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RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV :: Fasc. IX. SETTEMBRE 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 30 SETTEMBRE - 1915
DAL SOMMARIO: Mario Rossi: Giovanni Hus, l’eroe della nazione boema. (A proposito del V centenario della sua morte: 1415-1915) — MARIO PUGLIS1: 11 problema morale nelle religioni primitive — R. ALLIER e W. SCHLATTER: Sarà cristiana la Cina? — G. PIOLI: Invocando il Profeta — R. PFEIFFER: Il problema dell’odio — TRA LIBRI E RIVISTE: Come si studia la storia religiosa (G. Costa) — La GUERRA: L’aspetto religioso della guerra secondo Giovanni Miiller (A. De Stefano) — Vangelo e guerra secondo il P. Genocchi, ecc. .
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # #
------- Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore peri’Estero
Via del Babuino, 107 - ROMA AMMINISTRAZIONE
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ABBONAMENTO ANNUO Per FItalia L. 5. Per ¡’Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
Si pubblica il 15 di ogni mese
in fascicoli di almeno 64 pagine. X1
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IL NUOVO
TESTAMENTO
TRADOTTO DAL TESTO ORIGINALE E CORREDATO DI NOTE E PREFAZIONI
FIRENZE
SOCIETÀ •FIDES ET AMOR» EDITRICE Amministrazione: Via S. Caterina, 14
MCMX1V
È in vendita in tutta Italia la ristampa di questa traduzione dèi N. T. che nella sua prima edizione del 1911 s’ebbe sì lusinghiera accoglienza da tante persone riconoscenti e bene auguranti: Antonio Fogazzaro, Pietro Ragnisco, Paolo Orano, Enrico Caporali, Baldassare Labanca, Luigi Ambrosi, Giacomo Puccini, Alessandro Chiappelli, Guido Mazzoni, Pio Rajna, Paul Sabatier, Nicola Festa.....
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BILÌCflNB *
RIVIRA DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMASOMMARIO:
Mario ROSSI : Giovanni Hus, l’eroe della nazione boema. (A proposito del V centenario della sua morte: 1415-1915) . . . . . pag. 165 Con due ritratti. (Due tavole fra le pagine 168-169 e 176-177).
Mario PüGLISl: Il problema morale nelle religioni primitive . . . » 184
R. Allier e W. SCHLATTER: Sarà cristiana la Gina?................................... > 204
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Giovanni Pioli: Invocando il Profeta ........... > 208
CRISTIANESIMO E GUERRA:
R. Pfeiffer: Il problema dell’odio............ >214
TRA LIBRI E RIVISTE:
I libri :
Giovanni Costa': Come si studia la storia religiosa ............ » 217
A. Ferrabino: Kalypso. (Giovanni Costa) ................. » 220
A. Pistelli : I documenti costantiniani negli scrittori ecclesiastici. (Giov. Costa) » 222
G. Perin: Onomasticon totius latinitatis. (Giovanni Costa) ......... » 223
Le riviste:
U. Fracassini: L’escatologia cristiana e le sue fonti. (C. Vitanza) ...... » 223
A. Loisy: L’Évangile de Jésus et le Christ ressuscité - L’Évangile de PaulL’initiation chrétienne. (G. Vitanza) ............... » 224
LA GUERRA (Notizie, Vocìi Documenti):
Germania :
Antonino De Stefano: L’aspetto religioso della guerra secondo Giovanni Muller » 225
Italia:
Vangelo e guerra secondo il P. Genocchi ................ » 234
Inghilterra :
G. Pioli: La religione dopo la guerra ...... . ........... » 238
Cambio colle Riviste .......... . ............. » 225
Pubblicazioni pervenute alla Redazione ............ • » 231
Librerìa Editrice « Bilychnis » .................. » 232
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CRISTIANESIMO E GUERRA
Recentissime pubblicazioni in deposito'presso la Libreria Ed. “Bilychnis,,
Via Crescenzio, 2 - ROMA.
ALEXANDRE WESTPHAL, Le silence de Dieu (pag. 26) . . L. 0,65 » »Le Dieu des Armées ...... 0,65
GEORGES FULLIQUET, Dieu et la Guerre ...... . » 0,65 HENRY Barbier, L’Evangile et la Guerre....... » 0,50 E. DOUMERGUE, La Guerre, Dieu, la France. La France peut
elle demander à Dieu la victoire? ........ » 0,30 H. BOIS, Patrie et Humanité ............ 0,75 » » La Guerre et la Bonne Conscience ...... » 0,65
JEAN Lafon, Evangile et Patrie, Discours religieux. Il 1° vol.
di pag. 210 L. 3.25, il 2* di pag. 360 . » 3,75
H. Monnier, W. Monod, C. Wagner, J.-E. Roberty, etc..
Pendant la Guerre. Discours prononcés à l’Oratoire et au
Foyer de l’âme à Paris. I O volumetti di 100 pagine. Ciascuno . . . '. . . ........ . 1,25
PAUL Stapfer, Petits Sermons de Guerre (pag. 100) ...» 1,60 H. Bergner, A. Gampert, G. Fulliquet, E. Secretan,
Paroles d’actualité. Sermons .......... »1,25 LOUIS Trial, Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre
1914-1915. (Vol. di pag. 100) . ........ » 1,25 P. Batiffol, P. Monceaux, E. Chénon, A. Vanderpol,
L. Rolland, F. Duval, A. Tanqueroy, L’Église et la Guerre............. .................» 4 —
G. QUADROTTA, Il Papa, l’Italia e la Guerra.»2 —
R. MURRI, La Croce e la Spada.......... » 0,95
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GIOVANNI HUS, L’EROE DELLA NAZIONE BOEMA
(A proposito del V centenario della sua morte: 1415-1915)
INTRODUZIONE.
uando i « Poveri preti » (i Lollardi) di Wielif sul finire del ’300 percorrevano, evangelizzando, le campagne delle contee meridionali d’Inghilterra e sperimentavano la pesantezza della persecuzione regia fattasi più aspra sotto la nuova dinastia di Lancaster, non avrebbero immaginato che le idee del loro maestro Wielif si sarebbero affievolite in patria, per crescere robuste e minacciose in un movimento, che fu una vera rivoluzione sociale, sul continente, al di là dei monti della Germania,
nella lontana Boemia donde era venuta agl’inglesi a regnare come regina l’ortodossis-simaAnna di Lussemburgo, sorella del re Venceslao di Boemia. L'Università di Oxford, sopratutto, aveva visto affluire numerosi in quegli anni i giovani boemi, portanti una nota di esotica vivacità nelle dispute scolastiche politico-religiose. E di lì ritornando in patria recavano entusiasti l’eco d’una lotta vivace dibattuta intorno ai più gravi problemi del giorno ai piedi delle cattedre, nelle vie e nel Parlamento. Wielif e le sue ardite dottrine politiche e teologiche che colpivano in pieno la Chiesa e lo Stato erano la pietra di contradizione. Non eran dottrine lontane dalla realtà, ma nate dalla situazione politica sociale ed ecclesiastica dell’Inghilterra del suo tempo. In esse si rifletteva la crisi sociale e politica dell’Inghilterra del secolo xrv.
Anche le condizioni politiche della Boemia non erano molto diverse. In Inghilterra l'influenza francese nella corte, le lotte del re e del Parlamento contro l’onnipotenza di un clero in gran parte straniero; in Boemia l'influenza tedesca e là ricchezza straordinaria del clero, nelle cui mani era il terzo delle terre, con la conseguente corruzione della vita pubblica. A queste cause che avevano fatto sorgere il wicleffismo
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in Inghilterra e ne favorivano la diffusione in Boemia, vanno aggiunte delle altre d'ordine più vasto che provocavano una più profonda disintegrazione della società medievale cattolica. E prima di tutto il gravoso sistema fiscale della corte papale, che considerava i regni cristiani dell'occidente come suoi feudi; il dissolversi, nel contrasto stridente fra la teorizzazione, spinta alle sue estreme espressioni, delle pretese e della supremazia del papato e dell’impero, e lo spettacolo indecoroso di lotte senza fine fra pretendenti, sia alla corona imperiale che alla tiara pontificia, lotte che celavano un fatale orientamento verso la differenzazione nazionale, caratteristica del mondo moderno. Era l’età del grande « Scisma d’Oceidente» (1378-1418) (1), risultato del tramonto dell'impero romàno-tedesco e della conseguente egemonia francese negli affari della Chiesa durante il periodo avignonese. C’era dunque un buon numero di cause per un profondo rivolgimento degli spiriti che si dibattevano, senza trovare però una via d’uscita, nelle illusioni apocalittiche del prossimo avvento di una nuova società (2) e nelle contraddizioni ereditate dal medioevo: così l’ideale di povertà evangelica oramai smentito e reso assurdo dalle nuove condizioni economiche e politiche e dall'importanza data al -lavoro; così la speranza nel rinnovamento dell'unità ecclesiastica e di quella civile dell’impero, smentite dalla tendenza verso- il particolarismo ecclesiastico e nazionale; così il sogno di una politica ideale valevole per tutta la Cristianità, quando si andava maturando da tutte le parti una politica realistica.
Data la mentalità del tempo e l’importanza del sistema ecclesiastico e della dottrina cattolica su tutte le forme della vita medievale, i problemi sociali e politici si discutono in termini di problemi ecclesiastici. Di qui una certa difficoltà a rintracciarne il loro originario valore economico e politico. Ma sono problemi materiati di realtà storica, che danno origine a dei vasti e duraturi movimenti religiosi, coincidenti con forti movimenti nazionalisti. Di essi si può dire che se, messi in confronto dell’eresia medievale anteriore di tipo popolare, hanno una minore area di diffusione ed una minore forza di contagio, mostrano in compenso un più energico « rilievo ».
(1) Per tutto questo periodo, per non citare opere speciali, si vegga la narrazione esatta, ma non profonda, fattane dal Pastor nel i° volume della sua Storiatici Papi (vers. ital., 2* edizione).
(2) L’Ussitismo segna uno degli anelli della catena del «risveglio profetico» che Carte dal calabrese Gioacchino da Flora e va a finire nel meraviglioso movimento Ana-attista, parallelo alla Riforma tedesca e di questa assai più audace ed organico. Dante stesso rientra nella corrènte profetica del gioachinismo e la sua Commedia rivela solo sotto la luce del profetismo gioachinistico il segreto del suo profondo significato politico-reli-Eioso. Se ne legga l’esauriente dimostrazione nel recente libro del professor Luigi Pietro-qno, l’illustre dantista. Il poema sacro. Saggio d'una interpretazione generale della Divina Commedia (Bologna, Zanichelli, 1915), che è una vera rivelazione per i dantisti attardatisi finora fra le vecchie « Glosse » e a cui la salvezza è stata portata inaspettatamente dal campo della storia religiosa. La scoperta della natura e dell’importanza del movimento « profetico » (apocalittico, messianico, ecc.), ci ha dato in meno di un ventennio la chiave per capire la predicazione di Gesù, il preteso mistero dell’Apocalissi giovannea, il profetismo ebraico, gran parte del cristianesimo primitivo e medievale, le origini dell'IsIam ed ha reso servizi inestimabili nel campo della storia delle religioni superiori.
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Le ultime « battute » che segnano la crisi finale del mondo medievale si fanno piò forti e piò espressive e risuonano più a lungo.
Il movimento Ussita, che si afferma validamente per tutta la prima metà del secolo xv anche come organizzazione religiosa e politica (i), è l'esempio più caratteristico del nuovo orientamento nazionalista e della consistenza, per il sustrato politico, con cui venivano facilmente a concretizzarsi i movimenti religiosi contemporanei. In questo senso, e forse solo in questo, l’ussitismo può chiamarsi un antecessore della Rifórma tedesca e francese (2).
In quest’anno cade il V centenario della morte di Giovanni Hus condannato al rogo a Costanza (6 luglio 1415).'Io credo che'anche in Italia meriti parlare di lui, sebbene la sua persona sembri interessare solo il popolo boemo, per il quale pugnò e morì. Ma in realtà, il movimento che da lui prese il nome, se è associato intimamente alle vicende della storia czeca, e se non ha avuto grande influenza al di qua dei monti della Boemia, si riconnette per mille vie al grande dramma della Chiesa nella prima metà del secolo xv (l’èra dello Scisma d’Occidente e dei grandi Concili), Che prepara il dissolvimento dell'unità cattolica nel xvi. È l'esempio d’un tipo di rinnovamento religioso-nazionale che si contrappone ai tentativi per attuare le teorie conciliari della scuola francese. Nel nome di Hus s’è ridestata da mezzo secolo in qua la coscienza moderna della Boemia; Hus « è il santo la cui immagine di martire sul rogo ancor oggi non manca nella casa d'alcuna famiglia veramente czeca anche se cattolica » (3); conoscere Hus e il movimento nazionale ussita, per cui solo è grande la Boemia nella
(1) Esso infatti attuò, nella sua corrente più valida, il Taboritismo, l’ideale di una repubblica democratica e di un ordinamento sociale poggiato su di una base comunistica.
(2) Con miglior ragione l’Ussitismo (almeno per quel che riguarda il partito tabo-rita) può dirsi precursore dell’Anabattismo.. I giudizi entusiastici di Lutero su Hus, su Girolamo da Praga e sui movimento ussita in genere non hanno un grande valore critico e sono l’effetto di un errore di prospettiva. Al sorgere della Riforma tedesca il movimento ussita, ristretto il suo corso tumultuoso nel tranquillo ed umile alveo della « Comunità dei Fratelli » — il cui tono di elevata spiritualità non Sarà mai abbastanza magnificato — aveva perduto ogni influenza ed ogni contatto con la grande storia. Aveva esaurito il suo compito e s’era ridotto a sopravvivere — sorte che tocca a tutti i grandi movimenti religiosi che trovano la loro spinta e la loro forza in un dato momento storico — in un circolo, nobile refugium pietalis. Così era avvenuto al movimento francescane e nel corso del secolo xv all’attivissimo valdismo. E, come quest’ultimo — quello delle Valli Piemontesi — fu attratto fatalmente dalla Riforma francese, così l’Ussitismo entrò nel-orbita della Riforma tedesca.
{3) Del risorgimento spirituale ed economico della Boemia moderna parla Giani Stu-parich: La nazione czeca, nella collezione • La Giovine Europa » (1915). Egli mette bene in evidenza l’importanza che vi ha avuto il Palacky, il grande storico di Hus e dell’ussitismo (1798-1876). « La sua Storia della Boemia è il primo dei grandi atti nazionali, in quanto è opera che ha schiuso agli czechi le sorgenti della loro vita, otturate nella catastrofe del 1620... Illustrare, penetrandolo coi raggi dell’immediata intuizione, il periodo più universalmente valido della storia boema, cioè la civiltà ussita, era acquistare al debole, soffocato, immemore popolo boemo la memoria disè, risvegliare la sua intima sopita energia, dargli quella forza che ha un popolo quando crede » (p. 24). Non posso tuttavia convenire con lo Stuparich intorno ad alcuni giudizi su Hus ed intorno al valore scientifico, di fronte ai nuovi risultati e al nuovo materiale critico, dell’opera epica del Palacky e sopratutto della pallida parafrasi fattane dal Denis in Francia.
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storia, significa comprendere meglio il risveglio di questo popolo slavo che nella crisi attuale della Monarchia degli Asburgo ritroverà forse la sua indipendenza politica e la via per tessere di nuovo la sua storia fra le rinnovate nazioni dell’Europa orientale. In Italia si è fino ad ora parlato poco di Hus e pur troppo con nessuna conoscenza delle fonti e senza riuscire a collocare la sua figura sullo sfondo della storia generale a lui contemporanea e per di più con pregiudizi estranei alla serena ricerca storica.
Mentre l’occasione del V centenario invita a concentrare la luce sulla figura di Hus, a separarla, per farne più energicamente risaltare le linee, dal movimento eh lo precede e gli dà l’impulso, il wicleffismo inglese, e dal movimento che ne conduce a compimento l’opera appena abbozzata, l’ussitismo, criticamente sarebbe stato invece opportuno trattare prima a lungo di Wiclcff e dell’opera sua e poi, determinato il vero rapporto intercedente fra Hus e l’ussitismo, indugiarsi su quest’ultimo come sul punto più interessante per lo storico generale. Invece, anteposta la biografia di Hus, tratterò in seguito del wicleffismo inglese e dell'ussitismo propriamente detto, dallo scoppio della guerra religiosa in Boemia fino al suo attenuamento nei Fratelli Boemi e alla sua parziale fusione con la Riforma tedesca.
Abbreviazioni di opere ehe verranno frequentemente ditate :
HM = Historia et Monumenta I. Hus atque leronymi Pragensis Confessorum Cristi — Norimberga 1558; Francoforte 1715, in due volumi.
D = Documenta Magistri I. Hus......editi da F. Palacky a Praga, 1869.
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GIOVANNI HUS
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GIOVANNI BUS, L’EROE DELLA NAZIONE BOEMA
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I.
La Boemia alla fine del ’300
Alla morte dell’imperatore e re di Boemia Carlo IV (1378) (1) la Boemia era giunta all’apogeo della sua grandezza materiale. Ma questa gloria era stato merito dell'elemento tedesco, che, specialmente sotto la casa regnante dei Lussemburgo, aveva profondamente influenzata la vita dei slavi di Boemia {czechi) per quella missione storica che il germanesimo — già abbastanza evoluto nella sua ¿trattura sociale ed economica e imbevuto di coltura latina — ha esercitato nel medio evo su il caotico ed incomposto mondo slavo delle Marche orientali dell’Impero germanico. Però un largo processo di diflerenzazione etnica e nazionale e di sviluppo politico s’era venuto manifestando nei regni slavi occidentali, dentro l’impero e fuori; questa maturità li orientò verso dei problemi politici la cui soluzione fu solo ritardata per quattro secoli dall'invasione turca della Balcania, ma che rinascono oggi più vivi che mai nella Drang nach Osten del duplice impero tedesco d’Austria e di Germania, nella slavizzazione dell’Austria, nelle lotte egemoniche dei popoli balcanici. Era l’età di Casimiro il Grande (1333-70) che dava nuovo vigore alla Polonia, da poco separata dal regno di Boemia, e di Stefano Duschan (1336-1356) il cui sogno ambizioso doveva venir tentato di nuovo oggi dall’Austria.
Dopo di aver infatti conquistato Salonicco, che egli giustamente considerava come centro d’influenza fra il bacino orientale e quello occidentale del Mediterraneo, intendeva, con un regno forte ed omogeneo dominare dalle rive del Danubio a quelle dell’Egeo e dell'Adriatico. Era il periodo in cui la Boemia per opera di Carlo IV di Lussemburgo, conquistata la Slesia, il Magdeburgo, ecc., si rinnovava politicamente come potenza slavo-germanica ed era l’indice di quel nuovo e fatale orientamento dell’impero romano-tedesco a divenire, perduta ogni influenza in Italia con la caduta degli Hohenstaufen, una potenza orientale.
Geograficamente la Boemia forma un massiccio quadrangolare, a sè, chiusa com’è da tre lati da monti, al nord dagli Erzgebirge e dai Riesengebirge, ad ovest dalla Selva Boema, ad est dai Sudeti ed aperta solo a sud-est verso le colline della
(1) Carlo IV come imperatore e Cario I come re di Boemia.
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Moravia che la separano dal bacino del Danubio. Malgrado ciò, la sua storia ce la mostra alternativamente aperta alle influenze tedesche, polacche, austriache ed ungheresi (1).
La società boema alla fine del secolo xiv era « inquadrata » — come si direbbe oggi con un usitatissimo termine militare — dai tedeschi; nelle città, da cui partiva l’influenza tedesca, il commercio (2) era nelle loro mani; nelle campagne, i coloni, per la superiorità dei metodi di coltivazione e per ragioni politiche, erano in maggioranza tedeschi. Le terre erano in mano a molti nobili d’origine tedesca e agli alti prelati anch'essi spesso tedeschi. Le leggi (3), il clero rispecchiavano la secolare influenza tedesca. La lingua nazionale, lo czeco, è confinata fra i contadini e gli artigiani e non riesce ancora ad assurgere a dignità letteraria. Nelle lotte però per là Corona imperiale, nel consolidamento della posizione politica della'Boemia, nel risveglio della coltura, dell'arte e dell’economia ¿sotto il lungo regno di Carlo IV, si va formando lentamente la coscienza nazionale. La lotta ussita segna l’affermazione potente del sentimento nazionale e il suo trionfo sull’elemento tedesco.
Il secolo xiv è anche l’età d’oro del cattolicismo romano in Boemia, dove finì sotto Carlo IV a regnare quasi incontrastato, malgrado che la Boemia fosse un terreno abbastanza favorevole alla diffusione dell’eresia (4). Sappiamo che nel 1384, solo nella cattedrale di Praga dedicata a S. Vito, erano addetti al culto 240 ecclesiastici; che in Boemia al tempo di Hus vi erano quasi duemila parrocchie.e più di cento
(1) La Boemia è slava in massima parte fin dal secolo vi e cristiana dal ix. Fu un valido baluardo contro la minacciosa, invasione mongolica. Faceva parte dell'impero fin dal tempo di Carlo Magno. Ottocaro I (1177-1230) della dinastia dei Premysl fece della Boemia un regno ereditario ed indipendente dalla Germania, però sempre facente 6arte dell’impero. Il suo re, per la « Bolla d’oro ■ di Carlo IV, era uno dei sette Elettori.
•al 1306 al 1437 fu sotto la dinastia tedesca dei Lussemburgo, che tentò di germanizzare profondamente la Boemia, e che fu inaugurata da Giovanni di Lussemburgo, figlio di Enrico VII. Il trionfo del movimento ussita portò ad una monarchia elettiva e Giorgio di Podiebrad salì sul trono (1458). Dopo di lui (f 1471) la Boemia ebbe per re un polacco, Ladislao, e poi anche un ungherése. Nel 1557 cadde sotto l’Austria. Le sue vicende politiche e culturali sono connesse con quelle della confinante Moravia (al principio del sec. xv marchesato).
La battaglia della Montagna Bianca (1620) segna la fine dell’indipendenza della Boemia che diviene una provincia austriaca degli Asburgo e comincia quella lunga vita ingloriosa modellata dalla controriforma cattolica capitanata dai gesuiti, i quali riescono a strappare dalla coscienza nazionale perfino il ricordo di Giovanni Hus, sostituendolo con quello di un preteso martire della confessione auricolare sotto il regno di Wenceslao, un altro Giovanni, Giovanni Nepomuceno (di Nepomuck). Intorno a Giovanni di Nepo-muck vedi più innanzi.
(2) A proposito di commercio, ricordo qui un articolo intorno ai commercianti italiani a Praga e in Boemia di G. Novak (Rw. d'Italia, 1911).
(3) Cito, come caratteristica, questa decisione de’ Taboriti sull’abolizione del diritto tedesco in Boemia. « Item, quod jura paganica et teutonica quae non concordant cum lege Dei, tollantur et iure divino ut regatur [la Boemia], judicetur et totum disponatur ». (E riprodotta dall’Hòfler nel suo così scorretto e parziale Magister Hus u. der Abzug der deulschen studenten u. Professoren aus Prag (1864), p. 283 in una nota, dove non cita la fonte da cui la ricava).
. (4) Vedi il giudizio di Enea Silvio Piccolomini (Pio II) nella sua De Bohemorum ortgme oc gestis /¡istoria, 1. XXXV (chiama la Boemia haereticorum asylum).
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ricchi conventi, rocche forti dell'ascetismo e dell'influenza economica del monacato. Un terzo del territorio boemo, come abbiamo visto, apparteneva alla Chiesa. Il pesante diritto delle decime (i) assorbiva gran parte della ricchezza della nazione a profitto del clero, in maggioranza di origine tedesca. Il clero secolare e il monacato era numeroso, potente, ricco ed immorale. La simonia era largamente diffusa. I pastori d’anime, procacciatisi col denaro la ricca prebenda,’non si curavano del loro gregge e disertavano le loro sedi. La predicazióne era del tutto trascurata. Il clero mostrava gli stessi caratteri degenerativi che tutti oramai lamentavano in ogni paese d’Europa. Nell’Università il curialismo (2) trionfava. I diritti del clero e della Curia romana venivano talmente esaltati, da soffocare ogni distinzione fra i doveri fondamentali della vita cristiana e le minuzie della legge ecclesiastica. Il sistema fiscale (3), sempre più esigente e pesante, imposto dalla Curia romana per i suoi cresciuti bisogni politici e mondani, trovava seri oppositori e interessati paladini» provocando lo sdegno e le critiche degli stessi ecclesiàstici
La Chiesa in Boemia soffriva di quel malessere diffuso nella cristianità occidentale, che s’era venuto acuendo per lo scandalo e per la scissione portati dallo Scisma d’Occidente. Le eresie di carattere popolare che avevano pullulato ininterrottamente dal suolo cattolico per più di due secoli avevano perduto oramai la loro violenza. I motivi di lottxa e di risentimento contro il mal governo ecclesiastico, e specialmente contro il governo centrale, perduravano, complicandosi però con nuovi fattori storici ed economici. Erano tramontati i Comuni e l’impero. S’affermava ora la potenza dei Parlamenti, del potere reale, del Principe sul vecchio feudalismo, delle sorgenti unità nazionali. I diritti economici e giurisdizionali del clero urtavano ad ogni passo con i diritti del re e del Parlamento. La lotta non è più fra Chiesa ed Impero, ma fra Chiesa e Stato moderno, affermantesi come unità governamentale su basi etniche e storiche. Anche ora i movimenti più salienti di’rinnovamento ecclesiastico — dal momento che è lo sviluppo ecclesiastico che turba la vita politica e ne impedisce il progresso — stanno per il movimento ^nazionalista, come nel periodo precedente erano stati per ii movimento democratico del Comune liberantesi dal feudalismo. Il Defensor Pacis di Marsilio da Padova segna come il testamento politico di un’età che si chiude con l’ultima illusione nella forza unitiva e ristoratrice dell’impero ed insieme l’eredità da cui coglieranno a piene mani i riformatori nel periodo di transizione, da Wiclif ad Hus a Lutero e a Calvino.
(1) Vedi più avanti la lotta di Hus intorno all’abolizione delle decime e le sue giustificazioni al concilio di Costanza.
(2) Noi diremmo oggi V ullramonlanismo.
(3) Sul sistema delle imposte riscosse dalla Curia su tutta la Chiesa occidentale, specialmente a partire dal periodo Avignonese, non c’è ancora un’opera fondamentale’. E interessante leggere, ad ogni modo, il quadro abbastanza preciso ed impressionante che ne fa il Kirsch, che si è specializzato nella storia finanziaria della Curia nel-secolo xiv, in un articolo apparso sulla Revue d'histoire ecclésiastique, I, 274 ss. Si comprende allora come un tal sistema dovesse provocare una formidabile reazione e favorire le tendenze nazionali separatiste, nel seno dell’unità ecclesiastica occidentale.
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II.
La cappella di Betlemme.
Giovanni Hus nacque in un anno non ancora ben determinato intorno al 1370 ad Husinec, villaggio situato al sud-ovest della Boemia, non lungi dalle montagne di Baviera, in ima provincia di popolazione mista per la vicinanza del confine tedesco e in cui il conflitto delle due razze czeca e tedesca doveVa manifestarsi acutamente. Era figlio di poveri contadini, non certo avari di prole. Negli ultimi giorni della sua vita ricorderà la sua rude fanciullezza e ai figli di un suo fratello non augurerà che una vita di onesto lavoro. Della sua giovinezza non sappiamo nulla; la leggenda più tardi, inspirandosi evidentemente al significato del suo cognome in czeco (1), ha preteso di riempire questa lacuna. Certo è che fece i suoi primi studi a Pracalice, una cittadina al sud di Husinec. A Praga, la città magnifica per monumenti sulle rive della Moldava e sede recente della prima grande università dell’Europa orientale, cominciava poi i suoi studi superiori. Ma egli era molto povero e dovette guadagnarsi il pane cantando nelle chiese. È probabile che egli non fosse uno studente straordinario. Anche di questo periodo in cui certamente la sua anima ricevette le impressioni più fòrti non sappiamo pressoché nulla. Stanislao di Znaim, che da amico si tramutò più tardi in acerrimo nemico di Hus, ci parla dell’influenza che su Hus fra tutti i professori esercitò il battagliero « Magister » Adalberto Ranconis de Ericinio (1388), czeco, prima rettore dell’università di Parigi e poi professore a Praga (2), e che gl .Ussiti più tardi celebrarono come uno dei precursori del loro movimento. Hus entrò poi nella vita ecclesiastica, come quella che offriva a tutti la via al benessere materiale e agli onori (3).
(1) Hus, che non è altro che l’abbreviazione di Husynecz, significa in boemo oca. Preferisco la grafia Hus all’altra generalmente usata di Huss e che deriva dai tedeschi e dai testi latini contemporanei, perchè Huss in czeco dovrebbe pronunciarsi Husch.
(2) Su A. Ranconis vedi l’eccellente monografia del Loserth « Der Magister Adal-bertus Ranconis de Ericinio ■ in Beitràge sur Gesch. d. Hussit. Bewegung, II.
(3) Hus, più tardi, dopo di esser passato attraverso una profonda crisi morale ed aver abbracciato le idee della riforma ecclesiastica di- Wiclef, ispirate al concetto della restaurazione della povertà evangelica, riconoscerà le ragioni mondane che lo spinsero ad abbracciare il sacerdozio: « Confiteor pravam cupidinem meam, quum tirunculus (clericus) essem, concupisse mox presbyteratum assequi, scilicet ut bono victu eultuque fruerer et inter homines conspicuus essem; verum pravam hanc cupidinem esse cognovi, quum Literas Sacras intellexissem » (De Simonia I, 429).
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Nel 1392 ottiene il grado di bacelliere in Arti (i), nel 1394 quello di bacelliere in Teologia (2), nel 1396 quello di Magister Artium e forse fin dal 1398 inizia il suo insegnamento nell’università di Praga (3). Nel 1401 è ordinato sacerdote; nel 1402 viene eletto per la prima volta Rettore dell’università, carica che durava solo sei mesi, dopo di esser stato già nel 1401 Decano della Facoltà di Filosofia.
Nel 1402, certo per la fama che s’era guadagnata nell’università e sovratutto per le amicizie con i rappresentanti del partito nazionalista, venne nominato capei-larius (cappellano) della celebre cappella dei Santi Innocenti, detta di Bethlemme. fondata nel 1391 nel centro della Città Vecchia nella parrocchia di S. Filippo e Giacomo da due zelanti cittadini di Praga, Giovanni di Mulheim e dal Crucis In-stilor di Praga. Ivi, a differenza delle chiese parrocchiali e della Cattedrale, si predicava esclusivamente in czeco (4). La sua fondazione fu uno dei risultati della preti) Sto per il 1392, con il Loserth, contro la data comune del 1393, appoggiandomi alla testimonianza della Cronica dell’università di Praga.
(2) Si noti che Hus non conseguì mai il grado di dottore in teologia. Nelle sue lettere e nei documenti contemporanei lo troviamo insignito del titolo di « sacrae theo-logicae baccalarius firmatus » (v. p. es. il Manifesto latino fatto affiggere sui muri delle vie di Praga il 26 agosto 1414). Firmatus o formatus era un appellativo d’onore dato ad un bacelliere in teologia quando, dopo di aver letto per due anni la Bibbia (baccalaureus biblicus) e i due primi libri delle Sententiae (baccalaureus sententiarius), passava a spiegare il III libro delle Sententiae.
(3) La data non è sicura. Sappiamo però che-nei 1401 commentava nell’università i .quattro Libri Sententiarum di Pier Lombardo. W. Flajshans e M. Kominkova hanno pubblicato recentemente (Praga, 190.6) il commento di Hus sui libri delle Sentenze di Pier Lombardo (Super IV Sententiarum), l’opera più ampia di Hus (in 800 pagine), che non era stata mai pubblicata prima d’allora. L’importanza data dal Flajshans a questo commentario è evidentemente eccessiva e malgrado le affermazioni e le speranze degli editori, non getta che una luce assai modesta sulla formazione delle tendenze e. delle idee riformatorie di Hus. Anche recentemente lo Schaff, di Pittsburg, in una biografia di Hus pubblicata in occasione del V centenario, ha dato un’importanza eccessiva a quest’opera. Ma basta considerare che l’influenza di Wiclif vi si fa sentire largamente, per ridurne a misure più modeste il valóre e l’utilità per la storia del pensiero di Hus. È da ricordarsi qui, ad ogni modo, la vecchia tesi dello Schwab (I.Gerson, 1858): « Lo studio delle Sententiae di Pier Lombardo e del Corpus Juris prepararono la via al wicleffismo nell’animo di. Hus. In Pier Lombardo questi errori potevano infiltrarsi a proposito di certi punti di dottrina opposti all’insegnamento dominante,.. » (p. 556). Ma ciò in un certo senso è già vero per Wicliff, in cui un processo simile ha un carattere indipendente, mentre per Hus resta sempre il dubbio se egli non abbia accolto le critiche già elaborate da Wiclift .
(4) Questa cappella che fu la vera culla dell’hussitismo o, se si vuole, del vicleffismo boemo, meriterebbe uno studio a parte. Ricorderò solo: 1) il decreto di Bonifacio IX (9-X1-1391), in cui si concedono speciali indulgenze ai visitatori e ai sostenitori della cappella... « Cum itaque, sicut accepimus, in civitate Pragensi, quaedam capei la sub vocabulo Sanctorum Innocentino), Bethleem nuncupata, de novo (1391?) canonico sit fundata eciam et dotata, nos cupientes, quod capella ista congruis honoribus frequentetur et eciam conservetur,... omnibus, eie... » (in Monumenta Vaticana Res Bohemicas Illustrantia. \r, n. 586); 2) la lettera di Gregorio XII all’arcivescovo di Praga, Sbinko, del 15-V-1408 (D 340 ss.) confermante la fondazione e la dotazione della cappella. Da questo documento importanssimo e fondamentale per la conoscenza delle origini di questa cappella, ricaviamo: a) che Giovanni di Mulheim aveva acquistato l’area e dotato la cappella; b) che il fine della fondazione era stato quello di favorire la predicazione e la predicazione in boemo, per differenziarla dalle altre chiese in cui prevaleva l’elemento esteriore del rito
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dicazione riformatrice di Milicz di Kremsier, uno dei pretesi predecessori dell’ussitismo. La cappella di Bethlemme poteva contenere circa tremila ascoltatori (i). I suoi predicatori finirono col divenire i veri direttori spirituali della popolazione slava di Praga; Hus era stato preceduto sul pulpito di Bethlemme da Giovanni Pro-tiva, da Giovanni di Stiekna e da Stefano di Kolin. Fu questo un avvenimento decisivo nella vita di G. Hus. Questi due nomi, Hus e Cappella di Bethlemme saranno da quel giorno per sempre associati. Egli doveva esser già entrato nella corrente riformatoria e nazionalista che partendo dall’università e dalla Corte faceva sentire la sua influenza sulla nobiltà e sulla borghesia attraverso quella specie di Università popolare, quale diverrà specialmente per la predicazione di Hus, la cappella di Betlemme.
L’impressione prodotta dalla predicazione di Hus dovette essere enorme; anzi, si può dire che la sua personalità rifulga di piò in questa sua attività pastorale (2), che andò crescendo con gli anni, che in quella di studioso e di professore. Ma non va dimenticato neppure che la sua predicazione era un’eco piena di passione dei principi riformatori di Wicliff. Hus segna così il passaggio della corrente riformatrice boema dai motivi pietistici e dalla critica senza metodo degli abusi del clero e della pietà materialistica del popolo ad una concezione organica e completa della riforma della Chiesa, ispirata a motivi agostiniani, e per cui il wicleffismo s’inserisce organicamente nelle lotte politiche e-religiose della Boemia. Le prediche di Hus, da quel poco Che ci è dato di conoscere, dovevano avere una grande vivacità ed esser piene di concretezza. La sua personalità ricca di emotività comunicatrice doveva riflettervisi tutta. Erano dei caldi appelli rivolti ai suoi uditori, coi quali viveva in un'intima convinzione spirituale (3). Il pulpito di Bethlemme fu come una viva e permanente assise innanzi alla quale tutte le questioni del giorno che più vivamente
(cultus); c) che la cappella aveva due rettori; d) che vi si poteva predicare e celebrare la Messa; e) che era stato concesso il diritto di patronato e di presentazione a Giovanni di Mulheim, zìi’Institor Crucis e ai loro-eredi; 3) la protesta di Hus a Giovanni XIII (11-xi-1411) a voler considerare la cappella di B. come luogo privato e quindi soggetta al decreto di Alessandro V di proibizione della predicazione: ««False denique suggesserunt, quod capella Bethleem foret focus privates, cum ipse sit ab ordinario loeus in beneficium ec-clesiasticum confirmatus, cuius destructio [contro il susseguente decreto di distruzione] honorem Dei aliquantulum in populo tolleret, minorum profectum minueret, causaret scandalum et poputem contra destructores non modice provocaret » (Doe. 19); 4) la cappella di B., salvatasi malgrado ripetuti tentativi di distruzione risalenti fin agli ultimi anni di Hus (vedi più avanti), venne affidata ai gesuiti dopo la battaglia della « Montagna Bianca » (1620). Però venne chiusa al culto nel 1788 e demolita pochi anni dopo.
