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BIDCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSJRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno III :: Fasc. VI.
GIUGNO 1914
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 30 GIUGNO - 1914
DAL SOMMARIO: A. V. MÙlXER: Agostino Favaroni, generale degli Agostiniani e la Teologia di Lutero. — G. PIOLI : « Fede e immortalità » nelle opere inedite di Giorgio Tyrrell. — G. LESCA : Sensi e pensieri religiosi nella poesia d’Arturo Graf. — R. MURR1 : La politica ecclesiastica della Destra. — A.TAGLIALA-TELA : Una virtù che se ne va. — T. FaLLOT : L’azione buona di Gesù. — P. GHIGNÓNI: « Giurò sul mio onore! ». — F. MOMIGLIANO: il tragico spirituale ebraico. — M. ROSSI: Un soffio d'idealismo moderno dall'India. — F. PANZA: Sorgi e cammina I, ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # #
V.ia Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D., Redattore per l’Estero
Kia del Babuino, 107- ROMA AMMINISTRAZIONE
17,ia Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO Per l’Italia L. 5. Per 1*Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
Si pubblica il 15 di ogni mese
in fascicoli di almeno 64 pagine. #
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Illustrazioni del presente fascicolo.
Studio di Giorgio Tyrrell (Tavola tra le pagine 388 e 3S9). La « Rinascenza » cristiana nel secolo xvi : La scoperta della Bibbia (Tavola tra le pagine 406 e 407).
Copertina, disegni e fregi di Paolo A. Paschetto.
AVVERTENZA
Tutti coloro che furono nostri abbonati nell’anno scorso e non hanno disdetto l'abbonamento pel 1914 sono pregati di non tardar più oltre a mettersi in regola con l’Amministrazione. A chi non ci avrà mandato l’importo dell’abbonamento o almeno non si sarà impegnato a versarlo al più presto, sospenderemo l'invio della Rivista cominciando dal prossimo numero e spediremo tratta postale per l’importo del primo semestre d’abbonamento.
Coloro che hanno fatto acquisti presso la nostra Libreria sono pregati di mettersi in regola al più presto.
L’Amministrazione.
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BILYCHN6!i
R.M5IÀ DI SlVDI RELIGIOSI EDITA DALL A FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA • DI ROMASOMMARIO:
ALPHONS VICTOR MÜLLER : Agostino Favaroni, generale degli Agostiniani e la Teologia di Lutero............pag. 373
Giovanni Pioli : « Fede e Immortalità > nelle opere inedite di Giorgio Tyrrell. . . . . . . . . . . . . . . . ... . » 388
GIUSEPPE LeSCA : Sensi e pensieri religiosi nella poesia d‘Arturo Graf » 394
Romolo Murri: La politica ecclesiastica della Destra. » 400
INTERMEZZO :
La « Rinascenza » cristiana nel sec. X vi : La scoperta della Bibbia (Quadro) > 406
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Alfredo Taglialatela : Una virtù che se ne va ...... » 407
T. FALLOT: L’azione buona di Gesù......, » 413
Salvatore MiNOCCHl: Terra Santa ........... >414
NOTE E COMMENTI :
P. GniGNONl: «Giuro sul mio onore!» .......... » 415
Guido Ferrando: Alcuni aspetti della coscienza religiosa contemporanea ........■ ........... »417
M. Billia: Il mistero dell’educazione ........... » 419
TRA LIBRI E RIVISTE:
Felice Momigliano: Il tragico spirituale ebraico..... » 421
Mario Rossi: Un soffio d'idealismo moderno dall’india ........ » 424
Franco Panza: Sorgi e cammina........................ » 42S
E. R. : Il cattolicismo in Germania ................ » 430
E. Rutili : Folk-lore morale .................. » 431
A. S. : Ostia ............... - ......... » 432
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PROSSIMAMENTE
Roland D. Sawyer: — Gesù e la famiglia — Gesù e la proprietà.
GilQ'VtàSSLl LUZZI: Il modernismo nella Chiesa cristiana del primo secolo.
Mario Puccini: L'opera di Raffaele Mariano.
ANGELO Crespi: L'evoluzione della religiosità nell'Individuo e nella Società.
Paolo Orano: Dio nella coscienza.
M. Velato: L'altare al Dio sconosciuto.
G. E. Meille: Intorno all'immortalità del!anima.
ROSSI : Uniinterpretazione religiosa di una leggenda della Grande Sirte in Sallustio: i fratelli Fileni.
Giovanni Costa: L'Impero romano e il Cristianesimo.
Mario Rossi: Il < Tu es Petrus > e la storia delle religioni - Saggio di una nuova interpretazione.
F. Momigliano: Gioberti e i Gesuiti.
Calogero Vitanda: I precedenti classici del dogma della grazia.
ANTONINO De Stefano: Saggio sull'Eresia Medievale nei secoli XII e XIII.
NB. — Degli articoli firmati sono responsabili i singoli Aatori.
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AGOSTINO FAVARON1 (t 1443)
GENERALE O. E. S. A. ARCIVESCOVO DI NAZARETH
E LA TEOLOGIA DI LUTERO
EL mio libro « Luthers theologische Quellen », Giessen 1912, ho posto e difeso la tesi che Lutero ha preso tutte le idee fondamentali della sua teologia dommatica dalla prescolastica agostiniana. Sostenevo che la quasi identificazione della concupiscenza col peccato originale, la concupiscentia rea, concupiscentia invincibilis, peccatimi manens, l’impossibilità della justitia perjecta vita durante, l’impossibilità di adempire diversi precetti, ecc., fino alla giustificazione « fide sola »,
senza le opere, erano tutte dottrine preesistenti nella prescolastica ed anche conosciute da Lutero.
Questa mia tesi spiacque a quei teologi cattolici che, come il Denifle, pretendevano che Lutero avesse inventato tutte queste dottrine nel suo cuore « depravato », ma urtò anche taluni teologi evangelici che in Lutero vorrebbero piuttosto vedere un profeta innovatore che un Riformatore.
Più specialmente hanno fatto opposizione a questa mia tesi il Paulus, il Grisar, il Grabmann, ed io rispondo esaurientemente a tutte le loro obiezioni in un articolo che sarà pubblicato nel numero di ottobre prossimo della rivista « Theologische Studien und Kritiken », facendo vedere, fra altri argomenti, che il Denifle stesso... poco tempo prima di morire, abbandonò la sua tesi sulla pretesa originalità di Lutero come dommatico.
Per approfondire sempre più la mia tesi mi sono messo a studiare le correnti teologiche, prima della Riforma, nell'Ordine Agostiniano al quale appartenne Lutero, e mi sono convinto che ben a ragione il Tunnel scriveva nella « Revue d'histoire et de littérature religieuse» (1902, pag. 527): «Elle (la dottrina del de Nuptiis) avait trouvé un asile sous le cloître des Augustins et s'y perpétuait jusqu’au jour où, associée à des colères, à des rancunes et à une logique à outrance, elle servit à allumer dans l’Eglise un immense incendie. Ce n'est pas le lieu de dire ce que pensa Luther du péché originel et de la justification... ».
Per dare ai lettori di « Bilychnis » un saggio del come si perpetuavano nel-l'Ordine agostiniano queste dottrine, farò loro conoscere brevemente la teologia di un generale di quest’Ordine.
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Agostino Favaroni (de Favaronibus) di Roma fu un teologo di grande fama nel secolo xv, ma delle sue opere finora nessuna è stata stampata, meno un piccolo frammento del commentario sull’epistola di S. Paolo ai Romani pubblicato dal Denifle nel suo lavoro postumo: «Die abendländische Schriftauslegung bis Luther über justitia Dei und justificatio ». Mainz, 1905, pagg. 220 235.
Il Favaroni fece parte nel 1379 della commissione che per ordine di Urbano VI doveva rivedere le rivelazioni di Santa Brigida. Nel 1419 fu eletto generale del suo Ordine e nel 1431 Eugenio IV, che l’aveva in grande stima, lo preconizzò arcivescovo di Nazareth (presso Barletta) ed amministratore di Cesena. Quando al 15 ottobre del 1435 il concilio di Basilea nella sua 22a seduta condannò diverse proposizioni tratte da un suo lavoro Sull’Apocalisse, egli rinunziò al suo vescovado e si ritirò a Prato, dove mori nel 1443. Gli Agostiniani gli dànno il titolo di « Beato >.
Fra le sue opere inedite conservate a Roma va nominato in primo luogo, per riguardo all’ordine cronologico, il suo studio sull’Apocalisse al quale sono annessi quattro trattati : de perfecta justitia, de peccato per originem tracio; de merito Christi, de sacerdotio Christi. Questo lavoro si trova nella biblioteca di S. E. il principe Chigi, il quale molto gentilmente ce ne permise la consultazione. E’ segnato col numero B VII 118, e noi lo designeremo sempre con la lettera C.
Viene poi il commentario sull’epistola ad Hebraeos e quello sull’epistola ad Romanos, ambedue conservati nel manoscritto latino n. 376 dell’Angelica, che noi designeremo sempre con la sigla A.
Nel manoscritto latino n. 641 dell’Angelica, sono conservati i commentarii sulle epistole ad Galatas, ad Ephesios, ad Philippenses, ad Colossenses. Noi lo citiamo con la lettera B.
Agostino Favaroni — come il lettore vedrà — non era soltanto Agostiniano di nome e di professióne, ma lo era anche in materia di dottrina. Per la estesissima conoscenza che aveva delle opere del dottore di Ippona lo chiamavano « Alter Augustinus ». Poiché con questo nostro lavoro, non ci siamo prefissi che di dimostrare la preesistenza del cosidetto « sistema di Lutero » a Lutero stesso, non daremo un’idea completa della teologia del Favaroni, ma ci limiteremo a far vedere che certe dottrine delle quali Lutero fu dichiarato inventore, erano anche esposte, asserite e difese, prima di lui, da un generale dell’ordine a cui aveva appartenuto.
Tratteremo più specialmente della giustizia perfetta, della legge e del Vangelo, della duplice giustizia, dell’ efficienza dei sacramenti e della « reprobatio absoluta -.
LA « JUSTITIA PERFECTA „
La pietra angolare e fondamentale del sistema agostiniano risiede nelle sue teorie sulla giustizia perfetta. Chi rigetta queste teorie potrà essere ancora agostiniano in uno o l’altro punto, ma mancherà di logica volendo cogliere frutti dall'albero dopo averne zappate le radici.
In che cosa consiste questa «justitia perfecta»? Consiste nell’equilibrio originale delle forze dell’uomo cioè, nella docilità e sottomissione delle forze infe-
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AGOSTINO FAVARONI E LA TEOLOGIA DI LUTERO 375
riori dell’uomo, a quelle superiori. In virtù di questa docilità e sottomissione l’uomo era in grado di compiere \jmplere} la legge e la volontà di Dio con tutte le sue forze, quelle superiori e quelle inferiori. Dopo il peccato originale, l’uomo non può più fare il bene con tutte le sue forze, perchè quando ora fa il bene, lo fa colle sole forze superiori, mentre le forze inferiori si ribellano. Non è più dunque tutto l’uomo che adesso fa il bene, come lo faceva nello stato di « natura integra », e perciò il bene che l'uomo ora fa, rimane un « bonum imperfectum » ; soltanto il male può ora essere fatto dall’uomo in modo perfetto, e l’uomo lo fa ogni volta che le forze inferiori trascinano la volontà; e le forze superiori a seguirle. Allora l’uomo fa il male con tutte le sue forze tanto inferiori che superiori. Nello stato attuale dunque l’uomo rimane capace di un malum perfectum ma non più di un bonum perfectum, o, come diceva la scuola, possiamo ancora « facere » bonum, ma non « perficere » bonum. Causa di questa imperfezione nel bene è il « peccatam » o la concupiscenza cioè l’avversione e ribellione delle forze inferiori dell’uomo a quelle superiori, anche quando quest’ultime sono illuminate e trascinate dalla grazia di Dio.
Questa dottrina è insegnata da Agostino Favaroni con parole molto chiare : « Augustinus autem hanc perfectionem nulli tribuere voluit in praesenti... Ad istam perfectionem pertinet non dico nullam sequi, verum etiam nullam sentire cupiditatem ». (C, fol. 190 a). « Ago bonum cum malae concupiscentiae non con-sentio, sed non perfido bonum ut omnino non concupiscam. Rursus et hostis meus (cioè la concupiscenza) quandoque agii malum, et non perficit malum, agii malum quia movet desiderium malum, non perficit malum quia me non trahit ad malum... propter hoc ait (apostolus) perficere bonum non invenio, facere inquit invenio : non consentire malo desiderio ; perficere non invenio : non habere desiderium ». (B, fol. 140 a).
Una delle prime e .principali conseguenze di questa imperfezione nel bene a causa della concupiscenza consiste nell’ « impossibilita per l' uomo nello stato attuale di osservare (implere) il precetto della legge : Non concupisces. L’antica scuola agostiniana stabilisce a questo riguardo un doppio precetto divino. L’uno ci vieta di consentire alle nostre concupiscenze, ciò che con la grazia possiamo fare, e l’altro vieta addirittura la presenza in noi dei moti carnali indeliberati ed involontarii, ciò Che anche con la grazia non possiamo eseguire. Perciò l’antica scuola agostiniana considerava anche i moti involontarii della carne come una trasgressione della legge (1) e li riputava peccati veniali nei battezzati, e peccati mortali nei non battezzati (Müller, op. cit., pagg. 75, 76) e chiamava là concupiscenza: «invincibile». (Op. cit., pag. 77).
Il Favaroni insegna anche lui con Sant'Agostino che è impossibile all’ uomo nello stato attuale di adempiere a questo precetto : « Beatus Augustinus in libro de spiritu et littera distinxit inter haec duo PRAECEPTA legis : Non concupisces et post concupiscentias tuas non eas. Primum implere non possumus donec in mortali corpore vivimus» (B, fol. 140^). «Idem Augustinus ait: Aliud est non concupiscere aliud post concupiscentias non ire, illud consummatae perfectionis
(1) Vedi più avanti, pag. 377, nota 2.
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est hoc autem iam inchoatae. Cum ergo lex dicit: non concupisces, non hoc quasi in praesenti implere possimus dicit, sed ostendit nobis ad quam palmam currere et ad quam perfectionem nos extendere debeamus'» (A, fol. 194^). «Si concupiscisi quod lex vetat...». C, fol. 191).
Da ciò risulta quanto (avevano torto il Denifle e il Grisar quando credevano Lutero inventore della teoria', che certi precetti non possono essere adempiuti in questa vita. (Müller, op. cit., pag. 102, 106). Più appresso parleremo anche di altri simili precetti.
Il Favaroni ha bene, come Lutero, il concetto della « concupiscentia invin-cibilis > cioè di un « peccato » che non dovrebbe essere nell’uomo, e che, vita durante, non può essere annientato ; ma non adopera, come Lutero, Pullo, Pietro Lombardo, Hugo di Rouen, quest’epiteto. Però il nostro autore in un passo di Sant’Agostino da lui citato, spiega chiaramente l’origine e l'etimologia di questo epiteto « invincibilis » che diede tanto sui nervi al Denifle e al Grisar. (Müller, op. cit., pagg. 77, 89 ss.). « Adhuc CON FUGO » esclama il dottore di Ippona « nondum vici » ! Finché dura dunque questo combattimento, questo conflitto, non sono vincitore, e poiché deve durare fino alla morte, non sarò vincitore finché sarò in vita, e per conseguenza la concupiscenza rimarrà « invincibile », vita durante. L’uomo quaggiù deve soltanto badare a non essere vinto lui. « Magnum mihi non vinci». (C, fol. 140¿).
Il Favaroni e Lutero, dopo San »’Agosti no, spiegano lo stesso concetto con un’altra imagine. Come durante questa vita non saremo vincitori, perchè il combattimento non è terminato, cosi in noi la virtù non potrà « regnare » perchè in noi è, e rimane il « peccato », il suo vizio opposto, per contrastarle questo regno. Regnerà la virtù in noi nell’altro mondo, ma quaggiù potrà regnare eventualmente soltanto il vizio, il peccato, se in noi. la virtù e la volontà rinunziano a combattere e si lasciano dominare da esso. Il Denifle (Müller, op. cit., pag. 114) non aveva capito questa dottrina sulla contemporanea coabitazione della virtù col-suo vizio opposto : « Notat Augustinus — scrive il Favaroni — in libro de spiriti! et littera quod non dixit apostolus non SIT PECCATUM in nostro mortali corpore sed ait non REGNET. Sciebat enim quod carere hoc MALO non pos-sumus, donec hic vivimus, donec àbsorbeatur mors in victoria et mortale hoc induerit immortalitatem, sed sane hoc mediante gratia possumus ut non regnet in corpore etiamdum est mortale. Non regnet si post concupiscentias non eamus... Non regnabit quando non oboedietis desideriis eius ». (A, fol. 193 194 a).
Il Favaroni in un punto però si discosta dalla prescolastica agostiniana, e secondo me, in modo illogico, date le sue premesse e le conseguenze Che ne tira. La detta prescolastica (Müller, op. cit., pagg. 75, 76) considerava i movimenti non volontari della concupiscenza come peccati veniali nei cristiani. Il Favaroni ammette invece che questi movimenti siano un « malum », che costituiscono una « ruga », cioè un difetto di bellezza, ed una «macula» nei giusti; ammette pure che l’Apostolo non voleva sentirli ma che li odiava addirittura e ne gemeva proclamandosi misero per causa loro, desiderando e pregando di esserne liberato...; non li considera però come veri peccati veniali.
Se il Denifle avesse conosciuto questi testi del Favaroni non si sarebbe meravigliato che anche Lutero (Müller, op. cit., pagg. 86, 87) parlasse di « gemiti »
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a causa della concupiscenza e non gli avrebbe rimproverato di dichiarare che l'uomo spirituale non vuole neanche sentire questi movimenti, anzi desidera e tende a diminuirli quanto possibile, perchè la loro sola presenza costituisce un « malum » che non dovrebbe esistere. Ecco i testi del Favaroni : « Ecclesia peregrina in terris nunquam adeo perfecte fuit a Cristo mundata, ut esset in hoc saeculo sine ruga, uno dumtaxat eius membro excepto... Rugae st concupiscentia ». (C, fol. 191^, 192«). «Ecclesia non est sine macula et ruga». (C, fol. 194b). « Semper tamen gemit Apostolus non quod volo, etc. ». (C, fol. 192 b"). « Hoc utique cupimus, ut nec ips'a mala desiderio existant in carne nostra, sed quamdiu hic vivimus efficere non valemus». (B, fol. 140«). « Ostendit nobis Deus ad quam palmam currere et ad quam perjectionem nos extendere debeamus », cioè all’estinzione della concupiscenza(1). (A, fol. 194b, cfr. sopra pag. 376). «Et hinc se miserum esse dicebat: Miser ego homo sum quis me liberabit, etc. ». (B, f. 140¿). « Non enim inquit (Apostolus), quod volo hoc ago sed quod odio illud facio, hoc de concupiscentia loquitur Apostolus secundum Beatum Augustinum, ac si dicat : volo non concupiscere quoniam lex dicit non concupisces (2), odi autem con-cupiscere et tamen concupisco et sic non quod volo hoc ago sed quod odio illud facio». (B, fol. 140«). « Sciebat enim quod carere hoc malo non possumus... ». (A, fol. 193^, 194 cfr. sopra pag. 376).
Un altro punto di contatto fra il Favaroni e Lutero, sempre a proposito della nostra imperfetta giustizia per causa della concupiscenza, consiste nell'asserzione di entrambi', che il grande precetto sull'amor di Dio «ex loto corde» non pub essere « impioto » (adempiuto) in questa vita mortale, e tutti e due insieme con Sant’Agostino vedono precisamente nella concupiscenza la causa di quest’impossibile adempimento. Il Grisar (III, io) e il Denifle (I, 683) hanno dunque torto di considerare Lutero come inventore della teoria che certi precetti di Dio non possono essere adempiuti neanche con la grazia. « Nemo iustus — scrive il Favaroni — in hac vita quantumcumque fuerit perfectae iustitiae et sanctitatis im-plevit tamen in praesenti illud primum et maximum praeceptum iustitiae: Diliges dominum Deum tuum ex toto corde tuo (C, fol. 193). Ex quibus satis patet quod quamdiu est in uno justo aliquo concupiscentia carnis, nondum perficit bonum, nondum consumpsit malum et certe ex ea parte qua aliquid malum ei inèst contra bonum justitiae, ex ea parte non implet justitiam ac per hoc nec illud maximum mandatum justitiae in quo perficitur et completur justitia: diliges dominum. etc... In anima namque est illud malum quod nondum piene con-sumptum est ac per hoc adhuc ex aliqua parte animam occupat, ne tota a Dei dilectione absorbeatur... Haec est ratio quam Augustinus tetigit cura dicit: Nam cum est adhuc carnalis concupiscentiae aliquid, non omnimodo ex tota anima diligitur Deus». (C, fol. 193).
Una carità «perfetta » non esisteva dunque quaggiù secondo questo sistema e ne vedremo le conseguenze più dappresso.
(1) Vedi più avanti il testo: « Ideo vir ille est arbor »¡ala », pag. 378.
(2) Raccomando questo passo a quei teologi che credono che la concupiscenza si chiami «peccatimi» soltanto o principalmente perchè proviene dal peccato e conduce eventualmente al peccato, e non perchè sia una vera trasgressione della legge.
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Riguardo alla « perfetta giustizia » Lutero aveva sempre detto ehe la nostra giustificazione cominciava soltanto in terra, che in conseguenza in terra saremo sempre con uno piede nella grazia e coll'altro nel < peccato », essendo in terra nello stesso tempo giusti ed ingiusti, ed in parte alberi cattivi con cattivi frutti, ecc. (Müller, op. cit., pagg. ni-iió). Ora il Favaroni insegna anche lui che quaggiù non abbiamo che una « perfectio inchoata » e non • consuminata », che tutti siamo in parte spirituali ed in parte carnali, che sempre abbiamo del male dentro di noi, che siamo pii ed empii, equi ed iniqui, alberi buoni e cattivi e che perfino i santi hanno la loro santità mescolata di qualche « injustitia » e tutto ciò a causa della concupiscenza. « Illud (non concupiscere) cousummatae perfectionis est, hoc autem (post concupiscentias non ire) iam inchoatae ». (A, fol. 194cfr. pag. 376). «Ideo vir ille ex parte sensualitatis est adhuc MALUS quia ipsa sensualitas eius pugnat contra rationem. Ex hiac itaque parte vir ille est arbor inala et fructus eins utique sunt inali et sicut ex parte mentis suae qua e condelcetatur legi Dei est vir ille arbor bona... ». (B, fol. i6ä). « Ex parte quidem mentis (apostolus) spiritualis est ex parte vero carnis carnalis est. Ex ea quidem parte qua servit legi Dei spiritualis est ex ea vero qua servit legi peccati carnalis est... Non enim alius in-mente alius in carne, non enim duae naturae sed in utraque unus homo (B, fol. 140^). Secundum unum quidem et idem nemo erit justus et injustus, pius et impius aequus et iniquus, sed secundum aliquid et aliquid» (A. fol. 173). « Sentit ipse Augustinus ceteros omnes (tutti > santi, Cristo e Maria eccettuati che non avevano questa concupiscenza) non vixisse sine peccato et per consequens ipsorum illibatae vitae aliquid injustitiae fuisse per-mixtum » (A, fol. 173).
Basandosi su tale dottrina secondo la quale perfino le opere dei santi avevano un lato debole, non buono. Lutero e l’antica scuola agostiniana insegnavano che non esiste un meritum ex natura et substantia operis. Prima del peccato originale esisteva, sì, un merito derivante dall’opera come tale, perchè l’uomo allora era capace di * implere » la legge, cioè di fare il bene con tutte le sue forze, ed a così fatto bene il Pseudo Hugo de S. Victore attribuiva il diritto al cielo: « cui merito debetur vita aeterna ». (Cfr. Müller, op. cit., pag. 175). La teologia cattolica moderna ammette, con Lutero, che tutta l'efficienza del merito proviene non dall'opera, bensì dalla grazia di Dio che fa fare anche l'opera; ma pretende che le opere fatte nella « grazia abituale » acquisiscano un diritto al cièlo per chi le compie e per conseguenza impongano a Dio il debito di giustizia di dare la vita eterna. Lutero invece non voleva ammettere che una qualitas creata com’è la « gratia habitualis » potesse dare ad opere sempre imperfette un merito « ex condigno » alla vita eterna ed obbligare così Dio nel vero senso della parola. Lutero non ammetteva un cosifatto «meritum et debitum». (Drews: Disputationen Dr. M. Luthers. Göttingen, 1895, pag. 159). Non negava in senso assoluto nell’operante un « meritum » ma negava un meritum « ex condigno » e dichiarava che questo « merito » proveniente dalla misericordia di Dio non impediva che la vita eterna rimanesse un donum da parte di Dio (meritum et donum). (Drews, op. cit, pag. 225).
Di questo avviso era anche Origene, come vediamo nel Favaroni. « Inten-tionem Origenis hic explanabo. Ita enim Origenes auferre vult ab omnibus ope-
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ribus bonis omnem mercedem non dico retributionem sed sub ratione mercedis et debiti, ut dicat nihil boni, responderé operibus bonis tainquam debitum et mercedem > (A, Ibi. 164), e così la pensavano anche il generale degli agostiniani ed i suoi teologi al concilio di Trento. (Müller, op. cit., pag. 176 e segg.). Il Favaroni stesso però tenne una via di mezzo. Come vedremo più appresso il nostro teologo rigettava la grazia abituale, cioè quella « qualitas creata >, alla quale la teologia moderna ascrive il « meritum ex condigno » ed in sua vece metteva nell'anima Dio stesso secondo la sua natura e lo Spirito Santo /’increata Carita, ed alle opere emananti da questo principio attribuiva il « meritum ex condigno ».
LÀ LEGGE ED IL VANGELO
Questa dottrina è stata ritenuta da molti come la più caratteristica e la più interessante della teologia di Lutero. Non sono mancati perfino veri scienziati protestanti, autorevolissimi, che hanno creduto di vedere in questa dottrina di Lutero la sua più chiara antitesi col cattolicismo. Mentre il Denifle non ha dedicato a questo tema che poche righe, il Padre Grisar se n’occupò a lungo, ma non a fondo. Nella sua ignoranza della teologia medioevale, lo storico gesuita credette che le origini di questa dottrina presso Lutero dovessero ricercarsi nella psicologia di un frate al quale tutta la vita religiosa colle sue pratiche fosse diventata uggiosa (III, 6). Noi invece faremo vedere ai lettori la completa identità della dottrina di Lutero in questo punto, con quella del Favaroni. Non nego però che in diversi punti questa dottrina sia in opposizione con la dottrina moderna di certe scuole teologiche nel cattolicismo, ma nego che fosse in opposizione con Sant’Agostino e con la scuola agostiniana.
Prima di addentrarci nel tema, ci permettiamo di rammentare al lettore quello che abbiamo detto più sopra sulla impossibilità di osservare {implere} i due precetti : « Non concupisces » e - Diliges Dominum Deum tuum ex tolo corde, etc. », nonché sulla teoria che nessun precetto può essere adempiuto in modo perfetto con tutte le forze dell'uomo. Per avere ignorato queste verità fondamentali del sistema, il Denifle éd il Grisar non hanno potuto capire questa dottrina della legge. Desideriamo premettere inoltre che Lutero quando parla della egge, intende, meno rare eccezioni che noteremo, la legge scritta e tutta la legge scritta, cioè la legge morale, cerimoniale e giudiziaria.
Secondo il Grisar, Lutero non avrebbe capito lo scopo della legge, visto ch'ei riteneva ch’essa ci fosse stata data per intimorirci, per farci vedere la nostra debolezza ed infermità, per farci conoscere il peccato e per aumentarlo (III, 6). La legge secondo Lutero — dice il Grisar altrove (I, 162) — ha lo scopo di umiliarci per farci ricercare Cristo, di fare nascere in noi il senso delia indigenza, il desiderio della salvezza e là coscienza del peccato (I, 552), ma è incapace di giustificare o vivificare, anzi uccide (III, 6). E cose simili Lutero attribuisce anche alla legge morale (III, 6)1
Agostino Favaroni (che pure non era un frate che avesse preso in uggia le pratiche della vita religiosa, visti che nel suo Ordine gli dànno il titolo di « Beato ») enunziava la stessa teoria sullo scopo della legge. « Ostendit hic apo-stolus quae utilitas fuit legis si non potest justificare... et dicit quod per legem
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cognitio peccati ut per legem videlicet se homines cognoscerentpeccatore^ et quae-rcrent medicinam, comprehendentes enim se peccatore* et hoc per legem et non vi tare valentes peccata per legem, clamarent interim etpeterentsalvatorem ». (A, fol. 154 b}. Altrove il Favaroni scrive: « lex terrete peccatimi auget, de peccato convinciti non potest dare haereditatis repromissa, lex paedagogus... minis et verberibus reprimit ». (A, fol. 24 ¿). Altrove ancora insegna che la legge è data per umiliarci, per aumentare la concupiscenza, per fare vedere la nostra « infirmitas », la nostra « debilitas » e per farci desiderare il « medicus adjutor ». (B, fol. 23 4). La legge secondo il Favaroni « non est ad salutem data... » « sed propter trans-gressiones» (A, 161 b}\ «lex non potest justificare, non potest peccata tollero sed ©stendere et punire, lex est data in peccati ostensionem, ad cognitionem peccati (A, fol. 154 ab}\ « lex est ineffìcax ad justitiam et beatitudinem » (B, fol. 23#); « opera legis sunt inidonea ad justificationem » non ipsa [moralis vita} est. quae apud Deum justificat et bonificai * (Favaroni presso Denifle, loc. cit., pag. 226, 227). Sant’Agostino aveva già detto: «decalogus quoque occidit (Migne, P. L., 44, 215).
Non esiste dunque un solo punto di divergenza tra il Favaroni e Lutero quanto allo scopo e a certe forze della legge, coinè più appresso vedremo ancor più diffusamente.
