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BILYCHNIS
Anno Vili. - Fasc. X.
ROMA - OTTOBRE 1919
Volume XIV. 4
U. DELLA Seta : La visione morale della vita in L. da trinci. | Leonardo da Vinci, xilografia di P. A. Pacchetto], GIOVANNI Costa : Giove ed Ercole (contributo allo studio della religione romana nell' impero).
P. ORANO: Positivismo - Filosofia pura - Religione.
G. L.ESCA: Sensi e pensieri nella poesia di A. Grafi
G. MEILLE: Psicologia di combattenti cristiani.
(***) : Mancanza di garanzie nello schema e nel nuovo Codice di diritto canonico.
RUBRICHE FISSE:
Per la cultura dell’anima: A. Fasulo -c. Wagner.
Note e commenti: G. Pioli - M. del-L'Isola - Luisa Giulio Benso.
Cronache - QUINTO TOSATO: Politica vaticana e azione cattolica.
j Tra libri e riviste - Rassegne: Puglisi -COSTA - M. - DOTT. M. - Recensioni
Letture ed appunti - Pubblicazioni pervenute.
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RII YCHNK RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI Dllu I vnillio 4 4 4 4 FONDATA NEL 1912 ► > ► >
CRITICA BIBLICA STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA PEDAGOGIA
FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE - QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL' ESTERO —
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma. D. G. WHITTINCHILL, Th. D., Redattore per 1*Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l'Italia, L. 7; Per l'Estero, L. 10; Un fascicolo, L. 1.
(Per gli Stali Uniti e per il Canada è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica. B. D. Pastor, 1414 Culle Ave, Phlladdphia, Pa. (U. S. A.)].
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Corrispondenti e collaboratori sono pregati d’indirizzare quanto riguarda la Redazione impersonalmente alla
Direzione della Rivista BILYCHNIS
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I manoscritti non si restituiscono.
I collaboratori sono pregati nel restituire le prime bozze di far conoscere il numero degli estratti che desiderano e di obbligarsi a pagarne le spese. Per il notevole costo. della carta e della mano d’opera la rivista non dà gratuitamente alcun estratto.
Nei prossimi numeri pubblicheremo, tra gli altri, i seguenti articoli: P. E. PAVOLINI, dell’Istituto di Studi Superiori di Firenze: La religione degli antichi Finni.
F. DE SARLO, dell’ Istituto di Studi Superiori di Firenze : L’opera filosofica e scientifica di E. Haeckel.
E. TROILO, della R. Università di Palermo: La filosofìa di Giorgio Politeo. R. N AZZAR I, della R. Università di Roma: Intelletto e Ragione.
L’Amministrazione di BILYCHNIS ricerca copie del fascicolo della rivista del febbraio 1919; le contraccambierà con pubblicazioni di sua edizione del valore di L. 2.
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RJVlSlÀ DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLATEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMA
Anno ottavo - Faso. X.
Ottobre 1919 (Vol. XIV. 4)
SOMMARIO:
UGO Della Seta : La visione morale della vita in Leonardo da Vinci Pag, 82 [Leonardo da Vinci : xilografia di P. A. Paschetto, pag. 85).
Giovanni Costa: Giove ed Ercole (contributo allo studio della religione romana nell’impero) . . . . , ........... » 95
PAOLO Orano : Positivismo - Filosofia pura - Religione.» 109
GIUSEPPE Lesca: Sensi e pensieri nella poesia di Arturo Graf . . » 118
Giovanni Meille: Psicologia di combattenti cristiani ...... »127
(**♦): Mancanza di garanzie nello schema e nel nuovo codice di diritto canonico. — § 3. Il tribunale ordinario di seconda istanza. II. Le garanzie presso i tribunali della sede apostolica. — Conclusione.
[Lettera di un sacerdote] .............. »142
PER LA CULTURA DELL’ANIMA :
Aristarco Fasulo: Pace e... pace . .... » 151
Carlo Wagner : Un predicatore dinanzi ad un pulpito nuovo.......... » 153
NOTE E COMMENTI:
Giovanni Pioli : « La pace delle nazioni e la religione dell’avvenire » di P. Loisy » 157
M. Dell’Isola: Mal séme ........................... » 161
Luisa Giulio Benso: Una visita all’Italia di una signora americana . . . . . » 165
CRONACHE:
Quinto Tosato : « Costantinus » e la questione ¡talo-pontificia - Il partito popolare e le elezioni - Il cardinale Bourne a Lubiana - Vaticano e Jugoslavia -Il cardinale Giustìni a Gerusalemme - Gli studi biblici in Palestina -1 concordati tra S. Sede e autorità civili . ¿ . . ....... » 171
TR A LIBRI E RIVISTE :
Rassegne : Mario Puglisi, Storia e psicologia religiosa (IV) — Giovanni Costa, Religioni del mondo classico (Vili) — M., Filosofia politica— doti. M., La religione nella letteratura ......... ............... » 179
Recensioni : Storia del Cristianesimo - Religione e questioni sociali - Varia . . »201
Letture ed appunti ........................... » 207
Pubblicazioni pervenute alla Direzione ................. > 210
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LA VISIONE MORALE DELLA VITA
in LEONARDO DA VINCI
L'anima, veramente, quale essa sì sia, ella è cosa divina.
orre sull’artista, volgarmente, un giudizio che offende nell’ arte l’umana dignità. Sarebbe egli un essere privilegiato al quale le mirabili creazioni nel mondo della bellezza quasi conferiscono un diritto all’altrui benevola indulgenza per le non rare deviazioni dalla rettitudine della vita.
Ci si presenta, talvolta, lo scienziato come un essere il quale, pur nella più austera disciplina della vita, perde, a poco a poco,
nella passione del vero, la nozione del móndo che attorno a lui soffre, lotta e spera, sino a raggiungere, nel silenzio del laboratorio, nell’ unica compagnia dei libri, la più egoistica inconsapevole indifferenza per quanto davvero è il destino dell’uomo, è il problema morale dell’esistenza.
Due tipi che furono certo e possono essere tuttora nella realtà. Ma è realtà anche, confortante ed eloquente, che lo spirito creatore ovunque, nell'arte o nella scienza, toccò le vette più inaccessibili, non solo rifulse, sempre, di una eccelsa bellezza morale, ma, per vie diverse, sul problema morale gettò luce inestinguibile, che ancora oggi rischiara la via alle anime che perseguono ardentemente la realizzazione del bene.
È una verità che, in ogni secolo, presso ogni popolo, il genio ha suggellato colla sua orma immortale. S’identifica, in Italia, collo spirito dei nostri Grandi. Dante, nel viaggio oltremondano, con lo sdegno per tutte le umane brutture, porta la passione della più inesorabile giustizia. Michelangelo trasfonde nel marmo il dolore
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e la fierezza del cittadino che sopravvive alla caduta della Repubblica. Galileo dalla contemplazione degli astri non disdegna discendere a pungere le umane debolezze, precorrendo, coll’insorgere contro le artificiali disuguaglianze, lo spirito innovatore della grande Rivoluzione.
Per la purezza della vita, per una visione morale della vita, nobile e austera, a questa triade luminosa un. altro artista, un altro scienziato bisogna aggiungere, un astro anch’esso di prima grandezza, Leonardo da Vinci (1).
Leonardo moralista.
Bisogna non fraintendere la parola. Se v’ha in lui il principio fondamentale che non un essere v’è nell’universo che non sia sottoposto ad una legge; se la legge della natura egli non reputa estranea alla vita dello spirito, sì da aver coscienza, traverso le indagini anatomiche, di scoprire « al li omini l’origine della prima o forse seconda cagióne del loro essere »; se, riconoscendo, implicitamente, tutta la importanza e la difficoltà del problema morale, in lui — monito alla scienza troppo boriosa di sé — c’è, col rammarico, preziósissima, la confessione di non sapere e di non potere, colla stessa precisione colla quale nell’anatomia descrive la figura dell’uomo, dimostrare la natura dell’uomo e dei suoi costumi (2), tuttavia Leonardo, in stretto senso, come non ci ha lasciato, nel campo teoretico, una filosofia, così, nel campo pratico, pei principii che ne sono il fondamento, pei problemi che ne costituiscono il contenuto, non ci ha lasciato quella che si chiama Un’Etica. Sotto il velo della favola o dell’allegoria, nella sentenza lapidaria o nella profezia, la sua, anziché una morale, è, come per molti tra i presocratici, una moralizzazione, una precettistica. Non cessa per questo di avere la sua significazione profonda. È un nuovo aspetto, non troppo posto in rilievo, di quello spirito multiforme e che maggior rilievo conferisce alla stessa personalità dello scienziato e dell’artista. È una voce che deve essere pure ascoltata ed allogata tra le voci, autorevoli, che, per varie correnti intersecandosi, si fecero sentire, sul problema morale, nel Rinascimento. Sono verità morali che hanno il pregio, se non della originalità, di un contenuto ideale inestimabile e che ancora oggi, a guida spirituale della vita, riconsacrano, colla parola del genio, l'autorità, mai troppo apprezzata, dell’antica saggezza.
Sotto l'acuto osservatore, v’è davvero, in Leonardo, oltre lo scienziato e l’artista, la figura di un Saggio. Anatomista, se innanzi alla « architettura » del corpo umano s’arrestava, estatico, come innanzi ad una delle meraviglie della creazione, ben doveva, trepidante, domandarsi qual meraviglia maggiore dovesse essere l’at(1) In attesa della Edizione Nazionale Vinciana, oltre il Trattato della pittura, preziosissimi, sempre, a consultarsi, pel nostro argomento, con i particolari riferimenti ai manoscritti, i Frammenti letterari e filosofici di L. da V. trascelti da Edmondo Solmi (Firenze, Barbèra, 1913).
(2) «E così piacesse al nostro Autore, che io potessi dimostrare la natura del li omini e loro costumi, nel modo che io descrivo la sua figura ».
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tività dello spirito, di cui il ¡corpo, pur bèllo, non è che lo strumento. Pittore, non solo si compiaceva di « andare colla imaginativa », ma, andando per le vie e per le piazze, non disdegnando- immischiarsi tra i più umili e i più volgari, mentre tesoreggiava tipi ideali pei suoi cartoni, per le sue tele, acquistava e raffinava quell'intuito psicologico, che, se conferiva alle raffigurate sembianze il fascino misterioso caratteristico della sua arte, al suo sguardo indagatore conferiva quella conoscenza degli uomini, per cui le sue massime morali portano, in sè, indelebile, il suggello della realtà. V’è un che di socratico nel suo carattere. Anche la sua, nel senso non logico, ma psicologico, fu una maieutica. E sua è la osservazione che « li segni de’ volti mostrano in parte la natura delli uomini ». Orbene, osservate il ritratto di Leonardo, osservate quel volto grave ed austero, quasi sacerdotale; fissate quel suo sguardo buono e sereno,-che abbraccia e che penetra; più che l’artista che persegue lontano il sogno della sua fantasia, più che lo scienziato intento agli enigmi della natura, voi vi scorgete il maestro dello scandaglio, uno scrutatore di anime.
E le anime, senza feticismi, possono bene a Lui oggi, con reverenza, avvicinarsi, più che ad onorarlo, a trarne ammaestramento e conforto. Leonardo, l’indagatore matematico della natura, è un assertore della suprema realtà dello spirito. Pur nelle parole brevi onde riesce, magistralmente, a incastonare una gemma, una verità luminosa, egli è un suscitatore e un purificatore. Egli, con altri filosofi della Rinascenza, con Bruno sovratutto, ha la virtù dantesca di chiamar le cose, senza infingimenti, col loro vero nome: giova anche per questo ricordarlo ed esaltarlo oggi, in cui par sia divenuta somma abilità l'arte di mascherare coi più alti principii ideali i mercantilismi più bassi e le più volgari passioni.
Nell'attuale disorientamento delle coscienze non v’è che riaprire e meditare con libero spirito e con profonda religiosità le pagine dei Grandi Morti. È da questi che si sprigiona la parola della Vita. Felici fien quelli — è Leonardo che scrive — felici fien quelli che presteranno orecchio alle parole dei morti, sovratutto, è sempre Leonardo che ammonisce, se, per quanto riguarda le bone opere, non ci limiteremo a leggerle, ma ci proporremo di osservarle.
* * ♦
Un motivo etico-religioso già-domina, in Leonardo, la filosofia della natura.
Se a lui, uomo di scienza, l’Universo, tutto animato, appare, nel suo meccanicismo, governato dalle inflessibili leggi matematiche; se per l’occhio dell’artista esso, nei dieci « ornamenti » (i), è opera di indefinibile bellezza, allo spirito del pensatore e del credente esso è manifestazione, è operazione della mente di Dio che « tutto lo include ». La continua equazione e la provvidenza onde opera la natura, la necessità istessa onde gli effetti rispondono alla loro cagione altro non testimoniano se non la mirabile giustizia del Primo Motore. Più si avvicina a Dio chi più si pone in diretto
(i) « Luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete, le quali son dieci ornamenti della natura ».
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LEONARDO DA VINCI
(Xilografia originale diretta di PAOLO A. PASCHETTO)
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contatto con la natura; conoscere la natura è sollevare un lembo del mistero che asconde la infinita potenza di Dio. È il motivo neo-platonico, dominante, dal Cusano al Bòhmc, nei teosofi naturalisti del Rinascimento.
È questo motivo teosofico che fa di Leonardo, oltre il cultore severo, l’esalta-tore lirico, quasi mistico, della Verità. Lodi alla verità, anche in un epicureo, come Valla, anche in uno scettico, come Agrippa, se ne trovano molteplici nella filosofìa del suo tempo: è la mente che scuote il secolare giogo aristotelico; come pure in altri, in Pico e in Palingenio, nel Serveto e in Patrizi, si ritrova quella sua analogia, neo-platonica, tra la Verità e la Luce. Ma in Leonardo più accentuato è il motivo etico-religioso. La verità, « sommo nutrimento delli intelletti fini », non solo, per lui, è luce, oro, fuoco distruggitore di ogni sofistico, scacciatore delle tenebre occultataci di ogni essenzia, ma è di tanta eccellenza morale che nobilita, laudandole, le cose minime ed ha in sè, come scintilla di Dio, una tale santità che — monito ai seguaci delle tenebre in ogni tempo — ^’impedimenti contro di essa si convertono in penitenza. Bisogna giungere a Bruno per riascoltare, dopo Leonardo, nella Rinascenza, accenti di un più alto lirismo, di un maggiore slancio mistico, nella esaltazione devota della Verità.
Senza questo neo-platonismo, che sta al fondo del suo naturalismo, non s’intendono a dovere; noi crediamo, nella loro valutazione psicologica, quelle stesse regole che per lui costituiscono il processo metodico nella indagine della verità. Certo, quando egli parla del sillogismo come di un parlare dubbioso, quando allude all’inganno della mente abbandonata a sè stessa, quando insiste sul non poter noi conoscere la essenza, la quiddità delle cose e sul dover star paghi degli effetti, quando ammonisce di procedere dal noto all’ignoto, di fondare la scienza sulla testimonianza dei sensi, di corroborare questa testimonianza colla esperienza e colle matematiche dimostrazioni, certo, contro « gli speculatori che interpretano la natura colla imaginazione », egli, sulla via già tracciata da Aristotele e da Rogero Bacone, è beneS! filosofo indagatore della natura che preannuncia, nella storia della logica, quello che sarà il metodo baconiano e galileiano. Ma questo metodo, ripetiamo, sarebbe unilateralmente interpretato, non solo se non si avesse presente quel suo carattere comprensivo, quell’accordo, su cui insisteranno più tardi Cesalpino e Galileo, tra i sensi e la ragione, ti motte della esperienza stessa; ma se non si sentisse che in tutta quella cautela e in quel rigore che egli esige nel processo metodico, v’è pur la coscienza, profonda, del carattere religioso della verità, in quanto per essa, svelando la natura, si amplifica di un grado la conoscenza di Dio.
Di qui, quasi del tutto obliati dagli studiosi, in Leonardo, del metodo sperimentale, quei requisiti psicologici e morali, che egli esige nell’indagine della verità. La Natura, la grande Iside, non si disvela a chi non va incontro ad essa colla febbre del desiderio, colla sete insaziabile del conoscere. Lo studio « sanza desideri » è sterile, come un cibo « sanza voglia si converte in fastidioso notri mento ». E oltre possedere la pazienza e la diligenza nell’analisi, salvaguardandosi dalla destrezza, cioè dalle conclusioni precipitate, occorre anche corazzarsi, indice di un’alta forza spirituale, d’un
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grande spirito di umiltà. Con una piena coscienza di sè, notabilissima, in Leonardo, come nel suo contemporaneo, Paracelso, questo senso di una umiltà quasi reli-. giosa nella osservazione della natura (i) ; v’è non solo il criterio metodologico di ripetere più volte le esperienze, variandole, prima di concludere, ma v’è la consape-lezza, serena, del possibile inganno dell’uomo nelle sue opere, v’è il dovere di non peccare della boria dell’intelletto, ma di ascoltare, non evitandole, le altrui opinioni, di tener conto delle correzioni che altri possono apportare ai nostri errori. Leonardo è ben la mente della Rinascenza, è il ribelle contro il principio di autorità; ed egli deride gli umanisti spenditori di parole, fustiga coloro che allegando, nella disputa, l’autorità, adoperano non l’ingegno, ma la memoria, punge coloro che sono semplici recitatori e trombetti delle altrui opere: però nella scienza, come nell’arte — pari, in questo, al suo rivale, Michelangelo — contro i fàcili demolitori egli s’inchina con reverenza innanzi agli antichi, ai maestri, ai creatori (2); e, molto significativo in lui inventore infaticabile, ripeterà, parafrasandolo, il biblico motto: nulla può esser scritto per nuovo ricercare. La reazione al principio di autorità in lui, se non orgoglio intellettuale, non è neppure un semplice rinnovamento del metodo: è una disciplina dello spirito che riconferma quel suo sentimento di umiltà. Allegare sempre l’autorità non solo è un annichilamento di sè, una inerzia dello spirito, ma è anche una volgare usurpazione, è dall’altrui fatiche sè medesimi fare ornali. Meglio, meglio è seguire, colle proprie forze, faticandp, la via scabrosa che al vero conduce; è su questa via, dura, se vuoisi, ma eccelsa, che l’uomo più si avvicina alla meta suprema, a Dio. Quale antecipazione di una verità, superba, che proclamerà un giorno Lcssing!
Senza forzate interpretazioni, possiamo ben dire, dunque, che i sensi, la esperienza, la ragione sono, per Leonardo, quasi un itinerarium mentis in Deum. Se in lui non v’ha, come per i mistici, il grado supremo, l’estasi, se la comunione divina per lui non è dirètta, ma mediata, traverso la natura, in- lui, che pur desume, talvolta, il valore di una scienza dalla sua comunicabilità, v’ha la esaltazione religiosa del valore incommensurabile della « vita soletaría contemplativa ». Il se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo non è in Leonardo la selvatichezza del misantropo, è l’elemento naturale del genio, la iniziazione, nella natura e nello spirito, per ogni atto veramente creativo.
È questo senso religioso della verità che in lui rafforza, nobilitandola, la umiltà intellettuale. Oh Leonardo che, con divinazioni mirabili, ha pur legato il proprio
(1) «Vedendo io non potere pigliare materia di grande utilità e diletto, perchè li omini, innanti a me nati, hanno preso per loro tutti rutili e necessari temi, farò come colui, il quale, per povertà, ghigne l’ultimo alla fiera, e non potendo d’altro fornirsi, piglia tutte cose già da altri viste, e non accettate, ma rifiutate per la loro poca valetudine... Io questa disprezzata e rifiutata mercanzia, rimanente de’ molti compratori, metterò sopra la mia debole soma e con quella, non per le grosse città, ma povere ville, andrò distribuendo e pigliando tal premio, qual merita la cosa da me data ».
(2) «Contro alcuni commentatori che biasimano li antichi inventori, donde na-sceron le grammatiche e le scienze, e (ansi cavalieri contro alli morti inventori, e, perchè essi non han trovato da farsi inventori, per la pigrizia e comodità de’ libri, attendono al continuo, con falsi argumenti, a riprendere li lor maestri ».
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nome nella storia di molteplici scienze — nella matematica, nell’astronomia, nella geologia, nella meccanica, nell’idraulica, nell’anatomia — è ben lungi da ritenere di aver dato fondo all’universo! Non solo ha la coscienza, limpida, che la verità, figlia del tempo, è un divenire, ma — e questo, forse, è il punto più alto del suo pensiero — riconosce che infinite, nella natura, sono le proprietà .occulte di cui allo umano ingegno non è possibile « dare scienza », confessa — e lo ricordino quegli scienziati troppo presuntuosi di sè — che la natura è piena d’infinite ragioni che non furono mai in isperienza.
E dalla natura, dagli infiniti effetti, pur egli risale alla causa infinita, a Dio; Di questo Infinito che, con la finalità dell’universo, trascende la mente umana, bene è orgoglioso per lui, con vane dispute, presumere di cogliere l’essenza; però ben può l'uomo coglierne un raggio, al di fuori di sè, nella bellezza della creazione, ben può sentirlo e testimoniarlo, in sè, ad altri, nella bellezza morale della vita, nella santità e nella purezza delle opere.
Se non nella formulazione teoretica, v'è dunque anche in Leonardo la delineazione di un problema morale come problema sgorgante dalla realtà stessa della vita.
Cosmologo, nel sentimento profondo della vita universale, egli abbandona la concezione geocentrica; e se l’uomo, per lui, non è il solo, come pel Ficino, a rifulgere del raggio della luce divina, se non è, come per Pico della Mirandola, il centro dell’universo e neppure, come pel Cusano e pel Pomponazzi, il solo termine di mediazione tra l’uomo e Dio, per gli elementi che lo costituiscono esso però sempre gli appare e lo esalta, d’accordo coi neo-platonici teosofi del suo tempo, come il microcosmo che riflette in sè il macrocosmo, come un mondo minore modello dello mondo.
Anatomico, artista, egli esalta nel corpo umano il « maraviglioso artifizio » della sua architettura, sì da concludere, platonicamente, nella intuizione ideale di un’armonia tra il bello e il buono, che « li omini grossi e di tristi costumi non meritano sì bello strumento, nè tanta varietà di macchinamenti ».
Psicologo, se da un lato analizza il meccanicismo complesso delle sensazioni, non solo, dall’altro, degno di grande rilievo, considera il corpo come un semplice strumento, definisce i sensi gli offìziali dell’anima e vede nel corpo, per la virtù aristocratica e incommesurabile dell’occhio, lo specchio dell’anima, ma quest’anima, incorruttibile nella corruzione del corpo, egli ben tiene ad affermare che veramente» quale essa si sia, ella è cosa divina.
Ma quando si passa nel campo morale — nella morale quale la constata nella realtà — i colori dèi quadro mutano, si fanno sentire ben altri accenti. Égli ha letto nel tractato del Mandavilla (1480) i recenti ragguagli sull’antropofagia dei selvaggi; egli ha innanzi a sè la società della Rinascenza, capace di tutte le raffinatezze estetiche, ma, nel complesso, depravata in tutte le forme della vita privata e pubblica. E ne vien fuori cosi, più accentuata di quella che, come nube solitaria in cielo sereno.
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già adombra, qua e là, la visione luminosa della natura (1), ne vien fuori una nota di desolante pessimismo, voce dolorosa cui altre, con varia intonazione, faranno eco nella sua epoca, da quella del mistico neo-platonico, suo contemporaneo, Leone Ebreo, a quelle ulteriori, epicuree o scettiche, di Agrippa e di Cardano, di Montaigne, di Charron e di Sanchez. Ed è un pessimismo il suo che se conosce più la deplorazione che l’invettiva è pervaso da una sottile ironia, sotto la quale tu senti l'accoramento di un’anima integra e pura, che talvolta lo sdegno mal represso, in un impeto di sincerità, fa esplodere, toccando il sublime, con espressioni del più rovente e crudo realismo.
Altro che la decantata superiorità dell’uomo sugli animali! Non solo l’uomo, prossimo parente dei quadrumani, non è, fisicamente, se non un anello nella evoluzione progressiva degli esseri organici; non solo, meccanicamente, l’uomo ha lo stesso andare dell’animale, poiché, se questo cammina in croce sui quattro piedi, pur quello move in croce le quattro membra, perchè quando pone innanzi il piede destro pone innanzi il braccio sinistro e viceversa; non solo anche il possesso di una qualche cognizione è riscontrabile negli ammali, ma, quantunque la stessa natura lo ammonisca della superiorità spirituale cui dovrebbe tendere, facendo sviluppare nel fanciullo prima la sede dell’intelletto, il cranio, che non il petto, la sede delli spiriti vitali, tuttavia esso si dimostra inferiore agli animali: la sua inferiorità fisiologica, per una maggiore rozzezza e ottusità nella virtù dei sensi, è ben poco di fronte alla sua inferiorità etica, per i brutali istinti di cui è schiavo, per l’egoismo che lo travolge, per i molteplici vizi che lo deturpano. Il suo bestiàrio, nelle Favole e nelle Allegorie, è in prevalenza presentato come un modello di virtù alla umana specie.
Alle prime relazioni delle pratiche fagistiche dei culti primitivi, delle superstizioni dei selvaggi mangiatori dei simulacri, « che ti pare omo — egli domanda —. qui della tua specie, sei tu così savio come tu ti tieni? son queste cose da esser fatte da omini? » e, alludendo all’antropofagia, è questa, egli osserva, una « somma scellerataggine, la quale non accade nelli animali terrestri, imperocché in quelli, al di fuori dei rapaci, non si trovano animali che mangino della loro specie se non per mancamento di calabro ». E quando dal selvaggio si passa all’uomo cosidetto civile, all’uomo della sua società, del suo tempo, altro che vas di elezione! L'uomo è riccelto di villania, è ammonizione di somma ingratitudine, in compagnia di tutti i vizi. E tale è l’egoismo che infiniti ce riè che, per soddisfare a un suo appetito, minerebbero Iddio con tutto V universo.
» ♦ *
Ma Leonardo non si limita, generalizzando, alla dolorosa constatazione. Lo spirito dell’anatomico riappare. Come vincendo le istintive repugnanze, solo superate
(1) Notevole, in Leonardo, la tendenza, talvolta, a personificare la Natura, conferendole attributi morali. « La natura pare di molti animali stata più presto crudele matrigna che madre e d’alcuni non matrigna, ma preziosa madre ». E altrove: « con quale lingua o con quale vocaboli potrò io esprimere e dire le nefande ruine, li incredibili dirupamenti, le inesorabili rapacità, fatte.da’ diluvi de’ superbi fiumi?».
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dalle sete del conoscere, passava ore ed ore sul cadavere per desumere la mirabile struttura del corpo umano, così, a scopo moralizzatore, denuda ad uno ad uno tutti i vizi e le turpitudini, però portando nell’anima un mondo ideale, la città del sole contrapposta alla città terrena.
Ora apertamente, ora sotto il velo dcirallegoria, tutte le umane debolezze sono deplorate e punzecchiate. La irrequietezza che non rende mai contenti del proprio stato; la incostanza per cui, nella assenza del carattere, la nostra vita è un mutamento continuo e anziché essere noi, colla nostra personalità, a dare il colore alle cose, prendiamo invece noi dalle cose il nostro colore: e la vanagloria, il troppo esaltare i nostri meriti, quando, in mancanza di essi, cadendo persino nell’avvilimento dell’adulazione, non si tenda, per riflesso, a illuminarci di quelli degli altri; e la constatazione preziosissima: « ecci una cosa che, quanto più se n’ha bisogno, più si rifiuta: e questo è il consiglio, mal volentieri ascoltato, da chi ha più bisogno, cioè dagli ignoranti ».
E quale sapore di attualità non hanno talune sue amare constatazioni! Non potrebbe, forse, essere incisa sull’atrio dei moderni Parlamenti, quella sua massima che non è sempre bono quello che è bello... e in questo errore sono i belli parlatori sanza alcuna sentenza? E quante volte, nella vita privata e nella pubblica, nella vita nazionale e internazionale, non si avvera quella sua favola del villano e della vite, del villano che sino, a che dalla vite attènde il frutto le da molti sostentaculi per tenerla in alto, ma, preso il frutto, abbandona, oblioso e ingrato, li sostentaculi sino a distruggerli, col foco? E nella febbre morbosa della popolarità, nel turbine delle passioni, quanti, mentre i buoni e i valenti son lasciati nell'oblio, quanti non raggiungono quella che egli chiama la sozza fama naia dai vizi?
Per quanto, sul terreno fisiologico e psicologico, non manchi di additare il rapporto che certe passioni hanno con la conservazione della vita, tuttavia tutti i vizi egli condanna, la lussuria e la gola, la superbia, la viltà, l’avarizia e l’invidia. Ben rivelando, indirettamente, la tempra del suo carattere, è un vizio però sul quale vi ritorna con una insistenza significativa, come su quello che, larvato di una falsa abilità, più doveva colpirlo, forse, ai suoi tempi: l’ipocrisia. La sella degli ipocriti e le lingue bugiarde, con una repugnanza che ha quasi dell’orrore religioso, hanno in Leonardo, come nel Ficino, il nemico più implacabile. La bugia mette maschera, sentenzia, però, soggiunge, nulla occulta sotto il sole; e quanto agl’ipocriti che « al continuo studiano d'ingannare sè e altri, ma più altri che sè, invero ingannano più loro stessi che altri ». È noto quanto indugiasse a porre fine al Cenacolo per la difficoltà di ritrarre nella sua vera espressione la testa di Giuda.
Ma la figura di Giuda doveva essere per lui simbolo non solo dell’ipocrisia, ma di un qualcosa non meno turpe, il servilismo dello spirito per poche libbre di oro.
Ualtri sacra James è per lui il vero flagello della vita individuale e sociale. Non egli, vedremo, è un utopista, che disconosce le esigenze economiche della vita, ma è un idealista che non vuole che il mercimònio contamini le ragioni supreme del vivere. Con quella del Cusano, del Paleario, del Reuchlin, dell’Agrippa, del Savonarola la sua è un’altra tra le voci che, nella Rinascenza, più o meno consapevolmente, pre-
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pararono il solco alla Riforma, deplorando, come offesa alla purezza del sentimento religioso, i depravati costumi del clero e il traffico delle indulgenze (1). E fustiga i negromanti e i ricercatori dell’oro che s’illudevano poter mascherare l’avidità del denaro con l’indagine della natura, con la causa della verità. E biasima gli artisti « guadagnatori » che, profanando la bellezza, sentono il bisogno di sempre vivere « sotto la bellezza d’oro e d’azzurro », anteponendo l’onore della ricchezza alla « grandezza dell’onore ». E punge, con Paracelso, quei medici che, « destrlittori di vite », s’arricchiscono sulla vera altrui perduta ricchezza, la sanità. E prevede che. verranno tempi in cui, ridotto il matrimonio a mercimonio, anche la donna, in forme più o meno larvate, sarà oggetto di compravendita, prima di divenire la vestale custoditrice del fuoco sacro nel santuario della famiglia (2).
Ora s’imagini Leonardo con quel suo mondo interiore, nella meditazione del vero, nella visione della bellezza, più vasto della stessa natura che gli si parava dinanzi, s’imagini quel che egli doveva soffrire nell’anima quando, disconoscendone il genio, deridendone le opere, a lui venivano taluni di quei saputelli, di quei serpentelli, di cui la genia non sembra del tutto estinta ai giorni nostri e che, con sussiego di alta saggezza, giudicano gli uomini per quel che hanno e non per quello che sono, tutto pesando e misurando col criterio livellatore del più volgare utilitarismo. Contro questi miseri impelagati nel brago e che, com’egli dice, tranne la voce e la figura, nulla hanno di umano, anzi sono meno che bestie, Leonardo, come Dante, come Bruno, non sa rattenere la rude parola che, sulle sue labbra, ripetiamo, non suona volgare, ma è la purezza che segna l'abisso da un mondo che non è il sup: non uomini,egli dice, son costoro, ma semplice transito di cibo; altro non sono che aumentalori di sterco.
♦ * *
Nelle Profezie il suo pessimismo si tinge ancora di un colore più nero.
Specie tra i neo-platonici, in rapporto alle credenze astrologiche e pur Leonardo vi prestava fede (3) — frequente è questo profetare nella Rinascenza. Pico
(1) Del vendere il paradiso: • infinita moltitudine venderanno pubblicamente e pacificamente cose di grandissimo prezzo, senza licenza del padrone di quelle e che mai non furon loro, nè in lor potestà e a questo non prowederà la giustizia umana». Sulle abitazioni dei sacerdoti: « assai saranno che, lasceranno li esercizi e le fatiche e povertà di vita e di roba e andranno abitare nelle ricchezze e trionfanti edilìzi, mostrando questo esser il mezzo di farsi amico a Dio ». E altrove: < Le invisibili monete faran trionfare molti spenditori di quelle». Non manca la deplorazione crudamente realistica sul contenuto immorale, talvolta, della confessione auricolare. Nè sembra vedesse con molta simpatia il culto delle immagini: « parleranno li omini alti omini che non sentiranno; avrai! gli occhi aperti, e non vedranno: parleranno a quelli e non fia loro risposta; chiederan grazia a chi avrà orecchi e non ode; faran lume a chi è orbo». E sulle sculture: « Ohimè! che vedo il Salvatore di nuovo crocifisso ».
(2) « E dove prima la gioventù femminina, non si potea difendere dalla rapina de' maschi, nè per guardie di parenti, nè fortezze di mura, verrà tempo che bisognerà che padre e parenti d’èsse fanciulle le paghino di gran prezzo, ancorché esse sien ricche, nobili e bellissime. Certo è par qui che la natura voglia spegnere la umana specie, come cosa inutile al mondo e guastatrice di tutte le còse create ».
(3) « Or non vedi tu che l’occhio abbraccia la bellezza di tutto il mondo ? Egli è capo dell’Astrologia, egli fa la Cosmografia... questo ha misurato l'altezze e grandezze delle stelle; questo ha fatto predire le cose future mediante il corso delle stelle ».
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esalta nell’uomo, allo stato di estasi, questo dono della profezia; lo riconosce, sotto l’influenza degli astri, nel vate, Pomponazzi. E tranne qualche voce solitaria, come quella del Landino, che prospetta pel futuro il quadro il più roseo, i più si abbandonano, come lo stesso Ficino, a visioni catastrofiche, apocalittiche, quasi ad espiazione dei molti mali di tutta una generazione che nel senso pagano della vita andava perdendo la coscienza di ogni più eletta virtù.
È sereno Leonardo quando, come naturalista, pel successivo operare delle stesse fòrze fisiche, intravede, nella lontananza dei secoli, la fine della vita sulla terra (i) ; Si colorisce di un pathos la sua parola quando, per un' epoca a noi più pros sima, intravede, non seducenti, i futuri destini dell’uomo. Non è estranea, nella lugubre visione, la natura; che anzi, per diverse strane foggie, nel mondo organico e inorganico, « vedrassi tutti gli elementi insieme misti con gran rivoluzione »; però la rivoluzione maggiore si opererà tra gli uomini, che, per la sete dell’oro, combatteranno fra loro la guerra più micidiale.
Spogliate queste profezie dell’elemento fantastico e vi troverete una verità centrale, cioè il male immenso che, nella vita privata e nella pubblica, all’uomo proviene dal proprio egoismo. Non fu tanto divinatore Leonardo nel preannunciare le future conquiste dell’uomo sulla natura, quanto nel vedere dove l’uomo, come singolo e come popolo, nei tempi posteriori, sarebbe stato condotto, quando non guidato, per cieca paura della povertà, nella lotta economica, da un alto principio morale.
Non è, noi crediamo, semplicemente ai forni ch’egli accenna, quando scrive: « per tutte le .città e terre e castelli e case si vedrà, per desiderio di mangiare, trarre il proprio cibo di bocca l’uno all’altro, sanza poter fare difesa alcuna »; vi è espressa, sotto l’allegoria, in tutta la sua crudezza, la lotta per l’esistenza. E forse a uno dei primi effetti di questa lotta egli avrà pensato, quando esclama: « oh quanti fien quegli ai quali sarà proibito il nascere! »; e bene al moderno fenomeno della emigrazione potrebbe essere applicata la sua profezia: « molti abbandoneranno le proprie abitazioni e porteranno seco i sua valsenti e andranno abitare in altri paesi ».
E quando, nelle Profezie degli animali irrazionali, accenna alla dura condizione dell’asino, come non vedervi una chiara allusione alle dure condizioni, ai suoi tempi, dei lavoratori! « 0 natura trascurata, perchè ti se’ fatta parziale, facendoti ai tua figli d'alcunr pietosa e benigna madre, ad altri crudelissima e dispietata matrigna? Io veggo i tuoi figlioli esser dati in altrui servitù, sanza mai benefizio alcuno?eTn
(x) « Riman lo elemento dell'acqua rinchiuso infra li cresciuti argini de’ fiumi, e si vede il mare infra la cresciuta terra; e la circondatrice aria, avendo a fasciare e circonscrivere la mollificata macchina della terra, la sua -grossezza, che stava fra l'acqua e lo elemento del foco, rimarrà molto ristretta e privata della bisognosa acqua. I fiumi rimarranno senza le loro acque, la fertile terra non manderà più leggere fronde, non fieno pili i campi adornati dalle ricascanti piante; tutti li animali non trovando da pascere le fresche erbe, morranno; e mancherà il cibo ai rapaci lioni e lupi e altri animali, che vivon di ratto; e agli omini, dopo molti ripari, converrà abbandonare la loro vita e mancherà la generazione umana ».
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loco di remunerazione de’ fatti benefizi, esser pagati di grandissimi martiri; e spender sempre la lor vita in benefizio del suo malefattore ». «Le molte fatiche sàran remunerate di fame, di sete, di disagi e di mazzate e di punture e bestemmie e gran villanie ». Dopo il Savonarola, egli è uno dei pochi a denudare là piaga ; antecipa una deplorazione, più significativa ed esplicita, nella Città del Sole, di Campanella.
Ma v’è una deplorazione da cui più emerge la generosa anima di Leonardo. Filosofo della natura, esplicandola colla vaghezza della natura stessa « a creare e fare continue vite e forme », egli, ricordando Anassagora, antecipando Bruno, ben constata la legge della circolazione della materia, per cui « ogni cosa vien da ogni cosa ed ogni cosa si fa ogni cosa e ogni cosa torna in ogni cosa, perchè ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi »: però per lui v’è già in questa legge un che che repugna al suo sentimento morale, il fatto cioè che l'uno animale debba vivere della morte dell'altro, e chiamerà crudelissimi gli uomini che, per cibarsene, uccidono i capretti, i « piccoli ed innocenti figliuoli »; però, più che repugnanza, è un sacro orrore, per lui, al pensiero che, per sete di oro, gli uomini, i popoli, tra loro, debbano impegnarsi in lotte fratricide, insanguinando la terra, con ogni opera di distruzione, con le più micidiali carneficine.
« Uscirà dalle cavernose spelonche chi farà con sudore affaticare tutti i popoli del mondo, con grandi affanni, ansietà, sudori, per essere aiutati da lui ». È la ricerca dell’oro, del denaro. E gli effetti? Per l’oro, anche il ferro, il metallo « per sè mansueto e sanza alcuna offensione », si convertirà in strumento di rovina, di morte. La visione è tragica, catastrofica. « Uscirà dalle oscure e tenebrose spelonche chi metterà tutta l’umana specie in grandi affanni, pericoli e morte. A molti seguaci lor, dopo molti affanni, darà diletto; ma chi non fia suo partigiano, morrà con stento e calamità. Questo commetterà infiniti tradimenti; questo aumenterà e persuadérà li omini tutti alli assassinamenti e latrocini e le perfidie: questo darà sospetto ai sua partigiani; questo torrà lo stato alle città libere; questo torrà la vita a molti; questo travaglierà li omini infra loro con molte arti, inganni e tradimenti. 0 animai mostruoso! quanto sarebbe meglio agli uomini che tu ti tornassi all’inferno; per costui rimarran diserte lè gran selve delle lor piante; per costui infiniti animali perderanno la vita».
Non è il solo Leonardo, nel Rinascimento, a insorgere contro la guerra. Cornelio Agrippa e Palingenio Stellato, suoi contemporanei, fan pur essi sentire, generosa, la loro voce. Ponendo, indirèttamente, quel problema morale della civiltà su cui poi tanto si affaticherà lo spirito del Rousseau, Leonardo intuisce che civiltà e moralità non vanno sempre in armonia, che le conquiste stesse della scienza possono tramutarsi « per le male nature delli omini » in strumenti di danno insidiosissimi. Scienziato, egli sente che di questo male, colle sue scoperte, egli stesso potrebbe essere un complice, involontariamente. E il sacrificio sarà compiuto. Egli ha imaginato uno strumento, mediante il quale, senza' essere visti, gli uomini, senza alcun pericolo.
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potranno stare a lungo sott'acqua; ma ne teme, a scopo malvagio, le applicazioni. Preferirà tacere portando, con sè, il suo segreto.
« Come molti stiano con istrumento alquanto sotto l’acqua; come e perchè .io non scrivo il mio modo di star sotto l’acqua, quanto io posso star senza mangiare; e questo non pubblico o divulgo per le male nature delti omini, li quali userebbero li assassinamenti nei fondi dei mari, col rompere i navili in fondo, e sommergerli insieme colli uomini, che vi son dentro, e benché io insegni dclli altri, quelli non son di pericolo perchè di sopra all’acqua apparisce la bocca della canna, onde alitano, posta sopra otri o sughero». •
Silenzio sublime! Nell’interno conflitto, sulla scienza riporta la vittoria la coscienza. È un raggio di luce che, dissipando le nebbie del suo pessimismo, fa già intravedere, vasta nell’orizzonte, quella che in lui è la visione ideale della Vita.
(La fine al prossimo numero).
Ugo Della Seta.
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(contributi allo studio della religione romana nell’ impero)
(Continuazione c fine. Vedi Bilyehnii, Luglio-Settembre, 1919, pag. x).
II.
Tradizionalismo politico e militare nei titoli imperiali.
a questo modo di concezione e di esposizione dello stato religioso e politico di Roma, quale ci è stato^suggerito dall’indagine sulla persistenza dei culti fondamentali dell’impèro, si deducono delle conseguenze importanti, ad una serie delle quali, che per noi à maggiore valore, dedicheremo il capitolo presente. Si è detto cioè sopratutto dai fautori della tesi che il sincretismo solare prese piede in Roma fin dal n sec., che i titoli
assunti dagl'imperatori romani sopratutto dall’inizio del in sec. sono di origine orientale e solare: già il Cumont sosteneva che il sovrano era pius perchè a sa dévotion peut seule lui conserver la faveur particulière que le ciel lui accord »; che era felix perché « il est illuminé par la grâce divine »; che era-inviclus perchè « la défaite des ennemis de l’empire est le signe le plus éclatant que cette grâce tutélaire ne cesse pas de l’accompagner ». Naturalmente da tutto ciò doveva conseguire che il sole era « le maître de la fortune des rois », ch’egli era il cornes, il conservator, il fautor dell’imperatore.
1. Ora, con buona pace di quanti anno sostenuto una simile tesi, io ritengo che queste conclusioni siano assolutamente contrarie alla verità ed in ogni modo compie-
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tamente contrarie alle fonti. Già nel 539 d. Cr. un atto ufficiale dichiarava che la denominazione di pius derivava ai sovrani da Antonino Pio (sia pur confondendolo con Caracalla) — wozsp yàp ’Avtojvwo; ó sussista«; s^óvujzo?, ¿; oursp zaì ri;
-à -rii; w;o<r/)Yopia; -traó-r/i; — ed a questa spiegazione più o meno felicemente s'erano adattati tutti gli studiosi antichi. I più recenti fallivano la strada ricercando in altre sorgenti l'origine di tali attributi, attratti specialmente, come vedremo, da quello di invictus.
Incominciamo col notare come, a prescindere da qualsiasi denominazione speciale, negli appellativi imperiali soprattutto ufficiali vi fosse una naturale tendenza alla trasmissione ed alla persistenza del nome imperiale. Il senso d’inferiorità che i successori avrebbero provato di fronte ai predecessori se non avessero avuto de’ titoli che si riferivano a qualità inerenti alla carica che occupavano, era evidente. D’altra parte la trasmissione del potere sia che si facesse per adozione, sia che si effettuasse con la violenza e con il conseguente riconoscimento dava sempre luogo all'attribuzione de' titoli avuti dal sovrano precedente, salvo il caso di quelle spontanee e personali rinunce che specialmente dagli Antonini in poi furono, per necessità di cose, assolutamente rare, se non impossibili.
Così, dopo che vediamo Augusto esser chiamato salus generis humani vediamo pur acclamato in pari modo Nerone (tS G&rrijpi -rii; oj/.ovy.sv/jc) e pure Galba.
Il banale appellativo di optimus princeps finché 1'« optimus », come vedremo, con Traiano non acquista un nuovo valore, è dato già a Claudio, senza pur farne il nome e prima di lui a Caligola che è chiamato «optimus maximus Caesar» mentre, nello stesso modo, si chiama sacralissimus imperator Domiziano e naturalmente non si dimentica più tale titolo nè per Traiano, nè per Adriano, nè per Antonino Pio, nè per M. Aurelio e L. Vero, nè per Commodo.
Con Settimio Severo, in genere, questo titolo abitualmente sparisce: è entrato ormai in vigore il pius e poco dopo il Jelix ed è già iniziato l'uso te\\‘invictus.
Il pius trae la sua origine, indiscutibilmente, àaXVoptimus attribuito in forma ufficiale per la prima volta a Traiano, sebbene, come dicemmo testé, se lo facesse già dare Caligola: il senato molto probabilmente lo salutò « optimus » nel 100 d. Cr., se non che prima del 114 non sembra sia stato usato avanti la parola augustus. Ora dòpo Traiano è pur chiamato Adriano optimus princeps, non improbabilmente per effetto dell’adozione. Quel che è certo è che egli è come il suo predecessore optimus maximusque princeps. Quando si passa però ad Antonino Pio si à la fusione dei due appellativi: nelle monete, cioè, si legge S(senatus) p(opulusque) r(omanus) a(nnum) /(auslurn) j(elicemque) optimo principi pio. Egli continua ad essere come i suoi predecessori Voptimus maximusque princeps, ma mentre vivente Adriano non porta il qualificativo di pius, quando gli succede è chiamato Augustus pius, Ssfbtffrò? stae^;. Così sorge effettivamente l’appellativo di pius sul quale le fonti sono così discordi. È noto difatti che esse lo ritennero dovuto ad una singola o a più delle seguenti cause, insieme : a) per le sue premure verso il suocero vecchio; b) per la sua cura di sottrarre alle ire di Adriano dei senatori; c) per gli onori prestati ad Adriano, dopo morte; d) per la sua clemenza (la quale le riassume tutte).
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Ora si noti che ia raffigurazione della pietas nelle monete dopo Pompeo, Cesare e Antonio si trova su quelle di Livia, Caligola, Galba, Domitilla e Dómizia. Come si vede per i sovrani essa costituisce un’eccezione: da Traiano in poi, invece, non è così. Egli ne à diritto per la sua pietas erga patroni, come Adriano ne à diritto per la stessa ragione verso Traiano; Antonino quindi viene terzo in questa giustificazione, la quale tutti vedono bene non esser se non una finzione per la trasmissione del titolo, finzione del resto che trova la sua motivazione fondamentale nell’adozione che si vuole leghi i sovrani con un vincolo che di fronte alla ragion di stato non deve creare differenze dal vincolo naturale. Le cause che le fonti vedemmo attribuire a questa denominazione sono difatti una sola (a = c = d); l'unica che fa eccc-» zione è quella della clemenza (ò = d) verso il senato, ma sebbene possa avere in astratto il suo valore, per le ragioni già dette di tradizione storica e per il preponderare delle regioni precedenti ci sembra debba essere scartata perchè tendenziosa.
Il principe, in conclusione, è pius perchè egli è la suprema concezione della bontà (optimus) e come tale non può non essere animato dal sentimento di doverosa venerazione verso gli dei, i genitori, la patria. Egli personifica appunto questa patria la quale, come diceva Plinio, « religionibus dedita semperque deorum indulgen-tiam pietale merita» vuole avere a capo qualcuno che ne esprima i sentimenti. Perchè l’imperatore ne sia degno occorre che egli la esprima verso gli dei e verso gli uomini: il pius Aeneas da Augusto in poi, che faceva risorgere in lui il tipo del pius romanus antico, è il modello del princeps che venera i suoi predecessoii (parentesi come il figlio il padre, grazie al nuovo legame dinastico che lega l’impero. E la sua pietas si manifesta sopratutto nel culto degli dei e nella cura della religione: così Augusto, così Tiberio; Vespasiano è salutato «conservator caerimoniarum publicarum et restitutor aedium sacrarum »; di Traiano è detto che «sacraria numinum vetusiate collapsa a solo restituii »; ad Antonino Pio è dedicata un’iscrizione onoraria come «optimo maximoque principi et cum summa benignate iustissimo ob insignem erga caerimonias publicas curam ac religionem ».
2. La jelicitas, da cui è tratto il secondo appellativo che entra in vigore all'in-circa nello stesso momento, è stata sempre una delle massime preoccupazioni romane: è una delle virtù che deve avere il generale («scientiam rei militaris, virtutem, auctoritatem, felicitatemi», come diceva Cicerone). La si augura a tutti i sovrani, a loro ed allo stato, la si nota in tutte le guerre fortunate, non la si disgiunge mai dalle imprese guerresche: è il sinonimo della fortuna, è la dote che questa elargisce agli uomini ; jelices debbono essere tutti coloro che intraprendono qualche cosa, che rivestono delle funzioni religiose, amministrative, militari. È naturale quindi che gl’imperatori siano salutati in tutte le loro manifestazioni con questo appellativo.
Non stupisce perciò veder Traiano in senato acclamato con tale aggettivo: egli è Jelix, dice Plinio, perchè è ritenuto degno della felicità, perchè i cittadini si ritengono felici se gli dei li ameranno come li ama il principe, se nulla allo stato manca per la felicità se non che gli dei gli siano benevoli come è benevolo l’imperatore.
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Se non che il jelix non figura ancora nei monumenti dell’epoca: il primo imperatore sotto cui appare è, come Ora vedremo. Commodo. Prima di lui Marco Aurelio e Lucio Vero non pare abbiano adottato gli appellativi di pius e jelix se non sporadicamente e quasi inconstantemente, sebbene il titolo di pius sembri riconosciuto a M. Aurelio dopo la morte.
Quanto a quello di jelix esso appare indirettamente già nelle monete di Marco Aurelio, ma per opera di Commodo evidentemente. Le monete difatti del 176-178 ci offrono la raffigurazione di una nave sulla cui prora sta Nettuno: la leggenda dice Felicitati Aug(usti) Imp(eratoris) Vili co(n)s(ulis) II s(enatus) c(on sulto). Ora ci consta che verso la fine del 176 una tempesta mise in pericolo la vita di M. Aurelio e di Commodo che era con lui onde nelle monete sue si à Felicitati Caes(aris). Data la tendenza cui testé accennammo a veder una jelicitas in tutte le fortune personali dell'imperatore, sopratutto, come poi si vedrà, da parte di Commodo, non è difficile connettere questo avvenimento all'attribuzione poi divulgatasi; È un fatto intanto che nello stesso 177 abbiamo un ricordo di un’acclamazione all’imperatore fatta in questi termini: « felici imperatori omnia felicia ». È quindi una pura tirata retorica quella che l'autore della sua vita si permette ponendo in relazione il jelix con l’uccisione di Perennis, la quale pare debba esser posta tra il 185 ed il 186. Difatti mentre nel 183 le monete ànno lemporum jelicitas, le iscrizioni lo denominano già pius jelix. D’allora in poi tutti i monumenti usano ed abusano di ambedue gli aggettivi o di uno 0 dell’altro o di frasi composte nella più varia guisa. Egli è il « nobilissimus omni[u]m et jelicissimus princeps » (nelle monete si à la nobilitas Augi), è il jel. Aug., il suo trionfo del 186 è jelicissinius, si augurano (a. 190) a lui «pio imp(eratori) omnia felicia » e via dicendo. Le fortunate vicende del suo impero, come vedremo, • lo autorizzano a fregiarsi più che mai di questo titolo che grazie all'acclamata «temporum felicitas » trova la sua espressione sia pure un po’ enfatica nei pa<j».X£ÓovTo; ó xÓGf/.o; sùtvtsT.
E tutta questa concezione si sintetizza poi nell'asserzione delle monete secondo cu» egli è \’auct(or) piet(atis); egli cioè individuandosi con Ercole e dichiarandosi figlio di Giove e quasi Giove stesso, è più che mai la causa prima della pietas dei suoi concittadini e dello Stato.
3. Ma un altro appellativo introduce Commodo nell’uso dei documenti imperiali: quello $ invictus. Egli si dice «invictus romanus Hercules» nell'iscrizione che più volte citammo del 192. Accennammo già alla cosa, ma siccome di questo aggettivo di invictus si è fatto un attributo esclusivo delle divinità solari, esaminiamolo in relazione all’uso che ne fanno gl’imperatori romani per vedere Se ciò sussista ono. Ebbene, Eicole è detto vietar ed invictus e la critica è rimasta esitante dinanzi alla classificazione cronologica dei due aggettivi e pur concludendo alla precedenza del primo sul secondo à ammesso l’uso promiscuo in genere, in tutti i tempi, dei due attributi. La stessa riceica fatta per Giove non à apportato neppure a concludenti risultati e non a torto. Si può accogliere difatti la precedenza di vietar su invictus, se si à [D^iovei vietare e l’iscrizione di Mummio, ma non si deve dimenticare che già
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Cicerone, Orazio, Ovidio, ànno inviclus e che nelle iscrizioni esso appare fin dal i set. mentre vietar si trova ancora in quelle del m sempre per Ercole. Se non fosse troppo lungo però si potrebbe dimostrare che l’uso dei due aggettivi va molto probabilmente determinato con una parabola che partendo da vietar e passando per invi-dus ritorni a vietar, naturalmente con una certa larghezza: è conforme cioè alla fortuna che ebbero parole, idee e sentimenti nel|e epoche di cui possiamo seguire lo svolgimento con sufficente compiutezza. Dalle origini e dai caratteri più o meno derivati, ma originali, si passa alla maturità che à caratteri propri < quindi si discende all’epoca di esaurimento in cui lo spirito ripiegandosi riti uà all’antico ed adotta forme vecchie per cose già nuove: l’arcaico si fonde n< ^’arcaizzante. Ciò si prova anche con l’uso greco àvwtjto; = inviclus, = vietar. Nè vi è mai confusione tra le due parole, tanto che i glossari le distinguono con molta accuratezza, onde si deve concludere che l’uso loro fosse ben distinto e preciso e fosse l’effetto di una corrispondente distinzione latina, non, come si è voluto, d’un uso greco derivato da idee orientali religiose. E ciò tanto più che ne' primi tempi per tradurre inviclus i Greci oscillavano non solo tra e àvfiwj'ro;, ma quel che
è più adoperavano vwc'/joópc.
Se non che si potrebbe opporre che l’invictus di Commodo, tratto sia pure dal culto di Ercole, non à che fare con l’invictus adottato poi da gl’imperatori che gli successero. È quello invece che può essere dimostrato luminosamente: l’invictus che i sovrani aggiungono ai loro titoli non è se non un titolo di carattere militare che si connette al culto d'Èrcole, come protettore dell’imperatore per le sue imprese guerresche.
Già il titolo d’invidus si dà durante la repubblica ai generali: si ricorda, per es., che in Africa il nome degli Scipioni passava — si noti bene — per Jelix et invi-cluni, ed erano chiamati invidi anche i generali nemici, tra essi lo stesso Annibaie. A Tiberio dopo l’impresa illirica alcuni vogliono attribuire il cognome di pius, altri di inviclus. Quando Plinio accenna all’esordio del regno di Traiano, alla Vittoria pannonica che Nerva consacrò a Giove nel momento dell’ adozione di lui, dice : « Adlata erat ex Pannonia laurea, id agentibus dis ut invidi imperataris exor-dium victoriae insigne decorarci ».
Ma vediamo quel che avviene dopo Commodo. Pescennio Nigro à nelle sue monete la rappresentazione di un trofeo con la leggenda Invida imperatori) tropae(um) che figura pur nelle monete di Settimio Severo. Ora chi rifletta agli avvenimenti guerreschi di cui è pieno l'impero dei Severi non potrà non connettere questi evidenti accenni alle vittorie imperiali con altre simili come vidor(ia) iusl(i) Augnasti) per Pescennio è Settimio stesso o per questo vietar. Sever. Aug. o alle varie , divinità (Minerva, Marte) salutate come vincitrici od invitte. Non si potrà perciò non collegare con esse l’uso dell’ appellativo di inviclus che per i Severi è così ampiamente esemplificato e di cui devesi a Commodo l’adattamento, come vedemmo, al nome imperiale, non senza larghi ed espliciti precedenti. Ecco perchè, quindi, lui e Caracalla son detti dopo la vittoria partica imp(eratores) invidi pii Aug(usii)
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nelle monete: e nelle iscrizioni, sopratulto militari, si noti, d(omini) n(ostri) invidi imp{eralores), e che lo stesso aggettivo felix quando non è usato solo o con pius si aggiunge dopo Parlhicus maximus semplicemente o nella formula «fortissimus felicissimus » o. in quella di «princeps felicissimus ».
Tutto ciò è avvalorato da una notevole leggenda e raffigurazione che appare nelle monete di Settimio Severo: l’imperatore a cavallo che abbatte un prigioniero con la leggenda Invida virlus, la quale è troppo evidente per noh essere conclusiva. Albino del resto aveva già coniato monete in cui la virlus imperiale era accompagnata dalla figura di Ercole.
4. Indubbiamente con Caradalla l'uso si va generalizzando: nelle iscrizioni militari non manca mai il pius invidus Aug. o invidus imp. Anloninus pius felix Aug. e si comincia ad avere la formula che per lungo tempo diverrà poi tipica di pius felix invidus Aug. mentre le monete abbondano delle allusioni alla felicità : « felicia tempora, felicitas saeculi, felicitatem italica m ». Geta d’ altra parte è indicato come Severi « invicti Aug(usti) pii fil(ius) ».
Interessante a questo proposito è la seguente inscrizione greca d'Egitto che comprova e dimostra più che mai come l’aggettivo invidus fosse riservato per le cose militari. In un’epigrafe scolpita per la vittoria dell' imperatore Marco Aurelio Severo Antonino felice pio Augusto e di Giulia Donna Augusta, questa è detta « mater invictorum castrorum [,v.7ìt,oò^ ¿vmJxztwv «rrpzroTreStóv». In un’altra della Siria essa figura pure col titolo più scolorito, dato agli accampamenti ed al senato, di sacri (cepwv), ma qual madre dell’imperatore Antonino pio, felice, invitto (àvstxìó[T](ou) ed è forse una delle prime iscrizioni greche in cui quest’aggettivo appare per gl’imperatori. \
5. Ormai non sarebbe più il caso di proseguire nella dimostrazione: tutt’al più si può aggiungere qualche schiarimento per coloro che volessero ancora delle conferme e delle spiegazioni su qualche uso eccezionale o apparentemente discordante. L’invidus sacerdos Aug(usius) per es. come è chiamato Elagabalo nelle sue monete non à indubbiamente che fare con Y invidus dei sovrani precedenti: egli è il sacerdos amplissimus dei invidi solis Elagabali e come tale può essere pure invidus: ciò non toglie però che anch’egli sia detto « invictus pius felix Aug(ustus)» altrove con l’accezione comune. Si può invece dubitare deli’invidus di Gallieno nelle monete in cui appare la raffigurazione del Sole, mentre nelle iscrizióni comunemente lo stesso aggettivo è accompagnato da pius e felix senza alcun dubbio in conformità alla tradizione. La quale poi riprende i suoi diritti anche nelle monete in cui abbiamo la lode della virlus Gallieni Augusti con la rappresentazione di Ercole, a cui alludono anche le raffigurazioni del leone e dell’aquila con le lettere S. P. Q. R. come quelle con virlus valeriana) e con, fra altri simboli, la pelle leonina e la clava. Con la quale e con il S. P. Q. R. oplimo principi si accenna evidentemente ad un ritorno all'antico, che par di vedere anche per Aureliano negli attributi : magnus Auguslus, princeps maximus, imp. fortissimus; simili a quello che più tardi si avrà nel maximus riconosciuto dal senato a Costantino.
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Non parlerò di Postumo di cui già ò detto sufficientemente: accenneremo piuttosto a Probo nelle cui monete e ne’ cui medaglioni l’uso, anzi l’abuso di invicius mal si può spiegare con le più contrarie correnti religiose che si manifestano in quest’epoca.
Indubbiamente accanto alle antiche raffigurazioni classiche si diffondono i simboli della religione solare che tende a dominare e accanto agli appellativi ormai stereotipati di p. J. invidus con le solite leggende (virlus Probi invidi Aug. o simili) si à la nuova iscrizione vidor ioso semper che prelude al vidor invece di invidus che prenderà posto tra breve nei monumenti : ubique vidor, ubique vidores, vidor omnium genlium e simili.
Ma la reazione tradizionale prevale con Diocleziano in questa incertezza di tendenze religiose della quale par sia simbolo la moneta di Carino in cui la virlus Augustor(um) è attribuita ad una raffigurazione dei sovrani che si stringono le destre, coronati da Ercole l’uno e da Apollo l’altro. Prevale ancora fors' anche con Costantino stesso che nel 312-3, dopo la vittoria, cioè, su Massenzio, fe’ coniare sulle medaglie: « In-victus Cqstantinus Max. Aug. »; prevale poi, come tutti ammettono, con Massenzio che offre appunto la miglior prova della vitalità e dell’energia della tradizione romana.
