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BILYCHNB
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno VI : : Fasc. V-VI. MAGGIO-GIUGNO 1917
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 MAGGIO-30 GIUGNO 1917
DAL SOMMARIO: PAOLO ORANO: La nuova coscienza religiosa in Italia -S. BRIDGET: Andrea Towianski e l'anima della Polonia' - FERRUCCIO RUB-BIANI: Un modernista del Risorgimento - FRA BERNARDO DA QUINTAVALLE: L'Avvenire secondo l'insegnamento di Gesù (III) - RAFFAELE CORSO: Lo studio dei riti nuziali - MARIO PUGUSI : Le fonti religiose del problema del male (VI) - GIOVANNI PIOLI: ' Confessori ’ non 1 martiri ’ - Lettere del Fogazzaro al barone Radstock - WlLFREDO MONOD: L'anniversario della mobilitazione - TRA LIBRI E RIVISTE: Rassegna di filosofia religiosa (m.) - Collezioni italiane di classici latini e greci (G. COSTA) - Sant'Agostino e la decadenza dell'impero romano (G. COSTA) - Impero e libertà nelle colonie inglesi (G. LUZZ1) - LA GUERRA : Coi soldati dell'Yser (A. WAUT1ER D'AYGALUERS) — Alcune riflessioni d’un soldato ; il diario di un • clergyman * soldato (G. PIOLI), ecc. ccc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo X #
—— Via Crescenzio, 2 - ROMA -------D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per T Estero -------Via del Babuino, 107 - ROMA ———
AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO Per l'Italia L. 5. Per l’Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
X Si pubblica la fine di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine. X
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Questo fascicolo doppio comprende i numeri di maggio e di giugno e completa il IX volume ( 1 ° semestre 1917).
Nonostante le difficoltà e le limitazioni imposte dal momento, abbiamo dato in questi ultimi sei mesi 444 pagine invece delle 384 promesse.
I nostri lettori vogliano prenderne buona nota, e... quelli di loro che non ci avessero ancora inviato il loro abbonamento, facciano senza indugio il loro dovere, inviando cartolina-vaglia all’Amministrazione.
Al prossimo fascicolo uniremo ¿'indici del IX volume.
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NOVITÀ
È uscito il 2° volume della serie Guerra e Religione di Romolo Murri col titolo:
IMPERIALISMO ECCLESIASTICO E DEMOCRAZIA RELIGIOSA
Ecco l’indice dei capitoli :
Introduzione - La teologia e la gerarchia hanno negato lo spirito — Lo spirito e gli idoli - Il culto del Papato — Storia recente. Tre Papi —’ Il culto della Bibbia - Il nuovo fariseismo - La Chièsa Romana e il N. T. - Il culto dello Stato - La religione degl' Italiani - Da che parte è il Vaticano? — Perchè il Vaticano è neutrale — Cerchiamo Dio.
Il volume, di 116 pagine, con artistica copertina di Paolo Paschetto, si vende al prezzo di L. 2
Rivolgersi alla Libreria Editrice Bilyghnis, Via Crescenzio, 2 - Roma.
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BILYCtlNB
RIVIRA DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA - DI ROMA&
SOMMARIO:
Paolo Orano: La nuova coscienza religiosa in Italia...... Pag. 325
S. Bridget: Andrea Towianski e l’anima della Polonia.............. > 342
Ferruccio Rubbiani : Un modernista del Risorgimento. . . . . » 349
Fra Bernardo da Quinta valle: L’Avvenire secondo l’insegnamento di Gesù - III. Le relazioni fra il di qua e il di là dalla
tomba. . . . .. ........ . - . . . . • > 361
Raffaele Corso: Lo studio dei riti nuziali......... > 374
Mario Puglisi: Le fonti religiose del problema del male - VI. Le diverse fasi del problema del male nella primitiva coscienza religiosa (fine) . . ............... . . »381
Giovanni Pioli: “Confessori” non “martiri”. - Basii Wilberforce
- Il barone Radstock - Lettere del Fogazzaro al barone Radstock - Josiah Royce - Beniamin Kidd ......... > 398
Illustrazioni: Arcidiacono Basii Wilberforce - Barone Radstock
(Tav. tra le pag. 400 e 401).
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
WiLFREDO MONOD: L’anniversario della mobilitazione . . . . . > 410
TRA LIBRI E RIVISTE:
m. : Rassegna di filosofia religiosa (XVI) : L’amoralismo politico - Religione e nazionalismo - La riforma religiosa - Le origini del bergsonismo - Fichte pedagogista - B. Croce, i neo-scolastici e là guerra............ » 415
Varia: Collezioni italiane di classici greci e latini (G. Costa) - Sant*Agostino e la decadenza dell’impero romano (G. Costa) - Impero e libertà nelle colonie inglesi (G. Luzzi) .................... » 422
LA GUERRA (Notizie, Vóci, Documenti):
Alfredo Wautier d’Aygalliers : Coi soldati dell’Yser .......... > 429
Giovanni Pioli : Alcune riflessioni di un soldato.............. > 437
Il diario di un « Clergyman » soldato.................... > 440
Nelle trincee ....... ....................... . . . > 443
A fascio ... %............... . . . . . ........... . . » 444
Pubblicazioni pervenute alla Redazione ............... > 429
Novità Librarie ........... ................... » 432
Cambio colle Riviste ................. ......... 439
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NOVITÀ !
Siamo lieti di annunziare ai nostri lettori che il Dottor D. G. Whittinghill, Editore della Biblioteca di Studi Religiosi, ha pubblicato in questi giorni un bel volume ch’è destinato ad avere senza dubbio un ottimo successo:
LA CHIESA E I NUOVI TEMPI
E una raccolta di dieci scritti originali dovuti alla penna di Giovanni Pioli - Romolo Murri - Giovanni E. Meille -Ugo Janni - Mario Falchi - Mario Rossi - « Qui Quondam » -Antonino De Stefano - Alfredo Taglialatela.
I soggetti trattati, preceduti da una vivace introduzione dell* Editore, sono tutti vivissimi:
Chiesa e Chiese - Chiesa e Stato - Chiesa1 e Questione sociale - Chiesa e Filosofia - Chiesa e Scienza - Chiesa e Critica (2 studi) - Chiesa e Sacerdozio - Chiesa ed Eresia - Chiesa e Morale.
E un libro-programma.
È un libro di battaglia.
Il bel volume con significativa copertina artistica di Paolo Pa-SCHETTO, si compone di pagine xxxi-307 e costa Lire 3.50.
Per speciale accordo avuto Coll'Editore Dott. D. G. Whittinghill gli abbonati di Bilychnis- possono averlo-franco di porto per Lire 3.
Rivolgersi alt Amministrazione della Rivista.
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LA
NUOVA COSCIENZA RELIGIOSA
IN ITALIA <*> ' ' ’
Sommario: I. I giudici della nostra religione siamo noi. — II. Religione non è importazione.— HI. Cristianesimo italico.— IV. Decadenza del cattolicismo vaticano. —- V. Il risveglio religioso e anche cattolico si fa fuori della Chiesa. — IV. La marcia verso tutte le libertà. — VII. Una grande età divina. — Vili. Religiosità nazionali ed umane. — IX. Il complotto tirannico-teocratico. — X. La Chiesa non à che due vie d’uscita e ambedue sull’abisso. — XI. Religione è libertà, sincerità, potenza, indipendenza. — XI1. Il sacerdozio ufficiale perde la Chiesa. L’Italia farà la sua riforma religiosa.
Dies dici cruciai verbum d nox nodi indicai Scientiam.
IN qui è stato vezzo di inesperti scrittori di cose religiose in Italia, il derivare principi e giudizi da fonti straniere. Non sarà mai troppo ripetuto che, mentre ciò è indizio della peisisiente servilità dello spirito, contribuisce a quel disperdimento di forze intelligenti, già grave per altre cause, e a crescere la confusione e il malinteso che in argomento di religione ànno anche troppo regnato in Italia. Se v’è un paese dove il senso religioso . e le sue manifestazioni e i suoi diversi apparimenti nella serie delle vicende storiche vada studiato rifacendosi a fonti domestiche ed interiori, questo paese è per l’appunto l’Italia. È probabile non sia lontano il giorno in.cui il medesimo criterio s’abbia a far valere anche per il fatto economico veduto alla luce di dottrine e concezioni paneconomistiche; è probabile non sia lontano il giorno in cui i modi di considerare il fatto economico appaiano come assurdi e aberrazioni e vengano espulsi, solo perchè nacquero fuori d’Italia. Voglio intendere con ciò che al modo ¡stesso per il
(*) La stessa libertà con la quale il nostro chiaro collaboratore Paolo Orano esprime sentimenti ed idee personali, offriamo egli amici di Bilychnis che desiderano partecipare ad uno scambio di vedute sull’importantissimo argomento. Red.
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quale la nostra grande età commercialistica non sarà un alone del germaniSmo, non sarà un calvinismo o un luteranesimo la nostra riforma, non sarà un’erudizione berlinese la nostra sapienza critica, e non sarà un bergsonismo o che so io altro la nostra nuova filosofia. Desse Iddio a qualcuno, se non ne ò merito io, la capacità di chiudere in un libro la ragione maravigliosa e complessa delle correnti intellettuali e morali agitatesi in Italia in questo ultimo mezzo secolo. Appena adesso muore l’epoca del dominio duplice sull'anima italiana della diagnostica francese e della prognostica tedesca; appena adesso noi ci sentiamo assicurato nella mente il germe del principio riaffermativo che fiorirà e si farà grande abolendo i due termini della lotta franco-tedesca nati con la creazione dello Stato richelieuiano e la riforma luterana e rinvigoriti dalla Rivoluzione francese e della critica tedesca alla fine del secolo decimottavo. A malgrado di tutte le loro pretese di novatori, quei facilisti a cui accennavo più su, continuano a dare allori a Mentana imperiale od a Sadowa imperiale, perchè vogliono spiegare i moti religiosi, i fremiti etici del cuore italiano con lo sterile capriccio di un teutone o la distillazione stantìa di un francese. È cessata anche la possibilità di parer nuovi derivando da novità forestiere; s’impone la necessità, e cioè il dovere per chi si dia a questa sorta di studi, che vanno fatti a un tempo e sul libro e sulla vita con calma, con lentezza, con amore, con misura, con profondo senso di razza e di tradizione, di attingere alle fonti della casa. Per quel che riguarda la nostra vita religiosa, dico nostra, dico italiana, non possono esservi giudici e nemmeno conoscitori di fuori da noi. Fede è intuizione morale e apprezzamento ab interiori, religione è voce che non à eco esterna e non è raccolta da orecchie di commessi viaggiatori di straniera merce comprata a buon prezzo da clienti non difficili d'Italia. È tempo di dichiarare che come in tema di politica italiana il solo punto di vista energico fattivo e definitivo è il punto di vista italiano, così in tema di religione italiana e di sincerità mistica e di certezza, soltanto gl’italiani di sangue, di mente e di volontà, si tengono al solo punto di vista autentico. La nostra religione non è un codice da entusiasmare o far ridere gli occhi dell’iperstoricoo del supersociologo alemanno; non è un ordine di fenomeni da eccitare lo psicologismo degli emarginatoti della storia che si viene facendo, viventi tra la loro sedia e il loro tavolo, passeggiatori in tram c senza variazione di corsa della realtà umana.
II.
Una delle idee fondamentali del mio antico libro Cristo e Quirino (1) —- lo chiamo antico perchè non mi sembrerebbe giusto chiamarlo vecchio — è questa: una religione non è mai importata. Alla luce di questa idea, io rifiutavo — e mi par di poter dire: rifiuto — di vedere e capire un cristianesimo che si ja dall'esterno.
(1) Da molte parti e da parecchi anni mi si chiede con insistenza ove sarebbe possibile trovare questo libro. Dirò, rispondendo qui a tutti i sollecitatori, che Cristo e Quirino, arrivato alla terza edizione in Italia, era per essere pubblicato in*francese e in tedesco l’anno in cui scoppiò la guerra. In Russia fu dato intieramente sulla Rivista La bilancia. Fu l’Ueberveg-Heinze a dargli una larga diffusione tra gli studiosi tedeschi. Se saremo vivi e nulla si oppone più, cercheremo di dar presto la quarta edizione. P. O.
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Nel cristianesimo di cui i quattro evangeli e gli Atti degli Apostoli ci dànno la quintessenza, alcuni elementi sono elementi non trapiantabili. Un cristianesimo arabo dove esiste? Eppure Gesù era arabo-semita. È egli mai possibile s’insegni a molti milioni di genti occidentali — noi latini sopratutto — a pregare, piangere, abbandonarsi, perdonare, credere? Non s’importano tali elementi come la musica di Wagner, il divenire di Hegel, il socialismo di Marx, i ventaglini giapponesi e il caffè del Brasile. Questi elementi debbono essere indigeni del paese ove i loro arbusti sono diventati foresta. Ciò è tanto vero che il cristianesimo non à attecchito colà ove si fece la predicazione di Gesù. Il cristianesimo s’è fatto a Roma: enunciato innegabile così da parte di un protestante che di un cattolico o di un israelita. Or dunque frughiamo in fondo alla zolla spirituale di Roma. È quello che io ò chiamato il terreno del cristianesimo, dando all’episodio Gesù un valore di alto lirismo storico e di mistica e umana occasionalità alla simbolica necessaria al manifestarsi della innovazione profonda autogena latina, non d’importazione asiatica. Rifiutando questa interpretazione, per la quale l’essenza del cristianesimo sarebbe un fondo italico emerso in condizioni favorevoli, tal quale come la lingua volgare italiana che fu sempre parlata in basso e solo da un certo momento in qua, attorno al Mille, cominciò a diventare la lingua d’uso generale, aulica, ufficiale, di paese e parlata e scritta e quindi nel Duecento letteraria; rifiutando questa interpretazione si verrebbe a dover accettare la possibilità delle formazioni esteriori dei plessi psicologici, etici, mistici che diventano poi interiori pure importati, mentre — si badi bene — non gittano radici affatto nel terreno in cui son nati. Semi su pietre. Ma se son nati, son nati senza radici. Ed avremmo quindi qualche cosa come un fior di loto del Giordano, o una trista pianta d'acqua morta dell’Asfaltide che, trapiantata a Roma, sarebbe diventata il maestoso parco molle di luce, fervido d’acque, stormente di boschi, ricco di tutte le più nuove prospettive della bellezza misteriosa, il cristianesimo, la civiltà delle civiltà, perchè la sola civiltà interiore, quella che incomincia ove tutte le altre arrivano, che arriva e può sempre andar oltre, che fruisce d’un’altra luce oltre quella del sole, che fa dei principi onde si coronavano le altre civiltà mezzi di prova e dà all’atto interiore puro e libero l’onnipotenza e la totalità dei risultati e in un individuo chiude l’esemplare, e costituisce una forza senza violenza e al diritto indica strade che non conoscono termini e a tutto l’essere per ogni creatura dinanzi a un fine d’esaltazione infinita ed eterna dà una ragione più alta della ragione: l’amore, la suprema parola nello sviluppo del diritto, il raggio superlativo nello splendore della bellezza, scienza e coscienza insieme, atto e contemplazione, fuor del tempo, fuor dello spazio, pensiero che opera, opera che è certa del compimento.
Non si può importare un’anima come s’importa e magari fa fortuna — gli snobs.sono le creature deboli e le creature deboli sono timide e perchè timide facili a stupirsi, a subire, ad imitare, a ripetere, a seguire, ad immedesimarsi — una filosofia. Il cristianesimo è superamento di filosofia, come la guerra è superamento di tendenze e risoluzione d’un processo dialettico, direbbero con frase press’a poco hegeliana i sopravvissuti dell’imparaticcio d’oltr’Alpe di ieri. Il cristianesimo — ond’è che la parola non basta —- vien dall’interno, come vien dall’interno tutto quanto, e, nell’attimo episodico e nella successione degli sviluppi, così felicemente
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si plasma come il cristianesimo s’è plasmato riplasmando alla sua volta. Ma se vien daH’interno, studiamo dunque il terreno autèntico donde il cristianesimo è uscito e cioè vanghiamo e più in fondo che ci resta possibile la zolla romana, perchè l'anima del perdono, della preghiera, della rassegnazione, delle lagrime, del martirio, della fede interiore — fidcs, latinamente diceva l’esteriorità della garanzia negli atti, la sufficienza a garantire, e il significato ancor resta e perfino negli atti scritti — perchè quest'anima doveva avere, non essendo importata, non essendo ammissibile che potesse essere importate, le sue profonde molteplici radici nello spessore della interiorità latina.
III.
Giunto a questo punto del mio ragionamento in Cristo e Quirino, io mi sobbarcavo a quella sottile analisi di quel che non è detto dai grandissimi autori sinceri della latinità, specie' da Orazio, arrestandomi su quell'epodo XVI che Giosuè Carducci veniva, proprio mentre io lo venivo considerando in ogni più riposto significato, traducendo superficialmente e comentando senza alcun senso degno del canto, degno dell’argomento, degno del contenuto formidabile. L’epodo XVI era per me — resta per me a un venticinquennio quasi dall’impresa così superiore alle forze critiche del giovinetto che io ero nel 1895-96 — una preziosa sigla ermeneutica di un segreto linguaggio di Orazio uomo provinciale in Roma, poèta dell'umanità sul ciglio della tragica esaltazione imperiale latina. Avvicinavo a quello strano grido di fuga spirituale alcuni altri passi dei Carmina, sondavo Virgilio e gli elegiaci, provavo ad una critica più coraggiosa e senza falsariga il valore delle idee generali informanti la poesia del gran secolo, l’amore, il dolore, il bisogno di custodire la propria personalità, il diritto alla solitudine, certa battuta di tenerezza e quasi di soavità nei precetti al coro nel De arte poetica, un principio di desolazione, un brivido d’oscura aspirazione all’incompreso, un moto verso il diverso innominato, un gesto verso l’isolamento e l’irreperibilità morale, lo sgomento quasi d’un evento inconcepibile tutto interiore, l’attesa insomma arcana ma indubitabile di un Iddio saliente entro gli abissi spalancatisi del pensiero, in tanto più terribile in quanto germinato come signore e padrone, ma di noi stessi fatto e contro di noi se non per noi. Era, in una parola, il pensiero che diventava coscienza col destino di totalmente tramutarsi e affermarsi come coscienza, irrequieto, insonne, occhivigile eterno non più interrotto e limitato dalla morte. Circondandola d'apoteosi questa emergente vittoriosa anima latina, uccideva la Morte dismate-riando la Vita.
A tanti anni di distanza — pensiamo un po’ a quel che ànno dato la mente, il cuore, l'odio e l’amore in ventidue anni! — io non posso dirmi di non continuare a tener per giusto cotesto argomentare, che ebbe anche gli onori di un dibattito, alcuni anni dopo, nel 1903, all'Associazione della Stampa di Roma, durante il Congresso Storico Internazionale, in seguito ad una conierenza cristologica e dirò così teologica di Adolfo Harnack, presiedendo radunanza con molta trepidazione Luigi Luzzatti e contradicendo, per l’ultima volta, Romolo Murri. In fondo, la mia
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concezione alzava il cristianesimo nel mio spirito. Io ne ò una esperienza di razza, lo sento nato dalla Romanità; la Romanità lo portava in sè come portava in sè il volgare, che sarebbe diventato l’aulico di Dante, di Machiavelli, di Galileo, di Mazzini. lì cristianesimo è per me un fatto che antecede ogni primissima formazione ecclesiastica e che sfugge alla pretesa della spiegazione gottinghiana — la parola propagandata che diventa seguacità e chiesa — e dello Hatch — una nuova diversa domus, un’altra associazione che viene disviluppando apprezzamenti e pensieri e visioni adeguate alla oikonomia specifica. Lo portavano gl’italici nel segreto spirituale della loro vita e quel che si chiama il trionfo di Paolo e la virtù quasi rivoluzionai rice dell’Apostolo non è, in ultima analisi, che la sapienza accomodatrice di un uomo di genio — ve ne fu dunque mai di pari al Tarsense? — il quale lungo il periplo epico venne via via romanizzando la vaga musica di una parola altrimenti deserta. Riempire la forma classica della sua vera anima è lasciare ch’ella si riempia da sè, aiutare il processo inevitabile. Non è a Roma che i principi del codice etico gnoseologico e religioso di Paolo acquistano formulazione definitiva? Che cosa sarebbe Gesù senza Roma? Non è per questa medesima ragione, che la Chiesa vuol essere romana? Non è per questa medesima ragione d’alta politica storica che il pontefice dev’essere di gente italica?
E sarai meco, senza fine, cive
di quella Roma onde Cristo è Romano.
Nel giuoco di queste parole lapidarie c’è un presentimento critico che Dante non à forse così meraviglioso altrove.
IV.
A questa maniera tutta mia personale di considerare l’origine del cristianesimo nel libro Cristo e Quirino, mi à fatto ripensare più volte la vicenda intensa degli ultimi tre anni e più che tutto l’insistente vana tediosa pretesa di parecchi sedicenti novi informati di cristianesimo, di cose sociali, di psicologia dei popoli e di vita italiana, di mescolare sino a voler fonderli cristianesimo e Chiesa cattolica. Mi segua il lettore attentamente in questa diagnosi di certi modi di esprimersi attuali e vegga quanta negligenza del buon metodo governi anche i teoristi più in punta di forchetta.
Si vuol vedere entro il conflitto presente un cresciuto valore della Chiesa cattolica. Ora la Chiesa cattolica è alla vigilia di vedere atterrato quell’impero cattolico Absburgo, spalla e garanzia europea del papato politico. Domani le varie razze che compongono Firn pero-regno d’Austria-Ungheria, aggregate alle affini più omogenee e potenti, o organizzate in Stati nuovi, troveranno in regimi democratici, monarchico-rappresentativi o republicani, il loro assestamento. La -guerra non può finire che a questo patto. È nata per questa ragione. Se la Germania non cattolica, sin dal principio della guerra, e anche prima, del resto, s’è fatta così valida e generosa ausiliatrice della Chiesa, dirò meglio, del Vaticano, ciò è stato perchè i suoi destini erano affratellati a quelli dell'altro impero autoritario, arbitrario.
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a. radici feudali-militari degli Absburgo. Absburgo à voluto per la Chiesa vaticana un trattamento d'eccezione. È stato detto che Germania, Austria e Vaticano costituivano e costituiscono quel potere oppressivo che nell’agosto 1914 à tentato il supremo gesto di reazione ed à cercato d’imporsi all’Europa liberale. In politica Hohenzollern cattolicizza perchè purtroppo sino ad oggi il cattolicismo vaticano è stato anch’esso un sistema organico tangibile d’interessi politici. Ma parlare d’una cresciuta fortuna del cattolicismo dinanzi all’inevitabile prospettiva della caduta di Absburgo, r Absburgo cattolico, l’ultimo palladio del sanfedismo, l’ultima trincea della difesa austro-cattolica, l’ultimo principio della provocazione contro l'Italia; parlare di crescente o aumentabile fortuna della Chiesa centrale, del cattolicismo vaticano in Italia e negli altri paesi dell'alleanza antitedesca, è dire cosa risibile, da mentecatti. Perchè l’ultimo valore politico internazionale della Chiesa precipítela con la scomparizione d’Absburgo, con lo sfacelo dell’impero austriaco, per contentare e tenere amico e finalmente ingannare il quale la politica della Germania è stata quello che è.stata negli ultimi periodi ed a nessuna ragione basata su radici omogenee potrà fare appello il papato a farsi permettere le sue mene contro l’Italia e perdonare i suoi tentativi di regresso e di reazione.
Questa guerra avrà dunque rivelato che il papato fece alleanza con la sua negazione tedesca (l’impero luterano) e il nemico nato dell’Italia (l’impero d’Austria). Avrà rivelato che le mene del papato ànno pesato sui destini del Belgio e della Francia del nord, perchè sotterraneamente Hohenzollern e Vaticano stettero alleati, convinti il Vaticano che Hohenzollern, vincendo, sopravviverebbe l’impero cattolico di Absburgo e cioè la sua cattolicissima sicura difesa. Questa guerra avrà rivelato che la legge delle guarantigie garantisce un pericolo interno di tradimento e che un qualunque abitatore paonazzo o purpureo dei sacri palazzi può essere nient’altro che il fautore più spudorato di un sistema di delitti di alto tradimento contro l’Italia in .guerra. Avrà rivelato che il Belgio sa cattolicamente resistere e soffrire da eroe, che la Francia del nord sa cattolicamente, come quando la verginella d’Arco teneva il campo, sfidare la tortura degli inverni e delle estati per purificarsi dell’immondo nemico; avrà anche rivelato che nelle classi della Nazione il cittadino patriota cattolico non dà alcun valore alle manovre germanofile e vaticanesche di un pontefice; avrà rivelato che siamo arrivati al giorno in cui Dio parla senza intermediario di sacerdote al cuore dell'uomo ed arma di santa forza e di solenne calma il suo braccio contro la violenza del complotto imperiale-clericale-feudale.
VI.
Dunque se c’è un risveglio religioso, questo risveglio è sfavorevole nel cattolicismo alla Chiesa. Le energie permanenti benefiche sane pure del cattolicismo sono in urto con quelle apparenti equivoche inafferabili eterogenee della Chiesa vaticana. In Francia quanti siamo stati alle fronti di battaglia, abbiamo sentito il soldato francese parlare per motti brevi amari taglienti, di bocherie papale. C’è un cattolicismo francese, il migliore, che il papa à offeso e ferito. La Francia cattolica.
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assalita per sè, e il povero grande e caro Belgio, il Belgio nella sua lede umile ed ardimentosa, pensarono, credettero subito, appena il braccio del mostro si levò, che il capo del sacerdozio ufficiale cattolico alzasse il grido dell’anatema e maledisse Germania ed Austria. Avrebbe insieme maledetto anche Turchia, ma è dunque più il Turco un nemico della Chiesa, quando la Chiesa è occupata a minare nel sotterraneo concessogli in piena franchigia, la patria medesima in cui ella vive, da cui ella è nata? Il solo bene che poteva fare, la protesta morale col braccio teso e gli occhi frementi d'indignazione come la michelangiolesca figurazione del dominio che danna, la Chiesa non l’à fatto. Per tutta scusa: non ò armi per farmi valere; me le-à tolte l’Italia. Bisognerebbe chiedere al pio monsignor Gerlach se proprio mancano tutte le armi agli abitanti della vaticana capanna! Ma di questo sarà- giudizio storico patente decisivo tra non molto.
Ora non può essere in favore di una istituzione a cui è mancato e manca la forza morale — la sola di cui avrebbe dovuto dare segno e prova — che si va restaurando il senso religioso. Qui si vede, qui si tocca con mano che i forestieri sono incapaci e mali giudici in faccenda di religione e di senso civile. Da anni, e più in questi ultimi, leggete i loro anfanamenti a voler regolare a filo di logica dottrinaria il destino storico e religioso d’Italia, da Proudhon a Marx, a Gregorovius, a Sorci: ciascuno ne à una nuova da dire, qualcuno teutonicamente ci vuol ristabilire il papato temporale perchè sia ricostruito un vigente controllo della politica autonoma italiana; qualcuno sornionemente per via di'chiose (e camminano lungo la loro tenue scia i giovanili adepti in cui il vizietto snobista trionfa del largo senso fecondo della propria nazionale intelligenza) , riaccenna all ’evidente ritorno all’assoluto .pontificale e cifra e ricama con magica taumaturgia l’indiscutibile-necessità superstite di tornare al papa cattolico apostolico romano. Questo, intendiamoci bene, accade mentre si prepara il crollo dell’ultimo Stato confessionale imperiale oboliero del mondo; mentre contro la politica profanatrice d’aggressione tutti i più grandi e veramente civili paesi del mondo fanno stretti in un patto la guerra; mentre la Russia rapidamente marcia verso l’abolizione di ogni assolutismo di legime, di politica, di opinioni, di vita; mentre gli Stati Uniti dànno la mano all’Europa alleata ad affrettare ih colpo decisivo addosso ai sopravviventi regimi assoluti e violenti e dogmatici; mentre i due grandi paesi destinatila rinnovellarsi. il Giappone e la Cina famosi per l'assolutismo ieratico dei loro imperi, si associano a favorire con i mezzi materiali e morali di cui dispongono l’Europa civile e liberale in lotta contro il complotto imperiale-clericale così da essere questo di giorno in giorno più, serrato nella stretta delle regioni eroiche avanzanti, obbligato a ristabilire i gesuiti che un papa abolì nel 1773, che la Germania combattè durante una campagna, memoranda oggi per la stupidità dello scarso effetto.
VII.
Certamente il senso religioso si restaura. Est Deus in nobis, Giuseppe Mazzini avrebbe esclamato lanciando i suoi scritti di fuoco: — È l’ora. È l’ora in cui la coscienza del divino è matura nell’umanità materializzata dallo esperimentalismo macro e squallido del ritualismo amente del cattolicismo di tutti e di nessuno e
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dagli imperialismi egemonici niente altro in fondo che sistemi di speculazione dei regimi burocratici e socialistici. Dove c’era Dio — in Inghilterra l’impero medesimo con i suoi dieci e quindici milioni di guerrieri e il suo miliardo di miliardi s’è dato a far pesante la mazza che deve colpire il capo del mostro. Dove c era Dio — in Francia — dalla scarsità degli uomini pullula l’innumerabilità degli eroi. Se il papa li abbandona, quei fedeli del papa ànno Dio per loro. E quegli altri di Fiandra e Vallonia, quel pugno di creature colme di Dio, frementi di preghiera, fasciate di luce di vesperi nel trepidar della cattedrali non più materiali dalla tanta fede, quelle genti del Belgio violato e stritolato, senza colpa del papa, ànno tutto Dio nelle arterie della loro angoscia, lo ànno nel diritto nuovo acquisito, nella gloria immortale guadagnata, lo ànno nella condanna che soli portanno lanciare cóntro chi, senza averlo, à venduto e rivenduto Dio, lo ànno nella sanzione che farà piccina e smentirà la Chiesa di domani.
L’umanità è colma di Dio e questo totale empito di restaurazione della giustizia è la prova più lampante del Dio interiore che fa luce e conduce. L’umanità rinnova il sacrificio cristiano, si dà a) martirio, porta la sua croce tremenda, s’arresta a contemplare il rizzamento e la grande ombra tetra del tramonto umano, e si lascia alzare ed inchiodare al legno sul colle dinanzi alla città il cui tempio sarà colpito dal fulmine di una collera funerea. Ecco questa umanità che vuole il martirio, dopo che il suo Giuda l’à tradita. Eccola che, un’ora dopo l’offerta spaventevole e divina, la tremare il coperchio della tomba in cui il tormentato cadavere fu serrato, e s’alza in ascensione luminosa. Eccola che si redime e prima dall'errore della falsa fede. I suoi sacerdoti la tradirono e la consegnarono al carnefice, miserandi, ma necessari istrumenti della redenzione. Ogni giovine creatura che si slancia all’attacco è così scevra di carnalità, che quel che- arde e arriva e cade è fiamma di Dio. Ogni cuore che attende e si prepara alla prova à sàlito il Calvario e l’à oltrepassato. Dio à insegnato alle sue creature prima che quella divina, la patria umana e in questa le vuole eroiche e il suo volto è minaccioso verso quel sacerdote che aveva .taciuto l’insegnamento. In una patria terrena egli venne, anzi una ne fece più grande, più solida e sicura; nelle patrie egli torna contro i collegati diniegatori delle patrie, perchè la patria è la più certa conquista che l’idea armonica dell’essere abbia portato con sè ed abbia sviluppato sulle vie trionfali del perfezionamento umano.
Noi ci soffermiamo a toccare il nostro cuore che è traversato da un’altra rivelazione solare del divino. Le creature non cercano più il godimento; cercano la Gioia. L’Essere raccoltosi in sè soffia nella scintilla sopita nelle ceneri della dissociazione. S’alza s’avventa la fiamma della certezza. La vita cerca e vede sè stessa • traverso la morte con sguardo sicuro. La morte è diventata un esperimento senza meraviglia paurosa dell'anima. Si dà la vita al dovere terreno; ecco che là volontà intima è data al dovere immortale. La patria attrae, assorbe Dio. Nell'atto c’è la febbre della preghiera, lo scroscio delle lagrime, il languore obbediente della rassegnazione, la calma fedele della dedizione, la nozione precisa, la visione del termine, la presenza d’ogni sensazione di pena, d’ogni esaltazione per il consapevole valore spirituale della cosa; Si dà la vita in ogni attimo come Gesù dà in ogni attimo la sua carezza e il suo perdono. Si ragiona elencando le ipotesi della morte.
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della ferita, della mutilazione nella suprema difesa, della consacrazione alla morte certa per una ardita opera sicura tessuta di lucida crudele difficoltà impregnata d’impeto, fasciata di misura. L’anima è già di là. occupa tutti gli spazi intercedenti. si volge dal di fuori a proiettare la sua considerazione sulla vita che compie le serie dei suoi atti, e quasi constata da un futuro senza più tempo questi attimi -seriali e temporali.
Vedete la solidarietà della creatura con l’infinito che è in questo subordinarsi al terribile, che, affratellato, diventa docile, razionale, « pacifico »! Quando x l’uomo raggiunge la razionalità e l’ordinarietà dell’eroismo, quando cioè opera in vista d’un interesse del solo valore, prescindendo totalmente dal costo personale e materiale, la fisiologia e l’economia non vigono più con le loro leggi. Gesù è nella crocifissione; l’uomo è nella' dedizione guerresca. Andate a credere che Dio non abbia bisogno del sacrificio umano. Il suo Uomo esemplare à operato sacrificalmente.
Vili.
Tutto questo innovarsi dell’anima nella patria per la giustizia, questa immediatezza di comunicazione dell’individuo, fattosi veramente rappresentante di tutti, con l'infinito, s’è compiuta di fuori dal cattolicismo. Il cattolicesimo à dovuto seguire mal volentieri, come un chiunque trascinato, scuro in viso di sospetti e di non consolanti intenzioni. Il cattolicismo non era con l’uomo liberatore, col franco tiratore della giustizia, con lo chasseur del diritto, con l’alpino del dovere morale sereno, con il cosacco della santa rivendicazione; era con l’inquietudine dei viola-1 tori, perchè li vedeva capaci di trionfare subito. Il papato non era sicuro che Dio avrebbe aiutato i giusti, gli aggrediti, i torturati o i redentori delle genti da anni gementi sotto lo straniero. No. Il papato che si afferma superiore alla storia, estraneo alle politiche, neutro nelle competizioni civili, teneva bordone alla manovra d’un tentativo d’impero laceratole di patti e distruttore di scrupoli. Subito fu con lui e gli avrebbe data inerme, legata, imbavagliata l’Italia; e ancora, se Mefistoiele risalisse in fortuna guerresca, glie la darebbe. Non c’è che Mefistoiele muoia vinto perchè sia abolita la possibilità dell’impresa. Avrebbe dunque il papato cooperato ad impedire che tanta rinascenza d’anima si compiesse! Esausta è la fonte del divino in lui. Inevitabilmente, necessariamente Dio cerca un altro tempio, cerca il.suo nuovo tempio colà dove subito gli fu offerto l’altare di legno, di sassi, di neve, dove fu elevato il calice sull’affusto, dove il ciborio fu collocato fra i piccoli letti da campo rossi dèi -sangue giovanile, dove la battaglia aureolò d’un nembo di fuoco e d’una corona di tuoni la pia consuetudine del pane e del vino. Dio abita dove nell’attimo s’è scelta Ja via, sulla fronte e nel cuore di coloro che istantanei ànno detto: — La giustizia non à domani per chi la difende; il diritto non rimette le sue sanzioni; il bene non si rinvia; non si discute il dovere; la vita non si dà a metà. Tutto dare bisogna e subito. Sono rizzate le croci. Sacerdozio è la battaglia d’ogni dì; prova il pericolo d’ogni istante; lavoro il morire.
Ora che Dio trionfa in testa alle sue legioni, dopo che fiumi corsero a riempire oceani di sangue e la mitraglia defigurò la faccia delle regioni, ora che la rude
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sublimità dei fatti operati voluti col gettito esuberante della vita, s’impone e che non v’à più speranza a veder rialzate le sorti del complotto imperiale-militaresco-clericale, il papato latineggia in sordina. Ora lo spettacolo santo del trionfo religioso dell’umanità giusta, contro la quale sino a ieri egli si prestava per i cattolici che sono in tutti gli Stati ed ànno davanti al cuore del supremo sacerdote i medesimi diritti, questo trionfo dovrebbe essere considerato come il guadagno fatto fare al mondo dall’opera ufficiale del cattolicismo. Se la guerra è così favorevole a restaurare la sue buone fortune sociali e politiche, perchè si lagna della guerra il papato? E dal momento-che se ne lagna e se ne protesta così contrario, ciò vuol dire che il rinascere del senso religioso nulla à che vedere con la sua condotta, è un insieme di avvenimenti estraneo alla Chiesa, in cui nulla potrebbe l’azione confessionale; vuol dire che tra guerra e religione non c'è posto per un intermediario; vuol dire che in tempo di guerra Dio si mette direttamente alla testa delle sue creature, quelle che vuol difendere in gloria di martirio, in trionfale sfolgorio di tortura, e che il sacerdote non à altro destino nel frangente, sublime che lamentarsi della disoccupazione in cui è stato lasciato.
IX.
Nel cattolicesimo esistono, secondo quel che a me pare, alcuni degli elementi capaci di servire a costituire la Chiesa che si verrà facendo negli spiriti purificati dalla guerra. Il cattolicesimo ufficiale era venuto in questi ultimi cinquant'anni assumendo l’aspetto d’una Internazionale assai simile a quella tedesca. Simulando la purità dell'idea fondamentale — gli uomini sono prima e sopratutto i fedeli del tempio — faceva guerra al ricostituirsi del sentimento nazionale specialmente latino ed italiano, perchè Francia democratica e separatista ed Italia unitaria abolitrice dèi potere temporale dei sacerdoti, costituivano il nucleo antitetico al suo principio ed al suo programma. Così la Germania sociale e socialistica, simulando la purità dell’idea fondamentale —- gli uomini sono prima e sopratutto i soci nella fatica contro i soci nello sduttamente della fatica — faceva guerra ai valori nazionali, al concetto di popolo, all’elemento razza e patria. Io sono la salvatrice delle anime — diceva la Chiesa. — Io sono l'emancipairice degli sfruttati—diceva la Germania. S'erano divise il privilegio divino-umano e s'avviavano a governare il mondo che sarebbe quindi diventato un’ineffabile mescolanza di prussianismo e di vaticanismo, una caserma teologica, un seminario hegheliano, il terreno di dominio di due caste, la militare e la sacerdotale. Qui cerchino coloro che ne ànno la capacità gl’intimi rapporti di simpatia e l’affinità che uniscono più che non sembra l’Internazionale-imperiale tedesca aH’Internazionale-sacerdotale vaticana.
Ma, a dispetto della Chiesa-vaticana e della cattolicità-governo, esistono, ò già detto, nel cattolicismo italiano alcuni degli elementi adatti a costituire la sostanza nucleare d’una religiosità novella tutta nazionale. Perchè bisogna intendere, bisogna credere, bisogna sentire nel fondo del nostro spirito che noi ci stiamo avviando in Italia ad una riafférmazione religiosa di cui quegli elementi cattolici non saranno che una piccola parte, un organo del novello ingigantito organismo. Da oltre due ge-
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nerazioni le anime gentili e le menti coraggiose si manifestano con un linguaggio religioso che dice come gli stati passivi del rito ereditario siansi mutati in energie volitive. Sì Italia va verso una religione di atti e di voleri, une religione a un tempo entusiasta e consapevole, una sintesi divina del vero storico, della sapienza intellettuale, dell'armonia misteriosa, un rifarsi avido e vigoroso alle fonti fresche della fede, una religione in cui la libertà sia la ragione d’essere medesima -della disciplina tutta spirituale. Non veggo il trapasso con sciatto criterio di rivoluzionario, ma con occhio placido di chi s’è dovuto venir via via convincendo e in sulle prime a malgrado di sè. La Chiesa agli animi dei migliori suoi seguaci dà spettacolo di far. servire troppo a troppe disparate mire la religione con l’espediente sicuro, nella crisi sociale travolgente dell’epoca, del profitto personale, della carriera. Ora, c’è nell’aria che respiriamo, nella estetica di che si circondano i nostri pensieri e le nostre tendenze, l'ideale d’una concezione religiosa che non ferisca o si opponga o diminuisca la realtà della vita come l’opera nostra medesima è venuta costituendo. In Italia il credo canonico è un attentato quotidiano, perenne alla realtà. In cinquant’anni circa da che si compì definitivamente tutto il destino politico della Chiesa vaticana, il cittadino deve ancora essere condannato o a far le viste di soffrire l’onta che lo Stato inflisse alla Chiesa, o a darsi ruentamente alla negazione insieme della Chiesa, del cattolicismo, della religione, del sentimento del divino. Dico il cittadino che avrebbe nudrito le migliori intenzioni di restare in buoni rapporti morali con lo Stato nuovo, e quello che non era affatto nato per gittare il buon senso di una fede sulla fiamma ventosa della negazione. La patria è la troppo alta conquista pratica dell’uomo, perchè la Chiesa si possa impunemente permettere sminuirne il valore. La patria è il fatto morale e religioso della storia. Dante ne à portato il palpito tra i demoni, sotto l’ombra dell’albero del bene e del male, dinanzi a Dio. Mazzini nell’epoca nostra à rivelato — non interiore a Gesù in questo — che la vera religione è quella che si concilia con la patria ed è per questa patria religiosa che noi, i quali eravamo ieri tenuti nella maliarda schiavitù della Circe dottrinale dall’esotico linguaggio, abbiamo cinto una spada convinti che Dio, natura storia, giustizia facciano uno di fronte ad un tentativo di abolizione delle patrie. Dinanzi al giudizio del nostro cuore divino non vi sono patrie più grandi o patrie più piccole. Dio considera le patrie di pari diritto come l’anima di chiunque sia nato e una patria non à un diritto maggiore se non in quanto se lo è guadagnato ed un minore o nessuno, se non in quanto lo à perduto. Ecco perchè l’enorme patria tedesca del due agosto 1914 à perduto il diritto di esserlo e perchè, a malgrado dei cavilli teologico-diplomatici del Vaticano, la esigua patria belga à acquistato il più alto titolo di gloria, titolo di gloria e nella storia e in cielo: la palma del martirio.
X.
Questa guerra democratizzatrice à dunque la missione storica di eliminare l’ultimo resto di importanza politica della Chiesa-vaticana. Ma poi gli eventi degli anni 1914-1917 sono, io direi, la confessione della Chiesa medesima di non poter più continuare a mentire, a tradire, a tacere, a corteggiare. Da un lato la Chiesa
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cattolica che si proclama internazionale e che magari pende più per il tedesco che per l’italiano, si è condannata ad aver sempre un papa italiano. Il giorno nel quale il Conclave ci regalasse un papa mongolo, la questione vaticana sarebbe finita. Ma come potrebbe un papa mongolo, venuto su santamente eroicamente attraverso le missioni, proclamarsi il prigioniero dell’Italia in Vaticano? Il papa dev’essere un principe italiano, dev’essere ancora il sovrano dello Stato della Chiesa, acciocché la sua querela sterile, ma passante in atti ogni dì per le fortunate eventualità dei nemici d’Italia, si ripeta dinanzi al mondo cattolico. Non basta. Il papa italiano il quale s’è costituito parte civile davanti al tribunale del mondo di fronte all’Italia rea, non può condursi italianamente. Perchè la sua protesta valga, chi più gli giova è il suo nemico tradizionale, l’imperatore tedesco, l’eresia luterana fatta sovranità, il libero esame arrivato alle estreme conseguenze della critica, colui insomma che impersona il principio antagonistico a quello della cattolicità romana. Un tale nemico della fede è per origine nemico della cattolicità di Francia, cosicché l’alleanza diplomatica del papato romano con l’impero luterano è una sfida alla coscienza cattolica francese, sfida di cui il papato è ancora ben lontano dal comprendere le conseguenze nel così detto dopo-guerra, còme è ben lontano dal comprendere le conseguenze della eccessiva benevolenza usata verso coloro che, durante la fiera c complicata guerra della più vasta emancipazione etnica italiana, lavoravano e lavorano a colpire l’Italia alle spalle.
In conseguenza non c’è via di scampo: o il papa resta italiano e persiste nella pretesa temporale e s’allea ai danni della latinità con l'impero eretico, e si danna al medesimo destino al quale s’è dannato l’eretico impero; o il papa, a provare la sua cattolicità, sarà domani tedésco, posdimani arabo, più tardi cinese, più in là ancora papuasio, e allora la questione romana sarà caduta di per se stessa. Se si ostina della pretesa temporale, e resta diplomatico alleato e complice della Germania come sin qui ha fatto, avrà nemica l’Italia e nemica la Francia e nemica l’Inghilterra e nemici gli Stati Uniti. Se dismette la pretesa, si lascia riassorbire e s'avvia a diventare una associazione di credenti senza nessuna organizzazione di regime.
Poniamo ora che si ostini nella pretesa temporale. Ma l’Italia patria, nazione e Stato sarà, dopo la guerra, più grande, più torte, più rispettata in Europa e nel mondo, e detterà leggi nel congresso delle potenze tali che i cattolici del mondo la dovranno rispettare, se non lo ànno fatto sinora. Ancora, quali saranno lè condizioni finanziarie e diplomatiche della Chiesa, caduto Absburgo? Avremo, fatti dalle nazioni prima oppresse, degli Stati ortodossi là dove era Absburgo e nei Balcani. La diminuzione dell’importanza morale del cattolicismo è evidente. L'impero cattolicissimo e confessionale ed intransigente di Casa d’Austria faceva apparire tutto d’un colore religioso — se il nero è un colore — lo Stato e i riformati e gli ortodossi vi soffrivano. Cadendo Absburgo, la liberazione è inevitabile conseguenza dello assestamento diverso. Ancora, l’influenza slava dell’immensa Russia, non cattolica, non più imperiale, avviata ad un democratismo dei più arditi, libera pensatrice e critica ed espansiva per natura, farà violenza su tutto il mondo già absburghese. Dico che l’ortodossia, la quale è un antipapismo, acquisterà una straordinaria forza e diminuirà la zona d'influenza del cattolicismo papale. Insomma il papato sarà ri-
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dotto ad avere — per la ragione dei contrari? — il suo sostegno nella protestante Germania, la quale resterebbe il solo paese feudale-militaresco-imperiale del mondo. Ma potrà la Germania restare la Germania degli Hohenzollern, potrà restare l'impero nazionale dominato dalla Prussia? E i cattolici di Germania costituiscono veramente un plesso di fedeltà pontificia su cui il papato di Roma possa contare? Io ò détto altrove — vedi: Nel solco ddla guerra, Treves, 1915 — che in Germania non esistono cattolici. I tedeschi non sono stati mai cattolici e non lo potrebbero mai essere, tanto è vero che una religione non s’importa, ma si assimila dall’interno, il che ò accennato in principio, richiamando le’linee principali del mio antico volume Cristo e Quirino. La Germania sarà sempre meno cattolica, a malgrado della generosità, a malgrado della dedizione fattale durante il momento piò tragico della sua storia — questo — dal papato romano. La Germania dovrà mutarsi dalle profondità ime del suo sentimento della vita. È troppo evidente che il suo protestantesimo o à stato tradito, o è già vecchio e stantio. E così troppo evidente è che l’ebraismo riaffermatosi durante la fiera tormenta scatenata dalla Germania è privo di elementi di fecondo vigore. Dobbiamo per farci degni d’una riforma che sia all’altezza della resurrezione magnifica, dell’espiazione tremenda, della purificazione totale, spogliarci di tutto quanto ci risultano all’esperienza atroce e verace, di barbarico, di secco, di fatuo, di inumano, di non divino, e il cattolicismo e il protestantesimo, e la scienza e l'ebraismo e l’ortodossia greca e il socialismo. Pensiamolo dunque un cattolicismo liberatosi dal papato, un protestantesimo spogliatosi deli-orgoglio tedesco antilatino, un ebraismo non più razza, non più setta, non più requisitbiia sottile ed acre contro la storia e lo Stato, un socialismo che faccia sua forza ¿ ' patria, una scienza che non sappia più e più non voglia essere arma ad ogni cinismo, e criminalità d’impresa. Pensiamola una religione che rinsaldi le conquiste sovrane della vita e dell'anima, della storia e della fede, e cioè la patria, la libertà della -coscienza, il rispetto dei bisogni diversi sentimentali e rituali delle razze; sogniamola, affrettiamola questa religione. Cristo, Tomaso, Francesco, Mosè, Lutero, Confucio, Budda non possono bastare a soddisfare le esigenze spirituali dell’anima nostra. Ciascuno di essi è la verità, ma noi siamo un’altra verità. Vi sono bisogni religiosi •che nessuna religione soddisfa come vi sono bisogni d’amore che nessun amore accontenta. Noi siamo scesi più in fondo all’Essere. Sinora ogni religione à voluto parlare un linguaggio internazionale, una paròla universale, ma le parole religiose sono quelle che più ànno diviso l’umanità, come l’à divisa e irreparabilmente forse un testardo socialismo die à armato per una totale distruzione il proletariato tedesco contro quello di tutto il- mondo. C’è dunque una menzogna sotto la clamorosa affermazione dell’ultimo secolo. Qua la religione alimentava l’odio contro lo Stato nazionale, là eccitava il programma spaventoso d’una razza ai danni del mondo, colà seminava il più scorato pessimismo armando la mano d’ogni negatore, fornendo motivi d’ostilità ad ogni cervello inquieto, ad ogni cuore desolato. Tutte le religioni, tutte le chiese, tutte le propagande si sono fatte con ingiustizia di pretese, con inumanità di criteri; tutte si sono credute autorizzate dalla verità assoluta a parlare in nome di essa perchè chi ascoltava o leggeva dovesse credere, e perchè i credenti diventassero chiesa.
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xi:
•
Assurdo dei mezzi e dello scopo, dell’idea ispiratrice e dell’opera! La religione è libertà perchè è luce di sincerità/ perchè dà a me il modo di parlare con me stesso del mistero infinito e della verità totale; la religione .è potenza perchè fa di me il gestore unico del patrimonio secreto del mio essere; la religione è indipendenza perchè mi rivela a me stesso come principio e prova, elemento e svolgimento, essenza e ragione, come un tutto completo che contiene quel che è, quel che può essere, quel che sarà ed ogni loro negazione e condizione; eppure chi insegna e predica questa libertà, questa potenza, questa indipendenza, corre subito a considerare il fatto sommario della libertà, delle indipendenze, delle potenze individuali riunite a formare conventicole, associazione. Chiesa, Stato. Chi più. Chi meno, chi onestamente e idealmente, chi, per sua sventura, guardando a fini non religiosi, tutti fanno, tutti abbiamo fatto così. Miriamo al proselitismo e, quando non vi riusciamo, facciamo dell’anarchismo ed anarchismo sanno predicare in Italia, per quel che io ne so, e cioè negazione alla storia ed allo Stato, e cattolici ed ebrei, tal quale come i socialisti spodestati dall’uragano della guerra.
Ma non è dunque religione il sommo bene, non è sommo bene quello fatto ad altrui, col mezzo della purificazione e del l'ascensione nostra? Ora la manìa del pro-selitiswbè un bene, è una tendenza giusta? Insinuando tra le vie del sentimento, la rivelazione dell'anima immortale e signora dell’universo, non la aiutiamo ad arri-alla libertà, alla dignità, a Dio? Che cosa d’altro ci pensiamo di doverle chiedere che sia per essa e non per noi? Certo, il proselitismo è per noi. Quell'anima se è 'Ubera, se è indipendente, se è potente, è diversa, à la sua via, à la sua capacità di sceglierla, e nello scegliere una sua diversa via e nell’aggiungere un gesto sconosciuto ed una parola non udita’ alla vita intcriore, sta la prova che il miracolo è compiuto. Perchè tentare, perchè pensare soltanto d’accomunarla alle altre? È uscita aquila vigorosa e impetuosa verso il suo sole; le tarperemo dunque le ali e ne faremo una gallina da pollaio?
Ecco che noi sappiamo per quali vie sarà possibile far cadere nel mondo gli ideali sacerdotali e le forze conventuali che lo affliggono tradendo il destino religioso dell'umanità. Ognuno è sacerdote; ma il sacerdote.dà per non avere. La buona novella non deve avere ritorno. Chi la predica è come l'artefice sublime giunto alla fine della sua opera e senza indomani: egli ignora quel che sarà il giudizio che il mondo farà della sua opera. Ma la sa compiuta e quale egli la pensò e quale la venne elaborando. In questo l’arte rassomiglia alla propaganda religiosa. Io gitto una vóce d’amore e di bellezza, una parola di purità e di bène verso una creatura che s’agita nell'abisso. Io la veggo; ella non mi scorge, ella m’ignora, ella non mi saprà mai. Io mi dileguo, io m’abolisco. Dio non è che in chi s’abolisce non veduto per altrui. Or chi segue Dio, Gesù che vuol esser solò nell'orto, o il sedicente suo sacerdote unico nello spazio che a clangor di trombe e a ondate di flambelli emana i suoi pensieri e aspetta che il mondo, e non a parole, provi di aver udito? Oh gesto, oh voce che attendono lode e retribuzione!
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Le religioni ànno voluto crescere una schiavitù a quelle che esistevano, una dipendenza a quelle dipendenze che esistono e debbono esistere, prima e suprema quella dello Stato in cui si realizzano ed assumono forma precisa i valori in gara degli individui nelle loro affinità o nelle ostilità loro. Nello Stato sì che la parola e il gesto debbono attendere la risposta. Lo Stato è mutualità; nello Stato l’individuo à un destino sociale; nello Stato non siamo che per quel che sappiamo mutuare e cioè rispondere alla parola che ci vien gridata. L’individuo nello Stato è sentinella che monta la guardia,-l'opera che compie è opera.parziale. Ciascuno di no: jfiasce nello Stato. Ma ciascuno di noi scopre per sè daccapo l’infinito e da sè solò nella solitudine stupenda della propria personalità assurge ad anima e per valore proprio vede Dio. Dio è più arduo dello Stato, quando è Dio in purità, non il pretesto di una casta, o di una scuola o di una politica.
Religione è arrivare a Dio; valore religioso è sapervi arrivare per forza propria. Sacerdozio non può dunque essere che l’aiutare quésta forza a mettersi in atti, a svolgersi. Gesù non creò le anime alle quali parlava. Le anime c’erano prima che Egli parlasse; Se Gesù à creduto che la sua buona novella potesse fare quello che il Padre fece prodigando, avanti che ogni cosa fosse, il suo divino delirio generatore, Gesù à troppo preteso. Ma Gesù sapeva, ed esperimentò, che la buona novella può e non può essere intesa. Anzi, qualcuno v’à che nemmeno ode la parola che la reca. Habent auree et non audiunt. Il sacerdote è l’uomo che parla all’anima perchè l’anima salga. Soffia nella scintilla perchè divampi. Soventi la scintilla si spegne, il soffio fu troppo debole q troppo forte; non aveva alimento vicino, svolò. Che importa? L’anima è abitatrice discontinua. Se l'immortalità è un trionfo personale, certo vi sono creature che non arrivano, e forse son quelle che una cupa ingenuità medioevale, utile al poeta, accumulò a soffrire infernalmente. Il sacerdote non à merito se l'anima arriva a Dio, e cioè se la creatura è invasa dall’anima che sarà sua. Il paradiso del sacerdote non à che una via e non vi si cammina che in una direzione. Io sono sacerdote se io gioisco del dono che fo, del respiro che soffiò sulla creatura, se io non m’avvedo che di quello che parte da me. Il sacerdote non è il pedagogo, non è il magistrato, non è il prete la cui opera è venale per necessità o per lucro, non è il mercante. Gesù cacciò i mercanti dal Tempio, quei medesimi che son ritornati nel Tempio recando dinanzi ad un Gesù d’oro e d'argento i segni del martirio in molti esemplari acciò ve ne sia per tutti coloro che comprano, il perdono di Dio e si fan salvi per moneta. Gesù, a prova della solitudine necessaria ad arrivare a Dio, fa del deserto suo scuola e arriva poi nel mondo a pronunciare la sua parola, nemico ai sacerdoti, vittima dei mercanti del culto, monopolizzatori di Dio in terra. Il ricominciamento è sempre contro un sacerdozio e quel che noi chiamiamo Chiesa altro non è che l’arbitrio della casta salito dall’uso indisturbato ed accettato per indifferenza prima, per violenza poi.
