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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE
ROMA - 30 GIUGNO - 1915
ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV :: Fasc. VI.
GIUGNO 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
DAL SOMMARIO: Giovanni Costa: Impero Romano e Cristianesimo — Dr. DELIO: L’autonomia della religione — « CATHOLICUS » : Che pensare del celibato ecclesiastico ? — G. PIOLI: Sulla via dell’Unione delle Chiese: l’esperienza di Kikuyu — Raffaele Wigley : L’autorità del Cristo — ERNESTO RUTILI: Vitalità e vita nel cattolicismo (1X\cronaca) — La GUERRA (Notizie, Voci e Documenti): Notre prochain l'ennemi — La Cristianità, il Cristianesimo e la guerra — Giudizio di un indiano cristianizzante — Opinioni spagnuole intomo alla guerra — L’amore dei nemici, ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # #
------- Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per 1*Estero
Via del Babuino, 107 - ROMA AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l'Italia L. 5. Per l’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
fi Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine.
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IL NUOVO TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ « FIDES ET AMOR» EDITRICE Amministrazione: Via S. Caterina, 1:4
MCMX1V
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BILTChNIS
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RM51À DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELI* SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA • DI ROMA
SOMMARIO:
Giovanni COSTA: Impero Romano e Cristianesimo ...... pag. 437 Ritratti degl’imperatori Nerone e Costantino i tradizionali iniziatori della persecuzione e
della pace cristiana. — Tavola tra le pagine 454 e 455
Dr. DELIO: L’autonomia della religione ....... ... » 461
« CATHOLICUS » : Che pensare del celibato ecclesiastico ? . . . . » 467
Giovanni Pioli: Sulla via dell’Unione delle Chiese - L'esperienza di Kikuyu. . ........................ . . . . . . . » 473
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Raffaele WlGLEY : L’autorità del Cristo - Psicologia religiosa . . » 477
CRONACHE:
Ernesto Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo [IX] .....•• » 483
LA GUERRA (Notizie, Voci, Documenti):
Paolo A. Paschetto: Belgio (Disegno a tre colori). — Tavola tra le pagine 496 e 497
G. Pioli: Nôtre prochain l’ennemi ....... ............ » 497
A. D. S.: Germania: La Cristianità, il Cristianesimo e la guerra . . . . . » 500
G. P.: Come ci vedono gli altri: Giudizio di un indiano cristianizzante L’innocenza inglese - * Vois tu pas que tu es moi ? » - Civiltà di una nazione non cristiana - Opinioni spagnuole intorno alla guerra -L’amore dei nemici impossibile - È il Cristianesimo una dottrina ragionevole ? .......................... » 504
Cambio colle Riviste ....................... » 497
Notìzie . . . : .... ... ............. . . . . . » 501
Pubblicazioni pervenute alla Redazione ............... » ‘504
Cose Nostre ............................ » 504
Libreria Editrice < Bilychnis..................... » 508
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I. - Il problema.
a tradizione cristiana già adulta, e cioè al principio del v secolo, desiderosa di trovare nell’Antico Testamento la soluzione dei problemi che la recente storia della nuova religione aveva imposto, si era sforzata di vedere nelle dieci piaghe d’Egitto l’imagine o la minaccia delle prove per le quali, come già il popolo eletto, avrebbero dovuto passare i nuovi credenti prima di giungere alla pace. In tal modo si erano create le dieci persecuzioni, contro la cui rigida serie già la mente acuta di
Agostino insorgeva (i) ; serie che alla fine del iv secolo per Eusebio si limitava all’incirca ad otto persecutori, mentre al principio de) secolo stesso,Lattanzio non ne conosceva che sei, in conformità del resto con quanto Tertulliano aveva fissato intorno al 200 quando sotto Settimio Severo egli ricordava due soli persecutori, Nerone e Domiziano (2).
Vedremo a suo tempo come la moderna critica storica abbia proceduto nello stabilire la parte più attendibile della tradizione di fronte alla parte che appare poco credibile nella forma in cui venne trasmessa con errori ed esagerazioni troppo naturalmente dovute non tanto a mancanza di documenti e di discernimento critico, quanto al sentimento di giusto orgoglio dei più recenti per le prove subite dagli antichi ed alla pia intenzione di magnificarne le gesta. Quello che può dirsi fin d’ora è che per fissare una serie cronologica sufficientemente sicura degli atti violenti dello stato romano contro il cristianesimo vero e proprio e per distinguere i differenti periodi che segnarono una diversa fase persecutoria, è occorso alla critica moderna di determinare precedentemente altri punti controversi della grave questione. Erano, cioè, e forse lo sono ancora, in discussione la forma giuridica in grazia della quale lo stato tentò con la forza di impedire ai cristiani la loro diffusione; la forma che assunse la società cristiana per essere tollerata sotto alcuni prìncipi ed osteggiata da altri; la ragione prima, fondamentale, dell’ostilità dell’impero contro un culto che poteva, se non doveva, essere considerato da spiriti larghi o superficiali alla stregua del culto giudaico che era pur tollerato, pro(1) Si cfr. Oros., VII, 27, 3 segg. con Aug., de cìv. dei, XVIII, 52.
(2) Eus., hist, eccl., passim: v. ediz. E. Grapin (Paris, A. Picard, 1913) vol. Ili, p. 482 segg. (indice). — Lact., de mort, persec., c. 2-6. — Tertull., apoi., 5.
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tetto, privilegiato. Solamente fissati questi punti capitali si poteva veder chiaro nella grave questione, che naturalmente, d’altra parte, non poteva esser tenuta negli angusti campi dello sviluppo dell’idea c della società cristiana in relazione alla politica dei vari imperatori, ma doveva essere studiata nell’ampio e non sempre sicuro cerchio delle opinioni filosofiche e religiose dell’impero, della politica religiosa degl’imperatori, delle varie tendenze delle folle, delle province e dei magi-stati del mondo romano.
Non mi basterebbe, di certo, il tempo per esporre qui, anche sommariamente, le opinioni espresse dai vari studiosi su questi interessanti punti controversi del grave problema e sui risultati, più o meno accertati, che costituiscono la communis opinio del mondo de’ dotti, formatasi grazie a questa lunga e laboriosa serie di ricerche. Non si può, però, fare a meno di ricordare come costituiscano quasi per la generalità degli studiosi il punto di partenza di ogni indagine minore, in questo campo, alcune ipotesi o congetture presentate da uomini autorevolissimi sulla procedura giuridica delle persecuzioni, sulla personalità della chiesa primitiva e sulle cause sociali determinanti l’atteggiamento dell’impero verso il cristianesimo.
La prima di tali questioni, difatti, quella che colpisce più facilmente gli studiosi, in grazia di quale istituto giuridico un popolo, che aveva fatto del diritto una sua creazione speciale, colpisse i cristiani, à trovato nel Mommsen chi la condusse, se non alla sua definitiva soluzione, almeno su di un terreno eminentemente positivo e tale da offrire per lungo tempo una solida base alle ricerche. Il principio da lui stabilito, che nella generalità delle persecuzioni religiose lo stato romano procedesse grazie ài ius coerciiionis contro i colpevoli e cioè, senza applicar leggi speciali, con una misura di polizia reprimesse gli abusi di carattere religioso, è certamente un principio degno della fortuna che à trovato quasi presso tutti gli studiosi. Segna indubbiamente un notevole progresso negli studi e risponde effettivamente in un notevole numero di casi ai dubbi che sorgono in chi li esamina (i). L’esteso diritto di cui disponeva ogni governatore provinciale per garantire la sicurezza dell’ordine pubblico e l’ossequio alle leggi romane avrebbe permesso sia di punire individualmente quanti dimostravano di voler insidiare al primo e di tener in non cale il secondo, sia di procedere a condanne od a proscrizioni di carattere collettivo. Meno felice forse il Mommsen è stato quando volendo ricercare sotto quale titolo in alcuni casi speciali si è proceduto contro i cristiani, già assicurati alla giustizia in virtù dello stesso diritto, à risposto che la colpa era di lesa maestà ; e ànno seguito lo stesso indirizzo nell’indagine giuridica altri che ànno creduto di poter determinare diversamente il delitto di cui si sarebbero resi colpevoli i cristiani (2). Chè se si può ammettere che in alcuni casi di persecuzioni regionali 0
(1) Mommsen, Dr. pénal., Il, p. 276 segg., e specialmente la minore monografia ivi citata n. 4 (attualmente in Ges. Schrift., Ili, p. 389 segg.) e la parte della stessa opera citata nella n. 3, a p. 281 (I, 362 segg.).
(2) V. un buon cenno della questione nell’opera del Fracassi ni che ricorderò più giù, p. 113 segg. Sia detto qui di passaggio che delle ricerche ch’io conosco sull’argomento quella che mi sembra giuridicamente peggio condotta ed erronea quindi nelle sue conclusioni è proprio la ricerca di M. Conrat, Die Christenverfolgungen in römischen Reiche von Standpunkte der Juristen. Leipzig,- 1897.
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speciali il ius coercitionis risponde pienamente, se non unicamente, al nostro bisogno di veder applicato un principio legale alla procedura penale, non si può ugualmente riscontrare sopratutto nelle varie e costanti tradizioni nostre, asserenti che la colpa fu riconosciuta nel nomen, un fondamento sicuro nel titolo di lesa maestà, di ateismo, di sacrilegio e via dicendo (i).
Non meno grave di questo lato del problema era, d’altra parte, quello del come la società cristiana si fosse presentata di fronte alle autorità imperiali durante i primi secoli sia nelle relazioni di pace, sia in quelle di ostilità, quando maggiormente infieriva contro di essa l’ira repressiva. L’ipotesi fatta dal De Rossi, che cioè la chiesa primitiva, considerata Come uno dei tanti collegio tenuiorum cui nel il secolo era stato concesso di provvedere alle cerimonie funerarie dei propri membri, avesse sottostato alle formalità necessarie per poter sotto una tal veste possedere i cimiteri e godere di una vita relativamente tranquilla, venne per l’autorità del nome del proponente accolta da molti (2). Disgraziatamente il progredire delle ricerche e la lucida opposizione di argomenti che seppe raccogliere il Duchesne contro di essa (3) ne mostrò tutta l'inanità, onde agli studiosi non rimase se non l’ultima ratio di accogliere la tesi un po’ vaga del dotto francese, che riconosce alle comunità cristiane del ni secolo una personalità giuridica religiosa regolare nella sua irregolarità, tanto da essere colpite ogniqualvolta se ne constatasse l’illiceità (4).
Questa soluzione, che non è neppur soddisfacente, à avuto però il merito di ricondurre la ricerca da un campo molto ristretto e troppo tradizionale — quello dell’opinione che la chiesa primitiva vivesse nelle tenebre e non potesse alzare minimamente il capo sotto pena di aspre e sanguinose violenze contro di essa — ad un campo più conforme alle stesse tradizioni cristiane letterarie e documentarie ed alla concezione che gli studi progrediti permettevano della società romana — quello dell’opinione di una comunità cristiana vivente alla luce del sole, libera nelle sue manifestazioni e ne’ suoi membri sin tanto che in virtù delle proprie caratteristiche o per malevolenza altrui, non venisse a cozzare contro le leggi e le autorità costituite. Resta naturalmente, come vedremo a suo luogo, il problema della forma sotto cui tale relativa libertà di sviluppo le era permessa.
Questi risultati degli studi sull’impero e sul cristianesimo trovavano recentemente un complemento nell'esame fatto dal Bouché-Leclercq della questione fondamentale d’ogni ricerca del genere: del motivo cioè per cui, sia pure sotto la forma
sua
1) Mommsen, o. c., p. 279 e specialmente n. 2.
2) Roma soli., I, p. 101 segg.; Bull. arch. crisi., 1864, p. 25 segg.; 1865, p. 89 segg., ecc. a) Origines chrétiennes, p. 393 segg. Queste idee sono pur sostenute dall’A. nella ist. ano. de l* Eglise, cap. XIX. Chi voglia confrontare le nostre opinioni con quelle dell’illustre storico della Chiesa veda inoltre i cc. TV, VII-VITI, XIII, XXII, XXVI del I voi. di quest’opera: mi risparmio citazioni più precise e particolari, essendo il lavoro
notissimo ed entrato già nel dominio delle persone anche di media cultura.
(4) O. c., p. 401 segg. La monografia di P. Saleilles in Mélange* P. F. Girard, Paris, 1912, II, p. 469-502, che modifica sol lievemente la ipotesi del De Rossi (collettività con esistenza corporativa non riconosciuta anteriormente agli editti di tolleranza del iv sec. che ne stabiliscono il riconoscimento della personalità giuridica), à maggior valore nella parte espositiva e critica che in quella ricostruttiva (p. 487 segg.).
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indicata dal Mommsen, sia pure nella veste più 0 meno riconosciutale dal Du-chesne (1), la chiesa cristiana si era vista combattuta così aspramente dall'impero che era stato, verso la religione da cui essa traeva l’origine e che aveva con essa comuni tanti tratti, largo di tolleranza e di indulgenza. Questo arcanum imperii egli à creduto di vedérlo nell’antisemitismo, per dir così, dei Romani. In altre parole egli à trovato la causa delle persecuzioni cristiane nella preoccupazione degli imperatori romani di veder trionfare col cristianesimo l’intolleranza religiosa di cui avevano avuto prova col giudaismo (2). Per provare la sua tesi il Bouché-Leclercq esaminava, forse per la prima volta con la compiutezza consentitagli dai limiti imposti al suo lavoro, la politica religiosa dei vari imperatori e di essa specialmente quella parte che si riferiva al giudaismo. In tal modo gli riusciva di stabilire che cominciando, specialmente, da Domiziano, gl’imperatori romani, ammaestrati dall’esperienza fatta durante la guerra giudaica, ànno veduto ne’ cristiani, o meglio, anzi, non ànno veduto i cristiani per se stessi, ma de’ proseliti giudei il cui nomen ne svelava appunto l’origine e ne costituiva la colpa. A tale titolo quindi li ànno perseguitati ed ànno tentato di estirparli dalla società (3).
Quest’opinione à. secondo me, il grande merito di aver in primo luogo rimesso lo studio della questione in tutto il complesso ambiente storico in cui è sorta per lo svolgersi degli avvenimenti ; in secondo luogo di aver dato una soluzione del problema per me definitiva, ma che. se tale non dovesse sembrare alla maggior parte degli studiosi (4), offrirebbe almeno un risultato positivo delle ricerche fin qui condotte con tanta pazienza e con tanto amore dagli scienziati. Cionondimeno non si può affermare senza offendere la verità che la tesi dell’illustre storico francese abbia riempito tutte le lacune che apre lo studio del problema e che ànno quasi sempre lasciato tutte le soluzioni fin qui proposte da altri. Il lato giuridico della questione, per quanto non sia stato trascurato (5), non appare ugualmente soddisfacente nella ricostruzione ideata dal Bouché-Leclercq e qualche punto della storia degli avvenimenti non appare corrispondente sia all’insieme della teoria, sia all’indagine speciale di cui può essere fatto oggetto (6).
Lo studio, però, del maestro francese che, ripeto, costituisce, a mio modo di vedere, un vero progresso nel campo scientifico, non à avuto l’accoglienza che meritava se lo si giudichi da alcune recenti pubblicazioni, anche di grande stile, per dir così, che quasi contemporaneamente ànno trattato presso di noi l'argomento di
(1 L’intolérance rcligieuse cl la poliliquc, Paris, 1911.
(2 P. Vili e XI.
(3 V. sopratutto a pagg. 164, 192, 198, 204, 246.
(4 Le conclusioni dell’autore furono combattute in Francia dal Pichon che ritiene ancora le persecuzioni causate da motivi politici e religiosi più o meno vaghi; v. Rev. d. deux Mondes, del 15 luglio 1913, p. 340 segg.
(5j V., p. es.» p. 193 e p. 205.
(6) Vedremo poi come a me sembri si debba concepire in modo diverso la persecuzione di Settimio Severo, p. es., e come non possa connettersi, senza osservazioni più. larghe, la tesi dell’autore con la persecuzione per edicla del III sec., e via dicendo.
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cui ci occupiamo (i). Sotto questo aspetto, anzi, esse costituiscono un vero regresso degli studi, perchè invece di riprendere il cammino dal punto in cui le ricerche precedenti l’ànno condotto, il che si può fare anche rifacendo la storia degli avvenimenti interamente ed anche essendo di opinioni perfettamente contrarie ai più recenti studiosi, le opere cui accenno ànno, in massima parte, tenuto l’indagine sotto il medesimo antico punto di vista e non ànno apportato risultati notevoli se non in qualche particolare o se non nel campo della letteratura divulgativa.
Perciò è mio intendimento di parlare di tali lavori in modo non solo da informare i lettori sul loro valore e sulle opinioni in essi espresse, ma di prospettare pure il problema, per quanto brevemente mi sarà consentito, alla stregua dei risultati dello Studio del’ Bouché-Leclercq, che io mi permetterò di completare, di integrare e di confermare servendomi della recente pubblicazione di un'opera che viene ad offrire alla sua tesi, e ad alcune mie idee in proposito, un valido contributo di documentazione: intendo alludere all’opera dello Justersui Giudei nell’impero romano (2).
(1) E. Buonaiuti, Il Cristianesimo primitivo e la politica imperiale romana, Roma, 1913; U. Fracassine L’Impero e il Cristianesimo da Nerone a Costantino, Perugia, Battelli e Verando, 1913; A. Giobbio, Chiesa e Stalo ne’ primi secoli del Cristianesimo (40-476), Milano, L. F. Cogliati, 1914; A. Manaresi, L'Impero romano e il Cristianesimo, Torino, F.Hi Bocca, 1914.
(2) J. Juster, Les Juifs dans l’Empire romain, leur condition juridique, économique et sociale, Paris, P. Geuthner, 1914, voi. 2 (Il III che comprenderà i testi epigrafici, letterari e giuridici e gl’indici, è in lavoro). Io, naturalmente, non debbo recensire l’opera dello Juster, chè non entrerebbe nell’indole di questo periodico il farlo: osservo però due cose: i° che egli spreca spesso troppo spazio per discutere gli errori di nomenclatura od interpretazione epigrafica di qualche nostro professore universitario la cui rachitica produzione scientifica nessuno presso di noi crede degna dell’onore di una discus; sione; 2° che accanto ad un buon uso della nostra letteratura sugli argomenti trattati ed, in genere, ad una non errata grafia dei titoli o dei brani di opere nostre egli mostra talvolta degli errori molto strani, come, p. es., I, 182; 356 (dove deve leggersi Cantarelli in luogo di Cardinali)’, 470; 483: II, 54, e forse altri; o, quel che è peggio, i soliti pregiudizi de’ Francesi di vecchio stile come quando parla della poca severità del Talmud per i briganti (¡airones) e crede di avvicinare questa disposizione d’animo a quella « du peuple en Corse et en Italie » (II, 203, n. 4), il che gli assicuro io, che, da buon italiano, conosce e l’una e l’altra, è un bel granchio !
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IL - Roma e i Giudei
È noto per gli studi copiosi ed autorevoli di stòria del cristianesimo quanto indiscutibilmente ormai sia riconosciuto per la nuova religione il legame di dipendenza dall’antica nel campo non solo della storia realistica, spirituale e religiosa, ma benanche in quello, che sembrerebbe aver dovuto essere più estraneo ad influssi, degli ordinamenti giuridici, per dir così, e della liturgia. La nuova fede non sorse solamente in Giudea per opera di Giudei, non solo si diffuse grazie alle numerose e potenti colonie della Diaspora, non solo ebbe ne' suoi primi propagatori uomini di idee, di fede, di patria giudaici, ma seguì ne' suoi ordinamenti gerarchici la poderosa costituzione delle comunità giudaiche e facendo suo centro della sinagoga ne seguì in grandissima parte la liturgia, ne adottò le feste, ne copiò le istituzioni maggiori. Fu, in altre parole, una cellula che si formò nel tessuto già adulto e che se ne staccò sol quando potè procurarsi e vita e organismo e indipendenza (1).
Tutto ciò è bene non si dimentichi da chi vuole intendere appieno non solo l’organizzazione interna del cristianesimo, ma benanche la sua vita esterna: i recenti scrittori o io dimenticano, perchè dànno solo delle notizie sommarie in proposito, o, peggio ancora, attribuiscono alla nuova fede un rapido e quasi immediato processo di individuazione (2). Noi vedremo a suo luogo quanto sia errato un tal modo di considerare le cose, dal quale, pure, il Bouché-Leclercq aveva richiamato gli studiosi. Perchè il lettore abbia, sia pur compendiosamente e a grandi tratti, un'idea di quello che era il giudaismo intrinsecamente ed estrinsecamente al tempo dell’impero noi premetteremo all’esame del cristianesimo e della sua storia un breve cenno su di esso e sulle sue relazioni con Roma, quale possiamo desumerle dall'opera dello Juster (3).
(1) Per la questione si veda, p. es., Harnack, Miss, e propagai, del Crisi., p. 1 segg. e Duchesse, Origine du culle chrélien, p. 7 segg., p. 46 segg., ecc.
(1 2 3 *) s£mmarie sono le notizie che vi dedica il Maharesi, p. 37 segg., insufficienti quelle di Fracassisi, p. 51 segg., che con il Giobbi©, p. 59 segg., giudica un po’ troppo tradizionalmente il distacco del cristianesimo dal giudaismo.
(3) La parte che è meglio messa in evidenza dal Bouché-Leclercq è quella esteriore
(p. 43 segg., p. 78 segg., ecc.): io, seguendo lo Juster, farò notare principalmente la parte
interna, le relazioni giuridiche con l'impero e gli elementi, sia pure esteriori, che ne ram-
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IMPERO ROMANO E CRISTIANESIMO
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1. Prima del 70 d. Cr. i Giudei sono dei peregrini e possono essere naturalmente cittadini greci nelle varie città della Diaspora, ove questo diritto è loro concesso o riconosciuto: possono essere poi cittadini romani o schiavi (II, 1-18). Dopo il 70 invece come sono considerati ? Secondo il Mommsen, sparito il popolo giudeo, resta solamente dinanzi alle leggi romane il culto: i Giudei non sono quindi altro che dei dediticii. Lo Juster invece sostiene, secondo me, con maggior copia d'argomenti e con maggior ragione che i Giudei non ànno cambiato affatto il loro status civitalis, che sono perciò riconosciuti come nazione, che rimangono cittadini greci o romani o divengono tali. Per quel che riguarda i peregrini che presero le armi contro Roma, essi forse divennero dedilicii ma per breve tempo, perchè con Cara-calla, come tutti i sudditi dell’impero, divengono cittadini. Ed è noto che la disposizione imperiale che dava a tutti gli abitanti dell'impero 77[o>c?]scav 'Pc^stov ne escludeva in modo esplicito i dedilicii'. [tójsc-rcziwv (II, 19 segg).
2. Il capo, riconosciuto dai Romani, di tutti i Giudei così della Palestina come della Diaspora è l’etnarca e quando, dopo il 70, si procura di impedire con tutti i mezzi la ricostituzione nazionale dei Giudei, Roma riconosce l’autorità di un loro capo spirituale, successore dell’etnarca, del patriarcha. Esso à potere, onori ed insegne di re, ma il terreno in cui la sua autorità è riconosciuta è il religioso. Gli imperatori ne riconoscono la nomina, quando pur non lo nominino essi, gli dànno la cittadinanza romana anche prima di Caracalla, ne garantiscono la successione ereditaria. Egli è assistito dal sinedrio (sanhedrin), assemblea politica, legislativa e giudiziaria, ed à sotto di sè dei magistrati minori provinciali {primati o patriarchi o esarchi) con giurisdizione non ben definita e degl'ispettori con funzioni di controllo e con poteri finanziari chiamati apostoli che, certamente per il periodo dopo il 70, sono dei missi dominici colleganti il potere centrale con le comunità della Diaspora. Tutti questi funzionari ànno un carattere ufficiale nell’impero, la legge ne garantisce l’esercizio delle attribuzioni e concede loro certe immunità e certi privilegi (I, 388 segg. 391 segg.).
3. Ai Giudei è riconosciuto il diritto di riunirsi e di associarsi, salvo, naturalmente, nei casi di persecuzione: tale diritto è loro attribuito anche quando lo si toglie agli altri sudditi dell’impero, il che, del resto, non è che un corollario del principio della libertà di culto. Grazie ad esso essi costituiscono nelle varie località delle speciali comunità, debitamente riconosciute e aventi personalità giuridica, sulle quali è interessante trattenersi sia pur brevemente (I, 409 segg.).
La comunità (corpus, universitas, tzoXctscz, eco., oppur anche
ludaei, oc ’lou^acoc 0 oc 'E^oatoc) non è affatto un collegio, come ànno voluto il Mommsen, il Mitteis, lo Ziebarth, specialmente per il periodo posteriore al 70, ma
pollano, onde chi legge possa formarsi un’idea esatta dell’importanza che ebbe il giudaismo e del giudizio dato su di esso nel momento storico in cui prese vita il cristianesimo. Nel testo cito l'opera dello Juster con l’indicazione, tra parentesi, del volume e delle pagine cui mi riferisco.
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un vero e proprio ente politico che è dotato di un’assemblea (ffpsoftóTspoi o seniores) anche dopo il 70, quando cioè il Mommsen, che pone nell’esistenza di questa la differenza fondamentale tra collegio e comunità, credeva di non rinvenirla più. Della comunità si fa parte per diritto di nascita, i non Giudei quindi ne sono esclusi; essa possiede un’organizzazione amministrativa, finanziaria e giuridica, à una giurisdizione civile e penale speciale anche sui rapporti reciproci dei suoi membri e sugli atti della loro vita civile e religiosa; ma fa parte legalmente della nazione giudàica ed è legalmente sottoposta al potere centrale del giudaismo (I, 413 segg.).
La comunità à un’arca communis, riconosciuta esplicitamente dalle autorità romane, con entrate, ordinarie e straordinarie, ed uscite, ben determinate, per il culto, la beneficenza e via dicendo. Essa à il diritto di acquistare e di possedere (la sinagoga è di sua proprietà), di dare e di ricevere, salvo le norme di diritto generale o le disposizioni imperiali speciali, ed i diritti che ne derivano; forma delle assemblee di carattere cultuale, amministrativo e politico ed è diretta dal consiglio degli anziani, cui già accennammo, a capo del quale sta un presidente assistito, a quel che pare, dagli arconti, dal segretario e forse da funzionari minori (I,. 424 segg.).
Il clero della comunità sotto la direzione dell’archisinagogo si compone, nelle comunità maggiori, di vari membri con cariche speciali (sacristani (= 6z7)p£T«], lettori, traduttori, esegeti); essi godono di privilegi speciali come quelli che synagogis deser-viunt. Anno cura, difatti, della sinagoga, del tempio cioè destinato al culto, riconosciuto per tale dalle leggi romane, protetto e privilegiato insieme con i libri santi che contiene (I, 368, n. 4 e 5), la maggiore naturalmente delle istituzioni della comunità. La quale ne aveva ancor altre: scuole, biblioteche, archivi, ospizi, bagni e, quel che più importa a noi, cimiteri. Questi, là dove esistevano, erano garantiti dalle leggi generali sui sepolcri, grazie alle quali i Giudei erano riusciti a compiere i loro riti funebri in piena sicurezza, anche se dovessero subire in qualche caso il controllo dei magistrati pagani a ciò addetti (I, 450 segg.).
Simili organizzazioni — nelle quali naturalmente potevano sorgere associazioni professionali — avevano pur le sètte dissidenti del Giudaismo, quando esse non fossero state escluse dalla religione ufficiale; si consideravano come facenti parte della nazione giudaica e godevano quindi dei diritti di cui godeva il Giudaismo (I. 485 segg.).
4. Per la necessità di contenere .questi cenni in limiti ristretti e di mettere in evidenza specialmente quanto deve servirci a lumeggiare la costituzione primitiva della società cristiana, ometteremo in queste pagine quanto lo Juster à rilevato nella sua opera sul diritto privato degli Ebrei in rapporto alla legislazione romana (II, 28 segg.) e la parte del suo studio che riflette la giurisdizione (II, 93 segg.), limitandoci a mettere in evidenza di questa ciò che costituisce l’eccezionaiità assoluta in favore degli Ebrei e la parte che riguarda il diritto penale e la criminalità politica, che forma un elemento-prezioso per conoscere il giudizio del mondo romano sui Giudei e quindi sui cristiani.
Ora noi notiamo delle disposizioni di favore per i Giudei quanto alla dispensa
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di comparir in giudizio il sabato e i giorni ritenuti da essi festivi ed al giuramento testimoniale (II, 121 segg.). E quanto alla giurisdizione penale nel campo religioso la massima indipendenza, tanto che il sinedrio può condannare a morte Ebrei e non Ebrei e persino cittadini romani nel caso che questi si permettano di entrare nella cerchia del tempio di Gerusalemme, esplicitamente vietata sotto pena di morte (II, 126 segg.). Dopo il 70 non si riconosce ai Giudei il potere di applicare la pena di morte, ma in compenso si lascia loro il libero esercizio della rimanente giurisdizione religiosa. Ed è importante notare come questo riconoscimento, che non è straordinario almeno sino al 70 per la Palestina, è veramente tale quando si sappia che è pur attribuito alle comunità della Diaspora (II, 153 segg.).
Le pene che i Giudei applicano sono la morte, la scomunica, la prigione e la flagellazione e di fronte ad essi il diritto romano non à armi speciali se non in casi speciali di criminalità loro propria : così contro la solidarietà religiosa e sociale dei Giudei si forma una solidarietà legale a sostrato della quale sta l’unità dei privilegi loro accordati e in relazione alla quale tutti pagano per uno o per pochi (solidarietà penale). Così si ànno le espulsioni generali, i massacri legali, il confinamento dei Giudei in quartieri speciali (ghetto) (II, 156 segg.). Tutto ciò ci mette nella condizione di stabilire che in materia di diritto pubblico i Giudei sono in modo speciale turbolenti e sediziosi (e quasi sempre per motivi religiosi), mentre in materia di diritto comune si rendono colpevoli di tutti i delitti, nessuno escluso: essi insomma non furono immuni da nessuna colpa, come non ebbero alcuna tendenza speciale verso qualcuna di esse, salvo, s’intende per la rivolta (II, 182 segg.) e, aggiungeremo noi, peri delitti che vi si connettono (linciaggio, incendio) (v. Il, 158 e 205).
5. Per quel che riguarda la vita esteriore i Giudei potevano circolare nel mondo romano « costumés et dénommés à la romaine sans que rien ne dé-celàt leur origine» (II, 226). Onde prescindendo dalle numerose combinazioni di cui davano prova nei loro nomi, unendovi nomi latini con greci, giudaici, ecc., noi metteremo in evidenza, perchè adottate pur dai cristiani, due forme di denominazioni : quella della traduzione in latino dei nomi ebraici (Agnella = Rachele, Bonus=Tobi, Donatus=Nathan, Dulcitia=Noemi, Hilarus= Isacco) e quella dell’applicazione al nome dell’attributo « Giudeo », come i cristiani facevano con i propri nomi cui aggiungevano «Cristiano» (Andronico Giudeo, Tolomeo Giudeo, Teodoto Giudeo, Avilia Àster ludea (sic), Cejalius lùdaeus, Creticus ludaeus e così via) (II, 221 segg.).
Quanto alle altre forme di partecipazione alla vita esteriore possiamo dire come i Giudei prendessero parte alla distribuzionejgratuita di grano o di danari (II, 236 segg.); fossero obbligati in vari periodi ad assistere agli spettacoli, per quanto ne fossero contrari e spesso avessero ottenuto di esserne esentati (II, 239 segg. e L 345); avessero il diritto da Settimio Severo in poi di essere ammessi a tutte le funzioni senza obbligo di far cosa contraria alle loro credenze, mentre ancor prima erano stati esonerati dal decurionato appunto per non compiere riti pagani (II, 243 segg.). Essi prestavano pure servizio militare sia come corpo organizzato spe-
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cíale, sia individualmente dopo Traiano e Adriano, a quel che pare, sebbene vi sia qualche caso di esenzione (II. 265 segg.), ed erano obbligati, dopo il 70, al pagamento dell'imposta speciale di due dracme al tesoro imperiale (jìscus iudaicus), essendo l'imperatore il rappresentante terrestre di Giove a cui, invece che al tempio di Gerusalemme, spetta il contributo (II, 282 segg.).
6. Dopo ciò che abbiamo veduto non reca meraviglia il constatare come la tolleranza e l’indulgenza che Roma mostrava verso i Giudei dovessero raggiungere il colmo per la religione, ritenuta evidentemente come l’espressione più genuina della nazione, verso cui si era così larghi di privilegi e di benevolenze. Ed il principio fu sì largamente applicato che non solo si riconobbe il diritto dei Giudei peregrini a conservare il proprio culto intatto e protetto, ma pur anche ai cittadini romani e si giunse persino, vinto, secondo i criteri romani, Jahve stesso nel 70, a permettere alla sua religione una continuità di vita grazie ad un’imposta che, in un certo qual modo, fosse il riconoscimento della sua inferiorità dinanzi a Giove Capitolino (II, 243 segg.). Durante l’impero la maggior prova dei riguardi usati ai Giudei da questo lato — salvi i periodi di persecuzione — è formata dal modo in cui è loro permesso di comportarsi di fronte al culto imperiale, dinanzi al quale Roma non transige. Essi nominano l’imperatore 0 giurano per lui in una formula semplificata, dalla quale è tolto il titolo di dio (Scóc), e l’appellativo di signore (Swzót/j;) è sostituito da quello di tutore (zòsto;); celebrano le feste in onore dell’impe-peratore (dies natali*, vittorie, anniversari) ma, generalmente, con cerimonie nelle loro sinagoghe, rivolgendosi a Jahve per lui ; non gli dedicano templi, come dio, ma gli dedicano i loro edifici del culto per onorarlo. Non si prosternano davanti alle statue ed alle imagini imperiali, non le accolgono nelle sinagoghe specialmente in Palestina, dove questo rispetto arriva all’esagerazione (le truppe non ànno signa con imagini, le monete non ànno figura umana); meno rigorosamente nella Diaspora, ove qualche cosa è permesso (II, 338 segg.).
