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Anno IX. - Fasc. II.
ROMA - FEBBRAIO 1920
Volume XV. 2
SOMMARIO
R. CORSO : La rinascita della superstizione nell’ultima guerra...... pag. 81
G. FERRETTI : Le fedi, le idee e la condotta » 99 •
V. CENTO : L'essenza del modernismo. »114'
“Adexcelsa tendo" Disegno di P.Paschetto » 132 *
Per la cultura dell’anima :
R. ZELLER: Il calice di gioia. ...... »133
Note e commenti:
1. AMANTI:. Oltre il Rubicone ...... » 136 I
M. PUGLISI : Cristianesimo esoterico .... pag. 139
Cronache: •
QUINTO TOSATTi : Politica vaticana e azione cattolica . .......... . . » 141
Tra libri e riviste:
r. e p. : Studi biblici.......... >147
m. : Filosofia politica .......... »151 Recensioni (Nuovo Testamento - Religione e questioni
sociali - Varia) ........ • ...» 155.
Letture ed appunti '. ........ »159
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RII YCHNIS RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
Dllu I VniNlg . . FONDATA NEL 1912 > ►
CRITICA BIBLICA STORIA DEL CRISTIANESIMO B DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA PEDAGOGIA FILOSOFIA RELIGIOSA-*. MORALE-* QUESTIONI VIVE — LE CORRENTI .MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO - LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL' ESTERO
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PÀSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l'Estero; via del Bàbuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE : Via Crescenzio; 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l’Italia, L. 10; Perl'Estero, L. 15; Un fascicolo, L. 1,50 •
[Per gli Stali Uniti e per i! Canadà è autorizzato ad esigerò gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica, B. D. Pastor, 1414 Gasile Ave, Phlladdphia, Pa. (U. S. A.)].
Abbonamento annuo cumulativo con la Rivista ’di Milano, rassegna quindicinale di lette- . ratura, poesia, critica, arte e politica, L. 30.
/ Id$ col Testimonio, rivista mensile delle chiese battiste italiane, L. 13,50.
Id. col 'Coenobium, rivista internazionale di liberi studi, L. 20.
Id. con Fede e rivista della federazione studenti per la cultura religiosa, ’L." 12,50.
Corrispondènti e collaboratori sono pregati 'd'indirizzare quanto riguarda la Redazióne impersonalmente alla
Direzione della Rivista “ BILYCHNIS ” - Via Crescenzio 2, ROMA 33
Gli articoli firmati vincolano, unicamente Popinione dei lóro autori.
I manoscritti non si restituiscono.
I collaboratori sonò pregati nel restituire le prime bozze di far conoscere il numero degli estratti che desiderano e di obbligarsi a pagarne le spese. Per il notevole .costo dèlia carta e della mano d’operaia Rivista non dà gratuitamente alcun estratto.
Nel -1920 pubblicheremo, tra gli altri, i seguenti articoli:
P. E.Tavolini, La religione degli antichi Finni.
F. De Sarlo, L'opera filosofica e scientifica di E. Haeckel (con ritratto).
E. Troilo, La filosofia di Giorgio Politeo (con ritratto).
G. Lesca, Filosofia e religione nella poesia di G. Pàscoli.
M. Rossi, Lutero.
A. De Stefano, La riforma religiosa di Arnaldo da Brescia. • •>
Fr. Giulio, La filosofia di Benedetto Croce.
F. Momigliano, I momenti dd pensiero italiano.
G. Tucci, A proposito dei rapporti fra cristianesimo e buddismo.
A. Renda, Incompetenza ddla psicologia nello studio dei valori.
A. Renda. Le riduzioni dèi valori.
A.'.Chiappelli, La’crilièa del Nuovo Testamento nel XX secolo.
C. Formichi, Paul Deussen nella Vita e nelle
• • opere. .
L. Salvatorelli, Lo Stato nel pensiero cristiano del II e III secolo.
; Ci.ànno pur assicurato il loro contributo
Tilgher, Dino Provenzal, A. Tagl¡alatela. Per la. caltqra dell’anima ci ànno promesso il «loro concorso Fra Masseo da Pratoverde, G. Luzzi, A. Tagliatatela ed altri. Umberto Nani, partito ■recentemente per la Jugoslavia è la Czecoslovacchia, ci trasmetterà delle Interessanti corrispondenze sur movimento religioso in quei paesi.
G. Pioli, Uomini e cose d'Inghilterra (note). — L'unità nelle scienze, in filosofia morale e religione.
P. Arcari, La pittura religiosa di Eugenio Sur-nard (con illustrazioni).
P. Orano, I cattolici in Parlamento.’<
— Il- problema della scuola.
G. Costà, Il valore storico della « Passio S. Fe~ licioni*.’ ’•
C. Pasgal, Superstizioni, magie e venefici alla Corte neronianaG. Rensi, Il Lavoro. % T
— La Storia. . .
M. Puglisi, Franz Brentano (con ritratto).
— I misteri pagani e il mistero cristiano.
U. Della Seta, Un riformatore: Senofane di Colofone.
A.
Vasconi, Una lettera inedita di Tancredi \ Canonico.
G- A- Colónna di Cesarò, La guerra europea dal punto di vista spiritualeR. Pettazzoni, Il problema del zoroàstrismoI proti. G. Levi della Vida, A. Calderlni, Adriano
L'Amministrazione ricerca copie del fascicolo del febbraio 1919 che contraccambierà con pubblicazioni di sua edizione del valore .di L. 2.
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Libreria Editrice BILYCHNIS - Via Crescenzio 2 - ROMA, 33
PUBBLICAZIONI IN DEPOSITO
Delle nuove pubblicazioni, appartenenti al ciclo degli studi di cui si occupa la rivista, faremo un brevissimo cenno nel darne l’annuncio, qualora gli editori alle copie da tenere in deposito aggiungano una in omaggio. Solo pubblicando questo cenno bibliografico assumiamo la responsabilità dell’indicazione dell’opera. 0
I prezzi segnati non subiscono aumenti e le spedizioni sono franche di porto. Per gl’invìi sotto fascia, raccomandati, aggiungere cent. 30.
La libreria si incarica di qualsiasi ordinazione di libri in Italia ed all’estero. Essa è l’unica rappresentante in Italia della University oj Chicago Press, il cui catalogo viene spedito gratis a richiesta.
Delle opere segnate con asterisco esistono ancora pochissimi esemplari.
CULTURA DELL’ANIMA
GRATRY A.: Le sorgenti, con prefazione di G. Semeria 4,50 !
Monod W. : Silence et prière ' 6 —
■ li vit............ r 6 — I
Tl régnera . . . . . 6 —
• Délivrances 5 L’Evangile du rojaume 5
Vienot J.: Paroles françaises prononcées a 1’ oratoire du.
Louvre 2,50
Wagner C.: L’ami ... 7 —
— ■ Le vie simple ... 5 —
A travers le prisme du | temps . ................4,50 !
—- J ustice . 1 . . . . . 6 — '
Discours religieux . 4 —
FILOSOFIA
•Angeli N.: La grande illu-1 sione, versione di A. Cerve-sato...................2,50
Della Seta U.: G. Mazzini pen- j
•safore . . . . . . jo —
Della Seta U. : Filosofìa morale (Vol. I e II) . . 12 —
Ferretti G.: Il numero e i fan- ! ciulli, capitolo d'ùna didat- i tica (ZclÎ’inventività. 2 —
È uno dei vari aspetti sotto cui il nostro egregio collaboratore I vede il problema dclPeducaziooo |
filosofica, dell’ autocoscienza, del- I l'autunonAa morale c far con ver- ' gore anche l'insegnamento «lei | numero a questoVne, non renderlo, come tanti insegnamenti.) vano od inutile. E le belle pagine ’ in cui egli dimostra come si debba । fare si leggono'non solo con in- :| teresse, ma con diletto.
Von Hügel F.:. Religione ed' illusione . . . . . . r —
Losacco M.: Razionalismo è Intuizionismo ... 1 — i
Rapini G.: Il tragico quoti- ! diano.....................5,50 '
—- Ci opuscolo dei filosofi 3,50
— Un uomo finito. . . 5 — '
Rensi G.: Sic et non (meta- ; fisica e poesia) . . . 3,50
GUERRA E ATTUALITÀ
Andreief L.: Sotto il giogo | dèlia guerra .,. . . 3,501 “ E un libro di guerra che ha • sopratutto il carattere della sinC cerila. E un documento delie-1 poca terribile che abbiamo atira- ! versato, in cui ogni eroismo, ogni ferocia, ogni dolore ha ' trovato il suo esempio „
(A. Faggi nel M'irsorto\
Bois H.: La guerre et la bonne conscience ..... 0,70
Ciarlantini: Problemi dell’Alto Adige ....... 3,50 Ghelli S.: La maschera dell’Austria ..... 6 —
Kolpinska A.: I precursori della rivoluzione russa 6 —
I.’A. stessa à dichiarato il metodo del suo lavoro, metodo di antologia d di mosaico e à con ciò tributato a sè stessa la maggior lode. Piuttosto che un’opera di storico assi mi la tore, essa à fatto opera dì espositore coscienzioso. di quanti ne* due ultimi secoli segnarono le tappe essenziali dello sviluppo della Russia. Gl'Italiani leggano e meditino le pagine della K.; ciò li esimerà forse dai vaniloqui retorici degli estremisti di tutti i partiti.
Maranelli e Salvemini: La questione dell’Adriatico. 6 —
Murri R. : L’anticlericalismo (origini, natura, mètodo e scopi. pratici) . . . . 1,25
MURRI R. : Guerra e religione, Voi. I. Il sangue e l'altare
2 MURRI R. : Guerra e religione. Voi. II. L’imperialismo ecclesiastico e là democrazia religiosa . . . . . ... 2
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Libreria Editrice BILYCHNIS - Via Crescenzio, 2 - ROMA 33
Puccini M.: Come ho visto il j Friuli...............£ '• * 5—।
Senizza G.: Storia e diritti di Fiume italiana ... i —
Soffici A.: Kobilek (giornale di battaglia) .... . 3,50
Stapfer: Les leçons de la guerre
4
Wilson: La nuova libertà. 4 —• Wilson : Un soldat sans peur et I sans reproche (en mémoire j de André Cornet-Auquier). ;
1.30 I
Zanotti-Bianco U. e Caffi A.: La pace di Versailles, note e documenti (con ?o carte' etnografiche e politiche) 10 -Consigliamo a quanti^vogliono essere edotti sobriamente^« fondamentalmente dei problemi sollevati, risolti o... lasciati insoluti dal Trattato di Versailles, questo volume che, corredato di numerose e nitide carte geografiche, ricco di statistiche e compilato su documenti, tende a formare una concezione politica nuova di fronte alla vecchia che momentaneamente à prevalso.
La Chiesa e i nuovi tempi 3,50 ।
Raccolta di scritti originali di Giovanni Pioli - Romolo Murri -Giovanni E. Meille - Ugo Ianni | - Mario Falchi - Mario Rossi Qui Quondam ,, - Antonino ! De Stefano - Alfredo Tagliatatela. j
LETTERATURA
Papini G.: Parole e sangue.
3>5°
Sheldon C.: Crocifisso! romanzo religioso sociale tradotto da E.Taglialatela. 2 —
Soffici A.: Scoperte e massacri . . ...........5 —
Vitanza C.: Spiriti e forme del divino nella poesia di M. Ra-pisardi (conferenze). 1,50
. RELIGIONE E STORIA
CHIMINELLI P. : Gesù di Nazareth . . . . (in ristampa)
— Il Padrenostro e il mondo moderno ....... 3 —
S. Caterina da Siena: Libro della Divina Dottrina, vol-Sármente dettò « Dialogo ella Divina Provvidenza » a cura di Matilde Fiorini 5,50
Comba E.: La religione cri-■ stiana . .............0,75
Cumont F.f Le religioni orientali nel paganesimo romano ... '. . . . . 4 ■—
| Janni U.: Il dogma dell’Eucari-stia e la ragione cristiana 1,25
Lea H. Ch.: Storia della confessione auricolare e delle indulgenze nella chiesa, latina (versione di Pia Cre-monini), 2 volumi . 36 — — Le origini del potere temporale dei papi . '. . -5 —
Loisy A. : La Religion. 5 — - Mors et vita . . . . 2,25
—- Epitre aux Galates. 3,60 — La paix des nations . 1,80 Ottolenghi R.: I farisei anti-chi e moderni.... 4 —
Paladino G.: Opuscoli e lettere di Riformatori italiani
¿Della Seta U.: Morale, Diritto e Politica internazionale nella mente di G. Mazzini.
1.50
Dell’Isola M.: Etudes sur Montaigne -. . . . . . i 2,50
Jahicr P.: Ragazzo . 3,50 1
Brevi, ma vive pagine di vita ’ vissuta, scrìtte in uno stile che à I i tratti duri, ma incisivi di alcune ' xilografie c che par più- che dipingere trarre dal marmo dell’esposizione fredda la vitalità della statua. È tutto perfuso di una spiritualità fremente e d’una poesia dolorosa che in- una prosa tutta speciale è più espressiva talvolta della stessa poesia.
I.anzillo A.: Giorgio Sorel. 1 —Di Soragna A.c Profezie di
Isaia, figlio di Amos. 5 — Gautier L.: Introduction a
1* Ancien Testament. 2 volumi ....... 26 — — La Loi dans, l'ancienne alliance . . . .- . . .' 2,25 •Hûgel e Briggs : La Commissione biblica e il Pentateuco (estratto da « Il Rinnovamento ») . . . 0,50
PETTAZZONI R. : La religione primitiva in Sardegna
V 6 —
Salvatorelli Li: Introduzione bibliografica alla' scienza delle Religioni5 —
— Il significato di « Nazareno » . . . . ... 1,50
TYRREL G.: Autobiografia , e Biografìa (per qura di M.
D. Petre) .... . . . . 15 —
A1 nostri abbonali non morosi !.. 10,50 franco di porlo.
— Lettera confidenziale ad un professore d’antropologia
0,50
Vitanza C.: La leggenda dèi « Descensus Christi ad in-* feros ■...........’. . 1,50
Wenck F.: Spirito e spiriti nel Nuovo Testamento. 0,75
X. Là Bibbia e la Critica. 2 —
X. Lettere di un prete modernista ...... 3.5°
Nuovo Testamento, tradotto e corredato di note e di prefazioni dal prof . G. I.uzzi 1,80
Nuovo Testamento e Salmi (e-dizione Fides et Amor) 3 I Vangeli e gli Atti degli Apostoli .(edizione Fides et A-. mor) ......” . i,8o
I Salmi (Edizione Fides et
-Amor) 1.80
| Giobbe, tradotto da G._ I.uzzi - 1,80
VARIA
Cadetti A. : Con quali sentimenti sono tornato dalla guerra . . . . ... 1,50
Martinelli: Per la vittòria morale . ;...............3,50
Papini G; : Chiudiamo le scuole 1 —
( Scarpa A.: La scuola delle
. mummie . . . . . 1 — •
| Del Vecchio G.: Effetti morali del terremoto in Calabria se' condo F. M. Pagano . 2 Pioli G.: Educhiamo i nostri padroni . ’. ... s • 2.50
(•••) Mancanza di garanzie nello schema e nel nuovo Co-. dice di diritto canonico e
Saggiò su le fonti. . . 3 —
del Cinquecento . . . 5,50
5
BILYCMNI5
RIVISTA di sTvdi religiosi
EDITA DALL A-FACOLTA-DELL ASCVOLAJsiS SSSSRkTEOLOGICA- BATTISTA* DI-ROMA
Anno IX - Fasc. II.
ROMA - FEBBRAIO 1920
VOL..XV. 2
LA RINASCITA DELLA SUPERSTIZIONE NELL’ULTIMA GUERRA'“
LA SUPERSTIZIONE
er quanto continuamente estirpata, l’ignobile pianta della superstizione, rigermogliando dalle vecchie zolle, fiorisce ancora sui sentieri della civiltà, e torna ad abbarbicarsi al cuore umano, come l’edera che, rimossa ed abbattuta, risorge e si avvince coi molteplici amplessi al tronco dell'annosa quercia.
L’amara constatazione non è .’nuova; ma è invece, d’ogni epoca, e vorrei dire, di ogni luogo e di ogni popolo ; e in ciascuno tanto più rilevante,. quanto più vivo è il
contrasto fra la verità e l’errore, la religione e il pregiudizio. Da lunghi secoli,
uomini sapienti, ora in abito di maghi o di sacerdoti, ora in aspetto di apostoli o di tribuni, procedono a debellare la malefica flora, che essi, con raccapriccio, vedono crescere dapertutto in ogni angolo e ad ogni istante, nella luce e neH’Qmbra, sui monti e nelle valli, accanto ai tempii ed alle case, tra le magnifiche produzioni del
bene e del progresso.
Senonchè, spinti verso un solo splendido fine, essi, gli illuminati d’ogni tempo, non si trovano davanti a un fatto sempre uguale nella veste e nella sostanza, ma
(x) Prelezione al corso di Etnografia per l’anno scolastico 1919-1920, letta nell'istituto di Antropologia della R. Università di Roma, il giorno 8 dicembre 1919.
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B1LYCHNIS
invece, di fronte a un fenomeno vario e variabile per specie e forma, a seconda della natura del suolo che lo produce, e dell’epoca storica, in cui gli uomini vivono, pensano e agiscono. Davanti ai loro occhi non si presenta, in ogni tempo, un assoluto superstizioso, con caratteri stabili e definiti, giacché questo non c’è c non può esistere, come non ci sono e non possono ammettersi istituzioni immobili, religioni perenni e costumanze immutabili.
Questo stato relativo della superstiziosità non hanno veduto quelli che, studiando i pregiudizi plebei, han creduto di poter intendere il primo, antico e, vorrei dire, originario significato della vecchia parola latina « supèrstiti© » con le nostre idee, con le costumanze dell’epoca attuale. La parola che sopravvive non sempre chiude in sè l’antica idea, come una sacra reliquia da tramandare intatta e pura alle successive generazioni. Essa non è sempre un destino, come asseriva il Ballanche.
Col volger dei tempi muta il modo di determinare i limiti e quello di valutare il contenuto delle superstizioni; ond’è che, a seconda del punto di vista morale o religioso, filosofico o sociale, da cui ci poniamo, vediamo allargarsi o restringersi il campo della produzione maledetta. Se interrogate un filosofo del mondo pagano, vi dirà che la superstizione consiste in un timore sregolato della divinità (i); se domandate invece, ad uno dei padri o dottori della Chiesa (2), vi risponderà che essa fa rendere alle cose create l’onore riservato al creatore; o pur rendendolo a questi, non lo tributa in modo degno della divina jnaestà. Se, passando dal mondo classico e medioevale a quello moderno, voi chiedete a un filosofo della storia del secolo degli enciclopedisti, vi sentirete affermare che, lungi dal consistere in un eccessivo timore della divinità o nell’adorazione degli spiriti diabolici, la superstizione deve concepirsi come un abuso della .religione dovuto all’ignoranza degli uomini (3); e se invece, vi rivolgete a un sociologo della seconda metà del secolo decimonono, vi sentirete asserire che essa, più che in rapporto alla ignoranza volgare, va esaminata al lume delle conoscenze primitive, della filosofia barbarica, della scienza infantile e rudimentale dell’uomo (4). Se nel regno dell’olimpico il termine sufi) Plutarco, Della Supcrstiz.; Teofrasto, Caratteri, 16; Plinio. Storia natur., XIV, 128; Quintiliano, Islituz., X, 6. 5. Vedi il lavoro analitico dell'HAHN, De. super-stitionis natura ex sententia veterani, in primis Ronianorum (Breslauer Universitaetspro-gramm, 1840).
(2) Per le differenti definizioni dei Padri della Chiesa e dei Concili, vedi l'opera del Thiers, Traité des Supcrstitions; come pure il Glossaritim del Ducange, v. « Superstiti© ».
(3) Voltaire. Dictionnaire v. < Prejugés» e « Superst. ». L'espressione
i errore popolare • ricorre quasi in ogni opera storico-filos. del tempo e forma l'argomento di libri, dissertazioni e trattati, di cui ricordo soltanto quello dell'inglese Brawn, Saggio sopra gli errori popolareschi (trad. ¡tal. del Canturani, Venezia, 1737). Pili tardi G. Leopardi pubblica il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, che si può consultare anche per quanto riguarda .il nostro assunto (v. pp. 350-351 dell’ediz. Mestica, Scritti letterari di G. L., Firenze, 1891).
(4) La parola superstizione, che etimologicamente suona « ciò che persiste delle antiche età» è propria per esprimere l’idea di sopravvivenza. Questa parola è più propria dell’altra, superstizione, a designare nella scienza etnografica il fatto storico. Cosi il Tylor, La Civilis. Primit., I, 83, 103 e seg. (trad. frane., 1878). Secondo Walter Otto (Religio und superstiti, ncll’^rc/iiv. /. Religionswiss, XII, 1900, p. 548). Le teorie correnti sulla superstizione fanno capo all’animismo, al feticismo e al totemismo; l’enunciazione dello studioso tedesco trascura quelle di carattere arcaico, magico e prelogico.
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LA RINASCITA DELLA SUPERSTIZIONE NELL’ULTIMA GUERRA
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perstizione designa una forma del culto divino, quella alimentata dal « timor», invece che dalla « pietas »; all’avvento del cristianesimo diviene sinonimo di « paga-nitas », ed involve il rituale degli dei falsi e bugiardi, proscritto dalla nuova fede; e se nel secolo dell’illuminismo esso si adopera a denotare un concetto errato, che l’ignoranza genera tra gli uomini e la credulità alimenta; nell’epoca evoluzionista serve a significare le manifestazioni primitive e persistenti del pensiero, ora con carattere magico, ed ora con carattere animistico. Nel primo caso la < superstiti© », che dà l’idea della paura sovrastante all'anima umana, rimane nel camro religioso (1), in senso stretto; nel secondo, che dà l’idea della superfluità religiosa, esorbita dal culto ufficiale, per la venerazione che professa agli spiriti infernali e agli idoli pagani; nel terzo, che è quello dell’enciclopedismo, il quale crede di spiegare i misteri dell'universo, non è che un « errore », che saggiato con la pietra del paragone della verità, permette di scernere l'elemento puro da quello falso; e nel quarto, quando si affermano le discipline antropologiche, non è che una « sopravvivenza », cioè antica forma reviviscente in nuovi ambienti e sotto più chiaro cielo. Sotto questo aspetto essa comprende l'insieìne delle pratiche arcaiche religiose, cioè di quegli atti magici, che informati alle credenze in una forza impersonale non ancora divina, persistono nel tempo in cui le cerimonie primitive hanno già ceduto il posto a quelle più elevate (2).
Questa ultima ipotesi è quella ora prevalente, perchè fondata non su soli prin-cipii razionali, ma su elementi dimostrativi, come quella che investiga nell’etnografia comparata materiali d’ogni genere e specie. Dall’esame di questi risulta che la superstizione non è un fatto che sboccia aH'improvviso nella mente, sia perchè ravvivata dal potere fantastico, sia per l'influsso della paura; ma è un fenomeno che si forma in condizioni determinate di pensiero e di ambiente, e in esse dev’essere studiato ed osservato.
Quelli che tuttora (e non sono pochi) fanno capo all’idea del «timore divino» (« inanis timor » direbbe Cicerone) o della « vaga paura » (3), dimostrano d’ignorare, nell’attuale progresso delle raccolte folkloriche, l’essenza della superstizione; giacché non pensano che l’incubo non genera nè pratiche, nè credenze; e che queste, invece, presuppongono una mentalità atta a concepire un ordine logico di rapporti e una logica corrispondenza tra cause ed effetti, tra motivi e risultati.
(1) Lo dimostra dottamente Walter Otto (Religio u. Supersl., neH'airdk. cit., XIV, 1911^ pp. 420-422). ,
(2) R. PettazZoni. La superstizione {Alti del Primo Congresso d Etnografia tn Roma. nel'IQII, Perugia, 1912).
(3) A titolo di curiosità: ’ Giuseppe Bellucci, autore di molte monografie, che ripetono vecchi concetti, sugli amuleti italiani, accoppia l’antiquata idea del «primus in orbe fecit deos timor» cól principio dell’animismo tyloriano, dicendo, senza alcun criterio scientifico, che « il timore di essere sopraffatti c vinti da esseri o da cause esteriori... creò e crea gli amuleti ». A tale causa generatrice si aggiungono: 1® il principio filosofico dell'animismo; 2® i concetti fondamentali e semplici di simpatia e di antipatia, che « concorrono a specificare le diverse qualità degli amuleti, il Icro più conveniente adattamento a questa o quella azione di paura». {Gli amuléti negli Atti primo Congresso di etnogr. cit.).
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Il germe primo ed originale non va cercato negli arcani del soprannaturale, nella cecità mentale, nel mistero dell’ignoto e dell'indeterminato, nella debolezza del pensiero volgare, nella disposizione all'errore; ma nella psiche primitiva o inferiore che crede nell’esistenza di forze e di energie occulte, invisibili ed operanti, regolate dalla simpatia e dall’antipatia che gli etnografi designano coi titoli di « legge analogica » e di « legge della partecipazione ». I simbolisti, i psicologi, gli animisti che, per cercarla, si allontanano dalla terra in traccia di enti « superi » ed « inferi », di dei pagani e di spiriti diabolici vagano nelle nubi; e mentre credono di abbracciare dall’alto, con un ampio sguardo, l’umanità, la perdono di vista, a mano a mano che si innalzano sull'orizzonte infinito.
LA SUPERSTIZIONE DEL SOLDATO
Non è guari, alcuni studiosi rivolgendo l’attenzione ai pregiudizi che tennero l’anima del soldato nel turbinoso periodo dell’ultima guerra, hanno creduto di scorgere l’origine di essi ora nella paura e nell’ignoranza, che rendono l’uomo timido e piccino davanti alle meraviglie della natura e nei pericoli; ed ora in speciali circostanze che rendono l’individuo inadatto a prendere una risoluzione. Le due congetture rimangono nel dominio della psicologia, considerando la prima il fenomeno superstizioso come uri prodotto patologico; e la seconda come una manifestazione biologica della mente umana. Quella è vecchia quanto i filosofi del mondo antico, che passando a rassegna credenze, ubbie, opinioni delle genti contemporanee, oppongono alla cieca credulità del «profanum vulgus», la stringente verità della logica; l’altra, frutto di nuovi, recenti studi, riporta il pensiero superstizioso ad una specie di malattia dello spirito, per cui l’individuo è insufficiente e inadatto a compiere quella complessa c difficile operazione mentale, che i psicologi designano col nome di « funzione del reale », in quanto mediante essa, si apprende la realtà nelle sue forme presenti. L'uomo combattente, di fronte al pericolo, nell’ansia e nella trepidazione del momento, sarebbe costretto a sostituire all’azione volontaria una azione meccanica; e perciò il suo pensiero si rifugerebbe negli anfratti delle antiquate tradizioni, servendosene involontariamente, «come mezzi, espedienti per rendere meccanica la sua azione, allorché per il fatto del pericolo, essa sarebbe resa difficile » (i).
A tale interpretazione, che è dovuta ad Agostino Gemelli, e che si può dire risalga a Plutarco (2), si riporta, prospettandola e colorendola differentemente, Alberto Dauzat, che affaccia la formola alquanto semplice ed oscura, dell’« abdicazione, più o meno grande, alla volontà individuale » (3). Sotto la costante influenza della minaccia e del pericolo, la volontà umana degenererebbe ora in fatalismo
(1) Gemelli, Il nostro soldato, pp. 169, 172-173, 141 (Milano, 1917).
(2) L’alterazione, secondo il filosofo cheronese (Della superstizione) violentemente concitando nelle azioni, non lascia la ragione in libertà per fare l’officio suo.
(3) Dauzat, Legendes, prophéties et supcrslitions de la guerre, p. 219 (Parigi).
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LA RINASCITA DELLA SUPERSTIZIONE NELL’ULTIMA GUERRA
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negli essere atei, ed ora in aberrazione religiosa nei credenti (1); onde il sorgere della superstiziosità. Alla sua formazione e al suo consolidamento concorrerebbero altre circostanze, e soprattutto quella innata tendenza utilitaria, che spingerebbe l’uomo, impossibilitato a scoprire la vera ragione, ad attribuire i fatti ora a cause accidentali ed apparenti (coincidenze fortuite), ed ora a influenze di forze su altre forze. Nel primo caso si avrebbero i presagi; nel secondo i talismani.
Se ben osservate, i due psicologi, l’italiano e il francese, non fanno che .rievocare gli antichi presupposti del « timore » e dell’« ignoranza ». Difatti, a che cosa si riferisce l’impossibilità a scoprire la vera ragione dei fatti, se non al difetto di quella chiara luce di pensiero e di conoscenza che distinguono il sapiente dall’ignorante? A che cosa allude la sostituzione dell’azione meccanica o incosciente a quella volontaria o cosciente se non alla tormentosa paura, che avvolge nel suo cupo nembo l’anima e la ragione? Ma indipendentemente da ciò, la interpretazione psicologica, che si fonda su quello speciale stato d’animo determinato dal pericolo, che come una atmosfera tenebrosa circonda l’uomo e non gli permette la visione semplice e pura del mondo in cui vive ed opera, può valere a spiegare il rinascere della superstizione in tempo e in luogo di guerra; non può valere a spiegare ugualmente l’origine di quelle varie, tradizionali e multiformi manifestazioni comuni, che portano il nome di pregiudizi e di errori popolari.
Se il principio fosse vero, dovremmo dire che all’uomo, in qualsiasi punto del suo eterno viaggio sulla via del progresso; sotto qualsiasi cielo, grigio o sereno, e in qualsiasi periodo, d’infanzia o di maturità, si presenti come un truce immutabile destino, il pugno del terrore, che lo accascia, l’umilia, trascinandolo servo, in catene, ai piedi della superstizione. La superstizione etnograficamente considerata, non è il frutto del triste albero del terrore, che cresce nella sterile landa dell’avvilimento, ma sibbene del pensiero in continua evoluzione. La conoscenza della realtà nelle sue forme attuali, è l’aspirazione costante, l’ideale dell'essere umano, che si affanna a raggiungerli, e per quanto sia faticoso il lavoro, pure egli si illude, ad ogni tratto del suo andare, d’aver rivelato 1’ enigma. Parlando quindi, di conoscenza del mondo reale, non è possibile prescindere in psicologica etnica dal grado di sviluppo mentale, giacché ogni individuo o gruppo umano tende alla "conoscenza del mondo nel modo che gli è consentito dalle sue forze e dai suoi mezzi. La verità delle cose e dei fenomeni agli occhi del mortale si mostra variamente colorata dal mira-, bile raggio del suo pensiero, che si espande sulla vita e sulla natura. L’uomo dell’età litica, che ignora ia duttile virtù dei metalli; e quello dell’età del bronzo e del ferro, che foggia armi e monili d’ogni specie e forma, non hanno la medesima visione dell’universo, uguale coscienza e conoscenza dei fenomeni cosmici, sebbene l’uno e l’altro sian convinti dell’infallibilità delle proprie idee. Il primo sente emanare dalle cose un’immensa, imponderabile e invisibile energia non ancora divina, ed atta ad
(1) Qualcuno si é lusingato di un ritorno del pensiero umano alla fede cristiana, L. Roure, Les sapersi, au front ( Les Etudes », 1917. p. 727). Vedi gli importanti documenti pubblicati in questa rivista, a più riprese.
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essere raccolta, intensificata, diffusa e respinta ; l’altro, concepisce un « animus », incarnato in esseri e in enti, in spiriti e in corpi, di cui son popolati e monti e selve, cielo e terra. Tutti e due spiegano i misteri naturali, paghi della loro scienza ; e se questa è insufficiente per noi, non è tale per l'epoca loro, che attribuisce ad essa quel valore che noi diamo alle odierne scoperte scientifiche.
Questo in linea generale.
Il voler, poi, isolare il fenomeno della superstizione guerresca rappresentandolo come speciale efflorescenza di un particolare stato d’animo e di ambiente, significa non vedere l’immenso dominio'della vita, che nei suoi molteplici aspetti sociali mostra perei ’temente i segni della flora superstiziosa; significa prescindere puramente e semplicemente da ogni indagine genealogica e da ogni ricostruzione storica dei fatti.
Sebbene osservata sui margini delle trincee e nei campi di battaglia, la superstizione non è un prodotto «sui generis», un fatto singolare dello stato mentale attuale, cioè guerresco; sibbcne l’esponente delle molte e diverse tradizioni comuni e volgari;
Il preconcetto psicologico genera degli errori di metodo. Non è possibile intendere l'anima del soldato senza volgere lo sguardo ad un'altra anima, su cui la prima si è plasmata, quella della madre, quella della casa e della famiglia. L’uomo che con l’arma in pugno, combatte sulla frontiera della patria, non dimentica, non lascia dietro di sè, come un fardello di cui si possa facilmente spogliare, le tradizioni della propria terra e del lare. I suoi pregiudizi son quelli che popolarono la mente e la casa degli avi; le sue superstizioni sono quelle che circondano il focolare domestico e vivono e si agitano cogli spiriti e i folletti, le fate e gli elfi.
Pertanto, chi si accinga allo studio delle superstizioni guerresche, non può fare a meno di ricorrere al sistema comparativo. Questo, mediante il confronto tra quelle dei soldati da una parte, e quelle che formano il mistico e misterioso retaggio degli uomini delle campagne, dei borghi, delle provincie; che aleggiano sulle culle, sui talami, sulle tombe; che vagano dapertutto, nei tempii e negli opifici, permette di cogliere alle radici gli elementi materiali e ideali da cui traggono origine le pratiche e le credenze dei combattenti.
ORIGINE DELLA CREDENZA NEI PRESAGI E NEI TALISMANI
La forinola dell’« abdicazione al potere volitivo » di Alberto Dauzat, pur riferendosi al principio gemelliano della «risoluzione meccanica », se ne allontana per spiegare l'origine dei presagi con le coincidenze casuali di fatti e fenomeni, e quella dei talismani coll’ammetterc un’influenza di elementi, di corpi, di esseri su altri elementi, altri corpi, altri esseri. L'ipotesi, che al suo apparire parve appagare i buoni filosofi, usi a guardare la superficie delle cose, è molto semplice perchè possa penetrare nel profondo dell’anima collettiva e mettere a nudo le oscure radici delle opinioni popolari. Le coincidenze fortuite di casi, fatti, avvenimenti non possono con-
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siderarsi, se non in minima, infinitesimale parte, come causa di errori. Esse, più che fonte unica, prima e perenne dei presagi,, sono la conferma del pregiudizio, che ammesso dalla tradizione e radicato potentemente nel cuore dell’uomo, si consolida e si irrobustisce per effetto delle nuove osservazioni. I presagi e i talismani, lungi dall’essere distinti nell’origine, nascono a un tempo e da una sola fonte; e lungi dall’essere formazioni recenti, risalgono all’infanzia umana, allorquando la mentalità concepisce la ragione causale come una seguenza analogica di forze e di forme, di atti e di eventi. In origine — è questo il principio della filosofia primitiva — un fluido immenso pervade il cosmo da un polo all’altro, gli uomini e le cose, gli animali e le piante; e come agente invisibile ed intangibile, può passare da un corpo all’altro e allogatisi, e far passare in esso oggetti, frammenti di oggetti e parti di animali, di piante, di minerali, di metalli (1).
Per virtù di tale fluido che, per veicoli misteriosi, s’impossessa degli esseri, la vita può subire mutamenti e trasformazioni; e l'energia vegetativa d’una pianta, e quella generativa d’un animale, possono essere trasferite o trapiantate nell’organismo umano, e viceversa. Tali concezioni che spiegano tante leggende miracolose, governano tuttavia la psiche delle popolazioni inferiori, caratterizzando una fase speciale dell’evoluzione del pensiero, quella magica, secondo alcuni e quella mistica o prelogica, secondo altri; formano la base su cui s’inquadrano le tradizioni e superstizioni popolari, che designiamo col titolo di « folklore ».
All’avvicinarsi del solstizio estivo, i popolani sogliono far germogliare in vasi o in altri recipienti del grano o del frumento. Questa consuetudine in altri tempi, e certamente molto remoti, dovette essere eseguita al fine di accelerare lo sviluppo della vegetazione, e specialmente quello delle messi; in seguito assunse il carattere di semplice rito devozionale, ovvero di cerimonia auspicale (2). Nella Provenza, ove di solito i chicchi di frumento si mettono il 4 dicembre, giorno di S. Barbara, si crede che se essi non germoglino; o se, germinando, ingialliscano, l’ala della sventura non tarderà a battere sulla casa (3).
In molti paesi, dall’Arcipelago indiano all'Europa, non esclusa l’Italia, al nascere d’un bimbo, si suole piantare un albero, che può essere un abete, un pioppo. Un melo, un ciliegio, un querciuolo, un olmo, un frassino, che la tradizione designa col nome di « albero natalizio »; e dicesi che se esso crescerà agile e bello, anche lo sviluppo fisico della creatura sarà armonico e perfetto (4). In tale campo la credenza dei negri africani Mpongué e quella dei Negrito di Perak, secondo cui l'uomo sarà vivo finché vivrà il suo albero, s'incontrano con quella di Lord Byron, che volgeva le fraterne cure alla sua quercia, ricettatrice del mistico filo della sua esistenza. In alcune leggende è facile vedere fanciulle e garzoni innamorati chiedere a speciali
(1) Lévy-Bruhl. Les fondions mentales des sociétés inférieures, p. 319 (Parigi 1910).
