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RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV :: Fasc. Vili. AGOSTO 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 AGOSTO - 1915
DAL SOMMARIO: Romolo MURRI: L’individuo e la storia (A proposito di Cristianesimo e di guerra) — W. J. Me GlOTHLIN : La crisi della teologia cristiana — MARIO PUGLISI : Il problema morale nelle religioni primitive — GIOVANNI PIOLI : Sulla via dell’unione delle Chiese (Il Congresso delle Chiese cristiane libere d’Inghilterra) — W. MONOD: La cultura della vita interiore — C.: Renato Serra — P. GHIGNONI: Eugenio Vaina — TRA LIBRI E RIVISTE — A DE STEFANO: La guerra e la religione nel pensiero di A. Loisy. — La grande scoperta (Bozzetto) — “ Gesù nella trincea „ (cartolina illustrata tedesca), ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi
------- Via Crescenzio, 2 - ROMA -D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l’Estero
------- Via del Babuino, 107- ROMA ---AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
# Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine.
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IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ • FIDES ET AMOR» EDITRICE Amministrazione: Via S. Caterina, 14
MCMX1V
È in vendita in tutta Italia la ristampa di questa traduzione del N. T. che nella sua prima edizione del 1911 s’ebbe sì lusinghiera accoglienza da tante persone riconoscenti e bene auguranti : Antonio Fogazzaro, Pietro Ragnisco, Paolo Orano, Enrico Caporali, Baldassare Labanca, Luigi Ambrosi, Giacomo Puccini, Alessandro Chiappelli, Guido Mazzoni, Pio Rajna, Paul Sabatier, Nicola Festa.....
Questa nuova edizione, segna un progresso notevole : è stata accuratamente riveduta e qua e là ritoccata e corretta ; stampata presso la Tipografia « L’Arte della Stampa » in nitido elzevir, riesce molto simpatica all’occhio, grazie anche all’artistica copertina.
Sebbene conti oltre 660 pagine, non è voluminosa, essendo tirata su carta finissima.
Il bel volume [si vende a L 1.50; ma gli abbonati a “ Bilychnis „ possono averlo inviando UNA LIRA alla nostra Amministrazione insieme con l’importo dell’abbonamento.
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SOMMARIO:
Romolo MURRI : L’individuo e la storia (A proposito di Cristianesimo e di guerra) . . . . . . ■ • • • ....... pag. 85
W. J. McGlOTHLIN: La crisi della teologia cristiana. > 95
Mario PUGLISl: Il problema morale nelle religioni primitive . . . » 103
Giovanni Pioli: Sulla via dell’Unione delle Chiese (Il Congresso
delle Chiese cristiane libere d’Inghilterra) ..................... »118
PER LA CULTURA DELL’ANIMA :
W. MONOD: La cultura della vita interiore . •........ > 123
Sull'ara della patria:
C.: Renato Serra .. ... . > 132
P. Ghignoni: Eugenio Vaina . . . . .......... > 134
TRA LIBRI E RIVISTE:
I libri :
Giovanni Costa: Il problema delle scienze storiche ........... » 138
Gio. Vanni : La catastrofe di Nerone . . . . . •.............. » 139
S. B: La Bibbia e la Chiesa esaminate dalla ragione e dalla storia .... » 139
S. Bridget: Pedagogia cristiana ..................... » 139
Le riviste:
F. Rubbiani :. S. Francesco e Buddho ............... ; . . » 140
F. Rubbiani: II carattere degl’italiani .................. » 141
S. Bridget: Varia . . . .......................... » 144
LA'GUERRA (Notizie, Voci, Documenti):
Antonino De Stefano: La guerra e la religione nel pensiero di Alfredo Loisy » 145
La grande scoperta. Bozzetto (Trad. di W. K. Landels) .......... » 151
G. P. : Religiosità del soldato inglese - Religiosità dei soldati israeliti inglesi Religiosità dei soldati indiani .................. » 160
Cambio colle Riviste ......................... » 145
Notizie .............. .................. > 152
Pubblicazioni pervenute alla Redazione ................ >> 154
Cose Nòstre.......................................................... » »55
Libreria Editrice « Bilychnis » ..................... » 157
ILLUSTRAZIONI:
Ritratto del Rev. J. H. Shakespeare. - Tavola tra le pagine 120 e 121.
Gesù nella trincea. - Tavola tra le pagine 152 e 153.
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L’INDIVIDUO E LA STORIA
(A proposito di Cristianesimo e di guerra)
llo sforzo che le coscienze religiose hanno dovuto fare, in Italia, per rendersi conto della guerra e prendere il loro atteggiamento spirituale dinanzi ad essa, Bilychnis ha contribuito più largamente che alcun’altra rivista. E tuttavia molti lettori debbon essere rimasti perplessi, perchè e il materiale offerto e i vari punti di vista illustrati e difesi erano eterogenei e discordi: perplesso,, specialmente, alla lettura del numero di maggio, nel quale erano a un tempo e la commossa invocazione dell’Italia, che entra in guerra, e le amare e sdegnose parole del P. Ghignoni contro ogni guerra.
Ora io vorrei portare un modesto contributo alle discussioni, chiedendomi, come è sempre il caso di fare quando, dopo un lungo discutere, non ci s’intende, se non convenga impostare diversamente il dibattito, porre in altri termini la questione, non dico per trovarci d’accordo ma almeno per intenderci su certi capisaldi comuni.
Come era impostata la discussione? Gli uni dicevano: noi abbiamo nel Vangelo un codice di valori religiosi perspicuo e definitivo; con tutto il suo spirito e in taluno dei suoi precetti più formali ed essenziali, esso vieta ai suoi seguaci l’uccisione e la guerra: qualunque uccisione, qualunque guerra. E, a primo aspetto, essi hanno perfettamente ragione.
Gli altri dicono: noi siamo cristiani. Noi accettiamo il Vangelo come codice di valori religiosi, riconosciamo che la legge cristiana di amore deve essere la legge fondamentale della società umana, cerchiamo di realizzare nella nostra vita e nel mondo
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che ci circonda, per quanto ci è dato di influire su di esso, quel precetto. Nessun sofisma di avversari può contenderci questa intima fede e consapevolezza.
Ebbene, non ostante questo nostro cristianesimo, anzi nel nome di esso, oggi che la guerra è e che solo mediante la guerra alcune nazioni possono difendersi da una ingiusta aggressione, e difendere o ricuperare le loro libertà, oggi che noi siamo chiamati ad aiutare questi popoli in lotta, per una causa giusta, ed a liberare i nostri fratelli e a stabilire i rapporti fra le nazioni su basi di più salda giustizia, noi sentiamo che saremmo dei vili rinunziando a combattere, che commetteremmo fellonia verso la patria la quale combatte se non fossimo cordialmente con essa, che saremmo trasfughi dalla storia, abbandonandola — per quanto è da noi — alle potenze del male.
Ed anche questi hanno perfettamente ragione.
Ma i primi rincalzano: aderire sinceramente, e come Cristo chiedeva e le chiese chiedono, al cristianesimo significa dare alla coscienza del Cristo, come rivelatrice, ed al suo precetto un assoluto valore religioso. Riconoscerlo come assoluto è accettarlo quale è, avvenga che può. Il Cristo, se c’è qualche cosa di saldo e di certo nella sua dottrina, ha preso la vostra coscienza individua, l’ha investita del valore e della rappresentanza di tutta l'umanità, e l’ha posta sola innanzi al Padre e l’ha incaricata solo di salvare se stessa. Ha detto: non cercate la terra, lasciate il mondo ai mondani e il comando a chi l’ha, non temete quelli che possono uccidere il corpo (cioè non abbiate timore di lasciarvi uccidere) agite sempre come figli del padre e come fratelli agli altri suoi figli: questo è il massimo e solo precetto.
Ora accettare questo assoluto religioso, dare una posizione unica nella storia al rivelatore di esso, e poi sottilizzare, interpretare, applicare alle circostanze, invocare contingenze storiche, cioè concrete e mutevoli, per agire diversamente è cessare di essere, cristiani nel vero significato della parola, farsi un cristianesimo proprio, ridotto e di occasione. E in quanto, con questa riduzione, giungete a legittimare quello che c’è di più tristamente anticristiano nella storia e ad assumerne parte delle responsabilità, voi allontanate indefinitamente dalla storia stessa l’avvento del cristianesimo vero ed intero.
Ed a chi ragiona così non è possibile dar torto.
Ma gli altri soggiungono: una dottrina religiosa talmente assoluta e fissa da non poter applicarsi alla storia altro che come una negazione totale di questa; una dottrina che non riesco a mettere in armonia con il senso vivo e profondo di altri miei doveri umani, verso la società alla quale appartengo e della quale quotidianamente profitto; che, verificando l’adagio summum jus summa injuria, in nome del perfetto diritto e del perfetto amore, spoglia il diritto e la giustizia e la solidarietà fraterna fra gli uomini del solo mezzo con il quale è ad essi storicamente possibile farsi valere e respingere e comprimere l’arbitrio e la violenza iniqua; che, cól pretesto di non volere carnefici, condanna i buoni ed i bene intenzionati ad essere eternamente e rassegnatamente vittime, finisce con il non esser più una dottrina religiosa per la vita umana, ma un sogno di ascesi e di rinunzia da viver nel deserto, aspettando il giudizio universale. Esaltandola troppo, voi la distaccate dal mio spirito, la mettete contro la storia.
Ed anche questi hanno indiscutibilmente ragione.
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Come è possibile ciò? Riduciamo ancora il contrasto ai suoi termini essenzialissimi.
Gli uni dicono: il cristianesimo non è la verità, non è da Dio, è nulla, se voi non dovete elevarvi ad esso, se non lo accettate come trascendente il vostro limitato giudizio, la vostra effimera esistenza e la storia stessa.
Gli altri dicono: il cristianesimo non è nulla, è un nome vano, una logomachia incomprensibile, se io non riesco ad impossessarmene, a tradurlo in me, a vestire delle sue formule il mio più intimo istinto di giustizia e di socialità, a viverlo, sinceramente e veracemente, nella mia storia, che è poi la storia degli uomini insieme con i quali io costruisco il mio mondo;
Ed allora voi rivedete, in questi termini ultimi, un problema che vi ricordate subito di aver incontrato altrove, sotto altri volti, dinanzi all’essere delle cose, al dovere intimo, alla autorità della vostra chiesa, alla tradizione, nella voce di quelli che vi invitano alla docilità e di quelli che vi offrono la sovranità, di chi vi mostra le cime e di chi vi ricorda le origini e rumile base; problema insidioso e turbatore del quale nessuna opposta soluzione vi lascia tranquillo, e che tuttavia non comporta soluzioni intermedie, come non c’è via di mezzo fra l'uscire e l’entrare, fra l’accettare e l’imporre, fra lo scendere e il salire.
Sono cristiano uccidendo? Sono cristiano tirandomi da parte, perchè passino, calpestando e violando vive anime umane, quelli che della uccisione han fatto la loro volontà?
»*♦
In questo dissidio fra l’omaggio docile a un Cristo trascendente e la volontà operosa e guerriera di un immanente precetto di bene è tutto il problema sollevato dalla guerra nelle coscienze cristiane ed è tutto l’eterno problema della filosofia: uno e molti, io e non io, assoluto e divenire. Ma non ci lasceremo prendere dalla tentazione di una scorsa nei campi della filosofia pura. Rimaniamo nei limiti di una questione più modesta, procedendo nel dilucidare i termini del presente dibattito: che è il nostro scopo presente.
Se le due posizioni che abbiamo detto sono entrambe vere, esse debbono essere insieme entrambe false, poiché, in quanto si escludono a vicenda, la verità dell’una è la falsità dell’altra.
Ma si escludono davvero? Insistendo, noi troveremo forse, invece, che la verità dell’una è condizione della Verità dell’altra; che cioè non siamo dinanzi a due con-tradittorie, ma a due mezze verità complementari.
Della prima è vero che l’individuo — il cristiano, ad es. — ha il dovere di porsi contro la storia già fatta, contro quello che è, in nome di una verità superiore, o di un ideale. Della seconda è vero che questo individuo non deve nè può respingere da sè la storia, mettersi tutto contro di essa, contento di una sua verità alla quale egli aderisce intiero, facciano gli altri quello che vogliono; ma che deve invece cercar di inserire quell’ideale nella storia, di viverlo non da solo, nè in un piccolo gruppo di profughi della realtà, ma nel mondo dei suoi affari, dei suoi rapporti giuridici, dei suoi doveri sociali.
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BILYCHN'IS
Se voi ponete il problema della guerra, dal punto di vista cristiano, come problema di una coscienza isolata, di una volontà che trovi impregiudicati tutti i dati di esso e che possa quindi porre il suo atto, intieramente ex novo, con quel libero arbitrio del quale teorizzavanoTgli scolastici, voi lo ponete in modo che la posizione contiene già l’errore della soluzione.
Il problema della guerra e della pace non si pone all'uomo singolo, avulso dalle condizioni del suo tempo e del suo mondo o che le ha in mano e le domina, per quanto riguarda la sua scelta. Forse un uomo solo, in Europa, si è trovato in questa condizione: l’imperatore di Germania, quando, sulla fine di luglio, si trovò a decidere della pace e della guerra. E ci fu un momento in cui, accettando la proposta inglése di rimettere a una conferenza la soluzione definitiva del dissidio sorto fra la Serbia e l’Austria, egli avrebbe potuto evitare la guerra; mentre le contraddizioni e gli indugi dei suoi telegrammi miravano solo a compiere la mobilitazione tedesca prima che la guerra fosse dichiarata.
Ma anche egli, in realtà, in quelle ore drammatiche, non agiva con volontà non pregiudicata, cioè veramente libera. Per anni e decennii aveva dato alla politica imperiale tedesca un indirizzo, aspirazioni e metodi che conducevano verso la guerra; aveva organizzato esercito e nazione in modo da inserire in essi un proposito di dominio, e quindi da stringere intorno a sè una volontà collettiva di dominio e di potenza che doveva ineluttabilmente metter foce nel conflitto. Probabilmente, anzi, la guerra era già decisa e la preparazione incominciata da mesi; le prime responsabilità affrontate e accettate, freddamente, quando esse non presentavano il carattere tragico di una decisione che gli eventi attendono e precipitano.
A ogni modo, dal momento in cui, in Europa, uno che poteva volle definitivamente la guerra, la volontà di tutti gli altri fu come attenagliata da un precedente, e poi via via da innumerevoli precedènti, per i quali non si trattava più di scegliere fra la pace e la guerra, ma sì fra l’accettazione di una volontà di dominio, già in moto, e la resistenza; e gli incalcolabili effetti dell’una scelta e dell’altra, nella storia del mondo. Così fu per tutti quelli i quali si trovarono fin dal principio al loro posto, presi dentro nel grande conflitto.
Facciamo ora, per maggiore evidenza, un altro caso, che è poi il nostro, di noi italiani, prima che entrassimo anche noi nel conflitto. Apparentemente, noi avevamo maggiore facoltà di libera scelta. Potemmo, per molti mesi, pesare accuratamente il pro e il contro della nostra decisione. Non dovevano dunque i cristiani, i seguaci del precetto evangelico, porre in opera tutta la loro influenza perchè la guerra fosse evitata a noi?
Ma quelli che dovevano scegliere non erano « puri » cristiani. Erano cristiani europei e, più particolarmente, italiani. Ora, con queste due parole, europei e italiani, io aggiungo nel dibattito innumerevoli altri elementi di valutazione. Poiché la nostra volontà di bene, di giustizia e di pace nel diritto e nella civiltà, non era una volontà astratta, ipotetica ed inconcepibile: ma si era qualche cosa di vivente, di concreto, di definito in innumerevoli aspetti e direzioni. Noi volevamo cioè il permanére di tutte quelle condizioni e situazioni di fatto che ci parevano conquiste ideali da approvare e da difendere, esigenze concrete del concetto, che noi ci siamo
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fatto attraverso alla storia dalla quale emergiamo, dei diritti, della dignità, della autonomia di individui e nazioni; e, dei varii mutamenti che l’Europa poteva subire, alcuni ne auspicavamo col desiderio e ne promuovevamo con l’opera, perchè ci parevano un andare verso la civiltà e la giustizia, altri ne deprecavamo, giudicandoli un ritorno indietro, un impoverimento, una colpa.
Altre ragioni ci muovevano, con eguale forza, come italiani. Per innumerevoli vincoli, noi siamo legati a tutta la vita del nostro paese. Noi vogliamo una Italia sana, forte, libera,' ben governata, della quale si possa esser cittadini con serena fierezza, nella quale l'opera nostra volonterosa, unita a quella di tutti gli altri con i quali siamo d’accordo, possa condurre a frutti pratici e concreti di umanità e di civiltà. Questa Italia è il mio mondo, io parlo la sua lingua, vivo nelle sue istituzioni, sono libero delle sue libertà, sicuro della sua sicurezza, forte della sua forza, rivive in me la sua tradizione, costruisco per me e per quelli che qui amo l’avvenire. E tutto quello che io fo per il raggiungimento storico di certi ideali umani, scrivendo od agendo, lo affido ad essa, alla coscienza dei miei concittadini, alla persuasione con la quale li conquisto al mio ideale, alla organizzazione con la quale moltiplico, nella forza degli altri, la mia forza.
Non si tratta adunque di volere, astrattamente, la pace e la guerra; ma di volere o l’Europa e l’Italia che sarebbero risultate dalla nostra pace, o l’Europa e l’Italia che sarebbero risultate dalla nostra guerra.
Due termini definivano la mia volontà in atto, la mia scelta: l’uno, questa mia stessa volontà di europeo e di cittadino italiano, quale si era venuta formando e dirigendo in tutto il corso della mia vita precedente, per riguardo a tutti quei numerosi fini che la costituiscono: l’altro, la visione, che avevo dinanzi a me, di due Europe e di due Italie, infinitamente diverse, quali sarebbero risultate dalla vittoria dell’una o dell’altra parte belligerante, dalla partecipazione dell’Italia al conflitto o dalla sua neutralità.
E, come sempre, anche in questa occasione io doveva scegliere come se dalla mia scelta dipendesse l’evento; perchè la mia scelta è tutto me stesso e questo mondo della guerra è il mio mondo.
Il mio cristianesimo rimaneva con ciò escluso dai criteri della scelta? Se esso ha mai veramente avuto qualche efficacia nel dirigere verso tutti i suoi oggetti la mia volontà precedente, nel delincarmi innanzi al pensiero l’Italia e l’Europa che io vagheggio e che voglio, non poteva per ciò stesso esserne fuori. C’era, ma non come un consigliere che sopraggiunga, sibbene come cosa della mia stessa volontà che se lo era appropriato e aveva impresso di esso i suoi atti.
Questo cristianesimo che oggi, a guerra iniziata, sopravverrebbe, come un ospite a cui si chieda consiglio, e che mi risponderebbe con alcune frasi del Vangelo condannanti la guerra, non sarebbe la mia religione, ma una specie di oracolo pagano, un responso del nume indagato, fuori della volontà umana.
In altre parole, l’errore sta nel credere che la scelta sia fra la pace e la guerra; essa è fra due situazioni storiche, due ordini di eventi, due principi e punti di partenza enormemente diversi, anche dal punto di vista dei valori spirituali che essi contengono e possono svòlgere. Ed il cristianesimo mi si offre non come una astratta dottrina, ma
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come qualche cosa di concreto già incarnato e contenuto, in diversa misura, nell'una e nell’altra delle due diverse storie fra le quali è la scelta: sicché io scelgo cristianamente quando scelgo quella, delle due storie, che mi si presenta e mi si offre come più conforme alle tradizioni cristiane vive, più ricca di presenti valori cristiani, più alta a svolgere nella vita umana quei beni nel cui acquisto consiste la sostanza del cristianesimo e ad arricchirlo di essi.
E quanto più io mi sentirò legato a questa storia contemporanea, che si trova oggi nel terribile bivio, quanto più avrò lavorato e sofferto perchè in essa prevalessero certi valori piuttosto che certi altri, tanto più istintivamente e risolutamente la mia scelta andrà a quella, delle due vie, che mi si presenta come la continuazione del mio lavoro e della mia stessa anima.
- Ma, insomma, le parole: beati i pacifici, offri l’altra guancia a chi ti percuote, la tunica a chi ti toglie il mantello, non temere chi ti minaccia di uccisione, ma temi, se uccidi, l’anima tua che perdi, e tutte le altre le quali condannano recisamente ogni guerra?
— La risposta è facile. 0 queste sono delle ingiunzioni legali, articoli di un codice che io prendo in mano e consulto quando capita il caso che essi riguardano, o sono spirito e vita, tutta una dottrina e tutto un insieme di valori che io debbo vivere.
Accolsi ieri, vissi, praticai quello spirito, sentii e volli di me e della storia come esso mi imponeva, informai la mia volontà all’indirizzo che esso vuole imprimere alla storia? E allora, se oggi la mia volontà ineluttabilmente, nel nome di tutto quello che essa ama e vuole, mi fa desiderare e preferire e volere l’Italia che fa la guerra, l’Italia che risulterà dalla guerra a una Italia neutrale; io debbo dire che appunto perchè sono, e non da oggi, e non insinceramente, seguace di una verità religiosa che vieta la guerra e la violenza e vuole la fraternità e l'amore, e l'ho fatta mia, e con essa ho foggiato questo mondo delle mie previsioni e delle mie aspirazioni, appunto per questo io voglio la guerra.
E se voi insistete che questo è assurdo e venite a turbare l’analisi del mio spirito e della mia volontà per cercar di mostrarmi o che questa si è fatta sotto altre influenze, e non fu cristiana neanche ieri, e si lascia trascinare e travolgere da altro spirito e da altre correnti, io vi dirò che la mia e là vostra corrente, la mia e la vostra coscienza sono incommensurabili; ma che a ogni modo, fra il mio e il vostro cristianesimo c’è questa differenza: che il vostro appartiene talmente a voi, ai vostri sogni e alle vostre meditazioni, da non avere con quello del Cristo altro che un fantastico legame di meditazione e di sogno, il mio mi è garantito da tutta questa Europa lottante e dolorante per una sua nuova storia di giustizia e di pace nel diritto.
* ♦ ♦
A voler insistere ed esser crudele, potrei dire a questo mio avversario che la sua è povertà e rarefazione di spirito, la mia è pinguedine e comprensione.
Nè c’è orgoglio, in questo; è il riconoscimento di una legge storica ineluttabile, fondata sulla stessa natura dello spirito. La storia è la prova dell'efficacia di una idea, là grande verificatrice, e non ce ne è altra.
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l’individuo e la storia
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Degli uomini o dei piccoli gruppi di uomini possono concepire un qualsiasi magnifico sogno di redenzione umana, di altissima umanità, vagheggiarlo, esporlo, farne propaganda, raccogliere adesioni e consensi astratti; se il successo — e parlando di successo di una idea non escludiamo le contraddizioni, le persecuzioni, i martiri che essa deve incontrare e suscitare da principio e nei quali si rafforza — manca, se l’idea generosa e magnifica non riesce ad uscire dalle cerchia dei pochi ammiratori di ehi la concepì e — placido sogno o desolata tenacia — muore con essi, noi non esitiamo a dichiarare che si trattava non di un ideale, ma di una utopia.
Nulla vieta, infatti, allo spirito singolo di collocarsi in margine al corso della storia, di far suo qualche momento di essa superato e definito, e riviverlo, di isolare dall’assieme una delle tendenze o delle concezioni che hanno corso nella cultura, e, ponendola nel centro, costruire intorno ad essa un suo mondo fantastico. Fra i cristiani che cronologicamente appartengono all’età nostra, noi possiamo trovare spiriti appartenenti spiritualmente agli stadi ed alle epoche più svariate; dal montañista, che esalta ancora la rinunzia ascetica, opponendola alla mondanità della carne, allo scolastico chiuso fra le sue Summae e allineante sillogismi impeccabili, al domenicano avido di roghi, al gesuita ritessente la sua tela per la conquista dei cavalieri e delle duchesse. Uno dei lati più importanti e meno studiati della storia degli uomini è questa anacronistica varietà degli spiriti che la fanno, o contro i quali bisogna farla. Ogni uomo di cultura si compone da se il suo mondo con gli elementi ideologici che egli ha ricevuto, per le più varie vie di trasmissione, ed in esso vive e per esso lotta. E idee e istituti dei quali la vita avrebbe avuto facilmente ragione si conservano oltre ogni, verosimiglianza, in forza della facilità che essi si procurano o che ad essi è lasciata di trasferire delle coscienze non formate nel loro chiuso mondo del passato e di nutrirle in esso ed educarle per esso. Se Don Chisciotte della Mancia, in luogo di chiudersi nella sua stanza a leggere poemi e romanzi cavallereschi, avesse passato le ore della giornata a chiaccherare con gli amici, non sarebbe stato Don Chisciotte.
Idee vive sono quelle che sorgono sul terreno delle realtà contemporanee, spiriti creatori sono quelli che non traggono dal magazzino delle loro fantasie solitarie ma aspirano dalle coscienze e dal mondo circostante il proposito che ne farà dei precursori, dei fondatori, dei condottieri. Quali che si siano le limitazioni che questa viva e fremente realtà impone al pensièro, esse sono la stessa, immediatezza sua, lo stigma del-V istinto vitale, che, in un dato ambiente, a un dato momento, lo provoca e lo arma di tutta la efficacia della volontà di vivere.
Dei sostenitori della neutralità italiana bisogna far due molto diverse categorie; una di quelli che volevano la vittoria degl’imperi centrali e il permanere dell'accordo nostro con quelli, o che erano spinti da un qualunque altro interesse concreto e tangibile; e questi erano in una disposizione d’animo, non di ripugnanza alla guerra, per sè stessa, ma di opposizione a questa guerra che oggi facciamo, e in favore, magari, di un’altra guerra, che fosse invece contro là Francia, o della guerra civile sociale; e il minuscolo gruppo di coloro che erano contro la guerra in astratto, e invocavano i « principi > cristiani e dipingevano gli orrori della guerra ed esaltavano i doveri dei neutri, come se i neutri avessero mai avuto nella storia altra funzione da quella di essere custodi di
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serraglio. E la piccola categoria di questi ultimi non ha avuto nessunissima influenza nelle decisioni italiane.
L’ideale cristiano è dunque oggi in Italia una così misera cosa che il ricordarlo a un popolo il quale sta per prendere una decisione così terribilmente grave come la guerra ed ha tutto il tempo di decidersi con ponderatezza, sia davvero un gridare nel deserto (o mite Ghignoni, non dal deserto) così che nessuno vi sente? E allora, diciamolo nettamente sarebbe un far torto agli ideali il mettere fra di essi il cristianesimo.
Ma noi non diciamo davvero questo. L’istinto storico, che è poi il senso della vita, che è la vita stessa, conduce i cristiani che sono cristiani del loro tempo a giudicare con certezza interiore da che parte è il cristianesimo, quello che, attraverso a tanti errori e degenerazioni storiche, vive ed opera nella storia, perchè è l’assoluto religioso della coscienza umana. (E se tale è, non può assentarsi o andare in esilio o chiudersi a piangere nelle celle dei solitari, ma è sempre agente ed onnipresente, come il più intimo animo del farsi della storia). Ma esso vive ed opera insieme con innumerevoli altri elementi; segue il suo corso storico, anzi segue, o meglio è parte e momento del corso della storia. Esso non può essere inteso e sognato come una volontà pura e pia che dal finestrino guarda gli eventi umani, ma come la volontà, che la storia stessa ha, di farsi cristiana, di realizzarsi come storia di uno spirito religioso. Ed allora dobbiamo dire che in fondo a questa stessa volontà di discordie, di strage, di distruzione, fra le passioni e gli errori di spiriti accecati dall’orgoglio, nel proposito tenace di chi lotta per la difesa, lo spirito religioso vive ed opera e si purifica e si rinnova, compie il processo del suo realizzarsi storicamente.
L’ideale cristiano non può, sotto questo aspetto, esser distinto dalla volontà di giustizia, di solidarietà umane, di autonomia di singoli e delle nazioni, di pacifica convivenza nel diritto; e. questa volontà è volontà di guerra, quando, a certi momenti, solo con la guerra si può respingere la più paurosa minaccia che abbia forse gravato mai, nella storia, sulla libertà dei popoli e sul diritto delle genti. Solo chi non ha misurato con lo sguardo la gravità di questa minaccia può pensare e dir seriamente che il cristianesimo, dinanzi alla ritornante religione di Odino, consigliava di incrociare le braccia.
Io so tutte le restrizioni che possono essere fatte a questa valutazione della guerra europea; ma esse riguardano punti secondari e lasciano immutata la sostanza del giudizio. Se dall'una parte come dall'altra numerosissimi combattenti furono mossi da altre ragioni e passioni, e la loro guerra è frutto di errori e di colpe precedenti, se l'imperialismo sta in agguato nelle trincee francesi e inglesi così come nelle tedesche sogna, qua e là, un mite spirito di cristianesimo, nel suo insieme la guerra europea ci si delinea dinanzi così: dall'una parte si lotta per tutti quei valori ideali che il cristianesimo ha espresso dalla storia ed ha raffigurato ed educa nelle coscienze, dall’altra per il ritorno al culto della forza e del dominio duro ed alla schiavitù; nè noi italiani potevamo essere praticamente e storicamente cristiani altro che alleandoci con i primi e cercando di conseguire tutti quei vantaggi di ordine morale che la guerra ci prometteva.
Ma molti corrono con il pensiero all’enorme cumulo di stragi, di distruzioni, di dolori e di lutti umani di ogni sorta che la guerra reca con sè; e lo spettacolo di tanta
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l’individuo e la storia
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miseria è così forte nel loro animo da prevalere su qualunque altra considerazione. Noi dividiamo intimamente questo senso di pietà umana; ma anche in esso, talora, si esagera. Se Dio governa il mondo, egli lo ha impastato, in tutti i gradi della vita, di lotta e di strage. Il male e il dolore sono, nella storia, una così intima e triste necessità, hanno un così vasto dominio da eccedere, quasi infinitamente ogni umano proposito di redenzione e di liberazione. La pietà più pratica e proficua è quella che, senza attardarsi troppo sulle vittime singole, mira a rimuovere cause ed origini del male e del dolore umano.
Di fronte alla somma dei dolori e delle stragi che va accumulando la guerra, sta, non la semplice negazione di esse, ma il beneficio della vittoria, distribuito per generazioni e per secoli, la remozione di quella guerra sorda ed assidua che era nella stessa situazione politica europea e nei contrasti delle passioni e delle cupidigie. A differenza dei cattolici e dei protestanti, da Agostino a Lutero, noi non ci rassegniamo più ài male del mondo come a un segreto di Dio, ma riteniamo che esso è l’aspetto esteriore del male che interiormente agita e dilania lo spirito umano; e che uno spirito buono deve farsi nella storia e fare la storia.
Per concludere, il cristianesimo è un ideale, solo in quanto un ideale sta e lavora nella storia per farne una storia in cui lo spirito religioso fissi i supremi valori ed educhi a questi la cultura; esso è, quindi, presente dovunque si opera efficacemente — e oggi l’azione è guerra — per la conquista di libertà e di giustizia, per la difesa del diritto.
I profeti ebrei furono dei ferventi nazionalisti, perchè la giustizia divina nella storia era per essi la storia stessa (la missione) dell’ebraismo. Il profeta di oggi — anche questi che predica l’orrore per tutte le guerre — ha, più che il dovere, l’assoluta necessità di fare delle sue profezie una concreta aspirazione di coscienze d’oggi, nutrita d'intima realtà, rispondente ad aspirazioni che sieno, almeno in certune anime, più squisita sensibilità intuitiva, visione di un avvenire vicino, che è già.
Il messaggio di Cristo divenne storia solo in quanto sollevò innumerevoli coscienze oppresse, ridando ad esse la fiducia nella giustizia e nella bontà della vita; e le chiese degenerarono sempre quando al sogno vivo delle coscienze opposero principi astratti e Scrupoli teologici.
Il precetto: non uccidere, può solo essere interpretato così: « fatti, fa una storia, una tua vita, un tuo mondo, una società in cui l'uccidere sia considerato delitto e reso crimine inutile e stupido dalla stessa ripugnanza che esso susciterà negli animi e dal certo castigo; e se, per fare questa tua storia, per combattere chi dell’uccisione si fa un pregio e un diritto, è necessario uccidere, uccidi. Non è l’atto materiale che conta, è la volontà che si compie in esso; se è volontà di vita, l’uccisione è vita ». Questo cristianesimo è storia.
Nella predicazione di esso c'è posto per tutti; anche per quelli che abbiamo combattuti sin qui, se si rassegnano ad essere dei seminatori di un lontano avvenire, ad isolare una idea, falsandola storicamente, per meglio inserirla in alcuni animi. E, se in qualche cristiano ci fosse una invincibile ripugnanza per l’uccidere, anche in guerra, per non fare il soldato si faccia deportare od uccidere. Così un’idea, anche una utopia, si forza un cammino verso la storia. A suo rischio. Il senso storico, il quale ha
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una terribile perspicacia di intuizione, giudicherà poi del valore pratico e storico di quell’atto, come giudica fra il monomane che [manda al manicomio e il profeta che condanna al carcere ma al quale erigerà più tardi un monumento.
L’essenziale era stabilir bene il principio che non c’è ideale vero nè religione vera altro che dove, non là vana fantasia di un singolo, ma una coscienza nella quale si rispecchino e si incontrino altre coscienze, agitate da un problema spirituale maturo per la posizione, che è già un principio di risoluzione, parla ed opera per una ulteriore spiritualizzazione del mondo umano, e lo investe tutto e lo solleva di peso e lo spinge avanti e su, verso la conquista vicina.
Mentre il puro criterio storico, con il suo relativismo, livella spiritualmente la storia e vi immerge in .essa, alla balìa dell’infinito processo che la conduce; mentre il criterio mistico e trascendente vi pone fuori della storia e contro la storia, in un fantastico mondo di sogno, razione, che è consapevolezza di mali presenti e di rimedi possibili, fede pratica e operosa e generosità di entusiasmo, trascende la storia, ma solo come l’avvenire trascende il presente, ed immane nella storia, come lo spirito che la conduce e si va facendo in essa.