Anche in ciò che riguarda altre note caratteristiche della legge, in opposizione al Vangelo, il Favaroni e Lutero non discordano. Il beato agostiniano scrive: « lex enim comminatur et poenas infert ideo timorem habet, gratia vero amorem (A, fol. 194); ed in altri luoghi dice che la legge non è data per i buoni ma per i cattivi ed ingiusti. « Bonis non est posita lex... Ergo malis hominibus posila est lex ut per legem coerceantur ». (B, fol. 35 ¿). Se il Grisar avesse conosciuto questo testo non si sarebbe meravigliato che Lutero dichiari anche lui che la legge è posta non per i buoni ma per i cattivi, descrivendola come un patibolo eretto per fare paura ed intimorire non i buoni ma i cattivi (III, io). Il Grisar allora avrebbe forse anche capito come Lutero potesse benissimo dire che l’uomo, e cioè l'uomo cattivo al quale solo, come abbiamo visto presso Lutero e Favaroni, la legge è data (posita), non l'ami, essendo per lui una coercizione al bene (1, 612). Forse che il ladro ama la legge, che, minacciandolo di prigione, lo fa retrocedere da un furto?
Secondo Lutero e il Favaroni, adunque, la lègge non è posta per il giusto, e l’agostiniano dichiara che questo deve intendersi non soltanto della legge di Mosè ma di qualunque altra legge. (B, 35 b}. Non c’è dunque più nessuna legge per il giusto? Per capire questa sentenza agostiniana badiamo alla caratteristica, già descritta sopra, della legge: «lex timorem habet ». Ora la scuola agostiniana non ammetteva che il giusto potesse essere indotto o condotto a qualche cosa dal timore. Giusto era soltanto reputato colui che per amore del bene si conformava alla legge. Colui invece che per paura delle pene osservava la legge non poteva essere considerato come giusto, anzi doveva essere considerato come ingiusto, ed in conseguenza di ciò questa scuola credeva che qualunque legge che avesse la minaccia 0 la paura annesse, non potesse condurre verso Cristo. Scrive il Favaroni: «Qui autem timore poenae comminatae abstinet a peccato non solum non dicendus est justus sed est etiam inimica* justitiae ut declarat beatus Augustinus in epistola ad Anastasium ». (B: 23 a). « Timor poenarum non manuduxit ad Chri-
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stum ». (B, fol. 25 a). Una legge che proibisce di peccare « timore poenae » non può dare la giustizia, anzi ne allontana. (B, fol. 23 a). < Ille dicitur èsse SUB LEGE qui non amore justitiae sive virtutis sed timore poenae quam lex minatur ab-stinet a malo opere. Ille vero iustus et bonus est qui amore justitiae non peccai etiamsi impune peccare posset». (B, fol, 35 a).
In tal senso dunque nessuna legge è posta al giusto, perchè il giusto non si trova « sub le%e » e non prende motivo di agire da nessuna minaccia di legge ! Perchè Lutero ha insegnato che. il cristiano, come tale, cioè come giusto, non avesse legge e che facesse il bene senza coazione per amore del Bene, il Grisar lo ha accusato di falso misticismo (III, 6). Vedremo adesso se oserà estendere questo rimprovero a tutta la scuola agostiniana ed a Sant’Agostino stesso ! Per la stessa ignoranza il Grisar (III, 7) si è urtato ad un’altra frase di Lutero. Questi ha difeso la seguente tesi: « Contrilus lege tantum abest ut perveniat ad gratiam ut longius ab ea discedat». Chi ha compreso la dottrina sulla legge fin qui esposta, ne vede, in questa tesi, un corollario, una conseguenza naturale. Visto che in base alla dottrina comune della legge questa è un mandatum sine gratta e che la contrizione della legge è una contrizione esclusivamente a base di paura (l’amore non potrebb’essere dato che dalla grazia, cioè dal Vangelo e non dalla legge) e che la paura, come abbiamo visto, non conduce a Cristo, la contrizione della legge non potrebbe condurre che alla disperazione ed allontanare vieppiù da Dio. Quod erat demonstrandum!
Che efficienza ha specialmente la legge morale^ Più sopra abbiamo già parlato, secondo questa scuola, della insufficienza e non idoneità della legge, anche morale, in rapporto alla giustificazione. Qualcuno però potrebbe muovere dubbi a questo proposito, tanto più che il Favaroni stesso non una volta, ma spesso ripete: moralia justificant. Esiste forse una contradizione fra queste parole e quella sulla non idoneità della legge morale per la giustificazione? Per valutare la portata di simili locuzioni bisogna distinguere una duplice giustificazione. L’antica scuola diceva: « Est justificatio prima quaè justuw facit et est justificatio secunda qtumjustu; facit». La prima è quella che rende pio un uomo empio. Ora questa giustificazione si fa, come asseriscono il Favaroni e Lutero, « sola fide, sine operibus praecedentibus ». Per «fede» Lutero, come il Favaroni, intende la « fides viva et vera quae per dilectionem operatur ». (Vedi E. W., XL, pag. 40 e segg. ; Müller, op. cit., pag. 168-171). Con ciò nessuno dei due intendeva attribuire la giustificazione alia «dilezione», ma tutti e due intendevano soltanto che la dilezione è inseparabile da questa fede viva e vera. Una differenza fra Lutero e il Favaroni consiste soltanto in ciò: che quest’ultimo talvolta parla della * fides formata charitate», mentre Lutero per gravi ragioni riprovava questa locuzione (1). Una differenza di forma, non di sostanza. Quanto
(1) La locuzione « fides formata charitate» dispiaceva a Lutero per diversi gravi motivi. In primo luogo là parola «charitas» ha un doppio senso. Può significare la « virtus generalis», cioè la «diiectio» che si trova in qualunque genere di virtù. Se poi si prende il vocabolo « formata » unicamente nel senso di « accompagnato », Luterò non avrebbe avuto difficoltà di ammettere che là giustificazione si fa per la fede «formata di carità», cioè accompagnata di dilezione. Lutero, come ho dimostrato (Müller, op. cit., pag. 170 e segg.), non ammetteva che una vera fede potesse esistere senza la dilezione, anzi la stabiliva come
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alla tesi che le opere precedenti la fede viva, anche le opere morali, non dessero la giustificazione, od aiutassero a questo fine, Lutero poteva benissimo esclamare: Nec nos eam primi vidimus aut invenimus. (Drews, op. cit., pag. 173). Pochi testi dunque nel Favaroni ci basteranno per provare la sufficienza della sola fede viva e l’inutilità delle opere morali per ottenere la giustificazione prima-. *(Christus} providit nobis de justitia fidei, quae sola sufficit ad aeternam salutem, ut non indigeamus observantia legis quae tam grave iugum erat quod erat cuilibet importabile ». (B., f. 22-rt). «Et si justitiam habebant quae ex lege est idest ex operibus legis, ex observantia praeceptorum quantum ad opus exhi-bitum, NON TAMEN CORAM DEO JUSTI ERANT NISI EX FIDE. Sive igitur sub lege veteri sive sub evangelio iustus nonnisi ex fide viviti, cioè, come spiega più sopra : « Non ex operibus legis in quibus suam justitiam ponebant iudaei » (Favaroni presso il Denifle, op. cit., pag. 223) (1). Presso Dio conta soltanto la fede viva e le opere come vedremo più appresso in quanto provengono da questa fede e niente affatto in quanto precedono : « lustifìcati sunt gratis quia nihil operati erant sed per gratiam ipsius». (Ibidem, pag. 230). «Non ex operibus legis sed ex fide Jesu Cristi gratis nobis donata justficamur ». (Loc. cit., pag. 227). « Quemadmodum enim non iustifìcamur vere apud Deum per legem id est per totani observantiam legis quoad opera quae praecipiuntur per legem ita nec justificamur vere ex omnibus illis operationibus moralibus quas Aristotele* dicit in nobis esse id est in nostra potestate ». (A., f. 158-9). « Ex talibus operibus (cioè per opera evangelica « facta in mortali», ma col concorso della grazia attuale) nemo potest mereri gratiam ad resurgendum, quod si aliquis illorum tandem re-surgat ad statimi gratiae non arbitrandum est EX operibus provenisse sed dicendum erit iterum cum Apostolo : Non operibus, gratia estis salvati per fidem formatam ex charitate venitur gratis infusa». (B., f, 59*£).
Questo deve bastare per provare che anche secondo il Favaroni le opere morali precedenti la fede, e cioè, la fetle giustificante, non servono alla giustificazione. Questa costatazione può dispiacere soltanto a quei che credono che ¡'uomo possa colla « fede informe » e la grazia attuale disporsi alla giustificazione e magari meritarla «de congruo». Una opinione simile verrebbe però a distruggere l'<ttWa4z gratuità della giustificazione prima, come la voleva la scuola agostiniana.
La giustifìcaziane seconda consiste nell’aumento della giustizia già residente nell'uomo. Che rapporto hanno con essa le opere del giustificato ? A questo proposito Lutero insegna che la giustizia residente nell'uomo rende giuste anche le sue opere e che l’uomo soltanto dopo esser diventato buono fa buone opere come soltanto l’albero buono può fare frutti buoni. (Cfr. Drews, op. cit. pamotivo dell’atto di fede, e diversi scolastici la pensavano come lui. In secondo luogo «cha-ritas » significa una « virtus specialis », cioè la terza delle virtù teologali che per natura sua è estranea alla fede e ne è separabile. Anzi è precisamente questa « charitas » che nel sistema cattolico moderno vivìfica la fede, e finché essa non è venuta la fede rimane morta. Ho «letto le ragioni per le quali Lutero non poteva ammettere una simile dottrina (Mailer, op. cit., pag. 1S3-4).
(1) II giusto dunque vive, cioè è vivo e giusto davanti a Dio, soltanto «nonnisi» per la fede.
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gine 504, 688). Il Grisar (I, 32) si meravigliò di una dottrina simile. Il Favaroni però anche in ciò è dello stesso avviso di Lutero. « Bona ergo opera nostra non praeeedunt sed sequunter fidem qua in Christum credimus et per quam salvamur. Primo ergo per fidem salvati, boni, sumus. Deinde boni effecti, conse-quenter bona operamur. Non ergo bona opera praeeedunt fidem sed fides antecedi! et impetrai bona opera >. (B, f. 59*^). ... « Secundum quod hic ammonet apostolus est quod haec opera (evangelica) quae iubet evangelium praerequirunt et exigunt justificationem in spiritu, quae fit per fidem Jesu Christi. Nisi enim haec praecedat, alia subsequentia opera nihilprosunt. Omnes autem christianos docet primo per fidem et dilectionem justifìcari deinde opera exhibere, quoniam justitia quae est per fidem Jesu Christi iustificabit et opera ut et ipsa justa sint et gloriam habeant apud Deum».(A, f. 163-4).
In armonia con quella teoria, il Favaroni e Lutero spiegano nello stesso modo il famoso testo di S. Paolo « factores legis justificabuntur », nel senso cioè che non si è prima fattori della legge per poi essere giustificati ; ma che Dio prima giustifica affinchè si possa essere fattori della legge. « Sic igitur est intelligendum hic factores legis iustificabuntur id est gratia justificat eos ut adimpleant legem quia non faciunt ut justificentur, quinimo justificantur ut faciant». (A, f. 141). Il Grisar ha creduto che anche questa esegesi fosse proprio di Lutero (III, io).
Finalmente ci rimane da discutere quale effetto hanno veramente sulla giustificazione seconda o sull'accrescimento della giustizia le opere provenienti dall’anima già giusta. Il Grisar (I, 32) rimprovera a Lutero di non dare alle cosi dette opere della giustizia un effetto sull’aumento della giustizia stessa. Questo rimprovero non è meritato. Dall’opera postuma del Denifle « Die abendlaendi-schen Schriftausleger, etc. », pag. 216, il Grisar avrebbe potuto scorgere che a questo proposito esistevano due opinioni: l’una ascriveva addirittura a queste opere un vero diritto, un vero merito di aumentare la grazia e la giustizia, mentre la seconda vedeva in queste opere soltanto una disposizione 0 preparazione all’aumento della grazia e giustizia. Lutero era di quest’ultima opinione. « Omnia opera iusta et in gratia facta sunt praeparatoria ad sequentem prò-fectum justificationis > {Roemerbriefsch., ed. Ficker, pag. 95), ed a pagina 91 le chiama «opera prò justificatione (perfectd) quaerenda». Questo passo è sfuggito al Grisar.
Il Favaroni invece, in quanto posso congetturare, era della prima opinione.
Dopo avere spiegato scopo e carattere della legge sarà per noi più facile capire l’ultimo paragrafo di questa dottrina, la tanto discussa teoria sull'abolizione della legge e l'adempimento (impletio) della legge.
Il Grisar ed altri si sono altamente scandalizzati perchè in Lutero ricorrono molte volte locuzioni come « tota lex abrogata est > (E. W.. XL1,677) « Christianus nullam prorsus legem habet » (E. W., XL1, 670), etc. Questo scandalo però avrebbe potuto essere rimosso senza grande fatica se gli scandalizzati si fossero presi la piccola pena di non badare unicamente ed -esclusivamente al senso materiale di simili locuzioni, ma anche un po’ al contesto, per poterne capire la vera portata ed il senso genuino. Nella stessa opera di Lutero (secondo commentario sulla epistola ai Galati) donde sono tratte tutte le locuzioni soprariferite « tota lex abrogata est, etc.», si trovano anche le espressioni: «legem et opera non reji-
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cimus sed maxime legem statuimus ed opera exigimus > (E. W., XL*, 485-6), o « quare legem non abrogamus ». (E. W., XL’, 489). Quegli scandalizzati con alla testa il Grisar avrebbero dovuto domandarsi in che senso la legge fosse abrogata, e avrebbero trovato che Imiterò in tutte le sue opere-aveva sempre sostenuto la tesi da lui difesa né’ suoi ultimi anni : « Lex est abrogata — ne sit condemnatrix et justificatrix >. Ma la legge rimane come doctrix. « Igitur non sic abrogata est lex ut nihil sit<?«/ nihil secundum eam facere oporteat*. (Drews, op. cit.» pagg. 131, 116). Chiunque ricorda quel che abbiamo esposto sullo scopo terrificante della legge in rapporto alla giustificazione prima, capirà facilmente che in questo senso la legge è abrogata, ma che rimane come «doctrix», cioè insegna al già giustificato il da farsi, ma non lo impaurisce nè lo minaccia, perchè il giusto fa quel che deve fare, non per paura della legge, bensì per amore del bene stesso. Così insegnò Lutero nel 1516 in una predica (E. W., I, 118): « Respondetur quod ¡usto prorsus nulla lex est posita, neque ad aliquod opus tenetur quod sic intel-ligendum est ut saepe dixi quia nemo ex operibus justifìcatur nec ideo sunt opera ut quis justifìcetur cum hoc sit impossibile. Gratia enim sola justificat non opera » (1). Nel 1520 Lutero scrisse il suo principale lavoro su quest’argomento, ossia il famoso trattato De liberiate Christiana, la cui frase fondamentale suona così : « Christianus homo omnium dominas est liberrimus nulli subjectus ». Che cosa intendeva Lutero per questa libertà? forse la libertà di esimersi da tutti gli obblighi? Il Favaroni insegna che ci sono molte e diverse libertà, e che però l’Apostolo parla della «libertas SUBJECTIONIS quae opponitur servitoti». (A, foglio 195^). Confrontando questa definizione colle parole surriferite di Lutero: « dominas liberrimus, nulli SUBJECTUS » si intuisce subito che anche Lutero nel suo trattato De liberiate Christiana parla della « libertas subjectionis ». Più tardi (1535) nel suo commentario ad Galatas dà ancora la stessa spiegazione del « Uber a lege »: «Qui autem fidem habent non sunt sub lege sed liberi sunt ab ea. Liberi sumus ab ea quia non amplius perterrefacit et vexat nos».(E.W., 46, 534)- Il Favaroni scrisse: « Ille dicitur esse sub lege qui non amore justitiae sive virtutis sed timore poenae quam lex minatur abstinet a malo opere... Si Spiritu ducimini non estis sub lege » (B, f. 35 ^), Lutero e il Favaroni pensavano dunque che per il giusto la legge fosse ben ancóra doctrix, ma non più ductrix o tractrix lasciandosi indurre il giusto all’azione non dalla legge minacciante. bensì dal bene stesso. Ecco la libertà cristiana.
Sólo al Grisar era riservato di commettere a questo riguardo un errore madornale (IH, 6). Il gesuita trovò nel Drews (op. cit., pag. 159) il passo seguente: « Nam facere operari et necessarium esse includunt meritum et debitum quod non est ferendum ». Per fraintendere questo passo bisognava essere molto digiuno nelle questioni teologiche. Lutero vuole insegnare con queste parole che non ammette nell’uomo un tale merito al quale corrisponda da parte di Dio un debito verso di noi, l’obbligo di darci il cielo, bensì, come spiega nello stesso libro (Drews, p. 225) riconosce nell’uomo un meritum di tal genere da non permettere di considerare quello che farà Dio se non come un « donum » e mai come un * debitum*. (Cfr. sopra, pag. 378). Da buon storico d’arte il Grisar ignorava completamente questa famosa discussione sul valore delle nostre opere
(1) Lutero parla della «justificado prima». Vedi pag. 381.
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fatte « ex charitate » in rapporto alla vita eterna, e nella sua ignoranza affibbiò a Lutero l’enorme proposizione die il cristiano in senso assoluto non ha più nessun obbligo di fare delle opere, credendo che « debitum » fosse da riportarsi all'uomo invece che a Dio!!! Quando si tratta di denigrare un eresiarca si è dispensati dal vagliare il fondamento di certe accuse atroci!
Il Favaroni insegna che la legge si adempie per la fede nel nuovo come nel vecchio testamento : « qui ergo vult adimplere legem necesse est ut in Christum credat » (A, f. 247-0)... «Judaeis loquitur pro statu veteris testamenti, nec aliter legem implebant NISI in Christum credendo* (A, f. 145-«).
Così la fede empie la legge in tal senso che la fede ci ridà, riguardo ad una grande parte dei suoi effetti, la giustizia perfetta che avevamo perduta. Come diceva il Pseudo Hugo de S. Vict. (Müller, op. cit., pag. 174), Dio invece della giustizia perfetta che non possiamo più avere, perchè vita durante un vero adempimento della legge ci sarà sempre impossibile (vedi sopra, pag. 379), ci dà la fede, che poi reputa come se fosse giustizia perfetta. Basta adesso la fede per essere amici di Dio e, per esser giusti, per esser quel che la legge prescriveva senza poter dare e ciò che i giudei cercavano di ottenere per mezzo della legge senza poterla adempiere. Per diventare amici di Dio, veri giusti, non abbiamo bisogno, come s’è visto, di eseguire delle opere; basta avere la fede che Dio ci dà gratuitamente, e non in base ad opere fatte. Così la fede in Cristo, regalandoci l’adempimento perfetto della legge fatto da Cristo, ci dispensa d’altre opere fatte allo scopo di ottenere questa giustizia che possediamo già per la fede. Ma questa fede che è viva ci fa compiere la legge anche in un altro modo facendoci fare, sia pure in un modo imperfetto, quelle opere che la legge ci insegna: « Fides antecedit et impetrai bona opera > (B, f. 59-^); « justificat eos ut adimpleant legem». (A, f. 141). « Certuni est eum qui vere credit opus fidei et justitiae totius quam bonitatis operari, etc. » (A, f. 163-^). E così pensava anche Lutero. Il rimprovero del Grisar (III, 7) a Lutero : che tutta la sua teologia della legge abbia delle contraddizioni e oscillazioni e dell’oscurità è in parte senza fondamento ed in parte non ricade su Lutero ma su S. Agostino e la sua scuola.
LA DUPLICE GIUSTIZIA
E LA < FORMALE » GIUSTIZIA NÒSTRA
Quando nel Concilio di Trento Seripando, generale degli Agostiniani, difese la duplice giustizia (cfr. Pallavicino, Storia del Conc. Trid., 1. Vili, cap. IX), si credette generalmente che questa dottrina fosse sua o tutt’al più dei suoi amici di Colonia, perchè dagli abili discorsi suoi e degli altri teologi del suo ordine nulla traspariva che questa dottrina avesse avuto già neH’ordine stesso autorevoli difensori. Il Favaroni distingueva come Lutero una « duplex justitia » : « Alia est ergo iustitia nostra per quam vere iusti sumus ex observantia legis et mandatorum cum affectibus bonis et alia est justitia Christi quam exhibuit in ligno crucis et nobis applicatur per sacramentum remissionis peccatorum » (B, f. 14-^). « Est justitia Nòstra in operibus ex observantia legis aut intuitu Dei jubentis sicut in lege mo-sayca et evangelica aut intuitu rectae rationis in moribus hominum sicut in lege politica. Et EST JUSTITIA Cristi quam fecit in ligno crucis satisfaciens Deo pro culpis commissis et quoniam sine ista justitia, nostra ex operibus legis non sufficit
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aperire nobis coelum ut intremus ad regnum sed justitia Christi est quae aperit, ideo apostolus fere in omnibus locis ipsam commendai, debilitans justitiam legis cuiuscumque quae est justitia nostra». (B, f. 14-^). Secondo il Favaroni, dunque, ci vuole la giustizia di Cristo per aprirci il cielo, non bastando la giustizia nostra. Questa era anche la tesi che difendevano Seripando e gli altri Agostiniani nel Concilio di Trento. (Cfr. Müller, op. cit., pag. 176 e segg.). La dottrina di Lutero nella sua prèdica: De duplici justitia (E. W., II, 145 e segg.), quadra perfettamente con quella del Favaroni. Non è dunque Lutero l'inventore della « duplex justitia». (Denifle, I, 654).
Un’altra questione teologica annessa alla discussione sulla doppia giustizia concerne V elemento formale della nostra giustizia. Qual’è l’elemento che essenzialmente ci giustifica davanti a Dio? La teologia cattolica moderna vede la giustificazione formale dell’anima nella « gratia habitualis », cioè una « qualitas CREATA et animae inhaerens > che taluni identificano colla virtù teologica «charitas», che è una carità CREATA.
Lutero non era di questa opinione. Egli rigettava la « gratia habitualis » e faceva consistere la giustizia formale dell’uomo nella presenza di Dio stesso e dello Spirito santo nell’anima, non per mezzo di una « qualità creata », ma « quoad essentiam * (Köstlin, Luthers theologie, Stuttgart, 1883, II, 446). «Ego soleo ut hanc rem melius capiam sic imaginari quasi nulla sit in corde meo qualitas quae fides vel charitas vocetur sed in loco ipsorum pono Jesum Christum et dico: haec est justitia mea, ipsa est qualitas et formalis, ut vocant, justitia mea». (Enders, Luthers Briefwechsel, IX, 20).
Della stessa opinione era il Favaroni. Anche lui rinnega la «gratia habitualis » ; ciò che indusse una mano dèi secolo xvi o xvn a scrivere in margine al manoscritto (B, f. 37-«) : « Negat habitum a Deo infusum propterea omnino falsa proferì » (sic!). Come Lutero, il Favaroni rigetta la «charitascreata*. (B, f. 8-ä). In ciò tutt’e due seguono Pietro Lombardo (I, d. 17). «Ecce piane patet per Augustinum quod ipse Deus per naturam sui est nobis formalis justitia qua vere ¡usti sumus et est animae justitia et formalis vita per quam anima formaliter et vere vivit et non alia vita nisi ea qua Deus in se ipso vere vivit* (B, f. 17-0).
L’EFFICACIA DEI SACRAMENTI E LA RIPROVAZIONE ASSOLUTA
Nella teoria dell’efficienza dei sacramenti il Favaroni segue, per quel che possiamo giudicare dai pochi passi che trattano di questa materia, Hugo da S. Vittore e la prescolastica agostiniana. Deve fare senso ai teologi cattolici, che non conoscono la teologia se non nella forma datale dal Concilio di Trento, il sentir dichiarare da un dottore del secolo xv che nessun sacramento della chiesa è capace di rimettere e perdonare un peccato in quanto è offesa di Dio, e che il cristiano, prima di avvicinarsi ai sacramenti, deve già essere emendato, perdonato e corretto per ricevere nel sacramento unicamente l’assoluzione dalle pene dovute al peccato e non del peccato stesso che deve essere rimesso già prima. < Non enim ipsa culpa vel obliquitas in opere operato contra beneplacitum divi nae voluntatis, lavatur per lavacrum aliquod ecclesiasticum sed per lavacrum potine quod est ipse spiritus sanctus... Hoc namque peccatum (obliquitas si ve
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inordinatio contra legem Dei aeternam) debet prius esse deletum per infusioncm gratiae antequam ad aliquid lavacrum ecclesiasticum accedamus, quoniam iam correctus homo et emendatiti in affectu et intentiqne interiori debet accedere ad ecclesiastica sacramenta ut per ea abluatur a peccato quod est reatus (id est obligatio ad poenam)». (C, f. 187-0). «Circa tale namque peccatum (reatus seu obbligati© ad poenam) est auctoritas clavium*. (Ibidem, loc. cit.).
Questa teoria era in parte basata sulla distinzione tra « fides sacramenti* e l’atto esterno: « sacramentum fidei ». La «fides sacramenti» conferiva l’effetto principale, e l’atto materiale esterno che seguiva non dava che effetti secondari o non faceva altro che segnare (signum) il già ottenuto effetto. (Cfr. Mathoud, Migne, P. L., 186, col. 1064, ss.). Dai pochi passi del Favaroni vediamo l’importanza di questa < fides sacramenti ». Un ebreo che prima di morire si battezza è salvato non per « sacramentum quod veraciter non habebat, sed per fidem sacramenti ». Un prete che non era stato battezzato, ma credeva di esserlo, è salvato « propter fidem sacramenti, sub qua vixit». Questo prete, dicendo messa, non consacrava validamente, adorabat tarnen in fide Jesu Christi et per hanc fidem salvatoti est*. (A, f. 160). Questa teoria era certo meno meccanica dell’attuale ! Ognuno intravede facilmente dei punti di contatto fra questa dottrina e quella di Lutero, ma dato lo stato molto frammentario di questi passi ci asteniamo dal fare un vero confronto.
Il Grisar si era urtato alla dottrina di Lutero sulla « reprobati© absoluta » (Müller, op, cit., pag. 214 e segg.) e noi gli dimostrammo che questa dottrina era invece comune al tempo di Lutero. Aggiungiamo qui che anche il Favaroni ne era un seguace : « Ideo dicit o homo tu quis es qui respondeas Deo. Quod enìm hunc elegerit illum vero reprobaverit, hunc dilexerit illum vero odio habuerit, illum obdu-raverit hunc vero oboedientem fecerit, huius velit misereri illum vero voluerit obdu-rari, ad occulta Dei judicia pertinent, nec cuiquam injuriam facit, nullus potest de deo conqueri quod sub exemplo (figuli) declarat... Sic Deus de eadem massa humana infetta peccato alium hominem format velut vas in honorem quam videlicet justificat, alium vero velut vas in contumeliam quam videlicet reprobai et commi-serari non vult absque injuria facta cuique ipsorum unde iniquitas aliqua possit esse apud Deum. Quem enim Deus misericorditer liberai a peccato ipsum justi-ficando, non ex debito sed ex gratia justificat, quod si alteri talem gratiam largii non vult, nulla-m tarnen ei facit injuriam ». (A, f. 214-0). « Non ergo ex ope-ribus dictum est'. lacob dilexi neque ex operibus dictum est Esau odio habui. Nam opera sunt temporalia dilectio vere aeterna, temporale etiam non est causa aeterni sed e contrario. Non ergo ex operibus dilectus est lacob aut odio habitus est Esau sed potius bona opera fuerunt postmodum quia Deus eum ab aeterno dilexit et mala opera fuerunt in Esau temporaliter quia Deus eum ab aeterno odio habuit*. (A, f. 2i2-£). Dunque la « reprobatio » non era fatta in base alle opere o «propter praevisa demerita».
Con ciò il nostro confronto fra la teologia del Favaroni e quella di Lutero è terminato e crediamo di avere abbastanza chiaramente dimostrato che non è stato Lutero l’inventore delle suddette teorie. La pretesa assoluta originalità dom-matica di Lutero non si può pili sostenere.
Alphons Victor Müller.
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“FEDE E IMMORTALITÀ” nelle opere inedite di GIORGIO TYRRELL (Vedi Bìlychnit, Maggio 1014. p. 309)
■ L problema della «immortalità», posto dall’intuizione e dal sentimento fin dagli albori del raziocinio, indagato invano in tutti i sistemi filosofici, e incompletamente risolto in tutte le religioni, ci appare oggi come un problema mal posto: derivato e subordinato; non principale e per sè stante. La sopravvivenza, o meno, dell'individuo è legata alla costituzione dell' individualità, alla sua ragione di essere, alla sua funzione quale cellula dell'organismo umano — membro alla sua volta del « jasy» Jócov », del «gran vivente». Il problema del «dopo morte» non è nè più astruso nè più centrale di quello simmetrico del « prima della nascita», ed ambedue attendono luce da un problema di etica sociale: che cosa è e che funzione compie la vita dell’individuo? Se la vita individuale ci si manifesta con tutte le caratteristiche di una cellula la cui ragione di essere e la cui costituzione stessa è da ricercarsi non nell’individuo ma nell’umanità: se l'individuo include nella sua definizione il passato, il presente, il futuro della pianta umana: se il programma di vita di ogni vivente implica — ed è parte di — un programma di vita universale, nel quale e pel quale soltanto trova la sua spiegazione: se veramente V io per ritrovarsi deve perdersi; per arricchirsi deve prodigarsi; per divenire più se stesso, per-« umanizzarsi» (ràtèprcsd&à&ei di Aristotile) deve proporsi per finalità il bene dell'uomo-, se, infine, la chiave d’interpretazione dell’ io piccolo e fenomenico e transitorio è data da un io che lo costituisce, senza esaurirsi nè in esso nè nella umanità, da un io che rimane, divenendo e arricchendosi per intususcezione delle vite individuali... : allora, solo uno studio del valore della vita, e più, un aumento del valore della vita, può gettar luce sul problema del «prima» e del «poi» dell'w: potrà anzi eluderlo, perchè chi sente la vita feconda non si pone problemi, ma si abbandona fiducioso nella corrente che lo trasporta innanzi, facendo capo al pelago sconfinato in cui il ciclo eterno trova spiegazione. « Meglio oprando obliar » ; « Chi opera la verità viene alla luce ».