6. Un notevole appoggio a quest' interpretazione puramente tradizionale dei titoli imperiali di pius, jelix, invidus, ci viene offèrta dall’uso di denominare piae jelices, ma sopra tutto piae le legioni. Perchè fossero denominate così è facile capirlo. Vedemmo già il significato di jelix, ne deriva per conseguenza che per gli eserciti e per i soldati rimane quasi stereotipato l’aggettivo di jelix. Pia, d'altra parte, è detta una legione per la sua pietas erga principem ed erga palriam. Ora noi sappiamo con sufficiente certezza che tra il 42 ed il 100, circa, d. Cr., ricevettero il titolo di piae fideles le legioni: I adiutrix, I minervia. Il adiutrix, VI victrix. VII Claudia, X gemina, XI Claudia, XIII gemina e XXII primigenia e che già sotto Vespasiano e Traiano sono Jelices la IV Flavia e la VII gemina.
Ne consegue che l'aggettivo è già in uso in questo senso indubbiamente fin dalla prima metà del 1 secolo. Si deve quindi concludere che i titoli imperiali che ànno una così notevole corrispondenza coll’uso del linguaggio militare derivano anziché dai culti orientali dall’origine stessa della sovranità imperiale che è pura mente militare. L’imperatore è per naturai ordine di eose come le sue truppe pius, Jelix, invidus (per le legioni vidrix). e più tardi aelernus come già sotto Settimio Severo è tale la « legio II parthica », e come Roma stessa Jelix, invida, adorna.
HI.
Romanità di pretesi simboli e concezioni solari.
Se non che questa dimostrazione di una tesi per me indiscutibile non sarebbe completa se non rispondessimo alle facili obbiezioni che possono sollevare'i sostenitori della tesi contraria a proposito dell’uso e dell’abuso dei termini e dei simboli solari ne’ monumenti romani dell’impero specialmente dal ni secolo in poi.
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Ma a proposito del simbolismo che si nota specialmente nelle monete occorre fare un'avvertenza preliminare. I Romani furono maestri in quella primordiale forma di simbolismo che non è altro, se si riflette bene, se non la continuazione della primitiva ideografìa. Essi resero cioè con molta facilità figurativamente nomi personali e concetti astratti e per ciò adoperarono cose le quali più che avere una rappresentazione veramente simbolica avevano un semplice rapporto nominale tra loro. Basta ricordare quel che avveniva per le indicazioni dei cognomi delle genti sulle monete e sugli scudi dei guerrieri: un topo (mus) alludeva ai Mures, un fiore (flos) ai Fior, un toro (taurus) ai Torii e così via.
Similmèi.;e nell’uso dei cognomi e quindi dei concetti astratti. La raffigurazione della pietà alludeva a un pius, quella della felicità ad un felix, senza che perciò vi fosse un culto, come alcuni vollero, della pietà o della felicità e via dicendo nella gens. Così non è improbabile che una vera e propria determinazione per la raffigurazione del sole nelle monete, il quale dopo i tempi repubblicani non appare in esse sino ad Elio, Adriano e successori, sia determinata da una voluta corrispondenza tra il nome greco del sole e quello di Elio, che ebbe, si noti bene, tale nome da Adriano e non lo portò dalla nascita.
i. D’altra parte, come altri già osservò, sul culto solare non di rado si ànno idee erronee per 1’ eccessiva preponderanza che presero le più recenti conclusioni sul sincretismo solare negli studi d’antichità. Ora tra il culto solare classico e quello che chiameremo imperiale, per intenderci, qualunque siano le loro relazioni primordiali corre una differenza notevole di miti, di credenze, di teologie. Roma ebbe il culto del Sole fin dai tempi più antichi. A proposito della congiura pisoniana Tacito dice: « Tum dona et grates deis decernuntur, propriusque honos Soli, cui est velus aedes apud circum, in quo facinus parabatur, qui occulta coniu rationis numine retexisset ». È il Sole per il quale, come già dissi altra volta, giura Diocleziano dopo scoperta la congiura di Apro per rendersi padrone dell’impero: è quindi un culto classico che si perpetua attraverso i secoli e che offrì naturalmente largo appiglio al sincretismo orientale di tendenza solare, ma che ciononpertanto occorre tener presente per distinguerlo da questo nei momenti e nei periodi in cui non deve esser confuso.
Vi è inoltre un altro elemento di confusione nella terminologia e nel simbolismo solare, del quale non si tiene conto, ed è, come già accennammo, l’importanza che ebbero per i Romani le vittorie orientali. Non solo essi sentivano che realmente il pericolo maggiore per l’impero veniva da là, ma qualsiasi vittoria grazie alla distanza ed al tempo che impiegava l’annuncio di essa od il ritorno dei vincitori per giungere in Roma, acquistava un’aureola che rendeva tutto leggendario. Ne consegue una tendenza a rappresentare in modo tangibile questo reale trionfo e quest’imaginaria grandezza sopratutto con un generico simbolismo allusivo all’oriente, sic et simpliciter, e per conseguenza al Sole come incarnazione dell’oriente a cominciare da quello panteo che figura nelle monete di M. Antonio. Si aggiunga la sempre viva, la tradizionale tendenza romana a far propri gli dei dei vinti per
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averne il favore e scongiurarne l’ira, sicché il miracolo della Giunone di Veio è logicamente vicino al miracolo del Sole di Emesa e Camillo è da porre idealmente accanto ad Aureliano, ad onta dei sei secoli che corrono tra loro — e si avrà un altro elemento di cui tener conto nello studio del fenomeno religioso romano in relazione ai culti solari primitivo e più recente.
Perciò l’apparizione nelle monete imperiali del Sole che sorge, della testa radiata del Sole con la leggenda Oriens od Oriens Aug(usii) che già abbiamo con Traiano e che poi prosegue con Adriano e con gli Antonini non à affatto origini sincretistiche. Esso non è che la manifestazione grafica delle vittorie d’oriente: come Plinio dice di Pompeo, si può pur dire di Traiano oriens triumphis occi-densque lustratus. Qualunque vittoria orientale, prima magnificata dai poeti con il semplice accenno vago all’oriente: oriens noster eris (Ovidio); spoliis orientis onustum (Virgilio), si fissa poi nella prosa con la stessa indeterminatezza: Svetonio parla di un «regnum orientis» che si credeva vagheggiato da Tito, e Giustino prima di lui à chiamato Ciro vittorioso « universo oriente » e così via sino al tardo Rufo Festo che si propone di far la storia di « totum orientem ac positas sub vicino sole provincias », passando per il biografo di Aureliano che lo dice dopo la vittoria di Paimira toliusque iam orientis possessor.
Così dopo le vittorie orientali di Settimio Severo la testa del Sole appare sulle monete con la leggenda « pacator orbis » indiscutibilmente allusiva ad esse e non ad alcuna concezione religiosa. E lo stesso si dica per Caracalla.
Nè, per quanto nelle successive rappresentazioni si possa dubitare di una voluta o di un’inconscia assimilazione della divinità classica con quella orientale oppure di un simbolismo politico che voglia pur essere religioso, vi è ragione di respingere in moltissimi casi l’interpretazione puramente politica. Valeriano, sotto di cui pur la coscienza religiosa pubblica è già evoluta, naturalmente nelle classi sociali più elevate, in un senso che io chiamerei modernista, sebbene egli spieghi personalmente un’azione tradizionalista, fa evidentemente un’allusione politica c non religiosa nell’oriens Aug(ustorum duorum) delle monete, confermata da quelle che dànno rèsti lut(or) orientis. Sotto lo stesso Gallieno, di cui già dicemmo esser innegabile la tendenza religiosa sincretistica, sia pur politeistica, si à pure restitut(or) orientis. Persino con Aureliano l’indiscutibile simbolismo solare che è il risultato della sua rivoluzione religiosa, che pur non è da confondere con una pura e semplice adozione di culti stranieri, permette di vedere attraverso lo spiraglio delle monete con la leggenda restitutori) orientis la persistenza della rappresentazione politica accanto a quella religiosa.
2. Ma si è parlato di altre prove dell’infiltrazione lenta da prima e poi rapida, lieve prima e poi violenta del culto solare nel culto tradizionale di Roma. E si è citata la prova dell’uso di aeternus ed acternitas, di clarus e claritas, di sanctus e sanctitas. Anche qui, a mio modo di vedere, si è esagerato e non si è tenuto conto degli elementi prettamente romani di queste concezioni e de’ dati politici che le ànno motivate o provocate.
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Sostenere che il concetto di aeternitas — prescindiamo sempre dalle origini primordiali — sia sorto in Roma per virtù dei culti orientali è assolutamente erroneo. Esaminando qualunque lessico storico della lingua latina si vede l’uso della parola e lo svolgimento del concetto e se ne deduce che esso è connesso naturalmente con la divinità: già Accio alludendo a Giove diceva « in domum aeternam pa-tris ». Dall’uso ne’ rapporti con la divinità esso passò a quello ne’ rapporti umani e sopratutto, naturalmente, nelle istituzioni, nella vita degli stati, degl’imperi, della città e quindi di Roma, l.’aeternitas romani imperii, 1’ aetemitas rerum romana-rum, le aeternae opes romanas sono un luogo comune degli storici, Velleio, Livio, Tacito, per non citare che i più antichi e per non far uso di Cicerone cui si potrebbe imputare l’esagerazione retorica, sebbene nelle frasi stereotipate come quelle citate o simili sia da vedere un luogo comune di concezione popolare e non un’espressione individuale. Ed ecco già sotto Augusto e Tiberio nelle monete di Emerita la leggenda astenutati Augustas.- Ecco nel 32 d. C. un’iscrizione dire di Tiberio <’ nati ad aeternitatem romani nominis essa si riprodurrà poi nella formula seriore consueta « bono rei pubblicae natus » detto dell’imperatore. Negli atti degli Arvali del 66 si fanno voti per 1’« aeternitas imperi » e così più tardi negli atti dei ludi secolari. E mentre si costruiscono templi « aeternitati Romae et Augufsti] » si fanno fin dal primo secolo voti come dice Plinio « pro aeternitate imperii et pro salute principum, immo pro salute principum ac propter Utos pro aeternitate imperii ». Quindi con Vespasiano, con Tito, con Traiano si inizia anche nelle monete la raffigurazione de\V Aeternitas, dell’ Aeternitas Anglisti) e finalmente con Adriano quella della città, urbs Roma aeterna. Si estrinsecava per dir così in questa forma tutta la pertinace concezione romana che attraverso gli scrittori più antichi aveva augurato, aveva voluto per la città e per l’impero una immortalità comparabile solo a quella degli dei. Già per il 351 a. Cr. Livio — se la frase è sua e se è derivata dall’an-nalistica anteriore, la prova è ancora più convincente — aveva parlato di una « beatam urbem romanam et inviclam et aeternam » con un impiego di aggettivi che farebbe pensare ad Annoiano Marcellino anziché a lui. Noi vediamo quindi questa concezione e quest’uso di aeternus e di aeternitas sorgere e svolgersi al di fuori di qualunque influsso orientalistico recente.
La raffigurazione deW aeternitas tutt'al più potrebbe collegarsi con le credenze astrologiche divenute già da tempo dominio comune della religione e della pseudo scienza greco-romana: la figura femminile tenente nella destra e nella sinistra le teste del Sole e della Luna può esser quindi ritenuta mero simbolo, pura allusione all’eternità del mondo, dell’universo: « supra lunam sunt aeterna omnia » diceva già Cicerone e di tale sentenza e del capitolo stesso da cui è tratta sembra un'illustrazione grafica la luna tra i sette pianeti che è rappresentata in una moneta di Pescennio con la leggenda Aeternitas Aug(usti). Potrebbe essere questo in proporzioni minime il segno precursore del Settizonio di Settimio Severo che vedemmo già credente negli astrologi e per cui si pregava così: * Soli aeterno Lunae pro aeternitate imperii et salute imp. Caes. L. Septimi Severi ».
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U aelerniias poi delle monete di Pertinace come quella di altri imperatori e imperatrici sopratutto, non è altro che un’allusione tutta particolare agli omaggi resi loro dopo morte, poiché aelerniias in tal caso era sinonimo di vita futura, di dei mani e via dicendo, senza che a mio modo di vedere essa ricalcasse, come si vuole, le orme di simili concetti orientali; cui in effetto corrisponde senza derivarvi direttamente.
Con i Severi, come vedemmo or ora e più sopra, dicendo dei ludi secolari, si à nelle monete Aelerniias} imperii che con Caracalla trova un sinonimo nella Iuvenla{s} imperii, il ringiovanimento, il rinvigorimento dell’impero dovuto alla vittoria partìca (teg\'imp(er atores} invidi pii augiusti duo}.
Può esser dubbia la concezione aelernitalibus di Severo Alessandro, mentre è molto probabilmente sincretistica quella di Filippo che nelle monete rappresenta il Sole in piedi con la destra alzata e nella sinistra la sferza con la leggenda Aelerniias imperai), ma che à pur l’altra Aelerniias Aug(uslorum duorum} con l'elefante simboleggianté la diuturnità della vita per la sua longevità.
Se V Aelerniias Aug(ustorum duorum} delle monete di Valeriano faccia fare un passo innanzi alla concezione religiosa sincretistica, mediante la raffigurazione di una divinità barbata che pare possa identificarsi con Saturno, è dubbio: la presenza di questo dio più che tendere ad un sincretismo potrebbe spiegarsi con l’attitudine di riformatore dei culti tradizionali presa da Valeriano. Lo stesso dubbio può sorgere per le ragioni già note per Gallieno, mentre la tradizione romana pare riprender il suo corso con Tétrico, sulle cui monete la consueta leggenda accompagna un'effigie puramente simbolica, una figura femminile con il globo e la fenice leggendaria. E neppure V aelerniias di Tacito sembra aver nulla da vedere con l’oriente se la raffigurazione dell’imperatore che si volge a Saturno rappresentato come dio del tempo sembra voglia alludere >ad un puro simbolo temporale. Intanto da Pescennio a Macrino non è mancata, in relazione a questa persistente tradizione politica che fa dell’ aelerniias imperiale, come vedemmo in Plinio, un simbolo del-V aelerniias dello stato e della città sovrana, la monetazione con Romae aeternae: e l’energia con cui tale tradizione si è affermata costantemente noi la -vediamo nelle monete di Probo, ove V Aelerniias Aug(usli} oscilla per la rappresentazione tra il Sole in piedi e la lupa allattante i gemelli. Non si poteva meglio significare materialmente l’ancor vivo contrasto tra due concezioni che tentavano di sovrapporsi e di annullarsi per crearne una sola. Che se anche sì volesse interpretare la lupa come un simbolo allusivo alla presunta origine latina di Probo (cfr. Origini Aug(usli} con la lupa allattante i gemelli) non perciò verrebbe meno qualunque attribuzione di sincretismo solare alla maggior parte delle raffigurazioni e leggende monetarie allusive all’imperatore, in cui si vedeva l’eternità di Roma e del suo impero.
È evidente perciò che non per un adattamento della terminologia dei culti orientali e sopratutto di quelli siri l’aggettivo aelernus entra nel linguaggio ufficiale di Roma, bensì per un puro sentimento romano che vuol vedere nell’impe-
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ratore il simbolo tangibile dell'eternità dell’impero romano. Come dice Valerio Massimo, Cesare aveva infuso nell'impero di Roma un soffio di eternità «aeter-, num romano imperio spiritum ingeneraverat »: è naturale che questo soffio si perpetuasse pur senza immobilizzarsi in una fraseologia ufficiale se non nei tempi più tardi, com’è naturale che di esso approfittassero quanti, per le ragioni che vedemmo, tendevano a cogliere nella romanità gli elementi che potessero servire all’orienta-lizz azione della politica e della religione dell'impero.
Così fin da Vespasiano entra nel linguaggio, per dir così, di corte, sebbene non ancota in quello ufficiale, l'aggettivo aeternus per tutto ciò che è allusivo all'imperatore: la pax della sua domus è aelerna, come è aelerna la victoria di Adriano e di M. Aurelio e come sono aeternae la pietas, la memoria e via dicendo. Solo con Costantino questa terminologia sembra esser adottata pure nel linguaggio ufficiale, onde come il sovrano è pius felix aelernus Aug. o inviclus alque aelernus Aug. e via dicendo, sono aeternae tutte le cose che da lui emanano, il nome, le leggi, la córte e simili. Aveva, del resto, come dicemmo, sin dal tempo dei Severi, la II legione partica assunto le denominazione di pia, fidelis, aeterna.
3. Non meno erroneo, a mio modo di vedere, è quanto si sostiene a proposito della derivazione orientale della claritas Augusta 0 Augusti) che nelle monete appare per la prima volta con Postumo intorno alle due teste del Sole e della Luna. Premettiamo che 1 imperatore della Gallia non pare, sotto alcun aspetto, esser stato un seguace del culto solare anche il più ortodosso possibile: egli sembra piuttosto un restauratore della romanità in Gallia. Il suo biografo lo mette tra gli « adsertores romani nominis » e, come già dicemmo a suo luogo, tutti i pochi documenti che ci rimangono dell’opera sua non fanno che confermare ciò. Che con la claritas si alluda quindi ad un'identificazione solare dell'imperatore è poco probabile tanto più che vi è anche il capo della luna. Piuttosto come il Sole e la Luna splendono e mandano luce così Postumo, celebre per la sua belli scientia emana splendore: il biografo di lui e di Leliano diceva già: « virlule enim clari non nobi-litatis pondere vixerunt », ripetendo all'incirca quel che di Traiano aveva detto Plinio: •‘generis tui claritatem virtule superasti >; e noi sappiamo come le monete ci attestino quel che dicono le fonti letterarie, circa la sua virtus, onde non ci è assolutamente d’uopo di ricorrere al sincretismo solare neanche qui.
È più possibile che vi si debba ricorrere posteriormente, quando anche durante la 'restaurazione dioclezianea tra le forme più frequenti e più significanti del culto tradizionale si insinuava il nuovo sentimento religioso dell’epoca, a mala pena ufficialmente represso. Può darsi che la figura del Sole radiato circondata dalla leggenda claritas Aug(usti) alluda allo splendore imperiale identico a quello solare. Io non sarei alieno però dal vedervi un'allusione simbolica alla «claritas virtute non generis » degl'imperiali signori, per i quali gli storici si sforzano di dimostrare che nulla contano i natali, ma tutto le opere e le qualità. Più di Traiano e come Postumo e come tutti più 0 meno i recenti sovrani, Diocleziano e i suoi colleghi, Costantino e la sua famiglia, ad onta delle genealogie inventate o piegate
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ad usun delphini avevano bisogno che l’aristocrazia romana passasse loro per buono il principio che i retori, a loro malgrado, strombazzavano, senza convin zione, dell'inutilità degl'illustri natali.
4. Nè parmi sia da accettare per l’aggettivo sanctus e per la nozione della sanclitas, come si vuole, la tesi che essi vengono introdotti nella religione romana insieme con l’orientalismo religioso. A provare la irragioncvolezza d’una tale opinione basterebbe rendere noti i risultati cui è giunto il Link con la sua ricerca sull’uso pagano della parola sanctus (Kònisberg, 1910). Egli dimostra per l’appunto, senza necessità di ricorrere ad alcun culto orientale, senza ammettere alcuna infiltrazione straniera come il vocabolo sanctus dal significato giuridico di « determinato », « inviolabile », riferito ai luoghi abitati dagli spiriti ultraterreni passi a quello di « venerando » in modo da divenire il cognomen omnium deorum e non quindi, come si è voluto, delle sole divinità astrali, il che è un assurdo. Naturalmente ne consegue che come sono sa'nti gli dei, i mani, i sepolcri, i templi, sono pure sante le parti dei corpi divini, le parole, i simulacri e quindi che sono santi i re, i tribuni, gli ambasciatori e via dicendo. La sanclitas degl’ imperatori non è perciò collegata a nessuna nozione di purezza propria degli dei orientali, ma è loro attribuita giustamente, in primo luogo perchè essi sono investiti della tribunicia poteslas che li rende sacrosanti, come diceva Augusto; in secondo luogo perchè sono sacerdoti; in terzo luogo perchè è loro riconosciuta una natura divina. Così abbiamo sanctus princeps, dominus sanctus, sanctus Augustus, impe-rator sanctifsitnus, come del resto abbiamo sanctus senalus. L’usò comincia già con Augusto e prosegue non solo con Domiziano, ma con Vespasiano, Traiano e naturalmente con gli Antonini. Nel più volte citato panegirico di Plinio l’aggettivo ed il sostantivo ritornano spesso: Nerva per lui è sanctissimus senex. Nel in secolo esso si diffonde fino a divenir poi come sacer, aeternus, perpetuus, divinus, ecc., d’uso comune nella terminologia ufficiale dell'impero.
Questi, sommariamente, i risultati cui giunge il Link, e, come insistemmo sopra, senza che per ciò egli debba ricorrere a nessun influsso orientale per spiegare l’origine, l’uso e l’adattamento della parola sanctus e della nozione di sanclitas. Ag-giungiamo che dovè contribuire a dar valore più speciale all’aggettivo sanctus ne’ rapporti con l’imperatore il fatto della sua frequente identificazione con Ercole, il quale con Giove, Apollo, Minerva, è una delle divinità più spesso chiamate sante anche ne’ tempi più lontani dal facile contatto con i culti orientali, a cominciare da Mummio che così lo invoca.
Dobbiamo, dopo ciò, concludere che non vi è alcuna necessità di vedere nei pretesi simboli solari, nelle pretese terminologie orientali, ne’ pretesi esclusivi concetti di culto orientale, come eternità, santità, lustro, infiltrazioni o imposizioni di origine straniera in Roma. Ripetiamo, non si nega con ciò che di questi puri filoni di tradizionalismo religioso romano si siano successivamente valsi o i sovrani religiosamente rivoluzionari, o i filosofi, o i sacerdoti; non si nega con ciò che nelle
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108 lontanissime origini vi siano tra queste espressioni della religiosità occidentale e orientale punti di contatto e di comune derivazione; si nega che la religione e la politica di Roma siano state premute da una così possente spinta di religiosità orientale da adattarvisi non solo con una facilità supina che l’energia ■ della stirpe non fa neppur lontanamente supporre e che è del resto contrastata dalle manifestazioni sue negli altri campi dello spirito, ma benanche da non reagire neppure almeno con quella forza di assimilazione che fu il costante vanto della virtù latina.
Conclusione.
Come si vede l’indagine brevemente esposta ci à condotto a seguire il filone ortodosso della religione romana e ci à mostrato la notevole importanza da esso assunta nella storia dell’impero contro la tesi prevalente nella critica contemporanea. Che la nostra sia forse la giusta potrebbe provarlo anche un’ altra conside-derazione che chiudendo non è male proporre al lettore.
L’occidente è rimasto così profondamente pagano e politeista da non riuscire neppur dopo tanti secoli di dominio cristiano a trasformarsi. L’oriente è ancor oggi fanatico come lo era ne’ primi secoli dell’era volgare: l’occidente è ancor oggi sereno come lo era allora. Ortodossia, eterodossia, islamismo o giudaismo dominino in oriente, tutto è ivi violentemente e profondamente religioso: riforma o cattolicesimo dominino in occidente, tufto è quivi serenamente e politicamente religioso. Ciò non si spiega se non ammettendo la forte reazione romana ai culti stranieri, la violenta reazione latina alle imposizioni orientali, la salda energia politica che con la veste religiosa si oppose alla religione in veste politica. Sia.bene o male, non è qui il caso di indagare. È bene però proclamarlo e dimostrarlo.
Giovanni Costa.
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POSITIVISMO - FILOSOFIA PURA
RELIGIONE
Sommario. — Positivismo dottrina e positivismo volgare - L’opinione pubblica è positivista - E cosi la morale quotidiana - L’Io e il Mondo nella filosofia pura - Cat-tolicismo e conoscenza - Religiosità non cattolica e conoscenza - La filosofia pura insidia la religione - Necessità urgente d’uria battaglia.
A critica filosofica al positivismo che si viene svolgendo da qualche lustro s’è assunta un impegno al quale io non potrei dire siano sufficienti gli omeri che sinora vi si sono sobbarcati. Il positivismo, che pure ha trionfato durante l’epoca lavorata a fondo dal kantismo e daU'hegelismo e cioè da due filosofie essenzialmente teoretiche, da due dottrine della conoscenza, fatto quanto mai singolare, viene ormai considerato come l’errore del secolo xix. Errore elevato a potenza di dottrina; ma
errore inevitabile, errore necessario, errore di ogni minuto e di ogni giudizio, perchè noi agiamo nella prassi spicciola della vita come tanti positivisti spontanei. Auguste Comte, Herbert Spencer, Roberto Ardigò, Ippolito Taine, Gaetano Trezza innalzano a tesi un razionalismo fisiopsicologico delle cose che non sappiamo se fosse nel linguaggio di tutti prima di Buckle, di Bentham, di Condillac, di d’Holback, ma che certamente noi constatiamo nel linguaggio e nell’irresistibile interpretazione della realtà accettata, creduta, indiscussa del mondo che noi viviamo. Per una tale interpretazione il pazzo è un ammalato di cervello, il melanconico un ammalato di nervi, il mistico un degenerato o un esaltato, il pessimista un organismo che espia le tare ereditarie o il frutto di un ambiente che lo ha gravato oltre la sua capacità di resistenza; entro un letterato, c’è un temperamento, sotto una letteratura una razza, ogni pensiero di qualsivoglia contenuto manifesta uno stimolo, ogni stato d’animo
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HO
una condizione depressiva o esaltativa, e i vari casi, le varie nature, le diverse opere vengono definite quotidianamente come effetti di spinte normali o anormali, a seconda che rispondono o non rispondono al criterio della salute, della conservazione individuale e della specie. Se un innamorato è troppo innamorato, è il cervello che gli ha dato di volta; se un credente è troppo credente c resta oltre l'appello delle chiavi sacrestane prostrato nella preghiera dinanzi all'altare e altro non vuole che pratiche e agnus dei e acqua santa e santi spirituali esercizi, gli altri credenti gli attribuiranno il giudizio di maniaco e il parroco medesimo finirà per consigliarlo di curarsi la salute e gli proclamerà che Dio Padre ha messo un limite alle manifestazioni della pietà. Trovate il giudizio positivistico volgare nell’animosità del filosofo più spiritualista verso un suo simile, l'apprezzamento che trova la ragione dell'utile del proficuo, il movente dell’interesse — interesse materiale diretto fisico, interesse di sopravalutazione personale, di ambizione, di dominio, di ogni scala di predominio. Il mondo insomma era nel ragionamento sulle cose e sugli uomini, in un certo modo positivista prima e lo è e lo rimarrà fuori del positivismo dottrina.
II.
Il positivismo dottrina, di cui consiglio lo studio ora che ha cessato di essere una tesi nella’ mentalità che prevale presentemente, si impernia sulla certezza, alla quale le scienze naturali sin oggi hanno dato argomenti d’evidenza, che la vita manifesti nell’ istinto nell’intelligenza, nella coscienza, nella volontà — fasi evolutive secondo il suo linguaggio — le sue ricerche, i suoi tentativi di difesa. L’offesa medesima non risulterebbe secondo la logica positivistica che una forma di difesa e cioè di conservazione, una quasi anticipazione dettata dalla saggezza dell'esperienza sul difetto dei mezzi e degli atti difensivi. La mente per il positivista è, dunque, somma utile di ricordi che arriva sino a quell’associazione dei sopra e post-formati provvedimenti difensivi che meglio, prevenendo e costruendo in conseguenza, rendono capace l’individuo, mera ripetizione della specie, di sopravvivere. Dal girino che sforzandosi di tirarsi dall’acqua fangosa, la quale disseccandosi minaccia di scacciarlo, mette fuori due pinnette che agitandosi diventano branchie respiranti l'aria e quindi le zampetto che gli permettono di saltare sulla sponda e di cercare acque agevoli, alle mosche che sciamano per essere temute dai loro persecutori, all’orso polare il cui pelame s’infoltisce l'inverno, al leone che prende il colore del deserto e alla giraffa che prende la forma e l’aspetto di un tronco di palma per sfuggire ai cacciatori delle carovane, salendo — l’evoluzione positivistica è tutto un salire — all’uomo naturalmente indifeso che si veste di ferro o si chiude nell’automobile blindata e irta di artiglierie agili, l’offesa-difesa, la difesa, in una sola parola, è evidente. Una tale evidenza esteriore, morfologica deve spiegare le differenze, le graduazioni differenziali interne e cioè psichiche, le quali altro non possono essere che un parallelismo di sensazioni o avvertimenti e di associazioni d’idee centralizzate dal bisogno assoluto della difesa.
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» POSITIVISMO - FILOSOFIA PURA - RELIGIONE III
Insomma la vita spiega la vita, si spiega con sè stessa sino alle manifestazioni più tarde deirepifenomenia — la parola non è mia — psichica umana e sociale. Perchè anche la società viene ad essere, lungo il tracciato positivista, un'arma di difesa della conservazione vitale e l’economia, la morale, il diritto, la religione, l’estetica non potrebbero altrimenti essere spiegate che come organismi difensivi ritrovati nella differenziazione complicata del divenire delle convivenze.
Se la logica positivistica sia penetrata nella mentalità delle maggioranze, se essa risponda alle esigenze dei più, ce lo dice la condotta degli uomini politici i quali sono costretti ad agire secondo i^na esperienza positivistica degli uomini e delle faccende. Il magistrato ed il legislatore, anche se partano personalmente da una concezione spiritualistica, in pratica, nella redazione di un codice o nell’applicazione della pena, si conducono positivisticamente. Se la madre coiqpie il suo più grande crimine uccidendo la creatura delle sue viscere, le condizioni febbrili, lo stato neuropatologico stesso di un parto nascosto, l’esaltazione medesima prodotta dalla vergógna di una maternità che l’opinione pubblica e il diritto stimano « illegittima », costituiscono elementi che possono modificare e diminuire l’interpretazione e il rigore del rapportò periziale e della sentenza. L’abbandonarsi all’abuso dell’alcool crea disistima verso l’uòmo, ma se l’uomo commette reato in constatata condizione d’ubbriachezza, il reato medesimo può essere giudicato come compiuto in piena o semi-responsabilità. Lo stesso diritto di punire è un’etichétta che copre la necessità della difesa.sociale e il criterio modernissimo era già nella parola classica del giurista romano: « Nemo prudens punit quia peccatimi estt sed ne peccetur «.
III.
A che si riduce di fatto la pratica della vita morale?- Ad una ricerca delle giustificazioni. Il confessore le cerca tutte per assòlvere. Condizionata quanto si vuole, l’assoluzione può sempre venire e la scuola lombrosiana ha ottenuto la più sostanziale Vittoria facendo entrare nei codici il principio che ammette (’esistenza del delinquente cosiffattamente organizzato da non poter non compiere le azioni antisociali che compie (i). Per lui c’è il manicomio criminale. Il raziocinio positivista lo strappa alla sanzione infamante. Giuseppe Orano, mio Padre, è noto nel mondo criminológico per la sua tesi sulla recidiva. Mio Padre era spiritualista della più pura acqua, ma vedeva nell’individuo che ripete, anche dopo avere espiato condanne, il medesimo reato, la natura pervicace incorreggibile del delinquente. Fiera, vasta fu la polemica tra classicisti e positivisti del diritto penale attorno al suo libro non perituro sulla Recidiva nei reali. Mio Padre stesso concepiva la famiglia come 'l’anello indissolubile, assoluto, umano e divino, della società. Il più grande reato per la sua anima religiosa e moralissima era il parricidio. Eppure mio Padre ha, in altro suo lavoro, sostenuta la tesi che non si possa condannare il figlio
(i) Vedi il Lombroso nei miei Moderni (Treves) e • L’errore lombrosiano » nelle mie Discordie (Carabba).
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che uccide il padre o il padre che uccide il figlio che come un omicida ordinario, perchè la legge non ha mai la certezza della paternità fisica, della fisica figliolanza. È un criterio del tutto positivista questo che il padre o il figlio giuridico possano non esserlo fisicamente. Nella medesima concezione discriminativa del delitto politico c'è la transigenza positivistica con l’irresistibilità del pensiero-azione dottrinario, e chi si permetterebbe più di concepire l’anarchista militante, il sovversivo che arriva all’atto omicida come pili reo dell’omicida ordinario? Anzi vige in sua discolpa una tesi che dà agli avvocati argomento valido nel patrocinio difensivo.
M’indugio su questi fatti e su queste osservazioni per venire alla conclusione che la mentalità naturalistica del positivismo è penetrata nello spirito sociale del mondo. E non mi pare che il mondo se ne possa emancipare. Si direbbe che, moltiplicandosi gli uomini e complicandosi i loro rapporti, il giudizio delle azioni dei singoli tènda ad aderire alla realtà così da farsene semplicemente una constatazione e tutt’al più una calma sanatoria sin ove ciò è possibile. Andiamo verso un’èra nella quale i fatti finiranno per aver ragione semplicemente perchè accadono e così come accadono. Chi ha letto Bentham e prima di Bentham Bacone, avrà trovato la massiccia logica irresistibile socialmente del positivismo già formata e, se li ha letti, l’avrà trovata nei loro posteri Cattaneo e Romagnosi. Il naturalismo, l’utilitarismo, la filosofia civile — che pure hanno moventi di alta idealità umana — avviano la coscienza verso quella disposizione razionale, che, approfondendo l’osservazione dello svolgersi pratico e minuto dei fatti, trova nel concatenamento fatale della causa con l’effetto inevitabile, la ragione e quasi la morale del fatto medesimo. Le scienze naturali, la psicologia — che è il massimo risultato del positivismo —, la psicopatologia sono venute confortando un tale atteggiamento positivo, nè si può negare che l’economia l'abbia anch'essa aiutato, perchè l’analisi delle leggi del mercato, della produzione, del prezzo, del valore, della ricchezza hanno dato evidenza alla necessità della moralità non modificabile secondo la quale si conducono e chi fa lavorare e chi lavora e chi commercia e chi vende e chi compra. Il profitto è una forma di difesa come le pinnette del girino uscenti dallo sforzo per salvarsi dal fango che si dissecca e si stringe. La ricchezza potrebbe forse, secondo la logica positivistica, chiamarsi l’offesa nella lotta per il profitto, di cui l'umile prestazione d’opera è la difesa elementare.
IV.
La filosofia pura si ribella intransigente a siffatta sistemata dottrina delle cose e dei fenomeni accettati come sono e giustificati nel loro tangibile divenire. Ogni teorica della conoscenza, sia la più antica, parte dal riconoscimento di una dualità, l’io e il Mondo, e il vario modo di considerare la loro entità e il loro rapporto costituisce il variare delle conoscitive che dal platonismo — e più dal platonismo cristiano —, dal rinnovamento critico, distruttivo o purificatore, del Quattro-Cinquecento — compresa la Riforma luterano-calvinista —, da Kant, ha ricevuto le tre impronte differenziali, i tre motivi capitali del suo svolgimento.
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POSITIVISMO - FILOSOFIA PURA • RELIGIONE 113
Non c’è filosofia pura,* come non c’è mistica e concezione religiosa, senza dualità dell’io e del Mondo. Di più l’io della filosofia pura e della religione è principio diverso dalla natura, tanto che la natura sia considerata come l’esistente di fuori dall’io e che l’io constata e fa oggetto e spazio della sua attività, quanto che la natura o il Mondo' sia considerato come una forma necessaria, categorica dell’attività intellettiva e pratica dell’io medesimo. In filosofia pura ed in religione l’io non accetta di essere ridotto ad una fase dell’ evoluzione organico-politica della vita, rifiuta la classificazione, la storicità primitiva, l’animalità apsichica dell’origine. Per l’io, il Mondo comincia con la sua affermazione intelligente e, invece d’essere lo spirito che va segnalato e accompagnato dalla germinazione sensitiva sino al momento presente della introispezione, fenomeno divenuto di pari valore d’ogni altro, perchè tutti formanti la certezza monotona delle cause e degli effetti, è il Mondo come realtà o come apparizione, come evidenza o come proiezione dell’io medesimo, che va giudicato. Per la filosofia pura come per la religione, la natura o il mondo è tutt’al più una condizione ferrea a cui lo spirito in quanto intelletto e in quanto pratica deve sottostare. Le diverse filosofie pure e le diverse concezioni religiose traggono il germe del conflitto eterno dalla interpretazione che vogliono dare a questa condizione reale o formale a cui la vita dello spirito è sottomessa.
I positivisti, e sono sinceri, ed è una sincerità che costa poco, perchè l’acrisia e l’adialettismo della loro concezione garantiscono una soddisfazione che cresce con l’allargarsi dei risultati scientifici, non riescono a prendere sul serio l'intuizione pura nè l'affermazione dell'anima religiosa. Dicevo incominciando che insomma un buon libro garbato ma risoluto ad intelligenza dei positivisti, ove l’assurdo in termini della mente-psichica e della certezza scientifica venga spiegato, ci manca. Gl'intuizionisti, qualche eccezione fatta, scrivono in modo nient’affatto favorevole a far capire la gravità del loro punto di vista, ond’è che, pur essendo indubbio che il positivismo non appare più ad alcuno che ragioni una filosofia, la tradizione positivistica, convinta di portare la face del pensiero e la ragione delle cose, continua la sua marcia con la medesima prosopopea e la filosofia pura non disturba affatto la filosofia scientifica.
V.
La medesima noncuranza polemica è nei filosofi religiosi. Nel mondo degli studi cattolici è noto a tutti che da un trentennio in qua non si fa più cattivo viso alla scienza in genere, alle scienze naturali ed alle scienze sociali in ispecie. C’è orami, potremmo dire, un positivismo cattolico, come c'è un socialismo cattolico e oggi persino un nazionalismo cattolico. Ma i cattolici scrittori ed oratori che traggono tanto argomento di proclamato trionfo dalla crisi del darwinismo e dalla sminuita importanza dello spencerismo e delle dottrine affini, s’illudono che queste partite perdute significhino da parte degli scientifisti l’abdicazione all’orgoglio di sentirsi ed essere i soli capaci di risolvere il problema conoscitivo. La scienza può contare sempre sopra il successo delle così dette scoperte, sopra l’effetto che lo scopritore
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nuovo suscita nella maggioranza degli spiriti. Un Newton, un Laplace, un Lavoisier, un Volta, una Currie, un Marconi e in altri campi scientifici un dottor Dubois, quello del presunto pitecantropo eretto del terziario di Trinil, agiscono come veri e propri apostoli di verità anche interiore sui più. La soddisfazione scientifica pone il suo definitivo nell’indomani iperbolizzando l’acquisito dell’oggi. Da questo punto di vista si palesa la sua inconciliabilità con la filosofia pura e la coscienza religiosa, per le quali l’oggi, l’attimo visivo interiore nulla ha da chiedere a un di più. La scienza si fida nel di più e nel meglio a venire, difendendosi dalle obbiezioni con l’argomento del progresso affidato al ritrovamento dei mezzi, alla correzione dei calcoli, all’efficacia dell’espediente ipotesi traducibile in principio problematico prima, teorematico poi, assiomatico in fine. Per la scienza l’anima è continuo divenire, un aumento, è patrimonio sempre in formazione di conoscenze, è intelligenza, è ginnastica di indagini, di esperimenti, è bakoniana, è cartesiana, è bruniana — per la parte che Bruno ha consacrato alla polemica antiaristotelica in difesa del kopernicismo — Non importa che tutto non sia stato scoperto: si pensa e si dice: si scoprirà. Si scoprirà che cosa? Un più lungo processo morfologico della realtà creduto così come l’esperienza immediata la impone e la perpetua. Questo soddisfa il bisogno del come e il bisogno del perchè. Il perchè della media degli spiriti è forse altro che un come?
VI.
Nel mondo religioso non cattolico la scienza riscuote un omaggio ancor più dichiarato. Ed è logico: Scienza è libero esame, e nessun limite può venir posto al progredire della ricerca franca da restrizioni. Il senso religioso della Riforma è un’armonia razionalistica che mira a sostituire alla compagine del dogma enunciatore di misteri una interpretazione intelligente la cui forma deriva unicamente dai riconoscimenti positivi della realtà. Il criterio della realtà non muta con la riforma luterano-calvinistica. Essa esiste obbiettiva, come materia, come mondo, come fuori di noi. La dualità: .materia e spirito, è intatta; solo lo spirito diventa più padrone della materia, s’innalza al diritto ed all’ autorità di gestore delle conoscenze che la illuminano. Non c’è ancora il dubbio della sincerità con cui l’io conosce, e quando il dubbio pare intervenga col « De Augmentis scientiarum », col « Novum organon », col « Discours de la méthode », col « Dialogo dèi massimi sistemi », col « Saggiatore » e prima ancora nell’opera di Bruno, è il dubbio dell’intelligenza, non quello dell’anima. Kant stesso non è che l’estremo requisitore degl'istrumenti della conoscenza, ma per lui non è posto ancora il principio d’un’anima che esista ed operi indipendentemente dall’intelligenza e cioè dal problema dell’obbiettivo o dell'esterno, l’anima extra scientifica, l’anima indifferente al conoscere, l’atto perenne di cui tutt’al più il conoscere non è che un atteggiamento, un partito preso, una forma, una creazione, un episodio.
La Riforma ha indubbiamente incitato la scienza a farsi parte per sè stessa e la filosofia pura a rinchiudersi nell’infinito del suo impero. Ma, siccome la scienza sfibra il Cristinesimo e riduce il mito a cronaca e fruga nelle solennità delle visioni
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trasfiguratrici il meccanismo delle superstizioni, perchè per lei non è vero che quello che umilmente ripete il concatenarsi cosmologico delle cause e degli effetti e niente di creativo ha l’universo, ma siccome per la scienza, dal momento che tutto non è miracolo in ogni ora, in ogni lembo dello spazio, l’Uno non può esserlo c la realtà non può mai aver dato l’eccezione tragica centrale; la scienza agguagliatrice ed implacabilmente riduttrice delle forme a sforzo, dello sforzo a bisogno, del bisogno a circolazione, la scienza che decapita l’anima di assoluto e la vita di significazione missionaria, la scienza, dico, è sempre la medesima nemica della *eligione,anche di quella che dalla ragione ha voluto trarre nuovi e più sicuri argome li per la fede.
L’anima religiosa libera e cioè attrice della propria visione, quella he non prende se non da sè l’impeto e l’ardore della certezza — la mia « Rinascita dell’anima « è tutta intesa a dimostrare che la scienza può dare la verità alla mente provvisoria che pone il subiettivo e l’obbiettivo come due esistenze, ma non la « certezza » -è ormai all’estremo limite di un rinvio. L’anima religiosa deve dare battaglia alla filosofìa pura, perchè la filosofìa pura è entrata nel cuore medesimo dell’intuizione mistica, dell’atto-fede e le formule a mezzo delle quali ella enuncia col suo sottile scetticismo paziente e laborioso refimera sublimità del reale, transigendo con un’identità tra l’io e il Non-io, sono entrate, si sono radicate nel linguaggio filosofico usuale e non si vede, non s'intende più che traverso ad esse. Sono le formule di « Appearance and Reality » di Francis-Herbert Bradley, quelle che dicono accadere alla religione quello che accade alla filosofia, essere la religione costretta ad esprimere il supremo con rappresentazioni prese in prestito all’esperienza, non tentando neppure la religione di fare, come invece fa la filosofia, uno studio esatto dell’essenza e del valore di tali rappresentazioni. Da un tal punto di vista afferma, il Bradley, in quanto conoscenza, la filosofia è situata « più in alto » della religione e solo la religione occupa un posto elevato considerata come lo sforzo tèndente a far ammettere la realtà del -bene da ogni lato dell'essere nostro — thè aitempt to express thè complete reality of goodness through every aspeci of our being.
VII.
Si pensi che la filosofia pura s'è accampata sul terreno della conoscitiva e che una teorica della conoscenza non può smezzarsi in due interpretazioni, l’una intellettualistica,! 'altra religiosa. Ricadrebbe nell’eclettismo e non farebbe un onore, nè renderebbe un servigio al bisogno di assoluto della religione. Che cosa sarebbe, in ultima analisi, lo « sforzo totale del bene » che Bradley trova nella religione? Il bene non è un modo del conoscere, non è anzi il più evidente conoscere secondo gl’intuizionisti per i quali realtà è azione — concetto vichiano sostanziale quanto e più degli altri — e l’attività è lo spirito medesimo? Una religiosità che ha accettato il più franco contatto con la ragione ed ha preso in mano gli strumenti dell'indagine interiore, rischia di ridurre il suo contenuto ad una sostanza prammati-stica, ad un qualchecosa di accettato tra le forme indispendabili proiettato dall’io. E la fede? E la certezza della fede? Dio non potrebbe risultare altro, per questo modus vivendi, con la filosofia pura ogni' giorno più persuasiva, che l'espediente sia pure
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inevitabile, un insieme di kantiano-jam,esiano-eukeniano, e resterebbe un problema per il medesimo spirito religioso, non si sa con quanto vantaggio per la certezza della fede.
Posso errare, ma mi sembra che l’erosione che si viene operando dalla filosofia pura alle radici medesime della fede, sia ben più pericolosa che non quella che poteva esser prodotta dal positivismo. Esser considerati come superstiziosi o sentimentali o illusi o maniaci, è minor dànno che sentir penetrare nell’essere individuale colmo dell’obbiettivo-Dio, ma capace di introispezione, l’analisi del rapporto che passa tra lo spirito-intuizione e il mondo intuito, il reale, l’esistente fuori dello spirito. Siamo alla constatazione dell’attività intuitiva che produce i rapporti dell’io medesimo. Quale di questi rapporti le può, le deve sfuggire? Quello sentimento religioso? E perchè? L’assoluto di cui tanto parla l’intuizionista Bergson non può bastare ad una dottrina religiosa della conoscenza religiosa. Non possono bastare il meccanismo cinematogiafìco dell’intelletto, la funzione attiva dell'intelligenza, la genesi correlativa dell’intelligenza e della materia. Se Dio è per l’anima religiosa la diretta constatazione da cui la fede prende l’argomento supremo e se per l’anima religiosa ogni pensiero deve avere cominciamento di là, la definizione di Bergson non fa al caso: « Philsopher consiste à invertir la direction habituelle du travail de la pensée ».
È vero che il Bergson, preoccupato dalle conseguenze logiche — per fortuna l’intuizionismo non è una logica — rifà in piccolo il gesto kantiano che rese comunque possibile una ragione pratica dopo la ragion pura, e afferma che « le moi est infallible dans ces constatations immédiates » e conclude che « les données de notre conscience, en ce qui la concerne elle-même, ont une valeur absolue ». Ma il pericolo di questi aforismi friabili e di questi accomodamenti eleganti e sofistici, fiori strappati ai più lussureggianti giardini postkantiani, lo si misura al valore di una sola domanda: Dio è una constatazione immediata? Da una constatazione immediata balza il divino? E la fede come sentimento, come ardore, come dedizione, come assoluto, preghiera, abbandono, adorazione antecedente al razionale, può valere senza la constatazione immediata? Siano neo-idealisti di derivazione hegeliana, siano pragmatisti, siano intuizionisti, siano filosofi puri in via di costruire la loro dottrina conoscitiva, tutti sono entrati arditamente nella misura dell’attività spirituale. Hanno rifiutato i risultati psicologici del positivismo — sebbene qua e là s’incontrino filosofi che loro malgrado psicologizzano —, ma stanno prendendo linee e colori all’atteggiamento dell’anima religiosa, al credere, al voler credere, all’attività credente. La religione serve alla filosofia pura di riserva ricca e varia. Sin qui è la religione che ha dato, è la certezza mistica, e la fede in Dio, è l’evidenza del divino che si sono prodigate o hanno lasciato saccheggiarsi. Se n’è rafforzato l’alfabeto filosofico, se n’è nu-drita la nuova visione; masi potrebbe dire altrettanto che da questo avvantaggiarsi a sue spese dell’intellettualismo nuovo o della concezione attivistica Così benevola per la mistica, in quanto apparizione intuitiva, la religione abbia tratto beneficio?
Vili.
Bisogna dunque affrontare la battaglia con la filosofia pura. Il terreno in cui la nuova teorica della conoscenza s’è insediata irraggiando gloria di innovazioni — e solo i posteri potranno dire quanto consistenti e infuturatoli — è cosi delimitato
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che il guerriero dovrà con la forza delle sue armi e la certezza ardimentosa del cuore larvisi prima uno spazio per affrontare le difese abilissime e la perizia degli avversari. È venuto il momento e di far valere a rigor di linguaggio filosofico l’assoluto-religioso contro le condiscendenze e le transazioni dei filosofi puri che sono filosofi e sopratutto filosofi prima di essere credenti, mistici, religiosi — quale di essi lo è veramente e quanto lontano daH’incomodità, dall’inquietezza, dalla tragicità della fede non li porta la calma prosa comoda del loro argomentare! — ; è venuto il momento di riprendere alla filosofia il terreno dominato dalla sua conquista degli ultimi decenni.
La religione ha bisogno di una sua fisolofia. Filosofia che non potrà fidarsi di soccorsi scientifici, perchè così facendo rischia di cadere in uno psicologismo di cui il neocattolicismo espierà l’uso e l'abuso tra non molto tempo, essendo corso un po’ troppo; filosofia che dovrà guardarsi delle interpretazioni di comodo, filosofia per la quale non possono valere nè ipotesi, nè similitudini, nè approssimazióni, nè posti di favore e neanche'biglietti d’invito nel teatro dell’analisi. La religione può essa rioccupare il dominio perduto. In fondo ciò di cui l’anima umana ha sete non è più una critica — e i successi della filosofia pura lo provano come non aveva bisogno della verità d’un reale accettato senza critica — e l’insuccesso del positivismo come sintesi ce lo ha documentato. L’anima ha bisogno di sicurezza, di orientamento, ha bisogno di credere che il mondo è la sua battaglia e il bene è l’assoluto. Solo la certezza religiosa può ristabilire nel pensiero l’evidenza della realtà, zolla e radice di ogni giustizia, caposaldo di ogni ingenuo entusiasmo operativo, ’di ogni severa meditazione critica. Dalla filosofìa pura non potrà mai più venire alcun riconoscimento reciso, alcun atto di quella volontà primigenia inattaccabile dal dubbio che è la fede. La filosofia è ormai tutta un seducente sofismo, un elegante cinico giuoco sulla sacra sostanza dell’essere. Noi ci troviamo tra le due sintesi religiose, quella che servì ai trionfi di una chiesa storica in cui il prestigio sociale si è sostituito allo spirito individuale e che sopravvive come una esigenza di tradizione, manomorta del patrimonio acquisito nei secoli ; l’altra che è quella che deve balzare dal genio della fede. Ed è-la piu autentica prova di rinascenza che la coscienza italiana, possa dare al mondo, ma soprattutto a sè stessa.
Paolo Orano.
dalla Francia, primi del giugno 1910.
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RI., utili
SENSI E PENSIERI RELIGIOSI
NELLA POESIA DI ARTURO GRAF
(CoodauÀ4K>a< e fine. Vedi Bilycinii, Ottobre <914, pa*. >39).
anno stesso che vide uscire Morgana vide anche il riscatto, 0 memorie d’un redivivo, racconto psicologico in forma autobiografica, che chi non voglia giudicare delle forme letterarie e di tutta l’opera d’uno scrittore coi soliti criteri, considera volume poetico da non potersi separare dagli altri soltanto perchè scritto in prosa: volume dei resto assai importante, e per se stesso e per la chiara parola intorno al modo con cui il Graf mo stra, in certo momento, d’aver inteso la vita. Ho detto romanzo
psicologico, in forma autobiografica, e posso soggiungere, correggendomi: autobio
grafia psicologica quasi sempre; chè l’anima d’Aurelio Agolanti, il protagonista, se non i suoi casi, è l’anima dell’autore. Ma poiché i casi significano più facilmente e direi poeticamente la vita o storia d’un’anima, eccone con rapido cenno la traccia.
Il conte Alberto Ranieri e l’Agolanti sono due amici, così fraternamente congiunti, che, combattute le battaglie patrie, decidono di farsi una famiglia e di vivere insieme. Dopo un anno però di comune felicità, quando è già nato un bambino, all’Agolanti muore la moglie, amatissima. Il dolore immenso sveglia in lui a poco a poco un male ereditario, l’idea del suicidio, da cui crede di dover salvare il figlio; perciò lo consegna all’amico, che lo terrà come proprio e non gli svelerà mai la vera nascita. Aurelio cresce forte, giocondo, credendo il conte e la contessa suoi genitori, i loro figli suoi fratelli e sorelle; ma un giorno s’accorge d'esser fisicamente diverso da loro, nota anche evidenti diversità morali: il dubbio gli penetra nella mente, e non lo lascia più, finché, pervenuto agli studi universitari, riesce a scoprire la nascosta verità: non solo suo padre fu suicida, ma dal Cinquecento in poi. con intermittenza d’una generazione, quasi tutti, donne e uomini, dei suoi ante-ati, finirono suicidi. Che sarà di lui? La sua vita ora è offuscata: egli si crede, è vero, immune dal male, ma un momento però pare che questo voglia vincere anche lui. Viaggia allora come un forsennato, prima che giunga il suo fatale autunno; ma, fin dalla primavera, va ad attenderlo in una villa sul Lago Maggiore. Accanto, solitaria come lui, vive con una vecchia parente una giovane americana, bellissima, orfana d'ambedue i genitori. I due finiscono col conoscersi ed amarsi; ma Aurelio, vinto un giorno dal terribile male, preferisce al sacrificio di Viviana e dei
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SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA DI ARTURO GRAF
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figli futuri, la fuga. La fanciulla però, figlia d’una gente forte, che non sa di contrasti invincibili, oltreché dalla passione, mossa dal proposito di salvare l’amato, lo segue, lo cerca e... lo trova a Venezia.
Assai belle sono le pagine dell’incontro: egli l'attendeva,, ella afferma che l’avrebbe cercato finché le fosse rimasto un soffio di vita, « perchè nulla è nel mondo più forte che l’amore», dice l’autore. E l'amore ha completo trionfo su Aurelio, riscattandolo: sposatosi a Viviana, ha in pochi anni un figlio e una figlia, somiglianti alla madre, quindi tolti al destino degli Agolanti. Formata una sola delle due ville di Baveno, fattovi sorgere un tempietto con un’ara che reca scolpito il motto • Nulla è nel mondo » ecc., Aurelio si dice rinnovellato dall'amore, quindi tornato agli studi, quindi fidente ancora nella vita.
Dolce, idilliaca famiglia, forse... troppo felice! può esclamare qualcuno, chiedendo : — E se Viviana o i figli venissero meno? Se venisse a mancare « l’amore ». qual cosa legherebbe più Aurelio alla terra? Ma per il Graf « amore » vuol dire ben più di quel che sembri qui.
Per la storia dell’anima del poeta (Aurelio, giova ripetere, è lui) va in ogni modo notato, che egli afferma qui unica causa di salvezza e di felicità quello, che fin dai primi versi appariva solo conforto in mezzo al meduseo tenebrore dell’universo, ed è poi stato altrove il resuscitatore, la gioia più cara della vita. Alla stessa conclusione si viene con alcuni « poemetti drammatici » : La dannazione di Don Giovanni, I naviganti, Il laberinto, che è del settembre 1903, L‘ Anacoreta.
Il primo ci presenta il noto eroe amoroso all’inferno, dove con lui sono tutte le sue tradite che gli perdonano e rimpiangono il bene perduto; nè egli si lagna di essere ancor vivo, destinato a starvi eternamente:
Dove voi siete.
Ne attesto il eiel, non può essere inferno,
dice alle donne, aggiungendo anzi, mentre le ombre care Io seguono fra lo stupore di Minosse e dei demoni:
Qual’è tra i fiori il più leggiadro fiore?
O donna tu.
Qual’è nel mondo la maggior virtù?
Madiè, l'amore!
Con I naviganti, nella nave che va va, piena di uomini e donne d'ogni età. nessuno sapendo nulla nè del passato nè dell’avvenire, è simboleggiato il nostro fatale e, per molti, ignoto errare; c in esso soltanto un giovane e una fanciulla, inclinata Tuna sulla spalla dell’altro, mentre cala la notte, danno immagine d’una certa quiete, sognando amore; come le ultime parole dei vecchi vetusti sono anelito al sogno, sospiro nel ricordo d’amore (1).
• ■ —■■■'■ —- %
(1) « Questo piccolo bastimento che è il mondo, con questa sua chiassosa ciurma che è l'umanità, vanente come un bioccolo di nube nell’immensità dell’azzurro... Come mi stringe questo pensiero che innalza e annichilisce! Che è la fama? Che èia vita? ». Così in una lettera il Càrlyle; non pare che la concezione del poeta abbia preso le mosse da queste domande?
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Nel Laberinto, che non è, si capisce, se non il mondo, dove si muovono ciecamente giovani e vecchi, saggi e pazzi, dotti e ignoranti., quanti insomma siano quaggiù, l’ultima scena si svolge fra il « giovine pensieroso » e la fanciulla; i quali tentano un varco (quello della felicità?), donde non dovrebbe mai passare nessuno.
Con fede! . afferma egli tentandolo, — con speranza! — soggiunge ella; Con amore! cantano tutti c due avviandosi al passo vietato.
Con L'Anacoreta (siamo nella Tebaide del ni sec. d. C.), due amici della giovinezza, divisi poi dall’odio, perchè uno rapì la donna amata all’altro si ritrovano più che sessantenni : disdegno della vita dopo il tradimento subito, brama di perdono dopo la morte della rapita, hanno condotto l’uno e l’altro, Arsenio ed Elpidio, alla solitudine, all’amore divino del Cristo, cui si volgono di nuovo, fratelli, per essere ambedue perdonati e invocare perdono anche a favore della rea scomparsa : essa li divise, ma ecco che ora li riunisce in Colui che è amore, pietà, misericordia. (L’Anacoreta comparve nella Nuova Antologia del 16 marzo 1913). « Nulla al mondo é più forte che l’amore».
Ma quale? Quello che appaga solamente due cuori? o quello che. partendo dall’àmbito di essi, si allarga ai fratelli di tutto il mondo?
Vedremo: ora conviene fermarsi ancora sul romanzo e un po’ più specialmente sugli altri sei « poemi o poemetti drammatici », che coi tre primi ricordati (compres«» II riposo dei dannati opportunamente tolto da Morgana) hanno formato un altro volume Treves (1).
Il riscatto fa pensare’a quella «storia di un’anima», che il Leopardi avrebbe voluto scrivere chi sa come, e che non sarà forse mai scritta quale egli avrebbe saputo, per quanto più d’uno l’abbia tentata-, e sia anche riuscito a darcene la parvenza; mi sembra invece lontano, molto lontano dal notissimo romanzeggiare del Bourget, il cosiddetto creatore del romanzo psicologico (egli più spesso, anziché romanziere, appare psicologo e dialettico un po’ paradossale); e non saprei a quale opera di scrittore nostro avvicinarla, a meno che non dovessi ricorrere all’analisi e al sentimento di due episodi manzoniani, fatti di proporzioni maggiori: quello della Monaca e quello ùe\V Innominato. Ha il Graf avuto presente e risentito del modello, da lui ammirato, studiato e fatto meglio palese all’ammirazione altrui? A me pare, per il procedimento, per il modo di raffigurare persone e cose, per l’intimo spirito religioso che vi domina, per la nobiltà del fine, per un senso davvero classico della misura. S’intende bene che, data la diversa materia, la diversa anima degli scrittori, un certo avvicinamento si deve intendere con discrezione. Certo la gioia che noi proviamo, seguendo la prima volta ¡ casi di Renzo e Lucia, quando li
(1) L’elegante libro, in-8° grande, di carta a mano, con disegni e incisioni a due colori (fratello in questo a certi del D’Annunzio), ha sulla copertina e nel frontespizio una figurazione, che doveva, se non isbaglio, essere del Le Danaidi, edito dal Loescher di Torino; perchè Danaidi sono certo le donne figuranti sulla copertina-e dentro, per dirla col Graf.
Pallide, disperate, taciturne, che versano dalle urne nel doglio fatale • la fredda onda lucente •: nel doglio di dove l’onda (ugge, e che ne è sempre fraudolentemente vuoto.
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sappiamo finalmente salvati dalla prepotenza, liberi di sè. proviamo, credo, al sapere salvo Aurelio Agolanti, e non solo salvo, ma felice nell'amore.
In questa felicità, che alimenta le pagine più liriche del romanzo, nella calda nota che predomina nella seconda parte amorosa, è certo una chiara differenza dall’opera dèi Manzoni; che a proposito dell'amore nelle opere d’arte, pensò come pensò, nella qual cosa noi, pur ammirandolo, possiamo però scorgere la ragione di certa freddezza, che infine non è se non rappresentazione di sole certe parti della vita, non di tutta la vita. Chiarissima differenza è poi nell’uso dei mezzi d’espressione: per certe pagine siamo come condotti alle Prose .morali del Leopardi, per altre invece al Graf lirico, di cui anche qui si hanno i già più volte accennati pregi e difetti.
Quanto ai sei restanti poemi, dirò che il primo. La tentazione di Gesù (il poli-metro è stato udito anche sulle scene, per la musica, di cui ha voluto accompagnarlo-o vestirlo Carlo Cordara), che ci riporta come a una « sacra rappresentazione -medioevale, Satana tentando il Redentore invano, canta il trionfo del bene e dell’amore dei più. Il secondo, La resurrezione di Làzzaro, ci fa conoscere un Lazzaro nuovo, cioè pessimista. Svegliato, egli quasi si rammarica d'esser tolto alla pace della tomba, e vorrebbe tornarvi per non soffrire più i dolori della vita; sennonché Gesù lo ammonisce, domandando: — Sei tu solo? è solo il tuo dolore? — E lo esorta all'opera che avvalora, al travaglio che affina. Anche questo poemetto è polimetrico, con efficace inserzione di versetti, che ìie ricordano alcuni dell’ innografia cristiana.