(2) Frazer, Le Rameau d'or (trad, franc.), III. pp. 158-160.
(3) Sêbillot, Le Folk-lore de France, III, 507.
(4) Corso, Il Ceppo nuziale, p. 7-8 (Estr. dal volume in onore di G. Sergi). Sêbillot, Le Folk-lore, p. 200.
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piante gii oroscopi delia loro felicità. Una tradizione calabrese narra d'un giovinetto il quale pianta un pesco nel giorno in cui s’invaghisce di una ragazza, e, trascorso l’anno, si reca a visitare il suo albero, che, bello e fiorito, così parla con soave voce augurale: Vattene, segui l’amore e trionferai! ». Nella penisola salcntina, l’innam-morata canta:
N’arviretto chiantai a lu miu giardini!.
N’arviretto chiamato primamore, E cu li mci sudori i'addacquai. ' ‘N capii de l’annu me caccia nu fiore (i).
La fanciulla romana, a quanto dice uno strambotto vernacolo (Nanna* belli. Studio sui canti popolari d'Arietta, n. 49, Roma, 1871), non è altrettanto felice. Ella piangendo, sfoga così:
Piantai un dolce pesco nella vigna, c gli dissi: — Dolce pesco benevolo, se il mio amore mi abbandona, tu devi seccare. — Dopo tre anni ritornai nella vigna e trovai il pesco seccato. Mi butto in terra e mi strappo i capelli, perché ciò é segno che il mio amore mi ha lasciato.
Nell’ordine di tali credenze rientra l’oroscopo che, nell’isola di Ferhmann presso Kiel, i popolani amano trarre, per antica norma, da un annoso piòppo, dicendo che, ove questo fiorisca, i soldati non tarderanno a rivedere le case e le famiglie abbandonate. Ora avvenne che nel 19x6, il fatidico albero si coprì di fiori (2), destando per tal fatto un gran rumore nei paesi settentionali, anelanti alla pace e al lavoro. Ma quella non venne, e il lavoro continuò a svolgere le sue opere di crudeltà. Quello che lo sviluppo normale della vegetazione può produrre a beneficio, quello anormale può fare in danno dell’individuo. L’albero che produca per due volte i fiori, il pesco che li emetta nell’estate; e quello che emettendoli fruttifichi insieme, costituiscono pel volgo, cattivi prognostici: essi portano sfortuna, annunziano morti e disgrazie (3).
Questa credenza spunta nell’atmosfera grigia della guerra, dando luogo, nella Francia, ai presagi che deH’immenso flagello, si ricavano dalla fioritura anticipata del frumento, dall’enorme abbondanza dei papaveri, dal germogliare di alcune piante, e da altri fenomeni che costituiscono un’eccezione nel ciclo regolare della vegetazione (4).
Come allontanare, respingere, prevenire le cattive influenze, che con tali fenomeni si espandono nell’ambiente e penetrano nei corpi, generando pesti, morti, rovine; e viceversa, come attirare le influenze benefiche? È facile arguirlo: e le pratiche dei primitivi lo dimostrano: disponendo l’individuo in modo da poter ricevere i salutari influssi di altri corpi o elementi vegetali (5). Onde l’adozione dei talismani
(x) D’Ancona, La Poesia Popolare Italiana, p. 162.
(2) Dauzat, 232.
(3) SfeBILLOT, Op. CÌt„ VOI. Cit.
(4) Dauzat, 228.
(5) LfivY-BRUHL, op. cit., 59-60. Erberto Spencer (Princ. di Social:. trad. ¡taf. Salandra, I, 165, nota), spiega l’origine degli amuleti col principio che le singole parti, anche frammentate, d’un organismo conservino le qualità essenziali del tutto. E spin-
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tratti dalle piante, dalle erbe, dai fiori, dalle radici. Come le essenze vegetali, anche le qualità animali possono passare per vie misteriose, negli esseri umani. Alcuni indiani, i Cherochi, credendo che i reumi siano il prodotto della vendetta dei corvi cacciati, pensano di espellere lo spirito malefico degli uccelli mediante l’introduzione d’un altro spirito contrario, come quello del cane o del lupo, e a tal uopo ricorrono a forinole e a pratiche speciali (1). L’esempio è l’esponente di una serie di credenze .c di atti magici, informati al principio che l’apparizione di alcuni animali è infausta e quella di altri è proficua per l'influsso che apportano e diffondono.
Il terrore che il popolo prova alla vista dei corvi appartiene, pei l’origine sua, a tale categoria di fatti. Secondo qualche cronista, nel 1913, il popolo austriaco predice l’eccidio europeo dall’aver avvistato nel cielo stormi di corvi e corvoidi (2). In questo presagio rivive la vecchia credenza, secondo la quale i foschi pennuti fiutano nell’aria la morte che si avvicina e l'odore dei nuovi cadaveri e dei nuovi campi di battaglia. E di fatti essi appaiono roteando e gracidando nel 1488, ai confini della Bretagna, allo scoppiàre della guerra tra questo paese e la Francia; nel 1492, allorquando un violento temporale allaga le case e le chiese; negli anni 1561, 1562 e 1563, allorquando Parigi e quasi tutta la Francia sono afflitti dalla peste. La superstizione, notata da Teodolo, vescovo di Orleans, nel 798, si osserva verso la fine del 1700 nel Finistère, ed attualmente nella Normandia, ove si pon mente, inoltre, alla direzione del volo e all’inflessione della voce dei lugubri carnivori uccelli, che la fama popolare addita come presagi di guerra (3).
Per scongiurare il pericolo e neutralizzare l’effetto della malvagia influenza, non vi è che il ricorso ad energie contrarie, emananti da altri organismi, e tentare di richiamarle nella sede di quelle cattive. Sorge allora l’uso dei talismani zoologici, coll’adozione di parti di animali, frammenti scheletrici (vertebre, mascelle, denti) brandelli di cuoio, ciuffi di peli, organi e parti di organi (zampe, occhi, lingue, cuori).
LA FONTE DELLE SUPERSTIZIONI DEI COMBATTENTI
Contro gli studiosi che tenterebbero di farne un prodotto singolare e caratteristico dello stato psicologico del combattente, l’etnografia dimostra che le superstizioni guerresche appartengono al patrimonio comune e popolare.
1 documenti di questa verità elementare, numerosi ed importanti, si riferiscono non solo all’ultima recente guerra, ma anche a quelle delle trascorse epoche. Vediamone qualcuno.
La tradizione popolare offre lunghi e vari elenchi di piante e pianticelle, di cui celebra le virtù specifiche, sia come elementi auspicali, sia come elementi terapeutici e curativi. Sono pregiati per le qualità profilattiche il frassino e la quercia, l’olmo e
Pendo arditamente il suo animismo, che deriva dal culto dei trapassati, egli combatte altro animismo, che riporta le superstizioni alla tendenza umana primitiva di attribuire vita e personalità a una moltitudine di cose inanimate (op. cit.. I. pp. 88-89. 92).
(1) Lévy-Bruhl. 316-317.
(2) Dauzat. 228.
(3) SÉBILLOT, III. 191 e scg.
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l’acacia; per la forza antistregatoria, il bosso e il viburno, il ginepro e il verbasco, il caprifoglio e il timo. L’alloro preserva dai fulmini; l’agrifoglio, comunemente legno stregoni©, dai malefici; l'aloè, che dicesi fiorisca ogni cento anni, è fascini fugo e vermifugo insieme; il ranuncolo pratense, l’ipperico o erba di S. Giovanni, la celinodia e l’artemisia, la ninfea e la ruta hanno vario mirabile potere, non escluso quello di prevenire e di curare i mali, sia pure quelli prodotti da influenze sinistre. Tra i fiori poi, ha un’importanza straordinaria, molto più grande deH’edelweiss, il caro fiore delle Alpi, il trifoglio a quattro lobi, e talvolta anche a cinque o a sei, perchè fuga il demonio, preserva dagli incantesimi, porta fortuna, rende invisibili, guarisce dai mali chi lo reca con sè (i). Queste e simili credenze, che risalgono a tempi lontani, a religioni scomparse, a teoriche primitive sulla natura ed essenza della vita, e che si vedono sparse in ogni luogo, alitare nel campo popolare, come foglie portate dal vento, che spira dagli antichi paesi pagani e prepagani, sono quelle che circolano diffusamente negli ambienti 'militari, senza notevole cambiamento di foripa, di colore e di sostanza. Esse sembrano trasportate integralmente dalla casa allá tenda, dal campo alla trincea, dalla quiete del focolare domestico al turbine della battaglia. Il coscritto del Giura e quello austriaco, per scongiurare, nelle operazioni di leva, l’estrazione d’un cattivo numero, si muniscono dei fiorellini gialli del ranuncolo di prato (2); il combattente francese, neH’infuriare della tempesta bellica, marcia fidente nell’immancabile stelo di trifoglio (3), che la tradizione concorde del suo paese, dalla Bretagna ai Vosgi, dalla Turenna allaGironda, consiglia di tenere addosso nel cimento e nell’amore, nella buona e nella triste sorte ; l’ufficiale calabrese, nell’impeto dell’assalto, non dimentica il legno stregoni© o agrifoglio (4), che 1 popolani delle Marche appendono al letto' per allontanare i demoni, e che intagliato a forma di crocetta o di assicella, è scudo mirabile contro le insidie di esseri visibili e invisibili.
All’inizio delle ostilità tra la Francia e la Germania, la Chroniquc Médicale informava che i bavaresi, prima di andare al fuoco, solevano forare un fuscello di felce iniettandovi qualche goccia del loro sangue. Ciò facendo, essi erano convinti che, per quanto grave fosse la ferita riportata nel combattimento, si guarirebbe col rimarginarsi della corteccia della betulla (5). Questa pratica, che "potrebbe ricondurci di confronto in confronto a quella oggi diffusissima, ricordata da Marcellino, medico del tempo di Teodosio, di passare i bambini erniosi o « rotti »
(1) Mi limito a qualche indicazione bibliografica: Migne, Encycl. Théol., v. Laurier. Tonnère, Houx; Sèbillot, HI, 383, 386, 395-398, 472, 476-477, 480, 483, 488, 495, 517; Archivio di Antrop. cd Etnol.. XI. 1881, pp. 436-437: Placucci, Usi dei contadini della Romagna, p. 153 (Curios. Stor. c tradiz., Palermo. 1885); Amalfi, Tradiz. ed usanze della penisola sorrentina (collez cit.), p. 161; Ostermann, La vita in Friuli, pp. 171-241 (Udine, 1894).
(2) Dauzat, 275.
(3) Dauzat, 242. 255; Gemelli, 158. Il trifoglio ha anche valore di presagio, oltre che di amuleto. Al principio della guerra del 1870, una riama dell’imperatrice diceva al marito che la piccola Malakof aveva trovato un trifoglio a quattro foglie, c ne traeva un buon presagio per il successo delle armi. S&billot, III, 513, nota 4.
(4) Gemelli, 158; Dauzat, 258.
, ■ (5) Hoffmann- Kr a ver, Volkskundliches aus dem Soldatenleben, p. 12 (Estr. dal-Allgcm. Schweiz, militaerzeit, 1915).
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attraverso un fusto spaccato di querciuole, richiama al pensiero l’uso di alcune popolazioni dell’India, che per rendere forte e tenace come la quercia il proprio organismo, si forano l’epidermide del collo e, infilatovi uno spago, si legano con questo aj durissimo albero (i).
Il costume bavarese è di natura magica, e non è improbabile che ad esso si colleghi l’usanza di portare addosso come amuleto contro le ferite, c anche contro il malocchio un cespo o un rametto della pianticella, che, secondo la credenza popolare, compie il suo ciclo vegetativo nella notte di S. Giovanni, fiorendo, producendo i semi e ritornando come prima (2)
Non minore importanza ha la fauna, aligera o terrestre, selvaggia o domestica, nella tradizione popolare, sia nelle pratiche divinatorie, sia in quelle amuletiche. La rondinella formando il nido sulle case dell’uomo, annunzia una buona novella; mentre emigrando anzi tempo, presagisce la bufera; la cicogna, posandosi in un luogo, indica che un lieto evento è vicino; mentre abbandonando il vecchio nido per rifarlo sugli alberi, predice un’imminente guerra (3).
Il gufo, il barbagianni, il falco, la civetta, il corvo, sono animali nefasti, al pari del lepre e della volpe (4); ed all’opposto, il lupo, l’orso, il cervo, la capra, apparendo allo sguardo umano aprono il cuore alla buona speranza (5). Un esempio è offerto alla nostra fronte, nel luglio del 1915, allorquando i soldati di un glorioso reggimento, combattendo in aspre posizioni di montagna, vedono a un tratto correre verso le loro linee, sotto un grandinare di proiettili, una capretta giovane e candida. Essi l’accolgono, Vadornano dì una collana tricolore, custodendola come un « prodigioso amuleto ». Quale la ragione di questa credenza? Il cronista della nostra guerra, Gino Calza-Bedolo (6), che racconta l’episodio, crede di vederla nella circostanza che l’animale, a trovandosi in mezzo a due linee di battàglia », si era decisamente gettato verso le nostre posizioni, raggiungendole « incolume ». Nulla di meno vero, perchè l'origine di tale credenza, che sembra nata sul campo di battaglia e sembra una formazione ex-novo dei combattenti, delle loro condizioni speciali di spirito, tra la visione della morte e la angosciosa speranza della salvezza, deve cercarsi nella vecchia, vecchissima superstizione, secondo la quale la comparsa mattutina di una capra è presagio di fortuna (7).
Questo dimostra che alcune superstizioni, in speciali contingenze di tempo e di luogo, possono essere richiamate in vita dall’oblio in cui giacevano, perchè rispondenti alle idee e alle condizioni di spirito del momento. I lunghi latrati del cane a notte alta, creduti urla alla morte; la vista, cammin facendo, di un lepre, che appaili Frazer. Le Toiemisme, p. 51 (Parigi, 1898).
(2) Amalfi, op. cit., 1. c.
(3) OSTERMANN, Op. CÌt-, 283. 249; A. A. G., 1S9O. p. 90.
(4) « Inauspicatum dat iter oblatus lepus ». Vedi: Ostermann, 266: MiGNB, op. cit., v. Lièvre', Sébillot, III. 25-26.
(5) Sébillot, III, 22-23, 99. Nel sec. xv si attribuisce anche carattere infausto all'apparizione dei cervo e dei capretto.
(6) Gli Invulnerabili al campo di Battaglia, Il Giornale d'Italia, a. XV, 1915, 14 luglio, n. 194, 4» ediz.).
(7) SÉBILLOT., Op. CÌt., 1. C.
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rendo in un combattimento, genera la fuga e il terrore dell’esercito; l’esodo dei topi da una casa o da un naviglio, preso a segno della prossima rovina del fabbricato o di naufragio (i); l’emigrare intempestivo delle rondinelle, l’allontanarsi delle cicogne dai nidi; sono fatti che, per l’idea della calamità che involvono o che adombrano nella concezione popolare, come avvenimenti straordinari, sono assunti a presagi di guerra (2) — essendo questa una sciagura — senza essere alla guerra speciali e particolari. I soldati inglesi, che portano addosso un brandello di cuoio di gatto nero; e quelli vailesi, che conservano in tasca il cuore di tale animale, bollito nel latte di una vacca nera; quelli austriaci che cuciono nell'uniforme due ali di pipistrello, per sfuggire alle ferite o alla morte (3), non fanno che attingere alla immensa fonte antica e profonda della superstizione comune.
Questa difatti afferma, per bocca del popolo, che il gatto, specialmente se di pelo nero, ricetti uno spirito malefico; eche, messo a bollire vivo, faccia apparire il demonio; che l’osso frontale o il cervello del felino, caro alle streghe, conferisca al portatore la virtù dell’invisibilità (4); che il pipistrello che fornisce il sangue a chi desideri preparare ricette magiche e comporre amalgama per proiettili velenosissimi, sia di cattivo presagio come il gufo e la civetta, e che pertanto, come questi, debba essere inchiodato o fissato sugli usci quale emblema di scongiuro (5).
Se non è possibile fare una categoria speciale delle superstizioni guerresche, perchè esse rientrano in quelle comuni; a maggior ragione non è agevole individuare e riunire in un gruppo i pregiudizi di un corpo o di un reparto militare. Quelli che pretendono di poter distinguere, quasi emblemi caratteristici, gli amuleti degli artiglieri. dei fanti, e specialmente degli aviatori (effigie di cicogne, scarabei, rondinelle, gufi, ecc.), non pensano che i segni talismanici, che essi credono riservati a tali uomini d’arme, appartengono al patrimonio superstizioso tradizionale del volgo in generale. Pertanto, è evidente l’esagerazione in cui è caduto Manuel Marquez (6) nello scrivere che < gli aviatori non montano sull’apparecchio senza portar seco un feticcio portafortuna: spesso una bambola, un uccello impagliato, o qualche altro oggetto »; e quella in cui è incorso Alberto Dauzat (7) che riportando dalla Chronique M¿dicale le parole del Marquez, sottolinea il «simbolo deU’uccello», e avvicinandolo poi, all’uso degli aviatori di ornare l’apparecchio di una cicogna, osserva che simili amuleti, se non sono propriamente caratteristici, valgono a far cogliere sul vivo il processo mentale che presiede all’elaborazione di tali credenze.
È il solito ritorno o ripiego, come si vede, alla teoria della formazione attuale della superstizione guerresca.
(1) Plutarco, Della superstizione; Migne, op. cit., v. Rais. Chien; Sébillot, HI, 26, 100; Pitrè, op. cit., p. 417 (nella Sicilia i latrati dei cani sono segni responsivi delle anime dei decollati).
(2) Dauzat, 228.
(3) Dauzat, 257, 253; Hoffmann-Krayer, Volkskundliches aus dem soldalenleben, p. 20 (Estr. daH’j4/i«m. Schweizerischen militaerzeitung, 1915, nn. 16-17).
(4) Sébillot, III, 98, 122-124, 131- V. anche Placucci, Usi dei contadini della Romagna, 161.
(5) Hèrvè, neWAnthopologie 1917. 256.
(6) Cit. dal Dauzat, p. 246.
(7) Ib.. 1. c.
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Secondo Guglielmo Apollinaire (i) il pregiudizio dei soldati francesi, e segnatamente degli artiglieri, di recare addosso monete di oro per scongiurare le eventuali mutilazioni, sarebbe caratteristico della recente guerra, e trarrebbe origine dall’opinione, che faceva i tedeschi propensi a raccogliere e curare tra i nemici feriti quelli che erano trovati in possesso di monete d’oro. In seguito, sarebbe sorto, pel trasmutarsi del potere economico del nobile metallo in potere magico, il nuovo talismano guerresco, quello dell’oro monetato.
Nonostante gli esempi raccolti dallo scrittore d’oltr’Alpe, l'ipotesi poggia su di un grossolano equivoco, per cui si scambia il fatto superstizioso con quello precauzionale. Gli artiglieri francesi che muniscono le tasche di lucenti luigi, non fanno che seguire l’espediente, cui solevano ricorrere, al tempo del brigantaggio, i viaggiatori: i quali non trascuravano di riempire la borsa per risparmiarsi la vita in un eventuale incontro coi masnadieri. Tale espediente, che appartiene ai criteri pratici di condotta, non si può confondere colle superstizioni vere e proprie, osservate in altri soldati, e cioè con quelle per cui ritiensi che le monete d’oro portate addosso attirino l’influsso della buona stella, ovvero risparmino la putrefazione del cadavere(2). Queste idee hanno radice in antichissime credenze, che si perdono nella notte delle epoche, e cioè nel tempo in cui maghi ed alchimisti ritengono fermamente che il metallo incorruttibile, convenientemente somministrato, possa guarire gli infermi d’ogni male, e quasi, ridare la vita ai morti: e portato addosso, possa attrarre l’influsso del sole, chelo nutre e gli dà il colore biondo nelle viscere della terra, e preservare l'organismo umano dalle calamità (3). I villani della Bretagna usano i gettoni di Luigi XV come elementi fascinifughi e li reputano atti a guarire i bambini dai vermi ; i contadini del Mor van,, nella Francia, infilano qualche piastra d’argento sotto la lingua del neonato perchè cresca valoroso avvocato (4).
Il pregiudizio del piccolo soldato bretone, ingenuo e valoroso, che crede nella virtù dell’oro inalterabile, come quello che possa arrestare la putrefazione del suo corpo, nel caso di morte in battaglia, non è improbabile che abbia un legame di antica parentela col rito, tuttavia in vigore in qualche paese, anche della Repubblica francese, di seppellire i morti ponendo nella loro bocca, o anche nella mano, o nella tasca, una moneta d’oro, o di argento: che nella tradizione mitologica porta il titolo di « Obolo di Caronte » (5).
Tradizioni antiche e costumanze recenti informano di popoli che, per rendere formidabili e coraggiosi i figliuoli, sogliono somministrare loro, come cibo, il cuore o la carne del leone, del lupo, del bisonte o di altra belva feroce; vietando poi l’uso di quelli del lepre o del coniglio, per timore di rendere i loro cari timidi e paurosi (6).
(i) Cit. dal Davzat. 243. AH'interprctazione fa, eco, in Italia, il prof. Ferrari (Vedi Riv. di Psicologia, XV. 1919. p. 224).
(2) Dauzat, op. cit., 1. c.
(3) V. il curioso libro del Tonai, Idea del giardino del mondo, p. 35 (Venezia, 1667).
(4) Bull. Ecole Anthropol. de Paris. 1892, 144, 531, 532.
(5) Vedi Bull. cit.. 1. c.; e per l’Italia, Pitrè, Bibi. Trad. Popol. Sicil.. Usi e costumi, II. -222.
(6) Levy-Bruhl, op. cit.
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A tali pratiche e credenze debbono riferirsi, per le origini, i modi di dire « cuor di leone», « cuor di coniglio » e simili, passati nell'uso comune come tropi e frasi figurate, allorquando le pratiche tramontano dalla vita sociale e le credenze scompaiono o impallidiscono nella mente popolare. E forse, non è improbabile che ad analoga 'derivazione debba riportarsi la frase « cuor di pietra », ove si pensi che, anche la qualità specifica del sasso é del macigno, come quella degli animali, può essere oggetto di trapasso o di trasferimento nell’organismo umano. E ciò sia per via d’ingestione o per via di contatto, onde i rimedi, che hanno carattere medicinale, nel primo caso; e gli amuleti, che rivestono forma scongiuratoria nel secondo.
La tradizione narra di individui che acquistano la invulnerabilità per effetto o virtù di alcune pietre che essi, in frammenti, introducono nei tessuti ài disotto dell'epidermide, o che sogliono portare addosso (i). In tali casi, la pietra comunica o diffonde la sua durezza*, concepita come una energia, nelle varie parti o in alcune dell’organismo vivente; onde l’idea dell’invulnerabilità.
Un documento rivelatore è offerto dall’ultima guerra europea; la quale permette di osservare, tra i tanti talismani portati dai soldati, un cuore fatto da un pezzo di roccia (2). Il simbolismo materiale, più che allegorico, è magico, in quanto il cuore, fatto di pietra durissima, influisce a rendere impenetrabile ai proiettili il delicato muscolo umano.
Secondo Dioscoride la pietra alettorio, che si estrae dal ventre del gallo, è un amuleto potentissimo in battaglia, poiché rende allegro e ardito il guerriero (3), comunicandogli la virtù dell’animale dal quale proviene.
Le pietre preziose vengono adoperate nell'età della scienza magica per le loro peculiarità, e cioè, alcune per la durezza, altre per il colore, altre per la lucentezza, al fine di far passare negli esseri le essenze di cui esse naturalmente sono impregnate.
Tant’è che, a rafforzare tale efficacia naturale, esse vengono incastonate in oro e in argento, per le supposte relazioni che questi due metalli hanno con alcuni astri, e cioè l’oro col sole e l’argento con la luna. La casuística magica registra le mirabili virtù delle pietre preziose, notando che il rubino, portato addosso, fortifica il cuore, allontana la peste e preserva dalle folgori; che lo smeraldo fuga i cattivi spiriti, acuisce la vista, preserva dai morsi della vipera; che il cristallo di rocca dilegua i sogni sinistri; che il corallo è l'amuleto degli amuleti, non solo per la forma ramificata a cornicini, ma anche per il suo colore rosso (4). E forse, non è in verosimile che i guerrieri Galli e gli Indi dell’antichità, insieme con altri popoli, lo abbiano adoprato
(1) Marco Polo racconta che i prigionieri della battaglia di Lepaqua, vinta dai Tartari nel 1269, non poterono essere decapitati perchè portavano fra carnè e pelle, pietre sacre o amuleti. Facendosi l'autopsia di un Birmano si trovarono, recentemente, innestati sotto la pelle, nelle membra e nel corpo, circa 60 dischetti di oro, d'argento, di rubino, topazio, smeraldo, zaffiro. V. « Arch. Antrop. ed Elnolog. », XVI, 1886, p. 588.
(2) Daàjzat, p. 258. Nella Libia è stato osservato l’uso di acini sferici di roccia diasproide verde contro i proiettili. Lares, bull, della Società di Etnografia Italiana, p. 33.
(3) Tomai, Idea del Giardino del mondo, p. 17.
(4) Migne, op. cit-. Tomai, pp. 15-19: I Bretoni adoperano contro alcune malattie collane fatte con perle di agata, giadeite, quarzo. Nella mitologia gallica tali pietre erano credute pupille, uova o bava di serpenti. Bull. Soc. Anthropol. de Paris. 1887, 291 seg.
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in guerra per la sua tinta sanguigna; e adornando le spade, i caschi, gli scudi, abbiano creduto di preservare i propri corpi dal pericolo delle rosseggiani ferite (i). Tuttavia, esso non manca ai soldati della nuova Europa, i quali, nella guerra tremenda, non solo si muniscono di corni e frammenti di corallo, ma portano legati agli arti fili di colore rosso, ripetendo in questo l’atto delle femminette della Fiandra quando cercano di arrestare le epistassi e le emorragie, « quello delle popolane di Venezia, quando temono un aborto.
Un pregiudizio, propagatosi vivacemente tra i combattenti, è quello delle tre sigarette, che, accese con un solo fiammifero, si crede cagionino la morte di uno dei fumatori. Secondo il Gemelli esso è « di origine tutta recente » e « quasi esclusiva militare »; e secondo il Dauzat poi, è uno « dei presagi reali della guerra» (2), anzi « uno dei più notevoli », derivante da un principio matematico-psicologico, quello della probabilità che su tre soldati combattenti dello stesso gruppo, la morte rischi di falciarne uno a breve distanza. Tale probabilità che è di uno su tre, cade sul minore di età dei fumatori, pel fatto che i più giovani sono d’ordinario i più esposti alla mortalità (3).
parte che il pregiudizio è anteriore all’ultima guerra europea, essendo stato ^notato in quella del Transvai, tra i soldati inglesi, che, probabilmente, lo divulgarono nelle nostre trincee; la spiegazione psicologica è puramente congetturale. Invero, se il principio statistico fosse esatto, il pericolo della morte dovrebbe, per legge naturale, versare sulla vita dei vecchi, più che su quella dei giovani; e il calcolo che si fa sul numero tre, potrebbe ripetersi anche per i suoi multipli. Questo non è mai avvenuto; e il folklore non registra tra le molte superstizioni, il divieto di non accendere lasigaretta in nove persone, per timore che di queste possano morire le due più giovani.
Forse, l'origine, più che recente, è vetusta (nonostante che l’uso del tabacco non sia antico fra noi), più che militare, è volgare; più che matematica, è magica. L’etnografia offre documenti a sostegno di questa ipotesi. L’atto di spegnere il fiammifero, simboleggiando il dileguarsi della fiammella, presagisce nelle anime credule, la scomparsa della fiamma vitale e il sopraggiungere della morte. « Una candela che stia per spegnersi dasè, accenna.all’agonia di qualche anima » (4). Ecco un’idea che, conservata nella sua prima forma dal popolano veneto, rivela la natura magico-simpatica della superstizione. Da essa, presa come forma di partenza, derivano varie credenze. Chi primo-spegne il lume che serve a far la veglia a un morto, attira su sè stesso il malefico presagio della prossima fine ; quello dei due sposi che, nell’andare al talamo nella prima notte d’amore, spegne la lampada, precede l’altro nella tomba; al par di quello che, dopo la benedizione nuziale, smorza la torcia, che egli reca in mano (5).
(x) Anthropologìe, X, 683. Il Gemelli (op. cit., p. 156), ha osservato tra i nostri soldati l’uso della « pietra del sangue » o « sanguigna » (diaspro di colore rosso) contro le emorragie.
(2) Gemelli, 178; Dauzat, 234-235.
(3) Ferrari, Riv. Psicol., XV, 1919, p. <224.
(4) Archivio Anirop. ed Etnei., 1887, 289.
(5) Archivio Antrop. ed, Etnol. cit., pp. 100, 337; Ninni, Materiali per un vocabolario della lingua rusticana. Serie I, p. 92 (Venezia, 1891); Jachino, Varietà tradizionali e dialettali alessandrine, p. 136 (Alessandria, 1890).
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Il triste presagio, tratto dal dileguarsi della fiamma mediante il soffio dell’uomo, si associa talvolta al numero tre, che è magico, e che ricorre nelle cerimonie, nei riti, nelle ordalie, nelle pratiche superstiziose, dando luogo a nuove credenze, a nuovi presagi, tra cui quello, che ricordato dal Migne nella Enciclopedia Teologica e spiegato, in passato, coll’immagine delle tre Parche pronte a spegner la vita umana; o con quella delle tre gole di Cerbero, abbaianti al passaggio di un'anima, o anche con quella delle tre Furie, preparantisi a rapirla, afferma che tre lumi accesi in una stanza apportano sventura (r).
Questi richiami fanno supporre che il pregiudizio soldatesco, più che all'atto di accendere le tre sigarette con un solo fiammifero, dovette in origine riferirsi a quello di spegnere il cerino che era servito per l’accensione; e più che a presagio di morte del più giovane dei tre, dovette alludere alla fine fatale di chi avesse osato smorzare l’esile fiamma; in altri termini esso più che a un principio matematico, è probabile si riporti a un criterio magico d'altri tempi e d'altre età.
PERSISTENZA. NON RINASCENZA
L’applicazione del metodo comparativo allo studio delle superstizioni guerresche, mentre permette di osservare che queste, lungi dall’essere frutto del campo di battaglia, maturato all’aura del terrore, sono invece emanazione della psicologia popolare; fa anche rilevare che ognuna di esse affonda le radici nel terreno della storia dell’umanità primitiva, nella prima fase della fenomenologia religiosa, caratterizzata come l’età mistica, che prelude all’età magica, e contiene in sè i germi di quella animistica, che attribuisce alle cose e ai fenomeni naturali un’anima simile a quella umana, c che-sia annidata negli animali o nelle piante, sia nascosta negli astri o nelle acque, sorride e piange, spera e trema, si commuove e inferocisce.
In tale periodo antropomorfico, la superstizione assume l’aspetto di rito divino, che mal cela i caratteri arcaici dell’età primitiva, allorquando le credenze e le pratiche costituiscono un tutto, che si scinde a poco, a' poco, per dar luogo, mediante un lento processo di dissociazione,' a un gran numero di concetti superstiziosi (credenze) da una parte; e a un gran numero di oggetti (amuleti), dall’altra.
D’onde la necessità di risalire, nello studio delle forme superstiziose attuali, al tutto antico, originario, al rito, ricostruendone la figura, mediante l’impiego degli elementi che, dissociati e frammentariamente si trovano sparsi nel vasto campo delle tradizioni popolari. Questo sistema di interpretazione, che il Pettazzoni (2) chiama morfologico, e che porta alla classificazione delle superstizioni in due categorie, una magica e l’altra animistica, in corrispondenza coi due principali stadi dell'evo(1) Migne, op. cit., v. Chandelle. Accingersi a fare il letto in tre persone, significa voler fere andare all’altro mondo la più giovane. Jachino, op. cit., p. 145.
(2) La Superstizione (Atti Primo Congresso di Etnografia, Perugia, 1912).
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LA RINASCITA DELLA SUPERSTIZIONE NELL’ULTIMA GUERRA
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luzione del pensiero umano, non può che portare all'esclusione del concetto che fa della manifestazione superstiziosa un fatto recente, dovuto a cause immediate.
Lo studio stratigrafico della mentalità religiosa dimostra che la superstizione, più che un fatto prodotto dalla psicologia attuale, è un prodotto di quella antica, preistorica, primitiva; e più che un fatto individuale, è un fatto collettivo, etnico, tradizionale; e che pertanto, più cjie di rinascenza, deve parlarsi di persistenza superstiziosa, cioè di forme di civiltà sorpassate dalla nostra, e che resistono, continuano a vivere, a svolgersi, nei bassi strati delle popolazioni già cuite ed evolute, dove il raggio del sole non penetra per illuminare e riscaldare la vita umana e dove robustamente si affondano le selvagge radici della pianta malefica.
L’idea della rinascita del fenomeno superstizioso dovrebbe rispondere a due condizioni:
io che il fenomeno sia scomparso e dileguato;
2<» che nella mente, sgombra dalle vecchie radici, una nuova causa promuova il novello germoglio delle antiche propaggini.
Se questa non può ravvisarsi nell’idea della paura e del pericolo sovrastante all’animo umano, l’altra è inammissibile, giacché, per la legge della persistenza, si può ammettere la continuazione, sia pur imperfetta, del fatto antico, ma non un regresso dal nulla all’antico.
E in tal caso non rimane, per spiegare il propagarsi della superstizione in guerra, che volgere lo sguardo alla massa prevalente negli eserciti, formata generalmente dal popolo e specialmente dal ceto contadinesco, che abbandonando i casolari e le capanne, i villaggi e i borghi, ove, come in oasi, fioriscono le vecchie leggende e tradizioni, reca con sé, patrimonio vivo, nelle trincee e sui campi di battaglia, le credenze e le ubbie, i pregiudizi e gli errori di cui è nudrito, propagandoli agevolmente per effetto della convivenza e dell’uniformità della vita.
In tal modo gli innumerevoli pollini della superstizione plebea, trasportati dall’aura guerresca, si diffondono dalla vita della campagna in quella dei campi di battaglia, ove sembrano rifiorire e rigermogliare, quasi rinascendo.
Questo fatto è generale, e non già di un esercito.
Come non vi è popolo che si sottragga alla legge della sopravvivenza, non vi è esercito che sfugga al secolare retaggio dei padri. Sarebbe un errore supporlo; come sarebbe falso ammettere che i combattenti britannici e francesi, teutoni ed ungheresi, cedano il posto, in materia dr pregiudizi, ai soldati italiani. Se non vi è una statistica folklórica per la constatazione di questo fatto, vi è la scienza comparativa, che basta a supplire alla mancanza.
Passata la bufera, che avvolse di nera caligine gli orizzonti d’Europa, era doveroso tornare alla ricerca della verità, per dire, all’indomani della vittoria che afferma il nostro primato eroico e morale, che la superstizione non è soltanto del fante abruzzese, che porta sul petto il sacchettino contenènte un po’ di terra del paese nativo, o dell’ufficiale calabrese, che stringe al seno la crocetta di legno stregoni©,
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ma anche degli uomini d’arme della Francia e dell’Inghilterra, recanti i primi la pietra a forma di cuore, che deve rendere il loro cuore duro come la pietra; e gli altri il cuore d’un gatto nero, perchè li preservi d’ogni pericolo; per sfatare in tal modo la leggenda che fa dell’Italia nostra, e specialmente della sua parte meridionale, il paese più superstizioso, che avrebbe dato all’ultima guerra i più superstiziosi tra i combattenti (i).
Raffaele Corso.
(i) Il Dauzat e il Gemelli, a più riprese, nei lavori citati, esprimono tale falsa opinione. Non tutti sanno che il Bellucci, tra le altre amenità, ci ha favorito l’indice statistico della credenza negli amuleti. Secondo le sue medie, la superstiziosità amule-tica sarebbe così distribuita in Italia: il 5 %, nel settentrione; il 20 % nel centro; il 75 % nel mezzogiorno. I materiali da cui sono desunti tali indici ammontano a 1300 (Bellucci, op. cit., 1. c.). Il professore dei feticci ha trascurato, nei suoi calcoli e nelle sue distribuzioni, di dirci se egli abbia eseguito nel centro e nel nord della penisola indagini uguali a quelle fatte pel mezzogiorno. Chi può dire che la Sicilia sia il paese più superstizioso e la Lombardia il meno superstizioso, quando non si possiede per questa regione una raccolta di credenze e di usi che sia copiosa e preziosa quanto quella del Pitrèper l’isola sua? Una statistica senza basi non può aver valore e importanza.
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LE FEDI, LE IDEE E LA CONDOTTA
(Continuazione : vedi Bìlycknit fase, di Gennaio 1900, p. :?)
IO. - I RIVELATORI
grande rivelatore, il più intimo iniziatore religioso è appuntò colui che sa addurre a sè le anime. Perchè egli stesso profondissimamente ama, crede, si fa quasi, agli altri, calamita : gli uomini che cercano fiducia s’alzano, si stringono, aderiscono a lui come limatura di ferro.
Il rivelatore religioso è colui che, per la sua potenza di fiducia in alcuni assoluti valori, può fare intorno a sè
la vertigine nelle coscienze umane, che non si muovono se non appunto per affermare; in sè l’assoluto, non si muovono sè non per trovare la sicurezza, per trovare ciò che si possa incondizionatamente amare ed operare.
