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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno III :: Fasc. IX.
SETTEMBRE 1914
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 15 SETTEMBRE - 1914
DAL SOMMARIO : Romolo MuRRI : Un programma di pontificato (Pio X). — GIOVANNI E. MeiLLE: Giovanni Jaurès. — EDMONDO GoUNELLE: La figura morale e spirituale di G. Jaurès Paolo PASCHETTO: II, seminatore (Disegno). — ANTONINO De STEFANO: Saggio sull’eresia medioevale nei secoli XII e XIII -ERNESTO RUTILI: La soppressione dei gesuiti nel 1773 nei versi inediti d’uno di essi. — J. E. ROBERTY : La porta aperta davanti ai Cristiani d’oggi. — GASTONE FROMMEL: La preghiera. — P. GHIGNONI: A proposito di Unione delle Chiese Cristiane. — SILVIO PONS: La nuova crociata dei bambini. — ANTONIO GALLOPPI: Storia del dogma.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi
-------; Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l’Estero
----- Via del Babuino, 107 - ROMA --AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per ¡’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
fi Si pubblica il 15 di ogni mese
in fascicoli di almeno 64 pagine, fi
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Illustrazioni del presente fascicolo.
Ritratto di Giovanni Jaurès (Tavola tra le pagine 152 e 153). Il Seminatore. Disegno di Paolo A. Paschetto (Tavola tra le pagine 162 e 163).
Copertina, disegni e fregi di Paolo A. Paschetto.
Tutti coloro che ci chiesero d’essere iscritti fra gli abbonati per l’anno in corso e che non hanno ancora versato l’importo dell’abbonamento, troveranno sottolineato in rosso il loro numero d’ordine sulla striscetta verde dell’ indirizzo. A Loro rivolgiamo calda preghiera perchè vogliano sollecitamente mettersi in règola con la nostra Amministrazione.
Quelli tra i nostri lettori che hanno trovato scritto accanto al loro indirizzo sulla busta, l’indicazione: “1914» sono vivamente pregati di mandarci l’importo dell’abbonamento alméno pel 1° semestre di quest’anno (L. 3.50 per l’Italia e L. 4 per l’Estero) e di dirci se intendano rimanere abbonati pel 2° semestre.
L’abbonamento per tutto l’anno è di L. 5 per l’Italia e L. 8 per l’Estero.
L’Amministrazione.
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SOMMARIO:
ROMOLO Murri: Un programma di Pontificato (Pio X) . . . . . pag. 141
Giovanni E. Meille: Giovanni Jaurès........... »151
Edmondo GOUNELLE: La figura morale e spirituale di G. Jaurès . » 155
INTERMEZZO^
Paolo A. Paschetto : Il Seminatore - Parabola di Gesù - (Disegno).
Tra le ....... . . . . . . . . . pag. 162 e 163
Antonino De Stefano: Saggio sull’eresia medievale nei secoli xn e xm pag. 163
Ernesto Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di essi ............. > 176
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
J. E. Roberty: La porta aperta davanti ai cristiani d'oggi . . . >180
Gastone Frommel: La preghiera ............ >185
NOTE E COMMENTI :
P. Ghignoni: A proposito di Unione delle Chiese Cristiane . . . > 190
TRA LIBRI E RIVISTE:
Silvio P. Pons: La nuova crociata dei bambini .......... » 195
Antonio Galloppi: Storia del dogma............... » 198
Libreria Editrice Bilychnis ................... » 200
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PROSSIMAMENTE:
Roland D. Sawyer: — Gesù e la filosofia socialista della vita.
GIOVANNI Luzzi: Il modernismo nella Chiesa cristiana del primo secolo.
AGGELI) Crespi: L'evoluzione della religiosità nell' Individuo e nella Società.
M. Velato: L'altare al Dio sconosciuto.
G. E. MEILLE: Intorno all immortalità dell anima.
MARIO Rossi : Un'interpretazione religiosa di una leggenda della Grande Sirte in Sallustio: i fratelli Fileni.
GIOVANNI Costa: L'Impero romano e il Cristianesimo.
Mario ROSSI: Il « Tu es Petrus » e la storia delle religioni - Saggio di una nuova interpretazione.
F. Momigliano: Gioberti e i Gesuiti.
GlOSUE Salatiello: L'Umanesimo di Caterina'da Siena.
Giovanni Costa: Mitra e Diocleziano.
Silvio PONS: Tre fedi (Montaigne, Pascal e Alfred de Vigny).
T. NEAL: Maine de Biran;
P. GHIGNONi: eresio e i Crestiani.
L. Ragaz: Cristianesimo e patria.
UGO Janni : Le varie dottrine circa l'essenza della religiosità.
A. Pascal: Antonio Caracciolo, Vescovo di Troyes.
Giovanni Pioli: Come il Cristianesimo inglese si va preparando alla pace, allo scoppiare della guerra.
G. Adami : Preghiere democratiche.
G. E. MEILLE : Come si diventa Cristiani sociali o magari anche Socialisti cristiani.
L. Ragaz: Non la pace, ma la spada.
S. BRIDGET: Per la storia di un terribile dogma.
NB. — Degli articoli firmati sono responsabili i singoli Autori.
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UN PROGRAMMA DI PONTIFICATO (PIO X)
giudicare undici ai:
GNI morte di papa è una tappa nella storia della Chiesa romana. E’ un periodo che finisce, un altro periodo che comincia. In nessun’altra, forse, delle istituzioni che possono essere, anche da lontano, paragonate con essa, tutto il potere è talmente accentrato nelle mani e nell’arbitrio di un solo, tutti i mezzi di azione e di governo gli obbediscono più docilmente.
Quindi parlare di Pio X, oggi che egli non è più, significa ni di governo della Chiesa: e il giudizio è impossibile a chi
non abbia una qualche idea di quello che è oggi l’istituto cattolico, dei presenti rapporti di esso con la cultura e con la coscienza religiosa, delle sue lotte per il dominio dell’anima, della probabilità di successo o di rovina che esso ha.
La stampa quotidiana,, espressione anche questa volta della mancanza di cultura e di interesse per le cose religiose nel popolo italiano, ha esaltato le virtù private dello scomparso, la sua fede robusta, la semplicità di maniere, la giovialità bonaria, la vita integra, la volontà ferma ; ha ripetuto i vecchi luoghi comuni sulla bontà, la dolcezza, la mitezza dell’uomo, sul papa « religioso »; ma non ha parlato, perchè non avrebbe saputo bene che cosa dire, del significato, del valore, dei risultati della sua opera di papa, del bilancio attivo e passivo del cattolicismo al chiudersi improvviso di questi undici anni di pontificato.
In un giudizio, molto oggettivo e sereno, di questo genere, noi vorremmo ora rapidamente provarci.
Il pontificato di Pio X non fu di iniziativa ma di reazione. Alcune sue idee di riforma questi ebbe, ma, come vedremo, formali assai più che sostanziali,
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disciplinari, burocratiche, diremmo ; e per tali loro caratteri esse giovano a caratterizzare lo spirito animatore.
Per intendere Pio X bisogna avvicinarlo ed opporlo a Leone XIII. C’è una tradizione dommatica, disciplinare, politica, stabilita da secoli di storia e resa più tenace dai caratteri assunti, durante essa, dalla mentalità e dalla coscienza cattoliche; la subì Leone XIII come l’ha subita Pio X, e in questo senso l’opera loro è trascesa dalla vita autonoma e quasi automatica dell’istituto. Ma c’è anche un larghissimo campo riservato alla iniziativa ed agli atteggiamenti personali; una concezione del cattolicismo, una visione delle sue necessità, un appello, conseguentemente, alle une o alle altre delle sue attitudini, che caratterizza un pontificato, in quanto il pontificato è l’uomo.
Leone XIII ebbe, quanto era possibile, una concezione dinamica del cattolicismo. Egli accettava di questo, naturalmente, le posizioni dottrinali e culturali, così come la teologia le aveva fissate e dai teologi egli le aveva apprese ; numerosi suoi atti, ad es., le encicliche sul rosario, ce lo mostrano in questo aspetto di devoto e pio pontefice, per il quale la Chiesa era soprattutto la società dei fedeli militanti, sulle orme di Cristo, per la conquista del cielo. Ma, insieme, egli ebbe un altissimo concetto delia posizione e della missione sociale della Chiesa, come istituto di cultura raccolto nelle mani del papa ; e si sforzò in ogni modo, con molteplici iniziative, di coltivare amicizie umane, di dissipar malintesi, di incoraggiare i suoi all’incremento dei mezzi umani di persuasione e di propaganda, di intervenire con una parola sua nelle più ardenti questioni economiche e sociali, di incoraggiare ogni iniziativa che paresse utile a riconquistare influenza alla Chiesa, di richiamare all’unità i dissidenti.
Oltre a ciò, umanista e uomo politico, egli ebbe sempre una grande cura di decoro e di solennità; amava che, anche dove l’intenzione era fiacca e povero il risultato atteso, la sede vaticana fosse ammirata per l’ampiezza e la nobiltà del gesto, per il senso squisito della misura, per la lode procuratasi dai benevoli e dagli imparziali e il rispetto imposto agli avversarii.
Per tutte queste qualità, egli fu un papa della grande tradizione, quasi per duta negli ultimi secoli ; e, se, sotto il suo successore, non parlar di lui e diminuire velatamente l’importanza dell’opera sua od anche metterne in mostra gli insuccessi e i difetti fu norma costantemente seguita di servilità e di adulazione, la memoria di lui guadagnerà col tempo ed a lui, forse, si tornerà ora da molti col pensiero.
Ma conviene poi riconoscere che, sostanzialmente, al programma di Leone XIII mancò il successo; che anzi, stimolando ripetutamente i cattolici ad avanzare nel • campo della Cultura e dell’azione sociale e politica, egli finì con il mettere in mostra il pericolo grande che questo lavoro di « modernizzazione » dell'istituto nascondeva pér molte cose delle quali esso aveva fatto da tempo la sua ragion d’essere e le sue basi. Assai più profonda che egli non vedesse era la distanza che separava la teologia e la vita gerarchica della Chiesa dalla scienza e dalla democrazia del suo secolo; troppo più radicale che egli non volesse avrebbe dovuto esser la riforma.
E già negli ultimi anni del suo pontificato il disagio e il malumore crescevano intorno al papa e indussero questo ad atti che erano una attenuazione di sue precedenti iniziative e invocarono ad alta voce un ripiegamento del pontili-
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cato su se stesso. Un partito di reazione, per quanto è lecito usare questi termini in affari ecclesiastici, si era venuto fortemente costituendo ed era giunto ad avere uno dei suoi più tenaci assertori, il card. Respighi, al governo della Chiesa di Roma.
La democrazia cristiana, che fu, insieme con la critica biblica, l’iniziativa più audace di modernizzazione del cattolicismo e il reagente meravigliosamente attivo per saggiare le forze di resistenza e di adattamento di questo, ebbe negli ultimi anni di Leone XIII le sue prime e gravi difficoltà ; sulle quali non giova tornare ora, ma che era opportuno ricordare perchè non si pensi che il mutamento di politica rivelatosi con Pio X non avesse sintomi antecedenti che lo storico non può trascurare.
Al conclave i due indirizzi si scontrarono; nè fu il veto dell’Austria che decise della vittoria del secondo e condusse al pontificato Pio X.
Questi, giova notarlo, era stato meravigliosamente preparato, dai suoi precedenti, ad operare il ripiegamento dell’istituto ecclesiàstico su se stesso, il ritorno alla tradizione rigida, una revisione severa di tutti i tentativi di modernità, nella dottrina e nell’azione, che si fossero per avventura spinti troppo innanzi, la rinunzia all’iniziativa pericolosa, il rinsaldamento delia disciplina.
Veneto, educato in un piccolo seminario, non uscito mai dalla sua regione, privo di cultura moderna, tutto raccolto nella sua opera pratica pastorale e nel governo del clero, non avendo mai in sua vita pensato alla possibilità di uscire da questa rotta di una attività semplice e raccolta, il cui programma era così spontaneamente tracciato, egli era dinanzi al cattolicismo nell’atteggiamento di una fiducia semplice, di una devozione illimitata, di esecutore fedele e fermo di un programma di governo ecclesiastico che il suo spirito si era trovato semplicemente a ricevere da una esperienza senza prove e senza contrasti.
E il cattolicismo che egli conosceva era quello confidente e bonario, saldamente assiso sulle basi tradizionali, dei suoi contadini e dei suoi paesi veneti; il quieto e ignaro e docile cattolicismo della pianura e della laguna stagnante.
Ignote a lui le ansie, le agitazioni, i contrasti delle città affaticate dalle lotte religiose, delle anime veglianti negli studii per salvare la propria fede scossa dal dubbio, delle masse pervase e corrose dalle suggestioni delle quali sono pieni i grandi centri industriali. Che bisogno c’era di affannarsi tanto? E l’affannarsi non era già un mancar di fede? Il cattolicismo che era bastato per tanti secoli ai fedeli della chiesa romana, quello che bastava a tutte le necessità spirituali dei contadini di Riese e delle popolane di Venezia, doveva bastare ad ogni cattolico ; tornare ad esso, se mai, praticarlo più fedelmente, avere un clero anche più pio e disciplinato e operoso, metter da parte tutte le piccole infedeltà e tutte le tentazioni di influenza mondana e di successo, questo doveva essere il programma, se proprio un programma ci voleva; ed è Vinstaurare omnia in ChristOy il motto ingenuamente lanciato da lui, appena si trovò, con suo grandissimo e sinceramente doloroso stupore, ad annunziare al mondo quello che il papa nuovo avrebbe fatto.
Un rapporto con le idee e con le agitazioni nuove egli lo aveva avuto, patriarca a Venezia; ma fu piuttosto uno scontro che non un contatto, e dovè anche esso influire efficacemente sulla sua azione ventura.
Le sue idee, il suo temperamento lo portavano ad incoraggiare la vecchia
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azione cattolica, così rigidamente ortodossa e pietista, della quale era allora a capo un veneziano, il conte Paganuzzi, e che il suo giornale, la Difesa di Venezia, sosteneva vigorosamente ed eloquentemente, con la penna di F. Saccardo ; lo portavano a favorire, contro le aspirazioni anticristiane e sovversive dei partiti estremi, l’accordo dei due poteri, l’ecclesiastico e il civile, per la tutela dell’ordine, il buon governo dei sudditi, il prestigio della tradizione.
Se mai, egli poteva spingersi sino alle casse rurali ed alle cooperative di D. Cerruti, delle quali il cattolicismo devoto era glutine immancabile; e sino, alle palingenesi sociali del prof. Toniolo, veneto anche egli, nelle quali la Chiesa rappresentava egemonicamente la parte di salvatrice universale e di direttrice suprema. E il card. Sarto incoraggia il Cerruti e presiede onorariamente il congresso di Studi sociali di Padova, nel settembre 1896.
Ma cominciarono, giusto un anno appresso, ad agitarsi, con riviste e con organizzazioni, i giovani, sempre più numerosi, che facevano capo alla Cultura sociale-. giovani pieni di entusiasmo per la Chiesa, cattolici irreprensibili, ma che volevano seriamente diffondere fra i correligionarii una cultura moderna, fare opera di democrazia, indurli a smettere atteggiamenti incompatibili oramai con qualunque serio tentativo di azione sociale e di propaganda conquistatrice. E subito sorsero gli allarmi e le polemiche e le denunzie. La Riscossa di Breganze, edita dai tre battaglieri fratelli Scotton, intimi di Pio X, V Unità cattolica, la Difesa aprirono la campagna. I vecchi capi e consiglieri della organizzazione cattolica si schierarono con essi ; il conte Paganuzzi, vivacemente criticato per la condotta sua e dell’opera di fronte alle repressioni che seguirono ai fatti di maggio del 1898, si trovò presto in lotta aperta con i novatori.
È facile immaginare con quale animo il patriarca seguisse in quegli anni la lotta, che andava divenendo sempre più vivace, con quanta diffidenza vedesse il movimento che si andava rapidissimamente diffondendo in Italia, così diverso negli atteggiamenti da quello che egli aveva sempre pensato dover essere la condotta dei buoni cattolici ; così simile, nell’aspetto, ai moti audaci e vigorosi, assetati di libertà, anelanti a porre un’anima viva di rinnovazione in alto, dove era e di dove comandava un freddo e severo autoritarismo, irto di leggi e di divieti.
Gli errori e le aberrazioni che la Chiesa di Pio VII, di Gregorio’ XVI, di Pio IX aveva così solennemente e tenacemente condannato stavano dunque, per opera di questi critici e democratici, per acquistare diritto di cittadinanza nella Chiesa e rovesciarla da cima a fondo?
E come mai l’autorità di questa pareva venuta meno al suo cómpito ? Quali mire « politiche > la ingannavano così pericolosamente, deviandola dall’antico sicuro cammino?
Nel 1902 il Vaticano aveva avocato a sè il cómpito di ricondurre l’armonia fra i cattolici, e meditava una riforma dell’opera dei congressi, della quale la presidenza stava per essere tolta al Paganuzzi. Un articolo vivacissimo della Cultura sociale, intitolato: « Il crollo di Venezia », preannunzia la caduta di questo. Il card. Sarto scrive a lui una lettera laudatoria, nella quale lo esorta a non tener conto degli attacchi e delle calunnie di giovani ambiziosi, immemori del loro dovere.
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Il direttore della rivista, direttamente colpito da questo giudizio, scrive al card. Sarto una lettera nella quale si meravigliava che egli osasse giudicare in tal modo pubblicamente persone che sapevano di aver la fiducia dei loro superiori e di agire con rette intenzioni; e lo invitava ad avere maggior riguardo alla dignità del suo grado e all’abito che indossava. E aggiungeva di aver trasmesso copia della medesima lettera al card. Segretario di Stato di S. S., il card. Rampolla (i).
Il card. Sarto non potè scuotere da sè l’aspra lezione, che dovè parergli una offesa incredibilmente grave alla disciplina ecclesiastica. Quegli che doveva essere meno di un anno appresso il suo competitore alla tiara gli diede torto, in una visita Che il Sarto ebbe a fare al Vaticano, forse chiamato.
Quando i due terzi dei voti dei cardinali riuniti a conclave in Roma si raccolsero, nell’agosto 1903, sul patriarca di Venezia, questi fu sinceramente spaventato della scelta. E, piegando il capo, dovè chiedersi perchè lo Spirito santo si fosse posato proprio su lui ; che cosa, nel governo della Chiesa, si volesse da lui.
E la risposta non era difficile.
Egli doveva salvare la chiesa dal pericolo dei nuovi « luciferetti », por termine alla pericolosa longanimità del suo. predecessore, richiamare in vigore in tegre la dottrina e la disciplina della chiesa, tagliar corto con movimenti pericolosi, ricondurre nei ranghi i devianti, recidere, condannare, estirpare senza pietà là dove rimedii più blandi non bastassero.
Con Leone XIII cadeva un tentativo di sintesi, di armonia del cattolicismo con la scienza, con le istituzioni democratiche, con le aspirazióni dell’età nuova, di egemonia spirituale e morale di questo sulle nuove generazioni. Pio X fu l’eletto dei timori e delle preoccupazioni che quel programma aveva suscitato, di coloro che l’avevano biasimato in silenzio o combattuto apertamente e di tutti quegli altri che sul cattolicismo speculavano per una politica di freno e di conservazione, di resistenza contro l’ascendente marea democratica. E la sua fede, l'educazione avuta, l’esperienza, le amicizie, il partito di curia del quale la sua elezione fu il trionfo, tutto lo spingeva per questa via.
Ed egli si mise subito all’opera.
A servizio di questo piano egli poneva una fede che non discute, e che nessun intellettualismo ingombra o ritarda, una volontà fredda, paziente, tenace, la coscienza di un potere illimitato ed irresponsabile, la diffidenza della sua stirpe contro tutti gli accomodamenti che abilità diplomatiche e riguardi mondani potevano suggerire.
Rievocare qui dettagliatamente tutta la serie delle misure con le quali egli perseguì il suo piano, dalle prime condanne dei libri di Loisy all’enciclica Pa-scendi e al giuramento antimodernista, dal motti proprio sulla democrazia cristiana all’allocuzione nella quale dichiarava che essere cattolico ed essere clericale è la stessa cosa, dalla proibizione ai sacerdoti di appartenere alla Lega democratica nazionale alla condanna de) Sillon e a quella generica e recentissima dei sinda*
(1) La lettera fu più tardi pubblicata dalla Difesa.
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cati, dalla nomina a prelato del can. Delassus — e fu la prima sua nomina — agli ultimi incoraggiamenti alla Unità cattolica, dalla sospensione a diyinis di R. Murri alla avvertenza contro i giornali cattolici del trust, sarebbe qui inutile ; la storia di questi undici anni di pontificato è ancora vivissima nel pensiero di quanti si occupano di tali argomenti.
E il pensiero del papa risulta con eguale chiarezza da tutte le direttive dottrinali e pratiche che egli è venuto dando nelle più varie occasioni ; e più specialmente da quelle che hanno evidente l’impronta della sua personalità.
■: ‘L’insegnamento nei seminari deve essere rigidamente teologico e tradizionale; i piccoli seminari diocesani, poco adatti alla disciplina, vanno concentrati in grandi seminarii interdiocesani ; inutili i larghi studii, pericolosa, e da sorvegliare come tale, l’alacre intelligenza degli alunni, il catechismo sufficiente materia di preparazione ecclesiastica.
Dovere supremo, assoluto dei cattolici e specialmente del clero, l'obbedienza docile e pronta a tutti i cenni dei superiori, in tutte le materie, anche in quelle politiche, economiche, sociali; criterio di discernimento del vero spirito ecclesiastico la devozione al papa, il desiderio e la cura costante di compiacerlo in ogni cosa, di essere d’un animo solo con lui ; reato imperdonabile ogni dissenso, ogni tentativo di sfuggire equivocando alle direttive pontificie, ogni adire vie diverse da quelle che l’autorità avesse positivamente indicato. Banditi dai seminari e vietati al clero tutti i manuali ed i libri, anche se da lungo tempo circolanti nelle scuole, nei quali il tentativo di conciliare la dottrina cattolica con dottrine recenti compromettesse sin l'ultima particella di quella, inculcata la dottrina di S. Tommaso, non come capace di nuovi sviluppi — e in questo senso l’aveva richiamata in vigore Leone XIII, promuovendo quel largo risveglio di studi che fu il neo-tomismo, — ma tale quale è, ne varie tur, nelle somme dello scrittore medioevale e nei manuali più docilmente pedissequi.
Ai cattolici laici direttive ispirate agli stessi criteri. E sotto questo aspetto solo quello che Pio X fece per l’Italia ci dà la piena misura del suo pensiero ; i cattolici degli altri paesi erano troppo lontani da lui e dalla sua esperienza, ed egli urtò sovente, legiferando per essi, contro resistenze impreviste e più forti della sua volontà, pur così forte; sì che egli confessava recentemente di essere stato obbligato a delle concessioni.
In Italia, ogni larva di autonomia politica e sociale è stata abolita. Distinte le organizzazioni cattoliche in cinque grandi gruppi, esse sottostanno, diocesi per diocesi, ad una direzione diocesana i cui Capi sono nominati dai vescovi, e, in tutta Italia, a presidenti nominati direttamente dal papa.
Come si vede, il cattolicismo è concepito qui come un partito militante, gerarchicamente disciplinato anche per la sua azione civile e sociale, nell’interno del quale valgono quelle norme di assoluta egemonia ecclesiastica cui si è dovuto rinunziare di fronte agli Stati che hanno proclamato la loro divisione dalla Chiesa.
Ma questo partito, così disciplinato e omogeneo e integralmente cattolico e papale, è minoranza, oggi, in Italia, e non basta al raggiungimento dei fini ecclesiastici. Non contare che su di esso, opposto nettamente, non solo ai partiti di estrema, ma anche ai liberali ed ai moderati, sarebbe pericoloso in due *
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manierò ; perché un partito cattolico in Parlamento reclamerebbe una certa libertà di azione e potrebbe venire a concessioni pericolose per la libertà della Chiòsa, e perchè esso sarebbe minoranza minuscola e, provocando contro di sé la coalizione degli altri, condurrebbe forse a una persecuzione anticlericale.
Ma i cattolici, se, da soli, non possono aspirare che a un piccolo numero di mandati, possono invece in molti luoghi, sotto una ferma ed abile direzione, decidere della vittoria fra i partiti acattolici contendenti. Facendo ciò, essi legano a sè il vincitore: se questi ha molto bisogno di essi, dovrà anche accettare l’impegno preciso di un patto scritto. Con ciò, la Chiesa giunge all’effetto grandissimo di mascherare il suo giuoco, di vincolare a sè la maggior parte degli eletti e di avere in mano i fili conduttori della politica ecclesiastica del governo, di garantirsi contro ogni ripresa offensiva d’anticlericalismo, di ottenere le concessioni molteplici che sono compatibili con la apparente conservazione dello status quo in materia di politica ecclesiastica.
Il piano è abilissimo; ma dobbiamo aggiungere che esso non è soltanto l’effetto di un premeditato disegno di potere. Seguendo questa politica Pio X obbediva ad un’altra delle sue preoccupazioni, quella di mettere le forze della Chiesa a disposizione delle tendenze antidemocratiche o conservatrici. Poiché, quando della Chiesa si ha la concezione che ne hanno i curialisti e il Vaticano, la distinzione fra essa e lo Stato è empirica ed occasionale; al di là e al disopra di essa si impone un concetto della società umana, il quale deve essere raggiunto con le forze concordi dei due istituti. Il concetto della sovranità popolare, o meglio della sovranità dello spirito sulla storia, nella sua pregnante ricchezza di conquiste umane, è antitetico al concetto di un piano provvidenziale di governo dell’umanità affidato alla Chiesa, della autorità discendente dall’alto, della docilità necessaria nei governati. Leone XIII sognò la conquista della democrazia alla Chiesa, Pio X ritenne più saggio e prudente dare man forte alle classi ed agli interessi che cercano di far argine alla democrazia. Senza questa spiegazione, il programma, la cui esecuzione fu affidata all'Unione elettorale cattolica e al conte Gentiioni, parrebbe troppo macchiaveliico e sotto molti aspetti pericoloso per la Chiesa, tirata dentro nelle competizioni dei partiti, esposta all’odio e alle rappresaglie dei partiti politici soccombenti dinanzi all’avan-zare del clero.
E pure questo è, nell’opera di Pio X, un fatto ancora più grave, poiché investe tutto il cattolicismo come religione. Se il suo predecessore si era pure lasciato in qualche modo commuovere dalla parola di quelli che vedevano nel messaggio del Cristo una forza capace di aiutare gli uomini a insorgere contro tutti i mali e le iniquità e le ipocrisie delle quali è piena la società contempo-' ranea ed a lavorare volonterosamente per una nuova giustizia umana, Pio X ha rinsaldato tutti i vincoli potenti ed occulti che legano la sua Chiesa agli uomini politici, ai giudici, ai poliziotti, ai trusts incaricati di difendere, contro gli sforzi dei « modernisti », l’ordine attuale.
Per lui il cattolicismo fatto più timido e ritroso e conservatore, confuso con la più dimessa e servile soggezione dello spirito, dilaniato dovunque da aspri dissensi interni, pervaso tutto di diffidenze e di recriminazioni e di sospetti, che soffocano ogni palpito di vita, è diventato, ancora di più, !’ingegnosissimo mezzo
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di far Dio complice di tutte le ingiustizie che si commettono da quelli che sono in alto in nome dell’ordine, dell’autorità, della proprietà e via dicendo; complice dei conservatori e dei banchieri, degli industriali e dei candidati politici. E per questo egli ha avuto le simpatie e le iodi e le ammirazioni di tutte queste categorie di vampiri, e dei giornali che ne rappresentano l’opinione, e il Giornale ¿Italia lo ha, per loro conto, canonizzato gran papa e gran santo.
Era naturale...
Ma Pio X è stato anche un riformatore religioso. Egli ha iniziato nientemeno che la codificazione del diritto canonico, ritoccato il calendario, il breviario, la liturgia, cercato di rinvigorire, con la disciplina, anche la pietà ecclesiastica.
E queste riforme hanno evidentemente la stessa impronta, obbediscono allo stesso concetto fondamentale. Se c’è fatto che dovrebbe esser familiare al pensiero di ogni cristiano, che conosca, anche per sentito dire, il vangelo, è la contraddizione profonda, insanabile fra la novità perenne dello spirito religioso, che gonfia i cuori di una sete viva di bontà e di giustizia nuove> opposte cioè alla iniquità e all’ingiustizia presentì* e la religiosità formalistica, minuziosa, letterale e liturgica delle caste teologiche e sacerdotali, dei farisei di ogni luogo e di ogni tempo. E Cristo, nella storia, non lo si intende se non in lotta con i farisei. Se i farisei non ci fossero stati, gli uomini avrebbero potuto facilmente ingannarsi sullo spirito e sulle intenzioni del Cristo; ci furono, egli ebbe che fare con essi, e si ingannano solo quelli che vogliono ingannarsi. Cristo è la coscienza degli interessi del Padre; i farisei sono la coscienza degli interessi della tradizione, della rivelazione scritta, del corpo ecclesiastico; la redenzione per essi è la salute conquistata con le abluzioni rituali, con la pietà rituale, con gli amuleti, con la osservanza meticolosa del codice ecclesiastico, tanto più remoto dal-V unico precetto nel quale sono tutta la legge e tutti i profeti, quanto più meticolosamente e voluminosamente codice, con le immancabili glosse.
Unnico precetto è formidabilmente difficile ad osservare ; se esso si insedia davvero nella vostra coscienza, così semplice e pur così pieno, vi impone un poco alla volta cose che superano di molto le attitudini dell'uomo mediocre, fa di voi dei rivoluzionarli. La pietà professionale, con i suoi lavacri e riscatti, perdoni e compensi, è fatta per difendere e salvare gli uomini da queH’w«z?i> precetto, per permettere di non osservarlo, per ingannare il Padre. E per questo Gesù si accendeva di una terribile collera contro la pietà professionale.
Se gli uomini, i cristiani, dovessero misurarsi contro quell’audacissimo e rivoluzionarissimo precetto, che dice : « ama Dio sopra ogni cosa, sopra le ricchezze e l’onore e la posizione e la vita, e il prossimo tuo esattamente come te stesso », e prendere o lasciare il cristianesimo che è tutto in esso, i cristiani sarebbero, oggi, poche centinaia in Europa e converrebbe spesso andare a cercarli nelle prigioni di Stato o nelle riunioni dei socialisti. Le Chiese permettono ai cristiani di sfuggire al formidabile dilemma. Leggi la Bibbia, fa'le tue preghiere, frequenta le chiese, avvicinati ai sacramenti, obbedisci al papa, dà denaro al clero per le opere pie, vota per i candidati approvati e sarai buon cristiano e buon cattolico.
E il clero è dispensato dal meditare troppo su quell'unico precetto e daì-l’investirsi dello spirito vivo del Cristo: ma, in compenso, gli si comanda di dire il breviario un poco più lungo, di vestir di nero correttamente, di dir molte
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preghiere, di amministrare con zelo i sacramenti e, soprattutto, di obbedire assai docilmente ài vescovi e al papa. E, se esso è fragile, molti peccati gli saranno perdonati, tranne quest’uno : la disobbedienza.