Romolo Murre
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LA CRISI DELLA TEOLOGIA CRISTIANA(,)
iviamo in un’epoca in cui il pensiero cristiano si trova di nuovo in uno stato di «soluzione®, dopo la sua cristallizzazione avvenuta nel iv e nel v secolo. Il dogma nell’antico suo significato di finale ed autoritativa definizione della verità religiosa è quasi del tutto scomparso dal mondo cristiano, eccetto che dalla teologia officiale del cattolicismo. La totalità del pensiero cristiano è tornata di nuovo a fondersi nel crogiuolo. Le chiese protestanti hanno profondamente
mutato i Credi che rappresentavano lo sforzo continuato per secoli, ed alcune con
fessioni. la Battista, p. es., ripudiano tutte le formulazioni dottrinali, riconoscendole come professioni della loro fede da valere solo come informazione ed istruzione. Anche la esposizione organica delle verità religiose nella forma di una teologia sistematica è caduta in rovina, e, anche, direi, in disgrazia presso alcuni ambienti. Le antiche sistemazioni non soddisfano più un gran numero di persone intelligenti, sebbene fino ad ora non si siano trovate nuove formule per supplire alla mancanza delle antiche. La teologia sembra cercare una nuova base su cui poggiare; accostarsi al suo oggetto partendo da una nuova direzione e voler giustificare la propria esistenza con un nuovo metodo. Però sino ad ora non vi è riuscita, e perciò si muove esitante incerta e piena di confusione. Il vecchio scompare e il nuovo spunta, ma il suo processo di sviluppo non appare ancora sufficientemente definito sì da poterne fin d’ora prevedere il risultato. Una simile confusione e una simile incertezza compaiono proprio in un momento in cui la scienza, là storia e gli altri rami del sapere sono nel pieno del lóro progrèsso, della loro attività e della fiducia nei loro risultati.
Le cause di questo singolare fenomeno ? Ecco alcune parziali spiegazioni che ci si presentano spontaneamente alla mente.
1. In primo luogo, non bisogna dimenticare che la teologia fu fra le scienze la prima a svilupparsi. Gli uomini s'appassionarono intorno ai probblemi su Dio e l’uomo ed i loro mutui rapporti molto prima che si occupassero delle altre que- (*)
(*) Traduciamo questo capitolo col consenso dell’A. dall’interessante opera, che ha suscitato tanta discussione in America, A Vital ministry (The pastor of to-day in the service of Man, edito dal Revell, New-York, 1914) del prof. McGlothlin, docente di storia del cristianesimo nel Seminario Battista di Teologia di Louisville.
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stioni che preoccupano così seriamente l’uomo moderno. La teologia speculativa difficilmente potrà avanzare oltre i limiti segnati dai grandi sistemi del passato. In un’età largamente impregnata di pensiero filosofico, questa teologia, così minuziosamente e così estensivamente sviluppata in tutte le direzioni, apparve come creazione del tutto soddisfacente. La teologia regnò incontrastata come «regina delle scienze » in un periodo in cui le così dette scienze naturali non avevano ancora incominciato il loro trionfante cammino.
La teologia s’era meritato un tale onore perchè verso di essa, più che in tutti gli altri campi del sapere messi insieme, s’era rivolto il maggior sforzo del pensiero. Gli uomini vivevano e si muovevano in una atmosfera satura di pensiero teologico. Questa supremazia cominciò a declinare coll’apparire della Riforma. L’interesse che si svegliava per altre discipline cominciava a minare la supremazia della teologia. A poco a poco, ma anche energicamente e irresistibilmente, la Storia, una filosofia non più d’origine teologica e le scienze reclamarono una sempre maggiore porzione del pensiero e dell’attenzione degli studiosi. La teologia che aveva avuto un così lungo regno non potè tollerare di buona grazia questi fortunati rivali: Si mise sulla difensiva, divenne sospettosa, combattiva e tirannica. Incapace a mantenere il suo primato con una superiorità intellettuale, ricorse alla repressione violenta. Per conseguenza, divenne statica, stagnante e reazionaria. Tutto il resto del mondo procedeva gloriosamente sulla via del progresso, mentre essa se ne stava in disparte guardando biecamente il progresso che non aveva potuto prevenire e non cessando dal proclamare con veemenza il suo diritto alla finalità e alla suprema autorità sopra gli altri campi del pensiero. Alla fine, il resto del mondo cominciò a respingere una tale pretesa, e vi riuscì, insistendo sul suo splendilo compito e lasciando la teologia rivolgersi superbamente indietro verso le sue grandi tappe del passato. Le glorie indiscutibili del suo passato strozzavano qualsiasi progresso e così divennero l’occasione della sua caduta. Poiché era troppo superba per riconoscere dei rivali o per ammettere la possibilità di ogni ulteriore sviluppo, furono necessari più di due secoli perchè apprendesse quell’umiltà che era necessaria al suo risveglio e alla sua riabilitazione. Ecco giunto finalmente questo momento ! Essa ora ammette modestamente di non esser più nè una scienza definitiva nè una scienza infallibile e ha quindi cominciato una ricostruzione alla luce di tutto ciò che il mondo oggi conosce.
I teutoni e gli anglo-sassoni del xrx e del xx secolo hanno cominciato ad affermare d'aver raggiunto la loro età maggiore in teologia e d’esser capaci di scrivere la loro propria teologia (x). Non si sentono più obbligati ad accettare
(i) Non bisogna però dimenticare tutto il meraviglioso sforzo compiuto nel campo filosofico, storico e critico dal modernismo Ialino in questi ultimi anni, movimento che per la serietà degli intendimenti e per la profondità e l'arditezza delle ricerche e delle costruzioni non è certo inferiore al risveglio delle scienze e del pensiero religioso nel mondo teutonico ed anglo-sassone. Le stesse cause, del resto, hanno prodotto e nel protestantesimo e nel cattolicismo, nei paesi latini come nei paesi teutonici ed anglosassoni, gli stessi fenomeni. (N. d. Tr.].
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come definitiva l’opera dei teologi greci e latini del cattolicismo medievale e dei primi secoli. Riconoscono francamente la grandezza e l’importanza dell’opera compiuta da questi padri, ma insieme insistono sul proprio diritto e sul loro dovere, anche, di metterne in discussione sia la forma che il contenuto.
Il mondo antico commise errori in altre materie; — essi dicono — perchè non ne potè commettere anche in teologia? La loro conoscenza nel mondo era molto più limitata ed imperfetta della nostra; i loro metodi di studio inferiori ai nostri; la vita e l’esperienza religiosa che formava l’atmosfera spirituale nella quale essi lavoravano, erano assai meno vitali delle nostre. Tutto ciò quindi, essi dicono, dà al teologo moderno il diritto, anzi il dovere di ripensare in maniera nuova l’intiero campo della teologia, allo stesso modo in cui ogni altro campo del pensiero è stato investigato di nuovo nell’età moderna. Altrimenti la teologia perderà ogni rapporto sui pensatori attuali e verrà gettata fra i rottami come un sistema di pensiero oramai superato ed inutile. Solo — essi concedono — potrà ancora, senza dubbio, esser accarezzata per qualche tempo dalle persone poco colte e dagli ostinati adoratori del passato; alla fine però anch’essi la ripudieranno, perchè ciò che il mondo dei pensatori à decisamente scartato, deve perdere immancabilmente il suo valore per tutti. La teologia perciò o deve essere elaborata di nuovo o rassegnarsi ad avere ogni influenza sulla vita moderna. Questa è la loro tesi.
Ora, sia che si accettino o no queste affermazioni, bisogna pur riconoscere che esse costituiscono una formidàbile requisitoria e che vi sono inoltre degli uomini eminenti che si sono già accinti a quest’opera di rinnovamento. E il loro lavoro non consiste semplicemente nel presentare di nuovo le antiche dottrine nel linguaggio moderno, ma anche nel ricercare, alla luce di tutto ciò che sappiamo o crediamo di sapere oggigiorno, se gli antichi non riuscirono ad abbracciare la totalità della verità o commisero degli errori teologici positivi.
2. Un altro fatto nella .storia della teologia ha senza dubbio contribuito al suo bisogno di mutamento. La mentalità del mondo antico, nelle persone colte, era formata principalmente dallo studio della letteratura, della filosofia e della legge e nel medio evo da queste ultime due. Quelle scienze che sono divenute il principale strumento nella costruzione della mentalità moderna erano di fatto come inesistenti. È un fatto indiscutibile che tutti i grandi teologi fino a tutto il periodo classico della Riforma furono imbevuti della scienza del diritto. L’impero romano, dentro i cui confini e sotto la cui influenza fu formulata la maggior parte della nostra teologia, fu il gran creatore e custode della legge nel mondo antico. Durante il Medio Evo il diritto canonico costituiva una delle parti più importanti dell’istruzione teologica. Sotto tale influenze e con una tale coltura non c’è da meravigliarsi se la teologia fu formulata quasi esclusi va meste in termini legali e con concezioni forensi. Il rapporto fra Dio e l’uomo fu concepito come un rapporto legale. Paolo era stato educato nella legge giudaica e costantemente usò termini legali per esprimere la sua concezione dei rapporti fra Dio e gli uomini. Ricordo alcuni di questi termini che ci sono divenuti tanto famigliati, come: legge, elezione, giustificazione, redenzione, redentore, adozione, riscatto, erede, eredità. I grandi teologi latini dei primi secoli, come Tertulliano, Cipriano, Am-
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brogio, s. Agostino, furono tutti degli abili e dotti legali, e concepirono le verità religiose sotto l’aspetto legale, esprimendole naturalmente in termini giuridici. Oltre a ciò le loro opinioni divennero normative per le età susseguenti. La lingua latina divenne là lingua .sacra del culto e dell’insegnamento ecclesiastico. Nel Medio Evo, Anseimo, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto e tutti gli altri geni creatori usarono il latino e furono allo stesso tempo dei profondi conoscitori del diritto canonico. Quando passiamo alla Riforma, noi costatiamo ancora lo stesso fatto. Le due grandi menti creatrici della Riforma furono Lutero e Calvino e tutti e due furono dei profondi conoscitori del Diritto. Moltissimi altri Riformatori di minor importanza erano pur essi ugualmente dei legali. Dati questi fatti,, ci sarebbe voluto poco meno che un perenne miracolo per preservare la teologia dal venire espressa mediante concezioni e termini legali. E d’altra parte ciò era voluto dal tempo, perchè rispondeva alle condizioni sociali come alla forma corrente di coltura e la teologia non sarebbe allora riuscita così vitale ed efficace se fosse stata espressa in altri termini ed in altre concezioni.
Ma oggi l’affare è ben diverso. La legge ha ben poca importanza come strumento di coltura. Il suo fine è schiettamente pratico e gli uomini di legge formano una piccola classe della società. Nel protestantesimo non vi è niente che sotto un certo aspetto corrisponda al Diritto Canonico, nel quale i teologi del Medio Evo venivano così accuratamente istruiti. In realtà la grande maggioranza dei teologi dell’ultimo secolo e mezzo non ha mai studiato il diritto.
Una nuova coltura è sorta e la mentalità dei teologi moderni è stata da lei modificata. La matematica, il classicismo, la storia c le scienze hanno fissato la nomenclatura e determinato le forme del suo pensiero. Al teologo moderno è stato insegnato a diffidare della speculazione e a dubitare di ciò che non può provarsi. Della legge ha poca conoscenza e non nutre per essa un eccessivo rispetto,, anzi con essa cerca di avere quanto meno contatto gli è possibile. Il Diritto è qualche cosa di meccanico, una cosa remota dalla sua vita; spesso, anzi, un impedimento positivo al progresso sociale e ad una legislazione veramente rinnovatrice. L’azione e i rapportigiuridici non sono sufficientemente personali o vitali, sì da servirgli come stampi e come immagini per le sue convinzioni religiose, per i suoi sentimenti e per le sue aspirazioni.
La stessa religione si è venuta grandemente spiritualizzando e approfondendo, dal tempo dei teologi cattolici e della Riforma. Le condizioni sociali hanno talmente cambiato, che molti dei termini già in uso sono ora privi di qualsiasi applicazione. L’uomo moderno pensa in termini di biologia, di vita, di scienza e di rapporti sociali. Egli concepisce i suoi rapporti con Dio e con gli uomini in una maniera assai più intima e vitale che non gli antichi. Essi usavano analogie tolte dal Diritto e dallo Stato per esprimere i rapporti esistenti fra Dio e gli uomini; ma all’uomo moderno sembrano più convenienti quelli tolti dalla vita e dalla famiglia. Era perciò inevitabile che la vecchia teologia con le sue speculazioni, con la sua terminologia legale, con le sue definizioni t divisioni scolastiche e dialettiche, con le sue concezioni esteriorizzate dovesse apparire al teologo moderno, a priori, come esteriore, meccanica e lontana dalla vita e dall’esperienza. Egli sente il bisogno
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di entrare in più intimi rapporti con Dio, bisogni a cui i termini e le concezioni legali non possono soddisfare. Egli perciò cerca una teologia espressa con termini che può comprendere — cioè, con termini ricavati dalla vita, dalla famiglia e dalla sciènza.
3. La teologia dommatica è stata sempre l’espressione della filosofia corrente e ne ha rispecchiato in sè in modo più o meno completo i mutamenti e le condizioni. Ora da Kant ad oggi, la filosofia è caduta in una grande anarchia. Dell'unità e della sicurezza della filosofia medioevale neppure più la traccia. I pensatori sono caduti nell’incertezza intorno a ciò che può essere conosciuto e intorno al modo in cui il pensabile possa venir dominato.
Sono divenuti sospettosi verso la speculazione e si sòn sentiti spinti dalla scienza a poggiare su l’esperienza. La base filosofica e il metodo dell’antica teologia sono caduti così in disgrazia. Naturalmente la stessa teologia ha sentito il contraccolpo di questi mutamenti avvenuti nel campo della sua antica alleata, la filosofia, ed è caduta anch’essa nell'incertezza e nella confusione.
4. Un’altra causa ha contribuito largamente a portare la teologia alla sua attuale crisi, lo straordinario interesse per gli studi Storici nel secolo scorso. Così si è voluto investigare anche la storia della teologia. E si è trovato che ogni dottrina ha avuto una storia, uno sviluppo, o per usare un termine scientifico molto noto; un’ evoluzione. Gli uomini non hanno creduto sempre ed in ogni luogo la stessa cosa o qualche cosa che le se avvicini. Inoltre, alcuni capitoli di questa storia della teologia non erano tali da raccomandare le conclusioni della teologia alla fiducia degli uomini. Sia il metodo storico che le conclusioni storiche hanno modificato la concezione della finalità e dell'autorità del domina. È sembrata cosa più difficile accettare il domina, quando se n’è conosciuta la storia.
5. Il metodo sientifico, che è il segno caratteristico della vita intellettuale e della educazione moderna, ha esercitato aneli’esso una grande influenza sulla teologia.
Il metodo antico era quello a priori ed « Aristotele era re in Sion». Si giungeva alle conclusioni mediante i metodi della logica deduttiva; dal generale si scendeva al particolare. Questo era il metodo sì della filosofia che della teologia. Oggi invece è Bacone poco meno che un re in Sion, almeno per quel che riguarda il metodo. La logica induttiva sostiene con successo d’essere il solo legittimo metodo così nella filosofia e nella teologia come lo è già nelle scienze. Ogni conclusione deve essere almeno confermata dalla esperienza e, se è possibile, raggiunta e costruita mediante il metodo induttivo. Questa insistenza è stata una grande spinta per la filosofia e per la teologia.
« La Scienza è realmente così potente da non poter evitare od ignorare la sua richiesta; le sue pretese come potrebbero trovare un’applicazione?». Queste sono le domande imbarazzanti che la teologia si è rivolta per molti anni ? Alcuni teologi dicono francamente che non vi può essere una teologia veramente scientifica; ma gli uomini di scienza rispondono immediatamente che se ciò fosse vero, non vi potrebbe essere più alcuna teologia. La teologia non ha superato questa sua posizione incerta quanto al metodo e non è riuscita ancora a trovarsi una base granitica. Fino a
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ehe non si deciderà, continueranno ad esservi esitazioni e poco progresso nella ricostruzione teologica. Un metodo teologico riconosciuto come legittimo : ecco ciò che ora ci bisogna.
6. Altri mutamenti della nostra vita moderna hanno contribuito a creare Fattuale stato caotico della teologia.
Lo studio intenso della Bibbia e la crescente influenza di questa sulla vita religiosa dell’ultimo secolo hanno dato alla scienza biblica un posto sempre più importante nella produzione teologica ed hanno, per contraccolpo, mutato il trattamento tradizionale della Bibbia nella teologia. Così è sorta una teologia biblica e con essa s’è venuta affievolendo la tendenza a creare una teologia sistematica i cui abissi sono superati attraverso i ponti della speculazióne. Gli uomini sono oggi più inclinati a fermarsi dove la Bibbia si arresta, tanto più che hanno appreso oggi meglio che nel passato, durante il secolo scorso, dove la Bibbia si ferma. La teologia biblica ha contribuito così in qualche modo a discreditare o ad indebolire la sorella maggiore, la teologia sistematica.
7. Il carattere più evangelico del cristianesimo del secolo xix ha sollevato {‘esperienza cristiana, specialmente quella di tipo emozionale, ad una posizione mai raggiunta nel passato (i). S’insiste sulla esperienza cristiana, non solo come su di un fattore importante di cui si deve tener conto nella costruzione della teologia, ma comè su la sua norma e la sua base stessa. Non solo la teologia deve conformarsi all’esperienza — ciò che è evidente — ma deve anche derivare dall’ esperienza e non procederla. Il metodo scientifico della ricerca induttiva ha enormemente rinforzato questa tendenza. Non basta che la teologia soddisfi l'intelletto; essa deve essere conforme all’esperienza religiosa per diventare una forza originale nella vita.
8. Lo sforzo democratico dei tempi moderni ha, a sua volta, ingrandito ed intensificato questa tendenza. Ben difficilmente la teologia del Medio Evo potè raggiungere la folla. Essa era ignorante ed era considerata come degna di ben poca attenzione dà parte dei signori e dei teologi. La teologia serviva per la scuola, per il dotto, per il chierico. Tutto ciò ora è mutato. L’uomo comune ha raggiunto la suà età maggiore e deve esser ascoltato. S’interessa della teologia, ei tiene il cordone della borsa il cui contenuto è necessario perchè l’opera del Regno di Dio possa adattarsi al nostro libero sistema moderno (2). Egli deve essere tenuto in considerazione; egli chiede una teologia che raggiunga la sua vita e il suo cuore. Predicatori e teologi sono stati obbligati ad ascoltarlo, e, speriamolo, sono stati lieti d’ascoltarlo. La teologia così si è democratizzata e vivificata di nuovo, allo stesso tempo. Lo sforzo attualmente è diretto a portarla mediante rapporti intimi e vitali in contatto con la totalità della vita moderna.
9. Parallelamente a questa tendenza ad insistere sull’esperienza, la moderna passione per i falli verificabili ha contribuito anch’essa a compiere il lavoro di
(1) Questo nuovo orientamento della teologia moderna ha avuto il suo primo e più grande sostenitore nello Schleièrmacher (1768-1834) in Germania. [N. d. T.}.
(2) Ciò è vero specialmente per i paesi anglo-sassoni, dove il clero è mantenuto dalle libere offerte dèi fedeli. (N. d. T.J.
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disintegrazione e di discredito della teologia medievale. Gran parte infatti del suo contenuto non può essere sottoposto alle ordinarie riprove dell’esperienza. Come inevitabile risultato, ecco sorgere un' aUidudine agnostica verso parecchie posizioni che erano affermate con la più incrollabile fiducia pochi secoli fa. Questa decadenza della certezza dogmatica non viene però a significare necessariamente un tramonto della fede, ma solo una più modesta stima dei trionfi dell'intelletto. I teologi medievali erano gnostici sicuri di sè, i moderni invece sono meno sicuri di sè e forse più modesti. Non sono certi di conoscere ogni cosa intorno alla natura e ai piani dell’infinito, come n’ erano certi i loro predecessori. Dal giorno in cui la conoscenza della immensità e della complessità dell’universo e le inesplicabili imprese di Dio nella storia si sono ampliate ed approfondite, le labbra riverenti sono divenute meno pronte a parlare. L’aumentata conoscenza ha accresciuto il senso della grandezza e del mistero dell’universo e ha fatto mordere la polvere alle labbra dei vanagloriosi. La sicurezza dell’antica teologia intorno agli attributi, ai propositi, e all’opera di Dio, intorno alla condizione dell’anima umana e a tante altre cose, non è più condivisa dai moderni cristiani. Le antiche affermazioni in gran parte poggiavano sulle speculazioni e sulle presupposizioni della filosofia del tempo intorno a ciò che doveva essese e fare un Dio come il nostro. Tali tesi erano appoggiate da citazioni della Scrittura, spesso malinterpretate o mal applicate. Le conclusioni non erano ricavate dalla Scrittura, ma solo fortificate con il suo uso. Il cristiano moderno è completamente agnostico verso gran parte di tali prove.
Egli sa di non sapere, come Socrate, e non crede che gli antichi, in realtà ne sapessero di più di lui. Non è disposto ad abbandonarsi alla speculazione nè a spingersi molto lontano per seguire le speculazioni degli altri, sebbene abbiano un’età veneranda e siano state cristallizzate in credi e in sistemi teologici. Egli è piuttosto inclinato ad occuparsi dei fatti che possono venir provati o storicamente o scientificamente o con l'esperienza. Questi fatti sono sufficientemente abbondanti per soddisfare ai suoi bigogni spirituali e per rinforzare le sue speranze cristiane. Egli è divenuto, in un certo senso, un cristiano agnostico, e non ha alcun interesse a procedere più in là di ciò che è «scritto» e provato dall’esperienza. Il suo più vivo interesse è rivolto a questo mondo e alla sua ascensione. Volge lo sguardo intorno a sè e vede che il semplice Vangelo ha il potere di salvare e di trasformare gli uomini e si contenta di fermarsi lì.
10. Un altro aspetto ancora più importante della nostra vita religiosa non deve essere dimenticato. Il movimento missionario moderno per la conversione del inondo non cristiano, accanto agli sforzi intensificati per l’evangelizzazione e il sollevamento delle masse fra noi, hanno esercitato una profonda influenza sulla teologia, insistendo sull’amore di Dio per tutti gli uomini e sui suoi sforzi per la loro salvezza e per il loro benessere. L’antica teologia diceva che la giustitia di Dio deve essere soddisfatta ; la nuova afferma che è il suo Amore che deve essere soddisfatto. Come possono credere gli uomini nell’Elezione secondo l’antica nozione teologica, quando credono profondamente che è volere di Dio che tutti gli uomini debbano venire redenti ? Come possono credere che la giustizia di Dio è retribuitiva e penale, quando la finalità stessa della punizione nel nostro mondo è, secondo le moderne
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teorie più avanzate, principalmente, per non dire intieramente, correttiva? Ed ecco perchè gli uomini oggi interrogano il loro cuore. I secoli xvi e xvii furono pieni di guerre, di difficoltà e di sofferenze. L'ingiustizia sociale ed internazionale prevalente rendeva gli uomini severi e privi di simpatia. Erano obbligati a combattere per la vita e per tutto ciò che la vita tiene a caro. Date queste condizioni, nessuna meraviglia se i grandi teologi di questo periodo dettero alla giustizia di Dio il posto più importante nei loro sistemi, costruendo sulla retta e sovrana, per non dire arbitraria, volontà di Dio. L’idea dei diritti umani e specialmente della dignità e dei diritli dell’individuo era quasi del tutto inesistente. Ogni governo era un despotismo nel quale le azioni del sovrano venivano soltanto limitate dal suo potere e dal suo vantaggio privato. L’individuo non possedeva nessuna libertà o valore politico sociale e religioso. Con queste condizioni era inevitabile che la teologia dovesse essere dura, severa ed aristocratica. Dio amava gli uomini —ciò era evidente — ma solo gli uomini che Egli avesse eletto a salvezza, « elezione -che non dipendeva affatto dalla fede o dal carattere dell’individuo. La teoria che Cristo è morto solo per gli eletti e che tutto il resto dell’umanità è intieramente privo di speranza e del tutto incapace a sfuggire all’eterna condanna, non offendeva il senso morale di quell'epoca, anzi era quasi universalmente accettata senza discussioni o proteste.
A sua volta un mutamento nelle condizioni sociali ha provocato un analogo mutamento nella teologia. Il moderno e caratteristico amore per l’umanità, per il benessere di tutti gli uomini al di sopra delle barriere di razza e di condizione sociale, ha reso quasi impossibile la vita a una simile teologia. Gli uomini non possono più allo stesso tempo darsi intieramente all’amore e al servizio di tutta l’umanità e credere che Dio ha messo da parte una gran parte di essa senza fornirle alcuna via di salvezza : molto meno poi possan credere che Dio ha condannato per sempre la maggior parte degli uomini «per la lode della sua gloriosa giustizia». Con un tal profondo sentimento del valore di un uomo, riesce cosa difficile per un moderno il credere che una simile maledizione di Dio possa riuscire a lode della giustizia di Dio. Questa concezione di Dio non potrebbe più sopravvivere nella nostra atmosfera moderna di altruismo, ed è di fatto scomparsa dalla maggior parte di quelli che ancor oggi amano ancora chiamarsi calvinisti. Se pure, sono dei calvinisti solo in un senso ben diverso.
Ed ecco come, non essendo ancora apparso alcun nuovo sistema di teologia che abbia preso il posto dell’antico in rovina, il teologo oggi penda sospeso fra il cielo e la terra, incapace di salire o di discendere senza pericoli.
W. J. McGlothlin.
(Tradusse M. Rossi)
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IL PROBLEMA MORALE
NELLE RELIGIONI PRIMITIVE(,)
arve a molti pensatori, e per lunghissimi anni, che l’etica fosse indissolubilmente legata con la religione. I primi codici di morale, essi dicevano, facevano parte delle dottrine religiose, e le leggi furono considerate come comandamenti di Dio: così le leggi di Mosè. di Manu, di Zoroastro, di Licurgo, di Numa, le quali vogliono esser dettate da Dio, o sanzionate da oracoli divini. Trattati etici assai antichi in Egitto, si riferiscono alla divinità, per sanzionare le regole prescritte, e persino in Babele, anche
prima che la religione, in quel paese, pervenisse al massimo sviluppo, gli uomini si ritenevano responsabili verso Dio, per le infrazioni contro le leggi morali. Da per tutto, nelle antiche civiltà conosciute, si ammetteva che disobbedire alla legge equivaleva a disobbedire Dio; da per tutto il timore di Dio fu considerato come base della morale, esser buono equivaleva a religioso, ed essere cattivo a irreligioso. Nel giudaismo e nel cristianesimo, nell’islamismo e nella religione dei Romani, presso Greci e Persiani, Cinesi ed Indiani, Giapponesi, Egiziani ed Assiri, in tutta la vita morale dell’individuo e della- collettività, veniva riconosciuta una base religiosa (i).
2. Ma, contro questa conforme testimonianza della storia, alcuni pensatori sono stati del parere che l'unione tra religione e morale fosse imposta, e che anzi, in principio l’uomo fosse vissuto senza alcuna credenza religiosa, per lunghi secoli, finché le società umane, laiche per natura, fossero state condotte a religione dallo spirito di dominazione e di frode, che metteva le leggi morali sotto la sanzione dell’autorità divina.
Questa opinione, già sostenuta da Rousseau e da Voltaire, e recentemente dà Vogt e da Mortillet, è stata in vero fortemente confutata; ma quando ciò accadeva, ecco venire alla luce resultati di studi recenti ad affermare che il legame tra religione e morale deve esser del tutto casuale, giacché le religioni di quei popoli inferiori, che vengono comunemente chiamati primitivi, sono sorte e prosperate senza etico fondamento, e che anche nessuna influenza esse ebbero su la condotta individuale e sociale, o se
(*) Lezione tenuta dal prof. Mario Puglisi il io marzo 1915 presso la « Biblioteca Filosofica • di Firenze, notevolmente ampliata, per Bilychnis. Nel prossimo numero daremo la 2a lezione tenuta dal prof. Puglisi sul medesimo soggetto il 21 marzo. [Red.].
(1) Cfr Tiele, Einleitung in die Religionswissenchaft ; Id., Geschichte der Religionen im Altertum bis auf Alexander der Grossen; Pfleiderer, Religion und Religionen.
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qualcuna ne ebbero, sui costumi dei popoli primitivi, essa dovette essere perniciosa. Qui le idee religiose dovrebbero essere forti soltanto in quanto servono invece a bandire dalla mente ogni senso morale: gli Dei sono ritenuti cattivi e malvagi e apportatori di mali mentre il bene dovrebbe soltanto provenire dalla terra e dagli uomini (i).
3. Gli storici delle religioni si trovarono allora di fronte a un fatto nuovo e inatteso. Mentre la storia aveva sempre insegnato che religione e morale non vivono in nessun modo una vita indipendente l’una dall’altra, ecco ora le credenze religiose dei popoli primitivi presentare un esempio contrario: esse sarebbero immorali nella concezione degli Dei e persino nei comandamenti da esse imposti agli uomini. E così mentre i filosofi si affannavano a seguire l’evoluzione della vita morale e religiosa, per studiarne le somiglianze o l'identità, per analizzare l'influenza dell’etica su la religione, e di questa su la vita morale — onde pareva che non si potesse scoprire dove l’una cominci e l’altra finisca — ecco emergere un punto, nel tempo, in cui religione e morale sembrano percorrere vie diverse e indipendenti.
Avvenne così che parecchi, esaminando tali fatti, quando anche fossero stati fino allora del parere che morale e religione sono inseparabili, si credettero costretti, alla luce dei nuovi documenti, a limitare l’antico giudizio soltanto ad alcune religioni più progredite, e di un periodo relativamente recente; mentre per lunghissimo tempo, e per un numero assai maggiore di religioni, bisognava riconoscere che queste andassero per una via ben diversa, e anzi, opposta alla morale.
4. Alle osservazioni degli antropologi si associavano le scoperte archeologiche per mettere in mostra, negli antichissimi amuleti e feticci, nelle rovine dei sepolcri e nelle urne, nei ceppi sagrificali e negli altari, nelle iscrizioni e nelle medaglie e in tutti i resti e frammenti di oggetti religiosi, la testimonianza, che pareva inconfutabile, di antichi riti e rappresentazioni di Dei, simili a quelli degli attuali popoli inferiori: e che quei riti erano, al par di questi, mostruose usanze, e che quegli Dei erano, come questi, malvagi e crudeli, capaci di ogni delitto, sordi a ogni senso morale, assai più vicini a demoni paurosi che ad uomini.
Le stesse difficili condizioni in cui fu posto l’uomo primitivo su la terra inclemente per affermare e sviluppare la sua vita e le sue attività fra difficoltà gravissime, fra pericoli senza fine, doveva rendere più verosimile tutto questo; e la povertà del linguaggio presso diverse popolazioni primitive, nella denominazione del bene e della virtù, che ci rivela la linguistica, rispetto alle denominazioni e rappresentazioni di simboli e fantasmi, che rappresentano il male, dovevano mostrare, nelle religioni primitive, tale una molteplicità e varietà di forme, nella ideazione degli Dei malvagi e delle crudeli usanze religiose, rispetto a cui la non meno visibile relativa semplicità e uniformità, nella simbolica del bene, non poteva mancare di colpire gli storici delle religioni (2).
5. Si vede così che il problema morale delle religioni primitive andava studiato anche sotto un altro aspetto, che era stato purtroppo trascurato, e forse perchè gli Dei
(i) Cfr. Astley, Collection of voyages.
(2) Cfr. Lubbock, I tempi preistorici e l'origine dell’incivilimento.
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delle religioni relativamente più recenti non davano appiglio a ritenere (o almeno non lo si poteva, senza affrontare astruse questioni teologiche) che vi fossero stati una volta Dei immorali.
Tuttavia quest’esame rimaneva di massima importanza, non solo perchè la storia dell’idea di Dio è connessa con quella del progresso morale dell’uomo, ma anche per il problema teologico del male, dove la prima causa di questo, e il suo scopo nel mondo, devono potersi concepire ed esprimere in termini etici.
L’esame del valore morale di quelle concezioni doveva essere, d’altro canto, anche importante per gli storici delle religioni, perchè la moralità di esse non può venire in contrasto con quella del loro principio. E certo, assai pili ricco di conseguenze sembra a noi occuparci, come qui facciamo, del problema morale nelle religioni primitive, considerato nel contenuto teorico di esse e nel loro scopo, nei riti religiosi e nei comandamenti, anziché indagare da dove mai provenisse la credenza che gli Dei primitivi fossero sassi, piante, fiumi e .animali diversi. Queste ultime ricerche, almeno, dovrebbero essere precedute da quelle sul problema morale nelle religioni prin itive, per intendere la natura e lo scopo di quelle credenze; mentre, d’altro canto, bisogna stabilire che cosa s’intenda per morale e per religioni primitive, prima di chiarire se queste ànno un contenuto morale, e fino a qual punto. Bisogna anzi sapere, se i primitivi anno conoscenze morali, prima di cercare se queste sono mescolate accidentalmente, o se sono invece necessariamente concatenate, in relazione causale, con le loro religiose credenze.
E non solo nella primitiva concezione degli Dei. e dei loro comandamenti ma anche, quindi, nella influenza che quelle credenze potevano esercitare su la condotta delle primitive popolazioni, deve prendersi in considerazione il problema morale, tanto per quelle stesse popolazioni, quanto per le conseguenze che dovevano avere nei successivi sviluppi delle credenze religiose, e quanto, infine, per quelle rinascite che i periodi di decadenza rendono possibili e che le popolazioni ritardatane o deviate ci mostrano persino in seno alle maggiori civiltà.
6. Complessa, ma ricca di promesse, sembra dunque la questione di cui qui ci occupiamo, giacché riguarda perfino l’origine della morale, e se questa sia nata in un certo momento del tempo, prima 0 dopo delle religiose credenze, e in che rapporti si trovi con esse.
Ora se morale deve significare quell'insieme di regole per la condotta che noi, popoli civili, reputiamo giuste, se religione deve chiamarsi un certo corpo di credenze cui noi possiamo assentire, allora, per certo, i popoli primitivi non posseggono nè morale nè religione. Ma se morale invece deve significare qui qualche regola per condurre la vita secondo ciò che si reputa essere buono, se religione deve avere qui il senso di una certa fede, di un certo sentire ed agire che non sia riducibile a un altro, allora noi possiamo parlare di morale e di religioni primitive, ossia, di quelle regole di condotta, credenze ed atti che ànno analogia con ciò che in una vita spirituale più elevata viene più chiaramente inteso e più completamente raggiunto; regole di condotta, credenze ed atti che in quella civiltà primitiva equivalgono a ciò che in questa chiamiamo morale e religione nostra, e che in quella servono ugualmente allo scopo di guidare al bene e di salvare e difendere dal male.
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Coloro invece che fanno derivare la morale dalle religioni più progredite, non possono render ragione del fatto che anche le religioni primitive sono, per i credenti, il metodo di condotta che li guida nella via della salvezza; e quegli altri che ànno della morale una tale confusa idea da ritenerla come determinante le religioni, o che la confondono con queste, mostrano di ignorare la natura e lo scopo tanto della morale quanto delia religione.
