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BHYCHN6
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV :: Fasc. II. FEBBRAIO 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 28 FEBBRAIO - 1915
DAL SOMMARIO: Calogero Vitanza: L’eresia di Dante — UGO JANNI : Le varie dottrine circa l'essenza della religiosità — ROMOLO MURRI: La religione nell'insegnamento pubblico in Italia — ARTURO PASCAL: Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes. — MARIO ROSSI : Visione d'arte cristiana nella Marsica abbattuta (con sei illustrazioni su tavole fuori testo) — Paolo Orano: Gesù e la guerra — Paul ALLEGRET: La guerra e i cristiani — L. RaGAZ : AI disopra dell'odio — E. RUTILI : Vitalità e vita nel catolicismo (Cronache). — TRA LIBRI E RIVISTE: Una monumentale grammatica del greco neotestamentario (D. G. Whittinghill) — La guerra (Voci, documenti, notizie).
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # # ------ Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l’Estero
Via del Babuino, 107- ROMA---AMMINISTRAZIONE
Via Crescénzio, 2 - RÓMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
fi Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine, fi
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IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ « FIDES ET AMOR » EDITRICE
Amministrazione: Via S. Caterina, 14
MCMX1V
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EDITA CALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMASOMMARIO:
Calogero Vitanza: L’eresia di Dante .......... pag. 85
Ugo Janni : Le varie dottrine circa l’essenza della religiosità (2. La
religiosità come prodotto della funzione pratica . . . . » 96
ROMOLO Murri: La religione nell’insegnamento pubblico in Italia. » 102
Arturo Pascal : Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes .... » ni
INTERMEZZO:
Mario Rossi: Visione d’arte cristiana nella Marsica flagellata (Con sei illustrazioni su tavole fuori testo) ........ » 115
LA GUERRA:
Paolo Orano: Gesù e la guerra ............ » 123 Paul ALLEGRET: La guerra e i cristiani........... » 133 L. Ragaz: Al disopra dell’odio ............. »134
CRONACHE:
Ernesto Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo [VII]........... »137
TRA LIBRI E RIVISTE:
I libri: Una monumentale grammatica del greco neotestamentario(D. G.Whit-tinghill) - Un vocabolario del Nuovo Testamento (Ignazio Rivera) Intorno alle cose supreme (F. Momigliano) -Towianski (S. Bridget) » 150
Le riviste: Il conclave da cui uscì Benedetto XIV (F. R.) - Spinoza e la teologia (F. R.) - Le origini della religione (F. R.) - I riti dei Cafri (F. R.) - Varia (S. Bridget)............ » 155
LA GUERRA (Notizie, Voci, documenti):
Inghilterra. - Un articolo del Dr. Clifford - L’appello di Bernard Shaw -Un opuscolo di Carlo Hcath - Dal « Brotherhood » - Il giudizio del Cristianesimo liberale - L’atteggiamento dei « Friends » - Dal « Christian Commonwealth » - Parole d’un canonico anglicano -< Dobbiamo amarli » - Un discorso di Llyod George - Una profezia di Atanasio, ecc. (G. P.) ............. » 161
Pubblicazioni pervenute alla Redazione.............. » 161
Cose nostre ....... . ........ . ....... » 164
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Novità
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L’ERESIA DI DANTE
SJN un articolo sul Fa fulla della Domenica, G. Negri, a proposito degli Studi sulla « Divina Commedia » di F. D’Ovidio, mentre si compiace della solidità della dottrina e della finezza del senso critico dell’illustre dantofilo napoletano, esprime il desiderio e la speranza che questi voglia, in altro volume, risolvere i seguenti quesiti, la soluzione dei quali gioverebbe moltissimo a mettere nella sua vera luce la psicologia intima del Poeta, rimasta sino ad oggi, sotto certi aspetti, nell’ombra: « Era Dante uno spi
rito veramente religioso? Quella sua rigorosa, direi quasi, geometrica ortodossia scolastica può essere l’espressione di un’anima che si sprofondi nel sentimento dell'infinito? La contradizione stridente che risulta dall’attribuire il carattere di Pastor
della Chiesa che guida a salvamento a quegli stessi Papi ch’ei colpisce col flagello di una satira terribile, non è l’indizio di una religiosità apparente, che si appaga di un formalismo esteriore? ecc. ecc. » (i).
Io qui non ho di certo la pretesa di rispondere a queste domande del Negri, che richiederebbero uno studio non indifferente e una forza di penetrazione psicologica che so di non possedere. Mi permetto soltanto di far qualche rilievo, che stimo di una certa importanza, per caratterizzare la fede di Dante e per arrivare a conoscere gli atteggiamenti del suo spirito nonché di fronte alla rêverie religiosa innanzi all’ortodossia cristiana.
Come sembra insinuare lo stesso Negri (2), non può dirsi davvero che l’Alighieri
(1) G. Negri, Gli studii sulla « Divina Commedia ■ di F. D'Ovidio, in Rumori mondani. Hoepli, Milano, 1907, pag. 382.
(2) G. Negri, op. cit., pag. 3S2.
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abbia inteso il fascino del Vangelo così potentemente da spingersi fino a gettare un anatema irrevocabile contro la natura e a profondarsi con ineffabile voluttà nella mistica contemplazione dell’infinito.
Per quanto il Poeta abbia elevato a musica eterna la rigida e artificiosa architettura del dogma, per quanto la Commedia rappresenti la sintesi della fede nel Medio Evo e una sfolgorante luce mistica investa il poema, l’intensità dell’emozione religiosa non è affatto corrispondente all'intensità dell’emozione artistica che noi ricaviamo, leggendolo. Troppo preoccupato delle cose della terra, le quali allungano la lorojombra agitata fin tra gli splendori sovrumani dell’Empireo, Dante non può sentire quelle fiamme della fede pura che sospira con gemiti inenarrabili a Dio come nei mistici Vittorini, che anima un ardente apostolato come in Bernardo, che suscita gli entusiasmi incoercibili dell’amore per le creature tutte come nel fraticello di Assisi, che, frenetica, si esalta nella visione della morte e del dissolvimento come in Jacopone, che trasforma la materia in una parvenza eterea sfumante tra l’oro e l’azzurro come nelle pitture dell’Angelico. La fede di Dante non è, come io credo, interiorità viva e fattiva dello spirito febbricitante di Dio, capace di commuovere e trascinare la coscienza universale, ma abito del pensiero, intessuto di misticismo orientale e di metafisica greca, sacra veste inconsutile del passato, di cui l'intelligenza, quasi inconsapevolmente, forza talvolta la fitta trama, quando ciò che veramente è vivo nel cuore del Poeta non può, per svolgersi, adattarvisi dentro.
Nè ciò sfuggì ai contemporanei (i), contro le voci sospettose e maligne dei quali protesta Pietro di Dante, sollecito di tramandare ai posteri immune di eretica labe la figura venerata del padre:
Suoi ch’era d’onor degno abbominato eggio per propria invidia delle, genti Malvagie e frodolenti. Le quai son degne d’ogni vitupero. O Signor giusto, faccianoti preghiero. Che tanta iniquità deggia punire Di quei che voglion dire
Che il mastro della fede fussi errante: Se fussi spenta, rifariela Dante. (2).
Se noi pensiamo all'Alighieri, uomo di parte e di spiriti certamente non moderati. non possiamo escludere che le accuse di eresia mosse contro di lui provenissero tante volte da propria invidia di genti malvagie, cui interessava di perderlo anche colla calunnia. Dobbiamo pertanto respingere senz’altro l’accusa di fatalismo lanciatagli contro da Francesco Stabili (3), il quale, vedi ironia della sorte! finiva poi,
(x) Vedi G. Carducci, Della varia fortuna di Dante, in Opere, voi. Vili. Bologna, Zanichelli, pag. 187 e seg.
(2) Frammento riportato dal Trucchi, in Poesie Hai. ined. Prato, Guasti, 1846, voi. Il, pag. 140.
(3) In ciò peccasti fiorentin poeta.
Ponendo che gli ben della fortuna
Necessitati sieno con lor mèta.
Ñon è fortuna che ragion non vinca.
Or pensa. Dante, se prova nessuna
Si può più fare che questa convinca.
Acerba, II, !..
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il 13 settembre 1327, fra le fiamme del rogo, convinto per l’inquisitore dei Paterini in Firenze, frate Accorso dei Bonfadini, proprio di quella stessa eretica pravità che egli aveva rinfacciato al Poeta. Nè invero potrebbe dirsi costituire eresia la tesi politica sostenuta e svolta nel De Monarchia, contro cui si volge quel tal frate Guido Vernani, con la pubblicazione del De potestate summi pontificie et de reprobatone Monarchiae compoeitae a Dante AUghero, che la condanna del potere temporale dei Papi era già nella bocca e negli scritti di quasi tutti i santi di quei tempi, da Bernardo di Chiaravalle a Pier Damiani, da Francesco d’Assisi a Caterina da Siena, auspicanti un ritorno al cristianesimo primitivo.
Con tutto questo però, poiché il Poeta non combatte la confusione dei due poteri con ragioni ascetiche, come quei santi avean fatto, ma rivendica, direi quasi, scientificamente i jura monarchiae, quella sua tesi che in sè e per sè sarebbe condivisa dalle anime più elette della Chiesa, diventa, come vedremo, nel suo svolgimento, dal punto di vista della fede, assai pericolosa. La rivendicazione giuridica dei diritti della monarchia, infatti, richiedeva necessariamente un apparato dottrinale, che, costretto spesso ad investire il pomerio chiuso del dogma, base di ogni costruzione intellettuale e civile del tempo, finisce con lo sconfinare in qualche punto nei paschi venefici dell'eresia. Ed avviene così che l’Alighieri, nulliue dogmalie expere, come lo disse maestro Giovanni Del Virgilio, e che fu, come bene scrisse il Carducci, la voce di dodici secoli cristiani (1), senza partecipare direttamente al grande movimento ereticale che tra noi si determinò e si chiuse col Medio-Evo, anzi, non perdonando formalmente all’eresia, è portato quasi inconsciamente ad irretirsi nei lacci di essa.
Se si ha riguardo che tra l’immensa produzione critico-esegetica, la quale da ben sette secoli si accalca attorno alla poderosa rovere’dantesca, pur essendosi tante volte accennato alla dubbia ortodossia del Poeta, nessuno, per quanto io sappia, ha saputo precisare gli errori dogmatici di lui e il perchè delle sue deviazioni ereticali, la mia affermazione, senza dubbio, sembrerà a prima vista più’che arrischiata assai strana. Io però che ho cercato di penetrare intimamente nello spirito di Dante senza alcuna prevenzione di parte, seguendo una via del tutto diversa da quella battuta dagli altri, credo fermamente che questa prima impressione dileguerà dall’animo del lettore, non appena avrà posto meco nei suoi precisi termini il problema politico del Poeta e ne avrà ritrovato la soluzione, quale egli la richiedeva.
* » ♦
La dottrina politica dell’Alighieri può ridursi, com’è noto, a tre punti capitali: necessità della monarchia al benessere universale; legittimità dell’impero romano; dipendenza diretta del monarca da Dio. Corollario di questi tre capisaldi, l’autonomia e l’indipendenza del potere laico dall'ecclesiastico.
Poiché, come s’è detto, l’ordito del dogma doveva nel Medio Evo fornire il filo conduttore di ogni tessuto razionale, anche il Poeta, nelle sue disquisizioni, parte da un presupposto dogmatico che a torto anche gli scrittori più eminenti, i quali
(1) G. Carducci, L'Opera di Dante, in Opere, voi. I. Bologna, Zanichelli, 1893, pag. 234.
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trattarono delle relazioni tra la Chiesa e lo Stato nel Medio Evo (i) non curarono di porre in rilievo e che allora, nella controversia di due poteri, formava il punto di partenza delle due parti contendenti, cioè la colpa di origine.
Pigliando le mosse da quel presupposto teologico. Dante, sulle orme di san-t’Agostino (2), ricava la necessità dello Stato laico dalle tristi conseguenze del peccato di Adamo (3), a riparare le quali fu per altro mestieri l'incarnazione, i sacramenti, la Chiesa.
Se non che, mentre pel dottore d’Ippona l’impero non è che un’istituzione mondana e assai difettosa (4), in Dante, come negli scrittori politici della seconda metà del Medio-Evo, assurge alla dignità d’istituzione divina e amministra la giustizia e la pace nella cristianità (5). Lo stato laico, però, anche così altamente nobilitato, rimaneva sempre in una condizione d'inferiorità e di dipendenza dalla Chiesa. Tralasciando di far. qui anche un breve cenno delle ragioni e dei cavilli dei decretalisti a sostegno della supremazia ecclesiastica, conviene però fermare la nostra attenzione sopra quell'argomento, che, per avere la sua base nel dogma, riusciva schiacciante e irrefutabile.
Ecco, ridotta pressoché in forma dialettica, l'argomentazione formidabilissima dei propugnatori dell'egemonia ecclesiastica: La legge di natura, su cui lo Stato laico consiste, procede dall'intelligenza umana; ma poiché questa, a causa del peccato, si offuscò ed è fallibile anche nei limiti della natura, non può evidentemente costituire una stregua Sicura anche pel conseguimento della felicità naturale, epperò ha necessariamente bisogno di un’autorità superiore che la raffermi, la moderi e infallantemente la guidi. Nè la legge naturale, aggiungono, fallisce al suo scopo soltanto per la debolezza dell'umana natura corrotta e sauciata dal peccato, chè talvolta essa vien meno anche per colpa di chi l'applica, cioè dell’imperatore, che, uomo essendo, non può sottrarsi alla comune miseria e debolezza, onde avviene ch’egli, soggetto al peccato e all’errore, volge le leggi ad illecito fine.
Date queste premesse, che limpidamente sgorgavano dal contenuto dottrinale del dogma del peccato d’Adamo, anche ammessa l’origine divina del potere imperiale, era necessario concludere che il potere ecclesiastico dovea, come principio moderatore e correttore, intervenire nelle cose dello Stato, non perchè vi fosse chiamato direttamente e per sua naturale funzione, ma indirettamente e propter peccaium,
(1) A. Franck, Réformateurs et publicistes de l'Europe (Moyen-Age-Renaissance). Paris, III, Levy, 1864; F. Laurent, L’Eglise et L’Etat (Moyen-Age). Bruxelles, Schenée, 1858; F. Scaduto, Stato e Chiesa negli scritti politici delle lotte per le investiture sino alla morie di Ludovico il Bavaro. Firenze, Le Monnier, 1884.
(2) Ahrens, Enciclopedia giuridica, ovvero esposizione organica della scienza del diritto e dello Stato, trad. it. per Eisnese Masenghi. Milano, 1856, vol. I, pag. 144.
(3) Cum istadirectiva (la Chiesa e l’impero) sint hominum directiva in quosdatn fines si homo stetisset in statu inno centiae, in quo a Deo factus est, ialibus directwis non indi-guisset. Sunt ergo huiusmodi regimino remedia contra infirmitatem peccati, ecc. Mxtà., Ili, 4.
. (4) Augustinï, De civ, Dei, lib. XV, cap. 1, 4, 5; G. Carle, La Vita del diritto nei, suoi rapporti con la vita sociale. Torino, Bocca, 1890, lib. Ill, cap. 2, § 107 e cap. 4. § 130(5) F- O- Stahl, Storia della filosofia del diritto, trad. it. di P. Torre. Torino, Favaie, l853. pag. 640 e seg.
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come iacea rilevare Innocenzo III a Filippo Augusto e Bonifacio Vili a Filippo il Bello (1). A buon diritto pertanto il Paludano e con lui San Tommaso, Durando di S. Porciano e non so quanti altri scrittori politici medievali, affermava che se il Pontefice non è superiore all’imperatore rottone regiminis, 10 è necessariamente rottone peccali (2).
Che dovea far l’Alighieri di fronte a queste dottrine, che, procedenti dall’interpretazione ortodossa del dogma, portavano diritto a confondere i due reggimenti e a sancire la supremazia del potere ecclesiastico sul civile?
Il problema dei due poteri sta in cima ad ogni suo pensiero, e se, ad eliminare le difficoltà che ne ostacolano la soluzione quale egli la vuole, si rischia di naufragare nelle sirti pericolose dell’eresia, il Poeta, o non scorge il pericolo, o lo sfida con animo sicuro.
La politica guelfa basa le sue ragioni sul dinamismo antropologico troppo depresso dal dogma. Ebbene, Dante senza negare la verità rivelata, anzi riconoscendo nel peccato di Adamo il diverttculum totius nostra# damnattons {De Mon., 1.18), batte in breccia il formidàbile castello teologico dei suoi avversari; ma quando ciò avrà fatto, l’essenza della dottrina dogmatica ha finito di essere ortodossa.
Ed invero, mentre per gli scrittori politici di parte guelfa, con una concezione esatta dal punto di vista teologico e rispondente in tutto anche alla realtà, il monarca è un semplice uomo, soggètto come gli altri all’errore e al peccato; per Dante, si trasforma in vicario di Dio come il Pontefice, in una creatura sovrana sapientissima, impeccabile e capace per diretta grazia divina di assolvere perfettamente la sua missione, la quale consiste nel promuovere e assicurare la pace, ch’è condizione necessaria del progresso indefinito dell’umanità, dell'espansione massima delle potenze naturali nel bene: ultimum de potentia ipsius humanitalis. {De Mon., I, 3; II, 12; Conv.. IV, 4, 12, ecc.).
Ma tralasciando questo monarca ideale dell’Alighieri, che, per quanto preludi, nelle'sue nobili finalità le sublimi utopie del Leibnitz, del Kant e del Bluntschi (3), troppo però risente delle astrazioni medievali, veniamo piuttosto alla parte reale, cioè alla valutazione deH’energie umane tanto nel campo teorico, quanto in quello della vita e della storia. È qui appunto che si nasconde l’eresia di Dante.
La Chiesa, sulle orme della disumana antropologia di Agostino, insegna che il peccato di Adamo corruppe tutta la natura umana così che nulla d’integro e di sano v’ha in essa: ottenebrata l’intelligenza, prona al vizio la volontà, l’uomo, senza l’aiuto della divina grazia, resta quale nasce, uno schiavo di Satana; il suo arbitrio non vale
(1) L. Rocca, Il papato e la Chiesa nel sec. XIII, in Arte, scienza e fede ai giorni di Dante. Milano, Hoepli, 1901, pag. 92 e seg.
(2) P. Paludani, De causa imm. eccl. potest., Parisiis, 1506, p. 44; Durantis S. Porci ani, De origine jurisdictionum, Parisiis, 1509, pag. 14. Per S. Tommaso, vedi Scaduto, op. cit., 27, 28, il quale, come ho rilevato altrove, {Il dinamismo umano nel pensiero di Dante) per non aver posto mente all’antropologia cristiana, non è riuscito a cogliere esattamente il pensiero politico dell’Aquinate.
(3) Vedi, per questo rispetto: A. D’Ancona, Il * De Monarchia >; G. Semeria, Dante, i suoi tempi ed i nostri, in Le opere minori di D.A., letture di P. G. Semeria, V. Rossi, ecc. Firenze, Sansoni, MCMVI.
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che ad ingolfarlo sempre più nella colpa; onde avviene che le opere dei gentili sono tutte peccato, e da Adamo a Cristo la storia del mondo si riduce ad un poema mostruoso di sozzure e d’iniquità, che tocca il suo colmo con Roma imperiale (i).
Questa la dottrina che, propugnata primamente da Agostino e confermata nel concilio d’Orange (2), si era, attraverso teòlogi e poeti (Prospero d’Aquitania, Prudenzio, Draconzio, Alcimio Avito, Ugone, Pietro Lombardo, Bernardo, Tóm-maso, ecc. (3)), perpetuata sino ai giorni di Dante e che anche oggi, pur attenuata dal Concilio di Trento, nulla ha perduto del suo sconfortante pessimismo antropologico (4).
Il Poeta, che mira ad eliminare l’intrusione del potere ecclesiastico nello Stato laico richiesta propter peccalum, si trova al polo opposto della Chiesa e di Sant’Agostino. Per lui la storia dell’umanità non digrada ma ascende, così che, quando arriviamo alla pienezza dei tempi, l’impero di Roma non solo si spoglia di quel carattere di diabolica nequizia di cui l'aveano rivestito i Padri, ma diviene la forma suprema del civile consorzio, acquista un carattere sacro e una virtù divina, che produce la bontà della vita: Roma che il buon mondo feo (Purg. XVI, 106).
Dante ammette bensì il peccato di Adamo, ma ne limita le conseguenze funeste, onde afferma che la natura non è sostanzialmente viziata, ma sana ed attiva; che il male della terra non proviene da perverse inclinazioni, ma da perverso reggimento, poiché è stato conculcato e manomesso l’ordine stabilito da Dio, il quale, per ristorare i danni del fallo primiero, pose a principio due guide: la legge naturale, l’impero, che riducesse l’uomo alla felicità terrena, e la legge soprannaturale, la Chiesa, che lo riducesse alla celeste beatitudine (5). Il Poeta, che ricerca l’origine del
(1) Liberum arbitrium nisi ad peccandum vaici, noe potest homo aliquid boni velie, nisi adiuventur ab eo qui malum non potest velie. Aug., Ad Stefanum, lib. I, cap. 3. Omnis inft-delium vita peccalum est... ubi enim deest agnilio aeternae veritatis, falsa virtus est etiam in optimis monbus. Prosp. Aquit., Liber senten. Aug. n. 106.
(2) Nemo habet de suo nisi mendaci um et peccalum, ecc., ecc. cap. 22.
(3) Ecco come Ilario di Arles descrive l’immane crescendo del peccato attraverso i secoli, dopò la caduta di Adamo:
Nascitur bine proles peccati, germinai inde
Deterior soboles multo peiorque priori
Progenies sequitur, gradibus ad crimina crescens
Crimina quae slimulis acuunt dementia corda.
Bella placent caedesque, simul perjura fraudes,
Mentirique libel, radere est amor, abdere furia. Nulla fides populis, nulla est iam veritas usquam.
(Metrum in Gen.).
(4) Siquis non confitebitur... totumque Adam (il genere umano) per Ulani praevari-cationis offensam secundum corpus et animam in deterius commutatum fuisse, anathema sit. (Sess., V, art. I).
(5) Duos fines Providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos, beatitu-dinem scilicet huius vitae, quae in operations propriae virtutis consista, et per ter-restrem Paradisum figuratur; et beatitudinem vitae aeternae, quae consista in fruilione divini aspectus, ad quam virtus propria ascendere non potest, nisi lumino divino adiuta, quae per Paradisum coelestem intellegi da tur. Ad has quidem beatitudines... per diversa media venire oportet. Nam ad primam per philosophica documenta venimus, dommodo illa sequamur
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male sulla terra, pone in bocca a Marco Lombardo la sintesi di tutto questo suo sistema etico sociale:
Però se il mondo presente disvia. In voi è la cagione, in vói si cheggia; Ed io te ne sarò or vera spia..
Esce di mano a lui che la vagheggia Prima che sìa, a guisa di fanciulla. Che piangendo e ridendo pargoleggia. L'anima semplicetta che sa nulla. Salvo che, mossa da lieto Fattore, Volentier torna a ciò Che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore, Suivi s’inganna, e dietro ad esso corre, e guida e fren non torce il suo amore.
Onde convenne legge per fren porre. Convenne legge aver che discernesse Della vera cittade almen la tórre.
(Pwrg., XVI, 82-96).
L’ànima, che forma, anche prima che sia, la delizia del Creatore,, esce dalle mani di Lui vergine e pura; nulla sa, nulla conosce e volentieri tornerebbe alla sua sede beata, se, confondendo le false apparenze del Bene col Bene reale, non traviasse dal retto sentiero. Nasce da qui il bisogno di una guida, di un freno, di una legge, di un re, che discernesse « della vera cittade almen la torre ». E le leggi sono: ma chi le osserva mai, mentre colui che primo dovrebbe sottomettervisi, sciaguratamente ne fa scempio? Perchè quindi accusare la natura, quando l’umanità, dietro al pessimo esempio della sua guida principale, si pasce di beni mondani ed oblia il bene eterno?
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo; però che il pasto? che precede
Ruminar può ma non ha l’unghia fesse
Perchè la gente che sua guida vede Pure a quel ben ferire ond’ella è ghiótta. Di quel si pasce e più altro non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta E la cagion che il mondo ha fatto reo, E non natura che in voi sia corrotta.
(Pwrg., XVI, 97-105)La mala condotta, il perverso reggimento, ecco la ragione prima ed unica delle presenti scelleratezze.
secundum virtutes morales et intellectuales operando. Ad secundam vero per documenta spiritualìa, quae humanam rationem transcendunt... Has igilur conclusiones et media... humana cupiditas postergarci, nisi homines tamquam equi... in canto et fraeno compescerentur in via. Propter quod opus fuil /¡omini duplici directivo, secundum duplicem finem; scilicet summo Pontífice, qui secundum revelala humanum genus ducerei ad vitam ae tern am, et Imperatore, qui secundum philosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigerei. (De mon., Ili, 15).
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Non così nei tempi antichi, quando Roma, che il buon mondo feo, soleva
Due soli aver, che l’una e l’altra strada Facean vedere, e del mondo e di Deo. L’un l’altro ha spento, ed è giuntala spada Col pastorale, e l’uno e l’altro insieme
Per viva forza mal convien che vada: Perocché, giunti, l’un l’altro non teme.
(Purg., XVI, 107-112).
Non c’è nel discorso di M. Lombardo, come a torto credette di ravvisare il Gin-guené, la negazione del dogma del peccato di origine. Non è a mettersi in dubbio però che c’è qualche cosa che contrasta con la dottrina ortodossa: l’affermazione netta e recisa dell'integrità dell’umana natura o, almeno, della capacità nostra di conseguire senza l’intervento di potenze sovrannaturali, ma coll'operazione della propria virtù, la beatitudine della vita terrena. E in conformità a questa concezione antropologica, che annulla ogni valido argomento etico-politico dei suoi avversari, l’Alighieri non solo non troverà nessuna difficoltà a porre nel Limbo insieme ai bambini morti senza battesimo turbe molte e grandi di femmine e di viri, che non peccare anzi ebber mercedi, e attorno a cui tanto invano si affannano interpreti ortodossi e liberi pensatori, ma fa servire la presenza di quei soggetti là, dove teologicamente non potrebbero trovarsi, come a prova di fatto dei suoi teorici assunti. Ammessi i quali, niuna meraviglia se il Poeta ha posto abitatori del nobile castello gli spiriti magni dell'antichità; se di Virgilio, creatura rappresentativa del buon mondo romano, ha fatto l’uomo naturalmente perfetto e il simbolo della scienza umana che guida al paradiso terrestre, figurazione mistica della naturale felicità. Ci spieghiamo così, senza sforzo, la presenza di Catone a guardia del Purgatorio, di Catone pagano, cui pur nel viso raggia lo splendore delle quattro luci sante, cioè delle quattro virtù cardinali corrispondenti alle quattro Ninfe che danzano nel paradiso terrestre e nelle quali si assomma la perfezione delle naturali energie. Non ci sorprenderà nemmeno la luce di Rifeo, che il Poeta ha visto brillare nel cielo di Giove, ammettendo un’opera quasi retroattiva della grazia e volgendo a significazione teologica il iustissimus unus Virgiliano.
Io non posso qui fermarmi ad esporre quanto si gioverebbero l’interpretazione generale e quella di parecchi particolari del poema assai oscuri e discussi da questo principio antropologico-etico dell'Alighieri (1), che contrasta bensì con l’insegnamento ortodosso, ma ch’è richiesto necessariamente dalla soluzione, dirò così, ghibellina del problema politico.
A me giova aver, come credo, ritrovato il perchè delle deviazioni eterodosse di Dante e di aver precisato le medesime, le quali, in sostanza, si riducono a talune delle proposizioni condannate nella dottrina di Pelagio e dei suoi discepoli.
,(’) Quest’interpretazione, che ha riscosso il plauso di parecchi valenti dantisti, ho tentato nel mio studio: Il dinamismo umano nel pensiero di Dante. Caltanisetta. Arnone, 1909.
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Si noti bene intanto che nel mettere in rilievo le deviazioni ereticali del Poeta, io non intendo per nulla affermare Che egli abbia avuto consapevolezza della sua rottura coll’ortodossia. Mi affretto anzi a dire che, com'è avvenuto di quasi tutti gli eretici, i quali, invocando presso che sempre a loro favore l’autorità del Vangelo, dei Padri e talvolta dei Concili, si ritengono perciò stesso in buona fede veri cattolici, anche Dante, il quale del resto non impugnò una verità dogmatica ma si permise soltanto di ragionarvi attorno in modo diverso dai teologi e con una libertà d’interpretazione e di analisi che oggi, dopo il Concilio di Trento, non sarebbe affatto consentito senza incorrere manifestamente negli anatemi della Chiesa, anche Dante, dico, credette di rimanere entro i limiti della vera e più schietta’ortodossia.
Nel restringere gli effètti dannosi del peccato di Adamo e nell’aver dichiarato integre le naturali energie, egli avrebbe di certo potuto invocare tutta la tradizione ecclesiastica precedente Agostino (i) e l’antropologia della Chiesa greca, la quale, per uno dei suoi più autorevoli rappresentanti. San Giovanni Crisostomo, affermava che il peccato originale non ha avuto in noi altra conseguenza che la morte e che, in ogni caso, l’umanità è capace da per se stessa ad eleggere il bene e a fuggire il male (2).
Ma questi principi etici assai liberali, ispirati ad una concezione serena ed armònica dell'universo e dell’uomo, poiché non avrebbero potuto permettere un largo sviluppo dell’opera della grazia e l'attuazione piena delle aspirazioni imperialistiche della Chiesa di Roma (3), erano già stati posposti alla teosofia e all’antropologia sciagurata di Agostino non mai scevra dell'originaria labe manicheistica, e però non potevano essere da uno scrittore cattolico invocati, senza che intorno ad esso non si fosse formata un’atmosfera di dubbi e di sospetti.
Nè, ad attenuare la portata di quanto son venuto rilevando, è a dirsi che, avendo l’Alighieri fatto opera piuttosto poetica che dottrinale, non è lecito addurre nel libero campo delle creazioni fantastiche la rigida misura che regola le disquisizioni sottili e compassate del pensiero teologico. A sfatare siffatta obbiezione, basterebbe primamente osservare che le dottrine antropologiche di Dante si trovano già sostanzialmente professate nel De Monarchia, e non tanto nell’astrazione personificata del monarca, quanto principalmente nel giudizio sulla vita e sulle opere degli antichi e in quella legge del perfezionamento indefinito che corrisponde ad una estimazione dei valori umani assai più alta di quella che la Chiesa in ossequio al dogma aveva di già stabilito. Che se poi veniamo alla Commedia, il discorso di M. Lombardo, la presenza di turbe molte e grandi di pagani nel Limbo e di Catone nel Purgatorio, il valore simbolico di certi tipi e di certe figurazioni, come, per esempio, di Virgilio, di
(1) Vedi: J. Turmel, Histoire du dogme du péché originel, in Revue d’histoire et de littérature religieuse, 4,5 (1900); Histoire de la théologie positive, Paris, Beauchesne, 1904, pag. 86 e seg.
(2) Aùrdpxx tôv àvSpwwov ô 'apiTÎç atptaiv /.at txç xaxixç xv S. J. Chryst, Opera, Ed. ben.. Vol IX, pag. 468. Vedi J. Turmel, op. cit, pag. 91.
(3) W. Lecky, History of European morals from A ugustus to Charlemagne. London, 1899, vol. II, pag. 213 e seg.
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Catone, della visione apocalittica del Canto XXXII del Purgatorio (i), ecc., non possono davvero considerarsi come meri artifici poetici, ma rispondono ad una valutazione precisa dell’energie umane e ad una risoluzione del problema dell’origine del male, valutazione e risoluzione che Contraddicono al dettato del dogma, ma che insieme alle acerbe invettive lanciate contro gli uomini di chiesa, trovano la loro ragion di essere nella soluzione del problema politico, in cui si torturò per tutta la vita il genio di Dante.
Nello spirito del quale, concludendo, io credo siasi determinata, quantunque in proporzioni più ristrette, quella stessa ribellione alla Chiesa che suscitò l’eresia dei Paterini, dei Gioachimiti, dei Fraticelli, degli Spirituali, ecc., ribellione che non muove da un puro processo dialettico di spiriti trascendentali amatori di novità, ma da un problema interessantissimo della vita pubblica, alla soluzione del quale la dottrina della Chiesa opponeva difficoltà insormontabili (2). Osservo anzi che in questa, dirò così, idiosincrasia ideale rivoluzionaria, meglio che in ogni altra ragione escogitata da illustri dantofili (3), sta appunto il véro motivo del silenzio del Poeta sul movimento ereticale dell’età sua. Potè, egli nel suo spirito equilibrato, come notò bene il Tocco (4), non far buon viso alle intemperanze degli Spirituali e degli altri eretici contemporanei, ma non si sentì, aggiungo io, l’animo di condannarli, poiché essi come lui miravano più che altro a richiamare la Chiesa alla purità e alla santità primitiva, e non già ad introdurvi dottrine artificiose ed esoteriche. Onde, ad eccezione di Gioachino da Flora, a cui in cielo è riconosciuto da Bonaventura quel profetico spirito negatogli in terra da Tommaso, ad eccezione pure di fra Dolcino, dannato piuttosto come scismatico. Dante preferì di tacere degli altri eretici, come preferì di tacere della meravigliosa figura di Gregorio VII, dagl’ideali politici del quale si sentiva tanto lontano quanto vedeva di trovarsi vicino ad Arnaldo da Brescia, a Pietro Valdo, a Pier Giovanni degli Ulivi e agli altri rappresentanti maggiori dell’agitazione spiritualistica, i quali spesso gli forniscono il linguaggio e le immagini per condannare i traviamenti della Chiesa.
E come Arnaldisti, Gioachimiti, Fraticelli, Spirituali, ecc., spinti dal bisogno prepotente di un rinnovamento morale e religioso, passarono senza accorgersi dallo scisma all’eresia e richiamarono in vita vecchi errori già riprovati e dannati dalla Chiesa, così fece pure il Poeta. Con la coscienza di rimanere sinceramente cattolico, anzi dannando l’eresia e parlando e scrivendo come detta lo spirito cristiano più zelante, egli, nauseato e sdegnoso del generale pervertimento a cui vorrebbe porre riparo, mentre lància per bocca di San Pietro le invettive più atroci contro i papi e
(1) Per ¡’interpretazione di questa visione vedi 11 canto XXII del Purgatorio letto da F. Tocco. Firenze, Sansoni; A. D’Ancona, Il « De Monarchia » (appendice), in Le opere minori di Dante. Firenze, Sansoni, MCMVI, pag. 253 e seg.
(2) Vedi F. Tocco, L'eresia nel Medio Evo. Firenze, Sansoni, 1884, pag. 257 e seg;, E. Gebhart, Les origines de la Renaissance en Italie. Paris, Hachette, 1879, pag. 57.
(3) F. Tocco, Quel che non c'è nella « Divina Commedia » o Dante e l'eresia. Bologna, Zanichelli, 1899.
(4) Op. cit. pag. 26.
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impreca contro la donazione di Costantino, non risparmiando, nelle escandescenze dei suoi eroici sdegni, a mitre, a cocolle, a cappucci, rinnova, forse senza accorgersene e senza direttamente volerlo, l’eresia di Pelagio: Posse hominem, sine peccato, si velit, esse; ante advenium Christi fuisse homines sine peccato (i), e, seguendo più che la tradizione patristica medievale la tradizione degli eretici, confessa con l’Eri-gena, per Marco Lombardo, l’integrità dell’umana natura (2) e pone gli spiriti magni del mondo antico quasi allo stesso livello, in cui li avea elevati il grande e infelice Abelardo (3).
Leonforte, 13 settembre 1914.
C. VlTANZA.
(i) Vedi J. Tixeront, Histoire des dogmes, IL Paris, Lecoffre, 1909, pag. 447 e seg.
(2) De praedestinatione, cap. VIII, 554, in Palrol. lal., ed Migne, vol. CXXII.
(3) Quod si philosopharum vitam inspictamus... reperiemus ipsorum tam vitam quant doctnnam maximam evangelicam seu apostolicam perfectionem expriniere, ecc... Quod si ad ipsorum philosophorum perfectionem vitae ralionts noslrae examen sublevemus, summam in eis, anachoretarum seu monachorum mirabimur abstinentiam et contemplativae vitae cel-situdinem. Theol. christ., in Pair, lal., ed. Migne, vol. CLXXVII, col. 1179, 1184.
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LE VARIE DOTTRINE CIRCA L’ESSENZA DELLA RELIGIOSITÀ (Continuazióne. Vedi Bìlychnls, novèmbre, 1914, p. 099)S 2.0 La religiosità come prodotto della funzione pratica.
ra le dottrine che fanno derivare la religione dalla funzione pratica dello spirito umano tiene il primo posto il Kantismo. Kant attribuisce alla coscienza morale una pièna autonomia. La volontà morale dà la sua legge a se stessa. La validità della legge non dipende dall’essere espressione di una volontà superiore; anzi l’imperativo etico è categorico, cioè vale come fine assoluto indipendentemente da ogni condizione. La legge mo rale è puramente formale; essa esprime — cioè — la massima
universale di condottai Ma, affinchè l’uomo agisca, occorre alla legge un contenuto determinato che è fornito dal mondo sensibile. Ciò crea una disarmonia tra la pura ragion pratica e la volontà reale dell’uomo, per cui il rapporto tra la pura ragion pratica e la sensibilità è invertito: quella è sottomessa a questa, la legge del dovere è soppiantata dall’amore di sè. La causa di questo turbamento non si afferra, perchè non è un atto empirico, ma un atto intelligibile che è fuori del tempo. Perciò accade che ognuno ha la coscienza di questa corruzione della sua volontà, come di qualcosa innata. Ma la permanenza, nella volontà umana, della legge — subordinata ma non distrutta — fa sorgere, accanto alla coscienza del male radicale, la coscienza della liberazione da esso, il bisogno di redenzione. Questa implica una rivoluzione nell’intenzione, una vera e propria rinascita. Essa si compiè sotto l'azione dell’ideale di umanità perfetta. Questo modellò la ragióne umana lo estrae dalle sue viscere. Accogliere siffatto ideale, credere alla sua realtà, proporsi di accostarvisi quanto più sia possibile, ecco l'atto di fede giustificatrice, ecco la redenzione. Ma il dovere implica la piena libertà del volere, il potere. E poiché ciò non si riscontra nel mondo dell’esperienza nel quale viviamo ne segue che la certezza inconcussa della validità della legge del dovere impone di considerare la vita presente come manifestazione fenomenica della vita reale, di credere che accanto al mondo sensibile della necessità vi sia il mondo sovrasensibile della libertà, di ammettere che noi partecipiamo dell’uno e
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dell’altro, e che il compito di ogni uomo sia l’indebolimento dell’ostacolo che il mondo sensibile pone alla nostra libertà incondizionata^ Ma questo indefinito processo esige che col cessare della nostra vita corporea non cessi quella del nostro spirito. Inoltre, siccome parte di nostra natura è la sensibilità che ha per tendenza la felicità, e questa — data la sovranità della legge morale — non può derivare che dalla pratica della virtù; e siccome nel mondo sensibile non esiste proporzione tra virtù e felicità, tutto ciò postula resistenza di un Essere moralmente perfetto ed onnisciente, che possa giudicare del grado in cui ogni uomo è degno di felicità, e onnipotente per armonizzare le leggi della natura con la legge morale. Ma se l’uomo può, anzi deve, credere a questi postulati, non può giustificarli col ricorso alla ragione teoretica; la prova morale dell’esistenza di Dio non è che di uso pratico, e non può essere usata come una dimostrazione speculativa...
Senonchè il passaggio dalla morale alla religione, operato da Kant, apparisce manifestamente come una inconseguenza di questo filosofo anziché come una logica derivazione dalle sue premesse; le quali sono nate fatte per rompere.ógni.ponte tra moralità e religione. Kant afferma l’assoluta autonomia morale dell’io. Trattasi, è vero, non dell’io empirico ma di un io noumenico numericamente uno con quello, creatore di quello, ed autore della legge morale: assolutamente autonomo, secondo Kant, è appunto il nostro io noumenico. Ora ciò è ateismo virtuale, perchè tende a risolvere Dio nella legge ideale che collega le personalità finite nel mondo noumenico. È inoltre il rovesciamento del processo della coscienza religiosa. Infatti, per la coscienza religiosa solo in Dio non è possibile alcuna volontà speciale distinta dal Bene, appunto perchè Dio non è una individualità coordinata alle altre, ma abbraccia in sè — pur trascendendole, infinitamente — le coscienze tutte; ed in lui, quindi, non può sorgere opposizione tra i fini della volontà singola e il fine del tutto. Solo della volontà di Dio la coscienza religiosa può, dunque, affermare che abbia assoluta autonomia e crei la legge a se stessa. Arrogi che quando, come nel kantismo, il processo di redenzione è attribuito all’io stesso considerato come assolutamente autonomo, non v’è più posto per la religione.
Alla stessa conclusione si arriva esaminando il formalismo della morale kantiana. Questo filosofo elimina dalla moralità la nozione di bene oggettivo allo scopo di assicurare il carattere categorico dell’imperativo. Derivare l’obbligatorietà dall'esperienza dei valori, dall’apprezzamento dei beni, toglie l’assolutezza e l’obbiettività dell’operare, e la risolve nella prescrizione di atti conformi al nostro piacere ed interesse soggettivo; quanto al bene in sè, esso è inconoscibile. Cosicché « buona» è per Kant soltanto la volontà che si determina senza alcuna valutazione, per solo rispetto al carattere obbligatorio della legge. Ma, se ciò è vero, allora è falso che dalla morale noi possiamo attingere qualche rivelazione sul mondo sovrasensibile, sul regno dei fini: non ci resta che una obbligazione vuota ed astratta! Del resto, disgiungere la valutazione dei fini dall’obbligatorietà non è possibile, poiché, se si osservino spregiudicatamente i dati della coscienza morale, si vede che non l'atto volitivo del soggetto dà valore all’oggetto verso cui si dirige, ma l’apprezzamento del valore di questo costituisce là condizione dell’atto volitivo medesimo:.^ vano è il timore di Kant che ciò meni di necessità all'utilitarismo edonistico,Ipoichèja scala gerarchica
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dei beni morali non coincide affatto con quella dei nostri piaceri. — Se si elimina dall’obbligatorietà la valutazione, allora la ragion pratica rimane, come la ragion teoretica, priva anch'essa di un qualsiasi addentellato per la religiosità, e lo spiraglio che Kant aveva aperto sul sovrasensibile si chiarisce illusorio. Solo ammettendo che esiste un bene in sè, antecedente alla coscienza umana, che si manifesta al volere come legge, si può giungere all’idea di Dio come a termine ultimo della moralità. Poiché allora, la rispondenza tra il soggettivo e l’oggettivo nell'ordine dell’azione morale, tra l’ordine naturale e la nostra facoltà apprezzatrice nello stabilire la scala dei valóri, non si può spiegare che amméttendo la Volontà perfetta e l’intelligenza assoluta che pose tale rispondenza...