Le riforme di Piò X sono tutte formali e rituali e disciplinari; tutte nello spirito dèlia grande contro-riforma cattolica iniziata dal Tridentino. Il protestantesimo aveva intravisto che le assoluzioni e le indulgenze e le solennità del culto e la pietà professionale eran giovate a mantener l’Europa piena di ribaldi di ogni genere, a contaminare la religione in innumerevoli compromessi; e cercarono, con formule poco felici, di far intendere che l’essenziale era la fede operosa, frutto dell’immediato contatto personale con lo spirito. Per difendersi dalla profonda suggestione religiosa di questo indirizzo nuovo, la Chiesa romana cercò di riformare i costumi del suo Clero; ma, come non poteva spingersi troppo innanzi nella via del ritorno al cristianesimo senza rinunziare a troppe cose che le erano care, avviò la riforma per la via della pietà professionale e della disciplina gerarchica e monastica. E più essa continuò per questa via, più si distaccò dalla coscienza nuova dell'Europa, più accrebbe e moltiplicò i malintesi con tutte le energie vive e liberatrici, quindi essenzialmente religiose, che si andavano sprigionando da questa. Essa teme la verità che non è la sua verità e, pur di non disturbare le vecchie menti dei suoi teologi, si impegola nella, menzogna della scienza, della storia, della critica ufficiale ; teme le coscienze che si nutrono liberamente di fede e di vita, al vento e alle tempeste, ed estenua le sue coscienze nella rarefazione spirituale e nell’isolamento ; sente di non potere, non che dominare, pervadere e intendere la coscienza moderna e vuol ricondurre indietro le coscienze al suo mondo, che essa conosce, al medioevo.
Quando taluni cattolici, da Lamennais a Tyrrell, hanno sentito il disagio profondo di un tale stato di cose, l’angoscia di una religione sincera ed attiva, la Curia romana si è allarmata ; e l'allarme non è mai stato maggiore che quando quell'angoscia, sotto un pontificato eccezionale, aveva avuto qualche modo di manifestarsi e di gettare intorno il suo grido, avidamente raccolto da molte coscienze di giovani.
Pio X è stato, efficacemente, il papa di questo allarme.
Una religione così fatta può ancora dare dei frutti, ma a un patto : che essa Sia coltivata da anime semplici, docili e ignare, sottomesse al presente stato di cose come alla volontà immutabile di Dio, deviate dalla speranza del cielo da ogni sforzo che implichi ed esiga l’avvento del regno di Dio su questa terra. Il cattolicismo di Pio X è quindi la religione degli umili, dei semplici, delle donnicciuole, dei contadini e degli analfabeti ; in altre parole, la religione dei dominati, anche spiritualmente, così come l'abbiam vista essere la religione dei dominatori.
I quali dominati possono essere poi semplici e sobri .come un contadino veneto o spensieratamente ed ingegnosamente voluttuosi e mendaci e rapinatori come un popolano di Napoli e di Palermo, che confida fortemente nella devozione alla Madonna del Carmine e nella assoluzione del prete.
Perchè, quando la religione è distolta dalla vera sede e dal vero ufficio suo, quando pertinacemente la si associa con consuetudini e norme e-stati d’animo con i quali la religiosità vera è divenuta incompatibile, è difficile trovare, nella pericolosa aberrazione, un punto al quale arrestarsi. Quella che dovrebbe essere
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la maggiore forza di tutte le coscienze che insorgono e si ribellano contro il male e lottano per la libertà e per la bontà umana, il senso intimo e forte di un. precetto divino, è messa insidiosamente dall’altra parte, Dio contro Dio.
Noi non intendiamo con questo di esser severi contro Pio X.* Il suo catto-licismo, lo abbiamo detto da principio, non se lo è fatto egli ; lo ha accettato così come lo ha trovato fatto e consolidato da tempo, a portata della sua coscienza; ed ha creduto che l'accettarlo e il trasmetterlo quale lo aveva ricevuto fosse il suo maggior dovere di sacerdote e di papa. Non sappiamo se, quando respingeva e condannava così duramente quelli che egli credette essere i nemici più pericolosi del suo cattolicismo, una voce interna l’abbia mai avvertito che quel suo fare non era nè paterno nè buono; certo, se l’ha sentita,egli ha fatto tacer quella voce come una tentazióne.
Ma, per i supremi interessi di una religione che non è soltanto del papa, sibbene anche di innumerevoli coscienze e di tanta parte di questa Italia nostra e di tutti quelli i quali hanno ricevuto da essa qualche cosa ed hanno sofferto da essa e per essa, ora che Pio X è morto ed un altro papa sta per succedergli, noi abbiamo il diritto di ripetere alto quello che così spesso abbiamo detto: o il cattolicismo si rinnova o esso muore; o si assume le sue responsabilità, responsabilità di educazione umana, di liberazione, di bene, o sarà schiacciato dal peso delle innumerevoli responsabilità di male delle quali si è fatto complice.
Così come è oggi, esso non è la religione che serve all'Italia e alla coscienza moderna. Non servendo, per la stessa antichità e forza sua, esso nuoce terribilmente.
Ma, osserva uno scrittore inglese per bocca di uno dei suoi personaggi di dramma : « Voi vi siete fatti per voi stessi qualche cosa che chiamate religione o morale o che so io. E trovate che non va. Bene, gettatela via. Gettatela via, e fatevene un’altra che vada. Questo è che rovina il mondo, oggi. Esso scarta i congegni meccanici, le dinamo invecchiate, ma non vuol scartare i suoi vecchi pregiudizi e le sue vecchie morali e le sue vecchie religioni e le sue vecchie costituzioni politiche. Quale è il risultato ? Questo : che il mondo va molto bene a macchine, ma quanto a morale e religione e politica lavora in perdita e si avvicina ogni anno più alla bancarotta. Non persistete in questa follia. Se la vostra religione si è rotta, ieri, fatevene un’altra, e migliore, per domani ». (B. Schaw, in Major Barbara^ atto 30).
Anche il cattolicismo va — responsabile non ultimo di questa coscienza morale d’Europa che annega nel sangue — verso la bancarotta. E Pio X l’ha tragicamente accelerata. In questo senso, egli ha fatto per il modernismo più di quello che avrebbero potuto fare tutti quelli che egli ha perseguitato e condannato e messo fuori. Ha posto il problema per più coscienze e in maniera più radicale. E quelli che oggi si illudono che il papa nuovo si metterà per altra via, e penseranno che è così quando lo vedranno deprimere quelli che Pio ha esaltato ed esaltare quelli che egli ha depresso, avranno presto una nuova delusione. L’autorità ecclesiastica non può salvare il cattolicismo perchè essa penserà a salvare sè stessa e in essa, appunto, è l’ostacolo e il danno maggiore del cattolicismo. Per questo noi incliniamo a credere che solo quando la bancarotta sarà avvenuta si potrà distinguere i valori veri dai falsi crediti e salvare gli elementi che meritano di essere salvati. ROMOLO MuRRT.
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»Vous été» attachés à co sol par tout ce qui vous precède et par tout ce qui vous suit, par ce qui vous créa et par ce que vous créez ; par le passé et par l'avenir, par l'immobilité des tombes et le tremblement des berceaux ».
Jean Jaurès.
■ J’ai tué Jaurès pareeque*- après sa campagne contre la loi des trois ans - je le considérais comme un ennemi de la France ».
Raoul Villain.
In tutti i giornali del mondo pubblicati il primo agosto 1914 leggevasi una notizia più impressionante ancora di tutte quelle relative all’imminente, colossale guerra: Giovanni Jaurès era stato assassinato a Parigi da un giovane nazionalista francese !
Il leader socialista pranzava la sera del 31 luglio con alcuni amici al caffè Croissant, a pochi passi dal suo giornale VHumanité, e si trovava colle spalle rivolte verso la finestra aperta che dava sulla rue Montmartre. Ad un tratto - erano circa le ore 21,30 — la tenda si socchiuse, passò una mano che impugnava una rivoltella e, prima che Jaurès avesse potuto fare un sol gesto, gli furono sparati alla testa due colpi. Un quarto d’ora dopo, il tribuno che aveva fatto vibrare colla sua travolgente eloquenza milioni di cuori proletari non era più!
Tornato due giorni prima da Bruxelles — ove aveva preso parte ai lavori del Comitato internazionale socialista convocato d’urgenza per esaminare la situazione europea — Jaurès si era dato subito al suo consuèto lavoro alla Camera, al giornale, alla direzione del Partito per cooperare con tutte le sue forze a quella che per lui era stata sempre, e più che mai in quest’óra torbida, la grande Causa : il mantenimento della pace.
Nei corridoi della Camera egli s’era imbattuto nel Ministro dell’interno Malvy. Questi disperava dell’esito delle trattative di pace; Jaurès invece non aveva alcun dubbio riguardo ad esse se soltanto il Ministero francese avesse riconosciuto la necessità urgente di fare sulla
Russia una pressione decisiva. Piccolo, un po’ curvo, dall’abito ampio e dimesso, dall’enorme testa dominatrice piantata in mezzo alle larghe spalle, egli gridò al Ministro:
« Voi vedete tutto nero ed avete torto. La mia convinzione è quella che io porto da Bruxelles e che è basata sulle conversazioni che ho avuto e sui telegrammi ricevuti: ed è che le quattro potenze vogliono la pace. Io mi sono portato garante dei sentimenti pacifici della Francia e per questo non capisco nè lo scetticismo nè questa specie di confusione che ho trovato qui al riguardo. Mi sembra che la mediazione dell’ Inghilterra non abbia fallito. Se la prima formula non è stata accettata, il principio stesso non è stato respinto dalla Germania. Poiché sir Edward Grey, che è un uomo serio e non un burattino, continua nelle trattative, si troverà una formula di accordo».
E ancora: « Non basta di prolungare mollemente le conversazioni con la Russia. Bisogna tenerle un linguaggio fermo, energico, bisogna farle notare che, nel conflitto che minaccia, la Russia corre rischi infinitamente minori della Francia, che la Francia in verità sta per subire l’urto più rude e più decisivo e che in queste condizioni il nostro paese ha il diritto di domandare all’alleata di andare il più lungi possibile nella via indicata dalla Germania. Bisogna che la Russia accetti la proposta inglese, altrimenti la Francia ha il dovere di dirle che non la seguirà, che rimarrà con l’Inghilterra. Se questa pressione non è fatta energicamente, vigorosamente, allora è l’irreparabile che sta per compiersi e la responsabilità del Governo sarà terribile. Apparirà che il nostro paese, invece di parlare altamente per difendere il suo interesse, è vassallo della Russia, la quale, per i’amor pròprio, lo trascina fuori della sua via».
Il Ministro ascoltava questa ardente preghiera del buon francese assicurandolo che ci avrebbe pensato sopra ; ma appariva chiaro che Malvy non si rendeva conto, come avrebbe voluto Jaurès, della estrèma urgenza de! passo
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di cui si parlava. Questi volle allora andare a vedere il presidente del Consigliò, ina Vi-viani non potè, o non volle, riceverlo.
Giovanni Jaurès era orgoglioso. Ma quando si trattava di difendere una buona causa sapeva far tacere il suo orgoglio: e questa volta, secondo lui, si trattava delia causa della Francia e della umanità. Si acconciò dunque ad essere ricevuto dal sottosegretario agli esteri Ferry. In una conversazione in cui mise tutta la sua anima, egli ripetè la sua convinzione che tutto non era perduto e che le trattative potevano ancora dare buoni risultati ; e la sotto-Eccellenza, trascinata dalla logica imperiosa del suo interlocutore, si lasciò sfuggire questa frase: « Rimpiango che non siate fra noi per aiutarci con i vostri consigli».
Ma poi, forse sentendo che, malgrado i complimenti, non c’era nel gabinetto del ministro aria buona per lui, Jaurès era tornato fra i suoi amici, fra i suoi fedeli ed umili compagni ad incoraggiare i timidi, a persuadere gli increduli, ad incitare gli incerti.
Se la diplomazia non voleva cedere alla ragione, avrebbe ceduto alla forza. Egli preparava quindi il congresso socialista del 9 agosto e sopratutto il grande comizio che doveva precedere il congresso.
Per parlare del congresso e del comizio e per prendere gli opportuni accordi, Jaurès aveva dato convegno quella sera a Dubreville, segretario del partito, al redattore capo del-VHumaniU» al deputato Languet nipote di Carlo Marx ed al deputato More!.
Il colloquio era appena incominciato quando si svolse la fulminea tragedia che abbiamo già rievocata.
Davanti a un fatto simile anche noi ci chiediamo, come si chiedeva un collaboratore dei Corriere della Sera (2 agosto), se il mondo •imbarbarisce, se tutto ciò che costituisce quasi l’elemento divino della civiltà — visione di filosofi, sogno di poeti, religione di apostoli, richiamo di voci fraterne — tutto ciò che è pensiero, simpatia, speranza, consista soltanto in uno strato più o meno denso di educazione e di cultura disteso sulla nostra immodificata barbarie e di cui quest’ultima, infastidita, comincia nervosamente a sbarazzarsi !...
« Abbiamo celebrato il dominio dell’intelligenza sulla forza — continua il Corriere della Sera — e la forza arma milioni di uomini gli uni contro gli altri; abbiamo, per più d’un
secolo, arsi tutti gl’incensi della nostra retorica sull’ara della libertà, e la libertà sembra esser divenuta un idolo grossolano. Le polemiche si chiudono col sangue ; i dissidii d’idee si esprimono coi colpi di rivoltella.
« Una sera un odioso imbecille ha freddato con due colpi di rivoltella Giovanni Jaurès, così, per nulla — per un nulla che vorrebbe essere tutto, per disapprovare il partito che ha combattuto la ferma dei tre anni. Farsi giustizia da sè è una forma caratteristica di società selvaggia che rifiorisce orribilmente nella società civile. Lo sciagurato che ha versato il sangue di Jaurès ha detto tranquillamente: — « Lo consideravo un nemico della Francia. » La passione partigiana diventa la legge dell’assoluto. Sentirsi così infallibilmente certi nel giudizio di quelli che sono gli amici e di quelli che sono i nemici della patria, sentirsi così saldi nel campo del diritto, da trasformare questo diritto in un dovere di sterminio, da chiudere il folle procedimento logico con un assassinio, è il sintomo — non lieve, non raro — d’un sovvertimento profondo della ragione. Dal seno stesso della libertà, per un parto che appare mostruoso e che pure è nell’ordine complesso e misterioso della natura, si genera il fanatismo ; fanatismo di rivoluzione, fanatismo di reazione; Ravaillac, Carlotta Corday, Bresci, Villain.
« Nella esasperazione delle lotte politiche e sociali, ai momenti più convulsi, i deboli cervelli oscillano. E poiché molti sono i deboli cervelli che oscillano, sentiamo che il mondo è in preda a un male pauroso.
«Sono veramente le idee che guidano gii uomini? Gli uomini cercano nell’umanità non tanto le idee da seguire o da combattere come gl’individui a cui ciecamente obbedire, gli individui da odiare e da spegnere. E siamo, dunque gli stessi dal tempo delle caverne? Selvaggi smaniosi di raffigurare i genii del bene e del male? Fanciulli inetti alle astrazioni, perchè le astrazioni non possono negli animi puerili suscitare l’odio e l’amore?
« Lo sciagurato Villain voleva punire la teoria della pace a ogni costo ; e questa teoria per lui si chiamava col nome più sonoro, il nome di Giovanni Jaurès, viveva individuata nella persona più cospicua, la persona di Giovanni Jaurès.
« I socialisti che piangono la voce più eloquente della loro fede non riconosceranno che Villain e Bresci sono gemelli, nati d’una stessa ignoranza, armati da una stessa follia, degni o indegni d’una stessa rabbrividente pietà e che non si può, senza partecipare della
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barbarie omicida, stabilire fra i due una criminosa distinzione? Chi su un uomo si vendica d’un partito, d’una tendenza, d’uno stato di vita sociale, commette lo stesso abbomi-nevole anacronismo millenario, la stessa selvaggia stoltezza».
* « »
Giovanni Jaurès, nato a Castres (dipartimento del Tarn) nel 1859, aveva appena 55 anni ed era nel pieno vigore della sua potenza parlamentare. Antico allievo della Scuola Normale, insegnò dapprima ad Albi poi fu tnaitre de confirences alla facoltà di lettere di Tolosa. Egli riempi del tumulto della sua eloquenza la sua cattedra insegnando a un piccolo gruppo di allievi, mentre nei corsi pubblici arringava un più vasto uditorio agitato da tutte le passioni che egli sapeva suscitare. Eletto deputato la prima volta all’età di soli 26 anni, nel 1885, egli votò con i repubblicani moderati pur tradendo sin da principio, nei suoi discorsi, quell’ inquietudine che doveva poi condurlo ad abbracciare le teorie socialiste. Nei 18S9, non avendogli gli elettori confermato il mandato, egli ritornò ai suoi studi prediletti di filosofìa e di economia politica pubblicando due tesi: una sulla « Realtà dei mondi sensibili », l’altra sulle «Origini del socialismo tedesco». Fu chargé de court alla facoltà di Tolosa, assessore di quella città e prese parte alla fondazione del-l’Accademia di medicina. Intanto andava compiendosi la. sua evoluzione verso il socialismo ed era completa nel 1893, quando gli operai di Albi lo rimandarono alla Camera.
In una interpellanza sugli scioperi di Car-maux, Jaurès assunse nobilmente la difesa della classe operaia, mostrando coi fatti la verità delle sue parole : « Io ho amato il popolo con grande e leale amore».
Quel discorso fu una rivelazione per la Camera e per il partito socialista : quella lo acclamò come il suo più grande oratore, questi lo riconobbe come capo morale. L’eloquenza infiammata di Jaurès, la forma letteraria, il gesto abbondante, formavano di lui una tempra mirabile di tribuno popolare.
Da quei momento la sua, personalità non ebbe più ostacoli per affermarsi, ed egli fu il vero dominatore delle folle, l’oratore più ascoltato, il portavoce del suo partito nelle occasioni solenni, nella Camera durante i grandi dibattiti, nei congressi, nei comizi.
È difficile trovare una grande discussione parlamentare alla quale egli non abbia parte
cipato: politica interna, politica estera, economia, legislazione operaia, conflitti sociali, agricoltura, industria, giustizia, guerra, tutto offriva materia abbondante perchè egli vi provasse la versatilità del suo ingegno e la magnificenza della sua oratoria.
Non rieletto deputato nel 1898, Jaurès entrò a far parte della redazione della Petite Rcpti-blique diretta da Gerault Richard ch’egli aveva difeso davanti alla Corte d’Assise per reato di stampa e che il popolo di Parigi aveva tratto fuori dal carcere.
Il periodo più felice della vita pubblica di Giovanni Jaurès fu certamente quello dell’affare Dreyfus, quando egli per un momento parve incarnare, accanto ad Emilio Zola, la coscienza umana. E fu quella la sua più bella battaglia e la sua più grande vittoria. Con un articolo al giorno, nella Petite République, di cui era diventato redattore capo, egli contribuì a demolire il castello d'infamie elevato contro il capitano innocente, dallo stato maggioree dai suoi complici. Raccolti in volumi — Les Preuves — quegli articoli rimarranno come monumento di logica, di lingua, di sentimenti civili.
Quando, nel 1899, si trattò di formare un Ministero che rappresentasse, contro la reazione clerico-inonarchica-nazionalista, il blocco delle forze popolari, Giovanni Jaurès non esitò a sostenere che, in quell’ora gravissima, i socialisti dovevano continuare — nel Governo — alia borghesia repubblicana, quell’aiuto che non le avevano negato in piazza. Al consiglio dell’uomo politico, i seguaci del grande avversario di Jaurès, Giulio Guesde, opposero il dogma dottrinario, ma ciò non impedì al Millerand di entrare a far parte del Ministero Waldek-Rousseau.
Fra il Jaurès — che, fino al 1903, continuò a scrivere nella Pelile République e in quell’anno fondò L’lìumanité — e i guesdisti, che pubblicavano un loro giornale, Zx? Petit Sous, s’accesero polemiche vivacissime e non di rado ingiuriose; ma il Jaurès tirò diritto per la sua strada: sostenne il Millerand fino all’ultimo e, caduto il Ministero Waldek-Rousseau, sostenne quello di Combes.
Soltanto quando il Combes cadde, il Jaurès credette chiuso il periodo delle collaborazioni utili fra il socialismo e la borghesia e riprese, contro il Sarrien, e sopratutto contro il Clé-menceau e il Briand, il suo posto all’opposizione, affrettando così il ritorno del partito socialista, smembrato e dilaniato dalle discordie, all’unità che aveva avuto una volta.
Nuovamente mandato alla Camera, Jaurès
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contribuì con tutta l’opera sua parlamentare e giornalistica alla propaganda pacifista, specialmente in questo ultimo periodo di indecisioni nella situazione europea (i).
Come teorico del socialismo egli lascia un volume di Studi in cui dimostra l’eccellenza del suo temperamento eminentemente latino, facile agli adattamenti, pronto ai suggerimenti dell’esperiènza. Di volta in volta intransigente o transigente, ebbe sopra tuttodì mira l’unità del partito; e compiè la sua fatica, vera fatica d’Èrcole, attraverso congressi innumere, voli, avendo ora avversari e ora compagni di lotta quelli stessi con cui aveva poc’anzi collaborato.
Ma comunque, egli del socialismo praticò l’indirizzo riformista, e io dimostra la sua larga partecipazione all’opera parlamentare, spesso alleato ai partiti borghesi più avanzati, in unione dei quali fu anche vicepresidente della Camera per non breve periodo di tempo.
Oltre i numerosi discorsi, e la complessa e vasta opera parlamentare, di giornalista e di teorico del socialismo, restano di lui anche tre volumi di una incompiuta Storia detta Rivoluzione francese > in cui egli mise in luce il posto che nel grandioso dramma umano e sociale ha occupato la massa oscura ed amorfa, da cui sgorgò la moderna classe operaia. Ma più che come professore, come parlamentare, come giornalista, come letterato, il nome di Giovanni Jaurès passerà alla storia come quello del più grande oratore che abbia avuto la Francia in questi ultimi trent’anni.
In un bell’articolo pubblicato sul Seeoto del i® agosto, Luigi Campolonghi determina con fine senso critico le caratteristiche della eloquenza di Jaurès:
(s) Il Vffru'aertf del a agosto reca, in prima pagina, una commossa apoteosi di Giovanni Jaurès. L’articolo — dopo aver riportato gran parte dell’ultimo discorso pronunciato da Giovanni Jaurès a Bruxelles — termina con queste parole: «Fu quello l’ultimo discorso della sua vita. Jaurès mantenne la parola. Egli rimase fedele sino alla morte all'ideale deiraffratellamento dei popoli egli cadde, come la prima vittima e coi suo sangue nobilissimo sigillò la fratellanza tra il proletariato tedesco e quello francese.
■ La stampa registra l'uccisione di un principe del regno dello spirito, la cui ombra sorgerà nel Pantheon dell'umanità fra i maggiori, quando saranno già dimenticati da tempo i giuochi superficiali delle monarchie e i terrori della guerra.
■ Lavoratori tedeschi, la vostra energia, il vostro primo slancio nella lotto contro gli orrori delia guerra mondiale furono le ultime soddisfazioni (consolazioni) che voi avete recato al combattente caduto.
■ Inchinate le bandiere sulla fossa di Jaurès — no, afferrate le bandiere e camminate innanzi con le sue parole sulle labbra : Fedeli all’affratellamento col popolo francese, fedeli alla causa della pace, fedeli al socialismo internazionale sino alla morte ! ».
« Chi lo ha udito durante l’affare Dreyfus ha pensato a Mirabeau e a Danton. Tozzo, con su le spalle quadre, una bella e luminosa faccia di leone, egli dominò allora come volle le moltitudini. Aveva la voce sonora e sapeva modularla, ora come sul ritmo di una dolce cantilena materna, ora come rugghio della fiera scatenata. Carezzava e schiaffeggiava la folla e la folla o piangeva o sognava in Silenzio o balzava, armata della sua collera come di una frusta.
« Al tempo dell’ « Affaire », Jaurès condusse la moltitudine a Longchamp con uno scoppio di voce e con rapido martellio del pugno breve nei vuoto: se avesse voluto, l’avrebbe condotta anche più lontano, anche più in alto. Sarebbe bastato che, in un gettito di parole supreme, egli avesse volto lo sguardo in su, rovesciando la testa indietro per ricevere in piena faccia, con la luce del sole, la luce di tutte le speranze...
« Così avrebbero fatto Desmoulins, Danton e Mirabeau! Perchè non lo fece Jaurès?...
« Perchè i tempi sono mutati, perchè —-mentre una volta la folla era assente dalla politica e vi interveniva solo di tanto in tanto nelle ore gravi (quando appunto una gran voce la chiamava) con un urlo di collera o con un rabbioso colpo di spalla — oggi invece la folla fa la sua politica giorno per giorno e, nelle ore solenni, non ritrova la sua potenza intatta, ma cieca per un impeto improvviso ed unico.
«Che importa? Ciò tolse senza dubbio una linea alla fisonomía reale di Jaurès. Ma la sua figura ideale di dominatore di moltitudini non è meno grande. Una volta i tribuni conducevano le folle sulle barricate ; oggi le conducono alle urne... Quarant’anni prima Giovanni Jaurès avrebbe potuto essere l’ultimo dei tribuni vecchi : oggi scompare con lui il primo dei tribuni nuovi ».
«**
Abbiamo creduto necessarie le pagine che precedono per avere come la cornice e lo sfondo sul quale vorremmo far risaltare la tigitra morale e spirituale di Giovanni Jaurès. Questa figura noi l’illumineremo col suo proprio pensiero, cioè mediante documenti raccolti qua e là nell’ intera sua opera di deputato, di giornalista, di scrittore, di oratore. Questa raccolta dei brani più caratteristici, delle citazioni più significative, è stata fatta dai sig. Edmondo Gonnelle in un accurato studio pubblicato nel Chrislianisme Social del mese di febbraio 1912. Noi siamo ben lieti di poterlo offrire, in veste italiana, ai lettori della nostra Rivista. Giovanni E. Meille.
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LA FIGURA MORALE E SPIRITUALE DI GIOVANNI JAURÈS
I.
Quello che ci colpisce e ci piace in Jaurès è anzitutto l'alta ispirazione filosofica e rcli-G'osa dei suoi discorsi e dei suoi scrini, il ro tono cosi spirituale, così umano, così an-tidommatico e talvolta così mistico, l’idealismo così puro del suo socialismo.
Chi lo sentì a Lille nel 1900, al tempo dell’affare Dreyfus, ebbe l’impressione di ascoltare un antico profeta d’Israele (1).
Di un profeta, Jaurès ebbe tutta la veemenza ed il fuoco sacro in varie nobili battaglie da lui sostenute alla Camera dei deputati. Citiamone alcune.
All’epoca dei massacri d’Armenia, cosi egli termina un grande discorso di protesta pronunziato il 3 novembre 1896:
« Come ! davanti a tanto sangue sparso, davanti a quelle abbominazioni selvagge, davanti a quella violazione della parola della Francia e del diritto umano, neppure un grido è uscito dalle vostre labbra, neppure una parola è venuta fuori dalle vostre coscienze, ed avete assistito, muti, e quindi complici, al completo sterminio ».
A proposito del conflitto Ira la forza e gli scioperanti, avvenuto a Draveil-Vigneux e in cui due operai erano rimasti uccisi, egli scrive :
« Quale società orribile è quella in cui si dibattono gli uomini ! Società di divisione, di antagonismo e di odio, società che persino
(i) Gli scritti di quei vecchi croi della verità e della giustizia erano certamente noti a Giovanni Jaurès. il Corriere della Piata del 93 settembre tota, parlando della serie di conferenze da lui tenute nella Repubblica Argentina, sunteggiava una di esse Le idee d"Alàerdi e le realtà moderne. Ecco un brano di questo resoconto:
«Jaurès continua facendo un elogio vivissimo del genio inglese e affermando, con Alberdi, che la Bibbia ha fatto l'educazione dei Puritani del xvn secolo, i quali tracciarono le prime linee dei sogni comunistici.
■ L’oratore prosegue dimostrando l'influenza punto moderata, ma invece veemente, esaltante della Bibbia, che fa scattare la coscienza c il cuore degli uomini, che fa trasalire la terra; la Bibbia vibrante, dalle immagini grandiose e tragiche; la Bibbia delle grandi rivendicazioni sociali, delle profezie annunziami l'eguaglianza fraterna dogli uomini ; la Bibbia che insegna la sparizione della guerra fra i popoli, la pacificazione delle nazioni irritato e della stessa natura, la riconciliazione del leone e dell'agnello pascolanti insieme, la fine della ferocia dei lupi ammansiti ».
nel lavoro mette la guerra civile, società che scaglia l’uno contro l’altro i padroni e i salariati tra le folte tenebre in cui s’incrociano i lampi dei colpi di fuoco, i lampi degli sguardi violenti. La sola consolazione, la sola luce è di lavorare in buona fede all’avvento d’un ordine di cose più giusto, in cui l’organizzazione sociale del lavoro e della proprietà sopprimerà la lotta di classe sopprimendo le classi stesse. Operai, organizzatevi, educatevi, propagate l’idea nuova e con sublime sforzo di generosità e di coraggio, alzate i cuori vostri, alzate le vostre braccia al disopra delle barbarie della società presente. Siate sin d’ora, colla potenza vigorosa e ordinata, gli uomini dell’avvenire. Combattete l’odioso capitalismo fin dentro al vostro cuore, cioè sin nell’odio brutale ch’osso suscita in voi. Diventate l’irresistibile forza di organizzazione, di volontà e di luce. E guai ai Farisei che tentano sfruttare contro la classe operaia gli atti di ribellione provocati dalle loro scellerate aggressioni e dall’ingiustizia permanente d’un mondo malvagio!» (x).
Ed ancora par di sentire un profeta quando egli si fa il campione della pace universale. Per esempio, nel 1902, egli fa alla Camera enèrgiche dichiarazioni le quali suonano però come un’amara ironia di fronte all’atteggiamento attuale dei socialisti di tutti i paesi, i quali dopo la grande parata contro la guerra fatta a Basilea nel 1912, non sono riusciti ad intendersi nel 1914 per una protesta internazionale contro il flagello che sta devastando l’Europa.
Ecco dunque quel che diceva Jaurès:
«Sempre maggiormente l’accordo del proletariato internazionale appare, se non come una condizione necessaria, almeno come una garanzia di pace. Strana epoca la nostra, in cui le ubriacature imperialiste si trovano di fronte il desiderio profondo dei popoli di realizzare la pace. Senza dubbio, nessun popolo vuol disarmare prima degli altri. Ci calunniano coloro i quali pretendono che noi vogliamo strappare alla Francia i suoi mezzi di difesa prima che un’intesa internazionale abbia
(x) L’HnmaniU, giugno 1908
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preparato il disarmo simultaneo dei popoli di Europa. Non vogliamo disarmare la Francia della Rivoluzione. Ma, in lutti i paesi, cresce il numero di quegli uomini i quali si stupiscono e si affliggono di vedere l’umanità costantemente esposta a strapparsi le viscere; il numero cresce, in tutti i paesi, di quegli uomini che si stupiscono e si affliggono di vedere consumate in opere di distruzione e dì morte delle somme immense che dovrebbero essere destinate a delle opere di vita. Quando cesserà questo scandalo per la coscienza e per la ragione?».