Giorgio Tyrrell aveva già nel 1899 ne) suo scritto tipico «Il pervertimento di una divozione », flagellato con la sua ironia cristiana la divozione morbosa di alcune anime ad una delle forme più primitive di soluzione del problema dell’«al di là»: la divozione all'inferno. Ma questo passo — il primo necessariamente
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LO STUDIO DI GIORGIO TYRRELL
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per una mentalità cattolica — è presto seguito da un altro passo decisivo di superamento (anche questa nuova fase è tipica, e caratterizza il processo modernista, di liberazione senza rottura). « Invece del fuoco infernale, io vorrei predicare la vacuità di una vita egoistica; vorrei gridarlo dentro e fuori, in alto e in basso, fino a che gli uomini ne provassero il disgusto e gridassero il « Quis me liberabit?». E allora mi volgerei ad additar loro la vita di Cristo — cioè di tutti coloro che vivono come lui, — e farei risaltare come in uno stereoscopio la sua realtà, solidità, eternità, con la stessa concretezza usata nell’antiquato sistema della predicazione del fuoco infernale. Vi è in ogni uomo una specie di ambizione spirituale e di desiderio di un vero e pieno possesso di se stesso, che gli fa ammirare quelli che soffrono e resistono specie per motivi altruistici, per la verità, per i proprii principii, per amore. Le religioni dell'Asia ci mostrano che gli uomini possono essere infiammati dall’ambizione di soffrire, altrettanto, e più ancora, che dal timore delle sofferenze. Dopo tutto nell’uomo vi é uno spirito il quale sente le proprie attrattive e seduzioni... I nostri predicatori del fuoco infernale non hanno mancato di fede in questa realtà?».
Appresso a questo riconoscimento dell’autonomia della vita morale, indipendente da teorie metafisiche, e alimentata dal suo stesso fuoco, egli affronta nel geniale e profondo studio sulla « Personalità e sua sopravvivenza » il problema filosofico, con la sola pretesa di suggerire alcuni elementi che ne preparino la soluzione, e di mostrarne la corrispondenza con altre intuizioni e postulati dello spirito. E’ su questo capitolo che più ci indugieremo in questa breve recensione.
«Ogni tentativo di far progredire la soluzione del problema dell’immortalità dentro lo stampo della concezione antica è destinato a fallire: la sola speranza di progresso armonizzando i dati della psicologia coi postulati della religione e della morale si trova in una scossa al nostro spirito, come faremmo di un caleidoscopio, e nel foggiare ipotesi su ipotesi, non schivando l’assurdo ma piuttosto rasentandolo, sì da sfuggire almeno alla tirannia del convenzionale. La mia vita cosciente consiste in un’attività il cui oggetto è la formazione del mio corpo, spirito, carattere, per mezzo di atti che divengono abiti e si sottraggono al controllo della coscienza e della volontà, divenendo natura... Se dunque l’abito diviene gradualmente natura, non è forse una presunzione quasi irresistibile che la natura altro non sia che una stratificazione di abiti, risultata dallo stesso processo? Non è questa l’induzione del geologo? Ne seguirebbe che, come un abito acquisito implica in me una memoria latente e una comprensione potenziale di tutte le esperienze di cui è il risultato, così deve esservi in me una memoria e una comprensione latente di tutte le esperienze che risultarono a quell'accrescimento di abiti e funzioni che si chiamano «mia natura». Ma queste esperienze sono coestese con l'intiera storia della vita, dalla sua alba primiera, in tutta l'infinita varietà delle sue forme specifiche e individuali. Se la mia vita è un mio abito, essa è una forma di azione che un tempo fu cosciente; ma non lo fu già nella mia vita presente. Invocare l’eredità, non è dare una spiegazione: un abito non potrebbe trasmettersi da un soggetto ad un altro più che lo possa un’esperienza. Supponiamo dunque che sia lo stesso agente, lo stesso soggetto che opera per mezzo della natura-abito sia in me che in ogni altra creatura passata e presente, e che questo agente o soggetto non sia altri che me stesso, cioè lo stesso sog-
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getto che nel mio organismo acquista coscientemente nuovi abiti, e travaglia a trasformarli in abiti-natura : lo stesso soggetto che si sforza di perfezionarsi in me, o di perfezionare il più possibile la natura in questo frammento particolare dell’essere, e che opera e si affatica similmente in ogni altro frammento della natura vivente.
Vediamo qualche conferma di fatto di questa interpretazione. Ogni qualvolta, a causa di una dissociazione cerebrale o nervosa noi abbiamo un completo smembramento di esperienza, ha luogo una corrispondente moltiplicazione di personalità. Talora il restringersi e concentrarsi della percezione ci rende inconsapevoli della nostra piena esperienza normale, talora, l’intensificarsi e il diffondersi della nostra visione ci fa vedere più del solito : in ambedue i casi, l’io più ristretto è inconsapevole del più vasto, benché il più vasto conservi la memoria del più ristretto...
Noi possiamo immaginare che in un animale « arboreo » quale il polipo, che si propaga per gemmazione e senza rottura di continuità fisica, non avverrebbe, nei limiti della stessa famiglia, questo frazionamento di esperienza o soggettività ; e che lo stesso si potrebbe dire dell’ intiero regno animale, se la propagazione per « fissazione » degli individui non fosse divenuta una condizione necessaria di sviluppo superiore... Noi possiamo riuscire a immaginare la fissazione degli individui come un fenomeno contingente anziché necessario, e il frazionarsi dell’esperienza umana in una moltitudine infinita di organismi successivi, come analoga al fenomeno morboso del frazionarsi della personalità...; e a concepire la totalità delle esistenze in termini della più alta categoria a noi nota, quella dell’zb, cioè come uno spirito che pensa e vuole ed opera come il nostro, manifestandosi in una miriade di forme di vita e nella Natura intiera. La miriade di parti recitate dalla Natura-Spirito, in ogni creatura vivente in cui perviene all’oblìo di se stessa, costituisce altrettanti io illusorii i quali sono riassorbiti nell’zi? pieno della Natura-Spirito, quando la parte da recitare è terminata ed il compito particolare è esaurito.
11 mio io illusorio di cui ho coscienza al presente si salverà in un io più pieno — V io della Natura-Spirito che è il mio vero io — nello stesso modo in cui la mia fanciullezza si rifugia nella mia virilità. E lo stesso avverrà di tutti gli altri io, la cui distinzione da me e fra loro non sarà distrutta dal riprendersi in quell’?«? più pieno Che è comune a tutti.
Nascere è, dunque, fissarsi nel compito di formare e perfezionare un ramo speciale dell’infinito albero della vita, in cui io — lo Spirito-Natura — esprimo ed evolvo le mie potenzialità, operando l’ideale, sforzandomi indefinitamente verso l’Assoluto: è concentrarsi in tale missione, fino a dimenticare gli altri e la pienezza della mia vita totale. E morirei non è che ritornare a me Stesso dopo questa azione, esperienza, episodio, e costruire questa esperienza nell'unità di una vita immortale: un riscuotermi dall’estasi e dalla distrazione transitoria per ritrovar di nuovo me stesso ».
Prima di procedere a esaminare alcune considerazioni che sembrano conferire plausibilità all’ipotesi, osserverò di passaggio che la teoria peripatetico-scolastica — che l’anima si moltiplichi in più individui solo per il moltiplicarsi dei corpi di cui è forma sostanziale, talché ai corpi soltanto è da attribuirsi
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l’individuazione dei singoli membri dell’umanità — offre evidenti analogie con la concezione organica qui annunziata dal Tyrrell. Osservo inoltre come l’argomento di analogia fra lo sviluppo dell'individuo e quello dell'umanità acquista, a mio parere, un valore apodittico, se completato dall’argomento da me sopra accennato, che l’individuo inchiude nella sua costituzione non solo tutto il mondo fisico (ciò che è evidente, dato l’aspetto materiale della sua persona), ma tutto il mondo degli spiriti e delle volontà, essendo stato concepito, preformato e predestinato, ad un piano di vita che implica — nelle funzioni di relazione, di generazione, di simpatia, d'influsso morale, ecc. — altri esseri a cui esiste. E ogni essere si definisce, e quindi è, per ciò che è implicato nella sua costituzione. Come il fatto del l’attrazione reciproca di ogni essere materiale s’interpreta quale unità della materia, così il fatto ben più vero e complesso della costituzione ad alias di ogni individuo umano (evidente nei fenomeni tipici della sim-patia e della in-completezza, sia individuale che famigliare), mostra che ciò che esiste ed e inteso da natura quale essere completo, è la razza umana nella sua continuità totale.
Ecco ora alcune delle « armonie » indicate dal Tyrrell :
Io Sono noti i casi di personalità molteplice, coesistente, che mostrano come lo stesso organismo possa, morbosamente, compiere funzioni normalmente compiute da due organismi distinti. Inoltre, la psicologia sperimentale mostra che questi brani di esperienza morbosa possono svilupparsi e crescere gradualmente, sino al punto che la personalità morbosa può sopraffare l’originale e normale. Dunque, quello che noi chiamiamo il < me stesso » o 1’« io » è semplice-mente l’unità di esperienze connesse fra loro nella continuità di una comprensione simultanea: ]*« io » che conosce e sente è solo il correlativo di quest’oggetto totale, di questo tratto di presente collegato e di esperienze ricordate, ed io ho nello stesso atto la coscienza di me stesso e di esso:; ed è solo per astrazioni che posso risolvere il « dato » in Soggetto ed Oggetto, secondo che io riguardo da una estremità o da un’altra.
2° Il desiderio dell’« immortalità » non aspira a una persistenza, bensì allo sviluppo del mio io presente: e questo desiderio non potrebbe essere soddisfatto dall’elevazione di esso ad un nuovo piano di esperienza interamente distinto. Quando io sento che nel mio « io » presente è contenuto potenzialmente, come un albero nel seme, un « io » totale che io potrei raggiungere, sono consapevole di una specie di «io» nemico nascosto dietro o sotto il mio «io» apparente ed empirico. Gli è non solo il «più che io potrei essere», ma il «più che io sono e sono stato ».
3° L’ « io » che dirige la mano inconsapevole allorché essa scrive risposte intelligenti alle domande, mentre colui a cui la mano appartiene è distratto o assorto in conversazione, è, durante tutto quel tempo, il soggetto di una esperienza più vasta. Che include ambedue le personalità; la principale e la secondaria: come è Stato spesso provato sottoponendolo allo stato ipnotico. I due «io» apparentemente separati erano inconsapevoli dell’« io » più vasto, il quale, invece, era consapevole delle diverse esperienze che considerava come sue proprie, riassumendole nella sua esperienza in un qualche terzo momento.
4" Forse, in ognuno di noi preso separatamente, 1’ « Io » della Natura-
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Spirito non ha luce abbastanza per rivelare la nostra solidarietà con la Natura totale, ma solo abbastanza per renderci capaci di vedere, scegliere ed agire, ognuno per suo conto... Ma pure, nel tutto, lo stesso spirito può ben avere coscienza di queste parti e sforzarsi di moderare il loro « egoismo » e di controllarli nell’ordine.
5° Non v’è dunque bisogno di riguardare la cellula germinale come un meccanismo incaricato di riprodurre le caratteristiche della razza attraverso la serie dell'evoluzione: si tratta piuttosto di uno stesso spirito plastico, singolo soggetto di tutte le esperienze, abiti, memorie, che modella abitualmente il plasma. La Natura è lo spirito-creatura universale, in quanto ha sviluppato per se stesso un carattere fisso e un modo d'operazione divenuto virtualmente immutabile.
Secondo queste vedute, che cosa diviene la morte?
Supponiamo che la mano inconsapevole dello scrittore automatico venga a cessare, e che il soggetto sia, per mezzo dell’ipnotismo, condotto a sentire quella coscienza più vasta nella quale la coscienza normale si trova coordinata con quella anormale e inconsapevole dell’automa. Allora i due « io » si riveleranno come identici all'«io» più vasto, e le esperienze, l’intelligenza, la scelta, di quegli stati si ritroveranno preservati, come la nostra esperienza puerile vien preservata nell’esperienza virile. La mia vita mortale separata non è, dunque, altro che un episodio transitorio della mia vita universale. — L’intiero episodio della mia vita separata mortale sarà giudicato quando sarà assorbito nella mia vita più piena ed universale. Le conseguenze delle mie azioni presenti saranno sentite allora in tutta la loro sapienza o follia: il disgusto che proverò allora per il mio « egoismo » e per il mio « isterico » egotismo e la pena che mi costerà il rettificare queste follie saranno il mio « inferno », nel quale ì’io di ogni istante sregolato sarà eternamente punito: qualcosa di simile alle pene di un uomo ambizioso che sopporta le conseguenze delle follie della sua fanciullezza e delle opportunità perdute. La vita futura, allora, non è un : « dolce far niente » : le vite sprecate e le vite spente prima ancora di essere accese non appaion più futili, perchè esse sono episodi di un’unica vita, sforzi abortiti ma non inutili, con cui questa tenta di avanzarsi in un milione di direzioni ad un tempo. Esse non sono « anime » perdute o gettate via, come nella vecchia dottrina animistica. Il vecchio animismo secolare non è elastico abbastanza per contenere il vino nuovo della psicologia moderna: nuove bottiglie occorrono, cioè nuove ipotesi, quali scandagli verso la luce... — Questo lo splendido saggio del Tyrrell, da me riassunto e qua e là riordinato; in cui non è difficile scorgere la profonda influenza delle idee bergsoniane, specie del « Matière et Mémoire ».
A mo’ di conclusione, mi si permetta di trascriver qui un mio pensiero gettato su carta molti anni or sono, all’indomani della morte di persona a me cara, che recò luce grande al mio spirito: «Che cosa resta di lidi Restiamo noi in Dio». — «Tutti vivono a lui» (IIzvts; vip scùtw
Egli è tuttora ciò che era prima: solo, la funzione di presente si è solidificata nella funzione di passato. Ciò che in noi viventi è il fattore operoso, la «vis a tergo», è il passato di cui siamo costituiti, cioè la fase «defunta». Noi — il presente — non siamo che la tenue punta in cui s'inserisce e per cui si
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svolge la spirale evolutiva. La punta di una spirale è nulla: o meglio essa è la punta delle volute che la generano continuamente per svolgere il piano geome-• trico di cui esse sono il programma in atto. La punta ad ogni istante muore
divenendo «voluta», cioè passato: ma è solo morendo che diviene fattore operoso e si assicura l’immortalità...». — «Dove finiscono le onde del mare dopo che, in un attimo fugace; hanno sfiorato la superficie azzurra in un’ondata di vita? Finiscono nell’immensità di cui erano il prodotto e l’espressione: cioè restano ciò che erano. O se vogliamo, esse riappaiono nella serie di onde successive: non già che ad ogni onda della serie anteriore corrisponda un’onda della serie successiva, ma la totalità della fase seguente, nella sua unità con la massa intiera dell’oceano, è la equivalente della totalità della fase intiera anteriore...». — « Dove finiscono le cellule della pianta, eliminate come morte in ogni processo vitale? Esse restano nella pianta vivente della cui vita esse erano, non i fattori ma i simboli: non i membri di una colonia, ma gli strumenti funzionali. Venendo eliminate, esse vengono salvate. Nulla importa se l’aspetto meno vitale, il più periferico, la materia inorganica di cui risultano, è sottratta all’organismo: l'atto per cui l'individuo pianta si era disintegrato in organi e in cellule è tutt’uno con il piano e col secreto costitutivo della vitalità di ogni cellula, essendo l’individuo stesso che s'« incellula» per vivere. La «materia» delle cellule defunte, poi, rimane tutt’ora parte integrale della pianta, giacché l’aspetto materiale di tutti gli esseri — la materia — è una e indivisibile. Il gran fantasma e il grande equivoco che ci fan credere alla morte è il concetto atomistico della vita, il disconoscimento dell’« In lui viviamo, ci muoviamo e siamo » e l’incapacità di gridare: «Padre alle tue mani affido il mio spirito».
«Ma», conchiude il Tyrrell nel capitolo «Il desiderio dell’immortalità », « discutere con altri su queste verità fondamentali della fede è perdere il fiato, perchè esse debbono essere elaborate e conquistate da ognuno per suo conto, e non possono essere comunicate o imposte allo spirito. Il bisogno e il desiderio di crederle è la condizione di una proporzionata visione, e questo bisogno e desiderio sono, alla lor volta, il frutto dell'atteggiamento da noi liberamente scelto verso la vita... ».
Giovanni Pioli (Aschcnbfòdel).
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SENSI E PENSIERI RELIGIOSI nella poesia d’ARTURO graf (Continuazione. Vedi Bìlychtit, Aprile 1914, p. 24$).
Quanto d’ereditario, di vicende personali, di speculazione filosofica ha nudrito la sua contristante poesia? Possiamo fare la domanda, ma dire anche che non è facile rispondervi adeguatamente (della sincerità di lui, certo, non si può nè si deve dubitare). Lasciando però stare per ora le cause intime prossime o lontane di così angosciose voci, dovremo credere Che esse possano far male a chi le ascolta, e che non abbiano fatto bene a chi le sciolse dal proprio petto affannato? Quando le sventure pare ci vogliano far disperare, o quando l’anima nostra par diventata una Niobe, straziata nella enumerazione dei nostri mali, nello sfogo del dolore, anche senza speranza di compimento, si è sicuri di trovare conforto : dopo pare come se l’incubo, da cui eravamo oppressi, ci abbia lasciati. Per questo la poesia, detta pessimistica, io credo, oltreché aver giovato ai poeti che l’hanno fatta e la faranno, abbia giovato e sia per giovare a quanti addolorati l’hanno sentita, o siano per sentirla. Scoprire, far gocciare interamente la piaga : ecco il mezzo per guarirne ! E gli uomini non hanno ancora forse tutto esplorato e fatto sanguinare il dolore della vita: il dolore che purifica e fa buoni, come special-mente ha sentito un altro poeta, G. Pascoli: il dolore, la più ricca fonte del canto: del canto che lo allevia. Senza di esso come avrebbe potuto sopportare la vita il Leopardi?
L'anima dei poeti che piangono può ben raffigurarsi nel profeta, che gemeva : « O voi tutti che passate, soffermatevi e vedete, se c’è dolore come il mio dolore! > Qualcuno passa indifferente ; ma i più attendono, ascoltano e piangono col poeta chiamante; e tra le lacrime suona la dolce parola: fratello! Del resto è in arbitrio nostro il nostro destino? Si può non essere nati al pianto? E nàtivi, si può tacerlo? Ma il poeta, per tornare a lui, non è stato esaudito dalla musa: la bruna cetra non fu infranta: quattro anni dopo, ossia nel 1893, di lui vedeva la luce il vario e più attraente Dopo il tramonto (Si noti rispondenza di titolo !), più vario e più attraente, perchè se in esso parecchie cose riportano a Medusa^ le piti sembrano d’un'anima che si sia andata rasserenando: paesaggi, ricordi, figure umane : tutto in genere è visto e ritratto con senso più favorevole alla vita. Lo potremmo aver udito esclamare coll'Hugo, un poeta, se non molto amato, ben conosciuto ed ammirato dal Graf :
Je me suis éclairé dans ma douleur amère, Par un meilleur regard jeté sur l’Univers.
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SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA d'aRTURO GRAF
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Qua e là, anzi, egli pare confortato; e palesemente notevole è in alcune composizioni uno spirito, che viene da fusione di serio e di faceto, e che non è il sarcasmo e l’ironico già sentiti, ma certo deriva da essi. Si direbbe che egli, in un aspro dissidio fra voci nuove ed antiche, sia come chi non sa decidersi, in certi casi, fra il. pianto e il riso.
In genere, caratteristiche le qualità già dette: fantasia, sentimento, vigore ed efficacia, nonché maggior varietà di metri, escluso qualsiasi barbaro.
Medusei sono un paesaggio lunare, con nubi dense e fosche, con mare cupo e cielo balenante (Spettacolo in cielo)} la rappresentazione d'una palude con fuochi fatui, tra i quali splende l’anima del poeta (Fuochi fatui}} la visione di certi ontani, sbattuti dal vento, eretti al cielo, tremanti di paura, gementi nella notte (Vecchi ontani}} queste due quartine, che hanno per titolo l'interrogativo iniziale « Breve la vita?»
....... A me talvolta sembra
Esser già mille e mille anni vissuto, E m’avvinghia un terror gelido e muto Quando del tempo andato mi rimembra.
E il cor mi trema, e d’un ignoto inferno Sento l’angoscia cercarmi ogni vena, Quando il pensiero in mente mi balena Di dover forse vivere in eterno.
Ecco la vecchia disperazione ! E a questi canti s’aggiunga quel misto d’umano sarcastico, cupo, realistico, che è Notte di Natale, fatta apposta per richiamargli in mente tutto quel che non è avvenuto e doveva avvenire, e che pur si celebra come stato, dopo la nascita del Redentore. E ehi vogliono essere, se non lui, certi monaci vaganti per la chiesa, morti da tanto e stanchi d'aspettare il giorno del giudizio ? (I monaci morti}. O quel vascèllo fantastico che non deve mai giun- j gere al porto? (Fra mare e cielo}. Ironico è in Detto antico (il noto « Muor gio- ' vine colui che ai Numi è caro) » : detto amaro ad altri, e che a lui fa esclamare :
Detto d’amore!.. . Ahimè, chè ai Numi io temo Di non essere ormai caro abbastanza :
come è ironico in Torquemada (il terribile inquisitore si sveglia dal sonno della tomba, per lamentare che non si bruci più nessuno), e dove canta d’un vecchio nume annoiato e lagnantesi d’essere in disprezzo anche ai sacerdoti (L'idolo}.
Sarcasticamente cupo è quando, a una schiera fosca d’avvoltoi, d’aquile, di nibbi e di sparvieri, a innumerabili turbe di corvi vaganti per l’aria gelida su bianchi e morbidi deserti, domandandosi : < dove andate, lupi aerei, epe. affamate, gole stridenti?» si fa rispondere:
Noi lupi aerei, ventri affamati.
Stridenti gole,
Verso la piaga voliam del sole.
Dove su lati
Campi altri lupi che la natura perfezionarono. Che han nome d’uomini, ci prepararono Larga pastura.
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Per disprezzo e quasi odio verso gli uomini, cosi frequente in Medusa, ecco l'anelito alle cime dei monti dalla «scena oscura»,
Ov'e una stirpe scellerata e dura
Morendo pugna per lo scarso pane
Invitte, eterne cime, A voi la stanca e frale Anima mia, dal curvo mar, dall’ime Valli sognando e dolorando sale.
Ecco altrove, detto d'un orologio antico, sulla guglia maggiore d'un’antica cattedrale :
Cammina sempre, e sempre a un modo, e l’ore
E i brevi di con gl’indici misura Alla progenie sciagurata e dura. Che nasce invan, che invan patisce e muore, mentre egli attende da lui la voce che gli gridi :
È giunta l’ora tua, lèvati, parti {L'orinolo).
L'aspettazione è cupa e più viva altrove {Giunge il nocchier funereo). L'odio e il disprezzo hanno il colmo in Verità'.
Più rifrusto e rivango, E più mi persuado Che della Bibbia è questa La verità più certa e manifesta: L’ uomo, che tra le bestie ha il primo grado, . E’ impastato di fango.
E a questa si accoppi pure quella in cui un gnomo vince la ritrosia d’una bella con l’oro {Lo gnomo).
Puramente descrittive sono Ricordo di Zante, La Silfide, due belle liriche; fantastiche invece altre, ma d’una fantasticheria che attrae: intendo Adamantina Luna, La nave tra i ghiacci e quella Venere demonio, che è come l’espressione lirica del vagneriano Tanhauser, nonché la danza nel castello d’Igor al chiaro di luna, che ci fa rammemorare il Rudel del Heine {Spinetta) ; la visione d’una donna trafitta {Lo specchio), e quella d’una rosa, in cui mira se stesso. Fosca quell’-4 te, vòlta a una donna, per dirle che non ne intende l'anima; foschi, ma artisticamente belli, per più cause, questi versi intitolati Raccapriccio'.
Per la selva folta oscura,
Sotto il cielo spento,
Passa come un raccapriccio di paura
Un gran brivido di vento.
Ecco, il mare delle fronde
Freme, s’agita, si lagna:
Vasto il gemito si leva e si diffonde
Tutto intorno alla campagna.
Ma di nubi incoronato Dietro l’erta rovinosa, Lentamente spunta il volto' insanguinato Della luna tempestosa.
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Truce volto di Medusa,
Boccheggiante, inorrescente,
Che di sbieco, fra la tenebra confusa
Guarda in giù sinistramente.
Tosto il vento vagabondo
Nel lontan svanisce:
Sopraggiunta da novello orror profondo
La foresta ammutolisce.
Ad un'altra selva richiama questa, non cosi orrida, ma molto pietosa: in essa il poeta s’aggira, invidiando una casetta ove immagina serenità, quiete e dove invece è pianto un bambino morto : poesia di contrasto che si ha pure nei versi Banchetto della vita.
Tuttavia, la parte maggiore di questo volume è data a tristezze dolci, a ricordi cari, a voci d’amore.
Post mortem è l'evocazione triste, ma delicata di due amanti morti ; e quanta dolce mestizia nella Martire che va, va per un corso d’acqua, con viso pallido e sereno, portata dalla corrente ; finché, mentre s'accendono le stelle, non giunge al mare, dove, come per una seconda morte, ella chiude finalmente le palpebre !
Una calma tristezza emana dal Cimitero abbandonato, riposo di morti, che lo invitano per quando egli sia stanco e addolorato; come da Fiore di poesia, il fiore sospirato nella fossa, quale ultimo desiderio ; da Sotto il salice, da Ima-gine, da La feluca, da quel Ricordo di Bordighera, in cui la visione dei curvo lido, cui si frange lenta l’onda, del cielo sereno con qualche nuvola fuggitiva a quando a quando, dell'infinito mare con vele lontane, insieme col sussurro del vento e l’ondoleggiare di certe palme (un panorama insomma rapitore, delicatamente ritratto) lo fa concludere:
Guardo quel puro ciel, guardo l’estrema
Cerchia dell’acque e l'arbori canore.
E non so perchè l’anima mi frema
Non so perchè cosi mi batta il core.
Veggo nell’aria vaporose e chiare
Forme librarsi in mobili volute;
Odo voci sonar tenere e care, Da sì gran tempo dileguate e mute.
Provo dentro nel cuor stretto e conquiso .
Un’amara letizia, un dolce schianto: Mi vien tremando sulle labbra il riso, Mi scende in copia giù dagli occhi il pianto.
Non fo commento che col richiamo di un’altra lirica anche più soave: Ricordo di Zante', cui Rimembranza (d'amore), tutto un profondo sospiro amoroso, può bene star accanto. E com'è vivo l’amore nell'invocazione a Venerei (chiede con intenso desiderio di morirle tra le braccia), nella Rosa e il cipresso ! (Maria la rosa, lui il cipresso), in Nave, in Caso strano, in Amor di Vergine, fatta di brama e di fremiti! in Dialogo innocente, come in questo Sonetto minimo, così fremebondo e sospiroso !
Ora che i rami
Nel ciel tranquillo
Son tutti un trillo,
Dimmi se m'ami.
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Or che al serpillo, Or che agli stami Volan gli sciami, Se m’ami, dillo.
Viso adorato,
M’ardono i baci
Che non t’ho dato.
Ah, ti trabocca
L’anima... taci !
Baciami in bocca.
Perchè intitolerà certi versi Nuova torturai Perchè dovrà lamentare che il corpo vecchio voglia tornare agli amori.
Non gli crederemo dunque, quando si farà dire da una bella che è un uomo morto? {Idillio} e quando esorta una signora a non crederlo, se le parli d'amore, perchè egli è un Morto che camminai Per ¡spiegare questo suo nuovo cuore, ecco la erezione d’amabili fantasie. La fata canta d’un cavaliere crociato, che, pur d’avere la bellissima donna, accètta per condizione la inevitabile morte. (Si sentono anzi qua e là, in queste liriche, accenti di così vivo sensualismo, che solo la delicatezza e signorilità formale salva da quel Che fu detto verismo o realismo). Incantesimo ci racconta d’una fanciulla bellissima, che aspetta da mille anni chi, amandola, possa svegliarla e sposarla. Con una punta d’ironia, questa, e un’intonazione generale heiniana, quale sentiamo prevalere in altri : per esempio nella Venere di Miloy in Dialogo innocente e in alcune delle ricordate. Anche per esprimere il dissidio delle sue facoltà, la fantasia e la ragione, egli sarà scherzosamente heiniano: La tela di Penelope} è similmente per definire l’anima sua un’ape aristocratica, posantesi in seno ai più soavi e cari fiori, che
.. . dal candido giglio e dalla rosa Sugge, non miei, ah no! sugge il veleno.
Ma si sa ormai, se in Dopo il tramonto prevalga questo o quello. E, sapen- 1 dolo, come non meravigliarsi che il Nencioni (i) potesse scrivere, pur affermando I che il volume rivelava un potente e originale ingegno : « echeggia un po’ troppo ! il... precedente... Son più o meno felici variazioni sullo stesso motivo pessi- ! mista»? Al che aggiungeva: «Il Graf ha troppo insistente la nota orribile, e talora si sente che la vuole e la cerca. Piuttosto che essere colpito incontrando l’orribile, si direbbe qualchevolta che va in caccia dell’orribile». E lo giudicava come Lee Hamilton: in «ambedue il terrore degenera non di rado nello strano e nel decorativo.»
No, no! (possiamo affermare noi) non è così! E lo abbiamo provato. Il nuovo volume, il cui primo libro è descrittivo come il secondo è amoroso e ricorde- ' vote, anche quando ricorda l’antica disperazione, ha tutt’altro accento o intona- / zione musicale. Già in Medusa si ha un soggettivismo predominante, mentre qui le cose sono viste ed espresse per quel che sono, e sono altre da quelle pre- Ì cedenti. Disprezza gli uomini, ma ne significa i dolori, e li sente ! Là il mistero, I qui non è ancora la visione chiara del mondo, ma visione vicina al vero è* là come uno spirito di Satana, l’angelo triste che ricorda, rimpiange, ama la donna, ■ si fa quasi a compatire l’umanità. Oh l’amore ha molto, molto schiarita la visione / del mondo! l’amore che è dolore, ma è anche gioia immensa.
