli ha dato a sè stesso operando come ha operato. Se l’azione sua è veramente quella che deve essere, essa non può mancare di ricevere dall’esperienza la prova della verità. Al contrario tosto o tardi il seguito della sua attività lo disingannerà s’egli ha preso un’errato punto di partenza.
Anche nel campo religioso c’è una messa in prova del funzionamento delle ipotesi, e la verità religiosa si mostra suscettibile di essere verificata. E come non osservare che, nel caso dell’uomo religioso, la verifica della sua ipotesi va ingrandendo nel corso della sua vita interiore e che, più avanza, più egli riceve dalla stessa sua esperienza incessanti conferme della sua fede? Perchè nulla sarebbe più superficiale che il rappresentarsi l’esperienza religiosa come un’esperienza isolata, o come un fenomeno monotono che si ripete sempre identico a sè stesso. L’esperienza religiosa è in realtà tutta una serie ordinata e progressiva d’esperienze nelle quali la fede ha la funzione di motore. <* Camminiamo per la fede, non per la vista », ha detto S. Pàolo. La vista, è il riposo della contemplazione soddisfatta di sè stessa.
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La fede, è lo slancio d’una contemplazione attuale verso una contemplazione futura ancora più alta. In una vita religiosa precaria, intermittente, mediocre, la fede, è vero, è solo un sostituto dell’intuizione manchevole; ma è allora una fede volta verso il passato più che verso l’avvenire; è una fede-memoria piuttosto che una fede-azione. Nella vita religiosa normale che non è ripiegata su sè stessa, ma che è tutta tesa verso l’azione, la fede non è solamente un sostituto dell’intuizione manchevole, essa è l’anticipazione d’una intuizione desiderata, è il movimento verso una intuizione che s’indovina più eccellente ancora di quella che si ha di già. È la fède — la fede scaturita dall’azione di ieri — che spinge all’azione di domani e che, dalle speranze più profonde da essa del continuo provocate, riprende del continuo un più energico slancio: così la vita va dall’esperienza all’esperienza attraverso la fede dell’esperienza, fonte di fede, all’esperienza verificazione di fede. Se un’affermazione di ordine scientifico si verifica pel suo accordo coi principi razionali che sono alla báse stessa di questa scienza, del pari che pel suo accordo coi risultati già ottenuti grazie all’applicazione di quei principi e per la fecondità colla quale essa suscita dèlie esperienze nuove, non si può forse, non si deve forse dare il nome di verificazione della fede a ciò che, in ultima analisi, è una applicazione della fede in un insieme di azioni in cui s’inserisce coi suoi risultati pratici e che tendono ad un medesimo scopo al quale ci si avvicina sempre più, ad un medesimo ideale che si realizza sempre meglio?
Ma non ho forse messo abbastanza direttamente in luce il carattere proprio della verità religiosa, quale essa si presenta a noi nelle religioni concrete. -Nelle religioni che sono vere religioni, voglio dire delle religioni viventi; il sentimento religioso può essere definito secondo la formola di Vinet « un rapporto tra l’io supremo e Vio di ciascun di nói ». Ad ogni modo questa è appunto la religione pel cristiano. Il Dio degli Ebrei, il Dio di Gesù Cristo, il Padre celeste, è una persona vivente e l’esperienza cristiana, per coloro che la fanno, non è altro che un rapporto tra il loro essere e la Persona divina. Così fu che Gesù Cristo esclamò: «Io sono la verità », definizione essenzialmente pragmatica, se ve ne fu, umanista, personalista, della verità. E quindi si vede in qual senso molto preciso l’esperienza costituisce una verificazione.
Le cose stanno qui come nel campo sociale. Il fanciullo comincia probabilmente, secondo osservazioni molto ingegnose di Schiller, da ciò che si è chiamato il solipsismo, l’egoismo metafisico, assoluto; ei non ha coscienza che del suo io e congloba nel suo io tutto ciò che lo circonda. A poco a poco soltanto egli organizza il caos della sua primordiale esperienza e, declinando di accettarne la responsabilità integrale, egli postula una realtà esterna, un non-io. A rigore logico ei potrebbe non uscire dalla confusione iniziale. L’adulto che pretende essere solipsista e accetta tutte le conseguenze pratiche della sua ipotesi non può in alcun modo essere sloggiato dalla sua posizione. Ma è questa perseveranza ad accettare le conseguenze pratiche del solipsismo che è piuttosto malagevole da mantenersi e che, secondo l'espressione di Schiller, manca assolutamente di ogni comodità. E perciò, per via
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d'inferenze che non hanno valore logico costringente, il fanciullo esce dal suo egoismo primordiale per credere all’esistenza di altri esseri, suoi simili, coi quali intrattiene dei rapporti, e le sue inferenze ricevono tante conferme ne) corso della sua esistenza che il dubbio per lui non è più sostenibile e che l’adulto non prova più alcuna velleità di diventare solipsista, quand’anche giungesse a convincersi, riflettendoci sopra, che logicamente l’egoismo metafisico è inespugnabile, e che, d’altra parte, una volta abbandonato il solipsismo, rimane sempre la possibilità che, in dati casi, prendiamo per manifestazione autentica dell’esistenza e dell’azione d'uno dei nostri simili ciò che in realtà non è altro se non un sogno o un’allucinazione o un'autosuggestione. Del resto, se il dubbio si presentasse con forza, la coscienza morale verrebbe in soccorso alla coscienza psicologica per sbarrarci la via dell’idealismo egoista.
Del pari nella vita religiosa, l’uomo religioso, si rende ben conto che, nel grande rigore logico, non c’è nulla da rispondere a coloro che pretendono spiegare i fenomeni religiosi come dovuti esclusivamente a dei sogni, o a delle allucinazioni o a delle auto-suggestioni, e che si sforzano di ridurli a fenomeni puramente sociali o individuali, come l’egoismo metafisico assoluto riconduce a fenomeni puramente individuali tutte le esperienze sociali. Ei si rende ben noto, del resto, che una volta scartato ciò che si potrebbe chiamare il solipsismo religioso, rimane sempre la possibilità che, in dati casi, prendiamo per manifestazione autentica dell’esistenza e della volontà di Dio ciò che in realtà non è'che un sogno od una allucinazione od un fenomeno di autosuggestione o di Suggestione collettiva. Però, l’uomo religioso passa oltre, e non avendo è vero una dimostrazione logica costringente, ma pure non sentendosi assolutamente sprovvisto di qualche motivo ragionevole, trovando sopratutto in sè dei potenti motivi di coscienza, ei si arrischia a credere all’esistenza o all’azione di fattori trascendenti quali Dio, il Cristo. Egli estende a quei fattori trascendenti il ragionamento per analogia che riesce a tutti riguardo ai propri simili e che molti metafisici provano con ragione di applicare non solo agli animali ma persino a tutto il resto del mondo esteriore. Ed ecco, il ragionamento per analogia che riesce all’uomo sociale riguardo ai suoi simili, riesce all’uomo religioso riguardo a Dio. Egli ottiene per la sua stessa esperienza tali verificazioni della sua credenza, che il dubbio non è più per lui sostenibile e che il solipsismo religioso gli appare altrettanto chimerico e altrettanto colpevole quanto il solepsismo sociale può apparire all’uomo di azione. Nella misura in cui questa esperienza degli effetti dell’azione religiosa si produce nell’anima, la certezza va crescendo e fiorisce in uno stato sempre più sicuro di calma e di serenità interiore.
In ultima analisi, nel campo religioso, il vincolo tra la verità e la vita è tale che solo la vita può anzitutto fare accettare la verità, e la vita sola può in seguito convincere pienamente della verità col fornire la sola verificazione adeguata. Colui che, non avendo vita religiosa, pure discute la verità religiosa, comprende certo astrattamente il senso delle parole, allo stesso modo che un uomo sprovvisto d’in-
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telligenza matematica capisce le parole di un teorema di geometria. Anzi, l’uomo senza vita religiosa può ben comprendere il senso esterno, superficiale, logico delle proposizicni in cui si formola là verità religiosa. Ma quei pensieri restano per lui verbali e senza reale contenuto. Il loro vero e pieno significato, il loro senso concreto; vitale, interno gli sfugge, e non può non sfuggirgli, perchè non si collega a nulla di distinto e di preciso nella sua propria vita, pere hè non rappresenta per lui la verificazione di nulla, perchè non è per lui il mezzo di fare nulla. È qualcosa di sterile, di morto. Non è davvero sorprendente Che una simile verità appaia ad un tale soggetto come non essere una verità. Egli, dopo tutto, non si sbaglia. Per lui, il vin colo tra la verità e la vita è tagliatola verità non viene più dalla vita, e non va più alla vita. Essa non è più la verità.
Ma da ciò stesso risulta pure che l’uomo religioso non può essere molto tur-. bato dall’opposizione ch’esso incontra presso coloro pei quali la verità religiosa non è altro se non una morta astrazione, separata dalla vita. W. James, considerando la questione dal punto di vista morale esclama: Questo mondo è buono, poiché esso è ciò che io lo faccio, io lo voglio far buono. Supponete invece che, perdendo ogni energia morale, io mi radichi nella persuasione che il mondo sia malvagio: il pessimismo, in questa ipotesi, si trova confermato dal mio atto stesso, esso deriva dalla mia credenza. Ecco fatto, ed io avevo ragione di affermarlo. Si può tenere un linguaggio se non identico, almeno analogo dal punto di vista religioso. Certo, non è la mia ipotesi, e la mia attività che avranno la proprietà di creare o di distruggere Dio in sè, ma esse ben avranno la proprietà di creare o di distruggere Dio per me e forse per altri, di creare o d'annientare una vita religiosa nel mio essere e forse nell’essere altrui. E se, colla vostra ipotesi e la vostra attività, vi siete fissati in uno stato areligioso, avrete verificato a modo vostro e per conto vostro la vostra credenza: il vostro universo sarà un universo senza Dio, la vostra vita una vita che non sarà rischiarata da alcun raggio dall’Alto. Ma ciò non vi attribuirà il diritto di decretare che hanno torti quei vostri simili i quali, possedendo una vita che voi non possedete, i quali, facendo esperienze che a voi riman gono ignote, pretenderanno trovare in quella vita e in quelle esperienze la conferma della loro fede religiosa. Anch’essi avranno verificato la loro opinione.
Vuol forse dir ciò che, nel nostro pensiero, la vita religiosa sia qualcosa di eccezionale, come un affare di temperamento naturale, che dobbiamo felicitarci d’avere come ci si può felicitare d’esser nati matematici o poeti, che non è possibile acquistare se ne siamo sprovvisti, del pari che non ci si può rendere musicisti se non lo siamo? No, senza dubbio, non ammetteremmo senza grandissime riserve tali assimilazioni. Sarebbe uno spogliare la vita religiosa del suo valore il considerarla come una eccezione felice o infelice nell’umanità. La convinzione di ogni uomo religioso è che la vita religiosa — che si riannoda del resto ai dati più universali e più costitutivi dell'uomo; l’obbligazione morale e i suoi postulati — qualchecósa di essenzialmente umano, e rappresenta il pieno sviluppo di tutte le virtualità proprie all’uomo inquanto uomo. Il numero immenso e sempre crescente
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delle anime di ogni mentalità, di ogni cultura, di ogni temperamento, convertiti alla vita religiosa sotto tutti i cieli, in ogni epoca, in seno alle civiltà le più varie come anche nei paesi più barbari, costituisce una veramente imponente conferma sperimentale di questa convenzione. E come non osservare a questo punto che la verificazione della fede cui accennavo pur ora, non è qualcosa di puramente individuale, di discontinuo nell’umanità, ma che il soggetto il quale ha verificato per sé stesso la sua credenza religiosa, si trova come inquadrato nella società d’innumerevoli anime che, in diversi punti dello spazio e del tempo hanno realizzato in loro stesse una identica verificazione, chajianno sentito esse pure la loro debolezza cambiata in forza, la loro miseria psicologica e spirituale trasformata in ricchezza, in pienezza, in gioia, le loro preghiere esaudite, il loro peccato trasformato in santità, nella misura precisa in cui esse si sono afferrate con fiducia alle grandi verità di Cui avevano fatte le verità maestre della loro vita, nella misura precisa in cui si sono sforzate di dimorare e di progredire nella società e la familiarità delle persone supreme e trascendenti di cui avevano fatto le personalità direttrici della loro esistenza?
E come non soggiungere che il cristiano si sente compreso, lui debole e frale, colla sua piccola esperienza e la sua piccola fede in una grande corrente di fede e di esperienza che scorre attraverso le età dai secoli più remoti passando per la storia d’Israele, la preparazione del Messia, lo sviluppo del Cristianesimo sulla terra? In verità vi è in questo più che una verificazione individuale, vi è una verificazione collettiva che sta organizzandosi e consolidandosi per mezzo del reciproco controllo che gl'individui esercitano gli uni sugli altri per rettificare le loro osservazioni, i loro giudizi e i loro ragionamenti; per mezzo del raddrizzamento che l’esperienza prolungata e le applicazioni sogliono arrecare alle induzioni mal fondate e alle ipotesi false: per mezzo della conferma sempre più luminosa ch’esse dànno alle inferenze legittime e alle interpretazioni corrette ed esatte.
Se vi sono nell’umanità di quelli che non accedono a questa vita religiosa di cui tutti portano i germi da sè stessi, è una disgrazia affatto accidentale. Come spiegare questa contingenza? Con parecchie cause, di certo, delle quali alcune non impegnano direttamente la responsabilità degli uomini non religiosi, i quali sono talvolta, dallo stesso punto di vista religioso, molto più da compiangere che da biasimare, ma essa si spiega, in certi casi almeno, con una inferiorità di vita morale, una povertà di vita interiore che è tutta a carico dell’uomo irreligioso. La verità non può essere che il frutto della libertà; e in questo senso l’uomo non ha che la verità che si merita. « Beati i puri di cuore, ha detto Gesù, perchè vedranno Dio. Beati gli affamati e assetati di giustizia, perchè saranno saziati ».
Ed è ancora Gesù che ha riassunto in questi termini il vero pragmatismo religioso: *Chi pratica la verità viene alla luce... Sé alcuno vuol fare la volontà del Padre mio, conoscerà se la mia dottrina viene da Dio».
Enrico Bois.
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■F ' V/. - ______-________- - -. _-^rIL CRISTIANESIMO E LA STORIA
ra che Bilychnis, con così alto senso di modernità, ha dato agio alle polemiche,su « il Cristianesimo e la guerra » — nelle quali si dibatte il maggiore problema morale del nostro tempo — di essere portate, autorevolmente, a conoscenza degli studiosi, e che, anche recentemente, è ritornata sull’importante argomento, pubblicando i pregevoli articoli del Munì, del Banchetti, del Ghignoni, dello Janni, mi sia consentito fare, in proposito, ancora alcune considerazioni. Le quali hanno anche una più spe
ciale ragione di essere, poiché ad esse sono stato indotto, pure alquanto riluttante, dal fatto che alcuni dei motivi principali della polemica, che ha avuto luogo tra i chiari scrittori innanzi ricordati, furono da me svolti nell’articolo apparso in Bilychnis’. « Là guerra nelle grandi parole di Gesù », ed è opportuno ehe abbiano oggi, a maggiore chiarimento del pensiero già da me espresso, qualche comento.
Ugo Janni, oppugnando l’asserzione del Banchetti, già prima da me fatta, che, cioè, manca tra i belligeranti una coscienza assoluta del diritto e della giustizia, poiché ciascuno di essi crede, in buona fede, che l’uno e l’altra militino a suo favore, afferma che dire ciò significa fare del l’agnosticismo intellettuale e morale, e aggiunge che confutare questo sarebbe cosa troppo lunga e anche fuori d’opera.
A me pare, invece che, sotto questo riflesso, valga bene la pena di spendere qualche paròla per cercare d’intenderci.
Lo Janni osservò che « per discorrere dei rapporti tra Cristianesimo e guerra bisogna, prima di tutto, avere un’idea chiara dei rapporti tra il ^.Cristianesimo e la storia». Ciò è vero, epperò se riusciremo a segnare,con precisione,la linea di separazione di questi valori potremo dire di possedere gli elementi decisivi per la soluzione del problema.
È innegabile come un senso dell’essere della storia, fatto per eccellenza sociale, e del suo divenire, sia secondario, se non del tutto assente, nelle pagine dell’evangelo. Il compito religioso-etico che questo si propone, mira ad un fine individuale, ad un perfezionamento, ad una santificazione dell’anima, all’unione completa di questa con l'assoluto, cioè con Dio concepito come padre, come norma suprema di amore e di bene. La coscienza di Dio, che è tutta la vita, e alla quale ogni male è contrario, dev’essere nell'anima di ciascuna uomo. L'anima deve attuare in sé il regno di Dio, e questa attuazione si verificherà sopra un terreno affatto universale, sul quale le limitazioni storiche, cioè di tempo e di spazio — limitazioni che prendono nome:
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stirpe, popolo, patria, nazione, stato — non esistono, poiché hanno perduto ogni valore ed ogni significazione, in quanto sono state superate dalla nuova dottrina. Lo disse l’apostolo ai Galati: « Non est Judaeus, ncque Graecus; non est servus, neque liber; non est masculus, neque femina. Omnes enim vos unum estis in Christo Jesu ».
Per un cristiano la storia è il mondo del relativo, del contingente, dell’anormale, il mondo del peccato, col quale esso non deve confondersi, ma che, invece, deve dominare da un piano superiore di purezza e di forza spirituale.
Per l’anima cristiana l’assoluto, la verità sono il senso della vita e la legge che Gesù ha annunziato.
Il Boutroux (i) sentì questa opposizione quando scrisse: « la coscienza religiosa, lungi dal consentire ad identificarsi con la coscienza sociale, spinge l’uomo ad opporre i diritti di Dio a quelli di Cesare, la dignità della persona alla costrizione pubblica. Come la società reale potrebbe pretendere di bastare alla coscienza del credente? Offre essa dunque attualmente realizzati la giustizia, l’amore, la bontà, la scienza, la felicità, tali quali,' mediante la fede, sono realizzati in Dio? »
Nella storia la verità diviene, si plasma, si concreta ad ogni ora ed a ogni passo di essa, nel conflitto perenne d’interessi, di passioni, di idee, conflitto nel quale la guerra è uno dei momenti salienti e risolutivi di crisi.
La filosofia hegeliana ci dette la compiuta rappresentazione di questo concetto dell’assoluto, della verità nella storia. Essa affermò che l’essere e il non essere sono delle pure astrazioni, e che la realtà è soltanto nello eterno ritmo del divenire, che la verità assoluta è in questa serie di necessità, in questa vicessitudine di momenti relativi, che, pertanto, vi è identità tra razionale e reale, che lo spirito esiste solo in quanto è materialmente realizzato. Siamo nella concezione opposta a quella dello Schelling, per il quale l’assoluto era consistito, ancora, in un principio superiore alla natura e alla storia.
E quando Hegel passò alla costruzione dello Stato, che chiamò « la sostanza dell’individuo» pose la finalità di esso in una idea superiore di cui lo Stato stesso è il rappresentante armato, alla quale devono essere sacrificati gl’interessi e i diritti privati, e nella quale l’individuo viene annullato. Dopo avere assorbito i diritti dell’individuo e della famiglia, lo Stato si trova assorbito, a sua volta, dagli Stati, dalle nazionalità e dalle razze superiori. Da ciò il diritto di conquista e di perpetuità della guerra; la nazione vittoriosa è sempre migliore della nazione vinta, e la sua stessa forza è la prova del suo diritto, perchè ciò che è reale è razionale.
Sono facilmente riconoscibili nella teoria hegeliana le intime, essenziali ragioni che hanno determinato, per così gran parte, la odierna mentalità germanica in ordine alla guerra.
Affermare, dunque, che nella storia il concetto di Diritto, di Giustizia, di Verità, che guida coloro che fanno la guerra, sia un concetto di relatività, cioè un concetto che muta a seconda che muta il punto di veduta di ciascun belligerante, e che, pertanto, quello che, in buona fede, è ritenuto diritto e giustizia da milioni
(i) Boutroux. Science et Reiigion, chap. IV.
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di uomini è stimato il contrario da altri milioni di coscienze, del pari in buona fede, non significa fare de\\’agnosticismo intellettuale e morale, ma soltanto formulare un giudizio alla stregua di una tangibile esperienza. D’altra parte giova sperare che Ugo Janni non voglia, addirittura, negare ogni considerazione alla scuola agnostica, e farne giustizia sommaria con un tratto di penna! La confessione « ignoramus et ignorabimus» venne pure alle labbra di molti grandi pazienti investigatori. Il moderno sostenitore dell’evoluzionismo considerato come principio applicabile a tutti i dominii dell’esperienza, affermò che « l’analisi del sapere conduce l’uomo all’agnosticismo», e Shelley concludeva l’ultimo suo canto con l'amara domanda: « then what is life? ».
Ma non è una professione di fede agnostica, ripeto, quella che noi facciamo. Nell’affermare che una pura norma di verità relativa guida i belligeranti siamo nel campo del divenire storico, nel campo del razionale che si fa reale, nel campo della verità storica. ♦
È stato sul terreno di questo relativismo, di questo particolarismo storico — siasi pure chiamato Atene o Roma — che le espansioni economiche e gli orgogli nazionali tendenti a stabilire le grandi egemonie, hanno trovate le condizioni morali della loro formazione e del loro sviluppo.
Lo spirito delle nazioni più celebri dell’antichità era, naturalmente, esclusivo osserva lord Macaulay (i). Pare che i Greci ammirassero soltanto sè medesimi, e i Romani soltanto sè medesimi e i Greci. Dopo la ritirata di Serse, l’orgoglio nazionale rese completa la separazione fra i Greci ed i barbari; i vincitori si considerarono uomini di razza superiore; uomini che nei loro rapporti con le nazioni vicine avevano da insegnare, da imparare mai.
Roma considerò come ribelli le genti che non si piegavano alle sue leggi, e tale era il sentimento di tutti i cives. E Tacito potè dire «apud romanos jus valet gladii, caetera trasmittuntur ». I procedimenti che Roma, stato organizzato e collettivisticamente disciplinato, metteva in opera per l’assoggettamento e lo sfruttamento economico dei vinti rivelano le basi psicologiche della sua espansione imperialistica. La civiltà fenicia e la ellenica lo seppero bene, e le pagine di Lattanzio sono, su quei procedimenti, di una significativa eloquenza.
Uno spirito particolaristico ed esclusivo, non diverso, nella sostanza, da quello che animò il inondo antico, è quello che muove oggi ogni nuova concezione imperialistica. Gli scritti del Treitschke e i «Discorsi alla nazione tedesca » del Fichte illuminano le profonde sorgenti del pangermanesimo odierno.
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Ma può affermarsi che questa concezione dell’assoluto, della verità storica sia in armonia con la pura essenza della religiosità cristiana? 0 non è, piuttosto, essa la negazione del fondamentale significato della parola divina?
(i) Babington Macaulay, History.
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Il Cristianesimo ha annunciato all’uomo la verità che non deve divenire, ma che è, perchè è eterna. Se alcuni progressi nella conoscenza delle leggi fisiche sono state il prodotto delle pazienti conquiste di secoli d’indagine da parte dell’uomo, la conoscenza, invece, di alcuni fondamentali valori morali è stata assai più presto raggiunta da lui per una intuizione del divino. La legge morale cristiana fu assunta tutta in uno slancio incontenibile di fede e di amore infinito, in quella raggiante àyawj di cui parla Paolo, che pone al vertice di ogni santità l'amore di Dio-Padre e degli uomini fratelli, l’amore del nemico, la non resistenza al male con la violenza, il distacco sereno da ogni cupidigia di ricchezza e di dominio e da ogni sentimento di orgoglio. « Se alcun vuol dietro me venire rinunzi a se stesso, e tolga la croce sua e segua me ». È un puro, ardente atto di abnegazione quello che il vangelo domanda, ma è un atto di abnegazione a vantaggio non di un particolare interesse — popolo nazione, stato, — ma a vantaggio di un valore universale. Il martire che cadrà, come il primo diacono sotto le pietre, o, come gli altri, più tardi, tra le fiere del circo ripetendo le parole di Giovanni «Haec est victoria quae vicit mundum, fides nostra», dev'essere inerme e perdonante, e attingerà un’altezza eroica che tutti gli eroi del classicismo non conobbero.
È un mostruoso nonsenso concepire il martire cristiano, il generoso elargi-tore della propria vita nel senso voluto da Cristo, nell’atteggiamento del guerriero che odia ed è odiato, che difende un interesse contro un altro interesse, che uccide ed è ucciso.
Certo il Cristianesimo deve estrinsecarsi, o inserirsi — come ad Ugo Janni piace dire — dalla intimità della coscienza individuale, dal mondo della nostra più profonda interiorità, che è il suo regno d’inviolabile purezza, nella storia.
Ma perchè noi possiamo parlare, in questo processo, di realizzazione di valori spirituali cristiani, è necessario che la legge sostanziale dell’evangelo non venga negata, alterata o distrutta, che l’assoluto e l'universale non vengano travolti e superati dal particolare e dall’episodico della storia. La guerra come negazione del precetto della legge: non odiare, non uccidere, ama il tuo nemico, non avere fame di ricchezze, non può costituire, qualunque ne sia il movente, una forma d’inserzione del Cristianesimo nella storia.
Platone aveva detto nel « Fedone » che « le guerre, le sedizioni, le pugne ci vengono dal corpo e dalle sue cupidigie, poiché le guerre tutte hanno origine dalla brama delle ricchezze ». E un moderno, William James (i), dopo avere esaltato la guerra come una scuola di energia, ha inteso il demone plutocratico che la anima, ed ha pensato che « nel culto della povertà, il vecchio ideale monacale, potrebbe esservi qualcosa dell’equivalente morale della guerra, di cui siamo in cerca. La povertà non sarebbe il vero eroismo? - egli si domanda. La paura della povertà che regna nella classe colta, è, senza contraddizione possibile, la peggiore delle malattie morali di cui soffre la nostra civiltà ».
(i) W. James, The varieties of religious experience.
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Tutto quello che il Cristianesimo ha di più alto in quella sua sdegnosa negazione del mondo del peccato « regnum meum non est de hoc mundo », in quella sua astrazione dai caduchi beni del nostro desiderio mortale, racchiude la sete interiore d'una ricerca che trascenda i confini della storia e affretti l'avvento del Regno di Dio: « non enim habemus Ine manentem civitatem, sed futuram inquirimus ».
Dopo l’editto di Costantino, dopo che la Chiesa fu diventata un istituto politico e giuridico, la divisione di questi due campi di attività, lo spirituale e Io storico, si andò facendo sempre meno recisa e resistente, sino al segno di vedere oggi affermato da spiriti illuminati, che si professano cristiani, che la guerra, cioè a dire l’antitesi della essenza del pensiero cristiano, possa rappresentare un mezzo di divenire, d’inserirsi del Cristianesimo nella storia!
A coloro che credono alla causalità finale della storia, questo solco immémoriale seminato, così spesso, di brutali nefandezze, potrebbe ricordarsi l’arguta sentenza dei De Concourt: « L’histoire est du roman qui a été, le roman est de l’histoire qui aurait pû être ».
11 Cristianesimo, l’idea, la legge eterna del Cristo, è già, in tutta la sua interezza, innanzi al nostro spirito dall’ora della sua annunziazione, e non è già la storia che ce la rivela. Essa si attua, in questa, solo in quanto le nostre anime umilmente la riconoscono e la pongono avanti ad ogni altra sollecitudine e s’inchinano ad essa e adorano. La santità non è stata e non è, nella sua più riposta virtù, che questo illimitato ed incondizionato atto di sottomissione del nostro io a quel valore che riconoscemmo come verità suprema ed immutabile.
Come siamo ormai lontani dalla possibilità d’inserire il Cristianesimo nella storia mediante la guerra! Lungi dall’attuare una tale inserzione, le coscienze veramente cristiane, quelle che si sentissero vicine alla santità evangelica, dovrebbero non soltanto rifiutare di fare la guerra, ma anche di portare le armi. Solo operando in tal modo esse potrebbero proclamarsi cristiane, accettando, come facevano i cristiani dei primi secoli, tutte le conseguenze, sino alle estreme, della loro condotta religiosa.
E poiché occorre a pena rilevare, come ha già detto, opportunamente, P. Ghi-gnoni, che noi sostenitori della inconciliabilità del Cristianesimo con la guerra non intendiamo parlare di una guerra — di quella nostra o di quella degli altri —- ma della guerra, in genere, non riconosce Ugo Janni che se in tutti i paesi le coscienze che si professano cristiane facessero il loro dovere di cristiani, sino a quelle tali estreme conseguenze, la guerra sarebbe praticamente impossibile?
Siamo dunque pervenuti alla più semplice espressione del problema. Partiti dalle altezze della speculazione agnostica siamo arrivati ad una questione di pura pratica della dottrina cristiana.
Il problema non raggiunge la sua soluzione se non viene messo su questo terreno di una veduta universale di pratica dei principi cristiani. Se lo'poniamo su la base dei particolarismi nazionali esso appare subito non suscettivo di soluzione. Se lo esaminiamo alla stregua di una ipotesi particolaristica, quella, ad esempio, come fa lo Janni, della Serbia aggredita e che sorge a difendere il suo diritto, siamo già fuori del giusto punto di veduta, e la risposta alla domanda: bisogna resistere
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uccidendo?, se vogliamo essere logicamente conseguenti alla inderogabile primordiale premessa cristiana, non può che essere recisamente negativa, senza alcuna restrizione o riserva.
Ciò può a taluno apparire paradossale, ma egli è che l’errore logico sta nel volere ammettere come possibile una guerra cristiana, cioè una guerra che sia un modo di essere della estrinsecazione dei valori della idea cristiana, senza avvedersi che una società che è giunta alla guerra, quale che sia il carattere di questa, non ha, ormai, più nulla di cristiano, poiché alla guerra essa è stata portata come ad una ineluttabile risultante di tutto lo spirito pagano della sua storia e della sua costituzione economica, giuridica, politica.
Considerate lo spirito di questa nostra età: attraverso il colossale sviluppo industriale, determinato dai progressi meccanici, essa ha stabilito la supremazia dei valori economici, e mai, forse, come oggi è parso agli uomini che la felicità non possa venir loro se non da un sempre maggiore possesso di ricchezza. Alle aspirazioni ad una monarchia universale, delle quali Dante fu l'ultimo [grande rappresentante, noi sostituimmo l’ordinamento delle patrie costruite sul principio della nazionalità, che riguardavamo come inviolabile. Ma è bastato che l'urto tra la formidabile talassocrazia mercantile della tradizione e l’altra di recente formazione scoppiasse, perchè vedessimo negati e travolti in una rovina sanguinosa i valori nazionali. Nessun secolo ha, forse, più di questo peccato di egoismo e di orgoglio, le due massime offese alle cardinali virtù cristiane: la carità e l’umiltà.
In una costituzione siffatta della società la guerra accesa dalla « brama delle ricchezze » nelle proporzioni e nella forza di resistenza spaventosa in cui è divampata, è una meta fatale, di cui non è da meravigliarsi; ma col Cristianesimo essa non ha nulla a che vedere.
E questa società del secolo XX, fattrice della più vasta delle guerre che la storia ricordi, è così poco cristiana che essa non ha mostrato, sino ad òggi, di sentire cristianamente l’acutezza del dolore e dell’angoscia delle stragi e d'imporre ad esse una fine. La sua condizione d’animo, .quale appare anche dalle esteriori manifestazioni di una vita che non ha saputo rinunziare alle abitudini di lusso, di svaghi, di piaceri, se è giudicata da taluni desiderabile per mantenere alto il morale del popolo, non costituisce, certo, un documento di cristiana consapevolezza di tutta la gravità, dal punto di vista religioso, del tragico evento. Ciò fu notato da Benedetto XV nel discorso da lui tenuto ai fanciulli di Roma recentemente, e l’osservazione mi pare una delie più acute che valgano a mettere in rilievo lo spirito pagano della nostra civiltà.
Quale incomponibile contrasto tra la società moderna, che ha per capisaldi le divisioni nazionali, il capitalismo, la libera concorrenza, i milionari ed i poveri servi di una dura, quotidiana, oscura fatica, il militarismo e la guerra strumenti di espansione nazionale, e la mite visione della primitiva società cristiana,- l’unica che abbia veduto il mondo di veracemente cristiana! Ricordate le parole del semplice racconto? « E la moltitudine di coloro che avevano creduto aveva uno stesso cuore, ed una stessa anima; e niuno diceva alcuna cosa, di ciò che egli aveva, essere sua; ma tutte le cose erano loro comuni ».
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« Conciossiachè non vi fosse alcun bisognevole ira loro; perciocché tutti coloro che possedèvan poderi, o case, vendendoli portavano il prezzo delle cose vendute ».
« E lo mettevano ai piedi degli apostoli; e poi era distribuito a ciascuno, secondo che egli aveva bisogno » (i).
Il piccolo libro recante-il messaggio di beatitudine serba inalterate per gli ocelli mortali che oggi vi leggono, come per quelli che vi lessero ieri e vi leggeranno domani, le parole chiare annunziatrici della proméssa di una liberazione é di una risurrezione delle anime dallo antico errore. È al suo insegnamento limpido e rettilineo che una coscienza cristiana deve restare fedele, ripudiando tutto quello che non è conciliabile con esso, e prima di ogni altra cosa la guerra, che è un modo di essere del pensiero e dell’attività di una società pagana, retta da premesse pagane e tendente a finalità pagane.
Il Regno invocato* da due millenni non è dunque vicino a noi, e non ci appaiono di esso neppure le prime luci dell’alba? Certo quest’ora che viviamo, ora di odio e di sangue, è lontana da esso assai più, forse, di altre che i nostri padri vissero e che noi stessi vivemmo. Tuttavia innanzi agli orrori della guerra — oscuro nembo che abbatte il fiore di umana fraternità gocciato dal cuore dei santi, dei filosofi, dei poeti — la solitaria coscienza cristiana può ripetere le parole dell’apostolo a Timoteo: « Tu vero permane in iis, quae didicisti, et eredita sunt tibi; sciens' a quo didiceris ».
Paolo Tucci.
(i) Palli degli Apostoli, IV, 32-35
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INGHILTERRA DI IERI, DI OGGI, DI DOMANI
ESPERIENZE E PREVISIONI «
INGHILTERRA DI IERI.
IDILLIO SPEZZATO
ittorio Alfieri scriveva di già sullo scorcio del sec. xviil, che l’Italia e l’Inghilterra sono le sole nazioni in cui valga la pena di vivere: l’ùna, perchè la natura quivi rivendica i suoi diritti e trionfa dei mali ad essa inflitti dai suoi stessi governanti; l’altra perchè ivi, al contrario, l’arte e l’opera dell’uomo vince la natura, e trasforma una terra ingrata in un paradiso di « comfort » e di abbondanza.
Ecco perchè, dopo aver pagato il mio pieno tributo, al
di là delle Alpi, alle due principali nazioni del continente europeo, mi sentii attratto « nel mezzo del cammin di nostra vita », verso la nazione il cui spirito mi sembrava complementare e integrativo del nostro, e dietro le orme di A. Gentile, di Bruno, di Foscolo, di G. Mazzini e di tanti altri perseguitati, mi recai anch’io, «esule contento », a chiedere alla patria delia libertà religiosa e politica, alla nazione pioniera di riforme sociali, di rivelarmi quel senso della vita che si discopre nel servizio dell’umanità: « Life 's worth in fellowship is known ».
Da circa tre anni continuava il mìo pellegrinaggio spirituale attraverso i santuari del «servizio sociale» inglese — per citarne alcuni, i « Settlements », focolari di servizio dell’umanità; il « Brotherhood »; le « Missions »; le « Società Etiche »;
. (*) Parecchie vicende sono trascorse, dal dì in cui scrissi queste pagine, a questo ultimo di dicembre, in cui le licenziai alla stampa: fra le più notevoli, quelle delle proposte di pace fatte dalle Potenze Centrali, e appoggiate da Potenze neutrali, della risposta ad esse data dalle Potenze dell’Intesa, e della trasformazione dei Ministeri di queste nazioni in Comitati di guerra con uomini nuovi. Senza nulla toccare del testo, mi limiterò ad aggiungere brevi note marginali dove occorrano modificazioni sostàn-z,ah- (Nota dell'A.).
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INGHILTERRA DI IERI, DI OGGI, DI DOMANI 349
la « Salvation Army »; le « Città Giardino »; le « Ufficine modello »; le attività democratiche; il movimento cooperativo; il suffragismo; le colonie agricole; i «clubs» educativi; il Cristianesimo liberale, e le infinite manifestazioni di Cristianesimo praticabile, culminante nelle attività dei «Friends»;— ero stato testimone di alcune delle più belle battaglie combattute in nome della democrazia e dell’umanità, per la « prevenzione della miseria », il « salvataggio dei naufraghi della vita », l’elevazione del livello materiale e morale della nazione, contro la disoccupazione, per la dignità della vecchiaia dei lavoratori, per la santità dell’infanzia, e l’ideale della donna; nei « meetings » di Hyde Park avevo visto come dalla colonna gloriosa di Trafalgar Square, levarsi su la visione di un'Inghilterra consacrata alla sublime utopia di addurre sulla terra la « città di Dio », e Lloyd George e Keir Hardie, Brace Wallace e Mrs. Sidney Webb, John R. Campbell e Bernard Shaw, Mrs. Pankhurst e Canon Barnett, mi avevano assicurato che quelle a cui avevo assistito erano le doglie del parto di una nuova Inghilterra e di una nuova umanità, incomparabilmente più bella e più grande..., quando nel fatale agosto 1914 un ghigno formidabile, mefistofelico, risuonò sulla faccia della terra, e un gelido terrore fece impallidire le fronti dei più impavidi veterani dell'esercito del bene. Le forze del male avevano spezzato le catene che le infrenavano, e avevano avuto il sopravvento su quelle del bene: era — con frase biblica — « l’ora del potere dèlie tenèbre ■: era la guerra.
La notizia della partecipazione dell’Inghilterra al terribile conflitto mi giunse in circostanze veramente drammatiche. Era il 4 agosto. Mi trovavo con la mia sorella Filomena a Letchworth, la «Città Giardino». Il giorno innanzi, avevamo ricevuto, sul punto di recarci alla stazione di Charing Cross ad incontrare la nostra sorella Clara che attendevamo dà Bruxelles, un telegramma che era stato per noi l’indubbio segnale di tempesta anche sul mare britannico: «Germania invaso Belgio. Impossibilitata partire». (Essa rimase poi per più mesi nella capitale invasa, a curare come « nurse », giorno e notte, soldati belgi e tedeschi feriti). Ora noi sapevamo bene che l'Inghilterra non avrebbe mai tollerato che si strappasse impunemente il « pezzo di carta » della neutralità belga; e che, dopo avere tentato tutti gli sforzi — rivelati poi dal Libro bianco inglese — « per cooperare con la Germania a conservare la pace d’Europa », essa sarebbe intervenuta per la difesa del diritto e della giustizia internazionale che coincidevano coi suoi propri vitali interessi: il dado quindi era tratto.
Mentre la tensione degli animi era al Colino e l’atmosfera era gravida di foschi presentimenti, un impegno preso ci aveva condotto alla « Città Giardino » per presenziare la solenne celebrazione del decimo anniversario della fondazione di quella città, geniale esperimento non solo della più completa municipalizzazione, ma delle più ardite idee di riforme morali e sociali, e anticipazione di quella ricostruzione sociale che i profeti umanitari andavano predicando e preparando da più decenni.
Questo concetto fu presentato quel giorno sotto i nostri occhi, nella forma drammatica pre-shakespeariana del « pageant ».
Su una vasta distesa di quei prati idealmente verdi che l’Inghilterra sa produrre, rotti da aiuole in fiore e da ciuffi di cespugli, una rappresentazione siin-
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bolica nelle smaglianti vesti medioevali, avvivata dalle « Morris-dances a e dalla tipica orchestra rievocatrice di millenarie visioni agresti e di tripudi sconfinati e di esultanze e di speranze dell’età d'oro, drammatizzò potentemente sotto i nostri occhi il -sogno e la visione che aveva presieduto alla fondazione di quella città avan guardia, le nostalgie di pace, di armonia, di progresso, di amore, che avevano popolato quelle valli, dieci anni prima deserte, di un esercito di buone volontà. Quattro vaghe fanciulle-angeli, sfiorando leggere sul tappeto di smeraldo, annunziarono con le loro trombe argentine ai quattro angoli della terra la promessa redenzione dell’uomo per opera dell’uomo, il patto nuovo della fratellanza universale...: gli strumenti ebbero un sussulto di gioia; le loro ansie e fremiti divennero gridi di giubilo; fanciulli e fanciulle si abbandonarono al tripudio della danza in ondate di letizia; gli spettatori trascinati nel vortice di quella ebbrezza dimenticavano e sognavano...
Ma sulle ali del telegrafo piombò sulla scena di quell’Eden rievocato la visione tremenda della realtà: il primo ministro Asquith aveva risposto all'invasione del Belgio con un ultimatum alla Germania, é le sue parole, pronunziate in quell’ora stessa alla « Camera dei Comuni » non lasciavano più posto per alcuna illusione: l'Inghilterra dei sogni e delle visioni doveva cedere il passò all'Inghilterra della sanguinosa, tragica realtà.
La tromba di Armageddon aveva risposto: « guerra » agl’inviti dell’angelo della pace: l’idillio era spezzato.
COME E PERCHÈ L’INGHILTERRA ENTRO’ IN GUERRA
Di quale spettacolo patetico e insieme sublimemente grande non fui spettatore nei primi due mesi di preparazione inglese alla guerra! Non si trattava soltanto delle enormi difficoltà tecniche di creare un’armata di parecchi milioni di uomini da un nucleo di poco più di duecento mila uomini di milizia regolare, e altrettanti della riserva: di sottrarre alle industrie inglesi questi milioni di uomini senza arrestare la vita nazionale; di raccoglierli, vestirli, alloggiarli, istruirli, addestrarli — cioè, contemporaneamente, formare gli ufficiali per istruirli e commandarli, e gli ufficiali di Stato Maggiore per dirigerli; — di fabbricare i fucili ed i cannoni, sènza officine nè operai tecnici preesistenti; organizzare i servizi delle retrovie, i trasporti, gli ospedali, l’ambulanza, ecc., ecc. La difficoltà maggiore era di trasformare la mentalità di questo popolo d’idealisti sognatori dell'avvento dell’età d’oro, di pacifisti ostinati chiusi nelle loro « insularità », e persuasi che tutto il decalogo politico dell'Inghilterra si compendiasse nel comandamento: « abbi una flotta sufficiente a proteggere i tuoi lidi e il tuo commercio », e formarne, con la sola forza della persuasione, una nazione di combattenti per una causa, in cui la massa della popolazione non poteva vedere in gioco i propri immediati interèssi.
Ed ecco, i profeti e gli apostoli sociali di ieri, concessisi appena il tempo per riscuotersi dal bel sogno sì lungamente vagheggiato e persuadersi che la voce che faceva appello alle loro spade era pur sempre la voce dell’umanità avvenire
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a cui avevan dedicato i loro aratri e le loro officine, spargersi per ogni angolo della nazione à predicare la crociata del diritto, della giustìzia, della difesa delle nazionalità.
È un luogo commune, e non solo sulla bocca di Tedeschi, che la politica estera inglese si è sempre ispirata all’egoismo e ai motivi interessati. Si potrebbe domandare a questi moralisti della politica delle altre nazioni, quali fossero i principi direttivi di Richelieu e di Thiérs, di Bismarck e di Cavour, e se non ammettano alcuna differenza fra l’egoismo che cerca follemente di basare la prosperità propria sulla rovina e la schiavitù delle altre nazioni — come già Mettermeli per riguardo all'Italia — e quello che la ricerca nella prosperità e nell’armonia generale: si potrebbe domandare quali motivi d’interesse avesse l’Inghilterra per aiutare l'Italia, nella metà dello scorso secolo, a sottrarsi alla tirannia dell’Austria e allo sgoverno degli altri suoi dominatori; a prestare appoggio alla Svizzera quando la sua indipendenza fu minacciata all’epoca della lega di Sonderbund; e recentemente, a imporre all’Irlanda l’Home Rule, non ostante l’opposizione accanita dell’Ulster: si potrebbe chiedere quali interessi egoistici fecero sorgere sul suolo inglese il movimento antischiavista e di protezione delle popolazioni indigene, e la fecero rinunziare ai grandi vantaggi- che un secolo di simpatia e d’alleanza con la Turchia aveva portati all’Inghilterra, sacrificandoli ai diritti dell’umanità conculcati da Abdul Hamid, fin dai massacri armeni e bulgari... E per carità, non tocchiamo il tasto della guerra boera, di cui, a parte il resto, posso dire, che l'opposizione accanita ad essa fatta da Lloyd George, dal Clifford e dal Courtney, non Ila impedito al primo di divenire Primo Ministro, al secondo di acquistare la sua enorme influenza e al terzo di divenire — in riparazione — Lord Courtney.
Ma senza interrogare la storia del passato, lo spettacolo dato dalla campagna volontaria per l’arruolamento volontario fin dai primi mesi della presente guerra è stata una rivelazione sorprendente di quali siano le corde più sensibili dell’anima inglese.
Chi non conosce intimamente quale tempra di mansueto idealista umanitario sia quella del ministro degli esteri inglesi, Sir Edward Grey (i), può aver letto con un certo grado di diffidenza le solenni parole con cui, quattro giorni prima della dichiarazione di guerra alla Germania, egli scriveva ancora all'ambasciatore inglese a Berlino: « Se si riuscirà a preservare in Europa la pace e superare la presente crisi, sarà mio sforzo di iniziare degli accordi nei quali la Germania potrà partecipare, per garantirla contro qualunque possibilità di una politica aggressiva od ostile ad essa o ai suoi alleati da parte della Francia, della Russia, e nostra, sia insieme che separatamente. Fu questo il mio scopo al quale diressi i miei sforzi durante l’ultima crisi balcanica, e la coincidenza della Germania nello stesso oggetto servì a migliorare in maniera sensibile i nostri rapporti. L’idea era stata finora troppo utopistica per formare l’oggetto di proposte definite, ma se la presente crisi tanto più acuta...
(i) Ora dimissionario con tutto il Ministero Asquith, e succeduto nel «Foreign Office» da Lord Balfour. {Nola dell'A).
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¿sapesse»
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sarà superata, spero che il senso di sollievo e la reazione che seguirà, renderà possibile un ravvicinamento più definito fra le Potenze » — propositi questi, chiariti e confermati in parecchie interviste dello stesso statista. Ed egualmente, solo chi non conosce la nobiltà di carattere del primo Ministro Asquith (1) e dei suoi cooperatori nel Governo inglese, potrà aver provato il dubbio, che sottintesi troppo ovvi si ascondessero sotto le loro ripetute dichiarazioni, secondo cui Io scopo dell’Inghilterra nel gettarsi nel presente conflitto senza alcun legame di preesistènti trattati con la Francia o con la Russia e senza che alcun suo immediato interesse fosse in gioco, fu principalmente « la difesa dei diritti di tutte le nazionalità, grandi e piccole, e la preservazione delle più sacre libertà », per abbisognare di essere confessati o proclamati. Ma, che cosa dire del fenomeno che si è ripetuto sotto i miei occhi in centinaia di comizi, di « sermons », di conferenze, cioè quello di centinaia di oratori e oratrici, conservatori o democratici, ecclesiastici 0 laici, professionisti ed uomini di coltura, od operai ed indotti, persone tutte che dovevano ben conoscere la mentalità, le suscettibilità, le accessibilità dei loro concittadini, di questa (inazione di negozianti » — secondo la frase di Napoleone, — che per commuovere i loro animi, persuaderli ad abbandonare la loro famiglia, il loro impiego, la loro isola — baluardo ben difeso dalla natura e dalla formidabile /lotta, — e recarsi a spargere il loro sangue, a dare la loro vita in difesa della Francia e dei Belgio non han saputo trovare argomenti più convincenti, nè toccare altri tasti che i sentimentali, gli umanitari, i poetici? I diritti delle piccole nazionalità, il rispetto delle libertà, la religione dei trattati, lo strazio e lo scempio del Belgio, la difesa contro la « kultur » tedesca, la liberazione dell’Europa dall’incubo del prus-sianismo...: ecco le corde che ho inteso costantemente vibrare, e con il successo, unico nella storia di tutte le nazioni, che ormai è noto. Quanto all’argomento dei pericoli per l’Inghilterra di un’egemonia tedesca, degl’interessi vitali del suo commercio, della necessità dell’esistenza del Belgio come baluardo fra i due rivali, della inconcepibilità di un’Anversa tedesca, e simili motivi « egoistici », confesso di non averli intesi usare che assai parcamente nella campagna « coscrizionista », benché in apparenza non meno accessibili e persuasivi di quelli altruistici, specie per il gran pubblico.
Quando nei primi giorni di ottobre del 1914 un invito del Ministero dell’istruzione mi chiamavain Italia a prestare la mia opera nell’insegnamento di quella stessa lingua e letteratura per il cui tramite tante nuove e preziose esperienze avevo acquistate, e alla mia diletta Londra, mia seconda patria, davo un addio che doveva essere
(1) Ora dimissionario, e succeduto dal gallese Lloyd George, tempra battagliera e insieme tenace, dalle vedute e dai metodi radicali. Forse pochi sanno in Italia, che questo splendido tipo di riformatore sociale iniziò la sua carriera come riformatore religioso, capitanando da fanciullo un ammutinamento di fanciulli contro l’insegnamento del vecchio catechismo, da giovane una sommossa di giovani contro un c cler-gyman . intollerante, e poi da uomo politico la rivolta dei liberali che condusse alla abolizione della Chiesa di Stato nel Paese di Galles È notevole che anche l’ex Primo Ministrò Asquith iniziò il suo « servizio sociale • nel • Settlemcnt. di Toynbee Hall.
(Nota dell'A.).
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LETCHWORTH, la ' città-giardino ' in Inghilterra. I. Abitazioni coi giardini annessi. II. Il ' chiostro ’ centro di attività sociali. III. Una strada della città.
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LONDRA. Sala centrale della Biblioteca del Museo Britannico.
STANTON COIT
Fondatore della * Chiesa Etica ’
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un «arrivederci», una convinzione si era in me fortemente radicata: cioè, che il paese il quale entrava con tanta serena fiducia e calma energia raccolta, nella guerra più colossale della sua storia, sprovvisto di qualunque preparazione offensiva, e che la stessa sua tardiva preparazione affidava alla libera attività dei suoi cittadini penetrati della bontà della causa e conquistati da argomenti spirituali e morali, entrava certamente con il cuore mondo da cupidigie, da ambizioni, da interessi egoistici, e offriva lo spettacolo di una fede formidabile, eroica, nella efficacia delle forze ideali, e di fiducia nel trionfo della giustizia, quali solo una viva intuizione religiosa può spiegare.