(1) Lo ricavo dalla denuncia inviata al papa nel 1412 dal più grande nemico di Hus, Michael de Causis (D 169).
(2) Sull’opera pastorale di Hus, v. Loserth, « Zur pastoralen Tätigkeit des Huss » (in 29 B. delle Mt. des Instituts für öst. Geschichtsf., p. 672-79).
(3) Ordinariamente nella Cappella di Bethlemme si predicava due volte la settimana, il venerdì e la domenica. L’uditorio prendeva viva parte alle prediche, interrompendo, applaudendo (D 171). La predicazione di Hus — escludiamo la maggior parte dei sermoni stampati, perchè molti di essi sono semplici traduzioni od adattamenti di prediche di Wicliff e gli altri rivelano chiaramente preoccupazioni editoriali — si allontanava dallo schema convenzionale, scolastico della predicazione contemporanea.
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appassionavano l’anima boema venivano portate per- venire illuminate e giudicate in una calda atmosfera spirituale. Per più di un decennio, G. Hus foggiò giorno per giorno l’anima boema sotto il maglio d'una predicazione possente di penitenza. La sua predicazione conobbe tutte le violenti note dell’oratoria demagogica, e seppe scuotere l’animo degli ascoltatori con i motivi irresistibili dell’amore e dell'orgoglio nazionale, della speranza in un immediato rinnovamento sociale e religioso offerta dai motivi apocalittici che periodicamente scuotevano come una febbre violenti l’anima medievale. La sua straordinaria attività pastorale e questa impronta demagogica della sua predicazione lo innalzarono molto al di sopra dei più celebri predicatori di riforma che lo avevano preceduto. Egli conobbe il segreto della conquista della folla. Seppe fondere, con profonda intuizione, la causa della riforma religiósa a quella del risveglio politico e sociale della nazione e fare della propria persona e delle proprie vicende il simbolo vivente della sorte del duplice rinnovamento.
Il culto a Bethlemme, anche secondo l’espressa volontà dei fondatori, doveva concentrarsi tutto intorno all’opera viva della predicazione d’ispirazione evangelica, come il sacramentum per eccellenza, secondo le vedute wicleffite, èco cosciente a sua volta di tutta la tendenza eretica medievale (i). Hus aveva dato anche grande importanza al canto religioso (2) in czeco, come mezzo di trasmissione delle nuove idee. Fra i frequentatori delle sue prediche egli contava ogni classe di cittadini, popolani, nobili, studenti, ecclesiastici, donne del popolo, signore della nobiltà e forse la stessa regina Sofia di cui era divenuto confessore. Da una lettera di Hus scritta da Costanza al Maestro Martino, suo discepolo, possiamo conoscere il nome di alcuni dei più assidui frequentatori e sostenitori della Cappella (3).
I motivi della predicazione di penitenza (4) si intrecciavano a quelli di critica alle istituzioni ecclesiastiche e agli abusi e ai vizi del clero, a quelli della difesa della
(1) Vedi A. De Stefano, Saggio sull’eresia medievale nei secoli XII e XIII, in Bilychnis, fase. IX, 1914 e fase. I, 1915. Nella lettera a Sbinko del luglio 1408, Hus scriveva: « ... Plus scriberem, sed labor evangelizandi impedit... O Pater, quae pietas est, prohibere evan-gelizare, quod praecepit Cristus suis discipulis principóliter dicens: Praedicate e vangeli um omni creaturae...! » (D 4).
(2) I cantici dovevano far l’officio presso a poco dell’opuscolo o del foglio volante di propaganda. Sui canti religiosi di Hus vedi Zdenek Nejedly « Husova reforma Ko-stelmho zpeva » in Cesky Càsopis historicky (voi. 13, io). Nella raccolta dei decreti sinodali di Praga leggiamo questo del 15 giugno 1408 in cui l’allusione alla propaganda hussita è evidente: « Mandai D. Archiepiscopus, quod plebani [parroci] et ecclesia™ m reetores in praedicationibus nuntient esse prohibitas novas eantìlenas omnes [in czeco] praeter... Alias contra cantantes et decantare permittentes per remedia juris punientur (v- D 333).
(3) Vedi D 120. Dall’epistolario, dal processo e dalie opere ho ricavato ed ordinato un gran numero di tratti realistici che illuminano il vero carattere della predicazione di Hus ed insieme l'uditorio della Cappella. Ma sarebbe troppo lungo qui, in una nota, riferire questi testi.
(4) « Non opto in hoc nequam saeculo vivere, nisi ad poenitentiam me et alios possim secundum Dei béneplacitum provocare »: così Hus in una lettera del 1413 a Cristanno di Pracatic, suo amico ed allora rettore dell’università.
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dignità, nazionale vilipesa dai tedeschi, all’apologià di Wiclef (i). Per avere un’idea della predicazione di Hus, bisogna ricordare quella del Savonarola e di fra Bernardino da Siena (Bernardino degli Albizzeschi) (2).
Il culto nella Cappella di Bethlemine venne trasformandosi secondo il progresso delle idee di rinnovamento wicleffita, assumendo così una fisonomía sempre più libera. Nicola di Faulfisch aveva portato dall’Inghilterra una pietra tolta dal sepolcro di Wiclif. Essa ebbe un posto d'onore nella Cappella di Bethlemme e vi fu venerata quasi come una reliquia (3). Nel pieno della lotta contro la Facoltà di Teologia, nel 1413, furono scritte lungo le pareti della Cappella le tesi principali tolte dal Da Sex erroribus e che erano tutte un programma di riforma (4).
(1) A Costanza il cardinal d’Ailly l’accusava di non aver avuto alcuna misura, predicando, nella sua critica contro il collegio cardinalizio: « ** Vos non observaseis modum in praedicationibus et scripturis vestris: tamen deberetis iuxfa exigentiam audientium sermones adaptare. Quid ergo praedicando ad populum necesse fuit vel utile contra cardinales pracdtcarc, cum illorum nullus ibi afluerit, cum hic potius in conspectu ipsorum et non coram laicìs in scandalum dici deberent et praedicari? ’’ Et ipse [Hus] respondit: " Pater Reverende! quia sermonibus mais inlerfuerunt sacerdotes el alii dodi viri, ideo ego movi talia, ut illi sìbi sciant praecavere praesentes vel futuri sacerdotes ”. Et dixit cardinalis: " Vos male facitis, quod per tales praedicaliones statum Ecclesiae vullis de-iicere ”.» (Dalla Relazione di Pietro di Mladenovic). La tesi wicleflìto-hussita intorno ai cardinali, che le sviluppo del diritto canonico riflettente l’aumento dell’importanza del collegio cardinalizio nel governo della Chiesa nei due ultimi secoli aveva innalzato così in alto, era stata così espressa da Hus nel De Ecclesia (cap. XIV): « Cardinales non sunt manifesti et veri successores collegii aliorum apostolorum Cristi, nisi vixerint more apostolorum. servantes mandata et consilia D. lesu Cristi ».
Se i cardinali — il « corpus Ecclesiae » secondo i curialisti del tempo — dovevano scorgere nella teoria wicleflìto-ussita, per cui l'esercizio del potere era in funzione della conformità all’ideale apostolico, un serio pericolo per i loro diritti, non avevano però alcuna ragione di inveire in un modo speciale contro Hus. « I cardinali in specie erano-oltremodo odiati dalla grande maggioranza dei riuniti a Costanza, chè non soltanto fra i tedeschi, ma anche altrove regnava per vari rispetti una disposizione veramente invelenita verso il collegio, al quale attribuivasi non a torto la colpa principale dello scisma. I cardinali dovettero ripetutamente muovere lagnanze per la grande noncuranza usata a loro riguardo. Come si pensasse a procedere contro di loro riluce dal fatto memorabile, che, fin dal 17 aprile 1415 fu da un prelato presentata la proposta di escludere i cardinali da tutte le trattative riflettenti l’unione e la riforma. La proposta non riuscì, ma svelò intiera ai cardinali la grandezza del pericolo che li minacciava » (Pastor, Storia dei papi, I1 2 3 4, 185).
(2) « B. da Siena fu uomo di fede francescana tacciata di eresia, ma rivendicata dalle opere, quale in Siena era già apparsa quella di Giovanni Colombini che certo al-l’Albizzeschi infuse lo zelo del nome di Gesù, cioè lo spirito della religione gesuata, laica ed apostolica» (Misciatelli, Mistici Senesi).
(3) « lile Faulfiss portavit unam petiam lapidis de sepulchro ipsius Wiclef, quem postea Pragae pro reliquiis venerabantur et habebant ». Così Stefano di Palecz nel processo a Costanza. • : .
(4) Non so se Hus alluda a questo avvenimento e all’esistenza di massime evangeliche c wicleffite riprodotte sulle pareti o non piuttosto ad una serie di pitture rappresentanti probabilmente quegli episodi della vita del Cristo e degli apostoli che illustravano la lotta contro i farisei e il sacerdozio giudaico, simbolo della lotta per la riforma ecclesiastica combattuta dai wicleffiti contro il clero, nella lettera al suo amico, il cavaliere Giovanni di Chlum: « ...scriptura quae est in parietibus in Bethleem contra quam Paletz maxime stomachatur, dicens quod induxi errores in populum per illam, qui etiam Paletz instat fortissime, ut deleátur illa scriptura» (D 95).
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GIOVANNI HUS, L’EROE DELLA NAZIÓNE BOEMA (Disegno di Paolo A. Paschetto, da una stampa boema)
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Nella Cappella di Bethlemme vennero celebrati come martiri i tre giovani giustiziati in seguito alla lotta contro la predicazione delle Indulgenze (1412); durante la prigionia di Hus a Costanza, il suo amico Jacobellus (diminutivo di Giacomo di Stri-bro), in mezzo a contrasti e a polemiche, introduceva l’uso del calice nell'amministrazione dell'Eucarestia ai laici.
Hus dovette coltivare, oltre il canto e la musica, anche la poesia. Nell’epistolario troviamo infatti accenni ai suoi versi e parecchi saggi di poesia, che però non han nulla di straordinario e dimostrano l’evidente imitazione degli inni della liturgia (1).
L’austero Hus aveva iniziato la sua vita ecclesiastica e la carriera professorale seguendo l’andazzo dei suoi colleghi; più tardi rimprovererà a se stesso aspramente la sua vanità e la sua ambizione, l’amore per i bei abiti e le lunghe ore perdute nel giuoco degli scacchi, occasione frequente a violenti scoppi d’ira. (2)
Il suo ideale di sacerdozio, a parte l’insistenza sul dovere della predicazione e sull’amore della povertà evangelica, non s’eleva molto al di sopra o al di là del tradizionale tipo cattolico. Le sue idee morali si muovono intieramente nell’atmosfera cattolica. In questo punto egli non fu affatto un rinnovatore e resta molto indietro al suo maestro spirituale Wiclif; niente in lui preannuncia quella rivoluzione dei criteri morali e dell’ideale della vita cristiana che è una delle caratteristiche della Riforma. Egli accettò integralmente l’ascetismo medievale con tutte le sue implicazioni e con tutte le sue limitazioni. I voti monastici, la superiorità della verginità sul matrimonio, il celibato ecclesiastico trovarono in lui un convinto patrocinatore (3). Per comprendere a pieno la sua mentalità cattolica tradizionale nel campo della morale basta leggere il suo testamento e le raccomandazioni al suo discepolo Maestro Martino.
(1) Vedi p. es. D 06-97 e D 112; in una lettera a monache, del 1408, Hus scrive: « Mitto vobis carmen, quod cantetis in vesperis Virginum Sanctarum, ut verba perpen-dentes lactìtiam animo habeatis ac ore cantetis... » (D 9).
La lettera è scritta originariamente in czeco.
S « Dixit autem Salvator amare eos [i dottori] primas cathedras in synagogis et care fimbrias tunicarum talarium, palliorum, tabardorum, pallarum. Proh dolor! Ipsè quoque habui haec tabarda, tunicas talares cum laniciniis (alis), pallas cum pel-libus albis; ita enim magisterium illud obstruxerunt, ut nemini aditus pateat, nisi haec vestimenta habuerit (De Simonia I, 454; dal czeco). Per il resto vedi le confessioni di Hus nella lettera scritta al Magister Martinus il io-x-1414, prima di lasciare Praga per avviarsi a Costanza (D 74).
(3) Intorno alle lodi della verginità e sui pericoli della vita matrimoniale si legga la lettera scritta a delle monache nei 1408, da cui tolgo qualche passo veramente caratteristico; « Nolite eum [Gesù, sposo delle monache] propter alium improbum, foedum, pravum, inquinatum, quicum quin sollecitudinis plus sit quam lactitiae, fieri non potest: nam si pulcer erit, verendum, ne aliam amplectatur; si deformis erit, taedium; si temulentus. iracundus vel aliter pravus, satis diaboli; si ex eo foetum concipiet, dolor et in praegna-tione et in partii et in educatione; sin sterilis erit, dedecus, sollicitudo et irritus concu-bitus; si nascetur proles, metuendum, ne examina sit vel deformis. Atque quis miseros casus enumerare potest. quibus cara caelebs in Cristo vita et virginitas in eius matte [Maria] libera est et super viduitatem et matrimonium elata!... » (D 8-9). Sulla sua difesa della povertà evangelica con testi tolti dai Padri, vedi la lettera ad un frate, del 1411 (D. 14-15); sui pericoli per un sacerdote, specialmente se confessore, della conversazione con donne, v. lettere al Maestro Martino.
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Più difficile è portare un giudizio sul suo carattere. I suoi nemici, s'intende, hanno esagerato i suoi difetti, che trovano del resto nell'asprezza della lotta che dovette sostenere una piena giustificazione. Gli è stata rimproverata — e il Loserth recentemente ha fatte sue, da buon tedesco, tutte le vecchie accuse — la sottigliezza con la quale cercava di sfuggire alle conseguenze dèlie sue dottrine, con abili ripieghi (i); ma non va dimenticato che certe attitudini, a parte il dovere della difesa legittima, èrano un prodotto della mentalità e della pratica delle discussioni scolastiche. I lati belli del suo carattere rifulgono nella prigionìa e nel processo a Costanza, in cui attraverso sofferenze morali e materiali il suo spirito s’elevò ad una grande altezza morale. Egli fu avanti tutto un uomo ricco di passione e di sentimento: i suoi difetti come la sua grandezza hanno qui il loro punto di partenza. Egli abbracciò la causa della riforma religiosa della vita cristiana e del risveglio nazionale con una forza di passione che lo portò, più che per la sua intelligenza, ad essere come l’incarnazione di questo duplice movimento e alla lotta inevitabile contro la opposizione violenta del clèro simoniaco e curialesco e contro i tedeschi (2).
(1) « Dimitte sophistriam tuam et die sic vel non! », gli gridavano i giudici nella prima seduta pubblica (5-V1-1415) del processo a Costanza. Un frate che assistette ad uno dei suoi interrogatori a Costanza, dice «Herí [19-111-1415] praesens fui in examine eius et numquam vidi ita audacem et temerarium ribaldum et qui ita caute sciret responderé (de) tegendo veritatem » (in M amène, Thesaurus..., II, 1635).
(2) Il Loserth rivela ingenuamente le ragioni... tedesche della sua critica spietata, ▼era requisitoria di Hus, quando dice: « e in questo non vi è alcun dubbio: del suo odio contro i tedéschi egli non può venir assolto » (Gesch. d. spài. Miti., p. 474).
...ut.
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III.
La crisi.
Nella vita di G. Hus il 1408 segna un anno decisivo, perchè la sua personalità comincia a staccarsi dal fondo comune ed impersonale del partito riformatore imbevuto di wicleffismo, per divenire sotto la spinta degli avvenimenti il leader dell’opposizione antiecclesiastica ed antitedesca in Boemia. Il periodo che corre dal 1402 al 1408 può venir considerato come un graduale processo di saturazione rivoluzionaria in Boemia, per opera della diffusione delle idee wicleffite e dell’irrobustimento del sentimento nazionale.
L’arcivescovo di Praga, Zbynko (1) di Hasenburg, eletto 110^1403, favorisce fin dal principio del suo episcopato G. Hus. Era uomo di non grande ingegno e di maniere piuttosto militaresche che ecclesiastiche. Nomina nel 1405 Hus oratore sinodale. A lui si affida anzi come ad un consigliere spirituale e lo prega di rendergli subito noti a voce o per scritto i difetti in cui eventualmente fosse caduto nel governo della sua Chiesa (2) e le colpe del clèro.
Ciò dimostra l’importanza a cui era salito Hus e la stima da cui era circondato. Zbynko era anch'egli preoccupato, come tanti altri, della necessità di una riforma morale del clero: di qui le sue simpatie per l’austero ed ardente Hus, su cui cominciava a rivolgersi l’attenzione pubblica a Praga. Hus per incarico ricevuto da Zbynko è inviato a Wilsnack, nella provincia di Magdeburgo, per compiere un’inchiesta intorno ad un preteso miracolo eucaristico del « Prezioso sangue », occasionato dal ritrovamento di tre ostie tinte di rosso sotto un altare. Wilsnack era divenuta la meta di frequenti pellegrinaggi che si muovevano fin dalle più lontane provincia della Gerii) Era soprannominato « Lepre ». Ma certo egli non si mostro mai eccessivamente condiscendente o timido. Aveva il titolo di « capitano in alcune parti del regno diBoemia ». « Zbynko Pragensis episcopus, licet de bona naturali fuisset sapientia, (in doctrina tamen sacra nullus existebat), per pravos consiliarios deceptus, eco... ». Cosi la Cronaca del-l’Università di Praga.
(2) Dalla lettera di Hus a Zbynko (luglio del 1408): « ...Saepissime reitero, qualiter in principio vestri regiminis mihi pro regula Pat. Vostra instituerat, ut quotiescumque aliquem defectum erga regimen conspicerem, mox personaliter aut in absentia per literam defectum hujusmodi nuntiarem... » (D 3).
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mania, dalla Polonia e dall’Austria inferiore. Scrive così il De omni sanguine Chrisliglorificato (i) per illuminare le menti togliendo ogni fondamento a miracoli di simil genere, e per giustificare la proibizione dell'arcivescovo. È scritto in uno spirito cattolico, ma è facile scorgervi la sua tendenza ad una comprensione più spirituale della pietà e alla critica degli elementi esteriori della pietà. Non va dimenticato del resto, che la Boemia (2) era diventata fin dagli ultimi decenni del sec. xlv il paese classico del culto eucaristico e dove s’erano avute dispute vivaci intorno alla minore o maggiore (quotidiana) frequenza della Comunione. Hus sostiene che con la Risurrezione tutte le parti del corpo del Cristo furono glorificate e riunite al corpo del Salvatore; perciò in terra non può esser restata alcuna particella materiale del Suo corpo; il Cristo sussiste nello stato glorioso solo nell’Eucaristia. Si scaglia, infine, da una parte contro il desiderio morboso di miracoli da parte dei fedeli e dall’altra contro lo sfruttamento della credenza popolare da parte di sacerdoti e di monaci.
Come predicatore a Bethlemme e come oratore sinodale (3), Hus non cessava dal denunciare gli abusi e le colpe del clero, specialmente la sua avarizia, la simonia largamente diffusa e la trascuranza dei doveri pastorali. Tutto ciò gli attirò l’odio dell’alto clero e perfino del clero parrocchiale, tedesco o tedeschizzante, geloso dei suoi successi oratori in una cappella privata. È accusato presso l’arcivescovo come eretico nel 1408, ed obbligato a dimettersi dal suo ufficio di oratore sinodale. Zbynko diviene il suo nemico implacabile. Sotto l’impressione di questi avvenimenti, probabilmente, scrive il De arguendo clero prò conclone, che è un’indiretta apologia del suo operato. Egli esamina, seguendo il metodo scolastico, se è opportuno alla presenza del clero e davanti al popolo mostrare con carità la malvagità del clero, smascherare la sua ipocrisia e predicare contro le sue colpe evidènti (4). Ciò di cui lo accusavano i suoi nemici non era tanto il contenuto riformatorio della sua predicazione, quanto la mancanza del senso di misura nelle critiche alla vita e ai diritti degli ecclesiastici davanti ad un uditorio laico e gli addentellati evidenti della sua predicazione alle dottrine wicleffite.
(1) È notevole il fatto che in questo trattateli© non si scorge alcuna traccia della teoria wicleffita sull’eucaristia (teoria della permanenza della sostanza del pane e del vino dopo la consacrazione). Però è evidente l’influenza wicleffita nella critica dei frequenti miracoli contemporanei e nel principio che il cristiano non ha bisogno d’andar in cerca di miracoli, perchè ha già la S. Scrittura. « Nos similes illis samari tanis, Evangelium audivimus. Evangelio consentimus, per Evangelium in Cristum credimus: nulla vuiimus sigila. nulla exigimus ». Dal De omni sanguine veniamo anche a sapere che Hus era stato nominato dall’arcivescovo, insieme a due altri colleghi, esaminatore di un altro preteso miracolo.
(2) Per affinità d’argomento, accenno qui alla leggenda del celebre miracolo eucaristico di Bolsena: il protagonista è un sacerdote boemo!
(3) Il suo ufficio era quello, nei sinodi diocesani allora radunati frequentemente, di esporre e di ricordare agli ecclesiastici presenti i doveri del loro stato.
(4) « Circa praeparationem Evangelii... videtur dubitare, utrum in evangelisatione coram clero et communi populo licei charitative cleri malitiam arguere, hypocrisim eius detegere et contra manifesta eius sedera praedicare ». Così nell’introduzione. Poi seguono le ragioni addotte dagli avversari contro un tal genere di predicazione e quindi le ragioni di Hus in favore.
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È probabile che i due capi di accusa (vedi denuncia del clero di Praga all’arcivescovo del 1408) fossero più intimamente connessi fra loro di quello che non apparisse ai superficiali estensori della denuncia, quando si conosca il pensiero wicleffita.
Molti storici han parlato di immediati predecessori boemi di Hus nella sua predicazione di riforma; altri, come il Loserth, che è indubbiamente lo studioso più serio di Hus, lo hanno negato recisamente (1). A me sembra che la questione sia stata posta in termini troppo semplici. Sta il fatto che in Boemia, come del resto in quasi tutti i paesi d’Europa, sotto la spinta del disagio spirituale creato dallo Scisma d’Oc-cidente, s'era fatto sentire più vivo il bisogno di una riforma generale nei costumi e negli ordinamenti ecclesiastici, da cui si attendeva un rinnovamento generale (2). La lunga crisi morale ed economica provocata dallo sviluppo abnorme dell'elemento ecclesiastico nella società cristiana e che si trascinava da due sècoli almeno pareva accennare ad una risoluzione definitiva. Il clero inferiore era in maggioranza guadagnato a queste idee di riforma e andava prendendo coscienza della propria importanza, stretto com’era dalle pretese dell’alta gerarchia e dalla concorrenza degli ordini mendicanti. C’era dunque un vero risveglio del clero in senso democratico, espresso largamente dalle nuove teorie conciliari. Caduta oramai la virulenza dell’opposizione ereticale, la critica contro gli abusi della Curia, e l’avarizia e la mondanità dell’alto clero diviene frequente argomento della predicazione comune; essa s-eleva dalla parte sana del cattolicismo è si muove generalmente nel senso tradizionale; attacca l’attuale disciplina ecclesiastica, ma non il sistema ecclesiastico. Hus è certamente partito di qui, ed egli non era naturalmente un isolato (3). Ma su questo vago profi) E la sua tesi fondamentale, che egli ha spinto troppo in là, fondandosi unicamente sui rapporti letterari fra Wiclef e Hus. Più avanti, trattando in particolare delle opere di Hus, esaminerò in dettaglio la critica del Loserth. Egli ha condensato in una forinola stereotipata — la ripete infatti in tutti i suoi lavori su Hus e l’ussitismo — la definizione dell’ussitismo: «Il cosi detto Ussitismo, nel primo decennio e mezzo (1410-1415) del secolo xv, non è altro che wicleffismo trapiantato sul terreno della Boemia. Come tale ha efficacia in Boemia fino al supplizio di Hus, per poi continuare, attenuato, nel-l’Utraquismo e, portato fino alle ultime conseguenze, nel partito dei Taboriti ».
(2) Tutti erano vittime dell’illusione, che rinnovato il clero, a partire dal Papa e dai cardinali, tutta la vita sociale sarebbe ritornata a posto e risanata come per incanto. Ma ciò era la proiezione di uno stato di cose già tramontato e che non permetteva di scorgere che le vecchie assisi della società medievale andavano in pezzi. Di fatti il clero aveva cessato di essere la spina dorsale della società europea occidentale e la sua influenza, decisiva sul progresso generale. L’illusione di ogni programma generale di riforma era evidente per la debolezza dei suoi due presupposti fondamentali: i° la possibilità del ritorno della società in un alveo da cui aveva straripato; 20 l’importanza decisiva e centrale del clero in questa società.
La Riforma del xvi dimostrò, nel campo religioso-ecclesiastico, come il Medio Evo era stato superato e che il vero elemento progressivo era costituito oramai dal laicato.
(3) L’esistenza di un vero partito di riforma morale ed economica nel clero a Praga, ci è attestata chiaramente nei documenti relativi ad Hus, nelle sue opere e nel suo epistolario. E il « clerus evangelicus » — naturalmente imbevuto di idee wicleffite — che sarà poi appoggiato dai nobili, dai borghesi e dal popolo nel programma di purificazione e di rinnovamento cristiano della Boemia, per fare di essa un nuovo e grande regno cristiano e slavo. (Vedi la protesta dei Magistrati di Praga contro le decisioni della Facoltà di Teologia. D 495 ss.).
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gromma di rinnovamento e in questo fermento di spiriti cadde come una scintilla eccitatrice di un grande incendio il programma organico della riforma wicleffita. Gli scritti riformatori di Wicliff furono accolti con entusiasmo dai laici e dal clero, e si diffusero rapidamente in Boemia: evidentemente rispondevano alle preoccupazioni del movimento di riforma in Boemia e ad analoghe condizioni politiche ed economiche. Solo così è possibile intendere il sorgere del wicleffismo boemo: il terreno doveva esser singolarmente disposto per ragioni storiche generali e locali; Quindi è storicamente incomprensibile l’affermazione del Loserth che fa tutto nascere ex abrupto dall'introduzione degli scritti wicleffiti (i), come mi sembra vano il tentativo di indugiarsi a ricercare in Boemia nei decenni prima del ’400 sporadiche figure di precursori di Hus. Hus non è una personalità isolata; il movimento di riforma in Boemia non si è svolto muovendo da individualità ad individualità, lungo una linea spezzata. È lento orientamento ed avanzamento di masse: l’inizio del suo moto efficace però non va cercato molto al di sotto del 1400. In Boemia avevano già alzato la loro voce contro gli abusi del clero e dei mendicanti, contro il culto esagerato delle immagini e delle reliquie, l’agostiniano Corrado di Waldhausen, predicatore nella monumentale chiesa di Teyn in Praga (2) e dopo di lui Giovanni Milicz di Kremsier (t 1374) che non risparmiava nelle sue prèdiche neppure l’imperàtore, Carlo IV; il suo discepolo Mattia di Janow (3) (f 1394) ed infine l’arcivescovo di Praga Giovanni di Jenzenstein (4). Ma costoro si muovono tutti nella sfera della opposizione cattolica, che contava, per riferirci solo agli inizi dello stesso periodo storico, una Caterina da Siena e una Brigida di Svezia, che non avevano certo risparmiato
(1) Gli elementi della critica antiecclesiastica in Boemia anteriori all’introduzione e diffusione del wicleffismo furono naturalmente assorbiti ed elevati dalla critica wicleffita, che rispondeva cosi bene alle condizioni politiche della Boemia e che offriva un’espressione già nettamente formulata; quindi nessuna meraviglia di non trovarne traccia; ma da ciò a concludere che non dovevano esservene, o almeno che non fossero di tal forza da creare uno stato diffuso d’animo, mi sembra cosa un po’ arrischiata.
(2) Una rivista straniera, in un articolo recente commemorativo del V centenario della morte di Hus, ha pubblicato una vignetta rappresentante la chiesa di Teyn, accom-K’nata dall’incredibile dilucidazione: «Chiesa di Teyn in Praga, dove G. Hus predicò»!.
chiesa di Teyn, nel cuore della città vecchia, in realtà ci richiama piuttosto alla mente le guerre ussite e non Hus.
(3) È certamente uno dei più importanti dei cosi detti « predecessori dell’ussitismo ». Parte delle sue opere fu attribuita falsamente ad Hus nell’edizione monumentale, ma insieme così difettosa, delle opere di questi edita a Norimberga (1558). Figlio di un cavaliere boemo, studiò a Praga e poi a Parigi, dove a sua volta insegnò. Finì la sua vita« Praga, canonico è confessore nella cattedrale. La sua grande opera sono le « Regulae Veteris et Novi Testamenti », edita recentemente in 3 volumi, dal Kybal, raccolta di vari scritti. Attribuisce i mali della Chiesa allo Scisma e al sistema fiscale della Curia, all’abuso delle pratiche esterne; critica il culto delle reliquie. Fu un grande fautore del culto eucaristico e della comunione quotidiana. Nel Sinodo di Praga del 1387 però egli vide il movimento per la comunione quotidiana combattuto e difeso il culto delle imrna-5ini. Vlastimil Kybal ha recentemente (1905) in un’opera importante: M. Matej z lanov. eho zivot, spisy a ucem (Maestro M. di lanow. Sua vita, scritti e dottrina), sostenuto con nuovi argomenti l'antica tesi del Neander, del Jordan, del Krummel e del Palacky, che lo considerano come uno dei preparatori del movimento ussita.
SÈ celebre il suo libretto: De bona mortis, pubblicato nel 1902 da G. Vielhaber in rift des Vereins für Geschichte der Deutschen in Böhmen (Praga).
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le loro critiche, espresse in un linguaggio che può sembrarci oggi oltremodo audace, al papa, alla corte pontificia e al clero in generale. S. Bernardo, s. Pier Damiani e perfino Gregorio Magno offrivano spesso lo spunto e il materiale alle critiche contro il clero. Tutto ciò poteva dare la convinzione, anche a quelli che messisi su questa strada si spingevano logicamente oltre la periferia dottrinale e disciplinare del cattoli-cismo, di continuare una tradizione di monito e di riforma acclimatata nella Chiesa cattolica. La decadenza politica e religiosa del papato aveva provocato di rimbalzo la crisi del principio d’autorità nella Chiesa cattolica e aveva fatto mettere in discussione la natura stessa del papato e il suo posto nella Chiesa. Una linea di demarcazione fra l’eresia e la protesta contenuta nei limiti tradizionali non era quindi ormai più possibile segnarla. Si finì col credere che solo un concilio generale, restaurando il governo centrale del cattolicismo, ristabilendo l'equilibrio spezzato fra la Curia e l’episcopato ed assumendo coraggiosamente nelle proprie mani la riforma della Chiesa « nel suo capo e nelle sue membra », avrebbe potuto per ciò stesso portare in luce un criterio da servir di’guida sicura in tanta incertezza degli spiriti e per separare il buon grano dalla zizzania morale e dottrinale. Quindi comprendiamo come potessero essere pienamente sinceri Hus e i suoi amici, quando protestavano sdegnosamente contro l’accusa di eresia (i) lanciata dai loro avversari; nè per essi poteva essere eretico Wiclif che meglio di tanti altri, una generazione prima, aveva espresso così scultoriamente la critica e l’orientamento che erano negli animi di tutti. È evidente che Hus ha accolto la concezione fondamentale di Wiclif sulla Chiesa come una concezione ortodossa, appoggiata com’era sulla dottrina di Paolo e di Agostino, e spiritualmente più elevata di quella curialesca. Sopratutto doveva apparirgli come la vera soluzione alle difficoltà che sorgevano fra l’ideale dell’unità e della santità della Chiesa e il tricipitismo papale e la corruzione morale della Curia e del clero. La salvezza egli la vedeva solo nello scendere più profondamente della realtà storica e del tessuto giuridico: nel mondo invisibile della grazia, governato direttamente da Dio, al sicuro dal capriccio individuale dell’autorità ecclesiastica, che con l’abuso della scomunica aveva creato un profondo disorientamento spirituale.
(Continuai Mario Rossi.
(1) Potremmo domandarci fin da questo punto, se la posizione fondamentale di Hus sia stata essenzialmente cattolica, di frónte a quella di Wiclif che è evidentemente contraria alla tradizione cattolica. Che essa si muova per intero sul terreno cattolico, malgrado il suo aspetto rivoluzionario, credo che non si possa più dubitare. Possiamo pensare o che Hus non abbia conosciuto tutta l’opera di Wiclif; o che egli ne abbia assimilato solo quella parte che rispondeva alle sue preoccupazioni e alla sua attività pratica; o che ne abbia ripudiato, attenuato o eliminato via via—ciò che del resto apparisce evidente 8er qualche punto dottrinale negli ultimi tempi della sua vita — quelle parti che a lui smuravano evidentemente eretiche (p. es. la dottrina eucaristica della permanenza) o praticamente pericolose. Il Loserth, affermata la completa dipendenza letteraria di Hus da Wiclif, non si cura di risolvere il grave problema della differenza profonda fra l’opera di Wiclif e di Hus. Tanto più che riconosce come i veri e fedeli discepoli boemi di Wiclif sieno solo i Taboriti! Del resto è evidente il tentativo della critica tedesca di esagerare la dipendenza della rivoluzione religiosa boema del ’400 dal wicleffismo, per riconnetterla ad un movimento e ad una mentalità caratteristica di tipo germanico-anglo-sassone, in opposizione a quelle di tipo slavo e latino.
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IL PROBLEMA MORALE
NELLE RELIGIONI PRIMITIVE
(Continuazione c fine. Vedi Bilychnis di agosto 1915, pag, 13J).
n.
21. Quelle forme di pensiero e di azione, dunque, tèndenti a raggiungere ciò che vien reputato di essere un bene, — forme varie e diverse, nelle diverse civiltà, anche quando appaiano esclusivamente rivolte a neutralizzare o sconfiggere il male, per via di potenza invisibile e misteriosa — avvengono universalmente, come la storia delle primitive religioni conferma, e come si può dedurre dalla conoscenza della natura umana. E persino quelle credenze superstiziose, le quali precedono, sopravvivono o ritornano in seno alle civiltà più progredite, e sempre là, dove trovino condizioni adatte per nascere e prosperare, promettono un bene ai credenti, analogo a quello che l’uomo superiore attènde dalla sapienza.
