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Anno 125 - n. 33
25 agosto 1989
L. 900
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delle valli valdesi
SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE VALDESI E METODISTE
IL CARMELO AD AUSCHWITZ
COMITATO CENTRALE DEL CEC
Il silenzio ferito
La « cristianizzazione della Shoah »: un atto
che è un’ulteriore violenza verso le vittime
Alcune carmelitane polacche si
sono installate nell’autunno del
1984 nel vecchio teatro del campo di concentramento di Auschwitz. L’insediamento passa
inosservato fin quando, nel 1985,
appare sulla stampa belga un
appello per i fondi del carmeio. Le organizzazioni ebraiche,
ma anche preti, vescovi e laici
cattolici reagiscono chiedendo
l’allontanamento immediato delle carmelitane. Dopo un silenzio di un anno alla fine, il 22
febbraio del 1987, viene firmato
un accordo a Ginevra nel quale
è previsto che entro due anni
le carmelitane avrebbero lasciato
il vecchio teatro. Ma la cosa non
avviene. Da allora però cresce
la protesta nel mondo ebraico
internazionale: la Knesset, in aprile, chiede l’allontanamento
delle suore; trecento donne ebree
protestano in maggio nel campo; nel luglio scorso si verificano
incidenti tra un gruppo di ebrei
americani e la polizia.
Alla fine, da parte cattolica
arrivano spiegazioni. Il cardinale
Decourtay, uno dei firmatari dell’accordo, parla di « lentezza amministrativa e di ostacoli psicologici dovuti all’incomprensione ». Il cardinale polacco Glemp
dice di « non sapere bene perché l'esistenza del carmelo è
messa in questione ». Alla fine gli
esponenti della Comunità ebraica internazionale richiedono il
congelamento delle relazioni tra
l’ebraismo e il cattolicesimo fin
quando non sarà risolta la controversia.
A questo punto, nel mondo
cattolico cominciano le prese di
posizione per il rispetto dell’accordo.
Ma perché non si vogliono le
carmelitane? In fondo queste figlie di Teresa d’Avila, ebrea convertita, non fanno altro che pregare, si domandano molti.
La ragione sta in Auschwitz,
il campo di ccncentramento scelto dairUnesco come luogo simbolico del massacro, non solo
degli ebrei, ma anche degli zingari, dei polacchi, dei russi, dei
resistenti di tutti i paesi. Sta
nel fatto che il vecchio teatro
fa parte del campo, è l’edificio n.
18 nel quale i nazisti tenevano
il gas Zyclon B che era utilizzato per uccidere gli ebrei.
E gli ebrei, come gli altri, cristiani e non credenti, sono morti in silenzio, in un silenzio assoluto che oggi si vuole ricordare. Solo un silenzio che si
perpetua nel tempo può rispettare il silenzio che ha accompagnato coloro che andavano alla morte.
Auschwitz è un aspetto di
quella che alcuni intellettuali
ebrei chiamano la « cristianizzazione della Shoah » che si è manifestata attraverso la beatificazione degli ebrei convertiti al
cattolicesimo, la costruzione di
luoghi di culto (non solo cattolici) a Birkenau, Sobibor. E’ anche un segnale di una volontà
di universalismo del cattolicesinio del papa polacco: le suore
non pregano solamente pensando a tutti gli uomini, ma lo fanno in loro nome. E’ una concezione della chiesa che dichiara
la salvezza di tutti, che vuole
convertire tutti senza necessariamente aspettare lo Spirito della
Pentecoste.
Per noi, protestanti, non c’è
ragione di piantare una croce ad
Auschwitz, luogo del massacro,
senza nome secondo Geremia:
« Verranno i giorni nei quali non
si chiamerà più Tcfet, né valle
di Ben Innom, ma valle del massacro» (Ger. 7: 32).
Ad Auschwitz, con la complicità attiva dei « buoni cristiani »
si è compiuta nei confronti degli
ebrei (e degli altri rinchiusi)
la Shoah, il massacro. Ed i cadaveri — con Amos — sono stati
buttati fuori in silenzio (Amos
8: 3).
Il silenzio del luogo, il nostre
silenzio di visitatori dei campi
di sterminio, è l’unica voce che
abbiamo di fronte ad un atto
che ci induce a ripetere col
salmista: « Perché, o Dio, ci hai
respinti per sempre?... Non si
vede un segno della tua presenza, non un profeta, non uno che
sappia quando finirà. Fino a
quando, o Dio, ti lascerai insultare? Fino a quando il nemico
offenderà il tuo nome? Perché
non mostri la tua forza?» (Salmo 74: 1, 9-11).
Giorgio Gardiol
Soffia il vento dell’Est
Le sedute, immerse nel nuovo clima politico deH’URSS, hanno affrontato temi di portata mondiale e il progetto per la ristrutturazione
Dal 16 al 26 luglio si è svolta
a Mosca, in un moderno centro
di conferenze, la seduta del Comitato Centrale del Consiglio
ecumenico delle chiese (CEC):
la penultima prima deH’Assemblea generale convocata per il
1991 a Canberra, in Australia.
L’ultima sarà nel marzo 1990 a
Ginevra.
Fin dall’Assemblea di Vancouver (1983) la Chiesa ortodopa
russa aveva invitato il Comitato Centrale a tenere una seduta
a Mosca. E’ accaduto che essa
avesse luogo in questo periodo
particolarmente interessante.
Perestrojka
« Siamo tutti membri di un Comitato Centrale » ha detto A.
Grachov, membro del Comitato
Centrale del PCUS, rivolgendo la
parola nel corso di una tavola
rotonda ai membri del Comitato Centrale del CEC. Non è che
una battuta, evidentemente, ma
del tutto impensabile solo pochi
anni fa. Come impensabile era
fino all’altro ieri il fatto che dei
rappresentanti dell’apparato governativo sovietico parlassero a
un’assemblea cristiana, e che le
21 luglio 19S9. Il Comitato Centrale del CEC è ricevuto al Cremlino.
Da sinistra: Silvia Talbot, vicemoderatore del CC del CEC; Emilio Castro, segretario generale; Heinz-Joachim Held, moderatore
del CC del CEC; Nicolay Ryzhkov, primo ministro dell’URSS; Yuri
Khristoradnov, presidente del Consiglio degli affari religiosi dell’VRSS; Filarete, metropolita di Minsk, presidente del Dipartimento degli affari esteri del Patriarcato ortodosso di Mosca.
(Foto Peter Williams, CEC)
LE TENTAZIONI DI GESÙ’ - 5
Al cuore della nostra fede
« ...perchè mi hai abbandonato? »
(Marco 15: 34).
Tu che hai fatto tanti miracoli per gli altri,
fanne uno ora a tuo vantaggio. Così potremo credere che tu sei il Messia venuto da Dio. E’ la tentazione dei miracolo, dell’evidenza che convince.
E’ giusto usare il termine agonia. Agonia è lotta
che è anche dubbio, rischio di cadere nella tenta-_
zione di imporsi in qualche modo come Figlio di
Dio. La tentazione di concedere il fatto clamoroso che lo accreditasse agli occhi del mondo come
il Messia.
« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». E' l’estrema invocazione di Gesù che esprime quella drammatica agonia. Non c’è risposta.
Marco non cerca di attenuarne i toni. Gesù muore nell’abbandono, senza miracolo. Non gli viene
concessa alcuna consolazione. C’è solo quella eslrema invocazione che viene interpretata dai presenti secondo la tradizione del giudaismo popolare su Elia. Il fatto che Elia non venga in aiuto
a Gesù è la dimostrazione del fallimento delle sue
pretese messianiche.
Nessun fatto clamoroso, nessun lieto fine. Gesù che ha rinunciato a far valere la sua divinità
che contraddice tutte le attese messianiche accre
ditale, che è condannato a morte come un sedi
zioso, e che non è aiutato dal Padre a recuperare
di fronte al mondo un minimo di consenso. Gesù
è sepolto in fretta e furia perché i giudei non ab
hìano a provare il « sacro orrore » di sapere che
nella festa di Pasqua il cadavere di un maledetto
appeso al legno contamina il paese.
Dopo la morte di Gesù, secondo Marco succedono due cose importanti. « E la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (v. 38).
E’ scomparsa in modo definitivo la barriera tra
Dio e l’umanità. Dio ora entra dal basso nella nostra storia. Non c’è più il sacro ed il profano. La
presenza di Dio è ora accessibile a tutti. Quel segno non segno che è la croce ha stravolto ogni
concezione umana e religiosa dei rapporti Diouomo.
« E il centurione che era quivi presente dirimpetto a Gesù, avendolo veduto spirare a quel modo, disse: Veramente quest’uomo era Figliuol di
Dio» (v. 39). Questo fatto ci interroga e ci sfida.
Un soldato, romano e pagano, riconosce che Gesù
è il Figlio di Dio. L’unico riconoscimento viene
da un pagano che non ha dietro alle spalle la tradizione ebraica e che non sa nulla della problematica del servo sofferente. Stupisce che questo
riconoscimento avvenga proprio quando non c’è
nulla che lo aiuti: quando in Gesù non c’è nulla
di divino, quando tutto fa pensare al fallimento
di una predicazione e di un progetto.
Il centurione ha capilo che stava succedendo
qualcosa di importante per sé e per il mondo. Tutto ciò ci fa riflettere sulla nostra predicazione,
sul nostro modo di essere discepoli di Cristo. Un
pagano che riconosce Gesù come il Figlio di Dio
proprio nel momento massimo della sua sofferenza, della solitudine, della sconfitta.
Un problema che Marco affida ancora oggi alla
nostra riflessione. «Tu non scendesti dalla croce
quando ti si gridava, deridendoti e schernendoti:
’’Discendi dalla croce e crederemo che tu sei Dio”.
Tu non scendesti perché una volta di più non volesti asservire l’uomo col miracolo e avevi sete di
fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete
di un amore libero, e non dei servili entusiasmi
dello schiavo davanti alla potenza che l’ha sempre
riempito di terrore» (così F. Dostoevskij ne «I
fratelli Karamazov »}.
Gesù ha saputo respingere la via della gloria,
del successo, del miracolo per percorrere la via
del servizio fino in fondo. Ed è per questo che
ci è stata aperta davanti la via della salvezza, della libertà, della vita. Per questo Paolo ha scritto:
« Mi proposi di non sapere altro fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso » (I Cor. 2: 2). Siamo al cuore
della nostra fede.
Valdo Benecchi
autorità sovietiche ricevessero
ufficialmente il Comitato Centrale del CEC al Cremlino: il discorso del primo ministro e la risposta di Emilio Castro sono poi
stati pubblicati per esteso dalla
Pravda.
C’è effettivamente un’aria nuova in Unione Sovietica. Chi ci è
stato prima e dopo l’avvento di
Gorbaciov non può non rendersene conto. Ma — come sempre
accade nelle grandi trasformazioni storiche — l’essenziale è il
ritmo: una trasformazione troppo lenta, così come una troppo
veloce, può produrre movimenti
contrai'i e crisi.
Siamo convinti che è estremamente importante che noi in Occidente appoggiamo la « perestroika »; dobbiamo volere che
continui nel tempo; ma dobbiamo tener presente che coloro
che vorrebbero accelerarla ecces. sivamente rischiano di paralizzarla. La Cina insegna.
Rìunificazione
della Corea
1! Comitato Centrale del CEC
ha preso una serie di decisioni
di routine, ma poche di grande
rilievo mondiale. Nell’ambito delle questioni internazionali la più
rilevante è stata la presa di posizione sulla riunificazione della
Corea, la prima da parte di un
organismo internaz.ìonale non
governativo (NGO). Per il resto
un Comitato Centrale più breve
del solito ha concluso i suoi lavori con qualche ora di anticipo
sul programma. Come se i suoi
membri si sentissero già quasi
dimissionati alla vigilia di un’Assemblea generale che certamenAldo Comba
(continua a pag. 5)
2
commenti e dibattiti
25 agosto 1989
QUALI
CELEBRAZIONI?
Caro direttore,
non ti scrivo una ietterà iunga una
pagina. Mario Miegge, in un articolo su
Gioventù Evangelica dell’anno scorso
riportato come postfazione neli'edizione italiana deH’Arnaud pubbiicata daii'Aibert Meynier, chiede se non sarebbe forse preferibile che la commemorazione del Rimpatrio « avvenisse in termini puramente "laici"... ».
Poi precisa che « questo patrimonio
si iscrive assai bene nelie tradizioni
che sono patrimonio di tutti coioro che
hanno lottato e lottano contro l'oppressione ». Non c'è solo questo: col
Rimpatrio c'è la rifondazione delle
Valli in cui viviamo oggi, valdesi e no.
C è un'analogia con l'arrivo dei Padri
Pellegrini nella Nuova Inghilterra.
La celebrazione civile, di tutti, con
lo spazio alla religione per la storia
e per la coscienza dei « credenti », non
c'è. Con qualche ambiguità ha prevalso una linea confessionale-ecclesiastica ed esclusiva. Non basta essere
aperti e cercare un riconoscimento (?)
nel pluralismo.
Si fa quel che si può. Ed è stato
fatto molto. Ma non si può dire soltanto che II resto toccava agii altri,
con un riferimento particolare alle autorità civili. Si tratta dell'impostazione,
dove Tu sei anche l’Altro.
Così l'erede di Guglielmo Ili non
viene, per quanto si sa, perché Capo
di Stato laica, risposta che non avrebbe potuto dare con una diversa impostazione. Viene il Capo dello Stato
italiano, a me pare, sostanzialmente o
formalmente non so, come è andato
dagli Ebrei a Roma. Non lo sento venire per me e per quei cittadini magari
cattolici che sono anche loro eredi di
quei mille o quanti fossero tornati dal
Nord.
Scelta sbagliata, occasione mancata.
Ho scritto questo con dispiacere e
con affetto per le parti in causa.
Gustavo Malan, Torre Pellice
ANCORA SUI
PASTORI AL SAE
Caro direttore,
mi vedo costretto a chiederti ancora
un po di spazio sulla questione "pastori al SAE" perché una serie di reazioni, alcune apparse sul giornale, altre fattemi a voce, mi convincono che
la mia precedente lettera si era espressa male o è stata completamente fraintesa. A questo proposito permettimi un'osservazione generale: all'interno delle nostre chiese e su vari aspetti che toccano il rapporto fra
Tavola, Circuiti, Distretti e singole
comunità viviamo un pericoloso clima di pettegolezzo e di sospetto che
nuoce alla fraternità reciproca e alla
serietà delle decisioni. Il dima della
Torre Pellice presinodale sembra particolarmente fecondo per questi pettegolezzi, ma anche altrove non si
scherza: sembra, a volte, che quando
si esprime una semplice opinione, molti si sentano autorizzati a immaginare,
dietro a tale pensiero, chissà quali
disegni. Soffriamo tutti di una pericolosa chiusura interecclesiastica: se
seguissimo le vicende del mondo e
gli articoli dei giornali quotidiani con
la stessa, a volte morbosa, attenzione
con la quale viene analizzata ogni riga di questa rubrica, credo ne trarremmo un vantaggio generale: saremmo
meno sospettosi, più simili alla gente
normale e coglieremmo più occasioni
di testimonianza.
A parte questo e venendo al SAE:
mentre alcune risposte, come quella
di Giovanni Anziani, mi sembrano precisazioni più che legittime, altri interventi (ad esempio Maurizio Abbà
e Bruno Costabel) richiedono alcuni
chiarimenti da parte mia.
Non ho assolutamente inteso criticare il SAE, che si dimostra oggi un
luogo ecumenico fecondo e vitale, ricevendo apprezzamenti anche al di
fuori del "giro" ecclesiastico (vedi ad
esempio Mario Gozzini sull'Llnità).
Non ho assolutamente inteso "fare la
voce grossa delTautorltà costituita"
nei confronti dei pastori .j^e partecipano alle sessioni a La Mandola; del resto di autorità ecclesiastiche costituite, nel nostro paese, ne conosciamo
bene una e mi auguro che siamo ancora abbastanza protestanti da non immaginarcene un’altra, all'interno dell'unione delle chiese valdesi e metodiste, diversa dal Sinodo.
Ho quindi semplicemente constatato,
sull'invito al convegno estivo del SAE,
che vi avrebbero preso parte 15 pastori della chiesa valdese e mi ò
sembrato che tale numero, sul totale
di 80 di cui disponiamo, fosse leggermente sproporzionato rispetto alle
partecipazioni ad iniziative diverse.
Ho espresso tale preoccupazione agli
altri membri della Tavola, i quali,
condividendola, mi hanno suggerito di
renderla pubblica con una lettera sui
settimanale. Così ho fatto. Può darsi
che, così facendo, abbia toccato un
argomento "scottante" sul quale sarebbero opportune altre riflessioni.
Non sono sicuro, come scrive Costabel, che, per capire perché il SAE è
cosi attraente, sia proprio necessario
andarci. Credo però che dobbiamo
riflettere sul perché alcuni nostri centri o alcuni nostri momenti assemblear!
stiano diventando meno attraenti. Indubbiamente anche il nostro Sinodo,
spesso più congresso dove si applaude
il bell'intervento o si aspetta il tema
di moda anziché favorire il contributo
anche dei deputati "meno addetti ai
lavori" e il confronto costruttivo sulla
vita delle chiese, può rischiare di diventare, per molti, meno attraente di
un luogo, come le sessioni del SAE,
dove, accanto ad alcuni aspetti gradevoli di ospitalità, un protestante si può
sentire più gratificato per il contributo che può offrire e il contesto in
cui è ascoltato. Sarei perciò lieto se
al di là delle polemiche, questa discussione sul SAE fosse di spunto, nei corpo pastorale o altrove, per una più
ampia riflessione.
Un'ultima osservazione a Maurizio
Abbà: certamente, come lui scrive, il
pastore è libero di distribuire la sua
presenza come meglio ritiene opportuno. Non mi pare proprio, però, che
oggi la libertà di tempo e di lavoro
del pastore sia limitata dalla Tavola
0 da qualcun altro. E' vero piuttosto
che, se si vuole rispettare la soggettività dei pastori e la crescente esplicitazione di esigenze personali o familiari, nascono situazioni e problemi
molto difficili e, a volte, insormontabili. Perciò, se una volta tanto qualcuno, come il sottoscritto, prende la
parola per raccomandare ai pastori che,
nell'organizzazione del proprio tempo e
della propria attività, cerchino di
tener conto del complesso delle nostre
chiese, del complesso delle necessità
che vengono segnalate aH'interno del
protestantesimo, non sia il caso di
inalberarsi più di tanto. O sbaglio?
Marco Rostan, Cinisello
1 VERTICI E LA
GRANDE SORELLA
Caro direttore,
leggendo la lettera di Marco Rostan,
membro della Tavola Valdese, titolata
«Pastori al SAE» (del 14.7.89), mi sono chiesta se i . vertici » della nostra
chiesa non sentano un po’ di invidia
''ella chiesa « grande sorella » o di altri « grandi fratelli » sparsi nel mondo che possono stigmatizzare certe
frequentazioni dei loro membri, che
sono giudicate pericolose.
Mi ha anche stupito che le perplessità espresse riguardino solo I pastori e non anche ì laici protestanti, fra
cui la sottoscritta, che prendono da
anni parte attiva ai lavori del SAE:
forse i pastori sono una • casta » a
parte? Ho sempre sentito qualcosa di
diverso nelle nostre comunità.