Ma nelle stesso tempo nel mio animo, più scèttico e meno sentimentale, un dubbio angoscioso persisteva: Riuscirà l'Inghilterra a supplire con le sue poderose energie spirituali e morali alla sua radicale impreparazione? Ed un altro ancora più atroce — non ostante l’assicurazione di eminenti miei amici, che nel crogiolo fiammante della guerra si sarebbe tusa l’intiera nazione e resterebbero consumati gli egoismi di classe, e si preparerebbe il più grande esperimento di nazionalizzazione dei servigi pubblici e dei mezzi di produzione, — cioè: Che ne sarebbe dell’Inghilterra che avevo conosciuto ed amato; dell'Inghilterra di cui avevo sperato il « Salus Dei per Anglos »; dell’Inghilterra che aveva inteso la vocazione storica del suo impero, di preparare, come quello romano, la « pienezza dei tempi », di educare all’indipendenza i popoli soggetti e di essere pioniera di un’umanità nuova? Avverrebbe anche di essa, che il prezzo della vittoria sarebbe stato il contagio di quello stesso prùssianismo e militarismo, di quella stessa ambizione d’egemonia, a debellare la quale le sue armate traversavano ora il canale, come già un secolo prima per opporsi a Napoleone? E queste due stesse domande mi ponevo di nuovo due anni dopo, quando nel mese di luglio 1916, munito dei miei passaporti — e ottenerli fu una delle più ardue imprese della mia vita — passavo le Alpi e volgevo il mio passo per la quinta volta verso la Old England.
L’ETICA DELLA SIMPATIA
Dire delle mie impressioni inglesi e francesi in quasi tre mesi di vigile e tesa attenzione a contatto con personalità rappresentative di ogni tendenza, resi fecondi dalla precedente familiarità col terreno delle mie investigazioni, sarebbe un tema esorbitante anche per un grosso volume. Dovrò quindi limitarmi a degli sguardi fugaci, e accenni frammentari ricavati dal mio taccuino e allargati da qualche commento, a costo di dare alla narrazione uno sfondo troppo personale, dalla fragile armatura della dimora in Londra di un assiduo frequentatore del « British Museum », o Biblioteca Nazionale.
Il motivo, a così dire, materiale, della mia visita a Londra, era appunto quello di lavorare ad uno studio lungamente vagheggiato, e la cui esecuzione ora s’imponeva urgentemente per gravi motivi personali: quello sull’« Etica della simpatia in Adam Smith e Schopenhauer».
In tutta buona fede, avevo creduto che la più esigente delle Commissioni e i più scettici dei funzionari avrebbero trovato rispettabilissimo il motivo « filosofico » della mia pretesa di aprirmi un varco attraverso la « muraglia cinese » della flotta
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.britannica, rompendo la «splendid isolation »dell’isola corazzata: e quando, in Parigi, mi trovai dinanzi agli ufficiali inglesi del « bureau des passeports », e mi fu intimato di esporre le « strong reasons », i gravi motivi, che mi facevano chiedere un’eccezione alla disposizione generale lì, stampata, sotto i miei occhi, non credetti di pormi in una posizione assolutamente comica, anzi ridicola, dichiarando, senza esitazione, che... andavo a lavorare nella biblioteca del British Museum... a un'opera di filosofia ingl... Uno scroscio solenne di risa, che però nulla aveva d'offensivo, che anzi esprimeva sentimenti di tenera commiserazione... accolse la mia ingenua confessione filosofica: intuii che la mia situazione era a un dipresso quella di quei pescatori di non so quale isola islandese, che pochi mesi prima, mentre attendevano placidamente al loro rispettabile mestiere di pescare merluzzi, erano stati avvertiti da un sottomarino... che in Europa era scoppiata la guerra... da più di un anno.
« And do you cali this a strong reason »? — mi domandò con la maggiore amabilità il presidente della Commissione, un rubicondo ufficiale in khaki. « È questo per voi un motivo grave »? « Yes, for me ». « Per me, sì », risposi, contentandomi, more ànglico, di porre l’enfasi su quel « per me », lasciando che essi lavorassero di fantasia a immaginare cento e uno motivi, uno più grave dell’altro, per cui la mia andata al Museo Britannico s’imponeva..., e guardandomi bene dal far loro la confidenza del titolo assai equivoco dell’opera che vagheggiavo «La simpatia in A. Smith e Schopenhauer...!» — (Mi sarei certo inteso domandare: — «Ma questo signor Schopenhauer deve essere tanto tedesco quanto uno che si chiama Smith è inglese: e che simpatia può esservi fra questi due signori...: e come potete voi simpatizzare con un tedesco e...: che intenzioni politiche celate voi in questo rappro-chement... »?).
« E come ci risulta » — mi disse infine dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante,... l'ufficiale in khaki — «che questo lavoro di... di filosofia, è per voi di così vitale interesse? ». Io trassi fuori le brave commendatizie dei miei gentili superiori scolastici: e debbo confessare che essi degnarono di uno sguardo... il bollo ufficiale: quanto alla loro assicurazione della plausibilità dei miei motivi, ecc. ahimè, il periodo elisabettiano, quando perfino nella «Torre di Londra» i prigionieri politici scrivevano versi italiani, è superato da più di tre secoli, e nelle sfere ufficiali inglesi l’italiano è tanto compreso quanto fra noi il Cinese... (i).
« Nothing else? ». « Non avete altro da mostrarci? » fu la domanda che seguì. Intuii che quella era l’ultima domanda, e che la sentenza imminente era : « Tornate a studiare filosofia sotto il vostro bel cielo d'Italia ». Per arrestare la sentenza, cominciai a sciorinare una dozzina di nomi di personalità inglesi notorie, che tutte avrebbero potuto testimoniare che per me il motivo filosofico eragraviss... « Weìl bring us a letter oi any of these friends of yours, testifying that, etc., and then we shall see »; « Va bene, portateci pure una lettera di chiunque di questi vostri amici inglesi che testifichi, ecc., e allora vedremo ».
(i) È confortante la notizia, che recentemente 300 ditte industriali, solo in Londra, hanno richiesto le autorità scolastiche municipali (della London County Council) di istituire scuole serali d’italiano. (Nota dell’A.).
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« Appressooo! » E un altro aspirante a rompere il blocco comparve innanzi a Minosse. Mi vidi perduto... La prospettiva di una diecina di giorni a Parigi in attesa di un certificato dall’Inghilterra sconcertava tutti i miei piani di lavoro. Raccolsi tutte le mie forze, e a costo di farmi cacciare via aggiunsi frettolosamente, volgendomi al rappresentante francese della Commissione: « Suppongo che la garanzia orale o scritta di una personalità notoria francese sarebbe considerata di egual valore... ‘n’est ce pas'?» «Certainement...!»si affrettò a rispondere vigorosamente quel bravo « enfant de la patrie », dandomi la sensazione che avevo colpito la nòta giusta. E quando ebbi nominato l’esimio scrittore Albert Houtin, sulla cui servizievole amicizia ero certo di poter contare, al « Bon! attrapez-le », seguito da un « Good! fetch him », del presidente, un profondo respiro sorse dal mio petto, a compensarmi dell’arresto subito per qualche secondo da questa importantissima funzione. E corsi a sprofondarmi sotto terra, nel labirinto della « métro », per « attraper» il mio salvatore...: col successo trionfante, che l’indomani, riconosciuta ampiamente, sul testimonio del mio illustre amico, la gravissima gravità del mio motivo... filosofico, ebbi l’onore di passare per cinque minuti dal banco dell'accusato a quello di giudice, e aiutare Minosse — scusabile questa volta di non comprendere il dialetto napoletano — a dare il suo verdetto sulla gravità del motivo di una brava donna, che voleva raggiungere a Glascow, coi suoi cinque bambini, dopo la morte del suo marito in Italia, il suo cognato. « She says, she is starving », fu tutta la mia perorazione: — e buon per essa che trovò un sì spedito traduttore del suo « I cca no’ pozzo campa’ » —: e con mia sorpresa, l’inesorabile Minosse che aveva riso del mio motivo filosofico, e che mi avrebbe certo sospettato di spionaggio se avessi accennato alla « simpatia » in... Smith e Schopenhauer,” mi si rivelò un inconsapevole seguace dello stesso sistema... con quel suo bonario «all right! » accompagnato dalla mimica della benevolenza,... che a me, « filosofo », era costato tante ansie e dimostrazioni.
L’incidente, uno solo dei tanti che mi occorsero, non mancava tuttavia del suo significato sintomatico: esso « mi portò in casa » — come dicono gl’inglesi — cioè mi fece toccar con mano, che se molto era cambiato nello spirito nazionale inglese e nei suoi atteggiamenti pratici, il fondo rimaneva* sempre però lo stesso: una vasta simpatìa umana.
LA RELIGIONE, LA CHIESA E LA GUERRA
Passai un paio di giorni a Parigi, ospite del mio gentile amico A. Houtin. Passeggiando la sera con lui nel « Jardin de Luxemburg », presso il famoso Pantheon, e non lungi dalla Sorbonne, dal Collège de France, dal « Jardin des Plantes » — oh quanti dolci e quanti tristi ricordi della mia dimora in Parigi sette anni prima, in una Parigi tanto mutata in tutto fuorché nella sua « âme profonde » — volli porre a profitto l'occasione unica che mi si offriva, di conoscere con sicurezza che cosa vi fosse di vero nella tanto strombazzata « rinascenza cattolica », che avrebbe avuto il suo secondo battesimo nelle trincee francesi, mentre la cattedrale di Reims, testimone del primo battesimo della Francia quindici secoli avanti, si sbriciolava sotto i cólpi della rabbia teutonica sotto gli occhi impassibili del vescovo di Roma.
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Il mio amico è, credo, la più grande autorità in materia di storia religiosa contemporanea in Francia (i): la sua risposta fu quindi da me accolta, in qualche modo, con quella disposizione d’ànimo con cui si attende il responso che deve troncare, agli effetti pratici, il dubbiò, e por fine alla sospensione.
« Ce n’est pas vrai! » — mi rispose risolutamente. « N’écoutez pas les journaux catholiques», che anche in questi tragici momenti stanno spiando le opportunità per offrire una piattaforma al « rapprochement » politico con la Santa Sede. Chi era Cattolico prima della guerra è rimasto cattolico, «quand même», durante la guerra — e resta a vedere se persevererà anche dopo: e ehi non lo era, « croyez-moi », non lo è diventato sotto il tiro dei cannoni..., o almeno, le perdite scontano, « et d’avantage » i guadagni.
« Di fronte al dilemma tragico dell'essere o non essere, la Francia, la Francia «decadente materialmente e moralmente, e putrida fino alle ossa» dei vostri giornalisti clericali, ha sentito affluire tutta la sua vecchia anima. La sua civiltà millenaria, il suo « esprit », le sue tradizioni, l'amore alla famiglia, alla patria, alla nazione, tutti gl'ideali che si accolgono sotto il collettivo « patria », contemplati, se volete, sullo sfondo à.e\Videale umanitario facilitato dall'alleanza con altre nazioni unite in un programma di libertà e di giustizia universale, hanno formato il « ressort » sotto cui il soldato francese si è rizzato, si è teso, e ha sentito che la situazione chiedeva, gl’imponeva, una sola cosa: vincere o morire. E da due anni esso sta vincendo e morendo... Questo è tutto.
« Coloro che, già prima della guerra, inquadravano questi loro ideali nazionali e umanitari in una concezione religiosa, non avranno avuto motivo di rinnegarla sotto la falce che mieteva i loro camerati: ma ciò che vi posso assicurare, si è che gli altri che si son tenuti ai motivi immediati, senza ricercarne una interpretazione remota, non sono meno dei « très bons soldats », che sanno, come gli altri, vincere e morire. La mancanza di una giustificazione trascendentale del dramma e della tragedia- di cui sono attori, non paralizza il loro slancio, nè affievolisce la loro resistenza.
■ « Questo per la religiosità in generale. Quanto poi al bilancio del Catolicismo in particolare, vi ripeto che, a parte qualche episodio sporadico, senza significato sintomatico, quelli che erano soliti di servirsi dèi «curés », nei loro rapporti con Dio, nella parrocchia del proprio paese, se ne servono ancora nella cappella improvvisata in qualche granaio: quelli che erano soliti di fare a meno d’intermediari se ne son passati anche nella trincea: e quelli che si facevano condurre nella loro vita ordinaria soltanto dalla loro coscienza, non si sono trovati all’oscuro nemmeno ora.
«Questa è la modesta realtà.
«Vittoria o sconfitta — e noi crediamo alla vittoria, di fronte all’eroismo divenuto uno stato cronico, quasi una banalità, — il merito o il danno non sarà delle Chiese, che ben poco hanno fatto per scongiurare la catastrofe, e nulla per affrontarla, che gli altri
a Forse alcuno dei miei lettori mi saprà grado di indicargli tra le molteplici opere nitin, la «Crise du Clergé» e 1’ «Histoire du Modernisme Catholique ». (Prezzo, rispettivamente, L. 3,50 e !.. 5: presso la Libreria Ed. «Bilychnis», via Crescenzio, 2, Roma).
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non abbian saputo fare egualmente se non meglio. Quella che oggi trionfa è la patria; « patriac sacrum »: o se volete, un concetto superiore del diritto e della umanità...
« Lo spettacolo dato da tutti i cleri in questa guerra fratricida, lontano an-zichenò dalla linea di combattimento, — non parlo del clero che combatte nè di alcuni individui particolari — credete voi che sia tale da preparare per dopo la guerra una larga messe di proseliti... ? In Francia, almeno, no. Anzi Vi diro: in Francia, la comunione di vita, allo stesso livello, fra il clero combattente e i loro camerati laici di tutte le condizioni sociali, ha avuto l’effetto di farsi che essi si sentissero, non più semi-dèi terreni o c'asta superiore, guida e luce di ciechi per le vie di Dio, ma sì uomini in mezzo ad altri uomini; pari ad essi nel pericolo e nei disagi, nelle sofferenze e nelle speranze. La trincea è stata una fucina, che ha fusi gli animi e li ha cementati, spogliandoli dell’involucro isolante e mettendo a nudo le vere miserie e i veri valori: e il clero ha, così, avuto il vantaggio morale di conoscere se stesso e valutarsi giustamente.
«Voi indovinate le profonde conseguenze per il clero, di questo bagno eroico di sincerità, di uguaglianza umana sotto lo sguardo assiduo della morte, di modestia di fronte al semplice eroismo di tulli. Se essi ritorneranno al loro ministero parrocchiale, torneranno altri uomini: forse più veramente cristiani, certo meno cattolici.
« Ma molti di essi non torneranno più'. Oltre la percentuale che avrà lasciato la vita nella difesa della patria e degli ideali comuni, un’altra forte percentuale avrà avuto tutto l’agio di maturare la propria crisi religiosa e morale ed anche di formare amicizie che assicureranno loro i mezzi di poter ritornare alla vita laica, sia rimanendo nell’esercito, sia in qualche occupazione nella vita civile che si aprirà loro agevolmente con tanti vuoti operati dalla terribile guerra..
« Questa è la realtà e la verità.
■ E in Italia, quali sono le vostre esperienze e le vostre previsioni a tale riguardo? ».
Lo spettacolo che il partito cattolico e l’episcopato hanno dato, prima e dopo l’entrata in guerra dell’Italia, era fortunatamente noto al mio amico, e non dovetti cimentarmi all’ardua impresa di tracciarne un quadro coerente. Mi limitai ad un cenno sul risultato in parte visibile e in parte previdibile della partecipazione del nostro clero alla guerra, sia come cappellani, sia come infermieri nell’ambulanza.
« Quanto ai primi, essi hanno fornito a molti soldati, specie ufficiali, che per l’innanzi non li avevano mai trattati, almeno da vicino, l’occasione di assicurarsi di che stoffa siano formati questi cento e più mila preti, secolari e regolari, la cui professione sarebbe di educare la popolazione a tutte le virtù, non sólo naturali, ma anche soprannaturali; l’occasione cioè di scoprire, — a parte le loro idee religiose, — la loro povertà spirituale, banalità, miseria morale, e di restarne disgustati. S’intende, che fra tanto numero, eccezioni anche luminose non sono mancate (i), e si è avuto gran cura di segnalarne il carattere eccezionale... appunto
(i) Citiamo con compiacimento l’esempio di don Annibaie Cadetti, cappellano militare, cui fu concessa dà S. M. il Re la medaglia d’oro, con la seguente motivazione: • Dal giorno in cui si presentò al reggimento, con opera attiva e intelligente, seppe in-
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con l’evidenza in cui la stampa cattolica le ha messe. Quanto agli altri..., dire che negli ospedali militari e nell’ambulanza i preti e i frati non spiccano generalmente sui loro compagni del ceto colto ed educato per doti di correttezza, dignità, laboriosità, modestia, disciplina... è dare un giudizio assai più moderato di quello che viene dato da clù ne ha l’esperienza diretta e quotidiana. In complesso, la riputazione del clero dopo la guerra non riuscirà avvantaggiata dal cimento.
« Oltreché, anche in Italia si può prevedere un fenomeno analogo a quello da lei previsto per la Francia: molti membri del clero rientreranno nella vita civile; e saranno forse i migliori. Una selezione a rovescio..., le*cui conseguenze si faranno sentire fortemente su tutta la vita della Chiesa in Italia ».
« Conclusione generale » — soggiunse il mio amico — « che la Chiesa, almeno nei paesi latini, nulla guadagnerà dalla presènte guerra: fórse perderà molto. E ora, a voi che vi dilettate di filosofia della storia, di dirci se ciò sarà un bene o un male per l’umanità... ».
Il giorno seguente partivo dalla Gare Saint-Lazare per Le Havre, e di qui attraverso una penosa « Via Crucis » di interrogatorii, perquisizioni, cambi di moneta, e sempre col passaporto in mano, dopo una lunga notte di una traversata non priva di emozioni, giungevo a Southampton, e di qui, dopo nuove traversie, salvo se non sano, alla mia seconda patria, a Londra. Sceso col mio bagaglio all’abitazione dei miei più cari amici inglesi che mi attendevano, la. mia mossa istintiva fu di mostrare a chi mi aprì la porta di casa, il mio regolare passaporto...
STATO DEGLI ANIMI IN FRANCIA E IN INGHILTERRA
« Business as usuai ». Tutto procede con la consueta regolarità! Questa fu la prima impressione che fece su me l’Inghilterra, al rivederla nel luglio scorso, dopo un’assenza di circa due anni. Sempre verdi come smeraldo gli ondulati pascoli ubertosi del Sussex, che attraversavo sul treno che da Southampton volava verso Londra: sempre solenni e morbidi gli ampi faggi e le querce secolari che proteggevano i dignitosi villaggi,.— tanti angoli di Londra, — placidi e composti in quel «silenzio dell'eternità interpretato dall’amore », che ha ispirato la lirica più romantica e più umana. E avvicinandomi alla città immènsa dagli otto milióni di abitanti, la stessa operosità industriosa che mi salutava con le sue migliaia di fumaioli, e nelle vie lo stesso « bustling trafile» la stessa animazione, e sui volti di uomini e donne la stessa impronta di un programma individuale di vita seria e operosa. Rarissimi gli
spirare in tutti i militari i più elevati sentimenti di fède, di dovere e di amor patrio, dando, anche in azioni militari, costante prova di coraggio personale e sprezzo del pericolo. In vari combattimenti, sempre primo dove più intensa infuriava la lotta, incurante dei gravi pericoli ai quali si esponeva, invitava i soldati a compiere, fino all’ultimo, il loro dovere, mostrandosi anche instancabile nel raccogliere e curare i feriti. Ben due volte riunì militari dispersi, rimasti privi di ufficiali, e, approfittando dello ascendente che aveva saputo acquistarsi tra i soldati, li riordinò e condusse all’assalto. Intimatagli dal nemico la resa, vi si rifiutò risolutamente, ordinando e dirigendo il fuoco contro le forze preponderanti dell’avversario, al quale inflisse gravi perdite. (Costa Violina, 15-17 maggio; Passo del Buole, 30 maggio 1916) ».
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«shops» chiusi o gli uffici «disorganizzati»; le società svariate di coltura, le accademie, le biblioteche, i teatri, gl’istituti, le Chiese; tutto presentava l’aspetto consueto nel periodo estivo della « season »...
Entrando il giorno seguente al mio arrivo, dì festivo, nel « Brotherhood » di Whitefield Tabernacle, e sentendo centinaia di uomini cantare, sulla stessa aria piena di decorosa mestizia nostalgica di tre anni prima, quando l’orizzonte britannico era sgombro di vapori rosseggiami, l’inno di Hosmer: « Oh bella patria mia! — Sia tua più nobil cura — Che tuo ricco commercio — E belle messi, biondeggianti, — Sia tuo orgoglio, di sollevare — L’umana dignità del povero—: Sii tu all’oppresso —-L’asilo della santa Libertà e ascoltando l’ultima strofa: « Oh, bella patria mia! — A te d’intorno innamorati ei stringiamo; — Sia a te il decoro della Libertà. — E la Maestà della Legge. — Sia tuo scettro la Rettitudine —E tuo diadema la Giustizia; E sulla tua fronte scintillante —- La gemma più fulgida sia la Pace », mi domandavo se, per avventura, l’episodio dei pescatori islandesi non si ripetesse innanzi ai miei òcchi...
Ma all’uscita dal « Brotherhood » rimirai in volto quegli uomini: non uno di loro mostrava di essere sotto i quarant’anni: la spensieratezza, la « cheerfulness », l’umorismo abituale del loro volto onesto e gioviale era velato da un’abitudine di contegnosa mestizia e di calma risolutezza.
Al « Museo Britannico », la gran sala centrale aveva pur sempre i suoi seicento tavoli occupati da circa altrettanti operai della penna, e i suoi quattro milioni di volumi erano pur sempre condannati al moto perpetuo: ma un giro nella sala, uno sguardo ai cataloghi delle pubblicazioni recenti, una scorsa alle riviste, mi fece sentire che. anche lì, come nel « Bureau des Passeports » a Parigi, mi trovavo fuori di ambiente, o quasi. Le vie erano affollate come sempre, le « queues » dei teatri erano più lunghe e impazienti del solito, i negozi di ogni genere ben forniti e frequentati come prima; ma per ogni uomo in « borghese » ve n’erano due in «khaki »; gli automobili erano in gran parte « camions »; la clientela dei teatri era formata in gran parte da militari reduci dalle trincee e dalle loro « lady-friends »; il costo degli alimenti era aumentato, secondo i generi, dal 40 al 100 per 100 e più; e quanto ai generi di « comfort » e di lusso, se i negozi erano sempre ben forniti, non lo erano egualmente le case, anche dei più benestanti, le cui rendite subiscono tasse dirette e indirette gravosissime. A poco a poco, la Londra e l'Inghilterra reale cominciò ad emergere dalla nebbia indistinta delle prime impressioni, come la macchia biancastra che si presenta prima allo sguardo dei passeggeri il cui vapore volge la prua verso terra, si delinea sempre più netta al loro approssimarsi al porto, ed essi cominciano a distinguere la fisionomia degli edifici e dei monumenti nella loro proporzione reale. Lo spirito della nazione, la sua attività, la sua tempra morale, i suoi propositi, le forze che la sorreggevano al presente e sostenevano le sue speranze per l’avvenire, mi si rivelarono quando ebbi ristabiliti i contatti coi miei amici e conoscenti, e potei rendermi conto coi miei propri occhi, nelle ore libere dal mio quotidiano lavoro, di ciò che l’Inghilterra faceva e di ciò che l’Inghilterra voleva.
Se dovessi rappresentare graficamente le condizioni e lo stato d’animo della nazione inglese comparativamente alla francese, descriverei la Francia in uno stato
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d’equilibrio morale, grazie ad una tensione che si approssima al limite massimo; e quanto alle energie materiali, vicina a quel punto critico in cui un commerciante deve prendere la decisione, se tentare uno sforzo supremo, ovvero limitare i suoi piani, restringere il suo commercio, e prepararsi, se non alla liquidazione, alla più disperata economia: e l’Inghilterra, in un equilibrio morale non mai turbato e a tensione media, che va preparandosi per una parabola ascendente a mettere in valore le energie dei propri serbatoi ora pienamente dischiusi; nell’atteggiamento dell’uomo di affari, che, ormai in possesso di tutti gli elementi che, teoricamente, assicurano il successo, e non punto scosso dalle difficoltà dell’impresa e dai parziali insuccessi, fa agire le fila che stringe nel suo pugno, e senza pretesa di raccogliere la messe prima della stagione, è sorretto dalla fede sicura nella fecondità dei suoi sforzi e nella bontà dei suoi metodi.
Non è della Francia nè dell’anima francese che qui voglio e posso occuparmi. Ma pure, come tacere delle parole tuttora risuonanti alle mie orecchie, del bravo « cordonnier » che ho rivisto alla via Limné nel « Quartier Latin », che con l’accento desolato dell'innamorato che non vuole ancora crédere alla sua mortale disillusione, mi ripeteva — imprimendo sulla suola che batteva concitatamente l’energia della sua persuasione: — «Ñon, Monsieur, ne vous y trompez-pas, no, no, nói non volevamo la guerra: bêtement, aveuglement, non abbiamo voluto vedere il pericolo che incalzava: e quando la tempèsta batteva alle nostre porte, e già sentivamo i suoi muggiti, noi, — ve lo giuro io veterano del ’70, — noi abbiamo chiuso gli occhi per non vederla e illuderci così ancora per qualche istante che erano le nostre orecchie che c’ingannavano. Vi diranno, con le statistiche del Journal Officiel alla mano, che con tutto il nostro pacifismo balordo noi abbiamo speso in preparativi alla guerra dai 45 ai 50 miliardi dopo il ’70..., qualche cosa più che la stessa Germania... Monsieur, le cifre dicono quello che si vuole che dicano, e io non m’intendo di statistiche; quello che vi posso assicurare si è che i nostri erano tributi che pagavamo alla pace, non alla guerra: che noi, il popolo, — e. Monsieur, credo di conoscerlo io, il popolo, a settanta anni, meglio di tutti i giornalisti vostri e nostri, —- noi non volevamo, non sognavamo:, non Chiedevamo a Dio che la pace... Et maintenant, c’est bien la guerre! et quelle guerre, mon Dieu! Vedete, signore? Se voi conosceste tutto questo quartiere, famiglia per famiglia, come lo conosco io, — e tutta Parigi e tutta la Francia è lo stesso, — voi direste, — que sais-je? — che da due anni... è la fèsta di tutti i morti, quando ogni persona che vedete per la strada, 0 va al cimitero o ne torna... Noi lavoriamo, mangiamo... c’è pure chi si diverte ancora..., proprio come col morto in casa,...: ma il lutto, signore, è profondo: noi non ridiamo più... ».
E alle mie orecchie risuona ancora quello che udii più recentemente in ottobre, al mio ritorno, dopo le ecatombi di Verdón...! Dirò che la forza e il coraggio della Francia confina con quello della disperazione, 0 piuttosto rievocherò il «sì dentro impetrai» del Conte Ugolino? Come togliermi dàlie orecchie la voce cavernosa di quel soldato —- di tanti soldati — Che noncuranti degli scongiuri, imploranti in ógni carrozzone, in ogni sala d’aspetto, in ogni luogo pubblico: « Taisez-vous! Méfiez-vous! »; « Tacete, diffidate! » « Oreilles ennemies vous écoutent », sfogava con me, « uomo ». — per nulla domandandosi quale fosse la nazionalità di
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uno che parlava sì stentatamente il francese, — il suo animo sanguinante: « Sì, signore, vinceremo di cèrto... Vous savez.., quando si è risoluti di morir tutti e di vendere la vita a giusto prezzo, una nazione come la Francia non può essere vinta. Solò, je me demande, chi Sarà a godere e a rallegrarsi della vittoria. Vi saranno più occhi per contemplarla e labbra per salutarla? »
« Vedete, signore » — soggiungeva uh altro — « tutti i nostri uomini fino a 45 anni sono mobilizzati... Eppure... vi dico solo; che dove prima, nei primi mesi della guerra, per ogni posizione avevamo quattro uomini da sostituire ad uno che Cadeva, ora... anche le prime file si son dovute diradare. È vero che i « boches » ne han persi assai più di noi... Nel mio drappello eravamo trenta: diciannove sono morti, e undici combattono ancora. Feriti, non ne abbiamo: cioè, pure feriti, si seguita a combattere, e si muore sul campo: chi torna è sano, quasi, oltreché salvo ». « E voi » — domandai a un giovanotto dai lineamenti distinti, che aveva il braccio sinistro quasi paralizzato, specie le dita della mano, una cicatrice visibile nella guancia destra, una ferita nella sinistra, dalla quale, come egli mi disse, non aveva potuto essere estratto il proiettile, e un'altra nella gamba destra, — « e voi, combattete ancora? » « Sì, signore » — mi rispóse con semplicità non disgiunta da un leggero accento di fierezza — «sono ancora soldato attivo, et un très-bon soldat... Oh! noi non possiamo mica permetterci tanto lusso di ricambio... ».
Un cuore straziato, un eroismo divenuto una banalità, una lede nel presente, anche più che speranza nell'avvenire, un’ostinazione sovrumana...: ecco i tratti che segnerei per i primi se dovessi tracciare la figura della Francia, quale mi è apparsa nella doppia traversata: degli scorsi mesi.
« BUSINESS AS USUAL? „
E in Inghilterra? « Business as usuai? » « Tutto come prima? » È vero cioè, come questo motto è stato interpretato, che gl’inglesi, sicuri che l’ultima parola sarà detta da chi è padrone del mare, dànno agli alleati, — senza scomporsi, e preoccupati sopratutto di non disorganizzare le loro industrie che interessano loro almeno quanto tutti i Belgi e le Serbie di questo mondo, — giusto quel tanto di aiuto di uomini, che loro avanza dopo messe al sicuro le proprie colonie, e che è necessario per fare onore ai loro impegni? Donde ha potuto germogliare così goffa e ingiusta caricatura. e diffondersi anche fra interventisti italiani?
« L’Inghilterra », si è detto, « è così lenta nei suoi movimenti, ha tardato tanto a imporre la coscrizione, ha permesso che i suoi operai tacessero tanti scioperi anche in tempo di guerra, e che i salari salissero sì alti; ha lasciato che gli anti militaristi e i pacifisti facessero il comodo loro...: dunque è fiacca ed egoista ».
Pessima conclusione. No: chi non ha compréso che in Inghilterra la stessa indipendenza nazionale è concepita come un mezzo per garantire la libertà individuale. e che sopprimere questa per difendere quella sarebbe il mostruoso paradosso del « propter vitam vivendi perdere causam »; che è essenziale al concetto inglese della libertà, che non sia lo Stato ad imporre al popolo le norme della vita nazionale, ma il popolo che offre spontaneamente allo Stato i mezzi per attuare il programma che esso gli ha tracciato; che in Inghilterra la persuasione indi-
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vidualc si alimenta liberamente alle sorgenti della pubblica opinione e delle libere attività associate, alle quali quindi è necessario lasciare tutte le opportunità di formarsi e di agire.... non potrà certo rendersi conto di quella che è la massima forza della vita pubblica inglese, con tutte le sue debolezze: non può comprendere l'Inghilterra, nè è in grado di giudicarla.
Sì: l’esercito inglese volontario è stato formato con un sistema che agli occhi degli adoratori del Dio Stato deve sembrare ridicolo. Ministri, deputati, clergymen, signore, in moto perpetuo dal principio della guerra, per persuadere i signori uomini a difendere interessi ideali e morali di altre nazioni; minatori e operai delle officine di munizioni in sciopero, per non permettere che i loro padroni facessero extra-guadagni sfruttando il patriottismo degli operai; gli oppositóri alla guerra lasciati liberi, più o meno, di ubbidire alla loro coscienza; invece di imbavagliare la stampa, per riguardo alla condotta della guerra e ai disordini nell’amministrazione militare, nella questione dell’ubbriachezza, nella distribuzione delle pensioni, ecc., il Governo è il primo a dare pubblicità a tutti gl’inconvenienti, che abbisognano, come nella questione dell’alcoolismo, del vigile controllo e della cooperazione cosciente di tutta la nazione per essere infrenati o soppressi. Ciò è vero... Ma vediamo i risultati di questi metodi.
Che cosa ha fatto l'Inghilterra per la causa comune? Cominciamo da ciò che ho visto coi miei propri occhi.
Mi si permetta di consultare, anzitutto, il mio fedele taccuino, testimone delle mie cacce faticose nell'« Underground » (ferrovia sotterranea) o negli interminabili « bus », per scovare i migliori miei amici e conoscenti. Le due Misses Gr. (figlie di un alto dignitario ecclesiastico della English Church) che mi avevano annunziato di essere occupate gratuitamente in una fàbbrica di munizioni, sono ora in Francia nell'ambulanza: non se ne sa più nulla. Miss. Cor... ha messo la sua casa a disposizione della famiglia di un medico belga, perchè possa curare una numerosa colonia vicina di Belgi occupati nelle munizioni. Miss Pe..., scrittrice di valore, (nominiamola pure, giacché Miss M. Petre è ben nota ai nostri lettori) riavutasi appena dall’esaurimento nervoso causatole dall'avere assistito sola per 40 notti consecutive, 50 feriti, molti mortali, in un ospedale di Francia, mi ha annunziato al suo passaggio per Londra, che si recava nel Wales a coadiuvare sua sorella nella direzione di un altro ospedale. Mrs Wi... Mrs. Gr..., emulando i loro figlioli volontari al fronte e i loro mariti occupati in Londra in altre forme di assistenza civile, sono a dirigere, l’una una spedizione di soccorso alle popolazioni civili belligeranti dei Balcani (prima in Serbia, e ora, mi sembra, in Epiro) l’altra un riparto di ambulanza... E potrei così continuare per parecchie pagine, senza uscire dalla lista dei miei conoscenti; E queste donne — giacché non mi occupo per ora degli uomini — sono tipiche, non di migliaia, ma di diecine e centinaia di migliaia, che o pongono le loro case a disposizione di profughi, o servono volontariamente (fra esse molte signorine di alta condizione sociale) come conduttrici di tram, o in altri servigi pubblici, cedendo alla Croce Rossa il loro salario, o si occupano nel lavoro serio, gravoso, penoso, d’infermiere negli ospedali, o in organizzazioni benefiche prendono cura materna dei figli dei richiamati, o am-
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ministrano le «cantine» dei soldati nei vasti campi di addestramento, ed altre simili svariate attività. E ciò, senza tener conto delle donne salariate, che solo nelle fabbriche di munizioni ammontano a 670.000 (contro le 45 mila in Italia), e che negli altri uffici privati e pubblici hanno universalmente sostituito gli uomini con tale successo, da mostrare, come ha riconosciuto lo stesso Primo Ministro Asquith, di essere ormai in grado di venire nei diritti politici equiparate agli uomini. Quando lasciai l’Inghilterra due anni fa, la maniera tradizionale di introdurre la conversazione o rianimarla se spenta, era qualche commento sul tempo buono 0 cattivo. Quando vi son tornato quest’anno, ho trovato che la prima domanda obbligatoria, dopo 1'« How are you? » 0 simili, era: « Che cosa fate voi; che contributo voi portate alla guerra? »
«Io faccio il maniscalco » —risponderà una gentile signorina —«e sono ora in congedo per due settimane, dopo sei mesi di lavoro nell’accampamento X ».
« Io debbo tornare domani, lunedì, alla fattoria J » — vi dirà un'altra. « Voi sapete che il nostro Club ha assunto là cura dei lavori agricoli di questa tenuta rimasta abbandonata per l’arruolamento degli uomini. Io ho avuto l'alto incarico di custodire il gregge...degli animali immondi, e mia cugina Edith attende con altre compagne alla raccolta del fieno ».
« Come? » — dirà una terza — « vorreste dire che non mi avete riconosciuta ieri quando vi passai dinanzi in costume da chauffeuse, guidando un « camion » di munizioni? Ma la prossima settimana cambio mestiere, sapete? Vado a raggiungere mia sorella Mary, che, come sapete, ha organizzato un corpo di « stret-cher bearers » (« portatrici di feriti »: solo gl'inglesi hanno donne volontarie per tale ufficio) in Francia ».
E quelle che così parlano— perchè così fanno, e più ancora,—portano i più bei nomi dell’aristocrazia inglese, sono figlie di ricchi industriali; sono studentesse di università; sono fiori di gentilezza, fanciulle, le cui occupazioni più faticose erano state, prima della guerra, partite di golf, di hockey, di tennis, e al più cacce alla volpe...
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INGHILTERRA DI OGGI.
L’INGHILTERRA E LA GUERRA
\he cosa ha fallo e che cosa fa V Inghilterra per la causa comune? In due parole: allo scoppio dell’ostilità, nella Gran Bretagna esistevano soltanto tre officine per la fabbrica di munizioni appartenenti allo Stato, e cinque o sei officine private di munizioni e armamenti. Fino a tutto il maggio 1915, l’Inghilterra fabbri-, cava solo un centesimo degli esplosivi prodotti contemporaneamente in Germania. Un libro si richiederebbe per descrivere
I con quali sforzi di iniziativa, di tenacia, di organizzazione, si
operò quello che ai profani deve sembrare un prodigio, di creare in poco più di un anno ben 4000 fabbriche, che impiegano più di due milioni fra operai e operaie (contro un milione circa in quelle francesi e nelle italiane), sotto la direzione di 5 mila ingegneri e ispettori. Il risultato di tale creazione si è, che in un tempo minore di un mese la produzione di munizioni leggere supera quella dell’intiero anno 1915, e che in meno di quindici giorni si producono più pezzi per l’artiglieria pesante che in tutto lo stesso anno. Contemporaneamente, la produzione di fucili e di cannoni è aumentata di dieci, venti, cinquanta volte, secondo i calibri, e quella di bombe sale a centinaia di migliaia la settimana.
I processi necessari per istruire e allenare in pochi mesi nell'industria uomini e donne a tutt’altro intenti, le difficoltà dovute superare per improvvisare queste città del lavoro (ad es., il dipartimento delle « cantine » provvede, a prezzo di costo, cento mila pasti al giorno), procurare il metallo, impiantare stabilimenti chimici proporzionati in cui lavorano altri 300 mila operai, aprire nuove vie, costruire nuovi treni, nuovi mercati, nuovi dicasteri, applicare le nuove invenzioni, ecc„ formano, anche su carta, una tal cosa sbalorditiva, da costringere lo spettatore a rifugiarsi nell’entimema: « Tutto ciò esiste: dunque è stato possibile ».
Ma altra cosa è aver veduto anche solo un saggio del lavorio febbrile. Ricordo la mia visita, in un pomeriggio di domenica, all'arsenale di Woolwich — non lungi dal famoso osservatorio di Greenwich. — Scoccavano le due pomeridiane: era l’ora dell’entrata al lavoro. Quale spettacolo! Da ogni via, da ogni vicolo, da ogni casa pullulavano uomini, operai, e in tanti rigagnoli confluivano nell’arteria principale, che -sboccava, a corso continuo, nel monumentale ingresso dell’arsenale. Un vero fiume umano di circa 60 mila uomini...
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Un’altra officina sorta, lungi da Londra, in soli due mesi, copre un’area di quasi cento ettari, ed ha una ferrovia interna, pel trasporto del materiale dall’uno all’altro riparto, lunga circa 18 chilometri.
E queste officine sono» ripeto, quattro mila. E per ottenere il personale tecnico necessario, ‘si è dovuto imporre a circa 50 mila operai arruolatisi volontari, di lasciare l’armata per le officine, e proibire a molti altri l’esodo. E avendo anche dei loro compagni minatori quasi 300 mila abbandonato la piccozza e gli alti salari (quei tali degli scioperi contro l’ingordigia dei padroni) per il fucile e la non seducente prospettiva, si è dovuto proibire l’arruolamento dei minatori.
« Non vi vergognate di dire queste sciocchezze? » — si sentì dire un mio autorevole amico, intervenuto in uno sciopero recente di minatori, mentre faceva appello al loro patriottismo; — « Voi sapete benissimo che noi tutti ci eravamo offerti come volontari, rinunziando non solo ai nostri salari, ma alle nostre famiglie e alla nostra vita: ma per la libertà e per la giustizia, non per impinguare le tasche dei proprietari delle miniere con esorbitanti .extra-profitti. È appunto lo spirito che ci fa combattere i Tedeschi fuori di casa nostra che c’impone di resistere a quelli che abbiamo in casa ».
E a che giova il lavoro febbrile di questi milioni di operai del carbone e dell’acciaio? « Noi forniamo » — risponde Lloyd George, ministro delle munizioni — (1) «acciaio, carbone, esplosivi alla Francia, e munizioni di guerra agli altri Alleati ».
Lo stesso ministro diceva nello scorso luglio: « Più d’w« milione di uomini consacrano le loro energie a costruire nuove unità navali, a riparare le vecchie, ad armarle, a equipaggiarle ». E un capo cantiere della zòna del Clyde: « Ciò che nei nostri cantieri si fece nei primi mesi della guerra dovrebbe essere eternato. I nostri operai lavoravano ogni giorno dalle sei del mattino alle nove della sera, anche la domenica, fino a che non cadevano spossati dalla fatica, troppo stanchi per riuscire a prender sonno o a gustare cibo, e bevendo appena qualche cosa per poter tirare innanzi ».
In conclusione, i 3.500.000 operai, di cui quasi un quinto donne, che sono occupati nelle industrie della guerra, sono ben altro che dei parassiti della guerra come un nostro giornale diffamatore li ha rappresentati.
Per dare un solo esempio, il risultato di questo lavoro febbrile nei cantieri è stato che, non ostante le perdite inevitabili di una flotta che, anziché starsene al riparo nei suoi porti è sempre ed ovunque in moto, esposta alle insidie dei sottomarini, delle mine e delle sorprese, Balfour ha potuto annunziare nel marzo di quest’anno: « La flotta inglese è ben più potente che essa non fosse quando scoppiò la guerra (eccetto in incrociatori armati). In tutte le categorie di navi, eccetto questa, essa ha avuto un aumento notevolissimo, che non ha subito e non subisce alcun arresto ». E il generale Wood, poco più d’un anno dopo il principio della guerra, asseriva di già che l’Inghilterra ha costruito più (navi da guerra. «Dreadnoughts» e sottomarini, che non ne possieda tutta [la flotta degli Stati
(i) Ora Primo Ministro (v. sopra). (Nota dell* A.).
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Uniti Al presente, essa si è accresciuta di un tonnellaggio uguale a quello dell’intiera flotta tedesca, ed ha aggiunto quattordici « Dreadnoughts » alle venti che aveva allo scoppiare della guerra.
«Ma che cosa ha fatto questa formidabile flotta?» — si domandano tanti, che atteggiano le labbra ad un sorriso scettico, seppure non sarcastico, ad ogni notizia di siluramento di vapori inglesi, e non sanno segnare all’attivo se non quello che è strombazzabile e strombazzato dai loro giornali?
Lunga dovrebbe essere la risposta se mi proponessi di convincere questi scettici. Mi contenterò di estrarre dai dati ufficiali di Lord Fisher e dal discorso di Asquith alcuni elementi di fatto:
La flotta inglese ha spazzato via dà tutti i mari la flotta tedesca, affondando o catturando parecchie centinaia di navi da guerra e mercantili della Germania e dei suoi alleati e paralizzando così tutto il commercio tedesco fuorché nel Baltico: ha difeso efficacemente da ogni possibilità di sbarco nemico le coste della Gran Bretagna e della Francia, e trasportato ingentissime truppe, munizioni, ccc.. dalle sue colonie in Europa, e dall’Inghilterra in Francia, Egitto, Macedonia, Dardanelli.
Ha reso possibile e relativamente sicuro l’approvvigionamento e l’importazione delle mercanzie necessarie agli Alleati non meno che all’Inghilterra. (Quelli che ghignano ad ogni nave mercantile inglese o alleata silurata, dovrebbero pensare che ogni settimana più di quattro mila navi mercantili lasciano o toccano i porti della sola Gran Bretagna...). E contemporaneamente, con una vigilanza continua, «silenziosa, poco appariscente e assai discreta», ha arrestato compieta-mente il commercio dei nemici, « uno degli elementi più importanti per il successo finale della guerra », controllando insieme il commercio dei neutri col nemico, e intercettando copioso materiale di contrabbando.
Ha inoltre concorso con gli alleati in tutte le operazioni navali che han fatto perdere alla Germania un territorio sei volte più vasto che quello occupato in Europa dalle potenze centrali (più di 914 mila miglia quadrate, contro circa 165 mila): e infine, — a dirla in due parole, — ha dimostrato la sua superiorità sulla flotta nemica ogni volta che questa ha osato di abbandonare la sua base di Heligoland, nella quale la costringe a stare vergognosamente intanata.
Non è con entusiasmo che mi sono indugiato e che vado ancora ad intrattenermi del contributo che l’Inghilterra reca alla guerra. So bene che ogni obice, ogni cannone, ogni nuova unità della flotta significano dolori, strazi, carneficina del « notre prochain l’ennemi », e i miei sentimenti riguardo alla guerra sono abbastanza noti: ma quello che io intendo di porre in evidenza e di esaltare, nell’ad-ditare quel che l’Inghilterra sta facendo, sono appunto le qualità e le virtù, la tempra della nazione ed il suo carattere, formati in tempo di pace alla fucina della libertà individuale, della responsabilità e della dignità personale, dell’idealismo umanitario. Intendo di mostrare, che le virtù che nobilitano \’uomo in tempo di pace sono il miglior corredo pel cittadino in pace ed in guerra: e rispondere alla domanda che io stesso mi ero fatta al principio della guerra, e a cui tanti non sanno ancora dare una risposta: Esiste un sostituto efficace al despotismo
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prussiano? Non è l’educazione al senso di sincerità, di onestà, di giustizia, di umanità un fattore di decadenza delle nazioni?
Ecco perchè continuo ancora nell’analisi, e mentre parlo dei valori morali dispiegati dall’Inghilterra in guerra ma conquistati faticosamente nella pace, penso e mi domando se questi ed altri esempi, e le stesse nostre attuali esperienze, non siano tali da suggerire confronti e applicazioni utilizzabili quando la pace tornerà.
EGOISMO INGLESE?
L’Inghilterra è egoistica: essa sfrulla la guerra, si sente dire anche da alcuni, che se sono in parte scusati dalla loro ignoranza di non conoscere l’altruismo inglese, non sono però punto scusabili d’ignorare il proprio egoismo, in pace ed in guerra.
Sinceramente, io questo mostro dell’« egoismo inglese » l’ho cercato invano in questi mesi d'indagini spassionate. A meno che non si voglia imputare ad egoismo all’Inghilterra la risposta che le industrie inglesi, pur duramente provate, stanno dando, col personale di cui possono disporre, alla domanda anche di manufatti che loro viene volta urgentemente dalla Russia, dalla Francia, dal Belgio e dagli alleati: a meno che non le si rimproveri di evitare il fallimento delle sue industrie, il che importerebbe non solo l’essiccamento della sorgente a cui gli alleati attingono, e dei fondi che sopperiscono alle innumerevoli miserie delle popolazioni civili di molti fra essi, ma causerebbe la perdita del suo credito, e quindi la catastrofe finanziaria degli alleati e la vittoria della Germania: a meno che non si vogliano rimproverare gli armatori inglesi per,l’aumento dei noli, effetto naturale di leggi economiche, specie della diminuzione e dèlia requisizione della marina mercantile, e pari a quello degli armatori neutri e alleati — (anche, e per le merci importate in Italia, sopratutto. Italiani) — del quale aumento i primi a soffrire sono i consumatori inglesi..., non so davvero su che cosa quest’accusa si fondi.
Me lo son domandato nel visitare l’Alexandra Palace (il palazzo di cristallo nel nord di Londra) coi suoi migliaia di profughi belgi, piccola frazione del gran numero ospitato dallo Stato e dalla cordiale beneficenza privata: me lo son domandato piò volte, perso nel labirinto delle innumerevoli organizzazioni di soccorso, por ogni genere, specie, varietà, sott’ordini e gruppo, di miserie, di bisogni, di dolori: per i Serbi, per i Polacchi, per i Montenegrini, per i Belgi, per gli Armeni; e Comitati per riedificare i paesi distrutti nel Belgio e nel nord della Francia; e spedizioni di soccorso per gli affamati di tutti i paesi; e Comitato degli agricoltori per spedire Semenza ai loro fratelli i cui campi furono fecondati dal sangue inglese e francese; e Croce Blue per l’assistenza dei cavalli dell’esercito francese e italiano; e corpo di ambulanza organizzato da G. Macaulay Trevelyan (il famoso autore della Vita di Garibaldi, e grande amico dell’Italia) per l’assistenza dei nostri feriti sul nostro fronte; e Croce Rossa su tutti i fronti, con diecine di migliaia di dame che hanno prodigato tesori di bontà, di coraggio, di abnegazione, oltreché di oro...: — e potrei allungare questa lista indefinitamente; e poi aggiungere quella della beneficenza pei neutrali e pei nemici (Comitati per l’assistenza delle mogli e dei figli dei civili « nemici » concentrati nei campi; Comitati per visitare, confortare, alleviare la vita di
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questi prigionieri; Comitati per la visita e l’assistenza dei prigionieri di guerra; Comitati per la protezione e soccorso di neutri, specie donne, e di alleati, costretti per l’una o l’altra ragione, a rimanere in Inghilterra, ove si trovavano allo scoppiar della guerra; ecc. ecc.). Me lo son domandato, nel seguire l’ammontare delle pubbliche sottoscrizioni a fondo perduto, per sollevare le miserie e i dolori causati dalla guerra, sia ai loro connazionali che agli alleati, delle quali ecco alcune cifre: Cento milioni per la Croce rossa e Ambulanza; centocinquanta milioni (fondo del Principe di Galles) per le famiglie dei militari; trenta milioni per il soccorso dei Belgi; parecchi milioni per la Serbia. E poi, sottoscrizioni pei Polacchi, per i prigionieri francesi, pei feriti russi, pei feriti italiani (quella « Pro Patria » a cui l’Inghilterra ha contribuito per circa un milione), sottoscrizione per bisogni di vario genere degli alleati, aperta dal Daily Telegraph, e che ha fruttato parecchi milioni... Ai primi di novembre, ben 400 nuove istituzioni caritatevoli hanno chiesto, solo in Londra, il riconoscimento legale. C. E. Prince calcola a circa un miliardo le somme erogate dalla beneficenza privata, dal principio della guerra. E questo, senza nulla dire della beneficenza che non si manifesta in sottoscrizioni nè in Comitati, ma che va diritta dalla mano che offre a quella che chiede, e della quale sono stato tante volte spettatore commosso e anche tramite... .
Me lo son domandato, in queste e molte altre occasioni, al sentirmi domandare, o al leggere su giornali che pur si permettono il lusso di « corrispondenti particolari » da Londra: « E perchè mai l’Inghilterra non si desta e non fa anch’essa qualche cosai » « Perchè l’Inghilterra non fa il suo dovere? »
E mi sono domandato ancora: Come è possibile perdere fino a questo punto il senso, non dico del pudore, ma pur quello del ridicolo? (1).
« Ma » — dirà qualcuno; anzi, molti hanno già detto: — « E i grassi guadagni inglesi, dove me li mettete? ».
Ecco: cercheremo di metterli... dove si trovano. Non potrebbero star meglio.
Esaminiamo un poco sommariamente il bilancio della .Gran Bretagna, sulla guida di un mio amico, grande commerciante di Londra, che ebbe la compiacenza di porre sotto i miei occhi tutte le cifre, « up-to-date ».
« Anzitutto » — egli mi disse — « non vi domando se siete forte in matematica, ma se siete ricco d’immaginativa, per «realizzare» il valore e il significato delle cifre che vi sottopongo.
La Gran Bretagna da sola, — senza computare, naturalmente, i suoi Domini, e le sue Colonie, —• spende, come sapete, ogni giorno, per la guerra (senza tener conto delle somme erogate dalla beneficenza privata) 5 milioni di sterline. (E sapete che la sterlina equivale al presente a trenta, e più, lire italiane). Ora, sentite bene. Il 31 di marzo di quest’anno, il suo debito pubblico era salito alla cifra di due miliardi
(1) Recentemente, il Primo Ministro I loyd George ha annunziato il proposito di estendere la nazionalizzazione ai trasporti marittimi, alle miniere di carbone, ed anche alla mano d’opera, se l’offerta volontaria di questa non sarà sufficiente pei bisogni delle industrie belliche: nonché di prendere tutti i provvedimenti radicali per uscire dall’attuale ■ dead-lock » (partita indecisa). (Nota dell’A.).