Ma, per chi ben guardi, le fonti storiche e psicologiche della religione sono metafisiche ed etiche; e mentre quelle o queste fonti.ora isolatamente e ora insieme, nei diversi tempi e nelle diverse razze e culture, diversamente contribuiscono a far nascere, rinnovare e trasformare le religiose credenze, le religioni, dal conto loro, per la rigidezza ch’è propria a un corpo di dottrine comunemente accettato, e alle usanze sacre, contribuiscono a dare alle conoscenze metafisiche ed etiche una grande longevità.
Nondimeno il contenuto e la pratica delle religioni primitive sono tali che, a prima vista, presentano così contrarie concezioni a quelle che noi reputiamo giustamente approvabili, da richiamare la nostra attenzione, per rendercene conto.
Cominciamo dalla concezione degli Dei. Ma è poi vero che le testimonianze della storia conducono inesorabilmente ad ammettere che le prime forme delle religiose credenze siano state dedicate a esseri malvagi, creati dalla fantasia primitiva, turbata da orridi sogni? Se questo non fosse vero, se anche qui gli storici sono indebitamente passati, dalla descrizione di alcuni fatti, a una interpretazione di essi, che supera la loro competenza, e a una ingiustificata generalizzazione, allora tutti gli altri argomenti contrari, cui abbiamo or ora accennato, devono perdere ogni valore.
E questo sembra che abbiano fatto realmente gli storici, quando non ci riesce, per quanto possiamo risalire fino alla più nebbiosa antichità, di scoprire, nelle religioni degli Indiani, dei Semiti e degli Egiziani, qualche testimonianza che parli di credenze in cattive Deità come un fatto primordiale e quindi precedente alla credenza in quelle benevoli.
Nondimeno credo che potremo procedere in modo diverso e più sicuro in questo intricato cammino; e infatti, se ci riesce scoprire che agli occhi dei primitivi credenti, non sono malvage Deità quelle cui prestano culto, come lo sono invece per noi, allora siamo in possesso di un argomento ben più forte e capace, da solo a sgombrare ogni dubbio su la immoralità attribuita alle Divinità dei primitivi credenti.
7. Ma già l’origine degli spiriti malvagi e crudeli, adorati dai popoli primitivi, fu sempre un grave problema per gli storici delle religioni, non meno che per mitologi e filosofi. Un problema imbarazzante, che qualcuno anzi à creduto insolubile (i). E in vero non riesce facile comprendere come gli uomini abbiano potuto credere che i loro Dei fossero malvagi.
Con ragione lamentava Socrate la immoralità degli omerici Dei, e più tardi, Luciano diceva che si rimane colpiti a vedére come le antiche religióni elevino alte lòdi agli Dei per quei mostruosi delitti che poi le leggi severamente puniscono quando vengano commessi dagli uomini.
(i) Cfr. Anderson, Mythologie scandinave.
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Bisognava dunque rendersi conto di questo fatto, e gli antichi cementatori di Omero, quando vollero spiegare l’irrazionalità e immoralità degli Dei, ricorsero a quei diversi sistemi di interpretazione, che conosciamo sotto il nome del senso recondito che volevano rivelare.
Similmente anno fatto storici e mitologi moderni, quando proposero di spiegare quei miti irrazionali e immorali o con l’ipotesi di una malattia del linguaggio che avreb-vrebbe confuso, in una certa epoca della storia umana, il significato delle parole, o con la teoria delle sopravvivenze e nuove formazioni retrogressive, 0 con quella della emigrazione e immigrazione di miti e leggende che si diffondono e raccolgono qui o là, formando assai spesso, con altre indigene credenze, quei sincretismi religiosi, non bene amalgamati, che colpiscono i nostri occhi come immorali e irrazionali.
Senonchè queste ipotesi, quando pur servano a giustificare le religioni più progredite, dove contengono dogmi e precetti nè moralmente nè ragionevolmente approvabili, non bastano a farci intendere perchè l’abbiano creati quei popoli vissuti anteriormente, in una civiltà primitiva, onde la difficoltà, che pareva risoluta, à fatto invece soltanto un passo indietro.
E la stessa ipotesi di una malattia del linguaggio, che pur sembra andare alla radice del problema, non basta nemmeno a farci intendere come gli uomini abbiano prestato culto ad esseri empii e odievoli, come abbiano avuto credenze che sono la negazione di ogni sentimento morale, o per quale ragione, infine, si dovesse accettare per gli Dei una condotta che era poi condannata negli uomini.
8. E precisamente questa ipotesi che ammette diversi criteri nella valutazione della condotta: di una specie quando si tratta degli Dei, di un'altra quando si riferisce agli uomini, deve venire anzitutto qui in considerazione. Perchè non è presumibile, a prima vista, che le dottrine medievali della doppia verità, o quelle altre che volevano giustificare la bontà di Dio, di fronte alla realtà del male, sostenendo che essa non aveva alcuna analogia con la nostra, potessero essere produzione di popoli primitivi, non addestrati alle sottigliezze dialettiche.
Ma recenti ricerche antropologiche, ànno messo in chiaro la credenza, comune ad alcuni popoli inferiori, che i delitti e le infrazioni alla legge non sono ritenuti ugualmente gravi per tutti; anzi, secondo l’opinione dei Figiani, ciò dovrebbe dipendere dalla posizione sociale del delinquente, onde il delitto di un capo viene considerato come meno grave di quello commesso da un uomo del popolo (1).
E procedendo ancora nelle ricerche, si è trovato che alcuni popoli non ritengono gli Dei legati alle stesse leggi morali umane, perchè essi stanno troppo in alto, per essere obbligati a qualcosa (2). Persino un valente storico delle religioni, come C. P. Tiele, crede che il riguardo che si aveva a concepire gli Dei pari agli uomini impedisse di accettare, per la concezione degli Dei, le idee morali che man mano si presentavano alla coscienza.
9. Può sembrare in questo modo di aver trovata la via che conduce a una plausibile spiegazione della immoralità degli Dei primitivi; ma appena si considera attentali) Cfr. Williams, Figi and thè figians.
(2) Cfr. Caird, The evoiution of religión.
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mente la questione, non possiamo fare a meno di riconoscere che ne siamo invece lontani. Si poteva infatti così render conto della privilegiata considerazione in cui dovevano esser tenuti gli Dei, ma si deviava dalla questione, perchè ciò che bisognava spiegare, era appunto la immoralità nella concezione degli Dei primitivi, mentre non si comprende perchè proprio questa immoralità doveva essere considerata come un privilegio, e quindi giustificata con l’assenza, negli Dei, di quegli obblighi morali che legano gli uomini.
Ma il contrario è quello che ci mostrano costantemente le religioni primitive, quando per mezzo di atti religiosi promettono l'ottenimento di qualche bene. L’uniformità di quegli atti postula la credenza nell’uniformità degli effetti che essi devono produrre su le invisibili potenze; e l’attesa del religioso, non avrebbe più fondamento se gli Dei non fossero considerati da lui come esseri analogamente morali, e quindi, come tali, tenuti ad analoghe obbligazioni.
D’altro canto, la credenza che gli Dei non fossero tenuti alle regole per la condotta, analogamente agli uomini, quando fosse veramente comune a tutte le religioni primitive—come erroneamente afferma anche Guyau (i) —pure, affinchè abbia qui valore dimostrativo, bisognerebbe provare che essa sia un fatto originario, e non un fatto appartenente a un periodo di maggiore sviluppo, come sembra più probabile, e dove l’azione dei motivi giustificatori, d’immorali precedenti credenze, si fa attiva e visibile.
E non solo quelle credenze, ma anche le immorali usanze ed i crudeli sagrifici, cercano infatti, più tardi, una giustificazione nella dottrina che gli Dei stanno al di sopra delle leggi umane, e che essi possono chiedere all’uomo ciò che vogliono. Ma fino allora è più verosimile che un’unica norma serva a valutare le azioni umane e le divine; onde, anche qui, come nelle scienze naturali, l’ipotesi più semplice è pure la più probabile.
10. E se questo è vero, e sembra inconfutabile, come spiegare allora le paurose demonolatrie primitive, i mitici immorali fantasmi, che l’uomo à adorato per così lungo tempo? Bisogna forse concludere che i popoli primitivi siano radicalmente immorali?
Se con questo intendiamo che essi non anno saputo distinguere cose buone da cose cattive, noi siamo certamente in errore. « Per quanto grande sia l’insensibilità di un uomo, egli deve spesso sentirsi commosso dall’idea del bene e del male, e per quanto i suoi pregiudizi possano essere ostinati, deve osservare che altri sono suscettibili di impressioni di quella fatta ». E Hume aggiunge: « Coloro i quali ànno negato la realtà di distinzioni morali, vanno considerati come gente che ama, a ogni costo, di contraddire, perchè non si può comprendere come una creatura umana possa credere seriamente che tutti i caratteri e tutte le azioni siano ugualmente degni dell’affetto e della stima d’ognuno » (2).
Noi infatti vediamo che i popoli più diversi, quantunque fra di loro differiscano più o meno in ciò che essi intendono per bene e per male, pure ne ammet(1) Cfr. Guyau, L'irreligion de l'avenir.
(2) Cfr. Hume, A treatise of human nature.
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tono la distinzione, nessuno confonde l’uno con l’altro, e tutti sono d’accordo nel dire che bisogna amare il bene e odiare il male. Dirò anzi di più : un retto amare e un retto odiare sono in tutti visibili, quando persino il primitivo odia il dolore e aspira alla conoscenza.
Occorre dunque ricorrere a un’altra ipotesi, a quella che sembra la sola accettabile, riconoscendo che i popoli primitivi distinguono, sì, cose buone da cose cattive, ma non ànno sempre una giusta conoscenza di ciò che sia veramente il bene ed il male, onde avviene che più facilmente lasciano condurre le loro azioni, non da motivi etici, ma da altri motivi di natura inferiore. Ed è precisamente la sconoscenza di questo fatto, che poteva portare a credere di non esservi, tra religione e morale presso i popoli primitivi, alcuna relazione, che vi fosse anzi una opposizione; e che i primitivi, dalla credenza in malvage potenze invisibili, tormentati da orride ombre e fantasmi, da macabre visioni e sogni, e sempre assillati e minacciati dal male, fossero stati condotti e tenuti sotto l’impero di erronee e immorali credenze religiose.
11. Ma per giudicare del valore morale delle primitive credenze religiose, bisognava tener presente anzitutto che noi possiamo conoscere i motivi che determinano le altrui azioni soltanto indirettamente. Dagli atti spesso concludiamo, come segni di certi affetti, come indici di certi sentimenti, sui moti dell’anima altrui; poiché non ci è dato, come dei nostri propri, di conoscere direttamente quei sentimenti.
Ed ecco in qual modo noi possiamo, a volte, deviare dal vero, se lasciamo determinare il nostro giudizio dalla erronea interpretazione di atti esteriori, come se fossero stati determinati da certi motivi mentre lo erano da altri. E non consideriamo che spesso simili atti vengono determinati da diversi affetti, e che, per esempio, un Sentimento di pietà ci può fare agire, talvolta, in modo simile a quello che ci farebbe agire un sentimento di paura o di speranza; un sentimento di giustizia, simile a quello di un sentimento di vendetta, d’invidia o di gelosia.
E vi è di più. Non solo bisogna discendere fino in fondo all’anima dei popoli primitivi, per scrutare le intenzioni e i motivi dei loro atti che noi reputiamo immorali, ma bisogna altresì considerare se veramente nessun accenno alla conoscenza etica, e nessun atto giustamente riconosciuto morale sia in essi visibile; o se non sia stato in vece trascurato appunto di considerare — da parte di coloro che negano ai primitivi ógni conoscenza etica — quell’elemento ch’è visibile, come ò accennato, nell’amore alla conoscenza, nell’odio contro il dolore, nel sentimento dell’onore e simili; o non si sia piuttosto lasciati deviare dalla vista di certi atti evidentemente immorali dei popoli primitivi, per negare a loro completamente ogni azione morale. Solo una diligente analisi psicologica può condurci a fissare dapprima dove comincia la conoscenza etica, nella vita psichica dei primitivi, per poter stabilire, in quel campo, le norme del nostro giudizio riguardo alla condotta; e solo essa deve guidarci di poi a distinguere e precisare dai segni visibili, che ci è concesso di osservare, i motivi diversi che ànno potuto determinarli.
Ma gli etnologi non si sono lungamente fermati su questo punto, pur così importante, o non lo ànno per nulla tenuto in considerazione; e quindi i loro pareri, intorno alla morale dei popoli primitivi, sono spesso disparati e contraddittori:
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di modo che mentre alcuni credono che essi siano gli animali più mostruosi e sanguinari, altri, come Topinard, insistono sul loro carattere dolce e pacifico, e lo stesso Tarde ci parla persino degli abitanti delle caverne come di gruppi di gente pacifica, dedicata alla caccia e alla pesca (i).
Spesso, come dico, sono cattive osservazioni che conducono in errore, ma altre volte si conclude generalizzando da alcune giuste osservazioni, estendendo a tutti i popoli primitivi ciò che può esser con ragione affermato di alcune tribù o di alcuni individui. Così Ellis scrisse delle popolazioni della Costa d’Oro che la religione non à presso loro alcuna connessione con la morale. Ma Jacob Spieth, più recentemente, à corretto che non solo presso quel popolo la Madre terra punisce con la morte coloro che ànno giurato il falso, ma Mawa, il loro Dio, conosce i pensieri e i cuori degli uomini, e dà ogni bene alla terra sempre paziente e mai in collera. Egli non permette al fratello di ingannare il fratello, nè sopporta che il re giudichi ingiustamente, o permetta che si bruci la casa di un altro. Onde; si vede, se mancasse nel resto, che in questo ultimo giudizio è contenuto il concetto di una suprema giustizia.
Altri, fra coloro che ànno negato conoscenze morali ai popoli primitivi, vi sono stati condotti dal l’osserva re che non si sente da quelli alcun ribrezzo per lo spargimento del sangue umano, nè alcun rimorso per delitti che noi reputiamo giustamente detestabili. Ma in verità molti popoli primitivi sono assai più innocui di quanto, a prima vista, possa parere, e se sotto molti rispetti sonò peggiori, per altri sono uguali o più innocui dei popoli civili. Egli è che non esiste qui una regola generale che possa applicarsi a tutti i popoli primitivi, e vi sono invece immense differenze tra popoli diversi. Come vi sono razze naturalmente più disposte alla poesia, altre più disposte all’osservazione, alcune più pigre, altre più deste, così alcune sono assai piti disposte da natura ad essere selvagge e crudeli, altre ad essere dolci e sensibili; leune refrattarie, le altre suscettibili alla educazione civile. E così mentre Bosmann, Burton, Baker, Galton, rilevano la cattiveria e malvagità dei primitivi, al contrario Campbell Hunter, Schortt, Glasfìnd, Hodgson, Favre, Dalton, Cook, Forster, M. von Wied, A. von Humbold, Livingstone, Barth, ànno dato dei popoli primitivi un giudizio piuttosto favorevole circa le loro idee morali, avvertendo la loro semplicità e bontà.
Ma le stesse orde anarchiche figiane, gli esquimesi di America, e tutte le popolazioni più barbare e selvaggio che ci ànno descritto gli etnologi, non sono sprovviste del sentimento del dovere, della obbligazione a fare alcune cose e a non farne altre. I primitivi, è vero, non odiano molte cose che noi giustamente odiamo, e ne amano altre, che noi, con ragione, detestiamo; tuttavia questo non dice che sia in loro del tutto assente il sentimento di qualcosa che è bene e di qualcosa che è male. Noi dobbiamo invece risalire ai motivi delle loro azioni per vedere come la stessa vendetta, tanto comune nelle razze inferiori, e il taglione, sono per essi leggi che devono essere osservate come regole del loro primitivo diritto penale.
Ma negare che i primitivi abbiano conoscenze morali, è lo stesso che negare
(i) Cfr. Topinard, L'anthropologie et la science sociale', Tarde, Trasfor mations du droit.
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IL PROBLEMA MORALE NELLE RELIGIONI PRIMITIVE III
a loro conoscenze di verità. Essi ignorano e disconoscono molte cose vere, credono invece molte proposizioni che sono false, ma per questo non siamo autorizzati a dire che i primitivi sconoscano e ignorino ogni verità, o che alcuni beni non amino e alcuni mali non odiano giustamente e, anzi, senza alcuna intenzione utilitaria. Perchè la benevolenza, l’onestà, la veracità non possono essere state utili alle tribù che le praticavano, e non si comprenderebbe l'idea di santità associata alle azioni che ogni tribù considera come buone e morali, in opposizione con l’idea delle cose che sono tenute semplicemente utili, e che sono rappresentate — come avverte giustamente A. B. Wallace, nel suo libro su la selezione naturale — in un modo del tutto diverso.
Regole di condotta ànno dunque persino le orde anarchiche, sentimento del bene e del male non manca nei popoli primitivi, retta conoscenza di alcuni beni e di alcuni mali, e retto odio ed amore essi posseggono. Come credenze, sentimenti e atti religiosi si trovano presso i più bassi gradi di coltura, solo che si cominci a pensare a un certo ordine causale, a credere che si dipenda da quest’ordine, e che alcuni atti possano esercitare su esso qualche influenza; così le regole di condotta, sono subito fatte appena che si cominci a credere che un certo agire produca un certo bene e un altro un certo male, e tosto che le idee di purità, di santità, di profano, di peccaminoso comincino a farsi strada, a sorgere e ad elevarsi al disopra delle misure utilitarie e prudenziali.
Ma sarebbe un grave errore attendere dalle primitive civiltà un completo e armònico sistema di morale, o un conseguente e connesso sistema di conoscenze etiche. Bisogna tener presente che i primitivi anno molte cose in comune coi bambini, essi ànno una vivace sensibilità, pensano poco, credono facilmente e sono facilmente increduli, astuti e ingenui nello stesso tempo. Le confusioni, d'altro canto, che fanno tra il mondo fisico e quello morale li conduce a credere che i peccati possono essere distrutti col fuoco, o dispersi in fondo alle acque dei fiumi, o rigettati sopra qualche persona o animale, o addossate a qualche oggetto che può venire distrutto. Tali Credenze, portano talvolta ad azioni che, motivate dal sentimento vivo di distruggere un male fittizio, finiscono in un male reale che viene da essi ignorato. Così accanto a tratti nobili ed elevati appare una rozzezza e crudeltà che ci colpisce, e che rimane inesplicabile per chi non sa penetrare e leggere nell’anima del primitivo, per chi non ne conosce le religiose credenze. Coraggio e valore, riconoscenza e amicizia, fedeltà e tenero amore, si mescolano spesso nell’anima dei primitivi e prosperano accanto a rudi istinti che ancor più spesso trionfano. Scene commoventi di amor materno, di fedeltà coniugale, di amor filiale ci descrivono molti etnologi; e non mancano atti eroici, così come ci vengono narrati dall’antropologo H. Schaaffhausen (i).
Certo molta di quella che chiamiamo crudeltà dei primitivi dipende dalle abitudini di pensiero, contratte per le necessità della loro vita, dalle superstizioni, e molta ancora dalla cieca conoscenza etica, che non permette a loro la visione dei contrasti e delle disarmonie fra il loro diritto, la loro religione e la morale. E così si avrà più
(i) Anthropologische Studien. Über den Zustand der wilden Völker.
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ragione di dire che ciò che manca al primitivo non è il sentimento del bene e del male, ma la chiara visione di tutto ciò ch’è veramente bene e male. Errori e superstizioni offuscano la sua conoscenza, crudeli usanze, passioni selvagge, ciechi istinti lo fanno facilmente deviare, perchè ànno facilmente presa sull’animo suo. Noi lo vediamo chiaramente nelle letterature primitive, e persino in quelle più progredite, quando descrivono qualcosa dianalogo alla vita primitiva, come i poemi omerici, che non mancano di conservare traccia di grandi eroismi e di grandi crudeltà, di gene rosità e malvagità, di delicatezza di certi sentimenti e di rozzezza e brutalità di altri.
12. Quando noi però osserviamo che specie di vita sono costretti i primitivi a condurre, e quindi quali cose sono per essi particolarmente buone, e quali essi debbono ritenere cattive, allora possiamo renderci meglio conto dei motivi delle loro azioni e dell’apprezzamento di esse ; e possiamo nello stesso tempo vedere che non tutti i primitivi presentano le stesse tendenze e gli stessi caratteri e quindi gli stessi apprezzamenti, e che questi vengono modificati ed educati dai loro particolari bisogni e dalle loro abitudini.
Si è detto, con ragione, che etica e religione, arte e scienza nel loro sviluppo dipendono, fino a un certo punto, dal grado in cui la comunità à risoluto il problema di sostenere la vita, per mezzo della produzione e distribuzione di beni materiali; ed è quindi ragionevole di pensare che l’etica venga continuamente, per così dire, perseguitata, nei primitivi gruppi sociali, dal pungolo della fame, dall’ira, dall’invidia, dall’odio, dalle passioni insomma e dai ciechi istinti.
Lo sviluppo del sentimento morale e delle religioni, non è pertanto meno soggetto degli usi, dei costumi, del linguaggio e delle arti, alle acquisite abitudini di pensiero e di sentimento presso i popoli primitivi. Lo vediamo chiaramente nella profonda differenza che esiste tra lo sviluppo della conoscenza morale delle tribù guerriere e quelle delle popolazioni pacifiche. Questi ultimi infatti presentano, rispetto ai primi, sentimenti umanitari a un grado assai elevato, e una notevole disposizione alla riconoscenza e alla beneficenza, che agli altri è sconosciuta. E si comprende bene come da alcuni di questi popoli sia stato detto che, malgrado le loro miserabili capanne, i loro abiti primitivi, la loro ignoranza di lettere, pure sono da ritenersi superiori nell’eleménto più nobile della civiltà, nell’elemento morale (i).
La morale australiana, scrive G. Schmidt — nella sua interessante opera su l’origine dell’idea di Dio — non è indegna di esseri superiori, coi quali essa è stata messa in rapporto. La mamma australiana canta al suo bambino una canzone che dice « Sii buono - Non rubare - Lascia ogni cosa al suo posto - Sii buono ». Si rammen tino i comandamenti morali dei Kurnais, citati da Lang, da Hartlànd, da Schmidt e da altri valenti etnologi, dov’è detto: « Ascoltare e ubbidire i vecchi - Partecipare tutto agli amici - Non aver rapporto con fanciulle, nè con donne maritate -Vivere in pace con gli uomini, ecc. ». Si legga il rapporto di H. E. Man su gli Anda-manesi, e quello di Howitt su gli Australiani del Sud-est, e allora si vedrà che non si à il dritto di affermare così leggermente che ai popoli primitivi sia sconosciuto ogni sentimento morale.
(i) Cfr. Williams, Through Norway with Ladies.
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IL PROBLEMA MORALE NELLE RELIGIONI PRIMITIVE II3
13. Non è dunque fra costoro che noi possiamo trovare l’origine del pauroso demonismo. Ma anche fra le tribù guerriere, moralmente più arretrate, non bisogna farsi indurre in inganno dai visibili segni, e bisogna conoscere quali cose essi ritengono buone e quali cattive, prima di pronunciare alcun giudizio intorno all’elemento etico delle loro religioni. Perchè si ingannerebbe certamente colui che si attendesse qui la bontà posta al di sopra di ogni virtù, come al di sopra delle platoniche idee, e sarebbe quindi vano cercare una rappresentazione del divino che a quella suprema idea equivalga. Ciò invece che attrae di più il rispetto e l’ammirazione di quest’anima primitiva, non è la bontà, ma l'abilità, l’astuzia, la potenza. E s'intende che Così doveva accadere, se rammentiamo che questi appunto erano i mezzi più opportuni, suggeriti dall'esperienza per difendere, fra tante difficoltà, la vita umana, cosa che appariva istintivamente di massimo pregio.
E quindi ognuno, che ben guardi, può vedere la ragione dei difetti che presentano le primitive concezioni della Divinità, e le credenze e gli atti religiosi; credenze e atti che non sono certamente tutti sforniti di valore etico, ma che non possono, d'altro canto, contenere di più e di diverso di quello delle conoscenze morali che i primitivi posseggono.
14. Si dirà forse che qui non appare dominante un retto amore del bene, e si avrà ragione, ma non dobbiamo meravigliarcene, quando persino nelle civiltà più progredite vediamo spesso, e così rozzamente, posposti i più nobili motivi etici, per lasciarsi condurre da basse passioni e da detestabili interessi. Eppure nessuno si permette di dire che queste civiltà abbiano sconosciuto il sentimento morale, e ciò forse perchè di questi popoli tutti conoscono altri fatti che quel sentimento dimostrano mentre dei primitivi vengono generalmente ignorati. Non solo i Re Assiri affidavano alle iscrizioni sepolcrali le gesta di cui Credevano di potersi meglio gloriare (e ponevano in essi massacri orrendi e delitti senza nome), non solo Tucidide assicurava i Greci che il mestiere di pirata non è vergognoso e che, al contrario, conduce alla gloria, ma senza venire ai nostri giorni — assai ricchi, pur troppo, di detestabili aberrazioni morali —- anche la storia degli Egiziani, dei Persiani, dei Greci, dei Macedoni, dei Romani è pièna di simili esecrande vanterie (i).
Che diremo allora dell'uomo primitivo, quando ammira e rispetta coloro che crede abili e forti, mentre disprezza la bontà (2) se nella sua fanciullesca mente questa è concepita cóme un segno di debolezza e di viltà?
15. Ora, siano quali si vogliano le cause che ànno determinato questi sentimenti, una cosa tuttavia appare chiaramente, ed è che le Deità di questi primitivi, per essere oggetto di venerazione, devono essere necessariamente modello di potenza, di astuzia e di abilità non solo, ma devono anche possedere tutte quelle qualità che sono ritenute pregevoli fra gli uomini e per gli uomini, e devono mancare invece di tutte le altre che sono intese come spregevoli o colpevoli.
(1) Cfr. Spencer, La morale des differents peuples.
(2) Molti esempi di questi fatti si leggono nelle opere antropologiche di Tylor, Waitz, Lubbock e di altri.
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Di conseguenza, tutte le Deità dei primitivi guerrieri sono anch’esse guerriere, che esercitano la loro potenza e abilità soltanto in un grado più elevato di quella in cui gli uomini potevano esercitarla.
Ma fra uomini che non detestano il furto, e l’omicidio, non si può attendere che ne facciano un rimprovero ai loro Dei, imaginati carchi di simili delitti; fra uomini che non ànno orrore dell’infanticidio, non deve meravigliare se prosperano religioni dove s’insegna ad adorare Deità infanticide e divoratrici dei propri figli. Dove l'oppressione dei deboli fu considerata come l’atto naturale del più forte, si deve attendere che si scolpiscano o dipingano' imagini sacre, nell'atto di trucidare donne e bambini.
Tutto questo conduceva a pensare che quelle Deità fossero mostri paurosi, e si aveva ragione, ma c’inganneremmo se volessimo concludere che quei popoli primitivi, condividano il nòstro giudizio, come non lo condividono nemmeno i religiosi delle civiltà più progredite, quando si rappresentano la Divinità non sempre in modo moralmente irreprensibile. Noi lo vedremo meglio in seguito, questo; e per ora, basti stabilire che quegli Dei sono invece, per i popoli primitivi, e appunto per questo, sempre più oggetto di ammirazione e rispetto, quanto più cruda ed efferata, e quindi per noi più detestabile, è la manifestazione della loro astuzia e potenza.
16. Ma se i popoli prmitivi ostentano maggior culto agli spiriti che più sono capaci di produrre del male anziché a quelli che possono fare del bene, non per questo possiamo dire che le loro religioni siano soltanto un prodotto della paura senza base morale. Per ottenere un bene, il primitivo agisce in quel modo che la sua cultura e la sua esperienza gli suggeriscono; e già il solo fatto di potere evitare il male o distruggerlo, è un certo bene. E poiché i popoli primitivi credono, generalmente, che si possa esercitare una potenza magica e fare incantesimi, così è naturale che a queste arti si volgesse maggiormente la loro attenzione, per accrescere la loro potenza, al fine di raggiungere ciò che reputavano di essere un bene; ed è chiaro altresì che queste usanze e questi culti si rendessero assai più visibili in quelle religioni che implicavano cultura e sentimenti poco elevati, e dove i motivi etici erano spesso sostituiti o annebbiati da istinti e da oscure inclinazioni.
E se le credenze religiose dei primitivi sembrano esaurirsi nella creazione di spiriti che possono nuocere, ciò avviene non perchè la credenza nella malvagità delle ascose superiori potenze, fosse un fatto originario, ma perchè nessun culto si reputa spesso necessario per gli spiriti benigni, che fanno il bene senza che alcuno glielo chieda (i). Mentre la credenza nella superiorità di una forza ascosa e benevola, non può venire in alcun mòdo negata come originaria, quando si pensa che da per tutto essa viene invocata, e che tutti i popoli primitivi pongono in essa fede per neutralizzare e distruggere le forze avverse e maligne.
17. Spero che queste brevi considerazioni possano bastare per rendere intelligibili gli spiriti malvagi delle religioni primitive e per condurci a una migliore in(r) Cfr. Mùller, Geschichte des atnericanischen Urreligionen.
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IL PROBLEMA MORALE NELLE RELIGIONI PRIMITIVE
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terpretazione dei visibili simboli mostruosi, e degli atti immorali che accompagnano le religioni primitive. Perchè ora sopratutto siamo meglio al caso di non confondere la legge che reputa morale il primitivo, la regola per la sua condotta, con qualche particolare contenuto di un’altra legge che reputiamo giustamente obbligatoria per tutti.
Anche più chiaramente si delineano ora ai nostri occhi i principali errori in cui cadono frequentemente coloro che negano ogni relazione tra religione primitiva e morale, e precisamente quegli errori che i classici della scuola antropologica non ànno saputo sempre evitare.
Uno dipende, come abbiamo veduto, dal giudicare immorali le credenze religiose primitive, perchè suggeriscono precetti che non sono da noi stimati morali; trascurando così non solo gli elementi morali contenuti nell’attività religiosa, ma anche il valore delle primitive credenze religiose come preparatrici delle religioni future e delle più elevate concezioni morali cui queste si accompagneranno. Sfuggiva così a costoro lo scopo che’le religiose credenze si propongono, non escluse le primitive; mentre non dovevasi trascurare di avvertire che esso non è dato dalle particolari erronee concezioni intorno alla Divinità, nè dalla immoralità dei loro riti, ma dal bene che le religioni primitive si propongono di raggiungere e dal male che pretendono di evitare.
Un altro errore è quello che si fa prendendo religione nel senso di teologia, oppure religione nel senso di particolari credenze animistiche, manistiche, ecc. Così poteva essere indotto, anche un classico della moderna scuola antropologica, come è Tylor, a dire che tra morale e religione primitiva non vi è alcuna relazione, o non ve n’è che una rudimentale. Mentre noi sosteniamo, e lo vedremo in seguito, che relativamente alle forme rudimentali di religione e di leggi morali che ci è dato di trovare presso i popoli inferiori, quei rapporti sono intimi e tenacissimi. Lo stesso Tylor ci dà mezzo a dimostrarlo, quando dice che nelle razze inferiori « senza codice morale l’esistenza stessa dèlia più rozza tribù diverrebbe impossibile, e che presso molte razze selvagge le idee morali sono ben definite». Ora basterebbe conoscere che le credenze religiose sono intimamente connesse con la vita pubblica e privata dei popoli primitivi, che they eat religiously, drink religiously, bath religiously, dress re-ligiously and sin religiously, come dice Léonard dei negri dell’Africa (1) per concludere che le prime idee morali non possono essere considerate come indipendenti dalle primitive credenze religiose e che quindi queste sono invece intrecciate indissolùbilmente con quelle.
Un terzo errore deriva dalla confusione che si fa tra non osservanza degli insegnamenti morali della religione e mancanza di tali insegnamenti. Mentre il difetto qui è da trovarsi nei religiosi soltanto, perchè sono essi che s’allontanano dai precètti morali che le religioni insegnano, e non sono le religioni che ne mancano.
18. Ma gli storici delle religioni primitive e gli' antropologo di cui ò parlato in principio, non potevano arrivare a queste conclusioni, e quindi non erano al caso di riconoscere che la morale accompagna le religioni primitive, quando procedevano
(1) Citato da Carpenter, Comparative religion.
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spesso, nelle loro ricerche, senza adeguate conoscenze filosofiche. E così, mentre, da un canto, la conoscenza che si aveva delle religióni piu progredite conduceva alcuni storici ad ammettere che morale e religione sono indissolubilmente unite, dall'altro, bastava l'esempio di immorali concezioni, nelle primitive teologie, per concludere che allora religione e morale non avevano nulla in comune.
Si doveva invece procedere in altra guisa, e bisognava sopratutto esaminare quei fatti, nel loro intimo significato, nei motivi che li ànno determinati, ed assegnare a questi motivi il giusto valore, prendendo in considerazione anche alcuni altri fatti e circostanze che possono giustificarli. Se indissolubilmente unite con la morale appaiono le religioni più progredite, quelle cioè che ànnó un contenuto dottrinario più ragionevole, e che mirano a più nobili fini — e separate del tutto sembravano invece quelle altre dei popoli primitivi — bisognava indagare come mai le religioni, che in un periodo primitivo, sono così separate dalla morale ed anzi, come è stato detto, a questa contrari, ad essa poi si uniscono, in un periodo di maggiore civiltà, senza una plausibile ragione. Noi lo vedremo meglio in seguito come questo possa avvenire.
19. Ma qui non sembra esserci di qualche aiuto la teoria dell'evoluzione, perchè nemmeno essa arriva a farci intendere come le primitive religioni, da immorali che erano, abbiano potuto trasformarsi talmente da divenire compagne indivisibili della morale, e così d’avere illuso, per tanto tempo, storici e filosofi su la natura delle religiose credenze.
Si potrebbe anche aggiungere che una tale evoluzione cessa nei periodi susseguenti alla nascita delle religioni più progredite, e dove appunto sembra che la religione si allontani di nuovo, e forse definitivamente dalla morale; non perchè le religioni moderne si siano trasformate, per un processo regressivo o di involuzione, da morali in immorali, ma perchè, accanto alle religioni, vediamo crescere e prosperare una morale laica, la quale, indipendentemente dalle religiose credenze, procede a fondare e stabilire le regole della condotta umana, non solo, ma, senza alcun riguardo, si oppone talvolta alle regole prescritte dalle religioni, ed osa quindi persino di elevarsi a giudice dell’efficacia della morale religiosa.
20. Ma guardando lo scopo e la funzione che le religioni si propongono di avere, non tardiamo a conoscere che esse vogliono sempre esser sapienza che illumina la vita teorica e la pratica; guida che permette di evitare il male o di distruggerlo, e di raggiungere il bene, potenza che assicura la vittoria.