In AUollite portas la concezione è più originale, benché ci porti in qualche modo a una scena dantesca: Gesù sta dinanzi alla porta d’inferno, che è chiusa, e chiede di entrare: dentro i demoni domandano chi sia. « La bellezza, la bontà, la verità, la vita », vien egli via via rispondendo, ma invano; la porta s’apre solamente quando, toccatala con una verga, Colui che fti raffigurato nel mansueto agnello, grida: « Io son la forza ». Si deve resistere al male, anziché fare il contrario, come volle insegnare una dottrina detta tolstoiana? Il poeta pensa che bisogna vincerlo: siamo d’accordo con lui. Similmente originale, è Una sosta dell’ebreo errante. Il misero errabondo è capitato nello studio di Faust: questi vuole la vita, brama la conoscenza del mondo, quegli tutto il contrario. Oh com’è stanco di vivere, d’errare e soffrire! La conclusione sarebbe pessimistica; ma l’errante misero non è tale, secondo la tradizione, perchè ha peccato? Ed egli qui confessa la sua colpa; ed è perciò sulla via della redenzione. Il narratore pentito conclude, narrando rincontro con l’innocente sotto il peso della croce:
Ei fece l'atto
D'appoggiarsi al mio stipite: ma pronto lo lo respinsi, e gli gridai sul viso: Nazzareno, cammina! Eresse il capo Coronato di spine, e in me quei santi Occhi figgendo: Io poserò, rispose; Ma tu camminerai fin ch’io non torni.
Chi pecca deve dunque scontare, se non in eterno (qui si ha un pensiero teologico nuovo), almeno finché non venga il perdono. E nuovo, audacissimo pensiero
ìi —-ii n r*
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teologico, in base all’amore eterno, generatore del tutto, si ha in una delle ultime voci del Graf: « il poemetto drammatico » in due parti. La morte di Faust - L’assunzione di Mefistojele (NuovaAntologia, 6 gennaio 1913: il poeta ci fu rapito alla fine di maggio).
Mefìstofele ritorna a Fausto, mestamente invecchiato, non per l’osservanza <lel patto, ma per offrire un’altra giovinezza : il vegliardo rifiuta. — Addio --dice Fausto. — Non ci vedremo più ? — chiede Mefìstofele. — Sì, ci rivedremo ancora... e per sempre... — Per sempre dove? — Fratello! (si noti la parola!) Liberi siamo, e tutte son del mondo Le barriere abbattute... —• Un «coro di voci spirituali » chiude :
Virtù pari e conserte,
Nell'opra amor si svela. L'opra al suo fine anela E in amor si converte.
Similmente un « coro di voci angeliche » (il mondo è finito, Mefìstofele, che ha pur amato, sentendo pietà ed essendo spirito, è assunto nel regno di Dio, libero però d’uscirne) canta alla fine dell’originale concezione:
Nel gnrgite vasto Dell’unica essenza Si quota il contrasto. Disvien la parvenza. Incolume e mondo, . Chi visse rivive
Nel mar senza rive. Nel mar senza fondo.
La breve scena del poemetto La statua velata, che ricorda un canto dello Schiller, si svolge fra un temerario e un sacerdote: l’uno vorrebbe vedere le fattezze della Dea, l’altro si oppone con viete considerazioni e minacce di castigo. —Come ha osato entrare nel tempio? Come vuol vedere, se neppure lui, sacerdote, si sente capace di tanto? — Egli nel tempio (risponde il temerario) non è più straniero di lui, che ha coperto il vivifico aspetto della Dea « Di vane pompe e di bugiardi veli », contendendolo agl’imploranti adoratori. Egli non ha mai ritorto i passi davanti a cosa che gli sorgesse contro, e quand’anche cadesse fulminato, a suo dispetto, tenterà. Al cadere del velo, il sacerdote resta come esterrefatto, la fronte al suolo, le mani al vólto; il temerario invece col viso levato, con le braccia tese, sta in atteggiamento d’estatica ammirazione, e canta: — Viva sembianza, incorruttibile forma, esempio-alla natura, modello alla bellezza, che luce emana da te? Cóm’è sereno il tuo vólto! Come pieno di grazia e di clemenza il tuo sorriso! Perchè gli abbietti, i perfidi, gli stolti narrano di te grandi menzogne? Nel mio petto scende una nuova letizia, l’intelletto s’inalza col cuore, vien meno il dolore, son vinte le torbide voglie, mi risorgono dentro la forza e la salute.
Oh cara Dea! tu fammi della tua grazia degno.
Or che la sacra imagine Senza velami io scorno Ora beato e supplice. Al tuo piè mi prosterno.
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SENSI E PENSIERI RELIGIOSI NELLA POESIA DI ARTURO GRAF I2J
Chi simboleggia la Dea? Il mistero dell’essere, che, conosciuto, è bellezza? Il vero, che abietti, perfidi e stolti nascondono, perchè essi stessi non sanno e non osano tentarlo? Sia l’uno o l’altro, l’anima del poeta (chè nel temerario pensiamo si deve vedere lui) è finalmente placata, anzi beata e supplice, dinanzi alla svelata deità; la quale è insieme verità e bellezza. Nell’essenza concettuale e morale dunque i a poemetti drammatici » non sono se non sentimenti e pensieri, che, altrove, liricamente, e nel volume omonimo abbiamo in più sensibile forma rappresentativa.
Le rime della selva, canzoniere minimo, semitragico e quasi postumo, s’intitolò bizzarramente un volume Treves del 1906, diviso in due libri. Perchè « minimo >? forse per i metri delle sue novantacinque liriche: tutte in quartine di ottonari, di settenari; a quasi postumo » perchè d'un uomo che afferma finita la sua favola; semitragico » perchè con nessun volume precedente il poeta ha voluto più chiaramente rilevare quell'intimo dissidio, che è la storia dell’anima e della mente sua, come di più d'un contemporaneo: la visione del bello e dell'orrido nelle cose, l’esperienza del dolce e dell’amaro nella vita, la brama e la sazietà di certi godimenti, il rimpianto per i beni trascorsi e la sua inutilità, un sentimento fraterno e un vivo disprezzo per gli uomini, un pensiero che tutto scruta, sentendosi alto nobile e umile, un cuore che brama, piange di tenerezza, poi ride di sè: anima e mente insomma agitata, cui la ragione ha tentato invano di dar pace; e il tutto con intendimento parenetico e morale. Meglio forse anzi che tale intendimento apparisse meno: sarebbe più efficace e avrebbe giovato al bello.
Per quello però che si dice concepimento, opera di fantasia, il canzoniere non ha gran che di nuovo: vi si sentono principalmente quelle voci che già conosciamo: il rimpianto per certe dolcezze, il desiderio d’una vita migliore, il disgusto delle cose umane. Qualche volta tenta concertarsi con esse un riso che vuol essere sarcastico, ma non è: chi ha amato, chi rimpiange, maledice e disprezza e tuttavia sogna e spera, volendo far sperare, non è uno scettico o un beffardo. Tuttavia alcune concezioni originali, nuove pitture, certa dolcezza di espressione, parecchia disinvoltura e bravura signorile, l’opera d’arte in genere, formano un accordo nuovo: come dei noti motivi, espressi in tono minore che piacciano e dilettano. Non manca il superfluo, il mediocre e il troppo tenue, con andamento qua e là un po’ fiacco e prosaico; ma il descrittivo, come nei precedenti volumi, è mirabile, l’elegiaco è accoratamente sincero e delicato, l’ironico e sarcastico sono giusti, la mistura del-l’heiniano ha una serietà che non è del poeta tedesco, l’esortativo e morale sono, come altrove, molto nobili.
Dopo il largo esame dei volumi precedenti,, non è da indugiare su di esso; -e valga soltanto, per una più precisa conoscenza, qualche accenno. La materia del librò è dal poeta compendiata nella lirica Un elesire, p. 153; un esame di se e dell’arte propria in II dubbio, p. 157; il suo stato sentimentale in Ex voto, p. 211; la sua coscienza in Organo. Bellezze descrittive notévoli sono in Sera, Neljolto, Wildsee, Luna sorgente, Luna cadente, All'acqua morta, Arpa eolia. Notte nel bosco, La nuvola: l’elegiaco prevale in C'erq una volta, A un'ombra, Sole morto, Momento melanconico. Lagrime. Le rose sono sfiorite e in diverse altre; l’ironia e il sarcasmo suonano ìh
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In altro giorno, Sì mi ricordo. Al muscolo incontentabile e altrove; nè vi manca quel che si è detto più volte l’orrido « meduseo », come Cupio dissolvi, Il tronco, A un abete. Silenzio e qualche altra. E « medusea » è la visione ultima del mondo cantata dal poeta, forse pochi giorni prima di lasciarlo, in liriche (Al volto dell’uomo. Pace! Ultima Tuie), legate per più motivi al volume delle Rime: visione medusea con l’ansia di nuovo arduo cammino verso il «cardine estremo del mondo... dove l’astro del polo Su vasto orrore di geli Dalla corona de’ cieli Sfavilla immobile e solo » (i).
Il volume, come gli altri organicamente costituito, ha, per legami evidenti, intenzioni o criteri parenetici e morali: nel prologo, con accenni e criteri artistici si hanno frecciate ad una certa arte; nelle ultime liriche, da quella Solo a quella Predica in due parli, parla specialmente la coscienza morale: parla, non direi che sempre canti. Che cosa dice? Amara conclusione di chi molto amò: oltreché all’opera e al cimento egli nell’amore fu solo. Un’arcana voce, che va seguendo nella selva, lo chiama ripetutamente: si trova solo, smarrito sul nudo terreno, quando essa non suona più. Con che iraconde voci, nella cupa chiesa dello Spirito Santo, l’organo lo ha fulminato un’ora intera!
L'organo sotto l'acuta
Volta ruggiva: Che hai fatto Del pegno del tuo riscatto. Della tua vita perduta?
Che hai fatto de' tuoi pensieri,Che per gli spazi immortali
Dovcvan essere strali
Da penetrar tutti i veri?
Che hai fatto di quell’amore
(Anche il ricordo n’hai spento?)
Che t’aveva redento
Dalia colpa e dall’errore?
E seguono altri gridi profondi della coscienza rievocatrice: dove sono l’opere buone per il perdono anche alla vita più stolta ? Dov’era egli mentre fame, pesti-lenzia, guerra, mietevano le vite di tanti miseri? Cosa faceva quando
L’urto del dolore umano
Più si spandeva lontano, imprecando supplicando?
Così wAV Organo; nella seguente è affermata impossibile la liberazione della colpa, eterna la pena a cominciare di qui; ma si esorta a vivere, perchè il vivere, avita turpitudine che ci macchia tutti, tutti discolpa; si esorta a far vita nuova.
(i) Nuova Antologia, i° giugno 1913.
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non tradendoci, salendo impavidi, bevendo alle fonti perenni, chiedendo al silenzio divino e all’oracolo ignoto « La voce di quel remoto Che pur n’ è tanto vicino », chiedendo la verità, avendo la certezza
...che nulla si nega A un desiderio immortale; Che la nos/r'anima ha l’ale, E che nessuno la lega.
D’un chiarissimo simbolo è La Fenice: si può rinascere a nuova vita; e chiara confessione è Chiudendo il libro.
Nato dai tristo suo cuore Come da zolle di-greto Nasce un selvatico fiore:
libro dove l’arte raffrena un acre spirito e redime la pena con dolce canto: libro del passato, in cui vaneggia quel trasognato e quel deluso ch'egli fu: sulla cui pagina estrema, nell’ora muta e decline, ha scritto fine. Fine per il canzoniere o per il canto in genere? Se per il canto, il proposito non fu nè poteva essere mantenuto come s’è visto.
Concludendo, si può osservare facilmente: i° che il Graf, in un periodo di positivismo-materialismo, con arte nei più intrinsecamente legata a questo malanno durato quasi cinquantanni, si distingue da ogni altro poeta contemporáneo, uno solo eccettuato: è profondamente religioso, amoroso, umanitario, credente nello spirito, accanto agl’indifferenti, ai frigidi o ai sensuali, agli eroici di vecchia tradizione, ai materialisti; 2° che tutta l’opera sua tende continuamente a una elevazione nobilissima; 30 che delle cose e della vita egli ha fin da giovane una visione tragica, qua^generatrice di disperazione, ma che lo fa poi pervenire a conclusioni assai diverse, ben espresse sulla fine del noto scritto Per una Jede: « Il mondo, quale ora io lo vedo, cessa d’essere insensato, ma rimane tragico... Il mondo è imperfetto e disarmonico. In esso qualcosa che è si oppone e resiste a ciò che vuole e dev’essere!... Il male è sterminato, tenace, formidabile; ma non so come, il bene lo'vien traforando e lo spirito allarga il suo regno... Il mondo è uno sconfinato campo di battaglia, dove bisogna stare o con l’uno o con l’altro dei due combattenti. Io intendo di stare con quello che si prepara il fine buono... Io ho Jede che la suprema legge del mondo sia, non una legge fisica, ma una legge morale. Aver religione vuol dire riconoscere che c’è nel mondo, e di là dal mondo una incommensurabile potenza spirituale, che opera per un fine buono, e mantenersi costantemente in contatto con lei è volere con lei più vita, più intelligenza, più bontà, più bellezza ».
Quando afferma che la morte è un’antica menzogna, che ogni colpa si sconta e ci tormenta in eterno, noi lo sentiamo quel « vate », o poeta sacerdote, che mirò
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ad essere fin dai canti suoi primi. La sua poesia, avvinta, come quella del Pascoli, dalla meditazione e dall’analisi psicologica, fa sentire e pensare, spaziare largamente e umanamente sulla vasta e varia scena del mondo: poesia insomma degna di stare accanto a quella dei poeti nostri più ammirati, perchè religiosa veramente, ispirata cioè e ispirante alle più nobili idealità della vita.
— Idealisti? Illusioni ! — può mormorare qualcuno.
— Ebbene, anche con la certezza che, per un’ipotesi assurda, nei destini dell’universo, il bene, la virtù, l’eroismo riescissero a una grande illusione, sentiamo che essa sarebbe pur sempre l’unica cosa per cui varrebbe la pena di vivere.
Così risponde ottimisticamente il poeta, dopo lunga e dolorosa esperienza della vita (i).
Giuseppe Lesoa.
(i) Mentre licenzio queste pagine, mi giunge un opuscolo grafiano: Gemma Diana. La conversione di A. Graf, Palermo, A. Trimarchi 1919, pp. 54. M'auguro, coi lettori, di conoscere presto il lavoro completo {L'opera di A. Graf), di cui l’opuscolo è saggio promettente.
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PSICOLOGIA DI COMBATTENTI CRISTIANI
NOTE E DOCUMENTI
«ContionazJoDc. Vedi Bilychnit di Aprile 1919, pag. va)
III. — I COMBATTENTI
Ai Lettore - ICapi: Responsabilità, Modestia, Prestigio - Testimonianza cristiana tra i compagni - Ore grigie e Pace interiore - Entusiasmo - Coraggio - Nella mischia : Orrore, Sensibilità, Pietà - Il problema tragico e le sue soluzioni - Patriottismo: Lo spirito di Rinunziamento e di Consacrazione, la devozione alla Patria messa in rapporto cogl’ Ideali civili, la fede nell* Umanità che scaturisce dalie Convinzioni cristiane e di esse si nutre.
AL LETTORE
Dopo aver narrata la vita dei nostri Eroi (i) dopo aver lumeggiato sotto vari aspetti la loro figura, e constatato eh’essi rappresentano magnifici tipi dell’umanità «normale», dell'umanità nella pienezza del suo sviluppo c nella fioritura rigogliosa e sana della vita fisica, intellettuale e morale (2) — ci conviene ora fare un passo più avanti nel nostro studio e addentrarci — purtroppo, data la tirannia dello spazio, assai meno profondamente di quanto vorremmo — nell’esame, del carattere dèi giovani che sono ormai diventati per noi degli intimi amici (3).
E, continuando il nostro lavoro, non intendiamo dipartirci dalla linea di condotta che ci siamo prefissa incominciando e che già abbiamo ripetutamente formulata. La nostra non vuoi essere opera di psicologo nel senso di analizzatore e di commentatore; non intendiamo fare, quasi diremmo, della vivisezione intellettuale e spirituale; e, quand’anche lo volessimo, non lo potremmo.
(1) Vedi Bilychnis di ottobre-novembre 19x8.
(2) Vedi Bilychnis di gennaio, febbraio e aprile 1919.
(3) Non che sia stato il Direttore di Bilychnis a limitarci lo spazio. Siamo noi che volontariamente abbiamo Ihnitato le nostre pretese, consci che l’amicizia — anche quella di chi sta a capo d'una Rivista — ha dei limiti che in nessun modo si possono superare.
No, non lo potremmo, perchè abbiamo troppo chiara e profonda la coscienza della superiorità morale dei giovani cristiani di cui parliamo ; essi ci sovrastano come le candide vette alpini sovrastano il piano, essi ci appaiono, trasfigurati dall’aureola del loro sacrificio, nella gloria cui solo possono ascendere le anime purissime... Che cosa dunque potremmo noi dire di loro?
Perciò continuiamo il nostro lavoro cóme l’abbiamo iniziato e proseguito: facciamo non della psicologia superiore ma delia psicologia elementare,; non lavoriamo sui materiali raccolti, ci limitiamo a raccoglierli e a riordinarli.
Nè li raccogliamo per offrirli — con falsa modestia — «a chi certamente meglio di noi saprebbe ricavarne la sostanza profonda, il midollo vitale». Li raccogliamo per offrirli direttamente ai lettori. Facciamo .come chi metta insieme una galleria di meravigliosi quadri e si limiti soltanto a raggrupparli a seconda del genere trattato, a dar loro la giusta luce, a compilare un catalogo in cui, accanto ai numeri messi ai quadri, si trovi l’indicazione del tema e dell’autore. Ma poi vogliamo che. nella galleria, il pubblico passeggi a suo agio, e riceva liberamente quelle impressioni spontanee che, in religione come in arte, sono le migliori. Di ciceroni mestieranti che recitino malamente le chiacchiere imparate a memoria, o di quelli, più geniali ma altrettanto funesti, che, anche colle migliori intenzioni, si sforzino di far vedere e sentire ai visitatori quello
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BILYCHNIS
eh’essi vedono e quello ch’essi sentono noi. non sappiamo che farcene. È tempo di proclamare, anche nel campo della sensibilità e dell’impressionismo religioso, il diritto alla piena ed irrefrenàbile libertà dello Spirito.
Presentiamoli dunque, i nostri dolci amici che già conosciamo come uomini, presentiamoli ora come combattenti, li presenteremo in seguito come cristiani. 1 CAPI
RESPONSABILITÀ’ - MODESTIA - PRESTIGIO
Dei combattenti di cui stiamo occupandoci alcuni hanno servito la patria come ufficiali, altri come graduati di truppa, altri ancora come semplici soldati. In coloro che, oltre a compiere fedelmente il loro dovere militare, avevano l’incarico, più che di comandare, di guidare, e sostenere e proteggere altri uomini, si notano le più preziose fra le caratteristiche necessarie per formare i capi.
Ed in primo luogo il senso profondo, grave, austero della responsabilità: preoccupazione continua, quasi tormentosa, che basterebbe da sola per costringere chiunque entra in contatto con loro ad un rispetto fatto di ammirazione e di amore.
« • *
Già durante il periodo in cui Ruggero Aliier era allievo-ufficiale, il suo zelo pel servizio era sostenuto da un pensiero assillante che ricompare ad ogni passo nella sua corrispondenza :
Ciascuno di noi avrà (forse presto) la responsabilità di 60 vite umane (22 novembre 1912).
E in un’altra lettera:
19 Dicembre 1912.
... Studiamo praticamente sul terreno i vari casi che possono presentarsi in un combattimento. Ci s’insegna il metodo migliore per condurre la truppa sotto un fuoco d’artiglieria o sottrarla agli attacchi della cavalleria. Non v'è sbaglio che non possa causare la perdita di qualche vita umana, non v'è manovra che non possa salvarne qualcuna. Perciò abbiamo l'impressione di preparare per la prossima primavera
qualcosa d’assai più serio di un esame; avremo da render conto della vita di 60 uomini.
Nella lettera del 27 gennaio 1913, egli prega suo padre di procurargli l’opuscolo scritto dal generale Lyautey sulla « funzione sociale dell’ufficiale ».
Promosso sottotenente, la maggiore preoccupazione di Aliier è di contribuire al completo sviluppo dei suoi uomini :
16 Aprile 1913.
Nel pomeriggio ho fatto agli alpini e ai graduati della compagnia una conferenza sulla mutualità e sulle pensioni operaie. Ho l'intenzione di fare una conferenza ogni settimana. Il capitano ha accettato. Ciò mi farà lavorare.
Io Maggio 1913.
... Un ufficiale può essere un vero e proprio allenatore di uomini. L’anno prossimo le compagnie di alpini saranno di 230 uomini. Che magnifico campo di lavoro! 230 uomini che non si tratterà solo di preparare dal punto di vista fisico, ma di cui bisognerà disciplinare gli spiriti e temprare le anime, di cui bisognerà fare dei futuri cittadini!
Certo non è facile conquistare l’affetto e la fiducia dei propri uomini, non è facile avere su di essi un’ influenza morale...
... Sono forse eccessivamente severo durante le esercitazioni. Ho, nel comando, una durezza contro la quale non riesco a reagire. Ma faccio tutto il possibile per rendere la manovra interessante e veramente utile.
E questo senso della propria responsabilità come capo, questa emozione de! giovane ufficiale che prende contatto coll’anima dei suoi uomini, si manifestano nella loro pienezza quando giunge la guerra:
Aime en Savoie,
lunedi io Agosto 1914.
Dal primo agosto non ho potuto seri vervi che poche righe. Ho pensato che,
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a capo d'una sezione come quella affi* datami, la mia responsabilità fosse troppo .grande perchè mi fosse lecito disinteressarmi d’un solo particolare della mobilitazione. Ho dunque passato parecchi giorni ad accaparrarmi i migliori muli della zona di Annecy,. accompagnando la commissione di requisizione. Nello stesso tempo, sorvegliavo minuziosamente là vestizione dei miei uomini, affinchè non mancasse loro nulla. Ispezionavo i miei pezzi (le mitragliatrici), regolavo il mio telemetro, mi procuravo dall’armaiolo il maggior numero possibile di pezzi di ricambio, facevo ferrare a nuovo i miei quindici muli, aggiustare i Joro basti, mi procuravo moschetti, rivoltelle, munizioni, olio, petrolio, vasellina, spazzole, bacchette, «pugne, stracci, corde..., scusate questa 'enumerazione ch’io potrei prolungare... Ho avuto poco tempo per dormire, ma posso rendere a me stesso la testimonianza di non aver trascurato alcun particolare per salvaguardare l,e trenta-cinque vite di cui devo render conto. I miei uomini lo sanno; e, alla guerra, la fiducia è tutto...
.,. Siamo pronti a partire. Il morale dei miei uomini è perfetto. Non ho negletto nulla per entrare completamente in contatto con loro e per guadagnare la loro fiducia. Visito il loro fienile, assaggio il loro rancio mattina e sera ; mi sono occupato di quelli le cui condizioni di famiglia meritano un particolare interesse: insomma, il contatto è stabilito, la fiducia reciproca è completa...
I medesimi sentimenti nobili,^generosi, la medesima sete non di comandare ma di servire, la medesima nobilissima ambizione-di valérsi del proprio grado per far del bene, si ritrovano in una lettera di Giovanni Fontaine Vive.
Alla vigilia della sua partenza pel campo di Draguignan, dov’egli è mandato come allievo-ufficiale, egli scrive :
18 Gennaio 1915.
Ho la ferma volontà di fare, coll’aiuto di Dio, tutto quanto mi sarà possibile per diventare un buon ufficiale di Frància. Ho la profonda convinzione che chiunque possiede, per le circostanze che lo hanno favorito, una cultura superiore è in obbligo di farne partecipi coloro che ne sono privi, di cercare tutte le occasioni per essere una guida senza che la cordialità delle relazioni escluda la fermezza nelle decisioni nè l’unità di condotta che fanno un capo. Nell’ora presente, io considero un grado come un sacerdozio da compiere per la Francia e per Dio; accetto con cuore seréno, ma cosciente, gli uomini che dovrò condurre, perchè non dimenticherò giammai che sono innanzi tutto delle anime.
Terminato il corso allievi-ufficiali, Fontaine Vive è nominato aspirante e parte il 16 maggio. Il suo primo mese di guerra scorre monotono; è mal compreso dai suoi colleghi ufficiali; ma egli continua l’opera, che già aveva iniziato a Privas, come semplice soldato, dell’educazione dei suoi uomini. Quando li sente presi dallo scoraggiamento, parla loro del diritto e delle speranze della patria; s’informa delle loro preoccupazioni, dei loro bisogni. Quando deve domare caratteri diffìcili, fa appèllo al loro onore e li persuade.
Fontaine Vive tenne dunque parola; egli mantenne l’impegno preso quando ancora era allievo-ufficiale. Chi l’ha conosciuto ha potuto dire di lui : « Missionàrio dei suoi uomini» ha esercitato su di essi una profonda influenza religiosa e morale».
« • «
Il Capo è ¡^protettore del soldato, è colui che — avendo nelle sue mani, almeno fino a un certo punto, la vita e la morte dei suoi dipendenti, potendone fare, salvo poi a renderne conto, « quello che vudie » — deve sen-
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tire tutta la gravità, tutta la tragica maestà del suo còmpito. E come la sente Andrea Cornet Auquier!
12 Settembre 1914.
Una grossa notizia: comando una compagnia. Rimango, beninteso, col mio grado, ma ho tutti i poteri, tutti i diritti ed anche xtutte le responsabilità di un capitano. E spaventevole. Quando ieri m’hanno annunziata la cosa, ne sono stato proprio malato: la vita di tanti uomini nelle mie mani! Pregate molto per me; ne ho più bisogno che mai. Mi sento così giovane e con così poca esperienza!...
Questo senso così profondo della propria responsabilità fa prendere ad Auquier una risoluzione a cui certo non è spinto dall’ambizione, o dalla lusinga puerile d’una lucida sciabola o d’un bel paio di spalline.
8 ‘Màrzi) 1915.
Ho una grande notizia da comunicarvi. Attenzione! Ho fatto domanda per la nomina ad ufficiale effettivo... Se Dio mi concede la vita, e col suo aiuto, avrò nell’esercito un’ opera di educatore quasi più bella che nell’insegnamento; E’ forse presunzione la mia, ma ci si sente necessari. Quando si è vissuti col nostro magnifico soldato e che si conoscono le sue Splendide qualità, ma altresì i suoi deplorabili difetti, di cui la trascuraggine è uno dei peggiori, si vorrebbe tentar di lavorare alla formazione di alcune generazioni d’uomini del tipo di cui la Francia ha bisogno : uomini forniti di carattere, di metodo, di previdenza. La funzione morale dell'ufficiale è maggiore di quella del professore. Posso dirvi senza vanteria che la mia compagnia è trasformata da quando l’ho presa in mano. I miei uomini sono molto più disciplinati ed hanno un contegno migliore. I miei allievi mi amavano molto, lo so, ma preferisco la fiducia affettuosa dei miei vecchi grognards che strapazzo
senza mettere i guanti, ma che fanno assegnamento su di me. Quando dico, loro : « Figlioli, bisognerà fare uno sforzo oggi * » Oppure : « Ragazzi faccio assegnamento su di voi » e ch'essi mi rispondono : « Sia tranquillo, tenente, faremo il nostro dovere » io provo una ineffabile soddisfazione morale.
E per conseguenza è anche una pura soddisfazione morale quella che gli viene dalle ripetute sue promozioni.
31 Maggio 1915.
Miei diletti vostro figlio è capitano. ... Nel mondo morale e del cuore ciò-si traduce in una gioia profonda, specialmente per là mia piccola mamma e per il babbo... Ciò si traduce anche in un ardente desiderio di rendermi degno di questo titolo che significa: « Colui ch’è alla testa».
Se si esamina un po’ da vicino questo sentimento così acuto della propria responsabilità, che abbiamo notata in giovanissimi ufficiali come Allier, Fontaine Vive, Auquier, si constata, e non se ne resta sorpresi, che questo sentimento è dovuto alia loro profonda e sincera modestia.
Leggiamo ancora qualche lettera di Andrea Cornet Auquier.
i° Gennaio 1915.
Povera mammina mia, tu mi ammiri! Perchè ? Guarda come sino adesso sono stato privilegiato, pensa quanto in mio confronto hanno sofferto gli altri.
30 Maggio 1915.
11 maggiore Barberot mi propone per una citazione all’ordine della Divisione, per i servizi resi da otto mesi, come comandante di compagnia. Sono caduto dalle nuvole. Gli ho detto che non avevo fatto niente di Straordinario e che npn volevo essere citato.
30 Giugno 1915.
Il sapervi così felici perchè ho fatto il mio dovere, il mio piccolo dovere di ufficiale e di capo, mi rinnova le forze per l’avvenire.
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2 Luglio 1915. giorno del suo compleanno.
Non datemi troppi epiteti laudativi, non li merito affatto. Non sono un eroe; ho sempre cercato di fare, in ogni circostanza, il mio dovére; non sono che un ufficiale che si sforza di dare l’esempio; e questo è tutto, proprio tutto.
Ma la modestia, quando è vera, quando è sincera, non va disgiunta dal sentimento del proprio valore, anzi lo presuppone. Essa consiste nel non presumere di sè più del dovuto; ma essa non distrugge quella giusta fiducia in sè stessi eh’è, ad un tempo, un incentivo potente all’azione ed il segreto del prestigio che intorno a loro esercitano gli uomini i quali hanno ^veramente il diritto d’essere considerati come dei « caratteri ».
Spigoliamo qualcosa ancora nella corrispondenza di Cornet-Auquier :
18 Febbràio 1915.
(Da una trincea occupata in parte dal nemico e a sei metri da quest'ultimo).
... I miei uomini sono assolutamente fenomenali, come slancio, buona volontà e coraggio. Sono decisi, se il nemico attacca, a non lasciarlo passare. L’altro giorno, durante un bombardamento di 26 ore, io ero. convinto che saremmo stati attaccati. Dissi ai miei uomini: « Faccio assegnamento su di voi, figliuoli; la parola d’ordine è di . morire sul posto piuttosto che cedere un pollice di terreno. Nel caso io rimanessi ucciso, niente panico, niente turbamento, continuate a tener duro senza di me come con me. Vi chiedo una cosa sola: Se sarò ferito, e se i Boches avanzeranno, due di voi mi porteranno via perch’io non cada nelle mani del nemico ». Gli uomini hanno risposto : « Stia tranquillo, tenente, faremo il nostro dovere; vengano pure, li aspettiamo!»
15 Luglio 1915.
Nei momenti di crisi, l’uomo guarda al suo capo e cerca di vedere che con
tegno egli tenga. Bisogna che nulla, nella mia espressione, tradisca l’ansia,-la nervosità, ma che tutto respiri la fiducia, la serenità.
5 Novembre 1915.
... La guerra, quando si è in contatto immediato con essa, dà all’uomo che rifletté il senso esatto del proprio valore. ... Si giunge a non più riconoscere altra autorità se non quella basata sopra un’incontestabile superiorità intellettuale e morale, sopra una competenza che s’impone. Negli altri casi si saluta il o i galloni, non si saluta l’uomo e la persona salutata deve vedere nello sguardo se la si considera come un capo o soltanto come un graduato. La fiducia in sè stessi permette sólo di f parlare altamente e fermamente e di farsi ascoltare anche dai superiori; ed è un dovere parlare in tal modo perchè, in questo momento, nulla conta se non la salvezza del paese.
È naturale che un uomo che pensa in questo modo e regola su tali principi le proprie azioni riesca ad impadronirsi interamente dell’anima dei suoi uomini. E,ben si comprendono gli amari rimpianti provocati dalla sua morte. Ecco alcuni dei fiori più belli della corona di gratitudine e di ammirazione deposta, dai compagni d’arme, sul feretro di Cornet Auquier:
« Ei non ci aveva mai detto che ci amava, ma il suo affetto per noi si manifestava in tutti i suoi atti, e noi glie lo contraccambiavamo di cuore. L’amavamo con quell’affezione fatta specialmente di stima e di fiducia, che i soldati nutrono per i migliori loro capi ; l’amavamo per la sua bontà, per l’alta coscienza colla quale adempiva il suo dovere d’ufficiale, per la sua ardente energia, la sua larghezza di spirito e la sua meravigliosa intelligenza ».
Un altro fiore:
« Il capitano ci amava, io sapevamo e. lo sentivamo; ma, ora che non è più, lo realizziamo come non mai prima. Non è uno spettacolo frequente quello di soldati, avvezzi a fronteggiare la morte, i quali piangono come bimbi, come noi piangevamo intorno al suo feretro... ».
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BILYCHNIS
Un altro ancora:
« Il ricordo del nostro capitano, che abbiamo stimato ed amato come un padre, resterà vivente nel nostro cuore. Egli aveva saputo guadagnare la nostra assoluta fiducia».
E quanta commozione in queste parole:
« Le lacrime ci stringevano la gola e tutti ansavamo a questa frase che il nostro generale, il quale amava Unto vostro figlio, lasciò cadere nel silenzio provocato dalla nostra angoscia : “ Sono quelli che, temprando l'anima dei nostri soldati, ci hanno dato la vittoria. Dio li accolga e li ricompensi. A noi rimane da seguire il loro esempio ”».
• « •
TESTIMONIANZA CRISTIANA TRA I COMPAGNI
Quanto abbiamo detto circa il senso di responsabilità, la modestia, il prestigio come «capi», si riferiva necessariamente a quelli fra i nostri amici che hanno servito là patria come ufficiali.
Li ritroviamo invece tutti quanti — e ufficiali e soldati — in questo paragrafo in cui vorremmo — con pochi esempi scelti fra tanti — illustrare un altro loro sentimento profondo: quello della necessità, del dovere che a loro incombe di rendere tra i compagni una buona testimonianz delle loro convinzioni religiose e della loro fede cristiana.
• * •
Il 15 dicembre 1914 Giovanni Fontaine Vive iniziava la sua vita militare a Privas. Vi trovò dei buoni compagni estranei al suo ideale e questo ideale ei si sforzò di far loro; conoscere. Riferendosi a questioni del giorno, commentava loro le beatitudini e i salmi. L’avvicinarsi di Natale gli suggerì l’idea di preparare per essici piccolo studio sullo stato di attesa della Giudea all’epoca della nascita di Gesù, messo a confronto collo stato della Francia in attesa di ciò che doveva venire. S’egli in tal modo si rivolgeva ai suoi compagni studenti, sapeva farsi amare dagli altri per la sua allegria e la sua gentilezza.
Lo sviluppo della sua spiritualità intima Io spinge a cercare coi suoi colleglli ufficiali delle conversazioni che gii permettano di affermarsi come cristiano.
Dapprima beffardi, egli' scrive, hanno finito per dirmi che certamente ero più felice di loro.
Il coraggio militare di Fontaine Vive era noto a tutti nel suo reggimento e lo era a tal punto da imporre il rispetto di coloro che si sentivano urtati dai principi ch’egli professava. Egli era infatti dotato d’una virtù piuttosto rara, il coraggio morale. Quando si fu convìnto del dovere per un intellettuale, per un capo, di dare l’esempio nella lotta antial-coolica, ei rinunziò radicalmente al più piccolo bicchierino.
Prima d’un’azione si sta per distribuire ai soldati la razione d’acqua vite. Ei si volta verso di loro: « Io, dice, non ho bisogno di quello per avere del coraggio ; ciascuno è libero di farne a meno come faccio io !» E dei 60 uomini del reparto d’assalto, 59 imitano il loro sottotenente.
Un altro giorno, a mensa, alcuni ufficiali prendevano un po’ in giro la condotta, secondo loro, esageratamente casta, d’un nuovo arrivato. Fontaine Vive immediatamente e, con termini energici, prende parte pel giovane collega intimidito.
* * *
Anche Gustavo Escande, che saprà essere coraggioso davanti al nemico, sa essere coraggioso (cosa altrettanto, se non più difficile) in mezzo ai propri compagni. Figlio di un missionario fra i pagani, egli fa onore al •padre evangelizzando i suoi camerati più coi fatti che colle parole. La breve storia della lotta, coronata dalla vittoria è contenuta nei ritagli di corrispondenza che seguono: non è possibile leggerli senza esserne commossi.
La battaglia s’inizia il giorno stesso dell’entrata in caserma:
Tolone, 24 Settembre 1914.
Eccomi in divisa bleu. Mi sento terribilmente solo ed ho bisogno che si preghi per me. Renderò testimonianza alla mia religione malgrado tutto.
... Non puoi immaginarti come mi sento solo in mezzo a questi uomini senza religione, senza moralità, che passano le loro serate alla bettola. E ho dovuto prendere il mio coraggio a due mani per leggere la mia Bibbia e pregare in ginocchio ai piedi del mio letto. Gli scherni hanno piovuto su di me, ma grazie a Dio ho tenuto fermo. D’altra parte, ho rifiutato d’andar con loro alla
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PSICOLOGIA DI COMBATTENTI CRISTIANI
bettola, perciò mi detestano e vogliono forzarmi ad andarci. Ma Dio è con me. Egli mi sosterrà.
E di nuovo, qualche giorno dopo, Escande si lamenta, ma come può lamentarsi un forte, al quale appaiono sempre più chiari e più urgenti il proprio dovere, la propria missione:
Sono il solo della mia camerata che abbia qualche bisogno religioso e le beffe piovono su di me. Ma ho un dovere da compiere tra i miei compagni ; discuto con essi e cerco di provar loro che la religione non è morta.- Anzi, è molto viva,.e senza di essa non so davvero quel che farei.
E ancora:
Ho pietà dei miei compagni, i quali vivono alla giornata, senza ideale. Ho un’opera da compiere fra di loro e voglio compierla. Niente scoraggiamento 1 Dio farà maturare i germi. Prendiamo come motto questa parola dell’Antico Testamento: Stanchi, ma sempre attivi.
E la fedeltà al dovere è coronata dalla vittoria. Poco più di un mese dopo, Escande può scrivere — e si sente dalle sue parole come il suo cuore sia lieto —:
7 Novembre 1914.
Avevo un dovere da compiere tra j miei compagni, ho provato e mi provo ancora di compierlo. Hanno capito che in faccia a me vi sono cose ch’essi non possono dire. Inoltre mi lasciano ora leggere tranquillamente il mio Vangelo e fare la mia preghiera in ginocchio. Sono felice di affermare i miei principi di cristiano, e le difficoltà che ho incontrate e sormontate coll’aiuto di Dio m’hanno reso moralmente più forte.
La testimonianza ai suoi principi resa in ' caserma, Escande la rende altresì al fronte :
Giammai avevo sentito a tal punto la forza che Dio dona a colui che glie la domanda. Egli m’ha dato la calma e il coraggio che mi sono necessari.
Oh! com’egli è stato buono per me! Qui, tra i miei compagni, cerco di rendere la mia testimonianza di cristiano come ho cercato di renderla alla caserma. Due miei compagni ed io cantiamo degl’inni religiosi e quelli ci dànno forza.
» » »
Alla condotta di Escande può paragonarsi quella di Adolfo Cuche.
La sua grande preoccupazione, in mezzo a tutti i doveri militari, ch’egli adempiva con una scrupolosa puntualità, era di rendere testimonianza al Cristo vivente ; e ciò più ancora col suo esempio che colle sue parole. E certamente la fedeltà in questa testimonianza che gli ha procurato, durante la guerra, le sue più grandi gioie spirituali.
* * *
Le medesime preoccupazioni ritroviamo in
Ruggero Allier.
Otto giorni dopo il suo arrivo in caserma come recluta, egli scrive ai genitori:
Albertville, 14 ottobre 1911.
I miei compagni di camerata sono assai meno spiacevoli di quanto non credessi. Ve ne sono alcuni coi quali si può discorrere sèriamente: un insegnante, un allievo di Scuola normale, un impiegato ferroviario, ecc... Ho prestato loro un romanzo; hanno letto l’opuscolo Souviens-toi destinato ai giovani cristiani sotto le armi. Mi hanno fatto molte domande.
Qualche settimana dopo, egli scriveva ai suo pastore, che gli aveva mandato un altro opuscolo :
Il libro di preghiera del soldato francese mi è prezioso. Lo conosco, e partendo da Parigi, ne avevo preso meco sei copie, per poterlo regalare, se l’occasione si presentava, ai miei compagni.
* * «
Vediamo ora quali sono le esperienze di
caserma di Alfredo Casalis.
Le prime esperienze sono assai dure ; ei si sente come trasportato in un mondo nuovo;
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la volgarità, la trivialità dei compagni lo urtano e lo disgustano. Ma ben presto riesce a dominarsi ed a vincersi. Egli realizza tutte le possibilità che ci possono essere in quegli animi primitivi, non sviluppati perchè non educati, e poco dopo scrive :
3 Marzo 1915.
...Ora conosco meglio questi giovanotti; essi mi conoscono e sanno oscuramente d’o ide traggo quel po’ di forze che ho.
Se tu sapessi come comprendo meglio adesso l’anima umana, specialmente l’anima di quegli umili che lavorano, che lottano, che soffrono, che sono attaccati alla vita per un filo soltanto : qualche briciola d’affetto, un po’ d’interesse, qualche godimento, e special-mente molte abitudini...
E, dopo aver tracciato una sottile analisi dell’animo rozzo dei compagni, egli prosegue, e si sente, nelle sue parole, vibrare l’amore da lui attinto nella comunione col maestro:
... Quanta ricchezza si scopre quando si sa andare fino in fondo a quelle rozze anime! Ho imparato ad amarle ed ora mi provo a parlar loro. Oh! come la fede che in certe ore sentivo in me così luminosa, così profonda, m’è parsa arida, scolastica, fatta di sottigliezze quando ho voluto parlare a quei semplici che conoscono soltanto la vita, che non hanno mai sentito parlare di idealismo, di spiritualità, ma che semplicemente vivono e soffrono. Mi sono chiesto in certi momenti se non ci dovesse essere una religione per il popolo e una per gl'intellettuali. Ma no! Sento, so che non è così e penso alla parola dell’apostolo: «Cristo è lo stesso ieri, oggi e senjpre». E non fu egli un falegname? E non ha egli detto: «Beati i poveri in ¡spirito?»
Qualche giorno dopo, Casalis è in grado di formulare, in termini chiari e precisi, la
lezione pratica ch’egli ha ricavata dàlie sue esperienze :
16 Marzo 1915.
In caserma, i caratteri non tardano a manifestarsi quali sono. Bisogna immediatamente affermarsi, far vedere chi si è: un cristiano. Poi tener duro. Se si è capitati male, pazienza. Ma non bisogna mai dimenticare la legge del Maèstro: « amatevi gli uni gli altri » che si traduce in questo caso nel precetto pratico « Render servizio a tutti ». Con questo atteggiamento ci si fa rispettare da chiunque. E questo è ancora il mezzo più sicuro di farsi aprire i cuori.
» * «■
Al dovere di rendere testimonianza delle loro convinzioni religiose, i nostri giovani sono fedeli anche allorquando si presenta per loro l’occasione di proclamare la loro speranza ultraterrena. È quello che fa, ad esempio, Andrea Cornei Auquier.
17 Luglio 1915.
... Ho. sostituito ieri il colonnello alla sepoltura d’un giovane collega, caduto alla testa della sua compagnia. Ho terminato il mio breve discorso con queste parole: « Possano il rimpianto lasciato dal tenente Maurizio Réjol e le lacrime che versiamo, arrecare qualche conforto a sua madre che è vedova. Ma verso Dio essa deve ora alzare gli occhi per cercare la consolazione nella speranza d’un rivedersi eterno nella patria celeste, dovè non ci sarà più nè guerra, nè sangue versato >.
* * »
E la testimonianza delle parole, accompagnata dalla pratica della vita, non resta senza frutto. Non può fare a meno di commuovere l’episodio seguente:
Il 16 giugno 1917, a Cuissy, una granata da 240 seppelliva, assieme ad altri compagni, il soldato addetto alla telegrafia senza fili Giorgio Teyssaire. Solo il giorno dopo si potè disotterrare il cadavere. Nelle tasche del
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defunto si trovarono alcuni opuscoli religiosi : conferenze dèi prof. Allier eh’erano state le sue ultime letture. Il compagno che raccon-. tava questi particolari alla famiglia soggiungeva nella sua lettera : « Lasciatemene uno in ricordo di lui ». Pòi, accennando alle convinzioni cristiane del suo amico, dichiarava: « Egli era l’unico uomo fra noi tutti ».
A questo omaggio devoto d’un combattente, risponde la dolce, mirabile promessa dei Cristo : « Beati i puri di cuore, perchè vedranno Iddio».
» * *
ORE GRIGIE E
PACE INTERIORE
Nel leggere le pagine che precedono, nel constatare con quanto fervore gli ufficiali si preoccupano dello sviluppo morale dei loro uomini, nell’ammirare la fermezza e la nobiltà d’intenti còlle quali superiori ed inferiori manifestano tra i compagni le loro convinzioni religiose, si sarebbe naturalmente indotti a pensare che la loro fede cristiana sia così limpida, così radicata, così. assoluta da mantenere il loro animo in uno stato di perpètua sanità e di incrollabile sicurezza, da costituire, pei loro giovani cuori, un baluardo così potente da permettere loro di non risentire quasi le folate di vento e gli urti violenti dei marosi nella tempesta!
Ma qui ancora, accanto al «cristiano» ritroviamo (’«uomo»; o meglio constatiamo che il « cristiano » che sta sviluppandosi e affermandosi, abita in un < uomo ». E questo uomo possiede la fragilità e la miseria inseparabili da questa misera carne di cui tutti siam rivestiti.
Però quest’uomo misero e frale, questo verme nudo esposto alle intemperie del mondo, questo fuscello squassato dalla bufera, questo lucignolo fumante, quest’« uomo» è creatura, •è figlio di Dio. E il cristiano eh’è in lui, il cristiano che, nonostante tutte le avversità e tutti i tracolli, conserva il contatto con Dio. il cristiano vince e trionfa.
Oh no! Il cielo non è sempre sereno pei nostri giovani. E tanto meno lo è nel duro tirocinio militare, e nella tremenda guerra guerreggiata! Il cielo dei nostri giovani è molte volte corso da neri nuvoloni, e frequenti lampi minacciosi guizzano attraverso l'atmosfera mandando sinistri bagliori. Però sempre, sì sempre, le nubi minacciose sono cacciate dal soffio dello Spirito e sul loro tetro orizzonte appare, meraviglioso, l’arco baleno della pace divina «che sopravanza ogni intendimento ».
Una eco delle esperienze di caserma del giovane'A. A. si ritrova nella sua corrispondenza :
23 Marzo 1915.
Ho attraversato questo dopo pranzo uno dei rari momenti di « umor nero » che abbia provati sin’ora nella mia vita di soldato. L’esistenza militare presenta delle realtà brutali, e specialmente opprime e stanca la mediocrità morale di certi individui. Ma sempre le mie impressioni spiacevoli si dissipano e si fondono nella gioia immensa di conoscere la vera vita, di portare in me un ideale di servizio e di amore.
Questo medesimo pensiero sostiene il giovane soldato allorquando, due mesi dopo, egli parte per il fronte:
27 Maggio 1915 (due. ore prima della partenza).
La nostra tradotta s’avvia questa sera verso il fronte. Parto nella massima calma e venti volte meno commosso che il giorno della mia licenza. Checché succeda, ho fiducia che il trionfo sarà della vita e che i beni più preziosi dell’umanità nostra non saranno sommersi in questo spaventevole cataclisma. Ho imparato questo contemplando lo splendido. rinnovarsi della natura, e l’indimenticabile fioritura di cui si sono adornati i campi del Mezzogiorno nella primavera scorsa...
* • •
La stessa calma, la stessa tranquilla sicurezza spira dalle lettere di un altro giovane soldato, di cui non ci è stato possibile rintracciare il nome:
Guardo con fiducia all’avvenire. Reso maturo da molte esperienze e dal contatto colla morte, mi pare che il mio ministero porterà frutti in maggior copia... Come s’impara a rivivere il passato, a vedere le proprie cólpe! Ma il Cristo m’è vicino del continuo: Egli mi guarderà...
E ancora:
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... Nonostante il preteso fatalismo che nasce sul campo di battaglia, io guardò più in alto, verso il Padre che il Cristo adorava sul Monte degli Ulivi. Io gli dico : « Non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi ! » La speranza della Croce, spes unica, ci permette di considerare con fermezza tutte le possibilità.
• * •
Non si può leggere senza commozione questo messaggio inviato da Maurizio Lauga, morto per la patria, ai piccoli «Esploratori» parigini, di cui era stato uno dei capi :
Questa lettera, miei cari piccini, volevo scriverla con tutta la mia tenerezza. Molto probabilmente essa è l’ultima prima del mio ingresso nella mischia. Voglia Iddio ch'essa non sia l’ultima della nostra coesistenza quaggiù. Ma se ciò fosse, voglio dirvi un fiducioso addio.
S’ei cade, voi dovete sapere che è nella pace più completa dell’anima, e colla propria mano in quella del suo Salvatore, che il vostro diletto capo attraverserà l’ombra della vaile della morte. Io benedico ognuno di voi. Non senza emozione chiudo questa lettera, mentre il cannone mi ricorda la grave realtà delle cose. Ma sono fiducioso e fermo.
« • «
Un altro combattente — Adolfo Cuche — scrive così :
In questo momento, il mio avvenire è un X, sotto tutti i punti di vista; ma io sono nelle mani del Padre Celeste.
Rispondiamo con una fede incrollabile nell’avvenire, con una fiducia illimitata in Dio nostro Padre. Verrà il giorno in cui sapremo.
* * *
E sempre il medesimo sentimento scaturisce dalle lettere di un altro amico nostro: Casalis. Egli «vuol vivere»; ma, qualunque cosa succeda, egli «è pronto».
Montauban, 12 Febbraio 1915.
Sono felice e in pace, perchè so che Egli è presente e vigila sopra i Suoi.
Montauban, 3 Marzo.
Prima della fine del mese forse sarò-partito pel fronte. Nel mio cuore c’è sempre quella pace che oltrepassa ogni intendimento e ch’Egli ci ha data.
Castelsarrasin, 21 Marzo.
Ho più che mai fede nella vita. Meglio che nel passato realizzo che bisogna vivere, e voglio vivere. Ma, ciò malgrado, mi sento pronto e, se viene, a prendermi, la morte non mi prenderà alla sprovvista...
Voi non avete un’i4ea della pace nella quale vivo. Tutti quelli che amo sona vicino a me, molto vicini...
Castelsarrasin, 28 Marzo.
Credo d’esser pronto a partire, intendo moralmente. Ho cercato con tutte le mie forze di prepararmici, e mi sono abituato a guardare in faccia l’idea della morte: essa non mi spaventa. Se devo restarci, sonò pronto. Morrò senza rimpianti, perchè so che altri sapranno fare meglio di me l’opera alla quale mi sono dato, perchè ho la certezza di aver trovato la mia via e che il Maestro mi riconoscerà per uno dei suoi; sono in pace; so che il Padre prenderà cura di quelli che amo e che mi guarderà. Sempre più mi pare che io possa vivere soltanto per lavorare a questo ideale: «Il tuo regno venga».
Dal fronte
Domenica 11 Aprile 1915.
... Si è molto combattuto da queste parti. Dovunque villaggi distrutti e bruciati. Al disopra d’ Heippes, in cima ad una collina, c’è un’infinità di tombe. E’ orribilmente triste.
Ma io andrò. Non ho paura. Sono in pace. Mi sento pronto. M’è „infinita-
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mente dolce il sapere che le preghiere ed i pensieri di coloro che mi amano m’accompagnano ovunque. D’altronde, non abbiamo noi detto:
Dans la joie et la so uff race Je veux te stiivre tn toni lieti.
Tonte ina vie à l'avance Je te l'apporle, 6 moti Diete!
Questa, tranquillità, questa serenità, questa suprema pace, alcuni dei nostri amici cercano di analizzarla ; cercano non di trovare la fonte, perchè sanno dove la fonte si trova ; ma cercano di comprendere, colla loro ragione, il meccanismo di quel processo, di quell’esperienza d’ordine essenzialmente spirituale.
Poco prima della sua partenza pel fronte, nel cenacolo interconfessionale costituitosi a Draguignan e di cui già abbiamo parlato, Giovanni Fontaine Vive medita davanti ai suoi amici le parole di Cristo : « Io vi lascio pace, io vi dò la mia pace, il vostro cuore non sia turbato e non si spaventi ». Egli stesso, in una sua lettera, riassume così le idee svolte:
Allorquando un’anima ha ricevuto una scintilla della pace divina, essa ha sete di possederla interamente, essa aspira con passione ad essa; da ciò nuovi sforzi, una nuova marcia verso il meglio, sino al giorno dell’eterna pace nel seno di Dio.
f **
E più acuta ancora è l’analisi spirituale che ritroviamo in una breve meditazione scritta da Giovanni Massip nella Domenica delle Palme 1916:
Quale aridità spirituale in quei giorni di festa che passano nè più nè meno che come tutti gli altri! Eppure non me ne lamento. V’è in ogni perfezionamento di qualsiasi specie, in quello della bestia nel campo fisico, in quello dell’uomo nel campo intellettuale e spirituale, dei punti oscuri, delle ore grigie, che sono chiamate dai rilistici momenti di « siccità », arresti che, nell’evoluzione fisica, rappresentano periodi di preparazione simili a quelli che l’inverno impone alle piante, e nell’evoluzione intellettuale, rappresentano periodi di
fluttuazione durante i quali si combinano i materiali per produrre un giorno quésta o quella luce... Questi periodi in cui l’uomo, la pianta, sembrano senza molle, senza vita interiore non sono spesse volte altro che le tappe sotterranee d’una vita nuòva, e queste lòtte che l'uomo è costretto a sostenere per ritrovare sè stesso, per mantenersi in alto, per ricercare la luce e la gioia nella tristezza o nelle tenebre, queste lotte, dico, sono fra le più salutari per la sua formazione interiore. Nessuno possiede genio che non abbia lottato per trovare e sviluppare questo genio. Nessuno ha talento che non l’abbia strappato a viva forza alla sua apatia. Nessuno può vivere se non dorme e nessun uomo ha conosciuto l’infinito dell’Amore divino, che non abbia conosciuto l’infinito dell’amarezza della vita... Perciò non dobbiamo giammai scoraggiarci in quei momenti che ci sembrano veri e propri arresti nel nostro sviluppo. Dobbiamo considerarli, invece,come prove necessarie e giovevoli.
Tutto ciò per spiegarvi perchè; ih questo vuoto spirituale, non mi turbo nè mi angoscio; perchè, allo stesso modo che l’assenza d’un essere caro ne rende l’amore più prezioso, così l’assenza delle cose divine le fa maggiormente desiderare dall’anima e meglio fortifica l’uomo nella propria fede.
* » *
L’alternativa di ore tristi e di ore liete, di ore grigie e di ore piene di sole si manifesta anche nell’animo e, per riflesso, nella corrispondenza di Gustavo Escande.
Tolòne, Novembre 1914.
... Vi son pur dei momenti in cui temo di partire, ma il mio Nuovo Testamento mi dà la forza di sormontare quei momenti d’angoscia. Dio farà di me ciò che meglio gli piace.
Su questo argomento, Escande scrive il 12 novembre al suo pastore una lunga lettera
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confidenziale, in cui espone tutta l’anima sua, esacerbata, ma trionfante:
Con calma vedo giungere il gran giorno della nostra partenza e rassicuro che ho lottato per ottenere quésta calma. Ero giunto pieno d’entusiasmo, felice di difendere la patria ch’io amo tanto; ma, di fronte alle difficoltà che incontravo da parte dei miei compagni, di fronte alla loro immoralità e alla loro mancanza di vita religiosa, mi sono sentito orrendamente'' solo: ero angosciato. Inoltre il numero sempre crescente di feriti mi faceva apparire la guerra sotto un aspetto tetro ed ebbi paura, sì, ebbi paura di partire. Ma mi avvinghiai disperatamente alla Parola di Dio e Dio mi diede la forza di resistere allo scoramento. La ringrazio, caro pastore, di avermi fatto conoscere quel Dio, di cui i miei compagni negano l’esistenza, ma la cui potenza m'è stata rivelata in modo straordinario. Da un pezzo mi sarei abbandonato alla disperazione se non mi sentissi sostenuto dalla presenza di Dio. Al presente, sono pieno di calma e di fiducia in Colui che vede ogni cosa e di tutto dispone pel bene di coloro che Lo servono. Questa calma mi è venuta a poco a poco, con alternative di alti e bassi; ormai mi sono interamente rimesso tra le mani di Dio: la Sua volontà sia fatta.
Ah! caro pastore; allorquando ci è stata annunciata la nostra prossima partenza, parecchi miei compagni hanno pianto. Quei medesimi giovani, al principio, quando pregavo inginocchiato a' pie’ del mio letto, mi lanciavano contro i loro scarponi, dicendomi che Dio non esisteva, che la morte era la fine di tutto... Allora sembravano calmi; ma, in faccia alla morte che forse li aspetta, si sono sentiti turbati nella loro coscienza e ieri uno di essi m’ha tirato in disparte e mi ha chiesto d’onde veniva la mia calma.
Gli ho mostrato il mio Nuovo Testamento e lo studieremo insieme. La esistenza della coscienza ha un bell’essere negata; essa è lì ugualmente, che parla e sconvolge l’anima umana. Ah no! la religione non è morta; essa è, invece, piena di vita. E’ in grazia sua ch’io posso lietamente fare il mio servizio.
Ancora una volta, grazie, caro pastore ; a Lei sono debitore se parto con calma e sicurezza. Il passo biblico che mi sosterrà dovunque io andrò è questo: L'Eterno è la mia Rocca e la mia Fortezza, di chi avrei patirai
E questa serenità non fa che rinforzarsi. Un mese più tardi egli scrive :
Ho lottato molto per acquistare la calma che ora posseggo. Considero l’avvenire con fiducia, sapendo che mio Padre mi vede e Ch'Egli m’accompagnerà dovunque io andrò: «L’angelo dell’Eterno s’accampa intorno a coloro che lo amano >.
Giunto nelle posizioni di rincalzo, a poca distanza dalla linea de! fuoco, l’animo suo rimane imperturbato:
Virginy, 9 Gennaio 1915.
... Qui siamo felici cpme dei re, ben nutriti, dormiamo benone sulla paglia. Ieri, per venire alla linea del fuoco, abbiamo camminato in silenzio tutta la notte: venticinque chilometri senza fermate con un tempo splendido. Il cielo era illuminato dai razzi e dai riflettori: spettacolo grandioso, ma tragico; avanzavo con calma, Dio è meco.
E in un’altra lettera del medesimo periodo di tempo:
Strana la mia calma! ma in fondo non me ne devo stupire. Ho molto riflettuto, molto pregato, e Dio m’ha dato la serenità e la forza che mi sono necessarie.
Malgrado le ripetute vittorie già. riportate su se stesso ai tempi della caserma, malgrado il dono completo di se stesso da lui consen-
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tito, Escande, nella trincea, conosce ancora le ore del turbamento e dell'angoscia:
Febbraio 1915.
... Ho talvolta delle crisi di scoramento, ma Dio mi dà la forza di vincerle...
... Come tu lo dici, a seconda che la natura è triste o lieta, anch’io sono mesto o allegro. Oh ! quelle ore di scoramento, io le ho conosciute e le conoscerò ancora; ma il mio Nuovo Testamento mi sostiene; senza di lui sarei molto infelice. Non credevo che la fede potesse dare tanta forza.
Ma le nuove lotte terminano con nuove vittorie: il 15 marzo 1915, vien dato il segnale per la marcia in avanti ed Escandescrive:
Stiamo per attaccare i Boches. Ormai il mio motto è: Avanti, coll'aiuto di Dio. Voglia Iddio permettere che i nostri sforzi siano coronati da successo, onde affrettare la fine della guerra. Dio ti sostenga, ch’egli a tutti Conceda la calma e la forza necessaria. In quanto a me, parto pieno di fiducia, confidandomi in Colui che m’ ha difeso sino ad ora.
Nelle ultime pagine del suo giornale, scritte due giorni prima di morire, troviamo ancora queste parole:
24 Marzo 1915.
... Davanti a noi, l’immensa pianura di Francia, dietro a noi il nostro bel paese invaso, saccheggiato e che dobbiamo liberare. Il mio cuore sanguina al pensiero della mia patria mutilata; il fiore della sua gioventù dorme per sempre in quelle pianure tragiche, sulle quali spiccano a migliaia i tumuli sormontati da piccole cróci. Nel pomeriggio mi sento triste, scoraggiato, non' vedo l’ora di tornarmene a casa. Ma Dio. mi dà la forza di vincere questa crisi. Dopo tutto, questa guerra finirà per me in un modo o in un altro. Dio non prende egli cura di me? Non sono io nelle Sue mani? Gli uomini cercano di distruggere il mio corpo; ma l’anima mia non
l’avranno; posso morire, l’anima mia sopravviverà. Che io sia pronto!
* * *
Sfogliando la corrispondenza di Andrea Cornet Auquier si assiste allo svolgimento di uno stato d’animo che, da una condizione di incertezza passa progressivamente ad una condizione di sicurezza assoluta.
Dalle prime lettere del giovane ufficiale spira un sentimento di malinconia, associata però alla fiducia:
28 Settembre 1914.
... Sembra che più questa guerra dura, più diminuiscono le probabilità di scampare; ma abbiamo fiducia nel Padre celeste; nulla succederà senza la Suà volontà...
17 Ottobre 1914.
Ci rivedremo? Non sapere, ecco l’orribile ; eppure meglio così. Se però fosse possibile che Dio rispondesse alle nostre preghiere, cioè che la volontà di Dio s’accordasse coi nostri voti più cari ! Eppure si è pregato anche per tutti quelli che sono caduti ! Insomma... nelle mani di Dio.