XII.
Il cattolicismo non è insomma in questo salire italiano verso un rinnovamento religioso. Il cattolicesimo è troppo sacerdotale e la sua energia Sostanziale s’è troppo perduta nelle intrusioni civili, politiche, sociali. Noi Italiani' abbiamo bisogno d'una
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religione che sia come la poesia d’ogni nostra poesia, religione che è in tendenza in Dante ed in Mazzini appena disegnata. Perchè la nostra parola non è stata.ancor detta e non può essere detta che da un’anima nostra. -Noi aspettiamo la redenzione del popolo prima dalla guerra sanguinosa che la neghittosità degli avi dal 1821 al 1866, unitari per forza più che per convincimento — se ne eccettuiamo i giganti Gioberti, Cavour, Rosmini, Mazzini e gli altri — à lasciato a noi in eredità non rinunciabile, poi da un rivolgimento interiore che cominci la sua opera dall’eliminazione di ogni privilegio di chiesa tradizionale. In Italia la preoccupazione della Chiesa à impedito che si conducesse in porto l’impresa del rinnovamento religioso. Dobbiamo fare anche noi la nostra Riforma, dobbiamo evocare dal letargo in cui si adagiano i migliori dei nostri sentimenti, dare coraggio al pensiero religioso, svegliare, alimentare una nostra critica religiosa, inaugurare una vera e pròpria libertà religiosa, nella coscienza, provocare l’avvento d’un’era di grandi nature immuni dal virus della negazione scopo a sè stessa e dalla retorica del dogma. Dobbiamo spalancare tutte le porte del cuore e della mente all'anima di tenerezza mistica che è in noi, e ch’ella trabocchi a fecondare la vita e a generare il nuovo principio umano, dobbiamo aiutare il miracolo nuovo d’Italia.
Da questa guerra la prova della giustizia divina, in una parola del divino, esce quale non era possibile desiderare. La guerra sarà stata provvidenziale, perchè anche le patrie più piccole di dimensioni avranno trovato finalmente l'ora sacra della loro affermazione. Ond’è che il sentimento patrio ingigantito e il senso religioso approfondito e più sicuro si concilieranno fino a fondersi in un sentimento nuovo. Le due. mostruose aberrazioni della storia, ambedue abusive del cristianesimo, germanismo e chiesa cattolica, avevano finito per dover dichiarare alla stretta degli eventi la loro naturale opposizione alla nazione. E la nazione è elemento, è essenza, è natura, è necessità, è il bene, è lo splendore del vero storico. Ecco che la storia e il divino espellono germanesimo e chiesa e quel che vi è di vitale nell 1- società tedesca si manifesterà in forme egalitarie, in autentica libertà d’esame, in sobrietà di criteri, in misura di sentimenti, e quel che v’è di vitale,e d’insopprimibile nel cattolicesimo del popolo — non in quello della chiesa, già superato e decaduto sotto le illusive apparenze c sopravvivenze — aiuterà anche da noi il farsi di quell’impero tutto latino dell’anima, in cui la coscienza individua sarà signora, la ragione sarà freno ed ausilio, il sentimento s’allargherà, s’approfondirà, s’innalzerà la trionfi inauditi. Il divino scenderà definitivamente ad abitare .l’uomo ed il mondo, secondo il suprèmo simbolo nazarenico. Il protestantesimo non poteva trovar la sua serenità che in una democrazia calma; il cattolicesimo non può ritrovare i suoi valori umani che in una rinunzia totale ad ingerenze e pretese civili e politiche. In religione la chiesa" è uno sforzo sterile come lo è storicamente e socialmente il germanesimo. Dio li condanna e arma tutti i popoli a cominciare dai più forti per numero e denaro: Inghilterra e Stati Uniti, cóntro il dogmatismo violento teutonico e punisce il papato abbattendo quegli imperi che, o cattolici (Austria) o ortodossi (Russia) o protestanti (Germania), sostenevano il teocratismo papale in quanto era una forza dei regimi autoritarii, quelli cioè che gittano le masse umane ignare negli abissi di guerra enormi c macabre per mire esclusive di tirannia, per interessi unicamente dinastici.
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Ma la criminosa aberrazione germanica non fa.condannare la riforma protestante-Ella vive nella eroica reazione inglese, nella calma efficace generosa degli Stati Uniti. Il protestantesimo scrive una pagina di bellezza e d’umanità unica. E non fa condannare Agostino e Francesco e Caterina e il culto cattolico. No. L’anima buona e dolce del cattolicesimo di popolo è quella che à fatto arma della croce in terra vallona e fiamminga, quella che s’è drizzata nel sangue sul fango e sulla neve in Piccardia, in Champagne, nell’Argonna. Ma è quest’anima cattolica italiana, questa nobile e sana virtù di plebe dieci volte tradita dal sacerdozio, questa nazione madre di eroi delia libera coscienza religiosa, da Gioachino calabrese al Giannone, che à saputo svellere dalle Sue basi il trono temporale rizzatole in casa per privilegiarne un vescovo di Roma, da mani d'invasori stranieri e per l’appunto dei primi manomettitori ufficiali della indipendenza patria. Nella pausa del cannone, pongano mente i gióvani italiani, nella loro grandissima maggioranza anime religiose, rimaste le più ignare di sè medesime, all’imprescindibile dovere di questa restaurazione del senso religioso. Dove sono i nuovi confessori? La prova del martirio si matura. Non tarderemo molto a vederli e il più superbo periodo della libertà italiana, dopo i trionfi della libertà politica, estetica, filosofica, sociale, sarà quello che darà al mondo un’Italia ardimentosa nella sua confessione mistica nuova, un’Italia respirante il mistero divino e la verità dell’infinito, come à respirato la gioia dell'arte, la serenità della norma giuridica, l’entusiasmo delle emancipazioni civili. A riuscire nell'intènto, noi non abbiamo più non solo da servire o da affidarci a consulenza di apostoli stranieri, ma nemmeno da imitarli. La religione italiana eromperà come un radiante sole dall’anima della generazione. E più saremo noi nell’atto creatore, e più saremo per il mondo tutto. L’universo non è che nella preghiera interiore strappatami da tutte le mani dell'Essere. Dio sale dal fondo buio per lo sforzo titanico della fede. E non saremo salvi che per essa, dopo d’aver vinto nella guerra del mondo.
Paolo Orano.
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ANDREA TOWIANSKI
E L’ANIMA DELLA POLONIA
ell’anima di Towianski ho imparato a conoscere che cos’è la Polonia. Perchè ogni suo sentimento, ogni suo atto era conforme a ciò che la Polonia dev’essere secondo il pensiero di Dio e tendeva a sollevarla a quell’altezza. Egli portava la Polonia vivente in se stesso. Ogni vero polacco trovava in lui la sua pairia. Quéste belle parole d'un discepolo affettuoso del grande lituano (i) mi cadono oggi sott’occhio mentre al soffio ardente che passa sull’Europa sembrano maturare i destini della generósa nazione
da così lungo volgere d’anni calpestata ed oppressa.
Chi fu Andrea Towianski non proprio tutti i lettori di Bilychnis debbono ignorare. Rammento — certo a qualche distanza di tempo —- il fascicolo Dicembre 1912 della Rivista nostra nel quale (a pag. 554) Joh. Dover tracciò, per quanto sobriamente con sufficiente, completezza, un profilo dell’uomo accanto ad un rias
sunto della di lui dottrina religiosa.
Qui io vorrei studiarlo invece, se non è troppo ardita la frase, in funzione della Patria polacca di cui l’uomo piissimo non fu meno amante appassionato che del cristianesimo interiore, rinnovato e rifulgente di fresca vita. Se molta parte delle simpatie nostre va oggi alla Nazione nobilissima che forse sarà chiamata tra breve dall’orrore della tomba alla gloria della resurrezione, gioverà certamente ad aumentarle l'averne toccata più da vicino l’anima in quella d’un generoso suo figlio.
. Noi Italiani siamo, meglio che, ogni altro popolo d’Europa, adatti a comprenderlo l'amore di patria trasformato in religione, noi che abbiamo avuto in Mazzini il profeta (e prendo questa voce nel suo significato nativo riferito agli uomini dell’antico profetismo ebraico) nazionale. Vero che Andrea Towianski non appare esteriormente mai in conflitto con alcuno dei più antichi e venerabili dogmi della Chiesa del suo battesimo, la Chiesa Romana. Ma pure altrettanto vero e certo che in fondo, per chi ne guarda bene l’anima, Mazzini non fu tanto preoccupato di negare la divinità di Gesù quanto di reagire - contro un determinato concetto di essa o meglio ancora contro la sua espressione tecnica o teologica. Questo
(1) V. T. Canonico, A. Towianski, cap. Vili, Forzani e G. edit. Roma 1896. Di questo libro e di altre memorie del Towiànski raccolte dall’illustre senatore mi gioverò ampiamente in questo studio.
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notato, tra il Cristianesimo dell’uno e dell’altro, tra la religiosità viva ed operante dell'italiano e del polacco non sarebbe possibile distinguere se non forse ad un occhio tra i più affinati e certo non al di là d’una semplice differenza di tonalità, direi d’una nuance debolissima. Se la degenerazione del Cattolicismo nelle sue istituzioni e nei suoi intèrpetri impedì a Mazzini di poter credere efficacemente ad un rifiorire del pensiero cristiano nella Chiesa di Roma, il Towianski, guardando alla folla delle anime stipate entro i larghi confini della sua Chiesa, mori affermando e sperando uh rinnovamento futuro per opera della coscienza del popolo' lentamente, gradualmente rinnovata. Qui una differenza, e di qualche importanza, la si coglie. Ma è una discrepanza di vedute pratiche. Un cristianesimo sopravvivente alla rovina d’una Chiesa storica incapace di contenerne il generoso ribollire cqme un vecchio otre che si va spezzando vai bene, se non vai meglio, un cristianesimo che, sia pure per insita pietà e gentilezza dell’animo, vorrebbe ancora rivoltarsi-indietro al passato scavando il suo solco nel futuro, oppure indugiarsi alquanto .sul cammino che gli è segnato dall’avvenire credendo d’aver tempo a •seppellire prima-i suoi morti.
Come il suo amico Adamo Mi$kiewicz, il poeta dàlia fantasia potente, dal cuore melanconico, dalle aspirazioni altamente civili e religiose, aveva veduto sopratutto nel prussianismo il più fiero nemico dell’anima polacca, Towianski sente che il gesuitismo è il principio dissolvente delle grandezze passate e delle speranze future della sua patria. La storia, anche la più serenamente ed imparzialmente esposta, mette in una ben trista luce l’opera nefasta degli Ignaziani in Polonia. Si può dire che in nessun altro paese dell’Europa i non cattolici di ogni ramo figliato dalla Riforma ebbero maggiori libertà che in quel regno dove il cristianesimo cattolico era purè così profondamente sentito e radicato e vissuto. Proprio forse per questo. Il cristianesimo vero non è intollerante. Senonchè insieme con i dissidenti (così erano chiamati i non cattolici) erano penetrati ben presto, alle loro prime origini, in Polonia, i Gesuiti. Per essi la tolleranza innata nel popolo e codificata dallo Stato polacco fu una colpa di lesa religione. E lavorarono alla reazione. Dai tempi di Sigismondo III entro al pacifico regno cominciarono le contese religiose ad inntorbidare la vita nazionale; uno storico di provata devozione alla S. Sede, il dott. Alzog, non sa negare che la presenza dei Gesuiti abbia aggravata estremamente la posizione reciproca dei cattolici e degli acattolici e provocati i torbidi del 1724 che condussero alla distruzione del Collegio di Thorn. Quando la Dieta tenuta a Varsavia nell'ottobre del 1767 volle riaffermare solennemente la libertà religiosa ed adottare qualche misura atta ad impedirne il turbamento ulteriore Roma, ancora dominata dallo spirito della Compagnia, che pure dopo breve tempo avrebbe dovuto sopprimere per salvare sè stessa, aveva fieramente protestato presso il Re Stanislao. Nè lui, il re doposto, nè la nazione, polacca, spenta poco più tardi, nel 1795, ebbero dal medesimo papa una parola di compianto.
Ancora non è sorto uno storico il quale abbia con uno studio speciale mostrato quanta parte le discordie e le lotte religiose abbiano precisamente avuta nella triste fine della povera Polonia. Quello che. è possibile rilevare si è la Stretta connessione tra le lotte religiose e le contese politiche che indebolirono la nazione e
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ne resero possibile lo smembramento e la responsabilità che fomentando odii religiosi la Compagnia deve indeclinabilmente assumere di fronte al precipitare del fato polacco.
Nell’anima di Towianski lo si sente il cozzare tumultuoso del suo intimo profondo affetto alla sua Chiesa natale ed al cristianesimo ch’ella porta ancora e sempre, per lui, nel suo grembo col cupo, desolato orrore di quanti acri fermenti di passione, di quanti violenti, settari istinti la disonorano e la danneggiano. Il ritorno al cristianesimo vero è chiaramente segnalato da lui come il rimedio migliore a preparare la resurrezione della sua patria. Perchè il cristianesimo vero è sopratutto unione, concordia, mutua carità.
Rifare il cristianesimo cattolico, autentico, puro da ogni inquinamento, attuato in basso come in alto nella fervènte operosità dell’amore, spirante' dal basso all’alto come reverenza sincera non come astuto servilismo e dall’alto al basso come soave interessamento paterno non come dispotismo freddo e cieco di padrone, rifare questo cristianesimo è per lui rifare la Polonia.
0 non èra stata l’unità e la grandezza della razza polacca cementata e preparata dalla Chiesa? I Vescovi della Polonia, come quelli di Francia, avevano costruita essi la nazione con lenta, paziente opera cui ciascuno nella lunga serie degli anni aveva contribuito istintivamente, come le api costruiscono attorno a sè l'alveare, cella per cella senza coscienza e senza rumore. Towianski non si richiama espressamente nei suoi discorsi e nei suoi scritti al cattolicesimo dei tempi coevi al sorgere della nazione polacca. Egli tocca così da vicino al Concilio Vaticano, sente così attorno a sè la forza delle correnti nuove che per progressive esplicazioni cambiarono la Chiesa Romana in un assolutismo il più ferreo come il più anacronistico che travalicare il Tridentino da cui pure la monarchia ecclesiastica ebbe cresciuta robustezza e rifarsi al puro costituzionalismo anteriore alla controriforma non gli è molto agevole, tanto più dato il cammino che in senso contrario s'era fatto dagli organismi politici in mezzo al. mondo. Nondimeno tutto quanto il suo scrivere come il suo dire è penetrato da un senso così vivo di evangelismo nel suo concepire la funzione dei pastori nella Chiesa, è caratterizzato da una così completa assenza dei vocaboli più cari ai campióni meglio in vista dell’idolatrismo pontificale (e parecchi sono tra i suoi lunghi scritti'quelli indirizzati al Papa) che è possibile collocare senza equivoco il Towianski tra coloro cui, se non un ritorno, almeno una .stasi, in mezzo al progredire audace dell’accentramento romano e della sublimazione del trono pontificio dovette sembrare allora, alla vigilia del settanta, in vista già del .Concilio, una promessa di rigenerazione per la Chiesa di Gesù Cristo.
Dove Andrea Towianski lavorò senza posa per la Patria e per la Chiesa unite così intimamente nel suo pensiero da formare un oggetto unico di adorazione affettuosa pel suo cuore ardente si è nel campo del cristianesimo interiore. Ho sott’occhio una puntata della Rivista polacca Przeglad Powozechny e vicino un cortese amico coltissimo che mi dà la traduzione d’uno scritto, breve quanto
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efficacissimo, di un illustre polacco che sognò pure come il Towianski una patria rinnovata ed un cristianesimo rigenerato da un ritorno, almeno spirituale, alla freschezza delle origini. Lo scritto non è molto lontano dall’epoca in cui il Towianski visse gli ultimi anni, poiché la Rivista porta la data del 1906. In esso Enrico Sieri-kiewicz afferma anzitutto come l’anima della Polonia sia essenzialmente cattolica, ma così prostrata da un’estenuazione morale da rendere spiegabilissimo com’essa non sia capace di sostenere il povero corpo della nazione colpito da una paralisi mortale. « Colorò che più violano i comandamenti di Dio non restano meno attaccati alla loro chiesa. Frequentano le riunioni religiose e osservano certe pratiche... ma la loro fede limitata alle osservanze esterne non è più nel loro sangue per stimolarne la coscienza, per dirigerne la vita, per scaldarne i cuori. Una specie di fossilizzazione della fede propaga nel popolo nostro una falsa religiosità di cui il clero è esso stesso responsabile. Perchè dando troppa importanza alla fórma a danno del fondo esso sviluppa una fede morta unicamente costituita dall'osservanza meccanica delle cerimonie del culto ». Paròle che sono un atto d’accusa non per il clero, ma per chi lo vuole ad ogni costo formato così. Chi non sa quanto il Gesuitismo che domina la Chiesa si compiaccia dell’esteriorismo sopratutto?. Questo è bene notare come tra una parentesi, poiché il Sienkiewicz non s’è fermato a risalire più in su, oltre l’anima del clero della sua patria, il quale in realtà merita la sua parte di sincero compianto. Dei rimedi lo scrittore polacco ne vede e ne invoca, perchè il sangue cattolico della nazione si rifaccia e la Polonia possa ritrovare la sua fortuna. Poiché per lui, come per il Towianski, l’avvenire della nazione polacca è legato alla resurrezione della fede viva ed operante del Cristo nei cuori dei suoi concittadini. Sono i rimedi ipedesimi che la Chiesa respinge e condanna come i veleni più micidiali pel suo mostruoso organismo. Se Enrico Sienkiewicz ha sfuggita questa taccia pure mostrando espressamente la necessità di « far rivivere, prima, nelle anime una fede attiva restituendole la sua attività perduta, poi di questa jede fare una forza morale che agisca immediatamente sulla vita », se il Sienkiewicz questa taccia l’ha sfuggita, Andrea Towianski fu espressamente collocato da una Rivista romana che si qualifica la quintessenza dell’ortodossia tra i precursori del Modernismo.
Ben chiaro, adunque, come per il Towianski, come del. resto per ogni anima che sappia comprenderlo bene il libero pensiero del Cristo, cristianesimo sia libertà. Epperò lavorò senza possa a che 1 suoi compatrioti avessero a saturarsi di quel vero spirito cristiano che era per- lui l’anelante respiro della Polonia ancora e sempre vivente. La vita sua fu tutta cristianesimo vissuto. Pensiero cristiano passato nella carne e nel sangue, secondo la frase audace di Gesù a quei di Cafarnao, trasformato in calore di vita che s’irradia attorno e che può riscaldare anche dei cuori i più freddi ed inerti. Si potrebbe in un certo senso ripetere di lui la parola evangelica: « et quoquot tangebant eum salvi fìebant ». In patria come nell’esilio. E si trattava di quella malattia disperante die è l’apatia in cui tante e tante volte vengono irremediabilmente a cadere coloro che hanno vedute delle rovine, delle sofferenze, delle oppressioni senza nome. Di fronte ai fratelli polacchi viventi
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sul suolo calpestato della patria o spersi qua e là per il mondo (una cospicua frazione ebbe a trovarne in Francia che fu la sua seconda patria) egli sembrò avere ricevuto dall’alto il potere di scuotere gli animi, d’infiammarli d’amore e di abnegazione per la patria, di suscitare infinite energie per la causa inseparabile del cristianesimo e del progressivo ascendere della umanità.
Si disse che il conte Strogonoff, che ebbe una grande influenza sulla politica russa e conosceva bene la Polonia, giunte appena a Pietroburgo le prime notizie sul movimento del febbraio 1861 avesse esclamato irritandosene: « È Towianski che ha fatto tutto questo, è lui senza dubbio! » Andrea Towianski non s’era mosso in verità da Zurigo. Ma il diplomatico russo aveva nondimeno ragione in quanto l’azione costante del grande polacco sópra i suoi connazionali aveva essa davvero prodotto quel fatto meraviglioso, d’una grandezza epica, d'una bellezza poetica. E per converso il popolo di Varsavia che, assalito dai gendarmi russi mentre si era recato a pregare pei polacchi caduti sul campo di Grochow, si mette in ginocchio come un sol uomo dinnanzi al furore della sbirraglia armata rincalzata ben presto dalla truppa e profondamente raccolto innalza al cielo il suo cantico, questo popolo era la Polonia più vera e più viva conservata così, attraverso alla dominazione straniera, nel suo spirito, dal grande che ne fu, di esso, la incarnazióne migliore. La Polonia che, ultimo dòpo tanti poeti, Adamo Mi$kiewicz ancora vivente, ancora recente la eco dei suoi inni aveva cantata, che la Russia credeva, nonostante, uccisa, morta per sempre.
E quell’uomo a cui i dominatori della Polònia avevano giustamente pensato con un senso di sbigottimento come ad un capitano cui si dovesse la grave sconfitta in una grande battaglia perduta (non solo degli ufficiali russi avevano spezzata commossi la spada innanzi alla folla orante di Grochow, ma l’Europa intera aveva sentito con ansiosa accoratezza il palpitare della Polonia pianta oramai per ispenta), quell’uomo non era un soldato. Garibaldi, il cavaliere dai guerreschi ardimenti, non aveva nascosto un certo senso di scetticismo a chi, proprio sul finire del sessanta, pochi giorni, si può dire, prima del moto di Varsavia, gli -aveva parlato con entusiasmo e con fede dell’opera e dell’uomo, a Caprera (i). E come non fu un capitano, non era stato mai un cospiratore; la sua azione e la sua voce non furono mai costrette nel segreto d’un cenacolo, nè ristrette ai pochi, nè coperte dall’ombra discreta della iniziazione e del simbolo. Il suo medesimo esilio nel suo primo dipartirsi dalla terra natale era stato un esilio volontario e non politico; lo scritto, noto col nome originale Powody (ossia Motivi), il quale conteneva la più franca e sincera dichiarazione di lealismo circa l’ossequio pratico verso l’autorità russa nell’esercizio legittimo del potere allo scopo della tutela dell'ordine pubblieoe dello svolgersi normale della vita, scritto che è tutto ricalcato sulla concezione paolìriistica dei doveri cristiani verso l’autorità di fatto, indipendentemente dal problema del diritto
(i) V. T. Canonico, Testimonianze d'italiani su A. Towianski, c. Ili, § 2. Roma, Forzani e C., editori.
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su cui essa si può fondare, codesto scritto che fu diretto dagli emigrati polacchi all’imperatore Alessandro II salito al trono dispensando loro un’amnistia generale c contenente, esposti colla più candida fede, i motivi che li inducevano a non profittarne per essere maggiormente utili in terra d’esilio a preparare il migliore avvenire della patria era stato se non proprio nella redazione letterale nello spirito da cui era tutto permeato, opera di Andrea Towianski. Nemmeno egli fu, non che un poeta un uomo dall’eloquenza facile, dalla parola calda e travolgente; la sua frase è sempre piana e semplice, forse qualche volta monotona.
Egli fu un educatore d’anime. Un maestro, come Gesù, ai fratelli mandato dall’alto ad insegnare loro a comprendere la grandezza della stirpe in una nuova luce spirituale.
L’amore per la patria polacca è una Jcde. impossibile senz’essa piacere a Dio, indispensabile, ad essere cristiani sul serio, non vivere interamente di essa. E tanto più meritorio per la vita futura della Polonia viverne di questa fede senza contemplarne la bellezza vivente avendo gli occhi fìssi sul corpo inerte di lei. Towianski non sa levare sul letto funereo sopra cui essa giace la mano nel gesto imperioso del Maestro galileo, ma ne caccia intanto via, lontano, le donne ululanti il canto ferale e coloro che l'accompagnano coi suoni sinistri ed assicura con solenne certezza: « Essa non è morta, ma dorme ».
Ah pel suo popolo che dalle lontane origini asiatiche aveva tratto l’impulso a fare della religione e della patria una sola medesima passione, alta come una pura fiamma che sale; che aveva ancora adesso, come alla prima epoca della sua storia, una voce sola ad indicare i padri, i vecchi, i morti, pel suo popolo Towianski non potrà essere, nei giorni in cui il canone delle sue scritture sacre dovrà essere fissato'per la gloria, meno d’un Profeta!
Accanto a Kordecki. A Jasna-Gora, fortezza insieme e santuario, il monaco pieno di fuoco il petto arso di fede aveva lui solo, perduti ormai d’animo i quattro-cento difensori per un lungo tratto eroico di giorno divinizzati dar suo verbo contro la valanga russo-svedese, disperati pure i suoi confratelli, sbaragliato l’esercito patrio, il re volto in fuga, lui solo aveva Kordecki creduto; creduto contra spem che la Polonia non poteva morire. Trent’anni più tardi il suo re Sobieski era entrato a Vienna vittorioso liberando lui da solo l'impero e l’Europa dal minacciante pericolo turco.
Forse che se un secolo appresso con insigne esempio di ingratitudine l’Europa salvata da lei e prima tra le nazioni d’Europa l'impero, la vollero divisa e spartita, i suoi figli avrebbero dovuto crederla spenta? Accanto al poeta che nel celebrato « Canto della Betulla » arieggiante l’affetto accorato con cui i figlioli di Sion amarono nell'esilio la Santa, afferma con incrollabile sicurezza la fede nella resurrezione, accanto a Kosciuszko, che a capo d’un gruppo d’uomini armati di falce vittoriosi d’un esercito ripete innanzi all’Europa attonita l'inno del valore polacco, Towianski rifà col pensiero indietro il cammino dei secoli fino alla leggendaria figura di Skarga, il sacerdote ispirato dei secoli eroici così bene intonato alla poesia sacra di Edwige
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la santa e di lagellone il guerriero dal cui amplesso parve nascere forte nella fede la Polonia della storia, al misticismo fiorito del pattò giurato tra i sudditi della regina di Cracovia ed i lituani di lagellone ad Horodlo; « è l’amore che crea.... anche gli Stati, anche le leggi...; chiunque non si fonderà sull’amore non avrà la salute » (i).
« È Dio che fa le nazioni » così il sacerdote della vecchia Polonia. Skarga ha una voce che sembra commossa ed irata quando parla dei doveri che legano ciascuno verso la Patria. Ed allora che tocca alla responsabilità delle classi d’élite, dei sacerdoti specialmente, di fronte all’obbligo di ritenere come un servizio sacro, liturgico, ogni servizio reso alla Polonia la santa, prediletta tra tutte le nazioni da Dio egli ha le movenze di Amos e le medesime audacie di lui: « Dalla Patria a Dio ».
È fato divino che la Polonia viva, così Andrea Towianski, e ciascuno dei suoi figli deve vivere e deve morire con la fede nella Polonia vivente pei secoli!
Queste parole, mentre anche agli uomini meno inclinati a sentire l'immanere di Dio nella storia sembra si muova e s’avanzi dall'oriente, così còme nel « Canto della Betulla » il poeta la vide, la salute per la nobile nazióne polacca, queste parole , che riassumono il pensiero di Towianski io auguro che la Polonia risorta possa scrivere presto sul monumento che coprirà le sante ossa di Lui quando dalla terra di esilio saranno piamente portate a riposare entro al sacro suolo della patria.
Diranno esse che nel grande lituano la patria fu fede, la fede fu vita. Contro a quanti infrolliti cultori l’idea nazionale possa avere ancora pel futuro, contro a ■ quanti degeneri figli il cristianesimo dovesse avere fatalmente se continueranno a dargliene delle Chiese malate prima che le tocchi la risanatrice virtù dello Spirito.
Si Bridget.t
(i) Queste parole sono, direi» il primo articolo dello Statuto di Horodlo.
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(Il Marchese Carlo Guerrieri Gonzaga)
(Continuazione o fine. Vedi BilyeJmii d’aprile 1917, pag. a?8).
parrocchia è una istituzione molto tardiva nella storia della Chiesa. Poiché il suo organismo religioso venne via via tramutandosi in organismo civile, con vincoli e rapporti materiali, poiché nel filone primigenio della unione e della responsabilità religiosa, che cementò la vita dei primi secoli della Chiesa penetrò la scoria delle preoccupazioni terrene, allora venne manifestandosi la necessità di più diretti e regolari rapporti tra
'autorità, non più esclusivamente religiosa, ed i fedeli. La vita
e gli ordinamenti civili modellarono allora la vita e gli ordinamenti esteriori della Chiesa. Al Vescovo che spesso lontane, più spesso altrove occupato, non poteva mantenere contatti sufficienti con le popolazioni sì diede come suo rappresentante e quasi suo vicario il parroco, con giurisdizione mutuata da lui ed autorità che era un riflesso della sua. Ond’è che a questa nuova funzione ministeriale nell’organismo ecclesiastico si dovette dare lo stesso carattere — dal punto di vista sociale — che aveva quella del Vescovo; di accettazione volontaria per parte dei fedeli della sua autorità, per la miglior salvaguardia dei propri interessi religiosi. Che essa per necessità di una trasformazione che si andava maturando nella vita della Chiesa non potesse andare disgiunta da tutto uno svolgersi di interessi materiali, questo non entra nella sua giustificazione originale.
Il parroco rappresentava il Vescovo e doveva essere nella nuova Comunità quello che il presbyter nelle primitive comunità: l’uomo dalla maggiore e più raffinata •esperienza religiosa, il quale alla mancanza di aver visto personalmente il Cristo suppliva con la intensità della propria fede in lui.
La legislazione canonica dunque, circa la materia dei parroci, è qualche cosa che ha un valore religioso molto relativo. Ne ha invece uno storico considerevole. Ma anche la legislazione canonica ha cercato di mantenersi il più che fosse possibile nello spirito della istituzione: poi gli avvenimenti l’hanno rimorchiata ed essa fu quale è, altrimenti avrebbe arrischiata la esistenza stessa di tutto l’organismo ecclesiastico.
Se i fedeli devolvevano -al parroco l’interpretazione della loro esperienza reli- ' giosa, non si capisce come non abbiano avuto il diritto di leggersi l’interprete che ad essi pareva più adatto. Ond’è che a me non pare completa spiegazione quella che di fronte alla persistenza di alcune forme d’elezione popolare di parroci s’arresta .a dei motivi esclusivamente giuridici, di corresponsione materiale. A me pare cioè
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che non soltanto perchè i parrocchiani assicuravano la esistenza materiale del parroco — allora i preti avevano lasciato di essere nella vita sociale uomini come gli altri e si erano già costituiti in casta — avessero il diritto di nomina, ma per altre ragioni ben più sostanziali e consistenti. Si tratta di risalire alla storia primitiva della Chiesa e d’interpretarla con intendimento di non trascurare uno solo degli elementi che la formano, sovratutto di non scardare il vivissimo senso religioso che la dominava.
Comunque è certo che a noi non è possibile, storicamente, se non studiare la storia esterna della parrocchia. E allora noi troviamo che l’ordinamento attuale relativamente alla nomina dei parroci è alquanto diverso da quello di qualche secolo fa. Attualmente è molto maggiore il numero delle parrocchie dove il parroco è nominato per concorso bandito dal Vescovo, giudice questi della idoneità intellettuale e morale dei concorrenti, giudizio che pure è necessario quando altri, Governo o privati, per diritti acquisiti — non certo per meriti religiosi — possa presentare il nome del parroco. Poche, quelle dove il popolo possa manifestare la sua volontà di scelta, e anche in questi casi il loro valore è completamente snaturato e reso nullo non soltanto per l’interpretazione Che se ne dà, quanto per lo spirito che vi si annette.
Ma altre volte non era così. Più ci rapportiamo alle origini della parrocchia più troviamo casi dove i fedeli intervenivano efficacemente nella elezione del parroco. Basterà citare per l'Italia il caso della Toscana — ma neppure nelle altre regioni c’era scarsità — dove quasi una metà dei benefici parrocchiali erano di data della comunità o di data del popolo.
Che questi motivi storico-giuridici movessero gli abitanti delle parrocchie di Paludano e San Giovanni del Dosso nel 1873 ad eleggere per votazione di popolo, i loro parroci non si può precisamente dire. Le ricerche fatte negli archivi parrocchiali, dove era presumibile ci fosse qualche memoria del tempo, non hanno reso nulla: forse perchè i parroci susseguitisi ebbero cura di gettare i ricordi di quei giorni. Vuoisi che un certo Ceruti, già chierico ed uscito dal Seminario per farsi garibaldino, sia stato l’ispiratore di queste elezioni. Non si può nè ammettere nè negare. Certo quelle popolazioni di campagna che Si erano mostrate devote alla tradizione fino a quel momento, non si sarebbero lasciate facilmente indurre ad opporvici se non si fosse creato presentemente in loro uno stato d'animo tale che non consentiva d'accettare come espressione infallibile le disposizioni del loro Vescovo.
Per conto mio non sono alieno dal credere che non fossero estranee certe influenze del moto suscitato in Toscana dal Véscovo Scipione Ricci, dell’esperienza legislativa del regime separatista tentato dal Granduca Leopoldo; se si tien conto che l'uno e , l’altro furono guardati con grande simpatia dagli uomini più significativi — per opere e pensieri — del nostro Risorgimento (1).
(1) Su le ripercussioni di quella corrente di idee fuori dalla Toscana poco o niente è stato studiato: non è perciò possibile dire precisamente se o quanti fossero i seguaci nel Mantovano. Ma credo che una ricerca di tal genere fatta specialmente nelle diocesi dell’Alta Italia, porterebbe a dei risultati soddisfacenti e permetterebbe delle vere illuminazioni. Vedi quanto ne scrive il Gentile nella Critica, anno XIV, fase. I-II-III.
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Il quale era in quel tempo mons. Pietro Rota, uomo pio, ma di quella pietà intransigente e ristretta, che non fu solamente difetto suo e che non permetteva di vedere più in là degli interessi pontifici, tornendo sempre il massimo ostacolo verso quella conciliazione tra i sentimenti di fede e di patria non difficile ad ottenersi in luoghi — come il Lombardo-Veneto — dove l'intangibilità del potere temporale del Papa poteva essere salvaguardata pure con l’espulsione dell’austriaco. Se non che, chi si era preoccupato di scacciare lo straniero erano stati i figli di quel liberalismo condannato nel Sillabo e dannato dal Concilio Vativano e ad uomini come il Rota, chi era stato tanto liberale da entrare in Roma, non poteva essere nemmeno tollerato a Mantova (1). Non v’ha dubbio che il ricordo della recente dominazione austriaca, la soddisfazione per il giogo infranto e la notorietà dell'intransigenza vescovile, abbiado mantenuto sempre gli animi lontano dal Vescovo o almeno in una particolàre diffidenza.
In una lettera che la fabbriceria di San Giovanni del Dosso inviò al Sindaco del Comune di Quistello trasmettendogli l'atto di elezione, si incolpa il Vescovo di aver violate le sue promesse, e con chiarezza si dimostra non essersi quei parrocchiani risolti a rat valere i propri diritti se non dopo parecchi mesi di trattative. Ma in quella lettera v’è anche la giustificazione del loro atto. Vi si dice, come specialmente dopo i decreti vaticani, il minor clero fosse venuto, in una posizione affatto nuova nella storia ecclesiastica, e non poteva, nelle cose anche civili, mostrare indipendenza alcuna, senza il pericolo di perdere il pane quotidiano. Vi si dichiara non potersi riporre confidenza alcuna in uomini ridotti in ischiavitù, nè affidar loro la cura spirituale delle mogli e fidanzate. Sistema siffatto avrebbe scossa la fede e renderebbe odiosa ogni predica di religione. I parrocchiani credono che un rimedio potrebbe esservi nella nomina popolare dei parroci, sottraendoli così almeno per ciò che spetta al loro sostentamento, alla dipendenza dei vescovi, e creando tra i parroci eletti, i parrocchiani e lo Stato vincoli di affezione. Essi chiedono sopra, tutto l’esercizio dei loro diritti civili e protestano contro ogni invasione del. Vescovo. Desiderano tornare alla disciplina della Chiesa, e separare veramente il potere laico dall’ecclesiastico.
La giustificazione è prudente ed abile e rivela uno spirito usato a vedere nella storia e nella vita con sagacia. Nè meno decisa era la lettera con la quale i parrocchiani di Frassino, per mezzo della loro fabbriceria, avvertivano il Sindaco di S. Giorgio di Mantova della avvenuta elezione di D. Luigi Ferrabò. Notevole sopratutto il vigore con il quale si fa presente come il principio elettivo informi tutto quanto il Governo civile e come se il Ministero volesse favorire l'applicazione di quel principio al Governo ecclesiastico non avrebbe che a cedere i suoi diritti al popolo nelle parrocchie di nomina regia.
(1) Il Rota, che prima di essere Vescovo di Mantova —- dove non ebbe mai I’jEw-quatur regio, fu a Guastalla, ebbe processi e subì prigionia per i suoi sentimenti anti-italiani. In una lettera subito dopo la presa di Roma leggo: «Domani è la Madonna della Mercede per la redenzione degli schiavi cristiani sotto i Mori. Ora abbiamo il nostro Capo schiavo de' Mussulmani, come li chiamò Lamoricière. Chi l’avrebbe detto? »
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Evidentemente la preoccupazione dei parrocchiani non era tanto l’atteggiamento dell’autorità ecclesiastica (i) la quale non poteva non essere contraria, quanto quello dell’autorità civile, la quale doveva immettere nel possesso de’ benefici gli eletti, suffragando in tal modo la espressa volontà popolare. Si può dire che dopo la famosa affermazione cavouriana di libera Chiesa in libero Stato, la più significativa dichiarazione del partito liberale in materia di politica ecclesiastica sia in quella del Ricasoli: « Vogliamo andare a Roma non per distruggere, ma per edificare, per offrire una opportunità, per aprire una via alla Chiesa di riformarsi, per accordarle quella libertà e quella indipendenza, che possono essere insieme e mezzo e incentivo a rinnovarsi nella purezza del sentimento religioso, nella semplicità della vita, nel rigore della disciplina; le quali cose, con sì grande onore e credito del Pontificato, fecero già gloriosa e veneranda la primitiva sua storia » (2). Non si può dire altrettanto che le opere siano seguite ai propositi.
Il Guerrieri-Gonzaga, Che non aveva in alcun modo iniziato il moto popolare, ma aveva però manifestata ai comparrocchiani la sua simpatia per esso, non poteva considerarlo come cosa indifferente'ai suoi sentimenti d’uomo e di cittadino, nè volle sottrarsi a quella parte di responsabilità, « che potrebbe toccarmi, se venisse ad avverarsi nella nostra provincia una terza elezione popolare di un parroco » (3).
Del resto la giustificazione che egli poteva tentare di queste elezioni popolari rientrava nell’ambito delle sue idee in proposito. « Mi piace — egli scriveva con un certo fare oratorio — dichiarare pubblicamente che io trovai naturale e lodevole il sentimento, che spinge i nostri parrocchiani a premunirsi contro la nomina di un parroco, che venisse tra noi dominato dagli stessi spiriti fanatici, da cui è signoreggiato monsignor Rota. E davvero, come mai non temere che ci si mandi un parroco a parlarci assai più del prigioniero del Vaticano, che del fondatore del cristianesimo? Un uomo che predichi la carità, e la inculchi a quanti sono benestanti e ricchi tra noi, che eserciti con decoro il suo ministero, sarà ben venuto; non Chi ne abusasse per dichiarare sacrilega la presa di Roma, scomunicato chi l’aiutò, o chi fosse chiamato a difenderne l’acquisto contro qualsiasi crociata, interna ed estera, volesse contendercelo. Non abbisogniamo di chi venga a spiegarci, come dal Sillabo siano state condannate tutte le libertà e le istituzioni nostre; di chi si valga del confessionale e di ogni altra influenza sacerdotale per iscreditare i patrioti, per difendere l'intolleranza e l’odio contro i liberali, o contro chiunque non professi la religione cattolica, o non abbia fede nei suoi dogmi e nel suo culto. Se si sente il bisogno di un ministro dell’avita religione, non se ne sente di un emissario, mandato a spiegarci la supremazia del Papa, dei vescovi, dei parroci sopra l'ordine corrispondente
(1) Per quanto riguarda l'atteggiamento dell'autorità ecclesiastica basterà accennare ai provvedimenti prèsi dal Vescovo Rota. Dopo parecchie lettere pastorali nelle quali cercava di difendere l’insegnamento tradizionale arrivò a sospendere e scomunicare il parroco di Paludano, reo di aver eseguita la volontà popolare e a lanciare l’interdetto contro le parrocchie.
(2) Il pensiero' religioso e la politica ecclesiastica del Ricasoli formeranno oggetto di un altro Studio.
(3) Lettera al direttore della Gazzetta di Mantova del 14 gennaio 1874.
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-dei funzionari civili dello Stato, a fomentare l’ignoranza, la superstizione e la resistenza alle leggi. Ben, venuto; invece, sarà certamente chi, in nome del Vangelo e dell’antica fede, benedica alla patria, predichi la concordia nelle famiglie, la tolleranza, l’istruzione, la carità, il lavoro, e dia di queste virtù utile esempio a tutti » (i).
Èra questa la giustificazione, diciamo così, locale dell'agitazione.
Ma le ragioni ideali e di principio non gli sfuggivano neppure. « La Chiesa cattolica fu già nè’ primi suoi secoli governata popolarmente. Essa lo fu poscia quasi feudalmente. Venne finalmente imitando le forme del reggimento monarchico, -quando queste prevalsero nei grandi Stati europei. Mutando gli ordini suoi di governo, rfon cessò per questo di dirsi la stessa Chiesa cattolica. Ma se nè tempi andati essa •curò di foggiarsi secondo le circostanze sociali e civili del mondo, noi invece l’abbiamo veduta abbandonare l’antica sapienza, per correre a ritroso dei tempi. Noi vediamo ora l’Associazione che si chiama Chiesa cattolica, diventata una moltitudine di credenti e di sacerdoti, ai quali non è lasciata nessuna parte di autorità loro propria, ai quali è stata tolta ogni difesa contro l’arbitrio di un uomo solo; del Capo, che ha avocata a sè tutta l’autorità, tutto il potere dell’intera associazione. Nella Chiesa non ci sono ornai più che de’ servi di un solo signore e padrone. E questo padrone •è anch’esso caduto, come suole avvenire, in servitù: servitù non bene avvertita da lui, ma palese al mondo. Egli regna, i.gesuiti governano» (2). Nessuno può negare -dunque a queste modeste elezioni parrocchiali «il merito d’essere un sintomo del dissenso profondo, che in tutto il clero e popolo italiano esiste tra la coscienza patriottica e civile da un lato e la coscienza religioso-cattolica dall’altro. Parlo della coscienza cattolica, quale la vorrebbe la reazione clericale, comprimendo, colla sua mano armata di privilegi, ogni onesta e- mite resistenza ». E aveva ragione di scrivere: « Contro l’elezione popolare dei parroci si obbietta da alcuni essere un sintomo •di risveglio religioso, ch’essi filosoficamente disdegnano ed avversano. Si obbietta da altri', queste elezioni essere un moto incomposto, che potrebbe traviare e condurci, non si sa dove. Si può, mi sembra rispondere ai primi in nome della libertà delle coscienze (libertà preziosa pei credenti, come per gli increduli). Si può rispondere àgli altri in due modi, ricordando loro che la fiducia nel retto senso morale degli •elettori e delle popolazioni è la base del nostro sistema costituzionale e rappresentativo, e notando che, in ogni caso, tocca allo Stato con leggi e provvedimenti opportuni regolare questa materia .delle elezioni ecclesiastiche » (3).
(x)‘ Lettera citata alla Gazzetta di Mantova.
(2) Questo che sembra sfogo di anticlericalismo del quale siamo stati per qualche tempo schiavi, trova la sua giustificazione nelle condizioni del momento nel quale il •Guerrieri-Gonzàga scriveva, condizioni che potranno essere esaminate in uno studio su La ■politica dei gesuiti' in Italia.
(3) Si noti questa chiarezza di concezione nella necessità di un vero principio liberale. Essa l’ebbe il Guerrieri-Gonzaga comune col Ricasoli. Questi scriveva (Cfr. Bianchi •Celestino, Nuova Antologia, febbràio 1870). « L’Italia che sorge oggi ad una grandezza nuova non potrà crescere nè mantenersi se non svolgendo pienamente la libertà e informandone tutti gli ordini di cittadini, sia raccolti nei Comuni, sia nelle Provincie, sia nell'associazione religiosa, integrando così e vivificando tutte le forze morali dell’uomo perchè sia cittadino operoso e degno della sua patria ». E altrove (Lett., VII, 263). « Lo
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Evidentemente non si riesce a persuadersi quali preoccupazioni fossero maggiori nel Guerrieri-Gonzaga: se le religiose o le politiche. Io ritengo queste ultime e credo di fargli onore; Perchè ad una Chièsa che era uscita appena dal Sillabo di Pio IX non si poteva chiedere che essa rinunciasse ad una sua vecchia tradizione la quale anche — se non legittima — si mostrava allora più che mai atta a consolidarne la influenza e d’altra parte in una questione per principio sia pure religiosa come quella della nomina popolare dei parroci che si innesta sulla primitiva tradizione cristiana, la quale tocca il diritto pubblico dello Stato, non è così facile fissare fin dove arrivano le considerazioni religiose e quelle politiche. Senza dubbio nocque a quella che poteva essere rivendicazione dei diritti dei fedeli fa mancanza di uomini religiosi energici che li sostenessero contro le prerogative della Chiesa di Roma e forse da questa mancanza — che può avere storicamente la sua giustificazione — nacque la persuasione che la questione doveva risolversi altrove. Dopo la conversione dei beni ecclesiastici, dopo la legge delle guarentigie, dopo cioè la legislazione italiana in materia non era possibile del resto un movimento prettamente religioso. Se i fedeli avessero ancora potuto, • come in altri tempi, provvedere alla amministrazione dei loro beni o se le condizioni economiche delle parrocchie fossero state così prospere da permettere le spontanee elargizioni ed obblazioni, probabilmente una resistenza a Roma avrebbe avuto un significato ed un valore da impressionare la Curia romana. Ma i fedeli non entravano nell’amministrazione dei beni della loro parrocchia se non attraverso i pochi uomini che facevano parte delle fabbricerie, mentre queste dovevano rendere i conti agli economi e sub-economi regi ed erano troppo recenti i disagi che preparano e seguono«una guerra di indipendenza. Bisognava dunque sforzarsi di riportare la cosa nei limiti delle leggi dello Stato, farne una questione politica. La quale si presentava in questa forma: consente la legislazione italiana in materia ecclesiastica questa resistenza dei fedeli alla volontà del Vescovo? Una questione che all’apparenza non ha ragione di essere, ma che non è colpa di chi la pone, se mai della incompletezza della legislazione, se è posta in quel modo.
Il Guerrieri-Gonzaga non fu precisamente un giurista: era uno di quegli uomini che sentivano ed intuivano i problemi e li collocavano, per questa speciale sensibilità, nella loro luce. Egli aveva la coscienza così fondamentalmente cristiana che avrebbe saputo trovare l'wW consistavi per una resistenza religiosa a Rema, ma aveva anche una coscienza politica così affinata — attraverso le lotte, e le delusioni degli anni gloriosi — chex gli suggeriva la via onde risolvere più praticamente la questione. Ebbe il merito perciò di ricordare allo Stato quale era il suo dovere, perchè s’era
Stato che tutto ravvolge e di tutto costituisee l’interesse nazionale (che altro non è se non l’interesse singolo in armonia e cospirante all'interesse di tutti) ha diritto o obbligo di porre in accordo con tutte le altre libertà quella pure della Chiesa, e così compire l’ufficio suo di costituire la piena libertà dell’anima umana. Uno Stato, ove questa libertà sia ancora in difetto, non è ancora in condizione di perfetta civiltà, perchè questa non può esplicarsi in quella universalità di attinenze per la quale fu creata, e come la anima è una, così, se da un lato infrenata, ne soffre nell’intera sua essenza, e male compie ai suoi alti destini ».
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sostituito ai fedeli nell’amministrazione dei loro beni e poiché aveva assunto l’ufficio di tutore contro le esigenze smodate della Curia di Roma. Il torto dello Stato era quello di non aver osato e di essersi arrestato, trincerandosi dietro la formula cavouriana che non gli lasciava vedere tutta la complessità dei problemi.
Si trattava dunque di fare il processo non soltanto alle opere, ma alle intenzioni stesse del legislatore. Il Guerrieri-Gonzaga non era per niente un uomo della sinistra. L’opera della destra per quanto aveva riguardo alla questione ecclesiastica ha avuto, senza dubbio, il merito di ispirarsi ad un senso storico, più che ad un senso politico della questione e se la politica tiene conto dell’immediato e però del contingente, la storia guarda al continuo, al passato pel presente e per l’avvenire. D’altra parte gli odi e gli amori di quel tempo erano d’origine politica e non è da meravigliarsi se quell’aspetto di moderazione e di tolleranza che fu nell’opera legislativa della destra apparve a parecchi come segno di debolezza e di coscienza incompleta. Pare ancora ad alcuni, ma non del tutto a ragione, perchè onde essere equanimi nel giudicarli noi dobbiamo vedere se dopo cinquant’anni di esperienza storica possiamo riprenderci da essa o non piuttosto dobbiamo ricominciare ab imis. Il Guerrieri-Gonzaga era innanzi tutto un patriota e creato ad una scuola di fervida esaltazione quale fu quella di Giuseppe Mazzini, poi un uomo politico’ eui premeva il successo immediato, l’affermazione concreta delle proprie opinioni. Le vicende politiche che sono seguite e che tuttora vanno svolgendosi possono aver dato e possono dare ragione ai politici, ma la storia non dà torto neppure agli uomini della destra: tocca a noi conciliare questo che all’apparenza sembra inconciliabile. E tenendo conto di questo suo temperamento d’uomo politico nonché del suo senso d’uomo religioso va considerata la sua critica alla politica ecclesiastica della destra. È certo che egli sentì l’esigenza fondamentale della libertà religiosa come fulcro d’ogni ulteriore sviluppo dello spirito religioso, meglio di qualcuno degli uomini di destra. Era cresciuto al fervore religioso di Mazzini ed aveva vissuto e viveva in una terra dove la veste sacerdotale s.’era arrossata nel martirio di don Tazzoli e nobilitata nei sensi patriottici del « Confortatorio » di mons. Martini. Abbiamo quindi il dovere di credere alla sua buona fede, quanto, quasi solo, denunciava la insufficienza della nostra politica ecclesiastica. « Abbiamo iscritto — egli diceva al direttore della Gazzetta di Mantova (i) — sulla nostra bandiera il magico motto di Libertà ed Ella mi ricorda che la Chiesa cattolica dev'essere libera nel libero nostro Stato. Ma scusi, signor Direttore, se io mi preoccupo assai più della libertà dello Stato che di quella della Chiesa. La libertà della Chiesa dovendo espandersi nel seno dello Stato deve necessariamente trovare i suoi limiti nella libertà di questo. Or bene, da noi la Chiesa cattolica ha maggiori libertà che non avesse negli antichi Stati italiani, poiché noi abbiamo, come vecchi arnesi, buttato via alcune di quelle guarentigie, che i vecchi Stati avevan conservate... Ma già si sa: la Chiesa cattolica si dice schiava laddove non è padrona assoluta: per lei libertà significa sovranità. Di sovranità non ce ne possono essere due entro i limiti d’una stessa associazione umana. Se lo Stato non mantiene intatta la sua, la Chiesa cattolica lo andrà man mano padroneggiando.
(i) Op. cit., pag. 15.
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A me non è mai riuscito afferrare il senso di quest’enigma di libera Chiesa in libero Stato, sebbene il cuore e l'immaginazione ne fossero sedotti » (i). E altrove (2) « Abbiamo preferito inneggiare al principio negativo, contenuto nella parola libertà, anziché darci la pena di studiare pazientemente i modi e i diversi temperamenti mercè i quali si possano avere i benefici di uno Stato forte e di una cittadinanza libera. Noi abbiamo accettato, ad occhi chiusi, la formula libera Chiesa, senza tampoco riflettere all’immenso compito che ci addossavamo, proclamandola. Non abbiamo pensato che si trattava colla libertà e per mezzo della libertà di far penetrare la stessa libertà sostanziale e formale in una Chiesa, come là cattolica, che da secoli lavora a niegarla nelle dottrine, ad escluderla da ogni parte del suo organismo gerarchico. Accanto alla Chiesa libera — proclamando libero lo Stato — nota ci siamo accorti di aver supposto cessato tra loro ogni contrasto, col trionfo dell’uno o dell’altro nel reggimento della società. Se non supponiamo cessata tra loro la fiera lotta, la proclamazione dèlia libertà equivale ad avere disarmato uno dei contendenti e precisamente quello, in cui noi ravvisiamo l’immagine vivente della patria e della civiltà. In questo nostro modo di pensare e di' fare, io ravviso un pregiudizio dottrinario di rivoluzionari emeriti ».
Fin qui la critica alle intenzioni dei nostri legislatori. Ma il caso dèi parroci eletti nel Mantovano offriva il campo alla esperienza della nostra legislazione, quindi alla luce di questa esperienza offriva il fianco alle critiche del Guerrieri-Gonzaga. Il quale non cessò e alla Camera (3) e sulla stampa di esprimere franco e deciso il suo pensiero. « Se si trattasse di una questione religiosa, io non vorrei certo ascrivermi ai fautori di questo o di quel domma. Ma qui trattasi propriamente di quei privilegi ecclesiastici, di quella materia mista ecclésiastica-politica, che non è altro che una appendice di quel potere temporale, che noi abbiamo abbattuto. Se noi badiamo ai clericali, qualunque intervento di leggi o di cittadini in questa materia sarebbe una illecita intrusione nel santuario della religione. Essi, allargando così, il concetto delle cose religiose, vorrebbero a poco a poco ad invadere tutto il dominio delle leggi politiche e civili, ridurre lo Stato e i cittadini all’ufficio di semplici registratori ed esecutori dei decreti di quel sovrano universale, che si dice poi nostro prigioniero.
« Nel caso poi particolare, i clericali, che chieggono lo sfratto (4) del parroco
(1) Vedi op. cit., pag. 41.
(2) Si confronti quanto scriveva il Ricasoli (Lett. VII, 286-7): « Non parliamo più di « Libera Chiesa in libero Stato, ma di separazione della Chiesa dallo Stato, in questo senso soltanto, che, come nel regime di libertà lo Stato deve chiamare gli interessati a fare i loro propri affari, con tanto più forte ragione sotto quel regime, di cui è base la libertà religiosa, lo Stato deve spogliarsi delle ingerenze fin qui attribuitesi in rapporto all'amministrazione del patrimonio, e ai diritti temporali delle associazioni religiose, e farne restituzione agli aventi diritti e interessi... Lo Stato è incompetènte in materia religiosa: lo Stato è il.solo potere sociale: la religione è un atto privato. È una stupidità chiamare i cardinali, i vescovi in senato, perchè non chiamare 1 rabbini, i ministri protestanti, ecc. ? Occorre applicare risolutamente il principio della separazione, e spingerlo ai suoi ultimi confini
(3) Vedi Alti ■parlamentari, dicembre 1873,
(4) Là causa contro il parroco eletto fu iniziata dal marchese Annibale Cavriani ed i querelanti erano difesi dal celebre avvocato Alessandro Brasca.
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eletto di San Giovanni del Dosso, non possono farlo senza tener conto della legge delle guarentigie papali. Essi ci sfidano dunque sul terreno stesso delle,nostre leggi. Non devono i liberali provare col fatto, che queste leggi non sono poi così cattive, come credono i clericali, che veramente siano?
«Io per'me credo, che il paese sia riconoscente all’opposizione parlamentare per la patriottica e sapiente difesa dei diritti nazionali e civili da lei assunta quando la famosa legge venne dinnanzi al Parlamento. Credo che la sua votazione si debba a molte ragioni politiche momentanee, e ad errori passeggieri dell'opinione pubblica. Credo finalmente che quella legge porti l’impronta delle circostanze straordinarie,-in mezzo alle quali fu proposta e vinta, e che essa abbia abilmente, ma precariamente, allontanato dalle nostre labbra l'amaro calice delle difficoltà esterne ed interne indissolubilmente unite alla caduta del potere temporale dei papi.