In questo senso parliamo di universali bisogni spirituali, che si manifestano, sin dagli albori della civiltà, appena che l’uomo sia pervenuto a riconoscere, nelle invisibili forze misteriose, un aiuto cui può rivolgersi, un ostacolo che può superare o distruggere, per via magica o per mezzo di altre potenze più forti e benigne. Un interesse spirituale lo spinge a conoscere, ed a conoscere per agire, e la sua conoscenza lo conduce a credere nella esistenza di potenze misteriose e invisibili, benigne o maligne, con cui può mettersi in* relazione; ma anche, dove solo queste ultime appaiano, è sempre la fede in una potenza superiore e benevola quella che l’uomo manifesta, se la invoca, sia pure per virtù magica o per incantesimi, contro le mali arti degli spiriti malefici. Oggi, come sempre, questa fede viene all'uomo giustificata dal sentirsi solo e impotente di fronte a forze superiori e inesauribili, e viene determinata dal desiderio di conoscere la causa delle cose, e di cercare la liberazione dei mali. L’uomo afforza questa fede nel presentimento di una esistenza migliore che gli manca, e l’associa all’ammirazione dell’ordine e del mistero che lo circondano, onde la fede diviene il farmaco del turbamento suo. Egli, atomo impercettibile, in mezzo a inaccessibile immensità, che supera ogni umana rappresentazione di grandezza; mente debole e limitata, di fronte a una infinità incoercibile, che sembra ora cieca ed ostile, ora minacciosa o indifferente, ora provvidente e benefica, cerca, in un mondo invisibile, la liberazione che altrimenti non trova, cerca la salvezza e la vita che sente mancargli e sfuggirgli, una vita eterna e migliore.
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22. Ma che cosa poi siano quei bisogni morali die l’uomo primitivo può affermare, noi abbiamo cercato di scoprire nelle sue concezioni della Deità; immorali concezioni, nell'insieme, specialmente presso quelle tribù guerriere, dove più oscura è la conoscenza etica, e dove gli istinti e le abitudini di pensiero e le condizioni di esistenza lo portano ad allontanarsene.
Nondimeno una certa conoscenza morale si afferma all’alba della civiltà, quando si vede che il primitivo odia il dolore, come è innegabile; quando Osserviamo che anche il primitivo cerca la conoscenza, perchè l’ama. E si deve quindi convenire che le religioni primitive non possono essere pura affermazione di paura, e molto meno di amore verso il male; non solo perchè non siamo autorizzati a concludere, per via induttiva, che il culto prestato a malvage Deità sia primigenio, ma anche e sopratutto perchè dov’è religione, essa vuol essere espressione di amore verso un bene che non si à e si desidera; anzi persino là, dov’essa si riduca a una mera funzione neutralizzatrice di malefiche potenze, se pur insisteremo a chiamarla religione, scopriremo questo sentimento. L’uomo che non sentisse amore per qualcosa che reputa un bene, che non sentisse odio per il male, rimarrebbe indifferente, e verrebbe così a mancare ogni motivo ai diversi religiosi atteggiamenti, che ci presentano le primitive religioni, di un modo verso spiriti benigni, di un altro verso spiriti malevoli.
Dai primi albori della civiltà, le religioni dunque assumono diversi aspetti per appagare ¿simili bisogni. E lo si può dedurre dal fatto che la funzione esercitata dalle religioni è la medesima, e che da unica fonte di pensiero e sentimento le religioni attingono la loro ragion d’èssere.
23. Ma vi è di più. Come ò detto avanti, se nella storia delle religioni risaliamo ai periodi primitivi come a stati che precedono le successive formazioni e affermazioni della coscienza religiosa, non ci è possibile, ragionevolmente, di applicare la teoria dell’evoluzione; perchè la immoralità delle primitive credenze religiose, non si può mai ridurre al nucleo originario da cui sarebbesi sviluppata la susseguente religiosa moralità. Nella stessa guisa che non c'è una evoluzione di ciò che è falso e che divenga vero, così non si può accettare un’evoluzione del contenuto immorale delle religioni primitive.
Non un nucleo puramente immorale, scevro da ogni sentimento ed elemento religioso dunque, ma una morale e religiosa preparazione, è ciò che troviamo in quelle primitive credenze. E questo esse fanno, come vedremo meglio in seguito, educando lo spirito tanto all’amore e alla difesa del bene, quanto all’odio del male; incitando ad allontanarsene o ad opporvisi, ed ove occorra, a purificarsene; e quindi spero di poter dimostrare, nei brevi limiti che mi sono concessi, che si à torto di credere che le religioni primitive siano sfornite di ogni valore morale, mentre anche in esse, come presso i bambini, nel periodo che precede la vita morale, la mente si prepara ad accogliere la conoscenza del bene e del male, e gli ulteriori progressi religiosi.
Si è preferito invece, da alcuni pensatori, di rigettare le primitive credenze religiose, come contenenti un insieme di dottrine e precetti immorali, ma si aveva torto, perchè il contenuto parzialmente immorale di esse non ne fa qualcosa da considerarsi
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come contraria alle religioni moralmente più elevate. Noi diremo che come la cecità non è una forza contraria alla vista, ma ne è semplicemente la mancanza, così l'essere moralmente ciechi, non implica alcuna affermazione che equivalga all’amore del male. Mentre solo allora le religioni primitive sarebbero contrarie alle più progredite, quando esse volessero esercitare una funzione a queste contraria, o quando tendessero a scopi contrari a quelli che si propongono le altre religioni, ricche di contenuto dottrinario e di precetti, attinti ai più nobili motivi etici. Ma non solo non devono considerarsi le religioni primitive come contrarie alle altre moralmente più elevate, in quanto quelle religioni non sono pure e semplici affermazioni di amore verso il male, ma anche perchè la stessa funzione si propongono tutte le religioni; la stessa ragion d’essere le porta in vita e ve le mantiene e perchè, infine, come vedremo in seguito, anche nelle religioni inferiori sono in attività forze che riescono di vantaggio persino alle superiori.
E su questo ò voluto richiamare maggiormente l'attenzione, perchè non è vero, come alcuni possono credere, che religione cominci dove à principio un certo alto valore del suo contenuto intellettuale e morale. Questo valore al contrario, nelle religioni appare mutevole, basso in alcune, elevato in altre; ma non cessano per questo di volere tutte esercitare le medesime funzioni e di voler appagare cioè simili bisogni spirituali, e di trovare, anche nella loro utilità, una delle principali cause della loro nascita e durata.
24. Per meglio vederlo, bisogna prendere in considerazione la vita psichica di quelle lunghe generazioni che precedettero la nascita delle religioni. E se la consideriamo attentamente, forse non diremo più che quell’epoca tenebrosa sia sfornita di ogni valore per la morale e per la religione, e che quella sia quindi una triste pagina della storia umana, da doversi porre in oblio. Come gli innumerevoli corpuscoli celesti, vaganti per lo spazio immenso, dovevano servire alla formazione di grandi sistemi solari e di terre abitabili; come alla vita umana doveva giovare il globo, sul quale dapprima erano soltanto immense distese di acque e fiamme di ardenti vulcani, così le più nobili apparizioni della vita intellettuale e morale, vengono preparate, per lunghissimi secoli, da meccanici movimenti, quasi ciechi e disarmonici, che sembrava dovessero eternamente dominare. Ma nella vita psichica sono invece gli istinti e le cieche tendenze, che preparano le affermazioni della conoscenza etica e le manifestazioni della conoscenza religiosa. E non diremo quindi che questi istinti e queste tendenze siano sforniti di valore, se vedremo che sono stati necessari alla vita psichica, e non lo diremo quando considereremo l’economia delle forze che ci permettono, nel guidare i nostri giudizi e i nostri sentimenti, nell’educare le nostre disposizioni morali (x). Dalle torbide passioni che premono la vita delle tribù guerriere, dai ciechi moti dell’uomo primitivo, disarmato contro la inclemenza della natura, in lotta contro innumerevoli avversità, si perviene a riconoscere che la forza brutale è la virtù del valore, che l’astuzia è la virtù del sapere. Ma, più tardi, Aristotele dirà che la vera virtù del valore possiede solo colui che va incontro al
(i) Cfr. Brentano, Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis.
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pericolo e alla morte xxXoQ svsza, per ciò che è moralmente bello. Nondimeno, come certamente meglio possono difendere le virtù quegli uomini che anno educate le disposizioni per poterlo fare, così bisogna dire che le epoche premorali servono a educare le disposizioni che conducono alla conoscenza etica, ad amarla e a difenderla.
E quindi, dicevo, che sarebbe inesatto vedere nelle epoche che precedono le concezioni morali e religiose, soltanto le conseguenze immediate esiziali, senza scorgere in esse la preparazione alle successive religioni e ai successivi risvegli dei motivi etici; senza vedere che anche nella notte si preparava la luce e Che quindi anche quei processi inferiori ànno il loro valore morale.
25. Lo so, non tutti condividono l’opinione che una certa conoscenza etica,. un retto amare qualcosa che è bene, un retto ^odiare qualcosa che è male, preceda la religione; ma io credo che non si abbia ragione di negarlo.
Uno stato di indifferenza verso la conoscenza renderebbe impossibile ogni ulteriore progresso. Quando poi sorgono, nel primitivo orizzonte, le credenze negli spiriti, quella indifferènza verso spiriti che vengono, in qualche modo, amati od odiati, che sono causa di dolore o di gioia, mi sembra una contraddizione. Anzi, gli spiriti malvagi che simbolizzano la causa del dolore e delle malattie, se vengono odiati come tali, fanno vedere, nei religiosi, un retto odiare; nella stessa guisa che gli spiriti buoni, simbolizzanti la forza neutralizzatrice o distruttrice del dolore, o la fonte donde proviene il sapere benefico, quando amati per questa loro qualità, mostrano nel primitivo credente un sentimento che deve essere caratterizzato per retto amore. Del resto ogni azione proveniente dagli Dei sarebbe inefficace per la vita, se non avesse per il credente un valore, e senza che fosse non una conseguenza di cause meccaniche scevra da significato morale, ma conseguenza di atto volitivo; dove la scelta à un proprio merito che esalta chi la fa, o un demerito, che lo umilia, che lo renda meritevole di venerazione o di disprezzo, di amore o di odio.
Erronea quindi ritengo l'opinione di Wundt quando sostiene che la morale nasce dalla religione e che questa, sorta dall’idea del soprasensibile, sia priva del tutto di elementi etici. E parimenti inaccettabile reputo l’opinione di Goblet d’Al-viella quando afferma che in principio la morale non à che fare con la concezione degli Dei, e che quindi l’etica e la religione sono indipendenti l’una dall’altra (i).
Pare invece più giusto ritenere che nè morale nasca da religione, nè questa da quella, e che, mentre la religione premette certi fini che la condotta si propone —- fini che non possono indefinitamente essere ascritti a una religione precedente — persino la stessa accettazione dell’idea del soprasensibile, può servire a dimostrare che una certa conoscenza etica precede le religiose credenze. Perchè l’accettazione di un soprasensibile, come divino, pone inesorabilmente i termini di quella etica interpretazione del mondo, da cui la religione attinge vita ed alimento. Si può anzi dire che l’amore per il divino precede ogni religióne, se Comte, per imporre all’uomo
(1) Cfr. Wundt, Völkerpsychologie. Mythus und Religion', Goblet d’Alviella, L'Idée de Dieu d’après ^anthropologie et l’histoire.
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l’amore dell’umanità fu costretto a divinizzarla, e se vediamo che alla conoscenza religiosa si deve aspirare dapprima per poter dedurre da essa la benefica sapienza che illumina e nobilita la vita, e che dalla esperienza religiosa si deve attingere amore, se essa dà potenza e valore alla vita stessa. Ma non si può invece comprendere, come l'idea del soprasensibile, o altre conoscenze confuse o indifferenziate che siano, o esperienze religiose, abbiano potuto dare origine alla religione, senza che il religioso facesse qualcosa di più che una semplice affermazione, senza che in lui, con l’attività giudicativa, fosse anche interessata quella affettiva. Dov’è un sistema di conoscenze, che vuol guidare le azioni umane, secondo certe norme, e un sistema di conoscenze che vuol condurre l’uomo a vincere il male ed a raggiungere il bene, proveniente da potenze superiori, invisibili e misteriose, siano quelle norme erronee quanto si voglia, pure non siamo per questo autorizzati a negarle, o a negare la bontà dello scopo che si propongono. Anzi è soltanto come disposto in un certo ordine, nella natura, che l’uomo può pretendere qualcosa dalla sua religione, e solo quando egli si consideri come una realtà accanto ad altre, e con relazioni che ànno anch’esse un certo valore, può egli accordare alla religione un certo senso.
26. Senonchè le particolari difficoltà che presenta lo studio dell’anima primitiva, specialmente nei riguardi delle religiose credenze e delle conoscenze morali, mentre conducevano in errore parecchi pensatori, intorno alla concezione degli antichi Dei, altri ne conduceva circa la interpretazione del valore morale delle relazioni tra gli Dei e gli uomini. I frequenti mostruosi sagrifici, il sangue umano che à bagnato sovente le are come campi di battaglia, dovevano essere inconfutabili segni non solo della malvagità e crudeltà degli Dei, ma anche della completa immoralità dei loro comandamenti.
Coloro però, che questo affermavano, non facevano caso che nessuno dei primitivi religiosi ammette la malvagità del suo Dio — come ò cercato di dimostrare — e che quindi, come ora meglio vedremo, nessuno di loro crede alla immoralità di quei comandamenti.
Qualcosa di simile ci dicono le religioni più progredite, dove i cilici, la macerazione, la flagellazione, i digiuni, le penitenze e, insomma, tutte le mortificazioni, vengono considerate come assai accette a Dio. E, per opposizione, si pervenne, da alcuni religiosi, ad affermare che se la vita di dolore è la più gradita, quella di piacere deve essere considerata come la più sgradita a Dio; se il dolore scusa agli occhi di Dio, il piacere deve accusare, se il dolore santifica, il piacere deve insozzare e condannare; e di conseguenza la via crucis diveniva la strada maestra che conduceva all'amore divino.
Ma i fachiri indiani, i dervisci orientali o i flagellanti, se soffrono religiosamente, credono di esser guardati e sorretti da Dio, e si sentono, allora più che mai, sotto il suo dominio, ed a lui più vicini. Il peccatore che sa di aver commesso peccato, e che crede di poter tornare alla primiera purità per via di molteplici sofferenze, le affronta lieto e volenteroso, non solo, ma ne va in cerca. E quindi, nessuno certamente fra questi religiosi, ammetterà mai che il suo Dio sia crudele o che ami di vederlo soffrire, o che imponga comandamenti men che giusti.
27. Con più ragione non ammetteranno i primitivi che i loro comandamenti
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religiosi siano immorali, o che i loro riti siano delittuosi, perchè sono appunto essi che ascrivono, meglio di altri, ai loro Dei, le loro stesse consuetudini, che secondo i loro stessi apprezzamenti, vengono considerate come morali.
La relazione che passa tra Dei e uomini non è da essi creduta fondamentalmente diversa da quella che passa tra un capotribù, o un capo di famiglia, coi suoi dipendenti; e quindi le medesime abitudini e usanze dovevano condurre a considerare le sofferenze umane, quando sopportate per gli Dei, come segno di inferiorità, di devozione, di obbedienza.
Se poi questo suo contegno sia giustificato, è una domanda che il religioso non si pone, e che esorbita dalla sua competenza, quando non sia addirittura in contraddizione con la sua vita religiosa. Qui non si chieggano prove. Ciò che importa è che tutti della tribù abbiano lo stesso atteggiamento verso la medesima fede, che tutti seguano fedelmente i medesimi riti; questa specie di unanimità, basta a giustificare, se occorre, i riti più mostruosi; essa, per la logica primitiva, à un grande valore di prova. Ma non occorre giustificare, quando l’autorità della loro provenienza ed i visibili effetti che se ne pretendono derivare garantiscono della veracità degli insegnamenti religiosi, della salutare efficacia di essi nella vita pratica e quindi, per quei credenti, della loro moralità.
28. In questo modo ci è dato d’intendere quei tristi segni di primitiva barbarie, che continuano a sopravvivere e che s'infiltrano, con sorprendente tenacia e vitalità, o che rinascono, nel suolo nelle posteriori generazioni.
Noi si rimane colpiti leggendo nei libri sacri, che Indra viene celebrato qual Dio devastatore, e Agni come colui che nasce per massacrare uomini e distruggere città. Innumerevoli esempi abbiamo degli Dei di Roma, di Grecia, dell’Egitto, che mostrano la loro brutalità e perversità. È lo stesso Jahwe, celebrato come Dio della giustizia, è sempre pronto alla più inesorabile vendetta, contro coloro che osano disobbedirlo' Noi si rimane colpiti nel vedere Abramo che conduce al sacrificio il suo unico figlio, senza per nulla dubitare che un Dio giusto non può volere un delitto. Eppure ciò che Jahwe domandava era appunto la cieca obbedienza. Non per altra ragione cadde Saulle sotto la sua condanna, quando non dèi tutto eseguiva l’ordinanza di far strage di Amalec, senza aver compassione di donne, di fanciulli e di bambini di latte (i). Mentre al contrario, lodato viene il re David, per la sua obbedienza quando, vincitore degli Ammoniti, come sta scritto nei libri sacri, fece segare i vinti, calpestare da pesanti carri dalle ruote di ferro, sbranare con coltelli e gettare nelle fornaci ardenti (2).
29. Possiamo sicuramente affermare che in tutte le religioni, a guardare con la maggiore attenzione, non è visibile un contrasto tra l’apprezzamento morale del religioso e quello che egli attribuisce agli Dei. Le azioni, talvolta immorali, commesse jn nome- delle religioni, anche da popoli civili, non sarebbero comprensibili
(1) Cfr. Il libro dei Re, II, XV, 3.
(2) Cfr. lì libro dei Re, II, XII, 31. Altri episodi caratteristici delle concezioni morali che si attribuiscono a Jahwe, dagli antichi Ebrei, sono stati rammentati da Montefiore, Lectures on the Origin and growth of religion as illustrated by the religion of the ancient Hebrews. Si confronti pure: DE Lanessan, La morale des religions.
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se non cercassero giustificazione nella obbedienza all’autorità, o nella promessa rimunerazione con beni sanciti dalla religione.
Se coloro che ànno voluto sostenere l’ipotesi di Dei malvagi e crudeli, riconosciuti come tali dai loro adoratori, avessero voluto esaminare meglio i fatti e la veridicità delle testimonianze essi, probabilmente, avrebbero cambiato opinione, e non avrebbero potuto concludere che la morale, non à nulla da fare con le religioni primitive. Dal canto nostro non possiamo fare a meno di esaminare il valore delle testimonianze, tutte le volte che sono in contraddizione con la natura della religione. E allora possiamo vedere che il riconoscimento della immoralità degli Dei, nei popoli primitivi, è un fatto rarissimo, se pur credibile, e che secondariamente, se anche fosse vero, non avrebbe il valore dimostrativo che gli si vuole ascrivere.
Bisogna convenire che i popoli i quali credono i loro Dei non molto più savi, nè assai più potenti dell’uomo, ascrivono naturalmente ad essi difetti simili a quelli che ànno gli uomini. Ma la questione è di sapere se questi sono riconosciuti da loro come difetti, o meglio, come segni di inferiorità.
Hume cita alcuni esempi di questo genere e altri ne rammenta Lubbock (1) onde sembra che alcuni popoli vi siano i quali ritengono cattivi i loro Dei, e quindi le loro concezioni morali non coincidono con quelle che attribuiscono alle Deità.
Senonchè bisogna avvertire che questa testimonianza è assai confutata da altri etnologi, mentre altre ragioni non mancano che portano a ritenerla fallace. Senza dire delle testimonianze contrarie, certo in numero assai maggiore, gli stessi etnologi affermano che le religioni primitive vengono spesso e volentieri circondate di mistero, di modo che appaiono ricche di inconseguenze, come leggiamo nelle descrizioni dei viaggi Hawswort. I pòpoli inferiori credono di sminuire la potenza della loro religione e dei loro Dei se ne rivelano i misteri agli stranieri. La irrazionalità di molte di quelle primitive credenze religiose può trovare quindi in tal modo la sua spiegazione. Nondimeno un'altra potrebbe essere là causa che à condotto in errore quegli etnologi che sono del parere di Hume. Si deve convenire che vi sono popoli inferiori la cui mentalità non permette loro di considerare gli spiriti come più savi e più potenti dell’uomo. Gli indigeni delle isole Nicobar, che avevano l’abitudine di elevare spauracchi per allontanare gli Ewee dai propri villaggi, i Neo-zelandesi che minacciano di uccidere e di mangiare lo spirito maligno, non esprimono ancora una opinione dei loro Dei che sia in contrasto^con la loro morale, e la di cui incoerenza dovrebbe essere spiegata. Ma Kotzbue ci parla di una tribù che insulta le proprie Deità se non appagano i suoi desideri, ed aggiunge che nutre persino contro di esse il più grande disprezzo; se Kutka, dicono, non fosse stupidissimo, non avrebbe fatto rocce inaccessibili, nè fiumi troppo rapidi. Qui avremmo la incocrenza che cerchiamo di esaminare. Ma questi giudizi di singoli testimoni, e forse di singoli religiosi, non devono illudere intorno al contenuto e allo spirito delle primitive religiose credenze. E quando si trattasse delle medesime primitive religioni
(1) Hume, The natural history of religion; Lubbock, I tempi preistorici e le origini dell’ incivilimento.
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e non di affermazioni sporadiche, isolate, che non ànno nulla in comune con le religioni primitive, anche allora bisognerebbe vedere se abbiamo qui invece da fare con superstizioni che non esauriscono la coscienza religiosa del primitivo, e non giustificano le esigenze dei riti che quei popoli professano. La irrazionalità e la incocrenza di queste superstizioni, non sarebbe qui superficiale ma “distruggerebbe il carattere e le funzioni delle religioni, rendendone impossibili le promesse. Infatti, dove la forza suprema rimane in arbitrio dell’uomo che può scacciare 0 mangiare gli Dei maligni, dove l’uomo può ritenere stupidissimi gli Dei, ivi non è religione.
Ma un altro caso è possibile, e questo avviene, come avremo occasione di vedere meglio in seguito, quando un vero progresso morale permette di riconoscere la immoralità, e un vero progresso intellettuale la irrazionalità delle idee religiose di un periodo precedente, rimaste relativamente arretrate.
30. Non si escluda dunque, nelle primitive credenze religiose, che gli uomini abbiano imaginato i loro Dei amanti delle umane sofferenze, ma si aggiunga che questo non implica credenza, in quei religiosi, che i loro Dei fossero immorali e crudeli rispetto agli uomini, o che domandassero atti riconosciuti anche da loro immorali, per entrare nelle loro grazie.
Anzi, mentre alcuni pensatori Raffermano che i sagrifici religiosi rivelano un sentimento di paura, si dica, al contrario, che essi esprimono sopratutto un sentimento di fiducia. Perchè non è solo qualcosa da cui sifvuol fuggire, ma qualcosa che si vuol raggiungere, quella che agita il desiderio religioso.
La paura, più che come fattore di credenza religiosa, è invece da considerarsi come un suo derivato, o come qualcosa che appare accanto alla credenza in èsseri superiori, e che si rivela come fattore di morale, nell’odio contro il male. L’odio che spinge il primitivo contro il dolore, alla ricerca della causa, per neutralizzarla o distruggerla, quando egli è pervenuto a conoscerla, si accompagna alla paura che, da quella causa, simili tristi effetti possano provenire; e quindi la paura contribuisce a determinarlo alla ricerca delle forze benefiche e alla loro applicazione, e a condurlo, quando le à trovate efficaci, ad acquistare’fiducia in queste benefiche potenze.
In altra guisa si manifesta l’influenza Che esercita il timore su la condotta del primitivo, quando egli si rappresenta il castigo che incoglie il colpevole, la pena che lo minaccia a ogni infrazione, in questa, o sia pure in una ulteriore esistenza.
E così, quando l’uomo primitivo offrirà vittime o vivande allo spirito maligno, o a quello protettore, quando egli sgozzerà innumeri vittime umane sui cruènti altari del Messico, sarà sempre animato non da paura, ma da attesa fiduciosa, e non crederà mai che il suo Dio sia malvagio, come non crederà di comméttere delitto ; egli infatti non fa che opera conforme alle usanze religiose: trascurarle sarebbe una colpa grave, opporvisi sarebbe una empietà imperdonabile; e quindi lungi dal sospettare che i suoi atti siano delittuosi, egli crederà invece di essere pio e di agire conformemente alle sacre e giuste lèggi della sua religione.
31. Ma Che logica crudele, che selvaggia moralità deve mai essere questa dei primitivi, se essi sono così soggetti alle loro superstizioni e così aberrati da non arrestarsi innanzi alla crudeltà dei loro atti, e da non sentire per essi alcun rimorso, alcun pentimento? Che ferrea legge deve essere per loro la religione, e che barbaro
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fondamento à avuto essa mai, se à potuto esser causa di atti brutali e abbominevoli? Si rammenti che abbiamo parlato di immorali concezioni di Dei e di immorali co-mandamenti, ma abbiamo detto altresì che non si può asserire, con ragione, che le primitive religioni, le primitive concezioni di Deità e i loro comandamenti, siano radicalmente o del tutto immorali. Abbiamo veduto che un’efficace concezione del divino è incomprensibile senza idee etiche, e che quindi con quella concezione sono associati un certo amore del bene e un certo odio del male. Dei comandamenti religiosi e dei riti primitivi abbiamo detto che non possono essere riconosciuti immorali dal religioso primitivo, e che quando un tal riconoscimento sorge, allora il religioso primitivo è estinto e viene in lui, in luogo della sua religione, un nuovo sentimento morale che è indipendente da quella. Abbiamo anche accennato alle cause che impedivano al primitivo la conoscenza della immoralità dei riti e dei comandamenti, e insomma, delle loro religioni; ed abbiamo escluso in lui questa conoscenza. Non credo quindi che abbia ragione Réville, quando dice che per acquistare tutto il suo valore religioso il principio di umanità abbia bisogno di uno stato di spirito dove la simpatia umana sia stata dapprima sacrificata al maggior interesse della unione con l’essere divino. Noi non abbiamo bisogno di ricorrere a questa ipotesi, quando sappiamo con quanta facilità si sacrifica la vita umana presso i primitivi e per futilissime ragioni. Ma ripetiamo ancora che se i religiosi primitivi avessero potuto rendersi conto della inumanità degli atti a loro suggeriti dalle religiose credenze, non avrebbero più avuto alcun interesse ad unirsi con un Dio eminentemente crudele. Cessato sarebbe ugualmente il carattere precipuo di ogni religione, l’attesa fiduciosa, che con la immoralità del Dio avrebbe mancato di ogni fondamento.
Per chiarirlo meglio, guardiamo bene la storia delle religioni e vediamo come l’uomo infligge facilmente e senza alcun scrupolo, i più grandi dolori, quando lo creda necessario per raggiungere un fine che reputa morale. Così il Boschimane che crede di dover ricevere lodi dal suo Dio, perchè à assassinato, avendo con ciò dato prova di abilità (i), non giudica della moralità del suo atto che secondo il giudizio da lui ascritto al supremo giudice e alla suprema legge che è la sua religione. E parimenti le vergini e le spose che sacrificavano il loro pudore per rito religioso, non facevano alcun sacrificio di umana simpatia, 'ma ritenevano, come il Boschimane, che il loro atto fosse caro agli Dei. Per sopprimere ogni ribellione del sentimento morale, che a noi sembrerebbe indomabile, bastava a loro la convinzione ferma e precisa che l’azione fosse giusta. Si rammenti quanti mali anno trovato la loro giustificazione in testi sacri, che pur sono stati capaci di ispirare e destare i pili alti sentimenti morali, e si troverà la spiegazione delle immoralità commesse per motivi religiosi. Non è molto che la inquisizione offriva in Europa orrendi spettacoli di sangue. Diecine di migliaia di vittime finivano fra atroci, prolungati tormenti, senza che alcuno, fra migliaia di spettatori, manifestasse il più lieve segno di compassione (2).
Gravi errori sono qui mescolati alle concezioni religiose, errori che turbano la
(1) Cfr. Livingstone, Missionary travels and researches.
(2) Lecky, History of the rise and influence of the spirit of rationalism in Europe.
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conoscenza morale e che si sovrappongono ad essa come un ordine superiore si sovrappone a uno inferiore. Errori che ànno per la vita morale dei popoli civili le stesse tristi conseguenze che per i primitivi ànno i ciechi istinti, le brutali passioni, le superstizioni, i pregiudizi. Chi volesse conoscere di quanti mali possono esser causa i pregiudizi e le superstizioni, non solo nel campo della storia delle religioni, ma anche in altri campi, potrebbe trovarne larga messe nella storia della cura dèlie malattie mentali, quando si credevano effetto di magia e stregoneria. I malati venivano allora incatenati e imprigionati in orridi sotterranei, dove l’aria avvelenata ne affrettava la morte. Talvolta si esponevano, dentro gabbie di ferro» al pubblico che si divertiva a irritarli e a tormentarli. Nel 1770 il Bethleem Hospital di Londra ricavava una parte notevole delle sue rendite dalla pubblica esposizione dei pazzi. I metodi di cura erano corrispondenti ai pregiudizi che allora dominavano. I malati si facevano improvvisamente cascare in profonde pozze piene di acqua, o vi si incatenavano al fondo, e si riempivano poi d’acqua fino a raggiungere il collo delle povere vittime. I casi piu gravi finivano sotto il bastone e la frusta (1).
Come si vede gli errori scientifici non sono diversi, nelle loro conseguenze esizial, da quelli religiosi. Lo stesso si potrebbe dire dei politici, perchè qualsiasi errore può produrre simili conseguenze, e gravi misfatti vengono spesso giustificati da un comandamento o da un fine che si reputa erroneamente giusto.
Nel giudicare l’anima del religioso primitivo, dobbiamo quindi considerare che essa è sollevata da un religioso ardore.'e che non è certo malvagità che la spinge a ciò che noi reputiamo giustamente immorale e crudele. Questo ardore è certo facile a deviare se non è accompagnato dalla retta visione etica. I riti crudeli, guardati, per così dire, dall’esterno, offrono lo spettacolo orrendo di un campo di battaglia. Ma nè il sacerdote messicano è un assassino, nè chi combatte per la difesa della patria, quando un fervido amore e la persuasione di agire giustamente li guida al sagrificio supremo.
Pertanto dobbiamo concludere che non solo i primitivi non si rendono conto della immoralità dei comandamenti della loro religione e dei loro riti, ma che questa credenza in loro deve escludersi se essi sono veramente religiosi; giacché per esserlo non devono reputare immorale ciò che fanno in conformità con le religiose prescrizioni. Nè sanno essi di fare coi loro atti alcun sagrificio della loro coscienza morale, ma soltanto dell’oggetto immolato, e senza che a quest’oggetto annettano alcun peso etico, fuor di quello che è inseparabile da ogni atto religioso.
32. Come l’anima primitiva, cui abbiamo avanti accennato, così la religione e la morale primitiva mostrano incocrenze e contraddizioni. Noi abbiamo tentato di dare, fugacemente, uno sguardo ai motivi che tali incoerenze e contraddizioni producono. La mancanza di conoscenze morali ben definite e saldamente fondate, gli errori, le superstizioni, i pregiudizi ànno variamente contribuito, con i ciechi istinti malamente frenati, e con le passioni violente, sotto la dura pressione delle necessità della vita, a formare quello che si è detto carattere immorale delle religioni primitive.
(1) Cfr. Letwchorth, The insane in the foreign countries.
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Ma le incoerenze e le contraddizioni che in esse troviamo, invece di essere un indice di completa mancanza di conoscenza morale, dimostrano, al contrario, che i primitivi non sono in assòluta cecità morale; perchè la stessa incoerenza morale delle loro religioni non sarebbe tale se accanto a elementi immorali, non si trovassero elementi morali: dove tutta la vita è immorale, non è possibile incoerenza morale, o condotta che sia moralmente contraddittoria.
Noi, invece, siamo al caso di potere distinguere, isolare, additare nelle religioni primitive, contraddizioni e incoerenze morali. Basti qui un solo esempio. I Messicani, prima che Fernando Cortez ponesse piede nella loro terra, credevano in un Dio supremo che nelle loro preghiere chiamavano « onnipresente, datore della vita, dispensatore d’ogni bene, perfetta perfezione e purità, sotto le cui ali si trova riposo e riparo inviolabile ». Eppure sotto un tal Dio paterno, si commettevano così orribili riti da persuadere gli Spagnuoli che quel popolo fosse in comunicazione diretta e intima con Satana.
I compagni di Cortez ebbero la pazienza e il coraggio, scrive Chévalier (i) di contare i Granii delle vittime, disposti in trofei nella cinta di alcuni tempii, e una volta ne trovarono 136.000. Quando arrivarono gli Spagnuoli al Messico, venivano annualmente sacrificate non meno di 20.000 vittime. Ebbene, accanto al maggior tempio messicano, elevato al Dio della guerra, accanto ai resti di tante vittime immolate, si elevavano — sembra incredibile — ricoveri per i vecchi e i malati, e questi ricoveri erano tenuti dagli stessi sacerdoti : quei malati e quei vecchi erano curati dalle Stesse mani che vernavano tanto sangue umano su le- are sagrificali!
Si rimane colpiti di tali incoerenze, e se ne è cercata variamente la ragione. Come Réville, à fatto recentemente un valente conoscitore della mitologia messicana, Seler (2). Egli vi trova una grande fecondità e varietà di forme di cui bisogna tener conto, e che reputa di essere il resultato naturale del confluire di molte sorgenti, assai diverse, e di una civiltà antica di molte migliaia di anni. Seler può aver ragione ad affermarlo: ma non spiega con questo il fatto che un popolo, nelle cui regole morali sta scritto, come nel messicano: « onora e saluta i vecchi - consola con parole e con opere poveri ed afflitti - ama e onora tutti e vivi in pace - non dar dispiacere a chicchessia - non offendere alcuno - opera sempre il bene - non mentire - non rubare - fuggi l’adulterio e la libidine », che un tal popolo, dico, commetta poi indifferentemente tanto strazio di vite umane. La ragione di questa incocrenza morale deve dunque essere più profonda, più intima e più legata allo spirito religioso, ed io l’ò già accennata.
33. Tanto dovrebbe qui essere sufficiente per farci vedere che le affermazioni contrarie non bastano a persuadere dell’assoluta mancanza di ogni elemento morale nelle religioni primitive, e che, invece, parecchie ragioni vi sono e parecchi fatti che mostrano il contrario.
Ma ora dobbiamo considerare brevemente che valore abbiano potuto avere le
(1) De Za civilisation Mexicaine avant Fernand Cortez.
(2) Die holtzgeschnitzte Pauke, ecc.
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religioni nei loro insegnamenti, per le popolazioni primitive e per la preparazione ai successivi sviluppi etici e religiosi. Se quelle religioni contengono qualche elemento etico non trascurabile, se esse nel loro insieme e nelle loro conseguenze sono, in qualche modo utili, e fino a qual punto, dobbiamo tenerne conto
O dianzi accennato alle generali considerazioni che devono condurre ad affermare che l'etica precede e accompagna le religioni, ma dobbiamo ora precisare in particolare come ciò si manifesti, non più nella concezione degli Dei e nei riti, ma nei pratici insegnamenti e nelle funzioni delle religioni primitive.
Quando noi abbiamo detto che le religioni anno voluto sempre sorreggere e consolare l’uomo nell'aspro e faticoso cammino, e guidarlo verso ciò che si reputa il massimo bene, abbiamo già riconosciuto che la religione à una funzione morale di massima importanza. Già Leibniz diceva che se pur fosse erronea, la religione sarebbe sempre utile per coloro che, anche in tal caso, vi possono trovare conforto (i).
Ma noi dobbiamo qui prèndere in considerazione quelle forme rudimentali di religione. Che chiamiamo primitive, per vedere ih che modo siano state utili al progresso morale, quantunque ricche di precetti immorali e sanzionanti regole che sono giustamente da riprovarsi. E qui à perfettamente ragione Réville quando avverte che persino le religioni più inumane possono contenere germi di progresso superiori a quelli di molte altre religioni più aperte al principio di umanità. La religione azteca, infatti, non attinge nei suoi riti crudeli la forza per progredire, e mentre essa è più sanguinaria di quella degli Incas, rimane tuttavia più suscettibile a riforme e a progressi, e meglio serve a soddisfare le particolàri esigenze intellettuali e morali della società che la coltiva. In altri termini, una religione-più suscettibile di un'altra a perfezionamenti morali, anche quando dapprima appaia più Sanguinaria, à certo un valore morale maggiore di quest’altra. Ma senza che noi qui discendiamo a un minuzioso esame del valore morale delle religiose credenze, e della maniera che può guidarci a distinguerlo, senza farci deviare dalle apparenze (cosa che ci condurrebbe per una via più lunga di quella che ci siamo proposta), basterà accennare ad alcuni punti essenziali, perchè ognuno possa vedere l’intimo legame che unisce le religioni primitive con la morale nelle loro pratiche conseguenze.