In conclusione, se una via c’è per collegare alla moralità la religione, questa non può essere che la riflessione sul fondamento trascendente che hanno nella realtà obbiettiva i valori morali, e cioè la metafisica. Occorre cercare il fondamento del valore nell'essere, speculare dunque sull’essere. E, per ciò stesso, riconoscere alla ragion teoretica quella capacità di cogliere il trascendente che Kant le aveva negato, ridare alle idee della ragione quel valore costitutivo che Kant aveva loro tolto!
A Kant si connette la scuola nfóc/&<?fl«}(Ritsch, Herrmann, Hoeffding). Sua affermazione fondamentale è che la vita umana ha più grande valore di tutto il mondo della natura, e vuol dominare questo ed affermare la sua autonomia. La morale pone i principi! per la scoperta e la produzione dei valori umani, la religione è la fede nella conservazione di questi valori. L’azione etica dell'individuo per la formazione della propria personalità incontra tali ostacoli che sarebbe impossibile restar fedeli all'imperativo etico se non soccorresse la certezza — dovuta alla fede in Dio — che tutti gli ostacoli sono vani, che anche i mali cooperano al bene, che il bene trionferà. Perciò, mentre la legge morale trova in se stessa là propria giustificazione, indipendentemente da ogni considerazione religiosa, d’altra parte lo sviluppo della vita morale non è possibile se non in rapporto con una concezione religiosa del mondo. All’infuori di questo giudizio valutativo dovuto alla fede, non ha luogo nella religione alcun’altra conoscenza di Dio, ed è illusoria ogni pretesa di dare dell’esistenza di Dio una dimostrazione teoretica. La religione è assolutamente indifferente alla metafisica: purché l’uomo giunga a concepire l’unità del mondo, questa concezione ha sempre carattere religioso o che essa sia teistica, o che sia panteistisa o materialistica, perchè la metafisica non ci porta mai al di là del mondo empirico, e il materialismo come concezione può conciliarsi con la concezione religiosa dell’universo fornendo un mezzo per concepire la dominazione morale dello spirito sul mondo. Insomma, l'affermazione dell'esistenza di Dio è un giudizio analitico dedotto dalla fede religiosa, non un giudizio sintetico della conoscenza teoretica.
Lasciando da parte ciò che potremmo dire per dimostrare che la scuola di Ritsch ha della metafisica una nozione errata trasfusale dal naturalismo che era in auge quand'essa surse, osserveremo Ché la religiosità ha per contenuto non soltanto la superiorità assoluta della personalità morale rispetto ai valori naturali, ma anche, e più specialmente, il sentimento di dipendenza della nostra personalità da una personalità superiore, assolutamente buona e libera, che è fondamento ultimo della natura e della
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coscienza umana. La religiosità spiccia fuori da questo: che l’uomo, consapevole del valore supremo che egli ha come personalità .'etica, nell'atto stesso che si contrappone alla natura, non può attuare quel suo ideale se non nella natura e per mezzo della natura in cui si trova collocato: onde la credenza fondamentale che natura e spirito hanno ambedue la loro origine in Dio e che un elemento morale è presente anche nella natura. Solo la credenza in una tale personalità rende possibile l’assioma della conservazione dei valori; e l’abbandono fiducioso ad essa, il riconoscimento della propria dipendenza da essa dà carattere di religiosità a qualunque attività produttrice di valori. Ora, l’unificazione del mondo sensibile col mondo morale nel concetto di un Dio supremo e personale, quale è richiesto dalla coscienza, religiosa, è di’ordine e carattere metafisico.
A questa corrente si rannoda il pensiero religioso di Tolstoi, che rappresenta un momento ulteriore in quel processo di esclusione del trascendente che caratterizza la corrente stessa. Tratto caratteristico del pensiero di Tolstoi di fronte a quello ritsch-liano è che noi, per trovare il senso della vita, abbiamo bisogno di liberare lo spirito non tanto dalla natura esterna quanto dall’organizzazione sociale che la civiltà ha costituita. Negli umili, nei lavoratori della terra, resistenza è serena, anche se travagliata da miserie, per la fede che la vita del momento è posta in relazione con l’eterno e trova in esso il suo scopo. Ma ciò non implica, per Tolstoi, un mondo sovrasensibile distinto da quello reale in cui noi viviamo. Questo mondo attuale è l’unica scena sulla quale può attuarsi la vera vita che la religione promette, il régno di Dio. In che modo? Riconoscendo la nostra inseparabilità dagli altri uomini, rendendo impersonale il nostro desiderio di felicità, col riferirlo a tutto ciò che esiste. Così noi cogliamo Dio, il quale è appunto l’amore che si è chiuso in corpi isolati, perchè altrimenti rimanendo uguale a se stesso non avrebbe potuto prender conoscenza di sé, e, acquistata coscienza dei suoi limiti, cerca di spezzarli. Questo principio dà un senso alla mia vita, poiché per esso io partecipo alla vita comune che si fonde con la vita passata, presente e futura dell’umanità.
Faremo alla concezione del Tolstoi una sola critica: L’ideale umano, avulso da una parte dalla realtà storico-sociale che è dichiarata eterogenea ad esso, destituito, d’altra parte, della capacità di appuntarsi in un mondo trascendente dichiarato chimera, è destituito di qualsiasi fondamento"reale, è un’astrazione e non un ideale...
Ma è nel Cohen che l'indirizzo kant-ritschliano pone capo al dissolvimento completo della religiosità in moralità. La dottrina di lui — kantiano — appare la miglior critica delle affermazioni fondamentali della scuola kant-ritschliana. Questa affermava essenziale alla religiosità un rapporto personale dello spirito umano con Dio. Ma — osserva Cohen — tale rapporto non è possibile senza assumere Dio a principio esplicativo dell’universo; e siccome ogni ricorso al concetto di Dio per soddisfare l'esigenza esplicativa è illusorio, conclude che la nozione stessa di rapporto personale tra l’uomo e Dio è una nozione mitologica. Dio, per Cohen, si risolve in quel complesso di valori che costituiscono l’unità ideale della razza umana e che soli permangono attraverso le variazioni di tempo e di luogo e il dissolversi degli spiriti in-
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dividuali: Dio è l’umanità. Potremmo osservare che, esclusa resistenza di una Coscienza assoluta trascendente, la conservazione dei valori diventa un assurdo; ed inoltre, che siccome l’io è un valore per se stesso, il dissolvimento degli spiriti individuali implica perdita di valore. Ma il nostro accenno al Cohen aveva per iscopo principale di dimostrare che il togliere alla religione qualsiasi appoggio di conoscenza teoretica, doveva necessariamente concludersi con la riduzione dei valori religiosi a valori etici, coll'identificazione di Dio all'umanità,
Seguono alcune correnti d’ispirazione positivistico-utilitaria, tra cui in prima linea a dottrina' del Comte.
Il pensiero, secondo questo filosofo, può illuminare l’azione e scoprire le leggi regolanti i fini di essa, ma non segnare tali fini, e meno che mai creare la forza che produce il progresso. Ad assicurare il trionfo delle tendenze altruistiche sgorga dal fondo dell'essere umano il sentimento religioso, cioè l’amore fondamento di tutte le religioni Ma la nuova religione positiva si distingue dalle altre per l’oggetto dell’amore. Essa rinunzia all'assoluto, il quale è pretta chimera, e si attiene al conosciuto che è la sola realtà. E poiché la realtà più nota è l’Umanità, questa dev’essere l’oggetto del sentimento religioso: l’Umanità considerata come un tutto che si svolge nel tempo, come il Grand’ Essere nel quale gl’individui vivono, si muovono e sono.
La scuola sociologica del Durkheim credette rendere più positiva la dottrina com-ptiana sostituendo aH’Umanità, considerata come un essere unico, il gruppo sociale particolare, la collettività. L’anima sociale ha stati e forze che, obbiettivati, creano gli oggetti della religione.
Senonchè, anche quando la coscienza religiosa si estenda fino ad abbracciare in sé tutta l’umanità, non per questo ha trovato il suo oggetto. Anzitutto l’umanità, pur nella sua complessa realtà storica, rimane sempre al disotto dell’ideale d'umanità affermato progressivamente dalle varie generazioni. Eppoi l’umanità, considerata nella sua realtà empirica, ha di fronte a sè forze che potrebbero schiacciarla da un momento all'altro. Quindi la coscienza religiosa non può riguardarla come l’Essere supremo innanzi a cui prosternarsi, ma tende ad abbracciare in sè, insieme con l’umanità, l’universo intero per porli alla dipendenza di un principio superiore. La dottrina di Comte colloca, al posto del sentimento religioso, un sentimento drsolidarietà.che può sussistere anche senza quella veste mistica che il Comte gli ha data; e la dottrina del Durkheim pone davanti all’individuo un'illusione per cui l’ordine sociale si trasforma in ordine divino; superata la quale, egli conserva — sì — la sua coscienza sociale, ma non avrà più la sua coscienza religiosa...
Dal precedente indirizzo’dottrinale, per cui’la religiosità è prodotto della coscienza sociale, si trapassa col Feuerbach adjaltro indirizzo per cui essa è affermazione dell’individualità empirica nel suo complesso d'interessi egoistici. Nella religione, l’uomo aliena fantasticamente la sua essenza dalla propria individualità proiettandola in una personalità estranea trascendente per riguardarvisi libero dai limiti che attualmente a lui impone la realtà obbiettiva. Sicché l’essenza della fede è la certezza del valore assoluto dell'uomo soggettivo in opposizione con gli attuali suoi limiti. Il sentimento di
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dipendenza inerente alla religiosità non contradice a siffatto egoismo, poiché è dipendenza da oggetti che soddisfano i nostri desideri, interessi e passioni. Segue da tutto ciò che il valore della religione è nullo, e che il posto di Dio dev’essere preso dall’uomo: dall'uomo individuo che è fine a se stésso, che per la sua facoltà di astrazione è capace di elevarsi a considerare l’infinitudine delle proprie facoltà essenziali e quindi è fondamento ed oggetto della religiosità.
La dottrina di Feuerbach è nel vero quando lumeggia l'intervento dell’immaginazione nel formarsi delle rappresentazioni religiose, quando indica la coscienza individuale come fonte dà cui il credente attinge i materiali per costrurre gli oggetti della sua fede, e quando afferma l'esigenza fondamentale della personalità umana di affermarsi, in Dio, indipendènte dalla natura Ma da ciò non deriva Che Dio sia il prodotto illusorio di un gioco del meccanismo psichico. Difatti, la conoscenza della natura non proviene dall’azione dell'oggetto sul soggetto che passivamente la riceva, ma risulta dall’esigenza dello spirito che la natura si conformi alle sue leggi normative. Ora il rapporto teologico che si pone tra la natura e la coscienza per chiarire come la natura esterna non si ribelli alla elaborazione dei principi costitutivi della mente umana, esige una Mente cui sia presente tutto, il processo della realtà così nel suo stadio precosciente come in quello umano, e lajcui struttura sia in fondo analoga a quella della mente umana medesima. Questa proiezione, dunque, che l'uomo fa della sua soggettività in una realtà trascendente è cosa tutt’altro che fantastica...
La dottrina di Nietzsche. muove da due motivi fondamentalmente religiosi: il predominio assoluto dell’uomo sulla natura, e l’esigenza di una realtà superiore all’essenza dell’uomo. Ma volge questi due motivi a un significato profondamente irreligioso. L’assoluta indipendenza dalla natura, che è un’esigenza di diritto, ei trasforma in realtà di fatto, ed arriva a proclamare l’onnipotenza della volontà individuale. Qualunque ricorso ad una forza estranea a questa (e perciò la religione) è debolezza, è dedizione. Nega, quindi tutto ciò che si presenta con pretesa di universalità; nega la scienza, la morale, la filosofia, poiché esse, affermando principi universali, sono indissolubilmente legate con la religione. Ma come può il suo « superuomo » costituire il concetto che dia significato reale così al corso della natura come all'esplicazione dell'attività umana se tutti gl’individui non ne partecipino almeno potenzialmente, sicché i « superuomini », creino, sì, valori nuovi, ma valori appartenenti a quel tesoro spirituale che l’umanità racchiude nel suo seno e che essi rivelino al mondo? Ma ciò significa appunto affermare V universale, quello da cui Nietzsche rifugge,... perchè egli sa che ogni affermazione dell’universale (e perciò ogni scienza, ogni moralità) porta all’affermazione di Dio. L’empio, per rimaner tale, ha dovuto negare ogni sorta di verità, perchè la religione, prima di essere vita e per essere vita, è, e deve essere verità!
(Continua) UGO JANNI.
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NELL’INSEGNAMENTO PUBBLICO IN ITALIA
(Continuazione. Vedi Bilycknir, Dicembre 19x4, p. 360).
8. La religione nella scuola media.
Fra la immediatezza delle spontanee creazioni religiose e la riflessione critica, sta la scuola media, varia di grado, di intenti pratici e di intensità culturale, che accompagna l’alunno dai dieci ai diciotto anni, e lo introduce a molteplici professioni minori.
In questo periodo cade la pubertà. Durante esso, l’alunno prende coscienza di sè come soggetto, un nuovo mondo, quello della interiorità e della sintesi, si rivela ai suoi occhi.
« L’equilibrio dell’età precedente s’è rotto, nuove tendenze ineffabili fanno irruzione nel sistema delle precedenti, ne dirompono l’unità; una disorganizzazione si inizia, ordinata a promuovere una superiore e più comprensiva unificazione spirituale. E, sorpreso ed esaltato, il fanciullo comincia a distornare la' sua attenzione dal mondo esteriore per ripiegarla su se medesimo. È ora, nella sua anima, un alternarsi di rilasciamento e di eccitazione, di gioie senza perchè, di pene misteriose, di fiducia senza limiti o di accasciamenti che paiono irrimediabili; e dalla tendenza all’affermazione di sè più assoluta, senza riguardi, egli è tratto a passare, in subitanei slanci, al più incondizionato altruismo. Il mondo umano, la società che lo circonda assumono per lui una importanza prima insospettata, in correlazione con l’importanza che ha per lui assunto il suo io interiore; e lo rendono insieme socievole e timido e misantropo. E i sentimenti e le passioni più elevate lo seducono. La passione per l’eroico umano lo esalta. La vaghezza, poi, delle sue aspirazióni fa che la sua fantasia tenda a preponderare sulla osservazione, e il penoso contrasto dei suoi sogni con la realtà prepara il terreno allo schiudersi o all’accentuarsi di un vero bisogno religioso (i) ».
Il compito della scuola divien quindi, in questo periodo, molto più grave e delicato. Se il maestro elementare può avere una influenza grande sul suo alunno dirigendone i primi sviluppi e imprimendo fortemente in esso talune nozioni che lo ac(1) Gino Ferretti, L'educazione degli educatori, in- Rassegna di pedagogia e politica scolastica. II serie, fase. 1-5.
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compagneranno poi nella vita, nell'adolescenza, per le condizioni di essa su esposte, l’opera del maestro divien più penetrante e insieme più contrastata, più intima e più necessaria, la sua influenza, sotto molti aspetti, in un senso o nell’altro, preponderante e talora decisiva. In questo periodo le grandi direttive della vita, gli esempi tipici, le concezioni generali interessano più vivamente il fanciullo, si sviluppa in lui lo spirito di osservazione e di critica, la curiosità si acuisce sui problemi della vita morale, la fiducia e l'autorità debbono essere quasi conquistate a viva forza.
Di una tale necessità debbono rendersi conto tutti i suoi educatori, talora troppo numerosi; poiché ciascuno di essi porta il suo contributo alla formazione delle atti* tudini e delle qualità morali dell'alunno. Ma nessuno di essi, purtroppo, ha nel campo del suo insegnamento la materia che più da vicino riguarda appunto, le concezioni etiche, gli ideali della vita, le fedi e gli entusiasmi operosi, le virtù o i vizi, gli esempi tipici e le azioni eroiche; anche qui, la religione è stata del tutto bandita dall'insegnamento. Non importa che il fanciullo debba, appunto in questa età, fare la sua scelta, giudicare della pietà della madre o dell’incredulità del padre, de' riti religiosi ai quali è condotto o dai quali si libera, del maestro credente e dell’irreligioso; non importa che di religione tutto gli parli intorno, esempi domestici, edifici pubblici, controversie ardenti, disparità di culti, lo stesso ritmo della sua vita studentesca, la quale riconosce la domenica, ma per sopprimere sé stessa, in quel giorno, sacro allo spirito, per mettersi al livello delle cose dalle quali ci si riposa. Non importa che egli incominci ad avvertire e poi senta vivissima in questo periodo, in cui nasce e si costituisce la sua vita interiore, l’importanza delle scelte morali che deve compiere, il contrasto fra la morale insegnatagli e i suoi istinti, la difficoltà di certe vittorie, la bellezza di certe rinunzie, la necessità di norme autorevoli e sicure; su tutto questo la scuola, quella che è per lui la dispensatrice della cultura e l’iniziatrice alla vita, tace. La scuola di Stato non ha dinanzi a sé un tipo di umanità da educare nell’alunno, degli insegnamenti dispersi manca la sintesi, le curiosità più intime, più radicali e più vive rimangono senza risposta. La scuola pubblica non ha, come si è osservato, un’anima, non ha saputo farsela, non si è neanche occupata di averla, abbandona al cozzo di fedi avverse, agli errori dell’inesperienza, ai contrasti di fazioni politiche, alla superstizione od all’incredulità egualmente grossolane la coscienza dell'alunno.
L’oblivione è così grave che essa è a pena spiegabile. La spiega, tuttavia, l’atteggiamento della società ecclesiastica nella vita contemporanea. Fuori della fede cattolica, nessuna visione spirituale dell’umanità era pronta per prendere il governo della scuola; e fu comodo per lo Stato pensare, quando la scuola media fu fondata in Italia dalla legge Casati, che un’altra iniziativa avrebbe dovuto provvedere a colmare per gli alunni questa lacuna; quella della Chiesa 0 di altre comunità ed istituzioni religiose, per incarico de’ genitori.
Ma i genitori non potevano essere da più dello Stato; se questo non provvedeva, i più ne trassero la conclusione che non era il caso di provvedere, che non c’era nulla da fare. Solo dove la Chiesa volle fare e fece, essa prese con sé gli alunni che le famiglie credenti le affidavano e ne dispose a suo piacimento.
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9. Quale insegnemento è necessario e possibile.
Anche qui si affaccia la stessa difficoltà. È possibile un insegnamento religioso nella scuola media, pubblica, di uno Stato laico? Ma, d’altra parte, noi dobbiamo chiederci: è possibile che la scuola sia veramente educatrice, che essa formi degli uomini e dei cittadini moralmente sani e vigorosi, sinché i suoi uffici più essenziali sono così sacrificati ai contrasti od alle complicità delle fazioni politiche e religiose che dilaniano l’anima del paese? È possibile che la democrazia formi efficacemente i suoi sinché essa non è capace di dare alle sue scuole, e per esse agli alunni, delle grandi direttive ideali, una concezione organica della vita privata e sociale, una base sicura della libertà e della autonomia, una visione creatrice della nuova storia umana?
Venendo, molto sobriamente, ai particolari, due cose ci sembrano necessarie: dall'una parte, una informazione semplice, serena, oggettiva, intorno a quella che fu per tanti secoli la religione nazionale degli italiani; dal vangelo e dalle lettere di Paolo a Manzoni, a Gioberti, a Mazzini, non mancano pagine atte a far intendere all’alunno il valore spirituale del cristianesimo, le vicende storiche del cattòlicismo, il sorgere di un mondo nuovo di sapere e di tendenze in opposizione ad esso, il significato umano di taluni simboli, l'anacronismo di molte superstizioni, e quanto altro possa preparare l’alunno ad una larga comprensione storica, ad un equo apprezzamento e ad una libera scelta.
Dall’altra parte, il processo dello spirito dal medio evo al mondo moderno, i momenti culminanti nello sviluppo del nuovo pensiero europeo, la concezione sociale che ne è derivata, le lotte epiche che hanno fatto prevalere questa concezione nella vita pratica, l’opera dei maggiori uomini di questo periodo dovrebbero essere presentati nella concentrazione di una intensa luce spirituale, esposti nel loro significato di conquista di una vita spirituale più ricca, convertiti in lezioni pratiche di volontà e di energia.
Così, senza contrasti troppo ardui, senza offrire agli alunni nelle opposizioni appassionate e settarie contro questa o quella dottrina il pretesto di scetticismi precoci e di una troppo facile viltà di scelta, la vecchia religione verrebbe ad essere appresa come una propedeutica dello spirito, e l'età nuova, nel suo contenuto sostanziale, come una ricca fonte di emozioni possentemente religiose; e le basi sarebbero poste per la costruzione di una personalità morale sana, consapevole e vigorosa, e preparati gli animi al senso delle solidarietà -sociali, nazionali ed umane; e qualunque scelta fossero più tardi tratti a fare i giovani fra le varie fedi e visioni del mondo che si contèndono il terreno, la scelta non sarebbe più una specie di mutilazione dello spirito, liberato una volta per sempre da unilateralità grette e settarie.
La scuola media, dunque, non solo non esce dai suoi confini, ma acquista piena coscienza di sé e del suo ufficio, con un insegnamento religioso, informativo intorno alla religione o alle religioni che sono parte viva della realtà storica e della cultura che l'alunno deve rivivere e rifare in sé; formativo della coscienza medesima dell’alunno nel senso di mettere in chiaro le esigenze spirituali che nella storia dalla quale il giovinetto emerge hanno condotto a risolvere nelle note maniere il problema pratico dell'azione umana nella sua intierezza, e che nella sua storia, in quella che egli
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si fa, debbono anche essere soddisfatte, per un interesse vitale e supremo di consapevolézza e di volontà.
Non si tratta adunque qui di offrire, come si fa nella scuola media confessionale, delle soluzioni decise e di autorità, sistematiche e sancite dall’osservanza rituale, per entro alle quali, docilmente accettate, si formi o si deformi la personalità morale dell’alunno; ma di condurre questo ad acquistare la consapevolezza del suo io morale, delle intime esigenze che in esso si svolgono, delle influenze esteriori che se ne disputano il possesso; e, con la consapevolezza delle domande, la inquietudine della ricerca e la gioia di talune conquiste spirituali più alte e sicure.
Poiché, e giova ripeterlo, la scuola laica ha una sua religione, non dogmatica nè autoritaria, religione che è in perenne farsi, ed alla quale si dirà all’alunno che egli deve dare più tardi, da sé, l'ultima mano, aderendo, se vorrà, a dottrine ed a forme di collaborazione spirituale più concrète ed attive, liberamente; ma che ciò nondimeno è atta a introdurlo alla vita, facendogliene sentire la dignità e la santità e la ricchezza spirituale, creando in lui il desiderio di celebrarla, in sé, nella sua futura famiglia e nella società, con animo nobile e generoso; insegnandogli ad uscire dalla grettezza bruta della sua effimera individualità per sentire in sé, incarnata e vivente, l’universalità dello spirito e l’immanente imperativo delle vocazioni profonde e native di questo.
E tale insegnamento deve apparire all'alunno, non come una dottrina del maestro, opposta ad altre dottrine e discutibile, ma come l’interpretazione viva della storia spirituale e religiosa della quale egli è l’erede e deve essere il continuatore.
Sono gli insegnanti italiani atti a dare un tale insegnamento? Molti non sono; ma cominceranno a divenire, dal momento che se ne faccia ad essi intendere la necessità e lo spirito, nei programmi di insegnamento ed in qualche abile applicazione dei criterii da noi indicati a manuali ed antologie. Del resto, rifar la scuola italiana significa anzitutto rifare i maestri. E per questo crediamo premature discussioni pedagogiche su tale argomento.
Ci limitiamo a dire che questo insegnamento dovrebbe esser vario secondo i vani gradi della scuola; e che l’insegnante (nelle scuole tecniche e professionali, il maestro di italiano) dovrebbe, per due ore la settimana, svolgere un corso storico di morale e di religione, in base alle idee da noi esposte.
Nel liceo, poi, sarebbe facile dividere l’insegnamento fra i professori di italiano, latino e greco e storia; dovendo ciascuno, per la sua parte, dedicare alcune lezioni a mettere in particolar luce l’importanza dei fatti e delle dottrine religiose in quel dato ramo di storia o di cultura che è oggetto del suo insegnamento, e definirne il valore di vita. Per avere, poi, una qualche unità di spirito e di indirizzo in questo insegnamento, converrebbe che esso fosse solidamente appoggiato a dei buoni manuali ed antologie.
io. L’insegnamento della religione nell’università.
Noi siamo ora condotti a giudicare la religione non più come momento dello sviluppo psicogenetico del fanciullo a uomo nè come chiarimento della coscienza individuale e nazionale, oscura ed incerta, intorno alle sue tradizioni, abitudini e ere-
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denze e pratiche religiose, ma nel suo proprio valore di momento assoluto dello spirito. Poiché di questa originarietà ed irreducibilità del principio o del fatto religioso deve giudicare l’insegnamento scientifico, per escluderla o per sancirla.
Rimane intanto escluso, a fortiori, da quello che abbiamo detto della laicità dello Stato, che una religione possa essere insegnata nella università con scopo comunque proselitistico; la piena libertà spirituale deve essere il frutto più maturo dell’insegnamento, da cogliersi appunto nella università.
Ma anche chi ammetta essere l'ufficio della religione perento nello ulteriore sviluppo dello spirito umano non può da ciò concludere alla abolizione dell'insegnamento della filosofia e della storia delle religioni nelle università; primo, perchè, allo stato attuale della filosofia o della indagine storica, egli presumerebbe troppo della sua opinione; secondo, perchè le religioni non sono ancora così lontane dalla vita quotidiana de' popoli e dalla memoria degli uomini che il ripercorrere la loro storia e lo studiarne la genesi, la varietà, gli sviluppi storici, lo stato attuale non giovi, non sia anzi necessario ad intendere l’animo e la storia e la realtà contemporanee. E se un determinato insegnamento religioso deve, come abbiamo mostrato, avere il suo posto nella scuola elementare e media, esso non può neanche mancare nella università, che è la sintesi e la somma di tutto il sapere e che prepara gli educatori degli educatori popolari e gl’insegnanti della scuola media di tutti i gradi.
Un doppio moto di pensiero noi possiamo veder compiersi nella università: la coscienza volgare di un popolo che ascende gradualmente ad essa per acquistarvi piena consapevolezza di sè, e un pensiero alto e maturo che discende ad investire di sè stesso, attraverso alla scuola, al libro, alla cultura multiforme e diffusa, tutta la vita nazionale. Aver sottratto intieramente — per quanto dipendeva da cattedre o da programmi — a questo doppio moto di circolazione della cultura la coscienza religiosa del paese fu una balordaggine della quale solò specialissime circostanze storiche possono rendere ragione, ma che esse non valgono a giustificare. E un rimedio a siffatta aberrazione pedagogica è necessario.
Ma anche dal punto di vista filosofico, considerando cioè il valore e il posto della religione nel pensiero e nella vita, noi sosteniamo che essa debba essere, nell'università, oggetto d’insegnamenti speciali. La riduzione, che molti sostengono, della religione, quasi filosofia popolare e provvisoria, alla filosofia non pròva nulla contro tale asserto. Perchè innanzi tutto la religione non è sì umile cosa, nella storia dello spirito, che basti mutarle nome, per disfarsene. E poi, converrebbe sapere perchè la filosofia, nel suo processo storico, è stata prima religione. Noi troviamo questa mescolata, alle origini più specialmente, a tutte le scienze; essa appartiene alle origini del linguaggio — gli dei sono assai spesso personificazioni di idee generali nascenti — delle costituzioni sociali, dell'igiene e della medicina, della scienza della natura. Ma queste varie scienze e l’etnografia ed altre non si sono spartite il corpo delle religioni primitive, intorno alle quali fiorisce una speciale ricerca storica sempre più ricca.
Quando filosofia e religione cominciarono ad avvicinarsi, rimasero sempre fra l’una e l’altra profonde differenze/ U. Windelband, ad esempio, nel suo Manuale Ai storia della filosofia, dedica assai poche pagine al cristianesimo, il quale non comincia ad interessarlo che assai tardi, quando si allea alla speculazione filosofica ellenistica.
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In genere la storia della religione ha assai pochi rapporti con la storia della filosofia, e le religioni storiche più forti mostrano un supremo disprezzo per le filosofie dei loro tempi, nè i filosofi furono mai in vena di mettersi a fare i propagandisti religiosi. C’è una filosofia della religione, naturalmente, poiché questa è una delle più immediate manifestazioni dello spirito, come c’è una religione che ciascun filosofo deduce dalla sua filosofìa. Ma rimane sempre dubbio se esse si incontrino e coincidano, annullandosi i caratteri formali dell'una in quelli dell’altra, o se semplicemente si trovino accanto nel comune soggetto e nella comune dimora che è lo spirito.
Ogni fede è un fatto di conoscenza e di volontà; tutti concordano nel definirla a questo modo, anche se non si voglia vedervi (con le filosofie dell’azione e dell’ intuizionismo prammatico) un moto dello spirito primigenio ed indifferenziato; ma la sua caratteristica sta appunto nell’esser l’uno e l’altro ad un tempo e inseparabilmente; se scindete dalla volontà l’elemento conoscitivo, lo uccidete, e quel che vi resta in mano è una spoglia vuota.
Ma se per religione o per filosofia si intende una concezione della vita e dei valori umani immediata, sincera, personale, principio e norma di azione morale, allora si può parlare di riduzione della religione a filosofia così come si può parlare, allo stesso titolo, di riduzione della filosofia a religione. E si può dire che le filosofie appartengono alle religioni, nel momento in cui esse sorgono spontanee come sforzo di compressione dell’universo e della vita; ma che poi se ne distaccano, nel processo di astrazione e di sistemazione dialettica nel quale si vanno specializzando. E in questo secondo periodo la religione rientra nella filosofia come fatto, come cosa morta, oggetto di anatomia, di astrazione e di riduzione a concetto e dialettica.
Il compito proprio che le religioni storiche sempre si assunsero fu quello di sistemare i rapporti della coscienza con'l’assoluto o con ciò che era concepito come tale; di dire all'uomo il valore della vita e le fonti di essa, della forza e della potenza, il significato che egli ha nell’insime degli esseri ed innanzi alla totalità dell’essere; e come la vita e la natura e la divinità, il principio, ed il fine delle cose’egli dovesse celebrare nella sua attività pubblica, familiare, privata. Vi fu un momento, nella storia della filosofia greca, nel quale dalle religioni popolari questo compito passò, per gli spiriti colti, alla filosofia; ma quando questa, dopo il suo non lungo ciclo, parve concludere con il riconoscimento di un insanabile dissidio fra le vocazioni native dello spirito o il mondo della natura e dei sensi e proclamare il bisogno di una redenzione e un metodo di astensione ascetica per l'iniziazione mistica, una religione positiva, dichiarantesi in possesso di una verità rivelata e del segreto della redenzione e divinizzazione dell’uomo, prese di nuovo il posto della filosofia e il governo della vita.
Ma il cristianesimo sarà probabilmente l’ultima delle religioni positive, per la copia di elementi perenni di liberazione spirituale che esso racchiude e per l’alito di vita e di sviluppo che non l’ha abbandonato; le quali cose permettono di prevedere che esso, modificandosi e frazionandosi e ravvivandosi in mille modi, accompagnerà gli uomini della civiltà occidentale per' lungo tratto, sino all'avvento della pura religione dello spirito, della celebrazione laica della santità della vita in tutta l'opera umana, elevata a lucida e perfetta rivelazione della coscienza che si sa, della volontà fatta dominatrice sicura.
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Sino a quel giorno, sarà necessario ricapitolare la storia religiosa dell'umanità nell’insegnamento e farla oggetto di ri-creazione storica, di meditazione e di valutazione filosofica.
li. Metodi, programmi, cattedre.
Storia, pur sèmpre, e filosofia, dirà taluno. Ma perchè una storia ed una filosofia distinte? Portata la questione in questo campo, essa non è più di principio, ma pedagogica. La distinzione delle materie nasce in gran parte da tradizioni scientifiche e da ragioni metodologiche, quando oggetto dello studio è il soggetto stesso, lo spirito. Religione e filosofia hanno fatto la loro strada separatamente, così nella storia della vita pratica, come in quella del rispecchiamento della vita, che è la scienza; e non sempre d'accordo, ma fra contrasti spesso stridenti. E a ciascuna di esse si riannodano diverse attitudini ed energie dello spirito, diverse esigenze della vita pratica. La filosofia mira a chiarire e disciplinare il pensiero, la religione a muovere la volontà; l’una si arresta perplessa dinanzi a molteplici antinomie, l’altra risolve le contraddizioni con un atto vigoroso di fede e procede diritta alla conquista della vita. E mentre, per rinascere e rinnovarsi che -faccia la speculazione filosofica, la più alta parola di essa per ciò che riguarda la pratica sembra essere l’atarassia, l’astinenza e l'indifferenza del saggio, la condanna del mondo delle apparenze e dell'illusione per la ricerca delle fredde e serene vette dello spirito contemplativo, la religione invece ha per suo compito di suscitare la fiducia vittoriosa di ogni difficoltà, la santificazione dei compiti della vita, sino ai più umili, l’energia e gli entusiasmi rinnovatori.
Sembra dunque ingiusto ed irragionevole l’affidare ai filosofi il compito di esaminare le religioni e coglierne l’intima anima e l’immanente motivo; poiché essi lo faranno da filosofi, cioè con un presupposto intellettualistico, con l’occhio volto alle antinomie che appunto le religioni avevano risolto nella sintesi di un vivo atto di fede, e quindi con presunzione tenacemente ostile alle origini, al valore e all’efficacia dell’insegnamento di queste.
Ma e quelli che insegnassero filosofia e storia delle religioni non dovrebbero essere puramente filosofi e storici? E come controllare le loro congeniali attitudini a trattar l’argomento piuttosto in un modo che in un altro? 0 vorreste di nuovo, e sotto mentito aspetto, aprir scuola di religione di vita nelle università?
Siamo pienamente consapevoli delle difficoltà che tali domande implicano. La storia delle religioni deve, nelle università, esser trattata da storici, storicamente, con la pura passione evocatrice, e la filosofia delle religioni da filosofi, con la pura passione speculativa. Noi facciamo questione di posto e di materie di insegnamento, non di metodo. Ma non così che ila questione di metodo rimanga intieramente esclusa. Poiché è evidente, innanzi tutto, che chi, fra gli studi puramente filosofici e storici e quelli di filosofia e di storia delle religioni, sceglie questi ultimi, porta nella scelta un istinto di interesse più vivo e di simpatia spirituale il quale è condizione prima di più acuta penetrazione e più retto intendimento dèlia materia preferita. In secondo luogo, la specializzazione che ha luogo, nel corso degli studi e delle ricerche, conduce anche essa ad un atteggiamento d’animo conforme al sog-
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getto. E poi, ciascun insegnante tendendo a suscitare e coltivare nei propri alunni l’interessamento per la sua materia, il filosofo e lo storico delle religioni sarà natu-ramente condotto a metter in rilievo l’importanza del fatto religioso, e si rivolgerà alla esperienza religiosa dei suoi alunni, per convertirla in materia di chiarificazione dialettica e di convincimento razionale; ed avrà frequenti occasioni di riferirsi alle esperienze ed alle vicende religiose fornite dalla società nella quale la sua scuola vive.
In somma, tutto un complesso di fatti, di ricerche, di problemi interessantissimo, e che altrimenti rischierebbe di sfuggire alla attenzione del pensiero scintifico, viene così collocato anche esso nel foco della cultura, con attenzione e penetrazione e metodo adeguato, e la vita dello spirito se ne arrichisce. E le ripercussioni saranno molteplici e interessantissime in tutta la vita spirituale della nazione. Del resto, avevamo già osservato che la mancanza di una carriera scientifica aperta dinanzi agli studiosi di religione ha fatto sì che questi studii fossero enormemente trascurati negli ultimi cinquanta anni nel paese, con enorme danno di tutta la cultura italiana. E a questo danno occorre sopratutto portar rimedio.
In sostanza la filosofia e la storia della religione sono la storia della civiltà esaminata sotto uno speciale punto di vista; sotto il punto di vista cioè della ricerca e della costituzione dei valori assoluti della vita. E in questo senso la religione è il culmine della cultura; e lo studio di essa la prima delle scienze, come quello che ha per ¡scopo di porre l’uomo dinanzi al problema centrale della vita, al nucleo stesso della personalità morale, alla fonte prima donde fluisce la vita delle nazioni. Un giorno, forse, non sarà più così, e un maggiore approfondimento della vita dello spirito ci condurrà ad un ordinamento e a una sintesi diversa dei vari rami ed aspetti della sua attività, e la religione potrà coincidere, senza lasciar residui, con la filosofia della volontà; oggi, sarebbe puerile negare che il superamento, intravisto od auspicato da taluni, implicito in talune teorie filosofiche molto discutibili e discusse, è ben lungi dall’essere avvenuto e la soppressione da noi lamentata apparisce essere esclusivismo di cattivo gusto.
Nè si deve temere di tornar sopra ad una questione che pareva definita. Anche sotto altri aspetti la questione religiosa-ecclesiastica non è meno viva perchè si finge di ignorarla ufficialmente e converrà riaprirla e pensare e preparare soluzioni opportune. Accusarci, come taluno ha fatto, di chiedere che sia ristabilito l'insegnamento delle religioni nella scuola pubblica con intendimenti anticlericali è miopia accademica; come è miopia non vedere, anche in questo campo, il nesso fra la cultura e la vita, fra l’università e la politica. Quanti sonò italiani scrii dovrebbero riflettere seriamente alla crisi morale che travaglia il nostro paese e cercarne le ragioni in ciò che dal 1870 ad oggi, per stanchezza o per pigrizia o per viltà, si è mancato di fare, nei pregiudizi dai quali ci siamo lasciati condurre, nell’attenzione sempre più sviata dai problemi essenziali ai minori ed occasionali e particolari. Uno dei maggiori, fra quelli, è l’educazione dei giovani. Finora si pensò soltanto, e malamente, ad istruirli; pretendere di formarne le qualità morali e le fedi sembrava un dubitare della efficacia dell'istruzione, un rubare al prete il proprio mestiere, un far troppo conto di « fenomeni » che i saccenti del positivismo avevano ridotto a ben povera cosa. Ora, educarli significa ancora e significherà per molto tempo, piaccia o non
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piaccia, occuparsi della loro vita religiosa; occuparsene, non prendendo in imprestito da qualche chiesa o chiesuola le dottrine della salute, solenni e definitive, ma mettendo le coscienze innanzi a se stesse, inducendole a riflettere sulle necessità e sulle fondazioni della loro vita morale, illuminandole sulle credenze con le quali sono in contatto nella famiglia e nella società; mettendo in luce il fondamento eterno e il mutare storico delle religioni, elevando gli uomini al senso dei valori supremi ed assoluti della vita.
Questo può, questo deve fare l'insegnamento delle religioni, ristabilito, nelle forme che abbiamo detto, in tutti i gradi della scuola pubblica.
Ma ci vuol più coraggio per fare un passo indietro sulla via sbagliata, che non per farne molti innanzi, sulla buona via e sulla cattiva, anche se difficile; e in Italia il coraggio non è virtù dei nostri uomini politici. Noi onoriamo la vecchiezza, ma .quando non è nè saggia nè onesta.
Romolo Murre
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(Continuazione. Vedi BilycAnù, Gennaio 1913, p. 48).
3. IL CANZONIERE.
All’edacità del tempo, che ci privò di quasi tutte le altre opere del Caracciolo, sono fortunatamente sfuggiti i tre libri di Rime Sacre. Le quali, essendo le sole poesie che di lui ci rimangano e ci diano modo di farci un giusto criterio dell’uomo e del poeta, vogliono essere esaminate più attentamente e con maggiore ampiezza.
a) Le Rime Sacre, conservate nel ms. ital. 1384 (1) della Biblioteca Nazionale di Parigi, comprendono novantun componimenti di varia natura e di varia ampiezza, dai poemetti agli inni, dalle canzoni ai sonetti, dalle poesie mistico-dommatiche a quelle liriche e descrittive; dalla terzina all’ottava ed alla strofa di quindici versi, dal settenario all’ endecasillabo.
Naturalmente il sonetto, che in quel secolo godette di tanta popolarità, vi ha la parte maggiore. Gli altri componimenti sono un lungo poema in novanta ottave, cinque inni, di cui due in francese e tre in italiano, tre poemetti in terza rima, un capitolo od epistola, e due canzoni.
La raccolta è distribuita in tre libri d’ineguale ampiezza e natura; ma non è sempre ben chiaro il criterio che presiedette alla divisione ed all’ordinamento di essa. Ta(1) Questo ms. appartenne prima al fondo S. Ger-main nn. 2374 <? 1683. Vi si legge questa nota ms.: « Ex Bibliothcca mss. Coisliniana, olim Segueriana, quam Illusi. Henricus Du Cambout Duk de Coislin, Par Francia e, Episcopus Mdensis ecc. Monasterio S. Germani a Pratis legavit an. MDCCXXX1I ». 11 titolo esatto è : Tre Libri di Rime Sacre di Donno Antonio Caracciolo — A Dio benedetto, agli amici e alle muse.
lora pare avervi prevalso il concetto d’uguaglianza di forma e di struttura metrica, talora d’affinità di pensiero, di sentimento e d’immagini, talora un certo qual ordine cronologico; ma nessuno di questi tre criteri può dirsi costantemente seguito in tutto il Canzoniere. Troviamo infatti poesie filosofiche è dottrinali nel primo e nel terzo libro; sonetti nel secondo e nel primo, poemi nel primo e nel terzo, canzoni unite con Soemi, e componimenti degli ultimi anni »1 poeta accanto ad altri che risalgono ad un tempo anteriore.
Questa mancanza di un chiaro e naturale criterio d'ordine e di distribuzione nel Canzoniere, induce a sospettare che il poeta non abbia lasciato, morendo, una vera e propria raccolta delle sue poesie, ma un semplice zibaldone e che non abbia avuto tempo di dargli l'ultima mano e di completarlo. Forse la vera raccolta ordinata del x>eta non abbracciava che i primi due ibri logicamente distribuiti e distinti tra oro, poiché il primo contiene le poesie dotte o mistiche, il secondo le poesie lirico-religiose. Il terzo libro potè esser messo insieme da colui stesso, cui dobbiamo la copia rimastane, cioè da un amico del poeta, forse da quello stesso Beroaldo che ne raccolse l’estremo respiro e le ultime volontà. Riandando le carte del Caracciolo, oltre lo zibaldone dei due primi libri, egli potè trovare altre composizioni, dimenticate od a bella posta tralasciate dal poeta, che aggiunse con poco criterio nel terzo libro, non accorgendosi che il posto di alcune di •esse era nel primo e che le tre ultime non armonizzavano bene per il loro contenuto nè colle precedenti nè col titolo stesso di « Rime Sacre ». Che il poeta non abbia, lasciato una raccolta ordinata e corretta, lo dimostrano i numerosi errori e le fre-
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quenti varianti che la mano stessa, la quale trascrisse il canzoniere, segnò in margine come derivanti dagli originali; e che nella redazione complessiva o parziale della Raccolta abbia avuto parte un amico dell’estinto, sembrano provarlo — oltre le ragioni suddette — anche le parole che si leggono sul frontispizio del manoscritto accanto al nome dell’autore: « A Dio bene-delio', agli amici e alle muse ».
b) Se la raccolta delle Rime Sacre è opera degli ultimi giorni del poeta o di un amico sopravvissutogli, le poesie però che la compongono non appartengono tutte all’ultimo periodo della vita del poeta; ma, scritte ad intervalli, lungo tutto il corso delie sue vicissitudini terrene, ne rispecchiano i vari periodi ed i diversi stadi.