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LONDRA - Palazzo del Parlamento.
OXFORD - Un angolo della città medioevale.
OXFORD - Una parte della Biblioteca dell' Univenità.%-^,,
[I9I6-XI Xll|
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Oxford - New College.
«ira
OXFORD - Salone della Facoltà Teologica.
OXFORD - Il monumento dei mattili.
OXFORD - Magdalen College.
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e cento quaranta milioni di sterline: pari, col presente cambio, a più di 64 miliardi di lire. Avete compreso? Ora un altro passo. Il 23 maggio di questo stesso anno il Parlamento inglese ha accordato al Governo un altro credito, per l’anno finanziario 1916-17, dell’ammontare di due miliardi e trecento ottantadue milioni di sterline, pari a quasi settantadue miliardi di lire.
Sicché alla fine di quest’anno finanziario, il Governo potrà avere speso — con tutte le economie che è riuscito ad introdurre dal principio della guerra, — una somma eguale a circa centolrentasei miliardi dijire. « Colossale! » direbbero i tedeschi. « Terrificante! » aggiungiam noi: e voi sapete quale sia la mia penosa idea fissa, che cioè con la decima parte di questa somma, noi avremmo potuto, in tempo di pace, sopprimere l'ignoranza in tutta la nazione, e trasformarla in un Eden... Ma bando alle riflessioni inutili... Seguitemi ancora un poco, Questa enorme somma non è servita nè servirà solo ai bisogni militari dell’armata, della flotta, dell’aviazione inglese: non piccola frazione di essa è servita ad alimentare la guerra degli alleati, siasotto forma di prestiti che essi non avrebbero potuto conchiudere direttamente, almeno a condizioni sì vantaggiose, sia sotto forma di « anticipi » — « advances », fu appunto il termine delicatamente usato dal Primo Ministro, che potrà bene equivalere, per gli alleati più poveri, a un prestito... a fondo perduto. Nel mese di marzo di quest’anno 1916 tali prestiti ed anticipi eran saliti alla somma, in lire italiane, di dieci miliardi: ai quali bisogna aggiungere la somma di altri tredici miliardi e mezzo prevista, per lo stesso scopo, per l’anno finanziario 1916-17: in tutto ventitré miliardi di prestiti e « anticipi ».
Per affrontare bilanci sì colossali, sbalorditivi, l’Inghilterra non ha imitato la Germania che va addossando sui disgraziati posteri —• o sui vinti come essa s'illude, 0 almeno s’illuse — l’intiero pagamento della sua mostruosa follia. L’Inghilterra è ricorsa coraggiosamente, per prima cosa, ad un aumento proporzionato di tasse dirette e indirette, per impedire che i profitti di guerra andassero ad impinguare i padri e ad immiserire i figli, e che coloro che per la nazione non versano il loro sangue restassero solo spettatori della tragedia.
La tassa di ricchezza mobile è stata raddoppiata, ed estesa anche alla parte della classe operaia che si avvantaggia delle presenti condizioni dell’industria. Le altre imposte dirette sono state elevate fino al 25-40 per 100: e la tassa sui profitti di guerra, fino ài 60 %. Le tasse indirette sono pure tutte aumentate. Conseguenza di queste imposte straordinarie è stato, che il bilancio delle entrate è aumentato nell'anno 1915-16 di 5 miliardi e più di lire, raggiungendo così la cifra di più di dieci miliardi, lasciando un deficit — per il solo anno finanziario 1915-16 —- di circa 37 miliardi di lire, colmato con prestiti che la nazione si è affrettata a sottoscrivere. Vedete, dunque, conchiuse il mio interlocutore, che anche finanziariamente « we are doing our bit », facciamo la nostra parte di dovere nel servizio della causa comune ».
Che cosa aggiungerò io all’eloquente linguaggio delle cifre? Solo una domanda agli ossessionati dai « grassi guadagni inglesi »; anzi due.
La prima: Poiché l’Inghilterra ha solo potuto mantenere quel credito che le ha permesso gli enormi prestiti, e ricavare le entrate straordinarie, mantenendo in
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piena efficienza le sue industrie: e poiché solo con questi prestiti ed entrate ha potuto far fronte all’enorme costo di mantenere attiva e di accrescere la più grande flotta del mondo, e di creare in pochi mesi e mantenere e munizionare un'armata di parecchi milioni, nonché di sussidiare i suoi alleati..., a che cosa mirano, e di che si lamentano i critici dei grassi guadagni? Evidentemente di nuli'altro, che del contributo troppo ingente portato dall’Inghilterra alla causa degli alleati...
La seconda domanda: Come può rimproverarsi all’Inghilterra bisognosa di carbone e di munizioni per sé e per gli alleati, di avere adottato con i suoi operai il sistema più redditivo del lavoro a cottimo, adottato anche dall’Italia a da altri Stati, con la conseguenza inevitabile degli alti salari? Ha forse l’Italia, fin dal principio della guerra, aumentato le tasse nella proporzione che ha usato l’Inghilterra, specie per riguardo ai profitti straordinari dovuti direttamente o indirèttamente allo stato di guerra (armatori, fornitori, commercianti, ecc.)?
E chiudo queste osservazioni con tre giudizi: uno di un nemico, uno di un ncu frale e uno di un alleato.
« In Inghilterra •> — scriveva il Vorwarts nello scorso novembre alludendo appunto ai metodi inglesi di finanziamento della guerra — «si domandano e si fanno sacrifizi reali ».
E il New York Times, alcuni mesi or sono: « Il mondo non aveva mai visto una simile dimostrazione di solidità di ricchezza, nè forse una tale mostra di qualità morali » (« Such an exhibition of character »).
E il nostro Einaudi, esaminando i diversi prestiti contratti dalle nazioni belligeranti, e misurando lo sforzo finanziario fatto da ognuno, calcolato sulla rispettiva potenzialità economica, trovava che l’Inghilterra avrebbe sottoscritto in ragione del 9,25 % delle sue ricchezze nazionali, la Germania in ragione del 7,10 %, la Francia del 6 % e l’Italia del 5 %.
Evidentemente la forinola dell’« egoismo » è pietosamente insufficiente a spiegare tutto... anche nel paese classico dell’egoismo.
ESERCITO VOLONTARIO INGLESE
Non fa meraviglia che il generale Von Bernhardi scrivesse nel 1914. poco prima della guerra, che egli dubitava assai che la Gran Bretagna riuscirebbe nella « prossima guerra » a inviare in Francia un corpo di spedizione, quando esistono ancora in Italia dei professionisti, delle persone intelligenti, dei politicanti, che dopo più di due anni di guerra si domandano ancora se veramente l'Inghilterra... abbia un esercito.
Solo poche settimane prima della mia visita all’Inghilterra, dopoché il Re Giorgio aveva, nel suo messaggio del 25 maggio alla nazione, espresso la sua soddisfazione « per il magnifico patriottismo e l’abnegazione mostrata dal paese fornendo il contributo volontario di 5.041.000 uomini all’esercito, dal principio dèlia guerra, sforzo mai sorpassato da alcun altro popolo...», un professionista di alta intelligènza mi esprimeva il suo dubbio, che l’esercito inglese avesse di già effettivamente raggiunto il milione: e alla mia osservazione, che almeno non doveva dubitare della cifra uffi-
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ciale delle perdite, che già nel 9 dicembre 1915 era stata di 528.227 uomini — ciò che supponeva almeno il triplo di combattenti, — egli esprimeva il luminoso dubbio che... la cifra ufficiale fosse esagerata... Come se il Primo Ministro inglese non fosse che uno « scugnizzo » napoletano, e l’intiera nazione inglese una congrega di turlupinati o turlupinatori... Povero Times, che pubblica ogni giorno la lista completa delle « casuali ics »... Bastài vi sarebbe da sorridere, se non vi fosse da rattristarsi della incoscienza con cui si calunniano i nostri migliori amici...
La prima impressione che ogni conoscitore di Londra riceve nel rivederla in questo periodo di guerra è data, come dissi, dall’enorme numero di soldati che s’incontrano dapertutto. Soldati in congedo; soldati accasermati nei dintorni o nei parchi, «clubs». « workhouses», palazzi storici trasformati, che subiscono il loro periodo d’istruzione; soldati che giungono feriti dalle stazioni di Victoria o Charing Cross in una fila interminabile di automobili-ambulanza, acclamati e salutati da un’immensa folla che riempie le vie adiacenti; soldati convalescenti, intrattenuti a gara dall’aristocrazia, da società, da «clubs»; soldati scozzesi, «highlanders» nel loro tipico costume; soldati australiani, canadesi, nuova zelandesi, indiani, africani -splendidi tipi di giovani quei canadesi e australiani, con quell’aroma di freschezza che aleggia sul loro volto, e lo sguardo di una selvatichezza urbana, di una freschezza primitiva, spontanea, sana, robusta; — ognuno col suo distintivo, sperduti anch’cssi in quella immensa metropoli, pur tra fratelli, (quante volte di giorno e di notte ho dovuto io rimetterne qualcuno sulla buona strada, o fornir loro indicazioni topografiche!)...: e poi, soldati non ancora in divisa, in attesa che la loro domanda di arruolamento sia soddisfatta ( gli «attested men » che portano un bracciale); e gli «star-red men » impiegati in servizi di guerra...
« Ma quanti sono questi vostri soldati? » — domandai un giorno a Miss. Douglas, coltissima e nobile dama signora scozzese di elevatissimi sentimenti, ora impiegata in un delicato ufficio al Ministero della Guerra. « Sapete? C’è in Italia chi dubita ancora che essi siano un milione... Per bacco! Ne ho visti oggi io per le vie di Londra quasi un milione! »
« Quanti sono? Ma tulli gli uomini a cui è stato permesso di arruolarsi » — mi rispose semplicemente. « Voi sapete che, non considerando il milione circa di truppe coloniali, piu di quattro milioni di cittadini della Gran Bretagna si erano già arruolati volontariamente nel maggio di quest’anno, prima che il servizio obbligatorio adottato solo in quel mese, fosse applicato. Tutti gli abili dai 18 ai 41 anni in una popolazione di circa 40 milioni (non computando l’Irlanda) si sono arruolati.
Ma allora, mi direte, perchè tante discussioni e tanto calore, da una parte per imporre e dall’altra per resistere, alla coscrizione obbligatoria? Ecco: chi voleva la coscrizione obbligatoria era mosso da un alto senso di giustizia e di dignità nazionale. Il solo pensiero che tra gl’inglesi potessero esservi degli « shirkers », dei vili che restassero in casa a impinguarsi coi salari a cui avevano rinunziato i loro fratelli al fronte, e a godere la sicurezza comprata dagli altri col proprio sangue — voi sapete che qui non alludo ai « conscientious objectors », agli antimilitaristi per convinzione di coscienza, che hanno mostrato coi fatti di non esser nè vili nè egoisti, — produceva nei volontari un senso di disgusto, di indi-
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gnazione, di disprezzo, che finiva per svigorire il loro ardore patriottico e offuscare la grandezza e la santità della causa per cui combattevano. Ho inteso dire che ncU’esercito di qualche Stato alleato serpeggia un malcontento simile, a causa di quelli che essi chiamano « imboscati », o con altri simili qualificativi. Ebbene, per snidare appunto questi «imboscati» noi abbiamo voluto la coscrizione obbligatoria. Ma quale è stato il risultato? Quasi soltanto di mostrare ai «volontari» che la loro giusta e santa indignazione trovava una debole giustificazione nei fatti. Dei trecento mila in età da servizio militare, — non appartenenti ai « conscientious objectors » — che non avevano « attested », la maggior parte erano in condizioni fisiche da non potere esser meglio utilizzati dalla nazione che restando a fare un lavoro proficuo non militare; un'altra parte coprivano posizioni, nell'industria o altrimenti, tali, che solo per un senso di dovere verso il pubblico bene non avevano disertato il loro posto; altri erano stati trattenuti da ragioni transitorie e avevan solo differito di rispondere all’appello...: insomma, i veri « imboscati », i vili, erano, si è visto, solo poche migliaia...: e non son certa che l’esercito abbia fatto, con essi, un grande acquisto, nè materiale, nè morale. Ma almeno il malcontento è cessato, e chi combatte e muore sa di morire per una patria in cui ogni uomo e ogni donna compie tutto il suo dovere.
Da ciò che vi ho detto comprenderete le ragioni dell’opposizione degli anti-coscrizionisti. Contaminare per il vantaggio di poche migliaia di uomini il vanto unico nella storia di tutte le nazioni, di avere un esercito di cinque milioni di volontari... quando abbiamo dovuto ricusare i servigi di ben due milioni di connazionali. che il Governo ha ritenuto (gli atti al servizio) più necessari per le miniere, le ferrovie, le munizioni,.. Era un passare da una magnifica poesia alla prosa ». « Ma pure » — interruppi io — « l’opposizione è stata fatta anche in nome della democrazia. Voi ricorderete le ultime parole, quasi, di Benjamin Kidd, e, per citarne solo una, la forte lettera di J. K. Jerome, con cui denunziavano la coscrizione militare obbligatoria come l'istituzione che ha prodotto e incarnato il Prussianismo, e che non potrà non mortificare, anche in Inghilterra, lo spirito democratico della nazione... ».
«Sì, sì» — soggiunse animatamente la mia interlocutrice — « sì, certo! Voi sapete i miei sentimenti, socialistici ancor più che democratici... So bene! gli operai hanno visto nel movimento coscrizionista una manovra di politica interna per introdurre un regime di reazione, spezzare le loro « trade unions », strappare loro le libertà conquistare con secoli di lotta. E ciò spiega — giustifica anzi — l’opposizione quasi generale degli operai, non alla presente guerra, tutt’altro! ma alla coscrizione obbligatoria. E non solo gli operai: in tutte le classi sociali l’opposizione, in massima, è stata fortissima. Opposizione, ripeto, solo di principio... Ma non vedete voi in questa stessa gelosa difesa della loro libertà, della loro dignità, in quegli stessi scioperi di cui la Germania ha creduto di potersi rallegrare... non vedete voi il pegno sicuro della nostra vittoria? Uomini che sanno resistere, anche in vista del nemico, anche dopo avere offerto volontariamente la loro vita per la patria, ad ogni tentativo di « prussianismo » interno — sia pure mal’inteso —... credete voi che questi uomini arrenderanno le loro preziose libertà, l’anima loro, ai conculcatori delle pie-
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cole nazionalità, ai siluratóri del Lusitania, ài bombardato™ di città indifese, agli adoratori della forza...? State sicuro,che se domani, per impossibile, partissero, dalla « White Hall » voci di pace... esse dovrebbero fare i conti anzitutto con gli operai inglesi... In Germania, voi potete immaginare benissimo che il Governo da un giorno all’altro riesca ad imporre alla nazione la pace, appunto perchè da un giorno all’altro ha potuto imporre alla nazione la guerra. Invece in Inghilterra, il Governo dovrebbe attendere che la nazione si fosse persuasa che la sua volontà è stata eseguita: appunto come ha dovuto attendere che la nazione gli fornisse, a proporzione che si andava persuadendo della giustizia e della santità della causa, i milioni di uomini e i miliardi di sterline per la guerra,... senza dei quali l'intimazione del Ministero e del Parlamento sarebbe restata lettera morta. E siate pur sicuro, che un popolo che accetta la coscrizione solo quando... è persuaso che essa arriva a cose fatte, e tuttavia non senza borbottare, questo popolo saprà riprendersi, domani, tutta la sua libertà,... e qualche altra cosa ancora. Voi sapete che attraverso gli spiragli lasciati liberi dalla fosca visione di sangue, noi vediamo già un'altra visione, quella della nazionalizzazione dei servizi pubblici, delle miniere, della terra... insonnia, del collettivismo di Stato...». « Miss Douglas» — interruppi io che volevo sfruttare piuttosto le sue relazioni col mondo aristocratico e la sua qualità di funzionarla al Ministero della Guerra, che le sue simpatie socialistiche: — « nella vostra parentela, nel cerchio delle vostre conoscenze., sono molti gli arruolati nell’esercito? »
« Molti? Ma se vi ho detto tutti? Tulli gli uomini sono andati'. nell’armata, nella flotta, nell’aviazione...: e gl’inabili per età o per condizioni fìsiche, e le donne che possono disporre del loro tempo, tutti e tutte servono la Patria in un modo o nell'altro... Capite lutti? L’Inghilterra, da un capo all’altro, è tutta un grande arsenale, un gran campo di manovre, un grande ospedale, un grande ospizio, un grande laboratorio... Tulti sono andati] ».
Óra Miss Douglas era eccitata, trasfigurata in un orgoglio più che nazionale, •« Uomini di età superiore a quella ammessa pei diversi servizi hanno simulato una età minore; malati, anziché denunziare i loro mali, hanno ostentato una salute e un vigore che non avevano: alcuni giovani trattenuti dallo spiegabile, se non giustificabile, egoismo delle madri, si sono calati dalla finestra e son corsi a presentarsi...; funzionari delle colonie trattenuti nel loro servizio da ostinati rifiuti di congedo, hanno disertato il loro posto, e sono corsi — è il caso di mio cugino — a indossare il « khaki »... « All have gone! » « Tutti, tutti, sono andati! » Tra i miei soli parenti — eccovene la lista — sono una quarantina. E lo stesso tra i parenti dei miei amici, tra i miei fornitori, domestici, e impiegati e commessi a me noti... Tutti sono andati, e tutti volontari. Comprendete questa paróla: volontari? Volontari, significa uomini, individualità, non strumenti: significa coscienze, che nelle trincee e sotto il fuoco nemico, all’assalto o nella ritirata, feriti nell’ospedale o negli spasimi dell’agonia sul campo in cui caddero, portano dentro di sè la voce più potente di ogni talismano, lo sprone più eccitatore di cento mitragliatrici alle spalle. « Sono io che do la mia vita per una causa nobile e santa: sono io che la do, perchè è Dio che lo vuole... Volontari significa..., che se la Germania può vincere le battaglie, l’Inghilterra vincerà la guerra ».
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Miss Douglas avrebbe ancora continuato a parlare tutta la sera... Ma la sapevo affaticata dai suo arduo lavoro giornaliero, e non volli abusare. La pregai di- procurarmi un’intervista con qualche funzionario del Ministero degli Esteri per ottenere informazioni più particolari sulla condotta della guerra.
Nel dipartirmi, essa ebbe una reminiscenza: « Anche ad Oxford e a Cambrigde, lutti sono andati...'. A Cambridge, del famoso « Trinity College » coi suoi 700 studenti, ne sono rimasti solo 70 invalidi. E quanto ad Oxford..,, andate, andate ad Oxford, a vedere che cosa i suoi trenta « Colleges » sono diventati... andate, andate... ».
Andati Nell’atto di lasciare le mie « rooms » per partire, ricevo un telegramma di Miss Douglas...: «My dear boy, my youngest nephew P. is gone... I am proud of him...» « Il mio caro ragazzo, il più giovane dei miei nipoti se n'è andato... Io ne sono orgogliosa ». Era caduto in un attacco della Somme..:. (1).
OXFORD e CAMBRIDGE
Parto dalla stazione di Saint Pancras, e in meno di due ore sonò ad Oxford.
Qui mi si permetta di estrarre qualche pagina dalla lettera che scrissi il giorno appresso alla mia sorella Filomena: «... Ti ricordi della visita che facemmo insieme, io per la seconda volta, al principio del giugno 1914, ad Oxford, di ritorno dal nostro pellegrinaggio a Stratford on-Avon, la patria di Shakespeare? Ricordi l’impressione solenne che ricevesti da questa « città medioevale dello studio », che forma con Cambridge un’istituzione unica nel suo genere, senza riscontro nelle altre nazioni moderne: coi suoi trenta «Colleges» universitari^ tutti monumentali, tutti consacrati dà secoli di gloriosa Storia, tutti orgogliosi dei più bei nomi che vanti l’Inghilterra, nomi di loro antichi alunni: dalle sue grandiose biblioteche, dai suoi istituti, dalle sue « Halls », dalle sue chiese, dalle famose cappelle universitarie, dai vasti prati e parchi annessi ai diversi « colleges ». baciati dalle placide acque del Thames. dell’Isis, del Cherwell?
Ricordi che vita, che animazione, che soffio di gioventù si agitava sui vasti prati, tempestati di giuochi di palle, di tutti i generi e dai mille nomi, o scorreva più placidamente, quasi idillicamente, sulle centinaia di canotti che popolavano le acque argentine sullo sfondo romantico di quelle rive rese malinconiche dallo sguardo austero delle torri e degli edifici medioevali che le dominano?
Ricordi? Erano i giorni in cui, terminato lo « Spring Terni » e chiusi i corsi, gli allievi dei «Colleges» si licenziavano dai loro «Head-masters, Tutore», ed altri
(1) Mentre correggo le bozze, ricevo da Miss Douglas una lettera, da cui stralcio il seguente periodo: ■ Da quindici giorni, sto compiendo il pietoso ufficio di informare le donne della sorte dei loro uomini combattenti... Sono pièna di ammirazione per il loro coraggio. Una povera donna che ha tutti e cinque i sugi figli al fronte, all’udire che il più giovane di tutti, e il suo prediletto, era stato ucciso, mi disse: "Se anche lutti dovessero restarmi uccisi, non vorrei per questo che cambiassero posto’’-.
(Nota delfA.).
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superiori, c con una gagliarda stretta di inano ai loro « fellow-students », ai loro compagni, e con un sonoro « good-bye: to see you again » « Addio, arrivederci » ritornavano alle loro famiglie, alle loro «country-houses», alle loro attività geniali. Ricordi, di quanti «arrivederci» fummo noi testimoni, quando di «College» in «College » ci recavamo in pellegrinaggio a visitare quei santuarii dello spirito della vecchia Inghilterra, preservato con un senso sì geloso e nostalgico in quella città medioevale sopra vissuta?
« Perchè questa rievocazione di ricòrdi » —- mi domanderai?
Solo per dirti, che quella Oxford non esiste più. Gli edifici, i « Colleges », le « Halles », i prati, le rive verdeggianti, son lì... son lì in attesa...: ma la cornice è senza quadro; le ampie sale non echeggiano più, i prati non risuonano di gioventù, le biblioteche sono deserte, le rive squallide..., le vie deserte.
In questi giorni di riapertura dei corsi, invano Oxford aspetta, madre desolata, i suoi figli che l’avevan lasciata due anni prima con un « arrivederci ». Invano! il loro era un « addio », e « addio per sempre ».
Quei giovani che avevamo visti e uditi e ammirati nella loro corretta giovialità e modesta baldanza, due mési dopo, allo squillare della tromba bellica, rispondevano in massa aU'appello. Più di otto mila — e i loro nomi riempiono un volume che ho avuto in mano e scorso commosso — fra attuali studenti e «fellows», alunni, ripetitori, lettori, conferenzieri, professori e cappellani, sono corsi ad arruolarsi pei primi, e il loro sangue è corso come acqua sui campi cruenti d’Ypres, di Mons, di la Bassée. a Suvla, in Egitto, in Mesopotamia, ai Dardanelli, dovunque..., oltre quelli occupati in ogni sorta di lavori e di uffici militari.
I « Colleges » sarebbero letteralmente deserti, se non fosse per qualche centinaio di giovanetti non ancora in età da servizio militare, e di inabili per difetti fisici, e più ancora, per la pietà di un buon numero di stranieri, specie Americani degli Stati Uniti che usufruiscono delle borse di studio di Cedi Rhodes, e di qualche dozzina di signorine.
Per darti un’idea, i «Colleges» di «Christ Church » e «New College», hanno dato rispettivamente all’armata 900 e 800 alunni circa, quelli di Magdalen. Ballici. Trinity, University, Keble, Oriel, Brasenose, circa 700, 550, 510. 450, 425, 413, 400, e così di seguito: l’Hertford College si reputa fortunato di avere, ancora quasi una ventina di studenti, invece dei suoi 160; l’Oriel College è privilegiato di accogliere le signorine « cacciate via » dal loro vasto Somerville trasformato in Ospedale; dalle « Examination Schools », in High Street, sentii partire un odore di disinfettanti, che faceva tacere quello delle lilla e biancospini, avvertendomi della sua nuova destinazione; il grandioso « Queen College » non è confortato delle sue perdite con neppur un nuovo alunno, ed altri « Colleges » debbono contentarsi di uno o due.
Ti ricordi del vasto prato verde nel monumentale « New College », rotto qua e là da quercie ampie secolari, ai cui piedi giacciono ombreggiati sedili, su uno dei quali ci sedemmo per riposarci del lungo pellegrinaggio? Ti rammenti che, comunicandoci le nostre impressioni e riflessioni, e domandandomi tu se tutti quei prati
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c parchi e fiumi non invitassero gli studenti più efficacemente al divertimento e al dolce far nulla, che le austere aule e i « sombre >» « quadrangles » non li invitassero al raccoglimento e allo studio, io ti risposi che ad Oxford e Cambridge, l’aristocrazia e la ricca borghesia inglese viene per acquistare anzitutto il contatto con il passato della nazione, poi la conoscenza dello spirito dell’Inghilterra presente e l’educazione del carattere, ed infine per orientarsi per la scélta di quei rami di coltura e di quelle professioni, al cui studio consacrerà poi tutta la vita, proprio al contrario di ciò che avviene tra noi?
Ebbene, quei verdi prati sì festanti di letizia, sono al presente coperti di tende piene di feriti... Anche il « New College » ha pagato e paga il suo pieno tributo: i suoi figli hanno imparato fra le sue mura non solo a vivere, ma anche a morire... Oh, se dovessi dirti la desolazione dei vecchi superiori e professori di quei ragazzi... Perchè ogni giorno il bollettino dei morti, feriti, dispersi, allunga non solo la « lista dell’onore », — « roll of honour », — ma anche quella del dolore.
Anche per Cambridge ho potuto avere le statistiche: la mortalità è stata spaventosa fra i suoi circa dodicimila volontari— (gli «agregésao «fellows» che superano l’età. si sono offerti per servizi di Stato).-Mentre l’ordinaria proporzione dei morti ai feriti è di uno a otto o a nove, tra gli studenti di Cambridge, per mille feriti vi sono circa ottocento morti e un centinaio di «dispersi »...
Ho letto con emozione lettere e versi scritti da alcuni di questi giovani « morituri »/monumenti di nobiltà d’animo, di altezza di sentimenti. Ho letto nella «lista dell’onore » i nomi dei giovani più promettenti: fra essi notai il nipote ed erede del famoso ministro Gladstone, il figlio di Lord Selborne e del Vescovo di Winchester... A proposito dell’aristocrazia e del clero, vuoi sapere? Nel primo anno della guerra erano già caduti 47 figli primogeniti, e quindi eredi, di « Pari d'Inghilterra »: di figli di ecclesiastici ne son morti a migliaia, compresi otto figli di vescovi: e quanto ai «curates», o parroci, diceva testé il Vescovo di Londra in un «meeting» ad Hyde Park:- « Se non fossimo noi a trattenerli per la falda dell’abito, ci scapperebbero tutti via... ».
L’epistola è stata abbastanza lunga per aggiungervi una citazione: ma me ne sarai grata quando l’avrai letta. È tolta da un opuscolo del famoso ellenista Gilbert Murray, professore appunto ad Oxford: « I poemi romanzeschi e melodrammatici erano un tempo reminiscenze, frammenti rivissuti di epoche eroiche del passato. Oggi noi non viviamo più di frammenti e di ricordi: noi stessi facciamo parte di un’età eroica. Quanto a me, io sono sempre ossessionato dal pensiero, che altri uomini stanno morendo per me; uomini migliori di me, più giovani, le cui vite erano piene di speranze, molti dei quali ho io istruito ed amato... La comunità in cui noi viviamo, con tutte le sue piccole ire, odi e rancori, è pur sempre una communità di fratelli se ognuno è pronto a firmare la sua fratellanza col sangue. Giacché è per noi — per i vecchi, per le donne, per gl’inabili — che questi giovani muoiono; e per preservare quella civiltà e quella vita comune che noi manteniamo in vita, o che fabbrichiamo...».
Quanto a me, altro è il pensiero che mi ossessiona alla vista di tante immolazioni di bella gioventù in tutte le nazioni: quello che Thackeray esprime nello
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Henry Esmond con queste parole: « Il difficile non è morire per una fede: tutti gli uomini di tutte le nazioni lo sanno fare... Il difficile è saper vivere per essa... ».
Oh, quanto è difficile! Eppure, son quelli che restano che dovranno rigenerare l’Europa e il mondo.
L’IMPERO INGLESE E LE COLONIE
Un invito premuroso del « Foreign Office » (Ministero degli Esteri), pochi giorni S prima di abbandonare Londra, mi poneva, in un pomeriggio verso la fine di settembre, in presenza di un gentilissimo e colto funzionario nella persona di Mr. R.
Lo trovai perfettamente e minutamente informato delle condizioni della pubblica opinione e della stampa in Italia riguardo all’Inghilterra: c le migliaia di giornali che riempivano con perfetta classificazione le caselle degli ampli scaffali, e piò ancora la menzione che mi fece di pubblicisti é uomini politici italiani con cui aveva conferito, mi diedero spiegazione del fatto. Egli si pose cortesemente a mia disposizione per tutte le informazioni, i dati statistici, la letteratura che potesse interessarmi: ed a lui sono obbligato per buona parte del materiale utilizzato in queste pagine.
« Noi non eravamo preparati allo scoppiare della guerra » — egli mi disse rispondendo alla mia domanda d'informazioni particolari sulle forze militari inglesi — « una nazione non può trovarsi preparata, a meno che, come la Germania, non abbia voluta la guerra: e noi eravamo i meno preparati, appunto perchè meno la volevamo. La nostra armata si componeva ai primi di agosto 1914, di 233.000 uomini della milizia attiva, 203.000 della riserva, oltre a 263.000 della territoriale e le truppe indiane. Il primo corpo di spedizione al di là del canale sembra sia stato di circa 160.000 uomini: gli eroi della ritirata di Mons, che aiutarono validamente i francesi a ostacolare l'avanzata tedesca su Parigi e cooperarono con essi alla vittoria della Marne. Al primo appello di Lord Kitchener per 100 mila uomini, rispose in pochi giorni, —- voi lo ricordate, — un numero esuberante: bisognò proporzionare le reclute ai quadri esistenti, alle munizioni, a tutta l’organizzazione, e così, solo lentamente, nel maggio 1915 potemmo avere un esercito volontario di un milione, che però alla fine dello stesso anno era divenuto già di tre milioni. Le perdite, naturalmente, erano cresciute in proporzione, anzi oltre la proporzione, fornendo una prova dell’abnegazione e del valore dei nostri soldati; esse sommavano già nel gennaio 1916 a 550 mila uomini, di cui più di due terzi in Francia.
Intanto le colonie, i protettorati, i domini dell'impero inviavano spontaneamente i loro volontari. Settanta mila Indiani sbarcati a Marsiglia già nel secondo mese della guerra, contribuirono efficacemente col loro valore, specie a Neuve Cha-pelle, in quel periodo criticissimo, a salvare la civiltà europea. Nel mese di giugno di quest’anno, il loro numero era salito a 300 mila combattenti, su tutti i fronti. Essi hanno così tributato l’omaggio più eloquente alla giustizia, all’umanità, alla tolleranza del Governo inglese.
Il Canada ha già inviato ed equipaggiato a sue spese più di 300 mila uomini, e vuole arrivare al mezzo milione: l'Australia e la Nuova Zelanda hanno reclutato ed equipaggiato completamente, e spedito da 12.000 miglia di distanza, circa 400.000
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uomini: e le altre colonie in proporzione. E questo, per non parlare che dell’aiuto di truppe, che, come vedete, ammonta di già a ciica un milione. Al presente, senza tener conto delle truppe coloniali, la sola Gran Bretagna ha fornito, dal principio della guerra, più di 4 milioni di volontari, ai quali bisognerà aggiungere il contingente limitato ottenuto con la coscrizione obbligatoria. Altri 203 milioni non attendono che il permesso del Governo per arruolarsi anch’essi: ma la loro opera nelle miniere, nelle fabbriche di munizioni ed in altri servizi pubblici è troppo preziosa per la causa comune, per poterli contentare.
« Ma se è così, dove sono questi uomini? » —- domandano con un’aria di quasi incredulità alcuni, anche dei vostri connazionali, che forse si troverebbero imbarazzati se si domandasse loro quale sia il quantitativo delle truppe italiane in Albania, a Salonicco, in Tripolitania.
Dove sono? Sarebbe più facile dire dove non sono.
Approssimativamente, in Fiandra ed in Francia dove le forze inglesi occupavano al principio di luglio circa no chilometri, dal nord d’Ypres alla Somme, operano un milione e mezzo circa di uomini: l’esercito che veglia e combatte alla difesa del Canale di Suez è anche ingente, — forse mezzo milione di uomini — e il nostro contributo all’armata di Salonicco è forte e in aumento. Aggiungete l'esercito della Mesopotamia, quello che guarda le vaste frontiere dell’india, contro possibili attacchi di tribù di confine, le truppe di presidio nelle varie colonie non autonome, quelle che combattono, in cooperazione con le truppe boere, per la conquista dell’ultima colonia tedesca nell’Africa Orientale, (370 mila miglia quadrate), e che presidiano le colonie tolte alla Germania, dell’Africa Occidentale, della New Guinea, del Togoland, Cameroon, Samoa, ecc. (più di 850 mila miglia quadrate): e non dimenticate le perdite subite, la milizia territoriale da cui neppure la nostra flotta poderosa ci dispensa, le copiose riserve che si stanno addestrando,... e il contingente assorbito dalla nostra flotta, e dalla polizia dei mari, sopratutto del Canale... Come vedete anche noi facciamo la nostra parte, come la fanno piena, e di fronte a difficoltà senza pari, i nostri valorosi alleati Italiani ».
« Ella ha accennato » — soggiunsi io — «al contributo dato dalle colonie alla causa dell'Inghilterra e degli Alleati, oltre a quello delle truppe inviate. Vuole dirmene qualche cosa...: e anche dello spirito e del significato morale di questo intervento? »
« Assai volentieri ve ne darò appena un cenno, rinviandovi per più ampia informazione agli opuscoli che vi pregherò di gradire.
Il presente conflitto sarà ricordato per sempre nella storia dell’impero Britannico, come quello in cui l'impero « ritrovò se stesso », e divenne in realtà, come lo è di nome, il « Regno Unito ». Dopo questa guerra,. — come ha detto Bonar Law, -i rapporti tra la Madre Patria e i suoi grandi domini non potranno più essere quelli di prima: e i nostri nemici che dicevano, e forse credevano, che lo scoppio della guerra sarebbe stato il segnale della rovina dell’impero Britannico si sono grossamente ingannati. Non fu l'amore di avventure che sospinse tutti questi popoli all’impresa, e neppure solò il sentimento che si trattava della potenza, del prestigio e dell'esistenza stessa dell’impero, ma la persuasione che in questa lotta erano in giuoco i principi stessi di libertà, di giustizia, di equità, su cui l’impero Britannico poggia.
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Voi mi domandate particolari del loro contributo all’èpica lotta. Se voi vi trovavate qui nei primi mesi della guerra, avrete assistito allo spettacolo commovente, quasi di pietà filiale, della gara delle figlie lontane nell’inviare alla madre in bisogno il loro tributo di devozione e di affetto.
Eccovi qui alcune cifre, appena un saggio di quello che formerà un giorno il libro d’oro dell’impero: lascio a voi i commenti.
Alla fine dell’anno scórso, il Canada aveva già dato complessivamente in danaro per scopi diversi (Croce Rossa Canadese ed Inglese, Soccorso del Belgio, ecc. ecc.) circa ioo milioni: di più, milioni di sacelli di farina, avena, patate, ecc.: due milioni di chili di formaggio, 25 mila casse di salmone, ecc. ecc.
Inoltre, mezzo milione fu offerto per un « Ospizio Canadese » in Francia, quasi due milioni furono donati dalle donne del Canadà pure per ospedali; ed altri ospedali, fra cui quello Anglo-Russo furono fondati o largamente sussidiati da tondi canadesi. Notate anche le più di 320 officine che fabbricano munizioni per l'Inghilterra, occupando cento mila operài.
Passando sopra alla piccola, ma pur generosa colonia del Newfoundland (Terranuova), vediamo che cosa ha fatto e fa l’Australia, questa piccola nazione di 5 milioni di nomini, sparsa su di uri vasto continente.
Il primo suo atto di generosità fu un dono di tre milioni al Belgio « in riconoscenza degli eroici servizi resi al genere umano... >•_ Benché i suoi 300 mila volontari — splendidi campióni di uomini e di soldati, come potete aver visto voi stesso — abbiano tutti sagrifìcato lauti salari e stipendi altissimi, la loro nazione non ha voluto essere vinta dai suoi figli in generosità, ed assegna per ogni soldato un «iWwm di sei scellini giornalieri pari, al presente, a circa nove lire: venendo così a spendere in soli salari circa un miliardo all’anno, oltre le pensioni alle vedove e agli orfani, cori munifica generosità. Nulla vi dirò delle epiche gesta delle truppe australiane e nuova zelandesi a Gallipoli, consacrate negli annali dell’eroismo, col nome di Anzac (dell'Australia e Nuova Zelanda, dell’Armata, Corpi). Vi dirò solo che la cifra delle contribuzioni dei suoi Stati ai diversi fondi nei primi 15 mesi della guerra, era di già quasi 150 milióni di lire: a cui bisogna aggiungere 13 milioni largiti dal piccolo Stato della Nuova Zelanda (1 milione di uomini), al fondo di soccorso per il Belgio, Serbia, Montenegro, ecc., oltre a quantità di generi commestibili, di divise militari, ecc., e perfino di giocattoli per i bambini belgi.
E dovrei parlarvi della munifica generosità dell’india e dell’isola di Ceylon (menzionerò solo, di qu^st’ultima, 50 milioni di chili di tea per le truppe) delle colonie del Sud-Africa, dell’india Occidentale, e delle altre colonie e protettorati...: ma voi avete abbastanza, oltre alla vostra propria esperienza, per giudicare dei rapporti che intercedono fra la Metropoli e le sue colonie... « A friend in need, a friend indeed »; nell'ora della prova le nostre colonie si sono rivelate quello che sono: non sudditi, ma amici.
Una riflessione soltanto, che forse vi è sfuggita, permettetemi di aggiungere allo schizzo coloniale che vi ho fatto. L’Inghilterra avrebbe potuto facilmente utilizzare in Europa un contingente di 2 o 3 cento mila uomini di razzò africana, presi dai suoi « protettorati » dell’Africa. Essa non lo ha fatto. Ciò è contrario alle
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sue tradizioni. A nemici « bianchi » essa si fa un dovere di cavalleria di razza di opporre uomini « bianchi ». Credete voi che se la Germania fosse stata padrona dei mari avrebbe avuto siffatti scrupoli? E permettetemi ancora un augurio, che son certo deve riuscirvi gradito: che come la guerra ha sancito e corroborato i rapporti fra l’Inghilterra e le sue colonie, così essa giovi a rafforzare e intensificare la secolare amicizia fra essa e l’Italia: scopo al quale tutti gli amici dell’Italia e dell’Inghilterra debbono coordinare i loro sforzi in un periodo, in cui l’avversario è così vigilante e operoso per seminare diffidenze, malintesi, discordie. « Tutto com prendere per tutto amare », ha detto Guyau. E gli amici hanno più di ogni altro il dovere di comprendersi per compatirsi, stimarsi ed amarsi ».
E con una cordiale stretta di mano Mr. R. mi restituiva alle mie riflessioni ed al «fog» (la fitta nebbia di alcune giornate di autunno e d’inverno) che imperversava.
GLI ZEPPELINS: BATTAGLIA NOTTURNA
Quella sera stessa m'incontrai con un amico inglese: « Questa notte avremo una visita degli Zeps, sapete? —(«Zeps», naturalmente, significa Zeppclins, come « bus » significa « omnibus », « Anzac » significa... tutto quello che sapete, ecc. ecc.. Quanto ad aferesi, apocopi e sincopi, gl’inglesi sono insuperabili, geniali..; È il genio stesso della lingua che presiede all’operazione chirurgica...).
« E da che lo deducete, se è lecito? » « Well! Anzitutto è sabato: e sapete che è questo il giorno prediletto per questa sorte di tenerezze tedesche... torse in omaggio al carattere idillico del « Sabato nel villaggio P consacrato all’intimità domestica. Poi c’è il « fog », e naturalmente, quando si vola a tremila metri e sotto c’è il « fog », si ha la quasi impunità per ogni delitto... E poi... Non vedete come sono nervosi questa sera i « search-lights » che solcano il cielo di Londra e ricercano ogni angolo dell’orizzonte;? ».
Infatti, quella sera i riflettori erano irrequieti, sospettosi, in moto perpetuo... Specie il nord-est sembrava cagionar loro speciali inquietudini... Il mio amico mi fece una descrizione vivissima dell'ultimo raid che colpì alcuni dei punti più centrali di Londra. Passavamo per « Queen’s Square », ove è situato 1’« Ospedale Italiano », e nei cui pressi è la « Italian Benevolent Society », il « British Museum », l’abitazione dei miei più cari amici inglesi e la mia.
« Vedete questo punto del giardino in mezzo alla piazza? » — • mi disse indicandomi un angolo del grande giardino chiuso da cancellata, sul tipo di tutte le grandi piazze, « Squares », del quartiere di Bloomsbury in cui eravamo — « Qui cadde una bomba, trenta metri appena dall’ospedale italiano. Che cosa sarebbe accaduto se fosse piombata sull’ospedale stesso? Si può facilmente dedurre dalle vittime che il solo « shock » produsse fra i malati, e dal fatto che dove le scheggio giunsero, forarono il muro. Tutte le case d’intorno, per un raggio di un centinaio di metri, ebbero i vetri fracassati.. »
« E che cosa vi sarebbe da fare » — domandai io — «se questa notte gli Zeps venissero a visitarci? »
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« Nulla! » — rispose — « Noi, nulla ! Londra è circondata da una rete di batterie antiaeree, che formano come un muro di fuoco proteggitore. I nostri valorosi areoplani sono sempre in guardia... Ma non è sempre possibile d’impedire a quei mostruosi cetacei aerei di forzare.il blocco con una rapida incursione,... salvo a far loro pagare caro il fio della loro disumana e vile crudeltà. Quanto a noi, inermi cittadini, non v’è alcun riparo: rifugiarsi nelle cantine sarebbe il peggiore espediente, perchè la bomba di uno Zeps trapassa in un guizzo tutti i piani, e fa crollare, almeno, tutto l’interno e i muri divisionali della casa. Anzi, vi consiglierei, nel caso di una battaglia notturna, di salire a godervi lo spettacolo su di una terrazza...: lì sareste relativamente sicuro. Almeno, nel caso, cadreste sopra alle macerie anziché sotto... ».
Andai a riposare: sognai Zeps... e gli Zeps vennero davvero: cioè, si avvicinarono, ma non riuscirono a forzare il muro di fuoco. Per un quarto d’ora mi trovai in mezzo ad un campo di battaglia. La città era immersa nel buio perfetto, riempito da un inseguirsi terrificante di colpi di cannone, e dal fischiare stridente, secco, metallico, dei proiettili che fendevano l’aria sui nostri capi, quasi più pericolosi delle stesse bombe. I « search-lights » avevano attenagliato, su verso il nord-est, coi loro raggi implacabili, uno Zeps più audace che si era avanzato a cinque miglia da Londra — eppure, su nel cielo, sembrava sì vicino — e non se lo lasciavano sfuggire. Il cetaceo si dibatteva e guizzava, come se il rampone avesse penetrato le sue carni, e cercava di ascondersi nelle immensità dello spazio, ma invano; la luce lo perseguitava spietatamente, come un rimorso implacabile della coscienza, come l’occhio di un giudice divino... mentre la sentenza di morte incombeva terribile su di esso.
Ad un tratto, tutta Londra, per bocca dei milioni di spettatori che da ogni terrazza, da ogni finestra volta a nord-est, ’seguivano trepidanti l’esito della lotta, mandò un grido di raccapriccio. Una luce immensa aveva riempito il cielo: per alcuni istanti un meriggio luminoso ruppe le tenebre. Lucifero, colpito a morte, diede un guizzo terribile, e si precipitò come una folgore, nella notte e nella morte sempiterna. Fu una scena da «Paradiso Perduto». Gli spettatori, esterrefatti, rimasero per alcuni istanti muti: poi, altri discesero, e notte buia com’era, si diressero a piedi verso la località — distante dieci e più miglia — ove giaceva l’ammasso informe, irriconoscibile, di ciò che restava del superbo mosfro incenerito, e altri rimasero tutta la notte a commentare l’accaduto dietro le notizie che a mano a mano giungevano... ».
Due giorni dopo leggevo sui giornali il resoconto ufficiale tedesco del raid «... officine di munizioni distrutte, la fortezza di Londra (ma quale, se non ve ne sono?) colpita... ». E dopo alcuni giorni una lettera da un amico d’Italia mi diceva delle sue preoccupazioni sulla mia sorte...
Giovanni Pioli
(La fine al prossimo numero, col e. IH: L'Inghilterra di domani).
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INTERMEZZO
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LA PECORA PERDUTA.
(Vangelo di Luca, XV. 1-7).
i pubblicani e i peccatori s’accostavano a lui per udirlo; e i Farisei e gli scribi ne mormoravano e dicevano: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro. Allora egli disse que
sta similitudine: Chi è colui tra voi, che, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le altre novantanove nel deserto e non va dietro alla perduta finche la trovi? E quando l’ha trovata, se la mette sulle spalle tutto allegro; e giunto a casa, chiama assieme gli amici e i vicini, e dice loro: Rallegratevi meco perchè ho trovato la mia pecora ch’era perduta. Io vi dico che così vi sarà in cielo più allegrezza per un solo peccatore che
si ravvede, che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di ravvedimento.
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LA PECORA PERDUTA
[I916-X1-X1I]
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PER £G/LT/RÀ DELL'ÀNIMA
IL PREZZO DEL SANGUE "
Berrò io il sangue di questi uomini, che hanno arrischialo la loro vita?
IL Samuele 23, 17Di quale castigo sarà stimalo meritevole chi avrà prò]anato il sangue del Patio?
Ebrei io, 29.
otto il temporale di ferro e di fuoco il cui tuono rumoreggia notte e giorno, il cielo freme, simile ad una coppa di bronzo e la vibrazione cupa si propaga, a poco a poco, sino all'ultimo casolare dell’ultimo villaggio. Non è a stupirsi che anche la vostra chiesa trasalga per questo gemito universale. Essa fa il conto, qui, dei posti vuoti, essa cerca coloro che mancano all'appellò: Ruggero Allier, Carlo Sempell, scomparsi; Luigi Pairault, Federico Zirnmer, Renato Tautain, Pietro Pélerin,
Ruggero Lauth, Enrico Gounelle...morii.
Enrico Gonnelle, presidente della vostra « Associazione cristiana », figlio del pastore di questa congregazione, apparteneva un po’ a tutte le famiglie della parrocchia. Egli è caduto, fulminato, in piena battaglia, nella regione di Verdun, il 21 giugno. È stato citato all’ordine del giorno con questa motivazione: « Molto coraggioso e molto ardito, dava sempre l’esempio ai suoi uomini ». Pochi giorni prima della sua fine aveva scritto queste righe serene, che costituiscono il suo testamento spirituale: « Riguardo ai soldati, si è parlato molto di sacrificio. Non mi piace molto quel pensiero, a meno che non si prenda la parola strettamente nel senso antico; consacrato a. Ma nel concetto moderno di questo termine, v’è un’idea di perdita; e questo non è il caso: abbiamo qui tutto da guadagnare, nulla da perdere, se l’anima nostra s’ingrandisce e si purifica. La bellezza della vita
(•) Discorso pronunziato a Parigi l’n luglio 1915.
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vai più della vita stessa». Parola raggiante! ispirata dallo Spirito Santo, scaturita dalla medesima fonte d’onde emanava il grido sublime del vecchio salmista: « Eterno! la tua grazia vai più della vita ».
Ah! se questa guerra atroce ed augusta, odiosa e profetica deve affrettare la venuta del Figliuol dell’uomo, e il suo ingresso trionfale nella città futura, è a migliaia che i giovani, i nostri eroi, i nostri scomparsi si accalcheranno a lui incontro « con delle palme ». Non avranno bisognò di strapparle dagli alberi della strada: ne hanno fatto una provvista abbondante.
Uno di essi, tornando al fronte dopo una ferita, scriveva: « Ancora una volta, ho lasciato tutto... Guardo in avanti. E Colui che è davanti è abbastanza grande perchè non lo si perda di vista» (i). È stato ucciso il 9 giugno.
Un altro mandava questo messaggio supremo ai piccoli Esploratori parigini che aveva comandati: « S’ei cade, dovete sapere che il vostro diletto capo attraverserà l’ombra e la valle della morte con la pace pili completa dell’anima e con la mano in quella del suo Salvatore. Do ad ognuno di voi la mia benedizione. Non è senza emozione che chiudo questa lettera, mentre il cannone mi ricorda la grave realtà delle cose. Ma sono fiducioso e fermo» (2). È stato ucciso il 16 giugno.
E non credete che i loro amici che sopravvivono si scoraggino. Piangono, ma senza deliqui. Uno dei più esposti formulava il suo sentimento in questi termini: « Non invano i più grandi d’infra noi muoiono a vent’anni ». Se le vite che il Padre ha maggiormente lavorate e forgiate per la sua grande Opera cadono sulla strada del Dovere, ciò non è forse avvenuto al solo Giusto e al solo Santo Gesù? »
Ascoltate ancora queste parole d’uno dei nostri più giovani coscritti: « Bisogna guardare al di sopra dei mezzi impiegati e contemplare arditamente l'avvenire, l’umanità che ci succederà. Solo chi ha intorno a sé un vasto orizzonte può vedere tutto ciò che questa guerra ha di grande. Ci si batte per preparare un mondo in cui non ci si batterà più! Questo è il pensiero che mi riempie d’entusiasmo e di gioia. La guerra sta per fallire, una volta per sempre! Val la pena di dar la vita, in senso proprio o figurato, per una simile idea ».
Ecco lo stato d'animo dei nostri giovani, o, per lo meno, della parte più eletta d’infra loro; ma è il livello di questa che segna il massimo della piena d’acqua. Ogni collettività si eleva, sempre, sino alla linea suprema raggiunta dai suoi rappresentanti i più compiuti. E questo pensiero stimola notevolmente lo sforzo personale dell’individuo per tendere del continuo verso la perfezione, poiché lavorando su sé stesso, ei lavora a profitto dell’intera umanità.
Questa è dunque la mentalità degli ultimi contingenti chiamati alle armi. Salve, gioventù radiosa, in cui le anime suonavano come campane di cristallo: in un cielo primaverile...
0 Dio, Dio mio! bisogna dunque che i nostri teneri figli ci siano strappati per essere, raggianti di candore e d’entusiasmo, dati in pasto all’orrendo Mino(1) Giorgio Groll.
(2) Maurizio Lauga.
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tauro, al Moloc stupido ed infame della guerra? Abbiamo il diritto di maledire Satana. I nostri anatemi sono « un profumo piacevole davanti all’eterno »...