34. Ora, insomma, dobbiamo vedere se la religione primitiva insegna regole morali che noi possiamo approvare e se à avuto qualche benefica influenza, e quale, su la condotta morale.
Gli antropologi ci parlano di credenze universali, comuni e caratteristiche alle primitive civiltà, tali come il tabu e il totem (2). Si è lungamente discusso sul loro significato e su la loro natura. Basti qui a noi di avvertire che in queste usanze, e, se si vuole, in queste superstizioni, si trova, per chi ben guardi, la primitiva manifestazione dei due lati opposti della medesima attività affettiva, l’amore e l’odio, sanzionati da religiose credenze. Era naturale che l’uomo primitivo si volgesse istinti(1) Leibniz, Lettres sur l'enthousiasme.
(2) Cfr. Tylor, Primitive Culture', Bastian, Der Mensch in der Geschichte', Schurtz, Urgeschichte der Kultur; Frazer, The golden Bough; Lang, Myth, ritual and religion. Jevons, An introduction to the history of religion; Waitz, Anthropologie der Naturvölker.
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vamente verso la parte donde viene il pericolo, ed accorresse per conoscerne la causa e per impedirla. E il tabu insegna appunto al primitivo ciò che egli non deve fare, ciò che dev’essere odiato; mentre il totem, al contrario, sanziona i vincoli di sangue che legano la famiglia, la tribù e la Divinità insieme con un legame di amore e di reciproci diritti e doveri.
-Alcuni studiosi delle primitive religioni, anno voluto sostenere che le prime prescrizioni religiose, o regole di condotta, fossero state soltanto prescrizioni igieniche. Così, tabu sarebbe stato ciò che fu creduto pernicioso per la salute- Ma questa opinione non può difenderei più quando sappiamo che molte cose sono tabu presso i primitivi, le quali in nessun modo potevano esser pensate come nocive. Mal-vert non à quindi ragione a difendere quella tesi, ma erra ugualmente Reinach a dire che la loro origine sia irrazionale. Le infrazioni al tabu vengono punite per la maggior parte con le malattie, se non con la morte; e quindi si è stati indotti a credere che il tabu avesse dapprima un carattere esclusivamente igienico. Ma non ci riesce ugualmente di capire prescrizione alcuna che non fosse fondata su qualche ragione. Questa potrebbe essere erronea, se si vuole, ma ci deve essere. Così la credenza nel totem dava luogo a obblighi e prescrizioni che sembrano irrazionali, ma che pur trovano la loro ragione in erronei ragionamenti, e nella sconoscenza delle leggi naturali e della natura delle cose.
Non solo quindi le obbligazioni che sorgevano dal tabu e dal totem ànno un valore ben divereo dalle regole igieniche, ma anche non si dura molta fatica a distinguere che vogliono essere qualcosa di più che irrazionali prescrizioni. Esse insegnano ad amare alcune cose e a odiarne altre sotto la sanzione di una legge superiore che non castiga le infrazioni meccanicamente, come agisce ogni infrazione alle regole d’igiene, ma come se fosse effetto di una superiore volontà, che opera inesorabilmente e che castiga, se offesa, con le malattie e con la morte; le quali, a loro volta, non erano reputate naturali conseguenze di infrazioni alle regole igieniche, ma venivano considerate come effetto della medesima potenza superiore (i).
35. Ma già nello stadio della magia e degli incantesimi, si trovano norme per la condotta, provenienti da miti e da tradizioni religiose e che ànno una notevole importanza sui costumi e su l’ordine sociale. Esseri che anno insegnato a produrre il fuoco, che ànno scoperto gli alberi fruttiferi, che ànno insegnato a coltivare i campi, come grandi benefattori dell’umanità, ànno anche insegnato le prime regole per la condotta.
Pereino le religioni teriantropiche mostrano che gli Dei sono amministratori del diritto, e che verso di essi si è responsabili dei delitti; onde là prima sorgente dell’ordine appare la Divinità stessa, o uomini superiori che potevano, in qualche modo, metterei in relazione con le potenze ascose dalla natura (2).
(1) Cfr. Malwert, Science el religion; Reinach, Orpheus, Histoire générale des ré-ligions.
(2) Cfr. TiELE, Einleitung in die Religionswissenschaft; Jevons, An introduction to the history of religion; Lehmann, Die Anfänge der Religion und die Religion der primitiven Völker; Nilsson, Primitive Religion.
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Gli Dei che dapprima, dunque, in nna civiltà inferiore, rappresentano un legame che unisce, in vincoli sacri, la vita sociale e di famiglia, con la vita religiosa, un legame che unisce talvolta gli uomini della tribù quali membri della medesima famiglia, divengono anche i fondatori e gli amministratori del diritto, mentre le religioni legano insieme uomini diversi con quel sentimento di solidarietà non per anco estinto nei popoli più civili, e che viene ribadito dal fatto di possedere la medesima fede (i).
L’origine della famiglia è una questione non ancora definita. Sembra però che essa sia una istituzione posteriore alla tribù o comunità. Conseguentemente gli Dei della famiglia vengono dopo quelli della comunità; ma il culto degli avi, sparso in ogni parte del globo, assimilato al rito usato per gli Dei della comunità, assume le medesime forme che per i pubblici Dei; onde, se altri documenti dovessero mancare, basterebbe il culto degli spiriti tutelari della tribù e della famiglia, per dimostrare che tali legami sono, anche fra i primitivi, dalla religione sanzionati, e che la religione è la fonte del primitivo ordine morale, del diritto pubblico e privato (2).
36. La Divinità viene così considerata come la prima fonte della legge, e la religione viene confusa con la legge stessa che deve regolare non solo i rapporti tra l’uomo e Dio, ma anche quelli fra uomo e uomini e fra uomo e cose. Giustamente scrive Breysig (3) che il concetto di Dio. nei primitivi, è inseparabile dal concetto di prescrizioni, o almeno di una certa regola per la condotta, che abbia approvazione divina; e quindi la religione è per loro la stessa vita sociale, con una tradizione del passato e una speranza dell’avvenire, sostenuta dalla fede in un divino principio, che è un potere estranaturale.
E infatti senza una norma che regoli la vita sociale nessuna società è possibile, e questa norma non veniva solo dettata dàlia esperienza e dai fini pratici, ma anche dalla conoscenza etica, che, man mano, si rivelava allo spirito umano, con la visione confusa dapprima, dipoi sempre più luminosa, di un ordine superiore. Non esser tenuto ad alcuna legge sociale non è quindi possibile all’uomo. L'uomo più rude à una vita solo perchè ad altri la deve e se vive egli è che per mezzo di altri vive, e in altri. La sua vita dunque è informata di regole e di doveri, di costumi e di osservanze numerose. Egli è figlio, sposo, padre, membro di tribù e solo quando è congiunto con la famiglia e con la tribù, egli può mantenere la sua debole esistenza dalla nascita, e può difenderla in seguito e farla continuare. Ebbene, non altro che la religione lega i membri della famiglia fra di loro e quelli della tribù con speciali doveri. La religione dei primitivi, anzi, come dice Ellis, (4) à influenza sopra ogni singolo atto e viene da loro strettamente associata con ogni uso e costume. Anzi, come scrive Lehmann, una morale propriamente autonoma non esiste presso i primitivi, come non esistono usi, costumi, obbligazioni che siano indipendenti dalla religione.
(1) Cfr. Ellis, cit. da Lehmann, Die Anfänge der Religion und die Religion der Primitiven Völker.
(2) Cfr. Lehmann. Die Anfänge der Religion und die Religion der Primitiven Völker.
(3) Die entstehung des Gottesgedankens und der Heilbringer.
(4) Citato da Lehmann, Die Anfänge der Religion
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Così da diverse ragioni provengono le leggi, da ragioni che poi in parte vengono dimenticate, mentre altre restano presenti, quando sono fondate su principi pratici, o su sentimento morale; e poiché tutto il mondo visibile e l’uomo stesso, secondo le primitive credenze, provengono da qualche antichissimo uomo, o superuomo, così anche le regole della condotta sono leggi da quell’essere potente fissate e promulgate. Queste leggi, sanzionate da una lontana e misteriosa autorità, domandano che l’interesse privato e pubblico sia a quell’autorità subordinato e che l’impulso individuale sia a quella sottomesso, anzi, da quella dominato e guidato. Il giudizio di Dio, diviene così il fondamento del diritto pubblico e privato (1).
37. Non solo, dunque, secondo la natura della religione, ma anche secondo le migliori testimonianze degli etnologi, noi vediamo che, se queste vengono giustamente interpretate, dovrebbe scomparire ogni dubbio intorno alla inseparabilità della religione dalle regole per la condotta.
Ma un altro dubbio dovrebbe scomparire, se pur esiste ancora nell’animo di qualcuno che ci à seguito fin qui, e questo riguarda l’efficacia avuta dalla religione primitiva su la conoscenza morale. In questo senso dobbiamo distinguere gli insegnamenti morali dettati dalle religioni primitive, dalle abitudini morali che quelle ànno imposto o ànno preparato.
Quando noi ci facciamo a conoscere quali sono i comandamenti imposti dalle religioni primitive, vediamo che non tutti sono contrari a quelli che reputiamo giustamente morali, e che anzi diversi comandamenti delle popolazioni primitive Sono da noi approvabili. Il furto, la menzogna, il falso giuramento, l’assassinio, l’adulterio, l'empietà, sono in generale condannati; e non lo sono soltanto, alcuni di questi delitti, quando un immediato comune interesse lo vieti, o quando un sentimento estetico di abilità e potenza non si sovrapponga al sentimento morale, costituendo quelle eccezioni che vengono erroneamente, da alcuni etnologi, elevate poi a costumi universali. Da qui altri contrasti e altre incoerenze nelle concezioni morali dei primitivi. Ma perchè manchi del tutto quel sentimento, bisogna discendere fino alla sparizione delle caratteristiche che sono essenziali all'uomo. La maggior parte degli etnologi, che non ànno un concetto chiaro della natura e limiti della morale, non potevano discernere e additare gli elementi morali, nelle rudimentali credenze religiose, mentre altri, per la stessa ragione, voleva estenderli persino agli uccelli e ad altri animali (2).
Man mano però che le primitive popolazioni sono state meglio conosciute si è attenuato quel pregiudizio di ritenerle addirittura selvagge e crudeli, e non di altro desiderose se non di sangue. Ora gli antropologi e gli etnologi, tendono ad ammettere, quando non lo dichiarino espressamente, che in origine le società umane, le tribù, erano piuttosto pacifiche, e che persino le loro guerre non erano ciecamente mosse, ma avevano un carattere giuridico (3). Tale è ancora ordinariamente la forma dei
(1) Cfr. Lehmann, Die Anfänge der Religion.
(2) Cfr. Letourneau, L'Évolution juridique dans les diverses races humaines.
(3) Cfr. Letourneau, Le passé et l'avenir de la guerre (Révue mensuelle de l’Ecole d’Anthropologie de Paris).
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conflitti armati in Australia presso gli indigeni, dove l'abitudine del combattimento giuridico è così inveterata che si è visto persino dare delle armi agli europei disarmati, prima di attaccarli (i). Ma il carattere della obbligazione morale presso i popoli primitivi attende ancora uno studio più accurato.
38. Se da questo campo passiamo a considerare l'influenza che esercitano le primitive religioni su la condotta umana, dobbiamo convenire che essa deve essere assai grande per l’educazione morale. Tralasciamo qui l’idea di causalità, che tocca più direttamente le origini della religione, ma che è anche essenziale alla concezione del mondo morale. Essa è postulata e sancita dalle religioni e nessuno lo mette in dubbio. Ma anche l’idea primitiva di una legge che governa tanto il mondo fisico, quanto quello morale, è di estrema importanza per l’educazione morale dei primitivi. Noi infatti la incontriamo in moltissime religioni primitive, ora personificata, ora. nelle più sviluppate popolazioni, come una astrazione. Più tardi si vede meglio in Rita, presso gli Indiani; in Asia, presso i popoli iranici; nel Tao, presso i Cinesi; in Maat, presso gli Egiziani; in Dike o Nemesi, presso i Greci. Dall’idea di legge e da quella di infrazione nasceva l’ordine di ricompense e castighi estesi talvolta a un’altra vita avvenire, e che servono assai bene per la educazione morale.
Il fatto poi che persino negli infimi gradi delle religiose credenze l’uomo primitivo à fede che impiegando un giusto metodo gli spiriti, le potenze superiori o gli Dei lo favoriscono, educava non solo al timore della infrazione, alla soggezione, alla dipendenza, alla speranza e alla fiducia, ma anche a qualcosa di più, e che è stato trascurato da quei pochi che si sono occupati della questione morale nelle religioni primitive. Quelle credenze divenivano un mezzo per ottenere una vita superiore, qualcosa che usciva dalle consuete cause del visibile mondo. La religione postula credenza in un mondo invisibile, dove sono altre potenze, altre volontà, in un mondo che domina quello visibile e che è ad esso superiore in potenza; ma essa fa di più, essa insegna che soltanto la morale può dare il mezzo di rendere questa potenza favorevole; perchè per avvicinarsi a questa, per ottenerne benefici, non è soltanto efficace la preghiera, o le offerte sóle, o i sagrifici, o la devozióne, ma occorre essere obbediente e osservante e quindi occorre seguire quelle norme che si credono ordinate dalla Divinità, subordinando la propria volontà alla legge suprema. Pertanto, non vi è religione che non stabilisca qualche particolare condotta come gradita, e qualche altra come sgradita alle potenze superiori (2).
Ma ciò che più importa qui di avvertire è che questa legge religiosa, come dico, diviene un mezzo per guidare a una vita superiore. E anche da coloro che come il teologo Kaftan sostengono che l’oggetto cercato da tutte le religioni è la vita, e non la vita perfetta, che la religione è basata su semplice desiderio del bene, e non su etica obbligazione di realizzare un ideale; anche dagli etnologi che come Letourneau sostengono che alcune religioni primitive siano immorali (questo scrittore cita solo la religione della Polinesia, nella quale, secondò lui, il terrore sacro sarebbe dai preti ispirato al popolo), anche da costoro, dico, non si può negare che la religione
(1) Cfr. Sturt, Histoire générale des voyages.
(2) Cfr. Smith, Lectures on the religion of the Semites.
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afforza e sancisce l’educazione morale del primitivo, e permette a lui di aprire gli occhi sul valore della vita. Poiché nè la vita, nè il bene anno un senso per chi sia del tutto sfornito di qualità etiche; nè valore etico, per il primitivo, è scompagnato da religione (i).
39. Guardiamola ora un po’ più da vicino l’influenza che esercitano le primitive religioni su la condotta umana, e vediamo allora che se esse consacrano diritti che si arroga la forza, non mancano di consacrare doveri che la conoscenza etica à rivelato.
Ho già accennato alla sanzione del matrimonio e all’accettazione dei figli, che avviene per mezzo di un atto sacro, e alle rappresentazioni primitive del diritto pubblico e privato derivate dalle religiose credenze, onde Fustel de Coulanges (2) poteva dire giustamente che la religione è il principio organizzatore della società primitiva. Ma non si deve trascurare di avvertire quanta importanza abbiano per la coltura morale, molte usanze e riti religiosi, e le feste ordinate dalle religioni in certi giorni che si ripetono a uguali intervalli. Come la famiglia festeggia nascite, maggiorità, nozze e morte, così la comunità festeggia la data della sua fondazione, della vittoria contro i nemici, degli atti eroici, della semina e della raccolta. Dàlie serie ripetentisi di questi festeggiamenti, nasceva il calendario; ma nascevano anche nuovi insegnamenti per la vita morale; Nei giorni festivi sono canti e danze, e gli uomini, onorando gli Dei, arricchiscono il sentimento della propria vita, la nobilitano nella memoria degli eroi, la pregiano nella virtù del lavoro, acquistano il senso di godimenti ideali, educano la gioia alla bellezza e a tutto ciò che eleva dalle volgarità ed avvicina ad uña vita superiore.
Nella religione primitiva troviamo precisate le rappresentazioni di purificazione e redenzione, e anche quelle del torto e della colpa (3). Esse perciò, quantunque povere di conoscenze morali e mal sicure nel discernimento di tutto ciò che è bene o male, giovano ad abituare alla disciplina. Ogni culto richiede una certa rinuncia, un certo piegare della volontà di fronte a una potènza superiore che deve essere obbedita, non perchè sia umanamente più potente, ma perchè è una potenza superiore: ogni religione richiede una certa umiltà, un sentirsi inferiori da parte dei religiosi, di fronte a potenze e volontà superiori e ineluttabili. L’uomo è quindi tenuto alla scrupolosa osservanza delle regole, alla precisione di atti nei riti, alla restrizione dei desideri nella vita, al dominio delle passioni, alle attese pazienti e devote.
Guardiamola la religione primitiva nella sua funzione e vediamo come essa serve ad educare e disciplinare agli affetti di famiglia e di solidarietà sociale; come essa abitua ad assumere obbligazioni e a mantenerle con fedeltà; come educa alla veridicità, stabilendo un ordine di pene e ricompense presenti e future. Noi vediamo infine che le religioni primitive infondono il rispetto verso la tradizione, obbedienza ai superiori, amore alla famiglia e alla tribù, e ne impongono la difesa, come è imposta la difesa della religione medesima e di beni ideali, anche facendo olocausto della vita.
(1) Cfr. Wallace, Lectures and essais on natural theologv and ethics.
(2) Fustel de Coulanges, La Cité antique.
(3) Cfr. Pfleiderer, Religion ¿philosophie.
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IL PROBLEMA MORALE NELLE RELIGIONI PRIMITIVE
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Si comprènde così, perchè moralisti e filosofi anno tanto insistito su la buona efficacia che le religioni anno sempre avuto sui costumi e su l'ordine sociale, quando anche ci è dato di riscontrarla, questa efficacia, presso i popoli primitivi, che sembrano invece, a prima vista, di offrire il terreno meno suscettibile per farla attecchire, ma non si comprende più come si possa ragionevolmente negare un contenuto e un valore morale alle religioni primitive. Infatti tutte le volte che l’autorità della religione primitiva temporaneamente si attenua, come è stato da molte parti affermato — nel caso di fusione di diverse tribù, e quindi di religiose credenze — il popolo allora perde ogni freno e si abbandona ai suo capriccio (i).
40. Ma si deve comprendere altresì che quelle regole per la condotta, imposte dalle religioni, quando queste non siano guidate da motivi etici, devono indubbiamente esercitare una potenza che, in certi casi, può divenire esiziale per gli uomini. Coloro però che non ànno avvertito là sostituzione che qui si fa dei motivi etici con altri di natura inferiore, non potevano essere al caso di giudicare del valore delle religiose credenze, in generale, e di quello morale delle religioni primitive, in particolare.
Ma è innegabile, che l’autorità della religione, mentre da un canto riesce benefica nel regolare la condotta dei singoli individui, nello stabilire i diritti e i doveri sociali, e nell'insegnare ed educare ad amare il bene e odiare il male— appunto perchè la maggior parte degli uomini, per incompetenza, è stata sempre costretta ad affidarsi ad una autorità — ecco, d'altro canto, riescile ora nociva, se domanda la cieca obbedienza dov’essa è da riconoscersi fallace, e per la maggiore resistenza che essa oppone contro qualsiasi innovazione.
41. Pertanto, la storia della conoscenza del bene e del male, paragonata a quella delle religioni, ci mostra che mentre l’oscura conoscenza dèi male è tanto più variabile dov’essa è più scura, dove, più sono dominanti i motivi egoistici e gli interessi inferiori, ài contrario, la concezione dei miti e delle Deità e delle regole che queste impongono alla condotta umana, rimane relativamente assai più stabile. E questo accade perchè, mentre la condotta si agita nell'anarchica mobilità tumultuante delle passioni umane, invece le concezioni religiose sono meno soggette al trambusto di quelle passioni, ed offrono una maggiore garanzia di successo. L’autorità della religione viene così accettata dal primitivo, sopratutto perchè à bisogno di averla, e poi perchè la sua religione, animata da una virtù misteriosa, che dovrebbe provenire, secondo le medesime credenze, da un mondo invisibile, basata sopra la fede in un Ordine di cose da cui tutto deriva e dal quale ogni cosa prende, se non la esistenza, il valore, viene tramandata da una a un’altra generazione, con scrupolosa fedeltà Còme il pift prezioso retaggio.
Si comprende bene che triste dev’essere la conseguenza di questa resistenza vitale, quando non sia accompagnata dalla retta conoscenza del bene è dèi male, almeno in alcuni punti essenziali. Ma al contrario di come si potrebbe pensare, nemmeno essa ap(i) Cfr. Lubbock, / tempi preistorici e le origini dell’incivilimento; Dupuy, Les fondements de la morale.
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BILYCHNIS
pare sfornita di valore, quando, come abbiamo veduto, serve a preparare il terreno dove nasceranno e fioriranno le grandi religioni; e quando intorno alle religioni vediamo alternarsi a vicenda le sconfitte e le vittorie dei motivi etici, in lotta con gli altri molteplici motivi che determinano le azioni umane. E allora succede che mentre nei periodi di progresso morale alcune religioni mostrano chiaramente ai fedeli la falsità delle loro dottrine, e la vanità delle regole per la condotta che essi non possono più ragionevolmente approvare; al contrario, nei periodi di regresso morale, quando brutali passioni scacciano o annebbiano i motivi etici, allora può accadere che alcune dottrine e insegnamenti di antiche religioni appaiano a quei fedeli come perfezionamenti morali non ancora praticamente raggiunti.
42. Rimane infine a spiegare, il più brevemente che posso, il processo storico di quelle etiche formazioni che, come abbiamo veduto, precedono, s’insinuano e s’intrecciano nel corpo delle religioni.
Bisogna risalire col pensiero, nel tempo, fino a quei periodi preistorici che precedono la conoscenza morale, e ridiscendere rapidamente sul corso della storia, fino alle religioni moderne; e allora possiamo scoprire che gli elementi etici s’incorporano nelle religiose credenze in tre modi ben diversi, e cioè: o con la interpretazione, o con la sostituzione, o con la giustificazione delle antiche concezioni religiose.
Spiegherò meglio il mio pensiero.
La concezione degli Dei e di ciò Che essi domandavano all’uomo non poteva assumere un carattere immorale prima che questo carattere fosse stato presente all’uomo come giustamente odievole. Quando abbiamo il riconoscimento del valore morale degli Dei e dei loro comandamenti, allora è innegabile che la conoscenza etica doveva servire di base, per stabilire appunto la loro bontà o cattiveria, e che quindi, le sue norme fondamentali precedevano ogni etica religiosa.
Dipoi, col progressivo destarsi della conoscenza etica, si arriva persino, talvolta, a interpretare eticamente quelle gesta di Dei che mancavano ancora di un senso morale; e ne troviamo esempio nelle religioni, quando lasciano intravedere lo sforzo per rielaborare le antiche concezioni teogoniche in termini etici, e quando le mitiche lotte tra forze cieche e brutali, tra luce e tenebra, vita e morte, primavera e inverno, fecondità e sterilità, acquistano, man mano; un carattere etico nella lotta tra gli Dei contro i draghi e i mostri (i). Persino nella religione degli antichi ebrei vediamo un esempio di ciò che dico, quando la potenza di Jahve, dapprima confusa coi fenomeni della natura acquista lentamente un valore morale, nelle successive teofanie (2). Un metodo di interpretazione etica di quelle gesta divine, che prima mancavano, si fa qui indubbiamente vedere.
Ma la rielaborazione delle antiche concezioni religiose avviene lentamente e faticosamente, nella storia, le Deità si purificano man mano che gli uomini pervengono alla scoperta di nuovi problemi morali in seno alla vita pratica. E dove questo
(1) Cfr. TiELE, Einleitung indie Religionswissenschaft; Sayce, Lectures on the origin and growth of religion as illustrated by the religion of the ancient Babylonians.
(2) Cfr. Montefiore, Lectures of the origin and growth of religion as illustrated by the religion of the ancient Hebrews.
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non avviene, allora si procede alla formazione della nuova etica religiosa, con la sostituzione degli antichi Dei, per prenderne altri che rifanno la loro supremazia coi concetti di giustizia e di provvidenza. Gli antichi Dei, simili agli Dei stranieri, riconosciuti immorali e cattivi vengono così spesso, sostituiti da altri; e, considerati come demoni malvagi, cacciati dall’Olimpo, sono costretti a rifugiarsi nelle regioni infernali (1). Tal altra, sono invece le medesime dottrine religiose che rendono possibile alle religioni quelle riforme etiche di cui abbisognano, come sarebbe la dottrina della reincarnazione divina, che serve assai bene a sostituire le antiche con le nuove conoscenze morali, ed a sgombrare quindi fra di queste ogni disannonia (2).
Ma quando nè quella radicale rifórma, nè questo compromesso sono possibili, allora si applica il metodo di giustificazione, che appare ora in seno alle stesse religiose scritture, e ora al di fuori di esse, nei loro cementatori ed apologisti. Caratteristico è l'esempio del Dio Bel, il quale dopo di avere annegato, in un diluvio, il genere umano, si fa convincere dal Dio Ea del torto che à avuto ad essere così spietato (3). Mentre là dove la concezione degli antichi Dei rimane intatta, in mezzo alle nuove conoscenze morali che più non coincidono con quella, ànno luogo le teo-dicee, che intendono eliminare il conflitto sorto sul campo della interpretazione degli attributi divini.
43. Così, quando su le scene della storia vengono Confucio e il Budda, i rabbini d’Israele e i filosofi greci, Zoroastro e Gesù, allora una più chiara visione del bene e del male commove l'anima religiosa. L’orizzonte si elarga indefinitamente, le concezioni della divinità si purificano e si elevano, fino a perdersi di vista, al di là di ogni comprensione umana. Tuttavia lo spirito divino, cercato dapprima con selvaggia fede, nei deserti, nelle selve, o nella capanna palustre, di poi adorato nei magnifici tempii, nelle mistiche armonie di forme, di colori e di suoni, o nel segreto raccoglimento del cuore, è stato sempre quell’ideale di perfezione che le diverse civiltà ànno diversamente concepito.
Procede il desiderio di perfezione trasmutabile nella storia, si offusca e sparisce talvolta, ma vive sempre, come fuoco inestinguibile, come la più nobile aspirazione del cuòre umano, vive e prepara un migliore avvenire.
Mario Puglisi.
(1) Plutarco ed Agostino, dànno esempio di ciò che dico.
(2) Summer-Maine, Histoire du droit, riferendosi ai culti, chiamava il bramanesimo la religione del compromesso, perchè per via della metempsicosi divina concilia le antiche forme del culto con le nuove. Cfr. anche Tarde, La logique sociale.
(3) Cfr. Tiele, Einleitung in die Religionswissenschajl', Sayce, Leclures on thè origin and growth of religión as illustrated by thè religión of thè ancient Babylonians.
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SARÀ CRISTIANA LA CINA?*
I.
Il Cristianesimo e la Cina.
Non è qui il caso di narrare i particolari della storia delle missioni in Cina, ma piuttosto di rispondere ad un quesito che -si presenta di frequente tra noi: quel popolo è si o no refrattario al Cristianesimo? Di solito si risponde sì. è refrattario. Vediamo dunque se questa opinione corrente è giustificata.
PREVENZIONI CONTRO LA CHIESA ROMANA.
Non intendo polemizzare colle missioni cattoliche, ma noto i motivi di rancore che i Cinesi avevano contro di esse.
Ne avevano contro il modo di reclutamento delle così dette « cristianità », villaggi cristiani che godevano d’una speciale protezione, e diventavano spesso rifugio inviolabile di volgari malfattori. Inoltre, quando succedevano vie di fatto in questi villaggi, i Consoli esteri si occupavano della faccenda e da ciò derivava un raddoppiamento dell'irritazione cinese.
Altra causa di rancore: i missionari accusavano gl’infedeli di abbandonare la loro 1>role e fondavano orfanotrofi per raccoglier-a. Certo essi erano mossi dalla carità. Ma l’opera loro prestava il fianco ad un mondo di calunnie più o meno fantastiche circa i loro metodi di reclutar proseliti; e questi sentimenti furono generali per buona parte del secolo xix.
XENOFOBIA E SUPERSTIZIONI.
Le missioni protestanti si sviluppano solo nella seconda metà del secolo xix.
(•) Raccogliamo le notine, riassumendo, da due conferente tenute l'una dal prof. R. Allier nel 1913 a Parigi, e l'altra da W. Schlatter nel 19:4 a Neuchatel
(G. Adami]
Ma da questo periodo si sviluppa altresì una xenofobia feroce. I forestieri non hanno i riguardi voluti per molte superstizioni popolari, particolarmente per tutte le credenze relative al Fong-Sciui, codice che regola il cerimoniale di gran parte della vita cinese. Èssi, inoltre, sfruttando miniere, tracciando linee di strade ferrate, sconvolgono tradizioni millenarie, e attirano sul paese le più spaventevoli collere del mondo invisibile.
BRUTALITÀ DEI FORESTIERI.
LA QUESTIONE DELL’OPPIO.
Intanto i porti uno dopo l’altro si sono aperti. Gli europei adoperano ad ogni pretesto il bastone e lo scudiscio e i loro marinai ubriachi maltrattano i « Figli del Cielo ».
Poi viene l’affare dell’oppio. Quel veleno era proibito dalle antiche leggi. I portoghesi e la Compagnia delle Indie lo introdussero, prima di contrabbando, poi apertamente. La Gina emanò nuove proibizioni; ma la vendita ricominciò sotto là Erotezione delle corazzate inglesi. Ne seguì i guerra infame detta « deli’oppio », terminata coi trattati del 18.62 e del 1868 i quali imposero colla violenza al governo cinese la merce omicida.
LA TRATTA DEI GIALLI.
LO SMEMBRAMENTO DELL’IMPERO.
Dal 1850 al 1875 centinaia e miliaia di uomini, strappati colla forza o coll’inganno, furono « esportati », al Perù, a Cuba e altrove: più di un terzo morirono in viaggio. La tratta avveniva anche negli Stati Uniti sotto l’aspetto di emigrazione.
Intanto le Potenze cristiane — quelle Potenze che avevano in Cina dei missionari della loro religione — s’impadronirono ciascuno di un lembo più o meno grande del territorio.
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SARÀ CRISTIANA LA CINA?
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Tutte queste ragioni spiegano l’antipatia pel Cristianesimo, spiegano cioè l’odio per gl’individui che rappresentano quel Cristianesimo; ma non sono però argomenti da opporre al Cristianesimo considerato in sè stesso. Cambiando dunque le circostanze, sentimenti nuovi diventano possibili.
LE CONSEGUENZE
D’UN « DECRETO DI MESSIDOR ».
I! 15 marzo 1899, per istigazione della Francia, il Governo imperiale promulgò una Secie di «decreto di Messidoro il quale .va ai ministri della religione cattolica un grado nella gerarchia cinese assimilandoli a particolari categorie di mandarini. Ciò equivaleva a determinare il potere effettivo dei missionari, nei loro rapporti coi funzionari civili. Ognuno può immaginare l’effetto, disastroso pel Cristianesimo, che quel decreto produsse sulla popolazione. Le missioni protestanti decisero all’unanimità di non richiedere dei vantaggi analoghi e di continuare in piena libertà l’opera loro esclusivamente spirituale. Ciò fece una favorevolissima impressione sull’opinione pubblica cinese.
JLA RIVOLUZIONE DEI BOXERS.
LA RIVINCITA DEL PERDONO.
Ad un tratto però scoppiava la rivoluzione dei Boxers. Le cause sono molteplici. Essa fu senza dubbio affrettata dal decreto del 15 marzo 1899. La persecuzione valse a provare l’esistenza di un Cristianesimo cinese. Se si fosse trattato di soli « cristiani di riso » — cioè di gente fattasi cristiana per un pezzo di pane — essi di certo non si sarebbero lasciati massacrare. Il loro martirio fece una grande impressione sugli stessi persecutori.
Ristabilito l’ordine, si presentava ai missionari un dilemma: accettare delle indennità dava l’impressione di voler trarre un lucro dalla persecuzione; rifiutarla non si poteva, perchè i Governi esteri volevano — per mantenere il loro prestigio — difendere gl’interessi dèi loro connazionali. In principio, dunque, le missioni non reclamarono indennità. Quando furono costrette ad accettarle, esse le consacrarono interamente a opere d’interesse pubblico, restituendole sotto quella forma al popolo cinese. Questo atteggiamento produsse l’effetto che era da aspettarsi. II. perdono si
rivelava come frutto autentico del Cristianesimo, e sconvolgeva la coscienza delle popolazioni.
UNA RIVOLUZIONE NELLA MENTALITÀ CINESE.
Nei medesimi anni in cui si svolgeva la guerra dei Boxers, progrediva del continuo un sentimento nuovo: quello che occorreva un cambiamento dell’impero. La rivelazione del Giappone come Potenza analoga alle Potenze occidentali ebbe un effetto immenso. Anche la Cina volle impadronirsi della civiltà europea. Ora per chi conosce la mentalità cinese — misoneista al massimo grado — il fatto ch’essa ammetteva la necessità di qualche cosa di nuovo implicava la sua trasformazione completa. E implicava anche la rimozione del principale ostacolo opposto sino allora al Cristianesimo: cosa nuova e fermento d’innumerevoli novità. Implicava cioè delle conseguenze non solo d’ordine civile e politico, ma altresì conseguenze d’ordine religioso.
Si è detto è vero che il cinese non è religioso. Ciò che non è religioso è il confu* cianismo: ma il confucianismo non esprime tutta l’anima cinese. Confucio ha sviluppato solo una morale. Ciò non basta al cinese il quale può essere nello stesso tempo con-fucionista e buddista o tavista. o anche tutti e tre insieme. Affacciandosi la mente sua alla mentalità occidentale, era ovvio che lo spirito suo religioso dovesse prendere in esame il Cristianesimo.
I BISOGNI DELLA NUOVA CINA.
E tutto ciò s’è complicato del problema politico. La Cina nuova ha bisogno di uomini nuovi, di cittadini che si consacrino a quella patria che vuol essere. Sorgono le società secrete, ispirate ai principi della Rivoluzione francese. • Patriota >• e « Repubblicano » sono sinonimi. La più importante è la Società degli otto voti la quale non è solo un comitato politico, ma una vera confraternita ascetica. Essa afferma che gli uomini i quali vogliono trasformare lo Stato devono avere la piena padronanza di se stessi. Questo sentimento è particolarmente atto a destare la coscienza dei deficit della vita morale, il sentimento del peccato. Come mai la predicazione dell’Evangelo, in simili circostanze, non attirerebbe l’attenzione della parte più eletta dei cittadini?
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BILYCHNIS
IL CRISTIANESIMO E I CAPI DELLA NUOVA CINA.
liceo perchè, attualmente, ci sono tanti cristiani tra i • conduttori ■ della nuova Cina. Ciò è poco noto ira noi; e la cosa è veramente rincrescevole. Si è accennato nella grande stampa al fatto che il celebre Sun-Yat-Sen era un cristiano evangelico; ma non si è spiegato al pubblico che i suoi principi cristiani appunto sono quelli che sostengono la sua attività rivoluzionaria.
Comincia ad apparire alla luce del giorno una realtà di cui non si parla mai in Europa. Il Cristianesimo — il quale, ancora venti anni or sono, appariva cosi spesso ai Cinesi come una importazione forestiera contro la quale era bene di aguzzare tutte le energie della nazione — quel medesimo Cristianesimo si presenta ora laggiù come forse il mezzo più sicuro di creare la nuova Cina.
Per rispondere alla domanda: la Cina è dessa sì o no chiusa al Cristianesimo, io ho esposto dei fatti: giudicate voi come essi rispondono alla questione.
A complemento del sin qui detto, ecco alcune cifre statistiche (anno 1910), che si riferiscono al Cristianesimo evangelico in Cina.
A) Missioni. - Società 90. Missionari bianchi 920. Medici missionari 365. Missionari indigeni 913. Propagandisti indigeni 12.108.