La catastrofe di Messina gl’ispira le assennate riflessioni seguenti :
« Tutti i popoli si associeranno di pieno cuore al lutto del popolo italiano. Dalla Francia dei messaggi di simpatia sincera e commossa soni/ stati mandati ai rappresentanti dell’Italia, e i nostri marinai accorrono verso le rive devastate della Calabria e della Sicilia per prestare le loro braccia all’opera di soccorso. Sono queste le ore della solidarietà vera, in cui gli uomini sentono la loro miseria comune.
« Ma per quale aberrazione, gli uomini aggiungono essi alle brutalità della natura la ferocità delle loro proprie violenze? Quale tristezza e quale umiliazione di pensare, a proposito di tutte le catastrofi scatenate dalle forze fisiche, che gli uomini preparono a sè stessi, deliberatamente, calamità più tremende ancora ! Essi si compiangono a vicenda quando il grisou esplode e quando un vulcano è in eruzione ; essi piangono sinceramente insieme; si aiutano a vicenda come meglio possono. Eppure, essi meditano i mezzi migliori per sgozzarsi reciprocamente alla prima occasione. I crateri dei vulcani non essendo sufficienti, essi moltiplicheranno le bocche dei cannoni! I capi di Stato si mandano le condoglianze con la stessa mano che firmerà l’ordine di mobilizzazione e di carneficina generale. Vi è in quel miscuglio di solidarietà e di uccisione una sinistra commedia » (1).
Abbiamo parlato del carattere idealista del socialismo di Giovanni Jaurès, e non crediamo aver fatto una affermazione esagerata. In un Congresso tenuto nel settembre 1900 egli dichiarava esplicitamente che «se il socialismo vuol emancipare gli uomini, non è solamente
per accrescere il loro benessere : è per aumentare la loro dignità morale, la loro autonomia, la loro potenza di pensiero e di volontà».
A proposito della giornata di otto ore, egli scrive :
« Se il partito operaio reclama la giornata di otto ore, non è solamente per impedire l’avvilimento dei salari limitando l’offerta del lavoro ; è ancora, è sopratutto per dare al popolo oppresso la facoltà di respirare, cioè di pensare, perchè il pensiero è davvero la respirazione dell’uomo... Il popolo trasformato (dal pensiero) trasformerebbe l’ordine sociale» (i).
La trasformazione dèli’ordine sociale non avrà per conseguenza fatale quella dell’individuo ; ma contribuirà ad essa. E questo Jaurès lo sapeva. Tanto vero che, al Clémenceau che rinfacciava all’internazionalismo e al collettivismo di esigere un altruismo impossibile, Jaurès rispose un giorno:
« La Rivoluzione francese ha essa avuto bisogno di cambiare la natura dell'uomo ? Essa ha messo semplicemente le energie dell’uomo nelle condizioni nuove d’un nuovo ambiente sociale.
« ... Del pari, l’ordine collettivista preparato dal socialismo internazionale susciterà, per mezzo della cooperazione sociale universale, l’iniziativa di tutti, la responsabilità di tutti, e, in questo modo, esso sarà un grande maestro di energia e di virtù. Ma esso non presuppone uno sconvolgimento miracoloso della natura umana. L'uomo potrà entrarvi con tutta la sua anima e con tutte le sue passioni, colle sue ambizioni e i suoi egoismi, che una forte organizzazione giuridica distoglierà soltanto dalle imprese violenti a danno del diritto altrui » (2).
A proposito dei giovani del nostro tempo, egli adopera un giorno un linguaggio veramente elevato e persino spiritualista :
«Andranno essi senza ideale, senza luce? E quale altro ideale prossimo potranno essi avere se non la giustizia tra gli uomini? Andranno essi, come molti che io conosco, disgustati dalle miserie degli intrighi politici, dal materialismo grossolano... a rinnovare in loro stessi, alle fonti evangeliche, il sentimento cristiano e le gioie cristiane ? Ma soltanto ciò che ha una vita interiore nelle anime, ha nello stesso tempo una vita esteriore nelle società, e lo spirito cristiano non potrà affermarsi a nuovo, anche nell’intimità delle co(x) L’Humanìti, gennaio X909.
(x) Revut socialiste, »895, pag. 388.
(a) L'Humanitl, ¡a settembre 190$.
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scienze, s’egli non s’applica, al difuori, a compenetrare colla dolcezza l’ordine sociale».
Un’altra volta, in un discorso tenuto per la distribuzione dei premi del liceo d’Albi, egli cosi definisce il vero coraggio:
« L’umanità è maledetta se, per dar prova di coraggio, è condannata eternamente ad uccidere. Oggi il coraggio non consiste nel lasciare alla forza la soluzione dei conflitti che la ragione può risolvere. Il coraggio, per voi tutti, coraggio di tutte le ore, è di sopportare a fronte alta le prove di ogni genere, fisiche e morali, prodigate dalla vita. Il coraggio, è di non abbandonare la propria volontà al caso delle impressioni e delle forze, è di conservare, nei momenti inevitabili di scoramento, l’abitudine del lavoro e dell’azione. li coraggio, è di capire la propria vita, di precisarla, di approfondirla, di affermarla coordinandola però alla vita generale. 11 coraggio, è di sorvegliare attentamente la propria macchina da filare o da tessere perchè nessun filo si rompa, e di preparare però un ordine sociale più vasto e più fraterno, in cui la macchina sarà la serva comune dei lavoratori liberati. Il coraggio, è di accettare le condizioni nuove che la vita fa alla scienza e all'arte, d’accogliere, di esplorare la complessità quasi infinita dei fatti e dei particolari, e d’illuminare però, con delle idee generali, quella realtà enorme e confusa, di organizzarla e di sollevarla colla bellezza sacra delle forme e dei ritmi. Il coraggio, è di dominare le proprie colpe, di soffrirne, ma di non esserne schiacciati, e di proseguire la propria strada. Il coraggio, è di amare la vita e di guardare con sguardo tranquillo la morte; è di andare all’ideale e di comprendere il reale; è di agire e di darsi alle grandi cause senza sapere se e quale ricompensa serbi pei nostri sforzi il profondo universo».
A proposito del conflitto scolastico, in un discorso alla Camera (24 gennaio 1910), egli dichiara che « il cristianesimo è uno degli elementi della nostra formazione... V’è la tradizione d’oriente e v’è la tradizione cristiana. E noi perderemmo molto se non si prolungasse nella coscienza francese la serietà di quei grandi Ebrei i quali non concepivano soltanto 1? giustizia come un’armonia di bellezza, ma la reclamavano appassionatamente con tutto il fervore della loro coscienza; che si appellavano al Dio giusto contro tutte le potenze brutali ; che evocavano l’età in cui tutti gli uomini sarebbero riconciliati nella giustizia e in cui il Dio ch’essi chiamavano, secondo l’ammirabile parola del salmista o del pro
feta, cancellerebbe, asciugherebbe le lacrime da tutti i volti ».
In quella occasione, egli ha il coraggio di dichiarare che il nome di Dio non lo spaventa. Ecco le sue parole testuali:
« Il sig. Pioti rimpiangeva che non si pronunziasse a scuoia il nome di Dio, non il Dio dei cattolici, ma il Dio indefinito di Vittorio Cousin e di Giulio Simon. Io non ho paura di quel nome ; ma non capisco che voi abbiate questo rincrescimento. Potete voi credere alla virtù educatrice di quel Dio di transizione {sorrisi}... tra il Dio dei cristiani e il Dio del monismo? Paolo Beri, che era un -positivista, non ha creduto di poter parlare di Dio perchè ha pensato ch’egli non poteva tributargli che dei doveri di cortesia {sorrisi}.
« La scienza afferma sempre più l’unità delle forze della natura.
« Dei fanciulli che avessero ricevuto in tutta semplicità quelle grandi lezioni di scienza sarebbero preparati a comprendere l’azione delle religioni meglio che non lo sarebbero ripetendo le formule del Cousin. Ecco da quale spirito dev’essere diretto l’insegnamento della morale, della scienza e della storia».
Alcuni giorni dopo questo intervento alla Camera, egli scrive nella Dèpècke:
« E’ il dovere degli istitutori, anche dal punto di vista scientifico e razionalista, di non lasciar credere ai bimbi che, colla scoperta di alcune leggi fisiche e chimiche, sia stato esaurito il mistero dell'universo. Il mondo e la vita pongono all’uomo formidabili problemi, di cui egli ha cercato la soluzione per mezzo dello sforzo tragico di tutte le sue religioni, di tutte le sue filosofie. L’istitutore non deve e non può proporre ai fanciulli delle soluzioni bell’e fatte di quei problemi. Ma deve, pel modo stesso in cui egli insegnerà la storia e la scienza, abituarli a considerare con gravità, con un’alta emozione,- le questioni d’insieme, le questioni totali, che. più tardi, nella loro esperienza della vita e col loro pensiero più forte, essi cercheranno di risolvere liberamente^ secondo le ispirazioni di questa o quella dottrina, di questa o quella credenza. E' questa la vera libertà dello spirito ».
L’alta ispirazione religiosa del suo pensiero la vediamo ancora nel discorso da lui pronunciato nella discussione sxx\\'abolizione della pena di morte, il 18 novembre 1908. Eccone la parte più saliente :
« Ciò che mi colpisce maggiormente è che i partigiani della pena di morte vogliono far pesare su di noi, sul nostro spirito, sul movimento stesso della società umana, un dogma
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di fatalità. Vi sono degli individui, ci vien detto, che sono talmente corrotti, abbietti, irrimediabilmente perduti, per sempre incapaci di qualsiasi sforzo di rilevamento morale, che non rimane altro da fare se non sopprimerli brutalmente dalla società dei viventi. Checché si faccia, v’è in fondo alle società umane un tale residuo irreducibile di barbarie, di passioni così perfide, così brutali, così refrattarie a qualsiasi tentativo di medicatura sociale, a qualsiasi istituzione preventiva, a qualsiasi repressione energica ma umana, che non v’è altro scampo, non v’è altra speranza eccettuata quella ¿’impedirne l’esplosione, di creare in permanenza lo spavento della morte e di mantenere la ghigliottina.
« Ecco ciò che io chiamo la dottrina di fatalità che ci viene opposta. Credo poter affermare eh’essa è contraria a ciò che, da due mila anni, l’umanità ha pensato di più alto ed ha sognato di più nobile. Essa è allo stesso tempo contraria allo spirito del Cristianesimo e allo spirito della Rivoluzione.
« Il Cristianesimo è stato per gli uomini una grande predicazione di umiltà e nello stesso tempo di fiducia. Esso ha proclamato alio stesso tempo l’universale caduta e l’universale possibilità di rilevamento. Esso ha detto a tutti gli uomini che nessuno poteva confidare nella virtù propria ; che in fondo ai cuori più puri e alle anime più innocenti vi erano dei germi avvelenati, residui della grande colpa originale, e che sempre potevano infettare col loro veleno le anime più orgogliose e più sicure di se stesse. E, nello stesso tempo, esso ha detto che non v’è un solo individuo umano, finché conservi il respiro, per quanto decaduto, per quanto deturpato egli sia, che non sia stato virtualmente compreso nell’opera di riscatto divino e che non sia suscettibile di riparazione e di rilevamento. E allorquando constato questa dottrina del Cristianesimo, allorché mi provo a riassumerne in questo modo l’essenza e la sostanza, ho il diritto di chiedermi come mai dei cristiani, come mai degli uomini di questa umanità miseranda e diremo esposti alle medesime cadute e capaci dei medesimi rilevamenti, si attribuiscono il diritto di dire ad altri uomini, impastati col medesimo fango e visitati dal medesimo raggio di luce, eh essi non sono altro che putridume e che non resta altro da fare se non di sopprimerli dalla vita... No, no, in questa come in molte altre questioni, i cristiani sostituiscono allo spirito cristiano una tattica conservatrice che del cristianesimo non conserva che il nome».
Poco tempo prima di questo discorso alla
Camera, Jaurès, parlando di Soleilland, autore d’un orribile delitto, ricordava alla società il suo dovere di « lasciare aperte davanti a quel delinquente le vie del rilevamento morale». «Qual è quel cristiano, esclamava egli, se ha veramente lo spirito di Cristo, che ha il diritto di disperare d’una creatura umana?».
A proposito delia libertà di coscienza nell'esercito, libertà che era minacciata in seguito alle pene disciplinari di cui erano stati colpiti alcuni ufficiali di Laon per aver assistito alla messa, Giovanni Jaurès, dopo aver disapprovato e deplorato le misure prese contro di essi dal ministero Clémenceau, fa le osservazioni seguenti :
« Chi non vede allora - per l’insieme delle libertà civiche, politiche e religiose che noi vogliamo, sotto l’unica riserva della disciplina, garantire a tutto l’esercito, come a tutti i cittadini impiegati nelle amministrazioni pubbliche — il pericolo delle interpretazioni rigorose e arbitrarie? Chi non vede per noi, socialisti, che vogliamo che gli ufficiali socialisti non siano trattati come persone sospette e colpiti dal potere in ragione delle loro possibili relazioni col mondo operaio, il pericdlo del precedente creato contro gli ufficiali cattolici di Laon? Vi sono già degli ufficiali socialisti; ve ne saranno sempre maggiormente quanto più cadranno i malintesi stupidi e funèsti creati tra la democrazia sociale e l’esercito. Non vogliamo eh’essi vengano colpiti con delle armi fabbricate da noi. Noi protestiamo da mesi contro la politica di compressione, di repressione, d’autoritarismo brutale applicato dal ministero Clémenceau alle organizzazioni operaie, alle associazioni di piccoli funzionari. Vogliamo introdurre nei servizi pubblici un’idea nuova, una pratica nuova della disciplina, in cui la collaborazione del personale terrà un maggior posto, in cui la libertà individuale dell’impiegato, come cittadino e come uomo, sarà meglio garantita : e in questo modo lavoriamo nel senso del socialismo, il quale sarà possibile soltanto quando le grandi organizzazioni collettive si concilieranno colle libertà individuali » (1).
II.
•
Ciò che noi abbiamo riferito sinora dai discorsi e dagli scritti di Giovanni Jaurès, prova che, in molte circostanze, egli ha parlato come un profeta, come un savio antico, dando una voce eloquente alla coscienza umana, anzi
(s> La DtfWu del 7 febbraio 1909.
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alla coscienza cristiana. Ma, per accertarsi meglio se veramente Jaurès è stato un libero pensatore religioso, occorre ricercare in merito qualcosa di più preciso e di più categorico.
Ecco una prima dichiarazione:
«In quanto a me, io non ho alcun preconcetto di offesa o di disprezzo riguardo alle grandi aspirazioni religiose che, nella diversità dei miti, dei simboli e dei domini, hanno portato in alto lo spirito umano. Neppure mi rinchiudo, come molti dei nostri fratelli maggiori, nella repubblica, in quel positivismo gretto di Littré, che non è altro se non una mediocre riduzione del grande positivismo mistico di Augusto Comte. Ancora meno io accetto come una specie di vangelo definitivo quel materialismo superficiale che pretende spiegare tutto con quella suprema incognita che si chiama la materia. Io credo, o signori, che alcune spiegazioni meccanistiche non esauriscono il senso dell’universo e che la rete delle formóle algebriche e dei teoremi astratti che noi gettiamo sul mondo, lasciano passare la realtà come le maglie delia rete del pescatore lasciano passare il fiume. Non ho mai creduto che le grandi religioni umane fossero l’opera d’un calcolo© del ciarlatanismo. Senza dubbio esse, nel loro sviluppo, sono state sfruttate dalle classi e dalle caste, ma esse sono venute fuori dal fondo stesso dell’umanità ; e non soltanto esse sono state una fase necessaria del progresso umano, ma esse rimangono ancora oggi come un documento incomparabile della natura umana e, secondo me, esse contengono nelle loro confuse aspirazioni, dei presentimenti prodigiosi e degli appelli all’avvenire che forse saranno intesi » (1 ).
UeW Action socialiste (2) egli è ancora più categorico :
« E’ difficile, in un giornale, toccare le questioni religiose, perchè si è quasi sempre fraintesi. Se si combattono le pretese della Chiesa, si è accusati di voler distruggere là religione. E, d’altra parte, se si dichiara che la soluzione materialista del problema del mondo è gretta e falsa, si è vagamente sospettati d’essere clericali... Bisognerà pure che la democrazia giunga a spiegarsi su queste questioni così alte e così decisive, perchè la politica, per quanto rumorosa e necessaria, non è nè il fondo, nè lo scopo della vita... In quanto a me, non posso lasciar correre senza protestare le osservazioni dei giornali che ci rappresentano come dei fanàtici del(x) fournal Officiti del 32 febbraio 189$.
(3) Prima serie, pag. 160. L'articolo era stato pubblicato anche nella Dioiche del 4 luglio 1892.
l’irreligione. E’ il contrario della verità. Io stimo che sarebbe funesto di comprimere le aspirazioni religiose della coscienza umana. Noi vogliamo che tutti gli uomini possano elevarsi ad una concezione religiosa della vita per mezzo della scienza, della ragione e della libertà. Io non credo affatto che la vita naturale e sociale basti all’uomo. Non appena avrà egli nell’ordine sociale realizzato la giustizia, egli s’accorgerà che gli resta un vuoto immenso da riempire. Del pari io non esito a riconoscere che la concezione cristiana è una forma elevatissima del sentimento religioso e mi garbano poco certe facezie grossolane sul cristianesimo e sui preti... L’ora è venuta per la democrazia, non di canzonare o d’insultare le antiche credenze, ma di cercare ciò ch’esse contengono di vivente e di vero e che può rimanere nella coscienza umana affrancata e ingrandita ».
Jaurès non ci dice che cosa, delle antiche credenze, egli per proprio conto conservi. Certo egli ammette la vita avvenire, poiché, nella Dépéche del 25 giugno 1887, egli affermava: «Se, com’io credo, la porta dell’infinito s’aprirà alle anime dietro la morte, non bisogna ch’esse vi si affaccino oscure, aggravate, avvilite, con cenci da schiavo, ma libere, fiere e liete, radiose dell’opera di giustizia incominciata quaggiù ».
« * *
Come tutte le anime veramente spiritualiste, Jaurès è stato un anticlericale, ma giammai il suo anticlericalismo rasenta l’irreligione. Egli non risparmia la Chiesa, la Chiesa infedele; ma rispetta l’Evangelo e gli tributa il suo omaggio. Lo dimostrano le parole seguenti :
« La Chiesa ha indurito e disseccato il domina. L’Evangelo col suo spirito libero e poetico, è stato sostituito con pratiche aride, con formalità superstiziose e con terrificanti credenze » ( 1 ).
« La prima cura della Chiesa, s’essa volesse davvero far penetrare lo spirito cristiano sino in fondo alle anime, dovrebb’essere di aiutare e non di combattere coloro i quali, come noi, vogliono svegliare ovunque il pensiero. Ma la Chiesa non pensa che alla sua dominazione» (2‘.
« La Chiesa aveva ricevuto un deposito magnifico di credenze consolanti e di speranze. Ma essa ha voluto, in nome d’un’altra vita.
(s) La Dlpìcht, io novembre 1889.
(2) Idem, idem.
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ottenere nella vita presente da tutti coloro che lavorano e che soffrono il rinunziamento, la rassegnazione passiva a beneficio dei potenti e dei felici ; la speranza sublime d’immortalità di cui essa possedeva la tradizione, essa ]' ha messa al servizio di tutti i despotismi e di tutti gli egoismi» (i).
« Dei frati, provandosi inutilmente a fare i diplomatici, si mostrano, di fronte alle folle, benevoli, tolleranti, democratici. Più di tutti gli altri essi vogliono il bene del popolo: sono amici della libertà, di tutte le libertà... e, alla prima interruzione, essi esclamano che l’Inquisizione non ha mai perseguitato altri che la canaglia. Canaglia i nostri antenati albigesi che cercavano una regola morale superiore. al di fuori d’un cattolicismo dissoluto e oppressivo ch’era solo più paganesimo! Canaglia, i riformati! Canaglia altresì, oggi ancora, tutti coloro che non si piegano sotto il domina ! • (2).
« Senza il popolo, scrive egli ancora, che cosa sarebbe stato il Cristianesimo? Il lavoro della coscienza e dello spirito antichi lo aveva preparato; ma sono le moltitudini sofferenti e dolci che lo hanno fatto, versandovi il loro bisogno di sperare e di amare. Orbene, appena nato, il Cristianesimo sfuggiva al popolo, e il popolo lasciava fare. In capo ad alcuni secoli, una gerarchia fanatica, oppressiva dello spirito e del popolo stesso, s’era sostituita alla dolcezza dell’Evangelo» (3).
Certo la religione di Gesù non consiste per faurès in una rivelazione soprannaturale, ma semplicemente in una morale sublime e forse in qualcosa di più ; ad ogni modo egli sembra aver capito la vera missione della Chiesa.
« La Chiesa, leggiamo noi nel suo libro V/lclion socialiste (4) sarà costretta ad inchinarsi davanti alla storia e alla critica come si è inchinata davanti all’astronomia e alla geologia ; ed essa affermerà la missione divina del Cristo, indipendentemente da tutte le ipotesi circa la sua origine che non hanno alcun interesse religioso ».
Il Cristianesimo per Jauròs è, tra le altre cose, una magnifica filosofia. Come a Tol-stoi, il quale anche lui aveva ripudiato il domina soprannaturalista, così a Jaurès non si può dunque negare la qualità di uomo religioso.
«Allorquando il Cristianesimo, dice egli, dichiara che le semplici relazioni tra gli uo<:) Action toeialiete, prima serie, pag. 325.
<®> Idem, pag. 147.
(3) La IMjccke, del 14 luglio 1889.
(4) Prima serie, pag. 167.
mini non bastano, ma che bisogna ancora che le anime umane possano unirsi in una specie di abbraccio appassionato ; quando esso cerca qual’è il centro in cui tutte le coscienze individue possano compenetrarsi e fondersi; quando egli concepisce Dio non come una astrazione intellettuale, ma come la vita infinita che s’unisce all’umanità nell’esaltazione delle coscienze e che s’esprime nella natura come in un simbolo prodigioso e dolce ; quando esso ci rivela, per mezzo delle sublimi nevrosi dei suoi mistici, le potenze sconosciute che sono allo stato di dormiveglia nella natura umana ; quando fa del sacrificio la legge dell’infinito stesso, e ch’egli intuisce che l’universo, in una evoluzione appassionata, potrà risalire verso l’amore che ne è la sorgente, il Cristianesimo è senza dubbio una grande e affascinante filospfia»(i).
• * *
Ma è specialmente in una circostanza solenne ch’egli s’è veramente mostrato spiritualista, e ch’egli ha dovuto far riflettere molti cristiani ricordando loro qual’è lo spirito del Cristianesimo. Merita il conto di trascrivere quasi per intero il magnifico discorso ch’egli pronunziò alla Camera il 12 novembre 1906, al momento della discussione sulla Legge di separazione della Chiesa dallo Slato. Il meraviglioso oratore, dopo aver descritto la funzione della Repubblica, che è di realizzare la piena libertà per ognuno, oppone Patteggiamento tenuto dal cattolicismo romano a quello eh’esso avrebbe potuto prendere se fosse stato animato dalla vera fede dell’Evangelo.
«Allorquando noi avremo organizzato l’insegnamento in modo tale eh’esso sia sottratto ad ogni grettezza settaria, in qualunque senso possa dessa esercitarsi, allorquando, secondo la bella parola di Proudhon, sulla testa del fanciullo verranno a convergere tutti i raggi dello spirito umano, in modo tale ch’egli possa scegliere in seguito tra le varie direzioni dello spirito che la simpatia del maestro gli avrà suggerite; allorquando noi avremo costituito una forza di assicurazione sociale contro i rischi elementari della vita, tale che la bella carità religiosa rimanga come un lusso di tenerezza e non sia più un mezzo di dominazione, allora, o signori, chi d’infra noi, potrà temere la piena e libera affermazione di qualunque fede religiosa? (2) Allora la tradizione stessa sarà costretta a fare valere i suoi
(r) Action cocialiitc, prima serie, pag. rèa.
(2) Qui c in altri punti «¡amo noi che sottolineiamo*
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titoli davanti alla ragione; allora essa non sarà più che l’appoggio dell’intelligenza umana costituita dal lento sforzo del passato, ed una magnifica testimonianza della continuità dello spirito umano.
« Che c’importa, allora, che degli uomini vi aderiscano? che c’importa che degli uccelli di passaggio vengano a migliaia a nidificare nelle vecchie torri delle cattedrali, purché nei boschetti verdeggianti della foresta alcun nido non sia distrutto ed alcun’ala non sia capti va? (i).
« Ecco il nostro ideale, ecco il nostro pensiero. E allora volgendomi verso i cattolici, io dico loro : « Perchè non avete afferrato, perchè non afferrate l’occasione impareggiabile che la legge di separazione vi offriva e vi offre di liberarvi dalle potenze politiche e sociali del passato e di tornare in comunione coite due grandi forze del mondo moderno, la scienza e la democrazia? — Se voi aveste ancora fede in voi stessi, nelle virtù dei vostri principi, nell’immortalità divina della vostra speranza, voi non avreste temuto quel contatto e quella comunicazione ; voi avreste potuto dire alle anime, voi, Chiesa : « I vostri scienziati affermano la legge di evoluzione: ma, a misura eh’essi l’analizzano più profondamente, essi scoprono che ogni momento di evoluzione arrecò qualcosa di nuovo; che, sotto l’apparente continuità di quell’evoluzione di superficie, v’è una forza perpetua di creazione, di rivelazione ; la vostra scienza appoggiava il mondo sulla brutalità opaca e compatta della materia, ed ecco che questa medesima scienza dimostra oggi che la materia a grado' a grado svanisce e si idealizza ; che l’antica opposizione tra l’etere imponderabile e la materia pesante, si risolve nell’unità dell’universale energia e che quell’energia per mezzo delle sue condensazioni prodigiose, simbolizza e annunzia la volontà, e per mezzo della potenza raggiante simbolizza e annunzia la forza del pensiero e dello spirito».
« E ai proletari, ai lavoratori, potevate dire, voi. Chiesa : « Io vi aspetto all’indomani stesso della rivoluzione sociale, anche se essa realizza tutto il vostro sogno di giustizia, sopratutto se essa io realizza ! Perchè voi constaterete tanto più le strettezze della vita umana quanto più ne avrete riempite tutte le possibilità»...
(z) Ecco il vero tentatore Utero. Confronta questo passo c gli altri precedenti sulla vera laicità nelle rettole col bsano di un discorso pronunziato quasi alla stessa epoca dal Litero-Pematore ministro Viviani : ■ Noi abbiamo strappato la coscienza umana alla credenza nell'at di là. Tutti insieme d'un gesto magnifico, abbiamo spento nel ciclo delle stelle che non si riaccenderanno più ».
«Si!agite, proletari, lavorate, preparate l’avvenire; io; Chiesa, vi aspetto ancora all’indomani. Nel comunismo più ampio e più profondo sussisterà ancora la grettezza degli egoismi, l’oscura impenetrabilità delle anime chiuse. Io, Chiesa, vi proporrò non la cooperazione, non l’armonia, ma l’ardente fusione dei cuori nel centro di vita di una personalità incomparabile. Nonostante tutto rimane, una grande individualista : è la Morte che regola il conto di tutti, ma che lo regola con ciascuno personalmente, e che, sullo spigolo duro delie tombe, infrange le solidarietà sociali e umane. Ebbene, io. Chiesa, al di là di quella crisi, al di là di quell’ombra, ho intravisto per voi, ho annunziato per voi nell’ampio seno d’un mondo rinnovato una ricostituzione sublime della solidarietà umana. E poiché la vostra scienza constata che la natura si eleva di forma in forma, di grado in grado, sollecitata da un ideale che, agli occhi miei, è una forza trascendente, io, Chiesa, ho preceduto, ho anticipato la più audace speranza che possa agli uomini essere suggerita da questa evoluzione ascendente, e vi reco una proméssa di vita che i rivoluzionari del pensiero e dell’azione non hanno pareggiata giammai.
« Rivendicate dunque, operate, salite, io non colpirò con le verghe dell’assolutismo delirante le vaste democrazie agitate come il mare, non farò pesare una immobilità stagnante su quell’oceano mosso dal vento che viene dal largo, e che forse non è altro che quello spirito di Dio librato sulle acque, di cui parlano i miei libri antichi. Ma io metterò una luce di speranza sovrumana in cima a tutte le onde sollevate.
« Ecco, o Chiesa, se aveste avuto [ancora fede nei vostri principi, quello che avreste potuto dire agli uomini ; ma non avete più la vita in voi e colpite a vicenda tutto ciò che in voi ha vita, tutto ciò che in voi si muove.
« Anatema sulla democrazia cristiana d’Italia; anatema sull’ardire di coloro fra i vostri esegeti che tentano di conciliare con l’essenziale dei vostri dogmi le scoperte imperiture della scienza e della critica; anatema sopra una legge repubblicana di laicità e di libertà che vi metteva in contatto col popolo vivo. In voi la vita si ritira da tutte le parti! Vi soffocate da voi stessi. Ah! voi volete la pace, voi chiedete la pace e preparate la pace della tomba ben chiusa, dove non vi sono correnti d’aria, dove non v’è soffio di libertà, dove i vostri occhi potranno riaprirsi senz’essere feriti da un solo raggio di luce.
« Sì, è contro questa potenza che dobbiamo lottare, non con la violenza, ma per mezzo
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della stessa comunicazione di ciò che a loro appare come la forza più tremenda: la forza della libertà.
« Ed ecco perchè io dico : La pace sarà possibile, sia che il cattolicesimo, racchiudendosi in quell’isolamento intransigente e mortale, vi langua, vi perisca, come s’egli avesse seppellito se stesso in quegl’:// pace, in fondo ai quali egli, per dei secoli, ha fatto scomparire i ribelli dello spirito. Oppure esso si sveglierà, esso saluterà il sole che si alza sul mondo nuovo, vi si riscalderà, vi porterà pure la bontà della sua tradizione propria, e allora capirà che ciò che in lui v’è di vivente, di ardito, di fecondo, può svilupparsi, e deve svilupparsi, nella libertà comune».
Ben detto davvero. Sarebbe desiderabile che tutte le Chiese traessero qualche vantaggio da quel grande discorso cristiano-sociale, e che, specialmente la Chiesa romana, infrangesse le catene dell’« assolutismo delirante», e tornasse al cristianesimo primitivo, o, meglio, al Cristo stesso, « quella personalità incomparabile » per avere da Lui il secreto di quella vita libera e completa sognata dal leader socialista.