Sia pure una religione primitiva, e sarà analoga a quella più sviluppata delle razze superiori, non qualcosa di contrario, come erroneamente si è detto. Qui un prodotto di istinti e di turbinose passioni, dove i motivi etici sonnecchiano e dove son desti gli altri motivi di natura inferiore; là invece il risultato di nobili sentimenti e pensieri, non un’evoluzione dunque degli stessi motivi e delle stesse affermazioni, ma nemmeno una trasformazione degli scopi e delle funzioni. Anzi, se è vero, come ò cercato altrove di dimostrare, che la religione vuole, in ogni tempo e in ogni luogo, esercitare funzioni simili e raggiungere simili scopi, allora si deve dire che gli Dei primitivi, siano essi perversi o buoni, siano i loro rapporti con gli uomini intesi come quelli di un crudele e malvagio capo della tribù, o come quelli di uno spirito tutelare.
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simile a un padre amorevole, devono servire sì, a cambiare l’atteggiamento della religiosità, ma non il fatto che l’uomo, nella religione, esprime sempre e dovunque certi bisogni noetici ed etici che, in qualche modo, vuole appagare. Siano qui interessate maggiormente le sue attività affettive o quelle conoscitive, egli à sempre cercato nella religione ciò che più importa di conoscere, e di conoscere per agire.
E a chiunque consulti attentamente la storia, dovrebbe esser chiaro che nella scala della civiltà, se così posso esprimermi, vi sono simili bisogni spirituali che dànno luogo a simili produzioni. Ma costui vedrà pure che sebbene le religioni assumano diversi aspetti, per appagare quei bisogni, per raggiungere lo scopo supremo dell’azione, che è affermazione e trionfo del bene, pure le religioni, nelle loro stabili forme, non possono sempre riuscirvi. Onde avviene che là dove non sono religioni, appaiono altre simili produzioni spirituali che le surrogano: nei popoli inferiori la superstizione, in quelli superiori la sapienza. Ma l’attività psichica, che rende le religioni possibili e che le fa nascere e prosperare, rimane qui e da pertutto nelle sue funzioni, anche dove religioni non sono.
Similmente diremo dell'etica, la quale, come vedremo, precede, in un certo senso, e accompagna il corso delle religiose vicende, e partendo da particolari disposizioni e dà istinti, che ne preparano e lavorano il terreno, s’intreccia nella vita religiosa, ora per nascere e fiorire, ora per annebbiarsi o sparire con essa, e ora in fine per elevarsi, nitida e luminosa, nella naturale sanzione del retto volere.
Firenze, 14 marzo 1915. __ _
Mario Puglisi.
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SULLA VIA DELL’ UNIONE DELLE CHIESE
IL CONGRESSO DELLE CHIESE CRISTIANE LIBERE D'INGHILTERRA
■l Congresso delle Chiese Cristiané Libere d’Inghilterra, che ebbe luogo in Manchester nel mese di marzo, ha esorbitato quest’anno dai limiti di un « rendez-vous » dei ministri delle diverse Chiese inglesi, che, dopo avere attuato la libertà, nell'indipendenza dalla Chiesa Anglicana come da quella di Roma, cercano ora per tentativi graduali, quell'unità che è un altro nome per la carità, distintivo essenziale dei discepoli di Cristo.
Quest’anno, in presenza del fallimento degli Stati « civili » nel raggiungere la cooperazione nell’autonomia, le Chiese cristiane inglesi hanno sentito che l’ora di farla finita con le rivalità fra Chiese libere, ormai assurte alla maturità della tolleranza e del rispetto reciproco, era giunta: e che bisognava dare al mondo un esempio di federalismo positivo e cordiale, quale invito e modello alla tanto vagheggiata federazione degli Stati Uniti di Europa... e del mondo.
Questo hanno sentito simultaneamente e senza previa intesa, i 1300 rappresentanti delle diverse Chiese Cristiane libere, unitisi nella Albert Hall di Manchester: questo dovere dell’ora presente ha interpretato e dovinato il Lord Mayor di Manchester, che nel dare il benvenuto ai delegati, si è congratulato — egli cattolico — che tra i dolorosi effetti della guerra vi sia stato almeno quello di « stringere vieppiù i rapporti delle Chiese»: e ha rammentato, che 200 milioni di sudditi non cristiani dell’impero britannico tengono rivolti gli occhi alla Chiesa di Cristo, meravigliati della sua mancanza di unità»; e questo ha mostrato d'intendere praticamente e di volere il Congresso, quando ha eletto per Presidente della Federazione il Rev. J. Shakespeare, da sedici anni segretario generale dell'Unione Battista inglese, uomo dotato di qualità straordinarie di tatto e di governo e animato d’ardore per la realizzazione della Unione delle Chiese. Egli sente più vivamente che ogni altro « leader » di libere chiese, che il movimento «Non conformista » ha combattuto lungo la storia quella stessa lotta che ora la democrazia inglese e francese sta combattendo: la lotta per la libertà di coscienza, via e preparazione alla libertà politica. Egli sa, che l’ora è questa in cui le chiese debbono riconoscere l'unità e l’identità dell’idea che le ha fatte sorgere e le sostiene, con l'idea a Cui s'immolano centinaia di migliaia di vite:
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che in questo bagno di spirito e di sangue, il passato cristiano dovrà incontrarsi con l’avvenire dell'anima moderna: e che l’Europa di domani sarà cristiana, se il Cristianesimo di ieri saprà ravvisare i segni dei tempi, e soddisfare il bisogno di libertà nell'unità.
« I fattori che dividono fra loro le diverse Chiese libere » — egli ha detto ad un corrispondente del «Christian Commonwealth» —sono infinitamente piccoli, paragonati con le grandi càuse che le uniscono. È una strana e ridicola contradizione Che le Chiese pretendano d’insegnare al mondo la fratellanza e la pace, mentre la guerra fra loro è in permanenza ». E spiegò il suo piano di una federazione, nella quale le chiese facciano fruttare le loro forze il massimo possibile, senza sprecare uomini e danaro nel farsi concorrenza: di una federazione, in cui la cooperazione delle chiese, dei ministri e dei mezzi finanziari, sia spinta al massimo grado. Egli crede che la guerra faciliterà un tale compito, sia impoverendo tutte le chiese, e rendendole desiderose di evitare concorrenze e sovrapposizioni, sia suscitando problemi sì ingenti, morali e sociali, da richiedere e provocare la federazione e intima cooperazione di tutte le energie buone dopo la pace, come l’ha già effettuata sui campi e nelle trincee ».
Quanto a intervenire direttamente ad influire sulla cessazione della guerra e la conclusione della pace, il Rev. Shakespeare non ha alcuna simpatia per l'immischiarsi delle chiese nella politica. « Io sono interamente in favore » — egli ha detto — «di un intervento delle Chiese nel senso di scongiurare ogni sentimento e proposito di vendetta, ed ogni animosità personale contro la popolazione tedesca. Ma... la Germania deve espiare il suo delitto, e dare piena riparazione alla nazione che ha offeso e al continente su cui ha fatto cadere un diluvio di sangue, prima di essere riammessa nella repubblica delle nazioni. La pace deve essere conchiusa fra i rappresentanti delle nazioni, e le Chiese non debbono immischiarsene ».
Ma la superba figura del nuovo presidente della Federazione non deve far dimenticare il successo del Congresso medesimo, nè il poderoso discorso del deputato Sir I. Compton Rickett, presidente nello scorso anno, del quale riassumerò alcuni tratti più salienti: « Il lungo regno del materialismo non ha potuto non lasciare tracce anche nelle Chiese. Non è forse vero che noi abbiamo sviluppato successivamente l’aspetto etico del Cristianesimo, a discapito dei suoi insegnamenti spirituali? Il « servizio sociale » è ottima cosa, purché non sia a detrimento della nostra vocazione di ministri dello spirito, di risvegliatori delle anime alle cose divine: l’educare gli uomini e le donne deste, a tale vita, ai loro doveri verso la società, non può essere che un dovére subordinato. La Chiesa non è una società per le riforme sociali: non è come sacerdoti, ma come cittadini che noi dobbiamo trovare Dio nello Stato... Sarebbe quasi impossibile d’indicare un periodo qualunque della storia in cui l’intervento della Chiesa negli affari dello Stato abbia avuto un buon risultato. Nel momento in cui la Chiesa penetra nella sfera della politica, le norme cristiane perdono la loro piena efficacia, ed essa cade sotto altre leggi inevitabili che moderano la vita della nazione. I profeti dell'Antico Testamento erano raramente sacerdoti, anzi erano spesso ad essi antagonisti... Il monachiSmo primitivo prese il partito di esiliarsi dalla vita sociale: ma ciò indebolì la moralità dello Stato. A tutt’oggi, la ri-
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conciliazione fra l’uomo mistico e l’uomo di affari è difficilissima a realizzarsi. Ad esempio, vi sono oggidì ancora dei cristiani che sostengono che la paternità di Dio e la fratellanza umana vengono bruttate dal ricorso alle armi. Essi in realtà riescono ad una negazione della presenza di Dio nello Stato. Per essi, la Divinità si esaurisce tutta nella Paternità, Che non è che una parziale manifestazione della personalità divina. « Paternità » — è vero, — in Cristo, e nella natura qualche volta: ma non è anche vero che « egli curva i Cieli e discende, e che le tenebre sono sotto i suoi piedi? » Il problema di Dio nella natura non è più arduo del problema di Dio nello Stato. Il grande drammaturgo che scrisse il libro di Giobbe, si trovò costretto a lasciar cadere la tenda sull’ultimo atto della tragedia, lasciando il problema insoluto, e noi insoddisfatti. Il macello della guerra non è, dopo tutto, superiore al macello della natura... » Dopo trattato di « ciò che la Chiesa può fare a vantaggio dello Stato », egli si domandò « che cosa lo Stato può fare a vantaggio della Chiesa ». « È difficile insegnare la moralità quando il senso del decoro è reso ottuso dalla promiscuità della vita di una popolazione addensata negli « slums ». È difficile ottenere la sobrietà da persone che conducono una vita incolore e senza risorse, una settimana dopo l'altra, e la cui unica variante è l’ebrezza che la bettola può conferire. La Chiesa deve esigere dallo Stato, che la vita comune sia sana; che le braccia volenterose trovino lavoro...: essa propugna i diritti elementari, la libertà di ogni essere umano di pensare e di esprimere ragionevolmente i suoi pensieri: insomma, essa difende le libertà civili e religiose. Ed essa si presenta allo Stato come amica e consigliera, non come giudice e fonte di divisioni. Non è suo compito di discutere questioni ad es. di diritto elettorale, o di mantenere l’equilibrio fra socialisti e capitalisti: giacché gli uomini di Chiesa, nella sfera politica, sono liberi di esercitare i loro diritti civili. Solo in crisi straordinarie della vita nazionale, è compito eccezionale della Chiesa d'intervenire ». Dinanzi al compito immane che spetta alla Chiesa di compiere, si presenta assillante la questione della divisione di essa in società discordi, e quindi della dispersione delle sue energie! « La Chiesa, nella sua più semplice espressione, è uno strumento dello spirito divino per operare sul Mondo: il suo messaggio è contenuto nel potere redentore di Dio nel Cristo. Ma qui, l'insegnamento si biforca nelle due teorie, sagramentale ed evangelica: ed ambedue fanno appello all’autorità della Bibbia; ambedue hanno l’appoggio della tradizione ed • ambedue possono chiamarsi soprannaturali. Nè le divisione fra esse è netta: anzi, esse sfumano l'una nell’altra: mentre l’eredità, il temperamento, l’educazione, predispongono a preferire l’una o l’altra. L’una ha creato ed esaltato il sacerdozio; l'altra ha difeso le libertà nella comunione cristiana. Non vi è dubbio che la divina grazia opera in ambedue le forme: e la prova è data dall'efficacia di trasformazione della natura umana che ambedue possiedono. Giacché il criterio definitivo resta sempre il: « Li conoscerete dai loro frutti ». Perchè allora non lasciare che sussistano le differènze ecclesiastiche delle diverse chiese, pure unendoci ed aiutandoci l’un l'altro nelle attività pratiche? Una unità organica è ancora molto lontana: forse non si realizzerà mai: e d'altronde, la varietà ha il suo valore, non meno che l’unità. Un’associazione federale, è l’unico movimento pratico verso una più intima unione. L’uniformità, per quanto perfetta nelle sue linee, avrebbe pur potuto condurre la Chiesa alla paralisi: mentre l’emulazione che stimola a buone opere ha pure i suoi vantaggi. È l’unità
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J. H. SHAKESPEARE
Nuovo Presidente della Federazione delle Chiese Libere inglesi e Segretario Generale della Federazione dei Battisti d* Inghilterra.
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dello spirito, che Gesù chiedeva quando pregava « che essi siano una cosa sola, come Tu, o Padre, sei in Me ed Io in Te, acciò essi siano perfetti nell’unità ». Quanto è lontana questa unità dalla uniformità organica... Se la Chiesa non fosse altro che l'interprete del passato, il legatario di un momento supremo, lo storico dei tre anni più mara-vigliosi della storia umana, noi potremmo lasciarla in preda a professionisti ecclesiastici ed a teologi. Ma se la Chiesa è invece qualcosa di immensamente più grande, spirante una perenne gioventù, allora essa è l’interprete del proprio passato, ed insieme l’esponente del suo atteggiamento presente. Incedendo attraverso i secoli, vivificata dalla reale presenza di Dio, essa creerà la Storia. Non è alle ricerche teologiche, ma piuttosto all’esperienza personale, che noi chiediamo le prove della nostra fede cristiana: ai miracoli di oggi, più che a quelli del passato ». Delle proposte per un « Concerto delle nazioni europee » o anche dell’intiero mondo civile, enumerò le difficoltà pratiche e sopratutto additò la difficoltà fondamentale nel mal volere delle nazioni come degli individui — pur salutando qualunque tentativo che prepari e affretti il giorno della pace.
Ma ricordò anche che « la pace » che sorpassa ogni comprensione, è quella pace che «giace profonda nel cuore dell’universo, a dispetto delle tempeste cosmiche e del cozzare dei mondi. La pace del Cielo è un luogo di riposo in preparazione ad un Servizio maggiore. Il servo entrò « nella gioia del suo Signore », perch’era pronto ad intraprendere nuovi doveri: e il riposo è tale, solo se alternato con lo sforzo. Il servo fedele che aveva bene governato cinque città ricevè in premio la responsabilità di dieci città. Che la Chiesa predichi pure, con tutti i mezzi di cui dispone, il suo Vangelo di Pace, purché sia quella pace che è un dono del Signore.... »
Nello stesso congresso parlò eloquentemente il Battista Rev. Phillips, su «la guerra e il punto di vista cristiano », deplorando, fra altro, il « Prussianesimo delle Chiese », del quale disse: « Noi abbiamo lasciato che anche in Inghilterra crescesse un tale militarismo, che al dì d’oggi è impossibile per un seguece di Gesù Cristo, di restare fedele al suo Signore. Un pezzetto di Prussianesimo si trova in tutte le Chiese e un pezzetto d’imperatore di Germania in ogni animo. La rivalità è così viva, sia in materia religiosa che nella commerciale, che lo stesso spirito che produce le guerre in Europa, produce gli scioperi nelle industrie, e la lotta di classe nella nazione ».
Notevole, nel discorso del Rev. Gillies, « moderatore » della Chiesa Presbiteriana d’Inghilterra, la critica allo spirito antiquato che persevera tutt’ora nelle chiese, svigorendo la loro efficacia: « Sé non siamo riusciti a impadronirci delle masse, la causa né è, che esse hanno inteso in noi la mancanza di sincerità. Il convenzionalismo della forma, e il compromesso delle formule, ecco la nostra debolezza in passato e al presente. La Chiesa è sovraccarica del fardello del passato, e ne è impedita dal parlare con immediatezza ed efficacia, rispondendo ai bisogni del presente. Una gran parte della nostra predicazione è falsa, nel senso che essa manca di contatto con la realtà. Se vogliamo che la nave resista alla tempesta dobbiamo alleggerirla: dobbiamo sottoporre a revisione i nostri « credi » e semplificare le nostre forme. Dobbiamo contentarci di predicare il Cristo, senza teologizzare intorno a Lui »,
Altri oratori nei diversi giorni del congresso, trattarono dei problemi più urgenti del momento presente, in rapporto all’attività delle Chiese. Interessante fu il resoconto
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dèi segretario generale della Y. M. C. A. (Associazione cristiana della Gioventù) delle attività dispiegate dai giovani membri dell'associazione in molteplici direzioni a beneficio spirituale dei combattenti. Sarebbe desiderabile che l’esempio delle loro iniziative fosse tenuto presente dalle associazioni affini d’Italia, e dai circoli giovanili aderenti a libere chiese cristiane, qualora anche per l'Italia suonasse l’ora in cui come ha detto il Poeta « Beati coloro che più hanno, perchè più potrenno dare alla Patria ». In generale si può osservare con compiacenza, che la tendenza liberale si è espressa nel congresso delle « Chiese libere » come veramente liberatrice e unificatrice. Non tanto lo spirito di tolleranza delle divergenze e la visione dell’urgente bisogno di cooperazione hanno avuto il merito dell’operatosi ravvicinamento e del passo decisivo verso la federazione, quanto il senso, e in molti la visione, della relatività di molte forme e formule a cui pure tanti « churchmen » tutt’ora aderiscono tenacemente, come « fondamentali ed essenziali ».
Dal congresso di Manchester si è distaccata nétta la conclusione che già l'Arcidiacono Lilly proclamava al congresso delle religioni in Berlino, che cioè, la base per l'unità religiosa non può essere fornita che dal cristianesimo modernista.
Giovanni Pioti.
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PERI5G/0VRA
DELL'ANIMA
LA CULTURA DELLA VITA INTERIORE(,)
Nel campo della teologia o delle questioni sociali sono necessarie certe conoscenze tecniche preliminari per capire gli oratori. Ma quando si tratta della vita interiore sembra Che ogni anima sia posta all'inizio di una via per la quale si può slanciare a perdita d’occhio. Davanti a lei, come davanti agli aviatori, si estende lo spazio libero all’infinito. Essa ha il fremito dell’ignoto, dell’illimitato.
I. Gli ostacoli alla cultura della vita interiore.
Ih tutti i tempi, la cultura della vita interiore ha incontrato degli ostacoli d'ordine generale. La « parabola del seminatore » di Gesù ne è la dimostrazione più nota.
La pressione degli affari o del lavoro quotidiano ha sempre moltiplicato le spine intorno al germe nascente. La fatica delle madri di famiglia preoccupate da mille pensieri divergenti ha sempre privato di raccoglimento milioni di donne; e le abitazioni sovra popolate non hanno mai permesso la solitudine a innumerevoli creature umane. Si è sempre dovuto fare i conti colla pigrizia che distoglie dalla preghiera, perchè questa richiede uno sforzo di volontà, esige che risaliamo una corrente. Infine, il peccato ha sempre un muragliene massiccio tra l’anima nostra e il raccogliemento. (*)
(*) Osservazione preliminare. — Per una pianta artificiale non v’è cultura possibile; com'è stato con ragione osservato, ogni cultura suppone un germe vivente (in questo caso, «Cristo in nói»). Inoltre, ogni pianta è determinata, in questo senso: che la cultura non ne cambia la natura. Per esempio, recenti esperimenti hanno modificato il cactus; lo si-è spogliato dei suoi aculei, lo si è reso capace di resistere al freddo ed è diventato commestibile. Eppure è rimasto cactus. , .. .
Un amico mi scriveva: «Non dipende da noi di determinare qual sorta di pianta saremo, ma soltanto di diventare una buona pianta, dalla specie alla quale apparteniamo. Su questo punto gli errorison frequenti; un tale che sarebbe diventato uno squisito ortaggio si spossa a diventare uno sterile arbusto; tal altro destinato a prendere le proporzioni d’un bell’albero, si accontenta vilmente di vegetare».
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« Tutta la disgrazia degli uomini, diceva Pascal, viene da una cosa sola, cioè di non saper rimanere quieti in una stanza». Un ingegnere mi confessava che, prima di aver trovato il secreto della pace, faceva in modo di non mai rimanere a tu per tu con se stesso; in viaggio comprava giornali in numero sufficiente per essere al riparo da ogni pensiero personale. E tutti quanti abbiam visto di quei poveri agitati i quali dopo aver divorato il loro foglio di carta senza saziare — s’intènde — la loro fame spirituale, traggono dalla loro tasca un mazzo di carte. Essi si sono premuniti in anticipo contro il pericolo di ascoltare la loro coscienza, di udire Dio.
Ma non ho l’intenzione d’insistere sugli ostacoli d’ordine generale che hanno sempre nociuto al raccoglimento; vorrei piuttosto richiamare l’attenzione sugli ostacoli speciali dell’epoca nostra e di cui l’influenza nefasta si aggiunge a quella che già facevasi sentire, nel passato, a detrimento della vita spirituale.
Notiamo anzitutto la tirannia di quel maraviglioso meccanismo che si chiama : orologio.
Ho udito un ispettore rivolgere questo rimprovero ad un conduttore di tram elettrico: « Siete in anticipo di un grosso mezzo-minuto! » Gli orari delle strade ferrate ci hanno foggiato, in questa divisione degli istanti, una mentalità sconosciuta ai nostri avi. E mentre noi tritiamo il tempo, divoriamo lo spazio in bocconi sempre piò enormi; lettere e cartoline ci piombano addosso da tutti i punti dell’orizzonte, le suonerie del telefono turbano l’intimità delle nostre abitazioni, gli automobili sopprimono le distanze, e gli areoplani si slanciano verso il cielo. E chi non sa quanto il va e vieni dei viaggi sia funesto al raccoglimento?
Questa universale trepidazione esterna è aggravata da una trepidazione mentale, i cui sintomi più caratteristici sono la lettura febbrile dei giornali, delle riviste, non ancora terminata quando già l'ultima edizione viene a cacciare la precedente. E che pensare di queirincredibile facilità a correre di conferenza in conferenza, a immagazinare nozioni che s’accumulano nel cervello come delle balle di merce in un deposito ferroviario?
Si aggiunga che il regime economico della società presente, alimenta, in fondo alle anime, la fonte avvelenata d’uno spavento cronico. Il « ciascun per sè » d’una concorrenza sfrenata, prolunga il regno del terrore. Chi è sicuro del domani? L'ossessione della ricchezza molto spesso altro non è se non una forma dell’incubo della povertà: si vuol salire, arrampicarsi ad ogni costo, spingere innanzi a sè i propri figli perchè si sta sopra una china sdrucciolevole, sopra un terreno franoso che rotola verso l’abisso. Si ha paura degli altri, si ha paura dell’avvenire. E questo secreto spavento impedisce, da noi, lo sbocciare delle facoltà superiori; esso mantiene una temperatura polare, che è mortale pei germogli.
Siamo imprigionati nei ghiacci; gli spiriti sono schiavi. Chi è libero al giorno d’oggi? Chi è libero di esprimere tutto il suo pensiero, di dare tutta la sua misura, nella chiesa o fuori della chiesa? Quanti sono coloro che non dipendono da altri per i mezzi da cui traggono il loro vivere? E fra quelli che posseggono la ricchezza, quanti sono coloro che ardirebbero rischiare la perdita di un bell’affare, d’una eredità probabile, o di una vantaggiosa unione matrimoniale, parlando con una perfetta sincerità di argomenti religiosi o sociali? Il raccoglimento, stato di silenzio interiore, atto di ubbidienza alla
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Verità d'oggi e di domani, è impossibile senza l'atmosfera di una libertà illimitata. Quando adunque i cristiani si preoccupano della questione sociale, quando preconizzano, invece della lotta per la vita, la cooperazione per la vita, essi servono gl’interessi dell’anima nel mondo intero.
Tra gli ostacoli moderni al raccoglimento, citiamo ancora una reazione violenta, e che rischia di oltrepassare la misura, contro lo spirito monastico. L’ascetismo è quotato male, anche nei nostri circoli religiosi. La voga è per « l’Azione buona », per la costruzione della Città futura, per lo stabilimento, sulla terra, del Regno di Dio. Le più moderne confessioni di fede delle chiese evangeliche si sono arricchite di quel grande ideale dei profeti.
E non si tratta soltanto di « cristianesimo sociale, » nel senso specifico di questa parola. Dovunque sbocciano le società di evangelizzazione e di missione; i cristiani vogliono avere le loro società anti-alcooliche, le loro società per l’arbitrato internazionale. Ogni virtù privata avrà tosto la sua lega: si è fondata una Lega della sincerità; un’altra per la cortesia con tutti... E ogni Lega ha il suo presidente, il suo segretario, il suo cassiere, il suo statuto, il suo regolamento, le sue sedute a date fisse. Quante ore inghiottite! È su questa via, io me lo domando, che si deve proseguire per trovare il raccoglimento?
Ciò che nuoce anche, oggi, alla vita interiore è il sentimento molto cristiano e molto acuto, che il comodo degli uni è ottenuto al prezzo della pena degli altri. Alla scuola del Cristo, e più meditiamo sul significato sociale del suo abbassamento, noi prendiamo in disgusto i nostri privilegi. Quando un cocchiere sta a cassetta mentre i suoi padroni sono in chiesa, o quando la cuoca lustra di buon mattino le scarpe della famiglia mentre il capo della casa fa il suo culto personale, non possiamo sfuggire alla conclusione che il raccogliemento è un lusso rifiutato al maggior numero. E ne abbiamo la coscienza oppressa a tal punto che saremmo capaci di lanciarci, a corpo... e anima... persi, nell’attività disinteressata; tale un Wilberforce, l’emancipatore degli schiavi, al quale si chiedevano notizie della sua anima e che rispondeva: « Non ho tempo d’occu-parmene! ».
Non Ci arrendiamo a quella vertigine dell’immolazione totale: Gesù stesso, per prepararsi all'azione intensiva, passava delle notti in preghiera. Allorquando la tempesta è scatenata e delle grida di angoscia arrivano sino a noi, vorremmo lanciare qualche barca nelle tenebre, così a caso... A che prò? Accendere il faro sarà un atto più efficace. Del pari, quando prendiamo il tempo di raccoglierci in Dio, rassomigliamo al vigile solitario, nella lanterna del faro, il quale toglie dal riflettore la polvere che lo renderebbe meno luminoso. Questa è attività sociale.
Ci si stupirà forse che io, tra gli ostacoli moderni al raccogliemento, non mentovi il dùbbio intellettuale. La ragione è che il dubbio intellettuale non è affatto contrario alla preghiera. Vinet diceva: « Non vi sono che esseri disgraziati i quali non abbiano mai dubitato ». E soggiungeva che l'essenziale era di possedere « quella certezza dell’anima Che, senza risolvere tutti i dubbi, li porta via ». La vita interiore è, in una larga misura, indipendente delle difficoltà d’ordine filosofico © scientifico sollevate dal movimento del pensiero moderno.
Ma essa non è in alcun grado indipendente dal dubbio morale, cioè da una certa
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intima attitudine d’incertezza, di esitazione torbida riguardo àgi’ imperativi della coscienza e delle intuizioni spirituali fondamentali.
Quello che nuoce, appunto ai giorni nostri, alla cultura della vita interiore, è lo spirito critico, quello spirito di analisi senza fine e di morbosa introspezione di cui è sàtura l'atmosfera e che a nostra insaputa respiriamo. I minatori, risalendo al sole « sputan nero »; del pari, il nostro respiro soffia su ogni cosa l’impalpabile pulviscolo della critica.
Si giunge persino al punto di analizzarsi nell’atto della preghiera; e certi psicologi religiosi mandano dei questionari agli uomini di fede per sapere i particolari delle loro impressioni fisiche, delle loro concezioni intellettuali e delle loro emozioni morali allorquando sono prostrati davanti all’Eterno.
II. Rimedi al difetto di raccoglimento.
Queste sono alcune delle potenze all’opera fra noi per lottare contro la vita interiore. Non bisogna dunque stupirci che la generazione nostra sia in preda al supplizio della sete, la sete di raccoglimento. E con questa ragione è in parte spiegabile il buon successo di certe forme nuove del sentimento religioso. I teosofi ad esempio — quei buddisti cristianizzanti, i quali ottengono vere e proprie conversioni a Dio, i quali compenetran© di austerità e di armonia delle frivole esistenze — devono le loro vittorie spirituali al fatto ch’essi insistono con energia sulla funzione del meditare, dello stare in silenzio. Gli « scientisti cristiani », discepoli della Signora Eddy, i quali hanno guarito per fede tante anime e tanti corpi, devono i loro meravigliosi trionfi a l’interiorizzazione della pietà, alla pratica della preghiera non formulata in parole, condensata in un atto di comunione collo Spirito immanente. D’altronde è per mezzo di pratiche di questo genere che i mistici di tutti i tempi e particolarmente i Quaccheri, quei cavalieri della spiritualità pura, hanno reso « Dio sensibile al cuore » per milioni di creature umane.
Anche al difuori delle Chiese e delle sette filosofico-religiose, si sente il bisogno di un ritorno alla vita profonda. Lo stesso Jaurès, il campione dell’attività sociale, esclamava alcuni anni fa in un immenso comizio popolare: « Bisogna combattere la frivolezza dello spirito, la leggerezza dello spirito che si sperde nella moltitudine degli avvenimenti o delle impressioni superficiali, e che non si raccoglie per ordinare le prorpie idee. Rischieremmo di vedere sommersa la nostra individualità se non compiessimo del continuo uno sforzo per riaffermare noi stessi, per concentrarci, per organizzarci, per prender contatto coll’universo senza perdere l'intimità profonda del nostro pensiero e della nostra energia ».
Dà parte sua la filosofia del movimento sindacalista compie un seri© sfòrzo di educazione individuale; si è stanchi del marxismo materialista e delle sue facezie sulla morale. Si capisce che l'avvenire appartiene a delle personalità. Di recente la lega antialcoolica dell’« Oratoire » ebbe occasione di entrare in relazione con un delegato di una lega analoga organizzata fra gli operai di Parigi ; avvemmo in questo modo la soddisfazione di far la conoscenza di un giovane di 24 anni che non beveva nè fumava ed era segretario d’un sindacato alla Camera del lavoro. Orbene all’età di 18 anni egli
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non sapeva nè leggere nè scrivere. Ecco dunque, nel mondo rivoluzionario, dove s’introducono tanti arrivisti e bevitori, un notevole esempio di energia, di cultura personale e di disciplina volontaria.
Per noi, discepoli del Cristo, la questione del raccogliemento è di primaria importanza. Cerchiamo alcun! rimedi al difetto dì raccoglimento di cui soffriamo.
E anzitutto diamo alla poesia il posto che le spetta in ogni vita bene equilibrata. Io non intendo per « poesia » l’arte della versificazione ma l’atteggiamento interiore che i veri poeti manifestano all’esterno colla cadenza del ritmo verbale e che gli alti uomini esprimono, senza rima, colla cadenza dei sentimenti, coll’accento e la tonalità di una condotta armoniosa.
Un esempio chiarirà il mio pensiero: ho ricevuto poco fa una lettera dalla quale stralcio il brano seguente: « La bellezza! Essa nel mondo esterno è visibile, essa risplende ad ogni svolta di strada. Ricordo una piccola graminacea argentata che ha durato per delle settimane sull’orlo dei campi d'erica, lungo un viottolo che percorrevo due anni or sono. Credo che non la dimenticherò mai. Nel mondo morale, la bellezza è sparsa ovunque, ma in modo meno ostensibile; tocca a noi svincolarla dagli esseri e dalle circostanze e di produrla in luce per trasfigurare gli esseri e le circostanze... Bello o brutto? Le questioni per me, si pongono sempre più in questo modo. In fatto di regola di condotta, ciò mi pare estremamente semplice e pratico. Bello, poetico, evangelico: è la stessa cosa. Ringrazio Dio di avermi fatto capire la vita sotto cotesto aspetto ».
Voi sentite a qual punto la poesia, così definita, sia lungi dalla semplice letteratura o dal dilettantismo. Pur ciò non significa affatto Che sia cosa indifferente negligere la lettura dèi bei versi. Troppo spesso, ahimè! i poeti latini contemporanei consa-' orarono il loro talento a cantare la lussuria, a bestemmiare, o a gemere sulla vanità della vita; se essi possono, in certo qual modo, insegnarci a contemplare la natura, sono incapaci d’insegnarci ad interpretarla. In Inghilterra, invece nel sec. xix, coi due Browning, il Tennyson e altri poeti geniali, troviamo opere che sanno unire al pensiero più ardito è alla forma più nobile, un’autentica ispirazione cristiana altrettanto pura quanto modesta. Posso render testimonianza che il miglior antidoto allo spirito critico e altezzoso consiste nell’intimità rispettosa con quelle grandi anime.
Soggiungo che, per mantenere in£noi il sentimento del mistero, e quel perpetuo stupore davanti all’universo (senza il quale, diceva Aristotile, non c’è filosofia) nulla è così utile come la scienza naturale. Un manuale di astronomia letto di fronte al cielo stellato, un trattato di geologia, i libri del Fabre colla descrizione dei costumi e delle metamorfosi di alcuni insetti, oppure un fiore esaminato colla lente, col suo polline e i suoi semi portatori di avvenire, organi dell’evoluzione creatrice — ce n’è più che abbastanza per nutrire il nostro cervello, per dar del peso alle nostre preghiere, per rinnovare la nostra teologia.
Ascoltando il silenzio del mondo, l’anima nostra a poco a poco diventa silenziosa. Cantare un inno predispone meno al raccogliemento che uno sguardo verso le mute co-
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stellazioni o nel mistero di un nido. È la Chiesa o la scienza che ha trasformato la nostra nozione dell’Eterno? La Chiesa, che parlava del continuo di Dio, ci ha fatto sapere di Lui, in questi ultimi secoli, assai meno di quel che ci abbia rivelato la scienza, stimata irreligiosa. Com’è stato con ragione osservato, non è un concilio che ha detronizzato il nostro globo dalla situazione privilegiata che la tradizione ecclesiastica gli aveva fatto nello spazio, al centro del sistema solare; per mettere al posto che gli spettava il nostro pianeta è bastato che uno studioso solitario, puntando il suo canocchiale verso le stelle, esplorasse, muto, il firmamento. Sulla terra stessa, l'uomo dominava superbo e disprezzava tutto ciò Che non èra lui; nuovo Melchisedek, ei si credeva « senza padre nè madre, senza genealogia » in mezzo alla moltitudine innumerevole delle forme viventi. E chi dunque l’ha rimesso al suo posto, nonostante i teologi e i principi della Chiesa? Qualche geologo inosservato il quale, su per greppi solitari, riarsi dal sole picchiava col suo martello delle rocce vecchie di parecchi milioni d'anni.