B) Chiese. - Comunità organizzate 2.027. Membri battezzati 214.642. Membri comunicanti 177.774. Allievi nelle Scuole domenicali 87.283. Contribuzioni di quelle chiese L. 1.066.295. (Le statistiche del 1914, danno per la Cina, 500.000 cristiani, oltre i 200.000 della Corea).
C) Istruzione - Università 7, studenti 919-Scuole di teologia e scuole normali 129, allievi 2.544. Scuole secondarie 438, allievi 20.866. Scuole primarie 2.538, alunni 55.097. Giardini d’infanzia 13, alunni 367.
R. Allier.
II.
La Cina contemporanea e l’Evangelo.
GLI EFFETTI DELLA PRIMA RIVOLUZIONE.
Il decreto emanato nella primavera del 1913 dal governo della Repubblica cinese e mandato ai Governatori, ai prefetti e alle chiese cristiane del paese era concepito in questi termini: « Domandiamo le vostre
« preghiere per l’Assemblea nazionale che « sta per aprirsi, per l’elezione del nuovo « Governo, pei- la scelta d’un Presidnte e pér « la costituzione repubblicana,, ecc. Siete «1 invitati a far conoscere a tutte le cornuti nità cristiane della vostra provincia che « il 27 aprile è stato scelto come giorno • nazionale di preghiera. Ciascuno vi parte-« cipi ».
La situazione in Cina, al principio del 1913. permetteva di nutrire, dal punto di vista missionario, le più rosee speranze. Citiamo, tra molti, alcuni fatti.
I signori Mott ed Eddy in una campagna di conferenze avevano potuto parlare, nelle varie città, a un complesso di 78.000 studenti, l’uno per dieci dei quali aveva manifestato la risoluzione di studiare l’Evan-gelo.
Nella provincia di Canton due governatori successivi erano stati favorevolissimi al Cristianesimo.
Il direttore generale dell’insegnamento — un cristiano — informava tutta la sua attività di principi nuovi, favorendo con ogni mezzo le scuole cristiane.
Il capo della polizia, senza dichiararsi cristiano aveva intrapreso una grande opera di beneficenza fra i ciechi e di risanamento morale tra le schiave bianche, affidando questo compito vastissimo alle missioni.
Il Cristianesimo aveva il vento in poppa.
LA SECONDA RIVOLUZIONE
Nell’estate 1913 succede la seconda rivoluzione, e la si tuazione cambia radicalmente. Lo scopo del movimento era di castigare Yuan-chi-Kai per non aver egli rispettato la Costituzione. Ma il dittatore domò facilmente il movimento a lui contrario; e subito apparvero i sintomi di una energica reazione.
A Canton, per esempio, i funzionari cristiani scomparvero, e con loro scomparvero i repubblicani progressisti. L’opinione pubblica subì un brusco voltafaccia. La chiesa cristiana s’era troppo compromessa colla prima repubblica, ed ora, ne doveva subire le conseguenze. E, dopo tutto, ciò fu un bene. La protezione del Governo costituiva un pericolò per le comunità cristiane: quelle folle di nuovi cristiani attratti unicamente dal favore governativo ostacolavano invece di favorire lo sviluppo morale di comunità il cui scopo unico era di manifestare e di spandere una potenza di vita nuova.
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SARÀ CRISTIANA LA CINA?
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IL CONFUCIANISMO ALLA RISCOSSA.
Seguendo il cammino del movimento reazionario, constatiamo numerose e ardenti lotte politiche, imperniate tutte sulla questione del ristabilimento come religione di Stato del Confucianismo.
La prima rivoluzione aveva proclamato la più assoluta neutralità dello Stato in materia religiosa e la più completa libertà di culto e di coscienza.
Dopo la seconda rivoluzione, verso la fine del 1913, si manifestò un movimento violento in favore di Confucio. Il 4 settembre la « Società di Confucio • organizzò a Pechino in onore del Savio una grande festa nella quale si formulò il voto che, nel rimaneggiamento della Costituzione, fosse introdotto un articolo il quale sancisse che il Confucianismo era la religione dello Stato, pur concedendo al popolo cinese la libertà religiosa.
Gli elementi cristiani si organizzarono per la resistenza. A Pechino sette persone si costituirono in « comitato d'iniziativa » e il pastore evangelico Tscheng-Tsching-Yi scrisse una protesta che fu sparsa largamente in tutto il paese.
Anche in certi ambienti non cristiani si riconobbe il pericolo rappresentato dalla tendenza nazionalista, confucianista e si organizzò la lotta. La quale, secondo le notizie più recenti, non è terminata ancora. Nuovi fatti dimostrano invece che il movimento confucionista ha già ottenuto alcune parziali vittorie.
FATTI CHE DANNO DA PENSARE.
Così è stato deciso d’introdurre nel progetto di Costituzione un articolo secondo il quale tutte le scuole tornerebbero sotto il regime della morale di Confucio. Il Presidente della Repubblica ha rimesso 10.000 lire alla « Società di Confucio a. Il vice-presidente ha fatto distribuire dovunque una
circolare invitando la gioventù delle scuole a partecipare alle feste organizzate in onore del Savio.
Si è fatto in parlamento un’ovazione al duca \*ì<ung-Lin-Yi, un discendente di Confucio. Fatto più grave di tutti: il presidente della Repubblica ha fatto sapere che si sarebbe ripresa l’antica usanza del sacrificio offerto nel giorno del capo d’anno cinese nel tempio del Cielo. È vero che poi la cerimonia fu, con abili pretesti, rimandata; ma l’idea non è stata ancora completamente abbandonata.
Tutti questi fatti dimostrano quanto la situazione sia critica. La libertà religiosa — garantita per un momento — è ora gravemente compromessa. Eppure non possiamo credere che la reazione pagana possa affermarsi in modo duraturo: le influenze cri stiane possono essere ostacolate, non annientate. Anzi la reazione costituisce appunto uno stimolo potente agli sforzi dei cristiani. La reazione stessa è la prova che l’antico confucianismo, col suo culto degli avi, ha vissuto ed è costretto, per darsi una apparenza di vita, ed appoggiarsi sulle stampelle del potere civile. È questa, in ultima analisi, una confessione d’impotenza!
TRIONFERÀ IL CRISTIANESIMO.
Il dilemma si riduce a questo: la Cina trasformandosi in Stato moderno ha bisogno di uomini liberi, risoluti, ha bisogno di energie attive guidate dall’amore. Non sarà il verdetto degli uomini di governo che risolverà la questione; saranno invece le due Sotenze spirituali in presenza che dovranno ¡mostrare quale di esse produce maggiore volontà di bene e più costante intensità d’amore. E, se così è posta la questione, non c’è da temere per l’avvenire dell’opera missionaria in Cina. In diciannove secoli il Cristianesimo ha fatto le sue prove.
W. SCHLATTER.
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PERI*G/OVRA
DELL'ANIMA
INVOCANDO IL PROFETA
gli studenti della Scuola Teologica Battista di Melbourn. capitale della Federazione australiana, il Battista Rev. T. E. Ruth, ha rivolto, come « discorso annuale », un ispirato appello, che esprime la risposta profonda dell’anima battista di fronte alla domanda senza precedenti della situazione morale del mondo, e il grido del precursore che « annunzia e prepara le vie del Signore,? perchè ad ogni uomo si riveli la salvezza di Dio ». Ne daremo qui un copioso saggio, riassumendone alcune parti.
« ... In ogni categoria del pensiero e dell’azione, vi è oggi perplessità, confusione, contradizione. Noi non sappiamo nè dove siamo, nè quello che vogliamo: la nostra
tavola dei valori è in aspettativa: l’abbiamo chiusa in un libro. Noi non siamo dominati dalla legge di Cristo della gerarchia dei valori* non poniamo le cose prime al primo posto, e le soppiantiamo con cose secondarie: facciamo dello strumento la mèta, e e confondiamo i mezzi col fine. E il mondo è in ¡scompiglio; e in scompiglio è la Chiesa;
e le parole stesse di fratellanza e comunione sono divenute barriere di divisione; e i Ministri delle Chiese che sentono più vivamente la tragedia della loro impotenza ecclesiastica confessano di essere degli « storditi ».
Ed è in questo momento che voi entrate nel ministero ecclesiastico. Io mi domando se voi aumenterete la confusione, l’imbroglio generale delle Chiese e l’impostura, o se sarete abbastanza audaci, abbastanza profetici, abbastanza apostolici, per mettere al primo posto le cose prime e per lasciare che Cristo abbia la supremazia.
Noi non possiamo chiudere gli occhi al fatto, che nel seno della Chiesa ha avuto luogo un grande spostamento del centro di gravità. L’interesse supremo non è più la Teologia; l’EccIesiasticismo ha perso il suo potere; l’ascetismo non è più di moda: siamo in un'epoca sociale. E non dobbiamo lamentarcene. È Dio che guida gli eventi e l’umanità, e che ispira la Chiesa: e il Cristianesimo possiede la soluzione di tutti i
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INVOCANDO IL PROFETA
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problemi concernenti la persona umana: mentali, morali, sociali. Cristo ci guiderà, se vorremo seguirlo- còme già i primi discepoli, alla comunione con le cose supreme, le cose prime, le cose che sole hanno valore. Ecco perchè egli vi ha chiamati al suo ministero... L’entusiasta di riforme sociali e politiche vi dispiegherà il suo programma, e vi dirà che la sola cosa per cui valga la pena di vivere è la redenzione sociale. Supponiamo concesso questo. Resta la questione fondamentale: in che modo operare questa redenzione sociale? quale ne sono i mezzi efficaci? Si potrà essa ottenere con cambiamenti esterni, meccanici, economici, o dovrà essere il frutto di un rinnovamento personale, etico e spirituale? È ammesso generalmente che la cosa che più importa per ogni riforma è il cambiamento del carattere individuale. Ed è questo appunto il supremo messaggio del Cristo, l’argomento del Vangelo, il significato di Bethleem, del Calvario, della Pentecoste... « Cambiate le condizioni, e avrete cambiato il carattere », grida l’entusiasta. Ma che cosa è che può cambiare le condizioni, se non il carattere? Le Chiese, i Consigli municipali e provinciali, i Parlamenti non sono che le agenzie: ma gli agenti sono i membri delle Chiese, i consiglieri, gli uomini politici. Non si può creare, perfezionare, controllare la macchina sociale, se non con uomini. Ora il Vangelo di Cristo contiene la più alta sapienza politica, il più potente risolvente sociale, perchè la passione suprema di Cristo è la formazione della personalità: prima l’individuo, poi le conseguenze sociali; prima l’uomo, poi l’organismo; prima la Chiesa, poi il Regno. Egli ci ha condotto dal problema del come salvare gli uomini dal mondo, a quello del come creare i caratteri che salvino il mondo.
E in che cosa consiste, per Gesù, il carattere? Si può dire in due parole: Giustizia e Amore. Non quella giustizia esterna, quella convenzionale conformità e compiacenza di se stessi, che vediamo sì spesso nella vita odierna della Chiesa; quella rettitudine in piena regola con gli Statuti, quello spirito prescritto dalle tavole di fondar zione, o assiepato da prescrizioni ecclesiastiche o da un sistema di polizia: bensì un dovere pregno di desiderio; non confinato al « futile decalogo della moda », ma saturo di passione per la croce, e per la gloria a cui conduce: quella giustizia che si sviluppa nell’amore. L’amore: non quello descritto dal prof. Peabody come un « sentimentalismo zuccherino »; non una professióne nevrotica: bensì una forza virile, autorevole, razionale, che s’intende di « secondo miglio » (1) e di « croce volontaria »; un amore giusto che si comunica e che s’investe in atti, per assicurarsi un reddito in continuo aumento, sotto forma di carattere individuale e di servizio sociale.
È a questo ministero di creazione del carattere che voi vi siete dedicati nel momento più critico che il Cristianesimo abbia conosciuto, in un periodo gravido delle più gravi conseguenze nel campo sociale, ecclesiastico, imperiale, universale: a un ministero di riconciliazione e di formazione del carattere, in un periodo di lotte sociali, di settarismo ecclesiastico, e di una guerra, la più sanguinosa fra tante combattute nella storia della razza umana, nella quale i principali belligeranti si denominano
(1) Allusione al passo del Sermone del Monte, ove Gesù dice : «... E se uno ti vuol costringere a fare un miglio, vanne seco due ».
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Cristiani. È un momento che offre opportunità senza pari per persone di carattere cristiano, di fede tetragona, di lunga vista; per ministri dotati di rettitudine profetica e di doni apostolici. Ma non è tempo questo per un ministero da Battista lindo e pinto, in cerca di soddisfazioni al suo amor proprio e inceppato da tradizioni: che cerchi la salvezza nello « status quo », e la cui idea del ministero consista in una parata senza vita dei principii del passato, e in uno sciorinare di banalità con un suono di voce metallica da grammofono: per individui teneri di un meccanismo che mai si agita e mai li agita; che non vogliono essere disturbati ma preferiscono la pace di Sionne; che ricusano di fronteggiare la realtà, e il cui orizzonte è circoscritto dall’angusto « Bethel » Battista; che disdegnano ogni responsabilità di un più ampio ministero di riconciliazione, al quale sarebbero pur chiamati dalle loro stesse funzioni ecclesiastiche. Se la vostra aspirazione è di essere un sacerdote battista, non mi sembra- improbabile che riusciate per qualche tempo a trovare la vostra piccola sfera di azione e ad assicurarvi il vostro stipendio. Ma il bisogno attuale non è di sacerdoti; è di profeti: di uomini che osino guardare in faccia la realtà della vita contemporanea, e che non permettano ad alcuna tradizione di soffocare la verità: che abbiano la volontà di disturbare di proposito i santoni auto-soddisfatti mettendo a nudo la insufficienza della loro armatura, i punti vulnerabili delle loro difese e il carattere antiquato delle loro armi; che non lascino i loro colleghi restarsene adagiati in Sionne, ma demoliscano le barriere dei loro angusti « Bethel », mostrando a quelli il vasto mondo che attende di esser conquistato, le risorse spirituali che si trovano a loro disposizione, e gli alleati che troveranno pronti a combattere con essi spalla a spalla, il giorno che essi saranno pronti.
Certo, il Profeta non avrà una vita assai comoda: questo privilegio egli lo lascia al sacerdote.
Il profeta troverà necessario di attaccare interessi personali: interessi di proprietà, di credi, di vocazioni, dei quali il sacerdote, invece, s’impingua. Ma il profeta non invidierà mai il bel lucido ecclesiastico, l’apostolo di espedienti, sempre con l’occhio volto alle migliori occasioni. E perchè lo dovrebbe fare? Benché il profeta sia punito, mentre il sacerdote è encomiato, non v’è paragone possibile fra i due mondi di carattere in cui essi abitano, e si muovono e vivono. Il sacerdote riscuote gli applausi di un popolo facile a contentarsi: e lì si adagia. Egli ignora la lotta, la vittoria, la gioia elettrizzante del combattimento, il crescere e lo svilupparsi di un carattere posto al cimento, la forza che sopporta la croce e disprezza la vergogna; nulla conosce della beatitudine di venir perseguitato, di esser cacciato solo nella solitudine — solo con Dio, — dove si alimenta la convinzione che la giustizia deve regnare a dispetto di ogni cosa, e che i sacerdoti stessi si convertiranno, forse nella prossima generazione, ed entreranno nel nuovo regno che Dio aprirà con la chiave del carattere profetico, e come frutto dell’influenza profetica.
Ed io vi scongiuro di non perder mai di vista nella vostra carriera accademica quell’ideale profetico che vi sedusse al ministero; quell’amore per il regno di Cristo, quella passione per le anime, quella fede suprema che gli uomini possono esser tratti dalle tenebre alla luce, e dal potere di Satana a quello di Dio, e che tutte le cose, tutte, in cielo ed in terra, possono essere riconciliate in Cristo... È questo che forma i
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profeti: non già le scuole teologiche. Queste possono soltanto completare l’equipaggiamento del profeta: e si sa che oggidì i profeti non saranno mai equipaggiati abbastanza. Qui voi siete abilitati a compiere il vostro ministero: ma non lasciate che l’insegnamento prenda il posto della vita: che la scienza delle scuole spenga il fuoco delle vostre anime. Che lo studio che voi fate delle origini, dei principii e dei pregiudizi delle diverse denominazioni, non offuschi la vostra visione della cattolicità della Chiesa. Non lasciate che uomini i quali sognano i sogni di un glorioso passato vi defraudino della capacità di vedere visioni di un futuro assai più glorioso. E se qualcuno osasse dirvi che la via regia del predicatore evangelico è quella della minore resistenza, non lo credete. Tutti i vostri studi, tutti i vostri pensieri, tutte le vostre attività, tutte le vostre simpatie ecclesiastiche siano sempre e intieramente Cristo-centriche. Ditevi, che nulla più importa che ciò che Egli comanda, e che nessun indirizzo di governo della Chiesa può mai soppiantare i Suoi principii; nessun assestamento ecclesiastico può opporsi ai Suoi desiderii; tutto deve inchinarsi ai Suoi voleri. E quando entrerete nel ministèro, agite, agite, in conformità di questo; e allóra il vostro ministero sarà per le stesse condizioni della vostra vita ecclesiastica cruci-centrico.
Badate su questo punto di non ingannarvi
Noi Battisti siamo suscettibili di interessarci più agli errori delle altre Chiese che a quelli nostri: e il sacerdote battista condannerà talora in altre Chiese come vizio, quello che esalta come virtù nella sua stessa comunità. Tutto ciò che si oppone al pregresso del Cristianesimo, o si oppone alla salvezza di un villaggio o di una città; tutto ciò che ostacola la redenzione sociale e che impedisce la evangelizzazione del mondo, suscita l’antagonismo acuto e implacabile del profeta battista, il quale non riconosce altro capo della Chiesa che Cristo; altro documento autorevole che il Nuovo Testamento; e pel quale la Chiesa non è altro che la grande agenzia di Cristo nel mondo, fino a che tutti giungiamo all’unità della fede e alla conoscenza del Figlio di Dio.
La Chiesa Battista, le Chiese tutte, il mondò intiero stanno in attesa di tali profeti, quali voi potete diventare... Nel piano divino, voi siete chiamati a fare cosa assai più utile che edificare dei « Bethel » battisti in distretti già riboccanti di Chiese, e dove fedeli battezzati che non si chiamano « Battisti » stanno già al lavoro. Il genio del Battismo non è particolarmente ecclesiastico. Noi non siamo essenzialmente legati ad alcun indirizzo di governo e, nelle origini, non fummo neppure separatisti: bensì fummo espulsi, contro il nostro desiderio, da una Chiesa che aveva cessato di essere nazionale e cattolica. Anzi, il nostro stesso separatismo fu il prodotto del nostro attaccamento al cristianesimo cattolico: e non v'è altra comunità nel Cristianesimo che possa con più coerenza fare appello per il ritorno ad un cristianesimo cattolico, quanto la comunità alla quale noi apparteniamo. Benché anche noi abbiamo spesso permesso che, una tattica aggressiva svigorisse l’efficacia della nostra testimonianza cristiana, pure nói non abbiamo mai sostituito al Nuovo Testamento alcun altro documento; e nella nostra condizione di Chiesa separata — condizione da noi non cercata in origine, — non siamo stati mai sforniti di personalità sommovitrici, di pionieri, di profeti — da John Bunyan a John Clifford; da John Robinson a John Howard Shakespeare. È anche vero che non siamo neppure stati mai sprovvisti
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di nostri sacerdoti, che, vedendo di mal’occhio il disturbo arrecato al loro auto-compiacimento, hanno resistito ai pionieri di imprese missionarie, agli abolizionisti della schiavitù, ai riformatori del movimento della «Temperanza», e ai riformatori sociali: però, in tutti i tempi, i profeti hanno prevalso, ed i figli dei sacerdoti han finito per convertirsi: storia questa, che ha l’abitudine di ripetersi.
Vi è ancora una volta bisogno del profeta battista che sia pronto alle persecuzioni sacerdotali: il mondo non è ancora evangelizzato, benché basterebbe che le chiese fossero deste al comando di Cristo perchè in questa generazione lo fosse: la schiavitù non è ancora abolita; la società non è ancora redenta; la civiltà non è ancora civilizzata: le chiese non sono ancora cristiane. E sono questi i fatti che infiammano l’anima del profeta battista, sveglio al bisogno del mondo, al carattere comprensivo del Vangelo, e alla pienezza dell’efficacia della parola riconciliatrice di Cristo, per la creazione del carattere. Le esigenze dei tempi nuovi, il particolare indirizzo della vita sociale, l’impotenza evidente del poli-ecclesiasticismo di fronte al politeismo, le condizioni create dalla gigantesca guerra europea — tutto accentua il bisogno supremo di un ecclesiasticismo cattolico e comprensivo, e di un ministero cristiano comune ed unito...
« Io bramo », disse anni or sono nel congresso nazionale inglese delle « Chiese Libere» il nostro segretario generale per l'Inghilterra, Rev. J. Shakespeare, «di vedere una sola « Chiesa Libera », purgata dalle sue divisioni, e all'opera per compiere l’intrapresa della salvezza del popolo. L’ora è suonata per un nuovo periodo nella storia della Chiesa, e solo ci manca un nuovo Wesley o un nuovo Chalmer... Laddove in passato il più grande servizio che noi potessimo rendere al regno di Dio era di affermare la nostra divisione, ora invece esso è l'unione: allora la separazione, ora la comunione». E nel 1911, disse ancora: «... Dobbiamo persuadere le piccole comunità, che vi è una Santa Chiesa Cattolica, e che il solo modo in cui una Chiesa può salvarsi, è quello di perdersi ».
Giovani che fate la vostra educazione per il ministero, sono queste le questioni che voi avete da fronteggiare nei nostri tempi; e la crisi del nostro impero attraverso alla quale passiamo conferisce ad esse un significato nuovo, e quasi spaventevole. Da lungo tempo io mi sono persuaso, che una Chiesa divisa non può formare finte grità del carattere, non può compiere la redenzione sociale, non può evangelizzare il mondo: e lo vado ripetendo, a tempo opportuno e importuno. Noi non siamo in condizione di poter rovesciare un commercialismo di concorrenza immorale, perchè le nostre Chiese sono esse stesse associazioni in concorrenza; non siamo autorizzati a denunziare lo sfruttamento dei lavoro, perchè noi stessi lasciamo troppi ministri nella miseria; non possiamo protestare contro gli uffici superflui e le sinecure, perchè abbiamo noi stessi troppi ministri di chiese superflue; non siamo in condizione da poter recare un’efficace testimonianza al Protestantesimo neppure in questa sì democratica repubblica e di fare, senza cader nel ridicolo, una propaganda di pura conquista al Protestantesimo, alla luce delle nostre discordie intestine che riescono solo a vantaggio dell'influenza politica del Cattolicismo di Roma.
Ma uno stato di cose assai più sinistro c’incombe ora. Che cosa avverrà dopo la guerra? Stiamo noi veramente «combattendo perchè la guerra abbia fine»? Vi
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è alcuna probabilità che la vittoria degli Alleati — per la quale noi preghiamo continuamente — termini con qualche cosa come un disarmo generale? Non vi è pericolo che qualche previsione di nuove tempeste, quali «il pericolo giallo», 0 «l’impero coloniale » fornisca il pretesto per la continuazione dell’esistenza di formidabili armamenti ed il pericolo costante di uno spreco folle di vite in guerre sanguinose?
Che cosa può impedire che, seguaci dello stesso Signore, armati fino ai denti, siano assorbiti nell’impresa di trucidare i loro fratelli? Che cosa lo può, se non l’autorità dell’intiera «Santa Chiesa Cattolica» sparsa pel mondo intiero? Ma non sono precisamente i nostri personali interessi e le nostre vocazioni professionali che c’impediscono di avere questa autorità e di esercitare questa influenza dominante; che c'impedisce di far permeare i principi del Vangèlo di Pace nella politica internazionale, e di spargere per ogni dove le palpitanti e vibranti energie della croce di Cristo?
Miei fratelli che compiete il vostro tirocinio per un ministero di riconciliazione, voi, nel corso della vostra carriera di studenti, godrete il vantaggio enorme di avere — per la prima volta in quest’anno, da che esiste il «Collegio di Vittoria»— per condiscepoli, degli studenti appartenenti alle Chiese Presbiteriana, Metodista, Con-gregazionalista. Voi, Battisti, non sentirete mai il bisogno di vergognarvi della vostra fede battista, e non sarete mai tentati di rinunziare ai vostri principi battisti. Ma, ve ne scongiuro, coltivate lo spirito di comunione coi loro ideali; e quando se ne porge l'occasione, discutete francamente con essi su quei punti nei quali differite da loro; e quasi sèmpre scoprirete che, anche nelle vostre divergenze, voi intendete le medesime cose essenziali. Affratellatevi, pregate insieme, discutete argomenti ecclesiastici in spirito di intercessione e di comunione con Colui che prega ognora per i suoi seguaci, perchè essi siano tutti una cosa sola, acciò il Mondo possa credere: e quindi, lavorate per lo stabilimento di quella Chiesa comprensiva, la quale non eliminerà già le diverse testimonianze delle denominazioni diverse, ma porrà fine a tutte le concorrenze settarie, e con esse, alla maledizione dell’alcoolismo, del militarismo, e dell’ignoranza di quella parola di conciliazione sènza cui non v’ha nobiltà di carattere e della quale voi siete chiamati ad essere i ministri ».
Per realizzare questo Profeta Battista dell'avvenire, invocato eloquentemente dal Rev. Ruth, non si dovrà che rievocare un Profeta Battista, che oggi, pur sempre radioso, entra nella penombra del passato; il grande « leader » del Battismo Inglese: John Clifford.
A ciò che della sua persona e della sua opera diremo in un numero seguente, questa « Invocazione di un profèta » serva d'introduzione.
Giovanni Pioli.
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CRISTIANESIMO E GUERRA
IL PROBLEMA DELL’ODIO
• Amare e riconoscere i difetti .di chi amiamo, odiare e riconoscere i pregi di chi odiamo è cosa ben rara sotto il cielo ». Così si esprimeva Mencio, il saggio discepolo di Confucio. Nelle condizioni anormali attuali non solo un apprezzamento un po’ favorevole dell’avversario è raro ma procura grattacapi e vituperi a chi lo esprime sforzandosi di essere imparziale: Romain Rolland informi;'
Ad ogni grande convulsione bellica si produce questa eclissi totale dell’ imparzialità. Amiel l’aveva già osservata nella guerra franco-prussiana del ’70, e, nell’ottobre di quell’anno, scriveva queste parole, che si direbbero scritte oggi : « Una cosa curiosa è l’oblio assoluto della giustizia provocato dai conflitti fra nazioni. Quasi tutti gli spettatori non giudicano che a traverso, i loro gusti, i loro desideri, i loro interessi o le loro passioni : vale a dire che il loro giudizio è nullo. Quanti giudici imparziali esistono nella lotta attuale ? Pochissimi. Questo orrore dell’equità, questa antipatia per la giustizia, questa rabbia contro la neutralità misericordiosa è l’irruzione della passione animale nell’uomo, di una passione cieca, feroce, che ha la-ridicola pretesa di prendersi per una ragione mentre non è che una forza» (1).
Psicologicamente nulla vi è in questo fatto che ci sorprenda. La guerra sconvolge la serie dei valori, abbatte le barriere individuali, fonde l’anima di una nazione in un unico obiettivo, in un’ unica passione : tutto ciò che è interesse individuale, famiglia, carriera, egoismo sparisce per il momento, è ricacciato nel subcosciente.
(x) Journal, voi. II, pag. 103.
Ma quasi che questo divampare di odio implacabile che infiamma i cuori di tutti i cittadini e rende le persone più miti in tempi normali, feroci e crudeli contro il nemico non bastasse, quasi che l’abisso scavato fra i belligeranti non fosse sufficientemente profondo, vediamo svilupparsi enormemente una produzione letteraria che ha lo scopo di accrescere sempre più l’odio fra i popoli. L’homo homint lupus non è più un’iperbole in questi scritti.
Fra le centinaia di opuscoli ad hoc alcune produzioni giungono ad una notorietà mondiale. Chi non conosce il canto dell’odio tedesco di Ernst Lessauer ? Anche la Francia possiede ora dei capolavori nell’arte dell’invettiva: tale, per es., lo scritto di Andrea Suarès (Nous et eux) sul quale riportiamo il giudizio di Paul Seippel (1).
• Nessuno gli è pari nell’espressione del disprezzo. Ingiuria i nemici del suo paese con una ingegnosità, con un fervore, con una tru cu lenza che ricorda i maestri della polemica del xvi secolo, un tempo in cui si sapeva ingiuriare perchè si sapeva odiare».
L’odio è coltivato a bella posta come elemento prezioso per la vittoria, vien fabbricato nelle fucine letterarie come i cannoni e le polveri a Creusot ed a Essen, è considerato il più forte sostegno dell’ardore, del coraggio e della perseveranza delle truppe e delle popolazioni. L’odio è, per la maggioranza, una condizione sine qua non della vittoria. « L’odio che un popolo nutre mentre combatte per la sua sorte è la più poderosa e legittima delle sue armi« (2). E perfino il poeta belga Verhaeren dice,
(1) Journal de Genève, (26, VII, 15).
(2) Corriere della Sera (24, VII, 15).
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nell’ Hisloive d’un crime, che l’istinto di conservazione Ci prescrive l’odio cóme un dovere.
Supponiamo che sia cosi (e indubbiamente vi è una parte di vero in quest’opinione) : quale sarà allora l’attitudine dei veri cristiani? Pei cristiani di forma, che frequentano il culto di una chiesa, che praticano esternamente una forma di religione il problema non esiste: la patria può occupare il centro perchè la fede è alla periferia della loro anima. Ma per quelli che si son nutriti dell’ Evangelo, che hanno conosciuto Gesù e camminano sulle sue trac-eie, per quanto possono, la quistione è angosciosa, tragica. Perchè Gesù, pur essendo ripieno di sacra indignazione contro tutte le brutture del peccato, pur staffilando senza pietà gli scribi ed i farisei ipocriti, non ha conosciuto l’odio, anzi ha pregato in favore dei suoi assassini. Ora per un cristiano ingenuo e semplice, ignaro di sot-gliezze scolastiche, seguire Gesù significa amare tutti, anche i nemici. E allora che fare se l’amor della patria in pericolo lo spinga a detestare, a maledire l’avversario, se egli ode dire e legge che l’odio del nemico è un dovere patriottico?
Sembra che il cristiano si trovi ad un bivio, che la scelta: o Patria o Gesù, che lo obbliga a lasciare uh ideale grande e puro, si imponga. Ma come scegliere se ambedue riempiono il suo cuore ? Abbiamo assistito al dramma angoscioso delle anime più elevate del protestantesimo francese ansiose di risolvere il problema facendo sparire il dilemma:
In principio dai pulpiti evangelici di Francia l'odio fu combattuto e additato come una passione indegna. « Vegliate, fu detto, vegliate sui vostri sentimenti, sulle vostre parole ; siate cristiani, siate cavallereschi e francesi fino alla fine. Difendete il vostro cuore contro i demoni della guerra ». ■ Qualunque siano i vostri lutti, le vostre inquietudini o anche le vostre ire legittime, impariamo a lasciare gli occhi aperti alla pietà e a chiuderli all’odio selvaggio » (1).
Ma col tempo questa posizione parve insostenibile. Maledire l’odio sarebbe stata considerata azione antipatriottica e forse anche germanofila come in Anerica la campagna pacifista di Bryan è accusata di simpatia tedesca. La corrente dell’odio crebbe
(x) Pendant la guerre. (Voi. I, pag. 23 e voi. Il, pag- 55).
come un torrente in piena, abbattè le barriere ed ai cristiani parve impossibile opporre un argine resistente a quel flutto impetuoso. Ed impossibile era realmente. E cosi, cercando di salvare quel che di cristianesimo ancor non era perduto, si permise sì l’odio, ma non per i soldati o là popolazione nemica, bensì per il male commesso o per il governo che l'ha voluto.
Frank Thomas, per esempio, pronunciò di recente un sermone così acuto e furibondo contro la Germania che una parte degli uditori si stupì e parecchi gli scrissero protestando in nome del messàggio cristiano. La domenica seguente il popolare predicatore ginevrino si affrettò a far macchina indietro affermando che egli non odiava nessuno, ma soltanto il male. Odiare il peccato senza maledire il peccatóre è certamente secondo l’insegnamento biblico. Nelle circostanze attuali peraltro dirlo è più fàcile che farlo. Come separare l’attore dalla azione del dramma che egli rappresenta? Come distinguere le intenzioni dal modo di agire? Come distinguere la malvagità dall’animo malvagio, ed amare questo detestando quella?
E’ quindi comprensibile che a questa posizione in equilibrio instabile sul filo di un rasoio se ne venga sostituendo un’altra meglio fondata. Si va dicendo da persone non accecate dall’odio e dotate di buon senso (e l’ho udito a Ginevra da pastori che son stati in Francia ultimamente) che bisogna distinguere in Germania il popolo ed il governo : la responsabilità della guerra e delle infamie commesse non ricadrebbe sul primo ma sul secondo (1). Si son cercati i crepacci della massiccia compagine teutonica per dimostrare che, malgrado le apparenze, in fondo l’anima nazionale tedesca vibra di indignazione contro la guerra e le sue orribili conseguenze. Per combatter l’odio Romain Rolland ha (son parole sue) « cercato, non senza fatica, manifestazioni tedesche che risvegliassero un'eco simpatica nei cuori francesi, parole libere e giuste che servissero quasi di ponte sull’abisso dei malintesi che si apre tra le nazioni».
La nobiltà di questa campagna intrapresa con disinteresse e coraggio dal noto scrittore francese in favore di un avvicinamento spirituale dei due popoli o almeno
(x) I! P. Ghignoni ha sostenuto con forza questo pùnto di vista nel nobilissimo articolo pubblicato da Bilychnis (maggio 1915, pag- 4<>4 e seg.).
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degli intellettuali è tale da far arrossire molti pastori che, non solo non l’hanno assecondato, ma si son fatti apostoli dell’odio implacabile. Anche qui è da un laico che vien la lezione alle chiese, ma esse non 1* hanno ricevuta. L’opposizione incontrata da Romain Rolland sia in Francia che in Germania l’ha obbligato a rinunciare a questa bella utopia. • In un anno, scrive egli, ho sacrificato la mia pace, i miei successi letterari, le mie amicizie per combattere l’irragionevolezza e l’odio : ho tentato di far conoscere ai due popoli nemici; e specialmente al mio, che gli avversari sono uomini i quali hanno da sopportare gli stessi dolori.. • Ciascuno dei miei articoli mi ha procurato vituperi da entrambi i paesi, in entrambe le parti urto contro uguali difetti di comprensione. I vituperi non mi arrestano, ma il difetto di comprensione mi stanca, mi disarma... Torno alla mia arte,il solo asilo ancora inviolato»(1).
Ogni soluzione proposta per distruggere il dilemma crudele: ©Patria o Cristo e permettere. a chi ama il suo paese con passione entusiastica, di tener alto l’ideale cristiano, pur essendo stata cercata con sincerità e nobiltà d’intenti è fallita miseramente. La maggior parte di chi vuol la vittoria del suo paese ha messo in quarantena l’amore evangelico. E’ la moratoria imposta alla religione di Gesù.
Perchè non si può confondere la religione del Sermone sul monte colle manifestazioni collettive di entusiasmo popolare: tanto varrebbe confrontare D’Annunzio declamante le belliche beatitudini davanti alla moltitudine immensa, delirante, folle di entusiasmo allo scoglio di Quarto, con Gesù, seduto sul colle di Galilea davanti alla folla dei pescatori mentre dice : « Beati i poveri in ispirilo ... gli afflitti...».— Malgrado le manifestazioni religiose imponenti cui assistiamo non dobbiamo lasciarci ingannare: lo spiri) Corriere della Sera (23, VII, 15).
rito che anima le folle è più spesso orgiastico e dionisiaco che evangelico. E’ piuttosto il trionfo della forza che quello dell’umiltà, dell’espansione che quello della concentrazione.