« Distinguendo però tra giurisdizione spirituale e temporalità e mantenendo pei' queste l'limitar ed il placet, la legge delle guarentigie ci ha conservate armi pre-t ziose contro l’arbitro dei nostri nemici in abito sacerdotale. Cento venti vescovi non hanno ottenuto Vexequatur. Tra questi quello di Mantova. Questi vescovi che non riconoscono lo Stato, e che lo Stato deve ignorare, possono essi nominare parroci, a cui lo Stato debba accordare col placet le temporalità parrocchiali?
« Parrebbe di no. Ma siccome ne sarebbe derivata grande perturbazione nel paese, così il Ministero nostro ha finito-per cedere, e, nella maggior parte dei casi, ad accordare il placet regio a parroci nemici dello Stato e delle istituzioni nostre. Così, a poco a poco, il minor clero, quella parte, cioè, che vive in più intimo contatto col popolo, va diventando un esercito disciplinato della reazione politica. Per questo clero la politica è la prima preoccupazione, la religione cattolica tradizionale un’appendice di quella.
«In alcune parrocchie mantovane il popolo, non ancora abituato a questo nuovo genere di vescovi e di pàrroci, ha voluto resistere ed ha eletto parroci diversi da quelli, che il Vescovo, senza cxequalur, aveva nominato.
« Il Governo è stato costretto a sussidiare cotesti parroci eletti dal popolo, scomunicati dalla Chiesa. Ed ora i clericali chieggono ai nostri tribunali che i parroci eletti siano violentemente espulsi.
« Non le pare, egregio signor direttore (i), che i nostri Tribunali abbiano un caso assai difficile da risolvere? non le pare che sia nell'interesse di tutti, ma special-mente poi dei principi rappresentati dall'opposizione parlamentare, che la confusione di rapporti, che si cela sotto la legge delle guarentigie, venga un po’ chiarita? »
Il giudice italiano parve del resto ben compreso della difficoltà e della gravità del giudizio. Se non che la sentenza dimostrò esaurientemente le ragioni della critica del Guerrieri-Gonzaga. Perchè il Tribunale (2) dichiarò prima di tutto la sua competenza, secondo la legge delle guarentigie, a determinare gli effetti giuridici degli atti ecclesiastici. Trova nel primo articolo dello Statuto che la religione catto(1) Il Direttore del Diritto di Roma al quale il Guerrieri-Gonzaga inviava il giorno 24 marzo 1875 una lettera aperta.
(2) Vedi ìl Diritto del 5 luglio 1875 che riporta la sentenza.
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lico-romana è la religione dello Stato, ma che tutti hanno diritto ai riti della religione, in conlormità della loro coscienza. A questo principio di libertà si conformarono c la legge Siccardi, e quella del matrimonio civile, e quella delle guarentigie. E da questo principio, come il Tribunale lo intende, si deduce che i parrocchiani di S. Giovanni avevano il diritto di riunirsi e di eleggere don Lonardi a loro pastore spirituale. Questo diritto però non implica, per sè medesimo, il possesso della chiesa, e la minoranza può, se le piace, eleggere don Prati a proprio parroco, collo stesso diritto e allo stesso titolo, pel quale la maggioranza aveva potuto scegliere Don Lonardi. Nessuno dei due, secondo la legge, deriva il suo titolo dai canoni, cioè, ciascuno di lor ) sarà il ministro della religione solamente per quelli, che lo eleggessero o l’abbiano eletto. La domanda degli attori, che a don Lonardi sia interdetta ogni funzione spirituale nella parrocchia, è riprovata e respinta.
Passando poi ad esaminare la questione della Chiesa, il giudice trova che il titolo legale per l'uso della medesima non è radicato in alcuna persona o corporazione, ma da tempo immemorabile appartiene per legge ài parrocchiani,' e secondo il Codice civile (art. 432) è una proprietà, che appartiene al Comune, e non alla Chiesa naturale. Ogni proprietà di questa natura rimane a disposizione del Consiglio comunale e non del Papa (1). E il consiglio non può essere rappresentato che dal suo capo, il sindaco. I singoli parrocchiani non possono intervenire che in certi casi, espressamente contemplati dalla legge dei quali nessuno si verifica nella fattispecie. Ritenendo la Chiesa sotto la sanzione di quest’autorità, don Lonardi non può essere molestato nell’uso della medesima. Queste ragioni si applicano anche ai caso di don Coelli, che ha un eguale titolo elettivo.
Rimaneva la questione della canonica, che è parte degli emolumenti del benefizio. Questi non furono conferiti in blocco dal potere civile, che ne ha solo il diritto, a nessuno dei reclamanti. Ma il sub economo dei benefici vacanti accorda al Lonardi l’occupazione della casa, e non è in nessun modo tenuto a rispondere agli attori, che lui pure citavano, nè poteva venire.inchiuso nell’azione da loro promessa.
Come appare la sentenza era molto elaborata in diritto e in fatto, ma non risolveva fondamentalmente nulla. Certo non per colpa del giudice. Il Gladstone (2). commentando i fatti e la sentenza scriveva: « Noi non possiamo nemmeno congetturare se questo notevole giudizio sarà confermato in appello; poiché pare vi sia una contraddizione tra l’articolo dello Statuto, che dichiara la religione cattolico-romana religione dello Stato, e il principio della separazione della Chiesa dallo Stato, che è la base della legge delle garenzie. Ma quell’articolo dello Statuto è per l’Italia soltanto una morta forinola del passato; mentre l’altro principio è la norma dichiarata dalla sua politica avvenire, e non vi può essere dubbio che, se l’ordinamento promesso ed aspettato verrà accolto dalla Camera, esso sarà fondato in sostanza sui principi proclamati a Mantova, e l’unione d’ogni parrocchia italiana nella sede romana non
(1) L’oggetto della petizione era di cacciare don Lonardi con don Lelli dalla canonica e di privarli dell'uso della chiesa e dello stipendio assegnato loro dal Governo sulle temporalità della parrocchia.
(2) Church Quartcrly Review dell'ottobre 18.76.
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potrà dipendere che da vincoli volontari. Se nell’atmosfera, ecclesiastica d'Italia l’aria del cielo si potrà respirare senza difficoltà, l’Italia sarà debitrice, in qualche parte, di tutte queste benedizioni alle umili comunità di S. Giovanni, del Frassino e di Paludano ».
« * ♦
Ognuno che abbia seguito lo svolgersi della nostra vita politica può dire se e quanto le previsioni del Gladstone si siano avverate. Ma le parole ed il giudizio dello studioso e del grande statista inglese sugli avvenimenti delle parrocchie del Mantovano, nei quali il Guerrieri-Gonzaga ebbe sì larga e decisa parte, giustificano agli occhi miei, lo studio che a questa figura secondaria del nostro Risorgimento nazionale io ho dedicato. Secondo me la più grave iattura che sia capitata alla questione ecclesiastica in Italia è stata quella che fino ad oggi fu patrimonio e competenza esclusivi dei partiti politici. I quali non essendo mai stati disinteressati hanno mascherato il loro giacobinismo antireligioso per anticlericalismo e la loro debolezza per tolleranza. Conviene — almeno per qualche tempo — togliere la questione a tali competizioni politiche per riportarla sul terreno storico., Poiché è qui e solo qui che si illumina. E si illumina con essa tutta la storia del nostro Risorgimento. Diciamolo francamente: noi siamo stanchi dell’aneddoto e del frammentario. Di una storia della quale molti sono morti appena, qualcuno vive di coloro che la fecero l’aneddoto ed il frammento hanno solo valore, quando servono a mettere luce vera su un uomo o su un periodo particolare. Ma chi non è convinto che noi ci siamo baloccati fino ad ora troppo con la spada di Garibaldi, o col fazzoletto di Mazzini, proprio come dei bambini? Per degli uomini questi sono entusiasmi a freddo. Per altro quel titanico sforzo che s’è conchiuso gloriosamente a Roma sta nella storia d’Italia e del mondo. Il mio illustre maestro — permetta la sua modestia che io gli renda qui onore anche se nulla gli aggiunge — Michele Rosi, inaugurando nel 1908 il suo corso di storia del Risorgimento italiano — l’unico ufficiale che sia tenuto nelle Università del Regno — faceva sue le parole che Giacinto Romano ebbe a dire al primo Congresso per la storia del Risorgimento italiano tenuto a Milano nel novembre dèi 1906: « Quando parliamo di Risorgimento nazionale, noi udiamo spesso la frase: la stella d’Italia ha fatto sì che... e portiamo Gastrologia nella spiegazione dei fa.tti umani. l’Italia non ha avuto nessuna stella! L’hanno redenta la virtù di un popolo e il valore di una dinastia che ha affrontato difficoltà e pericoli a tutti noti, ma il grande avvenimento non si sarebbe compiuto se non fosse accaduto in un tempo in cui il Risorgimento nostro era la conseguenza logica di tutta la vita contemporanea. Il professore di storia del Risorgimento non deve'dunque essere un espositore di aneddoti, ma deve prepararsi al suo ufficio con una larghezza di studi che lo metta in grado di vedere la relazione che passa tra il Risorgimento e la storia universale ». E per suo conto soggiungeva come non si potesse capire la storia del Risorgimento italiano isolata dalla storia sincrona degli altri Stati, nè separarla nettamente dalla storia precedente italiana o straniera. Queste sue parole avevano — nella intenzione sua — indubbiamente non soltanto un valore diciamo così retrospettivo, in quanto che miravano a fissare i canoni che dovrebbero guidare lo
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studioso di tale discipline, ma ne avevano e ne hanno uno che mi par giusto chiamare-dinamico. Perchè la nostra vita d’oggi s’innesta immediatamente su quella del Risorgimento. E i partiti che oggi si contendono — se ne togli il socialismo il quale forzatamente si vuol méttere fuori da quella corrente di vita -— sono partiti sorti nel fervore di opere e nell’entusiasmo d’ideali che formarono l’Italia. Noi ci lamentiamo continuamente che è grétta, meschina, qualche volta indegna la vita dei nostri partiti politici. Ma non abbiamo mai detto sufficientemente chiaro che essi sono tali perchè tutta apparenza, privi di quella .sostanza e di quella ossatura che ebbero sulnascere. Non indaghiamo dove l’una e l’altra siano andate: per ora accontentiamoci di constatarne l’assenza. Alfredo Oriani è statò l’ultimo a cercare di innestare del sangue veramente nostro nel grande partito liberale. Ma egli in certi momenti era paradossale e la storia del Risorgimento qualche volta si sfigurava sotto le sue inani forti e nervose e i suoi epigoni si perdono in inutili logomachie dove lo sforzo personale è molto, il senso storico nessuno.
Ci conviene dunque ripensare per nostro conto la vita del nostro Risorgimento, senza perdere di vista il materiale documentario. Esso è molto e vario e sufficientemente pensa lo Stato a raccoglierlo e a riordinarlo (1). Noi pensiamo a sistemare le nostre idee e non ci incresca se troviamo altri prima di noi che hanno visto e pensato sulle esigenze fondamentali della vita italiana quello che vediamo e che pensiamo noi.
Ad essere orginali per forza, si diventa ridicoli.
Ferruccio Rubbiani.
Roma, dicembre 1916.
(1) Alludo alla Relazione sull’opera svolta dal Comitato per la Storia del Risorgimento dall’inizio dei suoi lavori (4 aprile 1909) al 15 giugno 1916. (Roma, Tip. della Camera dei deputati, 1916).
Post-scriptum. lì marchese Carlo Guerrieri-Gonzaga non ha scritto molto, perciò sarebbe fuor di luogo una bibliografia; tanto più che la caratteristica dell’opera sua è questa: di insistere su un motivo che .era per lui fondamentale nella vita politica italiana. I suoi scritti sono sparsi nei giornali del tempo, specialmente nel Diritto.
Citerò:
— Dopo il 18 marzo 1876: lettere di un italiano, ecc. Roma, tip. Barbera.
— I parroci eletti e la questione ecclesiastica. Firenze, Stabilimento di' Giuseppe-Civelli, 1875.
Ha poi tradotto del Gladstone: I Decreti del Vaticano e i doveri del cittadino; II Vati-canismo (Firenze, Le Monnier) e V Italia e la sua Chiesa. (Roma, Stab. G. Civelli).
Del De Laveleye: L'Avvenire dei popoli cattolici (Roma, Tipografia romana, 1876).
Per la questione della elezione popolare dei parroci si può vedere:
Friedberc-Ruffini, Trattato di diritto ecclesiastico. Fratelli Bocca, Editori, 1893 pag. 502 e seg.; specialmente nelle note che hanno un valore superiore al testo. (Vedi la bibliografia citata).
Scaduto, Stato e Chiesa sotto Leopoldo I granduca di Toscana. Firenze, Ade-mollo, 1885.
Idem, Guarentigie pontificie e relazioni tra Stato e Chiesa. Loescher, Torino, 1884 2a edizione a Torino presso l’Unione editrice torinese, 1893 (dove è copiata la bibliografia generale e particolare). ..
Idem, Diritto ecclesiastico vigente. Torino, fratelli Bocca, editori, 1892, pagg. 409 e seguenti.
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L’AVVENIRE
SECONDO L’INSEGNAMENTO DI GESÙ
(Continuazione e fine. Vedi BifycAnis, fascicolo di marzo, pag. 219)
III.
LE RELAZIONI FRA IL DI QUA E IL DI LÀ DALLA TOMBA.
he fra quelli di là dalla tomba e noi sian possibili delle relazioni dirette, delle « comunicazioni supernormali », come le chiama Sir Oliver Lodge, per me e per molti è ormai un fatto incontestabile. Noi non possiamo ragionevolmente mettere in dubbio « quello che abbiamo udito, quel che abbiam veduto con gli occhi nostri, quel che abbiamo contemplato e che lé nostre mani hanno toccato», (i) Ma non è in questo campo Ch’io ¿debbo entrare con la terza parte del mio studio. (2) La na
tura del mio lavoro mi obbliga a tenermi in un Campo essenzialmente cristiano, direi quasi esclusivamente teologico, se questa parola non mi desse sui nervi (il lettore meni buono questo scatto a un religioso... che sa quel che si dice); e, per limitare esattamente il mio soggetto, dirò subito che mi propongo di rispondere a queste domande: Possiamo noi esser utili, con le nostre preghiere, a quelli di là dalla tomba? E quelli di là hanno essi a cuore il nostro bene e pregano essi per noi? La comunione spirituale che, mentr’eravamo quaggiù assieme, faceva di noi una famiglia, e che la mutua preghiera d’intercessione rendeva così intima e così cara, è essa del tutto e per sempre rotta ora che ci troviamo in differenti condizioni di vita?
, Per arrivare, a una risposta soddisfacente, vediamo che cosa dicano a questo proposito il giudaismo, il Nuovo Testamento, la Chiesa, le obiezioni.
1. II giudaismo.
La Chiesa cristiana nacque in seno al giudaismo; questa intimità di relazioni esige che, studiando un soggetto come il nostro, prima d’investigare il Testamento Nuovo noi ci rendiamo ben conto di quel che ne pensi l’Antico. Ora l’Antico
(1) Giov. 1,1.
(2) A chi venisse vaghezza d'entrare in cotesto campo io consiglierei, fra i tanti lavori che si occupano seriamente di questo soggetto, i Proceedings della Society for Psychical Research di Londra, e i due volumi di Sir Oliver J. Lodge: The Survival of Man e il recentissimo: Raymond or Life and Death.
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302
BILYCHNIS
Testamento non dice gran che a questo proposito. E si capisce. Prima di tutto, la grande preoccupazione d'Israel non concerneva V individuo, ma il popolo; Vindividuo non contava o contava poco; e’ si perdeva nel gran tutto della nazione. Il paese de’ padri, la prosperità terrena, la famiglia ricca di figliuoli che assicurassero al popolo la continuità della sua esistenza sul suòlo natio, ecco le grandi.aspirazioni israelitiche: aspirazioni santificate dalla fede nell’Eterno, ma che non oltrepassavano i confini di questo mondo. E poi, perchè l’israelita avrebbe pregato per i suoi morti, se dèlia sorte lóro non aveva che un’idea vaga e confusa? Ne’ suoi momenti di scoramento e di pessimismo e’ dubitava perfino che continuassero ad esistere; e, quando credeva alla continuità dell’esistenza loro oltre la tomba, cotesta esistenza se la immaginava senza relazioni personali con Dio, e giù nello Shed, nel regno dei silenzio, (x) dove le anime erravano languide, meste, rimpiangendo « il dolce lume della terra de’ viventi ». (2) Per dare ad Israel una visione più ampia e un intuito più esatto della realtà delle cose ci volle il flagello dell’esilio. Quando, infatti, Gerusalemme non fu più che un mucchio di ruine e quando quel \ tanto che della sfasciata nazione rimaneva fu trascinato in esilio, Israel cominciò ' a concentrare ne\V individuo le speranze che, prima avea concentrate nel popolo; riflettendo sulle sue sventure presenti,- si convinse che, se sulla terra il giusto era conculcato e l’empio trionfava, ci doveva essere un « di là » dove il fedele avrebbe ricevuto la sua ricompensa e l’iniquo la sua punizione; e, pensando ai suoi morti, gli venne fatto naturalmente di pregare per loro. L’Antico Testamento difatti non ha tracce di preghiere per i defunti che da dopo l’esilio.
Un esempio di coteste preghiere qualcuno lo trova già (e secondo me è un abbaglio) nel Salterio de’ pellegrini, che appartiene al tempo del ritorno dall’esilio. Il passo sarebbe questo:
O Eterno, tien conto a David di tutte le sue tribolazioni! (3)
0, più letteralmente, secondo l’ebraico: ’
Ricordati, o Eterno, a prò di David di tutta la sua pena.
Il passo, a mio credere, allude a tutto quello che David tece o volle fare per la casa dell’Eterno. II tempio, che non gli fu dato di costruire ma di cui preparò i materiali, è pur compreso in questa « pena eh’e’ si dette »; ma il poeta allude sopra tutto a un desiderio che David giunse a veder compiuto: quello di trasportar l’arca a Gerusalemme (4). Quindi: « 0 Eterno », dice il salmista: « ricordati di David, di tutto quello che penò per te, e per amor suo benedici il suo popolo e la sua casa! »
1) Sal. 94, 17; 115, 17.
2) Isaia 38, 10-20.
3) Sal. 132, 1.
4) 2 Sam. 6.
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l’avvenire secondo l’insegnamento di gesQ * 363
Ogni allusione a una preghiera perchè l'Eterno .si ricordi della pietà di David e gli dimostri ora il suo favore, mi pare sforzata.
Non così, invece, è di 2 Maccabei 12.41 e seg. Giuda Maccabeo conduce i suoi contro Odollam. Alcuni de’ Giudei vi rimangono uccisi. Quando, l’indomani, la gente di Giuda va a seppellire i cadaveri, scopre che ognun de’ caduti teneva, nascósti sotto la tunica, degli oggetti sacri provenienti dagl’idoli di lamnia. Allora capisce che la morte di costoro era la punizione divina di cotesta empietà. Tutti si mettono a far supplicazioni perchè la trasgressione, sia interamente cancellata; il nobile Giuda fa una colletta, e manda del denaro a Gerusalemme per offrire « un sacrifizio espiatorio ». E lo storico dice: « Era un’azione bella e lodevole in quanto che e’ pensava alla risurrezione. Poiché, se non avesse sperato che co-testi uccisi risusciterebbero, sarebbe stato superfluo e ridicolo pregare per i morti. Ma, considerando che una bella ricompensa è. riserbata a quelli che muoion fedeli, egli ebbe questo santo e pio pensiero, in seguito al quale fece fare l’espiazione per i defunti onde ottenessero l’assoluzione del loro peccato ». È evidente che, in questo passo, le preghiere per i defunti sono considerate, non come una novità introdotta da Giuda Maccabeo, ma cóme una cosa d’uso comune, riconosciuta come legittima ed utile.
Se usciamo dalla Bibbia e interroghiamo le liturgie, il linguaggio popolare e le iscrizioni del giudaismo, noi troviamo da per tutto tante testimonianze a favore di coteste preghiere. Il Rev. R. J. Edmund Boggis, in un libro importantissimo apparso recentemente, (1) cita da varie liturgie antiche e moderne parecchi passi interessanti e commoventi di preci per i trapassati; nota come i Giudei, parlando dei loro cari defunti, usino frequentemente formule come queste: « Pace a lui! » «Sia la memoria sua in benedizione! » «Sia l’Eden il suo riposo! » e dopo aver ricordato vari epitaffi di lapidi antiche e delle Catacombe israelitiche di Roma e d’altrove, conclude così: « Per più di duemila anni i Giudei hanno riconosciuto come legittima e benefica la pratica di pregare per i dipartiti; e sebbene abbiano dato a cotesta pratica un posto cospicuo nel loro culto pubblico soltanto in tempi relativamente recenti, pure è un fatto che hanno sempre avuto profonda la convinzione che Iddio ascolta le preghiere rivoltegli a prò de’ morti, e che i defunti sono in grado di ricevere le benedizioni implorate per loro dai vivi ».
2. Il Nuovo Testamento.
Gesù non disse mai nulla che in modo esplicito e diretto si riferisse alle relazioni fra il di qua e il di là dalla tomba. E noi sappiamo il perchè di questo silenzio. Quel che importava a Gesù era il presente', quest’attimo così fugace, e al tempo stesso così solenne. Gli premeva che gli uomini afferrassero il vero concetto della vita; capissero, cioè, che la vita non è fine a se stessa, ma un mezzo per giungere a qualcosa di migliore; si rendessero ben conto della loro condizione morale; non
(1) Praying for the Dead.
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riponessero soverchia fiducia nelle loro forze, nè sperassero di potersi redimere moralmente da sé, ma in lui confidassero: in lui, che, con la parola, con l’opera, col sacrificio di se stesso sul legno della croce, li avrebbe redenti di una redenzione perfetta ed eterna; imparassero, finalmente, a considerare Iddio come il loro Padre celeste, buo.no, longanime, pietoso, sempre pronto a perdonare il figliuol prodigo sinceramente pentito. Quindi, l’intonazione semplice, popolare, pratica di tutto l’insegnamento di Gesù; quindi, l’assenza assoluta, in cotesto insegnamento, d’ogni speculazione teorica sui grandi problemi della vita nelle sue fasi anteriori alla fase presente, sull'origine del male, sulla Provvidenza e la libertà, sulle relazioni fra il di qua e il di là dalla tomba.
Nondimeno, per quanto e’ si sia così taciuto, è lecito dedurre dal suo insegnamento generale qualche idea e qualche fatto, che possono gettare un po’ di luce sul nostro caso particolare.
Abbiamo già visto che l’uso di pregare per i defunti risale a tempi anteriori a quelli di Gesù e degli apostoli. Nelle sinagoghe che Gesù frequentava regolarmente, i Giudei pregavano per i loro morti. Ora, che ne pensava Gesù di coteste preghiere? Non lo sappiamo; ma possiamo esser sicuri che, se le avesse stimate illegittime o semplicemente inutili, le avrebbe condannate o sconsigliate. Gesù, è vero, non era venuto per far della critica biblica o della teologia speculativa; ma state pur certi che, col suo silenzio, non avrebbe mai indotto la gente a credere che approvava una pratica religiosa, della cui falsità e’ fosse intimamente convinto. Se quando vide e udì che i Giudei pregavano per i loro, morti Gesti non fiatò, è segno che non ùvea nulla da dire contro coteste devozioni.
Ma v’è di più. Quando parliamo di « preghiere per i morti », noi usiamo un modo di dire ch’è ordinario, ma del tutto improprio. Quelli che noi chiamiamo i morii, per Gesù sono i viventi del di là dalla tomba. « Quanto alla risurrezione dei morti, non avete letto quel che vi fu detto da Dio: Io son l'iddio d’Àbramo, l’iddio d’Isacco e l’iddio di Giacobbe? Egli non è l’iddio de’ morti, ma de’ viventi ». (i) Tanto viventi, che vedono quel che avviene sulla terra, e si rallegrano di tutto ciò che vi succede di grande e di bello. « Abramo, vostro padre, giubilò nella speranza di vedere il mio giorno (vale a diré l’apparizione di Gesù sulla terra); e lo vide, e se ne rallegrò ». (2) Il cattivo ricco, nell’Ades, vede, sente, si raccomanda perchè i suoi cinque fratelli che sono ancora sulla terra siano avvertiti a tempo onde non abbiano a finire anch’essi nel luogo di tormento dove si trova lui; e Lazzaro v’è consolato de’ mali ch'ebbe a patire nel mondo. (3) Per San Paolo il di qua e il di là dalla tomba non sono separati da abissi orridi, immensi, o da secoli innumerevoli, ma sono in contatto immediato; non li separa che la linea di confine ch’è fra provincia e provincia- e che si varca d’un passo. « Noi siam sempre pieni di fiducia, e sappiamo che, mentre alberghiamo nel corpo, andiam peregrinando lungi dal Signore
(1) Matt. 22, 23.
(2) Giov. 8, 56.
(3) Luca 16, 23-31.
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I,’AVVENIRE SECONDO L’INSEGNAMENTO DI GESÙ 365
(poiché camminiamo per fede e non per visione); siam pieni di fiducia, dico, e abbiamo molto più caro di dipartirci da! corpo per abitar col Signore ». (i) San Pietro dice che Cristo, «messo a morte quanto alla carne ma reso alla vita quanto allo spirito », andò, in cotesto spirito, nel di là dalla tomba a proclamare il Vangelo; e dimostrò quindi col fatto che chi ascolta cotesta proclamazione e le risponde •còl ravvedimento e con la fede, sia egli di qua o di là, è salvo. (2) San Giovanni, nella visione apocalittica dei martiri, contempla «sotto Faltare, le anime di coloro ch’erano stati sgozzati a cagion della Parola di Dio e della testimonianza che aveano resa». Essi ricordano l’iniquità, la violenza di cui furono vittime innocenti sulla terra, e chiedono a Dio che se ne ricòrdi anche, lui, e ¿’affretti a punire come si meritano cotesti malfattori; « Fino a quando, o Sovrano santo e verace, indugerai tu a giudicare e a domandar conto de! nostro sangue agli abitanti della terra? E a ciascun d’essi fu data una veste bianca (simbolo d’una vita divinamente pura, raggiante di felicità celeste, coronata d’un glorioso serto di vittoria), e fu detto d’aspettare in pace ancora un po’ di tempo, finché fosse completo anche il numero dei loro compagni di servizio, ossia dei loro fratelli, che dovean come loro esser messi a morte». (3)
E non basta; nel Nuovo Testamento c’è qualcosa di più positivo ancora; c’è un caso di vera e propria preghiera di un vivente di qua a pro di un altro vivente di là. Leggete, senza preoccupazioni dottrinali per il capo, questi passi di San Paolo a Timoteo: « Conceda il Signore la sua misericordia alla famiglia di Onesìforo; poich'egli m’ha spesse volte confortato, e non s'è vergognato della mia catena; non solo, ma, appena è giunto a Roma, s’è messo a cercarmi con gran premura e m’ha trovato. Gli dia il Signore di trovar misericordia presso il Signore in quel giorno! Quanti servigi egli abbia reso in Efeso, tu sai meglio di me ». (4) E alla fine della •stessa Epistola: « Saluta Prisca ed Aquila e la famiglia d’Onesìforo ». (5) Riflettete un istante. Come mai, nel primo passo, l’apostolo ricorda la famiglia d’Onesìforo e non lui personalmente? Come mai, nel secondo passo, dov’egli saluta tutti per nome, arrivato a Onesìforo, non dice: « Salutami Onesìforo », ma: « Salutami la famiglia d’Onesìforo? » Perchè Onesìforo, la cui operosità cristiana è descritta dall’apostolo come cosa del passato, non era più di questo mondo; e la preghiera: « gli conceda il Signore di trovar misericordia presso il Signore in quel giorno! » è preghiera d’un vivo a pro d’un fratello dipartito. Così la pensano, non soltanto gl’interpreti cattòlico-romani, ma anche quasi tutti gli esegeti evangelici moderni. E d'altronde, perchè San Paolo non avrebbe pregato così? Non pregava forse così quand’era giudeo? Aveva forse saputo da qualcuno degli altri apostoli che Gesù avesse proibito coteste preghiere? •
Finalmente, riandate col pensiero alle immagini delle quali il Nuovo Testamento -si serve quando parla dei redenti dal Signore. Sono delle immagini, va bene; ma le
1 2 Cor. 5, 6-8.
2 1 Pietro 3, 18-20.
3 Apoc. 6, 9-1 r.
4 2 Tim. 1, 16-18.
5) 2 Tim. 4, 19.
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BILYCHNIS
immagini del Nuovo Testamento non sono delle vuote espressioni poetiche o teologiche; sono velami che coprono realtà gloriose e divine. Ecco ¡.’immagine del gregge che ha per Pastore Gesù Cristo. Verrà un giorno, dice Gesù, quando sulla terra, il muro di separazione fra il giudaismo e il paganesimo sarà abbattuto e non s’avrà •più che « un solo gregge ed un solo pastore »; (i) ma non tutto il gregge è sulla terra; la parte d’esso che va man mano passando negli ovili celesti, continua ad esser guidata dal medesimo Pastore, che la conduce « alle sorgenti delle acque della vita ». (2) Il gregge è dunque uno, come uno è il Pastore che, quaggiù e lassù, lo « la riposare su pascoli verdi, e lo mena presso fresche acque ». (3) Ecco l'immagine del corpo, (4) del quale Cristo è il capo e i credenti sono le membra. È un corpo mistico che ha il suo capo nel Cielo, le sue membra in cielo e sulla terra, ed è pervaso da un medesimo fluido vitale, da un medesimo Spirito: lo Spirito di Dio. Ecco l’immagine del tempio (5) spirituale contrapposto a quello materiale di Gerusalemme. I sacerdoti di questo tempio sono i credenti; i sacrifizi che vi si offrono, sono sacrifizi spirituali di azioni di grazie, d’inni di lode, di supplicazioni, di preghiere d’intercessione. Il tempio non è soltanto di questa terra; è della terra e del cielo; e i sacerdoti che hanno compiuto- la loro funzione sulla terra, passano a continuare il sacerdozio loro nel santuario celeste. (6) Ecco l’immagine della famiglia, della quale Dio è il Padre, Gesù Cristo il primogenito, (7) e i credenti i fratelli minori. La famiglia è parte sulla terra e parte in cielo; il primogenito, ch’è alla destra del Padre, prega e intercede del continuo per i suoi fratelli che sono in cielo e'sulla terra.. E perchè vorremmo limitare soltanto ai fratelli che son sulla terra il privilegio e il conforto di pregare gli uni per gli altri? Non è più naturale, più giusto, ritenere che sia il privilegio e il conforto di tutti i fratelli, di qua e di là dalla tomba? Ecco l’immagine del-1’« Assemblea de’ convocati dall'araldo »; i chiamati che rispondono agli araldi del Vangelo ed hanno i requisiti del ravvedimento e della fede operosa,, costituiscono la Chiesa di Cristo. La qual Chiesa è in terra e in cielo; « milita » sulla terra, « trionfa » ne’ cieli. I cristiani, in generale, ammettono che la Chiesa trionfante preghi per la Chiesa militante; ma quando senton parlare di preghiere della Chiesa di quaggiù per la Chiesa di lassù, molti si ribellano a cotest’idea. Perchè? Perchè pensano, erroneamente, che la Chiesa trionfante sia già arrivata tutta quanta alla perfezione, e non abbia quindi più bisogno delle nostre preghiere. Dico « erroneamente » perchè, se è un fatto che nella Chiesa trionfante ci sono degli spiriti già arrivati alla perfezione, vale a dire, al pieno possesso della vita divina, è anche un fatto che la maggior parte degli spiriti di là dalla tomba non è ancora arrivata a cotesta perfezione- e continua « a correre verso lo scopo ». Ma com’è possibile che il ribaldo
(1 ) Giov. io, 16.
2) Apoc. 7, 17.
3) Sai.. 23, 2.
4) 1 Cor. 12, 12-27.
5) Efes. 2, 21.
6) Apoc. i, 6; 5, io; 20, 6.
7) Rom. 8, 29; Ebrei 2, 11-12.
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l’avvenire SECONDO L’INSEGNAMENTO DI GESÙ 367
il quale si converte in punto di morte’ passi, in un attimo, dal brago della corruzione al pieno possesso della vita divina? E se dovrà cominciare la sua evoluzione spirituale di là, perchè quelli di qua, che gli han voluto bene e son forse stati il mezzo della sua conversione, non lo aiuterebbero con le loro preghiere?.
Dal complesso del Nuovo Testamento, insomma, risulta per me chiaro e lampante questo fatto: che i redenti dal Signore costituiscono un popolo, l’Israel di Dio, (1) del quale parte sta di qua « peregrinando », e parte sta di là proseguendo la sua ascensione alla città di Dio. Il popolo, però, rimane uno: di una unità spirituale che non può essere infranta perchè ha il suo fondamento nell’unità stessa di Dio. E allora, perchè vorremmo noi inalzare una barriera là dove Gesù e gli apostoli dicono che non esiste barriera? E qual barriera vorremmo noi frapporre tra il di qua e il di là dalla tomba? La morte"? Ma la morte non esiste più per il popolo di Dio. (2) Esiste invece una « comunione de’ santi » che non ha per limiti i limiti del tempo, ma è cosa della eternità e abbraccia tanto quelli che « albergano nel corpo » quanto quelli che « abitano col Signore ». E se così è, perchè cesseremmo noi di pregare per il bene dei nostri cari dipartiti? E perchè i cari nostri che nella grande evoluzione della vita si trovano in fasi più ampie, più alte, più pure della nostra, non continuerebbero ad aiutarci col loro affetto, con la loro simpatia, con le loro preghiere? E poiché sappiamo che nel di là dalla tomba tanti e tanti spiriti si trovano meno felici di noi, saremmo noi tanto inumani da dimenticarli nelle nostre preghiere, tanto egoisti da non aver più una parola d’intercessione neppur per quelli di cui conoscemmo quaggiù i nomi, la vita, le lotte, le tragiche vicende per cui non poterono assorgere alle altezze della fede?
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3. La Chiesa.
Il Boggis, nel libro che ho’ già citato, ha raccolto quanto di più importante ci dicono i documenti, le liturgie e le iscrizioni sepolcrali delle Chiese d’oriente e d’occidente circa le preghiere per i defunti. Ecco quel che risulta da queste sue ricerche. Nella Chiesa orientale antica, l’uso di pregare per i dipartiti era generale; le preghiere si facevano in pubblico e in privato, ma erano specialmente connesse con la celebrazione della Eucaristia. Nella Chiesa occidentale, fino dal 200, coteste preghiere furono d’uso comune. Le liturgie provano all’evidenza che i cristiani d’ogni età e d’ogni paese consideraron sempre i fedeli passati di là dalla tomba come membra viventi della Chiesa di Cristo; e ne’ momenti più solenni del culto, specialmente nel momento eucaristico, inalzaron supplicazioni all’Altissimo perchè concedesse ai dipartiti perdono, pace, riposo. Le iscrizioni sepolcrali di Roma, dell’Asia Minore e dell’Egitto attestano che la Chiesa antica riteneva l’uso di co-teste supplicazioni come giusto, utile, santo.
Ora, come andò che cotest’uso divenne, nella Chiesa, causa di discordia e di scisma? Andò così. La Chiesa antica infliggeva ai cristiani che si rendevan colti) Gai.. 6, 16.
(2) Giov. 5. 24: 11, 25-26.
50
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pevoli di gravi falli, come l’idolatria, l’omicidio, la fornicazione, l’adulterio, delle gravi pene e, spesso, delle pubbliche penitenze. Erano atti disciplinari legittimi, in quanto miravano a riconciliare il penitente, quando fosse veramente pentito, con la Chiesa. Ben presto, però, sempre nella Chiesa antica, sorse il problema se co-teste pene disciplinari si potessero o no, in certi casi, mitigare, (i) Prevalse l’idea che si potessero mitigare; e le mitigazioni si concessero, nel terzo e nel quarto secolo, a quelli, per esempio, che in tempi di persecuzione non s’eran mantenuti fermi nella fede: si concessero, quando la mitigazione fosse chiesta da un « confessore »; vale a dire, da uno di quelli che avevan retto al fuoco della prova. I Concili di Ancira (2) e di Nicea (3) dettero poi ai Vescovi la facoltà, di giudicar loro dei vari casi, per i quali coteste mitigazioni fossero richièste; e siccome il vescovo aveva anche il potere di diminuire il numero degli anni della penitenza inflitta, questo alleviamento di pena fu detto Indulgenza. Intanto che avveniva? Questo: che molti, per i peccati che avean commessi, erano condannati a tanti è tanti mai anni di penitenza, che non sarebbe mai stato loro possibile di scontare. Allora ecco che cosa si pensò di fare: si pensò di commutare la pena nel pagamento di una somma di danaro: commutazione, che diventò poi sistematica al tempo delle Crociate, quando, Chiunque per la gloria di Dio avesse preso le armi contro i Turchi, acquistava l’indulgenza plenaria (4) della penitenza che avrebbe dovuto fare.. Se non poteva o non voleva prender le armi, riscattava con danaro la penitenza che dovea fare, e il denaro serviva per la Crociate. Entrati in questa via, era naturale che si andasse a rotta di collo. E a rotta di còllo s’andò. Giovanni XXII (5) mutò interamente la natura e lo scopo della istituzione primitiva, e le penitenze divennero assoluzioni o indulgenze da ottenersi a quattrini sonanti, applicabili anche a modo di suffragi alle anime de’ morti, e messe a tariffa dalla Tassa della Cancelleria apostolica. Il Concilio di Firenze (6) sancì ufficialmente la dottrina del Purgatorio, che risale a Sant’Agostino: la dottrina, cioè, di un luogo di espiazione per le anime di quelli che, sebbene morti in grazia di Dio, non hanno soddisfatto interamente alla divina giustizia. E la trovata del tesoro della Chiesa, ossia dell'immaginario cumulo delle soddisfazioni sovrabbondanti di Gesù Cristo, di Maria santissima e dèi Santi, servì a maraviglia di fondo inesauribile al traffico delle indulgenze a prò dei vivi e de’ morti, finché il traffico, giunto agli scandalosi eccessi del secolo decimo-sesto, provocò la rivoluzione protestante.
È egli da maravigliarsi se i Protestanti, fatto un fascio delle indulgenze, del Purgatorio, del tesoro della Chiesa e delle preghiere per i defunti, buttarono ogni
(1) Cfr. r Cor. 5, 5 con 2 Cor. 2, io.
(2) 30H.
(3) 325(4) L’indulgenza plenaria è quella con cui viene rimessa al penitente tutta la pena temporale dovuta per i suoi peccati. Perciò, s’e’ morisse dopo aver ricevuto tale indulgenza, andrebbe subito in Paradiso, esente affatto dalle pene del Purgatorio. L'indulgenza parziale è quella con la quale vien rimessa soltanto una parte di cotesta pena.
(5) 1316-1334.
(6) 1439-
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cosa a mare? Rimase però sempre fra loro come un desiderio nostalgico delle preghiere per i defunti; n’è prova il classico Book of Common Prayer della Chiesa Anglicana. Infatti, nel primo, del 1549, c’era la preghiera per i defunti; in quello del 1552, la raffica calvinista ve la sradicò del tutto; ma nel seguente, del 1661, che è quello in uso anche oggi, cotesta preghiera rientrò, quantunque in una forma più breve di quella del 1549: brevità, che nocque non poco alla chiarezza.
Anche l’attitudine de’ riformatori è a questo proposito istruttiva. Calvino fu ■ decisamente avverso a coteste preghiere e le condannò. Lutero fu più cauto. A lui personalmente non erano, pare, simpatiche; ma e’ non si sentì libero di condannarne l’uso e di proibirle. Lo stesso fu di Melantone e di Zuinglio. Più tardi, Giovanni Wesley ritenne che, per i cristiani, ricordare i defunti nelle loro supplicazioni fosse un dovere. Il Boggis, or non è molto, ebbe la buona idea di fare un Referendum per zvedere un po’ quel che gli Evangelici della Gran Bretagna pensassero oggi su questo importante soggetto. Dalle risposte che gli giunsero da rappresentanti le varie Chiese risultò che coteste preghiere non sono approvate, come regola, dal protestantesimo di lingua inglese; ma non sono mai state formalmente condannate che dai Presbiteriani, i quali, almeno in teoria, sono obbligati a riconoscere l’autorità della Confessione di Westminster del 1646, che non le ammette: dico, in teoria, perchè, come spiegava il dott. John Skinner, rettore del Westminster College di Cambrigde, rispondendo al Boggis: « La firma che noi dobbiamo apporre alla Confessione implica soltanto l’assenso alla sostanza della fede ch’essa contiene; e quel che concerne la sostanza della fede, ove sia il caso di determinarlo, dev'esser determinato da atti speciali delle Autorità ecclesiastiche competenti ». Il fatto che buon numero di presbiteriani della Chiesa Stabilita di Scozia, guidati dal dott. James Cooper, difendono la legittimità di coteste preghiere e le raccomandano, illustra l’asserzione del dott. Skinner. Se il Referendum evangelico si rinnovasse in questi tragici tempi nostri in cui per il falciare che la morte fa così spietatamente il fiore della gioventù di tutti i paesi il problema del di là dalla tomba diventa più solenne che mai, e se lo si facesse, non soltanto fra il clero, come lo fece il Boggis, ma anche fra il laicato, io son persuaso che la risposta di cotesto Referendum farebbe esultare gli spiriti dei redattori della Confessione di Westminster: esultare, dico, veder finalmente, dopo più di due secoli e mezzo, riparato dalla risvegliata pietà avangelica l’errore che commisero, quando, essendo in terra, con una visione delle cose di Dio offuscata dal pregiudizio teologico, scrissero: « Si deve pregare per cose legittime e per ogni sorta di persone viventi o che vivranno di là; ma non per i morti, nè per chi abbia commesso peccato mortale ». (1) Io non fo della poesia; parlo, ponendo mente a’ segni de' tempi. La stampa quotidiana e settimanale della Gran Bretagna non rifugge più, come faceva prima, dal trattare questo soggetto. Parecchi Pastori, dai loro pulpiti, esortano coraggiosamente lei congregazioni a pregare per i loro defunti. Di alcuni sermoni, come di quello del Rev. Bernard
(1) Cap. 21, Sez. 4.
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J. Snell, Pastore a Brixton (i), si chiede la stampa perchè sia largamente diffuso. Il libro del Boggis e un altro del doti. A. Plummer (2) vanno a ruba, e il Raymond di Sir Oliver Lodge in tre mesi è giunto alla settima edizione. Cito anche il Raymond, perchè il Lodge non vi dà soltanto le prove delle sue comunicazioni dirette col figliuolo (Raymond), caduto da valoroso sul campo di battaglia, ma vi esprime questa sua fede: « L’Universo è uno: non ci sono due universi. A rigor di termini non esiste « altro » mondo, che nel senso limitato e parziale di altri pianeti: l'Universo è uno. Noi esistiamo sempre, senza interruzione, in quest’universo: ora avendone coscienza in un modo, ora avendone cosciènza in un altro; ora avendo coscienza di un gruppo di fatti da questo lato del divisorio, ora avendo coscienza di un altro gruppo di fatti dall’altro lato. Ma il divisorio è soggettivo; noi continuiamo sempre ad essere un'unica famiglia, finché il legame d’affetto che ci lega non si spezzi. E per quelli che credono nella preghiera, cessar di pregare per il bene de' loro amici perchè sono materialmente inaccessibili — quantunque spiritualmente siano più accessibili di prima — è rassegnarsi senza ragione a rimaner vittime di quel tanto che resta ancora d’un male prodotto da passati abusi ecclesiastici, ed è perdere una grande opportunità di far veramente del bene ».
4. Le obiezioni.
Le obiezioni si possono ridurre a tre.
Alla prima, che è di quelli i quali, fondandosi sul silenzio delle Sante Scritture, negano ai cristiani il diritto di far uso di siffatte preghiere, ho già risposto, e non sto quindi a ripetere cose già dette.
La seconda viene da molti, i quali citano un passo che addirittura condannerebbe cotest’uso. Il passo è questo: « Quando un albero cade, sia verso il sud o verso il nord, resta al posto dov’è caduto ». (3) Lo stato dell’anima di chi muore, dicono essi, è dunque inalterabile; non è possibile imitarlo, nè in meglio nè in peggio, e le preghiere per le anime dei defunti, se non empie, son quindi inutili ed assurde. — Adagio, dico io. Siete proprio sicuri che sia cotesto il senso del passo? Ristudiatelo un po’ meglio; non lo strappate dal brano a cui appartiene per fargli dire quel che non ha voglia di dire e voi vorreste che dicesse, ma investigatelo alla luce di tutto il contesto. Eccovi il brano: « 1. Butta il tuo pane sulla superficie delle acque, poiché col tempo io ritroverai. 2. Fanne parte a sette e anche a otto, poiché tu non sai quale sciagura può avvenire sulla terra. 3. Quando le nuvole son piene di pioggia, la scaricali sulla terra; e quando un albero cade, sia verso il sud o verso il nord, resta al posto dov’è caduto. 4. Chi bada al vento non seminerà; e chi fa attenzione alle nuvole non mieterà. 5. Come tu non conosci affatto il cammino del vento, nè come si formino le ossa in seno alla donna incinta, così tu ignori l’opera di Dio che fa tutto. 6. Spargi di buon mattino la tua semenza, e la sera non lasciar la tua
(1) Praying for the Dead.
(2) Consolation in bereavement through prayers for the departed. Ecclesiaste 11, 3. *
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mano in riposo, poiché tu non sai quale , (di cotesti due lavori) riuscirà: questo o quello, o se ambedue sono ugualmente buoni ». (1) Il brano, che raccomanda l'esercizio della beneficenza e l’operosità in generale, si può parafrasare così: « 1. Sta’ pur certo: se eserciti la carità, presto o tardi ne avrai la tua ricompensa. 2. Benèfi-cane molti; ti farai così degli amici che, in caso la ti vada male, ricordandosi dei benefizi ricevuti, 'ti verranno in aiuto. 3. Impara dalle nuvole; quando hanno acqua in abbondanza, non se la tengono gelosamente per sé, ma la riversano in benefica pioggia sulla terra; e poi, ricòrdatelo: quando sarai caduto ir Irto, il bene non lo potrai piu fare! 4. E non dire: A che prò l’affaticarsi? tanto, nell’avvenire nessuno ci legge, e noi ignoriamo quel eh'esso ci arrecherà. No, l’ignoranza dell’avvenire non è una ragione perchè tu abbia a rimanertene ozioso. Fa’ ciò che devi, e lascia a Dio la cura del resto! 5. Sicuro; son tante le cose che ignoriamo!... Ignoriamo, per esempio, il cammino del vento; ignoriamo come si formino le ossa in seno alla donna incinta, e ignoriamo anche l’opera di Dio. Chi li conosce i disegni di Dio?... Ma sappiam questo, e basta: Ch’Egli dirige tutte le cose sapientemente; se ci conformiamo quindi alle norme della vera saggezza, saremo sulla via che mena alla buona riuscita d’ogni nostra impresa. 6. Lavora, dunque; anche se il tuo lavoro non ti apporti una ricompensa immediata; lavora mattina è sera, senza stancarti; perchè non sai se sarà il lavoro del mattino 0 l’altro della sera quello che porterà del frutto. E chi sa se non ne porteranno tutt’e due? »—Io domando a chi abbia fior di senno dov’entrino qui le preghiere per i morti!...
La terza obiezione dice: Le preghiere per i defunti son merce cattolico-romana, quindi merce avariata e da buttar a mare. ■— No, non è vero; non tutto quel che viene dal Cattolicismo romano è da condannare. Nel seno del Cattolicismo romano palpita ancora il cuore della gran Chiesa antica e vi aleggia ancora lo spirito degli antichi Santi e delle antiche liturgie. La ribellione del secolo decimosesto era inevitabile. Date le miserande condizioni nelle quali si trovava allora il Cattolicismo romano, essa fu una protesta di coscienze oneste, e i riformatori salvarono la Chiesa dalla ruina totale. Ma, come avvien sempre di tutte le reazioni, la rivoluzione protestante esorbitò; e nella demolizione di tante pratiche e di tante dottrine antibibliche o corrotte, tante altre cose rimasero sacrificate, che pure eran buone, legittime, sante. Fra queste, là preghiera per i defunti, che i riformatori non seppero sceverare dalle grossolane fantasticherie del Purgatorio e dal traffico simoniaco delle indulgenze. Se avessero saputo fare le debite distinzioni e avessero dato maggiore attenzione ai problemi del di là dalla tomba, Lutero, Melantone, Zuinglio avrebbero senza titubanze riconosciuto la legittimità di coteste preghiere, e Calvino non le.avrebbe ripudiate. Oggi, noi tutti lo sentiamo, in religione, il tempo delle demolizioni violente è passato; comincia l’èra delle ricostruzioni ireniche. La parola d’ordine dei nuovi costruttori, siano essi cattolici romani o figli della Riforma, non può essere che questa: Torniamo all’antico'. L’antico dirà ai cattolici romani che cosa abbiano da abbandonare o da correggere, ed ai figli della Riforma che cosa abbiano da riconsiderare
(1) Ecclesiaste ii, 1-6.
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e da accettar di nuovo; persuaderà questi a riprender l’uso della preghiera per i defunti, e insegnerà a quelli qual sia il vero spirito che deve informare cotesta preghiera.
Lo so; molti figli della Riforma faranno il viso dell’arme a queste mie parole. Ma io vorrei dir loro: E perchè non vorreste riprender cotest’uso? Ve lo vieta forse la Scrittura? La voce unanime della Chiesa antica non ve lo consiglia? Il cuore non ve lo domanda? Non mi dite che i vostri cari i quali v’han lasciato per una vita migliore son per voi morti al vostro affetto, al vostro interesse! Non mi dite ch’essi, i quali tanto v’amarono e tanto pregaron per voi quand’erano nel mondo, oggi non v’amqn più, nè posson più pregare perchè Dio v’aiuti! Non mi dite che tutta questa gioventù eroica che s’immola per dare a noi una patria più grande non solo, ma più grande e migliore, non mi dite che non si ricorda più di noi e che noi non possiamo più in alcun modo dimostrarle la nostra gratitudine! Non mi dite che le nostre preghiere sono inutili a chi di là dalla tomba comincia ora la propria ascensione, o geme angosciato dal rimorso de’ suoi falli passati! Se me lo diceste, io vi risponderei: « Lo dite, perchè non credete nella Comunione de' santi; perchè non credete che Gesù Cristo abbia distrutto la morte e abbia messo in luce la vita e l’immortalità ». (i)
Quanto a me, verso l'ora del tramonto, io mi raccolgo nella mia cella; e quando in cielo cominciano a sorrider le stelle, medito su quest'attimo della vita che passa con la fugacità del lampo, penso a cotesti mondi innumerevoli, e l’anima mia si espande in tre Collette che sono il mio sacrifizio spirituale vespertino. Allora, fra me e gli spiriti che popolano lo spazio infinito vibra un'armonia divina, e sento che i cieli e la terra s’uniscono in una comunione intima e santa. 0 anime che amaste i vostri cari di quel vero amore ch’è « più forte della monte », o madri, padri, spose, fidanzate, orfani in lutto perchè il piombo nemico tanta parte infranse della vita vostra, o anime che trepidate per la sorte de’ vostri pargoli che videro soltanto l’alba della loro giornata o per quella de’ vostri cari che rimaser privi quaggiù della visione di Dio, nell’ora che « intenerisce il core » unitevi anche voi alla solitaria anima mia, e dite:
0 Padre onnipotente, nelle cui mani è lo spirito de* vivi e de' morti, benedici d’ogni benedizione spirituale in Cristo tutti quelli che ti furon fedeli sino alla fine e spiraron nel bacio del Signore! In particolar modo ricordati, nella tua benignità, di tutti i nostri cari, i cui nomi tu leggi scritti nel nostro cuore. Assisti tutti i tuoi santi, nelle dimore dove si trovano, e aiutali con la tua grazia mentre continuano la loro ascensione a te. Per il Signor nostro Gesti Cristo. Amen.
0 Padre misericordioso, poiché nessun amore è più grande dell’amor di, colui che dà la propria vita per i suoi amici, concedi ampia ricompensa a quelli che dettero la loro per la umanità, per la patria, per noi. Perdona i falli che commisero quando
(i) 2 Tim. i, io.
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erano nel mondo. Non abbian più fame, non abbiati più sete; non li colpisca più sferza di sole nè arsura alcuna! Tienli ricovrati all’ombra detta tua tenda, e conducili alle sorgenti delle acque della vita. Per il Signor nostro Gesù Cristo. Amen.
0 Salvator pietoso, che prima di tornare in cielo andasti ad annunziare il Van- ' gelo agli spiriti in carcere, abbi pietà degli spiriti che nel mondo non poterono o non vollero rispondere alla tua voce. Fa’ correre oggi fra loro la buona novella della salvezza e fa’ che vi sia glorificata, com'è fra quelli che in cielo e sulla terra provano la gioia della tua comunione. Deh, affretta il giorno quando nel tuo nome si piegherà ogni ginocchio ne’ cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confesserà, alla gloria di Dio Padre, che tu sei il Signore. Requiem acternam dona eis, Domine; et lux perpetua Iucca! eis. Requiescant in pace. Amen.
Fra Bernardo da Quinta valle.
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E. è ormai scarsa la falange di coloro i quali, ispirati al vecchio pansimbolismo mitologico, non vedono nei riti che «allegorie» e « finzioni »; è davvero numerosa e compatta la scuola dei sociologi che ravvisano in essi semplici « rudimenti sociali », ultimi avanzi di civiltà tramontate. E mentre i primi vedono a traverso il velame dei simboli rivelarsi il bel mondo che l’infanzia umana popolò di miti; i secondi, invece, novelli pateon-tologi, per virtù di quelle reliquie e di quelle pallide vestigia.
ricostruiscono la forma e la figura di quei costumi arcaici. Che cosa è, ad esempio, per i simbolisti la cerimonia della « dextrarum junctio », che il Winterniz ha riscontrato in tutte la tradizioni indoariane, se non l'allegoria della concordia coniugale, simboleggiata anche dall’« anulus »,'che porta non di rado l’effige di due mani in fede? E che cosa potrebbe rappresentare quel dono di.« due bovi aggiogati », che il barbaro germanico offriva alla sposa, se non l’immagine, della società domestica, che
col matrimonio si costituisce? Che cosa la «caelibaris hasta » dell’uso romano, se
non la soggezione della donna alla « patria potestà », onde la moglie era « in filiae familias loco »?
Per i sociologi invece, se i monili (collana, catena, anello) e i « munera » in genere (bovi aggiogati, cavallo con l’armatura, ecc.) non sono che trasformazioni in veste simbolica, di ciò che un tempo il pretendente doveva dare alla famiglia della sposa come « puellae pretium »; la figura dell'antico contratto nuziale sopravvive in quel rito per cui gli sposi stringonsi le destre; e che nel costume volgare porta il nome di « toccamano », « palmata », « handschlag », ecc.
Gli uni e gli altri, com’è evidente, dicono troppo e non spiegano nulla; e mentre contro i sociologi l’etnografia dimostra che la pretesa trasformazione del prezzo in monili, ecc. non esiste, perchè dalle più remote leggende e tradizioni ai costumi antichi e contemporanei i doni di nozze sono sempre identici per forma e per valore; contro i simbolisti il folklore e le scienze antropologiche in genere fanno osservare che nei primitivi e nei semi-civili il potere immaginativo è abbastanza debole e che le astrazioni sono qualità delle menti evolute. Se non che, la scuola sociologica, pur avendo il merito di avere sceverato e smantellato il vecchio patrimonio simbolico, nel ricostruire le tasi più remote di quel dramma sacro-gentilizio ch’è il matrimonio, mediante il sistema delle analogie biologiche, non vide l'importanza e la funzione sociale dei riti. Così il Westermarck (i) quando osa affermare che ì primi-.
(i) Storia del Matrimonio Umano, trad. di G. De Rossi, pp. 366-7 (Pistoia, 1894).
Vedi anche Spencer, Principi di Sociologia, trad. di A. Salandra, I, 429 (Torino, 1881).