Non è possibile assegnare ad ogni singola poesia la sua data precisa di composizione, S>erchè, fatta eccezione delle tre poesie pro-ane e di poche altre d’occasione che accennano a specialissime vicende della sua vita od alludono alla sua età, le altre mancano in genere di particolari cosi netti e precisi da permettere di fissarne la data di com-fsizione in un ambito di pochi anni. Onde determinazione cronologica del Canzoniere non si può ottenere che dividendolo in più gruppi di poesie che presentino nella forma o nella sostanza caratteri uguali od affini, ed assegnando a ciascuno di questi gruppi, per data di composizione, un pe-iodo che abbracci più anni della vita del poeta.
Pertanto, senza negare ogni eccezione, si può affermare che il lungo poema in ottave e gli altri componimenti di carattere mistico-dommatico (eccettuati i sonetti), appartengano al primo periodo della vita del Caracciolo, quand’era monaco ed abate, Serchè troppo risentono di dommatica e i allegoria mistica — che al secondo periodo della sua vita (1551-62) appartengano le poesie che, già protestanti nel pensiero e nel sentimento, accennano però con particolare crudezza alle tentazioni violenti della carne— che al terzo periodo infine spettino tutte le altre poesie, dove il poeta, ormai stanco della vita del mondo che gli ha causato tanti disinganni e tanti dolori, si rifugia coll'ali della preghiera e della poesia sotto lo schermo della grazia divina ed apetta sereno e quasi impaziente la morte che gli schiuda la beatitudine celeste.
E poiché sono appunto queste ultime le
poesie più numerose ed in genere le più pregevoli di tutto il canzoniere, ragion vuole che salutiamo nella vecchiaia del poeta e nella solitudine di Briecomte e di Chà-teauneuf la vera e principale fonte ispiratrice della musa cristiana del Caracciolo.
Analizzare il Canzoniere significa Studiarlo:
i° Sotto l’aspetto storico-biografico.
2® Sotto l’aspetto letterario.
3® In relazione colla storia della Riforma Protestante in Francia e colle altre manifestazioni poetico-religiose d quel secolo.
4. IL VALORE STORICO-BIOGRAFICO
DEL CANZONIERE.
Già più volte nel tracciar la vita del Caracciolo avemmo ricorso al Canzoniere per desumerne dati ignorati o per definire meglio speciali vicende della sua vita.
Trovammo che esso ci parla, sebbene velatamente, dei suoi amori profani e delle sue canzoni amorose; ei attesta la sua famigliarità con Margherita di Navarra e colla duchessa di Valentinois; ci descrive le occupazioni quotidiane della sua vita claustrale, ci rivela il suo amore costante per la patria lontana oppressa ed incapace a redimersi
Ma tutto ciò non basta a formare il vero valore storico e biografico del canzoniere. Esso risiede specialmente nel sentimento religioso e morale, che, sotto varie forme e con diverse gradazioni, tutto lo pervade e lo anima, proiettando sul poeta una luce ben diversa da quella sotto cui ce lo rappresentarono i suoi contemporanei e biografi.
Non c’è infatti nessuno fra essi Che più o meno acremente non abbia condannata la leggerezza, l’ambizione, l’incostanza e la vita impudica dell’autore, esagerando talora fino a dipingercelo come un uomo affatto dissoluto, incapace di qualsiasi sentimento religioso che non avesse secondi fini, ed uso a far mercimonio in ogni occasione cosi della propria fède come di quella altrui.
Ma a questo giudizio eccessivamente severo ed ingiusto —- tramandatosi di biografo in biografo come logica conclusione dell'analisi della sua vita esterna — non potrà più d’ora innanzi, per la rivelazione del Canzoniere, sottoscrivere la critica moderna. La quale, basandosi sul fatto che l’uomo è quasi sempre consciamente od inconsciamente, di proposito o per forza
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delle circostanze, diverso, esteriormente da quello che è interiormente — il che capitò a molti in quel secolo così agitato e contraddittorio della Riforma — insegna che ogni personaggio della Storia, come della vita comune, deve essere giudicato non soltanto dalla sua vita esterna, ma, ogni volta sia dato di scoprirla, anche dalla sua vita interiore; e che ogni atto esterno non deve essere studiato soltanto a sè o dagli effetti che reca ad altrui, ma dal sentimento intimo che l’accompagna e dall’effetto che tosto o tardi Sroduce sull’animo stesso di chi lo compie.
icchè una viltà, una colpa, in una persona che, commesso il male, ne soffre e si pente, sia pure solo momentaneamente e per tornare poco dòpo a peccare, non può esser giudicata e condannata colla stessa severità del fallo commesso da chi più non senta nè vergogna nè rimorso, ed abbia ormai contratto l’abito del male.
Anche al Caracciolo giustizia esige che si usino i medesimi riguardi nel giudicarlo. Perciò dalle biografie della sua-vita esterna, dove non è che il ricordo spesso esagerato delle sue colpe e delle sua viltà, della sua ambizione, del suo egoismo e della sua dissolutezza, dove in altre parole non sono che violenti capi d’accusa contro di lui, noi ■dobbiamo risalire alla biografia interna della sua vita, cioè al Canzoniere, dove sono narrate le lotte angosciose tra il bene ed il male, i buoni propositi, il pentimento, l’umiltà e la fède del poeta, dove sono le discolpe e le attenuanti, dov’è soprattutto segnata la sua finale e completa riabilitazione.
Certo il Canzoniere non distrugge - nessuna delle colpe imputate dai biografi al Caracciolo, che resta perciò a volta a volta un dissoluto, un ambizioso ed un vile; ma ci persuade ch’egli non fu per natura corrivo a peccare, che la sua coscienza non si addormentò mai nella colpa nè la sua fede si spense pur nei momenti più infelici della vita: che alla fine il bene trionfò in lui del male ed i peccati della giovinezza e dell’età matura furono nobilmente espiati con una vecchiaia calma e serena, ravvivata dal pentimento, dalla santità e dalla fede. Egli fu uno spirito sinceramente religioso, amante del bene, pieno di buoni propositi, ma troppo debole nell’attuarli, troppo audace invece nel secondare gli istinti dell’animo o nel cercare le occasioni del male, vittima soprattutto della sua falsa vocazione. Infatti, il vizio fondamentale. Che macchia tutta la sua esistenza, è l’aver scelto, ih un
momento di delusione e di fugace rivolta alla seducente pompa mondana, una vita di umiltà, di sacrifizio e di clausura, egli, che la gloria degli antenati, la nobiltà del casato, l'ambiente in cui era nato e cresciuto, l’istinto naturale, tutto insomma spronava a cercare i più alti fastigi della vita del mondo. Laico egli sarebbe stato forse un uomo modello ed un buon cristiano!
5. IL VALORE RELIGIOSO DEL CANZONIERE.
Oltre che per provarci la sopravvivenza del sentimento religioso e morale nell’intimo del poeta, il Canzoniere è importante biograficamente anche perchè c’illumina sulla vera natura della sua fede.
Suesta è indubbiamente protestante, e cadono da sè, appartenendo il Canzoniere in gran parte agli ultimi anni di vita del Caracciolo, le insinuazioni di quei biografi, i quali pretesero ch'egli dopo lo scandalo di Orléans tornasse alla fede cattolica ed in essa morisse.
In due soli componimenti è fatta menzione della Vergine Maria: ma sono componimenti che appartengono al primo periodo della vita dell’autore e che per un tale accenno non possono dar ai nervi a nessun protestante, nè contraddire alle altre rime di sapore più prettamente protestante.
Nè deve stupire maggiormente il fatto di trovar nel Canzoniere una poesia in glorificazione di Paolo III, perchè aneli’essa precede la dichiarazione di fede protestante del Caracciolo e non è esaltazione di un papa come autorità suprema ed infallibile della Chiesa cattolica, ma semplicemente come nemico degli Spagnoli e vagheggiato redentore della patria oppressa.
Infine, neppure contrastano colla fede protestante del poeta le altre poesie del primo periodo della sua vita, ancóra impregnate di misticismo e di sottigliezze patristiche.
Il passaggio dalla fede cattolica a quella protestante pare essere segnato e rispecchiato nel Canzoniere àzXV Epistola alla duchessa di Valentinois, in cui tra mezzo alla descrizione delle pratiche monastiche è già un chiaro accenno a Ciò che forma la base del protestantesimo: l’inutilità delle cerimonie religiose, ossia delle opere, quando non corrisponda loro adeguata la fede:
E vedendo candela o lampa accesa. Se in me non arde carità con fede. Veggo ch’io non ho ben la legge intesa.
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e la dottrina capitale della grazia:
Da questo avvien ch'io mai sempre disamo In me ciò ch’io conosco d’esser mio Ed in me la sua grazia abbraccio ed amo.
A partire da questo momento, in tutte le poesie posteriori, la fede protestante del Caracciolo si accentua e s’effonde libera, viva e genuina. Esse ci ripetono a chiare note e in tutti i toni che l’uomo non deve confidare nè in sè stesso, nè nelle sue opere, nè negli uomini, perchè solo la vera fède lo può salvare; che Cristo soltanto ha le chiavi del Cielo e dell’Abisso ed è sola àncora del dolore e sola via alla beatitudine celeste; che la salvezza dell’uomo è dono assoluto della grazia di Dio e che quindi si danna chi crede che sia in suo arbitrio l’essere salvato.
Il ripetersi incessante nel Canzoniere di questi e di altri dommi propri della Riforma, ci persuade che non è giusto soverchiamente adontarci se alcuni degli atti esterni del poeta paiono gettare il dubbio sul suo sentimento religioso o sulla sua fede protestante. Giacché, più che ai racconti dei biografi, noi dobbiamo aver l’occhio a questo intimo e fedele specchio dei suoi pensieri, seguendo a passo a passo il quale, vediamo la fede sua liberarsi dalle sottigliezze teologiche, diventare più profondamente sentita e vissuta, e risplendere alla fine come l’ideale della vita.
6. IL VALORE LETTERARIO DEL CANZONIERE.
Nel giudicare di ogni opera letteraria suolsi far calcolo di parecchie circostanze, e soprattutto delle condizioni letterarie e civili del secolo e dell’ambiente in cui l’opera sorse, dell’età e delle vicissitudini speciali di chi la compose.
Pertanto, trattando del nostro Canzoniere, non dobbiamo dimenticare ch’esso sorse in un secolo ed in un ambiente cosi saturo di poesia petrarcheggiante che anche le meriti de’ migliori poeti, quando si volsero
ad argomenti ben diversi dai vuoti e frivoli temi della poesia mondana, non poterono quasi mai sottrarsi alla vacua sonorità della rima, alla sdolcinata raffinatezza di pensiero e di sentimento, allo splendore dei contrasti e delle immagini ed ai mille artifizi propri della furoreggiante poesia profana del tempo. Ónde non è da fare troppo grave addebito all’autore, se l’eco della poesia profana del suo secolo si è ripercossa fin dentro le pagine sacre del suo Canzoniere. Egli ha cercato di reagire; e quantunque troppo spesso non vi sia riuscito, tuttavia è giustizia riconoscere che qualche volta ha pur saputo assimilarsene la parte migliore, più sana e più conforme a quei sentimenti intimi che voleva esprimere.
L’età avanzata, in cui gran parte del Canzoniere fu scritto e il non aver potuto il poeta dargli l’ultima mano, la lontananza dalla patria ed il disuso della lingua materna, spiegano ed attenuano molte imperfezioni metriche, molte stiracchiature dì pensiero e di forma ed altri simili difetti che si lamentano nelle sue poesie; e danno per contro maggior risalto e valore a quella spigliatezza, a quella vivacità di tinte e di colori Che in esso tanto più si ammirano quanto più sono rare in opere mature o senili. Ma il miracolo in lui fu facile e naturale, perchè egli sentiva nascere nella mente e nel cuore una nuova vita spirituale quando appunto quella fisica si affievoliva; e trovate, dopo un lungo dissidio, la fede e la pace, esultava, giovane e pieno d’entusiasmo, alle nuove dolcezze e bellezze divine ed eterne.
Per procedere con ordine nell’analisi letteraria del Canzoniere, crediamo bene dividerlo in tre gruppi, i quali, coine non hanno un medesimo valore sostanziale, così neppure non hanno sempre lo stesso carattere estrinseco e formale.
Studieremo pertanto successivamente.
i° le poesie profane;
2® le poesie mistico-dommatiche;
3° le poesie lirico-religiose.
<GoMi«r.«a) Arturo Pascal.
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INTERMEZZO
VISIONE D’ARTE CRISTIANA
NELLA MARSICA ABBATTUTA
Dies trae, dies illa!
(Tommaso da Gelano).;
.......crudelis ubique
lucias, ubique pavor, et plurima mortis imago.
(Virgilio, Aeri. II).
ppena si ebbe un’idea precisa della gravità del terremoto che aveva devastato una delle più interessànti regioni dell’Abruzzo, la fiera Marsica, la Redazione della Rivista partì immediatamente e scelse per campo della propria attività S. Benedetto de’ Marsi sulla riva occidentale dell’antico lago di Fucino, dove non erano ancora giunti soccorsi adeguati ed organizzati. Ci accampammo sul vasto prato che si stende fra le rive del Giovenco e le rovine della vecchia cattedrale di S. Sabina ed ivi
costruimmo anche una provvisoria baracca-ospedale per i più gravi feriti. Quanta tristezza davanti agli orrori della distruzione, resi più vivi dai lunghi lamenti delle donne
superstiti erranti sulle rovine delle loro case e dal lezzo penetrante dei cadaveri e delle carogne! In pieno contrasto con questo indicibile sentimento di tristezza, accresciuto dalla constatazione penosa della nostra impotenza e della cattiva volontà degli uomini, la bellezza grandiosa del paesaggio fucense dominato dal gruppo imponente del Velino tutto bianco di neve e la ricchezza straordinaria di un suolo fertile che continuava
a promettere la pienezza della vita a quelle oasi-di morte e di puzzo, i lieti paesi distrutti! Mentre gli uomini erano ancor come istupiditi di fronte all’immensità della catastrofe, la natura, dopo un’ora di convulsione terribile, riprendeva il suo cammino, senza preoccupazioni e senza rivolgere il capo all’indietro.
Mai, credo, abbiamo così profondamente meditato su i più gravi e più tormentosi problemi della vita individuale e sociale, come in quei pochi giorni così pieni di un lavoro febbrile e snervante. Le domande più inquietanti si affacciavano ¡’una dopo l'altra incessantemente allo spirito per turbarci profondamente. Ma le considerazioni
•) Le illustrazioni sono riprodotte dal volume di Emilio Agostinoni, Il Fùcino, edito nel 1908 dell’istituto Italiano d’arti grafiche di Bergamo. Il volume ricco di 155 belle illustrazioni è in vendita al prezzo di L. .4. Rivolgersi alla Libreria Editrice Biìychnis.
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più malinconiche e più pessimistiche, noi le trovammo anche le più leggiere e le più superficiali. Sarà stato forse il frutto di un anno di guerra spaventosa? L’orrore e l’inquietudine per la sorte così instabile dell’individuo e dei suoi beni alla mercè delle forze oscure della natura o della violenza dei più forti, che sono le prime impressioni dinanzi alla scomparsa violenta di tante migliaia d’uomini, sembravano risolversi in noi in un ottimismo sicuro per la fiducia che penetrava nell’anima, che nella vita la crisi degli individui è un fenomeno passeggero, che la vita finisce col trionfare sulla morte e che i vincoli sociali sono più tenaci delle nostre effimere comparse individuali. La visione serena del portale superstite della antica chiesa cristiana che troneggiava su una così grande rovina di pietre e di uomini credo che abbia aiutato alcuni di noi a trovare un’espressione a questo nuovo sentimento di fiducia. Ed ecco perchè finimmo, ogni volta che passavamo frettolosamente con i nostri feriti, col gettare uno sguardo al vecchio portale come ad un lieto amico che ci rincorasse, come ad un superstite eloquente della distrutta Marsica occidentale, come ad un simbolo della continuità della vita d’un popolo attraverso la distruzione e la morte.
Frattanto eran giunte numerose altre squadre di soccorso e potemmo così affidare a mani sicure la continuazione del nostro modesto lavoro. Malgrado la stanchezza del corpo e il turbamento dell’animo, attraversando nel ritorno gran parte della regione distrutta finimmo col preoccuparci oltre che alla sorte degli uomini della Marsica, come ad una sola cosa indissolubile, anche a quella dei monumenti caratteristici in cui continuava la storia più volte millenaria dell’aspra Marsica e che avevano formato più d’una volta la gioia degli occhi per alcuni di noi, che avevano visitato l'interessante regione, come studiosi e come sportmen, nei « giorni della sua letizia ».
Purtroppo, le condizioni atmosferiche e Tesser sprovvisti di una buona macchina fotografica non ci permisero di portar via con noi la triste visione delle tappe del modesto pellegrinaggio artistico. I monumenti religiosi, s’intende, eran quelli della cui sorte maggiormente eravamo preoccupati.
Fin dal viaggio d’andata, giunti sulla cima del colle che nasconde Pescina dalla stazione omonima, noi avemmo immediato il primo grande spettacolo della distruzione di una città. I ruderi del vecchio castello, che sembravano vigilare la città che si stendeva ai suoi piedi sul fianco di una collina giù giù fino alla valle del Giovenco, rovinando erano precipitati su di una parte delle case del paese e le avevano rase al suolo.
La città del Mazzarino, che era cresciuta a spese dell'antica S. Sabina di Marnivi©, l'odierna S. Benedetto, e che aveva accolto nelle sue mura il vescovo e il capitolo della città devastata, finendo così di diventare il centro della vasta diocesi Marsi-cana sotto Gregorio XIII, tanto che il suo vescovo porta ancora il titolo superbo di episcopus marsicanus, non possedeva importanti monumenti. Un tempo paese di pescatori ed avanzata rocca forte verso la gola impetuosa del Giovenco e Forca Caruso, conservava, vivo documento delle sue vicende medievali, la desolata ed ardita rocca pentagonale a forma d’imbuto; le sue chiese più importanti erano invece di origine relativamente recente: così la chiesa di S. Francesco, della quale unico superstite è il grazioso portale trecentesco con le due fasce esteriori deU’archivolta riccamente lavorate. La cattedrale, S. Maria delle Grazie, scialba costruzione del tardo Rinasci-
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mento (1596), costruita con materiale tolto a Marruvium, è gravemente lesionata: però non aveva nulla di veramente importante.
Con rapido passo attraverso una pianura straordinariamente ricca e solcata dal Giovenco, giungemmo, dopo poco più di cinque chilometri ad ovest di Pescina, alle spalle di S. Benedetto, che doveva il suo rapido sviluppo economico al prosciu gamento del lago.
Una delle tante Madonnine che s’incontrano così di frequente lungo gli estremi limiti della conca fucense, indica ancora il punto in cui giungeva normalmente il livello dell’antico lago.
Niente ora fa più supporre l'importanza storica di S. Benedetto; eppure, le sue casette di agricoltori erano sorte sulle rovine di un gran centro romano, Marruvium. Il terremoto ha rispettato in parte, non lungi da S. Sabina, sulla parte alta del paese, le tracce di grosse mura che s'allineano qua e là e che gli archeologi dicono avanzi di un vasto anfiteatro e di un piccolo Campidoglio provinciale. Le acque insidiose del lago e la violenza dei signori medievali della Marsica furono i più grandi nemici della graziosa città romana, che per la sua posizione poteva considerarsi come una specie di Posillipo fucense. La decrescenza delle acque del 1752 potè dare per un momento l’illusione di trovarsi dinanzi ad una seconda Ercolano, coi mettere in luce iscrizioni importanti e belle statue del periodo imperiale, che vennero portate a Gaeta. Noi ci auguriamo che gli scavi già incominciati da privati intorno all’antica basilica cristiana e poi proibiti per ordine del Ministero vengano al più presto ripresi per opera t del governo e con più larghi criteri, approfittando delle favorevoli circostanze che permettono di compiere gli scavi senza le snervanti preoccupazioni di possibili danni o del pagamento di costose espropriazioni.
Ma, come dicevo, il terremoto che ha visitato così di frequente nel passato — così remoto come prossimo — la montagnosa regione abruzzese, distruggendo più di una volta e città e monumenti, sembra essersi accanito invano questa volta contro il robusto portale di S. Sabina. La larga facciata in pietra è caduta per intiero, ed ugualmente sono crollati i muri laterali e una cupoletta esagonale, vera stonatura architettonica dovuta a rifacimenti. Sicché il danno dal punto di vista artistico non è irreparàbile, e così « l’unico orgoglio della città vinta dall’acqua e dal fuoco, l'unicp elemento di contrasto fra le forme antiche e le forme » — come dice egregiamente l'Agostinoni — il magnifico portale (1), assisterà alla terza vita dell’antica città romana, liberato, speriamo, dalla strana costruzione barocca che ne ha ristretto la luce della porta.
S) Per intelligenza della incisione qui annessa (vedi tav. I) riportiamo la descrizione el portale fa l’Agostinoni : « Il portale è stupèndo : intorno al Fucino non se ne scopre un altro cosi ricco. L’arco a tutto sesto è ornato da sei ordini di fregi diversi e i fianchi recano corrispondenti tre colonne per parte, anch’esse adorne di varie forme. Il fregio più intemo dell’archivolta mostra dei rosoncini alternati; il secondo delle semplici foglie con fiori ripetuti; il terzo una cornice a spinapesce; il quarto una cornice semplice, il penultimo una serie di ornaménti vari : pésci, conchiglie, uccelli, quadrupedi, foglie, rosoncini, facce umane, ecc., e l’ultimo un fregio di fiori stilizzato. I capitelli, in tre pezzi per lato, corrono su tutte le colonne e i pilastrini, alternando le foglie di palma a quelle d’acanto. L’architrave è pure foggiato di tre pezzi. Quello centrale più lungo.
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Della piccola chiesa medievale di S Francesco, situata dentro il paese, non ci è stato possibile esaminare lo stato in cui era stata ridotta dal terremoto per il cumulo delle macerie circostanti.
Un altro centro importante per le reliquie d’arte e per la storia di quella parte della regione marsicana che dà sulla conca del Fucino, si trova lungo la linea dei paesi che si stendono ai piedi del Velino, al nord-ovest dell’antico lago; ivi Albe, Magliano dei Marsi e Rosciolo.
Lungo la strada da Pescina a questo interessante nucleo d'arte marsicana, s’incontra Celano, a nord dell'antico lago.
L’ampio castello quadrangolare, sorto per volontà di Lionello Accrozzamora nel ’400 accanto alle rovine di quello più antico dei terribili conti di Celano e in cui sembrava sintetizzarsi l’ardita fisonomía di Celano a chi saliva su dalla conca túcense, è ridotto ad un enorme e mostruoso scheletro, solcato da squarci spaventosi lungo le torri laterali e spogliato de' suoi merli, delle sue bianche logge coperte, del vasto porticato interno a doppio ordine di arcate. Nell'interno è ridotto ad un'immensa macerie. Celano, malgrado il suo rinnovamento edilizio interno, conservava ancora pelle facciate delle sue numerose chiese e per l’ampio giro di mura, sotto l’egida del castello quattrocentesco, un aspetto medievale, che ne faceva comprendere subito la sua medievale funzione di rocca forte e di facile dominio della vasta regione littorale del lago di Fucino;
Avevano un interesse artistico alcune vecchie chiese che conservavano dell’antica costruzione medievale — si noti però che i limiti dell’arte medievale vanno di molto prolungati per l’Abruzzo, chiuso com’era nelle sue montagne in un conservatorismo artistico assai caratteristico e dove il Rinascimento fece sentire largamente la sua influenza rinnovatrice un secolo circa più tardi — o la facciata o qualche altra traccia importante, fuse nelle costruzioni posteriori.
Quasi certamente molti di questi rinnovamenti dovettero la loro origine al bisogno di riparare le rovine prodotte dai frequenti terremoti, che sembrano come l’eredità della regione; in genere i muri delle facciate o i muri perimetrali, di costruzione più massiccia, resistevano di più., almeno nella parte inferiore e centrale, come s’è verificato di nuovo anche nella cattedrale di Celano in S. Giovanni Battista. In esso la parte interna è la più danneggiata; la facciata col suo caratteristico portale e con una bella finestra circolare resta su in gran parte. La chiesa era stata, dopo il terremoto del 1706. ricostruita e decorata secondo lo scialbo stile del tempo. Il terremoto attuale però, sembra aver fatto giustizia, almeno in parte, della profanazione settecentesca, mettendo in evidenza — come ha potuto constatare il próf. Muñoz di Roma, che visitò
porta scolpita una serie di grifi abbinati con le ali toccanti e le code incrociate ; quello a sinistra mostra un leone rampante e quello a destra dei gigli stilizzati. Le spalle della porta, terminanti in alto con due belle teste che fanno da mensolette per l’architrave, sono riccamente adorne di fregi a spirale con foglie, diversi l’uno dall’altro. Le due colonnine esterne poggiano sul dorso di due leoncini deturpati. Il tutto, in marmo bianco, resta inquadrato in una specie di cornice seguente la linea delle ultime colonne». (Il Fucino, pag. 78). Però non posso esser d’accordo con l’autore, nè quanto all’origine frammentaria dell’opera «costruita [principalmente) con pezzi rinvenuti nei monumenti romani », nè quanto alla sua età, per delle ragioni che sarebbe troppo lungo esporre qui.
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per conto del Ministero della P. I. i monumenti della zona devastata — sotto gli Stucchi caduti dalle volte i costoni delle crociere gotiche ed affreschi del sec. xiv, reliquie dell’antica cattedrale. Una fra le porte di chiese caratteristiche dell’arte abruzzese — se ne trovano delle simili a Trasacco (S. Cesidio), ad Avezzano (S. Nicola) e a Rosetelo (porta a destra di S. Maria delle Grazie) — forse del ’200 avanzato e di tipo intieramente differente dà quelle romaniche di S. Benedetto e della cattedrale di Celano, è quella della chiesa del Carmine: ha colonne scanalate e fiorite, con capitelli ricchi di fogliami all’esterno, ed una larga fascia scolpita con viticci intrecciati ad animali.
Oggi, o meglio, fino ad oggi, in quest’ultimo cinquantennio Avezzano aveva preso, il primato della regione, un primato tutto industriale ed agricolo, fatto di grasso benessere materiale: a Celano invece non restavano più che i ricordi che custodiva nelle sue mura e quei che destava nel frettoloso torniste (1) che doveva allontanarsi da quella che è la moderna via Valeria, la linea ferroviaria, per salire sul colle dove sta Celano, per ammirare il panorama magnifico della vasta conca solcata fino all’orizzonte da file di pioppi e per farsi una pallida idea di quello che fu il lago che ebbe il nome da Celano.
La sorte* toccata ad Alba Fucensis, la gloriosa colonia romana nel paese degli Equi, è stata ancora più dura, perchè il suo nome risveglia un’eco solo nella memoria degli eruditi. Usciti da Cappelle e lasciata la strada provinciale che va verso il nord, per un poco comodo sentiero si sale su d’un colle che ha per sfondo il Velino e su cui giacciono ora le case ruinate d’un piccolo villaggio. Albe, che ricorda nel nome ì’Alba de’ romani. La posizione la faceva per natura un'importante posto militare e Strategico che dalle pendici occidentali del Velino digrada dolcemente verso la valle del Salto. Sul villàggio odierno s’era ristretta la vita di Alba, che si estendeva una volta su tre colli. Frequenti avanzi delle caratteristiche mura ricordano ancora la città fortificata dei romani, a cui conduceva direttamente da Roma l'antica Valeria e che i romani stessi scelsero più d’una volta come sicura residenza di prigionieri illustri. Ma più Che quella degli informi ruderi della grandezza romana c’interessava conoscere la sorte che era toccata alla bella monumentale chiesa medievale, di S. Pietro (sec. xm) sull'arce della collina omonima. Sotto l’usbergo degli ornamenti cristiani, costruiti candidamente con materiale.del tempio pagano, per quella forza conservatrice ed assimilatrice insieme che è il sentimento religioso, continua a vivere in S. Pietro d’Albe, nell’ossatura tetragona a tutte le ingiurie del tempo il venerando tempio italico dedicato a Júpiter. Ora S. Pietro è tutto in rovina; dall'abside — elevantesi su di una base a massi poligonali romani e che ricorda in piccolo la base quasi quadrata della tomba di Cecilia Metella sull’Appia — minacciata seriamente, all'entrata e a gran parte dell’interno. Quale sorte sarà toccata alla celebre e consunta porta di sambuco lavorata tutta a fregi floreali. Che nei quadrati si sposavano arditamente con bizzarre figure d’animali simbolici e che nell’insieme appariva più leggera e più leggiadra dell’altra celebre porta di legno scolpito in S. Sabina di Roma? Dei due gioielli d’arte medievale che custodiva nel suo interno, è restato in piedi solo il ricco ambone, ma l’iconostasi con le sue graziose colonnine è rovinata intieramente. Così son cadute o rimosse gran parte delle colonne scanalate romane. Anche qui, come a Celano, il terremoto sembra
(1) Chi non ricorda il Dies trae attribuito a Tommaso da Celano?
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essersi preso giuoco delie nostre preferenze estetiche, lasciando il pesante altare barocco in fondo alla chiesa in piedi ed isolato a custodire tanta ruina!
Tanto l'ambone che l’iconostasi erano un grazioso lavoro della scuola romana dei cosmati, compiuto per’munificenza di un « abas Oderisius ».
Le pitture che dovevano decorare le pareti del piccolo tempio benedettino, armonizzando con gli ori e con la policromia dei marmi dell’ambone e dell’iconostasi, erano già scomparse sotto la calce livellatrice dei secoli posteriori.
Ad Albe propriamente detta c’era un’altra chiesa interessante, S. Nicola, la chiesa parrocchiale, che conservava del suo antico aspetto un piccolo portale ed un grosso e bel rosone nella facciata. Nel suo interno insignificante conservava però una piccola raccolta d’arte sacra abruzzese; di questo tesoro facevan parte un meraviglioso trittico di legno laminato, una staureca bizantina, una caratteristica cassa di legno scolpita dell’età angioina e delle croci. Leggo sui giornali che la staureca bizantina è stata ritrovata; per gli altri oggetti non ancora rintracciati sembra che sia sorto il sospetto di un abile furto, sicché il Ministero della P. I. avrebbe inviato delle circolari in proposito alle questure del Regno.
Ritornati sulla via provinciale, ci si avvia verso Magliano de’ Mar si, che le prime notizie incerte davano come colpito meno duramente degli altri paesi della regione fucense. Anche lì la piccola cattedrale — cioè la sua facciata, bella malgrado gli accomodamenti e i deturpamenti posteriori — appariva gravemente lesionata e ruinata nell’angolo sinistro. La fisonomía generale rèsta, ma purtroppo la caduta delle case che la circondavano e il precipitare di tutto il corpo della chiesa le danno ora un’aria così nuova e così triste, che i suoi vecchi amici stentano a riconoscerla.
Dopo Magliano, ecco l’ultima tappa e la più interessante del nostro pellegrinaggio, Rosciolo e la chiesa stranamente suggestiva di S. Maria in Val Porclaneta!
M’attendevo la più sgradita delle sorprese, tanto più che il paese, sinistramente oscuro e tetro, era già in non troppe liete condizioni edilizie anche prima del terremoto. Invece la relativa distanza dall’alveo fucense ha attenuato la violenza del fenomeno sismico. Così S. Maria delle Grazie di Rosciolo poteva presentare la sua vecchia facciata così asimmetrica — io veramente non ho saputo spiegarmi mai quel mistero architettonico altrimenti che come un mancato sviluppo di chi sa qual piano dell'edificio e della facciata a sinistra del grande portale ogivale (1446) — non sorverchiamente sfigurata. La porta a destra ha il caratteristico fregio abbruzzese che abbiamo già visto a Celano nella chiesa del Carmine, e che risale al duecento.
S. Maria in Val Porclaneta — su di una collina a circa tre chilometri più in su di Rosciolo — è come S. Pietro in Albe un ricordo della potenza benedettina in questa regione. Del monastero, che fu per molto tempo alle dipendenze di Monte Cassino, non si scorgono ora che pochi sassi (1).
(1) Il pensiero corse subito alla sorte di un altro grande monastero benedettino abruzzese, che ha rivaleggiato per importanza nella regione con quello di Farla, all’abbazia di San Clemente di Casauria, lungo le rive della Pescara, fondata da Ludovico II nell’871. Però, come leggo sui giornali, i danni che ha subito San Clemente di Casauria non sembrano rilevanti.
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S. BENEDETTO - Portale della chiesa di S. Sabina.
(1915-11)
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CELANO - Pórla della chiesa del Carmine.
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ALBA FUCENSE - Intèrno della chiesa di S. Pietro.
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MAGLIANO DE'M ARSI - Catiedrale.
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ROSCIOLO — Absidedella chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta.
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ROSCIOLO - Ambone della chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta.
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visione d’arte cristiana nella marsica abbattuta
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La chiesetta invece, benché seriamente minacciata, conserva ancor oggi le caratteristiche della sua costruzione primitiva. È una vera oasi d'arte, in cui è facile scorgere il trapasso, o l’innesto, se si vuole, deli-arte bizantina alla romanica, all’ogivale. Dalla visione dei rozzi e pesanti rilievi che salgono lungo le linee dell’ambone e che adornano l’iconostasi e il tabernacolo sotto la medievale volta oscura (i), passando' davanti alla grazia quattrocentesca della Madonna adorata dagli angeli nella lunetta dèi portale, che sembra sorridere alla luce davanti al magnifico spettacolo del Velino, c’è un contrasto che è sentito fortemente dal visitatore. Nell’interno come dicevo, i tre monumenti caratteristici, l’ambone, l’iconostasi e il tabernacolo sono restati su per giù nello stato in cui si trovavano prima del terremoto. Entrando, scesi alcuni gradini, si prova subito l’impressione, osserva con efficacia l'Agostinoni, d’essere in un fantastico sepolcreto delle còse, schiuso per noi soltanto; la primitiva semplicità di mezzi e la ricchezza ingenua d'immagini sono conservate in tutta la loro purezza.
Dare un'immagine viva, senza perdersi in un lungo elenco di dettagli tecnici, di questi tre rappresentanti dell'arte abruzzese del séc. xn nell'interno ancora così ben intonato di S. Maria in Vài Porclaneta mi sembra impresa ardua. Sarei lieto però se la visione incompleta che ne dà l’incisione qui unita spingesse alcuni de’ lettori a compiere anch’essi un pellegrinaggio d’arte a questa reliquia della nostra arte religiosa medievale. Anche l’esterno dèlia snella abside pentagonale di stile lombardo e rimontante al ’400 con i suoi tre ordini di colonnine sovrappóste, sorrette ciascuna da leoni e sormontate da cornici, di cui l'ultima è ad archetti tondi ed acuti alternati a gruppi di due, non ha subito altri danni che lunghe fenditure longitudinali.
Ridiscendendo a sera verso la Valle del Saltò, prendemmo definitivamente là via del ritorno, rinunciando a visitare quel gran cimitelo che è divenuto Avezzano. Ivi le perdite dal punto di vista dell’arte abruzzese non mi sembra possono essere state rilevanti; Avezzano era una troppo recente città di provincia, e la s.ua importanza era dovuta al rinnovamento agricolo della regione dopo il prosciugamento del Fucino. Ignoro però se ad Avezzano vi fossero delle raccolte private o pubbliche d'arte e di memorie della regione marsicana. Del resto, oltre il massiccio castello dei Torlonia e che fu già degli Orsini e dei Colonna, restato deturpato, come osservo su di una fotografia che ho dinnanzi agli occhi, Avezzano non possedeva d’interessante per lo studio dell'arte medievale che qualche vecchio portale di chiesa, di cui però è difficile conoscere la sorte, data la vastità delle rovine.
La larga striscia di fuochi dei bivacchi disseminati lungo la direzione di quella che fu Avezzano fu l’ultima visione che chiuse per noi il ciclo delle forti impressioni provate in quei tristi giorni. Stavamo per entrare di nuovo nei confini della vita che pulsa normalmente, lasciando dietro di noi nella Marsica abbattuta la violenza dei ritmi della vita sociale che sembravano continuare le scosse materiali del fenomeno sismico.
In treno, in un lurido scompartimento di terza classe, riprendenodo il nostro umile compito di infermieri fummo ben presto richiamati alla considerazione dei più
(1) Ora pur troppo sconciamente illuminata da una larga apertura, come se vi fosse caduto su un obice!
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umili ed insieme dei più intimi dolori umani, di quelle sofferenze individuali incalcolabilmente più irreparabili, nella breve vita di un individuo o nella fragile compagine di una famiglia, delle rovine dei monumenti marsicani, in cui l’ambizione o la fede di un uomo o di una generazione hanno creduto eternarsi. Dovevamo dunque arrossire delle nostre ultime impressioni, come degli esteti vagabondi ? Eppure, sentivamo confusamente che una profonda solidarietà legava quegli uomini doloranti ai loro monumenti cadenti e che la nostra compassione per essere pienamente umana doveva allargare il suo campo oltre la misura egoistica e passeggera del dolore cosciente dei singoli individui. La « nostra » terra e tutto ciò che di nobile e di disinteressato l'uomo v’ ha fatto sorgere, partecipa della nostra vita, la continua in un certo senso e gioisce e soffre con noi. Ecco così sorgere di nuovo nei nostri animi il conflitto fra il valore dell’individuo e l’importanza perenne della collettività, che sa spingersi oltre la sorte degli individui, sollevandosi e riaffermandosi malgrado le sconfitte e le perdite. Non sono nè la terra materiale, il suolo, nè gli individui che hanno il secreto della risurrezione o, meglio, dell’immortalità d'un popolo o d’una razza. Rovina di uomini e rovine di monumenti: non piangono solo gli esteti e gli umanitari! Gli individui scompaiono, ma il loro passaggio non è stato vano sul suolo che hanno amato, come quello duna schiera di uccelli che trascorra veloce per il cièlo; possono sembrar inutili per il presente e venir anche soppressi, però costituiscono il detrito del passato per fecondare il futuro, ciò che forma la materia e la coscienza di un popolo. Il nostro pensiero correva al Belgio e alla cattedrale di Reims: alla rovina simultanea di uomini e di monumenti, alla scena violenta di un altro terremoto che s'abbatteva su di una vecchia compagine sociale intessuta di avvenimenti, di ricordi, di monumenti, di benessere e di affetti. Risorgerà il Belgio, ricacciata la violenza dei nuovi lanzichenecchi? Risorgerà la Marsica?
Roma, gennaio 19x5.
Mario Rossi.
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LA GUERRA
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Alla.memoria ili mio fratello Massimo.
SOMMARIO: Le due morti — L’ardore guerresco e il disiacelo della malattia— Le due coscienze, quella della dedizione guerresca, quella della consunzione fisica — Purezza dell’anima guerresca — La parola di Gesù nel passo di Matteo: la Spada — L’impeto cristiano — Gesù dà tutto, ma chiede tutto — La parola di Gesù nel passo di Luca: il Fuoco — Il sacrificio della famiglia sulle fiamme della guerra — La vita come espiazione — C’è un controsenso tra i due passi e il rispetto alla vita umana Eradicato da Gesù? — Nel « Sermone sulla Montagna » è la chiave del segreto — a mitezza di Gesù — L’implacabilità della sanzione cristiana — Nella guerra, per la guerra, l’anima è individua — La giustificazione della guerra — Tutti fanno appello alla giustizia cristiana — Delinquenti e combattenti — Esempio tolto dall’inquietudine tedesca — Fondo religioso dell'autoapologia di chi combatte — Pochezza dello stoicismo in confronto alla parola di Gesù — Il malinteso sulla mitezza di Gesù — La concezione dinamica degli Evangeli — Il tribunale di Dio non ferma la guerra delle anime — Gesù inaugura il concetto rivoluzionario dell’essere — I rivoluzionari ripetono e alterano Gesù — La guerra è insopprimibile — La guerra e le guerre — La gioia della guerra eterna.
on debbo essere stato solo, da quando siamo entrati nell’epoca dei conflitti armati, e cioè da oltre un triennio, ma più durante il presente vastissimo, ad aver pensato che altro è il sentimento nostro innanzi alla guerra, altro quello dinanzi alla morte. La morte medesima ci appare del tutto un’altra cosa quando è l’ultimo momento di una battaglia data o almeno accettata, da quando è l’esalare estremo di un'esistenza che la malattia condusse innanzi per settimane e mesi. In una malattia il pensiero
della guarigione predomina in principio, resiste in seguito, protesta ancora più in là, e l'ammalato è difficile abbia distinto il pensiero della morte anche durante un periodo breve. La medesima debolezza crescente dell'ammalato dispone a motivi di transazione, di timore, a mezze idee, ad esitazioni. L’ammalato non può avere il coraggio che il tradizionale sacerdote esige da lui, e quello che per solito à — gli uomini sono molto meno vili di quanto si creda —, se ne va in gran parte nella preoccupazione fisiologica del male. La febbre non dà forza all’anima, se l'anima non era preparata ad accogliere una tal forza; il che equivale a dire essere molto logico, essere inevitabile che uno spirito mediocre durante il processo d’una malattia incorra in timori, in sgomenti e nella paura, vera e propria, di morire.
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IL In guerra si porta un ardore che spiega l’iniziale assenza o quasi dell'idea della morte. Niente sembra meno eventuale della morte per chi va in guerra animato dallo spirito guerresco. La morte tutt'al più appare come un incidente. L’ammalato è atterrito dalla parola di morte; e tutti fanno a gara attorno al suo letto ad allontanare l’immagine della morte. La visione della morte sul campo di battaglia non à potere che quando l’ardore bellico è consumato. Sino a che c’è la guerra, l’idea della morte, l’esperienza, il contatto della morte sono esaltativi. Se confrontiamo i due stati d'animo, quello guerresco e quello dell'ammalato, possiamo trarre la considerazione che, padrone di tutte le sue vive forze ed attitudini libere, l’uomo corre con impeto ed ingenuità alla morte; mentre legato ad un letto, scemato d'energie e di libertà, diminuito cioè di vita e quindi già vicino ad essere preda della morte totale, l’uomo si rifiuta a diventarlo, l’anima sua si ribella, il suo cuore nell’estremo battito, il suo respiro nel soffio che resta, si raccolgono, a fare il gesto della negazione, spesso così ostile ed atroce nello sguardo dell’agonizzante.