Ai Giudei è riconosciuto il rispetto delle loro feste e specialmente del sabato, tanto che in questo giorno non sono chiamati in giustizia, non si può loro richiedere servizio di sorta, non si fanno distribuzioni gratuite a loro favore, ma se ne fa una supplementare e speciale per essi il giorno dopo. Ànno per le feste e per il sabato la dispensa dal servizio militare, possono festeggiare l’anno sabatico. Durante le loro feste possono riunirsi a banchettare (agapi), contrariamente al diritto generale che limitava la cosa; si usano loro degli speciali riguardi per l’alimentazione, sia nella milizia, sia nelle distribuzioni gratuite, sia obbligando le città greche a provvederli degli alimenti loro permessi. Nessuno li obbliga ad abbandonare la lingua materna, a parlare latino o greco : ànno il permesso di cantare e leggere in ebraico ed è delitto di sacrilegio il rubare i loro libri santi o profanarli. Nè era solo loro concesso di recarsi in pellegrinaggio annuale in Gerusalemme, ma il contributo che essi mandavano ogni anno al Tempio era, insieme con i doni, considerato come danaro sacro (tspz ^p^jzara) e la spedizione ne era protetta dallo stato. Questo definiva poi come sacrilegio il furto di tutto il danaro sacro dei Giudei, anche se effettuato fuori del Tempio, i colpevoli erano privati del diritto di asilo
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e consegnati ai Giudei stessi per il giudizio. All’incirca un uguale trattamento era usato per le contribuzioni annuali fatte per il patriarca {auruni coronarium), cui era riconosciuto il diritto di fissarne la somma, regolarne il modo di percezione e così via (II, 354 segg.).
Ma il giudaismo aveva nelle vene, per così dire, la tendenza al proselitismo e doveva quindi fatalmente venir a cozzare contro Roma su questo punto di contatto: non che altri punti deboli non vi fossero nelle relazioni tra lui e l’impero, essi però più che mai Si rendevano vivaci ed operosi in questo. Chi diveniva proselito non era colpevole in quanto era tale, inquanto le sue opinioni si staccavano nettamente da quelle che servivano di sostrato alla religione ufficiale, ma in quanto veniva a dichiararsi ateo, cioè non aderente al culto dello stato, il giorno in cui questo richiedeva il compimento di un rito che riteneva necessario. Quando poi non solo questa manifestazione esteriore delle proprie opinioni, ma pur il marchio corporale, la circoncisione, venne proibito ai Romani, il proselitismo giudaico fu colpito a morte. Rimase, è vero, ai simpatizzanti della religione giudaica aperta la via del semi-proselitismo (metuenles, espónevo’., ’IouW^ovts?) ; il quale richiedeva la sola adesione al monoteismo e, se mai, l’adattamento a qualche rito speciale. In tal modo, salvo il caso di un divieto speciale di questo rito, non essendovi nel fedele l’intransigenza del vero e proprio Giudeo e lo stato non preoccupandosi dell’opinione o della fede degl'individui, non vi erano ostacoli seri a questo mezzo di diffusione del giudaismo. Il paganesimo, grazie alla sua tolleranza, non veniva ad accorgersi che in tal modo minava la propria esistenza: e vedremo a suo luogo che di questo sordo lavorio di disgregazione approfittava più che mai il cristianesimo (I, 253 segg.).
7. I Giudei si erano estesi in tutto il mondo conosciuto con la mirabile espansibilità della razza ed avevano invaso tutti i gradi, i mestieri, le professioni sociali (I, 180 segg.); schiavi nella massima parte all’inizio, avevano finito col non darne più verso la fine del v secolo, avevano accaparrato molti mestieri, erano entrati nel commercio, però senza raggiungere quel numero e quell’importanza eccessiva che fecero più tardi di Giudeo e commerciante un sinonimo; si erano dati nella Diaspora specialmente alla agricoltura. Tra loro vi erano i ricchi, è vero, ma non in una proporzione maggiore della comune: i poveri non mancavano affatto, le distribuzioni gratuite, la beneficenza stanno a dimostrarlo, quando non si pensi alle cause storiche che influirono sulla formazione della miseria giudaica. Pregiudizi quindi di vario genere e di varia origine corrono ancora pur sui Giudei dell'antichità, come, del resto, correvano, sebbene in altro senso, nell’antichità stessa (II, 291 segg.).
Là dóve questa sembrava aver ragione era nell’assoluta intransigenza religiosa di questa razza così diffusa e di questa religione così largamente propagantesi per il mondo.
I Romani temevano i Giudei, è indiscutibile; la loro grande diffusione, l’esclusivismo con cui si erano imposti, la facilità con la quale per ragioni religiose si abbandonavano a rivolte e sedizioni sanguinose, la loro tenace solidarietà, la loro ostilità
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contro il mondo esteriore—che li odiava e che li trattava nel peggior modo (atei [II, 206 e 207. accusa che si scambiali tra loro pagani, Giudei, cristiani], nemici del genere umano, odiati dagli dei, popolo inutile, gente nata per la schiavitù, crudeli, astiosi, vili, viziosi, libidinosi, sporchi, dannosi, dispregevoli: I. 45 segg.) — non potevano non essere per i Romani altrettanti motivi di preoccupazione per la compagine sociale quale essi l’avevano ideata e la volevano. Per rendersi conto dell’intransigenza religiosa dei Giudei si pensi solamente alla folle tenacia con cui rispettavano il riposo del sabato e delle loro feste, anche se fossero in campagna contro un nemico (II, 269), anche se si trovassero in pericolo di naufragio (II, 324, n. 5). Onde non avevano torto quelli dei Romani che, come Seneca o come l'alto magistrato cui Filone attribuisce un discorso antigiudaico, inveivano contro un tale costume (I, 276 e 355, n. 2) e ne mettevano in evidenza tutto il carattere antisociale (1).
Quando si voglia capire qual fosse lo stato d’animo dei Romani di fronte ai Giudei si pensi a quello nostro di Europei di fronte ai musulmani: il disprezzo è, all’incirca, l’identico come è identico il timore, con una maggior ragionevolezza a favore di quello dei Romani, in quanto che i Giudei avevano doti di attività e di invadenza ed operosità e attitudini sociali ben superiori e, senza l’argine posto dalla legislazione romana al proselitismo e, forse, senza il cristianesimo, tali da imporsi realmente nella società. Che il nostro paragone non sia fuori della realtà, lo provano le cifre, per quanto approssimative possano essere. Il numero dei Giudei nell'antichità può calcolarsi a 7 milioni circa su 54, quanti si calcola avesse il mondo allora conosciuto (I, 210 segg.), quindi un ottavo della popolazione totale. L’IsIàm può calcolare circa su di un settimo di fedeli in relazione della popolazione complessiva del globo (Marinelli: 212 milioni su 1408; Sòderblom-Pioli: 235 su 1630) o, se si vuole escludere dal computo l’America (90 milioni), anche su di un sesto, ma oltre alle ragioni già dette deve ricordarsi che la Thora era diffusa in centri di maggior civiltà di quelli in cui è diffuso ora l’IsIàm e che essa allora si trovava nel suo momento eroico, terminato all’incirca con i Severi, e ripreso poi con raffermarsi ufficiale del cristianesimo (II, 195 segg.).. mentre l’IsIàm à perduto la sua forza ormai, come lo dimostra la non riuscita dell’attuale guerra santa. Il « pericolo giudaico » quindi per il mondo greco-romano e per la civiltà latina ed ellenistica era ben maggiore del « pericolo islamitico » per noi: io sono anzi disposto a credere che il secundum genus avesse maggior probabilità del mitriacismo di con(1) Altre prove dell’intolleranza giudaica le troverai in Bouché-Leclercq, p. 103 e per il primo dei fatti citati nel testo potrai vedere lo stesso nella sua Hist. des Séleuc., I, p. 381. Inoltre a p. 265, 277, 375, 381, 415 di quest’opera troverai altre osservazioni importanti sul medesimo argomento: nè dovranno sembrare eccessive le sue deduzioni sulle religioni derivate dal giudaismo, quando, per citare un fatto moderno, sia pure di importanza secondaria, ma ben in relazione con quello della sospensione della marcia d’Antioco contro i Parti per due giorni, si ricorderà che se l’inseguimento degli Austriaci dopo la battaglia di Goito non raggiunse il suo obbiettivo, lo si deve all’ordine dato da Carlo Alberto che le truppe lo cessassero per andare a sentire la messa, il giorno dopo essendo domenica!
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vertire il mondo se non fosse sorto il terlium genus, onde il celebre giudizio del Renan andrebbe meglio parafrasato : Se il cristianesimo fosse stato arrestato nel suo sviluppo il mondo sarebbe stato giudeo !
8. Del resto i Romani avevano avuto ben campo di constatare come con i Giudei non si scherzasse: i privilegi che essi avevano loro concessi, la tolleranza di cui avevano dato prova non erano un risultato puro e semplice della loro sapienza politica, del principio che si erano stabiliti, di rispettare gli usi ed i costumi, la religione e le leggi nazionali dei popoli soggetti sino al massimo consentito dalla esistenza e dalla vitalità dell’impero. La legislazione speciale a loro favore i Giudei se l’erano procurata dapprima con una saggia politica, piu tardi con una lotta sanguinosa e disperata. Ogni qualvolta un imperatore aveva voluto derogare dalla politica favoreggiatrice di Cesare, dimenticando quella serie di disposizioni ch'egli aveva loro largite e che è stata giustamente chiamata una Magna Charta, i Giudei si sollevarono e difesero i loro diritti specialmente religiosi con accanimento senza pari. I quali dovevano quindi ben presto esser ripristinati: la stessa guerra del 70 non glieli fece abolire, perchè se ciò si fosse fatto sarebbe insorta anche la Diaspora e fu quindi saggio non irritarla e non averla nemica. Vi fu perciò tutta una serie di persecuzioni ebraiche che fecero vittime numerose, che devastarono paesi e città; erra chi sostiene che l’antichità non conobbe le guerre di religione, poiché basterebbero le persecuzioni giudaiche con le loro centinaia di migliaia di vittime per smentire una tale affermazione.
Noi non possiamo seguire in questo modesto riassunto la storia di tali conquiste e di tali sottomissioni sanguinose; il lettore potrà vederne il catalogo con le necessarie indicazioni nell’opera dello Juster I, 213 segg., 361 n. e II, 182 segg. Ci limiteremo più in là ad accennare alle une ed alle altre in relazione alla storia del cristianesimo primitivo per dimostrare come per lungo tempo la storia di questo non sia altro che la storia del giudaismo perseguitato, ad onta dei privilegi di cui godeva, dalla politica di alcuni imperatori o dalla parzialità di alcuni governatori o dall'ira popolare (I, 351; II, 13 e 169, n. 1), così come doveva più tardi capitare ai cristiani. Solo tardi il cristianesimo si staccò dal tronco, ma quando ciò avvenne su di esso si era già impresso il marchio del peccato originale e la politica imperiale non poteva più cambiare. Ma vediamo, senza anticipare, come i fatti si Svolsero.
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III. - La germinazione giudaica del cristianesimo: la “secta”.
Non sono alieno dall’accettare la conclusione cui giunse recentemente in questa stessa rivista il Minocchi nella sua ricerca sul nome di Chrestianus
nel senso che esso ebbe origine in Roma intorno al 50 d. Cr. (1), ma non posso ammettere in nessun modo che la nuova denominazione non definisse agli occhi dei Romani una semplice setta giudaica che avesse per impulso/ un Chrcstus qualunque. Ed è, a mio modo di vedere, indiscutibile che questa confusione persistette per lungo tempo: degli autori recenti il solo Manaresi pare faccetti per tutto il primo secolo (p. 57), mentre il Fracassini (p. 51 segg.) ed il Giobbi© (p. 61) vi si ribellano, questi con un violento antisemitismo senza ragione, quello con un'argomentazione molto ingegnosa, ma altrettanto insostenibile a proposito del primo processo di Paolo, sulla quale ci tratterremo tra breve. Prima di giungervi dobbiamo accennare brevemente alle relazióni tra l'impero, il giudaismo ed il cristianesimo nel periodo anteriore a Nerone.
La tradizione leggendaria cristiana fa risalire a Tiberio l’origine dei rapporti tra cristianesimo e impero: più in là naturalmente non poteva risalire. Ma è sintomatico il constatare come pure sotto Tiberio i rapporti tra giudaismo, e impero, che datavano appena da un secolo in forma più stretta, assumessero un nuovo aspetto, quello cioè di un vero e proprio cozzo tra due idee e quindi dessero origine ad un conflitto che doveva perpetuarsi per lungo tempo, sebbene subito si fosse trovata una via d’uscita all'impressionante ostinazione religiosa dei Giudei. Il riconoscimento dei privilegi concessi a costoro da Cesare (v. sopra II, 8), avvenuto per opera di Augusto, sapiente maneggiatore di uomini e di cose, mostrò ben presto il suo lato debole quando il predominante criterio politico di Roma si elevò
(1) V. in questa rivista IV, p. 205 segg. Sebbene non mi sembri accettabile nelle sue conclusioni, il Minocchi doveva pur ricordare tra le altrui opinioni sull'argomento, quella del Paribeni, manifestata al III Congresso archeologico internazionale (Roma, 1912) e £ubblicata oltre che nel bollettino riassuntivo del congresso stesso (p. 100), nel Nuovo 9ll. d'a/ch. crisi., 19, p. 37-41. — Agli esempi della formazione degli aggettivi in -anus, Che abitualmente si portano a sostegno dell’uso de’ derivati dai nomi propri nel 1 sec. d. Cr., credo possa molto praticamente unirsi il cacofonico Anlonianus che si legge in Sen. de bene/.. Il, 25: < Antonianas partes ».
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contro là concezione religiosa in transigente del popolo ebraico. Sotto Seiano, perciò, che esigeva per Tiberio e per sè un’iconoiatria che non ammetteva eccezioni, scoppiò la prima persecuzione giudaica finché, sparito Seiano, Tiberio non capì che era meglio per lo stato il seguire la politica di Augusto di quello che imitare quelli dei Seleucidi che avevano dovuto spegnere nel sangue le rivolte religiose degli Ebrei, e ne confermò i privilegi eccezionali (1).
In relazione a questi avvenimenti Storici la tradizione cristiana in via di formazione conosceva un Tiberio con Ponzio Pilato persecutore dei Giudei e favoreggiatore dei cristiani, nella semplice forma in cui ci appare Traiano che non volle si desse ascolto ai delatori anonimi (2): egli quindi rimaneva nella mente degli uni e dògli altri come l’uomo che aveva resa possibile la vita ad ambedue i culti.
Sotto Caligola scoppiava per le identiche ragioni ideali la famosa rivolta alessandrina e minacciava una maggior lotta in Palestina, ma la persecuzione caiana aveva un carattere più particolare che generale, onde con essa non potè e non volle confondersi la tradizione cristiana che mira nella formazione della serie delle persecuzioni a quel cattolicismo che è già nelle sue mire sin dall’inizio del HI secolo d. Cr. e che si afferma vittorioso e strapotente quando la tradizione chiude la sua prima fase costitutiva tra la fine del iv cd il principio del v secolo dopo Cristo (3).
Quel che avvenne sotto Claudio è forse un po’ meno chiaro, ma cionondimeno non pare possa negarsi che durante il suo principato troviamo la prima menzione storica esterióre dei cristiani, per quanto di essi non si parli distintamente dai Giudei. Per i quali la politica di Claudio ci appare verso la generalità benevola, sì da produrre conferme espliciti dei privilegi, già in precedenza largiti loro dagli imperatori; non altrettanto però si può dire delle sue disposizioni verso la colonia di Roma, ritornata ad essere numerosa dopo che, cambiata la politica di Tiberio, gli scacciati poterono ritornare in città, forse già sótto Caligola, certo sotto i primi anni dell’impero di Claudio. È certo che sin d’allora la turbolenza dei Giudei costrinse il sovrano, Che paventava di provocare una rivolta ordinandone l'espulsione, a limitare il loro diritto di riunione. Con ciò non ottenne però lo scopo, anzi ebbe ancora a lamentare gl’identici inconvenienti per ragioni religiose che si attribuivano all’opera d’un certo Chrestus. Allora dovè piegarsi ad espellerli non solo da Roma, ma dall’ Italia e ad estendere il provvedimento anche ad altre categorie di disturbatori dell’ordine pubblico, provvedendo altresì a punire i loro complici 0 simpatizzanti (4).
(1) V. Juster, I, 339, n. 4 e per i Seleucidi, meglio, Bouché-Leclercq, Hisloire des Séleucides, I, 238 segg., 262 segg., 414 seg., eco.
(2) « comminatus periculum accusatoribus Christianorum ». Tert., Ap., 5.
(3) Juster, I, p. 351 segg. e II, p. 183.
(4) La ricostruzione della politica di Claudio verso i Giudei nel modo nel quale è stata fatta nel testo mi è stata dettata dalle seguenti considerazioni. Il Mommsen (Le prov. rom., p. 513) ed il Juster, I, p. 411: II, p. 171, trovano tra la testimonianza di Dione Cassio (LX, 6, 6) e quella di Svetonio (Claud., 25, 3) una contraddizione insanabile che naturalmente non possono non procurar di togliere, attenendosi a quello piuttosto che a questo.
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Anche qui però non si tratta di contatto diretto tra l'impero ed il cristianesimo: annuente anche la tradizione cristiana (x), si può vedere in questi rapporti un semplice episodio della lotta pagano-giudaica, mercè il cozzo manifestatosi tra lo stato ed una comunità giudaica qualunque, causa di disordini.
Invece, secondo la tradizione cristiana unanime, il vero cozzo diretto tra i due à luogo sotto Nerone: disgraziatamente se si eccettuano testimonianze poco lontane dall’avvenimento, ma incomplete, il ragguaglio che ci rimane è tardivo sia che si consultino le fonti pagane, sia che si ricorra alle cristiane. Da queste appare evidente non solo lo sforzo di attribuire a Nerone una colpa di piu, ma benanche di servirsi della relazione di Tacito come di fondamento della narrazione: ora Tacito è pure la fonte degli altri autori che ricordano l'avvenimento a cominciare da Svetonio e se pur à visto l’incendio ne à trattato più o meno storicamente circa un mezzo secolo dopo, quando tra l’impero ed il cristianesimo s’erano già affermate nuove relazioni. Le questioni che sorgono quindi dinanzi allo storico moderno sono due: quando Nerone volle reprimere i fedeli del nuovo culto e sotto qual forma legale li combattè. Alcuni, e recentemente il Fracassini (p. 61 segg.), ànno sostenuto l’indipendenza della persecuzione dall'incendio di Roma del 64 ed ànno quindi datato la prima con un momento anteriore al secondo e per conseCiò sarebbe giusto se noi possedessimo tutto il testo <li Dione relativo al principato di Claudio; è noto però che la nostra'tradizione paleografica non va più in là del 47 d. Cr. (v. ed. Boissevain, II, p. XXI seg. e Christ-Schmid, Gesch. griech. liti.*, II, p. 63), laddove il provvedimento accennato da Svetonio è del 49, il che si prova non solo con la testimonianza diOrosio (VII, 6,15) ma, quel che è più, con la datazione cronologica dei fatti tra cui essa è posta (§ 14: a. 48 e § 17: a. 51; cfr. Goyau, Chron. de l’émp., p. 100 e 105), dunque certamente 49 o 50. D’altra parte l’attestazione di Dione che egli non cacciò i Giudei, ma proibì loro solo di riunirsi, sta sotto l’anno 41 (LX, 6, 6; ciò che spièga la cronologia inesatta di Gaheisin Pauly-Wissowa, III, 2790) o, meglio ancora, nei capitoli ove si parla della politica e delle tendenze dell’imperatore senza un preciso legame cronologico. Ora fino al 46 ci consta da altre fonti (v. Juster I, p. 155 e 159) che Claudio era indubbiamente ben disposto verso i Giudei: ne segue che la sua politica pur mantenendosi benevola verso la generalità, colpì nel modo più blando possibile il gruppo romano turbolento e numeroso, tentando di non inasprirne le tendenze sediziose. Successivamente queste si manifestarono ancora (così l’affermazione di Dione Cassio ci permette di spiegarci realisticamente 1’assidue tumultuantis di Svetonio) e se ne seppero anche le cause: beghe religiose causate da un certo Cristo che alcuni dei Giudei dichiaravano loro capo, altri no; e si venne all’espulsione. I moti sediziosi devono aver avuto anzi una maggiore estensione se — e qui ci viene in soccorso il testo perduto di Dione, quale lo ricostituiamo alla meglio (v. ed. Boissevain, III, p. 12) —nel 52 anche gli astrologi vengono cacciati dall’Italia (Tac., Ann.. XII, 52) e quelli che con loro avevano pescato nel torbido, pur senza essere « mathematici » vengono puniti (Zon., XI, io, p. 33, Dindorf). Ne viene di conseguenza che molto probabilmente Dione Cassio di questi moti rivoluzionari deve aver trattato nel libro LXl e precisamente poco prima della notizia serbataci da Zonara sugli astrologi, in corrispondenza con quella di Tacito; e che Svetonio deve aver desunto la propria dalla sua fonte in questa seconda serie di avvenimenti che non esclude affatto la prima, anzi la chiarisce.
Sulla citazione di Giuseppe Flavio per opera d’Orosio osservo che o si tratta d’uno dei suoi numerosi errori o Flavio fu in qualche punto ridotto dagli amanuensi cristiani per ragioni religiose (cfr. Juster, I, p. 13, n. 3), oppure ancora, invece di Giuseppe deve leggersi qualche altro nome, riportato bene del suo cronografo, male da lui.
(1) Oros., VII, 6, 16: « An etiam Christianos simul velut cognatae religionis ho-mines voluerit expelli... ».
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guenza anno trovato la causa legale della repressione dei cristiani nel loro nomen (p. 87 segg.). Pur riservandoci di trattare poi di questa formula che avrebbe permesso la punizione dei nuovi credenti, crediamo di dover respingere assolutamente la premessa di tale proposizione, che si fonda alla fin fine su di un erroneo apprezzamento del'testo di Svetonio (1).
Chi volesse sostenere, difatti, tale opinione avrebbe due mezzi di ricerca apparentemente di qualche valore, uno estrinseco: le testimonianze di Svetonio e di Sulpicio Severo per cui sembra che la persecuzione neroniana non abbia connessione con l’incendio (2); l’altro intrinseco, la cronologia paoli na, determinata dalla scoperta che permette di fissare il proconsolato di Gallione al 52 (3). Ora chi volesse trarre una conclusione di carattere cronologico dalle vite svetoniane, almeno per quel che riguarda la dipendenza o indipendenza degli avvenimenti narrati in un gruppo di fatti da quello precedente o seguente, errerebbe e dimostrerebbe di non conoscere Svetonio (4). Maggior valore avrebbe, a mio modo di vedere — e
(1) Atero, 16, 2: la notizia della persecuzione cristiana sta nella serie delle «animad-versa severe et coercíta ».
(2) Sulp. Sev. Chron., II, 29, dopo aver parlato dell’incendio di Roma e della condanna dei cristiani come colpevoli, aggiunge: « Post etiam datis legibus religio vetabatur, palamque edictis propositis, Christianum esse non licebat ». Quindi si parla del martirio di Pietro e di Paolo introducendo il periodo con un lune. Nel qual passo io non vedo perchè il luogo riportato non possa essere una parentesi dell’autore allusiva agli avvenimenti posteriori, piuttosto che un accenno ad un momento successivo della persecuzione neroniana. Sulpizio verrebbe a dire: Questo hi il principio delle persecuzioni cristiane (onde il pretesto del reato d’incendiari); più tardi la religione stessa fu proibita con leggi speciali e con editti che vietavano di essere cristiani; allora intanto furono condannati Pietro e Paolo. Così la pensa anche Duchesne, Ortg. chrétiennes, p. 106.
(3) La famosa iscrizione delfica per la quale si può vedere la bibliografia in Christ-Schmid, o. c., II, 931, n. 4; Juster II, 15.4, n. 4 (ove però è sbagliata la data di pubblicazione dell’opuscolo del Bourguet che la pubblicò per il primo — 1905 e non »903; v. Rev. des études grecques, 1907, p. 49) e Rev. hist. et liti. rei. 1913, p. 487 è rimasta se non ignota per lo meno poco nota agli studiosi della storia dell’impero, tanto che è difficile trovarne traccia nelle pubblicazioni correnti. Pare la ignorino non solo il Bouché-Leclercq (p. 148 segg.), ma il Manaresi stesso (p. 45 e 56) e, naturalmente, il Giobbi© che forse l’avrebbe trascurata con intenzione. Al Fracassini (p. 76 segg.) spetta invece il merito di averne tenuto conto, anche se la ricerca da lui condotta su di essa non abbia probabilità di essere accettata dagli studiosi. Per comodità dei lettori che no n la conoscono ne trascrivo qui la parte essenziale, desumendola dall’opera del Deissmann, Paulus, Ein Kultur-u. Religionsgéschichtliche Skizze, p. 166 segg., che la discute a fondo e con competenza:
KXaváto; K]a'a[ap rfep^avcxáí, àpy/eptù; ucycoTOt, 8r,uapxix^; i^au]
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Per la sostituzione del nome del proconsole il Deissmann ricorda Inscr. Gr., VII, 1676: H wóXcj twv nXaTasétóv Aoúxfiov ’làuJvcM raXXcwva 'Aviaviv (ávSjúhrarov tív cauri; 8Úsf[y]tT{r,’í] ove l’editore, il Dittenberger, aveva però restituito [ù]-aT4v.
(4) V. Schanz, Gesch d. rbm. Lili., Ili2, p. 50 e 51, ed ibidem, quel che Svetonio dice della composizione di varie sue vite (p. es. Àug. 9: « partes singillalim ñeque per tempora, sed per speoies exsequar ») e si cfr. qui sopra la nota 1.
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contrariamente, com'è noto, alle opinioni negative di altri—la cronologia paolina, se la si potesse fissare con tutta sicurezza. Ma pur ammettendo che nel 60061 Paolo di Tarso fosse liberato dal suo primo processo (1) non si può rigorosamente concludere per ciò ch’egli venisse sottoposto ad un nuovo processo per cristianità prima dell’agosto 64 e cioè in un momento che ci permetterebbe di vedere tra la persecuzione cristiana e l'incendio neroniano la concatenazione che à creduto di vedere Tacito. Non essendovi prove storiche che ci impongano di accettare per la morte di Paolo il 63 o un altro momento anteriore al 64 e giovandoci d’altra parte dell’opinione di chi stabilisce queste date per affermare la non contemporaneità della morte dei due apostoli, il contrario essendo molto diffìcile a sostenersi (2), non vedo per qual ragione si dovrebbe rifiutare credito alla tradizione che Io fa morire nel 67; poiché tra il 61 o 62 ed il 67 potremmo collocare l’evangelizzazione dell’estremo occidente, il ritorno in Roma per le tristi notizie che dovevano essergli pervenute nella sua peregrinazione e quindi il secondo processo come complice di sediziosi ed incendiari e infine la decapitazione (3).
Perchè — e questa è una prova che viene ad avvalorare la versione tacitiana — a me pare indiscutibile che i cristiani, dirò meglio, come dimostrerò tra breve, i Giudei ed i cristiani, vennero condannati dopo l’incendio neroniano semplicemente come sediziosi ed incendiari: lo dimostrano le pene che subirono. Può essere utile per la completa ricostruzione storica degli avvenimenti il ricercare se l’indicazione come colpevoli dei cristiani sia pervenuta dai Giudei (4) o dalla plebe romana che
(1) Il primo processo che subì Paolo non fu nè per cristianesimo, nè come cristiano. Risulta dagli stessi atti degli apostoli che l’autorità romana lo considerò come un giudeo cittadino romano che avesse beghe con i suoi correligionari. La causa però non è chiara: si veda in ogni modo il Jvster, II, 143, 154, 162 segg. ecc. Molto probabilmente il motivo deve ricercarsi in Ad., 21. 28-29: ovro; íotw ó àv'aowTr*; i zarà >.a$5 zai [v. DitTENBERGER, Or. Gr. InSCr. Sel., II, 598 e v. sopra II, 4] za? tówov iràvTa« wavTay.z ¿t&tozw, «ri -z zaí "Eí.kr.-»«; ciozYayev icj ~i> 'novi zai xcxonozcv àvioy tìttov toStov.
(2) Il credito che trova la tesi della morte di Paolo nel 63, anche presso storici ortodossi come il Fracassini (già I’Erbes sostenne in Texte u. Untersuchungen z. Gesch. d. alt-chrisllich. Liier. xix (1S99) p. 47 segg. per la morte dell’apostolo il 20 febbraio 63) è prova che la contemporaneità della morte de’ due propagandisti cristiani non è sostenibile con inoppugnabilità di argomenti. Si veda Manares«, p. 56-57 che in questa questione come in altre mostra una strana titubanza a risolversi in un senso piuttosto che in un altro.
(3) Il Manaresi, I. c.. fa morire Paolo con le vittime del 64, laddove il Giobbio, pag. 89, è naturalmente tradizionalista. Come si vede finisco con Tesserlo anch’io, ma con argomenti del tutto differenti. Ecco il suo ragionamento: « Dal passo di Sulpizio Severo (quello riportato nella nota 2 della pag. precedente] si deve inoltre rilevare, che il martirio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo non avvenne durante (sic) l’incendio di Roma e quindi nel 64, bensì dopo che furono emanate da Nerone le leggi per le quali « christianuni esse non licebal ». Questa affermazione (il tune di Sulpizio Severo?] è importantissima perchè conferma la costante tradizione romana, che assegna al 67 l’anno del martirio dei due grandi apostoli». Si veda molto meglio per la tradizione Eus., hist. eccl., Il, 22, 7 che sembra escludere una morte per condanna collettiva e anteriormente al 64 o nel 64.
(4) Sulla parte che ebbero i Giudei nell’accusa dei cristiani v. per ora Juster, I. 294. n- 5- Le ragioni di queste delazioni, discutibili in alcuni casi, le vedremo più sotto. Naturalmente ciò non ci autorizza a seguire il Giobbi© nelle sue violente accuse sulla provocazione giudaica della persecuzione neroniana (p. 61 segg.), nelle quali in parte segue l’Harnack, spesso adoperandolo male, (si cfr., p. es., p. 61: « L’Harnack infatti ci fa sapere
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(Musco delle Terme, Roma)
NERONE (ca. 60 d. Cr.)
(Fot. Aliñar!)
(Call. d. Uffizi. Firenze) (Fot. Alinari)
NERONE - SOLE (68 d. Cr.)
(I>a una moneta)
COSTANTINO - SOLE (326 d. Cr.)
1 TRADIZIONALI INIZIATORI DELLA PERSECUZIONE E DELLA PACE CRISTIANA
[1915-Vi)
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odiava gli uni e gli altri, ma ciò non toglie in nessun modo il fatto che Nerone condannò quelli che gli capitarono tra le mani come incendiari e sediziosi.
Quattro generi di condanne a morte ci sembra poter rilevare dalle testimonianze che ci rimangono sulla persecuzione neroniana: la morte semplice (decapitazione), quella per mezzo del fuoco, quella sulla croce e quella con l’esposizione alle belve. Se queste pene furono inasprite con raffinata crudeltà sia facendo dei destinati al rogo delle torcie illuminanti i giardini imperiali, sia formando con i condannati quadri viventi di una truce verità, ciò è dovuto dal punto di vista politico al tentativo fatto da Nerone di dare maggior soddisfazione al popolo che voleva vedere i presunti colpevoli atrocemente suppliziati — sentimento che ispira le folle di tutti i tempi contro coloro che sono accusati di disturbarne la pace ed i godimenti materiali — e dal punto di vista legale con « l'arbitrio di Sua Eccellenza», come si diceva in tempi ancor vicini a noi, ossia con la facoltà che aveva l’imperatore di aumentare o diminuire le pene, facoltà che già aveva avuto il senato (i). Ciò non toglie però che le forme della pena di morte comminata ai rei fossero appunto quelle che erano richieste dal reato d’incendio e di sedizione: le nostre cognizioni di diritto penale ci permettono di giungere a queste conclusioni con tutta sicurezza (2). La stessa pena di morte per decapitazione cui fu sottoposto Paolo di Tarso, cittadino romano, ce lo prova: altre eccezioni non ci constano, perche la massa dei condannati era formata di gente di poco conto, socialmente parlando, e quindi non tale da permettere una elevazione del grado della pena di morte.
Dunque non vi è nessun mezzo per dimostrare che nella persecuzione neroniana si siano avuti come determinanti dei motivi estranei a quelli d’ordine pubche furono gli Ebrei che aizzarono contro i cristiani in tutti i paesi le moltitudini e le autorità ». Ora la trad. di Missione e propagazione del Cr. del Marucchi dice cosi a p. 41: «Essi [gli Ebrei! cercarono di paralizzare ad ogni passo l’opera di Paolo tra i pagani; gli aizzarono contro in tutti i paesi le moltitudini e le autorità», il che non è, precisamente, lo stesso!); in parte pare abbia delle idee proprie... molto originali. Così a pag. 53: « Se gli Ebrei furono risparmiati e considerati come esenti dal prestare il culto imperiale e invece furono colpiti i cristiani, questo lo si deve al fatto dell’influenza che quelli avevano alla corte imperiale, non solo per il proselitismo che vi esercitavano e per i sussidi economici che prestavano all’impero..., ecc. ». Ora tutto ciò non è che immaginazione: gli Ebrei prestavano un culto all’imperatore, come lo prestavano del resto i cristiani, e lo vedremo a suo luogo (per ora vedasi per ciò Juster, 1, 340 segg.); l’influenza degli Ebrei a corte sotto Nerone la credo con Coen (Atene e Roma, 1900, c. 267 segg. e sopratutto c. 273 ove è citato molto a proposito l’autore della pseudo-corrispondenza tra Seneca e Paolo per attestare che con 1 cristiani furono incolpati anche i Giudei) imaginaria poiché di rapporti stretti tra Roma e Giuda si potrebbe parlare appena appena e forse con gli Erodiadi (Mommsen, Le prov. rom., p. 494 segg., e Juster, I, 217, n. 4); il proselitismo ebraico fu sempre combattuto (v. Juster. I, 253 segg.), i sussidi economici che gli Ebrei prestavano all’impero un anacronismo di una ventina di secoli circa, perchè la banca Rotschild non funzionava ancora e non aveva allora precursori, dacché la tendenza finanziaria degli Ebrei comincia proprio dal momento in cui la tolleranza pagana verso di essi dà luogo all’intolleranza cristiana medioevale. V. su ciò Juster, II, 313 segg.