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tivi non conoscono cerimonie nuziali, poiché queste altro non sono che il risultato dell’evoluzione civile, non si accorge che la storia del matrimonio più che nell’aspetto biologico deve essere guardata in quello umano, che si ravvisa in quella molteplicità di riti di cui ogni società, per rudimentale che sia, ha un certo numero. L’evoluzione sociale non è la risultante di quelle medesime cause che produssero l’evoluzione animale, e la storia dell'incivilimento non è soltanto una pagina della storia naturale, ma è soprattutto l’opera del pensiero; altrettanto armonica quanto quella della natura.
.Quando si consideri quale’importanza hanno tra genti semi-civili o selvaggio i gruppi sociali a base gentilizia o totemica; quale le classi organizzate per mestieri, per sesso e per età; e quale la caste composte di guerrieri, di maghi, di sacerdoti; e si osservi ancora a quali condizioni è sottoposto il passaggio da una classe ad un'altra, dà una tribù ad una straniera, s’intende chiaramente la funzione sociale dei riti, che hanno per scopo di introdurre o di aggregare un individuo ad una società speciale, dopo la separazione da quella cui apparteneva. Guardato sótto tale aspetto il connubio non è che un/ito, perchè mediante l’uso di regole e di forme determinate dalla tradizione, ha per oggetto di separare uno degli sposi, per lo più la donna:
a) dal proprio gruppo gentilizio;
b) dalla propria società sessuale;
c) da quella infantile o adolescente, di cui fa parte, per aggregarlo:
a) a un nuovo nucleo sociale;
b) a una nuova società sessuale;
c) e per iniziarlo alle consuetudini dell’adolescenza o della classe degli uomini maturi.
A tutti questi che il Van Gennep, con espressione scultorea, chiama « riti di passaggio », perchè hanno un’importanza sociale, si aggiùngono quelli che si riferiscono alla coppia nuziale, proteggendone la vita e salvaguardandola dalle insidie dei geni malefìci e dalle opere delle streghe, e che in contrapposto ai primi possono dirsi « riti individuali ».
È ben chiaro quindi, che quella che si deve fare non è già la «storia degli usi », ma quella dei « riti nuziali », perchè sono questi gli elementi primitivi, da cui lentamente si svolgono quelli. E cioè, quando il rito perde la forza misteriosa che, agendo sull’animo dell’uomo, gli impone di seguire una norma, informata alle credenze religiose, resta come pratica costante ed uniforme, cioè costume, uso, consuetudine. Che cosa è un rito se non la esplicazione di una credenza jnediante una ordinata serie di atti sacramentali e solenni? Da q'ui il bisogno di guardare il cerimoniale nel suo svolgimento, per vedere l’insieme delle scene nella loro successione sistematica.’ In ciò consiste l'esame delle « sequenze cerimoniali », la importanza delle quali è stata notata per primo de Arnold Van Gennep, che ha dato in tal modo alla dottrina dei riti un nuovo orientamento (x). Sebbene già Edward Crawley
(i) Van Gennep, Les Rites de Passage (Parigi, 1909).
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nella « Mystic Rose », fin dal 1902, avesse dimostrato che la pretesa istituzióne del matrimonio per ratto non si riduce in sostanza che ad un rito; è stato il Van Gennep, nel 1909, con l'analisi delle sequenze a méttere in piena luce il carattere di esso. Per il primo come per il secondo, il fatto dell’abduzione forzata o violenta, ora in persona della sposa ed ora in quella dello sposo, esiste; ma più che un matrimonio per ratto o una sopravvivenza di esso, la « cattura » fatta con modi solenni, è rito di separazione, per cui il candidato in primo luogo è distaccato dalla propria società sessuale, dalla propria classe di età, e in ultimo dal gruppo. E ciò che non è del matrimonio soltanto, ma della iniziazione, non rappresenta il costume del ratto della sposa, la quale più che al clan, è rapita alla classe sessuale. E poi, dovrebbe anche ammettersi il ratto dello sposo, perchè talvolta anch’egli è condotto con violenza a casa della donna (1), ciò che non può essere.
Tuttavia, se mediante l’esame delle sequenze si conosce il meccanismo del rituale, non bisogna scompagnare da esso l’analisi dei diversi componenti, i quali, studiati con cura, spiegano la ragione di essere di quelle forme ordinate, solenni, inderogabili che sono la parte essenziale del rito. Quando si qsserva la cerimonia della « vestizione della sposa ». e si nota:
a) che nel giorno degli sponsali ha luogo la vestizione parziale della fanciulla; b) che quella completa si vuol fare nel dì delle nozze;
c) che tanto nella prima, quanto nella seconda cerimonia, la sposa indossa gli abiti regalati dallo sposo;
si deduce che le sequenze sono due:
i° deposizione delle proprie vesti;
20 assunzione delle nuove date dal marito.
Si può inferire da ciò che la « vestitio sponsae», richiamando al pensiero l’«en-caenia » ebraica, è rito d’iniziazione al culto del nuovo lare — quello dell’uomo — pel fatto che la sposa, al modo stesso del neofita, depone le sue spoglie per avvolgersi in quelle rituali?
Se invece di fermarci alla considerazione delle sequenze, ci inoltriamo in quella dei particolari, l’aspetto della cerimonia muta, specie quando si rileva che il fidanzato nell’uso volgare non solo ha l’obbligo di fornire le vesti nuziali e di assistere o di prender parte alla vestizione della sposa,- adornandola con le sue mani o lasciando l’ufficio a qualbuna delle donne della propria famiglia; ma deve indossare nel momento della celebrazione la camicia, le mutande, le calzette cucite e date in dono dalla sposa. Al lume di questi dettagli risaliamo col pensiero alle tradizioni antiche, óve è detto che gli sposi, unendosi in matrimonio, si scambiavano le tuniche, i pepli, come usano ancora alcuni barbari; e scartata l’ipotesi della iniziazione ai culto domestico, possiamo affermare che la « vestitio sponsae » è rito di natura simpatica, della specie di quelli per cui due ospiti o due stranieri che contraggono fratellanza,.si mutano vicendevolmente gli indumenti o qualche capo soltanto (2).
(1) Vedi Crawley, The Mystic Rose, p. 369 (Londra, 1902).
• . - % Ebnando per i particolari del rito al mio studio: L’offerta della Veste nei Riti Nu-nali {Zs. Vgl. Rechisi»., 1914).
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Quanto sia pericoloso il metodo delle sequenze quando è scompagnato dall’esame dei dettagli» non è chi non veda. È perciò utile approfondire le indagini sui riti accessori, che si muovono nell’orbita dei principali, e guardare gli attori nei loro atteggiamenti, nelle vesti che indossano, e notare insieme le formule che recitano, insomma tutte quelle cose inerenti o indispensabili alla solennità del rito, come si fa nello studio di un’opera drammatica. Non basta osservare per l’ordine delle sequenze che la « traductio sponsae » è rito di margine rispetto a quello di separazione, che lo precede, e a quello di aggregazione che lo segue; occorre ancora volgere l’occhio ai particolari per vedere se la traduzione alla casa maritale si fa pei mezzo del carro o del cocchio, del cavallo o del camello; se durante il passaggio la sposa è velata o coperta con la pelliccia; se il velo e l’abito sono di color scarlatto o bianco, e così via. Da questa analisi si ricava il significato specifico attribuito ai diversi elementi adoperati nel rito; ond’è che passando dall’esame dei componenti all'osservazione del concetto delle cerimonie speciali e generali, cioè a dire dei motivi demopsicologici (credenze, pregiudizi, superstizioni) di cui il rito è,esplicazione sensibile, si arriva a conoscere che il carro, il cocchio, il cavallo, il velo, la pelliccia, ecc., servono a salvaguardare la sposa dalle insidie dei geni malefici, perchè camminando a piedi, secondo il pregiudizio, potrebbe diventare infeconda (i); e andando scoperta, violerebbe l’interdetto tradizionale che le proibisce di vedere lo sposo prima di entrare nella camera nuziale (2).
Per aver trascurato le indagini demopsicologiche i teorici del matrimonio si sono perduti in congetture che male spiegano la ragione d’essere delle istituzioni, dei popoli nelle diverse fasi di cultura. E spesso, esaminando un costume, non fanno che sostituire a quello dei barbari e dei primitivi il proprio modo di pensare e di vedere; donde gravi errori nella storia. Come è possibile studiare gli usi senza metterli in relazione con le credenze; le consuetudini senza risalire alle tradizioni; i fatti della vita sociale senza uno sguardo al pensiero collettivo? Questa obbiezione si riferisce, principalmente, a quei sociologi positivisti, i quali credono di vedere nella catena, nella collana, nei cerchietti o anelli nuziali il simbolo del « puellae pretium ». Eppure, se avessero messo a contributo, nello studio degli'usi, le credenze, avrebbero notato, che è saldo nella mente dei semi-civili, degli incivili, dei selvaggi il principio che un « vincolo materiale — una corda, un filo, una catena — può ingenerare fra due persone, che con esso si legano, un analogo legame fisico-spirituale ». Talché, se da questa legge elementare del sapere-barbarico, derivante dal generale principio che «il simile agisce sul simile per simpatia », giusta la grande scoperta del Frazer, fossero passati all’osservazione del costume, avrebbero veduto che gli sposi durante la celebrazione sono avvolti ora con un filo od una fune, ed ora invece con una catenella d'oro o d’argento; oppure,’ come avviene in tempi di miglior progresso, avrebbero veduto che lo sposo cinge alla vita della sposa il cinturino» le annoda al collo il monile, le infila al dito l’anello. Nonché il fatto del sacerdote, il quale, mentre gli sposi
(1) Rigveda, XIV, 31, 32, 43, 44. Vasconcellos, Tradifoes Popul. de Portugal, p. 220 (Porto, 1882).
(2) Lang, Marr, of Cupid a. Psyche, XLII; Custom a. Myth, 64-86.
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sono annodati, talvolta come fra i Copti, recita le « orazioni del nodo ». Così, quando con gentile espressione si dice « nodo nuziale » o « coniugale », evidentemente non si allude che al costume magico-religioso di annodare gli sposi, non ancora interamente scomparso dall’uso, come fanno fede non pochi riti volgari.
Se gli storici del diritto, più che procedere per via d’interpretazione di testi antichi, avessero chiamato a contributo i riti e le credenze popolari, avrebbero notato che i « juncti boves », il « paratas equus » di Cui parla Tacito, che la « mula ensellada » . o « de cabalcar », di cui -è ricordo nelle consuetudini spagnuole, non erano « muñera » con funzione di « pretia puellae », ma servivano al 'rito della « tra-ductio sponsae » perchè, come abbiamo notato, la sposa non poteva recarsi a piedi alla casa maritale. Ecco perchè i bovi si presentavano alla sposa aggiogati e il cavallo con l’armatura; ecco perchè verso la metà del secolo xix nella Svizzera la vacca che il fidanzato offriva alla sposa doveva tirare il carro nuziale. Dunque, quésti e simili doni sono elementi rituali, che persistono nell’uso perchè la tradizione li designa come indispensabili alla solennità della celebrazione.
Da questo piccolo schema appare chiaro che per «storia dei riti nuziali » non si intende una raccolta di cerimonie e di usi, avvicinati a confrontati tra loro in ciò che hanno di simile; ma quello studio che abbraccia non solo gli elementi materiali (riti, oggetti, ecc.), ma anche i fatti demopsicologici (superstizioni, ecc.). Perchè se è vero che senza uno sguardo alle sequenze non si può spiegare il meccanismo dei riti, .come dimostra il Van Gennep, non è meno vero che senza conoscere le credenze non solo non si può vedere il carattere degli oggetti, necessari ora per la forma speciale, 01 a invece per le qualità naturali, ma non si spiega la ragione e l'essere di un rito. Questa analisi speciale che, a dir vero, mi pare abbiano lasciato il Crawle y il quale ha ristretto il suo studio alle cerimonie, e il Van Gennep, il quale 10 ha allargato alle sequenze, mi son proposto di trattare, come meglio ho potuto, nel mio. saggio comparativo sui « Doni Nuziali » (1), i quali, guardati nella luce delle credenze e dei riti a cui si riferiscono, rivelano il carattere e la funzione loro di cose inerenti all'essere del rito, e non di prezzi simbolici, simulati ed onorifici, secondo la strana terminologia scolastica.
Di tali risultati scientifici è necessario tengano conto i folkloristi che raccolgono o studiano le tradizioni nuziali delle genti italiche; poiché per quanto il campo d’indagine e di disamina Si circoscriva a un paese storico come l'Italia, o a una provincia etnica come la Sardegna, il Bruzio, le contrade abitate dagli Sloveni. non si può fare a meno di attingere i criteri metodici ai principi della scienza generale.
Ancora la storia dei riti nuziali italiani si deve fare, poiché le svariate raccolte di costumanze e di curiosità tradizionali di questo o di quel luogo, dovute alla diligente operosità dei folkloristi del secolo scorso, non sono state sceverate ed ordinate con uno scopo veramente alto e degno della scienza etnografica.
Le nazioni straniere invidiano all’Italia il Pitrè; ma l'Italia dovrebbe invidiarlo
, (1) Nella Revue d'Ethnographic, 1911.
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4,1. ' . .. .. ... .
il
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alla Sicilia, la quale .nella « Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane » possiede il •
miglior tesoro per la conoscenza della sua storia interna. '
Gli articoli sulle nozze rusticane e contadinesche, pubblicati in periodici di folklore generale, come V Archivio per lo studio, delle tradizioni popolari del Pitrè e la Rivista delle tradizioni popolari del De Gubernatis; e in quelli di folklore regionale, come il G. B. Basile e la Calabria, le Pagine Friulane e il Niccolo Tommaseo, non sono pochi; nè scarsi, per altro, sono gli opuscoli ed i libri in cui si descrivono usanze e cerimonie volgari; ma — com’è doloroso rilevarlo! — tranne qualche scritto che porta il nome, insigne di G. Pitrè, o quelli di Valentino Ostermann, di Gaetano Amalfi, del Placucci, del Bernoni, del Correrà e di qualche altro, quella produzione in generale non ha che un valore letterario e descrittivo. Talvolta, tali lavori non sono che una accolta di informazioni non controllate direttamente; tal’altra, pur essendo il risultato di indagini e di inchieste locali, sono troppo saltuari e frammentari; così che in essi gli elementi e i documenti di studio sono davvero poveri rispetto alle nuove esigenze scientifiche. Non è raro il caso che in tali scritti, i quali hanno valore di fonti per la materia prima che contengono, si incontrino osservazioni semplici come queste: le « guselle » (spilloni di oro o di argento per l’acconciatura dei capelli) che nel Friuli costituiscono uno dei più importanti doni sposalizi, rappresentano per I’Andrich (i) il simbolo della spada, con la quale un tempo il marito acquistava autorità sulla moglie; la stecca da busto, che il pastore dell’Umbria, dell’Abruzzo, della Calabria, incide a punta di coltello ed offre alla fanciulla amata, raffigura per il Bellucci (2) un contratto nuziale; il grembiale, che nella Valdelsa ed altrove la suocera cinge alla vita della sposa, nel momento in cui questa entra nell’abitazione coniugale, è per il De Gubernatis (3) il segno del possesso, di cui ella si spoglia per vestile la nuora; la veste sposalizia («di hi nguaggiu»), che la giovinetta siciliana riceve come dono d’amore, ricorda per il Garufi (4) la « wadia » o « guadia » del tempo in cui il matrimonio era un contratto di compra-vendita della donna. Ma perchè, invece di vagare col pensiero in ipotesi e congetture, non fissare lo sguardo sugli usi popolari, per cogliere tutti i tratti delle cerimònie particolari? Se questo avessero fatto, i folkloristi avrebbero veduto che la veste, la stecca, lo spillone si riferiscono al rito della « vestizione della sposa » pur vivo nelle costumanze nostre, e di cui sopra si è tenuto parola. ■
Domandate al De Gubernatis la ragione per cui la sposa sulla soglia maritale viene presa sulle braccia dal marito o dagli amici, perchè i suoi piedi non tocchino il suòlo; e vi risponderà col Rossbach che quella cerimonia è avanzo del rapimento della donna (5); chiedete al Christillin (6) donde deriva l’uso di scortare con le armi il corteo nuziale; e vi affermerà che esso ricorda il riscatto popolare del « jus
(1) Nozze Rusticane (Belluno, 1897).
(2) Folklore Umbro. V. anche Baldasseroni, Per una Società di Etnogr. Italiana (< Rass. Contemporanea» III, 1910).
(3) Storia degli Usi Nuziali, 199.
(4) Usi Nuziali del M. E. in Sicilia, p. 60 (Palermo, 1897).
(5) Op. cit., 193. 199.
(6) Dans la Vallaise, p. 262 (Aosta, 1901).
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primae noctis » all’epoca degli abusi feudali; interrogate il Placucci (i) e il Poggi (2) sul costume per cui il « bracco », precedendo il corteo, spenna e pela una gallina viva; e vi asseriranno che in tal modo si augura vita o fortuna alla novella sposa; dite al Pugliese (3) e al Dorsa (4) che cosa significa il ceppo con cui il pretendente sui monti della Calabria suol fare la richiesta di matrimonio, collocandolo sul limitare della casa dell’amata; e vi dimostreranno che quel tronco di albero simboleggia la « stirps » e fa pensare al lare latino (5).
A che continuare in queste spigolature, quando è noto che mai come in questa epoca di fioritura folklórica, si è fatto e si fa tanto abuso dei termini «simbolo» e «sopravvivenza»? Eppure la legge che regola questi fatti demopsicologici non è quella della sopravvivenza, ma della persistenza; perchè cerimonie e riti altro non sono che elementi di cultura rudimentale, tramandati fino a noi da quel periodo di bassa cognizione, che il Frazer chiamò età della magia, e che è nella storia del pensiero quello che nella storia della civiltà materiale è l’epoca della pietra. Così, se il rito per cui la sposa è sollevata sulla soglia maritale, indica che persiste ancora nella mente del popolo nostro la credenza secondo la quale là donna nel moménto di recarsi al tetto coniugale non deve toccare coi piedi la terra per tema di diventar infeconda; quello degli spari delle pistole denota che è tuttora predominante il pregiudizio delle influenze dei geni cattivi; e quello della gallina spennata viva attesta quale importanza si attribuisce dal volgo al supplizio del volatile, reputato atto ad attirare le ire degli esseri cattivi, preservando la coppia dai possibili mah.
Anche nel campo degli studi comparativi i folkloristi nostri si dimostrano senza orientamento, perchè manca loro la disciplina metodica e la cultura larga, che sono le cose indispensabili in materia di etnografia. Molti non vanno con lo sguardo al di là di qualche riscontro stòrico, fatto con la vita elleno-latina, 0 con quella medioevale dei popoli franco-germanici. Invano, tu cerchi un lavoro che abbraccia e riguarda i costumi nuziali delle diverse civiltà regionali italiane, o che confronta fra loro riti e cerimonie simili di uno o più paesi, della penisola. Unica opera di sintesi comparativa in tale materia è la « Storia degli usi nuziali» del DeGubernatis; sebbene (a parte le idee dell’autore, che riporta ogni uso a un mito e ad un simbolo) si debba riguardare come unilaterale per il materiale di confronto, ricavato dalle tradizioni indiane; e incompleta perchè al tempo in cui fu scritta, circa un quarantennio fa, scarse erano le fonti folkloriche italiane.
Tale è lo stato delle cose in Italia. Occorre, per uscire da questa situazione, dare migliore indirizzo alle raccolte di usi e costumi, conducendole con sistema scientifico, e dare inoltre impulso agli studi agevolando l'opera dei cultori, perchè diventi degna del nuovo progresso della scienza etnografica.
Raffaele Corso.
(1) Usi Nuziali dei Contadini della Romagna, pubbl. dal D'Ancona (Pisa, 1878).
(2) Usi Nuziali Sardi, p. 31 (Sassari, 1894).
(3) Formalità che precedono i matrimoni in Calabria, nel « Calabrese », II, 77.
(4) La Trad. Greco-Latina, ecc. (Cosenza, 1884), p. 82
(5) Vedi per la nuova interpretazione della cerimonia: R. Corso, Il Ceppo Nuziale (nel volume in onore di G. Sergi, Roma, 1916).
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LE FONTI RELIGIOSE
DEL PROBLEMA DEL MALE
(Continuazione c fine. Vedi Bilychw, fase, di febbraio 1917 pag. xxo • $».>.
VI. — Le diverse fasi del problema del male nella primitiva coscienza religiosa.
1. Primitiva nozione del limite di sapienza e potenza— 2. Il problema fisico del male — 3. Il problema etio-escatologico del male — 4. Il problema assiologico del male — 5. La primitiva nozione di giustizia divina e l'immortalità dell'anima — 6. Conclusione.
l problema del male, così cóme noi lo vediamo nelle religioni, comprende generalmente diverse questioni che formano un tutto inscindibile. Nondimeno, come strumento d’indagine, sarà più proficuo considerare singolarmente i diversi atteggiamenti della coscienza religiosa nelle diverse domande che essa si pone di fronte al male; e poiché dall’esame delle religioni individuali, dai diversi interessi e dalle particolari condizioni in cui fu posto il primitivo, resulta ch’egli veniva più fortemente
e visibilmente condotto da esigenze pratiche, tanto più dove maggiore era lo sforzo per la difesa e conservazione della vita, così noi cominceremo a esporre la primitiva concezione del problema fisico, di quello cioè che più direttamente corrisponde a questo interesse, per venire in seguito al problema et io-escatologico e infine a quello assiologico del male. Ma come il primitivo problema etio-escatologico dev’esser chiarito dalle nozioni che si ànno circa il mondo estranaturale, come quello assiologico dev’esser dilucidato dalle primitive nozioni di giustizia divina, così il problema fisico ci pòrta alle primitive nozioni del limite di sapienza e potenza.
Pare« chi studiosi, dalla vista di certe usanze magiche, furono indotti a concludere che il primitivo non pone alcun limite alla conoscenza del mondo e alla potenza sua su di esso. Noi vediamo al contrario che l’uomo non tarda molto ad accorgersi di non poter alleviare o evitare ogni male che lo incoglie, di non poter ottenere tutto ciò che desidera, di non poter evitare errori o illusioni. Nel piccolo mondo da lui conosciuto, il primitivo à dovuto anzitutto esperimentare che gli animali feroci sono più forti di lui e di lui pili veloci; che non può allontanare il dolore a volontà, che non può raggiungere cime di monti inaccessibili, come “fanno alcuni
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uccelli, né superare fiumi, laghi e mari come fanno i pestìi. Egli riconosce che non può allontanare l’arsura nella siccità, la fame nella carestia, il freddo nei rigori invernali, i cocenti calori nelle sue traversate del deserto; e riconosce che non può arrestare le inondazioni e le lave dei vulcani, quando minacciano di divorare le sue capanne.
E che dire della conoscenza? Egli sa che non può sempre ricordare tutto, nè tutto prevedere, sa che non può conoscere la causa di tutte le cose, non solo, ma, ciò che è relativamente pili semplice, che non gli è possibile di non commettere errori, e dì non cadere nell’inganno che gli ordisce l’astuzia altrui. A ogni passo dunque è costretto il primitivo a constatare i limiti della sua conoscenza e della sua potenza; e ad ogni passo egli à esperienza che non può, senza l’aiuto di potenze occòlte, ciò che vuole, nè sa, senza l’aiuto di esseri estraordinari, ciò che a volte più gli preme di sapere. Quando egli, per via degli errori logici ed estralogici dianzi accennati, perviene a credere nella potenza dei feticci, degli amuleti, dei talismani allora à creato la superstizione, o se si vuole, la forma più elementare e rozza della religione, quella che dà all’uomo la potenza di cui egli manca per liberarsi dal male, per riuscire nelle sue imprese di qualunque natura esse siano. Il feticcio non dà conoscenza, non dà dominio sul male, ma soltanto immunità, allontanando e contrarie potenze, senza spiegare donde esse vengano e perchè siano. Solo quando, il primitivo riconosce nel mago, nell’ispirato, nell’uomo-dio la potenza capace di svelare il mistero, egli può indirettamente partecipare, come abbiamo veduto, a una certa potenza e sapienza estraordinaria. Col magismo à creduto ancora nel limite della sua potenza, ma à esteso di pili quella che nel feticcio lo favoriva, perchè ora egli à ammesso con l’uomo-dio un nuovo elemento, la conoscenza del mistero, e con questa anche il dominio su le avverse potenze; dominio e conoscenza che il feticcio non gli accordava. Ora basta al mago di conoscere solo il nome di una potenza maligna, per estendere la sua conoscenza su di lei e dominarla.
Come si vede, il primitivo non pensa che egli conosce il mistero del mondo, ma crede, senza discuterlo, che il mondo, quantunque misterioso, sia intelligibile, e che la potenza capace di tutto dominare e di tutto conoscere esista in realtà.
E che ne sia convinto, se mancassero altre testimonianze, basterebbero a provarlo le credenze che à nell'esistenza di oggetti e persone assai più potenti di lui, come sono feticci e. maghi, e di esseri assai più sapienti, come sono gl'ispirati, i veggenti, i profeti, gli oracoli, i maghi, gli uomini-dei. Se avesse creduto di possederle, o se avesse creduto che non esistono, non avrebbe cercato altrove potenza e sapienza. Egli invece le à cercate, e non si è esaurito in un inutile spreco di forze e in disillusioni, cui va sempre incontro chi pretende di conoscere quello che non sa, o di potere quel che non può.
Il primitivo non pensa dapprima che queste potenze possono trovare, a loro volta, ostacoli più forti di esse. Il campo dell’ignoto e quello che rimane al di là
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della potenza umana, altro non sono, per lui che estensione del mondo conosciuto e dominato: e così se nel mondo conosciuto e dominato agiscono, in certa guisa, alcune potenze, allo stesso modo devono agire altre potenze nell’altro. Il primitivo non pensa dapprima di essere onniscente e onnipotente, ciò che sarebbe assurdo, quando non à fatto alcuna esperienza che possa farglielo ammettere, mentre, come dicevo, ad ogni passo incontra impedimenti. Ma sarà condotto invece ad attribuire, come ora vediamo, onnipotenza ai feticci, e meglio ancóra ai maghi e agli esseri privilegiati che tutto sanno, e ciò finché non trovi ostacoli la fede che il mistero possa esser svelato e che le potenze occulte possano essere allontanate o dominate. Una volta superato il limite, sia.pure in un sol punto della sapienza e potenza, che si crede propria all’uomo, il primitivo ammetterà di poter essere immune da ogni male per mezzo di feticci — talvolta persino in contrasto con l’esperienza — e crederà di poter conoscere e dominare tutte le potenze per via di arte magica.
Ma se i feticci permetteranno che il male penetri nell'uomo e se continueranno a farlo, allora, poco a poco si comincierà a dubitare della loro potenza. Il primitivo, in tal caso, minaccia il suo feticcio e lo batte, e se vede che anche questo non giova, riconosce la sua impotenza e lo abbandona. Similmente egli non ammette dapprima che il mago possa soltanto conoscere e dominare una parte di ciò che è ignoto e di ciò che è al di là del dominio umano: egli lo ammetterà solo dopo che avrà visto ripetutamente mancare l’opera del mago, o dell’arte magica. Ma il primitivo, anche quando sarà colpito da mali che feticci e arte magica non bastano a tener lontani, a conoscere e a dominare, non rinuncerà nemmeno allora alla lotta, non ammetterà nemmeno allora che l’opera sua sia vana contro il male; egli sarà condotto invece a cercare aiuto e protezione nelle più sistemate conoscenze e nei rimedi che offrono le religioni della comunità, nelle conoscenze e nei rimedi religiosi, che devono esser sempre riconosciuti come superanti il limite della sua potenza estrareligiosa e sempre efficaci.
2.
Tutti gli oggetti che il primitivo conosce, anno per lui proprietà inerenti al loro essere, e possono divenire ricettacolo di potenze occulte. Queste proprietà, sono da reputarsi come assai più importanti delle altre che si possono attribuire ai corpi per via dei sensi. Ma è dalle potenze occulte che può venire modificata l’attesa, in un modo non prevedibile e quindi più spesso in peggio; perché il male, come si diceva, secondo la primitiva concezione, pòrta, con sé il carattere d’imprevisto, d’inatteso che colpisce dolorosamente.
Vi sono dunque per il primitivo potenze che possono celarsi nei corpi (siano queste forze magiche, princìpi vitali,-anime e simili cose), potenze che attirano maggiormente la sua attenzione, che sono reputate capaci di produrre cose sorprendenti e meravigliose. A queste, e solo'ad esse, vengono ascritti i mutamenti profondi
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che dolorosamente colpiscono, e mai a fatti fisici, che sono poi, per il primitivo, effetti di cause normali. Queste potenze occulte non sono da confondere con le proprietà o « maniere » che sono particolari di ogni corpo, esse invece sono qualcosa che può penetrare nell'uomo e in qualsiasi oggetto. Il male deve accompagnarsi con una modificazione della proprietà, sia pure d’un piccolissimo dettaglio dell'ordine consueto; e ogni dettaglio à la sua importanza. Ogni cambiamento di forma importa un cambiamento di proprietà e, con questo, anche un cambiamento della relazione che à l’uomo con le cose. Le potenze occulte che col cambiamento esteriore possono uscire o penetrare,nel corpo, sono spesso causa di gravi danni e anche, di morte per gli uomini; è quindi sempre preferibile lasciare le cose come stanno, e riprodurle, se si son fatte, coi medesimi dettagli (i).
La malattia non è altro che una modificazione, meno radicale della morte, ma della stessa specie. Essa non è naturale, ma viene attribuita ad una alterazione del corpo, avvenuta per l’uscita della potenza occulta o dell’anima da esso contenuta, o per l’introduzione d’una potenza estranea. E così, quando il medico applica un rimedio non è il rimedio che agisce nel còrpo; l’azione sua resta inconcepibile per il primitivo, ma è la potenza occulta contenuta dal medesimo rimedio. Questa, penetrando nel corpo del malato, agisce in senso contrario all'altra potenza che à causato la malattia. E parimenti, l’azione di un veleno è inconcepibile nei suoi effetti fisico-chimici, perchè essa non si distingue da quella che esercita la potenza magica o il feticcio (2). Da questo si vede che le potenze occulte sono concepite dal primitivo come qualcosa di spaziale, e quindi anche il male viene concepito come qualcosa che nuoce per via di modificazioni spaziali.
L’usanza, generalmente sparsa nell’epoca preistorica, della trapanazione del cranio dimostra che il male, anche in epoche assai lontane, veniva considerato come qualcosa di spaziale che penetrava nel corpo umano e che poteva uscirne per via del foro che si praticava nel cranio dei vivi e anche dei morti (3). Nel caso che la trapanazione fosse stata fatta ai vivi, il foro avrebbe dovuto permettere l'espulsione del male che si era introdotto nell’uomo. Quando poi si fosse trattato
(1) F. H. Cushing (Funi creation mylhs) ascrive a questo fatto /a straordinaria persistenza delle forme negli ornamenti, negli utensili, presso le popolazioni primitive. Gl’indiani della Guyana inglese mostrano molta abilità negli oggetti che fabbricano, ma non li migliorano mai. Ed è generalmente nota l’avversione delle popolazioni selvagge contro costruzioni di strade ferrate, aperture di miniere é di qualsiasi'modifica/ione del suolo.
(2) Cfr. Nassau, Fetichism in West-Africa. Le credenze che qui espongo, intorno alla nozione che ànno i primitivi della natura del male, .si può dire che siano universali, perchè si incontrano tanto presso Africani che Tibetani, Australiani, Giapponesi, Cinesi, Indiani, Americani.
(3) Tanto se à ragione Nadaillac, che dice la trapanazione si praticasse come iniziazione religiosa.(e quindi come purificazione) quanto se à ragione Broca ad affermare che quella usanza avesse solo uno scopo terapeutico, la nostra ipotesi non può soffrirne.
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di morti, doveva servire non solo al medesimo ufficio di liberazione, ma anche alla comunicazione che, per via di quel foro, si apriva col mondo occulto (1).
Tutta la medicina dei popoli primitivi, applica cure che chiaramente confer mano la credenza nella spazialità del male. I vomitivi, i salassi, i purganti, i massaggi, che ànno talvolta realmente una benefica efficacia, si adoperavano per procurare una via di uscita alla potenza malefica e per costringerla ad uscire. Tipico è il caso che ci racconta il monaco Roman Pane, in cui gli stregoni delle Indie occidentali, al tempo della scoperta che ne fece Cristoforo Colombo, pretendevano tirare la malattia dalle gambe del malato, facendo, precisamente come se gli dovessero tirare i calzoni. Dopo di che lo stregone andava verso l’uscio e fatto il gesto di gettar fuori di casa il male, tolto dal corpo del malato, gl’imponeva di andarsene sui monti o sul mare.
Vi sono poi altri mezzi che devono impedire il suo ritorno, e a volte si crede di poterlo tener lontano mettendo intorno alle case degli impedimenti, che dovrebbero sgomentarlo e arrestarlo. Cosigli abitanti della penisola di Malacca ponevano su le vie che conducevano al luogo dov’érano apparsi casi di vaiuolo, cespi di spine, per impedire alle potenze malefiche di passarli, mentre altri scavavano intorno alle loro case fossi profondi, e le circondavano di spine, affinchè, quelle potenze non vi penetrassero (2).
Il male dunque, per il primitivo, non è solo qualcosa di spaziale, ma anche qualcosa di reale e di positivo. La scolastica nozione di mali negativi è ignota al primitivo, che pensa del male come qualcosa che sottrae, sopprime e disturba ciò che si possiede e si desidera, come qualcosa che produce turbamento alla intelligenza e alla volontà. La primitiva nozione di possessione, estasi, pazzia, ispirazione, incarnazione, indica che in ogni caso si tratta di realtà spaziali e positive che si introducono nella catena delle cause normali.
L’anima stessa viene concepita come un'immagine del corpo, che ne riproduce anche le deformazioni accidentali,* così certi Australiani tagliano ai loro nemici uccisi il pollice della mano destra, affinchè la loro anima, priva del pollice, non possa lanciar frecce per vendicarsi (3). L'uso di offrire cibi e bevande ai morti e molti altri usi funerari, le descrizioni dei luoghi dove andranno ad abitare, le anime, la cre(x) Goblet D’Alviella, de Dieu\ ritiene che ad alcuni uomini la trapanazione venisse praticata quando, per gradò sociale, temperamento o sapere, fossero stati creduti in possesso di potenze estraordinarie, e quindi costoro, come dimostrano alcuni modi privilegiati della loro sepoltura, per via del buco nel cranio, si mettessero in relazione con le potenze occulte.
(2) Cfr. E. B. Tylor, Primitive Culture.
(3) Cfr. E. B. Tylor, Primitive culture; J. G. Frazer, The Golden Bough; L. Maril-lier, La survivance de T¿ime et l'idée de justice chez le peuples non civilisds; E. Durkheim, Les formes élémentaires de. la vie religieuse. Le systime lotémique en A ustralie.
Artur G. Léonard (The lower Niger and its ¡ribes} scrive: Fra gli Ibo e le altre tribù del Delta la credenza nell’esistenza dell'anima umana è universale. Per essi l’anima è un principio attivo che è desto e libero quando il corpo dorme. Del resto appare come qualcosa d’indefinito e d’indefinibile, invisibile benché di una essenza particolare, estesa e tangibile, di una composizione differente dal corpo umano.
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denza che la vita futura sia un'imagine della vita attuale, e come una continuazione di essa in tutti i suoi particolari, confermano che i primitivi pensano l’anima come qualcosa di spaziale. Così in un canto funebre degli Hos:
Presto verranno le notti piovose e il vento freddo.
Non errare qua e là.
Non restare presso le tue ceneri, ritorna fra noi.
Tu non puoi ripararti sotto il peepul, quando cade la pioggia.
Il salice non può proteggerti contro l'asprezza dei venti freddi. Ritorna nella tua casa!
Noi l’abbiamo spazzata ed è pulita. L'abitiamo noi che ti abbiamo sempre amato. Abbiamo preparato, del riso per té, e per te abbiamo riempito vasi d’acqua. Ritorna nella tua casa, ritorna con noi (i).
Sia che si tratti dell’azione magica che trattiene la pioggia, produce siccità, scatena venti e tempeste, minaccia di inghiottire il sole o la luna, agita le onde marine e provoca eruzione di vulcani; sia che si tratti dell’introduzione nel corpo umano di anime malevoli, e in generale di potenze occulte che alterano il corpo, che tagliano il legame che unisce l’anima al corpo, abbiamo sempre da fare con realtà spaziali.
Ora da queste nozioni che il primitivo à del male, dal problema fisico che egli si pone del male, possiamo venire a conseguenze che non sono senza importanza per conoscere il suo pensiero intorno alla natura del male. Questo, per quanto possa estendere il suo dominio su tutte le cose e penetrare nell’uomo, non potrà mai far sì che il suo dominio sia illimitato; perchè esso appunto è limitato nel tempo e nello spazio. Secondo la concezione primitiva, il male è una realtà limitata, ma di tal natura, che se una parte del mondo visibile cade sotto il suo dominio non si avrà mai un insieme di beni e di mali in cui sia dominante il male, ma tutto un insieme di mali fra cose thè non lo sono. Beni e mali possono star vicini quantunque in contrasto, ma non possono mai comporre, secondo i primitivi, un tutto omogeneo. Nondimeno, il limite del male importa di conseguenza che esso può esser dominato da una potenza maggiore, scacciato da ogni luogo, arrestato nell’opera sua deleteria, e persino distrutto. Ciò che rimane allora non sarà un miscuglio di beni e di mali, ma il solo bene; e di conseguenza, la concezione di un mondo in cui non sia piò alcun male non è assurda per il primitivo, egli ne attende anzi la realizzazione.
3- • '
Da ciò che or ora ò detto intorno alle potenze occulte, potrebbe sembrare che il primitivo ascrivesse ogni male all’azione di queste potenze, come infatti ànno creduto molti studiosi delle religioni primitive. Noi invece, nelle primitive concezioni religiose, possiamo distinguerò diverse cause del male.
(i) E. B. Tylor (Primitive Culture) da cui tolgo questo canto, rammenta anche simili usanze presso antichi Cinesi ed Egiziani, presso popoli moderni civili eselvaggi. Altri esempi rammentano: M. Nilsson, Primitive Religion; P. Sartori, Die Spcisung der Toten.
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Una prima causa è l’uomo medesimo. Il primitivo rimane dolorosamente colpito dall’ignoranza, dall’errore, dalla disattenzione, dalla malvagità, dalla fede mancata, e le à condannate nei suoi miti, e coi castighi che infliggono le leggi e le religioni.
Una seconda causa dei mali è data dalla volontà dei maghi e degli stregoni che, dominando le potenze occulte, possono rivolgerle ai danni dell’uomo.
Altre cause sono le potenze estranaturali nocive, la malvagità ci: demoni, di anime e di spiriti. r
Di queste cause solo quelle esterne all’uomo, quelle cioè non ascritte alla sua volontà, lo conducono a mettersi in relazione col mondo occulto; il quale, essendo al di là della conoscenza e della potenza ordinaria, non può essere raggiunto senza che l’uomo si ponga certe domande, e senza speciali atteggiamenti. Quali sono i limiti delle potenze occulte? Qual è il loro carattere? Come entrare con esse in relazione per ovviarne gli effetti, o per dominarli? Tanto più ragionevoli devono apparire queste domande al primitivo, quanto meno egli concepisce potenze malefiche Che siano inaccessibili, come abbiam visto, all’intelligenza, e al dominio umano. Egli non à notizia di un mistero indecifrabile, di un campo inviolabile della conoscenza, di potenze maligne incoercibili; ma non pensa che le cause del male siano sempre state attive, nè crede che dureranno in eterno. Egli non può quindi ammettere che queste cause siano invincibili, e sono le religioni individuali che devono insegnargli come allontanarle e dominarle. Il primitivo non può ammettere che il male sia inevitabile, e la religione della comunità deve insegnargli il modo di potersi comportare utilmente verso le potenze che ne sono la causa; ond’egli, con l'aiuto di forze occulte, di feticci, di pratiche magiche e totemiche, con culti, sacrifici e preghiere, anche fra mille difficoltà, vuol trovare la via della liberazione.
Per farlo, però, egli à bisogno di altre conoscenze. Anzitutto à stabilito due ciassi di cause: una di bene e una di male. Ma nessuna comunanza riconosce nell’azione di queste cause. E così egli non ammetterà che il male possa provenire anche da cause che non siano o nocevoli per natura, o. maligne, non ammetterà, cioè, che un insieme di cause — alcune delle quali producano isolatamente del bene, e altre del male — possa produrre del male. Egli non pensa che una tale comunanza di azione sia possibile, e crede, al contrario, che il male sia prodotto da cause, che, prese isolatamente, o insieme ad altre, tutte debbano essere atte a produrlo.
Il male deve procedere da cause intelligibili, limitate nel tempo e nello spazio, da cause che devono di conseguenza procedere sempre alla medesima guisa, non in contraddizione con la loro natura, ma seguendo un certo comportamento che non è suscettibile di trasformazione. Così, per esempio, ès inconcepibile per il primitivo che la potenza maligna si trasformi in una potenza benigna.
Quest'ultima circostanza, specialmente, ci apre la via a vedere in che modo à risposto il primitivo alle domande: come e perchè viene il male?
Si può dire così che mentre il male è un disturbatore dell'ordine, esso lascia intravedere un suo ordine intrinseco, una regolarità immancabile nel suo prò-
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cedimento di cause e di effetti, una legge che lo governa e che non permétte eccezioni.
Quando il male viene ascritto alla volontà umana, il primitivo cercherà lo scopo che l’uomo à potuto avere, ma quando lo ascrive alla sua disattenzione, o alla sua ignoranza, non ne cerca lo scopo. E così quando crede che il male proceda da potenze impersonali egli non ammetterà che la causa del male abbia scopo alcuno. Ugualmente Democrito e Lucrezio non si chiedono perchè il caso agisca, e i poeti e i tragici greci non cercano di sapere perchè il destino agisce perfino sugli dèi. La causa .del male deve sempre agire secondo la sua natura. Ma quando dovesse provenire da un essere che può giovare e può nuocere, come il mago, o ¿da un essere supremo cui si attribuisce bontà, allora bisogna cercare lo scopo suo, bisogna sapere perchè il male è venuto, e mettere queste conoscenze in armonia con quelle dei limiti della sapienza, potenza e bontà.
Noi lo vedremo meglio in seguito, ma intanto dobbiamo qui constatare che raramente per i primitivi il male à uno scopo che sia al di fuori della esistenza attuale, e le cui conseguenze possano servire al bene di ulteriori esistenze o ritorni. Anche nella primitiva credenza di un’anima preesistente, che s’incarna e sopravvive in altri uomini o animali, non si vede la finalità del male attuale per la vita d'oltre tomba. Se pure vi sia qualche religione primitiva che ammetta una spècie di purgatorio, non si può affermarlo con certezza (r); e non si può dire quindi che il male sia un mezzo di purificazione. Se esso proviene da cause morali è quasi sempre un castigo e un’espiazione, e sotto questo riguardo acquista un carattere morale, perchè l’uomo deve agire scrupolosamente, specie nei suoi riti religiosi; deve ubbidire alle leggi, e non deve peccare. Le teogonie, le mitiche concezioni delle origini del male cosmico, e quegli altri miti intorno all’origine della morte ascritta a colpe umane, ànno indubbiamente un valore etico, in quanto, come avanti dicevo, è inconcepibile per il primitivo che la colpa rimanga impunita. Gli dèi si vendicano, non perchè sono cattivi, ma perchè la vendetta, se è giusta, non è opera d’una potenza malvagia. Il male per il male non viene mai ascritto dai primitivi ad esseri che essi stessi reputano buoni ; questi esseri, anzi, premiano la virtù e castigano le colpe in questa vita, e talvolta anche nell’altra.
4.
Se il primitivo avesse avuto soltanto nozione di cieche potenze magiche-impersonali — si chiamino esse Orenda, Mana, Wakan, Manitù, Pókunt, Aninguiltha, Dzò, Tilo, Kràmat, Boylya, o abbiano altri nomi — di potenze che possono produrre il male secondo accidentali o voluti cambiamenti di forme nella materia, non avrebbe avuto luogo il problema assiologico del male.
(1) Cfr. !.. Marillier, La survivance de l’âme et l'idée de justice chez les peuples non civilisés.
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Se queste forze però passano al dominio della volontà dei maghi, allora sorge il problema che riguarda il valore dell’azione di chi comanda quelle forze che possono esser nocive. Se il male viene ascritto alla potenza degli spiriti malvagi la valutazione etica si estende anche al mondo estranaturale, dove sono state riposte le potenze credute capaci di azioni simili a quelle umane. Ma quando in quel mondo si intravedono anche potenze benevoli, allora il problema assiologico del male acquista un aspetto suo pròprio, che lo distingue dagli altri problemi, perchè solo allora il primitivo si chiede come mai sotto il dominio di un essere buono, sapiente e potente, sia possibile il’ male; e solo allora egli cerca di stabilire, nella sua religione, il valore etico della causa, integrandolo con le sue nozioni di potenza e sapienza estranaturale. Nondimeno, il primitivo, che riconosce il male e l’odia, è portato naturalmente ad estendere il suo odio alle cause del male, che vengono riconosciute maligne. Dire però, come fa Maurenbrecher (i) che il demone maligno è riconosciuto, nelle primitive civiltà, come un essere che agisce bene solo perchè è più forte dell’uomo, è senza dubbio contrario a ciò che un numero grandissimo di credibili testimonianze ci afferma, e condurrebbe, se fosse vero, ad assurde conseguenze: il primitivo, in tal caso, avrebbe * confuso la potenza con la bontà, e quindi avrebbe ritenuta buona anche la causa del dolore e della morte, solo perchè riconosciuta più forte di lui. Ma egli allora non avrebbe dovuto trovar motivo a dolersi di quelle cause, nè ragione a evitarne le conseguenze e combatterle, nè avrebbe potuto nominare maligno quel demone che lo avesse fatto soffrire o morire, appunto perchè era più forte di lui.
Il primitivo, invece, procede a giudicare le cause dagli effetti che esperimenta. Sappiamo che egli ascrive al divenire un certo logico procedimento. Sappiamo che egli facilmente ascrive facoltà umane alle cause sconosciute, e quindi anche volontà. Egli perciò à diretta esperienza del malvolere, ed ascrive ad ogni causa, che possa venir concepita come malevolente, lo stesso valore etico del suo effetto. Se questo è odievole, anche la stia causa deve esserlo. Dalle esperienze e dalle contingenze della vita pratica, man mano che sorgono i problemi etici, il primitivo estende alle cause occulte il suo apprezzamento, e le giudica* dalle loro conseguenze, secondo il valore etico che egli ascrive alle azioni umane.
La personificazione delle cause portava una maggiore estensione del campo dell’azione morale, estensione che raggiungeva le regioni estranaturali, prima ancora che sorgessero i gravi problemi che tormentano le civiltà più progredite; e una maggiore severità e rigidità nella valutazione dell’opera attribuita agli dèi. Man mano che le conoscenze si ordinano e tendono a unificarsi in sistema, man mano che l’azione si coordina con queste conoscenze, il problema assiologico del male acquista nuovi aspetti e domanda nuove spiegazioni.
Se il male viene concepito come dovuto all’uomo, allora la questione si semplifica nei riguardi della causa; ma il primitivo non ammette sempre che il male gli sia dovuto; alcune volte non sa darsene ragione. E siccome vi sono ingiustizie fra gli uo(1) Das Leid. Eine Auseinandersetzung mit der Religion.
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mini, vi possono essere anche ingiustizie estranaturali. Quando col progredire della conoscenza etica, si accrescono i conflitti morali sorti in seno alla concezione religiosa delle origini del male, il concetto di giustizia deve potersi applicare alla causa del male, come le si applicano i concetti di potenza e sapienza, e deve, questa causa, rimanere in armonia con le etiche concezioni della vita sociale.
Dalla sistemazione delle conoscenze, emerge che se il mondo è stato fatto da esseri benevoli, il male non avrebbe dovuto esistere. Ma nelle teogonie, nelle cosmogonie, nelle mitologie, nelle credenze religiose del primitivo, non appare mai che il mondo'sia stato fatto da un essere malvagio. Il primitivo ritiene invece che chi fece il ir indo e l’uomo non fece il male. Ed ecco in qual modo sorgono tutte le altre credenze che ascrivono il male alle cause impersonali, alla volontà di maghi e stregoni, a quelle di potenze superiori capricciose e malvage, o a demoni maligni. Allora alle buone cause saranno ascritti i buoni effetti che il primitivo esperimenta, e alle cattive cause gli effetti cattivi.
Accadrà dunque spesso che molte cause saranno in aspra guerra fra di loro. E quando l’uniformità delle conseguenze, per la naturale classificazione e sistemazione delle conoscenze, viene ascritta a cause uniformi, quando al pensiero umano si chiarisce che tutti gli effetti malefici devono ascriversi a una causa ben distinta dall’altra che deve soltanto produrre benefici effetti, allora sembra più semplice e ragionevole raggruppare tutti gli effetti di cui gli uomini ànno esperienza, a due cause, irta in inconciliabile contrasto e lotta mortale fra di loro.
Questa concezione religiosa che tentava di eliminare le difficoltà sorgenti dalla concezione di una divinità benevola, concepita come causa di ogni cosa, andava però incontro ad altre non meno gravi difficoltà. Gli attributi di potenza e sapienza, ascritti alle cause del bene, ritornano in contrasto con quelli ascritti alle cause del male, e non potranno eliminarsi nemmeno se nel tempo la vittoria arriderà al dio benevolo, come ammette ogni dualismo religioso, anche primitivo.
Quando la mentalità primitiva è incapace a superare le difficoltà sorgenti dalla concezione monoteistica, ripugnando alla primitiva coscienza morale che un dio buono faccia quello che un uomo buono non farebbe, preferisce accordare al dio facitore del mondo e dell’uomo una esistenza non tormentata dalle cure della vita umana. L’essere supremo dei primitivi vive così, nella imaginazione dei credenti, come immerso nel sonno; o in regioni lontanissime gode di una vita beata, e rimane nella ignoranza delle cose umane, o nell’oblio di esse. Esiste quell’essere supremo che à fatto tanto bene, il mondo e l’uomo; ma egli non può, secondo la primitiva concezione religiosa, esser causa del dolore umano; il dolore è sorto in qualche altro modo.
5Quàndo abbiamo parlato della repugnanza che à il primitivo ad ammettere che il colpevole rimanga impunito, abbiamo già aperta la via all’esame dell'applicazione del castigo da parte delle divinità, e poiché la vita umana non finisce con la morte.
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e poiché essa non viene dopo morte a liberarsi dall'influenza di potenze occulte, così la divinità, concepita come giudice delle azioni umane, estende anche alla vita futura il suo giudizio, e quindi anche i premi e i castighi.
In queste concezioni, come si vede, abbiamo un motivo delle prime speculazioni che di fronte all'inconciliabile contrasto della bontà dell’essere supremo, della sua sapienza e potenza, con la realtà del. male, si sforzano di trovare nella colpa umana, e quindi nel castigo divino, l’origine del male. In questo modo, possiamo intendere come, secondo quelle concezioni religiose, l’uomo possa attirare l’ira degli dèi ed esser causa di mali non solo a se medesimo, ma anche alla sua famiglia e alla sua tribù. I mali che in questo caso infliggono gli dèi si chiamano castighi e la giustizia divina non ne soffre. I miti dell’origine della morte e tutte le pene che vengono inflitte dagli dèi ai colpevoli, ci permettono di vedere un poco addentro la primitiva concezione di colpa e castigo.
La vendetta degli dèi non è rara nelle religioni primitive, ed essa è sempre terribile. Come vediamo anche oggi nelle popolari superstizioni, la. siccità, la carestia, la guerra, l’epidemia, le inondazióni, i terremoti, e in generale tutti i fatti che producono una grande mortalità, una grande sventura alla collettività, uno sterminio, vengono spesso ascritti alle proprie colpe. In queste e simili contingenze, i primitivi rivolgono tutta la loro attenzione a placare gli dèi e a scoprire quale sia stata la loro colpa. Delle colpe umane gli dèi primitivi si vendicano, ma la vendetta che, come abbiam visto, non è mai concepita come un atto immorale dai primitivi, non può esserlo nemmeno quando viene esercitata dagli dèi. Basta scoprirne il motivo perchè essa importi nel colpevole, come ò detto, conoscenza della ragione della pena, e allora la vendetta degli dèi è giusta. Un dio giusto, anzi, non può esimersi dalla vendetta, che è anche per lui un obbligo, come per l’individuo, e non un diritto. L'ingiustizia divina, invece» sarebbe evidente, se la' pena inflitta agli uomini non avesse ragion d'essere, o se la divinità lasciasse gli uomini nella ignoranza circa la sua volontà e la colpa umana.
L’analogia delle colpe, come giustamente osserva Sumner-Maine, porta con sè l’analogia delle pene, onde presso i primitivi vediamo erroneamente applicate pene gravissime per colpe relativamente piccole. Così l’origine della morte, per un errore involontario, o pei' una disattenzione; così la vendetta divina per la colpa di un solo individuo estesa a tutta la tribù, o alla famiglia del colpevole e persino a tutti i suoi discendenti. Per intendere queste ragioni, che sembrano, a prima vista, negare ogni idea di giustizia nella primitiva civiltà, si dovrebbero prendere in considerazione alcuni fatti che qui posso soltanto accennare.
Per il castigo esteso alla famiglia del colpevole e allá comunità si deve tener presente la confusione che fa il primitivo fra individuo e comunità, non nel senso dianzi confutato, che il primitivo non abbia coscienza della sua individualità, ma nel senso che la collettività è ritenuta di maggior valore, e come l’esponente dei singoli individui. I membri della tribù sono così intimamente legati, specie nel totemismo, da costituire come una sola famigliale la tribù, nella concezione ascritta agli dèi, non
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può appartarsi dall’individuo; tutta la comunità è legata al colpevole, essa ne divide le gioie e deve dividerne le pene.
In questo modo, per estensione, si può comprendere la ragione della trasmissione delle pene ai discendenti del colpevole. La legge primitiva obbliga la famiglia a risarcire i danni commessi dal colpevole, quando questi non è nella possibilità di farlo; e parimenti la medesima legge deve aver valore, almeno nei suoi princìpi, per la divinità, che non potendo esser risarcita- appieno del danno o dell’offesa subita, deve poter far valere il suo dritto sul colpevole. o su la di lui famiglia o sui discendenti, e con tanta maggior energia e rigore, quanta ne richiede la sua natura, che è sempre colorita con tinte più forti di quella umana.
E non solo su la famiglia e sui discendenti deve pesare la vendetta divina, ma anche al di là della vita terrena del colpevole. Però qui non appare soltanto il risarcimento del danno subito, si vede anche la giustizia dove la divinità castiga gli offensori suoi e premia coloro che l’ànno onorata.
I premi e i castighi che ànno luogo nell’al di là, si devono mettere in armonia con le credenze che si ànno circa la vita futura; ma in qualunque modo venga rappresentata, nelle primitive civiltà, la trasmigrazione dell'anima, la resurrezione del corpo, e in generale la sopravvivenza, i premi e i castighi sono ripartiti secondo le virtù e i vizi che gli uomini ànno avuto durante la loro vita terrena. Per quanto sia ordinariamente oscuro il rapporto che esiste fra il delitto e il suo castigo in una nuova esistenza, scrive Tylor (r), si può tuttavia osservare che il codice delle trasmigrazioni penali si sforza di proporzionare il castigo all’offesa e di punire il peccatore là dov'egli à peccato. Le anime dei buoni, secondo i Brasiliani, vanno ad abr-tare corpi di uccelli magnifici che si nutrono di trutta deliziose, mentre quelle dei cattivi passano nei rettili. In Africa i Maravi pensano che quelle dei buoni andranno ad animare sciacalli, e quelle dei cattivi i serpenti.
Per il primitivo non è necessario che il corpo sopravviva o risorga, quando l'anima stessa, essendo fatta di una sostanza-spaziale, non ne à bisogno. Ma essa, appunto per questa qualità, come ò detto, può subire mutilazioni, ferite e anche la morte. Nelle isole Tonga» le anime dei capi e dei nobili partecipano, dopo morte, alla vita divina, mentre le altre anime muoiono col corpo. Gli indigeni dei Nicaragua credono che l’anima di colui che si è ben condotto su la terra andrà ad abitare là dimora degli dèi, mentre l’anima di coloro che si sono condotti male sparisce col corpo.