Sono comunque contenta che queste perplessità di un membro della Tavola siano state rese di pubblica conoscenza. Ma per una maggiore comprensione del tema da parte di chi
non conosce il SAE e potrebbe forse
essere tratto a conclusioni errate dal
tono usato da Marco Rostan, penso
sia opportuno dire che il Segretariato
attività ecumeniche è una associazione laica e interconfessionale, la cui
presidente è fra I firmatari, insieme
ad altri eminenti studiosi che spesso
sono ospiti negli incontri del SAE, del
documento detto dei 63 teologi, che
ha trovato stima e simpatia sulla nostra stampa evangelica.
Per il mantenimento del SAE ci si
autofinanzia fra soci o a leggerne i bilanci c'è da piangere come quando
si partecipa a qualche .assemblea finanziaria in una delle nostre comunità.
Tentando di dare una risposta alla
domanda dì M. Rostan sul perché il
SAE è così attraente rispetto ad altre
iniziative, posso dire che forse è
perché ci si respira aria di libertà,
a tutti è data la parola senza pregiudizi confessionali e cliché ideologici. Può darsi che sia per questo che
In certi ambienti cattolici (per esempio GL), il SAE è mal tollerato: però,
a quanto pare, non solo lì. Sembra
sempre che cercare di crescere insieme fra cristiani, nel rispetto e nell'ascolto reciproci, camminando verso
l’unico Cristo, susciti sospetti anziché
speranze.
Cordiali saluti.
Myriam Venturi Marcheselli,
Milano
QUALE FUTURO
PER VILLA OLANDA?
Grazie ad Ade GardioI per aver espresso sul giornale del 28 luglio una
chiara protesta in merito alla vendita
di Villa Olanda. Molti la pensano come lei e sono delusi e amareggiati
per certe decisioni prese unicamente
al vertice, mentre si dovrebbe anche
tener conto della « base », che è formata da quanti amano la loro chiesa e
la servono con fedeltà.
Ha ragione quando accenna alle costruzioni fatte ed anche da fare troppo grandiose per le finanze della nostra piccola Chiesa valdese.
^ E’ su questo che dovremmo riflettere perché sono queste le cose che
con la delusione provocano indifferenza e critiche, forse non giustificate,
nei riguardi deH'amministrazione dei
beni di questa.
Forse Villa Olanda ha bisogno di
una ristrutturazione dei locali conforme alle leggi vigenti, ma è chiaro che
sono sempre più necessarie queste
case di riposo per anziani, che hanno
anche il diritto di trovare un tetto
sotto il quale vivere gli ultimi anni della loro vita in pace e come in famiglia.
Il problema va affrontato tenendo conto di tutto questo ed è stato un bene
averlo additato a tutti noi.
Graziella Perrin, Torre Pellice
LA FEDE OPERANTE
Spett. redazione,
la Tavola valdese e le varie Commissioni continuano a sbalordire e amareggiare quanti hanno sempre preso
parte attiva in lavoro e contribuzioni
per far vivere le opere, che sono un
coronamento della fede.
Ormai ho capito perché un certo
numero di persone non si impegnano
e non contribuiscono; forse prima di
me sono state deluse, demoralizzate
e non hanno più fiducia a causa
di certe sorprendenti decisioni della
Tavola.
La Chiesa, o meglio, le chiese sono
tutti i membri di tutta Italia come in
una sola famiglia spirituale e proprio
per questo dovrebbero essere messi
al corrente prima di prendere delle
decisioni per vagliare unitamente sul
da farsi. Ma non si usa così. Anzi
la Tavola chiede solo sempre un aumento delle contribuzioni, ma le delibere si sanno poi. La Tavola decide di
vendere, di chiudere, di distruggere, di
disprezzare doni ricevuti, ecc. Ormai
da tempo siamo abituati a questi choc.
Ho già protestato per altre cose, ma
ora non posso tacere a causa dell'iniziativa di chiudere Villa Olanda. Ma
Villa Olanda non è stata una donazione
per ospitare i russi, e a loro estinzione adoperarla per ospitare gli anziani evangelici? Se è stata una donazione avrà forse un vincolo, oppure
no? Ci saranno dei documenti notarili
che io penso sarebbe giusto rendere
evidenti anche ai membri delle chiese.
Poi mi stupisce assai che sul giornale del 14 luglio si legga che prenderanno iniziative per rendere meno
traumatico il licenziamento dei dipendenti, ma nessun accenno ai degenti, o meglio agli ospiti anziani più
o meno autosufficienti. Non un cenno
di cosa ne faranno di quelle persone,
è veramente deplorevole.
La casa è attiva, ma mancano soldi per fare dei lavori. Quali lavori?
E con quale spesa? Niente viene precisato.
Perché allora non si pensa di vendere gli stabili chiusi da alcuni anni e che vanno in distruzione, a Po
maretto (Scuola Latina, Casa dei professori, Convitto)? E’ una tristezza vedere quegli stabili inutilizzati che si
autodistruggono, quando almeno il ricavato potrebbe servire per coprire
le spese delle opere funzionanti e
utili, lo continuo a ripetere che ci vogliono le persone giuste al posto giusto per evitare una ecatombe delle
nostre opere molto utili.
Sarà storico ricordare certe date,
il rimpatrio, ecc. ma con questi ricordi
cerchiamo pure di ricordare la fede
operante dei padri che dal nulla cl
hanno lasciato opere che noi distruggiamo. Ma questo non è forse mancanza di fede, incapacità di operare
collettivamente, unitamente, in una sola grande famiglia spirituale?
Scusate se il mio scritto è troppo
lungo, ma desidererei leggere il pensiero di altri fratelli e sorelle.
Grazie. Il Signore ci illumini.
Fraterni saluti.
Eunice Biglione, Genova Nervi
QUALI OPERE?
Caro direttore,
ho appreso alcune settimane fa da
un trafiletto pubblicato sul settimanale (14.7.89) che la Tavola intende chiudere la casa di riposo Villa Olanda. I
motivi addotti erano che — pur essendo la gestione in attivo — erano necessari dei lavori di ristrutturazione.
La notizia mi ha addolorata e sorpresa
per le seguenti ragioni:
1) Villa Olanda è stata in gran
parte ristrutturata con notevole spesa
non molti anni or sono (creando fra
l'altro molte camere singole con servizi) . Ciò ovviamente non significa
che non vi siano altri lavori da compiere — d'altra parte non bisogna
dimenticare quanto è già stato fatto (e
speso) per rendere la villa adatta alla
sua presente funzione.
2) Attualmente si fa sempre più
pressante la necessità di case di riposo per anziani e la chiusura di
un'opera, che è in attivo, in buona
parte ristrutturata e infine ben gestita, sembra un controsenso. A proposito della direzione della casa posso
parlare personalmente, in quanto mio
padre, il pastore Emilio Corsani, durante gli ultimi quindici anni della sua
vita vi fu per alcuni mesi all’anno regolare ospite. So quindi —• per conoscenza diretta o perché informata da
mio padre — con quanto rispetto (per
infermità spesso umilianti) e con
quanta pazienza, serenità e vera carità cristiana (che rifugge ogni forma
di ostentazione) vi sono trattati gli
ospiti,
Questi dati mi inducono a chiedere
come mai non sia possibile aprire una
sottoscrizione — a cui io e certamente molti altri aderiremmo — per sopperire alle spese necessarie per rendere la casa più funzionale e confortevole.
Da una lettera della signora Ade
Theiler GardioI, pubblicata sul numero
del 28.7.89, sembrerebbe che il motivo
della decisione di chiudere Villa Olanda possa essere un altro. La vendita
cioè di questa bella proprietà frutterebbe molto denaro (due miliardi) che
verrebbe speso per sopperire alle necessità di altre opere « in valle ». Se
questo è il caso, ritengo che sarebbe
auspicabile un chiarimento. Non dubito che si tratti di risanare le finanze di opere meritorie, ma il contribuente dona con più gioia se sa a
quale finalità verrà destinato il suo
denaro e, nel caso in questione, si
chiede perché debba essere sacrificata un'opera utile, economicamente sana e ben diretta per tappare « buchi »
di... non si sa che cosa.
Qualora, per ragioni a me ignote,
non fosse possibile dare alcun chiarimento, pregherei la redazione di pubblicare ugualmente questa lettera, a
testimonianza della gratitudine e della stima che sia mio padre (anche se
non più fisicamente tra noi) sia io
personalmente sentiamo per l’amore
con cui i signori Peyronel e i loro
dipendenti hanno accolto « lo straniero
tra noi » e la serena dedizione con
cui hanno svolto la loro opera.
Con i migliori saluti.
Mary Corsani, Sori
IL PARERE
DELL’ESPERTO
Egregio Signor Direttore,
ho notato che, negli scritti apparsi
sul giornale, quando si cita il provenzale alpino parlato nelle nostre valli
vengono usate in genere le grafie
patois 0 patuà.
lo uso sempre la grafia patouà, perché ritengo che nella nostra parlata
debba preferirsi la grafia occitana ad
altre (francese, franco-provenzale, italiana) .
Cosa suggeriscono gii studiosi di
glottologia e cosa pensano circa la
opportunità di adottare una grafìa ufficiale?
Ringrazio la redazione per l’ospitalità nonché i linguisti che vorranno
gentilmente intervenire per chiarire
I miei dubbi.
Cordiali saluti.
Guido Baret, Pomaretto
OMISSIONE
Egregio direttore,
leggo sul numero dei 31 luglio la cronaca dell'incontro di Salbertrand del 23
luglio.
E' stata omessa la commemorazione deH'ing, Ferruccio dalla, designato
dalla Soc. di studi valdesi a ricostruire
l'avvenimento per gli attenti partecipanti.
Da rilevare soprattutto che l'ing. dalla ha tratto le notizie storiche — fin
qui inedite — anche dai documenti
ufficiali daH'archivio dell’Armata francese di Parigi dai quali risulta che i
« Lusernesi » fecero un attacco non
solo frontale ma anche ai lati del ponte guadando la Dora.
Quanto sopra per completare quanto
riportato nel n. 31 del nostro giornale.
Antonio Kovacs, Torre Pellice
NUOVO TELEFONO
Il nuovo numero telefonico del pastore Gianni Genre di Ivrea è il seguente: 0125/63.19.60.
delle valli valdesi
settimanale delle chiese valdesi e metodiste
Direttore; Giorgio GardioI
Vicedirettore; Giuseppe Platone
Redattori; Alberto Corsani, Luciano Deodato, Adriano Longo, Plervaldo
Rostan
Comitato di redazione; Mirella Argentieri Bein. Valdo Benecchi. Claudio
Bo, Alberto Bragaglia, Franco Chiarini, Rosanna Ciappa Nitti, Gino
Conte, Piera Egidi. Claudio Martelli, Emmanuele Paschetto, Roberto
Peyrot, Mirella Scorsonelli
Stampa; Coop. Tipografica Subalpina - via Arnaud, 23 - 10066 Torre
Pellice - telefono 0121/91334
Registrazione; Tribunaìe di Pinerolo n. 175. Respons. Franco Giampiccoli
REDAZIONE e AMMINISTRAZIONE; via Pio V, 15 - 10125 Torino ■ telefono
011/655278 — Redazione valli valdesi; via Repubblica. 6 - 10066 Torre
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Longo (vicepresidente). Paolo Gay, Giorgio GardioI, Franco Rivoìra (membri)
Registro nazionale della stampa; n. 00961 voi. 10 foglio 481
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25 agosto 1989
prospettive bibliche
ALL’ASCOLTO DELLA PAROLA
LIBERI, PER SERVIRE
Non sappiamo che cosa abbiano detto
nei loro sermoni, 300 anni fa, Arnaud a
Frali e Moutoux a Sibaud, a conclusione
del rimpatrio. Ma possediamo nella Bibbia, al cap. 24 di Giosuè il resoconto,
molto dettagliato, del culto celebrato da
Israele al termine del suo « rimpatrio ».
Giosuè 24 è il culto del « rimpatrio »
d’Israele. L’accostamento è forse un po’ ardito, ma Sichem fu per Israele un po’
quello che furono Frali e Sibaud per i
valdesi. Al termine del cammino dalla
schiavitù alla libertà e alla terra promessa, si celebra un culto solenne che, nelle
sue parole, nei suoi gesti e nei suoi simboli,
confessa la fede nel Dio della liberazione e
« rifonda » la comunità.
Il resoconto di questo culto non è stato
scritto da un contemporaneo, ma diversi
secoli più tardi, a conclusione di un altro
« rimpatrio », certo meno « glorioso » del
primo: quello degli esuli di Babilonia, sparuto gruppo che ritorna in una terra sempre « promessa » ma ormai estranea, con
l’arduo proposito di ricominciare da capo
ad esistere come Israele, come popolo di
Dio.
Riraccontare il culto del primo « rimpatrio », fare di quella pagina remota ma
rivisitata il « manifesto », il simbolico prografnma della vita comunitaria che riprende è il modo con cui gli uomini e le donne
del « rimpatrio » d’Israele esprimono concretamente la loro ricerca di identità davanti a Dio. Il testo che abbiamo letto dice
quale identità di popolo di Dio gli uomini
del « rimpatrio » dall’esilio posero a base
della loro ricostruzione.
Questa mattina vorrei ripercorrere con
voi questo « manifesto » dell’identità del
« rimpatrio » d’Israele, intrecciandovi le
nostre domande sulla nostra identità di
comunità davanti a Dio.
Memoria della liberazione
e appello alla consacrazione
La cerimonia di Sichem ha due fuochi:
una retrospettiva storica e un appello a
servire il Signore.
L’identità degli uomini del « rimpatrio
d’Israele » parte dalla memoria della storia passata. Non dobbiamo leggere in termini troppo moderni questa centralità
della memoria. Essa non deriva tanto dalla volontà di iscrivere il proprio segmento
di storia nel corso degli eventi e delle trasformazioni, né in primo luogo risponde
aH’interesse esistenziale per le proprie radici.
Qui è Dio stesso che racconta una storia
che tutti in Israele conoscono, ma che
egli vuole sia letta, se così posso dire,
con la sua ottica. Questa narrazione storica dice qual è il posto di Israele davanti a Dio. Dio è il soggetto di tutti i verbi
che esprimono le realtà positive, liberatorie della storia d’Israele. Israele appare
sempre passivo: è guidato da Dio su strade impreviste, è testimone delle azioni di
Dio, ne beneficia come di un dono e di una
Scoperta, .senza concorrervi. La retrospettiva culmina con una sorta di « inventario catastale » dei beni d’Israele: terra
che non avete lavorato; città che non avete
costruito eppure abitate; vigne e uliveti
che non avete piantato e di cui pure godete il frutto. Israele deve la sua libertà e
la sua possibilità di vita ad una serie di
liberazioni e di svolte impreviste. Tutto
questo è dono, libera creazione di Dio,
non costruzione o conquista. La memoria
del passato dice a chi Israele deve la sua
libertà.
Foi Giosuè riprende la parola e inizia
un dialogo serrato fra lui e il popolo centrato su un unico punto: servire il Signore c abbandonare gli dei. « Servire il Signore » ricorre più di dieci volte e fa
l’effetto di una sorta di martellante ritornello. E’ chiaro che tutta la cerimonia
vuole culminare in questo appello pressante alla consacrazione.
Tra i due momenti, la memoria della
liberazione e l’appello alla consacrazione,
ci sono due parole, apparentemente insi
Tra le pagine più suggestive e limpide dell’Antico Testamento v’è il ciapitòlo 24 del libro di Giosuè. Racconta di una grande assemblea alla quale convennero tutte le tribù d’Israele, per celebrare la conclusione del cammino dell’esodo (liberazione dall’Egitto, viaggio nel deserto, ingresso nella terra promessa) e per assumere solennemente l’impegno a servire il
Signore.
Questa pagina di storia, nel testo che ci è pervenuto, fu scritta alcuni
secoli più tardi, rispetto agli eventi narrati, verosimilmente in epoca postesilica. Si racconta dunque un fatto del passato, ma si guarda al presente... Nell’incontro del XV agosto, tenutosi quest’anno alla Balziglia (Massello), nel quadro delle celebrazioni del terzo centenario del «Glorioso
Rimpatrio », la predicazione è stata affidata a Daniele Garrone, professore di Antico Testamento presso la Facoltà valdese di teologia, nonché
in parte di famiglia massellina. Il testo che qui presentiamo è quello del
sermone pronunciato. (red.)
gnifìcanti: « ora dunque... » servite il Signore. « Qra dunque ». Sono in realtà le
due parole chiave di tutto il culto di Sichem. Perché uniscono il dono di Dio a
iseraele alla pretesa di Dio sulla vita di
Israele. Fanno derivare dalla liberazione
l'impegno a mettersi al servizio di colui a
cui si deve la libertà. Certo, come protestanti sappiamo bene che il dono di Dio e
l’impegno che egli chiede non stanno sullo
stesso piano. Certo. Ma Sichem ci ricorda che sono indissolubilmente legati. Si è
liberati e si è chiamati al servizio. Liberi
per servire. Mosè, in Egitto, aveva detto al
Faraone da parte di Dio: « Lascia andare
il mio popolo perché mi serva » (Es. 10: 3).
Al Sinai, l’accozzaglia di schiavi senza
avvenire che Dio aveva trasformato in
popolo libero diventa popolo consacrato
a servire Dio, il Dio della libertà, nella sua
vita quotidiana. Liberati per servire; liberati dall’asservimento a ciò che non è Dio
ed è contro Dio per essere messi al servizio di Dio. Questo è il movimento centrale di tutta la Bibbia. Anche nel Nuovo
Testamento è da questo movimento che
scaturisce l’identità dei credenti. Lo leggiamo anche nelle parole dell’apostolo
Paolo: « liberati dal peccato e fatti servi
a Dio » (Rom. 6: 22).
Liberi per servire. Ecco il binomio indissolubile dell’identità d’Israele e — io credo — anche nostra. Così indissolubile che
sarei tentato di dire: « Ciò che Dio ha
unito, l’uomo non lo separi » (Me. 10: 9).
Nella storia d’Israele, così come la Bibbia la presenta, compaiono due travisamenti di questo binomio « liberi per servire ».
Il primo lo potremmo chiamare travisamento trionfalistico. Mettere in secondo
piano, fino a dimenticarlo, l’appello al servizio. Rimuovere il discorso sul giudizio
e sulla gelosia di Dio. La storia che si ha
alle spalle diventa cosi una sorta di garanzia dell’elezione, il mito fondatore di una
identità forte e accomodante, una identità che legittima senza mettere in questione il modo in cui la si vive. Appropriarsi
del dono ed eludere la pretesa di Dio sulla
vita del suo popolo. Metà delle pagine dei
profeti protestano contro questo trionfalismo.
E’ un rischio che corriamo anche noi.
Una tentazione contro cui dobbiamo vigilare. Se il nostro riraccontare la nostra
storia per cogliere le radici della nostra
identità non è accompagnato, e con la stessa enfasi!, dalla coscienza che tutto ciò che
abbiamo e siamo è indissolubilmente legalo al servizio cui siamo chiamati, se non
diventa cioè l’occasione di una rifondazione, tutto si ridurrà ad un discorso di immagine. Una immagine accattivante, che
ci unisce più largamente dei nostri .sermoni o delle nostre decisioni comuni,
che è largamente recepibile e attraente nel paese, una identità che ci legittima come componente della società
in cui viviamo. Ma, appunto, una immagine che, nella misura in cui non
sfocia direttamente e fortemente nella pretesa che Dio ha sulla nostra vita, rischia
di coprire il nostro « collo duro » anziché
piegarlo.