15 Novembre 1914.
Come sono talvolta triste per la mia solitudine, pel desiderio di rivedervi, per il senso che la mia vita è in sospeso e che voi siete ansiosi e angosciati ! Penso così poco a me stesso, ma tanto a voi! Vi sono ore in cui non vorrei avere famiglia, essere solo ; sento che allora sarei meno ansioso. Che mi importerebbe la morte che guardiamo in faccia ogni giorno, senza sapere, la mattina, se saremo ancora in vita la sera?...
E poi vi sono ore in cui riprendo fiducia. Mi ripeto le parole che Margherita mi scrisse sopra un pezzetto di carta quando passai per Parigi : « Nulla ti succederà senza la volontà di Dio >. Perciò tutto andrà bene, perchè sarà la volontà Sua. Ed Egli provvederà.
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I40 BILYCHNIS
Dopo due mesi, la maturità spirituale del nostro amico, ha manifestazioni precise: se vuole la pace completa, egli deve sottoporre la sua volontà alla volontà di Dio:
26 Dicembre 1914.
... Penso ad un tratto che il capo d'anno è vicino e che occorre formulare dei voti. Per me non domando altro a Dio che il coraggio di sottomettermi alla sua volontà e, s’egli permette ch’io sia ucciso in guerra, gli chiedo una cosa soltanto: la morte in una vittoria, alla testa della mia bella e cara compagnia.
E questa .volontà egli l’accetta; l’accetta nel modo più assoluto, facendo intero il dono di sè stesso. • La volontà di Dio è buona. e perfetta »:
i° Gennaio 1915.
Sappiamo, tutti noi che combattiamo, che domani o dopodomani dovremo forse restarci. Ebbene: alla grazia di Dio! Egli, che tiene nelle sue mani il nostro destino, sapeva che tale o tal’altro evento succederebbe ; se muoio, vuol dire che tale è la sua volontà, e se tale è la sua volontà, sta bene, non c'è nulla da rimpiangere. Vivrò o morrò soltanto per la Sua volontà. Perciò abbiate fiducia e state tranquilli.
4 Giugno 1915.
Miei diletti, le grosse notizie si succedono; lasciamo questa regione dove abbiamo combattuto da 6 mesi; partiamo fra due ore per l’Alsazia. Vi chiedo di accogliere questa mia notizia e di considerare i pericoli che mi aspettano colla calma delle vecchie truppe ed una intera fiducia in Dio. Egli può proteggermi laggiù come lo ha fatto qui e, quand’anche dovessi pagare colla vita il mio debito verso il paese, è Lui che l’avrà permesso, quindi sarà bene. Voglio sentirvi cristianamente pronti a tutto.
Certo, malgrado tutto, l’assale ancora il turbamento :
30 Giugno 1915;
Le vostre lettere mi hanno fatto del bene. Vi sono giorni in cui s’ha bisogno
dell’affetto, di tutto l’affetto dei propri cari per restar forti di fronte a certe violenti scosse...
Perciò, mentre benedice Iddio, egli cerca di risolvere, per quanto lo riguarda, il problema della vita e della morte in guerra, e lo risolve con un atto di rinnovata consacrazione :
2 Luglio 1915
(data del proprio compleanno).
Sì, è davvero meraviglioso come Dio mi ha protetto! E, come se lo chiede il babbo, perchè? Io non valgo meglio di altri; forse, anzi certamente, valgo meno di molti che sono caduti. Perchè Dio mi ha conservato in vita ? Il babbo si chiede quali sono i disegni di Dio a mio riguardo. Io non me lo chiedo neppure; vivo alla giornata e per l’indomani, pel giorno che volge, per Ogni ora, m'accontento di dirgli : « La tua volontà sia fatta ». E ciò è infinitamente dolce e confortante. Constato la sua infinita bontà e penso a questo soltanto: ad umiliarmi di averla così poco meritata ed a sforzarmi di rendermene ogni giorno più degno chiedendomi che cosa Gesù farebbe al mio posto.
Qualche giorno dopo scaturisce dalle sue labbra un nuovo inno di lode e di gloria :
15 Luglio 1915.
Quale giornata!... Ma Dio è venuto in mio aiuto e mi ha benedetto. Non ardisco riflettere al mistero della sua volontà che non ha permesso ch'io fossi ucciso come gli altri. Questo perchè è per me un’ossessione; sono quasi terrificato da tanta bontà divina; .essa mi opprime. Che cosa mi chiederà? Perchè non ha voluto che fosse suonata la mia ora com’è stato il caso pel mio superiore? A quale compitò vuole chiamarmi? Oppure... oh! io non so. Lo lodo, lo benedico, mi butto ai suoi piedi per ringraziarlo di avermi risparmiato perchè mi sento così poco degno d’un tanto beneficio; ma tremo. Vi sono giorni in cui pare che la bontà divina
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PSICOLOGIA DI COMBATTENTI CRISTIANI
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sia più impressionante della sua collera. Che cosa sono, Dio mio, per ricevere cotanti benefici?...
La lotta interiore ormai è finita, e, se assistiamo ancora a certi scatti melanconici, a certi sfoghi pessimistici, non si tratta più di debolezza spirituale, ma di stanchezza del sistema nervoso, di spossatezza del cuore inaridito dalla guerra.
È il corpo, non è l’anima che geme:
li Dicembre 1915.
... Vi sono giorni in cui invidio il mio cane. Nessuna preoccupazione, buona tavola, buon alloggio, dorme e russa a piacere. Vorrei, per alcune settimane, non più pensare. Mi pare che ciò mi riposerebbe tanto. E’ la fatica cerebrale e nervosa che uccide; per quella non è questione di allenamento, come per la fatica fisica. Camminare tutto il giorno, dormire vestito sulla paglia, ciò è nulla ; pioggia, neve, freddo, vento, anche questo è nulla; ci si fa a tutto. Ma è la testa; ci sono certi giorni in cui sembra che. mi si rammollisca il cervello. E poi nulla,nulla, nulla pel cuore.
Come non comprendere l’angoscia di quel combattente; ma come non ammirare, altresì, la fede di quel cristiano! Nella notte misteriosa in cui muore l’anno vecchio e nasce l’anno nuovo egli scrive:
31 Dicèmbre 1(915.
Ci sono momenti in cui ci si sente accasciati, prostrati. Uscire da quest’in
cubo, uscire da questa atmosfera in.cui si soffoca, e poi dirsi: lottare, lottare ancora ! Non mai parlare al futuro ! Non mai poter dire: domani! Sulla soglia di questo nuovo anno, Si ha l'impressione di arrivare, sopra uno stradone, ad una pietra miliare, ma i chilometri non vi sono segnati. Si conósce là distanza percorsa, s’ignora ciò che rimane da percorrere. Avanti! la via è lunga ancora, e penosa ; ma essa conduce alla meta. Come diceva Giovanna d’Arco: « I soldati combatteranno, e Dio darà la vittoria ».
E per questo possiamo assistere allo spettacolo sublime dei combattenti che incoraggiano alla resistenza quelli che — rimasti, a torto od a ragione, lontani dal fronte —soffrono ed arrischiano mille volte meno di loro :
8 Febbraio 1916.
... Spero che questa mia vi troverà coraggiosi e fiduciosi. Noi del fronte abbiamo tanto bisogno di sentire il coraggio e la fiducia di quelli che stanno dietro a nói. Ciò ci aiuta a sopportar tutto e ci fa sentire che lavoriamo per qualche cosa.
Quando il capitano Andrea Cornet Auquier rese la sua bell’anima a Dio, i cieli accolsero lo spirito di Uno che, nei lottare per la vittoria comune, era giunto alla piena vittoria su se stesso: l’ideale del Vincitore!
{Continua} Giovanni Meille.
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA
E NEL NUOVO CODICE DI DIRITTO CANONICO
(Continuaziooe c fine.
Vedi Bilychnii del 15 luglio 1919, pag. 45)
3. Il tribunale ordinario di seconda istanza.
.l tribunale del vescovo suffragane© si appella al metropolita. Non per tutti i reati, però, è concesso questo diritto d’appello. Nel processo criminale ex notorio, ad esempio, è esclùso, e il can. 147, L. IV, sancisce: « si actor vel reus aut eorum patroni haec commiserint iniudicem vel tribunal eccle-siasticum (li abbiano, cioè ingiuriati, o abbiamo eccitato odi contro i loro decreti e sentenze), aut legitimam eorum ac-tionem impedire tentaverint, privati... ipso facto manent iure
eandem causam prosequendi in foro ecclesiastico aut appeUationem interponenti » (1). Dalle cause trattate in prima istanza davanti al Metropolita, « erit appellati© ad alium Metropolitan! vel Episcopum, quem ipse Metropolita, probante Sede Apostolica, infra annum a publicatione huius Codicis designaverit » (Can. 67, § 2, L. V) (2). Il giudice d’appello, dunque, non solo lo designa lo stesso Metropolita, ma può essere anche un vescovo, e un vescovo suo suffragane©, come risulta dal § 3 dello stesso canone: « Pro causis primum agitatis coram archiepiscopo qui caret suffraganeis... erit appellati©, ecc. » (3),
Ora, con questa disposizione, la situazione reciproca del Metropolita e del vescovo suffragane© viene ad essere singolarissima, poiché dalla sentenza del Metropolita si appella al vescovo, e da quella del vescovo al Metropolita. Certamente, non si daranno torto a vicenda!
Ma anche quando non si verifichi questo caso, raramente accadrà di vedere annullata in sede d’appello la sentenza dell'ordinario. Questi, oltre i rapporti personali, ha sempre modo d’influire sul giudice d'appello, che dopotutto è un suo collega e spesso di grado uguale. Ragioni poi di buon ministero e di prestigio indurranno il giudice di secondo grado a confermare la sentenza del primo. Ma egli
(1) Questo Canone è stato soppresso nel Codice.
(2) Codex, Can. 1594, § 2.
(3) Codex, Can. 1594, § 3.
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA, ECC. I43
può anche respingere addirittura l'appello come inutile e vessatorio. Esso è tale: « i° Quoties in praesentiarum nullo probabili argumento innitatur, nec aliquid vàlidius et efficacius ad fulciendam appellationem pars afierre valeat. 2° In causis iuris mere privati quae prudenti iudicis arbitrio minimi momenti aestimatae fuerint, quoties sententia appellata non appareat evidenter iniusta » (Can. 407) (1). Con questo criterio non c’è appello che, con un po’ di buona volontà, non si possa fin da principio respingere. Comunque, se il colpito dalla sentenza dell’ordinario è un ecclesiastico, penserà bene prima di appellare, perchè nell’ipotesi più favorevole, cioè nell’ipotesi di vittoria, al superiore non mancherà l’occasione di rivalersene in seguito.
« Tribunal appellationis eodem modo quo tribunal primi gradus constituí de-bet » (Can. 68, § 1) (2). È dunque la stessa costituzione del tribunale di prima istanza, al quale perciò si adattano le stesse osservazioni fatte sopra.
A modo di corollario, aggiungiamo che il diritto canonico offre altri rimedi giuridici contro la sentenza giudiziale: sono i rimedi giuridici straordinari della querela nuUitatis e della restituito in integrum. I casi in cui la sentenza è viziata di nullità sono specificati nel Can. 390 (3). Se la querela nuUitatis viene esperita da sola, separatamente dall’appello, allora, a meno che non si tratti di una sentenza rotale, deve esser proposta non solo davanti al medesimo tribunale che l'ha emanata, ma anche dinanzi lo stesso giudice. Ora, specialmente se il motivo di nullità dipenda da colpa o da negligenza di lui, non sarà facile ottenere l’annullamento della sentenza. È vero che « si pars iudicem, qui'sententiam tulit, praeoccupatum animum habere vereatur et idcirco suspectum esse exceptionem suspicionis opponete potest ut alius index, sed in eadem iudicii sede, in locum suspecti subroge-tur » (4), ma allora ritornano in campo tutte quelle difficoltà già rilevate parlando dei casi di legittima suspicione (5). E ammesso che la sentenza venga annullata, chi sarà competente a trattare di nuovo la causa? Non lo si dice, lasciandosi così supporre che sia lo stesso giudice che ha emesso la sentenza annullabile.
Lo Schema stabilisce che: « Adversus rem iudicatam peti non potest restitutio in integrum nisi ex grafia a Summo Pontífice » (Can. 421) (6). Entro qual termine però si debba chiedere, non è detto.
(1) Questa disposizione è stata tolta nei Codice.
(2) Codex, Can. 1595.
(3) Cfr. Codice, Can. 1892,01894. C’è qualche differenza tra il Codice e lo Schema-Lo Schema annovera tra i vizi di nullità il seguente, se cioè: «pars dispositiva \scn-tcntiae) innititur evidenti iuris vel facti errore, e. g. documento quod deinde falsum detectum est »; il Codice ne fa invece un motivo per chiedere la restitutio in integrum e annovera altri due vizi di nullità che nello Schema mancano: i° chi ha agito in nome altrui, senza uno speciale mandato: 20 se nella sentenza manca l’indicazione dell'anno, del mese; del giorno, del luogo in cui essa fu pronunciata.
(4) Codex, Can. 1896.
(5) Sarebbe stato assai opportuno adottare almeno la clausola stabilita dal Codice pel caso in cui si chieda la restitutio in integrum: « Ad restitutionem in integrum con-cedendam competens est index qui sententiam tulit, nisi ea petatur ex ncglccto a indice praescripto legis; quo in casu eam concedit tribunal appellationis (Can. 1906).
(6) Sui ricorsi per la restitutio in integrum giudicava, come è noto, la Rota. Ora il Codice dice che è competente a concederlo chi ha emanato la sentenza (Can. 1906). Ma se non vien concessa, si può ricorrere a un’autorità superiore? E in caso affermativo, a quale? Il Codice non lo dice.
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144 BILYCHNfS
Perchè si possa chiedere, lo Schema non stabilisce nessuna condizione; ma secondo i canonisti, occorre:
una lesione notevole;
che la sentenza sia manifestamente ingiusta;
che non si possano esperire nè l’appello, nè la querèla nullitatis (i).
La domanda della restituito in integrum non impedisce l’esecuzione della sentenza (2).
Non solo dunque l’appello, ma anche questi due remedia iuris extraordinaria (ai quali si può pure aggiungere il . terzo, anche più straordinario, se così si può dire, del beneficium novae audientiae) non rimediano veramente alle mancanze di garanzie del diritto canonico, presentando deficienze e scarseggiando di garanzie essi stessi.
II. Le garanzie presso i tribunali della Sedè Apostolica.
I. 1 TRIBUNALI ORDINARII : LA ROTA E LA SEGNATURA.
Hll'apice della gerarchia ecclesiastica, il Pontefice è il capo assoluto della Chiesa. Tutti i poteri sono nelle sue mani per diritto divino: « Romanus Pontifex legitime electus, statini ab accep-tata electione, obtinet, iure divino, plenam supernae iurisdic-tionis potestatem » (3); potestà che, come dichiara spesso il legislatore, non dipende da nessuna autorità civile : a quavis civili auctoritate independens.
Non c’è, almeno astrattamente parlando, nessuna guarentigia di giustizia che possa coesistere con l’illimitatezza del potere del papa. Le osservazioni fatte a proposito della giurisdizione dei vescovi valgono, e afortiori, anche qui. Il domma dell’assoluta superiorità del papa sul Concilio ecumenico è divenuto anche un canone di diritto: « Concilii decreta vini defìnitivam obligandi non habent, nisi postquam a Romano Pontífice fuerint confirmata» (Can. 128,.L. Il) (4). Egli può far leggi da se, da sè abrogarle, modificarle sempre e quando gli piaccia (5).
Egli è naturalmente anche giudice, è anzi il giudice supremo, e come tale « nemine iudicatur (6). Dalla sua sentenza non è ammesso appello nemmeno al Confi) Nemmeno il Codice fa cenno della prima condizióne; ma specifica chiaramente le altre due.
(2) Il Codice, anche qui modificando, dice: « Petitio restitutionis in integrum sententiae executionem nondutn inceptam suspendí! » (Can. 1907, § 1).
(3) Codex, Can. 219.
(4) Il Codice, can. 227, aggiunge: « confirmata et eius iussu promulgata ».
(5) I canonisti e i teologi insegnano che la sua potestà si arresta solo dinanzi al diritto divino e al diritto naturale. Ma quale sia poi l'ambito preciso del diritto divino e del diritto naturale nessuno sa dirlo all’infuori... dello stesso pontefice.
(6) Lo Schema però ha la seguente disposizione che nel Codice è stata omessa: «... si quis pro re temporali actionem contra eam (Sedem Apostolica™,) experiendam habere censeat, ad Romanum Pontificem per supplicem libellum recurrat, qui, si opportunum duxerit, et iudicem designabit et personam quae ipsius Pontificis nomine aget». (Can. 11, § 2, L. V).
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA, ECC. 145
«ilio ecumenico: « a sententia Romani Pontificis ad Concilium oecumenicum appellati© non datar » (i). Chi, ciononostante, osa appellare, sia egli anche un re, un cardinale. un vescovo, contrae.ipso facto la scomunica riservata speciali modo alla Sede Apostolica: e i colpevoli siano le università, i collegi, i capitoli e altre persone morali, contraggono l’interdetto riservato anch’esso speciali modo alla Sede Apostolica (Can. 134, L. IV) (2). Egli può far sospendere anche un processo già iniziato, in qualunque stadio, pur se vada di mezzo la fama dell’imputato.
Il papa giudica d'ordinario mediante i tribunali della Rota e della Segnatura, e più di rado per mezzo di giudici delegati. Ma quando giudica da sè, quale prò-. cedura deve seguire? E se la sua sentenza non soddisfi, a chi ricorrere? (3).
I giudici delegati dalla Sede Apostolica possono servirsi dei ministri della Curia in cui debbono giudicare, ma hanno facoltà anche di eleggerne altri sibi bcnevisos, e la loro giurisdizione possono" suddelegarla anche in modo abituale. Talora giudicano con la clausola «appellatione remota», nel qual caso è ammesso uincarnente il ricorso al papa, e solo in devolutivo (4).
La competenza della Rota e della Segnatura è rimasta immutata. Lo Schema tuttavia riproduce solo pochissimi canoni della Lex Propria di questi due tribunali; dell'fWo Servandus come pure delle Regulae Servandae non c’è traccia. La Rota e la Segnatura debbono seguire le norme di procedura stabilite per gli altri tribunali: «Cetera tribunalia servare debent praescripta canonum huius libri» (Can. io, L. V) (5).
Certo, la Rota e la Segnatura offrono garanzie assai maggiori dei tribunali diocesani. Hanno però alcuni vizi intrinseci comuni, quali la non pubblicità delle udienze, il segreto del nome dei testimoni, ecc. Rimandiamo perciò alle osservazioni già fatte parlando dei tribunali ordinari di prima istanza (6).
2. .Il TRIBUNALE STRAORDINARIO DEL S. OFFICIO (7).
« 6° Nel trattare gli affari che riguardano il dogma e la morale, e nel giudicare dei delitti di eresia o di altre colpe che inducono sospetto di eresia... il S. Officio procede secondo la pratica che gii è propria e speciale.
(1) Codex, Can. 228, § 2.
(2) Codex. Can. 2332.
(3) Veramente lo Schema (Can. 412, L. V), concede il beneficium novae audientiac: « Contra sententiam ipsius Summi Pontificis... potest dumtaxat... beneficium novae audientiae postulati, allegando congruas causas ad novum examen obtinendum ». Il Codice però l’ha tolto..'
(4) Il Codice però non ne parla affatto.
(5) Codex, Can. 1555, § 2.
(6) Il Can. 390. L. V, dello Schema, sancisce categoricamente che se la sentenza è priva di motivazione è nulla e si può proporre la querela nullilalis. Il Codice però dice che la sentenza della Segnatura, anche se priva di motivazione, è valida ugualmente: « Supremi Tribunalis Signaturae sententiae suam vim habent. quamvis rationes in facto et in iure non contineant » (Can. 1605, § 1).
(7) Benché il S. Officio non sia un tribunale ordinario, nel senso stretto canonico, tuttavia alcune cause sono di sua esclusiva competenza, e poiché ha una fisionomia tutta propria, abbiamo ritenuto opportuno farne alcuni cenni in un paragrafo a parte.
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« 70 La pratica di procedere del S. Officio, di cui al num. 6 precedente » dovrà « al più presto mettersi in iscritto ».
Così stabilivasi nelle Normas Peculiares, cap. VII, dell’Or¿o Servandus nella Curia romana. Ma questa pratica è mai stata messa in iscritto? E in caso affermativo, è destinata alla pubblicazione? Lo Schema dichiara solo che « Tribunal S. Of-ficii suo more institutoque procedit sibique propriam consuetudinem retinet » (Can. io, L. V) (1). Pare dunque che tutto sia rimasto come era. In altre parole, è il mistero e l’arbitrio che ancora vi dominano. Che vuol dire « procedere secondo la pratica che gli è propria e speciale » se non si dice qual’è questa pratica? E come potrà l’imputato difendersi contro le sorprese e le incognite di essa? Egli è in piena balia degli accusatori e dei giudici.
Del resto, questo tribunale si chiama appunto straordinario in quanto che non è vincolato quasi da nessuna regola; perfino i dubbi che potessero sorgere su la sua competenza li dirime da sé (2). È certo che se domani, cambiando la situazione politica, potesse tornare a funzionare come una volta, non dovrebbe mutar molto alla «pratica che gli è propria», giacché deve essere ancora intrinsecamente quella di parecchi secoli fa; ma la natura delle condanne, quella, sì, muterebbe davvero? E su la mancanza di garanzie di siffatto tribunale non occorre spender parole.
Ma non si può passar sotto silenzio il reato di sollecitazione in confessione. Questo reato induce il sospetto di eresia ed è per questo che ne è giudice il S. Officio. Ma anche i vescovi hanno il dovere di occuparsene, come in genere di tutti i delitti di eresia, nella loro qualità di inquisitori nati. Su questo punto sono collaboratori del S. Officio. La relativa procedura si conosce un poco traverso le istruzioni date in proposito dal S. Officio ai vescovi, i cui tribunali, per questi delitti, debbono conformarsi alle sue norme: « Inferiora tribunalia in causis quae apud S.Officii tribunal spectant, normas ab eodem traditas sequantur oportet » (Can.io, L.V).
Per questo reato si deve procedere giudizialmente, e si apre così un’istruttoria penale a carico del confessore in base alla semplice deposizione della penitente. Ma per ragioni intuitive, una tale deposizione nove volte su dieci è sospetta. Nè a questo difetto intrinseco si rimedia nominando due testimoni che conoscano bene il confessore e penitente, e riferiscano su la morigeratezza del primo e su l’attendibilità della seconda. Ma i testimoni stessi sono attendibili? E posto anche che lo siano, essi, tanto del confessore che della denunziante, possono essersi fatto un concetto erroneo.
Le Istruzioni del S. Officio fanno obbligo all’ordinario di interrogare i testimoni circa i rapporti d’amicizia tra il confessore e la penitente. Ciò è ingenuo, perchè se tra i due vi sono rapporti intimi, non sarà al confessionale che il confessore solleciterà la penitente; se poi tali rapporti non esistono, i due testimoni non sapranno dir nulla anche se la sollecitazione sia realmente avvenuta. D’altra parte, quand’anche i testimoni fossero concordi nell'ammettere nel confessore la capacità a commettere questo reato, non deriverebbe mai che egli l’abbia positivamente commesso. A posse ad esse non datur illatio, dicevano gli scolastici.
(1) Codex, Can. 1555.
(2) Normas Peculiares, cap. VII, n. 6.
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA, ECC.
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L’accusato è chiamato e ammesso a difendersi, ma in ultimo, quando già tutto è deciso. Comunque, la sua difesa non potendo consistere in un’eccezione contro l’attendibilità dei testimoni, perchè gli son tenuti celati, sarà per forza limitato ad asserire che la deposizione della penitente è falsa. Dico « asserire » e non « dimostrare», perchè la dimostrazione importerebbe il più delle volte, se non sempre, la violazione del sigillo sacramentale. Ora, « sacramentale sigillum inviolabile est » (Can. 162, L. Ili) (1). Di più « omnino prohibitus est confessano usus scientiae ex confessione acquisitae cum gravamine poenitenlis, recluso etiam quouis reve-lationis periculo » (Can. 163, L. Ili) (2). Non si tratta, dunque, che di una difesa apparente.
E qui chiudiamo il nostro rapido esame. Nel quale una cosa sopratutto colpisce: l’illimitatezza del potere del giudice, e più particolarmente del Vescovo. Il legislatore si affida quasi unicamente alla sua prudenza, alla sua rettitudine, alla sua imparzialità, facendo così dipendere dalla persona ciò che dovrebbe dipendere dalla legge stessa. D’onde deriva che il nuovo Codice di diritto canonico, più che il valore tassativo e rigoroso di una legge, ha il carattere approssimativo di una guida e di una direttiva ad uso del Superiore.
* « *
A modo di conclusione, mi si permettano ora alcune considerazioni non puramente di ordine giuridico. Ho rilevato finora le principali mancanze di garanzie nello Schema del nuovo Codice di diritto canonico; ora vorrei dimostrare che tali mancanze sono ineliminabili nel diritto e nell’ordinamento giudiziario ecclesiastico, cioè che garanzie efficaci nella Chiesa non ci possono essere.
La Chiesa è fondata sul dogma che investe anche, nelle sue linee essenziali, la formazione e il funzionamento del suo diritto giudiziario. Il dogma è immutabile, e il Codice ne reca l’impronta anche in parecchi canoni, che sono veri articoli di fede. La confusione di tutti i poteri nelle persone del Pontefice e degli Ordinarli ne è appunto una conseguenza, anzi è essa stessa una verità di fede.
Per un altro presupposto dogmatico,, il fine della Chiesa è la salvezza delle anime. A questo fine (che talvolta nondimeno, come si è veduto, è fatto valere come un pretesto per celare una ragione ancor più forte) bisogna giungere con ogniz mezzo. Salus animarum suprema lex. La teoria che il fine giustifica i mezzi non è nuova per là Chiesa. Così si possono giustificare pienamente la rimozione e il trasferimento dei parroci senza forme giudiziali, il segreto del nome dei testimoni e dèi documenti, e perfino il S. Officio. Non è quindi possibile, entro la Chiesa, reclamare riforme giudiziarie in nome dei mutati' bisogni e delle nuove esigenze della coscienza sociale.
L’illimitata cerchia d’arbitrio lasciata agli Ordinari e la suprema autorità del Papa, derivano dalla confusione stessa di tutti i poteri nelle loro mani, come anche, in gran parte, dalla presunzione che il Superiore non sbaglia, confortato come è
(1) Codcx, Can. 889, § 1.
(2) Codcx, Can. 890, § 1.
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sempre, più o meno direttamente, dall'assistenza divina. Il dogma dell’infallibilità ha le sue ripercussioni anche su questo punto. Infine la Chiesa è una società gerarchica in cui il primo canone, che pur non figura scritto nel Codice, è quello dell’obbedienza.
Per la qual cosa, il nuovo Codice di diritto canonico non poteva offrire garanzie solide e serie. Esso non poteva essere sostanzialmente diverso da quello che è. Se il legislatore avesse voluto riparare a tutte le lacune messe in rilievo in questo studio, si sarebbe dovuto mettere, quasi sempre, in disaccordo con la tradizione, col dogma, con tutto lo spirito politico della Chiesa. Ciò che sarebbe stato un assurdo. Ma se così è, mi si potrebbe obbiettare, a che scrivere questo lavoro ? Per due ragioni: prima, perchè, come dissi in principio, il soggetto non fu di mia libera scelta; seconda, perchè, comunque, non mi è sembrato inutile far vedere al pubblico e allo stesso clero quali garanzie sia venuto ad offrire questo nuovo Codice, che era atteso da tanto e che tante illusioni aveva create.
(***)
Mi è grato rilevare come il presente studio ha trovato molte simpatie e molti consensi pur tra gli stessi cattolici e tra lo stesso clero. Varie lettere mi hanno procurato le precedenti puntate, ma tra tutte mi sembra di grande interesse la seguente che è, in più parti, come un complemento del mio lavoro e che provenendo da un pio sacerdote, acquista una singolare importanza :
AH'Ill.nto Autore degli studi « Mancanza di garanzie nello schema e nel
Codice di Diritto Canonico ».
W;
6 ottobre 1919.
Premetto di non essere nè Canonista, nè Curialista, nè Modernista: sono un sacerdote e parroco, che desidera, oltre il bene delle anime, anche il decoro del Clero; e che ha sempre sentito in vita sua la necessità che nell'organizzazione della Chiesa entrasse un poco (almeno un poco) di ciò che ha avvivato e che avviva le legislazioni e i popoli civili. Quando quindi si cominciò a parlare di codificazione del D. C. sperai che un soffio di modernità venisse a vivificare antiche c viete formule curiaiistiche, le quali erano un anacronismo; e certo assolutismo che ora non si comprende più. almeno pei sacerdoti, che di obbedienza hanno una semplice promessa, non un voto come i religiosi, non vi trovasse adito: ma al primo leggere il Nuovo Codice fu in me il massimo disinganno. Le idee assolutistiche c quasi direi dispotiche noi le troviamo se non codificate, almeno legalizzate; e sono tanti i canoni che lasciano al prudente (???) arbitrio dcll’Òrdi-nario il prete suddito: sono tante e tante le cose che il sacerdote‘non può farcsiNE licentia ordinarii che, credo, i regolamenti dei seminarii non siano così ristretti. Cito solo un esempio fra i tanti. Nessun Teologo o Canonista ha mai negato al sacerdote di disporre a sua volontà dei beni proprii; c fra. questi vi sono anche (secondo i sullodati canonisti e teologi) i beni parcimoniali sui frutti del beneficio che il parroco o beneficiato fecit suos, ma ora il can. 137 ti obbliga, se per un affare hai bisogno di un prestito, o se tu voglia fare un piacere ad un amico facendogli garanzia; a chiedere il permesso dell’ordinario il quale certamente vorrà sapere il come, il quando, il perchè: informarsi, ccc.. ecc... contro quel diritto che ognuno ha ex jurc naturali di liberamente disporre del proprio diritto, che il Diritto canonico precedente non aveva mai negato
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MANCANZE DI GARANZIE NELLO SCHEMA, ECC. I49
ai sacerdoti, i quali non sono legati nè da promessa nè da voto di povertà come i religiosi. Del resto i religiosi ammettendo il voto di povertà abdicano scientemente e volontariamente a tale diritto.
Non dirò poi della prontezza colla quale tutte in genere le nuove disposizioni restrittive sono state applicate da varii Ordinar); senza riguardo a sacerdoti che da molto tempo esercitano il ministero, mi pareva che, trattandosi di vescovi che dovrebbero essere forma gregis ex animo. almeno la carità avesse dovuto consigliare a non ricorrere al summum jus della legge contro quelli che quando volontariamente abbracciarono lo stato sacerdotale non erano legati da questi vincoli. Ma in tutto il Codice vano è cercare la carità altro che in espressioni platoniche.
Ma non è questa la ragione del mio scritto, lo ho letto i suoi articoli; c sono stato molto edificato della moderazione colla quale Ella ha trattato gli scabrosi argomenti dei processi giuridici e specialmente amministrativi; e la sobrietà con cui si è espresso riguardo alla fiducia nei giudici, esaminatori sinodali e parroci consultori. Ora io le dico francamente, in queste persone, per ciò che riguarda i giudizi in genere di processi, non ho alcuna fiducia. E mi spiego.
Per quanto mi consta più o meno in tutte le Diocesi vi è una camarilla ecclesiastica che per lo più ha le basi in seminario: ed è là che il giovine ecclesiastico juste o injuste vede determinata la sua futura carriera. Ho detto juste o injuste perchè non è stato raro il caso, che i portati {è parola d'uso fra noi) dal seminario, abbiano poi fatto non liete figure. Nei nostri seminari regna ancora troppe il gesuitismo pietista; e con un po’ di ipocrisia, di collo torto e di spionaggio (questo sovratutto) la carriera è assicurata. Muore un vescovo, se ne manda uno che non sa neppure ove'sia piantata la sua nuova diocesi (piaga questa gravissima della costituzione ecclesiastica): ma subito la sullodata camarilla lo attornia: e se il nuovo vescovo vuol vivere quicto.è in breve ridotto a farne i voleri (tanto che vige il proverbio ad ogni cambio di vescovo : « Si cambia il Santo, ma la cornice è sempre quella »); ed è fra i soci di esse camarille, o almeno da suoi beniamini che, come i Vie. For.,vengono estratti esaminatori giudici sinodali c parroci consultori. Di più come vengono eletti? Dal Sinodo, o nel Sinodo? Le parrà una sciocchezza questa distinzione; ma può e vuole invece dir molto. Eletti dal Sinodo intendo che gli aventi diritto a voto, schedis secretis, votino per un certo numero di sacerdoti, ognuno dei votanti seguendo il proprio parere; poi .che, collatis suffragiis, si tenga un regolare scrutinio (ho dimenticato di notare: che l’ordinario non presenti una lista propria) e quelli sieno nominati che hanno la maggioranza. Allora si possono, o megliosi potrebbero dire nominati dal Sinodo. Ma questo che io sappia non avviene. Si nomina nel Sinodo, cioè così ; (almenoa... nell’anno..,)si lessero pomposamente i decreti del Tridentino sugli Esaminatori Sinodali, si lessero parole di S. Carlo esortanti i votaturi a non prendere norma dalla carne e dal sangue, ecc., ma perchè per coloro votino che in coscienza, ecc.’.ecc. Poi si distribuirono schede già stampate portanti 20 nomi di sacerdoti, posti in ordine alfabetico (tutti, si sa, camarillisti c non tutti per scienza cospicui). L’ordinario dichiara che i votanti non possono aggiungere nomi: ma però possono cancellare i nomi di persone sgradite. Si vedono i votanti all'opera colla matita. (Mi perdoni, ma la commedia è degna di esscie descritta da chi, come fui io, era presente). Indi con un vassoio (non urna) si raccolgono le schede, si vuotano in un foglio di carta, che si suggella, o almeno si finge di suggellare. La commedia è finita. Al giorno dopo la farsa. La prima cosa dopo le lunghe preghiere è la proclamazione degli eletti esaminatori sinodali. Chi sono? Sono tutti i venti i cui nomi eran stampali nella scheda: nello stesso ordine. Chi ha scrutato? Chi ha assistito allo scrutinio? Quanti voti hanno riportato? Mistero. Segreto.
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Questi esaminatori non si possono dire nominati dal Sinodo: ma nel Sinodo: cioè imposti al Sinodo. Pei giudici, andò più spiccia: se ne promulgarono solo i nomi, senza neppur parvenza di voto e scrutinio.
Ora, non solo personaggi nominati in tal modo non ispirano fiducia, ma anzi ispirano... tutto il contrario. Io credo che quello che è successo a ../ succede più o meno dapertutto. Quindi Ella molto sobriamente si è espresso quando parla del parere che tal gente può dare all’ordinario.
Altro punto a cui Ella ha appena accennato sono i can. 2154,- 2155 dai quali appare che se il parroco non accetti le paterne (??) esortazioni c non si sottometta subito ma cerchi (come ella ben dice: per diritto naturale) di difendersi, vien gettato, come suol dirsi, in una strada, a mendicare il pane o ad entrare (cosa che pur qui si è veduta) nel Provinciale Ricovero di mendicità. Il § 2° poi del can. 2156 mostra la carità cristiana ed ecclesiastica verso un parroco abitualmente infermo. E questo paragrafo doveva essere tolto affatto. Di fatto questo solo può avvenire se la causa della rimozione sia la prima del § 2, can. 2147, permanens infirmitas... corporis: ma aggiunge, si judicio ordinarli per vicarium adjulorem... provideri nequeal ad normam can. 475. Ma il can. 475 prevede appunto il caso di impotenza fisica di un parroco, e impone all’ordinario l’oò-bligo di dare il coadiutore. Quindi la causa della inferiorità del parroco esposta nel can. 2147 non dovrebbe essere nominata; il parroco impotente od infermo non esser rimosso: e alla parrocchia si dovrebbe provvedere col coadiutore. Ma la malizia temo sia nel)'(mignola eidem congrua jructuum por Lione, c cioè quando il benefizio non sia sufficiente a mantenere coadiutore e coadjuto. 'Allora si manda al Ricovero il parroco che pula caso per moltissimi anni ha retto la parrocchia, per renderla vacante e collocarvi un qualche camarillista (anche questo si è visto). E per uscire di celia e di imbroglio io dico: o vale il § 1 del can. 475 e allora l’ordinario deve dare il coadiutore c se' la tenuità del beneficio noi permette deve trovare (e se vuole trova) il mezzo di provvedere il coadiutore e lasciar morire in pace il vecchio parroco e non contristarne le agonie: e allora si cancelli il § 2 del can. 2156, che è un insulto alla carità. O volete conservare questo secondo canone: e allora cassate il § 1 dal can. 475. Io non vi vedo altra via di uscita.
Ora si agitano i parroci contro il Governo per aumenti di congrua, ecc.: tutto bene. Ma dovrebbero pensare: che almeno il Governo ai benefizi di congrua non fa pagare tasse di Bolle e di Curia Vescovile o di Dateria Romana: che il Governo non impone Visite Pastorali dispendiose; che il Governo non impone frequenti Esercizi Spirituali, essi pure dispendiosi; che il Governo non leva tasse (con paterne ammonizioni) per ¡'Obolo di S. Pietro; che il Governo non fa applicare la Messa nelle Feste soppresse trattenendosene la elemosina; e che infine, se un parroco ha bisogno di denari per fabbriche o simili, il Governo darà poco ma dà certamente, e più delle Curie Vescovili e Romana. Questo sarebbe da dirsi ai congressisti che presto si riuniranno a Napoli.
E poiché ho accennato alle non lievi somme che i Vescovi incassano col trattenersi le elemosine delle Messe che fanno applicare nelle feste soppresse, invece della Messa prò populo, e di tutte le altre Messe che celebrano i Sacerdoti binanti (somma, si intende, senza controllo), si spiega l'aver io detto sopra che l’Ordinario se vuole può aiutare il coadiutore d’un parroco vecchio impotente, senza mandare il parroco stesso al ricovero di mendicità.
(Segue la firma).
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PER LA CULTURA DELL’ ANIMA
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i suoi appunti, ebbe una mossa di ribrezzo.
È mai possibile, mormorò egli, che sia stato io a tracciare queste righe abbo-minevoli!
Fece a pezzi il foglio c ne prese un altro Questa volta — simile al musicista che ha provato il suo strumento e che ne ha tratto accordi vari prima di trovare la nota buona — il pastore era anche lui nel tono giusto. Pieno del suo argomento ci meditò come segue:
« Quanti secreti tra un pulpito e un predicatore! Ci si sale pieni di sicurezza e se ne discende confusi: ci si sale attristati e se ne discende confortati, ci si sale portando il peso dei propri peccati c della propria indegnità, e avviene che, rialzando gli altri, si è rialzati se stessi. Voi, pulpiti muti, siete da per voi stessi eloquenti e sconvolgenti predicazioni pei servitori della Sarola. Per molti siete il legno del martirio ove consumano la loro vita e dànno il loro cuore senza che alcuno ne sia loro grato. Gli uni salgono questi gradini nell'atteggiamento d’un galeotto che strascina la catena e, condannati, predicano, perchè bisogna predicare: gli altri, guidati da una mano invisibile, parlano perchè non possono fare altrimenti. Tutti tremano dinnanzi agli uomini, alcuni davanti a Dio ».
A questo punto, il pastore assorto, vinto da un pensiero troppo forte, lasciò cadere la mano e non potè continuare a scrivere. Ebbe come una visione dell’immensità dei suoi doveri e della sua debolezza. Davanti agli occhi suoi comparve, colla nitidezza d’un panorama di settembre, tutto il suo passato di predicatore, dandogli una impressione ad un tempo grande e melanconica di quella vita di pastori d’uomini che era la sua. Vedeva se stesso camminare Siù, dapprima giovanissimo, quasi fan-o, quando toccava alle funzioni pastorali come si tocca ai vasi sacri; poi si vedeva nell’età ardente, entusiasta, in cui il pensiero fermenta nel cervello come il sangue ribolle nel cuore, in cui nulla sembra inaccessibile; poi nell’età matura in cui la speranza, piegando già le ali, torna dalle immensità per chiedere la salvezza al lavoro paziente ed oscuro, alla fedeltà nei minuti particolari, finalmente vedovasi nell’età estrema, mentre s’avviava con passo eguale verso quel termine misterioso, il cui presentimento stampa in fronte agli uomini religiosi una bellezza austera, più
commovente ancora della stessa grazia infantile..
Il vecchio predicatore guardava la sua vita come può1 farlo un brav’uomo che. senza rimpiangere resistenza, la ricomin-cerebbe volentieri a condizione di potervi correggere alcuni errata. Nel segreto del suo cuore, ci confidava questi ultimi al Dio che giudica e che perdona. Eppure, in quell'ora in cui si destava la parte migliore di se stesso, si presentava al suo spirito con un’ansiosa persistenza un quesito che da qualche tempo confusamente lo tormentava: il grande polemista chie-devasi se aveva fatto bene di consacrarsi interamente, a ciò che in altri tempi aveva chiamato la guèrra di Dio. Tale guerra gli appariva adesso colle sue passioni umane-e le sue piccolezze; ricordava i colpi da lui vibrati, i cuori da lui feriti, cuori forse sinceri, parecchi dei quali non battevano più e che Dio confortava in cielo del male che i suoi campioni avevan fatto loro sulla terra. Tutto ciò aveva forse contribuito all’avanzamento del regno divino? Gli uomini eran per ciò diventati migliori, la Chiesa meno fragile? La missione del predicatore è davvero quella di difendere iddio, oppure gli eroi di quella lotta, in cui l’uomo offre all’onnipotente uno scudo per coprirsi, altro non sono, dopo tutto che le vittime d'una illusione malefica? Fra le vite perse e le fatiche inutili non vi sarebbero forse quelle consumate nel combattere nel nome di Dio gli uni contro gli altri, invece di accordarsi per servirlo? Pensieri gravi, suscitati nell’animo del lottatore invecchiato dalla prossimità delle cose eterne e che gli procuravano istanti d’abbattimento mortale: di fronte a simili pensieri ei non s’era mai sentito così disarmato, cosi completamente impotente.
• * *
Mentre in tal modo s’assorbiva nel suo pensiero, avvenne che, o per le condizioni atmosferiche o perchè stanco di spirito, la sua contemplazione degenerò in sonno. Ben presto, profondamente addormentato, gli sembrò vedere in sogno il suo pulpito nuovo. La chiesa era piena di gente c, cosa strana, gli antichi uditori, morti da un pezzo, erano tutti al loro posto solito, frammischiati ài vivi. Un cantico inaudito riempiva le navate e faceva vibrare perfino le pietre delle colonne. Poi si vide salire in pulpito un predicatore di genere
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nuovo. A vederlo, pareva averlo visto sempre: i suoi lineamenti esprimevano una dolcezza infinita ed una energia possente; prima ancora ch’egli aprisse bocca, tutto l’uditorio era sospeso alle sue labbra. Come per affermare ch’ei non ripeteva la sua autorità da qualsiasi cosa esterna, ei non si servì <lel Libro sacro: era, senza dubbio, colui che si chiama il Buon Pastore, il quale conosce che le pecore odono la sua voce. La sua parola scorreva semplice ed amorevole come quella d’un amico; s’insinuava, s’infiltrava nell’anima e compenetrava le fibre più intime; rianimava i cuori infranti come una madre rianima il suo figliuolo, accarezzandolo; colpiva l'orgoglioso come una folgore. Il silenzio dominava l’assemblea; le ore passavano inavvertite; seduto tra la folla, confuso tra i più oscuri, il pastore beveva ogni parola allorquando, prossimo alla fine, il predicatore, fissando su di lui uno sguardo impossibile a definirsi, disse queste parole: Se mi ami, pasci i mici agnelli.
Il pastore si destò. Già la notte invadeva la chiesa. Al chiarore deH'ultimo raggio di luce, egli salì nel suo pulpito, s'inginocchiò e lì, con lacrime, buttando il suo peso Sull’Eterno, lo pregò di dargli uno spirito nuovo.
Poi prese i fogli dove aveva abbozzato il suo discorso inaugurale e vi aggiunse tutte le sue grandi prediche polemiche e i suoi opuscoli di combattimento coll’in
tenzione di arderli assieme alla legna del suo vecchio pulpito.
Salì nel pulpito nuovo trasformato, sforzandosi d5ispirarsi soltanto al ricordo di quelle parole che del continuo gli rinascevano nell’animo: Se mi ami, pasci : mici agnelli.
CosC ciò che una volta era stato l’arsenale della pura dottrina divenne qualcosa di meglio: il rifugio dei piccoli, degli infelici, di tutti coloro che tremano, cercano, soffrono; da quel pulpito benedetto scendevano parole che la disperazione umana afferra come una trave di salvezza; si sentiva che l’uomo il quale le pronunciava Sossedcva la visione dei mondo superiore, enza cercarne la ragione, i cuori semplici lodavano Iddio; i savi invece crollavan le spalle e, tra coloro che architettano i dogmi per puntellare il trono dell’Eterno, si andava susurrando: • L'amico nostro declina, l’oro puro s’è cambiato in vii piombo ». Egli se n'accorse, ma non portò loro rancore.
Che còsa vuol dire però il legno d’un pulpito nuovo! S’ei potesse produrre su tutti i predicatori il medesimo effetto, come sarebbe opportuno di trasformare al più presto in pulpiti tutte le quercie delle nostre foreste.
Carlo Wagner.
(Dalla Kcvue ChrHiennc dì Parigi).
FEDE
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“ LA PACE DELLE NAZIONI E LA RELIGIONE DELL’AVVENIRE,, DI A. LOISY
La Religionche Alfred Loisy aveva proclamato tra l'imperversare della grande guerra, e che a molti era apparso quale il testamento spirituale definitivo di una grande intelligenza e di una grande anima, terminava con la professione di fede: < Il Dio unico è il nostro ideale umano che va divenendo sempre più grande, sempre più vero. Ben lontano dal-I’“ un immense tìeuve d’oubli nous entraìne dans un goutìre sans noni ,, è una poderosa speranza che ci guida sopra un oceano di vita senza fine ».
L’arca delle speranze e dei sogni è ora giunta in vista del lontano porto : non delia patria eternamente cercata ed eternamente trovata, ma di un faro luminoso, di un’oasi di riallenamento, di un testimonio, che lo spirito divino che fa la storia per mezzo degli uomini e gli uomini per mezzo della storia, era ed è presente ed intimo all’umanità che lotta in mezzo all’oceano tempestoso : di un segno e di una promessa, che le procelle nuove che si addensano sull’orizzonte e. quelle che agiteranno l’umanità nel suo secolare pellegrinaggio non faranno naufragare la navicella al cui timone sta, invisibile genio dell'umanità, Dio; e il cui motto è quello stesso che dallo stemma della città di Parigi sintetizza la storia di Francia: < Fluctuat nec mergitur ».
E Alfredo Loisy a cui l’abitudine dell’analisi critica anziché inaridire lo .spirito sembra aver preparato l’animo allesintesi della filosofia, alle intuizioni religiose più sicure, alla poesia della vita e alla visione di nuove bellezze e armonie in una seconda e più feconda gioventù, ha voluto ora cantarci, egli il « gelido esegeta», il «critico e il caustico polemista senza cuore », la sua gran fede, le sue nobili speranze, il suo ardente amore, con quest’ultimo volumetto : La Paix des nalions et la
religi onde l'avenir, Emile Nourry, Paris 1919, a cui egli stesso ha apposto, nella copia inviata alio scrivente, l’epigrafe : Cumaei carmi-nis edilio novissima : « Ultima edizione del Carme Carneo ».
La prima parte ci presenta in fugace rassegna i tentativi di unificazione dell'umanità « presentiti un po’ dapertutto dai grandi fondatori delle religioni di salute, e dagli antichi filosofi, e concepita da pensatori emancipati dai vecchi domini fin dal sec. xvi° » ; e ci fa cogliere il significato spirituale delle grandi crisi a cui. assistiamo, in cui tutti gli elementi dell’umanità nuova trovano il loro punto di concentrazione e di combinazione vitale; e stimmatizza la neutralità del papato che « non ha avuto il minimo sospetto della crisi dell’umanità che si maturava innanzi a lui » mentre « il nuovo Vangelo era annunziato dal capo d’un gran popolo libero. . dal mediatore della nuova alleanza e dal papa dell’umanità ».
Nella seconda parte, la « buona novella » è esaminata nel suo carattere e nei suoi pre-supposti religiosi : giacché « è una nuova religione che è stata promulgata autenticamente; solennemente, la prima religione universale perchè questa è una religione dell’umanità, che si rivolge all'umanità intiera offrendole un ideale veramente umano da realizzare ».
E il Loisy ha cura di avvertirci che egli si limita a constatare il carattere di questo ideale umano che è essenzialmente religioso, senza alcuna pretesa di definire anticipatamente i simboli e le credenze e i riti in cui esso potrà esprimersi, assumendo una forma più o meno analoga a quella degli antichi culti.
La dimostrazione dell’A. in poche pagine dense e ricche di pensiero non fa che prestare un'analisi giustificativa a quella intuizione che i nostri martiri più coscienti ed eroici hanno avuta ed espressa, più ancora che in parole ispirate, nello slancio del loro cuore, nell’ardore del sacrifizio, nell’olocausto dell’immoWiffnr'
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lozione. «..... Una tale concezione del diritto
umano e del dovere umano nella società dei popoli implica una nozione dell'umanità affetto religiosa, cioè l’idea chel’indi viduo umano,, considerato in se stesso, l’uomo nella famiglia, l’uomo nella città, sono esseri latori di diritti, votati al dovere, esseri degni di rispetto e che si debbono un rispetto reciproco.
Ora chi dice rispetto dice religione: e l’umanità che vuole in tal modo rispettarsi nel diritto e nel dovere si impronta essa stessa con un sigillo divino che è l’ideale stesso di verità, di giustizia e di bontà, cioè l’ideale religioso che essa pretende di realizzare. La Società delle Nazioni... esige una religione dell’umanità, formerà necessariamente, sarà essa stessa, in qualche modo, questa religione, quando questa Società avrà acquistato una piena coscienza della sua unità, appunto come altra volta i popoli uniti sotto l’impero di Roma acquistarono la coscienza religiosa e morale della loro unità nel cristianesimo cattolico.
Una tale Società abbisogna, per vivere, di una tale coscienza religiosa e morale, di una unità universale, senza la quale essa non sarebbe che un aggregato di parti senza connessione fra loro, pronte sempre a separarsi, soggette a una sollecita decomposizione. L’anima della Società delle Nazioni sarà dunque la religione dell’umanità, cioè una religione che avrà Vumanilà slessa per oggetto della sua fede e del suo servizio; non solo l'umanità quale esiste attualmente, ma l'ideale superiore nel quale ci compiacciamo di contemplarla e al quale vorremmo elevarla ».
Il Loisy è tutt’altro che un ingenuo facilista — pur essendo convinto ottimista. Egli sa bene che «Società delle nazioni e religione dell’umanità non sono ancora che un ideale assai lontano, che non basta definire per realizzarlo. Averlo concepito è già molto ; è ancor meglio aspirarvi, sentirlo come vivente in noi stessi ; ma il più importante è attuarlo, renderlo vivente nel mondo. Ciò non sarà l’opera d’un giorno bensì quella d’una nuova epoca che va a cominciare. La Società delle Nazioni ?... Ma essa suppone in tutti i popoli' una certa facoltà di discuterne, la capacità di mettere un interesse spirituale, universale, duraturo sopra gl’interessi materiali, particolari, transitori... La Società delle Nazioni ! Ma essa suppone il rispetto dell’umanità in ogni popolo non meno che in ogni individuo, cioè uno spirilo di fraternità umana che non è stato finora realizzato che nel seno di un medesimo popolo, il che suppone una dilatazione del senso umano...
La Società delle Nazioni, riconosciamolo coraggiosamente, suppone in tutti i popoli e nei rapporti internazionali una disciplina u-mana, una disciplina di moralità religiosa quale non ha ancora esistito sulla terra. Si tratta di compiere dapertutto l’educazione della libertà per il libero servizio dell’umanità... ; opera che non è stata finora compiuta, che è anzi da compiersi ancora quasi per intero ».
Il Loisy vede due alleate in questa auto pedagogia dello spirito moderno : la ragione e la scienza ; ma sopra ad esse, cóme sostegno morale e virtù di umanità, il sentimento e la religione. « E’ il sentimento stesso della socievolezza e della moralità che si tratta di sviluppare in un senso completo dell’umanità ; è la facoltà di sacrifizio che ognuno di noi sente pei suoi vicini, pei suoi concittadini, per il suo paese, che si tratta di allargare, dandogli per oggetto il bene comune, e non già solo il bene materiale ma ancora quello spirituale.
Questa facoltà di sacrifizio è in noi come una seconda natura, una specie di grazia superiore che l’educazione sociale ha innestato o sviluppato sopra gl’istinti della nostra natura sensibile e che serve agli scopi dell ’umanità.
. . . Bisogna che l’istinto sociale divenga un principio di devozione umana, di disinteresse internazionale.
... Se volete che i popoli si costituiscano in società, date ai popoli un’educazione d’umanità... E se si può prevedere che certe conversioni saranno difficili, che certi egoismi nazionali avran bisogno d’essere contenuti, non sarà meno necessario... di lavorare a queste conversioni e di prepararle... ed è certo d’altra parte che la Società delle Nazioni non sarà definitivamente assisa nella pace che con la conversione di tutti i popoli alla- religione dell’umanità ».
Questa religione dell'umanità non è concepita dal Loisy — e sarebbe assurdo sospettarlo in uno scienziato conoscitore profondo dell’evoluzionismo storico a cui tutte le manifestazioni dello spirito umano sottostanno — come una nuova religione o anche come una religiosità nuova.
Egli riconosce il contributo che all’opera di educazione umana dovrà essere apportato dalle religioni antiche che sussistono tra noi e agiscono fra noi. Benché il nostro ideale d’umanità « possa e debba essere più vasto, più maturo, più pratico, più moralmente completo, senza essere meno puro nè meno elevato di quello del Vangelo, noi non possiamo negare che esso ne procede, almeno per lo spirito di cui è animato.
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NOTE E COMMENTI
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Il cristianesimo è la tradizione dell’umanità da cui noi sortiamo: se noi ce ne andiamo distaccando non abbiam bisogno per questo di romperla definitivamente con esso, e quelli di noi che credessero di non essergli affatto, debitori si farebbero grandi illusioni.
Il nostro ideale umano è il figlio legittimo e ben nato dell’ideale cristiano, e noi lo crediamo, lo sentiamo, lo vediamo più vivente. Ma le stesse società cristiane sono in grado di adattarsi, e si adattano e adatteranno più o meno, di buona o di mala voglia, al movimento dell’umanità. È appunto ciò che, presso di noi e presso i nostri alleati, fanno i cristiani protestanti.
L'atteggiamento leale ’dei cattolici e del clero francese in tutta la durata della guerra ci autorizza a dire che essi hanno bene meritato dell’ideale umano della Francia, che essi sono disposti a servirlo, e che, presi in massa, non hanno alcuna inclinazione a tradirlo.
Non è punto impossibile, anzi è verosimile e altamente desiderabile, che dalla presente crisi dell’umanità risulti, in una maniera o nell’altra, quell’allargamento del cristianesimo cattolico vagheggiato già da coloro che l’anatema pontifìcio ha qualificato di modernisti, e che la nostra vecchia religione o almeno la più gran parte dei suoi adepti si orientino francamente nel senso della nuova religione... >.
Il carattere, la forza, lo spirito, l’origine della «nuova religione» ricevono unachiara testimonianza nell’ultima pagina della Pace delle Nazioni'.
II veggente dell’Apocalisse, dopo aver descritto la rovina di Babilonia, cioè della Roma pagana, mostrò la città novella, la città degli eletti, discesa intiera dal Cielo, con le sue mura di pietre preziose e le sue porte di perle..., il suo fiume di vita indefettibile,*'il suo albero di vita sempre fecondo... Anche la nostra città è celeste, e lo è più ancora: più spirituale e più ideale di quella ; essa non si realizzerà, noi lo sappiamo bene, che per opera di Dio, vogliamo dire per opera dì quella potenza misteriosa che fin dal. principio agisce nell'umanità per il suo progresso, e che ora, noi lo sentiamo, vuol creare questa città delie nazioni aperta a tutti gli uomini, questa città, di luce e di vita... Ma noi sappiamo che questa città non discenderà tutta fatta dal Cielo, e che non si farà senza l’opera nostra, di noi che dobbiamo esserne le pietre vive e fattive. Essa sarà quale la faranno la nostra fede e quella delle generazioni che verranno appresso a noi.
Sappiamo attingere nel nostro ideale umano la forza che l’uomo ha sempre trovato nella fede... ».
* » •
« Dio », per Loisy, non è dunque la stessa cosa che un’umanità snaturata e disanimata, quale si piacciono di considerarla per comodità polemica i soliti dualisti che ci sanno contrapporre ad un’umanità senza Dio, un Dio fuori dell’umanità. Dio è per Loisy < quella potenza misteriosa che fin dal principio agisce nell' umanità per il suo progresso » : formola che se non pretende alla presuntuosa chiarezza e precisione di un professore di teologia, è abbastanza netta per precisare e completare, se pur occorresse, il concetto che si distacca di già dall’opera precedente del medesimo autore. La Religion, del quale uno scrittore della Nuova Antologìa faceva nel numerodi dicembre X918 la critica infondata : « ... Loisy crede di poter asserire che l’umanità è ormai Dio a se stessa, e conoscendo una buona volta la funzione sociale della religiosità può sostituire a questa una consapevolezza più alta della religiosità; ...più alta e più pura dei doveri del singolo di fronte alla collettività dei fratelli ».
Giacché espressioni come questa: « Una democrazia non può sussistere senza un alto ideale di moralità, e non esiste un alto ideale di moralità che non sia religioso, essenzialmente religioso » (Àa Religion, pag. 248) ; o come quest’altra : « Il sentimento mistico della dipendenza dalla società, non in quanto considerata materialmente, ma spiritualmente, \\c\V ideale che essa persegue e a cui essa serve, costituisce la coscienza morale del dovere » (pag. 163) ; o più chiaramente ancora (pag. 156): « La morale religiosa non cessa di essere umana facendo intervenire gli Dei ; poiché non essendo essi che l’ideale o la formula mistica della società che li serve, la loro volontà, la legge religiosa, è*anch,e una legge, una morale umana, la volontà stessa della società personificata nella divinità », escludevano di già l’interpretazione che l’umanità sia. Dio a se stessa.
Nello stesso articolo rileviamo come egualmente ingiuste le parole che seguono : « È veramente cosa singolare osservare come... (il Loisy) si faccia cosi strane illusioni sui poteri spirituali della massa umana, nel momento stesso in cui l’umanità così detta civile ha mostrato di saper abdicare con tanta disinvoltura alle sue capacità più alte, ecc. Assurdo programma è quello di divinizzarloecc. ».
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Nulla nel /ai Religion, a nostro avviso, giustifica questa critica. Se il Loisy parla in essa di « un ideale di umanità evolventesi. ideale perseguito attraverso tutti i secoli e tutte le religioni », egli,comeabbiam fatto notare, non considera un’umanità-cadavere, priva della sua anima che è causa di questa evoluzione, bensì egli si trova all'unisono con la concezione espressa già dal Siro Posidonio : « Una divinità la quale non si riveli costantemente nella storia del Mondo, cessa di essere divina », Al Loisy « basta di credere che cercando il vero e praticando il bene noi siamo nella corrente più nobile e... più indispensabile della vita universale • ; « basta di ammettere una |>otenza misteriosa che fin dal principio agisce nell’umanità per il suo progresso » ; ciò basta per la sua ragione speculativa — benché non sia sufficiente per la sua ragione pratica — e dovrebbe bastare anche per rigettare da lui l’accusa di voler «divinizzare l’umanità » cioè —nell’unico senso in cui l'accusa avrebbe consistenza — di voler assumere come pienezza di perfezione quella che è una fase dinamica nel processo evolutivo umano; l’accusa di voler attribuire all’umanità gli stessi concetti statici di cui la vecchia domma-ticainsigniva il Dio tradizionale, e dei quali il Loisy, ben lungi dal contenderli alla teologia a beneficio della sua « umanità » scrive {Im Religion, pag. 283): «Che nel mondo vi sia dello spirito, dell’intelligenza, della libertà, è certo giacché noi stessi siamo di questo mondo.
Che vi sia uno spirito unico e personale attualmente infinito e presente in ogni cosa, che guida l’universo e gli uomini come un pastore fa del suo gregge, é ciò che non apparisce allatto..., benché sembri più che verosimile, che fra tutti gli elementi dell’universo, attraverso l’immensità, vi sia solidarietà, che nel tutto risieda e si manifesti un sistema u-nico di forze e di leggi, in maniera che da una sola forza o da una sola legge, molteplice nelle sue manifestazioni, proceda l’evoluzione universale... ».
« Il sostegno immediato della nostra vita morale non può trovarsi in un’idea generale dell’ Universo, di qualunque nome questa idea si rivesta: ordine del mondo, unità dell’essere, comunanza di fini, nozione naturale del divino, o anche spinta dello spirito, evoluzione creatrice. Tutto ciò, per l’indirizzo della nostra esistenza, non è che l’ombra di Dio, e non ha maggior forza di un’ombra.
Ci basta di sapere, o piuttosto di credere — poiché qui interviene necessariamente la fede, il senso di una realtà intraveduta che
sorpassa il campo delle esperienze esterne... — che cercando il vero e praticando il bene siamo nella corrente più nobile, ecc. ».
Passando dalle idee del La Religion alla personalità stessa del Loisy, questa è attaccata nella critica suaccennata con espressione, la cui irriverenza verso l’illustre personalità contro cui è volta é doublèe di una imperdonabile leggerezza di giudizio e giova sperare, di labilità di memoria.