Come le diverse credenze religiose, cui ò avanti accennato, così la nascita e la formazione della credenza nell’èssere supremo e quella dei suoi attributi non è dipendente dalla credenza nella immortalità dell’anima. La stessa credenza nell’immortalità dell’anima, non implica il carattere morale che essa assume presso molte popolazioni primitive. Ma non si può concedere che l’una abbia preceduta l'altra nel tempo; quel che si può dire con ragione si è che dove sono esseri supremi, ammini(i) Primitive Culture.
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stratori della giustizia, e dóve sono credenze nella sopravvivenza dell'anima, dev’es-ser facile cosa, e non superiore alla mentalità primitiva, estendere l'amministrazione della giustizia divina, del supremo legislatore all'altra vita. Noi, qui abbiamo soltanto una estensione dell’opera divina, una estensione fondata su l'analogia della sua opera terrena.
Il castigo dei delitti, infatti, come sappiamo, era dapprima ritenuto un affare privato; e quando le primitive popolazioni ànno anche la credenza nella sopravvivenza, senza che questa sia coordinata con quella nel giudice supremo, allora imaginano che nell’altro inondo sono le vittime che si vendicano del colpevole. Ma quando si crede in un dio capace di vendicarsi delle offese ricevute, con castighi durante la vita umana, lo stesso criterio deve guidare il primitivo ad ammettere la punizione divina nell’oltre tomba. La sanzione limitata alla vita terrena, dove non è credenza in una vita d’oltre tomba, o dove a questa non si sono associati altri miti, si estende all'altra vita, quando questa credenza vi sia, e quando le conoscenze intorno all’opera divina sono più ordinate. Le medesime sanzioni, allora, divengono' assai più importanti per la eternità che qui acquistano, o almeno per un periodo più lungo di quello della vita umana, nel caso che si ammetta là sopravvivenza, ma si neghi la sua eternità. >
Con questo, non vogliamo dire che l'idea di giustizia divina sia ben netta presso i primitivi e che questa presieda sola nel premiare i giusti e nel castigare i colpevoli dopo la morte. Gli errori che si commettono intorno al giudizio della giustizia umana, si ripetono pei quella divina. Ma non possiamo convenire con Marillier (i) quando dice che il destino futuro non sia determinato, nelle primitive concezioni, dalla buona o cattiva condotta tenuta in questa vita, e che lo sia invece dal caso, dalla fantasia arbitraria degli dèi, dal posto che si è occupato quando àncora le anime erano unite ai corpi, dal genere di morte che si à avuta, dall’abilità e dalla forza che à permesso o impedito alle anime di evitare i pericoli disseminati su la via che conduce al regno dei morti, senza che a questi fatti, o almeno ad alcuni di essi, si annetta valore etico. Marillier è del parere che certi atti compiuti durante la vita possono avere un'influenza su l'altra vita come presso r Figiani, ma non ammette che le azioni umane esercitino un’azione decisiva sul destino futuro.
Quando la vita futura è concepita da alcune popolazioni primitive come una continuazione di questa, quando si c rede di poter avere nell’altra vita persino mogli e schiavi come in questa, allora certamente non è a dire che le azioni della vita presente abbiano potuto determinare quella specifica continuazione nell’àl di là. Ma quando le concezióni della vita d’oltre tomba ànno un valóre etico, quando la primitiva attribuzione della volontà agli dèi permette di estendere a loro la medesima valutazione di quella umana, quando la potenza e la sapienza degli dèi si estende anche al di là della vita presente, allora la concezione della vita futura è stata tra(i) La survivance de l’âme et l'idée de justice chez les peuples non civilisés.
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sformata, ed essa viene a subire ora un peggioramento e ora un miglioramento, secondo ciò che si è fatto in questa vita.
Nel dualismo, i buoni andranno con lo spirito buono, i cattivi andranno a tener compagnia allo spirito maligno; e il luogo di gioia, destinato ai.buoni, sarà sempre luminoso, mentre l’altro sarà tenebroso e brutto.
Ma chi è meritevole di castigo e di premio? Noi possiamo riferirci a ciò che abbiamo detto delle conoscenze morali dei primitivi, perchè allora abbiamo imparato a conoscere chi sono i buoni e chi sonò i cattivi, secondo le primitive concezioni. Però Marillier ñon è del nostro parere e crede che qui siano assenti i giudizi morali. Certo non si vede, a prima vista, un criterio morale presso gli abitanti di Nanunca (Isole di S. Agostino)' quando ritengono buone le anime di coloro che furono assai festeggiati nei riti funerari, o quando le anime degli eroi morti in campo, devono àvere il privilegio, che si concede nella Nuova Zelanda, di sfuggire alla sorte delle altre anime, che dopo nuovi periodi di vita, cessano di esistere; o quando si crede, come gli abitanti del distretto di Torres, che i più grandi guerrieri godono nell’altra vita di una sorte privilegiata; o quando si dice un buon indiano colui che adora gli dèi e offre sagrifici, che assiste alle danze, contribuisce alle feste, e obbedisce agli ordini del Saaga, l’uomo ispirato dagli,dèi (i).
Eppure si potrà forse obiettare con ragione, che coloro i quali furono assai festeggiati in morte, lo furono perchè riconosciuti di maggior valore degli altri, e anche moralmente migliori (2); e quindi se un certo premio essi ricevono dai superstiti per i loro pregi e per le loro virtù, un altro dovranno riceverne anche dagli dèi. Sarebbe anzi assurdo per il primitivo pensare che il merito da lui riconosciuto non venisse poi riconosciuto dagli dèi.
Minore difficoltà vi è ad ammettere un giudizio morale nell’indiano che ritiene la disubbidienza al Saaga sia il mezzo più sicuro per chiudersi la via del paradiso, o in quelle più numerose popolazioni che reputano l’eroe degno di un premio divino, quantunque Marillier lo neghi. Il valore morale che à l’osservanza religiosa è già stato precedentemente considerato, e non vi può esser dubbio che una colpa rappresenti infrazione dei comandamenti religiosi» sebbene questa circostanza sia talvolta poco visibile, come a Thaiti, dove i castighi e i premi della vita futura non ànno alcun rapporto con l’osservanza'dei riti. Nondimeno, ripeto,’ il valore morale dell’ob-bligazione religiosa, generalmente riconosciuto dai pi imitivi, non può negarsi. Ab-biam visto come la fedeltà sia una virtù anche nelle primitive civiltà, e quanto meritevole di stima sia l’obbedienza di colui che accetta il comandamento religioso come
(1) Cfr. Ch. Harrison, Religion and family among Haïdos.
(2) Les criminales (scrive A. Le Roy, La religion des primitifs), les condamnés, les sorciers et sorcières convencus des maléfices, sont poursuivis dans l'au-delà par la réprobation publique et ne reçoivent aucun honneur funèbre. Dans la plupart des tribus, on les brûle à petit feu sur un bûcher des bois d'ébène, leurs cendres sont abandonnées et leur misérable vêtement est pendu à un arbre voisin. Ailleurs on les jette à l'eau. Ailleurs encore on les tue et on laisse leurs cadavres en proie aux bêtes et aux fourmis, qui ont tôt fait de les réduire à rien.
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da un’autorità che non può mentire. Nè minori virtù sono il coraggio, la forza d'animo è l’eroismo, il lavoro e l’abilità, per il primitivo.
Ma dall'insieme delle primitive credenze religiose circa la sorte umana nella vita futura, si può dire che in generale siano ritenute meritevoli di pena quelle medesime colpe che sono giustamente odievoli e delle quali già ò precedente-mente parlato. Così, per rammentarne alcune, nella Nuove Ebridi vengono condannati all'inferno i mentitori, gli assassini, i ladri; e presso gli Andamani, ugual sorte tocca alle anime di coloro che ànno commesso delitti (i). Le anime dei negri della Guinea, si devono presentare a un giudice severo, che invia le buone ad abitare in pace terre fertili, ma che uccide inesorabilmente le cattive con un colpo della sua terribile mazza che à sempre a portata di mano. In altri posti dello stesso paese, l’anima del morto è giudicata dal dio della tribù su le rive del fiume della morte; se l’individuo à osservato le feste, se à mantenuto i giuramenti, se si è astenuto da ciò che era proibito, il suo dio lo fa entrare nelle regioni felici; e se no, lo tuffa-nel fiume dove l’anima annega e sparisce nel nulla. Tanto per le colpe che meritano un castigo nell’al di là.
E per le virtù, i Groenlandesi inviano nel. paradiso di Torngarsuk, l’essere su-. premo, colóro che ànno lavorato indefessamente, coloro che ànno compiuto azioni eroiche, coloro che ànno presó molte balene e foche, coloro che sono morti annegati, coloro che sono morti alla nascita. I Caraiti, imaginano giardini deliziosi per le anime dei laboriosi, mentre le anime dei pigri andranno a servire i loro nemici, in terre desertiche e sterili (2).
Il coraggio, l’abilità, il lavoro, l'osservanza religiosa sono dunque degne di premio, ed io non so come si possa negare che siano virtù, indipendentemente da ogni comandamento religioso. Il premio accordato a coloro che sono morti alla nascita, è giustificato con la concezione della mancanza di colpa, quando ancora noi) si è che alla soglia della vita. Ma ciò che qui si voleva dimostrare, era appunto che queste virtù sono premiate, secondo le primitive credenze religiose, nella vita d’oltre tomba, e possiamo aggiungere che non lo siano soltanto dalle primitive ma anche dalle più progredite escatologie.
6.
Chi volesse prendere in considerazione quanto ò detto fin qui e ne volesse accettare le conclusioni, dovrebbe convenire che il problema del male nasce con le religioni e si presenta alla coscienza religiosa in diverse domande, ora più semplici e urgenti, come nelle religioni individuali, ora più ricche e complesse come nelle religioni della comunità. Se ammettiamo uno stadio della vita umana, in cui l’uomo, come il bruto, sia vissuto senza alcuna curiosità, senza alcun interesse e quasi insensibile al piacere
(1) Cfr. E. H. Man, On thè aboriginal inhabitants of thè Andaman Islands.
(2) Cfr. E. B. 1YLOR, Primitive Culture.
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e al dolore, senza desiderio di procurarsi l’uno e di prolungarlo o accrescerlo, e di evitare l’altro, o di abbreviarlo e diminuirlo; se imaginiamo un'epoca della storia umana in cui l’uomo sia vissuto senza emozioni, senza alcuna idea di bene e di male, nella incapacità di distinguere cose v^ve da cose morte, nella incapacità di fare la pili semplice astrazione e generalizzazione, di pensare logicamente; un’epoca in cui l’uomo non abbia posseduto idee di causalità e abbia 'subito indifferentemente il dolore; un’epoca in cui nessun ordine sia stato nelle sue conoscenze, allora .dobbiamo rinunciare a scoprire» in questo campo, elementi formativi di religione, e nello stesso tempo motivi a porre qualsiasi problema.
Senonchè, così facendo, saremmo al di iuori della realtà storica, perchè una tale epoca umana è una pura ipotesi, non sostenuta da alcuna testimonianza storica, nè da prove filosofiche che siano inconfutabili. Perchè vi siano formazioni e impostazioni di problemi è necessario almeno che si abbia sensazione di piacere e dolore, idee del mistero da svelare, curiosità, interesse di conoscere l’origine delle cose. Quando si avesse soltanto uno di questi motivi, o una semplice conoscenza di causa e di effetto, o solo facoltà di astrarre e generalizzare, o sola curiosità, o solo odio del male e interesse ad evitarlo, non si potrebbe trovare qui l’origine dei problemi religiosi. Perchè l’uomo- possa farsi sia pure una domanda intorno al male, perchè egli possa seguire un metodo di condotta, subordinato a quella conoscenza, occorre egli abbia quella conoscenza, occorre anzi una certa sistemazione di diverse conoscenze, e siano in attività rappresentazioni, giudizi e affetti diversi. Ora, dovunque noi troviamo tracce umane, sia nella preistoria, sia nella vita selvaggia dei primitivi attualmente esistenti, troviamo tracce di credenze religiose e di domande che l’uomo si pone intorno al male; tracce, cioè, degli elementi Che servono a comporre le religioni e il problema del male, tracce dei diversi atteggiamenti religiosi che l’uomo conseguentemente assume, per allontanare o dominare il male o per distruggerlo, sotto i diversi aspetti in cui esso gli si presenta.
Si Chiederà forse qualcuno da quale religione primitiva fosse stato posto integralmente il problema del male, e tanto più facilmente se lo chiederà quanto più comune è l’opinione che tutte le religioni si siano sviluppate l'una dall’altra, e che tutte siano derivate da una sola, seguendo un processo simile a quello che si tende ad ammettere nella natura inorganica e nella biologia, quando si vuole scoprire l’unica sostanza dà cui la varietà di corpi, che Ci presenta la terra, abbia avuto origine (i). ,
Ma la maggior parte dei moderni pensatori, che si sono occupati dell’origine della religione, pur ammettendo un unico nucleo originario, da cui sarebbero derivate tutte le altre, non è poi unanime nel definire quale sia questa religione originaria. Certo ognuno riconoscerà che, in tutti i modi, è necessario ammettere nella storia
(i) E. Hartmann, per esempio, erede che lo sviluppo della concezione degli dèi sia proceduto da quello di dèi inorganici a dèi antropomorfi, passando da quello di dèi zoomorfi.
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una successione causale, se non si vuole rendere assurda ogni concezione storica; e la religione, in quanto è uno storico evento, non può appartarsi dalla serie causale con cui è legata, nè può procedere in guisa diversa da quella degli altri fatti storici, nelle cui serie è indissolubilmente concatenata.
Se rammentiamo però ciò che abbiamo detto delle primitive formazioni religiose, vediamo che risalendo alla vita più rudimentale della civiltà, perveniamo a un punto dove è un insieme confuso di domande che la primitiva coscienza religiosa si pone, di precetti e norme che essa segue, secondo la determinano le sue esigenze pratiche e noetiche, secondo lo permettono le condizioni esterne e le disposizioni individuali. Abbiamo detto che non solo lo attestano i documenti offertici dalla preistoria e dall’etnologia, ma sopratutto lo attesta il fatto che un insieme confuso deve precedere a un ordinato sistema di conoscenze e precetti contro il male; sia perchè quest'ultimo richiede un’elaborazione di eleménti che dapprima son rozzi, sia perchè la disordinata e illogica concezione del male, e la impulsiva azione contro di esso, non segue, ma precede nel tempo alle conoscenze ordinate e sistemate, alla corretta azione.
E inoltre, poiché, come abbiam detto, la natura della religione è tale da tenere avvinti a sè uomini dalle diverse disposizioni'e dalle diverse culture, in modo che tutti vi trovino l’appagamento delle loro diverse religiose esigenze, e pur domandando vari beni, tutti si protestano ugualmente religiosi, e provando diversi mali, tutti, nelle diverse religioni trovano sostegno, difesa, forza, luce, guida, beatitudine; così sembra più probabile che nelle medesime civiltà nascano diverse credenze religiose, capaci di appagare le diverse esigenze dello spirito, come sono possibili nello stato di cultura collettiva e nelle individuali contingenze o disposizioni in cui esso si trova;;
Nelle fonti religiose del problema del male appaiono dunque diverse esigenze umane che abbiamo analizzate nei motivi, negli elementi religiosi e nei rimedi che offrono le religioni contro il male. Ma di nessuna di queste esigenze può dirsi che sia primamente apparsa nella storia, come di nessuna delle religioni primitive che ne offrono l’appagamento. E ciò accade perchè la vita umana non è semplicemente una vita fisica, o morale, o intellettuale, essa non à semplici aspirazioni terrene, ma tende anche al di là del mondo visibile e dei beni raggiunti, fin dove può intravedere un mondo superiore, ch’è fonte di altri beni.
Mario Puglisi.
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“CONFESSORI” NON “MARTIRI”
rombo dei cannoni, solo annunzio formidabile alla terra della dipartita di migliaia di giovani esistenze troncate fra una promessa e un’aspettativa, soffoca brutalmente la voce del funebre pianto delle campane annunzianti la dipartita di vetuste personalità, che le promesse di loro gioventù mantennero e superarono. Quando le colonne dei giornali sono coperte dai nomi di coloro che per la patria e per l'umanità rinunziarono precocemente alla vita, si è proclivi a sorvolare Sui nomi di quelli,
che per i più alti ideali vissero lungamente, e grandi cose operarono.
È per contrastare all’oblio qualche istante ancora della fosforescenza di figure che riempirono di sè tutta una generazione, che commemoro qui brevemente Basii Wilberforce, Lord Radstock, Benjamin Kidd, Josiah Royce. Non lacrime essi chiedono, ma imitazione...
BASIL WILBERFORCE
Il Rev. Basii Wilberforce, arcidiacono dell'abbazia di Westminster in Londra, appartenente a famiglia passata alla storia per le sue benemerenze, specie nella lotta antischiavistica, era col Rev. R: I. Campbell, il Rev. Clifford e pochi altri, una delle voci più rappresentative e delle personalità più potenti del mondo religioso londinese e inglese. La natura aveva abbondato con lui nei doni d'intelligenza, di carattere, di sentimento, di eloquenza, di magnetismo personale, che si rivelavano sia nell’aspetto di austera bellezza cui gli anni e le sofferenze avevano solo resa più profonda, e nella voce vibrante, mezzo trasparente di comunicazione fra lui e gli uditori, indimenticabile.
Dell'intensità e della ricchezza della sua vita spirituale, che ne fece uno dei più intimi mistici dell'età moderna, delle vicende esterne della sua vita e del suo ministèro, il breve spazio non mi permette di parlare.
Di lui come oratore sacro, più, come pastore dei naufraghi, di tutte le fedi e di tutte le Chiese, dirò solo che il secreto della sua « cattolicità » di spirito e di ministero fu una intensa simpatia umana, ed una tolleranza dotata, come « la bontà divina di sì gran braccia, da prender ciò che si rivolgeva a lei », e da autorizzarlo a proclamarsi da se stesso, dal pulpito dell’abbazia di Westminster, « membro onorario di tutte le religioni ». Qualunque intolleranza, in materia religiósa, suscitava
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«CONFESSORI» NON «MARTIRI»
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in lui un dignitoso sdegno: benché al termine della sua vita egli fosse divenuto tollerante anche con gl'intolleranti.
Benché dignitario della Chiesa inglese, e ad essa fedele, la sua figura e posizione spirituale sconcertò ogni tentativo di collocarlo in un casellario, e di applicargli una targhetta. « Dio è tutto, e tutto è Dio, e Dio è amore » fu il suo semplice e universale «Credo»; e il verso di Browning: «God’s in his Heaven: all's right with thè world »; « Dio è nel suo Cielo, e tutto va bene sulla Terra » fu la sua morale e la sua teologia, a cui restò fedele anche sotto colpi che tante altre fedi ottimistiche hanno scosso.
« L’universalismo applicato all’opera di Dio nel Mondo; l'Universalismo applicato al Cristo; l’universalismo applicato all’uomo e ai suoi destini » furono le tesi fondamentali che svolse in tutti i suo discorsi privati e pubblici in mezzo secolo di « ministero ». Ecco, ad esempio, alcuni dei suoi tipici accenti:
« Per colui Che crede alla Universalità di Dio, la Creazione non è già un’azione effettuata una volta per sempre, ma un processo continuo, l’estrinsecazione instancabile della divina Immanenza. Ogni seme che germoglia, ogni pianeta roteante... ogni nobile aspirazione del cuore umano è un’espressione dell’energia dell’onnipresente e instancabile Anima dell’universo. Solo questa concezione può dare una spiegazione filosofica del fenomeno chiamato il « male » ed è solo da questo punto di vista che è possibile all’uomo combattere contro /li esso logicamente e con fiducia. Quando voi vi siete impadroniti di questo concetto della universalità e della perfezione di Dio... voi credete senza l’ombra di riserva mentale, che in ogni apparente contradizione e paradosso vi è un solo principio operoso, un solo amore che pulsa, un solo proposito che si evolve, un solo fine possibile. Voi percepite che il bene non è possibile senza il suo opposto... che la contradizione è la convinzione di-ogni vita fisica, morale, spirituale..» («La Battaglia del Signore» pag. li; «La Santificazione per mezzo della Verità » pag. 69)
Alla luce dell’« Immanenza », la sua cristologia s'illumina. « Il Xoyo; è il nome filosofico del Cristo mistico universale, le cui manifestazioni sono ampie quanto il Mondo: ... è la Coscienza di Dio che torma il centro più profondo di ogni individuo dell’umanità... Il Cristo... la parola del Padre... non è il monopolio di età, di nazioni, sette, definizioni. Egli è l'elemento vitale in cui ha esistenza tutto ciò che è.:, la forza-amore, immanente nella materia come nell’uomo, il cui proposito è di trasfigurare la polvere delle generazioni umane, in un tempio di bellezza imperitura, sede dell’Eterno... Che senso possono avere le ingiuriose denunzie settarie, questo stimmatizzarsi di uomini...? Dio conosce solo una categoria di eretici e infedeli, e questa non consiste già di quelli che professano dottrine inesatte, bensì degli ortodossi infedeli che conoscono il volere di Dio e non lo adempiono... Sta a noi universalizzare il Cristo, allargando le nostre simpatie per ogni sorta e condizione di persone» («Santificazioni per la Verità» pag. 15...). Non farà meraviglia, dopo queste pur brevi citazioni, se l'arcidiacono Wilberforce fu accusato di Panteismo. Ma egli insistè sempre, che Teismo e Panteismo si sommergevano e riconciliavano nella sua sintesi.
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Poiché Dio è la sola sostanza da cui il Mondo ha emerso, la Materia anziché « irreale » ed « eterogenea » a Dio, contiene nella sua radice la Sola Realtà. Poiché Dio s’identifica con la propria sostanza, e da essa ha voluto che l'Universo procedesse, Egli s'identifica con l'Universo. Ma Egli ha voluto questa auto-evoluzione, e ciò è sufficiente per farne il creatore del suo stesso processo, e differenziare un Panteismo che tende a risolvere Dio nel Suo Móndo, dal Panteismo che salva la divina Trascendenza, pur lasciando largo margine per la sua Immanenza.
Tutta la vita del Wilberforce fu incarnazione di questo suo « Pan-en-teismo »: o non diremo piuttosto .che la sua concezione religiosa-filosofica, anima di tutta la sua attività di ministero, fu l’emanazione e la formulazione di quella universale simpatia che fu la linea fondamentale e l’elemento dominante del suo spirito?
Un episodio, che credo inedito, narratomi da Lord Radstock, può dare un’idea della portata pratica di questo « leit-motiv » della vita del Wilberforce: il nome di Lord Radstock, del famoso apostolo dei salotti francesi e russi, della Scandinavia, Olanda e India, dell’uomo più « invasato » dallo Spìrito, di Dio che io abbia mai conosciuto, sarà, così, degnamente associato a quello dell'amico che condusse il suo « servizio funebre ».
Una delle « fissazióni spirituali » di Lord Radstock era di tutto attendersi, e solo, dalia preghiera e ciò con una vivacità di fede, che se era lungi dal persuadere gli spiriti critici, anche religiosi, soddisfaceva pienamente le sue. esigenze razionali e i suoi bisogni spirituali, e, quel che è più, sembrava giustificata dalle migliaia di casi da lui accuratamente descritti nel suo diario, nei quali (« post hoc, ergo propter hoc » era la sua interpretazione) la sua preghiera aveva ottenuto ciò che con altri mezzi sembrava irraggiungibile. (Ricordo, fra questi, numerosi casi di guarigione operati dalle sue preghiere, anche in membri della sua famiglia).
Il caso del Wilberfòrcé andò come segue. Recatosi il Radstock, seguito dal suo fedele cameriere perfettamente all’unisono con lo spirito, del suo padrone, a visitare il Wilberforce gravemente malato e già settantenne, trovò che era stata decisa l’operazione per l’ablazione dell’appendice, e che il dì seguente egli doveva essere operato.
Con la sua solita pietà aggressiva ed energica volontà, il Radstock persuase il Wilberforce a sperimentare soltanto l'efficacia della « preghiera di fede che salva i malati » (Giacomo V. 15) e di non affidarsi che a Dio per l’adempimento della Sua volontà; e col vigore e con la fede sua abituale « pregò su di lui » insieme al suo servitore. « Quando il mattino seguente il chirurgo si recò per eseguire l'operazione — mi narrò il Radstock, che ne attribuiva il merito alla viva fede del Wilberforce, nel che io fui d’accordo con lui — trovò che la sua opera era divenuta inutile, pur non potendo credere ai propri occhi, nè sapendo trovare una plausibile spiegazione ».
Ora, dopo un lungo periodo di sofferenze, alternate con intervalli di relativa calma, durante i quali il Wilberforce tornava a dissetare con la sua parola umana e universale l’avido uditorio di St. John’s, Westminster, o dell’« Abbazia », la sua voce si è spenta dopo più di mezzo secolo, proclamando fino all’ultimo un Vangelo
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Arcidiacono Basil Wilberforce 11917 - v-vi)
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Granville augusto Guglielmo Waldegrave
Barone radstock
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•di speranza in mezzo al crollare di tante fedi, di ottimismo fra gli orrori di tanto male, di amóre fra tanti odi.
Mentre nella pianura si combatteva, egli, novello Mosè, è rimasto con le braccia -distese a pregare, e a sorreggere l’ànima della nazione, à render testimonio alla realtà imperitura della sua visione;
IL BARONE RADSTOCK
Alla figura del Wilbérforce si è spontaneamente associata nel mio necrologio -quella di Lord Radstock, del quale, come deceduto già prima della guerra, 1’8 de-•cembre 1913 mi proponevo di parlare in altra occasione. Ma ora, dinanzi alla sua figura rievocata dalla memoria del suo amico, trovo difficile sottrarmi all’invito di lumeggiare brevemente la vita impressionante di quest’uomo straordinario, con cui per più mesi, nell’anno stesso della sua morte, ebbi l’opportunità di conferire.
L'occasione mi fu offerta dal suo desiderio di « rinfrescare » il suo Italiano per l’intento di una missione evangelizzatrice anche in Italia.
Che quest’uomo, nel suo ottantunesimo anno di età, in mezzo ad acute sofferenze superate solo dal suo indomito coraggio e ferma fede (la sua risposta costante •quando lo si interrogava sulla sua salute era: « Mi si manda a scuola »; alludendo alle lezioni sempre salutari del dolore) si accingesse ora ad una missione in Italia, — dopo sette viaggi di evangelizzazione in India, ed altri molteplici in Russia, Olanda, Scandinavia, Francia, e quasi sessantanni di lavóro indefèsso — mi sembrò cosa sì straordinaria, che accettai volentièri il compito di aiutarlo nel suo intento linguistico.
Ricordo la prima impressione prodotta quando nella sua abitazione « Vittoriana» in Regent’s Park, questo aristocratico vegliardo, in un salone solenne ma d'una nudità desolante ed edificante, dopo pochi minuti appena di reciproca presentazione, incominciò, a suo modo, e senza davvero consultarmi, là sua « lezione d’italiano ». Il suo modo d’imparare l’italiano non poteva essere altro che l’unico modo di tutte le sue azioni, l’unico argoménto delle sue conversazioni, l’unico mezzo di raggiungere i suoi scopi, l'unica medicina di tutte le malattie. Egli cominciò, prima stentatamente, poi con una fluidità sempre crescente, a’ parlarmi del suo argomento prediletto: dell’Amore di Dio, del Cristo « tutto in ogni cosa », della bellezza e della gioia di una vita dedicata al-^po servizio... E devo riconoscere. Che il mio merito nel suo progresso nella nostra lingua fu assai limitato, visto che, ogni qualvolta io tentai, per dovere professionale, di correggere qualche frase, di suggerire qualche parola inglese o francese, egli continuò' imperterrito nella sua roga oratoria, impaziente di parole e solo curante delle idee... Mi ero aspettato di trovare in lui un docile discepolo, e avevo trovato un santo e un oratore ammirabile... ma un pessimo scolaro. Debbo pur riconoscere, però, che anch’egli deve esser rimasto disilluso nella sua aspettativa: egli abituato a contare le sue vittorie dal numero degli attacchi, e le rese a discrezione dal numero degli assedi. L'impressione che la spiritualità ed il misticismo di Lord Radstock fece su di me fu, debbo confessarlo, quella di un’anima no-.bile ed entusiasta, posseduta, ossessionata dalla sua esperienza diretta di una realtà
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religiosa, assorbita, chiusa, isolata nella sua visione, ma forse — e questa fu la sua forza, ed insieme la sua debolezza — incapace di comprendere l’esperienza irreligiosa, la perdita dell’equilibrio morale e del senso ottimistico, la pietrificazione di un’anima satura di dolore, l’apatia e l’anedonia dello spirito. Dovè questa, ho detto, essere una sorgente di debolezza nel suo apostolato; ma fu anche, certamente, la spiegazione della sua maravigliosa, strepitosa efficacia sulle « masse » dell’aristocrazia, dell’alta borghesia, del popolo, prive generalmente, quelle non meno di queste, di profonde esperienze spirituali, di abitudini di analisi e di valutazioni morali. Al quale successo dovè molto cooperare la forza dell’esempio, veramente ammirabile. Qiiest’uomo chiamato dal suo grado sociale, dai suoi studi, dalle sue grandi attitudini di organizzatore a coprire le prime cariche e ad occupare un posto eminente nella vita pubblica, dal giorno in cui, poco più che ventenne, un famoso avvocato gli aveva domandato che cosa facesse egli per Cristo, aveva, con magnifica generosità e con indomito coraggio, tutto sacrificato alla sua vocazione di « riconciliare tutto in Cristo». Le tradizioni, i legami, i pregiudizi tenaci dell’aristocrazia inglese; le abitudini mentali ortodosse e'intolleranti della Chiesa inglese di sessant’anni fa; la, schiavitù e la gabbia dorata delle sue ricchezze, agi, circoli, visite, partite e pranzi (sol di questi ultimi più centinaia d’inviti ogni anno); le stesse esigenze della vita e dei doveri di famiglia: tutto egli spezzò nettamente, bruscamente, despóticamente.
Da fanciullo — come mi fu detto dai suoi famigliari — egli non sapeva parlare di sè e concepire il suo avvenire, che come un « gran re di poteri illimitati »: e gran re egli divenne: la sua volontà fu il suo trqno e il suo impero sconfinato fu su se stesso. Egli alienò gioielli e vasellame, smise carrozza ed ogni lusso, ridusse ai minimi termini le sue spese personali e famigliari; nobile e legato con la più alta aristocrazia la ruppe con tutte le convenzioni e i pregiudizi della sua classe, fino a recarsi a distribuire personalmente — e ciò fino a tarda età — bibbie agli operai che si recavano al lavoro nelle prime ore del mattino, e a rompere ogni rapporto con la « high-life ». pur sempre restando il « trait d’union » degli estremi sociali; allevato in ambiente ortodosso e puritano, egli ignorò qualunque divisione e differenza di « credi » e di Chiesa, e una cosa solo conobbe attraverso tutto e tutti; « L’amore di Dio nel suo Cristo ». L’impressione che quest’uomo produsse nell’alta e « blasée » società russa, e il movimento religioso evangelico che ne seguì, costituisce un fenomeno ormai passato alla storia; fissato in letteratura nel Lord Apostol (titolo del romanzo del Principe Mechtchersky) e nel Serge Balourine; incarnato tipicamente nelle clamorose conversioni del Colonnello Paschkoff, cardine dell'alta società di Pietroburgo, del Conte Horff, Maestro di Corte e legato di amicizia coi membri della famiglia imperiale, del Conte Bobrinsky, Ministro dell’interno, delle Principesse Lieven, Gallitzine, Gargarrine, e di tanti altri, che conquistati da lui intieramente a Cristo, posero ai piedi dei loro fratelli tutte le loro ricchezze ed energie e suggellarono con l'esilio la loro incrollabile fedeltà al loro Maestro. Non senza emozione Lord Radstock mi narrava, dopo ormai quarant'anni, gli episodi più salienti di questa
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compagnia: fra altri, quello di uno studente Nichilista condannato a morte dai suoi compagni che lo sospettavano traditore, colpito a tradimento, e poi gettato con la faccia in una fossa piena di vetriolo per renderlo irriconoscibile alla polizia; il quale, salvato da morte, ma orribilmente deturpato e privo degli occhi, sotto l’influenza del colonnello Paschkoff e del Conte Brobnisky, riuscì a ritrovar gioia nella vita, a perdonare ai suoi nemici che ricusò di accusare quando furono tratti in giudizio, a fondare un istituto per i ciechi, e a scrivere una breve autobiografia intitolata: Egli mi ama. Del Bobrinsky è rimasta famosa la sua visita a To Ìloi dopo la sua conversione, in cui i due «convertiti » rimasero in colloquio dall»'dieci di sera alle sei del mattino, trascorrendo tutta la notte nell’investigare le grandezze della « rivelazione di Dio nel Cristo »; nonché la trasformazione delle sue immense tenute in un campo sperimentale di riforme agrarie e sociali, e in un focolare di evangelizzazione.
Uno dei segreti del successo di Lord Radstock fu, che in lui l’ossessione religiosa non era accompagnata, come è generalmente, da tenacia di adesione all’una o all’altra forma dottrinale, cultuale, ecclesiastica. Si poteva differire da lui per il totale stato d'animo, ma non per particolari vedute. E d’altra parte, questa sua trascendenza di tutte le denominazioni era ben lungi dall’aver prodotto quel riassorbimento della religione in una filosofia, che alcuni filosofi egeliani in Italia proclamano essere l’ultima fase necessaria di una religione intellettualizzata. La persona di Lord Radstock era una confutazione vivente di tale affermazione.
Fra Cattolici, fra Cristiani di tutte le Chiese, di tutte le tendenze, conservatrici e liberali, fra Maomettani, Bramini, Israeliti, egli contava migliaia di anime che battevano all’unisono con lui. Nelle nostre conversazioni ho avuto la prova, che «questo uomo così retrivo ad entrare in discussione sulle sue esperienze religiose, quest’uomo ignaro di qualunque «souplesse» e «savoir taire», sempre pronto a rispondere con una citazione di una lettera di S. Paolo ad un’osservazione sugli avvenimenti sociali e politici del giorno, o a replicare a chi gli offriva dello zucchero per il tea con una inopportuna giaculatoria sulla « dolcezza del servire Dio »; quest’uomo famoso perfin tra i monelli londinesi per i suoi « orribili cappelli e soprabiti, e per la sua splendida religione », era in cordiale, fraterna relazione con tutte le personalità più eminenti di tutte le nazioni e di tutte le tendenze religiose, attirate, senza dubbio, dal fenomeno di un uomo di enorme sincerità, di eroica coerenza, di formidabile volontà; di quella che in altri tempi si sarebbe chiamata la sua santità.
LETTERE DEL FOGAZZARO AL BARONE RADSTOCK
Forse non sarà discaro a lettori italiani, che a tal proposito estragga dalla corrispondenza del Radstock con,l'autore del Santo e citi qui alcuni passi di lettere del Fogazzaro, alle quali sarebbe desiderabile poter porre a riscontro le corrispondenti lettere del Radstock stesso. Conserverò le citazioni nell'originale francese.
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« Vicence, i août 1902.
« M ilord,
« Vous êtes bien bon avec moi qui le mérite peu. ayant si longuement tardé à vous répondre... Oui, nous passons, nous Catholiques progressistes et libéraux, modernistes, comme on nous appelle, de bien tristes jours et il n'est de meilleur reconfort que 'l'unwrTétroite avec le Christ. Je trouve dans votre dernière lettre une parole qui m’est-bien chère. Vous y dites que vous priez pour moi. J’en ai grand besoin, mes attaches avec le monde étant encore bien fortes, ce qui affaiblit singulièrement l’action que je pourrais exercer comme écrivain, comme citoyen, comme propriétaire ayant beaucoup de frères à .sa dépendance, pour la réalisation de l’idéal chrétien ».
Questo passo, che aggiunge una soave sfumatura al quadro dei sentimenti intimi religiosi del Fogazzaro, ci riporta alle prime avvisaglie della lotta antimodernistica: (esso è contemporaneo al famoso articolo di Marcel Hébert: « La Dernière idole: étude sur la personalité divine »). Quattro anni dopo, pochi mesi dopo la «condanna » del Santot il Fogazzaro gli scriveva ancora:
« Vicence, ly od. 1906.
« Votre bonne lettre m’a bien touché, et m’a inspiré le désir de vous connaître personnellement... Je ne sais pas si «Le Saint » a quelque valeur artistique; je sais seulement que je l’ai écrit avec une profonde sincérité de sentiment, religieux et je suis heureux des sympathies religieuses qui viennent à moi ».
L’anno che seguì segnò il punto culminante della lotta fra il Cattolicismo ufficiale e il « Modernismo », specie con la enciclica « Pascendi » di Pio X (8 settembre 1907). Pochi mesi dopo il Fogazzaro tornava a scrivere:
« Vicence, iS janvier 1908.
«... Vous êtes bien bon de m’écrire encore, après mes longs silences. Réellement le temps me manque et il faut dire aussi que je vis dans une continuelle agitation. Pensez donc, on m'accuse même d'être théosophe! On a- écrit une colonne poter le démontrer. On trouve dans mon œucre une épitaphe comme ca: « A Franco, qui est en Dieu. — Sa Louise ». On s’écrie: « Ca, c'est du Nirvana »! Mais vous m'apprenez, mon cher frère, qu’il est utile d’avoir des offences à pardonner. C'est ce que je fais de tout mon cœur. Il faut pourtant parler, parfois, pour que les gens netse scandalisent point de notre silence.
« Que Dieu vous garde, mon cher frère, et vous rende le bien que vous faites ».
Un anno dopo, pochi giorni dopo il terremoto di Messina, il Fogazzaro replicava ad una lettera di condoglianza del Radstock, così:
« Vicence, 16 janvier 1909.
« Je suis touché de votre sympathie et vous en exprime la plus vive reconnaissance... Nous savons combien est actif chez vous ce sentiment dé fraternité humaine et chrétienne: merci!
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«Espérons que ce grand malheur exerce sur les âmes l’action purifiante qui est toujours propre du malheur Individuel. Ce frémissement de pitié, ces visions de misère humaine, pourront retremper l'âme nationale! »
Pochi mesi dopo' la morte di Giorgio Tyrrell, conosciuto al gran pubblico italiano, più che per le sue opere, per la famosa « Lettera ad un Professore d’Antologia » pubblicata dal Corriere della Sera, riempiva di costernazione tutte la anime modernamente religiose. Il Radstock accorreva, con una lettera, a fianco del Fogazzaro, a dividerne con lui il dolore; e il Fogazzaro gli replicava:
« Vicence, 26 juillet 1909.
« Oui, la mort de Tyrrell m’a très douloureusement frappé. Je ne veux point parler de ses démêles avec Rome. Il reste et il restera toujours l’auteur des plus grandes, des plus admirables pages que V Esprit ait dicté à un écrivain catholique dans les dernières vingtcinq années.
«Je me réjouis, milord, des heureuses nouvelles que vous me mandez relativement à la diffusion de la Foi dans l'extrême Orient et vous félicite en même temps de la sainte ardeur qui vous anime toujours ».
L’ultima lettera del Fogazzaro è datata dal 26 gennaio 1910, circa un anno prima della sua morte. Essa è un degno testamento, e suggello di. un’amicizia che, sorta da comunanza di doti spirituali, si era in pochi anni cementata più che ordinarie amicizie possano in lunghi anni.
« Merci, milord et mon cher frère, de votre bonne lettre si pleine d’ardeur et de foi Chrétienne. Il y a trop d’intellectualisme, trop de discussions théologiques et philosophiques dans l'église de Dieu et il y a trop peu de charité et d'amour du Christ. Je crois que nous devons tous travailler pour établir le juste équilibre de ces deux éléments de notre religion. Que Dieu nous vienne en aide!
« Bien à vous,
« A. Fogazzaro ».
« ♦*♦
Un altro saggio tipico della cattolicità religiosa del Radstock si ebbe nel plebiscito di condoglianze giunto alla sua .famiglia, quando, a Si anni di età, la sua vita serenamente si spense durante la sua ultima « missione » in Parigi. Tralascio le testimonianze di migliaia di «cristiani» da tutte le nazioni di Europa e da tutte le parti del mondo, e solo riferisco frasi di lettere di non « cristiani »; alcune assai belle.
Uno studente bramino (il Radstock ed uno dei suoi figli si occuparono moltissimo dell’assistenza degli studenti indiani in Inghilterra), scrive: « A mio parere, con la sua morte è scomparso un silenzioso operaio, ed uno dei più grandi, nella causa di Dio. La sua perdita è immensa per tutta l'umanità ». La relazione data dal Times della sua morte, mi richiama alla memoria quel remoto periodo delle nostre Saghe e dei nostri Santi indiani, in cui, come dice la tradizione, questi solevano dare il loro ul-
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timo respiro silenziosamente, quando meglio eredevano. La sua non fu morte, come noi mortali sogliamo chiamarla: si tratta di qualche cosa di più alto, per cui non abbiamo parola... »
Un membro dei Bramo Soma], (movimento modernista indiano) eminente avvocato e alto funzionario scriveva: « Io sono profondamente addolorato della morte dèi nostro santo padre... Nessuno, io credo, era più pronto di lui, se posso dir così con tutto il rispetto e la venerazione, a comparire dinanzi alla Augusta Presenza. Il mondo era tanto più ricco per la sua presenza in mezzo a noi, ed il profumo della santa sua vita durerà per sempre come conforto e sorgente di forza per quelli che verranno... ».
Un altre bramino: « Questa è una perdita che colpisce non solo la vostra ra-miglia, ma quella più ampia del mondo intiero di cui fu eminente membro ».
Un maomettano, già assai gretto e intollerante, così scriveva: « Egli fa ora parte dell’aristocrazia celeste, come lo fu della terrestre. Il mio cuore è troppo triste per scrivere altro. Quel cuore, che fu così pieno di amore per Cristo e per il progresso del Suo regno, ha ora cessato di battere. Col cuore squarciato, resto vostro amico ».
La morte di Lord Radstock non fu pianta solo da amici e divoti: essa fu acerbamente intesa da migliaia di beneficati, a cui la sua inesauribile bontà era giunta sia individualmente che collettivamente.- Menziono solo, per quest’ultima categoria, il « Victoria Hostel » una « Home » per ricovero di donne inglesi, ed anche forestiere, sperdute al loro primo giungere in Londra; altre istituzioni per fanciulle della classe operaia, e la « Home » per le ballerine inglesi di Parigi; la « Casa per gli emigranti » fondata nel 1884, per la quale passarono in pochi anni 70.000 Irlandesi, Scandinavi, Russi, Tedeschi, Italiani, salvati così nei primi giorni del loro arrivo a Londra dallo sfruttamento d'ignobili speculatori, e assistiti materialmente e moralmente; l’alloggio per operai più poveri (Capace di mille persone), che sèrvi di modello e ispirazione per le tante altre istituzioni del genere. E debbo qui rinunziare a parlare delle sup spedizioni nell’« East End » di Londra (la popolosa e poverissima regione dei docks), delle sue fatiche evangeliche di cui essa fu teatro, e della iniziazione che da lui ricevettero al servizio dei poveri e degli umili tanti membri delle alte classi sociali. Solo un episodio narrerò, che egli amava spesso di citare come esempio commovente di bellezza e di bontà umana, dimenticando di dire che era stato l’esempio della sua abnegazione a fecondare un terreno divenuto ricco di fiori sì eletti.
Un giorno un vecchio miserrimo di oltre ottant’anni, la cui rendita totale era di circa sei lire la settimana, si presentò ad una dèlie signore associate al Radstock nella visita dei tuguri più miserabili, non per chiederle soccorso, ma... per offrirle i suoi risparmi « per i poveri ». La dama, ben comprendendo che tra i poveri più bi-bisognosi era proprio il generoso oblatore, esitava nell’accettare l’offerta: ma poiché egli insisteva, gli domandò come avesse tatto ad accumulare quella somma. « Vedete signora — rispose il buon vecchio — qui nell’East End tutti gli acquisti .si fanno a un penny (due soldi) per volta: due soldi di pane, due soldi di aringhe, due soldi di ogni cosa. Allora, io compro invece di un penny, tre « farthings » (sètte cen-
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tesimi e mezzo di ogni cosa, risparmiando così un « farthing » (due centesimi'e mezzo) ogni volta. Ora voi sapete, che quattro « farthings » fanno un « penny » (due soldi), •che dodici volte un « penny » formano uno « shilling » (25 soldi), e dieci « shilling? » fanno mezza sterlina (lire dodici e cinquanta centesimi). Eccovi spiegata l’origine di questa mezza sterlina che vi offro pei più poveri di me ». Come ricusare una carità sì ingegnosa e commovente? Dopo sei mesi il povero ottuagenario si presentò con altri dieci scellini méssi da parte a forza di « farthings » di privazioni. Il Radstock commentava commosso: « Non è vero che Dio ha scelto i poveri del mondo, ma ricchi in fede, ad eredi del suo regno? »
Ma lo spettacolo che il Radstock stesso dava, di distacco da tutto, di abnegazione, di semplice eroismo, non era meno edificante. Ben molte delle sue interminabili « causeries » mistiche; ben molte delle sue varianti sull’eterno motivo dell'« amor divino e dell’eterno Cristo », e molte delle sue « fughe » appassionate di eloquenza, terminanti tutte in una fervida preghiera, saranno passate dalla mia memoria, prima che io dimentichi lo spettacolo di quella nuda e angusta cella da frate cappuccino, nella quale gli feci visita in quella che fu, in realtà, l'ultima sua malattia, nella sua dimora avita in Londra: prima che dimentichi la vecchia bibbia e il crocifisso, che con due sedie, un comodino e un semplicissimo letto, formavano tutto il suo mobilio, prima che alle mie orecchie cessino di risuonare quelli che per me furono ' i suoi ùltimi magici accenti, chiave di volta di tutta la vita di quell’uomo singolare — se non vogliamo dire di quel santo —: « Oh se voi sapeste che cosa dolce è l’amore di Dio! » y
Dinanzi alla figura di un uomo che vive ed opera grandi cose assorbito in una visione, si ha bene essere miopi e ricusare di credere ciò che non vediamo: il testimonio di ottant’anni di vita di un « confessore » ha la stessa potenza del testimonio di un « martire », di farci cioè curvare la fronte, e desiderare anche noi di vedere al di là...
JOSIAH ROYCE
La fama del prof. Jpsiah Roycc e di Benjamin Kidd aveva da più anni varcato i confini degli Stati Uniti d'America e delle isole britanniche; e solo il fragore della battaglia potè attenuare l’impressione prodotta nel continente europeo dalla loro recente scomparsa. Il Royce da 34 anni professore di filosofia all’università di Harvard; già noto da più anni ai cultori di filosofia anche italiani (sono tradotte in italiano le sue opere: Lo spirito della, filosofia moderna; La filosofia della fedeltà; Il mondo e V individuo)', sul punto di entrare in quella fase di popolarità che è la pròva cruciale di un sistema di filosofìa, si è ora ritirato dalla scena della quale era stato profondo osservatore durante sessant’anni di vita, ed è passato alla visione intuitiva delle supreme realtà, con tanto amore investigate nella vita dell’individuo e del fenòmeno.
Una sommaria idea della sua posizione « religiosa » può essere fornita dalle idee da lui espresse in un’intervista pubblicata dal Christian Commonwealth del
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4. w.i k w. m 11 ■ .....
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23 aprile 1913. Per lui, il nucleo del Cristianesimo non è la persona del suo fondatore, nè la dottrina a lui attribuita, bensì « lo spirito della sua diletta comunità »■ Il Cristianesimo — secondo il Royce — si è fin ora troppo appoggiato ad una cristologia, cioè ad una teoria sulla persona del suo Fondatore, che. ora, con le nostre idee profondamente diverse sul mondo, la sua stòria, la sua scienza, la sua metafisica, non possiamo più accettare. Semplificando la cristologia tradizionale, noi arricchiremo il nostro Cristianesimo. Ora è un tatto storico innegabile, che i « fedeli » si sono sentiti sempre uniti nella Comunità della tede, e sono stati salvati dalla fede nella comunità. Per gl'individui, uomini e donne, la sola questione è, quali siano i simboli, le pratiche, i « credi » più adatti a render loro possibile la partecipazione dello spirito della comunità. Compito della religione è di inventare ed applicare gli espedienti sociali, che conquistano gli uomini all'unità, indirizzandoli a far loro amare la comunità stessa. La pietra di paragone di ogni riforma e di ogni impresa pratica è questa: « Cooperano esse alla formazione di una comunità universale? » Con questo criterio, che è un criterio religioso, gli uomini dovrebbero giudicare la loro Chiesa, la loro causa, il loro lavoro giornaliero.
BENJAMIN KID1>
Se noi applicheremo questo criterio al Royce stesso e all'esame delia sua opera, troveremo che la sua vita è stata uno splendido esempio di quella religiosità, che egli descrisse in una serie di impressionanti conferenze ad Oxford, come la « religione della fedeltà»: di quella religiosità che s’identifica con lo spirito di servizio sociale per la creazione di una migliore umanità. In tale concetto egli s'incontrò col sociologo di fama mondiale, scomparso egli pure recentemente dalla scena terrena, con Benjamin Kidd. Il Kidd appartenne a quella categoria di filosofi, che dedicarono la loro vita allo studio e alla elucidazione dei principi che governano lo sviluppo della civiltà umana. Ripigliando la dottrina dell'evoluzione al punto in cui Spencer l'aveva lasciata, egli l’applicò con rigore scientifico alla società, mostrando come i fini e gl'interessi di questa trascendano di gran lunga quelli degli individui che la compongono, e come la civiltà moderna si differisca dall’antica appunto per le sue preoccupazioni e cure per la società avvenire. Nelle sue opere principali : Evoluzione Sociale, e Principi della Civiltà Occidentale, egli riconobbe a questo concetto dell’«efficacia progettata», che egli aggiunse ai principi di « sopravvivenza del più adatto » e di « selezione naturale », come correlativo ed estensivo del principio di evoluzione, un carattere essenzialmente religioso, anzi Cristiano, perchè nato dalla coscienza dell’importanza del futuro e dalla negazione della superiorità del presente. Egli così riabilitò, riponendola nel suo legittimo posto, cioè nel cuore dei fattori umani, la dottrina ostracizzata delle cause finali, ed esaltò la teoria della « lotta per resistenza » ad un significato cosmico e ad un valore religioso. Fu il Cristianesimo che, per Kidd, generò la coscienza moderna, in cui « il presente ed il finito han cominciato a cadere sotto il controllo del futuro
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e dell’infinito», assegnando còsi al progresso un compito razionale e una sanzione religiosa.
Se la posizione sociologica di Kidd appare così, e fu in realtà, antagonistica a quella deterministica di Marx, che fa della società avvenire non il « fine », ma « l’effetto » delle condizioni sociali presenti, non ne segue che egli avversasse le isti" tuzioni democratiche: chè anzi, egli riconobbe che le basi reali e le forze attive della democrazia, anziché materiali sono etiche e religiose.
Pronunziata la sua parola di filosofo, di sociologo, di anima religiosa, Benjamin Kidd si era da più anni ritirato, nella solitudine e nel silenzio, da cui lo trasse solo, al principio di quest’anno, 1916, il dovere di formulare una protesta che noi già pubblicammo: fu una protesta semplice e solenne, contro la proposta di rendere « obbligatorio » e « legale » quel dovere « morale » di servizio militare al cui appello la nazione aveva risposto con sì ammirabile slancio e unanimità... Poi Benjamin Kidd ritornò nel silenzio e nell’attesa...
♦ ♦ •
Fu alla fine del iv secolo che la Chiesa cristiana si decise a fare un’eccezione alla sua pratica costante, di non prestare il culto religioso se non a quei suoi membri defunti che avevano « testimoniato » col loro sangue la loro fedeltà alle dottrine professate (« martiri » = « testimoni »).
E la prima eccezione fu fatta in omaggio alla memoria del gran vescovo Martino di Tours, di colui che, al declinare di una vita di virtù e di operosità benefiche, aveva ritrovato la forza di formulare la preghiera: « Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non ricuso la fatica ».
E così i « confessori », cioè coloro che in tutta la loro vita avevano, reso testimonianza alla luce e all’amore, furono equiparati ai « martiri », e proposti come essi all’imitazione e alla venerazione dei fedeli.
In un momento storico, in cui la figura del « martire » è elevata a simbolo di grandezza morale suprema, e sembra assorbire ogni lode, monopolizzare ogni onore, lasciando nell’ombra ogni altra grandezza, bellezza, bontà, non sembri un anacronismo la pretesa di additare, a fianco ad essa, e di proporre al culto ed aìrimita- • zione, anche le figure di quelli, che passarono nell’infinito dopo aver « confessato » in una intiera vita di lavoro, di sacrifizi, di lotte non meno sanguinose perchè intime, gli stessi ideali, od altri non meno eccelsi.
• « Non è morire per un ideale che è sì difficile: bensì il vivere per esso » ha scritto Thackeray. Il seggio dei « confessori » è al lato di quello dei « martiri ».
Giovanni Pioli.
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L’ANNIVERSARIO DELLA MOBILITAZIONE(,)
Or fa un anno, giorno per giorno, verso le quattro del pomeriggio, una spada trapassò l’anima della Francia.
L’ordine di mobilitazione generale, telegrafato in tutti gli angoli del territorio, rivelò bruscamente alla nostra nazione ch'essa era. la vittima designata del più spaventevole tranello.
L’indomani mattina, dopo una notte piena di stelle e dei misteriosi rumori d’un popolo in marcia verso le stazioni ferroviarie, un’adunanza religiosa indimenticabile ci riuniva intorno al Cristo, in un’atmosfera solenne, in un silenzio saturo di angoscio, di coraggio e di fede. Giovani donne, dagli occhi rossi di pianto, ma calme, erano sedute (le vedo sempre) accanto a quei giovani padri di famiglia il cui sguardo grave scrutava l’abisso senza fondo del più prossimo avvenire. Prima della predica sopra il testo: « Io spero nell’Eterno che nasconde il suo volto alla casa di Giacobbe », l’assemblea si alzò spontaneamente, per intonare il cantico: « Mio Dio,, spero in te!'», e più d'una valorosa lacrima scorreva quando i fedeli sorsero in piedi, dopo il sermone, per il canto dei naufraghi dei Titanio: « Più presso a te, mio Dio, più presso a te! »
Gesù fermò la sua faccia nella direzione di Gerusalemme.
Luca, 9-51.
Nella serata della medesima domenica, quando la popolazione parigina spiava Eià, nel cielo chiaro, la sagoma improba-ile d’un nemico aereo, eravamo di nuovo raccolti in questo santuario, intorno alla sacra mensa, e parecchi richiamati si comunicavano, gli uni vicino agli altri.
...Poi, la parola fu al cannone. Il turbine del sanguinoso ciclone incominciò la sua ridda infernale attraverso l’Europa. Durante i primi nove mesi delle ostilità, si può valutare a trenta milioni il numero ’delle cartucce consumate, ogni giorno, dall'insieme degli eserciti combattenti: in altri termini, se tutti i colpi di fucile tirati sin’ora avessero abbattuto il loro uomo, dieci miliardi di esseri umani, cioè sette volte la popolazione del globo, sarebbero già scomparsi. La crisi attuale ha fatto sorgere diciassette milioni di soldati e sono in guerra i sette decimi degli Europei. Una frenesia di distruzione infierisce sul nostro continente; giorno e notte, senza requie, uomini e donne a miriadi fabbricano febbrilmente munizioni. Cessando di lavorare per la vita, le officine dei paesi cristiani producono per la morte; e al centro del « Padre Nostro », la preghiera comune dei belligeranti, non è
(•)'Discorso pronunciato a Parigi il 1* agosto 19x5
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più il pane quotidiano che incarna il desiderio supremo della civiltà occidentale; no, non è più il pane, è l’esplosivo.