(1) Per le pene v. il noto luogo di Tac., Ann., 15, 44: la decapitazione risulterebbe dalla condanna di Paolo. Quanto all’accrescimento delle pene ad arbitrio del principe si veda Mommsen, Droit pénal, I, p. 306.
(2) Si veda Mommsen, o. c., IH. p. 407.
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blico: là religione non c’entra per nulla, in nessun modo. È errata perciò la tesi di coloro i quali sostengono con il Fracassini (p. 93 segg.) ed il Giobbio (p. 43 segg.) che la ragione della persecuzione fu il nomen, ossia che i cristiani vennero condannati solamente perchè tali, quasi che l’appartenere alla loro setta e l'essere quindi cristiano importasse di necessità il rendersi colpevole dei delitti attribuiti al nuovo culto. Per affermar ciò bisogna ammettere che già. nel I secolo d. Cr. il cristianesimo si fosse talmente individuato agli occhi dei non Giudei da distinguersi totalmente dalla religione di costoro, il che vedemmo già non essere stato per lungo tempo e possiamo pure stabilire non fosse neppure sotto Nerone. Questi colpisce i Giudei e tra essi, probabilmente per istigazione loro, i correligionari della nuova setta: il racconto di Tacito che, come dicemmo, nell’esposizione è evidentemente falsato dall'affermarsi degli avvenimenti di circa un mezzo secolo corso tra l’incendio e la sua narrazione Storica, e ciò più o meno conscia-, mente, permette cionondimeno di rilevare le traccie della versione originale che dovè correre nel 64. 1,‘exitiabilis superslitio era di origine giudaica {per ludeam, originem eius mali) ed i colpevoli che erano stati per i primi acciuffati avevano dato prove di essere rei dellWi«w generis fiumani che veniva appunto imputato ai Giudei (1). Il che non permetteva di condannarli, poiché la misantropia non costituiva un delitto, ma dava agio di considerarli come complici od autori di sedizioni o di incendi e quindi di colpirli con la severità della pena (2). Ne consegue che V ingens muUitudo di Tacito non è la folla dei cristiani solamente, ma quella anche dei Giudei, o meglio di una parte di essi, confusi, nella tumultuaria caccia dei colpevoli, nel volutamente affrettato loro processo, nella deliberata loro condanna in forma raffinata, ad onta delle denunzie, delle delazióni, con quelli che si volevano maggiormente rei del grave delitto. I Giudei erano notoriamente degli incendiari e degli anarchici (3), dal punto di vista sociale romano (cfr. sopra II, 4 e 7), essi stessi dichiaravano tali gli aderenti ad una loro nuova setta, non v’era ragione di non colpirli quando se né offriva il destro. Nerone che non ne conosceva la forza (4) e che vedeva rivolgersi una parte dell’opinione pubblica contro di sè, sia che ne fomentassero le ire i partiti conservatori, sia che il popolo vedesse di .mal occhio che alla fin fine al principe ed al suo circolo l'incendio fortuito (5) era stato gradito e benvenuto, subdidil reos e per solleticare i bassi istinti del popolino quae-silissimis poenis adjecit eos.
Questa posizione dei cristiani — di appartenenti ad una setta giudaica qualsiasi e quindi coinvolti nel generale disprezzo e oppressi dalle medesime accuse e
(1) Vedine le testimonianze in Juster, II, r66, n. 3.
(2) V. lo stesso ibid., 167 segg.
(3) V. lo stesso ibid., 205 segg., e I, 47, n. io.
(4) V. lo stesso ibid., 210, n. 4.
(5) Non è mia intenzione di entrar qui nella spinosa questione dell'incendio nero-mano: mi limito solamente ad osservare che dopo la ricerca astronomica fatta fare dal-r ?Eu-SEN ^v: ass‘arc^- rom-1^>1I2)>se ' risultati ne sono esatti, come non v’è ragione
<11 dubitare, il problema può dichiararsi risolto con l’attribuzione dell’incendio al caso fortuito.
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necessariamente sottoposti agli stessi doveri e godenti gli stessi diritti — non muta per mutar di principi neppure, dice Tertulliano, sotto Vespasiano, pur debellatore dei Giudei e quindi, se si completa il pensiero, logicamente persecutore anche dei cristiani, che non sono altro se non una setta giudaica (i). Muta invece sotto Domiziano? La concorde tradizione cristiana fa di costui, difatti, un persecutore, sebbene Tertulliano gli riconosca delle resipiscenze e quindi veda in lui il persecutore soltanto perchè lo ritiene una specie di Nerone redivivo.
A tutto rigore però neppur Domiziano ci appare in lotta con il cristianesimo: egli combatte invece il giudaismo — questo è certo — e per conseguenza colpisce pure i giudaizzanti in genere, i cristiani in ¡specie (2). Ma per comprendere appieno questa lotta non debbono dimenticarsi le nuove condizioni in cui dopo la guerra giudaica e la distruzione di Gerusalemme era venuto a trovarsi il giudaismo. La politica imperiale combatteva qualsiasi manifestazione nazionalistica del popolo la cui sottomissione gli era costata tanto sangue e tanto sforzo: da ciò l’istituzione del fiscus iudaicus e le persecuzioni contro la discendenza davidica vera o presunta che fosse (3). Domiziano continuò su questa direttiva e con il sistema delle delazioni da un lato, con quello delle vessazioni fiscali dall’altro tentò di abbattere la razza che si elevava come l’unica oppositrice reale della potenza romana (4).
È evidente che con questi intendimenti l’imperatore, senza pietà per ragione di stato, non cozzò solo contro l’antica religione, ma benanche contro la nuova che dinanzi alla mente romana si presentava sempre con i caratteri di una setta giudaica qualunque. Le non sicure tradizioni cristiane sulla persecuzione domi-zianea, le proscrizioni degli stessi congiunti imperiali sospetti di filogiudaismo ó di cristianesimo, l’inacerbimento della fiscalità giudaica e le rivolte scoppiate e represse sono i vari sintomi d'un'unica politica che non poteva avere per fine la distruzione del cristianesimo, in quanto che questo era ancora alle sue prime armi e non appariva agli occhi esteriori diversamente da una delle tante sette giudaiche (5).
(1) Apoi., 5: «... nullus Vespasianus, quamquam ludaeovum debellalo?... ».
(2) Apoi., 5: « Temptavit et Domitianus, fiorito Neronis de crudelilale, sed qua et homo, facile coeptum repressi t, restiti» tis etiam quos relegaverat ».
(3) Juster, I, 225 e 392, n. 4, e sul fiscus iudaicus li, 282 segg.
(4) Juster, I, 257, e II, 284.
(5) V. sulla persecuzione domizianea molto bene il Bouché-Leclercq, p. 179 segg. Non è molto sicuro, nè può discutersi il prò e il contro se le persecuzioni contro gli «atei» e quelle per l’esazione del fiscus iudaicus facessero parte di un unico indirizzo o fossero, come vuole, a quel che pare, il Juster, 1. c., provvedimenti ben distinti. Certo non si può assolutamente dire col Manaresi, p. 64, che il provvedimento fiscale aveva per ¡scopo anche di abbattere il cristianesimo: sebbene il Manaresi circondi la sua ipotesi di avverbi dubitativi (probabilmente, forse), bisogna convenire che dalle fonti non si può in alcun modo dedurre una tale opinione, come non si può essere sicuri del cristianesimo degli imputati di ateismo, perchè non ci sono prove in favore di una tale tesi: vedasi quel che dice molto bene il Juster, I, 257, n. 1. — Pensa con ragione poi il Duchesne, Orig. chrét., p. 108, che sarebbe molto seducente poter stabilire sotto Domiziano la «scoperta» del cristianesimo:' certo un passo verso di essa si fa con 'quest'imperatore, ma, come dirò poi, è molto più probabile vederla in un altro momento.
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La reazione manifestatasi con Nerva a questa politica vessatoria a base di delazioni, sebbene non modificasse il principio politico contrastante il proselitismo giudaico e tendente ad abbattere le velleità nazionalistiche dei Giudei — se da un lato sotto Traiano permette allo spirito rivoluzionario del popolo turbolento di scoppiare nella rivolta che assunse carattere di vera guerra contro i Romani ed i Greci, contro ^infedeli insomma (i), dall'altro sotto Traiano stesso ci si mostra chiaramente nella disposizione imperiale benevola a favore dei cristiani.
La famosa risposta alla lettera pliniana si riduce, difatti, come disposizione nuova al)'affermazione di questo principio di libertà: « Alle denunzie anonime non è degno del tempo nostro di dare valore». Per il resto essa dichiara che se i cristiani denunciati sono cristiani provati si puniscano, se lo negano e sacrificano agli dei si rilascino.
Più difficile ad interpretarsi è la questione che risulta già essere stata la base dei processi anteriori: la condanna deve essere pronunciata per il nomen ipsum. anche se non vi siano colpe da punire o perchè s’intendano queste come concomitanti al nomen (flagitia cohaerenlia nomini)? Le condanne pronunciate da Plinio prima della risposta imperiale non sono motivate da un vero e proprio reato, ma da una misura quasi di polizia, fondata suH’riw^mww proconsolare (2); occorre quindi avere la decisione sovrana e questa si determina nel senso che abbiamo visto: basta esser provalo cristiano per essere punito.
Risorge adunque in questo punto la questione che abbiamo visto risolta dal Fracassini e dal Giobbio all'inizio del periodo in cui si svolgono i rapporti tra lo stato ed il cristianesimo più 0 meno direttamente: per darle una soluzione però occorre tener conto, a nostro modo di vedere, di un elemento giuridico di grande
(1) Juster, 1, 258, e II, 285.
(2) La giustificazione di Plinio è, però, strana: dopo aver detto che i rei confessi erano da lui interrogati una seconda ed una terza volta con minaccia di morte (evidentemente si deve sottintendere nel caso di mancata ritrattazione) e se insistevano condannati a morte, dichiara (Ep., 96, 3): « Ncque enim dubitabam, qualecumque esset, quod faterentur, per-tmaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri ». Però dal provvedimento sono esclusi i cittadini romani che sono mandati a Roma. Ora la pertinacia e la inflexibilis obslinalio, che erano una delle caratteristiche ebraiche (« pervicacia superstitionis • dice IAC-, Hisl., >, 4: cfr. Juster, I, 47, n. 13), non costituivano, ch’io sappia, reato. Non si può trattare quindi che di un provvedimento preso in virtù del ius coercilionis amplissimo nei governatori provinciali verso i non cittadini, fossero essi o no Giudei. V. Juster, II. lóssegg. e Mommsen, Dr. pén., I, p. 277 segg.
A proposito di quel che Plinio dice della costrizione fatta agl’imputati di bestemmiare Cristo, poiché quelli che erano re vera Christiani non vi potevano essere obbligati in nessun modo, v Juster, II, 209, n. 1 per le imprecazioni contro Cristo bandite dai Giudei fin dalle origini del cristianesimo.
Si noti poi come la lettera di Plinio dia torto a quelli che ritengono esser nel nome di cristiano implicita una o più colpe (sacrilegio, delitto di lesa maestà religiosa o politica, incesto, omicidio, ecc.) perchè anche Plinio dubita come noi se si debba far colpa agh accusati di esser cristiani o di commettere dei delitti inerenti a tale professione di lede ed aggiunge che non riconosce in loro nulla di male; ma Traiano senza dir per qual ragione vuole la condanna dei cristiani, risponde che debbono essere condannati quelli che sono provati tali, cioè anche se il nome flagitiis cartai.
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valore per l'interpretazione della formula legale trovata da Traiano, occorre cioè vedere come fossero considerati in quel momento e fino allora i cristiani dal punto di vista legale. Se la setta giudaica che essi formavano agli occhi dei Romani non era diversamente trattata dalle altre sette giudaiche, religiosamente e socialmente parlando., la veste legale sotto cui doveva mostrarsi nello svolgimento della sua vita e nei suoi rapporti, diciamo così, di pace con lo stato era quella cui avevano diritto tutti i Giudei o era differente?
Abbiamo veduto già come finora per alcuni solo durante il primo secolo — i cristiani nell'opinione comune non fossero distinti dai Giudei; sappiamo d’altra parte che i primi aderenti al novo culto erano Giudei della Palestina o della Diaspora; ne segue logicamente che essi dovessero essere considerati legalmente e socialmente cgme non distinti dai Giudei. Dovevano perciò sottostare agl'identici doveri e usufruire degli stessi diritti e privilegi, poiché fino a che non ci fosse stata una formale opposizione delle autorità giudaiche competenti, la nuova setta doveva essere considerata sia pure dissidente, ma sempre d’origine, di culto, di nazionali giudaica.
Ora l’opposizione venne, ma in forma tale — cioè religiosa — da non permettere alle autorità romane di escludere in modo assoluto e perentorio i cristiani dal giudaismo (i) Essa di fronte ai contrasti sorgenti tra le due religioni ed alle competizioni dovè mantenere intatti i suoi principi di diritto e cioè: opposizione al proselitismo e riconoscimento dei privilegi religiosi e sociali dei Giudei. Perciò la nascente « chiesa » godè fin dalle origini di libertà e di privilegi che spiegano l’accanimento con cui si dichiarò il vero Israello, laddove a mano a mano che si estese e si differenziò dàlia religione-madre trovò l’ostacolo della mancanza della nazionalità ebraica dei suoi membri e il divieto di fare proseliti, sebbene godesse dei privilegi e dei diritti giudaici, poiché anche ai Giudei ciò era vietato di fare. Ne consegue quindi che bastò dichiararsi cristiano per essere colpevole; chi si confessava cristiano difatti veniva implicitamente a confessarsi reo di proselitismo e di abusiva professione religiosa, senza dire dei reati minori di cui potevano essere convinti gli accusati caso per caso.
(i) I privilegi concessi ai Giudei erano, in teoria almeno, limitati ai praticanti il culto (Juster, I, 232 segg.), ma in pratica non ci consta come l’autorità civile distinguesse questi dai non praticanti: la scomunica aveva anche effetti civili, a quel che pare (Juster, II, 159 segg.), ma non abbiamo esempi che ce la mostrino in atto. Quel checi risulta chiaramente è la continua, incessante, acuta controversia tra i due culti nel dichiararsi il vero Israello e da parte di questo quindi nel tentare in tutti i modi di denigrare dinanzi all’autorità romana i cristiani. A quel che pare il mezzo per tener desto nei Giudei l’odio anticristiano era il ricordare Cristo imprecando al suo nome (v. nota precedente), il contendere con i nuovi credenti sulla religione vera ed unica (Juster, I, 44, n. 2), il sobillare le autorità romane contro i cristiani (v., per ora, sopra il testo a p. 454). Come si vede l’autorità romana non aveva mezzi di distinzione netta e doveva quindi procedere altrimenti: quel che avveniva con i Samaritani, che si professavano Giudei o non Giudei secondo che loro faceva comodo, può dimostrarlo (Juster, I, 233, n. 1).-L'imposizione del fiscus iudaicus non chiari meglio le cose perchè lo si pretese anche da chi viveva secondo la maniera giudaica e quando lo si richiese solamente dai circoncisi si rinvenne di quelli che non lo erano, ma vivevano come Giudei, come proseliti, quindi come atei (vedi sopra quel che si disse su Domiziano) e non si ebbe ancora la distinzione voluta.
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Le quaesliones dei cristiani dovettero perciò avere sino a Traiano e pur dopo queste basi di diritto penale: il nomen cioè fu veramente il titolo di colpa degli accusati, non il nomen inteso nel senso di appartenenza ad un culto più 0’ meno inviso, non il nomen nel senso dell’essere seguaci del Cristo, ossia d’un colpevole, ma il nomen nel senso puro e semplice della confessione di appartenere, come proseliti, ad una setta giudaica, vietata dalle leggi generali dello stato, alle quali non era stata quindi fin’allora aggiunta alcuna nuova disposizione, nessun « institutum neronianum », nessun divieto ■ non licei Christianum esse » (1).
(Conrinwa) Giovanni Costa.
(1) Per il Buonaiuti, che dichiara « non agevole definire dal punto di vista legale l’atteggiamento persecutorio » (p. 26) di Nerone, tra le opinioni de’ moderni circa la forma legale delle persecuzioni anteriori a Decio (p. 48 segg.) quella del Mommsen, che è stato cioè applicato nei vari casi il ius coercilionis, è « la più probabile spiegazione giuridica ». Il Fracassisi (p. in segg-) à un buon capitolo sulla questione, specialmente in senso critico, ma finisce anche lui con l’accettare l'opinione del Mommsen, contemperándola con la sua relativa al reato di cui si rendevano colpevoli i cristiani per il solo fatto che erano e si dichiaravano tali (nomen). Anche il Manaresi (p. 103 segg.) non à opinioni proprie sull’argomento e finisce col seguire il Mommsen. Il Giobbi© che à delle sortite peregrine, quali quella a pag. 54: «Ora siccome il Mommsen non ammette questo Ila provocazione, cioè, degli Ebrei per la creazione di un nuovo crimen specificum, cioè l’essere cristiani] non può facilmente spiegare per qual ragione non si sia proceduto contro i Giudei, sebbene essi pure si opponessero al culto imperiale (?!) »; che trova essere stato Sulpicio Severo « un giurista di primo ordine e nello scrivere la sua Chronicon dovette essersi necessariamente ispirato al trattato d’Ulpiano De officio proconsulis (p. 87 e 88) » — ed io non so proprio perchè — crede assolutamente (p. 89) all’« institutum neronianum >• al quale ormai non crede nessuno, tanto è assurdo e su cosi deboli testimonianze fondato.
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L’AUTONOMIA DELLA RELIGIONE
roblemi che si trascinano dà secoli su per i libri o nelle vive dispute sono nati fatti per nutrire il facile frizzo degli scettici. Ma anche a chi scettico non sia e non voglia essere, ispirano, se egli non sia un' incosciente, una infinita modestia. E la modestia che non si attenta di risolverli, può tuttavia formularli meglio, avviando còsi, avviando almeno, ed è già qualche cosa, la soluzione.
Si è parlato spesso, si torna a parlare oggi con una certa va
rietà di termini che non indica proprio una gran precisione di idee (scienza e fede.
scienza e religione, filosofia e religione, ragione e rivelazione) dei rapporti tra una specifica attività religiosa e l’attività razionale, I vari termini si presterebbero, analizzandoli, a un bello Studio storico, corrispondendo ciascuno quando fu adoperato spontaneamente, a una fase caratteristica della filosofia. Così ad esempio si parlò di scienza e fede, quando nella fase positivistica, la scienza, o piuttosto quella forma d’attività razionale che si esercita nell'ambito della natura (scienza fisica), venne assunta a simbolo, ad espressione di tutta l’attività razionale. Non c’era allora altro sapere vero e ragionevole fuori della scienza, o delle scienze.
E poiché le scienze non conoscono nessuna religione, poiché certo nè Dio nè un che di divino ad Esso corrispondente sono visibili al telescopio o al microscopio, furono quelli dei dies mali per la... fede, col qual nome di nuovo s’intese un qualsiasi sentimento o una qualsiasi convinzione religiosa: altra inesattezza di linguaggio spirituale, degna in tutto e per tutto della filosofia materialistica o scientifica. Chi leggesse poi i libri che allora si fregiarono di questo impreciso titolo: Scienza e fede, troverebbe una messe quasi infinita di confusioni colossali, di affermazioni o negazioni egualmente avventate. Perchè i rapporti tra scienza e fede vengono fissati a un modo da apologisti ultra credenti, disposti a trovare nella Bibbia una anticipazione della geologia, e a un modo opposto da anticlericali pei quali è una cretineria qualunque più modesta asserzione religiosa. Si potrebbe poi osservare che questa fase è passata quasi completamente. Teologi capaci di pretendere alle benemerenze scientifiche della Bibbia e anticlericali pronti a mettere la religione tra i ferravecchi non sono scomparsi, ma molto diminuiti di numero e di sicumera.
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Ma senza prolungare questo esame, si può subito notare che il problema dei rapporti è mal posto: perchè non si tratta succintamente di sapere quali essi sieno (se di ostilità o di amicizia) ma se ci sieno — e più che di sapere se ci sieno rapporti, si tratta di sapere se esistano le due forze in rapporto o in quistione di rapporti. Anzi, siccome nessuno dubita che esista un’attività razionale dell’uomo, si tratta di sapere se di fronte a questa (comunque poi si chiami, scienza o filosofìa o ragione) esista o no una religione, una attività specificamente tale, se esista razionalmente, ragionevolmenle.
Questa parolina sottolineata bisogna pure aggiungerla, perchè la esistenza diciamo così bruta d'una religione, anzi di molte religioni, d’una attività religiosa che non pretende di esser filosofica, anzi pretende di non esserlo, è un fatto visibile a tutti e non negabile da nessuno. Sfido! Ma si tratta di sapere se questo fatto sia razionale, si regga di fronte alla ragione, il fatto ripeto, d’un’attività religiosa specificamente distinta dall’attività razionale.
Tutti conosciamo una prima soluzione, classica, del problema posto così — è la soluzione cattolica o per essere più precisi, la soluzione scolastica, tomistica. In questa soluzione la religione è qualche cosa di certamente distinto dall’attività filosofica o razionale, perchè il dominio specifico del pensiero religioso (fede) è il soprarrazionale, il mistero, il sopra intelligibile, ciò a cui la ragione individuale o collettiva, ragione umana o anzi creata, non arriverà mai, di per sè sola, che questa attività concepita così, sia specificamente distinta dall’attività filosofica, il cui dominio è l'intelligibile, nessun dubbio. Ma viceversa il problema — in questa ipotesi o soluzione scolastica — è se tale attività religiosa esista nel senso or ora dichiarato, cioè si giustifichi razionalmente. Gli scolastici dicono di sì e i filosofi come Benedetto Croce dicono di no. Vediamo.
Gli scolastici per arrivar a giustificare questa rivelazione e fede e mistero come esistente e resistente a un controllo critico, razionale, partono da un presupposto che si può formulare così: la superiorità specifica o qualitativa della ragione divina di fronte alla ragione umana. C’è una Ragione infinita, la quale, per ciò stesso, è infinitamente al disopra della ragione finita o creata; — infinitamente qui non ha un significato quantitativo... come se a furia di aggiungere ragione a ragione creata e finita, si potesse arrivare a quella Ragione infinita; no, r per quanto moltiplicato per sè stesso non arriverà mai a R. Sono due realtà di ordine diverso, di diversa qualità. Questo primo postulato serve a dimostrare che ci sorto verità vere e razionali che Dio sa e che l'uomo non capirà mai — crollano i misteri, esiste il mistero... non nel senso che esiste ed esisterà magari sempre una ragione spirituale inaccessa, inesplorata dalla ragione umana, la quale però la andrà via via esplorando: no, questo è troppo poco. Il senso scolastico è che esiste una ragione divina, inaccessibile, inesplorabile dalla ragione umana anche se, per ipotesi, essa si movesse in un tempo infinito. Esiste il soprarrazionale puro e semplice, prendendo però l'aggettivo razionale come aggettivo derivato dalla ragione coll'r minuscolo, dalla nostra ragione; chè a suo modo, anzi in un modo eminente quel soprarrazionale è razionalissimo derivando il razionale dalla Ragione divina.
Questi suoi veri, razionali per Lui, non per noi. Iddio li ha comunicati all’urna-
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nità, li ha rivelali all’umanità, a noi. Questo è per gli scolastici un fatto, un fatto storico, come è un fatto storico che un bel giorno Copernico comunicò ai suoi contemporanei il sistema eliocentrico. Lo discutono gli scolastici, come qualunque altro fatto storico, stabilendone le possibilità e poi le realtà col noto sistema dei miracoli. Dio, per far capire che proprio Lui parla, rivelando i misteri, siccome non può fare appello alla luce di questi (essi sono razionalmente opachi) nè alla loro benefica influenza (l'opaco razionale non può entrare nel giro psichico della vita affettiva) prende altra via; fa "mtemporaneamente cose Che nessun altro potrebbe fare; nè ha mai fatte (miracoli). Gesù ne ha operati più che gli altri Profeti, e perciò esso è il rivelatore. La realtà dei miracoli di Gesù è assodata storicamente, coi documenti.
Infine gli Scolastici formulano i comunicali di Dio concreti — i dogmi — e dopo averne affermata la soprarrazionalità, cercano di mostrarne la razionalità, perchè sentono istintivamente come sia enorme offrire alla ragione un non-razionale s'intende un non-razionale per lei — come sarebbe enorme offrire all’apparato digerente un quid non digeribile, almeno da quel tale stomaco a cui vien fatta l'offerta, sia pure digeribile invece da un altro stomaco tutto divèrso.
Questa esposizione schematica della giustificazione razionale d'una religione rivelata (nel senso antropomorfico e trascendente o piuttosto esteriore della parola) basta a rivelarne ha inconsistenza e a spiegare perchè la filosofia oggi, dopo tante altre volte, rinnovi la negazione di essa. Una religione rivelata sarebbe certo, se ci fosse qualcosa di specificamente diverso dalla filosofia, razionalmente giustificabile e giustificata; ma non essendovi questo qualcosa, nessuno può pretendere che di una tale religione sia filosoficamente, razionalmente giustificata o giustificabile la esistenza.
La filosofìa infatti non capisce, non può capire una Ragione diversa qualitativamente dalla ragione. Come parola va benissimo; ma sotto questa parola non riusciamo a mettere nessuna idea. Una Ragione qualitativamente diversa (infinitamente superiore... si badi bene a questo, perchè una ragione più forte della nostra è un altro paio di maniche) dalla nostra è un non-concetto. Una ragione più forte della nostra, molto più forte, capirebbe cose che noi non possiamo scoprire da noi, ma che scoperte da essa e addidate a noi, noi potremmo capire; invece il mistero nel senso scolastico è un elemento Razionale, che la ragione nostra non solo non scoprirà mai, ma non capirà mai neanche scoperto, in quanto capire significa riconnettere una verità coi principi della ragione. Ma soprattutto vacilla oggi la dimostrazione storica del fatto della rivelazione divina del mistero. Vacilla filosoficamente; perchè si capisce un Dio che comunica a noi ragionevoli qualcosa di ragionevole (benché tale da non potersi scoprire da noi soli); ma non si capisce un Dio che ci comunica il mistero. Questo non è più, non può essere un dono: è e non può essere che un peso. Io ebbi già occasione di farlo notare su queste medesime pagine, un Dio che ci dona è un Dio buono;- un Dio che ci aggrava gratuitamente con un peso di più (oltre quelli che ci sono naturali) è un despota. E un Dio buono è un Dio accettabile; un Dio dispór tico, è inaccettabile. Tanto più che i documenti non provano il fatto della rivelazione. Gesù, il Rivelatore, non ha rivelato per esempio il mistero della Trinità, che è il primo e fondamentale mistero del sistema scolastico. Basta leggere il Vangelo da una parte
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il Simbolo Niceno dall'altra, per convincersene. Gesù ha rivelato delle leggi morali più nobili delle leggi giudaiche; non ha rivelato nessuno di quei dogmi che sono misteriosi, che sono il mistero per eccellenza. Infine questi comunicati divini si riducono a pure forinole da ripetersi senza poterle intendere. Ma ridotte a forinole, sono degni dell’uomo e di Dio? La formula si ripete, ma nessuna intelligenza ne è illuminata, nessun cuore ne è acceso. E allora?
Voler giustificare razionalmente l’autonomia delTottàritò religiosa ricorrendo al concètto d’una religione soprarrazionale e rivelata pare un tentativo fallito. La filosofia lo condanna.
Ma esclusa una religione rivelata e soprarrazionale, che sarebbe distinta dalla filosofia, siamo ricondotti nei limiti della ragione. Entro questi limiti c’è posto per una specifica attività religiosa?
Il problema è grave perchè la filosofia o nega Dio, o 10 afferma, o lo ignora — sono i soli tre atteggiamenti possibili. Ma se nega Dio, «»elude la religione quale attività religiosa giustificabile razionalmente;, se poi lo afferma, se lo accaparra. Infatti, se .Dio è razionale, razionalmente stabilibile e stabilito, la religione, la religiosa attività si confonde colla filosofica. La religione è una teodicea allora, e la filosofia anche. Se infine lo ignora, lo nega. Ignorare filosoficamente Dio vuol dire metterlo fuori dell’attività razionale, e ciò che è fuori dell’attività razionale, filosoficamente è zero, non è. La filosofia dell’ignoranza fu l’agnosticismo, quella della negazione è l'ateismo. L'uno e l'altro sono superati oggi.
L’affermazione è grave e per documentarla ci vorrebbe un volume. Quindi mi contento qui di porla, osservando due cose: Che tanto basta agli effetti del presente studio — e che bene addentro penetrando, l’ateismo fu ed è più che altro negazione d’un idolo, cioè d’un Dio antropomorfico ed esteriore, quando invece l’affermazione d’un Dio immanente insieme e trascendente s’impone e si imporrà ognora più ai veri pensatori. Ma se la filosofia afferma Dio, lo accaparra, ho detto, e allora che cosa diventa la religione? Quale autonomia conserva essa più? non bisogna dirla al più, con B. Croce, una attività filosofica inferiore e superata?
Non credo; ed eccone le ragioni. S’intende che conoscenza filosofica e conoscenza religiosa hanno lo stesso oggetto, perchè la filosofia vera cerca la Realtà, e anche la religione; e come non c'è diversità d'oggetto così neppure possiamo ammettere diversità o contrarietà di conclusioni. La religione nel suo momento conoscitivo non può negare ciò che la filosofia afferma, nè viceversa. Anche questo è evidente. Ma è essa, l’attività religiosa, pura e semplice attività conoscitiva; è la religione pura e semplice conoscenza? e anche come conoscenza è la religióne identica alla filosofia? Qui è il vero problema.
Ora, posto così, è già risolto per metà o per intiero. Che l’attività religiosa implichi anche un’attività conoscitiva sta bene, ma essa, dapprima, non è identica all’attività filosofica. Prendiamo il genio religioso e il medio uomo religioso. Il genio religioso, la storia è là per dircelo, è. a differenza del genio filosofico, intuitivo. Il grande filosofo dimostra, ragiona, sillogizza. Il genio religioso intuisce, vede, afferma. Si confronti Gesù con Socrate, si confronti Maometto' con Avicenna, il Budda con Schopenhauer (e il Budda è il più gnostico o filosofico dei tre, che del resto non in-
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tendo parificare). Intuire non è sragionare ma non è il ragionare: l’intuizione non è fuori del pensiero legittimo, è fuori del pensiero riflesso.
Intuitiva nel genio religioso, la conoscenza religiosa diviene fede nella massa. Il genio afferma e il ceto religioso medio crede. È la forma specifica della conoscenza religiosa, diversa qui pure dalla conoscenza filosofica. Diversa, perchè in filosofia nessuno crede, neanche il discepolo; e se il discepolo crede, se iurat in verbo magistri, conscio o inconscio di questo suo atteggiamento, egli non è più filosofo o non lo è ancora.
Essere filosofi vuol dire ragionare; ogni filosofo finisce per divenir maestro a sè stesso. Il medio uomo religioso crede, e, se mai, la sua ambizione è di giungere a vedere. La esperienza religiosa di ciascuno, se comincia a essere fede, può, quando sia molto personale, diventare visione.
Ce n’è mi pare, quanto basta per discernere l’attività religiosa dalla filosofica, anche nel semplice e puro campo conoscitivo. Ma la conoscenza non è il tutto e neanche il principale della religione, come è il principale, se non il tutto, della filosofia. Il principale, l’indispensabile della religione è il mettersi in.una attiva comunione spirituale Coll’Essere intraveduto nel lampeggiare della intuizione, o nella penombra crepuscolare della fede. L’elemento conoscitivo è così secondario, religosamente, che esso senza il resto — l’amore, la pratica — non vai nulla; e il resto, il così detto resto, amore, pratica —• anche senza di esso o quasi senza di esso (chè proprio senza non ci sta mai) vale moltissimo. Un gran pensatore che sa moltissime cose su Dio non è, per questo e con questo solo, più religioso di una vecchierella che ama Dio moltissimo e cerca d’intonare con questa superiore e universale volontà di bene, la sua piccola e povera volontà individuale. L’uomo religioso non è il filosofo, è il santo.
Sono anche queste verità elementari, verità proclamate con una eloquenza più fiammante da quelle grandi anime religiose che furono i mistici, visibili però anche nella storia di tutte le religioni. Parte integrale, importantissima di queste, sono gli atti del culto interno ed esterno. E il culto è tutto e sempre uno sforzo di mettere tutto il proprio essere in comunione, in sintonia Coll’Essere. Di nuovo l’attività religiosa si distingue dalla attività filosofica: la religione non è nè la filosofia, nè una fase inferiore, superabile e superata di essa. Se giungiamo ad essere filosofi, non abbiamo da vivere la religione solo mnemonicamente, come adulti riviviamo mnemonicamente l'infanzia; la possiamo e dobbiamo vivere attualmente.
E se ora si chiede: ma è razionale questa vita religiosa, questa religione dell'umanità? io rispondo che la domanda è equivoca, ma che dissipato l’equivoco, la risposta appare luminosa.
Quando mettete a confronto dell’attività razionale o filosofica la religione, l’attività religiosa e mi chiedete: è razionale la religione? ciò può significare due cose: a) se la attività religiosa sia identica a una attività razionale, filosofica; e allora la risposta emerge dal detto fin qui: no, l'attività religiosa non è un attività filosofica, pure coinvolgendo in sè stessa una attività conoscitiva, b) Se sia razionale il vivere questa vita religiosa (che non è razionalità pura), razionale l'essere religiosi; e allora si risponde: e perchè no? è tanto razionale, secondo ragione, che è
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umano, q nulla è più ragionevole per un uomo che essere umano. Fórse l’esempio dell’arte può chiarire la cosa. È razionale l’arte? ecco una domanda perfettamente analoga a quest’altra: è razionale la religione? Orbene l’arte non è verso sè stessa una attività razionale, oibò, — l’arte non è filosofia — ma è razionale per l’uomo vivere la vita dell’arte, abbandonarsi all’entusiasmo lirico di cui l’arte genuina è l'espressione spontanea. Ed è ragionevole far dell’arte, perchè è umano. È ragionevole far della religione perchè è umano. E non esiste purtroppo mai l’arte perfetta come non esiste e non esisterà mai la religione perfetta; ma la umanità perfeziona sè stessa facendo dell’arte e perfeziona sè stessa facendo della reigione; sempre imperfetta e sempre migliore.