III. Le due strade sono spiritualmente assai diverse e lontane l'una dall’altra. Certo contribuiscono assai a suscitare l’eccesso d’energia in cui nessun calcolo si fa dell'eventuale fine, o il manco d’energia, in cui da un certo momento in là altro non fa l’ammalato che tormentare la vita che gli rimane con l’usura delle sue esigenze sottili, minute, irrequiete, insaziabili; vi contribuiscono gli stati fisici della salute e della malattia.
La malattia è un processo in cui la coscienza umana corre il rischio di diventare tutta fisica. Nella maggioranza dei casi, l’ammalato perde generosità) perchè la generosità è coraggio e il coraggio è tranquillità, il che equivale a dire padronanza di sè. Al contrario è chiaro che lo stato d’animo guerresco implica il sacrificio della vita come elemento essenziale. Chi combatte dà sopratutto la propria vita. La guerra è altamente spirituale, ma niente affatto ideologica. Lo spirito guerresco non si delega e non si sostituisce. Ogni combattente à tutto il proprio mondo in sè stesso, ond’è che niente assorbe e concentra e compie la personalità quanto lo stato d’animo guerresco.
E così possiamo dire che in tale stato d'animo la coscienza tende a diventare e diventa di fatto esclusivamente spirituale. Non si esercita che nella violenza, è tutta presente in ogni attimo, di per sè stéssa cresce e cioè per autonome ed interiori ragioni in vigor d’entusiasmo fino a che l’atto violento e rettilineo s’unifica nell'anima senza pause contemplative e nel volere.
IV. La purezza non può non essere insita nell’anima vampante della guerra. Il peso della vita complica il senso della vita e l’io si obnubila e resta offeso dallo stillicidio lungo d’un processo di malattia. L’anima della guerra può essere pura — zvp, fuoco —; l’anima della dedizione e della remissività, no. Ciò basta a farci pensare ad un ascetismo, forza d'emancipazione individua, purificazione dell'essere, e ad un altro ascetismo in cui la passività inerte vorrebbe valere quanto lo spirito battagliero. C'è un ascetismo che è valore dello spirito, un altro che è stanchezza o debolezza naturale dell’essere e quasi per Io piò della carne.
Non so dove questi principi siano più sicuri che negli Evangeli. Vedi il X 34-38 di Matteo:
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vou&hìtc otc $X$ov paXetv ecp^v/jv ¿zi ttjv yijv oùz fXSov (fccXecv scp^vvjv àXXà (Àa^acpav. fiXSov yap Scyàaac avSpwzov zarà tou zarpò« aùrou zac Suyarépa zara tìJc pt»Tpòi aùrffc, zac è^poi tou àvSpózou ot oivcazoi aùroO. '0 <pcX<ov zarspa 7) pjrépa ùzèp éy.è oùz s*ttcv (zov a£co;' zac ó «pcXoSv ucòv 'o ^uyarépa ózsp ¿tu ouz sorcv izou a£co;- zac 8; où Xap^avsc tòv oraupòv aù?où zac àzoXouSsc òzccw [aou, oùz sotcv jaou a£co$.
Si può salvare l’essenza di questa dichiarazione di programma dai dubbi, dalle glosse, non forzandone il senso generale e quello dei particolari. Dice Gesù: — N^-suno vi dà il diritto, e cioè da quel che ò detto e fatto sinora, di presumere che io sia venuto in terra per pacificare. Se le contradizioni si pacificano, anche quella che à ragione la perde. Sicché è un errore quello di coloro i quali presumono Gesù transigente e perdonante per partito preso. «Io sono venuto a portare la spada », vuol dire: Io sono il soldato combattente di una causa alla quale sento di dover dare non soltanto ogni mio ardore, ma la vita. E Gesù à dato tutta la sua vita per la causa. Qui non si può dire che Paolo superi, ove che sia negli « Atti », Gesù. Il senso paoli-niano della vita è esattamente il senso cristiano evangelico. Per Gesù la vita, la carne, questo nostro corpo non è che il mezzo d’un esercizio d’eroismo sacrificale. Chi cerca la pace in un'acquiescenza, e si fa mite per evitare una prova fiera, e transige per non subire la materialità d’una violenza — che spiritualmente subisce transigendo — rinuncia all’ideale di Gesù. Questo ideale è tanto più vasto e lontano nel suo orizzonte di quelli della gente che ama il quieto vivere, che nei passi citati da Matteo è fatta necessità ad ogni nato di donna e figlio di Dio e seguace di Gesù ad essere superiore alle ragioni degli affetti domestici.
Se non trionfa dei legami di famiglia, delle tenerezze e degli ardori passionali che quasi unificano due e più esseri, la milizia di Gesù non si afferma e fallisce. Sicché non basta dare sé stesso come fa ogni soldato che parta per la guerra— perchè dinanzi al nemico nella battaglia ciascuno cede la ragione del sè stesso fisico —, ma tutto quello che per le norme naturali della vita medesima era stato argomento di moti del cuore volti ad una qualsiasi maniera di dedizione. Gesù dà tutto, ma esige tutto.
V. Luca ci dà lo spirito guerresco di Gesù con qualche rilievo di forte delucidazione. Sono i versiceli 49-53 del capò XII:
IlGp flXSov paXelv ¿zi ttjv y^v, zai tc SsXù) si àv^S'/j; pàzrcqia Sè pazrco^vac, zac z<5$ ovvé^o^i °TOU ^zsc-rs otc scpóvvìv zapsyevó^nv SoGvac
sv y?5 ; ot»//, Xéyw tytfv, àXX’Ì Scapcspcopóv. dovrai yàp azò toù vuv zsvts ¿v svi oczw Sialv.sp:sp'.<Fjzsvot> Tpsc? ¿zi Suoiv zac Suo ¿zi vpcoiv Sca^pcc^GOvvac, zaTTjp ¿zi ucw zac ucò; szi zaxpi, ^Tflp ¿zi SuyaTSpa zac Suyéwjp ¿zi T7>v p)T£pa, zevSspà ¿zi rfcv vufxo/.v aùrvfc zai vópqwj ¿zi t’/jv zsvSspàv.
Qui, in cambio della spada, il fuoco. Io ò sempre insistito sulla culminante importanza di questo brano. Gesù si manifesta in pienezza. Egli è venuto a portare il fuoco; ma riconosce Che «già è acceso», t.St) òv^Stl La Vulgata s’è permessa un ardimento d’interpretazione che riduce la portata storica di questo passaggio. Dico che Gesù non avrebbe detto nulla esprimendosi: « et quid volo nisi ut accendatur? »; mentre ci fa documento dell’ora magnifica in cui egli porta la parola definitiva, escla-
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mando con fiammante ingenuità: « e che voglio io di più di quel che già si fa» di più di quel che già accade, se il fuoco già è acceso »•.
Insomma Gesù porta fuoco al fuoco, soffia nella poca fiamma perchè divampi, vuole l’incendio delle anime. La parola che egli arreca è guerra, è discordia. Bisogna che tutte le orecchie la intendano, che penetri nella famiglia, che turbi l’asilo medesimo della società, acciocché se accadesse che l’uno dei componenti consentisse alla nuova parola e gli altri no, il padre, o la madre o i fratelli o le sorelle o i figlioli, egli dovrebbe mettersi contro così vicini consanguinei. Nessun ordine tradizionale, nessuna eredità di carne, di cuore, d’abitudine, di devozione, di rispetto, debbono fare argine ed essere un ostacolo. Questa fiamma di Gesù incendia i tronchi medesimi della società. Guerra dev’essere e vittoria conquistata. Niente transazione, niente conciliazione. Chi non sa portare alta la fiaccola e la spada, non può essere seguace di Gesù.
VI. Spada, separazione, fuoco, rottura dei pacifici rapporti domestici. Ciò basta per plasmare dinanzi alla mente di quanti pensano e parlano di un Gesù che solo perdona e solo si rassegna ed insegna le rassegnazioni e rimette i peccati e predica l’incruenza ed è alieno da ogni violenza, la figura dell'inauguratore delle lotte spirituali, del Nemico d’ogni patto figlio di debolezza, dèi Propagatore di fedi impetuose, dell’Uomo la cui parola vale in quanto subitaneamente si fa atto e cioè carne. Nè si comprende come siasi formata una visione di Gesù passivo e transigente. Appunto perchè sopravvaluta le intenzióni e trasforma tutta la materia della vita in eticareligiosa, Gesù non perdona e non prega perdono. Per lui la vita fisica à destino di realizzare le espiazioni. Chi avrà brandito la spada, perirà di spada. Havrs? yàp o: Xapóvre« !/-aXa‘P’Ìì (Matteo, XXVI, 52).
Ma quésto passo si riferisce al gesto d’iniziativa privata, alla vendetta, alla collera armata èd omicida: Non si deve uccidere. È vero: questo è concetto predominante in Gesù. Ma di fronte a chi uccide o soltanto fa violenza, Gesù è implacabilmente cruento ed esecutivo. Il « Sermone sulla montagna » in Matteo V, VI e VII, è la difesa armata di quanti patiscono violenza e sono in qualsiasi modo vittime di altri e la requisitoria contro quanti esercitano violenza. Il suo grido di guerra Gesù lo alza contro la forza brutale sì della carne che dello spirito, quella che si sfoga a danno dei poveri di spirito, dei miti, dei piangenti, degli assetati di giustizia, dei misericordi, dei mondi nel cuore, dei perseguitati. Nel Sermone noi abbiamo la ragione dell’apostolato e della spada, del fuoco e del soffio separatore di Gesù. Per ottenere lo scopo, per raggiungere la pienezza della difesa, per ristabilire in tutto il diritto della loro dignità le vittime, è necessario che gli apostoli, i seguaci, si armino e non tremino. Gesù non ricorre a mezzi termini, ad espedienti, ad ambagi. Gesù non fa della politica. L’idea di Gesù è della più assoluta intransigenza; è tutta idea di guerra, perchè non si ferma e adagia nelle parole, ma si fa immediatamente azione. Non è nello spirito degli Evangeli l’esitare o il ridurre i mezzi. La giustizia non si rinvia. Gesù abolisce perchè crea.
VII. Ma questa proclamata venuta per non dar quartiere e per crescere fiamme all'incendio, non costituisce un assurdo con l’evidente rispetto alla vita che è nelle parole di Gesù, rispetto alla vita Che culmina nell'affettuosa tutela dei bambini.
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Gesù considera i bambini come i miti e soprattutto come gli esseri sui quali è più facile commettere violenza. Così il grido di guerra che Gesù, nei due Evangeli di Matteo e di Luca, scaglia sul mondo, esce dalla certezza che il male esista, che lo spirito essenziale del male non possa essere distrutto, che lo si debba affrontare con urgenza, violentemente, giorno per giorno, ora per ora, vincendolo in tante battaglie parziali, per le quali ciascuno deve brandire una sua face, una sua spada e tener fede ad una energica perenne azione di separazione e di discordia, senza mai, neppur per la minima transigenza episodica, abbandonarsi alla compassione verso gli autori del male, il che equivarrebbe verso il male medesimo.
Sicché non c'è cristianamente mitezza che nel bene e il mite non è puro se egli medesimo non si arma e non agita la fiamma della guerra contro il male. La guerra che Gesù vuole è quella dell’individuo. L’anima individua bisogna che senta una sua giusta causa di guerra e il bisogno di battersi. Nel mondo, ove il male tende a prevalere, questa giusta causa non può non essere sentita dall’anima individua pura e questo bisogno non può non agitare. A rigore di ragionamento la riprova della bellezza e della giustizia d’una causa che muove alla guerra, non può cristianamente essere che lo spontaneo consenso dell'anima individua. Ecco perchè coloro i quali spingono gli altri alla guerra per una causa così detta comime o collettiva o generale, guerra di forza maggiore, guerra che ir particolare deve accettare, anno bisogno di convincerla in qualche modo all’individuo, e cioè di farne risaltare il valore morale e in conseguenza la ragione individuale che a primo colpo d’occhio non apparirebbe. Cercano insomma gli uomini di persuadere i loro simili che anche quella guerra la quale non paia, è giusta, e cioè morale, e cioè degna della partecipazione spirituale dell’individuo, e cioè cristiana.
Vili. Quale sia la forza del male nel mondo, certo si è che gli uomini cercano sempre la giustificazione della guerra che essi compiono. In breve, gli uomini ànno bisogno di giustificarsi davanti a Gesù. Niente quanto un vasto sistema di guerre, qual’è quello a cui noi italiani assistiamo da oltre quattro mesi e mezzo, rivela la perenne preoccupazione cristiana di tutti. Vedete quanta ansia di ragionamenti per dimostrare d’essere dalla parte della ragione! La ragione è soltanto spirituale, se viene invocata dalla forza armata. Si vuole che il mondo, e cioè la coscienza di tutti, che ciascuno personalizza, perchè la coscienza non attinge il suo più alto culmine se non si consolida nell’individuo, convengano che la guerra che s’è iniziata è stata l’effetto necessario d’una violenza, almeno d’una minaccia d’oppressione. Ciascuno si mette dalla parte dei miti, degli oppressi, dei perseguitati, dei seviziati del « Sermone sulla Montagna », perchè solo essendo tra costoro la coscienza è tranquilla. Non è la guerra che turbi la coscienza; è il dubbio di non aver ragione di far la guerra.
Ora io non credo di male appormi, se affermo che Gesù non mai è stato così vivo e presente ed agente quanto dal giorno in cui il senso dell’Evangelo è parso oscurarsi e il senso delle giustizie umane attutirsi. Gli uomini anche nel male non possono andare di là d’un certo limite. Questo limite non diminuisce la libertà dell'anima individua, ma permette la forma, oltre la quale l’individuazione è impossibile. Una serie di azioni malvagie finisce per cercare un equilibrio col bene nell'invenzióne, magari, d’una giustificazione. L’anima del malvagio non resistè alla necessità del-
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l’imperio da ristabilirsi del raziocinio del bene. Tutti i delinquenti cercano la scusa e sono dissimulatori. Quello che per la tenacia dell’amoralità e dell’assenza del rimorso, vien chiamato cinico, la scienza à bisogno di giustificarlo classificandolo tra i pazzi, tra i mostri, tra i deficienti, tra gli esseri quasi mancanti d’anima. Tut-tociò perchè non è ammissibile che il male vada oltre un certo limite. Da questo punto di vista religione, scienza, diritto, sanzione, giudizio morale non sono che giustificazioni.
IX. Da quanto sono venuto dicendo risalta che gli uomini ricorrono alla valutazione di Gesù per trovare la tranquillità della loro coscienza. Vedete come il ragionamento cristiano li contiene tutti i ragionamenti che possono apparire più contrari e contraddittori. I così detti nazionalisti-imperialisti di Germania sono andati parecchio in là con l’affermazione nietzschiana del loro bellicismo: — noi siamo i soli capaci di vincere e di dominare il mondo; siamo vigorosi, sani, ci siamo preparati al predominio; tocca a noi. — La giustificazione pare fermarsi qui e contentarsi cioè d’essere mutila e inaboulissante. Ma essa continua, tacitamente, richiamando il presupposto sottinteso della necessità, della bellezza, della giustizia morale che il mondo abbia un ordine, il quale segni mediante uno sforzo, indice della nobiltà della visione e della capacità alla dedizione ed al sacrifizio, un'ascensione ancora nello sviluppo dell'umanità.
Quell’affermazione nasconde il principio e l’impegno accettato della guerra contro il male. Solo Chi considera superficialmente, può credere che dai più esagerati sia esulato addirittura il bisogno di avere una cristiana ragione. Anzi i più accesi, e restiamo nel caso preciso della Germania, sono coloro appunto che ànno concepito questa guerra precipitosa, enorme, come il mezzo unico e perfetto per la realizzazione d’un assoluto. La mentalità di costoro è religiosa e il principio intimo cristiano. Quella certezza formulata nel « noi soli abbiamo ragione » si prende tutte le ragioni dello spirito e le fonde e ne fa una. Sono guerreschi perchè sono assolutisti. Non discutono la giustizia della guerra. Credono supremo il momento e non si rifiutano d’un filo alla pienezza della dedizione.
X. Insomma, chi ben osservi e ben mediti, dovrà convenire che s’è formato un malinteso sullo spirito degli Evangeli a riguardo della guerra. Si sente in fondo ad ogni parola di Gesù la certezza della eternità della guerra. La guerra è la manifestazione e più e meglio che la manifestazione, il fatto tragico, perenne della esistenza terrena. Se è un assurdo, è un assurdo anche il dolore, il quale invece è la legge medesima e l’essenza, la norma, la ragione, lo stimolo, forse la causa della vita morale. Nel puro spirito evangelico la guerra esiste anche in stato di latenza. Spada, fuoco, discordia: questo Gesù è venuto a portare in terra, ed egli medesimo darà la prova che l'apostolato dell’assoluto deve grondare sangue e subire il più atroce degli oltraggi, il più terribile degli strazi.
Sino agli Evangeli ogni concezione del mondo umano è statica, checché si voglia presumere ed affermare delle dottrine greche. Gesù dinamizza con la sua inquietudine, di ebraica propagine certo, la coscienza della vita individuale, le imprime un moto di vertigine. Gesù mostra, svela i due principi contradittori tra i quali la coscienza soffre e s’affina. Per lui il dolore non va obbiettivato come neH’«Enchiridion»
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di Epitteto, ehè anzi l’anima deve per sopravalere internarsi, subiettivarsi nel dolore, farlo proprio, fondersi, unificarsi, essere tutta coscienza di dolore. Fuori del dolore per Gesù non vi può essere condizione di nobiltà, di purezza, di carità, e il sottrarsi dello stoico con il gesto chirurgico e anestetizzante dell’obbiettivazione, diventa nel cristianesimo un espediente clinico. Lo scopo non dev’essere il non soffrire sia pure col mezzo dell’ « illuditi di non soffrire e fa diventare abito questa illusione ». Lo scopo è nell’atto in cui si getta l’anima intiera, lo scopo è nella tendenza, nell’attitudine di superamento, nella veglia continua di guerra. A me pare si possa dire che la carità di Gesù pur profondendosi in difesa, in bene, in dono, in aiuto per gli altri, si compie in pura assoluta subbiettività. In altre parole Gesù non perde mai di vista la personalità individuale. L’anima cristiana non può abbandonare il suo posto di combattimento. Non c'è per lei nè pausa estetica, nè riposo mistico, nè sospensione morale. L’immortalità come Gesù la concepisce e la predica e Paolo svolge compiutamente nelle « Epistole > è immortale vigilia, immortale assedio, immortale agone, guerra immortale. E dinanzi al suo tribunale Dio non vedrà che un passaggio d'anime pure con ali di fiamma recanti una face e una spada e gridanti una parola di riscossa eterna di quella eternità.
XI. Or dunque Gesù primo, e oggi io direi anche ultimo, cioè sufficiente, inaugura la concezione rivoluzionaria dell’essere.
Le dottrine così dette sociali — io le ò studiate in un libro difficile a trovarsi oggidì, voglio dire nei « Patriarchi del Socialismo » —-, e cioè quelle di Tommaso Munzer, di Tommaso Morus, di Tommaso Campanella e giù giù di Morelly, di Mably, sino a Proudhon, a Marx ed agli anarchisti alla Bakunin, alla Kropotkin e perfino alla Stirner, sono quale più quale meno esplicitamente incardinate su di una interpretazione di lotta, sul fulcro d’un antagonismo, sulla tesi d’un principio che à di fronte l'antiprincipio investitore e negatore, l’antitesi. È innegabile che tali sistemazioni, snelle, sottili le une, goffe, imprecise le altre, derivino dal profondo turbamento che in ogni campo del sapere ed in ogni sfera del sentire e del giudicare seguì al koper-nicismo, alla Riforma tedesca, all’eresia organizzatasi in sistema filosofico in Italia. Fin da quando scrissi i miei « Patriarchi del Socialismo » e con intonazione apologetica, la quale del resto non rinnegherei del tutto adesso perchè capisco essere venuta molta luce dalle dottrine sociali quali siano esse state — ond’è che il Pareto à esagerato nei suoi « Systèmes Socialistes »: a socialismo superato è giusto riconoscere questa esagerazione che in un uomo del secolo xx è un manco di rispetto alla storia delle cose e del pensiero —, sin d'allora m'accorsi che l’eresia religiosa è madre del riformismo e del rivoluzionismo sociale.
Ma non vedevo che è un errore ingenuo credere che Gesù sia superato dalle dottrine a carattere politico, o economico; le più rivoluzionarie, e cioè quelle che combattendo un tipo di guerra, ne riconoscono, anzi ne vogliono un altro, sono quelle che più a pieno sono implicite nella parola di Gesù. I due fondamentali passi di « Matteo » e di « Luca » ci dicono come Gesù ammetta per capo saldo il principio della guerra. Nella concezione di Gesù l'anima porta con sè eterna la missione di combattere. Non vedete con che rapida ed assoluta semplicità Gesù polverizzi la famiglia nella mano del suo guerriero? Le dottrine sociali, così socialistiche quanto anarchistiche, sono
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schiave dell’idea del tempo: innalzano ad assoluto l’episodio fenomenico d’un passaggio. Per esse tutta la negazione si riduce alla soppressione d’un certo stato sociale, tutta la guerra consiste e si limita a quella che è necessaria a far saltare un regime economico o politico, e sia pure la eredità d’un periodo storico. I socialismi e gli anarchismi si illudono che la guerra sia questa o quella guerra, e col mezzo d’una riforma o d’un sovvertimento violento s’impegnano ad eliminare dal mondo — il quale tutto naturalmente è nell’insieme sociale — le ragioni medesime della guerra.
XII. Ma la guerra per Gesù non è sopprimibile. La giustizia è uno stare in armi; il bene è lotta; l’anima muore nell’ozio pacifico. Gesù non è pacifista. Gesù porta nel mondo una parola per la quale noi abbiamo bevuto l’insoddisfazione delle nostre opere fin qui fatte. E se non inventiamo ragioni di lotta, l'insoddisfazione non ci lascia e s’ingigantisce in noi. Il guerriero di Gesù è « expeditus in equo », non veste armi che lo nascondano, non dà, non riceve tregua, non accetta, non offre quartiere, non riposa la notte. Tu non ài fatto quel che devi fare, quel che ài fatto è nulla, tu sei il responsabile d’ogni esistente ingiustizia per la sola ragione che vedi o sai che si compiono ingiustizie; e quando tu ne abbia scoperte dieci e cento e mille, t’avvedrai che ve ne sono migliaia di migliaia di mille da svelare, da impedire, da compensare. La quiete dell'anima cristiana sta nella legge medesima della vita spirituale, la quale rassomiglia a quella scoperta da Kopernico che regola gli astri. La terra vertiginosamente fuggente lungo la sua elissi si regge per questa sua vertiginosa fuga senza soste. La vertigine istessa le dà parvenze d'immobilità o meglio di quiete, quiete assurda ove si ponga mente che là terra quieta sarebbe sospesa nello spazio ove non esiste punto di sospensióne.
Si direbbe che l’anima cristiana appunto perchè non è completa che in libertà — e la carità è davvero il più alto stato, la più completa condizione della libertà —, non potendo nè dovendo dipendere, cerchi con impeto il proprio centro in sè stessa, sole e pianeta a un tempo d’un più lontano centro solare del quale à la luce ed il potere. Ma, a differenza del sistema solare fisico, non è su di una orbita prescritta che l’anima ruota e rivoluziona. Gli spazi dello spirito sono assai più vasti che non quelli degli astri e l’anima s’allontana dalle vie percorse e trova orbite nuove movendosi sotto lo stimolo d’un bisogno di maggior luce che la costringe a prodigare sempre più le energie che sono illimitate pur nella personalità distinta da una sua forma.
Anche nella storia la guerra non ripete eventi accaduti. E nella storia non è isterica la parola « accadimento » essendo « la istoria fattura degli uomini », secondo l’espressione vichiana. La guerra spezza i destini e cioè le abitudini al corso e al ricorso. La guerra è volontà e responsabilità. Essa spinge oltre le norme delle paci episodiche il carro della vita sul quale l’anima s'erge guerriera e nella foga della corsa si riconosce capace di azioni ben maggiori di quelle misurate al senso mediocre del comodo esistere che è anche dal punto di vista naturale un assurdo.
Le guerre come noi le vediamo e quelle alle quali partecipiamo, sono manifestazioni assurde ed impure d’una luminosa e magnifica verità di purezza. Sino a quando non scoppiano, la vita sociale è un’attesa e perchè un’attesa non è storia. Sino a quando l’uomo, uno, e tutti gli uomini non si trovano dinanzi alla necessità
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imprescrittibile, presente, inevitabile, assoluta — e per questo divina — di combattere, prendendo come un'arme agevole nel pugno dello spirito la propria persona fisica, sino a questo momento noi non abbiamo sostanza e prova per giudicare l'uno e i più e tutti.
Gesù dà la propria persona divina in olocausto poiché la prova dev'essere prova di sangue. E prima à resistito alle provocazioni, non à risposto alle puerili o burocratiche curiosità; à resistito, à innalzato la sua forza spirituale contro la folla, dinanzi alla fólla s’è mostrato nella nudità del suo volere d’accettare battaglia e nella suprema ora à fatto capire che quella battaglia era la suprema fase della guerra provocata da lui, simbolo tangibile, fisico, cruento della guerra che d’ora innanzi l'anima pura senza requie mai sempre più ardente e ribelle avrebbe combattuta contro la pervicacia del male, in difesa d’ogni vittima.
Senza requie mai, perchè la guerra cristiana a cui fanno implicitamente appello, come a un sacro sublime sottinteso, i combattenti di queste guerre, è per divampare nelle anime. Bisogna che le anime s'impregnino della verità che il valore della vita è nell'essere questa intieramente una guerra guerreggiata.
Ed è una gioia pensare, sentire, sapere che la guerra continui moltiplicata in ardore, più rivelata a sè stessa, nel mondo degli spiriti. Noi andiamo verso la ripugnanza d’ogni quiete, d’ogni pausa, d’ogni tregua. La pace è dunque una parola che cancelleremo dal nostro dizionario, se deve significare riposo, languore, sosta, sonno. Non c'è più posto nel mondo per i contemplativi e per coloro che delegano altrui doveri e responsabilità. Ciascuno di noi è il guerriero della sua causa e la causa non diventa comune e universale che in una universale milizia. Chi negherà che vi fu tutta una sotterranea preparazione spirituale, un formidabile scontro misterioso, prima della guerra che insanguina il mondo? Chi negherà che il mondo non si fosse volto ai grandi problemi dello spirito nella vigilia poderosa di questa guerra? Quando mai Gesù fu tanto pensato e studiato quanto nell’ultimo venticinquennio e quando più d'oggi e con più ansia sincera fu invocata la giustizia purissima della paróla cristiana dalla propria parte?
È questo che noi attraversiamo il periodo del massimo esperimento cristiano Immensa è la tomba che si è aperta; ma vi siede un angelo ed à la spada che fiammeggia e la veste candida che abbaglia. E il vólto è come il fulmine.
14-17 dicembre 1914.
Paolo Orano.
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L'autore comincia coll'affermare che le Chiese, quasi tutte le Chiese, non sono state sin'ora le ausiliario dei pacifisti nella loro campagna di liberazione e, come prova, egli cita numerose « esaltazioni pie della guerra » che sono davvero... poco cristiane.
Simili proclamazioni giustificano le accuse di quegli uomini i quali, assetati unicamente di giustizia e di bontà, hanno intrapreso la lotta contro la guerra all’infuori di ogni idea religiosa: « La Chiesa, essi dicono, si è fermata dinanzi alla guerra come colpita di accecamento e d’impotenza. Fa una strana impressione il vedere attraverso tutte le pagine della storia, uomini che si Sretendono figli di un medesimo padre, figli i un Dio di amore, incoraggiare i massacri, intrecciar corone pei vincitori e cantare solenni Te Deum. Interroghino i cristiani sè stessi e ci dicano se la Chiesa non ha approvato, incoraggiato e scatenato la guerra ? ■.
Così stanno difatti le còse dopo venti secoli di Cristianesimo. E perciò v’è tristezza nei nostri cuori di credenti, tristezza perchè gli anni passano e riconducono periodicamente tutti i grandi ricordi delFEyangelo senza che i discepoli del Cristo si siano levati, in uno sforzo di tutto il loro pensiero e di tutto il loro cuore, per togliere quello scandalo dal cammino pel quale il loro Maestro e Salvatore viene incontro all’umanità che soffre e che spera.
L'autore riassume quindi l’opera compiuta dalle società pacifiste e specialmente dagli ultimi congressi internazionali, sempre più numerosi, sempre più solenni, sempre più incoraggiati da quasi tutti i Governi; egli cita pure i più importanti dei numerosi « trattati d’arbitrato • conclusi tra parecchi paesi in questi ùltimi anni.
In basso come in alto della scala sociale, la visione della Pace, sbocciata da migliaia di cuori, sale all’ orizzonte della nostra storia. Essa appare come la più prossima
tappa da percorrere nella via del progresso-come la vittoria resa necessaria dalle necessità economiche della vita moderna; come il primo rimedio da recare alla servitù, alla miseria, alla sofferenza degli uomini. Essa si erge altresì come l’ideale nuovo d’una coscienza meglio illuminata, che trae fuori dalle oscurità della educazione da lei ricevuta nel passato, l’affermazione che c’è un Diritto e una Giustizia per le nazioni come per gli individui.
Perchè dunque i discepoli di Gesù Cristo, i quali dovrebbero essere destati da questo fremito di vita che agita i loro contemporanei, non riescono a scuotere quel torpore in cui li ha immersi, da secoli, l’errore mortale della Chiesa; perchè rimangono essi, in massa, indifferenti e passivi nei momenti in cui si combatte questa grande battaglia? Perchè tra tutti i pacifisti d’oggi —filosofi, giuristi, sociologhi, moralisti, liberi pensatori — si è costretti a tendere l’orecchio per afferrare la timida protesta di alcuni cristiani difensori della gloria del* Principe della Pace? >
Ci sembrerebbe naturale che il popolo di Dio si fosse mobilitato; che quelle immense riserve dell’esercito pacifico rappresentate dai membri delle varie Chiese fossero in prima fila tra i combattenti per la pace. Ma non li vediamo. E questa situazione di fatto dev’essere denunciata. Non è possibile rimanere in disparte allorquando è impegnata una immensa lotta nella quale sono in giuoco i principi stessi dell’Evangelo.
***
L'autore espone quindi le due ragioni principali pei quali i cristiani devono lavorare per la pace.
i° Anzitutto per l’onore del Cristo.
E a questo punto l'autore descrive gli orrori della guerra moderna prendendo specialmente esempi nella stona della guerra russo-giapponese.
La media delle vittime di quella guerra è
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stata di 1000 morti al giorno. Dopo la battaglia di Liao-Yang, per due giorni l’immenso carnaio echeggiò delle grida di agonia e degli appelli dei feriti, senza ch’essi potessero essere soccorsi. Dopo due giorni la pianura diventò muta: tutti coloro che chiamavano erano morti di patimenti, di freddo, di fame e di sete. A Mukden c’era un chirurgo ogni 1200 feriti. Nello scatenamento delle passioni brutali i parlamentari sono sgozzati, gli infermieri fucilati, i feriti consumano le ultime forze tentando di soffocare un nemico ferito al par di loro. E poi sentite questo episodio: « Ho visto, dice un ufficiale polacco, ho visto una notte duecento uomini nudi che gesticolavano e gridavano. Sì, una notte, con una temperatura di 25 gradi sotto zero, dei corpi nudi che mostravano piaghe sanguinanti, petti squarciati, larghe ferite chiuse da gru muli neri. Alcuni strisciavano, saltellavano sui loro moncherini. Erano pazzi, pazzi. Ah! che orrore ! »
Un altro ufficiale russo scrive: « Era orribile di sentire le minacce e le provocazioni dei soldati frammiste alle grida: « Con Dio • lanciate successivamente da ogni fila di russi occupanti le trincee. Uno dei nostri sotto-ufficiali, un gigante dell’ Ucrania, afferrò un piccolo giapponese per la gola e lo strozzò d’un colpo. Allora, nell’entusiasmo della sua grandezza, scaraventò quel corpo a qualche passo di distanza mentr’egli, ebbro di sangue, lanciava un grido rauco, urlo di trionfo e orrenda bestemmia : « Con Dio\» (1).
Oh! io non ho da sapere quel che hanno fatto di Dio coloro che mescolano il suo
(x) Ecco altre testimonianze.
... Mi trovai ad un tratto nel punto dove sfilavano i feriti, quelli che tornavano. Sulle barelle perfezionate oppure su due fucili legati a un mantello si trasportavano a passi rapidi — il tempo premeva, altri aspettavano laggiù — si trasportavano... delle cose. Delle cose senza nome, coperte di lenzuoli dai quali sgocciolava il sangue, dei corpi in poltiglia, a pezzi, senza braccia, senza gambe, con metà del viso portato via. Qualcosa mi strinse alla gola: ero inchiodato sul posto. Mi scoprii. Vorrei poter dire... Dove trovar le parole? Anche adesso, mentre scrivo, rivedendo quella scena, una simile emozione mi afferra. Era da piangere...
... La guerra, quale l’ho in quest’ora sotto gli occhi, è l’officina di morte, l’officina in cui ronzano le dinamo delle batterie, il macello per uomini in tutto simile ai macelli per animali che esistono nelle
nome ai loro assassini, ma ho il diritto di interrogare Colui che, nella sua vita terrestre, visse con Dio e ci rivelò il Padre. Vado a Cristo e l’interrogo. Tu, mio maestro. Che cosa dici?
« Beati i mansueti perchè erediteranno la terra. Beati i pacifici perchè saranno chiamati Figli di Dio. È stato detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e così sarete figli del Padre vostro che è nei cieli », ecc. (Vedi Matteo, V; Giovanni, XIII).
Noi che possiamo ripetere coll’apostolo S. Giovanni: « Abbiamo conosciuto 1 Amore in quanto Egli ha dato la sua vita per noi; e quindi noi pure dobbiamo dare la vita nostra pei fratelli » — noi soffriamo di questa stridente contraddizione che passa tra l’insegnamento del Cristo ed un’Europa cristiana irta di cannoni, diventata una officina pel macello degli uomini; e, per l’onore del Cristo, dobbiamo lavorare a distrùggere la guerra.
20 In secondo luogo, i cristiani devono agire perchè essi soli posseggono il rimedio VERO CONTRO IL MALE DELLA GUÈRRA.
D’onde viene, difatti, che la guerra si presenta a noi con un carattere speciale che fa di essa un male più orrendo degli altri? Numerosi sono i flagelli che fanno scorrere le lacrime e il sangue. Eppure non li malediciamo come malediciamo la guerra. Ah! Gli è perchè la guerra è la concentrazione e il riassunto di tutti i delitti voluti dagli uomini. Ecco il suo carattere distintivo: essa insegna all’uomo a nulla rispettare di ciò che costituisce il suo valore d’uomo: nè dignità, nè onore, nè beni, nè vita. Sotto la sua bandiera vengono a schierarsi tutte le potenze malefiche: violenze, odi, ingiustizie, menzogne, furti, uccisioni.
grandi città. Allo spuntar dell’alba, la campana — un primo colpo di cannone — annunzia il principio della giornata di lavoro. Dal fondo del suo ufficio il direttore, il generalissimo, affida ai suoi subordinati le varie mansioni. L'officina è così vasta — vi sono impiegati centinaia di migliaia di uomini — ch’ei non potrebbe ispezionarla tutta, ed ci rimane nel suo studio, dando ordini ai suoi segretari che si agitano intorno al quadro degli apparecchi telefonici o preparano e trasmettono dei dispacci...
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inganni, crudeltà: la guerra legittima e sanziona tutto ciò. Essa trasforma l’uomo in belva feroce scatenata contro l’uomo. La GUERRA È UN MALE MORALE.
Ora questo male morale potrà essere guarito solo da un rimedio morale, e soli noi lo conosciamo poiché crediamo nel Cristo. La forza che annienterà il flagello della guerra è il Cristianesimo; non il Cristianesimo che conosciamo e che è tale solo di nome, quello cresciuto sotto i governi arbitrari della Chiesa e dello Stato, ma il Cristianesimo che viveva nell’animo di Cristo e che si è manifestato nella Sua vita: il Cristianesimo che rivela l’uomo come oggetto dell’amore infinito di Dio e lo affida all’amore senza limiti dei suoi fratelli; il Cristianesimo la cui essenza consiste nel ri-nunziamento a sé stesso. Questo Cristianesimo è stato raro, eppure è l’espansione sua soltanto che arresterà la guerra. Quando anche questo amore non trionfasse che in una sfera ristretta, non legasse tra loro che un piccolo nucleo d’uomini, esso farebbe risuonare, al di fuori, contro la guerra, una Erotesta che infrangerebbe l'odio del mondo.
perciò io sogno una Chiesa di Cristo che diventerebbe come l’unione degli eroi del-l’Amore e rivelerebbe alla terra la sola forza capace di atterrare definitivamente la guerra—
***
L’autore, a questo punto, passa in rassegna tutto ciò che in fatto di propaganda pacifista vien fatto dalle Chiese: poco davvero se si eccettuano gli Stati Uniti d‘America e l'Inghilterra. Esamina poi la questione se è opportuno di costituire, in seno alle Chiese, delle sezioni speciali della « Società cristiana per la pace », concludendo per la negativa salvo nei casi in cui un ente cosi specializzato possa avere, per numero di soci e per potenza di mezzi d’azione, una considerevole influenza.
Viene quindi a considerare i malintesi che Potrebbero sussistere nella mente di molti cristiani; i preconcetti di coloro che, senza opporsi, non capiscono la propaganda pacifista.
1. In primo luogo: lo sforzo dei pacifisti è inutile, la guerra è sempre esistita ED ESISTERÀ SEMPRE.
L’obbiezione è seria quando viene affacciata da indifferenti o da scettici nel cuore dei quali si tratterebbe di far passare qualcosa delle convinzioni evangeliche relative al progresso morale dell’umanità; ma non deve neppure essere messa avanti da cristiani che amano il Cristo, che hanno fede
nelle Sue promesse e che credono al suo trionfo.
2. Seconda obbiezione: I pacifisti sono INGIUSTI VERSO L’ESERCITO.
Rispondiamo: Se siamo ingiusti verso l’esercito abbiamo torto; l’ingiustizia è sempre colpevole. Ma s’insiste, si afferma che, attaccando la guerra, attacchiamo coloro che vi si consacrano, i professionisti che dànno sé stessi per la difesa del territorio, e anche tutte le buone persone che si strappano alla loro famiglia e al loro lavoro per versare il sangue quando chiama la patria. Ah! noi siamo i primi a far tanto di cappello a tutti coloro che si sacrificano per una giusta causa, a coloro che rinunciano alla loro vita per proteggere la donna e il fanciullo, cioè la santa debolezza, la maternità sacra e l’avvenire. Ma queste persone che si difendono contro chi sono esse costrette a combattere? Contro coloro che le attaccano. La difesa non sarebbe necessaria senza l’aggressione. Ebbene! Allorquando protestiamo contro la guerra, quando la malediciamo, noi pensiamo all’attacco perchè senza di esso non vi sarebbe ■uerra. È la conquista che noi esecriamo, è a depredazione e l'omicidio premeditati, è ’invasione; e quindi coloro che pensano solo a proteggersi contro l’invasore, coloro la cui unica ambizione è la resistenza, non possono sentirsi tocchi dalle critiche veementi che rivolgiamo alla guerra. Un esercito che si considererebbe offeso quando ci s’erge contro la guerra proverebbe con questo fatto ch’esso non considera la sua missione come puramente difensiva.
3. Terza obbiezione: I pacifisti vogliono disarmare il proprio paese, di FRONTE AD ALTRE NAZIONI CHE RESTANO SOTTO LE ARMI E POTREBBERO INVADERLO.
È questo ancora un vecchio malinteso Quando si è parlato di disarmo è stato sempre questione d’un disarmo simultaneo e progressivo. E d’altronde il parlare di disarmo ci pare un errore di tattica. Il mezzo da preconizzarsi è l’arbitrato. Una volta l’arbitrato stabilito in Europa e solennemente riconosciuto dall’esistenza di un tribunale accettato da tutte le nazioni,’ queste riconosceranno da sè che non hanno più alcun interesse a impegnare il meglio delle loro entrate nel mantenimento d’un apparecchio bellico ormai inutile.
4. Ultima obbiezione: Il miglior modo DI GARANTIRE LA PACE È DI PREPARARE la guerra. Questo argomento ha valore soltanto se chiudiamo gli occhi all’evolu-
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zione degli spiriti e dei costumi. S’ha un bel diré: ma l’uomo non è più il selvaggio di una volta, costretto a difendere colle unghie e coi denti il suo focolare contro la violenza del vieino; l'idea del diritto sale all’orizzonte della nostra civiltà e un oratore parlamentare ha potuto esclamare nella Camera francese che il vecchio adagio • si vis pacem, para bellum • era una bestemmia. Questo oratore è un libero pensatore; non sono i cristiani che avranno meno fede di lui.
Il generale Négrier, nella Revue des deux mondes, alludendo ai pacifisti senza averli compresi — tanto è vero che parlava della « mistificazione internazionalista » e delle « teorie vigliacche del benessere ad ogni costo » — scriveva queste parole: «In certe ore solenni, dei som divini passano sopra una nazione, l’esaltano, la trasformano. Gli è ch’essi portano in sé i principi di tutte le forze morali: si chiamano Religione, Patriottismo, Libertà. I popoli che si distolgono da codeste virtù sono irrevocabilmente condannati ».
Orbene! Non v’è una sola parola di quella dichiarazione alla quale non possiamo sottoscrivere di tutto cuore. Abbiamo fede nei destini della nostra Patria e l’amiamo; consideriamo come cosa sacra l’autonomia sua e la sua libertà, siamo fieri di lavorare alla sua grandezza, vogliamo darle un posto definitivo nel concerto dei popoli federati i quali brilleranno ognuno del suo particolare Slendore — come le stelle bianche o rosse una medesima costellazione — e perchè vogliamo ciò pacificamente, irrevocabilmente, siamo dei buoni patrioti.
Ma noi crediamo altresì ai destini della nostra razza: la razza umana . Non potremmo più inginocchiarci e dire il « Padre Nostro » se pensassimo che il mondo dev’essere perpetuamente sottoposto al timore e alla violenza. Noi affermiamo che la terra nostra, sulla quale è stato piantato il simbolo dell’Amore, non deve eternamente fumare pel sangue dell’uomo versato dall’uomo suo fratello e risuonare del continuo dei lamenti che salgono dai carnai dei campi di battaglia. Se noi cristiani non abbiamo ancora impresso un divèrso carattere alla storia della nostra umanità, è perchè siamo deboli in amore, in obbedienza, in sante risoluzioni.