Di fronte a la sua molto amorosa anima i credenti vengono ad assumere l'attitudine del bambino verso la mamma, dell’innamorato di fronte alla donna sua: le altre anime, cioè, si arrendono, depongono le armi della critica, della riflessione, si fanno avanti in un’attitudine di amore : « lo non ci arrivo, ma lui ci arriva, io non concepisco, ma lui ch’io sento vivo, concepisce. Gli altri trovano contraddizioni, ma in lui la contraddizione è composta. Io sono in lui, sono in tutto lui, Egli mi* ha capito, egli sa ciò di cui ho bisogno, egli vede, egli vede anche per me, e fin dove giungo a vedere la sua luce egli mi scopre a me. Io gli sarò fedele dovunque gli altri lo misconoscano».
Quest'attitudine ci fa intendere un altro aspetto della vita religiosa: Il rivelatore religioso non solo mostra il più grande, il più significante Io, mostra Dio, ma esso diventa esso stesso Dio.
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E ci si mostra in una luce nuova, che non può non provocare la nostra simpatia, il credente, nonostante l’eventuale esclusivismo e il fanatismo suo. E possiamo, così, comprendere come ogni grande amore diventi religione; quello ad es.. della famiglia, della patria, della scienza. Ma qui già si fan chiari anche i limiti d'una educazione religiosa, non filosofica dell’anima. Si fa chiaro perchè le religioni finiscano per dividere...
Se, comunque, il rivelatore religioso, dev'essere uno che abbia scoperto un valore assoluto e la cui vita sia, rispetto a questo, un assoluto amore, un’assoluta fiducia, un'assoluta sicurezza in ogni suo espressivo momento, allora s'intende come il rivelatore religioso debba essere essenzialmente poeta.
Il rivelatore dev’essere capace di vivere tutta la sua vita in sè e con gli altri come poesia, se in ogni momento della sua vita gli uomini debbono sollevarsi in lui come gioia, assoluto amore, assoluta fiducia.
Ma il poeta vìve dell’immediata esperienza; il procedimento del suo spirito non è logico, discorsivo : nell’ individuale, nel particolare, come tale egli infonde il movimento e il ritmo, la essenziale volontà del suo spirito, trova l’espressione adeguata della sua interiore realtà, di ciò che vale assolutamente per lui (i).
Se un poeta e un uomo di scienza cercano che un bambino sia: l’uomo di scienza comincerà ad analizzare la sua forma corporea e la psichica. Il poeta dirà: < Tu sei l’universo,' l’amore, la vita che si schiude, tu sei la mia infanzia... ». Questo significa che egli esprime tutti i movimenti d'animo che suscita in lui la presenza del bambino per farsi immediatamente bambino, ed è tutto il bambino, perchè alla sua volta egli diventa nel bambino tutto sè stesso. Per questa vìa al poeta ogni cosa diviene simbolo : quanto più abbondante sarà il moto e l’onda de la sua coscienza, tanto più parleranno, sì faranno immagine e canto le cose. Cioè, in lui ogni cosa, ogni verità che baleni alla sua coscienza, ogni pensiero nel quale s'illumini una qualche sua esperienza interiore, son vissuti come validi ne lo stesso corso del movimento espressivo senza bisogno di ulteriore dimostrazione. Se tutta la mia vita può diventare poesia, tutta la vita diventa significativa, espressiva del valore, del ritmo e de l’esigenza essenziale al mio spirito : E il pensiero che io esprimerò sarà allora l'affermazione del valore, mediante i simboli che più saranno famigliari alla mia anima, senza bisogno dì dimostrazione discorsiva.
Un esempio : « Si ho sofferto, si soffrirò, ma che gioia dal fondo del mio amore ripullula di continuo! Come rinasce la mia speranza, come ciò che sembrava dovesse perdermi ha servito di sollievo...: Io vivo in un mondo in cui la
(i) Di questo significato de l’arte men fugacemente ho toccato in Silvana o la danza, li 7-i3> nel n. 19 de la rivista Volontà, Roma, 1919.
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provvidenza regna ». Questo dice il rivelatore. Ed ecco riecheggia il credente : < Anche a me è proprio così. E me lo ha rivelato lui che è così ! Se non lo scoprivo in lui non lo avrei scoperto nè in me nè in alcuno ! >
Naturalmente il perfetto rivelatore dev’essere un mistico poeta, un poeta pacificante, cioè, nel suo intimò, vivere le scissioni supreme.
11. - FORMALISMO: IL RITO E IL DOGMA
Ma che cosa avviene? Il rivelatore religioso creava i suoi simboli, come espressioni della sua vita, dalla sua storia psicologica particolare. Il credente tende a fare tutt’una cosa di quei dati simboli particolari e del senso della vita espresso dal rivelatore.
Il bambino, ha fiducia nella mamma. Nell’ infilargli la giacchetta, la mamma gli infila prima una manica e poi l’altra; la zia si prova una volta a mettergli la giacca, e gli vuol infilare insieme le due maniche : « No, la mamma non facendo così, non si deve fare così !... » L’atto è divenuto rito.
Immagini simili ci possono far comprendere come anche l’amore, divenendo venerazione, crei il rito, il dogma. Ci possono fare intendere anche-come ogni religiosità tenda a trapassare in religione rivelata e storica; a costruirsi quale complesso di simboli e non quale filosofia.
Possiamo comprendere anche come le critiche filosofiche non abbiano presa sull’animo dei credenti, perchè la certezza del credente non è certezza fondata nel discorso, bensì nell’amore, nella scoperta che una certa rivelazione con certi suoi simboli dà un senso quale si bramava alla vita. E la certezza investe la totalità del credo e del rito, perchè ha la sua radice nell’unità del senso della vita che si rivelò beatifico all’anima, e in un rapporto di fiducia personale del credente nel rivelatore.
A illuminare questo rapporto può ancora una volta giovare l’analogia tra vero Maestro e discepolo.
Il buon discepolo ha fatte sue le idee del Maestro ; gliele criticano, non sa rispondere, ma tiene duro. Io non ci arrivo, ma lasciate stare, arrivò a tal punto lui. E se ci fosse lui... Se la vide così, aveva la sua ragione.
Il rivelatore non rimane poeta e mistico: l’assoluto nel relativo, il divino dell’umano e Fumano del divino. Diventa il sacerdote : l’assolutezza di un'certo relativo, il divino che non è umano. L’assoluto limite.
E una estenuazione tende infatti ad avverarsi: da cosa viva la religione tende per la sua stessa logica a diventare morta forma, giacché quei simboli' quei riti, che già furono l’espressione della creatività dello spirito, tendono a per-
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dere il loro significato, quanto più la religione si allontani dall’ambiente vivo e reale del suo fondatore.
La lettera tende ad uccidere lo spirito.
Ecco la rivelazione, la legge. Ma il sorgere continuo di profeti, sta a indicare che la religione ricasca di continuo nei meccanismi vani, non è più la fiducia, col suo significato magico. La magia vera del sentiménto che fa superare ogni ostacolo, l’abbandona. L’eteronomia soffoca l’autonomia. Il limite-immaginato come esterno si fa prigione dell'anima. Avviene bensì che nuove per sonalità cre<Urici sorgano sul terreno d’una religione, capaci di reinterpretare in una nuova, /ivente unità, in una nuova condizione di vita, la simbolica religiosa, ovvero il senso religioso, di precedenti rivelatori. E allora si producono in seno ad ogni religione o dei nuovi mistici innovatori, nei quali gli antichi simboli fattisi dogmi e riti passano in seconda linea e si rifan simboli o dei positivi movimenti di formale riforma.
Ma alla sua volta il riformatore religioso non è il filosofo, è l'uomo capace di una tale pienezza di vita personale e insième così espressiva delle esigenze d’altre anime che può rivelare per esse un nuovo valore.
Il rapporto di quelle vite alla sua, di quelle personalità alla sua personalità, finisce col distaccarlo dai rivelatori precedenti. Ma, ecco, una nuova simbolica che si fa rituale ed un nuovo dogma si crea. O se la critica mistica e filosofica prevale ne l'anima, non la rivelazione, non la religione come tale rimane di fatto il criterio. E nel contrasto dei due lumi, l’interno e l’esterno, l’esterno sempre più si mostra non splendere che de la fiamma de l’interno.
12. - LA RELIGIONE COAIE EDUCAZIONE
Mentre dunque a la base de la vita religiosa è l'esigenza all’autoeducativo ritrovarsi dell'anima nel Maestro, lo sviluppo inevitabile a la forma de la educazione religiosa è la progressiva eteronomia o il progressivo dissolversi di essa forma.
La personalità del fondatore di religione, abbia del resto egli détto la parola del timore o de la speranza, vale perchè in essa si sente e si riavvalora il fedele, nelle essenziali, più intimamente personali, aspirazioni sue etiche e mistiche, ma dall’altra il fondatore diventa- personalità eccezionale. Così il Credo vale perchè in esso il credente fa valido, consacra, il suo senso de la vita, e finisce per dover valere a dispetto del fatto che il credente lo trovi, in tutto o in parte, contraddittorio col suo pensiero e i suoi bisogni di vita. Vale in quanto possa riuscire autorivelazione e finisce per imporsi come suprarivelazione. La religione favorisce inizialmente l’autonomia e ne mina intanto la base.
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LE FEDI, LE IDEE E LA CONDOTTA
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Far posto nella scuola a la religione significherà voler il progresso dell’ete ronomia, o volere il processo de la ragionevolezza che inveri filosoficamente le fedi e non lejasci semplici religioni.
Di fatto l’apologià de la forma religiosa di fede è la disperazione della possibilità di altra adeguata forma. L’ànima che ritenga di aver vissuta (per lo più arrestatasi al pensiero astratto), la insufficienza della sua azione, la insufficienza della razionalità, od anche del metodo intimamente^ personalmente mistico —-con una decisione ch’è una rinuncia a se stessa, chieda, dice l’apologeta, l’affermazione e la pace ad una sovranamente autorevole verità beatifica e prammatica, Che la esoneri da l’esame o da ogni altro esame Che non sia coment© e sviluppo adesivo.
...Se non si può davvero, per volontà che ci si metta, fare e ricevere il giusto ; se non si può penetrare la ragione ultima del bene e del male, del dolore, de la morte, del concreto corso de là vita; se le ragioni che il pensiero può suggerire non son tali che le aspirazioni dell’anima vi abbiano intera sod--disfazione, che la vita cosciente possa giustificarsi, e, svolgendosi nel loro spirito, tutta adeguarsi a se stessa, la vita ha forse più senso? E non si può vivere una vita insensata. La vita, bisógna saperla, in definitiva, beatifica.
E dunque l’anima è invitata a superare la propria limitazione, accettando una limitazione nuova, la rivelazione, il dogma, cui è conferito, però, il valore de la illimitata, non relativa, immutabile, ferma e beatifica verità;
La più profonda apologetica cristiana, da Agostino, a Pascal, a Blondel, è la teorizzazione di questo stato d’animo in servigio a la rivelazione di Cristo.
La religione coi dogmi e le sue opere cultuali pare presenti, così, su la filosofia, anche su la dialettica che non sa dedurre le concrete speculazióni della vita del mondo e su l'azione umana che non sa in definitiva il suo futuro concreto, pare presenti questo vantaggio: di poter vigere e dirigere, orientare indiscussa e ricca di concrete risposte. Essa non benefica solo col conforto che grandi vittoriose personalità — come tali rivelatrici — dieno a vivere la vita < come se » avesse un certo significato, ma permette al credente di riposare in quel significato, quali che siano le sue particolari difficoltà, con l’occhio a colui che lo testimoniò ne la luce e potenza d’una sovrumana vita e parola. Ed anzi l'esigenza di questa non discussione stringe compatta la comunione dei fedeli, ne la quale il credente sente obbiettivati quel senso de la vita e quella certezza cui aspira. Potete accorgervi, ad ogni momento del vostro agire, qual fattore decisivo sia il consenso degli altri nel configurare la nostra coscienza del vero, del valido, dell’obbiettivo ! Non appaiono quasi, gli altri, quella universalità che cerca il nostro pensiero ? E non forse anche l’esigenza dell’assoluta non discussione crea la Chiesa, maestra essa sovraordinata ai fedeli, cui l’individuo dovrà
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rimettersi? L'educazione propriamente religiosa è sempre tratta a divenire, così, di chiesa, con metodo non solo provvisoriamente, ma in definitiva eteronomico de la formazione umana.
Volere allora nella scuola non già semplicemente la religione come momento di cultura, ma una < educazione religiosa » non è a stare per un siffatto spirito metodico? La sfera de la religione positiva non si estende di quanto è vasta la’ presunzione nella insufficienza del razionale e dell’autonomo, e però della inevitabile necessita per gli uomini o per alcuni uomini d’una condizione di tutela ?
Certo, di un siffatto spirito sono oggi pervase tutte le difese d’una scuoia religiosa. Si contrappone la religione alle sciènze dèi « fatti » incapaci di orientare sui significato. Si dichiara che non c’è una filosofìa, ma il contrasto inconciliabile delle filosofìe. E che (se pure valessero a dare all’anima una risposta) scienza e filosofia non darebbero pur sempre che una luce intellettuale senza calore. E infine sarebbero destinate a rimaner privilegio di pochi spiriti, e anche per questi della più matura età de la vita...
Filosofi e politici e positivisti e scettici e miscredenti d’ogni tempo hanno fatto propria quest’ultima ragione. Fanciulli e popolo vivono non nell’idea, ma ne la fantasia, nel sentimento... Ed ai fanciulli e a la gran massa del popolo, la religione deve tener luogo della filosofia... Perchè, comunque, la vita morale bisogna saldamente fondarla. E se o quando l’autorità della ragione non può valere, il ricorso alla fede s’impone. La fede religiosa la cui essenza sarebbe così, come Spinoza, dopo i nostri del Rinascimento, teorizzava, « insegnare l’obbedienza ai non ragionevoli ».
Già in questa esigenza, e nella volontà tuttavia di emancipazione de le coscienze da un chiesastico asservimento, l’illuminismo tentava di escogitare e di insinuare ne le scuole una religione interconfessionale e naturale, che delle religioni avesse i pregi e non i difetti.
E poi, lo spirito di tolleranza, il metodo comparativo ed evolutivo, critico e storico, ‘ facendosi sempre più operoso anche ne le coscienze religiose, si ve; niva risviluppando non solo in teoria, ma anche in pratica, tutto un movimento per una educazione religiosa aconfessionale. Iniziato in qualche modo dal Guizot (1833) e sviluppato da J. Simon e da J. Ferry (1882) e poi dal Buisson ih Francia, questo movimento era promosso sotto l’influenza degli unitarii in America (dal 1867), e poi in Inghilterra, ed anche in Germania, dove già il Die-sterweg ne postulava l’esigenza ricollegandosi a lo Schleiermacher, e dove veniva tratto ai più radicali sviluppi dagli insegnanti di Brema (1905) e di Sassonia (1908).
Ma come nel movimento modernista, intanto vivo e nelle altre nazioni e da
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noi, qui, di fatto, al metodo religioso si veniva sostituendo un imperfettamente consapevole metodo filosofico e mistico.
Accettare la necessità d’una educazione religiosa è di fatti, se la religione ha quella forma e quel processo di sviluppo che tanto la teologia medievale che il processo del pensiero moderno le han trovato, è ricorrere a una determinata, storica rivelazione. Nè, proprio per ciò, potrà mai avverarsi, nonostante già da più parti si presuma di averla attuata di fatto, una educazione religiosa aconfessionale.
Parlare, ad esempio, di Dio o dell' immortalità dell'anima, se in nome di Mosè o del Cristo rivelatori, della loro eccezionale autorità, sarà un avviamento a religione (e a una data religione positiva mosaica .0 cristiana).
E parlarne in nome di esigenze interiori a tutti gli uomini morali, razionali. sia pure eventualmente mostrandole attuose anche in Mosè o in Cristo, sarà compiere educazione filosofica o mistica. Nel primo caso la aconfessionalità sarà un’apparenza, nel secondo il carattere propriamente religioso dell’educazione religiosa verrà meno.
E i compromessi ecclettici non si possono sviluppare che a svalutazione o delle religioni o della filosofìa. (La storia del pensiero medievale ammaestrai).
Noi abbiamo oggi una scuola che ha da Sè escluso la religione, e nella quale tuttavia, a richiesta, può avvenire che sia aggiunto agli altri un insegnamento religioso confessionale. E si comincia a insistere perchè ne le più tra le scuole questa possibilità si traduca in attualità. Un conflitto di metodi pare dunque inevitabile.
E comunque, si pensi o no indispensabile la religione ne la scuola, noi si vuole tutti che la scuola possa, meglio che non abbia fatto sin qui, adempiere al còmpito di promuovere validamente l’educazione morale dei fanciulli, del popolo.
L’educazione morale. Dopo la religione — e a chiarirci, con volontà pedagogica, in tutta la sua portata e forma, il nesso tra religione e condotta — tentiamo dunque un po’, insieme, la via a la fonte della moralità.
13. - RIVELAZIONE E PENSIERO ETICO
Non a caso, intanto, la religione ha finito per trovarsi a disagio o per esulare dalla scuola moderna, generata da lo spirito della cultura e della filosofia moderna. La moderna ricerca sul valore e sul fine de la vita, de la condotta, sorse appunto col farsi della rivelazione un problema. Dopo la lotta medievale per l’indipendenza de la politica ci fu, e attraverso le lotte religiose e nelle teorie
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dei filosofi, quella per l’indipendenza de là vita morale. Dagli spiriti nuovi del nostro rinascimento con la dottrina della doppia verità, allo stesso Cartesio che in sostanza vuol dedurre dalla ragione il contenuto della fede, a Bacone, Hobbes, Locke... ed anche al Vico e al Lessing... si svolge il medesimo motivo fondamentale.
Sia che con Bacone la vera «utilità» della rivelazione fosse confinata ne la sfera de la vita ultraterrena, sia che, con Hobbes, solo la rivelazione sancita dallo stato fosse ritenuta valida, sia che, con lui e col Locke, il suo contenuto fosse considerato soltanto uguale a quello di cui può fornirci il « lume naturale » — riducendosi così là rivelazione ad aggiunta essenzialmente superflua — sia che con lo Shaftesbury la condotta morale divenisse premio a se stessa, ne l'intima .soddisfazione dell'animo — con che la coscienza si dichiarava sempre più esplicitamente ed esclusivamente disposta' a non lasciarsi guidare e giudicare con altri criteri dai propri e le diveniva superfluo l’agire in vista di una altra vita... — sia che, col Vico, le istituzioni umane, non escluse le religioni, apparissero la fattura dell’uomo (anche se pervaso da la provvidenza divina), o che, col Lessing, la rivelazione non apparisse poter avvenire, a volta a volta, che maturandosi l’umanità, con che l’etero-rivelazione veniva a trasformarsi ne fautori velazione... — sempre la soluzione, quali che fossero i volontari o gli involontari compromessi, era l’immanenza contro la trascendenza.
Perfino nel teologismo, col Cudworth e col Cumberland, le idee innate e il sentimento, più che la rivelazione, divenivano di fatto il vero principio della condotta. (Così più tardi, nel teismo dei Mazzini, la voce di Dio avrebbe fatto una cosa sola con quella de la coscienza individuale e sociale, storica).
Insomma, col farsi la coscienza sempre più consapevole della primalità dèi propri intimi criteri, l’uomo scoprendosi in sè divino, la rivelazione esterna si avviava a perdere il suo carattere assolutamente sovrumano e il suo valore di insostituibilità. Da coordinata alla coscienza ed alle istituzioni umane (Bacone, Locke) diveniva subordinata (Hobbes e Shaftesbury) ; da legittimamente controllante, oggetto da controllare.
E si finiva pe'r trovare — notatelo! — che solo il suo contenuto morale potesse legittimare la rive’azione: la coscienza morale, così, non la religione, fonte de la legge.
Col Kant, come abbiamo intravisto, si andava oltre. Con un fondamento che l’empirismo illuminista non poteva date, là stessa ragione pratica si dimostrava condurre proprio a quei postulati che costituiscono la base di speranza e l’argomento apologetico fondamentale de le religioni, e che nelle religioni non vengono, appunto, dimostrati, ma presentati a confortare l’obbedienza alla fede etica dell’uomo.
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Ma con ciò questa fede, questa intima volontà etica coincidente con la ragione, diveniva consapevole d'essere la costruttrice del proprio mondo : di non poter chiedere che alla propria intimità, non a parole estrinseche, le ragioni della propria validità.
Qui l’io non può già prestar fede e obedienza che a sè stesso. Per quanto ancora in Kant, col-residuo della «cosa in sè», alla rivelazione sia conservato il posto di una mera possibilità. Ma questa possibilità, perseguendosi la critica del realismo e del dualismo, sarà dichiarata una impossibilità. Una rivelazione esteriore, di qualcosa che con le sue forze l'uomo non possa raggiungere, non può appunto mai (come dell’essere esterno al pensiero sapeva già Gorgia), essere raggiunta.
Questa difficoltà cercava un tempo la sua superazione da un lato ne la trasformazione superumana dell’uomo mediante la grazia, dall'altro ne la rivelazione progressiva di Dio a traverso i suoi profeti. Ma mentre questa seconda assunzione conduceva, come abbiam visto, all’autorivelazione, la prima, che aveva suscitate le più gravi, secolari e anche modernamente e rinnovatesi difficoltà, ne la coscienza morale (le dispute giansenistiche!) apparirà semplicemente una petizione di principio in menti già aperte dal criticismo e da l’idealismo postkantiano : vi ricordo Eucken. Ed ecco il problema de la rivelazione si trasforma in moki spiriti religiosi in quello de l’assunzione o de la ricerca di altri possibili modi di esperienza oltre gli ordinari : spiritisti, teosofi, « ricercatori psichici », psicologi del subcosciente si mettono per questa via. Per la quale, daccapo, la coscienza morale coi suoi postulati si dimostra essa volontà ansiosamente profetica ne la fondazione dei credi.
14. - LE MORALI
Mentre tuttavia, filosofando, il pensiero modèrno si è tanto dato da fare per scalzare la fede ne le rivelazioni, è forse esso riuscito a costruire una morale capace di bastare a se stessa? E mentre parrebbe che i filosofi Si fossero messi d’accordo nel rifuggire da la morale deli'eteronomia, non hanno i* più tra essi, daccapo, col determinismo de le leggi fisiologiche e psichiche o col determinismo dell’azione sociale combinata con la psicologica (da Stuart Mili al Bal-dwin) o col determinismo dell’evoluzione (Spencer), reistaurata una nuova eteronomia?
E, pratico empirista, il popolo, non si è forse in gran parte demoralizzato passando da la sfiducia ne l’eteronomia religiosa a l’abbandono ne l’eteronomia naturale ? « Son fatto, siamo fatti così ! » Ben altre certezze dà la religione !
Ma la religione è in questo curioso rapporto con l’empirismo: essa pro-
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spera adagiandosi nell’astratta opposizione di soggetto e oggetto e ne l’astratta considerazione dell’oggetto fuori del soggetto come della realtà. E proprio con lo svilupparsi dell’oggettivismo naturalista non riman terreno per l’oggettivismo rivelazionista. Con l’idealismo, invece, trascendentale e dialettico, che mostra appunto astratto e inconsistente un puro mondo naturale, le fondamentali aspirazioni di cui la religione vive, mentre non son più ricercate in una rivelazione esterna, riacquistano la loro legittimità...
Vero è che ora voi potreste dirmi, daccapo, che si, per esempio, quei metodi filosofici già esoterici nei loro nomi potrebbero non servire se non a qualche solitario sapiente. Ma i più? La loro vita morale? E lo stesso orientamento morale degli «Educatori»? E, comunque, la filosofia cosa da tutti?
Intanto, anche sospendendo per ora il vostro giudizio sul rapporto tra filosofia e moralità, dovreste riconoscere che nessun uomo può non compiere una qualche riflessione morale. Se no non agirebbe da uomo.
E se voleste considerare con volontà (ora posso dirlo) dialettica, i grandi moralisti e antichi e moderni, trovereste, forse, che essi non han fatto che esplicitare, svolgere e sistemare le riflessioni morali che ogni uomo fa. E che, come i grandi poeti, i mistici e i rivelatori, essi hanno svolto tutti, con diversi personali linguaggi, spesso sia pure con diverse personali illusioni, e arrestandosi chi a una tappa, chi ad un'altra, una medesima direzione di pensiero. Trovereste insomma che non ci son molte morali, ma uno sviluppo del pensiero morale.
E ancora di più : che con materiali di pensiero e metodi più o meno adeguati si cerca sempre la stessa soluzione. Il che potrebbe farvi sospettare che i temi fondamentali della vita morale tendano a imporsi da l’intimità stessa de lo spirito: di tutti gli spiriti.
Il pensiero moderno che assumeva come punto di partenza non rivelazioni oggettive, ma la coscienza, l’Io, si arrestava alla coscienza come esperienza sensibile, o come pensiero astratto, e si faceva empirismo e astratto razionalismo. E alzandosi al punto di vista trascendentale e dialettico si faceva sempre meglio adeguato idealismo.
Ed empirismo, razionalismo dogmatico e idealismo critico e dialettico costruivano le loro diverse morali auto od eterofilistiche (da Hobbes sino a Mill e Spencer e da Shaftesbury a Hume...) e innatiste, intellettualiste e perfezioniste (da Cartesio a Spinoza a Malebranche a Leibniz...), e trascendentali e dialettiche (da Kant a Hegel ai recenti nostri idealisti).
L'io era colto, da l'empirismo per molto tempo prevalente, nel suo significato di natura e individualità. E l'altruismo era il problema, o esso era natura come simpatia. Ma nella psicologia dell'altruismo e della simpatia si cercava appunto come nei principi innati e nell’attività intima, della monade, di giustifi-
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care l'universalità dell'azione. Con Kant poi si scopriva l’io come la stessa unità sintetica del pensiero, la ragione radice dell’universalità. E dacché la riflessione appariva ministra del sentimento., del piacere, de la simpatia, essa diveniva la negazione del sentimento, come fonte del dovere. Nell’ io in cui si smarrisce lo empirista, la riflessione s’avviava così a scoprire Dio, e a ritrovar valida la legge di cui la coscienza religiosa s’era fatta custode...
Ma, anche senza che noi esplicitamente si filosofi, le diverse correnti di sviluppo del pensiero etico, nei loro germinali motivi, si contrastano ne la coscienza nostra e dei nostri contemporanei. E queste direzioni diverse, in parte temporalmente successive, in parte coeve, sono tutt'altro che equivalenti, sia ne lo sviluppo de la filosofia,, sia nei motivi che le rappresentano ne la nostra coscienza. E alla lor volta, se devono avere portata etica, le religioni possono valere esse per le anime più che come fonti di riflessione nel contrasto de le riflessioni ?
15. - LA NATURA CONTRO LO SPIRITO
Il contrasto perenne, e nella storia del pensiero e in quella di ogni anima, anche nell’anima d’ogni credente, è tra empirismo e i motivi che — razionalisti o trascendentali o mistici o religiosi — possiam dire idealistici.
Uno dei pregiudizi più comuni di tutti i tempi, e che l’educatore ha da snidare da sé, è proprio che la coscienza morale si origini per influenze empiriche diverse, e che pertanto l’influenza de l'ambiente, del costume, l'esempio, l’imitazione... (1) possano formarla. Che, insomma, il fanciullo, e l’uomo nei primi gradi de l'incivilimento, o il destinato a poco svilupparsi uomo del popolo ricevano o possano ricevere dalla società o da maestri, quasi impronta, la forma de la loro coscienza morale. La quale non sarebbe, così, libera volontà e conquista individuale, ma eco, più o meno risonante, del di fuori.
Se così stessero le cose, si potrebbe educare formalmente, in virtù di esercizi e necessità esteriormente create ali’agire, il « senso del dovere » così come si presume da taluni che possa, con ripetizioni, svilupparsi la memoria.... Ma si farebbe allora l’automatismo, non l’autonomia morale!
Io non credo, dopo quel che abbiamo intravisto dell’empirismo definiente le religioni, che sia necessaria una lunga sosta su le interpretazioni empiriche de la vita morale.
Qui come là i difetti e gli eventuali « complementi > hanno le fonti medesime.
(1) Intorno al presunto fondamento dell’educazione morale nell’imitazione, dico nel saggio: 2?imitazione e l’infanzia, nella Rivista di Psicologia, 1920.
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Tuttavia, dal punto di vista pedagogico, ci giova rilevare che nessun di noi può pensare puramente e semplicemente, senza « complementi » surrettizii, da empirista. Se lo facesse non agirebbe (gli automi non agiscono !) e non sarebbe.
In verità, se operassimo'soltanto perchè siamo così e così, e mossi, agitati da queste o quelle forze in questo o quel modo; se fossimo morali semplicemente perchè abbiamo l’egoismo stimolante un calcolo individuate e sociale dell’utile; o perchè abbiamo la simpatia, o perchè vige in noi la legge d’associazione connettente il nostro soddisfacimento con l’altrui, o la legge dell’abitudine saldante le associazioni, o quella piir profonda abitudine ch’è l’eredità...; se il termine dell’azione non consistesse che nella soddisfazione de la nostra natura, o psicologica (come ricerca del piacere individuale, di uno stato di equilibrio, ecc.), o biologica (come impulso all’adattamento o a la lotta per là potenza), o anche nella nostra natura in quanto subordinata col suo moto al moto de la natura universa, ci sarebbe forse per noi uomini in genere, e per gli educatori, un problema morale?
Non gioverebbe nè ci potrebbe preoccupare la ricerca del valore da attuare, del dovere, dove il nostro comportamento accadesse naturalmente, necessàriamente, per un certo meccanismo e per una certa genesi empirica che produrrebbe insieme, da altro, lo stesso io e il suo valutare.
L’empirismo riconduce, non c’è dubbio, sul terreno dell’eteronomia, de la trascendenza, per la via del «naturale», invece che del soprannaturale. E mentre col soprannaturale si faceva valida l’esigenza morale, con la natura meccanica-mente determinata si rischia, a meno di ricorrere a metafisici complementi, di non trovar più’ posto per l’efficacia dell’ideale.
Ed anche perciò, quando ne l’individuo o nelle masse popolari un senso empirico e naturalistico de la vita (e non solo per opera degli scienziati de la scuola, ma di tutta la vita) si è fatto strada, pare minacci di dissolversi la moralità.
Ma in nessun’anima c’è mai, senza contrasto, quest’ordine di considerazioni soltanto.
16. - NOI, I TRASCENDENTALI
Del kantismo e del dialettismo vige in ogni anima, chè l’azione, la vita morale, implicano sempre una vissuta distanza, un dissidio tra l’essere di fatto, la natura, la sua necessità, e il valore degno di essere idealmente necessario e che vogliamo anche quando non riusciamo a farne là teoria, per ciò che contiamo quanto ci sta di contro, sta fuori di noi, e non mettiamo nel conto noi stessi.
E la vita e l’azione consapevole suppone la possibilità, per l’ideale, di farsi valere, e però di dominare il fatto, la natura. Ci può far comodo limitare il no—*■ ......
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stro ideale a la nostra «natura». Ma noi possiamo convenire di essere così e così, e che in un’azione siano confluite queste o quelle cause, e tuttavia valutiamo nel rimorso, ne l’imputazione, ne la gioia... : corriferiamo ogni azione a un interno criterio, che troviamo in atto assoluto, all’ infuori e al di sopra de le condizioni empiriche del divenire causale e delle nostre opinioni « scientifiche ».
E all’azione attribuiamo tanto più valore o disvalore quanto più essa sia autocosciente. Proprio questo, da tutti vissuto, senso di sovraordinazione dello ideale al fatto, questa, anche da quelli che più si muovono nell’empirismo, vissuta filosofia fa la forza de le religioni —- è la religiosità dell’anima — è l’at-tuosa negazione dell’empirismo, viva oltre tutte le religioni, e anche quando alle religioni si neghi valore.
Ci conviene dunque riapprofondire dal punto di vista trascendentale e dal dialettico l’autocoscienza di noi stessi, per spiegarci quella vita morale che non ha senso che se è nostra, libera, autonoma ed efficace azione. E per trovare infine positivamente quale via debba da noi considerarsi indispensabile all’educazione morale.
E di fatto storicamente contro il continuo rinascente empirismo, forzato da-la necessità del pensiero a farsi naturalismo deterministico, e contro l’astratto razionalismo, che rimaneva dualismo e non poteva liberarsi dal naturalismo, Kant, scoprendo il metodo trascendentale, avviava a risolutiva consapevolezza quella ch’è fattualità de la nostra vita morale.
Un avviamento che il metodo dialettico ha ancora inverato, e che continua anche oggi il suo sviluppo.
L'analisi trascendentale ci mostra, dell’autocoscienza, l’esigenza di universalità, come fonte del dovere; la dialettica ci giustifica il dovere come la stessa esigenza ad esserela quale non può attuarsi se non in un agire che sia un superare, un crescere ed estendersi in valore.
E non mi parlate delle tante critiche al Kant.
Certo, dal punto di vista kantiano, il tragico dissidio de la vita spirituale, è solo constatato e non se ne vede la necessità ultima. Nella sua analisi, non ancora libera di un residuo di empirismo, realismo e dualismo, pare ancora che il soggetto non abbia a volersi che come astratta impersonale universalità. E si può non trovar abbastanza ragionevole questa pratica ragione.
Ma approfondite, vi prego, il punto di vista dialettico, quando mostra che la stessa volontà di esseret di agire, di gioia, che non può realizzarsi se non come attività infinitamente produttiva di ascensivo valore è 1*essenza de la morale universalità e insieme l’unica possibile perfezione de l’individuo. E ditemi se mai rivelatore abbia potuto dire agli uomini una parola, che senza ricorrere al mistero, possa illuminare di più?
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Quali che siano, comunque, le fedi, gli dei o le idee, che ci sostengono, e quali che siano i .nostri dubbi religiosi e le nostre scontentezze filosofiche, se non fossimo autocoscienza potremmo forse volere la moralità?
La trascrizione del nisus etico sarà in Socrate : Conosciti, cerca le tue vere idee! E in Platone il platonico amore. E in Aristotile: Sii ragionevole! Ed in quei delia Stoa : Riconosciti ne la legge de l’universo, e comprimi il tuo cuore ! E in Bruno : Sii pazzamente eroico ! E in Shaftesbury : Sii armonico ! E in Kant : Fatti de la. vita un dovere ! E in Fichte : Supera ! Non t’arrestare I... E Budda dirà: Abbi presente il dolore! E Cristo: Ama!
Ma avrebbero valore queste voci se non fossero appassionate espressioni della voce de la coscienza, al di sopra di ogni condizione empirica de la vita? Voci diverse in cui l’anima ritrova un medesimo iniziale, intimo, trascendentale motivo.
17. - DISCORDIA CONCORS
Quella intimità e universalità del valore morale, poniamo, e quella sua indipendenza da l'esperienza e dalla riflessione su le conseguenze che il pietista Kant, alzandosi al metodo trascendentale, difenderà e renderà intelligibile come signoria della ragione, come esigenza di fare ciò che possa valere per ogni ragione, come sottomissione al dovere, lo esteticamente mistico Shaftesbury, rimasto al linguaggio de l’empirismo, spiegherà e giustificherà come esigenza a comporre in armonia, in unità di esplicazione, e in espansione di sè beata, gli affetti individuali e sociali assunti ad espressivi della più intima costituzione nostra... Ma nei due casi l’azione morale si presenterà come l’azione adeguata alla coscienza dell’uomo e come l’espressione della stessa forma in atto della coscienza di sè: la quale li è ragione, che universalizzando si oppone agli impulsi, e qui è la stessa vita degli impulsi di un individuo orgànico che per essere insieme un tutto a sè e un organo d’un tutto sociale tende a realizzare un’armonia d’impulsi.... in cui si fa in atto universale.
E la stessa opposizione tra Kant e Stuart Mill, differisce gran che da quella che abbiamo visto tutt’altro che senza punti di contatto, tra Kant e Durkheim?
Si vuoi fondare da una parte empiricamente una universalità e obbligatorietà che, comunque, si riconosce essenziale a la vita morale e religiosa, e che dall’altra parte trova una fondazione trascendentale che spiega se stessa e l’illusione de l'empirica...
Gioverebbe assai che ciascuno di noi esaminasse le più risplendenti trascrizioni e giustificazioni de la moralità, sia pure fatte difettose da inadeguati metodi. Ci si farebbe forse chiaro, così, come pur articolandosi, giustificandosi, de-
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LE FEDI, LE IDEE E LA CONDOTTA 113
finendosi a se stessa per vari gradi di consapevolezza, la esigenza morale viga, in individualità diverse e opposte, sforzandosi di attuare le stesse sostanziali aspirazioni.
Educatori che avessero in sè sviluppata, non verbalmente, questa consapevolezza, potrebbero davvero favorire il passaggio di altri spiriti attraverso gradi ascensivi di coscienza e di volontà.
Ma i più tra gli « educatori » si contentano invece di vivere ingenuamente la propria esperienza etica, non portando spesso a sistematico pensiero che alcune superficiali riflessioni. E poi lamentano la ripugnanza dei filosofi a dar loro dei « pratici consigli... ».
Il maestro, ad esempio, che si arresta al pensiero che l’emulazione, i premi, i castighi (e dati castighi) sieno i mezzi principali di educazione morale, vive solo una certa coscienza, e perciò non potrà far sua che una certa autocoscienza, non potrà intendere che una certa interpretazione filosofica, de la vita morale.