Il secondo fraintendimento è il non vivere Tesclusività del servizio cui Dio ci
chiama, quello di non farne una alterna
tiva di vita, ma una dimensione che si
somma ad altre, che si integra nel mondo
così come è anziché metterlo in discussione. Dio sì, ma anche gli dei, come gli
altri... altri dei a cui Israele crede di dovere altri doni: la fertilità dei campi, il
benessere familiare, la tutela dalle malattie. La tentazione di servire il Signore
accettando altre dipendenze.
Mi chiedo se questa non sia per noi una
tentazione ancora più attuale della prima.
E se il nostro cristianesimo fosse caratterizzato da quello che Gollwitzer ha chiamato il divorzio fra la domenica e i giorni
feriali? La domenica — o i momenti forti
della nostra vita di chiesa — come momenti di un Evangelo consolatorio, che ci
rassicura personalmente, e i giorni della
settimana abbandonati a se stessi, vissuti
subendo le leggi del mondo così com’è,
le regole del gioco e i valori che reggono il
mondo. Una fede che si gioca tutta su un
piano individuale, che non si chiede « chi
serviamo? » o « a cosa serviamo? ». Che
si ritaglia uno spazio, anche importante,
anche amato ma accanto alle nostre altre
appartenenze, conformità, omolog2izioni,
consensi. Una fede che si accontenta di un
blando riferimento all’amore come conseguenza della fede e che non sa dire che
cosa voglia dire oggi servire Dio nell’ottica
del suo Regno. lì discorso biblico sulla
vita come culto, come servizio a Dio, come
dimensione per noi largamente perduta.
Liberati per servire. Ciò che Dio ha unito, l’uomo non lo separi!
Appartenenza e confessione
^ A Sichem c’è una contrapposizione. Giosuè che dice: « Quanto a me e alla mia casa serviremo il Signore » e si distanzia
così dal popolo, a mo’ di « avanguardia »
e gli rimprovera: « Voi non potete servire
il Signore » perché il popolo non vive la
sua scelta per il Signore, che pure ha appena pronunciato, come una dimensione
esclusiva, perché non prende abbastanza
sul serio Dio e il suo giudizio. Se Israele è
o non è « popolo di Dio » non dipende
dalle tradizioni o dalla storia, non è un
fatto di appartenenza, ma di scelta, di decisione, anzi di conversione. La continuità
delle tradizioni non è garanzia di autenticità. Israele si nasce, ma in realtà Israele
si diventa. Si nasce e si esiste come popolo, si diventa popolo di Dio. Lo si diventa
non a livello di massa, ma con delle scelte
familiari, dice Giosuè, ma la famiglia di allora ha la stessa valenza dell’individuo di
oggi.
Da un lato il « popolo », la comunità di
nascita, l'identità dell’appartenenza, e dall’altro il gruppo della scelta personale,
della decisione maturata e portata fino in
fondo, con tutte le rotture che essa comporta; la comunità confessante, diremmo
noi oggi. Due realtà che noi vediamo in
opposizione, che sembrano non poter interloquire. Il « popolo » che non sa che farsene dei radicalismi e degli « intellettualismi » dei « confessanti », e questi che sono
sempre pronti a dire agli altri « non potete » e si .sentono chiamati ad incarnare la
« comunità dei santi ». Spesso un dialogo
fra sordi.
Sichem ci mostra un esito diverso e così
ci apre una speranza. Giosuè e la sua casa
non sono l’avanguardia che fa terra bruciata dietro a sé, ma gli iniziatori di una
predicazione di riforma, anche dura, ma
che viene accolta. Alla fine, tutto il popolo
« sceglie ». Di nuovo l’identità è in un movimento. E se anche oggi noi viviamo a
volte la tensione fra « appartenenza » e
« scelta », ciò a cui siamo chiamati non è
un nuovo separatismo fra « forti confessanti » e « deboli appartenenti » e neppure
una lottizzazione degli spazi e dei momenti all'interno della casa comune, ma
una comune riscoperta della conversione.
La soluzione non è, come spesso pensiamo, l’eliminazione deWaltro polo, per
ottenere una chiesa tutta « di popolo » o
perfettamente « confessante », a seconda
delle preferenze, ma accettare come salutare la contraddizione fra il « popolo » che
siamo e il « popolo » che siamo chiamati
ad essere dalla Farola di Dio che ci converte.
La storia e il progetto
Il culto di Sichem si conclude con una
solenne cerimonia. Giosuè « fece un patto
col popolo », dice la Riveduta. La traduzione è ambigua, perché sembra trattarsi di
un accordo bilaterale fra Giosuè e il popolo. In realtà Giosuè sancisce solennemente l’impegno del popolo, lo lega alle
sue promesse e lo impegna su un « progetto ». Fer far questo, dà al popolo leggi e
prescrizioni. Due termini che a noi protestanti appaiono subito sospetti. Sono
certamente espressioni e concezioni « datate », ma esprimono per quel contesto
un’esigenza vitale anche per noi oggi: tradurre in linee di marcia, in scelte concrete l'impegno al servizio di Dio. Non basta
dire che si vuole servire, bisogna dire come. Qgni generazione lo deve fare, e forse
più volte per ogni generazione. Deve chiedersi dove passi per lei, nella sua situazione, la fedeltà al Signore. Deve saper individuare gli idoli che la circondano, ma
anche quelli in mezzo ad essa. Deve chiarirsi quali rotture implichi l’essere « fatti
servi a Dio ». E’ un cammino difficile, tra
la Scilla del moralismo, del legalismo e la
Cariddi dell’idolatria. Ma un cammino che
va cercato. Magari sbagliando. Magari
provando e riprovando. Ma va cercato. Dio
non pretende che riusciamo, ma che tentiamo seriamente sì. Da anni, ci poniamo
molte domande: come stare nello stato?
Come gestire la nostra presenza culturale? Come regolarci nelTecumenismo? E tante altre serie, importanti ma in fondo secondarie rispetto a quest’altra: dove passa
oggi il servizio per cui Dio ci ha liberati?
Senza « leggi e prescrizioni », ma in qualche modo dovremo, e presto, rispondere,
in modo chiaro anche se non semplicistico, radicale anche se non elitario, condivisibile anche se non blando.
Foi Giosuè erige un monumento. Un monumento che testimonia dell’impegno assunto e che quindi sarà una prova a carico di Israele in caso di inadempienza.
« Sarà una testimonianza contro di voi ».
Nel libro di Giosuè si racconta di un’altra
costruzione di un monumento. A Ghilgal
vengono erette 12 pietre prese in mezzo al
Giordano che Dio aveva miracolosamente
aperto al passaggio dell’Arca. Esse devono
ricordare alle prossime generazioni di
Israele e al mondo l’azione liberatrice di
Dio nella storia. Un testimone della liberazione e un testimone deH’impcgno al servizio; un monumento per la memoria storica, uno per l’impegno futuro.
Se posso concludere con una battuta, il
problema della nostra generazione sta nel
fatto che abbiamo saputo erigere le 12 pietre di Ghilgal (i nostri musei, i libri dei
nostri storici, forse anche la stole di Salbcrtrand), ma non ancora piantato la
grande pietra sotto la quercia di Sichem.
Non lo abbiamo fatto, perché è molto più
difficile. Ci dia il Signore di farlo, presto.
Daniele Garrone
^ Nel .sermone pronuncialo alla Bal/.ìglia. (¡uesto punto è stalo omes.so per hrevilà.
4
fede e cultura
25 agosto 1989
AGAPE - GLI ANNI DELLA COSTRUZIONE E DELLA SPERANZA
Scolpiamo Cristo sulla roccia
Grazie Tullio!
Agape è stata un’esperienza di fede tra le più significative per le generazioni di questo dopoguerra. Tullio Vinay
ne racconta le origini in un libretto stampato recentemente.
Ma yinay, ispiratore e leader carismatico indiscusso, non
operò da solo. Nel libro hanno trovato eco tante altre voci;
alcune di queste sono riportate qui in questa pagina.
Un opuscolo su commissione?
Il "nuovo" direttore insiste con
Vinay perché ricordi alle nuove
generazioni come "sorgeva" Agape. Così, fra i ricordi, Vinay affronta la Firenze e le Valli del
dopoguerra. Anni sono passati
dalla pubblicazione di « Giorni a
Riesi» e « L'utopia del mondo
nuovo »: « Giorni a Riesi » è l'avventura dell'arrivo in un paese siciliano, in preda alla crisi della
terra e dell'emigrazione, fra mafia
ed antimafia. L'altro libro ci riconduce al Senato e Tullio continua la sua vocazione nel paese
perché non dimentichi la portata
di un Evangelo che riconcilia i
popoli ed i partiti in un richiamo profetico.
Ora Vinay fa la sua vita a ritroso. Si localizza, cita persone,
donne, ragazzi.
Poteva nascere come « esperienza ecclesiastica»; un campo
stabile per la gioventù. Nacque
come risposta ad una esigenza:
dalle Casermette nel 1946 alla visita delle Unioni giovanili, da Cosenza alle Valli. La guerra ha devastato l'Italia. A Firenze Vinay
trova una città con i ponti di
strutti, l'odio fra le parti, ebrei
braccati dalle SS. Fame — malattia e fame. I giovani esprimono, nonostante tutto, una speranza: vi sarà l'Agape di Dio, l'amore di Dio verso le creature sconvolte dall'odio e dalle conseguenze dell'odio. La chiesa propone un
nome: « Pietro Valdo ». I giovani
preferiscono un nome nuovo. E
che cosa è più "nuovo" dell'Agape di Dio?
Prali, la sua conca, i suoi abitanti: Edmondo Grill, i coniugi
Berger. Arriva Leo Ricci, l'architetto fiorentino. Gli incontri con
Nino Messina, con Gianni Koenig... altri fiorentini... Alfredo
Janavel, Felix Canal, U siciliano
Gianni Cassetti. Incontro con il
Consiglio ecumenico, con Visser't
Hooft, con il vescovo anglicano
Stephen Neill, che viene da Ceylon e dalla Chiesa unita dello Sri
Lanka... Le volontarie svizzere,
italiane, francesi, ecc.
L'anno 1950 e il 1951, la collaborazione con Neri Giampiccoli,
con Achille Deodato, con Carlo
Lupo. Poi con Giorgio e Maria Girardet... Il 12 agosto 1951 l'inaugurazione: liturgia di Deodato, pre
dica di Carlo Lupo. Il canto degli
australiani...
Grazie, Tullio, per questo tuo
"ricordo", per questa "trasmissione". Non un commento, ma un
invito alla lettura, alla continuazione di una parola che non sarà
dimenticata: Dio non ci dimenticherà... Agape è perdono, ma è
anche rilancio, nuovo principio...
Carlo Gay
TULLIO VINAY, I lavoratori volontari
e la costruzione di Agape. 1946-1951
Ricordi personali, Quaderni di Agape
n. 19, pp. 1-62.
UNA LETTERA DELL’ARCHITETTO LEONARDO RICCI DEL 1947
Costruita con amore
DALLA PREDICAZIONE INAUGURALE
Un modo di vivere
« ...vi sono dei tempi della storia in cui la crisi è resa sensibile,
inequivocabile. I figli di questa
generazione conoscono per dolorosa personale esperienza questa
crisi perché sono entrati nella
critica di tutti i valori, sono entrati nella morte. Questa crisi
per larga zona deU’umanità è stata il crollo nel vuoto disperato,
che si conclude nel cinico « No »
sartriano alla vita. Ma noi: gli
scettici, gli ironici, gli stanchi, i
disillusi dall’odio e dal sangue,
nell'anno '46, in un campo unionista a Prali, nelle casermette dei
Pomieri (quando quest’architettura di Agape non era nata nemmeno in sogno), abbiamo ascoltato
la predicazione che vi è, nell’universo cieco e triste, una luce di
verità che è nata nella storia,
incarnata in un uomo che ha
amato e sofferto ed è morto per
amore.
Quest’uomo, vero, ha preso sede in noi, e si è lentamente ingigantito fino a ridare ai morti la
fiducia nella vita, solo perché ci
siamo sentiti veramente amati,
non da un’idea ma da una persona vivente. E la crisi è diventata
pei noi la realtà della presenza
di Dio che giudica e salva. Da
questa è nata Agape.
Non vedere così Agape è non
capirla e quindi non giustificarla.
Agape è dunque la manifestazione di questo straordinario asserto: che Dio è vero, presente, che
il suo Regno viene, precipita, arde in noi in giustizia e pietà, e
fuggire ai suoi ordini è suicidio.
’’Agape è un monumento alla
realtà dell’amore di Cristo” ».
< ...A parte la facile ironia, a
chi domanda: ”Ma che cosa sarà Agape domani?”. E chi lo
sa? E chi sapeva cinque anni
fa che Agape sarebbe sorta?
Dov’era Agape? In mente di chi
era? E come ha fatto a venir su
se non c’era niente? Agape è stata il ”Sì” della fede neH’avvenire
(...ì. Agape è, per chi lo ha capito,
non qualcosa di fatto e di sicuro,
ma è un modo di costruire, un
modo di vivere, una fede tesa
verso Colui che viene, verso la carità che non verrà mai meno ».
Carlo Lupo
...Agape è il luogo dove si incontrano degli uomini e sostano per breve tempo. Cercano
amore fraterno. Poi tornano alle loro case. Sono generalmente
dei giovani. Costituiscono una
comunità momentanea che vive
religiosamente staccata dalla abitudine della vita giornaliera. In
ogni comunità deve esistere un
duplice rapporto del singolo: uno
verso Dio, l’altro verso le creature di Dio, primi fra le altre
gli uomini. Di conseguenza l’individuo ha bisogno di uno stato
di assoluta solitudine, atta alla
meditazione ed alla contemplazione oltre alla normale condizione di contatto con gli altri
uomini. La mancanza di uno di
questi due rapporti atrofizza la
vita completa ed armoniosa della comunità (...).
Agape nasce su ima falda di
monte che si apre al sole, in un
punto dove la pendenza si addolcisce per riprendere poi più rapida fino al fondovalle. Si innesta con la natura non violentemente e brutalmente in maniera
neoclassica né si immerge e nasconde in maniera casuale e
falsamente romantica. Rimane unità conchiusa pur avendo massima libertà di articolazione.
Per due lati le stesse costruzioni
con le pareti ed i muri di sostegno dei terrazzamenti la delimitano dai prati circostanti.
Gli altri due sono cinti da
una fascia di bosco che segue
l’andamento del terreno. Chi vi
arriva non trova né cancelli chiusi, né un prato qualsiasi dove
esistono delle costruzioni qualsiasi. Agape è aperta a tutti ed
apre a tutti le braccia, per andarci bisogna salire delle rampe
é sentirsi ’’agapini”, anche coloro che non sanno neppure lontanamente cosa sia.
All’esterno e all’interno Agape
è uno sfociare e un ritornare
verso e dalla comunità. C’è il
posto per l’individuo solo, per il
piccolo gruppo di individui che
si scelgono, per la famiglia, per
la comunità completa. All’esterno il bosco e le terrazze, i piccoli piazzali, Tanfiteatro naturale per le riunioni, il terrazzamento per i giuochi, la chiesa
per la comunità tutta.
All’interno le celle, le aule, il
salone per le riunioni, per il
pranzo, il teatro, lo studio ed il
culto di tutta la comunità. Questi i concetti generali che mi è
impossibile ora, per ragioni di
spazio, dettagliare.
Agape è costruita con i materiali più poveri. Le pietre che
si trovano sul posto, il legno dei
boschi, la calce che hanno dato
le rocce e che i giovani hanno
strappato con le loro mani. I
materiali tradizionali, ma che
sono chiamati ad esprimere un
nuovo concetto ed una nuova
forma architettonica. Agape è
costruita dai giovani stessi con
una fatica superiore alle loro
possibilità, per amore.
Sono giovani che provengono
da varie città, da varie abitudini,
quasi tutti non del mestiere. Eppure non ho mai amato dei lavoratori come amo questi giovani, e non potrò dimenticare,
per esempio, uno di loro (Gianni Cassetti, n.d.r.) che per dei
mesi, dieci ore al giorno, con
un sacco pieno di paglia fatto
a cappuccio, a capo chino, instancabilmente, con un passo
uguale e strascicato ha trasportato pietre e pietre di un peso
incredibile.
Non posso nominare tutti
questi ragazzi, forse di qualcuno
non conosco neppure il nome,
ma li voglio ringraziare ugualmente per tutto il bene che mi
hanno fatto col loro lavoro dato
per amore...
Archileo
UN INTERVENTO DEL 1950
Un campo di meditazione
«L'esperimento della comunità
di lavoro è stato troppo prezioso
per abbandonarlo non appena
raggiunto lo scopo che gli ha dato origine: Agape sarà ancorò, un
campo di lavoro, a Prali, come lo
è stato a Torre Pellice; come lo
sarà domani ovunque l'occasione
se ne presenterà. Perché non sono soltanto le mura di Prali che
contano, ma è il senso del servizio comunitario che l'esperimen
TESTIMONIANZA DI UN LAVORATORE
Ogni pietra mi parla...
« Agape sorge ed ogni pietra di queste mura mi parla dell’amore
di un mio fratello. Quante ore di lavoro, di stanchezza e di sacrificio hanno trasportato questa pietra e questa, e questa, e questa
— fanno sorgere Agape sul fianco della montagna. Io ti amo, fratello che mi lavori accanto, perché Agape esiste nei calli delle tue
mani, nella fatica che ti piega le ginocchia e ti spezza le braccia,
che ti fa giacere stanco sul pagliericcio della camerata. Io ti amo
perché ho diviso con te la coperta ed il cibo, le vesti ed il denaro,
perché ad Agape siamo venuti insieme a cercare qualcosa di cui
avevamo bisogno e che insieme ora viviamo. Cosi sorge Agape ». Ed
un altro ancora: « ...se verrete, se lascerete da parte, solo una volta,
i calcoli, le critiche, i sorrisi ironici e tutto quello che vi rende
’’persone di buon senso”, ecco, ad Agape, il vostro cuore non potrà rimanere chiuso. Non dite no, non limitate voi stessi; la follia
di Agape è un po’ la follia di Cristo ».
to fin qui compiuto ci ha fatto
riscoprire quello che soprattutto
importa. Campo di lavoro e di
meditazione, di vita comune sotto il segno della misericordia e di
pensiero vissuto non in sterile accademia. (...) Agape è una parabola: una parabola debole e povera, una indicazione balbettata,
una speranza vissuta. Agape non
è il Regno di Dio, ma lo annunzia
con allegrezza: Agape non è la comunità perfetta dei puri e dei
santoni, ma vive per grazia, e per
grazia è comunità; Agape non è
fine a se stessa, orgoglio di soddisfatti o fuga davanti alla realtà
quotidiana, ma impegno e servizio lieto, dovunque la mano di
Dio condurrà l'uomo. Cristo solo
è veramente Agape; e noi soltanto il riflesso, l'ombra, la parabola, e le mura soltanto un richiamo ed una speranza, ed il lavoro
soltanto un servizio. Domani, come oggi, soltanto per grazia: Cristo solo è il Signore. Quando Agape sarà finita... ma ora bisogna finire Agape ».