*
• *
La quale vita libera e completa è lungi dall’essere realizzata dal protestantesimo, indebolito dalle sue divisioni. Anche -di esso si è occasionalmente occupato Jaurès. Per esempio, nella sua tesi latina : I^e origini del socialismo tedesco, tradotta in- francese nella Renne socialiste del 1892, egli esamina con simpatia il contributo recato da Lutero al socialismo. Un passo dimostra come, se lo avesse voluto, Jaurès sarebbe stato in grado di fare la sintesi del Cristianesimo e del Socialismo:
« Secondo Lutero, un nuovo cielo si rifarà, una nuova terra si riformerà, non un cielo teologico, non una fantasmagorica figura della terra, ma un cielo vero, una terra vera. Non bisogna dunque dire: La giustizia è dell’altro mondo o al di fuori del mondo. Essa brillerà un giorno sotto il sole dei viventi e il cielo visibile. In ¿verità, non si riconosce li lo spirito stesso^del socialismo’che s’applica a far
penetrare la giustizia non negli spazi vuoti e ghiacciati della morte, ma nella vita stessa, e di cui la fede abbraccia il inondo intero in un immenso desiderio di giustizia?»(1).
11 25 aprile 1905, Jaurès dichiarava al Parlamento di « non inai parlare della Riforma, di quel mirabile risveglio delle coscienze individuali, se non con un profondo e serio rispetto », e di « rimpiangere, con Quinet, che quei grande movimento fosse stato bruscamente eliminato dal paese, privato in questo modo d’uno dei suoi elementi d’equilibrio». Soltanto va da sè che, per lui, la Riforma è stata largamente oltrepassata dalla rivoluzione.
* * *
È tempo di concludere. Dopo tutti i frammenti di discorsi e di scritti da noi raccolti, i nostri lettori ammetteranno certamente con noi che il loro autore è davvero un oratore idealista, uno spiritualista convinto, un libero pensatore religioso. Non tacciamo qui dell’apologetica. Non vogliamo tirare a noi la grande anima di chi è stato uno dei capi più militanti del socialismo contemporaneo. Abbiamo voluto soltanto lasciar parlare quei testi che maggiormente hanno fatto vibrare le nostre anime di cristiani sociali o di socialisti cristiani. Ci sarà lecito soggiungere che, se il grande tribuno avesse conosciuto a fondo l’Evangelo, ed avesse sempre potuto ispirarsene nella sua opera di emancipazione proletaria, la sua azione riformatrice sarebbe stata più intimamente radicata nel passato e quindi più profonda, più duratura, forse simile a quella d’uno degli apostoli primitivi. Perchè la durata illimitata d’un'azione rinnovatrice dipende proprio — almeno questa è la nostra convinzione assoluta — dall’insegnamento, dall’esempio, dal sacrificio e dallo spirito di Gesù Cristo, che è stato e che rimane la forza per eccellenza di tutte le rivoluzioni benefiche.
Edmondo Gounelle.
(1) Revw socialiste, 1892, I, pag. 652.
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INTERMEZZO
IL SEMINATORE
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ESÙ, uscito di casa, si pose a sedere presso il lago. E molta folla gli si accalcò attorno, talché Egli, entrato in una barchetta, si pose a sedere ; e tutta la moltitudine stava in piedi sulla riva.
Ed Egli insegnava loro molte cose in parabole, e diceva loro nella sua dottrina :
Udite : Un seminatore uscì a seminare ; e mentre seminava, una parte cadde lungo la via e fu calpestata, e gli uccelli la mangiarono tutta. Ed un'altra cadde sopra la pietra ; e, come fu nata, al sole si seccò perchè non aveva radici. Ed un'altra cadde in mezzo alle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Ma un'altra cadde in buona terra e portò frutto.
Questo è il senso della parabola : Il seminatore è colui che semina la Parola.
E quelli che ricevono la semenza lungo la via, sono coloro, nei quali la Parola è seminata, e dopo che l'hanno udita, subito viene Satana, e toglie via la Parola dal cuor loro.
E quelli che ricevono la semenza in luoghi pietrosi, son coloro, i quali, quando hanno udito la Parola, prestamente la ricevono con allegrezza ; ma non hanno in se radice, e quando viene la tribolazione e la persecuzione si traggono indietro.
E quelli che ricevono la semenza tra le spine, son coloro, che odono la Parola; ma le sollecitudini di questo secolo, e l'inganno delle ricchezze e la cupidità delle altre cose affogano la Parola, onde diviene infruttuosa.
Ma questi son coloro che hanno ricevuto la semenza in buona terra, coloro che, avendo udito la Parola, la ritengono in un cuore onesto e buono, e fruttano con sofferenza.
(Vangelidi MT. XIII. 1-23; MC. IV. 1-20; LC. Vili, 4-15).
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SAGGIO SULL’ERESIA MEDIEVALE
NEI SECOLI XII E XIII
NA delle principali caratteristiche dei secoli XII e xm è il fiorire, il diffondersi, il trasmettersi di numerosi e profondi moti ereticali. Più la Chiesa si avvicina al culmine della sua egemonia politica e più lo scisma e l’eresia sembrano imper-। versare attraverso tutte le contrade dell’Europa cristiana.
Le misure persecutrici, messe in opera dalle autorità ecclesiastiche, la scomunica e la prigionia, la confisca dei beni e il rogo, le guerre stesse di religioni, non valgono ad I arrestare questa epidemia ereticale. Per la prima volta nella • le crociate, non contro gl' infedeli d’ Oriente, ma contro i
compaesani dissidenti. Due ordini religiosi, il domenicano prima e il francescano dopo, sono specialmente adibiti alla lotta contro l’eresia. Un istituto nuovo, \' Inquisitio haereticae pravitatis> nasce coll’aiuto e concorso più o menò spontaneo del braccio secolare, per armare quello degli inquisitori.
Bisogna pur dire che questo atteggiamento di rivolta spirituale rispondesse a un bisogno prepotente e universale se esso osò affrontare audacemente, e in certo senso vittoriosamente, tutti gli ostacoli.
I seguaci delle varie eresie mostrano una tale pertinacia nella loro fede, uno zelo così deciso di propaganda, una forza d’animo tale e spesso un tale eroismo nei subire tutte le prove sino al martirio che la loro attitudine assume necessariamente il valore d’un fenomeno sociale, il significato d’una profonda e generale corrente dello spirito.
Su questo significato dell’eresia medievale, nei secoli XII e XUI, sul suo valore psicologico e sociale piuttosto che sulle sue vicende esteriori e sul suo contenuto formale io desidero attirare l’attenzione degli studiosi.
I.
La storia della Chiesa è senza dubbio ovunque e sempre ricca di eresie. Ma le eresie, non dirò che sbocciano, perchè nella storia tutti i fenomeni si ripetono e i loro germi si ritrovano in tempi più o meno lontani, ma che si affermano e si configurano nei secoli xn e xm presentano delle caratteristiche
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BILYCHNIS
che le distinguono nettamente dalle eresie precedenti. E' precisamente questa loro configurazione particolare che c’illumina sulla loro profonda significazione sociale. Il fatto che la natura prevalente delle eresie dei secoli xn e xm si oppone a quella del gruppo delle eresie precèdenti, indica che nell'ambiente in cui si sviluppano c’ è qualche cosa di sostanzialmente mutato.
Chi esamina i Caratteri 'precipui dell'eresiologia anteriore trova che le eresie di questo periodo sono essenzialmente e generalmente teologiche o dogmatiche; limitate ordinariamente all’ambito delle scuole e i cui propugnatori sono chierici istruiti ed ecclesiastici. Sono eresiè più o meno scientifiche, spesso imperniate intorno a sottigliezze metafisichqcte scolastiche, erudite, spesso razionalistiche.
Tali furono le grandi controversie del secolo v; e tutte quelle eresie che misero alle prese l’oriente contro l’occidente, una chiesa contro un’altra, vescovi contro vescovi e preti contro preti, tali l’agnosticismo, l’arianesimo, l'eutichesimo, il nestorianesimo, l’adozianesimo, il pelagianesimo, il semipelagianesimo, e tutte le eresie sacramentarie dell’alto medio evo, e che diedero origine a dispute interminabili, arricchendo mostruosamente le biblioteche teologiche.Ecco che a partire dal secolo XII l’eresia presenta dei caratteri antitetici a quelli delle eresie anteriori. Il catarismo occidentale, l’arnaldismo, il valdismo, il francescanesimo, l’apostolicismo, e tutte le eresie predominanti dell’epoca, senza riuscire naturalmente ad eliminare del tutto le controversie scolastiche, sono ispirate non più da sistemi teologici e filosofici, ma dall’Evangelo, non più da sottigliezze scolastiche ma da problemi morali. Esse non commuovono più quasi esclusivamente gli ambienti ecclesiastici, ma pervadono l’anima tutta del popolo ; non recrutano i loro propagandisti tra il clero e gli eruditi, ma tra i laici e gli illetterati.
Evangelismo, laicismo, popolarismo, ecco i caratteri differenziali dell’eresia nei secoli XII e XIII in opposizione al teologismo, allo scolasticismo e al clericalismo delle eresie precedenti.
Esaminiamo più da vicino le caratteristiche delle eresie più moderne, prima di studiarne il valore psicologico e sociale. E per riuscire più chiari, ci converrà spesso fare appello, come ad una eresia tipo, al valdismo, il quale sintetizza validamente queste caratteristiche, che si ritrovano poi sostanzialmente in tutti moti religiosi e popolari dell’epoca: catari occidentali, arnaldisti, pietrobrusiani, erriciani, umiliati, francescani, apostolici, spirituali, fraticelli, ecc.
L’EVANGELISMO.
Le nuove eresie che fiorirono e si svilupparono nei secoli xn e xm, benché le propaggini di alcune di esse appariscano già nel secolo XI, sono a tipo evangelico. La loro affermazione fondamentale consiste nella professione dei precetti evangelici ad litteram, nell’ imitazione servile della vita quale essa era stata vissuta dagli apostoli. Sono i precetti del vangelo, morali, positivi, pratici, accessibili a tutte le intelligenze, e non le sottili distinzioni dommatiche che formano il fulcro di questi movimenti religiosi.
Nel 1025 fu scoperta nella diocesi di Cambrai in Francia un'eresia, imporratavi da un certo Gandolfo, italiano, di cui, per la sua singolare significazione
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SAGGIO SULL’ERESIA MEDIEVALE NEI SECOLI XII E XIII 165
parleremo più diffusamente in seguito. Dirò soltanto qui che i seguaci di Gan-dolfo pretendevano di essere stati formati da lui secondo i « precetti evangelici e apostolici e di non ricevere altra Scrittura all’infuori di questa e questa osservare colle parole e colle opere » (i). Essi dichiarono inoltre di non venerare che i soli apostoli e i martiri (2). Dall’interrogatorio dei discepoli di Gandolfo, fatto dal vescovo di Cambrai, risulta che la, loro dottrina, s* ispirava dalla pratica del vangelo e della vita apostolica e che consisteva nell'abbandono del mondo, nel frenare la concupiscenza della carne, nel vivere del lavoro delle proprie mani, nel non far male a nessuno, nel fare del bene a tutti i loro compagni. E questa pratica di vita riducevano a un culto di giustizia interiore, rinnegando tutti i sacramenti e i precetti di origine ecclesiastica (3).
Nel 1140, la regione di Périgord è percorsa da numerosi eretici i quali, e sono probabilmente un ramo della grande famiglia catara, pretendono condurre « vita apostolica » e predicano la povertà assoluta. E alla povertà pare abbiano convertito molti nobili e molti ecclesiastici {4).
Verso lo stesso tempo, a Colonia e nei dintorni della città furono scoperti parecchi eretici i quali si arrogavano anch'essi il nome di « uomini apostolici », Questi eretici, i quali difendevano la loro dottrina « ex verbis Christi et Apostoli », affermavano di costituire, essi soli, la vera chiesa, « perchè essi soli camminavano sulle tracce del Cristo, dimostrandosi così come veri seguaci della vita apostolica », e, come Cristo e i suoi discepoli, non possedevano nulla. Dicevano inoltre, di essere « poveri di Cristo », di essere instabili, di andare, a sua imitazione, di città in città come pecore in mezzo ai lupi, sofferenti le persecuzioni, come gli apostoli ed i martiri. Asserivano anche di condurre vita severissima, in digiuni, in preghiere e nel lavoro, da cui si contentavano ritrarre il puro necessario. E tutto questo sopportavano perchè essi non erano di questo mondo (5).
(1) Se a Gandulfo « Evangelicis mandatis et apostolicis informatosi nullamquam praeter hanc Scripturam se recipere, sed hanc verbo et opere tenere ». Vedi Mansi, Coll. Conc., XIX, 423. Concilium Atrebatense, a. 1025,
(2) « Praeter apostolos et martyres neminem debere venerari *. Mansi, ibid., pag. 425.
(3) « Lex et disciplina nostra quam a Magistro accepimus, nec evangelicis decretis nec apostolicis sanctionibus contraire videbitur, si qui eam diligenter velit intueri. Haec namque hujusmodi est, mundum relinquere, cameni a concupiscentiis fraenare, de laboribus manuum suarum vietimi parare, nulli laesionem gerere, charitatem cunctis quos zelus hujus nostri propositi teneat, exhibere ». Mansi, ibid., pag. 426.
(4) « Surrexerunt eium in Petragoricensi regione quamplures haeretici, qui se dicunt apo-stolicam vitam dùcere; carnes non comedunt, vinuni non bibunt, nisi permodicum tertia die: centies in die genua flectunt, pecunias non recipiunt... Eleemosynam nihil esse, quia unde fieri possit, nihil debere possideri... In hac seductione quamplures jam, non solum nobiles propria relinquentes, sed et clerici, presbyteri, monachi et monache perveiierunt ». Heriberti monachi epistola, de hacrelicis Petragoricensìbus, apud. D’Argentré, Collectio judiciorum, t- I. pag. 35, ad a. 1140.
(5) < Dicunt apud se tantum Ecclesiam esse eo quod ipsi soli vestigiis christi inhaereiit, et apostolicae vitae veri sectatores permaneant, ea quae mundi sunt, non quaerentes, non domimi, nec agros, nec aliquid peculium possidentes, siCut Christus non possedit, nec di-scipulis suis possidenda concedit. Vos auteni (dicunt nobis) domimi domili et agrum agro copulatis, et quae mundi sunt ipsius quaeritis : ita ctiam ut, qui in vobis perfectissimi habentur, sicut Monachi vel Regulares Canonici, quamvis haec non ut propria, sed possident ut com-munia, possident tamen haec omnia. De se dicunt: Nos pauperesChristi, instabiles.de civi-
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Si tratta anche qui probabilmente di catari, i quali in Europa, in quest’ epoca accentuano il loro carattere evangelico.
Verso la fine del secolo xii, si ha memoria in Italia di una setta di « Poveri », i quali negavano l’efficacità dei sacramenti amministrati da mani indegne, e che deve probabilmente far capo al moto arnaldista, di cui parleremo in seguito (i).
Anche Enrico di Losanna, antico eremita, vissuto verso la metà del sec. XII e che ebbe probabilmente a subire l’influsso di Pietro de Bruis, si presenta come un eretico a tipo evangelico. Egli apparve da prima in Borgogna e poi in Svizzera, specialmente nella regione di Losanna, fornito di una lunga barba, vestito di poveri abiti, vivendo di elemosine, camminando a piedi nudi, dormendo lungo le vie o sotto i portici delle chiese. Egli, che con la sua predicazione infiammata riusciva a sollevare il popolo contro il clero corrotto, pretendeva ricondurre la Chiesa al suo stato primitivo e che per ciò gli occorreva percorrere il mondo, come avevano fatto gli Apostoli, e dare l’esempio della povertà (2).
Un certo Pons, discepolo di Enrico di Losanna, sommoveva ugualmente, verso la fine del secolo XII, tutta la regione del Périgord, predicando la povertà quale il Vangelo l’insegnava e Cristo e gli Apostoli l’avevano praticata (3).
Questo carattere evangelico domina completamente le origini del movimento valdese. Presso Lione, dice il francescano Davide d’Augsburg, che scrisse verso la metà del secolo XIII, vi furono alcuni semplici laici, i quali, infiammati di non so quale spirito, e più presuntuosi degli altri, si vantavano di vivere del tutto secondo la dottrina evangelica e di metterla perfettamente e letteralmente in pratica (4).
Tutta la vita esteriore dei Valdesi primitivi, dei « perfetti », s’ispira pedissequamente della tradizione apostolica. Secondo il precetto di Cristo agli Apotate in civitatem fugienteS, sicut oves in medio luporum, cum apostolis et martyribus perse-cutionem patimur: cum tarnen sanctam et arctissimam vitam ducamus in jejunio et absti-nentiis in orationibus et laboribus, die ac nocte persistentes, et tantum necessaria ex eis vitae quaerentes. Nos hoc sustinemus, quia de mundo non sumus. Vos autem mundi amatore«, cum mundo pacem habetis, quia de mundo estis. Pseudo apostoli adultérantes verbum Christi, quae sua sunt, qiiàesiverunt, vos et patres vestros exorbitare feeerunt: nos et patres nostri generati apostoli in gratia Christi permansimus, et in finem saeculi permansimus. Ad distin-guendum nos et vos Christus dixit : A fructibus eorum cognoscetis eos. Fructus nostri sunt vestigia Christi. In eibis suis vêtant omne genus lactis, et quod inde conficitur. et quidquid ex coitu procreati»*... ». Ever vini Stein/eldensis praeposili, ad Bernardum epistola, ap. 'D’Ar-gentré, t. I. pag. 33.
(1) Cfr. Bonaccorsi, Vitae hacreticorutn, in D’Achéry, Spicilegium, t. I, p. 215. — Lucii, III epistola, 171, in Migne, P. L.
(2) Cfr. A. Luchaire, Les premiers Capétiens, in E. Lavisse, Histoire de pi ance, II, 2, pag. 362.
(3) Cfr. Bouquet, Recueil des historiens de la Gaule,t. XII, pag. 550-551.
(4) « Apud Lugdunum fuerunt quidam simplices layci, qui quodam spiritu infiammati et supra cetero de se presumentes, jactabant se tyar. velie) omnino vivere secundum evangeli! doctrinam et illam ad literam perfecte tenere ». David d’Augsburg, De Inquisitions haere-licorum, in Preger, Der Tractat des David von slushurg, pag. 25.
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stoli, essi non vogliono possedere cosa alcuna, nè in proprio nè in comune (1). Come Gesù, molti «Poveri di Lione», per vivere di elemosine, non vogliono lavorare con le proprie mani ; ciò che non poteva valere, beninteso, che per i perfetti, e non per le masse dei « credenti » valdesi (2).
Come gli Apostoli, i Valdesi vanno predicando, benché laici, il Vangelo e la penitenza per le vie e nelle piazze, camminando due a due, a piedi nudi, vestiti poveramente di lana (3).
Il francescanesimo primitivo deve all’esperienza fatta da Innocenzo III coi Valdesi e all’abilità diplomatica del cardinale Ugolino, poi papa Gregorio IX, se finì per essere incanalato dentro i quadri della Chiesa. Ma il francescanesimo ortodosso, che subì l’influenza deformatrice della compagine ecclesiastica, si ridusse a una negazione dei postulati fondamentali del movimento primitivo, il quale fu una pura e semplice ripetizione del movimento valdese, dando logicamente origine alla corrente ribelle degli spirituali e dei fraticelli (4).
San Francesco, nel suo testamento, afferma di aver ricevuto direttamente da Dio, la rivelazione di dover vivere secondo la forma del Vangelo. Questo il succo della sua regola primitiva, che egli fece scrivere in forti parole e che fu confermata da Innocenzo III. E coloro i quali abbracciavano questa regola, distribuivano ai poveri tutto quello che possedevano contentandosi di una sola tunica, rappezzata di dentro e di fuori, con cingolo e brache (5). Vivevano del lavoro
(1) «... nihil volentes possidere», Chronicon Uspergense (Monumenta Germania« Histórica Scriptores, XXIII, 376); « nil habentes, ... nudi nudum Christum sequentes ». Map. De nugis curialium, ed. Wright, Londra, 1S50, pag. 65 ; « Qui facit votum paupertatis, nihil omnino debet habere, nec in proprio, nec in communi, nec debet vivere de laboribus manuum sua-rum ». Confessio Raimundi de Costa, in Döllinger, Beiträge sur Geschichte der Sekten in Mittelalters, II, 104. Cfr. Stefano de Bourbon, Anecdotes historiques, ed. Lecoy de la Marche, pag. 30; Guy, Practica Lnquisilionis, ed. Douay, pag. 249.
(2) « Dicunt autem praedicti haeretici quod nullo modo propriis manibus laborare debent ». Alano di Lilla, De fide catholica, lib. 2, conira Waldenses P. L., t. 210, pag. 399).
Al secolo XIV, l’astensione dal lavoro è considerata come un elemento essenziale del voto di povertà : « Item dixit quod de ratione voti paupertatis est quod non vivat ili«, qui fecit votum, de labore manuum suarum ». Confessio Raimundi, Döllinger, Beiträge, vol. II, pag. 117; cfr. Protocole de VInquisition du Languedoc (Döllinger, ibid., 104); Guy, Pracl. Inq., pag. 249.
(3) «... vivi et vivi (leggasi bini et bini) circumeunt nudi pedes, lañéis induti ». Gualtero Màp, De nugis curiali uni, pag. 65.
(4) Paolo Sabatier dice a questo proposito: «Les analogies d’inspiration entre Pierre Valdo et saint François sont si nombreuses, qu’on pourrait croire à une sorte d’imitation ». Fie de Saint François d*Assisi, pag. 42 ; e più giù : « Au reste, il paraît fort probable que par son père François aurait été mis au courant des tentatives des Pauvres de Lyon» (ibid., pag. 43). E ancora più giù: «J’ai tâché de montrer plus haut combien l’initiative de François d’Assise présente d’analogies avec celle des Pauvres de Lyon. Sa pensée mûrit dans un milieu tout impregné de leurs idées, où elles pouvaient pénétrer à son insu >, ibid, pag. 52. Cfr. anche Thode, Franz von Assisi, pag. 31.
(5) « Et postquam Dominus dédit mihi de fratribus, nemo ostendebat mihi, quod debe-rem facere, sed ipse Altissimi» revelavit mihi quod deberem vivere secundum formant sancii evangeli!. Et ego paucis verbis et simpliciter feci scribi, et dominus Papa confirmavit mihi. Et illi qui veniebant ad recipiendam vitam, omnia quae habere poterant, dabant pauperibus ; et «rant contenti tunica una intus et foris repetíala, cum cingulo et brachis...». «Testamento », in Speculum perfections seu S. Francisci Assisiensis Legenda antiquissima, auclore Fratre Leone, edito da Paolo Sabatier. Parigi, Fischbacher, 189S, pag. 310.
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delle proprie mani, più per dare il buon esempio e per fuggire l’ozio che per ricavarne profitto; e quando non veniva loro dato nulla, ricorrevano alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta (i).
Durante il secolo XIII sorsero parecchi altri movimenti ad imitazione degli Apostoli. Citerò ancora quello dell’«Ordine degli Apostoli», Ordo Apostolorum, condannato, nel 1286, da Onorio IV (2).
Tra gli imitatori degli Apostoli bisogna annoverare anche Gerardo Sega-relli. Questi, dopo aver venduto la sua casetta e distribuitone il denaro agli indigenti, si vesti come gli Apostoli erano raffigurati nelle pitture, s’involse in un pallio, si mise ai piedi delle semplici suole, e ci acconciò come l’originale i capelli e la barba. Per poter imitare più letteralmente il Cristo, pare che si sia fatto circoncidere e che abbia giaciuto in una cuna avvolto in fasce, e si sia fatto allattare da una donna (3).
Gerardo Segarelli diceva e predicava di voler seguire la vita degli Apostoli, di predicare per penitenza, di insegnare ai popoli una vita nuova per cui egli i suoi discepoli e seguaci chiamò Apostoli. Questi andavano per il mondo come poveri mendicanti, vivendo di elemosine, predicando la penitenza, perchè il regno dei cieli è vicino (4).
A Gerardo, arso a Parma, successe nella direzione della setta Dolcino, figlio di un frate, e suo seguace, il quale seppe raccogliere intorno a sè parecchie migliaia di 'persone. In una epistola scritta nel 1300 e indirizzata a tutta la cristianità, fra Dolcino asserisce la sua essere una congregazione spirituale istituita a modo degli Apostoli, e in povertà (5).
Nel secolo XIII incontriamo infine i Beguardi e le Beguine, i quali professavano di seguire la vita di Cristo e degli Apostoli e di essere la vera Chiesa e non ammettevano altri santi fuori delle loro sette (6).
(1) « Et ego — dice S. Francesco — manibus meis laboraban!, et volo laborare; et omnes alii fratres firmiter volo quod laborent de laboritio quod pertinet ad honestatem. Qui nesciunt, discant, non propter cupiditatem recipiendi pretium laboris, sed propter esemplimi, et ad repellandam otiositatem. Et quando non daretur nobis pretium laboris, recurramos ad men-sam Domini, petendo eleemosynam ostiatim». «Testamento», ibid., pag. 311.
(2) «Quaedam secta sub nomine Ordinis Apostolorum, sine permissu Apostolicae Sedis, temere introducta et multis erroribus favens, ab Honorio papa IV deleta fuit ». D’Argentré, Col tedio judiciorum, 1, 236.
(3) Cfr. Natalis Alexander, Historia Ecclesiastica, ed. Roncaglia-Mansi, Venezia, 1776, Vili, So.
(4) « Novam doctrinan! inferens suis auditoribus sub quedam pietà, et fucata imagine sanctitatis, ostendens se velie tenere et sequi vitam, et vitam Apostolorum, et sicut fecerunt ipsi Apostoli, poenitentiam praedicare, et docere populis vitam novam... Unde suos discípulos, et sequaces Apostólos nominavit, et eos voluit sic appellati... Sectamque illam... instituir Apostolorum ordinem nominati, qui per mundum discurrerent sicut pauperes mendicantes, et eleemosynis viventes, et praedicarent populis ubique: Poenitentiam agite, appropinquavi! enim regnum calorum». Additamenlum ad historiam fratrie Dulcini haerelici, in Muratori, Rer. II. Ser., IX, 447.
(5) « >n <ll 2 3 4 5 6.,a >pse Dulcinus in principio asserii illam suam congregafionem spiritualem esse, et propriam in proprio modo vivendi apostolico et proprio modo cum paupertate propria». Additamenlum ad historiam fratrie Dulcini, ecc., in Muratori, Rer. II. Ser., IX, 450.
(6) « Dicunt se sequi vitam Christi et Apostolorum, et se esse ecclesiam, nullos sanctos tenent nisi suae sectae homines». Ms. della Bibl. di Francoforte, in Döllinger, Beiträge, II, 408.
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IL LAICISMO.
La seconda caratteristica delie eresie del basso medioevo è la loro laicità. Non sono più i teologi o i dotti, ma i laici spesso e gli ignoranti che stanno a capo dei nuovi moti ereticali : o se ecclesiastici, come Enrico di Losanna, hanno assunto un carattere nettamente laicale. Quella degli Apostolici, contemporanei di San Bernardo, è un’eresia di « uomini rustici e illetterati » (1).
Gli scrittori contemporanei dei Valdesi primitivi insistono, non senza un certo disprezzo, sul fatto che essi sono un'accolta di « semplici laici », di « idioti e illetterati » (2).
Per raggiungere i più alti gradi nella gerarchia valdese, non sono necessari titoli accademici nè studi speciali. Gli < idioti » possono diventare diaconi, preti e maggiorali. I loro « dottori » sono anche calzolai. Con ciò non si vogliono naturalmente escludere coloro i quali possedessero comunque una certa cultura (3).
In niun conto tengono le università e le scuole teologiche (4).
La maggior parte degli eretici, non essendo chierici, non conoscono il latino, che è là lingua ufficiare della Chiesa, anzi la detestano (5).
Ciò non toglie che questi laici apprezzino lo studio e si diano gran pena per acquistare quel grado di cultura religiosa che permetta loro di discutere vittoriosamente cogli avversari (6).
Conseguenza di questa laicizzazione della questione e della controversia
(1) « Eadem pene tempestate emersit nova haeresis rusticanorum et illiteratorum homi-num», dice sulla scorta di san Bernardo e di Evervino, Natale Alessandro, Historia Eccl., ed. Roncagli-Mansl, Venezia, 1776, pag. 76.
(2) «Quidam simplices layci», David d’Augsburg, De Inquis. haerel., in Preger, Der Tractat des David von Ausburg über die Waldisier, München, 1878, pag. 25. — « Cum essent ydiotae et layci », ibid., pag. 26. — « Vidimus in concilio romano sub Alexandro papa tertio celebrato Valdesios homines, idiotas, illiteratos, a primate ipsorum Valde dictos». Gualtiero Mapes, De nugis curialium, pag. 64. — « Qui cum essent idiotae et iliiterati », Atti dell’Inquisizione di Carcassona, in Döllinger, Beiträge, II, 6. — «Item pro majori parte sunt iliiterati et ydiotae». Documento pubblicato dal Friess in Oeslerr. Vierteljahrschriftf. Kalh. Theol., XI 11872), 258.
(3) «Tarn Major, quam presbyteri et diaconi possunti fieri etiani idiotae, et facti sunt duo Majorales», Confessio Raimundide Costa, in Döllinger, Beiträge, II, 116. — « Doctores etiam eorum sunt sutores», Reineri, cap. 7— « episcopi... presbyteri et diaconi ordinantur et indifferenter tarn laici et idiotae, quam etiam liberati». Da un libro dell’inquisizione di Carcassona, in Döllinger, Beiträge, II, 289.
(4) « Item universitates scholarum, Parisiensem, Pragensem, Wiennensem et aliorum loco-rum reputant inutiles et temporis perdìtionem ». Da un codice della Biblioteca conventuale di Seitenstetten, edito dal Friess, in Oeslerr. Vierteljahrschr. f.Kalh. Theol., t. XI (1872), pag. 260. — « Item damnant et reprobant studia privilegiata, dicentes, ea fore omnimodam vanitatem », pseudo Petrus de Pilichdorf, C. Haer. Wald. apud Max. Bibi. PP. Lugdun., XXV, 298.— «Item dampnant et reprobant omnia studia generalia», Rapporto dell’inquisitore Pietro nel 139S, in Preger, Beitr. für Gesch. der Wald., in M. A., p. 70.
(5) «... dicunt quod oraciones latine laycis nihii prosunt », Anonimo di Passau, in Preger, Beiträge für Geschichte des Waldenser in Mittelalter, p. 67. — « Sed tu Waldensis, haeretice et asine, et literas nescis, et studia damnas, latinuin idioma, quod nescis, reprobas -, Petrus de Pilichdorf, Contra hereticös Waldenses trac latus, in Max. Bibi. Palrum Lugdun., t. XXV, p. 288.
(6) «Studiiscum magna sollicitudine inhaerentes », De vita et actibus. ecc., in Preger, Geber die Verfassung der französischen Waldesier, p. 70.