Ma ricuperiamo una grave e soprannaturale serenità sedendo noi stessi ai piedi dei nostri figliuoli, progenie delle nostre viscere e progenie dell’anima nostra, i quali con tanta chiaroveggenza, tanta fermezza, tanta fede hanno in anticipo ripetuta la parola del solo Maestro che si possa davvero servire, sino all’ultimo, senza disonore: « Nessuno mi toglie la vita, io la dono ».
♦ ♦ ♦
Oggi a. noi s’impone una domanda: Che faremo noi del sangue di quei giovani? Accetteremo noi ch’esso abbia scorso invano? Ricordate il gesto generoso del re Davide, in guerra. ¡Torturato dalla sete, egli aveva formulato il desiderio illusorio di bere ad una fonte reputata per la sua freschezza; tre soldati si arrischiano vicino alle trincee nemiche e portano al capo la preziosa bevanda. Allora questi, costernato al pensiero che quegli ardimentosi avevano arrischiato la vita pel suo benessere personale, sparse l'acqua a terra esclamando: « Berrò io il sangue di quegli uomini? » Alla nostra volta temiamo di stimare a vii prezzo i sacrifici della nostra gioventù. Non diamo l’impressione di considerare pagate le sue pene pel solo fatto che il suo eroismo al fronte ci permetterebbe di continuare, al sicuro, il solito andazzo della nostra esistenza.
Negli Stati Uniti d’America, dopo la spaventevole guerra che, per la questione dèlia schiavitù, aveva tenuto per quasi quattro anni gli uni contro gli altri armati gli Stati del Nord e gli Stati del Sud, il presidente Lincoln si espresse, in un’ immensa assemblea, in questi memorabili termini: « Prendiamo la risoluzione solenne che tanti morti non saranno caduti inutilmente »,
Vincoliamoci con un simile giuramento!
Non là pietà domandano i nostri giovani Crociati. E, d’altronde, l’invidiamo troppo per compiangerli; sì, noi li invidiamo per aver assaporato l’inestimabile privilegio di conferire un senso alla loro morte. Non sono periti loro malgrado, come quei malati recalcitranti che si dibattono contro l’inevitabile, che maledicono la loro prossima fine e che si spengono di morte violenta sopra un letto di piume. No, no; i nostri volontari del sacrificio non sono caduti nella morte, sono saliti verso di essa, come si conquista una vetta. E la nostra esistenza ci apparirebbe, per contrasto, sbiadita, se non potessimo, anche noi, comunicando alla nostra esistenza un alto, un divino significato, assicurare alla stessa nostra morte, compimento d’una simile vita, l’aureola dell’ideale — allo stesso modo di certi fiori stinti, pallidi come un lenzuolo, i quali pure, quando si annaffi la radice con un liquido adatto, si arricchiscono dei più caldi colori.
In ricordo di tutti quei giovani, che sono diventati i nostri fratelli maggiori, i nostri maestri, e in omaggio al loro sangue vermiglio, quale decisione occorre prendere oggi?
Anzitutto, molto semplicemente, giuriamo di tener férmo. Scoraggiarsi è tradire. Anche se il nostro abbattimento resta secreto, anche se noi evitiamo
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di esprimerlo in parole o in atti, nonostante tutto, quando siamo scoraggiati, una nebbia glaciale emana dalla nostra persona, noi emaniamo dei miasmi velenosi. Decidiamo, invece, una volta per sempre, che dalla nostra persona si sprigioneranno effluvi di speranza, raggi di guarigione, irradiazioni di salvezza.
Senza dubbio, la guerra attuale si trascina interminabilmente, ma è la stessa lunghezza del conflitto che prepara un’Europa nuova. Una pronta soluzione sui campi di battaglia non costringerebbe le nazioni a confessare, un po’ alla volta, che i processi della grande industria, applicandosi all’arte della guerra, la rendono assurda poiché, d'or’innanzi, ogni offensiva s’infrangerebbe contro una difensiva inespugnabile.
Sospirate? L’atmosfera è pesante? È la prova che l’educazione dell’opinione pubblica fa progressi... La nausea del regime della Pace armata incomincia a soffocarci? Sintomo eccellente! Il prolungamento delle ostilità è, ahimè! essenziale per la conversione della mentalità d’Oceidente. Ogni giorno di combattimento costituisce un’iniezione di siero nel midollo spinale dell’indemoniato europeo, di quel posseduto furioso e che pur desta pietà, il cui nome è Legione (i).
Dunque, in memoria dei nostri morti, tener fermo. E soggiungo, in secondo luogo: purificare le mani nostre.
Quale immacolato vessillo è loro affidato! Guardiamoci daH’insozzarlo. Più è giusta la nostra causa e più dobbiamo temere di renderla indegna colla nostra ingiustizia personale. Resistiamo a quelle correnti di menzogna, di panico, di calunnia, di odio di cui il turbine ci avvolge. Resistiamo anche ai soffi d’una puerile credulità che ci fa accogliere, senza esame, le più false notizie, le chiacchiere più stupide, i racconti più terrificanti, oppure quelle famose informazioni private, che portiamo di poi in giro alla cieca, seminando a casaccio tristezze gratuite o gioie senza causa.
Non v’ingannate: in tempi di guerra l’atmosfera morale è satura di miasmi; i più validi d’infra noi rischiano di soccombere a qualche epidemia di sentimenti anticristiani. Qui ancora, ascoltate il linguaggio d’una nostra giovane recluta. Quel soldatino molto patriota, dopo aver udito un oratore che invocava la rivincita e la vendetta, scriveva che i più nobili suoi compagni d'arme s’erano sacrificati ad un tutt’altro ideale: « Se si trattasse soltanto, diceva egli, di mettere in pratica il vecchio principio: Occhio per occhio, dente per dente — tutte queste vite sarebbero state lamentevolmente perdute ».
Vegliamo, fratelli, « vegliamo e preghiamo! » Un pensatore moderno, Alessandro Vinet, paragonava la preghiera alla campana del palombaro: in un ambiente irrespirabile essa mantiene un’atmosfera in cui si dilatano i nostri polmoni. In quanto all’apostolo Paolo, ei raccomandava quel « casco della salvezza » che rende gli stessi servizi di una maschera antiasfissiante.
Dunque: tener fermo e purificare le nostre mani. Però l’omaggio ai nostri morti richiede una terza risoluzione che si definisce in questi termini: prendere sul serio la v confessione dei peccali » che le nostre chiese recitano ogni domenica.
(i) Vedi Vang. di Marco 5, 9 e Luca 8, 30.
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Oh! crediamo al carattere drammatico del destino umano. F stato ben detto: « La vita non è un problema che bisogna risolvere correttamente, ma un’avventura da cui bisogna onestamente uscire », un’avventura o, se preferite, una spedizione, un’epopea. Sopra una sfera clic si raffredda intorno ad un Sole che si spegne, sopra una « Terra che muore », assistiamo alla lenta e dolorosa ascensione d’uno spirito che vuol vivere. E questo spirito, incarnato nell’uomo, è alle prese con dille enigmatiche energie di resistenza e di regressione c in lotta con forze oscure che hanno dell’aniniale e della materia, con una sotto-natura od una contro-natura, con una realtà inesprimibile, un angoscioso mistero morale, con quel qualcosa di secolare, di formidabile e di dissimulato che è sufficientemente caratterizzato da questa espressione; il peccato.
Come non fremere davanti alla guerra attuale, considerata come una rivelazione del peccato, quella vertigine del caos, quell’appetito del male e del nulla, quel principio cieco e distruttore che picchia a colpi di ariete contro la civiltà, e che ne rivela ai nostri occhi spaventati il carattere vulnerabile e precario. Perchè la civiltà è vincolata al buon impiego della libertà umana; la marcia in avanti non è assicurata in modo definitivo e il Progresso non è un moto fatale.
Questo è il grido del «sangue di Abele» sui campi di battaglia europei, grido solenne e che sale verso le pallide nebulose. 0 forme inanimate dei nostri giovani, o cadaveri freddi sotto le fredde stelle, voi sovreccitate nei cuori nostri un odio inestinguibile contro il peccato!
Ma, nello stesso tempo, l'immolazione totale dei nostri cavalieri bayardi, . « senza paura e senza macchia », esige da noi un omaggio più degno ancora del
loro valore. Alla vista di quei giovani eroi, che sorridono al sacrificio come si sorride ad una fidanzata, non so quale virile allegrezza ci riempie d’un delirio profetico ed osiamo aprire all'anima umana un credilo illimitato.
Sì veramente, intrepide e generose vittime! la vostra fortitudine ci fa trasalire e ci obbliga a riconoscere che l’umanità, nonostante tutto, rimane grande. Nella crisi infernale, essa manifestasi sublime e rivela impreviste capacità di eroismo. Essa non esaurirà giammai le sue riserve d’anima, perchè lo scandaglio, sprofondandosi, finirebbe col trovare lo stesso Dio.
Orbene! quale atteggiamento assumeremo noi davanti alla ritrovata divinità dell'uomo? Abbiamo l’audacia d’esigere molto da noi stessi. Già prendiamo in disgusto una pietà che rimane estranea alla consacrazione, all’apostolato, alla follia deH’Evangelo: una pietà che si rifiuta di arruolarsi. Quanto è legittima l'amara e violenta diatriba d’un Tolstoi, quando irride alla scialba viltà dei cristiani disertori del Cristo- Gli schiavi della pubblica opinione e gli zelatori del ventre mormorano quando il Maestro dichiara: «Chi non odia i propri cari e persino la vita, non può essere mio discepolo ». Eppure qui sta l’A B C, di qualsiasi morale evangelica, poiché il Figliuolo dell’uomo incarna l’umanità intera e gl’interessi della Città futura: al di sopra di me, la famiglia; al disopra della famiglia la patria; al disopra della patria, il genere umano.
Questa è la formula indimenticabile che i giovani hanno tracciata, col loro
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sangue vergine, in caratteri indelebili, sulla parete dell’universo. Tocca a noi d’or’innanzi comprendere ed accettare la gerarchia autentica dei valori morali e spirituali. L’ideale d’una Chiesa ispirata dal Cristo non potrà più essere: C'è una religione da seguire e neppure: C’è un’anima da salvare; ma invece: C’è una vita da vivere, o meglio ancora: C’è un’opera da compiere.
« Dove io sono, sarà anche il mio servitore » ha detto il Cristo. — E dove sei tu. Signore? — Sul Calvario.
* * *
Che faremo noi del sangue di Gesù Cristo?... Di quale castigo sarà stimato degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e profanato il sangue del Patto? »
Nel secolo xvm il futuro fondatore della comunità dei fratelli moravi, il conte di Zinzendorf, vide un Ecce homo! un Cristo incoronato di spine, con questa iscrizione: « Ecco quanto ho fatto per te. Che hai fatto per me? » Tale questione gli trapassò il cuore. E noi che leggevamo simili aneddoti prima della guerra li consideravamo con occhio calmo, come vecchie stampe.- Il celebre quadro del-1’« Uomo di dolori » dipinto dal veggente ebreo, ci appariva offuscato sotto la polvere del tempo; e- meritavamo il pungente rimprovero del profeta: « L'agnello di Dio è il disprezzato da cui ognuno storce gli occhi ». Ma oggi, nella luce dei sacrifici serenamente accettati dai difensori del Diritto, la croce del Golgota assume un risalto inatteso. La vergogna ci. soffocherebbe se i nostri diletti dovessero esser caduti inutilmente, caduti ahimè! per coprire coi loro corpi dei codardi e dei cinici. Del pari non sopporteremmo più l’idea blasfema che il Figliuolo dell’uomo, il Figliuol di Dio, avendo versato per noi il sangue del suo cuore, i nostri piedi potessero calpestare quella porpora regale nella polvere della nostra indifferenza e nel limo della nostra sozzura.
L’apostolo scriveva ai primi cristiani: « Voi non avete restituito sino al sangue nel lottare contro il peccato ». Ma Gesù Cristo ha spinto la lotta sino a questo limite. Pensate al sudore sanguigno di Getsemane; nell'orto dell’agonia ei già sanguinava, non sotto i colpi battuti dal di fuori, come al Calvario, ma sotto la pressione interna della propria anima. Fermiamoci, come Pascal, davanti al <c Mistero di Gesù », e adoriamo. Inginocchiamoci in silenzio, e osiamo afferrare la certezza che il Salvatore ha sparso il suo sangue per fondare, quaggiù, l'unione degli uomini per mezzo della pace delle anime.
Ahimè! Egli sembra non esservi riuscito; ma il momentaneo fallimento del cristianesimo non implica il naufragio del Cristo stesso. Per poterlo accusare di aver condotto l’Europa all’abisso, occorrerebbe dapprima dimostrare che, nell’anno 1914, egli era la guida effettiva e l’incontestabile duce dell’occidente. Mentre che, nel campo della politica internazionale gli si voltava, volutamente, le spalle.
Umiliamoci, versiamo cocenti lacrime e, in risposta all’ossesionante domanda: Che faremo del sangue di Gesù Cristo? rispondiamo di comune accordo: Per fedeltà al suo sacrificio redentore e profetico torneremo aH’Evangelo del Regno di Dio. Che dico: « ritornare? » Avanziamoci, rizziamoci sino alla speranza, sino alla dottrina, sino alla visione del Regno di Dio.
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In nome del sangue sparso sulla Croce per stabilire, quaggiù, la fraternità umana, neghiamo la perpetuità della guerra. Eleviamoci, «con tutto il nostro cuore, con tutta l’anima nostra e con tutto il nostro pensiero contro quella pretesa legge dell’odio fratricida, quella legge della giungla che imbestialisce l’uomo nei secoli dei secoli e lo danna eternamente. Sì, fratelli, neghiamo la fatalità della guerra. E a coloro che ci accuserebbero di utopia, invocando non so quale immutabilità della natura umana, replichiamo con ardimento che l’uomo si distingue, precisamente, dall’animale per la « sua facoltà d’avere una storia », per la capacità indefinita d’acquistare delle idee e dei sentimenti, per la potenza inaudita di modificarsi d’età in età e di creare la sua essenza propria per mezzo della coscienza e della ragione. Queste magnifiche prospettive sono contenute tutte quante nella richiesta elementare: Il tuo regno venga!
È questa una preghiera. E, in fatti, lo stabilimento d’una pace definitiva tra le nazioni è un compito soprannaturale. Questo ideale splendido, pel quale sono caduti i nostri giovani, e pel quale Gesù Cristo s'è immolato, non sarà giam mai realizzato per la sola vittoria della Forza materiale. Il nostro scopo supremo è di rinnovare la mentalità europea. Ma il sole, che strugge la cera, indurisce l'argilla; con quali mezzi potremo noi raggiungere l'anima nemica, in modo da rigenerarla, invece di esasperarla? Il problema è delicato, angoscioso. Oh! Dio mio, accordaci il battesimo del tuo Spirito Santo perchè, se rimanessimo soddisfatti di noi stessi, saremmo degli utensili falsati nella tua mano, degli strumenti impropri a qualsiasi missione divina. Chi rimane fariseo non sarà mai apostolo, nel senso umile, materno e redentore del termine.
Ma Gesù Cristo avrà l’ultima parola.- Ei passerà sotto ì’Arco di Trionfo dei tempi nuovi assieme all’umanità umanizzata. 0 Figliuol dell’uomo! salutiamo in te ì'Eroe, perchè manifestasti, sulla collina del teschio, il coraggio del soldato di Maratona, e spirasti solo dopo avere gettato ai quattro vènti il tuo grido vittorioso: « Tutto è compiuto! » 0 Figliuol dell’uomo! salutiamo in te il Martire, quello il cui supplizio non conosce il «campo dell’onore », l’ebbrezza e il frastuono della battaglia, colui che sa morire nella solitudine e nel silenzio per l’idea pura e per qualche principio eterno ancora misconosciuto dalla folla. 0 Figliuol dell’uomo! salutiamo in te il Salvatore, acclamiamo la fortitudine soprannaturale della gioia creatrice, della sofferenza che forgia del positivo, del dolore che dona, che rigenera e salva.
Ah! lungi dal calpestare il tuo sangue prezioso, ne faremo la nostra bevanda; e lasceremo risuonare a lungo nell’anima nostra il tuo mistico e misericordioso invito: « Questo calice è il nuovo Patto nel mio sangue, fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me ».
WlLFREDO MONOD.
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ICR.ONACHEI
VITALITÀ E VITA NEL CATTOLICISMO
XII.
IL CATTOLICISMO ITALIANO DI FRONTE ALLA GUERRA
¡oppiata la guerra italo-austriaca la posizione dei clericali italiani divenne assai difficile. Neutralisti sino a quel punto, non per convinzione generata dallo studio delle condizioni dell'Italia e dclTavvenire della patria, ma per partito preso, perchè del loro neutralismo facevano la base di una speculazione di casta e di partito o tentavano con esso coprire mal celate simpatie verso l’uno dei belligeranti (i), non era troppo semplice cosa il voltar la casacca: erano troppo pregiudicati. E infatti
stupore e incredulità accolsero, all’indomani della dichiarazione di guerra, le proteste di patriottismo ad oltranza e le imprecazioni al nemico (S. M. Apostolica) della parte più importante della stampa clericale italiana, che si mise a gareggiare con i guerrafondai del giorno prima nel dichiarar santa la guerra, indeprecabile, necessaria, bella, ecc. Questo entusiasmo di parata sembrava troppo sospetto, particolarmente se messo in rapporto con l’atteggiamento di un’altra parte della stampa dello stesso colore — meno diffusa, ma non meno importante — - la quale si sgolava quotidiana(i) A questo proposito si sta tuttora svolgendo fra i due giornali fiorentini 11 Nuovo Giornale e L'Unità Cattolica una viva polemica circa l’austrofilia di quest’ultima. Nell’articolo del suo direttore per il XX settembre II Nuovo Giornale prometteva di pubblicare un documento di carattere privato dal quale potevasi rilevare che fino dall’agosto 1914 il foglio clericale corrispondeva coi gesuiti di Gorizia. La pubblicazione promessa è avvenuta nel numero del 24 settembre con un cliché di una lettera autografa inviata da un gesuita di Gorizia al direttore dell’CJwiM, lettera il cui senso è ben chiaro.
Eccola per i nostri lettori:
< Molto reverendo don Cavallanti: la prego di inserire nel giornale questa smentita che mi fu consegnata oggi. Dopo quindici giorni oggi solo abbiamo potuto avere un
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CRONACHE 393
mente ad affermare, a ripetere, a gridare, a polemizzare, perchè pure i sordi intendessero, che i"Cattolici subivano la guerra, che essendo essi cittadini di uno Stato non era in loro potere ribellarsi ad esso, ma dovevano obbedir passivamente agli ordini dell’autorità su cui soltanto ricadeva la responsabilità della guerra. Era insomma evidente che i cattolici politicanti perseguivano una politica doppia che avesse loro permesso di vivere indisturbati ora, mescolandosi alla corrente e vociando più di tutti, e di non pregiudicarsi per l’indomani, per cui si prevede e si avverte una reazione manifesta ai battaglieri spiriti dell'oggi. Per quanto in apparenza opposte e battagliami tra di loro, le due ali del clericalismo miravano ad uno scopo unico, traendo in inganno i poco accorti e le persone di buona fede. Perciò nel campo Clericale fu più il rammarico che il piacere quando, caduto il Ministero Salandra. nel Ministero nazionale, che stava per succedergli, venne offerto un posto ad uno dei deputati cattolici.
I “DISTINGUO” DELL’ OSSER VA TORE ROMANO
Gli annunziati «distinguo» venivano formulati ne\V Osservatore Romano la sera stessa dell’annunzio ufficiale del nuovo Ministero (19 giugno 1916). Scriveva infatti quel giornale come commentario aU’avvenimentò:
Sebbene nel Ministero Boselli siano entrati anche alcuni neutralisti della vigilia, prevalgono in esso gli uomini che spinsero l’Italia a prendere le armi.
Sotto questo punto di vista poteva recare qualche meraviglia l’entrata dell’onorevole Meda nel gabinetto, mentre egli non fu certo fra coloro che spinsero alla guerra, sebbene dopo che fu dichiarata, l’abbia accettata e sostenuta con la propria adesione, lasciandone tuttavia esplicitamente la responsabilità a chi soltanto l’aveva assunta.
In ciò l'on. Meda, che è di principi notoriamente cattolici, non può dirsi che siasi, discostato dall'atteggiamento tenuto dai cattolici in Italia. I cattolici infatti, prima della dichiarazione di guerra, furono pur essi neutralisti, e non soltanto per motivi di opportunità e di convenienza politica, ma per altre considerazioni di un ordine più elevato. Furono tali perchè neutralista, o, per dir meglio, imparziale verso tutti i belligeranti, era, come lo è tuttora, il Sommo Pontefice, loro duce e maestro, che non si stanca di ripetere ai popoli ed ai Governi la parola di pace; lo furono perchè neutralista, allo scoppio della guerra europea, era lo stesso Governo, il quale aveva anzi dichiarata una benevola neutralità verso l’Austria e la Germania; lo furono finalmente perchè la guerra offensiva, in tesi generale, mal si accorda con quegli alti ideali di fratellanza umana che costituiscono la essenza stessa del Cristianesimo.
numero dell’Un e precisamente quello al quale allude la smentita. Lo richiedemmo più volte., ma la censura militare qui è inesorabile. Sanno qui che V Unità non è austro-foba, ma non è questa la ragione, dissemi l’autorità militare, sibbene che si pubblicano notizie su movimenti militari, e queste notizie « è chiaro noi non possiamo permettere ». E così è di tutti i giornali italiani. Tuttavia date le nostre pressioni ci fu permesso il nostro numero. Vedremo. Grazie.
Non creda a tutte le chiacchiere dei giornali italiani sulle disfatte dei tedeschi. Certo l’Austria si trova in una posizione critica. Tutti la odiano, ma finora ha sempre vinto. E poi, quel che Dio vorrà. La massoneria e l’oro francese comperano gran parte della stampa italiana. Pazienza! Ride bene chi ride l’ultimo.
Gorizia, via Lombroso, 20-30 agosto 1914.
Devmo servo: P. Gismano S. J.
P. S. È evidentissimo che nel pubblicare questo scritto non si deve fare nessun nome.
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BILYCHXIS
Dichiarata peraltro la guerra all’Austria, i cattolici non vennero meno ai doveri di buoni cittadini, quali si professano e quali furono in ogni tempo, lasciando naturalmente a chi di dovere tutta la responsabilità della guerra. Può dirsi, insoinma, che i cattolici abbiano seguito, per un principio religioso e morale, la stessa linea di condotta seguita dai giolittiani per un principio politico. Questa situazione dei cattolici, conforme a tutti i dettami cattolico-sociali, è bene sia proclamata altamente e mantenuta di fronte alla nazione.
Da ciò tuttavìa non deve nè può dedursi che l’pn. Meda rappresenti nel Ministero i cattolici con le loro organizzazioni, poiché non essendovi in Italia un partito cattolico politicamente costituito, anzi neppure in Parlamento un gruppo cattolico propriamente detto, l’on. Meda non può, come Ministro, rappresentare altri che se stesso e gli amici suoi. Furono più che tutto, le sue eminenti qualità personali che lo posero in evidenza tra i numerosi candidati alla nuova combinazione ministeriale. Ed è lecito augurarsi che prendendo parte al Governo, sappia egli non tollerare e possa anche impedire misure odiose contro la Chiesa, che riescono sempre dannose anche alla Patria.
Fuori completamente di luogo, pertanto, e assolutamente infondato sarebbe il timore che la entrata nel Ministero dell'on. Meda possa vulnerare in alcuna guisa quella perfetta imparzialità che la Santa Sede ha sempre professato nella presente guerra, e che vuole assolutamente e rigorosamente mantenuta.
Molti dei giornali liberali, avvertiti in tempo, non si occuparono a rilevare il contenuto della nota ora riprodotta e lo fecero a titolo di cronaca non dandovi importanza alcuna. Qualcuno però credette di rispondere ai sottili ragionamenti dell’organo vaticano, e ira questi fu il Messaggero (20-21 giugno) che volle rimbeccarli punto per punto. Notava, fra l’altro, il giornale romano:
Se l’on. Meda può da filosofo della storia accettare e sostenere il fatto compiuto della guerra, lasciandone però la responsabilità a chi l’ha dichiarata, non può da ministro sottilizzare come il giornale cattolico, non essendo la guerra un fatto di ordinaria amministrazione o un disegno di legge fiscale che un ministro propone e che il suo successore abroga o ritira, o esegue con blando ostruzionismo. La guerra è un fatto istituzionale, che, un uomo di governo, se l’accetta, accetta in blocco, senza aver diritto a differenziarne in gradi le responsabilità. Questo è tanto più vero, quanto più, così come pone la tesi neutralista il Sommo Pontefice, la disapprovazione della guerra appare per il perfetto cattolico neutralista un caso di coscienza!
Le dichiarazioni piene di riserve sulla responsabilità di aver dichiarata la guerra, che VOsservatore Romano proclama nelle proprie colonne, sono le stesse che ripetute, con minori freni e con minor tatto diplomatico, dal clero nelle campagne alle popolazioni semplici, possono ingenerare dissensi perniciosi nella coscienza del paese. Ci pensino i cattolici, mentre « questa situazione dei cattolici è proclamata altamente e mantenuta di fronte alla nazione ».
L’on. Meda rappresenta alla Camera elettori cattolici e organizzazioni cattoliche: tutti sanno di quali forze disciplinate siano mandatarii i deputati cattolici. Ed alla Camera l’on. Meda non ha parlato per sé solo, o per un gruppo di amici giuocatori di bigliardo; ha parlato per i deputati del gruppo cattolico, che esiste e vive e opera, checché distingua VOsservatore nelle sue non eleganti casistiche. E sé è vero che l’onorevole Meda ha meriti personali rispettabili, è anche vero che se non fosse stato necessario di aggiungere un deputato del centro cattolico nel Ministero nazionale, le « eminenti qualità » del deputato di Rho gli avrebbero servito per brillare al governo del Consiglio provinciale di Milano, e non al palazzo delle Finanze in Roma.
(CENSURA)
“ CONCORDIA DISCORS ”
L'ascensione del Meda turbò, come abbiamo già detto, molti clericali, particolarmente fra quelli che nel suo atto scorgevano una nuova dedizione della coscienza cattolica all’usurpatore e fra quelli che temevano che la nomina del cattolico Meda
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a ministro del re in un gabinetto per la guerra a fondo, potesse significare presso il popolo minore un revirement della politica clericale e dei suoi dirigenti. Onde, per le due ragioni, molti giornali clericali di provincia, particolarmente i più neri, s’impadronirono della prosa deW Osservatore Romano e vi ricamarono commenti su commenti sfavorevolissimi al neo ministro. Nè ad attenuarli valsero le compiacenti difése di alcuni, che, come Filippo Crispolti — un pezzo grosso, come il Meda, del trust — ponevano in rilievo come, con la partecipazione del Meda al Ministero, fosse stata superata la pregiudiziale liberale che un cattolico militante, clericale cioè, potesse partecipare al Governo, essendo stato il Meda assunto a ministro proprio per la sua qualifica di cattolico deputato. Il Crispolti anzi in un suo articolo sul Cittadino di Genova assumeva che tale fatto importante poteva e doveva bene esser considerato astraendo dalle condizioni di fatto e dagli eventi che lo avevano generato. Contro tali ripieghi V Unità Cattolica (i° luglio) protestò riagitando la sua bandiera dell’antico non expedit scrivendo:
Un articolo dell’amico marchese Filippo Crispolti apparso prima sul Cittadino di Genova, poi sull'zlyyewi/e d’Italia, ne invita a considerare per sè il fatto della partecipazione deil’on. Meda al Governo, prescindendo da tutte le circostanze che lo hanno accompagnato.
È evidente che il fatto di un cattolico deputato divenuto ministro del re è una conseguenza logica se non necessaria del fatto stesso dell’esistenza dei cattolici deputati nel parlamento italiano.
È quindi naturale che tutti coloro che fra i nostri auspicarono ed applaudirono all’entrata in parlamento dei cattolici deputati non possono che chiamarsi lieti, anzi lietissimi, specie se si prescinda dalle attuali circostanze, dell’evento deil’on. Meda al potere.
Non così può essere di noi che invece non approvammo nè trovammo opportuno l’entrata in parlamento dei cattolici deputati, e però oggi davanti all’entrata dell’onorevole Meda nel Ministero non possiamo che constatare con dispiacere là realizzazione dell’ultimo atto di quella partecipazione e cooperazione ad un Governo che mantiene una situazione per conto nostro ora e sempre dannosissima alla religione.
Stando così le cose davanti al succedersi dei fatti sta bene che noi facciamo una qualche osservazione, alla quale ci richiama del resto l’amico nostro marchese F. Crispolti in questo stesso suo articolo.
Egli asserisce due cose: l’una che col fatto deil’on. Mèda al Ministero è stato vinto l’ostracismo che .pareva invincibile per cui non si ammetteva dal liberalismo che un cattolico potesse entrare a far parte del Governo essendo considerato nemico della patria, l’altra che l’on. Meda è stato chiamato a far parte del Governo proprio in quanto cattolico deputato.
Noi non riteniamo che colla chiamata al Governo deil’on. F. Meda il liberalismo abbia cambiata la sua tattica nè quanto meno si sia rimangiato il suo ostracismo a cui fa cenno l'amico marchese Crispolti.
I cattolici deputati che entrarono in parlamento, previa la nota accettazione dell’attuale stato di cose in merito alla questione romana, sono per il liberalismo nè più nè meno che dei conservatori liberali che hanno il coraggio di vivere privatamente secondo la loro propria coscienza cattolica.
Per il liberalismo l’on. Meda di oggi vale il marchese Nerio Malvezzi di qualche anno fa che divenne ministro in uno dei Ministeri detti dei cento giorni deil’on. Sonnino.
Del resto l’articolo dtW Osservatore Romano che negava al Meda il diritto di poter rappresentare nè ora nè prima d'ora le organizzazioni cattoliche sta là a dimostrare che sono giuste le nostre critiche aperte e leali.
Ammettiamo benissimo che a parte del liberalismo oggi come oggi sia tornato còmodo di chiamare l’on. Meda al Governo. Faceva in verità troppo buon giuoco la persona di
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un cattolico deputato che poteva far credere all’estero che il cattolicismo in Italia ha obliato e si è disinteressato completamente della questione romana e all'interno che lo stesso cattolicismo italiano condivide la responsabilità della guerra in corso.
A tale giuoco non poteva prestarsi altro che la figura di un cattolico deputato, perchè per quanto distaccato dalle nostre organizzazioni per le note dichiarazioni e però incapace di rappresentarle, vi appartenne in un tempo più o meno lontano.
Per nostra fortuna però V Osservatore Romano si è piantato di traverso e colla sopracitata sua affermazione distruggeva l’un giuoco e l’altro, lasciando all’on. Meda e solo a lui la responsabilità che si è assunta entrando nel nuovo Ministero.
Dopo ciò possiamo aggiungere che non siamo alieni dall’ammettere coll’amico Cri-, s poi ti che se l'on. Filippo Meda non avesse accettato il portafoglio offertogli, avrebbe potuto dar luogo a credere ad una specie di veto i>er parte del Vaticano.
Tale diceria avrebbe potuto provocare contro la volontà del Meda un rincrudimento della lotta contro di esso sulla base della solita stolta accusa di anti-italianità.
Ma questo fatto sarebbe sempre una riprova di quanto noi eravamo nel vero quando abbiamo asserito e sostenuto che la presenza dei cattolici deputati alla Camera italiana non poteva essere che dannosa ed inopportuna.
Anche giornaletti clericali di semplice, interesse locale si schierarono in lizza per lo più contro il gesto dell’on. Meda. Citiamo, ad esempio, queste righe del Cittadino di Lodi:
Il ministro Meda rappresenta, dunque, se stesso e nessun altro. Ciò nonostante il suo atteggiamento non può non creare una perniciosa confusione nell’opinione pubblica che non ragiona troppo per il sottile. L’on. Meda è cattolico, dunque i cattolici sono entrati a far parte del Ministero che ha queste due caratteristiche: in la continuazione più intensa dell’eredità guerresca del Ministero Salandra; za un colorito accentuatamente massonico. Orbene, i cattolici italiani che dànno generosamente, fuori del Governo, il loro contributo alle necessità della patria, hanno però sempre separato la loro responsabilità da quella di chi ha voluto la guerra. Viene quindi di domandarsi se l’on. Meda aveva diritto — in nome della solidarietà di partito — e se ha fatto bene a coinvolgere il nome cattolico nelle più dirette responsabilità della guerra, partecipando al Ministero.
Ed è a questo punto che noi torniamo ad esprimere il nostro profondo dissenso. Tanto più che il problema di tale partecipazione diretta al Ministero è grave e spinoso (anche indipendentemente dalla guerra) per una corrente nuova alla vita politica, com^ è la corrente cattolica italiana. L’averlo risolto a tamburo battente, senza matura discussione in seno alle rappresentanze cattoliche, senza la maturazione di un programma Slitico comune, senza il consenso dei commilitoni, rappresenta più che un pencolo un mio per i cattolici istessi.
Il dovere patrio non esigeva affatto che l’on. Meda entrasse nel Ministero: la patria si può aiutare diversamente. Viceversa ben poco o nulla l’on. Meda potrà giovare agli interessi religiosi dei cattolici, fiancheggiato com’è da una maggioranza di sinistra.
Si spiega così come la maggioranza della stampa cattolica che vive in contatto delle masse organizzate ha disapprovato l’atteggiamento tutto individualistico del-l’on. Meda.
I giornali Xe\\‘ Editrice romana, buona difesa dei nostri interessi religiosi senza dubbio, hanno da tempo perduto il contatto con le' nostre popolari organizzazioni.
Giornali cattolici di altro tipo e di altra tendenza — oltre quelli del trust che naturalmente sostenevano l’amico — pur mostrandosi diplomaticamente riservati, trovarono del buono nell'assunzione del Meda al potere e giunsero a sofisticare, naturalmente senza che la cosa apparisse troppo, il contenuto della nota dell’Osservatore Romano. Valga, il ricordare qui un articolo del direttore della Settimana Sociale, giornale ufficiale delle organizzazioni cattoliche, nel quale articolo il predetto direttore.
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D. Giulio De Rossi — eli cui giova qui ricordare che ebbe imposto da Pio X di abbandonar la redazione del Corriere d'Italia — dopo di esser convenuto coll'organo vaticano che il Meda non rappresenta il partito cattolico per la semplice ragione che in Italia un partito cattolico non esiste », distingue i clericali italiani nei noti due gruppi, di quelli cioè « che hanno compiuto nel segreto della loro coscienza una specie di separazione irreducibile fra Chiesa e Stato» e di quelli che «nella loro coscienza sentono come l’ideale religioso abbia degli intimi indistruttibili legami con tutte le manifestazioni politiche sociali. Questi ultimi, sentendosi a disagio negli altri partiti, si sono organizzati in associazioni proprie. Ad essi appartiene l’on. Meda, il quale non essendovi .partito cattolico, non può rappresentar questo, ma può bene rappresentare le organizzazioni e le associazioni cattoliche. Dice infatti il De Rossi:
Ma si deve anche concludere che l’on. Boselli chiamando... l’on. Meda a suo collaboratore, non ha guardato soltanto all’autorevolezza personale del deputato, ma ha visto anche quello che fin qui l'Italia ufficiale non aveva mai veduto nè voluto vedere: ha visto cioè che nel paese un grandissimo numero di cittadini sarebbero restati inclassificati, qualora per base di classificazione si fosse presa soltanto quella dei vari scacchieri di Montecitorio.
Questi cittadini sarebbero quei clericali che raccolti ed organizzati ne\V Unione Popolare «sono sinceramente devoti alla patria, sinceramente desiderosi di collaborare con tutti gli altri per la grandezza d’Italia ». Ed è per questo.— conclude il foglio ufficiale della «Unione popolare tra i cattolici d’Italia» — che «la presenza dell'on. Meda conferisce realmente al nuovo Ministero una più larga base di consensi di quel che non possa ad esempio conferirgli la presenza del repubblicano Comandini».
E dire che ¡’Osservatore Romano Aveva ben chiaramente scritto: «Non si deve nè può presumersi che il Meda rappresenti nel Ministero i cattolici con le loro organizzazioni!... »
IN PARLAMENTO
I dissensi che si venivano così manifestando artatamente tra i clericali nel Paese avevano anche i loro portavoce nella stessa Camera dei Deputati. Nelle due sedute consecutive del 29 e del 30 giugno quattro cattolici deputati presero la parola sulle comunicazioni del Governo: Miglioli, Tovini, Ciriani e Nava Cesare. Ebbene, ciascuno di essi fu in disaccordo con gli altri. Il Miglioli si dichiarò tenace avversàrio della guerra e la disse contraria allo spirito cattolico; il Tovini espose la concezione strettamente clericale dei cattolici di fronte alla guerra, non voluta ma passivamente subita e chiese pel papa la porta aperta al futuro Congresso; il Ciriani si dichiarò invece per la guerra ad oltranza, ingiungendo —- sempre in nome del cattolicismo — che la dichiarazione di guerra venisse estesa ad altre nazioni, e che al papa non venisse permesso d’intervenire alla conferenza per la pace; il Nava, infine, fu il cattolico governativo, che a due mani avallò il programma del nuovo Ministero, come senza riserve aveva sostenuto il Ministero caduto. È necessario per la cronaca e per la storia riferire qui i punti salienti dei discorsi ora ricordati, desumendoli dagli Alti Parlamentari.
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Disse l’on. Miglioli: • ' " MIGLIGLI
...Da noi pure, quanto più si prolunga la guerra e lo smagliante miraggio nazionale si scolora e si confonde cogli altri obiettivi della più grande guerra, tanto più i nostri umili lavoratori sono spinti istintivamente a vedere ed a credere che in questo cozzo formidabile di imperialismi e di razze, in questo cataclisma per gli occhi stellanti della civiltà, non precipitano solo uomini e cose, ma si sprofondano anche delle idee: dottrine politiche, concezioni di Stati, postulati economici; tutto un mondo di classi che hanno Ssvernato e che governano, esse pure vittima inesorabile della più micidiale utopia: a guerra! . . '
E si raccolgono i nostri contadini, i nostri operai, combattendo da eroi per un civico sentimento del dovere; pur resistendo a tutte le privazioni e i sacrifici, con quella energia paziente che non è fatta di rassegnazione idiota, ma della inconsapevole speranza che attraverso le rovine ed i morti qualche cosa si ricompone e si riaccende, si racchiudono i nostri lavoratori in un silenzio' pensoso e varcano con lo sguardo oltre la tragica realtà. Sono così fuori della guerra perchè l'hanno superata con rimpeto del loro sentimento e della loro fede! (Approvazioni — Commenti).
Non è dunque, onorevole Boselli, propriamente una pregiudiziale; ma è un giudizio già compiuto, incancellabile, che, mentre tutte le nazioni si protendono nella tensione più spaventosa per risolvere questo sciagurato conflitto, è divenuto verità interiore ed orienta una coscienza nuova- E non è questa pregiudiziale, cioè questo giudizio avanzato solo dal partito socialista. Commette errore di visuale chi giudica i fenomeni dell’anima collettiva solo dalle forme esteriori o politiche che possono assumere nel manifestarsi.
Certo il socialismo, anche da noi come negli altri paesi, è doveroso riconoscerlo, è la corrente più forte, che, liberatasi da parecchie scorie, raccoglie, inalvea e trascina questi clementi popolari che l’urto della guerra ha risvegliato e trasformato. Ma, lo sanno i colleghi di questa parte estrema della Camera: non è solo il socialismo!
Il nostro popolo non è tutto socialista; anzi in piccola parte è socialista; eppure la stessa coscienza esso avverte che sgorga dall’intimo lavorìo degli spiriti educati alla fede del Vangelo, che permane nella sua parola di pace e d’amore in irriducibile e tremendo contrasto colla guerra! Eppure, la stessa nostra massa popolare cristiana, trasportata sul terreno delle conquiste del lavoro per virtù dell’organizzazione e d’un programma sociale attinto alle fonti pure del Cristianesimo, è unita e concorde col resto del proletariato... (Rumori).
Ciriani. Ma quello non è Cristianesimo! (Commenti — Rumori).
Migligli. L’amico Ciriani ha forse frainteso il mio pensiero!... (Commenti).
Ciriani. Quello è Cristianesimo clericaleggiante; non è Cristianesimo puro!... (Commenti).
Presidente. Facciano silenzio, onorevoli colleghi. Continui, onorevole Miglioli.
Migligli. Io rispetto le opinioni di tutti i miei colleghi; e rispondo all'amico onorevole Ciriani che nessuno può negare, se non per passione di interventista, questa verità; che in questo momento il proletariato cristiano e non cristiano è uno e forte nel maledire alla guerra e nel prepararsi ad un domani di rivendicazione. Vi è unità di sentimenti perchè vi è unità di dolori e di ,speranze, unità di storia; e dirà lo studioso della storia quanto questo orientamento della classe lavoratrice abbia raggiunto il vero ed il bene. Il domani non lontano constaterà quale contorno abbia realmente preso per il nostro popolo sacrificato questo avvenire, che si colora e si illumina dello stesso incendio che divampa! (Commenti).
Frattanto è sicura ed indiscutibile questa constatazione: che il vostro sforzo, onorevole Boselli, non poteva spingersi oltre. Dinanzi a una pregiudiziale, anzi a un giudizio che io ho dimostrato non di partito, ma di popolo... (Rumori)... sì, del popolo più umile e negletto, a voi parve facile di superare l’ostacolo invitando e stringendo nella vostra compagine le frazioni e gli esponenti del riformismo popolare tanto cattolico quanto socialista. E così si ebbe il Ministero Nazionale.
Ma notate bene, o amici buoni... (Ilarità — Interruzione del deputalo Marchesano).
Presidente. Onorevole Marchesano, non interrompa!... Facciano silenzio!
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Migligli. Questi interventisti si eccitano anche ai complimenti! L’interruzione però mi dà il piacere di ripetere ciò che qui dentro non è mai stato affermato e tanto meno compreso: voi avete creduto di superare l'ostacolo della ripulsa del popolo unanime ed entrare nel Ministero, raccogliendo nella vostra compagine le espressioni del riformismo cattolico e socialista, e avete in tal modo costituito >1 Ministero Nazionale. Ma avete una volta di più confuso la Nazione, fatto naturale, col concetto politico dello Stato vigente, per cui solo per finzione giuridica esso rappresenta la collettività, ma in realtà esso permane ancora l'espressione concreta e borghese delle classi che detengono il potere. Epperò voi avete potuto, nella vostra abile trama, onorevole Boselli, avvolgere quel mio correligionario che è l'onorevole Meda, il quale poi per le sue doti d'ingegno e di attività era ben indicato a salire per servire il Governo m questo momento: ma sarebbe illusione la vostra di aver creduto di irretire così nelle responsabilità della guerra la massa popolare cattolica del mio paese (Rumori — Commenti — Interruzione del deputato Marchesano).
Presidente. Onorevole Miglioli, la prego, non raccolga le interruzioni!
Migligli. Onorevoli colleghi, il fatto dell’onorevole Meda è d'importanza parlamentare e politica così grande, che voi certamente avete anche il diritto di sapere in proposito quale può essere il mio modesto pensiero; quel fatto per ciò mi propongo di esporvi nella sua vera luce.
L’onorevole Meda al Governo oggi rappresenta quella continuità logica di sincero atteggiamento patriottico che spinse, parecchi lustri or sono, i cattolici a partecipare, con rappresentanti propri, alle elezioni politiche. Allora, mentre non era spenta l’eco di un movimento popolare, che parve si dovesse giudicare come un fenomeno rivoluzionario diretto a sovvertire le istituzioni dello Stato, un cattolico che veniva dal ceppo borghese, in aperta e leale unione colle altre frazioni della borghesia, saliva, rappresentante di Milano, al Parlamento nazionale, a significare che contro i reali o presunti pericoli per la patria, (in questa materia l’onesta presunzione equivale alla realtà) chi ha della Patria il culto alto, profondo spezza catene, supera ostacoli, vince tradizioni per correre all’appello. Si iniziava così la partecipazione dei cattolici alla vita parlamentare e politica allora appunto che l'unione delle classi liberali e conservatrici, cui ha accennato l’amico Treves, era invocata come mezzo indispensabile per difendere le istituzioni monarchiche dello Stato minacciate da quei terribili nemici che siedono oggi al Governo, ministri del Re!
S'incaricò quindi la storia di dimostrare quanto vi era di errato nella valutazione di quel fenomeno popolare, che era la prima necessaria riscossa delle classi lavoratrici per un miglior pane e un miglior diritto; e mi piace di ricordare che anche allora a quella rivoluzione profondamente economica dette forza di colore e di significato un prete, che voi, onorevole Turati, rammenterete con sincera compiacenza, perchè egli fu con voi che, accusato dello stesso delitto oggi in voga, di leso patriottismo, passò incatenato e sorridente al reclusorio di Finalborgo! (Commenti prolungati).
Lo so: non è facile analogia richiamare il periodo storico, a cui accennavo, per comprendere quello più grave che attraversiamo. Vi sono di mezzo tre lustri in cui la vita nazionale si contorce in una frenesia convulsa per affrontare, sopratutto, il problema economico della produzione e del lavoro, che un certo sistema di libertà consentì si risolvesse senza eccessivi urti di classe. Il che valse a rafforzare nello Stato il regime delle classi dominanti, che si trasformò e si adattò duttilmente fino ad attrarre nel proprio grembo le frazioni riformiste del popolo socialista e cattolico. Così l’onorevole Bissolati e l’onorevole Meda gravitarono verso il potere, fatalmente. E nel giorno, in cui la più vasta compagine sociale dello Stato, nella sua concreta funzione politica, deve compiere un gesto, supremo nell’interesse stesso della patria, è giusto che entrambi questi esponenti che traducono nella dottrina e nell’azione un metodo equivalente—il riformismo—si trovino al Governo.
L’onorevole Meda suggella poi con questo suo atto, direi col suo sacrifizio, una pagina molto difficile nella storia dei cattolici italiani, quella in cui ingiustamente erano diffidati di tenue patriottismo. Come i nòstri soldati cristiani sono eroi alla trincea, così voi, o amico, in quest'ora terribile salite al Governo! Permane però una differenza, si accentua un contrasto: qui si assumono responsabilità di un passato che al nostro popolo, alla nostra dottrina, alla nostra fede non appartiene; là, come tra le innumeri famiglie dei Severi lavoratori, agita l’anima, pur combattendo e soffrendo in un fremito di eroismo e ¡ agonia, una sola speranza: risorgere per una nuova storia! (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, tornata 29 giugno 1916, p. 10902-10904).
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TOViNI
Nella seduta del giorno successivo, primo fra i cattolici, il Torini parlò anche a nome degli altri deputati Schiavon, Cicogna, Vinai e Roveti i. Ecco, del discorso, la parte che interessa in questi commentari:
...La nuova composizione ministeriale presenta un lato caratteristico che ha già suscitato commenti sintomatici in questa aula. Vi sono nel Paese forze popolari, numerose, che vogliono illuminata da una luce soprannaturale la via dell’ascensione sociale e che credono di servire lealmente la patria in guerra, pure auspicando che la guerra sia proporzionata non nel modo, ma nel fine, a un criterio di reale necessità e alla visione del sommo bene del popolo. Forze popolari, che con la loro condotta durante la guerra hanno vinto, agli occhi di tutti, la battaglia da tanti anni pertinacemente perseguita per il riconoscimento del loro patriottismo.
Ora quale è il significato del passo fatto dal nuovo presidente del Consiglio? Si è voluto finalmente riconoscere la virtù civile e la lealtà patriottica dei cattolici che fin qui anche nei discorsi ufficiali (in non lontani solenni discorsi ufficiali) si mettevano alla pari delle organizzazioni antinazionali? Se è così, come vogliamo ben credere, all’onorevole Boselli il vanto di aver sepolto per sempre un assurdo pregiudizio, nel momento in cui la patria chiama a raccolta tutti i suoi figli.
Ma se l’importanza storica di questo fatto non può sfuggire a nessuno; non è per questo lecito dedurne un coinvolgimento di passate responsabilità, nè un pregiudizio alla libertà del nostro atteggiamento avvenire. Poiché le forze di cui parlo desiderano di essere la riserva del domani, e conservare intatta la loro efficenza per difendere la genuina anima italiana tanto da chi vorrebbe trascinarla verso una guerreggiata egemonia di stirpi e di civiltà, come da chi la vorrebbe condurre verso una guerreggiata egemonia di classi; preferendo sopra ogni cosa un ideale di collaborazione di classi, di stirpi e di civiltà in unica atmosfera spirituale e morale di internazionalismo cristiano.
Nè la separazione delle responsabilità e la rivendicazione della libertà di atteggiamento per l’avvenire è in contraddizione con il dichiarato,' e finamente riconosciuto spirito patriottico delle forze popolari cristiane.
Chi volesse stabilire una indissolubile e inevitabile correlazione fra l’uno e l’altro concetto, svelerebbe un intendimento di compromesso politico, che non è nè può essere nella realtà delle cose.
È infatti ben -chiaro come la responsabilità del passato appartenendo oramai alla storia, non è possibile — per la contraddizione che non lo consente — di rimaneggiarla con finzioni postume. E inoltre è altrettanto evidente che la grande massa di popolo, che nel paese orienta la sua condotta, secondo la luce ed i principi granitici del Vangelo e delle gloriose tradizioni sociali cristiane, non può venire intorpidita nelle sue movenze ed avere la sua visione annebbiata da singolari e passeggere contingenze parlamentari.
Siamo bene che, malgrado queste esplicite riserve, in un giorno non lontano non chi vorrà valersi ad ogni costo del fatto più interessante dell’odierna composizione ministeriale per lanciare contro i cattolici accuse che non li toccano. Ed è per questo che fin d’ora abbiamo voluto fissare nettamente il nostro pensiero. Confusioni saranno sempre possibili e più che mai nella lotta politica di domani. Ma abbiamo troppa fiducia nel discernimento popolare per deviare oggi da quella che crediamo la via segnata dal dovere di patria...
E poiché l'onorevole Boselli volle che alla.costituzione del Ministero nazionale presiedesse un criterio di alta imparzialità, così mi si conceda un’ultima parola sul problema di pacificazione sociale, che di ora in ora diventa più assillante.
L’onorevole ambasciatore Tittoni in un discorso pronunciato recentemente alla Sorbona e che ebbe larga eco nella pubblica opinione, si proponeva il problema dicendo:
« Non dobbiamo dimenticare che c’è anche da ricostituire un altro edificio che è miseramente crollato c che ha nome: il diritto e la giustizia internazionale. È forse possibile che l’Europa, quale era prima della guerra, l’Europa della pace armata, «fella concorrenza pazza e della corsa febbrile agli armamenti, sia ancora l’Europa di dopo la
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guerra? Che cosa rimarrebbe mai del progresso civile ed economico, per le riforme sociali, per tutto ciò che costituisce il cammino della civiltà? Si ingannerebbe a partito chi pensasse che le nazioni potrebbero rassegnarsi ad un tale stato di cose che creerebbe dappertutto gravi situazioni intèrne e provocherebbe le collere dei popoli: secondo me non vi è che una via per facilitare la soluzione di questi problemi: ed è fare in modo che abbiano a porsi a nói nella forma la meno grave possibile ».