Neri Giampiccoli
"Al servizio
di Dio”
« Nel nome del Padre,” del
Figlio e dello Spirito Santo,
noi destiniamo oggi questo
villaggio al servizio di Dio,
nella comunione della chiesa
universale, per essere un tem
pio dell’amore rivelato dalla
croce di Cristo, un luogo di
incontro degli uomini riconciliati dalla grazia, una testimonianza resa nel lavoro, nella
meditazione e nella preghiera,
alla realtà eterna del Regno
che viene.
Qui i peccatori trovino perdono e i dubbiosi la consolazione del tuo amore;
qui gli occhi degli increduli siano aperti per mirarti ed
adorarti nella tua gloria;
qui coloro che sono tentati siano fortificati dal tuo Spirito e gli scoraggiati trovino
fiducia e speranza;
qui i reietti dal mondo, fuggiti dagli uomini per le loro
colpe, trovino rifugio nel tuo
amore ».
Dalla preghiera di decicazione.
5
25 agosto 1989
ecumenismo
COMITATO CENTRALE DEL CEC
Soffia il vento dell'Est
(segue da pag. 1)
le rinnoverà larga parte del Comitato Centrale.
Ristrutturazione
Tre questioni rimangono tuttavia sul tappeto: ristrutturazione, povertà, biotecnologie.
La prima riguarda la ristrutturazione degli uffici del CEC.
Tali uffici Sono attualmente divisi in tre « unità » (o dipartimenti, o dicasteri) ciascuna delle quali comporta diverse « sotto-unità » (*). In tempi recenti
le « sotto-unità hanno assunto
una eccessiva autonomia, ciascuna immaginando propri programmi e bombardando le chiese con propri messaggi.
Un miglior coordinamento è
certamente benvenuto, ma... sussiste il dubbio che qualcuno voglia approfittare dell’occasione
per effettuare una ristrutturazione di tipo autoritario; meno donne, meno giovani, più vescovi e
notabili ecclesiastici. Il rischio
non sembi'a grave per il momento, ma l'intera questione non va
perduta di vista.
Povertà e
credibilità cristiana
Uno dei momenti emotivamente più alti del Comitato Centrale
è stato la mattinata dedicata alla povertà nel mondo. Due rliscorsi: uno altamente appassionato del vescovo metodista argentino Federico Pagura che descriveva la situazione miserabile dei poveri del suo continente;
un altro freddo e scientifico del
dr. Bob Goudzwaard, economista olandese, che mostrava con
ertiema chiarezza come la povertà sia il prodotto inevitabile
del sistema economico dominante, imposto al mondo intero ciai
paesi ricchi dell’Occidente. Il Comitato Centrale non ha preso
nessuna decisione specifica su
questo punto, preferendo .tttendere il pronunciamento dell’Assemblea di Seoul su « giustizia,
pace e integrità del creato »
(JPIC). Si può però affermare
ormai, senza ombra di dubbio,
che sulla questione della povertà si giocherà la credibilità non
solo del Consiglio ecumenico
delle chiese, ma della cristianità in generale.
Dagli anni ’70 il « programma
di lotta al razzismo » del CEC,
pur criticato da alcuni, è stato
una luce, un faro di speranza
per tutti coloro che del razzismo
erano e sono le vittime. Un « programma di lotta al debito internazionale » è stato invocato n
Mosca, ma soltanto l’Assemblea
di Canberra potrebbe eventualmente adottarlo... con tutti i rischi conscguenti: se lo adotta
si inimica le banche e tutti i detentori del potere; se non lo adotta si rivela impotente e irrilevante agli occhi dei poveri del
mondo, cioè della maggioranza
ucgli esseri umani.
Biotecnologie ed etica
In un altro campo, il Comitato Centrale del CEC si è occupato abbastanza a lungo i, sul la
base di un eccellente documento preparatorio) della questione
delle manipolazioni genetiche e
di biotecnologia.
E’ questo un campo nel quale
molti scienziati vorrebbero avere
qualche indicazione morale dalla chiesa. Ma quesl’ultima, non
avendo mai seguito con attenzione l’evoluzione della ricerca e
delle sue applicazioni tecnologiche, si trova spesso nella situazione di non saper che cosa dire. Ecco un tema su cui una riHessione congiunta di scienziati
e teologi sarebbe necessaria e
urgente, anche da noi.
E’ un campo in cui le grandi
compagnie internazionali si preparano a fare immensi guadagni
senza alcun riguardo per gli esseri umani, presenti o futuri. Un
campo nel quale non basta ripetere vecchi divieti moralistici,
perché le questioni da affrontare sono spesso del tutto nuove.
Oggi è possibile inventare (e patentare) delle specie vegetali e
animali mai esistite prima. Quindi nulla impedisce a priori di
programmare una nuova specie
di esseri umani. Per che cosa?
A che scopo? E, in fondo, che
cos’è l’essere umano?
Immensi interrogativi a cui il
Comitato Centrale del CEC ha
dato una prima parziale risposta in Un lungo ordine del giorno in cui tra l’altro prende posizione contro la commerciaiiz
via di ultimazione una foresteria di 200 stanze in cui la Chiesa riceverà i suoi ospiti.
Di questi tempi, a quanto ci
è stato detto, lo Stato restituisce
monasteri e santuari a una tale velocità, che la Chiesa ha difficoltà a trovare le risorse materiali per restaurarli e sufficienti preti per tenervi le funzioni.
Rimangono peraltro ancora residui di un’altra epoca; quando
siamo entrati in una chiesa « attiva », come dicono loro, la nostra guida ufficiale ci ha abbandonati: era autorizzata ad accompagnarci in chiese ridotte a
museo ma non ad assistere a
una funzione religiosa.
Dissidenti
I giornalisti che si sono dati
da fare hanno potuto visitare
20 luglio 1989. Il CC del CEC partecipa a un culto di Santa Cena
nella prima Chiesa battista di Mosca; il primo da destra è il pastore Alexey Bichkov, segretario generale dell'Unione dei cristiani
evangelici battisti dell'URSS.
(Foto Peter Williams, CEC)
zazione di feti, embrioni, ecc., e
contro le discriminazioni che potrebbero derivare dall’analisi dell’eredità genetica delle persone,
nonché contro la precoce determinazione del sesso dei concepiti che in molti paesi viene usata per abortire quando il nascituro è « solo » una femmina.
Il monastero Danilov
Nel corso delle sedute del Comitato Centrale sono state organizzate varie manifestazioni,
tra cui uno speciale culto ecumenico nella principale chiesa
battista di Mosca e visite a monasteri c monumenti, nonché la
partecipazione al culto domem
calo in numerose chiese nella
capitale e in periferia.
Sono stato in una chiesa di
campagna, a 30 chilometri da
Mosca, in cui celebrava un prete ortodosso di mia conoscenza
che aveva lavorato qualche anno a Ginevra. Nel pomeriggio ho
assistito a una cerimonia di battesimo: soprattutto bambini, è
ovvio, ma anche un folto gruppo
di giovani e diversi adulti. La
media, in quella sola chiesa, è
di circa 120 battesimi la settimana.
Nel 1983 lo Stato ha restituito alla Chiesa il monastero Danilov, in pieno centro di Mo.sca.
Dopo grossi lavori di restauro
e di ristrutturazione è diventato oggi la sede ufficiale della
Chiesa ortodossa russa, con il
palazzo del Patriarcato, gli uffici
del Dipartimento di relazioni esterne, una quarantina di monaci residenti (soprattutto giovani)
e due cattedrali. Nelle immediate vicinanze del monastero è in
senza difficoltà a casa loro dei
gruppi di dissidenti e parlare con
grande libertà.
Giudicare la situazione politica ed economica dell’Unione Sovietica dopo aver vissuto dieci
giorni in una delle periferie di
Mosca, c per giunta impegnati
nelle sedute del Comitato Centrale, sarebbe pretenzioso ed assurdo. Abbiamo visto delle code
davanti a certi negozi; siamo entrati in una panetteria dove c’erano tre qualità di pane e due
di dolci anziché le dieci o venti
che si trovano a Ginevra, ma abbiamo anche visto dei grandi
mercati di quartiere, senza file,
c non molto diversi da qualsiasi mercato rionale occidentale.
Mosca ha nove milioni di abitanti (tre volte Roma) e un traffico automobilistico impressionante. Nella periferia ci sono infiniti « casermoni » di venti piani con centinaia di appartamenti, ma tra l’uno e l’altro c’è spesso qualche ettaro di bosco di betulle. Ci sono parchi e giardini
con attrezzature di giochi per i
bambini. Se li paragono a quelli di Ginevra trovo che la manutenzione è scadente, ma se penso ai giardinetti di Piazza Cavour a Roma, o alla Quercia del
Tasso al Gianicolo, trovo che Mosca è una città molto pulita e
ordinata.
Aldo Comba
(*) Unità 1, « Fede e Testimonianza », per le questioni prevalentemente teologiche; Unità 2, « Giustizia e
Servizio », per le questioni pratiche,
assistenziali e politiche; Unità 3,
« Educazione e Rinnovamento » per la
vita parrocchiale e la formazione ecu
INTERROGATIVI
Ristrutturazione:
quali problemi?
Il Comitato Centrale del
CEC, nella sua ultima seduta
di Mosca, ha deciso dopo una
accesa ed importante discussione di nominare una commissione « che studi la vita
programmatica del Consiglio,
la sua riformulazione, e che
porti proposte concrete che
vengano poste in atto con il
prossimo C.C. del CEC, marzo
’90, così che il nuovo programma possa essere oggetto sperimentale in vista della sua approvazione definitiva entro
l’Assemblea del 1991 a Canberra ».
« Inoltre si chiede alle chiese membro un attento studio
delle proposte fatte, in modo
che ciascuna di esse dia il proprio contributo allo sviluppo
di questo processo di rifondazione » (Programmatic reorganization in the World Council
of Churches).
Il testo presentato dalla prima commissione nominata
dal Comitato Esecutivo del
CEC, presieduta dall’arcivescovo Mar Gregorios, della Chiesa Mar Thoma (India) e uno
dei presidenti del CEC, convince della necessità di una
ristrutturazione interna alla
struttura del CEC, ma non è
del tutto chiaro il suo vero
termine e fine.
Ovviamente, non si può negare la necessità di una tale
riformulazione a livello delle
sub-unità e commissioni. Così
come sarà necessario evitare
il sovrapporsi continuo di
compiti e mansioni delle stesse unità. Il documento proposto analizza anche la continua
difficoltà del C.C. di svolgere
integralmente il proprio compito di direttivo a causa della
confusione dei ruoli ai vari livelli, mentre viceversa è aumentato il ruolo decisionale
dei centri amministrativi.
L’attuale struttura del CEC
ha origine nel 1971. Allora si
pensò di porre lo staff ginevrino nella condizione di lavorare in gruppi per specifici
settori d’azione o progetti,
dando a ciascuna unità un
ampio mandato e, per funzioni specifiche del Consiglio,
la facoltà di esprimersi per
mezzo di sub-unità flessibili.
Esiste dunque la necessità
di questa ristrutturazione ai
livelli più bassi del Consiglio.
Ma si ferma lì la proposta, o
c’è dietro qualcosa di molto
più importante e che potrebbe
modificare radicalmente la
struttura del CEC rispetto alla propria funzione e alle chiese membro?
Il punto che ha creato sostanziosi dubbi è questo: il
documento presentato alla discussione del C.C. sostiene
nella sua analisi che le tensioni e le difficoltà sono sorte
sulle questioni concernenti la
partecipazione delle strutture
direttive (making-decision) nel
CEC: « Molti tentativi sono
stati fatti perché queste strutture e il nostro modello di lavoro siano maggiormente
coinvolti. A volte sono rimaste
escluse proprio quelle persone
che nelle loro chiese hanno un
grande ruolo decisionale. Inoltre le strutture del CEC sono
considerate non sufficientemente rappresentative, riflettendo la divisione esistente tra
il CEC e le chiese membro
nella comprensione e sviluppo
della partecipazione. Molte
chiese membro non sono rappresentate da corpi decisiona
li » (Doc. di riorganizzazione).
In altre parole, si lamenta
in seno al CEC la mancanza
dei capi delle chiese, almeno
dei capi di quelle chiese che
permettono la nomina nel C.C.
di donne e giovani che generalmente non sono « leader »
negli organismi interni, ma
semplicemente rappresentanti.
Si coglie qui la grande
preoccupazione delle chiese a
struttura gerarchica di vedersi
attorniate da persone che vengono fuori dalla base delle
chiese locali, che discutono,
hanno il diritto di esprimersi,
con uguale voto, valore e forza. Si coglie anche l’intenzione di fare del movimento ecumenico un’assemblea permanente di capi di grandi chiese,
i quali, ogni tanto, si avvalgono della presenza di consulenti e tecnici, totalmente soggetti però 'all’ultima decisione
che spetterebbe sempre ai
leader.
Ma il problema, a questo
punto, non è soltanto nel fatto che così viene messa in forse la presenza delle donne e
dei giovani a livello decisionale (salvo i ruoli subalterni ai
rispettivi leader nelle eventuali commissioni che li coinvolgerebbero; gioventù, donne... per es.), presenza ratificata e legalizzata negli ultimi
C.C. con grandi maggioranze,
ma vengono messi in discussione anche la presenza e il potere delle piccole chiese di minoranza o delle chiese congregazionaliste che non sono disposte a riconoscere delle leadership al di fuori di quella
di Gesù Cristo, per le quali l’elezione di un qualsiasi rappresentante non è mai per una
« leadership », ma piuttosto
per svolgere una funzione.
E’ dunque molto diversa
l’aspettativa per la nuova
struttura di funzionamento
del CEC per le chiese congregazionaliste e per quelle a
struttura gerarchica (episcopali). Gli ortodossi si lamentano e dicono che il CEC così
com’è è troppo protestante, e
non sono più disposti a sopportare a lungo questo stato
di cose. Sì dovrà raggiungere
un compromesso che tenga
conto degli interessi di tutti,
ma soprattutto si dovrà rendere la funzione gerarchica essenziale al movimento!
I protestanti non hanno ancora reagito. Certo c’è molta
insoddisfazione e qualche timore di rottura. Mi sembra
però sia giocoforza per i protestanti far sentire la voce in
difesa dell’operato di Philip
Potter, il quale aveva operato
questo profondo cambiamento
nel movimento ecumenico permettendo con la sua apertura
teologica e spirituale l’entrata nel CEC di tutte le forze vive delle chiese, che fossero o
no leader, ma che .sostenevano con grande partecipazione
l’esistenza di un ecumenismo
che affondi le sue radici nelle basi delle comunità, coinvolgendole tutte come se fossero loro in prima persona
presenti.
Sarà dunque compito delle
nostre Assemblee e Sinodi riflettere su quanto accade a Ginevra e fare in modo che la
voce dei minimi si levi in difesa di un sistema democratico
e pluralista qual è quello attuale delle rappresentanze nel
C.C. del CEC.
Gioele Fuligno
6
6 glorioso rimpatrio
RIPERCORSO IL GLORIOSO RIMPATRIO A PIEDI
(...) Sbarcammo fra Nenier e
Yvoire e subito ci accampammo
fra i boschi, dopo aver adeguatamente piazzato le sentinelle.
In mattinata giunse un cavaliere al quale ordinammo di
iermarsi; riuscì a fuggire benché uno dei nostri gli indirizzasse una fucilata. Eravamo ormai
scoperti, e di conseguenza il
comandante (il capitano Turel,
n.d.t.) andò, con qualche soldato, al più vicino villaggio per
avvertire i savoiardi delle nostre
intenzioni che erano unicamente
quelle di attraversare la regione
senza far del male ad alcuno né
creare disordini; per contro, dichiarammo di essere intenzionati a mettere a ferro e fuoco
la città, se fossimo stati ostacolati. Sentito questo, furono tranquillizzati e ci lasciarono passare liberamente.
CLUSE
(...) Arrivammo con un tempo bruttissimo, fra pioggia e
vento; sapendo che non ci avrebbero ceduto il passaggio di
buon grado, il comandante fece
schierare diversi battaglioni e,
dai sei cavalieri che vennero a
parlamentare, pretese « una risposta positiva entro mezz’ora »,
altrimenti avremmo forzato il
ponte; tornarono entro mezz’ora per dire che dovevano tenere consiglio e ci sarebbe voluto
tempo; i nostri ufficiali riuscirono ad acchiapparne due, e li
mettemmo in testa alla colonna
insieme a trentasei altri prigionieri; li avremmo ammazzati
tutti al primo colpo di fucile.
Che non venne perché gli abitanti presero la fuga per andare
a difendere l’abitato. Appena
forzato il ponte chiedemmo degli ostaggi che ci furono dati;
ma erano due contadini che rimandammo indietro, prendendo
al loro posto due padri cappuccini che dimostrarono grande
gioia nel vederci; gliene concedemmo ben di più tenendoli
con noi parecchi giorni.
COL DU BONHOMME
(...) Arrivammo in ima valle, o
piuttosto in un deserto gelido
circondato da montagne altissime, tutte coperte di neve. Lì ci
accampammo, uccidemmo alcune pecore disperse e accendemmo dei fuochi con le assi di alcune baracche.
Sul colle, innevato, ci sorprese nuovamente la pioggia; ci
riparammo in alcune casematte
costruite l’anno prima proprio
quando si era sparsa la voce
del nostro viaggio, poi rimandato; i soldati ci avevano atteso
a lungo, ma se n’erano ormai
andati. Dio ci ha aperto il passaggio malgrado la rabbia dell’Anticristo e dei suoi alleati che,
quando il Signore ci mette mano, sono come la paglia messa
sul fuoco, o come la polvere gettata al vento.
COL D’ISERAN
(...) Attaccammo la salita del
colle d’Iseran e lì qualcuno di
quei savoiardi tentò di fuggire,
ma bastarono pochi colpi di fucile per far loro cambiare idea.
(...) C’erano alcuni alpeggi con
numeroso bestiame; i contadini
ci diedero del latte e ci avvertirono che ai piedi del Moncenisio si stavano ammassando le
soldatesche nell’intenzione di
Wh..
Ini
1689 - 19);
DOCUMENTO
Giorno per giorno
di PAUL REYNAUDIN
sbarrarci il passo. La cosa non
ci spaventò, eravamo certi che
con l’Onnipotente dalla nostra
parte gli uomini nulla avrebbero potuto contro di noi.
BESSANS
(...) Valicato l’Iseran giungemmo in un borgo chiamato Bessans, dove c’è la gente più cattiva che esista sotto il sole;
sembravano volerci affrontare e
osarono anche minacciarci, sicché ne facemmo marciare con
noi un gran numero in modo che
se avessimo avuto guai ne ricevessero anche la loro parte. Ci
accampammo nel villaggio seguente, completamente abbandonato; era il sesto giorno, giovedì 22 agosto.