Però, in quesvangoscioso' giorno anniversario, il nostro pensiero non deve fissarsi sopra considerazioni d’ordine materiale. Risaliamo dagli effetti alla causa; le ripercussioni ‘immense del dramma europeo non sono altro che i cerchi concentrici sviluppati intorno a una pietra Dettata nell’acqua. Non fermiamoci alle evastazioni e agli orrori fisici della guerra; meditiamo il fatto iniziale; comprenderemo meglio, allora, tutta la portata morale, sociale, filosofica, religiosa d’un conflitto senza' precedenti e che apre un’era nuova pel genere umano.
Ora, v’è un delitto incancellabile che domina l’intera situazione e che si drizzerà nella storia universale pei secoli dei secoli come un’incrollabile piramide d’infamia: l’ultimatum del colosso germanico al piccolo Belgio. Là domenica 2 agosto 1914, alle sette di sera, la più formidabile potenza militare che il mondo abbia mai conósciuta puntò bruscamente parecchi milioni di baionette verso il cuore d’un popolo pacifico al quale, solennemente, la Germania stessa aveva giurato protezione. Il moderno Cesare esigeva, sotto minaccia di morte, il libero passaggio per le sue legioni sopra un territorio di cui i trattati internazionali garantivano la neutralità perpetua. Tragico minuto! Che cosa risponderà il debole al forte? Ascoltate queste parole decisive, squillanti, che suonarono in quella notte fatale come la tromba dell’ultimo Giudizio: • Nessun interesse strategico giustifica la violazione del Diritto. Il Governo belga, accettando le proposte notificategli, sacrificherebbe l’onore della nazione c nello stesso tempo tradirebbe i suoi doveri verso l’Europa ».
Ecco, fratelli miei, ecco le vette di luce e di verità sulle quali la risposta del Belgio ha fissato l’anima della presente guerra. Da parte nostra, essa rappresenta un sussulto della coscienza contro il cinismo brutale della menzogna e della violenza. Certo, in quella mischia dei popoli, non ve n’è alcuno che possa pretendere a una funzione sopranaturale di giustiziere divino: ahimè! certi’ricordi della colonizzazione belga o francese al Congo c’interdirebbero un orgoglio fuor di posto. Sta il fatto però che — resistendo all'impero tedesco sul terreno del
rispetto ai trattati, della fedeltà alla parola giurata, e delle obbligazioni internazionali — le Potenze alleate salvano la civiltà, il progresso umano, le fondamenta laboriosamente stabilite della Città futura, e la sola possibile garanzia d’un regime di giustizia fraterna .sul nostro globo.
Anche se fossimo momentaneamente abbattuti, anche se dovessimo toccar terra colle due spalle sotto la massa del Golia che ci schiaccia, l’ideale sovrano, oppresso in noi, finirebbe col rizzarsi in tutta la sua altezza. Ah! certo, il Kaiser è stato male ispirato scegliendo una domenica per lanciar la sua sfida alla faccia immortale del Diritto; perchè la domenica è il giorno profetico e trionfale consacrato dalla cristianità al Cristo risuscitato, al Crocifisso glorificato, alle rivendicazioni eterne dello Spirito.
Dunque, nessuna stanchezza! Dopo trascorsi dodici lunghi mesi, ritempriamo la nostra energia alla fonte dei primi principi e degli assiomi assoluti; e se occorre proseguire questa guerra, adottiamo per motto la formula d’un semplice soldato che scriveva dal fronte: « Andiamo verso l’ignoto, o meglio: camminiamo in avanti !»
Senza dubbio, dure prove ci aspettano. Che importa? Ci spingeremo verso la meta, senza guardare indietro, sull’esempio dello stesso Gesù di cui è narrato che, in un’ora decisiva, e malgrado lugubri presentimenti, ei perseverò nei suoi progetti di redenzione e « fermò la sua faccia verso Gerusalemme».
Sono numerosi, nella storia, coloro che hanno camminato, con ostinazione, verso la celebre città: Davide, l’israelita, e Na-bucodonosor, il Babilonese, e Alessandro, il Greco, Pompeo e Tito, i Romani, e Omar, l’Arabo, e Goffredo di Buglione, il Francese, e Saladino, il Turco; ma tutti questi personaggi.erano uomini di guerra e, dirigendosi verso la città santa, brandivano la spada. Gesù invece avanza disarmato, senza debolezza e senza illusione, sotto il funebre vessillo d’una croce che s’erge, dinnanzi ai suoi occhi; e .senz'altra fanfara che queste parole fatidiche: « Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi gl'inviati di Dio! ».
Ahimè! erano lungi i giorni della sua infanzia quando, nell’età di dodici anni, aveva asceso per la prima volta la collina
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di Sion, unendo la sua fresca voce al coro solenne dei pellegrini di Galilea, che can-• tavano i « Cantici dei gradini » e salivano, in carovana, verso il Tempio. Adesso, l’ora della solitudine e della sofferenza è suonata; egli vi acconsente. Entrato in conflitto col peccato, ei presente l’imminenza d’un duello a morte... Sia! È il suo destino, o meglio la sua missione; egli è maturo pel sacrificio che salverà il mondo, maturo per l’immolazione volontaria e redentrice. Egli fermerà il suo volto nella direzione di Gerusalemme.
Qual esempio trascinante! Una trentina d’anni più tardi l’apostolo Paolo, come il suo Maestro, saliva verso la città santa, malgrado gli assassini che quivi lo aspettavano, dichiarandosi « legato dallo Spirito ». E ai suoi amici costernati che si sforzavano, piangendo, d’interrompere il suo viaggio, ei replicava con serenità: ■ Sono pronto a morire pel nome del Signor Gesù — a Gerusalemme ».
Fratelli, è venuta la nostra volta. Gerusalemme, è la sofferenza inevitabile, il dolore accettato per l’amore del Regno di Dio. A) termine d’un primo e interminabile anno di guerra, occorre cingere le nostre reni e penetrare, senza venir meno, nel secondo. Certo, le angoscie che ci spiano, e che ci raggiungeranno — attraverso le nostre rovine, attraverso i nostri soldati, — non sono aureolate dal nimbo sopranaturale di cui raggiava il martirio d’un S. Paolo e, sopratutto, l’agonia del Figlio di Dio. Nella guerra scatenata, i cui torrenti ci portan via, rimaniamo meno disinteressati dell'apostolo e non siamo senza peccato come il Salvatore. Ma noi abbiamo il diritto, nonostante tutto, di considerare i nostri tormenti come uh omaggio alla Giustizia oltraggiata, come una sanguinosa libazione sull’altare della Verità, come un atto d’obbedienza ai principi eterni dell’universo morale, come uno slancio di adorazione. Sì, nello scendere tutti insieme, senza viltà nè tracotanza, con un convincimento crescente e sereno, nel baratro spalancato d’un secondo anno di guerra europea, noi saliamo in realtà, noi ascendiamo, un calvario religioso, noi fermiamo il nostro volto verso Gerusalemme.
• • •
Del resto, quel nome mistico desta in noi un’altra idea dietro quella del dolore; esso evoca la visione d’un ineffabile av
venire. Ed è proprio questo il pensiero che deve, oggi stesso, imporsi innanzi tutto alla nostra meditazione.
Gerusalemme significa: Città di pace; venerabile designazione che già esisteva quando gli Ebrei conquistarono il paese di Canaan. Quindi, nel terrificante conflitto dell’ora presente, l’espressione «dirigere la propria faccia verso Gerusalemme » può diventare il simbolo delle nostre ambizioni fraterne, del nostro ideale pacifico. Affermando che lo scopo supremo del nostro gigantesco sforzo è Gerusalemme, proclamiamo il nostro fermo proposito di scavare, quaggiù, le fondamenta del Tempio della Pace mondiale.
Nell’attuale Gerusalemme, in Palestina, si distinguono, ohimè! quattro quartieri: il giudeo, il cristiano, il musulmano, l'armeno. Non verso una simile città noi volgiamo i nostri sguardi ed i nostri cuori. La vera Gerusalemme dell'avvenire è la città universalista esaltata dal profeta Isaia in questi magnifici termini: «In quel tempo, tutte le- nazioni affluiranno verso la montagna della casa dcl-l’Eterno. I popoli vi si recheranno in massa e diranno: Saliamo alla casa del Dio di Giacobbe, affinchè egli c’insegni le sue vie. Perchè da Sion partirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell'Eterno. Egli sarà il giudice delle nazioni, l'arbitrò d’un gran numero di popoli. Colle loro' sciabole formeranno vanghe e, colle loro lancie, falci; una nazione non trarrà più la spada contro un’altra e non s’imparerà più la guerra ».
Quali orizzonti! Qual posto dato a Gerusalemme al quadrivio delle strade dell’umanità futura. È un simile ideale che un altro veggente ebraico esprimeva in questa maestosa formola di poeta e di pensatore: « La mia casa, dice l’Eterno, sarà chiamata una casa di orazione per tutti i popoli ». Ecco una descrizione che, naturalmente, non si applica nè alla sinagoga giudea, e neppure alla cappella cristiana, perchè il profeta aveva in vista il Regno di Dio, in tutta la sua ampiezza e in tutto il suo splendore. D'altronde è questa la medesima visione che strappava al principe dei missionari Questo grido d’estasi: « Non v’è più nè giu-eo, nè pagano, nè schiavo, nè libero, nè uomo', nè donna: tutti siete una cosa sola in Gesù Cristo! ».
In questo passo d'importanza decisiva, lo Spirito del Messia appare come il principio unificatore, il principio di pacifica-
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zione tra gl’individui, le classi, le religioni, i popoli. E orientarsi verso Gerusalemme -sarà dunque, in ultima analisi, raffermare i propri passi nella direzione del Figliuol dell’uomo.
Ah! fratelli miei, come non discernere a questo punto l’insegnamento sovrano di questa guerra? Col tuono ininterrotto dei suoi mille e mille cannoni, essa ci urla la nostra follia e ci rugge il nostro dovere. Tutte le eco del nostro pianeta risuonano di questa verità primordiale, ma desolantemente misconosciuta: non una credenza voleva recare innanzi tutto l’Evangelo al mondo, ma una condotta: non un credo soltanto, ma un programma. E, d’or’in-nanzi, per esser cristiano, non basterà più dichiarare la propria fede in Gesi'x Cristo; bisognerà giurargli fedeltà. Piuttosto che un modo di pensare, il cristianesimo è un modo di vivere. Se rappresenta una promessa pel cielo, costituisce una legge per la terra; se benedice le anime, pretende reggere i corpi; se rigenera gl'individui, vuol trasfigurare la Società.
Questi sono gl'incrollabili assiomi del Sermone sul monte. Un Evangelo d’aria aperta, non un catechismo di sacrestia salverà il mondo moderno! Lungi dalle pozze sanguinose in cui questo incespica, il Redentore c’invita a seguirlo sugli altopiani delle Beatitudini. Che aspettiamo noi per volgerci verso di lui, per raffermare il nostro volto nella direzione del Principe della pace?
Guai alla Chiesa cristiana, se esitasse a preconizzare, arditamente, appassionatamente, il ritorno ai Cristo! Ricorrere ai mezzi termini, la perderebbe; perchè la Suerra attuale è il getto di zolfo e di fiamma andato dalle narici del vecchio mostro pagano che rialza il capo. Nella stessa Europa è risuonata la vociferazione piena d’odio di cui l’Asia fremeva or son due mila anni: « Non vogliamo che questi regni su di noi! Crocifiggi! Crocifiggi! »
Ascoltate quel pastore tedesco: « Non edifichiamo il nostro edificio governativo coi cedri del Libano, ma colle travi del •Campidoglio romano ». E d’altra parte, un professore inglese esalta la guerra con uno stile ditirambico; vi riconosce, con entusiasmo, un omaggio all’antico dio Oddino; •ei dichiara che bisogna scegliere tra la Corsica e la Galilea, cioè tra Napoleone il con-Suistatore e Gesù il vinto. Finalmente sono egl’intelletuali francesi che scrivevano, .anch’essi, prima della tormenta: « La guer
ra è la prima nobiltà dell’uomo, perchè è per essa ch’egli è uscito dall’animalità »... « La stessa aureola di un santo impallidisce accanto al limpido luccicar delle spade »... « Non esiste che una virtù vera, la forza ».
O diletti fratelli! sappiamo rientrare in noi stessi. Avvolgiamo le anime nostre nelle pieghe dell’Evangelo, per proteggerei contro i miasmi velenosi del paganesimo rinascente, e fermiamo il nostro volto verso Gerusalemme, la Città di pace; stringiamoci intorno al Messia, il Maestro • dolce e umil di cuore », il Re predestinato dell'avvenire.
Egli abolirà la guerra, siatene certi. Come mai dei cristiani ne dubiterebbero? Noi già affermiamo che lo Spirito redentore si mostrerà quaggiù più forte dell’idolatria, più forte del peccato; osiamo persino, nel nome del Risuscitato, sfidare là morte; ed indietreggeremmo dinnanzi alla prospettiva d'un'umanità pacifica! Questa prospettiva ci appare troppo bella .per esser vera! Lo splendore stesso d’una simile previsione ci abbaglia, e le ali spiegate della speranza-ci spaventano per l’ampiezza della loro apertura!... « Perchè temete voi, gente di poca fede? ».
In verità, è possibile lusingarsi di credere al Figliuol dell’uomo, quando gli si rifiuta il credito? Il credo che maggiormente piace al Liberatore non è quello recitato dai cleri prosternati: « È stato concepito di Spirito Santo, è nato dalla Vergine Maria ». No, nel credo che verrà fuori dalla fornace dove si elaborano le dottrine dell'avvenire, la cristianità, finalmente pentita e col cervello lucido, incastonerà come un diamante quest’affermazione risplendente: Gesù' Cristo possiede il potere d'organizzare, sulla terra, il Regno di Dio! Per raggiungere questo scopo, ei reclama solo la collaborazione costante, assennata e coraggiosa di tutti coloro che ripetono l’orazione domenicale e che. come il veg-Sente di Patmos, già salutano, nelle nebbie ’un avvenire dove s’alza il sole, la città apocalittica di diaspro e di cristallo: « Ed io vidi scendere dal cielo, dappresso a Dio, la città santa, la nuova Gerusalemme ».
Fratelli miei, beati sono coloro che fermano il loro volto verso quegli orizzonti infiniti! Certo, la presente generazione non contemplerà la realizzazione, sulla terra, di quelle profezie grandiose. Ma se dobbiamo morire, anche noi, come i testimoni e i pionieri della fede, « senza avére ottenuto le cose promesse », le avremo, per lo meno, scorte da lungi e glorificate. E dopo tutto.
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se la nuova Gerusalemme deve scender dai cielo — per adoperare l’imagine poetica dello scrittore sacro — possiamo concludere ch’essa rappresenta, oggi stesso, una grandezza invisibile, una regione spirituale, un regno dei primi principi e dei fini ultimi, quell’ineffabile impero dello Spirito, la cui atmosfera circondava l’Eroe di san Giovanni quando si esprimeva in questi termini: «L’ora viene in cui non adorerete il Padre, nè sul monte Garizim, nè a Geru-ralemmc, perchè i veri adoratori adore-sanno il Padre in ¡spirito ed in verità ».
Che importa, allora, se dobbiamo tutti esalare il nostro estremo sospiro quaggiù senza aver percorso le strade della città d’oro puro e di topazio, nè toccato colle nostre mani le dodici perle che le serviranno da porte? La vera città della Pace dimora, pel momento, impercettibile ai nostri sensi; essa è nascosta nell’Al di là ed è verso di essa, in ultima analisi, che gli agonizzanti fermano l’anima loro quando spirano nella comunione del « primogenito d’infra i morti », il nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo. È allora, fratelli miei, è nella valle dell’ombra fatale, è nella notte
dei loro occhi oscurati, eh’essi odono l’inno apostolico d’una solenne e serena vittoria: «Vi siete avvicinati alla montagna di Sion e alla città del Dio vivente, alle miriadi che formano il coro degli angioli, alla Chiesa dei nostri maggiori iscritti nei cieli, agli spiriti dei giusti che hanno raggiunto la perfezione, al giudice che è il Dio di tutti, a Gesù, mediatore d’un Patto nuovo e al sangue di propiziazione che parla meglio di quello di Abele ».
Celeste armonia, musica delle sfere, cantata misteriosa che ci perviene attraverso il velo e che destava, nell’anima d’un Pascal, questa eco melanconica e sublime: • I fiumi di Babilonia scorrono, e cadono e trascinano. O santa Sion in cui tutto è stabile e in cui nulla cade! »
...Affermiamo i nostri coraggi- nella certezza gloriosa della vita eterna. Non lasciamo incespicare i nostri piedi nei veli funebri che coprono il suolo. Neghiamo, neghiamo la morte; e, rifugiati sulla Rocca dei secoli, tendiamo i nostri sguardi bagnati di lacrime verso la Gerusalemme ch’è^in Alto!
WlLFREDO MONOD.
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RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
XIV.
L'AMORALISMO POLITICO
Su questo argomento E. P. Lamanna ha tenuto all'inizio dei corrente anno scolastico la sua prolusione a un corso di filosofia morale nel R. istituto di studi superiori in Firenze. E buona ci pare del suo studio, che leggiamo nella Cultura filosofica, 1917, I, specialmente la parte critica. Il presentarsi, egli nota, del problema dei rapporti fra morale e politica, quale consapevolezza dell’opposizione e, insieme, esigenza della conciliazione dei due termini, presuppone che, così nella diretta esperienza della vita come nella riflessione teoretica, moralità e politica si sieno affermate quali forme distinte ed egualmente legittime dell’attività spirituale umana. E questo problema è di antica data; il segretario fiorentino, nel Principe e nei Discorsi e in Scritti minori, lo ha posto con insuperabile chiarezza dettando, con un altissimo fine civile c con fredda logica di osservatore, i precetti di una politica realistica, come oggi si usa dire, clic è rimasta come esempio perspicuo di una teoria di amoralismo politico.
Il L. incomincia con due distinzioni fondamentali. La prima è fra l’amoralismo logico e l’amoralismo pratico. Se l’oggetto materiale delle due discipline, etica e 1 politica, è io stesso, le azioni umane individuali e sociali, l’oggetto formale è di
verso; mirando la seconda alla costituzione ed alla conservazione delle società civili ed all'esercizio del potere; e giudicando da questo fine i mezzi adatti. Come l’economia o l’estetica, 'la politica contempla l’attuarsi dello spirito secondo una data forma ideale, astraendo da ciò che non è questa o non cade sotto di essa; e, in quanto si voglia considerarla come ¥recettistica, essa è puramente ipotetica, occa poi all’uomo pratico proporsi un fine politico o economico o artistico, e via dicendo, che risponda anche alle esigenze etiche dello spirito e scegliere per raggiungerlo i mezzi che la morale non vieta.
La seconda distinzione non è meno importante. • L’amoralismo politico può idealmente avere, ed ha soricamente avuto, la sua origine in un momento negativo di reazione ad ogni forma di radicale trascendentalismo tanto teologico quanto razionalistico: reazione provocata o dal carattere utopistico e fantastico inerente alle costruzioni di quegli Stati ideali che venivano proposti come principio di valutazione degli Stati reali e delia attività che presiede alla formazione ed allo sviluppo di essi; o dagli elementi di svalutazione della politica come tale, contenuti in quegli ideali trascendenti, come è, ad esempio, nelle concezioni teologiche medievali dello Stato frutto del peccato; ovvero daU’asservimento dell’attività politica ad un’ dato ideale (religioso od etico) il quale vien poi giudicato insufficiente o
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falso. Ciò che dunque tale reazione implica propriamente è il richiamo dai regni della fantasia alla realtà entro i limiti della quale l’attività politica deve necessariamente contenersi, è l’esigenza che si scenda dal cielo in terra è che quivi si riconosca alla vita dello Stato il valore che effettivamente ha ».
(In questo senso può essere spiegata la campagna di B. Croce contro la mentalità che egli chiama razionalistica o massonica, da secolo xvm, di chi concepisce la guerra attuale come guerra per gli ideali astratti di giustizia, libertà, umanità: astratti, cioè trascendenti la storia e il conflitto di potenze e pei la potenza; mentre, e ciò. va sostenuto' contro il Croce, quegli ideali sono legittimamente e praticamente — cioè con risultato di forza e di potenza — invocati in quanto esprimono un momento storico concrèto, perfettamente definito, della lotta per la conquista del diritto, sotto la pressione delle necessità etiche ed universalistiche dello spirito).
Il L. passa poi a criticare la teoria dell’amoralismo pratico, il quale vuole che l’azione degli Stati, e degli uomini politici nei quali si concreta la volontà di quelli, non sia sottoposta alla legge morale. La tesi di questi la quale, logicamente perseguita^ concluderebbe all'annullamento della morale, che non esiste più dove non si ammetta la universale validità delle sue le Ai supreme, è evidentemente assurda. Eppure il pregiudizio che la morale dell’uomo politico non possa esser la stessa che dell'asceta o anche, del comune uomo onesto è talmente diffuso e radicato che bisogna spiegarlo. E il L. cerca di spiegarlo distinguendo un'etica assoluta o pura da un’etica relativa o applicata; e mostrando che sempre l'ideale morale, nella concreta e relativa e contingente attuazione sua, per tener conto delle condizioni di fatto e della realtà umana, si attenua in norme di condotta relativamente buona. Tentativo di spiegazione che ha molto di vero, ma al quale non possiamo, senz’altro, acquietarci; e che può parere pericoloso al moralista, insufficiente al politico; il quale, come si dice dichiarasse Cavour, che pure non può esser certo addotto ad esempio dell'uomo politico immorale, si permette per l’interesse pubblico cose per le quali, se le facesse nel suo interesse privato, sarebbe dichiarato briccone.
Ci è impossibile riassumere il L.; più an
cora porre per nostro conto la questione o avanzar tentativi di scioglimento • di essa. Abbiamo il senso che essa sia immatura, cioè, generalmente, mal posta. I.a morale è unica-pel privato e per l'uomo Colitico; ma a questo si presentano pro-lenii concreti diversi da quelli che si offrono al privato, e le norme della morale corrente sono foggiate su di una implicita casistica dell'uomo privato. Quello che, a parer nostro, conviene tener fermo è' la negazione recisa di fini politici e di potenza i quali non debbano insieme essere fini etici, per l’uomo politico e per lo Stato. La potenza non è un fine; E la politica deve chiedere all’etica i suoi fini.
RELIGIONE E NAZIONALISMO
Nel primo' numero della Nuova Rivista Storica, in uno studio di Georges Platon su II proletariato intellettuale tedesco nel secolo XVI e la riforma protestante, troviamo citate, dalla Geschichte der deutschen L.iteratur seit Lessing's Tod, 5a ediz., I, II, pag. 497, un giudizio di un teologo tedesco del principio del secolo scorso, il Daub, sulla religione in Germania sul quale vai la pena di trattenersi.
Sostiene il Daub che « la religione non è veramente oggettiva se non in guanto essa rappresenta nella sua totalità il bene Generale e più elevato di un popolo, iascun popolo ha la sua propria religione, perchè questa religione fa parte della sua essenza. Allorquando una stessa religione è comune a più popoli, ciascuno di essi non può possederla, che nella forma che conviene al suo carattere particolare. Sono concetti vuoti quelli che permettono di parlare di una religione comune, che potrebbe essere, nella stessa forma, la religione di tutti i popoli, o, viceversa, di più religioni rivelate da Dio, e tutte diverse quanto al loro contenuto. Se la forma e l’aspetto della religione non variano indefinitamente, essa non può essere veramente oggettiva..., e sé, quanto alla sua essenza, non è una sola e medesima religione, essa non può essere la Religione ». Di fatti, commenta riassumendo lo storico, ciascun popolo non si fa scrupolo di modificare e adattare ai suoi bisogni e al suo carattere quella religione che gli è posta dal di fuori. Solo, per quello che concerne la forma determinata della religione nazionale, il Daub la considera come definitiva e dal diritto del popolo
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TRA LIBRI E RIVISTE
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di fabbricarsi la sua propria religione egli deduce per l’individuo l’obbligo di ordinare la sua vita secondò i principii di questa religione. « L’eterodossia, cioè a dire rinfedeltà deH'individuo alla religione del suo popolo, è nello stesso tempo un oltraggio al patriottismo ».
Vediamo quale è l’ortodossia del popolo tedesco. • Presso gli altri popoli religione dominante è il Protestantismo o il Cattolicismo, cioè a dire il predominio della dottrina o del culto. In Germania, invece, le due forme della religione coesistono, e la vera fede del popolo tedesco consiste appunto in questo: che, per ciascun fedele, le due religioni riposano su di un piede di perfetta eguaglianza. Ortodosso è in Germania colui che considera come cosa necessaria la separazione delle due Chiese e la loro perfetta eguaglianza. Eterodosso, cioè contraddiente alla fede <lel suo po-Eolo, è in egual misura chi tende a sta-ilire^la preponderanza dell’una delle due religioni sull’altra, come chi vuoi fonderle in una sola. La Germania non ha che una sola Chiesa sotto le due forme del Catto-licismo e del Protestantismo, e questa Chiesa esercita, sotto ciascuna delle sue forme, gli identici’diritti. Mentre, presso gli altri popoli, l’una o l’altra forma del Cristianesimo si è svolta, in modo esclusivo, in una sola direzione, la Germania ha saputo orientarsi intorno a due poli diversi. Quello che forma la sua particolare natura religiosa è lo sviluppo, ad essa speciale, di queste opposizioni religiose. Eretico è colui che vuol modificare la sua propria Chiesa sul modello dell’altra o colui che vuole abbandonarla; eretico è colui che attacca l’altra Chiesa, la quale è essa stessa, a pari titolo, una istituzione nazionale ».
Conoscevamo questa dottrina. Il catto* licismo degli Erzeberger e 'degli Spahn è innanzi tutto una religione nazionale, germanica, che respinge a un piano inferiore e vuota di ogni diritto il cattolicismo belga o francese. Il bachemiSmo, la celebre tendenza di Colonia, della quale tanfo si discusse prima della guerra, era appunto l’alleanza delle due ortodossie, la cattolica c la protestante, nell’imperialismo pangermanista. Le due religioni divengono una cosa sola nella supeiiore religione della Kullur.
Diremo anche che questa concezione non è esclusivamente tedesca. E propria di ogni nazionalismo. La Chiesa ortodossa
russa era strumento crudele di russificazione. I nazionalisti francesi consideravano l’abbandono del cattolicismo come un oltraggio al patriottismo. 11 nazionalismo italiano dichiarò espressamente, facendo un passo innanzi sul liberalismo, ormai vuotatosi di ogni contenuto ideale, la sua alleanza politica con i cattolici.
Quello che sorprende è vedere tali idee nettamente formulate, da un teologo tedesco, più che un secolo fa. Veramente la Germania imperiale, con tutte le cose che ci hanno commosso, non è una improvvisazione. Anche il passaggio dall’imperativo di Kant alla volontà di potenza era stato preparato con cura dai filosofi più in voga; dal volontarismo di Paulsen e dall’attivismo di Eucken. Persino la social-democrazia non avrebbe potuto ingannare gli spiriti attenti.
Diremo altro. Nelle idee del Daub c’è una grande parte di verità: Ogni popolo è religioso a suo modo, c ogni religione, anche quelle che ci appariscono, giudicando da idee astratte e vuote, come uni--versali, diviene una cosa a sè rivissuta nell’anima e nella coscienza di ciascun popolo. Ammettiamo facilmente questo. Ma pensavamo che nella storia della religione questo adattamento fosse sempre un passaggio dalla spontaneità creatrice alla concretezza del fatto e della storia morta, dalla freschezza dei motivi originari all’abitudine opprimente, dall’iniziativa personale dell’eroe religioso alla pesantezza della massa; e che religioso davvero fosse il colpo d’ala di chi si risolleva alla universalità, cioè all’unità. Il resto diviene facilmente, anche conservando l’aspetto religioso, politica.
LA RIFORMA RELIGIOSA
Nella Revue de Théologie et de Philosophie, novèmbre-dicembre 1916, troviamo frammenti di una corrispondenza inedita fra Hyacinthe Loyson ed i. suo grande amico protestante Edmond de Prbssensé, data ora in parte alla luce da Henri Cordey (Edmond de Pressensé et son tempi. 1824-1891. Lausanne, Bridel). Essi riguardano i rapporti fra il protestantesimo francese e il tentativo di riforma cattolica al quale il Loyson dedicò per molti anni la sua attività.
In data 29 agosto 1877 il Pr. si duole con L. che in un rapporto pubblicato in inglese sull’opera di^quest’ultimp si di(281
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cesse che i protestanti non potevano nulla per il rinnovamento religioso della Francia e solo il L. potevacssere inteso. Il giudizio gli pareva aspro ed ingiusto. Il L. rispondeva, il 13 settembre seguente, dando spiegazioni.
« Quanto a noi, non solamente abbiamo mantenuto, pur mancando di ogni serio appoggio e col solo slancio delle anime, la nostra chiesa di rue d’Arras. Sarebbe ingiusto giudicarci da questo solo risultato. Noi abbiamo sventolato la bandiera della riforma religiosa in quasi tutta la Francia, abbiamo fatto penetrare i suoi principii in un buon numero di anime... Da ogni parte ci si dice: Poiché voi restate cattolici, siamo con voi, perchè le riforme che chiedete sono buone e giuste.
« Penso che bisogna dare a questo fermento il tempo di sollevare la massa, attendendo gli avvenimenti che si preparano. L'importante non è di fare un gruppo più o meno considerevole di cattolici organizzati all’infuori di Roma, ma di far penetrare nei quadri stessi di Roma lo spinto che li farà allargarsi e spezzarsi. Voi mi parlate di separazione della Chiesa dallo Stato; penso che andiamo verso essa, in Francia, benché assai lentamente; ma di questa separazione io non ho mai fatto un principio. Per me, al contrario, l’ideale sarebbe in una sola Chiesa, abbastanza larga e solida per raccogliere tutti i credenti di una stessa nazione e per fare con lo Stato una intima e feconda alleanza, che non rischiasse mai di diventare un giogo per le coscieuze. Ammiro gli sforzi tentati da cinquantanni da una parte delle vostre Chiese, per riconquistare la libertà che manca al protestantesimo ufficiale. Ma il nostro rapporto non riguardava che ¡ cattolici... ».
E il L. concludeva: « Ho degli amici preziosi nel protestantesimo, e voi fra i primi... Ma il protestantesimo — parlo sempre di quello francese — non mi ha compreso, non mi ha aiutato, o piuttosto non ha compreso se stesso nella grandezza della sua vocazione e trasformazione contemporanea ».
Questa incomprensione si spiega. E va per molta parte attribuita alle generose illusioni del L., la cui riforma cattolica o giungeva in ritardo di secoli o non poteva essere che l'elaborazione, in parte inconscia, di un assai più radicale rinnovamento.
E questo gli rispondeva il Pr.» protestante, come egli si definiva, malcontento
che associava la fedeltà alla sua Chiesa, con l'impulso verso ulteriori evoluzioni, nel senso dei principii fondamentali del protestantesimo, « Senza dubbio io penso come voi che noi non riusciremo a ,pro-testantizzare la Francia, nè voi da parte vostra riuscirete a ricondurla a un tipo di vecchio cattolicismo. Ma, attendendo, le nostre Chiese contribuiscono a salvare un gran numero di anime c sono un fermento, nel seno del paese, che contribuirà per la sua parte a preparare l'evoluzione religiosa della quale l'avvenire ha il segreto e che voi stesso, dopo tutto, non preparate in altro modo. Io non ho cessato di credere che per strappare la Francia al romanesinio noi, figli della Riforma del secolo xvi, non bastiamo; e che è necessario che un movimento riformatore originale si produca nel seno del cattolicismo; ma esso non sarà fecondo che se si riattaccherà ai principii immortali della nostra riforma, districandoli dalle imperfezioni e dalle inconseguenze ».
In sostanza, mentre il !.. pensava a un ritorno alla Chiesa episcopale del iv secolo, il Pr. pensava a un ritorno alla Chiesa del 1 secolo. Due anni appresso, il 29 agosto 1889, egli insisteva: «Sin qui nè noi nè voi siamo ancora riusciti a produrre un movimento significativo di riforma nel nostro paese... Voi non potete misconoscere che il cattolicismo francese, nel suo insieme, ha miserabilmente risposto al Írande e nobile appello che voi gli avete atto con il grande atto di indipendenza compiuto; il quale, ne sono certo, avrà il suo effetto ulteriore, ma, all’ora attuale, non trova eco sonora nella coscienza dei vostri correligionari. Riconosciamo gli uni e gli altri che l'ora di una vasta rinnovazione religiosa per il nostro paese non è ancora suonata e prepariamola, ciascuno al suo posto, senza diminuirci reciprocamente ».
Da allora trent’anni sono passati, altri movimenti si sono prodotti, nel seno del cattolicismo, e la riforma religiosa è pur sempre un segreto dell'avvenire. Il che significa che troppo passato c’è ancora nelle Chiese di oggi e nel l’appoggiarsi comunque ai quadri delle Chiese .per la grande rinnovazione. Prima che il fermento dello spirito lieviti la massa, bisogna • che la massa » omogenea e compatta si formi, con una lunga e dolorosa triturazione o manipolazione dei vecchi elementi discordi e difformi. La stoiia, grande impastatrice, lavora.
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LE ORIGINI DEL BERGSONISMO
Un breve ma udite contributo alla intelligenza della filosofia di Bergson porta il P. Semkria in una sua nota della Rivista di filosofìa neo-scol., «1917, I. Egli cerca solo di spiegare la genesi del bergsonismo. Il Cartesio, dice, inaugurò una metafìsica matematica o quantitativa o fisica. La tendenza cartesiana fu di concepire' la realtà universa in funzione di simboli matematici, i simboli specifici della quantità. La logica interiore del sistema è verso una spiegazione meccanica universale; donde il tentativo, così diffuso nella filosofia’ che ne deriva, di ridurre l’energia della vita alla fisico-chimica e la chimica alla meccanica.
Il Boutroux confutò questa schemato-logia nel suo primo libro: De la contingence des lois de la nature. Egli stabiliva che noi possiamo» bensì tradurre in linguaggio matematico tutti i fenomeni, ma che esso non esprime adeguatamente nessuno dei gruppi ascendenti. La matematica può darmi l’equivalente termico del lavoro meccanico, non mi dà l’equivalente biologico e psichico di esso. Questi rappresentano una plusvalenza. Perciò è possibile la risoluzione regressiva, non la sintesi progressiva; posso scomporre il filo d’erba, non ricomporlo nella sua forma viva di filo d’erba cogli elementi chimici nei quali sono riuscito a risolverlo. Era la negazione del cartesianismo, della metafisica fisica o scientifica, ravviamento a Bergson; non era ancora Bergson.
Ma l’uno e l’altro obbedivano alla forza segreta e possente di un nuovo indirizzo scientifico. Il secolo xix in Francia fu sempre più il secolo della biologia, lo studio della vita. Il Pasteur aveva messo in luce la plusvalenza della biologia di fronte alla pura fisico-chimica. G. Cuvier e Cl. Bernard ed altri hanno studiato nella paleontologia e nella biologia le forme successive della vita.’ L’ipotesi della evoluzione, il passare della vita, attraverso i vetusti secoli, di forma in forma, fu, con Darwin, la mentalità biologica europea della seconda metà del secolo xix. E l'ipotesi della evoluzione (specie nelle innovazioni recenti da essa subite) è già lo schema bergsoniano dell’/Mn vita/ come vero fondo della realtà, è già la èvolution créatrice quando, con Boutroux, si sia scartata l’equivalenza ontologica delle forme superiori alle inferiori. Insomma la geologia.
nella sua accezione più ampia, ci darebbe il fatto della evoluzione vitale (o schema, se piace meglio) e la critica del Boutroux obbliga lo spirito a concepire la plusvalenza delle forme posteriori e superiori, cioè ad aggiungere l’epiteto di creatrice.
Dal Bernard, e dalla sua concezione dell’ intimo impulso del processo scientifico di teoria in teoria, di ipotesi in ipotesi, sotto lo stimolo assiduo della realtà sperimentata e liberamente interpretata, con visione sempre fresca e nuova, verrebbe anche al Bergson l’idea della intuizione. I propulsori della scienza sono gli intuitivi, checché si dica e si pensi in contrario dai pedanti. Ciò non significa che la intuizione si affermi, diremo’ così, nel vuoto, che sia sinonimo di rivelazione dovuta a un deus ex machina. Il genio è fatto di sapienza e di essa si arma quando vuol giungere a risultati, ma-genio, ma genialità vuol essere e l’espressione della genialità è l’intuizione.
Tre elementi gnoseologici bergsoniani escono dal lavoro scienti fico-biologico che lo precede: a) diffidenza delle abitudini intellettuali; b) concezione della verità in marcia; c) stima e valutazione dell’intuizione. Tali elementi si possono riscontrare in quel meraviglioso biologo filosofo che fu Cl. Bernard, dal quale il Semeria cita, « chiudendo, una- bellissima pagina.
Intimamente legata a questi motivi della filosofia bergsoniana è la concezione, che il B. ci dà della durata', e in questa va cercata la chiave di volta e l’originalità del suo sistema, il successo del quale può poi spiegarsi in parte per essersi esso innestato sull'idea, già così popolare, di evoluzione, arricchendola.
FICHTE PEDAGOGISTA
I vari movimenti di idee che, specie nella seconda metà de! secolo xvnx, prepararono l’avvento della società borghese, determinarono anche un rivolgimento profondo nella teoria e nella pratica dell’educazione. A Rousseau segue Pestalozzi, dei cui nuovi metodi pedagogici Fichte si fa propugnatore e propagandista, nei suoi celebri discorsi alla nazione tedesca. A questo aspetto del pensiero e dell’attività di F. dedica uno studio Luigi Visconti (La dottrina educativa di G. A. F. e i Disc. alla n. t. Firenze, Seeber, 1916). Il V. si sbriga prima di quella parte dei discorsi, dal IV al VII, che rispondono all'occasionale scopo pa-
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triottico del filosofo e contengono i suoi noti paradossi sul carattere antilatino del germanesimo, sulla lingua tedesca sola viva e sulla missione del popolo tedesco: ed esamina poi, negli altri, con Ìualche riferimento a taluni lavori del . toccanti la teoria dell’educazione, l’esposizione fatta dal F. della dottrina e della pratica educativa pcstalozziana e quello che il F. vi aggiunge di suo, approvando o dissentendo dal pedagogo zurighese. Così il Visconti riassume il contributo di F. allo sviluppo delle dottrine pedagogiche (pp. 102-103): « Propugnando il principio della spontaneità e dell’auto-nomia dell'educando, F. insegna al maestro di considerar sempre questo come un essere che... porta in sé- un valore inestimabile; che il fanciullo, deve essere un collaboratore assiduo deH’educatore e... nessuna conoscenza deve èsser comunicata bella e fatta. Propugnando il concetto dell'esercizio dell’attività, F. consiglia al maestro di abbandonare i vecchi metodi e di non impedire il libero esercizio e lo sviluppo spontaneo del fanciullo, incoraggiandone l’iniziativa e non soffocandone le energie. Propugnando Ja necessità di caratteri forti eri energici, F. insegna come si debba reagire contro l'eudemonismo fiacco e sfibrante che dà l’illusione della libertà mentre si è schiavi delle forze esteriori. Propugnando i vari principi dell’aspetto sociale e storico del fatto educativo, F. precorreva... i tempi. Collegando la sua concezione della vita morale con la vita religiosa, egli inculca la necessità di una visione piu alta e comprensiva del problema dell’esistenza ed insegna come la coscienza’intima della nostra libertà, il bisogno di superare le influenze di ordine inferiore e del mondo esterno includono l’idea di un ordinamento morale del mondo ed il dovere di uno sforzo costante e dell’ascensione faticosa verso un ideale di libertà compiuta. I maestri di tutti i paesi si sentiranno ripetere da questo idealista che « non può lavorare efficacemente per la elevazione morale altrui chi non è per sè stesso un uomo buono » e die per educare occorre educarsi ».
Un vizio fondamentale di metodo guasta lo studio, pur interessante nei dettagli, del V. Per procedere logicamente, questi avrebbe dovuto fissare le linee maestre e caratteristiche della filosofia fichtiana, mostrare di esse l’efficacia novatrice ne) campo della pedagogia, illustrare le con
seguenze pedagogiche che il F. stesso ne dedusse, mostrare i rapporti fra queste dottrine pedagogiche del F. e quelle che altri, ai suoi tempi, trassero da indirizzi di pensiero e da concezioni filosofiche in parte concorrenti ed in parte diverse. Invece il V. salta tutto questo lavoro preliminare, per limitarsi ai contatti esteriori fra F. e Pestalozzi ed esporci alcune idee del primo, distaccate dalla concezione centrale che le animò e le spiega. A questa anzi egli accenna come à uno scandalo della dottrina pedagogica di lui; e à pag. 94 scrive: « Abbiamo veduto come egli, ispirandosi al Pestalozzi e specialmente al Rousseau... accentuando il principio della libera attività individuale, poneva una base fondamentale per un efficace sistema di educazione. Ma la sua speciale concezione religiosa, che del resto special-mente negli ultimi tempi avea colorita la sua fondamentale idea filosofica, gli fece accentuare il pensiero prettamente tedesco dell’immanenza del divino in noi... Fortunatamente il principio della libera attività spirituale può essere accolto anche da chi non accetta la teoria dell’idea-lismo immanentista... • Dimostrare que-st’ultima affermazione doveva essere opera del V., se egli si proponeva di fare un lavoro non soltanto espositivo, ma anche di critica. Il rovesciamento, dal medioevo all’età moderna, del principio fondamentale dell'educazione, che si propone di fare non più dei sudditi alle due potestà, ma dei liberi, è il fatto spirituale che investe di sè la psicologia moderna, pur nelle così varie e spesso confuse e contrari -dicentisi sue manifestazioni; fondare il concetto di questa libertà, norma suprema deU’educazione, è il compito del filosofo e del pedagogista che ripensi filosoficamente la sua dottrina; analizzarne l'a fondazione fatta da altri è il compito .del critico.
B. CROCE, I NEO-SCOLASTICI E LA GUERRA
Nel n. I, 1917. della Rivista di Filosofia neo-scolastica Fr. Olgiati si occupa dell'atteggiamento preso da B. Croce, nella sua Critica, dinanzi alla guerra, e ne fa, servendosi largamente delie parole stesse del C., una esposizione che non potrebbe essere più fedele e sicura. Segue poi una critica del critico; c questa, invece, non avrebbe potuto essere più breve e più timida. L’O. stesso ne ha coscienza; e
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parla, iniziando questa seconda parte, di qualche osservazione, premessa a qualche critica. Questa reverenza di uno scolastico verso l'idealista hegeliano ci sorprende: molto più che non doveva affatto esser difficile, per il primo, cogliere e svelare, in questo atteggiamento del Croce, l'errore radicale, dal punto di vista cristiano; a parte ora la questione stretta-mente filosofica. Infatti, da quel punto di vista, non solo il diritto de) Croce è amorale; ma amorale è anche la sua filosofia morale.
Quanto al primo, abbiamo la stessa professione esplicita del C. Secondo lui, distinta la volontà in volontà del particolare e volontà dell’universale, in economica ed etica, il diritto è ridotto alla prima; e la distinzione non c puramente logica o formale, nel qual caso sarebbe pienamente legittima, ma è pratica; cioè di motivi e di atti veramente distinti, nella attività dello spirito. Il diritto è quindi volontà economica, dell'utile, affermazione di potenza; vale non come esigenza dell’universale, ma come superiorità, diremmo quantitativa, di forza. Lo Stato, Poi, non ha, come l’individuo, per sè, una volontà accanto all’altra c le due costrette a far uno; perchè esso è semplicemente creazione di diritto, espressione della volontà economica dei consociati; la 1 considerazione etica rientra nei suoi calcoli per via indiretta e quasi surrettiziamente, m quanto anche il Principe e lo Stato hanno da fare con uomini vivi, dei quali bisogna aver riguardo agli scrupoli morali.
Diritto è quindi potenza, sempre. I/O. fa il caso di due » farabutti » che lo aggrediscono per via. inerme, e lo finiscono. 11 suo diritto è impotente. Sarebbe esso, egli domanda, chiacchiera vile? Sì, immagino gli risponderebbe subito il C.; perchè, aggredito, tu non tenti di cominciare un discorso sul tuo diritto, ma di difenderti, come puoi. Non c’è dunque un diritto dei deboli? Croce ha ragione quando deride quelli i quali pretendono che il diritto valga .quasi di per sè, per una sua taumaturgica potenza. Bisogna volerlo. E volerlo proprio nelle condizioni date; ad esempio, in contrasto con la forza di uno che te lo insidia e vuol rapirtelo, e contro il quale devi farti pronto a difenderlo.
In pura politica è così. Se non fai del tuo diritto la tua volontà pratica attuosa ti metti fuori della politica; e poiché non puoi metterti anche fuori del mondo ti condanni alla schiavitù.
Sta bene, ma la questione è un’altra. I/O. avrebbe dovuto dire al C.: d’accordo; io vi ammetto e vi abbandono questo diritto che è volontà dell’utile, espressione di potenza. Esso appartiene alla sfera della politica. Ma nego che nella pratica della postuma; perchè, per la coscienza che hic et nunc agisce, essa si chiude nei confini del reale medesimo; postulante bensì una pienezza di contenuto che l’atto insegue sempre e che sempre sfugge all’atto, ma di una postulazione che, hic et nunc, si vita, la quale non è mai solo politica, non ci sia un altro diritto; il diritto che ’ io, debole o forte, armato o disarmato, ho a che voi facciate il vostro dovere, in quanto mi riguarda. Quando io sono dinanzi a voi non un rivale o un competitore, ma l’umanità, quello che voi dovete aU'universale, lo dovete a me, universale concreto per voi, in questo momento. La mia forza è la forza pura dell’universale, dello Spirito, dell’Assoluto. La filosofìa di C. non ha un nome per questo diritto.
Non ha un nome, perchè non ha la cosa, avrebbe anche dovuto riassumere 1’0.; perchè cioè anche la morale di C. è, in sostanza, amorale, per un cristiano. I/O. divaga, su questo punto, senza cogliere il nodo della questione. Egli osserva: « Il Vangelo è la completa negazione dell’ideale astratto ». Meglio avrebbe detto: « della astrattezza dell’ideale ■; ma non avrebbe ancora detto tutto. Poiché, che l’ideale etico di C. non sia astratto, la filosofia di lui, basata sul concetto dell'universale concreto, lo assume. Ma questa universalità concreta il C. vede solo attraverso la dialettica e spiega dialetticamente; l'universale in atto è la storia, lo Spirito che si fa; e nella storia ciascun momento spiega pienamente sè stesso come momento del divenire dello Spirito. L’universalità che il C. pone come ideale della coscienza molale non è un ideale, se non per una considerazione riflessa e postuma; perchè per la coscienza che hic et nunc agisce, essa si chiude nei confini del reale medesimo; postulante bensì una pienezza di contenuto che l’atto insegue sempre e che sempre sfugge all’atto, ma di una postulazione che, hic et nunc, si esaurisce tutta nell’atto suo, che è realizzazione.
. Il cristianesimo non nega, come 1’0. dice, questo ideale astratto, se per astratto si intenda dialetticamente postulato e posto.
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e non già concepito o vagheggiato astrattamente, fuori delle condizioni concrete del suo realizzarsi; ma anzi lo esige e lo presuppone, aggiungendo però di suo un’altra cosa fondamentale, che lo fa esseie religione, non filosofìa: il piecetto, cioè, che queiruniversale il quale, dal punto di vista dialettico, pone se stesso, dal punto di vista morale sia posto da noi, come esigenza di universalità pratica, inorale, cioè di bontà e di amore. Questa ci si pone come un dover essere: come catarsi dall'individuale, come negazione dell’individuale, come condanna e dissoluzione, senza residuo, della volontà economica.
Per il cristianesimo è peccato volere il particolare, l'utile, perchè è sottrarsi alla legge della bontà, dell’amore, della rinunzia che da questo discende, sottrarsi all’unico e sempre valido precetto dell’amore. Il diritto di B. Croce, per un cristiano, è per sè stesso la colpa: e dalla colpa al delitto, i tedeschi lo mostrano, è breve il passo.
La Rivista di filosofia neo-scolastica crede di aver identificato il redattore di questa rassegna e nel suo ultimo numero ha una piccola stizzosa invettiva contro di lui e contro Bilychnis. Prendiamo nota e passiamo oltre, filosoficamente. Se gli scolastici della rivista milanese vogliono che non ci occupiamo di essi, non possiamo contentarli. Non ce ne saremmo occupati se il loro neo-scolasticismo fosse soltanto ripetizione trita di vecchi formularii senza più contenuto attuale, o appiccicatura posticcia, per esempio, di fisiologia alla metafisica; ce he siamo occupati, anche in questa rassegna, e torneremo ad occuparcene quando riscontriamo in esso uno sforzo, in parte sincero, di ripensamento della scolastica e di comprensione della filosofia moderna; come è i caso negli scritti del Chiocchetti, dell'O giati, dèi Botti e in quello breve, segnalato qui sopra, del Semeria. E, nell’esaminare questa attività dei neo-scolastici ci gioviamo con piacere di una qualche nostra conoscenza della scolastica. ,
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COLLEZIONI ITALIANE DI CLASSICI GRECI E LATINI (•)
Per principio io sono avverso alle improvvisazioni e come tali ò giudicato e Sradico tutti quei progetti di collezioni i classici greci e latini che . dallo scoppio delia guerra in poi ci ànno afflitto nelle colonne, sempre vuote, sopratutto quando son più piene, dei giornali, ne’ convegni e ne' conversari. E il perchè di questa avversione l’ò esposto più volte: non sfiducia nell'opera nostra, no, tutt’altro, ma profonda convinzione che le collezioni progettate non saranno nulla di buono e di prematuro se alla pervicacia editoriale non si uniranno competenza di studiosi e preparazione calma e sicura di competenti. ,
Ecco, però, che due editori italianissimi, il Sansoni di Firenze ed il Paravia di Torino iniziano due di tali collezioni ed uomini come il Festa ed il Pascal vi dedicano le loro opere. Si deve negare, quindi, a priori il proprio assenso a tali iniziative o, patriotticamente chiudendo gli ocelli, battere le mani? No, fermo restando il nostro scetticismo sulla possibilità di un’opera veramente scientifica senza gli elementi che esponemmo, giudicheremo l’opera degli editori e dei critici sine ira et studio.
Preliminari, dirà il lettore, d’una critica sfavorevole? Neanche a farlo apposta, sono proprio i preliminari d’un giudizio
(•) Rib\iotec>i di classici greci, tradótti ed illustrati, col testo a fronte, diretta da N. Festa, Firenze, G. C. Sansoni, 1916: Bacchilide, Odi e frammenti. a cura di N. Festa, L. 1.80; Plutarco, Dell'educazione dei figliuoli, a cura di H. Mon-tesi, L. 1.20. (
Corpus scripiorum latinorum paraviaiìum, moderante Carolo Pascal, Torino, G, B. Paravia, 1916: G. Valerh Catulli, Carmina, ree. C. Pascal, L. 2.25: Cork. Taciti, De origine et situ Gennanorum liber, ree. €. Annibaldi, L. x.25; M. Minuch Felicis, Octavius, ree. A. Valinaggi, !.. x 25.
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favorevolissimo, in genere, alle due intraprese: oh! allora... i nostri principi? Gli è che la pubblicazione dei primi numeri delle due nuove collezioni è proprio l'applicazione pratica di quanto ò sostenuto ed ò accennato più sopra: non si tratta, cioè, di improvvisazioni, ma di lavori, in genere, già da lunga mano pre-Iarati e di persone competenti che ci nno dedicato l’opera loro. Il terzo elemento, le moment, non è quindi il determinante, come potrebbe sembrare all’apparenza, ma l’occasionale, il subordinato.
Dei 5 numeri che gli editori inno avuto la gentilezza di mandarci, 4 sicuramente non sono opera di oggi e 1 probabilmente non lo è neppure. Chi non conosce difatti gli studi su Catullo del Pascal, l’amorosa e minuziosa cura del Valmaggi nella restituzione di Minucio Felice, il prezioso lavoro dell’Annibaldi per il codice « Esine» della Germania di Tacilo? Ebbene? i primi tre fascicoletti del « Corpus scripto-rum latinorum paravianum » sono appunto dovuti alle cure dei due maestri, cui l’Annibaldi sarà lieto di essere unito. E dei due fascicoletti della » Biblioteca di classici greci tradotti ed illustrati, col testo a fronte » del Sansoni, il primo è de).-direttore della collezione, N. Festa, ed è sia pure, com’egli vuole, non un rifacimento ma una cosa nuova su Racchiude; è pur sempre un lavoro cui il maestro era predisposto con quell’amore che distingue gli studiosi per tutto ciò che, curato una volta, si è veduto sia pur per opera altrui crescere e maturare, onde si. sente il bisogno di ritornarvi, per completare l’opera propria, per riviverla. E l’altro, l’opuscolo di Plutarco — ammesso che sia suo — sull’« educazione dei figliuoli », che Hildà Montesi dà per la prima volta al pubblico, non appare opera improvvisata, di certo, ma curata con il giovanile fervore dei novizi. •
Non lesineremo dunque le lodi ed il plauso all'iniziativa del Sansoni e del Paravia, del Festa e del Pascal. I ■ Saggi ■ con cui le due collezioni vedono la luce sono ottimi: non è in questa rivista naturalmente che potremo discendere ad esaminarne ne’ particolari le singole opinioni, i risultati della critica individuale, i vantaggi delle nuove lezioni o i benefici delle sagaci traduzioni o gli errori eventuali de* testi o le lacune degli studi. Diremo piuttosto due parole sugl’intenti degli
editori, e su qualche particolarità delle operette pubblicate.
La collezione del Sansoni à carattere divulgativo e risponde bene all’intento per l’economia dell’opera e per la forma in cui appare (nitidezza suflicente, se non eccellente di tipi) e per il prezzo. Quella del Paravia à intenti più scientifici e forse per ciò il prezzo non è de' pjù lievi: le appendici critiche costano non solo spiritualmente, ma pur materialmente. Sebbene preziosa, parmi si sarebbe potuto far a meno, per es., di quella di carattere storico-letterario in cui il Pascal à raccolto le testimonianze maggiori sui Germani a complemento della Germania di Tacito. 11 testo però è sempre nitido e corretto: la copertina solamente è mal riuscita, a mio modo di vedere. Di tutte le collezioni italiane e straniere ch’io conosca non v'è alcuna sotto quest’aspetto migliore di quella di Oxford. E non sembri questa una quisquilia: sopratutto presso di noi pur l’apparenza à il suo valore'. È vero che in questo momento gli editori fanno miracoli quando pubblicano semplicemente cose nitide e corrette con i materiali scarti di cui per necessità possono solo dispórre!
Ed ò finito: non farò osservazioni, ripeto, più minute, poiché non est hic locus e non amo del resto di far dell’anti-germanesimo in up campo oggettivo come 3uesto di studi. Lascio ciò ai demagoghi ella scienza: i maestri che ànno curato le edizioni sanno bene che una più felice lezione, una miglior concezione, una più precisa esposizione della storia dei testi non è tanto merito della loro italianità, quanto dell'amorosa cura con cui ànno studiato gli autori, e dall’esser stati preceduti da ricerche pazienti e laboriose di altri, che ànno sgombrato la via ed ànno reso più agevole l’opera loro. Conserviamo il nostro antiteutonismo — e ce n’è a suflìcenza — per il campo più soggettivo degli studi e, sopratutto, per il campo politico, ed auguriamo a noi italiani che collezioni come quelle del Sansoni e, specialmente, del Paravia, non muoiano sul nascere, ma trovino uomini di fede e di studio come il Festa ed il Pascal che assecondino gli editori nella coraggiosa loro iniziativa: noi per parte nostra procureremo con la modesta opera nostra di aiutarli. '
G. Costa.
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SANT’AGOSTINO E LA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO
P. Gerosa, Sant'Agostino e la decadenza dell’impero romano. — Torino, Lib. ed. interri., 1916, pp. 140.
Questo studio, che vide già !a luce nei fascicoli III e IV della buona rivista di studi religiosi che s’intitola Didaskaleion. esce ora raccolto in un sol volumetto e, diciamolo pure, con molta opportunità.. Monografie come questa non debbono rimanere chiuse nella ristretta cerchia de’ lettori d'una rivista per importante che essa sia: ànno bisogno di rivolgersi a più ampio pubblico, .sopratutto quando intendono mettere in evidenza lati o discussi o non abbastanza approfonditi di opere e di menti sovrane come quella del vescovo d’Ippona. Il Gerosa difatti s’è proposto in queste pagine di esaminare le due tesi, sostenute già da altri con qualche autorità, se non con qualche peso, del patriottismo o dell’indifferenza di Agostino di fronte alla decadenza dell’impero romano. Naturalmente — e dico così per l'accordo tra la mia e la sua opinione — egli à concluso in favore del secondo dei due corni del dilemma. La ricerca, sufticentemente ampia e condotta attraverso tutta l'opera agostiniana, credo debba riuscire convincente anche per i sostenitori della tesi opposta. Cionondimeno io penso che si possa dimostrare la validità della conclusione del G. anche in altro modo: e cioè mettendo in evidenza come la freschezza dell’opera agostiniana a la sua vitalità ci permettano di servirsene per l'interpretazione di un doppio ordine di fatti: uno generale, l’intendimento del fenomeno storico: uno particolare, l’atteggiamento del pensiero ecclesiastico di fronte a fenomeni coinvolgenti l'organismo della Chiesa: e grazie a ciò giungere alle conclusioni del Gerosa.