È bene segnare le tappe percorse e non essere ingrati nè verso Dio nè verso gli uomini; ma dobbiamo altresì misurare collo sguardo la strada che resta da percorrere:
ed essa è ben lunga! I pacifisti cristiani potranno cessare dal loro sforzo solo allorquando la povera nostra terra sarà diventata la patria comune dei figli del medesimo Padre. Questa mèta è lontana ma, per lavorare a raggiungerla, basta che le Chiese cristiane non vengan meno più oltre al compito presente che Dio vuol loro affidare.
(¿c Havre). P. ALLEGRET.
(Riassunto c tradotto da G. Adami).
Al disopra dell’odio.
Più tremenda ancora della lotta sanguinosa sui campi di battaglia ci appare quella lotta intellettuale che accompagna la lotta delle armi e che è una lotta di odio.
Quest’odio di popoli ondeggia d’ogni intorno come un mare agitato e vuol trascinare nel vortice anche l’anima di coloro i quali non partecipano direttamente a questa guerra. È una cosa spaventosa.
I governi ed i popoli sparlano dei governi e dei popoli nemici; essi smascherano a vicenda i loro peccati più recenti e più antichi; infieriscono gli uni contro gli altri e si maledicono.
Anche quegli uomini e quelle donne che si chiamano abitualmente guide intellettuali dei popoli si rivelano in gran parte come guide negative che si lasciano trascinare dall’opinione del giorno e rinforzano questa coll’ascendente dell’autorità da loro posseduta in qualunque ambiente.
Invece di contribuire a mantenere le relazioni internazionali che non hanno nulla a che fare colla politica, essi si abbandonano a dimostrazioni ridicole. Invece di applicare qualche parte della tanto rinomata obbiettività della scienza al giudizio delle cose umane, gareggiano cogl’ignoranti nella passione di corta vista. Invece di nobilitare le polemiche fra i popoli essi stanno alla testa nella guerra della calunnia e della diffamazione. È questo uno spettacolo miserando il quale costituisce un aspetto della bancarotta della nostra civiltà e che ci addolora molto più di tanti altri.
Tutto ciò vien denominato « patriottismo ». Gli uni vogliono superare gli altri; ed ultimamente si sono anche fatte avanti persone la cui funzione dovrebb’ essere quella di conservare intatti gl’ideali. Queste persone dicono: « Avanti, e prima di ogni
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altra cosa, dobbiamo essere dei patrioti. Chi vuol servire il Regno di Dio deve prima servire la propria nazione. Gl’ideali umanitari sono naufragati, dunque bisogna abbandonarli. Cercate prima di ogni altra cosa il benessere del vostro popolo ed il Regno di Dio vi sarà dato in soprappiù ».
Il fatto appunto che tali voci si facciano udire è un indizio dell’offuscamento attuale degli spiriti. Esse pretendono dimostrare la verità di quanto di più errato si possa immaginare, perchè è evidente che appunto questa, forma di patriottismo ha precipitato il mondo nell’attuale sciagura. Per essere più esatti il « Nazionalismo » si è rivelato come una delle ragioni principali dell’incendio mondiale.
Che il Nazionalismo non sia da scambiare coll'amore verso la •patria l’abbiamo detto su queste pagine tanto spesso e con tanta chiarezza da non aver bisogno di dimostrarlo un’altra volta (i). Se qualcuno, accusandoci di antipatriottismo, intende dire che noi abbiamo trascurato o disprezzato il lavoro per la patria, egli mente sapendo di mentire. Al contrario, noi abbiamo predicata la redenzione del vero, santo amor di patria — il quale si perfeziona servendo— dal patriottismo unilaterale — il quale si nutre del disprezzo per la patria altrui e non è altro in fondo che egoismo.
Noi invertiamo le parti: secondo il nostro parere, i popoli diventano veramente grandi non servendo anzitutto sè stessi ma servendo anzitutto il principio etico il quale è allo stesso tempo il principio umano. Così 1>er i popoli come per i singoli individui vale a medesima legge: « Chi vuol salvare la propria vita la perde; ma chi la perde per amore di Cristo la salva ».
In quanto poi alla formola di nuovo stampo: che prima occorra servire il proprio popolo se si vuol servire il Regno di Dio, noi abbiamo sinora letto nell’Evangelo: « Cercate prima di ogni altra cosa il Regno di Dio e la sua Giustizia e tutto il resto sarà dato per sovrappiù ». E noi intendiamo rimaner fedeli a questa formola.
Con ciò — lo sappiamo benissimo — noi andiamo contro corrente. Chi crede esser vera teologia il tradurre il capriccio, il desiderio od anche l’ebbrezza del mondo in
(i) Vedi, del medesimo autore prof. Ragaz: « Non la pace ma la spada» in Bilychnis di ottobre e « Cristianesimo e Patria » in Bilychnis di novembre.
N. d. R.
una formola teologica, si contenti d’essere nazionalista. Noi però crediamo che il compito datoci da Dio consista appunto nel combattere il nazionalismo come quello che costituisce una spaventosa follia. Esso oggi ha precipitato il mondo nell’abisso. Ma non deve poter ciò fare un’altra volta. Questo è, secondo noi, l’ammaestramento che dall’odierna catastrofe dev’esser ricavato. Ora più che mai noi annunciamo VInternazionalismo.
Mentre il Nazionalismo porta i popoli a calunniarsi a vicenda, l’internazionalismo ci conduce a scoprire ciò che in ciascuno di loro vi è di buono. Noi crediamo al bene anche negli altri. Noi consideriamo tutti i popoli quali reali ©possibili esecutori di una missione divina. E laddove noi di questa missione non riusciamo a scorgere alcuna traccia, pure noi fermamente continuiamo a credervi.
Noi cooperiamo, per quanto sta nelle nostre forze, a far diventare attivi i popoli nella loro missione storica. Per quanto concerne i popoli ancor giovani e rozzi, noi crediamo possibile il loro ascendere verso una maturità e una cultura maggiore; per quanto concerne i popoli supercolti ed apparentemente decrepiti, noi crediamo possibile il ringiovanimento. Noi crediamo che Dio li ama e li protegge e noi siamo pronti a prender la loro difesa come se si trattasse del nostro proprio popolo, nella misura delle forze e delle possibilità di cui disponiamo.
Questo è per l'avvenire uno dei compiti che l’orrendo spettacolo odierno c’impone. A questo compito noi tendiamo, salvandoci dal mare dell’odio. Lavoreremo affinchè i popoli imparino a comprendersi, a stimarsi e ad amarsi; e così distruggeremo una delle più vigorose radici della guerra.
Perchè questo è certo: i popoli possono combattersi soltanto finché hanno l’uno dell’altro una cattiva opinione ed essi involontariamente rendono cattivi sé stessi fino al punto da raggiungere quello stato d’animo propizio alla guerra. Ma per uomini che abbiano raggiunto quel grado di mentalità veramente umana il quale splende davanti agli occhi nostri, la guerra è cosa insopportabile. Essi possono ancora materialmente parteciparvi, ma là guerra quasi uccide la loro anima. E noi sappiamo ciò di molti spiriti elètti i quali sono impegnati nella presente guerra.
Zurigo. L. Ragaz.
(Dalle Ngut Wfgc di ottobre 19x4).
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¡CRONACHE]
Vitalità e vita nel Gattolicismo.
VII.
CHIESA E STATO IN ITALIA: COMPROMESSI - IL CASO CARON - IL REGOLAMENTO MILITARE - LE TRATTATIVE E LE VOCI SULLA SISTEMAZIONE DEI RAPPORTI FRA L’ITALIA E IL PAPATO - CORTESIA PER CORTESIA LA POLITICA DI BENEDETTO XV VERSO GLI STATI IN GUERRA: LA NEUTRALITÀ PONTIFICIA - LE RAMPOGNE DEL BELGIO E LA PASTORALE MERCIER - « DIO NON È NEUTRALE ! » - L*ATTEGGIAMENTO DEI FRANCESI - IL SEQUESTRO DELLA PREGHIERA DEL PAPA /F IL TERREMOTO: IL DIO DEI CLERICALI.
«ella seduta del io febbraio 1913, alla Camera dei Deputati, l'on. Finocchiaro-Aprile, allora ministro guardasigilli, rispondendo a varie interpellanze sulla nomina di mons. Andrea Caron ad arcivescovo di Genova, affermava solennemente che lo Stato non poteva in alcun modo consentire a che un nemico, quale era da considerarsi l’eletto, assumesse l’importante carica. Egli diceva tra il plauso imponente dei rappresentanti della Nazione:
Come parroco egli si era sempre opposto al riconoscimento giuridico di un asilo che aveva fondato; come vescovo, in alcune prescrizioni date al clero diocesano di Ceneda, aveva proibito l’ammissione nelle chiese dei vessilli tricolori; e in una raccolta di quesiti emanati ai parroci in una sacra visita, aveva posto anche questo: «Se vi sono nelle parrocchie matrimoni separati; se vi sono concubinati notori o così detti matrimoni civili ».
È risultata poi la sua adesione a quel programma di rivendicazioni temporalistiche che è stato in questi ultimi tempi rievocato.
Con suo decreto del 31 agosto 1911, anticipando provvedimenti adottati poi con solennità maggiore, condannò per la prima volta i giornali cattolici che avevano il torto di riconoscere l’unità d’Italia con Roma sua capitale. E con omelia 21 aprile 1912, definendo questi giornali « stampa rea e non del tutto cattolica », ne proibì la lettura come cosa contraria alla Chiesa ed al regnante pontefice. {Commenti}.
La Riscossa di Breganze, che fra i giornali cattolici è uno dei più accentuati sostenitori della campagna temporalistica, dopo la designazione del Caron all’arcivescovado di Genova, notò con grande compiacimento, come fatto eloquente e significativo che, appunto
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dopo il decreto riguardante i giornali modernisti, cioè’ non temporalisti, il Carón era stato promosso ad una delle più importanti sedi arci vescovili.
Perchè la Camera possa farsi un’idea precisa di questa stampa temporalista, leggerò alcune tesi, pubblicate nel numero del 3 agosto 1912 della Riscossa, che il detto giornale dice * svolte magistralmente a stretto rigore di logica ». Udite:
Tesi prima: « Finché non si restituirà il mal tolto, non si restauri il diritto, non si ripari la ingratudine non si cancelli l’offesa, non si lavi l’onta della violenza e del tradimento purtroppo contratto con la spogliazione del Papa, non si parli di dignità nazionale della nostra povera patria ».
Tesi seconda: < Giudice dei popoli e delle nazioni, rivendicatore di ogni conculcato diritto, il Signore non muterà certo linea di condotta, sacrificando definitivamente la sua Chiesa e il suo Vicario in terra per amore di una ubbia unitaria ibrida e violenta, recata ad effetto a forza di congiure nefaste e di indegne usurpazioni ». (Ohi oooh!)
Tesi terza: « Pur concedendo che il Papa non può paragonarsi ad un pretendente qualunque, neghiamo recisamente la conseguenza che il Papa debba ormai rassegnarsi a portare in pace la sua spogliazione per non turbare i sonni dell’Italia nè degli italianissimi suoi adoratori ».
Tesi quarta: • La questione Romana, questione internazionale e cosmopolita, passa innanzi a qualunque altra questione di politica interna di uno Stato particolare ».
? Tesi quinta: « Chi si dice clericale, ma non per propugnare il temporalismo papalino, separa la causa propria dalla causa del Papa, in quanto è Papa ».
Ma Tesi sesta: • La nomea di patriota alla moderna è obbrobriosa per un cattolico se si tratta di un patriottismo sacrilego, quale è l'unitario italianissimo ».
Non vado oltre, onorevoli colleghi. Le tesi continuano e si rassomigliano. Non le leggo più; abbandoniamole al più profondo disprezzo. (Vivi e prolungati applausi)'
Questa stampa, onorevoli colleghi, che offende cosi profondamente ciò che ha di Siù sacro la coscienza del popolo italiano, e si felicita, come di un suo trionfo, della nomina el Carón, è la stampa che egli predilige, condannando quella che crede di poter associare al sentimento religioso la devozione alla Patria. Ciò è dimostrazione dei sentimenti del nuovo arcivescovo.
Non accennerò ad altre circostanze, che hanno assunto speciale importanza, coincidendo con la designazione di mons. Carón all’arcivescovado di Genova, commovendo per il loro significato una parte di quella nobile cittadinanza e creando dissidi e diffidenze nello stesso campo cattolico.
r'$ In questa condizione di cose, e dopo l’esame obbiettivo degli elementi raccolti che mettevano in luce i sentimenti di monsignor Carón, la concessione deH’&riftMtar non era possibile. E ciò servì di norma al governo nelle sue determinazioni. (Vive approvazioni).
Chi esamini, attraverso un lungo periodo di anni, l’azione del Ministero di grazia e giustizia nel conferimento dei placet e degli exequátur, vedrà come si possa trarre con compiacenza questa constatazione sicura: che nell’esercizio di codesta azione ha sempre presieduto un sentimento di equanimità.
* Esso ha guidato me ed i miei colleghi di Gabinetto, nel periodo ormai non breve della nostra vita ministeriale; ma l’equanimità non importa debolezza, e di fronte a casi, come quello di cui si è oggi occupata la Camera, doveva prevalere su tutto e su tutti la suprema ragione per la quale non è lecito concedere il riconoscimento civile a chi non dà allo Stato l’ossequio che gli è dovuto, vagheggiando restaurazioni impossibili.
Non mancammo di illustrare a suo tempo il fatto di questo negato exequátur (n. Bitychnis, gennaio-febbraio 1913).
La stampa clericale rispose allora alle parole del ministro che gli appunti, per ogni italiano gravissimi, che il guardasigilli faceva al Carón, non erano invece da considerarsi che quali meriti eccezionali e che reietto sarebbe stato assolutamente immeritevole se non avesse fatte le cose che il ministrò gli rimproverava. E su questo tono continuò a lungo sino a che non si accorse che con lo strepito e con le proteste non otteneva altro effetto che quello di far sorridere gli italiani.
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Per là gente in buona fede la questione poteva, infatti, ormai dirsi risoluta. È vero che l'Italia è la terrà dei bolli e della burocrazia: ma la solenne parola di un ministro su di un affare che aveva appassionato tutto il Paese, parola che doveva pertanto essere pienamente ponderata, non valeva forse più di un qualsiasi pezzo di carta? L’affermazione recisa dinanzi al Parlamento ed alla Nazione che al Caron non poteva in nessun caso venir concesso Vexequalur, non valeva assai più che un « no » risposto al postulante su di un foglio intestato?
La sostanza di un rifiuto c’era — e come negarlo? — ma i clericali pensarono che le forme, quelle tali forme che esigono e bolli e firme ed emarginazioni e controfirme non c’erano e che pertanto la causa non era perduta. Bisognava sapere attendere a quando il giudice fosse stato cambiato: allora il cavillo da legulej avrebbe fatto fortuna.
Cadde infatti il ministero Giolitti un anno dopo il discorso .del ministro Finoc-chiaro-Aprile. Gli organi ufficiosi del nuovo ministero — ministero di Gentiloniz-zati — c’informano ora che varie domande e varie proteste vennero fatte in questo lasso di tempo perchè la « pratica » àeWexequalur venisse condotta a termine, domande e proteste che non ebbero neppur l’onore d’una risposta.
Coi nuovi signori però i clericali scorsero gli amici compiacenti, e ritentarono, con relativa fortuna, là prova?
Una politica di accordi e di compromessi con la Chiesa veniva instaurata dal nuovo Governo: d’altronde anche il vecchio angoloso papa se n’era andato e col nuovo era più facile l’intendersi. Ed ecco che il 24 settembre 1914 mons. Caron presentava una nuova istanza in cui egli — ciò che non aveva fatto per l’innanzi — si professava «buon cittadino italiano» e. si doleva «che la sua condotta fosse stata interpretata ingiustamente nelle pubblicazioni dei giornali ». Domandava pertanto che gli venisse accordato Vexegualur promettendo, appena avutolo, di rinunziare « al fatto della nomina », adducendo a pretesto, onde coprire il mercato, le cattive condizioni di salute che gli avrebbero impedito di reggere la diocesi. Era il primo atto della commedia combinata. Circa tre mesi dopo, il 17 decembre, il ministro Orlando comunicava al Caron che la sua domanda era stata accolta.
Il 4 gennaio V Osservatore Romano pubblicava la notizia col seguente comunicato:Il 17 scorso dicembre venne concesso il Regio exequatur alla Bolla Pontificia del’29 aprile 1912 con la quale mons. Andrea Caron era stato nominato arcivescovo di Genova; così il governo riconobbe finalmente alcun addebito a carico di mons. Caron ed il provvedimento della S. Sede ebbe il suo pieno corso.
Mons. Caron ringraziando con sua lettera in data 23 dicembre al ministro di grazia giustizia e culti il quale gli aveva comunicato l’avvenuta concessione, si diceva lieto e grato per il compiuto atto di giustizia, ma aggiungendo che 1 avanzata età ed 1 sofferti patimenti di questi ultimi tre anni, gli avevano talmente, affievolito le forze che non sa: peva se si sarebbe ancora sentito d’accettare il governo e la responsabilità d una diocesi tanto importante. .. „ , _ , • , . .
Infatti avendo ora mons. Caron supplicato il Santo Padre per volersi degnare d ammettere per le predette ragioni la sua rinunzia all’arcivescovado di Genova, il Santo Padre convinto che le condizioni di salute non permettessero più al pio e virtuoso prelato di lavorare al governo di una diocesi, ammetteva la prefata rinunzia.
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Il comunicato ufficioso del Governo si esprimeva invece in questi termini:
Fin dal settembre scorso, monsignor Caron aveva inviato una lettera al guardasigilli con la quale pur dichiarando che ragioni di salute gli avrebbero molto probabilmente impedito di assumere l’ufficio, insisteva tuttavia perchè fosse risoluta la questione del-l’atgfiMtar alla bolla della sua nomina che era rimasta sospesa, mentre eglt riteneva non giuste e non fondate le accuse rivoltegli di scarso rispetto allo Stato e alle leggi d’Italia.
In seguito a tale lettera e alle dichiarazioni in essa contenute e ad un nuovo parere favorevole del Consiglio di Stato, fu dato corso alì’exequaiur.
Conformemente poi alle intenzioni manifestale, monsignor Caron ha già presentato la sua rinunzia.
I due comunicati avevano una discordanza comprensibilissima: il Vaticano asseriva che i propositi di dimettersi da parte di mons. Caron erano posteriori alla concessione dell’exequatur, il Governo diceva invece che erano stati manifestati sin dal settembre e che le dichiarazioni contenute nella lettera del prelato — compresa naturalmente quella di pronta rinunzia — avevano indotto il governo Stesso a dargli il placet. L’una e l’altra autorità, con schermaglia ridicola, voleva mostrarsi vincitrice e magnanima nel tempo stesso!
Eppure, ed è da cieco il non vederlo, Caron e chi lo aveva consigliato e diretto aveva prostituito la dignità della Chiesa, come il governo, scendendo a patteggiare con chi da un ministro guardasigilli era stato indicato solennemente come nemico delle patrie istituzioni, prostituiva la dignità dello Stato.
Pertanto, come era naturale, intorno a questo compromesso si accesero vivaci polemiche contro il ministro guardasigilli ed il governo da parte della stampa democratica. Il Giornale del Mattino di Bologna scriveva (6 gennaio):
Quale pessima impressione desterà questo fatto nella pubblica opinione è inutile rilevare. Nè a mitigare codesta bruttissima impressione varrà conoscere che mons. Caron ha rinunziato per ragioni di salute alla sede di Genova. Tutto questo non vale, perchè non vi era nessuna ragione plausibile pel Governo a giustificare la concessione di un exequatur, in precedenza, e per ragioni cosi gravi, negato da un altro ministero.
Il Vaticano ha avuto così, ancora una volta ragione. Con l’apparenza di chi si mostra vinto ha saputo, al contrario, vincere, anzi stravincere. E così in Italia si assoda sempre Siù la convinzione che lo stato laico è una turlupinatura e che, al postutto, il Vaticano nisce sempre coll’avere la superiorità sugli organi morali e giuridici delle nostre istituzioni.
Ed il Messaggero di Roma (6 gennaio), esaminando attentamente la questione, diceva giustamente:
I.a soddisfazione data dal governo al Vaticano e al monsignor arcivescovo è una imprudente e deplorevole svalutazione della funzióne di Stato.
Che significa, infatti, questo strano concordato, assolutamente nuovo negli annali dei non infrequenti dissidi fra il Vativano e il ministro di grazia e giustizia? O il Caron non era degno di avere il placet del governo italiano e doveva rimaner ferma la « non concessione », annunziata e giustificata dinanzi alla Camera plaudente — nella seduta del io febbraio 1913 — dal guardasigilli on. Finocchiaro-Aprile, ferma anche nel caso di una promessa del genere di quella escogitata dai mediatori di pace fra monsignor
O le accuse formulate pubblicamente contro il Caron erano inesistenti o immeritevoli della eloquentissima inobliata accoglienza che la Camera fece al discorso dell’on. Finocchiaro — discorso che come si sa fu concordato in un apposito Consiglio di ministri —
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e in tal caso bisognava avere il coraggio di far macchina indietro concedendo Vexequatur senza gesuitiche restrizioni, senza concordati grotteschi che suonano offesa alla Serietà del governo, all’autorità dello Stato.
Ma questa misera transazione dimostra appunto che l’on. Orlando non era tranquillo nella concessione dell’exequalur sic et simplicitcr, e che sentiva il bisogno di un’attenuante al suo disgraziatissimo atto di governo.
Egli non aveva potuto dimenticare il riassunto terribile delle accuse contro il Caron; egli non aveva potuto dimenticare che perfino tra i cattolici genovesi si era sollevata una ondata di sdegno contro l’arcivescovo temporalista, che per cominciare aveva chiesta e ottenuta dal Vaticano la testa del padre Semeria.
E, dunque, se le grandi approvazioni dei liberali d’ogni graduazione e della stampa di tutti i partiti — la clericale esclusa — avevano dimostrato nel febbraio del 1913 che il governo, rifiutando Vexequatur, aveva ben tutelati gl’interessi della civiltà e della patria; e se l’on. Orlando non ha potuto convincersi della lealtà di una improvvisa conversione di mons. Caron — il quale, nella Sua lettera del settembre al guardasigilli giudica si non giuste e non fondate le accuse rivoltegli, ma si guarda bene dall’aggiungere una frase esplicita che suoni sconfessione del suo programma di rivendicazioni temporalistiche illustrato nel discorso Finocchiaro e bandito dalla Riscossa di Breganze — non v’è ragione plausibile che giustifichi questa calata di brache del governo.
La verità è che il gabinetto Salandra, dopo aver invocato a gran voce la concordia degli animi e la fiducia di tutti, in nome della patria minacciata dalla più grave delle crisi immaginabili, dopo aver dato ancora una mano di vernice democratica al suo organismo sospetto di clericalofilia costituzionale, s’è messo decisamente ornai su la via degli amori e dei « concordati • con la clerico-moderateria italiana; e ogni giorno dobbiamo attenderci una sorpresa del genere.
L’on. Orlando ed i giornali ministeriali credettero opportuno correre ai ripari. Il ministro anzi si degnò di accordare una intervista al giornale La Tribuna (n. del 7 gennaio), nella quale intervista affermato che in Italia l'attività amministrativa dei culti « deve per necessità di cose procedere d'accordo con l’autorità ecclesiastica » e negato recisamente che, nel caso specifico di mons. Caron, transazioni o compromissioni per se stesse nocevoli all’autorità dello Stato fossero avvenute, continuava col dite.:
Se il provvedimento di exequalur era stato tenuto in sospeso, ciò dipendeva esclusivamente dalle riserve che si facevano (ed erano giuste e doverose le indagini) intorno ai sentimenti di quel prelato per ciò che riguarda l’ossequio all’autorità dello Stato ed alla sua sovranità. Ridótta la questione in tali termini, quando lo stesso prelato, pur soggiungendo spontaneamente che per altre ragioni sarebbe indotto a non assumere l’ufficio, dichiara tuttavia di non voler restare sotto il peso di accuse di quel genere, non dà all’atto medesimo il più grande contenuto di ossequio verso l’autorità dello Stato che tutti vogliamo tenere altissima? Con ciò naturalmente non intendo fare la questione — che sarebbe per molti aspetti inopportuna — del rapporto che possa esservi o no fra tale dichiarazione ed i fatti che avevano determinato un primo e diverso atteggiamento del"governo. Io mi limito a considerare la cosa in se stessa, nei suoi dati obbiettivi, per concludere che non sì può davvero non sorridere di fronte a certi dubbi che il provvedimento di cui si discute leda minimamente l’autorità dello Stato. Si potrebbe dimostrare l’inverso se la circoscritta importanza della cosa ne valesse la pena.
E l’ufficioso Giornale d’Italia (7 gennaio) pubblicava anch’esso molta prosa in proposito, gabellandola come « esatta » versione del caso Caron, tanto esatta da dar la colpa della n/anta/a concessione ad una pretesa « ecclesia fidelium » e cioè al « partito» cattolico-modernista, il quale avrebbe prodotto i documenti di cui si servì il ministro Finocchiaro-Aprile pel famoso non possumus più sopra riportato. Ora,
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a parte questa « Ecclesia dei fedeli » — così la chiama il giornale — e il ridicolo tentativo di voler ridurre la questione dell'evequalur al Carón « più che ad una lotta tra i principi!* laici dello Stato e le invasioni della Chiesa Romana, ad una lega interna del mondo cattolico nelle due frazioni di vecchi e nuovi », era sempre da dimostrare —-e il Giornale non ardì di farlo — Che i gravi appunti contro il Carón, specificatamente accennati dal guardasigilli Finocchiaro-Aprile, fossero falsi ed insussistenti.
Più sotto però lo stesso foglio confessava, con non celata compiacenza:
Lo Stato Italiano ha concesso il R. exequátur, lo ha fatto dopo che ogni equivoco sulle opinioni e sulla condotta di monsignor Carón era stato dileguato per virtù di dichiarazioni « esplicite e personali » del medesimo prelato in discussione. Che cosa si sarebbe potuto pretendere di più? La politica ecclesiastica dello Stato Italiano vive e si nutre e si nobilita di questa arte di prudenza e di innocenti accordi.
E fatto più audace da questa confessione, lo scrittore aulico continuava:
La nobile tradizione della politica italiana in tema di rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose che vivono in esso, ebbe una linea costante e diritta da cui mai si deviò nella difesa, rigida ed intransigente, dei diritti dello Stato medesimo; ma ebbe altresì una linea di prudenza e di garbo che rifuggì e deve sempre rifuggire dalle inutili punzecchiature, dalle spavalderie letterarie e dall’impiego dei piccoli bastoni per le ruote, come da tutti i sogni vani di una conciliazione, nè possibile nè desiderabile cosi per lo Stato come per la Chiesa.
Da queste difese meschine e curiosissime dell’atto compiuto dal ministero Sa-landra, sempre più evidente appariva ed appare come il movente dell’atto stésso fosse proprio quello di ingraziarsi il Vaticano.
Già qualche giorno innanzi il ministero aveva annunziato di avere introdotto nel nuovo regolamento militare una disposizione per cui viene proibito formalmente agli ufficiali di far parte di associazioni secrete, cioè della massoneria, che costituisce il luogo co mune delle costanti invettive e deprecazioni dei clericali e ne forma lo spavento.
E — malgrado che, come abbiamo visto, l’organo ufficioso del ministero parli della conciliazione tra Chiesa e Stato come di sogno vano e di cosa nè possibile nè desiderabile— trattative confidenziali si son venute allacciando per un modus vi-vendi tra il Vaticano e il Governo, cogliendo l’occasione della probabilità di un intervento dell’Italia nel conflitto europeo. È infatti, evidente che, in tal caso, il govèrno d’Italia non potrebbe tollerare che ministri ed agenti diplomatici delle potenze avversarie accreditati presso il Vaticano, rimanessero nella capitale del regno, corrispondendo in cifra coi propri governi. Sarebbe lo stesso come tener le spie in casa. Su questo problema, molto hanno detto ed arzigogolato i giornali più diversi, da quelli liberali ai clericali più neri. 'L’Unità Cattolica, ad esempio proponeva con... adorabile semplicità, che, ad ovviare a questo inconveniente ed all’altro che una possibile bomba di un qualsiasi poco oculato nemico andasse a disturbare il papa in Vaticano, si dichiarasse Roma città libera ed il re trasferisse la capitale a Firenze;..
Le trattative confidenziali, che fino ad ora almeno non si son tradotte in ufficiali, avrebbero, a quanto si afferma, considerato il problema non solo della sistemazione occasionale dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia ma principalmente della loro paci-
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ficazione definitiva sulla base di una rappresentanza ufficiale dello stato italiano presso la corte pontificia, ciò che significherebbe riconoscere formalmente al Vaticano una posizione politica internazionale, aiutandolo magari ad essere ammesso al futuro congresso per la pace.
A tali cortesie si risponde con cortesie. Infatti, la neutralità dei clericali ha preso un tono meno reciso e da assoluta è passata ad essere molto condizionata; il 6 gennaio — dopo l’affare Caron — dai clericali di Roma presieduti dal presidente generale dell'Unione Popolare tra i cattolici d’Italia, conte dalla Torre, si invitavano tutti i loro amici italiani ad aprir le loro borse pel prestito nazionale del miliardo, con un ordine del giorno patriottardo, che merita di essere riferito. Era così formulato:
I cattolici organizzati di Roma, riuniti per iniziativa dell’Unione Popolare: convinti che l’avvenire e la grandezza della Patria sono affidati nell’attuale grave momento storico alla piena efficienza della sua forza armata e alla solidità della sua potenza economica; fiduciosi nell’avvenire della nazione che con slancio pari alla gravità del momento ha saputo rispondere all’appello che dai suoi governanti veniva lanciato; mentre plaudono all’operosità di quelle istituzioni cattoliche di credito che seppero valutare gli attuali bisogni della Patria, fanno voti che i cattolici tutti, privati cittadini ed organizzazioni economiche, concorrano alla sottoscrizione del prestito nazionale con patriottico entusiasmo per attestare che l’Italia sa trovare nel sacrifizio dei suoi figli le ragioni e la fòrza della sua grandezza avvenire.
Non si poteva desiderar di più in tema d’amor nazionale, di militarismo e di fervore guerresco.
* ♦ ♦
Benedetto XV non esercita solo verso l’Italia le sue virtù diplomatiche. Da qualche tempo anzi egli rivolge i suoi sguardi alle nazioni colpite dalla grande guerra e cerca di ingraziarsele. Però l’esito non risponde all’intento. E la ragione fondamentale è precisamente nell’arte diplomatica che Benedetto XV cerca di affinar sempre più. Se fosse lecito un richiamo letterario, si potrebbe dire della politica pontificia ciò Che Rostand poneva in bocca a Girano riguardo all’amore:
temo......................................
. . . che il fino del fino sia la fin delle fini!
Il papa infatti si è trincerato dietro al suo atteggiamento di neutralità assoluta, il quale atteggiamento se è consentito dalla politica non è purtroppo consentito dalla religione. Avviene pertanto che la politica del papa non se ne avvantaggia e la religione vi perde.
Delle molteplici iniziative tentate dal papa una appena è stata presa in considerazione, ed era quella precisamente a cui nessun belligerante avrebbe potuto opporre un rifiuto anche se fosse stata proposta dal pii: modesto tra gli uomini, lo scambio cioè, dei prigionieri, che le ferite avessero reso per sempre invalidi alla guerra.
Ma contro questo effimero risultato, gli insuccessi sono stati molteplici e gli imbarazzi creati al pontefìcie dalla sua neutralità ad oltranza, innumerevoli. Basterebbe per tutti, ricordare quelli causatigli dalla pastorale del card. Mercier, dal sequestro della sua preghiera prò pace, dalla animosità accesasi contro di lui fra i cattolici del Belgio e della Francia.
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Io non giudico qui l'opportunità o meno della famosa pastorale dell’arcivescovo di Malines, nè se i tedeschi abbiano avuto ragione nell’interdirla. Ma il fatto solo che tale interdetto vi è stato e che un atto dell’autorità ecclesiastica, — bene o male esercitato, — aveva subito violenza, avrebbe dovuto commuovere il Vaticano e indurlo ad intervenire per tutelare la dignità della Chiesa e della porpora cardinalizia. Invece, per non compromettersi, il Vaticano si chiuse in un riserbo che era ridicolo. Alle osservazioni che venivano facendo giornali d’ogni specie, i fogli cattolici rispondevano o credevano rispondere indirettamente, ricordando ciò che nel 1860-61 era stato fatto dal nuovo governo italiano nelle provincie dello stato pontificio allora occupate. E ricordavano come parecchi vescovi e cardinali fossero stati coartati nell’esercizio del loro ministero e nella loro libertà personale, rimproverando chi si commuoveva o mostrava commuoversi pel card. Mercier e domandava al papa di proteggerlo e di protestare. Tali giornali cattolici non narravano però i fatti che a metà: lasciavano cioè il racconto là dove avrebbero dovuto dire che Pio IX aveva solennemente protestato e lanciato l’anatema contro i violentatori dei vescovi di quel tempo, cosa che Benedetto XV non ha osato di fare.
Il papa d’oggi si limitò ad incaricare il nunzio apostolico a Bruxelles di fare un’inchiesta sulla coercizione esercitata contro il card. Mercier, e il nunzio — manco a dirlo — trovò che tutte le cose erano andate senza violenza e senza proteste da parte dell’arcivescovo. Questi invece, dal canto suo, continuava e continua tuttora a dichiararsi vittima di prepotenze del nemico come vescovo e come uomo. Evidentemente 0 il cardinale o il nunzio hanno mentito. Menzogna patriottica o menzogna diplomatica?
Tale fatto non fece Che aumentare il malumore dei cattolici belgi contro il Vaticano che, secondo essi, parteggiava per i loro nemici. Tanto che il giornale cattolico Le Siede XX, ufficioso del presidente del gabinetto belga De Brocqueville, nel numero del 20 gennaio accusava apertamente l’organo ufficiale della Santa Sede di essersi mostrato parziale a favóre della Germania, cestinando quel che fosse favorevole al Belgio. E giungeva a dire che VOsservalore Romano si è posto alla stregua di úna succursale del « Wolff Bureau » (l’agenzia ufficiale germanica), dimenticando l’attaccamento dei cattolici belgi al Vaticano e la loro generosità per l’obolo di San Pietro per anteporvi gli interessi del Luteranismo tedesco.
Certo questo malumore deve avere preoccupato Benedetti) XV, poiché, nell’allocuzione tenuta nel concistoro del 22 gennaio, credeva opportuno ricordare espressa-mente il popolo belga, non perchè soggetto a prove particolarissime, ma perchè affezionato alla sede pontificia. Ma l’allocuzione aveva una più vasta importanza pel fatto che in essa Benedetto XV tentava di giustificare la propria neutralità. Così infatti, egli si esprimeva:
Il proclamare che a nessuno è lecito, per qualsivoglia motivo, ledere la giustizia, non v’ha dubbio che appartenga massimamente al Romano Pontefice, come a colui, che da Dio è costituito supremo interprete e vindice della legge eterna: e Noi senza ambagi lo proclamiamo, riprovando altamente ogni ingiustizia, da qualunque parte possa essere stata commessa. Ma coinvolgere l’autorità pontificia nelle contese stesse dei belligeranti, non sarebbe per fermo nè conveniente nè utile. Certo, chiunque giudichi ponderatamente, non può non vedere che la Sede Apostolica in questa lotta immane, pure
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essendo nella più grande preoccupazione, ha da mantenersi perfettamente imparziale. Il Romano Pontefice, in quanto è Vicario dì Gesù Cristo ch’è morto per tutti e singoli gli uomini, deve abbracciare in uno stesso sentimento di carità tutti i combattenti; in quanto poi è padre comune dei cattolici, ha da una parte e dall’altra dei belligeranti gran numero di figli, della cui salvezza deve essere ugualmente e indistintamente sollecito. E quindi necessario ch’egli riguardi in essi non gl’interessi speciali che li dividono, ma 11 comune vincolo della Fede che li affratella; se facesse altrimenti, non solo non gioverebbe punto alla causa della pace, ma, ch’è peggio, creerebbe avversioni ed odi alla religione ed esporrebbe a gravi turbamenti la stessa tranquillità e concordia intèrna della Chiesa.
Però, pur tenendo per nessuna delle due parti, dell’una e dell’altra, come abbiam detto, ugualmente ci preoccupiamo; mentre che con angosciosa ansietà, teniam dietro alle terribili fasi di questa guerra, tanto più che è a temersi non forse la violenza nell’attacco trascenda talvolta ogni misura. Se non che, come è naturale, colà ci torna più insistentemente il pensiero, ove più vivo si nota nei figli l’affetto riverente verso il Padre dei fedeli: e di ciò, per quanto, ad esempio, riguarda il diletto popolo belga, testimone è anche quella lettera che indirizzammo testé al cardinale arcivescovo di Malines.
E facciamo qui appello ai sentimenti di umanità di coloro che varcarono i confini delle nazioni avversarie, per iscongiurarli, che le regioni invase non vengano devastate più di quanto sia strettamente richiesto dalle ragioni dell’occupazione militare, e che, ciò che più monta, non sian feriti, senza vera necessità, gli animi degli abitanti in ciò che han di più caro, come i sacri templi, i ministri di Dio, i diritti della religione e della fede. Riguardo poi a quelli che veggono la loro patria occupata dal nemico, intendiamo benissimo quanto debba riuscir loro gravoso lo star soggetti allo straniero. Ma non vorremmo che la bramosìa di ricuperare la propria indipendenza, li spingesse specialmente ad intralciare il mantenimento dell’ordine pubblico, e a peggiorare perciò di gran lunga la lóro condizione.
Leggendo queste righe non può non ritornare alla mente la storiella di colui che voleva salvar capra e cavolo. Non c’è che il vuoto di una dissertazione accademica. Ciò appunto rilevava per i belgi un noto scrittore belga anch’esso, Roland de Marès, in un articolo pubblicato nel Temps di Parigi del 27 gennaio, in cui si diceva tra l’altro:
Quanto la lettera del cardinale Mercier, alla quale ha tenuto dietro un lungo fremito di emozione rispettosa e riconoscente, non solo nel nostro paese e fra i nostri cattolici, ma in tutto il mondo intero, quanto questa lettera dà una idea più alta di dovere cristiano! Quanto la lezione di coraggio civile che essa contiene colpisce lo spirito delle folle più che non le troppo abili dissertazioni del papa!
Quale dovrà essere il turbamento dei fedeli belgi quando ricorderanno i commoventi appelli che la Santa Sede rivolgeva ai popoli per la redenzione universale, ogni volta che i cristiani venivano maltrattati nelle contrade di Oriente? Ma ora, il Vaticano non osa protestare quando si assassinano i cattolici, quando si torturano i preti, quando si impedisce, nel Belgio, ad un cardinale arcivescovo di compiere liberamente la sua missione religiosa.
Le persecuzioni e i delitti sono dunque meno odiosi, quando essi sono opera di cristiani contro cristiani? La preponderanza dello spirito cattolico ha sempre cagionato gravi delusioni alla Chiesa Romana, in Europa sono numerosi i fedeli che rimpiangeranno amaramente che Benedetto XV non abbia saputo liberarsene fin dall’inizio del suo pontificato.
Come si vede e come del resto è noto da infiniti altri documenti, il Belgio, all'uscire dalla terribile prova, non dimenticherà facilmente l’atteggiamento del papa di Roma.
In Francia le cose non volgono meglio. Pareva dapprima che un risveglio cattolico vi si venisse operando, causato dal sentimentalismo e daljsenso atavico ridestano]
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tosi nell’ora del pericolo, ma Benedetto XV si è affrettato a gettare acqua su questo focherello. La stessa Croix di Parigi teneva verso i giornali clericali d’Italia il medesimo linguaggio e rivolgeva loro le medesime accuse che, come abbiam visto, il più importante dei giornali cattolici belgi faceva all’organo pontificio.
Del resto la stampa francese è rimasta sorpresa e sdegnata — a torto o a ragione — per l’atteggiamento di Benedetto XV riguardo alla violazione della neutralità belga e della freddezza dimostrata nel caso Mercier. Si credeva Che il papa s'avesse a mostrare più caldo difensore d’un paese cattolico. Piti che nella stampa parigina — la quale si è mostrata severa col papa ma con una certa moderatezza per non urtar troppo i clericali e porre in pericolo la « sacra unione » — nella stampa dei dipartimenti si trovano violentissime requisitorie contro il papa. E, ciò potrà sembrare strano a molti, molte di tali requisitorie sono scritte da sacerdoti. Un esempio di esse lo desumiamo dal Le Petit Dauphinois di Grenoble del 12 gennaio, in cui un sacerdote (lo sappiamo da fonte sicurissima), naturalmente sotto il velo dell’anonimo, pubblicava un articolo dal titolo « Dieu n’est pas neutre », da cui stralciamo i seguenti periodi (1):
In questo atroce conflitto non si doveva trovar altro in Vaticano che la diplomazia, per quanto onorevole, rispettabile, caritatevole essa sia? Col più profondo rispetto pel papa e pel suo alto ufficio noi pensiamo che egli abbia una più grande missione da compiere.
Il papa ed il Cardinal segretario di Stato mettono una cura estrema nell’affermare la loro neutralità assoluta, come se parlassero in nome di un qualunque Stato neutrale! Ciò ci par logico sino a un certo punto. Non si comprenderebbe che il sommo pontefice « padre comune dei fedeli » parteggiasse per la Triplice Alleanza o per la Triplice Intesa in una guerra se questa non fosse che un conflitto ‘politico. Noi pertanto non protestiamo contro la neutralità teorica della Santa Sede in una lotta d’interessi nazionali.
« Ma, Beatissimo Padre — osiamo dirgli — non vedete che la guerra attuale è divenuta quasi Subito una guerra d’idee, una lotta di principii contrari tra i quali un essere morale deve scegliere e non può restarsene senza scegliere?
« Voi vi proclamate neutro, voi rappresentante di Cristo! Ma che forse il diritto è neutro? Che forse la Giustizia c neutra? Che forse l’Umanità, la Pietà, la Bontà sono neutre? Che forse Dio è neutro?... Potete voi restar neutrale tra l’innocente e l’assassino, fra la vittima e il carnefice?
« Si dice che la Santità Vostra abbia l'ambizione di rappresentare una parte importante, politica e diplomatica su questa terra e di essere rappresentato al futuro Congresso per la pace... E sia pure.
« Solo, Beatissimo Padre, a ragione o a torto, voi non siete uno Stato, neppur neutrale. Voi non avete un esercito nè una flotta. I vostri interessi materiali sono minimi, minori di quelli del principe di Monaco... Il vostro regno, potete ripeterlo fieramente, non è di questo mondo, ed in ciò giustamente consiste la bellezza, la nobiltà, lo splendore della Tiara romana... Se siete un Sovrano che possa rivendicare una voce nell’assemblea delle Potenze, bisogna che facciate appello ad un’altra potenza che vi sia propria. E quale potrebbe essere se non quella di affermare il Diritto e di difendere la Giustizia e l'Amore verso e contro tutti?