Ora sono convinto che la soluzione proposta sia insufficiente se non si tiene conto di un fattore di pacificazione umana, che mai come in questa guerra mondiale si è avvicinato al cuore di tutti i popoli, fattore che nessuno può respingere senza affrontare una grande responsabilità: mi riferisco all'influenza spirituale che viene dalla suprema autorità del mondo cattolico (Oh! oh! — Commenti) che regge 300 milioni di coscienze, che fa udire la sua voce in ogni angolo della terra ed è il più autorevole rappresentante di un principio morale e il più convinto e libero apostolo di una definitiva sistemazione dei popoli sulla base della giustizia e del diritto (Commenti).
Non mi farete l’ingiuria di credere che io prospetti la quistione sotto un punto di vista che non sia eminentemente italiano e parlamentare.
Ma riterrei pernicioso agli interessi italiani il pregiudicare comunque codesta opera di pacificazione mondiale che trascende le ragioni stesse della guerra, e che concorre a riedificare il crollato edificio del diritto e della giustizia internazionale; così come considererei antiumanitario ogni ostacolo frapposto alla sua opera mediatrice, benedetta da tante madri, per il sollievo dei combattenti e dei prigionieri nostri fratelli italiani, belgi e francesi. Alludo alla voce corsa che si sia sconsigliato di far ricorso alla suprema autorità spirituale, che è certo la più indicata per compiere un’opera umanitaria a favore di quegli infelici.
Nessun interesse deve mai prevalere sopra l'interesse della pace e dell'umanità.
La questione io l’ho posta. E questa riguarda non solo il nostro popolo, ma l’avvenire stesso della storia e della civiltà, che mal segnerebbe la prima pagina del domani, trascurando fattori morali che dopo la guerra conquisteranno un’importanza preminente. Poiché non è chi non veda come dopo la guerra ci troveremo di fronte a questioni gravissime, che ci obbligheranno a continuare in un certo senso il criterio di abnegazione individuale che costituisce oggi la ragion d’essere e la forza morale del presente Ministero nazionale.
Ho la convinzione che i concetti suespressi siano profondamente uniti alla fortuna dell’espansione italiana nel mondo non solo, ma siano profondamente sentiti da numerosi uomini di azione e di opposto pensiero politico; gli uni guardando il problema dalle alte vette dei supremi interessi dello Stato; gli altri intendendolo come una profonda espressione della coscienza popolare.
L’onorevole Presidente del Consiglio ha già affermato come, dopo cinquant’anni di storia italiana, ora che si sta per raggiungere la pienezza del nostro risorgimento, sia giusto esaurire con sicurezza d’animo il voto per una maggiore libertà amministrativa.
Orbene, spingiamo il nostro sguardo più in alto e più lontano con illimitata fiducia nel nostro popolo che, mentre non tollererebbe mai la minima offesa agli indistruttibili diritti consacrati nelle patrie leggi costituzionali, sente tutto il grande valore di pacificazione umana e civile che proviene dalla più alta autorità spirituale del mondo. (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, tornata 30 giugno 1916, p. 10945*10949).
CIRIANI
Il Ciriani non appartiene alla categoria dei cattolici organizzati: egli proviene dal gruppo superstite della falange che fu dapprima la democrazia cristiana, che vive ora nell’eterna ricerca per trovare un accomodamento qualsiasi tra la coscienza individuale e la vecchia chiesa ufficiale. Potrebbe pertanto essere chiamato un murrista in ritardo. Per questo il suo discorso, almeno nelle parti che riportiamo, può sembrare a volte coraggioso e a volte ingenuo, nella preoccupazione di differenziarsi dagli altri deputati
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cattolici sulla concezione della guerra. Ecco quelle tra le sue parole che ci preme rilevare:
La soluzione della crisi reca un fatto nuovo e la discussione presenta una questione nuova, la quale è quasi attinente al fatto nuovo e si riferisce alla compagine parlamentare.
Ed è per questo fatto nuovo che io debbo, per ragioni di sincerità politica, dire quale è il mio pensiero, quali sono le idee, le convinzioni che mi differenziano profondamente da quegli egregi colleghi nostri che vanno sotto il nome di « cattolici deputati ».
Io non farò che brevissime dichiarazioni; però debbo mettere in rilievo il multiforme e il multicolore atteggiamento che i cattolici deputati hanno assunto in Parlamento.
La fiducia .che esprimo fin da ora cordiale, intera nel nuovo Ministèro deriva dàlia coerenza del mio atteggiamento prima e durante la guerra.
Le mie idee religiose, la coscienza di democratico-cristiano hanno contribuito fin dalla prima ora a rendermi fautore del nostro intervento nella lotta, in questa lotta per la giustizia, per la civiltà e per il diritto, e ciò io ho fatto conscio del dovere umano, delle tradizioni della nostra Patria e delle aspirazioni vere del popolo, mentre altri andavano decantando le letizie e le meraviglie della pace.
È stato detto qui, non più lungi di ieri, che la coscienza delle masse cattoliche è avversa alla guerra e si identifica, in ciò, con quelle del socialismo — s’intende! ufficiale.
E si è soggiunto che tale avversione deriva dall’educazione del popolo nella fede cristiana fatta di pace e di amore.
Non è vero!
Il cristianesimo, nelle sue radici, nella sua essenza, è abnegazione, è amóre nel sacrificio, è amore nella rinuncia ai godimenti terreni per un più alto possesso degli ideali.
Confondere l’atteggiamento di chi rifugge dalraffrontare i pericoli della guerra, il martirio forse, per godere più utilitariamente la vita terrena, con l'atteggiamento di chi, pei- una generosa accettazione del dovere, fa dono della vita a vantaggio e salvezza dei fratelli, è non aver capito nulla del cristianesimo (Commenti), e, segnatamente, della vita del cristianesimo.
Chi dei cattolici deputati dissente da queste che sono verità prenda, se ancora non l'ha, conoscenza del Vangelo in questo punto: « Nessuno ha più grande amore di questo: Dare la vita per i suoi amici ». Così S. Giovanni, capo XV, versetto 12. (Commenti, ilarità).
Ora ridete, onorevoli colleghi, perchè forse la voce del Vangelo viene in questa aula per la prima volta, ma sono certo che poi vi farà meditare!
Superato, almeno ne ho la coscienza, l’ostacolo fittizio di un cristianesimo neutralista, e spiegate le mie convinzioni, passo a dire le ragioni del mio voto in favore pieno e cordiale del nuovo Ministero....
...Ha detto l’onorevole Boselli che la nuova combinazione parlamentare ha dato modo di rappresentanza a tutte le tendenze, a tutti i partiti. Io mi augurerei che ciò fosse vero, specialmente nei riguardi dell’onorevole Meda e (perchè no?) anche dell’onorevole Comandini.
L’onorevole Meda che proviene da quella schiera di cattolici, organizzati clericalmente, che nel periodo della nostra neutralità erano contrari alla guerra, non ostante le molto platoniche tenerezze per il Belgio... l’onorevole Meda è di quei cattolici che, a guerra dichiarata, si affrettarono a proclamare ai quattro venti, e non soltanto d’Italia, che subivano la guerra quali cittadini ossequienti alle istituzioni, preoccupati forse, per quanto accenna ora l'onorevole Cappa, come i socialisti ufficiali, della politica, interna più che della situazione internazionale dell’Italia durante e dopo, specialmente dopo la guerra.
L’onorevole Meda forse, anzi di certo, non ha appartenuto però a quei cattolici,che potrebbero esistere ancora, i quali, accettando la guerra, pretendono di scindere la responsabilità, distinguendo fra quella di chi ha dichiarato e quella, ben più grave a mio avviso, di chi ha voluto la guerra, e della guerra non assumono tutte le conseguenze, facendo un giuoco o inscenando un comodo equivoco che si può definire l’ultima trasformazione del neutralismo larvato ed una comoda via d’uscita.
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L’onorevole Meda, e ciò vada a suo onore, salendo a far parte del Governo, e di un Governo che si è voluto per la guerra, tronca ogni dubbio sul proprio conto, ed offre prova coraggiosa di retto sentire, perchè l’onorevole Meda non può avere accettato di essere consigliere della Corona facendo uso di restrizioni mentali. (Bravo!)
Non può l'onorevole Meda, che conosco molto da vicino, avere accettato, se non con animo di perfetto italiano, la grande causa, per la quale si combatte.
L'onorevole Meda offre per primo la prova nel Parlamento che i cattolici agirebbero assai meglio se si decidessero ad essere,‘con sincerità ed anche per questa, autonomi nel campo politico-sociale, sempre rimanendo fermi ed ossequienti, senza pretesa di discussioni, a quanto è dogma, è tema di religione e di morale cattolica.
Non è il caso di domandarsi se e chi l’onorevole Meda rappresenti nella multicolore compagine del nuovo Gabinetto, dopo tutto quanto fu scritto di lui, nei più disparati sensi, con le più divergenti intenzioni, al suo ingresso nel Gabinetto per la guerra fino allá vittoria, dai giornali clericali, semi-clericali o cattolici.
Non torna indispensabile, anche perchè lo stésso dubbio forse potrebbe sorgere nei riguardi dell’onorevole Comandini, che, come hanno detto i suoi compagni di fede in una recente riunione, è andato al Governo per conto suo, non in rappresentanza del partito repubblicano, anzi per iniziativa personale!
La composizione del Gabinetto affida perchè in essa si trovano in prevalenza quegli uomini che più apertamente vollero la guerra, che ne furono assertori coscienti, che hanno agito come parlavano.
...Vi sono uomini che sapranno condurre la guerra senza debolezze, senza rinunzie, ed anche tenere in giusto valore le note cause che hanno concorso a determinare la Cpsi —■_ molteplici cause — quantunque nel discorso dell’onorevole Presidente del Consiglio di queste punto si sia parlato, spero per brevità!
Non. turba la mia coscienza o quella di coloro che, soltanto fuori di qui, mi sono compagni di fede politica, la presenza nel Ministero di uomini, i quali furono, come accennai, dei convertiti.
Nè mi preoccupa questa constatazione, perchè io penso che di costoro il più rappresentativo, se non rappresentante autorizzato, l'onorevole Meda, non potrà c non vorrà, e non dovrà portare nel Gabinetto altro che il suo equilibrato e valido concorso a risolvere gli ardui problemi dell'ora con animo di perfetto italiano. Non sarà l’onorevole Meda quello che si farà eco di questioni che nella stampa clericale si sono agitate unicamente per far rivivere attriti infecondi fra la Chiesa e lo Stato! (Vive approvazioni a sinistra).
Ed a me corre l’obbligo in questo momento, obbligo di coscienza, il dichiarare il pensiero mio quale uomo che, perchè sente, perchè vive intensamente ed è osservante della religione del cattolicismo, appunto per questo non può condividere quegli, atteggiamenti politici che deprimono e viziano la stessa vitalità cristiana.
Lo Stato italiano, in una legge, ha garantito alla Chiesa la piena libertà del suo ministero religioso e le ha fatto una posizione privilegiata, consona però — come doveva — all’importanza sua storica, nella nostra tradizione nazionale.
Orbene: quanto si viene chiedendo in più, rappresenta, — siamo franchi! — un tentativo di mal celata rivendicazione giuridica di posizioni stòriche, di privilegio e di dominio, morte nella coscienza del paese. (Applausi a sinistra).
Se la Chiesa anela a conquistare, come può, una influenza maggiore nella storia, cioè nella vita e quindi nella vita politica e sociale, — la deve conquistare con quei mezzi che nessuna potenza della terra mai potrà toglierle, e cioè con la santità, con l’apostolato, con il martirio dei suoi fedeli, —- vivendo lealmente nella vita moderna che m0CraZ,a’ níuggendo da <luant0 si sustanzia in protezionismo religioso. (ApAlcuni colleglli hanno accennato alla questione dell’intervento del Pontefice nel Congresso della pace, ed io, per motivi ben diversi da quelli che pur conducono ad identica conclusione, non esito ad affermare che la presenza e permanenza dell’onorevole Meda al Governo non può, nè potrà significare alcun compromesso in argomento.
L’onorevole Tovini, anzi — e vada lode a lui per la sua schiettezza — ha posto nettamente la questione della partecipazione del Papa al Congresso della pace. Ed ha ancora affermato che sarà questo un problema che farà parte delle questioni costituzionali.
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Io lodo la franchezza del pensiero del collega Tovini — dissento apertamente dal concetto informatore dell’affermazione sua — così come non posso accettare la... dilazione a pronuncia in argomento per essere ora — disse ad un giornale di Roma l’onorevole Meda — unico il problema: la vittoria! .
No, onorevoli colleglli! La dilazione sarebbe possibile soltanto se fosse da escludersi che sarà, argomento dei preliminari alle trattative di pace, mentre sono così manifesti i propositi contrari. Si lavora — e da tempo — a procurare questa partecipazione!
Ove all’Austria e alla Germania piacesse, per mettere impacci allo Stato italiano, e con questo unico scopo — non certo per tenerezza di tutela della religione cattolica — dato l’esempio delle premeditate carneficine — avanzare la richiesta dell'intervento del Pontefice nel Congresso per la pace, si potrà in serena coscienza, tranquillamente, dichiarare di non aderire. .
Certo è però che, se fosse attuabile la partecipazione del Capo della Chiesa cattolica soltanto sotto l’unico e grande, affascinante aspetto di forza morale universale, di Padre dei Cristiani, di assertore dei più sublimi principi di giustizia e di bontà, verrebbero meno tutte le evidenti ragioni che non giustificano, non spiegano, non richiedono — oggi — la partecipazione sua nella elaborazione di quella pace che darà una Europa civile, fondata sul principio di nazionalità. Come tale, infatti, il Gioberti ripetutamente lo affermò ed invocò arbitro nei conflitti internazionali. Tanto più ora, se consideriamo la dichiarazione della Santa Sede che si è affermata neutrale, mentre ciascuno di noi rileva la differenza che passa fra neutralità ed imparzialità, e se non dimentichiamo che c’è, per obbrobrio del mondo civile, un regnante insensibile, impietrito dal delitto, che, oltraggiando il cattolicesimo, passa ancora per maestà cattolicissima. (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, fornata del 30 giugno 1916, p. 10950-10953).
NAVA
L’on. Nava Cesare, a nome dei restanti deputati cattolici, che non avevano nulla di particolare da dire ai colleghi di Montecitorio, espresse la fiducia nel nuovo Governo, indice della concordia e della cooperazione di tutti i partiti, anche di quelli, fra i quali il cattolico, che « ripugnanti per principio alla guerra, la guerra lealmente accettarono una volta proclamata » ed ora partecipano direttamente « nelle gravi responsabilità di Governo». Ed a proposito di cooperazione e di accettazione completa della responsabilità della guerra il Nava diceva:
Noi siamo ben lieti ed orgogliosi che anche a noi — nella persona autorevole di un nostro carissimo amico — sia stata chiesta tale cordiale cooperazione: ma permettetemi di dire con tutta franchezza, che questa soddisfazione, che noi altamente apprezziamo, ci era dovuta, per l’opera leale che sempre, e non soltanto in questo momento tragico della vita nazionale, noi, e coloro che noi più direttamente rappresentiamo, abbiamo dato, per la prosperità e la grandezza della patria, e per il benessere e la elevazione morale del suo popolo.
La cooperazione più elevata, che ora ci si chiede, e che lascia intatte le nostre precedenti responsabilità, noi siamo ben contenti di poterla dare, anche sé ciò potesse per avventura costare a parecchi fra di noi — specialmente per gli effetti di una propaganda speculatrice dei dolori inerenti alla guerra — la perdita della rappresentanza della quale ci sentiamo ora onorati: ma, come ben disse tempo fa un nostro egregio collega, noi siamo troppo piccola cosa, perchè possiamo pretendere di pesare sulle decisioni di questa ora tremenda: ed il sacrificio che ci si richiedesse, sarebbe, dopo tutto, il minijno che noi potremmo fare per la grandezza della patria. (Atti Parlamentari, p. 10957-10958).
Chi era dunque nel vero, chi assumeva il giusto circa l’atteggiamento dei clericali italiani di fronte alla guerra e di fronte al significato dell’assunzione di uno di loro al potere? L'Osservatore Romano e V Unità Cattolica, ovvero i giornali del
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trust e la Settimana Sociale, Miglio!i o Ciriani, Tovini oppure Nava? Evidentemente, nessuno.
Come alla stampa clericale fece letizia e gioia il discorso dell’on. Livio Tovini per aver portato in Parlamentóle aspirazioni vaticane, per l’intervento pontificio al congresso della pace, così pure fece delusione c rabbia Fon. Marco Ciriani deprecante l’intervento stesso. E la rabbia non si contenne, ma esplose virulenta sui giornali cattolici di ogni tendenza. A titolo di documento riferiamo brevi periodi di tali giornali appositamente scelti per la loro diversità d’indirizzo.
Il Corriere d'Italia, l’organo magno del trust clerico-modernizzante, così commentava (n. del i° luglio):
Nella seduta d'oggi è apparso notevole, nel discorso dell’onorevole Tovini, l’accenno all’opera nobilissima del Papa nel conflitto europeo. Qualche deputato d’estrema ha tentato di interrompere; ma la maggior parte della Camera ha mostrato di non' essere disposta ad assecondare il piccolo sfogo anticlericale.
Parla poi Fon. Ciriani, un isolato che si qualifica « democratico cristiano ». Bisogna intendere «democratico cristiano... murriano ». E infatti Fon. Ciriani ha parlato come avrebbe parlato l’ex deputato marchigiano prima di diventare, come è poi diventato, apertamente anticlericale e collaboratore dei giornali della massoneria. Non staremo ad esaminare ciò che ha detto Fon. Ciriani: tanto pili che si tratta di roba ben vecchia. Egli è stato applaudito da quella parte della Camera che trovava divertente sentir dire da lui cose che da anni ed anni sono il cavallo di battaglia dell'eloquenza liberale anticlericale. Insemina Fon. Ciriani ha avuto un successo schiettamente massonico: chi si contenta...
Il giorno dopo (2 luglio) V Osservatore Romano annotava a sua volta:
L’on. Ciriani, spiegando ieri alla Camera le sue credenziali di « democratico cristiano », ha omesso di aggiungere a questa sua auto-presentazione una nota caratteristica, quella cioè di essere un solitario superstite del murrismo d’infausta memoria; ciò che sarebbe bastato a dare un’idea esatta del suo « cattolicismo » religione che disse di vivere intensamente. Ma a questa sua omissione esso ha largamente supplito con le sue parole e con i suoi apprezzamenti sulle condizioni della Santa Sede, parole ed apprezzamenti che non sono certo quelli propri della massa dei cattolici italiani e che ad essi possano convenire.
Del resto la natura e la provenienza degli applausi e delle felicitazioni, onde vennero accolti, sono la più eloquente dimostrazione che sotto l’etichetta del suo « democratismo-cristiano » e del suo « intenso cattolicismo » egli non fece che rimettere in circolazione e presentare sotto altra forma alla Camera i vecchi e screditati luoghi comuni del liberalismo anticlericale.
Il giornale dell’on. Miglioli, il sindacalista cristiano deputato di Soresina, Y Azione di Cremona. (2 luglio), scriveva:
L’on. Ciriani — e ce ne spiace profondai! ente — sfogando il suo interventismo uscì in frasi e in affermazioni che tutta la stampa cattolica giustamente deplora. Fu una ondata del vecchio murrismo anticlericale che passò attraverso alla Camera, tra le acclamazioni degli uomini più notoriamente avversi ai principi cattolici e il biasimo aperto degli altri.
Il solito giornale fiorentino scaraventava sul Ciriani tutto un articolo dal titolo: « Ha superato gli anticlericali » (n. del 4 luglio), dal quale desumiamo queste righe:
In un primo èd immediato resoconto parlamentare della seduta del 30 giugno, fornitoci dalla « Stefani », ci fecero impressione penosa le dichiarazioni dell’on. Ciriani’, con le quali il deputato di Spilimbergo osservava che qualora l’intervento del Papa al Con-
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gresso della pace » fosse proposto da potenze nemiche per creare imbarazzi (sic} al nostro, paese, il nostro Governo potrà opporvisi con sicura coscienza ». Ma più tardi, letto un resoconto dettagliato, la nostra impressione è stata ancora più penosa, disastrosa addirittura nei riguardi dell'on. Ciriani, che, fidando nella sicura coscienza del Governo, dimostrava poi nel fatto di mancare egli stesso di sicura coscienza per la valutazione di tutto un complesso di cose, che impongono serenità di giudizio specialmente dal posto dal .quale egli parlava.
Corruplio optimi pessima: lo prenda per sè il deputato di Spilimbergo, applichi e faccia sermone... giacché il bandierone dell’anticlericalismo, da lui agitato con supina incoscienza facendosi acclamare da un ambiente, tutt’altro che favorevole alla Chiesa ed al Papa, gli avrà acquistato il grave demerito di aver superato gli stessi anticlericali, i quali non hanno disarmato durante la guerra; che anzi, vedendo sempre più assurta a grandezza morale, singolarissima, l’alta autorità del Vicario di Cristo nel concerto internazionale e nella coscienza dei popoli, hanno avuto un fremito d’indignazione: quella di Satana per le vittorie di Cristo.
L’ORGANO PONTIFICIO CONTRO IL "CONFUSIONISMO” DELLA CHIESA
Dal canto suo la stampa liberale levò ai sette cieli il discorso del deputato di Spilimbergo, in cui trovò — nientemeno — una rivelazione dello spirito che anima tulli i cattolici di oggi a cominciare dai capi alle ultime propaggini. Purtroppo il liberalismo italico si accontenta per solito di simili iperboliche scempiaggini, e se ne compiace e vi si ravvoltola tutto. È per questo che ogni volta che qualche nuovo richiamo, qualche nuova protesta papale o qualche scritto di giornali ufficiosi fa loro ricordare che in ogni caso non sarebbe nè la volontà dei singoli cattolici e neppure la loro volontà collettiva quella che conta nel cattolicismo, ma la volontà di un solo a cui i cattolici stessi debbono supinamente obbedire, fanno le più grandi meraviglie e gridano quasi allo scandalo. Certo, ad esempio, i loro commenti e le loro iperboli per quel poco che disse il Ciriani sanno di ironia posti in raffronto a quanto nel suo numero del 28 agosto VOsservatore Romano col titolo: « Bando alle confusioni » pubblicava, commentando e riducendo alle volute proporzioni quel che i cattolici italiani debbono fare per la guerra. Vi si leggeva infatti:
Però da queste premesse, non consegue, certo, che i cattolici da prima a dopo la guerra abbiano mutato; che qualche cosa di nuovo si sia infiltrato nelle loro file; che abbiano dovuto transigere verso sistemi e metodi, modi di concepire le situazioni che essi prima della guerra non potevano o non volevano accettare.
Da un cinquantennio i cattolici italiani si trovavano in una posizione particolare rispetto agli avvenimenti politici che erano avvenuti nel loro paese. Rimanendo pur sempre buoni cittadini, ossequenti delle leggi, lontanissimi da ogni idea di insubordinazione, anzi avversarii di ogni propaganda in senso di ribellione rivoluzionaria, veri e leali sostenitori dei poteri costituiti, essi non avevano potuto mai tranquillizzarsi rispetto alla condizione fatta al Sommo Pontefice cui mancavano, e cui mancano la necessaria libertà nel governo spirituale della Chiesa.
Da ciò un certo tal quale disagio in tutte quelle pubbliche manifestazioni che implicavano adesione completa, incondizionata al nuovo ordine di cose. Gli stessi liberali onesti comprendevano tutto ciò, ed apprezzando la lealtà dei sentimenti dei loro concittadini di parte cattolica, ne accettavano la cooperazione e le alleanze, lasciando impregiudicati 1 punti risguardanti l'acquiescenza della Santa Sede sul modo di esercitare la sua sovranità spirituale nel mondo. Solo gli anticlericali di professione, i massoni di mestiere ed i socialisti positivisti e razionalisti, ogni tanto muovevano in battaglia su questo cavallo di Troia sfruttato e disautorato.
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Ora è evidente che le condizioni fatte all’Italia dalla guerra europea in genere e dalla guerra italo-austriaca in ¡specie, non hanno rapporto diretto con quelle questioni di cui abbiamo superiormente accennato, poiché questa guerra nulla ha mutato alle condizioni del Papa in Roma, o tutto al più le ha mutate alquanto in peggio.
Ed i cattolici che vogliono essere veramente consenzienti con sè medesimi, non hanno ragioni di approfittare dell’occasione, per modificare la loro condotta e per seppellire in certo modo per loro conto quelle pregiudiziali che se erano legittime fino al 1914 lo dovranno essere pure nel 1916.
E però anche nell’adempimento coscienzioso dei loro doveri di cittadini, anche prendendo il più vivo interessamento per le sorti della patria, non è per i cattolici nè lecito, nè conveniente di accomunare discorsi e vessilli, fanfare e cortei, quei discorsi, quei vessilli, quelle fanfare e quei cortei che piacciono a coloro che fino a ieri militavano sull’altra sponda e di là. gettavano bombe a mano nel nostro campo!
È vero o non è vero che la rivoluzione italiana è stata disgraziatamente fatta tutta in odio alla religione cattolica, al suo Capo, ai suoi ministri, alle sue istituzioni? E se ciò è vero, e se è vero che certi sistemi e certe massime fondamentali non sono state mutate e che il massonismo trionfa ancora in molte sfere, dobbiamo essere proprio noi le vittime cinquantenarie, di questi sistemi e di queste massime a turibulare al vento inni di solidarietà e concioni di supine adesioni?
E tanto più feroce parrebbe l’ironia pensando che tale articolo era intenzionalmente pubblicato il giorno prima di quello in cui il Meda avrebbe pronunziato un suo discorso politico in un banchetto offertogli da' suoi correligionari a Milano, discorso e banchetto di cui si parlava già dà qualche tempo ed al quale intervennero o aderirono senza riserve moltissimi tra i deputati ed i pezzi grossi del clericalismo italiano. L’articolo deW Osservatore voleva pertanto essere un monito al neo ministro, perchè inter poetila non si lanciasse a certi voli in cui le corte penne di cattolico non lo avrebbero sorretto. Ma il Meda o non intese, o, credendosi ormai superiore all'umile gregge clericale, fece finta di non udire, e nel suo discorso, quasi a sfida, si lasciava andare ad affermazioni sull’anima clericale di fronte all’Italia attuale e di fronte alla guerra, come queste che riportiamo per saggio:
A questi vincoli — di memorie, di affetti, di fede comune — a questa comunanza, io avevo la mente rivolta anche il giorno in cui accolsi l’invito di partecipare al Governo: comprendevo cioè come quell’invito avesse un significato che non era lecito a me di sopprimere e che non accettando avrei invece soppresso con danno attuale e futuro di tutto un movimento salutare, al quale sono congiunti interessi vitali non tanto di un partito o di una causa politica, quanto di un intero ordine di idee; sentivo che era giunta l’ora di affermare anche più risolulamente che in passato non ci fosse stalo possibile di fare, la fusione della nostra anima religiosa con l’anima nazionale, e di dissipare l’ultima nube che ancora circondasse il nostro assoluto lealismo: nel quale io vedo, voi lo sapete, una condizione inderogabile perchè qualsiasi nostra azione in mezzo alla società moderna riesca pratica e feconda.
Chiunque altro al mio posto non si sarebbe contenuto diversamente; perchè a nessuno avrebbe potuto sfuggire il fatto, che nell’ora in cui l’uomo venerando ed illustre incaricato dal Sovrano di comporre il Gabinetto, attestava l’autorità, anzi la necessità che anche dalle nostre file si scegliesse un collaboratore, ogni esitanza sarebbe apparsa — e forse sarebbe stata — una imperdonabile debolezza, un errore irreparabile, e permettetemi di aggiungere, una colpa verso la Patria.
Sì, verso la Patria; giacché è nel nome di essa, è nel nome dei supremi interessi dell’Italia, è nel nome del suo avvenire, che tanti uomini di diverse originie di diverse tendenze, tanti uomini che in condizioni normali non avrebbero forse mai concepita la possibilità di trovarsi associati nell’esercizio del potere, che anzi avrebbero considerata una simile ipotesi come contraria alle buone norme costituzionali, hanno intuita la grandezza e la
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bellezza di un atto diretto ad esprimere in faccia al popolo ed all’esercito, di fronte al mondo ed alla storia, la decisa, concorde volontà dell’Italia di vincere nel cimento affrontato; perchè vincere è vivere; vivere onorati, rispettati, liberi, indipendenti, come solo si conviene ad un paese non immemore dei suoi dolori e delle sue glorie, non incurante dei suoi destini e della sua missione.
... Se fu patriottismo la difesa della neutralità finché fu lecito sperare che essa ci avrebbe risparmiato i danni e i dolori dell’intervento, sarebbe stato errore e colpa il persistervi il giorno in cui apparve che dolore e danni maggiori sarebbero derivati dall’osti-narci ad evitarlo. Nè può più ammettersi oggi che l'Italia avrebbe potuto e dovuto continuare a mantenersi in un rigoroso riserbo, senza disconoscere le emergenze dei fatti, entro i quali è vano lottare, e dai quali è troppo facile essere travolti quando ci si ostini a negarli sol perchè si preferirebbe che fossero diversi da quel che sono.
E con ciò noi non rinunciamo alle concezioni della educazione cristiana, noi non eleviamo un altare alla guerra, noi non la riabilitiamo come mezzo per regolare i rapporti internazionali, noi anzi questa guerra auguriamo sia l’ultima in Europa e se fosse possibile nel mondo; ma cadremmo in un'altra illusione se non accettassimo l’insegnamento e lo ammonimento che da essa scaturisce, come saremmo ingiusti se le negassimo un qualunque valore nella evoluzione della civiltà.
...Io non ignoro che un’assidua propaganda a noi ostile tende a dipingerci presso i ceti popolari come corresponsabili del protrarsi dello stato di guerra, dal momento che non esitiamo a proclamare la pace essere il frutto soltanto della vittoria — vittoria nostra e dei nostri Alleati — ed essere perciò necessario di pagare alla Patria tutto il tributo che ancora essa richiede perchè la vittoria si consegua: ma saremmo immeritevoli di qualsiasi considerazione politica se, davanti alla visione obbiettiva dell'interesse nazionale, esitassimo nella nostra condotta, e non dessimo tutto il nostro appoggio alla resistenza del paese, dalla quale, oltre che dalla resistenza dell’esercito, il successo deve attendersi immancabile.
Se alcuno v’è fuori di noi che sappia pensare all'ipotesi di una Italia sminuita e svalorizzata per difetto di tenacia e di concordia, lo faccia pure, e s'acqueti, se può, nella sua coscienza di cittadino: noi una ipotesi simile non sapremmo dissociare dal voto di non essere vivi al suo realizzarsi.
Ma ci sorregge invece più che mai viva e incrollabile la fiducia di essere riserbati alle maggiori fortune della Patria, la quale colla dura prova sostenuta avrà acquistato un titolo incontrovertibile a mantenere in Europa il posto che le spetta, integrata nei suoi confini naturali, e difesa contro ogni pericolò futuro dalla fedeltà delle amicizie contratte sui campi di battaglia, dalla prosperità e dalla tranquillità interne, dal senno e dal valore dei suoi figli più degni.
E tra questi dobbiamo proporci di essere noi, che l’Italia amammo sempre nella raccolta e talora nascosta devozione, fatta insieme di tenerezza e di rispetto: noi ai quali una religione divina insegna come ogni utilità individuale e terrena e la vita stessa siano da subordinarsi alle ragioni superiori della convivenza e del progresso sociale.
Di nuovo i giornali liberali, popolari, progressisti, ecc. d’Italia levarono gridi di gioia perchè i clericali erano ormai dei bravi patriotti e non pensavano più alle viete rivendicazioni papali, ed anche la guerra la volevano sino in fondo, e via di ser guito. Passati gli entusiasmi del primo momento, ecco la caritatevole doccia dell’Os-servatore Romano (n. io settembre), il quale ripetuto il titolo: «Bando alle confusioni » e riconfermato quanto abbiamo sopra riportato, dice che gli sembra d’essere alla vigilia di un nuovo confusionismo, pel quale si cerca di svisare la fisionomia dei cattolici e la loro azione. Ciò a proposito di quanto disse il Meda nel suo discorso, nel quale le cose espresse
« non potevano per fermo venire considerate che quale espressione dell’idee personali dell oratore, nè le adesioni preventive al convegno potevano importare una anticipata adesione a ciò che ognuno ignorava prima di avere udito le. parole dell’oratore medesimo ».
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Indi l’organo pontificio proseguiva con solennità:
I cattolici italiani, infatti, all’inizio del presente conflitto, compresero bene ed adottarono lealmente quello che era per essi l’adempimento del loro dovere: dovere di disciplina incondizionata e d’ossequio alle decisioni dei poteri dirigenti, dovere di osservare coscienziosamente tutti gli obblighi di buoni cittadini, dei migliori anzi fra i cittadini, <Ji non creare imbarazzi alle autorità, di affrontare serenamente i sacrifici che loro venissero imposti, senza riserve e senza lamenti, ma senza venir meno per questo ai loro principi ed ai loro ideali. Tutti questi doveri i cattolici italiani li compresero e li adempirono nel modo più scrupoloso ed esemplare.
Ed è pur sempre agli stessi ideali che essi intendono certamente d’ispirarsi nel formulare i loro voti e nell’esprimere le loro speranze per quando suoni l'óra tanto bramata che porrà termine al presente conflitto. Essi, infatti, debbono sinceramente augurare e far voti perchè al cessare delle ostilità si instauri nei rapporti internazionali un’èra di pace vera e sincera, fondata sul rispetto della giustizia- e dei rispettivi diritti, ed ispirata ad un sentimento di fratellanza e di reciproca benevolenza, cancellando coll’oblio e col perdono le tracce dei passati rancori.
Chè se questo non dovesse avverarsi, ed è a temere che non avvenga, qualora le pacifiche assise che dovranno porre termine all’attuale carneficina, non siano ispirate ai principi delia religione cristiana, i cattolici se ne dorranno perchè la pace non poggierà sopra basi solide e durature, ma continueranno a sopportarne rassegnati le conseguenze, e faranno anche allora, come al presente, come sempre, il loro dovere di buoni cittadini. Ciò non significa peraltro che una così fosca prospettiva non debba essere da essi deprecata con tutto l’ardore del loro sentimento e della loro coscienza cattolica, che ha già dovuto sostenere una prova ben dura nel dover far tacere, nella presente conflagrazione, i loro ideali di pace e di fratellanza.
Considerare pertanto l’espressione di personali opinioni, meno conformi a questi concetti ed a questi ideali, siccome l’esponente di un'evoluzione dei cattolici e del pensiero cattolico in ordine alla guerra e alle sue conseguenze; voler dare al fatto della presenza di ragguardevoli persone o di preventive adesioni ad una riunione, il significato di una anticipata ed incondizionata accettazione di quanto in essa si fosse per fare o per dire, ci sembra un volere ingenerare, come dicemmo giorni or sono, sotto un altro punto di vista, confusioni pericolose, che debbono essere bandite da chiunque sia amante della verità e della schiettezza, e però dai cattolici in modo particolare.
Questi, durante e dopo la guerra, intendono di rimanere quali erano prima in tutto e per tutto, senza rinunzie o transazioni di sorta sul modo di apprezzare e giudicare uomini e cose, fatti e situazioni, senza nulla modificare delle loro convinzioni e della loro condotta, fermi sempre nei loro principii, fedeli sempre alle loro aspirazioni, costantemente informate a quello spirito di amore e di carità che forma il più. bello ornamento della loro onorata divisa.
UN “PROGRAMMA CONCRETO:
IL PAPA AL CONGRESSO!”
Il motto « Bando alle confusioni » fu per i clericali di vecchio stile come una parola d’ordine, tantoché V Unità Cattolica ringalluzzita riprendeva più vivacemente che mai il suo Delenda Cafthago. contro i cattolici modernizzanti ed i giornali del trust, dando fiato alle trombe per lanciare il suo millesimo appello, che, come gli altri, resterà inascoltato... Proclamava infatti nel n. del 15 settembre:
Benedetta questa parola — Bando alle confusioni! —che rischiara, solleva, rinfranca; tanto più benedetta perchè uscita dal più autorevole dei giornali cattolici italiani, VOsservatore Romano (n. 250). Ma non attribuiamo tutta agli avversari la colpa del confusionismo in cui navigano le nostre organizzazioni ed i nostri uomini che a gran voce invocano l’estollersi di un vessillo chiaro, preciso, che domandano l’idea madre colla quale nutrire le intelligenze che aspettano la nostra parola: no.
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La colpa del confusionismo è anche nostra, perchè abbiamo accettato la neutralità del Governo, non la neutralità nostra e poi abbiamo seguito tutti gli atteggiamenti governativi fino alla feluca ministeriale sul capo di chi ha pur detto — ricordiamolo — che nessuno al posto di lui avrebbe agito diversamente.
Non fa uopo riaprire tutti i giornali dell’« Editrice » (a proposito staremmo allegri se la squilla propagandistica dovesse venire ai giornali di provincia da un centro unico tanto bene ispirato!), non fa uopo rammentare moltissimi discorsi fatti e prima e dopo la dichiarazione di guerra per capire che noi si era l’eco di Salandra, che giurammo su Sa-landra senza capire che egli era il Durian del Ministero incaricato di tenere a bada i cattolici per ammannir poi loro, d’accordo con Sonnino, il patto di Londra.
Bando alle confusioni !
Diamo dunque ora per riacquistare la nostra posizione indipendente e la nostra magia presso le masse — la magia affascinatrice dell’idea cristiana, della civiltà cristiana— diamo ai venti il nostro bando.
Il Papa al Congresso della pace!
Lo vogliamo come rappresentante del Cristianesimo, perchè vogliamo un’Europa assisa sulle leggi della giustizia e dell’amore cristiano.
Nazionalismi, imperialismi, democraticismi, internazionalismi non sono per noi.
Del regno umano
Cristo Sovrano,
il cittadino Cristo di Parini, il Cristo re di Savonarola, il Cristo cui chinano la fronte Dante e Aroldo.
Finita la guerra a nostro avviso, non avremo la rivoluzione economica paventata da Luzzatti, e a scongiurare la quale consiglia la preparazione economica, ma bensì lo spostamento delle basi della sovranità. Siamo col Bellonci: la sovranità uscirà dal sindacalismo; non più dal voto individuale, ma dal voto delle classi organizzate.
Muratori in Senato, polemizzando col professore di filosofia della Università di Napoli di cui ci sfugge al momento il cognome, diceva: «Oh che volete che la guerra sia decisa col referendum »?
II « referendum » no, ma non sarà più tollerato che della vita dei cittadini dispongano i Gabinetti. I Parlamenti non saranno più l’espressione dei voti polverizzati, ma dei voti coalizzati. Ai trusts industriali corrisponderanno i sindacati operai e gli uni come gli altri voteranno col tramite del mandato imperativo.
A coteste coalizioni professionali bisogna dare un’anima ideale perchè non affoghino nella gora del materialismo. L’idealità non può venire che dal cristianesimo, specialmente in Italia dove il cristianesimo è midollo della storia nazionale. Questo cristianesimo deve affermarsi con un programma concreto di coltura, non di rivendicazioni politiche, programma concreto che lo incarna nel grido: il Papa al Congresso!
Programma che è capace di ricomporre la fratellanza fra i cattolici di tutte le nazioni, oggi pur troppo rattiepidita da contrasti, dalle finalità in urto dei vari conglomerati statali.
Il Papa al Congresso!
Al discorso dell’on. Tovini, il più forte ed organico discorso che sia stato pronunciato dai cattolici deputati nel nostro Parlamento, il Governo non ha risposto.
Noi siamo in grado per informazioni sicure di affermare che solo l’on. Sonnino, cioè l’Italia, ha opposto il veto all'ingresso del Papa nella conferenza della pace ed anche questo con una forma non definitiva.
Se sapremo inalberare questa bandiera ci trascineremo dietro il popolo anzitutto e poi la schiera di tutti quei deputati che sono saliti esclusivamente col voto nostro.
Obblighiamoli per tempo a schierarsi con noi o contro di noi. I confusionismi saranno davvero messi alla porta.
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Il bando clericale si risolve dunque in un quos ego ai deputati gentilonizzati (1) e... nel sindacalismo di Stato, di uno Stato senza nazionalismi, imperialismi, democraticismi, internazionalismi. Il « Bando alle confusioni » ha reso folli... di gioia i vecchi clericali, che si sono convertiti ad un tratto al sindacalismo ed al... futurismo.
* » *
Sempre in rapporto al discorso Meda ed all’« assoluto lealismo » dei clericali che egli annunziava^ non sarà inopportuno ricordare qui come VOsservatore Romano considerasse (n. del 19 settembre) come « uno strappo all’invocata concordia nazionale » i festeggiamenti che si preparavano per la ricorrenza del XX settembre, ripubblicando e dichiarando associarsi pienamente « ai giusti ed assennati rilievi » di quel giornaletto pamfletario che fu la Riscossa dei fratelli Scotton di infelice memoria, e che ora si continua a pubblicare a Torino. Il passo riferito dal giornale pontificio diceva:
Non possiamo nascondere il profondo rammarico che abbiamo provato alla notizia data dai giornali, che la nota ricorrenza del XX settembre voglia quest’anno celebrarsi con particolare solennità. Avremmo invece creduto che, in omaggio a quella concordia nazionale di cui tanto si parla, si sarebbe datp il minor rilievo possibile ad una ricorrenza storica, sul significato della quale è certamente tutt'altro che unanime il consenso degli italiani.
Come volete che i cattolici si uniscano di cuore a festeggiamenti per una data, che ricorda le amarezze, i dolori del Padre comune dei fedeli ? Chi ardirebbe dire che tali feste siano un omaggio .al Papa, un atto di devozione, di onore, di affetto al Vicario di Gesù
(1) Ad imporre il quos ego a chi coi clericali patteggiò ieri, non è solo il vecchio organo di Casa di Lorena. Siccome ciò può aver valore per un prossimo domani, ricordiamo qui la paternale fatta dal giornale ufficiale del Vaticano (n. del 18 luglio) all’assessore del Comune di Roma, avv. Di Benedetto il quale, commemorando sul Gianicolo la battaglia di Bezzecca, aveva ad un dato punto del suo discorso esclamato: « Bezzecca è nostra e noi giungeremo a Trento per glorificare il grande che da secoli bandiva il vaticinio della sua redenzione. E Garibaldi ora guarda con occhio sereno e forte il Vaticano vinto! ». Ecco l’intemerata del foglio papale di cui ci par bene interessante l’ultimo capoverso:
« Carità di patria ed il riguardo dovuto alla persona dell’assessore Di Benedetto, nel quale abbiamo sempre apprezzato, pari alla svegliatezza dell'ingegno ed all’eloquenza della parola, la moderazione e la correttezza dei modi, ci avrebbero consigliato a passare sotto silenzio, sopprimendole completamente, queste infelicissime sue parole.
« Ma poiché le abbiamo viste raccolte e pubblicate dall'organo democratico del mattino e da qualche altro organo di quella stampa cui solo può tornare accetta siffatta prosa, non crediamo di potere abbandonarle al ben meritato oblìo, e risparmiare ad esse il biasimo che è loro giustamente dovuto.
« Se volessimo trovare per esse non certo una attenuante, ma almeno una spiegazione sulle labbra dell'assessore Di Benedetto, dovremmo dire che egli abbia avuto un momento di amnesia o di semi-incoscienza, e che, suggestionato dalla qualità stessa del pubblico che aveva dinanzi, nella ricerca affannosa di un applauso che tardava a venire, siasi lasciato sfuggire quella infelicissima frase, degna appunto di quel pubblico e che esso soltanto avrebbe potuto gustare ed applaudire.
«Dobbiamo peraltro raccomandare al valente giurista e all’oratore facondo di guardarsi bene per l’avvenire da siffatti accessi di amnesia che possono in un istante fargli perdere la considerazione meritamente acquistatasi in mezzo alle persone dabbene, cioè in seno a quel pubblico che esso ben conosce cd apprezza e che è degno di lui ».
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Cristo? E se tali non sono, se hanno anzi un aspetto del tutto contrario, non è forse assurdo il credere che i sinceri cattolici possano associarvisi ? E come mai non si vede che esse fomentano il dissidio, lungi dal consolidare la concordia degli animi?
Sappiamo di molti autorevoli liberali che in tutto l’avvicendarsi dei quarantasei anni ornai trascorsi dalla breccia di Porta Pia, sempre opinarono non essere cosa nè patriottica, nè civile, nè di sana politica, n’è di gentilezza italiana, l’insistere sul festeggiamento di quella data; perchè pur plaudendo anch'essi da liberali autentici all'occupazione di Roma, trovavano inutile, anzi dannoso ricordare di continuo il modo della conquista e l’offesa recata al Papa, perpetuando e inasprendo un dissidio che essi speravano potesse col tempo svanire.
No, il dissidio non può svanire, perchè è sostanzialmente ben più profondo di quel che apparisca ad uno sguardo superficiale, e si assomma nel celebre motto di Giuseppe Ferrari: — Noi non potremo avanzare di un passo senza atterrare la Croce. — Ma se il dissidio non può svanire si può almeno evitare di accrescerlo, e non *è al certo cosa nè utile nè prudente, nè generosa, nè logica in tempi di pubbliche ansietà, e di continui appelli alla concordia degli animi, ricordare fastosamente i motivi del gran dissidio, ed insistervi con feste che fanno amaro contrasto coi lutti di tante famiglie, e colla gravità dell’ora presente.
Vogliamo perciò ancora7sperare che i membri del Governo sappiano astenersi dal partecipare solennemente a tali manifestazioni.
« « «
Ecco pertanto documentata a sufficienza la politica del clericalismo italico. Potremo dilungarci ancora sul soggetto commentando la tentata montatura del caso • dell’arciprete di Copparo, che dopo più di un mese di chiasso inutile si volle alfine posto in tacere dalla Giunta direttiva dell’azione cattolica con una circolare riservata che ne rivelava tutto il bluff, le divergenze tra cattolici popolari contro sindacalisti cristiani e la relativa ’ridicola protesta del deputato Longinotti contro il deputato Migliolì, ed altri fatti più minuti, ma interessanti anch’essi, sulla speculazione religiosa sulla guerra e sul sagace sfruttamento di questa. Ma, riservandoci di tornare sul soggetto, se lo crederemo opportuno, in avvenire, chiudiamo questo capitolo di cronache deplorando ancora una volta la leggerezza con cui i fatti che ne formano l'oggetto vengano considerati, leggerezza che si risolve in una politica troppo piccina per la tragicità dell’ora che attraversiamo.
Ernesto Rutili.
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IL PONTEFICE ROMANO
E IL CONGRESSO DELLE POTENZE PER LA PACE
L’INCHIESTA NAZIONALE r)
econdo logica, date le origini della guerra, si dovrebbero, nel Congresso della Pace, trattare non solo le condizioni di pace, ma risolvere anche tutte le quistioni internazionali e nazionali che hanno dato luogo direttamente o indirettamente alla guerra e che potrebbero esser fomite di nuove guerre.
Se così non fosse, l’attuale guerra sarebbe stata più che inutile, disastrosa per l’Europa tutta.
Come conseguenza di questa premessa, dovrebbero — se
è necessario — esser chiamati anche i Capi di Stati neutri, se pur ne resteranno alla fine della guerra.
È da escludersi, invece, l’intervento di Capi o delegati di Chiese di qualsiasi specie o di Capi di qualsiasi religione. Basterebbe osservare che il Capo di una Chiesa non può considerarsi equiparato a Capo di uno Stato, priva come quella è di- territorio e di sudditi viventi ed operanti nel territorio medesimo. Ma ove non bastasse, occorre considerare che quella attuale non è guerra religiosa o nella quale la religione abbia avuto o abbia alcuna parte diretta o indiretta. È, invece, guerra per la difesa ed il trionfo del principio di nazionalità contro le mire di una pazzesca egemonia su tutti i popoli finora liberi. La Chiesa e la religione, quindi, sono fuori della lotta.
(i) Vedere nei fascicoli precedenti di Bily clini s il questionario di G. Quadrotta e le risposte di P. Blaserna, A. Chiappelli, M. Mazziotti, G. De Lorenzo, l. Bonomi, A Bussi, P. Cogliolo, A. Solmi, G. Cimbali, G. Arangio-Ruiz, U. G. Mondolfo, U. Janni, G. Pioli, L. A. Villari, A. Cervesato, E. Faelli, O. Raimondo, F. Crispolti, A. Loria, M. Siotto-Pintor, A. Groppali, A. Levi, M. Puglisi, G. A. Borghese, F. Orestano, R. Murri, P. Mo-lajoni, S. D’Amico, R. Ottolenghi, E. V. Banterle.
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La presenza di un Capo gerarchico di Chiesa o religione, come preteso complemento della rappresentanza degli Stati, è nel più aperto contrasto col carattere fondamentale di quasi tutti gli Stati moderni, perchè nessuno Stato fa obbligo ai proprii sudditi di seguire o adottare una data religione. Dove il principio della libertà di religione non è riconosciuto da carte statutarie è riconosciuto in via di fatto. Caso tipico quello dell’Italia, in cui, malgrado la religione cattolica apostolica romana sia dichiarata dallo Statuto la sola Religione dello Stato, lo stesso Statuto aggiunge subito che gli altri culti sono tollerati; ma in seguito, con parziali decreti (27 febbraio, 29 marzo, 19 giugno 1848, ecc.) coll’accordare il riconoscimento dei diritti civili e politici ai seguaci di altre religioni si venne a poco a poco a creare quella che è la formula classica della politica italiana: libera Chiesa in libero Sialo.
Comunque, certo è che i Capi di Stato — anche quelli nei quali è confusa la qualità di Capo di Stato e Capo di religione, partecipano alla guerra attuale indipendentemente da ogni principio religioso e quindi solo colla stessa indipendenza possono intervenire nel Congresso della Pace, dal quale deve essere bandita ogni discussione in materia di religione.
A parte i sovrani, i popoli stessi sono accorsi sotto le bandiere chiamati dall’osservanza delle leggi civili, oltre che dal dovere di difendere il proprio territorio da aggressioni nemiche, senza che la religione abbia avuto su essi alcuna influenza.
Anzi, se una qualsiasi influenza si tentò di esercitare in base al principio religioso, essa fu, in qualche Stato, contro la guerra, specie dove essa aveva carattere più spiccato di lotta di nazionalità. Valga per tutti qualche tentativo fatto, in Italia, dalle alte sfere vaticane nel periodo di neutralità, ma rimasto assoluta-mente inascoltato dalla massa dei cattolici che, accorrendo a difendere la Patria, hanno dato nobilissimo esempio di patriottismo e di indipendenza dalle mene della politica vaticana.
Si può dire, a questo riguardo, che la quistione è stata risoluta di fatto dagli stessi combattenti. Si trovano, infatti, cattolici che combattono nelle trincee italiane contro altri cattolici che si trovano nelle trincee austriache. Lo stesso, press’a poco, può dirsi dei protestanti inglesi combattenti contro quelli tedeschi e via di seguito.
È evidente, così, che l’interesse nazionale si è sovrapposto dovunque a qualsiasi principio o dovere religioso; e quindi le Chiese ed i loro rappresentanti non hanno alcuna veste per intervenire in un Congresso in cui si dovranno regolare i diritti dei popoli in base ai principii di nazionalità.
Ciò posto, il rappresentante esclusivo di una Chiesa 0 di religione può essere un grave elemento perturbatore in un consesso in cui si discutono soltanto interessi politici, giacché il punto di vista esclusivamente religioso potrebbe spingerlo a sovrapporre gli interessi di una religione o di una Chiesa a quelli della nazionalità. Il carattere internazionale insito in tutte le religioni costituisce appunto questo pericolo.