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religiosa fra l’uso della lingua volgare invece del latino, furono le traduzioni in volgare della Bibbia, specialmente del Nuovo Testamento e delle sentenze dei Padri.
Anche Valdo, subito dopo la sua conversione alla penitenza, si affrettò a fare tradurre in volgare gli evangeli (i) e nel 1179, a Roma presentò ad Alessandro HI parecchi libri scritturistici tradotti in francese (2). Altre preghiere tradussero i valdesi, come il simbolo degli Apostoli (3).
Questi laici valdesi s'impratichirono così bene nella conoscenza della Bibbia e della patrologia da tener testa brillantemente agli eruditi teologi del tempo. Le discussioni, del resto, si facevano allora unicamente a base di argomenti scritturistici e patristici. D'altra parte l’attitudine di lotta contro la Chiesa romana e l'autorità papale, pur dentro l’ambito della tradizione cristiana, obbligava i valdesi a un commercio famigliare coi libri santi e a una conoscenza estesa degli scritti dei padri. Questo fatto ci spiega come in generale lo studio della Bibbia sia più l’appannaggio dei laici ribelli ed eretici che di quelli ortodossi, anche ¡ostruiti (4). Prima dei riformatori del secolo xvi, il valdese era allora un papa con la Bibbia in mano; esso non ammetteva nulla, dice un antico documento, che non fosse provato da un testo biblico (5).
La sacra scrittura sfugge così al monopolio dei preti. I laici se ne impadroniscono, e tra essi, principalmente i valdesi, facendone oggetto di uno studio più intenso e costante. Noi leggiamo in un documento del secolo XIII che i Vai-desi, di giorno e di notte, giovani e vecchi, uomini e donne erano incessantemente applicati ad apprendere e ad insegnare. L’operaio, occupato durante la giornata del suo lavoro, si affretta, appena calata la sera, a correre allo studio e a prestarsi all’istruzione di altri più ignoranti di lui. Non c’è discepolo di dieci giorni che non vada a cercare altri discepoli a sua volta (6).
Grazie al metodo di cui ci parla un antico documento valdese: disco quo(1) «Et cum fecisset sibi conscribi Evangelia, et aliquos libros Bibliae in volgari», Vita Alexandri III, ap. Muratori, Rerum Italie. SS., t. Ili, p. 447. Cfr. anche Stefano de Bourbon, Anecdotes historiques, ed. Lecoy de la Marche, p. 291.
(2) «Qui librimi domino papae praesentaverunt lingua conscriptum gallica, in quo textus et glosa Psalterii plurimorunque legis utriusque libroruni continebantur », Gualteri Mapes, De nugis curial., ed. Whrigt, p. 64.
(3) «In Symbolo... quod optime in vulgari dicere sciunt», Stefano de Bourbon, loc. cit., p. 299. Sulla storia delle versioni valdesi della Bibbia, cfr. S. Berger, La Bible française au moyen âge, Parigi, 1881, cap. I. Les livres des Vandois, p. 35 ss., dello stesso autore: Les Bibles provençales et. vaudoises, in Romania, t. XVIII (1889), p. 353 ss. ; Comba, Histoire des Vaudois, Paris, 1901, p. 673 ss.
(4) « Quare [dico] propter diligentiam eorum in malum et negligenciam catholicorum in bonum, quorum plures sunt ita négligentes circa suam et suorum salutem, ut vix suum Pater Noster aut Credo sciant vel famulis suis doceant». Stefano di Borbone, op. cit., p. 309.
(5) Quidquid praedicetur, quod per textum Bibliae non probatùr, pro fabulis habent », apud Flaccius Illiricus, Cat. test, verit., ed. 1666, p. 645; cfr. anche Bernardo Gui : « Dicendo et allegando : istud dicitur in Evangelio vel in epistola Sancii Petri », Praciica inquisitions, ed. Douay, V, II, 6.
(6) «Omnes viri, et foeminae, parvi et magni, node et die non cessant docere et discere ; operarius enim in die laborans, in node discit vel docet... Discipulus decern dierum quaerit alium quem doceat». Pseudo-Reineri, ap. Max. Bibi. PP. Lugd., t. XXV.
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tidie unum ver bum (1), questi laici ignari, che non sapevano nè leggere nè scrivere, ottenevano spesso dei risultati notevoli e qualche volta anche straordinari. Un giovane bifolco era riuscito, nello spazio di un anno, ruminando quello che sentiva, a imparare a memoria quaranta evangeli domenicali, appresi parola per parola nella sua lingua materna (2). E di altri sappiamo che appresero tutto il Nuovo Testamento perfettamente (3) e a memoria (4).
Di questi laici eretici alcuni venivano particolarmente addestrati all’ufficio di maestri degli altri. Così i « perfetti » tra i valdesi, e quelli che, nelle varie sètte, ricoprivano cariche pastorali. Di qui l’incremento delle scuole religiose create dagli eretici.
In tutte le città della Lombardia e della Provenza — ci dice un antico documento— esistevano in maggior numero scuole di eretici che scuole di teologi (5). Se ne contavano sino a dieci nella sola parrocchia di Chomach, nell’Austria (6). Io credo che bisogna considerare come una specie di scuole, modeste sia pure, ma che non erano perciò meno un focolare di cultura religiosa, gli hospìtìa, che servivan da dimora ai « perfetti » valdesi (7).
Sin dal secolo XIII i Valdesi possedevano un numero considerevole di scuole, da pertutto là dove un perfetto poteva riunire intorno a sè dei discepoli, i quali restavano presso di lui tutto il tempo necessario per ricevere un'istruzione biblica sufficiente (8). Questi discepoli studenti, erano oggetto di cure particolari : una parte del denaro raccolto con le questue e di cui si faceva la divisione ail’epoca del capitolo annuale, era destinato al profitto degli studenti po(1) Inquis. di Passau, in Max. Bibl. PP. Lugdn., t. XXV.
(2) « Vidi ego juvenem bubulcum, qui solum per annum moram facerat in domo cujusdam heretici Valdensis, qui tam diligenti attencione et sollicita ruminacione affirmabat et retinebat quae audiebat, quod infra annum ilium firmaverat et retinuerat quadraginta evangelia dominicana, exceptis festivitatibus, que omnia verbo ad verbum in lingua sua didiscerat, exceptis aliis verbis sermonum et oracionum. Vidi eciam aliquos laicos qui [ita erant] eorum dottrina imbuti, ut vel multa de evangelistis, ut Mattheum vel Lucani, repeterent infra corde, maxime ea que ibi dicuntur de instructione et sermonibus Domini, ut vix ibi in verbis deficerent, quia successive continuarent », Stefano di Borbone, Anecdotes historiques, ed. Lecoy de la Marche, p. 308-9.
(3) «Et plures alios, qui N. T. totum sciverunt perfecte», Inquis. di Passau, in Max. Bibl. PP. Lugd., t. XXV.
(4) « Usurpant enim officium sibi incompetens praedicationis et erudicionis sacre doctrine et maxime evangeliorum et aliorum librorum novi testamenti que cordetenus in vulgata lingua firmant et alter alteri ruminât », Stefano di Borbone, Anecdotes historiques, p. 307-8- — «Ea cordatenusdidicerunt», Bern. Gui, Practica Inquisitionis, p. V, cap. 6. — « Pro majori parte sunt illiterati et scripturam lingua materna in corde retinentes et exprimantes», Aktenstücke, ap. Schmidt.
(5) «In omnibus vero civitatibus Lombardiae et in Provincia et in aliis regnis et terris plures erant scholae haereticorum quam theologorum », Pseudo-Raineri, ap. Max. Bibl. PP. Lugdn., XXV, 264.
(6) « Es waren in der gebiet 50 pfarrefn] di mit keczerney geraint waren ud in der pfare für Chomad waren 10 ceczers schnei », doc. edito dal Haupt nella Zeitschrift für Kirchengeschichte, XXIII (1902), 190.
(7) Cfr. tuttavia quanto ne dice il Comba, Histoire des Vaudois, Paris, 1901, p. 198 ss.
(8) «Solent autem tales mansiones habere in locis suis ubi habent studia sua». David d’Ausburg, op. cit., pag. 30. Cfr. Stefano de Bourbon, Anedoctes, pag. 30S.
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veri il). Tra tutte le scuole valdesi del secolo xili, la più famosa era quella di Milano, grande centro anche allora d'industria e di commercio, focolare di ribellioni e di sommosse e dove pare si fossero dato convegno tutte le eresie (2). La più antica testimonianza che si riferisca a queste scuole è quella di Stefano di Borbone. Egli ci parla di un eretico il quale aveva, durante diciotto anni abbandonata la sua patria per andare a studiare l’eresia presso i valdesi di Milano. Egli vi aveva imparato a memoria tutto il Nuovo Testamento, una parte notevole dell'Antico, nonché tutti gli argomenti che gli occorrevano per giustificare e difendere l’eresia (3). Questa scuola di Milano restò per lungo tempo la più fiorente e la più rinomata; i valdesi di Francia, di Germania e più tardi quelli della Boemia, ci venivano ad attingere, come alla fonte, la loro cultura teologica (4). L’oggetto e il metodo d’ insegnamento era in fondo lo stesso nelle differenti scuole. Da principio si dava ad imparare dappertutto ed esclusivamente dei tratti della Scrittura tradotta in lingua volgare e alcune sentenze dei Padri. Il valdese che sapeva leggere — e in generale era il perfetto —- recitava qualche versetto della Bibbia, le cui parole venivano ripetute una ad una dagli allievi sino a che questi l'avessero imparato a memoria (5).
Man mano che la comunità si organizza e che le funzioni una volta accessibili a tutti i membri, diventano il monopolio di una gerarchia, e se la predicazione viene esclusivamente riservata agli anziani e ai diaconi, si constata altresì lo sviluppo di un’organizzazione scolastica rudimentale. Per essere ammesso al diaconato bisogna avere generalmente studiato almeno per sei anni (6).
La teologia comprendeva anzitutto lo studio della Scrittura e dei Padri, secondo la consuetudine medievale, ma probabilmente anche le letture delle opere degli scolastici recenti.
Gli autori valdesi della lettera del 1361, citano, oltre la Scrittura, anche Pietro Lombardo, il Magister Sententiarum (7). Forse correvano anche dèi ma(1) « Et indicunt collectas nuinmorum pro sustentacione eorundem pauperum et stu-dencium, qui per se sumptus non habent». David d’Augsburg, op. cit., pag. 30.
(2) Cfr. Stefano de Bourbon, Anecdotes, pag. 280. « Fovea haereticorum », è detta Milano nei documenti del tempo ; solo Tolosa e un po’ Lione potevano competere in questo con essa.
(3) « Quem cum cepissent, post multa ejus verba sophistica, cognoverunt quod bene erant octodecim anni quod ab illa terra recesserat, causa heresis addiscende. Qui, ut ipse re-cognovit nobis, per totum dictum spacium apud Mediolanum studuerat in secta hereticorum Waldensium. firmans novum testamentum corde et multa-veteris, per que -posset sectam suam defendere et nostram fidem impugnare et simplices subvertere, similiter raciones quas-cumque poterai ». Stefano de Bourbon, Anecdotes, pag. 280.
(4) Cfr. Comba. Histoire des Vaudais, pag. 136, ss.
(5) «Retinebat quae audiebat». Stefano de Bourbon, Anecdotes, pag. 308.
(6) « Istruitur et docetur de secta eorum per sex annos ad minus, et si in isto tempore fueril repertus aptus, eligitur in diaconum». Confessio Raimundi de Costa. Cfr. Döllinger, Beiträge, II, 132-3.
Il valdese Raimondo de Costa apprese teologia per cinque anni prima di essere ordinato diacono e continuò poi la sua istruzione per due anni ancora con Giovanni di Lorena e per sette anni con Michele d'Italia, ibid., pag. 133.
(7) Epistola fratrum de Italia, in Döllinger, Beilrgäe, II, 355.
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nuàìi teologici ad uso degli studenti valdesi (i), così che si può dire che loro preparazione teologica sia stata in generale più che sufficiente. In questi antichi studi sono senza dubbio da ricercare i redattori dei trattati polemici e di edifi-ficazione, in altre parole, gli elaboratori di quasi tutta la letteratura valdese (2).
Per avere un' idea della cultura scritturistica e patrologia degli antichi Vai-desi, basta sfogliare i libri scritti dai cattolici per confutare i loro argomenti e specialmente il trattato polemico del Domenico Moneta (3), il quale scrisse verso la metà del secolo xm.
Quando nel secolo XII comincia a manifestarsi negli strati popolari una intensa fermentazione religiosa, uno dei bisogni più vivi che caratterizzano il nuovo orientamento degli spiriti è precisamente il desiderio irrequieto che provavano i laici di leggere la Scrittura in lingua volgare. Le prime traduzioni francesi della Bibbia risalgono sino ai primi anni del secolo xn (4). Lamberto, a cui si fanno risalire le origini dei Beguardi e. che morì nel 1177, si occupava già della traduzione della Bibbia (5), mentre Valdo faceva tradurre gli Evangeli e altri libri della Scrittura nonché una raccolta di Padri nel dialetto di Lione (6). Ma Valdo, come i suoi discepoli di Metz, i quali verso il 1220, facevano tradurre la Bibbia nel dialetto lorenese, non facevano che seguire la tendenza generale dell'epoca.
Quest’ impresa rispondeva a un’esigenza così sentita del momento che, nonostante le proibizioni delle autorità ecclesiastiche, nonostante le scomuniche fulminate da Sinodi e Concili (7), un gran numero di persone, non solo tra gli eretici, ma altresì tra i cattolici e specialmente tra i Frati Predicatori (8), non tardarono a seguirne l’esempio.
Questo carattere di laicità si esprime anche nella partecipazione dell’elemento femminile al propagarsi delle eresie. Non è soltanto la donna ispiratrice dell’eresiarca, come già nei primissimi secoli della Chiesa, noi troviamo Elena accanto a Simone il Mago, Marcellina accanto a Carpocrate, Agape accanto a Marco, Priscilla accanto a Montano o anche, nel periodo stesso di cui ci occupiamo, Margherita accanto a Fra Dolcino. Non è la donna, ma sono le donne che nelle eresie a tipo evangelico e popolaresco, esercitano una umile e oscura ma tenace e generale funzione di propagandiste.
(1) « Veruntamen artículos fidei septem et septem de humanitate et decem praecepta decalogi et septem opera misericordiae sub quodam compendio et modo ab eis ordinato et composito dicunt et docent et in ilio plurimum gloriantur et statini offerunt se promptes ad respondendum de fide sua». Alti dell’inquisizione di Carcassone; ap. Döllinger, 7&Z-¡I, 4.
(2) Cfr. un mio articolo nell’/f//Zw4i letteraria dei Valdesi, primitivi, in Rivista storico-critica di scienze teologiche, anno IV, fascicolo X.
(3) « Vel ex ore eorum, vel ex scripturis suis illa habui » dice, parlando degli argomenti dei catari e dei valdesi, il Moneta, Adversas Catharos et Valdenses, ed. Ricchini, Roma, 1743.
(4) Cfr. S. Berger, ¿æ Bible française au moyen Age, Paris, 1881, pag. 37.
(5) Cfr. Berger, La Bible française, pag. 49.
(6) Stefano de Bourbon, Anecdotes historiques, ed. I-ecoy de la Marche, Parigi, 1874, pag. 291.
(7) Cfr. il decréto del Concilio di Tolosa del 1229, in Mansi, Colleclio Conciliorum, to. XIV, col. 695; quello di Tarracona del 1234, ibid., col. 339, ecc.
(8) Cfr. P. Mandonnet, Travaux des dominicains sur les Saintes Ecritures, nel Dictionnaire de la Bible, to. H, pag. 3 ss.
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I Valdesi, come gli altri eretici, riconoscevano alla donna il diritto d’insegnare e di predicare, nonostante il divieto di San Paolo e l’ostilità della tradizione ecclesiastica (l).
Nè facevano differenza tra le vergini, le coniugate o le vedove, nell’esercizio della predicazione (2).
Le donne anzi erano preferite, perchè potevano, meno sospette e più sua-sive, più facilmente convincere altre donne e per mezzo di queste gli uomini (3).
I Valdesi, del resto, avevan gran cura dell’istruzione religiosa delle fanciulle sin dalla più tenera età (4).
Questo concetto di uguaglianza arrivava al punto che molti Valdesi riconoscevano alle donne gli stessi diritti sacramentali che all'uomo. Come l’uomo, la donna poteva essere investita di carattere sacerdotale, ricevere gli ordini sacri e consacrare, purché sia buona, possegga, cioè la fonte del sacerdozio laico: la bontà (5).
Ciò è particolarmente vero per le origini del movimento valdese, sino al secolo xiv ; prima che tutti gli uffici sacerdotali, predicazione, consacrazione, ecc., fossero monopolizzati da una gerarchia, costituita sul tipo della cattolica (6).
POPOLARISMO.
La terza caratteristica delle eresie del basso medio evo è il popolarismo, che poi non è se non una conseguenza immediata del laicismo.
Gli inziatori, gii eresiarchi, i meneurs delle eresie sono spesso degli ecclesiastici o monaci o dei ricchi borghesi e dei letterati, come anche oggi i capi del socialismo sono dei borghesi e quelli che capitanarono la lotta della borghesia contro le nobiltà nel secolo xvm furono dei nobili.
(1) « Ipsi etiam obviant Apostolo in hoc quoti muliercules secum ducunt, et eas in convento fidelium praedicare faciunt». Alanus de Insulis, De fide calholica, lib. Il, c. Waldenses. MlGNE, P. L., t. ito, p. 379.
«Qui edam, tarn homines quam mulieres... per villas discurrentes et domos penetrantes et in pieteis predicàntes et edam in ecclesiis, ad idem alios provocabant ». Stefano dk Bourbon, Anecdotes, pag. 292. Cfr. Atli dell’ inquisizione di Carcassona, ap. Döllinger, Beiträge, II, 6; Incipit summa de herecibus, ap. Döllinger, Beiträge, II. 300, ecc.
« Foeminas quas suo consorti© admittu nt, decere permittunt ». Bernardo abb., Pontis Calid.
(2) « Item dicunt quod tarn coniugata©, quam viduae et virgines debent praedicare». Doc. pubbl. dallo Schmidt, Aektensliicke besonders zur Geschichte der Waldenser, in Zeitschrift f. d. hist. Theol., 22 (1852), 245.
(3) « Non autem solum viri sed et femine apud eos docent quia feminis magis patet accessus ad feminas pervertendas, ut per ilias edam viros subvertant ». David d'Augsburg, De inquis. haeret., ap Preger, Der Traci, v. D. von A.
(4) « Puellas parvulas docent verba evangeli! et epislolas, ut a puericia consuescant errorem amplecti». David d’Augusburg, De'inquis haeret., in Preger, Der Tract, v. D. von A., pag- 33- . ...
(5) ° Quidam autem... discemunt in sexu, dicentes quod ordo requirit sexum virilem ; alii non faciunt differencial« quia mulier, si bona est, possit exercere officium sacerdotis. Vidi hereticam, que combusta fuit, que super arcani ad modum altaris paratam consecrare se cre-debat et attentabat». Stefano de Bourbon, Anecdotes, pag. 296.
(6) « Item dicit, quod in suo statu nullo modo reciperent virgines, nec viduas, quia non possunt predicare, nec ordinem diaconatus recipere ». Confessio Raimundi (see. xiv), apud Döllinger, Beiträge, II, 117.
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Ecclesiastici o monaci furono : Arnaldo da Brescia, Pietro de Bruy, Enrico di Lausanna. Ricchi borghesi furono: Valdo, Francesco d’Assisi.
Comunque, l’eresia, anche suscitata dall’ecclesiastico e dal chierico, si diffonde rapidamente tra i ceti popolari e specialmente tra gli artigiani : investendo cosi grandi masse di popolo e talvolta intiere città.
Gli Umiliati eretici furono quasi tutti tessitori (1) (tissérands} come pure i seguaci della setta degli Apostolici che vide la luce in Francia (2).
Il popolo segue in massa gli eresiarchi.
Enrico di Losanna riuscì a sollevare il popolo contro il clero dalle regioni in cui predicava (3).
Arnaldo da Brescia fu seguito da tutto il popolo di Roma.
I Valdesi furono numerosissimi a Lione, a Milano e altrove, e i Catari in molte città della Provenza, specialmente ad Albi e a Tolosa.
Fra Dolcino era alla testa di una folla di circa cinquemila seguaci.
Anche qualora il popolo non praticasse l’eresia, ne favoriva spesso i fautori, come avvenne in molte repubbliche italiane dell’epoca e specialmente nel mezzogiorno della Francia. E ciò perchè, come vedremo presto, l’eresia a tipo evangelico, laica e popolare di questo tempo è non solo una manifestazione tipica della nuova coscienza spirituale, ma rappresenta e dissimula inoltre nuovi bisogni e nuove rivendicazioni sociali.
Antonino De Stefano.
(1) Cfr. A. De Stefano, origini dell'ordine degli Umiliali.
(2) A. Luchaire, Les premiers Capétiens. (E. Lavisse. L’Histoire de France, II, 2), pag. 359.
(3) A. Luchaire, Les premiers Capétiens. (E. Lavisse, Histoire de France, II, 2), pagina 362 e segg.
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LA SOPPRESSIONE DEI GESUITI NEL 1773
NEI VERSI INEDITI DI UNO DI ESSI
Il pontefice Clemente XIV colla famosa bolla del 2/ luglio 4773 sopprimeva P Ordine dei Gesuiti. Con un'altra bolla, Pio VII il 7 agosto 1814 lo ristabiliva. E t Gesuiti quest'anno festeggiano il centenario di questo ristabilimento. Essi il 7 agosto scorso hanno voluto eternare la ricorrenza coll’inaugurazione d’una lapide posta nella sontuosa cappella dei Nobili della Casa di Gesù in Roma ora adibita ad uso archivio del Monte di Pietà. [Red].
I sonetti che pubblichiamo sotto questo titolo sono stati ritrovati tra vecchie carte, scritti dalla mano stessa dell’autore, il p. Giulio Cesare Cordara, gesuita, letterato di qualche fama della seconda metà del secolo xvni.che insegnò retorica in vari collegi del suo oraine, fra cui in quello di Fermo allora fiorentissimo, poiché nell’antica città picena era ancor vigorosa la celebre università, che, in tempi più lontani, potette competere vittoriosamente con l’ateneo bolognese e con tutti gli altri istituti consimili in Italia.
Il soggetto trattato in questi versi ci rivela subito l’anno in cui essi furono scritti. Tutti sanno come papa Clemente XIV abbia soppresso l’ordine dei gesuiti con la famosa bolla Dominus ac Redemptor del 21 luglio 1773. La soppressione era da poco avvenuta quando il Cordara scrisse i suoi sonetti, come lo indica chiaramente il fatto, nei sonetti stessi ricordato, che egli aveva già dovuto deporre la veste del suo ordine, cosicché questi versi furono scritti indubbiamente negli ultimi mesi dei 1773 o nei primi dell’anno successivo.
1 sonetti del Cordara ci sembrano di una certa importanza, sia per il loro valore letterario, come per il contenuto storico. Chi ricorda le miserevoli condizioni della poesia italiana nei primi tre quarti del secolo xvm, e chi rammenta come solo negli ultimi anni di questo le sorti se ne cominciassero a rilevare con la belante e manierosa Arcadia, troverà una bel-bezza ed un gusto particolari nei versi del Cordara, dotati di singolare vivezza e forza, che non è facile riscontrare in altri dell’epoca.
Ma più che per il loro valore letterario,
questi versi sono interessanti in quanto rievocano una pagina di storia religiósa. Per ben comprenderli occorre richiamare alla memoria le vicende della soppressione dell’ordine gesuitico e le fiere polemiche che la precedettero e la seguirono, le quali non testimoniarono davvero a favore della carità fraterna e dello spirito di obbedienza di quegli ex-frati. Fu allora che i gesuiti formularono nei loro libri di teologia il quesito sul caso che il papa fosse impazzito, poiché tentarono di far credere che papa Ganganelli non avesse avuto il pieno possesso delle sue facoltà mentali quando deliberò di sopprimere la Compagnia di Gesù. E fu in quel tempo e negli anni successivi che si acuirono fortemente gli ©dii già inveterati degli ex-gesuiti contro gli altri ordini religiosi, alla cui invidia ed alle cui manovre essi attribuivano in gran parte le proprie disgrazie.
Vennero allora pubblicati alla macchia infiniti libelli (1); fu dna vera fioritura di diffamazioni, di ingiurie villane e grossolane, particolarmente contro il papa, che venne perfino raffigurato tra le grinfie di Satanasso, trascinato all’inferno, per il reato di aver soppresso i gesuiti, e di cui si fece correr voce che passasse le notti fra incubi spaventosi, per la medesima cagione. Anzi la morte stessa dei pontefice che avvenne il 22 settembre 1774,
(1) Basta ricordare qui la Amicali* de/ensio jcsuìtarum e le Cogifatianes et argumcnta super processus cantra jesuitas. Accenneremo anche alle due povere isteriche visionarie di Valentano, suggestionate ed imbeccate dai gesuiti di Viterbo, le cui pra/caie contro Clemente XIV ispiravano una moltitudine di libelli in ogni lingua.
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LA SOPPRESSIONE DEI GESUITI NEL 1773 NEI VERSI INEDITI DI UNO DI ESSI 177
e che parecchi attribuirono allora a veleno propinatogli dagli ex-gesuiti, questi la dissero causata dai terribili rimorsi che laceravano l’anima del papa e che lo condussero rapida-niente al sepolcro. Molte decine di anni dopo la morte di Clemente, quando i frati della compagnia di Gesù ripristinata, pagarono uno scrittore francese perchè scrivesse, a loro placito, sui rapporti fra questo papa e la loro società, dimenticando che oltre il rogo l’ira nemica dovrebbe estinguersi, rincaravano l’accusa e la rendevano più stupida e ributtante. Riferendo la leggenda che sant’Alfonso dei Liguori avesse avuto il dono della bilocazione per assistere il papa negli estremi momenti, cosi i gesuiti facevano scrivere al Crétineau-Joly : « Dio non permette che i successori degli apostoli muoiano senza riconciliarsi col cielo. Per strappare quest’anima di papa all’inferno, il quale, come egli si esprimeva, era divenuto la sua abitazione, e perchè non morisse disperato colui che non cessava dal ripetere : « O Dio, sono dannato!», era necessario un miracolo, ed il miracolo si compì. Sant’Alfonso dei Liguori, allora vescovo di Sant’Agata dei Goti nel regno di Napoli, fu designato come mediatore tra il cielo e Ganganelli dalla Provvidenza che vegliava più ancora sull’onore del supremo pontificato che sulla salvezza di un cristiano compromessa da una grande colpa » (1).
Vivente papa Ganganelli, i libelli diffusi contro di lui avevano per fine innanzi tutto l’apologia degli ex-frati, poi di eccitare l’opinione pubblica ad una reazione contro le disposizioni pontificie, per modo da indurre il papa ad annullare la bolla di soppressione. Questa fiducia poteva venire ai gesuiti dalla considerazione che molti del popolo, ma più particolarmente molti fra i nobili erano nelle loro mani, ad essi devoti e da essi formati nei loro collegi o nell’esercizio del loro ministero sacerdotale. Ciò sapeva troppo bene Clemente XIV, ed aveva interdetto per questo agli ex-gesuiti, nella stessa bolla di soppressione, di confessare e di predicare. Mancava ad essi cosi il mezzo migliore di influire sul popolo e di sobillarlo: perciò ricorsero ai libelli, perchè tutto ciò che sa di scandalo eccita la curiosità ed è avidamente ricercato. Ma, contro le loro previsioni, neppure i libelli ebbero alcun effetto : il popolo mostrò di non riscaldarsi affatto per la soppressione di una frateria. Disillusi i gesuiti, nonostante che venissero accolti e protetti, per dispetto al papa, in due stati acattolici, la Russia e la Prussia,
(1) Crétinkau-Jolv : Clfntent XIV et lee jfeuitee, papo» 375e nonostante che, anche dove il loro ordine era proscritto, essi continuassero ad intendersi ed a riunirsi in conventicole secrete, temettero forse che con l’andar del tempo tale forza di resistenza venisse a diminuire ed a mancare. A questo timore sembra ispirato il primo dei sonetti del Cordara. Simile paura fu però vana, poiché i gesuiti furono ripristinati da Pio VII colla bolla Sol licitado omnium ecclesiarum del 7 agosto 1S14 e vegetano tuttora.
I versi del Cordara appartengono precisamente al sistema di difesa che 1 gesuiti tentarono. Non sappiamo per quali ragioni i sonetti restarono nei cassetti del lettore di retorica. Non è certo per l’acredine che li anima: ben altro fu allora scritto e stampato. Forse fu il Cordara stesso che non volle troppo esporsi alle pene che lo avrebbero certamente colpito, e non si trattava in quel tempo di sole pene spirituali — i libellisti se ne ridevano e c’era sempre modo di trovare accomodamenti con la propria coscienza — ma di essere confidati alle poco benevole mani dei gendarmi e di passare qualche annetto in gattabuia. Il papa non scherzava.
E' interessante rilevare nei sonetti dei Cordara i quadretti che egli vi traccia del mondo monastico di quell’epoca, che si accaniva contro l’ordine gesuitico, il gran rivale come egli lo chiama. E’ in verità poco edificante che chi piangeva, non so se a finta o per davvero, sulla rovina della Chiesa che, secondo lui, sarebbe stata travolta nella catastrofe della Com -pagnia di Gesù, e chi si doleva che i vizi fossero per gir sciolti, pensasse e scrivesse poi dei suoi colleghi nella vita monastica così poco cristianamente. Ma ricordo che un famoso teologo che fu anche cardinale (salvo errore, il Gousset) ha posto nei suoi trattati di teologia il quesito, a cui risponde affermativamente, se l’odio dei preti e dei frati sia più forte di ogni altro odio. Quello scrittore doveva essere un buon psicologo. Facilmente è appunto per questo che il Cordara, nel terzo sonetto, fa dire d¡vaiamente al ¿eresino (1)’: Più fortuna /arem colle signore, e pone in bocca al benedettino o inaurino, come egli lo chiama : «Viva Questuilo, viva il santo amore! ».Il meno che egli dica degli altri frati è di seguire una morale non troppo severa per i domenicani o tomisti, dicendoli lieti di poter seguire senza ulteriori noie, date loro dai gesuiti, Busembaum e Tamburini (2) : gratifica i cappuccini dei titoli
(x) Teredini il Cordar» chiama i carmelitani, da »anta Teresa che fu riformatrice di quell'ordine monastico.
(9) Sono due autori di trattati di teologia morale, le cui opinioni erano allora considerate non abbastanza severe: due laesietì come si direbbe in gergo teologico.
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poco graziosi di sozzi ed ignoranti e chiama io scolopio merdose Ilo. La parola è tutt'altro che pulita, ma il Cordara, trattandosi di offendere altri frati, non badava troppo per il sottile. Essa è usata certamente per gettare il ridicolo sui religiosi delle Scuole Pie, che ammettevano nei loro istituti di istruzione e di educazione fanciulli e spesso anche bambini in tenera età.