E in questa miglior religione si riassumono e rivivono le forme inferiori, imperfette, non in ciò che avevano d'imperfetto, ma, pur nella loro imperfezione, di inizialmente bello e grandioso. La idea della rivelazione che abbiamo scartato nella sua forma antropomorfica d’un Dio che realmente parla come un uomo a un altro uomo, rivive nella forma — oh! non perfetta, ma tanto meno imperfetta, tanto meno grossolana, perchè più spirituale — della ispirazione. Il Dioche non parla dal di fuori a nessuno, agita dentro gli spiriti più eletti. E per questa agitazione divina, essi, gli eletti, i migliori, intuiscono ciò che gli altri, gli inferiori, non vedono — e quel loro intuire è umano insieme e divino, è loro e di altri, di un altro. Sono pieni di Dio, non come d’un liquido che venga di fuori, ma come d’uno spirito generoso che fermenta dentro. E così Essi, gli eletti, hanno parlato di sè, in termini ben più consoni a questa immanenza del Trascendente, che non alla sua esteriorità. Superare lo schema scolastico non vuol dire uscire dal concetto cristiano, è anzi oggi il solo modo di salvarlo. E della scolastica, del residuo medioevale ce n’è, pur troppo ancora, in tutte le confessioni cristiane, alle quali questa idea della rivelazione è comune.
Questa religione, così adombrata come la vera, la buona, la meno lontana dalla verità, non ha nulla da fare colla così detta religione naturale o filosofica, appunto perchè la suddetta religione filosofica non ha nulla da fare con la realtà. I filosofi non hanno mai creata nessuna religione,, nessun religioso movimento, come i critici non hanno (in quanto tali, s'intende) creato nessun movimento artistico. E poiché una religione filosofica, creazione di filosofi, non esiste, è inùtile parlarne; e in questo piccolo studio non se n’è parlato se non per escluderla, rivendicando alla religione di fronte alla filosofia, a ogni filosofo, caratteristiche sue proprie che dalla filosofìa non le possono derivare.
I problemi qui toccati pur troppo, o fortunatamente, restano aperti: ma sarebbe già la gran bella cosa se noi si fosse riusciti a far loro fare un piccolissimo passo avanti, o ad impedire qualche passo indietro.
D.r Delio.
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CHE PENSARE DEL CELIBATO ECCLESIASTICO?
Omnia manda, mundis, (S. Paolo).
(Continuazione. Vedi Bilychnts di Maggio 1915, pag. 193)
PARTE II.
Il celibato ecclesiastico ed il «celibato dei più». — Il celibato ecclesiastico e la questione sessuale. — Il « Movimento per la moralità » e una nuova apologia del celibato ecclesiastico. — L’etica della castità.
dal punto di vista ecclesiastico il problema del celibato dei preti si risolve in quello più ampio della funzione e della finalità stessa del clero nella Chiesa, dal punto di vista sociale diventa un caso particolare della questione sessuale, la questione per eccellenza della vita moderna dopo quella del lavoro. La famiglia, il nucleo pili forte e più resistente della vita sociale, si va dissolvendo ; la sua forza educatrice, come trasmettitrice di tradizioni è ridotta quasi a nulla; l’urbanesimo, la maggior la lotta lunga ed esauriente per raggiungere una posizione economicamente stabile e moralmente soddisfacente, la mentalità borghese largamente diffusa, il bisogno di godimenti intensi e svariati in armonia con il nostro acutizzarsi dei sensi e con Taffinamento del gusto, allontanano dal matrimonio o ne minano le basi. Intanto dilaga l’immoralità con i suoi tristi effetti fisici e morali, specialmente fra i giovani. I moralisti, i medici, i sociologi han studiato seriamente il doloroso fenomeno che minaccia non solo la generazione attuale, ma anche le venture; ma i loro consigli, i loro piani di riforma son restati fino ad oggi delle voci gridanti nel deserto o vane illusioni. Il celibato apparisce oggi come un fenomeno minaccioso, estremamente diffuso. Una domanda ci si presenta alla mente: la critica che il sociologo e il moralista fanno al celibato dei più, celibato in gran parte imposto o favorito, non importa, dalle condizioni attuali, può e deve estendersi anche a quello di tante migliaia di uomini e di donne, frati, preti e monache, che accettano coscientemente il celibato come uno stato, come una forma vilac che informa anche le più intime latebre del loro spirito? Non potrebbe oggi il sociologo cattolico avver-
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tire il pericolo sociale che deriva dalla pratica delle conseguenze giuridiche di un ascetismo che si pretende ma che attualmente non è più alla base del celibato ecclesiastico-monastico, come i vescovi del iv c del v secolo avvertirono il pericolo che alla società cristiana veniva dal diffondersi della esaltazione ascetica?
Il celibato può essere una via di salvezza per la società, ma a patto che sia di pochi. Quando è la vita dei più, è una minaccia sociale.
Il desiderio di sottrarsi ai duri doveri e alle serie responsabilità della vita di famiglia non potrebbe per caso essere uno dei motivi più forti, anche se non apertamente confessato, che spinga uomini e donne verso uno « stato » di vita che per di più è sublimato dalla Chiesa come superiore allo stato matrimoniale? In un paese a struttura cattolica il numero straordinariamente grande di preti, di frati e di monache che conducono vita celibataria (casta o no, poco importa), non in nome di un più alto ideale etico, ma solo come condizione giuridicamente inerente ad una data forma di vita, priva di responsabilità serie ed economicamente abbastanza sicura, viene ad aggravare oggi la piaga del celibato. Le ragioni storiche ed etiche con cui si tenta di giustificare in maniera anacrostica e con un abile sofisma di trasposizione di valori il celibato monastico-ecclesiastico, sono realmente tanto serie e così morali che la campagna, condotta a nome della vera morale contro l'immoralità dei motivi del celibato laico, debba fare una seria eccezione per il celibato giuridico dei preti (1), dei frati e delle monache ?
Eppure la scomparsa di un istituto tanto singolare come il celibato ecclesiastico appare ad alcuni laici seri e studiosi una vera profanazione per là loro mentalità modernamente laica (2) ed il tramonto di una forma professionale di eroismo. Il caso è interessante e merita di venir studiato, perchè sembra qui che nuovi motivi eminentemente laici, s’incontrino con ragioni ispirate ad altre premesse per la la difesa di un’istituzione anacronistica. Però si tratta di un giuoco puramente illusorio. La pretesa mentalità laica è una leggera verniciatura che à rimesso a nuovo la fondamentale mentalità clericale della colta borghesia italiana!
Le nuove, chiamamole pur così tanto per intenderci, ragioni laiche a favore del celibato ecclesiastico si possono facilmente ridurre a tre gruppi, secondo che s’ispirano:
i° ad un’estensione arbitraria di alcuni risultati delle scienze biologiche;
20 ad un'esaltazione antistorica ed antigiuridica dei diritti dell’autorità ecclesiastica sul clero;
30 ad una falsa concezione della vocazione e dell’eroismo sacerdotale.
Son questi, criteri neo-gnostici e pseudo-mWzcAùww di amatori dell’estetica del bel gesto, sia il gesto vuoto di anima di un poeta che si esalta del nulla, sia quello
(1) P. Bureau in La crise morale des temps nouveaux nota da fervente cattolico quale egli è a proposito dei risultati che l’esame dei motivi addotti dai celibatari mette in evidenza: «il va sans dire que lès célibataires qui ont prononcé des vœux religieux ne sont pas ici visés a. Ma sente subito il bisogno di aggiungere: « bien que, à leur égard aussi, il convienne parfois de faire des réserves importantes ». E ciò è davvero significativo in un sociologo cosi acuto come il Bureau !
(2) Vedi il Referendum dell’Avolio.
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CHE PENSARE DEL CELIBATO ECCLESIASTICO?
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del condannato che va correttamente verso la morte. Come rinunciare, infatti, a questo grandioso spettacolo che solo la Chiesa che conosce Io splendore del culto sa dare: migliaia di creature che ogni giorno, ogni ora piegano, martoriandosi l’anima e il corpo, sotto il giogo morale che la Chiesa à imposto loro, sènza ribellarsi, anzi, adorando la forza che li soggioga? È questo un bello spettacolo di forza da parte della vecchia chiesa latina, erede del fasto e dell’autorità imperiale, in mezzo al lezzo e al disfacimento democratico e dall’altra uno spettacolo di rassegnazione muta di schiavi, in mezzo al fermento di ribellione di piccole volontà nel vermaio sociale! È una commedia il celibato monastico-ecclesiastico? Che importa? Le supreme leggi della mentalità borghese sono però magistralmente osservate : riguardi, correttezza, rispettabilità ! E poi non c’è anche il vago presentimento, che il disfacimento di una vecchia istituzione che ha plasmato di sè i nostri costumi non porti ad altre critiche, ad altri ardimenti, ad altri tramonti?
Ma anch’essi, i « seri laici », anche se studiosi del problema religioso, ignorano la storia. Tutti i loro ragionamenti poggiano sul presupposto che la concezione ecclesiastica attuale stia’veramente a base del celibato ecclesiastico. Ma se è proprio questo il punto in discussione ! La comune concezione corrente non fa altro che consacrare uno stato di cose che s'è venuto fissando solo con i secoli e non senza un’opposizione costante dàlia parte del clero. Anche in questo come in tanti altri casi, l’autorità centrale del cattolicismo romano è ben lungi dal poter invocare a proprio favore il diritto che deriva da un possesso diuturno ed incontrastato. Ed allora, le serene e superiori ragioni laiche in favore del celibato non rischiano forse di restar campate in aria e di rivelarsi per una poco abile difesa ispirata dalia intima solidarietà conservatrice delle classi borghesi colte con il medievalismo cattolico ?
Esaminiamo però in particolare queste ragioni laichei° S’è detto : « La castità non è nè impossibile nè dannosa : l'esperienza e la fisiologia dimostrano che gli organi sessuali non adoperati o si atrofizzano o divengono almeno via via meno suscettibili agli stimoli. E fisiologicamente poi la natura provvede. Non è questa forse la piattaforma del movimento laico per la moralità ? Ed allora, come non sentirsi offesi davanti ai gemiti di un giovane clero che chiede una donna, dando un così deplorevole spettacolo di fiacchezza morale, di fronte alla serietà morale che mostrano tanti giovani oggi impegnati nella lotta a fondo contro l’immoralità?».
Questo lo scandalo borghese. È però serio ? Evidentemente chi parla così ignora prima di tutto che, almeno in Italia, i più seri critici del celibato ecclesiastico sono stati reclutati fra i primi e i più ardenti propagandisti del movimento per la moralità. Solo l’elevatezza del loro senso morale li rese sensibili al dramma intimo che si svolgeva nell’anima di migliaia di preti, che l’ipocrisia clericale ha abituato a considerare come esseri senza anima e senza passioni, capaci, al più, in un istante di traviamento (sic) di cadere nel fango.
Chi porta delle ragioni, come quelle che abbiamo riferito sopra a nome del - Movimento per la moralità », s’intende, sessuale, non ha compreso i veri fini del movimento stesso, ed è portato a dare, quindi, un'estensione arbitraria alla portata dei suoi presupposti scientifici.
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Ma la scienza è proprio tutto? Comprende essa il mistero della vita? Non è sempre unilaterale nei suoi giudizi ? Le sue affermazioni non hanno, spesso, il valore di una reazione legittima contro altre verità parziali elevate ad una generalizzazione perniciosa? E nel nostro caso, la sua parola non ha tutto il valore di un argomento ad hominem contro la pretesa ineluttabilità del fato sessuale che ha spinto fino ad oggi la gioventù all'abuso delle proprie forze? L’immoralità presente non è stata patrocinata e favorita proprio dalla « scienza » ? Ma non abbiamo superato or ora la superstiziosa venerazione dell'idolo positivista della «scienza»? Come potrebbe oggi servire essa di fulcro per un rinnovamento morale nel campo sessuale, in cui le forze che vi si incontrano sono principalmente psichiche? Non è forse l’illusione di una vita più intensa, il desiderio di penetrare profondamente nel mistero della vita, la volontà di essere più uomini anche in un'età immatura quella che spinge verso la via del vizio tanta gioventù ? La « scienza positiva » ha parole monche e spesso caduche ed erronee; ha errato quando esaltandosi dinanzi al mistero chele si veniva rivelando dell’universalità della forza generatrice nella natura, ha proclamato la necessità della vita sessuale; erra forse ora in cui ridestandosi dalla facile ebbrezza davanti alle conseguenze letali del domma della necessaria soddisfazione sessuale nella generazione attuale, e constatando nella natura le eccezioni inevitabili alla universalità della funzione generatrice — le quali sull'immensa corrente della vita che muore e si rigenera perennemente non producono perturbazioni notevoli -proclama per la bocca di alcuni suoi cultori, portati facilmente a pericolose .generalizzazioni, che la vita sessuale è sopprimibile e che questa soppressione è un bene. Se talvolta la natura provvede altrimenti a ricompensare la perdita dell’attività sessuale ; se è possibile spegnere le sorgenti della vita, queste necessarie limitazioni e queste provvidenziali compensazioni della natura non possono davvero rappresentare un ideale! Tanto varrebbe dire che il diventar ciechi è una cosa desiderabile perchè altri sensi normalmente ottusi acquistano nello stato di cecità una singolare forza di percezione! Volere dunque plasmare il corso delia vita umana su concezioni per natura loro troppo vaste e sconfinanti dalla realtà è una seduzione a cui gli uomini di studio riescono difficilmente a sottrarsi; ma rappresenta però sempre un pericolo e la realtà violata presto si riafferma. Ciò che è possibile ed utile anche, — almeno dal nostro ristretto punto di vista — nel mondo degli animali e delle piante, non è ugualmente possibile ed utile nella vita umana, perchè questa è agitata continuamente verso le direzioni più inattese dalle forze psichiche- Certo, se il sacerdote cattolico non potesse nutrire alcuna speranza di liberazione, se vi dovesse essere una casta di uomini designata come vittima da immolarsi ad un sistema disumano, non si potrebbe nel consolare essere meno crudeli d questi «seri laici»: le parole della scienza, che si diletta ora nella visione di un atrofizzamento degli organi divenuti inutili, potrebbero divenire il miglior conforto. L’unico inconveniente è : Io che la scienza, cioè, in questo caso la biologia, non ha fatto che delle umili e parziali constatazioni di fatto, limitate alle forme inferiori delia vita; 2° che gli argomenti per una vita morigerata addotti dai medici moderni, che han gettato l’allarme contro i danni spaventosi della dissolutezza giovanile, non si fondano affatto su quelle constatazioni biologiche; 30 che il problema sessuale non è che
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in parte un problema medico-fisiologico, perchè è principalmente un problema sociale e psicologico; 40 che vita morale non può significare, nel campo sessuale, vita celi-bataria.
Nè il problema sessuale può essere ridotto ad una gretta questione egoistica (1) per il bene dell'individuo. La lotta contro l’immoralità è ispirata nei migliori suoi paladini al risveglio del valore sociale della funzione sessuale contro le aberrazioni dell'individualismo, ascetico o libertino che sia: è l’educazione del senso della purità che deve tradursi in castità assoluta di corpo e di mente nel periodo pre-matrimo-niale e in una sana operosità sessuale, non meno pura della castità, nella vita normale del matrimonio. La soppressione di ogni attività sessuale, attività principalmente psichica, per le sue inevitabili ripercussioni dannose oppure benefiche sull’animo dell’uomo, sarebbe alla lunga una vera calamità per l’individuo stesso e per la società, la scomparsa di infinite risorse e di stimoli ad una vita più piena, la diminuzione di un senso di combattività e di responsabilità che contano fra i fattori più efficaci del progresso umano. Il movimento per la moralità non ha mai significato questo, perchè la sua efficacia gli deriva appunto da un’armonica e serena visione della vita. Anzi, ciò che gli studi scientifici e morali, ispirati dalle nuove correnti in favore della purità, hanno messo meglio in evidenza, è il diritto fondamentale dell’individuo alla vita sessuale, il cui profondo significato per l’individuo e per la società solo può dare una adeguata idea della gravità dei corrispondenti doveri ad esso inerenti.
Come vi è una norma elica per l'esplicazione dell'attività sessuale, così vi deve essere una norma etica per la castità. La vita sessuale nella sua duplice polarità, positiva e negativa, di astensione e di soddisfazione non è attività semplicemente individuale, e non può essere affermata 0 negata semplicemente per dei motivi, cioè, in questo caso, per dei capricci, individuali. Il suo àmbito trascende per la sua stessa natura il piccolo mondo dei desideri dell’individuo, siano questi di vita o di morte, ed in ogni suo atto è implicitamente affermato il nesso vitale fra il superficiale ed illusorio fine individuale e il più profondo ed immanente finalismo sociale.
La morale clericale, non intieramente libera da preoccupazioni ascetiche e da una pruderie convenzionale, priva di un forte e pugnace ideale della vita, ha richiamato l'attenzione principalmente sul peccato della carne, come peccato tipico e come fonte di tutti gli altri disordini morali. Quindi essa avverte e comprende facilmente, sebbene sia una morale di tipo esclusivamente individualistico, come una posizione strettamente individualista nel campo sessuale violi l’etica anche per le ripercussioni sociali che l’atto sessuale crea direttamente ed indirettamente; ma difficilmente comprenderà restendersi della moderna sensibilità etica, che vede giustamente un’uguale violazione morale anche nell'astensionismo celibatario. Accanto ad un’etica, diremo così, della sessualità positiva si è venuta delineando in questi ultimi tempi un’elica della castità. I motivi ascetici, però, partendo da un presupposto ingiurioso alla vita sociale, all'armonia della natura, alle finalità stesse della vita individuale
(1) Un risparmio d’energie per godere più raffinatamente della vita intellettuale, come voleva il Renan, che del resto aveva moglie e figli, o una forma poco nota di salutismo.
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che ha valore solo nel complesso della vita collettiva, evidentemente non possono avere diritto di cittadinanza in un’etica sana e duratura, perchè rinnegano il soggetto stesso dell’attività etica, l’uomo come essere sociale. Quando si è convinti che il mondo — cioè la vita sociale e i rapporti normali fra la Natura e l’uomo — è di natura sua cattivo e che perciò va fuggito; che il fermento di vita che scorre nelle nostre vene è peccaminoso e che quindi va contro di esso ingaggiata una lotta a morte, cominciando dall’individuo, allora ci si mette fuori del mondo reale, i vincoli profondi fra l'individuo e la società vengono negati e l’individuo cade in un anarchismo il quale, se è psicologicamente e storicamente giustificabile, non è in realtà che la negazione dell’etica normale e quindi dei fini normali della vita individuale^ sociale compresa come realtà permanente. Concludendo, a me sembra che i risultati delle scienze biologiche più recenti ed il risveglio e l'ampliarsi della nostra sensibilità etica nel campo sessuale possono condurre piuttosto alla critica del sistema celibatario ecclesiastico che a rinnovare in qualche modo la sua giustificazione.
(Continua)
« Catholicus ».
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SULLA VIA DELL’UNIONE DELLE CHIESE
L’ESPERIENZA DI KIKUYU
Anche in questo periodo in cui le preoccupazioni sulla sorte della civiltà europea sopraffanno ogni altra questione, la decisione del Primate d’Inghilterra in riguardo alla questione di « Kikuyu » ha suscitato un grande interesse nel mondo inglese, le cui condizioni religiose essa riguarda sì da vicino.
Si ricorderà che circa due anni or sono, nel giugno del 1913, i vescovi di Mobasa ed Uganda della Chiesa inglese presero parte ad un congresso tenuto a Kikuyu, nel-l’Africa Orientale inglese, al quale intervennero circa 60 missionari, rappresentanti di varie chiese cristiane che si consacrano all’evangelizzazione di quella regione. Il congresso disegnò uno schema di federazione, con l’intento di promuovere la cooperazione amichevole fra le diverse chiese cristiane da esso rappresentate.
Nella seduta finale del congresso, il vescovo di Mombasa (Dr. Peel), assistito dal vescovo di Uganda (Dr. Willis), celebrò la Santa Eucarestia, nella Chiesa Scozzese Presbiteriana, l’unica Chiesa del luogo; e i delegati, fra cui membri della Chiesa Metodista, Battista e Presbiteriana ricevettero la Comunione.
Contro i propositi del congresso, dei quali la Comunione liturgica era stata un simbolo e un’attuazione iniziale, protestò più che vivacemente il vescovo inglese del Zanzibar (Dr. Weston), che accusò i due vescovi suoi confratelli di « eresia e di scisma » e li denunziò all’arcivescovo di Canterbury.
Il Primate d’Inghilterra si rifiutò di ammettere questa accusa, c si limitò a deferire ad una commissione di vescovi formanti il « Central Consultative Body », il progetto di federazione delle chiese d’Africa proposto dal congresso di Kikuyu ed insieme l’azione liturgica dei due vescovi. Ed ora dopo ottenuto il parere di questo comitato ufficiale, e dopo che la questione è stata per quasi due anni discussa su tutte le riviste e in tutti i circoli religiosi dell’impero, egli ha espresso in forma temperata ed equa il suo parere, in un opuscolo.
Per quanto riguarda le proposte del congresso di Kihuyu, l’arcivescovo sottoscrive le parole della Giunta dei vescovi da lui consultati: «... Lo scopo principale del Congresso di Kikuyu cioè di favorire la formazione di uno spirito fraterno e di adottare i mezzi pratici di promuovere l’unità, è quanto mai desiderabile... .Tutto, compresa l’espressione della stima reciproca che esso implicava e la testimonianza
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collettiva resa alla stessa fede consacrata nel simbolo degli apostoli e di Nicea, è evidentemente tale da favorire l'unità: e sono appunto tali metodi e tale spirito, più forse che una organizzazione formale, che riusciranno ad attuare le condizioni nelle quali potrà sorgere, foggiata dal divino spirito, una genuina Chiesa africana la mèta dei nostri sforzi e delle nostre preghiere ».
Inoltre, l’arcivescovo richiama l’attenzione sulla larga misura di accordo tra i due gruppi antagonistici nella controversia, giacché anche il vescovo di Zanzibar è desideroso di cooperare in qualche modo, come i suoi confratelli vescovi, con i missionari appartenenti ad altre denominazioni, ed ha anch’egli riconosciuto il principio della ripartizione di diverse aree alle diverse chiese cristiane, per l’evangelizzazione allo scopo di evitare sovrapposizione e sperpero di energie. L’arcivescovo scorge però una reale difficoltà opporsi alla federazione di una sezione di una grande comunità con altre sezioni di altre comunità religiose; egli non vede come essa possa realizzarsi senza compromettere, o almeno alterare, la vita e l’organizzazione dell'intiera comunità di cui essa è parte, e senza una speciale sanzione di questa.
Quanto al provvedimento indicato nel progetto di federazione, di permettere cioè a tutti i ministri delle diverse chiese di predicare, come ospiti, nelle altre chiese della federazione, l'arcivescovo in accordo col parere delia commissione consulente, ritiene che questa disposizione non si opponga, per se stessa, ad alcun principio fisso della disciplina ecclesiastica, e solo insiste che l’autorità del vescovo locale debba in ogni caso essere salvaguardata.
Quanto all’ammettere, o no, alla « Santa Comunione » nel rito della Chiesa inglese, individui cristiani che non abbiano ricevuto la « Confermazione » episcopale, l’arcivescovo crede conveniente di lasciare la responsabilità della decisione ai singoli vescovi diocesani, pur dichiarando che, a suo parere, in considerazione dei fatti e delle condizioni presenti, un vescovo diocesano agisce giustamente nel permettere, quando le circostanze sembrino richiederlo, che sia ammesso alla «Santa Comunione» un devoto cristiano che non può, per ragioni speciali, partecipare ai sacramenti della sua chiesa ».
Invece, quanto al quesito, se permettere che membri della Chiesa inglese ricevano la « Santa Comunione » dalle mani dei ministri non ordinati da vescovi della Chiesa inglese, l’arcivescovo osserva, con una fraseologia tanto circospetta da sembrare timida e sibillina, che « ...nessun ramo della disciplina cristiana richiede maggiore e più riverente cautela di questo » giacché, « se allo scopo di ottenere quello che può sembrare un guadagno nel senso dell’unità delle chiese, o di raggiungere, sul terreno delle missioni, un avvicinamento alla realizzazione di una chiesa veramente indigena, si dovesse trattare come una questione di dettaglio e trascutabile quella della consacrazione sacerdotale, si potrebbe recare alla Chiesa di Cristo in quella regione un danno irreparabile ». E soggiunge: « Non già che la proposta fatta sia di natura sua « sleale ». verso la chiesa dell'avvenire, ma il pericolo non sarebbe nè lontano nè fantastico ».
L’arcivescovo continua a proposito del « servizio religioso » alla chiusura del congresso di Kikuyu: « Non fu quella la prima volta che missionari di altra chiesa parteciparono, nel campo delle missioni, sia dell’Africa che dell’Estremo Oriente, ad un « servizio religioso » celebrato da un nostro vescovo o da un nostro sacerdote, e sarebbe ingiusto giudicare del caso « Kikuyu dimenticando questi precedenti ».
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SULLA VIA DELL’UNIONE DELLE CHIESE
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Però, come misura prudenziale e tattica, l’arcivescovo si augura che non si ripetano al presente casi consimili, perchè « il servizio fu, evidentemente, anormale e irregolare, e potrebbe al giorno d’oggi assumere un significato che mai non volle avere in passato, e in un grado mai neppure sospettato, e venire riguardato come una " dimostrazione „ affettata, in favore di una particolare veduta dell’ordinamento e governo ecclesiastico, in un periodo in cui queste linee di governo formano l’oggetto di un acuto dibattito mondiale ». Perciò egli conclude: « Credo che la condotta più conveniente sarà di astenerci al presente da « servizi » religiosi quali quello di Kikuyu, ora che, in un mondo di veloce circolazione di notizie e di ampie discussioni, essi possono far sorgere malintesi quali quelli a cui abbiamo assistito.
L’argomento della riunione e della intercomunione è continuamente presente alla nostra mente, e non lo dimenticheremo per certo. I nostri sforzi non sono davvero al loro termine. Noi chiediamo continuamente a Dio che ci guidi « verso il porto desiderato ». E sono certo che la nostra preghiera non è vana.
Coloro che, dalle decisioni, e più dallo spirito predominante nel Congresso delle chiese cristiane di Edinburgh, nel 1910, avevano tratto incoraggiamento alle più idilliche previsioni sull’imminente federazione delle chiese cristiane, cominciando sul terreno delle missioni e in base al comune spirito cristiano, certo possono trovare le decisioni dell'autorità suprema della Chiesa inglese, inferiori alle loro aspettative; specie in un momento in cui tante voci si levano, dentro e fuori delle chiese, e più alta di tutti la voce del naufragio della civiltà « cristiana » europaea, ad accagionare la divisione e l’antagonismo delle diverse chiese cristiane, di una non piccola parte del fallimento temporaneo dell’« amore » nel conflitto con l’egoismo e l’interesse materiale immediato. Ma se si consideri Che questa volta non è un congresso irresponsabile, ma l’autorità suprema di una delle chiese cristiane più tenaci nell’aderire alle forme e alle forinole, che ha parlato e deciso, si dovrà convenire che il sogno d’idealisti cristiani e l’esempio magnifico di un gruppo di missionari alle prese con le esigenze reali immediate, è stato realizzato in un grado tale, da dare affidamento di un giorno non lontano, in cui, come diceva Harnack in un superbo discorso che è opportuno ricordare in questo momento, «pur rimanendo ritti e inconciliabili i due castelli antagonistici, scenderanno nel prato fiorito e interposta, a meriggiare e a fami-gliarizzare e a cooperare, gli abitanti dei due colli, i quali poi, al calar della notte, si ritireranno ai loro baluardi ». E possiamo chiudere con l’augurio e il voto con cui egli chiudeva il suo pronostico: « Che i giorni si allunghino, e le notti si abbrevino! ».
♦ « «
Alla decisione del Primate della Chiesa inglese nella questione della cooperazione e communione delle chiese, ricollego il monito da lui rivolto alle due sezioni dell’adunanza annuale del clero e del laicato della sua archidiocesi, convocata alla Clurch House di Westminster il 25 aprile di quest’anno.
« Indugiarci di soverchio — egli disse — in dibattiti relativi alle rubriche del Prayer Book (testo rituale e dottrinale) o anche riguardanti i rapporti fra Chiesa e Stato — questioni importanti, necessarie e vitali nei tempi ordinari, — mentre i
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47Ó BILYCHNIS
nostri cannoni tuonano sui piani delle Fiandre e sui promontori del mare Egeo, mentre gli affanni e le privazioni gettano fosche ombre su ogni famiglia, e la sorte del diritto e dell'ingiustizia umana si decide nell’orribile arbitrato della guerra in proporzioni ignote alla storia, potrebbe sembrare, anzi potrebbe essere in realtà così inopportuno, da riuscire indecoroso se non addirittura una profanazione. Noi non siamo talmente ciechi alla giusta proporzione delle cose. TI nostro primo pensiero, il nostro Sforzò concentrato in queste settimane è di fare tutto ciò che ci è possibile nei limiti delle nostre facoltà, per rendere il nostro lavoro ecclesiastico efficace nei rapporti della vita nazionale, per il mantenimento di alti ideali di un coraggio disciplinato, di una purezza personale e di uno spirito di devozione al bene comune.
Ma noi del Clero abbiamo, in questo gran sinodo, un dovere anche più profondo: la costruzione dei valori spirituali, degli interessi di Cristo nella vita inglese, cioè la stessa « raison d’ètre » e la giustificazione di una Chiesa nazionale, in una crisi solenne della storia del nostro popolo. Noi dobbiamo domandarci, in qual modo possiamo meglio adoperarci, quali ufficiali della Chiesa, ad aiutare gli uomini durante i loro giorni di addestramento militare, a mantenersi puri, disciplinati, temperanti, rispettosi, virili è devoti, con reciproca fiducia e lealtà, emulandosi nell’altezza del patriottismo e nella nobiltà della meta. È egli vero che durante questi « mesi grigi » il popolo ha perduto qualche cosa della elevatezza ed ispirazione che lo animava durante le prime settimane della guerra?... Che lo spirito di tutta la vita nazionale è un po' meno sacro, un poco più basso e volgare nelle sue intime fibre? Voi, o miei fratelli, che vi trovate in contatto con il vostro ambiente potete giudicare della verità, o meno, dell’asserzione Ma se, anche solo in parte, fosse vero, la colpa deve essere parzialmente nostra. Vi sono difficoltà e pericoli grandi, e noi ecclesiastici dobbiamo contribuire con tutta l’energia e l’aiuto che possiamo. Dobbiamo domandarci e discutere, in qual modo scongiurare il più efficacemente quegli speciali pericoli che accompagnano i grandi affollamenti di uomini privi dell’influenza più gentile dell’ambiente domestico, e che cagionano confusione ed eccitazione anormale in villaggi e in famiglie non abituate a tali emozioni. Stiamo anche in guardia per non essere spaventati nè perdere l’equilibrio morale a causa di pericoli veri o esagerati, e di novità nella nostra vita sociale Tali timori panici possono produrre danni indicibili e incredibili. Guardiamo in faccia gli avvenimenti, con calma, perseveranza e competenza...: e i pericoli, ne son certo, ci appariranno non insormontabili.... ».
Nella « camera bassa » della medesima « convocazione » dell’arcidiocesi di Canterbury sono stati discussi diversi ordini del giorno relativi alla guerra e al dovere della Chiesa di fronte, ad essa. Uno di essi dice: « Benché la professione delle armi in difesa della nazione sia una vocazione onorevole... pure, alla luce della nuova visione che noi abbiamo acquistato del significato della croce di Cristo, qualche cosa di più eroico attende d’ora innanzi il popolo cristiano e le organizzazioni cristine. L'ultima parola del cristianesimo è il “sacrifizio”; ma la sfida che ora ci viene da uomini che tutto sagrificano nelle trincee e sul campo, ci obbliga ad ammetterle che la parola " sagrifizio ” deve diventare la prima parola della fede... ».
G. Pioli.
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PER£GO/RA DELL'ANIMA
L’AUTORITÀ DEL CRISTO
PSICOLOGIA RELIGIOSA
(Continuazione. Vedi Bìlychnit, Aprile 191$, p. 310}.
XVI.
Come si comunica la speranza religiosa dall’uomo all'altr’uomo?
Dobbiamo riconoscere che la speranza religiosa si ribella alla logica ordinaria, come anche si ribellerebbe alla testimonianza d’uno che venisse dai morti; perchè, passato il primo stupore, si potrebbero fare diverse ipotesi per spiegare l’evento nel modo meno innaturale, cioè nel modo più analogo a quel che si sa fino a quest’ora dei processi naturali, e specialmente della psicologia patologica; si potrebbe parlare di morte apparente, di suggestione, d’allucinazione, di sciocchezza o di pazzia, e d’impostura... Queste dunque non sono le vere vie, onde la speranza giunge a noi. Se hanno mai giovato, è stato nel senso, in cui un metodo erroneo può condurci alla scoperta della verità, indirettamente o incidentalmente. E questo è più volte accaduto, forse assai più spesso che non sappiamo, come si sono fatte molte scoperte anche nel campo fisico, quando le ipotesi imaginate e il metodo usato intendevano a tut-t’altro. Può giovare molto all’anima che non crede o è grossolanamente religiosa, cioè superstiziosa (alla quale si applica giustamente la parola di Petronio e di Stasio: Primus in orbe Deos fedi timor) esser fatta certa che la speranza religiosa non può coesistere con una psicologia bassa, volgare, ignobile, e attecchisce soltanto là dove c’è un grande amore per la verità e un ansioso desiderio di giustizia e non si accarezza l’amara opinione, così poco conforme alla sana e vera nostra natura, che il bene sia una chimera; dove soprattutto l’alt r’uomo è fraternamente (non ciecamente) amato anche quando è dissimile da noi o peggiore di noi, o, per razza, per lingua, per distanza, per il posto che occupa nella società estraneo a noi, anche lo sconosciuto, di cui intravvediamo soltanto la figura. Questa nobile e bella hwnanitas verso ogni uomo, chiunque egli sia, dobbiamo averla incondizionatamente, se deve compieisi prima di tutto in noi e poi vicino a noi, per lo stimolo della nostra testimonianza, il mi-
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racolo della speranza religiosa. Dall'altra parte gioverà assai a ehi non sa nulla o sa molto poco della religione poter vedere distintamente come questa si traduce in azione nelle nostre relazioni con gli uomini e negli eventi tristi o lieti della vita in generale. Una dottrina diviene attendibile, per farsi poi credibile, dal momento che le sue applicazioni alla vita son trovate buone. « Voi li riconoscerete da’ frutti loro. Col-« gonsi uve dalle spine o fichi da' triboli? Così ogni buon albero fa buoni frutti... » (i).