Questo pericolo —- ben vero soltanto idealo — si vede più chiaramente nel caso dell’Italia. Il Pontefice, qui, vuole, ad ogni pie' sospinto, ricordare la quistione romana. Essa ha doppio scopo: la quistione territoriale di Roma e quella del riconoscimento della legge delle guarentigie come legge internazionale anziché nazionale, giusta il suo originario ed intrinseco carattere.
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IL PONTEFICE ROMANO E IL CONGRESSO DELLE POTENZE PER LA PACE 415
È chiaro che la quistione del territorio implica una vulnerazione del principio di sovranità. Sovranità e nazionalità sotto un certo punto di vista, si confondono. Sovranità e nazionalità presuppongono: integrità di territorio ed assoluta indipendenza politica. Anche negli Stati a regime monarchico lo Stato solo è sovrano. Il Re non è che una formalità costituzionale. Uno Stato, quindi, non può permettere l'esistenza — nel suo seno — di un altro Stato, sia pur piccolo, senza sentire violata là sua sovranità, che è, qui, sinonimo di nazionalità.
Altrettanto grave sarebbe la conseguenza per quanto riguarda l’internazionalizzazione della legge delle guarentigie. Riconoscere il carattere internazionale a quella legge significherebbe chiaramente mettere l’esecuzione di quella legge sotto il controllo di altre Nazioni. Ciò evidentemente implica autorizzare il Pontefice ad invocare l’intervento delle armi straniere nel caso di una pretesa inosservanza della legge da parte dell’Italia. Anche qui, quindi, sovranità e nazionalità dell’Italia sarebbero, da un momento all’altro, in continuo pericolo. Vero che il Cardinale Gasparri — nella infelice correzione alla più infelice intervista Latapie — volle esplicitamente dire che il Papa — bontà sua — non avrebbe mai chiamato le armi straniere a difendere i suoi diritti; ma questo è un evidente giuoco di parole perchè, internazionalizzata la legge delle guarentigie, l’intervento delle armi straniere è la sola sanzione logica e necessaria dell'internazionalità della legge. Ma, quando anche all’arma ratio delle armi non si arrivasse, il semplice controllo diplomatico da parte di potenze straniere costituirebbe una lesione del principio di sovranità dello Stato.
Da questi brevi osservazioni sorge evidente che se, in genere, è logico e necessario escludere dal Congresso tutti i rappresentanti esclusivi di Chiese o religioni, a maggior ragione deve essere escluso il Papa, non solo per questa sua qualità, ma anche e specificamente per i diritti di sovranità che intende accampare contro l’Italia.
L’intervento al Congresso del Papa potrebbe condurre a questa mostruosa conseguenza: che, mentre i soldati d’Italia, cattolici e non cattolici, ma nella maggior parte certamente cattolici, hanno versato e vanno versando il loro sangue per ripristinare l’integrità nazionale e mantenere integra la sovranità dello Stato, e mentre la Nazione tutta si è fatta solidale con loro non risparmiando sacrifici di ogni sorta per raggiungere l’altissimo scopo, correrebbesi il rischio di vedere frustrati tanti sacrifizi ed eroismi a causa delle pretese del Papa, tendenti al riconoscimento di una sovranità propria, di natura politica, assolutamente in contrasto colla sovranità dello Stato per la cui difesa si è combattuto e vinto.
In altri termini l’Italia, pur trionfando colle armi contro la nemica Austria, avrebbe ben poco guadagnato perchè si vedrebbe costretta a combattere, poi, un’altra battaglia diplomatica al Congresso contro il Papa per mantenere integra ed assoluta là sovranità dello Stato.
Sorge, da queste brevi osservazioni, abbastanza chiara la conclusione che, mentre l’esclusione del Papa dal Congresso non viola per nulla la libertà della Chiesa — contro la quale lo Stato nè ha attentato, nè pensa di attentare — essa, invece, è necessaria ed imprescindibile per garantire all’Italia la sua sovranità e farle ottenere tutti i frutti della vittoria.
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L’Italia, quindi, ha, non solo il diritto, ma il dovere di impedire la partecipazione del Papa al Congresso della Pace, come gli impedì di partecipare al Congresso del-1’Aja nel 1899; ed ove il Governo non sapesse .questo diritto sacrosanto far valere, la Nazione si sentirebbe autorizzata ad insorgere con ogni mezzo per difenderlo ed ottenerne il riconoscimento.
Avv. Giuseppe Bruccoleri Corrispondente politico del »Giornale di Sicilia».
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Io non credo che il Congresso della Pace finisca con ammettere l’intervento del Sommo Pontefice o di un suo rappresentante, perchè è ovvio che le decisioni dovranno essere prese da sovrani temporali, che rappresentino aggregati al popolo, e non già da capi 0 rappresentanti di confessioni religiose, anche se esse abbiano la grande importanza di quella Cattolica.
Ora nessun dubbiò io credo possa esistere sulla mancanza di un tale carattere nel Sommo Pontefice, poiché ad esso manca qualsiasi attributo di sovranità temporale, che è prerogativa degli Stati moderni. Si potette di ciò discutere altra volta, in Francia, per esempio, quando in occasione delle feste per Giovanna d’Arco fu esposta la bandiera pontificia; ma i tentativi per affermare, sia pure teoricamente, una sovranità del Pontefice, non ebbero seguito e restarono vani.
Gli Stati che si uniranno a congresso non avranno nè tempo nè voglia di affrontare problemi teologici o trascendentali, e non vorranno quindi perdersi dietro discussioni di tal genere, fatte per dividere sempre, per unire giammai.
Come adunque potrebbe giustificarsi l’intervento del Papa al Congresso della pace?
Perchè, si dice da parte dei cattolici. Egli che è il rappresentante di Dio in terra, e certamente di una religione che ha altissimo ascendente morale, dovrà portare la parola della giustizia e dell’umanità tra i combattenti.
Ora io non so se una tale parola potrà avere un reale risultato pratico ed effettuale, ma non so neanche se dopo l’equivoca diplomazia seguita finora dalla Cancelleria apostolica, una tale parola possa essere a tutte la Potenze egualmente gradita, e a tutte in ogni modo apparire disinteressata.
In tal punto penso che si farà bene a non coltivare vane ideologie. La guerra immane che. fa strage ci abbia almeno reso scettici quanto occorra, e non si dimentichi che le parole di giustizia/di umanità del Sommo Pontefice purtroppo nella storia non ebbero mai efficacia se non coincisero con concreti interessi.
Ciò detto, a me par chiaro che non sussistano ragioni nè di carattere morale nè di carattere politico che possano sostenere l’intervento del Pontefice al Congresso della Pace. Non si può seriamente affermare che egli vi andrebbe a rappresentare i cattolici. Non si tratta di un congresso di religioni, ma di Stati, e questi non si dividono già per confessioni, ma per nazioni. Come diversamente sostenere contemporaneamente gli interessi dei cattolici belgi e di quelli tedeschi, di quelli italiani e di quelli austriaci ?
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IL PONTEFICE ROMANO E IL CONGRESSO DELLE POTENZE PER LA PACE 417
Nè può sorgere timore che per ciò egli veda diminuita la sua libertà nell’esercizio delle funzioni religiose. Dal momento che il Congresso sarà di carattere politico internazionale, e tratterà forse quistioni a venti'riferimenti religiosi solo per ciò che concerne i rapporti civili con gli Stati, come potrà derivarne limitazione alle funzioni del Pontefice? Occorre per ciò di rifarsi sempre ài concettò della separazione che—è inutile dissimularselo — domina ormai tutto il diritto pubblico moderno, pure con quelle tolleranze che nei singoli paesi richiedono le condizioni locali. Per esso il Pontefice è estraneo alle competizioni degli Stati, e non può quindi contribuire a deciderle.
Io non credo però che lo Stato italiano abbia interessi particolari per l’esclusione del Pontefice dal Congresso della pace. Sarà bene essere espliciti su ciò.
L’interesse di escludere il Pontefice come qualsiasi rappresentante di comunanza religiosa dal futuro Congresso è di carattere generale e internazionale, perchè comune a tutti gli Stati è quello di sostenere che la sovranità è attributo dello Stato e che i destini di ciascuno devono essere decisi dai propri rappresentanti legittimi.
L’Italia potrebbe .temere dall’intervento del Pontefice —- è quello di cui si preoccupano molti — la riapertura della quistione romàna*. Ora io credo che ciò non possa ritenersi, perchè — e non è il caso qui di ripetere quanto ebbi a scrivere a proposito delle malinconie tedesche su questo problema, nella Voce Politica del dicembre 1915 — ormai per consenso di tutti gli Stati e per chiara disposizione di legge interna, quella è da considerarsi come questione interna non soggetta a discussioni internazionali. Tale tesi, sarà bene ricordarlo, fu accettata e sostenuta financo per prima1, nel 1871, dall’Austria Ungheria.
E’ questa soltanto la considerazione che dovrà salvaguardare i nostri diritti, diversamente non sarebbe certo l’assenza del Pontefice a garantircene, poiché la questione potrebbe essere sollevata da altri. Sarà invece interesse dell’Italia di sostenere bensì l’esclusione per ragioni di carattere generale, facendo accettare e sostenere tale principio dagli alleati, per le considerazioni ovvie che la legittimano, e ciò anche nel caso che il Pontefice preventivamente accettasse di non sollevare alcuna questione nè sul potere temporale nè sull'internazionalizzazione delle guarentigie. Così essa potrà dimostrare che non si propone nè timori nè fini particolari; i quali non si ammette che possano essere argomento di decisioni altrui.
Antonio Manes.
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I. Sì: deve affrontare tutte le questioni internazionali e nazionali. Non ho però dati in mano per dire: lo farà.
II. No i neutrali, si i delegati delle Chiese universali e nazionali.
III. Non può contrastare, ove gli Stati moderni s’intendano fondati non solo e non tanto su un principio e interesse politico, quanto altresì su un principio di giustizia superiore.
IV. Ammessa la soluzione data al quesito secondo, non possono farsi eccezioni, nè distinzioni, nè per Stati la cui autorità sia più o meno politico-religiosa, nè per
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Stati ih cui i due supremi poteri sieno divisi. Quanto all’ultime difficoltà mosse in questo quesito, mi sembrano eliminate dalla risposta data al 30 quesito.
D’altra parte talora gli interessi religiosi si confondono tanto cogli interessi politici, di cultura, di civiltà od altro, che il districarli è cosa quasi impossibile.
V. Non comprendo come la cosa possa avvenire. D’altronde, rispondendo alla 2a domanda, intendo avere risposto esaurientemente anche a questa.
VI. Finché dura la Legge delle Guarentigie (e durerà) per me non ho alcun dubbio in proposito.
VII. La risposta a queste domande parmi che indubbiamente discenda dalle risposte precedenti. Naturalmente gli Stati dovranno accortamente provvedere a ciò che gli interessi politici, cioè di giustizia politica, non sieno sopraffatti da presunti interessi religiosi e insieme tra loro equamente si bilancino.
Vili. Non ho modo di addentrarmi in quesiti di carattere strettamente storico-politico, nè competenza.
Leone Luzzatto prof, nel R. Liceo di Treviso.
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A me pare che la questione, che riveste certo estrema importanza, se il Papa debba o no intervenire al Congresso per la pace, si imposti generalmente su basi malferme.
Discutere la minore o maggiore utilità che ne potrebbe venire, sia nel riguardo generale dell'Intesa, sia specialmente rispetto all'Italia; prendere in considerazione l’orientamento del Pontefice prò o contro, questo o quel gruppo di belligeranti; valutare il significato politico della sua sovranità, trincerarsi dietro le sue ripetute proteste di neutralità, son tutti argomenti i quali, oltre che legittimare, in certo modo, la posizione e la discussione della tesi vaticana, non possono riuscire ad una soluzione veramente decisiva.
Si è nel campo dell’ipotetico, del discutibile.
Che se, ad esempio, voi affermiate che il rappresentante del Papa... rappresenterebbe un pericolo per l’Italia; che potrebbe rivangare un troppo scottante passato, sentireste levare strilli d’ogni parte e giurarvisi il contrario: che anzi il Papa sarà lì a difendere i diritti di tutti, ma specialmente della «diletta Italia»; che esula dal suo augusto pensiero qualsiasi proposito di mettere intralci, di complicare situazioni già intricatissime; che compirà opera benefica di pace, ecc.
— Neanche vale dire che il Pontefice, intervenendo, farebbe un cattivo affare; poiché presumibilmente de’propri interessi è buon giudice il Pontefice stesso. Se egli si dà attorno per raggiungere uno scopo, segno è che questo scopo, ai fini della sua politica, non gli sconviene.
— Meno che mai, poi, è opportuno lamentare il suo mancato giudizio sulle colpe e sulle responsabilità dei belligeranti e fargliene quasi motivo di esclusione. Passione di parte, improvvida ansietà di screditare uomini e istituzioni avversi, hanno spinto molti anche di'sentimenti acattolici e anticlericali a sol-
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lecitarc a gran voce il giudizio del Papa e rimproverargli di non osar d’ergersi a giudice.
Pretèndendo dal Papa una sconfessione del Germanesimo, della sua provocazione bellica, de’suoi metodi di lotta, non si accorgevano cotesti anticlericali di promuovere, di fatto, il Papato romano alla eccezionale condizione di supremo tribunale internazionale, arbitro della vita e dell'attività degli Stati. Chè quando s’invoca un giudizio, si riconosce, anche, il giudice e il dovere di sottoporsi al verdetto. Lo Stato che invoca su di sè e degli altri Stati un giudizio che non sia la sua stessa coscienza di Stato, espressa a traverso i naturali organi della volontà collettiva, viene implicitamente ad abdicare a’ suoi diritti di Stato, a subordinare la propria sovranità a quella di un altro: cioè, a negare la propria sovranità.
Si ritornerebbe co ¡fiso a quel tremendo Medio Evo, la cui paurosa condanna è sempre sulle bocche, appunto, dei nostri anticlericali.
Se realmente l’autorità del Pontefice fosse tale da poter sovranamente giudicare dei conflitti dei popoli e scoprire le vere responsabilità e fissare il torto e la ragione, il suo intervento al Congresso della pace non avrebbe neppur bisogno di esser dimostrato.
Ma la realtà è che, per altissima che sia l’autorità del Papa, essa riguarda un gruppo di relazioni del tutto diverse da quelle che costituiscono, ora, materia di conflitto fra gli Stati belligeranti.
Religione e Politica sono due regni diversi; la religione regola i rapporti dell’uomo con l’Universo; la politica i suoi rapporti sulla Terra. Due sistemi, due organismi spirituali: non scissi, chè s’incontrano nell’unità indistruttibile che è l’uomo, ma nettamente distinti. Le leggi che valgono per l’uno non valgono per l’altro. Il concetto di responsabilità morale, che esige il riconoscimento di un giudice postulato dalla stessa coscienza del colpevole, non può applicarsi a un intero popolo o a uno Stato; meno che meno dal punto di vista cristiano, che guarda alle tragedie spirituali degli individui, e in relazione ad essi stabilisce il bene e il male, il premio e la pena, il Paradiso e l’inferno, prescindendo completamente dalle organizzazioni politiche dei popoli. Parlare di una moralità delle Nazioni — del sistema — giudicando alla stregua dei rapporti morali tra i singoli, è un non senso.
Ogni autorità, perchè sia legittima, deve sorgere dall’interno dell’organismo in cui ha da realizzarsi. Orbene, come mai l’autorità religiosa potrebbe ergersi a giudice nei contrasti dell'organismo politico? Chi mai oserà sostenere che il parere di un grande batteriologo faccia testo, in quanto batteriologo, in materia d’aereonautica? Tanto è assurdo che il Papa s’intrometta a decidere di questioni commerciali, territoriali, coloniali, ecc., in nome di un presunto superiore astratto criterio di moralità, quanto sarebbe ridicolo che un Parlamento votasse una legge relativa al dogma della SS. Trinità! Il valore nazionale è stabilita da nient’altro che... dal valore nazionale. Non è un vano giro di parole: ciascuno costruisce a sè il suo diritto di essere e di affermarsi, a traverso la forza che si esprìme dal suo seno; forza non concepita alla tedesca, di oro e di cannoni specialmente; ma di spirito e di volontà sopratutto!
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Se qualche potenza sollecita o solleciterà l’intervento del Pontefice al Congressi, lo farà non in omaggio al suo valore religioso e come riconoscimento della sua suprema autorità; ma nella persuasione che il suo intervento giovi al proprio interesse e obbedendo al principio che impone di sfruttare a proprio vantaggio qualsiasi forza politica. (Ma la lama è a doppio taglio per tutti!).
Così il vantato potere spirituale si risolverebbe nella sua completa negazione.
Sovratutto in nome del principio di reciproca necessaria indipendenza dei due poteri politico e religioso, lo Stato italiano—al di fuori e al di sopra di ogni odio settario — può e deve opporsi all'intervento del Papa al Congresso.
Vincenzo Cento.
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LE FONTI RELIGIOSE
DEL PROBLEMA DEL MALE
(Continuazione. Vedi Bilychnis, fase, di ottobre 1916, pag. 245 e ss.).
III. — Gli elementi formativi dèlie religioni primitive e del problema del male.
1. 11 sentimento estetico dei primitivi in rapporto con la loro vita religiosa e con le loro concezioni del male. — 2. Il sentimento morale dei primitivi in rapporto con la loro vita religiosa. — 3. Carattere morale delle primitive inibizioni e obbligazioni religiose. — Alcuni altri elementi morali delle religioni primitive e del problema del male. — 5. Diversi elementi delle religiose credenze e diversi atteggiamenti della coscienza religiosa rispetto al male.
guardar bene, persino nelle razze così dette inferiori degli indigeni d’Australia, dove certe orde selvagge vivono presumibilmente ancora la vita raminga dei primi abitatori della terra, si fa vedere; e precisamente nella reazione della coscienza,, al cospetto del male, un certo interesse per lo sviluppo e il perfezionamento della vita spirituale. Anche qui vediamo qualcosa di analogo con ciò che accade nelle civiltà più progredite, e dove non sono soltanto esigenze pratiche e morali, ma anche
intellettuali ed estetiche quelle che, nella complessità e ricchezza della vita religiosa, domandano un perfezionamento; e dove anche dai molteplici aspetti del male, che. a prima vista sembra un ostacolo, attingono invece ragione e motivo a perfezionarsi.
Considerata attentamente la coscienza religiosa delle popolazioni primitive, l’abbiam vista reagire al sentimento del dolore, c l’abbiam vista occupata non solo dall’interesse di evitare, superare o dominare il male, ma anche di scoprirne le origini misteriose; non solo occupata nella ricerca della sua causa, per puro amore di conoscere, ma anche di conoscere per agire. Da per tutto si vede, nelle religioni, che l’uomo non si appaga soltanto di rimedi contro il male che minaccia la durata e il benessere della vita materiale, ma desidera anche di liberare se stesso da errori e da tutto ciò che è odievole e brutto.
Osserviamo nelle religioni primitive il poetico linguaggio, l’inscenamento dei riti, i canti, la musica, le danze, le rappresentazioni, la pittura, la scultura e l’architettura; e per quanto queste arti siano rozze, per quanto possano • essere
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anche rivolte a fini pratici, rivelano chiaramente altre esigenze dello spirito umano e della coscienza religiosa, che non possono essere chiuse e soffocate dentro quei limiti (1).
Nondimeno anche qui vi sono pareri contrari, e mentre Darwin (2) era dell’opinione che persino gli uccelli posseggono, con piena evidenza, il sentimento del bello; mentre Münsterberg (3) à cercato d’interpretare i sentimenti morali dei primitivi come sentimenti estetici, al contrario Goblet d’Alviella non crede •alle preoccupazioni artistiche del selvaggio (4). In quanto poi le origini delle arti sono associate a religiose concezioni si è stati più facilmente condotti ad ammettere che esse non denotano sentimenti del bello, ma solo interessi pratici. Questa è la questione che qui ora più c’interessa di conoscere, per sapere se nelle religioni primitive esistono elementi estetici, formativi delle religiose concezioni del male.
Ma non sarà difficile dimostrare come sia in errore Goblet d’Alviella quando pensa che tutte le figure con cui si sbizzarrisce la fantasia primitiva abbiano uno scopo pratico. Queste figure ànno a volte innegabilmente uno scopo pratico, come è il caso dei feticci, ma non si deve trascurare il fatto che il fine pratico cui quelle imagini sono rivolte non basta a celare che esse stesse, come tali, siano una forma visibile di rappresentazioni che ànno pretese estetiche. Etnologi distinti come Mortillet (5), ànno sostenuto persino che la religiosità sia un fatto che segue e non precede il sentimento del bello e del brutto; e forse perchè mentre si conservano testimonianze antichissime di arti rudimentali, non ne appaiono, in quelle medesime epoche, del sentimento religioso. Infatti, figure di mammut, di renne, di cavalli, di serpenti, di pesci disegnati su' frammenti di osso e di avorio, con fedeltà di espressione e anche con sentimento, si trovano all'epoca delle renne. Ebbero tutte queste figure uno scopo pratico? È difficile sostenerlo. E se generalmente non lo ànno, perchè devono acquistarlo quando sono divenute oggetti religiosi, perchè devono perdere, in tal caso, ogni carattere estetico? Noi vediamo figure, presso i negri, che servono per scongiuri; e quindi si potrebbe esser tentati ad ammettere che anche quelle altre avessero servito a tal fine; nondimeno, come dico, anche in questo caso, e, pur rigettando le conclusioni di Mortillet (6) è sempre visibile un sentimento estetico: perchè non si tratta di figure acromatiche, o prese a caso, ma di certe figure che servono a scopi pratici, e che tradiscono nello stesso tempo un sentimento estetico, Così, per esempio, uno spirito maligno non viene mai rappresentato con imagini che siano ritenute indifferenti, e molto meno ritenute belle. Nelle antiche sculture la fantasia à sempre rappre(1) Con ragione F. De Sarlo (L'attività pratica e la coscienza morale) rileva conio l’attività estetica sia uno dei più importanti fattori della creazione mitica.
(2) L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto col sesso. Trad. it. di M. Lessona.
(3) Ursprung der Sittlichkeit.
(4) Cfr. di questo autore: L’idfe de Dieu d’après l’anthropologie et l’histoire.
(.5) Le préhistorique - Antiquité de l’homme.
(C>) Cfr. G. De Mortillet, Le Préhistorique. Antiquité de l'homme.
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sentalo gli dei del male orridi e mostruosi, e al male è stata sempre e da per tutto associata la bruttezza. Un bel dio del male è parso costantemente una contraddizione. E anche quando uno spirito maligno assume belle forme, come avviene in certi racconti popolari, in alcune leggende e in alcuni miti, quello spirito lo fa per poter meglio indurre in peccato, per ingannare, non perchè la bellezza sia una qualità che gli appartiene; la bellezza dello spirito maligno è sempre una maschera che' posta sul viso ne nasconde temporaneamente la naturale bruttezza.
Anche gli dei maligni delle più antiche religioni storiche furono sempre rappresentati da draghi smisurati, dalle fauci spalancate, da corpi grotteschi, composti di membra di bestie diverse, formanti un orrido insieme; or sono cani con zampe di belva e rostro da uccelli di rapina, or capri alati e coperti di squame, e tutti in atto di assalire, di mordere, di tendere insidia, di far male. A volte vengono rappresentati come armati di pugnali, di lance, di mazze. Specialmente i demoni a corpo umano con teste di leoni e artigli di aquila sono le ¡magmi comuni che crea la fantasia. Dapertutto si vede anzi lo sforzo che si fa per rappresentare l’orrido al grado più elevato, e talvolta si credeva di esservi così bene riusciti che la figura assiro-babilonese del demone del vento sud-est si credette più efficace di uno scongiuro per scacciare gli altri demoni che dovevano rimanere atterriti, soltanto a vederla (1).
Potremmo anche prendere in considerazione il poetico linguaggio, i riti, i canti, la musica, le rappresentazioni, la pittura, la scultura e l’architettura, per vedere in queste forme primitive dell’arte uno sforzo a creare imagini di bellezza e ad elevarsi dalla volgarità della vita consueta, specialmente se sono in gioco interessi religiosi. Ma possiamo vederlo meglio nelle danze sacre, perchè associate a quasi tutte le religioni primitive.
Si crede da alcuni, che le danze religiose dei primitivi siano una imitazione del deificato animale, come la danza della foca di certi Indiani di America, o come la danza così detta del sole, fatta dagli Harapaho al tramonto e al mattino, accompagnata da canti e suoni, e che finisce con gran fervore ed eccitazione (2). Ma ammesso pure, per un momento, che alcune rappresentazioni avessero uno scopo pratico come nella magia simpatica, quando l’imitazione del tuono deve servire a provocare la pioggia, anche in tal caso diremo che il sentimento estetico vi sia associato. E diremo che- dapertutto, dagli Australiani, dalle tribù primitive delle due Americhe, dai Peruviani (che chiamano persino la danza una grande religione) (3) ai Greci, il popolo che imita o che esprime i suoi sentimenti nelle danze, nei canti, nelle rappresentazioni, nelle armonie, nei disegni, nelle sculture, nelle costruzioni di altari e di templi, associa emozioni estetiche a scopi pratici.
(1) Cfr. D. Bassi, Mitologia Babilonese-assira. H. Brugsch, Religion und Mythologie der alten Aegypter, nach den Denkmälern. P. Carus, The History oj the devil and the idea oj evil, from the earliest limes to the present day.
(2) G. A. Donney, The Arapaho Sun Dance. Cfr. anchc James Bisset Prat. The psychology oj religious belie].
(3) Cfr. J. G Müller, Geschichte der Americanischen Urreligionen.
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Più tardi, nelle religioni progredite, è più visibile ciò che qui può parere a prima vista trascurabile. Tipico potrà apparire allora il culto di Dionisio in Tracia, descritto così bene da Rohde (o); quel culto che dava un entusiasmo, quasi una sacra pazzia, in cui l’anima si credeva volasse via dal corpo per unirsi a Dio in uno stato di estasi. Gli svSsoc che in quell’estasi credevano di vivere in Dio, che credevano di godere nel finito la gioia e la pienezza della vita infinita, non avrebbero mai potuto ammettere che le loro sacre pazzie non fossero accompagnate da’ emozioni di bellezza, e che avessero invece soltanto uno scopo pratico.
Ma anche il primitivo non potrà ammettere, se analizziamo i sentimenti che lo conducono all’arte religiosa, che in questa egli non abbia tentato di esprimere le sue idee di bellezza. Le sue danze religiose appariranno scene di piacere o di dolore, capaci di destare negli uomini e negli dei simili sentimenti. I canti e i suoni che accompagnano quelle danze, vorranno ora imitare, ora commuovere, ora impaurire, e tutti i suoi culti esteriori e persino le sue pratiche magiche tradiranno esigenze estetiche, rappresentazioni di bellezza e di bruttezza, e saranno tutti segni del suo sentimento di armonia nelle linee, nei colori e nei suoni; e ora espressione dell’odio contro il male, sotto l’aspetto dell’orrido; c ora espressione di vivo amore per la bellezza, come attesta la visione del mondo indescrivibile che si schiude alle anime contemplatrici e mistiche, l’estasi in cui anche cade il danzatore primitivo nelle funzioni religiose.
Tutto questo non avviene a caso. Una naturale associazione di idee portava a classificare e a ordinare, nelle religioni, da un canto imagini e simboli di bellezza col bene, dall’altro imagini e simboli di bruttezza col male; e portava anche ad associare queste imagini con ciò che è riconosciuto utile o nocevole. Ma il sentimento estetico doveva essere presente perchè fosse possibile questa associazione; anzi questa emozione, a guardar bene, non deriva dallo scopo pratico, non à nulla in comune col bene e col male, con l’utile e col nocevole, ma à un’origine indipendente in un'altra regione della psichica unità. Nell’insieme poi le produzioni dell’attività conoscitiva, quelle del sentimento estetico e quelle altre, del sentimento morale, mostrano, sin dalla origine della civiltà, nelle religioni e nel problema del dolore, l’interesse immanente per il perfezionamento della vita spirituale.
• 2.
Se noi ora vogliamo considerare in che modo il sentimento morale abbia potuto influire tanto nelle religiose concezioni del sistema del mondo — così come vengono fatte dalle primitive civiltà — quanto nella formazione e posizione del problema del male, dobbiamo anzitutto cercare di precisare quale conoscenza del bene e del male abbia potuto avere l’uomo primitivo.
Non può negarsi, con ragione, che l’uomo sia vissuto, per lungo periodo di tempo, senza la conoscenza di quei problemi morali che ora ci sono noti, nè può
(i) Cfr. E. Rohde, Psyche. Seelencult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen.
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negarsi che spesso le stesse usanze religiose dei popoli primitivi devono essere da noi giustamente considerate come immorali. Deve però convenirsi che queste usanze non furono dettate da esseri sforniti di ogni senso' morale, e che le loro religioni non rappresentano un insieme di precetti e conoscenze del tutto immorali.
Guardiamo l’animismo di Tylor c vediamo che esso, basato sul relativismo religioso, sostiene che la religione è necessaria al primitivo per spiegare il mondo, per appagare l’esigenze dell’anima sua e per stabilire, fino a un certo punto, i buoni costumi, il dritto e l'ordine sociale (i). Ora, si domanda, da dove mai ànno attinto questi legislatori primitivi le prescrizioni c le norme che vediamo, d’altro cafito, accettate come buone dai religiosi, indipendentemente da altre considerazioni? Schmid t à voluto sostenere che la tesi della separazione primitiva tra morale e religione era concepibile soltanto con la teoria animistica (2). Se fosse vero infatti che il culto degli avi proviene principalmente dalla paura dei fantasmi, e quello degli spiriti da misure prudenziali — per via della loro influenza benefica o perniciósa — questi culti non avrebbero che poco o nulla da fare con la morale.
Senonchè non si può dire che essi siano scevri di morale, nè può negarsi con ragione il carattere etico delle religioni primitive anche se l’animismo non sia riconosciuto come forma originaria di religione, e il manismo come punto di partenza del monoteismo. Noi possiamo avvertire che il culto degli avi non è determinato sempre dalla paura dei fantasmi, e che qui si fa palese anche un sentimento di protezione, come dimostrano gli spiriti tutelari che sorvegliano al bene dei loro discendenti. Non occorre grande sforzo per vedere come la tutela dello spirito sia considerata giustamente, dai medesimi credenti, quale atto benefico e morale. E parimenti nemmeno gli spiriti benefìci e malefici della natura escludono il sentimento morale, che si manifesta in ogni atto di retto amore e di retto odiò.
Alcuni antropologi e filosofi pensano invece che il solo bene riconosciuto dal primitivo sia l’utile e il piacevole. Altri opinano che i giudizi morali dipendono da ataviche consuetudini, onde ciò che una volta fu utile viene col tempo ad essere considerato come buono, anche quando quella primiera utilità più non sussista. E altri infine credono che l’origine della conoscenza morale, e quindi dei problemi religiosi che vi si connettono, dipenda solo da insegnamenti imposti dapprima dall’autorità dei capi, e che accettati perciò dai soggetti come buoni, siano rimasti tali anche in seguito, nella comune opinione, senza che se ne verificasse l’intimo valore.
Queste e altre simili soluzioni che ànno voluto dare filosofi e antropologi della origine della conoscenza morale, e della sua prima comparsa nelle credenze e nelle usanze religiose, ànno il difetto comune, dianzi più volte accennato, di non poter render conto della ulteriore nascita e del perfezionamento di quelle concezioni, che noi riscontriamo nell’umano spirituale perfezionamento. Poiché
(1) Cfr. E. B. Tylor, Primitive Culture.
(2) Cfr. G. Schimidt, L’origine de l'tdée de Dien. Elude historico-critique et positive.
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anche se si volesse rinunciare alle prove positive che offrono le primitive religioni» non potrebbe poi ragionevolmente negarsi che un fondamentale desiderio di raggiungere il bene è quello che dobbiamo postulare, per spiegare gli ulteriori progressi della coscienza morale. Quando la curiosità porta l'uomo alla ricerca della causa e l’amore lo spinge a svelare il mistero che lo circonda; quando egli cerca di rivestire di imagini di bellezza ciò che è grande, potente e misterioso; quando egli vuole condurre la sua vita secondo certe norme che reputa buone e giuste, tenendola lontana da ciò che reputa male; quando l’uomo riconosce che l’errore; la menzogna, il tradimento sono da odiarsi, mentre la verità, la nobiltà, la generosità sono stimabili, egli già attinge queste conoscenze alla fonte del bene, e mostra di avere possibilità e amore di perfezionamento, e di fare veri e propri giudizi morali.
Ciò che rimane di vero nciraffermarc che il bene, per il primitivo, sia l’utile e il piacevole, si è che egli spesso confonde da un canto l'utile e il piacevole col bene, e dall’altro il doloroso e il dannoso col male. Ma si à torto quando si pensa che non solo la distinzione tra bene e male, ma anche la conoscenza di essi fosse lontana dalle primitive civiltà, poiché, come dico,'in tal caso il progresso morale, nato e sviluppato da un nucleo non ancora apparso nell’anima umana, avrebbe dovuto consistere in accrescimento soltanto di cose utili e piacevoli. La conservazione o la rinuncia alla esistenza, il proseguimento o la cessazione delle umane attività non avrebbero dovuto avere altra meta.
Eppure i primitivi non ignorano che persino la vita umana deve venire talvolta sagrificata per un oggetto ideale che non presenta alcuna utilità immediata o futura, onde avviene che l’eroismo anche per essi è talvolta fine a se stesso, e tale che non dev’essere compiuto in vista di un vantaggio che se ne possa ricavare se non vuole perdere il suo carattere.
In tal modo noi siamo invece condotti ad ammettere che i primitivi costruiscono una specie di gerarchia dei valori, fra i quali accordano la preferenza anche ad alcuni che possono essere caratterizzati come giustamente degni di essere preferiti. Ma come dire intanto che i primitivi avessero in vista solo l’utile e il piacevole, in quei loro atti che possono dirsi giustamente morali, quando vediamo al contrario che ossi non sono nè utili, nè piacevoli e che vengono da loro scrupolosamente praticati? Nè si dica che queste usanze dipendono da ataviche, utili esperienze, se non vogliamo rendere ancor più misteriosa l’origine della conoscenza morale dei primitivi. facendo un frego sul passaggio dall’oggetto amato dapprima per uno scopo da raggiungere, all’oggetto che viene in seguito preferito senza un’ulteriore finalità, ma per se stesso.
Noi crediamo invece di avere prove positive che dicono il contrario, e crediamo di potere altresì dimostrare l’insostenibilità di queste opinioni, facendo vedere come il sentimento morale appaia ad ogni passo, anche ai pimi albori della vita umana, nel desiderio di perfezionamento spirituale. Già sin dall’epoca del mammut gli uomini erano capaci di idee di rinuncia, di sagrificio, di generosità, di altruismo; sin dall’epoca dell’orso delle caverne vediamo che l’uomo non è così preoccupato dell’utile e del piacevole, e che tutta la sua esistenza non è dedicata alla lotta per
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la vita. Egli trova tempo per aver cura dei morti, per venerarli, e offrir loro oggetti che ánche potendo esser utili ai vivi, preferisce di lasciare a loro disposizione. Non si vede nell’età della renna che l’uomo fosse guidato soltanto da sentimenti egoistici, ma, al contrario, tutte le vestigia denotano che egli intravedeva al di là dell’orizzonte limitato della terra da lui conosciuta, una potenza misteriosa, fornita di attributi morali e verso la quale assumeva quel portamento che credeva più opportuno, per allontanare o dominare i mali, e per mantenere o accrescere i beni (1). È innegabile che l'uomo in quell’epoca, si mostrasse aperto allo spirito di sagrificio, all’atto beneficente che non attende rimunerazione, all’abbandono di un vantaggio tangibile e immediato, in vista di un bene più considerevole, ma spesso lontano e incerto, e talvolta anche senza questa prospettiva.
Osserviamo le popolazioni primitive attualmente viventi, e tutto questo ci viene confermato in maniera inconfutabile. Anche qui vediamo che, come al primitivo non mancano rappresentazioni di bellezza e bruttezza, idee di verità e di errore, così non mancano conoscenze di bene e di male. Egli non confonde queste distinzioni, come non confonde il suo amore per il bene e la sua repugnanza per tutto ciò che reputa male. E fa di più. Egli è sempre disposto ad amare la verità, a dare carattere di nobiltà a chi l’asserisce, anche se dovesse venirgliene un danno. Per non farlo la sua mente dev’essere ottenebrata da interessi e motivi inferiori. Associando talvolta idee eterogenee, come quelle di forza e bontà, egli è condotto spesso in errore; ma sarebbe ingiusto dire che non conosce nulla che sia veramente buono, e che egli sia incapace di preferire il bene, anche per il desiderio di agire secondo norme da lui reputate giuste, e che non sono in fatti scevre di valore etico. E. Westermarck à giustamente avvertito, con parecchi altri recenti studiosi delle primitive civiltà, che quando noi esaminiamo le regole morali delle razze incivili, troviamo che esse, in grandissima misura, rassomigliano a quelle prevalenti tra le nazioni colte (2). Orbene, questa unità di sentimenti non potrebbe intendersi senza riconoscere che in fondo all'anima umana di tutti i tempi e di tutte le razze vi siano le medesime disposizioni. E pur non accettando il riconoscimento, sia pur debole, e confuso, del bene e del male anche nelle razze inferiori, senza ammettere la preferenza che essi accordano a ciò che è più degno di amore, non si potrebbe più intendere perchè il bambino non debba venire abbandonato se riesce di peso ai genitori ; perchè i malati e i vecchi debbano essere generalmente, salvo pochissime eccezioni, curati e assistiti amorevolmente; perchè il marito debba adempiere verso la famiglia certi obblighi che non sono a lui utili nè piacevoli per se stessi, e perchè debba difenderla persino a costo della propria vita; perchè il membro dèlia tribù debba comportarsi verso di essa in modo da sopportare tavolta gravi sagri fici, senza che ne venga a lui qualche vantaggio. E non si può intendere perchè la menzogna, il tradimento, la mancata fede, il furto, il delitto debbano generalmente essere considerati come detestabili, e come tali condannati, anche quando la. loro im(1) Cfr. Goblf.t D’Alviella, L’idée de Dieii d'après l’anthropologie et l'histoire. F. B. Jevons, L’Idea di Dio nelle religioni primitive. Trad. it. di U. Pestalozza.
(2) Cfr. E. Westermark, The origin and development oj thè moral ideas.
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mediata utilità risulta evidente, mentre sarebbe stato sufficiente, secondo quell’opinione, il vantaggio ottenutone per farle preferire.
Ma vi sono diverse testimonianze che confutano questa opinione. A. W. Howitt (i) racconta che presso i Wurrunjeris quando un uomo diviene vecchio e non può più camminare, il figlio o il fratello di sua moglie, o il genero suo, lo portano da un posto all’altro amorosamente. I mariti fanno lo stesso con le mogli vecchie e malate, e le tribù dei dintorni di Maryborough, nel Queensland, sono assai rispettosi specialmente verso i genitori vecchi e malati. Il giovane australiano, anche quando è ammogliato, non viene esonerato dai suoi doveri verso i propri genitori, essendo tenuto a dare la miglior parte dei prodotti delle sue cacce anche ai genitori della propria moglie.
E non solo queste obbligazioni dei primitivi si vedono nei rapporti tra parenti, ma anche verso estranei. Così nella tribù dei Daleburas una vecchia storpia dalla nascita, veniva circondata di ogni cura; e una volta, furon visti molti uomini di questa tribù gettarsi nel fiume per salvarne un’altra. Presso i Kulins coloro che ànno avuto fortuna alla caccia ne fanno parte a chi non ne à avuta, di modo che nessuno soffre carestia. Questo dono non viene considerato come un favore, ma come un dritto che à l’indigente. Nei misteri dei Kamilarois i giovani vengono consigliati ad aiutare i vecchi, i malati, e tutti coloro che ànno numerosa famiglia. Howitt, per i misteri degli indigeni di Vittoria e della Nuova Galles del Sud, osserva che il divieto di non cibarsi di alcuni alimenti non à lo scopo di procurarne ai vecchi in maggior quantità e migliori, ma quello di abituare la gioventù a dominarsi; infatti, come dice lo stesso scrittore, i vecchi non ricevono soltanto dai giovani, ma fanno a loro volta distribuzione di alimenti a questi, quando essi non ne ànno. Ad ogni modo, però, nell’uno o nell’altro caso, i sentimenti morali di queste popolazioni non si possono negare; Howitt anzi dice che tutti coloro i quali sono stati in relazione con la razza indigena nel suo stato primitivo, si uniranno a lui nel dire che in queste tribù s’incontrano uomini che si sono sforzati di vivere secondo l’ideale morale della loro comunità; che sono stati amici leali, fedeli alla loro parola, uomini verso cui, benché selvaggi, si deve provare rispetto e simpatia. Tali uomini, egli continua, non si trovano più nell'ultima generazione, cresciuta all’ombra della nostra civiltà, che li à ben presto corrotti.
Questo però non potrebbe dirsi se Hartland (2) e alcuni sociologi francesi avessero ragione, nell’àflermare che a un grado basso della civiltà la religione, associata a ogni dettaglio della vita quotidiana, non è altro che un aspetto della vita sociale; le prescrizioni non altro che leggi necessarie della vita sociale, dell’esistenza della tribù, e che quindi, in questo stadio della civiltà, la religione non à alcun valore morale per l’individuo.
(1) 1 he native tribes oj South East Australia. Cfr. anche E. H. Man, On the Aboriginal Inhabitants oj the Andaman Islands.
(2) Cfr. Parker, The Enahlayi Tribe.
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Ma non si comprende cóme la religione possa avere soltanto un valore sociale e non individuale, quando abbiamo precise forme di religioni individuali, di religioni primitive cioè, che, come il magismo e il feticismo, vogliono garantire valori individuali anche in contrasto con quelli sociali, ammenoché non avesse ragione Jevons (1), ove dice che l’uomo à scoperto l’io individuale nel progresso del tempo, e che non di forma individuale originaria si possa parlare, nè di religione di tribù, quando queste forme, secondo la sua opinione, sono partite da sorgenti comuni, c dalle quali poi si sono differenziate. Le incerte prove che offre la linguistica e le altre che può dare la psicologia dei bambini, non possono dimostrare che all’uomo primitivo sia sconosciuta la sua personalità. L’idea di evoluzione che porta a pensare una forma come derivata successivamente da un’altra, à forse condotto Jevons in questo errore. Ma non si comprende nemmeno come il bene sociale si possa astrarre da quello individuale, quando il religioso, anche se vedesse nella religione della comunità una funzione sociale, non potrebbe fare a meno di ritrovarsi in questa stessa società religiosa e di partecipare ai suoi beni, e di arricchirsi'dei valori che da essa provengono. Schmid! non ammette che la religione primitiva sia soltanto sociale, cd à ragione; ma bisogna dimostrare che essa à valore anche per l'individuo, e un valore morale. Le canzonette materne, che vengono cantate ai bambini australiani, e dove si consiglia liberalità, bontà, onestà, sono già una testimonianza non trascurabile. Ma vi sono anche comandamenti religiosi che parlano assai chiaramente delle funzioni che à per l’individuo la religione della comunità rispetto alla morale. Così per esempio, il primo comandamento dei Kurnais di ascoltare i vecchi e obbedirli, è un comandamento morale fondato su l’esperienza del valore che à la sapienza dei vecchi per coloro che non sono edotti delle difficoltà e dei pericoli. Hartland, che vuole anche qui trovare un fondamento esclusivamente sociale da parte dei vecchi che avevano interesse a farsi rispettare, non può addurre alcun documento che lo sostenga. Egli non avverte del resto che in tal caso o il loro consiglio rivela sentimenti altruistici, che non sono sprovvisti di valore morale, o mostra l’interesse individuale ricercato nel bene sociale.
A queste considerazioni alcuni pensatori anno voluto opporre che gl’insegnamenti e gli atti dei primitivi non contengono idee morali, perchè quegli insegnamenti sono stati accettati ciecamente o sotto la minaccia di castighi; onde questi atti che. chiamiamo morali sarebbero in vece soltanto atti di comoda, servile o cieca-obbedienza. Chi consideri infatti come il primitivo sia particolarmente disposto ad accettare la soluzione delle difficoltà e le norme per la condotta, tanto per economia delle forze, che in virtù della presentazione medesima a lui fatta, e spesso quindi senza fondarsi sul valore dell’autorità, o su quello della soluzione, o della norma, costui, dico, potrà essere indotto a concludere che l’obbligazione assunta dal primitivo non riveli in lui alcuna conoscenza morale.
(1) Cfr. F. Jevons, L’idea di Dìo nelle religioni primitive; trad. it. di Pestalozza.
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Nondimeno anche questo sarebbe erroneo, sia perchè non si spiega, ricacciandola indietro nel tempo, l’origine della regola morale per la condotta, nei riguardi della tribù e della famiglia, sia perchè, come ora mi proverò a dimostrare, l’obbli-gazione religiosa non è sfornita nei suoi motivi e nelle sue finalità di conoscenze etiche; mentre dal canto suo l’obbedienza alle inibizioni e alle obbligazioni è di tal natura da rivelare a tratti, ma indubbiamente, sentimenti morali.
3Se le proibizioni fossero mancate, avremmo avuto una prova della mancanza di reazione della coscienza etica. Ma poiché proibizioni ed obbligazioni vi sono, allora bisogna discernere che valore esse ànno dal punto di vista della conoscenza morale. Per l’obbedienza possiamo dire subito che essa à innegabilmente un carattere etico, quando si à coscienza che obbedire equivale ad agire rettamente. In questo caso, anche se il comandamento fosse assurdo e immorale, l’obbedienza rivelerebbe un sentimento morale; e si à un bel negarne la natura etica basandosi su l’immoralità dell’obbligazione.
Disgraziatamente però la maggior parte degli studiosi dell’anima primitiva \ sono caduti in questi errori, e, per dimostrare l’immoralità delle orde selvagge e anarchiche, si sono attenuti a descrivere le l'oro leggi e le lóro immorali religioni. Ma non era soltanto la legge o la religione, e nel caso particolare, non era la singola proibizione, ma anche il fatto dell'obbedienza, e la natura specifica di essa, data nei motivi e negli scopi che la determinano che dovevano essere immorali, per dimostrare che nessun sentimento etico era qui presente.
Ora, per poter chiarire meglio il carattere morale dell’inibizione, io credo che possano bastare brevi considerazioni sopra alcune credenze, che, pur essendo erronee, mostrano il primitivo nella sua ignoranza e nelle sue colpe, ma anche nel suo amore del bene, e nel suo odio del male, nelle sue giuste obbligazioni e nelle sue giuste inibizioni,
L’ò detto altrove (i) che il totem rappresenta per il primitivo ciò che deve amarsi, e il tabu ciò che deve odiarsi, e che questi due termini, l’uno di amore e l’altro di odio, sono, per così dire, i due poli, fra cui egli vive, in un mondo di alleati e nemici. Ma il tabu, sviluppatosi particolarmente pressò le popolazioni primitive dcll’Oceano Pacifico, significa propriamente straordinario, non comune, ed è opposto al noa, che nel medesimo linguaggio vuol dire comune, ordinario. Ora, bisogna tener presente che il male è per il primitivo non solo qualcosa di straordinario, ma anche qualcosa che lo colpisce dolorosamente, che eccita il suo odio, che interrompe l'ordine normale delle sue aspettazioni. A prima vista sembra dunque che il tabu sia ciò che è ritenuto pericoloso, in quanto questo entra nella categoria di ciò eh'è non comune, straordinario, e che solo per questo
(i) Cfr il mio lavoro su II problema morale nelle religioni primitive.
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sia da evitarsi. In tal caso non si comprende più che valore morale possa avere la inibizione: tu non devi, sotto pena al trasgressore dei più gravi castighi. Ancor più intricata diviene la questione se consideriamo che quelle categoriche inibizioni non sono costantemente rivolte contro oggetti che rappresentano un reale pericolo, e nemmeno sempre contro atti che siano immorali. Tuttavia, alcuni tra coloro che si sono occupati del tabu, ànno riconosciuto in queste credenze qualcosa che, secondo me, ne mostra a tratti il carattere morale. Jcvons non poteva accettare infatti quelle soluzioni cui accenno, ma esprimeva il parere che il tabu fosse una convinzione a priori, non basata su esperiènza. La questione merita di essere chiarita, tanto più perchè non si comprende come siano state stabilite proibizioni sopra un cieco sentimento puramente formale, e, come dice Jevons, senza contenuto (1).
Noi vediamo invece che il primitivo sa cosa vuole, e crediamo che questi divieti si spiegano facilmente se ammettiamo che siano derivati da una certa conoscenza del male e dall’odio contro di esso; odio che determina a evitarlo o a dominarlo, o a superarlo, precisamente come avviene per mezzo della conoscenza di ciò che è tabu, e rispettivamente per via delle pratiche magiche e delle religioni. Ed è qui appunto che bisogna vedere se esiste quel carattere morale della proibizione di cui parlo, perchè allora le funzioni di queste credenze non appariranno più cieche ed esercitanti soltanto un’azione meccanica; esse si riveleranno come una proibizione rivolta promiscuamente a mali reali e imaginan, ma anche contro il disordine morale, che deriva dall’assenza delle proibizioni in generale, e da alcune in particolare.
L’esame degli argomenti prodotti da coloro che ànno sostenuta una tesi contraria non potrà che confermare ciò che qui diciamo. Infatti Jevons non può convincerci quando per provare che il tabu non deriva da esperienza, rammenta gli Europei che lo violarono in Polinesia, e che dimostrarono così agli indigeni la vanità della loro paura; non può convincerci, perchè questo esempio potrebbe solo servire a dimostrare che in molti casi la ragione di credere nel tabu à un erroneo fondamento. In altri casi, infatti, come quello di non cibarsi di erbe velenose, o di non toccare serpenti, o di non affrontare leoni, l’esperienza avrebbe probabilmente confermata la giustezza dell’inibizione, e quindi l’esempio citato da Jevons non basta per dimostrare che tutti i tabu non siano fondati su esperienza. Nathan Sòderblom (2) sostiene invece che il pericolo del tabu deve spiegarsi con la credenza che sia presente nell'oggetto uno spirito malvagio, una potenza malefica. Ed il fatto che tutte le cose tabu sono ritenute dannose, c che all’inverso non tutte le dannose sono tabu, ci potrebbe portare ad accettare questa spiegazione, se fosse vero che in ogni tabu il primitivo trova la presenza di uno spirito malvagio. Ma questo non è sostenibile nemmeno, perchè i sacri libri degli ebrei non furono campo di spiriti maligni, nè il Mikado fu malevolo verso il suo popolo; eppure il contatto ne era scrupolosamente vietato. Bisogna dunque cercare una
(1) ■ The sentiment is purely formai and without contente. Cfr. Jevons, Intro-duction lo thè hi story oj religión.
(2) Die religionen der Erde.
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altra ipotesi, che renda conto della irrazionalità di molte credenze, ma che nello stesso tempo spieghi il sentimento del dovere che esse rivelano; un’ipotesi che non ammetta nel tabu l’immanenza di spiriti ostili, quantunque in ogni caso non la escluda; una ipotesi, insomma, che ci faccia intendere se il motivo dell’inibizione religiosa o superstiziosa sia unico o molteplice, e se i primitivi agiscano anche talvolta per obbedire a giuste obbligazioni e inibizioni. .