Contro quest’ultimo ordine di frati, più che contro ogni altro, si appuntavano le ire dei gesuiti. Tutti sanno come questi abbiano sempre cercato di monopolizzare, a vantaggio della propria comunità e della propria influenza, le scuole e l’insegnamento, e come a questa pretesa resistessero i fratelli delle Scuole Pie, rivaleggiando con la Compagnia di Gesù per mezzo di istituti e di scuole popolari. Di qui la più forte accentuazione dell’ira dei gesuiti soppressi, i quali credettero che gli scolopi godessero non poco per la disfatta degli avversari. Dei sei sonetti del p. Cordara due sono dedicati esclusivamente «alla religione dei pp. Scolopi che gioiva nelle disgrazie della Compagnia di Gesù ». L’uno dei due sonetti raffigura l’ordine delle Scuole Pie ad un piccolo battello che non può troppo discostarsi dalla riva, ma fa festa per l’invidia vedendo « l’alto naviglio », cioè l’ordine gesuitico a cui si fa rivale, còlto e vinto dalla tempesta in alto mare. Nell’altro sonetto si paragona il mantello degli scolopi ad un barometro, che or tempesta ed or sere» predice, poiché, a detta dei gesuiti, gli scolopi avrebbero cercato di imitare anche nel lungo mantello i gesuiti quando questi erano in auge, e si sarebbero affrettati a raccorciarlo quando la bufera travolse i loro competitori. Lo stesso motivo del mantello è accennato dal Cordara nel terzo sonetto in cui scrive che gli scolopi gioiscono poiché nessuno oserà più contrapporsi a loro, gesuiti parendo al gran mantello. Forse in quel tempo, contrariamente a quanto afferma un noto proverbio, l’abito faceva il monaco. O, almeno, il Cordara vorrebbe darcelo a credere.
Questo piccolo mondo di odii e di vendette, questo piccolo campo di Agramante ci mostrano i versi del Cordara. Ed i suoi sonetti siano essi pieni di satira e di ironia o solo di rimproveri e di rimpianti, sono tutti pieni di interesse e crediamo verranno letti con piacere. Abbiamo creduto bene, pubblicandoli, farli precedere da questa breve illustrazione, -necessaria per chi non ha presenti le vicende dell’epoca in cui furono scritti e del piccolo mondo a cui si riferiscono.
Ernesto Rutili.
SULLE DISGRAZIE DE’ GESUITI.
I.
Cadrà se cosi in ciel si trova scritto L’alta colonna che tant’ombra ha stesa, Cadrà purtroppo, ma l’altrui delitto Nell’urtata farà le sua difesa.
Già le sacrate chiavi e il regai dritto (1) Sprezza la turba ad atterrarla intesa, E furor detta l’esecrando editto, Che onor le reca con l’ingiusta offesa.
Cadrà, ma con valor, ma senz’affanno. Che contenta di se, carca d’onore, Meno il suo sentirà che l’altrui danno.
Infin cadrà così che al gran fragore Scuoterassi l'altare, e si vedranno Gir sciolti i vizi e trionfar l’errore.
Hi
Alla religione dei PP. Scolopii. che gioiva nelle disgrazie della Compagnia di Gesù.
O battelletto, che sull’arsa arena Abbandonato per lo più ti stai, E se pur qualche volta errando vai Dal natio lido ti discosti appena, Ben so, che adesso rimirando in pena L’alto naviglio, a cui rivai ti fai, Ridi, e tei fingi sopraffatto ormai Dal fiero nembo che a naufragio il mena.
Ma che saria di te lontan dal porto In tempestoso mar fra Fonde e il vento? Oh come presto rimarresti assorto!
Ridi pur dunque, ma nel tuo contento Conosci al paragon quanto sei corto, Che nemmen puoi sperar sì gran cimento.
III.
- Or de’ pulpiti avremo il primo onore -Dice il sozzo ignorante Cappuccino, E divoto ripiglia il Teresino : - Più fortuna farem colle signore.
- Non più fra noi sentenze di rigore, Busembaum seguiremo e il Tamburrino -Grida lieto il Tomista, e il buon Maurino: - Viva Quesnello e viva il santo amore. - A noi le scuole, - or grida il merdosello Scolopio, - e chi più a noi farà la guerra Gesuiti parendo al gran mantello? -Così gl: empi del cor sensi disserra L’invida turba e gode e fa bordello: Ma il gran rivale non è ancor sotterra !
(x) Nel manoscritto vi è, tra parentesi, la parola Francia,
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LA SOPPRESSIÓNE DEI GESUITI NEL 1773 NEI VERSI INEDITI DI UNO DI ESSI 179
IV.
Sopra gli Scolopii.
Se vento boreal tranquillo e cheto Signoreggia nel puro etereo régno. Il barometro cresce e s’erge a segno Che all’ultimo, confin non manca un deto.
Ma se d’ostro il furor lo stato cheto Turba dell’aria, e furia mesce e sdegno, L’impaurito barometro ritegno Più non conosce e cala e torna a rieto.
Un mantelletto a lui simil si crede, Che di certuni nei tempo felice Lungo si fece e si distese al piede;
Ma se torbido è il tempo ed infelice. Alzar ad occhio ed accorciar si vede: Onde or tempesta ed or seren predice.
V.
Io fui gran tempo Gesuita, e frate Mi sentiva chiamare a mio dispetto. Ora mi sento dir: - Signor Abbate! -, E mi parlano tutti con rispetto;
Portavo allor le braghe rattoppate, Era l’abito mio rozzo e negletto:
Or vesto da signor, fibbie ho dorate. Bei manichini e vago mantelletto.
Or mangio bene : allor minestra e lesso ; Un superiore allor che mi seccava, Vivo a mio modo e niun mi secca adesso.
Eppure io piango! O frati, se toccava Questa disgrazia a voi, saria lo stesso? Per Dio. che a festa ognun di voi sonava !
VI.
Veste che fosti già fin dai primi anni Mia gloria, mio tesor, peso non mai. Che della vita fra i più acerbi affanni Come dolce conforto ©gnor baciai ;
Veste che a fronte di più nobil panni Carca d’onore e di virtù ten vai. Che fin dal cielo e dai lucenti scanni Ne tramandi splendor d’eterni rai. Mia cara veste addio! Smarrito e mesto Qual chi in torbido mar rotta ha la prora Nel mondo infido senza te mi rèsto.
Ti lascio, o Dio!, ma rivederti ancora Spero all’uopo maggior nel di funesto, Chè verrai certo in mio conforto allora.
Giulio Cesare Cordara, gesuita.
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PER£GO/RA DELL'ANIMA
LA PORTA APERTA
DAVANTI AI CRISTIANI D’OGGI
Ecco, l'ho aperto dinanzi una porta che nessuno può chiudere.
ArOCALISSK, III. 8.
Nell’insieme dei libri che chiamiamo la Bibbia, Vi sono biografie di credenti, v’è la storia del Salvatore, vi son discorsi di profeti e lettere di apostoli, sentenze morali, narrazioni di esperienze religiose e vi sono ancora, sparsi un po’ dovunque, spunti di poesia che lasciano scorgere, come una porta semichiusa, paesaggi luminosi, e che servono ad esprimere le speranze di individui e di collettività in un migliore avvenire. Uno di tali accenni poetici è quello ispirato dal suo genio religioso e letterario all’autore dell’Apocalisse, quando fa dire dallo Spirito di Dio all’antica Chiesa di Filadelfia: «Ecco, t’ho aperto dinanzi una porta che nessuno può chiudere ».
Chi, con lo spirito di fede e di discernimento, che è dato da un lungo studio della Santa Scrittura, legge questo passo dell’Apocalisse, non può non esser colpito dalla potenza dello Spirito Divino che appiana la via dinanzi agli uomini pii, che apre loro prospettive immense sul paese della vita di libertà, di giustizia e di fraternità; non può non vedere, sto per dire, la formidabile mano dell’Eterno, tendersi dall’assoluto, per sospingere la gigantesca porta delle antiche prigioni del pensiero e della coscienza.
Non posso distoglier lo sguardo da una visione analoga, quando considero la situazione intellettuale e morale fatta oggi ai credenti emancipati dal giogo dell’autorità nelle que
stioni dommatiche, storiche, ecclesiastiche e sociali. Lo Spirito di Dio ha reso libero a tutti l’accesso ad un paese in cui possono cogliersi a profusione i fiori della pace, dell’energia, della speranza e della gioia. Nessuna scusa è più possibile per non credere con tutta l’anima nel Cristo, il liberatore degli spiriti e dei corpi, nessuna scusa, se non quella vergognosa dell’orgoglio, dell'accidia, o della frivolità de) cuore. Ogni barriera capace d’arrestare oggi, nello slancio della sua fede e della sua attività cristiana, un uomo, che vuol essere del suo tempo, preoccupato d’obbedire alle leggi del pensiero, alle esigenze della scienza storica, alle sue necessità di giustizia e di fratellanza, come pure ai suoi bisogni più strettamente religiosi, ogni barriera, dico, è stata abbattuta, spazzata via dallo Spirito di Dio
Nessun ostacolo tra l’Evangelo della salvezza e la coscienza moderna ; questo, a grandi linee, voglio provare a dimostrarvi. « Ecco, t’ho aperto dinanzi una porta che nessuno può chiudere».
1.
La porta che Dio ci ha aperto davanti, dà, innanzi tutto sul paese della libera fede. Nulla — salvo i vergognosi pretesti a cui ho più sopra accennato — può impedirvi di penetrarvi, di prendere possesso e di far l’esperienza della salvezza.
Come avviene ciò? Che cosa vogliam dire? Questo : che molti di noi han vissuto per lungo
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PER LA CULTURA DELL'ANIMA
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tempo in una specie di recinto oscuro, lo spirito rinserrato tra idee e formule che non scendevano più sino al nostro cuore. Cercavamo la salvezza nel credere, con l’adesione della nostra intelligenza, come altri cercano la salute con le buone opere e con l’obbedienza alla Chiesa, e non ci riusciva di trovarla, ed eravamo inquieti, turbati, insoddisfatti. La nostra lealtà non ci consentiva di considerare come formule divine espressioni che riflettevano o l’ignoranza oi pregiudizi d’un'epoca, spesso contraddittori, benché dovessimo assistere tristemente all’empio giuoco che consiste nel lanciarsi vicendevolmente, come dardi avvelenati, le parole del più santo e del più dolce dei libri della nostra incomparabile Bibbia. Altri sforzandosi di credere ad ogni costo, sentivano che la loro fede non aveva più influenza alcuna sulla loro volontà, di modo che la religione si riduceva per essi ad un indice di buona educazione piuttosto che essere la risposta al tormento delle anime loro. Altri ancora, e sempre più numerosi, scoraggiati di non riuscire a porre un termine a questo disaccordo crudele tra la coscienza e l’autorità, tra ciò che la scienza esige e ciò che la tradizione afferma, si disinteressavan presto e della scienza e della fede, si separavano dalla Chiesa col pretesto di andare alla ricerca di una libertà maggiore, e s’ingolfavano in una vita assolutamente profana, senza ideali e senza fervore, con gioia infinita dei nemici di Cristo.
Ma lo Spirito «che parla alla Chiesa» — secondo la mirabile espressione dell’Apocalisse— vegliava. E sussurrava le parole che egli sa, al cuore di qualcuno tra i fedeli credenti, che nessuna difficoltà aveva potuto scoraggiare. E li faceva chinar sempre più sulle pagine del Libro santo, o meglio sullo Spirito stesso dei sacri scrittori, ed essi giungeva»! presto a percepire i moti più secreti della coscienza dei profeti e dei primi amici di Gesù, poi a seguire, attraverso la storia, il lungo sviluppo delle forme esterne, dei racconti miracolosi, dei riti, delle.cerimonie, delle credenze e dei dogmi, col cui ausilio questi secreti si propagavano all’esterno. Ed ecco un giorno, la porta del loro ritiro si apre, sospinta da una forza sconosciuta, la luce li inonda da tutte le parti ed essi veggono, nell’illimitato orizzonte, la fede che salva, la fede libera, ed ai suoi piedi, umili, prosternati, in atto d’ossequio e di adorazione, i riti, i racconti miracolosi, le liturgie, le credenze, i dogmi, a migliaia, gli uni invecchiati e già morti, avendo fedelmente compiuto il loro ufficio, gli altri più giovani e ben vivi, ma tutti a rispettosa distanza, consci di
non essere altro che i servitori umani e provvisori della fede immortale!
Che sollievo, fratelli, che liberazione, non è forse vero?, quando ci accorgemmo di questo, quando percepimmo nettamente che la religione non è la teologia, che la pietà non è il dogma, che la fede non è la credenza !... Non v’ha dubbio che la teologia, il dogma, la credenza siano indispensabili per tradurre la fede, per renderla comunicabile ad altri, per presentarla in forma comprensibile, in armonia con la mentalità di un’epoca, precisa-mente come le idee e le parole sono indispensabili per comunicare qualsiasi esperienza, ma ciononpertanto la fede non è la credenza, come l’acqua non è il catino che la contiene. La credenza partecipa alla imperfezione, alla evoluzione dello spirito umano : nasce, si sviluppa — non v’è credenza di cui non si possa stabilire la data e il luogo d’origine e tutti i precedenti — muta d’aspetto, si offusca o si perde, per ricomparir poi sotto nuova forma, inattesa, ma consona sempre allo stato generale della conoscenza umana in una determinata epoca; più è recente e più è fresca e viva; ma la fede, per contro, resta sempre la stessa nelle anime cristiane di tutti i tempi e vi opera gli stessi prodigi : la liberazione dal male, la vittoria sulla sofferenza, la speme e l'amore; essa non è parte integrale e necessaria dei recipienti — antichi o scritturali, medievali o moderni — che, volta a volta, o contemporaneamente la contengono, come il vino non esiste perchè l’otre che lo contiene è di questo o di quella materia, o ha la forma di anfora, di boccale o di coppa ; la credenza è l’espressione intellettuale della fede, una operazione inevitabile dell’intelligenza, una forma necessaria della ragione; la fede è un libero dono, è un abbandono del cuore a Dio. Essa è, per un cristiano, la consacrazione della propria volontà alla vita che è in Cristo.
Solo la fede ci salva e non la credenza. Essa sola è il vino che ci esalta ed inebria in Dio.
L'esploratore polare che, dopo lunghe settimane di marcia sui ghiacci, vede alfine aprir-glisi dinanzi la distesa infinita del libero mare, sente il soffio d’un cielo più clemente sfiorargli il viso, e che, dopo aver rischiata venti volte la morte, mette piede sul naviglio che lo ricondurrà in patria, non prova certo una gioia più intensa, non ascolta una melodia più commovente del cristiano che scopre la fede libera, che può conoscere alfine la pace del cuore e toccar la salvezza eterna della sua anima, senza dover più falsar la propria coscienza, credere per imposizione, attribuire a Dio santissimo
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atti immorali o criminali, senza dover ritenere come storia incontrovertibile leggendarie fantasie, senza dover pensare con il cervello di uomini di venti secoli fa, e che sospinto solo dal senso della sua debolezza, si slancia ad incontrare il Maestro, gli cade ai piedi in un infinito sentimento di riconoscenza e di umiltà, legge nello sguardo del Cristo ch’egli ha tutto compreso e si sente ripetere le parole stesse già dette ai poveri pescatori del lago di Galilea, ai Samaritani, alla donna cananea, a Maria di Magdala, che, ignoranti di ogni dogma e di ogni autorità, venivano a lui, non avendo altro da offrirgli, come noi, che la loro povera anima contaminata: «Ti son rimessi i tuoi peccati: ti ha salvato la tua fede*.
Lasciate ora, che a conclusione di questa prima parte, mi serva delle parole di un teologo contemporaneo (i), la cui esperienza è stata simile alla vostra, parole che riassumono ciò che io volevo dirvi : « Ah ! è immensa la gioia di chi è giunto alla persuasione che un errore di pensiero non può condannarlo, e che Dio per riceverlo nelle sue braccia non gli domanda che una cosa sola: il cuore. Egli benedice e glorifica Dio di avergli rivelato questa buona novella e d’averlo liberato dal dubbio, dall’inquietudine e dal timore. Con la pace dell’anima egli ha trovalo la libertà dello spirilo, ed ora gode della preziosa libertà dei figli di Dio. Adesso egli può calmo, confidente, senza apprensioni penose e senza teina per la sua pace interiore, darsi allo studio delle dottrine tradizionali, e delle questioni di critica che occupano il mondo d’oggi. Trovi o no la ” formula „ della verità, la salvezza della sua anima è certa».
Cessate dunque di tormentarvi, anime inquiete, e di mutilare e comprimere il vostro pensiero. Cessate dall’invocare motivi d’ordine intellettuale per non credere in Gesù Cristo. Essi non sussistono, essi non son più. Siete ormai chiamati a credere, a pensare, ad agire con tutta l’anima vostra. Una porta è stata-aperta, per cu: potete entrare con tutte le esigenze del vostro spirito, e nessuno può chiuderla. Dinanzi a voi il terreno è sgombro ed il Cristo è vivo!
II.
La porta aperta dall' Eterno dinanzi a questa generazione mena ancora alla pratica sociale del Vangelo.
La fede che salva non affranca solo il pen(i) Eugenio Ménegoz.
siero, non procura solo il perdono delle colpe, ma libera tutta la vita.
Vi sono molti, infatti, che adducono motivi d'ordine sociale per non credere al Vangelo. Si fa confusione tra Vangelo e gli ordinamenti chiesiastici e si fa rimprovero a questi di non aver nulla tentato per riformar lo stato sociale. Questo, di identificare il Vangelo con le Chiese, è un errore grossolano, come quello d’identificare la fede con le credenze; v’ha inoltre molta ingiustizia nel rimprovero accennato. All’inizio delle migliori riforme sociali, sarebbe facile trovar dei cristiani autentici tra i loro primi ispiratori.
Ma non si può non riconoscere che, considerando le grandi linee delle direttive delle Chiese, in quanto Chiese, queste sì sono mostrate piuttosto ostili alle voci delle classi povere per un più giusto rapporto tra capitale e lavoro, ed hanno creduto con sincerità, per lungo tempo, che la carità dei ricchi e la rassegnazione dei poveri sarebbero bastate a guarire ogni male sociale. Dal giorno in cui Lutero contribuì a spegner nel sangue la rivolta dei contadini di Germania (i), le speranze sociali, che l’alba della Riforma aveva ridestato nell’anima dei popolo svanirono, ed il protestantesimo, più ancora del cattolicesimo, si ebbe l'accusa di parteggiare per la nobiltà e la borghesia contro il proletariato, e si disse : « Il protestantesimo è una religione da borghesi ». Oggi, dovunque, cattolici e protestanti sono fatti segno a critiche consimili ed il socialismo ateo non vede nelle Chiese che delle forze reazionarie.
Ma qualche cosa di mutato v'è pure nelle Chiese, e le accuse lanciate contro il loro egoismo o la loro inconsapevolezza dei fatti sociali sono sempre più immeritate. Una porta è stata aperta, un immenso sforzo si è tentato per risvegliare la coscienza cristiana e per richiamarne tutta l'attenzione sul problema della miseria e del lavoro. L’idea del Regno di Dio, che formava l’asse dell’insegnamento del Cristo, è stata rimessa in luce, e non è più possibile oggi confonderla sia con un cielo invisibile sia con una Chiesa visibile. Eccle siasi ici e laici, in numero sempre crescente, abbandonano l’antico concetto d’una egoistica salvezza malamente spiritualizzata dell’anima, e s’avvedono che il problema della vita materiale è intimamente connesso con quello della vita spirituale, che tristi condizioni economiche e ambienti malsani influiscono perniciosamente
(i) V. Harnack, Le ríle social de l'Eglite à traters Ics ¡Heles, in « Revue de théologie et philosophic », >898, pag- a6< e seguenti.
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sul carattere, sulla volontà, sulla moralità, e che se leggi più giuste non regoleranno il mondo economico, mezza umanità è destinata a perire nella rivolta, o nella corruzione.
Ciò che troppo spesso è stato ripetuto : che la miseria è voluta da Dio, e che essa è sempre il castigo dei miserabili, ci ripugna e ci rivolta.
E’ una bestemmia contro il Dio del Cristo. E quando ci si espone la visione di una società futura in cui non vi saranno più dei miseri, nè mancherà più un letto ad alcuno e i bugigattoli vergognosi saranno soppressi, nè vi saranno più degli uomini che si ammazzano di fatica mentre altri vegetano nell’ozio, non vi saranno più donne sfruttate per un indegno salario, potremo forse, se non abbiamo fede, ripetere: chini.ra! utopia!, ma non potremo più non riconoscere che ciò non è giusto. La porta della giustizia sociale è stata aperta dinanzi alla Chiesa e nessuno potrà ormai più chiuderla.
Molti fra noi riconoscono, ed a ragione, che lo spirito del Cristo anima le istituzioni e le leggi in favore d’una migliore organizzazione del lavoro, d’una più equa ripartizione dei prodotti, anche quando tali istituti e tali leggi sieno emanate e formulate da uomini che rinnegano il nome di Cristo. Con sublime parola, Gesù ha perdonato in anticipo coloro che bestemmieranno contro il figliuolo dell’uomo. Il solo peccato che non avrà perdono, è il peccato contro lo Spirito Santo, cioè il disprezzo e la violazione perseverante dei comandi di Dio nella coscienza. Ma consacrarsi all’avvento della giustizia nel mondo, è compiere il volere di Dio, è obbedire, anche inavvertitamente, all’ispirazione di Gesù. L’ignoranza e l’ingiuria non dureranno a lungo, e quando tutti i veli saranno caduti, quando il giorno luminoso succederà alle tenebre dell’ora attuale, coloro che avranno respinto il Cristo, perchè non lo conoscevano, s’avvede-ranno che lavorando per la giustizia sociale, se è vera giustizia, avranno lavorato per il Regno di Dio e pel trionfo del suo Vangelo sulla terra.
Queste sono le convinzioni della giovane Chiesa militante per quanto riguarda i problemi sociali, e se tutti non sono forse destinati a varcare la grande porta che è stata allerta, tutti ormai hanno il dovere di non assimilar più la Chiesa del Cristo ad una potenza retrograda ed addormentatrice.
L’Evangelo deve salvare tutto l’uomo, l’individuo e l’ambiente in cui vive, l’individuo e la professione che esercita, la sua vita morale e la sua vita fisica, la sua vita pubblica e la vita privata, l’individuo e lo Stato. Vo
lete che lo spirito de! Cristo pervada l’attività integrale dell’uomo e delle società? E potreste forse non volerlo, se la vostra fede è fede vivente ed operante, se per voi il cristianesimo è qualche cosa di diverso d’un profumo delicato che si respiri, chiusi in camera, nelle ore di debolezza?... Dio, anche Dio lo vuole con voi : ecco la via libera vi sta dinanzi. Non avete che a mettervi in marcia verso Cristo e il suo Regno!
III.
La porta aperta da Dio dinanzi a noi, mena, infine, nella terra della fratellanza e della vera unità cristiana. Non occorre che mi dilunghi a dimostrarlo: è evidente per se stesso.
Guardiamoci attorno. Qual mutamento in questi ultimi anni ! Si rifugge sempre -iù dallo scomunicarsi vicendevolmente e si è sempre più disposti ad amarsi ed a lavorare in comune. 11 triste fantasma dell’unità di credenze, che ha causato nella storia della Chiesa e dell'umanità tante dolorose divisioni, per cui innumerevoli vittime caddero, questo fantasma sta per scomparire dall’orizzonte delle Chiese. Coloro che pur oggi tentano di richiamarlo perchè si levi ancora ad insanguinare i nostri paesi, che blaterano di una unità intellettuale, che pretendono che tutti gli uomini abbiano una stessa mente e si adattino alla stessa etichetta, non sono, per quanto dicano è protestino, che schiavi in ritardo degli antichi dommatismi. Ma noi abbiamo definitivamente respinto questo stupido errore. Non è l’intolleranza delie idee che creerà mai nella Chiesa, o fuori di essa, l’unione dei cuori! Non è lo spirito di setta che creerà la fratellanza delle anime! Ecco ciò che ogni giorno che passa ci appare sempre più evidente, e dobbiamo meravigliarci d’aver tardato così a lungo per accorgerci d’una luce tanto radiosa ! Ciò che solo può unirci sempre più strettamente, è la fede; è l’amore per lo stesso ideale, è la medesima orientazione della nostra vita intima, è il dono del cuor nostro al Dio dei Vangelo, o, meglio, è il Cristo stesso che opera nei nostri cuori per mezzo della fede!
Ne volete una prova migliore? Esaminatevi, scrutate voi stessi, fratelli e sorelle! Non vi prende a volte meraviglia per trovarvi riuniti in questo tempio? Uscite tutti forse dalla stessa casa? Avete percorso il medesimo cammino per venire? Appartenete alla stessa classe sociale o allo stesso ambiente? Avete ricevuto tutti la stessa istruzione, subito le stesse influenze? Avete, riguardo ai misteri divini, le medesime idee, le medesime credenze, vi ser-
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vite delle identiche espressioni? No, senza alcun dubbio. E se io domandassi a ciascuno di voi di formulare le sue credenze personali, esse apparirebbero le une più infantili, le altre più sapienti, altre più antiche, altre più nuove, tutte colorite diversamente, tutte diversamente, come il suono della vostra voce, intonate — le une forse contraddicenti logicamente ad altre — eppure, malgrado queste divergenze necessarie — notate — e salutari come salva-guardia della sincerità, nessuno oserà certo dire di non aver provato mai qui la gioia della comunione delle anime, della vera fraternità cristiana, nessuno oserà dire che durante il canto di salmi e cantici, durante la preghiera, o in certi momenti della predicazione, quando apriamo dinanzi a Dio le nostre anime stanche ed oppresse, e quando lo stesso grido di dolore e di fede se ne sprigiona, nessuno oserà dire, ripeto, di non aver mai realizzata l’unità profonda, l’unità secondo lo spirito, quella che a nessun’altra somiglia, perchè non è un prodotto del linguaggio umano, perchè è Io Spirito del Padre che soffia su quello dei figli !... Si, certamente, noi l’abbiamo tutti provata questa esperienza benedetta, noi la proviamo ora più spesso che per l'innanzi, e nulla, assolutamente nulla si oppone a che essa divenga l’esperienza quotidiana dèi nostri cuori...
«Ecco, t’ho aperto dinanzi una porta che nessuno può chiudere!...».
Oh, fratelli, facciamo atto di pentimento! Nói siamo stati ingiusti, ingrati, inintelligenti. Dio, col suo potere, ha tolto gli ostacoli che sbarravano il nostro cammino, ci ha colmati di grazie ineffabili... : è da gran tempo che, nelle campagne della Galilea e sul Calvario, egli ci ha aperto tutte le porte che dànno sul suo Regno..., e noi non abbiamo aperto gli occhi, non abbiamo saputo scorgere le vie che menano verso la libertà, la giustizia e l’amore! Pentiamoci, fratelli, d’aver avuto si poca fede! Pentiamoci di non aver curato la salvezza degli altri, come se ci fosse stato possibile salvar noi stessi, senza salvar i nostri fratelli ! Pentiamoci di essere stati così a lungo degli estranei, d’aver vissuto cosi appartati, di esserci sì poco compresi e così poco amati ! Noi dobbiamo pentirci, prima d’ogni altro, noi pastori, per avervi così malamente diretto, per esser restati cosi spesso indietro, d’essere sempre pigri nel compimento di tutti i nostri doveri, di non avervi spesso visitati, incoraggiati, sorretti, nel sentire le nostre forze venir meno, quando esse dovrebbero moltiplicarsi... Ma vói, ve ne supplico, avanzate ! Nel nome immortale del Cristo, in nome della salute spirituale e temporale della Chiesa, varcate la porla che nessuno può chiudere, e andate nel mondo, nella cerchia dei vostri affari, nelle vostre famiglie, dovunque vi sarà possibile operare, andate a proclamare e a praticar la fede che salva, che affranca il pensiero, che distrugge l’ingiustizia e stabilisce l’Unità!
J. E. Roberty.
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LA PREGHIERA
Non intendo occuparmi della preghiera in generale, quale essa può esistere in tutte le religioni, ma della preghiera cristiana, della preghiera che appartiene in proprio alla rivelazione biblica, della preghiera quale l’Evangelo la produce, l’esige e la consacra.
E questo non vuol essere uno studio completo, ma limitato ai tre punti seguenti : la natura della preghiera cristiana ; le sue con-dizioni inorali-, le sue condizioni psicologiche.
I.
La preghiera biblica e cristiana.
Che cosa è essa ? Per saperlo ci sembra opportuno e saggio ricorrere ai documenti originali del Cristianesimo. Che cosa ci dice la Bibbia ?
i® Essa ci mostra degli uomini che non soltanto si rivolgono a Dio, ma che discorrono con lui.
E’ questo un fatto unico nella religiosità di quei tempi. Altrove la preghiera esiste, ma essa, piuttosto che un dialogo, è un monologo. L’uomo aspira, invoca, supplica una divinità che resta muta. La storia delle religioni ci ha rivelato dei frammenti di preghiere sublimi ; eppure manca loro qualcosa : la parte di Dio nel dialogo, la risposta divina all’umana richiesta. Invece, di questa parte e di questa risposta la Bibbia è piena. (Abramo, Mosè, Giosuè, Davide, i Profeti, Gesù, gli Apostoli fino al veggente di Patmos).
2° Questo dialogo caratteristico della preghiera biblica può diventare una lolla con Dio. (E per questo valgono i medesimi esempi più sopra accennati).
Perchè sembrano necessari questi sforzi e queste angoscio?
Le ragioni non le conosceremo mai tutte. La più evidente però è di ordine pedagogico. In tutti i campi, lo sforzo è buono, la lotta salutare ; essa sviluppa e fortifica.
Questa ragione pedagogica è accompagnata
da una ragione morale: cioè l’esistenza del male. Tra l’uomo peccatore e il Dio santo, malgrado ciò che potrebbero chiamarsi le loro simpatie, c’è l’avversione di una secreta ostilità. Occorre che l’uomo sia conscio dell’anormalità e della gravità delle sue condizioni spirituali ; bisogna ch'egli, per la lotta, santifichi la sua preghiera e che la preghiera santificata santifichi la sua vita.
3° La preghiera biblica e cristiana, sorpassando sè stessa, può elevarsi talvolta sino al rapimento dell'estasi.
Tra i fenomeni di cui abbonda la mistica ve ne sono di prettamente morbosi. Lasciando questi da parte, io vorrei accennare a quegli stati di coscienza di cui si è potuto dire che essi « aggiungono una dimensione di più alla vita dello spirito » : elevazioni interiori che illuminano il volto ; pace ineffabile ; gioia trionfante, dolorosa e serena come quella del Cristo ; certezze incrollabili ; speranze sovrumane ; libertà vittoriosa del mondo che risulta dal contatto vivo colle realtà eterne ; sospiri ineffabili al nostro spirito dallo Spirito divino.