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SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA DARTURO GRAF
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Dopo il tramonto si chiude con versi che hanno certamente sapore heiniano, ma che indicano un indirizzo assai diverso dallo stato di disperazione, in cui abbiamo lasciato l’anima del Graf in Medusa', son quelli rivolti Ai signori poeti, ai quali, dopo aver cantato quanto essi abbiano di bello, per distinguersi dai più, egli muove loro l’esortazione a comporsi in lega, che faccia guerra alle anime cieche e sorde, che non dia quartiere alle vili ed ingorde (son parole sue e certo di non poetica locuzione), concludendo :
Fecondiam colle lacrime e coi sangue
Le zolle insterilite, Affinchè più fiorite Ridano ai figli un di le primavere.
O miei fratelli, nella bianca luce
Leviam sonoro il canto;
Gridiamo il dolce e santo
Verbo della bellezza e dell’amore.
Incitiamo, aiutiam la stanca e pigra
Stirpe d’Adamo, o prodi, A sciogliersi dai nodi Aspri della menzogna e del dolore.
E ascoltino pure i fratelli poeti l’esortazione nobilissima; ma il Graf che cosa farà per dare l’esempio? Quali voci insomma verranno dopo questa ? Avremo la poesia detta sociale o umanitaria?
\Continud). Giuseppe Lesca.
(i) Nuova Antologia, iS giugno 1S93.
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LA POLITICA ECCLESIASTICA
DELLA DESTRA'”
Uno dei più valenti studiosi, fra i giovani, di diritto ecclesiastico in Italia, Mario Falco, ha ripreso recentemente in esame, in un suo discorso accademico, la politica ecclesiastica della destra. Ricordato brevemente Cavour, egli esamina il pensiero e l'opera degli uomini che gli succedettero e le vicende parlamentari dalle quali vennero le leggi eversive del giugno 1866 e dell’agosto 1867 e quelle del 1871 e del 1873 sulle guarentigie pontificie e sui beni ecclesiastici della provincia di Roma.
Idea dominante della destra, in tutto questo periodo, come già prima, fu conciliare le esigenze della formazione del nuovo Stato italiano con la libertà della Chiesa.
Ma la frase « libertà delia Chiesa » non ha di per sé un significato giuridico preciso, anzi non ne ha nessuno; poiché la Chiesa è istituto sociale giuridico politico unico, di una natura singolarissima, in una situazione concreta di diritto che si è venuto nei singoli paesi foggiando e modificando nei secoli, e che esplica, soprattutto per mezzo dei Pontefice, nel quale è concentrata ogni autorità e la somma della rappresentanza dei fedeli, una sua volontà di vita e di dominio, non solamente, anzi non principalmente religioso, ma ecclesiastico ; e cioè anche economico, giuridico, politico, dovunque essa creda, in questi campi, mescolati i suoi interessi a quelli della comunità civile.
« Libertà della Chiesa » significa quindi cose diversissime, a seconda che si intende il significato e la portata della parola «chiesa»; e va, dalla persistente rivendicazione di piena autarchia e quindi di supremazia sullo Stato nella quale solo il Pontefice vede intieramente salva la libertà di essa, alla semplice e mite esigenza della libertà religiosa chiesta per i membri della chiesa romana come per quelli di qualsiasi altra confessione. Nel primo caso, come si vede, la libertà della Chiesa nega recisamente la sovranità dello Stato in ogni materia nella quale l’interesse ecclesiastico sia comunque immischiato; e, poiché la sovranità è concetto indivisibile, la nega senz'altro ; nel secondo caso, invece, la rivendicazione della libertà, come fatto anteriore alla Chiesa e come laicità dei poteri pubblici, è rivolta oggi efficacemente contro la Chiesa medesima e la sua costituzione giuridica e le sue rivendicazioni di autarchia e ogni forma di superstite privilegio politico.
11) Màrio Falco, La politica ecclesiastica della destra. Torino, Kilt Bocca editori, 1914.
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LA POLITICA ECCLESIASTICA DELLA DESTRA
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E nel primo senso han sempre intesa la loro libertà i papi, i quali quindi, nei nome appunto della libertà della Chiesa, protestano vigorosamente dal 1848 al 1873 contro ogni provvedimento liberale del Piemonte e dei nuovo Stato italiano in materia che li riguardasse; e, confidando in un miracoloso intervento divino simile a quello che pareva ad essi di aver riscontrato nello scioglimento del dramma napoleonico e che celebrano ancora in una speciale festa liturgica della cui istituzione solennizzarono testé il centenario, non vollero mai ceder nulla di buona grazie nei molteplici tentativi di accordo che gli uomini di Stato piemontesi e italiani premisero sempre, sino al 1870, ad ogni progetto di legge in materia ecclesiastiaca ; ed alcuni dei quali il F. ricorda.
Come intese, invece, la libertà la Destra e come tentò di applicarla? Essa non cercava una definizione teorica delle sue idee. Il suo certo punto di partenza era che bisognava costituire l'unità italiana con Roma capitale, e fondare il nuovo Stato sul regime liberale e costituzionale; e in questo nessuna concessione, salvo che di forma, al papato. Satus populì suprema lex. Il fallimento del programma neo-guelfo nel 1848-49 fu la nascita della politica ecclesiastica del Piemonte costituzionale, volta a far l’unità italiana non contro ma senza il papato.
Una volta postisi per questa via, talune esigenze di fatto li portarono ad andar più oltre di una semplice questione di sovranità territoriale e di riorganizzazione civile. Le idee liberali urgevano verso molte riforme toccanti il vecchio privilegio ecclesiastico ; l’opposizione irreducibile della Chiesa ad ogni riforma impediva gli accordi, e le transazioni alle quali questi avrebbero condotto, e rendeva più facile l'adozione di misure radicali. Necessità di difesa costringevano a calcar la mano su taluni istituti che al nuovo ordine di cose apparivano più recisamente ostili, come i gesuiti. E, in fine, le necessità fiscali, talora gravissime, del nuovo Stato cercavano, nei beni ecclesiastici abbondantissimi e spesso così manifestamente venuti a mancare di ogni destinazione sociale utile, facili e comodi risarcimenti.
A ogni modo prevalse sempre negli uomini di destra l’idea che nella lotta contro la Chiesa si dovesse giungere solo sin dove apparisse strettamente necessario; che Io Stato intendeva solo regolare, esplicando autonomamente la sua attività legislativa, le materie civili connesse con le ecclesiastiche, senza attentare in alcun modo alla esistenza ed alla indipendenza spirituale della Chiesa romana; che, insomma, questa doveva esser libera sin dove la sua libertà non venisse in conflitto con la libertà dello Stato.
Si aveva così dell’una e dell’altra libertà un concetto provvisorio, che una analisi strettamente filosofica dei termini chiesa e stato avrebbe dissolto, ma che, praticamente, trovava nella tradizione storica, politica e giuridica, basi per una certa consistenza. E il risultato furono sempre dei compromessi che in quell’empirismo giuridico trovavano la loro giustificazione e nel buon senso politico il compimento. Si soppressero gli ordini monastici, ma li si lasciò vivere tranquillamente come associazioni di fatto, lasciando alla giurisprudenza il compito di sbrigarsi dalle molteplici difficoltà alle quali si dava luogo. (Le leggi, minuziosissime in Italia, lasciano invece in questo campo larga libertà al magistrato, il quale usò ed usa quasi sempre di essa con criteri molto restrittivi, per non sappiamo quali segrete e profonde affinità e simpatie fra sacerdozio e magistratura). Furono
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confiscati i loro beni, ma il fisco non se ne attribuì che una parte e riserbò l’altra a scopi egualmente di culto. Si soppressero molti benefici ecclesiastici, ma furono rispettati i vescovadi, i capitoli cattedrali, i seminari, i benefici curati ; e i beni dei primi furono parimenti riserbati in parte a scopi di culto. Si tolse al papato il dominio temporale, ma gli si lasciò ed attribuì una sovranità sui generis, amplissima, e in qualche modo anche l’extraterritorialità.
Si rinunziò a gran parte dell'antico giurisdizionalismo, ma non si ebbe il coraggio di andare sino in fondo, e furono conservati i diritti di patronato e i RR. placet ed exequatur, salvo poi servirsene sino ad oggi senza alcun criterio proprio, e rinunziando in fatto a ogni intervento motivato (i). Si continuò ad ingerirsi di amministrazione dei beni conservati, considerandoli in qualche modo come patrimonio pubblico, addetto a uno scopo speciale, ma non si osò mai compire quel riordinamento della proprietà ecclesiastica che pure era stato formalmente promesso nella legge delle guarentigie.
Tuttavia, se necessità impellenti politiche e fiscal: erano quelle che spingevano innanzi i nostri legislatori, consenziente l’esiguo corpo elettorale al quale essi dovevano il loro mandato, e riuscivano a far trovare, fra molta incertezza e grandi contrasti d’idee, la via delle soluzioni pratiche, idee e criteri e tendenze ve ne furono e influirono variamente sul risultato; e giova indagarle, non solo perchè esse sono un capitolo recente ed interressantissimo della storia della cultura e della religione in Italia, ma anche per uno scopo pratico di interpretazione delle leggi e di avviamento a nuove e più mature soluzioni legislative.
E Mario Falco reca a questa ricerca, nello studio che abbiamo innanzi e in un articolo recentemente apparso nella Rivista dItalia (2) un utile contributo, esaminando rapidamente i progetti di legge, spesso caduti, e i dibattiti parlamentari dei quali le leggi citate furono come la conclusione storica.
Riassumere un denso riassunto è impossibile. L'eccellenza del partito liberale e la bontà pratica delle conclusioni alle quali esso venne sta nell’essere stato un partito medio — non scriveva già nel 1833 C. di Cavour: <J’ai fini par me fixer, comme là pendule, dans le juste milieu » fra la rivoluzione e la reazione? — (3), nell’aver cercato di svincolare lo Stato moderno dalla Chiesa senza attentare alla unità organica ed alla interiore costituzione di questa.
La critica, conviene ricordarlo, non aveva allora minato le basi stesse dottrinali e storiche sulle quali la Chiesa, come istituto teologico e gerarchico, riposa ;
(x) Lo scorso arino fu negato V exequatur al nominato arcivescovo di Genova, monsignor Caron. E, quando la questione venne alla Camera, vi fu fatto sfoggio di dottrine giu-risdizionalistiche. Ma si trattava di una eccezione, dovuta a circostanze eccezionali, estranee in parte a criteri giuridici; e quel che è seguito ha fatto di questa eccezione una nuova conferma diretta della regola.
Infatti, dopo un non lungo intervallo, a reggere la diocesi di Genova fu mandato mons. Pio Boggiani, uno dei prelati più retrivi ed intransigenti, noto per gli incidenti di Adria e per il seguito interdetto della città. Questo signore fu già condannato per diserzione dal Tribunale militare di Alessandria, scontò parte della pena e fu poi graziato.
In occasione di una visita del re a Genova, fu in fretta concesso al Boggiani Vexequatur perchè egli potesse recarsi ad ossequiare S. M.
(2) Mario Falco, La soppressione degli ordini religiosi, numero di giugno.
(3) Chiàlà, Epistolario. Lettera Vili, voi. 1®.
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nè, d’altra parte, era stata ancora definita l’infallibilità pontificia e condotto alle estreme conseguenze di oggi l’accentramento papale. Non solo; ma vi era in Italia un numero grande di autorevoli persone le quali, anche dopo la sconfitta definitiva del neo-guelfismo, andavano diffondendo, con grande calore di convinzione, un cristianesimo liberale, con tendenze soprattutto etiche, il quale ripudiava per suo conto tutti quei privilegi e quel potere polìtico che pareva invece aver tanta importanza per la gerarchia, e vagheggiava una profonda riforma « di costumi » nella Chiesa, il cui inizio dovesse essere l’abbandono delle eccessive cure temporali.
Non aveva il Mazzini stesso, estremo fra gli estremi nella opinione degli italiani di allora, dato, triumviro della Repubblica romana, l'esempio di questo rispetto alla religione cattolica popolare? E non si cercava di adattare persino la dottrina hegeliana, da Augusto Vera, a una soluzione intermedia e conciliativa dei rapporti fra Chiesa e Stato? (1).
Le soluzioni dovevano adunque avere carattere politico, non definitivo. La precarietà di esse la si vede solo quando si è nella via di risolvere la religione storica degli italiani, come ogni religione, nella interiorità, dall’una parte, in quanto è convincimento, fede, entusiasmo, vita di coscienze date, e nello Stato, dall’altra, in quanto è organismo giuridico e politico.
E ¡1 Falco non vede, ci sembra, la precarietà e la contingenza di quella politica, appunto perchè non si è collocato in questo punto di vista più alto ; ed egli finisce con un atto di sincera ammirazione per la Destra storica, senza aver tratto dal suo studio un qualche criterio direttivo per le soluzioni ulteriori. Egli non vede, in sostanza, se non quel problema che la Destra vide; e così può dire che il partito moderato ha < assicurato... la pace religiosa all’ Italia >.
Sì, la pace religiosa che è durata più o meno sino ad ora e che si trascinerà forse ancora parecchi anni. Ma non vede il Falco come, dentro essa, vadano accumulandosi le esigenze e gli elementi di una nuova guerra?
Questi elementi si trovano già, del resto, negli stessi dibattiti del tempo. Il Ricasoli « posseduto dalla confusa idea di una riforma della Chiesa universale » voleva che i disegni di legge mirassero a questo ; introducendo, ad es., per volere dell’autorità civile, riforme democratiche nella Chiesa, quali l’elezione popolare dei parroci e dei vescovi, l’amministrazione laicale del patrimonio ecclesiastico, ecc.
Dopo lui, « la politica governativa seguì nell’ insieme l’antico indirizzo giu-risdizionalista, modificato dallo spirito laico della legislazione piemontese, ma risentì anche l’influenza del principio cavourriano della libertà della Chiesa; fu quindi trascinata ora da un lato, ora dall’altro, e suscitò il malcontento così dei giurisdizionalisti, come dei liberisti».
Alcune riforme definitive si ebbero ; ed erano quelle che abolivano ed annullavano posizioni ed enti giuridici per i quali il diritto civile non faceva che rispecchiare il canonico. Il Falco, ad es., nell’articolo citato mostra molto lucidamente che la legge del 1866 sapeva quel che voleva ed era molto chiara ed esplicita quando ritirava il riconoscimento giuridico a tutti gli ordini monastici e li privava
(1) V. lo studio di G. Gentile su Vera, in Critica, 20 novembre 1912.
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così di esistenza giuridica. Definitive, per quel che negavano ; nè i limiti loro possono essere arbitrariamente estesi. E’ certo, ad es., che quella legge non volle in alcun modo vietare ai religiosi la convivenza, perseguitarli anche come semplici associazioni di fatto.
Ma ciò non toglie che il ricostituirsi e il diffondersi delle comunità monastiche anche come semplici associazioni di fatto venga creando, o possa creare, una situazione tale da mettere in pericolo il raggiungimento di quei fini che il legislatore del 1866 si era proposto, e che nuovi provvedimenti possano quindi rendersi necessari.
Ma non è qui il caso di addentrarsi in descrizioni di dettaglio. A noi pare che lo studio del Falco condurrebbe a conclusioni utili e feconde quando approfondendo il suo problema, esso riuscisse ad essere la conclusione definitiva della antica disputa fra il giurisdizionalismo e il separatismo. La separazione, la libertà cavourriana, è impossibile, sinché la Chiesa romana, con l’enorme potére che essa ha ancora presso di noi, piega i suoi seguaci e dirige tutte le sue forze verso la riconquista, in altre forme, del suo privilegio e della sua sovranità sullo Stato ; poiché il giurisdizionalismo fu appunto l’arma degli Stati che, accettando la Chiesa, si trovavano a dover competere con essa e difendersi da essa sul terreno della sovranità civile.
E, d’altra parte, se la separazione cavourriana sarebbe oggi disarmo dinanzi a un nemico che è sempre sul campo e che si arma da qualche tempo più for-midabilménte, il giurisdizionalismo implica,storicamente, un riconoscimento ufficiale della Chiesa cattolica, o come di un potere concorrente o come di un organo dello Stato, ed anche questo concetto è, per la coscienza religiosa d’oggi, inaccettabile.
Noi vagheggiamo quindi una soluzione che tolga l’antitesi delle due; una separazione che sia trasferimento delle attività religiose associate su di un altro piano, nel quale il loro diritto alla libertà si confonda col diritto stesso della coscienza e si imponga sotto un tale aspetto allo Stato, all’infuori di ogni riconoscimento speciale e privilegio ed accordo; un giurisdizionalismo che sia nul-l’altro che l’esplicazione della sovranità dello Stato, organo del diritto, anche nel campo delle attività religiose consociate, senza alcun limite, su questo terreno di creazione di forme, di norme e di limiti giuridici.
E a una tale riforma, più pienamente consapevole, oramai, della sua funzione e dei suoi limiti, deve mirare lo Stato italiano se vuol veramente dare al paese la pace religiosa ed i suoi inestimabili vantaggi.
Romolo Murre
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< Io voglio nettamente distinguermi da quelli che vorrebbero rifiutare agli ignoranti la lettura dei Libri Santi tradotti in lingua volgare. Come se il Cristo avesse insegnato una dottrina così oscura che solo qualche teologo potesse comprendere!' Come se restarsene velata fosse una salva-guardia per la religione cristiana ! Che restino nascosti ai profani i segreti dei re, nulla di meglio ! Il Cristo invece ha voluto diffondere quanto più è possibile i suoi misteri. Io vorrei che anche le più umili donne fossero in grado di leggere i Vangeli e le Epistole di s. Paolo ; che essi venissero tradotti in tutte le lingue e messi alla portata non solo degli Scozzesi e degli Irlandesi, ma anche dei Saraceni e dei Turchi. Il primo punto è quello di conoscere. Ammesso pure che molti riderebbero, pure qualcuno comprenderebbe. Io vorrei che il contadino dietro l’aratro, il tessitore nel suo lavoro o il viaggiatore lungo il cammino ne cantassero dei versetti; io vorrei che i Vangeli divenissero l’argomento di tutte le conversazioni quotidiane ».
Erasmo di Rotterdam (1465-1536)
dalla prefazione alla seconda edizione della versione latina del Nuovo Testamento, dedicata a Leone X.
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LA “ RINASCENZA " CRISTIANA NEL SECOLO XVI
LA SCOPERTA DELLA BIBBIA
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PERI5G/0VRA DELL'ANIMA
UNA VIRTÙ CHE SE NE VA
... Io ho imparalo ad esser contento nello stato nel quale mi trovo. Io so essere abbassato, so altresì abbondare ; in tutto e per tutto sono ammaestrato ad essere saziato e ad aver fame; ad abbondare e a soffrir mancamento. Io posso ogni c->sa in Cristo che mi fortifica.
FtLtPP. IV, 1M4,
Le storie letterarie narrano di un contadino toscano del secolo xvn, un certo Giandomenico Peri, che improvvisava ottave degne di Ariosto e che, per questa sua valentia poetica, si acquistò tale rinomanza da essere invitato dal granduca e da vari cardinali a seguirli a Roma o a Firenze e cambiare la sua rozza condizione di contadino in quella ambita e lautamente rimunerata di poeta di corte.
Ma invano, chè Giandomenico Peri volle restare contadino, tanto si sentiva soddisfatto e contento della sua condizione, e morì, dopo molti anni, poeta lodatissimo, e contadino.
Ma quanti /farebbero come costui, oggi che i contadini, anche non poeti, anche non invitati, si riversano in maniera inquietante nelle città; oggi che la smania di possedere di più, di comandare di più, di farsi valere di più, ha cosi dilagato -el mondo, che non v’è quasi più posto per un’anima contenta ? Guardatevi attorno e trovatemi uno contento del suo stato... Alle volte, così da lontano, può sembrarvi di averlo trovato, ma se v’accostate e gli toccate il polso e gli scrutate l’anima, non tarderete a cogliere anche là un qualche rimprovero, se non gridato, mormorato, masticato, contro alla Provvidenza o al Destino. Tutti si lagnano, tutti mormorano, tutti brontolano : pare che con nessuno Dio o la Sorte abbiano fatto il loro dovere.
Ebbene, poiché il contentamento del proprio stato è una virtù che nell’impalcatura del carattere individuale e del vivere sociale tiene il posto di asse maestra — tale virtù che dev’essere ad ogni costo acquistata da chiunque voglia vivere ammodo — parliamo un po’ del contentamento. E per ispirarci ad un grande esempio, esempio luminoso e consapevole, prendiamo Paolo nella sua dichiarazione ai Filippesi : « Io ho imparato ad esser contento nello stato nei quale mi trovo. So essere abbassato, so altresì abbondare; in tutto e per tutto sono ammaestrato ad essere saziato e ad aver fame, ad abbondare ed a soffrire mancamento. Io posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica ». Badate, ci sono due circostanze che rendono questo esempio di contentamento addirittura eroico :
La prima, la qualità dello stato in cui si trovava Paolo quando fece questa sua dichiarazione. Sentir fare dichiarazione di contentamento da coloro che se la passano bene è cosa facile e che non impressiona molto ; ma sentirla dalla bocca di un uomo come Paolo che era passato, com’egli stesso narra (1), attraverso battiture, lapidazioni, naufragi, insidie d’ebrei, aggressioni di gentili, maligna-zioni di falsi fratelli, attraverso la fame, la sete, il freddo, la mancanza di vesti, attraverso privazioni e squallori d’ogni specie: dalla bocca di un uomo che nell’ora stessa che dichiarava d’esser contento, si trovava in prigione da due anni, con l’ombra del ceppo e della scure proiettata dinanzi... convenite, sentir fare dichiarazione di contentamento
(1) 2 Cor. XI. 23-29.
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sulla base di queste circostanze non è fenomeno che si osservi tutti i giorni ; e quando accade di osservarlo, deve di necessità profondamente impressionare.
La seconda circostanza che rende impressionante la dichiarazione di Paolo, è che prima di versare in si tristi condizioni, egli, proveniente da una famiglia nobile, insignito della cittadinanza romana, educato nell’alta società di Tarso e di Gerusalemme, entrato a far parte della setta dei Farisei, era stato in auge, riverito, onorato, portato in palma di mano. Ora se può succedere che s’avvezzi alla vita trista chi è sempre vissuto in condizioni tristi, non così facilmente si adatta chi ebbe un passato di felicità: in questo caso l’adattamento, e tanto più il contentamento, sono ostacolati anche dal ricordo del tempo felice. Lo dice pure Dante.
E come va, allora, che malgrado queste circostanze contrarie, Paolo riesce ad essere contento del suo stato? come mai? in virtù di quale segreto?
Noi lo vedremo il segreto di Paolo, ma, prima, una parola sopra un’accusa che volgarmente si muove alla virtù di contentamento. Si dice: se questa attitudine di contentamento diventasse generale, ne conseguirebbe l’arresto del progresso, perchè è risaputo che in tanto gli uomini si muovono in cerca del meglio in quanto non sono contenti dello stato nel quale si trovano: sostituite il contentamento e la soddisfazione alla insoddisfazione e allo scontento e voi avrete, invece della voglia di mutare in meglio, la quiescenza e l’inerzia ; invece del progresso, la stasi. — Ma la risposta a questa obiezione la è, semplice ed esauriente, nelle stesse parole di Paolo. Notate: non dice già: Io sono contento dello, ma nello stato nel quale mi trovo; e c’è, badate, una grande differenza fra le due espressioni. Se voi dite : Sono contento della sala nella quale mi trovo, ciò significa che la causa della vostra contentezza sta proprio nella sala, la quale vi soddisfa per le sue qualità di ampiezza, di struttura, di decorazione, eco. Se invece dite: Sono contento nella sala nella quale mi trovo, ciò significa che il vostro contentamente ha luogo, si, nella sala, ma non è determinato dalla sala ; è fondato su motivi vostri interiori che non han che fare con la sala ed è anche compatibile col desiderio di cambiare la sala presente in una diversa e migliore. — Ora che dice Paolo? d’essere contento dello stato nel quale si trovava ? oh no, a lui non piaceva lo stato in cui si trovava, anche perchè, come scrive altrove, la prigionia gli impediva di portare il
messaggio di Cristo attraverso la terra. La sua dichiarazione precisa è: « Sono contento nello stato nel quale mi trovo » : dunque, non la quiescenza, non la supina accettazione del suo stato presente, ma solo l’indipendenza del suo spirito dalle circostanze del suo stato temporale o sociale, la signoria dello stato interiore sullo stato esteriore. Vi sono uomini cosi spiritualmente deboli che il loro stato interiore è alla mercè dell’esteriore; se va male l’esteriore l’interiore va malissimo. Vi sono altri nei quali l’interiore è cosi formato, stabilito, radicato nell’anima, che l’esteriore, per quanto non lo approvino e anzi vogliano cambiarlo, non può influire su i’attro. Paolo è uno di questi, ecco tutto. La sua dichiarazione torna a dire: Battiture, lapidazioni, naufragi, fame, sete, freddo, privazioni, e persecuzioni... malgrado voi, io sono contento in voi ; io domino voi non voi me ; io muterò voi, non voi muterete me.
E allora, che c’entrano l’inerzia e l’arresto del progresso ? che c’entrano ? Oh si persuadano, i critici del contentamento, che se vi fosse un maggior numero di uomini contenti — e perciò capaci di dominare mediante lo spirito le circostanze di fuori, favorevoli o avverse — non ci sarebbe meno ma più progresso, perchè ci sarebbe meno debolezza e più forza, meno nervi e più spirito, meno incostanza e più tenacia, meno lamenti e più lavoro, meno sconfitte e più vittorie.
»**
Ma — inteso così il significato della virtù del contentamento — come è che Paolo la fece sua, come, in virtù di quale secreto o tirocinio, riuscì a dire : «Io ho imparato ad essere contento » ?
Ebbene, notate che egli dice : « Ho imparato ». Vuol dire che il suo contentamento non era una virtù naturale, il prodotto di un temperamento, ma una virtù acquisita, il risultato di uno sforzo. Alle volte s’incontrano individui sempre contenti per ragione di temperamento. C’è una commedia, non so più di quale autore, il cui protagonista, un tipo grasso e grosso, dalla faccia di luna piena addolcita da un perpetuo sorriso, esce di casa ridendo, e, benché gli capitino tra capo e collo una mezza dozzina di disgrazie, torna ridendo e quando la moglie lo riceve a legnate ... accetta ridendo. Ma questa specie di contentamento più fisiologico che psichico, più animale che spirituale, non ha che fare col contentamento di cui parla Paolo che consiste più nella correzione che nella ado-
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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zione dei proprio temperamento, che in una parola, non è trovato per terra, ma imparato.
Bisogna imparare ad essere contenti, ecco tutto. Ma come?
1. Anzitutto imparando che non è vero che esistono condizioni o stati sociali atti a conferire una felicità completa. Quando guardiamo allo stato degli altri dicendo: — Là è la felicità — non pensiamo che quelli guardano allo stato nostro e dicono a loro volta: — La felicità è là. — E la verità è che felicità completa non è nè qua nè là : ma là e qua anche di tra le rose, punte di spine che penetrano nelle parti più sensibili del cuore : ora l’impiego, ora la famiglia, ora le altre relazioni ; e nell’impiego ora il salario, ora l’ora-, rio, ora la responsabilità, ora i superiori, ora i colleghi, ora i subalterni ; e nella famiglia ora le difficoltà finanziarie, ora la salute, ora la moglie, ora il marito, ora i figli ; e se non è l’ufficio è la casa e se non è la casa è l’ufficio, e se non sono nè la casa nè l’ufficio siete voi stessi, è il vostro cuore stesso che si foggia un altro tipo di spine: ma sempre, sempre, sempre la cosa che ci avverte che uno stato atto a rendere compiutamente felici non esiste. In una commedia del teatro napoletano, Pulcinella vuol fabbricarsi una casa, e quando, conferendo con l’architetto, costui gli dice che sarebbe bene che un Iato della casa guardasse a mezzogiorno, Pulcinella convinto, troppo convinto, esclama, con un gran gesto da Signore, che vuole tutti e quattro i lati a mezzogiorno. Ahimè, come non possono essere a mezzogiorno tutti i lati di una casa, cosi non possono guardare il sole tutti i lati del nostro stato: per uno che sta al sole, un altro deve contentarsi di vedere soltanto le aurore, e un altro i tramonti, e un altro la notte!
2. Ma il contentamento s’impara anche imparando che non è vero che noi siamo i più disgraziati. Tali pensiamo essere nelle ore acute della prova. Ma vi ricordate la bella poesia di Selis? Un mendicante si lamenta in mezzo alla via, a voce alta, di non avere scarpe ; ma accanto a lui, accovacciato o meglio incassato dentro una piccola carretta, sta un altro mendicante che ha perdute le gambe sotto il treno ; e quando questi ode l’altro che si lagna di non avere scarpe gli risponde: — Fratèllo, tu ti lagni ■Iella mancanza di scarpe, ma che dovrei dire io che non ho neppure i piedi?
Tu n'as pas de souliers, moi je n'ai pas de jambes.
Quando vi lamentate, volgetevi attorno e guardate se per caso non vi stia vicino l’uomo della carretta, senza piedi...