Non è giusto infatti dire che « l'esegeta e lo storico é uscito dalla Chiesa Cattolica per aver anteposto le pallide luci della sua ragione al senso profondo della vita spirituale » giacché non fu alcuna preferenza delle « pallide luci > che spinse Loisy fuori della Chiesa, bensì l’espulsione violenta che gli fu inflitta il di 7 marzo 1908 per mezzo della scomunica maggiore. Se Loisy preferì firmare i suoi scritti e apparire innanzi alla Chiesa quale egli era nel suo animo, affrontando coraggiosamente le conseguenze ; se egli preferì lasciarsi mettere alla porta anziché rimpiattarsi in una soffitta, le sue « pallide luci » hanno contribuito maggior lume e calore di vita che molti « sensi profondi di vita spirituale » professati. ma non sentiti nè praticati.
Ne chiamo a testimonio, fra molte testimonianze che se ne potrebbero addurre, ciò che il periodico Nova et Velerà scriveva nel suo ultimo numero :
« La scomunica maggiore ha colpito il Loisy : questa pena non deve spaventare né scandalizzare alcuno, ecc. ».
c 'Lo stesso periodico, in numero doppio consacrato appunto al Loisy (10-25 febbraio 190S), scriveva,-fra numerose frasi ammirative: « All’uomo illustre, nella cui vita operosa noi scorgiamo come la sintesi delle lotte attraverso le quali la scienza è riuscita a penetrare sotto le tende del cattolicismo nell’ultimo ventennio, ze la figura di quelle più aspre forse che si annunciano per il prossimo avvenire, noi mandiamo il nostro ringraziamento e il nostro saluto. Il neo-cattolicismo italiano è e sarà con lui inalteratamente solidale ».
Parole quest’ultime che, come si vede, non potrebbero purtroppo rivendicarsi il carattere di profetiche.
Anche in un volume uscito poco dopo la scomunica del Loisy—dopo cioè che« le pallide luci » avevano prevalso sul « senso profondo della vita spirituale » — dal titolo Lettere di un prete modernista, leggiamo una testimonianza eloquente resa alla luce sfolgorante che emanava da quello che l’A. delle lettere non si peritò di chiamare « Il vero profeta
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della cristianità futura ». In una di esse il Loisy è descritto (pag. 86-90) come : «Uno di quei rarissimi uomini il cui prestigio intellettuale non scapita se osservato da vicino: la cui valentia, la cui profondità di pensiero è ugualmente visibile in un’opera voluminosa e in una frase di conversazione ; infine l’uomo che in quest’ora solenne di transizione ha saputo nella sua anima concepire la più salda alleanza del passato con l’avvenire, la più bella armonia fra le esigenze della fede immutabile e gl’ideali religiosi e politici... ».
E vi si mette in evidenza l’armonia e la completezza del suo pensiero. « Il Loisy non è, come altre figure del movimento neo-Cattolico, una coscienza ondeggiante fra due poli opposti di pensiero e atteggiamenti contradit-tori di psicologia. Egli, da una parte, segue con la più solidale simpatia il movimento ascensionale dei partiti democratici : egli è col suo governo, nella lotta per la verità e per la giustizia. Dall’altra egli vede lucidamente come il Vangelo, puro spirito di fratellanza •e di fiducia, vive ancora, nella nostra società, la cui religiosità purificata può benissimo riannodarsi a tutta la tradizione migliore del Cat-tolicismo. Il Loisy è il vero profeta, della, cristianità futura ».
Comesi vede anche solo da queste esperienze di anime, « le pallide luci della ragione » ' di A. Loisy non hanno nulla da invidiare quanto agli effetti che esse han prodotto sullo spinto di molti fautori del « neo-cattohcismo », a ciò che di meglio abbia potuto dare' alla società nostra il « senso profondo della vita spirituale ».
G. Pioli.
MAL SEME
1 lavori del Congresso femminista tenutosi a Roma nell’ottobre 1917, avevano rimesso sul tappeto mólte questioni d’importanza vitale che l’incalzare degli avvenimenti bellici sopì durante questo periodo di tempo.
A guerra finita la soluzione di molti problemi s’impone. Fra questi non ultimò è il problema sulla ricerca della paternità, al quale altri si ricollegano, come l’infanzia abbandonata e la delinquenza dei minorenni.
Sono le due piaghe sociali più dolorose e più strettamente connesse: la prima fu già studiata sotto diversi aspetti, e per quanto la soluzione sembri lontana è da augurarsi ch’essa debba risolversi nel modo più semplice e più ovvio, vale a dire coll’applica
zione di una legge che obblighi il genitore al riconoscimento ed alla tutela del figlio. Ed a questo riguardo è bene segnalare all’attenzione di chi dirige che la Francia, per esempio, ci à preceduti in tale iniziativa, e già dai novembre 1912 veniva presentato al Senato francese un disegno di emendamento alla legge sulla ricerca della paternità, la quale — come tutte le còse nuove — non funzionava ancora in modo soddisfacente. Lasciando per ora in disparte una questione tanto controversa, vediamo quali sono i dati che ci offre per la sua soluzione queli'altro problema gravissimo e forse anche più complesso; e mandando al governo (1) il nostro plauso per averlo additato come una piaga con promessa di sanarla, cerchiamo con tutti i mezzi disponibili, d’aiutarlo nella difficile impresa.
Molte voci autorevoli si sono già levate a deplorare il terribile accrescersi delia delinquenza infantile. Dalle colonne del Corriere della Sera, Lino Ferriani portava alla conoscenza pubblica il risultato della sua lunga e cosciente esperienza, additando fatti, citando statistiche, porgendo aiuto di consiglio, perchè si ponesse mano a guarire una piaga il cui diffondersi porterebbe nel viver civile un'insanabile cancrena. La conoscenza del nuovo pericolo destò qua e là alcune nobili iniziative. In quasi tutte le regioni italiane sorsero Comitati che mirano ad impedire il contagio, occupandosi dei fanciulli predestinati al carcere, vigilandoli, dirigendoli, fornendoli di lavoro, cercando di suscitare in loro quel sentimento di dignità umana che li metterà in grado di resistere alle tentazioni del vizio, agli effetti dissolventi dell’ambiente da cui sono'prodotti.
La magistratura stessa à introdotto un temperamento nell’applicazione della legge ed à creato un apposito giudice, che in apposito tribunale risolverà sui casi di criminalità infantile, con criteri molto più larghi, i quali daranno col tempo risultati migliori di quelli dati dalle deplorevoli case di correzione, che sono purtroppo, per molti infelici, vere scuole di corruzione.
Tempo fa — non ricordo l’epoca precisa — la Corte d’Appello di Lucca amni(1) La relazione dell’on. Giolitti al Re, chiudendo la penultima legislatura, comprendeva negli indirizzi della politica interna un accenno della piu alta importanza circa le due piaghe sociali di cui sto parlando.
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stiava un ragazzetto di undici anni, Remigio Mancini, già condannato a quattro mesi di reclusione per borseggio dal tribunale di Livorno. Questa condanna era ¡a sesta; il piccolo delinquente confessò di aver commesso oltre quaranta borseggi.
La notizia già triste di per sè, anche se illustrasse un caso patologico e raro, si ricollega a cento, a mille altri casi di delinquenza infantile che riempiono l’animo di sgomento e di pietà. Monelli che feriscono un compagno a colpi di coltello per una contesa nata giocando; sbarazzini intelligenti che abusano delle loro facoltà per imperare sugli amici più deboli e costituire con quelli un’associazione che à le sue leggi ed il suo statuto, come una minuscola società di camorristi; ladruncoli isolati, piccoli truffatori, che tendono le loro avide reti ai compagni inesperti nell’anticamera delle banche o delle esattorie; da una trentina d’anni ad oggi v’è stata una fioritura singolare di questi precocissimi delitti; flora mostruosa, talvolta sanguinante, che. deturpa colle sue ramificazioni tutto il corpo sociale, e ne macchia l’intera compagine.
Ora, bisogna por mente ad un fatto.
I piccoli criminali sono quasi tutti forniti dai più bassi strati sociali; ciò dimostra che l’ambiente è un fattore importantissimo nella lóro formazione. Nella classe media, i fanciulli commettono tratto tratto azioni apertamente riprovevoli (chi non rammenta il caso di quel bambino di sei anni, il quale «per gelosia? uccise con un colpo di fucile il fratellino neonato che gli pareva ¡’usurpatore?), ma sono azioni imputabili ad altri agenti, più spesso allo squilibrio del loro sistema nervoso, alla abnorme suscettibilità della loro psiche malata, che li conduce talvolta al delitto verso gli altri e nel caso più frequente li costringe col suicidio al delitto verso di sè.
In tesi generale vediamo smentita giornalmente dal fatto la categorica affermazione di Rousseau, perchè i minorenni già colpevoli, che sarebbero finiti fatalmente nel carcere o nella galera, tolti da una mano provvidenziale all’abbiezione che li serrava e collocati a vivere più liberamente, si redimono col lavoro, dimostrano di esser capaci di sentimento e di dignità; imparano l’onestà della vita e rispettano nei loro simili ogni diritto che imponga loro un dovere. Fu molto discussa, anni sono, l’opera di redenzione del Garaventa; ma chi, abitando Genova, potè constatare
quali risultati egli abbia ottenuto dai suoi minorenni corrigendi, benedirà senz’altro all’iniziativa di un uomo che, strappando a centinaia i fanciulli alla mala vita e soccorrendoli di aiuto .materiale e morale, il dirizzava alla buona via.
Rimedio radicale per troncar l’invadenza del male sarebbe la riforma dell’istituto famigliare. Ma occorrerebbe una legge che intervenisse contro i genitori a favore dei figli, e togliesse questi ultimi alla convivenza del padre o della madre quando la cattiva condotta loro risultasse notoriamente, o quando le condizioni morali dell’ambiente domestico apparissero così degradate, da non poter concedere ai figli quel terreno di cultura necessario per uno sviluppo normale. Prendiamo, ad esempio, questo caso tipico:
D’innanzi alla quarta sezione del tribunale di Milano comparivano un giorno come imputati Pietro Di Meo e la sua amante Teresa Canonica, sotto l’accusa di maltrattamenti in danno di tre bambini, figli legittimi del Di Meo. Il triste fatto è riassunto da un quotidiano, in un trafiletto che porta per titolo: Lo sfruttamento-della pietà, e vale la pena di riportarlo:
« Pietro Di Meo e la sua amante Teresa « Canonica, precocemente invecchiati e « quasi inebetiti per le frequenti sbornie, « laceri, cenciosi, vivono di questua suo-« nando l'organetto per le vie. E con loro « vivevano di stenti e di busse tre piccoli « ragazzi, figli del Di Meo, e talora da questo « ceduti a giornata ad altri due mendicanti »di professione. Ma la coppia non solo « mandava attorno i poveri piccini in cerca « di elemosina; essa li percuoteva quando, « rincasando a tarda ora, non portavano « abbastanza denaro ».
Tralascio ogni commento, di fronte alla constatazione di fatti cosi deplorevoli. L’ambiente dove si «educa» l’anima dei tre fanciulli appare di una promiscuità tanto disgustosa che la sola penna di Zola avrebbe saputo illustrarlo degnamente. E forse, leggendo le pagine del romanziere, si griderebbe aH’esagerazione: tanto appaiono mostruose c quindi teoricamente impossibili se non sotto forma d'eccezione eccezionalissima, certe lebbre morali per chi à la fortuna di respirare aure meno corrotte.
Ora, nel caso. nostro, che fa la legge ? Condanna il Di Meo e la sua complice ad alcuni mesi di carcere e ad una multa: espiata la pena l’uno e l’altra torneranno
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alla casa comune per riprendervi le lodevoli abitudini del passato, ed i tre bambini — se Dio vorrà — diventeranno adulti con queU’csempio paterno e... materno per insegnamento e per guida.
Con infinita tristezza dobbiamo constatare che la legge interviene soltanto nel caso di sevizie gravi; allora, dopo aver punito i genitori colpevoli, trova pei piccoli martiri un ambiente più sano; felicità che nella massima parte dei casi i seviziati non possono godere, perchè sono morenti o morituri. Tolto questo, e l'aggiudicazione dei figli all'uno o all'altro dei genitori in caso di separazione, la legge è impossente e si dichiara tale.
In realtà, mi pare che neanche le altre nazioni sieno a questo riguardo più progredite di noi. Ai più parrebbe ancor oggi una profanazione l’ingerenza dello Stato nel governo della famiglia; e non si pensa che la base di tutto, di ogni progresso come di ogni vergogna futura, sta nell’educazione del fanciullo: che in lui solo riposano i germi della grandezza o della decadenza avvenire, e che non sarebbe certo da repu? tarsi increscioso ma provvido quel governo che — considerando il seme umano come il più prezioso — ne curasse lo sviluppo con tutti i mezzi atti a proteggerne ed a garantirne la riuscita. Ma la cosa più difficile e più ardua: l’educazione del bambino, è tenuta in nessun conto dalla maggior parte; e mentre s’impedisce ad un individuo non munito di regolare laurea o diploma l’esercizio abusivo d’una professione; mentre gli si vieta, se malato o criminale, l’onore del servizio militare, gli si rpermette, in qualunque condizione si trovi, di educare i suoi figli: vale a dire di farne dei ladri o dei falsari o degli assassini, s’egli à la disgrazia di professare uno qualunque di quegli onorati mestieri. Non parliamo della donna, la quale, per la sua passività nel corpo sociale, sfugge anche meglio dell’uomo a certi controlli. Ma l’esempio materno è forse più pernicioso ancora sui figli dell’esempio portato dal padre: e ciascuno di noi può chiedersi con angoscia che razza di lupatti esci ranno un giorno da certi covi funesti, a portare nell’armonico viver civile la loro nota paurosa e selvaggia.
Ditemi: quanti sono gli italiani di cuore che deplorano questa nostra piaga e vorrebbero sinceramente liberarne la patria? Sento che sono innumerevoli, e che ciascuno di essi, quando gli cade sott'occhio
la notizia di un misfatto compiuto da delinquenti minorenni, ne prova come una segreta vergogna, quasi si sentisse accusato di una certa responsabilità nel fatto doloroso. Responsabilità divisa eppur grave quella che pesa sull’intera famigba sociale; la quale, vuoi per inerzia, vuoi perchè oppressa da altre cure, vuoi per viltà davanti al compito che le preparerebbe la gravezza del male, si tien lontana dall’azione o compie dei piccoli atti isolati, defitto insufficienti a debellare il nemico Così il danno cresce, e col danno la ver pgna; mentre l’applicazione dei rimedi ¿.venta sempre più difficile.
Ma in un'epoca in cui le nazioni e gli individui pongono tanta cura nello scegliere e conservare le razze pure dei cavalli e dei cani, è logico, è degno che si lasci deteriorare la razza umana a tal punto, che i suoi più giovani germogli sieno una continua minaccia?
Mi si obbietterà a questo proposito:
Lo Stato, che può dirigere con leggi e regolamenti appositi la selezione degli animali per ottenerne quelle razze pure, il cui allevamento darà il massimo dei guadagni, lo Stato non può (senza contravvenire al canone della libertà individuale) occuparsi della selezione umana, ciò che tuttavia dovrebb’essere la cura più grande in ogni paese civile. Certo, una legge che venisse ad ostacolare la libertà del matrimonio, nel senso che gli individui non sani non fossero dallo Stato riconosciuti atti a compiere una funzione di tanta importanza verso la società, sarebbe reputata odiosissima da quegli stessi che pur si lagnano di tante tristi conseguenze dei matrimoni mal fatti. Alcuni anni or sono si tentavano in America i primi saggi del « matrimonio eugenetico ». Allora l’Europa sorrise... Oggi non sorride più di «pianto l'America tenta: ma saprà imitarla in tale ricerca di salute avvenire? Vediamo un pochino, nella sua nudità essenziale, quest’idea che ci sembra singolare. E forse un controsenso il cercare in un uomo che sta per fondare una famiglia, la base del benessere suo e di quanti verranno da lui ? Ma nulla si fa senza la salute! Voi la esigete dall’esercito chiamato a servire la patria, la pretendete dall’impiegato, dal professore, dal maestro elementare, da chi concorre con qualunque titolo a qualunque carriera, e non la chiedete, non la curate neppure come una semplice formalità, quando si tratta del concorso più grave a cui l'individuo deve pren-
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dere parte, il concórso a formare le generazioni future? Mi direte che ognuno à il diritto di agire a modo suo e che in certe delicatissime questioni nessuno è autorizzato ad intervenire: basta, come regolatore, la coscienza individuale. D’accordo. Converrete con me tuttavia, che in molti e molti individui la coscienza individuale è soggetta, diremo così, a variazioni: la passione, l'interesse, qualche volta la passività del carattere, quasi sempre le esigenze della vita sono fattori che concorrono a sviare le voci della coscienza: e bisogna pure tener conto che la rinuncia (anche temporanea) alla formazione della famiglia è forse la più difficile di tutte le azioni umane, quella che esige il maggior numero di energie, in una parola quella che presuppone nell’individuo capace di compierla per dovere le più alte qualità morali, la coscienza più retta della sua responsabilità. Ahimè, quanto è scarso, invece, il numero dei coscienti! Chi scrive conobbe, per non citare altri fatti, un sordo-muto che, or non sono molti anni, sposò una sua consorella di sventura; e certo ciascuno dei lettori avrà pronto un esempio che conferma il mio dire, e più d’una volta avrà dovuto constatare che di tutte le libertà umane la Siù indiscussa è quella d’aver figli infelici.
1, vedo io pure che la società tenta di fondare un asilo per ogni miseria e costruisce ad ogni passo sanatori di tutte- le specie: la compassione pel fatto compiuto è più facile della proibizione, e la pietà di comuni, di privati, di governo apre ai diseredati le porte degli ospedali, degli ospizi per i rachitici, delle pie case per ciechi, nati-sordi, deficienti e corrigendi, fin che nei casi peggiori rinchiude questi ultimi nelle case di correzione e, fatti adulti, li renderà ospiti abituali della prigione o del bagno. Ma non sarebbe meglio, assai meglio, impedire che reprimere ? Quei miseri che nascono infermi, già in preda a tare ereditarie, non ànno chiesto a nessuno la vita. La subiscono senza una gioia, incresciosi a quanti li circondano: talvolta la famiglia stessa li reputa di peso, quasi sempre i « ben-pen-santi » deplorano che una parte dell’attività e delle rendite sociali vadano a perdersi per prolungare l’esistenza dolorosa di quegli esseridi sventura. Esistenza grigia, torpida, che non darà forse a nessuno la luce di un sorriso. Quanto sarebbe meglio che certi infelici non aprissero mai gli occhi alla luce: quanto sarebbe forse più provvida la legge che ne impedisse la nascita.
o troncasse una vita che non sarà vita, ma sofferenza soltanto! Chi può dire se le terribili severità di Sparta furono dannose o pietose verso i suoi figli? Dopo tanti secoli di cristianesimo la domanda parrà feroce. Eppure è dettata invece da un infinito compatimento di certe piaghe insanabili; è ispirata dalla certezza che la morte sia preferibile ad una vita trascorsa in condizioni insopportabili.
Gli studi compiuti in questi ultimi cinquantanni dalla scuola positivista ànno dimostrato che i germi della delinquenza debbono ricercarsi nelle anormalità fisiche. Ciò che il cuore di un grande, aperto a tutte le grida della sofferenza umana, aveva intuito generosamente, la scienza riconosce ai giorni nostri con certezza di dati. Le brutture morali, le turpitudini, le anormalità di tutte le specie che si rivelano in certe anime, ribelli ad ogni incitamento, fatalmente destinate a chiudere nel delitto la loro triste parabola, non sono malvagità, sono malattie. Chi ruba, chi uccide, chi adopera le facoltà della mente a fini delittuosi, che la società chiama per-veisi, non è un reprobo da cui si debba torcere lo sguardo con ribrezzo, bensì un infelice che probabilmente sortì nel nascere le anormalità di cui -porta il peso e che lo rendono temuto ai suoi simili; o forse è nato immune da quelle eredità di peccato, ma l’ambiente in cui visse, in cui trascorsero gli anni della sua infanzia e della sua adolescenza, lo familiarizzarono colle miserie del vizio, glielo resero accetto, gli fecero trovare in quello le sue risorse di vita. La società non à saputo ancora liberarsi da certi pregiudizi e considera tutt'oggi con orrore quello che dovrebbe studiarsi di considerare con pietà. Troppo v’è ancora, malgrado il lodevole zelo di molti, troppo v’è ancora di medioevale nell’applicazione della giustizia. Quando gli uomini avranno compreso che quasi sempre al nome di colpa- bisognerebbe sostituire quello di male, il magistrato sarà come un medico, all’occhio del quale tutte le sofferenze ’ umane ànno il medesimo diritto d’interesse e di cura.
A questo si dovrebbe por mente, nello occuparsi di delinquenza infantile, proponendosi come divisa la massima della saggezza antica: « mens sana in corpore sano ». E come non sempre è possibile portare alla salute perfetta un individuo nato in cattive condizioni fisiche o morali, così, a conseguire meno difficilmente lo scopo, sa-
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rebbc desiderabile che i malati, sopra tutto quelli affetti da gravi malattie costituzionali, fossero posti nell’impossibilità di dar la vita a creature predestinate al dolore. Non d’invalidi, non di miseri abbisogna l’Italia, ma di uomini forti che sappiano e possano tener alta la fronte innanzi a tutti!
E qui mi par conveniente rivolgere un appello agli scrittori italiani. Per ottenere grandi cose dal popolo è necessario educarlo: metterlo in grado di comprendere la bellezza morale di certe azioni che sono un sacrificio personale, ma che saranno un bene per gli altri; infiammarlo ad una nobiltà ideale che da solo non saprebbe raggiungere, perchó da solo non è in grado di misurarne il valore. L’arte per l’arte è ormai una vecchia formula vuota di senso: l'arte per la moralità della vita sarebbe a parer mio più degna e più grande. Ciò che il romanzo sperimentale è riuscito ad illustrare con evidenza talvolta troppo manifesta, e col solo intendimento di applicare al romanzo i procedimenti scientifici, il romanzo nuovo potrebbe illustrarlo e lumeggiarlo ancora, introducendovi una »nota d’alta finalità.: v^leadire d’insegnare a chi legge cose che sfuggivano alla sua comprensione; di avvertirlo che accanto ai diritti, del; l’indiviuo esistono dei doveri di razza e di civiltà, che fin qui s'ignorarono dai più e la cui ignoranza fu causa di mali infiniti; di educarlo a concepire idee che contribuiscano ad allargarne l’orizzonte morale e lo elevino e lo migliorino, additandogli la via da seguire. Alcuni uomini di cuore l’ànno già fatto. Paolo Mantegazza nel suo triste racconto Un giorno a Madera mostrò i pericoli ai quali si espongono fatalmente coloro che trascinati dalla passione dimenticano la verità; e la verità si rizza davanti a loro, implacabile, appena sia acquetato in parte quel turbamento d’amore che nasconde il dovere per esercitar soltanto il diritto di vivere.
Non dall’applicazione di una legge si otterranno i migliori risultati sociali, bensì dall’elevazione morale dell’individuo. La legge può essere benedetta se interverrà transitoriamente a vietare l’azione che può riverberarsi sull’innocente; e sarà necessaria soltanto fino al momento in cui la evoluzione morale sarà compiuta; quando l’uomo che partecipa al viver civile abbia imparato quanto deve sapere, la legge cadrà di per se stessa, come cade dall’albero il frutto che sia giunto a maturanza completa.
Molto possono fare gli insegnanti per cooperare alla formazione dell’individuo sano; molto possono fare tutti gli uomini e le donne di cuore. Educare bisogna, ed istruire; istruire ed educare; persistere nell’ardua impresa, intrapieliderla con animo forte, già preparato al combattimento.
Oggi, alla vigilia d’una nuova legislatura, ci chiediamo pensosamente: Quale sarà il provvedimento invocato al proposito? E col desiderio più vivo che si attende dal Parlamento il disegno di legge promesso cinque anni or sono pei- la tutela dei ra-Sazzi materialmente o moralmente ab-andonati. Che se'le grandi iniziative trovano sempre pochi o molti oppositori ad intralciarne le vie, sia pur certo il governo che tutti saranno in favor suo quando si tratti di adoperarsi con ogni mezzo per la guarigione di un male così profondo; e tutti, senza limitazione di partito o di opinione, si uniranno in un’alleanza veramente santa per distruggere il mal seme in questa benedetta terra d’Italia.
Pavia. M. DELL’ISOLA.
UNA VISITA ALL’ ITALIA DI UNA SIGNORA AMERICANA
Il 20 aprile mi giunse da Cannes una lettera, scritta in inglese. Una signora americana, a me completamente ignota, si diceva mandata in missione speciale dall’ America, dalla grande associazione tra le donne cristiane liberali, che ha la sua sede a Boston. La lettera era scritta affettuosamente e semplicemente, senza arzigogoli, e m’affrettai a rispondere alla cortese signora Che l’aspettavo, onde discorrere assieme dell’Untone, e del suo sviluppo in Italia.
Attendevo dunque l’incognita americana, per i primi di maggio, ma con un po’ d’apprensione. Tra gli uomini e le donne di oltre Oceano, appartenenti ad istituzioni con base religiose, ve ne sono talvolta di un po’ esaltati. La propaganda è il loro debole, e quando credono d’aver convertito alle loro idee un ingenuo mortale lo sovraccaricano di opuscoli e di foglietti, di Bibbie mal tradotte e di discorsi, così da far prendere in uggia quelle verità che possono enunciare e la stessa bellezza di quel Van-S;elo, che vorrebbero far amare in specia-issimo modo. Aspettavo una signora fredda, tutta dedita alla beneficenza, con quelle forme che in America rasentano l’esagera-
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zione, e che la film cinematografica « Intolleranza » rende abbastanza bene; e ne risentivo anticipatamente un po’ di fastidio, ed il timore di non poter andare troppo d’accordo con lei.
L’n maggio verso sera era sola in casa, e stavo tutta intenta a leggere un libro, che definirei il nonno del bolscevismo intellettuale: L'unico dello Stirner, quando un’energica scampanellata mi tolse dalle mie meditazù ni. Andai ad aprire e mi vidi dinanzi una b mpatica ed elegante signora, vestita col sobrio e bellissimo costume delle dame francesi della Croce Rossa. Quella nuova crociata che per tre volte aveva traversato l’Oceano, onde prestar il suo servizio di quattro mesi all’anno in un ospedale militare di Cannes, quella signora vivace e colta; pratica ed idealista nello stesso tempo; quell’immagine perfetta della donna evoluta, libera e pur amantissima della famiglia, equilibrata e serena era (’incaricata della missione speciale.
Di primo acchito mi sentii avvinta a lei da una viva simpatia e scambiammo le nostre idee : lei con un francese americanizzato, cioè intercalato da varie parole inglesi; ed io con una lingua che aveva molti maggiori punti di contatto con quella usata da Giovanni Rapini nella sua Vraie Italie, che con l'espressivo ed elegante fraseggiare d’un Chateaubriand. Ma dove il francese faceva difetto suppliva la buona volontà, e quell'intuizione tutta particolare, che il Bergson stima molto sviluppata negli animali e che l’uomo sa acuire in sè stesso, quando il bisogno lo spinge.
Affinchè ci potessimo comprendere meglio e dirci fino al fondo il nostro pensiero, avevo pregata la geritile sig. prof. Evelina Caligaris ìngaramo, la quale.parla e scrive benissimo l’inglese, di farmi da interprete c spiegare ampiamente quanto la nostra Untone ha compiuto, le difficoltà incontrate e come si giudicano all’estero il nostro lavoro i nostri progressi. Una frase della sig. Voigt m’aveva lasciato capire che la nostra civiltà, in tutte le sue molteplici manifestazioni, è poco o nulla conosciuta in America; chè dopo aver parlato delle miserie create dalla guerra in generale, la signora mi disse: « Chi sa quanti poveri orfanelli avrete,privi di soccorsoli». Al di là dell’Oceano prendono le parole: « L’Italia è povera » alla lettera, e ci stimano un ^lo che vive come può sulle glorie an-, guadagnando sui suoi celebri monumenti è... sulle canzonette napoletane.
Quando la signora Caligaris si prestò al suo difficile incarico, parlò con amore, con slancio di questa nostra patria, e fece intravedere alla nostra ospite un’Italia mai sospettata, nè da lei, nè dalle molte sue intellettuali amiche di New York. La nostra filantropia praticata con intenti tutti moderni di prevenire prima di reprimere, le era quasi ignota. Ed il conoscere da un’altra nostra colta amica, la prof. Ferrerò, insegnante d’inglese nei nostri licei, che a Sassari vi sono ginnasi, istituti tecnici, scuole normali, l’empì di stupore, chè ella credeva gli abitanti delle nostre isole senza istruzione, analfabeti, avendone conosciuti moltissimi a New York incapaci a leggere ed a scrivere.
« Ma perchè, mi disse poi più volte nel corso delle nostre conversazioni, non cercate il modo di farvi conoscere nella vostra giusta luce all’estero? Perchè invece di mandar soltanto in America o degli industriali che fanno i loro interessi, senza guardare più in là, o degli intellettuali che parlano essenzialmente di loro stessi, dei loro libri, delle loro poesie o di un’Italia celebre per le sue antichità e per le sue arti, non ci mandate delle bravi semplici persone, capaci a farsi comprendere dal nostro popolo ed a far vibrare la sua anima all’unisono colla vostra? Sono venuti, è vero, dei diplomatici, dei deputati, degli affaristi. Hanno preso parte a vari pranzi, si sono occupati di cose bancarie e di non so che altri affari, ma l’Italia, così come la vedo adesso, qui a Torino, come voi me la descrivete, nessuno di noi la conosce, ed è male. Se Wilson ha errato nel giudicarvi politicamente e geograficamente la colpa è certamente un po' sua, ma, lasciatemelo dire, anche vostra. All’estero bisogna imporsi per quel che si vale e vi stupirete quando vi dirò che molti americani non erano forse alieni dall’am-mettere un protettorato sull'Italia, stimandola una nazione dormente sulle sue glòrie antiche, lontana dalla nostra febbrile vita moderna ».
Avendole io chiesto come erano possibili tali concetti sulla nostra terra dati i molti viaggi/che gli americani fanno da noi, la signora mi rispose che anch’ella era stata alcuni anni addietro in Italia, ma siccome i suoi compatrioti e lei stessa non viaggiavano che per vedere le nostre chiese, i palazzi antichi, le rovine celebri; pei' ammirare il nostro mare, per godere le bellezze dei nostri panorami, il clima dolcissimo, la musica melodiosa, l’Italia contempo-
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ranea sfuggiva loro completamente. Avvicinati da ciceroni indiscreti, taglieggiati dagli albergatori essi giudicano la nostra patria una terra che traffica e guadagna su quanto di grande, di bello le lasciarono gli avi, ed .accoglie gli stranieri non per progredire con nuovi commerci, per rinnovarsi e sorpassare i signori delie sterline e dei dollari nei loro ricchi affari, ma come una celebre signora aristocratica, inconscia della vita dei lavoratori e tutta chiusa nel suo mondo arcadico, artistico, ideale, riceve l’ospite affaccendato, che giunge a lei, onde riposarsi qualche ora, tra le esaurienti cure.
« Voi non dovreste inviarci conferenzieri di grido — mi ripeteva la sig. Voigt — ma persone pratiche che fra la società colta degli Stati Uniti e fra il popolo, sapessero far vivere davanti alle fantasie la vera Italia d’oggi, con le sue scuole, le sue industrie, la sua arte, lo slancio di vita, così originale che tutta la permea. Allora si stabiliranno fra noi delle correnti di simpatia, che nessuna politica potrà guastare, ed i commerci, le industrie, l’agricoltura, la letteratura ne guadagneranno ».
Mi mostrai stupita che con tanti emigranti italiani, e proprio a New York, non ci avessero ancora conosciuti ed apprezzati. Ma qui. sono 10 dolenti note. Chè i nostri compatrioti in America ed anche nella capitale degli Stati Uniti, s’adattano a fare tutto quello che forse in patria respingerebbero con sdegno. I lustrascarpe sono tutti italiani, e così i camerièri di molti alberghi — e non dei più eleganti — i gelatieri ed i cantanti girovaghi. Un mondo misero che vive a sè in un sobborgo grande come Torino, che non impara che a monisillabi l’inglese, commercia in forme speciali e sempre con italiani, ed i cui membri non entrano che rarissimamente nella società colta, ricca, spendereccia americana. Quando questi rari campioni sono ricevuti nella classe istruita e benestante di New York, è ben difficile che lodino o facciano amare l'Italia; credo anzi che nella maggior parte dei casi — c per un falso snobismo — si facciano vedere più americani degli americani ed obliosi assai della loro terra.
Ancor adesso mi par di sentire nelle orecchie la frase tante volte ripetuta dalla sig. Voigt, mentre le facevo visitare a volo d’ uccello Torino. Voleva che tutto fosse antico! Antico il palazzo reale, le case di piazza S. Carlo, il monumento che l'orna.
il palazzo Carignano, la bella chiesa di S. Gioacchino, con gli stupendi affreschi del nostro Morgari. L’Italia, per valere qualche cosa deve essere per lo meno medio evale, e nella modernissima Torino la signora straniera passava di stupore in stupore. Tanto per dare un po’ di soddisfazione alla sua sete d’antichità, la condussi a visitare il minuscolo paesaggio medioevale sotto uno splendido sole di primavera. Ed il suo giudizio fu ben diverso da quello dell’Oriani che lo stimava un bel soggetto per scatole da cerini, ma s’estasiò alla vista delle casette addossate l’una all’altra, alle camere con poca luce, all’architettura graziosa e straordinaria per lei.E mi ripeteva poi con convinzione: « Quello è veramente italiano, veramente italiano ».
Ma la missione della sig. Voigt non era soltanto di farsi un concetto del nostro progresso fra i popoli, bensì di vedere quello che la nostra Unione ha realizzato, e stabilire più vivi punti di conttato tra le americane e le italiane, un più spontaneo scambio di pensieri e di speranze. L’Unione internazionale frale donne cristiane liberali fu fondata per stringere, con cordiali legami spirituali, al di sopra d’ogni dogma e di ogni pressura chiesastica, donne di varie Chiese e dei diversi Stati, onde lavorar assieme all’elevazione propria e del popolo. Tutte le opere benefiche, che servono a migliorate la gioventù e a dar un più confortante ideale all’umanità, sono studiate con amore e soccorse dalle socie del-1’ Unione, che a Boston, specialmente, sono numerosissime. Spiegai, per mezzo della cortese interprete, la nostra azione. Dissi delle nostre riunioni amichevoli e serene, delle conferenze e dell’opera spiegata, con ardore cristiano, dalle sig. Gastaldi. Parlai dei giornali su cui scrivo assiduamente: La nuova libertà organo dei demo-cristiani. La luce gazzetta settimanale valdese, stampata a Firenze, La risposta periodico fatto per il popolo, a Torino. Quest'ultima pubblicazione interessò in' modo particolare la signora Voigt, chè ella stimando l’anima italiana sentimentale e passionale e perciò facile a lasciarsi attrarre dalle forze buone e purtroppo anche da quelle cattive, non comprende l’abbandono in cui furono lasciati operai e contadini dalle così dette classi d irigenti. Ella crede che se vi fosse sempre stato un cordiale contatto fra la borghesia
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ricca, la Chiesa ed il proletariato, il socialismo non avrebbe fatto dei così smisurati passi;.e le pare che ancora attualmente siamo molto indifferenti ed operiamo troppo poco onde porre un argine al bolscevismo dilagante. « In America, — mi spiegava — vi sono opere fiorentissime per accogliere i lavoratori nelle ore di riposo. Abbiamo dei clubs maschili e femminili con sale di ginnastica, con bagni e doccie a minimo prezzo. Giornali americani, inglesi e francesi si leggono con vivo interesse, l>elle riviste sono guardate con soddisfazione dalle giovani'che accogliamo nei capaci fabbricati, ed a New York v’è una società, di cui sono consigliera, per dare rappresentazioni cinematografiche istruttive al popolo. V’assicuro che il pubblico non ci fa difetto e si compiace nel vedere sullo schermo le più belle città del mondo, o le fabbriche più rinomate o le malattie causate daH’alcoolismo e da abusi d’ogni specie. La Francia esaltò in modo magnifico la sua guerra fra gli americani, per mezzo del cinematografo, e le rovine delle città francesi passarono e ripassarono dinanzi agli occhi impietositi dei buoni yankee ».
La risposta diretta da Terenzio Grandi ebbe dunque tutte le simpatie della nostra amica e ne volle parecchie co-?ie da portar in America, come pure di tdee vita con i miei articoli su Towianski.
dell’ Alba, «Iella Rassegna Nazionate, di Bilychnis, il numero su cui scrissi del voto alla donna. Quando le parlai d’una raccolta di lettere inedite dirette da uomini celebri a Cesare Abba, che si pubblicarono sulla Rassegna Nazionale, ne provò vivo piacere, chè i garibaldini sono per gli americani un esponente poetico ed eroico della nostra anima. Essi ignorano purtroppo, molta parte della storia d’Italia; il Risorgimento non è conosciuto da loro che come un piccolo incidente nella storia del mondo, ma Garibaldi è ben più ammirato nell’Argentina e negli Stati Uniti di Dante e se lo figurano tra uno sfolgorio di camicie rosse, marciante alla vittoria, al suono dell’inno rimbombante ed eccitatore.
La signora Voigt come ci credeva, noi donne italiane, tutte sullo stampo delle napoletane e delle siciliane di altri tempi; snervate, apatiche, pronte solo a tubare d'amore, come tante tortorelle, a man-Sar gelati, ed a cantare con melanconia: enesta che lucive, così non s’imaginava
davvero che fra noi vi fòsse tanta libertà d’azione, da formare dei comitati « Pro voto donne», con la fiducia che questo diritto troppo conteso, si farà un giorno sicura realtà. In America, negli Stati Uniti, sono già 38 i cantoni in cui le donne votano e discutono sulle cose del loro Governo, mostrandosi degne del loro mandato.
«Questa politica wilsoniana, ini diceva la signora, fatta d’ideologie che si sfasciano miseramente al contatto della realtà, non deve più sussistere, chè non fa onore alla nostra patria; ma noi donne americane dovremo, nelle prossime elezioni, lottare per imporre un cordiale scambio di vedute fra i popoli, quella fratellanza che l’Internazionale dice di poter stabilire e non riesce ad aver consistenza e quell’unione, che la nostra opera, ad esempio, cerca di poter realizzare in Cristo ».
Nè le parole della nostra amica sono pie illusioni, chè essendomi trovata parecchie volte con lei dal console americano, ho compreso come la donna fra gli anglosassoni e tra i popoli del nord America sia veramente tenuta come una compagna dall’uomo, e si possano discutere liberamente con lei tutti quei problemi da cui la patria può averne beneficio per sè e.per le altre nazioni. Da noi, volenti o nolenti, la donna la si guarda sempre come quell’essere di beltà, di grazia e di piacere fatto apposta da Dio per sollevare talvolta l’uomo dalle sue cure, anche quando, come nei tempi presenti ed in quelli avvenire, la grazia, la beltà femminili sono poste alle più dure prove, ed il lavoro esauriente nelle fabbriche, nelle scuole, nei campi darà della vita un tutt’altro concetto di quello antico a questa incompresa compagna di Adamo. È vero che a rendere più difficile, per le donne, la conquista dei diritti che le competono sta la leggerezza secolare d’una gran parte di esse; l’ignoranza di tante cose necessarie ad apprendersi, la facilità a lasciarsi attrarre,, come l'allodola dallo, specchietto, dal lusso, dai divertimenti' c dall’amore, il quale finisce molto sovente con un inganno.
Quindi ecco avanzarsi l’obbligo di educare sotto nuove forme la gioventù, con principi, con fini diversi, ma profondamente spirituali, per rinnovare l'anima della nazione, plasmandola, elevandola secondo il nostro spirito italiano, che da se-
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coli persegue il vero, il beilo ed il buono con forme ed opere magnifiche, quasi uniche nel mondo.
, Una delle cose che più urtava la signora Voigt era la mendicità; a New York, mi diceva, è proibito assolutamente il chiedere l'elemosina per le vie, ed i poveri trovano in istituzioni di carità adatte, quel sollievo che non sempre possono avere dalla problematica generosità del prossimo. « Anche la dignità dell’uomo ne soffre in questo continuo mendicare, osservava la nostra amica, e non so che razza d’ uomini diventeranno q che donne saranno i ragazzetti e le bambine clic vanno elemosinando per le vostre vie. Ciò che vorrei mutare completamente nella vostra città, sono le edicole vespasiano. L'igiene ne soffre per gli odori che ne esalano e credo che possa anche esser offeso, talvolta, il buon costume. Da noi queste edicole sono fatte in modo diverso, sono casette, sono luoghi di decenza pulitissimi e non mi ricordo che in essi siano accaduti dei fatti incresciosi ».
Dai nostri dialoghi la signora americana prese pagine e pagine d’appunti, e giunta in patria farà con essi delle conferenze a New York, -a Boston, a Washington. Volle anche avere una fotografia unita a me, per mostrare il legame che ora ci stringe e sarà, secondo lei, l’emblema dell’unione fra le donne americane e le italiane. Mi pregò, ancora, prima di partire, di sviluppare la nostra Unione fra le donne italiane, sembrandole che in questa libera educazione dello spirito, in questo Cristianesimo rinnovatore e nella fratellanza delle anime vi sia la migliore rigenerazione dell’umanità. « Se fra i popoli vi fossero state delle profonde correnti di simpatia spirituale, d’amore la guerra non sarebbe stata possibile, nè la pace sarebbe tanto difficile » mi ripeteva con convinzione.
Fra gli appunti .che portò in America vi è anche la nostra delusione per la lotta politica di cui siamo fatti segno, per l’oblio amaro, ingrato di quanto abbiamo compito per la libertà dei popoli. Ho parlato dell'errore in cui si cade all’estero definendoci imperialisti, e del vero imperialismo di cui invece danno prova la Francia e l’Inghilterra. Ma se la nostra amica ammetteva i torti della nostra infida sorella latina, non voleva però darmi ragione quando le dicevo che gl’inglesi hanno sete di dominio. Per lei i protettorati, così poco graditi, sull'Egitto, sull'india, sui
Boeri sono le più giuste, le più buone cose del mondo. Quei popoli non camminavano all’unissono della nostra civiltà, i nostri progressi quasi non li toccavano, le loro ricchezze così utili per il benessere generale erano in gran parte inutilizzate, la loro istruzione era primitiva o statica, come nell’india, ed allora la penetrazione inglese fu ed è un bene, per i paesi conquistati e per gli altri ; un segno, secondo la signora Voigt. di bontà protettrice ed accoglitrice, d'espansionismo benefico da lodarsi ampiamente.
La mentalità degli americani, e dei loro buoni amici inglesi, è molto diversa dalla nostra. Il nostro equilibrio tutto latino, ed il buon senso che ci caratterizza e non Srta, per esempio, le donne a fare delle
lie per il voto, sono definiti da essi quale apatia; la nostra sentimentalità, la sete d’ideale, la genialità che ci caratterizza e diedero all’Italia un primato che invano le si vuole competere, sono guardati da quei pratici popoli come si guardano gli atti di un impenitente sognatore. Ma pur giudicandoci incapaci ad accumulare vertiginosamente delle sterline e dei dollari, non possono far a meno d’ammirare in noi il rifluire d'una vita del pensiero mai esausta, d’una vena poetica e musicale che letizia ed innalza in più pacifiche sfere l’umanità.
« S. Francesco d’Assisi, mi diceva la signora Voigt, è amato fra noi e tenuto come l’esponente migliore della vostra anima mistica e poetica ». Però accanto a questa misticità, molto tralignata ai nostri giorni, ci vorrebbe altresì un più sicuro senso della nostra dignità. Dignità che non consiste soltanto nel sacrificio dei singoli per la patria od anche nell’eroismo dei nostri soldati per la libertà dei popoli, nè negli articoloni altisonanti sui giornali, ma in tutta la complessa vita nazionale ed internazionale. Così quando ci sentiamo rimproverare l’analfabetismo di tanta parte del nostro popolo e l’oblio in cui sono tenuto intere regioni del mezzogiorno, che cosa possiamo, rispondere? E quando tocchiamo con mano che i nostri commercianti non sono tutti onesti — in patria e dall’estero — che cosa dobbiamo dire? Una prova dell’ ingordigia dei nostri fornitori in diciottesimo l’ebbe la nostra amica, fra le molte altre, entrando con me in un negozio da modista in via S. Teresa. Desiderando di posare per qualche ora il suo costume da dama della Croce Rossa,
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voleva acquistare un cappello. Sceltone uno grazioso c semplice nello stesso tempo, che poteva valere su per giù settanta franchi, ne chiedemmo il prezzo alla padrona del negozio, la quale, con sussiego, ce ne chiese modestamente 385 lire! Condussi subito via la nostra ospite non volendo che fosse addirittura derubata, ma mi guardai bene dall’indicarlc un altro negozio di mode. La prima lezione era bastata — c ce n’era d’avanzo.
Sarà quindi necessaria una migliore educazione commerciale, affinché non siamo sempre giudicati un popolo che vive sulle spalle degli stranieri, turlupinandoli ap->ena ne capita il destro, proprio come i rancesi ci descrivono benignamente nei oro romanzi, specialmente in quelli di Guy de Maupassant.
Procuriamo di migliorarci e d'elevarci a vicenda, classe con classe, popolo con popolo, nazione con nazione. Diamo il nostro pensiero, l’arte, l’intelligenza pronta, alata, vivida agli americani; facciamo sentire la potenza di questo nostro spirito educato da secoli e secoli di civiltà gloriosa e che si protende con volontà rinnovata d’azione verso l’avvenire. Accogliamo i primitivi slanci di una gente che viene a noi in forme amichevoli, desiderosa di dare e di ricevere, -ilare, fanciullesca talvolta, pratica, avventurosa, democratica in tutto lo svolgersi della sua vita e perciò in continuo progresso nell’educare, nel-l’irrobustire la gioventù, forza dello Stato, nell’accumulare ricchezze per il bene generale e per vincere, sia pure pacificamente, coll’assiduo lavoro nel grande agone fra le razze.
La gloria di essere antichi, come ci definiscono i nostri amici, non sia la princi-Eale. Il futurismo, tra i suoi molti difetti, a pur la grande qualità di voler farci dimenticare, almeno un poco, i trionfi romani, le conquiste dei Cesari,, la supremazia poetica con Dante, la fioritura ar-tistica’inarrivabile del Rinascimento. Esso vuole che viviamo con, intensità questa
nostra vita presente, portando nella letteratura, nelle industrie, nell’agricoltura, in tutto questo alacre avvicendarsi di opere, la nostra intelligenza affinata da secoli, e perciò più duttile, ma rinnovata, ma protesa come una lucida freccia verso i nuovi cieli, che a noi pure s’aprono e che dobbiamo conquistare senza voltarci continuamente indietro.
Ma in modo essenziale ascoltiamo le voci che s’elevano dalla'coscienza religiosa d’oltre Oceano, e che devono trovare nella nostra una simpatica corrispondenza. Anche nell’America si teme il materialismo che tenta soffocare le migliori sorgenti dello spirito; anche là si guarda con dolore all’indifferenza religiosa che invade molte anime, e si cerca nella parola di Cristo una guida, una luce per risvegliare le coscienze addormentate, travolte dalla febbre del lucro, dalle ambizioni, dalle lotte che ci urgono.
Una morale veramente rigeneratrice deve affermarsi dopo la bufera che ci accasciò per lunghi, interminabili anni; e la nostra amica, la coraggiosa crociata, venne a noi per cementare i nostri legami in Cristo, per ricordarci che soltanto nella fratellanza cristiana avranno pace i popoli.
Ed io ripeto a voi, care amiche italiane, le parole della signora Voigt. Ripeto a voi di tener deste, vigili le facoltà del vostro spirito, di studiare con amore i bisogni del nostro popolo, onde portarvi un sollievo, di fare che quest’umanità travagliata, dolorante, ma pur sempre fervida nelle opere, ricca di speranze nate dalle sue stesse angosce, anelante a più alti destini, non s’accasci delusa nel suo cammino; ma s’avanzi verso nuovi veri con fermezza, con amore, con gioia, colla convinzione che il Dio vivente in lei segna il passo del suo progresso, togliendo attraverso il dolore, lentamente, ma sicuramente, le barriere che rendono più .aspre le fatiche, più difficile la fede.
Luisa Giulio Ben sor
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POLITICA VATICANA
•«* CONSTANTINOS „ E LA QUESTIONE ITALO-PONTIFICIA
È uscito sotto lo pseudonimo Constantinos xei < Quaderni nazionali » di Pisa un saggio su La questione italo-pontificia. Il Sottochiesa, direttore della collana, in una breve premessa « con profondo ossequio e con i sensi della più sentita riconoscenza ringrazia l'esimio e generoso Autore il quale rispondendo a un nome illustre, eppur celandosi in un compiacente pseudonimo volle onorarla di sì prezioso lavoro ». Il sapere chi sia V autore dell’opuscolo nel senso di estensore materiale non ha alcuna importanza: viceversa se la parola autore non si vuole intendere nel senso adoperato correntemente, ma soltanto nel senso etimologico di auctorr si può dire senz’altro che ne è autore lo stesso Segretario di Stato. Se non ci fossero altri indizi che la dichiarazione così solenne, premessa dallo editore e la fama diffusa negli alti circoli ecclesiastici di Roma, basterebbero a rivelarlo il tono ufficiosamente ispirato con cui è dettato e la sicurezza con cui si tratteggia tutto un piano di possibile pacificazione italo-pontificia. Per non dire poi che il libretto è scritto evidentemente da-un canonista di professione, cosa rivelata non soltanto dalla forma e disposizione della materia, ma dalla mentalità puramente giuridica con cui la questione è trattata. Si potrebbe dire anzi che è opera di un canonista puro. L’attribuzione a un autore eminentissimo era stata discretamente accennata anche dal corrispondente vaticano del Tempo, ma immediatamente ha scattato il Sottochiesa con uña lettera violenta ed acerba di smentita ai giornali del trust cattolico, chiamando pure supposizioni le informazioni del Tempo ; anzi la furia stessa con cui il Sottochiesa è insorto, sta a dimostrare come egli inabilmente abbia creduto di dovere difendere chissà quale segreto di Stato a lui
E AZIONE CATTOLICA
confidato. Comunque, esaminiamo il libretto che rispecchia evidentemente le idee attuali della Segreteria di Stato.
L’opuscolo comincia col dichiarare che due supremi beni e due supremi interessi debbono essere conciliati : primo il supremo bene della Chiesa cattolica con la sovranità, la indipendenza e la libertà del pontificato romano; secondo, il supremo interesse della patria italiana nell'aver l’alma città di Roma per capitale.
E’ inutile qui osservare l’insussistenza di questa distinzione clericale e della consueta gradazione gerarchica e subordinazione della seconda questione alla prima. E’ una confutazione. di una confusione di concetti inutile per i lettori di Bilychnis, e d’altronde qui non intendiamo affatto polemizzare sui valore filosofico-religioso dei concetti del libretto — che non esce affatto dalla sfera teorica del più ortodosso cattolicismo clericale — limitandoci a una disamina del suo valore puramente politico.
Nessuno, seguita l’autore, può negare che esista una questione tra Santa Sede e Stato italiano e anormalità di rapporti tra essi; l’ix settembre 1S70 segna il giorno in cui si iniziarono le ostilità e da cui ha quindi origine la questione. Se la parte lesa — la Santa Sede — avesse accettata la legge delle Guarentigie la questione sarebbe stata risolta; invece avendola energicamente respinta per bocca di lutti (i corsivi sono dell’autore)! Pontefici essa è e rimane aperta. IL 20 settembre 1870 segna la cessazione della sovranità, indipen-denza e libertà pontificia, essendo stato il Sommo Pontefice dichiarato ritenuto e considerato come suddito italiano soggetto alle leggi statali come semplice titolare del beneficio papale.
La legge delle Guarentigie è rimasta un atto puramente unilaterale e se la Santa Sede l’avesse accolta uomini di governo e coscien-
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ze di cattolici sarebbero insorti per l’atto di dedizione compiuto dalla S. Sede. L’accettazione avrebbe implicato una reale abdicazione ai diritti di sovranità e indipendenza della Chiesa. Il papa ha dovuto perfino dichiarare di essere sub /¡ostile palesiate consti-tulus-, che la questione romana sia ancora aperta lo dice il supremo interessato, lo attesta il mondo cattolico, lo ammettono i governi esteri e lo riconosce anche il governo italiano.
Fin qui come si vede non si esce dal modo tradizionale di porre la questione da parte dei cattolici, e non occorre soffermarci ulteriormente. La questione ha avuto le più svariate denominazioni, prosegue l’autore, quali: questione della rivendicazione dei diritti della S. Sede, questione romana, questione del potere temporale, questione i talo-pontificia, questione tra Stato e Chiesa, questione della conciliazione, questione della riconciliazione. La questione è il conflitto in ordine alle idee, ai modi, ai mezzi per garantire la sovranità, indipendenza, libertà civile e politica del Papa, sostenendo il governo italiano la legge delle Guarentigie essere più che sufficiente ad assicurarle e il Papa che non lo è. Trattasi in-somma di cercare modi e condizioni nuove per cui il Papa possa dichiarare di non trovarsi più sottoposto all’impero della legge italiana e ritornato invece in pristino iure e quindi cessati i motivi della protesta di essere sub /¡ostili potè state consti fu tus. Forse in quegli anni gravi 1870-71 la legge delle Guarentigie rappresentava quanto di meglio il governo italiano poteva dare per uscire alla meno peggio da un ginepraio, ma da allora si è fatta molta strada, ed è ormai tempo che governo e popolo italiano guardino in faccia la vessata questione e diano al Pontificato Romano e a tutto il mondo civile una onorevole soddisfazione ». Ciò che è notevole in queste dichiarazioni è il cambiamento del nome adottato dall’Autore. Non più questione romana, ma questione Halo-pontificia : non trattasi dunque tanto di una contestazione circa la sovranità su Roma, quanto piuttosto di una questione per regolare i rapporti tra due potenze.
Come è noto qualche anno fa per risòlvere la questione romana fu trovata dai circoli vaticani la formola della internazionalizzazione delle Guarentigia. A molti sembrò quello un gran passo avanti verso la conciliazione perchè era eliminata ogni pretesa di carattere territoriale. Ma era insieme evidente a chiunque quale diminuzione di sovranità e prestigio rappresentasse per lo Stato italiano una si
mile inframmettenza estera. Conslanlinus dichiara oggi che « la questione pur riflettendo interessi religiosi di molti popoli e Stati non ha carattere internazionale, ma è puramente ed essenzialmente italiana perchè riguarda le sole relazioni tra la S. Sede e lo Stato italiano, della quale non possono essere arbitre le potenze estere ma solo le due parti contendenti ». Segue una esposizione del carattere che è venuta man mano assumendo la legge delle Guarentigie, diverso dall’originario, tanto che nell’attuale giurisprudenza italiana è considerata legge organica e fondamentale della monarchia e dello Stalo, e del fenomeno internazionale specialissimo, quale quello di un ente che gode del riconoscimento diplomatico, trattato con gli stessi riguardi con i quali si usa fra Stato e Stato, anzi col grado di Grande Potenza, mentre lo stesso ente è e rimane ignorato dallo Stato nella cui capitale vive e funziona da cinquantanni. Gli inconvenienti che ne nascono e i tentativi per ovviarvi caso per caso dimostrano tuttavia che vi è un indiscutibile riconoscimento ufficiale della questione italo-pontifieia, mentre la legge delle Guarentigie risolve il problema meno che a metà. Però, conclude Conslanlinus — e la conclusione è importante — «ci pare di dover concludere dicendo che la questione ha perduto il carattere di internazionalità avendo gli Stati esteri oramai superata e risolta per loro conto la questione ; epperciò rimane una questione esclusivamente italiana ». Con innegabile abilità l’autore dichiara meravigliarsi che’ l’Italia non abbia ancora provveduto'a liberarsi della ben grave cappa di piombo, mol to più quando è causa di umiliazioni e insuccessi diplomatici. « In passate polemiche fu scritto che Leone XIII avesse intavolato trattative per là soluzione della grave questione con uno dei più grandi uomini politici che abbiano rette le sorti d'Italia, ma che il buon volere di entrambi fu eluso e frustrato dal velo di una potenza estera». Conslanlinus sembra convalidare quanto fu scritto perchè senz’altro dopo questo discreto accenno conclude : « Ma si ricordi bene che la questione italo-pontificia è questione essenzialmente italiana e il popolo d’Italia non permetterà giammai che stranieri vengano ad immischiarsi in affari suoi ».
Qui Io zelo dell’autore ha evidentemente passato il segno perchè nella sua preoccupazione di non urtare le suscettibilità dell’opinione pubblica nazionale, sembra dimenticare che egli è l’avvocato della Santa Sedè, e si getta senz’altro a parlare e ammonire come uno della parte oppòsta. Nessuno pretendeva
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tanto, e, dato che ai convertiti di recente conviene mantenere un tono riserbato e modesto, la mossa è alquanto gauche, e non consona con l’abilità di cui fa mostra Constati-tinus nel resto della sua difesa.
« Dunque la questione può essere risolta ? Si, sopratutto qualora non facciano difetto il desiderio di scioglierla onorevolmente e, so~ pralutto\y\ corsivo non è dell’Autore] la buona volontà da parte degli uomini che reggono le sorti dello Stato italiano». Si ripete l’affermazione che alla legge delle Guarentigie manca l’essenziale accettazione dell’altra parte, e che manca in essa il riconoscimento essenziale della personalità politica di Stato nella Santa Sede, poiché il Vaticano e sue adiacenze non sono riconosciuti come territorio estero sui iuris ma solo come un territorio che gode di certe determinate immunità. Eppure il nodo della questione è tutto qui: nel riconoscimento oltre che da parte degli Stati esteri anche da parte dell’Italia che il Papa non cessò mai di essere un legittimo ed effettivo sovrano con cui devesi trattare nel modo trattato dal Codice diplomatico internazionale. Nè. vale l’obiezione che non si può avere Stato senza una circoscrizione territoriale, perchè non è detto nel diritto internazionale quale sia il limite minimo di superficie al di là del quale non si possa riconoscere la circoscrizione statale. « La questione della materialità dei confini esula dalla nostra tesi; dato anche che lo Stato della Santa Sede si riduca a uno Stato in miniatura, la tesi da noi sostenuta non sarebbe infirmata, anzi confermata ».
Applicando alla Santa Sede gli elementi specifici costituenti uno Stato, si dimostra che essa è una persona politica e per di più che ha una personalità internazionale. Inoltre militano a suo favore oltreché l’esistenza degli elementi costitutivi di uno Stato, le ragioni del legittimismo storico, i caratteri intrinseci della sua missione in seno e al disopra della umanità.
La Santa Sede e l’Italia si trovano tuttora in condizione di belligeranti perchè aperte le ostilità l’x i settembre 1870, la sorte delle armi fu contraria alla Santa Sede, ma il sovrano combattuto mantiene ancora l’ultimo lembo del suo Stato, e se ragioni supreme hanno impedito al vincitore di portare all’estremo le sue operazioni belliche cacciando il sovrano dalla sua Sede, non è però stata fatta la pace.
. La legge delle Guarentigie è una dichiarazione fatta al popolo italiano e agli esteri circa la condizione offerta al Sommo Pontefice. Non riguardando inoltre i rapporti tra Santa Sede
e Stato italiano deve essere considerata come i preliminari di un trattato di pace presentato alla Santa Sede, respinto dalla Santa Sede.
Posti questi capisaldi la questione potrebbe essere risolta ottimamente con un vero e proprio trattato di pace come tra belligeranti. Però date le condizioni specialissime giuri-dico-spirituali della Santa Sede forse sarebbe buona cosa addivenire ad un modus vivendi ad lempus sulla base uti possidetis da rinnovare o rendersi definitivo, ad esempio, dopo dieci anni. Ma però il meglio sarebbe di concludere un definitivo trattato di pace. Se dunque lo Stato italiano è disposto a riconoscere la Santa Sede come grande potenza, a riconoscerle tuttora la qualità di Stato belligerante, e a nominare un plenipotenziario per le trattative di pace, è possibilissimo fare il trattato di pace sulla base dell 'ufi possidetis. L’Autore attende fiduciosamente che in tempo non lontano avvenga la nomina dei due plenipotenziari, e scioglie un inno all’alba luminosa di pace, armonia, benessere, che si leverà su Roma, l’Italia, il mondo.
Unito all’opuscolo è uno «Schema di trattato di pace fra l’Italia e la Santa Sede» nel quale le alte parti contraenti dichiarano cessato lo stato di guerra e di riconoscere pacifica la situazione territoriale determinatasi.; la legge delle Guarentigie viene dichiarata dal Governo italiano solenne e irrevocabile dichiarazione al mondo cattolico e civile con cui si assicura e garantisce l’indipendenza civile, politica, religiosa del Papa. Inoltre dichiara detta legge di pari grado ed importanza dello Statuto albertino; si ristabiliscono le relazioni diplomatiche istituendosi la Nunziatura e la Ambasciata, e si riconosce da parte dell’Italia alla Santa Sede titoloe grado di grande potenza.
La dotazione prevista dalla legge delle Guarentigie sarà consegnata alia Santa Sede la quale ne costituirà volontariamente un fondo patrimoniale a favore delle Missioni italiane in partibus infidelium e doterà con essa Diocesi e Seminari. Apposite commissioni delimiteranno i territori. Gli affari di politica ecclesiastica saranno regolati da apposito concordato.
Ora ci domanderemo: quale accoglienza avrà il. libretto, con le sue proposte? Crediamo che lascierà le cose come stavano prima. Pensiamo che clamore avrebbe suscitato in altri tempi nel campo liberale, e al silenzio con cui oggi è stato accolto. La verità è che nessuno cerca una soluzione ad una questione di cui non si sente alcuna urgenza.