E non potrà ricevere che un certo genere di consigli « pratici * a meno che non sia disposto ad approfondire, non praticamente, di più, il proprio io. Intenderà, forse, Locke, Hartley e Bentham, forse Mill e Spencer, non intenderà Giordano Bruno o Shaftesbury o Kant o Fichte... Il che non significa chequi il fare pratico condizioni l’intelligenza: quel fare è già una determinata intelligenza. E l’intelligenzà non è comunicabile per astratte parole, e il suo accrescimento è sempre sviluppo di personali esperienze che impegnino tutto l’io.
Come che sia, anche nc le morali che voglion rimanere più brutalmente empiriche, l’associazione psicologica, il calcolo obliterato, l’eredità, l’immedesima-zione simpatica, l’utilità sociale e biologica invocate a spiegare il disinteresse, l'universalità... il dovere... non sono le insufficienti ipotesi che testimoniano l’operosità, nei teorizzatori, de l’esigenza trascendentale e dialettica?
E lo stesso sforzo dei filosofi (da Platone !) e dei rivelatori religiosi, per stabilire un rapporto di causalità tra la virtù ed effetti in una vita ultraterrena, può forse mostrare che sempre gli uomini hanno agito, quando han moralmente agito, per una esigenza che aveva tutta la forza della loro coscienza intima e che per quanto potesse apparire empiricamente di dubbia giustifìcabilità si cercava sue metempiriche giustificazioni.
(La fine al prossimo numero). Gino Ferretti.
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L’ESSENZA DEL MODERNISMO
(Continuazione e fine. Vedi Bilychnit, Nov.-Dic. 19x9, pog. aóx).
VI.
el* turbinoso crogiolo d'idee dell’oriente ellenico, e sullo sfondo filosofico ’ dominato dal pensiero di Filone, viene ad agitarsi quel groviglio di speculazioni fantasiose e di geniali intuizioni, di formalismo cabalistico e di simbolismo pitagorico, di demonologia pagana e di mistagogismo orientale, che — fermentato dal nuovo lievito cristiano — costituisce quell’ amalgama oscuro che è lo Gnosticismo. .
È impossibile farsi un'idea adeguata dello sviluppo dottri
nale del Cristianesimo, comprendere la fortuna del Quarto Vangelo, e la conse
guente sistemazione dogmatica cattolica, senza sforzarsi di penetrare, almeno nelle sue linee essenziali, questo complesso moto di pensiero (i).
Il problema delle origini e della essenza dello Gnosticismo non ha ancora raggiuntolasua fase risolutiva; chè le opinioni degli studiosi sono discordanti, e spesso contraddittorie.
La critica tedesca aliena, in genere, dalla visione sintetica, si è impelagata in un’affannpsa indagine delle fonti; ma è avvenuto, appunto, che la cura minuziosa dell’analisi abbia fatto perder di vista l’insieme. Chè ciascun critico, percorrendo la preferita linea di studio, finisce col non vederne altra; e coll'affermare, quindi, che quella sia l'unica.
Così, dopo il primo accenno del Kessler (2), parecchi autorevoli critici tedeschi han difesa la tesi — che per certi lati può dirsi assodata — della diretta derivali) Una quasi completa biografia gnostica si trova nel Geschichtc der altchvisllichen Lilteralur dello Harnack. Collezioni di frammenti gnostici ci hanno dato il Grabe e I’Hilgenfeld. Un buon riassunto critico delle fonti gnostiche e antignostiche è nel citato volume del Buonaiuti: Lo Gnosticismo (Roma, 1907) che è anche uno dei più riusciti tentativi di ricostruzione sintetica delle dottrine gnostiche.
(2) Al Congresso degli Orientalisti in Berlino.
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l’essenza del modernismo
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zione dello gnosticismo dalle religioni semitiche e specialmente dalla babilonese; ma alcuni hanno talmente esagerato cotesto punto di vista, da misconoscere o, quanto meno, non adeguatamente valutare, nè la originalità speculativa degli gnostici, nè il valore fondamentale dello gnosticismo per la costituzione della dogmatica cattolica (1).
In realtà, il profondarsi che fa lo gnosticismo, con le sue più lontane propaggini, nel semitismo orientale, non sposta quello che a me sembra il . uo significato fondamentale: quale tentativo di raccogliere in sintesi tulio il mondo filosofeo del passato, vivificandolo nella nuova luce del cristianesimo (2).
Va da sè, che io non intendo per Gnosticismo il prodotto di alcune menti insigni, o l’attività di certe sette determinate; ma tutto intero lo spirito dominante di un periodo complesso e intricatissimo. Presumere di coglierne l’origine da un solo tronco, di fissarne l’essenza in una isolata visione o esclusivamente teologico filosofica o esclusivamente sociale 0, perfino, politica, è impresa disperata. Lo Gnosticismo, come giustamente nota lo Harnack, rappresenta l’ellenizzazione acuta del Cristianesimo. Ma il processo generale di ellenizzazione certamente si Svolse anche al di fuori delle correnti propriamente gnostiche. L’ostilità della Grande Chiesa, e la gelosa oculatezza dei Padri, impedirono al pensiero gnostico di giungere sino a noi» nella sua interezza e organicità. Ma, indubbiamente, le opere dei grandi gnostici non furono l’improvvisa costruzione di menti geniali; bensì il risultato di una lunga quanto vasta elaborazione; espressione di uno stato d'animo che era, per così, dire, riell'aria; e comune alle menti più cuite dell’ortodossia, aspiranti a una sintesi cristiana della civiltà e della cultura del passato (3).
(1) Tra essi il Bousset, H aul ¡»róbleme der Gnosis (Gottingen, 19.07).
(2) A me, quindi, non pare colga interamente nel segno rii Minocchi il quale, pur riaffermando collo Harnack e Contro i Padri «la reale importanza della Gnosi, quale fattore positivo della teologia cristiana • sostiene poi col Bousset (op. cit.) l’assoluta preponderanza di elementi babilonesi nella teologia gnostica, e accetta l’opinione del 1’ Anz che 1' idea centrale della Gnosi consiste nella fede di oltrepassare la materia, liberando, mediante la Gnosi, l’anima dal corpo : idea che non è certo la caratteristica del Cristianesimo. In questo modo lo gnosticismo si ridurrebbe niente più che ad una delle tante sette orientali od orientaleggianti, le quali, durante l’Impero, pullulano per tutte le sue parti: c verrebbe a mancargli ciò che, invece, da tutte lo contraddistingue: il suo sostanziale muoversi nell’orbita cristiana.
E avrebbero ragione i Padri.
Inoltre, occorre notare, per ciò che riguarda le origini babilonesi, anziché elleniche, che un altro valoroso critico: E. De Fave nel suo Gnostiques et Gnosticismo (Paris, 1913) recentemente riaffermava la tesi tradizionale del Renan e dello Harnack. Ma neanche con l’Harnack a me pare di potere in tutto consentire; in quanto mentre per esso, in sostanza, lo Gnosticismo rappresenta la tendenza a consolidare il pensiero ellenico col gruppo di idee speculative morali del Cristianesimo; io ritengo, invece, che rappresenti la tendenza a consolidare col rivestimento delle forme elleniche, il nucleo religioso-morale del Cristianesimo.
(3) « L’antico mondo — così il Windelband —- era talmente travagliato dal tarlo del pensiero, era pervaso così profondamente dal bisogno della conoscenza, che ciascuna delle religioni volle soddisfare non solo il sentimento, ma anche l’intelligenza; e quindi si affatico a raccogliere la sua vita in una dottrina. Questo vale anche per il Cristianesimo ed appunto per esso ». (V. Storia della Filosofia, trad. di Zaniboni, voi. I).
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Ricavare cotesto stato d’animo dalla visione complessiva del moto gnostico, è ciò che, per la nostra indagine, specialmente importa.
* ♦ •
Quando il Cristianesimo, per la spinta di Paolo, si affaccia nel mondo grecoromano, l’aspra lotta che aveva commosso la nascente comunità cristiana per la legge e il ritualismo ebraico — e la quale aveva avuto la sua fase acuta nel vivace dissidio tra Paolo e Giacomo « fratello del Signore » — non poteva avere, nella forma almeno in cui fino allora s’era espressa, significato per la mentalità ellenica.
I Gentili, costituendo in breve la forza numerica e pensante, si sovrappongono, anche nella direzione ufficiale della Chiesa; sì, che la intransigente minoranza giudai-cizzante, finirà col costituire un gruppo eterodosso (i). Ma, d’altra parte,-soffocando i vecchi dibattiti, i Gentili portano con sé l’eco di altri lor propri: il loro prevalere, cioè implica la posizione di nuovi problemi religiosi e filosofici. Lo spirito ellenico, essenzialmente razionalistico, penetra nel Cristianesimo a traverso il filtro della filosofia alessandrina, e gli comunica le sue ansie e i suoi dubbi.
Il dibattito da etnico si trasforma in logico; non si tratta più, cioè, di determinare il limite spaziale del valore della morte del Cristo; ma di stabilire il valore logico della personalità stessa del Cristo.
Su quel mondo affannosamente disputante intorno al Dio Supremo e al Demiurgo, preoccupato di scovrire la possibilità di determinare i rapporti tra i due opposti poli dell’universo, e di districarsi di tra la folta congerie di coni e potenze e logos, è naturale che la giustificazione della posizione eccelsa di Gesù — problema che i tre primi Evangelisti, e, cioè, tutta la prima generazione cristiana aveva trascurato di risolvere, non s’era, anzi, neanche posto — diventi la preoccupazione •fondamentale. Dire che il Cristo era il Messia — l’ho già osservato —, se poteva soddisfare la coscienza religiosa degli Ebrei, che di messianismo erano, per dir così, etnicamente impregnati, non poteva avere nessun significato per il mondo del pensiero ellenico, la cui Jorma mentis era. assolutamente opposta a quella giudaica.
Stabilire il posto del Cristo dell’Universo: ecco il nuovo problema che preoccupava la coscienza della nuova generazione cristiana, permeata di spirito greco.
Filone, impostosi ormai all’ammirazione dei dotti, era diventato il prototipo ' di tutti quelli che intendevano a una costruzione sincretistica; e sulla falsariga del suo tentativo di conciliazione del mondo ebraico col mondo ellenico, si vuol costruire la sintesi di questo colla dottrina cristiana (z). Gli Gnostici —• o dualisti,
(i) Gli Ebioniti, erroneamente da alcuni confusi fra le sette gnostiche. I Giudeo-Cristiani, nei quali servisse l’intransigente regionalismo di S. Giacomo, nessun dissenso sostanziale avevano con la Grande-Chiesa, ma solo ne oppugnavano il carattere sempre più cattolico, e meno mosaico, che andava assumendo.
Ebioniti e Gnostici segnano i due estremi limiti contrapposti. A me la designazione di Ebioniti gnostici, usata anche dallo Harnack, non pare esatta.
.(2) Ho già notato che Filone introdusse largamente nella sua dottrina elementi tolti dalla tradizione ebraica, per la quale dimostrava massimo ossequio. Stimava Mosè il più grande tra i filosofi, e professò sempre profonda venerazione pel sommo duce di sua gente; la sua cosmogonia non era che un'illustrazione del Genesi.
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come nella maggior parte dei ' casi, o trialisti (Sethiani) —, pur a traverso le loro aberrazioni dottrinarie, mantengono ininterrotta la volontà di una sistemazione logica della posizione eccelsa di Gesù. Il problema filosofico fondamentale diventa, precisamente, quello soteriologico.
Lo Gnosticismo, accogliendo e sviluppando lo spirito universalistico di Paolo, repudia affatto il Messianismo (1) e quindi l’Antico Testamento.
Per questo lato si può legittimare l’opinione che Paolo sia il precursore dello Gnosticismo; ma per questo lato soltanto. Chè, nella visione generale del problema nello spirito, specialmente, con cui lo Gnosticismo si accinge a risolverlo, esso pòrta una mentalità e un atteggiamento spirituale assolutamente diversi.
La soteriologia paolina scaturisce dalla personale intuizione che del Cristianesimo ha l’Apostolo, in contrasto, o, almeno, con’ perfetta noncuranza della rispondenza alle forme della scienza contemporanea; gli Gnostici, invéce, sono, essi stessi, uomini di scienza, intellettualisti malgrado tutto (2). Paolo in sostanza, lo abbiam visto, rimane fedele a un concetto immanentistico del divino.
La dottrina gnostica invece è essenzialmente trascendente, dualista.
La mentalità ellenica permaneva troppo viva e determinatrice negli Gnostici — malgrado l’ondata cristiana — perchè essi potessero superarla; il dualismo è, quindi, per gli Gnostici Un presupposto indiscutibile, che in nessun caso son disposti a mettere in dubbio, e tanto meno a sacrificare.
Il Padre di tutte le cose è invisibile:' pura Luce che nessuno può contemplare con i suoi occhi; spirilo di cui niuno può rintracciare la origine: Eterno, Ineffabile, Innominabile, poiché nulla, capace di dargli un nome, fu prima di lui (3).
(1) Questo spiega come gli Gnostici ricorrano più volentieri all'autorità di Paolo, che a quella dei Dodici-.
La corrente gnostica andò via via accentuando il suo antigindaismo, che nascondeva odio di razza. Marcione, discepolo di Paolo, giunse a distinguere la storia umana in due periodi, nell’uno dei qualidomina il terrore, ed è impersonato dajchovah ; nell’altro l'amore, ed è impersonato da Gesù. Nel che il grande gnostico, sia pure con la caratteristica eccessività che.scandolezzerà Tertulliano, adombrava un concetto sostanzialmente esatto.
(2) Si rammenti la distinzione già fatta tra spirito o tendenza intellettualistica, e dottrina antintellettualisticà. Ippolito, il grande polemista romano, non avversa tanto le costruzioni dottrinali degli Gnostici, quanto il loro spirito intellettualistico, e l'attingere devoto alle fonti del pensiero greco.
(3) Di un solo grande gnostico è dubbio si possa parlare di perfetto dualismo : Basilìde alessandrino, discepolo di Monandro.
Di lui, i due eresiologi più autorevoli ed antichi: Ireneo e Ippolito, ci parlano con relativa dovizia di particolari, ma ce ne presentano la dottrina in maniera opposta; per Ireneo si tratta di un vero e proprio dualismo ; per Ippolito di un sostanziale panteismo. Ma, anzitutto, occorre ricordare che, oltre il fatto dell’irreducibile spirito antidualistico di Ippolito, che, dunque, potrebbe essersi lasciato trascinare dal fervore polemico, v’è ancora quistione intorno alla autenticità delle fonti alle quali egli avrebbe attinto. (V. in proposito Bvonaiuti, op. cit., p. 145). A prescindere anche da ciò, il mondo — secondo Basilide — si sarebbe formato per una specie di generazione spontanea, in virtù d’una forza primigenia — quasi un oscuro Wille Schopenhaueriano — che, pur non avendo contorni precisi, nè assumendo carattere di persona, ha tuttavia implicita una trigemina figliuolanza, il cui terzo elemento, appunto, è il Cosmo, con le sue otte e le sue imper-
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Ho già accennato come il dualismo pre-cristiano assumesse forma tragica nella antiteticità in cui si poneva il problema del Bene e del Male; e nella assoluta impossibilità in cui si trovavano i filosofi, stretti dal dualismo, di darne una soddisfacente soluzione.
I pensatori cristiani (che tuttavia ripetevano in comune co’ pagani l’origine plato-ncggiante) »presentano là soteriologia evangelica come risolvitrice del grande problema.
Ma si trattava di una risoluzione meglio sentimentale, che logica.
Poiché, a ben guardare, l'inclusione del problema soteriologico in quello cosmologico — restando ellenicamente invariati i termini del problema cosmologico — anziché coni irre ad ima vera soluzione, costituisce un elemento di estrema complicazione.
Lo sforzo di conciliazione si spezzerà contro la tenace struttura dualistica della mentalità ellenica, la quale dovrà condurre gli Gnostici alle estreme illazioni.
Il Dio Supremo, l’Essere Primo, diventa qualcosa di sempre più inaccessibile alla mente umana (i).
Repugnava di assumere la concezione creazionistica ebraica — cui poco dopo si appliglierà, in sostanza, la nuova scuola cristiana di Alessandria, a traverso i suoi massimi rappresentanti. Clemente e Origene; ma nemmeno si vuol confon dere la materia Coll’Essere Primo — come già gli Stoici, e come più tardi i Neo-Piatonici; i quali riusciranno in un panteismo mistico, opposto al concetto di personalità divina, che abbiam visto essere costitutivo della dottrina cristiana: e in massima accettato dagli Gnostici.
Così il problema della creazione — lasciato insoluto, in fondo, da Platone e da Aristotele, ma non in tal modo che non si potesse, sviluppando certi principi!, riuscire a una soluzione — si allontana sempre più dalla meta. Non potendo, neanche per un momento, prescindere dal trascendentalismo, che era quasi la categoria prima della lor mente; strettì, quindi, fra due posizioni egualmente, dal loro punto di vista, inaccettabili; non riuscendo alla sintesi per via di logica, e coll'ausilio della ragione; gli Gnostici proclamano il Mistero, e si dicono in possesso di una rivelazione misteriosa, di cui essi soli sono gelosi depositari: yvcòcc;.
Nello Gnosticismo, infatti, vengono a sboccare, per forza di cose, le svariate correnti, che per tutta l’antichità avevano affermato il regno del mistero.
lezioni: e presenta quei caratteri di imperscrutabilità c inneffabilità che, come abbiam visto formano il substrato sostanziale della gnosi, circa il concetto di Dio trascendente.
(Forse non è inutile notare che Isidoro, tìglio di Basilide, per quanto si può indurre da monchi frammenti mantiene, nel campo psicologico, un rigoroso dualismo) (Cfr. per tutto ciò: Hilgbnfeld, Di« Keleergsschichte des Urrchristcntums urkundlich dargenstellt (Leipzig, 1884). . 6
. (!) L'opinione dèi Buon aiuti che lo Gnosticismo è prevalentemente monista, non mi pare possa accogliersi. Ed è, del resto, contraddetta dall'altra sua affermazione che il concetto fondamentale della Gnosi ò la separazione dello Spirito dalla Materia (op. cit., p. 199). Orbene cotesto dualismo psicologico non nega, suppone anzi, quello cosmologico. (Circa la sua affermazione che per Basilide Dio è immanenza f
V. nota precedente). ”4
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Dal Pitagorismo, tutto pervaso dell’ineffabile potenza del numero, al Filonia-nismo, che proclamava l’ascesi strumento di conoscenza superiore a quello logico; dalle idee platoniche che si concedevano per atto di spontanea benignità agli uomini, al concetto paolino della grazia cristiana, il mondo che immediatamente precedeva e circondava la nuova corrente di pensiero, riconosceva il Mistero centro della vita religiosa (1). . .
Gli Gnostici non potevano sottrarsi a cotesta influenza; sia perchè., appunto, la temperie intellettuale del tempo ne era satura; sia perchè l’infrangersi del tentativo di sintesi logica, li respingeva fatalmente a riafferrarsi all’incomprensibile e al misterioso.
La difficoltà di uscire dal trascendente, e di risolvere in qualche modo il problema sotcriolcgico, si aggrava.
In una costruzione dottrinaria, infatti, dominata dall’idea del trascendente, l’impaccio maggiore era costituito dalla vita terrena del Cristo.
Alla mentalità elleneggiante degli Gnostici era inconcepibile un Dio fattosi uomo; o — il che era lo stesso — un Uomo assunto alle altezze divine (2). Tutto ciò minacciava di rompere la salda categoria del trascendente, e disperdere l’assoluto dualismo ricomponendolo in unità.
È naturale, quindi, che Gesù, il Rivelatore, dovesse a poco a poco perdere il suo carattere umano; e, in virtù de’ suoi misteriosi rapporti Coll’Essere Ineffabile, innalzarsi sempre più fra le nebbie fittissime dell’ultramondano.
A spiegarsi» infatti, la possibilità di una relazione del Trascendente col Creato, lo Gnosticismo, sulle orme dei sistemi passati, s'impiglia in un generazionismo a volte poeticamente fantastico, a volte puerilmente grottesco, sempre nebbioso e stravagante.
La preoccupazione di liberare il Cristo dalle sue radici terrene diviene in tal modo ossessionante, che, infine, si giunge alla negazione della] esistenza terrena di Gesù, costruendo stranissime logomachie per spiegare la sua apparizione umana (3).
E gli scrittori, perduta la bussola, si scapigliano ridevolmente in una ridda di Ogdoadi, Decadi, Dodecadi, convergenti verso il Pleroma, la società perfetta degli
(1) E questo spiega come poi, nel in secolo, la morbosa corrente del mistagogismo, riuscirà ad invadere vittoriosamente l’impero, imponendosi definitivamente col Mitria-cistno, sotto Eliogablo, sopra ogni altra religione.
Su quel mondo che si avvia rapidamente alla completa dissoluzione, che non sa più nè nobilmente sperare, nè tragicamente disperare; ma sorride e canta e danza, velando col fasto e il piacere la decrepita impalcatura che si sfascia, è naturale che il mistagogismo orientale coi suoi riti pervasi del molle fascino d'oriente, che spesso degeneravano in orgiastica esaltazione dei sensi, fosse accolto con favore.
(2) Non bisogna confondere l’idolatria del popolo greco, in cui ha cosi viva parte il suo innato senso poetico, portato a dar vita a tutte le cose, e investirle della sua umanità; con la speculazione riflessa, con la mentalità filosofica dominante, specie dopo Socrate, nei mondo del pensiero ellenico.
(3) Valentino fa in proposito una curiosa e interessante distinzione: dice che il Cristo non era nato da Maria; ma a traverso quella che passava per sua madre: non trattarsi, insomma, di una nascita reale e con caratteri umani.
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Eoni; costruendo un vero romanzo, in cui la persona di Gesù subisce tutti i volteggiamenti chezil capriccio irrefrenabile impone. Negli ultimi Gnostici Gesù perde interamente qualsiasi contorno non soltanto umano, ma personale, diventando semplicemente un concetto astratto di verità e di vita.
Così, la creazione divina, e sopratutto, la redenzione del Cristo, si trasformano nella cosmologia e nella metafisica in fenomeni naturali e necessari —« cioè aslorici —; in quanto non costituiscono che un lato del processo eterno, per cui le infinite generazioni di Eoni progressivamente si allontanano dall’Essere Primo.
In questo modo, per la forza imperiosa dei suoi intangibili presupposti cosmologici, lo Gnosticismo è portato a sacrificare l’elemento soteriologico, ch’è quanto dire il nucleo essenziale delle dottrine del Cristo.
E, dunque, assai poco minacciava di restare dello spirito genuino del Vangelo: il dualismo assoluto, che doveva porre in un grado inferiore il Dio dell’antico Testamento — e snaturare quindi il concetto di Dio Padre', la creazione diventata un momento necessario del processo eterno di liberazione dalla natura, che fa il divino — e non, quindi, opera della libera volontà della Provvidenza Divina —•; la persona di Gesù dissolta nella impalpabilità degli Eoni e, quindi, la negazione della storicità della vita umana del Cristo; l’affermazione, infine, di una conoscenza superiore a quella della massa cristiana — e quindi, la svalutazione del significato religioso dei Vangeli, cioè del fondamento stesso della dottrina cristiana — dovevano fatalmente condurre la corrente gnostica sempre più lungi dalla vera vita del Cristianesimo.
Anche i costumi della maggior parte degli Gnostici son tutt’altro che inspirati alla divina purezza del Vangelo; le stravaganze dottrinarie trovano il loro correlativo nelle stravaganze morali. Quella stessa repugnanza irriducibile a raccordare il Divino con l’Umano, impone, nel campo etico, la separazione, anzi il contrasto assoluto, tra spirito e carne; l’affannósa volontà di liberare il Cristo dai suoi vincoli umani, trova riscontro nella morbosa ansietà di liberare lo spirito dai suoi vincoli carnali. Morbosa', chè cotesto teorico principio di ascesi, degenerava nella pratica in una completa dissoluzione sensuale.
Alla vita intemerata o anche eccessivamente austera di alcuni Gnostici, fa riscontro quella straordinariamente rilassata della maggior parte.
Tutto il mondo cristiano, del resto — come già quello greco — si dibatte in un tragico dualismo spirituale — riflesso di quello logico — che conduce, da un lato agli spasimi degli asceti e alla follìa di Origene, dall’altro alle orgiastiche cerimonie degli Gnostici: coteste due manifestazioni, che appaiono a tutta prima opposte e contraddittorie, sono in realtà figlie di un medesimo principio (i).
. EarrA 9u.est0 un paradosso: ina in realtà, il tremendo ascetismo degli anacoreti cristiani e il parossismo sensualistico degli Gnostici, si radicano nella comune volontà di superare gl’impacci della carne ed elevarsi nei puri regni dello spirito. È la stessa mòrsa dualistica che li stringe, pur spingendoli per vie opposte. Non mi pare, perciò, molto accettabile la spiegazione che dell’immoralismo gnostico dà lo Harnack (cfr. op. cit., cap. cit.).
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Se, dunque, la tendenza razionalistica degli Gnostici rispondeva alla esigenza spirituale della nuova generazione cristiana; le loro tendenze logico-teologiche, e specialmente il loro atteggiamento etico, non potevano in nessun modo rassicurare e soddisfare la vigile coscienza del Cristianesimo.
La Grande Chiesa obbedirà, quindi, ad una legittima necessità religiosa, tenendo lontano il gregge cristiano dalle fallaci dottrine gnostiche (i).
Ma non potrà distruggere la esigenza immanente che le aveva determinate.
♦ • ♦
Invero Tertulliano opporrà il suo: credo quia absurdum. Al di sopra delle stranezze teoriche e delle degenerazioni etiche degli Gnostici, sta un fatto indiscutibile, e, dal nostro punto di vista, decisivo: il netto delinearsi, nella nuova generazione cristiana, di un nuovo atteggiamento spirituale che non dispregia, ma accoglie il mondo pagano, e vuol farlo cristiano; la volontà di costruire una dogmatica cristiana, non repugnante alle forme mentali dell'ellenismo; la necessità di tradurre in termini filosofici l’entusiasmo religioso del genuino nucleo cristiano.
Ma la sintesi dovrà compiersi senza sacrificare alcuno dei due termini.
Il Cristianesimo non troverà la sua via maestra, finché una grande anima di cristiano e, insieme, di pensatore non riuscirà a cogliere in uno sguardo comprensivo gli elementi della sintesi ; e a imporre la sua sistemazione con l’autorità di uno degli Apostoli, coma la espressione vivente del Cristo.
VII,
A questa vasta e profonda esigenza dello spirito cristiano rispose il Quarto Evangelista.
Come Paolo détte al Cristianesimo la sua anima di apostolo, il Quarto Evangelista gli dette la sua mente di pensatore. Egli seppe dominare le lotte filosofiche che turbavano e scindevano già i primi cristiani ; e, insieme, rispondere alle ansietà spirituali sulle quali esse sorgevano. È certo un credente, pervaso anzi di quell'entusiasmo religioso che è la caratteristica di ogni neofita (2) ; ma è anche un
(1) Ho accennato, nella prefazione, all'ufficio della Chiesa di moderatrice e correi trice delle violente spinte in avanti, di quelle che possono dirsi le sue avanguardie intel-tualistiche e dogmatiche. Il che, però, non ne implica la svalutazione e, molto meno, la distruzione.
(2) Le dispute intorno al Quarto Vangelo, sono sempre fervidissime. Si disputa non solo intorno all'autore — molto probabilmente un ebreo convertito (cfr. Loisy, Le Qualr. Evang., p. 131) e sull’anno di composizione; ma anche e specialmente sul carattere fondamentale del documento, sul suo valore storico e simbolico. Il Loisy sulle orme di Jéan Réville, sostiene, da par suo, la tesi del simbolismo del Quarto Vangelo. È vero che alcuni critici recentissimi hanno combattuto questa tesi (cfr. I. Wellhausen, Dos Evangeìium Jokannis, Berlino, 1S98; M. Goquel, Les sources du recit johannique de la passion (Paris, 1910); ma, a me pare, con poco frutto.
Non si tratta certo di pretto simbolismo, posto come negazione del valore sto-
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pensante; nel quale, il cumulo di difficoltà teoretiche, che ostacolavano la intima compenetrazione del mondo ellenico, col nucleo dottrinario dei Sinottici, trovava un'eco commossa, e una precisa volontà di affrontarle e superarle.
Egli stesso dovette sentire drammaticamente nel suo spirito il contrasto tra la nuova fède con impeto di entusiasmo abbracciata, e le forme mentali, ormai sangue del suo sangue, in cui il suo pensiero era irriducibilmente costretto; sì, che scaturì' prepotente dal suo spirito il bisogno della conciliazione.
Tutta la recente tradizione giudaico-alessandrina portava ad affermare il valore della filosofia come sussidio della religione (i).
Ma nello Gnosticismo, in cui specialmente si espresse la corrente cristiana elleneggiante, la debole coscienza cristiana non riusciva, come abbiam visto, a fronteggiare la forza dell'ellenismo invadente; sì, che a poco a poco l’elemento cristiano rimase sopraffatto.
Bisognava, perchè la sintesi riuscisse accettabile, che a traverso gli schemi dottrinali dell’ellenismo, permanesse integro lo Spirito religioso del Cristianesimo.
Assunto arduissimo, che trova, appunto, il suo geniale assolvitore nel Quarto Evangelista.
rico : (è implicito in ciò, si noti, un errato concetto di storia, come oggetto fuori dello spirito, non come esperienza rivissuta dallo spirito).
Il substrato fondamentale del Quarto Vangelo è della più pura tradizione cristiana: senza dubbio.
A me pare, che gli sforzi della critica non possano giungere ad una soluzione definitiva, se essa non miri a inquadrare il Quarto Vangelo nella cornice storica in cui sorse. Non bastano, cioè, raffronti coi Sinottici, nè con i pensatori del tempo; occorre analizzare la esigenza storica e logica, che ne determinò necessariamente il sorgere.
Io non presumo certo di dare una soluzione definitiva; ma solo di offrire un elemento che, studiato a dovere, potrebbe, s’io non m’inganno, più facilmente condurvi.
(x) In Filone stesso, lo abbiamo notato, si trova affermata la necessaria subordinazione della scienza alla teologia e insieme, la correlativa necessità, per la religione, del sussidio della teologia.
Di codesta tendenza è indice un coritemporaneo del Quarto Evangelista, il quale contribuì, esso pure, sebbene in misura minore, a compiere la sintesi del pensiero greco con la fede cristiana: Giustino Martire; che subì il martirio sotto Marco Aurelio, verso il 166. Di origine ebraica, anch’esso, samaritano probabilmente, egli crebbe tuttavia in ambiente ellenico, ed educò la sua mente alle concezioni filosofiche della Grecia. Convertitosi per impulso del suo cuore, stupito della serena fortezza con la quale i cristiani affrontavano il martirio, egli restò filosofo. « L’influcnce — così il Reville — de la phi-losophie religieuse d’Alexandrie sur sa théologie est evidente > (v. op. cit., p. 43).
Anche in Giustino la parte centrale della dottrina è rappresentata dal Verbo. Il Verbo, che esisteva prima del tempo nel seno di Dio (l’Essere ultimo, l’inesprimibile) a un dato momento, per un atto della sua potenza e della sua volontà, Dio lo proietta fuori da sè; e in questo modo il Verbo diventa termine di congiungimento tra l'infinito e il finito, senza che per questo si diminuisca ; come non si diminuisce menomamente una fiamma con l’accenderne un'altra.
Giustino costruisce tutta una complicatissima metafisica del Verbo o del Figlio di Dio. Ma egli non sa compiere l’opera genialmente audace di identificare con franchezza c con nettezza nel Verbo il Cristo; il quale ai suoi occhi appare da un punto di vista costantemente umano e, perciò, non coerentemente adattabile alla teoria del Verbo. Il Logos preesistente, d’essenza divina, non poteva logicamente nè nascere, nè crescere, nè soffrire, nè essere tentato, nè ricevere gli attributi divini a titolo di ricompensa» come il Cristo della prima tradizione. A Giustino sfuggì l’antinomia, la quale invece senti, e in gran parte risolvette, il Quarto Evangelista.
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♦ • •
Anche agli occhi di un lettore superficiale appare, di colpo, la enorme diversità del Quarto, dai precedenti Vangeli. Non si tratta soltanto di notevolissima dispa* rità di struttura e di episodi, ma del carattere stesso degli scritti, dello spirito che anima gli scrittori (1).
Mentre, infatti, i Sinottici portano scolpita la impronta della prima esaltazione religiosa, acritica, ciecamente credente, e perciò slegata e, talvolta, contraddittoria; e vi si leggono racconti facili, sentiti, vissuti delle opere del Maestro; radicalmente diverso per concezione e per forma è il Quarto Vangelo. In esso domina la speculazione riflessa, colla precisa volontà di sistemare il Cristianesimo in razionale corpo di dottrine.
Pur conservando la inspirazione fondamentale cristiana, il Quarto Evangelista, per constringere la fede dei Sinottici nello schematismo greco-filoniano, s’impose come criterio direttivo una illimitata libertà d'interpretazione. Sposta le date, inverte i fatti, riconduce gli avvenimenti ne’suoi schemi dottrinali.
Il problema centrale è naturalmente quello cristologico.. Noi abbiam visto, considerando il movimento gnostico, che appunto nella persona di Gesù, nella difficoltà di conciliare la sua esistenza terrena, colla sua missione di Rivelatore Divino, era il nodo della quistione (2). La concezione immanentista dei Sinottici cozzava con quella trascendentalistica dei sistemi ellenici.
Abbiam visto, anche, che nelle varie concezioni gnostiche, la tendenza verso il trascendentismo assoluto si affermava sempre più risolutamente; e ad essa si sacrificava la umanità di Gesù: eh’è quanto dire il Cristianesimo dei Sinottici; e come la Chiesa ufficiale dovesse respingere qualsiasi sistemazione filosofica, che soffocasse, nelle strettoie de’ suoi schemi, la persona, umanamente vissuta e vivente, del Cristo.
Questo comprese il Quarto Evangelista,¡accingendosi a costruire una originale cristologia, il cui asse è la teoria del Logos disegnata da Filone, svincolata dalle stravaganti superstrutture degli gnostici.
Infatti, se il suo atteggiamento spirituale nasce dalla stessa esigenza sulla quale era sorta e si sviluppava la corrente gnostica, la sua dottrina, più che alle vaghe e strambe costruzioni gnostiche, si inspira a quella di Filone, il cui grande tentativo sincretistico dominava sempre le menti dei pensanti.
E ciò che Filone era stato per il Giudaismo — ciò che più tardi Plotino vorrà essere per il politeismo ellenico — il Quarto Evangelista si propone di essere per il Cristianesimo.
(1) Osserva LoiSY, che se Gesù ha parlato ed operato come lo si vede parlare ed operare nei Sinottici, Egli non ha affatto operato e parlato come lo si vede fare in S. Giovanni (V. L’Ev. et l’Eg., pag. 88). w ....
Lo stesso Burckitt. mai troppo azzardato nelle sue ipotesi, riconosce che il disaccordo tra Marco e Giovanni è tale, che, dai punto di vista storico, o l'uno o l’altro deve essere trascurato; e non dubita di ammettere il simbolismo del quarto Vangelo (V. op. cit„ pag. 260 e segg.).
(2) In tutti gli Apologisti platoneggianti si riscontra la preoccupazione del problema cosmologico, che era estraneo alla tradizione genuinamente cristiana. (Cfr. Duchesnb, op. cit. V. I pag. 307)-
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Si è visto che il problema centrale del sistema filoniano, come di tutta la filosofìa elleno-orientale, era quello dei rapporti tra l’increato e il Creato: e come il problema si complicasse colla inclusione della soteriologia cristiana.
Filone s’era sforzato di giungere ad una sistemazione, colla teoria del Logos.
Con meraviglioso senso d’intuizione il Quarto Evangelista toglie il Logos filoniano alle nebbiosità dell’astrazione e Io trasporta nel più vivo della essenza cristiana. Ciò che per Filone era semplice costruzione dialettica, diviene col Quarto Evangelista realtà concreta e vivente (i).
E mentre gli Gnostici, identificando il Cristo col Logos, soffocavano l’umanità di Gesù negli schemi astratti del Logos; il Quarto Evangelista anima gli schemi astratti del Logos della umanità di Gesù.
Il Logos per il Quarto Evangelista non è astratto principio di luce e vita; ma scende sotto la forma umana a combattere il principio delle tenebre, il Demonio ; e a rivelare in sè stesso la Luce, cioè il Padre, che nella sua natura è inconoscibile. Egli ha realmente vissuto per compire la sua opera di intermediario tra Dio e il Mondo.
Era l’emanazione del Padre, preesisteva a tutte le cose: e si fece uomo per salvare gli uomini- e ricondurli al Padre: in principio erat Verbum... et Verbum caro Jaclum est.
Esso è il Cristo, il Messia Crocifisso.
Il prologo del Quarto Evangelo, come nota Baur, contiene già tutto il programma dogmatico del Vangelo stesso (2). Il Quarto Evangelista presta una forma meravigliosamente drammatica alla costruzione logica di Filone.