3. Ma ancora. S’impara il contentamento imparando che non è vero che a cambiar stato si guadagni nel senso della felicità. Olindo Malagodi illustrò splendidamente questa verità in un suo racconto fantastico (1). Un giorno che addolorato e stanco riposava sdraiato sull’erba, in campagna, desiderò di abiurare l’umanità, e, rivolto ad un albero là presso, gridò dai fondo dell’anima: — Oh, potessi essere te! Detto fatto. Una virtù magica s’impossessò instantáneamente di lui e lo trasformò. Sentii — egli dice — i miei piedi penetrare nella terra dolce e biforcarsi ed espandersi in radici, e il mio corpo, questo povero corpo umano che si piega negli avvilimenti e si contorce negli spasimi, drizzarsi erètto e dignitoso verso il cielo, mentre le braccia si allungavano in rami con un calmo gesto di forza. Sentii le vene che si vuotavano del sangue — del sangue caldo, velenoso, accidioso, gorgogliante follia ed infamie — e si riempivano di linfa, una linfa dolce, soave, fresca, che saliva penetrando le fibre e immergendole in una pace, in un riposo che non avevo mai prima conosciuto. Che dolcezza ! che felicità ! che giorni divini ! Ma durò poco. Un giorno sentii qualcosa che mi urtava, che mi legava, che mi avviticchiava giù sottoterra. Erano radici, rudi radici di querele, radici pungenti e velenose di cespugli, radici insinuanti di erbacce, soprattutto radici avide e feroci di tronchi malati o morenti, che si stendevano verso me, per contendermi i miei succhi, la mia vita. Tentai di sfuggirle: invano. Mi strinsero si da presso che il placido ritmo della mia nuova vita fu turbato. Poi l’edera, un’edera che vivacchiava sopra un muro non lontano, si attaccò al mio tronco, mi addentò con mille avide boccucce e s’inturgidì a mie spese, mentre le mie più alte foglie cominciavano a ingiallire... Ma un altro nemico ! Un esercito di formiche mi dette la scalata e penetrarono dentro tutte le mie screpolature e mi dilaniarono con le loro implacabili pinzette, al punto che nel mio tronco addolorato si apri un solco, un antro che fu presto invaso da bestie maggiori e più luride. Io pur rimpiangendo i giorni di prima sopportava e sperava, quando una mattina eccomi svegliato da un tremendo scossone... Che è? Dinanzi a me stava un uomo che cantava e vibrava giù al mio tronco tremendi colpi di scure. Ah, allora sentii il sangue, il vecchio sangue d’uomo, rifluirmi con impeto nelle vene, e i miei piedi
(x) Olindo Malagodi, /Z focolari c la tirada (• Una metamorfosi ■), Roux e V: arengo, Roma, 1904.
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si ritrassero dalla terra e le braccia si svincolarono e balzai su in atteggiamento di guerra, non più albero — uomo!
Chi ha orecchie da udire oda. Impari chi può imparare che è meglio contentarsi di quello che si è che cercare, nei folli cambiamenti di stato, una felicità che non è in nessuno stato.
4. Finalmente s’impara il contentamento imparando che la sua dipendenza dallo stato esteriore è tenuissima; eh’esso è una cosa dell’anima; che quando non c’è. le circostanze esteriori non possono crearlo e quando c’è le circostanze esteriori non possono distruggerlo.
Perchè mai vediamo persone che hanno denaro, famiglia, amici, onori, piaceri, salute e tuttavia sono scontente al punto di tirarsi, qualche volta, un colpo di rivoltella nelle tempia ì E perchè vediamo altre persone frustate in tutte le maniere dal destino, bersagliate non solo dalla società ma dalla natura, mal concepite, ma) piantate, mal costrutte, povere, mutilate e che tuttavia sono cosi contente da avere contentezza per se stesse e da raggiarla attorno sugli scontenti? Perchè uno dei più gloriosi inni che fu mai sciolto alla vita, il libro che meglio (Fogni altro del secolo passato esortò gli uomini a vivere contenti della vita, fu scritto da Elena Keller, una donna muta, sorda e cieca?... Ah perchè la contentezza è una cosa dell’anima, che ha, naturalmente, rapporti con lo stato esteriore ma non rapporti di dipendenza; una cosa interiore, ripeto, che se non c’è, lo stato esteriore non può crearla e se c’è non può distruggerla. A suo riguardo noi facciamo — dice Plutarco — lo stesso errore che fa il popolino quando parla del calore come se fosse nei panni, come se ci fosse dato dai panni che indossiamo. Il calore invece è in noi : i panni non ci scaldano che in quanto impediscono al calore nostro proprio di irraggiare attorno e di perdersi. Così il contentamento non ce lo dànno gli stati e le condizioni in cui viviamo ma è in noi stessi : stati e condizioni aiutano tutt’al più a preservarlo e a conservarlo, ma non possono produrlo. Chi lo produce è l’anima e se la vostra anima non l’ha finora prodotto egli è segno che ci vuole una riforma non del vostro stato o della vostra condizione, ma dell’anima.
» * *
Ed eccoci al segreto che apprese a Paolo ad essere contento. Rileggiamo la sua dichiarazione : « Io ho imparato ad essere contento dello stato nel quale mi trovo. Io so essere abbassato, so altresì abbondare; in tutto e
per tutto sono ammaestrato ad essere saziato e ad aver fame, ad abbondare e ad aver mancamento. Io posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica». Comincia dicendo: «ho imparato» (e noi abbiam visto da quali considerazioni potè avere imparato) ma finisce dicendo « Cristo »... «lo posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica». Le varie considerazioni che ha fatte sul mondo e sulla vita gli lian dimostrato che dovrebbe esser contento ; ma il potere, la forza di essere contento glie l’ha data, gliela somministra continuamente Cristo : « io posso in Cristo ».
Ed è così per noi. Le quattro verità che vi ho detto che dovete imparare per essere contenti, le avete già imparate da lungo tempo. Tutti possiamo ricordarci di uno stock di favole esopiane, di parabole, di allegorie, di proverbi che ci furono insegnati fin dai primi anni perchè imparassimo quelle quattro verità; e di certo le imparammo. Ma non basta imparare astrattamente, ci vuole la forza, il potere, di mettere in atto, di essere, e questo vien da Cristo: « Io posso in Cristo», io non posso che in Cristo. — Ogni grande idea che entra nell’anima e diventa passione rende un po’ gli uomini contenti del proprio stato; perciò si son visti grandi artisti, letterati, filosofi e scienziati, infiammati dalla passione del pensiero e dell’arte, vivere nella miseria pur essendo sereni e contenti. Ma Cristo ci fa contenti non solo perchè accende in noi una passione, ma perchè questa passione che accende è proprio quella di dominare, per la sufficienza intima dell’anima, le circostanze esteriori e di diventare, per usare la parola di Paolo nei testo, «autarchi». Perchè, una traduzione più precisa delia dichiarazione di Paolo sonerebbe cosi : « Io ho imparato ad essere, nello stato nel quale mi trovo, <tzr-larca » ossia monarca - come dire ? - monarca di me stesso. Gesù fu tra gli uomini il più grande autarca: quando negli uomini egli entra, li fa capaci di levarsi su ciò che li circonda e diventare come lui autarchi.
Vi fortifichi dunque Cristo, e sarete come Paolo contenti di essere passsati attraverso le privazioni come attraverso le abbondanze. Si può forse conoscere a pieno la vita se non si son fatte queste esperienze, se non si è contemplata la privazione dal punto di vista della abbondanza e l’abbondanza dal punto di vista della privazione?
Vi fortifichi Cristo, e quel poco che oggi vi par così poco vi parrà molto, molto di più. « Ho poco, diceva S. Francesco di Sales, e quel poco lo desidero poco ». Ma voi potrete dire e pensare anche meglio : trovare in quel
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poco il molto. Nel poco denaro troverete maggiori possibilità di ben usarlo ; nei pochi amici maggiori afletti e bellezze morali da tesoreggiare; nei pochi libri maggiori latitudini di sapienza da esplorare ; nei vostri stessi pochi talenti maggiori opportunità di metterli a frutto.
Vi fortifichi Cristo, e v’accorgerete che è più facile migliorare il proprio stato essendo in esso contenti che coltivando lo scontento e il rancore. Dissi principiando che lo scon
tento è stato causa di progresso; ma forse è questo un luogo comune, molto, molto comune... Più investigo le origini delle grandi scoperte e delle grandi conquiste e più vi trovo anime serene e contente invece che anime di piagnoni, come vorrebbe la teoria. Siate dunque contenti e voi sarete veramente forti, e non della forza che si contenta di resistere ma di quella che conquista.
Alfredo Tagli alatela
L’AZIONE BUONA DI GESÙ
Il suo insegnamento.
Il suo insegnamento è dato nella forma più umile. Gesù paria a tutti il linguaggio di tutti. Preferisce rivolgersi ai cuori stanchi, affaticati, e fa in modo che ciascuno possa comprendere la sua parola e riceverla.
Niente di astratto o di sistematico ne’ suoi discorsi. Egli non si vale di dimostrazioni, di ragionamenti, di discussioni, ma procede per affermazioni, e le sue affermazioni s’impongono ad ogni uomo che abbia il cuore diritto.
« Egli parlava, non come gli scribi », dice il testo sacro. Questi si compiacevano nelle loro sottigliezze, nelle loro argomentazioni. Gesù parla con autorità. Quel che dice, fa ; e quel che fa è l’espressione di ciò Ch'Egli è.
Egli prende ad imprestito la materia dei suoi insegnamenti dai fatti della vita quotidiana. Le cose più insignificanti attraggono la sua attenzione, e se ne serve per illustrare il proprio pensiero. Volentieri fa appello a quei sensi del giusto e del vero che Dio non ha rifiutato ad alcuno.
La natura gli apparisce come unlibrod’ima-gini destinate a rivelargli i pensieri e le intenzioni di Dio.
Non dimenticando mai la stretta relazione che unisce Dio all’uomo, fatto alla sua somiglianza, chiede a questo di spiegargli quello. « Se voi che siete malvagi sapete dare buone cose ai vostri figliuoli, quanto più il vostro Padre celeste darà il suo Santo Spirito a quelli che glielo chieggono».
Egli ama la verità con grande coraggio e non accetta d’essere vittima di alcuna apparenza. Guarda là realtà dritto in faccia, e quale la vede, tale la proclama.
Operando in piena luce, fa luce in ogni circostanza.
Là sua azione.
Egli guarisce.
Quello che fa, lo fa cosi naturalmente da produrre l’impressione che chiunque avrebbe potuto fare altrettanto.
Agisce con la paróla: Levati, dice al paralitico, prendi il tuo lettino e cammina ! Altre volte basta un gesto. Tocca gli occhi del cieco, e questi ricovera la vista.
In certe circostanze è col solo sguardo che opera.
La distanza non ostacola l’influsso ch’egli esercita. Con uno sforzo di volontà, agisce da lontano. Ma tutto questo non è che la parte esterna del suo lavoro. Per trovarne la chiave, bisogna leggere nel suo cuore. Una divina pietà lo riempie ; il testo, al momento di farcelo vedere all’opera, grida: < Allora egli fu mosso a compassione».
Tra i suoi miracoli non ve n’è uno che non proceda da un moto del cuore .. . Osservatelo fremere e piangere alla tomba di Lazaro!
Egli ama, e quindi si dà, ed è cosi che la sua azione diviene efficace.
Ogni guarigione ch’egli compie avviene per una trasmissione di vita.
Per quanto varia la sua opera, stupisce per la sua unità. In ogni occasione e malgrado tutti gl’imprevisti di cui è fatta la sua esistenza, non vuole se non una cosa. « Il mio cibo, dice, è ch’io faccia la volontà del Padre». Il suo motto è : ubbidire ad ogni costo.
« Egli è stato, dice l’Apostolo, ubbidiente sino alla morte della croce ». (Fil. II, 8). E l’epistola agli Ebrei getta un fascio di luce sul grande mistero, quando esclama: « Egli ha 3resa l’ubbidienza mediante quello che ha irto ». (Ebrei, V. 8).
Ed in questo appunto sta la sua forza: egli
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vuole ciò che Dio vuole. Volere ciò che Dio vuole, è volere con una volontà intatta. Nulla infatti indebolisce quanto la trasgressione. Non è possibile comprenderle le sue opere, se non si tien conto di quella volontà santa, ai cui ognuna di esse è una manifestazione.
Ma che cosa vuole Egli ? La sua preghiera solita ce lo dice. L’orazione domenicale è un programma: il programma Ch’Egli assegna alla propria attività ed a quella dei suoi.
Egli vuole che il nome del Padre acquisti una efficacia santa. Vuole che venga il Regno della Gloria. — Vuole che la volontà del Padre trionfi quaggiù ; e questa volontà non è altro che il bene di ciascuno dei membri della famiglia umana. — Vuole che il diritto di tutte le creature alla vita sia stabilito, e che nessuno sia privo del pane sufficiente. — Vuole che venga il giorno del gran perdono in cui non vi saranno che dei perdonati che perdonano. — Vuole finalmente e soprattutto la liberazione dell’umanità e con essa l’abolizione dell’odio e della miseria.
La preghiera occupa molto posto nella vita di Gesù ; essa precede, prepara ed accompagna ognuno dei suoi atti. Tutto preso da un desiderio ardente, non si stanca di chiedere Dio stesso a Dio.
« Mentre pregava, ci dice l’evangelista Luca, il cielo si aperse, e lo Spirito discese su Lui » (Luca II, 21). Gesù ha a poco a poco compreso che l’esistenza non vale se non in quanto diviene un servire Dio negli uomini. Ha compreso inoltre che, per servire efficacemente gli uomini bisogna salvarli e che per salvarli, bisogna accettare di soffrire per essi. Risoluto a non separare il proprio destino da quello del più miserabile de’suoi fratelli, ha detto al Padre : « Morrò s’è necessario, per essere il lóro Salvatore », ed il Padre gli ha risposto chiamandolo suo Figlio e conferendogli l’unzione reale ; il Battesimo dall’Alto gli ha rivelato il piano di Dio e gli ha comunicato la forza di eseguirlo.
L’uomo di preghiera è divenuto l’Eroe dell’azione buona. Dopo Ch’Egli è uscito dallo acque del Giordano, agisce e parla come colui che ha ricevuto la pienezza dello Spirito.
Oramai sarà l’Uomo-Spirito.
11 sacrifizio della sua vita.
Gesù, perchè era l’Eroe dell’Azione buona doveva compiere il sacrifizio della sua vita.
Vivendo come viveva, e facendo ciò che faceva, Gesù si condannava a morire come è morto. In molte delle esistenze la morte giunge come un accidente. Non cosi nella carriera di
Gesù. Qui la morte apparisce come l’atto supremo della vita, come la conseguenza della attività anteriore e la condizione del trionfo finale.
Sarebbe certamente un errore attribuire a quell'evento un carattere fatale. Se Gesù è morto, gli è perchè lo ha voluto. Il sacrifizio lungamente previsto è stato sino alla fine libero e volontario. Ma dopo aver intrapresa l’opera sua, Gesù doveva condurla a compimento ; doveva giungere sino alla fine e la fine era la croce.
La settimana- di Passione può esser considerata come il frutto maturo di tutte le fatiche precedenti. Nell’ora della fine vengono in luce i pensieri che avevano ispirato i passi del Maestro e le ambizioni che fermentavano nella sua anima.
Basta osservare attentamente le diverse peripezie del dramma, per comprendere la necessità della sua morte.
Sulla piazza pubblica di Gerusalemme, Egli apparisce come il successore, l’erede dei profeti. Tale è stato del resto nel corso di tutta la sua attività. Ma sentendo ora vicina la sua fine. Egli si affretta a pronunziare ancora parole di verità e di giustizia. Dinanzi ad un popolo stupefatto della sua audacia, non esita ad istruire per l’ultima volta il processo agli scribi della sacristía, che avevano fatto della religione un giogo insopportabile ed uno strumento di dominio di cui si valevano per le loro ambizioni.
Giammài s’era udita una simile requisitoria. Gesù smaschera la durezza dei cuori, flagella l’ipocrisia, denunzia la loro avarizia. Gome un eco della colleva divina, risuona la sentenza di condanna : « Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti...» (Matt., XXIII).
Non poteva tacere ! Venuto per salvare la gloria del Dio' vivente, doveva ben mettere da parte ogni compromesso, per impedire agli uomini di rendere il Padre solidale con tutte le iniquità che si commettevano nel suo nome.
Ma parlando cosi, egli firmava la sua condanna di morte. Non poteva denunziare la menzogna e l’iniquità, senza sollevare contro di sè la coalizione di tutti gli odi e di tutti gli appetiti. E lo ha fatto e ne è morto.
Il tono del Maestro cambia singolarmente nella Sala della Cena. Sulla piazza pubblica era il leone di Giuda che aveva ruggito. Nell’intimità di quella stanza è l’amico che parla a mezza voce ai suoi amici. I discorsi di Gesù, ai suoi discepoli sono come gli addii di un padre ai suoi figliuoli. Egli v’introduce due lezioni oggettive che riassumono tutte le sue raccomandazioni e proclamano tutte le sue
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speranze : il lavamano dei piedi e la rottura del pane.
Egli che sa, secondo la profonda parola dell’Evangelista, d’onde viene e dove va (Giov. XIII, 3), non esita a rivestire l’abbigliamento del servo e si mette a lavare i piedi ai suoi discepoli. Egli così traccia eloquentemente con un sol gesto l’abbassamento al quale pel suo amore egli ha acconsentito e la sua risoluzione a perseverare in esso a qualunque costo. La sua vita era stata un lungo servizio. La madre che ama i suoi figli si fa loro serva. Ella si dà loro ogni momento e non esita, se occorra, a morire. Gesù dopo, essere stato un servitore fedele in ogni cosa, accetta di esserlo sino alla morte.
L’ultima Cena ci permette di leggere ancor più in fondo nel cuore del Maestro.
Nessun uomo ha mai sognato un’impresa come quella ch'egli vuole iniziare. Spezzando il pane coi suoi discepoli, offrendo loro la coppa e dicendo loro : « Prendete, mangiate : questo è il mio corpo ; prendete, bevete : questo è il mio sangue», indica il desiderio da cui è tutto preso. Il suo voto è d’entrare nell’anima dei suoi e di divenirvi un principio di vita nuova. Li aveva ammaestrati, guariti,
consolati ; ma oramai questo non gli basta. Non può rassegnarsi a rimaner fuori della loro esistenza; non intende soltanto sottomettere al suo influsso quelli Ch’Egli ama ; vuole prenderne possesso; unirà sì strettamente il proprio pensiero al loro, fonderà cosi bene la propria volontà con la loro che la propria persona e la loro finiranno per compenetrarsi reciprocamente. L’amore è il grande profeta che solleva il velo dei misteri. La follia d’amore che riempiva il cuore di Gesù gli aveva rivelato la parola dell’enigma universale. Aveva compreso che il fine dell’uomo non èia vita per gli altri, nè la vita cogli altri, ma la vita negli altri: l'unità attuata nella carità. Sapeva oramai che non avrebbe effettuata la propria vocazione eterna se non allorquando sarebbe riuscito a rivivere nel cuore dei suoi. Ma per rivivere cosi in essi doveva cominciare col morire per essi. « Se il chicco di grano non cade in terra e non muore — diceva — non può portare frutto».
Ecco perchè, avendo guardato in faccia alla morte, aveva risoluto di farne la serva della vita. T. Fallot.
(Da : ór livre de ¡’Action Benne}.
PAGINE SCELTE:
TERRA
Dai pascoli di Betleem adonisiaci, m’internai peregrino in primavera per l’alto montuoso deserto di Giuda, sparso di radi arbusti. Dalle cime dove fu Tecoa m’inoltrai fino a' margini, sotto di cui sprofonda il mare Morto, e scesi cautamente fino a metà del baratro, per i dirupi orridi, alla fonte di Engaddi. Era di sera, e i raggi d'occidente rimbalzavano in vividi colori per la vasta conca ferrigna. Pochi alberi irti di triboli, coi loro vuoti ed aridi « pomi di Sodoma », interrompevano a pena la desolata monotonia del paese. Dalle fumide esalazioni del mare fremente liberavami un tenue vento. Ululanti sciacalli percorrevano, come insaziati demoni, il silenzio della notte oscurissima. E al mattino discesi giù nel fondo, sino alle rive
SANTA
sparse d’asfalto e di sale, e gustai sulla punta dell’indice l’amaro interminabile dei gravi flutti. Per i campi di Sodoma raggiunsi i valli quasi intatti di legioni romane; e inerpicatomi su per l’erta parete mi arrampicai fino alla cima, ed aggrappato all’aggere romano, scavalcai finalmente i propugnacoli della fortezza di Masada(i), rifugio inespugnabile di tutte le rivolte giudee. Sulle meste ruine, che videro tante disperazioni, folgorava il sole implacabile dal cielo bianco e privo costantemente di nubi ; e risonava cupo
(1) Dopo la distruzione di Gerusalemme, i romani impiegarono tre anni ad impadronirsi di Masada. la quale non aveva altro ingresso che una ripidissima scala scavata nella pietra c denominata «il serpente». I romani riuscirono ad espugnarla gettando un gigantesco terrapieno. fra le rupi della fortezza e il campo d’assedio : all'ultimo momento gli assediati si uccisero tutti fra loro c neppur mio cadde vivo in mano ai romani.
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il sotterraneo al silenzioso muovere dei passi. Dovunque dal fastigio di quella rupe immensa l’occhio vagante per la solitudine dominava su regni della morte, fino alle opposte rive di Machero ; e la landa vastissima, coperta da un crudele biancore, pareva non dovesse risorgere più mai, eternamente uccisa dalle folgori del sole inimico. Quale orribile maledizione pesava dunque nei secoli sopra i destini umani ? Perchè là vita è un lutto, e la speranza un desiderio vano?
E con l'animo pieno di lacrime lasciai quel tristo mondo, e risalii per la campagna nuda, ove fu Gerico, le rive del Giordano. E poco a poco vidi la profonda vallata, aspra di triboli, cambiarsi in lussuriosa fecondità di messi, vie più che m’inoltravo incontro ai verdi monti di Galilea. Piani e colline floride ardevano liete del sole, maturante la messe, e per i prati sparsi del sangue degli anemoni il candore estremo dei fiori deperiva esausto in un dì, per la troppa letizia di vivere. Ho io dimenticato forse
il giorno, che dall’alveo nero di basalto del fiume sacro ascesi per la ripida costa sull’altipiano gaulanita? Dalle splendide altezze solitarie, sparse di gigli, d’ un tratto vidi cupido la molle conca del lago profonda aprirsi fino a’ monti oppòsti, al cui piè sorge ancora Tiberiade ; ed irradiava il sole una fervida luce, ovunque per i verdi piani e i colli e le montagne erette a specchio della limpida distesa dell'acque. La gloria dei cieli mi parve incombere sopra la terra, ed elevarsi i monti a sostenere la volta incomparabile di un tempio paradisiaco. Dalle eteree dimore scendevano sulla terra i divini, mentre, l'anima compenetrata d’immortalità, giù per le balze verdi andavo incontro alla beata riva. Grave e fragrante intorno l’atmosfera assopiva in dolci languori lo spirito meditabondo, cullato dal soave avvicendarsi delle onde.
Egli fu qui...
Salvatore Mìnocchi
(// Panteon, pag. 339*4’)
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" GIURO SUL MIO ONORE "
Un recente comunicato da Roma alla Gaz-setta di Venezia diceva cosi : « Nella regia scuola militare di scherma e di educazione fisica alla caserma Goffredo Mameli, i 150 giovani inscritti alla sezione di Roma del corpo dei giovani esploratori d’Italia hanno pronunziato questo giuramento : Giuro sul mio onore di amare la patria e servirla fedelmente in ogni circostanza ; di rispettare le sue leggi e aiutare i miei simili senza dis line ione in ogni pericolo o necessità e di obbedire al decalogo degli esploratori.
Ecco: questi 150 giovani che giurano sul loro onore tante belle cose danno proprio sul serio affidamento di sè a chi li guida, armati di tanto di cinturone ai fianchi, di bastone in mano e di sciarpa al collo, al loro avvenire? Io mi permetto di dubitarne: ne ho viste troppe, e ormai il dubbio su certi affari mi serve per il restante del mio viaggio di cinturone, di bastone e di sciarpa. Anch’io sono equipaggiato come un esploratore ; salvo che io — sempre, dico, in certi affari — non ho più nulla da esplorare. Mi manca assolutamente, o giù di li, l’entusiasmo di fede che pare animi il professor Colombo, commissario generale dei giovani esploratori. — Peccato!
E non ho nemmeno la perspicacia e la prontezza oratoria dell’on. Rettolo, il quale spiegò ai giovani l’alto significalo del. giuramento : io mi sarei trovato molto a disagio nei suoi panni, lo confesso candidamente.
Sul proprio onore!
Tempo fa si discusse in Parlamento se, dato l’invadente scetticismo religioso, ai deputati dovesse ancora imporsi il giuramento. La discussione se ne uscì, come avviene spesso, pel rotto delia cuffia. E già, non so quanto avesse ragione di intavolarsi. I deputati dicono: giuro, e son consacrati autentici rap
presentanti della volontà del paese e vindici delle istituzioni nazionali. Giuro. In nome di Dio, del diavolo, dei nulla, del tutto, o « sui mio onore » ? Non si sa, non si deve sapere, nè indagare ; giuro e basta. Ma i deputati sono grandi e onorevoli. Le riduzioni e le semplificazioni geniali del vecchio giuramento, le lasci ad essi cosi grandi e onorevoli, professor Colombo.
Questo per riguardar la cosa da un verso solo; perchè poi noi cristiani — e suppongo che la maggioranza dei giovani esploratori sia di cristiani — abbiamo avuto la proibizione assoluta di giurare. Non giurate nè per il cielo, nè per la terra, nè per qualunque altra cosa, compreso evidentemente anche l’onore: così ci disse Gesù. Sicché, volendo esser cristiani, alla ingiunzione di chicchessia: giurate, dovremmo semplicemente rispondere : ci rincresce, ma non possiamo. Tuttavia, siccome s’è seguitato sempre a giurare, con tutta disinvoltura, così giurando pare che almeno almeno debba farsi in nome di Dio.
Che i giovani esploratori italiani non possano in forza delle loro profonde e ben ponderate convinzioni e del loro libero pensiero e della loro libera coscienza?
Oh, via, non facciamo la commedia!
E’ vero che il mondo va di fuori in fatto di convinzioni profonde e di uomini profondamente convinti, e di pensiero e- di coscienza; ma i giovani esploratori! conveniamone, l’affare è un po’ prematuro; appartengano essi a famiglie cristiane o no, massime trattandosi solo solo del nome di Dio.
O che il prof. Colombo ci creda poco lui a Dio? Ma, nella ipotesi, non sarebbe nè E ¡usto, nè bello che egli riverberasse sui suoi attaglioni adolescenti il suo scetticismo religioso.
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Ed egli avrà invece, per compenso, una illimitata fiducia nell’onore dei suoi ragazzi : ma è inutile; se il giuramento dev’essere e rappresentare un vincolo superiore ad ogni altro e massime a quelli che giurano, un vincolo che incuta un rispetto senza limiti, una riverenza che non ammetta eccezione, ha da interporre fra chi giura, e quelli per la cui sicurtà si giura un testimonio e un garante supremo: perciò il giuramento si fa in nome di Dio. L’onore di chi giura non è diverso dalla persona stessa che giura, nè persuade altissima riverenza. Se non è diverso dalla persona che giura, giurerà essa per sè medesima ? Che senso serio ha allora il giuramento? E quanto all’attendibilità dell’onore, chi richiede il giuramento può sempre dubitarne ; se ne dubita spesso assai più ancora colui stesso che giura! In questo dubbio si trovano imbarazzate le persone grandi e onorevoli senza paragone più spesso dei giovani, siamo d’accordo; ad ogni modo...
E poi, giurare sul proprio onore, perchè? Si sa che se una persona ha dell’onore, farà in forza d’esso il proprio dovere, quello, mettiamo, di servire la patria : è un impegno originano, radicale. E allora il giuramento sul proprio onore è un pleonasmo, un forinola inutile, una tautologia, un gioco di parole, un si perchè si.
Insomma, se proprio il prof. Colombo s’era messo in testa il giuramento del suo esercito giovinetto, sarebbe stato proprio il caso che avesse esplorato un’altra forinola, o in mancanza di più fortunate esplorazioni, avesse indulto all’antico uso, che pure ha servito a qualche cosa in passato.
Fin qui l’episodio.
Ma quel che più importa è tutto un ordine di considerazioni a cui esso dà luogo.
Ho accennato all’inconsistenza d’un giuramento come quello richiesto ai ragazzi esploratori ; ma vorrei sapere se proprio non fosse mille volte più educativo il metodo radicale cristiano.
Ne abbiamo smarrito il senso noi, pur troppo, ma ciò non vuoi dire che in sè stesso non abbia conservato tutto il suo inestimabile valore. Trovatemi, o buona gente esploratrice, una disciplina più divinamente educatrice di anime di questa: sia il vostro parlare : si si, no no. E lasciate star l’onore e anche Dio: non giurate.
Chi segua tale insegnamento si trova portato ad essere o a divenire una coscienza: o meglio, accettarlo suppone già una conquistata e posseduta coscienza.
Si accusa il Vangelo : E’ il libro dei pusillanimi.
Stolti, è il libro della forza e della dignità; o della semplicità, se volete, ma in quanto la semplicità è gagliardia. Della semplicità si, come è semplice il nudo.
Si sì, no no; cosi parlano gli uomini? sì, e perciò i cristiani.
La mondanità è delle mezze formole, perchè è delle mezze anime: il Vangelo è delle formole recise, perchè esige anime e coscienze d’acciaio.
Avvezzare i ragazzi a sentir gli obblighi della coscienza rigida e inflessibile, senza tanti giuro, questa è educazione.
Giuro sul mio onore pare una gran forinola ed è un lenocinlo, pare un eroismo ed è un carnevale.
E al di là dei ragazzi ci siamo noi.
Eccoci qua tutti. Colombi o no, professori o lustrascarpe, dopo venti secoli dacché il Vangelo ha fatto questo piccolo gesto di gettar l’uomo dinanzi alla sua coscienza, la tacita formidabile Cenerentola della umanità, eccoci qua più o meno tutti incapaci di far nulla di serio senza spampanate e senza fanfare, sempre con la stessa istrionia nelle ossa.
Quando ci penso mi sento coprir di rossore e comprendere di disperazione.
Non ci sarà rimedio?
Si tentano vie nuove, si sperimentano espedienti inuditi e inveduti. Sopra tutto oggi si pensa all’individuo a traverso la società. Passa l’ora del nazionalismo, del collettivismo, del socialismo, in genere dell’associazionismo, dell’irreggimentazione persino dei ragazzi. In quest’ora che pare di autonomia ed è di automatismo, in cui tutti si stimano forti perchè si appoggiano agli altri e credono muoversi e fare e irrompere perchè abuiici seguono un cenno comune, occorre una cosa sola, che si torni a pensare, come fece Gesù, alla società a traverso gli individui; è necessario che ognun di noi cominci a pensare a sè stesso, prima di pensare agli altri. Non si riversa se non la fonte colma. Occorre che ognuno ritrovi sè ne! silenzio, nelle lucide rivelazioni del silenzio.