« Ora, sino ad oggi, il papa Benedetto XV non ha dimostrato al mondo la sua potenza di affermare il Diritto; di proclamar ciò che è giusto e d’anatematizzare i cattivi.
(1) Diamo il documento solo pel suo significato e quale sintomo degli spiriti religiosi in Francia. Avendo le nostre cronache soprattutto carattere espositivo non è in esse che possiamo formulare il nostro giudizio sulla guerra.
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« Si degni la Santità Vostra, faccia a faccia col Crocifisso, chiedersi ciò che avrebbero fatto di fronte al cumulo dei delitti tedeschi, i grandi papi: Leone, Gregorio, Innocenzo, Bonifacio, Pio, ecc. Avrebbero essi tollerato, questi illustri e venerati prodi della teocrazia, il massacro di donne, di fanciulli, di sacerdoti; l’incendio di città aperte, la distruzione di chiese? . .
« Beatissimo Padre, il vostro silenzio è stato per molte anime religiose una prova supplementare e dolorosa. Lovanio, Termonde, Ypres, Malines, Dinant, Senlis, Reims, Arras e Soisscns: il martirio di queste città doveva commuovere la coscienza del papa, del sommo sacerdote. Il Cardinal Della Chiesa poteva soffrire e tacersi. Il diplomatico poteva dolorarne in secreto: il Papa doveva parlare.
«Storicamente, logicamente, voi siete Colui che parla, avvenga quel che vuole, senza timore, senza paura. Dalla cattedra su cui siete assiso, o papa, tutto il mondo attende la parola doverosa, quando anche tutte le altre bocche si tacessero...
« Oh! Santo Padre, non si tratta più ora di politica, nè dell’urto di alleanze... Si tratta che i vostri figli soffrono ed i più innocenti tra essi, per ordine di qualche potentato. Perchè voi tacete? Perchè ve ne restate neutro tra questi abominevoli potentati e le loro vittime?
« Gesù Cristo non sarebbe neutro! »
Questo articolo produsse vivissima emozione tanto ehe il vescovo di Grenoble credette necessario confutarlo immediatamente con una sua pastorale. Ciò non impedì che le polemiche si accendessero vive, pose anzi legna al fuoco. Nè solo in questa diocesi si agitano le polemiche, ma in tutte le diocesi di Francia.
E queste diatribe hanno trovato nuova esca nella preghiera « prò pace. » — curiosa una preghiera per la pace che fa riardere la guerra' — che Benedetto XV ha composto, prescrivendo che sia recitata in tutte le chiese d’Europa. La composizione di Benedetto XV non soddisfece i francesi, compresi i vescovi, che non si acconciavano alla pace accademica implorata dal papa, ma volevano, come si esprime il card. Amette, arcivescovo di Parigi, « la pace che suppone il trionfo ed il regno del diritto », o, come scriveva il vescovo di Agen, « una pace che possa essere onorevole e sòlida e per conseguenza giusta e metta i provocatori in condizione di non muoversi più », o, finalmente, come affermava il vescovo di Limoges, « si deve ottenere una pace con la vittoria ».
Il governo francese, il 2 febbraio, fece sequestrare le copie della preghiera pontificia, dichiarando che ne avrebbe permesso la pubblicazione solo dopo che fosse stata riconosciuta giusta la interpretazione datane dal cardinale Amette e da tutti i vescovi francesi. E sembra che lo scopo sia stato ottenuto e che l’interpretazione dell’episcopato francese sia stata considerata come autorizzata, poiché il giorno dopo il sequestro veniva revocato.
Ma, naturalmente, i vescovi tedeschi ed austriaci, domanderanno a Dio, con la preghiera di Benedetto XV, una pace vittoriosa per le loro nazioni. E anche la loro interpretazione sarà senz’altro autorizzata dal Vaticano. Altrimenti Che ne sarebbe della neutralità pontificia? Non abbiam visto forse editori cattolici d’Italia pubblicare la traduzione della pastorale del card. Mercier, ma affrettarsi a far lo stesso per la lettera collettiva dell’episcopato germanico?
Ritornando alle cose di Francia, « è un fatto — come mi scriveva un amico sacerdote — che il nuovo papa è impopolare ed anche screditato in tutte le diocesi francesi. Tutta la sua abilità durerà grave fatica per ristabilire il suo prestigio. I
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reazionari che si sforzavano a preparare un movimento retrogrado ed un preteso « rinnovamento cattolico » sono sconcertati ».
Non si può dire, in verità, che la diplomazia di Benedetto XV abbondi di successi!
Tutto lo spaventoso orrore, che nessuna penna potrà descrivere e nessuna parola ridire, che ho provato tra le ruine di Avezzano all’indomani dell'immenso disastro, è nulla di fronte all’orrore che ha prodotto nell’animo mio il linguaggio orribile da parte della stampa clericale italiana. Essa ha gridato immediatamente: Digitus Dei est ¡tic: è Dio che nella sua vendetta e nel suo furore ha distrutto tutti questi paesi, ha accoppato tutti questi uomini!
Io non esagero. Ecco qualche passo, che traggo dall’ÌJwitó Cattolica, come documentazione:
In mezzo a tanta calamità si dovrebbero innalzare i cuori a quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, per iscongiurarlo a risparmiare ed a perdonare il suo popolo.
Queste tribolazioni ci dovrebbero far conoscere quanto male sia nei privati e pubblici costumi, perchè Iddio punisca città intere così miserabilmente.
Ci dovrebbero avvisare della gravità del gastigo, non meno che della gravità della colpa, è un nuovo esperimento del gran male di avere abbandonato il Signore e di non avere odiato ogni via iniqua.
Queste tribolazioni dovrebbero indurci efficacemente ad abbandonare il peccato ed a convertirci a Dio: dovrebbero farci riconoscere nel flagello del terremoto non il solo effetto di forze brute, che compiono il loro naturale esplicamento ma la mano maestra e la sapienza di chi ha dato alla materia questa forza flagellatrice, di chi la conserva, la dirige. (N. del 15 gennaio).
Parlare agli increduli è cosa vana. Ai soli cattolici perciò noi rivolgiamo il nostro discorso, poiché la fede religiosa vera non è che una sola (Fides una). I tremuoti ci assicurano abbastanza che Dio C’è e si fa sentire. Che se Egli insieme ai rei ha colpito anche i giusti non cessa perciò di essere amorosissimo Padre. Poiché la fede ci assicura che giustamente furono puniti i rei, come, anzi tempo, premiati i giusti. (N. del 17 gennaio).
Le vittime innocenti non che punite, ma premiate sono coll’acquistar anzi tempo, la beatitudine celeste, ai superstiti che baciano la mano che li flagella, la calamità serve ad espiazione di loro colpe; e solo per coloro che non sanno tollerarlo pazientemente, il flagello è castigo, specie per coloro che periscono ostinati nel peccato.
Quindi è che Dio manda i flagelli.
Il terremoto perciò, come tutti gli altri pubblici flagelli, è senza dubbio causato dalle gravi colpe degli uomini e quindi un monito solenne, ai delinquenti anzitutto perchè rinsaviscano; a tutti, poi, perchè giusta lor grado e potere si oppongano al male morale, causa delle pene e dei castighi, temporali ed eterni. (N. del 31 gennaio).
All’indomani del disastro di Messina e Reggio i clericali ci ripetettero la stessa cosa. Vi fu persino un cardinale, il Lorenzelli, allora arcivescovo di Lucca che nella sua cattedrale — come riferisce il cattolico Esare di quella città nel n. dell’8 gennaio 1909 — filosofeggiava sulle intenzioni di Dio, il quale, come il cardinale si esprimeva « in questi tempi sovversivi ed anarchici, mandando il terremoto, ha tenuto a mostrare che-vuol salva anzitutto l'Autorità, e perciò nella virtù onnipotente della sua mano ha tenuti incolumi i maggiori ministri della sua maestà divina nell’ordine ecclesiastico e nell’ordine civile ». Lo stesso, purtroppo, non ha tenuto a mostrare ad Avez-
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zano! All’indomani di ogni sventura son venuti i clericali a sventolar sotto il naso dei colpiti questo loro formidabile Dio (1).
Ebbene, io credo che occorra esser giunti al più profondo grado di atonia morale o di degenerazione criminale per concepire e proclamare Dio — in cui noi assommiamo e personifichiamo tutte le perfezioni, particolarmente la bontà— come un vendicativo feroce e vile che per la colpa di qualcuno, se colpa vi è stata, stritola un popolo intero con furia cieca: bambini inconsci e innocenti creaturine, donne santificate dalla maternità, o giovanotte nel fior degli anni, o vecchie pie, 0 uomini che nel rude, tormentoso, estenuante lavoro passavano la semplice vita. Perchè non bisogna dimenticare che nella regione travolta quel popolo era davvero l’esempio della modestia, dell’attività, della tranquillità, della docilità, della temperanza, religioso sino alla esagerazione, sino alla superstizione.
Bisogna esser pazzi per supporre che sia Dio che si prende il gusto orribile di spappolar la testa d'una tenera creatura sul seno stesso d’una madre restata per sua sventura in vita, o privare per soddisfar la sua ira tanti figliolettti di tutti i loro cari, o strappare ai genitori tutti i loro affètti, o sotterrar vivi e far morir poi pel terrore, per fame, per freddo, per la disperazione infiniti disgraziati...
Ambrogio, il grande vescovo di Milano, respingeva sdegnosamente dal tempio santo l'imperatore Teodosio, che aveva raso al suolo la ribelle Tessaloniea e passatone a fil di spada tutti gli abitanti, precisamente perchè se qualcuno di questi era colpevole di fellonia, altri certo erano affatto innocenti.
Chi sarà l’Ambrogio che scacci via per sempre dal tempio dell’umanità questo presunto Dio dei clericali?
Noi abbiamo, per fortuna, un altro concetto della divinità. Rallegriamocene!
Ernesto Rutili.
(1) Mi capita sott’occhio, mentre correggo le bozze di questo articolo, il numero del 23 febbraio corrente áñW Unità Cattolica in cui, sotto il tìtolo ■ Casi che non sono casi », si legge quanto segue:
« Raccogliamo dal Catholic Times alcuni particolari che è bene far conoscere ai nostri lettori. ..
« Il prof. C. I. Stokley, parlando degli Orangisti, una setta di fanatici protestanti la cui re igione consiste specialmente di maledire al Papa ed ai cattolici, fa menzione di certi atti ignorati e passati sotto silènzio dai giornali.
« Afferma adunque questo illustre professore che il « Titanio » (il famoso transatlantico calato negli abissi dell’oceano) essendo stato costruito nei cantieri di Belfast, gli operai Orangisti ne andavano oltremodo superbi : lo dicevano insommergibile éd ar rivarono fino al punto di sfidar Dio a farlo naufragare. Difatti sulle pareti dell’ immenso piroscafo essi avevano scritte queste precise orribili bestemmie:
« Neppur Cristo potrebbe affondare questa nave. Non v'è Dio che sia capace di sommergerla ».
U Unità Cattolica vuol mettere evidentemente in rapporto ciò che avrebbero scritto gli arsenalotti di Belfast con l’affondamento del grande piroscafo. Ma io mi domando, ed i lettori se lo domanderanno con me, perchè il Signore, invece di punire i presunti bestemmiatori, fece miseramente annegare gli innumerevoli passeggeri del « Titanio », che certo non avevano nulla a spartire con i costruttori del disgraziato vapore...
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I LIBRI
UNA MONUMENTALE GRAMMATICA DEL GRECO NEOTESTAMENTARIO.
A Grammar of the Greek New Testament in the Light of Historical Research. By A. T. Robertson, D. D. (i).
Sei anni fa, nella prefazione della « Short Grammar of the Greek New Testament », il prof. Robertson promise che avrebbe dato al pubblico studioso un’opera più estesa sullo stesso soggetto. Ora egli ha mantenuto la sua promessa col darci un volume di quasi millecinquecento pagine in 8° grande.
La mole dell’opera si spiega se si tien conto dello scopo dell’autore. In primo luogo è, secondo il Moffatt, una grammatica completa. Il Winer, che è stato per mólti anni l’autorità più conosciuta e più seguita in questo campo è divenuto ormai antiquato. Lo Schmeidel smise la revisione del Winer quindici anni or sono lasciando il lavoro a metà. Il Moulton ci ha dato soltanto il primo volume della sua grammatica. La quarta edizione del Blass, riveduta dal Debrunner, è un lavoro di valore, benché non sia tanto esauriente. Solo al Robertson spetta il merito d'aver dato al mondo la prima grammatica completa del Nuovo Testamento basata sulle ricerche storiche. Egli principiò ventisette anni or sono la revisione del Winer, ma dopo poco tempo vide che quel lavoro non gli era possibile senza fare una nuova grammatica seguendo un nuovo, piano, specialmente
(i) Gli editori Hodder & Stoughton di Londra ne hanno concesso alla nostra Libreria Editrice • Bilychnis • il deposito per l’Italia. Prezzo del volume rilegato L. 30, franco di porto.
in vista del progresso compiutosi nel campo della filologia comparata e della grammatica storica. Il Robertson ci dice come egli ereditò questo compito dal suo predecessore nella scuola teològica Battista di Louisville, il Broadus, il quale era stato discepolo di Gessner Harrison, della Virginia, che fu tra i dotti d’America il primo a far uso della » Grammatik Ver-gleichende » del Bopp. Oltre la parte strettamente grammaticale dell’opera, la filologia comparata, che fu fondata dal Bopp S>. io), occupa costantemente il pensiero ell’autore. Lo studioso troverà inoltre in questo volume l’esegesi come pure la storia del greco del N. T. in relazione colle altre lingue antiche e moderne. È l’opera di un entusiastico campione del metodo storico nello studio del N. T.
Le differenze salienti fra il greco del N. T. e quello degli scrittori classici sono state notate spesso e varie spiegazioni ne sono state date. Alcuni sostennero la teoria ch’esse siano dovute all’influsso della lingua ebraica adoperata in gran parte dai primitivi Cristiani. Così il greco del N. T. veniva considerato come una cosa a parte o secondo qualche teologo, addirittura come una lingua speciale dello Spirito Santo. Il Robertson naturalmente non accetta simili teorie ed afferma che il linguaggio del N. T. fu, per lo più, la lingua della vita ordinaria nel mondo greco-romano al principio dell’epoca cristiana. Egli dice: « Il greco del N. T. non è una escrescenza, ma uno sviluppo naturale nella lingua greca ed è, in realtà, una parte non indegna della lingua materna. Essa non fu estranea alla " lingua mondiale”, ma fu nel cuore stesso di questa ed agì molto sensibilmente sul-
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THE PLACE OF THE NEW TESTAMENT IN THE KOINH 85 reconciliation. Yet its literary excellence is not accidental. The elements of that excellence can be analyzed.” In an age of unusual culture one would look for some touch with that culture. « I contend, therefore, that the peculiar modernness, the high intellectual standard of Christianity as we find it in the N. T., is caused by its contact with Greek culture.”1 In his helpful article onN. T. Times Buhl2 underrates, as Schürer3 does, the amount of Greek known in Palestine. It is to be remembered also that great diversity of culture existed among the writers of the N. T. Besides, the educated men used much the same vernacular all over the Roman world and a grade of speech that approached the literary standard as in English to-day.’* One is not to stress Paul’s language in 1 Cor. 2:1-4 into a denial that he could use the literary style. It is rather a rejection of the bombastic rhetoric that the Corinthians liked and the rhetorical art that was so common from Thucydides to Chrysostom? It is with this comparison in mind that Origen (c. Celsns, vii, 59 f.) speaks of Paul’s literary inferiority. It is largely a matter of standpoint. Deiss-mann6 has done a good service in accenting the difference between letters and epistles. Personal letters not for the public eye are, of coins, in the vernacular. Cicero’s Letters are epistles written with an eye on posterity. “ In letters one does not look for treatises, still less for treatises in rigid uniformity and proportion of parts.”7 There may be several kinds of letters (private, family, pastoral or congregational, etc.). But when a letter is published consciously as literature, like Horace’s Ars Poetica, for instance, it becomes a literary letter or epistle. Epistles may be either genuine or unauthentic. The unauthentic may be either merely
« Mahaffy, Prog, of Hellen., p. 189. 3 Ext. vol. öf Hast. D. B.
3 Jew. Peo. in Time of Jes. Ch„ div. II, vol. I. pag. 47 f. He admits a wide diffusion of a little knowledge of and easy use of Gk. among the educated classes in Palestine.
4 Cf. Norden, Ant. Kunstpr., Bd. II, pp. 482 ff., for discussion of literary elements in N. T. Gk. Deissmann makes “ a protest against overestimating the literary evidence ” (Theol. Bunds., 1902, pp. 66 ff.; Exp. Times, 1906, p. 9) and points out how Norden has missed it in contrasting Paul and that ancient world, merely the contrast between noh-literary prose and artistic lit. prose.
6 Sirncox, Lang, of the N. T., p. 15.
6 B. S., pp. 16 ff. However, one must not think that the N. T. Epistles always fall wholly in one or the other category. Bamsay calls attention to the “ new category ” in the new conditions, viz., a general letter to a congregation (Let. to the Seven Chur., p. 24).
7 lb., p. 11. See also Walter Look, The Epistles, pp. 114 ff., in The Bible and Chr. Life, 1905.
Saggio di una delle 1500 pagine della ** Grammatica del Greco Neotestamentario ** del Prof. A. T. Robert
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l’avvenire della lingua greca ». In altre parole, l’autore dimostra che la lingua del N. T. come pure quella dèi LXX fu la stessa che si adoperava nei paesi conquistati da Alessandro Magno e die rassomiglia più alla lingua volgare parlata in Atene oggi che a quella di Tucidite e Senofonte. Questa lingua veniva chiamata Kow» (s’intende StdXix-ro«) che vuol dire « linguaggio comune ». L’epoca della Kowi va dall’anno 300 a. C. fino all’anno 330 d. C.
Questa grammatica monumentale viene divisa in tre parti, cioè: Introduzione, Etimologia e Sintassi. Seguono quindi le Note e gl’indici dei soggetti, dei vocaboli greci e delle Citazioni. Questa ultima parte è contenuta in 137 pagine. L’Introduzione è affascinante come un romanzo, special-mente quella parte che tratta del Afaoco Materiale, del Metodo Storico e della Kwn. Grazie alle molteplici nuove iscrizioni portate alla luce dal Deissmann e alla nuova conoscenza dei papiri e degli ostraca s’è arricchito notevolmente il materiale della Kow* e quindi riesce più agevole lo studio della lingua popolare greca.
Il maggior contributo è dato dai papiri di cui si sono pubblicati molti volumi. Questi documenti sono scritti nel linguaggio della vita quotidiana e degli affari. Ecco quel che dice in proposito il Deissmann: « II papiro è vivente; sono degli autografi con le caratteristiche individuali degli scrittori... sono occhiate che si danno alla vita personale, nei cantucci pei quali la storia non ha occhi, nè gli storici occhiali. Può sembrare un paradosso, ma s’afferma con sicurezza che i papiri non letterari sono più importanti di quelli letterari Kr lo studio del N. T. » (Citato dal Ro-rtson, p. 20).
Le ultime pagine dell’Introduzione trattano del vario stile degli scrittori del N. T. Ciò che si dice di Marco può interessarci non poco: « La teoria del Blass riguardo un vangelo originale di Marco in aramaico non è provata; ma Pietro adoperava anche l’aramaico e Marco fu bilingue come Pietro. L'idea che Marco abbia scritto in latino non merita discussione.
Tanto Matteo quanto Luca hanno quasi altrettanti latinismi quanti ne ha Marco. Questi non si distingue dagli altri special-mente per il vocabolario, perchè delle 1270 parole da lui adoperate solo 80 sono a lui peculiari fra gli scrittori del N. T. Egli ha 150 parole in comune con Matteo e Luca, mentre ha solò 15 parole in co
mune con Giovanni. Ha solo 38 parole che non si trovano nè altrove nel N. T. nè nei LXX; ma neanche queste sono tutte vere XiYojma, perchè se ne ritrovano nei papiri! Marco si compiace d’adoperare i diminuitivi come la Kowr, in generale (ijoya-rpiM, ecc.); ««« e vengono usati spesso col participio; 5* si trova adoperata coi tempi passati dell’indicativo; l’articolo si trova coH’infinitivo e colle frasi; «ù3uc e éùsìwc sono usati 40 volte; egli è emozionante e vivace, — lo si sente — perchè adopra aggettivi descrittivi, domande e punti di esclamazione. Il miscuglio dei tempi non è dovuto alla ignoranza del greco, nè alla superficialità come crede lo Swete, ma piuttosto ad un senso vero dei fatti; vi sono 151 «presenti storici», (secondo il testo di Westcott e Hort) mentre Matteo l’usa solo 78 volte e Luca 4; c’è poca estetica e grande semplicità e brio nei dettagli. In generale Marco non può considerarsi illetterato, ma più semitico che greco nella sua coltura (pp. 118-119).
Il Moffatt (nello «Expositor* di febbraio) parlando di questa Grammatica dice: « Riguardò la sintassi l’autore si dimostra un grammatico entusiastico, pronto ad appropriarsi il territorio che di diritto appartiene o al lessicografo o al commentatore. Egli è padrone pure della filologia tecnica e comparata e le referenze al greco moderno sono in un modo speciale opportune per l’insegnante... Un vecchio scrittore chiama le preposizioni nel N. T. montcs doctrinarum ed il professore Robertson ha riconosciuto pienamente la loro importanza teologica; esse sono trattate esaurientemente e minuziosamente ».
Noi che siamo stati per quattro anni alla scuola del Robertson proviamo un vero piacere nell’attirare l’attenzione dei lettori italiani sul servizio incalcolabile che l’autore ha reso alla scienza neotestamentaria. Egli ha fatto onore a se stesso e all’America. E poiché il nostro parere può sembrare a qualcuno parziale, trascriviamo qui sotto i giudizi di alcuni studiosi che non sono nè della nazionalità, nè della confessione del Robertson.
Il professore F. W. Grosheide della Freie Universiteit di Amsterdam dice: “ Per molto tempo sarà il libro più consultato da ogni Studioso del N. T. ».
Ecco Ciò che dice il dott. Mayser di Stuttgart: «Con gran premura ed interesse ho letto le prime due parti del volume fino alla pagina 376 in una sola giornata. L’o-
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TRA LIBRI E RIVISTE
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pera è assai più d’una grammatica; è piuttosto un repertorio della lingua ellenica e l’autore dimostra una padronanza completa di tutti i problemi e della letteratura intiera ».
Il prof. L. Radermacher di Vienna così s’esprime in proposito: « Con questo forte volume Ella ha ottenuto un successo meraviglioso. In quest’opera monumentale. Ella ha dimostrato abilità, sapere e profónda conoscenza ».
Forse le parole più lusinghiere sono quelle del professore di N. T. nell’università di Oxford, il dott. James Moffatt: « Al professore Robertson appartiene l’onore di aver dato alla luce una grammatica completa del N. T. basata sulle ricerche storiche, seguendo le tracce dello Jannaris piuttosto che quelle del Blass. In questa scienza l’America ha sorpassato e la Germania e l’Inghilterra e noi offriamo all’autore i nostri rallegramenti. È impossibile usare espressioni troppo elevate riguardo le dure e lunghe ricerche compiute per la creazione del libro. Noi riponiamo questo volume con un senso di gratitudine verso l’autore per il vero servizio che ha reso alla scienza della grammatica del Nuovo Testamento. Questo lavoro non è stato fatto invano. È un compito straordinario da ogni punto di vista ».
D. G. Whittinghill.
UN VOCABOLARIO
DEL NUOVO TESTAMENTO
Il Vocabolario del Nuovo Testamento.. • The Vocabulary of thè Greek Testamenti». Illustrated from thè Papyri and other non literary sources. By James Hope Moulton DD., D. Theol., and George Milligan, D.D. Part. I. (Hodder and Stoughton) L. 8.50. (Rivolgersi alla Libreria Bilychnis}.
Quest’opera, cosi lungamente desiderata dagli studiosi del Nuovo Testamento, e di cui gli autori avevano dato saggi preziosi in vari articoli apparsi ncWExpositor e ih altre riviste importanti del Regno Unito, incomincia solo ora ad essere lanciata nel dominio del pubblico. E avrà certamente il successo meritato dalla lunga fatica impiegata, dal metodo rigorosamente scientifico applicato, e dai risultati che essa presenta.
Fino a qualche tempo fa infatti era ancora opinione di molti in Inghilterra ed altrove che il Greco del Nuovo Testamento fosse solo una forma speciale del greco, prodotta dall’azione diretta dello Spirito di Dio che adattava gli elementi umani ai pensieri divini, ed alle esperienze religiose che dovevano essere espresse. Tale ipotesi, per le ragioni con cui era stata sostenuta, non era sembrata irragionevole alla grande mag-S'oranza degli studiosi, anche dopo la soline dichiarazione di Lightfoot fatta cinquantanni fa, che cioè, se si fossero potute trovare le corrispondenze private contemporanee al Nuovo Testamento, una grande luce sarebbe stata prodotta per la intelligenza perfetta di tutto il Nuovo Testamento.
Ciò che il Dottor Lightfoot aveva cosi intuito e preconizzato è stato ritrovato e compiuto in questi ultimi venti anni di ricerche laboriose. Nelle città e nei villaggi più dispersi e più lontani dell’Egitto furono trovati cumuli preziosi di papiri, di ostraka, con rapporti continui alla vita giornaliera pubblica, commerciale e privata; ricevute, contratti, affitti, vendite, insieme con medaglie e avanzi di terracotta che la gente più povera usava per le sue proprie corrispondenze. Ed il risultato fu appunto di accumulare un vastissimo materiale per lo studio del greco parlato nel periodo neotestamentario, costituito dalla forma ora universalmente chiamata: il dialetto Koiné. Il materiale è prezioso non solo per il risultato che esso offre, ma anche per le gioie non comuni che si sentono essendo portati a contatto con la vita giornaliera di quel tempo, che gli Autori hanno saputo rappresentare in ógni particolare conservando il fascino romantico del materiale scoperto ed esaminato.
Il volume si occupa solo del Vocabolario, lasciando da parte le forme grammaticali già svolte in un’altra opera dal dr. Moulton, e molte delle conclusioni presentate non possono non colpire anche il lettore non abituato al lavoro ed alla disciplina della critica. Per esempio, molti saranno subito colpiti dal fatto che il verbo è costantemente usato nei papiri e negli ostraka nel senso di « ricevo », come espressione tecnica per la formulazione di una ricevuta. Gesù usa questa parola tre volte nel Sermone della Montagna, come quando parlando degli ipocriti dice: « Essi hanno il loro premio • (versione inglese^. La Riveduta e Diodati traducono: « Essi rice-
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vono il loro premio ». La frase potrebbe allindi essere così ampliata: « Essi possono rmare la ricevuta del loro premio, il loro diritto di ricevere il premio è realizzato, {recisamente come se essi avessero già rmato la loro ricevuta per quello ». In genere però gli Autori cercano di tracciare con cura l’uso di ciascuna parola nel linguaggio comune d’allora, secondo il materiale che è così largamente a loro disposizione, creando così intorno ad ogni parola la sua propria atmosfera di ambiente, per offrire l’aiuto più efficace ai lettori del Nuovo Testamento.
Il volume di edizione elegantissima e nitida comprende solamente la lettera A. L'opera intera comprenderà sei parti, di cui la prima è ora presentata; con l’aggiunta alla fine di uno studio sistematico sui risultati ottenuti. Tutto ciò merita la più profonda gratitudine degli studiosi interessati nel difficile compito, e rende l’opera indispensabile a tutti quelli che vogliono avere una conoscenza esatta e completa nello Studio del Nuovo Testamento.
Ignazio Rivera.
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INTORNO ALLE COSE SUPREME
O. WEININGER, Intorno alle cose supreme. « Piccola biblioteca di Scienze Moderne ».
Voi. 232. Torino, Bocca, 1914, pag. vn-252; lire 3,50. (Libreria Btlychnis).
Otto Weininger non è tutto nella sua opera massima Sesso e carotiere: Ad intendere meglio questo libro ed a penetrare più a fondo nell’animo dell’autore, giova conoscere anche gli scritti minori raccolti in Juesto volume. Dico subito che io non con-ivido l'esaltazione iperbolica che da molti intellettuali si suole fare oggi del Weininger. Se riguardo l’uomo, per quanto la morale che l’autore professa negli scritti e nelle opere sia alta e virile, e non certo da uomo volgare, non fu tuttavia un forte. La degenerazione atavica della vita del ghetto per una parte, l’encefalite esagerata di coltura dall’altra dovevano scuotere i deboli nervi dell’esile rampollo d’Israele. Non basta: per intendere bene l’opera sua e la tragedia della sua vita, la catastrofe finale, occorre non trascurare la speciale condizione dell’ebreo intellettuale ih Austria, quando avido di coltura, desideroso di dedicare le sue energie migliori ai' problemi attuali, s’accorge
con un brivido nell’ànima, che una barriera insormontabile lo separa da quella civiltà nella quale vuole immergersi. Questo muro è costituito dai sospetti delle razze in lotta. D’altra parte l’anima di lui non può essere appagata nelle sue esigenze ideali, da quella vita religiosa che era il porto sicuro ai suoi antenati, dopo i travagli e le tempeste dell’esistenza quotidiana a contatto dell’ostilità del mondo. In Italia fortunatamente un caso Weininger non sarebbe possibile. Le conversioni, da noi, non sono quasi mai il risultato di tragedie spirituali, ma assai spesso colpi di speculazioni di abili ed agili animali calcolatori. Questo Werther ebraico con un colpo di pistola al cuore, si sottrae volontario disertore a 23 anni all’apostolato fecondo del rinnovamento all’anima ebraica, senza accorgersi che la paurosa concezione delle razze per cui versava il suo sangue, era in antitesi stridente coi postulati di quell’idealismo che forma la sostanza più nobile dell’opera sua. Egli che lasciò scritto, come leggiamo in questo libretto, «il suicidio non è segno di coraggio, ma di viltà, sebbene sia di tutte le viltà la più piccola ». Fu un debole. Un debole peraltro dalle aspirazioni eroiche. Anche questo volumetto postumo raccolto e pubblicato dal Rappaport, al pari del « Sesso e carattere » è pervaso per intero dal pathos di un’anima che si dibatte, si travaglia e si tortura per raggiungere una purificazione completa. Il lettore segue con commozione le varie fasi della battaglia per Sararsi a quella più grande guerra . vita a cui doveva invece sottrarsi.
Due autori hanno sopratutto contribuito all’educazione ed alla formazione della mentalità spirituale del Weininger: Kant e Fichte. La «critica della Ragion pratica» è da lui chiamata sublime, il più bel libro che mai sia stato scritto. È meravigliosa in questo giovane la severità austera con cui affronta i problemi della morale. Nello studio intorno al Peer Gynt ed Ibsen che occupa un terzo del volume la passione morale si rispecchia nell'analisi stessa, ed è messo in rilievo l’attinenza fra l’etica kantiana e l’opera di Ibsen. Bellissimo il saggio su « La Cultura » in cui i valori dell’ellenismo sono rivendicati di fronte all’americanismo e si rimette al posto privilegiato che merita la scienza spirituale, la scienza della Vernunft a cui sono subordinate le scienze empiriche, le scienze dell’intelletto.. È una battaglia contro le scienze informative a vantaggio delle formative.
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fra quelle che come dicono estendono il dominio dell’uomo sull'universo, e quelle che rivelano all’uomo la sua vera dignità' umana e divina. Sentite questo solenne aforisma: « È la misura di un uomo che sta in alto, come di una epoca che sta in alto,che tutto diventi secondario dinanzi al problema metafisico e al compito etico ». Non senza ragione Goethe ha contrapposto a Faust un Wagner che è pienamente soddisfatto del progresso delle scienze positive. « Nel filosofo e nell’artista, continua il nostro, è l’eternità, nel puro uomo di scienza, come puro essere generico, non c’è che l’immortalità del fidecommisso fedelmente conservato ed accresciuto ». Queste ed altre Ì;emmc del libro sono commiste con sassoini brillanti talvolta di livida luce, divagazioni eròtiche e stravaganti su problemi di psicologia sessuale, di metafisica sui bruti, eccetera, che chiamerei volentieri contaminazioni pseudo-scientifiche e pseudò-filo-sofiste. Quello che più attira è il suo idealismo aggressivo, la sua passione metafisica, la lotta viva e dolorosa che si combatte in lui fra le varie tendenze del pensiero contemporaneo.
Pel lettore italiano sarebbe stato consi-6liabile per non dire indispensabile, una uona prefazione introduttiva -che facesse conoscere le vicende della vita e le idee dell’autore. Felice Momigliano.
TOWIANSKI
Orazio Premoli, Andrea Towianski, contributo alla storia del misticismo contemporaneo. Roma, Francesco Ferrari, 1914.
Il titolo promette assai; per una parte il profilo spirituale del pensatore polacco (V. Bilychnis, nov.-dic. 1912), per l’altra uno studio sul movimento mistico dell’epoca in cui il Towianski visse e lavorò. La Bibliografia poi farebbe supporre addirittura un qualchecosa come le colonne d’Èrcole nel campo della letteratura e della critica towianskiana! Invece... poche meschine pagine nelle quali l’anima del Towianski è chiamata burbanzosamente al tribunale della infallibilità... non diciamo nemmeno ecclesiastica o pontificia ma... della Congregazione dell’indice per dedurne nientemeno che... il towianismo (sic) è un errore.
E poi si dice e si lamenta che in Italia nel campo degli studi religiosi non si legga... Seconda Edizione... riveduta ed ampliata... signori! vedere per credere... ed a lire 1,50 la copia...! a meno che il Premoli i suoi libri non li regali!
S. Bridget.
LE RIVISTE
IL CONCLAVE
DA CUI USCÌ BENEDETTO XIV
Ad un conclave che durò sei mesi e che fu quello per l’elezione del successore di Clemente XII nel bel mezzo del secolo xvin dedica un completo ed esauriente studio Gabriel De Mun nella Revue des deux mondes. A tutti è noto come da quel conclave ne uscisse papa il Cardinale Prospero Lambertini di Bologna, il quale prendendo il nome di Benedetto XIV fu senza dubbio uno dei papi più significativi non tanto per quello che fece, quanto per quello che seppe non fare. Ma la sua elezione fu — possiamo chiamarla così — un colpo di testa dello spirito santo nelle persone dei suoi mandati, i cardinali: i quali stanchi d’avere atteso e litigato sei lunghi mesi — qual
cuno di loro morì durante il conclave, chi disse per delusione chi per vecchiaia, senza dubbio per l’una e per l’altra — s’accordarono improvvisamente sul nome del giocondo cardinale bolognese. La storia che, nella minuzia degli episodi, è magnificamente illustrativa non era tuttavia ancora stata raccolta.
Durante le vacanze della santa sede il Sstere era esercitato dal cardinale Alessan-ro Albani, nipote di Clemente XI, colui del quale il presidente de Brosses scriveva: «è considerato assai per la sua capacità, odiato e temuto all’eccesso: senza fede, senza principio, nemico implacabile anche quando sembrava essersi riconciliato, inesauribile in risorse nell’intrigo, la prima testa del collegio e il più malvagio uomo di Roma ». Intorno al camerlengo si aggrup-
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parono nel periodo del conclave i cardinali di Clemente XI e di Benedetto XIII, mentre formarono un’altra fazione le creature di Clemente XII aggruppate intorno al card. Corsini, il tristamente famoso nipote del pontefice morto. Su tutte e due le fazioni vigilavano l’elettore di Sassonia, l’infante Don Carlos Carlo VI e il re di Francia.
Ma una questione pregiudiziale si trovò a dover risolvere il sacro collegio. Il cardinale Coscia, antico ministro di Benedetto XIII si trovava prigioniero a Castel Sant’Angelo. Doveva essere ammesso al conclave? Si decise favorevolmente e il card. Albani, di notte, lo condusse al Vaticano, poiché se la folla l’avesse visto passare l’avrebbe buttato in Tevere.
II conclave poteva dunque mettersi al lavoro. Ma all’invito dell’Albani nessuno rispose e quando questi stava per rimandare la seduta, il card. Acquaviva propose che l’assemblea soprasedesse agli scrutini finché non fosse al completo. Mancavano alcuni cardinali italiani di diocesi, mancavano dei cardinali stranieri, fra gli altri il card. Giudice, incaricato del secreto dell’imperatore. La proposta sollevò applausi e proteste. Ne gioiva la fazione Albani, ma dispiaceva al partito Corsini. Credette quindi aver buon giuoco il primo nel metterla a votazione, ma il card. Tencin apertamente la oppugnò cosicché essa fu respinta. La fazione Corsini contava così la prima vittoria: poteva posare una candidatura. E poiché i precedenti conclavi avevano ammaestrato, l’abile nipote di Clemente XII recò un cattivo soggetto, in istile conclavisti«», da sacrificare: e fu il card. Massei vescovo di Ancona. I primi scrutini non davano indicazione precisa. Doveva il Corsini mettere avanti l’altro candidato che teneva in riserva: il card. Riviera? Dopo avere tentato invano di persuadere l’Acquaviva, il quale s’era messo in un contegno enigmatico e che dal canto suo voleva posare la candidatura del card. Ruffo, a sostenerlo, il 22 febbraio il Riviera fu proclamato ufficialmente. Non ottenne che 17 voti e manifestatosi lo scacco della manovra del Corsini, l’Acquaviva s'alzò e propose addirittura il Ruffo. Ma per un voto questi non fu papa. Dovette attendere il 26 febbraio il Corsini per riprendere l'iniziativa delle proposte: questa volta posò la candidatura Spinola. E fu nuovamente sconfitto. Allora pensò di accomodarsi con Ottoboni, Giudice, Acqua-viva e Tencin; ma gli uni rifiutarono di compromettersi prima di aver scritto a
Vienna e a Madrid, gli altri attendevano istruzioni dal re di Francia. Fu in seguito ad un diverbio avvenuto dopo questo colloquio infruttuoso pel Corsini che questi inveì contro il vecchio Ottoboni, il quale reagì con le parole e con le mani tanto vigorosamente da prendere una congestione che lo portò al sepolcro.
L’occasione clamorosa poteva essere utilmente scelta dagli avversari del Corsini per lavorargli contro: difatti l’Albani non risparmiò insinuazioni ecalunnieche trovarono facilmente terreno propizio. Ma il conclave stagnava in una monotonia inconcludente. La morte del card. Altieri distrasse l’animo dei cardinali, ma troppo. Poiché discutendo il testamento del morto i cardinali Sacripante e Corio vennero a così male parole che si azzuffarono e buttarono per terra, e il Rezzonico li trovò appunto in questa posi ■ zione così poco ecclesiastica.
Corsini era deciso a ritirarsi dalla lotta, ma i suoi amici lo pregarono tanto che egli cedette ad una condizione: che si attendesse per dare battaglia, l’arrivo del card. Rohan. Di fatti fu questi per lui un prezioso ed assiduo patrocinatore e consigliere. Sollecitato il Corsini ritornò alla prova col Rohan e col Tencin contro Acquaviva e Giudice nel nome di Massei. Ma gli risposero dodici voti. Il Rohan disperò di fare il papa da solo e consigliò il Corsini d’accordarsi col-l’Albani. Ma il nipote di Clemente XII non voleva così facilmente cedere: due giorni dopo egli proponeva, per conto suo, il Gentile che raccolse 19 voti. Oramai era finita. Il Corsini interessò il Rohan perchè a nome suo negoziasse con l’Albani, ma questi rispose che quando si è sicuri della vittoria non ci si occupa d’alleati interessati. Fu per questo che arrivò il mese d’aprile senza che i cardinali potessero neppure sperare di uscire di prigione. Neppure la sortita del card. Porzia di porre da sé la sua candidatura valse, quantunque gli fruttasse trenta voti. Esasperate anzi da questo, le due fazioni pareva non riuscissero a mettersi d’accordo, neppure dopo aver fatti gli esercizi spirituali nel tempo pasquale. Verso la fine d’aprile Corsini si riprovò nel nome di Spinola. Ma l’Albani e l’Acquaviva coalizzati gli opposero 25, 27 e 30 suffragi. La fazione Corsini evidentemente andava di scacco in scacco, ma neppure l’Albani vinceva. Ci voleva un colpo di testa: il 5 maggio il card. Cibo della fazione Albani, domandò pubblicamente al Corsini conto dell’amministrazione vaticana e gli rinfacciò il de-
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bito di quattro milioni di scudi di cui era gravata la camera apostolica. Il colpo non fu bene assestato giacché la difesa del Corsini, meglio, l’abile modo col quale sfuggì ad una risposta diretta, valse a- cattivargli le simpatie degli altri. Questa volta fu l’Albani che pensò di trattare col Corsini. L’accordo si fece sul card. Gotti; ma vi si opponeva Tencin. E Gotti non fu eletto. Ma soffrì più il partito Albani che quello Corsini e questi risolse di presentare subito il suo amico e compatriota Delci. Il successo Sireva sicuro. Tencin aderì subito, con lui indice e Kollonitz, Acquaviva gli era parente. Invece Delci non ottenne che 25 voti. Acquaviva aveva promesso di votare a favore coi suoi, e votò contro. Oramai questo conclave di cinque mesi snervava tutti: « Noi ci troviamo — scriveva il card. Qui-nini — dentro la selva oscura di Dante, Sstendo aggiungere, ben a ragione che la ¡ritta via era smarrita ».
La morte intanto toglieva un altro elettore: il card. Cenci e non si sa se per timore o per che cosa, parve, che questo fatto avesse persuasi i cardinali a decidersi. Quando sorse la candidatura Firrao Acquaviva e Rohan mandarono le argenterie nei loro palazzi e si fecero portare gli abiti di cerimonia, sicuri di aver finito. Ma Firrao
Cadde in mare e non s'annegò Portò le fasce e non le consegnò Fu nunzio c non entrò: fu Segretario di Stato e non contò Fu papa e non regnò,
ebbe ventitré voti. Corsini lo sapeva e non s’inquietò per questo quando fu posta quella candidatura, ma ne approfittò anzi pei; lavorarsene una sua nel card. Aldovrandi. Ma l’Albani sempre vigile la sventò solo e senza aiuti. Avvertì un francescano padre Ravalli, intimo dell’Aldovrandi, che egli non l’avrebbe appoggiato e riuscì a carpire una dichiarazione del candidato nella quale si diceva che qualunque fosse la decisione « come uomo di onore, non sarei mai per mancare al mio dovere verso chi mi ha beneficato » e se ne fece un’arma contro di lui. Quando l’Aldovrandi ebbe raccolto 31 suffragi, l’Albani lo accusò di simonia. L’Aldovrandi si difese pubblicamente e E>rtò la testimonianza del padre Ravalli.
a lettera era stata alterata con intenzione, dopo che gli era stata trafugata. Si ripetesse la votazione. Di nuovo raccolse 31 voti.