Il Logos è al principio delle cose ed è davanti Dio (~fò$ tòv Osò*?). Tutto è divenuto per suo mezze, e niente di ciò che è divenuto è fuòri dalla sua azione. In Lui è la vita, e la vita è la luce degli uomini; ma le tenebre — l’elemento materiale negativo, ribelle in sè all’azione divina —« respingono la luce: di qui il conflitto permanente fra l'azione luminosa della divinità, e la reazione tenebrosa di quello che, in opposizione al divino, può chiamarsi il Satanico.
L’Incarnazione del Verbo segna il punto decisivo della lotta. Il figlio di Dio, il solo essere direttamente generato dall’Essere in sè, dal Padre, ha preso per sua dimora temporanea un corpo umano; e, velato da questo involucro vivente, si è mostrato agli uomini ed è vissuto in mezzo a loro. Il dualismo platonico filoniano, che penetra interamente questa concezione, continua anche sul terreno umano.
L’umanità, di fronte al Dio Incarnato, si divide in due parti. Gli uni, i Figli della Luce, stanno col Figliuolo; gli altri, i Figli delle Tenebre, schiavi di Satana, gli sono contro, e lo combattono.
(1) « C'est avant tout — cosi Réville — pour appliquer l’idèe du Verbe à l’hi-stoire ¿vangelista que .le dernier évangclique a écrit ■ (V. Histoire du dogma, ecc., pag. 45)«. È opportuno notare che in Herrna — e siamo già alla metà del 11 secolo — non troviamo affatto' la parola verbum.
(7.) La svalutazione che lo Hamack fa del Prologo dei Quarto Vangelo, se risponde alla sua tendenza generale di non porre nel dovuto rilievo il significato filosofico dell’opera de! Quarto Evangelista, non mi pare possa ritenersi esatta.
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L'ESSENZA DEL MODERNISMO
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Il Verbo si è umanato per strappare tutti gli uomini al dominio di Satana, e per salvare e premiare quelli che avranno creduto nella sua parola.
In conclusione: il Dio e il Lògos di Filone erano concetti — il Dio e il Logos giovannei diventano Persone; perciò, mentre i rapporti tra Dio e Logos di Filone sono logici, i rapporti tra Dio e il Verbo giovannei sono anche storicamente personali — di una personalità che, certo, supera la natura umana, e la cui significazione racchiude il mistero, — ma non per questo meno reali. Il Logos giovanneo, insomma, non è soltanto la ragione di Dio, come in Filone ; ma n’è la espressione vivente: la sostanza del Cristo storico, cioè, è rimasta. Anche il Cristo giovanneo è nato realmente e ha realmente vissuto, fu di carne e di sangue, morì come ogni altro uomo. Il fatto che lo scrittore non insiste molto sulla umanità di Cristo, non vuol dire che egli la distrùgga.
In conclusione, il contenuto religioso che il Quarto Evangelista innesta all’idea del Logos, lasciandovi l’impronta di un ingegno potente e originale, sì, che da un concetto vago ed astratto ne viene una nozione concreta, anzi una realtà viva —• trasforma in ultima analisi il Logos filoniano; il quale non spiegherebbe il Quarto Vangelo, se non si considerasse questo sotto un punto di vista assolutamente cristiano. .
La teoria dell’incarnazione, seppur circolava vagamente nella tradizione cristiana primitiva (e senza di ciò il Quarto Evangelista non sarebbe stato assoluta-mente compreso) è tuttavia, per l’ammirabile sistemazione e per l’energica affermazione, opera indiscutibilmente sua. La filosofia di Platone e di Filone, e quella greca in generale, fornirono gli elementi teorici e il loro formulario; ma — e questo è ciò che importa — non sostituirono nè il Cristo, nè l’Evangelo (1).
* * *
È evidente, quindi, che il passaggio dal concetto del Logos al concetto del Dio-Uomo, cioè della Incarnazione Divina, era facile (2); anche se il pensiero di Filóne, cóme taluno non ingiustamente osserva, fosse assai più lontano dal pensiero del Quarto Evangelista, che le sue parole.
Il Messia, pur essendo il più vicino al Padre, pur essendone la voce vivente, si distìngue tuttavia nèttamente dal Padre; ha piena coscienza di cotesta sua filialità, come della preferenza che il Padre ha per Lui, sopra tutti gli altri uomini. Ora, il Logos filoniano non è l’Assoluto; pur essendo Divino, non è il Dio Supremo: è il termine medio tra il trascendente e l'umano; quello che mette in comunicazione i due termini opposti del sistema dell’universo: e che deve ritenere dell’uno e dell’altro.
Facile, dunque; ma, appunto per ciò, pericolosissimo.
(1) Così, osserva il Loisy, nel dogma della Trinità il mantenimento dell’unità, la determinazione dei tre termini della vita divina sono inspirati dalla tradizione ebraica e dall’esperienza cristiana (v. L’E. et VEg., p. 186).
(2) Osserva in proposito Duchesse: « il n’y a qu’à introduire la personne de Jésus et son action rédemptrice » (Op .cit., v. I, p. 155).
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I2Ó
BILYCHNIS
A traverso il Logos filoniano l’immanentismo cristiano affogava, lo abbiamo visto, nella trascendenza gnostica. L’ellenismo offre al Cristianesimo i risultati della magnifica elaborazione teoretica, che una lunga serie di pensatori avevano compiuta dell’idea di Dio e della spiritualità dell'anima. A traverso il crogiuolo della filosofia greca, a traverso le purissime intuizioni logiche di Platone, il concetto di Dio si era ineffabilmente spiritualizzato:’ e ne era risultato il puro spirito, il Dio Increato ¿yéwsGo; Osò; opposto ed estraneo al mondo creato e alle creature. Ma, appunto per questo distacco, che si risolve in una vera e propria scissione. Iddio finisce per diventare un puro concetto : e quindi nella traduzione che si compie del Messia nel Verbo, la persona di Gesù e gli avvenimenti che vi si collegano — pur affermandosene la storicità — vanno sempre più assumendo un carattere allegorico c simbolico.
Così, la mistica del Quarto Vangelo — la quale alcuni potrebbero opporre alla affermata tendenza intellettualista-dell’ autore, è — oltre che un carattere essenziale di tutti i sistemi cresciuti sul tronco platonico — il naturale sviluppo della dogmatica cattolica. Si ricordi che la mistica rappresentava il punto culminante della gnoseologia filoniana; e il simbolo era da lui ritenuto la forma naturale della rivelazione divina.
Orbene, il principio del simbolismo pervade tutta la struttura del Quarto Vangelo. Lo Scrittore esprime concetti, formula teorie, manifesta verità sempre a traverso il simbolo; sì, che i racconti, ad esempio, non hanno, come nei Sinottici, l’impronta di una rievocazione genuinamente storica, ma mirano alla dimostrazione di una idea (i).
La vita umana di Gesù si può dire sia sostituita da una vita divina che è creata dallo spirito religioso dello scrittore, per quanto in essa realmente viva. Là vita umana di Gesù non poteva essere che una preparazione, un’anticipazione, quasi, della sua resurrezione gloriosa, alla quale doveva coordinarsi. A Lui, il fatto storico importa solo in quanto adombra la realtà spirituale e trascendente, la quale ritiene la sola vera (2). I fatti sensibili, per dirla con Loisy, non sono che il linguaggio dell’idea, la percezione simbolica di una verità religiosa. Ciò che di straordinario vi fu nella vita umanamente storica di Gesù, è nulla, in confronto della realtà divina che in essa si celava.
Sopratutto è la fede nel Cristo risorto, nel Signore, che esalta il Vangelista. Non scorgiamo più Gesù dei Sinottici, uomo straordinario e inspirato da Dio; ma
(1) Rien de plus alexandrin — osserva il Rèville — que cette manière de corriger une tradition historique pour qu’elle reflète exactement l’idèe supérieure, dont elle ne peut être que la traduction ■ (v. Jésus de Naz., pag. 321); (Cfr. anche Loisy Le Quair. Ev., pag. 704). .............
(2) Di qui la necessità di piegare i fatti ad illuminarla. « Egli — nota giustamente Io Harnack — altera i fatti o li pone in una luce che non è la vera, compone di suo capo discorsi, illustra alti- pensièri eon situazioni studiate, sposta di 'continuo, a seconda delle esigenze dal suo schema logico, avvenimenti e parole » (v. Essenza del Cristian., p. 20: cfr. Loisy, Le Quatre Ev., p. 131).
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l'essenza del modernismo
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sempre e sopratutto uomo; è Gesù- Risorto, il Cristo, il Logos divinò. Creatore e Signore del mondo, emanazione diretta dell’Essere Supremo (1).
Gesù, che per i Smottici è un essere vivente — se pure il primo tra i viventi -il Messia; diventa nel Quarto Vangelo un'idea incarnala: acquista, cioè, un posto nell’universo; posto, che è suo, assolutamente suo, unico. È il pensiero del Padre umanatosi.
Alla geneologia carnale descritta dai Sinottici è sostituita, quindi, una genealogia logica.
La fede — espressa nei Sinottici dalla necessità di operare: s¿ vis ad vitam ingredi, serva mandata', si esprime nel Quarto Vangelo anche nel conoscere: Haec est vita, ut cognoscal te solum deum veruni, el quem misisti Jesum Christum (XVII-3). E in questa formula si riassume tutto Io spirito greco (2).
• * «
Assistiamo, adunque, a una radicale trasformazione della persona del Salvatore. E la mentalità greca, cui il concetto di Messia era completamente estraneo, si trova, invece, quasi per così dire in casa propria, quando le si presenta Gesù di Nazareth sotto la specie del Logos. Il Cristianesimo non poteva entrare nel mondo greco-romano, non poteva dominarne la vita e il pensiero, che a costo di diventare un po’ una filosofia e un impero. Con l’idea del Logos il Cristianesimo conquista il diritto di cittadinanza mondiale, che forse gli sarebbe stato negato per sempre, se fosse rimasto chiuso nelle forme del pensiero ebraico; per essa il posto del Cristo nell’universo è non soltanto compreso, ma giustificato e difeso dal pensiero greco.
Senza la universalizzazione logica del Cristo, la universalizzazione mondana, attuata da Paolo, non sarebbe bastata a propagare il cristianesimo nel mondo: Al Quarto Evangelista, specialmente, si deve che la religione del Cristo sia diventata la religione del mondo.
Quando, per suo mezzo, il mondo ebraico cristiano s’incontrò col mondo greco, e si compì la fusione tra gli elementi religiosi del primo con quelli logici del secondo: quello fu uno dei momenti più decisivi della storia umana.
Vili.
Così, lentamente, per un duplice processo di esigenza interna ed esterna, il Cristianesimo diventa Cattolicismo.
Il sorgere dell'edificio dogmatico, di cui il Quarto Vangelo resta il fondamento sacro, fu quasi un compromesso —• altissimo, senza dubbio, e mirabile — fra la traditi) Così Reville: Le Jésus du quatrième évangile est transfiguré systématiquement, idéalisé au point qu’on peut se demander souvent, si l'on se trouve en présence d'un personnage historique, ou d'un postulat métafisique, ramené, par des procédés arbitraires, aux apparences d’une vie humaine (v. Jésus de Naz., vol. I, pag. 305).
(2) Il Semeria chiama, con sintesi geniale, S. Giovanni « l’evangelista cristianamente platonico c platonicamente cristiano» (cfr. Le vie della Fede, pag. 209). Come è noto, tutta la- grande opera di ricostruzione dogmatica dello Harnack si inspira al concetta della derivazione del dogma dallo spirito greco, (cfr. per tutto la sua prefazione allo ia ediz. -della sua Storia del Dogma).
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128 BILYCHHIS
zione cristiana e le esigenze logico-sociali della civiltà greco-romana. (Sociali anche; poiché la lotta intellettuale non presenta che un lato, se pure, certo, il più importante, del complesso processo di adattamento che il Cristianesimo viene attuando, per cui la religione cristiana si avvia a diventare la Civiltà Cristiana.
E questa, che era stata la condizione del sorgere del Cattolicismo, doveva fatalmente essere la condizione del suo permanere nel mondo.
Il Cattolicismo, cioè, portava insito il « modernismo »; la sintesi compiuta dal Quarto Evangelista fu provocata da uno stato d'animo che è il medesimo in tutti coloro i quali, attraverso i secoli, avranno coscienza di una opposizione tra dogmatica e filosofia, e si proporranno di ricomporre la sintesi: nel che, appunto, abbiam visto consistere la essenza del modernismo (i).
Quando uno dei due termini che costituiscono la sintesi dottrinaria cattolica del Quarto Vangelo si fosse spostato, era naturale che anche la sintesi dottrinaria subisse il contraccolpo di cotesto spostamento. Quando, cioè, il pensiero ellenico, non corrispondendo più alle nuove esigenze intellettuali della umanità, sarà, non negato, ma superato o inverato; è evidente che il rivestimento filosofico che il Quarto Evangelista aveva applicato al nucleo religioso cristiano, togliendone, appunto, le forme al pensiero ellenico, dovrà modificarsi per rispondere alle nuove esigenze (2).
Poiché il Cattolicismo era il portato di una necessità umana, ordinatrice e siste-matrice; poiché era il risultato del compromesso tra l'ispirazione fondamentale cristiana e certi valori filosofici estranei a quella ispirazione, se pure con essa conciliabili: era naturale che, quando cotesti valori si fossero spostati, quando il fìlonismo e il neoplatonismo e la concezione ellenistica dell'universo e della storia umana fossero oltrepassati; quelli tra i fedeli che si fossero messi a contatto con le nuove teorie, e si accorgessero della necessità di spostare il risultato di quel compromesso, poiché uno dei termini di quel compromesso si era spostato; era naturale, dicevo, che oltrepassato il periodo di dubbiosa trepidazione, quanti seguissero il moto del pensiero umano e con esso non volessero trovarsi in opposizione, tenterebbero di orientare il Cristianesimo verso le correnti del pensiero moderno, cercando di conciliare con esse il contenuto fideistico-cristiano; rifacendo, insomma, il lavorio che fin dai suoi tempi aveva compiuto il Quarto Evangelista.
(1) Notevole l'osservazione del Duchesne, che (pure a traverso la reticenza verbale caratteristica dell’ insigne storico) ne rivela assai chiaramente il pensiero : « Depuis Saint Justin, pour ne pas dire dcpuis saint Jean, on avait souvcnt cherché dans la philosophie, dans ses conceptions et dans sa langue, le moyen d’expliquer la tradi-tion cbrétienne ». (Histoir, etc., v. I, pag. 352).
(2) ■ I simboli e le definizioni dogmatiche — cosi A. Loisy — sono in rapporto con lo stato generale delle conoscenze dei tempi in cui essi si sono costituite. Ne segue, che un notevole mutamento nello stato della scienza può rendere necessaria una nuova interpretazione delle antiche formolo • (V. UEvangile et l’Eglise, pag. 208).
E Harnack: « La forma nuova ed il nuovo contenuto che il Vangelo venne ad assumere quando fece la sua entrata nel mondo, quanto a garanzia di "durata non ha, se non quella che possiede quel mondo stesso. La quale è veramente limitata ».
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l'essenza del modernismo
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* * «
Si può osservare che il Quarto Evangelista fece opera di costruzione, mentre i modernisti posteriori — i nostri contemporanei, specialmente — di demolizione. 'Si tratta di un errore di prospettiva logica e storica insieme.
Il quarto Evangelista non ha dinanzi a sé una organizzazione veramente dogmatica, un corpo di dottrine ufficialmente riconosciuto. I Sinottici, che rappresentano il testo sacro, prescindono, anzi, da ogni costruzione dottrinaria, da ógni pur lieve tentativo di interpretazione filosofica del fatto religioso.
Il dogmatismo, insomma, nel vero senso della parola — cioè una dolina cat-x tolica dell’universo e del Cristo — non poteva dirsi ancora esistente, in quanto divenne esso stesso, il Quarto Vangelo, la base dogmatica del Cattolicismo. Sicché, alla sistemazione del Quarto Evangelista non poteva opporsi l’autorità della Chiesa, in nome di uri patrimonio dottrinale da difendere. Che cosa la Chiesa poteva trovare nel suo prossimo passato che valesse, anche lontanamente, lo sforzo logico de] Quarto Vangelo? (1).
Lo Scrittore trovò, come abbiam visto, le condizioni di cultura particolarmente atte a subire Ja impronta cristiana; e potè, senza troppe difficoltà, subordinare gli schemi filosofici alla fede nel Cristo, riuscendo a comporre un’opera che poteva dirsi, ed era in realtà, profondamente cristiana.
La sua opera, poi, perdette, nella tradizione cattolica il carattere di geniale e personale ricostruzione e interpretazione del fatto cristiano ; e fu ritenuta creazione, essa stessa, originale e divina del Cristo, che avrebbe inspirato l’Apostolo prediletto.
Dimodoché la filosofia ellenistica, una volta conciliatasi col nucleo religioso del Cristianesimo, si trasformerà da scienza umana in divina : e apparirà come teologia genuinamente cristiana.
È naturale, quindi, che i modernisti posteriori dovranno prima dar di mano al piccone; e apparire come demolitori, anziché costruttori. Quando il linguaggio filosofico dell’ellenismo (per quella legge ineluttabile che domina tutto l’Universo, che ciò che vive muta, appunto perchè vive) non fosse stato più inteso, anche il formalismo dogmatico cattolico avrebbe dovuto perdere la sua interiore significazione. Evidentemente, chi si fosse proposto di liberare il primo nucleo cristiano dall’inviluppo filosofico che lo soffocava, rivestendolo del linguaggio filosofico che il nuovo mondo dei pensanti parlava, avrebbe, sì, risposto a una profonda esigenza dello spirito; ma avrebbe fatalmente dovuto cozzare con l’autorità della Chiesa, che ormai non riusciva più a scindere i due elementi costitutivi del suo edificio dogmatico.
Osserva l’Hoeffding che la Chiesa cattolica, volendo difendere la integrità assoluta dei dogmi si mette in opposizione con se stessa: il che, da un certo punto di vista, è esatto.
Ogni dogma, è vero, risulta di due elementi inseparabili, ma esattamente distinti: il contenuto religioso, eterno, e interiormente vivente nello spirito di ogni
(1) Del resto contrasti non mancarono. Si pensi, tra l’altro, 'agli Alogi.
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130 BILYCHNIS
credente; la forma dottrinaria che ne costituisce l’elemento umano, quasi il tessuto esteriore, svolgentesi collo svolgersi del pensiero umano.
Così il Quarto Evangelista, pur mantenendo integra la inspirazione fondamentale cristiana, la esprime col linguaggio greco (allo stesso modo in cui Mosè aveva parlato il linguaggio scientifico comprensibile dal suo popolo); così, dunque, si legittimeranno i futuri ammodernamenti.
Ma ormai, io diceva, la dogmatica cattolica presentava un amalgama perfetto, in cui era difficile rintracciare gli elementi della fusione: ed era il sacro patrimonio della Chiesa, di cui essa, per diritto divino, si stima depositaria.
È naturale, quindi, che la Chiesa gelosamente lo difenda e tuteli.
In ogni organismo, se è veramente vivo, i mutamenti sono inevitabili: costituiscono, anzi, la condizione della sua vitalità. Così nell’organismo umano, così dell’organismo sociale, in qualsiasi sua manifestazione. Ma, perchè qualsiasi organismo resista e non sia travolto dalle variazioni sue, e dell’ambiente, è necessario, d’altra parte, che, pur offrendo la possibilità di adattamenti necessari alla sua vita, abbia la forza di conservare la sua sostanziale fisonomía.
La evoluzione si trasformerebbe in dissoluzione, sconvolgerebbe uomini e cose, romperebbe, cogli schemi, l'essenza vitale che v’è contenuta, se non avesse di contro un formidabile contrappeso: ch'è la legge di conservazione.
Orbene, l’autorità religiosa ha sovratutto una funzione conservativa ed è ovvio riconoscere che la legge di conservazione che domina la Chiesa, in quanto autorità ecclesiastica, risponde a quella ch’è la legge suprema del Cosmo: l’equilibrio.
La Chiesa non può fluttuare fra le onde di opinioni divergenti e, non di rado, immaturamente affacciate; e il suo tener duro è, talvolta, utile e salutare.
È fatale, quindi, che ogni moto di pensiero, tendente ad apportare modificazioni all’organismo cattolico, provochi la opposizione dell'Autorità*
Ma questo non significa che il moto sia destinato a fallire; o, per < iò stesso che l'Autorità gli si oppone e Io condanna, ch’esso sia eretico e fuori della Chiesa. Occorre che a poco a poco, con tenace lavorio, la nuova ondata rinnovatrice filtri per le vene e i vasi ca-pillan del l’organismo, sì che questo se ne trovi, infine, interamente pervaso. Di qui la apparente contradizione del Modernismo, stretto, fra la necessità del suo porsi come esigenza assoluta dello spirito e della Chiesa, madre degli spiriti; e la necessità in cui-.è la Chiesa di contrapporglisi, e contrastarlo.
Di qui il profondo significato di verità racchiuso nelle stupende parole del-l’Apostolo:
Oportel haereses esse.
Profondissime parole, balzate dalla tragica esperienza religiosa dell’Apostolo stesso; le quali, purtroppo, non sempre illuminano il travaglio interiore dei modernisti, molti dei quali la violenta opposizione deH’Autorità religiosa spinge a disperare della vitalità della Chiesa; o a rinnegare il proprio pensiero.
Nè la Chiesa, essa stessa, sa coglierne la essenza di verità; e non solo contrasta e condanna, ma inasprisce il contrasto, e si piace del condannare; e stima che,i
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l’essenza del MODERNISMO 131
suoi anatemi valgano a soffocare ogni moto: nò, al disotto delle ricomposte acque, sa vedere il fatale rivolgimento che varrà a rinnovarla.
La Storia del Cattolicismo dimostra che la condanna dell’Autorità, se ha impedito i possibili eccessi di una qualche dottrina, non ha, però, potuto mai distruggerla. Ofierles hacreses esse: ogni nuova formulazione dogmatica fu preparata nel travaglio di anime, che, come il Battista, precorsero, in umiltà di spirito e chiari-tudine di veggenti, il divino splendore di Colui che è la Verità. Fu santificata nel dolore, e col martirio; e affermata tra lo scandalo e dei sacerdoti, e tei pusilli (1).
E trionfò.
Perfino l’aristotelismo fu dapprima avversato e lo stesso S. Tommaso non sfuggì alla riprovazione. E, tuttavia, l’aristotelismo tomistico diverrà il codice intangibile della dogmatica cattolica, e mentre nel Concilio di Nicea la filosofia ufficiale era stata quella platonica, nel Concilio di Trento sarà quella aristotelica (2), Ma, se era assurdo sostenere che la speculazione umana dovesse fissarsi fra le nubi delle idee platoniche; è altrettanto assurdo pretendere che quel processo di costruzione dogmatica, di più intima e generale consapevolezza del fatto religioso, affermatosi col Quarto Vangelo, debba cristallizzarsi nelle categorie aristoteliche, consacrate dall’autorità dell’Aquinate.
Il Quarto Vangelo non segna la fine, ma il principio del processo dogmatico: è, esso stesso, sviluppo e giustificazione dello sviluppo: ma di uno sviluppo perenne e immanente alla essenza stessa del Cattolicismo: e che vivrà della storia del mondo.
Vincenzo Cento.
(1) Si può dire con lo Harnack, che «.coloro che si possono considerare come i padri teologici del dogma, quasi tutti, fatte poche eccezioni, non poterono evitare di essere condannati in nome del dogma, sia per averlo di troppo oltrepassato, sia per essersi di troppo attardati, seguendo una teologia troppo retrograda ». E cita tra gli altri Origene c S. Agost. (v. St. dei Dogmi, V. I., Prolegomeni alla Storia del Dogma).
(2) È opportuno ricordare — e parrà strano a molt’ — che anche la rifioritura tomistica del nostro secolo fu dapprima abbastanza combattuta. Il Masnovo (Rivista di Filosofia Neo-Scol-, Anno IV, fi. r, pag. 117) ricorda chea Napoli, poco dopo la metà del secolo passato, un gruppo di gesuiti .che tentava la ristorazione del pensiero di S. Tommaso fu disperso dalle autorità superiori dell’ordine. V’erano Tapa-relli, Curci, Liberatore, ecc. quelli, cioè, che saranno poi i rappresentanti più autorizzati del Neo-tomismo.
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BIX.YCHNXS
(Dittino di PAOLO A. PASCHETTO • dal ma-gnifico volume pubblicato dalla famiglia in (memoria del valoroao giovane).
• AD EXCELSA TENDO8
Motto" di Franco •Michclini-Tocci, sotto* tenente degli Alpini ' caduto eroicamente a M. Valdcroa il 27 ottobre 191$. .^
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IL CALICE DI GIOIA
Francesco, il «Poverello» ¿’Assisi, tor-navasene dal monte Alvemia (i). Il suo viso, emaciato dai patimenti e pure raggiante di gioia, gli stava reclinato sul petto e in segreto ei parlava al Cristo. Andava, nell’ora fredda dell’alba, per lo stretto viottolo del monte, posando a caso sui ciottoli aguzzi i suoi piedi scalzi, feriti dal serafino, e, dietro a lui, ogni suo passo lasciava un’orma purpurea.
Se l’amante di nobil donna Povertà a-vesse potuto sentire l'urto delle pietre malvage c il morso della brezza montana che scherzava nelle pieghe indigenti della sua tunica, egli avrebbe sussurrato:« Siete benedette, creature di Dio, perchè tanto dolcemente accarezzate il corpo mio di peccatore ». Ma, in quell’istante, Francesco nulla sentiva; nulla, se non le grandi fiammate d’amore che consumavagli il cuore.
Ora, mentre camminava in tal modo, portandosi dentro all’anima un po’ del rapimento dell’estasi ultima, il santo, ad un tratto si fermò: un sussulto doloroso lo
(x) « Una mattina, Francesco pregava sul fianco del monte Alvemia quando vide ad un tratto comparirgli dinnanzi un serafino che aveva sci ali. Tra le ali appariva l’immagine meravigliosamente bella d’un uomo crocifisso. Questa imagine — ei non poteva dubitarne — era quella del Cristo...
La visione scomparve, ma gli lasciò l'anima tutta accesa d’amore e — fatto più maraviglioso ancora —- lo stesso suo corpo portava l’impronta delle stira-• mate del Signore Gesù».
(Leggenda dei tre Compagni).
scosse, come fa il vento alle foglie dell’olmo, ed egli girò attorno lo sguardo incerto, velato dalle lacrime. Una parola maledetta, una bestemmia contro il suo Signore aveva lacerato quell’atmosfera mattutina satura di preghiera, e brutalmente angosciava il « piccolo povero di Gesù Cristo » strappandolo alla soavissima sua contemplazione.
A qualche metro sotto il viottolo, un povero compagno muratore, ch’era andato a cercar pietre suil’Alvemia, aveva lasciato cadere il fardello volendolo legare al dorso del suo asino ; così, in un improvviso impulso d’ira, aveva peccato contro il santo nome di Dio. Non appena Francesco ebbe scorto il disgraziato corse verso di lui, lo aiutò colle mani doloranti a ricaricare la bestia, poi l'abbracciò teneramente e disse:
— Fratello mio diletto, hai tu fede nel Signore?
— Si, rispose l’altro confuso e già tocco dalla grazia, credo che v’è nel cielo un Giudicò per punire la colpa e premiaré la virtù.
—- Ebbene, riprese il santo, poiché ogni peccatore impenitente dev’essere castigato in eterno, affrettati a confessare la tua colpa e, per pietà dell'anima tua, non ricominciare d’or innanzi mai’più.
Fatta poi una croce con due ramoscelli, la diede al colpevole dicendo:
— Io, tuo piccolo servitore in Dio, ti dò questa croce; portala con te nella tua capanna e ricordati che questo segno di misericordia sarà lo scettro della giustizia nell’ultimo giorno del mondo. Addio, ti conceda il Signore almeno il primo frutto della fede, ch'è il salutare timore di lui.
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BILYCHNIS
E, mentre il peccatore pentito chiede-vasi s’ei non avesse incontrato un gualche angelo del cielo, lui, andandosene di nuovo su pel viottolo, prese a cantare cosi nel suo cuore:
— Amorei Amore! Amorei Voglio morir nell’ardor di Gesù! Voglio morire stringendoti al cuore (x).
• * •
Nel libro misterioso della Provvidenza stava tuttavia scritto che l’orazione di Francesco sa.-ebbe stata, quella mattina, interrotta da ^ente del secolo. All’incrocio d’una strada, che saliva dalla città vicina, ecco un cavaliere che nel frastuono della sua armatura di ferro, raggiunge il fratello minore, e, messo un ginocchio in terra, gli dice:
— Uomo di Dio, beneditemi, perchè parto per la guerra. A casa, lascio una moglie senza difesa c dei bambini in tenera età; se non mi assistite colle vostre preghiere, non so che avverrà di me e dei miei. Stanco sono, e angosciato, dolente!
— 11 Padre del cielo vi benedica, rispose il poverello; ma voi che siete suo figlio carissimo, non avete fede in Lui?
— Sì, riprese l’uomo di guerra, perchè so che Dio è misericordioso; ei vuole il nostro bene, non la nostra disgrazia.
E san Francesco: — Voi dunque, perseverando nell’ansia, offendereste ìa divina bontà. Sulla via terrena che conduce al porto della Salvezza, il Signore prenderà cura dei suoi figli assai più che degli uccelli del cielo e dei gigli dei campi.
Un cespuglio di mirto cresceva in quel luo$o. E l’umil fratello ne colse due ramet-toni, poi di nuovo, facendo una croce, non più di legno secco ma di quel fogliame eternamente verde, la porse al cavaliere:
— Ecco, gli disse, un segno di speranza. Dio voglia che questa dolce virtù s'innesti nel cuore vostro, sull’albero della Fede.
Allora quegli che se n’era venuto coll'anima in lutto si rialzò consolato. Ei fissò la piccola croce verde alla visiera del suo elmo e raggiunse lo scudiero al quale aveva affidato la sua cavalcatura.
Intanto il piccolo povero riprendeva la sua via cd il suo cantico intimo: « Amore, amore — diceva egli al suo invisibile compagno — Gesù pietoso, in te stesso mi hai trasformato; ed io men vo, moribondo d’amore...» (2). Ei non vedeva, nella sacra eb(x) S. Francesco: Cantico III.
(2) San Francesco: Cantico III.
brezza, il suo glorioso fratello sole che già resa aveva la montagna rutilante d’oro; ei non udiva la voce familiare delle campane nella valle che lo invitavano all’ufficio di Prima: ei non vedeva che il Cristo ed udiva la sua voce soltanto.
♦ * »
Una strana angoscia, tuttavia, serrò ad un tratto il cuore di Francesco cd egli intese, per queH’avvertimento di Dio, che un membro del suo gregge stava in pericolo. E difatti, alzando gli occhi, ei scorse frate Leone, il quale correva verso di lui colla faccia stravolta e cogli occhi turbati.
— Che fai, pecorella del Signore (1), esclamò il santo, che fai? Dov’è dunque la gioia santa che risplende sul volto d’un buon frate minore?
— Ahimè, rispose frate Leone, io corro incontro a mio Padre perchè, stavolta, la letizia delle anime pure sembra essermi sfuggita per sempre: il mio corpo è troppo spossato, il mio cuore troppo solitario, ed ecco, oltre tutto ciò, il gran fantasma della morte s’erge notte e giorno nel mio spirito e mormora ironicamente: « Povero insensato, sai tu solamente se non sarai dannato? » Allora perchè tanti dolori, tanti digiuni, tanti rinunziamenti?...
— Oh! quanto mi addolori, figliuolo mio, riprese Francesco, perchè io chiaramente lo vedo: tu non hai più la fede in Gesù Cristo.
La pecorella del Signore era assai confusa; disse con flebil voce:
— Padre, credo però che il Figlio di Dio è morto per tutti gli uomini.
E allora san Francesco, in un grande slancio di zelo:
— Egli è morto per te. È morto per te, l'Altissimo Verbo, e tu non credi al suo amore infinito! No, davvero non ci credi; altrimenti, ricevendo tutto ugualmente dalla sua mano — amarezza e dolori — lo benediresti del continuo, abbandonandoti alla sua dilezione. Se tu non fossi che un uomo del secolo, io ti darei una croce di biancospino in fiore, per simboleggiare ai tuoi occhi la carità divina, la quale è la fioritura completa della fede; ma per noi. umili servitorelli. della dolce Vittima immolata, non c’è bisogno di segno esteriore, perchè l’amore deve trasformare noi stèssi in crocefissi viventi.
(1) In questo modo, secondo la leggenda, S. Francesco soleva chiamare frate Leone. %
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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Pjcendo queste parole, il grande appassionato dei dolori del Cristo aveva aperte le braccia onde stringere frate Leone contro il suo petto. Allora il discepolo scorse sulle mani del maestro le stimmate sacre e il suo cuore si fuse di ammirazione, di pentimento e di amore...
Tosto, le allodole pie poterono congiungere le umili loro lodi di uccellini alle lodi che i loro grandi fratelli, san Francesco e il suo compagno, offrivano all'eterna Trinità. E quel giorno, i due fraticelli così recitarono insieme il primo salmo dell’ufficio di Prima.
Frate Leone: Dominus regit me, et nihil mihi deerii : in loco pascuae ibi me collocami (1).
Santo Francesco: Sì, o Signore, l’a-mor tuo mi conduce; esso da ogni parte mi avvolge, non posso muovermi se non in lui; per questo l’anima mia è satura di beni: nel pascolo della tua Provvidenza, io mi pasco della tua Volontà c nessun luogo c un deserto per l’anima mia poiché tu l’abiti: Amore!
Frate Leone: Super aquam refectionis educavit me: animavi meam convertii (2).
Santo Francesco: Abbeverandomi delle acque dolci della tribolazione, m’hai ricondotto verso te, Signore; lavandomi nel tuo sangue divino, mi hai salvato, ed ora ha solo più sete di te, o Fonte d’Amore!
Frate Leone: Deduxit" me super se-mitas justitiae propter nomen suum (3).
Santo Francesco: Per me, peccatore, le aspre vie della Penitenza sono sentieri di Giustizia. Sii benedetto. Signore, di aver per esse condotto il tuo povero servitorello per causa del tuo nome che è: Amore.
Frate Leone: Non et si ambulavero in medio umbrae morti s, non limebo mala: quoniam tu mecurn es (4).
Santo Francesco: Pei figli di Dio non c’è morte. Si addormentano una sera sulla terra tenebrosa e si destano nel giorno e(x) Il Signore mi guida c nulla mi mancherà: egli mi ha posto fra i pascoli erbosi. .
(2) Ei m’ha condotto presso l'acqua del rinvigorimento: ha rinnovatoTanima mia.
(3) Ei m’ha guidato pei sentieri della Giustizia, per causa del Suo nome.
(4) Perciò, quand’anche io camminassi tra le ombre della morte, non temerei male alcuno, poiché tu sei meco.
terno nel luminoso Focolare d’Amore Infinito.
Frate Leone: Virga tua, et baculus tuus: ipsa me consolata sunt (1).
Santo Francesco: Così mi confortano i tuoi salutari castighi come le tue dolci carezze, poiché è la mano tua che regge la verga come regge il pastorale: Amore.
Frate Leone: Parasti in conspectu meo mensam. adversus cos, qui tribulant me (2).
Santo Francesco: La tavola ove nutro l'anima mia è quella della tua croce, Gesù morto d’amore. Là mi sazio col ricordo del tuoi dolori e divento forte contro l’inferno, il mondo e la mia carne miserabile.
Frate Leone: Impinguasti in oleo caput meum: et calix meus inebriane quam prae-clarus est (3).
Santo Francesco: L’olio sacro col quale avete unto la mia fronte, Re Altissimo, è un olio d’abbiezione, d’umiliazione e di disprezzo. O calice splendido che mi presentò l’amore dopo averci bevuto pel primo, io .m’inebrio di gioia nella tua amaritudine! '
Frate Leone.’ Et misericordia tua sub-sequetur me omnibus diebus vitae meae (4).
Santo Francesco: Fino all’ultima sera in cui soggiacerò ai colpi dell’Amore
Frate Leone: 'Et ut inhabitem in domo Domini in longitudincm dierum (5).
Santo Francesco: Lungo i giorni eterni abiterò nell'Amore.
Frate Leone: Gloria Patri.
Santo Francesco: Che ci ha creato per Amore.
Frate Leone: Et ¿ilio.
Santo Francesco: Il Crocifisso d’Amore!
Frate Leone: Et spiritai Sanclo.
Santo Francesco: Che è l'Amore.
Così salmodiando, tornaronsene in convento i due frati minori: Leone, la pecorella tornata all’ovile di Dio e Francesco, il « Poverello ». languente di carità. ,
Renata Zeller
(Dalla Revue des feunes di Parigi).
(1) La tua verga e il tuo virgulto sono stati la mia consolazione.
(2) Hai posto davanti a me la mensa, di fronte a coloro che mi tormentano.
(3) Hai fatto il capo mio rorido.d’olio; c quanto è magnifico l'inebriante mio calice!
(4) La tua misericordia mi accompagnerà in tutti i giorni della mia vita.
(5) Onde abitare nella casa del Signore per lunghi giorni.
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OLTRE IL
RUBICONE
L’argomento non è sentimentale o polemico, ma di alta importanza sociale.