Fra i tentativi e gli espedienti, c’è da invocare una unica cosa, che si moltiplichino le coscienze isolate, umili e invitte nella loro formidabile solitudine, attingenti dalla voce di Dio, che in loro detta le leggi eterne, la dignità che è verità, il dovere che è gagliardia, l’ordine che è libertà.
Solo quando riavremo queste solitarie energie, tutte nell’azione — cosi diversa dall’agitazione! — nulle nelle chiacchiere, riavremo anche una società d’uomini: altro che giuro sul mio onore! p. Ghignosi.
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NOTE E COMMENTI
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NATHAN SÓDERBLOM ARCIVESCOVO DI UPSALA
Poiché la Civiltà Cattolica ha piacevolmente negato resistenza reale del prof. Nathan Sóderblom, dell’università di Upsala (Svezia), valente cultore di storia delle religioni, siamo lieti di aggiungere alle notizie biografiche date nell’ultimo numero della Bilychnis (1), l’altra che recentemente il Sóderblom è stato nominato arcivescovo di Upsala, l’unica sede arcivescovile luterana nei paesi scandinavi. Questo titolo conferisce giurisdizione su tutta la Chiesa di Stato in Svezia.
L’arcivescovo di Upsala è anche procancelliere dell’ Università di Upsala. Il Sóderblom, oltre ad essere un serio studioso, è un brillante oratore e scrittore ed un ardente patriota. Egli è divenuto uno dei rappresentanti più in vista del movimento nazionalista svedese, dopo di esserne stato uno degli iniziatori, mo-’ vimento che ha avuto il suo' focolare nell’università di Upsala.
Fu discepolo a Parigi del valente iranista Giacomo Darmesteter. Il suo capolavoro, La vie future d'après le maz-dèisme, mostra la sua competenza nel campo degli studi iranici. A lui fu affidato l’ammodernamento del classico manuale del Tiele sulla storia delle religioni. Nel 1910 pubblicò, frutto del contatto avuto con i modernisti, due volumi sul Problema religioso nel catto-lirismo e nel protestantesimo, dove mostra una vasta conoscenza e una larga simpatìa verso il modernismo.
(i) A. Vaccari, « La Civiltà Cattolica denunzia...!», in Bilychnis, maggio 1914, pagina 349.
CONFERENZE
Alcuni aspetti della coscienza religiosa contemporanea.
{Conferenza del prof Guido Ferrando freisa la ■ BUlio-teca Filosofica dì Firenze)
William James nella sua classica opera su « Le varietà della coscienza religiosa » ammette la realtà di Dio da un punto di vista pragmatico: in quanto cioè Esso, che si rivela all’anima religiosa come un «più», una forza trascendente la nostra persona, produce degli effetti reali nel mondo e modifica la nostra natura interiore. Ma se la realtà divina può essere affermata perchè la sentiamo operare in noi, non può essere dimostrata razionalmente: e il James da buon psicologo, non si accinge neppure all’impresa e si limita ad avanzare un’ipotesi, quella del subcosciente, per illuminare il mistero della vita, religiosa, le cui caratteristiche fondamentali ' sono appunto la certezza d’una realtà suprema che la trascende e il senso di intima unione con essa. Ora se Dio è reale, e quindi esiste, è proprio vero che noi non si possa dimostrare l’esistenza da un punto di vista filosofico o razionale? La domanda può sembrare oziosa dopo la critica kantiana che ha fatto giustizia di tutti gli argomenti, di tutte le «prove» a cui era ricorsa la filosofia pre-critica per dimostrare l’esistenza dell’Essere supremo : eppure oggi conviene riproporci il problema, approfondendolo, per vedere se davvero la critica di Kant lo ha proprio troncato nella sua radice mostrandone l’intima contraddizione o meglio l’assoluta irrazionalità.
Kant, che basa la sua critica sulla sua epistemologia, cioè sulla tesi dell’illusorietà del nostro conoscere, riesce facilmente a dimostrare come l’uomo che non può mai afferrare la realtà, la cosa in sè, non può nemmeno a maggior ragione, conoscere la Realtà suprema e infinita; e d’altra parte l’argomento ontologico, a cui in ultima analisi possono ridursi le altre due prove dell’esistenza di Dio, non prova nulla, perchè la semplice nostra determinazione a pensare una cosa, non implica che la cosa esista. Per questo rispetto la critica di Kant è giustissima e demolisce l’argomento ontològico, specie nella forma infelice datagli da Sant’Anseimo ; ma l’argomento ontologico, nella sua forma migliore e nel suo significato più profondo, adombra alcune esigenze del nostro spirito che Kant non sa confutare e che influiscono molto sulla sua filosofia pratica. La nostra conoscenza non è mai un’astrazione, ma un atto concreto e
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reale: non conosciamo la cosa in sé, ma la conosciamo nella nostra conoscenza di essa, senza bisogno di mediazione. Inoltre la nostra percezione delle cose si accompagna con un senso della loro insufficienza, senso che non ci può essere dato dalle cose stesse, che ci appaiono come infinite varietà di tale contingenza la quale ha valore in quanto noi contrastiamo il fluire di tutti gli oggetti con un senso di simultaneità e permanenza superiore a ogni relatività. Queste due profonde esigenze del nostro spirito, che il conoscere sia reale e implichi una realtà oggettiva permanente, hanno influito su Kant, che sentì il bisogno di riaffermare come necessarie dal punto di vista etico, quelle supreme convinzioni dell’anima che dal punto di vista intellettuale poteva ammettere solo come ipotesi. Ma la vita religiosa non può contentarsi di ipotesi : essa è essenzialmente adorazione e involve la certezza assoluta dell’Essere adorato; onde Kant non è riuscito a intendere la natura vera del sentimento religioso che veniva negato dalla sua concezione della relatività del nostro conoscere. E il suo sforzo per riacquistare per la Ragion Pratica, quella certezza di realtà più che umana che la Ragione Pura era stata costretta ad abbandonare, ci rivela il tragico dissidio della sua filosofia e della sua anima, dissidio che permane ancora in tante coscienze moderne e in tante dottrine speculative nonostante il tentativo audace di Hegel di colmarlo con ta sua teoria dell’idealismo assoluto. Il sistema hegeliano infatti, che noi possiamo rappresentarci schematicamente come un passaggio da un’astrazione, attraverso alla più viva e profonda concretezza, ad un’altra astrazione, non può soddisfare alle esigenze di un’anima religiosa, come, crediamo noi, non corrispose alle più intime convinzioni e alla divina irrequietezza di Hegel. E che sia così ce lo dimostrano gli inutili tentativi compiuti da alcuni grandi pensatori hegeliani, quali il Green e i fratelli Caird, per porre il fondamento della religione nella pura ragione umana, per razionalizzare, in una parola, il sentimento religioso.
E nemmeno la scienza che, col l’affermarsi della dottrina evoluzionistica, pareva dovesse distruggere per sempre la concezione teistica, è riuscita a scalzare le basi della religione; anzi essa ha dovuto sempre più convincersi che l’evoluzionismo meccanico non spiega affatto il processo di formazione del mondo. Ed oggi la concezione meccanica ha ceduto il posto ad una concezione spiritualistica e la scienza tutta, specie la psicologia e la biologia, coi notevoli contributi che arrecano alla teoria
dell’esistenza d’una Realtà trascendente e dell’immortalità dell’anima, si va orientando verso una formulazione religiosa del pensiero e della vita.
E’ naturale quindi che sia sorta ai nostri giorni una nuova filosofia essenzialmente religiosa, la quale cerchi di giustificare la credenza nel valore trascendente della fede e di conciliare la conoscenza della fede con quella a cui si perviene per altre vie. Questa nuova filosofia parte dall’affermazione del bisogno di una conoscenza teoretica del soprasensibile e si propone di dimostrare : o che alla base di ogni nostro conoscere, filosofico e scientifico, vi è un atto di fede, o che la volontà, l’azione del soggetto, è fattore indispensabile non solo del processo della conoscenza della realtà che si suppone già formata, ma anche del processo di formazione delia stessa realtà. Quest’ultima dottrina che trova il suo massimo rappresentante nel Blondel! è certo la più profonda e filosofica e merita di essere studiata. Ma comunque si giudichino queste nuove correnti filosofiche, esse certo hanno contribuito molto al risveglio d’nna più ampia coscienza religiosa in cui i problemi più complessi della vita vengono illuminati dalla luce della fede e da quella della ragione ; in cui la religione è intesa come un rapporto diretto tra Dio e l’anima individuale, e la fede non è basata sull’autorità e la tradizione, ma sui bisogni e sulle aspirazioni più intime dello spirito.
Le caratteristiche fondamentali di questa coscienza, quali ci vengono determinate da una bell’anima religiosa, il von Hugel, nel suo ultimo lavoro: «La vita eterna», sono riassunte nelle seguenti convinzioni attive e fattive: i® il senso profondo di permanenza di qualcosa che perdura fra il fluttuare incessante delle sensazioni e che pure non è eterno, ma si distingue dalla eternità divina; 2® il senso di differenza e di eguaglianza insieme, per cui ci sentiamo simili e nello stesso tempo dissimili dalla Perfezione; 30 il senso dell’ul-tramondano in contrasto al mondano, che ci rivela come la vita si inizi, ma non si compia del tutto su questa terra; 4® il senso della realtà che è duplice perchè la realtà umana non si confonde con la divina, e che ei insegna ad amare tutte le cose perchè tutte hanno il loro significato, anche le più umili ; 5® il senso dell’unità nella molteplicità e della molteplicità nell’unità che ci rivela come la vita è essenzialmente organismo e ogni soggetto ha valore solo in quanto è parte di un tutto e coordina e subordina la sua attività a quella degli altri.
Questa concezione profonda della vita reli-
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NOTE E COMMENTI
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giosa, che noi abbiamo appena accennato è ¡orse quella che più può appagare i bisogni del nostro intelletto e le esigeuze della nostra anima.
(Dal Bollettino filosofico di genn.-febbr. 1914)Il mistero dell’educazione.
{Confirtnta dtlfrof. Billia alla • Pro Cultura > di Milano)
Il prof. Billia esordisce accennando alla voga conquistata dalla Pedagogia dal Rousseau in avanti ; moltissimi pensatori e scienziati ne scrissero, domandandole il segreto per la formazione dell’uomo.
Ma con tanta pedagogia si educa davvero? Anzi, si dà una scienza dell’educazione? No, non vi può essere una scienza dell’educazione, perchè essa è azione, è fare, è arte.
Come non c’è una scienza della pittura, ma il pittore, nè una scienza della scultura, ma lo scultore, così non esiste la Pedagogia, ma l’arte dell’educazione, ma V educatore Questi vuol sapere che cosa fa, più che come si fa. E poiché si educa osservando i bambini e se stessi e proponendosi un fine, la pedagogia è un nome dato alle scienze dell’anima e del dovere: la psicologia e la morale. Infatti si attese forse l’avvento della pedagogia per educare?
No, l’educazione è un fatto di natura e tutti i padri e tutte le madri sono educatori per natura e per amore. Tale la convinzione sostenuta dal conferenziere forse per un senso di ribellione alia pedagogia ufficiale ed imperante.
Ma il pensatore, che viveva senza lasciarsi accecare dall’abbagliante teoria, s’accorse che non basta definire l’educazione — un’arte di natura — perchè la paternità e la maternità fisica generano solo un amore fisico, cioè un nuovo egoismo.
L’educazione è arte della natura perfezionata, conscia di se stessa e del proprio fine ; è l’arte di un uomo che si è svolto ed agisce per intima convinzione, non per comando altrui, è l’intimo bisogno di un’anima che si fa ministra presso un’altr’anima per indurla al bene, al dovere.
Niente giustifica quindi una legislazione scolastica, perchè assurdo è il costringere un educatore a seguire altre massime, anche buone, se non ne comprende la verità. Ed una cosa per essere verità deve essere non solo intesa, ma sentita, vissuta.
Dopo queste considerazioni il conferenziere può formulare la definizione seguente:
« L’educazione è l’azione costante di un es
sere intelligente e superiore, diretta con proposito e con affetto a promuovere lo sviluppo complessivo e il perfezionamento di un altro essere intelligente, il quale coopera e resiste ».
Coopera e resiste : queste due parole dicono che l’arte deve essere qui, più che mai, ministra della natura, che l’azione deve essere nelle due persone una sola, fondendo la maggior potenza dell’educatore sull’educando, con la maggior spontaneità di questo, azione unica, perchè unico lo scopo. E dicono pure un grande mistero: la conciliazione dell’autorità dell’uno con la spontaneità dell’altro.
La definizione presenta però un nuovo problema. Che cosa è il perfezionamento? In che consiste? Bisogna educare il pensiero per l’animale o l’animale per il pensiero? bisogna educare al prendere o al dare? alla vita presente o alla vita futura? — Si deve formare l’uomo : ma che è l’uomo?
Preoccupati da tali questioni, i pedagogisti suddivisero l’educazione secondo le diverse età dell’uomo o secondo le diverse attitudini ; e sono luoghi comuni le frasi : educazione intellettuale, morale... fisica.
Ma l’azione educativa non ha parti, è una come uno è l’uomo, l’io. L'io ha sì, diverse attitudini, ma non è nulla all’infuori di esse. E allora? vi è una facoltà sola per cui l’uomo è quello che è, e quando è buono, tutto l’uomo è buono : il carattere. Le altre facoltà : intelligenza, volontà, sentimento sono di lui, ma non sono lui, e la loro educazione può essere mezzo, mai fine. La vera educazione è quella del carattere, mentre l’istruzione e le abilità sequestrate dalla retta intenzione, non dirette costantemente al dovere possono anzi causaze un disordine.
Noi dobbiamo servire alia verità ed il carattere cattivo consiste nell’odio alla verità.
Formare il carattere è il proposito dell’educatore; ma il proposito non basta, nell'arte occorre anche l’eflètto e non può dirsi educatore se non colui che riesce ad educare. E’ educabile il carattere? L’io è incommutabile, incoercibile; che si può fare contro un no? Come vincere la resistenza del cattivo? Sarebbe dunque impossibile l’educare?
Tutto l’uditorio si commuove con l’oratore davanti a questo tremendo mistero : è la lotta quotidiana delle buone volontà contro le cattive che appare con nuovo vigore drammatico alla considerazione di ciascuno.
L’egregio professore, che con la sua arte sottile ha saputo ravvivare, agitare un sì grave problema, sente il dovere di aggiungere la parola confortatrice della sua fede.
Non è impossibile educare — egli dice —
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perchè è un dovere e ciò che si deve non può essere impossibile. L’educazione è arte ; ma l’arte è un farsi altro, come l’amore, è un far essere nella realtà, ciò che è nell’idea: l’educazione dunque non è solo elevazione, ma creazione. E’ vero, la materia di questa nobilissima fra le arti non essendo inerte, ma persona viva, può resistere e non-volere farsi altro... Ebbene faccia l’educatore prima buono se stesso: il proposito e l’effetto, che nell’educazione altrui potrebbero separarsi e divenire cose diverse, devono in lui essere una cosa sola. Poi l’educatore ami l’educando. L’amore
che saprà suscitare riconoscenza e devozione non s’arresterà qui. L’amore stesso è creatore e suo conato è un’invincibile aspirazione all’unità: perciò esso susciterà nell’animo del suo oggetto l’anelito ad essere una cosa sola con l’amato, a farsi altro, a divenire buono con lui, a servire con lui alla verità.
Cosi terminando il suo discorso, l’austero contemplatore del grande problema che è insieme profondò mistero, poteva ben affermare che : « Colui il quale è cruciato non crucia gli uomini, ma egli solo li consola e li salva »•
(Da f'aci Amiche, 15 Aprile 1914).
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IL TRAGICO SPIRITUALE EBRAICO
I.
L libro che André Spire (i) mi manda come a spirito fraterno fa riecheggiare in me le note della dolorosa orchestra ebraica, rinnovando quel tumulto di affetti, di aspirazioni e di ansie che ogni figlio del ghetto porta nell’anima dell’anima sua.
Lo Spire è giovane, possiede il talento francese del libro tagliato bene, nonché l’eloquenza talvolta un po’ esuberante e un po’ accesa, caratteristica dei figli della Legge.
Ha assimilato la coltura europea, vive ed accoglie con
letizia la civiltà occidentale; ma al disotto della sua coscienza intellettuale palpita il cuore ebraico : il ricordo dei riti sinagogali, il fascino delle solennità pasquali col loro simbolismo orientale, ricco di significazioni gli fanno scorta pur fra il tumulto della vita contemporanea. Ed è appunto questa coscienza ebraica che lo ha portato a studiare alcuni tipi più efficacemente e genialmente rappresentativi della sua stirpe.
Ha voluto frugare addentro nelle loro anime per ¡scoprire gli elementi palestinesi che penetrano nelle sostanze della loro arte, della loro filosofia, della loro scienza.
Un poeta romanziere lo Zangwill, un filosofo il Weininger, un filologo-apo-stolo-lirico il Darmesteter, porgono l’occasione per mettere in rilievo i caratteri più appariscenti dell'anima ebraica, con la sua fiamma inestinguibile e col suo fumo; perchè diciamolo subito, la limpida e pacata serenità stellare è negata agli ebrei, arsi dalla passione secolare. La quale peraltro non annulla — me ne dispiace pei soliti declamatori intorno alle antinomie irriducibili fra un arianesimo di parata e un semitismo di contraltare — l’influenza delle patrie rispettive ai tre grandi scjittori.
(i) Spire, Quelques juifs, L. 3.50, Paris, «Mercure de France», 1914-
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Lo Zangwill, inglese, si rivela per l’arte finissima con cui sa abbozzare e creare tipi, fratello minore dell’ insuperabile Dickens, capace di conciliare l’umorismo più schietto col sentimentalismo più sano, che corregge ed incuora, non col predicozzo pedante, ma col sorriso bonario di chi spiega e compatisce le contraddizioni degli uomini e non mette limiti alla perfettibilità e alle debolezze di figli d'Adamo.
Il Weininger viennese, subisce l'influenza della cultura filosofica tedesca e nel suo libro definitivo Sesso e Carattere condensa le materie di una specie di summa scolastica in cui non ci sono soltanto tesori e detriti di cultura, parecchia metafisica trascendentale ed empirismo inglese, ma si annida altresì la sua povera anima dilaniata da contraddizioni insanabili.
Il Darmesteler, francése, ha accolto nel suo gran cuore tutte le speranze della prima metà del secolo XIX e nelle sue pagine discoprì l'uomo che ha fatto essenza della sua fede, il contenuto di quel romanticismo filosofico, letterario (il cui rappresentante più possente e più torbido è Victor Hugo) di gran volo e di gran cuore, che precede ed accompagna il quarantottismo.
II.
Lo Zangwill è il consolatore degli ebrei orientali, anelanti di libertà e di luce e che il Governo della Russia esclude dal mondo civile.
I suoi romanzi, le sue canzoni, i suoi drammi, tradotti in Juddish, formano le delizie dei quartieri ebraici di Londra, di New York dove sboccano le orde straccione degli emigranti della Polonia e della Bessarabia.
Lo Zangwill non ha soltanto considerato l’aspetto triste del Ghetto, egli sa ridere e ne ritrae anche l’aspetto gaio e gioviale. L’umorismo ebraico non ha niente a che fare con la gioconda e rumorosa risata rablesiana. Il suo riso è stridente, amaro, isterico. In Marx c’è del mefistofelico. Ricordate il riso bello ed atroce di Enrico Heine.
La boutade assume immediatamente il tono acre del sarcasmo. Le persecuzioni secolari hanno troppo infoscata l’anima ebraica e la gaiezza inarca a malincuore le tumide labbra.
Lo sfondo è triste, e ricorda un raggio di sole pallido e riluttante che si insinua per pochi momenti fra la nuvolaglia, ma non vi si indugia e pare impaziente di scappar via.
Sono gustosissimi i passi che lo Spire traduce come saggi dell’umorismo dello Zangwill che ama i suoi confratelli di stirpe, pur mettendone a nudo i difetti. Ma è un gran merito mostrarne le deficienze appunto perchè è la speranza e il proposito di guarirne. Lo Zangwill è uno degli apostoli del sionismo. Il sionismo che per gli ebrei occidentali i quali oramai non sono più servi ma figli della libertà, non è un problema politico e non significa altro che disposizione benevola e collaborazione attiva per favorire l’emigrazione in Palestina di tutti quegli ebrei a cui vengono contrastati i diritti di libera personalità nei paesi dove attualmente accampano.
Al movimento, che sospinge gli ebrei per la massima parte proletari verso
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la Palestina, contribuiscono efficacemente, le vetuste tradizioni di padri, le speranze messianiche, non meno dei fattori di ordine economico.
Egli mette in valore tutti questi molteplici aspetti, pure contentandosi personalmente del territoritorialismo invece del sionismo, cioè a dire, adoperandosi a regolare l'emigrazione ebraica in altri paesi che non siano la Palestina e dirigendola preferibilmente nel Texas americano. Come artista è un generoso dator di gioia ai miserabili confratelli che leggono i suoi scritti all’uscita della terra di schiavitù della Misraim russa durante le lunghe traversate Sull'Oceano verso la nuova terra promessa, l'America, che un grande italiano nelle cui vene probabilmente scorreva sangue ebraico, scopriva cinque secoli sono, per rifugio dei perseguitati di tutte le terre.
Da Democrito ad Eraclito; dall’uomo che ride all’uomo che piange. Nel Weininger è accumulata l’angoscia secolare dell’anima ebraica. Egli ha una vera encefalite di coltura occidentale acquistata con febbrile impazienza, con l’ardore frenetico che ricorda quello del povero Leopardi, negli anni più belli. Si può star certi che \'insouciance dei vent’anni non è mai brillata nei suoi grandi occhi pensosi.
Il semitismo non è mai stato più bafoué come da costui. Le sue bestie nere sono le femmine e l'ebreo. Nella donna egli non vede che la Dalila lubrica e tentatrice, la sirena lasciva che degrada l'uomo, lo distacca dalla vita ideale, lo asservisce come ignobile strumento di piacere o ne annulla la personalità come automatico propagatore della specie. Ci sono popoli in cui prevale l’elemento virile e costituiscono la nobiltà della specie umana. Ci sono popoli in cui prevale l'elemento femmina e perciò non servono con le loro ombre che a far spiccare viemeglio le luci dei popoli maschi. L’ebreo è il popolo femmina contaminato d’impurità e di scorie. La frammettenza commerciale è il corrispondente della frammettenza sessuale che è la funzione tipica della donna.
L'opera Sesso e Carattere rivela un ingegno potente, ma unilaterale. 11 libro è documentativo in quanto è tutto pervaso dal pathos di un'anima che si travaglia, si tortura, si dibatte per raggiungere una purificazione completa. Come tappa dello sviluppo spirituale di una coscienza ricca e contradittoria, merita di essere letto e studiato; ma le deduzioni scientifiche sono forzate, la metafisica è arbitraria e l’A. fu vittima del mondo allucinante che egli stesso aveva evocato.
L’acqua lustrale del battesimo non Io acquetò. Natura debole e fiacca, flagellata da aspirazioni titaniche, non comprese che con la conversione rinnegava non pure la santità del suo dolore, ma lo stesso rigorismo morale di cui si faceva paladino ; come se i valori essenziali del cristianesimo non potessero essere celebrati dallo spirito e vissuti nella pratica senza la materialità dell'atto rituale. Questo Werther ebraico, con un colpo di pistola al cuore, si sottrae, volontario disertore, a ventitré anni, alla sacra milizia dell'apostolato fecondo del rinnovamento dell’anima ebraica, senza accorgersi che la sua tragica concezione delle razze per cui si sacrificava, era in antitesi ai postulati dell'idealismo su cui si fondava il suo libro.
Il Darmesteter è l'erede dell'illuminismo del secolo xvni, cioè di quel generoso moto d’idee pel quale gli uomini furono condotti a praticare la tolleranza, a tenere in poca considerazione la diversità di religione e di razza, e proclamare
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soprattutto il diritto di ogni figlio d’Adamo, di contare veramente per uomo. L’illuminismo è fratello gemello del profetismo. La missione del profetismo pel Darmesteter, non è quella di aggiungere una religione all’attuale numero di religioni e di sacerdozi. Poco importa all’avvenire l’unità di forma e di credo : si può adorare lo stesso ideale con nomi diversi, elevare il nostro spirito all’ómbra della croce o delle tavole mosaiche. Occorre per la pace degli uomini una comunione di spirito, per modo che le varie chiese non siano più separate da anatemi, ma concordino nell’intento di far penetrare nel mondo una maggior somma di giustizia. Il concetto che resistenza terrena è un brutto sogno od una soma molesta, è agli antipodi dalla concezione dei profeti. La missione dell’uomo non è di sprofondarsi nel nirvana per dissolversi nel nulla; ma nel cingere i lombi di forza per lottare. E’ il surstim corda che postula la razionalità dell’universo. C’è nell’opera principale del Darmesteter Les prophètes d'Israël la purificazione del frenetico orgoglio ebraico in quanto l’autore spera e crede e vuole che il popolo eletto, rivivendo davvero gli ideali messianici, sia all'avanguardia della battaglia per la penetrazione luminosa dei valori spirituali nell’opaca grossolanità del mondo. Libero dall’antica superstizione talmudica e fedele nello stesso tempo ai valori extratemporali dello spirito, egli precorre il movimento riformista ebraico che è un’esigenza imprescindibile della nuova situazione storica creata al giudaismo dai liberi governi dell’Europa occidentale. L'israelita moderno dimanda di collaborare all’opera di progresso e di bontà con le parole del Salmista: «Aprite le porte della giustizia, affinchè io entri e cerchi il mio Dio».
L’ellenismo e il semitismo non più nemici dal Mendelsohn in poi per non risalire a Maimomde, devono proseguire a rinsaldare l’opera di riconciliazione iniziata nel secolo xvm. Il primo è l’omaggio alla razionalità spontanea che si manifesta nell’arte, nello stato, nella scienza; ma il secondo rappresenta l’insod-disfacimento dello spirito di fronte alla realtà; l’eticità vigile che vuole tradurre in atto il regno di Dio. I due elementi si devono integrare: così e non altrimenti i tragici dissidi dell’anima ebraica si attenueranno col riconoscimento della realtà storica nobilitata dallo spirito.
Felice Momigliano.
UN SOFFIO D'IDEALISMO MODERNO DALL’INDIA
Chi non ha gustato la grandiosità della poesia indiana, non ha provato le profonde emozioni e godute le vaste visioni che suscitano una letteratura bella, calda, lussuriosa, soleggiata come il paese che la creò. Ciò è vero della poesia antica come delia poesia moderna del-l’India. Il risveglio della coltura indiana ci è apparso improvvisamente come incarnato in un nome fino ad ora poco noto a noi occidentali, in un nome di poeta in cui prende voce, vivificata dal soffio della vita moderna e dal contatto eccitatore del cristianesimo rivale,
la millenaria coscienza religiosa dell’ India : in Rabindranath Tagore, il vincitore del premio Nobel per la poesia nel 1913. Questo bengalese, nato nel 1S61, figlio di un dotto e di un riformatore religioso, educato nella libertà dei campi, poeta e musicista squisito, ha fatto rivivere in canti di una deliziosa musicalità — divenuti ben presto i canti di tutto un popolo, dal Gange alia Birmania, dovunque si parla la lingua bengalese — tutta l’anima mistica dell’india, che vuol fondersi nella grandiosa possente natura divinizzata con un’ebbrezza del divino
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sconosciuta ai nostri mistici troppo intellettualisti, e che ci sembrava confinata negli antichi poemi religiosi.
I canti del Tagore ci dimostrano che attraverso trasformazioni ed attenuazioni d’ogni sorta l’antica anima religiosa dell’india non è una fiaccola spenta e che conserva ancora vivaci le sue caratteristiche spirituali e le sue tendenze. Nella poesia di Rabindranath Tagore, che è un vero poeta nazionale e non un poeta solitario, il sentimento religioso colorisce, vivifica ogni cosa : direi, anzi che ogni sentimento, ogni immagine s’ incentra nel fuoco del sentimento e della fantasia religiosa.
L’opera poetica più importante del R. T. è stata raccolta e tradotta in inglese dal Tagore stesso in quattro libri, che, per ordine cronologico, sono : Gitanjali (Canti votivi) ; La luna crescente (Canti sull’infanzia); II Giardiniere e Sádhána (La realizzazione della vita). E. Tagliatatela in un breve saggio (1) mette in luce gli aspetti caratteristici e i motivi spirituali dell’arte del Tagore, riproducendo spesso per intiero, nella traduzione italiana, un buon numero di poesie del poeta indiano. Questa lettura sarà, per molti una vera sorpresa ed una delizia spirituale, che li invoglierà a leggere per intiero l'opera poetica del Tagore nella versione inglese.
Il Tagore è una personalità ricca e complessa : si può studiare nei suoi canti il poeta come il riformatore religioso, il teologo come il filosofo, l’educatore come il mistico, perchè egli è tutte queste cose. La sua opera è un potente appello all’energia e al lavoro, alta gioia, alta libertà, all’altruismo, al rinnovamento, in una parola, della sua grande patria. Si noti che egli è un buddista convinto e che nel vangelo di Budda egli pretende di ritrovare il senso dell’umanità e l’appello all’azione. Tutto ciò può essere una smentita a chi accusa il buddismo di essere un addormentatore delle anime ed un dissolvitore della vita sociale ; in realtà sull’india moderna non è passato invano un soffio cristiano e l’impressione delta scienza moderna. Il Tagore stesso appartiene ad una famiglia di riformatori religiosi, fortemente influenzati dal cristianesimo.
« Egli è il primo dei nostri santi che non abbia rinnegato la vita, anzi l’abbia esaltata nei canti ed è perciò che noi l’amiamo», diceva un medico indiano al poeta Yeats.