MONT CENIS
(...) Giungemmo poi a Villars, ai piedi del Moncenisio, e
volevamo prendere il curato come ostaggio; ma era troppo
grasso per poter camminare e
lo lasciammo lì. Sulla montagna
ci colse una tormenta; il vento
e la pioggia gelidi ci impedivano
di proseguire. Avevamo perso
gran parte dei viveri e delle
armi. Vedemmo una o due compagnie di soldati, e anche loro
ci videro ma non disturbarono
la nostra marcia. Loro sapevano che a valle, a Salbertrand, ci
stavano preparando un’imboscata. Arrivammo il sabato, 24 agosto, di notte, le luci del posto
di guardia brillavano a mezza
lega davanti a noi.
SALBERTRAND
(...) Dopo pochi minuti le guardie aprirono il fuoco sulla nostra colonna, alcuni soldati furono feriti, ma continuammo a
marciare suonando le trombe e
dicendoci l’un l’altro: «Coraggio! » e, mentre correvamo spada alla mano verso il ponte, il
nemico assai più numeroso di
quanto pensassimo ci tirava
addosso tante di quelle scariche
che avremmo potuto raccogliere
le palle. Noi, correndo verso il
ponte, già gridavamo: « Coraggio, il ponte è preso! », cosa che
animava talmente i nostri soldati
che si gettarono d’impeto contro
la barriera nemica, sfondandola. Come fummo sul ponte eravamo tutti alla rinfusa, uno sull’altro, ci si uccideva con la spada e con la baionetta, col calcio
del fucile. I nemici ebbero due
capitani uccisi e molti soldati,
ma il numero è incerto, non si
può qui dire; l’importante è che
Dio ci ha dato la vittoria, e che
la terra era coperta dei loro
morti, tanto più che molti di
loro si fingevano morti per scappare in seguito. Abbiamo bruciato tutta la loro polvere e portato via le munizioni che possedevano in gran numero, ben più
del necessario per sterminarci
tutti, come era loro intenzione;
ma se l’uomo propone, Dio dispone.
VAL SAN MARTINO
(...) Dopo una breve sosta e
una preghiera di ringraziamento
ci avviammo verso la vai San
Martino. Ci accampammo nel
villaggio più alto, presso il colle del Pis. L’indomani, nuovamente sotto la pioggia, valicammo il colle e ci separammo in
tre distaccamenti, due per attaccare sui fianchi e il grosso
in centro. La spessa coltre di
nebbia ci impedì di vedere le
sentinelle, per cui passammo
senza combattere. Stavamo mangiando quando risuonò l’allarme; era un gruppetto di soldati
che ci veniva incontro credendo)3i probabilmente dei loro. Per la
sorpresa non opposero resistenza e potemmo facilmente impadronircene.
VAL PELLICE
(...) Raggiunto Prali, in uno
dei nostri templi che non era
stato demolito abbiamo potuto
adorare il Signore secondo la
sua santa volontà. L’indomani, il
colle Giulian era presidiato dai
soldati che avevano costruito
dei bastioni. Ci dividemmo allora in tre gruppi in modo da poter attaccare e frontalmente e
sui fianchi. Il nemico vide giungere il nucleo centrale e si concentrò sul fronte, ma fu accerchiato dalla pattuglia che giungeva dall’alto, nascosta dalla
nebbia. Qualcuno cadde, dei nostri e dei loro, ma erano ormai
scompigliati e presero la fuga,
sicché potemmo agevolmente
entrare in Bobbio.
dal
« Journal de l’expédition »
Una organizzazione pressoché
perfetta, dove nulla era lasciato
al caso ma tutto era previsto,
so'ppesato, immaginato e corretto in una gestione industrial-teutónica, ha riportato a casa nel
pieno rispetto delle tabelle di
marcia il 99,5% dei componenti
la spedizione che ha voluto ripercorrere a piedi il percorso
del Glorioso Rimpatrio. 115 iscritti, 114 partiti, 112 arrivati stanchi, trafelati, felici e soprattutto
commossi all’appuntamento finale ai piedi del monumento a
Henri Amaud, fra l’abbraccio
della folla assiepata sotto il sole cocente di metà mattina davanti alla Casa Valde.se di Torre Penice. Con loro l’altra trentina di compagni che li avevano
seguiti non sui bricchi, ma passo passo a valle, in un’opcja
di assistenza logistica indispensabile.
E’ il 18 agosto 1989, trecento
anni esatti dopo quell’estate del
1689, quando un manipolo di
valdesi raggiunse Bobbio do^-jo
quella marcia forzata attraverso
le Alpi che è stata consegnata
alla storia come avvenimento
« miracoloso», « impossibile » e,
appunto, « glorioso ». Dedicato
cioè alla gloria di Dio, di quel
Dio a motivo del quale i valdesi erano stati (e furono ancora,
Fuori programma
Può succedere di essere svegliati in piena notte da squilli di tromba, rullare di tamburi e una fitta sparatoria. Niente paura: non
sono i « filistei » ma un gruppo di giovani delle valli che ha pensato bene di dare, con petardi carnevaleschi, un tocco di realismo.
« Abbiamo avuto qualche istante di autentico terrore — raccontano i "rimpatriali” — tutti erano saltati fuori dalle tende in mutande e non si capiva che cosa stesse succedendo. Abbiamo .si pensato a uno scherzo ma eravamo comunque incerti perché per più
di un’ora sentivamo delle motociclette girare attorno al campo.
Solo al mattino abbiamo avuto la conferma che .si trattava di una
goliardia, quando abbiamo trovato dei messaggi firmati Francesco
Posa, che trecento anni fa era il comandante della guarnigione di
Susa. Solo qualcuno dei nostri poteva conoscere quel particolare ».
7
glorioso rimpatrio
un cammino lungo trecento anni
Dal lago Lemano ai bricchi delle valli
valdesi. Oltre trecentoventi chilometri percorsi a piedi raggiungendo i 2.800 metri di
quota; qualcosa come un milione di passi,
motivati da un misto di spirito di avventura,
di ricerca, di riflessione e anche un pizzico
di goliardia. Per le circa 150 persone che vi
hanno partecipato, dal 2 al 18 agosto, di diversa età, nazionalità e confessione, è stata
un’esperienza affascinante e indimenticabile.
a lungo) perseguitati, torturati,
vessati, imprigionati, deportati e
uccisi.
E’ il 18 agosto 1989 e per un
attimo, agli occhi di chi li attende, li accoglie e li applaude,
sembrano veramente i figli di
Arnaud. Non tutti sono valdesi,
naturalmente, ma sono uniti, affratellati, dal sentimento che li
ha accomunati per diciotto lunghi giorni: la ricerca delle origini, il tuffo in un passato che
però è il presente, la riflessione
sul senso della parola d’ordine
delle antiche truppe che era:
« Passare o morire ».
Matti da legare
Chi è rimasto « per terra » ha
seguito comunque con interesse
l’andamento della marcia, molti si tenevano aggiornati sulla
salute di « quei matti » lassù,
sulle montagne. C’è il vento? La
tormenta? Ce la faranno? Ma
chi glielo ha fatto fare? E loro camminavano, imperterriti.
« Non si fa il Rigrap senza i cerotti, perché si han sempre i
piedi rotti » canttmo i bambini
che ogni giorno elaborano una
nuova strofa di quello che è diventato l’inno della marcia e
che sarà prossimamente musicato. Sono loro, i bambini (i due
più piccoli hanno sette anni) a
dare i maggiori grattacapi ai
capisquadra che devono tenere compatto il gruppo; non sono mai stanchi, viaggiano come
tanti Speedy Gonzales: « Con noi
bambini s’impara l’educazione,
litigare non fa buona impressione ». Non è stanco nemmeno
John Andrus, 62 anni, di Boston
(USA), presbiteriano, già ufficiale dell’aviazione degli Stati Uniti con Un incarico a Siena nel
dopoguerra. In stretto contatto
con gli evangelici italiani fin da
quei tempi, è stato uno dei primi ad iscriversi al Rigrap; da
Un anno si allena sulle montagne del New Hampshire. Tutte
le mattine, con la sua tromba
un po’ sfiatata, suona la sveglia:
« Sto scrivendo una poesia epica sul Rimpatrio — dice —, sarà pubblicata tra breve. E poi
voglio riscrivere la storia dei
valdesi in americano. L’american people la conosce troppo poco, ci sono solo vecchi testi inglesi leggibili con difficoltà ».
Se tutti hanno la medesima
motivazione di fondo, ognuno ha
una seconda motivazione personale. Qualcuno partecipa per poter dire « io c’ero », qualcuno si
fa una bella gita, altri vivono
un’esperienza spirituale. Enrico
Armand Hugon, agricoltore, emigrato a Rio de la Piata nel secondo dopoguerra, si è iscritto
appena ha avuto sentore del
progetto « non per lettera ma per
telefono, per non rischiare ».
E’ un partecipante attento a tutte le piccole sfumature; raccoglie le impressioni e i sentimenti, li porterà in Uruguay: « Partecipare a questo ’’rimpatrio” è
un dovere — afferma —; dovremmo essere di più, dovremmo esserci tutti. Sono loro, i padri,
ad aver fatto tutto; hanno dato se stessi. A noi cosa rimane?
Il dovere di ricordare, il dovere
di far rivivere, di trasmettere.
Il dovere di avere la medesima
determinazione per far sì che il
loro sacrificio non cada nel dimenticatoio ma sia fonte di nuove energie, di rinnovamento e,
se necessario, di rifondamento.
Se non sappiamo fare questo il
Rimpatrio, quello vero, è stato
inutile ».
Il motore non si ferma mai;
al mattino sveglia all'alba, toeletta, colazione, partenza. « Non
si fa il Rigrap senza il gabinetto, perché al Rigrap tutto è perfetto ». La squadra d’appoggio
smonta il campo, carica i furgoni, ci si av\da alla prossima
tappa dove si rimonta il tutto,
si va a fare la spesa, si cucina
per la truppa che giungerà a sera, accolta ogni giorno dallo
Squillo delle trombe del « Guglielmo Teli ». A sera, dopo cena, i noti « chansonnier » Carletto Arnoulet e Guy Rivoir imbracciano la chitarra e con Nico La Rosa all’organo fanno rivivere canzoni vecchie e nuove,
inni e complaintes: « Non si fa
il Rigrap senza Carletto, perché
con lui si fa il coretto ». Guy Rivoir, affermato pittore, traccia
gli schizzi di una futura produzione, molti scrivono un diario
(qualcuno con velleità editoriali),
Umberto Stagnare pensa al prossimo fumetto, quasi tutti mettono in ordine i rubini fotografici destinati a riempire centinaia di album. « Il signor Carlo
farà una prova, se non funziona ne farà una nuova »; la macchina organizzatrice è impietosa
e alle 22.30, sulle note del « giuro » di Sibaud suonato dal violino, tutti a nanna in attesa del
nuovo giorno, di nuovi passi e
di nuovo cammino; ben sapendo che i nuovi passi sono i passi antichi di un cammino lungo
trecento anni e non ancora concluso.
Alia partenza, davanti al cippo di Promenthoux a Prangins, i partecipanti ricevono il saluto delle autorità svizzere. Sotto, l’arrivo a
Torre Pellice. A lato, alcuni momenti della vita nel campo. Nell’altra
pagina, il campo, un’incisione d’epoca e il ponte di Sallanches.
Pagine a cura di Stello Armand-Hugon con la collaborazione fotografica di Carletto Arnoulet, Foto Girardon, Nini Jouvenal Boèr,
Nico La Rosa
Davide e Golia
Carlo Bdchstddt-Malan, industriale dolciario della
vai Pellice, si è buttato a capofitto nell’impresa Rigrap dopo aver visto le diapositive di alcuni giovani
delle Valli che avevano fatto il percorso del Rimpatrio; spiega: « I nostri padri hanno scritto una pagina di Storia, con la maiuscola, fra le più appassionanti. E’ la vicenda di Davide e Golia, e io sono
sempre stato dalla parte di Davide. Mi affascinano
le storie del più debole che prevale sul più forte.
E mi affascina la storia di quei pochi valorosi che
riuscirono a mettere nel sacco i più potenti eserciti d’Europa ». Pur facilitato dal poter contare su
di un’organizzazione sua, Bester (come viene chiamato per motivi fonetici) ha lavorato per sedici
mesi insieme al comitato organizzatore per impostare una spedizione efficiente, poco spazio è stato
lasciato all’improvvisazione: tutto ha funzionato come un orologio svizzero. A Sibaud, non rinunciando
al ruolo di condottiero che si è cucito addosso, non
nasconde la sua soddisfazione. « Ha funzionato tutto bene — esulta —, li abbiamo riportati tutti, salvo una signora che si è fatta male e un’altra che
ha fatto i capricci ». Non dimentica i collaboratori
più stretti, il gruppo che è stato l’anima della spedizione, le guide, i radioamatori, la squadra appoggio. « Tutti si sono fatti in quattro per ottenere
il risultato migliore ». Carlo Bdchstddt si dichiara
non credente, afferma che tutte le organizzazioni
ecclesiastiche non sono che tante gabbie ove il
pensiero umano viene racchiuso ma tuttavia, come
’’cittadino valdese” orgoglioso di esserlo, esprime
il rincrescimento « per l’as.senza della Chie.sa » che,
non solo per quanto riguarda il Rigrap ma per
tutte le manifestazioni del centenario, «non ha saputo cogliere la grande opportunità di coinvolgimento e di ri-aggregazione fornita da questo grande appuntamento con la storia. La battaglia di Davide contro Golia non si porta avanti solo con gli
intellettuali ma con la gente, soprattutto quando si
vuole essere un popolo-chiesa ».
8
8 vita deile chiese
25 agosto 1989
UN’INDAGINE NELLE CHIESE DELLE VALLI
Cos'è il battesimo?
Osservazioni pastorali, riflessioni teologiche, le aspettative dei più
giovani: un panorama di opinioni, in ricca e costante evoluzione
Qual è per te, oggi, il significato del battesimo nella vita del
credente? Quanti battesimi di
fanciulli, di credenti e quante
presentazioni sono stati celebrati nella tua chiesa negli ultimi
dieci anni? Personalmente preferisci il battesimo dei fanciulli
o dei credenti? Motiva teologicamente le tue scelte.
Sulla base di questi interrogativi abbiamo condotto un’indagine campione in undici chiese
valdesi delle valli lasciando rispondere i pastori. A completamento dell’indagine abbiamo intervistato un gruppo di 12 ragazze e ragazzi del 4® anno di catechismo.
Sul significato del battesimo
(B1 la maggioranza degli intervistati ritiene che il B « sia il fondamento della vita cristiana, in
quanto riconoscimento della storia della salvezza, che Dio ha
operato attraverso Gesù Cristo ».
Qualcuno osserva che « il B resta per tutta la vita la grande
promessa sotto cui è posta l’esistenza delle creature che appartengono al Signore Gesù Cristo:
promessa di cambiamento, di
un passaggio dalla disubbidienza
al servizio a Dio. Non è la garanzia della salvezza, perché questa è data pienamente nella croce di Cristo. Più modestamente,
è la consegna di ubbidienza data a ogni credente: è annuncio
di perdono ed è l’inizio del cammino della santificazione ».
C’è anche chi — ma è una voce isolata — osserva che « Gesù non ha mai battezzato, soltanto i discepoli lo hanno fatto.
E’ probabile che nel ministero
di Gesù la questione del B abbia avuto scarsa o nulla rilevanza; anche la formula di Matteo
2S: 19: "Andate dunque, am
maestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo...”
potrebbe essere un’interpolazio
Corpo
pastorale
Il Corpo pastorale è convocato per i giorni 25 e 26
agosto nell’Aula sinodale della Casa valdese di Torre Pellice con il seguente ordine
del giorno:
venerdì 25 (ore 9-13, 1517)
— Commissione liturgia (pastore Gino Conte)
— La sottoscrizione della
Confessione di fede (prof.
Sergio Rostagno)
— Il battesimo: battesimo
ecumenico, ’’ribattesimo”,
documento di Leuenberg
sul battesimo (past. Alfredo Sonelli)
— Varie
sabato 26 (ore 9-13)
Esame di fede dei candidati
Massimo Aquilante, Fulvio
Ferrario, Ruggero Marchetti,
Gregorio Plescan.
Se l’esame di fede dei candidati avrà avuto esito positivo, i sermoni di prova verranno tenuti nei templi di S.
Germano (ore 15) e del Ciabas (ore l'7.30).
Tutti i membri delle Chiese valdesi, metodiste, libere,
nonché gli invitati al Sinodo
sono cordialmente invitati ad
assistere agli esami di fede e
a partecipare alla discussione dei sermoni di prova.
Il moderatore
della Tavola valdese
Franco Giampiccoli
ne posteriore della chiesa antica. Paolo stesso dice di essere
stato inviato ad evangelizzare,
non a battezzare. E’ vero che
Paolo riflette teologicamente sul
B, ma lo fa nella prospettiva dei
’’nuovi proseliti”. Per Paolo l’unica cosa importante è ’’essere
in Cristo”. Il B in sé è stato
superato da Gesù ».
Sul versante dei giovani (tutti
sedicenni) una ragazza osserva
che « il B è l'ingresso nella comunità dei credenti ed è l’annunzio della Grazia di Dio », un altro che « il B è un rito indispensabile per la chiesa », un altro
ancora conclude scrivendo:
« Quando ci si deve sposare è
meglio essere già battezzati ».
Ma dove sorgono maggiori problemi è sul secondo ed il terzo
quesito. Guardiamo prima ai numeri. Esaminando i registri delle chiese interessate da questa
nostra intervista, negli ultimi 10
anni percentualmente ricaviamo
i seguenti dati: battesimo dei
fanciulli: 77%; battesimo dei
credenti (in genere in occasione
della confermazione): 19%; presentazione: 3%.
Dei fanciulli
o dei credenti
Due su undici pastori si dichiarano decisamente per il B
dei fanciulli.
« Ho deciso, in accordo con
colei che ha accettato di dividere con me la sua vita — scrive
il pastore di una comunità di
1.5()0 membri — di chiedere che
i miei figli fossero battezzali all’età di circa un anno. Sono infatti convinto che parlando loro
del loro B, si sottolinea il fatto
che non loro hanno scelto Dio,
ma che Dio ha scelto loro, anche quando loro non lo sapevano. E tutta la forza di predicazione implicita nel gesto battesimale e nella di esso liturgia
si trasmette alla comunità riunita, che è implicitamente invitata a riprendere coscienza del
proprio B e della Grazia di Dio
che sempre precede le nostre decisioni, anche nel quotidiano. Dio
sta sempre davanti a noi e ci
prepara le buone azioni perché
le compiamo (Ef. 2: 10)».
Un’altra voce osserva che « il
B sottolinea là Grazia di Dio
che precede le nostre possibilità e capacità di fede, ovvero inserisce il bambino nello spazio
della promessa di Dio. Non potrebbe avere il B dei bambini
un significato critico in una società in cui l’individtHalismo e la
libertà di scelta vengono espressi in modo demagogico per nascondere le vere dipendenze? Il
B dei bambini, come segno de’la Grazia di Dio che ci precede,
rende possibile una vita vissuta
nella libertà evangelica ».
■Altri due pastori dichiarano di
non avere particolari preferenze: « A chi mi chiede coscientemente il B per sé o per i propri
figli non posso rifiutarmi di amministrarlo. Per me la persona
umana non ha età. il colloquio
con Dio può avvenire anche con
l’infante e non solo con la persona intelligente ».