Il fatto di un cittadino che entra a 40 anni nella competizione della vita civile, eon una cultura superiore, ma senza titoli per farla valere, coi bisogni urgenti dell’età matura, ma senza mezzi adeguati per soddisfarli, è un problema di cui lo Stato, supremo tutore e vindice dei bisogni e dei diritti di tutti, non si deve disinteressare. Il prete f uori della Chiesa, nella vita civile: tcco l’oggetto del presente studio.
E di ieri l’addio di D. Carletti, l’eroe di Passo Bude e di Costa Violina, decorato di medaglia d’oro al valor militare, alla veste talare ed al suo Vescovo. È uno dei tanti fatti che, notòriamente o meno, si ripetono tutte le settimane, sto per dire tutti i giorni, in una o nell’altra delle pro-cincie d’Italia e del mondo. E l’esodo continua.
Creda ancora o non creda più il ■ nuovo cittadino », sentimentali o intellettuali i motivi della sua decisione, giustificate o meno, a seconda delle varie tendenze od opinioni religiose, le ragioni che la provocarono, il problema che ora interessa è Ìuesto: che cosa farà nella vita borghese?
: il problema al quale accenna D. Carletti nella sua lettera di congedo, ed- al quale nessuno, che non sia, come raramente avviene, provvisto di titoli o di mezzi di fortuna, pud, o prima o poi, fatalmente sottrarsi: « necessità di guadagnare il pane quotidiano».
E, si noti, un pane onorato. Chi ha studiato 20 anni, come un ingegnere, un avvocatq, un medico... un professionista qualsiasi; chi serba nel cuore i segreti di tante anime alle quali ispirò fiducia la sua veste, ma anche la sua serietà e cultura; chiglia visto nelle chiese, nelle piazze e nei campi battuti dal cannone, migliaia di teste ondeggiare sotto il suo sguardo, agitarsi al fascino della sua parola, non può dare il suo nome al primo ingaggiatore di spaz-zini stradali o camerieri d’albergo, solo, perchè promettono rispettabili stipendi di I51ire giornaliere o perfino 50 o 100 rispettivamente.
Un pane sicuro. Un passo così grave suppone la revisione completa di tutti i propri valori intellettuali o morali, una decisione calma e fermissima: maturità dunque di pensiero e una forza di volontà che l’età matura solamente può consentire. Ora qualsiasi posizione, meschina a 20 anni, diventa sufficiente a 30, invidiabile a 40. Ma chi a 40 comincia non può rimandare a 60. O ci sono subito là posizione, la famiglia, la vita, o non ci saranno più. L'avvenire è l’oggi. Per il ventenne è nulla un tirocinio di io anni. Per lui io mesi sono l’eternità.
Sorvolo qui a problemi delicati che so di aver toccato. E quello economico-sociale che ora ci assilla.
Intanto chi ha passato il Rubicone non può più vivere nel proprio paese, o città, almeno se è città di provincia. Egli non è un pazzo, ma è più... pericoloso di tutti i pazzi. Non è un delinquènte, ma è il... peggiore dei delinquenti. Può essere irreprensibile; forse ha lasciato dietro a sè una
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NOTE E COMMENTI
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turba di colleghi disonesti che ognuno segna a dito, coi quali si vergognava di essere confuso. Ma contro di lui tutti i sospetti sono leciti. I più benevoli, sorridendo, sentenzieranno: questioni di cuore! I più zelanti insinueranno sui giornali, nelle scuole, tuoneranno dai pulpiti: cherchez la femme! .Se non c’è, vi deve essere. Non si evolve la mente, insegnano i... moralisti, se non è corrotto il cuore. La disonestà del mezzo polemico non spaventa nessuno; è an-messa anche dai suoi più caldi campioni. Ma è efficace, di alto rendimento presso le masse. Il popolino beve, diventa — non il popolino solamente — popolaccio e fa in mille guise la sua giustizia asfissiante contro il reo e ciò che esso ha .di più caro: persone, cose, affetti. Una sottana sudicia è bene accolta, a lui è tolto il saluto. Attorno alla sua famiglia si spargono voci maligne, tendenziose, atte ad accrescere la confusione in persone rozze ed incolte...
«Non ti curar di lor», è presto detto. L’uomo più forte ha bisogno, dopo lunghe, inevitabili lotte di spirito, di vivere in pace.
Eccolo, dunque, esule volontario dal luogo natio, lontano dall?, famiglia, dagli amici, da ogni conoscenza, da tutto ciò che gli ricorda la maggioro-e miglior parte -della sua vita, a cui, nonostante tutto, Puniscono dei richiami nostalgici incancellabili. Eccolo ospite di una grande città. Ivi la corrente degli affari, il tumulto degli interessi, la varietà delle tendenze, delle nazionalità, delle lingue rendono a tutti possibile la vita.
Così almeno sperava..Ma qui cominciano le difficoltà vere, di gran lunga superiori a quelle previste. A chi presentarsi ? con che titolo? con quali raccomandazioni? con quali precedenti?
Prima di procedere devo lumeggiare un altro aspetto, un altro fatto-base, attualmente molto importante. Io’parlo oggi e per oggi. Ed oggi nove sì» dieci di questi nuovi cittadini sono ex-combattenti.
Sono cappellani militari o anche sottufficiali e militari di truppa che la guerra travolse nel turbine della vita vera c che, finita la guerra, non si sentono più di tornare alle primitive mansioni. Sono ufficiali veri c propri —«. tenenti e qualche capitano — che lo scoppio della guerra trovò al culmine della loro evoluzione intellettuale c che, rifiutando opposizioni vantaggiose o facili e comodi esoneri, vollero indossare la divisa d’ufficiale per passare
dalla veste talare all’abito borghese e per portare tutte le risorse della loro mente più che del loro braccio al servizio della Patria.
E fecero il lor dovere. Alcuni, veri Tirtei de) Reggimento, incitarono dall'altare e più dalla trincea i loro uomini alla battaglia. Altri, gli ufficiali, dopo l’azione infuocata della parola, passarono, sprezzanti di ogni pericolo, a quella, più scottante, dell'assalto.
Ed ora tornano, quelli che’tornano, alcuni col corpo lacerato da gloriose ferite, molti, i più, fregiati il petto di brillanti decorazioni.
Tornano! Si congedano, dovevo dire, dall’esercito perchè appartenenti alle categorie di complemento o dJ M. T. ma non tornano alle mansioni ed all’abito di prima. Dove vanno?
Si erano lusingati col miraggio di svariati impieghi, che appositi concorsi banditi da Aziende pubbliche o private avrebbero aperto loro come a tutti i reduci dalla grande guerra. Vane speranze! Qualche concorso, in misura minima, fu bandito. Ma, se pure lo scopo non era esclusivamente reclamistico, il sistema di acccttazione non giustificò affatto l’espressione: concorsi per ex-combattenti. L’unico criterio fu ancora il titolo ufficiale di studio. E poiché gli exmilitari in scuola non hanno di questi titoli, oltre quello elementare, la risposta fu quasi sempre: non accettato!
Così avvenne che uomini di 30, 35, 40 anni, che affascinarono intere folle col canto della loro parola a favore delia guerra di liberazione, uomini che con 1*« avanti! » irresistibile trascinarono a ripetuti assalti interi reparti; uomini che con 20 anni di studiosi impadronironodi filosofia, di storia, di lingue classiche e moderne così da dare, in servizio; parecchi punti a professionisti specializzati, si videro passare innanzi tanti, tutti quelli che non possono uscire da pubbliche scuole senza un titolo comunque conseguito.
Diano esami, si facciano dei titoli! È una parola. Ci vogliono anni. Intanto come si vive? Ma questo è il meno. Si provi il miglior professionista, un avvocato per esempio, a pensare soltanto di ripetere. sotto l’incubo del domani, gli esami di liceo che superò, forse brillantemente. 15 o 20 anni prima. Non v’è tormento più grave, oltre che più umiliante.
E si tratta solo di liceo, la cui licenza qualcuno coraggiosamente affronta e riesce a raggiungere. Ma poi? Il liceo poco o
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BILYCHNIS
nulla giova per la vita, se non per cominciare, cominciare, dico, una modesta carriera. Vale come titolo d’ammissione alle Università. Ma la legge che apre la via alle licenze di scuole secondarie per chi ha compiuto i 23 anni di età, non ha una disposizione analoga riguardante le scuole superiori. La legge vuole il tempo, vuole tutti gli esami in dettaglio. Ma sopratutto il tempo; minimo 4 anni! E intanto?
C’è aperta la carriera letteraria o giornalistica libera. È vero, ed è questa forse la più adatta alla totalità ed alia cultura delle persone in parola. Ma. a parte il fatto che questa pure è troppo aleatoria per un principiante — perchè si tratta proprio di cominciare ;— dove trovare sul momento l'energia e la calma necessarie per tale lavoro?
Nessuno, che non abbia provato quel che dico, sa quanto sia sfibrante la lotta di pensiero e di coscienza che inevitabilmente intercede fra il dubbio teorico o Sratico e la sua soluzione. Si aggiungano i isagi, le emozioni potenti di 4 anni di guerra per chi l’ha vissuta in trincea ed al fuoco. Si aggiunga, ciò che è più, la preoccupazione assillante, continua, del domani. Si aggiunga lo strazio dell'anima perchè, in omaggio all’impero della mente, strappa sè stesso a tutti gli affetti più cari, più esuberanti di richiami nostalgici... e si dica come rimangano la energia e la calma indispensabili per riprendere le lotte della penna e del pensiero ed intensificarle al punto da farne unico mezzo di esistenza.
Senza notare che non a tutti, nè a molti giornali l’ex-prete si può rivolgere. I cattolici, evidentemente no. I liberali? l’affare che preoccupa è sempre la tiratura, e questa potrebbe essere compromessa se tanti lettori di fede varia, all’acqua di rose, sapessero di un ex nascosto sotto una sigla tale o tal’altra. I democratici, socialisti, anarchici? Troppo spesso vi sono qui dei legami che si possono diversamente giudicare, ma che non è facilmente disposto a subire chi ha tanto sudato per sciogliersi da certi altri.
Peggio è che per tutti i giornali c’è un ostacolo, umano se si vuole, ma spesso insormontabile. I mezzi sono limitati, limitati i posti di concetto e quasi sempre distribuiti, giustamente, per... anzianità di servizio. Ammettere in una redazione, dove non tutti sono notorietà o cime, chi pottà, forse presto, dare dei punti ai più provetti, significa contribuire a scal
zare il terreno a sè stessi. Perciò, presentate un lavoro? Vedremo, ma domani non esce! Perchè? Credevo, non c’era più posto. Oggi? non è più d'attualità! Provate con un secondo: non era adatto! Un terzo: in ritardo...! Intelligenti, pauca.
Aziende commerciali o industriali private? Non è il ramo più adatto, perchè, oltre il titolo speciale, diploma in ragioneria, manca la specializzazione pratica, tecnica. In ogni modo con una cultura generale rispettabile, colla serietà ed esperienza che vengono dall'età, si può lusingarsi di riuscire a qualche cosa.
Presentatevi, dunque: Signor, X ex-prete. La prima accoglienza è un’occhiata indagatrice che vi squadra da capo a piedi.: (Non dico delle occhiate curiose ed eloquenti di signorine eventualmente o per ufficio presenti al colloquio). Seguono d ordinario parole di congratulazione per l’atto coraggioso compiuto, considerazioni significative sulja esuberanza di offerte, auguri di miglior fortuna... altrove. I più benevoli aggiungono una riga di raccomandazione per... altri uffici. I più sinceri, benché notoriamente non credenti o appartenenti ad altre confessioni religiose, azzardano un consiglio: lasci quell’ex.
Ah! ho capito. Altra presentazione: Signor X. Va bene. Ma 30, 40 anni qualche cosa avrà pur fatto fin qui... Qualche generalità è pur indispensabile declinarla. L’effetto è identico, se non peggiore, giustificando il sospetto di insincerità.
Vi ricordate della... onorata divisa appena lasciata?
Terza presentazione: Tenente X. Benissimo! Decorato. Congratulazioni! Ma tali complimenti (di ciò possono testificare anche altri e molti non ex preti) sono spesso pronunciati a denti stretti: Chi è ben seduto difficilmente ha fatto La guerra... in zona di guerra anzi di battaglia. Figuratevi se può essere ammessa in un ufficio la presenza continua di un. fesso, si passi la parola, che ebbe l'ingenuità di esporre la vita per un ideale!...
Chi fosse tentato di esclamare: esagerazioni! è pregato di considerare che lo scrivente tiene a disposizione di qualunque vorrà nomi e date e dettagli...
Insegnamento? Privato, s’intende. Sarebbe l’occupazione più indicata. Le materie classiche offrono ancora tanto d’interesse da costituire, perchè le conosce bene, un cespite di guadagno sensibile ed onesto. Ma ritornano qui tutte le difficoltà
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NOTE E COMMENTI
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sopra accennate. I credenti sono pochi; ma i superstiziosi o legati comunque ad organismi confessionali sono moltissimi. Guai! se questi sapessero a chi è affidata l'educazione della futura famiglia tale o tal'altra
E il titolo? La competenza va bene; ma il. prestigio vuole un nome accademico. È vero che professore non è dottore. Ma per l’uso comune, sì. Lo stesso interessato onestamente non permette un equivoco che l’uso comune ritiene una usurpazione.
Non accenno nemmeno all'insegnamento pubblico o ad altri uffici di Stato. Manca una sola cosa, ma è tutto :un titolo. E se vi ostinate a volerlo ottenere, la legge si vendica della vostra arroganza con un altro ostacolo insuperabile: i limiti d'età. Dopo > 3° o 35 e 40 anni non si può cominciare a servire lo Stato!
Il « nuovo cittadino » non ha dunque, fuori dell’alternativa: estrema viltà o e-stremo delitto, che il diritto di morire di fame! E questo che non deve essere. Meno ancora in uno Stato retto da libere istituzioni democratiche; meno ancora oggi dopo la guerra mondiale, dalla quale usciamo spossati, calpestati, ma coll’aureola de! più superbo trionfo.
A 40 anni, in nessun caso, si può cominciare a servire lo Stato ? È falso. Quando la diana di guerra suonò; quando sulle Alpi e sull'Isonzo erano i palpiti di tutto un popolo trepidante per i suoi destini; quando il Piave ed il Grappa erano la nostra Patria, non si fece la questione dei titoli. Ben oltre i 40 anni gli italiani degni di questo nome andarono, corsero, volarono verso la vittoria o la morte. I 40 anni non trattennero alcuno da! fare le più ardite pattuglie o dal guidare gli assalti. Ora che’ la Patria ò salva non è più sacra la vita di tutti i suoi difensori ? Ora che la Patria è vittoriosa non vale più nulla la vita di tutti i suoi eroi?
Non è questo chiedere l’elemosina, on. Nitti?
Lo Stato permette resistenza di un organismo che ogni giorno dà alla luce esseri di .|r anni destinati a perire se cur^ speciali non intervengono* in loro soccorso. Lo Stato ha questo dovere. Ed è diritto di buoni cittadini indicarle ed invocarle dai supremi poteri, come farò in un prossimo articolo.
Italo Amanti.
CRISTIANESIMO ESOTERICO
Coloro che ànno più o meno seguito quel . movimento letterario che vuole trovare nella più recondita antichità tutto, o quasi tutto il pensiero moderno, ricordano fórse come Gladisch e Ròth abbiano tentato di mostrare esser la filosofìa greca, c quindi la moderna, intieramente contenuta nelle speculazioni orienta1!, egiziane e pitagoriche; come Brodbeck abbia voluto ricondurre a Zoroastro non solo l'origine di tutti i principali sistemi filosofici, ma anche il cristianesimo stesso; come De Castro abbia creduto scoprire le origini della Massoneria nei più antichi culti orientali; come Sinnet abbia voluto ritrovare le origini della teosofia nelle antiche dottrine segrete c come Du Prel abbia riconosciuto anche in queste dottrine le origini del misticismo. L’attività teosofica che nel 1916 Annie Besant aveva preconizzato doversi esercitare in tre campi: nell'educazione, nella massoneria e nel cristianesimo, à già dato in quest’ultimo alcuni notevoli
risultati. Cominciava la stessa Besant con un’opera sul Cristianesimo Esoterico. Di poi Lcadbeater pubblicava un libro su’. « Credo » cristiano e numerosi articoìi sul significato e valore occulto delle cerimonie, specialmente della Messa; e il vescovo vecchio cattolico Weywood riconosceva nelle Scritture, nelle tradizioni, nelle cerimonie, gl'insegnamenti teosofici. ’
A questa letteratura che sostiene l’unità originaria di tutte le religioni e più precisamente l'ipotesi che a tutti gli uomini sia stato dato in origine un insegnamento unico si riannoda il recente volume di Soter su La Religione del Cristo (.1)» Il
(■) Di esso A già parlato nel n. di novembre-dicembre 19x9 Qui Quondam, sopratutto dal punto di vista estetico e filosofico. Non ci pare in ogni modo di dover privare i lettori di questo giudizio critico-storico del Prof. Puglisi.
- (xV. d. D.}.
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Cristianesimo è, per quest’autore, una rivelazione più completa, ma in fondo non sì tratta che dello stesso insegnamento impartito ai grandi iniziati (come avevano già detto Schurè e Steiner) ai fondatori delle principali religioni.
Quale sia il metodo per mezzo del quale si vuol pervenire a questa conoscenza è accennato dal medesimo Sotcr, quando sostiene che i testi sacri non devono esser , studiati come fa la critica filologica, storica e filosofica, ma alla luce che proviene dalla dottrina esoterica.
Se Soter si fosse limitato a stigmatizzare una certa critica, pochi avrebbero potuto dargli torto. Ma condannare così in blocco la critica filologica, storica e filosofica, è troppo. Qual altro mezzo, infatti, gli rimane per poter dimostrare la esistenza di una dottrina esoterica e la sua trasmissione come egli afferma, da Adamo ai Patriarchi, a Mosè e ai settanta iniziati, se nega ogni valore a quella critica?
Ora qui siamo evidentemente nel campo della fede, non in quello della storia. L'accertamento dei fatti accaduti, è quasi superfluo rammentarlo, non può esser fatto che per mezzo delle testimonianze degne di fede, delle testimonianze cioè, non tanto degli uomini di fede, quanto di quelli che in un certo senso ne ànno avuta di meno; vai quanto a dire che lo storico è condotto a una via non poco diversa da quella nella quale si è incamminato Soter.
L’ipotesi della trasmissione tradizionale della dottrina esoterica, oltre alla deficienza dei documenti che possono renderla credibile, urta principalmente contro due scogli. Uno è quello delia probabilità che una dottrina, trasmessa dairorigine c conosciuta solo da pochi iniziati, abbia potuto conservarsi per millenni inalterata (si rammenti che la Chiesa per render credibile una tradizione di data relativamente assai recente, si è appellata all’assistenza dello Spirito Santo), mentre assai più semplice c probabile appare al paragone la ipotesi che insegnamenti fondamentali, come quelli di uccidere in sè il male, di perdonare le offese, di predicare la carità verso il prossimo, l'umiltà verso Dio (a questo poi si riducono e a qualche altro, gli insegnamenti esoterici) siano state rivelati non una volta per sempre ed esteriormente, ma tutte le volte che vi è un
uomo di mente retta e cuor sincero, c cioè interiormente nella coscienza umana.
Il secondo scoglio contro il quale urta quella ipotesi è il fatto che la religione non Euò ridursi a un puro esercizio di memoria, a rivelazione di Gesù non può intendersi come una ripetizione di quella operata da Mosè, nè come un allargamento della conoscenza dei misteri, nè può dirsi che gli Evangeli altro non siano cnc un commento trascendentale dei libri di Mosè e dei Profeti.
’ Con ciò non intendo negare che antiche dottrine sopravvivono nei culti attuali, nè che il cristianesimo contenga dottrine orientali, ma voglio affermare che non tanto da antichi ricordi — divenuti spesso, inservibili per la vita religiosa — quanto da nuove conoscenze cd esperienze attingono le religioni le energie creatrici di nuove forme di vita.
Il lettore del libro di Soter, che conosce la bella traduzione che Piero Mantechi à fatto del volume di A. Harnack su la jtfis-sione e propagazione del Cristianesimo nei primi Ire secoli, rimarrà forse colpito da alcune strane somiglianze. Così p. e., tra la pagina 24 del libro di Sotcr e la pagina 31 di quello di Harnack; tra le pagine 25-26 di Soter e la pagina 63 dell’altro; tra le pagine 29-30, e la pagina ni di Harnack; tra le pagine 33-34 del primo, e le pagine 75 e seguenti del secondo, ecc. Ma più grave è l'osservazione che può farsi (ed è già stata fatta) circa quanto afferma Sotcr riguardo alla purezza dell’anima la Ìualc, secondo lui. rimane come testimone ei peccati della carne. Se non è l’anima che pecca, chi è mai responsabile del peccato? Se non è nella volontà, dov'è dunque il peccato? O non deve dirsi che l’anima, anziché spettatrice è la sola autrice del peccato ? •
La critica estetica riconoscerà le qualità stilistiche de) volume di Sotcr, riconoscerà che egli non à voluto fare un libro di storia ma di fede, un libro che vuol rendere testimonianza di una fede, riconoscere che questo volume può esercitare un’azione consolatrice, su molte anime, e avrà ragione. Ma la critica storica à il dovere di disapprovare l'applicazione di metodi e di teorie che tendono a confondere la fantasia con la realtà, la storia col mito, il paradosso con la morale.
M. Puglisi
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|CRONACHE|
POLITICA VATICANA E AZIONE CATTOLICA
LA CONDANNA DE’ RIFORMISTI CZECO-SLOVACCHI
In data 15 gennaio del corrente anno gli Acta apostolica^ sedis hanno pubblicato il decreto del Sant’Uffizio col quale si condanna il movimento riformatore del clero czeco.
Come dice il decreto, « è stato riferito alla Santa Sede che alcuni sacerdoti del clero boemo, ad istigazione dei quali già precedentemente ■ erano state presentate insane richieste alla stessa Santa Sede, in questi ultimi giorni si sono illegittimamente riuniti, con tentativo scismatico hanno proclamato la separazione dalla Chiesa romana, madre e maestra di tutte le altre Chiese e centro dell’unità, e si sono costituiti in quella che chiamano Chiesa nazionale».
Nel numero di Biìychnis di novembre-dicembre passato, diedi notizie dettagliate su questo movimento, e sulla venuta a Roma di una deputazione del clero della Boemia che presentò al Papa in persona un memoriale con le richieste dei preti riformatori.
In seguito alla disapprovazione ecclesiastica una parte di essi si è costituita in Chiesa nazionale.
Finora non sembrano molti i preti scismatici, e non hanno tra loro nessun vescovo; però anche tra i non apertamente scismatici il fermento è grandissimo.
Pure, in questo momento religioso e disciplinare del clero czèco c’è un. substrato politico che è il frutto tanto della tradizione imperiale austriaca,¿quanto di quella nazionale boema.
In Boemia il ricordo di Giovanni Huss e della sua riforma è ancor vivo e palpitante nel popolo, non tanto come origine di una discordia religiosa, quanto come affermazione dcil’indipendenza nazionale. E ciò è così vero che il suo nome è caro non solo agli eretici, ma anche agli stessi cattolici. Fu contro l’oppressione dei prelati tedeschi, che allora pesava non tanto nella coscienza quanto su tutta la vita civile,_ che il riformatore levò la sua voce apocalittica.
A questa tradizione nazionale va aggiunta quella più vicina a noi della politica imperiale austriaca che si affermò sopratutto dopo la vittoria austriaca della Montagna Bianca nel 1630 con la violenta germanizzazione e imposizione cattolica in tutta la Boemia. Il regalismo di Maria Teresa e di Giuseppe II, coprendo la Chiesa di nna protezione altera e insindacabile, la asservirono al trono e la distaccarono da Roma. Il catolicismo austriaco molte volte imbarazzava Roma assai più che il protestantesimo di Germania e l'anglicanesimo d’Inghilterra. I! clero incanalato in uno dei tanti filoni dei funzionari di Stato, i Vescovi scelti tra i più fiacchi e ligi alle autorità civili, furono caratteri dcn’amministrazione ecclesiastica nell’impero austro-ungarico. Ciò sfata la leggenda di quelli che amavano dipingere la cattolica Austria come il braccio destro del Vaticano.
Dati questi precedenti storici e politici era inevitabile che, nella crisi dell’impero austro-ungarico, non si rivelassero anche le falle della sua organizzazione ecclesiastica. Ed infatti, al sorgere dei vari Stati
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nazionali dopo la caduta degli Absburgo, le agitazioni del clero si manifestarono immediatamente. I pronunciamenti avvennero nella Czeco-Slovacchia, nella Jugoslavia, in Ungheria. Ed essi furono caratterizzati dalla protesta di radicali riforme disciplinari, prima tra tutte l’abolizione del celibato. Le controversie dogmatiche sono state quasi del tutto assenti da questo movimento. Solo la disciplina fu attaccata con violenza e a fondo. Nella liturgia si chiese la sostituzione della lingua volgare al latino : nella gerarchia l’indipendenza nello eleggere i Vescovi c nel-l'amministrare i beni : nella vita privata la facoltà ai preti di prender moglie e di vestire gli abiti borghesi.
Le agitazioni in Ungheria e nella Jugoslavia sembrano assopite, almeno pel momento. Nella Czeco-Slovacchia hanno preso invece l’estensione e la consistenza di una vera c 'propria riforma religiosa, tanto che il Santo Ufficio è dovuto intervenire a condannarla e scomunicare gli scismatici.
È difficile precisare sul momento quale sia la consistenza c l'estensione di questa riforma. I riformisti si vantano di avere con sè la maggioranza del clero. I cattolici, d’altra parte, dicono che il movimento è localizzato e ristretto a quelli che lo promossero fin dal princìpio. Il decreto del Sant’Uffizio parla di « alcuni sacerdoti del clero boemo » ed una lettera del Papa all’arcivescovo di Praga dice che essi sono di quel clero una « esigua parte ». Ma è soltanto adesso, dopo la scomunica del Santo Uffizio, che si potrà vedere quanti siano realmente i ribelli e scismatici.
Vedremo come si comporterà l’autorità politica di fronte al movimento. Molti indizi farebbero credere che lo favorisca, molto più che Kramarz è un notorio panslavista c russofilo, e il Presidente della Repubblica Masaryk è di precedenti anticlericali. Però finora non si è voluto mettere in conflitto con Roma, anzi quando volle procedere alla separazione dello Stato dalla Chiesa e all’incameramento dei beni ecclesiastici, ha preferito di farlo d’accordo. E la Czeco-Slovacchia è stato uno dei primi nuovi Stati europei ai quali il Vaticano ha dato il suo riconósci mento; a Praga c’è un rappresentante del Papa; il nuovo arcivescovo è stato scelto d’accordo col Governo, e quanto prima saranno stabilite regolari rappresentanze diplomatiche a Roma e nella capitale boema.
In questo conflitto però c’è una incognita. Molti dei preti riformisti, i capi stessi del movimento, sono tra i sostenitori più autorevoli del Governo. Alla Camera, nei Ministeri, preti deputati e preti funzionari aderiscono alla riforma e la guidano. Uno dei duci fu, sino a pochi mesi la, ministro dell’attuale Gabinetto. In questo stato di cose, che farà il Governo? La questione è gravissima, perchè molti di questi preti scismatici sono parroci investiti di benefici ecclesiastici. Essi ora, dopo la condanna del Sant’Uffizio, sono decaduti e i vescovi vorranno allontanarli. Non essendo ancora attuata la separazione, quei benefici dipendono dal bilancio dei culti, e perciò le deliberazioni dei vescovi dovranno essere ratificate dall’autorità civile. Così non si può prevedere con esattezza ciò che avverrà aPraga.
È fuori di dubbio che Roma è risoluta ad agire con rapidità e fermezza. La condanna del movimento separatista czeco è avvenuta con una rapidità alla quale la Curia romana non era troppo abituata. In questa sua risolutezza la Santa Sede è anche confermata dall’intento di impedire che il contagio dilaghi.
Piuttosto, se il movimento scismatico dovesse estendersi, potrebbe avere qualche ripercussione nella compagine interna della repubblica czeco-slovacca. È noto infatti — sebbene spesso si ami dimenticarlo — che la Czeco-Slovacchia è una piccola Austria, essendo un conglomerato di sette nazionalità, dove cinque o sei milioni di czechi dominano su circa otto milioni dei popoli di altra nazionalità.
Tra questi ci sono i cattolicissimi slovacchi, che non sono affatto un'appendice degli czechi. Il movimento separatista slovacco capeggiato dal clero è molto forte, e^ guarda con nostalgia verso l'Ungheria. E credibile che le nostalgie si siano acuite dopo il trionfo delia reazione cristiano-sociale in Ungheria; così pure il clero della . Boemia tedesca non partecipa al movimento; ecco perchè il movimento per una Chiesa nazionale czeca potrebbe coìnplicare ed accrescere le cause di dissidio all'interno della repubblica czeco-slovacca.
VATICANO E RUM ENI A
Monsignor Basilio Lucacin, Ministro per la Transilvania nell’attuale gabinetto romeno, è presente in Roma con la missione di trattare ufficialmente la conclu-
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sione di un Concordato tra la Romenia e la Santa Sede.
Qualche mese fa era stata pubblicata la notizia di trattative tra la S. Sede e la Romenia, ma era stata smentita ufficialmente.
Quelle trattative allora erano puramente confidenziali, e se ne occupava il piincipe Vladiffiiro Gicha, fratello dell'ex ministro romeno presso • il Re d’Italia, fervente cattolico ed anima della propaganda cattolica in Romenia.
Ora, le trattative sono entrate nel periodo risolutivo. La Romenia con l'annessione della Transilvania ha aumentato la sua popolazione di qualche milione di cattolici ed è perciò necessario che sia in rapporti diretti col Vaticano. I cattolici di Transilvania devono sostenere una lotta accanita con i Magiari, ai quali sono stati asserviti fino al crollo dell’impero d’Absburgo. Ma l'affrancamento politico non è completo se non gli terrà dietro anche quello religioso. Sono necessari perciò preti c vescovi di nazionalità romena. Queste sono le ragioni per le quali il Governo di Bucarest chiede adesso di stabilire un Concordato con Roma.
La missione di concluderlo è attualmente affidata a mons. Lucacin, un prelato romeno che sotto il regime ungherese era parroco e deputato a Budapest e fu l'apostolo dell’irredentismo romeno. Liberato il suo paese egli ne rappresentò gli interessi a Bucarest ed ora è ministro per le terre liberate nel Gabinetto romeno.
FRANCIA E VATICANO
Scrivevamo nel precedente numero che la ripresa dei rapporti tra la Francia ed il Vaticano era assai vicina.
In alcuni circoli francesi massonici si è però disegnata una tendenza nettamente ostile alla ripresa delle relazioni. Indice di questa tendenza è una intervista concessa al Journal dal prof. Aulard.
Aulard sostiene che, per mantenere contatti con quella forza internazionale che è indubbiamente il Vaticano, bastano missioni speciali affidate a uomini competenti, come già accadde per Denys Cochin e per il cardinale Amette. Con ciò si eviterebbe il pericolo denunciato da Baudrillart di affidare gli interessi francesi ad una potenza contraria agli interessi stessi.
Ma esiste questo pericolo? — si domanda Aulard. — E risponde: « Si allude senza
dubbio all'Inghilterra vd alla Siria. Or bene, ho parlato con l’emiro Faysal e con gli inviati maroniti, con i siriaci di ogni confessione. Tutti non hanno’che un desiderio: evitare, nella costituzione del loro Stato, un intervento sulla questione religiosa che li divide. Essi accetteranno più volentieri un protettorato francese laico che una influenza esercitata attraverso i gesuiti- in Beyrouth ».
Rispondendo all’altro argomento che il Vaticano è il centro unico di informazioni universali, Aulard ha detto ironicamente: « Si è visto durante la guerra come il Vaticano fosse sempre bene informato. Esso non ha sempre creduto alla vittoria degli Imperi centrali? ».
Del resto, anche ammettendo che i rapporti possano essere ripresi, secondo Aulard, Benedetto XV non è l’uomo indicato per il riavvicinamento della Francia col Vaticano. Come dimenticare la sua im-Sassibilità di fronte ai delitti tedeschi nel elgio?
L'intervistatore ha fatto osservare ad Aulard, che, in fondo, il gesto della Francia farebbe piacere a molti, senza costare molto sacrificio; c l’intervistato ha risposto che al massimo potrebbe concedersi l’invio di un rappresentante della repubblica a Roma; non l’invio di un Nunzio a Parigi. Se gli argomenti di politica estera, che secondo Aulard rendono inutile e inopportuno l’invio del rappresentante della Francia, possono essere superati, quelli che si oppongono alla presenza uel Nunzio a Parigi sono, dal punto di vista interno, insormontabili.
Il Nunzio a Parigi non è desiderato che da una piccola cricca di politicanti reazionari, che si servirebbero dell’autorità del rappresentante del Papa per intrigare.
Queste sono le ragioni addotte dagli avversari, ma è certo che il movimento favorevole è fortissimo in ogni campo politico francese, come si rileva dai referendum indetti dai giornali parigini.
Anzi il Corriere del Parlamento scriveva il giorno 8 febbraio - di sapere da ottima fonte che il Pontefice, non tralasciando alcun mezzo per soddisfarò il Governo francese ha preparato di sua mano lo schema di una enciclica sul • ralliement » da pubblicarsi nel momento della ripresa come solenne attestazione del Vaticano a favore delia politica interna del Governo francese. L’enciclica, riprendendo la linea di Leone XIII, dichiarerà che la
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S. Sede accetta pienamente il regime repubblicano della Francia, consigliando ai cattolici francesi di fare lo stesso, ed in ogni modo imponendo a ciascuno di essi di non far nessun atto contro la costituzione politica del loro Paese.
« Possiamo aggiungere che tale schema è conosciuto dal Presidente Clemenceau. Resta ancora a fissare lo svolgimento ed i termini precisi dell'enciclica, cioè della lettera pontificia àll’Episcopato francese; ma naturalmente la base è già fissata...
« Del. resto si prepara attivamente una scelta di nuovi vescovi fra gli abbés pro-pugnatori del « ralliement »; onde nei circoli democristiani si dà per imminente là nomina vescovile degli abbés Thel-lier de Poncheville, Desgranges ed altri; mentre al ben noto prete deputato Lcmir è ormai assicurata una seria preponderanza nelle questioni politiche religiose della Francia ».
Non sappiamo fino a che punto siano esatte le informazioni del Corriere del Parlamento, che però dispone di ottime fonti di informazioni vaticane.
Pa parte sua la Corrispondenza, agenzia romana di cui sono noti gli stretti rapporti con la Segreteria di Stato, scriveva retemente:
» Alcuni giornali stranieri insistono nel-raffermare che la Santa Sede invierà prossimamente a Parigi un relatore allo scopo di trattare la ripresa delle relazioni diplomatiche tra il Vaticano e la Francia. Crediamo di sapere che la Santa Sede non invierà in Francia, con missioni di tal genere, alcun prelato fino a che le relazioni diplomatiche con la Repubblica non siano regolarmente riprese. È vivo desi; derio di tutti i cattolici che la ripresa di regolari rapporti diplomatici sia, nel più breve termine possibile, un fatto compiuto, ma è evidente che il Vaticano non potrà, non ostante tutta la sua buona volontà, addivenire all’invio di un suo incaricato in Francia, se non quando la Francia avrà deciso l'invio di un suo rappresentante ufficiale a Roma. È, infatti, consuetudine diplomatica che i due avvenimenti si svolgano contemporaneamente, con la forma di uno scambio ».
. Ciò conferma quanto scrivemmo nel numero passato: se rinviato pontificio non andrà subito a Parigi fervono però le trattative per una prossima ripresa di relazioni ufficiali tra la Francia e il Vaticano.
L’allontanamento di Clemenceau ha anzi eliminato una causa di freddezza e di lungaggine nelle trattative, che hanno ripreso con nuovo vigore.
Trattasi soltanto di trovare la formula più opportuna, e chi per primo getterà la passerella...
IL VESCOVO DI
LUSSEMBURGO
Un sintomo di questo atteggiamento vaticano è quanto sta avvenendo per il Lussemburgo.
Infatti il piccolo Stato è uno dei punti di mira degli interessi politico-economici delIà-Francia, del Belgio e della Germaniai Per questo giuoco serrato tutte le pedine sono buone: quella del Vescovo è una delle migliori, data l’influenza di lui sulla popolazione cattolica del Granducato. Oggi quella sede vaca; e della successione di quel pastore spirituale si occupano molti interessi materiali.
Dunque, scartata per ora la influenza tedesca, la quale ha subito anche in Vaticano una notevole eclissi, 1 due interessi — e perciò i due candidati scesi in campo — sono il francese ed il belga.
Il cattolicismo politico del Belgio sperava di far accettare dal Papa il proprio candidato, in vista del fedele mantenimento dei rapporti diplomatici col Vaticano. Inoltre la criticissima situazione del partito cattolico belga, dopo le ultime elezioni, esigeva un successo diplomatico del partito stesso pei- rialzarne le sorti. Ma, a sentire l’organo cattolico La Nalion Belge, i titoli di Bruxelles sono battuti da quelli di Parigi. Difatti uno dei « desiderata » del Governo francese è che il Vaticano scelga per Vescovo di Lussemburgo il candidato accetto alla Francia. E tutto fa credere che la politica vaticana accederà anche a questo.