Per limitare qui le nostre indagini alle relazioni che passano tra l'inibizione del tabu e la conoscenza morale dei primitivi, diremo che una tale ipotesi, data la molteplicità delle cose ritenute tabu, non può fare a meno di ammettere che diversi motivi ànno determinato il suo distintivo carattere, sia perchè vi sono cose realmente pericolose, sia perchè ve ne sono odiose e repugnanti, sia perchè, erroneamente o no, viene ritenuto che ogni tabu è da evitarsi. Io credo quindi che l’errore commesso da coloro i quali vogliono rendersi conto, in altro modo, della origine di questa credenza, dipende, in gran parte, dal voler trovare una spiegazione assai semplice, e perciò incapace di comprendere la molteplicità delle ragioni che portavano i primitivi ad ammettere che vi sono cose da evitare; mentre si deve riconoscere che queste ragioni vi sono, ma non tutte vere, nè tutte morali.
Gli esempi che J.-G. Frazer cita, nella sua interessante opera su la magia e la religione, confermano appunto quanto qui sostengo. Certo le erronee ragioni primitive che condussero a credere che un oggetto era da evitarsi, possono col tempo dimenticarsi, e allora troviamo che la sola inibizione sopravvive, senza che alcuna giustificazione l'accompagni; ma tosto che si scoprano quelle ragioni, il tabu viene spiegato. Anzi tutte le usanze dei primitivi, trovano la loro spiegazione nelle loro credenze. E per rammentarne una sola, l’usanza di volgere gli specchi verso il muro e di nasconderli nella casa dov’era un morto, rimasta dapprima incomprensibile, si spiegava benissimo con la credenza che le anime dei morti ancora insepolti, potessero portar via con loro quella dei vivi quando, anche per caso si riflettevano negli specchi. Parimenti, se avviene una disgrazia in un dato giorno — lo vediamo anche oggi — il popolo superstizioso crede che quel giorno sia sempre nefasto; e se accade in un certo luogo, questo viene considerato come pericoloso ed atto al ripetersi della sventura. La cagione dell’errore che qui si'commette è per noi evidente. Da un evento, da una esperienza avuta in certe circostanze di luogo e di tempo, si conclude che debba ripetersi sempre così, quando quello circostanze sembrano date. Il paralogismo dei fenomeni concomitanti che vengono presi per cause è frequente presso i primitivi, e come l’uomo è portato istintivamente a credere nella propria memoria, è anche portato a credere nella conformità del procedimento della natura; donde le ingiustificate generalizzazioni, e la credenza alla uniformità degli effetti tutte le volte che simili cause sembrano esser presenti. Le associazioni mentali che il primitivo scambia con reali associazioni, la confusione che egli fa quando ammette che l'azione esercitata su la parte à conseguenze sul tutto, esercitata su l’imagine à conseguenze su l’oggetto rappresentato — ancorché la parte e l’imagine siano lontane dal tutto e dall’oggetto rappresentato — e le somiglianze che gli fanno sussumere diverse nature sotto la medesima categoria, questi ed altri simili errori rendono conto di molte irrazionali proibizioni.
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In questo senso il tabu può sembrare di essere contrario all’esperienza. Tuttavia non lo si dirà sempre con ragione, perchè la pianta velenosa è tabu quando se ne sono sperimentati gli effetti letali, e ogni malato lo è pure, perchè qualcuno avra potuto diffondere la propria malattia per contagio. Anche la trasmissione dèi tabu, quindi, può essere fondata su esperienza, come nel caso di malattie contagiose ed ereditarie; c perciò non è giusto ritenere, come fa Jevons, che la credenza nella trasmissione sia una credenza a priori ; essa è più verosimilmente una ingiustificata generalizzazione. Ciò che precede l’esperienza è invece la naturale disposizione che ogni uomo possiede di riconoscere cose buone e cattive, di classificare le une e le altre, di stabilire gerarchie di valori e di assumere quindi diverse obbligazioni.
Se in queste particolari proibizioni si vedrà non sólo una distinzione tra valori e valori, ma anche una specie di gerarchia di valori, dove quelli realmente più elevati vengono a volte riconosciuti e preferiti, dobbiamo allora'convenire che la credenza nel tabu non agisce solo meccanicamente, ina anche teleologicamente su la condotta dei primitivi, poiché qui abbiamo evidentemente la conoscenza di un bene morale che si vuole raggiungere e di un male da cui si deve star lontani. L’inibizione del tabu, infatti, non si esaurisce tutta nel pericolo da evitare, nè viene essa sempre ciecamente e capricciosamente imposta e accettata; perchè tanto in colui che quella inibizione accetta, quanto nei motivi che la dettarono sono talvolta in attività sentimenti di natura più elevata. A guardar bene, la credenza nel tabu non implica solo una proibizione fatta per ciò che è dannoso a toccare, ma anche per ciò che non si reputa giusto di fare, per ciò che non deve farsi. Si dirà, con ragione, che queste proibizioni sono spesso fra di esse confuse e quindi non tutte ragionevoli nè tutte morali; ma non si dirà ugualmente bene che i motivi etici e ragionevoli siano sempre da escludersi. Così, per esempio, gli dei e i sacerdoti sono tabu, ma gli dei tabu, secondo gli stessi credenti, possono essere tanto utili quanto nocevoli. La paura, quindi, in questo caso, contribuisce ad allontanare dagli dei, da ciò che loro appartiene e dai sacerdoti la indebita manomissione e il sacrilegio ma si deve avvertire che non è la paura soltanto quella che li rende intangibili. Gli è che in essi si riconosce qualcosa di misterioso, di più grande e potente, qualcosa insomma che contrasta col noa, come ogni tabu, ma che è specificamente diversa. In questi tabu vi è sì motivo ad aver paura, ma altri sentimenti vi sono dominanti, altri sentimenti e altre conoscenze vi sono accoppiate, e la paura può derivarne, ma non esserne causa. Sentimenti di venerazione, sentimenti di inferiorità, sentimenti che non ànno niente da fare con le misure utilitarie e prudenziali, quantunque anche queste possano accompagnarli e insieme inibire l’azione.
Quando gli dei ed i sacerdoti sono tabu per la loro straordinaria potenza, per la meraviglia che destano le loro gesta, per il mistero che li accompagna, i concetti di utile e di nocevole non sono tanto in gioco quanto lo sono i concetti di sacro e di profano. E anzi noi vediamo che quando questi motivi sono in contrasto, la preferenza viene data comunemente a ciò che si reputa sacro.
E parimenti il concetto di puro c di impuro si forma in conseguenza della , creduta azione che esercita la forza magica emanata dal tabu. L’impurità diviene
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una fra le diverse conseguenze dannose che colpiscono il trasgressore, e una conseguenza che à evidentemente carattere morale, sebbene nel linguaggio e nel pensiero venga spesso confusa con ciò che quel carattere non possiede. Ed è stato così che Martin P. Nilsson à potuto essere indotto a ritenere questi concetti come puramente cultuali e non etici. Ma sebbene il concetto di purità, si è ricavato da elementi materiali, nondimeno si deve tener presente che i popoli primitivi non concepiscono nulla di puramente spirituale, onde la stessa anima è qualcosa di spaziale che à forma e dimensione pili piccola, che è fatta di sostanza più sottile, ma sempre simile al corpo cui è unita. Là stessa potenza magica, tutti i mali, anzi, sono per il primitivo qualcosa di spaziale, e quindi la impurità non può essere allontanata e distrutta se non con mezzi congrui; adatti allo scopo. Ma in ogni caso, la confusione che indubbiamente si fa tra impurità morale e materiale, non può. portarci a pensare che questo concetto fosse sempre e completamente sfornito di carattere etico. Quésta confusione può solo condurci a concludere che si erra presso i primitivi, circa la natura della impurità; mentre più facilmente avremmo potuto accettare questa opinione, se dai primitivi fossero stati adoperati mezzi per raggiungere una materiale purificazione, e nessuno per raggiungerne una morale.
Lo stesso potrà dirsi per lo scrupolo su cui Reinach (i) fonda la sua teoria circa l’origine del tabu. Lo scrupolo primitivo, lungi da essere, come opina questo scrittore, simile a quello che prova l’animale quando non mangia i suoi nati, à spesso invece un carattere ben diverso. E tale doveva essere se i concetti di sacro e profano, di puro e d’impuro, sono da qui derivati; e se lo scrupolo può associarsi con la paura del pericolo. Noi quindi diremo che uno scrupolo agita l’anima del primitivo con pari forza di un atto istintivo, ma che, con questo, non à altro in comune, fuor che l’inflessibilità del motivo ad astenersi dall'azione.
E diremo così perchè, quantunque ogni tabu, come abbiamo visto, cada sotto la categoria di ciò che non deve farsi, o che deve evitarsi, il colpevole primitivo è nella possibilità di distinguere le diverse ragioni— se non le diverse cause — che verosimilmente condussero a mettere sotto la medesima categoria cose tanto diverse. Il primitivo, anzi, mostra talvolta, e indubbiamente, di fare queste distinzioni, e di associare alla sua azione sentimenti diversi, che non si possono sussumere sotto la medesima categoria della paura o dello scrupolo cicco, o della cieca obbedienza, o della misura utilitaria e prudenziale. E così noi non dobbiamo confondere la inibizione che esercita la paura proveniente dal tabu, in cui si appiatta lo spirito maligno, o quella che proviene dal serpente o dalla pianta velenosa, con l’altra che è causata dalla coscienza della colpa per oltraggio o per profanazione, quando si è toccato invece oggetto che à carattere di protezione e difesa. Il sentimento che si associa all’osservanza dell’inibizione per ciò che è ritenuto sacro, lo si noti bene, non è identico con l’istinto di conservazione; ciò che è vietato, perchè comunica impurità, non è identico con ciò che è vietato, perchè reputato illecito.
(i) Cfr. S. Reinach, Orpheus, Histoire générale des religions.
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E parimenti lo scrupolo, la cieca osservanza che troverebbero la loro maggiore giustificazione nell'economia delle forze, e che toglierebbero ogni carattere morale alla condotta, non possono essere costantemente ammessi quando vediamo che l’obbedienza non è sempre la medesima, ma si diversifica nei motivi e nei fini da raggiungere.
Nói troviamo presso i primitivi il rispetto che si deve alla maestà, la venerazione che ispira il misterioso, il grande e il potente; troviamo un certo amore per la purità e una devozione per ciò che è reputato sacro. E quando incontriamo, come nel Levitico (XVIII, 4,5) che l’obbligazione di seguire il comandamento religioso è accompagnata da credenza che quel comandamento proviene da esseri che sanno tutto e che operano giustamente, allora la preferenza che si deve accordare a questo comandamento — anche in contrasto con qualsiasi impulso, con qualsiasi passione, con qualsiasi altra obbligazione, — deve essere evidente; giacché allora il religioso si crede in possesso della suprema categoria dei valori.
4A' chiarir meglio quanto ò détto circa le primitive conoscenze e superstizioni Che ànno attinenza eoi problema del male, dobbiamo prendere in esame alcune altre manifestazioni della primitiva coscienza morale.
Ciò che ò detto su la coscienza del dovere avrà potuto mostrare che le nostre indagini sono d’accordo con quelle dei moderni antropologi ed etnologi, in quanto queste smentiscono la vecchia ed erronea opinione che i primitivi godessero di una illimitata libertà personale, o almeno maggiore di quella che godono gli individui delle comunità più incivilite. Il selvaggio invece non è libero in nessun luogo. « In tutto il mondo, come dice Lubbock (1), la sua vita quotidiana è regolata da una serie complicata, e spesso molto incomoda, di usanze tanto imperiose quanto le leggi... Un gran numero di regolamenti governa ogni sua azione, ed il selvaggio è particolarmente scrupoloso nell’osservarli ».
Le ricerche di questi scrittori non potevano tuttavia aiutarci a conoscere ciò che per noi qui à maggior peso: la concezione di colpa e di castigo, in rapporto alle conoscenze religiose dei primitivi. Questi scrittori si lasciavano sfuggire così le principali tonti delle religiose concezioni circa l’opera morale della divinità, e circa la primitiva formazione del problema del male- Èssi ci attestavano che vi sono innumerevoli obbligazioni e proibizioni religiose nella vita primitiva, ma bisognava conoscere se queste fossero qualcosa di più che una meccanica preparazione agli ulterióri sviluppi della coscienza morale; se fossero cioè vere e proprie conoscenze del bene, preferito anche in conflitto con altri beni inferiori, e senza preoccupazioni di natura utilitaria. Mólti scrittori sono qui caduti in errore, perchè i primitivi parvero a loro incapaci di pentimento e rimorso. Fu anzi
(1) I.* origine dell’incivilimento. Trad. it. di Lessona. Di questo parere sono anche il vescovo Wellington e G. Grey. Cfr. pure l’interessante lavoro di Wallace Su gl’indigeni dell’Arci pelago Malese.
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questo fatto che costrinse Lubbock a cambiare d’opinione circa la morale delie primitive popolazioni, e a negarla, mentre dapprima riteneva che nessuna razza umana ne fosse sfornita (i). Ma in generale, gli esploratori, gli antropologi e gli etnologi che si affidarono ad apparenze e a pregiudizi, furono condotti a negare ogni coscienza di colpa; ciò che è fondamentale per la conoscenza del peccato e per il problema del male.
Ora noi invece sappiamo che il rimorso postula conoscenza di comportamenti diversi, ugualmente possibili, e c onoscenza di aver preferito quello che è reputato ingiusto.
Può parere strano allora come lo stesso Lubbock convenga a credere impossibile che il furto e l’omicidio, pur essendo capaci, presso alcune popolazioni, di destare un senso di rispetto e di ammirazione, possano poi essere considerati come atti virtuosi e giusti. Perchè, se non è errato il concetto di rimorso qui esposto, deve bastare il riconoscimento d’aver commesso atto ingiusto per destare il sentimento di odio contro il proprio comportamento, quel sentimento che fa nascere pentimenti e rimorsi. Ma di simili inconseguenze sono piene le ricerche alle quali accenno, onde spesso i fatti rammentati appaiono in evidente contraddizione con le conclusioni che se ne pretendono derivare. Ciò che importa invece di accertare — e che può esser sufficiente a chiarire la questione della coscienza della colpa in generale, e del peccato in particolare — è se esiste presso i primitivi quel sentimento di odio contro il proprio o l’altrui ingiusto comportamento; quell’odio che caratterizza appunto il sentimento di colpa.
Ma se osserviamo bene la vita delle popolazioni primitive, non potrà negarsi — e non lo si nega infatti — che il primitivo sia capace di odio contro ciò che à fatto o che altri à fatto; e contro la sua o l’altrui inazione, quando riconosce che sarebbe stato invece giusto di comportarsi altrimenti. Ciò che da alcuni si nega, invece, è che quest’odio abbia un valore etico. Ora io dico che per negarlo si dovrebbe ammettere che il primitivo non sia capace di distinguere il vero dal falso e anche di odiare il falso; perchè' appunto quest’odio, caratterizzato per giusto, à innegabilmente il valore etico che cerchiamo. Noi dobbiamo convenire che il primitivo può essere particolarmente spinto ad accettare per vero ciò che gli è utile, e a rigettare per falso ciò che può riuscirgli dannoso; ma dobbiamo dire altresì che non potrà mai affermare con ragione esser vero soltanto ciò che gli piace e conviene, e falso ciò che gli spiace e gli nuoce. Egli potrà cadere in questo errore, ma tutte le volte che non sarà dominato da passioni o abitudini, non potrà fare a meno di riconoscere da qual lato stia la verità, e anzi lamenterà di essere caduto in errore. Questo per il riconoscimento del vero che è analogo al riconoscimento del bene.
Ma per l’odio contro la falsità, dobbiamo dire che quasi tutte le leggi e le consuetudini primitive attestano come sia odievole il bugiardo e il falso; ammenoché non facciano velo all’intelletto quei particolari interessi di cui ò parlato, o che
(i) Cfr. J. Lubbock, L'origine dell'incivili mento. Trad. it. di Lessona.
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la scaltrezza e l’astuzia, riconosciute quali virtù degne di amore, anche se accompagnate dall’inganno, non appaiano dominanti — come in Ulisse — e non destino la lode. Le leggi e le consuetudini, a chi ben le osservi, chiaramente dimostrano, coi castighi che infliggono ai colpevoli, quanto i primitivi non siano manchevoli di amore verso la verità e di odio verso la menzogna e l’errore (i). Nè si dica che questi castighi vengono inflitti per misura utilitaria, quando abbiamo, nei primitivi medesimi il riconoscimento che le pene sono giuste, ciò che specialmente accade ogni qualvolta si credano provenire dagli dei.
La coscienza morale del primitivo si manifesta anche nell’odio che egli à contro la viltà e nell’ammirazione per l’eroismo; odio e ammirazione che si accompagnano col pentimento e col rimorso in colui che si è reso colpevole di fronte alla possibilità ch’egli aveva di non commettere viltà e di agire eroicamente. Se egli invece non fosse guidato nei suoi atti da motivi etici, allora dovrebbe ammettersi, con Münsterberg (2), che agisce come l’anitra, la quale difende i suoi piccini con pericolo della vita, e senza che. meriti per questo di chiamarsi eroina. Ma s’inganna certamente colui che voglia negare ai primitivi quel sentimento di ammirazione che desta l’eroismo — sentimento che non è puramente di natura estetica come pretende questo scrittore — quando è appunto il sagrificio per il suo valore etico, e non il sagrificio per una bella morte, ciò che in alcune gesta eroiche si può riconoscere, e ciò che in tal caso, fa, dell’ammirazione un sentimento morale. Gli atti eroici descritti dalle mitologie primitive (3) dovrebbero essere dunque considerati da questo punto di vista, per scoprire tanto nella loro finalità, quanto nell’ammirazione che essi destano, il loro contributo etico alla formazione di quei problemi religiosi che trovano nell’eroismo e nel sagrificio elementi per la loro costituzione ed argomenti per la loro soluzione.
Parimenti sembrava che l’abitudine della vendetta fosse, in coloro che la compivano, un segno non solo della primitiva immoralità, ma anche dell’assoluta mancanza di rimorso e di pentimento. Quanto improprio poi doveva apparire agli antropologi che gli dei nudrissero quei sentimenti, non occorre che io dica.
Ma a chi bene osservi, la primitiva concezione dei rapporti che passano tra dei e dei, e tra dei e uomini — costruita principalmente in base ai rapporti che passano tra i diversi membri della medesima tribù, o tra i capi tribù e i singoli componenti di questa — doveva essere formata cogli stessi criteri di giustizia. E così, quando la vendetta umana appariva un atto selvaggio di odio, quella divina doveva trovare la sua giustificazione nella primitiva separazione tra morale e religione (4). La questione merita di esser presa in considerazione, specialmente perchè è ricca di conseguenze per lo studio della primitiva impostazione del pro(1) Cfr. Waitz, Anthropologie der Naturvölker. E. Westermarck, The origin and developmenl oj thè moral ideas. Ch. Letourneau, L'évolution juridique dans les diverses races humaines. L. Proal, Le crime et la peine.
(2) Ursprung der Sittlichkeit.
(3) Cfr. A. Lang, Mylhes, Ritual and Religion; e dello stesso. La Mythologie, trad. frane, di L. Parmentier.
(4) Cfr. il mio lavoro su il problema morale nelle religioni primitive.
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blema del male e della teodicea. Tanto più che la natura della vendetta ci sembra erroneamente concepita dalla maggior parte degli scrittori che se ne sono occupati.
È vero che G. D. Romagnosi, trattando della « Genesi del dritto penale », à sentito il bisogno di riferirsi alla vendetta come al dritto di infliggere pena al colpevole, ma egli non seppe riconoscere la verità di ciò che Locke (i) aveva affermato; non seppe vedere cioè che la natura à posto nel cuore umano il desiderio che l’omicida sia punito, e quindi confonde l’istintiva reazione contro un sasso che ci colpisce con la vendetta. C. Lombroso (2) non mostra di averne un concetto più chiaro, quando parla della vendetta come della collera, dell'ira, della cieca reazione; ed E. Ferri non à certamente ragione, quando afferma che essa venga fatta per timore del disprezzo dei propri compagni. Questo timore non spiega il piacere che accompagna colui che si vendica. Gli Arabi beduini, che preferiscono di colpire essi stessi l’omicida, anziché farlo colpire dal Sovrano; i Curdi che preferiscono vendicarsi da sè, anziché ricorrere ai tribunali (3), se occorresse, testimonierebbero il contrario. Il timore che il disprezzo dei compagni colpisca chi non si vendica può servire invece a mostrare che spregevole è colui il quale subisce per viltà il torto e lascia impunito il colpevole (4).
Questa circostanza potrà illuminarci su la vera natura della vendetta, tanto più se si avverte che nella primitiva civiltà, quando il dritto privato non era ancora tutelato dalla comunità, nessun altro mezzo fuor che la vendetta si aveva per frenare le voglie altrui contro ciò che si possedeva; e quindi nessun altro mezzo di aver un risarcimento dei danni subiti dall'individuo, c nessun modo di manifestare i sentimenti di ribellione e di odio contro l’aggressore. Perchè, lo si noti bene, presso i primitivi, solo colui che à subito il danno, o la di lui famiglia, ànno dritto a interloquire in una questione che si ritiene privata. I capi tribù, la comunità, non ànno nulla da fare nelle offese da individuo a individuo. I sentimenti di odio e la ribellione non potevano dunque provenire se non dall'individuo offeso. Da lui anzi dovevano provenire, perchè più che un dritto, i primitivi ànno il dovere di vendicarsi, di non subire l’onta, lasciando impunito il colpevole.
La vendetta, così, libera di ogni freno, può facilmente eccedere e divenire esagerata nelle sue pretese. Nondimeno vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che essa domanda un risarcimento che l’ingiustizia cancelli, anche quando la incontriamo oltre i limiti del castigo proporzionato all’offesa.
Gli antichi codici consentono misure assai severe in favore della parte offesa, perchè nessuno avrebbe chiesta alla legge la tutela dei suoi diritti, nessuno
(1) Del governo civile.
(2) L'uomo delinquente.
(3) . Cfr. Ch. Letourneau, L'évolution juridique dans les diverses races humaines.
(4) P. Mantegazza, nella sua Fisiologia dell*Odio, riconosce giustamente che «nella vendetta si trovano i latenti germi della giustizia». Tuttavia questo scrittore non doveva avere una chiara idea della vendetta, quando scriveva che essa «è la fórma più antica, più automatica e più brutale dell’odio », e quando considerava i sacrifici umani, nelle religioni primitive, come motivati anche dalla « vendetta contro la morte ».
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l’avrebbe chiesta nemmeno agli dei, se il castigo fosse apparso mite, e ciascuno avrebbe preferito di fare giustizia da sè, almeno là dov’essa era possibile. Di poi, quando l’ufficio della legge primitiva si volge sempre più a limitare l’esercizio della vendetta, noi possiamo meglio verificare questa esigenza, estesa dalla legge agli atti privati che cominciavano ad apparire sproporzionati alla colpa. Dapprima l'antichissima lex lalionis è la forma più semplice e rozza di questo sentimento umano; poi il sentimento di giustizia che vuol rimettere sempre più e meglio l’equilibrio e l’ordine, là dove esso è stato rotto e turbato, escogita altri mezzi di compenso. Ma dapertutto nelle primitive leggi, noi possiamo vedere che esse sono animate dal desiderio di risarcire il danno sia pure con la punizione del colpevole; e ciò deve condurci a riconoscere che anche per il primitivo non è lecito di recar danno impunemente altrui, quantunque egli limiti, per errore, a una cerchia più o meno estesa, alla sua tribù, ciò che dovrebbe invece estendersi a tutta l’umanità. E se poi osserviamo che la vendetta — come la legge primitiva che da essa è ispirata — non cade indifferentemente sul colpevole e su l’innocente, se non in casi speciali che trovano la loro spiegazione in erronee concezioni; se vediamo che essa non vuole arrecare danno solo per godere del dannò altrui, per puro piacere di nuocere — ciò'che sarebbe malvagità; — se vediamo che essa non reagisce al male con l’impeto cieco di chi difende la propria vita e il proprio benessere — ciò che sarebbe istinto di conservazione; — allora non dobbiamo confonderla più nè con quel sentimento, nè con questi istinti. E se vediamo che il primitivo nella vendetta gode del dolore che arreca alla sua vittima, vediamo altresì che egli vuole essa conosca la ragione del danno, che la conosca come un giusto castigo del suo misfatto; e allora credo che abbiamo fatto un passo avanti nel riconoscimento della esigenza di giustizia che domanda la vendetta primitiva. Essa non è certo malvagità e nemmeno un istinto selvaggio, quando il primitivo riconosce, più che il dritto, il dovere di esercitarla come uno strumento, anzi come il solo strumento di giustizia. Ed è quindi erroneo affermare che la vendetta esprima senz’altro la morale cecità dei primitivi.
Nei rapporti però che intercedono fra i religiosi primitivi e i loro dei. la vendetta poteva sembrare, a prima vista, meno giustificabile. Ma noi possiamo ora dire che essa nemmeno nelle concezioni religiose può essere interpretata come una concezione puramente immorale. La vendetta degli dei, come ognun vede, rimarrebbe inintelligibile se gli uomini ne ignorassero la ragione. Essa — anche in questo, come la vendetta umana — domanda che si conosca la causa del dolore che infligge, senza di che verrebbe a mancare della sua condizione essenziale: quella di essere appresa come un castigo (i).
Noi dunque abbiamo qui i primi elementi del sentimento di retto odio che suscita la colpa, del sentimento di giustizia nei primitivi, e nella loro concezione
(x) Il fatto che la vendetta si estende talvolta, presso i primitivi, anche agli animali e alle piante, non può alterare la nostra maniera di concepirla, quando, come abbiamo veduto, piante e animali sono ritenuti dai primitivi capaci di conoscenza e volontà non dissimili dalla umana.
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degli atti divini. Da ciò nasce la persuasione che sia un bene obbedire alla legge; da ciò la persuasione che la pena inflitta dalla legge al colpevole sia giusta; da ciò i motivi al pentimento per il colpevole, i motivi al rimorso e anche i motivi al riconoscimento che la vita più pregevole è quella regolata da giuste norme, senza riguardo ai vantaggi che da queste possono derivarle; da ciò la persuasione profonda che è bene sopportare la giusta pena inflitta agli uomini dagli dei, onde se alcuno osasse opporsi, tutti della tribù sorgerebbero in difesa della legge (i).
Tanto potrebbe essere qui sufficiente a dimostrare come sia erronea la credenza che i primitivi siano incapaci di conoscenza di colpa e quindi di pentimento e di rimorso. Ma dobbiamo vedere meglio se alcune colpe gravi e alcuni supremi doveri siano riconosciuti dai primitivi, è più precisamente se queste colpe e questi doveri corrispondono a quella gerarchia di valori che una più chiara visione della vita morale à stabilito. Dobbiamo quindi esaminare più attentamente la questione, e vedere se il primitivo che fa distinzione tra colpa e colpa —come si rileva dalla differente gravità della pena inflitta al colpevole — è d’accordo poi con quella maggiore conoscenza etica, nell’assegnare le più gravi pene alle colpe più gravi. Tanto meglio dobbiamo vederlo, quanto più la severità delle pene, spesso sproporzionate alle colpe, potrebbe indurre in errore e far pensare .con altri che questa sproporzione sia un segno della mancanza, in quelle popolazioni, del sentimento di giustizia (2).
Senonchè per quanto gravi siano le punizioni, esse valgono ad attestare che una punizione spetta al colpevole; c quanto ripugna alla coscienza primitiva di vedere il colpevole impunito; e per quanto le pene possano essere sproporzionate ai delitti, pure come ò detto, non sono uguali per tutte le colpe, e mirano alla proporzionale reintegrazione del danno subito, manifestando chiaramente la esigenza che à la coscienza morale di operare giustamente. Questo si vedrà meglio nella concezione di giustizia e di colpa, applicata alle relazioni che passano fra uomini e dei. Lo abbiamo già detto, che il primitivo ama l’onore, la purità, la verità, la correttezza. Egli anzi attribuisce queste virtù agli esseri supremi. Ma sopratutto egli à rispetto per ciò che proviene 0 à qualche attinenza con ciò che è misterioso, grande, potente come il mondo estra naturale. E poiché tutta la vita umana è concepita dal primitivo come capace di mettersi in relazioni intime con quel mondo, che può determinare le sue sorti e cambiare il suo destino, così avviene che i suoi mezzi magici o religiosi, tendenti a dominare quelle potenze, o a regolare la propria dipendenza in un. comportamento ritenuto utile, siano per lui di massimo valore, e le colpe che a questi comportamenti si riferiscono, siano ritenute le più gravi e quindi meritevoli di maggiori pene.
(1) Cir. Williams, Polynesian researches.
(2) Per le interpretazioni delle primitive idee di giustizia di colpa e di pena, confronta !.. Proal, Le Crime et la peine. — L. Marillier, La survivance de ¿’âme et l’idée de justice chez les peuples non civilisés. Chi volesse esempi che confermano ciò che qui sostengo, può trovarne anche molti in due scrittori che pur si propongono di dimostrare il contrario. Ch. Letourneau (L’évolution juridique dans les diverses races humaines), dove parla dei delitti presso i primitivi; e J. Lubbock, (L'origine dell’incivilimento), nei capitoli su la famiglia, su la religione e su la legge dei primitivi.
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Un maggior castigo viene perciò inflitto a chi si rende colpevole contro i supremi interessi e contro tutto ciò che è reputato di maggior pregio. Noi lo vediamo nella scrupolosità dei riti, e in generale in tutte le obbligazioni religiose, quanto sia più vivo che mai il desiderio di esser corretti ad ogni costo, di non cadere in colpa; e ciò senza che necessariamente intervengano considerazioni utilitarie, le quali potrebbero invece allontanare dai sacrifici, dai dolori, dalle sofferenze che quei riti richiedono, e non raramente anche dalla morte.
Il comandamento religioso, è sentito da ciascuno come inviolabile, indipendentemente dalla conoscenza che possa avere della trasgressione chi à facoltà di farla osservare; ond’è che l’infrazione dev’essere avvertita come una colpa per se stessa e non per il castigo che possa venirne; e lo stato di colpa ch’è accompagnato dalla presenza nello spirito di ciò che è detestabile, dev’essere altresì associato, per questo stesso fatto, al pentimento e al rimorso chè è stato causato da odievole comportamento. Così chi à toccato un tabu, non occorre sia veduto per venir castigato, perchè la stessa coscienza punisce colui che à mangiato un cibo regale senza saperlo, e ne muore di dolore appena conosce la sua colpa (1). Si dirà che la paura della pena che spetta al trasgressore esercita la sua azione; e molte volte non si potrà negarlo, ma si avrebbe torto se si volesse confondere la primitiva coscienza della colpa con la paura del castigo che inesorabilmente e meccanicamente colpisce il trasgressore. E si avrebbe ugualmente torto se si volesse negare al primitivo il riconoscimento, per quanto possa essere accompagnato da errori, che i suoi doveri supremi devono avere la preferenza rispetto ad altri e che la sua vita religiosa sia di massimo pregio.
Così noi vediamo presso i primitivi non solo il piacere intimo e dolce di aver agito bene, ma anche il dolore e il rimorso di avere agito male; e questo non allo stesso modo per tutte le azioni, ma più debolmente rispetto a obbligazioni minori, più fortemente rispetto a quelle maggiori. Quell'Australiano che, avendo perduta la moglie, non trova pace finché non abbia uccisa una donna di altra tribù, è uno degli innumerevoli esempi che mostrano la distinzione fra diversi doveri e la preferenza che i primitivi accordano a quelli che sono giustamente più elevati. La religione impone all'Australiano di uccidere una donna per mandare uno spirito a sua moglie; egli crede che sua moglie non trova pace finché non abbia compiuto il suo dovere. Ma altri doveri egli à verso i suoi padroni europei, che consapevoli del progetto, non vogliono compia il misfatto. Egli si trova anche minacciato da un danno: i suoi padroni, in tal caso, lo metteranno in prigione. L’Australiano rimane dapprima incerto, in preda al più grave rimorso di non compiere ciò che reputa suo dovere, e di lasciar soffrire per viltà la moglie sua; egli deperisce ed è in gran pena. Ma un giorno fugge, risoluto di compiere a qualunque costo ciò che la sua religione comanda, la sua religione che non può mentire, e poi ritorna felice di aver fatto il suo dovere (2).
(1) Cfr. J. G. Frazer, The Golden Bough. F. B. Jevons, An Introduction to the History of Religion. .
(2) Cfr. G. Le Bon, L’homme et les Sociétés, leurs origines et leur histoire.
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Chi non vede qui il sentimento di dolore per la colpa di non aver compiuto il proprio dovere? il terribile rimorso che conduce alla tristezza e alla disperazione, e che viene spesso accompagnato, nelle popolazioni primitive, da deliri e svenimenti? Chi non vede la volontà, dapprima turbata e incerta in vista di altri doveri e di castighi che si oppongono al compimento del suo proposito, trionfare alla fine e decidersi per ciò che insegna la religione, per ciò che reputa supremo dovere?
Noi dallo studio dei fatti dobbiamo concludere che in tutta la vita primitiva, e specialmente in quella religiosa, appare la gioia che dà la purità della coscienza, il benessere che dà la conoscenza di condursi in conformità dei religiosi insegnamenti. Dapertutto e sempre i più gravi sagrifici sono affrontati serenamente nel desiderio di vivere immuni da colpe, di liberarsi dallo stato di dolore in cui la colpa à condannato, e di seguire una via che conduca al perfezionamento. Certo, ripeto, tutto questo non è così chiaramente avvertito come noi ora potremmo fare. Errori gravi contribuiscono a far deviare i primitivi; ma da queste confusioni e da questi errori, non si può concludere che ad essi sia sconosciuto il dovere che l’uomo à di agire rettamente e correttamente, sopratutto ne’ suoi rapporti con le potenze estranaturali, nel seguire i comandamenti o le inibizioni che si credono imposte da quelle potenze e nel mantenere o elevare il valore della vita.
5Sgombrate così le principali difficoltà che si facevano intorno allo sviluppo intellettuale e morale delle primitive popolazioni, ognuno à potuto vedere quali sono i principali motivi che uniscono il problema del male con le religioni, e quali gli elementi che servono a comporli.
Dicevo in principio che un doppio ordine di cause è dato, per cui le religioni e il problema del male insieme si sviluppano, e per cui le religioni devono necessariamente dare la soluzione del problema se non vogliono cadere dalle fonda-menta. Le condizioni esteriori dell'incivilimento costituiscono quell’ordine di cause esteriori, che fanno della religione la regolatrice della vita intellettuale e morale dell’individuo e della collettività. Le condizioni interne, di ordine psicologico, si riferiscono alla natura umana, che è condotta da identici motivi e scopi a porre tanto il problema del male quanto le religioni, ed a trovarne in queste la soluzione. Abbiamo considerato in qual modo il sentimento del dolore, la curiosità, l’idea del mistero, la conoscenza della causa abbiano potuto incanalare la coscienza religiosa alla costruzione di spiegazioni* che riguardano il male, e come, d’altro canto, interessi pratici e teorici, esigenze conoscitive, sentimenti estetici e morali, nelle primitive civiltà, lungi dall’essere assenti, contribuiscano, alla formazione delle prime speculazioni religiose e quindi alla impostazione del problema del male. Ora siamo al caso di vedere che questi motivi devono avere un certo ordine, e che gli elementi devono subire un certo aggruppamento per rendere possibile la nascita delle religioni e lo sviluppo del problema del male; nascita e sviluppo che devono seguire leggi particolari nell’economia della vita spirituale.
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Se guardiamo infatti la storia della formazióne della terra, vediamo, in un certo momento del tempo, accanto al mondo fisico, apparire e svilupparsi un mondo spirituale che si afferma sotto leggi e condizioni proprie; un mondo che non premette come causa, ma come antecedente, nelle temporali sequenze da noi conosciute, il visibile mondo corporeo. Diciamo che le leggi che governano il mondo spirituale sono sue proprie, cioè conformi alla sua natura, c riguardano la sua perfezione. Così, mentre dapprima vediamo apparire l’attività psichica rivolta alla conservazione della vita, come alla condizione necessaria per gli Ulterióri sviluppi e perfezionamenti, essa si stacca ben tosto dalle attenzióni della vita corporea — con cui pare indissolubilmente legata e con la quale viene spésso confusa — per rivolgersi a quegli scopi Che comportano perfezionamenti specifici, a quelle funzioni che non sono più inerenti ai vantaggi e ai bisogni del mondo fisico, ma ai vantaggi e ai bisogni di un perfezionamento intellettuale e morale. In nessun luogo questo scopo e questa funzione appare nel mondo corporeo, ma da qui à principio una nuova serie di scopi, di funzioni e di valori. Dapprima tutti gli uomini tendono istintivamente alla propria conservazione, ma questo non appare più il fine della vita umana, quando essa esorbita dal campo puramente fisico per entrare in quello assai più complesso dello spirito; ed è così che anche la gerarchia dei valori procede dal mondo fisico a quello spirituale. L’istintivo attaccamento alla vita appare come uno scopo finale, finche la condizione necessaria per la nascita e lo sviluppo del pensiero è appunto la vita; ma di poi l’attività spirituale si stacca da questo scopo, e nascono la religione, l’arte, la morale e tutte le particolari scienze teoriche e pratiche, che corrispondono sì alla conservazione della vita umana, ma che esorbitano anche da essa. Queste parlano chiaramente di un interesse che non è rivolto solo alla conservazione, allo sviluppo e perfezionamento della vita corporea, ma anche alla conservazione, allo sviluppo e perfezionamento della vita dello spirito, che appare infine, con gli ulteriori progressi, sempre di maggior valore. Se guardiamo infatti gli uomini nelle loro differenti disposizioni e nelle diverse condizioni in cui possono svolgere e perfezionare le loro psichiche attività, vediamo chiaramente che assai meno si affannano nel campo spirituale coloro che non ànno raggiunto un certo perfezionamento della loro natura intellettuale e morale. Il perfezionamento intellettuale e morale indubbiamente si afferma, nella sua maggior possibile attività, quando siano date le condizioni molteplici che ne permettono il riconoscimento e l’amore non solo, ma anche la possibilità di agire in conformità di ciò che viene giustamente stimato di massimo pregio. Ma, come dico, non essendo gli uomini ugualmente disposti da natura alle indagini metafisiche, nè trovandosi tutti ugualmente nelle più adatte condizioni affinchè l’interesse metafisico si possa nettamente sviluppare, avviene che non tutti cercano le cause prime e lo scopo ultimo delle cose; che. non tutti manifestano quell’interesse di conoscere e quell'amore per il bene che pur è dato all'uomo come base e fonte di ogni progresso. Quell’interesse rimane sopito o sembra sparire del tutto dove non siano presenti le condizioni necessarie al suo apparire e svilupparsi. Pochi sono anzi coloro in cui nettamente si distingua e si sviluppi, mentre la maggior parte degli uomini
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sembra destinata a utilizzare i beni che i pochi trovano; ma tutti possono utilizzare quei beni nel patrimonio delle tradizioni religiose, tutti qui possono trovare ragioni contro i mali che minacciano non solo il perfezionamento, ma anche' la purata della vita fisica, tutti vi trovano il modo di procurarsi mezzi opportuni per prolungarla e per raggiungere là prosperità.; Alla rimozione di quésti mali, al raggiungimento di questi beni sembrano appunto rivolte le primitive pratiche religiose; ma anche accanto alle religioni individuali appaiono altri motivi, altri scopi, altre esigenze, altri problemi che oltrepassano la vita pratica, e che abbiamo brevemente indicato con la forinola generale di un interesse di perfezionamento.
Questo interesse di perfezionamento si vede meglio nelle primitive religioni della comunità, le quali offrono un mezzo migliore per raggiungerlo. Queste religioni anno stabilito il concetto del male, ne pretendono conoscere la natura, i limiti, lo scopo e gli si ^oppongono nel modo più deciso. Ed ecco perché l’uomo, in queste religioni, à trovato non solo la guida per la sua condotta, ma anche l’appaga mento delle sue esigenze conoscitive, e la beatitudine di un bene raggiunto, o di un perfezionamento da raggiungere.
Come questo avvenga, come l’uomo sia pervenuto dalla brutalità del male che l’opprimeva ad elevarsi alla cognizione dei suoi problemi e a nudrire certezza di liberazione e perfezione, è lo studio delle primitive credenze religiose che ce lo insegna, è la ricerca che abbiamo fatta dei motivi che pongono le religioni e il problema del male che ce lo addita. Perchè qualunque sia per essere lo scopo e ¡’ufficio che si crede poter ascrivere alla religione in generale, qualsisiano i motivi e gli elementi che si è creduto riconoscere in essa, nessuno à potuto negare che la religione si propone il raggiungimento di un bene, e precisamente di un bene che sembra in irriconciliabile opposizione con la realtà del male. Pertanto si è potuto dire che vi siano religioni che non comandano alcuna credenza in dio, come il Taoismo, l’antico Buddismo e il Confucianismo; ma non è stato affermato — e non lo si poteva perchè troppo evidente — che le religioni tutte non fossero travagliate dai problemi che desta nella coscienza umana la realtà del male. Nessuno poteva ragionevolmente affermare che le religioni non avessero lo scopo di liberare l’uomo dai mali, e di procurargli speciali beni. In questo punto almeno non sono sorte divergenze fra i pensatori che si occupano dello studio delle religioni.
Coloro però che dall’osservazione di alcuni fatti religiosi anno voluto generalizzare, senza plausibile giustificazione; e gli altri che ànno voluto chiudere dentro il sistema della propria filosofia, assai semplice e schematica, fenomeni estremamente complessi, come sono quelli religiosi, non potevano intendere la natura della religione, e non potevano conoscere il posto che occupa il problema del male nella coscienza religiosa. Ogni spiegazione unilaterale è destinata a fallire, quando vuole render conto di fatti che ànno origine da diversi motivi, è he si propongono diversi scopi e Che variamente vengono intesi dalle diverse coscienze. Nondimento quando vediamo che nessuna religione appare immune, se giustamente osservata, da idee e sentimenti del male; quando vediamo che in tutta la vita religiosa, anche in forma rudimentale, sono sempre riconoscibili interessi teorici, estetici e pratici; quando vediamo che la coscienza religiosa attende qui
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luce che la rischiari, là fuoco che l’avvivi e la conforti, ivi imagini di bellezza che la rendano beata; quando vediamo che è una molteplicità di beni che attende il religioso, una molteplicità di orivi e di scopi che lo conduce e lo avvince; e quando vediamo infine che la religione vuole appagare l’interesse umano di conoscere, e di conoscere per agire, dobbiamo pensare che in un punto essenziale tutte le religioni concordano: nel desiderio di umano perfezionamento, e che in tanto esse sono indissolubilmente legate al problema del male in quanto la realtà del male, in inconciliabile contrasto col bene che esse si propongono, deve trovare in esse la sua spiegazione e il mezzo di evitarlo, dominarlo o distruggerlo.
Pertanto dicevo che non avevano ragione quei pensatori i quali credettero riconoscere l’essenza e la natura della religione in questo o quel motivo, in questa o quella funzione, e nel raggiungimento esclusivo di uno scopo o di un altro. Per descrivere, sia pure brevemente, gli elementi principali delle religioni, nelle loro attinenze col problema del male, per intenderne i motivi che anno condotto gli uomini à religione e che ve li mantengano avvinti, per intendere i loro diversi atteggiamenti di fronte al male e ai problemi che esso implica, noi non possiamo accettare una spiegazione unilaterale della natura della religione, ma una spiegazione che ci faccia intendere i diversi atteggiamenti dei religiosi, e i motivi, le funzioni e gli scopi diversi delle religioni (i).
In tal modo non possiamo negare alla religione, un elemento estetico e mistico, sia pure in origine rudemente rappresentato, un elemento che implica imagini di bellezza, nelle forme, nei colori, nei suoni, così come vengono associati alla concezione degli Dei, alle pratiche religiose, ai culti, alla costruzione di altari e di tempi. Un elemento che domanda ammirazione per eroismi, per potenza, sapienza e bellezza, che è fonte perenne di beatitudine nelle visioni e nelle estasi mistiche dei religiosi.
Questo elemento non può confondersi poi con quello intellettuale, che l'interesse filosofico domanda nelle religioni; perchè questo non si pasce di semplici rappresentazioni, visioni ed estasi, ma è rivolto ai massimi problemi che il naturale desiderio di conoscere pone all'uomo. Quest’elemento implica così la soluzione di quei problemi che non appare in altra guisa raggiungibile. Ma esso non deve a sua volta esser confuso con l’altro elemento che non si rivolge al sentimento della bellezza, nè alla soluzione di quei problemi, ma pretende soltanto insegnarci le leggi per la condotta, e di essere la regola del bene, prescrivendo ciò che si deve amare e ciò che si deve odiare. A questi elementi delle religioni, e non a un solo di essi, corrispondono infatti gli interessi religiosi che cercano insieme imagini di. bellezza, luce di verità, vita che conduce al bene.
Lo vediamo nelle speculazioni primitive circa l’origine, la natura, i limiti e le finalità del male, nelle primitive concezioni e rappresentazioni degli dei e nella vita religiosa, nella condotta particolare che la vita religiosa domanda. Sono ora concezioni di potenze nocive o di esseri maligni incarnati in maghi e appiattati in diversi corpi.
(i) Cfr. E. P. Lamanna, La religione nella vita dello spirilo.
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Sono le regole che derivano da queste conoscenze, quelle che, nella fase magica della coscienza religiosa, dànno luogo alle diverse funzioni delle psichiche attività. Sono ora concezioni politeistiche quelle che accentrano e sviluppano le conoscenze e che determinano nuovi comportamenti su le medesime basi del raggiungimento del bene e del trionfo sul male. Sono ora rappresentazioni eroiche trasfuse nella fantastica tragicità della vita divina, nelle concezioni diteistiche, nelle teogonie e cosmogonie, dove più vivi sono i combattimenti fra i contrari, al chiarirsi sempre più della irriducibile opposizione fra di essi. Ecco l’orrido, la tenebra, il caos, l'errore associati al male e in lotta contro ciò che è bello e morale, contro la luce, contro il vero, contro il bene. Ora sono gli esseri supremi, facitori del mondo e dell'uomo, cui ànno dato in dono le arti, le leggi, la civiltà, la morale e insegnato la religione; ma dapertutto sono risposte che servono a rischiarare la mente che cerca di conoscere ciò che più importa all’uomo di sapere; dapertutto qui sono conforti per l’anima desolata, sono imagini di bellézza, visioni, estasi; sono comandamenti e inibizioni che servono ad allontanare dal male, ad attenuarlo e a distruggerlo in tutte le sue forme. E tutti questi elementi corrispondono ai diversi atteggiamenti della coscienza religiósa, ond’è che le religioni non vogliono attirare e tenere avvinti a sè soltanto alcuni uomini, ma tutti, qualunque sia la differenza di età, di sesso, di educazione, di carattere, di aspirazione, di civiltà. Non una sola attività dello spirito umano vogliono interessare, ma tutto 10 spirito stesso, nella sua unità e nella sua molteplice attività.
Si dirà forse che di un ideale perfezionamento non à sempre coscienza il religioso, e si avrà ragione, specialmente nella fase primitiva della religione individuale, ma non si dirà giustamente che anche quando l’interesse di alcuni religiosi sia esclusivamente rivolto alle attese, che possono riguardare i suoi pratici comportamenti, la religione della comunità non si estenda anche a ciò che quelle attese oltrepassa. Abbiamo visto le religioni primitive informare tutta la vita individuale e sociale ed esser quella che dapprima sostiene e difende l’uomo contro il dolore, esser la sola guida, anche nei suoi errori é nelle sue aberrazioni morali, verso un ideale di perfezione, dove ogni male sia estinto, distrutto per sempre. Ma naturalmente, tutte queste promesse non sarebbero possibili nelle religioni se non corrispondessero a interessi negli uomini che vi cercano appagamento. Se gli uomini non avessero sentita l’esigenza di una vita perfetta, non avrebbero concepito esseri supremi e non avrebbero accordato ad essi onori, ammirazione per le loro virtù, e adorazione. Un ideale di perfezione ultraterrena, libera dal male, per quanto rozzamente, appare dunque nelle religioni primitive che posseggono tali rappresentazioni or come incarnazione di potenze superiori, or sotto forma di antichi progenitori, scopritori delle arti e apportatori di civiltà, or come fondatori delle leggi morali e sostenitori di esse. La legge divina e le stesse divinità non sarebbero riapparse poi come fonte di bene per tutte le attività dello spirito umano.
Mario Puglisi.
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a terribile pena biblica contro gli adulteri, dopo il sublime episodio del Nazzareno narrato dall’evangelista Giovanni, pare cancellata dalla giustizia sociale. Ma chi attentamente consideri alcune consuetudini c usanze popolari, si accorge che, ridotta ai minimi elementi, e non in forma di supplizio, ma di rito espiatorio, essa visse per lunghi anni nel mondo cristiano; e probabilmente vive tuttavia in qualche angolo di esso.
La tradizionale legge ebraica coll’infame nome di adultera
non indicava soltanto colei che avesse tradito il talamo; ma anche la fidanzata Che avesse infranto la fede data; la fanciulla che non fosse andata al primo amplesso maritale intatta e immacolata nella sua innocenza. In tali casi la donna e il complice venivano tradotti avanti agli anziani, giudicati sommariamente, e quindi suppliziati a sassate (i).
Per quanto difformi nel sistema di pena e di morte, altre leggi antiche dei-l’Oriente non poggiavano su principii differenti. Basti pensare che Manu, il savio legislatore dell’india, considerava adulterio l’atto di rivolgere la parola alla donna altrui in una piazza, in una foresta, presso la confluenza di due ruscelli (2). Nell’India odierna, come nel Giappone, nonché tra varie popolazioni oceaniche e semito-ca-mitiche il concetto della castità muliebre è così rigido, che la donna diventa adultera soltanto a trattare con un uomo (3). La legge romana dei primi tempi equiparava in quanto alla pena la moglie infedele a quella che avesse falsificato le chiavi, operato stregonerie, o si fosse ubbriacata.
Nel medioevo questi principii sembrano rifiorire sul vecchio ceppo della cultura romana, alimentati dal gran soffio delle dottrine orientali. I più rigidi padri della Chiesa chiamano « adulteri speciosi » le seconde nozze; e il popolo traduce in tumulto per le vie del paese, con ridicola processione, la vedova rimaritata, facendola talvolta cavalcare su di un asino, come l'adultera (4). Pel diritto inglese
(1) Ley. XVIII, XX; Deut. XII, 21-24.
(2) Leggi di Manù, § 356 (p. 305 della traduzione frane, di Ixnseleur-Deslong-champs, 1833).
(3) Post, Giurispr. Etnol. (trad. ital. Longo e Bonfante), vol. Il, 265. (Milano, 1908).