Sarà utile a chi non ha ancora appreso a sperare esser fatto certo che ci sono molte oneste gioie nella vita, ma che la religione è la gioia più intima e pura che si conosca, che l’uomo abbia mai conosciuta. La speranza nasce per attrazione (è la visione d’una immensurabile bellezza che ci trasporta) e non per costrizione. È perciò che il credente fa l’esperienza d’una grande libertà, che può aiutarlo a conoscere l’essenza stessa d’ogni altra forma di libertà. Infatti egli ha compreso che libertà ha questo preciso significato: sentire, pensare, operare, vivere per attrazione verso qualche cosa che ci apparisce sommamente bella e desiderabile; ed egli sa che vivere, operare, pensare, sentire per costrizione, che ci venga dalla paura del peggio, è la sola vera servitù. Di più, il credente fa l’esperienza d’una verità, ch’egli deve immediatamente singolarizzare e chiamare la verità, perchè vi riconosce la prima forma d’ogni altra verità; ed è qui che apprende che la verità è l’idea che fa felice la nostra anima migliore. La quale anima, si badi, fu posta in piena luce dalla stessa speranza religiosa, e nessuno può dire di conoscerla finché non ha imparato ad amare sulla base della incorruttibilità della vita.
Bisogna prima conoscere in qualche misura la vita spirituale per poter fai e la comparazione tra essa e le altre forme di vita; e concludere che è più grande, più forte, più bella delle altre, che sembrano fatte per lei, per il suo incremento; perchè è la sola vita che risolve perfettamente l’agitatissimo problema della felicità. I nostri padri medievali subordinavano la scienza alla teologia. Il principio non sarebbe stato errato, se teologia e speranza religiosa fossero veramente una cosa stessa, e anche in questo senso speciale: che la teologia somigliasse alla speranza religiosa e non la speranza religiosa alla teologia, se, cioè, il criterio dell’unità fosse la sola speranza religiosa. La felicità ci fa più urgenza del sapere. Ma il Cristo stesso fu la grande vittima della teologia e i martiri di Gesù ci fanno palpitare il cuore d’ammirazione e di tenera riconoscenza: altrettante vittime della vecchia e anche della meno vecchia teologia che si copriva del nome cristiano. Insomma, la icgina, a cui vanno i tributi d’ogni altra più bella forma di vita, è la religione e non la teologia e non sarà, male una diffidenza sistematica anche della più onesta teologia, che non sopraffaccia l’esperienza religiosa.
Ora io non credo di sbagliarmi affermando che il modo di comunicazione possibile che ho tracciato è precisamente quello che Gesù ha insegnato ai suoi con la parola e con la condotta.
In quanto alla poca efficacia di persuasione che sarebbe anche nella risurrezione d’un morto, si rilegga la conclusione della parabola dell’uomo ricco e di Lafi) Mat. 7, 16, 17.
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l’autorità del cristo
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zaro (i). In quanto alla necessità dei frutti che sono naturalmente prodotti dalla speranza religiosa e son la controprova della sua presenza, c’è molto da rileggere, dalla parabola dei malvagi vignaiuoli (2) alla maledizione del fico sterile (3).
Il Cristo insisteva sui frutti affinchè dalla bellezza della condotta si potesse risalire alla verità della speranza, alla quale logicamente appartengono, ed è il solo criterio che può servire ai vicini per sapere se noi abbiamo la speranza 0 no. In quanto alla incompatibilità dei sentimenti più bassi, o d’un animo volgare e della speranza, si consideri il carattere e la condotta del Cristo e come egli viene formando il carattere e la condotta dei suoi discepoli; si guardino poi questi uomini fatti a sua somiglianza.
È anche il Cristo che ha sottratta la religione alla paura e l’ha identificata con la gioia più grande: «... e per l'allegrezza che ne ha, va e vende tutto ciò ch’egli « ha... » (4); e il suo concetto della verità, non può definirsi altrimenti che come una esperienza felice della nostra migliore umanità. Infine tutto il metodo del Vangelo è fondato sull’attrazione invincibile che è della verità come dell'amore e della felicità, e non sulla costrizione o la minaccia, che c’entrano per incidenza, come l’ombra proiettata da un qualche schermo là dove risplende la bella luce meridiana. È dunque un metodo di libertà: «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (5). Cammineremo attratti da una virtù attrattiva che non ha paragone in nessun altro piano della vita. La libertà spirituale è la ragione d’ogni altra libertà, che, senza quella, ci lascia un’anima di servi, inconsapevole delle gloriose possibilità che chiude in se stessa, infelice o sciocca (untermenschliche, sub-umana, direbbe F. Nietzsche) cioè doppiamente infelice.
XVII.
Secondo che noi ci facciamo un'idea più grande e più bella della Divinità e dél-l’Altra Vita (è un’idea che cresce, come il grane! di senape), noi diveniamo sempre più incapaci di riconoscere la bellezza e il valore dei frutti che nascono dalla nostra speranza. È la via di quella umiltà che è la sola autentica e vera, la sola che sia veramente degna della creatura umana, che è sempre grande e meravigliosa anche quando apparisce spregevole.
Religione vuol dire intravvedere una bellezza che è infinitamente più grande d’ogni altra (6); e quanto più grande si farà agli occhi dello spirito nostro tanto più piccoli e inamabili noi appariremo a noi stessi. Per converso i nostri simili ci appariranno sempre più amabili; e i più tristi che troveremo per via saran per noi sem(1) Lue. 16. 31.
(2) Mat. 20. 23-40, ecc.
(3) Mat. 21. 19.
(4) Mat. 13. 44.
(5) Giov. 8. 32.
(6) Fu questa l’idea di S. Agostino’ che egli esprimeva nelle sue « Confessioni » con un grido d’amaro rimpianto: Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, sero te amavi! Lib. X, cap. XXVII.
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pre più un oggetto di pietà, che aspetta il nostro soccorso. È una di quelle strane e pur belle contradizioni che caratterizzano la vita spirituale, in cui i termini contra-dittorì ci attraggono con forza uguale, con un’eguale autorità incontrastabile e ci fan felici dove noi siamo migliori; che vale quanto dire: sono altrettante grandi verità che non potremmo rigettare, senza precipitare nel dolore che non ha compenso alcuno, fuorché il difetto del sapere e del sentire, un’anima inconscia. Se noi cerchiamo di conciliare tali contradizioni a fil di logica, facciamo opera vana, 0 facciam della scolastica, che è lo stesso. Il fatto è che anche là dove della gente onesta può trovare un oggetto di legittimo disprezzo, il credente ama ancora o vuole ancora amare; perchè tutta la sua psicologia lo costringe ad amare. E una psicologia molto simile a quella della madre che deve amare anche il suo figliuolo snaturato. Oh, si capisce donde viene l’ineffabile bellezza dell’amore materno, se il bello è bello, perchè ci fa pensare a cose più alte ed è il riflesso del vero, e il vero è l’unica sorgente della luce che ribattuta dalla cosa bella la fa essere bella!
Ma nel credente accade certamente questo: che, in quanto a se stesso, egli si paragona ad una divina bellezza che s’ingrandisce e s’inalza sempre più dinanzi allo spirito suo; e in quanto ai suoi simili, egli li paragona con se stesso, umiliato com’è dalla prima comparazione. Come e perchè il credente faccia così, è il meraviglioso mistero che il credente è obbligato a celebrare per una forza di attrazione, cui non può nè vuole resistere. Egli sa per esperienza che la speranza religiosa non può vivere altrimenti che per l’amore fraterno verso i prossimi come verso i lontani.
Perciò comprendiamo come il Cristo nella sua definizione della religione (1) (« tu amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e «con tutta la tua mente... Tu amerai il tuo prossimo come te stesso») introduca l’osservazione che il secondo comandamento è simile al primo. Comprendiamo anche come dica: «... quando avrete fatte tutte le cose che vi son comandato, dite: Noi « siam servi disutili » (2). Infatti il credente sa anche questo: che quanto più cresce la speranza religiosa, di tanto esattamente si assottiglia la vana presunzione della nostra utilità, e che non possiamo prendere il nostro compiacimento in noi medesimi e credere in Dio e nell’Altra Vita. Nella « buona terra », nella quale soltanto mette radici il seme della speranza, è inclusa l’umiltà, come un elemento necessario. Superbia e religione sono due stati incompatibili.
XVIII.
La «buona terra», di cui parla il Cristo nella sua parabola del Seminatore deve richiamare tutta la nostra attenzione; perchè significa tutte le condizioni della speranza religiosa. Per conoscerne il contenuto non abbiamo da fare altro che esaminare la mirabile etica evangelica e la condotta del Cristo e dei suoi grandi testimoni. In questa etica, come nelle applicazioni fattane alla vita dal fondatore e da chi lo
(1) Mat. 22. 37-40.
(2) Lue. 17. io.
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ha seguitato, noi possiamo riconoscere la « buona terra »; e può dirsi che l’assunto di tutto il « N. Testamento » è di voltarla sottosopra e d’esporla all'aria e alla luce, affinchè tutti vedano come si può sperare.
Oh, la fine e nuova psicologia che scaturisce dal Cristianesimo! È una psicologia che ha, sotto un certo aspetto, creata la propria materia, la vita spirituale; perchè è nata a un tempo stesso con questa che era nell’uomo; ma l'uomo non la conosceva.
Quando i moralisti dell'antichità pre-cristiana descrivevano l’uomo quale dovrebbe essere, cercavano oscuramente le condizioni della speranza, e oscuramente facevano il confronto tra l’uomo qual era ed una specie di Cristo anonimo, cioè, ad una traduzione umana della Divinità; e da questo confronto inconsapevole traevano i loro precetti e il loro concetto del dovere. L’idea del dovere non può nascere, se non abbiamo l'idea d’una umanità superiore che è idealmente ciò che noi dobbiamo essere; e non è possibile concepire un’umanità superiore, se non abbiamo il criterio d'un’altezza, alla quale quella umanità si avvicina.
Ora questo criterio non può essere altro che la felicità più grande. La felicità è ciò che più importa agli uomini. Non è anche la felicità che, sotto forme diverse, importa più di tutto a tutti gli esseri viventi? Anche la mente più angusta sarà pronta ad ammettere che la ricchezza, gli onori e una florida salute non valgon nulla, se non c’è felicità. Dove non c’è felicità non si può parlare seriamente di nessun vantaggio; chè manca il criterio d’un vantaggio da conseguire. Questo criterio per l’uomo, che non conosce ancora la speranza religiosa (funesta ignoranza anche accanto alla più vasta dottrina!) è o può essere l’umanità imaginata nella più alta evoluzione dell’esser suo; e nei suoi più bei-momenti l’areligioso può sognare un culto religioso dell’umanità con Augusto Comte e con altri positivisti di buona volontà... Ma coinè non sentire tutta l’amara ironia di questa celebrazione d’una bellezza che promette l’annichi-lazione dei celebranti a brevissima scadenza? Che può importare mai l’avvenire dell’umanità 0 l’umanità ideale a chi aspetta il nulla postumo per se stesso e per tutti? Ecco: se è una creatura logica, l’idea può rendere più acuto e pungentissimo il suo dolore.
La superiorità, come abbiamo già accennato, non può consistere che nel maggior godimento, di cui siamo fatti capaci; ed è felice l’uomo che sa, che ama e che crea cose utili e belle, più distintamente umane. La vera felicità, dunque, si compone di sapienza, amore e potenza creativa e... si può presumere che gli stessi spiriti areligiosi, che sono giunti a questo concetto più umano della felicità, sarebbero disposti ad ammettere che la felicità sarebbe perfetta, se potessimo sperarne la continuazione oltre'il cimitero (ciò che è buono, mentre dura, sarebbe buono sempre, se potesse sempre durare e crescere); e forse sarebbero anche disposti a riconoscere che l’idea della fine getta un’ombra sinistra anche sulle forme più nobili e più belle della vita. Ma la fine è dimostrata e l’eterna durata non si dimostra; e come mai una temporalità potrebbe dimostrare l’eternità? È vero; e si vede subito che questa delle dimostrazioni non è la via della speranza religiosa. La quale viene da fuori ed è il seme che cade sulla terra nel modo che non sappiamo. Se cade lungo la stradargli uccelli vengono e la divorano; se cade nei luoghi pietrosi, ove non v’ha molta terra, nasce subito; perchè il terreno non è profondo; ma, essendo levato il sole, l’abbrucia;
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perchè non ha radici e si secca; se cade sulle spine, queste crescono e l’affogano; ma, se cade in buona terra, nasce, cresce e fruttifica più o meno abbondantemente. « Chi ha orecchio da udire oda» (1
Nella « buona terra » c’è fame e sete d’una felicità, nobilmente umana, che si svolga e duri eternamente. In questa stessa « buona terra » la sensibilità è così cresciuta che non potrebbe più trovar bella nemmeno la più squisita bellezza, nè buono il più profondo godimento, nè vera la più forte e concludente dimostrazione; non potrebbe pili prendere alcun piacere nè nell'arte nè nella scienza, nè nella potenza, nè nella carità, se si dovesse accettare l'idea della fine, del nulla postumo. E non c’è retorica intorno agli splendori della civiltà, nè culto dell’umanità (retorica anche questa) che potesse estinguere la fame e la sete della vita eterna, divenute sopra modo acute nella « buona terra ». Ci vuole altra cosa, un altro seme; e un altro seme cade silenziosamente sulle anime; ma, come si è detto, come ha detto il Cristo, 'esso si appiglia soltanto alla « buona terra ».
È così che il credente è pervenuto alla conoscenza di tutte le migliori risorse della vita, ossia alla conoscenza della vita nella sua interezza; e può fare l’esperienza della felicità in tutte le sue parti: sapere, amare, creare, credere e sperare.
Quando la speranza religiosa è nata, essa è una certezza felice che non teme più alcuna obiezione o confutazione, perchè oltrepassa i limiti dell’intelletto e può coesistere con la più fine ed elevata cultura, con lo stesso genio scientifico più genuino, come ne fan prova parecchie grandissime autorità scientifiche passate e contemporanee. È questione di « 7. 7. » e non di scienza.
Poco valgono le stesse forme superiori della vita a confronto della speranza, alla quale son sottoposte e servono, anche quando non vogliono o non sanno.
È naturalmente una soggezione alla speranza religiosa e non alla teologia dell’epoca, secondo l'errore medievale. Del resto la cultura in generale può rendere migliori servizi alla religione svolgendosi liberamente, piuttosto che sotto il sindacato di un «Sant’Uffìzio» o d’una «Sacra Congregazione dell’indice», organi della teologia e non della religione.
Nello stesso modo, la religione affidata a se stessa, ai suoi mezzi naturali, alla potenza sua propria, non tarderà a mostrare la bellezza sovrana, che racchiude e che è sorgente d’ogni altra bellezza, anche a quegli spiriti che ne sembrano più lontani.
La religione è attrazione e non costrizione. Ogni costringimento l'avvilisce e la deturpa, sicché gli spiriti colti, gelosi della propria libertà, se ne allontanano diffidenti. Quell’Uzza delle « Cronache » che stese la mano per tenere l’Arca, perchè i buoi l’avevano smossa, « e morì quivi davanti a Dio » (2), raffigura assai bene la follia dell’uomo che vuol sostenere la religione con i suoi artifizi.
(Continua).
Raffaele Wigley.
(1) Mat. 13. 1-9.
(2) Cron. 13. 9, io.
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IcronacheI
Vitalità e vita nel Qattolicismo.
IX.
IL NUOVO ORGANAMENTO DELL’AZIONE CATTOLICA IN ITALIA: LA RELIGIONE DEGLI ASSENTI - LA RIGIDITÀ DI PIO X E LA DUTTILITÀ DI BENEDETTO XV - LA « DEMOCRAZIA » CATTOLICA - I SEMI MODERNISTI IN AUGE: BOGGIANO, GROSOLI, STURZO ED ALTRI - IL PROGRAMMA DELL’AZIONE SOCIALE CLERICALE - LO SFRUTTAMENTO DEI PIÒ UMILI CHIESA E STATO IN ITALIA : IL PAPA DI FRONTE ALLO STATO -LE.TRATTATIVE FRA GOVERNO E VATICANO IN PREVISIONE D’UNA GUERRA - LA LEGGE SULLE GUARENTIGIE E LA QUESTIONE DEI MINISTRI ESTERI PRESSO LA SANTA SÈDE fi IL CLERO ITALIANO E LA GUERRA NAZIONALE: TIMIDI ACCENNI — IL «PATRIOTTISMO MALINTESO» - «LO VOGLIAMO DI MARMO’».
L’Azione Cattolica in Italia ha subito in pochi anni, particolarmente durante il pontificato di Pio X, tali e tanti mutamenti di forma e di indirizzo che chi volesse raccogliere insieme solo i vari statuti e regolamenti potrebbe formarne un grosso volume. Pio X, l’abbiamo detto più vòlte, aveva un sacro terrore della libertà e la precipua occupazione della sua vita di pontefice dev’essere stata quella di escogitare nuove gabbie, nuove chiusure, nuovi chiavistelli, appena si avvedeva — ed era la storia d’ogni giorno — che, fatta una legge ed ordinata una direttiva pei cattolici italiani, questi trovavano subito la maniera di eluderla. Erano episodi a volte tragici, a volte ridicoli, dell'eterna lotta tra l’autoritarismo e la libertà, tra il dominio sugli spiriti e l'autonomia di questi. Tanto più che si trattava solo di salvare le apparenze esterne: non era questione di religione, che il cattolicismo in Italia è così misera cosa da potersi definire senza esagerazione nè ironia « la religione degli assenti »: era questione di politica, che per il papa defunto doveva servire — ingenua aberrazione -alla riconquista delle anime attraverso la riconquista dei corpi.
Benedetto XV ha cambiato rotta. Egli ha imposto dapprima silenzio alle schiere cattoliche battaglianti acremente tra di loro, ha ridato voce attiva e passiva a quei giornali e periodici che Pio X aveva solennemente fustigati, agli altri che il papa de-
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(unto aveva prediletto, tolse baldanza e decurtò le unghie, e, finalmente, con un tratto di penna, ha soppresso gli undici anni di pontificato del predecessore nei rapporti dell'Azione Cattolica, ed ha ricondotto questa a quel che era nel 1904, quando Pio X aveva mandato a rotoli la vecchia Opera dei Congressi (1).
Lo confessava uno dei giornali sanfedisti, rispondendo ad un lettore nella piccola posta, convenendo con lui che si era ritornati nè più nè meno che al Congresso di Bologna «però senza Murri e il murrismo». Infatti Murri se ne è andato da gran tempo con i più sinceri; il « murrismo », cioè lo spirito di reazione interna contro l’assorbimento assoluto da parte dell’autorità, era però rimasto più o meno latente ed attivo, finché Pio X visse. Salito al trono il nuovo papa, questi, più intelligente del predecessore, si accorse che le repressioni violente ottengono l’effetto opposto a quello che si prefiggono e, mostrando di cedere, vinse le resistenze tenaci. Le ultime velleità di autonomismo e di sindacalismo democristiano sono scomparse di fronte ad una apparenza di costituzione, Che Benedetto XV mostrava voler concedere e che veniva sancita con la nomina di un Consiglio direttivo dell’Unione Popolare — una specie di Parlamento — che, a sua volta, nominava una specie di Gabinetto 0 Ministero, cioè la Giunta direttiva dell’Azione Cattolica.
E, a proposito, di questo Corpo dirigente, non possiamo tralasciare di notare come i componenti di esso siano stati scelti precisamente tra coloro che sotto il pontificato di Pio X rappresentarono più autorevolmente lo spirito di fronda contro le direttive politiche e sociali del vecchio papa. Se si eccettuano cioè i membri « di diritto » e cioè i presidenti delle cinque unioni ed un paio di femmine, che nessuno conosce e servono di riempitivo, gli altri sono proprio gli eretici od i sospetti di ieri. La Giunta, infatti, è riuscita così composta: Conte Giuseppe Dalla Torre, Conte Stanislao Medolago Albani, Conte Ottorino Gentiioni, Comm. Pàolo Pericoli, Principessa
(1) La decisa orientazione verso sinistra che traspare evidentissima nel nuovo atto pontificio sull’azione cattolica e nella scelta delle persone chiamate a dirigerla, si spiega facilmente quando si sappia che questa specie di colpo di stato fu organizzato nei suoi dettagli in una riunione lunghissima che ebbe luogo nell’episcopio di Pisa il 31 gennaio, presieduta dal card. Maffi ed a cui erano stati invitati gli elementi meno papalini dei clericali d’Italia, e ne erano stati esclusi gelosamente tutti gli integralisti. Questi, del resto, si trovano in assai cattive acque, tanto che anche la stampa ufficiale dell’ Unione Popolare non risparmia spesso i suoi attacchi contro i vecchi giornali che fecero testo di lingua sotto Pio X. Bisogna proprio dire che con la morte del vecchio papa tali giornali hanno perduto ogni loro possa. Ora si annunzia la morte di uno di essi, cioè del Berico di Vicenza, la cui lotta contro il vescovo di quella città ricordammo in una delle nostre cronache.
Contro gli integralisti ha fiere parole il card. Mercier nella sua pastorale per la quaresima di quest’anno, in cui il primate del Belgio ricorda come col pretesto dell’an-timodernismo alcuni cattolici attaccassero violentemente gli elementi più sereni e più temperati della chiesa, e prosegue:
A questi cavalieri improvvisati dell’ortodossia non bastava più la professione di fedeli cattolici, ma sembrava che per ubbidire più umilmente al Pontefice si dovesse sfidare 1 autorità dei vescovi. Giornalisti senza mandato scomunicavano coloro che si rifiutavano di passare sotto le forche gaudine del loro integralismo. Un certo malessere si era impossessato delle anime timorate, le coscienze più oneste soffrivano in silenzio.
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Antici-Mattei, Nobile Augusta Nani-Costa, avv. Antonio Boggiano, Barone G. B. Bosco-Lucarelli, Conte Luigi Casotti di Chiusane, Conte Giovanni Grosoli-Pirolini, don Luigi Sturzo. Chi dovesse giudicar da questo elenco soltanto dovrebbe concludere che per la democrazia non v’ha diritto di cittadinanza che tra la servitù dell’azione cattolica. Su undici membri della Giunta vi sono infatti una principessa, cinque conti, un barone, una nobile, commendatori, ecc.
Ma, venendo a qualcuno di questi signóri, troviamo tra essi Antonio Boggiano, un « apostata » — così lo definiva V Unità Cattolica dell’8 novembre 1913, in cui si diceva che la professione di fede politica del Boggiano quale candidato nel collegio di Siena, equivaleva « ad una provocazione e ad una apostasia ».
Egli, infatti, osava scrivere allora cose da far rizzare i capelli o raggricciar la pelle ai papalini, come le seguenti:
Riconoscendo lealmente Roma, come la sede auspicala del nuovo Regno, non in vane querimonie verso il passato intendiamo di spendere le nostre energie, ma nel dimostrare quali civili virtù sappia avvivare il felice connubio della fede religiosa colla devozione sincera e franca alla Monarchia di Savoia ed alle istituzioni dèlia patria.
Venne poi la lotta per il secondo collegio di Perugia (8-16 marzo 1914) in cui il Boggiano ritentò l’alea, ma avendo contro di sè il Vaticano, che con uno speciale comunicato sull’Osservatore Romano aveva, in odio al Boggiano stesso, imposto il non expedit ai cattolici umbri. Il Boggiano però, sorretto dai vescovi di Perugia e di Assisi e dai cattolici di quel collegio che si infischiarono dell’ordinanza pontificia, insistette nella candidatura e... fece un nuovo fiasco. L’importante non era questo, ma la ribellione dell’ex-presidente dell’Unione Popolare agli ordini del Papa. Onde è che l’Italia Reale di Torino poteva chiedere nel numero del 23 marzo 1914:
Come mai può il prof. Boggiano mostrar di ignorare l’assoluto mantenimento del non expedit in quella elezione, confermato ripetutamente con Nota ufficiale dell’Osser-vaiore Romano? E che dire dell’infelice tentativo di opporre due insigni Vescovi al volere esplicito della S. Sede? Può il prof. Boggiano dimenticare la circolare, resa pubblica, con cui l’Arcivescovo di Perugia, ha proibito al suo Clero di partecipare alla votazione di ballottaggio del 15 marzo? (L'arcivescovo, dopo la prima votazione, era stalo chiamato « ad au^’en^um ve>:bum, e costretto a scrivere la notificazione di cui qui si fa parola.
Assai più che l’aperta ribellione della quale il buon senso cristiano fa giustizia, nuoce gravemente alla causa cattolica la resistenza alle decisioni pontificie ammantata di rispetto e di zelo per la difesa della religione e per il bene del popolo.
Ed il Labaro di Milano (15-16 marzo 1914) commentava a sua volta:
Arriviamo così alla conclusione, che per la insofferenza, per la superbia, per la caparbietà di alcuni, tutta la causa buona ne soffre, che nuovi dolori si danno al Vicario di Cristo, nuove divisioni si creano nel campo nostro e nuove armi si danno in mano all’avversario, il quale di noi sorride.
Le direttive le dà la Santa Sede e i cattolici devono obbedirle.
Ora però il Boggiano, reo, neW ancien regime, di apostasia, di riconoscimento pieno dei fatti compiuti, di ribellione aperta alle direttive papali, sotto il nuovo governo è riassunto all’onore di dirigere i cattolici italiani, e alle nuove elezioni può star
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sicuro che il non expedit verrà sospeso per favorirlo nelle sue ambizioncelle. E V Unità Cattolica e soci plaudiranno.
Vi è poi il conte Giovanni Grosoli, che è proprio quello stesso che fu da Pio X nel 1904 deposto dalla carica di presidente dell’opera dei Congressi per le sue relazioni con Romolo Murri, che fu poi animatore, ispiratore e finanziatore dei giornali interdetti da Pio X. Cacciato e deplorato da un papa, è reintegrato ed applaudito da un altro.
Don Luigi Sturzo è noto come amico e seguace del Murri di un tempo. E crediamo che non sia del tutto guarito dell’antica lue. Anzi vi è chi assicura che abbia peggiorato.
Del conte Caisotti di Chiusano ricordammo in Bilychnis del decembre scorso l’aspra polemica con la Civiltà Cattolica a proposito di sindacalismo cristiano, nella quale polemica egli accusava chiaramente i gesuiti di assoluta malafede.
Benedetto XV ha tenuto anche stavolta a differenziarsi radicalmente da Pio X. La differenza, ripetiamo, consiste in' questo che Pio X colpiva alla cieca chi gli pareva non pienamente soggetto, mentre Benedetto XV si ricorda saggiamente ài suoi fini dell’antico proverbio che si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto. Una politica, dunque, di addormentamento e di addomesticamento in cambio di una politica di urti e di repressioni.
Il fondo, l’accaparramento cioè di tutti i cattolici per una direttiva politica, per quanto diversamente prospettata, e lo sfruttamento di essi a tempo opportuno, restava immutato. Ne è riprova la lettera che il Cardinal Gasparri, a nome di Benedetto XV, dirigeva il 26 febbraio al conte Medolago-Albani, lettera che costituisce il programma dell’azione sociale dei cattolici. In essa si diceva:
Sua Santità si è degnata di manifestare quanto appresso:
A) per la parte generale: .
1 ) « Come base dell’azione cattolica pratica • è a ritenersi, più che la divisione per diocesi, la divisione per regioni ecclesiastiche, circoscritte dalle conferenze episcopali. Suesta mentre al movimento cattolico fornisce colla maggior ampiezza, maggior forza, ¡mina l’inconveniente della stasi dell’azione in non poche diocesi non molto importanti per numero, per movimento e per persone: c d’altra parte, nonché sottrarre l’azione alla vigilanza dei vescovi, ne provoca la tutela e la guida, oltre che particolare, anche collettiva.
2) Escluse affatto la base ed anche la stessa denominazione sindacale, le quali hanno per fondamento, o suppongono, o lasciano sospettare la lotta di classe, l’organizzazione professionale appare più consentanea ai bisogni dei tempi e alle esigenze di un organismo potente, quanto più largamente si espanda, fino a diventare generale e centralizzata, salva sempre la sorveglianza, oltre che del Centro, e cioè dell’ Unione Economico-Sociale anche delle provincia ecclesiastiche, le quali nelle conferenze episcopali regionali fungono da esponenti dei rispettivi bisogni locali e da moderatrici dell’azione nella regione. La lotta di classe, come quella che è essenzialmente contraria ai principi del cristianesimo, deve essere dalle associazioni cattoliche non solo fuggita, ma anche combattuta.
Più espediente è tuttavia contrastare io spirito di detta lotta col nutrire i sodalizi mediante i principi e la pratica del catolicismo, di quello che sopprimere il pericolo di detto spirito col togliergli l’occasione di nascere, cioè col frazionare l’organismo e coll’im-pedirne la potenza collettiva.
3) Per quanto sarà praticamente possibile, è opportuno, utile e ben corrispondente ai principi cristiani il continuare, in linea di massima, la fondazione simultanea e distinta d'unioni padronali e operaie, e, come punto di contatto tra esse, la creazione di Com-
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missioni miste che discutano e sciolgano pacificamente, secondo giustizia e carità, le controversie tra i membri dell’un genere e quelli dell’altro genere di associazione.
4) Come regola generale è bene ritenere il carattere confessionale delle istituzioni economico-sociali, non imposto però con esplicito articolo dello Statuto, ma guidato da criteri di prudente e caritatevole larghezza per modo che siano accettate a far parte dei nostri sodalizi economico-sociali quelle persone che a giudizio delle autorità ecclesiastiche siano commendevoli per sentimenti religiosi e per condotta morale.
B) Riguardo alla speciale questione agricola:
5) Si ravvisa conveniente che, per ora, al lavoro di preparazione del contratto agrario-tipo secondo le diverse regioni, sia fatto precedere quello più ampio della organizzazione professionale dei contadini.
Tuttavia, prima di intraprendere la organizzazione, è d’uopo concretare una prospettiva di vantaggi materiali che possa attrarre i contadini nelle nostre file, destinate, senza tale miraggio, a rimanere rade se non deserte.
6) Quanto alla coordinazione del lavoro colle altre Unioni, e specialmente colla Unione Popolare, essa è contemplata e regolata dal recente documento della Segreteria di Stato, diretto al signor conte Dalla Torre il 25 di questo mese.
Occorre però notare non doversi dedurre ¿la tale documento che la formazione dei propagandisti specializzati non abbia a farsi per ciò che riguarda la propria attività, dall’Unione Economico-Sociale: la quale invece assai utilmente si servirà a questo scopo dell’organismo scolastico che già possiede, e continuerà anche a tenere, ove occorra, corsi speciali accelerati nelle diverse regioni.
Le cinque Unioni, per quanto tra loro coordinate e disciplinate, non possono dare la completa e necessaria unità, e però l’Unione Popolare avrà preminenza sulle altre e imprimerà a tutte il movimento generale direttivo.
Nondimeno, siccome le altre Unioni hanno ciascuna la propria sfera di azione e la propria competenza tecnica, e siccome neppure la massima autorità può prescindere dalla tecnica speciale, l’Unione popolare nelle sue iniziative e nei suoi programmi dovrà domandare consiglio alle Unioni consorelle nelle materie speciali che singolarmente le riguardano.
7) Logica conseguenza del numero precedente si è che la < Settimana Sociale » dipendente dall’Unione Popolare, proceda quindi innanzi di concerto colla Unione Economico-Sociale, ogni qualvolta voglia imprendere a trattare di questioni che riguardino materie proprie dell’unione Economico-Sociale.
In questo documento varie cose meriterebbero di essere rilevate, dallo spirito mezzo forcaiolo che ispira gli articoli 203, all’utilitarismo del 5. Ma non mi è possibile dilungarmi troppo. Noterò solo come l’articolo 4 contenga una smentita formale al principio esclusivista a cui si ispirarono le direzioni sociali di Pio X e per cui il papa morto sollevò tanti clamori, e cioè il confessionalismo assoluto delle associazioni operaie.
Ma ciò che, soprattutto, è notevole nella citata lettera, è il proposito, riaffermato ufficialmente, di lavorare specialmente tra i contadini. L’artigianato sfugge ormai completamente al raggio di azione delle organizzazioni cattoliche. Esso da gran tempo si è accorto che dietro i tentativi di organizzazione da parte dei clericali si celavano due cose egualmente deleterie per le associazioni di classe: il proselitismo religioso, con i suoi esclusivismi ed i suoi odii teologici, e la divisione del proletariato a tutto vantaggio degli sfruttatori. Cosicché solo poche e grame associazioni professionali i clericali erano riusciti a costituire e far vivere. La classe agricola, invece, la più umile e la più ignorante, come la più tradizionalista e la più credulona d’Italia, è ancora in molte parti un campo quasi vergine che si presta ad essere buona preda dei propagandisti clericali. Perciò ai contadini questi si rivolgono. E forse, se non vi si
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opporranno altri, i risultati immediati li favoriranno. Non credo, però, che più tardi essi dovranno rallegrarsi troppo dei successi d’oggi. La sete di verità e di giustizia è malattia contagiosa e progressiva. È storia d’ogni giorno quella che mostra che chi bove berrà.
a*
Le questioni in merito alla posizione in cui si verrà a trovare il papa, nel caso che l’Italia avesse a scendere in guerra — questioni a cui accennammo nel passato numero— hanno avuto l’onore di un largo sviluppo ed hanno interessato molto, più per la speciosità e, direi quasi, la puerilità del problema che per il fatto in sè stesso. In Italia, infatti, salvo una minoranza infinitesimale di partigiani, nessuno attribuisce al pontefice di fronte allo Stato alcuna posizione di privilegio. Sarebbe infatti inconcepibile uno Stato nello Stato con tutte le tristi conseguenze che ne deriverebbero. Il diritto pubblico non può esser dubbio in proposito, ed è per questo che la legge delle guarentigie, in quanto legge di favore e di eccezione, finché durerà, non potrà avere altro carattere che quello di una disposizione assolutamente interna dello Stato italiano. Per questo stesso la sognata internazionalizzazione di quella legge è una utopia ed è la più ridicola tra le soluzioni del preteso problema avanzate finora. Il papa non può essere altro che un cittadino dello Stato dove risiede.