Infatti la Nalion Belge aggiunge: «Il Vaticano, nominando un vescovo belgofilo, arrischia di scontentare gli ambienti ufficiali francesi; e voi confesserete che non è questo il 'momento, quando si lavora con tutte le forze a Roma ed a Parigi per riannodare le relazioni diplomatiche, fra la Santa Sede e la Repubblica. Voi mi direte che forse così v’è il rischio di dispiacere al Belgio; ma la Santa Sede conosce la fedeltà a tutta prova dei cattolici belgi • — mentre (sembra dire il buon cattolico belga) a Parigi...
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Ciò naturalmente ha scontentato i cattolici del Lussemburgo, i quali tra il I>elga ed il francese vorrebl>ero scegliere il... lussemburghese.
Infatti ail nostro clero, esclama il f.uxemburger Worl, non è nè belgofilo nè lìclgofobo, non è nè francofilo nè francolobo: esso è cattolico e luxcmburghese. Dunque il futuro Vescovo deve essere cattolico e luxemburghese. Nessuna inri senza straniera deve intromettersi in tale faccenda... ».
Ma l'autodecisione dei popoli non ha fortuna, evidentemente, nemmeno in Vaticano.
IL P. P. I. E GU SCIOPERI RECENTI
In questi primi mesi della nuo\a legislatura non si può dire che l’attività parlamentare del Partito Popolare Italiano abbia brillato per chiarezza di direttiva, o semplicemente abbia avuto una importanza notevole in un qualsiasi senso.
Perdura, anzi si è accresciuto, quel confusionismo, quell’invincibile carattere di eclettismo c di improvvisazione che ha accompagnato 1) Partito Popolare Italiano fin dai suoi primi passi.
Se nell’ordine ideologico siamo ancora a* questo, che quando non si professa agnostico, il P. P. I. in materia religiosa ripete a fior di labbia le formule dei catechismo, ed in materia politica il popolarismo ed il dottrinarismo della democrazia secolina di trent’anni fa. nell’azione .pratica il Partito pare esclusivamente preoccupato di non compromettersi in nessun senso, ed intanto far pagare caro, più caro che può. giorno per giorno, il peso politico del numero dei suoi membri alla Camera e nel paese, per ottenere qualche concessione da agitare poi come un grande trionfo. Nessuno dei suoi oratori alla Camera ha pronunciato un qualsiasi discorso che contenesse qualcosa di nuovo, una indicazione qualunque. Unico tentativo in quello del Crispolti, che •parlò in una delle prime sedute, pronunciando un’omelia accademica, che deluse quanti si aspettavano qualcosa di meglio dalla coltura del fine conferenziere, nella 3uale tentò di spiegare le ragioni d’essere el cattolicismo politico, ma non riuscì a dire se non i luoghi comuni dei clerico-moderatl, sconcertando visibilmente anche i suoi compagni di gruppo.
All’infuori di questo tentativo, le altre sedute sono state caratterizzate da inci
denti personali e polemici per quanto rumorósi, altrettanto di scarsa importanza.
Così la condotta tenuta durante gli scioperi da parte del P. P. I. è stata quanto mai equivoca. Sembrò ai dirigenti il Partito che fosse quella una buona occasione per mettere al servizio del Governo la forza delle loro organizzazioni, facendo pagar caro questo servizio, e sperando, evidentemente, che le organizzazioni socialiste uscissero battute dallo sciopero. Grande armeggio nei corridoi ministeriali, un gran salire e scendere per le scale di Palazzo Braschi da parte dei dirigenti il Partito, con o senza sottana.
Ma tanto affannarsi non ha servito in fondo che a dimostrare la quasi nessuna efficienza di quelle tanto strombazzate organizzazioni sindacali, e l’eccessivo zelo ha evidentemente seccato e messo nell’imbarazzo lo stesso Governo.
L’on. Miglioli invece espresse la sua solidarietà e simpatia verso gli scioperanti, ciò che ha dato luogo a qna polemica vivace, che ha dato modo anche ai profani di accorgersi delle correnti che, sotto l'apparente bonaccia, agitano le acque più profonde del Partito.
Dopo le prime ammonizioni contro Miglioli da parte del Corriere d'Italia, è venuta la volta del Popolo Nuovo, organo ufficiale del Partito, che nel numero del 7 febbraio avvertiva che « Fon. Miglioli ha dimenticato che la Confederazione Italiana dei Lavoratori emise un ordine del giorno recisamente contrario agli scioperi politici. L’on. Miglioli riconosce che lo sciopero ferroviario era politico, anzi più che politico, perchè ravvisava in esso uno degli effetti irresistibili della rivoluzione che già è in moto e in funzione, ma ciò non ostante egli dichiara di aver solidarizzato oggi con i ferrovieri, come ieri con i postelegrafonici scioperanti ».
E dopo alcuni altri rilievi, l’organo del Partito concludeva:
« Rileviamo per oggi questi dati di fatto: Fon. Miglioli dovrà evidentemente chiarire il suo atteggiamento dopo queste categoriche constatazioni ».
In risposta a questi richiami all’ordine. Fon. Miglioli ha indirizzato il giorno 13 febbraio una lettera al direttore <te\V Italia, nella quale è gustosissima la lezione che egli dà al soverchio zelo ministeriale del P. P. I.
« Non polemizzo su tutte le dicerie e menzogne pubblicate in questi giorni a
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mio riguardo da giornali anche nostri, perfino dal Popolo Nuovo: non me ne curo e quasi sarei tentato di passar oltre su tutto il resto, perchè prevedo che ira non molto tempo, com’è avvenuto per la mia condotta politica durante la guerra, i miei accusatori riconosceranno il loro torto. Sì: ho giudicato lo sciopero dei férrovieri in un modo un po’ diverso dagli altri, anche dai nostri organismi operai; non sciopero politico nel senso comune della parola, anzi sciopero sintomo di un « più grave fatto rivoluzionario che è già in mòto e in funzione nella vita dello Stato», e ciò per una legge naturale e storica : sciopero che aveva per base talune domande di giustizia per una numerosa classe di lavoratori, il che spiega l'adesione larghissima del personale ferroviario: sciopero che, se rifletteva un importante servizio pubblico, non poteva per questo soltanto dirsi illegittimo e delittuoso agli effetti evidentemente del famoso art. 56.
« Ecco in massima ciò che io ho scritto, ecco il mio reato... di pensiero nel quale la questione della disciplina — per carità! —- non entra, ammenoché non vogliamo passare tutti per scemi o per forca-iuoli! Ebbene; a pochi giorni di distanza invoco un’assoluzione... ministeriale. Farà dispiacere a qualche amico affetto da mi-nistèrialismo, ma è così: parla il presidente del Consiglio al Senato: si aspettava la deplorazione dello sciopero ferroviario, la decisa, parola che infamasse gli scioperanti, come rei di lesa patria.
« Nitti è stato invece superato nel suo ministerialismo dallo zelo dei miei critici, giacché egli ha osato scatenare, in confronto con un senatore che forse è del gruppo del P. P. T., certo ne è simpatizzante, quanto segue:
■ i° Kart. 56 non si applica nei casi di un’intera collettività: del resto questa materia deve essere nuovamente considerata dal punto di viste dello Stato (ah. la smor
fia dell'illustre collega Meda, il quale pubblicava per la circostanza i più devoti articoli in omaggio al dio Stato). Alcune delle sue funzioni sono sovrane, altre hanno carattere semipubblico, tanto che in molti paesi sono esercitate da privati (precisamente come le ferrovie) ed altre finalmente sono di carattere privato;
« 20 nelle domande dei ferrovieri vi era una parte di giustizia c lo sciopero aveva colore politico in senso molto limitato ».
Miglioli si sofferma poi a deplorare la condotta tenuta verso di lui dagli organi del Partito e conclude dicendo: io posso « guardare in faccia tutti questi fariseismi, come ho fatto durante la guerra, non sole perchè forte di un lungo passato nel lavoro di organizzazione che non ’intendo di rinnegare, ma perchè poi mi assiste la coscienza di aver agito anche in questa circostanza come doveva un galantuomo, il quale parli alle masse operaie la parola della -giustizia e sappia altresì tradurla ¡n pratica in ogni momento, sia pure attraverso lotte e sacrifizi! »
Ci siamo indugiati sull’episodio Miglici! perchè è una delle poche circostanze in cui il Partito sia stato costretto ad uscire dall’equivoco in cui ama mantenersi, e Ssrchè sono queste le prime avvisaglie i una lotta che certamente sarà combattuta nel Congresso nazionale del Partito che s> terrà in Napoli nei primi di aprile.
Riuscirà Don Sturzo a tenere unito il Partito, anzi a impedire semplicemente che Meda non prevalga su Miglioli, nè Miglioli su Meda? E ciò che non si può prevedere.
Qualora pero non si chiarissero le reciproche posizioni, il Partito potrebbe sì mantenere il suo equilibrismo attuale, ma la sua resterebbe soltanto una forza di inerzia nella vita nazionale.
Quinto Tosatzi.
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STUDI BIBLICI
La tradizione letteraria ebraica. — Con un volume intitolato Letteratura e Tradizione (Littérature et Tradition. Ginevra. Georg, 1919; pp. vm-424 in-8°, L. 14) l'israelita H. Harari, professore nella scuola liceale ebraica di Giana, intende d’inaugurare una serie di studi su 1’ aggadàh », ossia, sulla « tradizione ebraica » da lui presa nel significato ampio di trasmissione orale e scritta, popolare e letteraria. Di tal guisa, egli prende e tratta la Bibbia come collezione di testi della tradizione popolare e letteraria del popolo ebreo, dall’età dei Patriarchi fino a quella degli Scribi; e quindi questa sua opera può dirsi una introduzione sui generis alla lettura dell’Antico Testamento.
La letteratura scritta in ebraico — egli dice — rappresenta la mentalità e la psicologia nazionale d’Israele dalle origini fino ad oggi. Errano coloro che pensano morta la lingua degli Ebrei e la loro letteratura cessata dopo la Bibbia. La lingua ebraica vive perenne dal tempo dei « Giudici », in che fu composto il cantico di Debora, sino al tempo nostro, in cui fioriscono i carmi del grande poeta Bialik. E con la lingua, che serba pur sempre la fisionomia originaria, naturalmente vive anche la letteratura, testimonio e custode delle memorie e delle aspirazioni nazionali d’Israele, errante sulla faccia della terra ma eternamente uguale a’ padri suoi. Di questa vita più volte millenaria la Bibbia rappresenta un’epoca con fasi diverse. A norma di questa concezione il prof. H. non può rassegnarsi a tollerare l’idea cristiana
che scorge nel « Testamento Antico • una Sarazione al « Nuovo • ; egli quindi la ia come una superstizione teologica che inquina tutta l'opera dei moderni critici cristiani, quali un Wellhausen ed altri di ogni scuola!
Nella prima parte del libro (pp. 3-179) sono trattate alcune questioni d’indole generica; cioè, si cerca che sia propriamente e che valga la tradizione nella vita spirituale dei popoli.
Si suole confondere — egli osserva — la tradizióne con la religione; particolarmente quando si parla d'Israele. Si definisce la tradizione come la trasmissione orale di una dottrina religiosa rivelata, fino al momento in cui è fissata letterariamente: così non si vede che un aspetto della realtà storica. 0 La religione, che da’ suoi pretesi rappresentanti dicesi rivelata per mezzo di organi immediati di Dio, non è se non una parte della tradizione. Questa comprende tutto ciò che, consciamente o inconsciamente, sgorga dal seno di una nazióne: così la tradizione apparisce come cosa misteriosa e divina, come la vera e la sola rivelazione nazionale » (p. 7). A nostro avviso, qui gioverebbe ripetere il savio detto: chi troppo abbraccia, nulla stringe!
Quanto alle origini della tradizione « popolare », il prof. H. dà saggio di molta erudizione, accennando alle varie teorie immaginate dai moderni folkloristi per darne ragione in modo plausibile. In sostanza, la tradizione è figlia dell’immaginazione popolare, creatrice spontanea di miti, di leggende e di novelle: il mito è la scienza primitiva; la leggenda è la poesia della storia; la novella è il romanzo del volgo.
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Da questa « triplice - attività fantastica dello spirito umano sarebbe derivato, presso Israele come presso qualsiasi popolo antico, il patrimonio delle sue tradizioni; le quali naturalmente recano anche l'impronta « triplice » della razza, del luogo e del momento, in cui vennero alla luce. A parer nostro, qui fa a proposito la saggia parola dell’agnostico poeta latino: « lelix qui potuit rerum cognoscere causasi » Però riconosciamo volentieri come giuste le osservazioni contro l’abuso di analogie praticato dai fautori dei vari sistemi; con ognuno dei quali, a sentire chi lo professa, si spiegherebbero i miti, le leggende e i racconti popolari di tutte le nazioni. Parimenti lodiamo la nota di biasimo ai mitologi, agli etnologi, ai panbabiionisti ed altri che « spesso mutilano, storpiano o frantumano i testi biblici, per mettere in rilievo l’ipotesi da essi adottata» (p. 92). A questo riguardo sono particolarmente notevoli le osservazioni contro le esagerazioni dei folkloristi nel campo biblico. Ad esempio, alcuni hanno preteso di trovare nella circoncisione un residuo del culto fallico presso gli ebrei, basandosi su due versetti dell’Esodo IV, 24-26. Il professor H. con ragione fa notare che, traducendo la voce ebraica chathan danti tn per «fanciullo circonciso» si rispettano la grammatica, la tradizione rabbinica, il buon senso e anche il buon costume di sopra più!
Nella seconda parte del libro (pp. 180-407) l’A. esamina propriamente il campo della letteratura ebraica, biblica e talmudica. L'idea sua predominante è che il genio ebraico si manifesta precipuamente nella leggenda, ossia, nelVaggadàh: in essa è «t tutta la storia d’Israele; tutta la sua anima, con la gioia e il dolore, con la speranza e là delusione » (p. 402). Egli trascorre tutti gli Scritti della Bibbia ebraica per ricercarvi il carattere e i fiori letterari deU’oggaddA. Ciò facendo l’A. spesso urta contro le norme e le deduzioni della moderna critica biblica; alla quale consacra un capitolo (pp. 249-234) in tono di requisitoria. Egli sembra dimenticare che qualsiasi libro, sacro o profano, può essere studiato sotto diversi aspetti ugualmente legittimi. L’analisi critica della Genesi, per esempio, per rintracciarvi le diverse fonti o stratificazioni della tradizione, non toglie la possibilità di conoscere c di far conoscere la bellezza letteraria e la genialità artistica delle leggende genesiachc: in proposito il nostro A. ricevette, in anticipo, una smentita dal celebre Íroí. Gunkel commentatore della Genesi.
on ciò non vogliamo affermare che il Scoi. Harari non abbia un po’ di ragione.
tuesto suo libro, ricco di erudizione, scritto con calore e con abilità non era del tutto superfluo.
I miti Sumerlani. — Un cinquantanni fa si apprendeva, non senza maraviglia, che la narrazione biblica del Diluvio è simile a un racconto babilonese, trasmesso ai posteri su pezzi di argilla che, nel secolo settimo avanti Cristo, costituivano la biblioteca di Assurbanipal. I dotti assirio-logi intuivano che il racconto babilonese proviene da un’età molto più antica di quella in cui visse quel re; ma di ciò non potevano allora fornire una prova tangibile. In appresso furono scoperte tavolette cuneiformi risalenti alla metà del secondo millennio a. C., e poi altre anche più antiche, cioè del terzo millennio a. C.: queste ci portano al tempo in cui nella Babilo-nidc fioriva la civiltà dei Sumeri essi pure semiti, predecessori dei babilonesi. Dalla collezione di così antiche tavolette, conservate presso l’Università di Pensilvania. pochi anni or sono il prof. S. Langdon, professore dell’università di Oxford, trasse e tradusse in inglese un nuovo testo in cui, a suo avviso, trovasi la prova che i Sumeri già possedevano non solo la leggenda del Diluvio, ma anche quella del Paradiso terrestre e del Fallo dell’Uomo. Quel suo lavoro, emendato, testé fu pubblicato nella traduzione francese con il titolo: Le Poème Sumérien dit Paradis du Déluge et de la Chute de 1‘Homme (Parigi, Leroux, 1919). Il testo che il L. si accinse a interpretare è irto di difficoltà; quindi non fa maraviglia che altri assiriologi, per esempio il prof. Jastrow, non consentano in tutto con lui. Certo è che i primi racconti della Genesi sono in relazione con leggende semitiche antichissime, ma non si può affermare con certezza che questo testo sume-riano contenga proprio tutto quello che il valentissimo prof. Langdon crede di dovervi scorgere.
Questioni cronologiche. — Si legge in I Re, (> 1 che Salomone imprese a costruire il Tempio di Gerusalemme l'anno 480 dal1’esodo degl’israeliti dall’Egitto, che era il quarto del suo regno. Se non che, esaminando c sommando le date notate al-
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TRA LIBRI E RIVISTE
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trove nella Bibbia, riferentisi all’epoca da Giosuè a Salomone, non si giunge a comporre la cifra di 480 anni. Per questo, come pure tenuto conto dei metodo accertato in altri luoghi, i critici congetturano che in detta cifra rotonda debbasi cercare, anziché la precisa indicazione cronologica, la significazione ideale del fatto tanto notevole, qual fu l’edificazione del santuario destinato a divenire il centro unico del culto di lahvé. Si suppone, quindi, che quella notizia cronologica sia stata introdotta nel testo primitivo da un pio scriba desideroso di dare maggiore rilievo a quell’avvenimento, collocandolo nel mezzo dell'epoca che va dall’uscita dall'Egitto al ritorno del popolo eletto dall’esilio babilonese. Cioè, egli avrebbe noverato 24 generazioni della durata di 40 anni ciascuna; e ne avrebbe assegnato 12 all’età tra l’uscita dall'Egitto e la fondazione del Tempio; e 12 all’età tra il primo e il secondo Tempio, riedificato in Gerusalemme da’ giudei reduci da Babilonia; moltiplicando 12 per 40 si ottiene la cifra di 480. Circa questo problema di cronologia biblica ci sembra degno di nota uno studio del prof. A. Cam-pert pubblicato in Revue de Tbiologie et de Philosophic (n. 24, an. 1917) di Losanna. Egli analizzando il libro dei Giudici a norma della moderna teoria critica rintraccia le indicazioni cronologiche desiderate per comporre la cifra di 480 anni da Giosuè a Salomone. La natura di tale ricerca non consente di esporre in poche righe il processo seguito dal prof. G. il quale, però, ammette altresì il carattere simbolico di quella cifra. Il tentativo ci pare molto ingegnoso.
Ne) periodico londinese The Expositor (novembre 1917) leggemmo un articolo di G. Mackinlay inteso a peisuadere che la nascita di Gesù avvenne l’anno 8 avanti l’èra volgare. A sentire il M. la questione del censimento della Giudea di cui parla il Vangelo di Luca (capo 2, 2), si dovrebbe «lire felicemente e definitivamente risolta. Vero è che. la voce greca ivi usata, e anche in Atti 5, 37, è proprio il termine con cui si soleva ufficialmente designare il censimento governativo, come risulta dai papiri egiziani. Ma, al dire del M., se si pone il censimento della Giudea nell’anno 8 avanti léra volgare, tutto è chiaro giacché allora Cirinio era in Siria come governatore militare, mentre Senzio Saturnino aveva in quella provincia le funzioni civili, ecc. Noi crediamo che la questione
anche dopo le vantate indagini dell’archeologo W. Ramsay, rimanga al punto di [rima, cioè insoluta, e forse insolubile.
’anno 4 av. l’èra volgare rimane sempre • la data più verosimile per fissare la nascita di Gesù.
La teologìa e la religione di Paolo. —- Già f taluni studiosi di esegesi neotestamentaria, tra i quali particolarmente il prof. Kirsopp Lake, avevano manifestato al colto pubblico di lingua inglese la loro propensione verso la nuova scuola « storico-religiosa » tedesca, che vuole interpretare il Nuovo Testamento, e specialmente la dottrina paolina, con il criterio prevalente degl’in-ilussi ellenistici anziché giudaici; ma fino a qualche anno addietro la letteratura biblica inglese non aveva una pubblicazione dedicata all'applicazione integrale dei placiti di detta scuola. Si assunse un tal compito il prof. G. Morgan, insegnante di teologia a Kingston (Canadà), raccogliendo in un volume certe sue conferenze (« Kerr Lectures, 1914-1915 -) su « la teologia e la religione di Paolo» (The Reli-gion and Tbeology of Paul. Londra, 1917); m cui indaga l’origine e interpreta la significazione del pensiero teologico c religioso dell*Apòstolo alla luce dell’ellenismo coevo. 11 volume, di circa 300 pagine, consta di due parti: 1® Redentore e Redenzione; 2° Vita e Salvezza. La trattazione è condotta con genialità di metodo e con molta lucidità.
l^rimieramente il M. addita l’idea fondamentale della mentalità religiosa di Paolo nella visione di due Età del, genere umano; che è una dottrina insegnata nella letteratura giudaica chiamata « apocalittica ». Se non che Paolo, distaccandosi dal Giudaismo, « in certo modo fa principiare l’età nuova con la morte o piuttosto, con la resurrezione di Cristo • (pagina 14). Inoltre P. trasforma il dualismo apocalittico in quello psicologico, che è contrasto tra la « carne «e lo » spirito E il M. accetta la sentenza che Paolo abbia derivato daH’Ellenismo il concetto della radicale corruzione, e quindi dell’impotenza alla salvezza, della « carne ■; però nega trovarsi in P. la dottrina che il principio del male morale sta nella materia.
Passando a dire della « persona di Cristo », il M. fa notare che l’Apostolo nel suo epistolario non ha che rari accenni alla vita e alla predicazione di Gesù; ma, invece, «concentra tutta l’efficacia reden-
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trice nella di L-ui morte e resurrezione ». Soggiunge che « trovasi fuori dell’orizzonte paolino il pensiero che Gesù, mediante là sua vita e la sua parola, abbia recato un nuovo ideale morale, e un nuovo concetto del divino amore e perdono • (p. 35). Quanto al dogma cristologico, il M. sostanzialmente accoglie la teoria propugnata dal prof. Boussetnel famoso libro Kyrios Chri-stos (Gottinga. 1913); di cui fu già fatta menzione nelle note di questa cronaca. Il culto di Cristo si dovrebbe reputare come un fri tto spontaneo della coscienza cristiana primitiva in . contrasto con il inondo ellenistico, in cui fiorivano le religioni orientali divinizzatrici degli eroi.
Per ciò che riguarda la * redenzione della Legge », il M. ne esamina il significato partendo dalla dottrina profetica; e afferma che nel pensiero dell’Apostolo si riduce alla « certezza gloriosa che nò la legge nè la retribuzione è la suprema realtà nell’universo, ma bensì l’amore e la misericordia; c che il Dio nostro è un Dio il quale perdona e si cura della nostra salvezza ». Ciò posto, il Vangelo della redenzione dalla Legge, ridotto alla sua essenza, ancor oggi è vero come quando per la prima volta fu annunciato - (p. 95).
La seconda parto del volume incominciava con l’indagine della « mistica » pao-, lina. Il M. trova che l'Apostolo si è appropriate varie idee ellenistiche; ad esempio, il concetto dell’unione mistica del cristiano con il Redentore, espresso con la frase • morire e rivivere in Cristo »; poiché qualche cosa di analogo s’incontra nel linguaggio dei culti pagani. Parimenti egli scorge l influsso della religiosità ellenistica nella concezione paoli na dello slancio o conato mistico (« mystical strain », p. 124) dell’anima verso Dio. Circa la dottrina della giustificazione e della morale rinnovazione del cristiano per via della fede il M. si diffonde in considerazioni che chiariscono il significato etico del pensiero paolino. Non senza maraviglia si osserva che i) M., pur così propenso a scorgere in Paolo le influenze dei culti pagani, le nega là dove sembrano a molti, oggi, più visibili, cioè nella dottrina sacramentaria: in questo caso il M. che appartiene alla confessione presbiteriana, vuole restare fedele alla teoria dei semplice simbolismo nei riti sacramentali: Battesimo e Santa Cena. Non pochi esegeti protestanti, al presente, si acconciavano all’idea, propugnata della chiesa cattolica
romana, che Paolo insegni l’eflicacità sacramentale ex opere operalo. La quale idea, appunto, sembra che fosse un elemento essenziale nelle religioni dei « misteri » pagani. . , .
Finalmente il M. ricerca il contrasto tra la forma deH’insegnamento religioso e morale di Gesù da una parte e le categorie teologiche della dottrina religiosa di Paolo dall’altra. Inoltre, insiste sulla cristologia Eaolina come cosa estranea al pensiero di osò « che non fondò il culto del Cristo, nè mai propose sè stesso come oggetto di culto » (p. 256). Gesù non seppe nulla, secondo il M., intorno alla sottile dottrina teologica di Paolo su la redenzione dell'uomo dal giogo della Legge e dal peccato connaturato all’umana carne; Gesù non parlò del Cristo preesistente e creatore del mondo, nè del Cristo mediatore tra Dio c l’uomo; Gesù non conobbe nè la dottrina della giustificazione per la fede nel «Redentore, nè il misticismo di Paolo. E come le categorie deH’Apostolo teologo si rivelano aliene-dal pensiero religioso di Gesù, cosi sono ormai divenute estranee anche alla nostra mentalità moderna. Nondimeno l’essenza della religione insegnata da Paolo, che non è costituita di concetti della costruzione teologica, religione della fede operante con amore, è ancora e può rima-/ nere sempre la nostra.
Come abbiamo accennato, la trattazione del M. è orientata, poche cose eccettuate, verso la scuola che interpreta Paolo sotto l’influsso della religiosità pagana. Ma è altresì caratterizzata dalla « moderna » distinzione tra teologia e religione, la quale distinzione è forse più legittima e più accettabile, fino a un certo punto, che non la teoria degl'influssi ellenistici in larga misura sul pensiero paolino. talora congetturati sul fondamento di oscura e vaga analogia di linguaggio.
Il problema del quarto Vangelo. — Cosi è intitolato un volumetto {The problem of thè fourth Gospel. Cambridge, University Press, 1918; pp. xvj-xyo in-8°) di H. La-timei Jackson, professore a Cambridge; il quale in una pubblicazione già si era occupato delle questioni circa l’autore e il valore del quarto Vangelo, suscitate dalla moderna critica specialmente in Germania.
L’autore'del quarto Vangelo, secondo il prof. T., non è Giovanni, figlio di Zebcdeo:
poichè mori ben presto a Gerusalemme, martire come l’apostolo Giacomo. Si ignora e forse per sempre, chi sia il « discepolo
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prediletto » di Gesù, a cui una frase del vangelo stesso accenna per attribuirgli la paternità dell’opera. Egli era un giudeo, ellenisticamente colto, dimorante a Efeso. Dalla sua penna, però, al dire del prof. ]., non uscì tutto quanto il Vangelo giovanneo com'è giunto a noi. Non solo il capo finale, il racconto dell’adultera e il cenno intorno all’angelo agitatore della prodigiosa piscina (addizioni riconosciute da molto tempo), ma anche non pochi nò brevi passi qua e là sarebbero stati introdotti da un altro scrittore:*eiò il J. vuole dedurre, su l’esempio di taluni critici recenti, dall’esame interno del libro; Scorgendovi divergenze c incoerenze. Quanto al carattere di questo Vangelo il professore J. non nega che sia allegorico anziché storico, ma crede che per certe cose (per esempio la data della morte di Gesù) contenga dati storici. Il quarto Vangelo ha un valore perenne nella storia e nella vita della coscienza cristiana perchè interpreta divinamente la persona del Cristo. E il prof. J. pur non volendo accettare integralmente l’interpretazione teologica del Cristo, che vi si trova, scorge nel quarto Vangelo un prezioso documento e strumento della fede cristiana nel mondo antico e moderno.
Tra la religione sacerdotale e quella profetica. — Nel periodico inglese The Nine-lecnthtCenlury (an. 1919, pp. 287 ss.) leggiamo un articolo intitolato: « Religione sacerdotale e profetica ». È notevole, non per erudizione nè per l'annuncio di qualche scoperta nel campo biblico, ma bensì perchè scritto da un dignitario della Chie
da d’Inghilterra, il vescovo di Carlisle. Il Vecchio Testamento, egli dice, ha due concezioni religiose distinte e anche opposte: l una sacerdotale, l'altra profetica. Nel Nuovo Testamento svanisce la concezione sacerdotale, e non serba che un punto di contatto con il Cristo della teologia, rappresentato come sommo sacerdote eterno. Ma il Cristo, non è dipendente dalla tribù sacerdotale, bensì .da quella di Giuda, tribù regale. Nei Vangeli si dà il nome di maestro c di profeta a Gesù, non però quello di sacerdote. Neppure il cristianesimo apostolico conobbe sacerdoti: Paolo nomina dei presbiteri (anziani) ma non dei sacerdoti. Ciò detto, FA. brevemente addita le caratteristiche di queste due concezioni della religione; e nel sacerdozio come casta, e come operatole privilegiato e quasi magico di cose e di grazie spirituali egli scorge un residuo dell’ebraismo e del paganesimo, ■ un elemento distruttore e corrompitore della religione cristiana • (287) che è e dev’essere profetica, cioè interiore, etica e mistica. L’articolo ha scandolezzato il signor D. C. Lathbury. e probabilmente molti altri dell’Alta Chiesa d’Inghilterra. Nella stessa rivista egli (pp. 700 ss.) cerca di confutarlo; ma forse la cosa più seria che vi si legge è il richiamo alle solenni parole rituali che sono state Ì>ronunciate sul capo del Vescovo di Car-isle, mentre veniva ordinato diacono, parole che costui come vescovo ripete varie volte ogni anno sul capo di altri: una minaccia di divino castigo a coloro che deviano dai loro doveri.
r. e p.
FILOSOFIA POLITICA
III;
La polìtica. — Al concetto di politica (arte e scienza) dedica un interessante studio Giuseppe Maggiore (¿a politica, O. Fiorenza, editore, Palermo, 1920). Per chiarire quel concetto egli muove dall’idealismo attuale. La politica è attività; la scienza politica è l’autocoscienza di questa attività; l’oggetto di questa, che sarebbe una società o uno Stato, realtà e cosa fuori del pensante, sono risolte
nella stessa attualità dei pensiero il quale, a sua volta, non è pensiero solo, ma posizione di realtà, azione, creazione dell’io e del suo mondo, che è il mondo dell’universale e infinito spirito, e quindi anche la società e lo Stato e la storia tutta.
All’esposizione di questo punto di vista fondamentale il Maggiore dedica i primi due capitoli del suo lavoro.
Nel terzo egli cerca quale è il momento proprio della realtà in quanto politica; e lo
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■ìSFrìr
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assegna nel principio dì autorità. Autorità che non è più semplice comando del superiore al suddito, perchè l’uno e l’altro sono unificati nel soggetto-oggetto, nell’io il quale è concreta universalità. Accettare, volere la legge è fare la legge, conte accettare il superiore è costituirlo superiore ; poiché nessuna volontà umana può, a nelle nell’azione che sembra od è in parte imposta, cessare di essere volontà, cioè libera posizione di s& E questa autodisciplina, per la quale il meramente individuale, l’io empirico si'subordina alla spiritualità, è la stessa interiore costituzione dello Stato, attuazione di valori universali cioè, storicamente, nella molteplicità degli individui empirici cooperanti, sociali. L’autorità è quindi un valore, non un fatto; non è la volontà generale, nè la volontà della maggioranza, ma la volontà senza aggiunte, la sovranità dello spirito. Ed essa, e quindi lo Stato, è cosa che in tanto esiste in quanto si pone e si rin-nuova ad ogni momento ; processo, non cosa. Il soggetto, individuo o Stato, è, come diceva Hegel, la serie delle sue azioni.
Nel quarto capitolo il M. analizza l’individualismo anarchico e il sociologismo. Il primo non può essere in alcun modo confuso con questa dottrina; poiché l’individuo di Stirner e di ogni forma di anarchia non è quello che ha in sé l'universale o si afferma come spirito, come universa umanità; ma è l’io finito che si oppone agli altri e neganti© gli altri nega se stesso, capace di distruggere, non di creare.
La sociologia « guazzatoio dilettantesco di tutti i paperi positivisti » vorrebbe esser la scienza di una società che è dopo l’individuo e prima dello Stato e che, come tale, non esiste, è una pura astrazione, non realtà. E in quanto vuol costituire delle leggi della storia, la sociologia non è che vuota generalizzazione, su taluni pseudoconcetti, come territorio, razza, ecc. ; e in quanto queste leggi dovrebbero agire deterministicameate, all’in-fuori dello spirito, che è a sé la sua necessità e la sua libertà, uccide l’unità vivente, che è lo Stato, nella molteplicità dei particolari, insindacabili, e nega se stessa.
Anche il socialismo, quando pretende di negare lo Stato, non nega che un certo stato, quello che esso chiama borghese ; e quando pretende di ridurre tutto ad economia e subordina il concetto fecondo della prassi allo strumento, annulla il concetto stesso di società e di Stato, che è l’attività dello spirito suscitatrice di forme é di istituti sociali come espressioni dell’universalità immanente in esso. « Quello che rileva di effettivamente vivo nel socialismo marxistico, per cui esso, a diffe
renza di altri comuniSmi utopici, si è scavato un alveo profondo nella storia, e il concetto di lotta di classe, lotta per il dominio: il quale, per il solo fatto di essere un dominio, è sempre politico. La politica è la forma sostanziale di ogni specie di supremazia. E il cosidetto comuniSmo socialistico realizza in fondo un nuovo Stato, il proletario, chiamato a dare il gambetto a quello borghese».
Nel quinto capitolo il M. rimuove, alla luce di questa dottrina, talune delle più note antinomie. Quella fra individuo e Stato cessa dacché il secondo non è che lo svolgimento storico della personalità del primo, l’atto della universalità immanente in esso, e l’autorità coincide con l'autodisciplina. Quella tra forza e diritto è anche elisa dal superiore concetto che nel diritto vede la volontà aflermantesi come storia, cioè come posizione e potenzia-zione di diritto ; nè c’è forza umana vuota di diritto nè c’è diritto senza forza. Anche l’antinomia fra morale e politica cessa, dal momento che, rimosse alla radice tutte le distinzioni, la coscienza umana, in ogni suo agire, si pone come creazione di valori, cioè come eticità; l’amoralismo dei politici e l’apoliti-cismo dei moralisti sono angustie e limitazioni dello spirito, che solo agendo con tutta la pienezza di sè trova il bene, il suo bene.
Segue la critica del verbalismo; di talune formule astratte che hanno molto credito presso spiriti superficiali e sono deformazioni e mutilazioni della realtà, o dell’idealismo, die è la formula vera della politica ; la critica dell’opposizione fra Stato e Chiesa, che vale solo quando la Chiesa si fa Stato, ma non può sorgere dove la religione è interiorità che si attua nello Stato; è un capitolo conclusivo nel quale è riaffermata l’unità del reale, la filosofia come prassi e come storia.
Il valore degli ideali morali. — Nel numero di gennaio 1920 dello JJibbert Journal leggiamo una conferenza di Emilio Boutroux su questo argomento : (Huxley lecture for 1919 in thè University of Birmingham). C’è tutta una parte che indulge, polemizzando con una supposta filosofia tedesca che sarebbe il culto della forza e la soppressione dell’individuo nello Stato, e polemizzando quindi garbata-mente con l’empirismo evoluzionistico che il filosofo francese doveva supporre prevalente ne’ suoi uditori, a motivi temporanei e locali, e che pur non manca di interesse, perchè giova al B. per porre la questione nei suoi veri termini.
Gli ideali morali sono indubbiamente una forza nel nostro spirito al quale dettano la
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condotta più nobile e le azioni più generose. Afa sono essi anche una forza nella storia ? La storia, in altre parole — e non sono precisamente quelle che usa il B. — è cosa e creazione del nostro spirito, nel quale gli ideali morali sono valori operosi, od è fatto della natura, corso .di eventi naturali, necessità e svolgimento di posizioni esteriori date e di istinti umani dati, che va per la sua via, attua le sue leggi e si ride un poco de’ nostri ideali morali? Manifestamente, essa è l’una c l’altra cosa a un tempo. Ma allora, come si inserisce l’idea nella realtà, lo spirito nella materia, la libertà nella legge?
La stessa posizione |<lel problema mostra che il B. concepisce l’idea platonicamente. Ma egli non si adagia in questa posizione ; e nella ricerca di una più concreta e matura verità il suo pensiero diviene filosofia.
Innanzi tutto, egli dice, nè lo spirito è pura razionalità, imperativo categorico astratto da ogni motivo umano, dover essere che prescinde dalla contingenza e trionfa nella sua vuota priorità. I desideri, le emozioni, le azioni empiriche dell’uomo sono anche intrise di uno spontaneo desiderio di bontà e di ideale. Nè, d'altra parte, la realtà è quella cosa fredda e meccanica che la scienza ci suggerisce. La scienza è sempre artificio ; astrazione determinata da bisogni pratici, ipotesi e approssimazione. Eccellente nel cogliere il processo di dissoluzione e di tendenza airuniformità indifferenziata che è, pure, nella natura, essa è inetta a cogliere il processo inverso di evoluzione suscitatrice, di sintesi e di organizzazione viva ; questo le sfugge, nasconde una attività creatrice, un principio di vita e di contingenza al quale essa non può giungere.