La lotta diveniva aspra tra Corsini e Albani. Per più di un mese gli scrutini si succedettero, invariabilmente sterili. L’Al
dovrandi era disposto a sacrificarsi purché sì finisse, ina il suo partito non voleva. Tuttavia ai cardinali della corona il sacrificio pareva indispensabile. La mattina del 16 agosto il card. Cibo informò Tencin « che se la fazione d’Aldovrandi volesse votare per Lambertini, il papa si sarebbe fatto la sera stessa ». La maggior parte dei cardinali corsiniani si mostrarono favorevoli, ma Corsini non voleva cedere. Domandò qualche ora di rimessione sperando nella votazione del dopo pranzo. Ma anche questa diede 31 voti. Allora, quando Tencin entrò nella sua camera per pregarlo di trovare prima* dell’alba i due voti che mancavano all’Aldovrandi o d’andare il giorno dopo al Lambertini, Corsini comprese che l’ora della capitolazione era venuta. Restò nella sua camera accasciato, affranto, annientato, incapace anche d’un ultimo Sforzo per l’Aldovrandi. Tre ore dopo, andava ad annunziare al Tencin che accettava Lambertini.
Così la Chiesa cattolica ebbe Benedetto XIV per volontà... della divina Provvidenza.
Fi R.
SPINOZA E LA TEOLOGIA
Non c’è nessuno oramai il quale dubiti che VEthica di Spinoza è una di quelle opere che onorano l'umanità. Ma non pochi, presi dalla vastità di queirimmane lavoro, hanno scordato il resto che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico. Certo è, per esempio, che il suo Tractalus Micologico politicus resta una audace e vittoriosa battaglia data dalla libera investigazione filosofica contro la teologia e i suoi metodi. Alla storia di quel libro, alla sua genesi, al suo sviluppo, alle sue vicende dedica un lungo studio E. Caffi nella Rivista d'Italia.
Già nella Prefalio lo Spinoza stesso ha espresso lo scopo del suo lavoro: « Compongo il Trattato — egli dice all’Olden-burg — in primo luogo contro i pregiudizi dei teologi, in secondo luogo per distruggere l’opinione del volgo, che mi crede ateo, in terzo luogo per propugnare la libertà di filosofare e di poter dire e scrivere ciò che sentiamo ». Quali elementi di cultura estranei ci siano nella concezione spinoziana non è facile determinare. Se e quanto ci sia del pensiero ebraico medioevale è ben chiaro, perchè l’autore adesso non si richiama quasi
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mai. Certo lo Spinoza formò la sua cultura teologico-filosonca studiando anche il Talmud e diversi pensatori ebraici del Medio evo, come Maimonides e Levi ben Gerson, ma allora sarebbe il caso di ricercare quanto in questi due ci fosse di talmudistico o non piuttosto di semplicemente razionalistico — ciò a cui il Caffi — forse perchè non se lo propone— neppure accenna. Indubbiamente tra là filosofia scolastica e quella dello Spinoza c’è un abisso. L’originalità del suo sistema e del suo concetto biblico consiste appunto nell’introdurre l’elemento razionalistico deW Historia e quindi nel dare una base scientifica all’ermeneutica. Si può dunque ammettere che il Trattalo così com’è ha un ben determinato scopo scientifico.
Spinoza sottopone ad una severa critica storica i libri del vecchio testamento e ne* nega la loro autenticità. Afferma: i° che la Erofezia non è un fatto naturale, quindi che ; profezie hanno solamente un valore biblico e si devono studiare solo nell’ambito del pensiero biblico, che il miracolo non è possibile, perchè non può avvenire nulla contro natura. Quindi 2° nel miracolo non si manifesta nè la essenza nè la esistenza e, conscguentemente, nemmeno la provvidenza di Dio; 3« nella Sacra Scrittura stessa i cosidetti ordini di Dio, o voleri divini, altro non sono che l’ordine di natura; 4® il metodo finora adottato nell’interpretazione del miracolo e delle narrazioni della Sacra Scrittura non è giusto. E dà una concezione della fede e dei fedeli « Fides — egli dice — nihil aliud est quam de Deo talia sentire, quibus ignoratis tollitur erga Deum oboedientia, et (quae) hac oboedientia posita, necessario ponuntur » fedeli sono coloro che si lasciano guidare dalla fede unendo ad essa le opere. Ma la fede ha un fondamento filosofico? Cioè « inter fidem sive Theologiam et Philosophiam nullum (est) commercium nullamque affinitatem? » Chi conosce — egli dice — lo scopo ed il fondamento di queste due discipline, sa benissimo che esse « toto coelo discrepant ». « Philosophiae enim scopus nihil est praeter veritatem... fidei autcm nihil praeter oboe-dientiam et pietatem ». Quindi « Philosophiae fundamenta notiones communes sunt, et ipsa ex sola Natura peti debet. Fidei autem historiae et lingua et ex sola Scriptum et Revelatione petenda » E la fede è contraria alla filosofia? « Fides igitur summam unicuique libertatem ad filoso-fandum concedit ut quicquid velit, de rebus quibuscumque, sine scelere sentire
possit, et eos tantum tamquam haereticos et scismaticos damnat, qui opiniones docent ad contumaciam, odia, contentiones, et iram suadendum; et eos contra fideles tantum habet, qui lustitiam et Charitatem, proviribus suae Rationis et facultatibus, suadent»
Questa la parte centrale del Tractalus Theologico-pohticus. Il Caffi osserva: « Ciò che manca nel trattato spinoziano è il momento, psicologico nel suo concetto filosofico della religione. Proprio in questi capitoli si sente la mancanza della psicologia della fede, della psicologia della religione, qualora Spinoza non sia schiavo di un suo principio, che, cioè l’obbedienza e la fede siano unico patrimonio del popolo, del volgo ignorante. Ciò che invece interessa il filosofo è la credenza, la fede della persona dotta. Certo ai tempi di Spinoza la psicologia era ancora giovane. È sempre vero però il fatto che Spinoza rappresenta l’insurrezione del principio filosofico contro la teologia. Non nega la teologia, ma la bandisce dalla speculazione filosofica.
F. R.
LE ORIGINI DELLA RELIGIONE
È noto quale sia il metodo sostenuto da E. Durkheim per spiegare l’origine della religione. Il suo volume Les formes élémen-taires de la vie religieusc è la sua battaglia contro le teorie emesse sui primordi della vita religiosa e contro quelle relative alle origini del totemismo (teoria denomina-zionale del Lang, teorie del Frazer, teoria americana o del totemismo individuale, ecc.) Queste teorie facendo derivare il totemismo da una religione anteriore non ci spiegano in fondo le origini della religione totemica. Secondo il Durkheim il culto del totem è il necessario prodotto della vita sociale. Perciò il totem è eziandio e sopratutto l’emblema del clan. Di qui la ragione per cui esso è stato assunto agli onori del culto religioso. Il Durkheim insomma trova che la religione è un fatto d’indole e d’origine eminentemente sociale e si possa quindi ritrovare la genesi delle nozioni d’anima, di divinità, di spirito e di eroe civilizzatore e studiare la natura e la funzione delle manifestazioni precipue del rituale primitivo. Ma non soltanto. Egli vuol dimostrare l’origine sociale dei concetti e pretende che le nozioni fondamentali dell’intendimento.
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le nozioni, in altre parole, di tempo, di spazio, di causa, di genere, di numero, di sostanza, di personalità, ecc., siano un immediato prodotto della vita collettiva.
Esaminando il libro che ho più sopra ricordato, nella Rivista Italiana di Sociologia, A. Bruno fa alcune notevoli considerazioni polemiche; Quanto afferma il Durkheim intorno alle cause che hanno spinto gli uomini primitivi ad immaginare e costituirsi un emblema non è sufficientemente probatorio. L’emblematismo è anche nelle nostre società il mezzo migliore per rappresentarsi l’unità di un aggruppamento, di un’associazione, di una società qualunque per tradurre, in una parola, quella specie di personalità che inerisce ad ogni gruppo. Si deve dire per questo — come sembra voglia fare il Durkheim — che è naturale che le società primitive abbiano ad esso fatto ricorso? Per quanto conforme alla natura dell’uomo l’emblematismo possa sembrare esso ha dietro di sè un’evoluzione o trova in altri fatti i propri antecedenti: finché adunque non siansi trovati i fattori che rie hanno per la prima volta originata l’esistenza, è vano sperare di esserci data ragione della genesi del fatto sociale medesimo. Il Durkheim pare che voglia rafforzare la sua tesi ricorrendo all’argomento del tatuaggio. Ma i casi da lui riportati provano davvero qualche cosa relativamente alla genesi della raffigurazione emblematica? Affatto. Dimostrano che l’uso del tattuaggio è entrato nelle abitudini mentali, che è il prodotto di una tradizione. Ma la spiegazione del fatto primitivo non c’è. Il Durkheim dunque alla domanda: perchè i primitivi si sono indotti a scegliersi e costituirsi un emblema, risponde con una petitio principa che il clan non poteva esistere senza l’emblema.
Non spiega poi il Durkheim il meccanismo mentale in virtù del quale gli individui del mondo animato e non piuttosto le cose ed i fenomeni dell’ambiente cosmico furono assunti prevalentemente a coprire le funzioni del totem. Poiché non attribuisce l’importanza dovuta a quanto ci è stato rivelato dall’etnografia descrittiva in riguardo a tutte le popolazioni della terra: che i totem, cioè siano il più spesso rappresentati da specie zoologiche inferiori, che siano, cioè determinati anellidi, la tartaruga, alcune varietà d’insetti, le svariate specie di rettili, a recitare il più sovente l’ufficio di totem. Questi animali non appartengono pertanto al mondo commestibile
dei popoli primitivi, nè sono con essi in rapporti immediati e diretti — come afferma il Durkheim dovessero essere quegli animali elevati dai popoli primitivi alla funzione di totem.
F. R.
I RITI DEI CAFRI
Ai Riti dei Cafri è consacrato un articolo di A. Schweiger nella rivista Anthropos. Benché in parte civilizzati, i Cafri non restano meno attaccati all’osservanza delle cerimonie relative alla circoncisione. Anche coloro che sono convertiti al Cristianesimo le praticano; la sola differenza che vi è a tal riguardo fra essi e i Cafri rimasti fedeli alla loro religione è che presso di costoro tutto il complesso dei riti primitivi continua ad essere osservato nella sua integrità. L’importanza della circoncisione è dall’A. messa in rilievo: è per mezzo di essa che il fanciullo incomincia veramente a far parte del gruppo sociale. È perciò che i non circoncisi continuano ad esser trattati sempre come fanciulli, che nessun consiglio è ad essi richiesto e che costituiscono oggetto di derisione e di disprezzo da parte delle donne. L’A. dà poi un resoconto dettagliato del rituale relativo. Esso può dividersi in due periodi: quello in cui la circoncisione vien Ìfaticata e quello durante il quale avvenuta a guarigione del novizio, si tengono quotidianamente delle festività consistenti in danze determinate, seguite al cadere della notte da vere e proprie orgie sessuali (nuts hilo). Ai fini della circoncisione i catecumeni abbandonano la casa paterna e vengono relegati ih una o due capanne isolate, dove essi godono di una libertà eccessiva: possono, infatti, rubare impunemente ed alimentarsi a loro piacimento. Gli ama-kankata (sorveglianti) provvedono a tutto ciò che ad essi bisogna, e non impartiscono loro alcuna istruzione. Notevole è che l’intero rito della circoncisione si compie sotto l’alta direzione dei capi; ciò mostra ancora una volta l’importanza che ha la circoncisione presso quel popolo: interessa fondamentalmente il gruppo sociale: l’autorità interviene quindi ad assicurare e sorvegliare il funzionamento regolare.
F. R.
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VARIA
Coen'obium del nov.-dic. 1914 ha uno scritto notevole di Raffaele Ottolenghi il quale movendo dall’esame d’un recente libro del Mi nocchi (Il Pantheon) tocca dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo nel complesso problema delle origini cristiane.
L’Ottolenghi, rendendo omaggio al valore del Minocchi, delinea da buon israelita e da appassionato cultore di studi ebraistici i punti nei quali gli sembra evidente la superiorità dell’ebraismo sul cristianesimo. Il suo esame è minuto ed assai interessante.
L’Ottolenghi visa naturalmente quei tanto di cristianesimo che è contenuto in certe chiese ed in certe civiltà che si dicono cristiane. Ed allora può avere buon gioco: E», es. la schiavitù dogmatica non varrebbe a servitù del rito? E certe degenerazioni cristiane sarebbero forse da preferirsi a qualcuna delle più delicate sentimentalità dell’anima ebrea?
Tutto sta a vedere se il pensiero di Gesù e quello di Paolo siano stati ancora bastan temente isolati dalle dottrine delle Chiese cristiane non solo ma dai libri sacri che sin qui parevano contenerli allo stato di purezza più assoluto.
Il medesimo fascicolo di Coenobium contiene pure una breve Nota sulla Essenza e Funzione della Chiesa.
Ecco il problema formidabile dei rapporti del cristianesimo coH’ecclesiasticismo posto ancora una volta dalla valorosa Rivista luganese.
Posto però da un filosofo, quindi da un uomo incapace di risòlverlo dal solo punto di vista possibile, cioè dal punto di vista puramente critico-esegetico.
Il Bollettino di Letteratura Critico-Religiosa (Roma, via della Dogana Vecchia, 27) continua le sue interessanti pubblica zioni per ora ristrette a reseconti importanti di studi e di opere. Il Bollettino, che merita l’incoraggiamento degli studiosi di cose cristiane, è mensile e costa L. 8 annue.
S. Bridget.
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Pubblicazioni pervenute alla Redazione
INGHILTERRA
Un articolo del Dr. Clifford
Dalla « Contemporary Review ■ dello scorso novembre riferiamo un estratto di un articolo del Dr. John Clifford il noto leader del Battismo inglese:
« Quanto più la nostra causa è giusta, tanto più importa di nulla fare che possa screditarla. Non dobbiamo perdere il favore della pubblica opinione del genere umano, per mancanza di padronanza di noi stessi, per noncuranza degli altrui diritti, per spirito di vendetta e cupidigia, con escandescenze selvagge e violenze barbariche. Noi abbiamo già combattuto per tre mesi, eppure, che io sappia, nessun atto è stato commesso di cui noi abbiamo a vergognarci.
Le nazioni neutrali non hanno volto accusa alcuna contro di noi, e noi dobbiamo usare una vigilanza infinita, durante e dopo la guerra, per non dar loro motivo di farlo. Non dobbiamo permettere che il sentimento militaristico trascini ad eccessi i nostri duci o i nostri soldati. Noi dobbiamo... come disse il ministro Churchill, condurre questa guerra da « gentiluomini ». Chè purtroppo, lo spirito militaristico è lo stesso per tutto il mondo, e corre sempre il rischio di violare i dettami « umanitari • — come li chiamano eufemisticamente — della guerra. I regolamenti suggeriti e approvati... per eliminare lo spirito selvaggio dalla condotta delle guerre moderne sono stati spazzati via dall’uragano guerresco, e i soldati sdrucciolano facilmente in barbarie crudeli.
Stiamo anche noi in guardia per non cader nell’abisso. Non ci lasciamo sedurre ad atti ingiusti da vittorie strepitose, nè infuocar l’animo all'ira da sconfitte inevitabili; come il successo nemico non può creare in lui nuovi « diritti », così la sua sconfitta non deve distruggere i diritti che possiede. Guardiamoci dal meritare la taccia di rapacità. Siamo entrati nella guerra con la coscienza e con le mani pure, e dobbiamo uscirne ugualmente senza macchia. Non è stata brama alcuna d’ingrandimenti nazionali o di nuovi mercati, o spirito d’imperialismo, a spingerci sul campo di battàglia: e dobbiamo ben guardarci perchè nessuno di questi motivi si accompagni con
Opuscoli ed estratti:
Evia (Nella Doria Cambon), Carità e -popolo, prò dolenti. Trieste, 1914. — Sebastiano Maturi, La filosofia di Giordano Bruno, Napoli, 1915. 50 pa-Ìine, 1 lira. —- Lelio Fontana, ■a Guerra, Canti dell’ora presente. Torino, 1914, Cent. 50.— G. Gabrieli, Educhiamo alla religione i nostri bambini. Roma, 1914.— Vittoria Fabrizi De’ Biani, Un artista ammonitore: G. Cena. Dalla « Roma Letteraria », luglio-agosto 1914. — G. E. Meille, Il dovere dei giovani nell’ora presente. Conferenze. Genova, 1915. Cent. io. In onore di Egisto Bezzi. Torino 1915. — Voce d'oltre tomba. Alcune lettere di Tullio Marella. Venezia, 1914. — Michele Ker-baker. 1835-1914. biografiche di Carlo Formichi. Con finissimo ritratto. Torino, 1914-— Antonio Bruers, Il « sublimi-naie » nell’opera di Gabriele D’Annunzio (Da « Luce e Ombra»). Con ritratto. Roma, 1915. L. 0,50. — Ernesto Buo-naiuti, Il più recente biografo di Sant’Agostino. (Dalla * Nuova Antologia»). Roma, 1914. Del medesimo: Un preteso scritto precipreaneo sul diverso fruttato della vita cristiana. Roma, 1914. — Nicola Checchia, L'istinto. (Da « Aprutium »). Teramo, 1914. Del medesimo: La biologia di KG. Bruno (Dalla « Riforma italiana >•), Firenze, 1914. — G. B. Pesenti, Le tre Marie nelle fonti bìbliche (Dal «Coenobium») Lugano, 1914.— Giorgio Del Vecchio, Effetti morali del terremoto in Calabria secondo Francesco Maria Pagano SDalle Memorie della R. Acc.
Ielle Scienze dell’Ist. di Bologna). Bologna, 1914.
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Libri:
G. Allegri, Clericali, Cremona, 1914. Bozzetti. Pagine 212, L. 2,50. — Come vinsero i preti nel Collegio di Montegiorgio. Memoria presentata alla Giunta delle elezioni. Roma, 1914. — G. Rensi, La Trascendenza. Studio sul problema morale. Bocca, 1914. Pagine 520. L. 5.— B. Croce, La Letteratura della Nuova Italia. Saggi critici. I 2. voli, di 400 pagg. ciascuno, L. 13. Ed. Laterza, Bari, 1914 — L’Uomo secondo Pitagora, opera insigne del filosofo Enrico Caporali, nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale coltura. Casa ed. « Atanor », Todi, 1915. Pagine 200. L. 2,50.—- Piccola Antologia della Bibbia Volgata con introduzioni e note per cura di Ermenegildo Pistelli, con 12 tavole e in appendice alcune epistole di Dante e del Petrarca, secondo il programma del Liceo moderno. Firenze, Barbèra, 1915. L. 2,50. —William Burt, Sermoni e allocuzioni. Con prefazione di A. Tagliatatela. Casa Ed. Metodista, Roma, 1915. — Alfredo Tagliatatela, I Sermoni della Guerra:N. 6. Che avverrà? L’incredibile? N. 7. Natale di sangue. Cent. 30 ciascuno. Casa Ed. Metodista, Roma, 1915. — The Red Cross of comfort, for «all those who are afllicted or di-stressed, in mind, body, or estate », compiled by May Byron. Ed. Hodder and Stoughton, London, 1915. — In thè day of thè master, sermons in Time of War by thè Rev. W. P. Pa-terson, D. D. (sei sermoni). Ed. come sopra. Rilegato L. 3,50. — The Christian’s WarBook, ed, by Marr Murray. Ed. come sopra L. 3.50. — Pendant la guerre, discours prononcés à l'oratoire Paris, Fischbacher, 1914-15; due volum. contenenti ciascuno sei sermoni. L. 1,25 l’uno.—H.Bois, La guerre et la bonne conscience. Ed. come sopra. L. 0.65.
nói quando entreremo nella sala del Congresso che dovrà rifare la carta geografica d’Europa.
Quanto allo stesso trattamento da infliggere al Kaiser, dovremo tener conto del monito salutare del prof. Pol-lard: « Se vorremo imporre sul suo capo una punizione simile a quella che toccò a Napoleone, noi creeremo subito una enorme simpatia a suo favore... La punizione dovrà essere inflitta alla nazione tedesca, lasciando che essa giudichi della ripartizione delta responsabilità: fra sè e l’imperatore.
« Non si deve ripetere l’errore commesso dalla Germania nel 1870. La necessità militare e la giustizia affameranno delle esigenze che non potranno declinarsi: ma dovranno essere accettate con uno spirito e una sapienza, che tenga in considerazione più il vantaggio delle generazioni future che i torti e le colpe delle generazioni Sassate. La nazione tedesca e il suo imperatore non ovranno essere umiliati per modo da far loro riguardare la loro sorte come il punto di partenza per una nuova guerra ». Venendo ad altro argomento, il Clifford proclama: « A questo incubo presente, noi dobbiamo strappare qualcosa più che la pace: noi dobbiamo liberarci per sempre da questo « orso nero » della guerra, la cui presenza ci ossessiona perennemente; dal dispotismo di pochi prepotenti; dal disprezzo delle piccole nazionalità; dai trattati e dalle alleanze segrete; dalla minaccia delta « bilancia del potere », e da molti altri mali che tuttora travagliano l’Europa.
Anzitutto, dovranno essere soppressi quei campi armati che mettono la pace dell'Europa all’arbitrio di mezza dozzina di teste coronate, afflitte dalla megalomania del « Potere ».
Una pace armata non può che creare la guerra. La dottrina che « il più adatto a sopravvivere è il più ca-Sace di ammazzare gli altri » è una dottrina diabo-ca...
L’Inghilterra ha sempre avuto paura di possedere un’armata regolare: noi siamo contro il servizio militare forzoso: tra noi, il militarismo, se pur deve aver un posto, non occuperà mai l’anima dello Stato. « Lo scopo dello Stato » — dice Aristotele — «è, non di rendere la vita possibile, ^comunque, ma di render possibile una vita buona ». È questa la teoria, che tutela i diritti delle piccole nazionalità, e promuove la causa del progresso, e delta libertà, l’autonomia degli Stati .. ».
E il Clifford specifica i doveri che all’Inghilterra incomberanno dopo la presente guerra, per effettuare il disarmo obbligatorio delle nazioni; e sostituire l'arbitrato internazionale all’argomento delta forza; per tutelare l’autonomia delle piccole nazionalità, per chiamare i popoli stessi a decidere delta loro sorte; per intimare al « diritto divino » degli ambasciatori nei con-Sressi di andare a raggiungere nel limbo del passato il iritto divino dei re; per ristabilire la santità del diritto pubblico e privato, lacerato e oltraggiato nella presente conflagrazione.
Egli conclude: « Noi abbiamo bisogno di una Corte Internazionale, della Federazione degli Stati Uniti del
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LA GUERRA
[Notizie]
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Mondo, di un Codice Intemazionale, di una Polizia Internazionale. Il Militarismo deve perire: il Pacifismo deve trionfare». . _
E’ da notare, che l’atteggiamento preso dal Clifford nella lunga lotta contro il « confessionalismo » delle scuole elementari in Inghilterra — lotta che egli e 1 seguaci del movimento da lui iniziato hanno- condotto attenendosi fedelmente al metodo della resistenza passiva, soffrendo multe e prigioni ma non mai opponendo la forza alla violenza, — avvalora la sua parola, con la sanzione della pratica fedele ed eroica dei principi professati... ».
L’appello di Bernard Shaw
Sotto il titolo di « Senso comune intorno alla Guerra »• il mefistofelico, ma superbamente sincero nella sua Cinica crudezza, Bernard Shaw ha pubblicato un appello che ha risuonato in tutto il mondo inglese dividendolo in due campi. Ne estraiamo, per ora, il giudizio che egli dà della Chiesa (intendendo le Chiese Cristiane) in rapporto alla guerra, riassumendolo qua e là.
« In nessuna guerra avevamo ancora raggiunto, come in questa, il colmo dell’ironie, chiudendo la Borsa ma lasciando aperte le Chiese. I pagani erano più logici: quando essi sguainavano la spada, chiudevano il tempio sacro alla Pace. Noi invece, abbiamo prontamente trasformato i nostri Tempi della Pace in Tempi di Guerra, e dato un’esibizione di « reverendi », fra i più pugnaci membri della comunità. Oso affermare, che il senso di scandalo prodotto da questo spettacolo è assai più profondo e generale di quello che le Chiese s’immaginino, specie fra le classi operaie che sono solite, o di prendere la religione sul serio, o di ripudiarla e di criticarla senza riguardi. Quando si vede un vescovo, al primo colpo di fucile, abbandonare il ministero di Cristo e arruolare le sue pecore attorno all’altare di Marte (allusione all’atto del Vescovo di Londra che si recò sul fronte in qualità di cappellano militare), si potrà ben dire che il suo atto è patriottico, virile, giusto, ma non lo si può giustificare col pretesto che non vi è stata alcuna diserzione, e che servire a Cristo è tut-t’uno che un servire a Marte. L’atteggiamento vero, e il solo che, a lungo andare, risulterebbe più vantaggioso alle Chiese che si professano « Cristiane », sarebbe stato di chiuder tutte le Chiese nel momento stesso in cui la guerra veniva da noi dichiarata, e di non riaprirle fino alla firma del trattato di pace. Senza dubbio, da molti di noi la privazione sarebbe stata intesa assai Ì>iù che la requisizione dei loro automobili e cavalli, a soppressione dei treni espressi, ed altri simili inconvenienti della guerra. Ma sarebbe essa stata maggiore che la perdita della fede e la desolazione di anime atterrite dallo spettacolo di nazioni che pregano il loro « Padre comune » perchè le protegga nell’azione di sciabolarsi e baionettarsi e farsi a pezzi reciprocamente, con esplosivi che sono anche corrosivi, e dalla vista
NOTIZIE
Premio Treves di L. 10.000
È aperto il concorso al premio di L. 10,000 stabilito dal-l’ing. Emilio Treves, con testamento del 1907 per una pubblicazione che combatta gli odi di razza e di religione e specialmente l’antisemitismo. L’opera dovrà essere scritta in lingua italiana, in stile semplice, popolare, accessibile a tutti, e sarà da premiare quella che si stimerà più efficace a sradicare gli odi di razza e di religione ed a generalizzare e a diffondere vivaci sensi di fratellanza e di amore fra tutti gli uomini. Il concorso è internazionale. Inviare i lavori al Ministero dell’istruzione non più tardi del i° febbraio 1916.
Le Conferenze del Circolo di filosofìa a Roma
Ecco il programma delle conferenze che, ispirate ai problemi dell’ora attuale, si terranno dal Circolo di filosofia.
Sabato 27 febbraio; prof. Bernardino Varisco: Moralità e nazionalità.
Giovedì 4 marzo; prof. Luigi Valli: La guerra nel pensiero dei filosofi.
Sabato 13 marzo; prof. Antonio Pagano: Idealismo e Nazionalismo.
Sabato 20 marzo; prof. Felice Momigliano: Nazionalismo e Internazionalismo.
Sabato 27 marzo; avvocato Giuseppe Folchieri: Guerra e diritto.
Le conferenze si terranno tutte alle ore 18. Per assistervi è necessario essere muniti di biglietto d’invito e rivolgersi alla sede del Circolo: piazza Nico-sia, 35.
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Col passare degli anni si stringono sempre più i vincoli tra la Rivista e i suoi amici, tra la redazione e i collaboratori, tra questi ed i lettori fedeli. Il numero aumenta, ma resta, anzi diviene sempre più famiglia.
Bilychnis non è una cattedra, è una casa. Vi regna il rispetto reciproco: l’ospitalità per ogni sincerità è la sua più bella tradizione sin dal principio. In una casa — che sia veramente casa — si sente il bisogno d’un cantuccio intimo, in cui raccogliersi e parlarsi.
Questo sarà il cantuccio della nostra casa, amici di Bilychnis: il nostro focolare. Da qualche tempo sentivamo che ci mancava: d’ora innanzi ne approfitteremo pei parlarci delle «cose nostre ». Non pettegolezzo, certo; quello rimarrà chiuso fuori dell’uscio; per quello: ostracismo e non ospitalità! -Saranno « cose », — cioè pensieri, preoccupazioni, dubbi, S»roblemi. esperienze, proposte, atti, agenda, attività, iniziative — e « nostre • — cioè che provengono da o toccano, riguardano la nostra famiglia nel suo insieme o nelle sue parti.
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Non di rado ci sentiamo chiedere, da nuovi ed anche da vecchi amici, il significato preciso del nome della nostra Rivista. Il nome dapprima suonò un po’ strano; ma oramai è didelfe Chiese che organizzano questo mostruoso paradosso, in luogo di protestare contro di esso?
Sarebbe statò maggiore o minore, in conseguenza, il numero degli atei? L’ateismo non è un fenomeno semplice e omogeneo. Vi è l’ateismo di gioventù da cui ogni persona intelligente comincia oggidì: un ateismo che libera lo spirito dalle superstizioni e dal terrore, dal servilismo e dall’ipocrisia, e introduce in esso una luce celeste. E vi è l’ateismo della disperazione e del pessimismo: quel grido melanconico che sorge dal petto di molti di noi in questo momento, (al contemplare i rottami, senza più vista nè udito, e mutilati, avanzo di ciò che mesi or sono erano amabili e ammirabili E iovani nella loro integrità, e vedere intanto preti che enedicono la guerra, e giornali, e uomini politici e vecchi invalidi che spingono ad essa il fiore della gioventù); il grido di: « Ora lo so purtroppo, che non esiste un Dio! ». Se tutte le Chiese di Europa avessero chiuso l’ingresso dei Templi fino a che il rullo dei tamburi non avesse taciuto, esse avrebbero agito come il monito più efficace e solenne, che se la gloria della guerra è famosa ed antica, non è essa la gloria finale di Dio. Ma io so bene che le organizzazioni ecclesiastiche non son libere di dire la verità: non ai poveri, a causa della loro ignoranza e credulità: non ai ricchi a causa della loro potenza. Nè m’illudo che sia possibile costruire una civiltà nuova, pacifica, sulle rovine di vasti organismi ecclesiastici: se vogliamo dar mostra di un’oncia di senso comune, dobbiamo cominciare dal riconoscere che la linea di battaglia, in questa guerra, divide in due tutti i meridiani di tutte le istituzioni, sette e partiti politici: tutte, eccettuata la linea che divide il nostro passato commercialista, e il nostro futuro socialista.
La Francia materialista, la .Germania metafisica, la stupida Inghilterra, la Russia bizantina, possono accordarsi in qualunque combinazione militare loro piaccia: l’unica cosa in cui non possono accordarsi è nel formare una Crociata. Ogni tentativo di rappresentare la guerra presente come cosa più alta e più significativa, nel senso religioso, filosofico e politico, per i nostri lunkers e per i nostri Tommies (guerrafondai e militaristi) che un puro e semplice conflitto fra due pugna-cità, l’una che vuole imporsi e l’altra che non vuoi sottomettersi all’imposizione è destinato a divenire la canzonatura della storia. Quando leggo che la sacra icone del contadino russo è una forza religiosa che prevarrà sul materialismo di Helmoltz e di Haeckcl, il che implica che il contadino irlandese che attacca di-votamente stracci sui pozzi sacri e paga per le messe destinate ad abbreviare la dimora delle anime nel Purgatorio è più illuminato del suo compatriota Tyndall - il Lucrezio moderno. - mi domando se il contadino russo non troverà le sue idee religiose neutralizzate dall’alleanza con la patria di Paul Bert e ’di Combes, di Darwin e di Wright. Ma noi non possiamo andare innanzi nella lotta per lungo tempo; e vincitori o vinti, bisognerà rivolgersi alla nostra saggezza civile e previdenza politica per un assestamento che ci assicuri la
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pace in avvenire. Le condizioni di esso dovranno ricercarsi nella sostituzione del nostro regime di Stati militaristici con un sistema di unità democratiche, delimitate da comunanza di lingua, di religione, di costumi; aggruppate in federazioni di Stati uniti quando la loro estensione li renda poco atti all’isolamento politico: e contro la guerra, il preservativo sarà dato dal legame internazionale del socialismo, unico campo in cui l’identità d'interesse dei lavoratori non corra il rischio di venir meno... ».
Un opuscolo di Carlo Heath
Sulla stessa linea di pensiero è l’opuscolo: « Religione e Guerra ■ pubblicato dà Carlo Heath in una serie di tracts pacifisti. Ne riportiamo tre pagine, riassumendo.
« Il Cristianesimo è per Harnack non una dottrina ma una vita: esso significa una sola cosa, cioè la realizzazione della vita eterna nel tempo...
Il senso che l’Universo, sotto i suoi aspetti fenomenici, è dominato da una mente, e diretto con un intento benefico, riesce alla percezione di qualcosa di cosmico, indipendente da’tempo e da spazio. Pensiero universale. Vita, Dio, divengono termini equivalenti: pensiero cosmico. Vita eterna, amor di Dio, le radici della religiosità, divengono un’esperienza personale a chi vive una vita sulle tracce del Cristo, che nell'amore del Padte unificò i valori eterni. Ma tale religione manca, nelle nostre nazioni, di profondità, ed in tempo di guerra diviene poco meno che la religione della propria tribù. Per lo meno, il « Sermone del Monte » ha cessato di essere una dottrina pubblica di vita in tutte le nazioni « Cristiane », ognuna delle quali fa la parte della « fulva belva », ovunque i suoi « interessi superiori » sono in gioco. « Noi tutti combattiamo per i più alti motivi » — come disse ieri « The Nation » — : e confondendo morale e religione, siamo egualmente sicuri che Dio sta dalla parte nostra.
L’etica religiosa, l’etica del Cristo, è l’antitesi del concetto morale che suona separazione. Tutte le parti del cosmo sono essenziali; tutte le anime hanno un valore assoluto ed intrinseco, che risiede nell’eterno. La Religione è il senso che sospinge alla redenzione dalla disarmonia, dalla separazione, dalla disunione: e un culto derivato dai senso religioso nulla può aver di comune con il culto della forza, di cui la guerra, come tutte le altre forme di violenza, è il prodotto naturale. « È impossibile » — disse un generale italiano del secolo xvi, il Marchese di Pescara, al nunzio Pontificio, — * che uno serva nello stesso tempo a Cristo ed a Marte ». Essi rappresentano due concezioni antitetiche di vita e di moralità; e io non vedo alcuna possibilità di trovare per essi una morale comune. La guerra conferisce al vincitore un senso di grandezza. Sì, ma che cosa conferisce al vinto? Ed è quella una grandezza spirituale? O non è piuttosto un capovolgi mento dei valori morali, un disconoscimento dei valori di grandezza eterna?
venuto famigliare...- persino a quelli che non sanno precisa-mente che cosa voglia dire. Ma è bene che non sia un enigma per nessuno della famiglia. Perciò, ecco un po’ di erudizione archeologica: i Greci chiamavano {lychnos) la lucerna o lampada portatile di terra cotta o di metallo con uno o pili beccucci pel lucignolo. Molto in uso era quella a due fiammelle, detta ¿t-kúy.w; (di-lychnos). I Romani conservarono questo vocabolo latinizzandolo nel prefisso, nella desinenza e nella grafia, e ci diedero bì-lychnis. Negli scavi ne vengono di frequente alla luce a Roma c altrove. Le catacombe specialmente ce ne hanno dato esemplari molto bene conservati c adorni del monogramma cristiano, come quello riprodotto sulla nostra copertina, come simbolo di ciò che vuol essere la Rivista. Ricordiamo le parole che scrivemmo in proposito nel primo fascicolo (gennaio-febbraio 1912, p. 3): «Troviamo infatti che la modesta antica lucerna che alimentò un tempo le due fiammelle destinate a rischiarare gl’intricati meandri delle catacombe romane, si presta assai bene a simboleggiare ciò che vuol essere questa Rivista, la quale — lo sappiano i nostri lettori— non ha grandi pretese, ma intende valersi di tutte le opportunità c di tutti i mezzi che sono o saranno messi a sua disposizione per alimentare le due fiamme della scienza e della fede ».
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Riproduciamo da una lettera d’un sacerdote, fedele amico della Rivista: • ... Profittando di questa occasione mi lasci spezzare ancora una lancia per una intesa reciproca tra quanti lavorano per la purificazione del sentimento religioso e per la distruzione dell’iwso-lutismo pontificio. Programma
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che può unire molti e molti uomini d’ogni confessione, anche di nessuna confessione, che ora lavorano isolati. Pensi quanto vantaggio darebbe ai singoli l’intesa e quale incremento ne verrebbe alla causa per cui si lavora! ».
Vuole il nostro amico dirci qualche cosa di più in proposito? ne potrà seguire un utile scambio d’idee e forse poi si verrà a qualcosa di pratico.
Cominci col dirci intanto che cos’è per lui « la purificazione del sentimento religioso ■ e come possano lavorare insieme per essa uomini d’ogni confessione e anche di nessuna confessione.
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Con questo fascicolo incominciamo a mantenere la promessa di consacrare in ogni numero alcune pagine alla raccolta «lei materiale più minuto riguardo al soggetto della religione e la guerra (notizie, voci c documenti). Questo materiale è diviso per nazione. Cominciamo coll’ Inghilterra, sperando di aver pronto pel prossimo numero del materiale tedesco. I nostri collaboratori che ci aiutano nella ricerca e traduzione delle notizie e documenti, non fanno commenti ma si limitano ad offrire ai nostri lettori l'opportunità di sapere c sentire quel che si fa e si dice in relazione con la guerra dai cristiani e dagli idealisti dei vari paesi. È loro cura altresì di ricorrere a fonti originali e sicure.
Le Confessioni non sono finite. Ce ne sono di nostri amici che già ci hanno ¿critto o promesso di scriverci. È bene dire a se stessi ed anche agli altri quel che si sente in simili momenti. Non è bene — in questo — fare i neutrali. Se le nostre coscienze sono deste non possono essere sorde alle voci
La guerra è scuola di disciplina. Sì: il soldato non fa più neppure quello che sa esser male, ma cessa di pur apprendere il male, e si arrende col. suo pensiero- al pensiero di un gruppo, diretto da uomini con cui egli non ha neppure rapporto. Ma i suoi rapporti con l'anima dell’universo sono inibiti : il suo Dio non è più che il Dio della sua tribù, il Dio nazionale che « combatte con noi e col nostro impero ». Il pio desiderio dello scrittore del « The Inquirer » che il soldato, durante la battaglia « custodisca lo spirito divino nel suo cuore », non è che un puro non-senso: lo spirito divino è lo spirilo delVuniversale, e se gli uomini di differenti razze lo * custodissero veramente nel loro cuore », esso distruggerebbe tutte le animosità di razza, e renderebbe impossibile la sanguinosa brutalità della guerra. Odino è il Dio Normanno e il Valhalla attende i suoi guerrieri, ma Cristo è l’Universale. Una religione cosmica non Suo offrire un Valhalla, bensì un «regno di Dio entro i noi ■: una vita spirituale, immanente, benefica, creatrice. L’uomo religioso non deve aver nulla che fare con la guerra, che va in un senso opposto ad ogni postulato della vita spirituale: che ha per sua etica l’etica della forza, negazione dell’etica dell’amore. Noi occidentali incarniamo quest’etica nella religione del Cristo, ma essa è in un grado differente, incarnata anche nella religione del Buddha: dei grandi maestri e veggenti di tutti i tempi e di tutte le razze; degli uomini religiosi di oggi, quali Abdul Balia, Rabindra Nath Tagore, Vivekananda. Essa si propone l’eterno ideale: «Se io sarò sollevato in alto, io attirerò a me tutti gli uomini ».
Praticamente: se io ricuso di combattere o di appoggiare misure di difesa, io posso venire fucilato dalle autorità del mio Stato, come colpevole di tradimento. Benissimo. Ma io sono disposto ad essere fucilato, anziché assassinare un contadino tedesco per cui non ho neppure l’ombra di odio. Io non farò nulla per uccidere un nemico, direttamente o indirettamente, con lamia o con la altrui mano. Che Dio mi aiuti: no, non lo farò mai ».
Dal “ Brotherhood „
Sul « Brotherhood • organo delle idee cristiano-panteistiche del fervido apostolo sociale e religioso Bruce Wallace, leggiamo nel numero di decembre:
« Come nazione, noi non possiamo certo professarci immuni da colpa: le nostre mani non sono certamente pure.
Nella guerra Boera, noi perdemmo una splendida opportunità di dimostrare che la nostra decantata devozione al principio dell’arbitrato era sincera... Pretendere che il nostro cuore sia stato del tutto retto nei nostri rapporti con la Germania, sarebbe ipocrisia o un volerci ingannare. Quando l’Europa e l'America, — come scrive Bernard Shaw — si accingeranno a formulare il trattato che dovrà por termine alla presente situazione, esse non ci tratteranno davvero come innocenti ed amabili vittime di un tiranno traditore e di
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una soldatesca selvaggia. Essi dovranno invece rifletter bene, in qual modo sia possibile di trasformare queste due incorreggibili e pugnaci nazioni dall’inveterato « snobismo », che hanno ringhiato per quarant'anni l’una contro l’altra con il pelo irto e digrignando le zanne, e che ora affondano i loro denti l’una nella gola dell’altra, in due fedeli cani da guardia della pace del mondo. ».
Il giudizio dèi cristianesimo liberale
Il sunnominato Bruce Wallace esprime il giudizio di numerosi rappresentanti del cristianesimo liberale, scrivendo: « Due pugnacità si trovano l’una contro l’altra armate: l’una che cerca di imporre al mondo, col terrore, la propria volontà, e l’altra che ricusa di subire questa imposizione: ed esse combattono per la vita o per la morte. Delle due, a nostro parere, la seconda è la più atta a sopravvivere nell’interesse dell’evoluzione della razza umana. Ma non dimentichiamo, che il Cristianesimo esclude ogni pugnacità: o meglio, è, si, guerra, ma non contro uomini o nazioni. Esso è un movimento per sopprimere lo spirito « cagnesco », selvaggio, dei militaristi e guerrafondai — lo spirito di odio, di vendetta, di sfruttamento — dal cuore di tutti noi, e per trasformarci in fratelli, amorevoli e benevoli gli uni degli altri... È, ora, possibile tirare un colpo di baionetta nel corpo di un nostro fratello, o in altro modo privarlo dell’esistenza terrestre, con il sottinteso che non si vuol compiere che un atto di cristiano amore pei nemici?
Anche nella forma teosofica di Cristianesimo, come si può supporre che un individuo, per il solo fatto di . essere privato dell’attuale esistenza, sia predestinato a divenire, in una futura reincarnazione, l’angelo o il santo? ».
L’atteggiamento dei “ Friends „ (Quaccheri)
Questo atteggiamento di Cristianesimo puro si ritrova, naturalmente, in termini anche più radicali presso i seguaci della non-resistenza, i Tolstojani.i « Friends » sopratutto, i quali, come è noto, hanno fatto del divieto di usare le armi, anche solo per difesa personale, uno dei capisaldi e degli esponenti tipici della loro professione religiosa. Esso prese la forma di un appello riferito già nel « Bilychnis » di settembre, in cui l’atteggiamento di « non-resistenza » era interpretato e integrato con un ampio programma di attività per « prepararsi alla pace in tempo di guerra » e per apprestare soccorsi alle vittime della immane tragedia. Esso fu seguito da « La grande opportunità ». È questo il titolo di una « testimonianza » resa dal Congresso di « Friends » (Quakers) tenuto a Llandudno, presso Manchester, nello scorso ottobre. Essa rifà in breve la storia dell’idea pacifista, e poi propone un movimento pratico per attuarla. La riproduciamo in parte, riassumendone alcuni punti.
c ai rumori dell’ora e tanto meno non debbono essere mute. Non diciamo d’interrogare la nostra ragione, la nostra erudizione per far della filosofia della storia presente e futura: ma d’interrogare la nostra coscienza di Cristiani o di Idealisti prima di tutto ed essere leali e franchi con essa e col prossimo.