Non solo, ma se teoricamente la questione —- non vi è dubbio — è ancora aperta, è
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anche vero che per i giuristi ha grande importanza sistemare e definire una questione, ma politicamente una questione non ha altra importanza se non quella che le è data dalla sua attualità. E la questione romana, o italo-pontificia che dir si voglia, ,è priva di attualità. Forse ae le sorti della guerra fossero state diverse per noi e per l’Intesa, Constantinos avrebbe avuto una ben altra ragione di essere; ma ci possiamo chiedere se in tal caso avrebbe avuto le medesime preoccupazioni di moderazione e i medesimi riguardi verso Postile potere sotto cui è posto, di cui fa sfoggio ora. Molte ragioni antiche e recenti ci autorizzano ad essere assai dubbiosi in proposito.
Ma poi una cosa ancor più vera è questa : che le questioni politiche non hanno mai una soluzione definitiva. Non c’è di definitivo se non ciò su cui è passato il tempo, e la stessa indifferenza con cui è stato accolto Constantinos dimostra che del tempo ne è passato molto sulla questione italo-pontificia, e che le due parti belligeranti hanno trovato modo di concludere, se non un trattato definitivo di pace, almeno una tregua che ne ha tutti i vantaggi, con una libertà*ancora maggiore.
Crede proprio Constantinos che il dichiarare la legge delle Guarentigie altrettanto solenne e fondamentale come lo Statuto alber-tino rappresenti oggi una garanzia maggiore di quella attuale? in questi tempi di costituente ?
Ma Constantinos dice che < dichiarando la legge delle Guarentigie legge fondamentale ed organica si viene a costituire un patto solenne del popolo italiano con tutti gli altri popoli ». In altre parole si riparla di nuovo, sotto altra forma, di internazionalizzare detta legge. Questa, in realtà, è la garanzia che si cerca. Perchè qui è l’equivoco di tutta la tesi di Constantinos : nel cercare di dissimulare e far passare la vecchia merce «salvando più che mai l’amor proprio, la dignità, il decoro della Grande Nazione italiana».
Ma se questa pubblicazione era destinata a sondare l’opinione pubblica italiana, la delusione deve essere stata grande. Come il primo messaggiero inviato da Noè fuori dall’arca, ha tròvato la terra ancora ricoperta dalle acque dei diluvio. Ma quello era uscito intempestivamente, mentre il libretto « asperso di soave licor > di Constantinos è arrivato troppo tardi e .dopo troppi altri messaggeri ritornati senza riportare il ramoscello di olivo.
Comunque era interessante esaminarlo, perchè è un lavoro autorevole e pieno di garbo, ed è un segno dei tempi.
IL PARTITO POPOLARE E LE ELEZIONI
In questa caotica vigilia elettorale, nella quale il paese con scarso interessamento in complesso, si prepara a compiere un esperimento pel quale forse non era maturo, combatte le sue prime battaglie il Partito popolare. Le medesime contraddizioni che emersero nel Congresso di Bologna, riappaiono nel manifesto elettorale. Questo partito che avrebbe potuto rinnovare davvero la vita nazionale, probabilmente non cambierà gran fatto le cose. E’ ancora troppo confessionale e nello stesso tempo adotta un contenuto sociale troppo generico, per poter assumere una posizione netta nel fascio vivo delle forze nazionali; d’altro canto lo è troppo poco e troppo superficialmente per comprendere e vivere pienamente il valore dell’idealità cristiana in un modo come è il nostro.
Don Sturzo ha cercato di racchiudere nel giro di pochi periodi, piuttosto altisonanti, tutti i propositi e le rivendicazioni del partito. Ma i più scottanti problemi della crisi attuale vi sono lasciati da parte perchè non era evidentemente opportuno abbondare in dichiarazioni che potevano far perdere molti voti.
D’altra parte i presupposti teorici e confessionali che dovrebbero essere la nota differenziale del partito sono enunciati quasi di sfuggita là dove si dice che il partito popolare « vuole contro i conservatori consacrare nel patrimonio religioso l’affermarsi dei nuovi istituti sociali : contro i rappresentanti delle democrazie antireligiose, “ vedere nel cristianesimo la fonte perenne di civiltà progressiva „ (testuale!); contro le tendenze rivoluzionarie, rafforzare la coscienza del popolo in rispondenza al mutarsi degli istituti sociali ».
Osserva giustamente Romolo Murri nel Resto del Carlino che « fra gli stessi cattolici chi" vuole giudicare obbiettivamente, vagliare il pro e il contro, valutare accuratamente questo modo nuovo nella storia italiana di mettere insieme e discutere religione e politica, rimane perplesso. Non si sa di dove prendere il criterio per giudicare il partito popo lare : se da quello che i cattolici erano ieri, da generazioni, nella storia politica o culturale d’Italia, ritenendo solo occasionale od apparente la differenza ; o se invece dare proprio importanza decisiva al fatto che essi oggi rompono una tradizione, sono e si fanno diversi da quello che erano ieri.
Il loro manifesto fa appello energicamente a questo seguente criterio : nessuna traccia
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nuova del cattolicesimo ancien régime e nessuno spunto confessionale. Non è nemmeno nominata la chiesa !
I cristiani, di non importa quale confessione e paese, potrebbero dire oggi esattamente le stesse cose in Italia ».
In sostanza il dubbio che permane è sempre questo : vogliono questi cattolici arricchire di una nuova coscienza etica e spirituale lo stato moderno, accettandone sinceramente le assise giuridiche? O c’è in essi la riserva di limitare l’attività dello Stato a beneficio di un altro istituto pubblico da anteporre e da sovrapporre ad esso, come fu o si cercò che fosse in passato la Chiesa?
Inoltre c’è da augurarsi che il successo politico non arrida troppo presto al nuovo partito: potrebbe essere l’insuccesso religioso, e il vento che soffia oggi in poppa al nuovo partito non spira da cime ideali. Anzi se dobbiamo prestare attenzione a molti fatti già verificatisi, il giovane partito è già molto vecchio in fatto di accomodamenti, di compromissioni, e ci sembra che abbia una fretta eccessiva di far numero.
Dieno primi l'esempio di sincerità e di integrità, lottino come minoranza, si rivelino, si affinino; diano campo alla coscienza dei loro di seguire il loro lavorìo, di capirli.
Dimostrino che vogliono attuaresenza fretta e senza tregua la ricostruzione sociale. E’ bene che non abbiano fretta e che non credano troppo di dover essere proprio e solo essi i rinnovatori.
Infine è doveroso fare un’osservazione sopra una omissione, certamente voluta, del programma. Con la scusa che il Papa soltanto è giudice delle condizioni della sua libertà e attività, già altre volte il partito ha evaso la domanda fattagli di dichiararsi intorno alla situazione giuridica del papato in Italia.
La S. Sede ha ripetutamente fatto capire in questi ultimi tempi che desidera venire a una sistemazione sollecita della questione romana, ed ha anche per non equivoci segni dimostrate le sue intenzioni.
La Segreteria di Stato ha già per conto suo stabilito contatti confidenziali coi poteri dello Stato, al di fuori e al disopra dei partiti che dovrebbero vigilare alla tutela e al riconoscimento delle rivendicazioni pontificie.
Sicché si verifica questo paradosso che mentre ferve il lavoro di preparazione alla lotta elettorale che dovrà darci la Camera chiamata a prendere in esame i rapporti fra Stato e Chiesa in Italia, la S. Sede può in abscondito, gettare i sondaggi e gli appròcci
opportuni per l’avviamento politico alle soluzioni auspicate, senza che il partito sotto la cui egida manovreranno le masse cattoliche, dedichi ad esse nel suo programma di battaglia il più fuggevole accenno.
Ciò non giova certamente alla sincerità.
Ci sembra che i primi passi del nuovo partito siano assai incerti .e che esso stenti a trovare una sua strada. In gran parte è difetto di sincerità. Potrebbe dire di sè stesso non erubesco evangeli uni?.
Se non avrà questa- forza potrà raccattare molti voti, ma seguiterà ad avere scarsa influenza sulla vita del paese.
IL CARDINALE BOURNE A LUBIANA
Sebbene sia già trascorso qualche mese, pure mi sembra abbia ancora interesse segnalare secondo il racconto del Tablet, che è l’organo ufficiale della curia di Westminster e dei cattolici inglesi, la visita del Cardinale Bourne a Lubiana. Nell’inverno e nella primavera passata il Bourne fece un lungo viaggio a Gerusalemme, in Egitto e nei Balcani. Naturalmente scopo del viaggio non era soltanto il pellegrinaggio ai Luoghi Santi e la visita ai soldati cattolici inglesi.
Il Bourne, che è primate della Chiesa inglese, ama atteggiarsi, dirò cosi, a patriarca e protettore di tutti i cattolici viventi sotto la bandiera britànnica, e possiamo anche essere certi che, specialmente alla sua visita in Palestina, non è stata estranea la difesa degli interessi per. i quali l’Inghilterra annette cosi grande importanza a regolarne essa l’assetto politico.
Durante il viaggio nei Balcani grandi accoglienze sono state fatte al cardinale Bourne, sopratutto a Sofia. Ma per noi è di particolare interesse l’accoglienza ricevuta a Lubiana. I giornali sloveni, e sopratutto lo Slovenec, recavano grandi articoli di lode e di ossequio, con epigrafi e dediche in inglese e in latino.
Il Cardinale ha visitato le scuole e gli istituti culturali sloveni, fermandosi con particolare compiacimento nell'edificio della stampa jugoslava (Jugoslavanska tiskarna). Nel banchetto offerto al Cardinale dalle autorità il vescovo Jeglic ha celebrato il patriottismo e la pietà religiosa del popolo sloveno, affermando fra l’altro, con particolare compiacenza, che durante tutta la guerra « mulieres fere omnes fidelitatem maritis suis absentibus servaverunt non obstantibus tantis periculis e parte perversorum militum » e che anche i giovani soldati *« reversi sunt domum pro malori parte incorrupti ». Accennando poi alla
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situazione politica del paese lo Jeglic ha espresso il suo rammarico perchè « mentre si tratta in questo momento della pace, noi Sloveni siamo percossi da gran dolore e timore e vengono da Parigi pessime notizie. Poiché sembra che in gran parte i diplomatici siano nemici del nostro popolo, che è trattato dagli italiani con tanta crudeltà come se fosse destinato alla morte, e contro ogni diritto umano e divino, contro i voleri del Papa, contro i principi di Wilson si pensa di consegnarlo agli italiani nostri nemici». Perciò si invoca il Cardinale perchè si adoperi a Parigi per la riunione alla Jugoslavia di tutti i croati e sloveni. Inoltre si prega il Cardinale di ottenere da Roma, conforme al voto dei popolo e dei vescovi, che la liturgia sia celebrata secondo il rito romano, ma nella vecchia lingua slovena.
II cardinale Bourne ha risposto che avrebbe fatto quanto chiedeva lo Jeglic. Il Cardinale durante il suo soggiorno a Lubiana si incontrò con tutte le personalità slovene e ricevette rappresentanze di ogni specie. Ricevette anche deputazioni «di città comprese nella zona occupata dagli italiani. Un gruppo di goriziani nell’esporgli le loro doglianze gli offrirono una pergamena col ritratto dei defunto poeta sloveno Gregorcic con una poesia dello stesso tradotta in alcaici latini in onore deW Isonzo». In questa composizione, dopo aver celebrato la limpidezza delle acque e la bellezza del corso pittoresco del fiume, il poeta domanda perchè una volta uscito dalle gole dei monti nella pianura il fiume indugi pigramente il suo corso e prenda un aspetto di tristezza. E risponde che il fiume è presago di una grande tempesta che si leverà dà occidente con fragore di guerra. « Ricordati allora, o Isonzo, di rallentare ancora più la tua corrente, anzi di riunire tutte le tue acque in un punto solo e rotti gli argini non trattenere più i tuoi flutti, ma con minaccioso' fremito rovesciali oltre le rive e con tutta la tua piena volgili contro il popolo rapace, nè ritornare in te stesso finché non abbia ricoperto e dati alla morte i ladroni della nostra terra avita ».
VATICANO E JUGOSLAVIA
Sebbene il cardinale Bourne abbia volentieri incoraggiato quanti hanno dato al suo viaggio un carattere di missione pontificia, in realtà però non risulta che egli abbia avuto dalla Santa Sede alcun speciale incarico; piuttosto che dalla Santa Sede, la sua Zowrw/tf è stata ispirata dal Governo inglese, col quale il Bourne è in stretto contatto.
Anzi la politica vaticana nella Jugoslavia, sebbene debba procedere con grandi cautele dovendo regolare questioni assai delicate col Governo serbo e non urtare le suscettibilità del regno jugoslavo, tende però nettamente a impedire la fusione panserba dei popoli slavi, e favorisce in ogni modo le tendenze separatiste, o quanto meno federali, dei croati e degli sloveni. A parte le problematiche speranze che può ancora nutrire pel futuro, è evidente che è interesse del Vaticano che la direttiva ai popoli slavi cattolici della ex monarchia non venga da Belgrado. Molte missioni più o meno ufficiose e molti inviati pontifici lavorano attivamente a questo scopo specialmente in Bosnia.
Anche questo è un altro dei punti in cui in questo momento la politica della Consulta va d’accordo con la Segreteria di Stato. Anzi l’intesa e la coincidenza —- e non sempre soltanto fortuita — è spesso tale, che già parecchie diffidenze si sono elevate nella Jugoslavia, diffidenze che trovarono una eco nella recente visita del vescovo di Lubiana al Papa e nèlle conseguenti dichiarazioni fatte dallo Jeglic per dissiparle, come pure in qualche nota ispirata dei giornali cattolici italiani. Ma tanto a Roma quanto nella Jugoslavia sono sulle bocche di quanti occupansi di queste questioni, i nomi di religiosi che fanno la spola tra Roma e i vari centri cattolici della Jugoslavia, con la benevola attenzione della Consulta.
IL CARDINALE GIUSTINI
A GERUSALEMME
Dopo la visita del cardinale inglese Bourne, era stata annunziata la partenza per Gerusalemme del cardinale Dubois arcivescovo di Rouen. L’influenza sulla Siria e Palestina è contesa, come è noto, tra la Francia e l’Inghilterra. I due punti principali d’appoggio della espansione francese, oltre, s’intende, i grandi interessi politici ed economici che la Francia ha in Siria, sono il vecchio privilegio, che la Francia rivendica ancora, di protettrice dei cattolici ¿’Oriente, e il protettorato sui maroniti del Libano. La Francia in ogni caso è ben decisa a fare quanto può perchè la Siria e la Palestina non facciano parte del grande impero arabo-inglese. L’Inghilterra invece ha già dichiarato chiaramente quali sono i suoi scopi, e il progettato impero arabo» dovrebbe comprendere quasi tutta la Siria e la Palestina, quest’ultima però con un regime specialissimo e con garanzie per la nalional homo promessa ai sionisti, sotto il controllo inglese. ' A parte l’importanza religiosa — che in Oriente
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è anche politica — del possesso dei Luoghi Santi di tante confessioni religiose, la Palestina è un punto di troppa importanza strategica per il possesso dell’Egitto perchè l’Inghilterra non debba tenervi in modo particolare.
La Santa. Sede terrebbe in modo particolare a che la Palestina non divenisse protettorato inglese nè, sopratutto, che appartenesse all’impero arabico e vi prosperasse il sionismo. Quale sia il programma della Santa Sede non è ben chiaro, ma è certo che non deve essere molto lontano da quello del Governo italiano. Infatti il nostro Governo, che a dir vero era rimasto quasi completamente assente dalla Palestina, e che aveva inviato un contingente •di occupazione a Gerusalemme rimasto sempre in posizione completamente subordinata, si è invece affermato durante la visita a Gerusalemme del cardinale Giustini inviatovi in qualità di legato Pontificio.
La Santa Sede ha trovato la occasione opportuna di inviare un Principe della Chiesa come proprio rappresentante nella città santa, nella celebrazione dei centenario della Custodia di Terrasanta, che è privilegio secolare dei francescani italiani. La ricorrenza non era tale da necessitare l’intervento di un così alto rappresentante della Santa Sede, ma date le speciali circostanze attuali della Terrasanta, l’occasione non era da trascurare.
Con procedimento nuovo il cardinale Giustini stesso ha chiesto al Governo italiano una nave da guerra per la traversata in Palestina, conforme al rango principesco dei cardinali, •e così la bandiera pontificia ha sventolato per la prima volta vicino a quella italiana durante la missione di un legato pontificio.
Dopo l’ingresso trionfale di Allemby, il conquistatore della Palestina, l’ingresso del cardinale Giustini è stato l’avvenimento più solenne avvenuto a Gerusalemme'.
Il 12 ottobre tutte le adiacenze della porta di Giaffa, le vecchie mura dello storico castello dei Pisani, i balconi e i terrazzi erano letteralmente gremiti di gente.
Verso le ore 6 pom. il cardinale Giustini accompagnato dal Console italiano e da un picchetto dei RR. CC., giungeva alla porta di Giaffa, ricevuto solennemente dal patriarca monsignor Barlassina; intanto che un fragoroso applauso scoppiava fra l’immensa folla che lo attorniava. Dopo di che, processionai mente fu condotto alla vicina Basilica del SS. Sepolcro, ove S. E. il Governatore di Gerusalemme ed il Padre Diotallevi, custode di Terra Santa, lo ricevettero con le solenni cerimonie di uso.
Il Padre Diotallevi pronunciò un vivace discorso inneggiando al Pontefice che con sapiente cura destinava S. E. il cardinale Giustini a rappresentarlo nelle grandiose feste francescane di Gerusalemme, e accennò alla generosa cortesia del governo italiano che per il viaggio di S. E. in Terra Santa aveva saputo onorare il principe di S. Chiesa.
Infatti il cardinale Giustini giunse a Giaffa a bordo della R. nave da guerra Quarto. Allo sbarco assistettero le autorità italiane e le autorità inglesi, le quali fecero al cardinale i più grandi onori.
Sembra invece che in Francia si sia rimasti assai poco contenti di questo viaggio sotto, scorta italiana di un Legato Pontificio; la Francia è stata assente, e proprio nei paesi in cui essa rivendica il diritto di protettorato sui cattolici. L’annunciato viaggio del cardinale Dubois non avrà infatti più luogo.
Viceversa a Parigi oltre al Patriarca maronita del Libano, si sono recati recentemente i capi delle diverse comunità cattoliche orientali. Il Quay d’Orsay non può perdere tempo, e vuole approfittare di questo tempo in cui le questioni asiatiche nell’ex Impero Turco non sono ancora definitivamente risolute, per riaffermare la propria influenza che la vittoriosa concorrenza inglese minaccia di soppiantare dovunque.
GLI STUDI BIBLICI IN PALESTINA
Fervono i preparativi, tra gli ordini religiosi che vi hanno più diretto interesse, per ristabilire nella Palestina, sottratta al dominio turco,- quegli istituti di cultura biblica che ne hanno costituito un vanto nel passato.
La scuola di Santo Stefano, di proprietà dei padri domenicani, riaprirà le sue aule, e, in vista dell’imminente ripresa, il padre La-grange ha ricevuto dal suo generale padre Theissling una lusinghiera lettera : « Son felice di salutare il mostro ritorno a S. Stefano e la ripresa degli studi nella scuola biblica di Gerusalemme... Le circostanze stesse dell’ora presente vi sono state di stimolo per gli studi che noi attendiamo da voi. Il vecchio Pri-cote si ridesta. Uscendo dalla sua immobilità secolare, esso è per mettersi all’unissono con le società moderne e smarrire, pertanto, quella patina di antica civiltà che era la testimonianza, vivente dello stato sociale del popolo d’Israele sotto l’antico testamento e all’epoca di Nostro Signore. Le rovine medesime spariranno in parte e anche la fisionomìa del paesaggio sarà trastorniata. Quindi quelli che vogliono conoscere l’antica Terra Santa debbono senza ritardo recarsi a studiarla sul po-
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sto. Io spero che non vi mancheranno studenti e che i nostri professori, dal canto loro, riterranno impegno d’onore tenere alta la fama della scuola ».
I gesuiti, che hanno sempre riguardato con una certa invidia e gelosia gli allori dell’insegnamento biblico domenicano a Gerusalemme, e hanno voluto contrapporvi la creazione del grandioso Istituto Biblico di Roma, stanno ora impiantando nella « Città Santa » un « annesso » di detto Istituto. Benedetto XV ha inviato testé una lettera al presidente dell’istituto a Roma, padre Fernandez, in cui, dopo aver affermata la sua sollecitudine per esso, continua: « Immaginate con quanta gioia abbiamo appreso, dalla vostra lettera, che dalla S. M. del nostro predecessore Pio X vi era stato affidato il compito (che la guerra vi ha impedito finora di assolvere) di aprire a Gerusalemme per gli studiosi dei libri sacri una casa che non sarà propriamente una scuola dove s’impartiscono tutti gli insegna-menti della scienza biblica, ma una specie di annesso di questo Istituto Romano, dove a-vranno luogo solamente dei corsi particolari di geografia, archeologia, ed epigrafia semitica ».
Di più, onde completare l’opera e dare una consorella all’antica Revue Biblique, l’istituto biblico annuncia per il prossimo gennaio la comparsa di una rivista trimestrale intitolata Biblica, la quale conterrà note originali, bibliografiche, informatrici. Degli articoli principali, che potranno essere redatti in latino, francese, inglese, tedesco, italiano, spagnolo, sarà dato anche un breve riassunto latino.
Cosi la Compagnia di Gesù si accinge a occupare quelle ntansiones che finora sembravano riservate ad altri illustri ordini religiosi.
I CONCORDATI TRA S. SEDE E AUTORITÀ» CIVILI
È uscito recentemente dalla tipografia Vaticana un grosso volume in quarto composto da Angelo Mercati, dal titolo: Raccolta di concordati su materie ecclesiastiche tra la S. Sede e le autorità cinti (L. 50). Sono 11’40 pagine in cui sono registrati i testi di 133 documenti diplomatici pontifici, da quello di Urbano II del 109S, che conferisce la lega-, zia di Sicilia a Ruggero conte di Calabria, a ' quello di Pio X del 1914, stretto con re Pietro di Serbia, onde disciplinare la situazione della chiesa cattolica nel suo Stato.
I testi sono stati collazionati sugli originali o sulle copie autentiche che l’A., scrittore della Biblioteca Vaticana, ha potuto avere a propria disposizione.
Oltre ai concordati strettamente intesi fra S. Sede e gli Stati con i quali essa ha dovuto di volta in volta disciplinare le materie religiose, sono state inserite nella raccolta anche alcune convenzioni stipulate tra autorità ecclesiastiche locali e poteri civili particolari, sulle quali sopravvenne la sanzione ufficiale della S. Sede.
Le piccole repubbliche dell’America latina sono le più assidue stipulatrici di convenzioni ufficiali con il Vaticano.
Notevoli tra gli altri documenti recenti lo accordò stretto con la Russia per i Seminari e l’Accademia ecclesiastica di Pietrogrado; la convenzione stipulata con l’Inghilterra circa la vita religiosa nell’isola di Malta, la disciplina matrimoniale, l’educazione ecclesiastica, le elezioni vescovili; e l’altra stipulata con la Germania e testé tornata in discussione, relativa alla Facoltà teologica nell’università di Stato a Strasburgo.
Quinto Tosatti.
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STORIA E PSICOLOGIA RELIGIOSA
IV.
IL PROTESTANTESIMO IN FRANGIA NEL SECOLO XVI
Vi sono degli eventi storici, come la sconfitta della Riforma in Francia nel secolo xvi, che sembrano, a prima vsita, inesplicabili. Per conoscerne le cause bisogna indagare le condizioni politiche culturali, economiche, sociali e morali di quel tempo, ma sopratutto le condizioni religiose. Eppure non si è ordinariamente tenuto conto che la storia delle religioni va intesa nella coscienza religiosa, e che le condizioni, diciamo così, accidentali, in cui questa nasce e si sviluppa, possono spiegare gli atteggiamenti mutevoli della vita religiosa, ma non la fonte da cui essa attinge il suo principale alimento.
Parecchi si sono domandati come mai la Riforma in Francia, sorta quando tutto pareva favorevole al suo sviluppo, dovesse poi cedere il campo, dopo non incruenta lotta, alla Chiesa di Roma. Nelle università, nei gabinetti degli scienziati, nelle corti dei re, nei castelli dei signori, nei conventi, nelle corporazioni dei borghesi e degli artigiani, nei casolari delle campagne, dappertutto si era convinti della decadenza- della Chiesa di Roma e se ne desiderava ardentemente una riforma. Come mai, dunque, questo movimento che si diffondeva in Francia, coi migliori auspici, doveva subire una tale sconfitta dalia quale non si sarebbe più risollevato per continuare la sua marcia di trionfo? Un argomento favorito, uno dei
più forti per spiegarne la sconfitta, un argomento che è stato anche adoperato nel secolo scorso da scrittori come Michelet, Quinet, Renouvier, Laveley, Ménard. Pillo» in un tentativo di riscossa, è che il protestantesimo non fu sconfitto in Francia per opera della persuasione, ma della distruzione. Nel secolo xvi, si è detto, il Protestantesimo fu vinto dalla brutalità della forza e quindi la sua disfatta non può considerarsi come definitiva.
NUOVO CONTRIBUTO ALLO STUDIO DEL SENTIMENTO RELIGIOSO IN FRANGIA NEL SEGOLO XVI
Al difetto degli storici che lasciavano quasi da parte ciò che più importava di prendere in considerazione — la coscienza religiosa di quel tempo — à voluto recentemente porre rimedio Albert Autin col suo lavoro L'Echec de la Réjonne en Franse au XVI siècle (Libr. Colin, Paris, 1918. Un voi. in-160 di pp. vn-286). Altri avevano tentato in Francia di esporre i motivi di quella disfatta; così p. e., Th. Maillard (Des obstacles que renconire la Riforme en France au XVI siècle, Montauban, 1875). Ma Albert Autin, volendo penetrare il segreto di quella disfatta, non si arresta ai documenti, ai fatti, agli aspetti esteriori della storia, ma penetra nell'intimo delle coscienze per intenderne lo spirito, riuscendo così a dare un notevole contributo alla storia del sentimento religioso in Francia nel secolo xvi, contributo che è stato giustamente premiato dall’Accademia francese.
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Albert Autin esamina, nella prima parte del suo lavoro, le dottrine dei riformati; nella seconda l’opposizione a queste dottrine e mette, in una ricca appendice, cinque saggi che servono a delucidare alcuni aspetti principali di quel movimento religioso in h rancia e della polemica che ne seguiva; egli completa il suo volume con una ricca bibliografìa di documenti, opere storiche, riviste e periodici.
L’A., come ò detto, vuole scoprire la ragione della sconfitta della Riforma in Francia nei convertiti, cioè nei religiosi medesimi. E poiché la pietà della Chiesa riformata si è messa, da alcuni anni, a raccogliere e pubblicare, per la edificazione dei suoi fedeli e per la restaurazione della verità storica, la corrispondenza dei suoi primi adepti, le confessioni di fede e gii interrogatori dei martiri, cosi lo studioso è oggi in possesso di documenti che gli permettono di ricostruire per quanto possibile i motivi che determinarono tanti francesi ad abbracciare dapprima la Riforma, e ad allontanarsene poi. Avendo Albert Au-tin portato l’indagine della storia religiosa nel suo vero campo, à fatto opera lodevole giacché qui, come ò detto, si dovevano anzitutto cercare i motivi della varia fortuna della Riforma in Francia nel secolo xvi. •
Dico anzitutto in questo campo, ma non in questo soltanto, perchè daU'esame psicologico della coscienza religiosa, non deve lo storico disgiungere la concezione sintetica di quella coscienza nell’insieme dei motivi e delle condizioni non religiose in cui nasce e si sviluppa. Vediamo talvolta vivide coscienze religiose agitarsi invano fra la tenebra che le circonda: le vediamo altre volte scuotere il torpido ambiente che le opprime e rischiarare tutt’intorno la tenebra: ma non di rado avviene che da motivi estrareligiosi si lascino dominare e travolgere. L’indagine dei motivi religiosi non è quindi sufficiente, da sola, a spiegarci un evento così complesso come la fallita della Riforma in Francia nel secolo xvi.
D’altro canto questo stesso esame psicologico va fatto con criteri alquanto diversi da quelli che ànno guidato il lavoro di A. Autin. Rammenterò un esempio. L’A., in modo generico, considera sotto due aspetti i motivi di conversione. Il convertito, egli dice, è in primo luogo scontento della confessione alla quale appar
tiene, e scopre, in secondo luogù, una forma religiosa « più convenevole ftl suo ideale •. Vi è dunque, nel convertito, un malcontento e un entusiasmo.
Questa interpretazione della conversione non è esatta. La conversione non dipende direttamente dalla riconosciuta insufficienza del dogma, della liturgia, della murale, di un sistema religioso rispetto a un altro, ma dall’appagamento che una nuova apprensione del divino offre alle esigenze spirituali del Convertito. La religione che il convertito abbraccia non è quindi da lui abbracciata perchè « più convenevole a un ideale », ma perchè completamente appaga, e non relativamente, le sue esigenze religiose. Il « malcontento » è escluso dall’animo del convertito, ed è se mai un momento che precede la conversione; Nessuna traccia di malcontento turba, nessun’ombra del passato ottenebra la divinità in cui il convertito sente, con entusiasmo, di vivere una vita nuova.
La storia di un moviménto religioso rimarrebbe incompleta se sr facesse dipendere il suo progresso, o la disfatta sua, soltanto dall’apprezzamento dei dogmi, della liturgia e delia morale. Questo apprezzamento è certo uno dei principali coefficienti
per il progresso o la decadenza del movimento religioso, ma bisogna aggiungere che non è il solo coefficiente, nè sempre il più efficace, e non mancano esempi di reli- ‘ giosi movimenti che, pur sottraendosi a quell’apprezzamento, sono riusciti a imporsi alle masse.
Nella specie, dunque, le varie vicende della Riforma in Francia nel secolo xvr non devono ascriversi semplicemente ai vari apprezzamenti di essa, ma anche ad altre cause c a quelle che quei vari apprezzamenti determinavano. Non bisogna prender per causa ciò che talvolta è semplicemente un effetto.
CALVINO E LA SUA RIFORMA
Seguiamo ora un poco lo studio di Albert Autin, per esaminare l’apprezzamento sfavorevole della Riforma in Francia che dovette, secondo lui, determinarne la disfatta. La Riforma attaccava il cattoli-cismo nel dogma, nella liturgia e nella morale; ripudiava la presenza reale del Cristo su l’altare, il celibato ecclesiastico, i di-S’iuni, le astinenze, la confessione aurico-are, le cerimonie del battesimo, la messa.
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TRA LIBRI E RIVISTE
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La Riforma voleva un ritorno ai costumi e alla semplicità primitiva. Ma dai riformatori si volevano riconoscere soltanto formule e pratiche autenticate dal Vangelo. La Bibbia diveniva così l'unico c necessario sostegno della religione, e tutto quanto non trovava in essa sanzione, era ripudiato come scolastico e mistico, come estraneo allo spirito del Cristianesimo e superstizioso. Quest'atteggiamento non doveva rimanere, e non rimase infatti, senza gravi conseguenze per la v.ta d-1 Protestantesimo. Ma vi è di più. La scolastica protestante sostituì ben presto, presso i riformati, quella cattolica; la Somma di Calvino sostituì quella di San Tommaso. Un’aspra polemica si accese sul libero arbitrio, su la predestinazione, su la giustificazione per mezzo della sola fede, su le nozioni di Chiesa e Sacramenti, sul valore delle opere per la salvezza, sul culto dovuto ai santi. La coscienza religiosa che si era elevata alla concezione della trascendenza divina del Cristianesimo, della sua purezza spirituale, dell'infinita bontà di Dio, che si era fatta religione intcriore, vita ed alimento dello spirito, coscienza delle miserie dell'uomo e della missione redentrice di Gesù, si attardava ora su le scolastiche disquisizioni, e il Calvinismo diveniva anch'esso un'ortodossia rigorosa e implacabile. Nella prima metà del secolo xvi la Riforma si era in Francia definitivamente costituita di fronte alla Chiesa cattolica. Essa aveva la sua Somma, i suoi simboli, il suo clero e persino il suo papa, e dovevano venire gli ardori del pietismo, il risveglio della critica, il trionfo dei metodi razionali, prima che il Cristianesimo fosse ricondotto nelle vie naturali del suo sviluppo storico.
L’OPPOSIZIONE ALLE DOTTRINE CALVINISTE
Ma una forte opposizione al progresso della Riforma non si fece attendere. Obiezioni dottrinali vennero dagli umanisti (che pur avevano dapprima tanto contribuito alla traduzione e diffusione dei libri sacri, si rammentino qui solo Lefòvre d’Etaples, Budé, Vatable, Clichtove, Cop, Etienne Pocher, Petit) ne vennero dai filosofi, dalla facoltà teologica di Parigi, dalla Controriforma, c ne vennero (ciò che non avverte Autin) dagli stessi riformati, per interne scissure, come dimostrano i violenti contrasti tra anniniani, sociniani, pelagiani c ortodossi calvinisti. Questa circostanza è recentemente dimostrata da F. Buisson in una sua Noto additionnelle sur la Riforme fronfaise (Paris, Colin, 1918).
Gli umanisti ricusavano di accettare le barriere della inviolabilità della Bibbia; i filosofi più conseguenti partivano dal principio della libertà di esame al quale la Riforma si era dapprima appellata*. Albert Autin cita Montaigne — che non consente al fedele di esser giudice della propria fede— e Charron — che ritiene l’intervento divino appoggiarsi al magistero della Chiesa — ma è Du Vair, che accenna a quello che doveva ben presto divenire uno dei principali argomenti dei filosofi avversi alla Riforma, protestando egli contro coloro che negavano all'uomo il sano uso della ragione, pur giovandosene per contestarne i diritti. Tuttavia, questi tre pensatori non si cimentano nelle sommità delle speculazioni filosofiche, e solo più tardi doveva nascere in Francia il filosofo che la rompeva definitivamente con la tradizione e con gl'idoli mentali.
La Sorbona reclamava intanto come suo Privilegio la spiegazione dei libri sacri, e rifiutava ai laici il diritto di tradurli, commentarli e pubblicarli. Alle polemiche degli umanisti, dei filosofi e dei professori della facoltà teologica, si aggiungeva la decisione della controriforma che nel Concilio di Trento stabiliva non andar disgiunta la Scrittura dalla tradizione come sorgente e garanzia d’insegnamento, negava la dottrina della giustificazione per mezzo della sola fede, consacrava l’idea e il termine di transustanziazione e autorizzava il culto dei santi.
L’esame che fa Albert Autin di queste polemiche ed opposizioni dottrinali, ci spiega il discredito in cui veniva a cadere man mano la Riforma nelle classi colte, e come potevano prender radici nel popolo molte calunnie sul conto dei riformati.
LE CAUSE DELLA DISFATTA
Ma se l’esame delle opposizioni dottrinali fatte alla Riforma in Francia nel secolo xvi da umanisti, filosofi, professori e teologi può farci conoscere i motivi della polemica e l’azione che questa esercitava su la coscienza religiosa, non ci permette Serò di abbracciare col pensiero l’insieme elle cause che determinarono allora la sconfitta di quel movimento religioso. La Riforma, che aveva dato alla religione un
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impulso analogo a quello che Descartes aveva dato alla filosofia, quella stessa Riforma che era stata accolta in Francia con tanto entusiasmo, che aveva esercitato una seduzione alla quale era difficile resistere, dava poi luogo a diffidenze, a contrasti, a defezioni. Era questa opposizione determinata soltanto da motivi dottrinali? O vi erano qui anche altri motivi da ricercare nelle condizioni culturali, economiche, p< litiche di quel tempo, nelle particolari contingenze, che non escludono anche privati interessi, in cui venne a trovarsi allora la Riforma in Francia? Per affermare che vi erano anche altri motivi basta considerare che l’opposizione non si limitava agli umanisti, ai filosofi, ai professori, ai teologi ma si estendeva al Parlamento, alla Corte, al partito dell’ordine, al popolo.
Non bisogna dimenticare che la Riforma entrò in Francia al tempo di Francesco I e che vi si diffuse rapidamente con idee contrarie alla eccessiva autorità del sovrano, autorità che molti allora combattevano. Ma quando il re aderiva alla confederazione cattolica contro la Riforma (153S), in un tempo in cui era in'vigore il principio; cujus regio ejus religio (Ronsard diceva di esser cattolico perchè quella era la religióne del suo re, e il suo esempio seguivano la Corte e la nobiltà alleata col clero) la Riforma era già virtualmente condannata. Invano Calvino nella sua lettera dedicatoria a Francesco I, lettera che precede le sue Istituzioni Cristiane, aveva cercato di chiarire i limiti dell'autorità sovrana per renderli accettabili; nel fatto la Riforma rinunciava all’appoggio di quell’autorità, e Bossuet, misurandone le conseguenze, non esitava a chiamare ardita quella rinuncia.
Per spiegare l’avversione che si andava maturando nel popolo contro la Riforma, bisogna ricorrere, oltre a questi, anche ad altri motivi. In un libro che ebbe, molti anni fa, una certa diffusióne; Alfred Fouil-let, occupandosi della psicologia dei popoli europei (3imc ed. Alcan, Paris, 1903) aveva indicato come principale ostacolo al successo della Riforma in Francia, lo spirito di chiarezza, d’ordine, di regola sociale, di legge razionale comunemente accettata, di legislazione impersonale e universale che, secondò quest'autore, caratterizza i francesi. Albert Autin non à tenuto conto di questo libro, nè del primo argomento che si appella allo spirito di
chiarezza francese, e non possiamo dargliene torto. Quanto agli altri argomenti, si possono riassumere nella sfiducia che produce la interpretazione individuale in materia religiosa. Questa sfiducia non è Serò esclusiva proprietà di un popolo, e ipende dal fatto che la religione è appresa generalmente nel senso di una dottrina e regola di condotta per la salvezza, dottrina e regola che ciascun individuo non attinge in se stesso, ma riceve dalla famiglia, dalla collettività, dalla tradizione. Tuttavia chi esamina i motivi della disfatta della Riforma non deve trascurare di avvertire che la sfiducia verso quel movimento, in quanto sola sfiducia, può avere semplicemente una funzione negativa. L’esempio delle defezioni avvenute tra le fila degli umanisti, dei filosofi e degli scrittori più popolari esercitava un’azione deprimente. Altro motivo di avversione erano per il popolo i rigori della morale calvinista. Bossuet à scritto che la disci-Ì>lina calvinista à spaventato la nobiltà rancese, ma noi, su la scorta delle indagini di A. Autin, possiamo aggiungere che quella disciplina spaventava anche il popolo. Th. Maillard, che ò dianzi rammentato, à scritto che il popolo resistette in Francia alla predicazione calvinista, perchè non amava sottomettersi ai rigori della sua morale.
A questi motivi di avversione, da parte del popolo, si aggiunga il suo attaccamento alla religione del re e dei nobili, il suo interesse materiale a piegarsi alla propaganda dei cattolici, il suo gusto del culto esteriore, dei riti e delle pompe; il suo attaccamento alle leggende e al culto dei santi, il suo disgusto per le contraddizioni che risultavano, come ò accennato, dalle controversie tra gli stessi riformati e infine il suo timore di mettere in pericolo, oltre la propria, la pace sociale.
Quest’ultimo- motivo veniva meglio in vista nel cosidetto partito dell’ordine allora costituito per affrontare il pericolo che si correva di un'intrusione straniera negli affari dello Stato. La Riforma veniva designata come amica degli stranieri e come causa delle perturbazioni interne che agitavano la Francia. I calvinisti si erano infatti rivolti allo Straniero per averne soccorso, ad Elisabetta d’Inghilterra, al re di Danimarca, all’Elettòre Palatino; avevano lasciate aperte le porte di Parigi a una guarni-Ì;ione spagnuola e lasciato intravedere a Fi-ippo II la prospettiva del trono di Francia
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per la figlia Isabella. Il partito dell’ordine raccoglie i patriotti in un gruppo e ne forma un baluardo contro la Riforma. Enrico IV trovò un valido sostegno in questo partito, e lasciò che l’opera del Parlamento compisse la disfatta della Riforma, ordinando contro i riformati confìsca di beni, flagellazione, mutilazione e pena del fuoco.
Il sogno incantatore di una purificazione della religione, di un ritorno alla vita e agli ideali del Cristianesimo primitivo, del Cristianesimo ridotto al minimo di forinole e riti, guadagnante in profondità ciò che perdeva in estensione, individualizzandosi e interiorizzandosi, veniva rotto in Francia dalla disillusione, dal pericolo straniero ed interno, dalla minaccia della persecuzione, della povertà e del martirio. Le cause della disfatta del Protestantesimo in Francia, sono, come qui ò per sommi capi accennato, assai complesse e non sono tutte dipendenti dai suoi nemici, ma anche dagli stessi riformati; nè sono tutti da potersi ridurre all’azione della polemica anticalvinista. Nondimeno — ed è questo che rende testimonianza al valore perenne della storia — la Riforma ebbe anche in Francia la potenza di richiamare le folle, corrotte dal paganesimo, al fervore religioso, e di aprire la via a una nuova e feconda indagine intorno al senso del Cristianesimo.
I DIRITTI DELLA TRADIZIONE E QUELLI DELLA CRITICA
Il noto storico ed esegeta M.-J. Lagrange à voluto esporre criticamente in dieci lezioni, tenute all’Istituto cattolico di Parigi, tra la fine del 1917 e il principio del 1918, quale sia il senso del Cristianesimo secondo l’esegesi tedesca, da Lutero ai nostri giorni; ed à raccolto poi in un volume queste sue lezioni, che intitola: Le sens die Chrislia-nisnte d'après l’exégèse allemande (Paris, Libr. V. Leeoffre, J. Cabalda, éd. 1918). Tratta l’A. nella sua prima lezione, dell’esegesi della Chiesa cattolica, della tradizione e della critica, e prende in esame, nelle successive lezioni, il misticismo luterano, la interpretazione che del Cristianesimo diedero deisti e razionalisti, il mi-tismo di Strauss e la Scuola di Tubinga, il compromesso liberale, il messianismo escatologico di J. Weiss, il sincretismo giu-daico-pagano e infine la più recente critica radicale che giunge a negare resistenza storica di Gesù. L’A. conclude che l’esegesi tedesca (e per esegesi tedesca bisogna
3ui intendere quella ortodossa ed etero-ossa, nate nelle scuole evangeliche della Germania) se à saputo preparare e studiare i materiali storici, filologici, grammaticali non à saputo venire poi a una costruzione soddisfacente che metta al caso di cogliere il vero senso del Cristianesimo, cosi come per Lagrange lo coglie l'esegesi cattolica che à conservato fedelmente la antica interpretazione dogmatica dei testi S>ag. xir). L’A. ritiene che l’esegesi te-esca si sia troppo preoccupata delle teorie protestanti e di quelle filosofiche che voleva difendere a scapito della verità, e non ignora che aderendo ai dogmi della Chiesa romana egli è esposto al medesimo pericolo (pag. 12). Tuttavia l’A. ritiene esser salvo da questo pericolo per il fatto che la Chiesa romana, oltre ad essere assistita dallo Spirito Santo, è la sola a possedere gli elementi e il metodo per una esegesi corretta, ed è quindi essa sola che possiede la libertà e deve conservarla intatta. L’A. è vero, disapprova l’atteggiamento di coloro che non osano romperla con l'esegesi tradizionale, quando il savio progresso degli studi l’invita a farlo; ma le conse guenze di questo principio sono tagliate via dall’affermazione che in ogni caso bisogna tener fermi i dogmi e che quindi l'esegesi deve piegarsi alle esigenze della ortodossia tutte le volte che i suoi risultati urtino od offendano il contenuto della fede.
M.-J. Lagrange sostiene la tesi che non vi sia pregiudizio per la sincerità e verità della esegesi fatta da una società che non à soltanto per regola la Bibbia,. ma anche la tradizione. La Chiesa vivente, egli dice, può conservare il dogma e può svilupparlo, *e garantisce così la sincerità e la libertà. In sostegno di questa tesi, la tradizione viene considerata non come depositaria di una fede che si trasmette come cosa sacra integralmente d’età in età, non come depositaria di dottrine primitive che rimangono intatte per sempre, ma rinnovantesi invece di secolo in secolo, secondo le aspirazioni del tempo e le esigenze dell'ambiente, e si arricchisce a misura delle rivelazioni che Dio fa agli uomini e ai popoli.
Non si può negare che dalle origini della Chiesa al secolo xvi, all’inizio cioè della esegesi tedesca, e da allora ad oggi, le generazioni cristiane abbiano arricchito il messaggio evangelico nella speculazione e nell’azione. Albert Autin trattando, nel
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Aolume sopra rammentato, della questione che ora qui esaminiamo, sostiene che la Riforma à risoluto difettosamente il problema perchè à negato alla Chiesa ogni rapporto col Vangelo, à soppresso cioè la Eri ma, ed à esaltato il secondo. E poiché , Chiesa aveva da dire qualcosa di più, la tradizione à vinto, e agli attacchi della Riforma è sopravvissuto tutto quanto i Padri della Chiesa e la fede dei nostri avi avevano ricavato dal messaggio evangelico.
Ma la questione non è stata posta nemmeno da Autin nei suoi giusti termini. Non si à ragione di combattere la tradizione come tale, e non se ne à di ritenerla, come tale, intangibile; ma si à ragione di allontanarsi da essa, tutte le volte che forti argomenti lo giustifichino. È certo irragionevole abbandonare i risultati dell’esegesi tradizionale senza poterli sostituire con altri migliori, perchè, sino a prova contraria, si deve presumere che la comune interpretazione trovi il suo fondamento in una ragione che si deve considerare tanto più salda quanto più è stata riconosciuta da uomini diversi. Ma si deve osservare che questa interpretazione comune viene a mancare di solidità quando, su le diverse volontà che l'ànno accettata, abbia agito la prospettiva che da quella accettazione dipende la salvezza. Perchè mai, infatti, non si dovrebbe interpretare la Scrittura in materia di fede e di costumi, contro il consenso unanime dei Padri?
IL SENSO DEL CRISTIANESIMO SECONDO L’ESEGESI TEDESCA
M.-J. Lagrange avrebbe invero potuto fare a meno di rimproverare a più riprese, nel suo libro, il grande delitto della Germania luterana che à rotto l'unità della Chiesa, (pag. ix), e di stigmatizzare i moderni Vandali che, dopo averla rotta con la Chiesa, l’ànno rotta con l’umanità (pagina XI) e tutto ciò in un libro che si propone di esporci il senso del Cristianesimo secondo l’esegesi tedesca. Ma quel che è più si è che il lettore di questo libro (certo per altro verso istruttivo e sufficiente a dimostrare anche a chi non conosce le pregevoli precedenti pubblicazioni di La-grange, il suo acume e la sua dottrina), può ricevere l’impressione, se impreparato, che l’esegesi tedesca non abbia saputo far altro che abbandonarsi a una
serie di aberrazioni, chiusa fra due date memorabili ed entrambe detestabili: la Riforma del secolo xvi e la guerra mondiale del secolo xx. Più' che una stòria critica della esegesi tedesca è infatti questo libro una esposizione critica dei suoi principali difetti, dal pseudo misticismo del secolo xvi al radicalismo di Arturo Drews. Tutta l’opera esegetica di Lutero, secondo l’A., consiste nel dire Che il senso del Cristianesimo non è nella giustizia di Dio che perdona, ma nel dichiarare questa giustizia estrinseca, esteriore a noi. L’A. in questo, si attiene a quanto ne à scritto il Padre Denifle (critico tutt’altio che spregiudicato (i)), malgrado Lutero avesse chiaramente detto e ripetuto che la giustizia di Dio è quella che perdona, onde tutta la Bibbia e tutto il Cristianesimo presero agli occhi suoi un nuovo aspetto. Ma anziché seguire questa indagine, Lagrange si ferma — su la scorta di altri critici — alle inesatte interpretazioni fatte da Lutero e conclude che la stessa critica tedesca lo à giudicato non essere un bravo umanista.
Ora la verità si è che Lutero medesimo non pretese mai di essere un umanista. Egli non fu infatti un eccellente conoscitore del greco e dell’ebraico, o un filologo nel senso vero della parola, ma fu, per i suoi tempi, uno dei più valenti conoscitori di quella lingua (cfr. Jules Soury, Luther l'exé-gete de ¡'ancien et du Nouveau Testamenti e quantunque egli avesse praticamente sacrificato qualche volta il senso grammaticale alle imperiose esigenze del dogma, pure à riconosciuto l’importanza della filologia e della storia per l’uso dogmatico e omiletico dei sacri testi, ed à posto nei suoi trattati di teologia i principi dell'esegesi teorica e dell’ermeneutica moderna.
M.-J. Lagrange non à avuto ragione di paragonare Lutero a Kant, come se il riformatore volesse fondare la verità del Cristianesimo su la ragione pratica, lasciando libera ogni discussione su le credenze. Lutero e i primi luterani non pensarono di abbandonare la tradizione dogmatica del Medio Evo e dei Concili, nè misero in dubbio la necessità di un’autorità infallibile: essi, a differenza dei cattolici, vollero che questa autorità fosse
(i) li lettore, a questo proposito, potrebbe leggere con profitto un interessante studio di C.-A. Bernouilli su La Riforme de Luther et Ics prò-blimes de la culture présente. Paris, Colin, 1918.
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là Bibbia. Nè è esatto limitare, come fa l’A., l'inizio dell'esegesi protestante alle sentenze paoline, trascurando tutto l’immenso lavoro umanistico che la Rinascenza aveva schiuso al fervore religioso della Riforma, la quale nello studio dei libri sacri attinse l’aspirazione di ricondurre gli uomini alla semplicità della fede e della vita delle prime comunità cristiane.
DEISMO E RAZIONALISMO ILLUMINISTICO
Non si. può concedere a Lagrange che col deismo inglese e francese si sia diffuso in Germania un’ostilità contro il Cristianesimo. In genere il deismo voleva purificare il Cristianesimo, e non fu mai tanto interesse religioso in Germania come ai tempi di .Leibniz, solo incidentalmente e appéna rammentato in questo libro sul senso del Cristianesimo secondo l’esegesi tedesca. Qui si fanno invece, tra i deisti tedeschi, i nomi di Reimarus, Lessing, Semler, Herder e Schiller e non si tien conto del grande campo d’indagini che schiudevano all’esegesi tedesca gli studi orientali, nè della feconda innovazione che portava Salomone Semler nel campo della teologia, introducendovi il metodo storico e stabilendo che i testi sacri erano stati formati gradatamente, che sono di diverso valore, e che la dottrina di Gesù e degli apostoli mostra vari clementi storici. Per criticare invece i deisti, Lagrange, seguendo le orme di Vigouroux nel suo lavoro su Lee Livree Saintes et la critigue ra-tionaliste, ascrive a costoro in genere, e senza ragione, l’errore di Voltaire, che diceva esser fondate tutte le religioni da uomini furbi e ignoranti.
Ugualmente ingiusto è dire che il razionalismo illuministico abbia considerato il Cristianesimo semplicemente come un custode della' morale. L’illuminismo vuole affermare un nuovo concetto del mondo, della vita spirituale, della religione e sopratutto non vuole ammettere che la religione sia venuta all’uomo in una maniera sovrannaturale. Qui consiste il problema centrale del razionalismo illuministico. Esso perciò non mira a ridurre il Cristianesimo a custode della morale, ma a ripudiare l’antica concezione che poneva il sapere religioso al di là della umana ragione.
Per indicare le principali figure dell’illuminismo tedesco bisognava risalire a Leib
niz e discendere giù sino a Wolff (che non fu l’iniziatore dell’illuminismo in Germania come invece dice Lagrange), a Semler e a Ernesti. Ma l’A. seguendo, per quanto riguarda l’illuminismo, le traccio special-mente dell’opera di Albert Schweitzer (Ge-schichte der J.eben-Jesu- Vorschung) vicncondotto a riconoscere nell’illuminismo un carattere che non è proprio di esso, ma solo dei seguaci di Kant, ed a mettere anche questo filosofo, e non so con quanta ragione. fra i razionalisti e gli illuministi. Kant, che non è nel senso proprio deila parola un esegeta, tentò di ridurre la religione alla morale, applicando nel suo libro Die Religión innerhalb die Grdnzen der blossen Vernunft alla religione i risultati delle sue speculazioni intorno alla ragion pura e a quella pratica. E furon precisamente Kant e i suoi numerosi seguaci che in Germania e altrove vollero ridurre la religione alla morale. Schleiermacher à valorosamente confutato questa concezione unilaterale della religione: ma l’A., sorpassando sul valore non comune di questo esegeta (ce ne siamo occupati nella precedente rassegna) si limita a classificarlo tra i teologi conciliatori (Vennitlliingstheologen) e a dichiararlo un confusionario.
IL MITISMO DI STRAUSS E LA SCUOLA DI TUBINGA
Dopo aver condannato il razionalismo come pernicioso alla sana esegesi, il deismo come assurdo sostenitore dell’ipotesi della furberia, il naturismo come quello che à negato il sovrannaturale, l’illuminismo che è fallito miseramente nel suo intento, non riuscendo ad altro che a falsare il senso dei testi interpretandoli da un punto di vista filosofico, il nostro A. dedica tutta una lezione al mitismo di Strauss, cominciando dall’indicarne le contraddizioni nella vita e a criticarne poi la dottrina.
Certo è erroneo voler negare ogni valore storico al contenuto dei Vangeli. Ma non è giusto, d’altra parte, chiudere gli occhi su l’azione della fantasia costruttiva di miti e quindi su la necessità, nell’esegesi, di tener presente un coefficiente mitico. Bisogna riconoscere che il mitismo è caduto in esagerazioni ed in errori gravissimi, ma bisogna anche riconoscere che esso à posto in luce molti elementi mitici e leggendàri passati alla storia e confusi con essa, ricavati dal Vecchio Testamento e da altre fonti e culti; bisogna riconoscere
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che il mitismo à schiuso, nella storia delle religioni, la prospettiva dell’efflorescenza del meraviglioso che avvolge i fatti umani come in un nimbo sovrannaturale.
Accanto al mitismo che giungeva a negare la storicità dei testi, sorgeva in Germania quella che è stata chiamata Ten-denzkrilik e che Lagrange esamina nella sua sesta lezione su la Scuola di Tubinga.
Strauss non aveva detto nulla delle origini della Chiesa, nè della composizione degli scritti del Nuovo Testamento ed è questo il compito che à voluto assumere la scuola di Tubinga fondata da Cristiano Baur. Come è noto, questo famoso esegeta avendo creduto riconoscere nel Nuovo Testamento traccie di opposizioni tra paolinismo e petrismo, volle che in queste opposizioni consistessero le origini del Cristianesimo. Lagrange si appiglia al lato debole della questione per metterla in ridicolo, e non à torto quando ne critica il fondamento hegeliano che pone nel petrismo la tesi, nel paolinismo l'antitesi, e nella conciliazione la sintesi. Ma non posso esser con lui quando in questa dialettica vuole scoprire il ^principio direttivo del protestantesimo. Nè posso ammettere, col medesimo autore, ehe nessuna penetrazione delle idee greche si trovi nella teologia di Paolo. L’esegesi moderna è però propensa a ritenere che più di Platone sono Plotino e Filone che possono su questo punto illuminarci.
Ripeto che la Tendenzkrìtik è andata troppo in là nel negare agli Evageli ogni contenuto storico, ma questo non può farci dimenticare quanto deve l’esegesi moderna e la storia del Cristianesimo alla scuola di Tubinga.
IL COMPROMESSO LIBERALE
Mentre era accesa la polemica contro gli ortodossi, la maggior parte dei teologi ed esegeti tedeschi tentò una teologia conciliativa, proponendosi di spiegare la storia non più con l’ipotesi mitologica, o col discreditare il valore del contenuto stòrico degli Evangeli, ritenendolo tendenzioso, ma alla luce della coscienza religiosa, e proponendosi viceversa di spiegare la coscienza religiosa alla luce della storia. La difficoltà principale consisteva però nell’applicare il principio che la coscienza religiosa deve aiutare a intendere i testi ma non ad imporsi alla storia. Il protestantesimo liberale che tentava il compromesso,
non cercava la redenzione nella fede al Cristo, figlio di Dio, uguale al Padre, ma aspirava a conoscere la vita di Gesù per farsene un modello di vita. La sua critica era venuta alla conclusione che Gesù era stato creduto un Dio a misura che la sua imagine, dopo la sua morte, si era ingrandita nelle anime; e che quanto al valore storico dei Vangeli bisognava tener presente l’intenzione degli scrittori che non era quella di scrivere una storia. Nel campo della storia e della esegesi la critica liberale à inaugurato così una reazione contro le esagerazioni del mitismo, à ricusato di prender sul serio lo scetticismo di Bruno Bauer e si è messa in possesso di solide basi per scrivere la vita di Gesù. Essa à sostenuto con energia il carattere morale e religioso dell’insegnaménto del Maestro, ponendolo in una sfera dalla quale poteva dominare i pregiudizi del suo tempo e preparare una vera rigenerazione dell umanità.
MESSIANISMO ESCATOLOGICO
Gesù, però, secondo la critica liberale, rimaneva un uomo. L’eminente orientalista Wellhausen, à detto che Pietro e il popolo tenevano Gesù per Messia, ma non si sa che cosa egli stesso ne pensasse. Wrede non annette alcun valore storico al messianismo di Gesù, anche riconoscendo nell’Evangelo di Marco molta parte della dottrina del IV Evangelo. Vi erano tuttavia dei passi, nei testi sacri, che non si potevano mettere in armonia con queste conclusioni liberali, ed ecco il messianismo escatologico ad esporre una nuova interpretazione di quei testi, per opera del suo maggior rappresentante J. Weiss. Gesù, dice questo esegeta, fu l'uomo dei suoi tempi ed ebbe le speranze dei suoi tempi, non quelle dei nostri. Tutti attendevano allora un intervento di Dio che facesse succedere al dominio del male un’èra di innocenza e di felicità: questo il regno di Dio da Gesù predicato. Egli non l’à fondato, ma annunciato come un avvenimento prossimo; non l’à causato con la sua azione, ma à atteso che Dio lo producesse per mezzo di un miracolo inaudito che visioni apocalittiche avevano avuto cura di descrivere. Gesù, secondo l’escato-logismo, aveva dunque annunciato il regfio di Dio su la terra, come da venire alla fine del regno del male, con la distruzione
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di questo mondo, e l’ufficio del Messia, il suo. era quello di inaugurarlo.
A questo modo non occorreva più forzare il senso dei testi per negare che Gesù si era creduto Messia. Al Gesù liberale di Harnack poteva ora opporre Loisy, nel suo libro L'Evangile et l'Eglisc, il Gesù della nuova scuola che considera la storia come finita e non tien conto della Chiesa.
La soluzione del problema messianico, che sostituiva all'atteso Messia nazionale giudaico il Messia del futuro regno di Dio, non approva Lagrange e non riconosce la ragione di nbn aver Gesù chiaramente ammesso di esserlo per il pericolo che con questa ammissione poteva correre, per là confusione tra le due concezioni messianiche. Ma l’A. è lieto di vedere che il messianismo escatologico à bisogno della tradizione e la interpreti dando ragione al dogma, ed è contento di vedere che il messianismo condanni definitivamente il mitismo. L'esegesi cattolica è d’accordo col messianismo escatologico in quanto questo dice che Gesù attendeva da Dio un intervento soprannaturale relativo alla sua persona, un intervento che doveva inaugurare i nuovi tempi prima della fine di quella generazione. L’esegesi cattolica è anche d'accordo col messianismo escatologico in quanto questo ammette che Gesù aveva previsto la sua. morte' espiatrice, come condizione necessaria perchè egli entrasse nella gloria messianica. Ma l’esegesi cattolica non può ammettere il regno di Dio come ultimo fine della storia; secondo essa, alla catastrofe avrebbe seguito invece l’entrata del Cristo nella storia, l’effusione dello Spirito Santo, la fondazione della Chiesa, e la catastrofe prevista da Gesù avrebbe dovuto colpire soltanto Israele.
Il messianismo escatologico quindi non dà alcun valido sostegno al dogma cattolico, non ne favorisce la tradizione, come non confuta il mitismo. L’escatologismo attinge invece a piene mani dalla tradizione mitica del Cristo, e il mitismo. bisogna tenerlo presente, non si esaurisce nel messianismo mitico.
LA STORIA DELLE RELIGIONI E IL CRISTIANESIMO
A sgombrare le difficoltà che rimanevano ancora e che non aveva saputo risolvere l’antica esegesi di luterani, deisti, razionalisti, illuministi e naturisti, nè quella
del mitismo e della scuola di Tubinga, e nemmeno quella dei liberali e degli esca-tologi, sorge in Germania la scuola del sincretismo giudaico-pagano che, come à detto Windisch, si propone di studiare il Nuovo Testamento alla luce della storia delle religioni. M-J. Lagrange prende in esame l’opera di Bousset, il rappresentante più noto di questa scuola. Studiare il Cristianesimo alla luce della storia delle religioni non significa in vero scoprire nel Cristianesimo soltanto residui di culti primitivi ed orientali; nè significa esaminare soltanto se ànno ragione Loisy e diversi esegeti tedeschi ad affermare che il Cristianesimo deve al misticismo pagano quasi tanto quanto deve al giudaismo, ma significa anche intendere il senso e il valore del Cristianesimo come una delle molteplici manifestazioni storiche della eterna esigenza religiosa che è nel cuore umano.