Pertanto le trattative che, si diceva, erano in corso tra la Santa Sede e il Governo italiano dovevano aver di mira di evitare, per quanto possibile, brusche rotture ed odiosità, siano pur legali, e non potevano in nessun caso coinvolgere una questione di principio, questione che non esiste. Tali trattative erano così riassunte in una corrispondenza alla Stampa di Torino (io marzo):
Anche in Vaticano lo studio della situazione attorno ad una possibile entrata in campagna dell’Italia è ogni giorno più diligente.
Le preoccupazioni per la posizione della Santa Sede di fronte ad una guerra dell’Italia con l’Austria, per quanto gravi, avrebbero ceduto il posto, in questi ultimi giorni, ad una maggiore speranza di una possibile continuata neutralità italiana, ciò che il Vaticano desidera e, in ogni caso, alla fiducia che gli avvenimenti non creeranno alla Santa Sede insormontabili difficoltà.
Già vi accennai che il principale punto su cui si era fermata l’attenzione del Vaticano era quello riguardante il Corpo Diplomatico accreditato presso il Papa. Sembra che siano indirettamente giunte al Papa assicurazioni: c’è chi assicura che uno dei più autorevoli intermediari fra il Governo e la Santa Sede sia Padre Genocchi e che tutti gli sforzi delle sfere governative responsabili tenderanno a far sì che la legge della guarentigie resti invulnerata anche nella eventualità di una guerra, sia per dimostrare al mondo cattolico che la indipendenza pontificia è stata, è, e sarà sempre garantita nel miglior modo dall’Italia, sia perchè si vuole evitare qualsiasi discussione riguardante le prerogative pontificie, discussione che non potrebbe in momenti supremi che addolorale l’animo dei cattolici italiani i quali già hanno dimostrato che, se l’ora di affidare alle armi la difesa dei diritti dellTtalia scoccasse, essi intendono di far parte, e non ultima, di quell’unità di pensiero, di sacrifizi e di opere bene auspicata dal Governo e da tutti gli italiani.
I recenti discorsi dell’Arcivescovo di Genova e del Vescovo di Gaeta sono, poi, documenti solenni che la S. Sede nulla farebbe per ostacolare i sentimenti patriottici dei cattolici italiani.
Sarebbe però stata prospettata alla Santa Sede la difficile situazione in cui potrebbero trovarsi gli ambasciatori delle Potenze in conflitto coll’Italia. La Santa Sede avrebbe
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lungamente esaminato questa probabilità e sarebbe venuta nella decisione che, in caso di conflitto, tutto il Corpo Diplomatico accreditato presso il Papa lascierebbe Roma in temporaneo congedo e che gli interessi religiosi dei vari Stati verrebbero assunti dagli uditori di Rota che la Francia, come l’Austria e la Spagna posseggono quali loro rappresentanti presso l’Alto Tribunale papale.
Questi uditori di Rota, benché di nazionalità francese e tedesca, rivestono la dignità sacerdotale e fanno parte della gerarchia ecclesiastica. La loro personalità quindi, è, si può dire, internazionalizzata; nè può supporsi senza offesa alla Santa Sede che la loro funzione possa tramutarsi in quella di agenti politici.
La loro corrispondenza non può effettuarsi che coi vescovi, e la Santa Sede stessa può essere garante che nessuna trattazione, all’infuori degli interessi religiosi, essi possono indirizzare ai vescovi.
Non so quanto vi sia di vero in questa relazione del corrispondente del giornale torinese. Ma se essa fosse veritiera, particolarmente per quanto riguarda l’accreditamento degli uditori di Rota, il... diplomatico italiano che avrebbe condotto l’affare sarebbe di un’ingenuità senza pari. Parlare di tali ecclesiastici come se, perchè tali, « la loro personalità fosse internazionalizzata », è ridicolo. Occorre non aver presente che il clero delle nazioni combattenti si è dimostrato fieramente patriottico, anche a detrimento (come noi abbiamo già illustrato in queste cronache) della religiosità, occorre aver dimenticato che tra coloro che a Roma brigano ed agiscono, con l’opeia e col denaro, in favore delle rispettive nazioni, sono in prima linea i sacerdoti. Nè vale l'altro meschino ripiego che gli uditori di Rota non potrebbero corrispondere che con i vescovi, dal momento che abbiam visto questi mettersi risolutamente, anche negli atti propri del loro ministero, a battagliare anch’essi. Pertanto se v’è un accordo esso dovrebbe essere logicamente su altre basi.
Vero è che il Vaticano nega recisamente non solo gli accordi, ma pur le trattative. Infatti il 28 marzo V Osservatore Romano pubblicava la seguente nota ufficiale:
Vari giornali hanno annunziato esser corse delle trattative fra la Santa Sede ed il Governo italiano riguardanti le questioni d’interesse della stessa Santa Sede che potrebbero sorgere nel caso di una eventuale partecipazione dell’Italia alle presenti ostilità.
Siamo autorizzati a dichiarare che tali notizie sono destituite di qualsiasi fondamento.
Tale smentita può essere classificata come una necessaria bugia diplomatica. Ma vi è chi, poco avvedutamente, vi ha creduto, 0 ha mostrato di prestarvi fede. Ad esempio il Messaggero {28 marzo) scriveva:
Su tratta, come si vede, di una smentita recisa e precisa, la quale tronca, con uncolpo netto, tutte le voci corse in questi giorni e le speranze illusorie di quanti, in un eccesso di buona fede eonciliatorista, credevano ancora alla possibilità di un accordo fra il Vaticano e l’Italia.
La smentita dell’organo pontificio ha un significato evidente, che traspare dalla forma stessa ond’è redatta: il Vaticano quali che siano per essere le future vicende della nostra vita nazionale, mantiene integre e ferme, con inflessibile volontà, le prerogative di cui gode e le aspirazioni che, nel giuoco internazionale delle sue influenze coltiva e persegue. Estraneo alla nazione italiana, indifferente ai suoi destini, il Papato oggi riafferma la rigida, intangibile prevalenza dei suoi interessi internazionali sopra quelli dell’Italia; sopra e contro, se occorra.
Per salvaguardare la sua compagine ed il suo avvenire, lo Stato italiano dovrà sospendere, quando suoni l’ora del conflitto, le preorogative diplomatiche ai rappresentanti delle nazioni nemiche accreditati presso il Vaticano, perchè se dovessero vigere ancora, rappresenterebbero un’insidia permanente ed un grave pericolo per i nostri interessi di patria.
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Questa conclusione, vi siano state o no trattative tra il Governo e il Vaticano, è evidentemente giusta, e non occorrerebbe neppur discuterla, tanto è ovvia, se l’Italia non fosse tuttora la terra delle accademie e dei bizantinismi. Essa invece ha ormai tutta una letteratura. Il Popolo d’Italia di Milano pubblicò già varie interviste in proposito; poi fu pubblicato il volume commendevolissimo del Quadrotta: Il Papa, l’Italia e la Guerra, in cui i rapporti giuridici e politici tra l’Italia e la Santa Sede vengono ampiamente trattati. Questo volume — di cui in Vaticano debbono esser poco grati all'autore, tanto che si afferma che il libro sia stato già deferito alla Congregazione dell’Indice — ha una prefazione del prof. Scaduto, forse il più noto e valente tra i cultori e gli insegnanti di diritto canonico in Italia. Lo Scaduto dimostra anch’esso la necessità di rimettere i passaporti ai diplomatici accreditati presso il Vaticano, in caso di guerra. L'opinione dell’illustre maestro è riassunta in queste poche righe, che togliamo da una intervista accordata al Giornale d’Italia (30 marzo), il quale foglio ha creduto dovere anch’esso promuovere una discussione in proposito. Dice lo Scaduto:
La soluzione del problema, che ritengo debba occupare e preoccupare così come merita la mente dei nostri governanti, mi sembra chiara e sopratutto logicamente necessaria in un modo solo. Intendo che il Governo italiano non potrebbe fare a meno di emanare un decreto-legge col quale fossero sospese temporaneamente le immunità personali e locali di Cui gode, in virtù della legge sulle guarentigie, il Corpo Diplomatico, accreditato presso il Vaticano, insomma un decreto che sancisse una deroga alla Guarentigie e che, penso, non potrebbe non essere approvato e trasformato in legge dal Parlamento.
Al prof. Scaduto faceva seguito, nello stesso giornale (31 marzo), un altro valente giurista, il prof. G. B. Guarini, docente di diritto internazionale, il quale così si esprimeva:
In caso di guerra tra l’Italia e qualcuno degli Stati che hanno rappresentanti presso la Santa Sede, il trattamento, la condizione di fatto e di diritto di questi inviati risulterebbero chiarissimi. La guerra, spezzando ogni rapporto amichevole tra gli Stati belli-'eranti, ha come primo effetto, quello del richiamo dei rispettivi agenti diplomatici, a cui missione è appunto quella di mantenere e favorire e sviluppare tali rapporti. Per ’esercizio di questo altissimo ufficio gli agenti diplomatici godono in tempo di pace di privilegi e di prerogative eccezionali, quali la extraterritorialità e la immunità dalla giurisdizione territoriale. A più forte ragione quindi non potrebbero restare nel nostro territorio, godendo di questi eccezionali privilegi gl’inviati degli Stati esteri presso la Santa Sede, ai quali la legge delle guarentigie, legge di opportunità politica, estendeva non Ululo juris, ma a titolo per così dire grazioso e puramente onorifico, i privilegi spettanti di diritto ai rappresentanti politici presso lo Stato. La parola e lo spirito di quella legge che non è legge internazionale, nè legge internazionale garentita, ma legge di ordine interno, come tutte le altre (e però, come queste, può essere abrogabile e modificabile ad libitum dai poteri legislativi dello Stato) sono evidentissimi. Sarebbe un vero assurdo giuridico e politico che in un conflitto bellico, nelle quali le parti, distrutte le precedenti relazioni amichevoli, cercano di colpirsi al cuore, si mantenessero i rappresentanti dello Stato nemico, per qualsisia missione, a qualunque titolo, nelle eccezionali condizioni del tempo di pace. La guerra è, quasi, come la morte: omnia solvit: scioglie sopratutto ogni necessità e ogni volontà e ogni dovere di dar segno di onore e di favore a chi tende al nostro annientamento.
Il rinvio degl’inviati esteri presso la Santa Sede s’imporrebbe adunque, come una logica necessità.
A mantenere i rapporti tra la Santa Sede e gli Stati con noi in guerra, potrebbero intendere i rappresentanti degli Stati neutrali, a scelta dello Stato mittente con l’aggra-
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dimento del nostro Stato: così come è consuetudine per gli agenti diplomatici: a qualcuno dei quali, rappresentante di Stato neutrale e amico, il belligerante affida la protezione dei propri sudditi nel territorio dello Stato nemico c la continuazione di quei rapporti che la guerra non infrange.
Una sola voce abbiamo notato discordante nel referendum del Giornale d'Italia ed è, naturalmente, la voce di un clericale, il deputato Petrillo. Il quale basa il suo ragionamento sulle tradizioni nostre di onestà politica. Egli ha detto:
Le pretese di rivendicazioni territoriali del Pontefice si sono attenuate sino ad accontentarsi dell’internazionalizzazione della legge delle Guarentigie. È una pretesa pericolosa. perchè sembra innocua, ma ognuno che senta la dignità del proprio paese, non può non rispondere con un reciso rifiuto. Noi abbiamo una firma abbastanza rispettata e rispettabile per aver bisogno di avallo; l’osservanza di quasi cinquant'anni dovrebbe assicurare il Pontefice ed il mondo cattolico; ma se così a cuor leggero si parla di revoca, di abolizione, di limitazione di una legge di tanta importanza, si dà occasione alla pretesa d’internazionalizzazione della legge.
Non ci mostriamo inferiori alle nostre tradizioni di onestà politiche: essere un galantuomo è sempre un bel difetto per un popolo non meno che per un individuo.
Se la legge delle Guarentigie superasse anche la prova suprema di una guerra, dopo aver superata felicemente quella di tre Conclavi, la quistione romana entrerebbe, definitivamente, nel campo della archeologia politica, con grande vantaggio della S. Sede ed anche dell’Italia.
Forse l’on. Petrillo non avrebbe tutti i torti se non avesse dimenticato di tener conto di due cose: la prima, che tra i privilegi concessi ai diplomatici, anzi il più essenziale dei privilegi per la importanza che ha in dati momenti, non è quello della inviolabilità personale e dei beni, a cui il Petrillo si riferiva nella sua intervista, ma è quello della insindacabilità della corrispondenza e, peggio ancora, dell’uso della cifra nella corrispondenza stessa; la seconda, che questi diplomatici, prima d’essere tali sono dei patrioti e, come tali, è da supporsi legittimamente che nulla lascerebbero di intentato pur di giovare al proprio paese. Pertanto il «galantomismo» di uno Stato, che conservasse i privilegi accordati ai rappresentanti di altre nazioni con cui si trovasse in guerra, sarebbe sinonimo di « imbecillità ».
Il senatore Francesco Ruffini, rettore dell’università di Torino, che, come lo Scaduto, è tra i più valenti cultori di diritto ecclesiastico, pubblicava anch’egli sul Journal di Parigi (18 aprile) una lettera sulla questione, in cui si diceva:
La questione delle prerogative diplomatiche degli inviati stranieri presso la Santa Sede, non venne risolta dalla legge delle guarentigie. Nella discussione delia legge (seduta del 15 febbraio 1871) il deputato Corte propose all'art. 12 che ne fosse aggiunto un altro così concepito : « Tutti i privilegi accordati al Papa circa gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede ed all’ invio di telegrammi e corrispondenze postali saranno sospesi in caso di guerra fra l’Italia ed altre Potenze, in caso di guerra in cui l’Italia rimanga neutrale ed in qualunque altro caso che sembri necessario per la sicurezza interna ed esterna dello Stato ». A tale proposta rispondeva il relatore della legge Bonghi affermando essere perfettamente vano ingerirsi a ricercare a priori quali variazioni si possono, in caso di guerra, introdurre a questi o quei privilegi concessi dallo Stato italiano alla Santa Sede. In ciò si accordò la Camera rimanendo per altro inteso che. in tale eventualità, il Governo avrebbe potuto, o assumendo la responsabilità come potere esecutivo o mercè una legge modificatrice di quella delle guarentigie, sospendere la immunità degli agenti diplomatici presso la Santa Sede.
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E’ opinione dello scrivente che ciò il Governo italiano potrebbe, in caso di necessità, fare senza bisogno di una legge, poiché è ammesso da tutti e dagli stessi pubblicisti di Germania, che spettano al Governo italiano di fronte agli ambasciatori accreditati presso il Papa le stesse facoltà che un governo può esercitare secondo il diritto delle genti di fronte agli ambasciatori accreditati presso di lui. E’ però opinione altrettanto ferma dello scrivente che la questione rimarrà sempre circoscritta alla pura teoria. Il Governo italiano ha evitato, sempre che potè, di spingere alla sua estrema applicazione la legge delle guarentigie ; con cura anche maggiore la Santa Sede evitò che tale applicazione avvenisse, ben conscia, come essa è, che ogni estensione ulteriore, magari in via di semplice interpretazione della legge stessa, sarebbe poi irrevocabile e ridonderebbe quindi a suo danno. Questo si verificò in un caso di omicidio commesso nelle sfere immunitarie del Vaticano da un giardiniere, nel qual caso si sarebbe posta a ben dura prova la portata di tale immunità e la potestà giurisdizionale dei così detti tribunali vaticani se il Pontefice non si fosse affrettato a far consegnare il giardiniere omicida alle autorità italiane.
Governo italiano e Santa Sede troveranno quindi — conclude il prof. Ruffini — un ripiego, un modus rivendi di comune gradimento atto a non pregiudicare la questione, un insieme atto a far salvi in tutta la loro estensione i diritti imprescindibili superiori ad ogni altro diritto dello Stato italiano per la difesa e la sicurezza.
Pochi giorni appresso, il 25 aprile, nel Corriere della Sera interloquiva Luigi Luzzatti, polemizzando cortesemente col prof. Scaduto. Dopo aver manifestato un certo qual timore che i gesuiti della Civiltà Cattolica pigolassero un poco per là tesi sostenuta dallo Scaduto e dal Quadrotta, e fatta un po’ di storia sulla legge delle guarentigie e la sua solidità, concludeva — ed è qui tutto quel che di essenziale il Luzzatti diceva — con queste parole:
Ix> Stato e la Chiesa, entrambi devono avere la loro sede a Roma in una convivenza pacifica, tale da non scemare la sovranità civile dello Stato, da non turbare l’indipendenza spirituale del Pontefice e degli organi di presidio, che con essa si collegano. Data questa convivenza manifesta, tutte le nuove proposte tendenti a indebolire {senza assoluta necessità, che è del resto limile a qualsivoglia diritto) gli effetti della legge o ad accrescerla con vincoli internazionali ledenti la dignità e la sovranità dello Stato, sono ugualmente impossibili, desiderate soltanto da coloro che vogliono cacciar da Roma il Papa o il Re, una schiera di violenti che per fortuna nostra si fa sempre più sottile e impotente!
In altre parole, il Luzzatti non diceva altro se non che la legge delle guarentigie non doveva essere toccata, se non in caso di assoluta necessità. In verità egli diceva ben poco. Non prospettava soluzione alcuna, confidando esclusivamente nel buon volere del Vaticano che avrebbe saputo trovare degli accomodamenti. E lo rilevava serenamente Io Scaduto in una sua replica nello stesso Corriere della Sera {3 maggio) in cui tornava a riconfermare le ragioni del suo pensiero, dimostrando che la divergenza unica Ira il Luzzatti echi aveva giudicato necessaria una sospensione in caso di guerra dell'art. ri delle guarentigie, era non nel campo giuridico ma nel calcolo politico. Il Luzzatti, dal canto suo, controreplicava nel numero stesso del giornale, confessando che la legge delle guarentigie è esclusivamente una legge interna e suscettiva di modificazioni.
Ma ~ tornava a soggiungere — è gloria, è vantaggio supremo dell’Italia di non averla mutata nè offesa dal 1871, di averla rispettata anche quando la Chiesa la disdiceva con aperta violenza, sopita poi dal beneficio e dalle sapienze del tempo. Certo
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se l’Italia fosse in guerra con Governi che hanno i loro rappresentanti presso il Vaticano, potrebbe invitarli a partire; ma se questo invito, confò lecito credere, movesse dal Vaticano stesso, animato; per diversi motivi, dalle identiche opportunità, tanto meglio; la legge sulle guarentigie avrà per tal guisa superata questa nuovissima prova del fuoco.
Ma a togliere al Luzzatti le sue speranze ed a dimostrargli che in Vaticano le sue dolci ideologie non incontrano affatto, V Osservatore Romano, il 6 maggio, nel suo articolo di fondo, scriveva:
Insomma è gara di giuristi e di non giuristi, di pensatori o quasi, liberali di tutte le gradazioni politiche, gara di controversie, di giudizi, di deduzioni e di corollari intorno all’atteggiamento che dovrà prendere il Governo nell’ ipotesi dell’ intervento italiano alla guerra, verso la rappresentanza diplomatica presso il Papa, dei sovrani in conflitto con l’Italia. I leaders della gara sono lo Scaduto e il Luzzatti: altri minori sieguono l’uno o l’altro con la necessaria conseguenza della diminuzione effettiva della consistenza di una legge la quale doveva rassicurare completamente il mondò cattolico circa la piena libertà, indipendenza e maestà sovrana del romano pontefice. Cotesta legge doveva essere l’equipollente necessario e sufficiente del principato civile, con questo di più che doveva essere e parere palladio della sovranità papale, a cui confronto il principato civile si sarebbe rivelato come un ingombro, una deformazione di esistenza e di consistenza.
Alla presenza della gara suddetta si può giudicare il valore delle affermazioni del Secolo di giorni fa quando diceva che V Osservai ore Romano era proprio lui a rimettere in vista la insufficienza delle guarentigie in un’ora gravissima, allo scopo di creare imbarazzi e di fuorviare magari le provvidenze e le previdenze del Governo. Invece è la realtà appunto di cotesta insufficienza che fa loquaci, appunto in un’ora gravissima, gli spasimanti per l’entità positiva e giuridica .delle Guarentigie c che li induce a riaprire la controversia come avviene di un argomento non mai esaurito perchè non mai posto dagli avversarii della verità, nel vero suo aspetto.
Verità è anche questa che la legge delle Guarentigie non venne mai sperimentata realmente sotto l’aspetto della universalità oggettiva nei riguardi della universalità dei diritti della Sede Apostolica, universalità sintetica di casi particolari indefiniti i quali superano le attribuzioni di potere alieno pertinace nella convinzione di essere lui a dare alla Chiesa la libertà e la indipendenza giuridica. Il suo cómpito, invece, è uno solo: cioè quello di riconoscere, senz'altro, cotesta prerogativa della Istituzione divina facendosene oltre che assertore, difensore e vindice.
Fuori di cotesta realtà e del suo riconoscimento non vi sono che nuvole da acchiappare, che proposizioni tedenziose, per quanto scadenti, fondate sopra massime e principi cesaristici o convenzionali, tanto da non potere esse proposizioni assorgere a costituire diritto contrario al diritto costituito della Chiesa.
Il diritto della Chiesa è tale in ciò che spetta alla sua costituzione essenziale che l’obbliga e necessariamente la determina a ricusare ogni adattamento che non confermi e non illustri la entità della sua costituzione libera ed indipendente da ogni potere alieno il quale pretende di conferirle ciò che non le può dare giacché il diritto, costitutivo non può darglielo che Dio stesso.
Lo Scaduto ha detto che egli non parla da teologo ma da giureconsulto: ed è per questo che non imbrocca. Il giureconsulto, in materia precipua teologica non può ne deve prescindere dalla teologia, e se ne prescinde peggio per lui: il suo ragionamento è fallace: cade negli stessi inconvenienti nei quali cade ad esempio il Luzzatti il quale prescinde e dalla teologia e dalla giurisprudenza e si affida al caso, come dicevamo giorni fa. La nota d’intolleranza che il Luzzatti ci dà per la nostra risposta appartiene ad uno di quegli alibi frequenti sempre ai trattatisti che del tema precipuo sfuggano i termini sostanziali precisi che sono come le colonne d’Èrcole di ogni discussione.
Benché sembri per tanto che lo Scaduto risolva la questione della rappresentanza degli ambasciatori presso la Santa Sede, delle potenze, in caso di guerra. coll’Italia, proponendo l’abrogazione dell’articolo delle Guarentigie che quella rappresentanza sanzionava, egli in realtà non la risolve più di quanto la risolva il Luzzatti con le sue speranze di accomodamenti fra il cielo e la ferra speranze infondatissime in una materia
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di ordine soprannazionale che esula dalle attribuzioni dello Stato. L uno e 1 altro infatti si affidano a ciò che non è, cioè ad attribuzioni o ad atteggiamenti dello Stato o di cose della realtà oggettiva del diritto precipuo della Sede Apostolica.
E viene naturalissima la conclusione. La Chiesa sola, in tanta varietà e inconsistenza di ragionamenti laici, in tanto urto di opinioni cervellotiche, scadenti tutte, tiene gli occhi fissi al proprio autore e della miseria delle umane provvidenze e previdenze riguardo alla sua esistenza e consistenza vede la fine, impavida, benché torturato e dilaniato il suo seno da falsa filosofia, da depravazioni d’intelletti e dalla strage che si fa dell’anima e del corpo di tanti suoi figli. La fine dei suoi ineffabili spasimi essa la vede fidente nelle promesse divine, libera da casi fortuiti, sgombra dalla nebbia di umane mentalità, di ragioni maturate con sillogismi di premesse convenzionali che inquinate, inquinano le conseguenze, ruinando tutto l’edificio che si presume <1 innalzare contro la eternità di quelle promesse.
Ho voluto riprodurre integralmente questo articolo perchè la sua importanza è evidentissima, come voce diretta del Vaticano. Un altro giornale clericale, quello fiorentino {Unità Cattolica, 6 maggio), era anche più esplicito, perchè pretendeva senz’altro, parlando sempre della questione che veniamo commentando, che il Governo italiano dovesse posporre gli interessi della patria a quelli- del papato. Vi si leggeva infatti:
L’Italia certo comprenderà quale enorme responsabilità pesi sopra di lei, e che se essa, sacrificasse gl’interessi supremi del Papato, agl'interessi suoi, commetterebbe Un’azione indegna di un popolo civile.
Dai saggi che abbiamo riportato ognuno potrà rendersi esatto conto dello stato della questione e della inconciliabilità delle pretese vaticane con i diritti della nazione, considerati sia dal punto di vista strettamente giuridico, come da quello politico. E tale divergenza assoluta deve avere indotto qualcuno ad accreditar la voce che fosse stato proposto a Benedetto XV di trasferirsi, in caso che l’Italia entri in guerra» a Madrid nella Spagna. Ma non senza ragione un giornale rievocava che quando Leone XIII fece chiedere al Crispi se il governo si sarebbe impegnato a tutelarlo in un consimile viaggio, questi rispose al megalomane papa che il Governo ne garentiva nel modo il più assoluto e formale la sicurezza fino al confine, ma non poteva impegnar la propria garanzia se al pontefice fosse venuta la voglia di ritornare. Leone XIII comprese e restò. Benedetto XV farà lo stesso.
Poiché non sarà superfluo accennar qui, come a conclusione di questo diffuso paragrafo, che malgrado smentite e frasi irose di giornali, un accordo sulla questione è senza dubbio alcuno intervenuto già tra Governo e Vaticano. La personalità ecclesiastica che, come si è più volte affermato nella stampa, ha preso parte alle trattative, o meglio agli scambi di vedute, il che nella fattispecie è lo stesso, ci assicurava recentemente di questo, affermandoci che la questione avrebbe dato forse luogo ad una non lieve tensione tra i due poteri se la guerra fosse scoppiata improvvisamente, ma in dieci mesi di tempo, col papa attuale, i pourparlcrs che indubbiamente vi sono stati, hanno ottenuto lo scopo appianando le asperità (i).
(i) Del come la questione è stata risoluta ci occuperemo prossimamente nella rivista, essendo già prolisso abbastanza questo capitolo, che, come i lettori già sanno, era stato scritto per i numeri dell’aprile e del maggio, in cui per ragioni redazionali non trovò posto.
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Vi è stata, in questa quaresima qualche sporadica ma pur notevole manifestazione di sensi guerreschi e patriottici da parte di predicatori o di vescovi italiani. Essi, beninteso, hanno detto e non detto, sono stati sinceri sino a un certo punto, tanto da evitar tirate d'orecchie e peggio dalla superiore autorità ecclesiastica. Tra questi prudenti tribuni i giornali ci han riferito essere stati i vescovi di Ascoli Piceno, di Udine, di Gaeta, di Genova e due o tre oratori quaresimalisti tra cui il cappuccino p. Roberto da Nove, di cui così scrivevano da Udine al Giornale d'Italia. (22 marzo):
Il famoso frate Roberto da Nove ha tenuto una predica per i soldati del presidio della città. Per l’occasione il Duomo era gremito di giovani in divisa e di ufficiali di tutte le a mi. Assistevano alla predica anche gli ufficiali superiori e i comandanti di corpo. Il frate nella sua predica ha ad un certo punto inneggiato all’Italia incitando con parola ardente i soldati ad essere italiani ed a compiere tutto il loro dovere verso la Patria. Egli ha detto queste precise parole:
« Il sacrosanto dovere del soldato è quello di combattere per l’ingrandimento della Patria e per il suo avvenire. Combattendo, esso sarà benedetto dai posteri ». A queste parole nella chiesa ha rumoreggiato a lungo un irrefrenabile scroscio di applausi. L’avvenimento straordinario ha destato in città grandissima sorpresa e suscitato infiniti commenti e previsioni sull’atteggiamento dell’autorità ecclesiastica direttiva locale, dopo questo che sarebbe uno scandalo di violata neutralità da parte di un frate predicatore.
Intorno a questi casi, parecchi giornali han fatto molto rumore, tanto che, per quel che riguarda il frate di cui abbiamo or ora parlato, questi dovette correre ai ripari e rettificare la relazione che della sua predica aveva dato Videa Nazionale. Ad ogni modo, perchè gli incidenti non si ripetessero, i giornali del clericalismo integrale pensarono subito a riprodurre l’articolo ufficioso teWOssrvatore Romano, che ricordammo nel numero scorso, ed a produrre anche lunghe lamentele e pedagogie proprie, come quella dell’Unità Cattolica del 26 marzo, da cui citiamo alcuni periodi:
Lasci il clero la sua politica, le sue rivoluzioni al secolo; cittadino di tutta la terra, contemporaneo di tutte le età, il cattolicismo si erge gigante al disopra di tutte le competizioni di parte.
In mezzo al campo dei rivali, il clero deve innalzare la Croce, simbolo di fratellanza, di pace, d’amore: questo è il suo compito fra le tempestose contese del mondo. Se il clero non vuol mettere a repentaglio*la propria dignità, e minare la sua potenza, se non vuol vedérsi rinnegato da una quantità di anime, deve tenersi fermo a ciò che non cambia, che non è mai segno alle altrui maledizioni. Non si deve vestire di vesti politiche, avverte il Boussuet, il celeste governo istituito da Gesti Cristo: chi altrimenti operasse, lacererebbe a brandelli il cristianesimo.
La religione, nata col mondo, è immortale, e nulla ha di comune colle vicissitudini che si disputano il dominio delle varie età. Crollano gli imperi, abortiscono le istituzioni: le dinastie sorte ieri saranno domani nella polvere; la Chiesa immobile in mezzo a tante ruine, come rocca incrollabile al soffiar dei venti, s’innalza fra le cose caduche ad attestare che l’eternità è il suo carattere; dalle serene regioni in cui regna, domina gli umani eventi che s’alternano sotto i suoi piedi, e tenendo gli occhi rivolti al cielo, non apre la bocca, non leva quasi sempre in alto le mani, che per pregare e benedire.
Abbiamo voluto richiamare questi riflessi, perchè francamente a noi sembra, che se la grande maggioranza del clero si mostra, in questi tempi così turbinosi, all'altezza della sua missione, non manca peraltro, specie nel giovane clero, una parte, che troppo
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incautamente si lascia trascinare da’ vortici di un torrente d’opinioni politiche, che non sempre sa trattenere nei confini della propria coscienza, il qual fatto può inceppare l’azione pacifica e rigidamente neutrale, intrapresa dal Santo Padre Benedetto XV ed esporre il clero stesso agli odi politici, alienandogli quella stima e quell’affetto dei quali ha bisogno per esercitare con frutto la sua benefica missione.
Certe inopportune esplosioni di un malinteso patriottismo. certe aspirazioni per lo meno esagerate ed unilaterali, manifestate anche in pubblico, magari dal pergamo, compromettono i supremi interessi del cattolicismo: il clero deve sopratutto pensare alla libertà ed all’indipendenza della Chiesa, questa potrà, con maggiore efficacia, raccogliere i regni in guerra, sotto i padiglioni della pace: il clero deve pensare a conservare l’integrità della dottrina cattolica, la qual dottrina propagata nei popoli, varrà a moderarne gli appetiti, frenarne le passioni, e toglierà le cause prime di futuri conflitti. Per questo abbiamo detto più sopra, che la neutralità del clero, è opera altamente patriottica, ed altro non rimane, che far voti perchè ogni ecclesiastico l’intenda e ci si conformi, ed aviti imprudenze, che possono tornare esiziali alla religione ed alla patria.
Donde si vede che il più timido belato patriottico di un prete è distai natura da urtare i nervi di certa gente e... « di compromettere i supremi interessi del cattolicismo ». La zimarra o la cocolla devono sopprimere ogni senso umano sia pur questo il senso di patria. Perciò un vescovo italiano, in una pastorale per la recente quaresima, parlando del prete diceva « lo vogliamo di marmo! ».
Marzo-Aprile 1915.
Ernesto Rutili.
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Cambio colle Riviste
NOTRE PROCHAIN L’ENNEMI
« Non è possibile — domanda Romain Rolland sui Journal de Genève — che in mezzo al turbine della guerra che ha scosso gli animi più saldi, in mezzo alla follia delle passioni e ad un’atmosfera di odio che soffoca gli spiriti... si levino/come i giovani virgulti di primavera o i primi fiori che irrompono sotto le distese nevose, quei cuori che sono rimasti fedeli all’antico ideale della fratellanza umana, a render testimonianza al persistere dell’unità dello spirito umano, e all’unione segreta dei migliori rappresentanti di esso? » Ed egli scorge, appunto altrettante reliquie di umanità naufraga nel pelago di odii e di stragi, in quelle istituzioni che si propongono e si sforzano, si in Inghilterra come in Germania, di alleviare le difficoltà e lenire i dolori degli stranieri appartenenti a paesi belligeranti avversari — « oltre ai grandi sforzi fatti in Olanda ed in Spagna per salvare l’unità morale di Europa e l’ardente carità della Svizzera per le vittime della guerra». Delle attività delle istituzioni inglesi a cui egli allude sono stato testimone da vicino nei primi mesi della guerra. L’ima d* esse è la « Society of friends of foreigners in distress » (Società degli amici di forestieri bisognosi) che esisteva già prima della guerra, e che si propone di aiutare indistintamente qualunque straniero in bisogno, avendo perciò in seno al suo comitato rappresentanti di tutte le nazionalità di cui esista in Londra una colonia. Per ragione della preponderanza grande dei bisogni della colonia tedesca in Londra al presente, essa prodiga il meglio dei suoi fon<li, dal principio della guerra, per soccorrere famiglie di tedeschi internate nei campi di concentrazione, o disoccupati. Sono circa 1500 le famiglie tedesche cosi mantenute, a scapito dei bisognosi appartenenti a nazionalità neutre ed amiche.