Tutti gli altri pastori, con più
o meno ampie motivazioni, si
dichiarano a favore del battesimo dei credenti. Teologicamente si osserva che « se è vero
che il B è un atto di speranza,
potrebbe al limite essere dato
ai fanciulli come invocazione
per la loro fede futura. Ma il
B è anche un atto di ubbidienza, che deve essere compiuto con
riconoscenza ed impegno. Questo presuppone la fede cosciente ».
Interessanti sono anche le motivazioni .sul piano più pastora
UNA VITA PER L’EVANGELO
Alberto Ribet
le: « E’ chiaro che non si può
rifiutare il B ai genitori che lo
chiedono per il loro figlio, ma
questo diventa spesso l’occasione per far riflettere i genitori
sul loro impegno educativo; il
B diventa così più un segno per
i genitori che un segno per i
battezzati. Il B dei credenti impegna invece a una catechesi diretta ai futuri battezzati, in cui
tutta la ricchezza del segno può
essere usata per far comprendere al singolo il senso che ha
per lui il perdono, la richiesta
della fede, l’impegno nella speranza ».
Le risposte dei giovani confermandi, a parte una, vanno
tutte nella direzione di preferire
il B degli adulti perché, come
nota una ragazza, « il B dei bambini è comunque il frutto dt
una decisione già presa da altri
per te ».
Sempre sul problema un giovane pastore osserva; « Qccorre
incoraggiare il B dei credenti,
ovvero degli adulti, per essere
più aderenti al messaggio biblico, ma allo stesso tempo è bene
venire incontro a coloro che aspettano dalla loro chiesa la
continuazione della prassi del B
dei bambini. In ogni caso l’incontro con i genitori è indispensabile ».
Più criticamente qualcun altro
nota: « Il B dei fanciidli è una
prassi inserita nella vita della
chiesa a partire dal V secolo e
che risente molto chiaramente
del bisogno di dare continuità
alla chiesa. Qggi, il desiderio dei
genitori che i loro figli siano parte della comunione della chiesa
è assicurato dalla prassi della
presentazione ».
Qualcun altro osserva che « nel
1972 è stata prodotta da un
gruppo di pastori valdesi delle valli una liturgia sperimentale della ’’presentazione dei fanciulli” che pone l’accento là dove va posto: sulla sincera volontà dei genitori di educare in vista della fede in Cristo i loro
figli. La presentazione dei fanciulli è così un atto di preghiera
(s’intercede per il fanciullo) e
di speranza che prepara e valorizza, in prospettiva, lo stesso B ».
In conclusione: mentre la pratica della presentazione dei fanciulli rimane un fatto episodico,
limitato, il numero dei battesimi di adulti rappresenta 1/5 del
totale e tende ad aumentare. La
stragrande maggioranza dei
membri di chiesa alle valli continua a chiedere il B per i loro
figli in tenera età ma, forse, questa richiesta è fatta con minor
convinzione di un tempo.
Tra meno di dieci anni, quando la generazione dei catecumeni che oggi al 90% dichiara di
non essere d’accordo con il B
dei fanciulli si troverà a sua volta ad affrontare il problema in
veste di genitori, è probabile che
seguiranno le convinzioni che
hanno espresso nel corso di questa nostra indagine. Se le cose
stanno così, nel giro di poche
generazioni il B dei fanciulli è
destinato a diventare minorità
rio. Si tenga anche conto del fatto che la maggioranza dei pastori si dichiara a favore del B degli adulti, o meglio dei credenti.
La prassi del « padrino » e della « madrina » connessa al B è
in costante declino, del resto non
esistono argomenti biblici per
impedirne la scomparsa o ipotizzarne il rilancio. Infine una
raccomandazione da parte di un
pastore che si dichiara barthiano: « Sul B occorre avviare un
confronto ecumenico sia verso il
fronte cattolico che verso il fronte battista, entrambi viziati di
sacramentalismo ».
Alberto Ribet è
stato e rimane per
molti valdesi un pastore diviso fra un
profondo affetto per
le Valli e un intenso
entusiasmo per l’evangelizzazione. Puntuale conoscitore dei
regolamenti, uomo di
obbedienza, non oppose mai dinieghi alle decisioni della Tavola concernenti la
sua persona, la sua
famiglia, il « suo destino », da Orsara a
Massello, da Livorno
a Milano, da Roma a
Livorno. Non cercò il
« suo particulare ».
Come altri della
sua generazione ( Oreste Peyronel, Alberto
Ricca ecc.), ebbe una
visione generale della chiesa valdese intesa come un fascio
di comunità unite e
distinte, ma ne conobbe le famiglie
non semplici e non di rado contrastanti.
Formato alla scuola di Paolo
Bosio, ne seguì il sistema di predicazione, il susseguirsi delle
« conferenze » di piazza Cavour;
curò le varie zone con attenzione alle loro specificità : fu « livornese » con i livornesi, « elbano »
con gli elbani. A Milano e a Roma affrontò la dispersione delle
famiglie valdesi con il coraggio
di un lavoro mai finito, con la
forza di ricominciare.
Nella Tavola valdese rappresentò una « destra » sulla difensiva verso un ecumenismo troppo generico, ma si rallegrò per
gli sviluppi della Facoltà di teologia, fiancheggiò l’opera di Giovanni Miegge e di Valdo Vinay.
La presentazione delle chiese
valdesi, fortemente documentata
da un archivio personale e da
una memoria inesauribile, traspare nella pubblicazione di
« Cento anni di storia valdese » :
egli sapeva riconoscere l’opera
dei colleghi come il frutto di una
fatica costante come quella delle
formiche. Fu sull’offensiva verso
un cattolicesimo integralista e
autoritario, condusse nei confronti del protestantesimo nostrano una battaglia di gruppo
nel pieno rispetto delle particolarità delle chiese battiste e metodiste in una linea unitaria e
federalista. La sua partecipazione ai Sinodi, ai Congressi, alle
Assemblee fu costante, cordiale,
fraterna.
Seppe, nel suo lungo itinerario,
infondere ai figli l’amore per
TEvangelo : chi nel pastorato, chi
nella televisione, chi nell’opera
fra i giovani, esprime una eredità
spirituale che non sarà inutile
per l’attuale generazione.
C. G.
Calendario
Giovedì 24 agosto
□ ASSEMBLEA TEV
TORRE PELLICE — Presso la casa
unionista, al termine del tredicesimo
anno di attività, con inizio alle ore
15.30, si riunisce l'assemblea generale della TEV.
Venerdì 25 agosto
□ CENTENARIO
TORRE PELLICE — Alle ore 17 sarà
inaugurato, presso il Centro culturale
valdese, il Museo storico nel suo nuovo allestimento. Congiuntamente, nel
giardino del Collegio, si aprirà la rassegna « Chi siamo, cosa facciamo »,
Domenica 27 agosto
□ CULTO A SIBAUD
BOBBIO PELLICE — In occasione
del III centenario del Rimpatrio, presso il monumento di Sibaud si svolge,
con inizio alle ore 10,30, il culto presieduto dai prof. Giorgio Spini.
Vista la valenza dell’incontro il
Consiglio del 1" Circuito ha invitato
tutte le chiese a partecipare a questo
culto: pertanto molti culti in vai Pellice sono sospesi e si svolgono soltanto quelli di Villar Pellice, Torre
Penice centro e della cappella degli
Airali a Luserna (ore 9).
Per quanti salgono a Bobbio l’invito è di lasciare le auto lungo la via
XXV aprile (a destra poco prima dell’ingresso nel centro abitato) e la
successiva strada non asfaltata; seguendo la mulattiera o via Podio si
sale a Sibaud in circa 20 minuti a piedi.
Giuseppe Platone
Sinodo delle chiese
valdesi e metodiste
Il Sinodo, secondo quanto disposto dall’atto n. 36 della sessione sinodale europea 1988, è convocato per
Domenica 27 agosto 1989
I membri del Sinodo sono invitati a trovarsi nell’Aula
sinodale della Casa valdese di Torre Pellice, alle ore 15.
II culto di apertura avrà inizio alle ore 15.30 nel tempio di Torre Pellice e sarà presieduto dal past. Aldo Comba.
Il moderatore
della Tavola valdese
Franco Giampiccoli
i
9
25 agosto 1989
valli valdesi
FRALI
VAL GERMANASCA
ASapatiè, Tante risposte integrate
verso
il futuro
Ci si è posti, a Sapatlè, il problema del futuro della vai Germanasca. « Val San Martino, vai
Germanasca, e poi? » era il tema dell’incontro organizzato dal
Circuito e dalla chiesa di Frali.
Sulla storia della vai San Martino ha riferito con molta precisione il maestro Enzo Tron, animatore del museo valdese di Rodoretto.
Sul ruolo della resistenza in
vai Germanasca è intervenuto,
commosso, l'avvocato Ettore Serafino, comandante partigiano,
che ci ha ricordato il dilemma
che si è posto alla sua coscienza tra la fede cristiana e la lotta che aveva aspetti spietati. « E'
un dilemma che conosciamo, tragico e perenne: la compatibilità o meno tra l’iniziativa armata, che fa soffrire altri uomini,
e l’essere fedeli alla legge dell’amore e del perdono. E’ il dramma che l’obiettore di coscienza
risolve anticipatamente, in tempo di pace, con la testimonianza
dell’estremo diniego. Ed è curioso come chi più è stato impegnato sul fronte della lotta armata simpatizzi oggi con gli
obiettori di coscienza. La nostra
era una lotta per la libertà.
Dramma dunque. Ma quando io
penso che le truppe tedesche avevano scritto sul cinturone
”Gott mit uns” (Dio con noi),
ebbene, di fronte ad una bestemmia simile la testimonianza, pur
con tutto il peso della debolezza e della insufficienza del peccato di cui ognuno di noi è portatore, della presenza di Dio nel
mondo, questa testimonianza era
resa assai più dal mitra dei partigiani che non dal cinturone
delle truppe tedesche. E credo
che se i partigiani che sono morti potessero essere presenti, direbbero ai loro coetanei, che si
battono per la pace: "Anche a.
noi piacerebbe tanto gettare fiori anziché bombe”. Non bisogna
dimenticare che nel disegno divino c’è il posto, il tempo della
.sofferenza e della prova ».
Ma se questo era il passato,
qual è il futuro che si può ipotizzare? Ne hanno parlato Mauro Meylre, amministratore di
Salz.a, e Piero Barai, delegato
sindacale alla miniera della Talco e Grafite. Nessuno dei due ha
la ricetta per affrontare il problema della vita negli anni 2000,
ma sottolineano con forza che
il futuro lo si costruisce giorno
per giorno con le scelte che si
fanno. Non è possibile che ci
sia qualcuno che pensi il futuro
della valle con le decisioni che
assume lontano di qui, ma sono
le decisioni di chi resta e noti
abbandona la montagna che determinano il futuro.
Certo non si può essere chiusi al nuovo, rappresentalo dall’Europa, dalle nuove tecnologie,
dalla richiesta di un turismo che
valorizzi l’ambiente e la cultura
locale, ma queste cose stanno
nell’iniziativa della gente locale.
Altrimenti si finisce per essere
eterodiretti ed il turismo può
diventare colonizzazione culturale.
Oggi, in vai Germanasca, vivono 2.700 persone, il rapporto ira
uati e morti è negativo, il tasso
di vecchiaia della popolazione è
alti.isimo, ma — per la prima
volta — ci sono segni di inversione di tendenza, alcuni giovani hanno lasciato la città per
far ritorno. Un segno di speranza.
G. G.
Lo spopolamento e l’innalzamento deM’età media - La montagna come « serbatoio di mano
d’opera »-Le nuove tecnologie, le cooperative, e la ricerca per i nuovi modelli di sviluppo
Da alcuni mesi si riunisce in
vai Germanasca un gruppo che
riflette su problemi e prospettive della valle; l’intervento che
sintetizziamo, proposto da Mauro Meytre, si inserisce dunque
in questo contesto. Naturalmente si tratta di situazioni ed aspetti presenti in quasi tutto
l’ambiente montano, pur se ogni
realtà ha i .suoi contesti particolari.
Non si può prescindere dal
considerare alcuni aspetti del fenomeno legato allo spopolamento che evidenzia una diminuzione di residenti, nel giro degli
ultimi 7-8 anni, intorno al 10%,
con punte ancora superiori a
Massello o Salza; a peggiorare
la situazione interviene il fatto
che siano rimasti i vecchi, mentre i giovani, di fronte al « mito
della fabbrica », cioè del lavoro
garantito, se ne sono per lo più
andati.
Ben presto però anche il dualismo civiltà contadina-fabbrica
si è dimostrato riduttivo di fronte alla marginalità in cui la montagna ed i suoi problemi sono
stati cacciati, riducendola a semplice serbatoio di mano d’opera
e favorendone la disgregazione
sui piano culturale e sociale, oltre che a livello ambientale.
L’equilibrio ambientale della
montagna si regge infatti sulla
presenza dell’uomo e del suo lavoro, dove una distruzione dell'ambiente può avvenire sia attraverso una sovrautilizzazione
del territorio, sia una sua sottoutilizzazione, o una scorretta utilizzazione (es.; frane e alluvioni
sono spesso legate ad un rapporto errato con l’ambiente).
« La montagna — ha proseguito Meytre — ha bisogno della
presenza dell’uomo e del suo intervento per una azione di prevenzione; è chiaro che il lavoro
svolto deve essere inserito in un
quadro di attività produttive,
per poter da un lato attivare
quei lavori di ripristino del territorio (lavori riproduttivi) e
dall’altro attività sufficientemente remunerative da permettere
al montanaro di vivere del suo
lavoro ».
L’agricoltura e la selvicoltura
sono in questo senso l’asse centrale su cui creare un’attività
integrata basata su modernizzazione, qualificazione dei prodotti
e deH’immagine.
II turismo è oggi concepito
come attività industriale, non integrativa di altre (artigianato,
agricoltura) e non si pone il
problema del mantenimento del
territorio nella sua globalità (ad
es., aree sfruttabili sul piano agricolo vengono destinate ad insediamenti di strutture legate al
turismo).
Per quanto riguarda le valli,
un aspetto significativo è costituito daH’agriturismo; il recupero di rustici o intere borgate
può portare a valorizzare il territorio, anche con funzione residenziale, recuperando valori
culturali ma anche riqualificando mano d’opera specializzata
coinvolgendola in questi progetti.
Sempre legata al tipo di zona,
non sarebbe da trascurare la
possibilità di uno sfimttamento
dei corsi d’acqua a scopo energetico, senza costruire enormi bacini ma attivando diverse centraline (perché si è invece abbandonata quella di Ferrerò?).
Allo stesso modo potrebbe
concretizzarsi, secondo Meytre,
la possibilità di collocare in valle, senza necessità di grossi investimenti sulla viabilità, occasioni di sviluppo legate alle nuove tecnologie (informatica).
Si tratta in ultima anali.si di
opportunità diverse che debbono trovare globalmente un pro
Una veduta della piazza di Ghigo di Frali. Fra le attività che possono
rilanciare l’economia è essenziale il turismo.
getto a lungo termine concreto,
dando così gambe a quelle idee
che qua e là paiono nascere:
porre le basi per un contenimento dello spopolamento tenendo conto della volontà di chi
cerca nuovi modelli di sviluppo.
Il centro della vita diventa allora non « farsi i soldi », ma la
sua qualità.
« Si tratta — ha detto Meytre
— di gestire il proprio lavoro
e vivere di esso; un qualcosa che
è molto diverso da chi, per vivere, deve vendere la sua mercelavoro al cotonificio di Ferosa
di sabato e di domenica ».
Ed anche viene individuato lo
strumento più idoneo a consentire di sviluppare queste opportunità: la cooperativa o comunque le forme consorziali, mo
mento oltre tutto di recupero di
valori di solidarietà presenti nella cultura valligiana, ma in parte già cancellati. In tutto questo l’ente pubblico dovrebbe recitare un ruolo primario, nella
formazione e nell’incentivazione,
partendo dalla considerazione
che la presenza dell’uomo in
condizione di lavorare rappresenta la miglior prevenzione al
degrado. Sempre rispetto agli
enti pubblici, da più parti si fa
strada l’esigenza di rivedere determinati vincoli che hanno finito per « ridurre la montagna
a museo »; in particolare sul
problema parchi, Meytre ha individuato alcune priorità; necessità di dibattito fra istituzioni
e popolazione; evitare il rifiuto
a priori di ipotesi di parco che
potrebbero invece significare occupazione e sviluppo di una zona, specie da parte di gruppi che
possono avere interessi divergenti (cacciatori o costruttori)
ed infine importanza di considerare almeno inizialmente il parco un vero e proprio laboratorio.
Su tutti questi possibili settori di intervento una raccomandazione, e cioè che la 'popolazione non sia lasciata ad assistere
ai fatti ma venga pienamente
coinvolta nelle scelte e nelle decisioni.
Pier Valdo Rostan
PER UNA PARTECIPAZIONE POPOLARE
Come nel resto del mondo
Interrogativi sulla situazione di oggi: realtà locale e realtà più
generale - Quale mobilitazione ipotizzabile per cambiare qualcosa?
Manca in valle un’alternativa
all’industria e da decenni non è
più praticata la via della Francia,
valvola di sfogo stagionale.
Con il ’93 anche questa zona
sarà coinvolta nelle migrazioni di
mano d’opera all’interno della
CEE? Comunque non ci si deve
aspettare grandi cose dal processo di unità europea, almeno per
chi ha già oggi meno possibilità
e già oggi rischia l’emarginazione. E’ da aggiungere la fetta crescente di cittadini di serie B provenienti da paesi extraeuropei
che ricevono solidarietà da organizzazioni sindacali, chiese e sinistra, ma dovranno fare i conti
con le reazioni delle grandi masse che non intendono spartire
il pane e il lavoro con questi nuovi poveri stranieri. Già oggi c’è chi aizza contro lo straniero, mentre i governi danno l’esempio con accordi repressivi
come quello di Schengen.
Ognuno conti solo sulle sue
forze (da solo e contro tutti):
questo slogan si legge nei programmi del governo (quando
c’è...) che riassume il peggio di
quanto succede nel paese.
I mass media rimasticano il
polpettone politico della burocrazia, della crisi dei partiti e dell’angoscia ecologica, mentre il cosiddetto benessere si rivela precario e illusorio.
Cresce arrogante l’esibizione di
merci e di comportamenti sociali individualistici da parte delle
classi più favorite e da quanti godono di condizioni migliori della
media.
II risultato è sovente lo sconforto e il senso di impotenza.
Alcuni segni interessanti di risposta alla crisi, il volontariato
con cui i cittadini cercano di arginare i danni di questo modello
di sviluppo; sono una soluzione
vera le alternative di solidarietà?
I gruppi di pressione popolare
sulla pace e sull’ambiente : quali
sono le prospettive?
Le minoranze di vario genere :
possono coesistere, possono resistere insieme come nuovo modo di lottare del popolo? Oppure,
come si legge in alcuni programmi, si mira a tenersi la fetta più
ampia possibile della torta del
benessere?
Che fare?