M-J. Lagrange esamina qui solo gli eleménti orientali del Cristianesimo che la nuova scuoia à messo in luce. Egli si era già occupato altra volta della stessa questione nei suoi Mélanges d'Hìstoirc religie use. La letteratura del sincretismo giudaico pagano, sebbene di data recente, è ricchissima e le sue indagini assai vaste, e i suoi problemi assai complessi. Qui non si tratta dello studio di una sola raccolta di testi sacri, come la Bibbia, ma di tutte le raccolte esistenti nella letteratura sacra del mondo, ed anche delle ricerche fatte intorno alle religioni primitive. Si voleva scoprire se è vero che elementi primitivi ed orientali siano entrati 3 far parte della costituzione del dogma cristiano. La scuola del sincretismo giudaico-pagano à concluso che le prime comunità cristiane fondate, formate e sviluppate in mezzo a popolazioni orientali più progredite ànno arricchito le loro idee, 1 loro sentimenti, il contenuto delle loro credenze e la loro liturgia - esprimentesi in atti considerati come santificanti - per opera dei culti giudaici e orientali. Secondo Bousset, quindi, non si tratta di analogie, di casi paralleli che accadono indipendentemente nelle formazioni religiose, interessanti; ma non decisive per l’origine e lo sviluppo di una religione, ma si tratta invece di credenze che si sono amalgamate con l'Evangelo di Gesù in modo da costituire una nuova formazione che rimarrebbe inintelligibile se non le conoscessimo. Il sincretismo giudaico-pagano non confonde un mito con
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un altro, per es.. quello di Adone con quello del Cristo, ma come dice Bousset, vede nella divinità morente e resuscitata, che porta la salvezza, un oggetto della pietà ellenica, giudaica ed orientale passato alla pietà cristiana.
M.-J. Lagrange si diffonde a esaminare i sacramenti della eucarestia e del battesimo, secondo la scuola del sincretismo giudaico-pagano, incolpando Lutero come colui che à aperto la via alla negazione della transustanziazione: nega che nell’antichità si trovi il concetto di una comunione reale e spirituale nello stesso tempo, e pur ammettendo che dall’Egitto col tipo di Osiride, si sia diffusa nei culti pagani la credenza di un dio resuscitato, nega poi che qualcosa di simile accadesse nel Cristianesimo.
LA CRITICA RADICALE
A completare l'esame degli eri ori della esegesi tedesca, Lagrange, s’intrattiene, nell'ultima lezione, della critica radicale che non riconosce (’esistenza storica di Gesù. Chi scrive queste linee si è occupato altra volta, e diffusamente, di quest’argomento. Lagrange non à ragione di considerare la critica radicale — che non è nata in Germania — come la conseguenza logica delle deviazioni dell’esegesi tedesca. Dupuis e Volney — i primi a negare resistenza storica di Gesù — furono francesi; fra i moderni. Robertson e Smith non sono tedeschi; Whittaker è inglese; Rolland è olandese; Lublinski e Niemojewsky sono polacchi; Arturo Drews, che si è messo a capo del movimento radicale in Germania, non sembra di origine tedesca. Fra le principali figure del movimento radicale, citate da Lagrange, tedesco è forse Pietro Jensen, ma costui — a differenza di ciò che afferma l’A. a pag. 311 del suo libro —- non nega resistenza storica di Gesù. Jensen lo à espressamente dichiarato a pag. 4 nel suo opuscolo: Hai der Jesus der Evangelien wirklich gelebt? (Frankfurt am Main, 1910), opuscolo che non veggo rammentato da Lagrang e. Le negazioni del radicalismo non ànno nulla da vedere col liberalismo e sono anzi opposte a questo. La scuola liberale vuol fare di Gesù un uomo, men
tre quella radicale vuol farne un mito. Liberali e radicali sono venuti, su questo punto, a rumorose contese, e a chi scrive queste righe è accaduto di assistervi il 31 gennaio e il i° febbraio del 1910, nella sala del Zoologische Garten a Berlino.
Per conoscere le profonde differenze che nel campo dell’esegesi separano liberali e radicali, basta leggere qualche libro di Jülicher o di Steudel, o anche quello di H. Weinei: Ist das * liberale» Jesusbild wiederlegt? Eine Antwort an seine ■> positiven • und seine radikalen Gegnern mit besonderer Rücksicht auf A. Drews, Die Christusmythe (Tübingen, 1910).
Con le assurdità della critica radicale, considerata da Lagrange come ultima conseguenza dello sviluppo della esegesi tedesca iniziata da Lutero, crede egli diyaver dimostrato la fallita dell’opera secolare dell’erudita indagine tedesca, la quale, secondo lui, non è pervenuta a dare del Cristianesimo un senso che potesse ragionevolmente sostituire quello tradizionale del Cattolicismo romano.
Questa fallita, secondo l’A. si deve a tre cause: a) la rivolta contro l’autorità della Chiesa romana; b) l’opportunismo dottrinale che piega i testi secondo la moda del giorno; c) l’unilateralità della esegesi tedesca. Questa fallita conduce, secondo l’A., a un ritorno da parte della esegesi tedesca a quella tradizionale della Chiesa romana.
Non mi permette lo spazio di intrattenermi su queste conclusioni, ma dopo quanto ò brevemente esposto, credo non sia necessario. Una cosa devo aggiungere però. Oggi la scienza si trova in possesso di strumenti che sono indiscutibilmente di grande valore per la interpretazione dei testi e per la storia. Essa può tuttavia errare, andar oltre il giusto segno e ritenere talvolta risoluto tutto un problema mentre lo è solo in parte. L’esegesi deve subire la sorte di ogni altra scienza, e quindi la sua vita non è nella immobilità, ma bel moto. Essa ritorna talvolta sui suoi passi, ma per trovare, con una migliore preparazióne, la via Che conduce al progresso.
. Mario Puglisi.
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RELIGIONI DEL MONDO CLASSICO
Vili.
1. Per notevoli doti di perspicuità e di brevità va segnalato l'opuscolo del padre J. Faivre, “ Canopus Menouthis Aboukir „ tradotto recentemente in inglese dal dott. Alessandro Granville presidente della benemerita Società archeologica di Alessandria d’Egitto (1918). Il lavoretto ha modeste intenzioni ma in breve mole raccoglie elementi interessanti e precisi (pagan memories, Christian memories,. battle memories). Prescindendo dalla 3* parte che non entra nei limiti di questo bollettino e che è corredata di due carte geografiche (la I delle quali manca nell’edizione inviataci) rimanderemo i lettori studiosi di cose religiose alle altre due (corredate da 3 nitide cartine geografiche), nelle quali si espongono le vicissitudini leggendarie e storiche del primitivo Canopo e quindi quelle da Alessandro il Gr. al cristianesimo fino all’invasione araba. In poche pagine è poi narrata la storia del culto di Iside in Menouthis e della sua sostituzione con i culti di S. Giovanni e Ciro fin al vii secolo.
2. In una nota pubblicata negli Atti della reale Accademia delle Scienze di Torino (54.126) V. Macchi oro si propone di vedére che cosa" significhi veramente Dionysos Mystes, cioè se Dioniso iniziato o iniziatore. Riservandosi di esaminare altrove le opinioni di altri sulla questione, risponde in questa memoria alle conclusioni del Rizzo per il quale su fondamenti letterari ed artistici si dovrebbe stabilire che vi fu una tradizione letteraria e figurata per cui Dioniso era stato iniziato nei suoi stessi misteri orfico-dionisiaci. Ora servendosi sopratutto di Nonno il M. dimostra in modo convincente che il suo testo non può assolutamente servire per attestare tale tradizione. Perciò egli conclude affermando che essa « non è mai esistila e che in tutte le testimonianze antiche, e in prima linea Nonno, Dioniso passa come l’istitutore dei misteri, colui che porta all’umanità il supremo bene della sua religione ».
3. In Tunisia è stata fatta recentemente la scoperta di alcuni santuari rustici del 11 secolo probabilmente, nei quali gl’indigeni prestavano culto a divinità libiche, di non sicura
identificazione: forse Tanit e Baal. Nei C. R. de l'Acad. des inscr. et. beliti leltres (1918, 33S) ne parla il dott. Carton richiamando l’attenzione sopratutto su di una statua leon-tocefala, coperta di fasce che cadono ai lati della testa. Egli raffigurandola con una simile trovata a Siagli nel santuario di Tanit e Baal la ritiene il Genius Terrae Africae, accettando le illustrazioni del Merlin, il quale aveva ricordato una moneta dei 48 a. Cr. in cui vi è un identico tipo con le lettere G.
•T. A. appunto spiegate dal Babelon nel modo testé indicato. Siamo quindi in presenza di una riproduzione della divinità protettrice del-l’Africa, che aveva numerosi santuari e che era molto popolare.
4. P. Romanelli nel Bull, della Comm. arch. coni. (45,79) espone le origini e le vicende dei templi palatini di Giove e giunge ad alcune conclusioni interessanti riguardo al culto del dio, in quanto che non solamente ne ammette la grandissima antichità e la massima importanza, in accordo con quanto era già noto sulla preminenza ed antichità del culto di Giove, ma ne determina il carattere particolare. Non solo cioè intravediamo in Giove il dio supremo e « in origine forse anche il Dio unico » dei popoli latini ed italici, ma ne possiamo fissare il carattere eminentemente guerresco di fronte a quello fisico e naturale che sarebbe stato pressò gli altri popoli il primitivo. Quindi mentre sugli altri colli abbiamo un Giove naturale sul Palatino dobbiamo convenire o che da questo stadio gli abitanti passarono rapidamente a quello guerresco o che Giove assunse subito la concezione di un dio della guerra e degli eserciti, quale forse le energie della razza che occupò il Palatino e le circostanze esteriori di lotta imposero o affrettarono.
5. Nei C. R. de l’Acad. des inscr. et belles lelt. (19x8,312) Franz Cumont illustra la recente scoperta avvenuta in Africa di una iscrizione in cui sono ricordati gli hastiferl della dea Virtù. [Genio ha^liferorum deaeVir-lutis [exedras ? d~\uas jecerunt et gradui d(e) s(uo) fiecerunt) dice l’iscrizione stessa, come si vede, frammentaria. Seguono i nomi degli offerenti sac[erdotes?} o saturati) o forse meglio ambedue insieme e canistrariae. La data
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dell’epigrafe non va più in là del 11 sec. e la sua importanza è notevole per il fatto che tronca la questione già sorta a proposito di questi /¡astiferi, se cioè essi fossero un corpo militare (Mommsen) o non piuttosto un’associazione religiosa dedicata al culto d^lla dea Bellona-Virtus - Ma cappadociana. Il testo non lascia dubbi che si tratta della seconda ipotesi ; quindi gli has liferi, traduzione del greco ¿Gfuttópot, come le canistrariae^■xawypópoi non erano altro che i componenti la processione che usciva due volte all’anno per accompagnare la statua della dea ed il sommo sacerdote che, coperto del diadema, era circondato dai portatori di lance e da altri portatori di ciste e canestri (donne).
Cosi si spiega pure come in altre iscrizioni gli hasliferi sieno chiariti come pastori (sive pastores'), ossia come i pastori che catturavano i tori selvaggi delle proprietà che circondavano il tempio e dei quali noi abbiamo ricordo nel culto della Magna mater, del quale Bellona era la dea pedisequa e quindi stretta-mente riunita nelle forme del culto.
6. Sull’oracolo delfico, sulla sua storia primitiva,sull’influsso da esso esercitalo esul suo declinare ha pubblicato recentemente una opera riassuntiva T. Dempsey (The Delphic Oracle its early history influence and fall with a prefatory nota by R. S. Conway, Oxford, Blackwell, 1918). Il Conway ha creduto bene raccomandarne la pubblicazione e presentarla agli studiosi per le doti di perspicuità, di chiarezza e di moderazione con cui il librò è scritto. Effettivamente il lavoro è una diligente compilazione fatta con molta chiarezza e misura, ma, a mio giudizio, anche con non molto senso critico, tanto che alcune questioni che l’A. abborda lasciano in noi il desiderio di una più profonda e completa trattazione. Le conclusioni agnostiche, direi così del Dempsey, per esempio, sulla vera essenza dell’oracolo deifico e precisa-mente sulle sue manifestazioni (p. 74) ci lasciano dubbiosi se non si possa maggiormente avvicinarsi sopratutto con le comparazioni ad una conoscenza più intima e più corrispondente alla soluzione che molti dei fatti storici noti ci possono offrire.
Ma il lavoro non va giudicato sotto l’aspetto critico: esso va esaminato sotto quello più modesto di un libro di raccolta di dati e di esposizione di fatti più o meno accertati, sotto alcuni punti di vista ben determinati. E cioè: esame dei culti preapollinei; cause ed estensione dell’influsso dell’oracolo; suo influsso politico, religioso e morale; decadenza e fine dell’oracolo.
L’A., come in genere accade sopratutto agli studiosi inglesi che non siano già molto avanti negli studi, è poco informato della letteratura moderna stranierà anche per le questioni più importanti. Indubbiamente egli ha bisogno di spaziare in campi più larghi e di formare la sua cultura religiosa e acuire il suo processo critico ; dopo di che non sarà impossibile ch’egli ci dia quel definitivo lavoro sull’oracolo di Delfo, del quale sentiamo veramente il bisogno e del quale egli ci ha dato per*, ora solo un discreto abbozzo che potrà cionondimeno avere la sua utilità specialmente per gli studenti che domandino di avere delle notizie accuratamente raccolte ed esposte.
7. Il minuzioso esame cui è sottoposta da V. Macchioro nella Rivista indo-gr.-ital. (fase. 2-3) la teoria Furtwangler-Patroni del-l’interpretazione elisiaca della ceramografia italiota offre il campo agli studiosi anche di storia religiosa di esaminare se non sotto nuovi punti di vista per lo meno con larghi contributi archeologici il problema dell’orfismo. Non ci possiamo addentrare naturalmente nelle interessanti questioni che l’A. studia nella sessantina di pagine dell’estratto gentilmente trasmessoci e rimandiamo quindi ad esse chi voglia raccogliere elementi importanti per lo studio dell’orfismo.
Ci limitiamo perciò a riportare testualmente le conclusioni cui il M. giunge alla fine delia sua ricerca.
« La ceramografia italogreca... rispondeva al bisogno di arredare quanto più riccamente fosse possibile la tomba-casa del defunto, di circondare questo di numerosi, belli, pregevoli arnesi : rispondeva insomma alla credenza comunissima presso i popoli antichi che la vita oltramondana continuasse la vita terrena. La ceramografia italogreca non ha dunque nessuna importanza dal punto di vista religioso o sociale, perchè non rivela nessuna credenza nuova o diversa, ma ha invece grande importanza per la storia dell’arte».
A conclusioni interessanti per .l’identico problema dell’orfismo viene lo stesso V. Macchioro nella sua memoria < Dionysiaca » pubblicata negli Atti delta R. A ce. Ardi. Leti, e Belle Arti di Napoli (¥1,1917) e cortesemente trasmessaci. Confutando cioè l’opinione del Patroni che nel famoso dipinto pompeiano, rappresentante secondo i più recenti illustratori le nozze di Zefiro e Clori, vede contro il Sognano per cui esso raffigura le nozze di Dioniso ed Ariadne, le nozze di Didone ed Enea nella forma del sogno presentatosi alla prima
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— il Macchierò si ferma sopratutto sull’elemento più notevole contro cui urterebbe la illustrazione Guarino-Sogliano e cioè la rappresentazione alata di Dioniso. Ora nell'esaminare quanto di orfico possa esservi nel contenuto mitico del dipinto e nelle differenti forme in cui ci è dato seguire le tracce del mito, egli stabilisce il fatto veramente importante che «.solo nella letteratura orfica troviamo invocalo e descritto un Dioniso alato'». Nell’or-fismo anzi Zeus ed Elio erano concepiti alati e identificati con Dioniso. Il M. ritiene quindi come probabile l’origine semitica di queste divinità orfiche alate, tanto più che da Filone da Biblo risulta l’esistenza di imagini di divinità fenicie con quattro ali, due alle spalle e due in fronte, quale per l’appunto ci si presenta il Dioniso del dipinto pompeiano. Ora data l’identificazione di Dioniso con altre forme divine orfiche si può concludere che esso nella forma alata rappresentasse una divinità della fecondazione. Il dipinto perciò rappresenterebbe il connubio mistico di questo dio con la dea antichissima della vegetazione dal quale proveniva il rifiorimento della terra.
8. Nella nuova rivista Religio, diretta da Nicola Turchi. L. Allevi (x.22) raccoglie con molta cura i dati di cui disponiamo sulla religione del Piceno antico. Non vi sono elementi nuovi naturalmente, ma la ricerca condotta con molto ordine e chiarezza potrà orientare gli studiosi sulle poche tracce che serbiamo della religione antica e originale dei Piceni e sulle maggiori che abbiamo della diffusione presso di essi dei culti latini e romani sopratutto dell’impero.
9. A proposito dell’ episodio dei serpenti velenosi contro il cui flagello Mosè ebbe l’ordine di foggiare un serpente di rame che ne guarisse dal morso i colpiti (Num. 21, 6-9) M. Vernes nella Rev. Ardi. (7-36) propone un raffronto con i serpenti d’Esculapio, cui s’attribuivan le guarigioni, il qual raffronto, anche se non completamente conclusivo, è certamente pieno d’interesse. Egli ritiene cioè che esistendo ai confini di Moab ed Edom un santuario consacrato al dio serpente fenicio Eshnum=Asclepio, esisteva» là dei serpenti di bronzo, raffiguranti il dio nella sua forma animale, che si vedeva nell’esistenza dei molti serpenti nella regione. Li vicino d’altra parte v’eran miniere di bronzo, onde fu facile confondere i serpenti reali con i bronzei ed attribuire a quelli il male ed a questi il bene della guarigione. Con ciò si potrebbe anche stabilire che il « bronzo » di Gerusalemme raffigurante al tempo di Ezechia un serpente non fosse quello Mosaico, ma semplicemente ri
montasse alle conquiste di Davide nellTdumea. Si noti che il luogo prossimo a quello ove è localizzato l’episodio dei serpenti è Obot = "spirito dei morti,, ossia quindi un luogo in cui si adorava qualche cosa di sotterraneo e anche per la Bibbia i serpenti sono in relazione con i mani e con le guarigioni.
10. Nelle Noi. degli Scavi (1918.136) R. Paribeni rende conto di un’iscrizione rinvenuta in Ostia, nella quale si ha un’altra prova del ravvicinamento di Silvano e Mitra. Essa dice difatti : Nummi Domus Aug(ustae) Silvani luvenis sacrum ecc. Ora Silvano è vecchio e non è neppur sicura la raffigurazione di Silvano imberbe. Invece il deus iuvenis è Mitra e per l’appunto in Ostia si è rinvenuta nella famosa edicola in mosaico del mitreo scavato dal Visconti la prova dell’identificazione delle due divinità.
11. Sulla, scoperta già avvenuta nel 1917 di un tempio sotterraneo sulla via Prene-stina, è stata pubblicata nelle Notizie degli Scavi{ 1918,30)una prima relazionedi E. Gatti e F. Fornaio dalla quale crediamo interessante per i lettori stralciare qualche elemento di ragguaglio più importante di quelli letti nei giornali quotidiani.
Il tempio è preceduto da un vestibolo, a pavimento in mosaico e con le pareti che mostrano traccie di stucchi bianchi, al quale si accede per una galleria che mena all’esterno. La grande sala cui dà accesso è una basilica a 3 navate lunga 12 m. e larga 9, la centrale delle quali termina con un’abside semicircolare. I pilastri che dividono le navate, sono decorati sul davanti da bassorilievi in stucco, probabilmente ritratti, ora soltanto in minima parte conservati. Il pavimento è di fine mosaico bianco come il vestibolo, delimitato da fascie nere.
L’abside è semicircolare ed aveva nel mezzo sul pavimento una cathedra : sopra di essa è raffigurata una Nike con palma e corona. Sotto il pavimento in una fossetta scavata sul terreno vergine si trovarono resti scheletrici di un cane e di un maiale.
Il monumento era illuminato da un vano sopra l’ingresso, che riceveva luce dal lucernario dei vestibolo. Tracce di fasce di metallo che rimangono sotto gli archi degli in-terpilastri ci fanno ritenere che si dovevano sospendervi delle lampade. Tutto il monumento è orientato da E. ad O., ed è appositamente costruito sotterraneo come lo fa rilevare la tecnica della costruzione.
Le scene raffigurate nei bassorilievi di stucco sono diversissime : ratto di Elena, liberazione di Esione, Giasone e il vello d’oro, Ercole ed
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una Esperide, punizione delle Danaidi, supplizio di Marsia, e poi scene di culto, riti bacchici, scene della vita, corse, giocolieri, pigmei, ecc. Nel fondo dell’abside vi è una grande composizione in cui una donna ammantata e velata è spinta da Eros da uno scoglio nel mare ove è accolta da un Tritone, il quale si prepara a trasportarla in un drappo teso agli scogli dirimpetto, mentre un altro Tritone dà fiato alla buccina : due uomini, uno seduto e pensoso e l’altro in piedi,sembrano attendere.
L’eclettismo della scelta dei tipi è in relazione colle diversità dell’esecuzióne sia per la differente mano dell’artista, sia per la differenza dall’originale imitato, sia pure perla necessità dell’attitudine diversa dell’ esecuzione. Il Fornari avvicinando gli stucchi del nostro monumento a quelli della Farnesina più che a quelli delle tombe della via Latina ritiene di poterli datare col 1® secolo dell’impero.
Non vi è dubbio che si tratti di un tempio consacrato e destinato a culti misteriosi che non possono essere assolutamente orientali, per la mancanza di allusioni di nessun genere ad essi, e che per i soggetti raffigurati debbono invece appartenere al mondo greco. Le ossa di porcellino e di cane ci riportano a divinità ctonie ed a cerimonie catartiche perchè óltre al loculo della consacrazione si rinvennero ossa di porcellino disperse. L’escatologia del culto doveva essere rappresentata dalle scene di ratto e di liberazione che debbono simboleggiare la liberazione dell’anima come fanno pensare anche altre scene minori e forse pure la grande scena dell’abside.
Altro forse non si può dire per ora: piuttosto molto felicemente il Fornari ritiene di poter stabilire di chi fosse il monumento. Facendo cioè notare che a 200 m. dal tempio esistevano i sepolcri dei servi e liberti della gens Statìlia, e che uno di costoro si chiamava col nome non molto comune in latino di Mystes, che su di un’urna del sepolcreto degli Statili, ora al Museo delle Terme, è rappresentata "una scena dimisteri, egli giunge alla conclusione che una qualche relazione tra tutto ciò vi fosse. Ora Tacito (ann. 12.59) ricorda che T. Statilió Tauro fu accusato per volontà di Agrippina che voleva impossessarsi dèi suoi orti, di concussione e di magia (« magicae superstitiones »), Si può quindi esser quasi certi di aver rinvenuto il tempio sotterràneo in cui Stàtilio Tauro ed i suoi amici compivano le cerimonie che dovevano servire di pretesto per la sua condanna, prima di conoscer la quale egli, che era stato console nel 44 d. Cr., si uccise.
Sullo stesso argomento F. Cumont pubblica nella arch. (8,52) uno studio tendente a dimostrare che molto probabilmente noi siamo in presenza d’un luogo di culto per una setta neopitagorica. Fatto un cenno della fortuna del pitagoreismo in Roma, il C. ricerca quali elementi offertici dal nuovo monumento possano qualificarlo per pitagorico.
In primo luogo da alcune testimonianze che si hanno si deve arguire che la setta testé nominata celebrava le sue cerimonie in sotterranei. Il fatto che il tempio traeva luce dal piano per mézzo di un’apertura lo induce a ricordare il luogo di Platone in cui la vita umana è paragonata ad una caverna i cui prigionieri sono illuminati da una luce che sta a grande distanza in alto e dietro di essi.
Come capitale contributo all’identificazione del tempio il C. apporta l’illustrazione del grande bassorilievo dell’abside, nel quale egli crede di vedere per l’appunto l’affermazione dell’idea pitagorica sull’al di là. Senza seguirlo nella minuta spiegazione, ricorderemo, una parte della sua versione di un inno gnostico conservatoci negli atti apocrifi di Tomaso e di un oracolo d’Apollo sull’ànima di Piotino. Nel primo è accennato chiaramente al viaggio del genio verso la riva bagnata di lucè. L’oracolo ricorda l’ingresso dell’anima nell’assemblea degli eletti rinfrescata da dolci brezze, ove stanno Platone e Pitagora.
Se quest’ipotesi fosse giusta il C. crede che si potrebbe sicuramente procedere all’interpretazione dei bassorilievi che la decorano. La setta, infatti, aveva un sistema d’allegorie psicologiche e morali che spiegava ji suo modo le opere d’arte del passato e la leggenda della mitologia. La tavola di Cebete ne è un esempio.
Naturalmente e giustamente il C. fa notare come se l’interpretazione sua fosse esatta dal punto di vista storico e religioso il tempio ritrovato acquisterebbe una notevole importanza per le nostre conoscenze. La sua importanza artistica - ritorna col Leroux l’opinione che le basiliche cristiane trassero l’origine dalle simili basiliche ove le confraternite religiose pagane si riunivano - sarebbe indubbiamente alla pari dei suo valore storico-religioso.
12. Secondo il mio modo di vedere non mi sembra riuscita la dotta ricerca da A. Chiappblli pubblicata in Atene e Roma (22.1) su Virgilio nel Nuovo Testamento. Il Ch. partendo cioè dalle conclusioni veramente non molto sicure dei critici neotestamentari per cui l’autore degli Atti degli Apostoli sarebbe Luca, un romano, quale lo dimostrerebbero
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il sentimento e la lingua, ritiene che possa esser provata in lui l’efficacia già esercitata dal poema virgiliano sull’animo popolare, tanto da stender gli atti quasi con intenti di parallelismo idealistico augurale. Enea e Paolo cioè sarebbero i fondatori della romana e cristiana gente, passati attraverso miracolose peregrinazioni e pericoli quasi identici, per volere divino, per compiere una santa missione.
Naturalmente il Ch. cita dati ed elementi che dovrebbero suffragare la sua tesi e bisognerebbe scendere ai particolari per discu
terla. Per parte mia non la credo accettabile. Bisogna esser ben guardinghi in simili approssimazioni non per ragioni intrinseche ma estrinseche, poiché è così facile avvicinare le forme superficiali senza penetrare l’essenza delle cose. Anche il Gregorovius vedeva in Pietro e Paolo... i consoli... del cristianesimo e un mio illustre maestro voleva vedere tra Ulisse sbarcato in Itaca e Renzo che sta per passare l’Adda un logico e naturale avvicinamento !
Giovanni Costa.
FILOSOFIA POLITICA
il .
IL PAPA IN GUERRA
Mario Missiroli ripubblica in volume (Polemica liberale, Bologna, Zanichelli, J.919) i suoi articoli sul liberalismo e la polemica con G. Gentile • della quale ho fatto cenno. nella cronaca precedente. Ad essi premette la ristampa dell’opuscolo « il papa in guerra » pubblicato nel 1915 e di parecchi articoli riguardanti la Chiesa, il modernismo e la politica ecclesiastica.
Una strana contraddizione corre, a primo aspetto, fra questi due gruppi di scritti. Abbiamo visto il M. con il suo concetto del liberalismo (che è la coscienza della storia come processo, una liberazione in atto che si afferma contro ogni posizione acquisita di dominio, l’immanenza della rivoluzione nella società, sovrastando ad essa in qualche modo lo Stato, che pur ne è tratto, come forma di diritto) accettare con rigida coerenza il pensiero centrale dell’immanentismo moderno, e rivendicarne la logica contro lo stesso filosofo dell’idealismo attuale, G. Gentile, colto da lui in colpevole amore con il conservatorismo.
In questi scritti dedicati alla Chiesa noi troviamo invece la più fervida esaltazione, non diciamo del cristianesimo o del cattolicismo, ma dell’assolutismo papale quale potè sognarlo e sognare di attuarlo nella sua fragile e crucciosa opera Pio X.
Leggiamo. A pag. 52 : « Più tardi soltanto si apprezzerà convenientemente l’opera di Pio X anche in questo campo (di riorganizzazione del clero e disciplina gerarchica). La lotta contro il modernismo, che rappresenta
l’invasione del pensiero razionalista ed ateo nella stessa dottrina della Chiesa, segnò una delle sue più grandi pagine. Sotto il movimento intellettuale si celava una deviazione morale, una corruzione spirituale. Mai la dottrina cattolica; che vede nell’errore teorico una conseguenza della volontà cattiva, ebbe più autorevole conferma. Quindi il grande Papa fu inesorabile, per qu^pto il suo cuore piangesse di dolore e di pietà-i(proprio vero?), davanti alle condanne, che opponevano rovine a rovine. Ma, guidato da una logica infallibile, divina, Pio X non diede all’errore nè respiro nè tregua. E riuscì a respingerlo oltre i confini sacri ».
A pag. 73: « Di fronte al pensiero cattolico, che ridà alla coscienza individuale l’ unità infrangibile, sconosciuta al cittadino liberale, incerto fra la sua fede di credente e i suoi doveri politici; di fronte ad una concezione della vita, che risolve e dissolve in un supremo ideale etico-religioso tutti i problemi della vita politica, trascendendo in una affermazione pregiudiziale ed egualitaria tutti i concetti di nazione, di patria, di razza, lo Stato è impotente. Invano lo Stato può opporre la tradizione e, la sua storia, {perché il pensiero cattolico, in quanto trascende, con l’ipotesi evangelica e finale, la realtà, si oppone essenzialmente alla storia, che è il male, l’ingiustizia immanente, negando la quale soltanto l’azione esprime un valore possibile^« un senso.
. « Era questo se non erro — e non credo di' errare — il pensiero del più grande papà che abbia avuto la Chiesa dopo^Gregorio VII : Pio X, il restauratore dell’idea;teocratica, che
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parve veramente ispirarsi a un pensiero divino. Nel silenzio della sua solitudine, con la semplicità evangelica di un accento, di un comando, egli «innovava il pensiero cattolico, inaugurava la democrazia dell’avvenire, risolveva tutti i dualismi, tutte le antitesi della scienza o rimetteva il cattolicismo all’altezza del cristianesimo. Ecc. ».
Il lettore non si dorrà della lunghezza di queste citazioni che avremmo anzi, se lo spazio ce lo consentisse, moltiplicato. Il M. scrive così bene! Forse egli si chiederà come conciliare quella contraddizione, della quale dicevo. Forse, se è un lettore attento, egli trova da sè la risposta. Cosi, nel secondo brano citato, l’opposizione essenziale del cattolicismo alla storia. Pio X grande « nel silenzio della sua solitudine » rivelano una penetrazione che si esprime in deliziosa ironia.
Ma la prefazione gli chiarirà abbondantemente il segreto.
« Dottrina perfettissima, il cattolicismo è... come tutti i sistemi perfetti, inapplicabile ». « Per quanto il cattolicismo alimenti di sè tanta parte della vita presente, rappresenta essenzialmente una concezione antistorica, come quella che condanna tutto il processo storico fino ad oggi e pretende di superarlo, indicando all’umanità un ideale messianico ».
« Per noi, che riguardiamo la storia come un succedersi senza meta e senza scopo ; per noi, figli della filosofia moderna, che abbiamo ìa pretesa, per non dire il vanto e l’orgoglio, di scoprire la verità nel fatto stesso dello svolgersi della vita, onnipresente ed eterna in ogni suo attimo, è veramente assurda la pretesa del Papa. Ed è di una assurdità spaventosa e tragica >.
E qui il M, che nota in se stesso una costante preoccupazione verso le tesi estreme, esagera anche un poco. Dalla pretesa dogmatica cattolica papale di uscire dalla storia, di negare la storia, che è processo, per fermarsi in una verità determinata, definita, infallibile, non è forse necessario passare a una storia che sia un « processo senza meta e senza scopo ». Poiché la storia non è solo « processo », termine di pura relazione, di per sé vuoto di ogni realtà, panlogismo, ma è processo dell’alto spirituale che si afferma e si svolge, pur nei contrasti e nelle negazioni storiche, secondo una sua immanente necessità di sviluppo. Nella relazione, nel processo, c’è l’assoluto, l’assoluta realtà che si pone e si attua.
Ma. a parte l’estremo criticismo cui giunge il M., la filosofia politica di queste pagine, espressa con l’acre spigliatezza e con i rapidi
tocchi di un giornalista di razza, è degna di molta attenzione e, nel suo sapore rivoluzionario, si accorda stranamente con le più profonde suggestioni di questa ora storica.
VITA E MORALE MILITARE
Luigi Russo, un giovane filosofo che, dopo aver combattuto valorosamente, è nominato insegnante di morale militare alla scuola militare di Caserta, ci dà, come utilissimo frutto del suo insegnamento, questo volumetto di lezioni del suo corso. (L. R. Vita e morale militare. Milano, Treves, 1919, 3* e dizione).
II . volume è, nel campo del pensiero, dal quale tutto scende ed al quale tutto ritorna, un saggio molto interessante della rivoluzione operatasi nello spirito del nostro esercito da quando esso è divenuto, d’un tratto, tanta parte della nazione ed ha retto allo sforzo della terribile guerra. Non siamo conoscitori di letteratura militare: ma crediamo che per trovare in essa qualche cosa di simile bisogna risalire di più che mezzo secolo, all’opuscolo di Pisacane sull’esercito nazionale, così ricco di spirito mazziniano.
Il contenuto filosofico del volume del Russo non è una novità, ma queste pagine sono un saggio prezioso della fecondità della dottrina alla quale l’Asi ispira. Egli dichiara dal principio che non c’è una morale « militare »; non c’è che una morale, quella del cittadino, dell’uomo, dello spirito cìie realizza storicamente se Stesso e la sua eterna vocazione.
Eppure queste sono bene parole di un soldato a soldati; e.ci parlano della guerra e delle caserme e della disciplina militare, rigida, ferma, inflessibile, come è necessario per muovere uomini ai quali si comanda di uccidere e di esporsi al rischio, sovente alla certézza, di essere uccisi. La morale militare vi chiede tutto, la libertà personale, il sacrificio di ogni altro interesse, la vita, vi impone di divenir numero, di tacere anche quando avete ragione, di nascondere la vostra personalità in una divisa, di vivere in truppa, di obbedire sempre prontamente, di esporre senza riserve la vita a ogni rischio ; e una filosofìa che ripone la vita stessa e l’essenza dello spiritò nella libertà e nella autonomia si incarica di insegnare questa morale, di rivendicarla, di esaltarla, di giustificarla nel nome dei valori assoluti, i quali sono sì la medesima universalità ma in quanto possono e sanno farsi la massima personalità ?
Leggete-questo volumetto e vedrete dileguare l’antinomia.
Ciò era possibile solo aduna dottrina che, appunto, pone nei termini più recisi questa an-
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tinomia, per risolverla ; ad una filosofìa nella quale il proprio paese, la nazione, lo Stato non sono una realtà esterna all’individuo, un comando dal di fuori, una coartazione accettabile quando è comoda, ma sono lo stesso individuo, storicamente concreto, che per raggiungere la pienezza della sua personalità si fa nazione e Stato, realizza in sè quei beni ideali la cui unità ed identità è appunto il vincolo sociale.
Conciliare la disciplina militare con una concezione di vita secondo la quale lo spirito è libertà, sete perenne ed attuazione di autonomia, dominio, cioè posizione consapevole, della natura e della società e della storia, significa ritrovare in questo spirito stesso, e nella legge del suo processo, la disciplina.
La libertà è autogoverno, autolimitazione, norma, dovere; è sforzo assiduo di risolvere l’esteriorità e l’eteronomia nella vivente unità della propria coscienza. Il soldato non ubbidisce ad altri ma a se sfesso, attua sè come cittadino nell’ora del pericolo per la patria, quando cioè i beni che costituiscono la sua cittadinanza debbono essere difesi e riconquistati. Egli deve, se è uomo, se è consapevole, apprezzare questi beni più che la sua esistenza empirica, e, quando il conflitto sorga fra questa ed essi, sacrificare serenamente la vita, perchè non potrebbe conservarla se non vuotata di tutte le sue ragioni ideali, negata idealmente nella affermazione temporale di ossa che è la viltà. Questo dovere gli uomini chiamano eroismo, perchè esso è duro: chi lo accetta, accetta anche la disciplina esteriore, che gli facilita il compimento di quel dovere e gliene assicura, per quanto è. possibile, il risultato ; poiché inutilmente egli si sacrificherebbe se la legge che si è imposta non valesse anche per gli altri combattenti e se egli fosse solo eroe in un esercito di vili.
Cosi quella che sembra la massima rinunzia implicita nella disciplina militare, diviene la massima affermazione di sè; poiché il combattente fonda col suo gesto la Nazione e lo Stato che egli salva e difende ; .pone cioè ed afferma se stesso nella totalità dei valori ideali per i quali vive.
Una tale dottrina è tuttavia evidentemente la negazione del militarismo, del vecchio modo di intendere la vita e il dovere militare ; essa insegna ad obbedire ma insieme insegna a comandare, perchè obbedienza e comando identifica nella disciplina interiore, nella volontà che si fa volontà nazionale, umanità attuante la libertà e la giustizia. E forse le pagine del Russo più che a chi deve imparare •ad obbedire parranno dure a chi deve impa
rare a comandare : a farsi uno con i suoi subordinati, a di venire la loro migliore coscienza, ad ottenere d’esser seguito non col rigido comando esteriore e con la minaccia e con il castigo, ma creando nei subalterni la coscienza che egli ed essi ubbidiscono egualmente ad un precetto interiore, ad un dovere comune, ad una legge sacra di solidarietà e di fraternità nel sacrificio.
E stupisce e rallegra che questo modernismo militare abbia avuto una specie di sanzione ufficiale con la nomina del Russo ad insegnante di morale militare.
GUERRA E FEDE
É ristampata al principio del volume di G. Gentile che ha questo titolo la conferenza che egli tenne l’n ottobre 1914 nella Biblioteca filosofica di Palermo sulla filosofia della guerra; con la quale l'idealismo italiano prendeva il suo posto dinanzi alla crisi mondiale e nella coscienza italiana, che si preparava alla guerra.
Diceva G .Gentile : « No : una filosofìa che, con la presunzione di star fuori della guerra nella situazione del saggio lucreziano lieto di potersi godere dalla spiaggia sicura lo spettacolo della tempesta, si divertisse a palleggiare scolastici concetti sul tema della guerra, sarebbe una indegna filosofia : sarebbe, se non altro, una filosofia immorale in chi la facesse ; nè c’è filosofia senza nessuno che la faccia; nè una filosofia immorale potrebbe esser altro che negazione della filosofia ! Non c'è da una parie l'uomo e dall’altra il filosofo: il filosofo in quanto tale è lo slesso uomo, tranne che per una filosofia la quale, appartandosi e sovrapponendosi alla vita, si precluda ogni adito alla medesima; e si condanni al vuoto. Il filosofo deve filosofare da uomo, conservando tutti i doveri dell’uomo dentro alla sua stessa filosofia. E non è lecito oggi a nessuno, a nessun titolo, guardare con occhio indifferente alla guerra... Il filosofo non è un neutrale ».
Ed aggiungeva, condensando nel precetto tutto il suo idealismo attuale: « La guerra, adunque, è il nostro atto assoluto, il nostro dovere, il nostro supremo e, in questo senso, il nostro unico interesse. Essa ci stringe tutti con là sua sanguigna catena in un’ora di spasimo e di aspettazione che può assomigliarsi al travaglio di un parto. E poiché il sacrificio è il nostro dovere comune, questa è l’ora in cui i sacrifici non si contano e non contano. Questa è l’ora dell’eroismo. Sospirare oggi la pace per orrore degli eccidi e delle ruine che il flagello della guerra va seminando spietatamente è viltà d’animo. In*
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neggiare alla guerra per l’ammirazione che desta sempre lo spettacolo di ogni forza straordinaria che si pompeggi dei suoi effetti, è cinismo ignobile di esteta grossolano. La guerra è santa perchè è necessaria: come è santa, quasi la stessa volontà di Dio, ogni azione che sia uno stretto dovere. /ustum bellum quibus necessarium, disse già la storia di Roma; pia arma quibus nisi in armis nulla spes re-linquilur ».
La lunga serie di articoli (LXII) pubblicati dal G. in vari giornali e periodici nel corso della guerra e raccolti in questo volume è una dimostrazione pratica di questo atteggiamento sotto molteplici aspetti. Vi si espone il dovere della disciplina nazionale, in tutti, che è dovere di fare della guerra, questa realtà presente e suprema, la stessa nostra realtà, e di eguagliare ad essa la volontà e di empire del suo spirito presente ogni attività. Nel quale atto dello spirito che converte in massima libertà (eroismo) il massimo della necessità, in consapevole creazione personale di storia nuova il più immane intrico di interessi e di ambizioni di popoli, è necessariamente implicito uno sforzo poderoso di dominare con la coscienza una cosi vasta e travolgente esteriorità, di compiere in se medesimo una revisione critica di tutto il proprio passato. Quello che era in noi, ed era la ragione prima di tutte le nostre debolezze e miserie di popolo, si fonde in noi, ridiviene libertà e novità, creazione di storia nnova. La guerra è prova di popoli ed esame (V. al n. XIII : l’articolo su VEsame nazionale)’, a questo esame, nei suoi scritti su la colpa comune, le due Italie, il nemico interno, i pessimisti, la guerra del papa, la crisi del marxismo, G. Ferrerò eie-' ricale e numerosi altri, in tutto, anzi, il volume, il G. porta un notevolissimo contributo.
E questo insieme di scritti, se non è un trattato sistematico, ha tuttavia l’essenziale di un trattato di filosofia politica; poiché il G. vi sottopone ad esame i concetti di nazione, di Stato, di democrazia, di Società delie nazioni, ecc.
Il pensiero del G. in questi varii argomenti ci è già noto dai varii scritti nei quali egli tratta di essi più specialmente; qui ci si presenta come in ¡scorcio, sommario, incisivo, in brevi pagine di articoli di giornale ; e potrà avere meno profonda ma più vasta efficacia, dissipando vecchi luoghi comuni e invogliando alla riflessione, all’esame, ad un ulteriore studio.
Se la guerra ci avrà dato in Italia una rinascita di volontà, e di volontà italiana serena
dominatrice delle passioni, non soffocate, ma purificate nella disciplina del pensiero, sé, nel tumulto dei problemi immani posti dalla guerra e dagli interessi discordi che li agitano e perturbano, un certo numero di studiosi uomini di azione avrà in sè talune nozioni fondamentali chiare e precise, capaci di unificare la volontà, di segnare, fra tanti indirizzi, un indirizzo, non piccola parte del merito sarà dovuta a queste pagine ed alla attività, in questi anni di guerra, del filosofò che le ha scritte.
NAZIONALISMO
Si è pubblicato testé in Francia, per cura degli amici, un volumetto di un nazionalista del gruppo della Action française, Henry Celebri er, disperso in guerra nel décembre del 1914, su la politica federalista (H. C. La politique federaliste., Nouveile librairie Nationale, Paris, 1916). E nella prima pagina abbiamo trovato, espresso coi massimo candore, il principio politico al quale si ispira l’opera di tutti i buoni francesi e che è meravigliosamente documentato dalla storia delle trattative di pace.
Scrive il Cellerier : « La Francia è così fatta che non può estendersi smisuratamente. Limitata dalla natura ad uno spazio strettamente-definito da tutte le parti, essa ha l’obbligo vitale di opporsi senza tregua alla formazione di troppo grandi Stati intorno a sè; e se, malgrado i suoi sforzi, essi sono riusciti a costituirsi, di cercar di ricondurli, ad ogni costo, a proporzioni meno dannose alla sua propria sicurezza. Fu la politica costante dei nostri re... ».
6Ed è anche, indubbiamente, la politica di emenceau. Ma non si potrebbe, mi pare, negar più perspicuamente ogni principio di sincera solidarietà fra i popoli. Secondo un tale criterio il mondo, o almeno 1’ Europa, è fatto per la Francia e la sicurezza francese è il criterio supremo del diritto e dello svolgimento delle altre nazioni. Anche dell’Italia, naturalmente; perchè l’Italia è finitima alla Francia e va divenendo, con le nuove integrazioni e per l’aumento di popolazione, un paese di 40 milioni di abitanti, così da superare la Francia stessa.
Ma non è l’applicazione di questo criterio a noi che conta; è il suo spirito stesso.
Ora non è dubbio che per la maggior parte degli uomini politici inglesi o tedeschi e di molti altri paesi, ed anche per il gruppo esiguo dei nazionalisti italiani, le cose vanno allo stesso modo. Ma questa è, evidentemente, la guerra fatale irreducibile perpetua fra gli
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uomini; è la divisione deli’umanità in due parti, delle quali l’una è costituita da ciascun gruppo nazionale, che si attribuisce un diritto assoluto sulla vita degli altri popoli, per limitarne lo sviluppo secondo le sue proprie convenienze, per assicurarsi l’egemonia ; e l’altra è costituita da tutti i popoli concorrenti, ai quali è vietato unirsi secondo le proprie affinità etniche ed i proprii interessi, crescere e svolgersi secondo le proprie possibilità ed attitudini. È un principio mostruoso e barbaro; eppure è, come i lettori vedono, eminentemente contemporaneo. E, cosa più strana, si associa senza difficoltà alla professione della fede cattolica, per la quale V Action française ed il suo gruppo, che conta iji sè molti cattolici, hanno una cosi fervida simpatia.
La guerra, che pareva dover condurre al superamento di una così stretta e sanguinaria concezione egoarchica delle nazioni, ha invece esasperato le cupidigie nazionalistiche ed ha scatenato in lotta altri popoli che la stessa novità della loro indipendenza e il ricordo delle ingiustizie sofferte fanno più avidi. E con le cupidigie dei vincitori maturano nei popoli vinti le vendette, cupidigie oggi soffocate. E, fatto più singolare, le stesse rivoluzioni massimaliste e comuniste non si sottraggono a questa legge di sangue. La società delle nazioni disegnata e decisa a Parigi sarà — e già è in parte — una irrisione dolorosa, se lo spirito che ha presieduto alle trattative di pace continuerà a dominare.
L’unità degli uomini è una dottrina religiosa: la reale fraternità dei popoli non può essere che una religione.
L’AUTONOMIA POLITICA DEL P. P. I.
In occasione del primo congresso del partito popolare italiano ha dilagato nei giornali cattolici la polemica intorno agli spiriti e forme del nuovo partito; ed anche la stampa non cattolica si è largamente occupata di questi dibattiti, ed ha detto la sua, nei resoconti del congresso. Letteratura spicciola multiforme, che non ci è necessario esaminare, dopo l’ampio studio pubblicato in queste pagine sul nuovo partito.
Merita tuttavia un cenno un opuscolo scritto in collaborazione dal fr. Agostino Gemelli O. F. M. e da. Fr. Olgiati (ZZ programma del P. P. Z. Come non è e come dovrebbe essere, Milano, Società editrice « Vita e pensiero ») e pubblicato pochi giorni prima del congresso. In esso si tormenta l’ottimo D. Sturzo, il quale ha affermato che il nuovo partito < non poteva prendere e non prende a bandiera la religione, la quale naturalmente rimane come contenuto di principale differen
ziazione del partito stesso dagli altri partiti » ma poi ha anche detto : « non prendiamo la religione come bandiera di differenziazione politica ».
A parte la bandiera, che è una immagine, il cattolicismo differenzia si o no il nuovo partito ? Qui sta il problema, che tutti i polemisti italiani par si stiano affaticando a risolvere.
Il P. Gemelli sostiene che, nel partito come è, la religione non differenzia nulla; e che invece essa, e solo essa, dovrebbe differenziare. Il p. G. vuole che il nuov« partito tenda apertamente alla costituzione /èlio Stato cristiano, dopo aver detto che cristianesimo e cattoiicismo si identificano. Ed aggiunge che lo Stato cristiano « non solo deve rendere possibile ai cittadini il raggiungimento di questo fine (soprannaturale) ma li deve aiutare, ed anche quando provvede ai bisogni di ordine temporale, non lo può fare che subordinatamente, e in ordine al fine soprannaturale dei cittadini ». E aggiunge : < Ne segue che lo Stato è un organismo vivente, risultante dalia unione dei suoi membri e che, dati i compiti di questi suoi membri, esso deve cooperare affinchè i singoli uomini -e la società tenda al suo fine soprannaturale ». Questo è parlar chiaro; ed è stabilire la teoria dello Stato sottochiesa, della teocrazia.
Ma conclude mestamente il P. Gemelli che il P. P. I., come è, « il programma massimo lo odia, lo detesta, come una ingenuità, come una colpa ». !
E può darsi che egli abbia ragione. Non si può proclamare l’autonomia e poi arrestarla a metà, vietando, ad es., al congresso del partito di occuparsi di ogni questione che tocchi la politica ecclesiastica, cioè proprio di quello che per il partito'stesso è il massimo argomento politico. Non si può affermar vagamente un contenuto cristiano, senza dire se questo cristianesimo fa capo alla Chiesa ed al Papa, e prende da essi gli ordini, come voleva Pio X, o fa capo allo Stato, cioè alla coscienza di cittadini, come tali, che vogliono dare alla vita civile nella libertà un suo contenuto etico, una sua disciplina interiore.
Noi riteniamo che per la forza delle cose, per il processo della storia, il P. P. I. possa esser considerato tanto come un tentativo obliquo del Vaticano per imporre alla politica le sue norme, quanto come un moto di liberazione italiana dalla politica del Vaticano, di laicizzazione del cristianesimo, di restituzione allo Stato di un suo proprio contenuto etico. Sono due vie opposte dinanzi alle quali D. Sturzo rimane perplesso e il partito con lui. Ma la storia non ha, in definitiva, che una via.
Aspettiamo allo svolto. M.
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< LA RELIGIONE NELLA LETTERATURA
1.
Teo, il romanzo di Adone Nosari non andrebbe preso sul serio, dal momento che l’A. stesso ha indicato, tra le persone principali e le masse del romanzo, i soldati d’ogni arma anche morti, e, a breve, irrispettosa distanza, topi, gatti, cani, ecc. Tra le persone e le masse, sono pure annoverati il Col di Lana e Monte Sief. Personeo masse?«Masse»,naturalmente.
Ma non anticipiamo giudizi, non precorriamo gli eventi. Il protagonista vero del romanzo è la guerra : la recente guerra che riempie ancora de’ suoi echi spaventosi il mondo fisico e il mondo delle anime. Il Nosari descrive fondo aK’universo bellico, e le sue descrizioni restano addietro — oh molto, troppo addietro ! — a quelle pur così vituperate dei corrispondenti di guerra ; di più, sermoneggia sulle cause della guerra, ripete gli argomenti e le invettive che solevano correre tra neutralisti e interventisti, spara le bombarde e i 420 della retorica, della buona retorica patriottica, senz’accorgersi, talvolta, di « allungare il tiro » inverosimilmente. Nelle prime pagine del romanzo, infatti, e precisa-mente a pagina 53 il N. parla di « giorni tragicomici che non mutarono che assai tardi, quando cioè al potere salirono uomini che videro il mondo in burrasca con limpidezza d’occhio; quando, dopo il disastro di Capo-retto, Vittorio Emanuele Orlando e il generale Diaz seppero portare il popolo e i soldati alia grande vittoria della Piave il 24 giugno 1918 e poi restaurare la coscienza nazionale ». È un tiro birbone che colpisce in pieno la sincerità dell’Autore, in quanto egli ha posto a pagina 285, l’ultima del romanzo, la data: 19 novembre 1916 (per la storia, ha voluto anche aggiungere: ore 17,20, nevica); vero è che al 19 novembre »9x6 eravamo, fortunatamente, lontani ancora parecchio da Caporetto e, disgraziatamente, dalla grande vittoria del 24 giugno 1918!
Tutto ciò non conta. Non conta ai fini della nostra critica. Sulla cronaca della grande guerra s’innesta il racconto d’una guerra di amore. È un idillio che si accende tra la signorina Delfina Lori e l’ingegnere Teofilo Pasini. Come si accenda, è inutile raccontare. Si è davanti a qualche cosa d’inverosimile ;
certo, di artificioso. Accettiamo il fatto compiuto. Delfina e Teofilo si amano. Se non erriamo, l’A. ce li presenta, ce li vorrebbe presentare come due cuori superiori. Ma le prime scene di amore hanno per teatro una trattoria romana. Anche questo non importa. Non importa a noi. Sembra Che i due amanti, da principio, non si stimino troppo, vicendevolmente. Sembra, poi, che, ad ogni passo, il loro amore si muova per una china molto sdrucciolevole. Anche questo non ci riguarda.
Gli è che il N. vuol darci in Delfina un tipo di credente; di miscredente, o quasi, in Teofilo. Il quale, poi, si converte, o quasi, ma non si sa bene perchè.
Intanto, la fede di Delfina è qualche cosa di molto vago e indistinto. Usuo Dio, in sostanza, è l’amore. « L’amore, per lei, era la propria vita, era Dio stesso, il Dio buono che alia luce non contrappose le tenebre, alla fede il dubbio divoratore e la perfidia, alla verità la menzogna, alla vita la morte ».
Nè bene delineata, anzi nè meno giustificata è la miscredenza di colui che, per una voluta bizzarria dell’A., si chiama Teofilo. « Io non so pregare : non ho bisogno di Dio nè dèlia preghiera... Son róso da dubbi. Ho delle superbie, delie tristezze e delle umiltà! ». Osserviamo: chi proclama di non aver bisogno di Dio nè della preghiera, non dice : io non so pregare. Chi, poi, sia róso da dubbii, ed abbia «superbie», sì, ma anche «umiltà» non giunge mai ad una affermazione così recisa : « non ho bisogno di Dio ».
Neppure condividiamo il rammarico di Delfina : « Vorrei sentirti qualche volta invocare Dio e la Madonna. È così bella una invocazione sulla bocca di un uomo forte ! ». Qui viene confermato il pregiudizio che il senso religioso sia come una specie di mendicità per quanto spirituale ; pregiudizio, pur troppo, comune, tanto a chi non prega quanto a chi prega e a chi prega piuttosto spesso. Agli uni e agli altri è da ricordare che la preghiera non è mai bella, e tanto meno sulla bocca di un uomo forte, se sia soltanto una « invocazione ». Se non che questo Pasini è ridicolo, quando dice a se stesso (notate : a se stesso) : « in nome di Dio, basta con la gazzarra, con gli atti di fede verbali, ecc.» (pagina 59). E d’altra parte che valore ha e
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può avere la preghiera anche per Delfina? « Provo tanti disagi che nemmeno la preghiera riesce a togliermi di dosso perchè mi sento colpevole e per quello che faccio e più per quello che penso... ».Altro pregiudizio il credere che la preghiera sia onnipotente, quando anche la sua efficacia non sia predisposta dalla buona volontà, di chi prega.
Sorprendiamo anche questo... ameno dialo-ghetto tra Delfina e Teofilo :
— Tu proprio non credi in Dio ?
— Non nè ho mai avuto il bisogno.
— Ti credi forte più di quel che non sia. Anche i forti han bisogno di Dio... È l'unica cosa che ti manca per essere, ai miei occhi, perfetto.
— Mi manca anche il nome ! (L’affermazione non ha senso. Forse, il proto s’è mangiato un interrogativo). . *
— Hai ragione: non riuscirò mai a chiamarti Teofilo.
— Chiamami Teo.
11 dialoghetto è — ripetiamo — ameno, perchè non tanto Teofilo quanto là stessa Delfina che crede in Dio ammette che una tal quale debolezza sia... necessaria per credere in Dio !
E seguiamo a grandi tappe il racconto. Teofilo è partito per la guerra. Aveva avuto tempo di pensare a sposare Delfina. Ma no. Egli la sposa di lontano, quando è in zona di operazioni, la sposa per procura. Delfina, nella sua solitudine, raccomanda a Dio il suo Teo ; « poi da Dio il pensiero si fissava compiuta-mente sullo sposo lontano; e Patteggiamento (nota il cronista con ineffàbile candore) non arrecava nessuna offesa a quello ».
Teofilo, a sua volta, pensa a Delfina e a Dio. Ce l’aspettavamo. Lo sapevamo. Se la religione non è che' il prodotto della paura, l’ing. Pasini, trasportato in pieno teatro di guerra, è candidato alla conversione, senza ch’egli voglia, senza, nè pure, forse che sappia. Il primo scoppio di granata (piuttosto vicina che lontana) provocherà nel suo cervello una serie d’interrogativi. Allo scoppio della seconda o, tutt’al più, della terza o quarta granata, gl’interrogativi si risolveranno in una solenne affermazione. La ricetta è vecchia e squisitamente comoda. Il Nosari non ci lascia sospirare troppo la soluzione che s’in-travvede nelle prime pagine del romanzo. E cosi commenta i casi del suo eroe (siamo a metà del libro!): « Poteva la sua esistenza e quella di Delfina, il loro amore, la esistenza di tanti che sono morti o moriranno nell’istante medesimo in cui pensano alle gioie dell’avvenire e magari ài loro dolori, finire
così e non avere alcun riverbero nel mondo? Questa domanda — nova nella forma precisa, almeno, per il suo spirito di cultore di scienze, vissuto tra concezioni materialistiche pretendenti di risolvere coll’empirismo il mistero della vita e di giungere alla causa delle cause — gli si era affacciata, senza per questo concretarsi categoricamente, quando la morte eragli passata brividendo (?) vicino o quando s’erà trovato accanto ad un cadavere dimenticato nel fango o a un ferito dolorante che invocava Dio e la madre ».
Ma l’ing. Pasini ha la rara fortuna di ascoltare « i discorsi di Carlo Falvaterra, ufficiale della stessa compagnia, studente in filosofia e cattolico, che arrivava, con complicati ragionamenti, a concludere che cattolicesimo e perfezione sono una cosa ». I ragionamenti devono essere veramente un po’ complicati e poco lampanti le conclusioni, se «dopo quei colloqui (il Pasini) rimaneva preso da dubbi, da incertezze che più buio di prima gli mostravano il destino dell'uomo ». Tuttavia, s’intende che luce sarà fatta.
Il Falvaterra ammonisce Teo con epifonemi latini perfino sgrammaticati : « Assai più alto di te è un nostro qualunque soldatino, un qualsiasi umile artigiano quasi analfabeta, che sa comunicare con Dio... Nobilior animo quavt gente \ {sic). Cerca di crearti un cerchio di ragionamenti. In te Dio dovrebbe rivelarsi in virtù del raziocinio. Sono sicuro che nel tuo intimo c’è una voce che non hai ascoltata; ascoltala e poniti il problema e scava entro te stesso. Per gradi arriverai alla rivelazione, alla verità, al bene. Il bene non va versò il nulla, come tu credi, e non è fine a se stesso perchè allora bene e male si equivarrebbero : esso procede verso Dio che è bene in sé». Il « ragionamento » nella parte che abbiamo sottolineata è alquanto capzioso, se non interamente sbagliato. Ad ogni modo, il Falvaterra chiede picche, il Pasini risponde quadri. Risponde, cioè : « Davanti a certi fatti, rimango dubitoso... Può darsi che la storia d’oggi sia tramandata al futuro dalle narrazioni tronfie false che stemperano i cronisti contemporanei? E se la storia di oggi e di domani non è quella che si sta scrivendo e che si scriverà, come credere a quella passata che è già stata acquisita? ».
Il dialogo continua per un bel pezzo, sullo stesso tono, vale a dire fuori di tono. L’uno e l’altro interlocutore dicono delle corbellerie deliziose. Che razza di miscredente è il Pasini che argomenta a questo modo : « Gli spiriti sonori di Giulio Cesare potevano, per spingerlo all’azione, cantargli la Breccia di Porta Pia
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o la santità della guerra dell'oggi? ... Che c’è, dunque, nell’avvenire dì contingente? Il nulla?» E che razza di cattolico è il Falvaterra che bestemmia in questi precisi termini : « La guerra bisogna farla con amore che è Dio e perciò bene », e che giustifica ogni guerra, anche le guerre « d’espansione », in virtù di questo principio, che si deve prendere tutto quello che ci serve? Chi oserà più, dunque, condannare gl’imperi centrali che scatenarono la guerra per prendersi ciò che poteva loro servire ?
Per buona ventura, il dialogo è interrotto a tempo da un importuno, altrimenti chissà quante ne avrebbero dette il Falvaterra e il Pasini che erano in vena di sballarle grosse !
Apprendiamo più tardi che Teo ha spesso il cuore che si stringe, ha che si dibatte..... Poi torna ad opprimerci una lunga, pesante descrizione della guerra, della vita di trincea, ecC., fino a che arriviamo al « secondo » colpo di granata*. « La morte — dice Teo, raccontando a Falvaterra la fine di un collega — mi è passata accanto con terribilità che non conoscevo. Ho i brividi. Meglio morire e umiliare l’anima a Dio che è l’unica verità... Ricordi ? Poche ore dopo la fine di « Senzalingua », dovevo io invocare Dio ».
Al « terzo ». colpo, egli invoca ancora Dio, e chiede che sia fatta la di lui volontà... Ecco il convertito! Egli scrive a Delfina della sua avventura e della sua invocazione ; Delfina gli risponde con fervorose parole : « Dio ti ha illuminato. Convinciti che, poiché hai avuto la rivelazione, non saresti potuto morire ; n/a se anche fossi stalo ucciso — tremo solo al pensarlo — non per questo si deve negar Dio ». Falvaterra, poi, esorta Teo a non fermarsi sul nuovo cammino : « L’uomo modèrno che ha avuto la rivelazione deve vivere l'esperienza del cristianesimo a traverso i secoli », deve arrivare al cattolicismo. «Chi si ferma al cristianesimo si ferma ad una forma ; egli è un puro intellettualista o un arretrato nel suo sviluppo ». Al che il Pasini'oppone solamente: «La strada è lunga e non so se la percorrerò tutta. Una granata villana inconsapevole può frantumarmi mentre ti parlo...