Tutte queste cose sono legate organica-mente alla preghiera. Esse sole spiegano, in ultima analisi, la funzione che nell’ Antico patto hanno avuto i patriarchi, i salmisti e i profeti. La vita di Gesù in molti suoi episodi illustra questi rapimenti dell’anima in Dio. La letteratura apostolica (la Pentecoste, il martirio di Stefano, le estasi di Paolo, le visioni di Patmos) ci conducono a constatazioni analoghe.
Più verrà studiata la psicologia religiosa dei credenti, più ci si convincerà che questi stati d’animo appartengono legittimamente alla vita cristiana, e che, se occorre temerne le deviazioni malsane, bisogna però desiderarle come indispensabili al progresso e alla consolidazione della fede. Non è possibile vivere per Dio una lunga vita umana, senza essere qualche volta ammessi a viverla in Dio. Ciò viene confermato dalle biografie cristiane (S. Paolo, S. Agostino, Pascal, Lutero, Wesley, ecc.).
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4* Ancora una caratteristica della preghiera cristiana: la continuità della preghiera, o la preghiera continua.
In che cosa consiste essa veramente? Non in una ripetizione di parole o di formole ; ma in un’attitudine interiore che finisce col diventar naturale ; in un orientamento del cuore verso Dio altrettanto spontaneo quanto l’orientamento dei fiori verso il sole. La preghiera, diventata comunione divina, completa l’obbedienza e la fiducia della fede e sboccia nella gioia, nella forza, nella pace, nel coraggio, nell’amore.
Se ignoriamo queste cose, c’è, nel centro stesso della nòstra vita religiosa, una grande lacuna, una spaventevole voragine. Esseri di apparenza e di superficie, siamo dei cristiani di paglia, la cui irrealtà interiore spiega, ahimè troppo bene, il disprezzo crescente in cui il mondo ci tiene e l’incapacità in cui siamo di conquistarlo al maestro che noi pretendiamo servire.
yLe condizioni morali e psicologiche della preghiera cristiana.
A questo male, se esiste, non si rimedia che tornando alla cultura della vita interiore ; e non vi è vita interiore, nel senso religioso, che non si fondi sulla preghiera.
Ma la preghiera ha le sue condizioni ; e, per osservarle, occorre conoscerle. Quali sono ?
Sono di due specie:
le condizioni morali che dipendono dal nostro volere e
le condizioni psicologiche che si riferiscono al nostro temperamento, alla costituzione del nostro essere intimo.
Il miglior modo di renderci conto delle condizioni della preghiera, sarà ancora quello di considerarne le difficoltà.
Per la maggior parte degli uomini, la preghiera è difficile. Essa non-si compie spontaneamente che nelle ore di forti emozioni (piacevoli o dolorose). Nelle circostanze ordinarie noi sembriamo desiderare e invocare la preghiera con una metà di noi stessi, mentre l’altra metà sfugge e resiste in preda al terrore. E allora noi preghiamo poco e male.
D’onde viene ciò?
Nella preghiera, noi realizziamo semplice-mente con maggiore intensità quello che esiste nell’insieme della nostra vita morale; cioè un non confessato dualismo che copre l’intero campo della nostra vita interiore.
Questo conflitto tra le energie nostre per
sonali è anzitutto d’ordine morale. E’ il dovere, il bene, la volontà di Dio che ci turbano; essi provocano la nostra adesione e sollevano irresistibili ripugnanze. Continua-mente sballottati tra il timore e l’amore, noi deliberiamo, tergiversiamo, temporeggiamo, evitiamo le risoluzioni decisive e gl’impegni irrevocabili. Che c’è di strano allora, se la forza ci manca, la forza e l’ardore, l’ardore e lo zelo — se ci mancano, dico, per vivere come per agire, per agire come per pregare ?
Ora perchè preghiamo noi ? Apparentemente per quel che ci manca: per ottenere quell’accordo, quell’armonia interiore, quell’obbedienza alla volontà divina che sfuggono ai nostri cuori divisi.
Ma questo primo oggetto della preghiera ne è anche la prima condizione- Per pregare efficacemente dovremmo possedere già quello che chiediamo. E’ un circolo vizioso.
Il quale circolo vizioso rimarrebbe eternamente infrangibile senza la libertà: la nostra e quella di Dio. E’ a questo punto che deve intervenire quella capacità veramente divina di porre nella nostra vita dei nuovi punti di partenza e che si chiama lo sforzo della volontà libera. Inutile immaginarsi che sia possibile la preghiera senza uno sforzo simile. Giammai la preghiera cesserà d’essere, nel suo fondo, l’atto virile e l’eroica decisione della libertà umana.
Questo atto domanda un punto d’appoggio. La libertà troverà questo punto di partenza nella verità : non in una verità astratta e teorica, ma in una verità viva, in quel vero interiore e vissuto che si rivela alla sincerità. Perchè, strano ma pur vero, non possiamo essere sinceri con noi stessi, cioè consentire pienamente a noi stessi, stabilire l’armonia interiore, che nella volontà del bene e nella obbedienza al dovere. Ciò vuol dunque dire che il dovere e il bene fanno corpo con noi e che basta discendere sino alle radici del nostro volere personale per scoprirvi quella adesione fondamentale al volere divino che sola può fornire allo sforzo della nostra libertà religiosa il suo punto di partenza e di appoggio.
Questa condizione morale, indispensabile ad ogni preghiera seria, è laboriosa e difficile. Questa è la ragione per cui di solito la si evita, la si sostituisce con delle apparenze, dei succedanei.
Ma questo atto è necessario. Ed è possibile-. possibile poiché deve essere, possibile perchè l’abbiamo qualche volta realizzato, possibile coll’aiuto di Dio.
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Possibile, ma non sempre. Molte volte abbiamo voluto e non abbiamo potuto. Abbiamo conosciuto l’amara desolazione di quelle ore grigie in cui camminavamo nell'esistenza come estranei alla nostra propria vita.
Ciò significa che siamo più complessi di quel che crediamo; che non siamo soltanto volontà, ma anche natura ; v'è in noi uno spirito libero e un autòma, prodotto delle nostre eredità secolari e delle nostre abitudini.
* « «
Di ciò bisogna tener conto passando a considerare le altre condizioni della preghiera : le condizioni psicologiche e persino fisiologiche. Esse si riassumono nel motto di Pascal : piegare l’autòma.
Negli ambienti religiosi non si dà alla preghiera nè regole, nè direzioni pratiche; si esorta alla preghiera ma non si pensa che essa richiede una cultura metodica. E perciò quasi sempre le nostre preghiere si urtano contro uno di questi due scogli : il fot mutismo o il capriccio.
Certo l’azione dello Spirito è pienamente libera ; essa non è però arbitraria; essa ha le sue condizioni che si riassumono — come per qualsiasi altro lavoro produttivo — nella necessità dello sforzo regolare e continuato. E l’oggetto, o l’ostacolo di fronte al quale deve esercitarsi lo sforzo di questo lavoro spirituale, non è lontano da noi ; ma in noi stessi : in quella natura il cui automatismo potente ci incatena e ci stritola.
Si tratta dunque di asservire la nostra natura in quanto essa è utile alia vita dello Spirito, e di sfruttare le sue risorse in quanto essa le li favorevole.
i° Il primo lavoro è superiore alle nostre forze ; noi siamo impotenti in quella tenebrosa e indeterminata regione del sub-cosciente psicologico che costituisce la dotazione primitiva a noi pervenuta quale legato di una eredità corrotta. Che cosa dobbiamo noi fare riguardo a quella parte del nostro essere che precede in noi l’avvento della nostra libertà e per la quale noi siamo del continuo sedotti e tentati al male?
Rispondo: dobbiamo presentarla a Dio, darla in balìa alla sua azione redentrice, esporre davanti a lui la teoria lamentevole delle nostre vergogne, aprirgli le porte della cittadella, e lasciarlo entrare lui. Ecco ciò che bisogna fare per « piegare l’autòma ». E poiché si tratta di un lavoro penoso e ostinato, si am
metterà ch’esso esiga, nella preghiera e per mezzo della preghiera, uno sforzo continuato e metodico.
20 Ma la natura nostra non è soltanto ostile alla vita dello Spirito; essa vi è anche favorevole. Dal sub-cosciente psicologico scaturiscono altre suggestioni oltre a quelle del peccato: quelle stesse suggestioni che ci buttano nel dovere e ci spingono all’adempimento del bene. E’ dentro a noi stessi che Dio ci cerca e ci trova. E' nel più profondo di noi stessi che c’incontriamo con lui.
Le conclusioni dei celebre psicologo W. James sono appunto queste : che dietro e sotto il nostro io cosciente, in relazione di continuità e di contiguità col nostro io cosciente, si estende un io più vasto attraverso il quale soltanto arriva fino a noi quello che chiamiamo una esperienza religiosa di modo che, se esiste al mondo qualcosa che somigli ad una relazione vivente dell’uomo con Dio, qualcosa che meriti questo nome e che ne porti i frutti, è qui eh’essa avviene, è qui che essa si stabilisce, è di qui eh’essa giunge alla nostra coscienza.
3° Che cosa occorrerebbe dunque perchè la relazione vivente dell’uomo con Dio fosse continua, regolare, intensa?
Semplicemente ed anzitutto che noi stessi fossimo in comunione, in armonia con noi stessi, intendo con quella parte di noi che appartiene a Dio e che è in noi come il suo santuario ed il suo tempio.
Ma qui appunto sta l’ostacolo. Sul terreno psicologico arriviamo alla stesse conclusioni che sul terreno morale. Da noi stessi a noi stessi, dal nostro io superficiale al nostro io profondo — e dunque da noi a Dio — si estende una specie d’inafl'errabile e sottile rete di cui le maglie fitte si aprono raramente, in modo capriccioso, intermittente, sconcertante e molto ineguale da uomo a uomo.
Questo stato non è normale, non è quello promesso dal Maestro della vita divina, e da lui realizzato.
Per giungervi occorre togliere l’ostacolo, rovesciare la barriera, strappare o allargare le maglie della rete. In altri termini : portare lo sforzo liberatore su quella parete, o naturale o morale, che separandoci da noi stessi, ci separa da Dio: e fare questo sforzo mediante la preghiera.
Ho pronunziato ancora una volta la parola sforzo. Lasciatemi indicarvi alcune regole pratiche atte a guidare lo sforzo, regole tratte meno dalla mia esperienza (purtroppo) che da quella dei grandi cristiani.
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BILYCHNIS
IH.
Condizioni e regole della vita di preghiera cristiana.
i° Regolarità della preghiera — sia regolarità di tempo, sia regolarità di luogo.
Riguardo al tempo, adoperiamo per la preghiera le ore migliori delle nostre giornate, cioè quelle che vi si prestano meglio. Questi momenti sono diversi per ciascuno; ognuno dunque deve discernerli, e poi attenervisi. Noi sappiamo tutti, per scopi di minore importanza (cure igieniche, preparazione' di esami) costringerci ad una disciplina analoga; facciamolo altresì per l’occupazione più alta di tutte.
Alla regolarità di tempo è opportuno aggiungere la regolarità di luogo. Medesime ore, e medesimo posto; si combina così una duplice associazione : quella del tempo e quella dello spazio. Non dispregiamone la potenza. Non siamo mica così forti da non dover approfittare di tutti gli aiuti. Utilizziamo la legge dell’abitudine e della consuetudine per la preghiera. Col vigore del nostro spirito pieghiamo l’autòma ; da ostacolo ch’egli era per natura, trasformiamolo in ausiliario ; esso faciliterà allo spirito il suo compito e gli permetterà di tendere più liberamente verso nuovi fini.
2® Raccoglimento. Molti credono raccogliersi quando si ritirano in camera, si siedono in poltrona e... riflettono. Questo è un raccoglimento d’ordine inferiore: finché lo spirito umano riflette il mondo intero si riflette e passa nei suoi pensieri. Esso passa e ci distrae da noi stessi e da Dio.
Il raccoglimento è tutt’altra cosa. E non è neppure un riposo, una quietudine inerte, molle e passiva.
I! raccoglimento è un atto, un atto austero, che mette rudemente alla prova la virilità del nostro volere e che consiste a ritornare su di sé, su di sè soli, a prendersi, ad afferrare sè stessi quali si è, nel senso più inesorabilmente concreto e realista del termine; un atto che scarta il pensiero, o meglio che assorbe ogni pensiero e ih virtù del quale noi guardiamo noi stessi, noi conosciamo noi stessi alla luce di una fiaccola infallibile : quella dell’imperativo di coscienza.
A questo raccoglimento bisogna tendere. Lo definirò dicendo eh’esso consiste nell’incontro delia coscienza psicologica e della coscienza morale : della coscienza psicologica la più intima e la più acuta che sia possibile ottenere — rivelata — come si rivelano sotto il reagente le lastre fotografiche — dai giudizio spietato della più rigorosa coscienza morale.
Che questo raccoglimento non sia facile, lo concedo ; ma esso è indispensabile alla sincerità della nostra preghiera, e quindi alla sua realtà. La perseveranza nello sforzo ce lo renderà ogni giorno più facile: la luce della coscienza morale brillerà sempre più luminósa, noi ci offriremo sempre più umili al suo giudizio ed afferreremo sempre più chiaramente i suoi comandi. Questo lavoro farà della nostra preghiera ciò ch’essa deve diventare : una preghiera «in ispirilo e in verità».
3° L'abdicazione. — La prima parola d’una preghiera nata in questo modo sarà senza dubbio una parola di abdicazione. Con questo termine io intendo la consegna totale, definitiva e sincera del nostro essere a Dio, affinchè faccia di noi quello ch’egli vorrà, tutto quello che vorrà, come io vorrà.
Questa abdicazione, fuori della quale non c’è mai stata e non ci sarà mai religiosità autentica e seria, questa abdicazione diventerà possibile, anzi lieta, nella misura in cui un raccoglimento più sincero e una sincerità più raccolta ci avranno condotti non all’idea di Dio — idea vuota e terribile per la sua stessa vacuità — ma a Dio stesso, alla realtà della sua presenza. Perchè la presenza reale di Dio trasforma ogni cosa. Basta ch’essa sia concessa perchè il rinunziamento di sè stessi a sè stessi diventi la mossa felice e spontanea di un volere che perdendosi si ritrova, che non si perde in sè stesso se non per ritrovarsi in Dio.
4° La richiesta. — Ritrovandosi in Dio, il volere accede a un doppio atteggiamento : l’azione di grazia e la richièsta. Vi accede perchè l’abdicazione, che ha un lato negativo, la spogliazione, ha altresì, e sopratutto, un lato positivo: il rivestimento. Vista dal difuori, essa è un sacrificio per il quale s’immòla ; provata da) di dentro essa è una esaltazione, un arricchimento, una intensa vita-lizzazione dell’anima immolata nella quale scorrono ormai le energie stesse della vita divina. Dalla sfera sterile della nostra volontà propria, siamo passali in quella della volontà sovrana che regge il mondo e che sussiste in eterno. In armonia col volere di Dio noi possiamo, ringraziandolo di tutto, lutto chiedergli ed aspettarci tutto da lui. La nostra preghiera possiede, pel fatto stesso della sua sottomissione e della sua armonia con la volontà divina, l’arra e la garanzia del suo esaudimento finale.
Ciò non vuol dire che siano cessati lo sforzo e la lotta. Ma Dio stesso intercede con noi, intercede in noi, noi lo sentiamo per quel qualcosa di forte, d’intenso, di originale che
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sboccia in noi — e la nostra preghiera, piena di Lui, sale vittoriosa e sicura di sé stessa fino al suo cuore, dove essa esaudisce sè stessa. Una preghiera simile non si cura più del suo esaudimento, tanto essa ne è certa.
5° La risposta dì Dio. — Preparata dal raccogliménto, incominciata coll’abdicazione, continuata con la richiesta, la preghiera cristiana deve compiersi in un’attesa silenziosa e sottomessa : quella della risposta divina.
Forse è questo il punto in cui) a nostra preghiera è rimasta maggiormente pagana. Nel modo in cui la pratichiamo di solito, si direbbe che Dio non ha nulla da dirci. Lo stanchiamo con le nostre parole, senza concedergli l’occasione di farci sentire le sue. Reclamiamo da lui delle risposte che non abbiamo poi la pazienza d’ascoltare o d’aspettare.
La fede deve lasciare alla sapienza divina la scelta dei tempi e dei momenti.
Inoltre dobbiamo ben renderci conto che Dio nutre a nostro riguardo delle intenzioni personali, infinitamente più alte e più generose di quel che pensiamo, e ch’egli vuole rivelarci personalmente.
Noi chiamiamo Dio nostro Padre : un padre educa ciascuno dei suoi figliuoli in quel modo Che al carattere di ognuno è particolarmente adatto. E noi non lasciamo che Dio eserciti a nostro riguardo le prerogative essenziali della paternità ! Non gli concediamo mai nè il tempo nè l’occasione per parlarci, da solo a solo, nel secreto della nostra vita intima !
Non sarebbe forse per questa ragione che ie nostre vite cristiane sono cosi meschine e cosi povere ; che non vi è originalità in esse ; che tutte si somigliano in una triste mediocrità comune e che alla chiamata di Dio per dei doveri innumerevoli e svariati, sappiamo rispondere soltanto meccanicamente, con le chiese, le associazioni, i comitati?... Ci voleva per un compito, l’uomo di quel compito, una individualità, qualcuno ; e non si trova che una collettività anonima la quale compie collettivamente, moderatamente, saggiamente, mediocremente, ciò che avrebbe dovuto esser fatto nella potenza, nell’ardore e nella sicurezza di una vocazione personale.
Noi manchiamo nella vita di direzioni, di luci, di certezze feconde e giulive! Queste cose Dio voleva darcele, a ciascuno le sue. Égli voleva formarci, svilupparci in un modo originale e libero, e noi non ci abbiamo badato, e noi non l’abbiamo voluto.
Ah, Vimziativa di Dio nella vita cristiana. Non sarebbe tempo di riconoscerla di più, e di abbandonarci maggiormente ad essa? — Dico bene: abbandonarci ad essa, perchè le posizioni non sono quelle che c’immaginiamo. « Ecco, dice il Cristo, io sto alla porta e picchio ; se qualcuno ode la mia voce e apre la porta io entrerò da lui ». Che vuol dir ciò? Noi crediamo di picchiare alla porta di Dio, ed è Dio che picchia alla porta nostra ; noi crediamo andare a lui, ed è lui che viene a noi. E tutte le iniziative nostre non sono altro che delle risposte : e tutte le nostre richieste non possono che esaudire le sue!
Sublime, ma sconcertante scoperta. C’è in essa di che buttarci nella polvere con un canto di gioia, di che farci rimanere in ginocchio perchè egli entri e illumini le anime nostre con la sua gloria, e le riempia con la sua presenza, e le inondi con la sua grazia. Lui tutto in noi e noi tutti in lui, oggi, domani e sempre!
E’ questa la sua opera, ma è anche la nostra perchè noi siamo « operai con Dio ». E per farlo che cosa ci vuole? Ancora una volta : lo stesso sforzo, la stessa regolarità, la stessa pazienza, la stessa perseveranza, la stessa fermezza, la stessa disciplina, che noi sappiamo mettere in altre opere ben minori. Queste sono le condizioni semplicissime che faranno di noi, non più degli eterni mendicanti di Dio, ma i suoi diletti figliuoli, i quali cammineranno con lui in quella relazione vivente e vittoriosa che l’avvento del suo Regno e il trionfo della sua causa esigono da noi.
L’opera è semplice ma lunga, difficile, ardua. Dio la vuole per noi. A noi di volerla per lui.
GASTON EROMMEL.
(Dal voi. Etutitt or alti et relìgieutee.
Riassunto da G. Adami).
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A PROPOSITO DI UNIONE
DELLE CHIESE CRISTIANE
Ricevetti, qualche tempo fa, un foglietto con una preghiera per la riunione delle varie chiese cristiane.
Rimasi un po’ dubbioso se aderire all’iniziativa, presa da un gruppo di persone degnissime e di ottimi amici, di invitare quante più anime cristiane fosse possibile a elevare a Dio tale preghiera, perchè presto si effettui il voto del Maestro, che si raccolga su tutta la terra un solo ovile con un solo pastore.
Credo che la mia esitazione non abbia edificato i miei amici: mi sento quindi in obbligo di esporne le ragioni.
Un solo ovile e un solo pastore ?
E’ una visione di vera vita d'amore e di pace\ ma, sarà quando spariscano tutte le chiese? Forse la divisione in chiese è un fatto sociale necessario, durante un periodo storico, di cui nessuno saprebbe o potrebbe determinare la durata cronologica nemmeno all'ingrosso, mentre ne è calcolabile con la massima esettezza quella psicologica.
Quando gli uomini saranno capaci di intendere le loro voci, le loro esigenze più intime, più profonde, senza alterarle con altre esigenze posticce ed esterne di tradizione e di convenzione,
e avranno acquistato l'agilità e la forza di secondarle così nude e pure ; quando cioè sapranno far prevalere i doveri di coscienza alle contestazioni storiche, ai torti e ai diritti del passato, e fin ai reclami del sangue e della stirpe, di famiglia e di patria; quando per giungere a Dio sentiranno che- occorre il minimum di forme esterne; che ogni forma esterna può, sì, in certe ore solenni, affratellarli nell’esprimere la loro uniformissima aspirazione a Dio; ma che per giungere a Lui abitualmente c'è più da tacere che da parlare o da cantare, più da eliminare di esteriorità che non da affastellarne, più da raccogliersi che distrarsi, più da guardar dentro e giù che non su e intorno ; quando al sacerdozio casta, sia poi di una chiesa o d’un’altra è lo stesso, gli uomini avranno risostituito il primitivo popolo sacerdotale che si legge in San Pietro, il quale quasi esprima da sè i migliori i più venerandi suoi membri, distinti dagli altri e designati a rappresentare il sacerdozio dalla loro maggiore spiritualità, unione con Dio, santità e purezza di vita, e quindi dal loro più sagace consiglio in mezzo ai loro
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NOTE E COMMENTI
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fratelli che nel loro ministero e nella loro vita sentano presente Iddio ; quando sopra tutto Dio non si concepirà più come un essere estraneo a noi, rifatto da noi a immagine e similitudine nostra (dopo che Egli ci creò a immagine e Similitudine sua!) e delle nostre vecchie memorie e delle nostre permanenti disposizioni personali ed etniche, il quale tiene assai conto del come noi lo definiamo e di ciò che ne diciamo e dei gesti precisi con i quali intendiamo di esprimergli la nostra devozione, geloso di tali affari teologici e rituali al punto da far dipendere da un esame intorno ad essi la sorte eterna, felice o infelice degli uomini, esame che risulterà tanto più favorevole quanto più ci dimostrerà pratici di termini e definizioni ripetute da noi tutta la vita senza capirne nulla ; quando invece Dio lo concepiremo tutti solo solo come Colui che è buono, buono tanto da poterlo invocare con la preghiera di Gesù: Padre nostro, e come padre, simile in questo al nostro piccolo padre umano, che vuole sì essere amato perchè ama e obbedito perchè amato da noi e amante di noi, che se ordina, ordina sempre per il nostro meglio, ma non ha la minima pretesa che noi sappiamo e diciamo di lui quanto pesa, di quanti centimetri è in lunghezza e larghezza e quanti peli ha nella barba e se nel sangue ha una o quante parti di carbonio e di azoto, condizionando a tali edificantissime cognizioni il suo amore; quando si avvererà tutto questo e la civiltà avrà progredito fino al punto da mettere d'accordo gli uomini nelle cose semplicissime, e da persuadere che la vita spirituale in comunicazione con Dio — ciò è religione — è così per l’appunto, semplicissima, e consiste nel fare e non nel dire, secondo le parole di Cristo: non quelli che mi invocheranno
Signore, Signore, entreranno nel regno dei cieli, ma quelli che eseguiranno la volontà del Padre mio che è nei cieli quelli entreranno nel regno dei cieli, allora le chiese non si uniranno più, perchè non ci sarà più che cosa unire, e quelle che ad alcuni parranno chiese saranno le vecchie spoglie morte di ciascuna di loro, talmente morte e rimorte da riuscire indifferentissimo a tutti i vivi che si uniscano o rimangano separate: allora il Cristo avrà davvero giudicato i vivi ed i morti, e gli uni si troverannno raccolti insieme come seme vivo e fecondo nei granai del padre di famiglia, gli altri saranno come paglia inutile e secca destinati al fuoco divoratore e al vento disperditore del tempo.
Fino a quel punto si può riguardare come una necessità sociale che le varie chiese rimangano separate. E come ogni legge, anche questa ha le sue ragioni e la sua bontà. E' forse bene che non tutti facciano le loro confessioni e professioni religiose negli stessi termini, alimentino la loro pietà con le stesse forme, esprimano collettivamente a Dio il loro cuore con gli stessi riti e ascoltino il messaggio di verità e di santità con lo stesso suono di parole.
Certo non è bello che ancora ci si accanisca gli uni contro gli altri, e i seguaci d'una chiesa pensino e dicano tutto il male possibile dei seguaci di un’altra; ma questo accanimento dimostra soltanto l’embrionalità della nostra educazione — le religioni e le confessioni non c'entrano — la miseria degli uomini, non delle loro fedi, e tuttavia starà ancora per un gran pezzo a indicare la distanza che ci separa da qualsiasi riunione. Quanti si trovano anche oggi che al vedere un mio scritto qui in Bilychnis non sentano il prepotente bisogno di domandare e d’informarsi : ma è dunque il P. G. divenuto protestante? Che io
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Bl LYCHNIS
rimanga cattolico, e tuttavia scriva in Bilychnis, perchè questo periodico (non saprei nemmeno io stesso definir bene se diretto da cattolici, o da protestanti, o da ortodossi, o da che cosa, salvo da galantuomini o da persone di alto sentimento religioso) ammette a parlare, a discutere, chiunque abbia qualche cosa da esporre e da proporre, senza domandare ai convenuti insieme nè da che parte vengano, nè dove s’incamminino, salvo la buona volontà in tutti di edificarsi a vicenda nel ricercare il vero e nel desiderare il bene; questo è un incredibile per molti.
E’ un minimo episodio, indice minimo di una gran realtà, quella ora accennata, che l’unione delle chiese, anche solo delle varie confessioni cristiane, è per ora un sogno. Per ora le chiese son tutte dominate da ombrosità e da gelosia, tutte si lusingano d’aver diritto a rigor di logica, di ontologica, di metafisica e di storia, al monopolio assoluto ed esclusivo — così, assoluto ed esclusivo — del vero e del bene, della grazia e della gloria; quindi ogni cenno di concordia e di pace le offende, e se ha un effetto, è quello di allontanarle dalla riunione, mettendole in guardia.
Se si desiderasse anche qui un piccolo cenno di questo fatto rilevantissimo, basterebbe leggere un recente articolo di fondo nel periodico La Luce, edito, credo, da Valdesi, e intitolato appunto: La riunione delle chiese cristiane. In esso Mons. Hugh Benson è accusato con molta vivacità di panro-maoismo, per avere, dal suo punto di vista particolare, parlato di riunione. Naturalmente Mons. Hugh Benson potrebbe oggi o domani, con la stessa vivacità e con le più lampanti prove alla mano, imputare di panvaldesismo tutti i propagandisti di Torrepellice e sue dipendenze, come fra tutti i seguaci di qualsiasi altra confessione si sarebbe
prontissimi in un caso simile, a gettare ciascuno su tutti e tutti su ciascuno il sospetto di pan... qualche cosa, mettendo sull’avviso i propri diletti fratelli in Cristo contro le insidiose propagande unitarie con la frase della Luce a proposito della conferenza di Mons. Benson : gatta ci cova.
Del resto, per tornare al concetto dà cui ho preso le mosse, la unione vera non è quella delle chiese fra loro, cosa officiale e recante con sè tutti gl’inconvenienti degli affari officiali ; l’unione vera è fra tutte le anime vive e aperte al senso delle cose eterne e divine. Esse avverano sempre le condizioni da me dianzi enumerate e quindi formano la vera spirituale chiesa cattolica, l’unico spirituale gregge sotto un solo pastore, vagheggiato da Gesù. Lo compongono tre schiere. La prima è di quelli che seguendo con più o meno di chiaroveggenza le proprie umili e sante crisi spirituali, cogliendo il senso intimo del dogma e spirituale delle migliori pratiche religiose che li santificarono fino dagli anni loro più teneri, tutto semplificando e spogliandolo delle deformazioni o grossolane, o superstiziose, o bottegaie indottevi dagli uomini, sono giunti infine alla tranquillità e alla pace. La seconda è di quanti si travagliano in un travaglio che è fede e .vita, brama e amore e possesso, per quanto forse inavvertiti, di luce, e non conquisteranno mai i vertici sereni su cui si riposa la prima schiera, rimanendo a loro la sola severa gioia della fatica d’ascendere e del tentativo di giungere. La terza schiera è formata dalle anime semplici, che ignare di crisi spirituali e di vie aspre per giungere in alto, per la semplice ragione che ci vivono abitualmente e non ne son mai discese, trovano e possedono Dio nel bene, operano la verità e godono perciò assiduamente della luce.
Pregare per tutti questi? ma se for-
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NOTE E COMMENTI
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mano già la più bella unità spirituale! Pregare perchè tutti acquistino coscienza del loro trovarsi insieme già spiritual-mente effettivo ? Preghiamo pure — dà tanta forza e tanta gioia, oltre il resto, sapersi e sentirsi insieme! — tuttavia non mi pare questo il senso della preghiera proposta, se è per la RIUNIONE delle chiese cristiane!
O essa deve inalzarsi per i cristiani che si attardano nella divisione? Ma questi, o sono i dirigenti, l’alto clero-, di ciascuna chiesa, e, ripeto, non ne vorranno mai saper nulla di nulla, ad ogni proposta e ad ogni fervor di preghiera opponendo : vengano le altre chiese alla nostra, noi abbiamo tutti i diritti di preferenza; o sono i fedeli passivi (non trovo altro vocabolo) di ciascuna chiesa ; ma questi, o sono in buona fede attaccati anche all’umano e caduco delle chiese a cui appartengono, e allora vivificano, mercè lo spirito che li guida, tutte le loro azioni e lo stesso loro passivo aderire, ed entrano, sia pure di traverso, nella unità interiore dell’ anima della chiesa universale, avviandosi,nella esatta, proporzione della loro sincerità, a scorgere sempre più nitidamente la parte genuina delle loro fedi e a liberarsi da tutte le involontarie deformazioni dèi concetto cristiano di religione e di pietà, mentre ora patirebbero grave scandalo e più grave iattura spirituale per qualunque violento tentativo di rimuoverle anzi tempo dal loro stato, e di aprir loro gli occhi* come suol dirsi con una frase delle più incongrue e false (ho trovato io mille volte, persino in forme religiose rasentanti la superstizione, una religiosità così sincera e feconda di sante opere, che i facili accusatori e gli intempestivi apostoli nemmeno se l’immaginano); o sono in cattiva fede e o la loro passività trova il suo corrispettivo attivo in calcoli d’ambizione e d’interesse, o rappresenta solo una grave zavorra di pigrume
che si risolve in grosso scetticismo, e questi saranno sempre i più avversi per proposito ad ogni riunione, nè si troverà preghiera che li smuova e sollevi dalla loro palude e dal loro soddisfatto giacervi.