È stato già detto difatti che Agostino tentò con' qualche successo «na prima spiegazionodel fenomeno storico nel senso veramente cristiano: usando -una parola abusata si potrebbe dire che il de civitafe dei è il primo libro di filosofia della storia in cui la dottrina cristiana trovò la sua applicazione. Indubbiamente tra l’interpretazione agostiniana e quella crociana o gentileiana della realtà storica ci corre, e sotto questo punto di vista la freschezza e la vitalità se ne vanno. Ma oltre che l'interpretazione idealistica della storia è
ancor traballante sui suoi trampoli, pur innegabilmente ben costrutti, si deve convenire che le nostre opinioni collettive e le nostre stesse ideologie sono tuttora sull’identica direttiva su cui erano nelle mente agostiniana o, meglio, su cui, grazie all’opera sua, eran poste per la dottrina cristiana i principi già precedentemente acquisiti dagli scrittori classici. Così la libido dominandi è accettata come causa suprema dell’imperialismo (de civ. dei, 3-14) ed è al di sopra del fato, del caso o della virtù degli astri discussa e messa in evidenza la volontà di Dio. come unica sorgente suprema degli avvenimenti storici (si veda il 1. V, 1-12) e nella subordinata volontà degli uomini ricercata come virlus quell'amor laudis, quella laudis cupido che, cristianamente, sarebbe una colpa (ibid. 13), ma che facendo sorgere le virtù civili per cui si segnalarono i Romani permette ad Agostino di spiegarsi la fortuna e la potenza di Roma, come effetto della volontà della Provvidenza.
A mio modo di vedere, perciò, sarebbe bastato al Gerosa che, da buon conoscitore dell’opera agostiniana, non ignora tutto ciò (cfr. p. 92 e segg.). il cominciare da questi capisaldi per giungere alla dimostrazione che io vagheggio se non storica, per lo meno logica della sua tesi. Sta, infatti, in questa naturalmente pur discutibilissima concezione storica, l’elemento fondamentale che condurrà il grande vescovo ad essere, in ultima analisi, l'oppositore di diritto se non di fatto dell’impero romano e che pur spiegherà quella posizione in apparenza incerta la quale à potuto far sorgere a qualcuno dei dubbi sulle reali determinanti del sentimento agostiniano. L'impero non incarna per i Cristiani la realizzazione di quanto la dottrina loro impone, almeno per i maggiori dei suoi adepti, in teoria, e secondo l’interpretazione delle parole del Cristo: l'impero è il « minor male » e se ne desidera la durata e se ne vuole resistenza soltanto per i maggiori mali che. scongiura: la guerra e le invasioni barbariche.
Ed ecco come da ciò rampolli la grande importanza dell’opera agostiniana per il fatto ch’io dissi d’ordine particolare, quello cioè dell’atteggiamento del pensiero ecclesiastico di fronte ai fenomeni storici che coinvolgono l’organizzazione della Chiesa.
La costruzione agostiniana della città di Dio e della città terrena in opposizione alla tesi dei suoi avversari (di quelli cioè
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che sostenevano esser il cristianesimo la causa principale dei mali da cui era afflitto l’impero e di quelli che pur asserendo aver avuto sempre il corso delle cose umane un simile processo, ritenevano esser necessario salvar la religione patria per motivi prettamente religiosi; cfr. p. 40). la costruzione agostiniana, dico, delle due città, non esige affatto, anzi pare escluda, la persistenza dell’impero, di cui se non è attesa la caduta (p. 68) non è neppur domandata o scongiurata in qualche modo la decadenza (p. 77). L’interesse supremo per il cristianesimo non è la città terrena, qual essa si sia, ma la celeste, onde tutto deve essere visto sotto una tale visuale (p. 107, 117, 119): la guerra . come la pace (p. 123 segg., 126 seg.). Ecco . perchè i mali da cui al principio del v sec.
l’impero è travagliato non turbano affatto l’animo d’Agostino (p. 63), se non in tanto in quanto essi colpiscono gl'individui, anzi le anime e quello che egli prova è sentimento unicamente e puramente caritatevole, come ben vide il Gerosa (p. 33), non altro.
Ecco dunque, ripeto, peichè l’opera agostiniana è sempre fresca e sempre vitale: essa* ci giustifica se ad Alarico ed a Roma, sostituiamo il Germanesimo e la Latinità, per modo di dii e, l’atteggiamento della Chiesa nell’ora attuale e, ancor meglio ed ancor più, l’atteggiamento de’ cristiani che meglio credono o sentono di rappresentare in sè la dottrina del Cristo. Questi nell’individualismo fondamentale della dottrina del fondatore sono e debbono essere assolutamente anarchici e negare la guerra, mentre quella à dovuto accettarla, cosi come la poneva Agostino (si vedano gli sforzi dialettici della Chiesa per conciliare l’individualismo della dottrina originaria, di cui si dice depositaria, con il collettivismo politico, da cui fu afferrata per ragioni storiche, negli studi raccolti dalla Lega cattolica per la pace sotto il titolo L’Eglise et là guerre, nel 1913) ed accettarla in virtù di quell’adattamento che le permise di dichiararsi vittoriosa d’uno stato di cose che la cinse e la soggiogò.
Quindi è superfluo, è anzi inutile parlare del patriottismo di Agostino (cfr. p. 136) di fronte all’impero, come sarebbe ed è superfluo parlare ora di patriottismo dei cattolici, qualora i supremi interessi della Chiesa siano coinvolti dai grandi fenomeni storici. Vi è contraddizione di termini, vi è antitesi tra patria e Chiesa, quando gl’interessi di questi due grandi enti non coincidano e come è naturale che un cristiano
qualora si richiami alla dottrina fondamentale della sua fede, neghi la guerra, così è logico che chi sente il supremo interesse della Chiesa deviare da quello della collettività di ordine minore cui appartiene (la patria), si opponga a questa per sostenere quella.
Se sono riuscito a spiegare le mie idee in ^08110, credo di aver dimostrato, pure, irosa che sebbene il suo lavoro storicamente guadagni dell’esposizione adottata e veramente vi sarebbe bisogno d’un indice per averla più facilmente sotto gli occhi —, esso più brevemente, ma pur più logicamente poteva essere condotto sullo schema che ne ò dato e che indirettamente è pur il merito di dimostrare la semper vi-rens potenza dell’opera agostiniana. Di questa costruzione logica della dimostrazione, del resto il Gerosa stesso si è accorto sebbene un po’ tardi (p. 137, ove dice che l’attitudine di Agostino è la « sola conforme ad un’alta, cristiana, piena comprensione dello spirito del Vangelo »): ma non è il caso di fargliene colpa; egli ne à dato un’esposizione più completa, forse, e più convincente per là maggior parte dei lettori (si vedano le sue conclusioni, importantissime, a pag. 139, 140). Rimane però da tutto ciò accertato per quel che riguarda le collettività politiche che tra Agostino e Volusiano colui che era, nazionalmente parlando, dalla parte della ragione era quest’ultimo e cioè che finché l’individualismo non avrà preso il sopravvento sul collettivismo che inferocisce più che mai ora e inferocirà d’or innanzi, anno ragione quanti àssèriscono: Chrislianam doctr inani utilitati non convenire reipubblicae (Ep. 137).
Giovanni Costa.
IMPERO E LIBERTÀ NELLE COLONIE INGLESI di Carlo Paladini (*)
L’editore ha raccolto in un opuscolo di ben 19 pagine i giudizi che i giornali inglesi e italiani hanno espresso su questa nuova opera di Carlo Paladini. È un coro di lodi entusiastiche salutante nell’apparizione del libro un avvenimento letterario di grande importanza. Al coro delle lodi s’è testé aggiunto il riconoscimento ufficiale della Commènda all’autore. Io
(♦) R. Bemporad e figlio, editori. Firenze, 1916. Lire X2.
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giungo in ritardo; ma ancora in tempo per richiamare l’attenzione dei lettori di Bilychnis su questo lavoro d’un mio diletto amico e d’un uomo ormai caro all’Italia per le belle doti dell'animo e per il vigore e la versatilità dell’ingegno.
Si tratta d’un grosso volume di 509 pagine, con 100 illustrazioni, due disegni, 12 carte geografiche, un indice cronolo--gico, e preceduto da una prefazione di Sir Harry H. Johnston.
Il titolo del libro sembra implicare una contradizione in termini. Le idee rappresentate dalle due parole impero e libertà paiono infatti escludersi a vicenda. Ma così non è. La parola impero che, in Italia, in Francia e un po’ anche nella stessa Inghilterra, significa usualmente governo dispotico, soppressione, diminuzione di tutte le liberta, in origine, per i latini, non era termine semplicemente e assolutamente militare; e quando prima apparve nella storia dell’Inghilterra, significò « indipendenza spirituale e temporale » da ogni oppressione. Quindi, il senso di « Imperialismo inglese » che, come dice il prof. Cramb, è « un patriottismo trasfigurato, cioè ingrandito e illuminato dall'aspirazione di una Umanità universale ». Difatti « si può oggi asserire francamente dal più convinto democratico, dal più puro radicale intransigente e progressista, che Impero britannico vuol semplicemente dire Libertà inglese. Esso rappresenta la diversità, non la uniformità; non pretende che tutti e ogni cosa vengano elaborati sopra un solo tipo contraffatto alla stregua di Un modello unico, eliminando le differenze e spezzando le resistenze, ma è formato di rispetto e di tolleranza verso le tradizioni, le caratteristiche e gli interessi delle popolazioni e delle razze, ben s’intende, se queste non si trovano in conflitto con 1 principi fondamentali di progresso e di umanità». Inteso così l’impero britannico, impero e libertà non sono nemici inconciliabili; son fratello e sorella.
Lo confesso francamente: il volume, lì per lì, mi ha spaventato per la sua mole. Con la quantità di cose che bisogna leggere e studiare in questi tempi nostri, con le preoccupazioni quotidiane che ci tengon l'anima in continuo stato convulso, non è seriza una tal quale riluttanza che uno si accinge alla lettura di un libro di questa fatta. Ma, vinta la prima riluttanza, mi son messo a leggere; ho continuato;
non m'è riuscito più smettere, e, quando son .arrivato alla fine, il libro m’è parso troppo breve. Sempre così, quando si legge qualcosa di Carlo Paladini. Ch’egli vi racconti una « intervista », che vi parli di San Francesco d’Assisi, che vi ragioni d’arte o di politica, che vi porti a zonzo per le maravigliose campagne lucchesi a raccogliervi i fiori de' proverbi," delle novelle o della poesia popolare,- è sempre lo stesso mago della penna, che vi fa fare quello che vuole: apprendere, sorridere, piangere, entusiasmare.
Questa volta, e’ v’istruisce, vi diletta, vi fa. pensare; e le sei parti in cui il volume si divide, dimostrano di quale versatilità sia dotato l’ingegno suo. Nella prima, • avete l’accurato ricercatore delle origini del grande Impero: nella seconda, trovate lo storico oggettivo, sereno, imparziale, che vi narra le vicende della guerra boera, come non le avete mai sentite narrare da altri; nella terza, e’ vi tratta dell’espansione inglese in India con intuito di vero filosofo della storia e d’acuto sociologo; nella quarta, v’appare lo scrittore italiano che, rievocando le gfandi figure di Giovanni e di Sebastiano Caboto, ha l'anima vibrante d’amore per la gran madre patria; nella quinta, che tratta dell'America e dell’Australasia, vi scrive pagine addirittura scultorie e ricche di notizie, di fatti, di riflessioni; e nella sesta, raffrontando il popolo tedesco e l’inglese, vi dà due capitoli di squisita psicologia comparata.
Cotesto raffronto torna in tutto il libro; torna, con forme nuove, sempre limpide, sempre interessanti; in guisa che,-giunti alla fine della lettura, il concetto che vi rimane dell’anima, delle aspirazioni, degl’ideali, de’ metodi, delle finalità dei due popoli, è il concetto preciso, sicuro... che bisognerebbe aver sempre di tutte le cose. E il raffi onto è fatto senza preconcetti, senza livore, serenamente, con una imparzialità ammirevole, quando si pensi che chi scrive, scrive nell’ora in cui aspra, e tragica ferve la lotta. Se le conclusioni son tutte a sfavore del tedesco, non è colpa del Paladini; egli è che... c’è dei marcio in Danimarca!
Dire che la lingua del Paladini è toscanamente pura, che il suo stile è bello, efficace, che il suo periodare è chiaro, trasparente, che la sua frase è precisa, espressione esatta d’un pensiero esattamente concepito, dire che anche in Un
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TRA LIBRI E RIVISTE
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libro serio come questo e’ trova modo d’essere arguto perchè l’arguzia e’ l’ha nel sangue, sarebbe dir cose che ormai tutti sanno in Italia* Ma una delle tante qualità che rendono simpatico il Paladini come scrittore, mi sembra apparir qui in modo più spiccato che mai: vo’ dire la sua qualità di « ritrattista ». Questo suo libro è addirittura una Galleria. Quando l’avete letto, ve ne rèsta l’impressione che provate quand’uscite da una esposizione di ritratti dipinti da grandi maestri. Le fisonomie che avete ammirate là sulla tela, le avete tutte davanti agli occhi delio spirito, e non c’è caso che possiate più dimenticarle. E come farete a dimenticare Giovanni Adamo Cramb «il profeta del moderno conflitto» fra Inghilterra e Germania, quel « volpone anziano ed inesperto » che fu il Kriiger, Cecil Rhodes « j! Napoleone del Capo », । David Livingstone «l’immortale missio-I nano* ed esploratore », Giovanni e Sebastiano Caboto « gli ardenti pionieri delle Colonie transoceaniche dell’Inghilterra», Giovanni Buckley che, vivendo per più di trent’anni fra gl’indigeni, « s’inselvatichì e divenne egli stesso un barbaro », Rudyard Kipling « il grande romanziere » e «il genio poetico dell’idea imperiale»?
Oltre queste grandi figure, tratteggiate con mano esperta e sicura, altre figure appaiono di, quando in quando: appaiono per un attimo e scompaiono; e la pagina grave e solenne dove l'apparizione avviene, s'illumina ad un tratto d’un lieto sorriso che vi riposa, e vi fa riprender £oi la lettura con maggior lena di prima.
eco un esempio. L’autore analizza due discorsi: uno del Burke e uno del Pitt.
* Nel corso dell’analisi gli vien fatto di nominare, così di passata, il Cromwell. E’ s’interrompe di botto, e dice: « A proposito di Oliviero Cromwell della cui vita poco si sa, per noi italiani non è inoppor-. tuno rammentare incidentalmente che il supposto figliuolo del povero fabbro ferraio combattè nelle guerre d’Italia, come '* soldato comune ”, comportandosi, per usare il suo proprio vocabolo, come un ■ruffian; Cromwell non solamente parlava ritalianow*~rùaà' ri beveva — come' asserisce Riccardo Green — allajnanicra italiana ”. Poteva dir benissimo. alla " maniera inglese”»!... Oliviero Cromwell si dilegua, e l’analisi del discorso del Pitt continua.
Il Paladini vi riproduce la esatta fiso-nomia d’un popolo, con la stessa maestria
con la quale vi riproduce quella d’un individuo. Infatti, le pagine che descrivono gli Stati Uniti, per esempio, sono mirabili; quelle che trattano del Canadà sono fra le migliori ch’io abbia mai lette su cotesto soggetto, e quelle che parlano dell’india inglese sono fra le più belle del volume e rese interessantissime per due giudizi di Lazzaro Papi e del generale Clemente Corte.
La critica, nel libro, non manca; ed è critica spesso severa, ma sempre giusta. S’ingannerebbe a partito chi credesse il Paladini così infatuato dell’Inghilterra da stimar cecamente buono tutto ciò ch’è inglese o sa d’inglese. Sentite, per esempio: ’ • I missionari inglesi meritano la maggiore riconoscenza per le loro benemerenze di civiltà evangelica, guadagnate in mezzo ai maggiori pericoli ed a prezzo di inenarrabili sacrifici; ciò per altro non fa sì che il loro zelo di propa-Eanda confessionale sia del tutto impecca-ile. Professando ed anche esercitando umiltà e sommissione, il missionario cristiano, più che ogni altro fedele, vede pur sempre in sè stesso il fine e il centro del-l’Universo: non tutti sono come Livingstone, che non poneva alcun limite al progresso del bene e all’eccellenza cui può pervenire l’essere umano, anche negro. Per esempio, sia da parte dell’Inghilterra che da parte dei missionari, la guerra contro gli Zulù e la pervicacia con cui questa guerra si volle a qualunque costo, facendo chiamare Cetewayo "il barbaro provocatore ”, non' potranno mai essere giustificate neppure dinanzi alle coscienze coloniali più elastiche ». Ma, nella stessa pagina in cui cotesta « guerra ingiusta » e le mene de’ missionari sono così stimatizzate, il valore morale di altri missionari come i Colenso, padre e figlia, c David Livingstone è ampiamente riconosciuto. « Forse in I nessuna parte dell’Africa tropicale l’av-1 vento del dominio dell’uomo bianco ha ; creato maggior prosperità e prodotto minor ; danno, che in questa terra beneficata dal ’¡gran cuore del dottor D.avid Livingstone/ 1 missionario ed esploratore Immortale; Fo- ' pera buona da lui compiuta è imperitura! » ’ Lette le quali parole; io mi son detto, con un senso di vera sodisfazione: « Ecco finalmente le missioni cristiane trattate con spirito sereno ed imparziale! Ecco finalmente messa da parte l’odiosa diversità de’ nomi, e resa la dovuta giustizia alle nazioni evangeliche per la parte grande
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ed eroica ch’ebbero in quell’opera missionaria che fu una delle glorie del secolo decimonono, il quale sarà appunto ricordato, nella Storia Ecclesiastica, come •• il secolo delle missioni ”! •
Il concetto che il Paladini ha de’ missionari che, qualunque sia il ramo della Chiesa a cui appartengono, sono veramente tali nel senso alto e cristiano' della parola, sgorga dal concetto ch’egli ha della religione: la quale, quando sia pura, spirituale, divina, è per lui un potente fattore d’incivilimento e di progresso. Difatti, dic’eeli. se el’Inglesi sono quello che sono nel campo coloniale’. lo debbono,' certo, ai fatto d’essere stati per secoli e secoli educati, allenati a cotesto arduo genere di lavoro: lo debbono al l’aver sempre pensato ed agito secondo la verità molto semplice che il lavoro, se è ben fatto ed onestamente compiuto, dev’essere, di conseguenza, ben ricompensato: lo debbono al loro carattere, al loro sincero amore per la giustizia, al loro sentimento del dovere: ma, sopra tutto, lo debbono a quella forza dominante in tutta la Gran Bretagna, che si chiama la religione: la quale, « non ostante apparenze ¿rosi-nuazioni, non ha diminuito in Inghilterra il suo dominio spirituale », ma continua f ad esservi, come v’è sempre stata, la divina ispiratrice dell’individuo, della famiglia, della nazione.
Il libro del Paladini non è senza difetti: nessuna opera umana è senza difetti; nò tutti i giudizi suoi sono infallibili. Per esempio: il Wilson, ch’ei prende un po’ in giro, è il Wilson giudicato nell’ora meno adatta ad un giudizio equo e spassionato; è il Wilson franteso, in un momento di grande ansia, a motivo delle famose « Note »; il Wilson ritenuto privo di senso pratico perchè tardava a partecipare al conflitto; ma cotesto non è il vero Wilson: il vero Wilson noi cominciamo a scorgerlo pur ora alla luce de’ fatti
che vanno compiendosi, e la storia gli darà la gloria che gli spetta, quando lo giudicherà alla luce dei fatti compiuti e mostrerà che, se l’ora sua non fu l'ora degl’impazienti, quando la coscienza gli disse che l’ora sua era venuta, e’ seppe il suo dovére, e il brutale militarismo degl’imperi centrali trovò in lui il più tremendo dei nemici, e la democrazia il più energico e il più ispirato de’ suoi moderni profeti.
Ma le mende sono ben poca cosa di fronte ai pregi indiscutibili d’un libro come questo che, anche quando saran passati i giorni nostri che gli conferiscono un interesse tutto speciale, dovrà Ì»ur sempre esser consultato da chi voglia arsi un’idea esatta del modo e dello spirito con cui l’impero coloniale inglese si andò man mano formando. .
È tempo ch’io concluda; e lo faccio, esprimendo un augurio. Il Paladini, parlando di David Livingstone, deplora che la biografia del grand’uomo «non sia in Italia conosciuta così bene come quelle di Sherlock Holmes e di Nat Pinkerton »; e dice, pur troppo, il vero. Or io m’auguro che il Paladini la dia lui all’Italia la biografia del Livingstone, e dedichi questo suo nuovo lavoro alla gioventù nostra, la quale gli farà la lieta accoglienza che fece già al Cavaliere dello Smiles e all’autobiografia di Beniamino Franklin. La nostra gioventù ha. bisogno di libri sani e forti; di que’ libri che « ri fan la gente»; e pochi son quelli in Italia che li possano scrivere nel modo che sa fare Carlo. Paladini. Con la biografia di David Livingstone, vale a dire di un uomo veramente grande perchè grande moralmente, il Paladini mostrerà alla gioventù nostra quali tracce immortali lasci sulle arene del tempo chi, non reputando la vita fine a se stessa, la consacra al bene della umanità, ed è pronto a darla per un santo ideale.
Giovanni Luzzi.
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Pubblicazioni pervenute alla Redazione
Archivio Storico pratese, anno I, fase. Ì, 25 novembre 1916.
Ottolenghi Raffaele: Appel aux amis de la justice internationale. Maison d’éditions du Coenobium, Lugano, 1916.
COI SOLDATI DELL’YSER (•>
La maggior parte degli uomini a me affidati sono, agli occhi del mondo, della gente meschina: minatori, facchini, braccianti, operai. La loro istruzione è rudimentale. Essi ignorano i fronzoli della conversazione e le eleganze della forma. Ma ho potuto misurare in essi le magnifiche riserve di buone forze di cui il popolo rimane depositario. Dirittura del pensiero, fine intuizione del cuore, inalterabile buon umore, sana fiducia nella solidità del mondo c nella vittoria del bene, umiltà commovente e — sin negli spettacoli più tremendi della sofferenza e della morte — un robusto amore della vita: ecco ciò che, tra altre ricchezze, ho potuto contemplare coi miei occhi tra la folla varia dei miei soldati. Sì, l'uomo, quell’uomo fragile, spaccone, la cui miseria e la cui tabe sono evidenti, mi ¿apparso, al fronte, grande di una grandezza sconosciuta. L’ho visto così ingegnoso in un groviglio di situazioni inestricabili, così torte nella battaglia, così giovane nelle ore di libertà: l’ho visto entrare così semplicemente nella morte che non mi sarà più permesso, dopo una simile lezione, dì dubitare di lui. Qual germe di speranza Dio ha deposto nell'anima dei più oscuri perchè, dalle rovine in cui si mescolano la cenere delle città e la polvere degli uomini, sorga, sempre più vivo, il grande splendore d'essere un uomo?
Occorre questo sfondo oscuro, sul quale rosseggiano le città incendiate, perchè ci appariscano a nuovo le indistruttibili assise costruite da Dio sul fondo mobile de’ secoli. Pur tenendo presente la malizia fondamentale dell’essere umano, è impossibile d’essere un pessimista o uno scettico dopo essere stati toccati da quel raggio.
(•) Da una conferenza tenuta al « Foyer de l’Ame» di Parigi dal Sig. A. Wautibr d’Aygallibrs, cappellano militare evangelico.
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Lamanna E. P.: L’amoralismo politico. Firenze, «La cultura filosofica » editrice, 1916.
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Lamanna E. P.: Il fondamento morale della politica secondo Kant. Firenze, « La cultura filosofica », editrice, 1916.
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Pappacena E.: L’Eroe dell'illusione. Chieti, Stabil. Tipografico del cav. Ricci, 1917.
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Pons S.: Erire Jean dujto? ¿Zm-Có?. '(conte historique du X siècle). Pistoia, Officina Tipografica cooperativa, 1915.
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Del Vecchio Giorgio: Diritto e personalità umana nella storia del pensiero. Bologna, Nic. Zanichelli, 1917.
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Sofotino Paolo: Primi passi nel neoidealismo. Utica N. Y. Tipografia la Sentinella & C., 1915A A A
Visconti Luigi: La dottrina educativa di G. A. Fichte e •
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Discorsi alla Nazione tedesca. Firenze, Libreria internaz. successori B. Seeber, 1916.
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Le Dantec: Le probUme de la morte et la conscience universelle. Paris. Flammarion.
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H. J. Messines: Consolez mon peuple, sermons prononcés à Versailles pendant la guerre. Paris, Librairie Fischbacher, 33 Rue de Seine.
* a a
Leçons élémentaires de vie chrétienne, pour- enseigner à guérir par la puissance de la Vérité telle que l’a révélée Nôtre Maître J. Christ., par Annie Rix Militz. Paris, Librairie Fischbacher.
Lasciatemi fissare davanti a voi con qualche pennellata l’aspetto esteriore della terra dove combatte l’esercito belga.
Terra aspra, avara, che misura il suo frutto alla fatica degli uomini; terra rude dove passano i c.olpi di vento come colpi di sciabola; il mare che s’infiltra per una rete di canali lo tiene nella servitù della povertà. Gli elementi non la risparmiano. Il viaggiatore è stu-Eiito di vedere quanto questa Fiandra marittima si è oggiata al suo destino. I salici tarchiati, che seguono all’infinito il tracciato dei fossi e dei canali, si tendono coinè pugni robusti contro il vento. Vi è della tenacità, della volontà aspra in quelle tenui linee di pioppi tutti inclinati verso l’interno delle terre, piegati sotto la raffica, ma resistenti ad essa. Una gran parte del paese, le Moere, fu conquistata sul mare. Ma qui l’uomo ha saputo asservire il grande ribelle: in un labirinto di fossati, di canali d’irrigazione, ei conduce il mare verso i prati e le fattorie. Esso gli è un alleato pacifico, e, filtrato dalla sabbia delle dune, abbandona pei sino la sua amaritudine. Le chiese stesse, fatte per la pace, hanno dovuto, sotto la minaccia della bufera, prendere atteggiameriti guerrieri. Se gli alberi e le case hanno Ìiegato senza cedere, esse affrontano il nemico di petto, loro campanili, obliquamente tesi, aspettano l'urto. E così, lungo le praterie, dominando i villaggi inginocchiati con tutti i suoi alberi e con tutti i suoi campanili, questo paese afferma la sua virtù nascosta: l’ostinazione nella lotta. Essa è così potentemente iscritta nell’aspro paesaggio che gli uomini, sin dai loro primi sguardi, l’hanno capita e infusa nel loro sangue. 1 nostri soldati sono a doppio titolo figli della loro terra.
Non rimangon più molti mulini nel paese dell'Yser: anch’essi furono colpiti dalla guerra. Nulla è commovente come quelle carcasse sconquassate dalle quali pende un’ala infranta. Quelli che nelle retrovie vivono ancora non hanno più nulla del loro ardore operoso. L’autorità militare li obbliga a lavorare solo in certe ore; un gendarme fa loro la guardia in permanenza. La sera io amo contemplarli: melanconici, neri c nitidi sul tramonto, colle loro grandi ali immobili, come dei crocifissi in fuga verso l’orizzonte...
In fondo c’è l’Yser, diga infrangibile d’acqua, di ferro e di fuoco. Largamente estesosi coll’apertura delle chiuse, ei vide nell’ottobre 1914 l’urto dei giganti. Lì morirono a migliaia gli eroi. Lì s’impantanarono i convogli e le artiglierie dei tedeschi. Lì, per la volontà d’un popolo, furono segnate pel nemico le colonne di Ercole. Si son lasciate, per un pio ricordo, al riparo delle sue ripe, le piccole tombe militari. Zuavi di Ramscapelle, fucilieri di marina di Dixmude, Belgi le cui cariche sublimi nei giorni di ottobre strapparono lacrime d’ammirazione ai Francesi, essi fanno come una guardia d’onore ai brandelli del paepe libero. Ho salutato quelle piccole tombe, dalle croci vacillanti, sormontate da una cecia o da un berretto slavati dalle piogge. I vivi nelle loro trincee e i morti nelle loro tombe accampano da buoni vicini. Nelle ore di calma le po-
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LA GUERRA
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vere sepolture sono decorate; ghirlande di conchiglie, scheggio di obici disposte in disegni, meste spighe di grano dimostrano la pietà dei nostri soldati pei fratelli d’arme caduti. I morti sono amati sulle rive dell'Yser e questo semplice culto reso a coloro che non sono più, questa affezione credente che fornisce delle prove ed è trasmessa come un lascito alle nuove reclute, sono commoventi, splendidamente...
Mentre pensavo a un morto in un mattino di. giugno, al disopra del fiume, a migliaia le allodole cantavano. In quel quadro di morte e di dolore le loro note cadevano in cascatene sopra di noi, come perle. Trionfo della vita? Impassibilità, indifferenza degli esseri, ai quali prestiamo i nostri propri sentimenti? Lasciatemi ingenuamente vedervi come un richiamo della grande Bontà che ci tiene tutti quanti abbracciati. Sono convinto che vi è un sorriso di Dio nella grazia effimera delle cose. Più i giorni sono cattivi, più il cuore umano è spinto a raccogliere i più modesti raggi. E certo aveva ragione quel soldatino che vicino a me, tocco anche lui dalla dolcezza della luce, diceva ascoltando le allodole: a È il buon giorno del Paradiso ».
Diény Samuel: Le Chrétien devant la tombe de ceux qu'il aime. Paris, Librairie FiSchba* cher.
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Wagner Ch.: Aux troupiers de France. Pâques 1917. Paris, Librairie Fischbacher.
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Wagner Ch.: Pensées de Toussaint. Paris, Librairie Fischbacher.
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Marty Jacques: Aux affligés de la guerre. Paris, Librairie Fischbacher.
Ogni giorno, sotto gli obici, un po’ della vecchia bellezza fiamminga cade nel nulla. Il a delitto contro le pietre » è un delitto contro l'anima di un paese. Ogni volta che vedo sbriciolarsi una guglia traforata o crollare una fine balaustra, non posso impedirmi dal pensare a ciò che diceva Cristo del peccato contro lo Spirito Santo: « Quello non sarà cancellato ». Le pietre hanno un’anima. Attraverso i secoli gli uomini hanno scolpito nella pietra la lunga storia del paese. I loro dolori vi sanguinano. Le loro gioie vi cantano. In ciò che costruiscono le mani degli operai, vi è altra cosa che lo stile materiale di un'epoca. Le pietre vivono. Esse perpetuano, nello svanire delle generazioni, la tradizione d’un regno, d’una speranza, d'un sogno. Esse sono degli archivi monumentali, dei richiami all’ordine, delle evocazioni. Esse predicano la bellezza semplice, la dirittura del pensiero, la perfezione messa nella fatica. E, camminando fra le rovine, ho cercato di raccogliere la lezione delle pietre lacerate come sulle labbra dei morenti si coglie un’ultima parola resa solenne dal grande mistero.
Furnes è morta o quasi. Evacuata da un anno, finisce di perire, nel silenzio. Si ha l'impressione, percorrendo le sue vie e i suoi scali, che quel silenzio intorno alle case crollate, nella penombra delle viuzze dai muri gialli, è ancora una pietà della natura, perchè l’uccisione della città non sia insultata dal rumore. I.a fisionomia esterna di Furnes non è forse molto cambiata: molti muri sono intatti; ma, l'obice essendo caduto di dietro, quella facciata impassibile è solo la maschera d’una terribile desolazione. Oh! i poveri interni di case sven‘ Parati a fiorami, i tettucci sospesi nel vuoto! Mi ricordo, in una cucina sfondata, sotto la cappa di un
Wagner Ch.: Aux fils de l'Alsace qui sont venus se battre four la France. Paris, Librairie ischbacher.
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Wagner Ch.: Quand même! Paris, Librairie Fischbacher.
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Baudrillart M. Alfred: Notre propagande. Edition spéciale de « La Revue hebdomadaire ». Paris, 1916.
Preda Pierre: Pour l’amitié italo-française. Livourne, Imprimerie livournaise, 1917.
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BILYCHNIS
= OCCASIONE FAVOREVOLE = per i soli nostri Abbonati non morosi:
L'Amministrazione di Bilychnis, per accordi presi cogli Editori dell’opera, può offrire per L. 10.50 (franco di porto) il bellissimo volume
GIORGIO TYRRELL
Autobiografia (1861-1884) e Biografia (1884-1909)
(Per cura di M. D. PETRE)
Quest'opera, edita signorilmente, non può, non deve mancare nella biblioteca di quanti coltivano con amore gli studi religiosi.
Il grosso volume (680 pagine) costa normalmente L. 15.
== Rivolgersi = all’ Amministrazione
= di Bilychnis =
alto camino, di due piccoli zoccoli, l’uno accanto all’altro, nella cenere. Che cosa aspettavano?...
Qui s’è sposato il vecchio sangue spagnuolo, ardente e mistico, coll’anima placida delle Fiandre. Le pietre raccontano la lunga storia di quei giorni. I motivi gotici e rinascimento armonizzano felicemente. Sulla piazza dalle case coi f rontoni dentellati sono raccolti il Palazzo di città con una gradinata celebre, la torre in.mattoni del Palazzo di giustizia, la Chiesa Santa Valburga, tutta in mattoni rossi, forata da un obice, la casa delle guardie spagnole. San Nicola... Il pesante selciato di arenarie variopinte è muto; ma tutto il passato rumoroso e sontuoso è presente. Aprite gli occhi, e pensiate alla vicinanza della Chiesa e della Torre: sono i principi della società fiamminga. Mentre la chiesa costruiva lentamente nei cuori, nelle confraternite operose un altro spirito nasceva: giovani libertà si elaboravano. Il potere civile prendeva consistenza, ed era un rivale che cresceva, massiccio, tenace e prendeva figura nella torre comunale. La chiesa è finemente scolpita, tanto da parere aerea. Le ogive sembrano voler portarla come un diadema al fronte dei cicli. Essa canta colle sue toi ri, adora colle sue colonne immense e i suoi archi fioriti, prega col suo silenzio. Ai contrario, la torre, piantata in piena vita del mercato, colle sue sale ronzanti di lavoro, le sue teorie di mercanti, le sue grosse campane dove grondano nei giorni terribili le collere del popolo, il suo quadrante che scintilla al sole come uno scudo, la torre è un guerriero. Essa afferma, colla sua massa tarchiata, un diritto nuovo. Ed è alla sua ombra dopo tutto che è nato il mondo moderno...
Dixmude non è lontana. Una serie di piccoli villaggi si sgranano lungo la strada. Tutti sono stati colpiti. Eppure la vita persiste sotto le granate. Bisogna ammirare questa ostinazione degli uomini ancorati al loro suolo? Vi sono lì dei falciatori d’erba di cui il sole allunga l’ombra smisuratamente sul prato. Sotto la tettoia sfondata d’un cascinale, un bimbo donne nella culla. Delle galline razzolano. Dei vecchi coi capelli bianchi, in maniche di camicia, faticano sotto il sole. Certo quei semplici sono d’accordo colla natura che fa tornare ogni primavera e getta a larghe manate i fiori in tappeti immensi sui campi sfondati. Essi si ostinano all’opera di vita dove si sentono sostenuti dalle potenze serene che non sono sconcertate dai cataclismi umani. E li vicino, a Nieucapelle, non è forse un altro simbolo quella chiesa crollata dove resta intatto solo un Cristo immenso che apre larghe le sue braccia verso le due estremità in fuoco dell’orizzonte?...
La strada bruscamente cessa. E comincia allora una strana città di fango, dalle viuzze innumerevoli, bordate di sacchi di terra. Siamo davanti a Dixmude. Solo la larghezza dell’Yser separa i Belgi dai Tedeschi, una trentina di metri circa. Formidabili detonazioni scuotono ad ogni istante la terra e fanno gemere l’armatura dei ripari. Se guardate per la lunetta della sentinella, vedrete... Vedrete quello spettacolo che non ha nome.
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ciò che fu Dixmude, dolce città di beghine e di fiori, presa e ripresa, dilaniata, sulla quale si accaniscono le cannonate. La pallida città di Dio, in cui ferventi ragazze coltivavano pregando le rose tee, ha perso sino all’apparenza esterna d'una città. Non è più che un mucchio di macerie, della polvere di mattone giallo. È tutto. Oh! il delitto contro le pietre: qui esso ha fornito la prova dell'orribile. E non resta altro che piangere.
Su questa terra combattono i soldati belgi. Quando vi sono arrivati? Bisogna sentir raccontare dagli anziani la ritirata dell’ottobre 1914. Con ragione la si è potuta chiamare uno dei più bei fatti d’arme della guerra. Il 7 ottobre 1914 fu ordinata l’evacuazione di Anversa. Alla testa delle sue truppe camminava il Re. Minacciato sulla sinistra, l’esercito disponeva soltanto di uno stretto corridoio tra la frontiera olandese che non bisognava oltrepassare e i reggimenti germanici i quali, in masse serrate, cercavano di vincere in velocità i belgi sul littorale. Ritirata di otto giorni, del continuo tormentata, con allarmi costanti, fantaccini in brandelli, cannoni usati: altri l’hanno raccontata che furono testimoni c attori. Il 14 ottobre, scaglionato sulla spiaggia che va da Ostenda a la Panne, tutto l’esercito era salvo. I Francesi erano vicini. Si poteva sperare il riposo. Bruscamente l’ordine è dato d’organizzare delle Sosizioni sull’Yser. La resistenza, ch’era stata chiesta a Joffre per due giorni, si prolunga per undici. Dei villaggi son presi e ripresi cinque o sei volte. La linea oscilla e si riforma. Le perdite sono formidabili. Il ferro cade in diluvio. Il fronte sta per esser sfondato. Il 28 ottobre una nuova alleata viene in soccorso ai belgi: l’acqua. Per l’apertura delle chiuse di Nicwport, il mare lentamente penetra nel paese altre volte aspramente conquistato su di esso. Sordamente, implacabilmente, pei canali e i fossati, s’insinua senza rumore. Già il terreno s’ammollisce sotto gli stivaloni tedeschi. I cannoni s’impantanano. In fretta l’esercito nemico è costretto a riguadagnare la riva sinistra dell’Yser. Il modesto fiume di venti metri di largo è diventato in due giorni una distesa immensa. Il 31, la battaglia dell’Yser era vinta e l’indomani, in una commovente rivista, il Re baciava piangendo la seta lacera degli stendardi vittoriosi.
Il frequentare i soldati al fronte d una cosa inestimabile. Il soldato è un grande ragazzo. Quell’uomo nero e irsuto, che si vede, nei grandi giorni, balzare, la baionetta in avanti è un essere sensibile e affettuoso. Sembra che la guerra, abolendo molte convenzioni, abbia sviluppato in lui quel bisogno d’affezione che non s’addormenta mai completamente in alcun uomo. Un gesto, una parola, un buon sorriso sono per lui moneta d’oro. La riconoscenza nel soldato prende mille forme e l’ho visto spesse volte passare giornate intere a cesellare qualche oggettino da offrire in segno di gratitudine Oh! la brava gente e quale arte facile quella di affezionarsela!
NOVITÀ
LETTURE DELL’ORA
Raccolta di 27 meditazioni di Riccardo Borsari.
Guardando il Sole
è il soggetto della prima meditazione, che dà il titolo al volumetto. Seguono:
Fides
Erano più belli del mare Ciò che salva un popolo La forza del bene La maledizione
Spes
La via
Le risurrezioni
La generazione dell’uomo
La benedizione
La sera
Charitas
Nè fiumi nè mare Humanitas !
Oremus
La cortina
Le mani alzale
Svegliamo l'aurora
La tortorella
Occhi di frale Francesco
Nequitia
Il tradimento
L'orobanche
Dolor
Mal...
Il rotolo continua Ora cade il mondo La via del dolore
Solemnitates
I cipressi del cimitero d’A-quileia
Nel di delle ceneri
Natale in trincea
Discesa d'angioli.
Il bel volumetto - adorno di bei disegni simbolici - si vende presso la nostra Libreria al prezzo di L. 2.
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“ LA BIBBIA E LA CRITICA ” (•)
Questo volume tratta un argomento molto importante in relazione con gli studi religiosi: « La moderna indagine critico-storica sulle Sacre Scritture nei suoi rapporti col contenuto della fede cristiana». Questo soggetto era stato proposto, come tema di studio, dal bollettino di cultura religiosa « Fede e vita ». A tale concorso parteciparono parecchi lavori, sui quali riuscì vincitore quello che ora è pubblicato col titolo: La Bibbia « la Critica.
Diciamo subito che l'A. — egli vuol rimanere ignoto al pubblico — svolge con dottrina e competenza il tema proposto: e mentre non teme di accettare i risultati più certi della critica biblica riguardo ai tormentosi problemi che presentano le Sacre Scritture, si mostra uomo di fede, animato da spirito eminentemente religioso e cristiano.
Questo volume parrà rivoluzionario agli ortodossi della vecchia scuola: ma non si deve avere paura di parlare apertamente dei problemi storico-biblici, e della loro probabile soluzione. Non bisogna credere che questi problemi non si affaccino anche alla mente di coloro che degli studi sulla Bibbia sono pressoché digiuni, poiché problemi siffatti possono anche tormentare le anime semplici. Onde è bene che quistioni simili siano prospettate con spirito religioso e cristiano, come in questo volume, anche se non siano accolte tutte le
(•) In vendita presso la Libreria Editrice Bilychnis, via Crescenzio, 2, Roma.
Più difficile è l’arte di parlarle. Ho dovuto in proposito fare la mia scuola. Le grandi verità sulle quali poggiano la terra e il cielo devono esser tradotte nel linguaggio di coloro ai quali ci si rivolge. V’è tutta una serie di parole e d’immagini da evitare. Il soldato, inoltre, è geloso della sua libertà interiore. Ma le circostanze sono favorevoli. Non è possibile, infatti, che per dei mesi, degli uomini vivano sotto la grande ombra della morte, in condizioni materiali che fanno cascare uno dopo l’altro i bisogni fittizi della nostra civilizzazione, senza che si presentino di nuovo ad essi le grandi e solenni questioni della vita. Scarto con gesto vigoroso gli snobs, gli scettici, i gaudenti. Se v’è il buon soldato, v’è il cattivo soldato. Quello, lo temo. La guerra è una occasione tremenda per lui di prostituire in licenza vergognosa la libertà che pure gli è misurata. Ma tali miserie non meritano l'onore d’essere mentovate salvo che di passata e, se le ho rapidamente e dolorosamente evocate, è piuttosto per dar maggior risalto alle virtù degli altri... Perchè non lo direi? Ho camminato in un paese di maraviglie; ho vissuto sopra una terra di miracoli; ho scoperto tesori d’umanità. Ogni mia giornata era segnata da uno splendore nuovo. Tanto che, allorquando i soldati mi ringraziano, faccio internamente un atto di umiltà, stimandomi debitore molto più che creditore...
Una delle prime osservazioni da me fatte è questa: la guerra, che semplifica la nostra esistenza, crea delle condizioni uniche pei la conoscenza reciproca. Per poco che ci si sforzi, s’ignora al fronte quel dolore di certi focolari in cui degli esseri legati dal sangue praticano, forse sinceramente, tutti i segni esterni della tenerezza mentre i loro cuori restano separati da un abisso. Oh! i dolori nascosti, le lente disgregazioni, e i divorzi d’anime, chi non li ha temuti un giorno rabbrividendo?... Senza andare a quell'estremo, conosciamo tutti quel muro invisibile che impedisce troppo spesso la penetrazione delle idee. L’uomo, nei giorni facili, dà soltanto la sua apparenza. Ma venga un’ora terribile in cui, nella convulsione dei popoli, sprofondano le nostre idee effìmere e i nostri errori; venga un’ora in cui tutta la solenne semplicità della vita si confronti colla solenne semplicità della morte, allora l’anima emerge dall’uomo. Una fraternità si crea tra quelli dell’oriente e dell’occidente, tra il savio e il semplice, tra il cittadino e l’uomo della terra. Si sente allora con potenza che ciò che ci congiunge nelle midolla è infinitamente più forte che ciò che ci separa nelle apparenze. Le verità immutabili sono poste in una luce improvvisa e abbagliante: la dignità dell’amore, il rispetto della famiglia, il valore inestimabile dell’individuo, la legge morale 31icata alla vita della società: son tutte questioni che, e trincee, tra cittadini di cultura diversa, si trattano con una serenità e un’amenità platoniche.
Ho potuto osservare ugualmente, presso i più semplici, un’acuta chiaroveggenza. Il popolo si rende perfettamente conto che certuni predicano e non praticano. Non si può negare l’equità a certi giudizi severi pronun-
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ziati sotto voce con una fiamma negli occhi. Ciò che potrei chiamare « la coscienza sociale » appare lentamente; e se si preparano forse risvegli terribili, però occorre salutare l’avvento di questo nuovo spirito con rispetto e con speranza.
Io saluto ugualmente quella delicatezza d’anima alla quale s’aprono taluni che si condannano nelle loro colpe passate. 11 valore di certi beni è stato loro bruscamente rivelato dalla fragilità stessa della loro felicità misconosciuta...
Son questi tutti segni annunziatori d’aurora. Li conteggio preziosamente, senza però farmi troppe illusioni. Molte nubi minacciano questi fragili albori mattutini. Non mi dissimulo che la guerra, eternizzan-dosi, consuma a lungo andare le qualità d’anima ch’essa aveva manifestate. La tensione del cuore umano, come quella dell’arco, è limitata. Ma il savio non getta sulla felice constatazione d’oggi l’ombra di presentimenti che (orse non si realizzeranno. Anche qui, ad ogni giorno basta il suo peso, c ad ogni giorno basta la sua gioia. Fine profeta colui che potrebbe trarre gli auspici circa lo stato morale dopo la guerra. Ma credo essere d’accordo in tutta umiltà con persone più di me perspicaci comunicandovi questa impressione: quelli che erano partiti buoni torneranno migliori, quelli che avevano portato alla guerra le loro tabi e i loro vizi torneranno peggiori.
Giammai il Cristo m’è apparso più grande nè più necessario che nella tormenta formidabile in cui vacillano gli uomini. La guerra dà a certe Sue parole un commentario sfolgorante, al quale non si può rimanere indifferenti. Nell’ombra sanguigna che ci sommerge, la Sua grande figura raggiante e tenera ci domina all’infinito. Non è al fronte che si ha l’impressione d’un fallimento del Suo pensiero. Anzi, lo straripamento di orrori che fa vacillare il nostro cuore ci appare come la prova tremenda della nostra volontaria incapacità di comprenderlo. E la dimostrazione col ferro e col fuoco di’ciò che possono gli uomini quando allontanano Colui che ha detto: « losonola Via, la Verità e la Vita... ». Altrimenti perchè balbettiamo noi le Sue parole come una novità? Perchè il Suo fascino ineffabile persiste nell'opaca nube asfissiante? In mezzo al crollo di tanti ripari sentiamo colla solidità d’una certezza che la Vita, quale Egli la propone, è possibile — domani. Lo sap-Eiamo più vicino a noi nell’Avvenire che nel Passato, gli ci precede. È una guida e un precursore. Per capirlo, bisogna camminare avanti. Avremo abbastanza sofferto, abbastanza pianto, abbastanza sanguinato perchè finalmente, nella limpidezza d’un cuore purificato, noi possiamo riconoscerlo.
Ho provato queste cose, potentemente. Quando, presso le piccole fosse allineate, lasciavo cadere le solenni parole che hanno consolato tante generazioni: « Io sono la Risurrezione e la Vita », mi sentivo d’accordo coi morti placidi e coi viventi tormentati. Quando, sotto un riparo, leggevamo insieme la dolorosa e serena
Sarticolari idee e conclusioni eli'A.
Sotto forma di lettere (sono 12) dirette ad un amico, il quale sembra turbato nella sua fede cristiana di fronte ai risultati delia critica biblica, l’A. intende affermarla, prospettando i vari problemi storico-biblici, e dandone una soluzione tale che i fondamenti della fede, anziché venire scossi, rimangono più fermi che mai.
L’A. passa, dunque, in rassegna varie_difficoltà che presentano le Sacre' Scritture, sia_del 1 ’ Ant._ che dèi ' N7 Testamento. Approviamo incondizionatamente il punto di partenza: la giustificazione di un libro sacro non può essere che religiosa. Irorte di questo principio, per quanto riguarda L’Ant. Testamento, l’A., dai diversi racconti biblici riferentesi alla creazione del mondo, di Adamo, ecc.» ritiene il significato religioso e morale. Ci sembra, però, che egli metta troppo L’accento sulle antitesi tra la scienza e i racconti biblici, per esempio, della creazione e del diluvio. Vi sono motivi sufficienti per credere che i SLorni- genesiaci siano giorni ivini che non vanno misurati alla stregua di un orologio, e che il diluvio quale è narrato alla Bibbia non ebbe punto proporzioni universali poiché ne sono chiare ed evidenti le limitazioni. Questo diciamo, perchè ci sembra perfettamente inutile l’ingrossare o (’esagerare le difficoltà storico-critiche dei racconti biblici.
Ha ragione l’A., quando scrive che le questioni storico-critiche _ di vengono., più dcli-catéjjuando si passa dal-.Vecchio'al Nuovo Testamento. Tuttavia *TA'.7’puFaccetlando i risultati della critica ri-
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guardo ai Vangeli, ad esempio, non mette in dubbio il loro carattere storico. Anzi la critica, secondo l’A., non svaluta religiosamente i Vangeli, i quali sono anche storici, « quantunque solo in quella misura che a noi importa, per valutare meglio i Vangeli nel loro senso religioso » (pagina 81).
È sempre questo il principio dell’À. in presenza anche dei racconti dell'infanzia, i quali « derivano più dalla poetica pietà che dalla memoria sicura dei primi cristiani »; ma aggiunge l’A.: < perciò stesso, Ìuando ci troveremo in con-izioni documentarie diverse, perchè i documenti saranno tre, quattro e tutti concordi sostanzialmente, avremo la certezza di trovarci sur un terreno solidamente storico » (pag. 88).
Gli ultimi argomenti trattati sono: Chi 7 Gesù?—Il Regno di Dio — La risurrezione di Gesù. Riguardo alla persona del Salvatore, l'A. si mostra più sobrio, ne) senso che le pagine che ne trattano sono piuttosto brevi. Tuttavia il lettore afferra senza difficoltà il pensiero dello scrittore: Gesù espressione, manifestazione dell’Assoluto: Gesù vero uomo, unito nel più stretto modo possibile ed immaginabile colla divinità. « La critica storica non distrugge la realtà storica di Gesù. La critica storica constata espressioni varie d’un valore reli-Sioso costante attribuito a esù. Questo valore io mantengo, e oggi vado a Dio per mezzo di Gesù Cristo, sicuro di non poter scegliere via più trionfale e sicura • (pag. 103).
Riguardo al concetto che l’A. si è fatto del Regno di Dio non ci sembra esatto il Sarlare di tre interpretazioni ¡verse esclusive, in quanto ciascuna di esse non esclude le rimanenti, necessariamente.
preghiera: < Non ti chiedo di toglierli dal mondo, ma di guardarli dal male », i più indifferenti erano commossi per questa preoccupazione, suprema che chi sta per morire dimostra per la grandezza morale di quelli che restano. E negli ospedali, qual balsamo scende dalle pagine divine sugli oscuri feriti!.... Sì, più il quadro in cui ci agitiamo è tremendo, più l’Evangelo ci appare come la luce per la quale i nostri occhi son fatti. Scopriamo ch’esso è la vita normale, eh'esso è robusto come un uomo e sano come un bambino. Esso non insinua in noi non so quale mortasa nostalgia del se-Silcro: esso canta la Vita, la Gioia, il l avoro, la Bontà.
on è una conti addizione. Perchè, sentendola molto minacciata, i soldati amano la vita: davanti alla morte, essi sanno vedere la vita nella sua immortale essenza, spoglia dalle pastoie e libera dalle deformazioni. Ma, se l’ora viene di sacrificare la vita per dei beni più grandi di essa. l’Evaneelo c’insegna come si muore bene. Esso possiede alla lettera « le promesse della vita presente e della vita avvenire ». Leggete con questo spirito i vecchi profeti o i salmi; leggeteli in una trincea c mi direte se quella non è una lingua d’oggi.
Non dimentico mai, parlando ai miei soldati, ch’essi sono anzitutto degli uomini. 1) grande scoglio della vita militare è l’uniformità apparente dei destini. Ora, è un'abdicazione il dimenticare il proprio cuore, la propria anima, tutto ciò che, in una parola, forma la personalità. Mi sforzo di « predicare l’umanità ». Non s'innesterà mai un buon cristiano soprà un cattivo uomo o sopra un uomo incompleto. Fortificate l’uomo, epuratelo, curatelo nel suo corpo e nella sua vita materiale; create insomma un'atmosfera favorevole; allora Eatrà svilupparsi, nella sua magnifica fioritura, la alla vita secondo l’Evangelo.
La guerra, in fondo, mescola alla sua brutalità una certa bellezza allorquando è l’inebriamento degli uomini al suono delle fanfare; essa è bella nella mischia dei petti e nell’urto delle sciabole... Ma chi nelle ambulanze contempla la sua faccia rattrappita e dolente può ricordare solo la cosa atroce ch’essa è nella sua realtà, contro la quale non si griderà mai abbastanza: « Abbasso la macellatrice di uomini »!
Allora la fiamma è caduta, e con essa la bella aureola dell’eroismo.... Rimangono solo più corpi sanguinanti, lacerati, volti arsi, occhi spenti... Quando si pensa a ciò che rappresenta un uomo, alla tenerezza delle madri, alle lunghe ansie dell’infanzia: quando si misura il valore di quelle mani immobili, la nobiltà di quella intelligenza, la promessa che Dio tien rinchiusa in ogni uomo — per concludere con quell’annientamento e con quella miseria, allora si mette nelle proprie vene un po’ di quel metallo resistente che fa i santi odii. Per coloro che hanno contemplato nelle ambulanze del fronte quali atroci mutilazioni si trae dietro, la guerra, non vi saranno più primavere nè dolci chimere. L’incubo li avrà bollati nel cuore, indelebilmente...
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Io li evoco adesso, con emozione, i miei cari e indimenticabili feriti. Quante volte io, l'uomo illeso, sono andato a mendicare vicino ad essi il conforto e il coraggio! Chi dice che l’uomo è decaduto? L’ho veduto così grande nella sofferenza, ch’esso m'appare come un regno misterioso in cui si entra per grazia e dove, in un lampo, ci è rivelato ciò che a .tastoni, urtando qua e là come dei ciechi, noi abbiamo cercato invano nello splendore dei giorni buoni.
Alfredo Wautier d’Aygalliers.