Ma la natura non basta al nostro cuore, alla nostra coscienza. Se siamo veramente preoccupati di sviluppare in noi la vita interiore, apriamo la Bibbia. Delle ricchezze morali ch’essa rinchiude, è impossibile di dire: « La teoria è bella, ma la pratica è illusoria » perchè essa non ci pone di fronte ad un ideale astratto. Tutte le « parole » che vi si trovano sono state « fatte carne »; esse tutte sono state incarnate in personalità storiche; i salmi, le profezie, gli evangeli, le epistole, hanno attraversato delle anime prima di venire alla luce. I libri della Bibbia sono come delle alluvioni successive, depositate, nel corso dei secoli, da grandi correnti spirituali. E allorquando scaviamo quelle stratificazioni secolari, scopriamo le esperienze religiose che dormivano in esse, come i raggi solari nel carbon fossile, ma che possono sprigionarsene e produrre nuovamente luce e calore.
Certo, non crediamo più al domma dell’ispirazione materiale, letterale dei libri santi; e certi cristiani se ne impensieriscono: la Bibbia non appare loro più abbastanza massiccia, essa si sgretola, si polverizza! Vani timori. Rassicuriamoci coll’esempio dei fisici. Oggi, essi insegnano che, in ultima analisi, la materia è impalpabile, imponderabile, è energia pura. Ciò non c’impedisce di piantare dei chiodi nel legno o di far correre delle locomotive sulle rotaie. Eppure non c’è impalcatura sotto ”o?Ìro Pineta: esso gravita al disopra del vuoto insondabile, mantenuto da invisibili... leggi. Se dunque la Bibbia riposasse solo più sullo Spirito dal quale solo essa trae la sua sostanza e il suo valore, dove sarebbe il pericolo per la fede?
I dotti ci narran la formazione dei libri sacri nel corso d'una lunga storia; essi ci fanno vedere che la Bibbia, come il nostro globo, ha attraversato uno stato nebuloso prima di giungere alla sua forma attuale. Ma ciò non altera il fatto ch’essa, attualmente, è concreta, solida. Solo che, sotto là scorza delle parole, come sotto la crosta terrestre, irradia un focolare di calore ardente; lo Spirito, da cui la Bibbia è.emanata, ribolle sempre; lo si ritrova non appena si scava. Quello che ci commuove, ad esempio, nelle epistole di S. Paolo, sono forse gli argomenti rabbinici ch’egli è solito esporre? Se così fosse, noi leggeremmo con uguale interesse gli scritti dei rabbini contemporanei dell'apostolo. No, ciò che tocca la nostra coscienza, e ci afferra nei precordi, è la vita spirituale, la fiamma divina di S. Paolo.
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E del pari, dietro la lettera degli Evangeli, quegl’immortali manuali di propaganda missionaria, vi sono i cristiani che li hanno redatti, mossi da un irresistibile entusiasmo. E dietro quei cristiani stessi, che sono una flora inattesa, sovrannaturale, (sbocciata sul terreno del paganesimo greco-romano!) vi è il grande Misterioso della storia umana, il grande Enigmatico, il Cristo.
Gli è così, che, per mezzo della pratica assidua, fervida e rispettósa della Bibbia, siamo perpetuamente posti sotto l’influenza dello Spirito.
Ed ecco perchè, pur esaltando la tradizione scritta, non disprezziamo affatto la tradizione vivente. Essa è cara ai cattolici; ma anche gli evangelici non si debbono privare della forza che irradia dalla Chiesa per la cultura della vita interiore. Si corre il rischio d’indebolirsi spiritualmente perdendo il contatto con coloro che respirano nell’atmosfera dello Spirito.
Ciò che troppo spesso manca alla Ecclesia è Yecclesiola: il culto pubblico non è completato dalla piccola adunanza spontanea per lo studio biblico o per la preghiera; non v’è alcun momento disponibile per la manifestazione delle individualità spirituali. Allora, il ministro di culto ha il monopolio dell’insegnamento religioso; è pel suo tramite che le anime devono edificare. Che, nella sua chiesa, una qualche rivelazione sia stata nel corso della settimana concessa a questo o a quest’altro figliuolo di Dio, che delle vittorie siano state riportare, delle certezze conquistate, delle liberazioni ottenute, delle ineffabili esperienze realizzate, nessuno ne saprà mai nulla.
Il culto liturgico, nelle forme tradizionali, ha la sua ragion d’essere; ma venga esso almeno completato con dei culti intimi in cui il ritmo delle emozioni non sarà regolar© in anticipo. Religiosamente parlando, le nostre chiese non conoscono guari altro che il regime àe\Y assistenza, dell'elemosina, che paralizza le anime, le mantiene in uno stato di minorità perpetua, le condanna alla mendicità. Quanto più nobile e più ricca, la nozione della chiesa, mutualità spirituale, in cui le esperienze di ognuno profittano a tutti! (1). Le vere esperienze della grazia divina sono il più prezioso tesoro dell’umanità; esse non sono così frequenti che la comunità possa, impunemente, serbarle sotto il moggio. Vien da fremere pensando a tutti i raggi di luce sovrannaturale che le chiese soffocano sotto lo spegnitoio.
Per fortuna questo stato di cose non è universale; anche là dov’esso esiste si può trasformare.
È una missione che incombe precisamente a coloro che hanno sete di vita interiore: perchè, nella Chiesa, l'ultima parola appartiene sempre allo Spirito, che appunto ha suscitato la Chiesa. « Le fonti nascoste da cui è scaturito il potente fiume del cristianesimo sono le botteghe e i laboratori in cui l’operaio annunziava il messaggio all’operaio, in cui lo schiavo lo sussurrava all'orecchio dello schiavo ».
E questo Spirito è ancora attivo nella cristianità; esso ci riconduce, del continuo, dalle forme e dalle formole alla realtà spirituale. Esso elabora vasti movimenti religiosi, di cui l’influenza è silenziosa come l’alba e di cui niuno può segnare il punto di partenza, i contorni ed i limiti. È un soffio sottile, un soffio di primavera, un cam(1) La fòrza di Wesley, il Suo titolo di gloria, è l’aver messo in luce codesta verità..
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biamento di clima: ad un tratto appaiono i germogli, le anime sbocciano, i frutti della santificazione e del misticismo evangelico maturano lentamente...
È la « vita nascosta con Cristo in Dio », scriveva l’apostolo. E, difatti, la comunione col Cristo ci permette d’armonizzare, in una sintesi pratica, i benefici della tradizione scritta e quelli della tradizione vivente, le benedizioni della Bibbia e della Chiesa.
La comunione cól Cristo o con lo Spirito — ( « Il Signore, è lo Spirito » ) — si realizza colla preghiera, coll’orientamento interiore che la preghiera assicura, di cui essa è altresì l'espressione.
Di che preghiera si tratta? Di quella che è fusa nello stampo dell’orazione domenicale. Il « Padre nostro » occupa un posto d’onore nelle liturgie, ma esso inspira abbastanza il culto intimo e personale di coloro Che pregano in secreto. Gli stessi cristiani che danno un’importanza solenne alla Comunione, perchè Gesù ha detto: « Fate questo in memoria di me! » trascurano l’orazione modello di cui il Salvatore ha detto: « Pregate così! ».
Eppure, quale quadro offre essa alle nostre richieste! Uno dei padri spirituali di Fallot, l’industriale Dieterlen, autore d'un incomparabile opuscolo sulla preghiera, soleva dire: «Di solito, il Padre Nostro mi basta».
Che cosa di fatti, non vi trovava egli! Ascoltate queste semplici parole: «Tu chiedi: Padre nostro, dacci, perdonaci, liberaci! — Dai-/#? Perdoni-/#? Liberi-/«?... Gesù Cristo dice: Della misura che avrete misurato agli altri, sarà ugualmente misurato a voi... Gli è perchè ciascuno chiede solo per sè, che tutti non hanno nulla; apri il tuo cuore alle pene altrui, e tosto l’amor di Dio t'invaderà... Più si penetra nel privilegio della rovina umana, più si è in Gesù Cristo, più si è vincitori ».
Se pretendiamo, seriamente, coltivare in noi la vita interiore, bisogna che pratichiamo la « preghiera del Signore ». E quale è dessa? .
Sulla terra come in cielo — il tuo nome eia santificato, il tuo regno venga, la tua volontà sia fatta!
Il tuo nome... quello di « Padre ». Ma come credere alla paternità celeste, senza la terrestre fraternità? Ecco perchè bisogna che il regno dell'amore si stabilisca quaggiù. E non si stabilirà senza la collaborazione di tutte le volontà filiali alleate colla volontà paterna... Il Fiat vohmtas non è solamente un atto di rassegnazione. I misteriosi disegni dell’Eterno, anche quando c’infrangono, sono acclamati, esaltati adorati dal figliuolo di Dio che ha la visione dell’insieme.
Ed è in nome di questa visione ch’ei reclama le forze necessarie per l’adempimento della sua missione allo stesso tempo individuale e mondiale: « Dacci il nostro pane! » — ecco per il presente. « Perdonaci! » — ecco pel passato. « Liberaci ! » — ecco per Yavvenire.
In vista della preghiera così compresa, vai la pena di disciplinare la propria vita. Questo consiglio si rivolge a tutti, ma più particolarmente ai ministri di culto, poiché la fiducia dei loro fratelli li ha scelti per esplorare il campo spirituale e prenderne possesso. Può essere utile di serbare certe occupazioni, certe letture, sia pel mattino, sia pel dopopranzo, sia per la sera. D’altronde il miglior uso del tempo è quello che si
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trova da se stesso; non si potrebbe nè respirare, nè mangiare per altri, non si potrebbe maggiormente redigere un programma di cultura interiore pel suo prossimo.
Quando andiamo e veniamo, e che il nostro spirito vagabonda, è bene di ricondurlo dalla periferia al centro offrendogli qualche argomento, di meditazione serbato per quel momento; è bene recitarsi le parole di un inno sacro, o dei passi della Scrittura. Perchè non portare con sè un Salterio, un Nuovo Testamento, o qualche biografia cristiani, antica o moderna, fonte di pure inspirazioni?
Quelli che sono incaricati del ministero della parola — ecclesiastica, o anche laica, (nella chiesa, nella scuola o nella famiglia) —sono esposti ad un grave pericolo: quello d'esprimere delle verità Che vengono formulate senza essere praticate. L’intelligenza scherza col pensiero, il quale non si concretizza nei fatti. È una specie di dissolutezza intellettuale. Con quel verbalismo ci si vuota, ci si esaurisce, ci si sterilizza moralmente.
Ma il rimedio è il raccoglimento. Il silenzio è per l’anima ciò che la continenza è pel corpo: una forza, una disciplina, un nutrimento.
E non ci affrettiamo ad affermare che il silenzio interiore è un lusso proibito ai poveri. Quante persone, occupatissime, trovano il tempo per divertirsi! Ora vi è distrazione e distrazione. Il biografo del missionario Adolfo Mabille scrive: « La sola ricreazione ch’egli si concedesse, erano, pochi minuti di raccoglimento e di preghiera dopo il suo pasto di mezzogiorno ».
Termino col racconto d’un’esperienza personale.
Poco fa, al principio della mattinata, sono salito sulla collina che domina Livron. Nelle viuzze strette, l’aria tepida non era mossa da un solo soffio; ma via via che salivo ed emergevo al disopra della valle della Dróme, un vento fresco e puro, che veniva dalle Alpi, mi colpiva in volto. Non una nuvola correva nel cielo, perfettamente azzurro; e quel soffio d’aria vivo, leggero come uno spirito, sembrava portato dai raggi del sole attraverso un’atmosfera cristallina. Era qualcosa di delizioso e di misterioso, che m’apparve come un simbolo delle esperienze riservate all'anima che prega.
Oh! ch’essa si esponga tutta intera, ogni giorno, ai soffi dall’Alto! Ch’essa rinnovi del continuo le sue forze! Ch’essa vada a cercare delle certezze fresche, invece di trasportare quelle di ieri o dell’altro ieri, di già seccate...
Si discute per sapere se la preghiera sia istinto oppure abitudine. Essa è meglio di ciò, essa è ispirazione. Essa si adatta, perpetuamente, e d’ora in ora, alle circostanze sempre varie e variabili della vita, la quale non si ripete mai. L’ha detto Eraclito: non si scende due volte nello stesso fiume, poiché l’acqua scorre e scompare. Neppure s'incontra due volte lo stesso uomo. Non si apre due volte la stessa Bibbia. Noi cambiamo senza requie, l'evoluzione è ininterrotta. Bisogna dunque « pregare del continuo» per adattarci, spiritualmente, ai quadri, agl'incontri, agli avvenimenti imprevisti. Quando l'autore sacro ci dichiara che «Gesù Cristo è sempre lo stesso », egli afferma con ciò che Gesù Cristo è sempre nuovo; egli è colui che arriva sempre, colui che picchia sempre alla porta dei cuori e dei secoli come un ospite inatteso: « Ecco, io sto alla porta, e picchio! ».
Aprir l’uscio allo Spirito, tale è il secreto della vita interiore
Assemblea di Livron, 4 a 7 maggio 1909.
W. Monod.
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RENATO SERRA
...Rivediamo ancora la sua figura alta e dignitosa, dall’andatura lenta, le braccia abbandonate, che quando s’appressava vi fissava con gli occhi cerulei e vi sorrideva del suo chiaro sorriso che illuminava tutto il suo volto aristocratico e imprimeva a quella sua gravità molle e cadente una dirittura e una agilità ravvi vatrice che si manifestava dalla parola sicura e precisa anche nella semplicità dialettale, a tratti lenta e scultorea, a tratti quando salisse a maggior attenzione per l’argomento o per la persona che avesse davanti, fluida e ricca di calore, armoniosa di espressioni e di toni caratteristici in quella sua voce velata di dolcezza e di malinconia.
Caro nostro Renato! Fin da ragazzo noi che gli fummo compagni di scuola sapevamo dei prodigi dell’ingegno e della memoria, della sua insaziata avidità di leggere, di studiare, di conoscere. Una curiosità e una sete che gli rimase sempre anche quando pareva, alla gente che bada all’esteriore, in quel periodo tra la giovinezza e la maturità incipiente, che la dissipazione e la trascuratezza avessero inaridito il suo ricco genio di scrittore e di studioso.
Sapevamo che a quindici anni leggeva le opere maggiori di pensatori e di letterati — gravi per gli ingegni e le età più mature— che all’università pur prendendo parte a tutti i deplorevoli trascorsi e disordini della compagnia gogliardica, pur trascurando esami e compiti particolari, godeva la stima e la predilezione di Carducci e alla laurea con sorpresa di tutti.
si mise in pari e sostenne un cumulo di esami e ottenne il massimo onore.
Ma l’ammirazione crebbe e si fece consapevole fierezza di amici, di concittadini e di italiani quando anche i dotti e il pubblico colto conobbero i suoi primi lavori, strappati — a lui cosi rifuggente dal farsi conoscere, cosi sicuro e pago dei suoi doni di sensibilità artistica, così sdegnoso delle artificiose e celebrate vanità sonore — dalla pressione degli amici.
E Benedetto Croce seppe di lui e venuto a Cesena lo avvicinò e ne fu preso di grande stima; e il gruppo degli scrittori della Voce lo rivelò e lo celebrò per la purezza cristallina della lingua, per l’agile nerbo dello stile, per la originalità e la schiettezza e la libertà dei suoi giudizi, arditi e pur ornati di urbanità e di decoro, nutriti di modernità e di sapore classico.
E in questi ultimi anni lo studioso e l’artista aveva allargato e arricchito la sua erudizione, affinato e equilibrato la sensibilità estetica.
Queste virtù di scrittore eletto, di poeta della critica, di finissimo artista si rivelarono e parvero ottenere il miracolo della comprensione anche dal grosso pubblico nelle indimenticabili commemorazioni che di Pascoli e di Carducci tenne nel teatro comunale di Cesena. La vivezza dell’evocazione della più pura anima dei due grandi poeti, l’uno nato in Romagna, l’altro vissuto in familiarità con Cesena, fu di una felicità e di una pienezza incomparabili. Chi vide in quelle sere Renato Serra trasfigurarsi nella commozione lirica e udì nella sua voce una potenza e un suono nuovo di declamazione e sentì raccogliere
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dalla moltitudine presente le vibrazioni della più intensa commozione, ne conserva l’impressione di un’accoglienza trionfale.
Ma chi scrive ama di considerare in Renato Serra più che la qualità dell’artista le doti dell’anima, le virtù dell’uomo che si assommavano in una finezza di sentimento in una bontà delicata e spontanea, che era in lui un dono naturale inavvertito come il respiro.
L’amicizia cresciuta spontanea dalla prima infanzia, dalla scuola, dai giuochi, dagli sports, con chiunque lo avesse avvicinato, fin coi più umili operai, seppe mantenere con il candore direi quasi ingenuo e puro con cui era nata.
E la sincerità e la lealtà del sentimento, la rettitudine nel giudicare, e il rispetto per la libertà e il mistero dell’anima altrui, egli così grande c potente conoscitore di uomini per una mistica facoltà di intuire il più profondo spirito di ogni persona, mantenne sempre con una delicatezza di comprensione e di indulgenza che erano effetto della sua bontà.
Ma questa sua comprensione prodigiosa di ogni stato d’animo, d’ogni sfumatura del sentimento, questa sua facilità di mettersi da qualsiasi punto di vista — così che gli era possibile dare un consiglio efficace a qualunque persona e conoscere degli uomini e delle associazioni, degli istituti e dei partiti, le profonde caratteristiche e le manchevolezze più celate — gli veniva da una tale completezza di sensazioni, da una tale esperienza appagata e stanca e quasi nauseata come di chi avesse vissuto sessant’anni che pareva inaridirgli lo slancio della volontà e del desiderio: gli davano un’aria di tristezza, e un senso della vanità delie cose, una pena per il provato poco valore degli uomini e delle creature per cui pareva immerso in un’onda di scetticismo e in una indifferenza inerte. Gli è che il suo spirito percorso da aneliti di un misticismo inappagato e perennemente inquieto, cui nessuna distrazione e nessuna spontaneità
audace valeva a calmare, cui nessuna sottilità razionale valeva a risolvere, aveva esigenze religiose profonde alle quali invano tentava di sottrarsi col distorne lo sguardo, alle quali non aveva saputo o potuto dare alimento volgendosi alla fonte viva che disseta e rinnova.
Credeva in Dio?
Mai anima umana abbiamo incontrato che avesse più inclinazione a cercarlo e a sentirne il possesso misterioso e vivificante. Egli sapeva che per venire alla luce è indispensabile operare la verità con umiltà e dolore. E il suo intelletto indagatore e la torpidezza delia passione, le oscure correnti che sentiva stringerlo e tentar di soffocarlo nella cecità spirituale, gli impedivano di correre con volontà alata al Padre della vita, della bellezza e dell’amore.
Ma egli si muoveva verso quell’orizzonte.
Caro Renato! Noi sappiamo il travaglio doloroso della sua anima che anelava alla purificazione e alla perfezione morale e se la morte eroica non lo avesse d’un tratto sublimato attraverso il martirio accettato con umile e coraggiosa semplicità, egli si sarebbe liberato da quel torpore accidioso del senso che lo tratteneva, e noi abbiamo l’intima convinzione che sarebbe andato ad altezze di sentimento e di vita religiosa quali non sono che nei santi.
Poiché questo mistico sperduto e anelante aveva l’anima di un moderno S. Agostino, alla cui giovinezza non è un paradosso l’avvicinare la sua.
Noi ricordiamo un lungo commosso colloquio che egli ebbe una sera in nostra presenza con un’anima sacerdotale delle più pure e più apostoliche. Non dimenticheremo mai la vivezza, il calore, la vibrazione della sua parola, la luce e la spiritualità del volto. Il suo spirito raggiava di luce religiosa.
Fu una sorpresa anche per noi.
E ora quell’anima di apostolo ci scrive « della tenerezza pia con cui ha pensato e pensa a Lui che il sacrifizio, in un impeto eroico di volontà, ha purificato e illuminato i».
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È morto a 31 anno, come un eroe «con l’anxma chiara, gli .occhi aperti e ferm in alto ».
Poiché egli ebbe coscienza della fine che l’attendeva e all’ultimo saluto che un candido suo amico gli rivolgeva con il desiderio di rivederlo, crollando il capo sorridente rispose: « Sia quel che Dio vuole! So piegarmi con semplicità e umiltà al mio destino». Destino tremendo e pur glorioso se si pensa che un mese prima sfuggi miracolosamente alla morte per la caduta da un'automobile.
La sua figura é assorta così per l'eternità della giovinezza nella gloria dell’arte, nel martirio per la patria. C.
(Da L'A ¡ione di Cesena del 1® agosto 1915)).
EUGENIO VAINA
Amavo Eugenio Vaina come un figliolo. La mamma, eroica donna, così, come un figliolo al padre, me lo aveva raccomandato e affidato — quante volte! mentre sentiva che « il cuoricino non ne poteva più », com’essa si esprimeva; e io, benché sbalzato lontano dal figliol mio da mille vicende, e nessuna lieta, avevo serbato fede all’impegno preso, non potendo altro, con un affetto che diveniva d’anno in anno più profondo, nutrito com’era di crescente ammirazione per quel ragazzo che diveniva giovine, uomo, sposo, padre, sperimentatore d’idee, conoscitore d’uomini e di cose, rimanendo candido, ingenuo, puro e bello come nella prima età.
Quando matura vasi in Italia l’idea della guerrra lo, seguii nella sua foga eroica dissentendo ma ammirando. Tanto ammirando, che non gli espressi mai il mio dissentire, parendomi che avrei profanato quello schietto e sincero entusiasmo, fatto di realtà e di sogno, io che di sogni non ero più capace. Ma quando la guerra fu scoppiata, sapendolo fra i primi e più animosi sul fronte, tremai. Ogni volta clic capitava
un suo scritto - indimenticabile - sulla Azione aumentava in me un presentimento di morte. Erano pagine di pensiero e di energia, di lotta interna e di esterna febbre, di passione e di speranza, e io non riusciva ad allontanare leggendole un’infinita uniforme tristezza; dopo la firma vedevo, fra le lagrime, scritta sempre una sola parola: moriturus. Mai più deprecato e più ostinato presagio in me che di presagi ne ebbi parecchi in vita mia.
E ora la realtà l’ha avverato!
A.nessuno saprei esprimere il mio animo in questo momento. Vedo spezzata una delle esistenze più ricche, più promettenti, più preziose. Spezzate le speranze mie e di quanti ti conobbero, Eugenio caro. Quello che potevi dare alla patria e alla umanità era il più, di te e del tuo valore non avendo offerto che lievi saggi, pur essendo inestimabili.
Sì, inestimabili.
Quando Vaina parlava attanagliava. Non accennava mai, precisava: pareva incidesse. La parola seguiva l’idea; nitida questa come cristallo, tagliente quella come punta d’acciaio. Mai una oscillazione, mai una sfumatura, mai un tratto senza dominio pieno, senza controllo assoluto
L’indole aveva creato l’abitudine, l’abitudine raffermava e affinava l’indole.
Chi come me conobbe Vaina bambino lo ricorda fin da allora un piccolo prodigio di lucidezza, di perspicacia, di esattezza nel concepire e nell’esprimersi.
La mamma cominciò a condurlo da Firenze su alla Querce che avrà avuto sei anni; eppure per noi maestri c educatori era ogni volta un piccolo avvenimento; e si che si viveva fra centinaia di b'ambini, di ragazzi, di giovani! Ci stupiva. Davanti a quella creaturina tenue, fragile, dai lineamenti delicatissimi, così simili a quelli del Sangiovannino di Donatello (oh, la compiacenza materna!), si passava dalla confidenza tenera a una specie di rispetto riverenziale. Come nell’uomo si conservò sempre il fanciullino, così nel fanciullino già si presentiva allora l’uomo.
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Man mano che acquistava maturità, lo spirito di Vaina acquistava in quadratura: diventava uno spirito geometrico.
E questo avveniva senza detrimento di freschezza. Appunto perché il progresso era in lui veramente progresso, cioè svolgimento di doti felicissime. Edificava sul fondamento che natura aveva josto in lui.
Così avveniva che ogni manifestazione della sua interna ricchezza era e fu stimata preziosissima, quantunque ancora da troppo pochi. Nessuna maraviglia. Non parlava e non scriveva se non possedendo appieno ciò che doveva dire e scrivere. Quindi come parlava poco, così scrisse pochissimo. Ma tutti questi pochi e pochissimi erano definitivi.
Lontano da lui, non l’udii parlare in pubblico mai. Presentii però quello che altri mi riferì, che cioè la sua forma oratoria sconcertava a principio. Invece di parole, si doveva aver l’impressione di un’onda, di un impeto di cose. Idee, fatti, parole, una cosa sola. Non ci si è avvezzi.
Ma i saggi — torno con uno schianto a quel che dicevo dianzi — i saggi del suo tesoro interno furono un piccolo segno, quasi un nulla, verso di quello che ne serbava da espandere.
Quale avvenire, glorioso perchè operoso e pieno di sapienza, lo aspettava e si aspettava da lui!
L’alta politica, fatta, secondo i suoi criteri, di conoscenza e d’esperienza per il suo lato realistico, e di sentimento adamantino del diritto e della giustizia per il suo lato ideale, l’avrebbe certo chiamato. L’alta politica l’avrebbe fatto suo, ed egli avrebbe obbedito al cenno, son certo; ma poi l’avrebbe dominata, sono certissimo.
S’ha pena a dir questo, anche qui fra noi, in Italia, con così pochi credo, che abbiano conosciuto il valore di Eugenio Vaina; s’ha pena: pare di premiere il tono di panegirico; e non è che l’esatta verità.
Chi d'altronde poteva ri promettersi da lui tanto quanto io dico? Aveva accettato di essere un modesto maestro di Ginnasio -- ed era stato, per giunta, lui non riluttante, confinato in Aosta; — e fino agli ultimissimi tempi non aveva osato aspirare
altro che all’insegnamento in qualche Liceo. Dipendeva da modestia, da timidezza (ed era così audace e quasi aggressivo nell’idea! ma, già, l’idea non è noi) da serietà, dal prendere il piccolo ministero didattico come inseparabile da un non piccolo, anzi grandissimo, scopo educativo, che ignora graduatorie, davanti al quale Aosta equivale Roma. Però tutto questo contribuiva a nascondere l’uomo. Bisognava scandagliare e scavare e scovare; allora s’indovinava, allora poi si sapeva. E chi sa, ora ha un pianto e un rimpianto inconsolabile nell’anima. Un altissimo valore è stato abbattuto e disperso.
La quadratura e geometricità spirituale di Vaina non nuoceva punto alla sua affettività.
Se per la mamma sua, santa, forte, eroica ho detto, ebbe un culto di tenerezza infinita; se fu questo culto uno dei fattori dei suoi sentimenti e del suo conseguente agire come cittadino, sotto l’impulso di un immenso dolore familiare nutrendosi un immenso amore patriottico; ma poi con quanti riuscivano a penetrare in lui, a vincerne il riserbo contegnoso, fin ritroso, e ad averne un ricambio la confidenza era di un’affettuosità piena di abbandono e quasi infantile. Quante volte me lo vidi saltare al collo! Nel dolore pareva il bambino che singhiozza sulla spalla della mamma — Vaina! giudicato quasi rigido e marmoreo! — e nella giocondità diventava o ridiventava l’adorabile monello di tanti anni prima, tanto che si finiva per... cacciarlo via, con uno di quegli — oh basta! — che provocano altre pèggio monellerie, provocanti a loro volta scapaccioni e risate.
L’anima tutta era rimasta genuina: qui il segreto dell’equilibrio.
Genuina per purezza.
Vaina valeva egli solo tutte le più splendide apologie della purità della vita.
Oh, la giovanissima donna che fece sua e che rimane a richiamarselo con un tremendo amore immortale, reso immortalmente accorato dalle sue creaturine che egli le ha lasciato e in cui rivivrà il padre.
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il marito, tutto, ella sola, la desolata, potrebbe dire di quale purezza era l’anima, il cuore, il corpo, tutto l’essere del suo Eugenio. Noi s’intuisce.
Anche la sua forza fisica, la sua baldanza, la sua audacia neH’affrontare ogni rischio, nello sfidare ogni momento la morte, nell’ultima fase della sua cosi breve vita, sulle vette del Carso formidabile e lungo le rive dell*Isonzo; anche il suo valore riconosciuto; anche la sua persistente, assillante passione per l’Italia e la causa della sua libertà e dignità; anche la capacità del sacrificio assiduo che egli compiva con piena coscienza di compirlo, della sua rigida, chiaroveggente personalità alla necessità maggiore e imperiosa della disciplina; anche tutto questo aveva egli una ignota coscienza — non è un bisticcio — di doverlo alla sua purezza. Basta per noi de\V Azione ricordarci dell’ultimo suo articolo « Il vigliacco»; il vigliacco per lui era l’impuro, il dissoluto, il solito giovine preda della voluttà e di ciò che essa rende e di ciò che ne segue.
Una parola sola riassume Vaina: nobiltà.
E ripenso, così riassumendone la fiso-nomia, alla sua religione: fu una nobile religione.
Vaina senti come pochi tutti i problemi più ardui moderni, vorrei dire tutto il problema moderno, che non si scinde, non si sbriciola se non per i miopi, e arriva fin sotto alle mura sacre come groppo di tempeste. E passò le sue fasi. Non si dissimulò gli stati suoi intimi. Mentre perdeva dolorava, mentre cercava amava, e perciò cercava. La nobiltà del carattere si traduceva in sincerità. Sincerità con sè stesso, una delle' più ardue e quindi meno comuni.
Come riacquistò la serenità? Con la serenità. Non rise vedendo cadere il caduco, si compiacque di quel che restava in piedi; non s’inebriò di distruzione e di abbattimenti, aspettò che Dio si rivelasse al di là delle apparenze vecchie e nuove. Così la sua religiosità vide egli spogliarsi delle cose marcescibili o morte, rimanendone nudo, schietto, vigoroso e fecondo il tronco.
l’intima midolla radicata nella vita che è complesso d’energie armonico, infrangibile e uno, non nel pensiero solo e isolato, che è frammento d’umanità e di vita.
E che gioia nel graduale ritorno! Pareva l’uomo che si riavvicinava alla terra che ama, che se la vede correre incontro giungendovi da lontano. Sulla riva gli splendeva. premio e conferma il mite, sicuro occhio materno.
Così.
Vaina senti sempre la mamma, anche dopo che fu morta, incuorarlo al bene, al meglio: abbracciarlo con uno sguardo, con un sorriso, ogni volta che aveva da compiere o aveva compiuto un difficile dovere; la mamma che l’aveva impastato di sè. Egli la portava in sè stesso; perciò la rivedeva sempre, la vedeva sempre, era lui. E così la vide sorridergli nel suo ritorno religioso, perchè quella donna, quella madre (ricordo come sentiva di dover diventare più che semplice donna perchè madre, e madre di quel figliolo) intuiva per schiettezza di fede la religiosità vera: perciò col figlio compreso nello smarrimento, col figlio compreso nel ritrovato riposo.
E ripenso il contrasto fra la religione dura infeconda e contraddente della nonna di Eugenio e quella piena d’amore, di giustizia, di coerenza della sua santa mamma.
Il ragazzo che s’avviava a giovine, in cui cresceva quell’ardore contenuto che ne formò una delle caratteristiche, fremeva; a volta scattava; poi si frenava e scappava da me a sfogarsi un poco. Ma anche in quei momenti quanta nobiltà di contegno! Aveva l’anima in mano. Credo non perdesse mai di rispetto alla nonna che riconosceva più che altro preda di vecchi pregiudizi e di vecchie falsificazioni e sofisticazioni religiose.
Dóve però maggiormente ammirai la nobiltà di Eugenio Vaina fu nelle relazioni col padre.
Per quanto severamente lo giudicasse, egli sentiva di rimaner figlio, e riusciva a conciliare inflessibilità e riverenza.
Quando il padre, ungherese, divorziatosi dalla moglie non ostante la moglie, che, per quanto martire, non rinunziava
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al suo diritto, e unitosi ad altra donna, scese in Italia per tentarne l’anima con gli estremi mezzi, dalle blandizie alle minacce, ed ebbe il coraggio di voler imporre la nuova sua donna a .. quel ragazzo, si trovò davanti a una volontà d’acciaio e ne ebbe spezzati gli abili piani strategici fra le mani. Eugenio corse poi, non ostante tutto, ad assistere il padre morente; ma a chi lo accolse dichiarò subito reciso: • vengo nella casa dove non c’è che mio padre morente ».
E sarà bene che in Italia almeno qualcuno sappia che per non andare a coonestare con la presenza la condotta paterna e a servir l'Austria, dove il padre, dagli altissimi posti della milizia e della politica dirigente lo invitava pressantemente sempre, dopo averlo abbandonato in Italia con la madre, per andarsene a fare il comodo suo, Eugenio Vaina aveva rinunziato a ogni titolo nobiliare e alle più lusinghiere promesse di grandi ricchezze e di splendide posizioni; sarà bene che qualcuno sappia che quell’oscuro insegnante di Ginnasio si era ridotto così, a tirar la carretta, per alterezza di coscienza e per patriottismo altro che di parole.
E ora tutto è finito.
Piangiamo ed esaltiamoci.
La terra che si sta riconquistando fuma di ben nobile sangue. Il fiotto di quel sangue deve bastarci a detergere molto passato e a renderci sicuri d’un avvenire de
gno di noi. Questi sacrifici del meglio di nostra gente non possono passar vani davanti all’alta Giustizia che divinamente domina dall’alto le vicende dei popoli. Sono il nostro spasimo, il nostro orgoglio, la nostra fede.
Solo pensando così, riusciamo a soffocar questo grido: perchè non rimuovere queste esistenze di eccezionale valore dai ciechi accidenti delle battaglie? Ma...già, ci si getterebbero da sè — anche in questo forse è una legge.
Ma Eugenio Vaina non è morto tutto.
O è più vivo che mai.
Più vivo che mai massime per quella Democrazia Cristiana in cui egli vide concentrarsi e fondersi ciò che si conquista per la società e dalla società che si evolve e ciò che è eterno nei principi e nelle leggi che ne propulsano e ne guidano il fatale andare; in quella Democrazia Cristiana, in cui egli sognò andrebbero a metter foce le diversità egoistiche dei vari partiti, tutti spogliandovisi delle loro scorie e ritrovandovi il meglio, il vivo e vero di sè.
Le parole, i vaticini, i voti di Eugenio Vaina s’incarnino in atti in realtà: dal suo sangue risusciti chi lo sostituisca.
Nessun altro augurio più grande so formulare, mentre mi raccolgo, con una vasta morte nel cuore, a meditare, a ricordare, a pregare in silenzio.
Venezia.