Mentre diventa planetaria la
legge del mercato, all’Est come
all’Ovest pare che non ci sia alternativa alle poche pratiche che
già conosciamo : organizzarci,
rompere gli isolamenti delle nostre piccole sicurezze individuali
e di comunità locali, reagire alla
degenerazione che tocca i sindacati anche più combattivi, abituarsi al conflitto e tutelarne gli
spazi (non è credibile che il potere sappia prevedere e risolvere i
problemi a tavolino), e reagire
positivamente alle richieste di
solidarietà nazionali e internazionali.
In questa zona si può fare qualcosa di simile, non solo nei luoghi di lavoro, tenendo conto che
non è un’isola felice ma nemmeno un deserto? L’informazione locale, ben contenta . dell’attuale
mancanza di apposizione, indora
la pillola con pagine di articoli
sui consigli comunali e sulle
aziende...
E’ possibile proporre al pullulare di organizzazioni di paese,
in genere occupate col cosiddetto
tempo libero, un cammino verso
maggiori contatti e confronti con
altre valli dell’arco alpino di qua
e di là dai confini?
Non solo folklore ma problemi
economici ed esperienze sociali.
Su una base di partecipazione
popolare si può poi chiedere gli
stessi confronti nelle strutture
pubbliche a vario livello e ai
partiti rappresentati.
Non nascondo che molti di
questi preferiscono i confronti
verticali dove possono esercitare
la pratica di spartirsi risorse in
lotta con altre zone... in funzione di potere e di voti.
Questo si accompagna alla
realtà diffusa della delega ai vertici politici e industriali da parte
della popolazione, si è creato un
vasto stato di sottomissione e
clientelismo, quello che al sud
si chiama mafia e qui è apparentemente meno crudele e vistoso. Faccio gli esempi del sistema di assunzioni alla RIV e
alla Manifattura.
Non ci si può fare illusioni sui
tempi del cambiamento ; chi li
vuole attendere sa che è importante l’iniziativa dal basso e la
crescita della solidarietà per aiutare la maturazione di alternative. Questo vale per i posti di
lavoro nella zona ma anche per
i servizi: tocca alla popolazione
difendere diritti che il potere
mette sempre più in discussione. .
Chiudo con una breve riflessione sul ruolo di Agape che è stata,
anche, una università di montagna. Ci venivano i giovani da tutto il mondo. Anticipare il futuro
è stato il suo ruolo : praticato di
meno, forse perché troppo prossimo, un radicamento nella valle.
Era necessaria una costante attività culturale ed organizzativa
rivolta ai problemi della montagna.
E’ possibile un servizio sul
quotidiano e sulle contraddizioni
che in parte ho elencato e che
vivono operai, donne, anziani e
giovani anche qui come nel resto
del mondo?
Piero Barai
10
10 valli valdesi
25 agosto 1989
XV AGOSTO
Alla
Balziglia
Poi lassù alla Balziglia una
grande scritta: « Balziglia 16891690. In questo luogo la potenza
del Re Sole è stata resa vana e
la sua gloria offuscata. I valdesi del Rimpatrio hanno accolto
questa liberazione come un dono che sujjera le capacità umane ».
F attorno gli stand del buffet, dei libri delle varie case editrici, la mostra sulla situazione
in Palestina, i giovani che distribuivano piccoli dossier sulla posizione delle chiese verso il problema palestinese, i giovani che
invitavano a sottoscrivere per
l'Asilo di San Germano.
! problemi concreti della gente, la solidarietà, l'apertura internazionale, la nostra storia sono stati gli elementi centrali di
quel grande caleidoscopio che è
ormai ogni XV agosto valdese.
« Siamo stati resi liberi per servire », ci ha ricordato nel suo sermone il prof. Garrone. Servizio
che è impegno per gli altri e testimonianza dell’amore di Dio per
noi. Cos) la colletta (oltre 5 milioni) è stata devoluta alla Chiesa presbiteriana del Mozambico.
Poi i messaggi dei due moderatori, Giampiccoli e Malan, la
rievocazfbne storica del past.
Giorgio Tourn, il giuro « in francese » ed in piedi, il pranzo, la
visita al museo (per chi è riuscito ad entrare), il gesto simbolico dei 48 mazzi di fiori di
campo gettati dal nuovo ponte
della Balziglia in ricordo dei 48
uccisi dall'esercito di Arnaud 300
anni fa, le impressioni dei partecipanti stimolati da Giuseppe Platone, i messaggi finali di Claudio
Martelli a nome dell'OPCEMI, di
Massimo Romeo, pastore battista, di Ermanno Geme che ci ha
parlato delle aspettative delle
chiese del sud d’Italia.
Poi di nuovo giù, a piedi fino
alle auto e tutti a casa con l'impegno di ritrovarsi di nuovo l’anno prossimo per un altro XV agosto.
G. G.
LA RIEVOCAZIONE DELL’EPISODIO
4 contraddizion
La difficoltà di capire la volontà di Dio - Ugonotti o vaidesi che tornano alle valli? - Un gesto per quelle vittime
Sono venuti in tanti, quest’anno, al XV agosto alla BalzigUq.
Forse 3.000. Un po’ da tutte le
parti d’Italia e del mondo. Cerano i marciatori del « glorioso
rimpatrio » a piedi, c’erano i
« valdesi dell’Uruguay e dell’Argentina », i « valdesi tedeschi »,
i trombettieri del Badén, e metodisti, battisti, evangelici. Tutti
lassù, a piedi, per celebrare, per
ricordare, per incontrarsi. E l’organizzazione, del Circuito, della
Chiesa e del Comune di Massello è stata perfetta. Ognuno ha
dovuto lasciare l’auto (con qualche danno per i prati) e poi su
per quaranta minuti fino alla Balziglia. Un cammino che ha permesso, da subito, le conversazioni, i saluti, le prime impressioni sul tricentenario, le indiscrezioni su...
La conversazione tenuta dal pastore Giorgio Tourn è stata dedicata a una rilettura del momento del ritorno dei 600 deH’esercito di Arnaud alla Balziglia.
Attraverso il diario dello stesso
.Arnaud sono tate messe a fuoco le sofferte esperienze di quei
600, di una comunità ricca di
contraddizioni; Tourn ne ha individuate quattro.
Queste genti, bandite tre anni
prima dal duca di Savoia, ritornano dichiarandosi sudditi di un
principe di cui non portano
le insegne e del quale non riconoscono le leggi; con quale diritto? Quale governo può accettare questo fatto, al nord come
al sud dell’Europa? Ma c’è anche chi dice: se questi uomini
tornano e riconquistano il loro
spazio di sudditi hanno ragione,
perché lo fanno nel nome dell'autorità che sta sopra il sovrano che, secondo quanto lui stesso afferma, prende la sua auto
rità proprio da Dio.
Ma c’è una seconda contraddizione, che riguarda la difficoltà a capire quale fosse la volontà di Dio nella vicenda. « Forse che la risposta dell’amore di
Dio all’editto del duca di Savoia
non si era espressa abbastanza
con la disponibilità e l’accoglienza agli esiliati degli svizzeri o
dei tedeschi? » si è chiesto
Tourn. La volontà di Dio non
era quella di avere per loro una
casa ed una terra dove adorare
il loro Signore liberamente? Da
nessuna parte era scritto che
essi dovessero tornare proprio
in queste terre; si stava compiendo la volontà di Dio oppure
la stavano piegando?
« In realtà — dice Tourn —
Dio non è un computer che ha
programmato il destino degli
uomini, e capire la volontà di
Dio non è leggere i programmi
di un computer: i profeti non
sono dei decodificatori di programmi ma sono uomini che
hanno l’intuizione del punto dove la realtà di Dio si incontra
con la nostra, dove lui aspetta
che noi la realizziamo ».
Un terzo elemento collega in
modo preciso le contraddizioni
di quel giorno alle nostre; appena arrivati alle valli una ventina di loro disertano; sono ugonotti o semplicemente valdesi
che vogliono arrivare presto
a casa? Questa defezione significa comunque che, anche sul
piano spirituale, appena arrivati
alle valli l'esercito comincia a
disfarsi. « Certo, ognuno era in
qualche modo libero di farsi i
fatti suoi, ma se ognuno si fosse comportato a quel modo, chi
avrebbe fatto la volontà del Signore? L’esercito di Arnaud era
un insieme di uomini dai caratteri e sentimenti molto diversi,
c’erano egoisti e generosi, credenti ed increduli, ingenui e furbi, esattamente come noi oggi,
non solo nei nostri gruppi, ma
pieni di contraddizioni anche all’interno di ciascuno di noi ».
AUTORIPARAZIONI
Costantino Marco
Officina autorizzata FIAT
LA T’RT.MA IN PTNBROLO
Via Montebello, 12 10064 PINEROLO
Tel. 0121/21682
Ed infine, ricordando l’episodio dell'uccisione di 46 soldati
di guardia e di due contadini
buttati dal ponte di Balziglia,
Tourn ha spiegato come in quella lacerante circostanza essi abbiano rappresentato il prezzo
della libertà (Arnaud del resto
spiega nel suo diario la « necessità » del gesto); « Ma la contraddizione restò nella loro giornata: la loro vita e la loro libertà cominciarono a pagarsi con
la morte di 48 persone che forse nell’intera vicenda c’entravano assai poco.
Perciò questo luogo diviene
sede di totale contraddizione e
proprio per questo quegli uomini sono nostri fratelli; sono della stessa nostra umanità, in cui
la fede è impastata di contraddizione ed in cui la costruzione
della volontà di Dio si manifesta a volte anche nella sofferenza degli altri. Noi non siamo diversi nè migliori di loro: il Signore ci dia di non avere vergogna delle contraddizioni della
nostra vita e della nostra fede,
ma di assumerle con libertà, sapendo che il Signore ha perdonato e perdonerà, e ci darà la
grazia di realizzare, malgrado e
contro noi stessi, il suo piano ».
Una veduta
della Balziglia,
affollata
per la festa
del XV agosto.
IL MESSAGGIO DI CLAUDIO H. MARTELLI
Protestanti in Italia
Detto questo il pastore Tourn,
dopo aver invitato i bambini presenti a raccogliere dei fiori nei
prati si è recato, all’inizio del
pomeriggio, al ponte della Balziglia dove ha gettato nel torrente 48 mazzi di fiori, uno per
ogni vittima di allora, « Non come segno di pentimento, (perche ci si pente di ciò che si è
fatto e non di quello che altri
hanno fatto), ma come segno
che questa giornata non è il ricordo di glorie passate ma è un
incontro di uomini che nelle
contraddizioni cercano la via del
Signore e che con quel gesto ricordano la massima contraddizione di quella giornata dei loro
antenati: che la loro libertà nacque da quelle 48 vite spezzate ».
P. V. R.
Portando il suo saluto il presidente delTQPCEMI, pastore
Claudio H. Martelli, si è posto
alcuni interrogativi riguardo alle varie celebrazioni in corso:
cosa arriverà di esse ai non addetti ai lavori, a quelli ai margini della vita delle nostre chiese? Ed ancora: che valenza hanno per noi quegli avvenimenti?
Come viviamo queste celebrazioni? « Gli avvenimenti di trecento anni fa, ha proseguito Martelli, pongono in evidenza la dura contraddizione fra Vangelo e
realtà, nel momento in cui paiono cadere nel vuoto le parole
del Cristo: ’’Ama il tuo nemico”
io mi sento indifeso. Dio però
non ci evita le contraddizioni
ma pone degli esempi a segnare il nostro cammino.
Il martirio dei valdesi di allora e di quelli che ad essi si
opposero, ci obbliga ad essere
testimoni dell’Evangelo di Cristo
che è certo per noi libertà, pace, eguaglianza, ma che ugualmente deve esserlo per quelli che
vivono o vivranno l’esperienza
della necessità di combattere
per affermare il loro diritto ad
esistere ».
(...) « Ogni trionfalismo non caratterizzerà il nostro essere protestanti in questo Paese, e noi
saremo semplicemente ciò che la
Scrittura ci chiede di essere:
strumenti obbedienti della volontà di Dio, consapevoli che
egli può ciò che a noi pare impossibile. Leggo perciò nel Rim
patrio un esempio di fede, dell’azione di Dio e lo ringrazio,
perché nei nostri errori non ci
abbandona ma ci guida sulle vtc
della salvezza, anche attraverso
i nostri errori. In questo senso
il Rimpatrio è storia preziu.sa
per me, che non sono valdese,
e diventa radice dell’essere prò
testante in Italia, insieme ad altre pagine di storia scritte da
altri testimoni dell’Evangelo in
altre terre. Il rimpatrio diventa
glorioso perché ci .scorgo la vittoria di Dio, la sua gloria e non
certo la nostra ».
v'AN/- F f A SUA'CI r-iA • ^Lh Í S7ATA"
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Storia, memoria, identità: i complessi contenuti che ruotano intorno
all’episodio del Rimpatrio.
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legge; IS" mensilità; eventuali quote di aggiunta di famiglia.
Avviamento tramite, la Sezione Circoscrizionale per
l’impiego di Pinerolo.
Prova selettiva lunedi 4 settembre 1989.
Informazioni presso Segreteria comunale.
i
11
2b agosto 1989
valli valdesi 11
UN VOLUME SULL’ASILO DI SAN GERMANO
Ricomincerei da capo...
La storia e le prospettive della Casa al di là di intenti celebrativi
- Nella diaconia un richiamo alla volontà di essere fedeli a Cristo
« Ricomincerei da capo »: sotto questo titolo sono state raccolte recentemente le memorie
della decana dell’Asilo di San
Germano, la signorina Lcrenzina
Coi'sson, ora deceduta. Lo stesso
titolo potrebbe esprimere la
convinzione del comitato direttivo : dopo sei anni di lavoro, di
preoccupazioni e di battaglie,
vedendo crescere la nuova Casa
e vedendola prepararsi per il
giorno dell’inaugurazione, fissato per il 3 settembre, si comprende quanto fosse necessario
rinnovare profondamente gli
strumenti in nostro possesso al
servizio della popolazione anziana delle valli Chisone e Germanasca. Questi sentimenti di
volontà di servizio sono raccolti
nel libro che l’Asilo ha pubWicato per l’occasione e che porta
il significativo titolo Una scelta
difficile.
Può apparire sospetta l’idea
della pubblicazione di un libro,
ma dietro queste pagine non si
•nasconde alcun intento celebrativo. Si vuole soltanto accompagnare il lettore attraverso il percorso compiuto per giungere al
compimento di quest’opera. Innanzitutto, poiché la « nuova »
Casa si pone in continuità con la
« vecchia », attraverso la storia
dell’Asilo, curata da C. Bounous,
si ripercorrono i diversi momenti della vita di un istituto
la cui esistenza ha accompagnato lo sviluppo di tutta la valle
nell’ultimo secolo. Ma una casa,
soprattutto se specializzata per
gli anziani disabili, non è formata solo da quattro mura e da un
am
.. t
Un momento comunitario per gli ospiti dell’Asilo.
tetto: essa dev’essere pensata
specificamente per venire incontro alle necessità delle persone
che l’abiteranno. L’architetto U.
Mesturino, nelle sue pagine, illustra la « filosofia » che sta alla
base della nuova costruzione. Ed
infine, con le note sulla diaconia
scritte da P. Ribet, viene affermata una forte volontà di fedeltà a Cristo, una fedeltà che
si manifesta non solo nel fatto
di porsi al servizio della popolazione anziana, ma anche nel modo in cui tale servizio viene reso. Questo libro, enunciando i
princìpi sui quali ci si è mossi
nella fase della costruzione, rimarrà, come ha notato un mem
Programma
3 SETTEMBRE 1989
Culto presieduto dal past. P. Ribet con predicazione del Moderatore F. Giampicccli.
Parteciperà la Corale di S. Germano e il gruppo
dei trombettieri di Treuchtlingen.
Salute della Tavola Valdese e dei rappresentanti
delle Chiese svizzere, tedesche e italiane.
Arrivo del Presidente della Repubblica Sen. Francesco Cossiga.
Inaugurazione della nuova Casa.
Taglio del nastro da parte della signora Melany
Griglio della Chiesa di Villasecca, ospite dell’Asilo.
Funzioneranno un buffet e un bazar. A chi lo desidera l’Asilo è lieto di offrire un piatto di polenta e spezzatino.
Possibilità di visite guidate a gruppi di 20 alla nuova Casa.
Presentazione della mostra d’arte « Artisti contemporanei a S. Germano ».
Messaggi dei rappresentanti delle Pubbliche Amministrazioni.
Presentazione di canti a cura del coro Bric Boucle
e di balli tradizionali a cura del gruppo « La tèlo aut ».
Conclusione.
Ore 10.00:
Ore 11.00:
Ore 11.50:
Ore 12.00:
12.30-14.30:
Ore 13.00:
Ore 14.30:
Ore 15.00:
Ore 16.00:
Ore 17.30:
La strada provinciale n. 166 sarà chiusa al traffico dal nuovo ponte
di Villar Perosa fino al bivio per Pramollo. Sarà organizzato e segnalato
un parcheggio alla Borgata Savoia, per chi viene dall'alta valle. Un altro
parcheggio è previsto nella piazza delle scuole (RIsagliardo) per chi viene da Pinerolo e per i pullman. GII automobilisti sono pregati di attenersi
scrupolosamente alle indicazioni degli incaricati. Lo spazio a disposizione
è limitato; è perciò consigliabile contenere il numero degli automezzi
sfruttando tutti i posti disponibili nelle automobili.
bro del comitato dell’Asilo, come punto di riferimento anche
nel momento della gestione della nuova Casa, come monito, affinché i problemi finanziari e gestionali non finiscano per soffocare e far passare in secondo
piano i « princìpi ispiratori »
secondo cui ci si è mossi in
questa fase. Il libro è reperibile
presso l’Asilo e presso le librerie
Claudiana.
Nel riquadro è specificato il
programma della giornata e si
pregano i partecipanti di volersi
attenere alle indicazioni suggerite. p, R.
________________________PCI
Delegazione
Le manifestazioni del « glorioso rimpatrio » dei valdesi hanno
stimolato la riflessione ed il dibattito anche del PCI. Già a partire daH’autunno scorso, con la
presentazione alla festa provinciale de l’Unità del libro di Giorgio Bouchard « I valdesi e l’Italia >' edito dalla Claudiana, le organizzazioni dei PCI avevano posto attenzione ai temi ed agli
interrogativi che pongono la presenza e la storia di queste comunità religiose. Sono seguiti incontri e dibattiti a vari livelli
ed è stata coinvolta anche la
direzione nazionale del PCI.
A coronamento di questo lavoro una delegazione del PCI
sarà nelle valli sabato 23 settembre per prendere contatto con
le varie realtà espressione di
questa comunità religiosa.
Faranno parte della delegazione il sen. Giuseppe Chiarante,
Fon. Luciano Violante, Silvana
Dameri, vicepresidente del Consiglio regionale, Giorgio Ardito,
segretario della federazione torinese, Rinaldo Bontempi, ex capogruppo alla Regione Piemonte
e parlamentare europeo. Anseimo Gouthier, responsabile nazionale del PCI per le minoranze
etniche e linguistiche, Alberto
Barbero, consigliere provinciale,
Piera Egidi giornalista, ed esponenti del PCI pinerolese.
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Rassegne
PINEROLO — Verrà inaugurata sabato 26 agosto alle ore 17, presso l’expo
Penulli, la XIV edizione della rassegna
di artigianato del pinerolese; l’orario
di apertura è; feriali ore 17.30-23.30,
festivi anche il mattino ed il pomeriggio. Nell'ambito della rassegna verrà
presentata la mostra «Pinerolo progetta
Pinerolo » con II nuovo plano regolatore generale della città in esame prossimamente al consiglio comunale.