(4) Il Concilio Turonese (1445) contro il « charivarium ?, solito a farsi nel passaggio alle seconde nozze, dispone: « Insultationes, clamores, sonos, et alios tumultus in secundis et tertiis quorumdam nuptiis, quos Charivarium vulgo appellant, propter multa et gravia incommoda fieri omnino prohibamus sub poena excommunicationis «. V. Balla doro, Il Matrimonio (lei Vedovi (Torino, 1899), P- 5-
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ella, « dum sola et casta vixit », ottiene il vedovile; altrimenti, per averne il possesso, deve presentarsi ai giudici cavalcata alla rovescia su di un montone, cantando un osceno ritornello (i). •
In tale lungo periodo, che abbraccia la barbarie e la cavalleria; che pur mantenendo la donna in servitù, inneggia alla sua bellezza e all’amore, la morale sessuale femminile pare incardinata nella frammentaria formola « casta vixit »; onde ogni minimo atto che accenni a immodestia, a impudicizia è riguardato come delitto. Sulla scorta dei « Canones Penitentiales », gli Statuti delle Città e dei Comuni minacciano condanne non lievi alla donna che si rendesse colpevole d’ingiurie, oscenità, percosse; e se alcune leggi infliggono, per l'adulterio, la pena capitale, o l’amputazione d’una mano, o il taglio del naso o dell’orecchio, altre, per fatti di minore importanza, comminano la confisca dei beni o un’ammenda, là fustigazione in pubblico o altra pena infamante (2). Questa, secondo una consuetudine friulana, di cui il ricordo è negli Statuti di Valvasone del 1369, può consistere nel girare sul luogo del delitto col sasso dell’infamia legato al collo: «Si quae mu-lieres rumorem facerent, debeant portare lapidem ad collum circa locum, vel solvere solidos parvorum quadraginta ». Secondo un’altra disposizione, anteriore a questa di un secolo, la donna recava la pietra nella camicia, a contatto colle carni, andando in processione: « La fame qui dira vilanie à autre, si come de putage, pajera 5 sois, ou portera la pierre toute noüe en sa chemise à la procession » (3).
Il vergognoso incarco può essere anche costituito da due pietre legate insieme (« lapides catenatos »), che la colpevole porta da una parrocchia à un'altra, come è detto nella Carta (1229) di Enrico, Duca di Brabanzia, e di Enrico I per i Comuni belgi: « Si mulier mulierem perçussent, solvet 20 sol. si convicta fuerit, vel portabit lapides catenatos a sua Parochia ad aliam »(4). Altra volta la scena diventa più grottesca, perchè la penitente, nel fare il doloroso tragitto impostole dalla legge, è punzecchiata con uno spillone da colei che ha patito l’offesa. E se l’una e l’altra, reciprocamente, si siano scambiate ingiurie o percosse, debbonsi alternare nel triste ufficio, scambiandosi di tratto in tratto le pietre e lo spillone. I documenti di quel tempo, che segna l’origine e il primo sviluppo delie libertà comunali, attestano queste circostanze. In alcune carte del 1220 e del 1222, di Ottone, signore di Tra-zegnies, si dice: « Si aucuns femmes se laidengoint ou batoint, celle qui sierat trouvée en tort par le temoing de deux voisines, portera Sur les espaules deux pierres, et li autre se poindcrat d’un avillon. Et se poindre ne le voloit, elle pajera au signeurs cinq sous et à celi qui portera les pierres deux » (5). Una persona per famiglia almeno deve assistere a tale spettacolo, che, stando agli « Jura tramonensia » deve
(1) Lieerecht, Zur Volkskunde, p. 429 (Der Humor im Recht). Heilbronn; 1879.
(2) Gfr. Fertile, Stör. Dir. Itai., vol. V, § 198, pp. 513-547. (Torino, 1892).
(3) Charta ann. 1247. Tabid. Campaniae, f. 343, Cit. del Ducange, Gloss, vedi Lapides.
(4) Ducange, Gloss.
(5) Wautey, L'Orig. et les Premiers Dêvelopp. des liberties Communales, cit. dalla « Tradition », IV, p. 366-
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avere luogo sulla via pubblica, percorrendo in lunghezza tutta la città, da una parte all’altra (1). In queste leggi è stabilito il peso che i due « lapides » debbono avere: « deux pierres attachées par des chaines... peseront un cent »; mentre nel Codice rurale e correzionale dell’università di Alken, rinnovato dal vescovo Giovanni di Baviera il 7 aprile del 1417, pur parlandosi di grosse pietre, si tace sul numero; lasciando alla prudenza del giudice di determinare il peso, avendo riguardo alle forze fisiche dell'imputata e all’entità del delitto: « En outre été ordonné que toute /emme qui injuriera quelqu’un par mauvaises et irraisonnables paroles, portera ou trainera des grosses pierres que ses forces souffriront et si avant qu’il sera ordonné à proportion du délict » (2).
Il trattamento penale dell’adultera non differisce da quello praticato per le donne pei piccoli reati contro il buon costume. Come la donna colpevole di avere commesso in pubblico atti impudichi, quella accusata di aver tradito l’onestà nuziale, deve accollarsi il sasso della vergogna ed espiare l’infame penitenza. Giovanni Stiernhook (3), che probabilmente osservò, ai suoi tempi, tale pena nella Svevia, la dice applicata in ogni caso di accoppiamento illegale, e cioè sia in quello del vero e specifico adulterio, sia in quello in cui la buona morale ne risenta offesa: « Ignominiosa lapidum gestatio in confusionem flagitiosi concubitus tot es celebrata quae etiamnum extat... Osservabant in curiis dúos lapides quos lapides públicos seu civitatis vocabant, stadzens siena; hi scàpulis adulterae impositi sunt, ac deinde funiculus ad genitale adulteri membrum adstrictus, quo sic onerata sessorem suum per oppidum publice circumducebat ».
Uscendo dal medioevo e dai secoli che immediatamente succedono ad esso, non parrebbe facile rinvenire notizia di questa penitenza, detta a ragione dal Du-cange, speciale del sesso femminile. Eppure, eccoci nel secolo decimonono, d’onde sembrano tanto lontane le ombre medioevali, in presenza di usanze e cerimonie che tale pena ricordano; e tutte insieme poi richiamano alla antichissima lapidazione orientale. Nel Comune di Maia, nel Portogallo, quando una giovinetta non si comporta bene, diventa ludibrio delle compagne. Queste, secondo il costume di quei luoghi, si riuniscono recando grosse pietre, che a notte, poi, scaraventano sul tetto della fanciulla che è venuta meno al decorò personale (4). Tale atto è più che una riprovazione della sua condotta; è una forma di castigo, che rincrudendo contro la persona, ove le leggi non si opponessero rigorosamente, potrebbe assumere forma di supplizio. E questo lontanamente adombrato, come larva di tentativo, perchè contrario al diritto pubblico, si scorge in una usanza di S. Costantino Briatico, in Calabria, analoga a quella portoghese. Quando una giovine, che già conosce le carnali gioie d’amore, passa a marito, sogliono alcuni
(1) Michelet, Orig. du Droit Frane., p. 303 (Parigi, 1892).
(2) Mémoires histor. des anciennes limites et circonscript. de la prov. de Limbourg par le Chev. De Corswaren, p. 315 (Bruxelles, 1857).
(3) Jure Sveonum et Gothorum Vetust., Lib. I, p. 19 (Holmiae, 1672).
(4) Leite de Vasconcellos, Tradicoes Populares de Portugal, p. 97 (Porto, 1882); Religioes de Lusitania, vol. II, p. 79 (Lisbona, 1909).
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giovinastri disturbare, nella notte, i coniugali sonni. Essi mettono sulla porta della casa nuziale una quantità di pietre in modo da formare un muricciuolo a secco, che in vernacolo chiamasi « anniderà ». L’indomani, chi dei due sposi è primo ad aprire l’uscio, vede scaricarsi di sopra quel mucchio di sassi (i).
Indipendentemente da questi episodi, che nella vita pratica sono considerati come espressioni di scherno, ma che hanno la loro importanza nella storia degli usi e dei riti, la « ignominiosa lapidum gestatio » ha un documento vivo, caratteristico in una costumanza calabrese. In Joppolo «se due vivono in peccato e poi debbono passare a matrimonio, nella festa o nella domenica precedente la celebrazione del rito nuziale, devono presentarsi in chiesa, al parroco, che al cospetto del popolo riunito li fa mettere in ginocchio presso i faragusti, cioè nel centro della chiesa presso il gradino prossimo all’altare maggiore, isolati e poco distanti l’uno dall’altra. Il parroco si avvicina, li carica di pietre grosse .e minute, che ripone sulla testa, sulle spalle, sulle avambraccia e sulle mani, che tengono conserte al seno. In tal modo i due peccatori debbono ascoltare la messa cantata; dopo che la gente sarà uscita fuori, il parroco avvicinandosi farà loro la paternale di rito, che ascolteranno in silenzio con occhi bassi. Poi dirà: « Il popolo vi ha perdonati ed io ancora nel nome di Dio benedetto. E così benedicendoli, li accomiata, assegnando loro il giorno del matrimonio » (2).
Tale penitenza porta il nome di « ammenda pubblica ».
Queste le ultime vestigia conosciute della lapidazione. Chi dubita di vedere alcun rapporto fra le usanze popolari e l’obbrobriosa condanna ebraica, ponga mente ad alcune circostanze che emergono dall'esposizione dei fatti e dei documenti.
La fornicazione è un « delitto » equiparato, o quasi, all’adulterio. Questo concetto, che nella società biblica porta a identità di pena per l’adultera e per la vergine impudica, non scompare nell’età media; ma si vede risorgere, qua e là, nella vita e nella disciplina cristiane, informate a principii rigorosi sotto l’influenza dei Canoni penitenziali; nè dopo questi si spegne del tutto, ma rimane nelle tradizioni e negli usi dei remoti villaggi, ove le costumanze antiche e patriarcali persistono, lontane dai soffi innovatori. Guardate: la donna accusata d’immoralità, per la legge mosaica dev’essere lapidata; per quella medioevale è costretta ad esporsi al pubblico con la pietra o con le pietre della vergogna; mentre per qualche sanzione popolare odierna deve subire I’« armiciera » avanti l’uscio, o la sassaiuola sul tétto; ovvero espiare il peccato, stando in chiesa coperta di sassi.
Queste tre pene stanno a rappresentare tre fasi di civiltà, e concordano in alcuni punti, quasi ad attestare l’identità del carattere loro. Se vi è differenza di svolgimento fra i due episodi del Portogallo e della Calabria e quello biblico, il carattere rimane lo stesso; in quanto in questo il supplizio è realmente eseguito, mentre negli altri assume forma di scherno, di riprovazione, di castigo. Se vi è
(1) Sono grato al direttore del periodico Folklore Calabrese, Raffaele Lombardi-Satriani, per avermi dato questa importante notizia.
(2) D. Corso, L’Animenda Pubblica nella rivista La Calabria, II, p. 96.
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variazione di modo, non vi-è certamente discordanza di dati fra la lapidazione dei remoti tempi e la cerimonia espiatrice di Joppolo; ove i concubini, come quelli che hanno offeso la santità della pubblica morale, sono coperti di grosse pietre, quasi ad offrire in chiesa, al popolo spettatore, l’immagine della fosca condanna giudaica, per cui la coppia impudica, o la donna soltanto, veniva investita a colpi di sassi (« lapidibus obruentur »; « lapidibus obruent viri civitatis »; « occidentur in conspectu populi », ecc., erano le formolo conservate nei libri sacri), fino ad essere seppellita sotto la greve mora. Ricordate che, secondo il racconto dell’evangelista, i Farisei traducono l’adultera nel tempio, avanti a Gesù, per essere giudicata? Ricordate che nell’antica procedura ebraica la rea veniva suppliziata avanti la casa paterna, se nubile; sulle porte della città, se maritata? Nella società cristiana l’adul- ,
tera non è suppliziata, giacché vige la massima: «Ecclesia non sitit sanguinem», • ?
ma è sottoposta a una pena, o penitenza, che ricorda pallidamente la lapidazione. I
Nel medioevo è obbligata a seguire la processione, portando la pietra nella camicia;
o ad andare col drudo da una porta all’altra del paese, o da una parrocchia al- I
l’altra recando o trascinando i «lapides catenatos»; ai nostri giorni, a Joppolo
si deve esporre al pubblico, in ora e in luogo solenni, con l’infame onere sul corpo.
La morale comune esige la giusta riparazione; Ond’è che la parola del parroco, alla fine della cerimonia, ammonisce i due colpevoli, annunziando loro il perdono supremo di Dio, dopo quello del popolo. Questo è il giudice severo. Non è qui il luogo d’indagare se la lapidazione sia un derivato o un avanzo del sacrifizio originario del colpevole o dei colpevoli, come credono alcuni; o se in quelle remote I
epoche tale condanna avesse avuto lo scopo di proscrivere l’individuo corrotto, come opinano altri, contrariamente al cap. XVI del Deuteronomio; o se fosse invece un’ordalia. Basta osservare soltanto, che l’antichissimo supplizio ebraico, stroncato poi dal sistema penale d’Oricnte per la parola generosa del Nazzareno, fu eseguito simbolicamente nel mondo cristiano medioevale, e più con scopo morale, |
che penale; e da quel tempo, per quella forza di persistenza che collega i nostri costumi agli antichi, passò a noi, nonostante la comminatoria dei Concilio Tridentino, che voleva bandite dalle chiese le innumerevoli « consuctudines non laudables »; a sradicare le quali si adoperarono le leggi e i sinodi, il potere laico e quello |
ecclesiastico.
Raffaele Corso.
TríiíiinnrriaM rrai 11 - ---....... - - -- --
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RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
IX.
IMMANENZA E TRASCENDENZA
Trascendenza © immanenza: ecco l’assillo dello filosofia religiosa con temporanea; anzi, di tutta la filosofia. La coscienza chiara di esso problema si è avuta la prima volta con l’irrompere di un consapevole idealismo sul* pensiero filosofico. Se la realtà è pensiero, se cioè le cose non sono conosciute se non in quanto il pensiero che le conosce, le penetra, le risolve nelle nozioni che sono il suo atto, è la loro verità e quindi la loro intima e pensabile realtà — c sembra che la filosofia vera non possa sfuggire a questa fondamentale constatazione — non ne segue che dunque pensiero e realtà in fondo si identificano e che l’unità e l’universalità alle quali quello necessariamente aspira e che esso compie, in qualche misura, in ogni suo atto, sieno l’intima sostanza di ogni essere? Il quale, quindi, non potrebbe venire inteso filosoficamente, se lo si scinde da questa una ed intima e totale universalità dell’essere? Éd ecco l’immanenza.
Il passaggio da un idealismo semiconscio, cioè ancora realistico e dommatico, all’idealismo assoluto si compie con Kant. Quello, pure affermando con Cartesio che il primo atto di autocoscienza (cogito) è anche la prima e fondamentale affermazione dell’essere (ergo sutn), e con Berkeley che essere è esser conosciuto, e con Spinoza che unica negli infiniti ed innumerevoli modi è la sostanza, poneva pur sempre l’atto del
conoscere dopo il dato suo, dopo il fatto e il sensibile e la natura. Kant, primo, non assume più la cosa ma il pensiero stesso come punto di partenza; e in ciò si distacca nettamente da tutti i suoi predecessori. Senonchè questo pensiero da cui si parte non è l’atto stesso del conoscere, unico a priori ; sono le categorie, un certo numero di idee o di forme dell’intendimento le quali sembrano in qualche modo sopraggiunte ad esso, come sopraggiungono alla cosa in sè; che poi, a un certo modo, è tutta nella conoscenza, ed è tutta fuori della conoscenza. come in sè, noumeno, cioè inconoscibile. Così Kant non uccide la metafisica, ma ne fa un regno inviolabile, inaccessibile, condannando noi al fenomeno ctl alla prigionia delle categorie a priori.
La posizione di Kant parve subito intenibile; e si venne, dal suo primo discepolo1, Fichte, all’idealismo trascendentale. Trascendentale, perchè ciò che esso innanzi tutto afferma e pone è quella stessa realtà del pensiero, l’assoluto e infinito essere, il quale di sè scinde il non-sè ed in questa autocoscienza della propria limitazione si fa soggetto.
Lo scandalo di questa nuova posizione filosofica è la morale e, anche, la religione (due cose che fanno poi uno, perchè la morale, non come scienza della volontà, ma come prassi e norma di vita, è l’atto concreto della religione). Se la morale è coscienza del dovere, se la religione è adorazione dell’Uno infinito e legislatore, la trascendenza sembra implicata nella nozione stessa dell’una e dell’altra. E l’identifica-
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zione di essere , e dover essere, di razionale e reale, l’assunzione di tutta la storia a storia della autodeterminazione dello spirito assoluto, è stata giudicata, non senza fondamento — e l’ho già fatto notare — come la rovina della morale nella vita degli individui e nei rapporti fra le nazioni: esempio la Germania ; e come la fine della religione nel misticismo panteistico o nel determinismo universale. L’idealismo, se sembra rispondere alle più intime esigenze della ragione ragionante, par l’altra parte incapace di darci una morale soddisfacente.
E questo del conciliare l’immanenza c la trascendenza può essere considerato come il problema proprio del modernismo; sia dal punto di vista storico (passaggio dall’ingenuo realismo oggettivistico delle Chiese storiche alle forme mentali dell’idealismo critico; un’altra filosofia, o una forma intermedia fra idealismo e positivis"mo non apparendo sostenibile, non ostante gli sforzi dei neo-tomisti) sia e più dal punto di vista filosofico. Poiché a) filosofo come tale poco importano le conseguenze pratiche delle sue dottrine; se sono vere, e nella misura in cui sono vere, esse debbono anche essere corrispondenti a quella realtà che si manifesta come realtà morale; ma a chi vuol riserbato alla fede un posto oltre e sopra la filosofia importa innanzi tutto sapere se i postulati deH’una’e dell’altra non .siano antinomia e con tradi ttorii.
E forse c’è da osservare, che nel primo suo stadio, quale, per questa parte, la più limpida espressione si ha negli scritti del Tyrrell, esso è giunto sino alla soglia del problema, è giunto ad acquistarne coscienza, senza risolverlo: e in questa coscienza delle difficoltà e quasi impossibilità filosofica di risolverlo sta, pei il filosofo, la ragione vera della presente sosta del modernismo, con la quale le condanne e le proscrizioni di Pio X hanno assai poco da vedere.
L’ETICA DI G. RENSI
Un tentativo per ristabilire netta e tonda la trascendenza in morale ha fatto testé un italiano, Giuseppe Sensi, vei satile scrittore di letteratura filosofica, traduttore degli scritti dell’insigne idealista americano, 1. Royce, morto nel corrente anno, del quale ci occuperemo largamente in una prossima rassegna. Nel suo volume: La Trascendenza, (F.ili Bocca editori, Torino, I . 5), il Rensi, indicato prima sommariamente il cammino dell’idealismo, nel quale trova
Ì>ur sempre implicita, ed espressamente ormulata nel più recente idealismo ingleseamericano, l’affermazione dell'Uno assoluto trascendente la natura e gli individui, dimostra con ingegnosa argomentazione, e con l’esame delle dottrine di Kant, come anche questi concluda all’eteronomia della morale; poiché la pura volontà razionale del bene per se stesso, all’infuori di ogni motivo egoistico, nel raggiungimento della quale l’io empirico conquisterebbe la sua autonomia, è bensì autonoma per rispetto ai motivi inferiori di condotta, ma non trova in sé, per quello che riguarda l’individuo, la sua piena consistenza; e fa appello alla volontà assoluta del Bene, al vero io.noumenico nel quale la volontà è, per identità, il Bene.
Anche la morale positivista finisce, nota il R., nella eteronomia. Essa può essere divisa in due grandi rami; l’uno di quella che muove dal concetto dell’utile, dell’egoismo e del piacere; e, dialogizzando e affinandosi o. è costretta a trascendere la sfera angusta del piacere e dell’utile dell’ individuo ed a far discendere il comando morale « da una sfera remotissima da lui, più lontana ancora da lui che non sia il Dio delle religioni positive, la sfera cioè, del piacere non solo dell’insieme dell’umanità, ma del complesso di tutti gli enti senzienti ; anzi di tutti gli elementi provvisti di coscienza de’la sostanza universale » (pag. 122). L’altro, con a capo l’Ar-digò «colloca originariamente nella natura umana un impulso altruistico, nativo e indipendente dal piacere, e che, cessando di cercar di dedurre la morale dal piacere, concentra il suo sforzo nel sostenere che l’impulso altruistico originario si spiega però naturalisticamente ». Eteronomia anche questa, osserva il R.; poiché un tale impulso altruistico trascende l’individuo, sia come espressione di uña potenza superiore a lui, sia come tendenza al realizzarsi di un bene che esige le piena subordinazione, talora sino al sacrificio, dell’interesse individuale.
In seguito il R. sottopone ad una sottile disamina il carattere di universalità della ragion pratica e del precetto morale; e mostra che ragion pratica è anche la volontà del male (secondo Croce la ragion pratica si distingue in etica ed economica; e quindi questa seconda a-etica) e che l’universalità della norma non potrebbe, praticamente, condurre che alla morale del maggior numero, alla morale corrente, diversa
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secondo i tempi ed i luoghi; che infine dal punto di vista formale non si riesce a fis; sare un vero carattere distintivo perazioni buone e cattive, essendo le une e le altre fatte secondo conoscenza, in base a un giudizio pratico attuale che le legittima come ricerca del maggior bene, e seguite da soddisfazione o da rimorso (c’è anche un rimorso del male non fatto, nei cattivi senza coraggio) ecc.
Ma le conclusioni alle quali giunge il R. sono fatte per spaventare molti. Se ugualmente l’atto buono e l’atto cattivo sono posti dall’uomo in parità di condizioni formali, se egli sempre agisce seguendo la ragion pratica ed applicando una norma che nel momento in cui gli sembra valida gii sembra per ciò stesso universalmente valida (per ogni altro che fosse nelle sue condizioni) la volontà non è libera, il bene e il male sono in lei ma non sono da lei. E il male è in lei nella maggior parte dei casi; e il bene è in lei come vocazione insita, come disposizione o attitudine o vis speciale derivata dal nascimento ed educatasi con inconscia prepotenza, come genio elico', e la formula vera del bene è nell'ap-pagamento non proprio, ma degli altri e del maggior numero, cioè in un fine del quale chi lo attua è strumento non soggetto, se poi questo appagamento altrui non fosse, come è, il più ricco sviluppo della propria personalità. E la sede ultima del none e del male egualmente va trasferita dall'individuo singolo a Dio che è in lui, che è il suo piu intimo sè e che lo muove; e le ragioni del perenne conflitto sono solo note a Dio che in esse persegue la realizzazione, nei secoli, della sua volontà.
Libro interessante e suggestivo, questo del R.; ma nel quale il lettore non è sufficientemente preparato prima ad intendere appieno il valoredei termini, che così spesso vi si adoperano, di trascendenza c immanenza; nè a vedere se il R. intenda concludere alla trascendenza dell’essere, dell’uno e assoluto, sulle sue manifestazioni e momenti (la quale l’idealismo più conseguente non solo non nega ma postula) o alla trascendenza di un atto assoluto creatore il quale è altro da ciò che esso crea, e pur ragione ultima di ogni atto di questo, del bene e del male, se essere in questo modo significa, per necessità, essere, ad ogni momento, creato; vivere e muoversi ed agire in forza di quel perenne atto creante; che è lo scandalo della trascen
denza, se anch’essa sia logicamente condotta a quelle che sembrano dover essere le sue ultime deduzioni.
LA NUOVA TEOLOGIA
Molto rumore ha destato in Inghilterra il ritorno del rev. R. I. Campbell alla chiesa anglicana, che ebbe luogo sulla fine dello scorso anno, ed è ora illustrato e spiegato da lui in un recentissimo volume: A spiritual pilgrimage (Willians and Nor-gate, London, 1916).
Per molti anni il Campbell aveva con grande fervore ed eloquenza difeso ed illustrato nel pulpito, da lui reso celebre, di City Tempie in Londra le più larghe e radicali vedute sulla religione e sul cristianesimo; e le aveva anche illustrate in un libro: The New Thcology, che ebbe una larghissima diffusione e suscitò vivaci polemiche, contribuendo grandemente al risvegliò di una libera religiosità in Inghilterra. «Oggi» scrive, nel suo n. 11 ottobre 1916, la Christian Commonwealth, organo della comunione religiosa di City Tempie, « per effetto della controversia sulla nuova teologia, sulla quale ora il sig. Campbell avrebbe steso un velo, molti ministri sono in grado di esporre il loro pensiero religioso con più sincerità e pienezza, e un’aria più fresca e più pura circola in quasi tutte le chiese ».
Quel volume: The new thcology, del quale ho presente la traduzione francese di I.Avar-non : Le Chrislianismc de l’avenìr, (Paris, Nourry, 1909) è come il manifesto del modernismo evangelico inglese; mira a «salvare la religione piuttosto che le chiese ». Esso prendeva le mosse dalla immanenza divina; ma una immanenza che, nel pensiero del C., non escludeva la trascendenza. « Alla luce del pensiero moderno, la Teologia nuova ritorna liberamente verso le sorgenti del cristianesimo. Il suo punto di partenza è una accentuazione nuova della credenza cristiana nell’immanenza di Dio nell’universo e nell’umanità. Nel passato immediato, la dottrina della trascendenza divina, cioè la verità evidente che l’Essere infinito di Dio deve oltrepassare l’universo infinito, è stata presentata in modo tale che essa ha condotto in pratica a un dualismo il quale invita l’umanità a vedere Dio al disopra e al difuori dell’universo che è il suo, in luogo di riguardare, al contrario, quest’universo come la sua propria espressione... È il Dio immanente col quale ab-
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biamoda fare; se si giunge a rendersi pienamente conto di ciò, tutte le nostre concezioni religiose saranno semplificate e la nostra fede diverrà più operosa ».
E in un suo discorso di City Tempie, nel 1906, così il Campbell riassumeva il suo credo: • È sorta oggi da ogni parte dell’orizzonte intellettuale come una nuova visione, una più larga vista de) significato della rivelazione cristiana... Quale è il messaggio che ci viene così dichiarato? La essenziale divinità dell’uomo; la sua inscindibile unità con Dio; la possibilità di salute della razza, come un tutto, e non di individui qua e là; l’unità di ogni vita; in alto e in basso, da questa parte come dall’altra del mutamento chiamato morte; il divino valore della lotta e del dolore che sono le condizioni necessarie della manifestazione della essenziale natura dell’amore eterno; l’identità della divina giustizia, bontà, rettitudine, amore, verità, che non possbno mai essere separate l’una dall’altra, perchè mai furono separate nell’Essere di Dio; il pellegrinaggio dell'umanità a questo Eterno Cuore dal quale essa venne, con processo in cui ogni salvatore della razza volentieri lavorerà e soffrirà finché ogni egoismo sia stato distrutto ed ogni peccatore sia divenuto un Cristo. Questa è la parola di Dio per oggi, ed essa è l’eterna verità».
Che cosa ha indotto il C. a rinunziare a questa larga visione ed a tornare al «cat-tolicismo anglicano»? Egli scrive nel suo nuovo libro che gli è divenuto evidente come • nell’unità corporativa delia Chiesa cattolica, e in essa solo, egli poteva trovare piena soddisfazione al suo bisogno religioso». E forse, sospettano alcuni, Canterbury non sarà per lui che una tappa verso Roma. Un’altra spiegazione suggerisce, nell’articolo editoriale del n. citato, la Chr. Comm. «Campbell vive in fasi. Molto recettivo ed impressionabile, egli spontaneamente incentra e coordina e dà espressione popolare alle nuove idee e correnti di pensiero che richiamano la sua attenzione, finché queste gli sembrano essere la verità finale ».
Noi diremo di più: una tal quale inconsistenza di pensiero poteva notarsi nel suo celebre libro del quale abbiamo parlato. Superficiale è la facilità disinvolta con la quale egli concilia così facilmente, senza pur la coscienza del problema filosofico, immanenza e trascendenza, panteismo e cristianesimo, e con la quale a ogni domina e dottrina dei vecchi credo egli trova una
spiegazione immantenistica comoda, perspicua, atta a facilitare senza scosse brusche, il passaggio dai vecchi credo alla nuova teologia. Il suo pensiero era troppo facile per essere profondo. C’era in lui assai più volontà di credere che spirito critico. E non è quindi meraviglia se la volontà di credere ha avuto il sopravvento. Da alcuni anni la sua parola aveva perduto la trascinante sincerità degli anni migliori; la guerra europea e il senso come di smarrimento spirituale che ha dato a tanti inglesi un desiderio nuovo di unità religiosa ha avuto sul suo temperamento sensibile e recettivo una più profonda efficacia; e lo ha condotto a Cercare una fede sicura e riposante in luogo di quella battagliera e novatrice del modernismo del quale era stato un così fervido ed efficace campione fra i protestanti di lingua inglese.
IDEALISMO E PEDAGOGIA
La questione è anche trattata da Mariano Maresca, dal punto di vista del problema pedagogico, in un suo interessante volume su Le antinomie della educazione. Quattro sono queste antinomie che il M. considera: essere e dover essere, autonomia ed eteronomia, istruzione formativa ed istruzione informativa, educazione individuale ed educazione sociale. Esse possono non difficilmente essere ridotte ad una fondamentale, la seconda; che è poi un modo di porre l’altra antinomia: immanenza. e trascendenza.
E la soluzione di questa, nel libro del M., è sostanzialmente ispirata all’idealismo, con alcune riserve, le quali riguardano la formulazione di questo, data testé dal Gentile; il quale poi {Critica, 1916, IV) crede di poter asserire essere la differenza fra lui e il M. più verbale che reale.
È facile dimostrare che i due momenti, autonomia ed eteronomia, sono egualmente fondamentali nel processo educativo. 11 maestro, in quanto è altro dall’alunno ed agisce su questo comunicandoglisi e conducendolo, è l’eteronomia; ma, viceversa, egli non’è maestro vero — e G. Gentile e G. Lombardo Radice lo hanno dimostrato molto efficacemente — se non in quanto offre all’alunno il modo di attuare il suo stesso spirito, di trarre da sé con una nuova invenzione ciò che impara; e maestro ed alunno fanno uno nella unità dell’atto spirituale che è, in concreto, l’insegnamento. L’eterononia è dunque un
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momento dell’autonomia, e non viceversa; è lo spirito che, per farsi, riceve, ma riceve secondo la stessa sua intima esigenza e natura, e quindi fa suo, senza residuo, e prende in se, e supera nell'ulteriore suo processo quello che riceve.
Se si accetta il principio della trascendenza, dualità di Dio e mondo, nota il M., voi avete una eteronomia che sopprime definitivamente l'autonomia. I.’essere per sè, il principio, la legge, la volontà da attuare è fuori dell’uomo e dell’educando, è altra cosa da lui, e questo è nella condizione di chi riceve ed accetta, obbedisce ed esegue, sottomettendo sè alla norma che è fuori di sè. E l’educazione sarà per necessità adattamento a questa regola superiore; e l’umanità tutta intera, con tutte le sue potenze e attitudini, sarà come un alunno dinanzi a un maestro che è altro da essa e sopra ad essa. E, in quanto l’educazione non può praticamente non esser data che da uomini, essa sarebbe, secondo la dottrina cattolica, priva di ogni efficacia e valore dopo il peccato di Adamo, se alcuni uomini almeno non avessero avuto direttamente da Dio la rivelazione della verità; e se da essi non discendesse, attraverso a un corpo eletto e stabilito da Dio stesso, un insegnamento che fa della eteronomia Dio-uomo l’altra eteronomia, espressione nella storia di quella: Chiesa-umanità: e, nella Chiesa stessa, sacerdozio-laicato.
Ma questa concezione, spiega il M., annulla l’educazione; perchè il soggetto, checché faccia, rimane sempre vuoto e privo del suo principio, che è sempre fuori di lui e ad infinita distanza da lui.
Una concezione opposta, che identifichi intieramente l’individuo e l’assoluto, l'atto e il dato, l'io empirico e lo spirito' in universale non è atta, neanche essa, a risolvere l’antinomia. Nella vita morale, il processo dello spirito che si fa, l'educazione come autoeducazione, prende quella speciale forma di contingenza che è la libertà. Non in ogni processo spirituale essere e dover essere si identificano, ma solo in quello che nell’individuo tende ad attuare con saputa mente io spirito in universale, a fare della volontà la volontà buona in atto, a compiere una norma ed un ideale che è nell’individuo stesso, ma come un più intimo sè al quale è fatta legge all’individuo di elevarsi, con sforzo e superamento. ■ L’unica maniera di superare l’antinomia consiste nel non trascendere il processoeducativo, collocando a principio delprocesso un trascendente immaginano (l’antinomia o ¡’eteronomia), ma nel pensare l’antinomia e l’eteronomia come i due aspetti essenziali del processo di formazione dello spirito, coevi e simultanei, nessuno dei quali può essere assorbito dall’altro. L’autonomia è data dal momento soggettivo della produzione, della spontaneità del soggetto... ¡1 momento dell’ete-ronomia è costituito dalla universalità della forma, <lc\V ordine e del sistema o valore delle azioni umane. Ambedue sono coevi e simultanei, sono i due momenti del processo reale dello spirito. Lo spirito non sarebbe reale, senza agire, fare, creare qualche cosa; ma egualmente non sarebbe reale nemmeno se non esprimesse in ogni sua azione l'esigenza del dover essere che è assoluta ed infinita. Lo spirito finito, concreto affonda le sue radici nello spirito assoluto, infinito, e non è concepibile senza la sua essenziale correlazione coll’universalità della natura spirituale. Ma l’universale e l’assoluto non sono un trascendente astratto o immaginario, ma un trascendente reale e perciò immanente nel finito e nel relativo. Al di là del finito e del relativo non c’è nessuna concepibilità del; l’assoluto e dell’infinito, i quali sono reali nel finito e nel relativo, benché non sieno l’identità loro, ma la loro forma, il loro sistema. Bisogna superare la posizione kantiana in questo senso: quello che c’è di soggettivo nell’esperienza non è la forma, assoluta e necessaria, ma il contenuto. Il soggetto particolare non può produrre che il contenuto empirico dell’esperienza: la forma e la legge trascendono il particolare, sono dati (dati non come fissi ed immobili, ma come processo, perchè sono la forma del processo spirituale) al soggetto, come soggetto particolare, perchè esprimono la sua essenza più profonda, il suo essere assoluto ed universale, come soggetto assoluto dell’esperienza. L’infinito e l'assoluto vivono in fondo all’anima umana, perchè ne esprimono la sua misura in ogni azione: sono l’ideale, il dover essere, la forma, il sistema dell’esperienza verso cui l’uomo aspira incessantemente, superandosi sempre in ogni momento della sua vita, in ogni fase determinata del suo processo, non posando mai finché il suo vero essere non cessi di adombrarsi a se stesso sotto le parvenze spaziali e temporali ».
Questa concezione della trascendenza dell'ideale etico nella immanenza dell’assoluto assunta come fondamentale sod-
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disfa a una viva e profonda esigenza morale, ma lascia perplesso il puro dialettico.
LA VOLONTÀ BUONA
Una eguale risposta al sommo problema dell’etica ci sembra contenuta nei due primi volumi degli Elementi di dica di Giuseppe de Casteli.otti (Gius. Cesari, editore Ascoli Piceno, 1916). Scartate tutte le soluzioni che collocano la norma della bontà in principii tolti dalla natura o dal senso (determinismo, utile, piacere) o che rendono impossibile lo stesso costituirsi di un principio morale (scetticismo, pessimismo) il de C. critica i sistemi che identificano volontà e bene, senza una ulteriore critica della volontà stessa, e pone la volontà del bene, o la volontà che in sè è buona, al disopra della semplice volontà dell’zo empirico (utile, piacere, individualismo, ecc.) come là volontà trascendente, dover essere, norma, ideale, ragione pratica pura, dell’immanente spirito che è la più intima sostanza dell’essere umano.
Il de C. parla più kantianamente del Maresca: ma forse anche egli, se gli si opponesse la nota obiezione formulata contro l’etica di Kant — concludere essa a un universalismo puramente formale; è l’obiezione che abbiamo visto diffusamente espressa dal Renzi — risponderebbe che l’n priori etico, secondo lui, non è una categoria. ma è lo spirito stesso.
Ci si ripresenta così, nel de C., quel dissidio, nel quale si dibatte ogni etica immanentistica, fra l’esigenza dialettica dell'unità (Gentile) e l’esigenza etica della trascendenza del dover essere sull’essere, dell’ideale sulla volontà che il Croce chiama economica. Negare che l'universalità sia solo il carattere formale dell’atto etico, la categoria della eticità, affermando invece che essa è l’atto dello spirito stesso che si pone come volontà conscia di sè, come superamento dell’individuale, empirico e definito da uh oggetto concreto sensibile, nella universalità dell’assoluto, è certo, in etica, un sostanziale progresso. Ma ogni difficoltà non è, con ciò, superata. Come l’individuo che pure è spirito e non può non essere che spirito, quando agisce economicamente rimane tuttavia in tal caso al di qua della universalità, caratteristica fondamentale dello spirito stesso? E quando esso agisce invece eticamente, volendo cioè l'universale, e se come universale, che cosa ci assicura che qui non
siamo dinanzi ad una presunzione dialettica, arbitrariamente affermata di alcuni atti dello spirito e negata ad altri; ma ci troviamo invece effettivamente dinanzi alla volontà buona, al dover essere, all'ideale? Sembra dunque che si debba ricadere nel formalismo.
Forse il de C. si proporrà questa difficoltà capitale nel terzo volume, che sarà dedicato ai problemi, mentre il primo tratta dei principii, il secondo dei sistemi. Intanto, datagli la lode di avere collocato il principio dell’etica e la legge morale nella più alta regione dello spirito, se dobbiamo considerare il suo lavoro come un manuale, una critica, non di sostanza, ma di metodo scolastico, si impone. L’esposizione è facile, non eccessivamente teorica, non ingombra di erudizione, ricca di spunti letterari e di riferimenti. Ma il piano del manuale ci pare eccessivamente complesso; troppo sminuzzamento di punti di vista, di dottrine, di sistemi; troppa analisi e sottigliezza di differenze e di distinzioni, Eer un testo di liceo. Meglio valeva porre ene in chiaro i concetti fondamentali ed essere più sobrii e sommarii nella polemica, specialmente, ma .non solo, nel secondo volume, dove era facile raggruppare taluni dei sistemi particolarmente, diffusamente considerati, sotto un unico pensiero centrale. Ma all'inconveniente può non difficilmente riparare l’insegnante che voglia adottare per la sua scuola il manuale del de C.
Il de C., come del resto i più dei trattatisti di etica, non si occupa di proposito dei rapporti tra morale e religione: e ci par questa una lacuna grave, della quale la maggior colpa ricade sui programmi scolastici ufficiali. Se la scienza morale in ultima analisi apparisce come uno studio della natura e delle leggi proprie della volontà, senza alcuna efficàcia normativa, la norma pratica attuosa va ricercata nell’atto stesso dello spirito che si pone ed attua come esi-Eenza dell’assoluto; e questo è la religione, ’n’etica che non sia ad un tempo filosofia della religione è quindi necessariamente monca ed insufficiente.
LA DIALETTICA DELL’ASSOLUTA TRASCENDENZA
Come ho detto, la questione: immanenza o trascendenza divenne la questione tipica del modernismo che l’enciclica Pascenti dedusse tutto, con grande rigore di
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logica, dall’immanentismo. Solo che quell’immanentismo foggiato dal verbo papale era quale menti scolastiche potevano concepirlo: cioè un monismo panteistico e soggettivistico, romantico e positivista.
Ma del colpo non soffrì solo, il modernismo; perchè da esso l'apologetica e la teologia cattoliche sono state acculate, di rimbalzo, ad una concezione grettamente estrinsecistica e realistica, per salvare la trascendenza, e ad una ancor più paurosa ostilità per il pensiero filosofico moderno, caratterizzata dal trepidante ritorno a S. Tommaso. Del primo fatto si ha una dimostrazione chiara in un libro uscito testé di un gesuita francese, il P. Tamisier contro il modernismo: (Christianism? et modernismo en face du problème religieux. Parigi, Letlùelleux, 1916), libro pieno di enfasi oratoria e di una meravigliosa inintelligenza di tutto il problema critico; nel quale ag-punto perciò il trascendentalismo cattolico è affermato nella maniera più ingenua e completa; quella delle Solutions toutes failes, che il buon cattolico riceve dal papa Pro tempore (p. 392), quello nel quale, la grazia ■ seconde nos facultés à se sou-mettre à la révelation, qui nous est mani-festée du dehors », ecc. Un tale trascendentalismo arriva diritto, come è naturale, alla supremazia politica della Chiesa ed al potere temporale dei papi; infatti la presa di Roma è definita < somme toute, un acte de banditismo » e ai Savoia è rivolto (p. 248-49) questo commovente appello: • Fermati, questa città non è per te... povero piccolo principe... Va, lascia la tua missione, riconosci il tuo errore, fa cammino a ritroso; in Roma eterna tu non sarai mai altro che un effimero intruso. Non sarà il rescritto delle logge massoniche che legittimerà una conquista da trenta secoli di storia condannata d’avanzo. Non vedi che, se puoi prendere a Roma le sue mura, tu non puoi prènderle nè la sua storia, nè la sua maestà, nè il suo destino misterioso; tu non puoi impedire che essa sia stata fatta per appartenere a Cristo e al suo Vicario, per essere la capitale del solo impero universale e indistruttibile che sia stato fondato sulla terra. No, non rubare Roma all’Eterno »...
I lettori potranno ammirare a scelta l'eloquenza del gesuita o la deduzione dialettica del potere temporale dalla condanna dell’immanentismo; noi vorremmo tranquillizzare il buon uomo, avvertendolo che forse lo sfogo è fuor di posto a propo
sito di modernismo; perchè, nella lotta fra. modernisti e papato, tutte le simpatie e gli aiuti più o meno efficaci della terza-Roma, dai ministeri degli interni e di culti all’università, hanno finito col mettersi dalla parte del Vaticano. Ci deve esseredun-que in qualche punto della dimostrazione condotta dal gesuita pei' 400 fitte pagine nascosto un trapasso illogico. Cerchi.
VARIATTEfr
».ufi (Z*
A. Scuter. Dictionary lo thè Greek New Testamene Oxford, Clarendon Press, 1916.
Non sapremmo abbastanza lodare quest’opera ' che è destinata a rèndere un servizio d’incalcolabile utilità agli studiosi che appartengono al pubblico colto, non specialista, i quali vogliano trovarsi a tu per tu col Nuovo Testamento greco. Un senso d’invidia proviamo a guardare il comodo volumetto tascabile, accanto alla comodissima edizione manuale di Stuttgart del Nestle, due preziosi librini che possono diventare inseparabili in mano allo studioso di cose bibliche; e tanto più sentita quest’invidia di fronte alla nitidezza della edizione che è un vero gioiello.
F. E. Comani. Breve storia del Medio Evo. Firenze, Sansoni Edit., 1916, Due voli.
Crediamo fare cenno del lavoro del prof. Comani, offerto ai giovani dei nostri Licei, in quanto l’A. ha voluto che la storia del Cristianesimo, che la rassegna dei movimenti più importanti dello Spirito e gli aspetti più interessanti del problema religioso rientrassero nell’ambito della storia generale d’un'epoca. Siamo così poco avvezzi in Italia, non Sure nei Licei, ma nelle Università me-esime, a veder indirizzati i giovani studiosi alla comprensione della storia, pure così feconda di ammaestramento, del pensiero religioso! Per questo, rallegrandoci col prof. Comani, rileviamo la sua op-
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portuna idea e ci compiacciamo che egli abbia saputo, pure in ristretta mole, esporre con sicurezza di vedute e con completezza di sintesi la storia religiosa di quel Medio Evo nel quale il Cristianesimo ebbe così disparati aspetti, dalla ascesi più alta alla più immane ferocia, e che importa ben conoscere e comprendere a chi voglia oggi rendersi conto del contenuto cristiano del moderno Cattolicesimo.
Premoli Orazio, Morie edificante del Padre Ugo Bassi. Roma, Befani, 1916.
È fuori discussione come la condanna e la esecuzione del Bassi fu preceduta da un processo canonico da parte dell'Autorità ecclesiastica, il quale finì coll’or-dinare la sconsacrazione del sacerdote Barnabita in omaggio, all'Austria che non avrebbe dovuto mài trovare tra gli italiani rifacentisi una Patria dei sacerdoti romani. E la sconsacrazione fu operata di fatto Con un rito speciale del quale testimoni oculari tramandarono particolari ferocemente macabri: p. es. la raschiatura delle mani consacrate del Bassi fu operata così simbolicamente dagli incaricati all’uopo da fare sprizzare vivo il sangue dai polpastrelli del Martire. Il Bassi morì da cristiano, cioè nella fede in Cristo e nel perdono dei nemici. Il Premoli va narrando altrimenti: il Bassi avrebbe rinnegato il suo ideale che congiunse in un unico amore Cristo e l’Italia, per quell’altro...quello dei suoi raschiatovi alleati dell’Austria; ma chi gli presta fede oggi?
Giovanni Busnelli, Manuale di Teosofia.
Roma, A. Befani, 1916. Voli. 4.
Chi crederebbe onestamente possibile raccogliere in volume degli articoli comparsi qua e là su Riviste e dedicati a povere confutazioni d’un sistema, d’una teorica, d’un movimento qualsiasi di idee e di pensieri complessi, e poi intitolare il volume (o meglio i quattro volumi) Manuale di...? Non siamo molto teneri della
teosofia, ma la compiangiamo davvero per questo trucco che le si gioca, vendendo Ser Manuale, cioè per quintessenza di essa, elle scipitaggini d’un valentuomo che scrive per combatterla e per denigrarla, conoscendola molto e molto poco e facendola parere molto spesso quello che non è affatto...
Dalla Revue Biblique (fase, gennaio-aprile) rileviamo uno studio di H. Jeannotte che dovrà servire d’introduzione al testo del Salterio di I lario da Poitiers che il Jeannotte intende prossimamente pubblicare. Lo studio porta appunto questo titolo: Le texte du psautier de Hi-laire e comincia col l’osservare molto seriamente (ed opportunamente, anche, di fronte ai vaniloqui d’un tal Vaccaro attorno alla Vetus Latina apparsi in Civ. Cattolica nei primi fascicoli di quest’anno) che i problemi numerosi e complessi, ai quali la cosiddetta Itala dà luogo, mal sarebbero proposti e risolti prima che sia compiuto tutto un multiforme lavoro preliminare; come dire, l’inventario metodico e la classificazione dei documenti, nonché l’assaggio paziente di dettagli minutissimi dà compiersi con monografie dedicate ciascuna a punti bene scelti e determinati con finezza d’intuito storico e critico. Paul Monceaux, i cui studi sulla Bibbia Latina sono ben noti ai lettori della Revue des Eludes juives e della Histoire littéraire de l'Afrique Chrét, viene evocato molto a proposito dal Jeannotte: il nome d'uno specialista di quella forza vuol dire con quale prudenza e riverenza si dovrebbe accedere a certi studi ed a certi problemi.
Entro al materiale immenso da studiare e da illustrare lo Jeannotte ha scelto le citazioni bibliche di Ilario e tra queste £ recisamente quelle che si riferiscono al ibro dei Salmi. Dalla minuta analisi del chiaro studioso risulta quale interesse la indagine di cui egli mostra ed illustra la via offra per quanti sapranno opportunamente seguirlo, e quali speranze radiose ne possa fin d’ora concepire la scienza delle S. Scritture. S. Bridget.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma - Tipografia dell’Unione Editrice, Via Federico Cesi, 45
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Estratti dalla Rivista “Bilychnis”
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Giovanni Costa: Critica e tradizione (Osservazioni sulla politica e sulla religione di Costantino) .
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Luigi Salvatorelli : La storia del Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia civile ......
Calogero Vitanza: Studi commodianei (I. Gli anticristi e l’anticristo nel Carmen apologelicum di
! Giosuè Sa latici lo: Il misticismo di Caterina da Siena ^con 1 illustraz.).
1,00 Giosuè Salatiello: L’uma0.50 :
1,00
0,60 '
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Commodiano; II. Com-modiano doceta ?) . . . 0,30 Furio Lenzi: Di alcune medaglie religiose del iv secolo (con 1 tavola e 4 disegni) ........ 0,30 Furio Lonzi: L’autocefalia della Chiesa di Salona (con u illustrazioni) . . 0,50
nesimo di Caterina da Siena (con 1 illustraz.).
Calogero Vitanza: L’eresia di Dante . . •. . . . .
Antonino De Stefano: Le origini dei Frati Gaudenti .........
A. W. Müller: Agostino Favoroni e la teologia di Lutero .......
Arturo Pascal: Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes .................
Silvio Pons: Saggi Pasca-liani (I. Il pensiero politico e sociale del Pascal; II. Voltaire giudice dei « Pensieri » del Pascal ; III. Tre fedi: Montaigne, Pascal Alfred. diVigny) con 2 tavole......
0,25
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T. Neal : Maine <le Biran, o 30
F. Fornari: Inumazione e cremazione (con 6 illustrazioni)..............
C. Rostan : Le idee religiose di Pindaro............
C. Rostan: Lo stato delle anime dopo la morte, secondo il libro XI del0,30
0,30
1’«Odissea» . .
C. Rostan: L’oltretomba nel libro VI dell’« Eneide» ...................
Antonino De Stefano: I Tedeschi e l’eresia medievale in Italia .....
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Alfredo Tagliatatela: Fu il Pascoli poeta cristiano ? (con ritratto e 4 disegni) .........
F. Biondolillo: La religiosità di Teofilo Folengo (con un disegno). . . .
F. Biondolillo: Per la religiosità di F. Petrarca (Con 1 tavola)............
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F. Rubbiani: Mazzini e Gioberti .......
Paolo Orano: Dio in Giovanni Prati (con una lettera autografa inedita e ritratto) .......
Angelo Crespi : L’evoluzione della religiosità .
Paolo Orano: La rinascita dell'ànima .......
Angelo Gambaro : Crisi contemporànea. . . . .
Giov. Sacchini: Il Vitalismo ... .......
R. Murri : La religione nel-l'insegnamento pubblico in Italia........
Ed. Tagliatatela : Morale e Religione .......
Mario Puglisi : Il problema morale nelle religioni primitive........
A. Tagliatatela: Il sogno di Venerdì Santo e il sogno di Pasqua (con 5 disegni di P. Paschetto) . .
G. Luzzi : L’opera Spence-riana...................
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M. Rosazza: La religione del Nulla (con 6 disegni). 0,30
R. Wigley: L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) ................0,50
James Orr: La Scienza e la Fede cristiana. . . . 0,25
T. Fallot: Sulla soglia. (I nostri morti) con una tavola .......... 0,30
Felice Momigliano: Il Giudaismo di ieri e di domani ......... 0,60
A. G. e Giov. Pioli: Intorno ad un’anima e ad un’esperienza religiosa (In memoria di G. Vitali) . 0,60
Mario Rossi: La Chimica del Cristianesimo . . . 0.50
G. E. Meille: Il cristiano nella vita pubblica. . . 0,30
F. Scaduto: Indipendenza dello Stato e libertà della Chiesa ......... 0,30
Guglielmo Quadrotta: Religione, Chiesa e Stato nel pensiero di Antonio Salandra. (Con ritratto ed una lettera di A. Salandra)......... 1 —
Mario Rossi: Razze, Religioni e Stato in Italia secondo un libro tedesco e secondo l’ultimo censimento ......... 0,60
D. G.: Verso il conclave. 0.15
E. Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo (Cronache: 1913-1914) 3 fascicoli . ......... 0,90 E. Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di essi ......... 0,15 Paolo Orano: Gesù e la
Juerra......... 0,30 oardo Giretti : Perchè
sono per la guerra. . . 0,20 Romolo Murri : L’individuo e la Storia. (A proposito di cristianesimo e di guerra) ‘...... 0.40
Paolo Tucci : La guerra nelle grandi parole di Gesù. ......... x.oo
Paolo Orano: Il Papa a
Congresso ....... 0,50