Assistiamo ad un’eclissi del cristianesimo autentico. L’oblio del messaggio d’amore è la causa della crisi del protestantismo. La chiesa cattolica è travagliata pur essa; il dissidio fra la curia romana neutrale e gli episcopati nazionali, fra una autorità centrale che pretende abbracciare collo stesso amore tutti i belligeranti ed il clero nazio-zionale che partecipa all’entusiasmo e all'odio per il nemico del suo popolo è noto a tutti (1). . .
Il problema che si è imposto ai nostri fratelli evangelici di Francia sta ora dinanzi anche a noi in tutta la sua asprezza. Da un lato l’entusiasmo per la causa italiana e l’odio per i nemici : dall’altro l’ordine categorico di Gesù : « Amate i vostri nemici > (Matteo, V, 44). Ai pastori d’Italia che devono condurre le anime affidate loro da Dio sui sentieri di giustizia verso l’ ideale additato da Gesù, ad essi incombe il cóm-pito di cercare una soluzione capace di conciliare questi due ideali che sembrano inconciliabili. Che risponderanno essi a chi domanderà loro : « Odierò io gli Austriaci? ».
Nella mia incompetenza per risolverlo esprimo il voto che sia possibile a chi ama l’Italia e si sacrifica per essa di vivere nella comunione di Gesù ; e a chi è penetrato dello spirito di Cristo di essere il più fervente, il più sincero, il più entusiasta nel gridare: Viva l’Italia!
Ginevra, 1915.
R. Pfeiffer.
(x) Il dissidio non è nuovo, la guerra non ha fatto che manifestarlo e renderlo più acuto. Si veda Ce qu'on a fall de l'Eglise (19x2), una requisitoria contro l’imperialismo papale in favore dell’episcopato nazionale.
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I LIBRI
COME SI STUDIA LA STORIA RELIGIOSA.....
Il lettore non si spaventi: il titolo di questa « recensione » è un po’ troppo generale; se non avessi avuto paura di allungarlo eccessivamente avrei scritto: contributo alla documentazione del modo in cui si studia in Italia la storia politica e religiosa. Ed il mio contributo è semplicemente una specie di recensione del volume di T. De Bacci Venuti pubblicato nella collezione storica Villari sotto il titolo: Dalla grande persecuzione alla vittoria del Cristianesimo (Milano, U. Hoepli, 1913).
Veramente io non volevo parlare di quest’infelice « numero » della buona collezione che si fregia del nome illustre ed amato di Pasquale Villari : dopo una lunga riluttanza però ho finito ad indurmi a dirne poche parole per l’onore degli studi italiani, per il buon nome della collezione di cui fa parte, per l’interesse dell’editore.
A tutto rigore a persuadermi che ormai il miglior biasimo per quest'opera fosse il silenzio, contribuiva pure il fatto che la staffilata, datale con la calma e con la competenza che gli son proprie, da Pio Franchi dei Cavalieri negli Studi Romani (I, 186 segg.), era più che sufficiente a togliere all’A. la velleità di ricominciare, agli studiosi quella di consultare, o peggio, di comperare il libro. L’illustre uomo ha messo in così piena luce l’incompetenza del De Bacci Venuti nell’agiografia, nella conoscenza delle fonti, nell’archeologia, nella letteratura sull’argomento e nello stesso tempo la sicurezza con cui vuol dar da intendere ai lettori di esser a giorno di qualsiasi argomento, ammanendo loro della roba stantia ed errata, che sarebbe inutile ed ozioso il ritornar a perder tempo su simile insalata di dubbio gusto. Se non che vi è qualche studioso (p. es. il Fracassimi, L'impero ed il Cristianesimo, p. 265) che pare prenda ciononostante sul serio questo avvocato che si impanca a pioniere degli studi religiosi in Italia (p. XXVIII): bisogna quindi riconoscere che è un dovere il diffondere la conoscenza della critica fatta dal Franchi ed il corroborare il suo giudizio sfavorevole con nuove e più schiaccianti prove. Occorre una buona volta eliminare dal campo degli studi coscienziosi, di cui ormai si hanno buoni esempi anche da noi, questo lavoro del quale chi voglia far qualche cosa di serio deve fare come me che nel mio ultimo studio sulle recenti pubblicazioni di storia del cristianesimo in Italia non riconobbi neppure al De Bacci Venuti il diritto di esser citato tra gli studiosi.
Ed ecco perchè. L’A. non solamente ha verso la scienza tutti i torti che gli riconosce giustamente il Franchi, si serve cioè di autori vecchi, non conosce bene le fonti.
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ignora, o quasi, il greco, non distingue nè con la sua nè con l’altrui critica gli atti de’ martiri, è incompetente in archeologia cristiana e in diritto romano, è scorretto nelle citazioni e ne’ nomi (è forse perchè ignora che in Dalmazia esisteva una città denominata Salona — egli la chiama Solona sempre — che fa parte del Comitato fiorentino prò Dalmazia?); non solo fa un’opera infelice di compilazione nella quale non dà un concetto esatto nè del movimento religioso dell’epoca dioclezianeO-costantiniana, nè di quello politico, nè di quello civile; ma fa qualche cosa di più, si permetto di sorprendere la buona fede de’ suoi lettori come già ha sorprèso quella dell’editore e del direttore della collezione. E lo fa copiando dalla traduzione italiana di un’opera tedesca ch’egli non cita nè nel testo, nè nella bibliografìa: dalla « Storia dell’impero romano » di G. F. Hertzberg, tradotta dal De Ruggiero e pubblicata nel 1895 dall’editore Leonardo Vallardi (l’edizione tedesca si pubblicò, se non erro, nel 1880).
L’A. nega? Ed allora ecco le prove:
De Bacci, p. 168.
Il suo corpo fu deposto nel sarcofago che vivente si era fatto costruire, ornato di rap-Sresentazioni della caccia calcedonica (sic!) ove la figura di Meleagro che uccide un cignale, ricordava l’ atto decisivo della sua vita.
De Bacci, p. 241.
... dopo moltéplici cerimonie e consacrazioni, con una lancia disegnò in terra la direzione delle nuove mura, e pose la prima pietra.
DE Bacci, p. 347.
... un monolite di porfido venuto dalla Tebaide, alto circa 33 mètri, e quasi 6 metri era la base di marmo bianco, su cui posava. Nell’alto troneggiava un antico colosso di bronzo. Apollo, a cui Costantino aveva fatto recidere la testa per sostituirvi la propria effigie. Dissero i pagani che nella base fosse nascosto il Palladio, involato a Roma...
De Bacci, p. 248.
In questa parte orientale fu edificata la splendida chiesa dei SS. Apostoli, tutta di marmo screziato ad alte volte, con soffitto coperto d’oro, e sormontata dà una £an cupola di metallo doralo all'esterno. sso raggiava sotto il sole splendidamente. La chiesa era in mezzo a un gran cortile, circondalo da portici, che davan adito alle sale imperiali, ai quartieri per le guardie. Nella corte era il mausoleo imperiale... nell’interno della chiesa si ergeva il trono imperiale, accanto a quello del vescovo.
Hertzberg, p. 880.
I.e sue ceneri furono rinchiuse in un sarcofago coi bassorilievi della caccia ca-ledonia, dove Meleagro che alza la mano contro il cinghiale ricordava la scena decisiva della sua vita.
Hertzberg, p. 905.
...dopo compiute molteplici consacrazioni ed azioni simboliche, l’imperatore in persona con una lancia in mano disegnò la direzione delle nuove mura e pose la prima pietra. <
Hertzberg, p. 908.
... il resto d’un gigantesco monolite di porfido della Tebaide egiziana, allo quasi 33 metri, ... sotto la base di marmo bianco (alto alquanto più di 6 metri) della colonna, il Palladio della città di Roma segretamente involato; e la colonna stessa portava sulla sua cima vertiginosa un antico colosso di bronzo, rappresentante Apollo; ma l'imperatore aveva fatto sostituire alla testa del Dio del Sole l’effigie della sua propria...
Hertzberg, p. 907.
... la nuova chiesa dei SS. Apostoli... Fatta di marmo screziato, ad alte volte (probabilmente con una croce greca con cupola), col soffitto tutto coperto d’oro, e l’incrostamento esterno di metallo dorato. Isolata nel mezzo d’un gran cortile, circondato da tutte le parti da portici, sale imperiali, quartieri per le guardie, questa chiesa in cui il trono dell’imperatore era collocato accanto al sèggio del vescovo, divenne ormai il mausoleo degl’imperatori romani.
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E se non basta si confronti nella stessa pagina:
De Bacci: Per giungervi [alla campagna] dal principio del palazzo, si impiegavano cinque quarti d'ora...
Hertzberg: Di qui s'impiegava circa cinque quarti d’ora per giungere alla campagna. È potrei citare altri luoghi: se non che temo di annoiare il lettore e chiudo con
questo significantissimo:
De Bacci, p. 147.
Le posizioni occupate non erano forse molto felici, ma neppure parvero al Molt-ke, che ai giorni nostri le studiò accuratamente, pessime. Fermatosi al di qua di Saxa Rubra, dispose le coorti in battaglia sul dorso aperto e dolce della collina fra i due ruscelli di Celsa e Valca. Di questi il primo gli passava al fronte (sic), l'ala destra poggiava sul pendio alto e scosceso del Tevere; il fianco sinistro era coperto dalla valle profondamente internata della Valca superiore. Il terreno di attacco del suo avversario era frastagliato e difficile almeno per la cavalleria. Aveva poi aperta la ritirata non solo per l’antico ponte Milvio alle spalle del suo esercito, distante circa un miglio; ma ancora più avanti, nella direzione della corrente, aveva fatto costruire un Ponte di navi. Dall’altra parte niente impediva,, in caso di bisogno, di fare sulla riva destra del Tevere le quattro ore di cammino fino ai ponti della capitale.
Hertzberg, p. 875.
Secondo l’esposizione del grande stratega tedesco del giorno d’oggi che noi seguiamo la posizione in battaglia di Massenzio non era assolutamente così stolta, disperata, quale viene ordinariamente descritta. Probabilmente « l’imperatore si fermò al di qua di Saxa Rubra e mise in ordine di battaglia le sue masse sul dorso aperto e piano della collina fra Celsa e Valca. In questa posizione egli aveva alla fronte il ruscello primo nominato. La sua ala destra era appoggiata sul pendio alto e scosceso verso il Tevere; il fianco sinistro era coperto dalla valle profondamente internata della Valca superiore. Il terreno d'attacco del suo avversario era frastagliato e difficile almeno per la cavalleria». Per la ritirata rimaneva aperto all’imperatore non solamente l’antico noto Ponte Milvio, che si trovava alla distanza di quasi un miglio alle spalle del suo esercitò. Egli aveva da una parte fatto costruire ancora più avanti nella direzione della corrente un ponte di navi. Dall’altra parte nulla impediva, in caso di bisogno, di fare sulla riva destra del Tevere, le quattro ore di cammino fino ai ponti della capitale.
A commento del qual passo si noti come l’A. non solo non conosca l’originale e quindi si attenga alla traduzione del De Ruggiero fatta sul testo riportato dallo Hertzberg, ma non valuti neppure se e fino a qual punto questo citi il Moltke o lo riassuma E non si dimentichino le varianti e queirimpagabile dall'altra parte che nella traduzione italiana ha il suo corrispondente nel precedente da una parte, mentre nel De Bacci, che l’ha soppresso resta campato in aria!
Vi è bisogno di una conclusione? non credo. Ripeto mi dispiace per l’illustre maestro che ha dato il nome alla collezione dell’Hoepli, mi dispiace per l’editore che è benemerito degli studi, mi dispiace per la serietà della scienza: era però ed è necessario procedere in questo modo, altrimenti ne va del nostro buon nome. Gli studi storici non sono tribuna di esibizione per gli oziosi, ma fatica oscura e campo di battaglia per i ricercatori delle verità!
Giovanni Costa.
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KALYPSO
A. FERRABINO, Kalypso, Saggio d’una storia del mito. — Torino, F.lli Bocca,
Diciamolo sùbito: è un buon libro; del quale, appunto per ciò. bisogna dire non poco di male. Chè se avesse totalmente mancato al suo scopo e non avesse in massima parte adoperato buoni mezzi d’indagine, notando la grande pretensione della sua esposizione e la non infrequente altezzosità della sua vuota forma, si sarebbe potuto facilmente eliminarlo dai lavori leggibili. In grazia però, per l’appunto, degli indiscutibili suoi meriti, diciamone tutto il male che è necessario, affinchè il lettore impaziente, avvertito, sopporti il fastidio delle sue insopportabili pretensioni ed il lettore disattento messo sull’avviso proeuri di fissar la sua attenzione là dove è prezzo dell’opera il farlo.
Checché creda e dica l’A. non spetta a lui la scoperta di considerare il mito dal punto di vista storico: questo esame si è imposto e si impone a tutti coloro che debbano farlo oggetto di studio o per se stesso o per le relazioni sue con le condizioni e le determinanti dell’ambiente in cui sorse e visse. Ed è vecchia e più che annosa, anzi, la concezione che non esiste un mito, ma una serie di svolgimenti mitici la cui storia, solamente, forma il mito tale o il mito tal altro.
La tendenza della nostra mente ed i fini pratici cui ci volgiamo non di rado, i bisogni del linguaggio e via dicendo canonizzano un mito in una data forma e ne fanno, più o meno sapientemente o erroneamente, il mito. Ne segue che il Ferrabino à pienamente ragione quando riconosce la necessità e la legittimità (questa è parola sua) della storia del mito. Agli effetti storici poi solo chi concepisce la storia non come un’enciclopedia, per dir così, dinamica, ma come qualchecosa di statico e di unilaterale può fare a meno di tenerne conto.
Per ciò adunque e, all’incirca, con questi presupposti, detti in lingua povera — vedremo poi che ciò all’A. dispiace — il Ferrabino tenta una storia del mito e ne offre un saggio mediante lo studio di quattro miti del mondo classico: Andrómeda, la Demetra d’Enna, Caco, Cirene. Siano bene o mal scelti questi miti per l’intento dell’A. non importa : ve ne sono di buoni e ve ne sono di mediocri, ma è questione sogget
tiva questa, quando non possa ritenersi che influiscano sulla scelta tendenze di scuola ; è bene perciò non farne caso. Quel che importa invece è che in tutti si esauriscano le opinioni, i mezzi di ricerca e gli intendimenti dell’A. Ora ciò si può dire avvenga per Cirene e per Caco, è dubbio sia completo per Enna, è certo incompleto per Andrómeda. Poiché se è vero che si vuol fare la storia di un mito, occorre farla tutta dalle origini più antiche e più riposte al momento in cui il mito, sia pur parzialmente, muore o si trasforma e fa d’uopo non obliarne neppure le più lontane relazioni. Ora è vero che l’A. si vuol limitare nella sua storia al mondo greco-latino, ma si domanda: sino a qual punto lo può? Che in teoria egli la pensi così lo prova il fatto dello studio su Caco, ma la maggior facilità e la miglior notorietà della storia Frelatina di questo mito lo portano alesarne del mito indiano, e molto bene;
che egli quindi sbagli, p. es., in Andrómeda non ricercando le origini, per lo meno, mediterranee (si ricordino i Fenici e gli Ebrei) è evidente. L’indagine era lunga, difficile, ampia? non importa: avrebbe maggiormente chiarito l’assunto, avrebbe meglio lumeggiato l’opera personale dell’A.
Ma non basta: la storia del mito, dirò meglio di un mito, è necessaria e, come vuole il Ferrabino, legittima, ma non è al trettanto possibile da sé; essa deve essere presentata nelle condizioni speciali di luogo, di tempo, di vita in cui si svolse successivamente. E non si dica che queste sono le necessarie difficoltà attraverso cui passa ogni storia speciale, poiché ciò è solo in parte vero; le vicende d’un mito abbisognano, e il Ferrabino l’à ben visto, di integrazioni minuziose di cui non abbisognano, al modo stesso e alla stessa misura, nè la storia, ad es., dell’arte, nè quella della religione, nè quella delle lettere e via dicendo. E’ bensì vero che la storia è così complessa e così strettamente legata nelle sue varie esplicazioni che il semplice annunciare di volerla scindere dimostra l’intenzione di filosofare, non più di far opera di storico, ma ciò non toglie che per necessità pratiche si possa raggrupparla in varie categorie: è ben difficile pero che si faccia una di queste per il mito quando lo si studi nel suo sviluppo storico e non nella sua natura, per dir così filosofica.
Nè si dica che l’A. scrive per i già iniziati: egli à voluto dividere il suo lavoro ih due parti (la storia e l’indagine) appunto
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per aver modo di esporre, indipendentemente dalle noie della ricerea, i risultati di essa in modo accessibile a tutti e convincente. Viceversa se è riuscito a far comprendere il vario succedersi delle concezioni mitiche speciali da lui esaminate, non è altrettanto riuscito a farne la storia, in quanto che, neppur parlando per singole categorie, fare storia equivale a disporre in ordine cronologico fatti siano reali, siano spirituali. E ciò è tanto più grave, quanto, spessissimo, la storia del mito è storia di concezioni artistiche o per lo meno la serie delle forme in cui è concepito passa attraverso quella tradizione letteraria, dalla quale noi dovremmo liberarlo per mostrarlo nella sua reale manifestazione, come si libera la noce dal mallo o la castagna dal cardòSe passiamo invece ai particolari delle varie ricerche troviamo, in genere, nell’A., ottimo metodo, buone opinioni, saldi risultati: si può dubitare di qualche indagine speciale: ad es. nella sua critica ovidiana (p. ioi e p. 375) è forse esagerata la freddézza del poeta o meglio non ne è bene compresa la portata, chè essa deriva molto probabilmente, non di rado, da un’arte descrittiva di forme plastiche o, per Io meno, da un sentimento artistico che le si assomiglia. Cosi non ugualmente ci sembra del tutto convincente in qualche parte la ricerca del mito di Caco per quel che riguarda le sue ragioni storiche gentilizie e la sua connessione con le divinità italiche, mentre nè è quasi certa la conclusione, non nuova è vero ma completa, sull’origine italica del mito, indipendente cioè dal ciclo greco, non così dall’ariano; ed è altrettanto certa la conclusione sul sostrato indigeno del mito di Cirene e discreta se non ottima l’induzione sulla forma originariamente indigena del mito d’Enna. Laddove non solo per le origini, ma per la mancata comparazione con altre forme parallele di miti (p. es. quello di EsiOne ed Ercole) crediamo quasi completamente errata la ricerca sul mito d’Andrómeda.
Un lavoro, adunque, in complesso, buono: discutibile naturalmente (ciò che per gli spiriti liberi è un merito), ma interessante e, nelle singole ricerche, acuto e ben condotto. Peccato che l’A. specialmente nella forma dia prova di due difetti capitali: la pretensiosità scientifica — non pari alla novità, alla mole o all’importanza del suo lavoro — e, peggio ancora, quella linguistica e stilistica. Io non ò nè per abito men
tale, nè per professione la debolezza pedantesca di qualche professore universitario che va a cercare nelle opere esegetiche di storia antica 17* del verbo avere: non farò quindi al Ferrabino colpa dell’aver quasi risuscitato in quest’anarchica nostra ortografia, il j. Non posso non negare però che è stucchevole non solo il suo impancarsi a pontefice massimo del mito ed il discorrerne quindi in relazione, nel capitolo primo, avvolgendosi nelle nebbie di un’esposizione altisonante e di uno stile che vorrebbe essere alato, ma anche lo sforzo che ne dipende e che produce il secentismo della sua prosa e la leziosaggine della sua fraseologia (1). Ed è fortuna che quando si abbandona alla ricerca o quando ne espone i risultati dimentichi la prosopopea del letterato, chè il conservarla gli nuocerebbe assai.
O’ ferma fiducia che questo difetto grave, ma non gravissimo se l’A. è giovane, sparisca e non ne avrei fatto motto se non credessi che ciò costituisse per alcuni lettori una ragione per esimersi dalla lettura del libro: il Ferrabino stesso (p. 194) à riprovato in altri « il lezio ricercato a far un poco attonito chi legge»; à rimproverato ad altri (p. 205) la « mal celata boria, il vanto sicuro di superiorità intellettiva che è solamente sterile miseria»; perchè mai vuol rendersene pur égli colpevole ? Nè lo neghi, nè citi augusti esempi : là dove questi dànno esempi di deviazioni nuove ed originali da forme morfologiche o sintattiche cosiddette classiche, via, possono cum grano salis esser seguiti; nello stile e nella fraseologia no, chè quello è di ciascuno di noi, àuesta è di un datò genere di prosa e non i qualsivoglia. Perchè dire allora slontanava (p. 6), temperie (p. 7), rancuna (p. 75), fosse riuscitole (p. in), artefece (p. 136), come possano mascelle d’erudito maciullare e rugumare il fiore della saga (p. 135), coe-rire (p. 157), la vettovaglia umana (p. 274), i ripetitori menni (p. 279), sdanno (p. 314) e che so io? (2). Perchè infarcire il volume.
(1) Dico sforzo, perchè alcune scorrettezze, che talvolta gli sfuggono (come influenza per efficacia o influsso e l'orribile pronunciare per dichiarare) dimostrano lo stato primitivo della sua forma linguistica.
(2) Còsi pure se non se per se non che; assem-prare a tutto spiano e in tutte le salse. Noto a p. 229 un luogo comune... grazioso: « il leone rugge da vero su le sabbie del deserto ». Ma davvero? Evidentemente « hic sunt leones » signor Farrabiuo
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già troppo lungo di virtuosità descrittive inutili (p. 13, p. 109 segg., p. 163), di trasposizioni ricercate, di nebulosità male se non volute, peggio se ostentatamente (p. 41, p. 47, p. 227, p. 307; senza dire del ben • arcano » titolo!) adoperate? Ciò è tanto più deplorevole che l’A. sarebbe, se più semplice, efficace e vivace nello scrivere.
Io dovrei ancora al Ferrabino e lodi (1) e biasimi per casi particolari della sua ricerca se potessi continuare : se non che questa recensione è di già così troppo lunga; io le pongo termine quindi, con sicura coscienza dappoiché ò messo in luce soprattutto le questioni di principio, il che in modo speciale deve importare all’A., ai lettori ed al recensente.
Giovanni Costa.
jT
DOCUMENTI COSTANTINIANI
A. PISTELLI, / documenti costantiniani negli scrittori ecclesiastici. (Contributo per la fede storica di Eusebio). Firenze, Libreria fiorentina, 1914.
Questo breve opuscolo di un’ottantina di pagine senza pretese e senza altisonanti affermazioni porta un così notévole contributo alla grave questione sulla fede storica della Vita Constanti™ di Eusebio, che io non esito a considerarlo come l’opera più importante e più interessante che siasi pubblicata in Italia in occasione del centenario del così detto editto di Milano. F questa mia lode è tanto più significante quanto meno valgono i risultati cui giunge il Pistelli a convalidare la mia tesi della nessuna fiducia nell’operetta eusebiana, tanto discussa. Difatti l’A. con una minuta, interessante e sagace analisi della forma (grammatica e lessico) eusebiana e constantiniana, giunge alla conclusione dell’autenticità dei documenti riportati da Eusebio nella Vita e quindi ad avvalorarne il contributo storico. Ora io non posso qui entrare in particolari sulla vexata quaestio, sulla quale, se mi basterà il tempo, ritornerò un'altra
(x) Non esito, p. es., a lodare le traduzioni, nella cui prosa si sente talvolta con efficacia suonar l’esametro; e l’opposizione di metodo a qualche critico tedesco soverchiamente... logico anche in materia di critica poetica.
volta con uno studio che mi sforzerò di rendere conclusivo; debbo però far osservare all’A. che se vi è chi nega l’autenticità dei documenti constàntiniani della Vita, vi è pur chi ne ammette la parziale storicità e quindi il molto relativo valore storico: a provar la qualcosa occorre un la; voro di maggior lena e di comparazioni storiche non fàcili, al quale però l’operetta del Pistelli porta un contributo notevole ed importante.
E non basta: ò già sostenuto in questa rivista ed altrove che non è la legislazione costantiniana che forma quello che il Pistelli definisce il « preconcetto di carattere storico » di quanti sentono l’insidia nel preteso documento storico eusebianò, che vorrebbe esser la Vita, ma piuttosto le dichiarazioni, le discussioni, i panegirici che si attribuiscono a Costantino in merito alla religione cattolica. Ed anche qui vi è largo posto, naturalmente, alla fiducia là dove, specialmente, si deve conceder molto alle tendenze rettoriche dell’epoca, alla volontà imperiale di tener l’equilibrio fra i vari partiti religiosi, alle opinioni dei suoi consiglieri. Non è solo il documento che si contesta, è il modo in cui è esposto ed usato, il contorno con il quale lo si presenta, la larga infiltrazione in esso di frasi, motivi, espressioni che si possono provare non originali.
A torto quindi il Pistelli (p. 71) di sostenere che la legislazione costantiniana prò ecclesia ci scombussola: quel che maggiormente sentiamo e forse potremo dimostrare, quanti di noi avranno tempo di farlo, falso e falsificato è il Costantino genuflesso dinanzi al cristianesimo, non il Costantino cui questo si rivolge per trovar pace, il Costantino che lo difende e lo favorisce purché- esso faccia omaggio al suo sincretismo monoteistico, il Costantino imperatore, sia Sure anche grado a grado sempre più ere-ente e devòto, di fronte al Costantino vescovo. Insomma noi crediamo al Ciro, al Castracani, al Costantino della storia non al Ciro di Senofonte, al Castracani del Machiavelli, al Costantino di Eusebio.
Ad assodar la qualcosa il Pistelli à contribuito, ripeto, con la sua operetta per cui merita lode incondizionata.
Giovanni Costa.
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ONOMASTICON TOTIUS LATINITATIS
G. PERIN, Onomaslicon lotius lalinilalis, Padova, tipografia del Seminàrio, 1913-15 (fase. 1-5).
In una rivista di studi religiosi è doveroso fare un cenno di un’opera che non può non servire a chi si occupa di letteratura latina religiosa e che onora la nostra produzione libraria quanto altre, sia pure più gigantesche, imprese del genere, frutto dell’opera coordinata di accademie ed istituti scientifici, onorano quella straniera. L’Ono-masticon che il Perin promette di condurre a termine, è difatti avviato su quello For-cellini-De Vitt, che è il seguito, disgraziatamente rimasto interrotto, del famoso lessico Forcelliniano di cui la recente edizione fatta a cura del Seminario di Padova sotto la direzione di F. Corradini e Giuseppe Perin costituisce una vera benemerenza per gli studi lessicografici latini. A malgrado dei suoi difetti il Forcellini è, infatti, ancor oggi, un ottimo lessico che, aggiornato e messo al corrente dai continuatori, permette ad ogni studioso di servirsene con profitto nelle più difficili occasioni. E tanto esso, quanto V Onomaslicon, di cui ormai sono stati pubblicati 5 fascicoli (A-Claudius), acquistano un maggior valore ora che la continuazione della monumentale opera del Thesaurus lingua* Ialina* dalle vicende della guerra vien messa in forse per la nostra generazione, almeno!
Non dirò che il nuovo lavoro, poiché si può dire si tratti di un lavoro interamente
rifatto, non dirò, dunque, che il nuovo lavoro sia esente da mende e da mancanze, ma non è qui il luogo di segnalarle, tanto più che è ben doveroso esser indulgente con l’opera di un solo autore quando si riscontrano nelle opere accademiche e collegiali (cito il Thesaurus Stesso) difetti è lacune che giustamente sono state rilevate e rimproverate. Il fatto poi che esso non offre tutti i materiali che offre l’onomasticon del Thesaurus è forse, fino ad un certo punto, un vantaggio in quanto che permétte di orizzontarsi più facilmente nel laberinto delle fonti e offre il beneficio di poter contare su di un più rapido termine del lavoro.
In conclusione noi abbiamo tutti i motivi per incoraggiare i lettori ad acquistare quest’opera (1) che diviene per le ragioni che ò detto (specialmente per il lessico) ormai indispensabile; che promette di dare finalmente completo un Onomaslicon latino e che costituisce quindi per la nostra troppo calunniata produzione nazionale, soprattutto, speriamo, per l’ultima ragione, un buon, titolo da far valere di fronte agli stranieri.
Della pubblicazione dei fascicoli successivi terrò informati i lettori in modo più particolareggiato,
Giovanni Costa.
(I) La Tipografia editrice concede facilitazioni nel pagamento dell’opera il cui prezzo, del resto, non è eccessivo (lessico L. 100; Onomaslicon L. 3 al fascicolo).
LE RIVISTE
L’ESCATOLOGIA CRISTIANA E LE SUE FONTI
II prof. U. Fracassini ha pubblicato in Logos (31 dicembre 1914) un saggio assai degno di nota sull’escatologia cristiana e le sue fonti.
A Dieterich prima, nel suo libro ornai famoso Nekya, e il Norden poi, nell’introduzione al suo dotto commentario al libro VI teWEneide, illustrando i frammenti del-V Apocalisse di Pietro, erano venuti alla conclusione che l'apocalittica cristiana sia, in sostanza, un brano della classica influenzata da quella giudaica solo leggermente.
Pigliando le mosse da questa conclusione assai recisa dei due eminenti critici tedeschi, i quali si lasciarono, nelle loro deduzioni, trarre spésso in inganno dalla somiglianza degli elementi rappresentativi dell’escatologia cristiana con quelli dell’ellenica, il Fracassini, dopo di aver giustamente rilevato che una somiglianza siffatta non può costituire seria base di giudizio, passa a rintracciare molto diligentemente gli elementi interni, cioè il contenuto filosofico-religioso delle due escatologie, ne nota le sostanziali differenze e determina come e in qual misura il pensiero greco abbia influito sul cristiano.
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Sarebbe lungo seguire l’egregio critico nella sua minuta e dotta disamina, la quale viene a questa conclusione, cioè che, per quanto nell’Apocalisse di Pietro, forse più che in ogni altra, sia grandissima l’influenza dell’ellenismo, non è lecito però, per ciò stesso, affermare che derivi da essa e sia modellata sulla medesima tutta l’escatologia cristiana, la quale anche oggi, attraverso le faticose elaborazioni dei Padri e dei Dottori, s'ispira, nelle sue linee principali, alla giudaica e ne conserva perfino i caratteri rappresentativi nelle credenze intorno alla fine del mondo, alla risurrezione e al giudizio universale.
Poiché lungo la sua accurata indagine l’autore tocca moltissime questioni particolari concernenti l’escatologia giudaica e l’ellenica, si può. talvolta, in qualche dettaglio, dissentire da lui. Non crédiamo però che la stessa cosa possa fondatamente farsi Br quanto riguarda la conclusione a cui il
acassini arriva, e alla quale Ci sottoscriviamo senza esitar menomamente.
C. Vitanza.
TRE SAGGI DEL LOISY A. LOISY, L’Évang. de Jésus et le Christ ressuscilé; L'Evang. de Paul ; L’inilialton chrétienne, in Rcvue d’histoire et de Liti, religieuses, nn. i, 2, 3, anno 1914.
La conquista spirituale del mondo mediterraneo non è dovuta nè all’ Evangelo di Gesù, nè alla fede nella sua risurrezione, sì bene ad un mistero di salute, del quale egli stesso non ebbe per anco l’idea, ma di cui la sua persona fu il centro e l’ob-bietto. Questo mistero, sorto allora che del rabbi di Galilea rimaneva vivissimo il ricordo, è tutta opera di Paolo, il quale operò la trasposizione della dottrina, della virtù e della morte di un predicatore giudeo in una religione universale, che si assomma nel culto di un essere divino, il quale si créde abbia realizzato da solo e volontariamente, alla luce meridiana della storia, tutto ciò che, in favole senza consistenza interpretate coi simboli di una filosofia mistica, raccontano delle loro divinità mitologiche gli adoratori di Dyoniso, gl’iniziati di Eieusi, i fedeli della Gran Madre, d’Iside, di Mitra.
Questa trasposizione però non si compì in modo miracoloso, nè per un avvicinamento meccanico e materiale alle dottrine e alle pratiche dei culti pagani e dei misteri, nè per una lenta infiltrazione di idee e di riti nella tradizione del cristianesimo giudaizzante. Paolo pretende che il suo Vangelo sia frutto della rivelazione del Cristo risuscitato, cosi che il Cristianesimo potè svilupparsi in mistero e a guisa dei misteri, facendo suo lo spirito e la filosofia mistica di questi, senza nemmeno averne coscienza, ma come per un processo spirituale spontaneo.
Siffatta è la tesi che il Loisy ha preso a svolgere in questi tre saggi, esaminando prima il Vangelo di Gesù e la rapida idealizzazione della credenza del Cristo rapito al cielo, poi l’Evangelo di Paolo e la teoria del mistero cristiano e, in fine, l’iniziazione cristiana. quale il grande Apostolo la concepì.
Nella prima parte del suo lavoro, salvo qualche leggero ritocco, l’autore non fa che riferirsi a quanto aveva scritto nel suo' libro Jésus et la tradilion évangélique e ricapitolare i punti più salienti dei suoi Évan-giles synoptiques. Una rivelazione nuova dell’intuito storico e della padronanza delle origini cristiane e della storia delle religioni antiche del critico francese sono però VÉvangile de Paul e L’initiation chrétienne.
L’opera geniale dell’Apostolo, Che dai ristretti confini di una religione puramente nazionale fa venir fuori una religione universale e fascinatrice, v’è esaminata nelle fasi più interessanti e decisive, dalla trasformazione del Gesù secondo la carne in Signore che Dio ha risuscitato, e dalla teoria della redenzione fatta da un essere celeste che si metamorfosa in uomo, all’iniziazione cristiana del battesimo e al rito mistico della eucaristia. E questo esame, corredato dei richiami ai culti di Dyoniso, di Osiride, di Cibele, di Mitra, mette in piena luce le somiglianze esterne e l’identità dei caratteri interni del cristianesimo primitivo e del contenuto mistico-filosofico dei riti e dei misteri pagani, somiglianze e identità che non sfuggirono ai primi apologisti, come, per esempio, a Giustino e a Tertulliano, i quali, in buona fede, ci affermano che il demonio aveva imitato nei misteri dei gentili i riti delle cristiane comunità.
C. Vitanza.
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NOTIZIE ■ ■ ■ ■ VOCI DOCvMENTI
Cambio colle Riviste
Bollettino dell’A ssociazione A r-cheologtca romana, n. 1-5, gennaio-maggio 1915. Tina Campanile : « Topografia romana. Regione IX (Circus Flaminius). - B. Nogara: «Influenza degli Etruschi sulla Civiltà e Sull’Arte Romana» - Ugo Antonielli: « Per la poesia e per la civiltà romana. Il vaso; François e il Carme LXIV di Catullo».
GERMANIA
L’ASPETTO RELIGIOSO DELLA GUERRA
SECONDO GIOVANNI MULLER
Tra tutti gli scrittori tedeschi che hanno studiato il fenomeno della guerra attuale dal punto di vista religioso, il noto pastore liberale, Giovanni Müller, editore delle « Pagine Verdi » (Die Griinen Blatte? a Mainberg) è senza dubbio uno dei più originali e profondi. Noi abbiamo sotto gli occhi il primo dei « Quaderni della guerra » (E?stesk?icgsheft, 1914) che egli viene pubblicando dallo scoppiare della conflagrazione europea e coglieremo fedelmente, da queste pagine, il suo pensiero, sopratutto a titolo di documento.
Il 31 luglio, quando il pericolo della guerra imminente incombeva minaccioso sugli animi, il Müller tenne un’allocuzione sul tema: « In attesa della guerra », in cui egli fa un interessante esame di coscienza di fronte al fatale e tragico avvenimento.
I due aspetti contraddittori della guerra, quello gravido di tutti gli orrori senza nome e quello fecondo di dignità e di salute, gli si affacciano immediatamente allo spirito. Egli non è un partigiano della guerra, anzi egli è un deciso e radicale avversario dei conflitti armati. Egli considera la guerra come un atavismo, come un regresso spaventevole, come una vera manifestazione di barbarie. Ed è appunto questo stato di barbarie che determina e spiega la guerra.