P. GHIGNONI.
(Da L'Astone di Cesena, 1$ agosto 19:5)-
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I LIBRI
IL PROBLEMA DELLE SCIENZE STORICHE
E. DE MICHELIS, Il problema delle scienze storiche. Torino, 1915, F.lli Bocca, editori.
Interessante ed utile il volume che il Eroi. De Michelis pubblica nella « piccola iblioteca di scienze moderne » dei F.lli Bocca: interessante perché esponendo e discutendo le altrui opinioni sul problema delle scienze storiche giunge a conclusioni, a mio parere, veramente positive, e, nello stesso tempo, conciliative; utile perchè anche a chi non abbia avuto campo di studiare partitamente nelle opere dei critici che ne trattarono il faticoso problema, dà il modo di informarsene e di vederne l'importanza e i difetti.
Naturalmente io non posso neppur tentar di riassumere tutte le questioni che il De Michelis à così chiaramente esposto e studiato nelle dense quattrocento pagine del suo lavoro, ma non debbo tacerne in nessun modo le conclusioni che sono, a mio giudizio, ripeto, positive e conciliative. L’A. cioè dopo aver vagliato le opinioni più opposte sulla natura della storia e sulla sua classificazione nello scibile umano di fronte alla recentissima scuola che sulle orme degli stranieri à anche da noi in Italia sostenuto l’anti-intellettualismo storico e quindi con l’indipendenza della storia dalla cognizione del reale come « natura » la sua superiorità per la conoscenza della realtà à riconosciuto, come risultato di tutto il suo fine lavoro critico 'delle opinioni altrui tendenti a distinguere falsamente il sapere storico dal sapere naturale, l’assoluta connessione tra i due e la necessità del collegamento loro come condizione al progresso
della storia. •< Conoscenza della natura e conoscenza delia storia si vengono incontro, per così dire, di continuo, e come dall’una ¡»arte la storia, col soccorso delle scienze di eggi, delimita ricostruisce, penetra sempre più addentro i suoi oggetti, dall’altra parte le scienze di leggi in ciascun reparto della realtà si sforzano di stringere sempre più da presso le condizioni dell’esistere e dell’accadere effettivo, sì da fornire alle illazioni della storia premesse ognora più precise e determinate » (p. 379 seg.).
Ne ciò, com’egli giustamente osserva poco dopo, nuoce alla concezione artistica della storia, in quanto che l’intuitività delle rappresentazioni storiche è composta di elementi desunti dall’esperienza, la quale serve pure di sustrato all’arte ed è pur necessaria a verificare i concetti e gli enunciati delle scienze teoretiche.
In questo- modo se potesse trovarsi un limite al fantasticare ed al sofisticare dell’uomo potrebbe pur mettersi un fine a quell’interminabile discussione che à posto spesso e così inutilmente l’annoso problema della giustificità della storia, delle sua opposizione all’arte o della sua identificazione esclusiva con essa e via dicendo: la storia, è, per così dire, nel suo senso più lato, il « coronaménto e compimento necessario di tutta la nostra attività conoscitiva» (p. 386).
Al che se anche i filosofi perdigiorni non volessero aderire noi che, modestamente, « facciamo » o tentiamo di « fare » la storia — convinti della bontà della nostra tesi — proseguiamo nel cammino: la nostra conoscenza spazia così largamente, come la loro serpe meschinamente.
Giovanni Còsta.
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TRA LIBRI E RIVISTE
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LA CATASTROFE DI NERONE
BARBAGALLOC., La Catastrofe di Nerone, Catania, 1915. Francesco Battiato, editore.
Il breve lavoro dell’A., già noto favorevolmente per le sue indagini sulla storia dell’impero, è interessante per le conclusioni cui giunge, onde a noi che seguiamo in queste pagine tutta quella parte della storia di Roma la quale si connette maggiormente alla storia del cristianesimo piace richiamare l’attenzione de’ lettori su questo modesto, ma non trascurabile contributo allo studio della figura di Nerone e del suo impero. Con una Suona analisi delle fonti l'A. distingue nella catastrofe neroniana l’elemento veramente storico dall’elemento tradizionale accumulatosi per l'insipienza e la tendenziosità degli storici e mette in luce quello che fu certamente il < tarlo roditore » del suo governo: l’opposizione repubblicana o senatoriale. Aggiunge che quello che costituì poi il vero colpo di grazia pei- il sovrano fu la rivolta dei suoi amici più fidi, i pretoriani, aizzatigli contro dal partito di opposizione. Così la catastrofe avvenne, ma non fu precipitosa quanto si crede volgarmente: ebbe i suoi ostacoli e la sua preparazione, come, pochi mesi dopo, la sua reazione.
Naturalmente queste conclusioni che non tendono a riabilitare, come si dice volgarmente, la figura del « terribile » imperatore, ma a mettere nella dovuta luce il quadro in cui questa figura ebbe vita, non piaceranno ai tradizionalisti che accuseranno l’A. di arbitrio nella critica e nell'uso delle fonti. Del che egli farà bene a non darsi per inteso: habent sua fata... libelli!
Gio. Vanni.
LA BIBBIA E LA CHIESA ESAMINATE DALLA RAGIONE E DALLA STORIA
Dobbiamo, poiché esso è enormemente diffuso tra noi. specialmente tra i giovani dediti alla cultura, dobbiamo dire qualche cosa del recente libro del prof. I.oretz, La Bibbia e la Chiesa esaminate dalla ragione e dalla storia. Milano « L’Università popolare Editrice» (via Carlo Poerio, 38), I.. 2,50.
Il libro (credo riassuma delle conferenze popolari) dice molte e molte verità. Ma
le dice assai male. Manca all’opera quella organicità che forse le sarebbe impossibile poiché l’A. svolge un tale numero di questioni a trattare le quali, e non compiuta-mente, non basterebbero venti volumi della mole del suo. E poi la forma ha troppa volgarità che può indisporre anche chi ricerca sinceramente il vero. Inesattezze poi molte e molte e qualcuna importante assai.
Noi plaudiamo all’intento dell’A. di orientare molte anime verso la verità, ma vorremmo esortarlo a rifare a poco a poco il suo libro attuale, che potrebb’essere uno schema, cominciando da una questione cui potrebbe consacrare più intenso studio facendola uscire intanto in un volume a sé dell’ampiezza di quello che ora ne riassume tante troppo brevemente. E loderemmo allora senza riserve. S. B.
PEDAGOGIA CRISTIANA
MARIA CLEOFE PELLEGRINI, 7 Lunedi della Scuola. Conversazioni sui Doveri e Diritli. Milano, G. Agnelli, editore. L. 2,50.
Come non dovremmo rallegrarci d’un libro che insegna ad amare il Cristianesimo? Il Cristianesimo vivo ed eterno, la religione della Bontà e della Verità, quello che è al di sopra di quelle piccole cose che sono certe Chiese, quello di Gesù? Il libro non è scritto proprio’per tutti i nostri lettori ma può giovare, tra essi, ai Maestri ed agli Educatori; perciò lo segnaliamo volentieri, anche perchè rivela nella chiara Autrice un’anima che sa prendere contatto con le piccole anime, che va ai piccoli per le vie della simpatia e dell’affetto così come v’andò il Maèstro: sinite parvulos venire ad me! Si capisce che la divina pedagogia del Cristo, come il senso di democrazia e di egalitarismo che spira dal Vangelo non vanno a genio di parecchi censori ortodossi...; la gentile Autrice se ne rallegri. Per aver lodi da certa gente bisognerebbe rifarlo il Cristianesimo, o almen abbigliarlo a loro gusto d’una cupa veste terroristica. Ma Lei preferisca di stare con S. Paolo che di Cristianesimo se ne intendeva e continui a dire ai bimbi ed a coloro che li educano:« non accepistis spiritum ser-vitutis iterutn in timore sed spiritum adop-tionis filiorum in quo clamamus: Abba, Pater\ » . S. Bridget.
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LE RIVISTE
SAN FRANCESCO E BUDDHO
In occasione d’una recente riproduzione de’ Fienili di Santo Francisco, dove l’editore si augura — nella introduzione — che la parola del Santo « ira le lotte stridenti di classe, dia alle anime la pace interiore apparecchiatrice della pace sociale » G. De Lorenzo ritorna su un argomento da lui prediletto c fa alcune considerazioni su la differenza tra Cristianesimo francescano e Buddismo che pubblica su la Nuova Antologia. Egli incomincia col dire che tra le due paci, l’individuale e la sociale non è mai esistito tale rapporto di successione causale e che l’ascesi e la santità individuale vanno per vie diverse da quelle delle ruote sociali e le più sublimi figure ascetiche sono fiorite tra il fango ed il sàngue della vita e della morte umana. Ma ad ognuno è evidente la confusione. Intanto dal non esse al non posse non vaici illatio. A lui toccava non di dimostrare, che storicamente non è mai avvenuto questo, ma che all’awerarsi si oppone una intima impossibilità. L’indagine sociale come la psicologia non è tutta ed esclusivamente basata su la scienza positiva. C’è qualche cosa che trascende i dati di fatto empirici ed è lo spirito, il quale prima d’affermarsi nella collettività si afferma nell’individuo. Se così è, c’è mai dubbio che la pace sociale non debba riferirsi alla pace individuale?
Non si deve essere schiavi di alcun pregiudizio teologico o moralistico nella considerazione dei fatti storici, ma è certo che, per riferirci solo al fatto della guerra dei popoli, senza la cupidigia e il desiderio di potere, qualche guerra — di quelle esclusivamente di conquista — si sarebbero evitate. Cupidigia di popolo è forse da mettersi al livello dei fatti esclusivamente economici, o è prima cupidigia di individui, quindi fatto morale che si proietta nella società? Se cosi non fosse Dante non avrebbe condannato all’Inferno Attila ed Ezzelino da Romano. Ma l’ascesi e la santità individuale vanno per vie diverse da quelle delle ruote sociali. Se noi consideriamo l’una e l’altra come fenomeni di supersen-sibilità del divino e di immobilità mistica
in esso, certo una società ascetica è un non senso, ma negare per questo ogni ri-jcrcussione della vita ascetica o santa su a vita sociale può essere vero per l’ascesi >uddistica, non per la santità francescana. Che le più sublimi figure ascetiche siano fiorite tra il fango ed il sangue della vita e della morte umana è vero, ma è altrettanto vero che i più belli esempi di santità ci furono offerti da chi non disdegnò di trarre dal fango e dal sangue profumi e offerte alla divinità. Basti per tutti l’esempio del Cristo. In fondo la differenza della santità quale è compresa dal Cristianesimo e quale la concepisce il De Lorenzo buddisticamente sta in questo, che pel cristiano la santità è fattiva, e per questo è perfezione, pel buddista è qualche cosa di fuori del mondo, contemplazione, inattività, quindi non perfezione. Che sia così lo dimostra il confronto che egli istituisce tra alcuni dei fioretti di San Francesco e dei discorsi del Majihimanikàyo. Il fioretto 25o parla di quel lebbroso sì impaziente e protervo che « villaneggiava di parole e di battiture sì sconciamente chiunque il servia e, che peggio era, egli vituperosamente bestemmiava Cristo benedetto e la sua santissima madre Vergine Maria, che per niun modo si trovava Chi Io volesse servire ». Allóra dovette intervenire San Francesco in persona il quale cominciò prima a confortarlo con parole e poi passò a curarne il corpo.
Il De Lorenzo lo confronta col 75o discorso del Majihimanikàyo, dove Gotamo si serve del lebbroso come paragone, pei* convincere, insieme con altri argomenti, lo scettico ed incredulo pellegrino Màgan-diyo. Ancora: il fioretto 21®, in cui si narra come San Francesco convertì il ferocissimo lupo di Agobio, sta a confronto col discorso 86° del Majjhimanik&yo, nel quale è descritto come Gotamo mansuefece il brigante Angubimalo. E conclude: « nel racconto cristiano domina la grazia divina, il miracolo divino, l’elemento Dio, infine; mentre nel racconto buddistico spazia assoluto l’elemento Uomo: santo, re, brigante ». Perchè « nel buddismo Dio non esiste. Domina invece e campeggia l’elemento Uomo: l'uomo con i suoi dolori, con le sue illusioni, con le sue passioni, e con
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la mente e la volontà, capaci di superare passioni, illusioni e dolori ». Ora io mi domando: a che scopo dunque il confronto? Il libro dei fioretti ha senza dubbio un valore psicologico umano, ma questo ci riesce incomprensibile se lo stacchiamo dal valore religioso che è indiscutibile. Dio vi entra nei Fioretti, come entra nei Vangeli, come nel Cristianesimo e nel francescani-smo, perchè non vi ha religione senza Dio. Nel buddismo non v’entra? Vuol dire che il buddismo sarà qualche cosa di più o di meno della religione, ed è così inutile e vano istituire dei confronti col Cristianesimo che è solamente religione. Sarà il buddismo filosofia? Pare che ad una risposta affermativa inclini il De Lorenzo, il quale scrive che « quando il nostro spirito si trova in uno stato di sentimentalismo infantile e si compiace di bamboleg-Siare coi dolci, e pur profondi, canti da alia, cullanti la primavera della vita, allora può ricorrere con profitto agli inimitabili Fioretti. Ma nei momenti di virilità, quando l’avido animo s’irrigidisce e la mente spazia fredda e serena nei cieli della scienza, mentre i piedi si piantano solidamente sul fermo terreno del realismo empirico: allora, solo la parola dello Svegliato può dare forza all’animo e luce alla mente ». Allora noi dovremmo rinunciare per sempre a parlare di ascesi e di santità nei riguardi del buddismo, perchè l’asceta e il santo non stanno neppure- nella filosofia morale. Non solo ma vorrei chiedere, posto che siasi superato lo stato di sentimentalismo, quando l’animo s’irrigidisce e la mente spazia fredda e serena nei cieli della scienza, a chi si rivolge la parola dello Svegliato? Perchè l’animo si fortifichi non basta che gli sia predicata la forza, ma conviene che esso voglia farne suo cibo, cioè sia capace di sentire la predicazione, in fondo che sia in uno stato sentimentale. La buona semente — disse Cristo — che fu buttata in terreno arido, intristì e si spense. Nel momento scientifico, dunque, la parola del Buddho è inutile per un sentimento che non c’è. Ma illumina la mente? Questa è illuminata dalla verità.
Chi pianti i piedi solidamente — qui è metafora non v’ha dubbio — sul fermo terreno del realismo empirico noi sappiamo bene dove la ritrovi la verità. Per essere logico qui e non altrove. Neppure nella E aróla dello Svegliato può essere dunque
, verità realistica empirica. Allora a che Si riduce la predicazione buddistica? Al
Sradosso di Nietzche del Der Wille zar adii, alla negazione di Dio decapitato da Kant, sepolto da Schopenhauer quando il 21 agosto 1852 provava persino disgusto del puzzo di quel cadavere e che Gotamo aveva spacciato quattro secoli prima di Lucrezio e due millenni prima di Kant, per innalzare su la tomba di Dio il trionfo dell’Homo.
Per questo San Francesco è una soave figura, ma Gotamo è sublime e... G. De Lorenzo buddista. F. Rubbiani.
&
IL CARATTERE DEGLI ITALIANI
Il senatore Giacomo Barzellotti pubblica nella Nuova Antologia un suo saggio sul carattere’ degli italiani che ha — per lo meno — il torto di essere stato pubblicato in ritardo. 'Tracciando le grandi lince storiche entro le quali il carattere nostro può essere inquadrato, ha anche il torto di volgerne il contenuto 'con una gravitazione tendenziosa a diffondere una sua tesi politica nella conclusione che è un vero atto di accusa verso l’atteggiamento che popolo, governo e Re hanno preso con mirabile consenso nei rapporti della odierna conflagrazione europea. A mio modesto avviso la passione di parte ha guastato quel tanto di verità che ad un osservatore dotto ed acuto, quale è il Barzellotti, non poteva sfuggire e mette un po’ di scompiglio nella stessa compagine logica del suo lavoro. Perchè se è vero che l’individualismo è il fondo del carattere italiano, la pianta uomo — ha detto Alfieri — nasce in Italia più forte che altrove e il Barzellotti commenta: « Certo le radici, per cui qui la pianta umana penetra nel suolo delle disposizioni, degl’istinti e degli impulsi naturali primitivi, più a fondo forse che non presso altri popoli, meglio atti ad essere trasformati da una coltura superiore, assorbono succhi, che fanno vigoreggiare nel temperamento e nella complessione dell’individuo italiano di razza il bisogno di affermare potentemente se stesso, di portar tutto se stesso nel pensiero e nella vita. L’individualismo « che era uno dei succhi più potenti di cui l’Italia si nutriva un tempo alle sue radici » come poter credere che la propaganda fatta da alcuni sfaccendati ed esaltati — c’erano per fortuna de-
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gli altri con questi: i migliori elementi dei partiti conservatori liberali e nazionalisti — m pochi giorni, all’infuori della maggioranza parlamentare, in una massa che alcuni si ostinano ancora di ritenere per temperamento e per calcolo pacifista, quindi già in possesso di una propria convinzione, per montare la macchina della nostra guerra contro l’Austria e i suoi alleati? Non mi pare che sia assegnare filosoficamente una causa adeguata al fenomeno studiato. B vero che il Barzellotti trova come il senso di autonomia personale, lo spirito individualistico, in una parola « la personalità morale in Italia — ove dominano ormai, più che in qualunque altro paese latino, l’indifferenza passiva e l’astensione dei più dalle forti iniziative individuali <•— abbiano subito una diminuito capilis per opera del socialismo e delle altre sette da lui derivate. A parte queste ultime delle quali qualcuna - non c’è dubbio che lo scrittore non voglia comprendere tra loro il repubblicanesimo — è nella storia dei nostri ordinamenti civili, è possibile che trent'anni di predicazione socialista siano valsi a sopprimere quello che era il nostro senso tradizionale ed era alle basi stesse della nostra storia civile? La esemplificazione del Barzellotti è per lo meno insufficiente ad affermarlo. Perchè se noi guardiamo la storia interna dello stesso partito socialista e delle sette da lui derivate, siamo piuttosto portati a credere anche noi alla nostra caratteristica individualistica. Dai primordi dell’Internazionale ad oggi la storia delle idee socialiste in Italia è feconda di riprese individuali e di affermazioni singole, ideali e pratiche, che sono apparse qualche volta in diretta opposizione con lo spirito delle direttive stesse del socialismo. Se così è, non è dunque verità di marca migliore raffermare che « l’abito di piena dedizione della volontà e d’intero abbandono alla disciplina di parte e di ceto, che, nella lotta di classe, ognuna delle infinite leghe di cui è coperta l’Italia, mira a formare nell’animo di ciascuno degli affigliati e dei compagni, è l’azione più efficace di depressione morale, di cui abbia mai sofferto il carattere di un popolo ». Perchè ogni ribellione individuale alle dottrine codificate del socialismo non ha portato solo alcuni individui al margine o fuori dei ranghi del partito — a ben osservare non sono tutti i migliori quelli che appaiono cosi — ma la secessione è stata sempre feconda ed ha valso a creare dei gruppi autonomi capaci
di rielaborare per proprio conto le verità delle antiche dottrine. Fu dunque recisa dal socialismo dal fondo dell’anima italiana la facoltà dell’azione libera individuale? Tanto poco che mentre pur negli altri paesi, in Germania prima che da noi, il socialismo subì le stesse revisioni critiche, in un momento decisivo nella storia di un popolo, quale è il presente, dove gli stessi valori nazionali sono in giuoco c quindi c’è da saggiare alia stregua della necessità lo spirito e il carattere di un popolo, il socialismo di Germania e di Francia ha trovato tutti, ortodossi ed eretici, palesamente concordi; il nostro non è riuscito a trovare la formula che salvi la verità socialista e la concordia nazionale.
Gli è — dice il Barzellotti — che agli italiani manca lo spirito di disciplina e per conseguenza anche quella del senso della solidarietà sociale che n’è inseparabile, la maggior lacuna della nostra storia e la più funesta nostra debolezza nazionale. Ma allora perchè prendersela tanto col socialismo che ha servito a colmare la lacuna col suo spirito di disciplina nelle leghe, ecc.? Val meglio ringraziare Carlo Marx — un tedesco che predicava c credeva sul serio nello spirito formalistico della frase: Proletari di tulio il mondo unitevi — per averci dato questo organismo disciplinatore della nostra scapigliata individualità. Se pure è filosofico svalutare il contenuto etico della dottrina socialista dal punto di vista della degenerazione parlamentare o politica o cooperativistica. Diversamente commentava il Manifesto dei comunisti il povero Antonio Labriola e vi fondava su quelle sue pagine ricche di dialettica e di sereno spirito storico e diversamente tutto il movimento socialista ha giudicato per un momento la Chiesa cattolica che aveva intravisto fin dove le sue vie nel mondo e quelle del socialismo coincidessero.
Se non che questo fermare le linee del carattere italiano nell’individualismo e nella mancanza di disciplina è ben lungi dal meritare il consenso incondizionato. Esso non è sufficiente a spiegare tutta la nostra storia, nè si applica a tutti i più salienti periodi di essa. Il Risorgimento, per esempio, non entra in quello schema ideale ed il Barzellotti per spiegarlo ha bisogno di ricorrere a due grandi energie che persistevano « ancora deste nel torpore di quasi tutto il paese, ed erano fra le più intime e proprie al fondo dell’indole nazionale: nell’anima popolare, la sensibilità per le
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memorie della nostra grandezza passata (e questa è disciplina e della migliore perchè è intima consapevolezza di rapporti non soppressi dalle vicende esteriori); in pochi individui superiori, nati a muovere i più, un’altissima potenza d’iniziative ideali ispiratrici (sempre però nella luce della storia e della tradizione italiana). Nè con migliore prova concorda con la spiegazione che il Barzellotti fa della nostra storia religiosa. Noi non potevamo arrivare al Protestantesimo perchè « quel tanto d’iniziativa tutta individuale e solitaria del pensiero, raccolto e concentrato in sè stesso, che il Protestantesimo presuppone in chiunque voglia rifarsi col proprio cuore una fede propria, quell’audacia, quella quasi voluttà del sentirsi solo nelle cime paurose del problema degli umani destini, che tanto attrae il puritano e il pietista, è ciò che più invece repugna a una sensitività subitanea, così comunicativa e immaginosa, come quella degli italiani; al bisogno che essi provano sempre, in ogni cosa che la tocchi, di aprirsi tra loro, di espandersi, di riversar tutta l’uno nell’altro la piena dell’animo e della fantasia commossa, impotente a frenarsi, al bisogno di pensare e di sentire in comune, in pubblico, a voce alta per le vie e per le piazze affollate, alla piena e calda luce meridiana del loro sole. Un tal bisogno, che gl’italiani provano, di vivere la loro fede in un grande e pubblico consenso di commozioni, tra le quali primeggiano quelle destate dalla solennità estetica del culto, dà alle manifestazioni della coscienza religiosa popolare una impronta di serenità e di fiducia giovanile, per nulla turbate dalla preoccupazione del problema del peccato, intima al Cristianesimo... E Dio, contemplato nei rapimenti di un’esaltazione sublime da Caterina da Siena, amato e adorato nello splendore del nostro sole da quel santo poeta ed artista che si chiamò Francesco di Assisi, non è nei nostri mistici — i quali nella grande famiglia dei mistici appaiono sempre i più temperati, i meno mistici di tutti — quell’ignoto adorabile e pur remotissimo e impossibile a raggiungere del pensiero speculativo, o quell’infinito abisso arcano, in cui il mistico panteista di altra razza mentale senta di dovere andare a perdersi e a dile-Suare. È un Dio vicino al cuore umano e evoto, e che gli parla un linguaggio intimo e famigliare. La religiosità è pei più degli italiani ciò che era pei romani: un fatto, una funzione sociale. Il popolo, che
già col senso latino dell’ordine, della misura e della disciplina aveva creato il Diritto, concepisce e pratica la religione come inseparabile dall'osservanza di comandi e di precetti statutari divini, come una legalità sacra, come un culto della forma portato nella vita della coscienza. Quindi il maggior valore di merito, dato dai più dei nòstri alle opere e alla loro sanzione per via del ministero sacerdotale, e non alla intimità dell’ispirazione personale della fede, che Sarla solo dal cuore e basta a se stessa.
u questo modo d’intendere il valore dell’atto religioso, contro cui si volse la pi ima e la maggiore opposizione della Riforma, cade la divergenza capitale, che separa l’interpretazione latina del Cristianesimo dalla germanica. Qui s’impernia il congegno, tutto di struttura sociale romana, dell'autorità del Papato; opera del genio ordinatore latino, la cui forza persistente, compenetrata con tutto il carattere e il processo storico della nostra cultura, come fu una delle cause principali che impedirono l’unità politica della penisola, così ci tolse di avere altra riforma religiosa da quella stabilita a Trento
Giustissimo. Alla luce di tali considerazioni si può tentare la spiegazione di alcuni fatti importanti nella vita e nella cultura italiana anche recentissimi, per esempio l’incomprensione da parte del miglior pubblico, del più colto del modernismo e il relativo fallimento dei suoi adattamenti pratici presso le masse. Ma con l'incapacità di riuscire nel più significativo sforzo d’individualità quale è quello della riflessione personale sui motivi e sul contenuto della propria fede come si concilia il senso ¿’individualismo che forma il carattere italiano? E con la non superata forma di solidarietà e di comunanza nel credere che si riscontra nei mistici italiani, nella solamente apparente liberazione — e appena iniziatasi nell’ultimo periodo di nostra storia — dall’influenza d’un cattoli-cismo meno spirituale quanto più romano, più politicamente efficace quanto meno lontano dal nostro senso di accontentabi-lità esteriore come si concilia la mancanza di disciplina con la conseguente mancanza di solidarietà?
Le settemila duecento rivoluzioni — avvenute la maggior parte per mantenere pura da estranee contaminazioni la tradizione italica — e i settecento massacri che ha contati Giuseppe Ferrari nella storia d’Italia, non bastano a stabilire il criterio
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della nostra indisciplinatezza o della nostra mobilità.
Ben altro era ed è il fermento della nostra storia. F. Rubbiani.
VARIA
La Rassegna Nazionale del 16 aprile ha un notevole scritto di S. B. dal titolo: «Una figura di Vescovo nel libro d’un uomo di spirito ». Il vescovo è il Dupanloup ed il libro è quello di Emile.Faguct: «Ungrande Evéque » che fa parte della nota Collezione « Figures du passé » edita dall' Hachctte.
Lo scritto ha tutta la geniale e vigorosa completezza che si può aspettare dal!'A. (che è una vecchia conoscenza dei lettori della Rassegna), e merita d’essere segnalato anche a quelli tra i lettori nostri a cui interessa o piace seguire nelle figure scomparse e nelle figure contemporanee di cattolici colti, coscienziosi, illuminati, un pensiero ed una intonazione religiosi pieni di serenità alta e solenne, così lontana pur troppo (oramai anche il Bonomelli è scomparso) dalle pa-Sine piene di vuotaggine delle Pastorali e elle Encicliche. Ed è certo che il'Cattolicesimo di uomini come il Dupanloup, come il Bougaud, come il Deschamps, come il Faber e (ci permetta l’egregio amico) come l’S. B. merita l’ammirazione anche di coloro che (come noi) non lo ciedono affatto una derivazione naturale e spontanea del Vangelo (purtroppo!). Il dualismo artificioso che lo vizia in origine eccolo ricomparire anche qui, nel Dupanloup come nell’egregio S. B. ; « il faul surnaluraliser Ics passione ». Strana idea e strano, violento compito! Ma la sincerità che lo ispira e la
virilità coraggiosa ed eroica che lo accompagna in anime come quelle che abbiamo ricordate sopra ci impone di ammirare il sacrificio nelle pure disposizioni del soggetto anche quando lo dobbiamo combattere come inutile all’individuo e pernicioso alla razza, cioè alla sua evoluzione, che non può essere posta in un perfezionamento aristocratico di pochi, ma in quella evoluzione morale completa della massa che non può essere data da canoni morali ma dall’esercizio libero, sconfinato, tumultuoso di tutte quante le umane forze della vita... ivi comprese, sii venia nobis da parte dell’egregio amico S. B., anche le passioni.
Il medesimo fascicolo contiene pure uno studio dell’on. Meda, dal titolo: « La frode dei divorzi all'estero ».
Se c’è un argomento palpabile della immoralità del pregiudizio morale in nome di cui i nostri legislatori si ostinano a non ammettere a fianco dell’istituto matrimoniale (finch’esso esiste nel Codice Civile dove pur troppo non dovrebbe più aver luogo) — il divorzio, è proprio questo da cui l’on. Meda muove la sua tesi antidivorzista. Ma tant'è ! La decrepita società nostra ha così confuse le idee — nomina quoque rerum amisimus — che giustizia e sopruso, frode e diritto (vecchi nomi !) si scambiano tra di loro il significato allegramente... ricordate? Renzo.. (in casa del curato) ha tutta l'apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin dei fatti, era l'oppresso. Don Abbondio... parrebbe la vittima; eppure in realtà era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... e non solo nel secolo xvn (come il Manzoni insinua) ma adesso ancora e fino a tanto che... si sentirà il bisogno di conservare qualche-cosa... via, non diciam’altro : punto e basta!
S. Bridget.
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LA GUERRA E LA RELIGIONE
NEL PENSIERO DI ALFREDO LOISY
Alfredo Loisy ha recentemente pubblicato sul conflitto attuale considerato dal punto di vista religioso un interessantissimo opuscolo (i), nel quale l’illustre esegeta francese esamina i rapporti tra la guerra e le religioni protestante e cattolica e infine tra la guerra e il sentimento religioso.
Il Loisy, nel ricercare in un primo capitolo le scaturigini del conflitto attuale, ch’egli, come tutti i critici più avvisati, fa risalire alla volontà della Germania di costringere l’Europa al suo servaggio, comincia coll’af-fermare che, benché tutte le principali religioni del mondo vi prendano parte per mezzo dei loro seguaci, questa guerra non è guerra di religione. E senza dubbio è così se si voglia intendere con ciò che essa non sia stata provocata da immediati interessi confessionali. Eppure un attivo, benché sotterraneo, interesse confessionale c’è innegabilmente in fondo a questa titanica lotta di popoli e di razze.
Quella volontà tedesca che mette a ferro e a fuoco il cattolico Belgio e che si ostina per mesi e mesi a bombardare la cattedrale di Reims, il palladio del cattoli-cismo storico francese, è una volontà essenzialmente luterana, come tutto il popolo tedesco, è tnalgré la sua estesa professione di cattolicismo, razza essenzialmente luterana e che la sua volontà di egemonia militare non può prescindere da una volontà di egemonia religiosa, come essa si integra della volontà di egemonia sociale e scientifica. Nonostante la contraria affermazione del Loisy, io sono persuaso che i tedeschi si battano anche « per il Vangelo interpretato da Lutero ». Che la concezione tedesca del Vangelo sia esatta o no, sia legittima o'no, è un'altra questione; benché, personalmente, io creda che certi elementi costitutivi dei cristianesimo
(x) Alfred Loisy, Guerre ei Religion. Paris, E. Nourry, 63, rue des Ecoles, 19x5. Un vol. di pag. 89.
La nostra scuola. Milano, n. 11, 15 agosto 1915. - G. Vitali: « Ancora e sempre per la Patria e per l’umanità » - Scuola e religione - Religione e filosofia -Didattica - In ¡scuola - Liberismo e individualismo - V. Gargano: « La superstizione del tirocinio e il problema della teoria e della pratica nella educazione» - G. vitali: «Note sull’educazione morale in Inghilterra ».
Voci amiche. Milano, giugno-luglio 1915. - A. Zappa Piova-nelli: « Il richiamato : per le donne italiane » - Riflessioni -Avv. M. Ferraris: - * Stato e tirannide » - M. Bicchierai: « La voce risorta» - J. Caird: « Solidarietà immortale » - M. A.: « Per Pietro Lanzi, morto eroicamente per la Patria» - Attività femminile - Per le madri del popolo.
Fede e vita. i° luglio 1915, n. 11. - Importantissimo - Il saluto che vi rechiamo - C’è Sosto nell’ora attuale ? - Raggi i sole tra nubi tempestose -Per chi è sul campo - Per chi è rimasto a casa - La casa del soldato - Mimetismo.
Vita e pensiero. Milano, 20 luglio 1915. - A. Gemelli: « I fattori della vittoria» - F. Meda: « Le leggi italiane e la repressione della pornografia» - E. Vercesi: « Dal regime degli Ab-sburgo a quello della più grande Italia» - Nel centenario della morte di Matilde Canossa -Ernesto Del Fiore : « Matilde Canossa » - Angelina Dotti: « La figura di Matilde» - Leone Tondelli: « Le miniature del codice di Donirone e il ritratto di Bia-nello» - Veritas: «Il pensiero del Vaticano» - A. Cantono: « Gli effetti della guerra sulla lotta di classe » - Spartaco Bessi: «Un popolo ingannato».
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La riforma italiana. Firenze, 15 luglio 1915. - R. Munì: «Le letture del soldato » - La nostra inchiesta - Mino Selvaggi: « L’essenza della religióne» - La R. I.: • L’intervista papale » -C. Bianchi: «Mentalità capitalistica ■ - Municipalizzazione -L. Giulio Benso: «Corriere femminile ».
La nuova riforma. Fase. VII, 15 agósto 1915. - G. Avolio: «Verso la pace europea» - M. Cesario: « Guerra, moralità, religione»- F.Orestano: «L'arte» - G. Avolio: « La questione sociale, il Cristianesimo, il socialismo» - Roberto E. Speer: « La salvezza è nel Cristo».
Luce e ombra. Roma, 30 giugno 1915. - A. Bruers: « Il principio di creazione del Bergson e la metapsichica» - V. Cavalli: Sulla stereosi spiritica - Prof. Turbigli©: « La filosofia di Lao Tsen » - E. V. Banterle: « Aspirazione a l’Assoluto » - Prof. Tiberti: «Guerra e Vangelo»-C. Romanazzi: « Il progresso intellettivo umano » - P. Bornia: « La Porta magica di Roma; Studio storico (con una tavola).
— Fascicolo del 31 luglio 1915. - P. Raveggi: « Il monismo religioso e l’unità delle razze umane » - E.V. Banterle: « Pensieri sullo spirito » - A. Bruers: • Considerazioni storico-critiche Sull’Occultismo» - V. Cavalli: «Liberi pensatori e Pensatori liberi » - Lo spiritomane - Prof. Lucco : • I Fenomeni metapsichici nell’opera di un romanziere piemontese» - P. Bornia: « La Porta magica di Roma », (studio storico).