— Saresti ugualmente salvo. La fede è la certezza che tutto ciò che c’è di puro nell’uomo, di intimamente buono, di universalmente riconosciuto buono, debba essere nella sua interezza raggiunto in quanto è stato vissuto. Insomma, per richiamare l’interrogatorio che San Pietro fa a Dante: “ Fede è sustanzia di cose sperate et argomento delle non parventi „. Tutto ciò è in te e non saresti colpevole se tu finissi non completo ; purché non
ritardi volontariamente l’accettazione di tutte quelle altre verità che a contatto con gli uomini si chiarirebbero se non ti vi opponessi in nessun modo. Capisco ciò che si agita in te ora. Il non credente, che si imagina l’atto di fede còme un salto nel buio perchè l’atto stesso egli imagina e costituisce logicamente — logica formale senza esperienza interiore — avrebbe tutte le ragioni di guardarti come un animale strano e di non capire il tuo modo di sentire. Ma io... io son credente... io». E -anche questa volta il dialogo è interrotto : un soldato viene in buon punto ad avvertire che la cena è pronta. In buon punto, diciamo, perchè è evidente che il Falvaterra non sa troppo bene quel che si dica. Sé cpsi non fosse, non definirebbe come un puro intellettualista chi si ferma al cristianesimo ; darebbe ben altra chiarezza e profondità ai suoi ragionamenti un po’ acrobatici ; romperebbe — lui così avverso al puro intellettualismo ! — la rigida cerchia del suo arido dogmatismo.
E adesso — si capiva bene anche questo — possiamo avviarci verso la catastrofe del romanzo. « Con me c’è Dio », proclama Pasini. E il cronista della sua conversione contenta: « Dopo il suo sentore di Dio, l’anima gli usciva per grandi voli verso l’infinito e faceva ritorno a lui piena di religiosità ». Non ne dubitiamo; ma di questi voli e di questi ritorni non ci è offerto alcun documento. Non vediamo in atto questa conversione. Il palpito di religiosità in Teo non è altro che un brivido di terrore. Il suo Dio è un Dio [ebraico] che bisogna più temere che amare. « Dio solo rimarrà per sempre a guatare da per tutto. pensiero che è — come ci avverte il Nosari — «gravido di sgomento*. Poco dopo, Pasini, colpito da una mitragliatrice, manda l’ultimo grido: « Delfina! Dio! > ; ed è... la fine. Segue un capitolo perfettamente inutile.
_ Ci siamo indugiati a riassumere questa storia di guerra e di amore, per dare, via via, la dimostrazione che il libro è falso. Falso com’opera d’arte, 'falso come documento di una conversione. È inafferrabile, prima, la psicologia del Pasini incredulo; inafferrabile, poi, la psicologia del Pasini convertito. Il N. non scandaglia l’anima del suo protagonista. Ci dà due Pasini bell’e fatti, senza seguirne l’itinerario spirituale. Teo si converte non si sa bene perchè. Perchè ha paura ? Motivo insufficiente per un uomo colto, moderno, di una levatura piuttosto superiore. Si converte, perchè... il N. ha trovato comodo di farlo convertire, così come muore, perchè torna ancora comodo al N. di farlo morire. In sostanza, il N. ha mostrato la sua assoluta im-
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preparazione a trattare le questioni religiose, sia pure attraverso il modesto episodio di una conversione, ed anche una non sufficiente preparazione a trattare quel genere letterario cosi difficile che è il romanzo. Le tanto esecrate descrizioni dei corrispondenti di guerra sono assai più fresche, vive e commoventi che non queste pagine, che dovrebbero essere pagine d’arte. Il Nosari potrà accusarci d’insensibilità, ma noi possiamo assicurarlo che abbiamo fatto del nostro meglio per commuoverci alla visita di Delfina alla tomba di Teo : ebbene, non ci siamo riusciti !
doti. M.
CRISTIANESIMO E IMPERO IN DUE RECENTI ROMANZI G. Rosadi, Dopo Gesù, Firenze, G. C. Sansoni, 1919.
L. Bertrand, Sangue di martìrit traduz. di L. Battaglia, Milano, Soc. ed. «Vita e pensiero», 19x9.
Io non so veramente che cosa voglia e a che cosa tenda Fon. Rosadi con il suo volume.
Tentativo di ricostruzione storica? no. Romanzo? no. E allora? Non mi ci raccapezzo e, se non fosse irreverenza, starei per un’insalata russa messa insieme da un cattivo cuoco o se meglio sì vuole da un buon cuoco in un momento di malumore. Poiché dicono — io non l’ò letto — che il suo Processo di Gesù sia buono. Certo si è che in queste 400 pagine non ci è nulla di buono.
Il cristianesimo non lo si sente, il paganesimo vi è screditato, le figure vi passano scialbe e incolori, la favola è ingenua, la forma stessa è povera. Pare che l’A. attinga le sue conoscenze sulla storia cristiana alla letteratura di mezzo secolo fa (paolinismo e petrinismo, p.es. a p. 47) e ami divertirsi con banali tirate di spirito (pag. 4, 6, 57, 149, 232, 244, 290, 297) o con aforismi di dubbio valore (pag. 65, 67, 68, 1x8, 141, 196, 208, 364) o con frecciate antipagane di un molto cattivo gusto (Come quella contro la « resistenza » delle fanciulle romane, pag. 167) o con ricostruzioni sociologiche veramente stucchevoli (v. i capitoli sulla colonia della Gorgona) e non aggiungo altro per non tediare il lettore!
Quale scopo adunque à questo lavoro? Per un momento mi parve un tentativo di concorrenza alla fortuna del Quo vadis, poiché l’A. vi si scaglia contro con veemente violenza (pagina 101); ma poi lo esclusi perchè sarebbe troppo ineguale il confronto — per quanto si voglia dar torto ai molti errori di visuale del romanziere polacco — sia nell’abusato luogo comune della negata fratellanza tra schiavi e liberi, sia nelle figure, tra Seneca, ad es., e Petronio, Gaziella e Licia e via dicendo, e l’A. se ne sarebbe accorto. O’ finito quindi con Faccettare l’unica ipotesi possibile : il desiderio che abbiamo tutti noi grafomani di non perdere neppur una briciola delle nostre imbandigioni letterarie e di adoperarle quanto è più possibile per le cene ed i pranzi de’ giorni successivi, fritte e rifritte e condite in tutte le salse. Il guaio è che in questo caso la roba non più fresca si sente le mille miglia lontano, proprio come nel libro del R. ove pute dalla ridicolaggine di quell’ameno dio « Ridicolo » di invenzione rosadiana (p. 140) o da quell’esemplificazione del lavoro degli schiavi che cade con l’aggiunta « come vuole la leggenda » (pag. 148), per non dir altro !
Di ben altro valore invece è il romanzo del Bertrand, in cui la vitalità della ricostruzione storica è veramente perfetta ed in cui il paganesimo ed il cristianesimo sono dipinti con i colori propri, cioè ne’ loro vizi e nelle loro qualità.
Vi si sente non solo l’erudito che conosce il suo mondo e le scene naturali in cui esso fu inquadrato, ma l’artista che l’à vissuto e à saputo rappresentarlo. Anche qui vi è un difetto per me capitale di tutte queste ricostruzióni di vita cristiana primitiva: Roma è sempre qualchecosa di turpe, di volgare, di nemico. Il che, si noti, è dannoso per la stessa tesi che gli autori si propongono; di dimostrare, cioè la superiorità della civiltà cristiana : i nemici bisogna apprezzarli e valutarli a proposito perchè solamente se sono grandi e potenti la vittoria su di essi vale, se no è degna di riso. Ma nel B. Roma à almeno un aspetto di grandezza e di potenza materiale che attrae: è un po’... la Germania di ieri e forse di domani. Laddove nel Rosadi anche questo manca. Ora è ciò sopratutto che vorrei in un romanzo dei primi tempi cristiani: elevata l’unica nostra tradizione storica unitaria veramente gloriosa al suo grado giusto e non abbassata. Della sua grandezza forse se ne accorgerebbero quanti volessero trattare in un romanzo il tempo post - costantiniano in cui il cristianésimo portato in alto divenne oppressore, senza unità d’idee e di principi!
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e deluse le aspettative dei migliori e giuocò sulle transazioni. Ma questo tasto è pericoloso toc«’are ne’ romanzi-panegirici, ed allora si fanno quelli che abbassano Roma e si traducono poi anche in quelle cretine cinematografie che impressionano il popolo e... ne formano la coltura storica. Eppure oggi si dovrebbe accorgersi che dopo venti secoli chi trionfa ancóra — e questo dal punto di vista umanitario lo dico con dolore, dal punto di vista latino con piacere — non è il Cristo, ma Roma !
In ogni modo il volume del Bertrand è degno di lode e la lettura ne deve esser consigliata, onde la « Vita e pensiero » à fatto bene divulgarlo, nella buona, se non perfetta, traduzione dèi Battaglia.
Giovanni Costa.
TERTULLIANO
Akermann M. Ueber dìe Echtheit der letete-ren Hàlfle von Tertullians adversus ludaeos. Lund. C. w. Lindstròms, Bokhan-del, 1918.
L’A. si è proposto di riprendere in esame il problema dell'autenticità dell’ultima parte dello scritto di Tertulliano « Adversus ludaeos » non sembrandogli sufficente-mente adoperato per la Soluzione il criterio linguistico, verso il quale lo conducevano i suoi recenti studi di critica del testo tertullianeo.
È noto che gli ultimi capitoli dell'/ld-versus ludaeos sono in gran parte derivati dall’zi dveysusMarcionew dello stesso autore, onde è sorto il dubbio — e quindi la disparità di parer dei critici — che essi debbano ascriversi ad altri piuttosto che a Tertulliano.
L’Akermann esaminando — dopo una breve introduzione informativa dello stato della questione (p. 1-10) — i capitoli che formano l'oggetto della controversia, nelle loro parti principali e più importanti, giunge alle seguenti conclusioni (p. 113):
• L’ultima metà ùeW Adversus ludaeos non è affatto di Tertulliano, ma è stata messa insieme da un interpolatore, parte con excerpta dell' Adversus Marcionem di Tertulliano, parte con proprie aggiunte.
• Nell'uso dell’-4rfv. Marc. egli procede con la maggiore inettitudine: ne trac argomenti che erano da usarsi solo contro Mar-cione; è da lui lasciata pure nell’Adv. lud. la 2a sing. che in Marc, stava bene, sebbene la dimostrazione corra già in 3* plurale. Svela inoltre la sua completa in intelligenza
di Tertulliano, sia perchè gli riuscivano nuovi lo stile e la lingua di questo autore, sia perchè non poteva seguirne l’argomentazione. Scorrettezze e cambiaménti mostrano da per. tutto una mano molto inetta. L’interpolatore, se s'imbatte in un’espressione alquanto speciale, l’appiana e se la difficoltà è grave la sormonta senza scrupolo, procedendo per cancellature é sconnessioni. Un tempo serióre dimostrano parole e frasi di latino volgare. Nelle citazioni della Bibbia egli Si allontana spesso dall’uso di Tertulliano e si avvicina in genere di più alla Vulgata.
« Quando aggiunge del suo, snocciola per lo più alcune citazioni bibliche l’una accanto l’altra, in generale senza commentarle; quando appare il commento, esso non è che una parafrasi della citazione cui si riferisce. Per di più nella ultima metà dello scritto contro i Giudei è citato il Nuovo Testamento, che Tertulliano nella prima metà à evitato di citare ».
Giovanni Gosta.
DEMOCRAZIA
Morale et Démocratie, conférence de Emile Boutroux de l'Académie Française. — La Démocratie et l’Evangile, conférence donnée par M. Henri Bois, professeur à la Faculté Théologique de Montauban. (Quaderni di Foi et Vie, 48 : Paris, rue de Lille. Ciascun quaderno L. 0,75).
Il concetto di democrazia preso in sè stesso non può essere evidentemente che puramente formale ed astratto. E l’espressione, pure così precisa, il popolo che governa se stesso non ha un senso serio, un senso alto se non presa e guardata da un punto di vista morale. Rimanendo solo alla lettera ci si potrebbe ancora chiedere, infatti, se il popolo disponendo di sè abbia a prendere per legge la giustizia oppure il capriccio. Abbiamo visto abbastanza come una nazione imbevuta dall’idea della sua onnipotenza e disposta a governare non soltanto se stessa ma le altre nazioni, abbia
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saputo ispirarsi e praticamente condursi... il dono della libertà ad una belva non basterebbe evidentemente a cambiarne la natura.
Dunque, la Democrazia suppone, perchè noi possiamo intenderla e prenderla come una nobile cosa, suppone lo spirito democratico, la virtù, l’anima democratica. La forma non sarebbe nulla e la libertà esteriore non è utile e buona se colui che ne usa non è capace della libertà interiore o morale. Cioè — e noi non possiamo perdonare al Boutroux, pure ammirando la sua magnifica conferenza.di non aver rievocato a questo proposito la fulgida dottrina mazziniana — occorre riavvicinare e compcnctrare l’ideale alla Democrazia, Dio al Popolo, il concetto del potere a quello del dovere e della giustizia.
È possibile, si chiede il prof. Bois, dare per contenuto ideale alla Democrazia r Evangelo ?
Occorre premettere a mo’ d'obbiezione intanto che di per sè, espressamente, il Vangelo, i principii, i germi della Democrazia non li contiene affatto. Ma non bisogna per contro pensare come fanno taluni i quali più che il Vangelo conoscono le grandi chiese gerarchiche che lo esibiscono e lo interpretano, che il Vangelo sia contro la Democrazia. Di taluni testi evangelici che potrebbero — sotto un certo aspetto e dietro certe particolari esegesi — dare un po’ di ragione a chi pensa cosi, il Bois ristabilisce con un meraviglioso intuito del cristianesimo originale il senso ovvio nativo.
Quanto poi all'essere estraneo il Vangelo all'idea democratica osserva giustamente il chiaro professore di Montauban come nè Gesù nè coloro che immediatamente dopo di lui agirono sulle folle palestinesi pensavano a stabilire una società novella sopra forme migliori di giustizia dal momento che credevano fermamente vicina la fine e la consumazione dell'evo. E che per preparare quanti più uomini potevano della loro stirpe privilegiata ad entrare nel Regno prossimo a venire, non fecero che predicar la giustizia interiore, la libertà dello spirito, l’eguaglianza dei cuori e delle anime sul terreno della fraternità spirituale. Ma a parte codesta convinzione si potrebbe dire che Gesù (il quale in fin dei conti non ha insegnato solo, colla parola ma anche — e forse, sopratutto, noi cristiani faremmo assai bene’a ricordarlo pili spesso — con la vita) si potrebbe dire che Gesù di
venuto dottore e profeta del suo popolo su dall’infimo strato di esso, scegliendo tra il popolo i suoi cooperatori, indirizzando verso il popolo più misero le sue cure e le sue attività non abbia fatto proprio nulla pei- la democrazia? E che il pensiero cristiano primitivo che fu senza dubbio non solo una nuda teorica ma un movimento egalitario — fino a che la Chiesa nuova risorta sulla tomba delia vecchia Chiesa giudaica non l’ebbe assorbita —- non sia stato un pensiero audacemente democratico, fino ad un punto che allora dovette parere più che ora inverosimile?
De! resto, osserva bene il Bois, poiché realmente il Cristo è stato tra i suoi un creatore di libertà, un assertore di eguaglianza, un banditore di fraternità, per quanto intese nel senso suo e collocate nel suo apocalittico piano spirituale, c noi abbiamo conservato il suo Vangelo e ci chiamiamo suoi fratelli ed eredi, quantunque l’evo umano di cui vide prossimo lo sparire abbia continuato a proseguire c sia ancor oggi in via di maturare, qui intanto prima ancora che in un secondo divinizzato aspetto verso una migliore e più completa giustizia... per questo non potremo noi trarli i principii augusti della democrazia dalla essenza medesima dell’Evangelo liberato dalla nube parousiaca e desiderare intensamente che il Regno (ed il regno della giustizia non può essere che regno di Dio) venga sulla terra ancora abitata dalla vecchia stirpe umana, non ancora consumata dal fuoco purificante? Dal momento che il mondo, contrariamente alle previsioni del Maestro, dura, perchè non potrebbero i discepoli far penetrare lo spirito del Cristo anche nell’ordine secondario delle realtà terrene ? E la libertà e le eguaglianze e la fraternità spirituali che Lui volle non potremmo volerle non solo nelle leggi ma (Dio lo voglia e presto!) anche nella vita?
Quante forme di schiavitù non ci sono ancora, quante disuguaglianze di fronte al banchetto della vita, quante contrarietà d’interessi die ci fanno l’un verso l’altro lupi!
E non sarebbe cristiano l’avvento d'un ordine sociale che ce ne liberasse c una democrazia capace di offrircelo non avrebbe in realtà per magna charla l'E vangelo?
Anche il Bois a vrebbe potuto ricordare un uomo che fu (a parte le forme) un’anima intensamente nutrita del pensiero evangèlico, Mazzini, e noi italiani gliene
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saremmo stati grati. Ma lo spirito di Lui aleggia frequentemente nelle buone pagine del prof. Bois. E, se c’è permesso parafrasare una espressione antica famosa — ogni anima che si rifaccia senza prevenzioni (naturaliter direbbe Tertulliano) al Vangelo, si illumina un po’ al fulgido pensiero del Grande Genovese. Forse noi cristiani non l’abbiamo rilevato ancora abbastanza.
S. Bridget.
GUERRA E SUOI PROBLEMI
Augusto Calabi, Uomini in guerra. Carso, 1915-1916. Roma, Ausonia, 1919. Lire 1.50«
Tra i molti scritti di guerra, questo è uno dei pochi che abbiano importanza di documento umano. Sono impressioni sincere, immediate, quasi istintive di un ufficiale subalterno che visse la guerra tra i suoi uomini, nelle trincee. Quanto siamo lontani dalle scintillanti e bolse esercitazioni retoriche dei « grandi ■ corrispondenti di guerra e quanto lontani anche dalle sottili trasposizioni filosofiche ed estetiche di alcune nobili anime che videro la realtà attraverso il prisma dei loro ideali e delle loro tesi! Atteggiamento un po' alla Barbusse, ma meno violento, meno sarcastico, meno demolitore, ma ispirato ad un più sereno senso del dovere, pervaso da un soffio di profondo idealismo.
L’autore fu fante e fece coi fanti la guerra. E dei fanti egli conobbe i pochi difetti e le molte virtù, le fugaci esitazioni e gli eroismi sublimi, le debolezze istintive e la infinita tenacia. La salita alle trincee, l’assestamento nella trincea, la vita nella trincea, il cambio, il riposo, le retrovie, i ficco! i combattimenti e la battaglia sono e varie fasi della vita del fante nelle prime inee che l’autore prende ad oggetto delle sue vivide osservazioni psicologiche.
Nell’esercito l’autore vede sopratutto il fante e nel fante l’uomo: elemento fondamentale, decisivo, eroico. Nella massa dei fanti è una potenzialità inesauribile di capacità umana.
» Le altre armi hanno strumenti il cui impiego è l’unico scopo; hanno ordegni di armi pel cui impiego 1 soldati solo servono dopo speciali istruzioni tecniche: nella fanteria ogni strumento, ogni elemento è l'uomo, solo e sempre, e arma più che il fucile è l’uomo ancora ».
Mentre gli altri soldati sono artiglieri, aviatori, telefonisti, ecc., i fanti sono sem-Slicemente uomini. Non hanno orgoglio i corpo, si sentono anzi trascurati, poco apprezzati dalle superficiale ammirazione del pubblico, ma finiscono col "acquistare coscienza della loro intima superiorità, sentendo quasi l’orgoglio della loro umiltà. « Chi non li conosca potrebbe giudicarli privi di entusiasmo e poco risoluti, ma chi li segue poi all’opera li ammira stupito, e chi li ha conosciuti realmente li ama ». Così giudicano e sentono tutti quegli ufficiali subalterni che poco apparirono e molto fecero, che furono veri fabbri di anime, che, dopo Caporetto specialmente, foggiarono a nuovo lo spirito dei soldati e prepararono le vittorie del Piave e di Vittorio Veneto. < Anche noi umili capi che viviamo colla truppa, non sappiamo niente del nostro destino. Anche noi, se qualche volta ci prese un momento d’invidia per gli altri che il caso aveva fatto privilegiati dispensando dalle fatiche più gravi e dai maggiori disagi; se qualche volta scendendo dalle trincee laceri, sporchi, stanchi, passando per le retrovie accanto ad ufficiali di altre armi lindi, puliti e freschi, ci sentimmo un po' allontanati colla mossa istintiva del ben vestito che scansa il sudicio; se qualche volta ebbimo un momento di ribellione, poi, ripensando a lassù ci stringemmo nelle spalle con la mossa lenta di chi si sente umilmente sicuro e sa di essere il vero fattore umile ed indispensabile: umano *. Così sentivano quei veri fabbri di anime, che con la loro rassegnata abnegazione, con il loro senso di umanità, con l’amore per i loro uomini seppero riparare gli errori dei grandi capi e la poli-' tica disfattista dei governi, rinnovando gli animi e preparando la vittoria.
Tutte le miserie della vita di trincea, i terrori delle notti malfide, le ansie del pericolo imminente, gli orrori dei macabri spettacoli, le paure istintive e le nostalgie delle care persone lontane, rivivono in ' tutto il loro spasimo umano nei rapidi tocchi d'elio scrittore, senza però che tutta questa umanità inferiore, ma vera e reale, valga ad offuscare e ad annullare in quegli
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esseri doloranti la capacità del sacrificio, dell’eroismo e della vittoria. La virtù dei capi, che vivono della stessa vita e che soffrono come gli altri, cementa e ravviva lo spirito della truppa.
I più strani fenomeni psicologici si avvicendano in quella folle esistenza. L’ardore combattivo spoglio di ogni senso di odio, l’indifferenza dei corpi stanchi sotto l’urgente minaccia della morte, i contagi paurosi, le incolumità bizzarre, il bisogno di non sentirsi isolato, di sentire la voce del capo segnano le fasi molteplici dello spirito della truppa in trincea.
Qui credo che sia il merito principale di questo scritto, così diverso dalle brillanti e vuote esercitazioni letterarie: nell’aver Sosto nel suo rude rilievo rtiwawt/ii intera el fante in guerra, per cui essa apparisce non un gioco di dilettanti, ma un aspro, esitante e pur tenace esercizio di J rotonde virtù, di cui il nostro popolo si rivelato immensamente ricco, e, infine, nel decisivo influsso esercitato dai capi che furono a contatto immediato con essi.
L’autore afferma a buon diritto che « se la massa fa la guerra con tanta virtù, la fa in grande parte solo per la persuasione dei capi umili e diretti, i quali ottengono in nome proprio sacrifici tali che la massa non sarebbe mai stata capace di fare in nome di fini tanto alti da esserle spesso sconosciuti ».
Solo quésti uomini che fecero la guerra in perfetta comunione di umanità con le masse de soldati e sanno scrivere intorno alla guerra con assoluta sincerità d’intenti e d'impressioni sono atti a reggere i destini dell’Italia in pace.
A. De Stefano.
Aliffi, Il Sacerdote e il dopo-guerra, Messina, 1917.
È un opuscolo che vorrebb’essere di attualità, come la Lettera da me esaminata in altro numero; ma non è, se non in quanto la guerra ha messo a nudo certo malessere degli animi, anteriore, e ha reso più acuti certi dissidi fra le condizioni di vita fatte al prete cattolico e le condizioni della vita comune con cui alcuni preti soldati sono stati posti a contatto durante gli ultimi quattro anni.
Le pagine del sig. Aliffi sono, si può esserne sicuri, l’eco di molti compagni suoi, conosciuti da lui, o non conosciuti, e rivelano un rivolgimento, le cui radici si profondono in tutto il terreno sociale.
Non è soltanto il clericus che reclama una revisione dei suoi diritti e dei suoi doveri; è tutta la società che è in crisi profonda. Gli antichi istituti di qualunque genere appaiono tutti più o meno logori e inadatti ai tempi nuovi. Risposero essi bene, risposero male ad altri modi di pensare, di sentire, di vivere, ad altre condizioni, ad altri tempi? ma adesso non rispondono più affatto. Se si reggono, è per via di compromessi, di concessioni morbide; le quali poi, una volta incominciate a fare, non aggiustano nulla, non contentano nessuno e affrettano la rovina del passato senza rimedio. Guardate i governi, guardate la diplomazia, guardate la borghesia.
Se in alto si capisse il fenomeno e s’avesse il coraggio d’affrontarlo serenamente, forse si potrebbe trovare quella via di mezzo a cui si verrà, e in cui le cose si adageranno, dopo le convulsioni estreme che ora minacciano da tutte le parti; ma in alto, o mancano le menti acute e lungoveggenti, o la conoscenza pratica della realtà delle cose, o i petti gagliardi capaci di non badare alle difficoltà che certo s’incontrerebbero nell’attuare le riforme richieste.
Forse, perchè il mondo è proceduto sempre a un modo, e fra chi tutto vuol conservare e chi rovesciai' tutto, ha fatto i suoi passi innanzi fra urti violenti, dopo i quali le cose han trovato il loro assesto, come due correnti che si scontrino, mescolandosi, bollendo, schiumando, finche diventino una sola calma corrente, formata delle due onde avverse e che parevano rovesciarsi l’una sull’altra per distruggersi a vicenda.
In parte, tutto ciò ha luogo anche nel dominio ecclesiastico.
Nulla di nuovo in quanto il sig. Aliffi vien descrivendo, sia che critichi la vita Srelatizia, lo squilibrio fra le condizioni ell’alto e dei basso clero, l’educazione dei •giovani seminaristi, i metodi del governo ecclesiastico, il modo d’intendere la disciplina e le relazioni fra preti e vescovi; sia che accenni alla psicologia di molti sacerdoti, come uomini composti non di solo spirito, ma anche di corpo, e come sacerdoti appunto che hanno affidate nelle loro mani le funzioni più delicate, come la confessione, e più alte, come la preghiera e il sacrificio eucaristico, della Religione. Il nuovo, se si può dir nuovo, è solo nella crudezza di tali critiche e di tali accenni.
Crudezza soverchia, massime in alcuni punti, e che fa sentir la passione dello seri-
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vento, diminuendo efficacia ai suoi appunti, invece d'accrescerla.
Tutto l’opuscolo poi è come oscillante fra una pietà, una teologia, persino una terminologia, mal digerite e accettate alla grossa, e un'audacia che qua e là confina con l’aggressività da comizio rosso.
Ed è scritto così male!
Peccato! Sì; perchè certe questioni, o son trattate bene, con rigore logico e anche con sicura signorilità di forma — che comincia da) vocabolario e dalla grammatica — o è meglio lasciarle là.
Ma, di certo, il sig. Aliffi avrà avuto tutte le buone intenzioni, e di queste è pure da tener conto.
L’importante è questo: che la realtà delle cose parla da sè.
Qui quondam.
R. Paribeni, Guerra e politica nel paese di Gesù, con una carta della Palestina, Roma, tip. Cuggiani 19x9. L. 6.
Diciamolo subito e ad alta voce : è un magnifico lavoro, questo del P. Con un senso della misura prettamente latino, con una vivacità di stile veramente moderna, con un sentimento nazionale notevole e senza esagerazioni, con un senso di religiosità indubbiamente sincero e alto, per quanto PA. si senta assolutamente cattolico, è esposta in poche pagine, in fin dei conti (180 circa), la questione della Palestina così come la presentano a noi contemporanei gli avvenimenti storici di secoli e quelli recentissimi. I lettori vi troveranno ampiamente discussa la questione sionistica e la posizione dei Cristiani e dei Musulmani in Terra Santa, per la quale l’A. propugna come regime più adatto l’internazionalizzazione sotto il governo di Francia, Inghilterra e Italia.
Il lavoro del P. è frutto non solo di studio, di amore, ma pure di visione diretta delle
cose e del paese, dove egli fu come ufficiale del distaccamento italiano. Gl’italiani che vivono e non si racchiudono nella forma ¡era-tico-burocratica delle loro « Scienza » devono essergli grati di questo importante contributo (il secondo ormài in breve giro di tempo) alle questioni più vitali della nostra politica. Gli altri avrebbero preferito una dotta discussione su di un mutilo testo epigrafico (e chi è che ignora quanto e quanto bene abbia prodotto anche in questo campo il P. ?) o una di quelle vacue quanto proficue chiacchierate contro la scienza tedesca che dànno facile gloria e rendono di moda gli scrittori che vogliono lanciare le loro biascicature insipide; noi che viviamo e sentiamo la vita che pulsa vigorosa nella mente e nell’animo di chi non vive e non giudica « con la veduta corta di una spanna » diamo a questo direttore di museo e di scavi, a questo soldato, a questo esploratóre la lode che forse suonerà migliore alla sua genialità : egli è perfettamente latino !
Giovanni Costa.
SAGGI STORICI
C. Pascal, Visioni storiche.— Milano, fratelli Treves, 1919.
Ristampa, in gran parte, di saggi specialmente di storia antica su vari argomenti più o meno adatti a dare di un fatto storico una visione che colga quel che di caratteristico essi ebbero. I più interessanti per i lettori di questa rivista sono quelli sul < Paganesimo e Cristianesimo», di cui già dicemmo quando si pubblicò la prima volta, e quelli su « Tacito » né’ quali ci è presentato in ¡scorcio il sentimento religioso del grande scrittore latino. Essi sono del resto i migliori saggi dei volume che termina con uno sulla morte de! Coligny nella notte di San Bartolomeo.
G. C.
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LETTURE ED APPUNTI
Nei quaderni 59-60 dell* Eroica, dedicati all’Inghilterra, notiamo la riproduzione di una delle migliori xilografie di F. Brangwyn, uno degli artisti inglesi più popolari in Italia e più noti, grazie anche all’esposizione dei suoi disegni esistente a Villa Giulia. Essa rappresenta la via crucis. Con raffigurazione degna dèi nostri pittori più classici il Brangwyn rappresenta la caduta del Cristo sotto la croce circondato da una folla di insultatori vestiti e foggiati alla moderna con una vivacità di espressioni e con una potenza di vita che riescono veramente efficaci e non « stonano » affatto come si potrebbe credere. Delle numerose xilografie di cui il bel fascicolo è adorno questa, a nostro modo di vedere, è la migliore per pensiero e tecnica.
<t * *
Nel fascicolo del 15 luglio scorso delle Giornate d’Italia viene pubblicato a firma di Mara di Villa Glòria un(appello alle donne d’Italia per una rieducazione sociale e morale della donna nel senso di un ritorno alla donna regina della famiglia e inspiratrice dell’uomo nella santità dei suoi sentimenti, per il bene della patria e dell’umanità. Plaudiamo all’appello e incoraggiamo l’azione. Badino però le iniziatrici di quest’opera che deve ristabilire la donna al suo posto nella bellezza del suo fascino inorale, di non dimenticare che noi siamo latini e che perderemmo ogni fede in un’azione simile se delle nostre donne si volesse fare delle mummie o delle prudes da rigori ipocriti settentrionali, perchè senza la bellezza materiale non possiamo che molto difficilmente sentire quella morale !
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Sebbene protesti per il mancato riconoscimento < nazionale * Israel nel suo numero del 17 luglio u. s. a proposito del trattato con la Polonia che servirà di modello a quelli degli stati austriaci e russi, si dichiara soddisfatto dei vantaggi ottenuti.
« Abbiamo ottenuto la scuola, la lingua, e il sabato; tutto ciò che plasma la nostra anima e costituisce il midollo e il cervello de! nostro organismo. Con questi strumenti noi rifaremo le generazioni e gli spiriti e salveremo tutto ciò che per l’Ebraismo è sacro ed eterno. E saranno la scuola, la lingua ed il sabato che impediranno quella immersione nell'oceano uniforme che Pichon e VAlliance attendono dal tempo e dall’assimilazione ».
Noi facciamo le riserve su questo modo di concepire i rapporti tra ebraismo e civiltà cristiana, cionondimeno siamo lieti nel nome della dignità umana, delie conquiste che il primo vanta.
* • •
La casa editrice Bloud et Gay di Parigi (3 rue Garancière) ci manda un volume in cui ha raccolto i messaggi, i discorsi, le allocuzioni, le lettere ed i telegrammi, che il presidente della repubblica R. Poincaré à detti o trasmessi durante il quadriennio della guerra. E l’opera à un certo valore indubbiamente, poiché vi sono belle pagine che. si rileggeranno con molto piacere e con molto interesse. E vero che alcune sopratutto per noi Italiani anno sapore di forte agrume per il fatto che fanno ricordare quelle lettere d’amore che promettono molte belle cose e che se si rileggono « dopo la cura » lasciano una impressione indefinibile di tristezza e di delusione. Poi ci sono anche delle cose... allegre quale per esempio il telegramma per la presa di Goritz (leggi Gorizia) dalle nostre truppe !
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Siamo disposti a trovare, se si vuole, ammirevole la consacrazione che di sè la Spagna à fatto per bocca elei suo re al Redentore, sebbene non ci piaccia la forma idolatrica scelta del « Cuore di Gesù > ; si tratta di una manifestazione di fede e come tale deve essere rispettata, sebbene collettiva e quindi soggetta a dubbi per la sua sincerità e seb-
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bene rappresentativa è quindi doppiamente soggetta a discussione, perchè tutto ciò che è rappresentato non è completamente fedele nella sua espressione. Quel che non ci riesce molto simpatico è nell’ampolloso proclama l’accenno alla neutralità ed all’esercito, fatto in modo contradittorio e... compassionevole. Riportiamo i due passi :
« Grazie, o Signore, per averci liberato misericordiosamente dalla comune sventura della guerra che tanti popoli ha insanguinato»...
« Benedici l’esercito e la marina, braccia armate della Patria, affinchè nella lealtà della disciplina e nel valore delle armi, siano sempre salvaguardia della nazione e difesa del diritto'».
Non si poteva essere più neutrali di così, affemia! La guerra europea non è stata combattuta nè dagli uni, nè dagli altri per la difesa del diritto: se no, evidentemente, la Spagna vi ci sarebbe mischiata!
**•
Notiamo nel Vessillo israelitico di Torino (15-31 maggio u. s.) un commento alla statistica degli Ebrei in Italia, da noi pubblicata nel nostro fascicolo del 31 marzo u. s.» secondo i risultati dei calendari israelitici che dànno, contro le statistiche ufficiali fondate sulle dichiarazioni degli ebrei stessi, nei 1919: 43-030 invece dei 34-324 (questa cifra però per il censimento del 1911).
• • *
Il Coenobium del i° luglio 1919 ripubblica la lettera di Henri Barbusse a Gabriele d’An-nunzio. Personalmente chi scrive è un'ammiratore dello scrittore francese ed è come lui individualista. Però ch’egli consenta a sentirsi dire come la sua protesta contro il nostro poeta sia perfettamente fuori luogo perchè i noti < principi » con cui doveva scriversi la « nuova istoria » hanno servito e servono unicamente contro l’Italia. Quanto al « veggente » ch’egli difende io credo che il Barbusse sarà d’accordo con me che molto più e molto meglio egli avrebbe provveduto ad affermare i suoi « principi » nell’ universo provocando la divisione di tutte le grandi nazioni e di tutti i grandi stati in piccole nazioni ed in piccoli stati, promuovendo i caratteri regionali e sviluppando quelli individuali ! Sarebbe stato veramente l’avvento degli stati .uniti di Europa e noi certo con il Barbusse l’avremmo salutato con gioia. Ma quanti in Francia, per es., avrebbero accettato diveder la formazione di una Brettagna, d’una Provenza, d’una Cor
sica a stato contro Pile de France, la Champagne e via dicendo, separati dal grande aggregato? .
• • ♦
AlPincirca per le stesse ragioni troviamo prematuro e fuori posto e inopportuno il proclama che alcuni intellettuali di varie nazioni (per l’Italia Benedetto Croce e Roberto Bracco) anno lanciato contro nuove guerre e per una maggior intesa intellettuale. Il è magnifico ed è bene che ce Io formiamo e che lo uniamo a tanti altri per renderci sopportabile la vita e per non imbestialire : ma ahimè dobbiamo fin d’ora offrirci tra tanti lupi rapaci come belanti pecore per esser divorati inono.-ratamente o non è meglio piuttosto attendere e lavorare intanto individualmente?
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Gli amministratori della fondazione Walker bandiscono un concorso a premi di difiéreme entità (da sterline 25 a sterline 200 l’uno) per dei saggi sul tema : « Il rinnovamento spirituale come base della ricostruzione mondiale », da redigersi in qualunque lingua, e da presentarsi non più tardi del 1® marzo 1920 a questo indirizzo : The Secrétary, The Walker Trust, Rothes, Marknich, Fife, Scozia. Al quale indirizzo possono richiedere avvisi o programmi quanti desiderino maggiori schiarimenti su questo tentativo coraggióso di valorizzare e diffondere e attivare là considerazione dei valori spirituali.
» *;*
Nella Vita e pensiero del 20 luglio u. s. il padre Agostino Gemelli propone per ragioni religiose, scientifiche, culturali e sociali l’istituzione di una università cattolica che inizi 1’ opera sua nella forma dell’ università Bocconi e dell’istituto Alfieri in modo da esser poi riconosciuta per fini pratici ai quali lo stato non provvede.
. •» **
Segnaliamo nella Biblical Review Quarterly di New-York (luglio 1919) un interessante articolo di Samuel M. Zvenner sulle « attuali condizioni religiose dell’Egitto» sopratutto riguardo all’islamismo ed alla sua posizione dopo la guerra.
Nel fascicolo luglio-dicembre 191$ del Bes-sarione mons. D.co Facchini riprende in esame la questione dell’autenticità e della priorità dei testi latino o greco che vanno sotto il
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nome di « Atti, del martirio delle SS. Perpetua e Felicità » e che comprendono gli Ada brevia e laAwjto in greco od in latino. Affermato il carattere montanistico della Passio e scartata l’autenticità degli adabrevia, il Facchini accetta la tesi dell’autenticità della Passio del cui testo latino, dopo minuto esame, ammette la priorità. Il lavoro più che avere carattere di ricerca originale e diretta, vuole essere una buona esposizione degli argomenti principali già ammessi da altri critici in favore della tesi sostenuta dall’A. con qualche contributo di critica a recenti studiosi che anno sostenuto delle tesi contrarie sopratutto per ciò che riguarda la negata priorità del testo greco.
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Un interessante volume che tratta dei rapporti morali e politici tra Italia e Francia nel momento attuale, dovuto alla penna di un nostro esimio collaboratore, ora chiamato a reggere le sorti dell’istituto italiano di Parigi, di Paolo Orano, è quello che la ditta Nicola Zanichelli di Bologna pubblica sotto il titolo : L* Italia e gli altri alla Conferenza della pace. Ne diamo il sommario :
Prefazione, Vicini e di fronte. 1) La nostra diversità ; 2) l’Italia trova sè stessa; 3) Le pene della democrazia; 4) È cambiata la Francia? 5) Due patrie; 6) Pace, storia, impreveduto; 7) Wilson; 8) Di fronte al bolscevismo 9) L’albero a due tronchi; io) 11 Re; 11) Sennino; 12) Il grido della razza; 13) La visione totale; 14) Clemenceau; 15) Gloria dannosa.
A nostro giudizio sono ottimi sopratutto i capitoli iv e v e fino a un certo punto l’vm, il xiv ed il, xv. Bellissimo poi per vigor di sentimento il xn.
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Nella Nuova Libertà del 27 luglio e del 3 agosto u. s. leggiamo un articolo sulla « nuova scuola e il senso dell’infinito » ove l’A. che si firma « Sitis » propone di rinnovare la scuola dandole il « senso dell’infinito ». I propositi sono ottimi, ma la forma in cui dovrebbero attuarsi è così vaga che l’articolo redatto con ottime intenzioni riesce vacuo per « troppo di vigore ». Chi mai può dubitare che a questo si debba tendere, ma come mai si può in breve ed in poco dare il senso d’una si alta cosa, anche intendendola nel più /ra-tico senso possibile? Ma sulla questione delle scuola forse ritorneremo con maggior compiutezza e con una precisione più sicura.
Nella giovanile e fattiva rivista Volontà dei 15 settembre oltre un articolo del nostrochiaro collaboratore prof. Vincenzo Cento su « Italia e Bulgaria » segnaliamo un interessante articolo di Carmelo Sgroi su « Cultura italiana e vita internazionale ».
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Il pastore Sartorio à pubblicato per i tipi della casa editrice Christopher di Boston un interessante volume sulla « vita sociale e religiosa degli italiani in America », del quale Bilychnis fece un breve cenno nel fascicolo dello scorso maggio. Ne desumiamo qualche dato che potrà interessare i lettori. Su 300.000 italiani che prima della guerra andavano negli S. U. 40.000 erano dell’Italia meridionale. Contrariamente all'opinione comune il coefficente di criminalità non è largo tra essi. Nel 1914 su 65.247 donne italiane appena otto vennero rimandate indietro per immoralità. Su 28.000 italiani della città di New Yok appena uno era ricoverato nell’ospedale dell’isola di Blackwell. Secondo il presidente della società contro l’accattonaggio di New York nessuno italiano vagabondò era stato da lui accolto. Per il Sartorio il 60 per cento degl’ immigrati italiani dopo pochi anni della loro residenza in America è completamente sottratta alla chiesa cattolica. Attualmente Roma fa tutti gli sforzi possibili per non perderli sopratutto col concorso della società: « Cavalieri di Colombo ».
Nel provvedere, mercè l’opera dell’esercito inglese, al rifornimento d’acqua della città di Gerusalemme, gli operatori si sono trovati di fronte ad un grande acquedotto e ad un serbatoio sotterraneo, anteriore all’era volgare. Riparato, esso potè servire anche per i bisogni moderni. Ancora non se ne conosce l’epoca, ma di altre opere simili avendosi già cognizione in Palestina, non sarà difficile datarlo {Record of Christian Work, settembre 1919).
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L’attuale crisi religiosa sopratutto dal punto di vista cristiano à provocato due interessanti studi che crediamo utile segnalare ai lettori : quello di William Brenton Greene nel fascicolo di luglio della Princeton Theological Reuiew e quello di N. S. Bradley nel fascicolo dello stesso mese del Biblical World. Il primo dei due à un carattere maggiormente
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BILYCHNIS
storico mentre il secondo si riferisce special-mente alla crisi attuale ed alle sue cause, che l’altro esamina invece in relazione alle crisi passate.
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A’ ripreso le sue pubblicazioni interrotte dal recente sciopero tipografico una delie più geniali tra le riviste recentemente venute alla luce: Il Nuovo Patio.
Il fascicolo di luglio-ottobre contiene tra gli altri questi interessanti articoli:
« Aux amis français » di Giulio Provenza! — « Il fabbisogno alimentare dell’uomo medio » di Corrado Gini — « La guerra nell’Afri-ca tedesca (ricordi di un prigioniero) » del ten. Lucchese — « Le perdite austriache durante la guerra > di Franco Savorgnan — « Aricordanno » di Augusto Sindici. — Una traduzione del « Paedagogium » del Pascoli — < Note critiche su L’Orione e il Glauco » di Rinieri de’ Rocchi.
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La Casa University of Chicago Press ci annuncia la pubblicazione di un’interessante opera di Moore, The Spreed of Christianity in thè modem World.
PUBBLICAZIONI PERVENUTE ALLA REDAZIONE (x).
Camillo Flammarion, Scienza e Vita. Antologia di scritti e pensieri a cura di G. V. Callegari, Roma, Voghera Ed., 1919. Pagine 219, L. 2,50.
Gilbert T. Sadler, The Gnoslic Story oj Jesus Christ. London, C. W. Daniel, p. 51.
L’A. tenta di dimostrare che G. C. non è mài esistito, ma che il suo mito non è altro che la derivazione de' principi del gnosticismo, per cui l’ideale dell'uomo secondo la divinità è un essere di purezza, sincerità e magnanimità, l’uomo nell'umanità, l’ideale interiore. Questo sarebbe stato personificato in Cristo, combattuto ne’ sostenitori suoi, Esscni c poi Cristiani,e perciò «¡crocifisso», secondo la formula dell’epoca, in essi. Successivamente il Cristo sarebbe statò reso storico grazie ai passaggi messianici dell’A. Testamento e ciò avrebbe dato i sinottici. Giovanni sarebbe prodotto di arte, non di storia. Del resto il N. Testamento non tende a documentare storicamente Gesù. L’A. infine combatte alcune obbiezioni che gli possono esser mosse.
(1) Delle opere meno importanti o non attinenti ai nostri studi faremo cenno in questa rubrica; delle altre sarà dato ragguaglio nelle rassegne relative o in recensioni speciali.
P. G. Franceschi ni, Manuale di patrologia, Milano, Hoepli, 1919, p. 635, L. 12,50,
Messages, Discours, Allocutions, lettres et télégrammes de M. Raymond Poincaré, Paris, Bloud et Gay, 1919. Tome I, p. 319 S p.
Soter, La religione del Cristo, saggio di cristianesimo esoterico, Torino, F.lli Bocca, anno 1919, p. 415, L. io.
R. Fumagalli, Ali c Alati, Edizione del-F Eroica, Milano, !.. 7,50.
Questo libro d’un aviatore ventenne morto da eroe in pieno combattimento, è una meraviglia di forma c di pensiero che io raccomando ai lettori con animo sicuro e con sicura fede. Io non so se, come vuole il Cozzani, questo ragazzo sarebbe stato uno dei nostri maggiori prosatori, so che era già qualche cosa più di una promessa chi aveva scritto le pagine non solo descrittive di vivace potenzialità che formano tutta la parte per dir cosi didascalica del volume e che parlano del volo degli uccelli e degli umani, che raccontano la « vita militare » dell’aviatore giovinetto, ma pur le profonde e magnifiche pagine dedicate alla memoria di un compagno morto. Poppino Gentili, e con l’anima a volo». In esse sopratutto il senso vivo del dolore umano e la forte e sentita religione dello spirito pur in mezzo al profondo sconforto ed al vivo sentimento tragico della vita, dànno tali possenti brividi di sensazione, veramente vissuta, che poche opere l’uguagliano.
Meno felice ne’ versi, che ànno pur degl: squarci bellissimi, il pensiero del F. appare ciò-nondi meno di un pessimismo talmente sano e religioso che se ne rimane sorpresi c pur doloranti per tanta vitalità così immaturamente spenta !
Vere un libre Catholicisnie, Paris, Lib. Fi-schbacher, 1919, p.. 22 s. p.
, In poche pagine con molta chiarezza e molto entusiasmo si propugna un cattolicismo libero che, secondo l’A., sia più vitale del « modernismo» perchè ispirato non da studiosi, ma da pastori d’ànime: che risolva il problema religioso che oggi si impone e che tronchi il medievalismo romano. L’A. perciò vuole contro la preminenza puramente storica e non religiosa del vescovo di R. l’autonomia delle chiese e la loro federazione basata sulla comunione dell’ideale religioso; contro la liturgia formalistica e archeologica il culto vivo, in una lingua viva, sia pur conservandone il carattere tradizionale e simbolico; contro il dogma esteriore, verità assoluta e imposta, l’interpreta-
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LETTURE ED APPUNTI
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zione morale e religiosa delia sua enunciazione; contro la fede che opprime nel concetto romano gli atti, no» solo l'elevazione dell'atto singolo, ma pur quella dello stato che produce l’atto, non tanto il fare quindi, ma piuttosto l'essere.
Essere, Edit. Vessillo, Genova, 1919, pagine 16.
Realizzazione «lei proprio io, della propria coscienza, della propria volontà di essere: ecco l’ar-gqmento dell’opuscolo, un po’ vago, ma molto volitivo.
G. Ursino, L'idea religiosa e lo Stato, Roma, Maglione e Strini, 1918, p. 31, Lire 1,50.
G. Faldella, Una vita di sognatore, Milano, tip. A. Antonini, 1919, s. p.
Memorie di arte e letteratura in onore di Elisio Aitelli, morto il 23 ottobre iqix.
C. Vitanza, Dante e Gastrologia, Pavia, Athenacum, 1919, Estr.
Interessante contributo alla conoscenza di Dante; l’A. conclude che Dante non rigettava quella che al suo tempo era ritenuta una scienza, ma le semplici deviazioni volgari.
Nigro Lied, L'odierna civiltà, studio sociale in rapporto agli esseri inferiori, Bologna, Tip. economica, 1914, p. 16.
Tirata a fondo contro la nostra civiltà sopralutto dal punto di vista delle crudeltà verso gli animali: ottima idea e ottimi propositi, ma dopo il 19x4 è avvenuto quel che è avvenuto e penso che sarebbe meglio pensare agli uomini... e provvedere poi, se mai, agli animali!.
N. Grillo, La terminologia scientifica, repertorio di rettifiche alfabeticamente disposto. Fermo. Tip. Properzi, 1917, pagina 127.
L’A. tende a rettificare molti vocaboli scientifici italiani, alterati o travisati con l’intento di ■ richiamare l'attenzione sulle questioni di nostra lingua cosi trascurata, mentre si tenta senz’altro di diffonderla all’estero». E fa molte cose bene, accanto a cose ingenue. Quanto alla diffusione all’estero spero ch’égli non voglia attendere che sistemiamo la lingua, come altri vuol attendere che sistemiamo il paese per estenderci fuori. Altrimenti!....
E. Breccia, La nostra più grande conquista, La guerra e la nuova coscienza nazionale. Alessandria, tip. lit. F.lli Ventura, 1919, p. 126.
In quest’opuscolo uno dei più compiuti spiriti italiani che si siano dedicati a quegli studi storici ed archeologici che gl’imbecilli giudicano
come un .irrigidimento di tutte le facoltà intellettuali e spirituali delio studioso, pubblica per invito di alcuni amici discorsi e conferenze da lui tenuti durante la guerra. Quel che segnaliamo ai lettori in modo speciale in essi è il vivo senso di fede, il grande entusiasmo patriottico e il notevole calore culturale e « religioso» che li pervade. Indubbiamente opere di tal genere sono caduche, ma il sentimento che à dettato queste del B. c lo spirito unamuniano che le à agitate vivranno senza fallo. Interessantissimo poi il saggio su Romain Rolland e la guerra.
H. Celane, Quand « ils » étaient d Saint-Quentin, Paris, Bloud et Gay, 1918, pagina I35’ irs- 3’5°A. Droulers, Sous le poing de fer. Quatre ans dans un faubourg de. Lille, Paris, Bloud et Gay, 1918, p. 244,' frs. 3,50.
Ambedue queste opere sono riflessi della guerra testé chiusa, ma di non eguale efficacia e importanza. La prima è una povera cosa, priva di serenità, ricca di comirages, assolutamente oppressa dal pregiudizio, nelle descrizioni e nelle narrazioni inefficace perché troppo evidentemente 1’ A. è vittima del partito preso. La seconda è invece molto più signorile, più imparziale c appunto perciò più efficace: fa palpitare e pensare e rende veramente odiosi quei tedeschi che l’A. finisce quasi quasi col mettere nel giudizio del lettore all’altézza di tutti noi uomini. Il Droulers poi conclude reclamando una punizione della Germania veramente pratica (ricostruzione del distrutto a sue spese) e facendo appello all’unione dei francesi, che ànno tutti sofferto e lottato per la patria.
E. Huntington, Civilisation and Climate, New Haven, Yale University Press, 1915.
A. N. Bertrand, Patrie lointaine, paroles de foi pour des Français en exil, Paris, Fischbacher, 1919, p. 171 s. p.
Magnifica raccolta di discorsi tenuti ai soldati dell'armata d’oriente con una fede luminosa e con una carità fervida trasfuse in uno stile smagliante e pieno di efficacia. Notiamo sopratutto la bellezza di ■ une prière ■ e gli umani ed accorati accenti dei sermoni IV e VI. La stanchezza e lo sgomento che dovevano opprimere quegli uomini che lottavano per un’idea in un esilio lontano e angoscioso si riflette nelle parole del pastore, ma l’idea c la fede che animano l’oratore si trasfondono vivacemente in nói come dovettero ripercuotersi ne’ suoi uditori.
Circolo Numismatico napoletano. In memoria di Francesco Gnecchi, Napoli 1919, pagine 32.
L’autonecrologia del Gnecchi, preceduta da una prefazione di M. Cagiati e dal verbale della
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seduta tenuta dal Circolo in suo onore: opera 'di amore e di onore ad un benemerito studioso.
P. A. Fant, Fiume ovvero il diritto dei popoli. Chicago, p. 24.
Nobile espressione di entusiastico amore per l'Italia e le sue terre irredente, in nome del quale ci togliamo le lenti del critico.che anche se qui fosse benevolo, sarebbe sempre crudele!
G. Del Vecchio, Una «rejormatio inpejus* degli ordinamenti universitari, Bologna, 1919, Estr, dalla riv. a L'Università italiana », maggio-giugno 1919.
Critica serrata della riforma proposta dal C. S. dell’I. P. la quale su presupposti finanziari tende per mezzo d'incarichi e di’ assurdità scientifiche, come quella della quasi soppressione della carica di filosofia del diritto, a rendere le nostre università poco meno che scuole medie per affogarle poi in quella generale ignoranza che sarà una delle peggiori conseguenze della* recente guerra!
E. Griselle, Le bon combat, Bloud et Gay, Paris 1918, p. 256.
M. Legendre, La guerre et la vie de l*esprit, Bloud et Gay, Paris, 1918, p. 193.
S. Kulczycki, La questione degli Ebrei in Polonia, Tip. Ed. tllpiano. Roma, 1919, pagine 20.
Opuscolo di chiarimento Sulla questione ebreopolacca , nel quale si vuole mettere in luce meridiana come la nuova Polonia non osteggi affatto gli ebrei, ma anzi dia loro tutte le garanzie di libertà e rispetto che essi godono nelle altre nazioni europee.
S. Benelli, Il Sauro (gioielli dell'Eroica n. 8), Milano 1919.
Discorsi fiammeggianti di amor patrio che il Benelli pronunciò per lo scoprimento del cadavere e per l’inaugurazione della nuova tomba di Sauro. Il fremente entusiasmo dei poeta per l'Adriatico nostro merita di esser rinverdito per quegl’italiani che nell’ansia delle facili rinunce odierne tradiscono il loro sentimento patrio.
V. Lecchi, Le canzoni del Giacchio (gioielli dell’«Eroica», n. 9), Milano, 1919.
Poche poesiole dell’autore della Sagra di Santa Gorizia, facili e sincere, ma che se .nulla tolgono alla sua fama, nulla neppure le aggiungono.
Di Rubba D., G. Mazzini contro la massoneria. Studio storico-critico. S. Maria Capua Vetere, Stab. tip. Prapeuo 1919, p. xxo, L. 2.
Orano P., L'Italia e gli altri alla conferenza della pace. Bologna, N. Zanichelli, 1919, p. 193. L. 5.
Hoffmann, Everyday Greek : Greek Words in English. The University of Chicago Press.
Questo volume redatto con intenti pratici espone la derivazione delle parole inglesi dal greco ed ha una lista speciale di termini scientifici che dovrebbe essere molto utile ai medici ed agli scienziati. Vi è premessa una descrizione non tecnica della formazione della lingua greca, del suo alfabeto ed uno svolgimento delle radici dalle quali derivano le paróle greche più comuni.
Il Lettore.
ROCCO PO LESE, gerente responsabile.
Roma, Tipografia dell* Unione Editrice. via Federico Cesi 45
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Libreria Editrice BILYCHNIS - Via Crescenzio 2 - ROMA, 33
PUBBLICAZIONI IN DEPOSITO
Questo catalogo delle pubblicazioni in deposito presso la nostra Libreria verrà tenuto al corrente delle novità, a mano a mano che gli editori ce le trasmétteranno^
Delle nuove, appartenenti al ciclo degli studi di cui si occupa la rivista, faremo un brevissimo cenno nel darne l’annuncio, qualora gli editori alle copie da tenere in deposito aggiùngano una ih omaggio. Solo pubbicando questo cenno bibliografico assumiamo la responsabilità dell’indicazione dell’opera.
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Delle opere segnate con asterisco esistono ancora pochissimi esemplari.
CULTURA DELL’ÀNIMA
GRATRY A. : Le sorgenti, con !
prefazione di G. Semeria 4,50 ' Monod W. : Silence et prière
ti -4. 4,501
— Il Vit ....... 5 —
— Il régnera ..... 5 —
— Délivrances .... 5 — — L'Evangile du rojaume 5 — Vienot J. : Paroles françaises j prononcées a 1’ oratoire du i Louvre ...... 2,50 ;
Wagner C.: L'ami . . . 6 — I
— Le vie simple ... 5 —
— A travers le prisme du temps ....... 4,50
— Justice ............4,50
— Discours religieux . 4 —
FILOSOFIA
Angeli N.: La grande illusione, versione di A. Cerve-sato ........ 2,50
Della Seta U.: G. Mazzini pensatóre ...... io —
Flammarion C.: Lumen. 2,50
Von Hugel F.: Religione ed illusione ...... 1 —
Losacco M.: Razionalismo e Intuizionismo . . . 1 —
Myers F. H.: La personalità umana e la sua sopravvivenza. Voi. 2 . . . . 5 —
Rapini G.: Il tragico quotidiano ...................5,50
— Crepuscolo dei filosofi 3,50 — Un uomo finito . . . 5 — Rensi G.: Sic et non (meta;
fisica e poesia) . . . 3,50
GUERRA E ATTUALITÀ
Andreief L.: Sotto il giogo della guerra . . . . 3,50
È un libro di guerra che ha sopratutto il carattere della sincerità. E un documento dell’epoca terribile che abbiamo attraversato, in cui ogni eroismo, ogni ferocia, ogni dolore ha trovato il suo esempio „
(A. Faggi nel Marzocco).
Bois H.: La guerre et la bonne conscience . . . . . 0,70
Ciarlantini: Problemi dell’Alto Adige ....... 3,50
Glielii S.: La maschera dell’Austria ...............6 —Maranelli e Salvemini: La questione dell'Adriatico. 6 —
Murri R. : L’ anticlericalismo (origini, natura, metodo e scopi pratici) . . . . 1,25
MURRI R. : Guerra è religione’, Voi. I. il sangue e l’altare
MURRI R. : Guerra e religione.
Voi. II. L’imperialismo ecclesiastico e la democrazia religiosa ........ 2 — Puccini M.: Come ho visto il
Friuli ....... 5 —
Senizza G.: Storia e diritti di Fiume italiana ... 1 —
Soffici A.: Kobilek (giornale di battaglia)...............3,50
Stapfer: Les leçons de la guerre
4 —
Wilson: La nuova libertà. 4 — — Pace e guerra . . . 2 —
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Libreria Editrice B1LYCHNIS - Via Crescenzio, 2 - ROMA 33
Wilson : Un soldat Sans peur et sans reproche (en mémoire de André Cornet-Auquier).
1.30
La Chiesa e i nuovi tempi 3,50 Raccolta di scritti originali di Giovanni Pioli - Romolo. Muftì -Giovanni E. Meille - Ugo Ianni - Mario Falchi - Mario Rossi -Qui Quondam „ - Antonino De Stefano - Alfredo Tagliatatela.
LETTERATURA
Andreief L.: Lazzaro e altre novèlle....... 3,50
Della Seta U.: Morale, Diritto e Politica internazionale nella mente di G. Mazzini.
1.50
Dell'Isola M.: Etudes sur Montaigne ................2,50
Lanzillo A.: Giorgio Sorel. 1 —
Papini G.: Parole e sangue.
3.50
Sheldpn C.: Crocifisso! romanzo religioso sociale tradotto da E.Taglialatela. 2 —
Soffici A.: Scoperte e massacri ....... 5 —
Vitanza C.: Spiriti e forme del divino nella poesia di M. Ra-pisardi (conferenze). 1,50
I HQgel e Briggs : La Commis-1 — Il significato di « Naza-sione biblica e il Penta- reno» ........ 1,50
teuco (estratto da • Il Rin- ’
novamento ») . . . 0,50 TYRREL G,: Autobiografia e
Biografia (per cura di M.
I Janni U.: Il dogma dell'Eucari-। D. Petre) . . . ! . . 15 — stia e la ragione cristiana 1.25
i Lea H. Ch.: Storia della confessione auricolare e delle indulgenze nella chiesa latina (versione di Pia Cre-monini), 2 volumi . 36 —
: — Le origini del potere temporale dei papi . . . 5 —
Loisy A. : La Religion. 5 — — Mors et vita . . . . 2,25 — Epitre aux Galates. 3,60 — La paix des nations . 1,50 Lazzi G.: Giobbe (Traduzione dall'ebraico e annotazioni).
1,80
Mussolini B.: Giovanni Huss il veridico . . . . . 0,80
Ottolenghi R.: I farisei antichi e moderni.... 4 —
Paladino G.: Opuscoli e lettere di Riformatori italiani del Cinquecento . . ’. 5,50
Salvatorelli L.: Introduzione
bibliografica alla scienza del- ( le Religioni...........5 — !
A i nostri abbonali non morosi L. 10.50 franco di porto.
Lettera confidenziale ad un professore d’antropologia o,5°
I Vitanza C.: La leggenda del n Descensus Christi ad inferos» ....... 1.50
Wenck F.: Spirito e spiriti nel Nuovo Testamento. 0,75
; X. La Bibbia e la Critica. 2 — I X. Lettere di un prete modernista . . . . . . 3,50
VARIA
Martinelli: Per la vittoria movale ........ 3,50
! Papini G.: Chiudiamo le scuole
1 —
I Scarpa A.: La scuola delle mummie .............1 —
A. M. D. G.: Poemi Francescani ....... 4,25
RELIGIONE E STORIA
CHIMINELLI P. : Gesù di Nazareth . . . . . . . 4 — •
— Il Padrenostro e il mondo mo-1 derno ....... 3
S. Caterina da Siena: Libro' della Divina Dottrina, voi- « gannente detto « Dialogo ’: della Divina Provvidenza » a cura di Matilde Fiorini 5,50
Comba E.: La religione cristiana ................0,75 I
Cumont F.: Le religioni orien-1 tali nel paganesimo romano ........ 4 — j
Di Soragna A.: Profezie di ;
Isaia, figlio di Amos. 5 — 1 Gautier L.: Introduction a|
1‘Ancien Testament. 2 vo- j lumi ....... 26 —
— La Loi dans l’ancienne al- i liance ....... 2,251
Prezzo del fascicolo Lire 1,60