« D’altra parte — scrive egli — io sono arrivato a questa conclusione, che, finché noi restiamo dei barbari e finché non sia stata instituita tra i popoli una effettiva, personale e giuridica communione, le guerre ci saranno sempre ed io sono certo che, in queste condizioni di barbarie, una guerra può talvolta essere un beneficio ed influire come una liberazione. Oggi, in cui le guerre come conseguenze di capricci dinastici e come strumenti di conquiste nazionali sono tramontate definitivamente, una guerra tra nazioni civilizzate altro
A thenaeuni w Studii periodici di letteratura e storia. Direttore prof. Carlo Pascal; anno III fase. IV, ott. 1915. Edmondo Solmi: «Concetto e fine della filosofia secondo gli autografi inediti di Vincenzo Gioberti »-C. Pascal: «Lo Schiodi Ennio» - Francesco Ribezzo : « Anemie etimologiche » - Nello Martinelli : « Quid nam capi te I libri III De oratore Cicero significasse videatur» - Ferruccio Ferri: « Un’ invettiva latina contro Erasmo Gattamelata» - Francesco Guglielmino: « Sulla composizione del Carme LXVIII di Catullo» - Comunicazioni e note: C. Pascal: «Un uso singolare del nominativo latino» - Olindo Ferrari: « Dell’uso dei diminutivi in Catullo» - Rassegne critiche: C. Pascal: « Un volume sui processi degli Sci-pioni » - Bibliografia - Notizie di pubblicazioni.
Rivista di Psicologia, Imola, n. 3-4, maggio-agosto i9>3-, G. C. Ferrari : «Osservazioni psicologiche sui feriti della nostra guerra » - G. Zuccari: « Ricerche sulla importanza dei movimenti articolatoti per la lettura e l'apprendimento a memoria » L. Ghinaglia: «Ricerche intorno all’influenza esercitata dalla temperatura sulla sensibilità gustativa» - M. Boulengcr: «I testi di Binet e Simon applicati a fanciulli anormali inglesi e belgi» - U. Loreta: «Sopra l’attenzione ».
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Rivista internazionale dì Scienze sociali e discipline ausiliario, Roma, 31 agosto 1915. F. Er-mini: «La lettera del Papa ai belligeranti» - V. Bianchi-Ca-gliesi : « Matilde Canossa nel-l’VI 11 centenario della sua morte » - R. Vuoli: « Dall’imperialismo al pangermanismo ».
Rivista di filosofia neo-scolastica, Milano, 30 agosto 1915, fase. VI. F. Olgiati: «L’organicità del reale» - P. Minges: « La teoria della conoscenza in Alessandro di Hales» - L. Nocchi: «Soggetto nell’analisi psicologica». Note e discussioni.
Conferenze e profusioni, Roma, n. 17, i° settembre 1915. « Per le onoranze a Federico Garlanda» - A. Guareschi: • La chimica dei gas velenosi e la guerra » - L. Renault : « La guerra e il diritto internazionale » - C. Richet : « Ciò che deve sapere una donna in tempo di guerra ».
-16 Settembre 1915. Onore di lauri. « L’inaurazione del monumento a Federico Garlanda in Valle mosso » (Biella) 12 settembre 1915 - Prof. Em. Sella: Ai mani di Fedrico Garlanda - W. W. Campbell: Il nostro sistema stellare - Prof. A. Pi-nard: La guerra e la difesa del bambino - S. Barzilai: La vittoria sarà delle nostre bandiere. - La celebrazione del XX Settembre.
La nostra scuola. Milano, anno II, n. 12, 15 settembre 1915. - Rinnovamento e guerra -Scuola e religione: Note sull’educazione morale in Inghilterra - Resurrezione - Didattica: In margine ai programmi - Lettura e spiegazione - Per la riforma dei corso magistrale - Il maestro morto - Recensioni: Ferrière - Murai - Solito de solis - Prezzolini - Calò -Orsi - Le Maire - Grammatica - Colonna.
non è in somma che una elementare esplosione di tensioni e di antagonismi, divenuti semplicemente insopportabili. Tale è stata la guerra dei Balcani e tale sarà, se scoppia, la guerra europea. Finché, dunque, i rapporti tra i popoli saranno così putridi e spinosi come oggi, le guerre saranno sempre inevitabili, non appena la diplomazia non riuscirà più ad impedirne lo scoppio ».
1 rapporti infatti tra le nazioni sembrano essere divenuti impossibili. « I rapporti, per esempio, tra il popolo tedesco e il popolo francese, dice lo scrittore, sono uno scandalo di fronte a Dio e agli uomini ». Questi due popoli o si conoscono male o non si conoscono affatto. Da qui, la diffidenza reciproca; da qui la possibilità permanente di un conflitto. La bancarotta dei rapporti internazionali doveva necessariamente prodursi: « la guerra doveva essere curata con la guerra ». Allora popoli e governanti comprenderanno quale orribile corteo e quale amaro strascico di disastri e di sofferenze porti con sè la guerra e da tanto male apparirà la necessità del rimedio.
Ma la guerra ha anche il suo lato buono e il Muller accenna con eloquenza alle sue benedizioni.
Già la stessa minaccia dello scoppio esercita un immenso influsso sull’uomo, epurandolo di tutto il suo egoismo, della sua vanità, della sua infingardaggine, del suo gretto materialismo. « Questa prova — egli osserva— è della più grande importanza per la nostra cultura personale ». Tra i sentimenti più elevati, suscitati dalla guerra, è senza dubbio quello che spinge al sacrificio dell’individuo per la communità, a dare, con gioia, la propria vita per gli altri. « Perciò — osserva lo scrittore — noi non vogliamo lasciarci troppo scuotere dalle preoccupazioni del prossimo avvenire. Se la guerra scoppia, essa sarà per noi tedeschi, in qualunque caso, qualche cosa di grande, un elementare avvenimento nazionale della più feconda natura, un processo di purificazione che sarebbe stato altrimenti impossibile, un vasto e fondamentale risveglio della nostra coscienza popolare e del nostro amor di patria e perciò un aiuto per il nostro divenire, un’assicurazione per la stabilità del nostro popolo di fronte all’avvenire. Per ciò è quasi del tutto indifferente che noi siamo vincitori o vinti ».
La guerra sarà anche l’experbnentuni crucis della nostra personalità. Si vedrà allora quali sono i nostri sentimenti essenziali e ciò che è semplice incrostazione spirituale; se abbiamo solidi nervi davanti agli orrori, se abbiamo cuore davanti al pericolo, se abbiamo coraggio, fede e certezza di fronte al destino. La guerra infine spezzerà i legami che ci rendono schiavi del denaro e degli interessi più vili. Ma qualora la guerra scoppiasse cosa avrebbero da temere, gli abitanti dei paesi invasi? Senza dubbio i loro beni materiali potrebbero soffrirne, ma le loro persone saranno rispettate.
« La guerra — osserva egli — sarà fatta oggi in Europa in forma civile. Io non posso credere che i francesi, se venissero in Germania, maltratterebbero e ucciderebbero, donne e fanciulli; essi li tratterebbero invece presumibilmente con la maniera corretta e amichevole
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che usarono i tedeschi, or sono 44 anni, in Francia. Non sono infatti uomini selvaggi, non sono delle bestie, essi sono invece buoni e civilizzati come noi, e forse anche più cortesi di noi ».
Dopo di aver reso ai Francesi quest’omaggio à’avant guerre, lo scrittore aggiunge al suo discorso una nota, che giova tradurre testualmente:
« Frattanto ò divenuto evidente, come io mi sia ingannato in questa speranza. Le crudeltà degli eserciti francese, belga, inglese e russo, gridano sino al cielo. Essi hanno commesse devastazioni peggio delle bestie. Le belve sono più umane di questi diavoli in forma di uomini. C’è in tutto questo un tale crollo di tutta la cultura interiore che nessuno avrebbe creduto possibile, un'umanità corrosa dall’odio sino all’estinzione di ogni sentimento. Come può ciò essere possibile presso popoli cristiani! Ora io capisco come i pagani della Siberia potessero chiamare Gesù il " diavolo russo „ ».
La guerra, che spazza via i migliori elementi della popolazione non rappresenta soltanto un disastro economico ma anche nazionale. Il Müller fa a questo proposito alcune considerazioni interessanti ■
« Io non arrivo a comprendere come parecchi, ai quali sta a cuore la stabilità e l’operosità della nostra razza, possano desiderare una guerra. A mio avviso, i Francesi non sarebbero caduti demograficamente cosi in basso, se non fosse stata la guerra del 1870-71. La loro popolazione non avrebbe infatti subito un così spaventoso regresso. Se ciò non avvenne in ugual misura tra noi, ciò deriva solo da questo, che noi siamo d’un mezzo e forse d’un intero secolo più giovani dei Francesi. Se però noi intraprendiamo adesso una guerra contro la Francia e la Russia questo stesso potrebbe succedere a noi. Già esiste tra noi un regresso enorme nelle nascite, che si accentua sinistramente da un anno all’altro. Se ora delle centinaia di migliaia di giovani dei più operosi e vitali vengono eliminati dalla guerra, la cifra delle nascite si abbasserà ancora più rapidamente, sarà tolta a un più grande numero di fanciulle la possibilità del matrimonio e un’infinita forza produttiva femminile rimarrà sterile. Moltke disse una volta che i Tedeschi avrebbero continuamente vinto i Francesi grazie alla loro maggiore fecondità. Queste vittorie però sono molto lontane, e che avverrà dopo una guerra disastrosa? Che il suo esito sia felice o infelice, ciò non ha, da questo lato, importanza alcuna. Perciò io dico che una guerra oggi così antieconomica confina quasi con il suicidio nazionale, almeno per noi ».
L’aspetto religioso della guerra, che egli chiama «l’aratro divino », non poteva certamente lasciare indifferente il Müller, e tutti i suoi scritti sono infatti pervasi dalle sue preoccupazioni spirituali e morali. Nelle « Impressioni e problemi della guerra »contenuti nello stesso quaderno, egli consacra alcune pagine al « movimento religioso», e all’« attitudine del cristiano di fronte alla guerra • che noi tradurremo fedelmente, per l’importanza che esse presentano per la nostra inchiesta.
Coenobium, fase. 80-81 (agosto-settembre 1915).-Ed. Plat-zhoff Lejeune: « La psychologie du belligérant » - Amedeo Gaz-zolo: « Su l’immortalità » - Ro-main Rollane!: « Le meurtre des élites» - Raffaele Ottolenghi: « All’on. Romolo Murri » - D. M. Charvoz: « La pensée libre dans l’évolution des peuples » -A. C. : « Mobilitazione spirituale » - Nel Vasto Mondo: « Entre Chine et Japon: Scie-Ton-Fa » - Documenti personali: « Testamenti spirituali » di J.Mactaggart, A. Flavio Guidi, L. Alessi - Pagine da meditare: A. Faria de Vasconcellos, Henri Guilbcaux, Gustave Dupin -Guerra alla guerra : Paul Otlet, W. S. Bryan, Mod. Cugnolio, Giov. Zibordi. Nino Mazzoni; Un libre pensuer - Consensi ed appunti: « Il Convegno internazionale di Zimmerwald, il « Congresso Generale del lar voro » di Francia; Più alto che del iragor delle anni ; A traverso i giornali » - Rassegna bibliografica (M. Hebert, G. Rensi, L. Limentani » - Rivista delle Rivista: « Filosofia e poesia nell’opera di M. Maeterlink; Filosofia americana; L’istinto delle formiche; I fondamenti biologici della morale ; Precetto morale per gli uomini nuovi; La morale nell’età vedica, ecc. ecc. » - Tribuna del « Coenobium » - Note a fascio - L’opera del « Coenobium » per profughi, internati, civili e prigionieri di guerra.
Bollettino della Società Teosofica Italiana, luglio 1915.- E. F.: « Il significato bio-filosofico della guerra » - B. V. M.: « Pensieri sulla tolleranza » - G. E.: « Solidarietà ».
- Agosto 1915 : A. Besant : « Mrs Besant e la guerra attuale » - A. Besant: « Fratel-lanzaeguerra» - G.E. Sutcliffe: « Scienza e civilizzazione ».
La riforma italiana, 15 agosto 1915. - R. Murri: «Neutra-
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lismo e misticismo » - Nino Selvaggi: « L’essenza della religione » - P. V. a Evoluzione morale e religiosa » - R. Otto-lenghi : « Ebraismo, Cristianesimo, Unità religiosa » - C. Bianchi - « La Democrazia della Religione ».
- 15 settembre 1915 : « Chiarimenti e dissensi » - Prof. A. Chiappelli : « La nostra inchiesta » - V. Garretto: « Il sentimento religioso e la guerra » -C. Bianchi : « Lo sviluppo della democrazia » - Id. : « L’Istituto sociologico Solvay a Bruxelles » L. Giulio Benso: « Corriere femminile; Presente e futuro» -B. Wallace: » Figure di precursori : Giovanni Valentino Gentile ».
Vita e pensiero, Milano, 20 agosto 1915. - G. Tomolo : « La voce del Papa » - M. Brusa-delli: « Un anno di Pontificato » - Veritas : « Benedetto XV e la nostra guerra » - A Gemelli : « Quanto durerà la guerra attuale ?» - Giuseppe Pascoli : « Caratteri della guerra moderna » - F. Meda : « Dall’ Elba a S. Elena » - A. Cojazzi : « Nel I centenario della nascita di Don Bosco » - P. Mezzetti : « Attività scientifica della specula vaticana » - A. Cantoni : « I so cialisti e il futuro Congresso della pace ».
- 20 settembre 1915, Voi. II, fase. 3. - A. Gemelli: « La psicologia della disciplina militare » - E. Vercesi: « La risurrezione della Polonia » - G. Semeria : «Un generale geografo » - G. Pascoli : « La guerra sui mari » - G. Ellero: « Canzone presso il valico di Monte Croce » - Freneo: « La moda » - F. Ol-giati : « L’ ultimo volume di G. D’Annunzio » - G. Grondona: « L’arte italiana e la guerra » -Veritas: «Benedetto XV e la questione romana » - A. Gemelli : « I problemi scientifici della guerra: La guerra e il freddo ».
Il movimento religióso.
« Le ore tragiche, in cui viviamo, esasperano il sentimento religioso del popolo. E’ sorprendente quanto senso di pietà, sopravviva ancora tra noi Tedeschi.
« Umiltà, fiducia in Dio, fede, sentimento dell’eterno costituiscono la nota fondamentale di quasi tutte le manifestazioni dei colloqui intimi sino ai saggi dei nostri fogli anche più liberali. Nei circoli e nei giornali, in cui la realtà della fede da lungo tempo si volatilizzavano in dubbi e idealità religiose, e volentieri svaporavano nei cosidetti risultati scientifici, si è di nuovo svegliata la credenza che la fede non sia semplice convinzione di opinioni, ma elementare manifestazione del più profondo essere intimo, che, attraverso tutti gli strati della coscienza, aspira al possesso del mondo invisibile.
« Tutto ciò non ha nulla a vedere con le preghiere disperate, che sono sempre e dapertutto manifestazioni di debolezza. Poiché nessuna debolezza ci prende, ma è la forza che si rivela. Tutto ciò è anche diverso dalle aspirazioni religiose che costituiscono la ricerca affannosa dell’epoca.
« Il nostro popolo non cerca più Dio. Egli lo ha già trovato. È una cosa mirabile vedere come lo scoppio della guerra abbia condotto la nazione a prendere coscienza di Dio. Dio ha visitato con le sue afflizioni il suo popolo. Egli è entrato in mezzo a noi. Nell’ora tragica del destino, che egli ci ha mandato, noi lo riconosciamo e lo afferriamo. Egli ci chiama, e noi gridiamo di gioia verso lui. Questo, l’avvenimento che era sulle labbra di centinaia di migliaia e di milioni quando cantavano: « Una fortezza ferma è il nostro Dio. »
«Un grave compito spetta oggi alla Chiesa e con essa a tutti i circoli cristiani coscienti, qualunque orientamento e qualunque colore essi abbiano. Essa è evidentemente al suo posto nel periodo storico di una nuova rivelazione, che essa esplica a coloro che la vivono oscuramente, con immediatezza diretta e non attraverso confronti e trasposizioni, tratti dalla storia della rivelazione passata. Dio ci ha ora dato nuovi testi. Guardate, egli vi predica su di essi, e lasciate da parte le antiche pericopi, fino a che egli non ci parlerà ancora meno chiaramente che adesso. Altrimenti dobbiamo temere che la luminosa parola di Dio, che risuona oggi tutta viva nella nostra anima, non venga alterata e falsata. Ciò è già avvenuto. È stato detto che la guerra sìa una punizione di Dio per i nostri peccati. Questa è una bestemmia orribile. Essa deve rivoltare ogni sentimento della verità. Questa guerra è una immeritata grazia di Dio e se essa, come ogni grazia, influisce come un giudizio su tutto ciò che di fronte alla grazia non sussiste, essa è compassione, e non punizione. E noi l'abbiamo vissuta come un rimedio salutare, come un aiuto. Non ci lasciamo dunque fuorviare dalle chiacchiere.
« Io sono ben lontano dal misconoscere o dall’atte-nuare i nostri peccati. Io li sento invece profondamente. . Il nostro popolo era pieno di peccati e in pericolo di
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¡»erdersi c di rendere vana la sua missione. Non perciò 1 gueira è una punizione, ma piuttosto la redenzione dai peccati. Per mezzo di essa Dio ci ritrae da essi, e noi diventiamo liberi se ci lasciamo tirar fuori.
■ Mal si confà a tempi così gravi questa vana stoltezza e s’impari dalla realtà piuttosto che aggrapparsi all’antico Testamento. La punizione per il dominio dell’egoismo, dell’ignavia, dell’avidità dei propri comodi, dei delitti contro natura consiste nel regresso terribile delle nascite. La punizione per l’immoralità dilagante sono le devastatrici malattie sessuali. La punizione per l’esteriorità e la vanità, per l’orgoglio e l’ambizione, sono la vuotaggine e la debolezza di molti uomini. E ci sono così molti peccati e molte punizioni. Per che cosa dunque questa guerra dovrebbe essere una punizione? E cosa abbiamo fatto noi per meritarla? Mai da che il mondo esiste, è stato spinto alla guerra popolo più innocente del nostro. Dobbiamo noi essere puniti per il nostro amore per la pace, per la nostra fedeltà e la fiducia di fronte agli altri popoli, per la nostra generosità, con la quale noi lasciamo partecipare gli altri ai tesori della nostra cultura, così generosamente sino a farne soffrire i nostri stessi concittadini’. Se la guerra è una punizione, essa sarebbe la punizione per le nostre virtù che sono andate troppo oltre. Ci si risparmi dunque questa stoltezza che la guerra sia la punizione dei nostri peccati. Essa non ha nulla da vedere con questi. Sarebbe stata una punizione qualora essa non fosse scoppiata, perchè allora probabilmente noi saremmo sprofondati i n essi ».
L'attitudine del cristiano di fronte alla guerra.
« È incredibile, ma vero: in un foglio cristiano è stata effettivamente trattata la questione, quale deve essere l’attitudine di un cristiano di fronte alla guerra. Questa però non è una questione. A noi nulla si domanda nè noi abbiamo nulla da domandare: noi abbiamo semplicemente da marciare. Noi abbiamo abbracciata la guerra con tutta l’anima nostra. Noi dobbiamo combattere, come se la preghiera non servisse a nulla, e pregare, come se il combattere non servisse a nulla. Noi dobbiamo fare la volontà di Dio, e la volontà di Dio è per noi, adesso, di sbaragliare e di ridurre rapidamente all’impotenza tutte le nazioni, le quali vogliono accerchiarci ed annientarci. Noi dobbiamo abbandonare al nostro popolo e beni e sangue. Colui che esita o che bara al gioco, è un disobbediente e un infedele, un disertore e un traditore di fronte a Dio. Amare Dio significa combattere questa guerra.
« Tuttavia noi siamo cristiani! Certamente, e perciò vale anzitutto per noi quello che vale per ogni tedesco. Se la nostra fede non pervade il nostro sentimento popolare e il nostro dovere popolare, cosi come Gesù vuole che sia compiuta la legge, allora il Cristianesimo non ci serve a nulla. Anche in questo noi dobbiamo essere perfetti. Però l’anima nostra si ribella contro quest’uccisione in grande stile, che la guerra determina!
Foi et Vie - Cahiers A. - Paris, i° agosto 1915. - P. Doumer-gue: « Parole et silence » - C. Fullian : « Du patriotisme français au Moyen-Age » - Prof. Hugouneug : « Allocution aux grands blessés » - E. Doumer-gue: « Pour le vrai. Propos de guerre » - W. Cart : « Questions universitaires. Hier et aujourd’hui ».
- 1-16 settembre 1915, n. 15. -P. Doumergue : « « Foi e Vie » à ses lecteurs « - Id. : 0 La mauvaise parole » - M. Millioud : « Le rôle de la Suisse » - Noëlle Roger : « Gestes et Paroles de soldats blessés » - E: Doumergue: « Pendant qu’on se battait sur la Marne; Les pensées de Frédéric Naumann et de l’Allemagne, il y a un an » -P. Vallotton : « En suisse, pendant la guerre ».
Cahiers B. - Paris, i° août 1915. - Francis de Pressensé: « L’Arménie ».
- i°-16 settembre 1915, n. 14. -J. Patouillet: « L’armée et le soldat russes ».
Revue chrétienne, Paris, settembre 1915. - J.-E. Roberty: « La déviation matérialiste de la civilisation chrétienne » -L.Trial: « Le Kaiser et le Christ» E. Ritter: « Le Cymbalum Mundi » - P. Fargues : « De l’influence de la philosophie de H. Bergson sur le sentiment religieux ».
The Constructive Quarterly -A Journal of the faith, work and thought of christendom. Vol. Ill, n. 11, september 1916.-Archbishop Evdokim : « A constructive sketch of St. John the divine » - M. J. Lagrange: « Some points recently gained in the study of the Epistle to the Romans » - Archbishop Soderblom: «The Soul of the Church of Sweden » - Meredith Davies : « Congregationalism and its ideal » - Adolf Deiss-mann : « Christianity in Germany during the war » - E. A.
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Pace: « Education and the constructive aim » - Charles Johnston : «The controversy between st. Paul and st. James»-Arthur J. Gossip: « A footnote to Buddhism • - Vera Johnstone : « The coming of archbishop Evdokim » - F. J. Po-wicke: « Jeremy Taylor ».
The Biblical World, September 1915. - Editorial: « The Temptations of the middle-aged Christian » - Henry Churcnill King: «Difficulties Concerning Prayer I » - Henry Thatcher Fowler: « Aeschylus and the Eighth-Century Prophets» -Ray O. Miller: «The Permanent and Transient Elements in the Life of Jesus »-James H. Snowden: «Philosophical Idealism and Christian Theology » - Boss W. Sanderson: « A New Pietv»- E. Gens Talbott: «The Relation between Theology and Sociology » - Lewis Bayles Paton : • Archaeology and the Book of Genesis XII » - Herbert L. Willett: « The Religious and Social Ideals of Israel. I».
- Agosto 1915. - Editorial: » The Internationalism of the Spirit» - John E. Boodin: « The Function of Religion » - S. M. Dick: « The Church and the State University» - Lewis Bayles Paton: « Archaeology and the Book of Genesis XI ■ -John E. Le Bosquet : « The Old and the New Denominationa-lism » - C. H. Richardson: « The Abuse of Biblical Archaeology» - William Baucrofttall: « Religious Life at Vassar ».
The Modern Churchman, ago-sto 1915, Vol. V, n. 5. - Personalia : The Master of the Temple ; The Dean of Ripon - Signs of the Times: A Tonic for Liberal Churchmen; A New Lay Movement; Salvation by Hy-fothesis; The Real Remedy;
russianism in the Church; Visions of Angels; The War and the Churches - An Impression and an Appeal (GunAnzitutto, non scambiare la tua anima con i tuo; sentimenti. Tu devi rinnegare ora i tuoi sentimenti, come tu devi farlo sempre, quando accade ciò che è per natura sua necessario. La tua anima però deve illuminartisi tutta se tu compi sui tuoi nemici una specie di giudizio divino. Ciò che Dio vuole, l’anima deve eseguire, se ciò è giusto che accada. L’anima tua deve riempirtisi di santo sdegno contro quei criminali i quali da lunghi anni preparavano nel segreto la nostra perdita e volevano annientarci assassinandoci, e che non si vergognavano di spargere il sangue di milioni di uomini e di gettare nel dolore, nella miseria e nella disperazione la popolazione di mezza Europa per soddisfare la loro fame di dominio, la loro vendetta e la loro cupidigia. La tua anima deve concederti una resistenza instancabile a strapazzi sovrumani, dare una forza di acciaio ai tuoi nervi nel turbine infernale delle battaglie, e coraggio, eroismo, energia, superiorità spirituale, come solo essa può dare. Correte all’assalto come angeli con le spade di fuoco. Voi siete ora gli esecutori della volontà di Dio, della collera divina sulla putrida pace d’Europa, che i popoli d’Europa avevano sopportata per tutta una generazione.
« Noi soffriamo, senza dubbio, con tutte le fibre della nostra anima di fronte alla presente uccisione di milioni di uomini, di fronte alle devastazioni vandaliche, di fronte alle crudeltà, che l’odio genera, di fronte alla disperazione dei torturati. Questa compassione per gli orrori della guerra e per le rovine spirituali, che ne sono la conseguenza, è quasi insopportabile. Però questa Bissione e questa compassione sono la visita di Dio.
gli le ha inviate ed Egli ne soffre in tutta la loro estensione e profondità. Noi non ne sperimentiamo che una piccola parte e solo imperfettamente possiamo sentirle e rappresentarcele. Egli vive tutto questo mare di sangue e di lagrime nell’incendio dei tormenti e della disperazione, da cui un nuovo mondo deve scaturire. E perciò noi non dobbiamo opporci a questa visita di Dio, ma noi dobbiamo, come suoi figliuoli, accettarla e sopportarla. Noi vogliamo essere gli organi della sua azione e del suo sentimento. In comunione con lui, con il Dio vivente, che ora manda in frantumi il mondo civilizzato come un putrido edificio e seppellisce milioni di persone sotto le sue rovine, noi vogliamo compiere la parte che ci è stata affidata, anche se noi dovessimo far saltare in aria migliaia di persone o curare e far guarire i feriti a morte.
« Se il nostro Cristianesimo non fosse saturo di sentimentalismo, vale a dire di mollezza e di malinconia, se non fosse divenuto un distruttore della vera sensibilità, noi non brontoleremmo quando Dio si rivelerebbe a noi, come oggi, in una tormenta devastatrice di miseria e di morte. Da ciò deriva che ogni male è stato sempre attribuito al diavolo. In verità, esso proviene ugualmente da Dio come il bene. Il male è soltanto l’aratro dei bene, la buccia amara del bene. Sofferenza, tormento, crudeltà, uccisione sono cose inumane ma sono cose divine. Per lo meno, nulla nella natura è scaturito senza questi
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orrori infernali. Ciò che dà loro una giustificazione divina e che le rende sopportabili anche alla fede, è la sovranità di Dio, il quale si nasconde dietro di esse come il sole dietro le nuvole cariche di grandine, la sovranità divina, davanti alla quale esse in nulla si scolorano. Le sofferenze di questo tempo non sono degne della sovranità divina, che in esse si manifesta. Per ciò Dio non prende al tragico anche le più terribili pene, per quanto profondamente Egli le senta in sè nel loro insieme e in dettaglio. Così come sono oggi i popoli e gli uomini, Dio non può eliminare le spaventevoli catastrofi della guerra. Occorrono queste scosse vulcaniche e i disastri della guerra perchè gli uomini non imputridiscano nella 'loro civiltà ipocrita e menzognera. Poiché la nostra civiltà è un sepolcro imbiancato pieno di putridume e di ossa di morti; un’illusione che ci fa dimenticare che gli uomini preparano più sofferenze, miseria, tormenti e disperazione durante la più profonda pace che in tempo di Suerra. Che si pensi agli innumerevoli maltrattamenti ei fanciulli, agli inferni matrimoniali, ai campi di battaglia delle industrie chimiche. Le guerre sono operazioni divine sui corpi degli uomini. Può il cristiano sottrarcisi, se Dio le comanda? Egli deve essere solo capace di effettuarle secondo il piano divino, perchè esse possano avere un influsso redentore, liberatore e ricostruttore.
« Perciò, o cristiani, rimanete nella vostra fede e non disperate, siate virili e forti, perchè non abbiate da soccombere sotto le vane oscillazioni dei vostri sentimenti.
« Però Gesù ha detto, non vogliate resistere al male, ma amate i vostri nemici. Certamente,, io so bene di avervi tradotto chiaramente e di avervi reso attuale il sermone della montagna. Ma voi avete dimenticato che io vi ho fatto afferrare il suo significato vivo e presente, avete dimenticato, che il sermone della montagna si rivolgeva a coloro i quali sono raffigurati nelle beatitudini e che rivelano la nuova moralità del regno di Dio. Ben altri sono però gli ordinamenti e i principi morali del nostro mondo. Essi riposano sulla retribuzione e reclamano la giustizia interiore. Nel sermone della montagna non si parla di condottieri di eserciti nè di diritto penale, nè del potere dell’autorità. A nessuno di voi è venuto in mente di valutarne la portata secondo le parole di Gesù e a buon diritto. Lasciate perciò fuori questione anche la guerra, che per metà è affare delle autorità, a cui noi dobbiamo essere soggetti, e per metà al destino dell’umanità a cui dobbiamo adattarci.
« Io temo, che la maggior parte di coloro che contro la guerra fanno appello a queste parole, non hanno mai pensato alla loro vita personale, e molto meno l’hanno realizzata. Chi però lo ha fatto, chi sente in se le fonti di questa nuova moralità, che sola è valevole per la guerra fatta secondo la mente di Dio, egli potrà effettuarla come vorrebbe saperla fatta dai suoi figli.
< Noi seguaci di Gesù dobbiamo farla obbiettivamente così come i medici fanno le operazioni, i giudici puniscono; la polizia deve ricorrere alle costrizioni, senza
ner Officer) - Rugby’s Contribution to Religion (H. L. W.) -Peace or Principle? (Rev. Cavendish Moxon) - Divine Providence (Rev. H. Symond) -Churchmen’s Union Problems: The Policy of the Churchmen’s Union (Rev. Canon Papillon) ; The Churchmen’s Union and Dr. Sanday’s Advice (Rev. J. M. Thompson; ; The Churchmen’s Union and Action (Rev. R. Gordon Milburn).
- Settembre 1915, Vol. V, n. 6. - The Rugby Conference: Conference Themes; Teaching of the Old Testament; Teaching of the New Testament; Teaching of the Creeds; Kikuyu Problems; Joint Communion; Reform in Lay Representation; The Training of the Clergy - Christianity and Patriotism (Rev. H. H. Henson) - Fact and Interpretation (Rev. H. C. Townsend) - John Hus (Rev. J. W. Hunkin) -God is Spirit (Rev. John Gamble).
Pubblicazioni pervenute alla Redazione
Estratti, Opuscoli, Libri.
Hrand Nazariantz: Bedros Turian, poeta armeno. Dalla sua vita e dalle sue pagine migliori, con;! cenno sull’arte armena. Con una prefazione di E. Cardile. Bari, Laterza, 1915. Voi. I, pag. 58. L. x.50.
Antonio Marchetti: Intorno al metodo del catechismo nelle parrocchie proposto dai sacerdoti Ravanelli e Vigna. (Estratto dal « Risveglio Catechistico • di Chieri). Chieri, 1915.
Pietro Zama : L’idealità della donna nella- vita. Conferenza. Brisighella, 1915- Opuscolo di 35 pagine.
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Istituto internazionale • Cran-don », in Rema. Programma e Regolamento. Scuola e convitto per signorine. Anno scolastico Ï9i5-I9,6. Volumetto illustrato di pag. 51.
Enrico Pappacena: Poemetto di Dentecane. Barga, 1915. Bel volumetto di 140 pagine, con xilografie di A. Balduini.
Donato Stanganini : Il battesimo cristiano secondo le Scritture.- Atteggiamenti dei credenti in tempo di guerra. Sampierda-rena, 1915. Opuscolo di 40 pag. cent. 15.
Pendant la guerre. Discours prononcés à l’Oratoire, au Nouveau Temple de Lyon et au Foyer de l’âme à Paris (io° volumetto). Fischbacher Ed., Pa-* ris, 1915. Pagine 100. L. 1.25.
Vittorio Macchioro : Lettere agli Italiani. Napoli, 1915. Pagine 87. L. 0.30.
Herbert Leslie Stewart: Nietzsche and thè ideale of modem Germany. London, Edward Arnold, 1915. Pag. 235.
Jeanne De Vietinghofl: L'in-igence du bien. Paris, Fischbacher, 1915. Pagine 220. Prezzo L. 2.75.
W. KemmeLandels: Manuale ad uso dei Ministri Battisti e specialmente dèi Pastori laici. Torino, Tip. « Il Risveglio » 1915. Volumetto di pag. 62.
LIBRERIA EDITRICE " 6ILYCHHIS ”
Via Crescenzio 2, ROMA
[Novità] Pendant la guerre. Discours prononcés à l’Oratoire, etc. à Paris.
Volumetto 70: En rançon pour plusieurs (C.-E. Babut) -• Il faut opiniâtrer » (John Vié-not) - La guerre et la bonne
eccitazione personale, senza rabbia, senza spirito di vendetta, senza voluttà di far del male ai poveri uomini innocenti, che noi dobbiamo falciare per compiere il nostro dovere, senza far pesare su di essi i loro attacchi contro di noi. La nostra collera deve essere santa, come si conviene agli esecutori della volontà di Dio. Perciò, noi dobbiamo divenire santi, per fare la guerra. Noi non possiamo combattere lontani da Dio, ma in comunione con lui. Pieni e infiammati di lui, possiamo e dobbiamo, simili ad angeli, colpire e abbattere con la spada di fuoco, che Egli ci mette nelle mani.
« Noi dobbiamo condurre la guerra pieni di amore e di pietà. Amando, dobbiamo noi uccidere, pieni di pietà, dobbiamo noi cercare di sbaragliare il nemico con tutti gli strumenti della violenza; pieni di compassione profonda, apportare dolore senza fine alle infelici vittime del destino bellico. La guerra ci offre effettivamente l'occasione di amare i nostri nemici e di dimostrare loro il nostro amore, sebbene noi dobbiamo prostrarli e renderli impotenti con tutta la nostra forza spirituale e corporale.
« Noi questo facciamo. Io vedo risplendere nel nostro esercito tedesco, risplendere la nuova moralità di Gesù, più che prima, durante la pace nel nostro popolo. Sa Iddio se noi conduciamo questa guerra con tutta obbiettività, umanità e pietà. E questa rivelazione della vera umanità in mezzo al giudizio di Dio, che noi abbiamo realizzato, non potrà essere soffocata neppure da un diluvio di menzogne e di calunnie. Quei milioni di Francesi, di Russi e d’inglesi, che la sperimentano con stupore, saranno colpiti nel loro intimo da questo raggio del vangelo di Gesù. Lo spirito di quest’obbiet-tività e umanità domina nel nostro esercito e tiene imbrigliati nei loro confini, con una disciplina forte sino alla morte, tutti gli istinti contrari. Questo spirito riempie inoltre le grandi masse dei nostri soldati e si manifesta spontaneamente in ogni occasione.
« Noi non odiamo nè i Russi, nè i Francesi, nè gli Inglesi. Noi dobbiamo, a qualunque prezzo, vincerli, ma noi non vogliamo perderli. Noi facciamo la guerra per noi come per loro. Noi vogliamo liberarli dai loro demoni, che li tormentano e li spingono nell’abisso. Nelle carceri russe si prega per la vittoria dei Tedeschi. L’anima francese sospira incosciamente verso la liberazione dalla passione dèlia vendetta, dell’odio e della leggerezza, che la tiene prigioniera, e l’Inghilterra deve essere curata, guarita dal suo orgoglio faraonico e dalla schiavitù di Mammona, se essa non vuole affogare nell’ipocrisia e nel putridume.
«Tutta l’esitazione dell’attitudine del Cristiano di fronte alla guerra viene da questo che si considera la condotta della guerra come una manifestazione della vita individuale e personale, come funzione del singolo. Però cosi non è. Essa è azione di popolo e viene compiuta per ogni partecipante.