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Presto incominceremo a pubblicare un ottino scritto del nòstro amico Raffaele Wigley su L’autorità del Cristo (Saggio di Psicologia religiosa). Di lui già demmo in « Bilychnis » (agosto 1913) uno studio su / metodi della speranza che fu molto apprezzato da parecchi nostri lettori e che ora vediamo tradotto in una rivista tedesca.
Nel secondo semestre del 1914 sospendemmo per alcuni mesi l’invio della Rivista a quasi tutti i nostri lettori che si trovano all’estero; ma quando avemmo là certezza che le comunicazioni erano riattivate con una certa regolarità, eseguimmo la spedizione di lutti gli arretrati, in pacchi di tre o quattro numeri. Alcuni di questi pacchi ci sono tornati indie tro senza la striscetta dell’indirizzo, e non sappiamo quindi come rimediare. Chi ha lacune nella collezione del 1914 ci scriva subito.
Avvertiamo i nostri lettori in America che i seguenti nostri Agenti volontari sono autorizzati a ricevere gli abbonamenti a Bilychnis:
Rev. Angelo Di Domenica, 1914, So, vth Street, Philadelphia, Pa.» U. S. A. (per gli Stati Uniti e il Canada), e Signor Jaime C. Quarles, Casilla dei Correo, 136. Montevideo, Uruguay (per l’Uruguay e la Repubblica Argentina).
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Preghiamo i nostri lettori di comunicarci subito ogni cambiamento d’indirizzo. D’Ora innanzi la nostra Amministrazione non risponderà più degli smarrimenti dei fascieoli, pel mancato pronto avviso dei cambiamenti d'indirizzi da parte degli abbonati. Le copie duplicate saranno a loro carico.
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Facciamo osservare che il Nuovo Testamento della Società Fides et Amor che i nostri abbonati possono avere per !.. i invece di 1,50 non viene spedito da noi, ma dall’Ammi-nistrazione della Società stessa in Firenze, alla quale noi trasmettiamo le richieste appena ci giungono.
Chi vuole cooperare ad una opera buona? Gli ospedali di Roma sono ancora pieni di malati e feriti convalescenti, vittime del terremoto. Sappiamo che per molti di essi è un vero godimento poter trascorrere qualcuna delle lunghe ore d’ozio forzato nella lettura di libri e riviste. Specialmente desiderati seno romanzi, riviste e giornali illustrati. Parecchi dei nostri lettori potranno trovare in casa loro qualche vecchio libro di sana lettura amena e numeri arretrati, sparsi, di riviste e giornali illustrati. Ne facciano un pacco e ce lo spediscano. C’è chi s’affretterà a farne la distribuzione negli ospedali.
Fra i nostri lettori più assidui fedeli abbonati sin dal primo anno, ve ne sono parecchi che sappiamo pieni di desiderio di Srovvedere alla loro coltura re-giosa. Ma si trovano isolati, in montagna o in piccoli centri ove mancano assolutamente d’ogni mezzo atto a soddisfare
«In mezzo alla baraonda di idee religiose prodotta dalla guerra, sembra che la società dei Friends sia ancora quasi la sola a sostenere che ogni guerra è incompatibile con lo spirito di Cristo.
« È questa l’aurora? ». — « Questa guerra deve esser l’ultima ». — « Noi dobbiamo formare una lega degli Stati Uniti d’Europa ». Sono queste le idee che si agitano sull’orizzonte caotico della coscienza generale in quest’ora, ed una nuvola già sorge sul mare in tempesta, che, se diretta da un vento favorevole, può espandersi e poi disciogliersi in una pioggia benefica su milioni di combattenti. Persino l’uomo del volgo comincia a vedere in modo vago nella sua mente visioni moleste, che gli suggeriscono che le vecchie sentenze dei guerrafondai e dei politicanti non sono cosi disinteressate come a lui è stato sempre insegnato. Molti di noi (Friends) hanno inteso un’appello distinto e definito alla loro coscienza, a prendere l’iniziativa di dare un indirizzo concreto a queste idee nebulose che si aggirano fra « uomini e donne di buona volontà ». La nazione va in cerca di una direttiva, e non la trova, disgraziatamente, nella Chiesa, che, salvo rare e nobili eccezioni, non sa suggerire che sentimenti patriotici, pacifici anche, ma non una proposta concreta su cui intendersi, agire, e tendere ad uno scopo. Quanto spesso, anzi, gl’« infedeli » sono edificati dalla vista di sacerdoti Cristiani che si dan premura di dimostrare la giustizia e la bontà di questo ributtante e stupido spettacolo!
Vi è dapertutto un nobile malcontento: .è possibile concentrarlo e farlo agire? Molti dicono: « Questi individui di sentimenti religiosi non sanno fare altro che parlare e parlare ». Ora, la società dei « Friends » deve formare come, il cuneo di un movimento compatto, che propugni l’attuazione del sogno lungamente vagheggiato da poeti, filosofi, statisti, storici. Noi dobbiamo presentare allo sguardo di questa nazione e dell’Europa tutta una visione nuova, non di nazionalismo ma d’internazionalismo, e unita ad essa, là proposta, possibilissima in pratica, della costituzione di un Senato federale delle Nazioni civili. Ricordiamo che, fino dal 1693, un Quaker — che altri non fu che William Penn — ispirato forse dagli scritti del grande statista francese Sully (nel 1640), pubblicò il suo «Saggio sul modo di assicurare la pace presente e futura di Europa, con la costituzione di una Dieta, di un Parlamento o di una Camera Europea »; scritto, che a tutt’oggi è letto con profonda attenzione dagli statisti. E Penn non fu un semplice visionario, ma un uomo di virile personalità, disposto ad arrischiare la propria vita e fortuna nell’esperimento rischioso della Pennsilvania. Ricordiamo anche, che Penn fu preceduto da Dànte, da Erasmo, dal Grozio, da Sully; il « grand dessein » del quale contiene in frasi impressionanti il suggerimento di una Unione Federale degli Stati Europei, con un’armata e una flotta internazionale. Penn fu seguito dal grande francese St. Pierre, e dal famoso Kant, che nel >793 coronò l’opera di tutta una vita gloriosa, pub-
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blicando il suo trattato immortale, che rivesti di profonde e forti parole di sana filosofia le visioni del St. Pierre, e discusse da ogni punto di vista la convenienza e la possibilità di un Senato unito di Europa. Anche gli statisti che ri maneggiarono l'Europa nel 1814, per quanto aristocratici e reazionari, stanchi delle guerre napoleoniche, fecero qualche tentativo in questo senso. Se dunque noi siamo degli sciocchi, lo siamo in buona compagnia. Il pallio di Penn dovrebbe naturalmente cadere sulle spalle dei Quakers del secolo xx: ed è perciò che ■ le grand dessein » dovrebbe essere discusso ih tutti i « Meetings » dei « Friends », non limitandoci solo ad una propaganda della Pace, ma tenendo conto di tutti i fattori economici e sociali che costituiscono la fabbrica della nostra crivellata civiltà ».
Seguono cinque proposte, presentate alla intiera società dei « Friends », quale mezzo pratico d’iniziare e organizzare un movimento pubblico, « per assalire con una forza costruttiva la forte organizzazione militaristica ». ■ Questo —- si dice — deve essere un movimento popolare, e non già affare di diplomazia e di corti ».
i° La società dei « Friends » deve -promuovere un'intesa fra lutti • gli uomini e le donne di buona volontà », sia in Inghilterra e in A »¡erica sia nel continente Europeo. Le diverse « Società della Pace », la « Unione per il controllo della democrazia », le « Scuole per Adulti », le società (non militanti) per il « Suffragio femminile », il « partito dei lavoratori », le « Associazioni operaie », le « Confraternite » (Brotherhoods), ecc., dovrebbero unirsi per ottenere che la presente guerra riesca ad una finale disfatta del militarismo. Ogni associazione agirà secondo la propria direttiva, mentre i « Friends » si terranno fedeli alla loro ampia visione spirituale. Si dovranno aprire degli uffici nel maggior numero possibile di centri, utilizzando per quanto si può le organizzazioni già esistenti. Si mobilizzeranno cosi tutte le « forze della verità » (sarebbe atto di politica, forse, di affigliare questa lega alla grande « Armata per la Pace Mondiale » degli Stati Unuti, per facilitare cosi la cooperazione dei cittadini di nazioni belligeranti).
20 Per rendere efficace questa lega, organizzare una vasta campagna internazionale di ridarne, con tutti i mezzi già in uso, ed altri che facciano presa sull’imma-ginazione del popolo: servendosi dell’opera di un comitato scelto che comprenda artisti, uomini d’affari, persone d’iniziative geniali, ecc.) si dovrà in tal modo arruolare una vasta « Armata della Pace ».
30 Mentre questa campagna verrà condótta energicamente, si dovranno inviare delle deputazioni formate di personalità influenti ed eminenti, non solo al Re, al Parlamento, e agli uomini più illustri inglesi, ma anche al Presidente e al pubblico degli Stati Uniti, e il più presto che sia possibile, anche alle Potenze continentali. Ciò, non solo per assicurarsi l’aiuto morale e le simpatie dei condottieri di nazioni, ma anche per ottenere i necessari mezzi finanziari.
4° Quando la campagna sarà, così, avviata, si inizieranno numerosi pellegrinaggi a luoghi più adatti,
il loro nobile desiderio: non. biblioteche, non sale di lettura. Nè abbondano nelle loro tasche i denari per procurarsi libri e riviste. Abbiamo pensato da parecchio tempo .con viva simpatia a loro, desiderando aiutarli praticamente. Finalmente pare sia venuto il giorno buono. Stiamo raccogliendo un primo nucleo di libri e compilandone la lista, che stamperemo da noi in Redazione. È un primo principio, molto modesto. Per ora non parliamo di Biblioteca Circolante di Scienze Religiose; ma diciamo soltanto che si tratta d’un servizio di prestito di Libri a favore degli abbonati di « Bi-lychnis».
Verrà poi anche il giorno per le grandi cose... Intanto abbiamo messo a prova la pazienza di coloro che ci hanno chiesto la prima lista di libri e il regolamento del prestito. Le ragioni che hanno cagionato il ritardo di questo fascicolo valgono anche per spiegare il silenzio intorno a quel servizio. Ma ora, passati i malanni, ci rimettiamo al lavoro con lena e presto la Rivista tornerà ad uscire il 15 e quanti hanno domandato riceveranno risposta.
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Lo sviluppo della nostra Libreria procede lento, ma sicuro e continuo. Il numero dei nostri clienti cresce, e cresce il numero degli editori che ci concedono il deposito delle loro edizioni. Al Fischbacher di Parigi, aggiungiamo tra gli altri il Bridel di Losanna e Hodder & Stoughton di Londra. Siamo lieti di far notare che quest’ul-tinia casa editrice ci ha concesso il deposito per l’Italia dell’insigne opera del prof. Robertson di Louisville: La grammatica del Nuovo Testamento alla luce delle nuove ricerche storiche, di cui parla estesamente il nostro collega Dr. Whittin-ghill in questo fascicolo.
Di un’altr’opera di grande
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importanza ci ê stato concesso — dall’editore G. Bridcl— il deposito per l’Italia: L’introduction à l’Ancien Testament del Gautier.
Speriamo che parecchi dei nostri lettori che s’occupano con amore di studi Neotestamentari o di Antico Testamento vorranno onorarci colle loro ordinazioni. Siamo pronti, per queste due opere costose, a fare ai nostri abbonati tutte le facilitazioni possibili.
Richiamiamo inoltre l’attenzione dei nostri lettori sul nostro ricco assortimento di letteratura religiosa relativa alla guerra.
LIBRERIA EDITRICE “ BILYCHNIS "
Via Crescenzio 2, ROMA
Prediche
Venticinque Sermoni e allocuzioni di \V. Burt: La luce del móndo. Coraggio! La testimonianza cristiana. La Santa Cena. La conversione di Paolo. Che cosa invece dell’anima? Salario di peccato. L’acqua che disseta. « Recatemeli qua ». Doveri di figliolanza. Come vivere. Tre parabole. Tutte le cose con Lui. Sul primo Salmo. Il battesimo dello Spirito. Natale. Pei' la vita cristiana. Come si può vedere Gesù? Le ultime parole di Cristo. Pasqua. Il vero fondamento, ecc. Prezzo del volume L. 2.
Religione e guerra
Abbiamo esaurito il deposito dell’edizione popolare in fogli grandi dei sermoni. Pendant la guerre. Se n’è iniziata una 2* edizione in volumetti. Ne sono già usciti due, — che abbiamo in deposito —, formato tascabile, d'un centinaio di pagine ciascuno. Costano L. 1,25 l’uno. IJ i° contiene: La Veillée d’Ar-mes, di W. Monod; I.es tour-ments de la guerre, di Roberty;
per tenervi adunanze in massa: si adotteranno mezzi svariati per spargere per ogni dove propagandisti dell’idea, ecc.
5° Poiché è da prevedere che i Governi, dopo la Ìuerra, si occuperanno dell’enorme problema di riedi-carc le comunità demolite, sarebbe questa un’occasione unica per offrire i nostri servigi a quest’opera immensa, e nello stesso tempo agire e influire nel senso delle nostre idee e propositi, sugli uomini e donne che si tratterà di occupare, sui soldati che rimpatrieranno, sui- profughi che torneranno dall’ esilio,., ristabilendo fra individui di nazioni già nemiche, rapporti cordiali.
Il « Comitato per il soccorso delle vittime della guerra », già costituito dai « Friends », potrebbe dilatare le sue tende per questo scopo più vasto, e cominciare a far sentire il bisogno di quest'opera ristoratrice.
Noi siamo ben consapevoli dell’immensità del piano che qui abbiamo abbozzato, più come un suggerimento che come un programma ben definito, e dell’enorme responsabilità che esso implica: e non chiediamo se non che sia considerato e discusso con larghezza di spirito e di vedute, senza per ora arrestarsi ai dettagli.
L’essenziale è che, mentre nel mondo viene data una esposizione straordinaria di errore, si dia anche un’esposizione straordinaria di Verità. Per sonare una tromba basta un sol uomo: ma il suo suono muove le persone a migliaia.
« Friends! » siate voi tale tromba: che il vostro appello risuoni su tutte le pianure desolate di Europa: che scuota il letargo degli acquiescenti e degli indolenti. Basta con la « mite protesta di un pugno di Quakers »! « alzatevi su, ponetevi alla testa, e, per amor di Dio. affrettatevi... ».
Dal “Christian Commonwealth”
L’atteggiamento pratico dei «Friends», e generalmente quello dottrinale critico, e della non-resistenza, ha suscitato e alimentato polemiche, che pur senza, al solito, avere alcun risultato definitivo, han però gettato molta luce sul problema dei rapporti fra Cristianesimo e patriottismo.
Da una di queste polemiche condotta sulla rivista settimanale di cristianesimo liberale, il « Christian Commonwealth » ricaviamo le seguenti riflessioni di un intelligente avversario dell’interpretazione pacifista-assoluta, del Cristianesimo. « Coloro che rappresentano la non-resistenza come una forma superiore di Cristianesimo sembra non si rendano conto che il Cristianesimo è un tutto integrale che non può essere propugnato in sezioni. Gesù potè dire: «non resistete al male », perchè egli era un cristiano — l’ultimo dei cristiani secondo B. Shaw —, ma coloro che a nome del Cristianesimo propugnano la non-resistenza, scambiano il tutto per una parte. Gesù proibì non solo il combattere ma anche [’accumulare ricchezze, sia in danaro che in generi: egli proibì di ricercare il proprio interesse, e ordinò di amare il prossimo come noi stessi. Ora i
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seguaci della non-resistcnza ammettono, pure, come lecita la concorrenza economica, la lotta industriale: e classificano, ad esempio, lo sciopero, ira le armi morali. Eppure queste armi « morali » cagionano la miseria, la rovina, spesso, di molte famiglie, la morte fisica anche.: esse rovinano intiere industrie, fanno sorgere bramosie di vendetta, odii inestinguibili, alimentano gli antagonismi di classe — e nell’insieme non sono armi più morali e spirituali della baionetta e della palla di fucile. Prendete il « Tradeunionismo », del quale molti miei avversari sono fautori. Ebbene, esso pure è un'organizzazione per mezzo della quale i suoi membri cercano di ritrarre dal loro lavoro un maggiore ben’essere materiale: anch’essi cercano di « avere due mantelli • invece di uno, e dimenticano che quel Gesù che disse di volgere l’altra guancia a chi ci schiaffeggia, disse anche di percorrere due miglia con chi ci sforza di percorrerne uno... ».
in un articolo su: « La critica e le Chiese », la stessa Rivista dice: «Una gran parte delle critiche mosse alle Chiese per non avere separato la loro responsabilità nella presente guerra è altrettanto futile quanto la critica di quei partiti che pure hanno soffocato tutte le loro differenze per sostenere la gran lotta. Questi critici credono che la guerra è un male, che noi non avremmo mai dovuto prendervi parte, che la nostra causa non è giusta, che noi non abbiamo il diritto di pregar Dio di benedire le nostre armi, e che poiché anche le altre nazioni usano il nome di Dio, non potendo ambedue avere ragione, abbiamo ambedue torto. Va bene: ma la questione è: debbono i cristiani ricusare qualunque sostegno alla guerra? non solo combattendola con discorsi ed articoli, ma rifiutando di pagare le tasse, ricusando l’aiuto del loro consiglio e della loro esperienza ed influenza a quelli che hanno la responsabilità della guerra stessa? Questa è la conclusione che non si sentono di fronteggiare la maggior parte. Ora, chi non ha il coraggio di andare a fondo delle sue idee e agire in conseguenza, farebbe meglio a finirla di lamentarsi perchè gli altri agiscono in conformità di quel po’ di luce che illumina la loro ragione... Il deputato (socialista) Mac Donald ha detto nel suo discorso S>ronunziato in un’adunanza di «Frends », che la sola orza che porrà termine alla guerra sarà io spirito di fratellanza cristiana, da ricercarsi non nelle Chiese, ma in mezzo alla massa del popolo che imporrà il suo: « Basta! ». Il Mac Donald non è solo a deplorare il fallimento dell'idealismo cristiano in Europa: il fallimento, non delle Chiese, ma come il (romanziere) Wells lo ha chiamato, della «debole, benché retta volontà Cristiana ». Ma è notevole, che nessun accenno pratico vi è stato nel discorso del Mac Donald, che alluda alia sua intenzione di associarsi, come uomo politico, all’ atteggiamento di non-resistcnza, che alcuni membri del « Partito dei Lavoratori » vorrebbero fare assumere al partito. Le sue sembrano le espressioni di
Le Nom de l’Eternel, di W. Monod; La résistence de l’Esprit, di Roberty; Nos Légions invisibles, di w. Monod; Les trois hommes dans la fournaise, di C. Wagner. — Il 20 volumetto contiene: Le serviteur alarmiste, di C. Wagner; En face du Crucifié, di W. Monod; La victoire de Dieu, di Viénot; Le fardeau des autres, di Viénot; Consolation, di Roberty; Par la glaive, di Wautier d’Ay-galliers.
Tra giorni avremo in deposito la serie delle Conférences données en l’Église de Sainte-Madeleine, à Paris, pubblicate dall’Ed. Bloud sotto il titolo generale La vie Heroique. Sono ! »rediche relgiose riguardanti a guerra. Abbiamo sotf òcchio il n XIII: una conferenza del Sertillanges su La vertu purificatrice de la guerre. Daremo altri particolari nel prossimo fascicolo.
Petits Sermons de Guerre précisés dans le tempie de Mansle en l’absence du pasteur mobilisé, par Paul Stapfer, doyen honoraire de la Faculté des Lettres de Bordeaux: Le troisième commandement; Les larmes de Jésus; La Pitié suprème; «Lève-toi et marche! »: L’attente de la mort; La pite de la Veuve; A ceux qui doutaient de la victoire; Alliés du Christ; Au service de Dieu. — Volumetto di 100 pag. L. 1,60.
Paroles d'actualité. Sermons prêchés dans la Cattédrale de Saint-Pierre, à Genève: Confiance et vigilance; Le Royaume de Dieu est proche; ï.es deux Jérusalem, ecc. L. 1,25.
La guerre et la bonne conscience par H. Bois, Sermon prêché a Montauban, au culte universitaire. L. 0,65.
Dieu et la Guerre. Conférence donnée par le prof. Georges Fulliquet en la Salle de la Ré-formation à Genève. L. 0,65.
La guerre. Dieu, la France. La France peut-elle demander
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a Dieu la victoire? par E. Dou-mergue. L. 0,30.
Alexandre Westphal: Le silence de Dieu, L. 0,65; Le Dieu des Armies, L. 0,65.
L’Evangile et la guerre par Henry Barbier, L. 0,50.
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In the day of the muster, sermons in time of war, by the rev. W. P. Paterson, D. D.: The heart-searchings of war; The alchemy of Providence; The wrath of the beloved disciple; The call to endurance; An unending war; God is love. — Rilegato. L. 3,50.
The Christian’s War Booh: Part. I. Christianity and war; Christ and Patriotism; Germany and Christianity; Are we a Christian Nation? The Justification of the war; Is Christianity a Failure? God and the war. — Part 2. The Minister in War Time; The Minister at the front; With the Fleet; The hero Priests of Belgium; The war and the Churches; The Christian in War Time; The War and Prayer; ecc. — Part 3. The Future. — Pagine 200 L. 3.5
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Raccomandiamo I Sermoni della Guerra del nostro stimato collaboratore Allredo Tagliatela. Ne sono usciti sette dei dodici annunziati. Gli ultimi due apparsi in questi giorni sono: il 6°: Che avverrà? l’incredibile? e il Natale di sangue. Cent. 30 l’uno. Abbonamento a tutta la serie L. 2,50.
Card. D. Mercier: Lettera pastorale (Natale 19x4) L. 0,15.
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[Novità]. Raccomandiamo l’ec celiente opera di Lucien Gautier: Introduction à l’Ancien Testament. Seconde édition revue. 2 volumes in-8. Prezzo dei 2 vol. : a Roma L. 22.75; in Italia L. 23.25.
Cet ouvrage n'est point écrit en première ligne pour les théochi è triste e depresso all’estremo alla vista del terribile spettacolo; ma non di chi ha l’intenzione di dirigere una grande .crociata ».
Paróle d’un canonico anglicano
Riferendosi alla stessa denuncia acerba della «ipocrisia delle Chiese nell'invocare il nome dello stesso Dio, a proteggere interessi opposti e in guerra fra loro », il canonico (della Chiesa Inglese, e di vivi sentimenti democratici, anima delle attività sociali della sua Chiesa) Enrico Scott Holland, scrive sulla Rivista di Cristianesimo sociale « The Commonwealth », di decembre, da lui diretta, queste parole: « Fra tante ragioni di orrore e di scandalo, mi sembra invero che sia questo invece, il nostro solo barlume di speranza e di conforto. Esso ci mostra che ambedue le parti contendenti credono in una semplice legge di giustizia, in una coscienza universale, in una giustizia assoluta che può, sola, pronunziare la sentenza; in un solo e supremo Dio e Padre universale... Quando due litiganti fanno appello alla legge, essi professano di credere ad un principio comune di giustizia: pure essendo ognuno persuaso di essere egli l’espressione della Coscienza assoluta, riconosce però di essere soggetto, e non superiore, alla legge: e ad essa chiede di sanzionare quello che crede sia il suo diritto. Dov’è qui la confusione o l’assurdo? Lo stesso fa la guerra. Ognuno dei belligeranti crede di potere invocare la legge eterna a difesa della propria interpretazione di essa: ognuno ripone la sua causa nelle mani di Dio. Sarebbe orribile piuttosto il pensare che uno dei due avversari si è gettato nella mischia, senza esser convinto che innanzi a Dio egli era nel giusto: sarebbe allora stato un brigante e un assassino.
Chi critica questa preghiera comune ai contendenti e dice che questo è un culto verso il Dio della tribù, mostra di fraintendere completamente la nostra preghiera. Nessuno chiede a Dio di esaudire l’Inghilterra terchè Inghilterra, o la Germania perchè Germania.
I solo titolo che noi affacciamo per la nostra preghiera è, che noi crediamo che l’Inghilterra faccia un’opera giusta: e lo stesso è il titolo che affacciano i tedeschi — come ci confermano quelli che hanno assistito alla preghiera elevata a Dio da i templi di Berlino. Ebbene, ringraziamo Dio almeno di questo, che le nostre convinzioni ci rendono possibile di comprendere le loro: che siamo una cosa sola nella coscienza che ci guida, nella legge a cui serviamo, nel Dio che adoriamo. Ecco una fratellanza che, almeno, non abbiamo mai perduto. I nostri metodi di rivendicare l’onore di questa unica e suprema legge di giustizia sono orribili, crudeli, assurdi. Versate pure contro di essi tutta la vostra indignazione. Ma nel consenso comune, di comparire dinanzi allo stesso Giudice, e di difendere innanzi a Lui, Eterna Giustizia, la nostra causa, giace la nostra sola speranza di forza e di salvezza ».
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“... dobbiamo amarli „
Abbiamo visto denunziare come un assurdo la pretesa di conservare nel petto l’amore cristiano, pur mentre il braccio scaglia la morte.
Ora, ecco il linguaggio dello stesso Scott Holland, evidentemente ispirato dalla contraria convinzione: « Non ostante la mancanza di ufficiali — egli scrive nella medesima rivista — fanciulli tedeschi di sedici e diciassette anni hanno sfidato i nostri fucili, hanno marciato risolutamente fino alla bocca di essi,.ed hanno incontrato la morte a frotte, senza tergiversare. Essi hanno mostrato con la loro condotta che per essi « Deut-schland uber alles ■ non è un grido vano. Ebbene, non possiamo negarlo: ciò è magnifico. I tedeschi mostrano di riporre nel loro Germanesimo un ideale che ha tutta l’intensità di una religione. Fanciulli non addestrati e male equipaggiati, si scagliano impavidi verso la morte, a plotoni, senza muovere lina domanda, senza un lamento. Essi sono posseduti dal secreto della solidarietà nazionale e sono rimasti trasformati dalla sua ispirazione. Ed è proprio a noi che tocca di uccidere questi ragazzi: siamo noi che ci siamo impegnati nella missione di infrangere i loro ideali. E noi lo dobbiamo: non vi è rimedio. Solo, dobbiamo compiangerli: solo, dobbiamo amarli: solo, dobbiamo chiedere loro perdono: solo, dobbiamo domandare a noi stessi, se siamo degni di allinearci con loro nello spirito di una gloriosa abnegazione per una grande causa eroica .. ».
Uh discorso di Llyod George
Il dì 11 decembre, nel tempio grandioso di «City Tempie » a Londra, il Cancelliere dello Scacchiere, Lloyd George tenne un solenne discorso a circa 2000 ecclesiastici di tutte le Chiese, i cui leaders gli face vano corona. « È una dolorosa tortura per noi — fu il suo esordio — per noi che abbiamo combattuto du-1 tante tutta la nostra vita contro il militarismo, di essere ora trascinati dalla forza irresistibile della nostra cosciènza a divenire i sostenitori di una guerra. Io ho parlato in centinaia di comizi per protestare contro la guerra e gli armamenti, ed è invece questa la seconda volta soltanto in vita mia che parlo in favore della guerra. Ricordo, fra gli altri, uno di quei comizi contro la guerra, in cui mi fu compagno il dott. Clifford (il leader Battista) qui presente: comizio assai burrascoso, e in cui sostenemmo... precisamente lo stesso principio che ora siamo qui a sostenere, che cioè nessun impero, per grande e potente che sia ha il diritto di usare della sua potenza per schiacciare le piccole nazionalità ». Nel suo lungo discorso che costituì un avvenimento nazionale, alcune parole furono direttamente rivolte al «Credo dei nostri antenati Puritani ». «Io sostengo — egli disse — che il principio della non-re-sistenza assoluta e universale non è un principio del Cristianesimo. Questo proibisce la vendetta, la ribellione, ma mai una parola fu pronunziata dal Maestro
logions. M. Gautier poursuit un but pédagogique, l’éducation des lecteurs de la Bible. Après les préliminaires, qui comprennent la définition du sujet, une étude sur la langue de F Ancien Testament et une autre sur l’écriture hébraïque, l’auteur prend les livres l’un après l’autre et traite de leur rédaction, historicité, date, téndance, but, etc. Enfin la dernière partie expose l'histoire du Canon, du texte et dés versions de l’An-cien Testament. (Vedine il sommario particolareggiato in Bi-lychnis, gennaio 1915, p. 67).
[Novità]. Georges Fulliquet, La doctrine du second Adam; Etude anthropologique et christologique. 1 vol. in 8° di pag. 360. Genève, Paris, 1915. L. 5,30.
Ernest Rostan, Les paradoxes de Jésus; Esquisse de morale évangélique. 1 vol. in i6° di pag. 270. L. 3,25.
Frank Thomas, La prière. Volumetto elegantemente rilegato, adatto per regalo. Lire 2,10.
L. Gautier, Vocations de pro-(diètes: La vocation d’Ezéchiel. a vocation de Jérémie, la vocation d’Esaïe, la vocation de Amos. Legato in tela. L. 1,65.
L. Gautier, La mission du prophète Estollici. 1 vol. in 160 di 370 pag. L. 3,75.
[Ottima occasione). Pfennig-sdorf-Gindraux, Le Christ et la pensée moderne. 1 vol. in 8° di pag. 370. Prezzo L. 6 per L. 3 (Estero L. 3,50).
Piccola Antologia della Bibbia volgala con introduzioni e note per cura del prof. Ermenegildo Pistelli, con dodici tavole e in appendice alcune epistole di Dante e del Pe-
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trarca. Firenze, Barbera, 1915. Un voi. in i6°, di pagine vm-252. L. 2,50.
(Dal bollettino dell' Editore) Questa piccola Antologia, in perfetta uniformità coi vigenti programmi governativi, ha il pregio singolarissimo di offrire in breve mole, con la sapiente scelta de’ brani più adatti, una idea sufficiente e completa delle opere prescritte per l’insegnamento del latino non classico nella prima classe dei Licei Moderni. E poiché, secondo lo spirito delle istruzioni ministeriali, lo studio del latino deve in questi nuovi istituti intender di preferenza ad agevolare la comprensione e l’intelligenza della letteratura italiana per quel tanto ch’essa derivò non solo dai Latini propriamente detti, ma anche dagli scrittori della latinità cristiana nel Medio Evo e dagli umanisti del Rinascimento, • l’importanza de* quali gli alunni del Liceo Moderno dovranno via via notare nello studio della storia della Letteratura italiana »; cosi il eh. compilatore ha posto cura speciale nel irasccglier quelle opere e quei brani di esse a cui più largamente s’inspirarono c attinsero i classici nostri più insigni. E nei sobri ed opportuni commenti cercò appunto di metter in chiaro rilievo l'importanza di queste ricchissime fonti d’inspirazione e d’imitazione, la cui conoscenza (della Bibbia e degli altri libri sacri, in specie) è-— più che utile — indispensabile a comprender gran parte delle opere di Dante c in genere de’ nostri Siù grandi, che massimamente alle Scritture trassero messe abbondante di concetti, di similitudini e di espressioni, forse in più larga misura che dalle tradizioni e dalla mitologia elleniche e romane.
Nè egli trascurò di rilevare, quante volte se ne offrisse il destro, l’influenza notevolissima che lo studio de’ sacri testi eserper proibire agli uomini di armarsi per la difesa della giustìzia, del diritto, e per la protezione dei deboli. E mi sia anche lecito dire, che spingere troppo oltre 1 applicazione di quel principio è proprio il modo di distruggere la possibilità della sua attuazione. Il preci-Bitare gl’ideali è lo stesso che ritardare il loro avvento.
oi tutti attendiamo con ansia il giorno in cui le spade saranno trasformate in aratri e le lance in falcetti, e le nazioni non si armeranno più contro le nazioni. Ma fino a che vi saranno, invece, nazioni, che trasformano i loro aratri in spade e i loro falcetti in lance, per saccheggiare i campi dei loro vicini aratori e falciatori, il disarmare significherebbe allontanare appunto quel giorno a cui noi tutti aspiriamo. Il più sicuro modo di stabilire sulla terra il regno della pace è di rendere ai reggitori delle nazioni assai arduo il compito di violare la pace delle altre nazioni. È questo appunto che noi ci siamo proposti di fare ».
Una profezia d’Atanasio
Sulla « Commonwealth » Bevil Browne in uno studio sulla « Guerra europea e il Cristianesimo », rievoca le parole di Atanasio che, contemplando con l’immaginazione il risultato che deriverebbe dalla rapida estensione del Cristianesimo, profetizzava: « Quando le nazioni accetteranno l’insegnamento di Cristo, esse abbandoneranno la crudeltà della guerra e non più escogiteranno mezzi di «sterminio: ma tutti i loro sistemi saranno pacifici, e i pensieri del loro cuore s’indirizzeranno verso l’amicizia ». (De Incarnai. 51). E commenta: • Gli eventi dei sedici secoli seguiti a queste parole di Atanasio forniscono un melanconico commentario. L’unico tardivo faro nella storia è a tale riguardo l’at-3¡amento preso dalla società dei « Friends », il e però riguarda soltanto la condotta degli individui. La Chiesa non si è ancora formata una concezione fissa e precisa riguardo all’argomento». Una nota dell’Edi-tore fa, qui, osservare che «la storia dello Stato primitivo di Pennsylvania fornisce un esempio di nonresistenza che avrebbe dovuto esser preso in maggiore considerazione, tanto più perchè caso unico >• (I «Friends» che avevano fondato questo Stato, assaliti dagli Indiani. anziché opporre resistenza, si dichiararono disposti a soddisfare le domande degli assalitori).
I,o scrittore, enumerati gl’insuccessi della diplomazia e le cause di essi, conclude: « Capitalisti e operai foggiano continuamente anelli che li stringono in rapporti di simpatia e amicizia, e che passano sopra a limiti di frontiere tracciati sulla carta geografica. Se le « Camere di Commercio » proclamassero che esse desiderano con altrettando ardore la guerra quanto il terremoto, non è probabile che gli uomini di Stato la dichiarerebbero: se i finanzieri che sono stati condotti dalla guerra Europea sull’orlo del fallimento facessero sapere che essi getterebbero tutta la loro influenza sul piattello del mantenimento della pace; se le associazioni dei minatori, dei ferrovieri, degli ingegneri, che già hanno
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assunto un carattere quasi internazionale dichiarassero che lo scoppio della guerra sarebbe il segnale di uno sciopero universale: e queste dichiarazioni fossero presentate da congressi internazionali, in tempo di pace, a tutti i governi occidentali, il problema sarebbe risolto... ».
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Su « The Concord », organo di quella associazione Internazionale per l’Arbitrato e per la Pace» della quale è insigne presidente l’illustre Moscheles, il grande amico — e pittore, — di Mazzini, il Perris scrive: « In presenza di una catastrofe del regno fisico — un terremoto, un uragano disastroso, un incendio nelle praterie, una grande epidemia — sentiamo noi forse la necessità di fornire una giustificazione alla morale della Natura, « alle vie di Dio verso l’uomo? ». Lasciamo che la natura e la storia portino il peso della loro responsabilità: ciò che noi possiamo fare è, piuttosto, di porger soccorso alle vittime di questi disastri, — quando non possono scongiurarsi — e di compiere un lavoro fecondo che prepari l’avvenire e segni una traccia che possa guidare i nostri figli a fare meglio di noi. Ah, quei figli, con quei loro occhi senza nebbia su cui sfavillano questioni terribili’ E quei santi, per cui non esisteva schermo di « carne e di sangue » fra essi e qualche verità celeste...! ».
La « Westminster Gazette » autorevole giornale londinese, ha aperto le sue colonne per più numeri a una discussione sul problema dei rapporti tra il Cristianesimo e la guerra.
Nell'ultimo di questi numeri un collaboratore ha detto, virtualmente, l’ultima parola riassuntiva delle opinioni espresse, con il monito che • in materia di guerra, la miglior cosa da fare è di lasciare il Cristianesimo da parte ».
L'unione di controllo democratico
Fin dalle prime settimane della guerra, dopo che la voce del ministro della marina inglese Churchill ebbe proclamato: • Noi dobbiamo combattere e lavorare per il raggiungimento di grandi e sani principi da far trionfare nel regime Europeo »; ed ebbe dichiarato che primo fra questi, era il principio di nazionalità, un gruppo di personalità politiche inglesi, fra cui Norman Angeli, il noto autore del classico volume « La Grande Illusione • (la Guerra) e Ramsay Macdonald, « leader » del gruppo socialista parlamentare, fondò la « Unione di controllo democratico ». Del suo programma, delle sue idee ed attività daremo altra volta ampio saggio. Ecco intanto un brano del primo appello che segnò la costituzione dell’Unione.
«... Allo scopo che queste idee (di giustizia sociale, ecc.) trionfino, è necessario insistere, perchè le condizioni della pace futura siano ispirate dai seguenti principi.
citò sempre sulla grande arte nostra, del Rinascimento in ¡specie, che ne’ più belli e celebrati suoi capolavori ben dimostrò quanto potente e suggestiva efficacia abbiano nella mente de’ nostri artisti più eccelsi esercitato le creazioni sublimi della poesia ebraica, che proiettò ed impresse nella cultura italica i migliori e più vitali riflessi delle antichissime e splendide civiltà orientali. A tal concetto, appunto, di pratica dimostrazione artistica si informano le numerose e nitide illustrazioni che corredano il libro e ne costituiscono un’altra simpatica attrattiva.
Il prof. Pistelli, poi, non limitò le sue diligenze alla opportuna scelta de’ brani ed alla correzione critica de’ testi, ma con felice genialità si propose anche un altro e non mcn nobile intento, quello cioè di allargare — anche oltre i confini della scuola— la conoscenza di quella meravigliosa letteratura poetica che è racchiusa ne’ libri del Vecchio e ’del Nuovo Testamento, e che è troppo poco conosciuta da noi, anche tra le persone colte: a differenza di quanto avviene in altri civili e progrediti paesi, specie in quelli di confessione protestante, dove la Bibbia e gli altri testi sacri sono popolarissimi in tutte le classi sociali, formando ad un tempo la lettura domestica preferita e il codice più venerato in materia religiosa e morale. Mentre dunque confidiamo di veder accolta nella Scuola, pel suo alto valore didattico, la nostra Piccola A filologia. ci preme di segnalarla e raccomandarla anche a tutti coloro che desiderano in questa parte completar le lacune della propria cultura.
Può darsi che molti, dopo letta questa raccolta così viva, che non ha nulla di scolastico nel senso pedantesco della parola, abbiano a sentire il desiderio d’averne una più ampia.
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compilata con gli stessi criterii, ma con la traduzione a fronte... Se questo accadrà, l’editore e il compilatore non si rifiuteranno a soddisfarlo.
L’Uomo secondo Pitagora, del prof. Enrico Caporali. Lire 2,50.
Il midollo della nostra coltura, così diversa dalla germanica, c così allettante per chi vuol pensare, viene in questo II volume della « Sapienza Italica », presentato in bella maniera più che nel primo.
Il mondo è menato e svolto da chi ha carattere e ferma volontà, e tra le Nazioni d’Europa nessuna lo ha più originale, più fecondo di nuovi punti di vista, dell’Italia.
Quali sono le vere origini dei nostri sensi e del nostro pensiero? Quali le leggi di questo? — Non sono le Kantiane nè quelle escogitate dagli epigoni del filosofo di Konisberga. Si vedrà chiaramente che sono le Pitagoriche.
E quale può essere il motivo, la direzione, lo scopo della prossima guerra che farà l’Italia? Come orientarsi nel pelago delle discussioni che fanno ondeggiare e talvolta confondere ed offuscare il sentimento italico in queste ore così decisive per l’avvenire della civiltà latina?
Col solito metodo di considerare pacatamente, unicamente i fatti, e di sviscerarne le cause, il prof. Caporali addita in questa sua magistrale opera L’Uomo secondo Pitagora edito dalla Casa Editrice« Atanòr» di Todi la via migliore della prossima lotta per il diritto internazionale.
i quali dovranno dominare anche la situazione pubblica dopo che la pace sarà stata conchiusa.
x<> Nessuna provincia dovrà essere trasferita dall’uno all’altro governo, senza il consenso ottenuto con plebiscito, della popolazione di tale provincia.
2° Nessun trattato, accordo, impegno, sarà conchiuso in nome della Gran Bretagna, senza la sanzione del Parlamento. Si provyederà che sorga un adeguato organismo per garantire il controllo democratico della politica estera. , „ , .
30 La politica estera della Gran Bretagna non dovrà mirare a creare delle alleanze allo scopo di mantenere la • bilancia del potere », ma dovrà essere diretta allo stabilimento di un Concerto Europeo, le cui deliberazioni e decisioni dovranno essere pubbliche.
4° La Gran Bretagna proporrà, come uno dei compiti del trattato di pace, una radicale riduzione degli armamenti col consenso di tutte le potenze belligeranti, e per facilitare questa misura politica, si sforzerà di ottenere la nazionalizzazione generale di tutte le manifatture di armi, e la proibizione di esportare armi da una nazione all'altra. Su questi punti che abbracciano la maggior parte delle proposte fatte da coloro che seriamente hanno scritto su questo argomento dal principio della presente guerra, tutti potranno accordarsi, a qualunque partito politico appartengano.
Una lettera deH'Arcivescovo di Canterbury
Il nuovo anno ha risuonato di molti e autorevoli « messaggi ». Uno fra questi è là lettera indirizzata dall’Arcivescovo di Canterbury al clero e al laicato della sua diocesi (egli, come è noto, è il capo religioso della Chiesa inglese). Essa termina con queste parole:
« Grande è la causa che ci ha chiamati alle armi. Ma questo non è tutto. Vi è al di là una visione più grande ancora. Per gli spiriti più elevati di Europa, vi sono due dimore; la nostra patria terrena, e la Città di Dio: dell’uno siamo gli ospiti, e dell’altra i costruttori. Che nostro compito sia, se Dio ce ne concederà la visione e il potere, di elevare d'ora innanzi, anche estraen-dola dalle agonie e dai terrori della guerra, qualcosa di meglio e di più santo di ciò che gli uomini abbiano mai visto, per la fratellanza delle nazioni. Lavoriamo e preghiamo umilmente, perchè coloro che sono passati per una così dura disciplina, possano un giorno cooperare a costruire sulla terra quella Città di Dio a cui tutti volgono lo sguardo — quella città che ha solide fondamenta, perchè l’architetto e il Costruttore suo è Dio ».
G. P.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell* Unione Editrice, via Federico Cesi, 45
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Prezzo del fascicolo Lire 1