Manifestazioni
SALZA DI PINEROLO — Domenica
27 agosto a Fontane avrà luogo, a partire dalle ore 9.30, la 11.ma edizione
della festa de la Valaddo; nel pomeriggio esibizione di gruppi folkloristici
in costume, canti e danze.
Amnesty International
TORRE PELLICE — Giovedì 24 agosto, ore 16.45, avrà luogo al Centro
d’incontro la riunione del gruppo Italia 90 Val Pellice.
Mostre
LUSERNA SAN GIOVANNI — Dal 26
agosto al 3 settembre, presso l'ex cinema Santa Croce di Luserna alta
resterà esposta al pubblico la mostra
fotografica intitolata; "Immagine di due
territori, Val d’Elsa e Val Pellice".
L'orario di apertura è: feriali, ore 1719 e 20-22; festivi: 10-12.30 e 16-23.
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RINGRAZIAMENTO
« Beati i morti che da ora innanzi muoiono nel Signore.,, »
(Ap. 14: 13)
Il 6 agosto 1989 è mancato all’affetto dei suoi cari
Maurizio Grill
di anni 83
La famiglia ringrazia tutti coloro
che le sono stati vicino, in particolar
modo il past. Plescan e sua madre.
Frali, 9 agosto 1989.
RINGRAZIAMENTO
« Io sono la resurrezione e la
vita »
(Giov, 11: 25)
La famiglia, in occasione del decesso di
Elisa Frache in Taglierò
ringrazia tutti coloro che con scritti,
presenza e parole di conforto hanno
voluto dimostrare la loro simpatia.
Un grazie particolare alle dott.sse
Grand e Miohelin Salomon, al past.
Tourn, a tutto il personale dell’Asilo
di S. Giovanni, alla nipote Nella Taglierò, ai vicini Emilia e Giuseppe
Battaglia.
Torre Pellice, 16 agosto 1989.
CUNEO — Verrà inaugurata sabato
26 agosto, nella locale piazza d'armi,
la XIV edizione della fiera, che resterà aperta al pubblico fino al 10
settembre.
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RINGRAZIAMENTO
« Perché è vero che siamo salvati. ma soltanto nella speranza »
(Romani 8: 24)
Commossi dalla simpatia espressa
nei loro confronti, la moglie, i figli ed
i familiari del caro
Roberto Richiardone
ringraziano riconoscenti quanti si sono
uniti al loro dolore e hanno manifestato. in vari modi, stima ed affetto
verso il loro caro.
Un ringraziamento particolare al
dott. Broue, alla Croce Vertle di Porte,
ai pastori E. Bernardini e P. Ribet, alla
corale ed alla banda musicale di San
Germano Chisone.
S. Germano Chisone. 25 agosto 1989.
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Redattori e tipografi esprimono la
propria simpatia a Franco e Mariella
Taglierò per la morte di Elisa Frache.
RINGRAZIAMENTO
« ...so in chi ho creduto, e sono
convinto che egli ha il potere
di custodire il mio deposito fino
a quel giorno »
(II Timoteo 1: 12)
I familiari di
Alberto Ribet
sentitamente ringraziano tutti coloro
che, con scritti e presenza, hanno preso parte al loro dolore. Un ringraziamento particolare al pastore Bruno Rostagno ed al dott. Baschera.
S. Germano Chisone, 16 agosto 1989.
Redattori e tipografi esprimono la
propria solidarietà alla famiglia Ribet
per la perdita di Alberto Ribet.
RINGRAZIAMENTO
K Soltanto in Dio trovo riposo,
da lui viene la mia salvezza »
I figli, fratelli e sorella della compianta
Clotilde Beux ved. Beux
commossi per la dimostrazione di affetto tributata alla loro cara, sentitamente ringraziano in modo particolare
i sigg. medici ed infermieri dell’ospedale valdese di Pomaretto per la premurosa assistenza.
S. Germano Chisone, 16 agosto 1989.
RINGRAZIAMENTO
« Gesù disse: Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in
me. anche se muore, vivrà »
(Giov. 11: 25)
II Signore ha richiamato a sé
Silvio Bellion
di anni 81
La famiglia, ricono.scente, ringrazia
per la grande dimostrazione di affetto
e simpatia manifestata per il loro caro
coloro che con la presenza e scritti hanno preso parte al suo dolore.
Un ringraziamento particolare ai pastori Tourn. Zotta e Lahsch. alla dottoressa Pisani, ai medici e al personale
deirOspedale valdese di Torre Pellice.
ChubrioL 21 agosto 1989.
« Abiterò nella casa dell'Eterno
per lunghi giorni »
(Salmo 23: 6)
Emma SbafTi nata Grotta
(li anni 94
ha terminato serenamente la sua giornata terrena il M agosto. F'iduciosi nelle prome.sse del Signore ne danno l’annuncio ì figli Aldo. Aurelio. Elena,
Laura. Maria. Roberto e ì familiari
lutti.
I Roma. 25 agosto 1989.
12
12 fatti e problemi
25 agosto 1989
DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
DALLA CAMERA DEI DEPUTATI
Servizio civile e militare: No alia pena di morte
pari dignità
La diversa durata è apparsa ai giudici come « priva di ragionevolezza » - Ora si fa sempre più urgente una riorganizzazione del servizio
Servizio civile a 12 mesi. Lo ha
determinato la Corte Costituzionale con una sentenza resa pubblica il 19 luglio. Il supremo organo dello Stato garante della
Costituzione si è espresso chiaramente; « Appare privo di ragionevolezza che un servizio corrispondente in tutto e per tutto al normale servizio di leva, salva soltanto la sottrazione all’uso delle
armi, abbia una durata comunque superiore all’altro ». La Corte
precisa che una differenziazione
« contenuta e non irrazionale »
(giudizio molto esplicito e duro
sulla norma fino ad ora in vigore) « potrebbe rinvenirsi in esigenze formative », ma questa decisione spetta « alla valutazione
del legislatore ».
Infatti la commissione Difesa
della Camera, che da lungo tempo sta discutendo la riforma della
legge 772 del 1972, aveva approvato a larga maggioranza alcuni
mesi or sono un testo unico da
sottoporre all’attenzione dell’aula in cui si prevede una durata
del servizio pari a 15 mesi. « La
sentenza della Corte Costituzionale è certamente positiva — commenta il professor Rodolfo Venditti, docente di diritto e procedura 'penale militare presso la Facoltà di giurisprudenza di Torino
—, una decisione scontata dal
punto di vista costituzionale e
dei principi, che si allinea con la
presa di posizione del Parlamento europeo del 1983 che affermava il principio della pari durata ».
Anche da parte degli enti in
cui lavorano gli obiettori c’è molta soddisfazione, ma già si guarda alla legge che deve essere varata dal Parlamento: « Noi siamo
per la equiparazione — spiega
Michelangelo Chiurchiù, vicepresidente del Coordinamento enti
di servizio civile (CESC) — ed accettiamo i 15 mesi verso cui sembra orientarsi la nuova legge solo
come frutto di mediazioni. Non
vorremmo però che si andasse oltre questo limite ».
C’è però chi sostiene che gli otto mesi di differenza rappresentino un efficace deterrente contro
i cosiddetti « obiettori di comodo ». « La vera obiezione di coscienza è un fatto morale di
grande rilevanza che io rispetto
profondamente — afferma il senatore Umberto Cappuzzo, ex Ca
po di stato maggiore dell’esercito
—; ritengo però che sia necessaria una differenza nel periodo di
ferma, che permetta di scoraggiare gli obiettori di comodo in
quanto è assai arduo fare degli
accertamenti sugli obiettori o
sugli enti. Personalmente ho anche poca fiducia nelle strutture
pubbliche che dovrebbero effettuare questi controlli, in quanto
esse spesso sono le prime a funzionare male ».
Diverso è il parere di Chiurchiù
e di monsignor Giovanni Nervo,
presidente della Fondazione Zancan ed ex presidente della Caritas,
da anni impegnato nel campo dell’obiezione di coscienza e del volontariato. Il primo afferma che
« il servizio civile dev’essere qualificato a prescindere dalla durata. Le difficoltà che abbiamo incontrato finora a collabordre col
ministero della Difesa ci hanno
impedito di agire più efficacemente in questo senso ». Monsignor Nervo è molto netto: « La
necessità di penalizzare gli onesti
per scoraggiare l’obiezione di comodo è un chiaro esempio dell’ipocrisia di uno Stato che non
sa gestire le sue responsabilità.
Si faccia una selezione seria degli enti, si concordino dei programmi di lavoro seri e si effettuino controlli altrettanto seri.
Lo Stato non persegua una strada fondamentalmente disonesta
per abdicare così alle proprie responsabilità ».
Ora che è prevedibile un aumento del numero di obiettori di
coscienza, non si impone una
riorganizzazione del servizio? In
particolare rispetto alla Difesa
popolare nonviolenta (DPN) che
oggi vede poco impegnati i giovani che svolgono servizio civile.
« Ritengo che si dovrebbero promuovere dei corsi di formazione
alla Difesa nonviolenta per gli
obiettori » sostiene Venditti. « La
DPN merita di essere approfondita e studiata — è l’opinione di
Cappuzzo —; ha valide motivazioni ideali e politiche alla base, ma
potrà divenire concretamente realizzabile se coinvolgerà più Paesi,
ed effettivamente oggi siamo sulla buona strada in questo senso ».
Cappuzzo e Nervo lanciano poi
una proposta simile; istituire un
anno di servizio al Paese che
coinvolga tutti i ragazzi e le ra
SCHEDA
L’Italia che obietta
Sono 9.711 i giovani italiani attualmente in servizio che
hanno detto « signornò ». Un numero ancora troppo basso se
paragonato alla « capacità di impiego » di enti pubblici e privati convenzionati con il ministero, in grado di accogliere
18.651 obiettori di coscienza. Il provvedimento della Corte, se
il Parlamento non interverrà tempestivamente, permetterà
ad oltre un terzo dei ragazzi in servizio (circa 3.500) di congedarsi subito.
Dal 1973 al 1987 sono state presentate al ministero della
Difesa 55 mila domande di obiezione (quattromila di queste
sono state respinte). Tra i servizi svolti dai giovani obiettori
prevalgono le attività di assistenza di vario genere (ad anziani, handicappati, tossicodipendenti) che alla fine dell’88 vedevano impegnati il 54 per cento degli obiettori. Seguono le
iniziative socio culturali (turismo, animazione, cura e conservazione delle biblioteche, ricerca) in cui lavorano il 31 per
cento degli obiettori e la tutela del patrimonio forestale (12
per cento). In fondo alla graduatoria ci sono le attività di
protezione civile in cui sono impiegati il 3 per cento dei giovani. (da ASPE)
gazze diciottenni. « Potrebbe essere una scuola di solidarietà sociale poiché, per esempio, uno dei
dodici mesi di servizio potrebbe
essere impegnato nella riflessione
sulle situazioni difficili che si incontreranno nella restante parte
del servizio » spiega monsignor
Nervo. Secondo il senatore Cappuzzo « il giovane potrebbe indirizzare la propria scelta verso i
servizi utilitè ancora utile tutelare la sicurezza nazionale, ma sono altrettanto utili servizi per la
assistenza sanitaria, la tutela dell’ambiente. I giovani potrebbero
decidere in quale di questi ambiti impegnarsi durante il servizio ».
Una sentenza importante quindi quella della Corte, un notevole
passo avanti verso una nuova
concezione del servizio di leva.
Monsignor Nervo però guarda
avanti e si chiede se non sia il
momento di spostare la riflessione dall’obiezione di coscienza al
servizio militare stesso. E conclude con una domanda perentoria:
« Oggi, mentre le frontiere cadono ed i confini nazionali sono
sempre più artificiali, che senso
ha un esercito come quello che
abbiamo nel nostro Paese? ».
(da ASPE)
AVVENTISTI
Incontro
con Cossiga
Al termine di un ampio ed articolato dibattito durato tre giorni, la Camera dei deputati ha
approvato il 3 agosto tre risoluzioni in materia di pena di
morte.
Una prima risoluzione, presentata dall’on. Rutelli (gruppo Verde Arcobaleno), impegna il Governo italiano a « presentare disegni di legge per l’abolizione
della pena di morte dal Codice
militare penale di guerra, e a promuovere un’azione efficace contro la pena di morte nei confronti di tutti gli stati che la praticano (...) ».
La seconda risoluzione, presentata dall’ on. Lanzinger (gruppo
Verde), impegna il Governo ad
« intervenire sia nelle sedi internazionali sia nei rapporti bilaterali contro gli stati che mantengono ed applicano la pena di
morte (...), al fine di conseguire
l’immediata sospensione delle esecuzioni, commutare le sentenze capitali (...), abrogare la pena
di morte sia in tempo di pace che
di guerra (...) ».
La terza risoluzione, presentata dall’ on. La Valle (Sinistra Indipendente), impegna il Governo
« a prendere urgentemente l’iniziativa (...) di proporre a tutti
gli stati che nella loro legislazione contemplano la pena di morte
di stabilire, ciascuno unilateralmente, una moratoria di almeno tre anni nella esecuzione di
tutte le sentenze di morte che
siano state irrogate o che lo siano nel periodo indicato; a promuovere d’intesa con le Nazioni
Unite una conferenza internazionale da tenersi entro due anni a
cui siano invitati a partecipare
tutti gli stati, ed in particolare
quelli che contemplano la pena
di morte nella loro legislazione
(...) per prendere in esame l’intera questione (...); ad adoperarsi perché nella prossima 44“ sessione possa essere sottoposto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e da essa approvato
il testo del ’’Protocollo facoltativo” al Patto internazionale sui
diritti civili e politici, elaborato
all’inizio di quest’anno dalla
Commissione dei diritti dell’uomo e che impegna ciascuno stato
ad abolire nella propria giurisdizione la pena di morte (...)».
La Sezione italiana di Amnesty
International ha espresso pubblicamente la sua grande soddisfazione per l’approvazione delle
tre risoluzioni, « il cui dispositivo rappresenta un importante
contributo in direzione dell’abolizione della pena capitale nel
mondo ». Il comunicato emesso
il 3 agosto daH’organizzazione
prosegue affermando che «la presentazione di diverse mozioni
contrarie alla pena di morte, il
dibattito parlamentare ad esse
relativo, la disponibilità manifestata dal Ministro degli esteri a
perseguire l’obiettivo abolizionista a livello internazionale ma
soprattutto l’esito favorevole della votazione odierna sono la testimonianza della crescente sensibilità! delle istituzioni italiane
nei confronti della necessità del
rispetto dei diritti umani ».
AMNESTY INTERNATIONAL
In appendice al congresso che
ha riunito a Rimini nei giorni
dal 27 aprile al 1” maggio 1.600
avventisti provenienti da tutte
le comunità italiane, il presidente della Conferenza generale della Chiesa avventista (massimo
organo dirigente della chiesa nel
mondo) ha avuto a Roma diversi proficui incontri con alcune
personalità dello stato.
Il 3 maggio ha incontrato i
ministri Gava e Amato e il sottosegretario agli Interni Valdo
Spini.
Certamente il momento più
significativo del breve soggiorno romano di Neal Wilson è
consistito nell’incontro al Quirinale con il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
L’incontro, durato quasi un’ora, è stato estremamente cordiale e facilitato dalla perfetta conoscenza dell’inglese da parte di
Cossiga, che si è intrattenuto con
Wilson su vari temi.
Presente all’incontro anche il
pastore Enrico Long, presidente
della Chiesa avventista italiana,
che ha così commentato l’avvenimento:
« Abbiamo constatato presso
le autorità italiane una grande
apertura che ci ha particolarmente incoraggiato. Il Presidente Cossiga si è rivelato un uomo
sensibilissimo al tema della libertà di coscienza ed ha assicurato la sua disponibilità a difendere i diritti delle minoranze
religiose. Il Presidente si è mostrato molto affabile e si è interessato ad ognuno di noi, alle
nostre ’’storie personali”. L’incontro si è svolto all’insegna
della semplicità».
Il pastore Neal Wilson prosegue ora per visitare le comunità
avventiste di alcuni paesi dell’Europa orientale in cui si registrano significative aperture al
tema della libertà religiosa.
(BIA)
Prigionieri
del mese
Presentiamo i casi di due soli
prigionieri, tratti dal numero di
giugno del Notiziario di A.I.,
perché il terzo, uno scrittore
prigioniero nel Camerún (Africa), secondo quanto informa il
Notiziario stesso, è stato rilasciato.
KAYATHIRI VINO
SANGARALINGAM
SRI LANKA
Una bambina di 10 anni di
Nallur, nel distretto di Jaffa. E’
stata arrestata con la madre e
due sorelle maggiori da membri
delle Forze indiane di pace, dislocate nello Sri Lanka (IPKF).
Sebbene una parente della
bambina l’abbia vista in detenzione in un campo dell’IPKF, le
autorità delle Forze indiane negano di averla in custodia. I numerosi appelli rivolti dai parenti di Kayathiri al Presidente della Repubblica, al primo ministro
e all’Alto Commissario indiano
sono rimasti senza risposta.
Dal 1983 si sono registrati nello Sri Lanka più di 680 casi di
’’scomparsi” tra gli arrestati e
i detenuti per opera sia delle
Forze di sicurezza dello Stato
che delle Forze indiane di pace.
Si prega di scrivere lettere
cortesi, in inglese o italiano,
esprimendo preoccupazione per
la scomparsa di Kayathiri e della sua famiglia a;
President R. Premadasa
Presidential Secretariat
Republic Square
Colombo - Sri Lanka - Asia
bri di un partito non ufficiale,
sono stati arrestati e pochi gior
ni dopo, il 26.1.89, processati in
sieme con il figlio González Gon
zález e la nuora, con l’accusa di
avere prodotto stampa clandestina e precisamente copie di
« Franqueza », il bollettino del
Partito per i diritti umani (PPDHC). Questo partito è stato
fondato nel 1983 a Cuba e non
è ufficialmente riconosciuto. Durante il processo dei González
sono state violate le norme giuridiche internazionali. Il processo si è svolto fuori orario, senza la presenza del pubblico. Gli
accusati non hanno avuto la
possibilità di consultare un avvocato. Manuel è stato condannato a un anno di prigione. Lidia a 9 mesi, il figlio a 6 mesi, la
nuora è stata multata. Molti
aderenti al Partito per i diritti
umani negli ultimi anni sono
stati arrestati e incriminati per
stampa clandestina, disordine
pubblico, associazione illegale.
Amnesty li considera prigionieri
di opinione, essendo stato violato nei loro confronti il diritto
alla libertà di associazione ed
espressione (artt. 19 e 20 della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle N. U.).
Si prega di chiedere l’immediato ed incondizionato rilascio
dei González, in spagnolo o italiano, a:
MANUEL GONZALEZ e
LIDIA GONZALEZ GARCIA
CUBA
Excelencia Comandante in Jefe
Dr. Fidel Castro
Presidente de la República
Ciudad de la Habana
Cuba - America.
Manuel e la moglie Lidia, mem
A cura del
Gruppo Amnesty Italia 90
Val Penice
i