La grande cosa dell’aspra epoca che noi viviamo, consiste, tra l’altro, in questo che l’esistenza del singolo viene assorbita pienamente nella lotta per l’esistenza dell’in-
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tera massa, sino ad estinguere il sentimento individuale. Almeno per me, sotto le sofferenze mostruose e i mostruosi compiti del nostro destino, il mio proprio essere con tutti i suoi desideri, le sue esigenze, le sue vedute e i suoi principi è stato completamente assorbito. Io sono soltanto popolo, io sento soltanto come popolo, tutto il resto è morto. Ciò sentono innumerevoli persone e cosi vivono i nostri eroi; io sono nulla, il mio popolo è tutto.
« Per me e per tutti, che cosi comprendono le cose, la guerra rappresenta una difesa forzata del nostro popolo, alla quale esso è, e con esso anch'io che sono sua parte, moralmente autorizzato e obbligato, chiamato per missione religiosa e investito per ciò di pieni poteri. E perciò dobbiamo noi con tutti i mezzi atterrare, non i singoli Francesi, Inglesi, Russi, ma i popoli, che vogliono strangolare il nostro. Popolo sta contro popolo, e come m’innalzo e mi abbasso nel mio popolo, così anche il « nemico », verso la cui morte io tendo, s’abbassa e s’innalza col suo popolo. In realtà, nessuno è individualmente mio nemico: il suo popolo è nemico del mio, e Serciò egli deve sanguinare come una parte vulnerabile el suo popolo.
«Così sentita la guerra, non si cade generalmente di fronte ad essa nell’imbarazzo dei poveri individualisti. E io non ho l’impressione, che la mia anima abbia da soffrire per le uccisioni da me commesse, ma che invece essa ha ricevuto più aria per il suo sviluppo che non prima, quando io stavo costretto dentro i limiti della mia individualità. E io spero, che questa spogliazione di me stesso, che io non ho ottenuto con sforzo alcuno, ma che solo la necessità del nostro tempo ha determinato, mi spinga avanti nel mio nuovo divenire. Ciò sentono oggi, senza saperlo e senza volerlo, coloro i quali, e di dentro e di fuori, e col corpo e coll’anima, hanno fatto di se stessi sacrifizio alla patria.
« Si domanderà, forse, quale debba essere, di fronte a questa guerra, l’attitudine dei cristiani in Francia, in Inghilterra e in Russia, i quali senza necessità cospirano al nostro annientamento. A questo io potrei rispondere, che non me ne importa nulla. Io non posseggo nessun lume speciale sopra cose, rapporti, doveri e diritti, che non mi concernono. Io penso però che, se essi sono divenuti popolo come me, saranno essi per ciò stesso, la coscienza ostinatamente pugnace e ribelle del loro popolo. Se essi hanno da scendere in campo, essi debbono custodire la loro fedeltà nell’obbedienza. Ciò è stato detto già abbastanza spesso, che i singoli non hanno la libertà di fare tutto quello che potrebbero e dovrebbero secondo il loro impulso interiore, ma che debbono rinnegare la loro individualità per il bene della massa intera, che debbono sottomettersi ai costumi e alle leggi vigenti. (Si pensi, per esempio, alla rinunzia dolorosa di molti alla discendenza, per riguardo agli ordinamenti vigenti della popolazione). Perciò anche i soldati inglesi francesi e russi, i quali come cristiani e come patrioti dovrebbero opporsi a questa guerra, debbono
conscience (H. Bois) - Le courage qui ne se perd pas (H. Barbier) - Source au désert (Ch. Wagner).
Volumetto 8°: Où est ton Dieu ? (G. Boisson nas) - Le rameau (Ch. Wagner) - La France d’hier et celle de demain (Ch. Vernes) - La garde du coeur (Frank Puaux) - Le Monde vaincu (W. Monod) - Pour la théologie (J.-E. Roberty).
Volumetto 90: Les deux paix (H. Barbier) - Le désir de mourir (J.-E. Robcrtv) - La branche d’amandier (Ch. Wagner) -L’homme mort revivra-t-il ? (J. Viénot) - Lumière de Pâques (Ch. Wagner) - Pas de Eaix hors de la Justice (E.
oulier).
Ogni volumetto di pag. 100: L. 1.25.
(Novità] J eanne de Vietinghoff, L'intelligence du bien. Pagi ne 220. L. 2.75.
Sommario : Préface - Le Bien - La Transgression - Les Circonstances-L’Action de l’homme-Le Miracle de Dieu - Jours de disette - Aux vaincus - Le Courage du doute - L’Espérance - Nos Déceptions - La Fraude - Les Exceptions - La Patience qui supporte - Le Respect de l’amour - La Grâce et l’inspiration - Le Détachement - La Force tranquille -La Certitude.
(NovitâJ Jean Lafon : Evangile et Patrie. Discours religieux. (2® volume). Pag. 360. L. 3.75.
Sommario : 1. Renouvellement - 2. Maîtrise de soi -3. L’héritage des Pères - 4. Ce que Dieu vent - 5. Aux affligés - 6. La tentation des représailles - 7. Un bon soldat - 8. Les armes du soldat - 9. La défaite - 10. La victoire - 11. Le doute d’un prisonnier - 12. La grâce qui suffit - 13. En avant!
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[Novità]. Louis Trial : Sermone patriotiques prononcés pendant la guerre 1914-1915. Volume di pag. 100. L. i.25. (A beneficio dei feriti).
Sommario: Motifs d’éspéran-ce - «Consolez, consolez mon Jcupio - «Demeurons fermes ans la profession de notre foi » - La patrie - Exaltation du patriotisme.
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[Novità]. Romolo Murri, La croce e la spada. Firenze, 1915. Voi. in-8° di pag. 216. Prezzo L. 04)5.
Sommario: Tutta la storia è religione (Il turbine spirituale - Nuova inquietudine religiosa - La religione fastigio di ogni vita). - Tutta la storia è guerra SLa guerra senza confini - Ve-iute parziali e unilaterali - La 1>ienezza della guerra). - La igica della violenza (Le interne antitesi della storia - I teorici della volontà tedesca - I teorici della razza tedesca - I teorici della guerra tedesca). -La logica della rinunzia (Il nazionalismo giudaico - Il regno dei cieli e il rovesciamento della storia - Filosofia indiana della guerra - Il vangelo della rinunzia e la storia). - Il cristianesimo e la guerra nei secoli (I due regni. Teologi e asceti -La teologia di Lutero - L’alterna vicenda - La decadenza e il neutralismo papale - La nuova coscienza religiosa). -Nazioni e religioni d'Europa (La nazione, come fatto religioso - La Spagna - L’Impero austriaco - La Francia - La Germania - L’Inghilterra -La Russia). - I responsabili della guerra (L’importanza della ricerca-La responsabilità della Germania; La premeditazione; la preparazione; l’aggressione; la violenza brutale - L’ Europa contro la Germania - La reatuttavia combattere, se essi non vogliono rinunciare ad essere la coscienza vivente del loro popolo.
« La questione dell’attitudine del cristiano di fronte alla guerra è una questione di cristianesimo teorico, che riflette invece di vivere, che vuol rendersi consapevole della verità piuttosto che lasciarsi immediatamente illuminare dagli avvenimenti. A colui, il quale, di fronte alla guerra come a tutta altra cosa, esce fuori dal suo io e ciò sente sin nel profondo della sua anima, si manifesta il Dio e Padre vivente, ed egli si colloca allora spontaneamente nella posizione giusta di fronte alle esigenze e agli orrori della guerra, se tiene ferma, anche in questa necessità spaventevole, quella linea di condotta che la vita di Gesù suggerisce. Che ciò possa avvenire a molti, affinchè la grande calamità, che oggi incombe sopra l’Europa, giovi ad affrettare l'avvento del Regno di Dio ».
Antonino De Stefano.
ITALIA
VANGELO E GUERRA SECONDO IL P. GENOCCHI
È apparsa in questi giorni una Piccola Vita di Gesù er i soldati — illustrata con 38 riproduzioni di capi-rori della pittura italiana — edizione (1) curata dal P. Giovanni Genocchi sotto gli auspici della Società della Gioventù Cattolica Italiana.
Riproduciamo qui integralmente — per la nostra documentazione — il proemio che il P. Genocchi ha premesso alla Vita di Gesù, nel quale egli vuole spiegare il pensiero cristiano di fronte alla guerra.
AI SOLDATI.
Un dubbio.
Dare ai soldati la Vita di Gesù Cristo, specialmente poi se i soldati sono in guerra, può sembrare una mezza contradizione in termini. Gesù Cristo nel suo Vangelo predica la pace, la rassegnazione, il perdono, l’amore dei nemici; tutto al contrario i soldati si vendicano con la spada e col fucile e credono di far il proprio dovere ammazzando più nemici che possono. Altro che perdonare e sopportare con pazienza le offese*
Le idee di Tolstoi.
Già, proprio così ragiona certa gente, e cosi ragionava Leone Tolstoi, che pure è stato uno dei più grandi scrittori che noi ricordiamo. Anzi egli diceva che se i nemici vengono a casa nostra per rubarci tutto ed ucci(<) Desoli« & C„ Editori Pontifici. Roma, 19x5. Volumetto di pag. x<6. L. 0,75.
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derci, noi cercheremo di persuaderli con le buone, ma non dovremmo neppure alzare una mano per fermarli. E se ci derubano e uccidono, sarà peggio per loro che fanno il male, e meglio per noi che faremo il bene morendo evangelicamente. E Tolstoi parlava sul serio e credeva a quel che diceva.
Come si può arrivare a certe idee.
Questo fatto strano si spiega così, che quel grand’uomo d’ingegno altissimo, non appartenendo alla Chiesa Cattolica e volendo ragionare a modo suo con piena indipendenza, aveva preso il solito granchio di quasi tutti gli inventori di eresie (1). Costoro scelgono un testo separato del Vangelo e ne tirano giù le estreme conseguenze, senza voltarsi nè a destra nè a sinistra per vedere se ci fossero mai altri insegnamenti divini che ci mostrino in che senso e misura si devono prendere certe sentenze. Sentenze bellissime, ma espresse a mo’ di proverbio, e perciò da interpretarsi come tutti i proverbi, con discrezione e restrizioni opportune.
Come si devono intendere le parole evangeliche.
È ben vero che Gesù Cristo ha detto: « A chi ti percuote nella guancia destra presentagli anche l’altra ». Ma nè Lui nè gli Apostoli hanno mai ordinato ai soldati che si convertivano, di rinunziare alla milizia e alla guerra. E per di più vi sono tante altre cose nel Van-telo, negli scritti Apostolici e nel tesoro delle sante radizioni conservate dalla Chiesa, che la buona spiegazione di quel gran precetto evangelico non è difficile a trovare. Gesù c’insegna un ideale divino di perfezione, da mettere in pratica come meglio si può nel Sado consentito dal nostro ambiente morale, eccezione tta di alcuni grandi obblighi per i quali bisogna sacrificare tutto, anche la vita. Noi dobbiamo esser disposti a rendere bene per male e a soffrire in pace i torti che ci si fanno, purché però la nostra pazienza non sia incentivo alle passioni degli altri e causa di gravi disordini. Quando si tratta della nostra persona sarà virtù cristiana rinunziare a molti diritti per amor di pace: non così però quando si tratta delle persone che dobbiamo difendere per ragioni di famiglia, d’ufficio o di patria. Allora la virtù della pazienza malamente applicata potrebbe diventare un’ipocrisia e un delitto.
Basti un esempio. Mentre vado per i fatti miei un impertinente m’insulta. Può esser meglio tirare innanzi e tacere. Ma se ho con me un bambino di cui devo aver cura e se un malvagio comincia a maltrattarlo, potrei io prendere a pretesto i consigli evangelici e lasciar percuotere quel povero figliuolo? Sarebbe roba da manicomio. All’ingiusta violenza dovrei con tutte le forze opporre violenza; giusta, santa e meritoria violenza.
(x) La prima redazione diceva: < . . di quasi tutti gli eretici ».
zione delle coscienze). - Il neutralismo italiano e i cattolici (Ragioni e limiti della nostra neutralità - Chiesa e nazione in Italia - Democrazia e neutralismo - Il Vaticano e i cattolici italiani). - Il Vaticano e la guerra. (Le due vie - Iniziative diplomatiche - Lamenti e S»teste contro la neutralità parola del papa - La preghiera per la pace - La crisi della Chiesa - L’Italia e la Chiesa). - Aspetti religiosi della guerra. (La religione delle trincee. - Dio, le chiese e la guerra -La protesta religiosa - I cattolici tedeschi e la guerra - Religioni in guerra - Le persecuzioni contro gli ebrei - Ortodossia russa e cattolicismo austriaco - L’eredità turca e la religione nei Balcani). Ueuropa e la religione di domani. (Crisi di rinnovazioni - Universalismi che tramontano - Democrazia vittoriosa - Libertà e meccanismo - L’unità dello spirito).
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[Novità] Odoardo Jalla, Il compagno del soldato, Firenze, 1915, Cent. io. Opuscoletto di pag. 32, contenente brani scelti dalle S. Scritture e preghiere.
Indice: Inno per la patria -Il soldato arriva al Corpo - Il soldato arriva al Fronte - Come comportarsi col nemico - Il soldato vittorioso - In sentinella o in trincea - Il soldato fatto prigioniero - Il soldato ferito -All’ospedale - La morte si avvicina - Sepoltura di un compagno - Difesa del soldato credente - Amor di patria - Pensando alla famiglia - Il « Padre nostro» - Il «Credo».
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[Novità]. Pendant la guerre. Discours prononcés à l’Ora-toire et au Nouveau Tempie de Lyon.
6° volumetto contenente queste prediche: La Parole de Vé-
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rité, di J.-E. Roberty; Vers la Démocratie, di W. Monod ; La Guerre est-elle un châtiment de Dieu? di H. Barbier; L’Allemagne et le Protestantisme, di J. Viénot; L’Appel aux Moissonneurs, di W. Monod; Heureux les Morts, di J.-E. Roberty. — Anche questo, come i precedenti 5 volumetti, costa L. 1.25.
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(Novità]. P. A. Oldrà, Perchè tanti flagelli? Pag. 35. L. 0,30. Del medesimo: La preghiera per la pace. Pag. 43. L. 0,40.
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[Novità]. Mgr- Mignot, Confiance, Prière, Espoir. Lettres sur la guerre. Paris, 1915. Pag. 60. L. 0,75.
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[Novità]. Mgr. L. Lacroix; Le Clergé ella guerre de 1914. Paris, 1915. - Pubblicazione periodica. Abbonamento a 20 fascicoli L. o - Sono finora usciti i seguenti volumetti: 1. L'histoire de la guerre - Comment la préparer.
2. Le Pape- 3. Le clergé et 1* Union nationale-4. Les prières publiques - 5. Les évêques et la guerre -607. Les évêques et l’invasion -8. La grande pitié de Reims.
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[Novità]. Abbé Thellier de Poncheville, Pour ceux qui luttent, pour celles qui souffrent. Viatique de guerre. Paris 1915. Pag. 150. L. 1,25.
Sommario: Le Pater du soldat - Notre mère du ciel -Les mystères douloureux de la guerre - Les mystères glorieux - Pour ceux qui meurent - Tristesses et espérances -Pour celles qui souffrent au foyer - La mission de la .Croix-Rouge.
Dovere e merito dei Soldati.
Ai Re e ai Governi, per divino ordinamento che è peccato non rispettare, sono affidate le Nazioni. Solo essi possono decidere se e quando sia da ricorrere alla guerra per la difesa dei diritti conculcati. Chi è chiamato alle armi deve ubbidire non solo per necessità ma per coscienza, e deve usarle contro il nemico.
Ed ecco in che modo il soldato combattente non è fuori della grazia di Dio, anzi può essere un buon discepolo di Gesù Cristo e guadagnarsi il Paradiso compiendo cristianamente il suo dovere di soldato.
Parole consolanti del Cardinal Mercier.
• Se mi domandate (dice il grande Arcivescovo Belga) cosa pensi io della salute eterna di un bravo soldato, che sa di dar la vita per difendere l’onore della Patria e vendicare le ingiustizie, rispondo subito che Gesù Cristo premia senza nessun dubbio il valore militare, e che la morte, accettata cristianamente, assicura al soldato la salvezza dell’anima sua.
« Nostro Signore ha detto che non c'è mezzo migliore di praticare la carità, che dando la propria vita per quelli che si amano. Majorem hoc diteci lonern nemo habet, ut animam suoni ponal quis pro amicis suis. E il soldato che muore per salvare i suoi fratelli, per la difesa di quanto vi è di più caro e nobile nella Patria, compie questo altissimo atto di carità ...
« Tanto è il valore di un atto di perfetta carità, che da sè solo cancella tutti i peccati della vita passata e fa in un momento diventar santi i peccatori.
« Che gran consolazione cristiana per noi, pensare che non solo tra i nostri, ma in tutti gli eserciti quei soldati che in buona fede obbediscono agli ordini dei loro capi, per servire una causa che credono giusta, possono profittare della virtù morale del loro sacrificio! E quanti ve né sono tra quei giovani che forse non avreb bero avuto il coraggio di ben vivere, e si sentono nello slancio patriottico il coraggio di ben morire!
« È ben vero che Dio ha l’arte suprema di unire la misericordia e la sapienza alla giustizia, e se la guerra è un flagello per la nostra vita terrena, è tuttavia per le anime un mezzo di purificazione e di espiazione, una leva potente che le aiuta a elevarsi all’altezza del patriottismo e della rinunzia cristiana di ogni egoismo ». (Lettera Pastorale di Natale 1914).
Quel che dice S. Tommaso d’Aquino sulla guerra.
Nessuno meglio di S. Tommaso ha saputo raccogliere in un sol libro le vere dottrine della Chiesa Cattolica e trattarle da gran filosofo. Egli ha tanta autorità che la sua Somma Teologica ebbe il posto d’onore vicino alla Bibbia nel Concilio di Trento.
Affinchè non si dubiti della verità delle cose dette in 3uesta prefazione, diamo qui un sunto dell’articolo di . Tommaso sulla guerra (Somma Teologica, II, II, Quest. 40, art. i°) mettendo tra virgolette le parti tradotte letteralmente.
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Della guerra; articolo di s. Tommaso.
Potrebbe sembrare che la guerra fosse sempre un fatto peccaminoso, perché Gesù Cristo ci ha detto nel Vangelo di non resistere ai cattivi e di voltar l’altra Suancia a chi ci dà uno schiaffo. All’incontro però mt’Agostino ha scritto così: « Se la religione cristiana condannasse tutte le guerre, si .sarebbe ordinato nel Vangelo di abbandonare la carriera delle armi a quei soldati volontari che domandavano il modo di salvarsi. Invece vien loro semplicemente risposto: Non fate soprusi e contentatevi di quel che vi si dà ».
Perchè poi la guerra sia giusta occorrono tre cose: i® Dev’essere dichiarata dal Re e dal Governo, che hanno l’obbligo di difendere la nazione dai nemici interni ed esterni, come si deduce dalla S. Scrittura. — 2® Deve farsi per giuste ragioni e per colpe che meritino d’esser punite con le armi. Dice S. Agostino: « Son giuste le guerre, che vendicano le ingiurie contro popoli e governi i quali non vogliono dare le dovute riparazioni nè restituire quel che ingiustamente si presero. » — 3® Dev’essere retta l’intenzione di chi fa la guerra, cioè non si deve combattere per cupidigia o per sfogo di crudeltà, ma per desiderio di vera pace, con la repressione dei cattivi e la soddisfazione dei buoni.
Quanto poi agli insegnamenti del Vangelo sulla non resistenza e sul presentare l’altra guancia, « si ha da dire con S. Agostino che simili precetti si devono sempre osservare in quanto alla disposizione dell’animo, cioè in modo che l’uomo sia sempre pronto a non resistere e a non difendersi, nel caso che si debba fare così. Ma alle volte bisogna agire diversamente per il bene comune e anche per il bene di quelli contro cui si combatte ».
(Nota: Per il bene comune, perchè in una società dove i cattivi sono molti, guai se i buoni gliele dessero tutte vinte! La vita diventerebbe impossibile e il Van-Ìelo sarebbe causa di continui disordini e di anarchia
: assurdo che Gesù Cristo avesse questa intenzione.
Per il bene di quelli contro i quali si combatte, perchè è un bene anche per loro che siano aiutati con le buone e con le cattive a mettere giudizio e a fare il proprio dovere).
Conclusione.
1. Gesù Cristo non ha proibito ogni sorta di guerra tra nazioni, come non ha proibito la repressione violenta dei delinquenti in seno alla nazione. Non c’è mai Snoia di questo nè nel Vangelo nè in altra parte del occhio o del Nuovo Testamento. Gesù ha proibito i litigi, la resistenza inflessibile, la vendetta tra fratelli, o tra Cristiani che è lo stesso. Gesù vuole direttamente la riforma dell’individuo, che dev’essere senza fiele, benigno, paziente, condiscendente, affabile, desideroso di render servizio a tutti e di sacrificarsi per gli altri. Ma nessuno è autorizzato ad estendere agli Stati le parole che il Divino Maestro rivolge ai singoli Cristiani. Nè la Chiesa, custode fedele degl’insegnamenti del Signore, nè i Santi hanno mai preteso di far ciò. Lo
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[Novità] L’Eglise et la guerre par Mgr. Batiffol, MM. P. Monceau, E. Chenon, A. Vanderpol, I.. Rolland, ecc. L. 4. Ecco i soggetti di alcuni capitoli: Les premiers chrétiens et la guerre. Saint Augustin et la guerre. Saint Thomas d'Aquin et la guerre. Les applications pratiques de la doctrine de l’Eglise sur la guerre. Synthèse de la doctrine théologique sur le droit de la guerre, ecc.
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[Novità]. È uscita — per le cure della Libreria Editrice Milanese e trovasi in deposito presso la nostra libreria — la tanto attesa traduzione italiana Autobiografia e Biografia di Giorgio Tyr-rel. È un grosso volume di 6S0 pagine, con illustrazioni. Prezzo L. 15.
Sommario. — Autobiografia (1861-1884). 1. Dublino; Nascita; Primi ricordi - 2. Po-tarlington e Bray - 3. L’età della ragione-4. Vita scolastica e collegio di Rathmines -5. Infingardaggine e incredulità - 6. Recite drammatiche; Collegio di Middleton - 7. La « Analogia » di Butler e Gran-gegorman-8. La « Chiesa alta » e influenze cattoliche; Morte del fratello - 9. Lo sforzo di credere; Amicizia con Roberto Dolling - io. Londra; Conversione e vocazione - 11. Vita in Cipro - 12. Malta; Prime impressioni della Compagnia di Gesù-13. Casa di Manresa; Noviziato dei Gesuiti - 14. Stonyhurst; L’enciclica « Aeterni Patris » e l’accoglienza fattale dalla Compagnia -15. Gli amici di Stonyhurst -16. Tomismo e Suare-zianismo.
Biografia (1884-1909): 1. Carattere e temperamento - 2. Il periodo centrale della sua vita
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nella società e gli scritti dal 1885 al 1900 (Sacerdozio - Tomismo - Primi scritti) ; « Nova et Vetera >; « Hard Sayins»; « Esternai Religion »; Incertezze; « Gli esercizi spirituali »-3. Una lunga amicizia-4. Liberalismo conciliante - 5. « A pervertcd Devotion » - 6. Richmond (Il presbiterio e le sue adiacenze ; Attività repressa) - 7. La lettera pastorale collettiva - 8. Lavori compiuti nei suoi ultimi anni di Gesuita -9. I! distacco da Newman - io. Rottura con la Compagnia di Gesù-11. La storia intima della separazione - 12. I suoi rapporti coi Gesuiti - 13. Azione militante-14. La sospensione « a Divinis » — 15. Pio X e la « Pascendi • — 16. La scomunica- 17. Modernismo - 18. « La chiesa del suo battesimo » - 19. Il problema cristologico -20. La Chiesa dell’Avvenire -21. La fine del viaggio-22. « In pace erat locus ejus » -23. Conclusione.
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[Novità]. Guglielmo Quadrotta. Il Papa, l’Italia e la Guerra. Con prefazione di Francesco Scaduto. Milano, 1915. Voi. di pag. 175. L. 2.-Estero L. 2,25.
Sommario: La chiesa romana alla morte di Pio X-II conclave di Benedetto XV -La figura del Papa e la sua preparazione politica - La caduta del potere temporale e la politica ecclesiastica del nuovo regno - La legge delle Guarentigie e il suo valore - Il Vaticano e la partecipazione dell’Italia alla guerra delle nazioni - Benedetto XV e l’Italia - Il papato in Europa -Documenti.
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[Novità] W. Monod, Le manifeste des Qualre-vingt treize. (Un cas psychologique). Paris, 1915. L. 0,50.
Stato, anche Cristiano, deve molte volte far quello che un privato o non deve fare o può non fare per spirito di carità cristiana.
2. Non sarà dunque la guerra fra Stato e Stato contro il Vangelo o almeno contro lo spirito di Gesù Cristo? Non ogni guerra, no; fuor delle ingiuste e .non necessarie. Ma è certamente contro lo spirito di Gesù Cristo che esistano ancora nei paesi cristiani quelle circostanze di rapacità, di malizia e di materialismo che rendono inevitabili le guerre. È contro lo spirito di Gesù Cristo che non si sia tutti d’accordo a servirci di mezzi civili piuttostochè della forza selvaggia per dirimere le nostre contese. Ma quando la guerra è riconosciuta necessaria dalla legittima Autorità, alla quale c’è l’obbligo sacrosanto di ubbidire, allora è secondo lo spirito di Gesù Cristo che tutti i cittadini cooperino al buon esito, chi con le armi se è soldato, chi col denaro e con altre opere se non può essere soldato, tutti con la disciplina e coi sacrifizi che il tempo di guerra richiede.
3. Leggano pure i soldati la vita di Gesù Cristo, e imparino a vincere le basse e funeste passioni per tener alto lo spirito e sano il corpo, perchè la Patria ha bisogno di tutte le loro forze. Imparino ad affrontare generosamente i disagi, i dolori e la stessa morte per i fratelli, cioè per la Patria, e santifichino i grandi e nobili sacrifizi col pensiero di quelli che il nostro Salvatore ha voluto spontaneamente fare per noi. I soldati in guerra hanno un Calvario da salire, ma dopo il Calvario non può mancare nemmeno per essi la gloria e la beatitudine.
4. Quando gli uomini vivranno davvero da cristiani, col Vangelo per regola comune della vita, e sarà il Regno di Dio (Advenial regnum tuum) più diffuso e più radicato nel mondo, allora le relazioni tra gli Stati diventeranno come quelle dei buoni Cristiani che non ricorrono alle armi per far valere le loro ragioni, e così finiranno le guerre.
1’ ottobre 1915. p, Giovanni Genocchi.
INGHILTERRA
La religione dopo la guèrra.
Lo spettacolo ed il senso della crisi religiosa che dilacera le Chiese Cristiane con tanta maggiore violenza, quanto più in esse il fermento del Vangelo è vivo e operoso, pone a molte anime religiose l’angosciosa questione: Che ne sarà della Religione dopo la guerra? E che ne sarà delle Chiese Cristiane? Iniziata dal Rev. Thompson sulla « Cristian Commonwealth » nel mese di agosto, la discussione si è ora allargata alla stampa laica inglese, producendo una ricca messe di risposte, com’era da prevedersi, le .più discordi. Il famoso ellenista prof. Gilbert Murray riferisce sulla Weekly Dis-
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patch una conversazione con due soldati reduci dalla guerra in Fiandra. Gli orrori di cui erano stati spettatori avevano loro ispirato sentimenti e conclusioni affatto opposte. Uno di essi esclamò sospirando: « Era uno spettacolo da far proprio credere che c’è un Dio! ». L’altro invece, persona di maggior senno, rifletté: c C’era, veramente, da dubitare dell’esistenza di Dio». Quanto al prof. Murray, egli è di opinione che « l’effetto di quest’anno di storia sarà di deprimere la religiosità supcriore, e favorire e rafforzare immensamente il tipo inferiore di religione. La forma inferiore di religiosità, che spesso è anche la più appassionata, s’indirizzerà verso un Dio che è la proiezione e oggettivazione dei terrori, degli odii, delle brame e degli egoismi del credente: mentre si affievolirà la forma superiore, la quale intesse la sua concezione di Dio col materiale tratto dal senso dei proprii doveri e delle proprie aspirazioni morali ».
Il dr. Jacks crede invece che la teologia dell’avvenire non rappresenterà il pensiero di alcuno dei due soldati, ma sarà piuttosto il risultato di una combinazione di ambedue le posizioni, benché sia impossibile prevedere quale ne sarà la forma precisa. Il Canonico Deane afferma che la guerra ha rafforzato moltissimo il sentimento religioso, ma quanto alla questione se, come conseguenza di ciò, i credenti si stringeranno attorno alle forme organizzate di Cristianesimo, rappresentate dalle Chiese, la risposta dipenderà specialmente dall’atteggiamento delle Chiese stesse, e « dalla loro capacità di dimostrare che una religiosità, puramente individuale non è la religione di Cristo ». L’arcidiacono Wilberforce, insigne oratore liberale, ha svolto nel suo volume « La battaglia del Signore », gli argomenti che lo fanno aderire alla tesi contraria a quella sostenuta dal Murray, che egli qualifica di assurda. Il gesuita Padre Bernardo Vaughan, oratore assai popolare, sostiene che la guerra porrà alla coscienza religiosa l’alternativa del bivio, in cui dovrà scegliere tra la via della religione dommatica, ben definita, la quale conduce a Roma, e quella dei ricalcitranti contro ogni credo, la quale è senza uscita nè fine. Mentre il Canonico Rawnsley crede che la guerra aumenterà la nostra fede in Dio quale spirito, e nella realtà delle forze spirituali in opposizione a quelle puramente brutali, il Decano Welldon prevede che le difficoltà contro la fede nel Cristianesimo e in qualunque altra religione diverranno più gravi dopo la guerra, benché finché la guerra dura, essa intensificherà piuttosto il senso religioso nei cuori umani.
Un corrispondente del The Times, che da un anno percorre tutte le nazioni belligeranti, descrive l’aumento quantitativo e il decremento qualitativo della religiosità tedesca durante la guerra. < La convinzione dei Tedeschi nell’assistenza diretta dell’onnipotente ad ogni loro atto è incrollabile. Le Chiese sono affollate in tutta la Germania. I Cattolici, i Luterani, i Riformati, e le altre chiese, non hanno mai prima avuto nei loro templi tali folle; nè i maltrattamenti dell’arcivescovo
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[Novità). Gaetano Salvemini; Mazzini. Catania, 1915. Volume di pag. 200. L. 2,50. -Estero L. 2,75.
Parte prima. Il pensiero: Il criterio della verità - Le basi di credenza » - La educazione del genere umano - Le religioni del passato - La discordia è per ogni dove - La nuova rivelazione - La nuova dogmatica - La nuova morale: il dovere - I.a nuova politica - Le repubbliche unitarie e democratiche - La teocrazia popolare - La teoria delle liberta -Le rivoluzioni nazionali e democratiche - La missione dell’Italia - La terza Roma - Carattere religioso del mazzinia-nismo.
Parte seconda. L’azione: Influenze immediate e influenze mediate - Insuccesso della predicazione religiosa mazziniana - Unità 0 repubblica nel pensiero mazziniano - Unità e repubblica nell’azione mazziniana-Mazzini egli altri repubblicani-Mazzini e l’Unità d'Italia - Mazzinianismo e Socialismo: le analogie - Mazzinianismo e Socialismo: le opposizioni - Il mazzinianismo sociale nel risorgimento italiano.
[NoviTÀ]. Jean Lafon, Evangile et Pairie. Discours religieux (2 aout-25 décembre 1914). Pagine 210, L. 3,25.
Sommario. — 1. Notre forteresse - 2. Patriotisme chrétien - 3. Aux femmes - 4. Royaume et Justice de Dieu -5. L’attitude de Jésus devant la doleur - 6. Le but de la vie -7. Temple en ruines et Temple Eternel - 8. La jeunesse de demain - 9. Foi et délivrance -10. Nos morts-11. Comment prier? - 12. Pourquoi célébrer la fête de Noël?
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(Novità) H. Hòffding, Compendio di Storia della Filosofia Moderna, L. 5.
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(Novità). N. Turchi, La civiltà Bizantina. Torino, 1915. Volume di p. 330. L. 5. - Estero L. 5.50.
Sommario: Introduzione -1 caratteri della civiltà bizantina - L’economia commerciale ed agricola dell’impero bizantino - Le fasi della storia politica di Bisanzio - La letteratura bizantina - La religiosità bizantina - Un patriarca bizantino nel sec. IV: S. Giovanni Crisostomo - L’arte bizantina.
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(Novità). Venticinque Sermoni e allocuzioni di W. Burt: La luce del Mondo - Coraggio! -La testimonianza cristiana -La santa Cena - La Conversione di Paolo - Che cosa invece dell’anima? - Salario di peccato - L’acqua che disseta - Doveri di figliolanza -Come vivere - Tre parabole - Tutte le cose con Lui - Sul Srimo Salmo - Il battesimo elio spirito - Natale - Per la vita cristiana - Come si può vedere Gesù? - Le ultime parole di Cristo-Pasqua - Il vero fondamento, ecc. Prezzo L. 2.
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(Novità). H. Bois, Patrie et humanité. Conférence. Volumetto di pag. 73. L. 0,75 (A beneficio delle vittime della guerra).
di Malines, nè la distruzoine delle cattedrali di Reims e di Arras hanno avuto sui fedeli la minima influenza, come non l’hanno avuta le offese recate ai Belgi cattolici, che si credeva avrebbero provocato proteste di orrore. I Protestanti egualmente, sono, anzitutto, « Tedeschi ». Lo stesso « Esercito della Salute », da cui vi era motivo di attendersi qualche protesta a causa dei suoi intimi rapporti con l’Inghilterra, non ha detto una parola, ecc. ».
Il Decano di Durham, in Inghilterra, ha alla sua volta, messo in guardia contro la rinascita di abbiette superstizioni durante questo tempo di guerra, la quale, se non arrestata, rafforzata dal connubio col risveglio religioso che si va operando, renderà anche la religione solidale nella rovina che la attende dopo la guerra, per opera della reazione dello scetticismo da essa provocato. Parlando nell'Abbazia di Westminster egli ha denunziato le superstizioni e le invenzioni di pseudo miracoli, che hanno trovato larga circolazione sull« stampa « religiosa ». e sono stati anche proclamati da oratori sacri dai pulpiti. Fra essi ha citato la leggenda inventata da un giornalista, e largamente accettata, della presenza di angeli custodi nella ritirata da Mons, per proteggere le truppe inglesi: e ha ricordato, come a Parigi sia stato necessario proibire alle « indovine » di esercitare il loro mestiere, a causa dei risultati tragici che in molti casi ne seguirono, in mezzo alle numerose donne ad esse ricorse per avere notizie della sorte dei loro cari.
La Christian Commonwealth, commentando questa divergenza di visioni del problema dell’influenza della guerra sulla religione, esprimeva l’opinione, che la prevalenza della superstizione e dell’oscurantismo, o di una concezione più pura e spirituale della natura di Dio e dell’uomo dipenderà sopratutto dalla interpretazione che le guide religiose daranno della presente rivelazione di Dio. « Nella guerra si asconde un significato religioso; sono religiosi i sacrifizi che tanti uomini fanno serenamente, non solo sul campo di battaglia ma nel seno delle loro famiglie; ed è religiosa la fedeltà e l’elevato coraggio del nostro popolo in mezzo alla più grande crisi che sia mai piombata su di esso. Se il Cristianesimo, come dice il prof. Royce, implica fedeltà spirituale, solidarietà, spirito di sacrifizio, sono questi elementi, che dall’attuale guerra usciranno rafforzati. Sono ideali questi, anzi realta, che la guerra non ha-certo screditato, benché abbia screditato tante altre cose ed abbia frantumato tanti espedienti della fede. Essi forniscono i fondamenti per una nuova teologia, non posticcia, ma organica e vitale, scaturita dall’esperienza della vera comunione spirituale, del dolore, delle doglie dello spirito.. G. Pioli.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerènte responsabile.
Róma. Tipografia dell* Unione Editrice, via Federico Cesi, 45
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