E giacché sono a parlare di buona e cattiva fede, mi si permetta una domanda: perchè restringere la preghiera unicamente alle chiese cristiane? O non son dunque anime sorelle nostre anche quelle non cristiane ? Se si trattasse di azione diplomatica e, giusto, di convenzione officiale, capirei fino ad un certo punto questa restrizione; si potrebbe giustificare dicendo : per cominciare. Ma trattandosi di preghiera! C'è altro che sentirsi angustiati pensando ai miseri confini di questa piccola terra nostra? Io dico la verità, quando prego per i miei fratelli in Dio, spazio con la mente e con la simpatia più profonda per tutto l’universo, dovunque abitino anime capaci di verità e di bene, e per tutte sollevo al comun Padre l’immensa preghiera di Gesù: Venga il tuo regno \ e mi pare che quella preghiera avvolga in un istante tutto questo tenue conosciuto mondo e poi si propaghi con inconcepibile rapidità per tutte le profondità ignote del cielo e raggiunga ogni mondo baitato.
E nemmeno prego perchè Dio abbia pietà di quanti a noi pare che non lo conoscano ancora, quasi che aspettasse, forse da secoli, che proprio io glieli ricordassi, rimuovendo Lui dalla sua egoistica e immemore beatitudine, lo sollecitassi nella sua lenta pigrizia ad affrettarsi a scendere col suo santo spirito, luce e vita, a illuminare e vivificare i dimenticati suoi figli. E non prego così, perchè la preghiera mi si volgerebbe in una serie blasfema di tristi pensieri. Ma ripetendo adveniat regnwm tuum* queste parole suonate un giorno sulle labbra di Gesù, che diceva anche : io e
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il Padre siamo una cosa sola, sento che il mio spirito si unifica con quello ai Dio, e il mio desiderio e il mio voto con Lui, che anche io e il Padre nella uniformità spirituale siamo in quel momento una cosa sola ; e sento e so che Egli non cessa mai di agire in ogni anima, e quelli che a noi paiono ritardi, oblìi o indugi non sono altrimenti tali, ma che se Dio si rivela a grado a grado, ciò segue per la legge universale del progresso, che è così precisamente graduale in ogni cosa, anche in religione, legge che noi mal distinguiamo da Dio, ovvero egualmente male o peggio la supponiamo non come la legge, ma come una legge, quasi scelta da Dio per una specie di capriccio a preferenza di infinite altre possibili, mentre invece è di così intrinseca unità, unicità, necessità, come sono le leggi del peso e della misura secondo le quali fu creato l’universo, in pondero et mensura; ripetendo io adveniat regnum tuum, preghiera a cui corrisponde il più fervido desiderio, sento che essa ha in me già ottenuto il suo effetto e già possedo in qualche grado il regno di Dio per il cui avvento alzo la mia preghiera, perchè ogni desiderio è inizialmente possesso ; e sento che la efficacia della mia preghiera non rimane isolata nel mio piccolo io, ma va a trovare e raggiungere ogni anima sorella dovunque ne palpiti una, come ogni più piccolo moto fisico si allarga con ritmo uniforme da qualsiasi remoto centro fino agli ultimi atomi delle ultime stelle.
Tale essendo la mia preghiera, tale dovendo essere ogni preghiera cristiana, non è piccolo e angusto intento quello proposto dalla Lega di preghiera?
Oh, dilatiamo quanto possiamo i nostri cuori pregando, se cerchiamo davvero Dio e l’avvento del suo santo regno, e prepariamogli il terreno, non scandalizzando gli spiriti fragili, che equivarrebbe a spezzare la canna incrinata, ma lavorando a creare un ambiente di alta e pura spiritualità che penetri da per tutto con le parole reverenti e delicate, e più con la santità della vita di chi le pronunzia; spiritualità d’ambiente che è insieme il più corrosivo degli acidi distruttori di quanto è falso, cattivo, farisaico, vuoto e negazione di Dio nel dominio religioso.
O forse infine con la preghiera per la riunione delle chiese s’intende affrettare il momento in cui i fedeli in buona fede di tutte le chiese arrivino alla purezza divina della religione, e in essa e per essa si riconoscano e si abbraccino fraternamente fra loro? Anche in tal caso nessun motivo di restringerla alle sole chiese cristiane.
Ho esposto con tutta semplicità il mio pensiero e i miei dubbi, sicuro che la mia sincerità sarà apprezzata dai promotori della Lega meglio che o un apate silenzio, o un’adesione cieca.
E se da una eventuale discussione potrà venir chiarito lo scopo della Lega stessa, tanto meglio.
P. Ghignoni.
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LA NUOVA CROCIATA DEI BAMBINI“’
Fra i romanzieri evocatori della « tradizione religiosa e sociale», fra i «restauratori della vita famigliare, provinciale e nazionale » (2), è certo tra i primi col Bourget, col Barrès e col Bazin, il savoiardo Henry Bordeaux. All’ambiente savoiardo, a quell’ambiente reli-■gioso e conservatore di tradizioni e di superstizioni, egli deve quella sua. gravità precoce, che ne ha fatto un combattivo, uno scrittore che presenta un’organica serie di romanzi volti tutti, o quasi tutti, alla glorificazione, o meglio alla popolarizzazione della Savoia e allS divulgazione delle idee sue che sono le idee di un conservatore, conservatore di tutto quanto può servire al bene delle nazioni, sia pur esso nascosto nella religione o nella tradizione, nella famiglia e nell’ingenua anima infantile.
Plasmato il suo spirito nelle sue forti Alpi, verificata su se stesso «l’attitudine dei luoghi a formare le anime», egli è « il garante e il testimonio della Savoia in quello che chiamar si potrebbe il concilio delle provincie francesi » (3), e alla scuola del Daudet, con molte qualità di stile e coi vari procedimenti di narrazione svelta ed elegante che rifulgono nel suo ultimo romanzo, socialmente, egli ha imparato quella che chiama la vera scienza, « la scienza dell’umanità » (4).
«Scienza dell’umanità », conoscenza cioè dell’uomo, ma non conoscenza vana, ma scienza applicata e apuli caia a guarire le piaghe sociali. E fra le maggiori piaghe sono : la man*
(«) Hrnxv Bokokaux. La nouvelle croisade det tnfantt, Paris, E. Flammarion, cditeur.
(?) Charles Lk Goeeic, La litt.fraacaite an XIXtiecle, Paris, Larousse, cditeur. ■
(3) Rtn! Marc Ferry.
(4) Let lerivaint et let moenrt, pag. 70 c 7:.
canza di coesione e di intimo amore nelle famiglie; la mancanza di quell'« indissolubile unione dei cuori e della volontà per l’opera sacra del focolare » (i); il disprezzo per quei che c’è di buono nelle vecchie costumanze e nelle tradizioni nazionali e locali ; il sovrano disprezzo per la fede e il sovrano culto per la Dea Ragione.
La «scienza dell'umanità » serve a scoprire quel che fa la grandezza e la forza dell’individuo, quel che fa la salute e la durata del corpo sociale. Ad essa non ripugna scendere fra i «poveri di spirito», fra i miserevoli, fra gli adolescenti e fra i bambini, per trarne ammaestramenti e consigli ; ed essa non rifugge dalla vera scienza e dalle sue benefiche scoperte. Ma non sarà la « mezza scienza degli istitutori che fa scendere in terra il mistero del mondo e così accresce la credulità pubblica citando senza spiegarli i fenomeni della natura » (2). Non saranno le nozioni di storia che il maestrod’Avrieux, Mussillon, libero pensatore, come il suo ispettore, come il suo deputato, come il suo ministro, impone alla mente più imaginativa che riflessiva della sua scolaresca, spingendola, contro ogni suo volere, alla mistica, cieca ed entusiastica fede infantile(3). Sarà quello che v’ ha di veramente acquisito e maturato nell’uomo. Sarà quella scienza che non combatte contro la migliore, più duratura e più efficace parte delia scienza popolare, sia chiamata filosofia o religione, tradizione o superstizione. Sarà quella scienza che
(1) Let Rogyfoillard. Paris, ¿dit. Nelson. (Introdurione di Firmin Roz, pag. 7).
(2) Le Lac Noir Paris. Modéra bibliothèque, pag. 7.
(3) La croitade det enfante. cap. IV.
»
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sulle ali dell’aviazione trasporterà e convertirà in Roma il tristo zio Tommaso, ladro e contrabbandiere, bestemmiatore e propalatore di tenebrose scienze occulte (1).
Aveva Henry Bordeaux agitato gravi qui-stioni su la famiglia e su le benefiche influenze di molte tradizioni nei suoi maggiori romanzi : Le pays natal, La peur de vivre, Les Roque-villard, Les yeux qui s’ouvrenlì La croisée des chemius ; altri romanzi e novelle, altri saggi, di critica e narrazioni di viaggi e opere sceniche, aveva dato prima di scrivere : La nou-vetle croisade des enfanls. « E’ un romanzo per i piccoli che hanno ricevuto la nostra tradizione, per i piccoli e anche per i grandi. Mi augurerei che rassomigliasse a quelle canzoni d’altri tempi che si salmodiavano alle veglie blando la conocchia. Vi erano molte strofe perchè son lunghe le veglie d’inverno. Ve n’erano di tristi, ve n’erano di gaie. Chiaro e facile ne era il ritmo. E, su labbra giovanili, diventano fresche e belle le vecchie canzoni... ».
Cosi termina, Henry Bordeaux, la bellissima e dolce prefazione al suo romanzo, prefazione che mi fa pensare ai .maestri della psicologia dell’anima infantile: Anatole Franco e André Lichtenberger.
L’A. ha dedicato il suo romanzo ai suoi figli, Paulae, Marlac, Chantalì, filiis dulcis-simis, e ciò gli farà perdonare e anzi servirà a spiegare perchè in esso si trovino inverosimiglianze e strane combinazioni fortuite, che ti fanno pensare a un racconto di fate, a una « canzone d’altri tempi » come direbbe lui stesso, piena di leggenda e di misticismo, piena di straordinario e di eroico.
Lungo la bellissima valle che dai piedi occidentali del Levanna, da Bonneval, tra ghiacciai e oscure selve, s’aggira fino a Avrieux, sotto le risplendenti sommità della Vanoise, su per la storica via del Ccnisio, per quella che serpeggiando sale da Lanslebourg fino alla frontiera italiana, è nel romanzo, un succedersi ininterrotto di scene infantili e curiose, di combinazioni romanzesche e narrative che certo sono le meglio atte a colpire l’anima infantile. E tanto sanno di miracoloso quelle avventure che persino il maestro Mussillon, il negatore dei miracoli, tornando dal suo in volontario pellegrinaggio a Roma, crederà alla loro possibilità. E qual’è il grande miracolo compiuto? Qual’è il miracolo che dev’essere lo scopo, il clou del romanzo ? E’il miracolo che la fede infantile può esercitare sullo scetticismo umano. Problema questo di grandissima importanza, dal punto di vista religioso e sociale, che il Bordeaux ricopre con la miti) Ibìdtm, cap. JX, X e seguenti.
stica veste del miracolo, benché il romanzo nasconda una fine psicologia che non possiamo lumeggiare abbastanza in questa breve analisi.
Annetta e Filiberto, figli d’un boscaiolo senza difetti, buono e « troppo caritatevole », secondo la moglie, aspettano dubbiosi che il miracolo del santo Natale venga a portar loro i regali che il piccolo Gesù reca di notte ai bambini buoni. Essi dubitano della sua venuta e sono tristi : ne dubitano perchè il maestro « dal quale essi tengono la loro scienza... e tutto ciò che non hanno ritenuto e non riterranno mai », ha detto loro che non ci sono più miracoli. Eppure il signor curato ha detto il contrario. Chi credere? Mentre passa la notte solenne accade un primo miracolo. Il legnaiolo troppo caritatevole, sceso a Modano per comprare la tacchina « che deve portare a Filiberto e Annetta», s’imbatte nella povera Péronne, « che il marito ha lasciato per andare in Italia » a guadagnare di che sfamare i suoi quattro bimbi, quei quattro gosses che « il padre ha lasciato a bocca aperta ». Péronne non .*.a di che mangiare e il « troppo caritatevole * boscaiolo gli dà, per comperarsi del pane, quel denaro ch’egli aveva serbato per la festa del Natale.
A casa il legnaiolo confessa il fallo compiuto' per troppa bontà e, mentre la moglie vede con timore e tristezza avvicinarsi un Natale senza giocattoli per i bambini e senza la tradizionale tacchina, ecco che arriva a notte tarda io zio Tommaso. E’ il miracolo che si-aspettava. Non c’è la tacchina ma dal suo carniere il rude contrabbandiere tira fuori una lepre e un giovane tacchino « non rubato ». E i giocattoli? Prima dell’alba lo zio e il babbo li avranno preparati a colpi di scure, di pialla, e di martello, mentre i bimbi svegliati di soprassalto penseranno che il piccolo Gesù, il falegname di Nazareth, per loro stia lavorando nel cantiere paterno.
E cosi ad onta del maestro si compirà il miracolo, e Tommaso sarà lieto di essere «scambiato per un Dio, lui che è stato tante volte preso per un diavolo ». A notte tarda lieto s’avvia verso il suo casolare a piè del Moncenisio, ma si perde in una di quelle immense selve in cui il più esperto cacciatore sorpreso dalle nebbie e dalla notte perde facilmente la via del ritorno. Ed erra vagabondo e s’imbatte, lui l’empio, in una sacra cappella. Ne sbatte l’uscio vacillante, entra e sogna del cielo, di San Pietro e di Cristo che gii dice : « Tu tornerai sulla terra e ti sforzerai di essere un onest’uomo ». Si sveglia e ride. « Un onest’uomo, un onest’uomo !... Per diventare un onest’uomo, sicuro, ci vorrebbe un miracolo.
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Un miracolo ! ne vorrebbe uno anche lui... Ciascuno reclama il suo nella vita ».
Il Natale è passato e, tornati a scuola, Fi-liberto e Annetta sono scandalizzati di vedere il maestro che ride quando essi narrano come il buon Gesù sia venuto nel laboratorio paterno per preparare loro i giocattoli del santo Natale.
E’ il giorno della lezione di storia. Siamo al principio del xm secolo e il maestro per interessare la classe ha scelto, per leggerli, dei brani dei migliori autori. E sotto la scorta del saggio libro del Luchaire parla dei prodigi, dei sortilegi, degli incantesimi, dei miracoli che hanno caratterizzato quell’età.
« Miracoli ! Il signor maestro ha pronunziato quella parola. Fa per ritrattarsi. Ne accusa l’inavveduto cronista. Ma sulla classe il miracolo è caduto come il fiore degli alberi fruttiferi quando soffia il vento della Vanoise, come le goccie di pioggia sulle verdi biade, che s’affrettano a crescere. E continua a cadere... ».
Il maestro parla della « crociata dei bambini »,di quei trentamila bambini che partirono, contro il volere paterno, senza denari, mantenuti solo dalle elemosine dei credènti, per la liberazione del Santo Sepolcro. Di quei bambini di cui Innocenzo III disse, a quanto pare : « Quei fanciulli ci ricoprono di vergogna : mentre noi ci addormentiamo, essi s’incamminano allegramente alla liberazione del sepolcro». E s’incamminarono cantando inni ma finirono miseramente sulle coste di Sardegna, gli uni, sui mercati di schiavi di Alessandria d’Egitto, gli altri.
« E il signor maestro scuote il capo dall’alto in basso, come se avesse ottenuto un trionfo personale sulla bestialità umana che egli è specialmente incaricato di combattere. Egli ha ragione in nome della scienza ed ha ragione in nome della pietà». Ma sull’anima infantile la bellezza e la poesia hanno più forza della ragione e della pietà.
Usciti di scuola i bambini trovano il vecchio curato d’Avrieux che finisce di restaurare, sulla facciata della chiesa, le figure simboliche dei vizi, poiché delle virtù non v’è più traccia. Essi ammirano il modesto pittore che li invita a entrare in chiesa per cantare un J/n-gmfical. Finito il canto si rivolge ai bambini : «Al di là dei monti », dice egli, «dei monti che scorgete di qui, in una gran casa più grande di tutto il villaggio riunito, e che si chiama il Vaticano, abita il Papa che ha sostituito il Cristo sulla terra. Egli è prigioniero nel suo palazzo ; non ha più nulla al mondo, ed ha la direzione del mondo. Io che vi parlo, non l’ho veduto. Ma ho visto dei preti che l’hanno veduto. Porta una tonaca bianca, ed
è triste perchè molti peccati si commettono su questa terra ».
E il buon curato, fra l’attenzione del suo pubblico che sogna il Papa a due passi dal Cenisi©, parla di un pellegrinaggio che i ricchi fanciulli della Francia stanno per fare a Roma. I poveri della Moriana non vi parteciperanno, ma col cuore si uniranno ai loro fratelli che «avranno la fortuna di vedere il Papa e di ricevere Dio dalla sua mano».
E questo discorso non trova qui degli scettici, e questo parlare che farebbe sorridere tanti altri, che non toccherebbe le «persone di senno», fa pensare e commuove il piccolo uditorio.
E mentre ognuno riprende il cammino della sua dimora, il pensiero di tutti va al di là del monte e Filiberto propone ad Annetta di andare coi compagni a vedere il Papa.
Maturano gli eventi e con la primavera, quando la bianca neve ha ceduto il posto alle verdi zolle fiorite dei Cenisio, s’inizia il pellegrinaggio. Sul far del giorno, in ordine sparso, fuggono i pellegrini le paterne case. E presto le madri piangeranno i figli che non vedono tornare da scuola all’ora solita e in Avrieux comincerà l’ansiosa ricerca dei fuggitivi. Nessuno li trova e sarà lo zio Tommaso che metterà i genitori sulle tracce dei figli ma presto i pellegrini di poca fede si stancano e dei quarantadue che son partiti rimangono, dopo il primo giorno, solo « ventisette di cui diciannove portan le gonne», e alla sommità dei Cenisio giungeranno solo quindici crociati. Ma il loro breve viaggio non sarà vano.
Il vecchio prete della cappella di Sant’Antonio, archeologo e studioso, scettico e di poco fervore nelle sue funzioni sacerdotali, sarà commosso davanti a quei giovani cristiani che invocano la sua benedizione. Pressato egli entra nel tempio, comincia le funzioni, « poi prende nel tabernacolo il ciborio e, voltato verso i fedeli lo solleva e io abbassa e termina il segno della croce.
Nel lungo suo ministerio, egli ha fatto spesso quel segno. Donde viene ch’ei sembra cedere sotto il leggero peso del ciborio ? Donde viene che i suoi occhi levati, sembrano seguire più su, attraverso il tetto delia cappella, come un sogno come una verità?... Egli scende dall’altare e col viso tra le mani, egli è assorto in una profonda meditazione. Quando solleva il capo, gli agnelli se ne sono andati e egli rimane solo nella chiesa. Una celeste gioia lo inonda e, nella sua vecchiaia, trema come un giovane prete che per la prima volta ha celebrato l’ufficio divino».
Più su incontreranno la povera moglie d’un cantoniere che narrerà le sue sventure. Due
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bambini gli sono stati rapiti «alla morte : uno annegato, l’altro infermo e miserabile. « Povera donna, i ventisette bambini rimasti nascono per lei alla pietà...» e le portano il conforto di vedere dei bimbi simili ai suoi, dei bimbi che credono negli angeli. Fra gli angeli forse saranno i suoi. E qui dodici bambine pensando alle loro madri cedono alla fede e scendono verso i loro casolari. La donna guarda, « guarda quelli che salgono e non quelli che scendono. Non si guardano se non quelli che osano salire».
Giunti sulla frontiera i crociati non vedono Roma e timorosi cominciano a dubitare e quattro soli procedono e credono. Credono di vedere nell’ospizio napoleonico le mura del Vaticano. Disillusi due altri, vinti, cedono alla stanchezza. E giungono allora sul monte due aviatori in Aeroplano, diretti a Roma, e giunge la processione dei genitori d’Avrieux che ricercano i loro figli. Ma il miracolo continua.
Il miracolo eccolo! dice l’istitutore al curato, indicandogli l’areoplano che vola.
Le anime che vanno a Dio salgono più su, dice il prete.
E intanto Filiberto e Annetta, spinti dalla fede, cercano la via di Roma. E un signore commosso li conduce in automobile a Torino ove s’uniscono ai piccoli crociati di Francia e partono per Roma.
Lo zio Tommaso ha preso posto sull’areo-plano, che ha aggiustato con le robuste braccia e, col pilota, vola su Roma.
E il curato d’Avrieux, e il maestro Mus-sillon e il legnatolo con la moglie corrono alla ricerca delle loro due ultime pecorelle, dei loro due « alunni più intelligenti », dei loro due figli. E, hanno, (continua il miracolo) denaro per andare a Roma e a Roma entreranno in Vaticano e li ritroveranno, per effetto del miracolo, portati dalla fede infantile di Filiberto e Annetta.
E quando, ritornato in Avrieux, il signor maestro pensando alla Roma eterna, farà il suo corso d’architettura insegnerà ai suoi alunni che « bisogna imparare a costruire. Costruire è la grandezza dell’uomo. Egli lascia dopo di sè qualche cosa». Distruggere è stupido e vano. E per costruire bisogna credere. E non distruggerà più ciecamente la fede infantile che spinge all’azione. E lui, come i suoi compagni di via, cercheranno di applicare nella pratica le parole benefiche, che pure ha apprese da uri prete, dal più grande dei preti : « siate ardenti al dovere quotidiano » (1).
Silvio Pons.
(1) Discorso di Pio X ai pellegrini francesi (14 aprile spia).
STORIA DEL DOGMA
La prima versióne italiana della poderosa opera di A. Harnack ha avuto termine in questi giorni per cura della benemerita Casa Editrice fondata da) prof. Battami (i). L’ultimo volume che presentiamo ai nostri lettori tratta de « Le tre correnti moderne del dogma» e consta di quattro capitoli che abbracciano complessivamente più di 300 pagine.
La « Situazione storica » forma il soggetto del capitolo primo. L’A. prende le mosse dall’esistenza di quel partito di politici ecclesiastici che, verso il 1500, non aveva se non un dogma : « le usanze e i bisogni della chiesa romana essere altrettante verità divine», partito che « minacciava la chiesa e la religione facendole rassomigliare ad una forma esterna qualunque di dominio e cercando di mantenere e dilatare il suo dominio con la forza ». Attraverso la decadenza dell’antico dogma ormai ingombrato da centinaia di nuove definizioni delle quali difficilmente uno avrebbe potuto ricordarsi, definizioni che si differenziano a seconda della forma ricevuta da Roma, giungiamo alla reazione contro il curialiw/o.
Dopo aver trattate tali vicende l’illustre professore accenna alle correnti che ebbe, nel secolo xvi, la crisi verificatasi nella Storia del dogma; le correnti furono tre:
1* l’antica chiesa si sviluppò da una parte nella chiesa papale ; rinsaldò le dottrine agostiniane medioevali aggiungendo agli antichi dogmi anche parti legittime del sistema. Questo ebbe luogo a Trento;
2* sviluppossi anche il cristianesimo antitrinitario e sociniano che la ruppe con l’antico dogma scartandolo e al quale la domina-tica protestante del secolo xvn s’attaccò come al peggiore nemico ;
3* la terza corrente, più completa e sotto certi aspetti più indefinita, si riscontrò nella stessa Riforma la quale seppe conquistarsi un nuovo posto di partenza per la formazione della fede cristiana ùel Verbo di Dio mettendo da parte ogni specie d’infallibilità che potesse offrire una sicurezza esterna per la fede ; l’organizzazione infallibile della chiesa, la tradizione dottrinaria della stessa e del codice infallibile della Scrittura.
Il capitolo termina con la dimostrazione per cui la Storia del dogma non si deve estendere alla Forma di Concordato ma si deve chiudere con Luterò.
(1) Adolfo Harnack, Storia del Dogma, voi. VII, Casa editrice « Coltura Moderna*, Mendrisio, 19x4. Prezzo L. 9. L’opera compiei» L. do.
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11 capitolo secondo tratta del «dogma nel Cattolicesimo romano».
Dalla codificazione delle dottrine medioeval; in opposizione al Protestantesimo (Decreti di Trento) l’A. passa a studiare l'influenza della Riforma, dell’Agostinianismo e l’atteggiamento della Curia facendo una geniale analisi di ciò che fu il Concilio Tridentino nelle varie sessioni ; indi presenta i lineamenti principali dello sviluppo dogmatico nel cattolicesimo dal 1563 al 1870, l’anno della famosa proclamazione dell’infallibilità papale.
« Il dogma nell'antitrinitarismo e nel socinianismo» forma ragione di studio rigorosamente obbiettivo del capitolo terzo in cui sono presentati il carattere, l’origine, i primi passi di queste tendenze. Con la storia dei movimenti religiosi che accompagnarono la Riforma del secolo xvi e l’esposizione delle dottrine di cui si occupa questo capitolo, giungiamo alla valutazione del Socinianismo, il quale, secondo l’A. :
irebbe il lodevole coraggio di semplificare la questione sulla natura ed importanza della religione cristiana sbarazzandosi a dispetto di cattolici, luterani, calvinisti, del peso del passato... e di restituire all’individuo la libertà d’interrogare, nella controversia intorno al cristianesimo, semplicemente i ricordi classici e se stesso;
2® rallentò gli stretti rapporti esistenti tra la religione e la conoscenza del mondo, formati dalla tradizione della chiesa antica e sanzionata dal dogma e cercò di sostituire la morale alla metafisica scoglio della religione;
3® aiutò a spianare la strada alla percezione che la religione non può venire espressa con paradossi e contraddizioni inintelligibili ; ma piuttosto deve arrivare a quelle dichiarazioni precise che traggono forza dalla chiarezza ;
4® liberò lo studio della Scrittura dal bando del dogma, dando buon principio ad una sana esegesi storica.
Tuttavia, in senso stretto, il Socinianismo rappresentò nella Storia della Religione un passo indietro, giacché invece di potersi collocare accanto al Protestantesimo fu piuttosto una corrente nascosta del Cattolicesimo e anche una delle più povere.
Che la religione cristiana fosse fede, che esistesse una relazione tra persona e persona che essa fosse per ciò qualche cosa di superiore alla ragione, che si nutrisse del potere di Dio e mostrasse in Gesù Cristo, il Signore del Cielo e della terra sotto l’aspetto del Padre, ecco altrettante cose di cui nulla seppe il Socinianismo.
L’Ultimo capitolo contempla « le correnti del dogma nel protestantesimo » ed è una rivista di ciò che fu l’opera grandiosa di Lutero, il quale può essere considerato come il ristoratore dell’antico dogma perchè fece entrare a forza gl’interessi di questo nella dottrina dei suoi tempi, costrigendola con ciò a disertare il campo degli Umanisti, del Cristianesimo politico e francescano.
L’epoca umanistica e francescana fu costretta ad interessarsi di cosa che le era estranea : del Vangelo e dell’antica teologia. Lutero fu grande per aver nuovamente scoperta la conoscenza di Dio da lui derivata dal Vangelo, e cioè, da Cristo. Quest’ultimo capitolo è cosi bello ed avvincente; così maestrevolmente trattato da non poter esser riassunto ; meriterebbe di esser riportato per intero tanto gloriosamente emerge la storica figura del Riformatore tedesco. Ci sia concesso di riprodurre l’ultima pagina del capitolo che è anche l’ultima dell’opera monumentale.
Dopo aver accennato ai precedenti storicodottrinali ed alle condizioni del tempo in cui nacque la Riforma, l’A. prosegue:
« Apparve allora Lutero, a restaurare la «dottrina» nella quale ormai più nessuno aveva fiducia. Ma la dottrina da lui restaurata era il Vangelo, giocondo messaggio e potere di Dio. Ei sostenne che importava sopra tutto, conservare a questo messaggio il suo carattere specifico e questo doveva essere il principio della teplogia. In che consista il Vangelo è cosa che bisogna stabilire con la Scrittura; il potere di Dio non si può costruire col pensiero ma devesi esperimentare ; la fede in Dio Padre di Gesù Cristo, che corrisponde a questo pensiero, non si può dedurre colla ragione e coll’autorità, essa deve essere vita della propria vita. Tutto ciò che non è nato dalia fede è alieno dalla religione cristiana e per ciò anche dalla cristiana teologia, ogni filosofia alla pari di ogni ascetismo. La base della fede e della teologia è Matteo, XI-27. Mettendo in pratica questi pensieri Lutero, il più conservatore degli uomini, frantumò la chiesa antica e diede un porto alla Storia del dogma. Questa storia trova il suo porto precisamente nel ritorno del Vangelo. Con ciò egli non diede e tramandò alla Cristianità qualche cosa di completo, ma espose un problema da sgrovigliarsi da un ammasso di superfetazioni e da trattare continuamente in connessione con tutta la vita dello spirito e colie condizioni sociali del genere umano; ma da risolversi solo in base alla fede. La cristianità deve costantemente imparare che anche in religione il più semplice è il più difficile e che tutto ciò
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che impone un peso alla religione ne guasta la serietà (« compito del cristianesimo non è quello di dire grandi cose intorno ai donimi ; ma di compiere sempre cose ardue e grandi nella comunione di Dio » Zuinglio). Per ciò il fine di ogni opera cristiana e quindi anche della teologia, ha da esser solo questo: scoprire con sempre maggior chiarezza la semplicità e la serietà del Vangelo per diventare sempre più puri e forti di spirito e sempre più amorosamente e fraternamente uniti nell’azione». _ . .
Parole queste che sottoscriviamo volentieri
e che vorremmo fossero il motto di ogni vita sinceramente evangelica ispirantesi all’ideale Supremo che rese gigante l’umile frate Martino e gli concesse il trionfo su tutte le insidie di coloro che anche oggi non temono d’infangare la sua memoria gloriosa...
Alla Casa Editrice « Cultura Moderna » che tanti sacrifizi compie per diffondere nel pubblico italiano il pensiero di sì illustri scrittori quali Adolfo Hamack vadano le più sincere congratulazioni e l’augurio di sempre maggiori soddisfazioni;
Antonio Galloppi.
LIBRERIA EDITRICE “BILKEiNIS,,
VIA CRESCENZIO, 2 - ROMA
È quasi esaurito presso la nostra Libreria il deposito delle opere di edizione estera, nè crediamo prudente fare per ora nuove ordinazioni, date r irregolarità e la poca sicurezza nei mezzi di comunicazione e di trasporto nei paesi in guerra. Non potremo quindi, con nostro dispiacere, rispondere per ora a tutte le richieste di libri da noi annunziati o recensiti. Invitiamo i nostri lettori a limitare le loro ordinazioni ai libri di edizione nazionale ed a quelli a prezzi ridotti di cui pubblicammo T elenco nelle pagine verdi annesse al fascicolo del Marzo scorso.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell'Unione Editrice, via Federico Cesi, 45
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Prezzo del fascicolo Lire 1