Ed è principalmente da questo punto di vista che riusciranno interessanti ai lettori del Bilychnis le poesie del Tagore. Egli conosce
(1) E. Taglialathla, La poesìa di Xabindranath Ta-gore. Roma, 1914. L. x.
tutte le estasi e tutte le vertigini del misticismo più elevato, la spinta a fondersi nell’Unico, ed insieme canta in lui la gioia profonda che è nel lavoro e nella vita. Il dualismo e l’egoismo — che è sempre tale anche nell’eroismo del-l’ascesi —sono superati definitivamente nella coscienza religiosa così ricca del Tagore. L’intima comunione col divino si fonde nell’intima comunione con la natura e l’umanità.
In Sádhána egli dice : « Noi dell’india siamo . inclini alla contemplazione e restii all’azione... Ma là vera libertà non consiste nel perdersi nel-l’inerzia ». E altrove, nel Sádhána stesso : « Rimovendo ogni ostacolo, disordine e discordia nel sentiero della nostra attività, dobbiamo poter dire: Nel mio lavoro è là mia gioia, e nella mia gioia è la gioia delta mia gioia ». « Noi tentiamo (ancora) di separare la gioia dal lavoro. Il nostro giorno di lavoro non è il nostro giorno di giubilo e perciò noi cerchiamo il di festivo. Il fiume trova festa nel continuo suo fluire, il fuoco nel bruciar delta sua fiamma, il fiore nel permeare dei suoi profumi l’atmosfera; ma nell’opera nostra cotidiana non v’è altrettanta festa per noi. Gli è perchè noi non ci diamo allegramente e intieramente al lavoro, che il lavoro cì opprime..;.
« O tu che doni te stesso ! alta visione delta tua gioia, le anime nostre si arrendano a te come foco, scorrano verso di te come fiume, penetrino l’essere tuo come la flagranza del fiore ! Dacci forza per amare, per amare appieno, la vita nostra nelle sue gioie e nei suoi dolori, nei suoi guadagni e nelle sue perdite, nel suo levarsi e nel suo cadere».
L’ascetismo! E’ l’incanto sottile, la seduzione mortale che sale nell'india da una natura troppo prodiga! Ma per Tagore l'ascetismo è nell’adempimento del dovere quotidiano, nella vita d’ogni giorno, nei legami di ogni genere che ci avvincono alta vita, nella comunione con la natura, in cui dimora cor-poraliler il divino ; non già nella rinuncia e nelle preghiere senza fine. L’incubo tragico delta vecchia religione indiana che trovò quasi una via di salvezza nella dottrina buddistica, in un uomo come il Tagore, che le rivive oggi pienamente tutte e due, è scomparso.
«... La rinuncia non mi porla la liberazione. Io mi sento vincolata la libertà da mille tacci di delizie.
«Tu versi sempre per me un nuovo calice del Tuo vino dai colore e dal profumo ognor nuovi, empiendolo sino all'orlo.
« Il mio universo accenderà alta Tua fiamma le cento sue lampade varie e le deporrà dinanzi all’aitar del tuo tempio.
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« No ! io non chiuderò inai le porte de’ miei sensi. Le delizie degli miei occhi, dell’udito e del tatto proveranno la tua gioia.
« Tutte, sì, le mie illusioni arderanno in una fiamma di giubilo e tutti i miei desideri matureranno in frutti di amore» {Gitanjaii, 73).
«... Lascia questo vociare e cantare e biascicar di rosari ! Chi adori tu in questo oscuro angolo solitario di un tempio dalle porte tutte chiuse? Apri gli occhi e guarda che il tuo Dio non è dinanzi a te !
«Egli è là dove il contadino lavora l’arido campo e dove il selciamolo spacca le pietre. Egli è con loro nel sole e nella pioggia, e la sua veste è coperta di polvere. Getta via il tuo sacro mantello e al par di Lui scendi sul suolo polveroso !
« Liberazione ? Dove rinviensi questa liberazione ? Lo stesso nostro Maestro, il Budda, ha gioiosamente presi su di sé i vincoli della creazione ; egli è legato a noi tutti pei secoli de’ secoli.
« Esci fuor delle tue meditazioni e lascia da parte i fiori e l’incenso! Che male c’è se le tue vesti si stracceranno e s’insudiceranno ? Vagli incontro e rimantigli accanto in travaglio e col sudor della fronte ! » {Gitanjaii, 11).
Egli così continua, rinnovandoli spiritual-mente, i vecchi corrugati solchi della speculazione indiana. « La gioia e l’amore sono due nomi della stessa cosa... Nell’amore tutte le contradizzioni dell’esistenza si annegano e si perdono». E con l'antico veggente: «Dalla gioia son nate tutte le creature, con la gioia son sostenute, verso la gioia procedono e nella gioia rientrano » {Sàdhdna, 103). E il Nirvana ? In Gitanjaii (58) canta con l’ebbro entusiasmo diun nuovo Budda che ha conosciuto la « via della salvezza » :
«... Che tutte le vibrazioni di gioia si fondano nel mio ultimo canto, la gioia che fa riversar la terra nella riottosa sovrabbondanza dell’erba; la gioia che fa danzare sul vasto mondo le due gemelle, la vita e la morte ; la gioia che irrompe nella tempesta, scuotendo e destando al riso tutto che ha vita ; la gioia che posa immota con le sue lagrime sull’aperto rosseggiante fiore della pena, e la gioia che gitta nella polvere tutto ciò che possiede, e non conosce parole ... ».
Tutto questo è veramente significativo e achi tien dietro con occhio vigile alle vicende della vita religiosa moderna sembra che un soffio potente faccia salire come una vasta marea l’anima religiosa nel mondo contemporaneo verso un nuovo e più alto livello. Non è evidente solo nel cristianesimo, moderno, che
prosegue alcuni motivi iniziali del cristianesimo stesso, ma anche nel buddismo moderno — potrei citare anche esempi di religioni affini — questa tendenza di superare la fase prevalentemente pessimista della religione per poggiare su di un ottimismo gioioso e comunicativo le assisi stesse della concezione religiosa. Non si tratta solo della prevalenza di un temperamento, chiamiamolo così, o di una atmosfera religiosa, ma di una vera e propria rinnovazione della mentalità religiosa. Si tratta del tramonto definitivo delie influenze così antiche derivate dal le concezioni cosmologiche, in cui si incentrò per tanti millenni il pensiero religioso, e che dettero vita ad una teoria di singolari miti di redenzione, e di dottrine sulla natura della materia e dello spirito con il loro conseguente puerile dualismo.
Quando l’anima religiosa vibra intensamente non teme nessuna audacia così del pensiero come dell’azione, ma tutto comprende, tutto abbraccia, tutto assimila ed armonizza in uno spirito di libertà superiore. E il Tagore, anima entusiasticamente religiosa, sembra quasi far eco ai moniti così generosi di Paolo di Tarso, quando per la sua India, soffocata negli schemi della vecchia religiosità e scossa dalla civiltà occidentale che la pervade oramai tutta, canta :
« Dove la mente è senza paura e si tiene alta la fronte;
« dove la scienza è libera ;
« dove il mondo non è rotto in frammenti da anguste pareti domestiche;
< dove le parole sgorgano dal profondo del vero ;
« dove lo zelo tende instancabile le braccia verso la perfezione ;
« dove la ¡ibera corrente della ragione non s’è smarrita fra la sabbia lugubre di morti andazzi ;
«dovela mente è guidata da Te a sempre più ampio pensiero ed azione, in questo cielo di libertà, o Padre mio, possa il mio paese ridestarsi ! » {Gitanjaii, 35).
Contro \*egoismo che è individualismo, egli dice che «miserabile è la lampada che conserva intatto il suo olio e non brucia; ma quando essa comincia a risplendere trova subito la sua ragione d'essere ; la stia relazione con tutte le cose vicine e lontane è stabilita ed essa liberamente sacrifica il suo fondo di olio ad alimentar la sua fiamma. Noi siamo come la lampada. Finché serbiamo le nostre energie nelle tenebre, rinneghiamo lo scopo dell’esser nostro » (in Sádhána).
Individualista è l'asceta ; cieco e non «veggente», com’egli pretende, è l’asceta. Così.
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« A mezzanotte il presunto asceta dichiarò :
« Giunta è l’ora di rinunciare alla mia casa e di cercare Iddio. Ahimè, chi mi ha cosi a lungo tenuto in delusione, qui?
«Iddio mormorò: “io”, ma le orecchie dell’uom eran tappate.
« Co! bimbo addormentatosele sul seno giaceva sua moglie, tranquillamente dormendo da una parte del letto.
« Disse l’uomo: “ Chi siete voi che m’avete si a lungo istupidito?”
« La voce ripetè : “Essi sono Dio”, ma egli non la udi.
« Il bimbo gridò nel suo sogno, tenendosi più stretto alla madre.
« Comandò Iddio : “ Fèrmati stolto, non disertar la tua casa ”, ma egli non udi neppure allora.
«Sospirò Iddio lamentandosi: “ Perchè va il mio servo errando in cerca di me, mentre invece mi abbandona? {The Gardener, 75).
La vera ascesi sta dunque nel sottostare ai legami, alle alterne vicende di gioia e di dolore, non nel vano sforzo di liberarsi di tutte queste cose. Il vero problema della vita religiosa non è un problema dell’individuo o del cosmo : ma è un problema eminentemente sociale e morale. Il Tagore ha sentito potente-mente tutto questo.
Se la potenza del sentiménto religioso espresso in una maniera così personale, sebbene maturata sul terreno personale della religiosità indiana, ed i problemi religiosi e sociali che suscita in noi la poesia del Tagore, rendono sommamente interessante l’opera del poeta indiano, ciò che incanta ii lettore è il fascino schiettamente artistico che emana dalle sue poesie, è la singolare mescolanza di elementi profondamente umani e quindi così vicini a noi moderni, e di immagini e di motivi esotici. E’ un poeta che non si dimentica.
Se i Gitanjali o Canti votivi sono l’opera in cui il poeta si eleva più in alto con il suo mistico canto, ispirato ad un profondo rinnovamento del suo pensiero filosofico e religioso, il Giardiniere, raccolta delle più svariate poesie, e Luna crescente, il delicato libro dei canti sull’infanzia, sono le due opere poetiche più accessibili e, direi, più puramente poetiche ed umane.
Il Tagliatatela riproduce un buon numero di poesie dall'uno e dall’altro libro e la loro lettura, meglio di qualsiasi commento, può dare un’idea di questo aspetto più umano, più concreto della poesia del Tagore.
_ Dalla « Luna crescente » e dal « Giardiniere» credo opportuno riportare, come un
tenue saggio del poeta bengalese, alcune graziose poesie nella traduzione italiana.
Dalla “Luna crescente,,:
L’autore.
« Tu dici che il babbo scrive un mondo di libri, ma io non capisco quello ch’egli scrive.
« Ogni sera ti legge qualche cosa, ma puoi tu ripeter davvero quello ch’egli intende dire?
«Che belle storielle tu sai narrarci, mamma ! Ma il babbo non potrebbe scriverne anche lui come quelle?
« Dalla madre sua non udì forse storielle di giganti e fate e principesse?
« Le ha forse obliate ?« Spesso quando tarda pel suo bagno bisogna che tu vada a chiamarlo un centinaio di volte.
«Tu aspetti, e gli conservi in caldo la sua porzione, ma egli seguita a scrivere e dimentica.
« Se io vo a giocar nella stanza del babbo, tu corri a chiamarmi : “ Cattivo d’un bimbo!
« Se fo il più lieve rumore, dici : “ Non vedi che il babbo lavora?”.
« Che gusto c’è a scrivere e scrivere sempre ?
« Quando io aflèrro la penna o la matita del babbo, e scrivo sul suo libro proprio come fa lui : a, b, c, d, e, /, g, h, i, — perchè ti adiri meco, o mammina?
«Tu non dici parola, se è il babbo che scrive !
« Quando egli sciupa tanti mucchi di carta, tu, mamma, non sembri dispiacertene.
« Ma s’io prendo anche un sol foglio per farne un battello, eccoti sciamare: “ Bimbo, come sei noioso ! ”.
« E di papà, che sciupa fogli e fogli di carta con segni neri da cima a fondo, dall’una e dall’altra parte, che ne pensi tu?”».
La fine.
« E’ giunto per me il tempo di andare, madre; io vado.
« Quando nella svanente tenebra dell’alba solitaria stenderai le braccia per accogliere il tuo bimbo nel letto, io dirò : “ Il bimbo non è li ! ” — madre io vado.
« Diverrò una delicata raffica d’aria e ti accarezzerò; diverrò l’increspamento dell’acqua quando ti bagni e ti bacerò e ribacerò ancora.
« Nella notte procellosa, quando la pioggia strepita sulle foglie, sentirai il mio bisbiglio nel tuo letto ed il mio riso lampeggerà con la folgore dall’aperta finestra entro la tua camera.
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«Se giaci sveglia, pensando al tuo bimbo fin tardi, nella notte, ti canterò dalle stelle: '• Dormi, madre, dormi
«Su i fuorviati raggi della luna m'involerò sul tuo letto e giacerò sul tuo seno mentre dormi.
« Diverrò un sogno e attraverso le tue palpebre socchiuse scivolerò nelle profondità del tuo sonno : e quando ti sveglierai guardandoti attorno sbigottita, come una lucciola sfavillante mi dileguerò nel buio.
« Quando per la gran festa del puja, i bimbi de’ vicini verranno a trastullarsi per casa, io mi fonderò nella musica del flauto e palpiterò nel tuo cuore tutto il giorno.
« La cara zietta verrà con i doni del puja e chiederà : “ Sorella, dov’è il nostro bimbo? ” Madre, tu le dirai dolcemente : “ E’ nelle pupille de’ miei occhi, è nel mio corpo e nell’anima mia ” ».
Dal “ Giardiniere n :
«... Son senza riposo. Sono assetato di lontane cose.
« L’anima mia va lungi in una brama di toccar l’estremo della fosca lontananza.
« Oh, grande Al di là! oh, il sottile chiamar del tuo flauto!
«Oblio, io sempre oblio, che ali non ho per volare, che in questo luogo son per sempre legato.
« Sono ardente e insonne, sono un estraneo in estranea terra.
« Viene a me il tuo alito mormorando una impossibile speranza.
« Il tuo linguaggio è come il proprio, cognito al mio cuore.
«Oh Lontano, oh,il sottile chiamar del tuo flauto !
« Oblio, io sempre oblio, che ignoro il cammino, che l’alato corsiero non ho.
« Sono distratto, sono un errabondo nel mio cuore.
« Nella nebbia solatia dell’ ore languide, qual vasta visione di te prende forma nell’azzurro del cielo!
« Oh Remota Fine ! oh, il sottile chiamar del tuo flauto!
« Oblio, io sempre oblio, che tutte son chiuse le porte della casa dove solo dimoro». (The Gardener, 5).
«... Perchè la lampada si spense ?
« Del mio mantello le feci schermo e riparo dal vento, ecco perchè la lampada si spense.
« Perchè il fiore appassì ?
« Con bramoso amore lo strinsi al cuore, ecco perchè il fiore appassì.
«Perchè s’inaridì il torrente?
« Per averlo a me gli posi un argine, ecco perchè s’inaridì il torrente.
«Perchè la corda dell’arpa si spezzò?
« Cercai di trarne una nota oltre il suo potere, ecco perchè la corda dell’arpa si spezzò ». (The Gardener, 52).
Mario Rossi.
SORGI E CAMMINA!
Avete letto il libro di Ellick Morn : « Sorgi e cammina » ? Non solo il titolo è suggestivo, ma ogni pagina ha qualche cosa che vi scuote, vi eccita, vi spinge a l’azione, a l’attività, a la vita (1). Come l’altra opera dello stesso A. «Il Mondo è tuo», cosi questa ha lo scopo di aiutare gl’individui a ritrovare le loro energie perdute, convincendoli che ne le regioni profonde del nostro «io» giacciono dormenti forze che si possono e si debbono sfruttare per viver più sana, più bella, più integra la vita.
11 Morn non è il solo oggi a constatare che nella psiche umana vi è un serbatoio enorme di energie che la volontà umana può utilizzare per rendere più bella e più intensa la vita. William James aveva già scritto pagine meravigliose su questo soggetto e, dopo di lui, altri sommi, come il Flournoy ed il Bergson.
« Sorgi e cammina » è la frase del Vangelo che il Morn, con felice pensiero, ha voluto applicare alle diverse manifestazioni dell’attività umana.
Leggete il capitolo : « Come si acquista la energia»: vi troverete indicato quello che è, secondo l’A., il segreto della riuscita.
« Insegniamo al giovine, dice l’A., che ogni uomo è tanto più forte quanto maggiore è la fiducia ch’egli ha in se stesso e nel suo destino; rendiamolo convinto che ogni uomo veramente degno di questo nome ha in sè un Dio in formazione e che questo Dio non gli permetterà di fallire ne le sue imprese: infondiamogli in una parola la fede nella sua potenza. Ed allora affronterà la lotta con la cieca convinzione di vincere ;... avrà l’energia e
(1) Trad. it.» pag. 311, prezzo !.. 3 (estero L. 3.50).
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vincerà». E poi: «Noi acquistiamo l’energia necessaria per trionfare, solo quando si è radicata in noi la convinzione, sia pure la presunzione, delle nostre forze. Crediamo in noi stessi per essere veramente noi stessi. Il dubbio è il veleno che uccide ogni energia come la fede è il tonico che ne decupla la potenza».
Questo è anche il pensiero di William James. «Se un uomo, egli dice, è costretto a fare un salto pericoloso in una ascensione alpina, lo faccia con ardire e fiducia, e vi rie-scirà : se invece dubita delie proprie forze sarà perduto, salterà con esitanza e si romperà il collo. Credete, e sarete nel vero: dubitate e sarete ancora nel vero, perchè perirete: la sola differenza sta in ciò : che il credere vi sarà molto più utile. Il successo dipende da l’energia dell’atto, e l’energia dalla credenza che si riuscirà, e questa dalla credenza che si è nel vero, la quale in tal modo si verifica di per se stessa».
La tesi, insomma, che l’A. sostiene in tutto il libro, con profonda convinzione, con prove scientifiche, con testimonianze autorevoli è questa: la grande influenza dell’anima sul corpo. Sia che si tratti dell’acquisto della gioia o della giovinezza, della bellezza o della salute dell’anima, il regime igienico è il medesimo: tenere sufficientemente elevato il tono vitale, grazie all’ intervento delle energie cripto-psichiche.
Avvertiamo, per esempio, che un sentimento d’ipocondria cerca d’insinuarsi nel nostro cervello? Dobbiamo scacciarlo immediatamente impiegando il nostro cervello in un lavoro assorbente.
E cosi nella guarigione di moltissime malattie, un fattore di enorme importanza è la fede di poter guarire. « Creder di guarire, è trovar la via della guarigione».
Non bisogna però confondere questa affermazione dell’A. con le teorie e i metodi della nota sètta che ha preso il nome di : « Scienza Cristiana».
Il torto de’ suoi seguaci è di voler guarire le malattie negando la loro esistenza, qualunque sia il loro stato avanzato, e l’utilità dell’intervento medico.
A parte questa eccessività di metodo, il principio è buono perchè poggia sull’applicazione del potere auto-suggestivo che l’A. difende e propugna.
L’ultimo capitolo che è la conclusione di tutto quello che l’A. ha detto in 299 pagine, porta per titolo : « Il nostro destino è in noi ».
E’ il più breve, il più conciso.
L’uomo, dice l’A., è l’artefice del proprio destino.
Noi saremo quel che vogliamo essere. La fortuna, il destino sono parole vane, vuote di senso, create dall’ozio o dalla malafede, frutto di una filosofia che ci sottrae da ogni responsabilità e nella quale noi lasciamo morire, senza rimorsi, le nostre energie.
Questa teoria è in contrasto col materialismo storico e col determinismo filosofico che hanno fatto versare tanto inchiòstro ed hanno fomentato tante lunghe e noiose discussioni fin dal secolo della Riforma ; ma è, d'altra parte, una solenne affermazione del libero arbitrio, proclamato tanti secoli prima nelle pagine immortali della Bibbia. «Se tu fai bene, non vi sarà esaltazione; ma, se tu fai male, il peccato è alla porta. Ora i desi-derii di esso dipendono da te e tu hai la signoria SOPRA di lui. (Genesi, IV, 7). « lo posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica», scriveva l’apostolo Paolo ai Filippesi.
La stessa tesi del Morii è sostenuta da C. Hilty nel suo volumetto: « Il Segreto della forza », del quale parleremo prossimamente.
A differenza però dell’autore americano, lo scrittore tedesco riassume tutte le energie umane nel sentimento potente e dinamico dell’amore. .Anzi egli arriva a negare ogni praticità, ogni risultato fecondo di bene, ogni e qualsiasi vittoria su noi stessi e sul mondo esteriore se le attività umane, in tutte le differenti e complesse manifestazioni, e le energie delio spirito e la volontà, non attingono la loro forza alla sorgente miracolosa dell’amore. Lo Schopenhauer, nonostante il suo pessimismo, aveva presso a poco detta la stessa cosa. La sola virtù che egli riconosceva all’uomo, per mezzo della quale si possa riuscire in qualche cosa in questo povero mondo, sarebbe la pietà.
Ma per quanto diversa possa essere la spiegazione dei particolari, resta intatto il principio delia potenza, cioè, dello spirito su la materia. Il Feuchtersleben ne la sua opera: «Igiene dell'anima» addita alcune luminose individualità, che sono poste nel tempio della storia come immagini venerabili di questa verità. Platone, égli dice, insegnava ed imparava ancora a l’età di $0 anni ; Socrate era vecchio quando compose Edipo a Col. ; Isocrate brillava come oratore a 94 anni; Catone, carico di anni, non sentiva alcun disgusto della vita e Gcethe, giunto al di là dei limiti consueti della vita, cercava ancora di penetrare il segreto della natura nel tipo primitivo delle sue creazioni.
Al principio della Riforma del secolo xvi, constatiamo lo stesso fenomeno. Non furono i fini e, qualche volta, infiacchiti umanisti.
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quali Erasmo e Reuchhn, o gli spiriti sovversivi quali Carlstadl e Münzer, che salvarono il mondo e ricostituirono la Chiesa, ma uomini di grande energia, di ferrea volontà e di pietà "Tintone escludeva da la sua Repubblica gli individui privi di forza e di volere, come esseri nulli, inutili a se stessi ed alla società.
Insegniamo, dunque, a questa nostra generazione che il segreto di ogni forza e di ogni vittoria, finanche quello di prolungare la giovinezza e la vita stessa, consiste ne 1 impero salutare dello spirito sul corpo. « Una vota che si è abituati a credere al potere reale dello spirito sul corpo, si tratta poi di esercitare questo potere su se stessi».
« Sii forte, padrone di te stesso, e conserva il tuo coraggio nei giorni buoni e nei tristi », ha lasciato scritto Marco Aurelio.
Quanti buoni successi di più nel nostro campo di lavoro, e nobili ardimenti pieni di soddisfazioni, e lotte piene di vittorie se fossimo uomini di forte volontà, di energie indomabili e di santi e generosi entusiasmi. I o-tere è volere. Ma studiandoci di acquistare queste virtù, non dimentichiamo la preghiera del Salmista, che Giovanna d’Arco soleva sempre ripetere : « O Dio, crea in me un cuor puro e rinnovala dentro di me uno spinto diritto». _
Franco Panza.
Il cattolicismo in Germania.
Della lunga serie di eventi che in questi ultimi cinquant’anni si sono succeduti in Germania, per quel che riguarda il cattolicismo, le sue lotte esterne ed interne, i suoi uomini più rappresentativi, difficilmente potrà aversi mai uno storico esatto e spassionato.
Hermann Cardauns, redattore capo della Kölnische Volkszeitung, giornalista di valore non comune, ce ne offre uno specimen nel suo volume Aus dem Leben eines deutschen Re-dacleurs (Köln, Bachem editore, Marchi 3,60).
Il suo libro, o meglio alcuni capitoli del suo libro, come quelli dedicati alla Görresge-sellschaft, al Windthortst, alle agitazioni politiche del Centro, sono molto interessanti poiché di ciò che racconta, l’autore può dire di essere stato magna pars. Altre parti del volume, quelle più strettamente personali, hanno per contrario un interesse molto relativo.
Se il Cardauns si fosse prefisso di darci la storia aneddotica di ciò che come giornalista e come uomo di partito egli ha visto, ed avesse dato a ciò di conseguenza maggiore sviluppo sopprimendo senza pietà quel che
non è che riempitura, il volume sarebbe riuscito molto più utile per gli studiosi e di maggiore interesse per tutti.
Nel giudizio che l’A. pronunzia su uomini e cose con cui ha avuto dimestichezza o che ha per necessità di cose avvicinato, si sente l’uomo di fede e di combattimento, il cattolico pugnace anche contro i suoi correligionari di altra tendenza —- gli integralisti, poiché il Cardauns è fra le figure principali della tendenza di Colonia. L’ultimo capitolo del libro è, di questo, un esempio vivacissimo.
Ciò, se da una parte, soggettivamente considerati, dà valore ai giudizi espressi ed agli episodi narrati, può forse renderli sospetti come unilaterali per quanto riguarda la loro oggettività assoluta.
Ma l’uomo non si spoglia mai compieta-mente di sé stesso, perciò, prendendo questo libro in mano, libro di polemista e di combattente, io storico futuro dovrà aver dinanzi al suo spirito, lo spirito di chi l’ha scritto. Ma anche spogliandolo di ogni soggettivismo, del libro resteranno molte cose che hànno un valore reale per la storia.
*•*
Karl Heltau nei suo libro Rom-Noi. Die geschichtliche Entwicklung des Ultramonta-nismus und seine Bekämpfung durch freie Volksbelehrung (Augsburg, Verlag Theodor Lampart. - Marchi 2,40) giudica l’invadenza clericale in Germania da un altro punto di vista. Gli stessi sottotitoli apposti a questo libro, che ha suscitato larghissima eco in Germania, ne indicano più che a sufficienza lo scopo e il contenuto. Si legge infatti sulla copertina, in grossi caratteri : « Roma o Germania?», e ancora: « La lotta del sacerdozio contro lo sviluppo religioso. Il nocciolo del nuovo babilonismo», ecc. E nel frontispizio interno l’autore ha spiegato ancor meglio, se possibile, il suo scopo dichiarando di voler fare una « Analisi dell’avvelenamanto del cattolicesimo » e di tentare una soluzione storicofilosofica del problema ultramontano.
Il volume si apre con la famosa definizione dell’ultramontanismo data da F. X. Kraus ed il libro intero può chiamarsi una illustrazióne di tale definizione, terribilmente documentata. La forza, infatti, del volume è nella copiosissima documentazione di cui è materiato.
L’Heltau è uno di quei credenti che profondamente si dolgono della degenerazióne chiesastica. Perciò le sue pagine sono come imprecazioni a chi ha assassinato la religióne, sono un rinfacciar continuo della loro colpa
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a quei che han commesso un tal delitto. E sono, nel tempo stesso, come una cura energica contro « l’avvelenamento del cattolici-smo», un richiamo alla libertà ed alla sincerità religiosa e politica, contro il politicantismo romano, contro il romanticismo religioso, contro l’accentramento imperialistico ed il monopolio della fede e dell’umana attività, che dalla fede è sospinta.
Una magnifica battaglia ha combattuto dunque l’A. con questo volume. Non che in esso non manchino difetti. Chi fa della polemica non può non incorrervi. Ma i lievi difetti scompaiono di fronte ai pregi particolarissimi, storicamente e religiosamente parlando, di tutto il libro. Onde nói, che abbiamo dato la nostra attività in Italia a combattere una pugna pari a quella che in Germania vengono sostenendo validamente l’Heltau ed i suoi amici, plaudiamo di cuore a questo volume che vale da solo una vittoria campale.
È. R.
Folk-lore morale.
Il don. Vincenzo Cento che si occupa con intelletto ed amore delle condizioni morali della sua regione nativa, le Marche, ci ha dato, come frutto della sua osservazione, un volumetto, che merita in verità d’esser letto e considerato, e che s’intitola appunto Condizioni inorali delle Marche (Macerata, Stab. tip. Af-fede, L. i). Lo stesso autore ci fa notare che non ha inteso nel suo libro presentare un quadro completo dell’argomento, ma vi ha raccolto « note fugaci ed impressioni fermate rapidamente sulla carta» per un periodico di Macerata.
E degli articoli di giornale ha questo libro i difetti ed i pregi. Lettura varia, viva, interessante, ma osservazione poco profonda, sto per dire superficiale. Ma dacché è lo stesso autore a confessarlo ed a.... promettere di emendarsene, ripigliando a tempo migliore lo studio con maggior copia di documenti e con più ampio sviluppo, dobbiamo dichiararci ben contenti deli’acconto che egli ci ha dato. C’è un capitolo del libriccino, quello che parla del clero — gli altri si occupano del carattere dei marchigiani, dei signori, degli operai, dei contadini — in cui il Cento è di particolare efficacia descrittiva, ma di particolare deficienza intuitiva nel ricercare le cause dei difetti del clero marchigiano, e nel credere che taluna di queste cause siano quasi eliminate. Il clero, di cui l’So ®/0 almeno è spaventosamente incolto, senza preparazione ino
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rate, ma che per contrario è numeroso talmente che ve n’è nove decimi di troppo, è una delle cause principalissime delle povere condizioni morali del popolo delle Marche, popolo laborioso e serio, ma chiuso inesorabilmente nel suo quietismo e nei suo tradizionalismo, per cui subisce l’influenza del clero, che, per solito, è nefasta.
Nè può essere altrimenti data la preparazione — Dio mi perdoni la parola — avuta nei seminari, e per il fatto che la maggior parte dei preti, come scrive il Cento, « appena usciti dal seminario, alla cui ombra — e che ombra ! — son vissuti dieci, tredici, talvolta quindici anni, danno un respirone di sollievo, cantano il più lieto Te Deum della loro vita, serrano con ineffabile giubilo i polverosi volumi teologici nel più oscuro cassone© li espongono rilegati in bella mostra nella stanzina da pranzo. Fra le disposizioni emanate dal Santo Padre quella che più ha incontrato la filiale riconoscenza del clero è la proibizione di seguire il moderno movimento di studi. Sbrigatisi della messa e di qualche sospirosa zitella, quotidianamente logorante i graticciati del confessionale, misurano su e giù le viuzze del paese, scambiano una parola col sarto e col pizzicagnolo, fanno una capatina al caffè o alla farmacia, partecipano allo scopone; mangiano, dormono, fumano; litigano col sagrestano, colla serva, col guardiano della confraternita, colla badessa delle monache ; barbottano con insoffribile monotonia gli ultimi salmi del breviario. ... e si addormentano nel bacio del Signore! «Ve n’è di politicanti che» tutto fanno fuorché i sacerdoti, v’è un clero regolare che vale « con qualche aggravante » quello secolare.