Altra istituzione benemerita dei « nemici • è il < Comitato d’assistenza dei tedeschi austriaci e ungheresi • fondato a Londra, all’indomani della dichiarazione di guerra, dall’arcivescovo di Canterbury, col concorso di distinte personalità d’ambo i sessi, e di ogni partito e denominazione reigiosa, fra cui membri del parlamento, 'dell’aristocrazia, del clero e dell’alta coltura. Il comitato è assistito dall’ambasciata americana a
Coenobium. Il fase. 76-77 che si pubblicherà fra brevi giorni conterrà le seguenti materie: Ed. Platzhoff Lejeune: « De la psychologie du neutre » - Claudio Treves: « Maggio nel sangue » - Anna Endelmann: « L’a-mour éternel, un peuple éternel •
Ettore Fornasari Di Verce: •.Per uno studio obbiettivo dei fenomeni religiosi » - Romain Rolland: « Littérature de guerre » - Gino Accascina: « Il nuovo testamento della filosofia »- Dr. N. Charvoz: « La pensée libre dans l’évolution des peuples »-Maturino De Sanctis: « Byron e la guerra » - Auguste Forel:
Le renouveau » - Documenti e ricordi personali: « Testamento spirituale di Giosuè Borsi » -Pagine da meditare: Georges Wettstein:« Que faire? »- Guerra alla guerra - Rassegna bibliografica (M. Hébert. A. Gaz-zolo, ecc.) - Rivista delle Riviste (A. Crespi, L. Scopoli, A. Accascina) - Tribuna del «Coenobium» - Note a fascio.
Fede e vita. Napoli, i° giugno 1915, n. 9-10. E. Pinchia: « L’azione cristiana nei " Promessi Sposi ” - M. Falchi: ■ Il Eotenziale dello spirito » - S.
•ridget: « Fede e vita nel romanzo contemporaneo ».
La Nuova Riforma: (Direttore: G. Avolio), fase. 15 giugno 1915.-G. Avolio: «Il dovere dei neutri »-M.Cesario:«Il fattore spirituale della scuola primaria »-V. Cento: « Il clero marchigiano ».
La Riforma Italiana. Firenze, 15 maggio F9I5- - R. Murri: « La crisi morale di un secolo » - « La nostra inchiesta su la coscienza e la religione italiana » - Fiat Lux: « Ciò che il Cristianesimo moderno ha da apprendere dal Giudaismo ».
Vita e Pensiero. Milano, 20 giugno 19*5- - L. Caisotti
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di Chiusane: • L’Europa al bivio » - Civis: • La guerra italiana » - G. Mussio: « La poesia nostra e la guerra europea • -G. Della Ripa: « Due papi, due errori e il Cardinale Arcivescovo di Malines ».
- Nel fascicolo del 30 maggio 1915. - La Redazione: « Per la patria ■ - G. Basetti Sani: •< Le guarentigie pontificie in tempo di guerra » - L. Caisotti di Chiusane: « Filosofia e arte militare germanica » - M. P. Albert: « Letteratura educativa » - S. M. Vismara: « L’arte benedettina di Beuron »-Io: « I cattolici di fronte alla guerra ».
Luce e ombra. Roma, anno XV, fase. 3°, 31 marzo 1915. -A. B. ■ 1 nostri pensatori: Marsilio Ficino ».
- Nel fascicolo 5® del 3 maggio 1915.-Prof. A. Turbiglio: « La filosofia di Lao Tsen ».
La nostra scuola. Milano, 15 giugno 1915. - G. Vitali: « Per la patria e per l'umanità » -B. Varisco, M. S., G. Vitali: « La scuola e la religione » -G. Vitali: « Note sull’educazione morale in Inghilterra ».
Conferenze e prolusioni. Roma, fase. 8®, 16 aprile 1915. - Alfredo Trombetti: • La monogenesi del linguaggio ». (Sullo stato presente della glottologia genealogica).
- Nel fascicolo del 1® maggio 1915. - G. Sanarelli: « La guerra e la decadenza della razza » -A. Ballini: « Le concezioni religiose dell’india».
- Nel fascicolo 11®, del 1® giugno 1915. - Prof. Giuseppe Re-sinelli: « Guerra e maternità ».
Psiche, Rivista di studi psicologici. Firenze, anno IV, n. 2, aprile-giugno 1915. - G. Sarfatti: « Psicologia militare « - E. Bonaventura: « Ricerche sperimentali sulle illusioni dell’introspezione Il ». Documenti psicologici: II. Note psicologiLondra e dal ministero inglese degl: interni, ed esplica la sua attività specialmente nel collocamento di migliaia di donne « nemiche » — od anche « amiche » o « neutrali », vittime anch’esse della guerra — presso generose e ospitali famiglie inglesi.
I « cottages » e i villini ridenti delle cam pagne del Sussex e del Middlesex e dell’Hartfordshire, nei dintorni di Londra, rigurgitano di ospiti « nemici » o « neutrali » trattati tutti con la massima cordialità e l’affetto di intimi amici. Dei volenterosi, poi, si sono assunto il Ìdetoso e delicato incarico di servire di « trait d’union » ra le famiglie di « nemici » e i neutri maschili di esse, confinati in numero di circa 20.000 nei campi di concentrazione in preda ad una desolazione, che solo la più squisita simpatia e delicatezza cristiana può lenire.
Un sottocomitato di signore si occupa specialmente delle donne « nemiche » partorienti, e dei loro neonati.
Un’altra istituzione, il « Bureau » della lega universale per il diritto di voto alle donne, ha pure reso grandi servigi alle donne straniere, specie nemiche, pagando anche il viaggio di ritorno a circa un migliaio di esse. E, non parlo di altri comitati particolari, sorti in seno a chiese o a partiti diversi, quali, ad es., il comitato dei Friends (« Amici ») di cui feci cenno altra volta.
Voglio invece porre in evidenza ciò che analoghi sentimenti umanitari cristiani hanno fatto sorgere in Germania, specie il « Bureau » fondato a Berlino da un comitato di notabilità ecclesiastiche, parlamentari, universitarie, ecc. alla cui testa è, in ufficio di segretaria, una donna d’alti spiriti cristiani, la dottoressa Elisa-betta Ròtten.
Ecco come essa parla dello spirito dell’istituzione: « Al si dopra e al di là del soccorso pratico che noi possiamo dare, è per noi gran consolazione e conforto poter prestare ascolto, anche in sì terribile frangente, alla voce dell’umanità e dell'amore verso il nostro prossimo: chè tale d chiunque abbisogna del nostro soccorso. Il tragico che trabocca da ogni lato e che riempie tutto il nostro essere di un rispetto religioso dinanzi alla sofferenza umana, ma altresì di un amore attivo e di un bisogno di donarsi dilata le nostre anime e non vi lascia alcun posto che non sia per sentimenti ed azioni di beneficenza.
La nostra sete di venire in soccorso e di addolcire le pene altrui non conosce frontiere: anzi questo bisogno sgorga con più forza là dove noi ritroviamo nella sofferenza più estranea a noi le caratteristiche della nostra stessa sofferenza. Ciò che unisce gli uomini ha radici, nel nostro essere, più profonde di ciò che li separa... In mezzo alla burrasca che fa precipitare d’intorno a noi tante cose che credevamo degne di una durata eterna, la possibilità di curare le ferite che noi stessi siamo costretti ad infliggere ci è pegno di giorni più luminosi: e ci dà la speranza, che nuovi ponti saranno costruiti, sui quali coloro che al presente si trovano separati, si riuniranno di nuovo in un comune sforzo, intimamente... »
Ma poiché pochi fiori non formano una primavera che dia adito a speranze, ecco uno stuolo rappresenta-
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LA GUERRA
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tivo di circa 200 notabilità femminili tedesche ed austriache, che risponde così in questi giorni, ad una lettera aperta indirizzata dall’« Unione delle donne inglesi » alle « donne tedesche » nell'occasione delle feste natalizie. In essa pulsa un cuore materno ed umano, sufficiente a redimere fiumi di odio e di sangue.
« Alle nostre sorelle inglesi, sorelle della stessa razza, noi esprimiamo in nome di molte tedesche i nostri caldi e cordiali ringraziamenti per gli auguri natalizi inviatici, dei quali ci è giunta notizia solo recentemente. Questo messaggio non fu che una conferma di ciò che avevamo preveduto — cioè che donne di nazioni belligeranti, con tutta la loro fedeltà, devozione e amore alla loro patria, possono andare al di là di essa, e mantenere una viva solidarietà con le donne di altre nazioni belligeranti; e che donne veramente civili non perdono mai la loro umanità. Se le donne inglesi leniscono le miserie e i dolori, alleviano angoscio e forniscono aiuti prescindendo dalla nazionalità dei sofferenti, che esse siano certe della più calda gratitudine delle donne tedesche, e sappiano che noi fummo e siamo pronte a fare lo stesso. In questo tempo di guerra, noi siamo unite dalle stesse sofferenze indicibili di tutte le nazioni che partecipano alla guerra. Le donne di tutte le nazioni provano lo stesso amore di giustizia, di civiltà, di bellezza, cose tutte distrutte dalla guerra. Le donne di tutte le nazioni hanno lo stesso odio della barbarie, della crudeltà, della distruzione, che accompagnano ogni guerra. Le donne, creatrici e guardiane della vita, debbono detestare la guerra che distrugge tante vite. Attraverso il fumo delle battaglie e il rombo dei cannoni di popoli ostili, attraverso la morte, il terrore la distruzione, e pene e dolori infiniti, albeggia, come aurora di giorni mi-tliori, la profonda comunanza dei sentimenti di molte onne di tutte le nazioni. .Possano questi sentimenti porre le fondamenta inviolabili di tali rapporti inglesi, tedeschi, internazionali, da condurre al fine alla proclamazione di una salda legislazione internazionale, e da impedire che le nazioni di Europa siano mai più visitate da guerre come questa.
Caldi auguri di sorelle a tutte le donne inglesi che partecipano questi sentimenti ».
« Le donne non perdono .mai la loro umanità! » di quanta speranza non è apportatrice questo grido di madri, che al disopra dell’odio vedono nell’umanità intiera l’incarnazione della vita di cui esse sono le « creatrici e le guardiane! • Anche nel congresso di Berna nel mese di marzo, in cui convennero, convocate dalla nota Frau Clara Zetkin, « leader • delle donne socialiste tedesche e fervida antimilitarista 27 signore delegate rappresentanti del sociliasmo europeo, si ebbe una scena assai patetica e umana, quando le delegate inglesi, rappresentanti 300 mila donne, volgendosi alle rappresentanti tedesche, le assicurarono che le loro rappresentate conservavano verso le donne tedesche gli stessi sentimenti di calda amicizia che esistevano prima della guerra, e che esse non nutrivano il minimo desiderio di vedere la Germania umiliata. Questa assicurache di uno che fu sepolto vivo nel terremoto calabro-siculo del 1908 » - R. Reasi: « L’educazione dei fanciulli anormali ».
Rivista di filosofia. Torino, fase. II, aprile-maggio 1915-R. Ardigò: « La ragione scientifica del dovere » - G. Fol-chieri: « Legge e libertà » -F. Aleggiami « L’edonismo socratico del dialogo “Il Protagora ” ». F. Cosentini:« L’ “ U-niversité Nouvelle „ di Bruxelles e la filosofia giuridico-sociale nel Belgio » - P. F. .Nicoli: « L’hegelismo di Giuseppe Ferrari » - A. Gazzolo: « Verità e unità nelle teorie scientifiche ».
Archivio storico per la Sicilia orientale. Anno XII, fase. I-II, Catania 1915. - Niese Hans: « Il Vescovado di Catania e gli Hohenstaufen in Sicilia » -Raimondi A.: « Note sulla fortuna della leggenda di S. A-gata dal trecento al seicento, in Italia » - Vitanza C.: « Cry-sa, il suo mito, il suo tempio e i suoi fonti • - Rapisarda N.: « II dio siculo Adranos ».
Atene e Roma. Firenze, maggio-giugno 1915. - E. G. Parodi: « Gli esempi di superbia £ unita e il “ bello stile ” di 'ante ». - A. Gandiglio: « Rutto Crispino » (Poemetto latino di G. Pascoli). Traduzione. - A. M. Pizzagalli: « Eliade e-sule » - M. L. De Courten: « Satiro, il biografo di Euripide » - B. Pace: « Bassorilievo di Tespi nel museo d'Atene.
The Bible Magazine. Mag-S' । 1915. - Editorial: What n the Church do?; Religion in education; Why the Resigned; Moral Possibilities.
The Referendum: Should Christian have abandoned the City of Destruction? - Are we to pray to Christ? - In terest in Chruch History.
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The Lord’s Coming Pre-Mil-lenial di W. H. Griffith Thomas.
Jeremiah’s complaining Place: Sermon di Harris E. Kirk.
The Ancestry of the Christian Term « Believe»di J. Oscar Boyd.
The dominant note in Evangelism di W. E. Biederwolf.
IV The Theological among the Philosophers di A. Clarke Wyckoff.
The Princeton Theological Review, aprile 1915. - Gecr-hardus Vos. «The continuity of the Kyrios-title in the New Testament ■ - Benjamin B. Warfield: « Calvin’s doctrine of the creation • - Remsen Du Bois Bird: « The life and Work of John Hus ■ - Reviews of Recent Literature.
The Modern Churchman. Maggio 1915. - The Kikuyu Judgment - Prayer Book Revision The Religious Influence of Benjamin Jowett by W. H. Fremantle - Russian Christianity by Rev J. C. Hartwick -Spiritual Joy: A. Study of St. John II., 1-11 by Rev. H. Northcote - The false scientific basis of German militarism.
— Fascicolo di Giugno 1915: Metropolitan gathering of liberal churchmen - Conference of modern churchmen - A Veteran’s views - On continuity of thouhgt and relativity of expression by W. Sanday - Liberal and Catholic by Rev. J. G. Adderly -A Free Church by H. Hensley Henson.
Foi et Vie. Directeur: P. Doumergue. Cahiers B. n. 8-9 16 maggio e 1® giugno 1915. -M. Albert Bonnard: « L’AUe-magne politique » - Wickham Steed: « L’Angleterre».
zione fu ricevuta dalle delegate tedesche con manifestazioni di sorpresa e gratitudine tale, da mostrare quanto poco esse si fossero reso conto dello spirito internazionale tutt'ora sopravvissuto alla sanguinosa catastrofe. Una di esse, nell’atto di descrivere gli sforzi delle madri tedesche per mantenere immuni i loro figli dal contagio dell’odio inglese insegnato anche nelle scuole, dovendo alludere alla frase-saluto « Gott strale England » (Che Dio punisca l’Inghilterra), inculcata anche ai loro figli, esitò prima di pronunciare le parole, e poi, con le lacrime agli occhi stendendo le sue braccia verso le delegate inglesi gridò: « No: non posso ripeterle! »
Come tornano alla memoria, a questi episodi femminili, le parole che .già, in Euripide, le donne troiane pronunziano in protesta contro i pregiudizi dei maschi che non sanno vedere tutta la portata della guerra.
E come, di fronte ai ruderi di amore cristiano verso i nemici salvatisi dal terremoto devastatore, quale promessa di una nuova « città di Dio », si ricordano, dopo le parole del Vangelo, benché anteriori ad esse di sei secoli, le parole del filosofo cinese Lao-tsc: « Io faccio del bene a coloro che mi fanno del bene, e faccio del bene anche a coloro che mi fanno del male: così, tutti divengono buoni »!
Giovanni Pioli.
GERMANIA
La Cristianità, il Cristianesimo e la guerra.
Il dott. Martin Rade, professore di teologia all’Uni-versità di Marburg e redattore della nota rivista protestante Die Christliche iVell, aveva già scritto nei primi di settembre 1914 nel n. 38 della stia rivista un articolo intitolato: «La bancarotta della Cristianità », che aveva fatto gran rumore in Germania. L’autore riprese poi il tema scrivendo uno dei quaderni politici sulla guerra tedesca editi da Ernesto Jack (Der Deutsche Krieg-Poli-lische Flugschriften - Deutsche Verlags-Anstalt, Stutt-gart-Berlin). E’ intitolato « Questa guerra e il Cristianesimo» (Dieser Krieg und das Christentum, quaderno 29°).
Lo scrittore osserva che la guerra d’oggi, cui prende parte il popolo intero di una nazione e che non è più opera di soldati professionali e di mercenari, una guerra di oggi che più che da un interesse dinastico o da un capriccio di avventurieri è determinata da profondi antagonismi di nazioni e di razze è destinata ad avere conseguenze materiali e sopratutto morali infinitamente più considerevoli che le conseguenze delle guerre antiche. Una guerra che scuote sin dalle sue fondamenta l’umanità odierna può e deve provocare, a seconda del punto di vista da cui viene osservata, la bancarotta dell’internazionalismo, del pacifismo, del socialismo, della moralità pubblica e anche della Cristianità.
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Da parecchi secoli già la solidarietà degli interessi cristiani era stata compromessa e distrutta dalle divisioni confessionali. L’irrompere della Riforma e le guerre di religione che la seguirono avevano spezzato il sentimento della comunione cristiana che aveva cementato i popoli durante il medio evo ed aveva alimentato il sogno parusiaco del regno di Dio sulla terra ravvisato nciraffermazione del Sacro Romano Impero, sotto lo scettro delle due parti di un Dio: il papa e l’imperatore.
Lo scrittore insiste nel mettere in rilievo i motivi confessionali che tra gli elementi costitutivi dell’attuale situazione guerresca, non sono nè i meno profondi nè i meno visibili.
Il professore Rade, come tutti i suoi connazionali, si scandalizza altamente che i francesi, e specialmente gli inglesi, che sono pur essi protestanti in gran numero, abbiano osato chiamare a combattere contro i tedeschi cristiani, razze e tribù pagane. Egli protesta inoltre contro la notizia largamente diffusa secondo la quale i tedeschi avrebbero scagliato contro il Belgio e la Francia i loro reggimenti protestanti e contro la Russia i loro reggimenti cattolici. Egli afferma però che se la guerra è così popolare in Russia è sopratutto perchè gli ortodossi russi erano avidi di combattere contro i cattolici austriaci.
Ma dice lo scrittore: la cristianità è un conto e il cristianesimo è un altro. Il cristianesimo rappresenta il Eatrimonio spirituale dei singoli, ed è negli individui che ¡sogna oggi esaminarlo al lume della guerra. Ora i cristiani delle varie nazioni belligeranti, benché reagiscano di fronte alla guerra diversamente e che ognuno di essi preghi Dio per la vittoria del proprio paese, pure essi pregano innegabilmente lo stesso Dio.
Se da questo fatto, scrive l’autore, l’eterno e onnipotente Dio è posto in imbarazzo, questo è aliar suo; ciò non toglie che la preghiera tanto degli uni che degli altri sia onesta, sincera e cristiana.
E un fatto che, in questa guerra, il cristianesimo in quanto esso è religione del cuore, intima e personale, ha subito un risveglio magnifico, che non è stato senza influsso sullo stato morale della nazione intera. In Germania specialmente, dove lo Stato non ha mai ufficialmente divorziato da Dio, si può addirittura parlare di una « rinascita religiosa », così acuto è stato il sentimento della vita spirituale, così intenso è stato il fervore di operosità e d’iniziativa pastorale, suscitati dalla guerra. Ma tutto questo s’è verificato anche in Francia, dove il popolo in arme, nonostante la separazione dello Stato dalla Chiesa, doveva necessariamente sentire il bisogno di conforti soprannaturali; e così pure in Russia, dove l’abolizione dell’alcool è stata di per se stessa una vittoria cristiana. L’Inghilterra, dove non vige il servizio militare obbligatorio e dove la guerra non è popolare, ha meno degli altri paesi vissuto l’emozione di questa riviviscenza religiosa (1).
ÌQucst’aflcrmazionc ò ampiamente smentita dai fatti, di molti dei ci va informando con grande diligenza il nostro collaboratore G. Pioli.
(Rbd.I.
NOTIZIE
La grande illusi?azione. — La direzione letteraria di questa ricca rivista a principiare dal numero di aprile è stata affidata alla contessa Maria del Vasto-Celano, la quale ha voluto dare aH’importante pubblicazione un indirizzo nuovo che non può non avere tutto il nostro vivo consenso. Una idea che vediamo affermata nei primi fascicoli della nuova direzione è che l’arte, se vuole avere uno scopo nobile e cooperare all’elevamento dell’uomo, non deve staccarsi dalla religione e dalla filosofia, non deve limitarsi a ricercare l’ispirazione nelle forme della realtà, ma deve attingerla alle fonti della vita spirituale.
Affatto teneri per le musonerie e i bigottismi filosofici o religiosi, abbiamo cercato per parte nostra entro limiti compatibili col nostro scopo speciale, di fare un po’ di Ì>osto all’arte, ch’è uno de’ inguaggi più comuni del sentimento religioso. Non apparirà quindi strana in queste pagine l’espressione del nostro compiacimento per tentativi di ricondurre l’arte dalla « mondanità » alla serietà, alla gioia serena della vita completa dove trovano la loro soddisfazione non solo i sensi della carne, ma anche e sopratutto quelli dello spirito.
Alla nuova Direzione della Grande illustrazione i .nostri sinceri e caldi auguri.
Direzione: via Milano 25. Roma; Amministrazione: Viale Gabriele d’Annunzio. Pescara.
La Federazione italiana delle Biblioteche popolari, con sede a Milano, a cui fa capo il movimento per la diffusione del libro in mezzo al popolo e alla gioventù, contava al 31 dicembre 1914, n. 1395 bi-
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blioteche federate, delle quali 343 si erano costituite durante l'anno.
Nei 6 anni di vita federale il numero delle biblioteche progredì come segue:
1909 erano
nel
■ 1910
» 1911
• 1912
• i9U - I9N
221
• 37i
’ 759
• 899
• 1052
* >395
Tutte le regioni italiane, nessuna esclusa, videro aumentare nel 1914 il numero delie loro biblioteche; ma il
progresso maggiore si ebbe in Lombardia (da 242 a 296) e in Sicilia (da 143 a 197).
1025 biblioteche si rifornirono di libri, registri e altro materiale presso la Federazione per un importo netto di oltre 100 mila lire, risparmiando per sconti ed altri vantaggi ottenuti L. 66.500. I liori inviati alle biblioteche furono 70.969, dei quali 12,566 in dono. La legatoria esegui91.346 rilegature.
I volumi pubblicati nel 1914 dall’azienda editrice federale, a cui parcecipa anche l’Uni-versità popolare milanese, furono 17, per un quantitativo di 150 mila copie, di cui 24.149 diffusi gratuitamente ed altri molti a condizioni di favore. I volumetti più richiesti furono quelli del prof. U. Gobbi: Elementi di economia politica: prof. P. Foà: Igiene sessuale; prof. C. Soldini: Prime nozioni di filatura: avv. E. Cal-dara, ¡1 Comune e la sua amministrazione.
La Federazione, inoltre, rese Sessi bile il costituirsi di molte iblioteche nuove, anticipando i mezzi necessari a comitati, associazioni e Comuni anche cospicui, accettando rimborsi rateali a lungo decorso ed impegnandosi in complesso per circa 60 mila lire.
Oltre al « Manuale delle Biblioteche popolari di cui si va
C’è però una differenza tra Religione e Morale, benché il Cristianesimo sia costituito di questi due elementi insieme.
Certo la Religione, nella sua stessa essenza, che consiste nel sentimento della dipendenza assoluta dell’uomo di fronte al suo destino e nella fiducia in Dio, salvatore in queste ore tragiche, è più che mai trionfante.
Anche la Morale, in quanto essa è • amore degli amici • (Giov. 15, 13) si realizza oggi perfettamente nella dedizione degli individui di fronte alla famiglia, al popolo, alla nazione. In quanto poi la Morale é « amore dei nemici », bisogna osservare anzitutto, avverte lo scrittore, che la moralizzazione della guerra ha fatto dal 1864 in qua ben pochi progressi e che tanto le convenzioni di Ginevra e la Croce Rossa quanto i recenti tentativi dell’Aia non hanno avuto successo. D’altra parte certe misure, che sembrano a prima vista crudeli, permettono col sacrifizio di pochi, di risparmiare vittime molto più numerose. Bisogna, ad ogni modo, benedire quei tentativi e praticare per quanto è possibile il precetto evangelico. E pare allo scrittore che anche in questo campo, nelle grandi linee, un certo progresso sia stato fatto.
Questa guerra invero, continua l’autore, mette a dura prova tre proprietà essenziali del Cristianesimo: il suo carattere penitenziale, il suo pacifismo e il suo internazionalismo.
Se per penitenza s’intende la confessione della propria debolezza e della propria colpa, la Germania non poteva assumere questa attitudine di fronte ai suoi nemici. Poiché la sua coscienza é pura.
« Noi tedeschi — scrive l’autore — possiamo aver molto mancato, sia ufficialmente sia quotidianamanete, nei nostri rapporti con la Francia, la Russia e l’Inghilterra; ciò non c’impedisce di avere, nel problema attuale della guerra e della pace, una coscienza pura. Poiché noi siamo, e con assoluta unanimità, convinti, che noi non volevamo altro che possedere, ciò che già noi avevamo e coltivavamo in pace. Ogni avidità di conquista ci era estranea: solo avevamo a cuore la pacifica concorrenza nel commercio, nella scienza e in ogni altro ramo di attività, e noi eravamo abbastanza ingenui per pensare che ciò fosse storicamente possibile. Senza dubbio, per ogni eventualità, noi ci eravamo creati un esercito e una flotta, più forti che potevamo. Ma come potevamo noi fare diversamente situati come siamo nel cuore dell’Europa, circondati da Stati possenti, noi giovani, in mezzo ad- antichi Regni, che mal si accomodavano alla nostra esistenza? Non abbiamo noi, nonostante il nostro forte armamento, conservato per 43 anni la pace? Non è stato il nostro imperatore deriso e insultato dagli stranieri, i quali non comprendevano come si potesse avere in mano un simile strumento per non farne uso?
< Noi respingiamo quindi il processo che ci si vorrebbe lare. Troppo facilmente i nostri accusatori nemici e neutrali, costruiscono le loro proteste. Noi rinunziamo a formulare una controprotesta e ci permettiamo di non insistere nei dettagli. Un punto solo non possiamo
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passare sotto silenzio, poiché esso troppi eccellenti cristiani e uomini ben pensanti serve a decidere per noi o contro noi : la violazione della nuetralità belga.
« Anche in questo non scenderemo nei particolari, chè ci sarebbe troppo da dire. Il fatto è, che il passaggio dei confini belgi è stato una cosa difficile anche per innumerevoli coscienze tedesche. Nè c’indugieremo su tutto ciò che venne alla luce in seguito tanto in fatti che in scritti e che contribuirebbe a giustificare questa misura di fronte ai Belgi. Noi riconosciamo con il Cancelliere l’ingiustizia formale, contenuta in quel passo e la confessiamo apertamente. Però sussiste e sussisteva per noi il fatto che lo Stato belga non è stato con noi realmente leale. Sebbene noi, allo scoppiar della guerra, non avessimo a nostra disposizione i documenti che ora conosciamo non ignoravamo di fatto la decisione del Belgio: da lungo tempo esso aveva spezzata la neutralità nel suo cuore. Perciò la sua neutralità costituiva effettivamente uno « straccio di carta ».
Non che tali trattati sieno per noi nient’altro che uno « straccio di carta », sono ad ogni modo dei trattati che non vengono osservati dallo Stato interessato sotto tutti i suoi aspetti con uguale rigida coscienziosità. Non ci sarebbe più pace se un piccolo Stato volesse da una parte, a causa della sua piccolezza e dei casi della storia, godere i vantaggi di una neutralità indefinitamente ga-rentita e che volesse, d’altra parte, giocare alla grande potenza con altre grandi potenze unilateralmente interessate. Noi sapevamo che, dal momento in cui sarebbe scoppiata la guerra contro la Francia e l'Inghilterra, noi dovevamo contare il Belgio tra i nostri nemici, poiché esso non aveva più nè la volontà nè la forza di rimanere realmente neutrale ».
Lo scrittore spiega le « crudeltà » commesse dai tedeschi nel Belgio come una necessaria misura di protezione di fronte alle provocazioni aggressive della popolazione civile del paese. Ritornando poi al concetto della penitenza, egli dice che la penitenza cristiana importa essenzialmente, un rinnovamento interiore, un progresso spirituale e che solo la storia ci dirà quale contributo apportino ora i tedeschi al rinnovamento morale dell’umanità. Il Cristianesimo non è il pacifismo, sopratutto se questo viene concepito eudonisticamente. Vanno troppo lungi però questi cristiani i quali dicono che gli uomini hanno bisogno della guerra per poter dare la loro anima per un’idea. « C’è in questo punto, scrive l’autore, un mistero da chiarire, come mai una religione di sofferenza e di pace sia potuta divenire la religione dei popoli più attivi e più bellicosi del mondo ».
Quanto airinternazionalisino effettivo « non noi singoli, egli scrive, prescindendo dalla nostra nazionalità e dalla dipendenza allo Stato, ma le nazioni, i popoli stessi statalmente organizzati debbono essere i fattori di un sano e morale internazionalismo ».
A. D. S.
esaurendo la 2* edizione, e la « Guida per le Biblioteche scolastiche », che la Federazione diffonde da alcuni anni, nel 1914 essa pubblicò il « Prontuario per le Biblioteche di scuole medie », dettato dal professore G. Crocioni, provveditore agli studi a Reggio Emilia. Il Ministero inviò il volumetto a tutte le direzioni di scuole medie e con due circolari ufficiali richiamò l’attenzione delle autorità scolastiche sulle benemerenze della Federazione.
Un’altra utile iniziativa fu la pubblicazione già avanzata di un Catalogo ragionato, di cui sono uscite le prime quattro parti e cioè: Storia, dei professori Volpe e Mondolfo: Geo grafia, del prof. Ricchieri; Filosofia e Pedagogia del professor G. Lombardo-Radice; Storia delle Scienze, del professore A. Mieli.
Nei primi cinque mesi di quest’anno sorsero e si fede rarono altre 225 biblioteche e la « collana di volgarizzazione scientifica » si arricchì di altri io volumi, uno dei quali del prof. Ricchieri sulla a Guerra mondiale ».
La Federazione sta ora inviando in dono a tutte le sue 1620 associate, oltre ai detti volumi di sua edizione, un pacco dei migliori libri usciti in questi ultimi tempi intorno alla guerra, perchè il popolo si faccia un’idea chiara degli avvenimenti a cui l’Italia si è trovata a dover partecipare, ed aiuta con offerte di libri le biblioteche federate che ne g©muovono la raccolta per i riti.
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Pubblicazioni
COME CI VEDONO GLI ALTRI
pervenute alla Redazione
Opuscoli e libri:
— Prof. Calogero Vitanza: Dal chiericato cattolico al positivismo c alla religione dell'avvenire. (Testamento spirituale). (Estratto dal • Coenobium »). i9«5— Luigi Rava: Gaspare Finali (20 maggio 1829 - 8 novembre 1914). Estratto dalla ■ Nuova Antologia ». 1914.
— Luigi Rava: Le memorie di prigione del conte Eduardo Fabbri. Estratto dalla « Nuova Antologia». 1915.
— Vittore Marchi: La Missione di Roma nel mondo. Casa Ed. «Atanòr» di Todi. 1915. Voi. in-i6°, pag. 90, L. 2.
— Louis Trial: Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre 1914-1915. L. 1,25.
Lo scritto di Paolo Orano sul Prati pubblicato nel fascicolo di maggio della nostra rivista è stato accolto da largo consenso nel pubblico e nella stampa. Ci limitiamo a riprodurre qui la letterina dell’on. Luigi Luz-zatti all’Autore:
« Caro Professore,
«Sento il bisogno di dirle « che è mirabile il suo discorso
Giudizio di un indiano cristianizzante.
Un’Indiano cristianizzante, così scriveva recentemente all’editore del The Challenge :
« Prima di lasciare l’india per visitare l’Inghilterra, circa un anno fa. io aveva una saldissima convinzione che la fede Cristiana possiede un potere illimitato di trasformazione dell’individuo, è di rigenerazione: e volli recarmi, appunto, a visitare una nazione cristiana, per avere il vantaggio di costatare da me stesso le applicazioni pratiche del Cristianesimo ai più vasti problèmi della vita nazionale. Non dirò certo che provai una disillusione, ma confesserò che fui angosciato da dubbi e perplessità, alla vista di alcune cose di cui sono stato testimone. Ad esempio dal principio della guerra ho ascoltato molte prediche di oratori cristiani, e ne ho lette assai più. E mi duole di dire che, nell'insieme, la nota dominante in queste voci della Chiesa, è stata la nota tediosa della rivendicazione e della giustificazione, sulla giustizia della nostra causa » c la » malvagità del nemico ». Anche supponendo che la nostra causa fosse assolutamente incontestabile, io esiterei prima di proclamarla con tono si aggressivo in presenza del « tre volte santo ». Che lo Stato si giustifichi, passi: ma nella Chiesa si preferirebbe di trovare un po’ più di esame di coscienza. Noi tutti sappiamo, che riguardo ai veri valori sostanziali, lo Stato è un’istituzione assai.debole e povera: e non posso certo rallegrarmi, al vedére che, mentre esso è impegnato in un’impresa il cui valore morale è, a dir poco, di dubbio carattere dal punto di vista cristiano, la Chiesa ritrovi la propria vocazione nel farsi difensore dello Stato, anziché nel divenire la sua vigile coscienza. « Lo scrittore prosegue mostrando che. benché nel caso specifico immediato, la Britannia sia dalla parte del diritto, pure, « la guerra presente ò il risultato ultimo, quasi inevitabile del processo di sfruttamento territoriale inauguratosi cinque secoli fa, quando le nazioni di Europa sentirono il diritto di farsi innanzi e sfrattare dalle loro proprie dimore le razze •< inferiori » dell’umanità. Alcune cominciarono prima, alcune dopo; ed ora siamo giunti al momento di crisi acuta, che deve giungere sempre in simili processi: quello dell'equa spartizione delle spoglie. Alcuni desiderano soltanto di conservare ciò che hanno conquistato mentre altri desiderano di aumentare i loro possedimenti: e bisogna convenire, che alcuni ànno splendidamente, generosamente compensato con l’uso successivo, qualunque difetto nel titolo di conquista che possa esservi stato da principio. Ma comunque, in nessun caso, alcuno di noi è giustificato nella pretesa di presentarsi dinanzi al tribunale di Dio privo di timore e di tremore ».