Coenobium. Sommario del fascicolo 78-79. - Romain Rollanti: « Jaurès» - P. Alessandro Ghi-gnoni: a II Cristianesimo e la Guerra » - Marcel Hebert: « Sur la vie future » - H. A. Fried : • Dodici verità » - Marguerite Gobat: « Union mondiale de la femme pour la concordie Internationale » - Maurice Gharvoz:
puro possano anche servire a provocare e a spiegare certi aspetti essenziali della mentalità e della prassi tedesche. E tra l’altro questo aspetto caratteristico, e su cui insiste lo stesso Loisy, la meravigliosa, cioè, incapacità tedesca nel comprendere, nell’afferrare, nel sentire una mentalità diversa dalla loro, delle esigenze spirituali di popoli diversi da loro, e che è la conse-fuenza necessaria dell’estremo individualismo etnico ei tedeschi e che si riannoda alla concezione essenzialmente individualistica del cristianesimo puro. I tedeschi non capiscono come gli altri popoli « non vogliano essere o diventare tedeschi » come il cristiano non ca-fisce come un altro individuo possa non essere cristiano.
a mentalità tedesca è mentalità sostanzialmente giudaica e orientale. La concezione del loro vecchio Dio, complice volontario di tutti i loro più efferati delitti, presenta gli stessi caratteri di « nazionalismo gretto ed avidamente egoista », di misticismo materialistico e di feroce barbarie che caratterizza la concezione di Geova, al servizio degli interessi terreni del popolo ebreo.
« Questo vecchio Dio, scrive il Loisy, è lo spirito della Germania, il suo genio tutelare, l’espressione mistica della sua forza. Egli non è la personificazione d'un grande ideale umano, d’una civiltà veramente universale nei suoi principi e nelle sue tendenze, ma della cultura tedesca, cioè della scienza messa al servizio degli interessi grettamente tedeschi e delle avidità tedesche. Il Dio dei tedeschi è la personificazione d’un appetito nazionale, e non appare grande che a causa delle pro-Kirzioni colossali di quest’appetito che egli raffigura ».
on è questa, in fondo, la concezione del Dio degli ebrei? Inoltre, la mancanza di autocritica razionale, che caratterizza la mentalità primordialmente cristiana forma uno dei tratti più salienti dell’attuale mentalità tedesca. Per cui noi possiamo vedere uno scienziato del valore dell’Harnack vantarci, dopo le prodezze teutoniche nel Belgio, la « nobile e austera moralità » dell’esercito tedesco e il pastore Dryander affermare candidamente che il soldato tedesco combatte « con una padronanza di sè, una coscienza e una delicatezza di cui la storia universale non aveva forse mai offerto un simile esempio sino ad oggi ». Naturalmente, dopo aver emulato le spedizioni di David a Rabba, il popolo tedesco continuerà, in perfetta buona fede disgraziatamente, e perciò affetto da cecità inguaribile, a credersi il « popolo eletto ».
Comunque, vediamo, sulla scolta del Loisy, quale sia stata l’attitudine dei principali rappresentanti del protestantesimo e del cattolicismo di fronte all’attuale guerra.
Un pastore francese di Nimes, C. E. Babut indirizzò dopo lo scoppio della guerra, al pastore E. Dryander primo predicatore della Corte imperiale di Berlino un progetto di dichiarazione che avrebbe dovuto e potuto essere firmata da tutti i « cristiani di Germania, d’Inghilterra, d’Austria, di Francia, di Prussia, del Belgio della Serbia », senza distinzione di confessione religiosa. Il Babut voleva far dichiarare a tutti i cristiani:
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LA GUERRA
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« io che profondamente attaccati alle loro patrie rispettive, essi non volevano fare e dire nulla che non fosse in armonia con il sincero e ardente patriottismo che li anima;
« 2° ma che ai tempo stesso non potendo dimenticare nè misconoscere che Dio è il Dio di tutte le nazioni e il padre di tutti gli uomini, che Gesù Cristo è il Salvatore di tutti, che egli ha comandato ai suoi di considerarsi ed amarsi come fratelli, e che sul terreno della fede evangelica non ci sono più, come afferma San Paolo, giudeo o greco, barbaro o scita, e perciò non ci sono più tedesco e francese, austriaco e russo ma Cristo in tutte le cose e in tutti;
• Perciò, essi s’impegnano, sotto lo sguardo e con l'aiuto di Dio a bandire dal loro cuore ogni odio per coloro che essi sono obbligati di chiamare momentaneamente nemici e di far loro del bene, se se ne presentasse l’occasione, ad adoperare tutta l'influenza di cui essi possono disporre perchè la guerra sia condotta il più umanamente possibile, perchè il vincitore chiunque esso sia non abusi della sua forza, perchè le persone, c i diritti dei deboli sieno rispettati, di continuare ad amare d’amor fraterno i loro fratelli nella fede, a qualunque nazionalità essi appartengano, a pregare Dio per tutte le vittime della guerra senza distinzione, a domandargli con insistenza perchè Egli faccia succedere presto agli orrori della guerra i benefici d’una pace giusta e definitiva, e che faccia servire all’avanzamento del suo regno gl’infelici e crudeli avvenimenti ai quali noi assistiamo ».
La risposta del predicatore imperiale costituisce un’altra manifestazione caratteristica della mentalità tedesca. Con quella perfetta incoscienza di superuomini c di superpensanti che forse è più disgustosa ancora delia ferocia tedesca, il Dryander respinge, per i seguenti motivi, la proposta elei pastore francese:
« Noi la rigettiamo, dice egli, perchè non deve sussistere la più lontana apparenza che, secondo noi, possa esserci bisogno in Germania, d’un avvertimento o d’uno sfòrzo qualsiasi perchè la guerra sia condotta in armonia con i principi cristiani e secondo le esigenze della misericordia e dell’umanità. Per il nostro popolo intero come per il nostro stato maggiore, va da sè che la lotta non debba essere condotta che tra soldati, risparmiando accuratamente le persone senza difesa e i deboli, avendo cura dei feriti e dei malati, senza distinzione. Noi siamo convinti, con piena conoscenza di causa, che questa regola è quella di tutto il nostro esercito, e che da parte nostra, si combatte con una padronanza di sè, una coscienza e una delicatezza di cui la storia universale non ci offre forse esempio sino ad oggi ». Secondo il degno pastore, che scriveva queste linee il 15 settembre 1914, « una protesta della coscienza cristiana » s’imporrebbe invece riguardo ai nemici della Germania, i quali hanno attaccato i tedeschi « come tre iene assetate di sangue, assaliscono contemporaneamente un uomo pacifico ».
Questa risposta fa pensare alla preghiera del fariseo: * Io ti ringrazio. Signore, che io non sono come il resto degli uomini, che sono ladri, ingiusti ed adulteri! ».
• La pensée libre dans l’évolu-tion des peuples » - Nel vasto mondo: «EntreChine et Japón» Dr. Scié Ton-Fa - Documenti e ricordi personali: «Testamenti spirituali » di: A. K. Keine, F. Rizzi, L. Ursin, F. Del Greco -Pagine da meditare: Alessandro Manzoni: « Gli untori » - Guerra alla Guerra: « La lega dei Paesi neutrali; Consensi ed appunti; Congressi e conferenze; Più alto del fragor delle armi; Attraverso i giornali; » - Rassegna bibliografica - Pubblicazioni Pervenute al « Coenobium » avista delle riviste - Tribuna del « Coenobium » - Note a fascio.
Conferenze e prolusioni. Roma, i° luglio 1915. - T. Tittoni: « La coerenza è limpidezza della politica italiana » - G. Ferrerò: « Il libro verde e la guerra ».
— Fascicolodel 16 luglio 1915. - Prof. E. Rivalla: - Felice Ve-nezian e Trieste sua » - Gino Fano: « Il confine del Trentino e le trattative dello scorso aprile con la monarchia Austro-Ungarica » - Federico de Roberto: « Romanticismo ».
— Fascicolo del i° agosto 1915. - Prof. C. Rinaudo: «Un maestro del libro» Luigi Mo-riondo - Prof. G. Videri: « Alcune riflessioni sul discorso pronunziato dall’on. Calandra il 2 giugno in Campidoglio ».
— Fascicolo del 16 agosto 1915. - Zoe Garbea Fornellini: « La sorella minore » - Oreste Arena: « La lotta pel dominio del mare attraverso i secoli ».
Rivista internazionale di scienze sociali e di discipline ausili arie. Roma, 31 luglio 1915. -L. Valenti: « I biglietti di banca e la carta-moneta di Stato, durante la crisi presente, principalmente in Germania, Inghilterra, Francia e Svizzera » -G. Tuccimei: « Storia dell’evoluzione da Darwin sino al presente » - R. Vuoti: « Dall’ imperialismo al pangermanismo» -Sunto delle riviste - Esame d’opere, ecc.
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La cultura filosofica. Firenze, maggio-giugno 1915. - F. De Sano: « Lo spirito nazionale » « Le idee di P. Ellero sul ger-manesimo » - G. Rensi: « Forza e diritto » - A. Aliotta: « Il nuovo realismo in Inghilterra e in America » Parte seconda: « Il nuovo realismo americano» - Recensioni.
Athenaeum (anno III, fase. Ili, luglio 1915). - L. Sorrento: «Un dramma attribuito ad A. Cisneros» - R. Cirilli: «La lé-gende du prophéte Jonas» -C. Pascal: «Orazio e Catullo» -C. Morelli : « Sull’ autenticità dei trattatelii di metrica attribuiti a Servio » - G. B. Pesenti: « Gli Epitreponlesàx Monandro e VHe-cysa Terenziana » - O. Tescari: • Fons Bandusiae*. — Comunicazioni e note. C. Pascal: « Un epigramma di Lazzaro Buona-mico » - E. Motta : « Un’altro epigramma sull’ammiraglio Co-ligny » - A. De Marchi, Pietro Rasi, C. Pascal: « A proposito di un’iscrizione cristiana» - W. P. Mustard: «Sulle egloghe pescatorie di I. Sannazzaro ». - Rassegne critiche. L. Bastari: « Vo-cabol. dei dialetti, geografia e costumi della Corsica di F. D. Falcucci, a cura di P. E. Gua-ruccio ». - Notizie di pubblicazioni.
Bessarione (fase. 131-132, anno XIX - fase. 1-2 gennaio-giugno 1915). - Marini mons. Niccolò: «L’unione delle Chiese e la stampa russa» - Cognasso prof. Francesco: «Un imperatore bizantino della decadenza: Isacco II Angelo » - Gentilizza Scoi. Giuseppe: « L’Albania, la •almazia e le Bocche di Cattare negli anni 1570 e 1571 difese dai veneziani contro il turco» - Mercati mons. Giovanni: « Callisto Angelicudes Meleni-ceota : Da Giustiniano I a Giovanni Vili Paleologo; Minuzie » - Vattasso mons. dott. Marcò: « Del Libellus de psahnis di Einardo felicemente ritrovato » - Schneider Graziosi GiorMolto finemente osserva però il Loisy che l’evangelico pastore francese appare in contraddizione con se stesso. « Il Vangelo, scrive egli, non conosce patria, e quando il signor Babut dichiara non voler fare nè dire nulla che non sia in armonia con il sincero ed ardente patriottismo che l’anima, egli distrugge anticipatamente ciò che egli in seguito afferma circa Dio padre di tutti gli uomini, la fraternità universale, il dovere essenziale dell’amore; ovvero questa seconda dichiarazione distrugge la precedente. Se noi dobbiamo difendere la nostra patria contro coloro che l’attaccano, la guerra è legittima; ma, se noi siamo tutti fratelli, noi dobbiamo abbracciarci, invece di ammazzarci l’un l’altro. Il Vangelo di Gesù non suppone la patria, esso la sopprime. La guerra tra veri cristiani sarebbe cosa assurda ed inconcepibile, se di tali cristiani esistessero. Poiché il Babut non è completamente cristiano, egli lo è sino a concorrenza col suo patriottismo. Abbiamo noi ragione di essere patriotti, a costo di essere un po’ meno cristiani, o anche di non esserlo affatto? Sì, senza dubbio, poiché l’unica nostra speranza di vita è sul nostro patriottismo. Il cristiano veramente evangelico sarebbe quello che si lascerebbe ammazzare senza difendersi e che rifiuterebbe anzitutto di prendere le armi, fosse pure in servizio del suo paese. Soli i pacifici hanno diritto, secondo il Vangelo al titolo di figli di Dio. Che il vero fedele si abbandoni alle persecuzioni, alle sofferenze e alla morte: il regno dei cieli gli appartiene».
Questa contraddizione che è nella fede stessa evangelica, in quanto che quella fraternità umana e universale che Gesù annunzia come una realtà vivente è invece un supremo e lontano ideale da raggiungere, deve necessariamente ripercuotersi nell’attitudine esteriore degli evangelici puri. -Ma tra la nobile contraddizione spirituale del pastore francese e l’ipocrisia incosciente del cristano sterminatore tedesco, v’é di mezzo tutta la superiorità civile della razza latina sulla razza germanica.
Il Loisy esamina naturalmente anche l’attitudine del Papa di fronte alla presente guerra. Che s’aspettava da Benedetto XV la coscienza cattolica? Il Loisy ne interpreta in una bella pagina il desiderio: «Molti s’incoraggiavano tuttavia a pensare che il nuovo pontefice avrebbe preso coscienza della sofferenza infinita che travaglia attualmente il cuore dei popoli e che l’avrebbe gridato ben alto, senza collera nell’anima e senza violenza nella parola, ma per esprimere l'orrore che, di fronte a un simile massacro, deve provare ogni uomo che non sia una tigre. Egli avrebbe proclamato l’onta eterna d’una civiltà che culmina in un tale macello. Egli avrebbe pianto l’umanità morente, tutta questa bella giovinezza, dove c’era tanta intelligenza, tanto coraggio, e tante risorse per l’avvenire delle nazioni, e che cade nella notte insieme alle nostre speranze. Egli avrebbe detto la desolazione dei focolari, la rovina delle campagne, la distruzione delle città, e sopratutto le rovine morali, i delitti accumulati. Egli avrebbe fiaccato coloro che da lungo tempo avevano se-
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minato la diffidenza, la gelosia, l’odio, la sete del sangue tra le masse creduli ed eccitabili. Egli avrebbe denunziato il mistero d’iniquità, il delitto mostruoso di coloro che avevano voluto la guerra e che ne porteranno davanti alla storia — egli avrebbe potuto anche dire davanti a Dio — la responsabilità. Egli avrebbe potuto dir tutto senza far nomi, anzi egli avrebbe dovuto non fare nessun nome. Egli avrebbe fatto appello alla coscienza di tutti davanti un giudice supremo che sarebbe questa coscienza stessa dell’umanità. Egli avrebbe inculcato a tutti che anche i popoli hanno dei doveri sacri gli uni verso gli altri, che la parola data non è un suono che passa, e che una nazione non è una preda che il suo vicino più forte possa diseredare; e che la guerra non autorizza nè il furto nè il viòlo, nè l’uccisione degli individui inoffensivi, che sempre è assassinio, e che l’invasione di un paese non sopprime il suo diritto all’indipendenza; e che la forza brutale esercitata contro la giustizia non è che brigantaggio. In questa stessa giustizia egli avrebbe mostrato la soluzione del conflitto, l’Europa non potendo essere definitivamente pacificata che quando non ci sarà più un tal popolo oppresso. Egli avrebbe terminato con parole d’amore, indicando lo sforzo immenso che resterebbe a compiere, l’immensa bontà che dovrebbe ispirare questo sforzo, perchè i popoli potessero rivivere dopo la tormenta, e gli animi si rasserenassero, e i popoli apprendessero infine a amarsi come Gesù lo voleva, e le rovine venissero tutte riparate, e che un mondo tutto nuovo, migliore dell’antico, risorgesse da queste macerie, ricoprendole, e che fossero dimenticati
% i giorni tenebrosi ».
\ Questa enciclica non fu mai scritta. Solennemente invece Benedetto XV dichiarava che, per non compromettere l’autorità pontificia nella lite dei belligeranti il . suo dovere di capo della Chiesa era quello di osservare a loro riguardo « una completa imparzialità ».
I Si direbbe che lo schiacciamento del Belgio, l’unico I paese il cui governo si confessasse cattolico, che l’in-fcendio di Lovanio, la distruzione della più celebre e più bella delle università cattoliche, il massacro dei suoi fedeli e dei preti, le persecuzioni dei suoi vescovi non lo riguardassero affatto. Egli è che ciò che Benedetto XV chiama imparzialità non è altro che neutralità, e mentre la prima era un suo dovere, la seconda è stata una colpa.
« L’imparzialità, osserva il I.oisy, importa una perfetta giustizia da osservare nel trattamento delle persone e nell’apprezzamento delle cose. La neutralità non ha nulla in sè di morale nè di comune con la giustizia; essa è un’attitudine che consiste a restare impassibili davanti a una disputa altrui, a non prendere partito in favore dell’uno o dell’altro contendente. L’imparzialità è un dovere e una virtù; la neutralità è affare di volgare prudenza e si può dire di politica. Imparzialità e neutralità sono dunque cose molto differenti; esse sono anzi incompatibili sul terreno della moralità, perchè non si ha il diritto di essere neutri in morale, e colui che pretende essere neutro in una questione in cui la giustizia è in causa egli vien meno all’imparzialità.
gio: «Un ipogeo cristiano isolato nella via Prenestina » - Pe-senti prof. Giovanni: « I nuovi frammenti della melica lesbica e la lirica latina del secolo aureo • - Sfair Pietro Giauad: « Il nome e l’epoca d’un antico scrittore siriaco » - Cattan prof. Basilio: «Nell’Arabia antica; la donna nella famiglia e nella società» - Toriza can. E. J. B.: «Corrispondenza dalle Isole Ionie, La nécessité de l’Union des Eglises Chrétiennes (suite)» -P. Giambattista di S. Lorenzo: • Rivista della stampa ortodossa» - Idem: «Cronaca Levantina - Recensioni; Bibliografia.
Il Conciliatore (direttore G. A.Borgese - annoII fase. II).--G. Toffanin: « Il nazionalismo di Dostoiewski » - Letteratura italiana; Letteratura straniera; Storia della musica e delle arti; Storia filosofica; antichità.
Rivista di filosofia (anno VII, fase. Ili, maggio-giugno 1915). -G. Zuccante: • Aristotele nella storia della coltura » - G. Marchesini: « La disciplina morale della potenza » - E. Troilo: «Sul concetto di storia della filosofia » - M. Losacco: « Proclo e i suoi elementi di teologia» -G. Tucci: «Un filosofo apologista cinese del sec. ix » - Recensioni, ecc.
Rivista di filosofia neo-scolastica (anno vii, fase. Ili, giugno 1915)- - Mons. M. Stuzzo: « Intorno alla psicologia dell’arte » - A. Fraticelli: « Biagio Pascal nella storia del pensiero moderno » - L. Mecchi: « Soggetti ed oggetti nell’analisi psicologica » - Note e discussioni; Analisi d’opere; Notiziario.
Foi et vie. Paris, Cahiers A. n. 11, 1 e 16 giugno 1915. - E. Doumergue: « LeDroit et la force d’après les manuels des Etats-majors allemand et français » I. « Le Droit », II. « La force » -Henri Bois: « La guerre et les
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historiens de l’Allemagne» Treitschke (fin). - Noëlle Roger: « Figures de héros » - Georges Boissonaus: «Aux soldats sur le front > Le mur vivant.
— Fascicolo del 1® luglio 1915. - M. Baldwin: « De la neutralité » - E. Doumergue: « L’empire de la kultur: une contre épreuve » - Noëlle Roger: « Carnet d’une inférmière» - Notes et documents.
— Fascicolo del 16 luglio 1915. - P. Doumergue: « J’accuse » -Charles Gide: « Comment se paient les défenses de guerre » - B.: «Croquis d’avant-postes» - P. Chavannes: « Ceux qui sont tombés » Ernest Psichiari -Wells: «Un regard en avan, la logique de l’U. 39, trad. de M. Russillon » - G. Boissonnas: -Au bout d’un an de guerre ».
Foi et vie. Cahiers B.: « Les S (testions du temps présent » onférences sur « la morale et la politique des belligérants ».
— Fascicolo del 16 giugno 1915. - L’Allemagne religieuse par le Doyen Emile Doumergue.
— Fascicolo del i° luglio 1915. - La Belgique par M. Wander-velde.
— Fascicolo del 16luglio 1915. - L’Alsace et l’Allemagne par F Abbé Wetterlé.
Record of Christian Work. July 1915. - The late Miss Alice M. Varley : An appreciation by W. R. Moody - Religions thought and activity - The Mission Field - What Wergi-gerode took from me and gave to me - Northfield silhouettes XV - The glory of Jesus, Heb I-Vili - Rev. A. T. Robertson, M. A. D. D. L. L. D. - A. Ru-thenian Mission in America, Rev. Franz. Zeller - Bible Citics in the war zone. Rev. Francis E. Clark D. D. L. L. D. - « Remember» V. - Rev. John Hutton M. A.
The BiblicalWorld (yòl. XLV, n. 6, giugno 1915). - Editorial:
Chiunque, infatti, adotta in tal caso una posizione indifferente, favorisce in realtà chi ha torto contro colui che ha ragione ».
L’imparzialità stessa avrebbe quindi fatto un dovere a Benedetto XV di giudicare gli avvéniménti e di pronunciarsi nettamente contro ogni ingiustizia. Sbagliare in qualche dettaglio sul terreno dei fatti sarebbe stato sempre un più lieve errore, e facilmente riparabile, che quello di abdicare alla propria funzione spirituale.
«Se il papa, scrive il Loisy, non si riconosce il diritto di opinare in materia di giustizia se non per definire teoricamente l'obbligo di non far torto al prossimo egli non incontrerà mai una difficoltà. Ma il primo venuto può compiere questo facile compito, il quale non è per se stesso un’opera di giustizia. Quando Benedetto XV ci avverte che egli non impegnerà l’autorità pontificia nella lite dei belligeranti, egli non spera senza dubbio di Sersuaderci che questa lite non sia suscettibile d’un giu-izio di giustizia, egli non può voler dire altra cosa se non che egli non vuole nè deve immischiarsene, vale a dire che egli intende restare neutro riguardo a questa lite. Similmente quando egli parla degli inconvenienti che potrebbe provocare un suo intervento, vale a dire un giudizio che sarebbe dettato da considerazioni di giustizia imparziale, egli non si mette dal punto di vista della verità nè del diritto, ma dal punto di vista dell’opportunità politica, punto di vista che è quello della neutralità. Gli inconvenienti di cui egli si spaventa non sono l’inquietudine e il rimorso delle coscienze consapevoli dei loro errori e dei loro delitti, magli imbarazzi che potrebbe cagionare all’amministrazione pontificia lo scontento dei poteri e dei popoli le cui ambizioni e i cui calcoli sarebbero stati sconvolti da un intervento pubblico per il rispetto del diritto. Donde la conseguenza che il papa non potrebbe difendere la giustizia se non quando egli non corresse alcun rischio, quando, cioè, la giustizia non fosse violata dai più forti. Nonostante, perciò, le apparenze e a dispetto del vocabolario che serve ad avviluppare le sue dichiarazioni, l’autorità del papa non appartiene principalmente all’ordine morale; essa è sopratutto un frammento di potere politico, di cui il possessore molto naturalmente difende la conservazione per mezzo della neutralità ».
La guerra attuale costituisce un vero esperimentum crucis per le persone e per le istituzioni. In questa grande prova noi possiamo renderci conto di ciò che realmente valevano certe nostre idee, certi nostri sentimenti e quale fosse il contenuto religioso, politico o sociale di certi istituti e di certe tradizioni. L'attitudine del papa di fronte al conflitto attuale si mostra ancora una volta come un istituto essenzialmente e preponderatamente politico. Ecco perchè egli non poteva sentire nè quindi pronunciare quelle parole liberatrici che credenti e non credenti si attendevano da lui.
E dobbiamo constatare con il Loisy, « dopo l’impotenza del Vangelo, l’impotenza del pontificato romano davanti alla crisi attuale dell’umanità » e come « le grandi forze morali del passato più non dominino la situazione presente ».
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LA GUERRA
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In un ultimo capitolo, il Loisy-esamina la natura del soffio religioso che scuote in questo momento Fanima dei popoli. In fondo egli sostiene che il risveglio della fede, e sopratutto della fede cattolica, quando esso non si riduce a una pratica puramente superstiziosa, si sia piuttosto verificato presso coloro che già prima credevano che presso gli increduli. Più che essere alimentato dalla rinascita o dal fiorire di specifiche credenze confessionali, l’ardore religioso dei combattenti è frutto del sentimento del dovere, del sacrificio di sèa un ideale comune, intensamente e divinamente vissuto. Il culto della patria domina il culto delle divinità. Le preghire Eer la pace non vengono recitate che se esse significano i vittoria delle proprie armi. Essere cittadino e soldato della propria patria è più urgente, più necessario più profondamente sentito che essere membro di una data confessione e fedele di una data chiesa. La grande prova fonde come in un crogiuolo tutti i clericalismi e di sinistra e di destra. « Nelle trincee, scrive il Loisy, non si riconoscono più nè preti nè fedeli, nè credenti nè increduli, nè clericali nè anticlericali, non ci sono più che dei Francesi che vanno tutti d’accordo perchè per il momento hanno tutti la stessa religione, una re igione che essi potranno, che essi vorranno conservare. Questa religione della patria darà il suo contenuto religioso e morale alla futura opera di pace.
E sarà consacrando tutte le proprie energie al progresso, sulla base della giustizia, del proprio fondamento d’umanità, che è la patria, che si lavorerà veracemente per il progresso della più grande umanità.
Antonino De Stefano.
LA GRANDE SCOPERTA
BOZZETTO.
Quelli che conoscono meglio le condizioni del popolo britannico pensano che la guerra attuale avrà una influenza benefica sulla nazione. Da lungo tempo la gioventù si è data spensieratamente ai divertimenti ed a trascurare il lato più serio della vita, con la conseguenza inevitabile che le Chiese di tutte le denominazioni ne hanno grandemente sofferto. Oggi di fronte al dolore e all'ansietà gli uomini si rivolgono istintivamente a Dio per soccorso, ed alla religione per quel conforto che altrove non possono trovare. Anche i giornali politici hanno preso un indirizzo religioso che non si è verificato mai in tempi di prosperità e di pace. Il seguente bozzetto tradotto dallo Scotsman, giornale principale della Scozia, servirà per dimostrare l’un asserto e l'altro.
W. Kemme Landels.
Mentre mi è ancora fresca nella mente racconterò la cosa incredibile che è successa nella nostra parrocchia. Siamo stati avvezzi a dare poca importanza alle cose grandi della vita; oggi ci troviamo a faccia a faccia colla cosa massima. Per molti anni vivevamo sulla superficie delle cose. I raggi del spìe illuminavano i declivi dei nostri colli tingendoli la sera di porpora; noi usavamo
• Cristianizing patriotism • - C. Zollmann: « The Clergyman in the american law » - J. M. Coulter: « The witness of nature to religion»- L. Bayles Paton: « Archaeology and the book of Genesis IX » - Viscont Kentan Koneks: «Christianity and internationalism » - Allan Hoben: «The duty of the church in relation to the struggling classes ■ V - Shatter Mathews: « The message of Jesus to our modern life» IX.
— (Vol. XLVI, n. 7, luglio 19x5)-.
Editorial: « Counting our assets» - G. Cross: «Millenaria-nism in Christian history». -J. H. Tufts: «The services of present day philosophy to theological reconstruction » - H. H. Lindeman: « Apostolic christo-logy; a comparison of Paul with his predecessors » -1.. B. Paton: « Archaeology and the book of Genesis » X - R. W. Sanderson: «Un apologetic Christianity • -E. D. Hardin: « A religion of valor » - M. Muncy Church: « Accredited Bible-study ».
The Bible Magazine (vol. Ill, luglio 1915). - Editorial: «The appeal to the will» « The Mormons » - L. H. Hough: « The preacer as a student of philosophy » - T. H. Rice: « The faith of Jonathan (Sermon)». -A. F. Schau filer: « Demoniac Eossession » - J. B. Kelso: « A istory of radical biblical criticism »II - F. S. Goodman: « Jesus the theacer of theacers» L. M. Sweet: «Collateral readings on the International Sunday School Lessons » - W. W. White: «A Key to the Bible».
The Princeton Theological Review (luglio 1915). -J. G. Machen: «History and faith» -R. D. Wilson : «The Book of Daniel and the Canon » - H.W. Rankin: « Philosophy and the Sroblem of Revelation». - W.
. Armstrong: « Critical Note» Reviews of recent Literature.
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The Modern Churchman (lu-Elio 1915). - P. H. B.: «The :ugby Conference». - H. Symonds: «The Kikuyu statement » - Edwards Rees: « The Dean’s Impeachment» - G. Milner: ■ John Hales and his Friends » - J. C. Hardwich: • A religious classic a - F. Nevill: «The Soul’s rebuke» - A. G. Widgery: « Immortality » -Churchmen’s Union News -Correspondence; A vigorous protest - The Kikuyu Judgement and Dr. Henson’s Criticism - The Dean of Durham and • Kikuyu » - Is the Virgin Birth a Law of Creation? -• Love Jour Enemies », ecc.
NOTIZIE
Gruppo di azione civile in relazióne alla guerra europea
Scopo
Il ■ GRUPPO DI AZIONE CIVILE in relazione alla guerra europea » si propone di portare tutto il suo possibile contributo per la realizzazione dei seguenti scopi:
— Favorire la vittoria del-l’Italia, ritenuta doverosa pel riscatto delle popolazioni italiane soggette all’Austria, e per difendere il diritto delle genti offeso dagli imperi centrali.
— Insistere perchè la guerra sia combattuta secondo le norme del vigente diritto internazionale.
— Affermare nella sua integrità il valore della partecipazione popolare nella guerra d’Italia e nel conflitto generale.
— Sostenere, conseguentemente, il diritto dei popoli di reggersi politicamente secondo la volontà propria liberamente espressa.
— Propugnare la ricostituzione delie nazioni secondo i naturali aggruppamenti dei singoli popoli.
lasciare gli affari in città, ed affrettarci a ritornare ai nostri giardini. Alzando gli occhi ai colli, la nostra sicurtà ci sembrava immobile come le loro creste, creste che dominavano le piccole valli ai loro piedi, ritrovi di antica pace. Lunghi anni di agio oscuravano la nostra visione. Le campane della Chiesa suonavano in vano per molti di noi. Quelli che avevano sei giorni della settimana per i loro piaceri, avevano incominciato ad impiegare il settimo aH’istesso fine. Il giorno della pace, poco alla volta diveniva giorno d’inquietudine. Cosi stavano le cosa tra noi quando colla rapidità del lampo l’incredibile ci colse.
I.
Ah! se io potessi trovare parole adatte alla circostanza. Ma non vi sono parole che possano descrivere il subitaneo incontro con Dio. Esso fu accompagnato dal rombo dei cannoni al di là del mare. La grande città giaceva assopita fra noi e la spiaggia, e sopra le sue torri ed i suoi campanili venne il frastuono sotto le stelle. Eralaguerra. Quell’eco da lontano non fu forse l’orrida lotta della mente, ma ne fu certo foriera. La morte cavalcherebbe fra breve su tutti i flutti dei mari. Sulle facce si notava un’espressione austera. Quanti « Addio » furono detti in quei giorni! Ah! quella parola « Addio che noi usiamo tutti i giorni e che, come quelle vecchie monete che, passando di mano in mano perdono l’imagine e la soprascritta, perde il suo significato primitivo, ritenendo nulla salvo un leggiero aroma di cortesia, quella parola prendeva per noi un nuovo significato. Si udiva sulle labbra delle madri, che stringevano fra le braccia i figliuoli chiamati a raggiungere i loro reggimenti; e quando le pallide labbra dissero « Addio » a quelli il cui sangue era destinato a bagnare i bei campi della Francia, allora noi ne comprendemmo il vero significato. Quella parola che prima era stata senza valore, oggi esprimeva il desiderio Ìiù profondo che labbra umane possono proferire: ddio sia leco! Sulle labbra di una madre la parola signi fica l’affidamento del figliuolo alle cure dell’onnipotente Dio. Così, mentre il raccolto maturava sui declivi, ed il tamburo dava l’ordine di marciare, i forti giovani partivano col sorriso sulle labbra alla vòlta della grande messe della morte, e noi imparammo il significato di una parola. Più tardi avremmo imparato il significato di un’altra.
È nell’oscurità della notte che le stelle appariscono negli abissi immensurabili dell’infinito, e fu quando il crepuscolo diveniva notte, che quella parola si alzò nel firmamento della vita e bruciò rovente nelle nostre anime, e quella parola era « Dio ». Ci sembrava incredibile che avessimo mai avuto bisogno di quella vecchia parola. Come nazione eravamo così potenti e così ricchi? La nostra fiducia era grande, ma posava sulle siluranti e sul numero delle nostre Dreadnaughls. Ma sembrava che tutte quelle cose ad un tratto ci venissero meno. Un incubo ci invadeva l’anima, un incubo che non si mosse nè notte nè giorno. I nostri soldati furono respinti indietro.
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GESÙ NELLA TRINCEA
[Riproduzione di una cartolina assai diffusa in Germania. Documento rivelatore della mentalità germanica odierna. Sulla cartolina legga!, a sinistra : " Nella trincea 1 : a destra : ' lo sono con voi lutti i giorni ’. Matteo. 28. 19-20)
[1915-VIII]
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LA GUERRA
[Notizie]
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indietro e indietro ancora. Di giorno combattevano, e di notte erano in marcia, ed a noi sembrava nelle veglie della notte di udire lo scalpitio dei loro piedi stanchi e insanguinati. Ma non avrebbe avuto termine quello sfilare di uomini perseguiti dalla morte? Stava forse Eer crollare sotto 1 nostri piedi l’impero edificato dal-eroismo di secoli? Sarebbero giunte fin alle nostre porte gli orrendi atti di crudeltà e di vergogna? E guardavamo i nostri figliuoli con una stretta al cuore, ma essi non capivano l’espressione dei nostri occhi. Ah! quegli orrori infernali, potrebbero succedere anche all’ombra dei nostri colli. Fu allora che la parola mistica incominciò a brillare nei cicli. E quella parola era Dio.
II.
Avevamo rizzata una nuova chiesa nella nostra parrocchia acciocché avessero un luogo ove offrire il loro culto a Dio, quelli che, lontano dal rumore della città, avevano edificate le loro case nella quiete delle nostre valli. Ma l’amore pel culto moriva in loro d'inedia; e la vecchia Chiesa ove solevano riunirsi quei del paese in un’atmosfera che si faceva opprimente in un caldo giorno d’estate, quella vecchia chiesa sarebbe bastata per contenere tutti quelli che pensavano al culto, giacché l’istinto della preghiera sembrava moribondo. E molti, >erchè la nuova chiesa era troppo vasta, rimpiangevano a vecchia. Ma tutto ad un tratto la nuova chiesa si empì lino alla porta. Uomini e donne presero la strada conducente alla valle ove si trova la chiesa, circondata dalle tombe dei trapassati. Con cera pensierosa essi si volsero verso di essa. Mentre la campana suonava, essi stavano in gruppi fra le tombe e una parola si sentiva sulle labbra di tutti « Guerra, guerra, guerra ». E quando cessavano i rintocchi della campana, essi entravano nella chiesa affollata.