Fra questa catena infinita di mestieranti, vi sono pochissimi sacerdoti degni di questo nome ed un esiguo gruppo di studiosi.... che devono far del tutto per non parer tali, per sfuggire allo spionaggio ed alla persecuzione.
Ci siamo attardati un poco su questo soggetto perchè le condizioni del clero, quali le espone l’autore, sono su per giù identiche in tutta Italia. Chè anzi il Cento non ha voluto pietosamente neppure accennare alla tabe morale da cui la più gran parte dei sacerdoti è inquinata. Che questo clero produca gran male data la mentalità e, come dicevamo, il tradizionalismo assoluto del popolo minore, è cosa ovvia e naturale. Poiché «il sacerdote - termino con alcune parole del Cento, che hanno particolarissimo valore - o è apostolo o è sacrilego. Nessuno può presumere di essere intermediàrio tra gli uomini e la divinità, se del divino non abbia un senso più e più imme-
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diato degli altri: se il suo spirito non sia penetrato dall’entusiasmo del sacrificio, arso dal fuoco dell’amore. Di quanti preti può onestamente dirsi questo? Nè si potrebbe pretendere; chè gli apostoli non sorgono come funghi ».
E. Rutili.
L. PASCHETTO, Ostia, Colonia Romana (con 48 incis. ed una pianta). — Roma, L. 1.
Nella graziosa collezione « I monumenti di Italia» è uscita recentemente questa piccola monografia su Ostia di uno specialista di Ostia e delia sua storia, qual’è il Paschetto. La materia del libretto è disposta in modo che esso possa servire utilmente come una guida al visitatore. « Le rivelazioni che ci vengono dalla sua [di Ostia] tomba secolare — dice l’A. nel-l’introduzione — sono d’un genere che può interessare non soltanto gli antiquari o gli scienziati, ma anche i profani dell’archeologia, quei molti che dalle esigenze della vita moderna co’ suoi traffici e le sue attività febbrili sono distolti dal pensare all’antichità. A Ostia, non solo lo studioso, l’archeologo, lo storico si sentono aprire l’anima e la mente dinanzi all’immane ricchezza di materiale di studio, ma l’operaio, il professionista, l’indu
striale, l’uomo d’affari respirano a pieni polmoni perchè capiscono la vita che vi è stata vissuta e sentono che altri li, prima di loro, hanno fatto le stesse esperienze, hanno faticato provando la febbre e l’ebbrezza del lavoro. Quelle d’Ostia non sono rovine mute pel profano d’archeologia ». Le rovine d’Ostia sono come la Pompei di Roma. Ostia «era come l’anticamera di Roma, un piede stesso di Roma sul mare, if punto di partenza del biondo canale su cui scivolavano barconi recantile il suo grano, il sobborgo in cui erano i magazzini succursali dei numerosi horrea di Roma ».
Quarantotto nitide incisioni illustrano sia i monumenti più importanti dell’Ostia dissepolta come la storia di Ostia. Tra queste ultime notiamo la 5a (il porto romano nella Tabula Peti-lingcrianà'), la 4a (ricostruzione del porto di Claudio e di Traiano), la 24* (scultura mitriaea di Ostia ora al Museo Vaticano) e la 47* (ricostruzione del Navale).
Il volumetto del Paschetto rappresenta una utile iniziazione per quanti amano conoscere nelle sue linee sintetiche la storia di Ostia e i risultati più importanti degli scavi recenti.
A. S.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell* Unione Editrice, via Federico Cesi, 45
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BERGSON
LE ROY EDOUARD, Unc philosophie nou-velle : Henri Bergson. 1913.3* ed. Voi. in-16. L. 2.85.
Ottima guida come introduzione allo studio del pensiero del Bergson. Riconosciuto tale dal B. stesso.
OLGIATI, La Filosofia di Bergson. Fratelli Bqcca Editori, 1914. L. 4.
MICHELE LOSACCO, Razionalismo e intuizionismo. Due Intuizionisti : Bergson e Schmitt (Estratto dalla Cultura Contemporanea}. L. 1 per L. 0.60.
N. SÖDERBLOM
Le Religioni del Mondo. Trad., introd. e appendice del Doti. Aschenbrödel. L. 1.25 per L. 1.
GIORGIO TYRRELL
Medioevalismo. Pag. 250. L. 2.50 per L. 1.50.
Da Dio o dagli uòmini? L. 1 per L. 0.50.
Lettera confidenziale ad un Professore d’antropologia. L. 0.60 per L. 0.30.
I tre volumi complessivamente L. 2.10.
Le Christianisme à la croisée des chemins («Il Cristianesimo al bivio»). Ottima traduzione dall'inglese in francese. Paris, 1911. Pag- 33S. Prèzzo L. 3.50.
Suis-je Catholique? (« Medioevalismo»). Examen de conscience d’un Moderniste. Paris, ¿908. Pag. 260. Prèzzo L. 3.50.
CRISTIANESIMO SOCIALE
W. RAUSCHENBUSCH, Prières du réveil social. L. 2.75.
Espériences sociales (Conférences). L. 3.80.
GESÙ
ALEX WESTPHAL, Jésus de Nazaret d’après les témoins de sa vie. 1914. 2 grossi volumi. L. 14.
H. »MON N 1ER, La mission historique de Jésus. 1914. Grosso vol. di pag. 380, L. 8.
C. G. MONTEFIORE, Gesù di Nazareth nel pensiero ebraico contemporaneo.. 1913. Pag. 152. Prezzo L. 2.50.
OPERE DI A. HOUTIN A PREZZO RIDOTTO
La question biblique au XXe siècle. 1906. Iiï-8, p. 337. Prezzo L. 4 per L. 2.50.
La Crise du Clergé. 1908. In-12. pag. 332. Prezzo L. 3.50 per L. 2.
Evêques et Diocèses. 1908-1909. ln-12. 2 volumi. Complessivamente L. 3.25 per L. 2.10.
L’Américanisme. 1903- ln-12, pag. 497- L. 3.50 per L. 2.
Un dernier Gallican. Henri Bernier, chanoine d’Angers ( 1795-*s59)- *9°4- ln-8, p. 4S2. L.- 6 per L. 3.25.
Un Prêtre marié. Charles Perraud, chanoine honoraire d’Autun (1831-1892). 1908. ln-12. pag. 135. L. 1.25.
72
Il
BILYCHNIS. FASCICOLO DI MAGGIO 1914
Autour d’un Prêtre marié. Vol. in-12 di pag. xi.iv-405. Prezzo L. 4 per L. 3.
Histoire du Modernisme catholique. 1913. Pag. 45S. L. 5 P« 3.25.
OPERE DI MARCEL HÉBERT
■ Le pragmatisme. Étude de ses diverses formes anglo-américaines, françaises, italiennes et de sa valeur religieuse. 2®, ed. avec la réponse de W. James. Paris, 1909. Pag. 168. L. 2.50.
■ La forme idéaliste du Sentiment Religieux. Deux exemples : St Augustin et St François de Sales. Paris, 1909. Pag. 160. L. 2.50.
■ Jeanne d’Arc a-t-elle abjuré? Étude critique précédée de Jeanne d’Arc et ses voix et Jeanne d’Arc et tes Fées. Paris, 1914. Pag. 154. L. 2.50.
PREDICHE
CHARLES WAGNER, Le bon Samaritain (cinq sermons), ln-12, adorno di 5 riproduzioni di quadri del Rembrandt. L. 3.
NUOVO TESTAMENTO
Prof. ENRICO BOSIO, Le prime Epistole di S. Paolo. 1 e II ai Tessalonicesi ed Epistola ai Galati. Traduzione e Commentò; Firenze, Libreria Claudiana, 1914. Volume in-8° di pagine 170. Prezzo !.. 4, rilegato in tela e oro L. 5.
CHIESA E STATO
A. GIOBBI©, Chiesa e Stato nei primi secoli del Cristianesimo. Milano. 1914- Prezzo L. 5.50.
A. C. JEMOLO, Stato e Chiesa negli scrittori italiani del Seicento e Settecento. Voi. in-16, pag. 320. L. io.
ANDRÉ MATER, La Politique Religieuse de la République Française. Paris. 1909. Pag. 428. L. 4.
Les Textes de la Politique Française en matière ecclésiastique. Paris, 1909. Pagine 1S4. L. 2.
RIFORMA
GIOVANNI JALLA, Storia della Riforma in Piemonte fino alla morte di Emanuele Filiberto (1517-1580). Firenze, I.ibr. Claudiana. 1914- Grosso volume di pag. 400, con 19 illustrazioni fuori testo. Prezzo L. 5.
OCCASIONE FAVOREVOLE
A. DE STEFANO, La Noble Leçon des Vaudois du Piémont. Edition critique avec introduction et glossaire. Paris, 1909. Prezzo L. 5 per L. 3.
Sommario: Le poème. - Manuscrits et éditions. - Versification et langue. - La doctrine - La daté - Le texte - Glossaire.
PROFILI
BONTEM PELLI, S. Bernardino da Siena. 'L'. \*
ALESS. D'ANCONA. Jacopone da Todi, il giullare di Dio del Secolo XIII. L. 2.
A. OLIVET, L’Amiral Coligny. Pag. 190. con ri illustrazioni. L. 2.75.
Biografia popolare d’una delle più nobili figure del Protestantesimo e della Storia di Francia.
DORA MELEGARI, Les victorieuses. (Ames et visages de Femmes: Ste Catherine de Sienne. — Christine de Pisan. — Isabelle d’Este. — Françoise d’Aubigné. — Màric-Thérèse. — Juliette Récamier. — Florence Nightingale. — Helen Keller). ln-16 con 8 ritratti. L. 4.50.
MARC BOEGNER, La vie et la pensée de T. Fallòt (La préparation 1844-187'2). ln-8. con. 4 ritratti. L. 8.50.
STORIA DELLE RELIGIONI
JEVONS-PESTALOZZA, L’idea di Dio nelle religioni primitive. Milano, Hoepli, 1914-Voi. di pag. 178. Prezzo L. 2 (rilegato).
Sommario: Prefazioni dell’autore. - Avvertenza del traduttore. - Bibliografia. - I. Introduzione. - IL L’Idea di Dio nella Mitologia. - III. L’ Idea di Dio nel Culto. -IV. L’Idea di Dio nella Preghiera. - V. L’Idea e l'Essere di Dio.
FILOSOFIA
G. RAPINI, Sul pragmatismo. L. 2.50.
M. DE UNAMUNO, Del sentimento tragico della Vita. L. 2.50.
G. FERRARI, La mente di G. D. Roma-gnosi. L. 2.50.
A. CARLINI, Avviamento allo studio della filosofia. L. r.
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B1LYCHNIS. FASCICOLO DI MAGGIO 1914
III
PAOLO ORANO, La rinascenza dell’anima.
Bari, Casa Ed. « Humanitas », 1914. Volume di pag. 230. Prezzo L. 2,50.:
I primi quattro capitoli di questo libro (L'attimo risolutivo — 1.’illusione scientifica — Monismo e panteismo — Dio nella Scienza) sono ben noti ai lettori della nostra Rivista, ch’ebbe il piacere di pubblicarli parte nel 1912 e parte nello scorso anno. A quelli l’Orano ne ha aggiunti altri quattro che compaiono perz la prima volta in questo volume. Di essi diamo qui il sommario particolareggiato. Essi sono :
V. Dio nella coscienza. — VI. L’anima «/»azza». — VII. La morie. — Vili. Anima e società.
CAMILLO TRIVERO, Nuova critica della Morale Kantiana in relazione colla teoria dei bisogni. Torino, Bocca, 1914. Pag. 30S. Prezzo L. 8.
E. P. LAMANNA, La religione nella vita dello spirito, Firenze, La Cultura Filosofica Ed., 1914. Voi, di pag. 500. L,. 7.
G. RENSI, La Trascendenza. Studio sul problema morale. L. 5.
F. NIETZSCHE, Contro Wagner. Prezzo L. 1.50.
MORALE
Morale religieuse et Morale laïque. Leçons faites à l’Ecole des Hautes Etudes sociales. ln-8, p. 271, rilegato. L. 7.
UBERO PENSIERO
L. DUGAS, Penseurs libres et Liberté de Pensée. L. 2.S0.
(E’ una rivendicazione dei diritti dell’ individuo in tutti gli ordini del sentimento e del pensiero).
LE RAGIONI DEI NON CREDENTI
PIETRO SACCHI, Perchè abbandonai la Religione. Il legame tra la Morale e la Felicità (spiegazioni filosofiche di un Dilettante a’ suoi Figli). Pag. 344. L. 3.
E. BERNARD-LE ROY, Confession d’un incroyant (Document psycologique). Pag. joo. L. 1.40.
TEOSOFIA
C. W; LEADBEATER, Manuale di Teosofia. L. 2.
PEDAGOGIA
Dorr. GIOVANNI FRANCESCHINI. Igiene sessuale, ad uso dei giovani e delle scuole. Milano, Hoepli, 1913. Voi. di pagine 192. Prezzò L. 2 (rilegato).
Sommario; I. La educazione sessuale. — II. La riproduzione della specie. Fisiologia ed igiene sessuale femminile. - III. La riproduzione della specie. Fisiologia ed igiene sessuale maschile. - IV. L’etica sessuale. - V. La patologia sessuale. - VI. Per sè e per la pròle. -VII. Educazione sessuale ed ambiente. -Vili. La igiene del sentimento.
A. HOFFMANN, Il libro de le madri (Versione italiana di Maria Gandolfo). Padova, Società editrice «In cammino», 1913. Elegantissimo volume di pag. 1S0. Prezzo L. 3.
LETTERATURA
EDUARDO TAGLIA LATEI-A, La poesia di Rabindranath Tagore. Roma, 1914. Pagine 74. L. 1.
Interessantissimo saggio sull’opera del poeta idealista indiano cui fu conferito l’anno scórso il premio Nobel per la letteratura.EDUARDO TAGLIALATELA, Dante Gabriele Rossetti. Rosa. Maria.' - La Nave-Bianca. - La tragedia del Re. - Dante a Verona. - (Studio e versione).- Roma, 1914. Pag. 150. L. 2.50.
VARIA
Prof. E. R SPOSSI, L’origine della terra. L. 1.50 (rilegato).
ARNALDO CERVESATO, Formazioni, Bari, Casa Ed.- « Humanitas », 1914. Volume di pag. 260. Prezzo L. 3.
P. SAINTYVES. Les Vierges Mères et les Naissances Miraculeuses. Essai de mythologie comparée. Paris, 1908. Pag. 280. L.3.50.
J. FRANÇAIS, L’Église et la Sorcellerie.
Précis historique suivi dés documents officiels, des Textes principaux et d’un Procès inédit. Paris, 1911. Pag. 272. L. 3.50.
V. HENRY, La Magic dans l’Inde Antique. Paris, 1911. Pag. 2S6. L. 3.50.
Les Fiches Pontificales de Monsignor Mon-tagnini. Paris. 1908. Pag. 236. L. 3.50.
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IV
BILYCHNiS. FASCICOLO Di MAGGIO 1914
KANSO OUTCHIMOURA
La crise d’âme d’un Japonais
COMMENT JE SUIS DEVENU CHRÉTIEN?
Pagine 220
L. 3 (Aggiungere per il porto 0.25).
Vedi recensione di questo Interessantissimo libro In Bllychnis di febbraio 1914, pag. 153
SALVATORE MINOCCHI
IL PANTEON
ORIGINI DEL CRISTIANESIMO
Grosso volume di pag. 408
L. 6 franco di porto.
Indice: Parte prima: Il Tempio: 1 Profeti — La legge — La costituzione teocratica — — Misteri dell’oriente — Ellenismo — Giudaismo — La pienezza dei tempi.
Parte seconda: li. Cristo: Dalla legge al Vangelo — Dal mito alla storia — L'ammonitore (Giovanni Battista) — Il Profeta — La fine.
» w Collezione completa:
LA VULL * r5aftna
(DI FIRENZE) ¡¡¿u 3
EDOARDO TAGLIALATELA
Il divino nell’educazione
SAGGI DI PEDAGOGIA
Pag. 127. L. 1.50
LA GUARDIA DEL CUORE ed altre omelie
del Doti. ALFREDO TAGLIALATELA
Bel volume di 340 pagine contenente 50 omelie e abbozzi di conferenze su soggetti di attualità. Utile ai predicatori.
Prezzo L. 4
EDOARDO TAGLIALATELA
TOLSTOÏ E LU SAVIEZZA INFANTILE
Pag. 96. L. 1
L. SALVATORELLI
Introduzione bibliografica alla Scienza delle Religioni
Roma, 1914. S® grande pag. 180.
L. 5
Indice: Opere generali—Storia della Scienza — Metodologia — Fenomenologia: Magia. Culto. Rappresentazioni religiose. Cultura e religione — Storia della religione : Scuola filologica (Il naturalismo). Sistemi astrali. Sistemi Fallici. Manismo. Scuola antropologica — Teismo preanimistico. Scuola sociologica.
PAUL VALLOTTON
LA GRANDE AURORE
Volume in-8® di pag. 459
L. 3.50 (Aggiungere per il porto 0.40).
Vedine recensione in Bllychnis di gennaio 1914 pag. 67
è uscito il III volume de
I MODERNI
Medaglioni di PAOLO ORANO Volume di pag. 350. L. 4 (aggiungere L. 0.25 pel porto)..
Nel quale il nostro chiaro collaboratore tratteggia magistralmente le figure di Onorato di Mirabeau. — G. Fed. Herbart. — Antonio Rosmini. — Ruggero Bonghi. — Leone Gambetta. — Giovanni Bovio. — Andrea Costa. — Giuseppe Sergi. — Tullio Martello., — Benedetto Croce. — Arturo Labriola. — Ewin Szabò.
Di ciascun autore è dato il ritratto in fototipia
H. LHOTZKY
L’ANIMA DEL FANCIULLO
Pag. 230 L. 3
Vedine alcune pagine nel fascicolo di febbraio 1914 di Bllychnis a pag. 137
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BILYCHNIS. FASCICOLO DI MAGGIO 1914
Annunziamo con piacere la traduzione italiana della celebratissima opera:
ERWIN ROHDE
PSICHE
Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci PARTE PRIMA
Voi. di pag. 340. L. 5
ETUDES SUR MONTAIGNE
par M. DELL’ISOLA
Volume di pag. 150. L. 2.50
Due libri su OSTIA
l’antico porto di Roma, sul quale i recenti scavi hanno attratto l’attenzione universale.
1. Dante Vaglieri : OSTIA, cenni storici e
Snida. Voi. di 150 pag. con 5 tavole e 24 gure. . . . ■ . . . . . . . !.. 4
2. Lod. Paschetto : Ostia-colonia romana; cenni storici e guida. Volumetto di 40 pag. con x pianta generale e 4$ incisioni. 1
GIUSEPPE SAITTA
La personalità di Dio e la filosofia dell’ immanenza
Saggio storico filosofico
Pag. 50 grandi. L. 3
PAOLO ORANO
ALTORILIEVI
FedericoSvevo — Richelieu — Voci d’Abruzzo — Sicilia — Il mistero sardo — La mente di Roma — Ad Metalla — liberinone della vallata.
Pag. 240Ì L. 3.50
È uscito:
IL VANGELO DI CAGLIOSTRO
IL GRAN COFTO
con un proemio di Pericle Maruzzi su la vita di Cagliostro e su i Liberi Muratori del secolo XVIII. Elegante volume fregiato del ritratto di Cagliostro.....L. 3
GASTON RIOU
flux écoutes de la France qui vient
Sixième éd. Paris. 1913. Pag. 330.
L. 3.50 (aggiungere 0.20 per il porto).
indice: I. L’ennui de Boudda. Deux voyages: Arles. Valenciennes. — II. Les arcs-boutants du sanctuaire. Quatre livres témoins: Un livre du comte Albert de Mun. Un livre d’André Mater. Un livre de Paul Sabatier. Un livre de Julien de Narfon. Le bilan du modernisme. — III. Crise ou décadence. Orientation actuelle de la littérature française. Lettres aux «Jeunes de France».
ESPERIENCES SOCIALES
(CONFÉRENCES)
L. 3.50. (Aggiungere 0.30 per porto).
Tables des matières: Le christianisme et l’art, par André Michel —- L’Evangile et la société antique aux premiers siècles, par /swç-. de f-aye — L'Evangile et la question sociale, par G. Chamorel — L'Evangile et les divisions de la chrétienté, par Marc Boegner — L’Evangile et l’immortalité, par E. Gonnelle — L’Evangile et l’Estrème-Orient, par Raoul Allier. — . L’Evangile et le monde païen, par G. Lauga — Un peuple sauvé par l’Evangile, par Jean Bianquis.
E. S. GREW
LO SVILUPPO DI UN PIANETA
Torino. 1914- Pag- 45<>- L. 6
Indice: La formazione di sistemi solari — L'origine dei satelliti — Sfere che si raffreddano — Analogie planetarie — L’interno della Terra — La forma della Terra solida — L'azione vulcanica L'atmosfera — Il mare antico — Gl’inizi della vita, ecc. — Età e clima — L'influenza' della vita — Successione geologica — Svilùppo organico-— Il regno animale — !-a durata dell'uomo.
A. MANAR ESI
L’Impero Romano e il Cristianesimo
Bocca, 1913. Pag- 600. L. 12
■wm
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VI
BILYCHNIS. FASCICOLO Di MAGGIO 1914
ARTURO PASCAL
La Società e la Chiesa in Piemonte nel Secolo XVI considerate in se stesse e nei rapporti colla Riforma Pinerolo, 1912. Pag. 60.
L. 1
L. SALVATORELLI
Saggi di storia e politica religiosa
Città di Castello, 1914- 8° grande, pag. 290.
L. 4.50
Indice: L’«Orpheus» di S. Reinach — Religione, civiltà ed arte— Maometto e l’IsIam — Diritto e morale dell’IsIam — La storia della Chiesa Ant. di M. Duchesne — La cattolicità della Chiesa' primitiva secondo Pierre Batifibl — Gli apologeti greci del 11 secolo — La politica religiosa degl’imperatori romani e la vittoria del cristianesimo sotto Costantino, ecc. — Il presente e l’avvenire del modernismo in Italia — La Politica di Pio X — La personalità di Pio X — Filosofia e religione nell’Italia contemporanea.
WILFRED MONOD DÉLIVRANCES (SERMONS)
L. 3.50 (Aggiungere 0.30 rer porto).Indice'. Autels — « Ecce homo!» — Les pauvres — Suivre — Le monde — «O mes enfants» — L’aiguille et le chameau — La guerre — « Beaucoup des justes » — Servir — Soflrir pour la communauté — « Crois-tu aux prophètes? — l>e Christ spirituel.
A. DI DOMENICA
for Christian Workers
The Italian Helper
Parte 1. Conversazioni — Parte II. Gramma-, tica. — Appendice : Parte liturgica — Rilegato ’ pag. 140. L. 2.50. Brochure 1.75
Il bei volumetto, è stato preparato per aiutare i Ministri evangelici di lingua inglese, che s’interessano degli emigranti italiani, a comprendere gl'italiani stessi e la loro lingua.
BENITO MUSSOLINI
GIOVANNI MUSS
IL VERIDICO
Collezione,storica (lei martiri del libero pensiero
Pag. <20. L, 0.80 estero L. 1
I FIORETTI
del glorioso messere santo Francesco e de' suoi frati
a cura di G. L. PASSERINI Seconda edizione riveduta. — G. C. Sansoni, ed., Firenze. Elegante edizione di pagine 200 !.. 2
A. CAUSSE
Les prophètes d’Israël
ET LES RELIGIONS DE L'ORIENT
Essai sur les origines du monothéisme universaliste
Rag. 330. L. 8.50
Indice : Le iahvisme populaire — Les premiers prophètes. La lutte contre le syncrétisme et la civilisation — Amps, Osée (lahv, Dieu de Justice) — Esaïe. Michée (lahvèe, le saint d'Isiaél) — Le iahvisme syncrétique et la réforme deuteronomique — Jérémie (L’individualisme religieux) — Ezéchiel (L’évolution du iahvisme |>endant l’exil) — La prophétie deutéro-ésaïaque (lahvé, le Dieu universel) — Le monothéisme des prophètes et le monothéisme, oriental.
GIOVANNI .COSTA
L’IMPERATORE DALMATA
C. VALERIUS DIOCLETIANUS
Roma, 1912. Pagine 250.
L. 5
Indice: I. L' avviamento al)' Impero — II. Guerre e ' repressioni — III. La riforma costituzionale e governativa — IV. La difesa dell’impero nelle province —- La difesa dell’impero nell'esercito — VI. La restaurazione religiosa — VII. L’impronta dell'epoca — Vili. La « quies Augustonim » — IX. L’uomo e l’opera sua, ecc.
77
Bl LYCHNIS, FASCICOLO DI MAGGIO 1914
VII
PRIMO FASCICOLO D’ARTE DI “BILYCHNIS,,
DEDICATO AL NUOVO TEMPIO VALDESE DI ROMA
Un giudizio sul nostro FASCICOLO D’ARTE.
«Je suis certain que le prof. P. Paschetto compte en France des amis et des admirateurs. C’est non seulement à eux mais à tout le public religieux de langue française gueje recommande très chaleureusement le premier cahier d’art de ffifychnis. Ils y trouveront de nombreuses photographies, reproductions et dessins des décorations et des vitraux exécutés par Paolo Paschetto pour la nouvelle grande église vaudoise de Rome. Les décorations de l’abside, des nefs, des galeries sont d’une grande sobriété, d’une parfaite élégance, d’une rare distinction. La seize vitraux surtout sont remarquables. M. Paschetto semble avoir suivi le conseil de M. Burnand: «S’inspirer des anciennes églises, appliquer à nos conditions actuelles toutes les formes, toutes les combinaisons et toutes les beautés que nous ont léguées les vieilles et poétiques choses d’autrefois».
Ces « vieilles et poétiques choses d'autrefois» Paolo Paschetto a été les chercher plus loin encore que dans les vieilles églises : dans les catacombes de Rome et dans la Bible. Voici la listé des merveilleux vitraux repro
duits dans le cahier d’art: 1. Le buisson ardent: l’affirmation de Dieu. — II. Le monogramme chrétien : l’affirmation du Verbe. — MI, La colombe: l’aspiration de l’âme vers Dieu. — IV. Le lys: la promesse que l’âme verra Dieu. — V. L’Agneau: la réconciliation de l'âme humaine avec Diu. — VI. L'ancre: l’espérance est ¡'ancre de l'âme. — VIL La lampe: la foi. — VIII. La palme : la victoire de la foi. — IX. L’arche: le baptême. — X. La coupe et le pain : la Sainte-Cène. -XI et XII. Le bon pasteur et le phare: Vie chrétienne : les fidèles marchent sans crainte dans les pâturages et dans la lumière. — XIII et XIV. La vigne.et le chandelier: Vie chrétienne-. les fidèles doivent, en demeurant en Christ, marcher dans la perfection. — XV et XVI. L'aiglf et le paon: La vie éternelle : le rajeunissement du chrétien se poursuit dans l’éternité. Chaque symbole est commenté par un passage biblique- approprié.
Lé cahier d'art imprimé sur papier de luxé, -avec une belle couverture ornée du chandelier de (’Eglise vaudoise d'Italie, est tout à fait réussi ».
(Dalla Rivisia di Parigi: ,
Le Chritlianitme social, Marzo 1914, pag. a 10).
H fascicolo costa L. 2 (Estero L. 2.50).
Rivolgersi al Prof. Lodovico Paschetto. Via Crescenzio, 2 - Roma.
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BOLLETTINO ARICHICSTA
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VII!
BILYCHNIS. FASCICOLO DI MAGGIO 1914
“BILYCHNIS” NEL 1914
I 12 fascicoli dell’intera annata comporranno due grossi volumi di oltre 400 pagine ciascuno, riccamente illustrati.
Abbonamento annuo per l’Italia L 5 per l’estero L. 8 — Un fascicolo L. 1
L'abbonamento si può pagare anche a quote' semestrali di L. 2.50 per l’Italia e L. 4 per l'estero
PREMI Al NOSTRI ABBONATI
1. I.a Direzione della « Biblioteca di Studi Religiosi» offrirà in dono interamente gratuito ai nostri abbonati libri di sua edizione, ora in preparazione.
-i. La stessa Direzione concederà agli abbonati fortissimi ribassi per le pubblicazioni eh’essa ha in deposito e di cui daremo la lista sulle pagine verdi di Bi/ychnis.
•J. Stiamo organizzando una Biblioteca Circolante per lo studio della Religione (storia, critica, filosofia della religione). Agli abbonati di Bilychnis sarà concesso l’uso gratuito della Biblioteca, di cui pubblicheremo presto il regolamento.
Inviare cartoline vaglia al
Prof. LODOVICO PACCHETTO
Via Crescenzio, 2 - ROMA
I NOSTRI LETTORI IN AMERICA
sono avvertiti che i seguenti nostri Agenti volontari sono autorizzati a ricevere gli abbonamenti a Bilychnis
Rev. ANGELO DI DOMENICA
301, George Si. NEW HAVEN, Conn. U. S. A.
per gli Stati Uniti e il Canada.
Sig. JAIME C. QUARLES
Casilla del Correo, 136 MONTEVIDEO, Uruguay
per l'Uruguay e la Repubblica Argentina.
LE DUE ANNATE di Bilychnis I9I2 e 19I3, due bei volumi di 600 pagine ciascuno, riccamente illustrati, sono in vendita ai seguenti prezzi: l'annata I9I2 (rara) L. 6 in Italia e L. 8 all'estero; l'annata 1913 L. 4 in Italia e L. 6 all'estero
80
Prezzo del fascicolo Lire 1 —