Riferendosi alle difficoltà finanziarie in cui si verranno a trovare le Missioni a causa della presente crisi, egli dice: « Questa difficoltà economica è un problema assai secondario paragonato all’enorme onere di prova, che la guerra ha gettato sui missionari europei, che verranno
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d’ora innanzi a predicare il « Vangelo deU’amore • agli Indù intelligenti c spirituali ». Dopo avere assistito, nella Cattadrale di S. Paolo di Londra, ad un « servizio religioso », in cui il predicatore citò da un poeta allusioni al « giulivo rullio dei tamburi », e ad altre gioie belliche e ritornando a casa attraverso folle di uomini in uniformi « il mio pensiero » — egli scrive — attraversò per un momento gli oceani e ritornò al mio villaggio nativo nell’india, lontano da rumori militari e da consigli legislativi, in mezzo ad una popolazione — chiamatela pagana, infedele, animistica; come volete — nella quale ognuno ama il suo prossimo, o, se lo odia, lo odia per cattiva coscienza. Lì almeno. Cristo potrebbe ancora camminare, come un giorno fra le turbe della Galilea... ».
L’innocenza inglese.
Sullo stesso tono scrive Brace Wallace sul « Brother-hood » di Aprile: « Perchè mai l’Inghilterra sente sì vivo il bisogno di proclamare a voce sì alta la sua innocenza, e di protestare — per la bocca di professori e di presidenti e simili — la purezza dei motivi che l’hanno spinta alla guerra? Non sarebbe forse perchè dopo tutto, noi sentiamo di non essere intieramente innocenti? È vero che non fummo noi ad appiccare l’incendio della conflagrazione europea. Ma anche noi fummo a credere nella guerra come in un mezzo per decidere le contese internazionali, e ci organizzammo in conseguenza. Noi aderimmo, almeno col sottinteso della nostra anima nazionale, all’idea che come in passato avevamo compiuto grandi imprese e acquistato grande gloria per mezzo delle armi, così un giorno combatteremmo di nuovo furiosamente; e questo pensiero, aspettativa e intenzione della nazione, alimentò propositi bellicosi e aspettative e intenzioni di altre nazioni. Una nazione interamente innocente, veramente cristiana nella sua condotta e nei suoi preparativi per il futuro, mobilizzata come un’armata di amore costruttivo. non avrebbe bisogno ora di dimostrare la sua innocenza. Se (cosa possibile, se non probabile), il miglior servizio da rendere per risvegliare la coscienza del mondo fosse il martirio, essa risorgerebbe certo dai morti. Ma più probabilmente, essa sfuggirebbe anche a questa ecchssi parziale, e con la sua innocenza c buona volontà terrebbe lontani da sè malintesi, odi e gelosie: essa conquisterebbe il mondo traendolo alle vie della pace e del servizio reciproco. ».
Vois tu pas que tu es moi?
Romain Rollanti, il noto autore di « Jean-Christophe », e professore di storia dell’arte, conchiude un suo articolo sul « Journal de Genève • così:
Intellettuali di Germania e di Francia, campioni della Kultur e della Civiltà nelle razze tedesche e latine..., nemici, fratelli, guardiamoci negli occhi gli uni degli altri. Non vi vedi tu, o fratello, un cuore si« su Prati che leggo, che assa-« poro nel Bilychnis.
« Conobbi ed amai Prati, e « più volte lo vidi al Caffè del « Parlamento. Ei non serba il < nome che meritava; e ha « fatto bene a rinfrescarne con ■ altissime parole la fama ».
< Mi allieto anche della chiu-• sa del suo discorso. Io non so • non credere a Dio, come non « so chiudermi nelle pareti di « una Chiesa.
• Memori saluti.
Luigi Luzzatti ».
A A &
Ivan Liabooka è il nuovo amico che presentiamo ai lettori di Bilychnis. Essi non tarderanno a considerarlo come un ottimo acquisto per la Rivista, quando avranno sott’occhio la prova della sua specialissima competenza per quel che ri-Snarda la Russia religiosa. Pub-licheremo di lui nel prossimo numero uno studio su « Messianismo c religiosità in Russia nelle loro relazioni con la guerra odierna ». Egli ci promette anche alcuni studi sull’interessantissimo movimento battista in Russia, e ci darà inoltre un saggio della sua profonda conoscenza della patristica alessandrina, con uno studio riassuntivo sul <• Misticismo cristiano e il pensiero teologico alessandrino ».
Un cordiale benvenuto al nuovo nostro collaboratore.
Per le esigenze della censura non ci sarà possibile conservare alla nostra inchiesta sulla Guerra da religione tutta quella estensione che le avevamo assegnata dal principio, e saremo perciò costretti a rimandare ad altra epoca documenti che oggi non potrebbero veder la luce se non con modificazioni importanti e tagli notevoli. Tale sarebbe certamente il caso d’un
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accurato lavoro del nostro collaboratore prof. G. Pioli sul Cristianesimo e la Guerra, ch’è una delicata esposizione dello stato d’una coscienza cristiana. Daremo la precedenza ad altri scritti o documenti che, per la tendenza che rappresentano, non corrono il rischio del veto. Annunziamo pei prossimi numeri : « L’individuo e la storia -a proposito di cristianesimo e di guerra », di Romolo Murri; » La guerra e la religione nel pensiero di Alfredo Loisy », del dott. Antonino De Stefano ; « Il cristianesimo e la guerra», del prof. Vincenzo Cento; « L’aspetto religioso della guerra secondo Giovanni Müller » il noto direttore del periodico Die Grünen Blatter.
C’ è un’ opera buona nella quale alcuni, forse molti, amici di Bilychnis potrebbero trovarsi uniti. Parecchi sentono che sarebbe bene far giungere ai nostri soldati libri, opuscoli, foglietti, offrendo loro l'opportunità di trascorrere le ore di riposo e di attesa in letture piacevoli e benefiche. Già da più parti si sono, prese al riguardo iniziative di vario genere. Noi vorremmo portare il nostro contributo: un contributo speciale, determinato da quella stessa preoccupazione che ha suggerito la fondazione della nostra rivista e ne sostiene resistenza. Vorremmo fornire ai nostri soldati qualche lettura che fosse per loro come un valido alimento per l’anima e per lo spirito, senz’essere infetta di bigottismo e di confessionalismo, permeata tutta e soltanto d’uno spirito genuinamente cri- . stiano. Il foglietto c’è: Il Seminatore, redatto dal direttore di Bilychnis ; sono quattro paginette rosa a tre colonnine, che si pubblicano ogni 15 giorni. Da due numeri ha abbandonata ogni polemica e controversia e
mile al tuo, con le stesse speranze. Io stesso egoismo e Io stesso eroismo e potere di sognare, che tesse e ritesse continuamente la sua tela eterea? « Vois tu pas que tu es moi »? disse Victor Hugo, vecchio, ad uno dèi suoi nemici. Il vero uomo di coltura non è colui che fa di se stesso e del suo ideale il centro dell’universo, ma colui che, guardandosi d’intorno, vede, come nel cielo il fiume della « via lattea », migliaia di fiammelle che scorrono con la sua: e che non cerca nè di assorbirle nè di imporre loro il suo proprio corso. L’intelligenza della mente, senza quella del cuore, è nulla: è nulla senza il buon senso che mostra ad ogni popolo e individuo il posto che gli compete nell’universo e lo « humour • che è il critico di una ragione che fuorvia: il soldato che, seguendo il carro trionfale che sale sul Campidoglio, ricorda a Cesare, nell’ora del trionfo solenne, che egli è calvo.
Civiltà di una nazione non cristiana.
Il « The Scottisi» co-operator • di Glascow riferisce, e noi riassumiamo, un resoconto della condotta altamente umanitaria tenuta da una nazione non cristiana, il Giappone, verso i tedeschi residenti in territorio nazionale, durante la recente guerra: « Quando il Giap-Sne mandò V ultimatum alla Germania, il Barone ito. Ministro degli Esteri, invitò pubblicamente i tedeschi dimoranti in Giappone per affari a rimanervi e a continuare come prima i loro interessi: nello stesso tempo invitò i Giapponesi a non mostrare alcuna ostilità ai Tedeschi individualmente. Il Ministro della Giustizia, sig. Ozaki. rassicurò egualmente i Tedeschi della piena protezione della legge, e il capo della polizia inviò istruzioni per garantire la piena libertà e il rispetto di essi. Il primo ministro Conte Okuma, inviò una lunga circolare ai governatori delle province per far loro chiaramente intendere che i sudditi tedeschi potevano pacificamente e sicuramente continuare nei loro negòzi, rimanendo liberi di uscire dal Giappone o di entrarvi e che, se fosse stato necessario di restringere la libertà di qualcuno di essi, ciò doveva costituire l’eccezione. Il Ministro dell’istruzione poi, mandò una circolare ai capi d’istituti perchè avvertissero bene tutti gli studenti di guardarsi dal molestare i Tedeschi. Solo un tedesco fu espulso, l’editore di un giornale, il quale mostrava un zelo troppo indiscreto nelle sue colonne. I Tedeschi impiegati di Stato, quali professori, insegnanti, ecc., hanno continuato indisturbati nel compimento dei loro doveri, riscuotendo dai loro allievi e dai loro colleghi l’abituale rispetto e considerazione. I Tedeschi non debbono presentarsi alia polizia, e non sono soggetti a restrizioni di sorta, sia riguardo alla loro residenza che ai loro movimenti. I prigionieri di guerra sono trattati con massima dolcezza, e alloggiati, la massima parte, in templi buddistici adattati con divisioni di legno. Gli ufficiali possono fare passeggiate all’aperto: e se le loro famiglie risiedono nella città in cui sono prigioni, essi hanno il permesso, sog-
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getto al placito delle- autorità militari, di abitare in casa. Essi possono ricevere visite da amici, senza la presenza di alcun testimone. Il cibo servito è all’europea, però dopo le prime due settimane debbono ammanarselo da sè. A Tsing-tan, al governatore ed ai suoi ufficiali si permise di conservare la spada, e perfino di tenere insieme un pranzo d’addio. I Tedeschi stessi riconoscono, che quando l’ospedale tedesco fu colpito da una granata, appena l’ammiraglio Giapponese ne fu informato, il fuoco cessò immantinenti. Durante la celebrazione della presa di Tsing-tan, nel Giappone, la polizia ebbe la delicata avvertenza di far passare la processione con fiaccole, per vie in cui non abitassero Tedeschi notori che potessero riceverne disturbo, e di allontanare il popolo da ogni edificio occupato da Tedeschi.
Tutto sembrò ordinato dalle autorità e dal popolo giapponese, che conoscono bene tutte le atrocità commesse dai Tedeschi nel Belgio, allo scopo di fornire a loro e a tutto il mondo l’esempio del più completo contrasto di civiltà, e di mostrare al mondo che una nazione la quale non professa il Cristianesimo può, non pertanto dare una lezione di umanità alle nazioni « cristiane >■ d’Occidente.
E da prevedere che fra tante conseguenze della guerra, vi sarà anche una profonda revisione dei nostri concetti di cristianesimo pratico e di civiltà cristiana; di religioni «vere» e di religioni «false»; di religiosità e di irreligione.
Opinioni spagnuole intorno alla guerra.
Sulla rivista settimanale spagnuola « España », il Valdis, uno dei più popolari scrittori spagnuoli, autore di pregevoli studi di filosofia morale e di romanzi c novelle veriste, dà un acuto giudizio sul conflitto'delle due civiltà ora alle prese; da esso estraggo alcuni tratti:
« ... Il volgo suppone che la presente sia una guerra di commercianti: non sa che ciò che è in questione è il concetto stesso della vita. Lottano in questo momento l’ideale germanico e quello latino.
Il primo, nutrito in altri tempi di panteismo idealista, cadde poi nel pessimismo ed infine nel monismo materialista, ed è oggi assolutamente anticristiano... La morale germanica ha sovvertito la scala dei valori in accordo col pensiero di Nietzsche. I buoni sono i forti, i malvagi sono i deboli: l’unico istinto primordiale al quale, dobbiamo ubbidire è quello di accrescere la nostra forza. I.a morale è un’invenzione umana: Dio, il bene, la verità, sono creazioni fantastiche della nostra immaginazione. L’individuo sano e forte che ama la vita è il solo degno di vivere. Colui il quale cerca il bene e la verità per se stessi, e non per amore alla vita, è un degenerato. Il concetto delio Stato tedesco risponde a questa concezione della vita...: il complesso degli individui deve subordinarsi alla vita dello Stato, perchè questa riesca, ognora più’ forte e dominatrice. Le nazioni, al pari degli individui, sono alcune degne di vivere, altre di morire. Noi Latini, il cui istinto vitale è diqualsiasi accenno confessionale per portare soltanto un eco della Parola e dello Spirito di Cristo nelle anime aperte, ne-Eli spiriti ardenti dei nostri ravi soldati.
Come potete partecipare a quest’opei a ?
In più modi e sempre efficacemente*.
i° Inviando al redattore vostriscritti: pensieri vostri, pensieri di grandi, commenti, notizie, testimonianze; qualunque cosa insomma, in molte o poche parole, che valga a far del bene morale e spirituale ai nostri soldati in questa grande ora.
2° Acquistando copie del giornaletto per distribuirle personalmente o farle distribuire dall’amministrazione o da amici che trovansi sul fronte o in località vicine alle grandi masse militari. [Essendo tutt’ora in vigore la disposizione che vieta la spedizione dei giornali di seconda mano, la cosa migliore è di incaricare l’amministrazione del periodico di ogni spedizione].
3° Inviando alla Redazione o all’Amministrazione del Seminatore indirizzi di soldati cui giungerebbe gradito il foglietto.
Gli amici prendano nota che il Seminatore costa un centesimo la copia; che l’abbonamento semestrale a io copie di ogni numero costa L. 1.20 (spedite tutte al medesimo indirizzo). — Per le ordinazioni: tante copie, tanti centesimi.
Redazione: Prof. L. Paschet-to. Via Crescenzio, 2 - Roma; Amministrazione: Piazza in Lucina, 35 - Roma.
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GV Indici del i° semestre di quest’anno saranno annessi al Crossimo fascicolo di luglio.
’insieme di questi sei fascicoli costituisce il 5° volume di « Bilychnis • e si compone di ben 512 pagine con 20 illustrazioni.
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LIBRERIA EDITRICE “BILYCHNIS"
Via Crescenzio 2, ROMA
Scienza delle religioni
Possiamo offrire ancora ai nostri lettori ed associati per un prezzo molto ridotto (Lire 2,50 invece di L. 5) il lavoro del prof. L. Salvatorelli: Introduzione bibliografica alla scienza delle religioni, edito da G. Quadrotta, 1914. Voi. in-S® grande di pag. xvi-179.
Ecco il giudizio che Alfred Loisy dava di quest’opera nella » Revue Critique » del 15 gennaio scorso:
■ Œuvre sans prétention et répertoire suffisamment complet eu égard à l’objet que s’est proposé l’auteur. Les indications bibliographiques, accompagnées d’une analyse ou d'une appréciation plus ou moins développées selon l’importance de l’ouvrage dont il s’agit, sont groupées sous cinq chapitres, dont chacun comporte plusieurs subdivisions: ouvrages généraux (encyclopédies, périodiques, répertoires bibliographiques, manuels de science des religions, introductions, manuels d’histoire des religions); histoire de la science des religions; méthodologie; phénoménologie (générale, spéciale, culte, conceptions religieuses, civilisation et religion); histoire de la religion (ouvrages concernant l’essence, l’origine et le développement de la religion). Pour son propre compte, M. Salvatorelli est partisan d’une méthode historique très compréhensive, au-dessus des théories systématique. Son recueil mérite d’être signalé à tous ceux qui débutent dans ce genre d’études et même à ceux qui ne sont plus débutants ».
BILYCHNIS
minuito, siamo decadenti, impotenti, e dobbiamo lasciare il campo libero alla razza germanica, la cui vita è progrediente e rappresenta quanto v’ha di più alto e splendido nell’umanità.
... Noi antiquàri latini, continuiamo a pensare che il bene e la verità si debbono cercare per se stessi, non per aumento della nostra vitalità. Fra noi, anche gl’increduli sono cristiani, e non v’è alcuno che osi porre in dubbio che la carità è la più alta delle vertù. « Poiché Cristo è la verità e la giustizia — diceva Sant’Anseimo — . chi muore per la verità e per la giustizia, quantunque non creda in Cristo, muore per Cristo ». Noi crediamo che il rispetto pei deboli, la pietà, la compassione, non sono sentimenti debilitanti, ma corroboranti; che ciò che fa veramente degenerare l’uomo è il potere illimitato. Tiberio. Nerone, Domiziano, quei tre mostri, disonore del genere umano, furono ottime persone prima di salire al trono.
... Se i Tedeschi trionfassero, l’ideale cristiano non perirebbe, perchè « le potenze dell’inferno non prevarranno mai contro di esso », ma subirebbe un’ec-clisse... Pensiamo piuttosto che la Germania, affetta da una follia transitoria, ricupererà alfine la ragione per mezzo del salasso a cui ora è assoggettata, e del digiuno rigeneratore che seguirà: e tornerà ad essere la nazione di saggi, di poeti, e altissimi pensatori.
L’amore dei nemici, impossibile.
Il « The Times » commentando la predicazione sul-1’ « amore dei nemici », che fu l’argomento di molti oratori sacri nella « Settimana Santa » di quest'anno aveva in un articolo che suscitò numerosi commenti, queste parole:
«... Alcuni oratori han mostrato il desiderio di dare del precetto cristiano dell’amore dei nemici una interpretazione tale che lo sopprimesse; o ci hanno detto che si trattava di parole difficili a comprendere, e che non significano propriamente quello che a prima vista sembrerebbero significare. Questa però è più che mancanza di sincerità. Certamente, il predicatore sente bene che niente sarebbe più facile in questo momento che mandare sottosopra tutta la nostra civiltà con quelle parole, ma che il predicatore che proclamasse sì facilmente tale dottrina comincerebbe per separare se stesso dal suo prossimo, per godersi da solo la sua superiorità. In tutto questo vi è della verità: e noi non siamo punto in uno stato d’animo tale da sentirci scagliare addosso dei testi biblici, da persone che, in fondo, non ci sembrano migliori di noi, anzi, saremmo tentati di risponder loro che comincino essi ad amare i loro amici. Eppure, le parole del discorso del Monte sono chiarissime, e non c’è interpretazione che valga a eliminarle: « Amate i vostri nemici; benedite quelli che vi maledicono; fate bene a quelli che vi odiano; pregate per coloro che vi perseguitano ». Esse sono là, e voi potete ubbidirle o disubbidirle; giudicarle giuste o ingiuste; ma non potete dubitare del loro significato.
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È vero che, al presente, sembra che, esse ordinino delle cose impossibili; ma non è questa una buona ragione per condannarle o non tenerne conto. È essenziale alla dottrina cristiana di farci tentare sempre Pimpos-sibile. Il Cristiano è in questo, simile all’artista, il quale non sarebbe tale se non osasse più di quello che può fare. Il « Discorso del Monte » ci propone uno stato d’animo al quale dovremmo mirare; non già tale cui possiamo probabilmente raggiungere in questa vita: esso perciò ci propone esempi estremi di quello stato d’animo; esempi non temperati a misura delle nostre infermità: altrimenti correremmo il rischio di scambiare le nostre infermità e debolezze per virtù. Quando esso ci dice di amare i nostri nemici, esso vuol dire, anzitutto, che noi non dobbiamo mai credere che il nostro odio pei nemici sia un sentimento giusto;... a meno che noi non siamo virtuosamente indignati contro noi stessi. Il sentimento di odio — esso ci dice. — è per noi cattivo, qualunque sia la persona che noi odiamo: e noi non dobbiamo rispondere all’odio con odio, nè sentirci salire al volto un flusso di virtù quando lo facciamo. L’odio è un segno di debolezza, anziché di forza, e di debolezza intellettuale ed estetica non meno che morale: e se i Tedeschi si sentono « eroi » nell’espri-mere il loro odio, essi sembrano, non solo a noi ma anche alle nazioni neutrali, semplicemente ridicoli.
Ma ci si dirà che non è possibile odiare le azioni dei Tedeschi senza odiare chi le commette. Rispondiamo che la scienza d’accordo col Cristianesimo ci dicono di odiare la colpa anziché i colpevoli: e noi stessi, quando riconosciamo di aver commesso un’azione assai cattiva, sentiamo pur sempre che il peccato è peggiore del peccatore. E non dovremmo giudicare gli altri soltanto dalla loro azione, perchè noi stessi non ci giudichiamo mai così. La nostra psicologia, quando applicata a noi stessi, è acuta e misericordiosa, perchè noi conosciamo noi stessi e i nostri pensici i e sentimenti. Ma non é scientifico ammettere due criteri psicologici: l’uno per noi stessi, e l’altro, assai più aspro e crudele, per gli altri. Poiché facciamo distinzione fra peccato e peccatore in un caso, dobbiamo farla anche nell’altro.
I Tedeschi si diportano in modo detestabile, c su ciò non è possibile alcun dubbio. Possiamo anche aggiungere, senza pretese di virtù, che noi, invece, ci comportiamo decentemente. Ma dopo detto ciò, possiamo fomentare in noi un vivo e disinteressato desiderio che i Tedeschi si comportino anch’essi decentemente, e cessino da quell’assurdo odio contro di noi, appunto come potremo desiderare la cessazione di una Sestilenza che affligge un’altra nazione. E questo desierto potrà essere disinteressato e non codardo, se noi crediamo che i Tedeschi non sono soltanto Tedeschi, ma uomini simili a noi, con un destino immortale, che possono soltanto raggiungere nell’amore.
Questa divisione fra noi e loro, non importa chi l’abbia causata, impedisce ad entrambi il raggiungimento di quel destino. Ñon sono sólo i nostri corpi, ma le nostre anime
[Novità]. Guglielmo Quadrotta. Il Papa, l'Italia e la Guerra. Con prefazione di Francesco Scaduto. Milano, 1915. Voi. di pag. 175. L. 2.-Éstero L. 2,25.
Sommario: La chiesa romana alla morte di Pio X -Il conclave di Benedétto XV -La figura del Papa e la sua preparazione politica - La caduta del potere temporale e la politica ecclesiastica del nuovo regno - La legge delle Guarentigie e il suo valore - Il Vaticano e la partecipazione dell’Italia alla guerra delle nazioni - Benedetto XV e l’Italia-Il papato in Europa -Documenti.
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(Novità). Gaetano Salvemini; Mazzini. Catania, 19x5. Volume di pag. 200. L. 2,50. -Estero L. 2,75.
Parte prima. Il pensiero: Il criterio della verità - Le « basi di credenza » - La educazione del genere umano - Le religioni del passato - La discordia è per ogni dove - La nuova rivelazione - La nuova dogmatica - La nuova morale: il dovere - I.a nuova politica - Le repubbliche unitarie e democratiche - La teocrazia popolare - La teoria delle liberta -Le rivoluzioni nazionali e democratiche - La missione dell’Italia -La terza Roma-Carattere religioso del mazzinia-nismo.
Parte seconda. L’azione: Influenze immediate e influenze mediate - Insuccesso della predicazione religiosa mazziniana - Unità e repubblica nel pensiero mazziniano - Unità e repubblica nell’azione mazziniana-Mazzini egli altri repubblicani - Mazzini e l’Unità d’I-. talia - Mazzinianismo e Socialismo: le analogie - Mazzinianismo c Socialismo: le opposizioni-Il mazzinianismo sociale nel risorgimento italiano.
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[Novità]. N. Turchi, La civiltà Bizantina. Torino, 1915. Volume di p. 330. L. 5. - Estero L. 5.50.
Sommario: Introduzione - I caratteri della civiltà bizantina - L’economia commerciale ed agricola dell’impero bizantino - I.e fasi della storia politica di Bisanzio - La letteratura bizantina - La religiosità bizantina - Un patriarca bizantino nel sec. IV: S. Giovanni Crisostomo - L’arte bizantina.
Religione e guerra
Alle pubblicazioni riguardanti questo soggetto da noi annunziate nel fascicolo di febbraio p. 170-171, e che abbiamo in deposito, si aggiungano le seguenti:
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[Novità]. H. Bois, Patrie et humanité. Conférence. Volumetto di pag. 73. L. 0,75 (A beneficio delle vittime della guerra).
[Novità]. Jean Lafon, Evangile et Patrie. Discours religieux (2 aout-25 décembre 1914). Pagine 210, L. 3,25.
Sommario. — 1. Notre forteresse - 2. Patriotisme chrétien - 3. Aux femmes - 4. Royaume et Justice de Dieu-5. L’attitude de Jésus devant la doleur - 6. Le but de la vie -7. Temple en ruines et Temple Eternel - 8. La jeunesse de demain - 9. Foi et délivrance -10. Nos morts-11. Comment J>rier? - 12. Pourquoi célébrer a fête de Noël?
che ne soffrono: non sono solo i generi di esportazione e d’importazione che diminuiscono, ma la fede c la volontà collettiva dell’umanità, che appartiene a noi non meno che ad essi, e da cui essi non possono sottrarsi come fanciulli impertinenti che si appartano in un cantone... »
È il cristianesimo .una dottrina ragionevole?
È nota l’osservazione dello scrittore Chesterton, che ancora non si è d’accordo se il Cristianesimo sia una dottrina saggia predicata a un mondo di pazzi, o una pazzia predicata a un mondo di savi. E questa osservazione ritorna alla mente leggendo sulle colonne delle riviste religiose inglesi il contrasto d’idee relativamente alla guerra. Miss Holiday propende evidentemente per la prima opinione quando scrive sul « Christian Common-wealth >: « Ciò che è veramente follia è il fondare la società umana sull’idea dell’odio e del mal volere. Sono forse i risultati della concorrenza economica delle contese politiche e delle guerre internazionali così superbamente gloriosi, che possa dirsi di chi sostiene i principii opposti dell’amóre e della benevolenza, che egli è privo di saggezza e di senso comune? Se così fosse, per carità invertiamo il significato delle parole... »
E sulla stessa rivista, un socialista Battista, il signor Philip Millwood si lamenta: « Dopo molti anni di cordiale associazione e devozione alla mia Chiesa e alle sue opere, sento che essa non può essere più la mia famiglia spirituale. Mi sembra sconveniente che ministri della religione proclamino dall’alto dei loro pulpiti che le Chiese sono unanimi nell'approvare la condotta dell’Inghilterra in questa guerra. Sarà che il desiderio genera, le idee, ma rimane che questo è un travisare la realtà: e noi pacifisti cristiani ci auguriamo e crediamo che le Chiese abbiano a pentirsene. Può essere che un giorno esse si rallegreranno che almeno pochi Cristiani abbiano resistito alla corrente generale.
Può essere che i pacifisti abbiano torto, ma nel negare alla minoranza l’opportunità e il diritto di esporre le loro vedute attorno alla guerra, alle sue cause, alla sua condotta, i Ministri, i Diaconi e gli Anziani seminano il seme della discordia, tale quale con gran stento lo spirito dei pacifisti riuscirà poi a far cessare... »
A FASCIO
Romain Rolland. il glande e noto autore del Jean Cristophe: colui che meglio di ogni altro ha visto e rivelato le piaghe e le intime virtù ascose della Francia contemporanea, ha scritto sul Journal de Genève, dello scorso novembre un vibrante, appassionato articolo, da cui riportiamo larghi tratti, riassumendone altri.
Dopo aver salutato l’eroismo di tanta generosa gio-
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ventù che ha versato prodigai mente il suo sangue e rinunziato alla dolce vita, egli domanda:
• Voi avete fatto il vostro dovere: ma hanno gli altri fatto il loro? Siamo audaci, e proclamiamo la verità a quelli più adulti di loro: alle loro guide morali, ai loro condottieri religiosi e secolari, alle Chiese, ai grandi pensatori, ai « leaders » socialisti, voi che stringevate nelle vostre mani queste vite preziose questi tesori d’eroismo, per che cosa le avete profuse? Quale ideale avete voi proposto alle devozione di questa gioventù così bramosa di sacrificare tutto! » Ed egli si domanda per quale frenetica cecità le tre grandi nazioni occidentali abbiano chiamato dai quattro venti tutte le nazioni « barbariche » a precipitarsi con loro nella guerra di «sterminio, che scuoterà le fondamenta del primato occidentale: per quale ragione, se non amarsi fra loro, le nazioni non seppero tollerare le grandi virtù ed i grandi vizi l’una dell'altra, e comporre amichevolmente le loro differenze. E al ritornello: 0 La fatalità della guerra fu più forte della nostra volontà », egli oppone che non vi è fatalità. - Fatalità è solo ciò che noi vogliamo, o più spesso, ciò che noi non vogliamo abbastanza fortemente ». E la colpa è di tutti: « dei leaders » del pensiero, della Chiesa, dei partiti operai, che se non vollero la guerra, nulla fecero per prevenirla, nulla fanno per porre ad essa un termine. E riferendosi a una frase di Luzzatti in un recente articolo, in cui si compiacque, quasi, che il demone di una guerra internazionale si fosse scatenato, perchè « nel disastro universale il patriottismo solo trionfa», e si comprende la grande e semplice verità dell’ « amor di patria », domanda se il fiore dell’amor patrio abbisogni, per svilupparsi, dell’odio per le altre nazioni e del massacro di quelli che si sagrificano per la loro difesa. « Voi ostacolare il libero progresso dei popoli. Come socialisti, noi combattiamo acciò la guerra presente sia l’ultima. Noi combattiamo, come sempre combattemmo, perchè la E>ace che verrà sia, non la falsa pace degli armamenti, ma a vera pace di liberi popoli in tutta l’Europa e in tutto il mondo. Infine, noi combattiamo per le masse popolari sulle quali è caduto il peso enorme degli armamenti, combattiamo perchè, per mezzo della pace, la giustizia trionfi e i nostri figli non corrano più il pericolo di un ritorno alla barbarie. Ecco perchè i socialisti combattono: ed ecco perchè essi, con un sol cuore, sono risoluti di vincere ».
[Novità]. Pendant la guerre, 5® volumetto, contenente queste prediche: La Prière qui rend vainqueur, di E. Gonnelle; Comment durer, di W. Monod; Devan l’avenir, di H. Monnier; Les « bons français », di J. Viénot; Garde-moi! di A. W. d’Aygalliers; L’invisible, di L. Maury. Anche questo, come i precedenti quattro volumetti, costa L. 1,25.
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[Novità]. Abbé Thellier de Poncheville, Pour ceux qui luttent, pour celles qui souf-Îvent. Viatique de guerre.
*aris 1915. Pag. 150. L. 1,25.
Sommario: Le Pater du soldat - Notre mère du ciel -Les mystères- douloureux de la guerre-Les mystères glorieux - Pour ceux qui meurent - Tristesses et espérances -Pour celles qui souffrent au foyer - La mission de la Croix -Rouge.
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[Novità]. Mgr. L. Lacroix; Le Clergé et la guerre de 1914. P.aris, 1915. - Pubblicazione periodica. Abbonamento a 20 fascicoli L. 9 - Sono finora usciti i seguenti volumetti: 1. L’histoire de la guerre - Comment la préparer. 2. Le Pape-3. Le clergé et l’Union nationale-4. Les Í•rières publiques - 5. Les vêques et la guerre -607.
Les évêques et l’invasioa -8. La grande pitié de Reims.
I Socialisti Cristiani olandesi hanno anche essi emanato un manifesto relativo alla guerra, da essere spedito ai ministri delle diverse Chiese. Un gran numero di copie è pervenuto anche ad altre mani, ma molte di esse sono state confiscate in Amsterdam ed altre città:
« La responsabilità della presente guerra » —- dice il manifesto — « cade specialmente sulle Chiese, e particolarmente sui capi di esse: il Papa, i cardinali, il clero in generale, i predicatori, i « leaders » delle diverse
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[Novità]. Mgr. Mignot, Confiance, Prière, Espoir. Lettres sur la guerre. Paris, 1915. Pag. 60. L. 0,75.
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[Novità] A. D. Sertillanges, La Vie Héroïque, Paris, 1914. Sono 20 « conferences don-
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nées en l’Eglise de Sainte-Madeleine, à Paris ». L. 6,50. Ecco i soggetti di alcune delle 20 conferenze: Ce que c’est que l’héroisme; Le reveil de • notre foi; Notre espérance: La charité et la guerre; La justice vengeresse: La justice pénitente: La force d’âme; La magnanimité; La gloire des morts; La vertu purificatrice de la guerre; L’amitié dans les luttes; La fraternité d’armes; Le noël français; ecc.
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(Novità] L’Eglise cl la guerre par Mgr. Batiffol, MM. P. Monceau, E. Chenon, A. Vanderpol, !.. Rolland, ecc.
L. 4. Ecco i soggetti di alcuni capitoli: Les premiers chrétiens et la guerre. Saint Augustin et la guerre. Saint Thomas d’Aquin et la guerre. Les applications pratiques de la doctrine de l’Eglise sur la guerre. Synthèse de la doctrine théologique sur le droit de la guerre, ecc.
comunità cristiane. Ma non solo su le Chiese e sui loro capi: no; anche su noi, in quanto noi non abbiamo combattuto in ogni istante con una religiosa consacrazione di noi stessi, la grande battaglia per il Regno di Dio ».
Il manifesto prosegue con grande ardore morale, e conclude con un vigoroso appello alla • penitenza • c alla « conversione ».
Il miliardario Carnegie, si benemerito della causa della pace, mostra che il suo ideale non si è che rafforzato sotto i crudeli colpi ad esso inflitti, scrivendo cosi nel « Central News ».
« Io sono convinto che lo sforzo che tutti gli amanti della pace dovrebbero ora tentare, è di accordarsi da tutte le parti del mondo nel formulare la richiesta che la strage senza pari di uomini per mano di altri uomini, sia l’ultima perpetrata da nazioni civili allo scopo di decidere le questioni internazionali. Certo, dopo che fra le nazioni attualmente in guerra si sarà concluso un armistizio, la maggior parte delle persone illuminate di tutte le nazioni civili, si persuaderà che una pace mondiale permanente sarà la massima benedizione dell’umanità, e che essa si può effettuare pra ticamente, solo che poche nazioni delle più potenti nazioni s’impegnino a mantenerla.
«Che il nostro motto sia dunque: «Preparazione alla pace universale»: forti nella fede, che sotto Questa sacra bandiera, non può esistere la parola « sconfitta ».
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia ¿eli'Unione Editrice, via Federico Cesi» 45
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Prezzo del fascicolo Lire 1 —