Seduto ivi, e guardando attorno, fui preso da grande meraviglia. Quelli che per il passato, non erano mai scesi al suono della campana erano seduti qua e là, come se fossero stati abituati a trovarsi sempre al loro posto quando il custode con testa alta conduce il ministro al pulpito e ve lo chiude dentro. Sulla panca avanti a me era seduto un uomo rozzo colla testa grossa. Egli prima non era mai venuto in chiesa. Più volte mi aveva spiegato le sue idee. Secondo lui la preghiera non era altro che una superstizione. Leggi cosmiche inalterate ed inalterabili tenevano l’universo nel loro potere. Domandare che una di queste leggi fosse sospesa per un sol momento, perchè un beneficio ci fosse concesso, sarebbe come chiedere lo sfacelo dell’universo. Perciò la preghiera era immorale, ossia domandare quello che non poteva essere accordato, e che noi sapevamo di non poter ricevere. Andare in chiesa, per lui sarebbe un’ipocresia. E così avveniva spesso che i contadini recandosi in chiesa in qualche mattina d’estate, udivano il rumore della macchina del mio amico che tagliava l’erba del giardino. Tale era il suo metodo di dichiarare
— Facilitare i rapporti fra le nazioni amiche dell’Italia, di modo che fra esse non sia più possibile l'eventualità di una guerra.
—- Preparare sin da ora l’ambiente morale perchè con la nostra vittoria ed a guerra ultimata le relazioni fra i popoli possano svolgersi pacificamente secondo i principi di libertà politica e commerciale, e di giustizia sociale.
Mezzi
Il Gruppo si propone - coordinando le energie dei proprii aderenti - di esplicare la sua azione:
a) per mezzo della stampa, e della propaganda orale od epistolare, sia in Italia che all'estero;
b) aderendo, pel tramite intelligente di suoi delegati, alle iniziative affini;
c) costituendo un fondo -mediante volontarie contribuzioni mensili - destinato a provvedere nei limiti del possibile a tutti quei casi pratici relativi agli scopi del Gruppo.
Direzione
Il Gruppo è guidato ed amministrato da una Direzione scelta dagli aderenti e con essi in continui rapporti.
Al Gruppo possono partecipare tutti 1 cittadini che ne approvino gli scopi, e siano conosciuti alla Direzione o ad essa favorevolmente presentati.
LA DIREZIONE
Paolo Cantinelli - Lelio Fontana - Terenzio Gandi -Guido Piovano - Amedeo Remondino.
Per corrispondenze, indirizzare: Gruppo di azione civile. Via Bologna, 23, Torino.
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Pubblicazioni pervenute alla Redazione
— Odoardo Jalla: Il compagno del soldato. Firenze, 1915. Opuscolo di 32 pag. Cent. io.
— Michelangelo Billia : Le ceneri di Lovamo e la filosofia di Tamerlano. Milano, edizione de • l’Azione» rassegna nazionale liberale, 1915. Pag. 34.
— Louis Trial : Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre 1914-1915. Pagine 100. L. 1.25.
— Romolo Murri : La croce e la spada. Della serie «I libri d’oggi »-Firenze, 1915. Volume in-8 di pag, 215. L. 0.95.
— Ottorino Montenovesi : Il Campo Santo di Roma. Storia e descrizione con una pianta generale e 29 illustrazioni. -Roma, 1915. L’Universelle imprimerie polyglotte. - Voi. di pag. 173. Prezzo L. 3.
—— Pendant la guerre. Discours prononcés à (’Oratoire et au Nouveau Temple de Lyon. <5B serie. Volumetto di pag. 104. L. 1.25. Ed. Fischbacher. Paris, 1915.
— G. Boissonnas: Les Neutres et la Conscience. Discours Erononcé à Paris. Paris, Fisch-icher, 1915. Pag. 16. L. 0.40.
— Attilio Begey : La Polonia nella Storia. Conferenza. Torino, Comitato Torinese « Pro Polonia », i9i5.Pag. 24. Cent. 50.
— Silvio Pons: Frère Jean du B6-du-Col. (Conte historique du Xe siècle). Pistoia, 1915.
— R. Paribeni: I quattro tempietti di Os/ia. (Estratto dai Monumenti Antichi pubblicati per cura della R. Accademia dei Lincei). Roma, 1915. Fascicolo in 4® con 23 figure e 3 tavole.
alla parrocchia che la cultura non ha che fare colle superstizioni antiquate.
Eppure, eccolo seduto davanti a me con in mano un libro di cantici ritirato alla porta d’ingresso, dove si trovano i libri per gli estranei. Il mio amico cantò il primo inno in modo da dimostrare ch’èra stato ben allevato da sua madre. Allora pensai ad. altre cose, ma tutto ad un tratto un singhiozzo mal celato richiamò la mia attenzione su lui. Il ministro stava pregando per le forze militari « di mare, di terra e dell’aria ». Fui colpito dalle parole « dell’aria » perchè esse uscivano dall’ordinario, erano, per così dire, una novità. Ogni invenzione umana sembrava destinata a divenire un arma nelle mani del diavolo. Ma la preghiera continuò, per i marinai vigilanti nelle tenebre, che Iddio volesse Scardarli, che per il loro coraggio costante i nostri lidi ossero protetti; per i soldati alle prese col nemico e colla morte, che il Signore volesse soccorrerli e coprirli colle sue ali nel giorno della battaglia. « Distruggi il fiero potere dei nostri nemici », gridò il ministro, « acciocché coi cuori pieni, noi ti lodiamo, Dio dei nostri padri ». Un gran silenzio dominò l’assemblea. Gli occhi chiusi videro i rossi campi di battaglia, colle masse ondeggianti, mentre scoppiavano le bombe, e gli areoplani volavano tra il fumo dei cannoni e le grida di uomini colpiti a morte ferivano gli orecchi. Fu allora che avvenne la grande cosa. La voce del ministro si interruppe, riprese, si interruppe di nuovo, ed egli, dimenticando le parole ben scelte e ben ordinate che aveva preparate, incominciò a parlare dei cuori angosciati, dei padri e delle madri i cui figliuoli non ritornerebbero più, delle donne nelle loro case desolate i cui mariti dormivano già in fosse sconosciute, dei piccoli fanciulli che non im-Birerebbero mai a pronunziare la parola « Padre »... u allora che il mio amico cercò di trattenere un singhiozzo. Dopo tutto, nonostante i suoi ragionamenti, vi era un qualche cosa di superiore alle forze cosmiche, supcriore alle leggi, con un occhio pietoso e con un braccio salvatore. Vi era Dio! Il figlio del mio amico era nel famoso reggimento che stava lottando col destino. Era lungi da qualsiasi soccorso, e non aveva altri che Dio a cui ricorrere. Nella nostra vita giunge l’ora in cui finalmente il cuore comprende che l’istinto è superiore alla logica, a quella logica che è l’ultimo rifugio di chi è debole di mente. Allora si ebbe la visione di una nazione intera, anzi di tutte le razze della terra, risvegliate e scosse da una nuova esperienza. Dappertutto i santuari s’empirono, gli occhi si alzarono a Dio, perchè l’istinto è più potente della ragione. Il fumo della battaglia ha rivelato la faccia di Dio.
IH.
Da noi nella Scozia la cosa principale nelle chiese parrocchiali è sempre stato il sermone. Ma oggi le cose sono mutate, oramai la cosa più importante è la preghiera. E il discorso del ministro ebbe per tema appunto
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[Cose nostre]
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la preghiera. Egli dimostrò con linguaggio chiaro e ben ordinato, che la preghiera non è, come alcuni pensano, un rimasuglio di fanatica superstizione, bensì una grande potenza. Con molta dottrina egli discusse la quistionc se Iddio possa renstringersi in una cerchia di leggi cosmiche che lo metterebbero nell’impossibilità di rispondere alle preghiere. Il suo ragionamento però non commoveva l’uditorio. Ma in quel luogo e in quell'ora la ragione doveva cedere dinanzi all’intuizione. « Se io son libero » esclamò il predicatore, « di correre in aiuto di mio figliuolo che, nel suo terrore grida al soccorso; e se quando le sue creature gridano a Dio, Egli è legato e non può aiutare e sollevare, ciò vuol dire che egli è più povero di me; la libertà è così grande! ». Disse poi che la preghiera non è una specie di ginnastica spirituale. Un Dio circoscritto dalle leggi e nell’impossibilità di esercitare l’amore e la tenerezza paterna, sarebbe l’essere più degno di compassione nell’universo. Il Creatore non siede muto e sordo sul trono dell’indifferenza, facendo nulla e rispondendo a nessuno. La storia ci dà la prova che a lungo andare la giustizia trionfa. Allora il ministro con tono misurato parlò della difficoltà di credere all’efficacia della preghiera, nel caso che quelli che si chiamano Cristiani, si trovino a faccia a faccia col conflitto mortale, ciascuno invocando la vittoria, figliuoli dell’istesso Padre chiedendo il trionfo gli uni sugli altri. Ma la difficoltà è solo apparente. L’unica preghiera che prevale è la preghiera offerta .in nome di Cristo. « Ogni cosa che voi avrete chiesta in nome mio, quella farò! ». Domandare nel suo nome è domandare nel suo spirito — spirito di umiltà, di abnegazione, di amore; spirito di sottomissione alla volontà suprema. La quistione è: quale delle preghiere per la vittoria, sia la preghiera offerta in nome di Cristo...
Questo ragionamento fu chiaro, convincente, ma freddo. Raramente il ministro della nostra parrocchia si lascia commuovere da passione. Oggi pero tutto ad un tratto un’onda di emozione passò sopra lui. Gittando indietro la testa, cogli occhi che sembravano sprizzare fuoco, con la voce che vibrò per tutta la chiesa, esclamò: « Quando io penso alle cose che si son fatte dagli uomini, col nome di Dio sulle labbra; quando penso a certe atrocità cui il Turco non si abbasserebbe, quando penso alla guerra che si è fatta contro alla fede di secoli che innalzò le grandi cattedrali che oggi sono incenerite; quando penso alle donne ed alle fanciulle poste sugli altari insanguinati di passione umana; quando penso che tutto ciò si è fatto in nome della cultura, della cultura del superuomo che si vanta d’essere superiore ai Dieci Comandamenti, allora io dico: faccia Iddio che la cultura che produce tali frutti scompaia dalla faccia della terra! La preghiera per il trionfo di una simile causa, non può essere innalzata in nome di Cristo... ».
E il predicatore non potè procedere oltre.
Ecco quello che avvenne — e può darsi che alcuni non crederanno alla mia parola, giacché lo Scozzese, quando si trova in chiesa è un vero stoico; non si muove, è muto mentre ascolta la Parola. In quel giorno tutte le
Parecchi dei nostri amici e collaboratori sono al fronte. Alcuni già sono stati raccolti feriti, altri sono caduti. A tutti inviamo il nostro pensiero affettuoso e riconoscente.
Tra i caduti ricordiamo in altra parte del fascicolo, con parole di loro intimi amici, il prof. Eugenio Vaino e Renaio Serra. Qui conserviamo il ricordo del prof. A urelio Pelazza ohe fu sin dalla prima ora amico ed ammiratore della nostra Rivista. Era professore di filosofia al liceo di Aosta ed è caduto combattendo sull’Isonzo. Quale lotta acerba, dolorosa, si sia combattuta in quell’anima di pensatole e di solitario all’ini-ziarsi delle ostilità, lo dimostrano le lettere che egli allora dirigeva all’amatissima fami glia. Alla vecchia madre, che egli amava teneramente, scriveva: « Vorrei arruolarmi volontario, ma so di essere il tuo unico sostegno e me ne astengo ». Erano dunque due sentimenti che s’alternavano con pari intensità in quella coscienza: il pensiero della madre ed il sogno di un’ Italia più forte, giù grande. L’amor patrio ha nito per prevalere.
Scrisse diverse opere, special-mente di critica filosofica, ed ebbe la soddisfazione di ritrarne il plauso di competenti italiani ed esteri, di professori, di accademici francesi, inglesi, tedeschi, ecc.
Bilychnis pubblicò nel fascicolo di dicembre 1914, p. 452.
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una recensione del suo lavoro su • G. Schuppe e la filosofia dell’Immanenza », scritta dal prof. B. Varisco.
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Con vivo rimpianto dobbiamo registrare qui la notizia della morte .di un altro amico della nostra Rivista : il prof. Arnaldo della Torre — morte avvenuta per malattia. Di lui dirà {>iù ampiamente un nostro col-aboratore nel prossimo fascicolo. Era professore nell’istituto Superiore Femminile di Roma e libero docente all’Uni-versità. Figlio del Pastore E-vangelico Giacomo Della Torre, aveva 39 anni ed era nato a Torre Pellice; però poteva dirsi fiorentino perchè aveva studiato nell’Istituto Superiore ed insegnato nei licei di Firenze. Con la sua scomparsa gli studi religiosi in Italia perdono uno dei loro più attivi e operosi cultori.
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Abbiamo partecipato vivamente al dolore del nostro amico e collaboratore E. Rutili nella morte della sua cara c bella piccina Fiammetta, che per quasi un anno aveva riscaldato e allietata la sua casa.
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Siamo lieti di poter celebrare degnamente il centenario del martirio di Giovanni Hus, il maggiore eroe della nazione Boema, pubblicando un lavoro preparato dal nostro collaboratore prof. Mario Rossi con scienza ed amore. Non esitiamo a dire che lo scritto è quanto di meglio abbia dato l’Italia su quell’immortale martire.
Al prossimo numero la prima puntata.
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Preghiamo i nostri lettori di rivedere quanto scrivemmo nel fascicolo di giugno a pag. 506,
tradizioni della parrocchia vennero rovesciate. Nella galleria da un lato era seduto il generale, colle spalle rivolte al ministro. Egli usava mettersi in quella posizione per poter notare quali dei suoi servitori e dei suoi fittavoli erano in chiesa, e quali assenti. Quando io leggo dei nobili della Francia che andavano scherzando al patibolo nei giorni del terrore, penso sempre al generale. Egli è di simile razza. Nel giorno di cui scrivo, durante il discorso, poco alla volta, egli si voltò. Alla fine ebbe il pulpito di fronte. I suoi occhi sfavillanti si fissarono sul predicatore. Suo figlio aveva trovato la morte sul campo di battaglia; e quando le parole echeggiarono per la chiesa: « Faccia Iddio che tale cultura perisca... » egli saltò in piedi. « Amen! » gridò ad alta voce. Vi fu un movimento convulso nell’assemblea. Come un sol uomo tutti si alzarono in piedi. Le mani si levarono verso il cielo « Amen! Amen ! » gridarono gli astanti, e poi si udì un applauso, alquanto ritenuto, sì, ma sempre un applauso. Nel pulpito le parole morirono sulle labbra del predicatore. Stette come se avesse ricevuto un colpo. Guardò stupefatto la congregazione. I fedeli si misero di nuovo a sedere come compresi di vergogna. L’ultimo a sedersi fu il mio amico che teneva sempre le mani in alto. Credo che fosse lui a gridare; « Bravo! Bravo! ». Il sermone non fu ripreso. Il ministro a bassa voce disse: « Preghiamo », e si abbassò davanti a Dio, come uno che entra nella valle dell’umiliazione, e poi propose il canto di questo salmo.
« Dica pur ora ¡strade — Se non che il Signore fu per noi... Essi ci avrebbero trangugiati tutti vivi... Benedetto sia il Signore — Che non ci ha dato in preda ai loro denti! ».
Il salmo, cantato in quel giorno fu come un peana di trionfo. Le nuvole ad un tratto si dispersero. Ci parve udire cantare i nostri padri nei loro giorni tenebrosi. E quelli che cantarono quel salmo nei tempi antichi, vinsero; perchè la causa della libertà deve sempre trionfare. E noi che lo cantiamo oggi dobbiamo vincere, perciocché dietro a noi vi è un potere maggiore di quello della spada e del mortaio, cioè il potere del Signore Iddio Onnipotente.
Ed ecco come noi facemmo la più grande di tutte le scoperte; noi trovammo Dio.
IV.
Ieri mattina andai per tempo alla stazione della ferrovia, ed ivi, nella sala d’aspetto trovai il mio amico che stava discorrendo col bigliettaio. Questi è filosofo. Egli frequenta la chiesa perchè gli piace cantare i salmi; ma quando uno dei nostri, che ha l’abitudine di frequentare i convegni per lo sviluppo della vita spirituale, viene alla stazione, il bigliettàio lo invita nell’ufficio per ragionare con lui. « Amico mio », dice egli « non vi è nulla di sèrio in quei convegni. Posso assicurarti che non vi è nulla in essi... tutte chiacchiere ». « Verrà il tempo » dice l’altro « che tu comprenderai il loro valore ». « Se tu
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volessi studiare la filosofìa » riprende il bigliettaio « cambieresti la tua opinione ». Ma ieri quando trovai i due che parlavano insieme, udii solo la fine dell’argomento: «Amico mio» disse il bigliettaio, «incomincio a credere che vi sia qualche cosa di buono in quei convegni ». All’istesso tempo vidi il generale, eolia sua piccola canna in mano, parlare col calzolaio, il più grande radicale della parrocchia, e membro di quel partito col quale il generale non vuole avere relazione alcuna. Ma essi parlavano insieme come fratelli. Il calzolaio ha un figlio che combatte in Francia, ed il suo cuore è molto afflitto. Ed il figlio del generale è morto! Mentre camminavo per la salita vidi il generale mettere la mano amichevolmente sulla spalla dell’altro, e questi salutarlo separandosi. Sulla faccia del calzolaio mentre passava davanti a me, vi era un’espressione di grande tenerezza. Nella nostra parrocchia abbiamo davvero fatto la più grande delle scoperte. Abbiamo trovato Dio; e nel trovarlo, ci siamo all’istesso tempo trovati l'un l’altro. L’uomo che, nella sua follia, accese la fiamma lurida della guerra, poco pensò a quest’altro fuoco che egli avrebbe acceso.
RELIGIOSITÀ DELQSOLDATO INGLESE
Il vescovo di Londra, di ritorno da una visita al campo inglese nelle Fiandre, dove in 15 giorni ha tenuto circa 60 servizi religiosi, sul fronte, e visitato accuratamente 22 ospedali militari, ha fatto una relazione delle sue esperienze in tale occasione.
Avendo avuto occasione di conoscere personalmente e ammirare lo zelo e la larghezza d’idee dell’illustre prelato della chiesa anglicana, posso credere che le sue espressioni rappresentino in modo equilibrato e realistico le condizioni morali e religiose della media dell’esercito inglese: e credo, perciò, interessante darne un breve riassunto.
« ... Molto si è detto dello spirito, dello « humour », della risolutezza, dello splendido coraggio e della forza di resistenza del soldato inglese; ma poco si parla di quella fede semplice di cui il suo animo si è imbevuto in qualche pacifica famiglia, o che apprese nella scuola domenicale, la quale è in gran parte, la sorgente da cui sgorgano le altre qualità. Come mi disse uno dei primi generali, «spesso si disconosce il lato sentimentale dello spirito del soldato inglese». La risposta dell'armata intiera al mio appello durante il periodo pasquale è stata straordinaria. Ai miei servizi religiosi, benché quasi tutti esclusivamente volontari, assistettero non meno di 1000, e spesso 4000 soldati. La metà circa dei servizi furono tenuti all’aria aperta; altri in cinematografi, grandi stabilimenti, o negli enormi magazzini delle provviste militari. La cerimonia più commovente fu quella del giorno di Pasqua, in cui, di buon mattino, dopo aver somministrato la Comunione a 200 tra ufficiali e soldati in una scuola distante meno di un miglio dalle linee tedesche, e il soffitto della quale era stato portato via da una granata, seppi chè altri 150 ufficolonnina delle Cose Nostre, circa un’ opera buona nella quale alcuni e forse molti amici di Bilychnis potrebbero trovarsi uniti. Ringraziamo quelli che si son fatti vivi e speriamo di ricevere altre risposte favorevoli.
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Alle lettrici e amiche di Bilychnis ricordiamo che i nostri soldati al fronte hanno bisogno urgente di indumenti di lana e i feriti di buone infermiere.
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All’ultimo momento, mentre rivediamo le bozze, ci giunge la notizia di un grave lutto che colpisce un altro fedele amico e collaboratore della nostra Rivista. All’affetto del dott. Mario Rosazza è stata rapita dopo breve e grave malattia la giovane sposa. Partecipiamo con tutta la nostra profonda simpatia allo strazio del nostro amico.
LIBRERID EDITRICE “BILYCHNIS”
Via Crescenzio 2, ROMA
[Novità]. Louis Trial : Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre 1914-19x5. Volume di pag. 100. L. 1.25. (A beneficio dei feriti).
Sommario: Motifs d’éspéran-ce - «Consolez, consolez mon peuple» - «Demeurons fermes dans la profession de notre foi» - La patrie - Exaltation du patriotisme.
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[Novità]. Romolo Murri, La croce e la spada. Firenze, 1915.
Vol. in-8° di pag. 216. Prezzo L. 0.95.
Sommario: Tutta la storia è religione (Il turbine spirituale.
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- Nuova inquietudine religiosa - La religione fastigio di ogni vita). - Tutta la storia è guerra SLa guerra senza confini - Volute parziali e unilaterali - La Eienezza della guerra). - La gica della violenza (Le interne antitesi della storia - I teorici della volontà tedesca - I teorici della razza tedesca - I teorici della guerra tedesca). -La logica della rinunzia (Il nazionalismo giudaico - Il regno dei cieli e il rovesciamento della storia - Filosofia indiana della guerra - Il vangelo della rinunzia e la storia).-Il cristianesimo e la guerra nei secoli (I due regni. Teologi e asceti -La teologia di Lutero - L’alterna vicenda - La decadenza e il neutralismo papale - La nuova coscienza religiosa). -Nazioni e religioni d'Europa (La nazione, come fatto religioso - La Spagna - L’Impero austriaco - La Francia - La Germania - L’Inghilterra -La Russia). - I responsabili della guerra (L’importanza della ricerca-La responsabilità della Germania; La premeditazione; la preparazione; l’aggressione; la violenza brutale - L’Europa contro la Germania - La reazione delle coscienze). - Il neutralismo italiano e i cattolici (Ragioni e limiti della nostra neutralità - Chiesa c nazione in Italia - Democrazia e neutralismo - Il Vaticano e i cattolici italiani). - Il Vaticano e la guerra. (Le due vie - Iniziative diplomatiche - Lamenti e E Poteste contro la neutralità -.a parola del papa - La preghiera per la pace - La crisi della Chiesa - L’Italia e la Chiesa). - Aspetti religiosi della guerra. (La religione delle trincee. - Dio, le chiese e la guerra -La protesta religiosa - I cattolici tedeschi e la guerra - Religioni in guerra - Le persecuzioni contro gli ebrei - Ortodossia russa e cattolicismo austriaco - L’eredità turca e la religione nei Balcani). L'europa
ciali e soldati aspettavano di fuori per riavere anch’essi la Comunione Pasquale: naturalmente, tenni per essi un altro « servizio ». Prima di ogni ufficiatura, solevo annunziare un messaggio delle loro famiglie, dicendo loro che dovevano immaginare che le loro spose, madri, figli, fidanzate, avevano inviato loro per mio mezzo tutto il loro amore, e che tutta la nazione pensava a loro e pregava per essi, giorno e notte. Non appena l’ufficiatura cominciava, la nota religiosa prendeva immediatamente possesso dell’adunanza, ed io restavo sorpreso della risposta immediata che riceveva il mio invito alla più profonda spiritualità. Pochi spettacoli rimarranno scolpiti nella mia memoria più vivamente, della vista, dall’alto del carrozzone o della piattaforma improvvisata che mi veniva sempre preparata, di quelle migliaia di volti rivolti verso di me, che cantavano con una profondità di emozione e serietà di sentimento che non poteva ingannare, l’inno che comincia: « Quando io rimiro l’ammirabile Croce... ». Il giorno di Giovedì e Venerdì Santo presi per testo le parole dette da Gesù sulla Croce, e come spesso mi fecero osservare i generali e gli ufficiali intervenuti in gran numero, « i soldati sembravano bere avidamente ogni mia parola ».
Durante l’ufficiatura, i cannoni tuonavano, e gli areoplani inglesi volteggiavano intorno, quasi angeli custodi, per proteggere da sorprese l’attraente bersaglio di 4000 uomini con un vescovo nel mezzo: la scena era impressionante. Poiché il tempo era strettamente limitato, il « servizio religioso » si riduceva al canto di due o al più tre inni, ad alcune preghiere assai semplici, tradotte dalla liturgia russa, delle quali avevo circa 2000 copie ad uso dell’adunanza, e ad un breve discorso di circa un quarto d’ora: in tutto, non più di mezz’ora. Alla fine di ogni « servizio » il mio cappellano distribuiva il « souvenir » del vescovo — come i soldati lo chiamavano — cioè un ricordino con l’immagine della Crocefissione e della Risurrezione e con alcune brevi preghiere e riflessioni, scritte da me stesso.
Sentii dappertutto dire un gran bene dell’opera dei cappellani di tutte le chiese cristiane: ufficiali e soldati, li riguardano veramente come « guide, filosofi e amici ». I.e solenni realtà della guerra hanno fuso e spezzato via i pudori ordinari degli uomini in materia religiosa; essi sentono che si trovano faccia a faccia con i grandi problemi della' vita e della morte; ed ho inteso dire da più di un « censore » postale, che le innumerevoli lettere spedite dai soldati alle loro famiglie, in cui gli scriventi chiedono dai loro congiunti il soccorso della preghiera, od esprimono la loro fiducia in Dio, danno splendida testimonianza della parte che il sentimento religioso occupa nella vita dei soldati.
Ma forse, fu negli ospedali, che il carattere religioso del soldato inglese risaltò più evidentemente. Le lunghe teorie dei feriti allineati nei 22 ospedali che visitai, assistiti mirabilmente dalla devozione di schiere di dottori e di « nurses », formano la nota più patetica della guerra: mentre la pazienza e il coraggio con cui quelle terribili ferite sono sopportate, costituiscono la
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sua più alta ispirazione... Nell’ora del bisogno estremo, il soldato si volge istintivamente alla religione della sua fanciullezza; e negli uomini e nei fanciulli che combattono le battaglie della loro patria, noi troviamo, più che degli eroi, dei santi virtuali... ». G. P.
Religiosità, dei soldati israeliti inglesi.
Il Rev. Michele Adler, che è il primo cappellano israelita che abbia accompagnato un esercito inglese, è ritornato recentemente in Inghilterra dopo parecchie settimane passate in Francia. Nella sua qualità di cap-S diano dei marinai e dei soldati israeliti, egli è il pastore i un gregge sparso su tutti i cinque continenti e i set ternari: e le sue visite alle sue pecore lo hanno posto in condizione di poter dare un giudizio collettivo dell’organizzazione e dello spirito dell’armata inglese. Ecco, sotto tale rapporto, le sue esperienze riferite in un’intervista: esse fanno un degno pendant a quelle del vescovo di Londra.
< Ho trovato che il numero degli israeliti nell’armata inglese (volontari) era maggiore della mia previsione. Dovunque mi fu possibile, celebrai servizi di culto, e cercai di organizzare gli ufficiali e i soldati, in modo che potessero associarsi da sè per il culto. Ciò che mi procurò grande soddisfazione, fu il vedere come i miei correligionàri fossero disposti a trascinarsi per più miglia, a piedi, per strade orribili, per associarsi con me nella preghiera. Sul mio casco, io portavo come distintivo — unico in tutta l’armata — i triangoli intrecciati e lo scudo di David. I soldati israeliti lo riconoscevano dappertutto e venivano a presentarmisi. In ogni luogo ho tenuto adunanze di culto, ho consacrato cimiteri, e ho apprestato i conforti religiosi a feriti e a morenti. Ogni qualvolta ho incontrato un soldato istraelita mi son fatto un dovere di scrivere alla sua famiglia... »
Dopo parlato dei provvedimenti presi per far celebrare il meglio possibile la Pasqua Giudaica ai suoi soldati, e della pubblicazione di una speciale raccolta di preghiere per l’occasione, egli continuò a descrivere le sue esperienze relativamente all’opera di altre chiese. Speciale menzione di riconoscenza fece della Y. M. C. A. (Associazioni Cristiane della gioventù) che pose dappertutto a sua disposizione i propri locali per le adunanze religiose, e della Croce Rossa che lo aiutò in tutte le maniere possibili. E soggiunse: « Io fui profondamente impressionato dalla cordialissima umanità con cui tutte le differenti chiese cristiane lavorano sul terreno dell’assistenza ai militari. La Chiesa d’Inghilterra, i Presbiteriani, i Metodisti, eec., tutti sono una cosa sola. Essi adottano una stessa forma di servizio religioso, e le attribuzioni sono divise fra i differenti cappellani, senza tener conto della particolare chiesa a cui essi appartengono. Tutti cooperano in un’armonia perfetta, la fusione dei differenti « credi » è completa. Parlò quindi delle sue visite ad innumerevoli ospedali per feriti, • un vero trionfo di uno spirito di organizzazione competente e devota •: e dei pazienti stessi, soggiunse:
e la religione di domani.' (Crisi di rinnovazioni - Universalismi che tramontano - Democrazia vittoriosa - Libertà e meccanismo - L’unità dello spirito).
[Novità] Odoardo Jalla, Il compagno del soldato, Firenze, »9*5. Cent. io. Opuscoletto di pag. 32, contenente brani scelti dalle S. Scritture e preghiere.
Indice: Inno per la patria -Il soldato arriva al Corpo - Il soldato arriva al Fronte - Come comportarsi col nemico - Il soldato vittorioso - In sentinella o in trincea - Il soldato fatto prigioniero - Il soldato ferito -All’ospedale - La morte si avvicina - Sepoltura di un compagno - Difesa del soldato credente - Amor di patria - Pensando alla famiglia - Il « Padre nostro» - Il «Credo».
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[Novità]. Pendant la guerre. Discours prononcés à l’Ora-toire et au Nouveau Temple de Lyon.
6° volumetto contenente queste prediche: La Parole de Vérité, di' J.-E. Roberty; Vers la Démocratie, di W. Monod ; La Guerre est-elle un châtiment de Dieu? di H. Barbier; L’Allemagne et le Protestantisme, di J. viénot; L’Appel aux Moissonneurs, di W. Monod; Heureux les Morts, di J.-E. Roberty. — Anche questo, come i precedenti 5 volumetti, costa L. 1.25.
[Novità]. P. A. Oldrà, Perchè tanti flagelli? Pag. 35. L.0,30. Del medesimo: La preghiera per la pace. Pag. 43. L. 0,40.
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[Novità]. Mgr. Mignot, Confiance, Prière, Espoir. Lettres sur la guerre. Paris, 1915. Pag. 60. L. 0,75.
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[Novità]. Mgr. L. Lacroix; Le Clergé et la guerre de 1914. Paris, 1915. - Pubblicazione periodica. Abbonamento a 20 fascicoli L. 9 - Sono finora usciti i seguenti volumetti: 1. L’histoire de la guerre - Comment la préparer. 2. Le Pape - 3. Le clergé et l’Union nationale - 4. Les Ìtrières publiques - 5. Les vêques et la guerre - 6 e 7.
Les évêques et l’invasion -8. La grande pitié de Reims.
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[Novità]. Abbé Thellier de Poncheville, Pour ceux qui luttent, pour celles qui souffrent. viatique de guerre. Paris 1915- Pag. 150. L. 1,25. Sommario: Le Pater du soldat - Notre mère du ciel -Les mystères douloureux de la guerre - Les mystères glorieux - Pour ceux qui meurent -Tristesses et espérances -Pour celles qui souffrent au foyer - La mission de la Croix -Rouge.
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[Novità] L’Eglise et la guerre par Mgr. Batiffol, MM. P. Monceau, E. Chenon, A. Vanderpol, L. Rolland, ecc. L. 4. Ecco i soggetti di alcuni capitoli: Les premiers chrétiens et la guerre. Saint Augustin et la guerre. Saint Thomas d’Aquin et la guerre. Les applications pratiques de la doctrine de l’Eglise sur la guerre. Synthèse de la doctrine théologique sur le droit de la guerre, ecc.
« Vorrei esser capace di parlarne in termini adeguati. Mi sono imbattuto in feriti che venivano trasportati dalle trincee agli ospedali, li ho veduti dopo le operazioni più serie; ho parlato con uomini che debbono aver sofferto agonie di dolori, ma essi sempre e dovunque, erano sereni, senza lamenti, disposti a ritornare di nuovo alla lotta. L’esercito inglese è un esercito di eroi, e i bravi francesi mi hanno detto più volte, che essi erano fieri di combattere al fianco di tali uomini ». G. P.
Religiosità dei soldati indiani.
Un altro « schizzo i> di religiosità militare è dato da un cappellano dell’esercito inglese, che nel mese di aprile visitò un accampamento di Sikhs (indiani) e conversò con essi per mezzo di un interprete. « Nel lasciarli — egli scrive — io domandai loro: « Voi adorate il solo Dio: non è vero? » « Certo » fu la risposta. Io allora re-Elicai: « Egli è una stessa cosa col Dio che noi adoriamo, he Egli possa benedire, difendere e proteggere, voi, non meno che noi ». Mentre l’interprete riferiva queste parole, le loro facce s’illuminarono, ed un mormorio di gioia e approvazione corse lungo il gruppo; e come mi voltai per riprendere, a cavallo, il mio giro, essi sollevarono uno strano grido, che si innalzava assai acuto e poi si smorzava in un cupo suono, come per salutarmi e augurarmi il buon viaggio.
La Salvation Army ha celebrato anche in quest’anno la sua « settimana di rinunziamento » in cui tutti i suoi membri s’impongono numerose privazioni per contribuire cosi al fondo della società. Non ostante le condizioni sfavorevoli di quest’anno e i numerosi appelli fatti quotidianamente alla beneficenza privata, l’ammontare della somma, in circa due milioni di lire, ha sorpassato il raccolto di tutti gli anni precedenti. Fra i trofei della settimana che furono esposti nella ■ Cappella Centrale » di Westminster, vi erano due vaglia postali per la somma di circa 35 lire, traforati da palle, trovati in una busta, insieme ad un pezzo d’argento spezzato, nella tasca d’un soldato inglese ucciso nelle trincee. Egli si era « convertito » nello scorso settembre, ed aveva raccolto quella somma nella «settimana di rinunziamento », fra i suoi compagni d’arme. Dieci scellini furono spediti da un soldato « riconoscente per lo splendido lavoro delia Salvation Army tra i feriti ».
G. P.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell'Unione Editrice, via Federico Ceri, 45