Contaminazione quindi, diremmo, dello spirito nella realtà materiale e della natura nell’idea. Ma essa non toglie il dualismo e non risolve quindi la difficoltà, la quale è nell’in-tendere l’azione dell’uno sull'altro, se l'uno è fuori dell’altro, se sono due cose e fatti incommensurabili e totalmente distinti.
E qui viene la cauta risposta del B. ; un accenno, quasi una supposizione. « Idea e forza ■on esistono realmente nella forma che i nostri concetti raffinati attribuiscono ad esse. Esse sono, in realtà, unite iti una stessa cosa, ma questa primordiale comunità non può essere messa al pari con l’unità matematica che non ha interiorità ed e totalmente vuota. Al contrario, quella concreta unità contiene molte virtualità, come vediamo considerando quelle forme di essa che ci presenta un essere vivente. Questa vivente unità, in cui ogni membro può dirsi essere una unità in se stesso,
mentre la realtà individuale (dei singoli) è un tutto indivisibile, sembra essere il carattere della Trinità divina come è intesa dal Cristianesimo. Ma forza e idea che, al punto di partenza, erano una sola cosa, sono divenute, quando l'intelligenza si è ripiegata su di esse, chiaramente distinguibili e a lungo andare sembrano dividere il loro cammino così che noi non comprendiamo più come l’una possa avere influenza sull’altra. E tuttavia la loro comune origine le ha fatte per sempre correlative; e, per una sorte di comunicazioni che noi non possiamo vedere, segretamente continuano, e sempre continueranno, ad agire ¡’una sull’altra. Le leggi che noi assegniamo a ciascuno dei due dcminì, considerate a parte le une dalle altre, sono astratte ed inadeguate. Esse significano solo che tutto avverrà secondo la loro portata, se non vi sarà interferenza dell’un dominio nell’altro. Ma, in fatto, questa interferenza rimane sempre possibile, cosi che le nostre leggi astratte restano solo approssimative e’ contingenti. E il vero Jipo del reale resta così il Dio della religione in cui Idea e Potere, Verità e Realtà sono cosi unite che Egli esiste perchè la sua essenza è perfezione ed Egli realizza la perfezione in virtù del suo stesso esistere. Creato a somiglianza di Dio' l’uomo possiede una attività che è capace di realizzare le idee e concepisce idee che possano determinare la sua volontà e combinarsi con le condizioni naturali della vita ».
Le origini della formula « Libera Chiesa in libero Stato ». — Pochi sanno della attenzione intensa che Cavour diede allo studio del problema religioso, quale si presentava ai suoi tempi in Europa, e più specialmente in Italia, in ¡svizzera e in Francia. Benché il Ruffini, nei suoi varii lavori su C., ne abbia largamente scritto, e parecchi altri biografi di lui ne abbiano anche trattato, l’argomento varrebbe la pena di più accurate indagini, per uno studio ampio e definitivo. Lo studio che il dr. Zaccaria Giacometti dedica intanto alle origini della celebre formula nella quale C. espresse il suo pensiero sui rapporti fra lo Stato e la Chiesa merita di essere segnalato {Die Genesis von Cavours fornici: Libera Chiesa- in libero Sialo. Aarau, H. R. Sauer-lander & Co., 1919).
Premette il G. un’ampia esposizione dèlie condizioni dei rapporti fra Stato e Chiesa in Piemonte durante la restaurazione e della politica ecclesiastica di Cavour.
La seconda parte del suo studio risponde al titolo di questo. Era già noto che C. dovè il suo vivo interessamento per le questioni
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religiose alle sue parentele svizzere, i De Sei-lon e i De la Rive, ai frequenti viaggi a Ginevra ed a molto materiale di studio che zie e cugine zelanti gli procuravano.
In Ginevra, sulla fine del secolo xvm e il primo decennio del xix si era avuto un rapido sviluppo del calvinismo in senso liberale e razionalistico. Segui, anche per l'influenza di penetrazioni puritane metodiste dall’ Inghilterra, una vivace reazione di pietismo religioso a tipo individualistico- Uno dei motivi principali di questo risveglio religioso era la purificazione della Chiesa,, come società di anime cercanti nel culto l’intensificazione del loro rapporto personale con Dio, mediante il distacco di essa dallo Stato, il ritorno all’interiorità spirituale. Espressione tipica di queste tendenze furono due studii di E. Vinet : Mémoire en faveur de la liberti des cui les, 1S26; Essai sur la manifestation des convic-tions religieuses et sur la séparation de l’E-glise et de l'Elal, 1842.
Ampi ricordi della parte presa da Cavour alle discussioni delle quali questi scritti sono i più notevoli documenti ed alle quali partecipavano studiosi di grande valore, come quello Stapfer che C. dichiara il più competente conoscitore dello spirito religioso in Europa a quei tempi, sono nel diario e nelle lettere di C.
In un primo periodo, che va sino al 1833, il C., pure apprezzando altamente la dottrina e la tradizione cristiana, professa una specie di socinianismo e dichiara che la ragione riman sempre la sola possibile interprete dei documenti e delle direttive religiose. Più tardi egli si avvicina maggiormente a una interpretazione più ortodossa del cristianesimo, e dichiara che questo è di là della ragione, trova nella storia e nella coscienza prove e consensi suoi proprii.
Egli riman tuttavia fieramente nemico della superstizione che vede prevalere nella pratica cattolica del suo Piemonte, del clero e dei gesuiti. Questa avversione è in lui tanto più forte in quanto quel cattolicismo era strumento di reazione politica, mentre a Ginevra si respirava a pieni polmoni la libertà.
Ma le influenze ginevrine, sulle quali molto insiste il Ruffini, e che G. in taluni punti precisa, non bastano a spiegare la politica ecclesiastica di C.
I) pensiero di lui in materia accoglie elementi nuovi ed ha un forte impulso verso le espressioni politiche posteriori, come aveva già notato R. Murri nei suo C. {Profili, For-miggini), più tardi, a Parigi, quando nel 1S43 il C. viene in più immediato contatto con il
pensiero dei cattolici discepoli di La Mentíais. In particolar modo, in quell’anno egli frequenta un corso di lezioni tenuto dallo abate Cœur, insegnante di eloquenza sacra alla Sorbona.
La prima, specialmente, fa su di lui una impressione profonda e decisiva, della quale ci resta una eloquente testimonianza, che il G. riproduce a pag. 104, in una lettera del C. a Santarosa.
« L’abbé Cœur a proclamé hautement... l’alliance des principes catholiques avec le dogme du progrès social. Pour la première fois, j’ai entendu un prêtre, interprète officiel des doctrines de ses confrères, prêcher du haut de la chaire qu’il faut regarder en avant et non en arrière ; que s’il y a un juste, il y a pour le genre humain une réhabilitation qui se poursuit lentement, mais constamment à travers Les siècles à l’aide de la lumière divine que le Christianisme a répandu sur le globe, lumière qui grandit au lieu de s’affaiblir à mesure qu’elle se reflète dans l’intelligence de plus en plus développée de l’humanité. Les doctrines de l’abbé Cœur ont pénétré dans mon intelligence et remué mon cœur et le jour oit je les verrai sincèrement et généralement adoptées par L'Eglise je deviendrai probablement un catholique aussi fervent que loi ».
E nel 1844 scrive a Maurice Vetter, a Ginevra :
« Il s’opère dans le clergé catholique » — che lottava allora in Francia per la libertà di insegnamento — « une grande transformation en faveur des principes démocratiques. Le mouvement n’est pas secondé par Rome, ni par le Pape, qui craint l’influence des principes populaires dans ses Etats, minés de tous côtés par l’esprit révolutionnaire; malgré cela, il s’accomplit en Italie aussi bien qu’en France, en Belgique et en Allemagne. Le mouvement s’arrêtera-t-il? Ou bien, continuant à se développer, transformera-t-il la démocratie ou le catholicisme? C’est là le plus grand problème qui doive occuper les penseurs».
Questo fu il pensiero politico espresso da C. nella sua pràtica di governo e, in particolar modo, nei suoi discoisi del 1861 per la proclamazione di Roma capitale d’Italia. E forse, se egli fosse vissuto, avremmo avuto nei campo della politica ecclesiastica del nuovo regno d’Italia una iniziativa assai meno pavida e agnostica di quella dei suoi succèssoti ; ed il movimento che egli salutava con così calda speranza avrebbe avuto in Italia un meno lungo arresto.
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L’onestà politica. — Ne scrive B. Croce, nelle sue Postille politiche del n. 7, 1919, di Politica.
« Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell'onestà nella vita politica».
E dopo avere esposto scherzosamente « lo ideale che canta nell'anirtia di tutti gli imbecilli », un areopago di onesti uomini tecnici, i quali avessero tutti per fondamentale requisito la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e ricordato con esempi come spesso gli onesti sono rovinosi in politica, si chiede: Ma che cosa è dunque l’onestà politica? E risponde:
« L’onestà politica non è altro che la capacità politica; come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza, condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze.
« — È questo soltanto ? e non dovrà essere il politico, uomo per ogni rispetto incensurabile e stimabile? E la politica potrà essere esercitata da uomini per altri riguardi poco pregevoli ? — Obiezione volgare, di quel tale volgo, descritto di sopra. Poiché è evidente che le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politico, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere, ma non nella politica...
« — Ma no (si continuerà obiettando): noi non ci diamo pensiero solo di ciò, ossia della vita privata; ma di quella disonestà privata che corrompe la stessa opera politica, e fa che un uomo, politicamente abile, tradisca il suo partito o la sua patria; e per questo richiediamo che egli sia anche, privatamente e integralmente, onesto.
« — Senonchè non si riflette che un uomo dotato di genio o capacità politica si lascia corrompere in ogni altra cosa, ina non in quella, poiché in quella è il suo amore, la sua passione, la sua gloria, iì fine sostanziale della sua vita.
«Allo stesso modo che il poeta, per vizioso e dissoluto che sia, se è poeta, transigerà su tutto, ma non sulla sua poesia, e non si ac-concerà a scrivere brutti versi...
«— Ma se, nonostante l’impulso del suo genio, non ostante l'amore per la propria arte, cederà alla corruzione e farà cattiva politica ?
« Allora il discorso è finito, perchè siamo rientrati nel caso in cui la disonestà coincide con l’incapacità politica, da qualunque mo
tivo sia prodotta, virtuoso o vizioso, e in qualunque forma si presènti, cioè come incapacità abitudinaria e connaturata o intermittente ed accidentale.
« Anche il poeta geniale può fare, talvolta, per prezzo, versi senza ispirazione e adulatori; ma, in quel caso, come è chiaro, non è poeta ».
Non conviene scandalizzarsi delie formule di B. Croce. Egli ci ripresenta qui, in termini diversi, la sua divisione e distinzione dell’attività pratica in due momenti, l’economico e l’etico. E ogni momento dello spirito, trova la sua perfezione, la sua bontà, nella piena realizzazione di quello che esso è secondo il concetto suo; sicché la politica, attività pratica, economica, sarà perfetta politica quando sarà perfetta economicità, otterrà cioè pienamente l'intento suo pratico, che è la potenza.
Ma quello che esiste ed opera non sono i singoli momenti dello spirito, ma ¡‘uomo tutto intiero, con tutta la sua coscienza. Non c’è il puro artista e il puro filosofo, il puro politico o il puro santo, ma c’è l’uomo, lo spirito universale, attuale ed io concreto in quest’uomo, il quale agisce con tutto se stesso, pensiero e volontà. E la volontà deve essere sempre, per necessità trascendentale che diviene qui legge morale, volontà dell’universale (dello spirito che è universalità in atto) e quindi posizione di valori, eticità.
Le distinzioni del Croce, piaccia o non piaccia all’illustre filosofo, che mostra talora di amarle soverchiamente, hanno sempre bisogno d’essere superate nell’atto e di trovare nell’unità di questo la pienezza della verità e dell’essere.
Buon politico è l’uomo che costruisce lo Stato e il diritto e la potenza dell’uno e dell’altro come atto dello spirito, come pienezza di umanità, come interiorità (religione) che esteriorizzandosi si fa storia. ih.
Saint Paul, traduit sur le Grec et commenté - Paris. Imprimerie de la Cour d’appel, 1919.
Il Dottore alla Sorbona Sac. Alta, in questa traduzione del testo greco di S. Paolo. ai suoi pregi di interprete singolarissimo aggiunge quelli dell’csegeta. Si può dire anzi che nella sua opera —"certo labo-
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riosa e di lungo e paziente studio — le due sue qualità si fondano in una sola. Le sue note, i suoi commenti non si aggiungono al testo ma ne scaturiscono, sono lo stesso testo meditato, approfondito, e presentato ai lettóri con quanto vi scorse e vi sentì l'Autore.
Dico-: vi scorse e vi sentì, perché il lavoro dell’Alta non è solo di pensiero c di riflessione, ma anche di sentimento.
Si può star sicuri che un altro interprete, con altre disposizioni d’animo da quelle del dott. Alta, trarrebbe dallo stesso testo, almeno da molti passi dello stesso testo, ben altre conclusioni.
L’Alta ha recato nello studio sulle Epistole paoline, sì. molto rigore filologico, ma anche il suo corredo di convinzioni, care a lui come una parte di se stesso, e tanto più care quanto più (s’indovinerebbe se egli non lo accennasse qua e là) gli fruttarono ben altro che fortuna e favori.
È difetto questo?
Tutt’altro dal punto di vista della sincerità, e poiché la sincerità è bellezza spirituale, dal punto di vista della bellezza.
E non basta. Aggiungerei: e dal punto di vista della franchezza che lascia al lettore di ripensar lui, magari dissentendo, sia al testo, sia a ciò che ne ricava l’A.
I) commentario dell.'Alta non lascia e non può lasciare indifferenti. L'opera è personalissima e ogni opera ’personale intc ressa. Lo stesso tono di polemica a cui l'A. si lascia andare così spesso è elemento piacevole, che lega al libro c lo rende così vivo. Par di sentir parlare questo vecchio studioso di 78 anni e non di leggerne le pagine, sentirlo parlare coi suoi beaux mole, coi suoi frizzi agrodolci. Si finisce per volergli bene, anche con tutte le sue miti bizze contro gli administralifs.
Il testo tradotto dall'A. è quello dell’edizione del Tauchnitz di Lipsia.
Qui Quondam.
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Cu. Bastide. La Religion et les Eglises aux Etats-Unis. Pans, La Renaissance du livre. (Collection America) 1919.
Questo opuscolo fa parte di una '■ serie di dodici pubblicazioni della « Collection
America », la quale si propone di far conoscere più ampiamente in Francia l’America sotto tutti i suoi aspetti: sociale, politico. spirituale, religioso, letterario, ecc. Naturalmente si tratta di un'opera di divulgazione a veste piuttosto popolare, e * quindi non profonda, non essendo possibile attendersi un ampio esame della vita di una qualsiasi nazione in una serie di modesti opuscoli. Ad ogni modo però, a giudicare da questo che abbiamo letto, i vari volumetti non sono privi d'interesse e rispondono sufficientemente agli scopi degli editori.
Dal lato religioso, l’America é rappresentata da parecchie denominazioni cristiane, tra le quali le più numerose c combattive sono quelle dei Battisti c dei Metodisti, che rivelano una vitalità prodigiosa. Vengono poi i Presbiteriani, i Riformati, i Luterani, i « Discepoli del Cristo » ed altri, [.’insieme di tutti questi corpi forma un blocco compatto, erede dello" spirito pio ed attivo dei Puritani, ed affratellato nella . Federazione delle Chiese di Cristo » formata non molti anni addietro, il Comitato direttivo di tale Federazione si compone di 400 delegati e si riunisce ogni quattro anni; il Comitato esecutivo, invece,, si riunisce ogni anno, ed il Comitato amministrativo tiene seduta ogni mese. E un forte passo innanzi verso una sempre più stretta coopcrazione di tutte le denominazioni evangeliche. ,1a Federazióne si propone, dopo aver unito tutti i Protestanti di America. di associare in un organismo internazionale le principali comunità evangeliche di Europa ed Asia. Gli Anglicani, che formano un corpo non numeroso nè dotato di spirito evangelisti co, non fanno parte della sunnominata Federazione. Essi sono gli eredi dello spirito degli antichi dominatori dell’America. quando questa era una colonia inglese. Sono potenti ancora per ricchezza e per autorità, ma sono destinati ad esser respinti in seconda linea; mancando di spirito religiosamente aggressivo.
È interessante conoscere che le Chiese in America non solo non perdono molto tempo in dispute teològiche, dedicandosi specialmente all'attuazione pratica dei principi cristiani; ma spesso si occupano di problemi civili, industriali, sociali (senza far politica) e ovunque portano un contributo benedetto. Pei- ciò che riguarda le riforme sociali, per le quali le Chiese in America hanno collaborato e collaborano efficacemente, il Comitato della Federazione delle Chiese di Cristo ha pubblicato.
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TRA LIBRI E RIVISTE
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durante la guerra, un trattato ove sono enumerate le riforme più urgenti che le Chiese debbono esigere. Ne citiamo alcune: uguaglianza di diritti per tutti gli uomini, senza riguardo al colore della loro pelle o alla loro nazionalità; protezione della famiglia, mediante la riforma delle leggi sul divorzio; riconoscimento alle donne di tutti i diritti riconosciuti all'uomo; miglioramento delle case operaie; abolizione del lavoro dei fanciulli; ordinamento del lavoro femminile ed uguaglianza di salari per le donne e per gli uomini; soppressione dell’indigenza mediante una sovra-produzione ed una migliore ripartizione dei prodotti alimentari; protezione dell'individuo contro l'alcoohsmo; igiene dei lavoratori: protezione contro gl’infortuni sul lavoro e sorveglianza sui mestieri insalubri; pensioni operaie; salari adeguati; riposo settimanale assoluto...
Si comprende quindi perchè in America non esiste Vanticlericalismo', le Chiese non sono politicanti nè ingombranti — pur essendo vivacissime — ma esercitano una vasta e benefica azione sociale, ispirata alla fede cristiana. Non v’è nessun’altra istituzione in America che abbia compiuto tante opere culturali, filantropiche e sociali, quante ne hanno create le Chiese evangeliche ed in modo speciale quelle battista e metodiste.
Si leggono con interesse in questo volumetto anche le notizie, poco note in generale. che riguardano le sètte* speciali, non numerose, ma caratteristiche, come quelle dei Mormoni, dei Quaccheri, degli Avventisti ed altre.
I! Cattolicismo è bene organizzato ed anche numeroso in America; ma, se si ticn conto della grande emigrazione che vi affluisce dai paesi cattolici di Europa, si deve ritenere che il Cattolicismo in America perde un gran numero di suoi adepti che. giunti nei nuovo mondo, finiscono con l’essere assorbiti in buona quantità dalle Chiese evangeliche. Inoltre, il Cattolicismo non esercita un notevole influsso sulla formazione del carattere americano, ed ancora oggi la sua azione non si fa notare nè sui costumi, nè sulla politica, nè sulla letteratura di America.
Aristarco Fasulo.
Fr. Olgiaii - Religione e Vita - Milano, Soc. editrice Vita e pensiero.
Questo volume dell’operoso prete lombardo è il primo d'una serie di Saggi apologetici z cui ha posto mano la società editrice di Milano Vita e Pensiero.
Il metodo propostosi dall’Olgiati, e che dev’essere adottato da tutti gli scrittori di detta società, è indicato in poche frasi chiare e piccanti dell’Autore. Invece di far dell’ Apologia a così dette grandi linee, dalle delizie del Paradiso terrestre alla Valle di Giosafat, dall'alba della creazione al pomeriggio del Giudizio Universale, preferire un piccolo punto, una questióne minuscola, un'unica idea; limitarsi in quella cerchia ristretta, accontentarsi d'un fpndaggio paziente.
Niente di meglio.
I.’A. che ha ingegno fervido e piacevole, non si può dire che riesca infedele al suo proposito negli otto saggi che raccoglie nel suo volume e sono, come risulta dal loro semplice titolo, tutti egualmente interessanti: Il catechismo di Serrali e l’àpologìà popolare - Il dilettantismo di E. Renan — Nicola Simon e l’Eucaristia — L'anarchia — Roberto Ardtgò e gli scandali clericali — La pretesa imbecillità di S. Luigi Gonzaga e le teorie pedagogiche del Forster — La morale disinteressata in Marc'Aurelio - e in E. Kant — Il problema del dolore in Budda. Schopenhauer e Leopardi.
Si capisce che l’A. riesce meglio nelle questioni più facili ad essere affrontate in poche pagine di tono popolare. Inoltre — mettiamo nella 2“ e nell’ultima — la troppa e troppo chiara agevolezza non può che rimanere alla buccia, o — se il sonaag-gio'c’è — è necessariamente, dato cotesto .tono, piuttosto superficiale.
Ma ii libro è più di divulgazione che di altro.
Anche cosi potrebbe riuscire più profondo: ma la profondità, come tante altre cose, è relativa, è molti die leggeranno le brillanti pagine dell’Olgiati ne rimarranno paghi. È già un bel successo e non c’è che congratularsene con l’A. e l’A. stesso dovrà congratularsi con si stesso per lo scopo raggiunto.
Qui Quondam.
Domenico di Rubba - Giuseppe Mazzini contro la Massoneria - Studio storico-critico. (Stab. Tip. « Progresso ». S. Maria Capua Vetere. Prezzo L. 2,50).
Questo volumetto di no pagine desta interesse per il numero di documenti riportati intorno alla vecchia questione dei rapporti che intercorsero tra Mazzini e la massoneria. Non abbiamo avuto però l’impressione che la tesi dell’autore — prospet -tata già nel titolo del volume —- risulti chiaramente dimostrata.
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È vero che nelle lettere di Mazzini riportate dal Di Rubba, si leggono frasi che possono indurre ad accettare la tesi dcl-l’A., ma ve ne sono altre, c numerose, che potrebbero far credere il contrario.
Ad ogni modo.'è una questione semplicemente formale: quel che risulta incontestabilmente dalla pubblicazione del Di Rubba è che Mazzini ebbe strettissimi rapporti con la massoneria, tanto che in varie sue lettere prospetta ‘l’eventualità della sua nomina a • gran maestro », dà esortazioni per il buon andamento dell’Ordine, si adopera*-a comporre scismi o dissensioni, la da garante per l’accettazione di nuovi iniziati, indica la via da seguire in momenti difficili/, mostra di conoscere le varie-Logge ed i principali affiliati ad esse...
Alle pagine 89-91 il ¿‘Di; Rubba riproduce disposizioni date dà Mazzini che, per il tono farebbero;pendere seriamente per la tesi opposta a quclla'che l’A. si è proposto di sostenere. Segnatamente il brano riprodotto a pag. 91 è tale da far credere che il; Profeta d’Italia facesse parte delle supreme autorità massoniche.
Al cap. V il Di Rubba raccoglie una serie di esortazioni rivolte da Mazzini alla massoneria. Crediamo che dovrebbero essere meditate da tutti i massoni. Oggi la massoneria è tremendamente decaduta e non ha più forza morale nel paese: è per la massima parte composta di uomini mediocri, dediti principalmente al traffi-cbismo elettorale ed al politicantismo intrigante. Troppi cavalieri e commeiP* datori, troppi burocrati preoccupati della loro carriera, troppi imbecilli vanitosi ed ambiziosi sono ormai penetrati nell'ingranaggio massonico appesantendolo ed abbassandolo. La sola molla che mette in azione il decaduto istituto massonico è il tornaconto personale. Troppo poco.in verità.
Del resto può dirsi che tutti i partiti nel nostro bel paese soffrono dello stesso male: mancanza di fede e d’ideale; ricerca del successo più immmediato, anche se effimero.
È certo che il problema più grave ed urgente pel nostro paese è il problema spirituale: occorre una nuova educazione, un nuovo orientamento che induca ad apprezzare di più i valori dello spirito e ad affannarsi menò alla ricerca dell’appa-gamento degl’istinti più bassi, come si è fatto finora.
Questo proclamava il veggente d'Italia in tutti i suoi scritti, e questo indicava anche alla massoneria : « Non si edifica tempio senza un vero e definito concetto di
lutti i doveri degli uomini verso Dio, verso la patria, verso l’umanità ». Cosi scriveva Mazzini nel 1868 in una lettera destinata ad esser letta in una riunione di Logge. Ed in un’altra lettera al fr. •. Federico Campanella ammoniva: ■ Se la Loggia diffonde, come il Gazzettino Rosa ed altri, materialismo e ateismo, la credo dannosa all’avvenire del paese..; ».
Ma quante teste vuote e cuori aridi che dirigono le sorti dell’istituto massonico non si sono invece adoperati a diffondere quel • materialismo e ateismo » che Mazzini, colla sua voce di profeta, deprecava. È certo colpa di costoro se la massoneria è decaduta m maniera da meritare le aspre critiche che anche studiosi liberali e sinceramente democratici come il Di Rubba le rivolgono.
Le parole di rampogna che il grande Italiano rivolgeva alla Carboneria — riportate dal Di Rubba nelle pagine 46-53 — sono di attualità anche oggi per la massoneria: • Che avete voi fatto del popolo, della gioventù, dell'idee rivoluzionarie, dei principi che ne dominano lo sviluppo, dell’Italia e della missione eh’essa vi aveva affidata? Nulla! Avete sprecate ©’‘neglette le forze che vi s’accumulavano intorno; avete scavato un sepolcro a£tutte le più bellegsperanze; avete creato lagmorte ».
Aristarco Fasulo.
Dr. Toulose, Commenl utiliser la guerre polir jaire le monde nouveau, Paris. La Renaissance du livre, 1919.
È un libro che ricorda in certo modo Le menzogne convenzionali, di Max Nordau. Fa un esame di tutte le manifestazioni della vita pubblica e dei vari orientamenti intellettuali e spirituali che precedettero ed accompagnarono la guerra, e ne mette in rilievo il lato caduco, errato o falso. Per rinnovare il mondo, dice l’A., occorre trasformare radicalmente la vecchia mentalità soffocata da pregiudizi di ogni genere, che tengono le classi e le nazioni separate le une dalle altre e le rendono incapaci di produrre in coopcrazione tutto il bene che potrebbero.
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EDAPPVNTI
Come abbiamo già annunciato, abbiamo ricevuto dalla Segreteria della World Con-ference per l’unità delle chiese cristiane, il rapporto della delegazione mandata in Europa e nell’oriente per perorare la causa per la quale l’opera è sorta. La lettera nobilissima che lo accompagna, tien conto delle nostre attuali condizioni di spirito, distratto da problemi la cup soluzione riguarda « la vita e lo sviluppo della grande nazione italiana », come dice il testo. Essa mette in evidenza, poi, la necessità che anche il popolo italiano assecondi questo movimento che è nel desiderio di tutti e da per tutto, secóndo le constatazioni fatte de visu dai delegati. I lavori preparatorii del Congresso pare saranno condotti in Europa « in un convegno da tenersi la estate ventura »,
Quel che è notevole nella lettera è che 1’8 dicembre 1919, quando cioè fu scritta, si dichiara che la Chiesa Romana « per ragioni speciali non ha ancora creduto opportuno di prender parte al movimento e forse non vi. sarà r apprese ni aia ». mentre nel rapporto che è dell’estate del 1919 (e Seriore anche al noto decreto del S. Uf) si mette in evidenza con l’esplicita narrazione dell’accoglimento fatto dal Vaticano delle proposte e degl’inviti dei delegati, l’assoluta intransigenza della Chiesa Romana.
Il rapporto espone la peregrinazione dei delegati e i risultati ottenutine tanto in Europa che in Oriente; afferma che l’impressione riportatane è che il momento è favorevole, e che tutti vi sono ben disposti, che le chiese ortodosse dell’oriente lo favoriranno con entusiasmo, e che saranno esse che ne trarranno i maggiori benefici. Forse vi è un po’ esageratamente affermata la parte preponderante che deve assumere nel movimento la chiesa anglicana, ma queste sono inezie se il successo deve esser ottenuto anche ad un prezzo
sì mite. Seguono, infine, alcune proposte pratiche, rapporti speciali e l'elenco delle chiese aderenti a tutto il 17 luglio 1919.
Crediamo utile stralciare dal rapporto (p. 10-12) la relazione della visita fatta dai delegati al papa.
Il formale invito in latino ed un riassunto in inglese dei motivi e dello stato attuale dei lavori della Conferenza, furono presentati a Sua Santità prima della nostra visita. Un-breve indirizzo venne letto pure durante l’udienza.
All’ora stabilita noi fummo ricevuti da S. E. il Card. Gasparri. Sua Eminenza ci diede un cordiale benvenuto, lodò la nostra missione ed espresse con calde parole il suo forte desiderio per la visibile unità della Chiesa. Avendo noi richiesto S. E. circa la sua opinione suH'attcggiamento della Chiesa Romana verso la World Conferente, il Cardinale replicò che il Papa ci avrebbe ricevuto cordialmente e ci avrebbe dato la sua risposta. Sua Santità infatti ci ricevette con mólta cordialità c la sua risposta fu precisa. Il contrasto tra l’atteggiamento personale del Papa verso di noi, ed il suo atteggiamento ufficiale verso la Conferenza era evidente: il primo era d’una irresistibile benevolenza, il secondo d’una irresistibile rigidezza. La sincerità dei sentimenti di personale benevolenza del Papa verso di noi era cosi lampante, come la sua fermezza nel rifiuto ufficiale di accettare il nostro invito. Sua Santità stessa sottolineò tale distinzione.
Noi ci permettemmo di osservare che sostanzialmente tutta la Cristianità, eccetto la Chiesa Romana, avea mostrato di essere pronta a prender parte alla Conferenza, c che perciò realmente, quantunque non officialmcntc. il nostro invito poteva considerarsi come fatto dal resto della Cristianità intera. Ci permettemmo di aggiungere ancora che la World Conferente, in questo periodo cosi critico della storia del mondo, avrebbe offerto alla Chiesa Romana una straordinaria opportunità di propaganda per la diffusione dei propri principi. Ma non era facile insistere di fronte ad una decisione di già presa. La risposta ci era stata data
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e noi ci accomiatammo. Noi non possiamo dire che il rifiuto ci abbia colto di sorpresa, tuttavia noi crediamo che una larga parte della Cristianità dividerà con noi il nostro dispiacere, che le autorità della Chiesa Romana non abbiano saputo vedere i vantaggi dell’entrata in amichevoli trattative con gli altri cristiani. Nel lasciare la sala dell’udienza, il Papa ci offerse l’ospitalità del Vaticano, ci invitò a fermarci più a lungo a Roma, e ci diede la sua benedizione. La risposta de) Papa al nostro invito, ci fu data oralmente, però al-l’uscire dalla sala dell'udienza ci fu consegnato da mons. Cerretti il seguente resoconto preparato anteriormente, e riproduciate in modo fedele il linguaggio ufficiale tenuto da Sua Santità.
• Il Santo Padre dopo avere ringraziato i membri della Delegazione per la loro {visita, dichiarò che quale successore di S. Pietro e Vicario di Gesù Cristo, egli non ha desiderio più grande di questo, che vi sia un solo ovile ed un solo pastore. Sua Santità soggiunse che le dottrine c la prassi della Chiesa Cattolica-romana riguardante l’unità della Chiesa visibile di Gesù Cristo, sono ben conosciute da tutti, e che perciò non è possibile per la Chiesa Cattolica di prender parte ad un Congresso come quello proposto. Sua Santità però, non intende con ciò disapprovare II Congresso in questione, per coloro che non sono in comunione con la Cattedra di S. Pietro: al contrario egli desidera ardentemente e rivolge preghiere a Dio, affinchè se il Congresso sarà possibile, coloro che vi prenderanno parte possano con la grazia di Dio, vedere la luce e riunirsi al Capo visibile della Chiesa che li riceverà a braccia aperte ».
Insieme al detto resoconto ci furono rimessi da mons. Corretti una copia della Lettera del Cardinale Segretario di Stato, dell’8 novembre 1856, Ad quosdam Puseislas anglico!, cd una copia della Lettera Enciclica della S. Congregazione del Santo Uffizio del x6 settembre 1864. Apostolicae Sedi.
La Revue du Christianisme Social, dopo 27 anni di esistenza, aveva cessato le pubblicazioni nell'agosto 1914. Essa ha rivisto la luce verso la fine del 1919 con un numero unico così denso di pensiero e di fede che, ci scrive il Direttore, gli abbonati in due mesi, sono diventati due volte più numerosi.
In Milano si è costituita un'agenzia italiana della Revue. via Mascheroni, 22. A tale Agenzia preghiamo di far capo tutti coloro che in Italia simpatizzano col movimento cristiano-sociale il cui programma potrebbe sintetizzarsi in questa forinola: Riconciliare coll'Evangelo le aspirazioni sociali moderne, democratizzare il Cristianesimo per cristianizzare la Democrazia (1).
L’articolo di fondo, scritto dal Direttore Elia Gonnelle, traccia le grandi lince di un grande rinnovamento delle esperienze religiose c della teologia pratica; morale; sociale; politico e spirituale c universale.
All'articolo-programma seguono (nella prima parte del numero unico 1919) altri scritti di notévole valore: Wilfred Monod, Teologia sociale; Marc Boegncr, Il dovere missionario^ M.me J. Siegfried, Il dovere presente della donna cristiana; R. Jacob. In che modo facilitare alle famiglie protestanti disperse l’istruzione e l’educazione dei loro figli.
La seconda parte è consacrata interamente alla gioventù, ed è compilata da apposito redattore, Giorgio Lauga.
D’Allcnsc Maury, rispettivaménte segretari nazionali francesi delle A. C. D. G. e della Federazione studenti cristiani, ci tracciano in due articoli, due quadri sintetici della organizzazione e dello stato d’anime di questi due movimenti giovanili. Emilio Durand parla con grande competenza e violento amore della gioventù contadina. Altri due scritti sono consacrati alla Lega per la moralità pubblica c privata 1’« Etoile Bianche ». È pure notevole un articolo postumo su Carlo Péguy scritto dal figlio del Direttore, Enrico Gonnelle, il quale, prima di morire pel suo paese, ha lanciato ai compagni di fede quella parola sublime in cui c’è abbastanza sostanza spirituale per vivere un'intera esistenza: « La bellezza della vita vai più della vita stessa ».
[Giovanni E. Meille].
(x) Gli abbonamenti italiani pel 1920 al prezzo di L. 20, ridotto a L. 15 per i ministri dì qualsiasi culto (L. 3 in più se si desidera ricevere anche \ il numero unico del 1919) si possono spedire all’indirizzo suddetto, all’aw. G. E. Meille.
Per insufficenza di spazio siamo costretti a rimandare al prossimo numero il resto di questa rubrica e le “ Nuove pubblicazioni
ROCCO POLESE, gerente responsabile.
Roma - Tipografia dell'Unione Editrice — Via Federico Ceri, 45.
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Estratti della Rivista “BI LYCHNIS (Ir* Serie)
i'. Fattori Agostino : Pensieri dell’ora (Leggendo il « Colloquio con Renato Serra » di
. Vincenzo Cento). 1919, pagine 13. . .... • o.5°
2. Di Rubba Domenico: La fede religiosa di Woodrow Wilson. 1919, p. 29 . . . 0,50.
3. Fra Masseo da Pratoverde : Intermezzo sacramentale (A proposito di Unione delie Chiese Cristiane). 1919, pagine 17 ...... 0,75
4. Dell’Isola M. c Provenzal Dino: C’è unaspiegazione logica delia vita? 1919. p- 12,0,60
5. Billia Michelangelo: Il vero uomo. 1919. p'. 7 . . 0.50
6. Rossi Mario: Religione e religioni in Italia secondo l’ultimo censimento. 1919, pagine 13................0,50
7. Cadorna Carla: I ritrovi spirituali di Viterbo nel 1541.
1919. P- 7. ■ ■ t • • 0.50
8. Masini Enrico: Epistola ai fratelli di buona volontà. 1919. p. 11................ 0,50
9. Marchi Giovanni: Il « Confiteor # dei giovani.' 1919.
p. S . '........... 0,50
10/Qui Quondam: Dopo-guerra nel clero. 1.91.9, p. 14. 0,60
11. lucci Paolo: La guerra eia pace nel pensiero di Lutero. 1919, p. 31 . 1,50
12. Pavolini Paolo Emilio: Poesia'religiosa polacca, 1919, pagine 8...............0,50
13. Pioli Giovanni: In memoria del E. Pietro Gazzola. 1919.
p. 15 ...... . 1.50
14. Provenzal Di no: Ascensione eroica. 1919. p. 14. 0,80
yjs
15. Rensi Giuseppe: Mctafisicae . •’ lirica. 1919, p. 15 . . 1 —
'16. 'Falchi Mario: C’è una spiegazióne logica della .vita? 1919 p. 8..................> 0,40
17. Costa Giovanni : Giove ed Ercole (contributiallo studio della religione romana nell’impero), con quattro tavole. 1919, p. 27 . . 2 —
18. (♦♦*) Mancanze di garanzie nello Schema e nel nuovo Codice di diritto canonico e saggio su le fonti. 1920, p. 52 ... . '. ? .' 3 —
19. Della Seta Ugo: La visione morale della vita in Leo.-nardo da' Vinci. 1919, pagine 31 .v. .... 2 —
20. LoscaGiuseppe: Sensi e pen- ‘ sieri religiosi nella poesia* di Arturo Graf (con due tavole). 1914-1919. pagine 40
2 —
21. Nazzari Rinaldo: Intelletto e ragione. 1919, p. 15. 1 —
22. Ferretti Gino: Le fedi, le idee e la condqtta. 1919. pagine 50 . 2 —
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