ALCUNE RIFLESSIONI DI UN SOLDATO
Un soldato inglese in congedo dal fronte francese, ove si trovava volontario dal principio della guerra, scrive sulla Nation del 21 ottobre « Alcune riflessioni di un soldato •, che suonano come una severa requisitoria della mentalità borghese rispetto alla guerra e ai suoi combattenti. Estraggo da essa alcuni passi, facendo notare che, con la sola differenza dovuta alla qualità di ■ volontari » che caratterizza i soldati inglesi, molte delle « riflessioni » di questo soldato hanno valore anche per altre nazioni belligeranti.
« È molto caro di ritrovarsi di nuovo nella propria patria. Ma pure, talvolta mi vien fatto di domandarmi, se sono proprio tra i miei concittadini: in certe occasioni mi sento come un forestiero giunto fra stranieri, le cui intenzioni sono, sì, amabili, ma i cui modi di pensare io non posso nè del tutto approvare e neppure ben comprendere...
< Nei nostri scambi d’idee avviene che voi 1 ¡teníate come possibili o probabili cose che a noi sembrano assurde, o licenziate come banali e immeritevoli di commento, cose che a noi sembrano d’importanza capitale. Voi parlate con leggerezza e pretendereste che noi parlassimo con egual leggerezza di cose, emozioni, stati d’animo, avvenimenti e rapporti umani, che per noi invece sono solenni e tenibili. Sembra quasi che voi arrossiate, come di una debolezza, di quei sentimenti che ci hanno sospinti, volontaii, in Francia, e Ser i quali migliaia di figli e di persone che amate hanno ato la loro vita. E voi, invece, anticipate il calcolo dei profitti che vi verranno dalla « guerra dopo la guerra » (quella industriale) come ' se le inesprimibili agonie della « Somma ■ non fossero che un articolo di una transazione commerciale. Voi ci fate, così, sentire che la patria a cui siamo tornati non è la patria per la quale ci recammo a combattere...
« Quando nei periodi d’intervallo nelle trincee, conversando, o leggendo i giornali che ci a» rivavano, ci cadevano sott’occhio le rapsodie sugli « allegri « tommies » (soldati) nei cui occhi lampeggia il baleno della batLo scrittore non sembra tenere conto della parola di Gesù: Il Regno di Dio è dentro di voi: e, perciò, non esattamente scrive che « nulla è pili lontano dal pensiero Senuino di Gesù che l’indivi-ualismo religioso ». Ma l’individualismo religioso è la necessaria preparazione alla idea collettiva del Regno di Dio. E poi, perchè relegare il regno di Dio nella eternità, di là dal nostro tempo e spazio? Insomma nel pensiero dell’A. il regno di Dio non si stabilisce sulla terra: nello spazio e nel tempo ci sarebbe solo la preparazione al Regno, cioè, la Chiesa...
Ci siamo già diffusi un po’ troppo per parlare ancora intorno alla « Risurrezione a Gesù ». Vi rimandiamo, senza altro, il lettore.
La conclusione dell’A. (lettera XII) ha un carattere fideista, pragmatista. Il Cristianesimo di Gesù era una pratica, una vita, ma si trasformò ben presto in gnosi, in scienza. Ma quello che importa è restaurare la nozione primitiva, genuina del Cristianesimo, cioè la pratica cristiana della vita. Questo è la vera tessera, il punto principale. Se le idee ci dividono, la pratica cristiana ci riunisce. « Così la soluzione delle difficoltà teoriche diviene soluzione di difficoltà morali e pratiche, e la soluzione perpetua rimane Gesù medesimo. A cui, diciamo con S. Paolo, sia gloria e onore nei secoli • (Pag- U5)E noi assentiamo loto cordo, raccomandando ai lettori il bel volume.
(Da La Luce di Firenze).
Enrico Meynier.
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BILYCHNIS
La Bibbia e la critica, presso la Libreria Editrice ' Bilychnis ’ via Crescenzio 2, Roma.
« Questo libro è frutto di un concorso indetto nel 1912 da un periodico di cultura religiosa e doveva rispondere al tema: a La moderna indagine critico-storica sulle sacre scritture nei suoi rapporti col contenuto della fede cristiana ». È in forma di dodici lettere rivolte a un giovane per chiarirgli le idee e confortarlo nella fede. L’A. esamina con competenza gli ultimi risultati della critica biblica e sostiene che si possono ammettere senza per questo perder la fiducia nella loto divinità fonda mentale. Utile per i credenti, questo libro, molto ben concepito e scritto, è interessantissimo per coloro che sono al di fuori della credenza. Tutti coloro che pur non appartenendo a una confessione, non rigettano, ma anzi tengono preziosa la conquista morale e sociale apportata all’umanità dal cris.tia-qgypp,* potranno trovare in questo libro un termine di rapporto e di componimento coi credenti, quando questi si mostrino intelligenti e liberali e umani quale risulta il cristiano qui delineato ».
(Da La Nuova Antologia del 16 marzo 19x7).
taglia, o le centinaia di varianti dei corrispondenti militari del Times, sul tema che l’aite della guerra consiste nell'uccidere più nemici di quello che i nemici uccidano dei nostri, in maniera che qualunque siano le nostre perdite — amabile teoria! — la vittoria resti sempre alla parte che è numericamente superiore, noi ce la cavavamo con un’imprecazione e con una risata. « Si tratta di giornalisti » — dicevamo. — « La nazione però la pensa diversamente ». Ma dopo alcuni mesi da che son tornato in Inghilterra, sono giunto alla conclusione che i giornali, dopo tutto, non sono quei vostri spietati caricaturisti che ci eravamo creduti. La realtà è che noi navighiamo su una corrente diversa: e ciò, sia perchè noi abbiamo cambiato, e voi no, e sia perchè, e in cose di suprema importanza, noi siamo rimasti gli stessi, e voi avete cambiato...
« Specie nel caso di noi inglesi che abbiamo preso le armi sotto l’influsso di alcuni sentimenti e principi, è avvenuto che noi siamo tutt’ora rimasti sotto la direttiva di questa ispirazione, anche molto tempo dopo che essa era stata soppiantata, fra i « civili », da motivi più alla moda... Quanto spesso il soldato spossato fino all'estremo limite o inorridito dalle sue stesse azioni, non corre a rifugiarsi in quelle idee che, prime, lo spinsero alla lotta, e alle quali si è sempre piu tenacemente attaccato, e a chiedere ad esse sostegno e conforto!
«Vale la pena di soffrir tutto questo, perchè... E orribile, ma pure non debbo inorridirmi di me stesso, perchè... ». Così, quelle riflessioni che voi avete abbandonato sono la nostra forza... Sulla ribalta della tragedia noi differiamo, ma il nostro sfondo è comune, e noi siamo i fantasmi della vostra coscienza passata.
■ La guerra, è vero, sta sempre sotto i vostri occhi: voi leggete e parlate di ciò che ha relazione con essa con più assiduità, forse, che di qualunque altro argomento: voi siete bramosi di essere fedelmente informati, non della sua strategia o di altri aspetti, che a ragione vi sono occultati; ma delia sua «routine» e della sua fisionomia giornaliera, dei doveri e delle perplessità, dei pericoli e dei rischi, degli stenti c dei rari riposi, dei quali è formata la vita del soldato al fronte. Voi desiderereste di penetrare nella sua vita interiore, di sapere come egli consideri il compito impostogli, i suoi rapporti col nemico e con voi stessi, e da quali sorgenti egli tragga incoraggiamento e conforto. E noi vorremmo non meno di voi, che voi riusciste a conoscere tutto questo. Ma tra voi e noi s’inteipone un velo che è vostra inconscia fattura: non di caiattere intellettuale, ma morale: non d’ignoranza, ma di falsità. Nel leggere i vostri giornali e nell’udire le vostre conversazioni, io vedo chiaramente, che voi vi siete volontariamente formati della guerra un’immagine, non quale è in realtà, ma come di un’entità pittoresca, tale da lusingare la vostra brama di novità, di eccitamento, di facile ammirazione, senza turbarvi con emozioni troppo forti. Voi avete preferito di formar-vene un’idea vostra, perhè non vi piace, o non potreste
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sopportare, la realtà; perchè avete paura di ciò che potrebbe avvenire al votro spirito se voi lo metteste direttamente di fronte alle incoerenze e contradizioni, ai dubbi e perplessità angosciose, che formano il fondo di ciò di cui voi sfiorate solo la superficie. Ciò che voi ignorate non sono i fatti, ma il Fatto, che voi volete ignorare.
« È stato inventato un tipo di soldato convenzionale, le cui emozioni ed idee non sono altre, che quelle che yoi stessi avete trovato più facili ad essere assimilate, insieme al vostro caffè e alle vostre marmellate: un « tommy » che è insieme un essere ridicolo e disgustoso. A sentir voi, egli è sempre e invariabilmente « allegro » e tripudiante «nell’« eccitazione » bellica, e nel suo o sport > invariato di uccidere altri uomini, e di « andare a caccia di Tedeschi scovandoli dalle loro caverne come un « terrier » fa dei ratti », riservandosi poi di opprimerli di gentilezze quando divengono suoi prigionieri. L’ultimo dettaglio della pittura, in verità, è fedele: solo voi con le maraviglie che ne fate ne travisate il carattere in una maniera che è un insulto pei i vostri «tommies». Ma che forse vorreste che noi facessimo loro del male o facessimo loro soffrire la fame? Ma non capite che noi consideriamo questi uomini che sono rimasti di fronte a noi immersi nel fango, come vittime della medesima nostra catastrofe, e nostri compagni di sventura con più ragioni assai che non lo siate voi? Credete voi che noi partecipiamo aH’indignazione che alcuni di voi accumulano sul capo di ogni nostro disgraziato avversario. indignazione il cui oggetto sono la malvagità di un Governo, di un sistema sociale, o, se volete, di una nazione? Quanto al resto, noi non siamo, per voi, che dei festosi assassini, gongolanti di gioia quando possiamo menar le mani, a costo di vedere i tre quarti dei nostri amici uccisi o mutilati, noncuranti e sprezzanti della vita, esultanti nel comimento del dovere di ridurre esseri umani ad una poltiglia informe di fango; spensierati come fanciulli che in un giardino si divertono a tirare ai passerotti e battono le mani ad ognuno di essi che cade, e sempre disposti a cacciare via qualche nuvola passeggierà di melanconia, con una partita a « football » o con un pacchetto di sigarette.
Quanto all’elemento primo e materiale della guerra, di cui tutto il resto si colora, cioè l’interminabile e terribile esaurimento fisico, voi nulla ne dite, perchè esso guasterebbe la vivacità, la « verve » dei quadro. E quanto alla vita interiore dei nostri soldati, il conflitto continuo di norme morali contradittorie, il senso di soffocamento che prova l’anima schiacciata dalla monotonia meccanica, la difficoltà di mantenere il contatto con le sorgenti del vigore morale, la sensazione che si prova di trovarsi in una partita giocata da scimmie e organizzata da pazzi, voi, mi pare, non ne comprendete nulla...
«E dietro questa pittura della guerra, tracciata dai vostri giornali, qualche volta sembra che si appiatti Sualche cosa, peggiore ancora, benché ad essa alleata, ella sua falsità, cioè l’orribile accenno che la guerra
Cambio colle Riviste
/ithcnaeuni. Pavia, anno V, fase. I, gennaio 1917. — A. Pa-tanè: « Leopardi, Foscolo e Rousseau » - C. Pascal: « Paremiografía Catulliana e Ver-giliana » — E. Buonaiuti: « Autore della vita e della salvezza » (Atti HI, 15; V, 31)
Bollettino filosofico. Firenze anno V, 1 dicembre 1916. — « Il nostro lavoro » (La Direzione)-prof. G. Ferrando: «La Guerra » - « T nostri morti » -G. Prezzolini: « G. Borsi » -« Scipio Slatapei » - professore G. Amendola: « Alberto Ca-roncini » - prof. A. Anzilotti: « T. De’ Bacci Venuti » - Avvocato P. Marrucchi: 0 Eug. Vaina » - Bollettino bibliografico, ecc.
Coenobium. Lugano, anno XI, fase. I-II, gennaio-febbraio 1917. — R. Rolland: « La route en lacets, qui monte... » - E. Leone: « Filosofia galeotta » - E. Peeters: « A propos de la loi du progrès ■ - Nathano il Sofista: ,« Cristianesimo e Ebraismo » -R. Ottolenghi: • A Nathano » - René Arcos: « Les poètes et la guerre »-G. L. Brezzo: « Delle condizioni di liceità di una guerra secondo la tradizione cattolica ».
Cronache latine. Torino, anno I, h. 1, 15 gennaio 1917. — G. Piccagli'a: • Giovanni Pascoli poeta latino » - S. Solmi: • La poesia di Guido Gozzano ».
Cultura (La) Filosofica. Firenze, anno X, n. 6, novembre-dicembre 1916. — E. P. La-manna: « L’amoralismo politico »-B. Nardi: «Intorno alla ' Protologia ’ di Ermene-(ildo Pini. I. Il problema del ini e la sua posizione storica »- G. Rossi: « Una nuova teoria del giudizio e del raziocinio. Parte I.: Il giudizio ».
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Fede c Vita. Sanremo, serie IV, anno I, n. 1-3. — U. Janni: « Ai lettori • - G. Luzzi: « Alba di sangue » - W. Lo-wrie: « II vero mestiere del soldato » - U. Janni: < L’Ideale »- L. Giulio Benso: • Ibsen ed una malattia sociale » -W. Lowrie: « La necessità dell’eroismo nella vita civile »-U. Janni: « Lo slancio verso l’ideale » - T. Longo: « La coscienza cristiana e la guerra attuale » - A. Falconi: « Sprazzi di luce ».
Monitore italo-russo. Roma, anno II, n. 1, gennaio 1917. — prof. P. S. Rivetta: « La Russia, trait d’unión con l'Asia » — Maria Ralakirscikova Fuma-soni: • La donna russa » — M. A. Slavinskii: a La guerra e la questione delle nazionalità in Russia ».
— N. 2: febbraio 1917. Fr. Bianco: « Il regno di Boemia, la Russia e l’Italia » — Prof. P. Silvio Rivetta: « Per una esatta e pratica trascrizione dei nomi russi in italiano ■ — Dott. Ivan Gri-nenkq: « Lo Zemstvo e la sua importanza nella vita cconomico-sociale e politica russa » — M. P. Bure: « Le città russe. La città di Mosca e la sua importanza ».
Nostra (La) Scuola. Milano, anno IV, n. 4, 15 gennaio 1917 — V. Cento: « Ñon si tratta di testi ma di teste » — V. Solo-view: « Il mistero del progresso » — F. Ciarlanti™: « L’anima del soldato ».
— N. 5, 15 febbraio 1917. Í. Ruskin: «Pensieri » — A.
.: « Alcune vecchie pagine » — G. Santini: « Per il fondamento della pedagogia » — W. Windelband: «Che cosa è la filosofia ».
— N. 6, 15 marzo 1917. R. Murri: « La politica, anche » — W. Windelband: ■ Che cosa è la filosofia » — G. Sansia, in qualche modo, nobilitante; che, se essa non è l’occupazione che più si addice all’uomo, almeno gli fornisce l’occasione di rivelar se stesso con tale pienezza, quale non gli è possibile in tempo di pace; che questi ragazzi, vestiti in ■ khaki» e col fucile ad armacollo, sono « uomini » in un senso più vero che quando erano occupati negli uffici o negli stabilimenti... Quando leggo tali accenni su alcuni dei vostri « rispettabili » articoli, il mio pensiero corre a quegli amici; che dopo aver sofferto gradi diversi di torture morali, morirono nella illusione che la guerra non fosse l’ultima parola della sapienza cristiana.
« Un’armata non ha bisogno solo di munizioni: essa si nutre della communiorie d’ideali morali e di propositi. È ciò che voi non potete dai ci: e non potete darcelo, perchè voi non lo possedete. Da ciò che vedo, voi siete più divisi nel vostro spirito di quando io divenni soldato. Voi denunziate gli apostoli della guerra, eppure non rifuggite dall’idea che la guerra nobiliti; mezzo persuasi che la nostra causa è la causa dell’umanità in genere e della democrazia in ¡specie, eppure non osando di proclamarlo coraggiosamente per non essere poi obbligati a realizzare i vestii voti; più fiduciosi nella grande macchina che avete creato, che nelle forze invisibili che, se voi le lascerete agire, saranno vostre alleate. E voi siete anche più disposti di noi a lasciai vi invadere dall’odio pei nemici. L’odio non è così comune, credo, fra i soldati che hanno combattuto: esso è inconciliabile col loro dovere. Giacché uccidere in preda all'odio è assassinare: ora noi non siamo assassini, ma giustizieri...
« Non è fra coloro che hanno sofferto più crudelmente o che.hanno penetrato più a fondo nella visione della enorme tragedia, che io trovo l’odio che fa raccapricciare. No: perchè nel dolore, come nella scienza, vi è qualche cosa che trascende le emozioni personali, e che unisce lo spirito al dolore e alla sapienza divina. L’odio io lo trovo piuttosto fra quelli, che non avendo via di sbocco aperta nel dolore o nell’azione, ricercano nell’odio quella sensazione di attività che non possono soddisfare altrimenti. Essi meritano compassione, Eerchè anch’essi sono in cerca di una via d’incontro coi
>ro simili, ma in una direzione falsa... Non è con l’odio che potrete aiutare voi stessi o la vostra patria o i vostri soldati, ma solo con l’amore e con lo sforzarvi di divenire sempre più amabili ». q pIOLI
' IL DIARIO
DI UN “ CLERGYMAN ” SOLDATO
Un saggio caratteristico dell’influenza eseicitata dal contatto brusco, tragico, ma crudamente realistico, con la natura umana nei suoi aspetti concreti più diabolici e più divini sull’animo e su tutta la mentalità religiosa e spirituale del giovane clero arruolatosi nell'esercito, è dato da alcune pagine estratte dal diario
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di un giovane « clergyman » inglese, riferite dallo « Spe-ctator » di gennaio.' Nel presentarle, l’articolista ci fa sapere che l’autore aveva beatamente errato per più anni fra le nebbie della teologia moderna, quando un bel giorno si avvide che la nazione si era mossa alla guerra per una causa che egli credeva giusta, e con grande stupore dei suoi amici uscì fuori delle nuvole, ed espresse la sua intenzione di arruolarsi nell’umile grado di semplice soldato, benché di nobile famiglia. Sul suo diario egli notò di tanto in tanto, alcune verità appai-segli durante questo periodo di studio e di esperienza della vita. Benché tra 1 diversi pensieri non vi sia concatenamento logico, pure la successione delle date è sufficiente chiave per illustrare l’evoluzione del suo spirito attraverso a fasi diveise di esperienza. Laddove nel mese di Giugno 1914 egli è tutto immerso in problemi asti atti e intento a mettere biffe per orientarsi nel suo incedere attraverso le nebbie, nell’/igos/o, allo scoppiare della guerra, egli discende dalle regioni del pensiero a quelle della coscienza e si addestra all'atto decisivo; nel Settembre la trasformazione da filosofo astratto in empirico è già in piena esecuzione; nel-Y Ottobre e nel Dccembre la vita di caserma gli ha posto ineluttabilmente dinanzi il problema della situazione della religione nella vita pratica; nel Febbraio 1915 ha messo in opposizione la religione e la teologia e la seconda comincia a cedere alla prima; nel ¿¡faggio e nei Giugno, la morte si fa sua maestra e gl’insegna le verità supreme. Ed ecco le sue parole (scegliendo i pensieri più tipici):
a 20 Giugno 1914. — Non v’immaginate di poter toccare il fondo delle cose. Il più probabile si è che esse siano senza fondo. L’Agnosticismo non è una giustificazione dell’inerzia: se noi non possiamo conoscere tutta la realtà, non ne segue che dobbiamo rimanere immersi nell’ignoranza. Quando la conoscenza è esatta, essa è soltanto descrittiva; essa dice il come, ma non il perchè di un processo.
« 5 Agosto T9Ì4. — La conoscenza non è scopo a se stessa: la meta del filosofo deve essere non la conoscenza, ma l’azione. Il filosofo che non è un buon cittadino, ha studiato invano.
« Il Vangelo intima: « Amate i vostri nemici »: cioè, sforzatevi di rendei veli amici. Ma può essere che per rendere questa amicizia possibile sia necessario colpire prima i pi opri nemici. Una nazione può trovarsi in questa precisa necessità, ed essere forzata a combattere pei rendere l’amicizia possibile.
« io Agosto 1914. — (Mentre medita di arruolarsi quel soldato semplice). Il grado sociale non è valutato dal saggio che per le opportunità che può offrire di rendersi più utile.
« Non vi è disonore nel preferire una posizione modesta eccetto che non si voglia sfuggire alle responsabilità della posizione più elevata.
« Temere di alterare le proprie consuetudini di vita è essere schiavi delle abitudini: tanto la religione che
tini: « Il programma didattico » — E. Janni: « Aprite le vie al fanciullo ».
.Vwova (La) Rassegna. Roma, anno II: N. 1, 5 gennaio 1917- E. Ciccotti: « Comitato di guerra? » — M. Ruini: « I doveri dell’ora » — R. Gal-lenga: « Rivoluzione > — A. Teso: « Congiure fantastiche » — O. Raimondo: « Barrère » — G. Colaianni: « L'attuale crisi austro-ungarica ».
— N. 2, 20 gennaio 1917. L. Medici del Vascello: « L’Italia e la Conferenza di Roma » — G. Paratore: « Occorre disciplinare i cambi » — M Ruini: « L’Asia Minore » — G. Colajanni: « Tisza ».
— N. 3, 5 febbraio 1917. V. Giuffrida: « I calmieri » — G. Destrée: « I.’irredentismo danese nello Sleswig » — G. Ambrosini: « Il Papa e il Con-Scesso per la pace » — R.
mini: « Helfterich ».
— N. 4-5, 20 febbraio-5 marzo 1917. HI. Simon: «Le finanze francesi e la guerra ■ — M. Ruini: « Lo sforzo dell’Italia » — S. Orlando: • La lotta contro i sottomarini » — E. Sella: « L'unità latina » — R. Murri: « Balfour » — G. Paratore: « Ancora per la disciplina dei cambi > — A. B. A-mati: « Come si possono attenuare i cambi ».
— N. 6, 20 marzo 1917. M. Soleri: • La riforma tributaria dell’on. Meda » — E. Maury: « L’enologia dei paesi latini nel dopoguerra » —-G. Piazza: « L’Italia nell’Alleanza e il suo problema coloniale » — M. Ruini: « Mi-liukof ».
Nuova Rivista storica. Milano, anno I, fase. I. G. Braccatoli: « La storia nella vita e nella scuola » — E. Rota: « Razionalismo e storicismo » (Rapporti di pensiero fra Italia e Francia avanti e dopo la
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Rivoluzione francese) — G. Porzio: « La più antica aristocrazia corintiaca ■ — Georges Platon: « Il proletariato intellettuale tedesco nel secolo xvi e la Riforma protestante ».
Rassegna Nazionale. Firenze anno XXXIX, II serie, volume VII. i® gennaio 1917. — C. Calisse: « Per l'assistenza civile e religiosa degli orfani dei morti in guerra » - R. Gar-zia: « Attorno al Metastasio » -IIle ego: « Per il funzionamento dell’istituto rappresentativo » - G. Ferretti: « Pietro Giordani epigrafista » - A. Rag-ghianti: « Alberto de Mun m un profilo di F. Meda» - E. Filippini: ■ Dopo cinque secoli dalla morte di Federico Frezzi » - Gabriele Nahape-tian: « Di un ritratto di Dante affrescato nella Chiesa di S. Croce in Gerusalemme ».
— 16 gennaio 1917. — Pio Foà: • Su la legge contro la pornografia » - M. Manfroni: « Le colonie tedesche medioevali nelle prealpi e i sette comuni vicentini » - P. G. Gio-vannozzi: « Ars et Fides » - C. Acerboni: «L’infanzia dei principi di Casa Medici ».
Rivista di Filosofia. Roma, anno Vili, fase. V, ottobre-dicembre 1916 -~ G. Zuccante: « Antistene nei dialoghi di Platone » - C. Ranzoli: « I problemi del tempo e del cangiamento nella loro evoluzione storica •- L. Botti: « Nel mondo della trascendenza » - A. Gurrierì: « Il sentimento della S'ustizia nei tragici greci » — . Mondolfo: « Chiarimenti su la dialettica erigelsiana ».
— Anno IX, fase. I — gennaio-febbraio 1917. — R. Ar-digò: « L’intelligenza » - G. Martinotti: « La vita nel Cosmo » - P. Carabellese: « La coscienza morale come teoria della volontà » - B. Varisco (L. Ventura): « La teoria della conoscenza in Maine de Bila filosofia si propongono principalmente di rendere l’uomo libero.
« Un filosofo senza coraggio è un cristiano senza fede: ecco due persone degne di disprezzo ».
« i® Settembre 1914. — L’interesse della vita si trova specialmente nei suoi contrasti: se qualcuno trova che la vita è insignificante, ciò proviene probabilmente dal fatto che gli è mancato il coraggio di allargare la cerchia delle sue relazioni.
« L’esperienza è la materia prima del filosofo: quanto più essa è vasta, sia essa diretta o indiretta, tanto più sicure sono le basi della sua filosofia ».
« 15 Ottobre 1914. — L’uomo è la creatura dell’eredità e dell’ambiente: un ambiente sordido rende l’uomo un bruto: l’amicizia lo rende umano: la reli-6ione comincia a renderlo divino. Alcuni uomini sono rutali: la maggior parte sono umani: assai pochi cominciano ad essere divini ».
« 5 Decembre 1914. —................................
Per la maggior parte degli uomini tutto il Mondo si concentra nel loro io meschino: avere invece tutto il Mondo concentrato in Dio, è questa la pace che supera ogni intendimento.
«Conoscere che Dio solo importa: questa è vera libertà ».
« 2 Febbraio 1915- — La fede in Dio è la sola base razionale dell’ottimismo. Ma per offrire questa salda base la religione deve tener conto dei fatti: e il più arduo fra questi è l’esistenza di sofferenze immeritate.
« I.a Religione è sentimento e aspirazione: essa è attestata dall’esperienza, laddove la teologia lo è dalla logica e dalla storia.
« Il Cristianesimo sopravvive perchè la Croce simboleggia il problema del dolore, e perchè i suoi supposti metafisici non hanno trovato una definizione esauriente. Il Cristianesimo è una via, e non già una spiegazione della vita: essa si basa non su un domma, ma sopra una forza ».
«25 Maggio 1915.— L’uomo si prova nell’ora del cimento: il millantatore si nasconde, l’egoista trema: solo colui che ha a cuore il proprio onore e gl’interessi altrui si dimentica di temere.
« Benedetto è chi dà: benedetto colui di cui è detto che amò tanto la dedizione di sè, che diede con gioia la propria vita.
■ La morte è una grande maestra: essa insegna agli uomini quali sono i valori veramente degni di tal nome.
« Uomini vissuti per mangiare e per bere, fra l’ambizione e l’amore di ricchezze, muoiono per l'onore e per l’amicizia.
« Vera religione è scommettere la propria vita che vi è un Dio.
« Nell’ora del pericolo tutte le persone oneste divengono dei credenti: rigettano la materia e scelgono lo spirito. La morte di un eroe basta a convincer tutti che vi è una vita eterna: essa non può esser chiamata una tragedia ».
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« 7 Giugno 1915. — Io ho veduto con gli occhi di Dio. Ho veduto l’anima nuda degli uomini, spoglia di qualunque veste estranea. Ciò che non ho visto è il rango e la fama, la ricchezza e la poveità, la col-tuia e l'ignoranza, la rozzezza e la raffinatezza. Ho visto nude le anime degli uomini: ho visto chi erano gli schiavi e chi i liberi; chi i bruti e chi gli uomini; chi i degni di disprezzo e chi i degni di onore. Li ho visti con gli occhi di Dio. Ho visto la vanità di ciò che è temporaneo, e la verità di ciò che é eterno. Ho disprezzato le comodità e onorato il dolore. Ho compreso la vittoria della Croce. O morte, dov’è il tuo pungiglione? Ed ora posso intuonare il: Nunc di-mittis, Domine. q Pioli
NELLE TRINCEE
Sull’« Echo de Paris », uno scrittore risponde alla questione: • La Francia cambierà dopo la guerra? », citando una lettera di un soldato francese nelle trincee, in cui questi professa che, benché in tutta la sua vita non abbia avuto contatto alcuno con idee e pratiche religiose, pure dallo scoppiare della guerra aveva inteso il bisogno di qualche cosa di piò alto, « la necessità di un ordine inteiiore». E l’articolista soggiunge: « I.a guerra ha suscitato sentimenti e sollevato problemi che sfidano qualunque soluzione umana. La Francia cambierà: sì, ma essa è di già cambiata ».
Sul « Christian Commonwealth » un cappellano, reduce da una visita di ministero al fronte inglese, così scriveva nello scorso decembi e: • E stato detto da alcuni giornali, che anche nelle trincee si verificano sovente casi di bigotteria religiosa, d’intolleranza, di grettezza, di settarismo. Confesso di non essermi mai imbattuto in nulla di simile: l’armonia e la cooperazione fra le diverse divise è quasi completa. Io ho tenuto dei « servizi religiosi » sia di tipo « Anglicano » sia « Nonconformista », e spesso dei cattolici vi hanno f>artecipato. Ciò che più mi ha impressionato è stata a serietà dei soldati in materia religiosa. Certamente, qualunque stato d’animo era rappresentato sul campo, ma non già la frivolezza e • l'irriverenza, nonostante la nota abbondante di gaiezza. I) profondo silenzio che accoglieva ogni parola di Gesù che fosse gettata in mezzo a loro era veramente impressionante, e faceva sentire che tutte le divisioni religiose tacevano dinanzi al sostanziale: la fedeltà al comune Signore ».
Un giovane caporale, un bravo Metodista Wesleiano, £li riferì un episodio tipico: • Durante l’assalto a oos, i Tedeschi tentarono di riprendere alcune trincee. Il sergente maggiore che comandava la difesa inglese era un vecchio Wesleiano a nome Moore. « Quando io sarò colpito, come mi attendo uno di questi giorni — aveva detto di lui, al cappellano, il colonnello che comandava il reggimento — desidero che sia il sergente maggiore Moore a lecitare su di me il servizio
ran - Il pensiero come attività » - E. Troilo (F. Formig-gini Santamaria): « Ciò che é vivo e ciò che è morto della pedagogia di Federico Fròbel ».
Rivista di Filosofia neoscolastica. Milano, anno Vili, fase. 6; 31 dicembre 1916. —• L. Bordello: « La pedagogia di G. Gentile » - A. Masnovo: « Il contributo di S. Tommaso nella costruzione generale delle Somme teologiche » - G. Pepe: « Epitteto e il Cristianesimo » - F. Olgiati: ■ Josiah Royce ed i problemi morali » — Anno IX, fase. 1; 28 febbraio 1917. — La Redazione: « Agli amici della nostra filosofia » - F. Olgiati: « Benedetto Croce e la guerra » - F. Palhoriés: « Gli antecedenti della filosofia contemporanea in Italia » - A. Gemelli: « Intorno al principio di nazionalità » - P. G. Semeria: « Natura e genesi della metafisica del Bergson »- L. Bianchi: « Francesco De Sarlo e la filosofia contemporanea » - A. Gemelli: « In morte di Théodule Rilot ».
Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliario. Roma, anno XXIV:
— Fase. 288 - 31 dicembre 1916. — V. Mangano: « La società degli stati »- R. Vuoli: « L’intervento degli enti pubblici nella delimitazione dei prezzi dei generi di prima necessità » - E. Pasteris: « Attraverso la Danimarca ».
— Fase. 289 -31 gennaio 1917. — Prof. L. Ratto: « Il nuovo regime legale delle acque pubbliche » - G. B. Familiari: « I.a Rumenia e la sua storia attraverso i secoli ».
— Fase. 290 - 28 febbraio 1917. — Prof. G. Carrara: « La riparazione dei danni di guerra - Prof. !.. Ratto: « Il nuovo regime legale delle acque pubbliche » - Prof. E. Pasteris: « Attraverso la Danimarca ».
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Rivista di psicologia. Imola, anno XIII, n. i; gennaio-febbraio 1917. — A. Galletti: «I miti dell’imperialismo germanico » - G. Tarozzi: « l.’ideale e l’obbligazione morale » - G. Rensi: »Istinto, morale, religione ».
Rivista Storica Italiana. Torino, anno XXXIII, IV serie, voi. Vili, fase. 4; ottobre-dicembre 1916. — I. Recensioni e note bibliografiche: 1. Storia generale. 2. Età preromana e romana. 3. Alto medio-evo. 4. Basso medio-evo. 5. Tempi moderni, ecc.
Scuola (La} Cattolica. Milano anno XLV, V serie, voi. XII;
gennaio 1917. — G. Ballerini: « Chiesa e civiltà nell’ora E resente » - E. lallonghi: « Le [adonne di S. Luca e l’immagine della Civita » - A. Berna-reggi: « Il clero negli eserciti ».
— i° febbraio 1917. — A. D'Amato: « S. Agostino e il vescovo pelagiano Giuliano » -P. Mozzetti: « La scienza e la guerra attuale ».
— i° marzo 1917. — F. Ol-Siati: «La conversione di G.
¡orsi - Dubbi e discussioni » -A. Cellini: « L’èra messiana e la pace secondo la Bibbia del Nuovo Testamento ».
Luce e Ombra. Roma, anno XVII, fase. 1-2, 31 gennaio-28 febbraio 1917. — A. Bruers: « Restaurazione spirituale » -Prof. E. Morselli: «Sulla origine subcosciente delle cosi dette ‘personalità spiritiche’ » - V. Cavalii: «Fato e Libertà » - L. Granone: « Spiritismo e scienza positiva ».
dei defunti ». Prima che i Tedeschi cominciassero l’attacco, il Moore si radunò d’intorno i suoi.uomini, s'inginocchiò e pregò con essi secondo il vecchio rito metodista: e quando i Tedeschi si lanciaiono all’assalto, essi sorsero per affrontarli, e li respinsero una, due. tre volte di seguito. Dopo ogni assalto, un erculeo sergente intonava l’inno: « Mantenete ardenti i vostri focolari », e in mezzo a quella scena di terrore e di strage tutti sollevavano l’inno della religione e della patria’’ G- PlOLL
A FASCIO
Un’altra perdita dell’“ Umanità”.
« Perchè mai sono i migliori che se ne vanno? » domandava Sofocle, circa 23 secoli fa, a proposito dei caduti in battaglia. La stessa domanda si pone in una delle sue ultime lettere scritte dal fronte il giovane drammaturgo Harold Chapin, caduto nella battaglia di Loos, del quale è stato scritto che «dopo Rupert Brooke, egli è l’inglese di maggior genio che il mondo abbia perduto dal principio della guerra ». La sua morte non ha fatto che rendere più angosciosa la domanda.
Egli morì, lieto del suo compito di raccogliere feriti anziché farne cadere: morì nell’atto di districare i feriti dalla rete metallica in ironte alla prima trincea. Benché morto non ancora trentatreenne, egli lascia diciassette drammi, tra i quali i più noti sono: « Il muto e il cieco »; e « Sono i poveri che aiutano i poveri ».
Antialcoolismo.
Al principio di quest’anno 1916, diciannove Stati dell’Unione Americana avevano adottato la proibizione di bevande alcooliche, con la conseguenza che più di 51 milioni di abitanti, viventi in un’area più che l’8o % della totale degli Stati Uniti, erano «asciutti» («dry»). Anche più completo è stato il successo della campagna antialcoolica nel Canadà. Nella provincia di Ontario, ad es., quasi seicento su ottocento quaranta municipi avevano adottato la proibizione.
E il movimento è andato estendendosi durante l'anno, grazie specialmente a propagandisti ispirati da motivi morali e religiosi.
G. Pioli.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma - Tipografia dell’Unione Editrice, Via Federico Cesi, 45.
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RIVISTA MENSILE ILLUSTRATA DI STUDI RELIGIOSI ® ® «
VOLUME IX.
ANNO 1917 - I. SEMESTRE
(Gennaio-Giugno. Fascicoli l-Vl)
ROMA
VIA CRESCENZIO, 2
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INDICE PER RUBRICHE
INDICE DEGLI ARTICOLI.
Amendola Èva: li pensiero religioso c filosofico di F. Dostoievsky, pagina 5, 202, 262.
Bernardo (Fra) da Quintavalle: L'avvenire secondo l’insegnamento di Gesù, ?• 93. 219. 361.
Bndget S.: Andrea Towianski c l’anima della Polonia, p. 342.
Corso Raffaele: Lo studio dei riti nuziali, P- $74Falchi Mario: Morta la Democrazia?, pagina 293.
Giulio Benso Luisa: « La vita è un sogno » di Arturo Farinelli, p. 11, 105.
Lanzillo Agostino: L’ideologia dèll’ottimi-smo, p. 188.
Orano Paolo: La nuova coscienza religiosa in Italia, p. 325.
Pioli Giovanni: Inghilterra di ieri, di oggi, di domani. Esperienze e previsioni, p. 20.
Id.: Morale e religione nelle opere di Shakespeare, p. 253.
Id.: ■ Confessori » non • martiri ». - Basii Wilberforce - Il barone Radstock - Lettere del Fogazzaro al barone Radstock - Josiah Royce - Beniamin Kidd. pagina 398.
Puglisi Mario: Le fonti religiose del problema del male, p. 39, no, 38«.
Rosazza Mario: ■ Il ritorno di Macchia-velli », p. 287.
Rubbiani Ferruccio: Un modernista del Risorgimento, p. 278, 349.
Tosatti Quinto: Giordano Bruno, p. 173.
NOTE E COMMENTI.
Costa Giovanni: Il « Christus » della « Ci-nes», p. 57.
Gay Gaio: Le idee religiose di un deputato italiano, p. 56.
Luzzatto Leone: Il nome « Farisei », p. 61.
Pioli Giovanni: Il Codice di Diritto Canonico, p. 129.
Qui Quondam: Lettera aperta a Benedetto Croce, p. 57.
Red.: Una lettera di Francesco Buffi ni, p. 55.
PER LA CULTURA DELL’ANIMA.
Monnier Enrico: Alla luce dell’invisibile, p. 299.
Monod Wilfredo: "Segni dei tempi », pagina 232.
Id.: L’anniversario della mobilitazione, p. 410.
Soulier Edoardo: L'attesa, p. 123.
INTERMEZZO.
Mirella Paschetto: Tavola tra le pagine 72 e 73TRA LIBRI E RIVISTE.
A) I libri.
Amélineau E.: Prolégomènes à l’étude de la religion égyptienne, p. 139.
Bourget Paul: Le sens de la mort, p. 313.
Bremond .Henry: L’Humanisme dévot, p. 244.
Calabro Giuseppe: Mazzini; la dottrina storica, p. 62.
Collezioni italiane di classici greci e latini (G. Costai, p. 422.
Della Seta Ugo: Morale, diritto e politica internazionale nella mente di G. Mazzini, p. 62.
Destrée L: 11 principio delle nazionalità e il Belgio, p.- 72.
Die Schriften des Alten Testament in Auswahl neu übersetzt und für die Ge-5 eu wart erklärt, p. 132.
k-lore militaire suisse (Raffaele Corso), p. 68.
Gerosa P.: Sant’Agostino e la decadenza dell’impero romano, p. 424.
132
IV
«LYCHNIS
Goodspeed E.: Die ältesten Apologeten, P- x35Graillot H.: Le culto di Cybèle, mère des dieux à Rome et dans l’empire romain (Giov. Costa), p. 136.
Harnack Adolf: Die Mission -und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, p. 13 c.
Juvalta E.: Il vecchio e il nuovo problema della morale, p. 67.
Lake Kirsopp: The Stewardshipp of Faith, p. 136.
Lanoe-Villène: Principes généraux delasym-bqlique des.religions (Giov. Costa), p. 143.
Levi Alessandro: La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, p. 62.
Locatelli Milesi G.: Ergisto Bezzi (11 poema di una vita), p. 71.
Lodge Oliver: Raynund, or Life and death, p. 240.
Loisy Alfred: Mors et vita, p. 313.
Mariani Mario: Il ritorno di Machiavèlli (M. Rosazza), p. 287.
Marugi G. L.: Capricci sulla iettatura I (Raffaele Corso), p. 70.
Melchiori E.: La lotta per l’italianità delle terre irredente, p. 248.
Mieli Aldo: La storia della scienza in Italia, P- 3*9Id.: Storia generale del pensiero scientifico dalle origini a tutto il sec. xvni, p. 319.
Molinier S.: Les « maisons sacrées » de Délos au temps de l’indépendance de l'ilc (Giov. Costa), p. 138.
Momigliano Felice: G. Mazzini e la guerra europea, p. 62.
Montefiore C.: Judaism and St. Paul, p. 134.
Montenovesi Ottorino: Il Campo Santo di Roma. Storia e descrizione (Raffaele Corso), p. 244.
Onomastico» totius latinitatis, curante Jos. Perin (Giov. Costa), p. 151.
Paladini Carlo: Impero e libertà nelle colonie inglesi (Luzzi Giovanni), p. 425.
Patton C.: Sources of the synoptic gospels, p 134Roussel A.: La religion dans Ilomère (Giov.
Costa), p. 141.
Salvemini Gaetano: Mazzini, p. 62.
Sanna Giovanni: La civiltà del Mediterraneo (Giov. Costa), p. 246.
Scnizza G.: Storia di Trieste, p. 72.
Scrtillanges A. D.: La filosofia morale di S. Tommaso d'Aquino, p. 243.
Id.: Les grands philosophes, S. Thomas d'Aquin, p. 244.
SI ataper Scipio: Ibsen (Luisa Giulio Benso), p. 152.
1 Suarès A.: Cervantes (G. Costa), p. 150. Thompson P.: Monumenti della Palestina al tempo di Gesù, p. 132.
j Visconti Luigi: La dottrina educativa di G. A. Fichte e i Discorsi alla nobiltà tedesca, p. 419.
Zampini G.: San Paolo, p. 135.
B) Le riviste.
Archeologia biblica, p. 132.
Babelon E.: Divinità celtiche (Giov. Costa), p. 306.
Benda Julien: Estetica e Germanesimo, p. 318.
Bergson H.: Progrès et Bonheur, p. 239.
Blum G.: Il culto di Alessandro Sole, (Giov. Costa), p. 305.
Boak A. E. R.: La deificazione dei sovrani nell'antichità (Giov. Costa), p. 306.
Box G.: Giudaismo, antico e moderno, P- *33- .................
Brezzo G. L.: Condizioni di liceità di una guerra secondo la tradizione cattolica, P- 3’5Bryce: La religione come fattore nella storia degli imperi, p. 311.
Calza G.: Un santuario mitriaco ad Ostia, P- 309- . «
Cordcy Henri: Edmond de Pressensé et son temps, p: 417.
Dconna W.: Les solaires, p. 311.
Ducati P.: Riti funebri etruschi (Giov. Costà), p. 142.
Eisenstadt Anna Vera: Socialismo c matc-~ rialismo, p. 316.
Gentile Giovanni: Mazzini, p. 62.
Giannelli G.: La donna nel sacerdozio romano (Giov. Costa), p. 142.
Giudaismo antico e moderno, p. 133.
Lafaye G.: La litania greca d’Iside (G. Costa) p. 307.
Lamanna E. P.: L’amoralismo politico, P- 4’5Langdon S.: La leggenda della discesa di Istar all’inferno, p. 308.
Loth J.: Divinità celtiche, p. 306.
Maynard Costance L,: L'amore che non è l’adempimento della legge, p. 317.
Merlin A.: Le purificazioni rituali, p. 310.
Milano Euclide: Costumanze e leggende popolari delle regioni cuneesi (Raffaele Córso), p. 69.
Murri Romolo: I miti politici, p. 241.
Olgiati F.: B. Croce e la, guerra, p. 420.
Pantaloni Maffeo: I miti politici, p. 241. Paris P.: Il mitreo di Menda, p. 309.
Parodi Domenico: Socialismo e materialismo, p. 316.
133
INDICE
V
Pasquarelli M. G.: Appunti di antropoio- I già e sociologia criminale popolare (Raffaele Corso), p. 70.
Pasquarelli M. G.: Note di Folk-I.ore criminológico nel Venezuela (Raffaele Corso), p. 245.
Platon Georges: Il proletariato intellettuale tedesco nel sec. xvi e la Riforma ! protestante, p. 416.
Rabizzani G.: N. Tommaseo e la lugo- I slavia, p. 248.
Ramsay W.: I misteri asiatici, p. 308.
Rapisarda N.: Il mito di Polifemo, Aci e | Galatea, p. 3 ro.
Semeria Giovanni: I.e origini del Berg- . sonismo, p. 419.
Toutain J.: L’idea religiosa della redenzione, p. 310.
Verneau R.: I chiodi sui feticci (Giov.
Costa), p. 304.
Wardo Fowler W.: Il trionfatore romano non è la personificazione di Giove, pa- | gina 312.
LA GUERRA.
Notìzie — Voci - Documenti.
PP- 73. I53. 4«9ILLUSTRAZIONI.
Ritratto di F. Dostoievsky. Disegno di Paolo Paschetto. - Tavola tra le pagine 8-9.
Keir Hardie, il minatore deputato, fondatore del partito socialista inglese -La Cattedra e di Rouen - Interno della cattedrale di Rouen - Rouen: Torre in cui fu rinchiusa Giovanna d’Arco -Profanazione di una chiesa - Russi che soccorrono un ferito tedesco - Crocifìsso rispettato dagli obici di un bombardamento - Tavola tra le pagine 32-33.
Mirella Paschetto. - Tavola tra ìe pagine 72-73.
Cimiteri di Guerra. - Tavola tra le pagine 160-161.
Ritratto di Giordano Bruno. Disegno di Paolo Paschetto. - Tavola tra le pagine 176-177.
« Russia ». Disegno a tre colori di Paolo A. Paschetto. - Tavola tra le pagine 208-209.
Ritratto di Shakespeare. - Tavola tra le pagine 256-257.
Arcidiacono Basii Wilberforce. - Barone Radstock. - Tavola tra le pagine 400-401..'
134
INDICE GENERALE
Aci: li mito di Poiifcmo, A. e Galatea, p. 310.
Agostino (S.): Sant’A. e la decadenza dell’impero romano, p. 424.
Alessandro Sole: II culto di A., p. 305.
Amélineau E., p. 139.
Amendola Èva, p. 5, 202, 262.
Amoralismo: L’A. politico, p. 415.
Amore: L’A. che non è l’adempimento della legge, p. 317.
Antico Testamento: Antologia dell’A. T., p. 132: Archeologia biblica, p. 132.
Apologia cristiana: Le origini ‘ cristiane, P- *35Archeologia: A. biblica, p. 132.
Assiriologia: La leggenda della discesa di Isar all'inferno, p. 308.
Babelon E., p. 306.
Benda Julien, p. 318.
Bergson H., p. 239. Le origini del Bergso-nismo, p. 419.
Bezzi Ergisto, p. 71.
Bibbia: Cronaca biblica (Antologia del-l’Antico Testamento - Archeologia biblica - Giudaismo antico e moderno -La questione sinottica - Circa San Paolo -Le origini cristiane), p. 133.
Blum G., p. 305.
Boak A. E. R., p. 306.
Bourget Paul, p. 313.
Box G., p. 133.
Bremond Henry, p. 244.
Brezzo G. L., p. 315.
Bridget S., p. 342.
Bruno Giordano, p. 173.
Bryce,.p. 311.
Calabro Giuseppe, p. 62.
Calza G., p. 309.
Campbell J., p. 86.
Cattolicismo: La tradizione cattolica e la guerra, p. 315.
Cervantes, p. 150.
Chapin Harold, p. 444.
Cibele: Il culto di C., p. 136.
Corso Raffaele, p. 68, 244, 374.
Cordey Henri, p. 417.'*
Costa Giovanni, p.58,71,136,150,305,422.
Croce Benedetto: Lettera aperta a B. C., p. 57; B. C. i neò-scolastici e la guerra, p. 420.
Culto: Il C. di Cibele, p. 136; Il C. di Alessandro Sole, p. 305; Il C. celtico, p. 306: Un simbolo del C. solare, p. 311?
Della Seta Ugo, p. 62.
Deio: I templi di Deio ai tempi dell’indipendenza dell’isola, p. 138.
Democrazia: Morta la D.?, p. 293.
Deonna W., p. 311.
Destréc L, p. 72.
De Waal mgr. Anton, p. 74.
Dio: D. nella concezione di Josiah Royce, p. 147.
Donna (la): L a D. nel sacerdozio romano, p. 142.
Dostoievsky Feodor: Il pensiero religioso e filosofico di F. D., p. 5, 202, 262.
Ducati P., p. 142.
Egitto: Prolegomeni per lo studio della religione egizia, p. 139.
Eisenstadt Anna Vera, p. 3x6.
Estetica: E. e Germanesimo, p. 318.
Etnografia: E. religiosa, p. 68, 244.
Etruschi: Riti funebri degli E., 142.
Falchi Mario, p. 293.
Farinelli Arturo, p. 11, 105.
Farisei: Il nome « Farisei », p. 60.
Fichte G. A.: F. pedagogista, p. 419.
Filosofia: 11 pensiero religioso e filosofico di F. Dostoievsky, p. 5, 202, 262; Rassegna di F. religiosa, p. 62, 144, 239, 31$; Giordano Bruno, p. 173; Morale e religione nelle Opere di Shakespeare, p. 253.
Finot Jean, p. 259.
Fogazzaro Antonio: Lettere di A. F. al barone Radstock, p. 403.
135
INDICE
VII
Folk-Lore,* v. Etnografia religiosa. Religione.
Fonsegrivc Georges, p. 320.
Galatea: Il mito di Polifemo, AcieG.,p. 310.
Gay Gaio, p. 56.
Gentile Giovanni, p. 62.
Gerosa P., p. 424.
Gesù: I.’avvenire secondo l’insegnamento Ìli Gesù, p. 93, 219, 361.
ignoni A., p. 3x3.
Giannelli G., p. 142.
Giove: Il trionfatore romano non è la personificazione di G., p. 312.
Giudaismo: G. antico e moderno, p. 133; G. e san Paolo, p. 134.
Giulio Benso Luisa, p. 11, X05, 152.
Goodspeed E., p. 135.
Graillot H., p. 136.
Granville Augusto Guglielmo Waldegrave, barone Radstock, p. 401.
Guastalla Cosmo, p. 147.
Guerra: G. e immortalità, p. 313; La tradizione cattolica e la G., p. 315; La G. (Notizie, voci e documenti), p. 73, 153, 429: Benedetto Croce i neo-scolastici e la guerra, p. 420.
Guerrieri-Gonzaga Carlo, p. 278, 349.
Harnack A.', p. 135.
»idealismo: L’I. di Josiah Royce, p. 148.
Immortalità: Guerra ed L, p. 313.
Iside: La litania greca d’L, p. 307.
Istar: La leggenda della discesa d’L all’inferno, p. 308.
luvalta.E., p. 67.
Keir Hardie J.» p. 22.
Kidd Benjamin, p. 408.
La(aye G-, p. 307.
Lake" Kirsopp, p. 136.
Lamanna E. P., p. 415.
Langdon S., p. 308.
LanoS-Villène, p. 143.
Lanzillo Agostino, p. 188.
Locatelli Milesi G.. p. 71.
Loisy Alfred, p. 313.
Loth J„ p. 306,
Loyson Hyacinte, p. 417.
Lug (dio celtico), p. 306.
Luzzatto Leone, p. 61.
Luzzi Giovanni, p. 425.
Machiavelli: Il ritorno di M., p. 287.
Male: Le. fondi del problema del M., p. 56, no, 381.
Mariani Mario, p. 287.
Marugi G. L., p. 70.
Materialismo: Socialismo e M., pi 316.
Maynard Costmee L., p. 317.
Mazzini Giuseppe: Il ritorno di M.» p. 62.
Melchiori E., p. 248.
Merlin A., p. 310.
Metafisica: Morale e M., p. 243.
Mieli Aldo, p. 319.
Milano Euclide, p. 69.
Mitra: Un santuario mitriaco ad Ostia, p. 309: Il mitreo di Merida (Spagna), p. 309.
Modernismo: Un modernista del Risorgimento (Carlo Guerrieri Gonzaga), 278, 3-J9Mohnier S., p. 13S.
Momigliano Felice, p. 62.
Monnier Enrico, p. 299.
Monod Vilfredo, p. 232, 410.
Montefiore C„ p. 134.
Montenovesi Ottorino, p. 244.
Morale: M. e metafisica, p. 243; M. e religione nelle opere di Shakespeare, p. 253.
Moretti Andrea, p. 56.
Munsterberg, p. 144»
Murri Romolo, p. 241.
Nazionalismo: Religione e N., p. 416.
Neoscolasticismo: B. Croce, i neo-scolastici e la guerra, p. 420.
Nuovo Testamento: La questione sinottica, p. 134; Circa san Paolo, p^ 134.
Olgiati F., p. i$o, 420.
Omero: La religione in O., p. 141.
Orano Paolo, p. 325.
Paladini Carlo, p. 425.
Pantaleoni Maffeo, p. 241.
Paolo (san): P. e i misteri asiatici, p. 308.
Paris P., p. 309.
Parodi Domenico, p. 316.
Paschetto Mirella, p. 72.
Paschetto Paolo A., p. 8, 176, 208.
Pasquarelli M. G., p.‘ 70, 245.
Patton C., p. 134.
Pedagogia: Fichte pedagogista, p. 419.
Perin Giuseppe, p. 151.
Petre M. D.. p. 314.*
Platon Georges, p. 416.
Pioli Giovanni, p. 20, 82, 85, 129, 153.
162. 167, 233, 398, 437.
Polifemo: Il mito di P., Aci e Galatea. p. 310.
Pressensé (de) Edmond, p. 417.
Progresso: P. e felicità, p. 239.
Puglisi Mario, p. 39. no, 381.
Purificazioni: Le P. necessarie per entrare nei templi di divinità greche o latine, p. 310.
136
Vili
BILYCHNIS
Quinavalle (da) fra Bernardo, p. 93, 219. 361..
Rabizzani G., p. 248.
Radstock (lord), p. 401.
Ramsay w., p. 308.
Rapisarda N., p. 310.
Redenzione: L’idea religiosa di R., p. 310. Religione: Il pensiero religioso e filosofico di F. Dostoievskv» p- 5. 202, 262: Le . fonti religiose del problema del male, n. 39; Le idee religiose di un deputato italiano, p. 56, 110: Rassegna di filosofia religiosa, p. 62, 144, 239, 313. 415: Religioni- del mondo classico, p. 136, 305: R. e nazionalismo, p. 416: La riforma religiosa, p. 417; Morale e R. nelle opere di Shakespeare, p. 253; La nuova coscienza religiosa in Italia, p. 325.
Ribot Théodule, p. 320.
Riforma: La R. religiosa, p. 417.
Rosazza Mario, p. 287.
Roussel A., p. 141.
Royce Josiah, p. 144, 407.
Rubbiani Ferruccio, p. 278, 349.
Ruffini Francesco, p. 55.
Rutili Ernesto, p. 82.
Sacerdozio: La donna nel romano, ». 142.
Salvemini Gaetano, p. 62, 313.
Sanna Giovanni, p. 246.
Semeria Giovanni, p. 419.
Senizza G., p. 72.
Sertillanges A. D., p. 243.
Shakespeare: Morale e religione nelle opere di S., p. 253.
Simbolismo: Principi generali della simbolica delle religioni, p. 143.
Slataper Scipio, p. 152.
Socialismo: S. e materialismo, p. 316.
Sole: Un simbolo del culto solare, p. 311.
Soulicr Edoardo, p. 123.
Spiritismo: Si e Spiritualismo, p. 240.
Spiritualismo: Spiritismo e S., p. 240.
Su^rds A., p. 150.
Thomsen P., p. 132.
Tommaso d'Aquinb (s.): La filosofia morale di S. T. d’A., p. 243.
Tosatti Quinto, p. 173.
Toutain J., p. 310.
Towianski Andrea: A. T. e l’anima della Polonia, p. 342.
Tradizione: La T. cattolica e la guerra,
P- 3X5-,
Tyrrell Giorgio, p. 314.
Warde Flower W.» p. 312.
Wautier d’Aygalliers A., p. 429.
Verneau R., p. 305.
Wilberforce Basii, p. 398.
Visconti Luigi, p. 4x9.
Zampini G., p. 135;
138
Prezzo del fascicolo Lire 2 —